Italo Svevo

(Ettore Schmitz)


L'AVVENTURA

DI Maria





Commedia in tre atti









PERSONAGGI



Alberto Galli, commerciante

Giulia, sua moglie

Maria Tarelli, violinista

Il signor Tarelli, zio di Maria

Il prof. Giorgio, fratello di Giulia

Piero, figlio di Alberto e di Giulia

Il signor Maineri, maestro di piano

Il signor Cuppi

Amelia, la cameriera









ATTO PRIMO

Tinello in casa Galli.





SCENA PRIMA

Alberto che dorme su di una ottomana, Giulia e Giorgio



Giulia (a Giorgio che entra). Pst! Piano, che dorme!

Giorgio. Te l'avevo detto io che non c'era da impensierirsi! Eccolo là che dorme e il rimorso di aver tolto a te il sonno di una notte intera non lo inquieta punto.

Giulia. Non ne ha colpa. Per distrazione ha perduto due treni. Telegrafò subito, ma per un caso malaugurato il dispaccio mi venne consegnato soltanto pochi minuti fa.

Giorgio. Due treni ha perduto e i suoi dispacci da Firenze ci mettono ventiquattr'ore? Sono cose che non toccano che a lui! Fammi vedere il dispaccio!

Giulia. L'ho gettato via.

Giorgio. Perché non indirizzare un reclamo all'ufficio telegrafico? Io non tollererei per massima un simile disordine!…

Giulia. Che vuoi che ora importi a me che mettano ordine in quell'ufficio? Chissà quanti anni trascorreranno prima ch'io abbia a ricevere un altro dispaccio!… Come dorme! (Guardando Alberto con affetto). Mi dispiace che presto dovrò destarlo per l'arrivo di Maria Tarelli e di suo zio… Senza conoscerli non li ama molto. Se incominciano poi dall'impedirgli il sonno, li amerà anche meno, e saranno poco gradevoli i giorni che Maria passerà con noi, perché franco e sincero com'è non saprà celare la sua antipatia.

Giorgio. Spero che almeno non dirà loro in faccia che li ritiene per istrioni. A me indispone sentirlo parlare in tal modo di una grande artista.

Giulia. Che vuoi farci! Alberto è un buon borghese che ci tiene alla sua vita regolare e non ama la gente nomade come Maria e suo zio.

Giorgio. Sí, sí. (Con un po' di disprezzo.) È tuo degno marito!

Giulia. Che vuoi farci! Siamo felici cosí. Tu sogni arte e scienza; noi vogliamo calma e felicità. Ritengo però che Maria finirà col conquistarsi le simpatie di Alberto… Delle tue può andar sicura… anche troppo! E bada, ch'io terrò gli occhi molto aperti!

Giorgio. Non temere! Certo che parlare con Maria Tarelli mi divertirà meglio che con la gente solita che mi tocca frequentare qui. Però non ho tempo da perdere, io, e devo riservarmi ad altre cose.

Giulia. Maria è molto bella; è inoltre distinta e cara. All'infuori di certi accenti bruschi, maschili, sorprendenti nella sua voce, ch'è adorabile, troverai in lei una dama.





SCENA SECONDA

Amelia, Piero e detti



Amelia. C'è fuori un signore che vuol parlare col signor Alberto.

Giulia. Pst! Va a vedere tu, Giorgio! (Giorgio via.)

Piero. Mamma, papà non ti ha detto niente del regalo?

Giulia. No. Gliene parleremo allorché si sarà svegliato. Zitto, ora!

Alberto (svegliandosi si guarda intorno con sorpresa). Mi pareva di essere ancora in viaggio… Quanto tempo ho dormito?

Giulia. Circa due ore. Il sonno, no, non lo hai perduto…

Alberto. Hai ragione di farmene un rimprovero. Dopo quindici giorni di assenza doveva bastare la vista della mia cara moglie per tenermi desto. Ma sono precisamente i quindici giorni di fatiche che mi fanno essere cosí. Ho faticato molto. (Stirandosi.)

Giulia. C'è fuori un signore che domanda di te. Amelia, chiama il signor Giorgio.

Alberto (ancora assonnato). Chi domanda di me?

Giulia. Non lo so; Giorgio ce lo dirà. (Siede accanto a lui e attira a sé Piero.) Piero chiedeva se gli hai portato qualche dono.

Alberto (dapprima sorpreso). Un dono? Ah, sí… Me ne sono dimenticato.

Giulia (sorpresa ed offesa). Davvero?

Alberto. Ho pensato di fare tale acquisto qui, ove tutto è piú a buon mercato.

Piero. Allora potrò scegliere io? (Alberto lo bacia ridendo.)

Giulia. Avrei preferito che tu avessi fatto tale acquisto fuori. Sarebbe stata una prova che anche lontano da noi, ci pensi egualmente.

Alberto (scherzosamente). Io non ci ho mica pensato che il dono a Piero poteva valere per te quale una prova del mio affetto. Altrimenti gli avrei portato non uno, ma dieci doni.

Piero. Dieci doni! Peccato che tu non ci abbia pensato!

Alberto. Bravo Piero! Tu trovi sempre la parola giusta.





SCENA TERZA

Cuppi, Giorgio e detti



Giorgio. Si accomodi. (Presenta.) Il signor Cuppi, mia sorella, mio cognato Alberto Galli…

Cuppi (esageratamente cortese). Ho tanto, tanto piacere. (Stringe la mano a Giulia, poi ad Alberto.) Li conosco di vista da parecchio tempo, e sempre mi auguravo di fare una conoscenza piú intima… (correggendosi)… sí… piú vicina, piú vicina, sí. Ora l'occasione si è presentata, perché io attendo i signori Tarelli.

Alberto. Ah, cosí? Sono raccomandati a Lei? Non avranno piú bisogno di noi?

Cuppi. No, no. Non sono raccomandati a me. Ma come? Loro non mi conoscono affatto? Bisognerà che mi presenti da me? Non sanno ch'io sono l'amico degli artisti? Se non faccio altro io a questo mondo! Come si fa ad abitare questa città e non conoscermi! Oso asserire, sí, oso, che in questa città di provincia io sono la cosa… la persona piú preziosa per gli artisti. Sono loro servo devoto e li aiuto in tutto quello di cui possono abbisognare. È una occupazione che rende poco, ma che fa passare magnificamente, sí, gradevolmente la vita. La Ristori diceva di questa città: Di bello non c'è che la statua a Dante e Cuppi; paragone che non calza perfettamente, perché io servo a qualche cosa… a molto, anzi. Peccato che i signori Tarelli trovino qui l'alloggio pronto; ne avevo uno bellissimo da porre a loro disposizione, una vera occasione.

Alberto. Se preferiscono quello che si servano.

Giulia. Ma Alberto! (Poi a Cuppi.) Ho promesso a Maria di tenerla con me. Viene qui piú allo scopo di vedermi che di dare quei due concerti.

Cuppi (ammirandola). Era proprio amica Sua intrinseca?

Giulia. Ma sí. Amica di collegio.

Cuppi. Tanto giovane e in poche settimane è divenuta famosa. Tutti i giornali parlano di lei.





SCENA QUARTA

Amelia e detti. Poi Maineri, Tarelli e Maria



Amelia. Sono qui, ma in tre.

Alberto. In tre? Vanno aumentando continuamente.

Amelia. Una signora e due signori. Sono giú dinanzi alla porta di casa.

Cuppi. Vuole che li vada a chiamare io?

Maria (entra seguita da Maineri e Tarelli). Ne parleremo piú tardi… E Giulia? Come stai? (La bacia affettuosamente.) Uh, che pezzo di donna! Hai il volume che in passato avevamo in due. Sei cambiata, molto cambiata. Sempre una bella persona, ma non sei piú quella. Che peccato! Io che sperava di ritrovare in te quella mia antica dolce amica cui mi piaceva tanto di fare del male per vedere fin dove arrivasse la sua indulgenza. Certo hai perduto quell'indulgenza. Chissà quanto cattiva sarai divenuta invecchiando!

Giulia. Tu sei sempre la stessa coi tuoi occhi seri e dolci. (Presentando.) Mio marito…

Alberto (con lieve sorpresa). Signorina!…

Maria (ridendo dopo un istante di sorpresa). Ooh… Una vecchia conoscenza!

Alberto. Infatti abbiamo fatto una parte di viaggio insieme. Da Bologna a Firenze.

Maria. Ancona, cioè…

Alberto. In Ancona non sono stato questa volta. (Un po' confuso.)

Maria (sorpresa). Ah, cosí?

Alberto (a Giulia). L'altr'ieri siamo stati insieme… Da Bologna a Firenze.

Maria (molto sorpresa). L'altr'ieri?

Giulia. E non vi siete conosciuti?

Maria. Non ve n'è stata l'occasione.

Alberto (cortesemente a Maria). Ha fatto buon viaggio?

Maria (freddamente). Sí, grazie.

Giorgio (a mezza voce, fra sé). Strano! Ella è stata con lui in Ancona; egli, invece, non si rammenta che di essere stato a Firenze.

Giulia (presentando). Mio fratello Giorgio, professore di Liceo…

Giorgio. Ho tanto piacere di fare la sua conoscenza! Ne chieda a mia sorella. Contavo i giorni che mancavano al suo arrivo qui, perché per me è una vera fortuna che la casa di mia sorella divenga un po' artistica.

Maria. Grazie del complimento, ma non posso accettarlo. Non rendo mica artistici i luoghi che tocco!

Giulia (a Maria). Bisogna sapere che mio fratello, oltre che professore, è artista e dotto. Si occupa di storia patria.

Maria. Anche questo paese ha una storia?

Tarelli (intervenendo). Ma che dici, Maria? Offendi i signori, e poi ti sbagli. Questo paese? Non è per di qua che sono passati i Romani?

Giorgio. Questa è una colonia romana.

Tarelli. Naturalmente, Maria, ti sei dimenticata di presentarmi

Maria. Mi pareva non occorresse. Mio zio, Giulio Tarelli.

Tarelli (stringendo la mano a Giulia)… il quale accetta con gratitudine l'ospitalità che gli è stata tanto gentilmente offerta. (Poi ridendo ad Alberto). Veramente, peccato che a Bologna nessuno ci abbia presentati. Avremmo fatto molto piú gradevolmente il tratto fra Bologna e Firenze, poiché quello è il tratto che abbiamo percorso insieme.

Maineri. Signorina, io debbo andarmene. Io sono legato alle mie lezioni…

Maria. Incatenato, mi pare, addirittura. Rimanga soltanto un istante ancora che la presenti ai padroni di casa, poiché lei dovrà venire qui spesso per causa mia. Il professor Maineri che gentilmente si è offerto di accompagnarmi al piano nei due concerti che ho da dare qui.… Ha avuto la gentilezza di venirmi a ricevere alla stazione.

Giulia. Ci sarei venuta anch'io, se mio marito non fosse stato ancora molto stanco del viaggio.

Maria (abbracciandola). Oh, non avevo mica l'intenzione di farti un rimprovero! Perché ridi?

Giulia. Perché hai conservato quel tuo ooh maschile che in collegio ci piaceva tanto.

Maria. Delle cattive qualità non ne ho perduta nessuna.

Maineri. Col suo permesso io ritornerò qui domattina.

Maria. E la ringrazio. Mi piace tanto di trovare al mio arrivo in una città, alla stazione, dei volti amici.

Maineri. Non ha di che ringraziare. Due mesi fa ho assistito ad un suo concerto a Milano, e mi è nato in cuore il desiderio di sedere io una volta al pianoforte e accompagnare quel suo violino che da sé solo è una vera orchestra. Quasi quasi compio un voto. A domattina!

Tarelli. Scusi, signor professore Giorgio, (subito amichevolmente) Ella, quale professore di belle lettere, se bene ho udito, dovrebbe pur conoscere qualche critico musicale in questa città.

Giorgio. No, affatto. Vivo a scuola e in casa, e con giornalisti non ebbi finora nulla da fare. È gente che a me non piace.

Tarelli. Peccato! Di solito sono i critici che vengono a cercare di noi, ma capisco che qui toccherà a noi di cercare loro. Le faccio del resto i miei complimenti se non conosce dei giornalisti. Anch'io, se potessi, farei a meno di loro. Canaglie! Però dico "peccato" per il caso nostro. Non conosce neppure nessuno che pratichi dei giornalisti? Eh! Già. Capisco. Non volendo aver che fare con giornalisti è bene tenersi lontano da chi li pratica.

Cuppi. Son qua io! È proprio il momento di presentarmi. Critici musicali? Ma io li conosco tutti. Uno cioè, che però è l'unico. Valzini. Vado a chiamarlo.

Alberto (ridendo). Ce n'eravamo dimenticati. Il signor Cuppi, amico degli artisti…

Cuppi. La presentazione è completa. Non c'è piú nulla da dire sul mio conto. Amico degli artisti! Dalla Ristori alla grande riformatrice del teatro moderno, la Mara, di tutti… di tutte sono stato o sono amico.

Tarelli. Ha nominato solo gli artisti drammatici. Si dedicherà poi col medesimo zelo ai musicisti?

Cuppi. Solo ai violinisti. Ho una passione speciale io pel violino, per il re degli istrumenti! Non amo i sonatori di piano e neppure il nostro pubblico li ama, a quanto ho potuto osservare. Ho già conquistato dei titoli di benemerenza per i violinisti. Il celebre Janson ch'è stato qui due mesi fa, mangiò, alloggiò e quasi quasi anche suonò col mio aiuto.

Tarelli. Janson è stato qui?

Cuppi. Ma sí, non lo sapeva?

Tarelli. E quale successo si ebbe? (Piccola pausa.)

Cuppi. Perché celarlo? Enorme. Molto grande. Per otto giorni la città non si occupò che di lui; il teatro era pieno zeppo e vi erano rappresentate tutte le classi sociali… o quasi. Janson era un ospite ricercato da tutte le famiglie della città. I poeti gl'indirizzavano versi, i giornalisti articoli di fondo. Partendo mi disse che avrebbe voluto essere nostro concittadino, naturalmente… se non fosse stato svedese.

Tarelli. Allora, poveri noi, nevvero?

Cuppi. Oh, no. Al contrario, onorando Janson la città dimostrò quanto apprezzava il vero merito e saprà dimostrarlo anche per la signorina.

Tarelli. Valzini è molto reputato in città?

Cuppi. Moltissimo. Si racconta che autori principali, come Verdi e Wagner, (pronunzia Wagner all'italiana) quel tedesco, leggano sempre le sue critiche…

Tarelli (a mezza voce, con gesto espressivo). Scusi, in confidenza,… bisogna ungere?…

Cuppi. Ah, no. Da noi non ne troverà di questo stampo. Valzini è ricco, ossia ha tutto il denaro di cui abbisogna. È gentile però ed una parola mia servirà a sufficienza. Ma denaro… denaro… ohibò!

Tarelli. Ho chiesto per la buona regola. Naturalmente che s'è ricco e stimato da Wagner (imita Cuppi) non si lascerà pagare.

Cuppi. A rivederci. In mezz'ora o poco piú ritorno con Valzini.

Giorgio (congedandosi). Signorina, interverrò anch'io, se permette, alle prove di domani, quantunque io non sia molto musicale. Anzi, io, e con me parecchi scrittori moderni, siamo contrari alla musica. Tuttavia me ne interesso.

Maria. Con tali premesse, certo, io non ci tengo molto ad essere onorata della sua presenza. Ad ogni modo, se verrà, suonerò lo stesso. (Giorgio via.)

Giulia. Perché lo tratti cosí? Egli ti tratta con una deferenza che non puoi apprezzare, perché non sai com'egli tratti gli altri.

Maria (abbracciandola con effusione). Oh, se sapessi, quanto felice mi renda il sapermi trattata bene da te! Se lo vuoi, farò dei complimenti anche a tuo fratello, quantunque le persone antimusicali non mi piacciano.

Giulia. Sai pure che non bisogna tener conto di tutto ciò che dicono i dotti.

Tarelli. Lasciamo qui queste valigie?

Giulia. No. Le farò trasportare nella stanza a Lei destinata. Amelia!

Tarelli. Non si scomodi! Le posso portare io stesso. Dov'è la stanza?

Giulia. Di qua. In fondo a questo corridoio. (Via.)

Tarelli. Mi dispiace incomodarla (La segue.)





SCENA QUINTA

Alberto e Maria



Maria vuol seguire Tarelli



Alberto. Scusi, signorina Maria, una sola parola! Non è Maria ch'ella si chiama? Dolce nome! L'avessi conosciuta ieri!

Maria (ridendo). L'altr'ieri, cioè…

Alberto. L'altr'ieri o ieri fa lo stesso. Non è una bugia, è una distrazione. Avevo raccontato a mia moglie di aver lasciata Firenze l'altr'ieri. Mi dispiace di lasciarmi smentire.

Maria. Rammento che mi aveva detto ch'era stata sua intenzione di lasciare Firenze l'altr'ieri. A sua moglie raccontò quindi la intenzione.

Alberto. Sí. La prima intenzione, perché la seconda, debbo confessarlo, era di rimanere a Firenze finché c'era lei, e poi di seguirla per otto o dieci giorni o magari per un mese.

Maria. E Giulia?

Alberto. A mia moglie avrei scritto che gli affari mi trattenevano.

Maria. Piuttosto che ritrovarla cosí, volentieri avrei rinunziato a vederla.

Alberto. Perché? Chi le dice ch'io sia un cattivo marito? Ne chieda a Giulia e le dirà che migliore non potrei essere. Il modello dei mariti.

Maria. Dunque tanto peggio. Tradita ed ingannata.

Alberto. No. Né tradita né ingannata. Adesso io la conosco; so chi è: una grande artista e al tempo stesso una fanciulla onorata. Ma prima…

Maria (seria). Prima aveva potuto credere ch'io non fossi una fanciulla onorata?

Alberto. Mi scusi e non si adiri. Mi lasci parlare francamente, perché altrimenti non potremo intenderci.

Maria. Non capisco quale bisogno ci sia d'intenderci…

Alberto. Vedrà. Grandissimo bisogno. O meglio sono io quello che sente tale bisogno. Via! Non sarà tanto buona da rendermi un lieve servigio, qual è quello di starmi ad ascoltare? Glielo chiedo quale marito di Giulia.

Maria. Non è il titolo ch'ella potrebbe invocare, ma parli, mi rassegno.

Alberto. Non ha bisogno di rassegnarsi a nulla, perché mi farebbe un torto credendo ch'io avessi l'intenzione di offenderla. Sull'anima mia! Respingerei con indignazione un'idea che potesse essere meno rispettosa per lei. Non la penserei neppure. Si sente sicura? Posso parlare senz'altra preoccupazione che di esprimermi sinceramente e chiaramente? (Maria annuisce.) Ecco. Io non ho altro scopo che di provarle che la sua amica Giulia è piú felice di quanto ella sembra di credere. Per darle tale prova basterà dirle che anche quando corro dietro ad altre donne, in quel medesimo istante, quando sono intento a raggiungere il mio scopo e mi trovo in quello stato di esaltazione in cui ella, per mia disgrazia, mi vide, anche allora amo mia moglie appassionatamente e le darei in quel medesimo istante il bacio affettuoso di ogni sera.

Maria. Beata Giulia, allora.

Alberto. Perché, vede, le altre donne, quelle cui corro dietro io, non sono le stesse donne. Che cosa può importare a Giulia di quei fuochi di paglia accesi da altre, di quei desideri che non somigliano per nulla affatto all'affetto che porto a lei?

Maria. Ma che razza di gente credeva lei dunque di trovare in me e in mio zio?

Alberto. Non feci alcuna supposizione sul suo stato. Poteva essere quello di una donna ricca o di una grande artista; poteva essere la moglie di un banchiere o di un nobile; per me era indifferente. Le donne sono donne e l'esito della mia avventura non dipendeva da queste circostanze. Quello che a bella prima pensai e che mi diede la massima speranza fu ch'ella fosse la moglie di suo zio. (Maria ride.) Io vedeva in lei una di quelle brave mogli borghesi dal marito troppo vecchio e le quali per prudenza non lo tradiscono che quando sono in viaggio. E… in viaggio eravamo.

Maria. Ma come l'è venuta l'idea ch'io fossi la moglie di mio zio?

Alberto. Mi auguravo che cosí fosse ed io vedo spesso le cose come desidero che sieno. Quando appresi d'essermi ingannato mi avvolsi nella mia pelliccia e mi affrettai a rimpatriare.

Maria. Immediatamente. Aveva il timore di contrarre degli impegni troppo duri?

Alberto. No, ma temevo di perdere il mio tempo inutilmente, ciò che anche in istato di esaltazione, se posso, evito.

Maria (non molto lusingata). Ah, cosí. Assolutamente, allora, il suo proposito correndomi dietro era di passare meno peggio qualche giorno e niente piú?

Alberto. No, no. S'ella mi avesse trattato bene, molto bene, i miei affari si sarebbero tirati molto, ma molto in lungo. Mi si dice che la sua ambizione sia di venir considerata e trattata come un uomo. Sono certo che in questo riguardo non avrà da lagnarsi di me.

Maria. E non me ne lagno, nemmeno. Di qualche altra cosa però vorrei lagnarmi. Ecco, non mi è dispiaciuto di sentirla parlare; ella parla bene di queste cose, e sono curiosa di sentirla parlare d'altro, di quello di cui parla a Giulia. Anzi, ne ho ritratto anche un altro piacere, cioè, la certezza di non venir mai piú disturbata da lei e di sentirmi piú sicura in casa sua.

Alberto. Certo certo. La mia simpatia è delle piú rispettose.

Maria. Ma quello che assolutamente non so indovinare si è la ragione che la indusse a raccontarmi tutte queste belle cose che non avevo chiesto di conoscere.

Alberto. Non l'ha ancora capita? Mi meraviglio. Le ho detto, è vero, che prima di tutto mi premeva di provarle che la sua amica Giulia è una donna felice. Mi pare che su questo punto siamo d'accordo. Ora devo prevenirla che questa felicità scomparirebbe, se Giulia sapesse che oltre ad amarla moltissimo… io l'amo nel modo che le spiegai.

Maria (ridendo, ma con voce un po' stonata). Ma basta cosí, allora. Questo dunque era il nocciolo del frate grigio? Si tratta di non far capire a Giulia che nella noia del viaggio lei si è compiaciuta di guardare la sua umilissima serva; ma crede poi ch'io abbia avuto l'intenzione di vantarmene?

Alberto. No. Temevo soltanto che a tutta la faccenda ella avesse potuto dare tanto poca importanza da parlarne in un istante di buon umore come di un fatto che non concernesse né lei né Giulia. Ora, se, come purtroppo è vero, per lei io, le mie parole, le mie azioni sono cosí indifferenti, per Giulia la cosa è ben diversa. La mia casa è delle piú borghesi. Tutto vi è basato sulla cieca fede che portiamo l'una all'altro. La felicità di Giulia è formata dalla sua fede in me. Mi porta un affetto quasi esclusivo; cioè, fra me e Piero, diviso. Vuole un po' di bene anche a Giorgio, il fratello professore che ha conosciuto or ora, quel pedante,… il resto del mondo per Giulia non esiste. Ella è perciò tanto irragionevole da sembrarle naturale ch'io l'ami come essa ama me, cioè esclusivamente. Il primo dubbio potrebbe distruggere questo castello in aria e la mia e la sua felicità. È perciò che formalmente la prego di essere cauta. Avrei potuto, come lei stessa ebbe ad osservare, risparmiarmi la fatica di farle questa preghiera e affidarmi alla sua naturale discrezione, ma la cosa era troppo importante per lasciarla in balía del caso. Glielo assicuro. Basterebbe una sola parola detta scherzosamente per destare la diffidenza in Giulia, e capirà che se giungesse al punto di diffidare poco le costerebbe di procurarsi la certezza del mio tradimento.

Maria. Diamine! Con le sue massime si esporrà continuamente a dei pericoli.

Alberto. Mi creda, meno spesso di quanto sembri! (Con qualche calore.) Oh me lo creda! Non basta mica ogni gonnella per farmi pericolare…

Maria (ridendo). Adesso ch'è sicuro della mia discrezione, pare che voglia ricominciare.

Alberto. Oh, no. Voglio essere un buon ospite e rispettoso; renderà felice Giulia che crederà che le mie gentilezze siano usate a lei per riguardo suo.

Maria. Molto compito!





SCENA SESTA

Cuppi e detti



Cuppi (correndo). Valzini è qui. Verrà subito.

Alberto e Maria. Chi è questo Valzini?

Cuppi. Il critico, il giornalista ch'ero stato incaricato di far venire qui.

Maria. Prego, signor Alberto, ne faccia avvisare mio zio.

Alberto. Vado io stesso.

Cuppi (stanco). Auff! Sono corso per arrivare prima di Valzini! Volevo avvisarla di certe particolarità, di certi fatti ch'è bene ch'ella conosca. Prima di tutto tenga presente che il nonno di Valzini è stato un grande musicista, sí, abbastanza conosciuto. Per fargli piacere bisogna dirgli che lei lo conosce di fama, di nome. Anche suo padre ha scritto un'opera che è stata data a Milano, capisce! Poi bisognerà che io le indichi i nomi delle romanze, tutte per soprano, scritte dal nostro Valzini. Eccole: "L'usignolo sul mandorlo"… "Primavera campagnola"…

Maria (fin qui distratta lo interrompe bruscamente). È roba che a me non importa… Con permesso. (Via.)





CALA LA TELA









ATTO SECONDO



SCENA PRIMA

La stessa stanza.

Alberto, poi Maria con Tarelli e dietro la scena Giulia ed Amelia



Alberto (ha cappello e bastone; sembra diretto verso la porta di fondo, lentamente, e si ferma; vuole far credere che sta per uscire; ritorna sui suoi passi e rifà la stessa via).

Tarelli. Il signor Alberto! Guarda combinazione! È già il terzo giorno che c'incontriamo, sempre alla stessa ora e quando precisamente munito di cappello e di bastone sta per uscire.

Alberto (un poco imbarazzato). Eh, sono molto metodico, io!

Tarelli. Ed è ciò che mi meraviglia, perché io non lo sono affatto. Esco dalla mia camera fra le otto e le dieci. Del resto non mi lamento, perché è sempre un piacere per me di vederla.

Maria. Buon giorno, zio! Buon giorno! (Ad Alberto.)

Alberto (dimenticando Tarelli completamente). Come sta, signorina? Ieri sera accusava male di testa…

Maria. Sono ristabilita del tutto. Per quanto io sia corazzata, la freddezza di questo pubblico mi sconcertò alquanto.

Alberto. Vedrà che al secondo concerto questa freddezza sparirà. Glielo garantisco io. Oh, sarebbe un pubblico ben villano, se continuasse a contenersi cosí. Io di musica non me ne intendo affatto, ma mi pare che lei abbia suonato molto bene.

Giulia (dietro la scena). Amelia! Il padrone è già uscito?

Amelia. Da piú di mezz'ora, signora.

Alberto. Devo andarmene disgraziatamente per un affare. Con permesso. (Stringe la mano a Maria.) Fra un'oretta sarò di ritorno. (Via.)

Maria. Faccia il suo comodo.





SCENA SECONDA

Tarelli e Maria



Tarelli (guardando dietro ad Alberto). Povero diavolo! Pare non possa uscire da casa senza vedermi! Perché… Attende me, nevvero? (Ridendo a Maria.)

Maria (seccata). Attenda chi vuole…

Tarelli. Ma dunque, se neppure l'amore di questo negoziante lusinga il tuo amor proprio, perché ti contieni in modo da aizzarlo sempre piú?

Maria (meravigliata). Io?!

Tarelli. Ma sí. Proprio tu! Lo tratti ruvidamente. Non gli rispondi che a monosillabi ed anche questi poco gentili. C'è di che far perdere la testa anche alla persona meno disposta. Figurati poi costui non domanda di meglio!

Maria. Davvero? Sarò cosí pericolosa? Già tu conosci il cuore umano, e se lo dici, dev'essere. D'ora innanzi vedrai come sarò gentile! Non ho mica l'intenzione di portar via il marito a Giulia!… Voglio colmarlo di gentilezze, acciocch'egli cessi di seccarmi.

Tarelli. Bada, non occorre mica esagerare adesso! Da qualche giorno però ti vedo molto seria, preoccupata. È forse l'insuccesso che ti duole o l'articolo sciocco che ti dedicò Valzini?

Maria. Oh, chi ci pensa!

Tarelli. E allora sei innamorata.

Maria (stupefatta). Quale idea! (Poi.) Francamente non mi sento bene in questa casa. Ci ero venuta con le migliori intenzioni di questo mondo… Volevo passare con Giulia otto giorni di fanciullezza. Invece ella è seria, mummificata nella sua dignità matronale, una donna impossibile che non capisce niente all'infuori del suo bimbo e del suo adorato marito, della sua bella casa. Il professore mi secca con dotte dichiarazioni d'amore e dalla sua parte mi minaccia una formale richiesta di matrimonio (facendo atto di bastonare) che accoglierò, vedrai, con l'arco del violino. L'unico allegro sarebbe il piccolo Piero, quando lo lasciano giuocare in pace, ma è proprio lui che di me non ne vuol sapere. Ieri ero là per mettermi a giuocare con lui. Immediatamente egli cessò meravigliato e seccato.

Tarelli. Eppure con te mi paiono gentili.

Maria (molto contenta). Con te no? Ecco una buona ragione per abbandonare questa casa.

Tarelli. Oibò! Io non c'entro nelle decisioni che hai da prendere tu. Eppoi non mi maltrattano mica. Mi trattano soltanto alquanto superficialmente. Pare che si sieno rassegnati di fare la relazione dell'artista, ma non ancora quella dell'impresario. Non hanno torto, in fondo. Per questi borghesi io non sono altro che uno speculatore che per suo interesse t'induce a fare questa vita nomade.

Maria. Povero zio!

Tarelli. Ma che povero! A chi può importare il parere di costoro? Io voglio che tu rimanga in questa casa, perché la buona fama borghese di cui gode è una buona reclame per te. Se finora in questa città non abbiamo potuto sentirne gli effetti, è colpa di troppi elementi contrari che vi abbiamo. Intanto, l'indifferenza assoluta per la musica. Non mi serví né di farti dir nevrotica, né di far raccontar da Valzini che soffrivi di un'affezione polmonare per cui pochissima vita ancora ti era concessa. È bene corazzata questa gente. Pochi vennero al concerto. Non ne compresero nulla e ne dissero male. Le tue note mi facevano pietà al vederle sprecate a quel modo.

Maria. Dalla critica si capisce però che anche Valzini si è annoiato. Lui che ama tanto la musica!

Tarelli. Ha compreso meno degli altri. Si trovò obbligato a scriverne bene per rispetto ai critici che lo avevano preceduto e poi anche in riguardo nostro che lo avevamo trattato molto bene. È abile, però. Ha saputo far capire a tutti che il suo entusiasmo era preso a prestito. Non si espone mica al pericolo di perdere, e, cara mia, bisogna rassegnarsi a riconoscerlo. In questa città verrebbe considerato poco intelligente chiunque avesse il coraggio di dir bene di te. (Scherzosamente.) Già, per consolarti tu hai quel tuo signor Alberto…

Maria. Bella consolazione! Non hai capito che vorrei abbandonare questa casa?

Tarelli. Incomincio a credere che diffidi di te, perché non vorrai darmi ad intendere che tale fuga sia meditata per un riguardo alla tua amica. Che male sarà, se il signor Galli si riscalderà ancora un poco e se la signora Galli diventerà dal canto suo un po' gelosa? Avremmo apportato nella loro sciocca vita borghese un po' di animazione.

Maria. Dubito però che abbiano a serbarcene gratitudine.





SCENA TERZA

Maineri e detti



Maineri. Ho anticipato di un quarto d'ora pel timore di farla attendere; preferisco attendere io. Mi permette di baciarle le mani? Ambedue. Anche quella dell'arco.

Maria. Entusiasta, dunque, l'unico?

Maineri. È il mio vanto. Avendola compresa mi pare quasi che le sue note siano opera mia. Citano Janson! È altra cosa. Egli non possiede né il suo senso artistico né la sua esattezza: è un violinista straordinario e nulla piú. Ella invece è musicista, anzitutto musicista ed è perciò che il pianoforte s'inchina a lei.

Tarelli. Peccato che non ci sia qui uno stenografo per raccogliere queste parole e consegnarle ad un giornale.

Maineri. Non servirebbe a nulla; quando i fatti, quando la musica stessa non serví…

Tarelli. Non serví? Ella, dunque, lo confessa? Crede che valga la pena di dare un altro concerto?

Maineri. Anzi anzi, bisogna darlo. A me non basta il primo. Sarebbe una vigliaccheria di non darlo dopo di averlo annunciato. Che importa a lei l'applauso?

Maria. Devo confessare che ci tengo un pochino. (Ridendo.) Avrei suonato tanto meglio, se ieri sera avessi ottenuto un applauso, almeno uno solo. (Con dolore.) Fu un fiasco assoluto.

Maineri. Non assoluto. Posso però parlarle con franchezza, perché l'entusiasmo che le dimostrai mi salva dal pericolo di essere preso per poco rispettoso, e poi perché ella non è uno di quegli artisti cui occorra usare dei riguardi nell'apprezzare i loro successi. Ecco il fatto. Il nostro pubblico, un pubblico musicalmente poco colto, è abituato alla maniera di Janson e non vuol sentire altro. Per esso quello soltanto è il modo di suonare il violino. Il ricordo di Janson gli è tanto caro che quasi non vorrebbe sentire altri pezzi all'infuori di quelli uditi da lui. Son quelli i pezzi che si eseguiscono sul violino e non altri.

Tarelli. Se questa veramente è la disposizione del pubblico, a Maria non resta altro che abbandonare la lotta.

Maineri. Perché? La lotta è bella, specialmente quando in essa non si arrischia nulla. Che cosa vi arrischia la signorina? Non certo la sua fama, perché la nostra città né dà né toglie fama. Specie a lei, signorina, alla dea della musica.

Tarelli. Sí, una dea. La sua bellezza la decantò anche il signor Valzini, il quale pare nato piuttosto a cronista che a critico musicale. Parlò unicamente della splendida figura e della magnifica toeletta.

Maineri. Sono imbarazzi della vita del critico.

Tarelli (con ira). Avrebbe potuto non essere imbarazzato, se fosse stato un buon critico!

Maria. Ma, zio! Noi dobbiamo essere grati al signor Valzini che pur non essendo stato troppo soddisfatto del mio modo di suonare, volle dimostrarsi tale per favorirmi.

Maineri. Ben detto, ben detto, signorina. Ella parla come suona. Infatti, quale altro merito avrebbe avuto egli, se non avesse avuto altro da fare che di sedersi al tavolo e notare il suo entusiasmo? Se l'articolo non dimostra molto entusiasmo, dimostra molta benevolenza. Specialmente la prima parte. La seconda (si leva di tasca un giornale e contemporaneamente anche Tarelli) è meno simpatica. “La signorina Tarelli regalò le Arie ungheresi, ma quello è un pezzo che bisogna lasciare a Janson.”

Tarelli. Ho capito subito che in provincia quella frase bastava per annullare l'effetto di tutto l'articolo.





SCENA QUARTA

Cuppi e detti



Cuppi. È permesso?

Tarelli. Il signor Cuppi. Avanti, avanti, si accomodi. Ella capita a proposito. Sa lei, dove abita il signor Valzini?

Cuppi. Sí. Perché?

Tarelli. Devo andare a ringraziarlo per il simpatico articolo che dedicò a mia nipote.

Maria. Ringrazialo anche da parte mia, zio, e digli che non ho potuto accompagnarti, perché proprio ora ho le prove.

Tarelli. Mi farebbe un favore, se venisse con me.

Cuppi. Ben volentieri.

Tarelli. Vado a prendere il soprabito ed il cappello e sono con lei.

Cuppi (a Maria). Ella ha già deciso e proposto come passare la sera?

Maria. Rimango in casa con la mia amica. Mi resta ancora poco da passare con lei.

Cuppi. Cosí, di me, assolutamente non ha bisogno?

Maria. Se le piace venga qui a tenerci compagnia. (A Maineri.) Ci mettiamo a queste prove? Vado a prendere la musica. Dev'essere sul tavolo nella mia stanza. (Via.)

Cuppi. Scusi, maestro, a lei è piaciuta molto la signorina quale violinista?

Maineri. Moltissimo. Perché me lo chiede?

Cuppi. Non chiedo piú nulla, io, ma… dirò sí… Ella è il primo che trovo entusiasta.

Maineri. Davvero?

Cuppi. Intanto, in quanto a me, parlo di me che non me ne intendo affatto, io mi sono annoiato mortalmente; molto, ma molto.

Maineri. E perché è qui a continuare ad annoiarsi quando nessuno ve la obbliga?

Cuppi. Non mi annoio qui, io. Quantunque si tratti di una pessima violinista, cioè una violinista che suona male il violino, la compagnia della signorina mi è piú cara di quella di tutto il resto della città. Naturalmente non piú cara di quella di Janson. (Con passione.) Oh, se Janson ritornasse! A lui potevo offrire oltre alla mia amicizia anche la mia ammirazione… sí… la mia approvazione cosicché la relazione con un artista diviene subito piú bella… piú gradevole. Mentre qui… (Risoluto a Maineri.) Scusi, maestro, ma io dubito del suo entusiasmo. Che diamine! Io sono… sí… una bestia… una persona che di violino non capisce niente… ma infine è impossibile… difficile ch'ella capisca qualche cosa di ciò che a me sembra… niente, cioè una stonatura senza sentimento. Eh, capisco. Dubito che un pochino della sua ammirazione per la musica sia dovuta alla bella personcina della signorina Maria. A forza di accompagnarla al pianoforte… naturalmente…

Tarelli (rientra). Andiamo?

Cuppi. Eccomi. E la signorina? (A Maria che rientra con la musica sotto il braccio.) Buon giorno, signorina! (Le stringe la mano.) Approfitterò sicuramente del suo gentile invito per questa sera.

Tarelli (a Maineri a bassa voce). Sa, io con Valzini sarò perfettamente cortese. Non creda mica per quello che ha udito ch'io abbia l'intenzione di dimostrarmi offeso. Non ne vale la pena, e anzi la prego di non riferire a nessuno le mie parole. Per essere del tutto sincero con lei, le dirò che per avere la magra soddisfazione di mostrare il mio disappunto, non mi privo della speranza che Valzini al secondo concerto non muti opinione. Come si chiama di nome, Valzini?

Maineri. Venanzio.

Tarelli. Ebbene, Venanzio. Lo interpellerò sempre col nome di battesimo. "Signor Venanzio…" Peccato che non abbia un nome piú bello! Chissà se gli piacerà di venir chiamato con un tal nome!…

Maineri. Cosí lo chiamano tutti.

Tarelli. Ci sarà dunque abituato. (Gli stringe la mano e via con Cuppi.)

Maineri (subito al pianoforte con la sua parte in mano). Il concerto di Beethoven. Proviamo soltanto quello?

Maria. Sí. Non occorre altro.

Maineri. Ho da suonare il preludio intiero? Solitamente quando non si dispone di un'orchestra lo si omette o non lo si eseguisce che a metà.

Maria (leva il violino dalla cassetta). Io desidero di udirlo intiero, altrimenti il concerto mi appare monco e disordinato. (Dolcemente.) Il preludio mi dà la disposizione occorrente per suonare. M'influisce perfino sulle dita, mi sento le falangi piú libere, piú volonterose. Attendo che tocchi a me con impazienza, quasi con curiosità, curiosità di udire quello che farò, come fosse la prima volta che avessi a suonarlo. Quel preludio mi pone immediatamente faccia a faccia con Beethoven. (Con asprezza.) Naturalmente che, se mentre lo suonano, ho dinanzi a me un pubblico distratto ed inquieto, ch'io vedo dall'alto come un raccolto di zucche vuote, allora invece di ascoltare il concerto mi metto a contare le zucche, meravigliato che il Creatore abbia commesso tanti errori.

Maineri. Lei pensa al nostro pubblico?

Maria. Oh, a lei e col violino in mano non voglio mentire. Il mio insuccesso, come lo chiamano qui, mi addolorò abbastanza. Non ho mai sofferto tanto ad un concerto, ed ho paura che il secondo sia ancor peggio. Come dice lo zio, dovrei essere superiore a queste cose. Ma come si fa a non alterarsi nel vedere la gente che mi circonda essere d'accordo col giudizio del pubblico, non solo, ma anche dubitare che in altri luoghi si sia potuto giudicare altrimenti sul mio conto. Lasciamo stare. (Accorda il violino.) Ella ha già eseguito questo concerto in pubblico?

Maineri. Sí, con Janson.

Maria (ironicamente). Cosí? Il signor Janson si degnava di uscire una volta dalle sue arie ungheresi, russe, valacche e di eseguire Beethoven?

Maineri. Sí; l'applauso del pubblico però era provocato unicamente alla cadenza del primo tempo, una cadenza brillante, composta, credo, da uno spagnuolo. Il pubblico non apprezzerà mai il concerto, e francamente, credo che nemmeno ora gli piacerà.

Maria. V'era dunque la sua brava cadenza spagnuola? (Siede.) Suoni, la prego, come se non sapesse che presto deve sopraggiungere il violino a toglierle la prima parte.





SCENA QUINTA

Giulia e detti



Giulia. Buon giorno! Ah, son le prove! (A Maineri che si è alzato.) Non si disturbi. Se me lo permettete starò un pochino ad ascoltare.

Maineri. Ma senza dubbio. Ella rappresenta per noi un elemento ch'è bene vi sia anche alle prove: il pubblico.

Giulia. Peccato che non potrò rimanere a lungo, perché di là ho molto da fare.

Maria. Cose di premura?

Giulia. Non di premura, ma di regola. Bisogna lavorare ogni giorno, altrimenti in fine d'anno si trova d'aver perduto molto tempo.

Maria. Mi pare di sentir parlare la nostra brava monaca. Te ne rammenti? (Imitando la voce della vecchia monaca.) “Bisogna lavorare tre volte tanto quanto si lavora! Soltanto cosí si può contare sulla pace dell'anima e del corpo.”

Giulia. Via, Maria! Non deridere quella santa donna! Io le devo tanto!

Maria (meravigliata). Davvero, cosa le devi?

Giulia. Quale domanda! Si è affaticata per me… mi ha insegnato, mi ha voluto bene!

Maria. A me, invece, ha dato tanto noia! Devi confessare che il suono della sua voce non era bello. (Imitando di nuovo la vecchia): “Signorina, lei è una zingara!”. Ecco che hai evocato un ricordo poco gradevole! Incominci, signor Maineri! Giulia ci fa compagnia.

Giulia. Sta bene, se mi permettete di portare qui il mio telaio…

Maria. Perché no? Se vuoi puoi metterti persino a far quadri qui. Me non disturbi di certo. Già a te non basta di starmi ad ascoltare.

Giulia. Starò ad ascoltare certamente. Ho un lavoro che soltanto qua e là esige attenzione… Di solito quando lavoro ripasso la lezione al mio figliuolo.

Maria. Fai ancora piú di quanto quella santa donna consigliasse. Ella si sarebbe accontentata di un solo lavoro alla volta…

Giulia (che non le fa attenzione). Porterò con me Piero. Vedrai come starà quieto e attento! (Via.)

Maineri (con ironia). Questa sí ch'è una donna di casa perfetta!

Maria (ridendo). Si; ma c'è di peggio. Pare impossibile, ma è pur nata madre di famiglia. Me la rammento già in collegio cosí.





SCENA SESTA

Alberto e detti



Maineri (sempre seduto al pianoforte). Ecco il signor Alberto. Qui non ci mancherà il pubblico. Venga, venga, signor Alberto. Anche la signora Giulia ritorna subito.

Alberto (ridendo). Anche mia moglie si dedica all'arte? Ma se disturba lo dica con tutta franchezza.

Maria. Ma no. L'ho pregata io stessa di farci compagnia.

Alberto. Ho da scrivere delle lettere e vado nella mia stanza, ma se permettono lascierò aperte le porte. Cosí mi sarà piú facile di prestar attenzione. (A Maria a bassa voce in tono di complimento.) Sa benissimo che la sua vista mi distrae… (Si allontana e grida dalla sua stanza): Potete incominciare!

Maria. Tutti vogliono starci a sentire in questa casa, ma nessuno rinunzia al suo lavoro.

Maineri. Lei deve sentirsi molto male in questa casa…

Maria. No. Per un poco questi borghesi mi servono di distrazione.





SCENA SETTIMA

Giulia, Piero, Amelia che porta il telaio; poi Giorgio



Giulia (con l'aiuto di Amelia dispone il telaio, e senza guardarla parla a Maria). Senti, Maria, perdonami, se mentre suoni, sto ad ascoltare la lezione di Piero. La leggerà molto a bassa voce. Deve studiarla e se non gli concedi il piacere di leggerla, non si decide mai piú a guardarla.

Maria. Fa il comodo tuo. Si va di bene in meglio. Adesso ti senti già capace di badare a tre cose… Incominci, maestro!

Giorgio. Si può star ad ascoltare della buona musica?

Maineri (mormora). Altro che buona!

Giorgio. Non ne dubito! Non ho chiesto se sarà buona… soltanto se potrò ascoltarla…

Giulia. Non disturbare, però. Siedi qui quieto accanto a me.

Maria. Le sieda molto vicino, perché tiene lezione; e ciò, lo confessò lei stessa, le si confà meglio della mia musica. (Al ragazzo.) Su, Piero, incomincia!

Piero. Sí, se starete un poco zitti!

Giorgio. Come va, Piero? Sei stato contento del regalo del babbo?

Piero. Ha fatto un viaggio tanto lungo che avrebbe potuto portare qualche cosa di meglio.

Giorgio. Il ragionamento è buono. Va da sé che il dono deve stare in proporzione alla durata del viaggio. Io mi siederò là dall'altra parte, cosí che, contrariamente a quanto voleva la signorina, starò a sentire unicamente la musica. (Va a sedere a destra dello spettatore.)

Maineri (con un po' d'impazienza). Posso finalmente incominciare questo preludio?

Giorgio. Ah, c'è un preludio! Che cosa suonate?

Maineri. Il concerto di Beethoven.

Giorgio. Lo conosco. Il preludio è un po' lungo. (Ritorna accanto a Piero.) Lo starò ad ascoltare da qui. (Maineri comincia a suonare il preludio.)

Piero. Come posso parlare con questo fracasso?

Giorgio. Pròvati! Saremo indulgenti.

Piero (legge una pagina a parte. Giorgio gli corregge spesso l'intonazione.) Ah, va da sé che con lo strepito che fa quel signore non posso declamare bene!…

Maria (cerca di stare attenta al piano, ma non le riesce. Si avvicina lentamente al gruppo di sinistra e dice a Giulia che lavora) Quale divertimento c'è nel disporre tanto filo sulla tela?

Giulia. Mentre la mano lavora, il pensiero corre ad altre cose.

Maria. Ed a quali, s'è lecito?

Giulia. Tante e bellissime. Col suo movimento uniforme la mano accompagna, accarezza, quasi, un pensiero calmo e lieto. Quando alzo gli occhi, vedo accanto a me questa testa bruna (sorride accennando al figliuolo) e l'unico sforzo che devo fare si è di non alzarli troppo di spesso.

Maria. E desideri, e aspetti cosí, senz'ansia, con la solita calma?

Giulia. Non desidero, né aspetto. O meglio desidero che tutto ciò continui cosí e che ogni giorno mi sia dato di fare quello che faccio oggi e quello che feci ieri.

Maria. Cioè disporre dell'altro filo sulla tela.

Giulia (già offesa). Non è il mio solo lavoro.

Maria. E quali sono gli altri?

Giulia. A te non lo dico. Non mi comprenderesti.

Maria. Io credo di poter comprendere tutto.

Giulia. No. Certe cose non si capiscono, se non si vivono. Non si tratta mica di ragionare, di calcolare; si tratta di sentire.

Maria. Insomma, spiegati, e procurerò di capire. Sii buona, Giulia! Ti accerto che non ho la minima intenzione di deriderti.

Giulia. Ma non è per questo timore che non voglio parlare. È che non saprei spiegarmi. Non sono mica da tanto da farti vivere la mia vita!

Maineri (dopo aver atteso per un istante). Tocca a lei, signorina.

Maria. Ah, sí; Beethoven. No, maestro, non posso, adesso. Sia tanto buono, mi faccia il favore di ritornare alle quattro (Con calore.)

Maineri (mormora). Ha ragione.

Giulia. Ma se disturbiamo possiamo andarcene.

Maria No, adesso non posso suonare piú. Ho perduto il momento. Sarebbe per me un supplizio di suonare tutta quella roba.

Maineri (rassegnato). Come desidera. Sa bene che per me sarebbe stata una vera festa "quella roba" come dice lei, sul suo violino. Vuol dire che sarà per dopopranzo. Arrivederci. (Via.)

Maria (ripone il violino e gli parla). E dormi bene, povero violino! (A Giulia.) Dunque, ritornando a noi… La tua felicità è tale che non la puoi neppur descrivere?

Giulia. Questa è di nuovo ironia e su questo tono non possiamo intenderci. Perché, ti dispiace ch'io abbia detto di essere felice?

Maria. Che mi sia dispiaciuto di sentirti dire felice? Oh, no. Ma non comprendo e mi sorprende. Ti dirò anche il perché, visto che a me è sempre facile di spiegare quello che penso e quello che sento. In questo luogo voialtri non potete crederlo, perché qui ho avuto un insuccesso, ma già alla mia età ho conosciuto delle gioje, dei piaceri, lo confesso, che neppure tu sai ch'esistano. Ho visto una capitale per giorni e giorni non occuparsi che di me, offrirmi tutte le soddisfazioni piccole e grandi che la vanità e l'ambizione umana possano chiedere. L'interesse era tale che, figurati! mi dissero persino bellissima, e piú ancora amabile e cortese, ciò che non sono. Dei principi pregarmi di onorare i loro salotti, persone fra le piú rispettabili ed eminenti d'Italia ambire la mia amicizia, la mia stima, cosa che mi faceva ridere, quando si calmava l'ambizione che in me ha tutto l'aspetto della febbre. Sorpresi degli sguardi d'invidia nelle persone piú fortunate, quando facevo vibrare con me, col mio violino migliaia di cuori. E tuttavia mai… mai, capisci? ho potuto dire quella tua frase: “Sono felice e voglio restare sempre cosí!”. Ho detto e pensato: “Passi presto questa giornata e ne venga un'altra piú lieta e meno noiosa!”.

Giorgio. Strano!

Maria. Strano, dice? Ma no. Questa è la vita, o almeno questa è la vita come la sentono le persone intelligenti. Ho goduto, sí, quando la musica passava nel mio cervello e dal cervello alle dita, senza resistenza. Allora l'orgoglio soddisfatto mi fa godere. Disprezzo gli altri miei simili che non sentono con me e godo. Però è una gioia che dura poco. Non so figurarmi uno stato di felicità per me. E per gli altri? Oh, francamente! Credo che mentano tutti coloro che dicono di essere felici.

Giorgio (parla da professore e Maria lo sta ad ascoltare con disprezzo). Oh, senta! Ho conosciuto un tale il quale diceva che gli alberi dovevano essere fatti di legno soltanto e senza foglie. D'estate andò in un bosco, ove, disse, non v'era alcun albero. Aveva ragione. Chissà cosa intende lei con la parola felicità. Se la vita che ci descrisse, non è felicità, allora la felicità non esiste.

Giulia. No, non è questo. Sai, Maria cosa manca a te per essere felice? La famiglia. Noi donne siamo delle creature che non bastano a sé stesse, che non possono vivere a parte, solitarie e nomadi. A noi occorrono le nostre quattro mura e qualcuno cui sacrificarci. Il nostro mondo dev'essere piccolo, ma tale che sia tutto nostro. Piccolo, sí, in realtà, ma pur anche grande, poiché in esso dobbiamo trovare tutto quello che tu cercasti invano in quella vasta capitale che per alcuni giorni ti sembrò tutta tua. Il tuo violino? È un istrumento bellissimo, e farà passare qualche ora piacevole alla persona cui vorrai bene.

Maria. Lo spezzerei in tal caso.

Giulia. Non volli mica disprezzare la tua arte destinandola all'ufficio di rendere piú gradevole il soggiorno nella casa! Oh, perché non appresi anch'io un'arte acciocché mio marito, i miei figliuoli vi si possano beare!

Maria. Un'arte non vive che a scopi maggiori.

Giulia. È lo scopo massimo. Sai perché ti parlo con tanto coraggio? Ti vedo spesso da che sei qui, pensierosa, distratta; or ora confessasti di non essere felice. Qualche cosa a te manca, dunque, ed anelo ad aiutarti. Di poco, ma credo di essere piú giovane di te, eppure mi pare di sentirmi molto, ma molto piú vecchia. Io infatti so o credo di sapere. Non sento piú il bisogno di affannarmi a cercare. Ho la tranquillità della persona che sa tutto quello che ha da succedere, proprio da persona vecchia che nulla piú chiede. Tu sei una giovinetta, invece. Cerchi ancora, perché hai battuto una via che non fa per te.

Giorgio. Ma, via, Giulia, vorresti ch'ella abbandonasse il suo violino, la sua arte per diventare una buona massaia! La signorina Maria parla cosí in un momento di malumore. Forse anche si sente meno felice del solito, perché in questa città le sono mancate le solite soddisfazioni.

Maria (con ironia evidente). Bravo, professore! Io e lei c'intendiamo perfettamente!





SCENA OTTAVA

Alberto e detti



Alberto. E questo concerto? Io ho finito e voi non avete neppur incominciato! Quando suonerete?

Maria. Non piú per questa mattina.

Alberto (confuso). Sarebbe il colmo della distrazione, se voi aveste suonato ed io non vi avessi udito!

Maria. Non si confonda. Non abbiamo suonato affatto. Suoneremo dopopranzo.

Alberto. Peccato ch'io non potrò udirvi, perché al dopopranzo gli affari mi rubano tutto il mio tempo. Arrivederci da qui ad un'oretta, a pranzo. Oggi pranzo di gala a quanto sento. Ho inteso un certo odorino passando davanti alla cucina…

Giulia. Alla una in punto. Non tardare, te ne prego!

Alberto (bacia Piero. A Giulia). Non dubitare! Ha studiato?

Giulia. No, ma studierà adesso.

Alberto. Dovreste attenervi a maggior regolarità. Ve l'ho raccomandato tante volte! Cosí avete perduto l'intera mattina.

Piero. Avevo da leggere a mamma la poesia che m'avevano dato da studiare. Cera però un fracasso qui…

Maria. Sí, sí. La colpevole sono io. Con le mie prove ho impedito a Giulia di far studiare il signorino, il quale del resto ne dimostrava pochissima voglia. Nella vita di un bambino la giornata ha poca importanza. Se non ha studiato oggi studierà domani, la prossima settimana o il prossimo mese…

Alberto. Si capisce che di pedagogia lei non si è mai occupata. Io desidero che col mio figliuolo venga già adesso adottato un energico sistema.

Maria. Mi scusi, dunque, perché di cosí grave mancanza son io la causa.

Alberto. Mi scusi lei, anzi. Non avevo mica l'intenzione di farle un rimprovero. Si figuri!

Maria (ironicamente). Non si scusi, perché son troppo lieta di aver potuto accertare quanto lei sia un buon marito e la mia amica una donna felice.

Alberto (ridendo e mettendo una mano sotto al mento di Giulia). Ne dubitava, eh? (S'avvia.) Con permesso. Bada, Piero, di non riposare dopopranzo delle fatiche che hai avuto questa mattina! (Via.)

Maria. Strano! Strano! Cosí non me lo sarei figurato.

Giulia. Ma perché, Maria?

Maria. Un padre di famiglia cosí buono, attento, amoroso…

Giulia. Cosí si è incaricato egli stesso di spiegarti la mia felicità.

Maria. Diamine! Capisco che ora le tue parole dovrebbero essermi chiare, ma… vorrei dire una bella bestemmia toscana… La rimando in gola, perché ti scandalizzerebbe. (Ride.) Eppure mi darebbe uno sfogo e non avrei bisogno di dire altro.

Giulia. Non capisco.

Maria (scoppiando). Ecco. Se a me toccasse di essere, ammettiamo, la manutengola di un ladro e di vedere che questo ladro la sapesse dare ad intendere in modo che tutti lo avessero a ritenere l'uomo piú onesto della terra, non saprei trattenermi dal gridare: “Ladro! ladro!” anche a costo ch'egli mi risponda: “E tu manutengola!”. Non essendo poi sua manutengola, come potrei tacere?

Giulia (con violenza). Non lo sei? non lo sei?

Maria. No. Figurati! Io con un borghese commerciante.

Giulia. Basta. (Molto commossa.) Mi lascio traviare anch'io! Sembra che tu Maria, abbia perduto il senno… Non capisco e non voglio capire…

Maria. Lascia (ridendo, contenta) che ti racconti tutto. È cosa innocentissima… e forse, sembrerà tale anche a te.

Giulia No, basta! Dinanzi al mio figliuolo, almeno, trattieni… la tua fantasia di artista! Quello che vuoi dirmi son cose che, se anche vere, non vanno dette a me, non in questa casa.

Maria. L'abbandonerò, perché io ho l'abitudine della franchezza.

Giulia (dopo un brevissimo istante di esitazione). Oh, via, farai quello che a te piacerà. Vieni, Piero.

Piero. Che cosa ti ha fatto?

Giulia. Vieni, vieni. (Via col figliuolo.)

Pausa.

Giorgio (accorato). Come, lei conosceva già mio cognato? Oh, ciò mi dispiace, signorina Maria. Ed io che l'ho sempre considerata come l'immagine stessa della sincerità! Lei avere dei segreti con mio cognato! (Rimproverando.)

Maria. Professore, ha ragione. Il mio torto è stato di non averne parlato subito… l'unico mio torto.

Giorgio. Oh, mi dispiace tanto, signorina! Capisco. L'unico colpevole è mio cognato…

Maria. La ringrazio ch'è tanto buono di crederlo. Io neppur conoscevo suo cognato… Sapevo unicamente di piacergli. Mi perseguitò per tre giorni prima a Bologna, poi a Firenze ed in fine a Venezia. Ecco tutto.

Giorgio (con qualche ansietà.) E adesso, adesso?

Maria. Oh, bah! Qualche occhiatina, qualche parolina piú che cortese e nient'altro. Può, tranquillizzare sua sorella. Io abbandonerò questa casa subito, oggi stesso. Ma intanto dica a sua sorella che vorrei fare la pace per evitare scandali. Già, infine, che cosa le ho fatto?

Giorgio. Certamente farò del mio meglio per farle fare la pace con mia sorella. Non creda assolutamente che vi sia bisogno di abbandonare questa casa. Ed io lo saprò impedire. È su mio cognato che deve riversarsi tutta la nostra collera.

Maria. Davvero? Crede che Giulia gli terrà il broncio?

Giorgio. Il broncio soltanto? E non le pare che abbia ragione. Ma di ciò piú tardi. Desidero anzitutto che si riconcili con mia sorella. Non indovina, perché vi do tanto peso? No… no?

Maria. No, davvero.

Giorgio. Allora non glielo dico, non glielo dico ancora… Insomma, entro oggi o domani… sentirà… Vado da Giulia… (Via.)

Maria (pensa un poco, poi capisce ed alza le spalle).





SCENA NONA

Tarelli e Maria



Tarelli. Che hai?

Maria. Oh, zio, peccato che non sei venuto qualche istante prima! Mi avresti impedito di fare una sciocchezza.

Tarelli. Quale? Hai gettato fuori di casa Maineri, perché ha sbagliato qualche nota?

Maria. Peggio, molto peggio. Mi son fatta licenziare da questa casa.

Tarelli. Come sei giunta a tanto?

Maria. Ho raccontato a Giulia che suo marito era innamorato di me.

Tarelli (stupefatto). Davvero?!

Maria. Ma sí davvero.

Tarelli. Ah, è uno scherzo, non ci credo.

Maria. Cosí inaudita è la mia azione da sorprendere persino te?

Tarelli (serio). Inaudita! La parola è precisa. Ma perché? Scherzando, forse, per leggerezza?

Maria. No, con la massima serietà di questo mondo. Ella voleva farsi invidiare da me. Diceva che io non poteva essere interamente felice, perché non possedevo la stessa felicità di cui essa gode… Allora non ho saputo piú trattenermi. Egli venne, parlò seriamente…

Tarelli. Chi egli?

Maria. Il signor Alberto.

Tarelli. Ah, cosí. "Egli" è il signor Alberto…

Maria (di nuovo esitante). Sí. (Poi.) Si comportò come fosse il miglior marito di questo mondo e Giulia mi guardava ironicamente. Mi dispiace, sai, oh, mi dispiace tanto! Anche verso il signor Alberto ho mancato, perché avevo promesso, espressamente, di non far parola del suo affetto… del suo capriccio per me. Non ti pare che potrei andare da Giulia a dirle che ho mentito, che in quanto le ho detto non c'è una parola di vero? No; questo no. Oh, zio, andiamo via subito da questa casa, da questa città! Lasciamo ch'essi sbrighino le loro faccende come possono… Cosí non si riparerebbe a tutto? (Piangendo gli getta le braccia al collo.) Oh, zio mio, sono tanto disgraziata!

Tarelli (accarezzandola commosso). Cosí fai sempre quando vuoi farti perdonare qualche scappata… Povera zingara!

Maria. Oh, zio, questa volta non mi capisci neppure tu! E come potrebbe essere altrimenti? Non mi capisco neppure io stessa…

Tarelli. Attenta, Maria! Ecco la signora Giulia. Almeno adesso procura di contenerti bene!





SCENA DECIMA

Giulia e detti



Giulia (molto seria). Senti, Maria. Giorgio mi ha detto che tu hai l'intenzione di abbandonare la mia casa prima dell'epoca stabilita. Perché?

Tarelli. Mia nipote l'ha detto soltanto, perché oggi abbiamo ricevuto un dispaccio che c'invitava di recarci a Genova. Ella non sapeva ancora che avevo già rifiutato.

Giulia. Ah, cosí! (A Maria.) Sai che finché resti in questa città, hai il dovere di approfittare di questa casa. Non siamo forse vecchie amiche? Una parola detta in fretta si dimentica facilmente. Io l'ho già dimenticata… (Freddamente.) E tu?

Maria (freddamente). Anch'io. (S'avvicina a Giulia.) Rimango, dunque. (Le porge la mano, poi si pente non vedendo subito pronta quella di Giulia, la quale ritira pure la sua.)

Giulia. Grazie. Vado ancora a dare alcune disposizioni per il pranzo. (Via.)

Tarelli. Qui sarebbe stato a posto un piccolo segno affettuoso che avrebbe fatto piú bene di tutte le spiegazioni. Perché non le hai stretto la mano?

Maria. Aveva già ritirato la sua. Oh, se crede ch'io abbia un tale bisogno di venir perdonata, s'inganna! Del resto si vede che non saprebbe perdonarmi. (Contenta.) L'ho toccata in un punto debole. Giulia si contiene cosí, per quel grande rispetto che tutte le donne borghesi portano alle convenienze. L'avrei amata di piú, se mi avesse graffiata.

Tarelli. Vedi, Maria, comincio anch'io a desiderare che si parta al piú presto. Non sono piú tranquillo.

Maria. Non capisco io, adesso.

Tarelli. Oh, vorrei che non mi comprendessi! Se avessi la certezza che non puoi comprendermi, sarei subito tranquillo di nuovo. Come vuoi che non dubiti di te, vedendo che hai provato il bisogno di vantarti della corte che ti ha fatto quel signor Alberto e che ancora adesso ti compiaci di aver offesa, ferita la tua amica d'infanzia? Non dirmi nulla; non negare, non scusarti. Non sono mica un ragazzo da non capire che la piú sciocca azione che si possa fare in tali frangenti si è di seccare, di far parlare continuamente il malato della propria malattia. Non una parola sull'argomento. Andrò ora dalla signora Giulia per cercare di disporla un po' meglio in tuo favore, e nei pochi giorni che rimarremo ancora qui, non si parli piú di questa avventura. (Si avvia. Poi.) Sono stato da Valzini. Daremo anche il secondo concerto. Ma ho perduto del tutto la speranza che il pubblico ti diventi favorevole. Basta comprendere ciò che ne pensa Valzini; non che abbia chiesto dei consigli a quell'imbecille, ma la sua opinione mi dà una chiara idea dell'opinione prevalente in paese. Figurati che sono andato da lui per fargli i miei ringraziamenti con tutta serietà, quasi gli fossi realmente debitore di riconoscenza, e mi attendevo di sorprenderlo, di confonderlo; invece, invece i miei ringraziamenti furono accolti con la medesima serietà con cui furon fatti, con la differenza che la serietà di Valzini non era simulata. Ritiene assolutamente di meritare gratitudine, e di aver scritto di te molto, ma molto meglio di quanto meriti.

Maria (che non è stata ad ascoltare). E… se vedo il signor Alberto, devo informarlo della indiscrezione commessa con Giulia?

Tarelli (in tono di rimprovero). Ah, sei ancora là col pensiero?

Maria (confusa). Che mi dicevi?

Tarelli. Niente, niente… Se vedi il signor Alberto, comportati come se nulla di nuovo fosse avvenuto. Come hai detto tu stessa, lasciamoli sbrigare i loro affari da soli. Per liberarti da quella inquietudine che ti vedo ancora in volto, vado dalla signora Giulia, e cercherò di farvi fare la pace oggi stesso. Attendimi qui. (Via.)





SCENA UNDICESIMA

Alberto e Maria



Alberto. Signorina Maria!

Maria (che non lo ha visto, improvvisamente imbarazzata). Oh, lei!

Alberto (lietamente). Oh, finalmente! Una volta ch'io la veda sola! Tra la mia e la sua famiglia, tra gli artisti ed i critici non c'è mai caso di scambiare con lei una parola! (Ridendo.) C’è poi quel mio signor cognato che sembra cucito alle sue gonne. Che voglia finire in un matrimonio?

Maria (seriamente). Oh, come può crederlo?

Alberto. Non occorre dirmelo tanto seriamente! Io non l'ho mai creduto. Volevo dire soltanto che si stava meglio quando si stava peggio. Cioè si stava meglio a Firenze, a Bologna, a Venezia se pur non ci conoscevamo. Mi perdoni lo scherzo. (Subito piú serio.) Se ne accorge anche lei che non sono né tranquillo né lieto. So di non esser capace di fare delle dichiarazioni troppo gentili. Le donne che, all'infuori di mia moglie, ho conosciute, non mi hanno dato quest'abitudine. Sono pochi giorni da che lei è qui, e mi pare un anno, perché, con tutta franchezza, non vedo l'ora che se ne vada.

Maria (che fin qui sarà stata ad ascoltare con evidente compiacimento). Oh, sarà presto soddisfatto.

Alberto. Oh, mi permetta che glielo spieghi. Si ricorda di ciò che le dissi al suo arrivo? Sembrava, e lo credeva io stesso, che lei non era com’io la riteneva, io dovessi ritornare prontamente ai miei doveri di marito e dimenticare tutto il resto. Non le avevo detto ch'io sarei capace di soffocare in me ogni altro sentimento pur di non turbare la mia felicità domestica? Ebbene, ora diffido di me stesso. Alle volte quando mi metto a riflettere, ma che riflettere! quando mi abbandono senza ritegno alla mia passione ed esco cosí dalla monotonia macchinale della mia vita, dal freno che impongo al mio contegno verso di lei, verso mia moglie, dall'abitudine per cui faccio quel dato gesto, dico quella certa parola… che non penso piú e che non approvo… allora… (Timidamente.)

Maria (incoraggiante). Allora…

Alberto (sorpreso, poi). Penso allora che se fossi un altr’uomo, meno metodico, meno preoccupato dall'idea del futuro, quel futuro che finisce sempre coll'ammazzare il presente, dovrei dare un'alzata di spalle tale da liberarmi da tutto quanto mi inceppa, m'impedisce la felicità e… e correre precisamente dietro a questa felicità.

Maria. Ma posso credere che parlando di questa felicità cosí grande che la indurrebbe ad abbandonare ogni altra, lei… pensi a me, una donna che nemmeno è capace di render gelosa sua moglie?

Alberto. Oh, non mi rammenti quelle frasi disgraziate di cui ora non approvo una sola parola. Basterebbe un suo cenno per farmi cadere ai suoi piedi anche in presenza di mia moglie.

Maria (sottovoce indagando in se stessa). Mi par di sentirmi piú sollevata.

Alberto. Che dice? (Le prende una mano.)

Maria (svincolandosi con energia). Mi lasci! (Freddamente.) Sono al caso di porla immediatamente alla prova. Senta, poco fa ho messo a parte sua moglie delle assiduità di cui mi onora.

Alberto. Ah, no, lei scherza…

Maria (seria). Sull'anima mia! Ho raccontato a sua moglie che lei è innamorato di me, ad ogni modo ho voluto farglielo credere, che sia vero o no.

Alberto (mortificato). Davvero?

Maria (avviandosi tristemente verso l'uscita). La prova è fatta.

Alberto (dopo una breve esitazione). No, Maria, rimanga, non mi lasci cosí dopo avermi fatto tanto male!

Maria. Le ho fatto del male? Lo riconosce?

Alberto. Lei forse ancora non sa quanto. Mi ascolti! Io non amavo mia moglie, è vero, ma il rispetto che le portavo, e piú ancora il sapermi tanto amato da lei, rispettato, venerato addirittura come un essere perfetto, m'induceva a fare tutti gli sforzi possibili per continuare ad apparirle meritevole del suo affetto. Ora, invece! Oh, certo. Quanto piú comprenderà d'essere stata cieca finora, tanto piú grande sarà la sua disillusione. Mi disprezzerà.

Maria (di nuovo per uscire). Sta bene. La prova è fatta. (Sulla soglia si ferma.) Perdoni il male che le ho fatto. Da qui a poco, già, quando sarò lontana, si rappattumeranno e il male sarà stato minore di quanto ora le sembra. (Alberto accenna di no.) No? Ebbene, deve riconoscerlo. Questo male se lo sarà meritato. Ricorda ciò che le dissi, quando per la prima volta mi diede quelle spiegazioni che poi volle ripetermi a sazietà? “Ma per chi mi prende?” le chiesi. Le ripeto oggi la stessa domanda: “Per chi mi prende?”. Io potrei non essere una fanciulla onorata nel senso borghese della parola, e ascoltare le sue dichiarazioni pur sapendo che facendomele si rende colpevole verso la famiglia, verso la legge. Ma dopo quanto m'ha detto, esse significano crudamente: “Vorrei passare con te qualche giorno. Assecondami!…” ed ascoltarla… io! Oh, via! Per chi mi prende? Poco fa ero già pentita del mio agire, ma ora lo trovo giustificato e ne ho piacere. Tanto! (Molto commossa.)

Alberto (sorpreso, dopo un momento di sospensione). Mi perdoni! So di averla offesa. Darei la mia vita per asciugare quella lagrima!

Maria. Ebbene! Se vuole farò tuttavia uno sforzo e andrò a dire a Giulia che ho mentito. (Vicinissima a lui.) Rinunzio anche al piacere di essermi vendicata delle sue offese. Vedrà che riuscirò a farmi credere. (Alberto accenna di no, che non lo crede.) Le dirò ch'è stata una mia fantasia di artista… Chissà cosa ella si figura per fantasia di artista!

Alberto. Non vada, Maria! (Attirandola a sé e guardandosi attorno con paura.) Io preferisco il suo amore…

Maria (svincolandosi). Mi lasci! Lo sappia! Io non amerò mai un uomo che non sia libero o che per me non si sia reso libero.

Alberto. Oh, Maria! Io non posso abbandonare il mio figliuolo!

Maria (ironicamente). Ecco. È giusto. Il suo figliuolo! Non ci avevo pensato! Ebbene! Allora stia lontano da me! Ascolti! Nella mia vita attiva io non ho molto sognato l'amore, ma non lo ignoro tanto da non comprendere che quello che mi offre non è amore.

Alberto (con forza). È amore. Se non è amore un sentimento per cui forse vedrò rovinare la mia vita, la mia felicità, allora…

Maria. Non è amore, finché lei sa che la sua felicità non è affatto compromessa. Di parole non mi accontento, io!

Alberto (con piú forza). È amore. Lo sento forse per la prima volta in vita mia. È un misto di rispetto e di desiderio che mi confonde. Lei sa, glielo ho già detto. Nella mia vita sono passate parecchie figure di donna. La sua… Ah, come si distingue da tutte le altre! Non posso neppure concepire l'idea che ben presto debba rimanere privo di lei! (Con fuoco.) Lei calcola, lei ragiona… Io sento solamente, e se mi oppongo, se resisto, è invano… Io l'amo! Lei non mi ama!

Maria (pacatamente). S'inganna. Ascolti! io l'amo. (Alberto si avvicina.) Mi lasci! Non so, non arrivo a comprendere la ragione di questo amore. Che una fanciulla come sono io giunga a confessarlo è tale prova di amore, quale non mi ebbi da lei finora. Lo so da poco; lo compresi dalla collera che mi assalse un'ora fa nel vedere quante cure lei prodigava a Giulia… in mia presenza. Ma pur amando, io riconosco, purtroppo, che mai una donna fu piú volgarmente desiderata. Sappia perciò che questa è la prima e l'ultima volta che sente da me una simile confessione. D'ora in poi sul mio volto non vedrà che indifferenza. È tanto ingiusto il sentimento che provo che mi sarà facile ben presto di soffocarlo e di sostituirlo con l'indifferenza anche nel cuore.

Alberto. Ma che vuole che faccia? Mi comandi!

Maria (in collera). A me lo chiede? Io le ripeto che il suo modo di amarmi, che le sue parole mi offendono. (Ironicamente.) Vuole amarmi fra le pareti domestiche ed allo stesso tempo tener delle prediche a sua moglie sul modo di allevare il figliuolo…

Alberto. Oh, Maria! Se veramente mi amasse, parlerebbe altrimenti! Non merito tanta ironia!

Maria. Me lo dimostri!… Vogliamo… fuggire insieme? Vuole abbandonare tutto per me?… No! (Pausa.) E allora mi lasci in pace e attenda alla sua famiglia.

Alberto (confuso). Non ho detto di no…

Maria (avviandosi). Ma neppure di sí, mi pare…

Alberto. Fra noi due… chi ha maggior esperienza per l'età (esitante, cercando le parole)… sono io. Lasci, quindi, ch'io… veda il bene di tutti e due.

Maria (ironicamente).… di tutti e due?

Alberto. Di tutti e due, sí. (Deciso.) Può esservi dubbio che per egoismo io rifiuti la felicità che mi offre? Io sono un uomo in età, ed una giovinetta bella, divina, che amo mi offre il suo amore. Può esservi dubbio che per egoismo rifiuti? Impossibile! Dunque… Ma potrà una tanto cara creatura accontentarsi della vita modesta che potrò offrirle? Ci ha pensato? Abituata com'è alla vita di artista, alle soddisfazioni dell'amor proprio, della vanità, dell'ambizione…

Maria (sorridendo). Oh, sí. All'arte chi ci pensa piú? Desidero anzi di condurre una vita tutta diversa da quella menata fin qui…

Alberto. Sarà una vita, naturalmente, molto modesta. La mia proprietà appartiene, ben inteso, a Giulia ed a mio figlio. (Maria assente.) Bisognerà vivere in qualche cantuccio della terra, molto lontano da qui… in una casa un po' meno ricca di questa.

Maria (con entusiasmo). Piccola e povera, ma nostra. La felicità mite e quieta di gente modesta…

Alberto. Oh, sei divinamente bella cosí! Maria! (L'abbraccia, con violenza.) Un bacio! Maria!… Un solo bacio!

Maria (difendendosi debolmente). No, no… Laggiú nella nostra casa… Ivi sarò tutta tua!…

Alberto (la bacia lungamente). Come pegno…

Maria. Via! Alberto…





SCENA DODICESIMA

Giorgio e detti



Giorgio (dà un grido). Ah!

Maria (si svincola e si allontana lentamente).

Alberto. Oh, Giorgio!

Giorgio (ironicamente). Scusino l'incomodo!… (Via.)

Maria. Non c'è dubbio. Quello lí è corso a raccontarlo a Giulia. Mi dispiace per lei, per le scene che ne deriveranno…

Alberto (smaniando). Oh, sí. Anche a me dispiace per questo… (Grida.) Giorgio! (Va alla porta.) Giorgio!

Maria (osservandolo). Ecco che l'entusiasmo è caduto e ben presto. Badi ch'è sempre libero! Badi!… Vedrà che riuscirà facilmente a calmare Giulia, anche se il professore ci ha già denunziati.

Alberto. Oh, non è questo che m'importa! È lo scandalo! È Giulia. Per piacere, Maria, mi lasci solo con mia moglie! Non vorrei che fra voi due vi fosse uno scambio di parole troppo dure. (L'accompagna alla porta. Ravvedendosi le bacia una mano prima di lasciarla.)

Maria via. Entra Giulia.

Giulia. E Maria?… È fuggita?

Alberto. Non scene, Giulia, te ne prego!

Giulia. Chi ti dice che ne voglia fare? Maria avrebbe potuto rimanere… L'avrei pregata pulitamente di andare a far all'amore con te fuori di casa mia. Gliel'ho già detto… (Grida.) Non voglio che insozzi questa casa! (Piú calma.) No, no. Voglio mostrarti che sono calma e che quanto ancora ho da dirti, non è ispirato dall'ira. Che Maria rimanga. Può rimanere per questo poco di tempo. Già so che tu saprai contenerti. Però, in ogni caso, sappi che… ti farò sorvegliare… da tuo figlio. Cosí su questo riguardo sono tranquilla. Ti pare?

Alberto. Ma Giulia, credi! Non è cosa sí grave che meriti il tuo risentimento!…

Giulia. Niente bugie, te ne prego! Posso disprezzare Maria, ritenere che sia stata fatta com'è dall'arte sua, non una ganza volgare, insomma, ma una donna passionale, trascinata dalle tue persuasioni, dal tuo amore. Non si tratta di una inclinazione ideale, di quelle che… una donna per bene saprebbe celare e combattere, né di una tresca futile che una donna onesta può scusare e fingere d'ignorare. Si tratta di una concatenazione di ambedue i casi, e a me non resta che piegare la testa (con un singhiozzo represso)… vinta. Non mi sento abbassata affatto e nel mio dolore non vi è traccia di vanità e di amor proprio offeso. E perciò che non tollero piú proteste, perché non so che farmene. Da poco tempo so di essere stata tradita in modo sí grave, però mi è abbisognato ben poco tempo per decidere la via da seguire. Rimango in questa casa per mio figlio, (vinta dalla commozione parla piú rapidamente) vivremo l'uno accanto all'altro come due fratelli… due fratelli che non si amano. (Si avvia.)

Alberto (vuole fermarla). Giulia!

Giulia (calmissima). Di questo argomento, basta! Già non potresti dirmi nulla ch'io non sappia, a meno che non fossero delle bugie. Dunque, basta! (Via.)

Alberto (si cela il volto e cade seduto).

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Amelia. Signore, la padrona l'avverte che il pranzo è in tavola.





CALA LA TELA









ATTO TERZO





SCENA PRIMA

Tarelli e Maria



Maria (sta gettando della biancheria in una cassa e canta). “Ed io lieto me ne vado al reggimento… ”.

Tarelli (infastidito). Te ne prego, non cantare! La tua voce e la tua gioia mi ricordano quella di uno stupido animale… che non voglio precisare.

Maria. Grazie.

Tarelli. Tanta gioia dopo l'insuccesso di ieri. Sta bene non curarsi di questi cretini, ma in un'artista dovrebbe pur esserci un po' di dolore dopo un insuccesso.

Maria. E se nel mio cuore non c'è questo dolore, che farci? Il mio non sarà un cuore di artista…

Tarelli. Oh, questa frase in bocca tua mi addolora anche piú del tuo canto e della tua falsa gioia. Hai suonato tanto male ieri sera che in luogo dell'archetto pareva tu maneggiassi una scopa. Quell'adagio poi! Ne accelerasti il tempo a tal segno! Non era un adagio quello! Era un cavallo ansioso di giungere alla sua stalla.

Maria (allegramente). Davvero? Cosí ad un tratto, ora suono tanto male?

Tarelli. Con trascuratezza. Lo riconobbe persino Maineri, il buon Maineri che di solito s'inginocchia davanti ad ogni tua nota. "Ha poca voglia questa sera" mi disse. Per me era troppo indulgente. Io ero là là per dare il segnale dei fischi. Oh, peggio ancora! Ti avrei bastonata! Pochi momenti prima il professore mi viene a dire di averti vista abbracciata al signor Alberto! Non credo che siano stati i miei rimproveri ad impedirti di suonar bene. Temo tu abbia qualche altra preoccupazione. Oh, Maria! È la prima volta, questa, in vita mia che anelo proprio di allontanarmi da un luogo! Chi me lo avrebbe mai detto che sarei fuggito in questo modo da una innocua e ridicola casa borghese come questa!

Maria. Povero zio mio!

Tarelli. E attendo ancor sempre le spiegazioni promesse… per calmare la mia collera… Avevi da darmele al piú tardi entro la mattina? Hai cambiato parere?

Maria. No zio. Mi permetti, però, di dartele… in iscritto?

Tarelli. Perché in iscritto?

Maria. Perché… scrivendo si arrossisce meno.

Tarelli (minaccioso). Ah, hai dunque da arrossire? Anche tu?

Maria. Sai che arrossisco facilmente. Dici anch'io! Anzi, francamente, se qualcuno ha da arrossire sono io solo quella. Egli, poveretto, è del tutto innocente. Mi prometti di non dirgli manco una parola di rimprovero?

Tarelli. Me lo hai già fatto promettere.

Maria (che fin qui avrà sempre lavorato intorno al baule). Intanto io ho terminato i miei preparativi per la partenza. È la prima volta che faccio questo lavoro da sola e non lo trovo mica noioso! Ho pregato Amelia di occuparsi dei tuoi bauli. Ora andrò nella mia camera a scriverti una lunga lunga lettera.

Tarelli. Ma è ridicolo scrivere ad una persona con la quale ci si può intendere in breve a voce. È tanto piú facile.

Maria. Piú facile, sí, ma solo in certi casi. Insomma che tu lo voglia o no questa volta sarai obbligato di decifrare le mie zampe di mosca. La prefazione soltanto vorrei fare a viva voce, perché non so maneggiare tanto bene la penna da esplicare certe cose in iscritto.

Tarelli. Ebbene?

Maria (gettandogli le braccia al collo). Senti, zio, sei convinto che ti voglio bene? Qualunque cosa avessi da scriverti sapresti perdonarmelo subito, senza esitazione?

Tarelli. Capirai, pazzerella, che la spiegazione non potrà mai farmi andare in collera piú del fatto stesso. (Accarezzandola.) Ora anche senza i tuoi schiarimenti penso che sei molto, ma molto colpevole, eppure, come vedi non ti tengo il broncio. (Dolcemente.)

Maria. Qualche volta quando le spiegazioni son date con tutta franchezza aggravano i fatti. (E ridendo.) E vedrai come son franca io, quando scrivo.

Tarelli. Ti diverti a tormentarmi facendo la sfinge.

Maria. Abbi pazienza, ancora per poco. Volevo dirti, zio, che ti voglio molto, molto bene. Tu mi hai fatto da padre e da madre. Oh, non l'ho dimenticato, (ad un gesto di protesta di Tarelli) meglio ancora di quanto avrebbero potuto farlo essi stessi. Sei tu che hai scoperto, o forse inventato il mio genio. Che ne so io? Voglio anzi darti una prova del mio amore. Figurati che nei miei sogni di fanciulla io previdi il momento in cui tu, troppo vecchio, non avresti piú potuto continuare questa vita. Ebbene. Fra i miei sogni e te non ho mai esitato. Avrei abbandonato il violino per seguirti e menare con te una vita ritirata e tranquilla. Non mi stai a sentire? Sono cose molto importanti quelle che ti dico e dovresti imprimerti nella memoria ogni mia singola parola.

Tarelli. Sto a sentire, ma non vedo l'importanza dei tuoi discorsi. Ho io mai dubitato del tuo affetto per me?

Maria. Eppure potresti dubitarne ed io non voglio. Dunque, ammettiamo, ch'io dovessi cambiare condizione…

Tarelli. Questo non ammetto.

Maria. Ammettilo solo per un istante, acciocché io possa parlare con piú facilità. Ammesso, dunque, ch'io avessi a cambiar condizione anche allora, specialmente allora, ti vedrei tanto tanto volentieri accanto a me. Capisci, mio buon zio? (Lo abbraccia commossa.)

Tarelli (riflettendo). Non capisco.

Maria (sorridendo). E la prefazione è terminata. Adesso lascia che vada a scrivere il volume.

Tarelli. Potrò stare dietro alla tua sedia a leggere oltre alla tua spalla mentre scrivi? Cosí il mezzo di comunicazione sarebbe pur sempre piú rapido.

Maria. No, lasciami sola. Fra due orette circa avrai la lettera. Fino allora cercati una occupazione qualunque per passare il tempo.

Tarelli. Ma che cosa ho da fare per due ore intere con questa agitazione nell'anima?

Maria. Va a passeggiare. Eccoti cappello e bastone e va a passeggiare da buon figliuolo. Addio, zio. (Abbracciandolo e baciandolo lo accompagna alla porta e poi corre piangendo nella sua stanza.)

Tarelli (ritorna lentamente con cappello e bastone, pensieroso, irresoluto). Passeggiare? (Lentamente va alla porta e guarda nella direzione donde è uscita Maria.)





SCENA SECONDA

Cuppi e detto



Cuppi. Prego, signor Tarelli, si potrebbe parlare con la signorina Maria?

Tarelli. Ah, il signor Cuppi! Pel momento mia nipote è occupata.

Cuppi. Ciò m'incomoda… mi dispiace molto.

Tarelli. Perché?

Cuppi. Perché… avrei premura di prender congedo. Vorrei salutarla.

Tarelli. Partiamo appena questa sera…

Cuppi. Sí. Loro. Ma non io… Per un affare che mi è capitato… inaspettatamente devo partire subito.

Tarelli. Dunque fuorché agli artisti lei si dedica anche a qualche cos'altro in questo mondo?

Cuppi No. Si tratta sempre di un affare… artistico. Senta quello che mi capita. Per combinazione la Mara, la grande riformatrice del teatro moderno, recandosi a Genova, passa per una stazione a due ore da qui.

Tarelli. Ebbene?

Cuppi. Ebbene, al suo passaggio io devo assolutamente salutarla. Capirà, son due anni che non ci vediamo. A quella sosta farò io gli onori di casa… o meglio gli onori di quella stazione. Farò in modo che durante la fermata… non le manchi nessuna comodità.

Tarelli. Quanto tempo si ferma il treno?

Cuppi. Quattro minuti e mezzo. Causa le congiunzioni ferroviarie questo viaggio a me costa due giorni di tempo. Se partissi domattina arriverei sul posto due minuti e mezzo dopo la partenza della Mara. E, capirà, per quanto la differenza sia piccola… Debbo quindi partire fra mezz'ora.

Tarelli. Capisco, capisco. M'interesserò io dei suoi saluti per Maria.

Cuppi. Ma, scusi, non potrei parlarle, (imbarazzato) col suo permesso, un solo momento?

Tarelli. Mi dispiace, ma non è possibile. È occupata.

Cuppi. È in quella stanza. (Avviandosi.)

Tarelli (tagliandogli la via). Scusi, mi dispiace, ma pel momento mia nipote è impedita.

Cuppi. Ah, cosí (quasi piangendo) ma cosí io perdo il treno…

Tarelli. Non le ho detto che m'incarico io di portarle i suoi saluti? Può andarsene liberamente.

Cuppi. Non posso, perché alla signorina Maria ho da dire e da dare qualche cosa.

Tarelli. Ebbene, dica e dia a me.

Cuppi (con rapida transazione). Già fra lei e sua nipote non ci sono segreti, è vero?

Tarelli. Si figuri!

Cuppi. Ed anche se la signorina mi raccomandasse tanto e poi tanto di serbare il segreto, e di serbarlo proprio con lei, non è possibile che si tratti d'altro che di uno scherzo per cui non vale la pena ch'io perda l'occasione di salutare la Mara. Lei già immaginerà di che si tratta?

Tarelli (agitatissimo, ma sorridendo). Certamente, me lo immagino, certamente!

Cuppi. Ecco, dunque, qui i due biglietti. Mi sono costati esattamente l'importo consegnatomi dalla signorina.

Tarelli. Ah, i due… biglietti postali. (Non avendoli ancora ben visti.)

Cuppi. No. Della "Florio Rubattino"… da Genova a Buenos Aires…

Tarelli (cui manca il respiro). Ah, sí, sí, i nostri due biglietti.

Cuppi (curioso). Ma perché la signorina Maria desiderava che non dicessi niente particolarmente a lei dell'incarico che mi aveva affidato?

Tarelli. Un suo capriccio…

Cuppi. Sí, sí. Da musicista, da artista…

Tarelli. Già si sa come sono gli artisti…

Cuppi. Lo so molto, troppo bene.

Tarelli (riavutosi del tutto). Il fatto sta cosí. Io voleva continuare il nostro giro in Italia, mentre Maria desiderava portarsi immediatamente in America. Adesso, naturalmente, sono costretto di fare la sua volontà. Me l'ha fatta… quella furba.

Cuppi (ridendo di cuore). Ah, ah, ah, bellissima… proprio bella!

Tarelli. Si, sí. Bellissima. Proprio bella.

Cuppi. Io non ho piú che dieci minuti per prendere il treno. Mi scusi con la signorina Maria. Le chieda anche scusa se non ho potuto serbare il segreto confidatomi. Acciocché non mi serbi rancore, faccia il suo volere, non la contrari, la conduca in America. Me lo promette?

Tarelli. Senz'altro. Non dubiti.

Cuppi Prima di andarmene… prima di partire… debbo dirle ancora una cosa. Io ho molta influenza sul pubblico di qui e l'assicuro, la impiegai tutta per far ottenere a sua nipote il migliore dei successi. Se non serví non è stata mia la colpa. Sua nipote dovrebbe anzitutto mettersi a suonare tutti altri autori. Quelli tedeschi qui non piacciono…

Tarelli (conducendolo alla porta). Sta bene… ho capito.

Cuppi. Non si gustano qui. E poi sua nipote dovrebbe acquistare tutt'altra arcata…

Tarelli (spingendolo). Sta bene, sta bene…

Cuppi. Meno sdolcinata…

Tarelli (lo getta fuori). Grazie! Addio!

Cuppi (mette la testa in scena). Assicuri… dica ai signori Galli…

Tarelli. Va benone! Grazie!… Addio! (Gli chiude la porta in faccia.)





SCENA TERZA

Tarelli e dietro le quinte Maria



Tarelli (ritorna verso il proscenio coi biglietti in mano, ora guardando quelli, ora la stanza di Maria. Poi mette i biglietti in tasca, va verso sinistra, apre la porta di Maria e guarda). Hai ancora molto da scrivere?

Maria. Sí, zio, ancora per mezz'ora, circa.

Tarelli (ridendo rabbiosamente). Un romanzo, dunque. Un intiero romanzo. (Chiude la porta a chiave ed intasca la chiave.) Scrivi con tutta calma, carina, abbiamo tempo.





SCENA QUARTA

Giorgio e Tarelli



Giorgio. Oh, il signor Tarelli.

Tarelli (concitato). Mi saprebbe dire dove posso trovare il suo degno cognato?

Giorgio. Degno? Non riconosco mio cognato neppure per prossimo.

Tarelli. Ciò non mi concerne. Dove posso trovare suo cognato?

Giorgio. A rischio che mi ritenga l'assassino di mio cognato, risponderò biblicamente: “Sono io forse il custode di mio cognato?”.

Tarelli. Ebbene. Mi dirigerò direttamente alla signora Giulia. Ella deve pur sapere dove si trovi suo marito.

Giorgio. Ma perché cerca mio cognato? Ha già mancato a qualche sua promessa? a qualche sua promessa verso di lei?

Tarelli (sorpreso si ferma). A qualche promessa? (Concitato.) Mi vorrebbe spiegare questa sua frase?

Giorgio. Non posso spiegare nulla io. Poteva darsi che mio cognato le avesse fatto delle promesse, e, visto che non è abituato a mantenerle, poteva darsi che avesse mancato anche verso di lei. Ecco tutto. Io cerco di spiegarmi la sua concitazione e niente piú. Se non lo sa, l'avverto ch'è molto concitato.

Tarelli. E ne ho le mie buone ragioni. In questo istante ho appreso che suo cognato ha l'intenzione di fuggire con mia nipote.

Giorgio. Possibile?

Tarelli. Non lo sapeva, dunque?

Giorgio. Io lo sapevo. (Calmo.) E mi meraviglia come mai lei non lo avesse saputo.

Tarelli (ironicamente). Cosí? Ah, lei credeva ch'io fossi perfettamente d'accordo di cedere mia nipote al suo signor cognato? Pare, al contrario, che voi siate tutti d'accordo in questo affare poco pulito.

Giorgio (calmo). Infatti siamo tutti d'accordo.

Tarelli. Ed io che credevo di essere entrato in una casa onesta!

Giorgio (c.s.) Mi creda, quando lei vi è entrato, questa casa era onesta. Adesso dipende dal modo di giudicare le cose.

Tarelli. E la signora Giulia?

Giorgio. Anch'ella lo sa, da mezz'ora soltanto, però. Glielo dissi io stesso.

Tarelli. E lei pure diede immediatamente il suo assenso?

Giorgio. Per essere sincero questo assenso non le venne chiesto. Giulia però è una donna ragionevole. Dal momento in cui apprese che suo marito faceva… la corte a sua nipote, ella, risolutamente si levò l'amore dal cuore e non si curò piú che di assicurare l'avvenire al suo figliuolo. Capirà. si tratta della sua dignità. In questa famiglia non si è abituati a domandare in carità neppure l'amore.

Tarelli. A tutto ciò non ho niente a ridire e voialtri sarete completamente liberi di comportarvi come vorrete. In quanto a me è un altro paio di maniche. Non so ancora in qual modo, ma le garantisco che saprò impedire la fuga di mia nipote. Se l'altro vuol fuggire che se ne vada con Dio.

Giorgio. E noi dal canto nostro staremo a veder perfettamente indifferenti ciò che farà mio cognato, sua nipote e lei stesso. La sorte di mia sorella è decisa. Il resto non mi preoccupa.

Tarelli. Oh, agirà da solo. Il ghiribizzo che evidentemente ha rannuvolato il cervello di mia nipote, fra poco sarà passato.

Giorgio. Sí, in alto mare, all'aria pura il cervello facilmente si snebbia.

Tarelli. In alto mare? Né mia nipote né suo cognato vedranno mai il mare, se hanno da vederlo insieme. Avrei fatto di lei un'artista, avrei faticato dieci anni per educarla, per poi consegnarla al primo imbecille cui piacessero i suoi begli occhi! Che il signor Alberto sia pronto di andare in America e anche piú lontano… oh non ne dubito! Va da sé. A lui l'avventura deve apparire carina!

Giorgio. Non tanto.

Tarelli. Non capisco.

Giorgio. Ecco. Mio cognato si trovava bene nella sua famiglia, e ci sarebbe rimasto ben volentieri, se la sua famiglia stessa non si fosse staccata da lui…

Tarelli. Davvero?

Giorgio. Naturalmente. Una donna che avesse avuto meno dignità di mia sorella, avrebbe potuto trattenere Alberto facilmente. Ma gliel'ho già detto. Nella nostra famiglia non si è usi a mendicare.

Tarelli. Cosicché mia nipote avrebbe dovuto accontentarsi del rifiuto altrui?

Giorgio. Non dico questo, anzi mi consta che la signorina piaceva ad Alberto già prima di entrare in questa casa. (Ridendo.) Il suo ideale sarebbe stato di tenere la signorina Maria come… dama di compagnia di sua moglie.

Tarelli (alza la mano per batterlo).

Giorgio (reagendo). Olà!

Tarelli (avvilito). Mi perdoni! È stato un movimento istintivo. Le sue parole mi parvero sferzate e mi misi sulla difesa.

Giorgio. Le mie parole sono aspre, ma anche il fatto è ben aspro in se stesso. Bisognava intenderci nel modo piú chiaro. Con permesso. (Avviandosi.) Vado a far un po' di compagnia alla mia povera sorella.





SCENA QUINTA

Tarelli e Maria



Tarelli (rimane trasognato per qualche istante, poi deciso va alla porta di sinistra, la apre e chiama). Maria!

Maria (dall'interno). Non ho ancora finito, zio.

Tarelli (gridando). Non importa, cara; risparmiati la fatica di scrivermi cose che già conosco. (Piccola pausa. Maria entra.) Ecco qui i due biglietti acquistati da Cuppi per incarico tuo. (Le consegna i biglietti.) Mi meraviglia (gridando) che non ti sia rivolta a me. Ti avrei servita altrettanto bene. (Siede.)

Maria (intimidita). Zio!

Tarelli. Chi vuoi?

Maria (pregando). Zio mio!

Tarelli. Me?! Io non sono tuo zio. Sicuramente io non sono zio della ganza del signor Alberto.

Maria. Oh, zio! Una parola simile a me! Perdono il tuo dolore.

Tarelli. Non ho dolori, io.

Maria. Ma non sei stato tu ad insegnarmi a pensare con la mia testa, senza pregiudizi, senza paure? Ed ora che si tratta di raggiungere la mia felicità, soltanto perché non curo il giudizio della gente, tu fai causa comune con essa e mi chiami una ganza. Ebbene! Sia! Sarò la ganza del signor Alberto.

Tarelli. Ed io (esitante) non ho detto altro, se non che lo sei già.

Maria. Ti sei ben ingannato! (Tarelli respira.) Noi faremo una famiglia onestamente borghese laggiú in America, una famiglia che per non essere stata consacrata né dal prete né dal codice non sarà perciò meno felice.

Tarelli. Vi sarà una piccola contraddizione nella vostra famiglia. Onestamente borghese! Borghese, sí, ve lo concedo. Lui un bottegaio, quindi un borghese. Tu una femmina innamorata di un bottegaio, quindi borghese. Ma onestamente! I borghesi non fondano cosí le loro famiglie. Scelgono le coppie, le uniscono, spesso per accomunare degli interessi, non si accontentano della legge civile, ma vogliono inoltre la garanzia della chiesa, e fanno camminare insieme i due sposi, consenzienti al legame che solidamente li lega. Cosí si diventa solidamente borghesi. La famiglia dev'essere stata fondata col consenso dei genitori, della legge e del prete. Voi due vi legate insieme con un delitto. (Maria protesta.) Un delitto verso una donna ed un fanciullo ed un delitto non può fare le veci delle benedizioni.

Maria (freddamente). Cosí dicono i preti.

Tarelli. Oh, Maria! Dimentica per un poco tutto quanto ti ho detto nella mia vita, perché non una delle mie teorie si adatta alla situazione che vuoi prepararti. Fin qui noi abbiamo corso il mondo, liberi, come gli uccelli dell'aria e indipendenti, senza obblighi né conseguenze. Dal nostro punto vista potevamo guardare sorridendo i nostri simili che per sentirsi felici e sicuri non hanno soltanto bisogno di piume e di fiori, ma pure di catene. Tu adesso vorresti vivere a modo loro. In tal caso non è ai miei passati insegnamenti cui devi rivolgerti, bensí alle leggi borghesi; senza delle quali non vi è famiglia. So bene come pervenisti alla determinazione di fuggire con quell'individuo. Non è amore il tuo, no. Come potresti sentirne per un simile animale?

Maria (indignata). Oh, zio!

Tarelli. Un po' alla volta ti è piaciuta l'idea di avere anche tu una casa come questa, dei mobili come questi, della biancheria da riordinare, dei bambini da allevare. Tutte le donne prima o poi hanno di queste nostalgie, ma nella tua mente di artista il capriccio passerà presto, e la casa ti sembrerà troppo ristretta, i bambini, se ne avrai, troppo stupidi, la biancheria un imbarazzo. Come non intendi che tale vita non è fatta per te? Oh, io mi ci perdo!

Maria. So che questa vita non è fatta per me. È con sacrificio ch'io l'offro ad Alberto, ma gliel'offro volentieri e lietamente, perché… l'amo.

Tarelli (fosco). Davvero? Ed è questa la ragione per cui, come già dissi, non sento piú di essere tuo zio.

Maria. Oh, zio mio, non dire cosí. Vieni invece con noi! Io volevo proporti di seguirci. Vuoi vedere la lettera? Essa ti spiega quanto sarebbero stati importanti laggiú per me… la tua presenza, il tuo appoggio. Tanto importanti da significare la legittimazione del nostro nodo.

Tarelli. No. No. Giammai! Non vedi come mi offendi con tale proposta? Mi sento ad un tratto borghese anch'io da capo a piedi e la tua disonestà mi offende, mi nausea. Oh, Maria! Come può esserti accaduto di amare un animalaccio simile, che te poi, in fondo, non ama.

Maria. Mi ama.

Tarelli (ridendo) Tu non conosci l'aspetto, il contegno di un uomo che ama. Per quanto legato alla sua famiglia, l'uomo innamorato non aspetta di venir messo alla porta della sua casa, ma l'abbandona risoluto egli stesso. Se questo Galli ti avesse amata, veramente amata, avrebbe sentito di essere capace di ammazzare moglie e figlio, e nemmeno allora ti avrebbe ancor meritata.

Maria (ridendo). Avrebbe dovuto anche suicidarsi e tu, naturalmente, saresti stato contento.

Tarelli. Non ti ama. Dopo averti avvilita col suo amore, ti abbandonerà; e tu dovrai ricorrere nuovamente all'arte, che allora ti volterà le spalle anch'essa, perché l'arte non è una mala femmina, cui basti un solo invito, perché si dia; bisogna accarezzarla ed amarla lungamente per averne i piú piccoli favori. Tu avrai perduto quella serenità di coscienza e d'anima che rendevano tanto belle le tue interpretazioni; ed infine ti mancherà il mio appoggio, perché ciò mi darà semplicemente la morte.

Maria. Oh, zio!

Tarelli. Dopo un disinganno simile non so come potrei continuare a vivere. Non avrei piú scopo. In te erano riposte le mie speranze, nel tuo avvenire l'ideale della mia vita. Ciò che non era riuscito a me, vedevo riuscire in te, ed io stavo a guardare affascinato e beato l'opera mia, quasi che in essa la mia vita si ripetesse, ma in forma piú bella, oh, tanto piú bella! E adesso capita un bottegaio qualunque a rovesciare il mio superbo edifizio. (Risoluto.) Ascolta, cara! Sei tu certa che, se la moglie di quel tuo Alberto facesse un cenno per richiamarlo, egli non si affretterebbe ad obbedire? E non ti lascierebbe partire per l'America sola?

Maria. T'inganni. Vuoi leggere la lettera che mi scrive oggi, in cui mi comunica la sua risoluzione?

Tarelli. Non leggo i manoscritti di quell'individuo. E se li leggessi, per quanto ben scritti - il tuo Alberto deve anche avere una bella calligrafia - non mi commoverebbero. Che ora era fissata per la fuga?

Maria. Io doveva partire sola per Brindisi da qui ad un'ora. Egli sarebbe partito questa sera.

Tarelli. Maria, per quanto ho fatto per te in questi ultimi dieci anni, vuoi accordarmi un piccolo, un ultimo favore? Dilaziona di qualche ora la tua partenza. Partirai questa sera insieme con lui e che Dio vi accompagni! Questa sera, te lo prometto, non farò piú alcun tentativo per trattenerti. Ma fino allora, promettimi, che non avrai alcuna comunicazione col tuo complice.

Maria. Complice?

Tarelli Chiamalo come vuoi… Me lo prometti?

Maria. Te lo prometto. Ma devi permettermi di avvertire Alberto.

Tarelli (dopo un istante di riflessione). Non farlo, te ne prego. Già per lui, non sarà che una bella sorpresa l'apprendere di dover fare con te anche il viaggio fino a Brindisi. Devi promettermi di non mettere piede fuori di quella stanza prima di questa sera. Sarà per te una seccatura, ma forse per me puoi sopportarla, vero?

Maria. Sí, zio mio. Vedi che cerco in tutti i modi di renderti piú gradito il mio ricordo e di diminuire il rancore che, credo, mi serberai.

Tarelli. A te rancore? Oh, no. Ricordo, sí, come… per una morta rapita improvvisamente. Adesso va nella tua prigione, te ne prego!

Maria (a Tarelli che suona il campanello). Che fai?

Tarelli. Chiamo la cameriera.





SCENA SESTA

Amelia e detti



Amelia. Il signore desidera?

Tarelli. Dica, per piacere, alla signora Giulia che per cosa di somma premura desidererei parlarle. L'attendo qui, o se la signora lo desidera, verrò io di là nelle sue stanze.

Amelia. Subito, signore.

Tarelli (la trattiene). Io parto oggi (le dà del denaro). Mia nipote ed io siamo stati molto soddisfatti di lei.

Amelia. Grazie, signore. Mi dispiace di non aver potuto dedicarmi esclusivamente al loro servizio, ma ho tanto da fare in questa casa.

Tarelli. Non importa. Adesso vada subito dalla signora Giulia.

Amelia. Immediatamente. Grazie anche a lei, signorina. Sono stati troppo buoni.

Maria. Povero zio! Mi dispiace veder che ti agiti tanto e… inutilmente.

Tarelli. A me non dispiace affatto. Mi sarebbe spiaciuto invece di non poter fare alcun tentativo per trattenerti. Almeno, non riuscendo, potrò sempre dare un po' di colpa a me stesso del tuo fallo, e ciò mi sarà un po' di conforto. Mi bastonerò da solo non potendo bastonare altri. Ma invece, se riuscissi nell'intento di far sí che il signor Alberto mancasse alla sua parola… tu, ne soffriresti?

Maria (dopo una breve esitazione). No zio. Mi consolerei all'idea che, anche una volta, avrò fatto il tuo volere.

Tarelli (le bacia le mani). Grazie, grazie. (L'accompagna alla porta e Maria esce.)





SCENA SETTIMA

Giulia e Tarelli



Giulia. Mi ha fatto chiamare, signor Tarelli?

Tarelli. Sí, signora. Accadono delle cose molto strane in questa casa.

Giulia. Strane davvero. Ma s'è per farmelo sapere, l'avverto che le conosco già.

Tarelli. Lo so. Anzi mi consta che le sapeva prima di me e non me ne disse nulla.

Giulia. Io a mia volta credeva che le sapesse e… che fosse d'accordo.

Tarelli. S'ingannava e… mi offendeva. Ma non gliene faccio carico non potendo esigere stima da chi non mi conosce. Io, al contrario, credeva di conoscere lei, e mi sono ingannato. Mi sono ingannato, sí, sul suo conto.

Giulia. Sentiamo che cosa credeva di me.





SCENA OTTAVA

Giorgio e detti



Tarelli. Io credeva anzitutto che lei amasse suo marito, e mi sono ingannato; poi credeva che lei amasse suo figlio e mi sono ingannato ancora. Potrei sbagliare nel giudicarla in tal guisa, ma allora dovrei ricredermi su di un altro punto. Io la riteneva intelligente, mentre ora mi avvedo che in una fase tanto importante della sua vita lei agisce precisamente da persona che… non capisce niente.

Giulia. La prego di credere ch'io ho amato mio marito ed amo mio figlio. Ne parli a mio marito ed egli le potrà levare ogni dubbio in proposito. Mi creda piuttosto poco intelligente, lo preferisco, piuttosto che credermi poco amante. Ma come, dica, avrei potuto agire diversamente? Che cosa potevo io in questa… disgraziata faccenda? Non ho colpa alcuna, perché non ho fatto alcun male. Ho assistito all'avvicendarsi di fatti imprevedibili ed ho creduto meglio di non dover intervenire.

Giorgio. Cosí la consigliai io stesso, e non mi parve di averla consigliata male.

Tarelli. Oh, professore, lei qui? Ho tanto piacere di vederla, ma le sarei molto grato, se in questo colloquio lei non mettesse la sua parola. E non si mettesse in lotta con me. Io già conosco la sua opinione, la signora, pure, tant'è vero che tutte le assurdità commesse dalla signora Giulia, le furono suggerite da lei. Dunque lasci ora ch'io esponga le mie idee. La signora poi sceglierà fra i miei ed i suoi consigli.

Giorgio. Non riconosco di aver suggerito delle assurdità.

Tarelli. Ma non è di ciò che dobbiamo discutere. Non perdiamo tempo. Io le chiedo soltanto di lasciarmi parlare. Vuol lasciarmi parlare?

Giorgio. Parli pure.

Tarelli. Anzi, a dire il vero, io mi sentirei meglio, se volesse lasciarci soli, perché a quattr'occhi ci si intende piú facilmente. No? Rimanga, dunque. Ma, non piú una parola da parte sua! (A Giulia.) Signora! Lei è responsabile di tutte le cose qui accadute che lei vuol far credere di deplorare. Questo è ciò che voleva dirle.

Giorgio. Ma lei dice una sciocchezza! La colpa ricade su tutt'altre spalle!

Tarelli. Lei mi ha promesso di tacere…

Giulia. Mi può spiegare in qual modo io mi sia caricata di una sí grave responsabilità?

Tarelli. Lo ignora?

Giulia. Sí, lo ignoro. E la scongiuro di spiegarmelo. Mia la colpa? (Agitatissima.) Se colpa è quella di essere stata troppo ingenua e fidente, allora sono stata, sí, veramente colpevole. Altra colpa in me non vedo…

Tarelli. Eppure, ne sono certo, l'unica responsabile è lei.

Giulia. Ebbene si spieghi, dunque! Se lei saprà provare che in me ci sia anche una piccola colpa, andrò magari ad abbracciare Maria prima che parta, e mi congederò da Alberto chiedendogli scusa del male che gli ho fatto.

Tarelli. Non questo le chiedo. Chi ha fatto il male, ripari. Non è stata lei a scacciare suo marito, perché un imbecille qualunque è corso a riferirle che Maria si era lasciata baciare… una mano da lui?

Giorgio. Una mano? La faccia… In bocca!…

Tarelli. Lei ha promesso di stare zitto!

Giulia. Io non l'ho scacciato. Gli ho detto soltanto che i nostri rapporti avrebbero cambiato natura. Ci saremmo trattati come fratello e sorella. Potevo agire altrimenti?

Tarelli. E lei credeva di aver cosí rimediato a tutto e di aver vincolato a lei per sempre quel povero diavolo che avrebbe dovuto starle accanto in eterna ammirazione della sua dignità?

Giorgio. Non era compito di mia sorella di rimediare al male che avevano fatto gli altri. Il suo compito si limitava a levarsi al piú presto da una posizione equivoca e penosa, punire in quanto stava nelle sue forze, chi aveva mancato ai suoi doveri; infine contenersi proprio come lei non vorrebbe: dignitosamente.

Tarelli. Ed ora seguendo i suoi consigli la signora si trova coll'aver salvato la dignità e nient'altro. Crede che le basti?

Giorgio. A mia sorella deve bastare.

Tarelli. Ah, sí; deve bastarle, naturalmente, le basterà. Ma dica, signora. Non vede lei la diretta relazione che c'è fra le due determinazioni, quella, cioè, presa da lei verso suo marito, e quella presa da suo marito verso di lei?

Giulia. No, non la vedo. Se mi avesse amata, se avesse amato mio figlio, avrebbe tentato di far dimenticare i suoi trascorsi e di riconquistare il mio affetto.

Tarelli. Ciò sarebbe stato dignitoso. Ma pare che a suo marito la dignità importi meno. Signora, io non posso convincerla, Lei ha la testa piena di parole altrui. Dignità… amor proprio… e che so io. E le offuscano il buon senso, questo l'ho capito subito. Se però suo marito al solo vederla si pentisse, cadesse ai suoi piedi, sarebbe pronta a perdonargli, definitivamente, stendendo un velo sul passato?

Giulia. Mi sarebbe difficile, ma perdonerei.

Tarelli. Bene, professore, è d'accordo che, prima di dividersi, marito e moglie si rivedano ancora una volta?

Giorgio. Ha parlato forse con mio cognato per sapere con tanta sicurezza che al solo vederla egli cadrà ai suoi piedi?

Tarelli. No. Non ho parlato con lui, ma credo di conoscerlo meglio di voi tutti. Ho insomma la convinzione che se gli fosse dato di parlare un'ultima volta con la signora, riconoscerebbe tutti i suoi torti e… mia nipote potrebbe partire in pace. Unica difficoltà che mi si presenta nel condurre a termine questa faccenda si è di far giungere marito e moglie a questo colloquio senza che da nessuna parte venga meno… la dignità. Vede, professore, che alla dignità ci penso anch'io.

Giorgio. Non sta dalla parte di Alberto la difficoltà, poiché egli aveva chiesto di salutare sua moglie prima di partire, e Giulia vi si era rifiutata, temendo di non saper contenersi a dovere. Il difficile è di convincere Giulia…

Tarelli. Me ne incarico io. Lei vada a chiamare suo cognato. Sa dove si trova?

Giorgio. Sí. Che te ne pare, Giulia?

Giulia. Che venga. Non sarò certo io che mi opporrò ad un tentativo che possa conservare il padre al mio figliuolo.

Giorgio. Sta bene. Vado a chiamarlo. Già al vostro colloquio sarò presente anch'io.

Tarelli. D'accordo. Li sorveglierà acciocché la dignità non soffra. (Giorgio via.)

Giulia. La ringrazio di avermi fatto comprendere che il mio dovere è di sacrificarmi.

Tarelli. Sacrificarsi? Io voglio che lei sia felice!

Giulia. Checché avvenga la mia felicità è distrutta per sempre… da sua nipote.

Tarelli. Da mia nipote? Pel momento non ho nessuna intenzione di difenderla, e capisco che mi sarebbe difficile. Però lei s'inganna, signora. Non so, se faccia bene o male ad aprirle gli occhi, ma conosco il cuore umano, per cui sono certo che il suo risentimento verso suo marito diminuirà, quando saprà che non è di Maria… o meglio che non è solo di Maria che ha da temere.

Giulia. Cosa dice?

Tarelli. Devo proprio io farle sapere che suo marito non le è stato fedele mai nel senso con cui lei intende la fedeltà. Delle Marie, da quando Alberto è sposato, egli se l'è viste passare parecchie nella sua vita. Tutta roba che gli serviva di svago, senza ch'egli vi desse mai troppa importanza. Egli nemmeno credeva di mancare ai suoi doveri matrimoniali correndo dietro a qualunque gonnella che incontrasse nei suoi viaggi di affari. Lo confidò egli stesso a Maria subito dopo il nostro arrivo qui. Disgrazia volle che la gonnella incontrata in questo suo ultimo viaggio gli capitasse dritta dritta in casa.

Giulia. E crede lei che questo diminuirà il mio risentimento verso mio marito?

Tarelli. Lei, signora, non ebbe mai alcun sospetto?

Giulia. Nessuno, in verità. Ho sempre creduto ch'egli mi amasse quanto io l'amavo.

Tarelli. Né s'ingannava, sicuramente. Però mi figuravo che la pace fosse stabilita nella loro famiglia in tutto altro modo. Pensavo ch'ella fosse edotta di tutte le teorie di suo marito e che chiudesse uno, anzi tutti due gli occhi. (Gesto di protesta di Giulia.) "Beato lui e beata lei" pensavo. Cosí dunque è fatta la maglia, che a chi non la conosce fa tanta paura. La legge che la regola è rigida, ma i caratteri che la compongono hanno una dolcezza che può toglierle qualsiasi durezza. Cosí, e soltanto cosí si può naturalmente vivere l'uno accanto all'altro, amichevolmente e anche affettuosamente. Lei, signora, mi appariva quale l'immagine della purezza della famiglia, non solo, ma pure quale un'eroina nella dura lotta della vita. Conoscendo il cuore umano, comprendevo che non tutto il suo compito fosse facile e piacevole. A lei bastava, cosí mi sembrava, che il sacro suolo su cui ella moveva nella sua nobile attività restasse puro, incontaminato. Perciò, io pensava, Ella non agiva contro le tendenze del signor Alberto. Le bastava di sorvegliare ch'esse non si esplicassero in questo recinto… Tutto era bello qui, infatti… tranne, secondo me… la cameriera.

Giulia. È un caso (con disprezzo) creda. Se crede ch'io mi degni di considerare quale mia rivale una cameriera, s'inganna.

Tarelli. Sí, lo so ora. Mi sono ingannato. Ma rivale? Chi dice rivale? Né secondo me né secondo suo marito lei non aveva rivali. Le altre donne erano altre donne, non rivali. Naturalmente, lei mi ha fatto ricredere, facendo procedere troppo oltre un'avventura, che si sarebbe risolta in limiti modesti. Il fatto che suo marito nelle gioie di novelli amori non saprebbe rimpiangere la famiglia perduta, pare la consoli, la tranquillizzi, e suo fratello, poi, sembra piú che soddisfatto di avere la sorella vedova prima della morte del cognato.





SCENA NONA

Giorgio e detti



Giorgio. Alberto ti attende in questa stanza. Volle abbracciare Piero ed io gliel'ho accordato. Non si poteva impedirglielo…

Giulia (avviandosi lentamente). No… no.

Giorgio. Sii dignitosa, non dura. Già vi dividete per sempre, non vi è piú scopo di litigare.

Tarelli. Sente? Anche suo fratello le ripete i miei consigli. Sia dolce e buona com'è stata tutta la sua vita.

Giulia. Mi proverò. (Guarda nell'altra stanza.) Egli bacia Piero… e piange…

Tarelli. Poveretto! (Con simulata commozione.)

(Giulia via seguita da Giorgio.)





SCENA DECIMA

Maria e Tarelli



Maria (vestita per uscire). Sai che non ti conoscevo come oratore? Hai convinto me pure…

Tarelli. Davvero?

Maria. Senza averne alcun indizio ho capito ch'eri riuscito a convincere Giulia. Poverina! Se ora Alberto non si lascia convertire con altrettanta facilità, ella resterà molto male.

Tarelli (inquieto guardando verso l'altra stanza). Credi che Alberto resisterà?

Maria. Dopo i tuoi ragionamenti, ne dubito.

Tarelli (trionfante si allontana dalla porta). Guarda, guarda, Maria…

Maria (senza muoversi). Che cosa ho da guardare?

Tarelli. Hai piú fortuna che giudizio. Sei libera! Si abbracciano.

Maria (avvilita). Tanto presto?





SCENA UNDICESIMA

Giorgio e detti



Giorgio. Fate pure! Io non posso impedirvelo. Oh, le donne, le donne!… Questo ella chiama dignità.

(Maria si tira in disparte.)

Tarelli. Che cosa le è accaduto, professore? Si sono ammazzati e di marito e moglie non rimangono piú che le code?

Giorgio. Ma che! Cominciarono col baciare ed abbracciare il figliolo e finirono col piangere ed abbracciarsi fra di loro, pacificati. Senza dire una parola, senza porre alcuna condizione. Facciano pure, ma io non rimetto piú piede in questa casa! (Via.)

Tarelli (a Maria). Vedi che non abbiamo da sentire rimorsi, poiché a questa gente non abbiamo fatto che del bene… Che te ne pare? Possiamo andarcene? (Le offre il braccio.) Diremo ad Amelia che c'invii i bauli con un servo alla stazione. Io davvero non me la sento di andare a ringraziare per l'ospitalità ricevuta in questa casa. Approfitteremo di questi due biglietti, giacché tanto ci tieni a vedere l'America. Ma, aspetta. Dobbiamo prima andare a salutare Maineri! Sai che neppur in questo luogo il tuo successo non è stato poi disprezzabile? Trovare una persona come Maineri, pronta ad abbandonare tutto e tutti per seguirci, perché egli dichiara che senza il tuo violino non può piú vivere, e vorrebbe accompagnarti attraverso il mondo, che ne dici, è mica poco?

Maria. Fa come vuoi.

Tarelli. Ti rammarichi davvero che l'avventura debba finire cosí? Ah, non lo credo! Non capisci che non appena vorrai ricominciarla potrai farlo sotto auspici piú favorevoli. Anzitutto tu non avrai bisogno di abbandonare l'arte per maritarti. Sposerai un girovago come te. Moglie, marito e buoi dei paesi tuoi! Compreremo un casotto ambulante e cosí avrai anche la tua casa…

Maria. Non scherzare, te ne prego! Non scherzare per giunta!

Tarelli. Allora presto presto andiamocene! Quando non vuoi scherzare c'è sempre da aver paura…

Maria. No, cosí non parto. Voglio salutare…

Tarelli (spaventato). Chi?

Maria. Giulia.

Tarelli. L'idea non mi dispiace. (Va alla porta.) Signora Giulia, scusi, un momento solo!





SCENA DODICESIMA

Giulia e detti



Tarelli. Prima di partire vorrei ringraziarla per l'ospitalità accordataci.

Maria. Giulia, vorrei salutarti anch'io… Sii felice! Io non ti ho mai voluto male! È stata una cosa che mi è capitata senza che lo volessi o ne dubitassi… Davvero che ancora non so spiegarmela, ma so di certo che non ho mai avuto l'idea di farti del male, e, lo comprendo ora, non mi sarei mai rassegnata ad essere odiata da te. Vedi? La danneggiata, chi ne soffre son io, perché nasconderlo? Non lo ha voluto, altrimenti sarei partita con lui… È meglio cosí. Anzi, la mia scappata non può che lusingarti. Lo amavo e perché? Perché volevo la tua casa, la tua felicità, tuo marito, e sognavo di divenire buona e dolce come sei tu. Già non mi sarebbe riuscito, lo riconosco! Io al tuo posto, vedendo la mia felicità minacciata, avrei ammazzato lui, la sua complice e me. (Agitatissima. Piú dolcemente.) Sii buona fino in fondo e… dammi la mano! Perché avremmo a dividerci cosí? È probabilmente l'ultima volta che ci vediamo!





CALA LA TELA





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APPENDICE

Altre stesure e modifiche

Appunti e modifiche





PRIMO



PERSONAGGI



Alberto Galli, negoziante

Giulia, sua moglie

Piero, bambino dodicenne

Giorgio, professore fratello di Giulia

Cuppi, vecchio possidente

CARLO Tarelli

Maria, sua nipote

Maineri, maestro di musica

Amelia, vecchia fantesca





L'azione si svolge nell'epoca presente in una città italiana di provincia.





ATTO PRIMO

Tinello in casa Galli.



SCENA PRIMA

Alberto che dorme su un'ottomana, Giulia e Giorgio



Giulia (a Giorgio che entra). Pst! Piano che dorme.

Giorgio. Te lo avevo detto io che non c'era da impensierirsi. Eccolo là che dorme e il rimorso di aver tolto a te il sonno di una notte intera non lo inquieta punto.

Giulia. Lui non ne ha colpa. Ha perduto per distrazione due treni. Subito egli telegrafò, ma per un caso malaugurato il suo dispaccio mi venne consegnato soltanto pochi minuti fa.

Giorgio. Diamine! Due treni ha perduto e i suoi dispacci da Firenze ci mettono ventiquattr'ore? Sono cose che non toccano che a lui. Fammi vedere il dispaccio!

Giulia. L'ho gettato via.

Giorgio. Perché non indirizzare un reclamo all'ufficio telegrafico? Io non tollererei un simile disordine, per la massima!

Giulia. Che vuoi che ora a me importi che mettano ordine in quell'ufficio? Chissà quanti anni trascorreranno prima ch'io abbia a ricevere un altro dispaccio. Come dorme! (guardando Alberto con affetto.) Mi dispiace che presto dovrò destarlo perché arrivano Maria Tarelli e suo zio. Senza conoscerli non li ama molto; se incominciano poi dall'impedirgli il sonno, li amerà anche meno e saranno poco aggradevoli i pochi giorni che Maria passerà con noi, perché franco e sincero come è, non sa a celare la sua antipatia.

Giorgio. Spero che almeno non dirà loro in faccia che li tiene per istrioni. A me fa ira di sentirlo parlare in tale modo di una grande artista.

Giulia. Che vuoi farci. Lui è un buon borghese che ci tiene alla sua vita regolare e non ama la gente nomade come Maria e suo zio.

Giorgio (con un po' di disprezzo). Sí! Sí! è degno tuo marito.

Giulia. Che vuoi farci? Siamo felici cosí. Tu sogni arte e scienza; noi vogliamo calma e felicità. Ritengo però che Maria finirà col conquistare anche le simpatie di Alberto. Delle tue può andar sicura. Anche troppo e bada ch'io terrò gli occhi molto aperti.

Giorgio. Non temere! Certo è che a parlare con essa mi divertirà meglio che con la gente solita che mi tocca frequentare qui. Però non ho tempo da perdere, io, e debbo riservarmi ad altre cose.

Giulia. Maria è molto bella; è inoltre distinta e cara. Troverai in lei una donna fuori di certi suoi accenti bruschi, maschili, sorprendenti nella sua voce, ch'è adorabile.





SCENA SECONDA

Amelia, Piero e detti



Amelia. C'è fuori un signore che vuol parlare col signor Alberto.

Giulia. Pst! Va a vedere tu, Giorgio. (Giorgio via.)

Piero. Mamma! Papà non ti ha detto niente del regalo?

Giulia. No! Gliene parleremo allorché si sarà svegliato. Zitto, ora!

Alberto (svegliandosi si guarda d'intorno con sorpresa). Mi pareva d'essere ancora in viaggio. Quanto tempo ho dormito?

Giulia. Circa due ore. Il sonno, no, non lo hai perduto.

Alberto. Hai ragione di farmene un rimprovero. Dopo quindici giorni di assenza doveva bastare la vista della mia cara moglie per tenermi desto. Ma sono precisamente i quindici giorni di fatiche che mi fanno essere cosí. Ho faticato molto. (Stirandosi.)

Giulia. C'è fuori un signore che domanda di te. Amelia, chiami il signor Giorgio.

Alberto (ancora assonnato). Chi domanda di me?

Giulia. Non lo so; Giorgio ce lo dirà. (Siede accanto a lui e attira a sé Piero.) Piero chiedeva se gli hai portato qualche dono.

Alberto (da prima sorpreso). Un dono! Ah sí! Me ne sono dimenticato.

Giulia (sorpresa e offesa). Davvero?

Alberto. Ho pensato ch'era meglio di fare tale acquisto qui, ove tutto è piú a buon mercato.

Piero. Allora potrò scegliere io? (Alberto lo bacia ridendo.)

Giulia. Avrei preferito che tu avessi fatto tale acquisto fuori. Sarebbe stata una prova che anche lungi da noi, a noi sempre pensi.

Alberto (scherzosamente). Io non ci ho mica pensato che il dono a Piero poteva valere per te quale una prova del mio affetto. Altrimenti gli avrei portato non uno, ma dieci doni.

Piero. Dieci doni! Peccato che non ci hai pensato.

Alberto (ridendo). Bravo Piero! Tu trovi sempre la parola giusta.





SCENA TERZA

Cuppi, Giorgio e detti



Giorgio. S'accomodi. (Presenta.) Il signor Cuppi, mia sorella, mio cognato Alberto Galli.

Cuppi (esageratamente cortese). Ho tanto, tanto piacere. (Stringe la mano a Giulia, poi ad Alberto.) Li conosco di vista da parecchio tempo e sempre mi auguravo che si presentasse l'occasione di fare una conoscenza piú intima… (correggendosi)… sí… piú vicina, piú vicina, sí. Ora l'occasione s'è presentata, perché io attendo i signori Tarelli.

Alberto. Ah! cosí! sono raccomandati a Lei? Non avranno dunque bisogno di noi?

Cuppi. No! No! non sono raccomandati a me! Ma come? (Ridendo.) Loro non mi conoscono affatto? Bisognerà che mi presenti da me? Non sanno ch'io sono l'amico degli artisti? Se non faccio altro io a questo mondo! Come si fa abitare questa città e non conoscermi? Oso asserire, sí oso, che in questa città di provincia io sono la cosa, la persona piú preziosa per gli artisti. Sono loro servo devoto e li aiuto in tutte le piccolezze di cui possono abbisognare. È un'occupazione che rende poco, ma che fa passare magnificamente, sí, aggradevolmente la vita. La Ristori diceva di questa città: Di bello non c'è che la statua a Dante e Cuppi; paragone che non calza perfettamente, perché io servo a qualche cosa, a molto anzi. Peccato che i signori Tarelli trovino qui l'alloggio pronto; ne avevo uno bellissimo da porre a loro disposizione, una vera occasione.

Alberto. Se preferiscono quello, che si servano.

Giulia. Ma Alberto! (Poi a Cuppi.) Ho promesso a Maria di tenerla con me. Viene qui piú allo scopo di vedermi che di dare quei due concerti.

Cuppi (ammirandola). Era proprio amica sua intrinseca?

Giulia. Ma sí! amica di collegio.

Cuppi. Tanto giovine e in poche settimane è divenuta famosa, conosciutissima. Tutti i giornali parlano di lei.





SCENA QUARTA

Amelia e detti, poi Maineri, Tarelli e Maria



Amelia. Sono qui, ma in tre.

Alberto. In tre? Vanno aumentando continuamente?

Amelia. Una signora e due signori. Sono ancora giú dinanzi alla porta di casa.

Cuppi. Vuole che li vada a chiamare io?

Maria (entra seguita da Maineri e Tarelli). Ne parleremo piú tardi. E Giulia? Come stai? (La bacia affettuosamente.) Uh! Che pezzo di donna. Hai il volume che in passato avevamo in due. Sei cambiata, molto cambiata. Sempre una bella persona, ma non sei piú quella. Che peccato! Io che speravo di ritrovare in te quella mia antica, dolce amica cui mi piaceva tanto di fare del male per vedere fin dove arrivasse la sua indulgenza. Certo hai perduto quell'indulgenza! Chissà quanto cattiva sarai divenuta invecchiando.

Giulia. Tu sei sempre la stessa co' tuoi occhi serii e dolci. (Presentando.) Mio marito…

Alberto (con lieve sorpresa). Signorina!…

Maria (ridendo dopo un istante di sorpresa). Ooh! una vecchia conoscenza!

Alberto. Infatti, abbiamo fatto una parte di viaggio insieme. Da Bologna a Firenze.

Maria. Ancona, cioè.

Tarelli (intervenendo). Firenze, Firenze. Me ne ricordo benissimo. Firenze!

Alberto. In Ancona non sono stato questa volta. (Un po' confuso.)

Maria (sorpresa). Ah! cosí!

Alberto (a Giulia). L'altr'ieri siamo stati insieme. Da Bologna a Firenze.

Maria (molto sorpresa). L'altr'ieri?

Giulia. E non vi siete conosciuti?

Maria. Non ve n'è stata l'occasione.

Alberto (cortesemente a Maria). Ha fatto buon viaggio?

Maria (freddamente). Sí, grazie.

Giorgio (a mezza voce, fra sé). Strano! Una è stata con lui in Ancona; l'altro invece non si rammenta che d'essere stato a Firenze.

Giulia (presentando). Mio fratello Giorgio, professore al Liceo.

Giorgio. Ho tanto piacere di fare la sua conoscenza. Ne chieda a mia sorella. Contavo i giorni che mancavano al suo arrivo qui, perché per me è una fortuna che la casa di mia sorella divenga un po' piú artistica.

Maria. Grazie del complimento, ma non posso accettarlo. Non rendo mica artistici i luoghi che tocco!

Giulia (a Maria). Bisogna sapere che lui, oltre che professore, è artista e dotto. Si occupa di storia patria.

Maria. Anche questo paese ha una storia?

Tarelli (intervenendo). Ma che dici, Maria? Offendi i signori, eppoi ti sbagli. Questo paese! Non è per di qua che sono passati i Romani?

Giorgio. Questa è una colonia romana.

Tarelli. Naturalmente, Maria, ti sei dimenticata di presentarmi.

Maria. Mi pareva non occorresse. Mio zio, Carlo Tarelli.

Tarelli (stringendo la mano a Giulia). Il quale accetta con gratitudine l'ospitalità che tanto gentilmente gli è stata offerta. (Poi ridendo ad Alberto.) Veramente peccato che a Bologna nessuno ci abbia presentati. Avremmo fatto molto piú aggradevolmente il tratto da Bologna a Firenze, poiché è quello il tratto che abbiamo fatto insieme.

Maineri. Signorina! Debbo andarmene! Sono legato alle mie lezioni.

Maria. Incatenato, mi pare, a dirittura. Rimanga soltanto un istante ancora che la presenti ai padroni di casa, poiché ella dovrà venire qui di spesso per causa mia. Il professor Maineri che gentilmente s'è offerto di accompagnarmi al piano nei due concerti che ho da dare qui. Ha avuto la gentilezza di venirmi a ricevere alla stazione.

Giulia. Ci sarei venuta anch'io, se mio marito non fosse stato ancora molto stanco del viaggio.

Maria (abbracciandola). Ooh! non avevo mica l'intenzione di farti un rimprovero. Perché ridi?

Giulia. Perché hai conservato quel tuo ooh maschile che in collegio tanto ci piaceva.

Maria. Delle cattive qualità non ne ho perduta nessuna.

Maineri. Col suo permesso io ritornerò qui domattina.

Maria. E la ringrazio. Mi piace tanto di trovare al mio arrivo in una città, subito, alla stazione, dei volti amici.

Maineri. Non ha nulla da ringraziare. Due mesi fa ho assistito ad un suo concerto a Milano e m'è nato in cuore il desiderio di sedere io una volta al pianoforte e accompagnare quel suo violino ch'è una vera orchestra da sé solo. Quasi quasi compio un voto. A rivederci domattina. (Via.)

Tarelli. Scusi, signor professore Giorgio. (Subito amichevolmente.) Ella, quale professore di belle lettere, se bene ho udito, dovrebbe pur conoscere qualche critico musicale in questa città.

Giorgio. No, affatto! Vivo a scuola e in casa e con giornalisti non ebbi finora nulla da fare. È gente che a me non piace.

Tarelli. Peccato! Di solito vengono i critici a cercare di noi, ma capisco che qui toccherà a noi di cercare loro. Le faccio del resto i miei complimenti se non conosce giornalisti. Anch'io, se potessi, farei a meno di essi. Canaglie! Però dico peccato per il caso nostro. Non conosce neppure nessuno che pratichi la compagnia di giornalisti? Eh! già! Capisco! Non volendo aver da fare con giornalisti, è bene tenersi lontano da chi li pratica.

Cuppi (lieto). Son qua io! È proprio il momento di presentarmi. Critici musicali? Ma io li conosco tutti! Uno cioè, ch'è però l'unico! Valzini! Vado a chiamarlo.

Alberto (ridendo). Ce ne eravamo dimenticati. Il signor Cuppi… amico degli artisti.

Cuppi. La presentazione è completa, non c'è piú nulla da dire sul mio conto. Amico degli artisti! Dalla Ristori alla grande riformatrice del teatro moderno, la Mara, di tutti, di tutte sono stato… o sono amico.

Tarelli. Ha nominato solo gli artisti drammatici; si dedicherà poi col medesimo zelo ai musicisti?

Cuppi. Solo ai violinisti. Ho una passione speciale io per il violino, per il re degl'istrumenti. I sonatori di piano non amo e non li ama neppure il nostro pubblico a quanto ho potuto osservare. Ho già conquistato dei titoli di benemerenza per i violinisti. Il celebre Janson ch'è stato qui due mesi fa, alloggiò, mangiò, e quasi quasi suonò anche col mio aiuto.

Tarelli. Janson è stato qui?

Cuppi. Ma sí! Non lo sapeva?

Tarelli. E quale successo si ebbe? (Piccola pausa.)

Cuppi. Perché celarlo? Enorme! Molto grande! Per otto giorni la città non si occupò che di lui; il teatro era pieno, zeppo, e vi erano rappresentate tutte le classi sociali… o quasi. Janson era un ospite ricercato dalle principali famiglie della città. I poeti gl'indirizzavano versi e i giornalisti articoli di fondo. Partendo, egli mi disse che avrebbe voluto essere nostro concittadino… naturalmente se non fosse stato svedese.

Tarelli. In allora, poveri noi, nevvero?

Cuppi. Oh! no! al contrario! Onorando Janson la città dimostrò quanto essa apprezzava il vero merito e saprà dimostrarlo anche nella signorina.

Tarelli. Valzini è molto riputato in città?

Cuppi. Moltissimo. Si racconta che gli autori principali, come Verdi e Wagnèr (all'italiana), quel tedesco, leggano sempre le sue critiche.

Tarelli (a mezza voce e con gesto espressivo). Scusi, in confidenza. Bisogna ungere?

Cuppi. Ah! no! da noi non troverà di quella stampa. Valzini è ricco ossia ha tutto il poco di denaro di cui abbisogna. È gentile però e una buona parola mia servirà a sufficienza. Ma denaro? Ohibò!

Tarelli. Ho chiesto per la buona regola. Naturalmente che se è ricco e stimato da Wagnèr (imita Cuppi) non si lascerà pagare.

Cuppi. A rivederci, signori, in mezz'ora o poco piú ritorno con Valzini.

Tarelli. Grazie! La prego di dirgli che mia nipote ed io verremo da lui domani s'egli non può venire da noi oggi.

Cuppi. Sta bene. Mi piace! Valzini certo sarà lusingatissimo dell'ambasciata. Con permesso. (Via.)

Giorgio (congedandosi). Signorina! Interverrò anch'io se me lo permette alle prove di domani, quantunque io non sia molto musicale. Anzi, e con me parecchi scrittori moderni, siamo in genere contrari alla musica. La cosa tuttavia m'interessa.

Maria. Con quelle premesse certo io non ci tengo molto di essere onorata della sua presenza. Ad ogni modo, se Ella verrà, suonerò istesso.

Giorgio (dopo un istante di esitazione). Va bene! Accetto le sue parole come un invito. Vede che ci metto della buona volontà anch'io. A rivederci. (Via.)

Giulia. Perché lo tratti cosí? Lui ti parla con una deferenza che tu neppure puoi apprezzare, perché non sai come tratti con gli altri.

Maria (abbracciandola con grande effusione). Oh! se sapessi quanto piú felice mi renda di vedermi trattata bene da te. Se tu lo vuoi, farò dei complimenti anche a tuo fratello, quantunque le persone antimusicali non mi piacciano.

Giulia. Sai pure che non bisogna tener conto di tutto quello che dicono i dotti.

Tarelli. Lasciamo stare qui queste valigie?

Giulia. No! le farò trasportare subito nella stanza destinata a lei. (Chiamando.) Amelia!

Tarelli. Non si scomodi. Le posso portare io, da solo; dov'è la stanza?

Giulia. Di qua. In fondo a questo corridoio. (Via.)

Tarelli. Mi dispiace d'incomodarla. (La segue.)





SCENA QUINTA

Alberto e Maria

Maria vuol seguire Tarelli.



Alberto. Scusi, signorina Maria! Una sola parola? Non è Maria ch'ella si chiama? Dolce nome! L'avessi conosciuto ieri!

Maria (ridendo). L'altr'ieri, cioè.

Alberto. L'altr'ieri o ieri fa lo stesso. Non è una bugia, è una… distrazione. Avevo raccontato a mia moglie d'aver lasciato Firenze l'altr'ieri. Mi dispiaceva di lasciarmi smentire.

Maria. Rammento ch'ella mi aveva detto ch'era stata sua intenzione di lasciare Firenze l'altr'ieri. A sua moglie raccontò quindi l'intenzione.

Alberto. Sí! La prima intenzione, perché la seconda, debbo confessarlo, era di rimanere a Firenze finché c'era lei e poi di seguirla per otto o dieci giorni o magari per un mese.

Maria. E Giulia?

Alberto. A mia moglie avrei scritto che gli affari mi trattenevano fuori.

Maria. Povera Giulia! Per aver a ritrovarla cosí, volentieri avrei rinunziato di rivederla.

Alberto. Perché? Chi le dice ch'io sia un cattivo marito? Ne chieda a Giulia e le dirà che migliore non potrei essere. Il modello dei mariti.

Maria. Dunque tanto peggio: Tradita e ingannata.

Alberto. No! Né tradita né ingannata. Adesso io la conosco. So chi è, cioè una grande artista e al tempo stesso una fanciulla onorata. Ma prima…

Maria (seria). Prima aveva potuto credere ch'io non sia una fanciulla onorata?

Alberto. Mi scusi e non si adiri. Mi lasci parlare francamente, perché altrimenti non potremo intenderci.

Maria. Non capisco quale bisogno ci sia d'intenderci.

Alberto. Vedrà, grandissimo bisogno o meglio son io quegli che sente tale bisogno. Via! Non sarà tanto buona da rendermi un lieve servigio, quale è quello di starmi ad ascoltare? Glielo chiedo quale marito di Giulia.

Maria. Non è il titolo ch'ella potrebbe invocare, ma parli, mi rassegno.

Alberto. Non ha bisogno di rassegnarsi a nulla, perché mi farebbe un torto credendo ch'io possa avere l'intenzione d'offenderla. Sull'anima mia! Respingerei con indignazione un'idea che potesse essere meno rispettosa per lei; non la penserei neppure! Si sente sicura? Posso parlare ora senz'altra preoccupazione che di esprimermi precisamente e chiaramente? (Maria annuisce.) Ecco! Io non ho altro scopo che di provarle che la sua amica Giulia è piú felice di quanto ella sembra di credere. Per darle tale prova mi basterà dirle che anche quando corro dietro ad altre donne, in quel medesimo istante, quando sono tutto intento a raggiungere il mio scopo e mi trovo in quello stato di esaltazione in cui ella, per mia disgrazia, mi vide, anche allora, amo mia moglie appassionatamente e le darei in quel medesimo istante il bacio affettuoso di ogni sera.

Maria. Beata Giulia, allora.

Alberto. Perché, vede, mia moglie e le altre donne, quelle cui corro dietro io, non sono le stesse donne. Che cosa può importare a Giulia di quei fuochi di paglia accesi da altre, di quei desiderii che non somigliano in nulla all'affetto che porto a lei?

Maria. Ma che razza di gente ella dunque credeva di aver trovato in me e in mio zio?

Alberto. Non feci alcuna supposizione sul suo stato; poteva essere quello di una donna ricca o di una grande artista; ella poteva essere la moglie di un banchiere o di un nobile, per me era indifferente. Le donne sono donne e l'esito della mia avventura non dipendeva da queste circostanze. Quello che a bella prima pensai e che mi diede le massime speranze fu ch'ella fosse la moglie di suo zio. (Maria ride.) Io vedevo in lei una di quelle brave mogli borghesi dal marito troppo vecchio e le quali, per prudenza, non lo tradiscono che quando sono in viaggio. In viaggio… eravamo.

Maria. Ma come le è venuta l'idea ch'io sia la moglie di mio zio?

Alberto. Mi auguravo che cosí fosse ed io vedo spesso le cose come desidero che sieno. Quando appresi d'essermi ingannato mi avvolsi nella mia pelliccia e mi affrettai a rimpatriare.

Maria (ridendo). Immediatamente? Aveva il timore di contrarre degl’impegni troppo duri?

Alberto. No, ma temevo di perdere il mio tempo, ciò che anche in istato di esaltazione, se posso, evito.

Maria (non molto lusingata). Ah! cosí! Assolutamente dunque il suo proposito correndomi dietro era di passare meno peggio qualche giorno e niente piú?

Alberto (ingenuamente). No! no! Se ella mi avesse trattato bene, molto bene, i miei affari si sarebbero tirati molto ma molto in lungo. Mi si dice che la sua ambizione era di venir considerata e trattata come un uomo. Sono certo che in questo riguardo ella non avrà da lagnarsi di me.

Maria. Non mi lagno nemmeno. Però di qualche cosa d'altro vorrei lagnarmi. Ecco! Non m'è dispiaciuto di sentirla parlare; ella parla bene di queste cose e sono curiosa di sentirla parlare d'altre, di quelle di cui parla a Giulia. Anzi, ne ho ritratto anche un altro piacere, cioè, la certezza di non venir mai piú disturbata da lei e di sentirmi sicura in casa sua.

Alberto (con un sospiro). Certo, certo, la mia simpatia è delle piú rispettose.

Maria. Ma quello che assolutamente non so indovinare si è la ragione che la indusse a raccontarmi tutte queste belle cose ch'io non avevo chiesto di conoscere.

Alberto. Non l'ha ancora capita? Mi meraviglio. Le ho detto, nevvero, che prima di tutto mi premeva di provarle che la sua amica Giulia è una donna felice? Mi pare che su questo punto siamo d'accordo! Ora debbo prevenirla che questa felicità scomparirebbe, se Giulia sapesse che oltre ad amarla moltissimo, io… l'amo nel modo che le spiegai.

Maria (ridendo, ma con voce un po' stonata). Ma basta cosí, allora! Questo dunque era il nocciolo del frate grigio? Si tratta di non far capire a Giulia che nella noia del viaggio ella s'è compiaciuto di guardare la sua umilissima serva! Ma crede poi ch'io abbia avuto l'intenzione di vantarmene?

Alberto. No! Temevo soltanto che a tutta la cosa ella avesse potuto dare tanto poca importanza da parlarne in un istante di buon umore come di un fatto che non concernesse né lei né Giulia. Ora, se, come purtroppo è vero, per lei io, le mie parole o le mie azioni sono cose indifferenti, per Giulia la cosa è ben diversa. La mia casa è delle piú borghesi; tutto vi è basato sulla cieca fiducia che portiamo uno all'altra. La felicità di Giulia è formata dalla sua fede in me. Mi porta un affetto quasi esclusivo; cioè diviso fra me e Piero, nostro figlio. Vuole un po' di bene anche a Giorgio, suo fratello il professore che ella ha conosciuto or ora, quel pedante, il resto del mondo per essa non esiste. Ella è perciò tanto irragionevole da sembrarle naturale ch'io l'ami come essa ama me, esclusivamente. Il primo dubbio potrebbe distruggere questo castello in aria e la mia e la sua felicità. È perciò che formalmente la prego di essere cauta. Avrei potuto, come ella stessa osservò, risparmiarmi la fatica di farle questa preghiera e affidarmi alla sua naturale discrezione, ma la cosa era troppo importante per lasciarla in balia del caso. Glielo assicuro: Basterebbe una sola parola detta scherzosamente per destare la diffidenza in Giulia, e capirà che se giungesse al punto di diffidare, poco le costerebbe di procurarsi la certezza del mio tradimento.

Maria. Diamine! Con le sue massime, sfido io, si esporrà continuamente a dei pericoli.

Alberto. Mi creda! Meno spesso di quanto sembri! (Con qualche calore.) Oh! me lo creda! Non basta mica ogni gonnella per farmi pericolare!

Maria (ridendo). Adesso ch'è sicuro della mia discrezione, pare voglia ricominciare.

Alberto. Oh! no! Voglio essere un buon ospite e rispettoso; renderò felice Giulia che crederà che le mie gentilezze sieno usate a lei per riguardo suo.

Maria. Molto compito!





SCENA SESTA

Cuppi e detti



Cuppi (correndo). Valzini è qui! Verrà subito.

Alberto e Maria. Chi è questo Valzini?

Cuppi. Il critico, il giornalista ch'ero stato incaricato di far venir qui.

Maria. Prego, signor Alberto, ne faccia avvisare mio zio.

Alberto. Vado io stesso! (Via.)

Cuppi (stanco). Auff! Sono corso per arrivare prima di Valzini. Volevo avvisarla di certe particolarità, fatti che lo concernono e ch'è bene ch'ella conosca. Prima di tutto tenga presente che il nonno di Valzini è stato un grande musicista, sí, abbastanza conosciuto; per fargli piacere bisogna dirgli ch'ella lo conosce di fama, di nome. Anche suo padre ha scritto un'opera ch'è stata data a Milano, una sola volta, ma a Milano, capisce. Poi bisognerà che io le indichi i nomi delle romanze, tutte per soprano, scritte dal nostro Valzini. Eccole: "L'usignolo sul mandorlo", "Primavera campagnola"…

Maria (fin qui distratta, lo interrompe bruscamente). È roba che a me non importa. Con permesso. (Via.)



CALA LA TELA





ATTO SECONDO

La stessa stanza.



SCENA PRIMA

Alberto, poi Maria con Tarelli e dietro la scena Giulia e Amelia



Alberto (ha cappello e bastone; entra subito diretto verso la porta di fondo, ma lentamente. Si ferma a mezza via, ma sempre volendo sembrare di stare per uscire. Ritorna anche sui suoi passi e rifà la sua via).

Tarelli. Il signor Alberto! Guarda quale combinazione. È già il terzo giorno che c'incontriamo, sempre alla stessa ora e precisamente quando ella munito di cappello e bastone sta per uscire.

Alberto (un poco imbarazzato). Eh! sono molto metodico, io!

Tarelli. È perciò che mi meraviglia, perché io non lo sono affatto. Esco dalla mia stanza fra le otto e le dieci! Del resto non mi lamento, perché è sempre un piacere per me quello di vederla.

Maria (entra). Buon giorno, zio! Buon giorno! (Ad Alberto).

Alberto (dimenticando Tarelli perfettamente). Come sta, signorina? Ieri a sera accusava male di testa.

Maria. Sono ristabilita del tutto. Per quanto io sia corazzata, la freddezza di questo pubblico mi sconcertò alquanto.

Alberto. Vedrà che al secondo concerto questa freddezza sparirà. Glielo garantisco io. Oh! sarebbe un pubblico ben villano, se continuasse a contenersi cosí. Io di musica non me ne intendo affatto, ma mi pare ch'ella abbia sonato molto bene.

Giulia (dietro la scena). Amelia! Il padrone è già uscito?

Amelia. Da oltre mezz'ora, signora.

Alberto. Devo andarmene, disgraziatamente per un affare. Con permesso! (Stringe la mano a Maria.) Fra un'oretta sarò di ritorno. (Via.)

Maria. Faccia il suo comodo.



SCENA SECONDA

Tarelli e Maria



Tarelli (guardando dietro ad Alberto). Povero diavolo; pare che non possa uscire da casa senz'avermi visto. Perché attende me, nevvero? (Ridendo a Maria.)

Maria (seccata). Attenda chi vuole.

Tarelli. Ma dunque se neppure lusinga il tuo amor proprio l'amore di questo negoziante, perché ti contieni in modo da aizzarlo sempre piú?

Maria (meravigliata). Io?

Tarelli. Ma sí! Proprio tu! Lo tratti ruvidamente. Non gli rispondi che a monosillabi e anche quelli poco gentili. C’è di che far perdere la testa anche alla persona che v'è meno disposta. Figurati poi costui che non domanda di meglio.

Maria. Davvero, sono pericolosa cosí? Già tu conosci il cuore umano e se lo dici dev'essere proprio cosí! D'ora innanzi vedrai come sarò gentile. Non ho mica l'intenzione di portare via il marito a Giulia, io! Voglio colmarlo di gentilezze, acciocché cessi di seccarmi!

Tarelli. Bada che non occorre mica esagerare! Da qualche giorno ti veggo però molto seria, preoccupata. È forse l'enorme insuccesso del tuo concerto che ti duole o l'articolo sciocco che Valzini ti dedicò?

Maria. Oh! Chi ci pensa!

Tarelli. E in allora sei innamorata…

Maria (stupefatta). Quale idea! (Poi.) Francamente. Non mi sento bene in questa casa. Ci ero venuta con le migliori intenzioni di questo mondo. Volevo passare con Giulia otto giorni di fanciullezza. Invece essa è seria, mummificata nella sua dignità matronale, una donna impossibile che non capisce niente all'infuori del suo bimbo, del suo adorato marito e della sua bella casa. Il professore mi secca con dotte dichiarazioni d'amore; da quella parte mi minaccia una formale richiesta di matrimonio (facendo atto di bastonare) che accoglierò, vedrai, con l'arco del violino. Unico di allegro ci sarebbe il piccolo Piero, quando lo lasciano giuocare in pace, ma è precisamente lui che di me non ne vuole sapere. Ieri ero là, là per mettermi a giuocare con lui. Immediatamente egli cessò, meravigliato e seccato.

Tarelli. Eppure con te mi paiono gentili.

Maria (molto contenta). Con te no? Ecco una buona ragione per abbandonare questa casa.

Tarelli. Oibò! Io non c'entro nelle decisioni che hai da prendere tu. Eppoi non mi maltrattano mica. Mi trattano soltanto alquanto superficialmente. Pare che si sieno rassegnati di fare la relazione dell'artista, ma non ancora quella dell'impresario. Non hanno torto in fondo. Per questi borghesi io non sono altro che uno speculatore il quale per suo interesse ti induce a fare questa vita nomade.

Maria. Povero zio!

Tarelli. Ma che povero! A chi può importare il parere di costoro? Io voglio che tu rimanga in questa casa, perché la buona fama borghese di cui gode è una buona reclame per te. Se finora in questa città non ne abbiamo potuto sentire gli effetti, è colpa di troppi elementi contrari che vi abbiamo. Intanto l'indifferenza assoluta per la musica. Non mi serví né di farti dir nevrotica, né di far raccontar da Valzini che soffrivi di un'affezione polmonare per cui pochissima vita ancora ti era concessa. È ben corazzata questa gente. Pochi vennero al concerto; non ci compresero nulla e ne dissero male. Le tue note mi facevano pietà al vederle sprecate a quel modo.

Maria. Dalla critica si capisce però che anche Valzini s'è annoiato. Lui che ama tanto la musica!

Tarelli. Ha compreso meno degli altri. Si trovò obbligato di scrivere bene per rispetto ai critici che lo avevano preceduto e poi anche in riguardo nostro che lo avevamo trattato tanto bene. È abile però e ha saputo far capire a tutti che il suo entusiasmo era preso a prestito. Egli non si espone mica al pericolo di perdere la sua fama di critico e, cara mia, bisogna rassegnarsi a riconoscerlo. In questa città verrebbe considerato per meno intelligente chiunque avesse il coraggio di dir bene di te. Oh! non fare le bocche! (Scherzosamente.) Già per consolarti tu hai quel tuo signor Alberto.

Maria. Bella consolazione! Non hai sentito che vorrei abbandonare questa casa?

Tarelli. Incomincio a credere che diffidi di te, perché non vorrai darmi ad intendere che tale fuga sia meditata per un riguardo alla tua amica. Che male sarà se il signor Galli si riscalduccerà ancora un poco e se la signora Galli dal canto suo diverrà un po' gelosa? Avremo apportato nella loro sciocca vita borghese un po' di animazione.

Maria. Dubito però che abbiano a serbarcene gratitudine.



SCENA TERZA

Maineri e detti



Maineri. Ho anticipato di un quarto d'ora per il timore di farla attendere; preferisco di attendere io piuttosto. Mi permette di baciarle le mani? Ambedue! Anche quella dell'arco.

Maria. Entusiasta dunque, l'unico?

Maineri. È il mio vanto! Avendole comprese mi pare quasi che le sue note sieno mia opera. Citano Janson! È altra cosa! Egli non possiede né il suo senso artistico né la sua esattezza; è un violinista straordinario e nulla piú. Ella invece è musicista, anzitutto musicista ed è perciò che il pianoforte s'inchina a lei.

Tarelli. Peccato che non vi sia qui uno stenografo per raccogliere queste parole e consegnarle a un giornale.

Maineri. Non servirebbe a nulla. Quando i fatti, la musica stessa non serví…

Tarelli. Non serví? Ella dunque lo confessa? Crede che valga la pena di dare un altro concerto?

Maineri. Anzi, anzi, bisogna darlo. A me non bastò il primo! Poi sarebbe una vigliaccheria di non darlo dopo di averlo annunciato. Che importa a lei l'applauso?

Maria. Devo confessarlo, ci tengo un pochino. (Ridendo.) Avrei suonato tanto meglio, se ieri a sera avessi ottenuto un applauso, un solo almeno. (Con dolore.) Fu un fiasco assoluto.

Maineri. Non assoluto. Posso però parlarle con franchezza, perché l'entusiasmo che le dimostrai mi salva dal pericolo di venir preso per poco rispettoso, e poi perché ella non è di quegli artisti cui occorra usare dei riguardi nell'apprezzare i loro successi. Ecco il fatto: il nostro pubblico, un pubblico musicalmente poco colto, è abituato alla maniera di Janson e non vuole sentire altro. Per esso è quello il modo di suonare il violino. Il ricordo di Janson gli è tanto caro che quasi non vorrebbe sentire altri pezzi all'infuori di quelli uditi da lui. Son quelli i pezzi che si eseguiscono sul violino e non altri.

Tarelli. Se questa veramente è la disposizione del pubblico, a Maria non resta altro che di abbandonare la lotta.

Maineri. Perché? La lotta è bella, specialmente quando in essa non si arrischia nulla. Che cosa vi arrischia la signorina? Non certo la sua fama, perché la nostra città né dà né toglie fama. Specie a lei, signorina, alla dea della musica.

Tarelli. Sí! una dea! Bella la disse anche il signor Valzini, il quale pare nato piuttosto a cronista che a critico musicale. Parlò unicamente della splendida figura e della bellissima toeletta.

Maineri. Sono imbarazzi della vita del critico.

Tarelli (con ira). Avrebbe potuto non essere imbarazzato, se fosse stato un buon critico.

Maria. Ma via zio! Noi dobbiamo essere grati al signor Valzini che pur non essendo stato molto soddisfatto del mio modo di sonare, volle dimostrarsi tale per favorirmi.

Maineri. Ben detto! Ben detto, signorina! Ella parla come suona! Infatti, quale merito ci avrebbe avuto lui se non avesse avuto altro da fare che di sedersi al tavolo e notare il suo entusiasmo? Se l'articolo non dimostra molto entusiasmo, dimostra molta benevolenza. Specialmente la prima parte. La seconda (si leva di tasca un giornale e contemporaneamente a lui anche Tarelli) è meno simpatica. (Legge.) “La signorina Tarelli regalò le Arie ungheresi, ma quello è un pezzo che bisogna lasciare a Janson.”

Tarelli. Ho capito subito che in provincia quella frase bastava per annullare l'effetto di tutto l'articolo.





SCENA QUARTA



Cuppi e detti

Cuppi. È permesso?

Tarelli. Il signor Cuppi. Avanti, avanti, si accomodi. Ella capita a proposito. Sa ella dove abita il signor Valzini?

Cuppi. Sí! A quale scopo? Perché?

Tarelli. Devo andare a ringraziarlo per il simpatico articolo che dedicò a mia nipote.

Maria. Ringrazialo anche da parte mia, zio, e digli che non ho potuto accompagnarti, perché giusto ora ho prova.

Tarelli. Mi farebbe un favore se venisse con me.

Cuppi. Ben volentieri.

Tarelli. Vado a prendere il soprabito e il cappello e sono con lei. (Via.)

Cuppi (a Maria). Ella ha già deciso, proposto come passare la sera?

Maria. Rimango in casa con la mia amica. Mi restano ancora pochi giorni da passare con lei.

Cuppi. Cosí, di me, assolutamente non ha bisogno?

Maria. Se le piace venga qui a tenerci compagnia. (A Maineri.) Ci mettiamo a queste prove? Vado a prendere la musica. Dev'essere sul tavolo nella mia stanza. (Via.)

Cuppi. Scusi, maestro, a lei è piaciuta molto la signorina Maria quale violinista?

Maineri. Moltissimo. Perché me lo chiede?

Cuppi. Non chiedo piú nulla io, ma dirò… sí… Ella è il primo che trovo entusiasta.

Maineri. Davvero?

Cuppi. Intanto, in quanto concerne me, parlo di me che non me ne intendo affatto, io mi sono annoiato mortalmente, molto, ma molto.

Maineri. E perché è qui a continuare ad annoiarsi quando nessuno ve la obbliga?

Cuppi. Non mi annoio qui, io. Quantunque si tratti di una pessima musicista, cioè una violinista che suona male il violino, la compagnia della signorina mi è piú cara che quella di tutto il resto della città. Naturalmente non piú cara di quella di Janson. (Con passione.) Oh! che Janson ritornasse! A lui potevo offrire oltre alla mia amicizia anche la mia ammirazione… sí… la mia approvazione… E la relazione con un artista diviene subito piú bella… piú aggradevole. Mentre qui… (Risoluto a Maineri.) Scusi, maestro, ma io dubito del suo entusiasmo. Che diamine! Io sono sí una bestia… una persona che di violino non capisce niente, ma infine è impossibile… difficile ch'ella capisca qualche cosa che a me sembra niente… cioè una stonatura senza sentimento. Eh! io capisco! Dubito che un pochino della sua ammirazione per la musica sia dovuta alla bella personcina della signorina Maria. A forza di accompagnarla al pianoforte… naturalmente.

Tarelli (rientra). Andiamo?

Cuppi. Eccomi. E la signorina? (A Maria ch'entra con la musica sotto il braccio.) Buon giorno, signorina! (Le stringe la mano.) Approfitterò sicuramente del suo gentile invito per questa sera.

Tarelli (a Maineri a bassa voce). Sa, io con Valzini sarò perfettamente cortese. Non creda mica per quello che ha udito ch'io abbia l'intenzione di dimostrarmi offeso. Non ne vale la pena e anzi la prego di non riferire a nessuno le mie parole. Per essere del tutto sincero con lei, le dirò che per avere la magra soddisfazione di una mia ira non vado a togliermi la speranza che Valzini al secondo concerto non muti d'opinione. Come si chiama Valzini?

Maineri. Venanzio.

Tarelli. Ebbene Venanzio! Lo interpellerò sempre col nome di battesimo. Signor Venanzio… Peccato che non abbia un nome piú bello. Chissà se gli piacerà di venir chiamato con un tal nome.

Maineri. Cosí lo chiamano tutti.

Tarelli. Ci sarà dunque abituato. (Gli stringe la mano e via con Cuppi.)

Maineri (subito al pianoforte con la sua parte in mano). Il concerto di Beethoven! Proviamo soltanto quello?

Maria. Sí! non occorre altro!

Maineri. Ho da fare il preludio intiero? Solitamente quando non si dispone di un'orchestra lo si omette o non lo si eseguisce che a metà.

Maria (leva il violino dalla cassetta). Io desidero di udirlo intiero; altrimenti il concerto mi appare monco e sproporzionato. (Dolcemente.) Il preludio mi dà la disposizione occorrente per suonare. Persino sulle dita m'influisce; mi sento piú libere le falangi, piú volonterose. Attendo che tocchi a me con impazienza, quasi con curiosità, curiosità di udire quello che farò come se fosse la prima volta che avessi a sonarlo. Quel preludio mi pone immediatamente faccia a faccia con Beethoven. (Con asprezza.) Naturalmente che, se mentre lo suonano, ho dinanzi a me un pubblico distratto e inquieto, che dall'alto io vedo come una raccolta di zucche vuote, allora anziché stare a udire il concerto io mi metto a contare le zucche, meravigliata che il Creatore abbia commesso tanti errori.

Maineri. Ella pensa al nostro pubblico?

Maria. Oh, a lei e col violino in mano non voglio mentire. Il mio insuccesso, come lo chiamano qui, mi addolorò abbastanza. Non ho mai sofferto cosí ad un concerto, e ho paura che al secondo sia ancora peggio. Come dice lo zio, dovrei essere superiore a queste cose. Ma come si fa non adirarsi al vedere tutta la gente che mi circonda non soltanto essere perfettamente d'accordo col giudizio del pubblico, ma anche dubitare che in altri luoghi si sia potuto giudicare altrimenti sul mio conto. Lasciamo stare! (Accorda il violino.) Ella ha già eseguito questo concerto in pubblico?

Maineri. Sí, con Janson.

Maria (ironicamente). Cosí? Il signor Janson si degnava di uscire una volta dalle sue arie ungheresi e russe e valacche e di eseguire Beethoven?

Maineri. Sí! l'applauso del pubblico era però provocato unicamente alla cadenza alla fine del primo tempo, una brillante cadenza composta da uno spagnuolo credo. Il pubblico non apprezzò giammai il concerto e, francamente, credo che per ora non gli piacerà.

Maria. V'era dunque la sua brava aria spagnuola? Vuole incominciare? (Siede.) La suoni, la prego, come se non sapesse che presto ha da capitare il violino a toglierle la prima parte.



SCENA QUINTA

Giulia e detti



Giulia. Buon giorno! Ah! son le prove! (A Maineri che s'è alzato.) Non si disturbi! Se me lo permettete io starò un pochino a udire.

Maineri. Ma senza dubbio. Ella rappresenterà per noi un elemento ch'è bene vi sia anche alle prove: il pubblico.

Giulia. Peccato che a lungo non potrò rimanere, perché di là ho molto da fare.

Maria. Cose di premura?

Giulia (ridendo). Non di premura, ma di regola. Bisogna lavorare ogni giorno, perché altrimenti in fine d'anno ci si trova d'aver perduto molto ma molto tempo.

Maria. Mi pare di sentir parlare la nostra brava monaca. Te ne rammenti? (Imitando la voce di una vecchia.) Bisogna lavorare tre volte tanto quanto si lavora; soltanto cosí si può contare sulla pace dell'anima e del corpo.

Giulia. Via, Maria! Non deridere quella santa donna. Io le devo tanto.

Maria (meravigliata). Davvero? Che cosa le devi?

Giulia. Quale domanda! S'è affaticata per me, mi ha insegnato, mi ha voluto bene.

Maria. A me invece ha dato tante noie! Devi confessare che il suono della sua voce non era bello. (Imitando di nuovo la vecchia.) “Signorina Maria, ella è una zingara!”. Ecco che hai evocato un ricordo poco aggradevole. Incominci signor Maineri. Giulia ci fa compagnia.

Giulia. Sta bene, se mi permettete di portare qui il mio telaio.

Maria. Perché no? Se vuoi puoi metterti persino a far quadri qui. Me, non disturbi di certo. Già a te non basta di starmi ad udire.

Giulia. Starò a udire certamente. Al telaio ho un lavoro che soltanto qua e là esige molta attenzione. Di solito mentre lavoro ripasso anche la lezione del mio figliuolo.

Maria. Fai dunque anche piú di quanto quella santa donna consigliasse. Ella infatti si sarebbe accontentata di un solo lavoro alla volta.

Giulia (che non la sta ad ascoltare). Porterò con me Piero. Vedrai come starà attento e quieto. (Via.)

Maineri (con qualche ironia). Questa sí che è una donna di casa perfetta.

Maria (ridendo). Sí, ma c'è di peggio. Ella è nata donna di casa. Pare impossibile, ma ella è nata madre di famiglia. Me la rammento cosí già in collegio.



SCENA SESTA

Alberto e detti



Maineri (sempre seduto al pianoforte). Ecco il signor Alberto! Cosí non ci mancherà il pubblico. Venga, venga signor Alberto. Anche la sua signora ritorna subito.

Alberto (ridendo). Anche mia moglie si dedica all'arte? (A Maria.) Se la disturbasse glielo dica con tutta franchezza.

Maria. Ma no! L'ho pregata io stessa di farci compagnia.

Alberto. Ho da scrivere qualche lettera e vado nella mia stanza, ma se lo permettete lascerò aperte le porte. Cosí mi sarà piú facile di prestar attenzione. (A Maria a bassa voce in forma di complimento.) Sapete bene che la vostra vista mi distrae… (Si allontana e dalla sua stanza grida): Cosí potete cominciare.

Maria (ridendo). Tutti vogliono starci a sentire in questa casa, ma nessuno rinunzia al suo lavoro.

Maineri. Oh! ella deve sentirsi molto male in questa casa.

Maria. No! per un po' di tempo questi borghesi mi servono di distrazione.



SCENA SETTIMA

Giulia, Piero, Amelia che porta il telaio e detti; poi Giorgio



Giulia (con l'aiuto di Amelia dispone il telaio e senza guardarla in faccia parla a Maria). Senti, Maria, perdonami, se mentre tu suoni, io sto ad ascoltare la lezione di Piero; la leggerà molto a bassa voce. Deve studiarla e se non gli concedo il piacere di leggermela, non si deciderà mai piú a guardarla.

Maria. Fa il comodaccio tuo. Si va di bene in meglio. Adesso ti senti già capace di badare a tre cose in una volta. Incominci, maestro.

Giorgio. Si può stare ad ascoltare della buona musica?

Maineri (mormora). Altro che buona!

Giorgio. Non ne dubito. (Saluta Maria.) Non ho chiesto se sarà buona, ma soltanto se si potrà stare ad ascoltarla…

Giulia. Non disturbare però. Siedi qui accanto a me quieto.

Maria. Le si sieda molto vicino, perché là si tiene lezione la quale, ella stessa lo confessò, a lei si confà meglio della mia musica. (Al ragazzo.) Su Piero, comincia!

Piero. Sí, se starete un poco zitti.

Giorgio. Come va, Piero? Sei stato contento del dono che ti ha portato il babbo?

Piero. Ha fatto un viaggio tanto lungo che avrebbe potuto portare qualche cosa di meglio.

Giorgio. Il ragionamento è buono. Va da sé che il dono deve stare in proporzione al viaggio. Io mi siederò là dall'altra parte, cosí che, contrariamente a quanto la signorina Maria voleva, io starò a sentire unicamente la musica. (Va a sedersi a destra dello spettatore.)

Maineri (con un po' d'impazienza). Posso dunque finalmente incominciare questo preludio?

Giorgio. Ah! c'è un preludio? Che cosa suonate?

Maineri. Il concerto di Beethoven.

Giorgio. Lo conosco. Il preludio è un po' lungo. (Ritorna accanto a Piero.) Lo starò a udire da qui. (Maineri comincia a suonare il preludio.)

Piero. Come posso parlare io qui con questo schiamazzo?

Giorgio. Provati, saremo indulgenti, sai.

Piero (legge; Giorgio parecchie volte corregge l'intonazione). Ah! va da sé che con lo schiamazzo che fa quel signore non posso declamare bene.

Maria (cerca di stare attenta al pianoforte ma non le riesce. S'avvicina molto lentamente al gruppo a sinistra e dice a Giulia che lavora). Quale divertimento è il tuo di disporre tanto filo nella tela?

Giulia. Mentre la mano lavora, il pensiero corre ad altre cose.

Maria. E a quali se è permesso?

Giulia. Tante e bellissime. La mano col suo movimento uniforme accompagna, quasi accarezza un pensiero calmo e lieto. Quando alzo gli occhi veggo qui accanto questa testa bruna (sorridendo accenna al figliuolo) e l'unico sforzo che devo fare si è di non alzarli troppo di spesso.

Maria. E desideri e aspetti senza ansie con la tua solita calma?

Giulia. Non desidero né aspetto ossia desidero che tutto ciò continui cosí e che ogni giorno mi sia dato di fare quello che faccio oggi e feci ieri.

Maria. Cioè disporre dell'altro filo nella tela?

Giulia (già offesa). Non è il mio solo lavoro.

Maria. E quali sono gli altri?

Giulia. A te non li dico, non li comprenderesti.

Maria. Io credo di poter comprendere tutto.

Giulia. No! Certe cose non si capiscono se non si vivono. Non si tratta mica di ragionare, di calcolare ma bensí si tratta di sentire.

Maria. Insomma spiegati e procurerò di capire. Sii buona, Giulia; ti accerto che non ho la minima voglia di deriderti.

Giulia. Ma non è per questo timore che non voglio parlare. È che non saprei spiegarmi. Non sono mica da tanto da farti vivere la mia vita.

Maineri (dopo di aver atteso per un istante). Tocca a lei, signorina.

Maria. Ah! sí! Beethoven! No maestro! Adesso non posso! Ella ch'è tanto buono, mi faccia il favore di ritornare alle quattro. (Prega con calore.)

Maineri (mormora). Ha ragione.

Giulia. Ma se ti disturbiamo possiamo andarcene.

Maria. No! adesso non posso piú suonare. È perduto il momento! Sarebbe per me un supplizio di suonare tutta quella roba.

Maineri (rassegnato). Come ella desidera. Sa bene che per me sarebbe stata una vera festa quella roba come ella dice sul suo violino. Vuol dire che sarà per dopopranzo. A rivederci. (Via.)

Maria (ripone il violino e gli parla). E dormi bene, povero violino. (A Giulia.) Dunque ritornando a noi. La tua felicità è tale che non la puoi neppur descrivere?

Giulia. Questa è di nuovo ironia e su questo tono non possiamo intenderci. Perché ti dispiace ch'io abbia detto d'essere felice?

Maria. A me che sia dispiaciuto di sentirti dire felice? Oh! no! Ma non comprendo; mi sorprende! Ti dirò anche il perché, visto che a me è sempre facile di spiegare quello che sento o quello che penso. Voialtri qui in questa città non potrete crederlo perché qui ho avuto un insuccesso, ma io alla mia età ho conosciuto delle cose, dei piaceri, lo confesso anzi, delle gioie, che tu neppure sai che esistano. Ho visto una città capitale per giorni e giorni non occuparsi d'altro che di me, offrirmi tutte le soddisfazioni piccole o grandi di vanità o di ambizione che un essere umano possa chiedere. L'entusiasmo era tale in quell'ambiente, che, figurati!, mi dissero persino bella mentre non lo sono, e peggio, mi dissero gentile e aggraziata mentre non lo sono e non voglio esserlo. Ho visto dei principi ricercare me di onorare i loro salotti e poi ho visto le persone piú rispettate d'Italia chiedere la mia amicizia, la mia stima, roba da farmi ridere quando cessava la mia ambizione che in me ha tutto l'aspetto della febbre. Sorpresi sguardi d'invidia negli occhi delle creature piú fortunate quando mi riusciva di far vivere, vibrare con me, col mio violino, migliaia di miei simili. E dopo tutto questo, mai… mai, capisci, non ho potuto dire quella frase tua: Sono felice e voglio restare sempre cosí. Ho detto e pensato: Oh! passi presto questa giornata e ne venga un'altra piú lieta e meno noiosa.

Giorgio. Strano!

Maria. Strano, dite? Ma no, questa è la vita, o almeno questa è la vita come la sentono le persone intelligenti. Ho goduto, sí, quando la musica passava per il mio cervello e di là nelle mie dita, senza resistenze. Allora l'orgoglio soddisfatto mi fa godere. Disprezzo gli altri miei simili che non sentono come me e godo. È una gioia che dura per istanti però. Non so figurarmi uno stato di felicità per me. E per gli altri? Oh! francamente! Io credo mentano tutti coloro che dicono di essere felici.

Giorgio (da professore; mentre parla, Maria lo sta ad ascoltare con disprezzo). Oh! senta! Io ho conosciuto un individuo il quale diceva che gli alberi devono essere fatti di solo legno e senza foglie. D'estate andò in un bosco e disse che non v'era alcun albero. Aveva ragione! Chissà che cosa ella intenderà sotto la parola felicità. Se non è felicità la vita ch'ella ci descrisse in allora naturalmente la felicità non esiste.

Giulia. No! Non è questo. Sai Maria che cosa a te manchi per essere felice? La famiglia! Noi donne non siamo mica delle creature che bastino a se stesse, che possano vivere a parte, solitarie e nomadi. A noi occorrono le quattro mura e qualcuno a cui sacrificarci. Il nostro mondo deve essere piccolo, ma tale che sia tutto nostro. Piccolo, sí, in realtà, ma grande, perché in esso dobbiamo trovare tutto quello che tu invano cercasti in quella grande città capitale che a te per giorni, sembrò tua. Il tuo violino? È un bellissimo istrumento e farà passare qualche mezz'ora aggradevole alla persona cui vorrai bene.

Maria. Lo spezzerei in tal caso.

Giulia. Non volli mica disprezzar la tua arte destinandola all'ufficio di rendere piú aggradevole il soggiorno nella casa. Oh! perché non appresi io un'arte acché mio marito e i miei figliuoli vi si possano beare.

Maria. L'arte non vive che a scopi maggiori.

Giulia. È lo scopo massimo! Sai perché ti parlo con tanto coraggio? Ti vedo spesso dacché sei qui, pensierosa, distratta; or ora mi confessasti che non sei felice. Qualche cosa a te manca, dunque, e, davvero, anche ad aiutarti. Di poco, ma credo d'essere piú giovane di te e invece mi pare di essere molto ma molto piú vecchia. Io infatti so o credo di sapere. Non sento piú il bisogno di affannarmi a cercare; ho la tranquillità della persona che sa tutto quello che le ha da succedere, dunque da persona vecchia che dalla vita piú nulla chiede. Tu sei una giovinetta invece! Cerchi ancora perché hai battuto una via che non fa per te.

Giorgio. Ma, via, Giulia. Vorresti ch'ella abbandoni il suo violino, la sua arte, e divenga una buona massaia! Quali idee! La signorina Maria parla cosí in un momento di malumore! Forse anche si sente meno felice del solito, perché qui in questa città le sono mancate le solite soddisfazioni.

Maria (con ironia evidente). Bravo signor professore! Io e lei ci comprendiamo perfettamente. Infatti sono meno felice perché qui non hanno voluto applaudirmi.



SCENA OTTAVA

Alberto e detti



Alberto. E questo concerto? Io ho finito e voi non avete neppur cominciato. Quando suonate?

Maria. Non piú per questa mane.

Alberto (confuso). Sarebbe il colmo della distrazione, se voi aveste sonato ed io non vi avessi udito.

Maria. Non si confonda. Non abbiamo suonato affatto. Soneremo dopo pranzo.

Alberto. Peccato che io non potrò udirvi, perché al dopopranzo gli affari mi rubano tutto il mio tempo. A rivederci da qui a un'oretta a pranzo. Oggi pranzo di gala a quanto sento. Ho inteso un certo olezzo passando dinanzi alla cucina…

Giulia. Alla una in punto. Bada di non tardare, te ne prego!

Alberto. Non dubitare! Addio! (Bacia Piero.) Ha studiato?

Giulia. No! Ma studierà adesso.

Alberto. Dovreste attenervi a maggior regolarità! Ve l'ho raccomandato tante volte. Cosí avete perduto l'intera mattina.

Piero. Avevo da leggere a mamma la poesia che m'hanno dato da studiare. C'era però un fracasso qui…

Maria. Sí! sí! La colpevole sono io. Con le mie prove ho impedito a Giulia di studiare col signorino, il quale del resto ne dimostrava pochissima voglia. Nella vita di un bambino una giornata ha piccola importanza. Se non ha studiato oggi, studierà domani, la prossima settimana, o il prossimo mese.

Alberto. Si capisce che di pedagogia ella non s'è mai occupata. Io desidero che col mio figliuolo venga già adesso seguito energicamente un sistema.

Maria. Mi scusi, dunque, perché di cosí grave mancanza sono io la causa.

Alberto. Mi scusi lei anzi. Non avevo mica l'intenzione di farle un rimprovero. Si figuri!

Maria (ironicamente). Non si scusi, perché son troppo lieta di aver potuto accertare quanto ella sia un buon marito e la mia amica una donna felice.

Alberto (ridendo e mettendo una mano sotto al mento di Giulia). Ne dubitava, eh! (S'avvia.) Con permesso. Bada, Piero, di non riposare dopo pranzo delle fatiche che hai avuto questa mattina. (Via.)

Maria. Strano! Strano! Cosí non me lo sarei figurato.

Giulia. Ma perché, Maria?

Maria. Un padre di famiglia cosí buono, attento, amoroso.

Giulia. Cosí s'è incaricato lui stesso di spiegarti la mia felicità.

Maria. Diamine! Capisco che le tue parole ora dovrebbero essermi chiare, ma… e vorrei dire una bella bestemmia toscana. La rimando in gola perché ti scandalizzerebbe. (Ride.) Eppure mi darebbe uno sfogo e non avrei piú il bisogno di dire altro.

Giulia. Non capisco.

Maria (scoppiando). Ecco! Se a me toccasse, ammettiamo, di essere la manutengola di un ladro e di vedere che questo ladro la sapesse dare ad intendere agli altri in modo che tutti lo avessero a ritenere l'uomo piú onesto sulla terra, ma io non saprei trattenermi dal gridargli: Ladro, ladro; anche a costo ch'egli mi risponda: E tu manutengola! Non essendo poi sua manutengola, come potrei tacere?

Giulia (con violenza). Non lo sei? Non lo sei?

Maria. No! Figurati! Io con un borghese commerciante!

Giulia. Basta! (Molto commossa.) Mi lascio traviare anch'io. Sembra che tu, Maria, abbia perduto il senno. Non capisco… e non voglio capire.

Maria. Lascia che ti racconti tutto. È cosa innocentissima e… forse… sembrerà tale anche a te. (Ridendo contenta.)

Giulia. No! basta! Dinanzi al mio figliuolo almeno trattieni la tua fantasia… di artista. Quello che vuoi dirmi sono cose che, se anche vere, non vanno dette a me, non in questa casa.

Maria. L'abbandonerò perché io ho l'abitudine della franchezza.

Giulia (dopo un brevissimo istante di esitazione). Oh! via! farai quello che a te piacerà. Vieni, Piero.

Piero. Che cosa ti ha fatto?

Giulia. Vieni! vieni! (Via col figliuolo.)

Giorgio (accorato). Davvero? Ella conosceva già prima mio cognato? Oh! ciò mi dispiace, signorina Maria! Ed io che la consideravo sempre come l'immagine stessa della sincerità! Ella ebbe dei segreti con mio cognato! (Rimproverando.)

Maria. Ella, professore, ha ragione! Il mio torto è stato di non averne parlato subito… l'unico mio torto.

Giorgio. Oh! mi dispiace tanto, signorina! Capisco, il solo colpevole è mio cognato…

Maria. La ringrazio ch'è tanto buono di crederlo. Io non conoscevo neppure suo cognato. Sapevo di lui unicamente ch'era un uomo a cui piacevo. Mi perseguitò per tre giorni prima a Bologna, poi a Firenze e infine a Venezia. Ecco tutto!

Giorgio (con qualche ansietà). E adesso, adesso?

Maria. Oh, badi! qualche occhiatina tenera, qualche parolina un po' piú che cortese e nient'altro. Può tranquillizzare sua sorella. Io abbandonerò questa casa, subito, oggi stesso. Ma intanto dica a sua sorella che desidererei fare la pace per evitare scandali. Già, infine, che cosa le ho fatto?

Giorgio. Certamente farò del mio meglio per farle fare la pace con mia sorella. Non creda assolutamente che vi sia bisogno ch'ella abbandoni questa casa. Oh! io lo saprò impedire. È sul mio signor cognato che deve riversarsi tutta la nostra ira.

Maria. Davvero? Crede che Giulia gli terrà il broncio?

Giorgio. Il broncio soltanto! E non le pare che abbia ragione? Ma di ciò piú tardi. Desidero anzitutto che si riconcili con mia sorella. Ella non indovina perché vi do tanto peso? No, no?

Maria. No, davvero.

Giorgio. Allora non glielo dico, non glielo dico ancora. Ma insomma sentirà… entro oggi o domani. Vado da Giulia. (Via.)

Maria (pensa un istante, poi capisce e alza le spalle).



SCENA NONA

Tarelli e Maria



Tarelli. Che hai?

Maria. Oh! zio! Peccato che non sei venuto qualche istante prima. Mi avresti impedito di fare una sciocchezza.

Tarelli. Quale? Hai gettato fuori di casa Maineri perché ha sbagliato qualche nota?

Maria. Ah! peggio, molto peggio! Mi sono fatta licenziare io da questa casa.

Tarelli. Come sei riuscita a tanto?

Maria. Ho raccontato a Giulia che suo marito era innamorato di me.

Tarelli. Davvero? (Stupefatto.)

Maria. Ma sí, davvero!

Tarelli. Ah! è uno scherzo! non ci credo!

Maria. Inaudita è dunque la mia azione che sorprende persino te?

Tarelli (serio). Inaudita! La parola è precisa! Ma perché? Scherzando forse? Per leggerezza?

Maria. No! Con la massima serietà di questo mondo. Ella voleva farsi invidiare da me. Diceva che io non potevo essere interamente felice perché non possedevo la stessa felicità di cui essa gode… Allora non ho saputo piú trattenermi. Egli venne, parlò seriamente…

Tarelli. Chi egli?

Maria (esitante). Il signor Alberto.

Tarelli. Ah! cosí! "Egli" è il signor Alberto?

Maria (di nuovo esitante). Sí! (Poi.) Si contenne come se fosse il miglior marito di questo mondo ed ella mi guardava ironicamente. Mi dispiace, sai, oh! tanto mi dispiace. Anche verso il signor Alberto ho mancato, perché a lui avevo promesso espressamente di non far parola del suo affetto… del suo capriccio per me. Mi sento male, assai male! Non so proprio come uscirne. Non ti pare che potrei andare da Giulia a dirle che ho mentito e che in quanto le ho detto non v'è una parola di vero? No! questo no! Oh! senti zio! Andiamo via subito da questa casa e da questa città! Lasciamo ch'essi sbrighino le loro faccende come possono! Cosí non sarebbe riparato a tutto? (Piangendo gli getta le braccia al collo.) Oh! zio mio! sono tanto disgraziata.

Tarelli (accarezzandola commosso). Cosí fai sempre quando vuoi farti perdonare qualche scappata. Povera zingara!

Maria. Oh! no zio! Questa volta non mi capisci neppure tu. E come potrebbe essere altrimenti? Non mi capisco neppure io stessa.

Tarelli. Attenta Maria! Ecco la signora Giulia. Almeno adesso procura di contenerti bene.



SCENA DECIMA

Giulia e detti



Giulia (molto seria). Senti, Maria! Giorgio m'ha detto che tu avevi l'intenzione di abbandonare la mia casa prima dell'epoca stabilita. Perché?

Tarelli. Mia nipote l'ha detto soltanto perché oggi abbiamo ricevuto un dispaccio che c'invitava di recarci a Genova. Ella ancora non sapeva ch'io già avevo rifiutato.

Giulia. Ah! cosí! (a Maria.) Sai che finché resti in questa città, hai il dovere di approfittare della mia casa. Non siamo forse vecchie amiche? Una parola detta in fretta si dimentica facilmente. Io l'ho già dimenticata. (Freddamente.) E tu?

Maria (freddamente). Anch'io! (Va a Giulia.) Rimango, dunque! (Le porge la mano e poi si pente non vedendo subito pronta quella di Giulia, la quale anch'essa ritira la sua.)

Giulia. Grazie! Vado a dare ancora alcune disposizioni per il pranzo! Con permesso! (Via.)

Tarelli. Qui sarebbe stato a posto un piccolo segno affettuoso che avrebbe fatto piú bene di tutte le spiegazioni. Perché non le hai stretto la mano?

Maria. Aveva già ritirato la sua. Oh! se crede ch'io abbia tale bisogno di venir perdonata s'inganna. Del resto si vede che non saprebbe perdonarmi. (Contenta.) L'ho toccata in un punto debole. Ella si contiene cosí per quel grande rispetto che queste borghesi portano alle convenienze. Io l'avrei amata di piú se mi avesse graffiata.

Tarelli. Vedi Maria! Comincio anch'io a desiderare che si parta al piú presto; non sono piú tranquillo.

Maria. Non capisco io, adesso.

Tarelli. Oh! vorrei che tu non mi comprendessi. Se avessi la certezza che non puoi comprendermi, sarei subito tranquillo di nuovo. Come vuoi ch'io non dubiti di te vedendo che hai provato il bisogno di vantarti della corte che ti ha fatto quel signor Alberto e che ancora adesso ti compiaci di aver offesa, ferita, la tua amica d'infanzia? Non dirmi nulla, non negare e non scusarti. Io non sono mica un ragazzo da non capire che la piú sciocca azione che si possa fare in tali frangenti si è di seccare, di far parlare il malato continuamente della propria malattia. Non una parola su quell'argomento. Io andrò ora dalla signora Giulia a cercare di disporla un po' meglio in tuo favore, durante i pochi giorni che ancora qui rimaniamo dell'avventura non si parli piú. (Si avvia. Poi.) Sono stato da Valzini. Daremo il secondo concerto, ma ho perso qualunque speranza di vedere che il pubblico divenga favorevole. Mi basta di aver capito l'opinione che ne ha Valzini; non mica ch'io abbia chiesto dei consigli a quell'imbecille, ma la sua opinione mi dà una chiara idea dell'opinione prevalente in paese. Figurati ch'io sono andato da lui a fargli i miei ringraziamenti con tutta serietà come se realmente gli fossi stato debitore di riconoscenza e mi attendevo di sorprenderlo e di confonderlo. Invece con la medesima serietà con cui io gli feci i miei ringraziamenti egli li accolse, con la differenza che la sua serietà non era mica simulata come la mia. Dunque egli ritiene assolutamente di meritare la mia gratitudine e di aver scritto di te molto ma molto meglio di quanto tu avessi meritato.

Maria (che non è stata ad ascoltare). E se vedo il signor Alberto ho da raccontargli dell'indiscrezione che ho commesso con Giulia?

Tarelli (con rimprovero). Ah! tu sei ancora là?

Maria (confusa). Che cosa mi dicevi?

Tarelli. Niente, niente! Se vedi il signor Alberto procura di contenerti come se nulla di nuovo fosse avvenuto. Come hai detto tu stessa, lasciamoli sbrigare i loro affari da soli. Per levarti l'inquietudine che ti vedo scritta sul volto, vado dalla signora Giulia e cercherò di farvi fare la pace oggi stesso. Attendimi qui. (Via.)



SCENA UNDICESIMA

Alberto e Maria



Alberto. Signorina Maria!

Maria (che non lo aveva visto). Oh! è lei! (Subito imbarazzata.)

Alberto (lietamente). Finalmente! Una volta che la vedo sola. Tra la mia e la sua famiglia, gli artisti e i critici non c'è mai il caso di scambiare con lei una parola. (Ridendo.) C'è poi quel mio signor cognato che è veramente cucito alle sue gonne. Che finisca in un matrimonio?

Maria (seriamente). Oh! come può crederlo!

Alberto. Non occorre me lo dica tanto seriamente; io non l'ho mai creduto. Volevo dire soltanto che si stava meglio quando si stava peggio. Si stava cioè meglio a Firenze, Bologna e Venezia pur non conoscendosi. Mi perdoni lo scherzo! Ella deve accorgersi che io non sono né tranquillo né lieto. (Subito piú serio.) Anzi io soffro! Sa che io non sono uomo da fare delle dichiarazioni molto gentili. Le donne che all'infuori di mia moglie ho conosciute non mi hanno dato quest'abitudine. Sono pochi giorni ch'ella è qui e mi pare un anno perché, con tutta franchezza, non vedo l'ora che se ne vada.

Maria (che fin qui è stata a udire con evidente compiacimento). Oh! sarà presto soddisfatto.

Alberto. Possibile ch'ella non capisca ciò che mi fa avere un tale desiderio.

Maria (simulando). Io no!

Alberto. Oh! mi permetta che glielo spieghi. Ella si rammenta delle spiegazioni che le diedi al suo arrivo? Sembrava, io stesso lo credeva, che una volta appreso ch'ella non era la donna ch'io voleva, io dovessi ritornare prontamente ai miei doveri di marito e obliare tutto il resto. Non le avevo detto ch'io mi sentivo capace di soffocare in me ogni altro desiderio pur di non turbare la mia felicità domestica? Ebbene, ora invece diffido di me stesso. Qualche volta quando mi pongo a riflettere, che che riflettere! Sentite, quando mi abbandono senza ritegno al mio sentimento e esco cosí dalla monotonia macchinale della mia vita, dalla regola che m'impongo nel mio contegno verso di lei, verso mia moglie, l'abitudine per la quale faccio quel gesto o dico quella parola che non penso piú e che non approvo… allora… (Timidamente.)

Maria (incoraggiante). Allora?

Alberto (sorpreso, poi). Penso allora che se io fossi un altro uomo, meno metodico, meno preoccupato dall'idea al futuro, il futuro che finisce sempre coll'ammazzare il presente, dovrei dare un'alzata formidabile di spalle, tale da liberarmi da tutto quanto m'inceppa, m'impedisce la felicità e… e correre precisamente dietro a questa felicità.

Maria. Ma posso credere che parlando di questa felicità cosí grande che la indurrebbe ad abbandonare ogni altra ella pensi a me, a quella donna che non è neppure da tanto da poter rendere gelosa sua moglie?

Alberto. Oh! non mi rammenti quelle frasi disgraziate delle quali non approvo ora neppure una parola. Basterebbe un solo suo cenno per farmi cadere al suoi piedi anche dinanzi a mia moglie.

Maria (indagando sé stessa). Mi pare di sentirmi sollevata.

Alberto. Che dice? (Le prende una mano.)

Maria (svincolandosi con energia). Mi lasci! (Freddamente.) Io sono al caso di porla immediatamente alla prova. Senta! Poco fa ho raccontato a sua moglie delle assiduità di cui ella mi onora.

Alberto. Ah! ella scherza.

Maria (seria). Sull'anima mia. Ho raccontato a sua moglie ch'ella è innamorato di me ossia gliel'ho fatto credere se anche non è vero.

Alberto (mortificato). Davvero?

Maria (avviandosi verso l'uscita, tristamente). La prova è fatta.

Alberto (dopo una breve esitazione). No Maria, rimanga! Non mi lasci cosí dopo che mi ha fatto tanto del male.

Maria. Le ho fatto del male, lo riconosce?

Alberto. Ella forse ancora adesso non sa quanto. Mi ascolti! Io non amavo mia moglie, è vero, ma il rispetto che le portavo, e piú ancora, il sapermi tanto amato da lei, rispettato, venerato addirittura come un essere perfetto, mi faceva fare tutti gli sforzi possibili per continuare ad apparirle meritevole del suo affetto. Ora, invece, oh! certo! precisamente perché finora era stata tanto cieca, la disillusione sarà maggiore! Mi disprezzerà!

Maria (di nuovo per uscire). Sta bene! La prova è fatta! (Si ferma da sé all'uscita.) Mi perdoni il male che le ho fatto. Già di qui a qualche tempo, quando sarò lontana, si rappattumeranno e il male sarà stato minore di quanto ora a lei sembra. (Alberto accenna di no.) No? Ebbene, ella deve riconoscerlo, questo male ella se lo sarà meritato. Si rammenta delle parole che le dissi quando ella per la prima volta mi diede quelle spiegazioni che poi volle ripetermi a sazietà? “Ma per chi mi prende?” le chiesi. Le ripeto la stessa domanda: “Per chi mi prende?”. Io potrei non essere una fanciulla onorata nel senso borghese, e ascoltare le sue dichiarazioni pur sapendo ch'ella facendomele si rende colpevole verso la sua famiglia e verso la legge. Ma ascoltarle quando dopo le sue spiegazioni significano: “Vorrei passare aggradevolmente quindici giorni con lei. Mi secondi!”. Oh! via! Per chi mi prende? Poco fa io ero già pentita della mia azione, ma ora la trovo giustificata e ho piacere di averla fatta. Oh! tanto! (Molto commossa.)

Alberto (dopo un istante di sorpresa). Oh! mi perdoni! So di averla offesa. Darei la mia vita per asciugare quelle lacrime.

Maria. Ebbene! se vuole, tuttavia, farò uno sforzo e andrò da Giulia a dirle che ho mentito. (Vicinissima a lui.) Rinunzio anche al piacere di essermi vendicata delle sue offese. Vedrà che da Giulia mi farò credere. (Per suo conto Alberto accenna di no.) Le dirò ch'è stata una mia fantasia da artista. Chissà che cosa ella si figura per fantasia d'artista.

Alberto. Non vada, Maria. (Attirandola a sé e guardandosi d'attorno con paura.) Io preferisco il suo amore!

Maria (svincolandosi). Mi lasci. Lo sappia! Io non amerò mai altri che un uomo che sia libero o che per me si sia reso libero.

Alberto. Oh! Maria! Io non posso abbandonare il mio figliuolo.

Maria (ironicamente). Ecco! È giusto! Il suo figliuolo. Non ci avevo pensato! Dunque stia lontano da me! Senta: Io nella mia vita attiva non ho molto sognato d'amore ma non l'ignoro tanto da non comprendere che quello ch'ella mi offre non è amore.

Alberto (con forza). Se non è amore un sentimento per il quale non rimpiango di avere forse per sempre ruinata la felicità della mia vita, allora naturalmente il mio non è amore.

Maria. Non è amore perché ella sa che quella felicità non è compromessa affatto. Di parole non mi accontento, io.

Alberto (con forza). È amore! Lo sento forse per la prima volta in mia vita. Un misto di rispetto e di desiderio che mi confonde. Ella lo sa perché gliel'ho raccontato. Nella mia vita passarono parecchie figure di donna. La sua… oh! come si distingue da tutte le altre! Non posso neppure concepire l'idea ch'io ben presto debba rimanere privo di lei. (Con fuoco.) Ella calcola, ella ragiona, io sento solamente, e se mi oppongo al mio sentimento, se resisto, è invano. Io l'amo! Ella non ama me!

Maria (pacatamente). Ella mente! Senta, io l'amo! (Alberto si avvicina.) Mi lasci! Non so e non arrivo a comprendere il perché di quest'amore. Che però una fanciulla come me giunga fino a confessarlo, è tale una prova d'amore quale ella finora non mi diede. Lo so da poco; l'indovinai dall'ira che mi assalse al vederla un'ora fa dedicare tutte le sue attenzioni, tutte le sue cure a Giulia e… dinanzi a me. Ma pur amandola io riconosco che giammai una donna della mia specie fu piú volgarmente desiderata. Perciò lo sappia, è l'ultima volta che da me ella ha udito una tale parola, perché per lei sul mio volto, non vi sarà piú altro che indifferenza, e anche presto nel mio cuore. È tanto ingiusto il sentimento che provo che mi sarà cosa facile di soffocarlo.

Alberto. Ma che cosa vuole che faccia? Mi comandi.

Maria (con ira). A me lo chiede? Io le ripeto che le sue parole dette a una donna come me sono offensive. (Ironicamente.) Ella vuole amarmi in casa sua e poi andare da sua moglie a tenerle delle prediche sul modo di educare il suo figliuolo.

Alberto. Oh! Maria! Se ella mi amasse parlerebbe altrimenti. Io non merito tanta ironia!

Maria. Me lo dimostri! Vuole fuggire con me? Vuole abbandonare tutto e tutti per me? Io son pronta, andiamo! (Dopo una breve pausa.) No? E allora mi lasci in pace e attenda a sua moglie e al suo figliuolo.

Alberto. Io non ho detto di no, o Maria. (Confuso.)

Maria (avviandosi). Ma neppure di sí… mi pare.

Alberto. Fra noi due, io sono il piú vecchio. (Esitante e cercando le parole.) Lasci quindi che io veda… il bene di tutti e due…

Maria (ironicamente). Di tutti e due.

Alberto (piú deciso). Sí di ambidue. Può esserci dubbio ch'io per egoismo rifiuti la felicità ch'ella mi offre? Io sono un uomo in età e una giovinetta, bella, divina, ch'io amo, m'offre il suo amore. Può esservi il dubbio ch'io per egoismo rifiuti? No! Dunque… Ma ella si potrà accontentare della vita modesta che potrò offrirle? Ci ha pensato? Lei, abituata, alla vita artistica, alle soddisfazioni dell'amor proprio, della vanità e dell'ambizione…

Maria (sorridendo). Oh! sí! All'arte chi ci pensa piú? Io desidero di fare tutt'altra vita di quella che feci fin qui.

Alberto. E sarà una vita molto modesta sa! La mia piccola proprietà appartiene naturalmente a Giulia e al mio figliuolo. (Maria assente.) In qualche cantuccio della terra bisognerà vivere, molto lungi di qua. In una casa un po' meno ricca di questa.

Maria (con entusiasmo). Piccola e povera ma nostra. La felicità mite e quieta della gente modesta.

Alberto. Oh! sei divinamente bella cosí, Maria. Chi non peccherebbe? (L'abbraccia con violenza.) Un bacio, Maria, un solo bacio.

Maria (difendendosi debolmente). No! no! Laggiú, nella casa nostra. Entratavi sarò tutta tua.

Alberto. Come pegno… (La bacia lungamente.)

Maria. Via, Alberto.



SCENA DODICESIMA

Giorgio, poi Giulia e detti



Giorgio (dà un grido).

Maria (si svincola e lentamente s'avvia).

Alberto. Oh! Giorgio!

Giorgio (ironicamente). Scusino l'incomodo (Via.)

Maria. Non c'è dubbio; quello lí è corso a raccontarlo a sua moglie. Mi dispiace per le scene che ne risulteranno per lei.

Alberto (smaniando). Oh! sí! anche a me dispiace per questo. (Alla porta, gridando.) Giorgio! Giorgio!

Maria (osservandolo). Il suo entusiasmo è caduto ben presto. Badi ch'ella è ancora sempre libero. Vedrà che le riuscirà presto di calmare Giulia anche se il professore ha già fatto la spia.

Alberto. Oh! non è questo che m'importa… è lo scandalo che mi secca. È Giulia! La prego, Maria, mi lasci solo con essa. Non vorrei che scambiaste delle parole brusche voi due. (L'accompagna alla porta celermente, poi avvedendosi prima di lasciarla le bacia una mano.)

Giulia. E Maria? (Fremente.) È fuggita?

Alberto. Non scene, Giulia, te ne prego.

Giulia. Chi ti ha detto ch'io ne voglia fare? Ella avrebbe potuto rimanere qui; io non l'avrei maltrattata. L'avrei pregata, pulitamente, di andare a far l'amore con te fuori di casa mia. Gliel'ho già detto: Non voglio che insozzi questa casa. (Gridando, poi piú calma.) Ma no! Voglio dimostrarti ch'io sono calma e che quanto ancora ho da dirti non è ispirato dall'ira. Ch'essa rimanga pure per questo poco di tempo. Già so che tu saprai contenerti perché sappilo, io, in casa, s'intende, ti farò spiare… da tuo figlio. Adesso su questo rapporto posso essere tranquilla, non ti pare?

Alberto. Ma Giulia! È una cosa che non merita la tua ira…

Giulia. Non bugie te ne prego. Posso disprezzare Maria, ritenerla per quello ch'è stata fatta dal suo mestiere ma non è una ganza insomma e tu devi averla convinta per bene del tuo amore. Non si tratta di un'inclinazione ideale, di quelle che la gente onesta cela e combatte, non si tratta neppure di una tresca futile di quelle che una donna onesta sa ignorare e scusare. Si tratta proprio di ambidue le cose e a me non resta che piegarmi (con un singhiozzo represso) vinta. Non mi sento abbassata affatto e nel mio dolore non v'è traccia di vanità o di amor proprio offeso. È perciò che non voglio che tu mi faccia delle proteste di cui non so che farmene. Da poco so di essere stata tradita in tale modo ma non mi occorse di meditare molto per trovare la via che debbo seguire. Rimango in questa casa per il mio figliuolo. (Vinta dalla commozione parla piú rapidamente.) Vivremo uno accanto all'altro come due fratelli… due fratelli che non si amano. (S’avvia.)

Alberto. Giulia! (vuole fermarla.)

Giulia (calmissima). Di quest'argomento, basta. Già non potresti dirmi nulla ch'io già non sappia a meno che non fossero bugie. Dunque basta! (Via.)

Alberto (si cela il volto e cade seduto).

Amelia. Signore! La padrona l'avverte che il pranzo è in tavola.





CALA LA TELA





ATTO TERZO



SCENA PRIMA

Tarelli e Maria



Maria (sta gettando della biancheria in una cassa e canta). "Io lieto me ne vado al reggimento…"

Tarelli (fastidioso). Te ne prego, non cantare. La tua voce e la tua gioia mi ricordano quelle di qualche stupido animale. Non lo preciso.

Maria. Grazie.

Tarelli. Tale gioia dopo l'insuccesso di ieri! Sta bene non curarsi di questi sciocchi cretini ma nel cuore di una vera artista dovrebbe sempre esserci qualche poco di dolore per un insuccesso.

Maria. E se nel mio cuore non c'è che vuoi farci? Alla peggio non sarà un cuore di artista!

Tarelli. Oh! questa frase in bocca tua mi duole anche piú che la tua voce e la tua gioia. Hai suonato iersera che pareva che invece dell'archetto maneggiassi una scopa. Quell'adagio poi eseguisti in modo che pareva un cavallo che anela di arrivare alla stalla, tanto ne acceleravi il tempo.

Maria (giocondamente). Davvero? Tutt'ad un tratto suono male?

Tarelli. Trascuratamente! Lo riconobbe persino Maineri il buon Maineri il quale di solito s'inginocchia dinanzi ad ogni tua nota. Ha poca voglia questa sera, mi disse. Lo trovai troppo indulgente perché ero là là per dare io il segnale dei fischi. Oh! peggio, ancora! Ti avrei bastonata! Pochi minuti prima il professore Giorgio mi aveva raccontato di averti vista abbracciare dal signor Alberto. Ma non sono stati i miei rimproveri che ti hanno impedito di sonare bene. Temo non sia stata qualche altra preoccupazione! Oh! Maria! È la prima volta in tutta la mia vita che anelo tanto di trovarmi lontano da un luogo. Chi me l'avrebbe detto che fuggirei in questo modo da questa innocua e ridicola casa borghese?

Maria. Povero zio mio!

Tarelli. E attendo ancora sempre le spiegazioni che mi avevi promesso e che dovevano calmare la mia ira. Avevi da darmele al piú tardi entro la mattina. Non hai cambiato di parere?

Maria. No zio! Ma però mi permetti di dartele in iscritto?

Tarelli. Perché in iscritto?

Maria. Perché… perché scrivendo si arrossisce meno!

Tarelli (minaccioso). Ah! Hai da arrossire anche tu?

Maria. Sai che arrossisco facilmente! Dici anche io? Anzi, francamente, se qualcuno ha da arrossire, sono io quella. Lui, poveretto, è del tutto innocente! Mi prometti di non dirgli una sola parola di rimprovero?

Tarelli. Te l'ho già promesso.

Maria (che fin qui ha sempre lavorato intorno al baule). Cosí io ora ho terminato i miei preparativi per la partenza. È la prima volta che faccio questo lavoro da sola e non lo trovo mica noioso, sai. Ho pregato Amelia di occuparsi dei tuoi bauli. Ora io andrò là nella mia stanza e ti scriverò quella lunga, lunga lettera.

Tarelli. È un'idea molto comica quella di scrivere a una persona con la quale è tanto piú facile d'intendersi alla breve parlando.

Maria. Piú facile, sí, ma solo in certo senso. Insomma che tu voglia o no questa volta sarai obbligato di decifrare le mie zampe di mosca. Soltanto la prefazione alla lettera vorrei farla a voce perché non so maneggiare tanto bene la penna da poter esplicarti certe cose in iscritto.

Tarelli. Ebbene?

Maria (gettandogli le braccia al collo). Senti, zio, sei convinto ch'io ti voglio bene? Qualunque cosa ch'io avessi da scriverti mi saprai perdonare, subito, senza esitazioni?

Tarelli (accarezzandola). Capirai pazzerella che la spiegazione, qualunque essa sia non potrà farmi adirare piú del fatto stesso. Ora senza conoscere le tue spiegazioni io penso che sei molto ma molto colpevole eppure non ti tengo il broncio, come vedi. (Dolcemente.)

Maria Qualche volta le spiegazioni, quando son date con tutta franchezza, aggravano i fatti. (Ridendo.) E vedrai come son franca io quando scrivo.

Tarelli. Ti diverti a torturarmi facendo la sfinge.

Maria. Abbi pazienza ancora per poco. Volevo dirti dunque, zio, ch'io ti voglio molto ma molto bene. Tu mi hai fatto da padre e da madre! Oh! io non l'ho dimenticato (Rispondendo a un gesto di protesta di Tarelli). Meglio ancora di quanto avrebbero saputo farlo essi stessi. Sei stato tu che hai scoperto in me questo genio per il violino, o che l'hai inventato. Che ne so io? Voglio anzi darti una prova del mio amore. Figurati che nei miei sogni di fanciulla io previdi il momento in cui tu, troppo vecchio, non avresti piú potuto fare questa vita. Ebbene, fra il violino e te, nei miei sogni, non ho mai esitato. L'avrei abbandonato per seguirti e fare con te una vita ritirata, tranquilla quale tu avresti dovuto. Ma mi stai a sentire? Son cose molto importanti quelle che ti dico, e dovresti imprimerti nella memoria ogni mia singola parola.

Tarelli. Sto a sentire ma non vedo l'importanza di queste cose. Ho io mai dubitato del tuo affetto per me?

Maria. Eppure potresti dubitarne e io non voglio. Dunque se, ammettiamo, io avessi da cambiare condizione…

Tarelli. Questo non ammetto.

Maria. Ammettilo solo per un istante acciocché io possa parlare con maggior facilità. Ammesso dunque che io avessi da cambiare condizione, anche in allora, specialmente in allora, ti vedrei tanto, tanto volentieri accanto a me. Capisci mio buon zio? (Abbracciandolo commossa.)

Tarelli (riflettendo). Non capisco.

Maria (sorridendo). E la prefazione è terminata. Adesso lascia ch'io vada a scrivere… il volume.

Tarelli. Potrò stare dietro alla tua sedia a leggere oltre la tua spalla mentre scrivi? Cosí il mezzo di comunicazione sarebbe pur sempre piú rapido.

Maria. No, lasciami sola. Fra due orette circa, avrai la lettera. Fino ad allora cercati un'occupazione qualunque per passare meglio il tempo.

Tarelli. Ma che cosa ho da fare per due ore intere e con quest'agitazione nell'anima?

Maria. Va a passeggiare. Eccoti il cappello e il bastone e va a passeggiare da buon figliuolo. Addio, zio. (Abbracciandolo e baciandolo lo accompagna fuori della porta, poi, piangendo ella corre nella sua stanza.)

Tarelli (ritorna lentamente in scena col cappello in testa, pensieroso, irresoluto). Passeggiare? (Lentamente va alla porta donde è uscita Maria e guarda.)



SCENA SECONDA

Cuppi e detto



Cuppi. Prego, signor Tarelli, si potrebbe vedere, parlare con la signorina Maria?

Tarelli. Ah! il signor Cuppi! Per il momento Maria è occupata.

Cuppi. Davvero? Ciò m'incomoda molto, mi dispiace molto.

Tarelli. Perché?

Cuppi. Perché? (Imbarazzato.) Avrei premura di prendere congedo. Sí! vorrei salutarla.

Tarelli. Partiamo soltanto questa sera.

Cuppi. Sí, loro! Ma non io. Per un affare che m'è capitato improvvisamente… inaspettatamente debbo partire subito.

Tarelli (ridendo). Dunque all'infuori che agli artisti, ella si dedica anche a qualche cosa d'altro a questo mondo?

Cuppi. No, si tratta sempre di un affare artistico. Si figuri quello che mi capita. Sento adesso per combinazione che la Mara, la grande riformatrice del teatro moderno recandosi a Genova passa per un luogo qui vicino, per la stazione di un luogo qui vicino, non piú lontano di due ore di ferrovia.

Tarelli. Ebbene?

Cuppi. Ebbene, al suo passaggio assolutamente io voglio salutarla. Capirà che son due anni che non ci vediamo. In quella stazione farò io gli onori di casa, gli onori della stazione. Farò in modo che durante il suo soggiorno colà non le manchi nessuna comodità.

Tarelli. Quanto tempo si ferma il treno?

Cuppi. Quattro minuti e mezzo. Causa le congiunzioni ferroviarie a me questo viaggio costa due giorni di tempo. Se partissi domattina arriverei sul luogo due minuti e mezzo dopo la partenza della Mara e capirà per quanto la differenza sia piccola… Debbo quindi partire fra mezz'ora.

Tarelli. Capisco, capisco! M'incaricherò io dunque dei suoi saluti per Maria.

Cuppi (imbarazzato). Mi scusi non potrebbe permettermi di parlarle per un solo istante?

Tarelli. Mi dispiace ma non posso. Ella è occupata.

Cuppi. È in quella stanza? (Avvicinandovisi.)

Tarelli (tagliandogli la via). Scusi, mi dispiace, ma per il momento mia nipote è impedita.

Cuppi. Ah! cosí! (Piangendo quasi.) Ma cosí io perdo il treno.

Tarelli. Non le ho detto che m'incarico io di portarle i suoi saluti? Può andarsene liberamente.

Cuppi. Non posso perché io alla signorina Maria ho da dire e da dare qualche cosa.

Tarelli. Ebbene! Dica e dia a me.

Cuppi (con rapida transazione). Già fra lei e sua nipote non ci sono segreti, nevvero?

Tarelli. Si figuri!

Cuppi. E se anche la signorina Maria mi raccomandò tanto e poi tanto di serbare il segreto precisamente con lei, non è possibile che si tratti d'altro che di uno scherzo per il quale non vale la pena ch'io perda l'occasione di salutare la Mara? Ella sa di che si tratta?

Tarelli (agitatissimo ma sforzandosi a sorridere). Eh! me lo immagino!

Cuppi. Ecco dunque qui i due biglietti. Mi sono costati precisamente l'importo consegnatomi dalla signorina.

Tarelli. Ah! i due biglietti… postali. (Non avendoli ancora visti per bene.)

Cuppi. No! della Società Florio-Rubattino… da Genova a Buenos Ayres.

Tarelli (cui manca il respiro). Ah! sí, sí, i nostri due biglietti.

Cuppi (curioso). Ma perché la signorina Maria desiderava che specialmente a lei io non dicessi nulla dell'incarico ch'ella mi aveva dato?

Tarelli. Un suo capriccio…

Cuppi. Sí, sí, da musicista… da artista.

Tarelli. Ella sa come sono gli artisti.

Cuppi. Lo so troppo bene… molto bene.

Tarelli (riavutosi del tutto). Il fatto sta cosí. Io veramente volevo continuare il nostro giro in Italia, mentre Maria desiderava di portarsi immediatamente in America. Adesso naturalmente sono costretto di fare il suo volere. Me l'ha fatta quella… furba.

Cuppi (ridendo di cuore). Ah! Ah! Bellissima, proprio bella.

Tarelli. Sí, sí, bellissima, proprio bella.

Cuppi. Io non ho piú che dieci minuti di tempo o poco piú per prendere il treno. Mi scusi con la signorina Maria. Le chieda anche scusa se non ho potuto serbare fino all'ultimo il segreto confidatomi. Acciocché non mi serbi rancore, la prego di fare il suo volere, e di condurla in America. Me lo promette?

Tarelli. Sí, certo, non dubiti.

Cuppi. Prima di andarmene, partire, debbo dirle ancora una cosa. Sa, io ho molta influenza sul pubblico di qui ma, gliel'assicuro, la impiegai tutta per far trionfare sua nipote, per farle avere un successo. Se non serví, non è stata mia la colpa. Sua nipote dovrebbe anzitutto mettersi a suonare tutt'altri pezzi. Quelli lí, tedeschi, qui non piacciono…

Tarelli (conducendolo alla porta). Sta bene, ho capito.

Cuppi. Non si gustano qui. E poi sua nipote dovrebbe procurare di acquistare tutt'altra arcata…

Tarelli. Va bene! Va bene! (Spingendolo.)

Cuppi. Meno sdolcinata!

Tarelli (lo getta fuori). Grazie! Addio!

Cuppi (mette la testa in scena). Assicuri… dica ai signori Galli…

Tarelli. Va bene! grazie! addio! (Gli chiude la porta in faccia.)



SCENA TERZA

Tarelli e dietro la scena Maria



Tarelli (ritorna verso il proscenio co' biglietti in mano, ora guardando quelli, ora la porta della stanza di Maria, poi mette i biglietti in tasca, va verso sinistra, apre la porta della stanza di Maria e guarda). Hai ancora molto da scrivere?

Maria. Sí, zio, ancora per mezz'ora circa.

Tarelli (ridendo rabbiosamente). Un romanzo, dunque, un intero romanzo. (Chiude la porta a chiave e intasca la chiave.) Scrivi con tutta calma, carina, abbiamo tempo.



SCENA QUARTA

Giorgio e Tarelli



Giorgio. Oh! il signor Tarelli.

Tarelli (concitato). Mi saprebbe dire ove posso trovare il suo degno cognato?

Giorgio. Degno? Non riconosco mio cognato neppure per prossimo.

Tarelli. Ciò non mi concerne. Ove posso trovare suo cognato?

Giorgio. A costo ch'ella per il momento mi creda l'assassino di mio cognato risponderò biblicamente: Son io il custode di mio cognato?

Tarelli. Ebbene! Allora mi dirigerò direttamente alla signora Giulia. Ella dovrebbe pur sapere dove si trova suo marito.

Giorgio. Ma perché cerca mio cognato? Ha già mancato a qualche sua promessa verso di lei?

Tarelli (sorpreso, si ferma). A qualche promessa? (Concitato.) Mi vorrebbe spiegare questa sua frase?

Giorgio. Non posso spiegare nulla io. Poteva essere che mio cognato le avesse fatto delle promesse e visto che so che mio cognato è abituato a non tenerle penso che abbia mancato anche a quelle che forse ha fatto a lei. Ecco tutto! Io cerco di spiegarmi la sua concitazione e null'altro. Se ella non lo sapesse, l'avverto ch'ella è molto concitato.

Tarelli. E ne ho le mie buone ragioni. In quest'istante ho appreso che suo cognato ha l'intenzione di fuggire con mia nipote.

Giorgio. Davvero? (Sorpreso.)

Tarelli. Ella dunque non lo sapeva?

Giorgio (calmo). Io lo sapevo ma mi meraviglia ch'ella non lo sapesse.

Tarelli (ironicamente). Ah! cosí! Ella crederà ch'io fossi perfettamente d'accordo di cedere mia nipote al suo signor cognato? Ma pare che voi tutti siate d'accordo in quest'affare poco pulito.

Giorgio (calmo). Infatti siamo tutti d'accordo.

Tarelli. Ed io che credeva d'essere venuto a stare in una casa onesta.

Giorgio (c.s.). Mi creda. quando ella v'è entrato, questa casa era onesta. Adesso… dipende dal modo di giudicare le cose.

Tarelli. E sua sorella?

Giorgio. Anch'essa lo sa, da mezz'ora soltanto però. Glielo dissi io stesso.

Tarelli. E anch'essa diede immediatamente il suo assenso?

Giorgio. Per essere franco quest'assenso non le venne chiesto. Ella però è una donna ragionevole. Dal momento in cui apprese che suo marito faceva… sí… la corte a sua nipote, ella, risolutamente, si levò dal cuore l'amore al traditore e non le importò piú che di assicurare l'avvenire del figliuolo. Capirà ch'è affare di dignità; nella nostra famiglia non si è usi di domandare in carità neppure l'amore.

Tarelli. A tutto ciò io non ho nulla da ridire e voialtri siete perfettamente liberi di comportarvi come vorrete. In quanto a me è un altro paio di maniche. Non so ancora in quale modo ma le garantisco io che saprò impedire la fuga di mia nipote. Se l'altro vuole fuggire che se ne vada in nome di Dio.

Giorgio. Capirà che noi dal canto nostro staremo a vedere perfettamente indifferenti a ciò che farà mio cognato, sua nipote e lei stesso. La sorte di mia sorella è decisa. Del resto io non mi preoccupo.

Tarelli. Oh! farò da solo. Il ghiribizzo che pare abbia rannuvolato il cervello di mia nipote, le sarà passato fra poco.

Giorgio. Sí, in alto mare, all'aria pura, il cervello facilmente si snebbia.

Tarelli. In alto mare? Né mia nipote, né suo cognato vedranno mai il mare se hanno da vederlo insieme. Avrei faticato dieci anni per educare mia nipote, farne un'artista, per poi consegnarla al primo imbecille cui piacciano i suoi begli occhi? Che il signor Alberto sia subito pronto per andare in America e anche al di là, oh! non ne dubito. Va da sé! L'avventura a lui deve apparire carina.

Giorgio. Non tanto! (Ironicamente.)

Tarelli. Non capisco.

Giorgio. Ecco! Mio cognato si trovava bene nella sua famiglia e ci sarebbe rimasto ben volentieri se precisamente la sua famiglia non si fosse staccata da lui.

Tarelli. Davvero?

Giorgio. Naturalmente! Una donna che avesse avuto meno dignità di mia sorella facilmente avrebbe potuto trattenere Alberto. Ma gliel'ho già detto: Nella nostra famiglia non si è usi di mendicare.

Tarelli. Cosí che mia nipote deve accontentarsi di un rifiuto altrui?

Giorgio. Non dico questo perché, debbo confessarlo, ad Alberto la signorina Maria piaceva anche prima che Giulia lo respingesse. (Ridendo.) Il suo ideale sarebbe stato di tenere la signorina Maria quale dama di compagnia di sua moglie.

Tarelli (alza la mano per picchiarlo).

Giorgio (reagendo). Olà!

Tarelli (avvilito). Mi perdoni! È stato un movimento istintivo. Le sue parole sono tali che mi pareva di venir picchiato e mi misi sulla difesa.

Giorgio. Le mie parole sono brusche ma capirà che la cosa di cui si tratta è brusca anch'essa e bisognava intenderci nel modo piú facile. (Avviandosi.) Con permesso! Debbo andare a tener compagnia alla mia povera sorella. (Via.)



SCENA QUINTA

Tarelli e Maria



Tarelli (rimane trasognato per qualche istante, poi, deciso, va alla porta a sinistra e la apre). Maria!

Maria (dall'interno). Non ho ancora finito, zio.

Tarelli (gridando). Non importa, cara. Risparmiati la fatica di scrivermi cose che già conosco. (Piccola pausa. Maria entra.) Ecco qui i due biglietti del cui acquisto hai incaricato Cuppi. (Le consegna i biglietti e gridando ancora). Mi meraviglia che non hai dato l'incarico a me; l'avrei eseguito altrettanto bene. (Siede.)

Maria (timidamente). Zio mio!

Tarelli. Chi dici? (Guardandosi d'intorno.)

Maria (pregando). Zio!

Tarelli. Me? Io non sono tuo zio. Sicuramente io non sono zio della ganza del signor Alberto.

Maria. Oh! zio! Una parola simile a me! Perdono al tuo dolore.

Tarelli. Non ho dolori io.

Maria. Ma non sei stato tu che mi hai insegnato a pensare con la testa mia, senza pregiudizi e senza paure? Ed ora perché per raggiungere la mia felicità non bado al giudizio che farà di me la gente imbecille tu ti metti a fare coro con essa e mi dici che sono una ganza. Ebbene, ganza! Sarò la ganza del signor Alberto!

Tarelli. Ed io non ho detto altro. (Esitante.) Soltanto io ho detto che lo sei già.

Maria. E ti sei ingannato. (Tarelli respira.) Noi faremo una famiglia onestamente borghese laggiú in America, una famiglia che per non essere stata consacrata né dal prete, né dal codice, non sarà perciò meno felice.

Tarelli (si alza). Vi sarà una piccola contraddizione nella vostra famiglia. Onestamente borghese! Borghese, sí, ve lo concedo. Lui un bottegaio, dunque borghese, tu una femmina che s'innamorò di un bottegaio, dunque borghese. Ma onestamente! I borghesi non fondano cosí le famiglie. Essi scelgono il paio, li uniscono spesso per accomunare degl'interessi, non si accontentano della legge ma vogliono anche la garanzia della chiesa, e fanno marciare insieme i due, legati solidamente ma presto volonterosi. Cosí si diventa onestamente borghesi! La famiglia dev'essere stata fondata col consenso dei genitori, della legge e del prete. Voi due vi legate insieme con un delitto (Maria protesta) un delitto verso un'altra donna e verso un fanciullo, e un delitto non può fare le veci delle benedizioni.

Maria. Cosí dicono i preti. (Freddamente.)

Tarelli. Oh! Maria! dimentica per un istante tutto quanto io t'ho detto in vita mia, perché non una delle mie parole è adatta alle nuove condizioni in cui vuoi porti. Fin qui noi due abbiamo corso il mondo, senza aver obblighi, conseguenze, indipendenti affatto, liberi come gli uccelli dell'aria. Dal nostro punto di vista potevamo guardare sorridendo sui nostri simili che per giacere felici e sicuri non hanno soltanto bisogno di piume e di fiori ma anche di catene. Ora invece tu vuoi vivere a modo loro. Ebbene non è me che tu ora hai da ascoltare, ma precisamente la legge borghese; all'infuori di essa non vi è famiglia. Oh! io so esattamente come tu pervenisti alla determinazione di fuggire col signor Alberto. Non è amore il tuo, no! Come potrebbe essere per un animale simile?

Maria. Oh! zio! (Indignata.)

Tarelli. Lentamente tu ti sei presa di questa casa di questi mobili, della biancheria da curare, del bambino da istruire… Tutte le donne prima o poi hanno di questi affetti ma nella tua mente d'artista il capriccio passerà presto e la casa ti sembrerà troppo ristretta, il bambino, se ne avrai, troppo stupido, la biancheria un imbarazzo. Come non intendi che tale vita non è fatta per te? Oh! io mi ci perdo!

Maria. Io so che questa vita non è fatta per me e so quindi quale sacrificio io stia per portare ad Alberto. Ma glielo porto lieta perché… io l'amo.

Tarelli (fosco). Davvero? (Siede di nuovo.) È perciò ch'io dissi di non essere piú tuo zio.

Maria. Oh! zio mio! vieni con noi. Io volevo proporti di seguirci. Vuoi vedere la lettera? Io ti spiegai in essa di quale importanza sarebbe stata per me la tua presenza, il tuo appoggio. Sarebbe stata una nuova legittimazione del nostro nodo.

Tarelli (urlando). No! No! Giammai! Con tale proposta mi offendi. Io mi sento subito da capo a piedi, tutto borghese, e la tua disonestà mi offende, mi nausea. Oh! Maria! Come può essere avvenuto che tu abbia ad amare un animalaccio simile il quale per di piú non ama te?

Maria. Mi ama!

Tarelli (ridendo). Ah! Ah! ti ama. Tu non sai neppure quale aspetto abbia un uomo il quale ami. Per quanto legato alla sua famiglia un tale uomo non attende di venir cacciato dalla famiglia ma l'abbandona risoluto egli stesso. Se questo Galli ti avesse amata, veramente amata, per possederti avrebbe dovuto ammazzare sua moglie e il suo figliuolo e poi ancora non ti avrebbe meritata.

Maria (ridendo). Avrebbe dovuto anche suicidarsi e tu naturalmente saresti stato contento.

Tarelli. Non ti ama! Dopo averti avvilita col suo amore egli ti abbandonerà e dovrai ricorrere di nuovo all'arte la quale ti volgerà anch'essa le spalle perché l'arte non è mica una mala femmina cui basti un solo invito perché si dia; bisogna accarezzarla amarla lungamente per averne i piú piccoli favori. Tu avrai perduto quella serenità di coscienza e d'anima che rendeva tanto belle le tue note e infine ti mancherà il mio appoggio perché io… io sarà morto.

Maria. Oh! Zio!

Tarelli. Dopo un disinganno simile non so a che scopo avrei da continuare a vivere. In te erano poste tutte le mie speranze, l'ideale della mia vita. Quello che a me non era riuscito, riusciva a te, ed io stavo a guardare incantato beato come se la mia vita si ripetesse, piú bella, oh! tanto piú bella. E adesso capita un bottegaio qualunque e rovina tutti i miei piani. (Risoluto.) Senti, Maria! Non sei tu convinta che se la moglie del tuo signor Alberto facesse un solo cenno per richiamarlo a sé, egli si affretterebbe di obbedire e ti lascerebbe fare il viaggio in America da sola?

Maria. T'inganni! Vuoi leggere la lettera che oggi mi scrisse e nella quale mi comunica la sua risoluzione?

Tarelli. Io non leggo i manoscritti del tuo signor Alberto e se li leggessi per quanto ben scritti, quell'uomo dovrebbe avere una bella calligrafia, non mi commoverebbero. Che ora avevate stabilito per la fuga?

Maria. Io dovevo partire sola per Brindisi, di qua a un'ora. Egli sarebbe partito questa sera.

Tarelli. Senti Maria! Per quanto ho fatto per te in questi ultimi dieci anni puoi accordarmi un piccolo, un ultimo favore? Dilaziona di qualche ora la tua partenza! Partirai questa sera con lui insieme e che Dio v'accompagni. Io allora, te lo prometto, non farò piú alcun tentativo per trattenerti. Ma fin là promettimi che neppure parlerai col tuo… complice.

Maria. Complice?

Tarelli. Chiamalo come vuoi, a me fa lo stesso. Mi fai questa promessa?

Maria. Sí! Te lo prometto. Partirò questa sera soltanto. Mi permetti di renderne avvisato Alberto?

Tarelli (dopo un istante di riflessione). No, te ne prego. Già per lui dovrebbe essere una sorpresa aggradevole di aver da fare con te anche il viaggio fino a Brindisi. Devi promettermi di non mettere piede fuori di quella stanza fino a questa sera. Sarà per te una grave noia ma credo che per amor mio puoi sopportarla.

Maria. Sí, zio mio. Vedi che cerco con tutti i mezzi di renderti piú gradito il mio ricordo e di diminuire il rancore che vedo mi serberai.

Tarelli. A te rancore, oh, no! (Abbracciandola.) Un ricordo come per una morta, una morta per accidente! Addio! Adesso va nella tua prigione, te ne prego. (Suona il campanello.)

Maria. Che fai?

Tarelli. Chiamo la cameriera.



SCENA SESTA

Amelia e detti



Amelia. Comandi.

Tarelli. Prego, dica alla signora Giulia che per cosa di somma premura desidererei di parlarle. L'attendo qui o se lo desidera mi porterò io nella sua stanza.

Amelia. Vado subito signore.

Tarelli. Senta Amelia, io quest'oggi parto. (Le dà del denaro.) Mia nipote ed io siamo stati molto soddisfatti di lei.

Amelia. La ringrazio, signore. Mi dispiace di non aver potuto dedicarmi maggiormente al loro servizio ma ho da servire tanti qui.

Tarelli. Non importa! Adesso vada subito la prego dalla signora Giulia.

Amelia. Immediatamente signore. Grazie anche a lei, signorina. Sono stati troppo buoni. (Via.)

Maria. Povero zio! Mi dispiace di vedere che ti agiti cosí… invano.

Tarelli. A me non dispiace affatto e mi sarebbe dispiaciuto invece di dover lasciarti partire senza poter fare alcun tentativo per trattenerti. Cosí se non riuscissi nel mio intento finirei col dirmi che del tuo fallo sono stato colpa io e mi sarà di conforto. Mi picchierò da solo non potendo picchiare altri. Ma se invece riuscissi a far sí che il signor Alberto mancasse alla sua parola, e questo è il mio intento, ne soffriresti molto tu?

Maria (dopo un istante di esitazione). No, zio. Mi consolerei con l'idea che anche una volta, mio malgrado, ho fatto il tuo volere.

Tarelli (le bacia le mani). Grazie, grazie. (L'accompagna alla porta e Maria esce.)





SCENA SETTIMA

Giulia e Tarelli



Giulia. Mi ha fatto chiamare, signor Tarelli?

Tarelli. Sí signora! Accadono delle cose motto strane, in questa casa.

Giulia. Sí… strane. Se è per raccontarmele ch'ella mi ha chiamata, l'avverto che le conosco già.

Tarelli. Lo so; anzi appresi ch'ella le ha sapute prima di me e che non me ne disse nulla.

Giulia. Io credevo invece ch'ella le sapesse, anzi che gli altri agissero d'accordo con lei.

Tarelli. Ella s'ingannava e mi offendeva. Non gliene tengo rancore perché non posso esigere ch'ella mi stimasse un poco di piú, non conoscendomi. Io invece credeva di conoscere lei e mi sono ingannato.

Giulia. Sentiamo quello che credeva ch'io sia.





SCENA OTTAVA

Giorgio e detti



Tarelli. Io credevo anzitutto ch'ella amasse suo marito e mi sono ingannato, poi credevo ch'ella amasse il suo figliuolo e mi sono ingannato di nuovo. Potrei ingannarmi nuovamente ed essere bensí vero ch'ella amasse suo marito e il suo figliuolo ma in tale caso dovrei ricredermi su un altro punto. Io credeva cioè ch'ella fosse intelligente mentre ora m'avvedo che in una fase tanto importante della sua vita ella agisce precisamente da persona… che non ha capito niente.

Giulia. Prego, creda che io ho amato mio marito e che amo mio figlio. Ne chieda a mio marito stesso e le potrà levare ogni dubbio in proposito. Piuttosto mi creda meno intelligente. Ma mi dica lei come avrei dovuto agire. Potevo fare qualche cosa? Non mi tocca certo alcuna colpa perché io non ho fatto niente. Sono stata a vedere come sotto ai miei occhi succedevano delle cose imprevedibili e credetti fosse mio dovere di non intervenire affatto.

Giorgio. Cosí la consigliai io stesso e non mi parve di averla consigliata male.

Tarelli. Oh! professore! ella è qui! Ho tanto piacere di vederla. Ma però mi faccia il piacere non dica una sola parola. Non si metta in lotta con me. Io so già la sua opinione. La signora la conosce anch'essa, tant'è vero che tutte le sciocchezze commesse da essa finora furono suggerite da lei. Dunque lasci ch'io esponga alla signora il mio modo di vedere. Ella poi sceglierà fra i miei e i suoi consigli.

Giorgio. Non riconosco di aver suggerito sciocchezze.

Tarelli. Non è di ciò che si tratta. Non perdiamo tempo. Io le chiedo soltanto di lasciarmi parlare. Mi lascia parlare?

Giorgio. Parli pure.

Tarelli. Anzi, per dirle il vero, io mi sentirei meglio se ella semplicemente se ne andasse perché a quattr'occhi paleserei piú facilmente. No? Rimanga dunque. Ma sieda là e… acqua in bocca. (A Giulia.) Signora! Ella è responsabile di tutte le cose che qui accadono e ch'ella vuole avere l'aspetto di deplorare. È questo ch'io volevo dirle.

Giorgio Ma ella dice una sciocchezza. La colpa ricade su tutt'altre spalle.

Tarelli. Taccia lei. Me lo ha promesso!

Giulia. Mi può spiegare in quale modo io mi sia caricata di una simile grave colpa?

Tarelli. Ella lo ignora?

Giulia. Sí! Lo ignoro e la scongiuro di spiegarmelo. Mia colpa? (Agitatissima.) Se è colpa quella di essere stata troppo ingenua e fidente in allora sono stata, sí, colpevole, ma altra mia colpa non vedo.

Tarelli. Eppure se sono stato bene informato l'unica la piú grande colpevole è lei.

Giulia. Ebbene, si spieghi dunque. Se ella mi saprà provare la mia piú piccola colpa, andrò magari ad abbracciare Maria prima che parta e mi congederò da Alberto chiedendogli scusa del male che gli ho fatto.

Tarelli. Non è questo ch'io le chiedo. Chi ha fatto il male ripari. Non è stata lei che ha scacciato suo marito perché un imbecille qualunque è corso a riferirle che Maria s'era lasciata baciare una mano da lui?

Giorgio. Una mano? La faccia… in bocca.

Tarelli. Ella taccia, me l'ha promesso.

Giulia. Io non l'ho scacciato. Gli ho detto soltanto che i nostri rapporti avrebbero cambiato di natura; ci saremmo trattati come fratello e sorella. Potevo agire altrimenti?

Tarelli. Ed ella credeva di aver cosí rimediato a tutto e di aver vincolato a lei per sempre quel povero diavolo che avrebbe dovuto starle accanto in eterna ammirazione della sua dignità?

Giorgio. Non era suo compito di rimediare al male che avevano fatto gli altri. Il suo compito si limitava a levarsi al piú presto da qualsiasi equivoco, punire in quanto stava nelle sue forze chi aveva mancato ai suoi doveri, infine contenersi precisamente come Ella non vorrebbe… dignitosamente.

Tarelli. Ed ora seguendo i suoi consigli la signora si trova coll'aver salvata la dignità e nient'altro. Crede che le basti?

Giorgio. A mia sorella deve bastare.

Tarelli. Ah! se deve bastarle, naturalmente le basterà. Ma mi dica lei signora. Ella non vede la diretta relazione che c'è fra le due determinazioni, quella cioè presa da lei verso suo marito e quella da suo marito verso di lei?

Giulia. No! Non la vedo! Se mi avesse amata, se avesse amato suo figlio avrebbe tentato di far dimenticare il suo trascorso e riconquistare il mio affetto.

Tarelli. Sí! ciò sarebbe stato dignitoso. Ma pare che a lui della sua dignità importi meno. Senta, signora! Io non posso convincerla? Ella ha la testa piena di parole altrui, dignità… amor proprio e che so io! Le offuscano il buon senso… che io le sapevo. Se però suo marito al solo vederla si pentisse cadesse ai suoi piedi, a chiederle scusa, ella sarebbe pronta a perdonargli letteralmente stendendo un velo sul passato?

Giulia. Mi sarebbe difficile ma perdonerei.

Tarelli. Dunque professore, ella è d'accordo che prima di dividersi marito e moglie si riveggano un'ultima volta?

Giorgio. Ella ha parlato con mio cognato da sapere che al solo vederla cadrà ai suoi piedi?

Tarelli. No, non ho parlato con lui ma lo conosco meglio di voi tutti. Ho insomma la convinzione che se a lui fosse dato di parlare un'ultima volta con la sua signora, riconoscerebbe tutti i suoi torti e… e… mia nipote potrebbe partire in pace. L'unica difficoltà ch'io scorgo per condurre a termine questa faccenda è di portarvi tanto presto a questo colloquio senza che nessuno abbia a mancare alla sua dignità. Vede, professore, che alla dignità ci penso anch'io.

Giorgio. Non è questa la difficoltà perché Alberto aveva chiesto di poterla salutare prima di partire e Giulia vi si era rifiutata temendo di non saper contenersi come doveva. Il difficile è di convincere mia sorella…

Tarelli. Me ne incarico io. Ella vada a chiamare suo cognato. Sa dove si trova?

Giorgio. Sí. Che te ne pare Giulia? (Volendo convincerla.)

Giulia. Che venga! Non sarò certo io che mi rifiuterò a un tentativo per conservare il padre al mio figliuolo.

Giorgio. Va bene! Vado a chiamarlo. Già al vostro colloquio sarò presente io.

Tarelli. D'accordo. Li sorveglierà lei acciocché la dignità non soffra. (Giorgio via.)

Giulia. La ringrazio di avermi fatto comprendere ch'io dovevo sacrificarmi.

Tarelli. Sacrificarsi? Io voglio ch'ella sia felice.

Giulia. Checché avvenga la mia felicità è distrutta per sempre… da sua nipote.

Tarelli. Da mia nipote? Per il momento non ho nessun desiderio di difenderla e capisco che mi sarebbe difficile. Ma però ella s'inganna o signora. Non so se faccio bene o male ad aprirle gli occhi ma in quanto io conosco il cuore umano credo che diminuirà anche il suo risentimento verso suo marito, all'apprendere che non è di Maria ch'ella ha da temere o almeno non solo di Maria.

Giulia. Che cosa dice?

Tarelli. Debbo portare a sua conoscenza che nel senso ch'ella vorrebbe suo marito non le è stato fedele mai. Delle Marie nella sua vita, dacché è sposato, ne sono passate parecchie. Tutta roba che gli serviva di svago ma a cui egli non dava mai molta importanza. Egli non credeva neppure di mancare ai suoi doveri matrimoniali correndo dietro a qualunque gonnella in cui s'imbattesse nei suoi viaggi d'affari. Lo confessò a Maria stessa al nostro arrivo. La sua sola sventura in tutto quest'affare è stata che la gonnella ch'egli aveva incontrata a tante miglia da qui, gli è capitata diritta diritta in casa.

Giulia. Ed ella crede che questo diminuirà il mio risentimento verso mio marito?

Tarelli. Ella non ebbe mai sospetti di quanto le ho detto?

Giulia. Nessuno! Sull'anima mia! Io ho sempre creduto ch'egli amasse me come io amavo lui.

Tarelli. E non s'ingannava, io credo. Io però mi figuravo che la pace fosse stabilita nella loro famiglia in tutt'altro modo. Io pensavo ch'ella fosse edotta perfettamente delle teorie di suo marito e ch'ella chiudesse uno, anzi tutti e due gli occhi. (Gesto di protesta di Giulia.) Beato lui e beata lei, pensai. Cosí è dunque fatta la famiglia che a noi, perché non la conosciamo, fa tanta paura. La legge che la regola è rigida ma la dolcezza dei caratteri di chi la compone le leva qualunque durezza. Cosí naturalmente e soltanto cosí si può vivere per tanti lunghi anni uno accanto all'altro, amichevolmente anzi affettuosamente. Ella mi appariva non soltanto quale la purezza della sua famiglia ma quale l'eroina nella dura lotta ch'è la vita. Io conosco il cuore umano, e comprendevo che non tutto il suo compito era facile e aggradevole. A lei bastava, pensava io, che questo sacro suolo sul quale ella si moveva nella nobile sua attività restasse puro, incontaminato. Perciò, pensava io ella non reagiva contro le tendenze del signor Alberto altrimenti che sorvegliando che in questo recinto esse non si manifestassero. E infatti in tutta la casa l'unico oggetto brutto che vidi era la cameriera.

Giulia (con disprezzo). È una combinazione. Se crede ch'io mi degni di considerare quale mia rivale la cameriera, ella s'inganna.

Tarelli. Ora lo so, mi sono ingannato! Ma rivale? Chi ha detto rivale? Ella, secondo me e credo secondo suo marito, non aveva rivali. Le altre donne erano altre donne, non sue rivali. Naturalmente ch'ella mi ha fatto ricredere perché con le sue risoluzioni intempestive, ella ha fatto procedere tanto oltre quest'avventura dalla quale, a quanto pare, non vengo danneggiato che io. Perché suo marito per qualche tempo nelle gioie dei novelli amori non saprà rimpiangere la famiglia perduta, ella pare piú che consolata, lieta e suo fratello, oh! quello poi è lietissimo di avere la sorella vedova prima della morte del cognato.



SCENA NONA

Giorgio e detti



Giorgio. Alberto ti attende in questa stanza. Vuole abbracciare Piero e io gliel'ho accordato. Non si poteva impedirglielo…

Giulia (che si avvia lentamente). No… no…

Giorgio. Sii dignitosa ma non dura. Già vi dividete per sempre e non v'è piú scopo di litigare.

Tarelli. Sente? Anche suo fratello le ripete i miei consigli. Sia dolce e buona come è stata tutta la sua vita.

Giulia. Mi proverò. (Guarda nell'altra stanza.) Egli bacia Piero e piange.

Tarelli. Poveretto! (Fingendo commozione. Giulia via seguita da Giorgio.)



SCENA DECIMA

Maria e Tarelli



Maria (ch'è vestita per uscire). Sai che non ti conoscevo tante qualità da oratore? Hai convinto me pure!

Tarelli. Davvero?

Maria. No, ma senza vederne alcun indizio ho capito ch'eri riuscito a convincere Giulia. Poveretta! Se adesso Alberto non si lasciasse convincere con altrettanta facilità ella resterebbe molto male.

Tarelli (inquieto, guarda nell'altra stanza). Credi ch'egli resisterà?

Maria. Dopo di avere ascoltato i tuoi ragionamenti ne dubito io stessa.

Tarelli (trionfante, si allontana dalla porta). Guarda, guarda, Maria.

Maria (senza muoversi). Che cosa ho da guardare?

Tarelli. Hai maggiore fortuna che giudizio. Sei libera! Si abbracciano!

Maria (avvilita). Tanto presto?



SCENA UNDICESIMA

Giorgio e detti



Giorgio. Fate pure! Io non posso impedirvelo! Oh! le donne! le donne! Questa ella chiama dignità! (Maria si tira in disparte.)

Tarelli. Che cosa le è accaduto, professore? Si sono ammazzati e di marito e moglie non rimangono piú che le code?

Giorgio. Ma che ammazzarsi! Incominciarono col baciare e abbracciare il figliolo e finirono col piangere e abbracciarsi fra di loro, pacificati! Senza dire una sola parola, senza porre alcuna condizione! Oh! facciano pure ma io non rimetto piú piede in questa casa. (Via.)

Tarelli. Vedi che non abbiamo ad avere rimorsi perché noi a questa gente non abbiamo fatto che del bene. Che te ne pare? Possiamo andarcene? (Le offre il braccio.) Diremo ad Amelia che c'invii con un servo i bauli alla stazione. Possiamo andarcene senz'altro. Io davvero non mi sento lo stomaco di andare a ringraziare per l'ospitalità che abbiamo ricevuta in questa casa. Approfitteremo di questi due biglietti giacché assolutamente tu vuoi vedere l'America. Aspetta un poco! Prima di partire dobbiamo andare a salutare Maineri! Sai che neppure in questa città il tuo successo non è stato piccolo? Trovare una persona come Maineri pronta ad abbandonare tutto e tutti per seguirci, perché egli dichiara che senza le tue note non può piú vivere e vuol continuare ad accompagnarti attraverso tutto il mondo. Che ne dici?

Maria. Fa tu come vuoi!

Tarelli. Davvero, ti dorrebbe che l'avventura sia terminata cosí? Ah! non lo credo. Non capisci che quando vorrai ricominciarla potrai farlo sotto auspici piú favorevoli. Prima di tutto tu non hai bisogno di abbandonare la tua arte per maritarti. Sposerai un girovago come sei tu! Moglie e marito e buoi dei paesi tuoi! Compereremo una casa ambulante e avrai cosí anche la tua casa.

Maria. Non scherzare te ne prego! Non scherzare ancora.

Tarelli. Ebbene, andiamocene presto! Visto che non vuoi scherzare, vengo ripreso dalla mia paura.

Maria. No! cosí non parto! (Siede.) Voglio salutare…

Tarelli (spaventato). Chi?

Maria. Giulia.

Tarelli (dopo aver riflettuto per un istante). L'idea non mi dispiace. (Va alla porta.) Signora Giulia! Scusi, un istante solo.



SCENA DODICESIMA

Giulia e detti



Tarelli. Avendo da partire la ringrazio per l'ospitalità accordataci.

Maria. Giulia! Voglio salutarti anch'io. Sii felice! Io non ti ho mai voluto male. È stata una cosa che mi è capitata senza ch'io lo volessi, o ne dubitassi. Davvero che non lo so ancora spiegare io stessa ma non ho mai avuto l'idea di danneggiare te, e, ora lo comprendo, non mi sarei mai rassegnata a essere odiata da te. E vedi! La danneggiata son io e non ho l'intenzione di celarlo! Egli non ha voluto, altrimenti sarei partita con lui. È meglio cosí! Anzi, senti! Deve lusingarti il mio fallo! È vero, lo amavo, ma perché? Volevo la tua casa, la tua felicità, tuo marito, e sognavo di divenire buona e dolce come sei tu! Già, non mi sarebbe riuscito, lo riconosco! Intanto se avesse giuocato a me un tiro come quello di cui minacciava te, io l'avrei ammazzato, lui, la sua complice e me. (Agitatissima poi dolcemente.) Sii buona sino in fondo e dammi la mano. Perché avremmo a dividerci cosí? È probabilmente l'ultima volta che ci vediamo.

Giulia (le porge la mano).





CALA LA TELA



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Altra stesura e modifiche





SECONDO





ATTO PRIMO

Tinello in casa Galli.





SCENA PRIMA

Alberto che dorme su un'ottomana, Giulia e Giorgio



Giulia (a Giorgio che entra). Pst! Piano che dorme.

Giorgio (le stringe la mano). Te lo avevo detto io che non c'era da impensierirsi. Eccolo là che dorme tranquillamente come se non dubitasse affatto che ha tolto a te il sonno di una notte intera.

Giulia. Lascialo dormire, poveretto! Lui non ne ha colpa. Ha perduto per distrazione due treni a Firenze. Mi ha telegrafato per avvisarmelo ma il male si è che il suo dispaccio mi è pervenuto soltanto pochi minuti fa.

Giorgio. Diamine! Due treni ha perduto e i suoi dispacci da Firenze a qui ci mettono ventiquattr'ore? Son cose che non nascono che a lui. Chissà come avrà indirizzato il suo dispaccio! Mostramelo!

Giulia. L'ho gettato via.

Giorgio. Come si fa non indirizzare un reclamo all'ufficio telegrafico? Io non tollererei un simile disordine.

Giulia. Che vuoi che a me importi che ora mettano ordine in quell'ufficio? Chissà quanti anni trascorreranno prima ch'io abbia a ricevere un altro dispaccio.

Giorgio. Io agirei per la massima.

Giulia. Mi dispiace che presto dovrò svegliarlo perché arriva Maria Tarelli con suo zio. Già cosí, pur senza conoscerli, non li ama molto. Se incominciano poi col disturbarlo dal sonno, li amerà anche meno, e saranno poco aggradevoli i pochi giorni che Maria passerà con noi perché sincero e franco come egli è non saprà celare la sua antipatia.

Giorgio. Spero bene che saprà frenarsi e che almeno non dirà loro in faccia che li tiene per istrioni. A momenti mi adiravo tempo fa a sentirlo parlare in tale modo di artisti.

Giulia. Che vuoi farci? Lui è un buon borghese che ci tiene alla sua vita onesta e limpida e regolare e non ama la gente nomade come sono Maria e suo zio.

Giorgio (con un po' di disprezzo). Sí! Sí! è degno tuo marito.

Giulia. Che vuoi farci? Siamo felici cosí! Tu sogni arte e scienza, noi vogliamo calma e felicità. Non si direbbe che siamo fratello e sorella, eh! Del resto ritengo che Maria finirà col conquistarsi anche le simpatie di Alberto! Della tua può essere sicura. Anche troppo, ma bada che io terrò gli occhi molto aperti.

Giorgio. Per me non temere! Certo è che a parlare con una persona siffatta mi divertirò piú che con la gente solita che mi tocca frequentare qui. Ma insomma si tratta di parlare, non d'altro. Non ho tempo da perdere io e debbo riservarmi ad altre cose.

Giulia. Capisco! Capisco! Ma Maria è molto bella almeno se attenne quanto prometteva! Troverai in lei una donna all'infuori di certi suoi accenti bruschi, maschili sorprendenti nella sua voce che è adorabile.



SCENA SECONDA

Amelia, Piero e detti



Amelia. C'è fuori un signore che vuol parlare col signor Alberto.

Giulia. Pst! Va a vedere tu, Giorgio! (Giorgio via.)

Piero. Mamma! Non ti ha detto niente papà se mi ha portato un regalo dal suo viaggio?

Giulia. Non lo so, caro! Glielo chiederemo allorché si sarà svegliato. (Vedendo che Alberto si muove.) Pst! S'è destato.

Alberto. Meno male che sono a casa mia. Mi pareva d'essere ancora in viaggio. Quanto tempo è che dormo?

Giulia. Circa due ore. Il sonno, no, non l'hai perduto.

Alberto. Hai ragione di farmene un rimprovero. Dopo quindici giorni di assenza doveva bastare la vista della mia cara moglie per tenermi desto. Ma sono precisamente i quindici giorni di fatiche che mi fanno essere cosí. Ho faticato assai. (Stirandosi)

Giulia. C'è fuori un signore che domanda di te. Amelia avverta Giorgio che Alberto è desto.

Alberto. Chi è?

Giulia. Non lo so. Ho mandato Giorgio a parlargli (si siede accanto a lui e attira a sé Piero.) Piero chiedeva se gli hai portato qualche dono dal tuo viaggio.

Alberto (ancora un po' assonnato). Un dono?

Giulia. Ma sí come sempre.

Alberto. Un dono! Me ne sono dimenticato.

Giulia. Davvero? (Sorpresa e offesa.)

Alberto. Avevo l'intenzione di comprargli qualche cosa ma poi ho pensato ch'era meglio di fare tale acquisto qui da noi ove tutto è piú a buon mercato.

Piero. Allora potrò scegliere io?

Alberto. Ma sí! Domani stesso andremo insieme dal chincagliere.

Giulia. A me sarebbe piaciuto meglio che tu avessi fatto tale acquisto fuori. Sarebbe stata una prova che anche lungi da noi a noi sempre pensi.

Alberto (scherzosamente). E di tale prova hai bisogno? Io non ci ho mica pensato che per te il dono a Piero potesse valere quale una prova del mio affetto. Altrimenti, gli avrei portato non uno ma dieci doni.

Piero. Dieci doni! Peccato che non ci hai pensato.

Alberto (ridendo). Bravo Piero! Tu trovi sempre la parola giusta. (Si china a baciarlo e anche Giulia con lui.)



SCENA TERZA

Cuppi, Giorgio e detti



Cuppi. Se la è cosí, ritornerò.

Giorgio. No! No! anzi s'accomodi. Dovranno arrivare di qui a poco. (Presentando.) Il signor Cuppi, mia sorella, mio cognato Alberto Galli.

Cuppi (esageratamente cortese). Ho tanto piacere! (Stringe la mano prima a Giulia poi a Alberto.) Li conoscevo di vista da parecchio tempo e sempre desideravo che si fosse presentata l'occasione di fare una conoscenza piú intima… (correggendosi) sí, piú vicina… piú… piú vicina sí. Ora l'occasione s'è presentata perché io attendo i signori Tarelli.

Alberto. Ah! cosí? Arrivano oggi? Sono raccomandati a lei?

Cuppi (alquanto confuso). No, no non sono raccomandati a me. (Ridendo.) Ma come? Loro non mi conoscono affatto? Bisognerà dunque che mi presenti da me, sí, che mi spieghi, che mi esplichi. Non sanno che io sono l'amico degli artisti? Se non faccio altro io a questo mondo? Come si fa abitare questa città e non conoscermi? Ora, sí, oso asserire che in questa città di provincia io sono la cosa, la persona piú preziosa per gli artisti. Sono loro servo devoto, li aiuto in tutte le piccolezze di cui possono abbisognare e in compenso non chiedo loro che la loro amicizia. È un'occupazione che rende poco, ma che mi fa passare magnificamente, sí, aggradevolmente la vita. La Ristori diceva di questa città: Di bello non c'è che la cattedrale e Cuppi. L'ho in iscritto, sanno, e l'ho messo in cornice. Sta in una lettera diretta a me da un commendatore, amico intimo della Ristori e che per piacere le faceva da segretario… o quasi… non so cioè se scrivesse per conto della Ristori tutte le sue lettere; fatto sta che a me scrisse per ordine della Ristori una bellissima lettera che ho messo in cornice. La firma non è bene leggibile ma c'è un Comm. che deve significare commendatore: Di bello non c'è che la cattedrale e Cuppi. Mi vedranno ora all'opera come io so diventare utile agli artisti. Peccato che i signori Tarelli trovino qui l'alloggio pronto. Ne avevo uno di bellissimo a loro disposizione, una vera occasione, sí un incontro fortuito, sí, rarissimo.

Alberto. Se preferiranno quello non sarò certo io che li costringerò ad occupare questo.

Giulia (rimproverando). Ma Alberto! (Poi a Cuppi.) Ho promesso a Maria di tenerla con me. Quasi quasi viene qui piuttosto allo scopo di rivedermi che di dare quei due concerti.

Cuppi (ammirandola). Era proprio amica sua intrinseca?

Giulia. Ma sí; amica di collegio.

Cuppi. Tanto giovine e in poche settimane è divenuta famosa, celebre, conosciutissima. Tutti i giornali ne parlano. Non vedo l'ora di vederla.



SCENA QUARTA

Amelia e detti, poi Maineri, Tarelli e Maria



Amelia. Sono qui ma in tre.

Giulia. Falli entrare.

Alberto. In tre? Chi è il terzo? Vanno aumentando continuamente.

Amelia. In tutto una donna e due uomini. Dissi loro di entrare ma essi non ci pensarono punto e rimasero alla porta a chiacchierare.

Alberto. Si sa! Sono in casa loro.

Cuppi. Vuole che li vada a chiamare io?

Maria (entrando seguita da Maineri e Tarelli). Ne parleremo poi. Dov'è Giulia? Come stai? (La bacia affettuosamente.) Uh! che pezzo di donna. Hai il volume che altre volte avevamo noi due insieme. Ti rammenti? Tu la piú buona della scuola, io la peggior scolara. Strano destino che soltanto noi due abbiamo a ritrovarci; di nessun'altra ho udito mai neppure a parlare. Oh! ma sei cambiata, molto cambiata! Sei rimasta una bella persona dalla fisonomia dolce ma non sei piú quella. Perché hai cambiato tanto? Io che speravo di ritrovare in te quella mia antica dolce amica cui mi piaceva tanto di far male per vedere fin dove arrivava la sua indulgenza. Chissà quanto cattiva sei divenuta invecchiando! Perché non siamo mica piú bambine, sai, è bene rammentarcelo.

Giulia. Tu invece sei sempre la stessa co' tuoi occhi serii e dolci. (Presentando.) Mio marito.

Alberto (con lieve sorpresa). Signorina!

Maria (ridendo dopo un istante di sorpresa). Oho! una vecchia conoscenza.

Alberto (rimesso). Infatti, abbiamo fatto un pezzo di viaggio insieme. Da Bologna a Firenze.

Maria. Ancona, cioè.

Tarelli (intervenendo). Firenze, Firenze.

Alberto. Io ad Ancona non ci sono stato questa volta.

Maria (sorpresa). Ah! cosí?

Alberto. L'altr'ieri abbiamo fatto questo viaggio insieme (a Giulia) da Bologna a Firenze.

Maria (non comprende). L'altr'ieri?

Giulia. E non avete fatto conoscenza?

Maria. Non ve n'è stata l'occasione.

Alberto. Ha fatto buon viaggio?

Maria (freddamente). Sí, grazie.

Giorgio (poco persuaso, a mezzo da sé). Strano! Una è stata con lui ad Ancona; l'altro invece non si rammenta che d'essere stato a Firenze.

Giulia (presentando). Mio fratello Giorgio, professore al liceo.

Giorgio. Ho tanto piacere di fare la sua conoscenza. Ne chieda a mia sorella; contavo i giorni che mancavano al suo arrivo qui, perché per me è una vera fortuna che, seppur per breve tempo, la casa di mia sorella acquisti un aspetto piú artistico.

Maria. Grazie del complimento ma non posso accettarlo. Non rendo mica artistici i luoghi che tocco.

Giulia (a Maria). Bisogna sapere che lui oltre che professore è anche artista e dotto. Si occupa di storia patria.

Maria. Anche questo paese ha una storia?

Tarelli (intervenendo). Ma che dici, Maria? Offendi i signori eppoi ti sbagli. Questo paese ha una storia e anzi cospicua. Non è per di qua che sono passati i Romani?

Giorgio. Precisamente, due volte. Una volta andando a Capua.

Tarelli. So, so, e l'altra volta ritornandone. Maria, ti sei dimenticata di presentarmi.

Maria. Mio zio Giulio Tarelli.

Tarelli (stringendo la mano a Giulia). Il quale accetta con gratitudine l'ospitalità che tanto gentilmente gli è stata offerta. (Poi ridendo stringe la mano ad Alberto.) Veramente peccato che a Bologna nessuno ci abbia presentati. Avremmo fatto molto piú aggradevolmente il tratto da Bologna a Firenze, perché è quello il tratto che abbiamo fatto insieme.

Maineri (avanzandosi). Signorina! Io debbo andarmene. (Guardando l'orologio.) Sono legato alle mie lezioni.

Maria. Incatenato, mi pare, addirittura. Rimanga soltanto un istante ancora che la presenti ai padroni di casa poiché ella dovrà venire qui di spesso per causa mia. Il prof. Maineri che gentilmente s'è offerto di accompagnarmi al piano nei due concerti che ho da dare qui. Ha avuto la gentilezza di venirmi a ricevere alla stazione.

Giulia. Ci sarei venuta anch'io se mio marito non fosse stato qui ancora molto stanco dal viaggio.

Maria (abbracciandola). Oho! non avevo mica l'intenzione di farti un rimprovero. Perché ridi?

Giulia. Perché hai conservato il tuo oho maschile che in collegio tanto ci piaceva.

Maria. Nota che da allora ho fatto una vita in cui ho emesso piú d'un grido e talvolta anche qualche bestemmia. Oh! piccolezze, sai!

Maineri. Col suo permesso dunque, io verrò qui domattina.

Maria. E nuovamente la ringrazio. M'è stato di buono augurio trovare un amico subito al mio ingresso in città.

Maineri. Non ha nulla da ringraziarmi. Due mesi fa ho assistito a un suo concerto a Milano e m'è nato in cuore il piú vivo desiderio di sedere io una volta al pianoforte e accompagnare quel suo violino ch'è una vera e propria orchestra, parola d'onore. Soddisfo ora il mio desiderio e non merito dunque ringraziamenti. Con permesso. (Si avvia.)

Cuppi (lo ferma alla porta). Dunque è proprio molto brava?

Maineri. Potrà accertarsene al prossimo concerto. (Via.)

Cuppi. Questi pianisti… (Con sprezzo.)

Tarelli. Scusi signor professore Giorgio. (Subito amichevolmente.) Ella quale professore di belle lettere, se ho udito bene, dovrebbe pur conoscere qualche critico musicale in questa città.

Giorgio. No… affatto. Vivo a scuola e in casa e con giornalisti non ebbi finora nulla da fare. Per buona fortuna perché è gente che a me non piace.

Tarelli. Peccato! Di solito vengono i critici a cercare di noi ma capisco che qui toccherà a noi di cercare di loro. Le faccio dei resto i miei complimenti che non conosce giornalisti. Anch'io se potessi farei volontieri a meno di essi. Canaglie! Ma però dico peccato per il caso concreto. Non conosce neppure nessuno che pratichi la compagnia di giornalisti? Eh! già! capisco. Non volendo aver da fare con giornalisti è bene tenersi lontano anche da chi li pratica.

Cuppi (lieto). Son qua io, posso servirla io. Critici musicali? Ma io li conosco tutti! Peccato che non ve ne sia che uno. Il Valzini. Vado a chiamarlo.

Giorgio (ridendo). Ce ne eravamo dimenticati. Il signor Cuppi… amico degli artisti.

Cuppi. La presentazione è completa, non c'è piú nulla da dire sul mio conto. Proprio è stato detto tutto o quasi. Amico degli artisti! Due intere generazioni d'artisti sono o sono state… sí… gli artisti di due intere generazioni sono o sono stati miei amici. Dalla Ristori alla grande riformatrice del teatro moderno, la Mara, tutti, tutte sono state servite da me.

Maria. Ha nominato soltanto degli artisti drammatici; si dedicherà poi col medesimo zelo anche ai musicisti?

Cuppi. Solo ai violinisti. Ho una passione speciale, io, per il violino, per il re degl'istrumenti, per il principale fra gli istrumenti. I sonatori di piano non amo, non mi piacciono, e neppure al nostro pubblico a quanto ho potuto osservare. Ho già conquistato dei titoli di benemerenza per i violinisti. Il celebre Janson ch'è stato qui due mesi fa, alloggiò, mangiò e suonò sempre col mio aiuto… quando me ne fece richiesta.

Tarelli. Janson è stato qui?

Cuppi. Ma sí! Non lo sapeva?

Tarelli. E che successo ebbe? (Piccola pausa.)

Cuppi. Perché celarlo? Enorme! Molto grande! Per otto giorni la città non si occupò che di lui; il teatro era pieno, zeppo e vi erano rappresentate tutte le classi sociali; o quasi tutte. Janson era un ospite ricercato dalle principali famiglie della città. I poeti gl'indirizzavano versi e i giornalisti articoli… di fondo. Nella provincia vennero organizzate delle gite per venire a udirlo. Partendo egli mi disse che s'era preso ad amare la nostra città in modo che avrebbe voluto essere nostro concittadino naturalmente se non fosse stato svedese.

Maria. In allora povera me, nevvero?

Cuppi. Oh! no! al contrario! Onorando Janson la città dimostrò quanto essa apprezzava il vero merito nei musicisti e lo saprà onorare molto anche in lei signorina.

Tarelli. Valzini è molto riputato in città?

Cuppi. Moltissimo. È anche scrittore politico ma specialmente critico musicale. Si racconta che gli autori principali come Verdi e Wagnèr (all'italiana), quel tedesco, leggano sempre le sue critiche. È gentile e basterà una mia parola, sí, un mio discorso per farlo venire qui.

Tarelli. Scusi in confidenza. (A mezza voce e con gesto espressivo.) Bisogna ungere?

Cuppi. Ah! no! Da noi non troverà di questa stampa. Una buona parola sta bene e influisce sul critico suo malgrado. Ne viene meglio disposto, piú facile all'entusiasmo e piú difficile ad arrabbiarsi, cioè a dirne male sul foglio. Ma denaro? Valzini è ricco ossia ha tutto il poco denaro di cui abbisogna.

Tarelli. Ho chiesto per la buona regola. Naturalmente che se è ricco e stimato da Wagnèr (imita Cuppi) non si lascerà pagare.

Cuppi. In mezz'ora o poco piú ritorno con Valzini.

Tarelli. La prego di dirgli che io e mia nipote verremo da lui domani s'egli non può venire da noi oggi.

Cuppi. Sta bene! Mi piace! Valzini sarà di certo lusingatissimo dell'ambasciata. Con permesso. (Via poi ritorna.) Scusino; mangiano qui?

Alberto. Quale domanda!

Cuppi. Dovevo chiederlo per la buona regola. Lasciarli correre, camminare soli per la città sarebbe stato un delitto.

Giorgio. Signorina! interverrò anch'io se me lo permette alle prove di domani quantunque non sia molto musicale. Anzi, e con me parecchi scrittori moderni, siamo in genere contrari alla musica. La cosa tuttavia m'interessa…

Maria (impaziente). Sí, sí, insomma, se vuole, venga.

Giorgio (dopo un istante di esitazione). Va bene! Accetto l'invito quantunque fatto in forma alquanto brusca. A rivederci. (Via.)

Giulia. Perché lo tratti cosí? Lui ti parla con una deferenza che tu neppure puoi apprezzare perché non sai come tratta con gli altri.

Maria (abbracciandola con grande effusione). Oh! se sapessi quanto piú felice mi rende di vedermi trattata bene da te. Tu sei una parte della mia giovinezza e il tuo volto che non esprime altro che bontà mi rammenta soltanto cose aggradevoli. Ma se tu lo desideri io farò dei complimenti anche a tuo fratello quantunque a me le persone antimusicali non piacciano.

Giulia. Sai pure che non bisogna tener conto di tutto quello che dicono i dotti. Parlano molto perché parlano bene ma non pensano mica sempre quello che dicono.

Tarelli. Lasciamo stare qui queste valigie?

Giulia. No, le farò trasportare subito nella stanza destinata a lei o in quella di Maria. Amelia! (Chiama.)

Tarelli. Non si scomodi. Le posso portare io, da solo se vuole indicarmi dove.

Amelia. Comanda, signora?

Giulia. Aiutaci a trasportare quelle valigie. Le mostro io la via. La sua stanza è in fondo a questo corridoio. (Via.)

Tarelli. Mi dispiace di disturbarla… (Via con Amelia.)



SCENA QUINTA

Alberto e Maria

Maria vuol seguire gli altri.



Alberto. Scusi, signorina Maria. Una sola parola! Non è Maria ch'ella si chiama? Dolce nome! Avrei voluto conoscerlo ieri.

Maria (ridendo). L'altr'ieri cioè.

Alberto. L'altr'ieri o ieri fa lo stesso. È una bugia ma non dovrebbe costarle troppo fatica. Per distrazione ho raccontato a mia moglie che avevo abbandonato Firenze l'altr'ieri. Non potevo quindi smentirmi.

Maria. Infatti, rammento ch'ella mi aveva detto ch'era stata sua intenzione di lasciare Firenze l'altr'ieri. A sua moglie raccontò quindi l'intenzione.

Alberto. Sí! La prima intenzione perché la seconda, debbo confessarlo, era di rimanere a Firenze finché c'era lei e poi di seguirla per otto o dieci giorni, o magari per un mese.

Maria (divertendosi). Si ricorda dunque anche di questa intenzione? E sua moglie?

Alberto. Che c'entra mia moglie? A mia moglie avrei raccontato ch'ero stato trattenuto dagli affari.

Maria. Povera Giulia! Avrebbe meritato un marito migliore.

Alberto. Perché? Chi le dice ch'io sia un cattivo marito? Ne chieda a Giulia e le dirà che migliore non potrei essere: il modello dei mariti!

Maria (sentitamente). Dunque tanto peggio: tradita e ingannata!

Alberto. No! È lei che s'inganna! Né tradita né ingannata. Adesso io la conosco. So chi è; cioè una grande artista e nello stesso tempo una fanciulla onorata. Ma prima…

Maria (oscurandosi). Prima aveva potuto credere dal mio contegno ch'io non sia una fanciulla onorata?

Alberto. Mi scusi e non si adiri. Mi lasci parlare francamente perché altrimenti sarà difficile intenderci.

Maria (adirata). Non capisco quale bisogno vi sia d'intenderci.

Alberto. Vedrà, grandissimo bisogno o meglio e piú francamente, son io quegli che sente tale bisogno. Via! Non sarà tanto buona da rendermi un lieve servigio quale è quello di starmi ad ascoltare? Glielo chiedo quale suo ospite, quale marito di Giulia.

Maria. Parli dunque. Mi rassegno.

Alberto. Non ha bisogno di rassegnarsi a nulla perché mi farebbe un torto credendo ch'io possa avere l'intenzione di offenderla. Incomincerò anzi dal dichiararle che la rispetto tanto che respingerei con indignazione un'idea che potesse essere meno che rispettosa per lei; non la penserei neppure! È soddisfatta? Posso ora parlare senz'altra preoccupazione che di esprimermi precisamente e chiaramente?

Maria. Parli pure.

Alberto. Ecco! Io non ho altro scopo che di provarle che la sua amica Giulia è piú felice di quanto Lei sembra di credere. Per spiegarle il mio contegno mi basterà dirle che anche quando corro dietro ad altre donne, in quel medesimo istante, quando sono tutto intento a raggiungere il mio scopo e che mi trovo in quello stato di esaltazione in cui Ella per mia disgrazia mi vide, anche allora amo mia moglie appassionatamente e le darei in quel medesimo istante il bacio affettuoso di ogni sera.

Maria. Beata Giulia, dunque!

Alberto. Perché, vede, mia moglie e le altre donne, quelle cui corro dietro io, non sono le stesse donne. Che cosa può importare a Giulia di quei fuochi di paglia accesi da altre, di quei desideri che non somigliano nulla all'affetto che porto a lei?

Maria. Ma che razza di gente ella credeva dunque di aver trovato in me e in mio zio?

Alberto. Glielo spiego subito e vedrà che non pronunzierò una sola parola che possa disturbarla, qualcuna tutt'al piú che la farà ridere. Non feci alcuna supposizione sul suo stato; poteva essere quello di una donna ricca o di una grande artista, ella poteva essere la moglie di un banchiere e di un nobile, per me era indifferente. Le donne sono donne e l'esito della mia avventura non dipendeva da queste circostanze. Quello che a bella prima pensai e che mi diede le massime speranze fu ch'ella fosse la moglie di suo zio. (Maria dà in una risata.) Io vedeva in lei una di quelle brave mogli borghesi col marito troppo vecchio e le quali per prudenza non lo tradiscono che quando sono in viaggio. In viaggio… eravamo.

Maria. Ma come le è venuta l'idea ch'io sia la moglie di mio zio?

Alberto. Prima di tutto perché mi auguravo che cosí fosse. Intendiamoci: Non mica le auguravo d'essere la moglie di suo zio; per egoismo desideravo che cosí fosse. I nostri interessi su questo unico punto collidevano. Poi avevo due altre ragioni per ritenerli marito e moglie ed eccole: Il padre ha di solito un contegno differente di quello che aveva suo zio; è meno attento e meno rispettoso. La figlia ha anch'essa di solito un contegno differente da quello che aveva lei: e cioè piú attenta e piú rispettosa. All'artista non pensai e fu il mio solo sbaglio perché (ridendo) se non fosse stata sua nipote e artista, sarebbe stata sua moglie. Parola d'onore!

Maria. Per un don Giovanni borghese legato dai sacri vincoli del matrimonio non c'è male. Ma mi rimane una curiosità: Tutto il vostro ardore, la vostra esaltazione cadde apprendendo ch'ero nubile? Aveva il timore di contrarre impegni troppo duri?

Alberto. No ma temevo di perdere il mio tempo ciò che anche in istato di esaltazione se posso evito.

Maria (non molto lusingata). Ah! cosí! Assolutamente dunque il suo proposito correndomi dietro era di passare meno peggio qualche giorno e niente piú?

Alberto. Si trattava di vedere prima come avrei passato questi giorni. Se ella si fosse contenuta con me molto ma molto bene… cioè, che dico? Male anzi; sí, con me ella avrebbe dovuto contenersi male, molto, molto male, in allora i miei affari si sarebbero trascinati a lungo. Mi sorprende! Giulia mi disse che la sua ambizione era di venire considerata e trattata come un uomo. Sono certo che in questo riguardo ella di me non avrà da lagnarsi.

Maria. Non mi lagno nemmeno. (Poi.) Ma di un'altra cosa mi lagno. Non capisco ancora quale bisogno ci fosse di raccontarmi tutte queste cose che io non avevo chiesto di conoscere. Mi pare almeno di non averne fatto formale richiesta. Non mica che mi sia dispiaciuto di sentirla parlare; ella parla bene di queste cose e sono molto curiosa di sentirla parlare d'altre, di quelle di cui parla a Giulia. Anzi ne ho ritratto anche un altro piacere. Mi sento ora sicura in casa sua e sono ben certa di non venir piú disturbata da lei.

Alberto (guardandola con un sospiro). Certo, certo. La mia simpatia è delle piú rispettose perché ella merita tutto il rispetto.

Maria. Ad onta di ciò mi resta qualche curiosità di conoscere le ragioni che La indussero ad essere tanto franco con me.

Alberto. È presto detto. (Con qualche imbarazzo.) Le ho detto nevvero che anzitutto mi premeva di provarle che la sua amica Giulia è una donna felice? No? Non ne è ancora convinta? Ella mi ama molto, io l'amo a modo mio, ma anche moltissimo. Vi sono quindi tutti gli elementi per una vera felicità, uguale, tranquilla, di tutti i giorni, di tutte le ore. Ora debbo prevenirla che questa felicità scomparirebbe se Giulia sapesse che oltre ad amarla molto, moltissimo, io l'amo anche a modo mio… cioè…

Maria (ridendo ma con voce un po' stonata). Ma basta! basta! Questo dunque era il nocciolo del frate grigio! Si tratta di non far capire a Giulia che nella noia del viaggio Ella si compiacque di guardare amorevolmente la sua umilissima serva? Ma crede poi ch'io avessi avuto l'intenzione di vantarmene?

Alberto. Che idea! Io credetti soltanto ch'ella a tutta la cosa potesse dare tanto poca importanza da parlarne in un istante di buon umore come di un fatto che non concernesse né lei né Giulia. Ora se, come purtroppo è vero che per Lei, io, le mie parole e le mie azioni son cose indifferenti, per Giulia la cosa è ben diversa. Vedrà! La mia casa è delle piú borghesi. Tutto il suo ordinamento è basato sulla cieca fiducia che portiamo l'uno all'altro. La felicità di Giulia è composta anzitutto da una tranquillità d'animo inalterabile. Mi porta un affetto quasi esclusivo cioè diviso fra me e Piero, nostro figlio. Vuole anche bene a Giorgio suo fratello, il professore ch'Ella già conosce, quel pedante; ma il rimanente di questo mondo per essa non esiste. Le sembra quindi naturale ch'io l'ami come ella ama me, esclusivamente. Il primo dubbio potrebbe distruggere questo castello in aria e la mia e la sua felicità. È perciò che Le chiedo formalmente di essere cauta. Avrei potuto risparmiarmi la fatica di farle questa preghiera e affidarmi alla sua naturale discrezione, al suo buon senso; ma la cosa era troppo importante per lasciarla in balia del caso. Glielo assicuro: Basterebbe una sola parola detta scherzosamente per mettere Giulia in diffidenza (ridendo) e capirà che se giungesse al punto di diffidare, poco le costerebbe di procurarsi la certezza assoluta del mio tradimento.

Maria. Diamine! Con le sue massime, sfido io. Si esporrà continuamente a dei pericoli.

Alberto. Mi creda! Meno spesso di quanto sembri. Prima di tutto so essere cauto e poi non basta mica ogni gonnella per accendermi. Occorrono certe figurine da silfidi e insieme da statue antiche; certi occhi brillanti d'amore cioè d'entusiasmo artistico. La luce ch'emana l'arte e l'amore dovrebbe essere simile.

Maria (ridendo). Adesso ch'è sicuro della mia discrezione pare voglia ricominciare.

Alberto. Oh! no! Voglio essere un buon ospite e rispettoso, un buon amico se mi accorda l'onore di tale titolo.

Maria. Molto compito!

Alberto. Compito è poco. Pare proprio che della mia amicizia non ne voglia sapere.



SCENA SESTA

Cuppi e detti



Cuppi (correndo). Valzini è qui! Verrà subito.

Alberto e

Maria. Chi è questo Valzini?

Cuppi. Il critico, il giornalista.

Maria. Prego, signor Alberto, ne faccia avvisare mio zio.

Alberto. Vado io stesso. (Via.)

Cuppi. Io, sa, son corso innanzi, ho preceduto Valzini per avvisarla di certe particolarità, fatti che lo concernono e che è bene ch'ella conosca. Prima di tutto tenga presente che il nonno di Valzini è stato un grande musicista, sí, abbastanza conosciuto; bisogna, per fargli piacere, dirgli ch'Ella lo conosce di fama, di nome. Anche suo padre ha scritto un'opera ch'è stata data una volta a Milano, una sola volta ma a Milano, capisce. Poi bisognerà che io Le indichi i nomi delle romanze, tutte per soprano, sí, per canto, scritte dal nostro Valzini. Eccole: "L'usignolo nel bosco", "Canto del pastore in Asia"…





CALA LA TELA