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Sesta parte
Indice

Gioganni Verga - Novelle Rusticane
Parte Settima






Gli orfani


La piccina si affacciò all'uscio, attorcigliando fra le dita la cocca del grembiale, e disse:

- Sono qua -.


Poi, come nessuno badava a lei, si mise a guardare peritosa ad una ad una le comari che impastavano il pane, e riprese:

- M'hanno detto «vattene da comare Sidora».


- Vien qua, vien qua, - gridò comare Sidora, rossa come un pomodoro, dal bugigattolo del forno. - Aspetta ché ti farò una bella focaccia.


- Vuol dire che a comare Nunzia stanno per portarle il Viatico, se hanno mandato via la bambina -. Osservò la Licodiana.


Una delle comari che aiutavano ad impastare il pane, volse il capo, seguitando a lavorare di pugni nella madia, colle braccia nude sino al gomito, e domandò alla bimba:

- Come sta la tua madrigna? - La bambina che non conosceva la comare, la guardò coi grandi occhi spalancati, e poscia tornando a chinare il capo, e a lavorar in furia colle cocche del grembiale, biascicò sottovoce:

- È a letto.


- Non sentite che c'è il Signore? - rispose la Licodiana. - Ora le vicine si son messe a strillare sulla porta.


- Quando avrò finito d'infornare il pane, - disse comare Sidora, - corro anche io un momento a vedere se hanno bisogno di niente.


Compare Meno perde il braccio destro, se gli muore quest'altra moglie.


- Certuni non hanno fortuna colle mogli, come quelli che son disgraziati colle bestie. Tante ne pigliano, e tante ne perdono.


Guardate comare Angela!

- Ier sera, - aggiunse la Licodiana, - ho visto compare Meno sull`uscio, che era tornato dalla vigna prima dell'avemaria, e si soffiava il naso col fazzoletto.


- Però, - aggiunse la comare che impastava il pane, - ei ci ha una santa mano ad ammazzare le mogli. In meno di tre anni sono adesso due figlie di curatolo Nino che si è mangiate, l'una dopo l'altra!

Ancora un po' e si mangia anche la terza, e si pappa tutta quanta la roba di curatolo Nino.


- Ma cotesta bambina è figlia di comare Nunzia, oppure della prima moglie?

- È figlia della prima. A quest'altra le voleva bene come fosse sua mamma davvero, perché l'orfanella era anche sua nipote -.


La piccina, udendo che parlavano di lei, si mise a piangere cheta cheta in un cantuccio, per sfogarsi il cuor grosso, che aveva tenuto a bada giocherellando col grembiale.


- Vien qua, vien qua, - riprese comare Sidora. - La focaccia è bell'e pronta. Via, non piangere, ché la mamma è in paradiso -.


La bambina allora si asciugò gli occhi coi pugni chiusi, tanto più che comare Sidora dava mano a scoperchiare il forno.


- Povera comare Nunzia! - venne a dire una vicina affacciandosi sull'uscio. - Adesso ci vanno i beccamorti. Sono passati di qua or ora.


- Lontano sia! ché son figlia di Maria! - esclamarono le comari facendosi la croce.


Comare Sidora levò dal forno la focaccia, la ripulì dalla cenere, e la porse calda calda alla bambina, che la prese nel grembiale, e se ne andava adagio adagio, soffiandovi sopra.


- Dove vai? - Le gridò dietro comare Sidora. - Resta dove sei. A casa c'è il ba-bau colla faccia nera, che si porta via la gente -.


L'orfanella ascoltò seria seria, sgranando gli occhi. Poi riprese colla stessa cantilena cocciuta:

- Vo a portarla alla mamma.


- La mamma non c'è più. Statti qua -. Ripeté una vicina. - Mangiala tu la focaccia -.


Allora la piccina si accoccolò sullo scalino dell'uscio, tutta triste, colla focaccia nelle mani, senza toccarla.


Ad un tratto vedendo arrivare il babbo, si alzò lieta, e gli corse incontro. Compare Meno entrò senza dir nulla, e sedette in un canto colle mani penzoloni fra le ginocchia, la faccia lunga, e le labbra bianche come la carta, ché dal giorno innanzi non ci aveva messo un pezzo di pane in bocca dal crepacuore. Guardava le comari come a dire:
- Poveretto me! - Le donne, al vedergli il fazzoletto nero al collo, gli fecero cerchio intorno, colle mani intrise di farina, compassionandolo in coro.


- Non me ne parlate, comare Sidora! - ripeteva lui, scuotendo il capo e colle spalle grosse. - Questa è spina che non mi si leva più dal cuore! Vera santa era quella donna! che, senza farvi torto, non me la meritavo. Fino ad ieri, che stava tanto male, si era levata di letto per andare a governare il puledro slattato adesso. E non voleva che chiamassi il medico per non spendere e non comprare medicine. Un'altra moglie come quella non la trovo più. Ve lo dico io! Lasciatemi piangere, ché ho ragione! - E seguitava a scrollare il capo, e a gonfiare le spalle, quasi la sua disgrazia gli pesasse assai.


- Quanto a trovarvi un'altra moglie - aggiunse la Licodiana per fargli animo - non ne avete che a cercarla.


- No! no! - badava a ripetere compare Meno colla testa bassa come un mulo. - Un'altra moglie come questa non la trovo più. Stavolta resto vedovo! Ve io dico io! - Comare Sidora gli diede sulla voce:
- Non dite spropositi, ché non sta bene! Un'altra moglie dovete cercarvela, se non altro per rispetto di questa orfanella, altrimenti chi baderà a lei, quando andrete in campagna! volete lasciarla in mezzo alle strade?

- Trovatemela voi un'altra moglie come quella! Che non si lavava per non sporcar l'acqua; e in casa mi serviva meglio di un garzone, affezionata e fedele che non mi avrebbe rubato un pugno di fave dal graticcio, e non apriva mai bocca per dire «datemi!».


Con tutto questo una bella dote, roba che valeva tant'oro! E mi tocca restituirla, perché non ci son figliuoli! Adesso me l'ha detto il sagrestano che veniva coll'acqua benedetta. E come le voleva bene a quella piccina, che le rammentava la sua povera sorella! Un'altra, che non fosse sua zia, me la guarda di malocchio, questa orfanella.


- Se pigliaste la terza figlia di curatolo Nino si aggiusterebbe ogni cosa, per l'orfana e per la dote -. Osservò la Licodiana.


- Questo dico io. Ma non me ne parlate, ché ci ho tuttora la bocca amara come il fiele.


- Non son discorsi da farsi adesso -. Appoggiò comare Sidora. - Mangiate un boccone piuttosto, compare Meno, che siete tutto contraffatto.


- No! no! - andava ripetendo compare Meno. - Non mi parlate di mangiare, che mi sento un nodo alla gola -.


Comare Sidora gli mise dinanzi, su di uno scanno, il pane caldo, colle olive nere, un pezzo di formaggio di pecora, e il fiasco del vino. E il poveraccio cominciò a mangiucchiare adagio adagio, seguitando a borbottare col viso lungo.


- Il pane, - osservò intenerito, - come lo faceva la buon'anima, nessuno lo sa fare. Pareva di semola addirittura! E con una manata di finocchi selvatici vi preparava una minestra da leccarvene le dita. Ora mi toccherà comprare il pane a bottega, da quel ladro di mastro Puddo; e di minestre calde non ne troverò più, ogni volta che torno a casa bagnato come un pulcino. E bisognerà andarmene a letto collo stomaco freddo. Anche l'altra notte, mentre la vegliavo, che avevo zappato tutto il giorno a dissodare sulla costa, e mi sentivo russare io stesso, seduto accanto al letto, tanto ero stanco, la buona anima mi diceva: «Va a mangiarne due cucchiaiate. Ho lasciato apposta la minestra al caldo nel focolare». E pensava sempre a me, alla casa, al da fare che ci era, a questo e a quell'altro, che non finiva più di parlare, e di farmi le ultime raccomandazioni, come uno quando parte per un viaggio lungo, che la sentivo brontolare continuamente tra veglia e sonno. E se ne andava contenta all'altro mondo! col crocifisso sul petto, e le mani giunte di sopra. Non ha bisogno di messe e di rosari, quella santa! I denari pel prete sarebbero buttati via.


- Mondo di guai! - Esclamò la vicina. - Anche a comare Angela, qui vicino, sta per morire l'asino, dalla doglia.


- I guai miei son più grossi! - Finì compare Meno forbendosi la bocca col rovescio della mano. - No, non mi fate mangiare altro, ché i bocconi mi cascano dentro lo stomaco come fossero di piombo.


Mangia tu piuttosto, povera innocente, che non capisci nulla. Ora non avrai più chi ti lavi e chi ti pettini. Ora non avrai più la mamma per tenerti sotto le ali come una chioccia, e sei rovinata come me. Quella te l'avevo trovata; ma un'altra matrigna come questa non l'avrai più, figlia mia! - La bimba, intenerita, sporgeva di nuovo il labbro, e si metteva i pugni sugli occhi.


- No, non potete farne a meno - ripeteva comare Sidora. - Bisogna cercarvi un'altra moglie, per riguardo di questa povera orfanella che resta in mezzo a una strada.


- Ed io, come rimango? e il mio puledro? e la mia casa? e alle galline chi ci baderà? Lasciatemi piangere, comare Sidora! Avrei fatto meglio a morir io stesso, in scambio della buon'anima.


- State zitto, ché non sapete quello che dite! e non sapete cosa vuol dire una casa senza capo.


- Questo è vero! - osservò compare Meno, riconfortato.


- Guardate piuttosto la povera comare Angela! Prima le è morto il marito, poi il figliuolo grande, e adesso le muore anche l'asino!

- L'asino andrebbe salassato dalla cinghiaia, se ha la doglia, - disse compare Meno.


- Veniteci voi, che ve ne intendete - aggiunse la vicina. - Farete un'opera di carità per l'anima di vostra moglie -.


Compare Meno si alzò per andare da comare Angela, e l'orfanella gli correva dietro come un pulcino, adesso che non aveva altri al mondo. Comare Sidora, buona massaia, gli rammentò:

- E la casa? come la lasciate, ora che non ci è più nessuno?

- Ho chiuso a chiave; e poi lì di faccia ci sta la cugina Alfia, per tenerla d'occhio -.


L'asino della vicina Angela era disteso in mezzo al cortile col muso freddo e le orecchie pendenti, annaspando di tanto in tanto colle quattro zampe in aria, allorché la doglia gli contraeva i fianchi come un mantice. La vedova, seduta lì davanti, sui sassi, colle mani fra i capelli grigi, e gli occhi asciutti e disperati, stava a guardare, pallida come una morta.


Compare Meno si diede a girare intorno alla bestia, toccandole le orecchie, guardandola negli occhi spenti, e come vide che il sangue gli colava ancora dalla cinghiaia, nero, a goccia a goccia, aggrumandosi in cima ai peli irsuti, domandò:

- L'hanno anche salassato? - La vedova gli fissò in volto gli occhi foschi, senza parlare, e disse di sì col capo.


- Allora non c'è più che fare, - conchiuse compare Meno; e stette a guardare l'asino che si allungava sui sassi, rigido, col pelo tutto arruffato al pari di un gatto morto.


- È la volontà di Dio, sorella mia! - le disse per confortarla. - Siamo rovinati tutti e due -.


Egli si era messo a sedere sui sassi, accanto alla vedova, colla figliuoletta fra le ginocchia, e rimasero entrambi a guardare la povera bestia che batteva l'aria colle zampe, di tanto in tanto, tale e quale come un moribondo.


Comare Sidora, quand'ebbe finito di sfornare il pane, venne nel cortile anche lei colla cugina Alfia, che si era messa la veste nuova, e il fazzoletto di seta in testa, per far quattro chiacchiere; e disse a compare Meno, tirandolo in disparte:

- Curatolo Nino, non ve la darà più l'altra figliuola, ora che con voi gli muoiono come le mosche, e ci perde la dote. Poi la Santa è troppo giovane, e ci sarebbe il pericolo che vi riempisse la casa di figliuoli.


- Se fossero maschi pazienza! Ma c'è anche a temere che vengano delle femmine. Sono tanto disgraziato!

- Ci sarebbe la cugina Alfia. Quella non è più giovane, ed ha il fatto suo: la casa e un pezzo di vigna -.


Compare Meno mise gli occhi sulla cugina Alfia, la quale fingeva di guardare l'asino, colle mani sul ventre, e conchiuse:

- Se è così, se ne potrà parlare. Ma sono tanto disgraziato! - Comare Sidora gli diede sulla voce:

- Pensate a coloro che sono più disgraziati di voi, pensate!

- Non ce ne sono, ve lo dico io! Non la trovo un'altra moglie come quella! Non potrò scordarmela mai più, se torno a maritarmi dieci volte! E neppure questa povera orfanella se la scorderà.


- Calmatevi, ché ve la scorderete. E anche la bambina se la scorderà. Non se l'è scordata la sua madre vera? Guardate invece la vicina Angela, ora che le muore l'asino! e non possiede altro!

Quella sì che dovrà pensarci sempre! - La cugina Alfia vide che era tempo d'accostarsi anche lei, colla faccia lunga, e ricominciò le lodi della morta. Ella l'aveva acconciata colle sue mani nella bara, e le aveva messo sul viso un fazzoletto di tela fine. Di roba bianca, non faceva per dire, ne aveva molta. Allora compare Meno, intenerito, si volse alla vicina Angela, la quale non si muoveva, come fosse di sasso.


- Ora che ci aspettate a fare scuoiare l'asino? Almeno pigliate i denari della pelle -.






Pane nero


Appena chiuse gli occhi compare Nanni, e ci era ancora il prete colla stola, scoppiò subito la guerra tra i figliuoli, a chi toccasse pagare la spesa del mortorio, ché il reverendo lo mandarono via coll'aspersorio sotto l'ascella.


Perché la malattia di compare Nanni era stata lunga, di quelle che vi mangiano la carne addosso, e la roba della casa. Ogni volta che il medico spingeva il foglio di carta sul ginocchio, per scrivere la ricetta, compare Nanni gli guardava le mani con aria pietosa, e biascicava:
- Almeno, vossignoria, scrivetela corta, per carità! - Il medico faceva il suo mestiere. Tutti a questo mondo fanno il loro mestiere. Massaro Nanni nel fare il proprio, aveva acchiappato quelle febbri lì, alla Lamia, terre benedette da Dio, che producevano seminati alti come un uomo. I vicini avevano un bel dirgli:
- Compare Nanni, in quella mezzeria della Lamia voi ci lascierete la pelle! - Quasi fossi un barone - rispondeva lui - che può fare quello che gli pare e piace! - I fratelli, che erano come le dita della stessa mano finché viveva il padre, ora dovevano pensare ciascuno ai casi propri. Santo aveva moglie e figliuoli sulle braccia; Lucia rimaneva senza dote, su di una strada; e Carmenio, se voleva mangiar del pane, bisognava che andasse a buscarselo fuori di casa, e trovarsi un padrone. La mamma poi, vecchia e malaticcia, non si sapeva a chi toccasse mantenerla, di tutti e tre che non avevano niente. L'è che è una bella cosa quando si può piangere i morti, senza pensare ad altro!

I buoi, le pecore, la provvista del granaio, se n'erano andati col padrone. Restava la casa nera, col letto vuoto, e le facce degli orfani scure anche esse. Santo vi trasportò le sue robe, colla 'Rossa', e disse che pigliava con sé la mamma. - Così non pagava più la pigione della casa - dicevano gli altri. Carmenio fece il suo fagotto, e andò pastore da curatolo Vito, che aveva un pezzetto di pascolo al Carmemi; e Lucia, per non stare insieme alla cognata, minacciava che sarebbe andata a servizio piuttosto.


- No! - diceva Santo. - Non si dirà che mia sorella abbia a far la serva agli altri. - Ei vorrebbe che la facessi alla 'Rossa'!

- brontolava Lucia.


La quistione grossa era per questa cognata che si era ficcata nella parentela come un chiodo. - Cosa posso farci, adesso che ce l'ho?

- sospirava Santo stringendosi nelle spalle. - E' bisognava dar retta alla buona anima di mio padre, quand'era tempo! - La buon'anima glielo aveva predicato:
- Lascia star la Nena, che non ha dote, né tetto, né terra -.


Ma la Nena gli era sempre alle costole, al Castelluccio, se zappava, se mieteva, a raccogliergli le spighe, o a levargli colle mani i sassi di sotto ai piedi; e quando si riposava, alla porta del casamento, colle spalle al muro, nell'ora che sui campi moriva il sole, e taceva ogni cosa:

- Compare Santo, se Dio vuole, quest'anno non le avrete perse le vostre fatiche!

- Compare Santo, se il raccolto vi va bene, dovete prendere la chiusa grande, quella del piano; che ci son state le pecore, e riposa da due anni.


- Compare Santo, quest'inverno, se avrò tempo, voglio farvi un par di calzeroni che vi terranno caldo -.


Santo aveva conosciuta la Nena quando lavorava al Castelluccio, una ragazza dai capelli rossi, che era figlia del camparo, e nessuno la voleva. Essa, poveretta, per questo motivo faceva festa a ogni cane che passasse, e si levava il pan di bocca per ragalare a compare Santo la berretta di seta nera, ogni anno a santa Agrippina, e per fargli trovare un fiasco di vino, o un pezzo di formaggio, allorché arrivava al Castelluccio. - Pigliate questo, per amor mio, compare Santo. È di quel che beve il padrone -.


Oppure:
- Ho pensato che l'altra settimana vi mancava il companatico -.


Egli non sapeva dir di no, e intascava ogni cosa. Tutt'al più per gentilezza rispondeva:
- Così non va bene, comare Nena, levarvelo di bocca voi, per darlo a me.


- Io son più contenta se l'avete voi -.


Poi, ogni sabato sera, come Santo andava a casa, la buon'anima tornava a ripetere al figliuolo:
- Lascia star la Nena, che non ha questo; lascia star la Nena, che non ha quest'altro.


- Io lo so che non ho nulla - diceva la Nena, seduta sul muricciuolo verso il sole che tramontava. - Io non ho né terra, né case; e quel po' di roba bianca ho dovuto levarmela di bocca col pane che mi mangio. Mio padre è un povero camparo, che vive alle spalle del padrone; e nessuno vorrà togliersi addosso il peso della moglie senza dote -.


Ella aveva però la nuca bianca, come l'hanno le rosse; e mentre teneva il capo chino, con tutti quei pensieri dentro, il sole le indorava dietro alle orecchie i capelli color d'oro, e le guance che ci avevano la peluria fine come le pesche; e Santo le guardava gli occhi celesti come il fiore del lino, e il petto che gli riempiva il busto, e faceva l'onda al par del seminato. - Non vi angustiate, comare Nena - gli diceva. - Mariti non ve ne mancheranno -.


Ella scrollava il capo per dir di no; e gli orecchini rossi che sembravano di corallo, gli accarezzavano le guance. - No, no, compare Santo. Lo so che non son bella, e che non mi vuol nessuno.


- Guardate! - disse lui a un tratto, ché gli veniva quell'idea. - Guardate come sono i pareri!... E' dicono che i capelli rossi sieno brutti, e invece ora che li avete voi non mi fanno specie -.


La buon'anima di suo padre, quando aveva visto Santo incapricciato della Nena che voleva sposarla, gli aveva detto una domenica:

- Tu la vuoi per forza, la 'Rossa'? Di', la vuoi per forza? - Santo, colle spalle al muro e le mani dietro la schiena, non osava levare il capo; ma accennava di sì, di sì, che senza la 'Rossa' non sapeva come fare, e la volontà di Dio era quella.


- Ci hai a pensar tu, se ti senti di campare la moglie. Già sai che non posso darti nulla. Una cosa sola abbiamo a dirti, io e tua madre qui presente: pensaci prima di maritarti, che il pane è scarso, e i figliuoli vengono presto -.


La mamma, accoccolata sulla scranna, lo tirava pel giubbone, e gli diceva sottovoce colla faccia lunga:
- Cerca d'innamorarti della vedova di massaro Mariano, che è ricca, e non avrà molte pretese, perché è accidentata.


- Sì! - brontolava Santo. - Sì, che la vedova di massaro Mariano si contenterà di un pezzente come me!... - Compare Nanni confermò anche lui che la vedova di massaro Mariano cercava un marito ricco al par di lei, tuttoché fosse sciancata. E poi ci sarebbe stato l'altro guaio, di vedersi nascere i nipoti zoppi.


- Tu ci hai a pensare - ripeteva al suo ragazzo. - Pensa che il pane è scarso, e che i figliuoli vengono presto -.


Poi, il giorno di Santa Brigida, verso sera, Santo aveva incontrato a caso la 'Rossa', la quale coglieva asparagi lungo il sentiero, e arrossì al vederlo, quasi non lo sapesse che doveva passare di là nel tornare al paese, mentre lasciava ricadere il lembo della sottana che teneva rimboccata alla cintura per andar carponi in mezzo ai fichidindia. Il giovane la guardava, rosso in viso anche lui, e senza dir nulla. Infine si mise a ciarlare che aveva terminata la settimana, e se ne andava a casa.


- Non avete a dirmi nulla pel paese, comare Nena? Comandate.


- Se andassi a vendere gli asparagi verrei con voi, e si farebbe la strada insieme - disse la 'Rossa'. E come egli, ingrullito, rispondeva di sì col capo, di sì: ella aggiunse, col mento sul petto che faceva l'onda:

- Ma voi non mi vorreste, ché le donne sono impicci.


- Io vi porterei sulle braccia, comare Nena, vi porterei -.


Allora comare Nena si mise a masticare la cocca del fazzoletto rosso che aveva in testa. E compare Santo non sapeva che dire nemmen lui; e la guardava, e si passava le bisacce da una spalla all'altra, quasi non trovasse il verso. La nepitella e il ramerino facevano festa, e la costa del monte, lassù fra i fichidindia, era tutta rossa del tramonto. - Ora andatevene, - gli diceva Nena, - andatevene, che è tardi -. E poi si metteva ad ascoltare le cinciallegre che facevano gazzara. Ma Santo non si muoveva. - Andatevene, ché possono vederci, qui soli -.


Compare Santo, che stava per andarsene infine, tornò all'idea di prima, con un'altra spallata per assestare le bisacce, che egli l'avrebbe portata sulle braccia, l'avrebbe portata, se si faceva la strada insieme. E guardava comare Nena negli occhi che lo fuggivano e cercavano gli asparagi in mezzo ai sassi, e nel viso che era infuocato come se il tramonto vi battesse sopra.


- No, compare Santo, andatevene solo, che io sono una povera ragazza senza dote.


- Lasciamo fare alla Provvidenza, lasciamo fare... - Ella diceva sempre di no, che non era per lui, stavolta col viso scuro ed imbronciato. Allora compare Santo scoraggiato si assettò la bisaccia sulle spalle e si mosse per andarsene a capo chino. La 'Rossa' almeno voleva dargli gli asparagi che aveva colti per lui. Facevano una bella pietanza, se accettava di mangiarli per amor suo. E gli stendeva le due cocche del grembiale colmo. Santo le passò un braccio alla cintola, e la baciò sulla guancia, col cuore che gli squagliava.


In quella arrivò il babbo, e la ragazza scappò via spaventata. Il camparo aveva il fucile ad armacollo, e non sapeva che lo tenesse di far la festa a compare Santo, che gli giuocava quel tradimento.


- No! non ne faccio di queste cose! - rispondeva Santo colle mani in croce. - Vostra figlia voglio sposarla per davvero. Non per la paura del fucile; ma son figlio di un uomo dabbene, e la Provvidenza ci aiuterà perché non facciamo il male -.


Così la domenica appresso si erano fatti gli sponsali, colla sposa vestita da festa, e suo padre il camparo cogli stivali nuovi, che ci si dondolava dentro come un'anitra domestica. Il vino e le fave tostate misero in allegria anche compare Nanni, sebbene avesse già addosso la malaria; e la mamma tirò fuori dalla cassapanca un rotolo di filato che teneva da parte per la dote di Lucia, la quale aveva già diciott'anni, e prima d'andare alla messa ogni domenica, si strigliava per mezz'ora, specchiandosi nell'acqua del catino.


Santo, colla punta delle dieci dita ficcate nelle tasche del giubbone, gongolava, guardando i capelli rossi della sposa, il filato, e tutta l'allegria che ci era per lui quella domenica. Il camparo, col naso rosso, saltellava dentro gli stivaloni, e voleva baciare tutti quanti ad uno ad uno.


- A me no! - diceva Lucia, imbronciata pel filato che le portavano via. - Questa non è acqua per la mia bocca -. Essa restava in un cantuccio, con tanto di muso, quasi sapesse già quel che le toccava quando avrebbe chiuso gli occhi il genitore.


Ora infatti le toccava cuocere il pane e scopar le stanze per la cognata, la quale come Dio faceva giorno andava al podere col marito, tuttoché fosse gravida un'altra volta, ché per riempir la casa di figliuoli era peggio di una gatta. Adesso ci volevano altro che i regalucci di Pasqua e di santa Agrippina, e le belle paroline che si scambiavano con compare Santo quando si vedevano al Castelluccio. Quel mariuolo del camparo aveva fatto il suo interesse a maritare la figliuola senza dote, e doveva pensarci compare Santo a mantenerla. Dacché aveva la Nena vedeva che gli mancava il pane per tutti e due, e dovevano tirarlo fuori dalla terra di Licciardo, col sudore della loro fronte.


Mentre andavano a Licciardo, colle bisacce in ispalla, asciugandosi il sudore colla manica della camicia, avevano sempre nella testa e dinanzi agli occhi il seminato, ché non vedevano altro fra i sassi della viottola. Gli era come il pensiero di un malato che vi sta sempre grave in cuore, quel seminato; prima giallo, ammelmato dal gran piovere; poi, quando ricominciava a pigliar fiato, le erbacce, che Nena ci si era ridotte le due mani una pietà per strapparle ad una ad una, bocconi, con tanto di pancia, tirando la gonnella sui ginocchi, onde non far danno. E non sentiva il peso della gravidanza, né il dolore delle reni, come se ad ogni filo verde che liberava dalle erbacce, facesse un figliuolo. E quando si accoccolava infine sul ciglione, col fiato ai denti, cacciandosi colle due mani i capelli dietro le orecchie, le sembrava di vedere le spighe alte nel giugno, curvandosi ad onda pel venticello l'una sull'altra; e facevano i conti col marito, nel tempo che egli slacciava i calzeroni fradici, e netteva la zappa sull'erba del ciglione. - Tanta era stata la semente; tanto avrebbe dato se la spiga veniva a 12, o a 10, od anche a 7; il gambo non era robusto ma il seminato era fitto.


Bastava che il marzo non fosse troppo asciutto, e che piovesse soltanto quando bisognava. Santa Agrippina benedetta doveva pensarci lei! - Il cielo era netto, e il sole indugiava, color d'oro, sui prati verdi, dal ponente tutto in fuoco, d'onde le lodole calavano cantando sulle zolle, come punti neri. La primavera cominciava a spuntare dappertutto, nelle siepi di fichidindia, nelle macchie della viottola, fra i sassi, sul tetto dei casolari, verde come la speranza; e Santo, camminando pesantemente dietro la sua compagna, curva sotto il sacco dello strame per le bestie, e con tanto di pancia, sentivasi il cuore gonfio di tenerezza per la poveretta, e le andava chiacchierando, colla voce rotta dalla salita, di quel che si avrebbe fatto, se il Signore benediceva i seminati fino all'ultimo. Ora non avevano più a discorrere dei capelli rossi, si erano belli o brutti, e di altre sciocchezze. E quando il maggio traditore venne a rubare tutte le fatiche e le speranze dell'annata, colle sue nebbie, marito e moglie, seduti un'altra volta sul ciglione a guardare il campo che ingialliva a vista d'occhio, come un malato che se ne va all'altro mondo, non dicevano una parola sola, coi gomiti sui ginocchi, e gli occhi impietriti nella faccia pallida.


- Questo è il castigo di Dio! - borbottava Santo. - La buon'anima di mio padre me l'aveva detto! - E nella casuccia del povero penetrava il malumore della stradicciuola nera e fangosa. Marito e moglie si voltavano le spalle ingrugnati, litigavano ogni volta che la 'Rossa' domandava i danari per la spesa, e se il marito tornava a casa tardi, o se non c'era legna per l'inverno, o se la moglie diventava lenta e pigra per la gravidanza: musi lunghi, parolacce ed anche busse. Santo agguantava la Nena pei capelli rossi, e lei gli piantava le unghie sulla faccia; accorrevano i vicini, e la 'Rossa' strillava che quello scomunicato voleva farla abortire, e non si curava di mandare un'anima al limbo. Poi, quando Nena partorì, fecero la pace, e compare Santo andava portando sulle braccia la bambina, come se avesse fatto una principessa, e correva a mostrarla ai parenti e agli amici, dalla contentezza. Alla moglie, sinché rimase in letto, le preparava il brodo, le scopava la casa, le mondava il riso, e le si piantava anche ritto dinanzi, acciò non le mancasse nulla. Poi si affacciava sulla porta colla bimba in collo, come una balia; e chi gli domandava, nel passare, rispondeva:
- Femmina! compare mio. La disgrazia mi perseguita sin qui, e mi è nata una femmina. Mia moglie non sa far altro -.


La 'Rossa' quando si pigliava le busse dal marito, sfogavasi colla cognata, che non faceva nulla per aiutare in casa; e Lucia rimbeccava che senza aver marito gli erano toccati i guai dei figliuoli altrui. La suocera, poveretta, cercava di metter pace in quei litigi, e ripeteva:

- La colpa è mia che non son più buona a nulla. Io vi mangio il pane a tradimento -.


Ella non era più buona che a sentire tutti quei guai, e a covarseli dentro di sé: le angustie di Santo, i piagnistei di sua moglie, il pensiero dell'altro figlio lontano, che le stava fitto in cuore come un chiodo, il malumore di Lucia, la quale non aveva uno straccio di vestito per la festa, e non vedeva passare un cane sotto la sua finestra. La domenica, se la chiamavano nel crocchio delle comari che chiacchieravano all'ombra, rispondeva, alzando le spalle:

- Cosa volete che ci venga a fare! Per far vedere il vestito di seta che non ho? - Nel crocchio delle vicine ci veniva pure qualche volte Pino il Tomo, quello delle rane, che non apriva bocca e stava ad ascoltare colle spalle al muro e le mani in tasca, sputacchiando di qua e di là. Nessuno sapeva cosa ci stesse a fare; ma quando si affacciava all'uscio comare Lucia, Pino la guardava di soppiatto, fingendo di voltarsi per sputacchiare. La sera poi, come gli usci erano tutti chiusi, si arrischiava sino a cantarle le canzonette dietro la porta, facendosi il basso da sé - huum! huum! huum! - Alle volte i giovinastri che tornavano a casa tardi, lo conoscevano alla voce, e gli rifacevano il verso della rana, per canzonarlo.


Lucia intanto fingeva di darsi da fare per la casa, colla testa bassa e lontana dal lume, onde non la vedessero in faccia. Ma se la cognata brontolava:
- Ora comincia la musica! - si voltava come una vipera a rimbeccare:

- Anche la musica vi dà noia? Già in questa galera non ce ne deve essere né per gli occhi né per le orecchie! - La mamma che vedeva tutto, e ascoltava anche essa, guardando la figliuola, diceva che a lei invece quella musica gli metteva allegria dentro. Lucia fingeva di non saper nulla. Però ogni giorno nell'ora in cui passava quello delle rane, non mancava mai di affacciarsi all'uscio, col fuso in mano. Il Tomo appena tornava dal fiume, gira e rigira pel paese, era sempre in volta per quelle parti, colla sua cesta di rane in mano, strillando: - Pesci- cantanti! pesci-cantanti! - come se i poveretti di quelle straducce potessero comperare dei pesci-cantanti!

- E' devono essere buoni pei malati! - diceva la Lucia che si struggeva di mettersi a contrattare col Tomo. Ma la mamma non voleva che spendessero per lei.


Il Tomo, vedendo che Lucia lo guardava di soppiatto, col mento sul seno, rallentava il passo dinanzi all'uscio, e la domenica si faceva animo ad accostarsi un poco più, sino a mettersi a sedere sullo scalino del ballatoio accanto, colle mani penzoloni fra le cosce; e raccontava nel crocchio come si facesse a pescare le rane, che ci voleva una malizia del diavolo. Egli era malizioso peggio di un asino rosso, Pino il Tomo, e aspettava che le comari se ne andassero per dire alla gnà Lucia:
- E' ci vuol la pioggia pei seminati! - oppure:
- Le olive saranno scarse quest'anno.


- A voi cosa ve ne importa? che campate sulle rane - gli diceva Lucia.


- Sentite, sorella mia; siamo tutti come le dita della mano; e come gli embrici, che uno dà acqua all'altro. Se non si raccoglie né grano, né olio, non entrano denari in paese, e nessuno mi compra le mie rane. Vi capacita? - Alla ragazza quel «sorella mia» le scendeva al cuore dolce come il miele, e ci ripensava tutta la sera, mentre filava zitta accanto al lume; e ci mulinava, ci mulinava sopra, come il fuso che frullava.


La mamma, sembrava che glielo leggesse nel fuso, e come da un par di settimane non si udivano più ariette alla sera, né si vedeva passare quello che vendeva le rane, diceva colla nuora:
- Com'è tristo l'inverno! Ora non si sente più un'anima pel vicinato -.


Adesso bisognava tener l'uscio chiuso, pel freddo, e dallo sportello non si vedeva altro che la finestra di rimpetto, nera dalla pioggia, o qualche vicino che tornava a casa, sotto il cappotto fradicio. Ma Pino il Tomo non si faceva più vivo, che se un povero malato aveva bisogno di un po' di brodo di rane, diceva la Lucia, non sapeva come fare.


- Sarà andato a buscarsi il pane in qualche altro modo - rispondeva la cognata. - Quello è un mestiere povero, di chi non sa far altro -.


Santo, che un sabato sera aveva inteso la chiacchiera, per amor della sorella, le faceva il predicozzo:

- A me non mi piace questa storia del Tomo. Bel partito che sarebbe per mia sorella! Uno che campa delle rane, e sta colle gambe in molle tutto il giorno! Tu devi cercarti un campagnuolo, ché se non ha roba, almeno è fatto della stessa pasta tua -.


Lucia stava zitta, a capo basso e colle ciglia aggrottate, e alle volte si mordeva le labbra per non spiattellare:
- Dove lo trovo il campagnuolo? - Come se stesse a lei a trovare! Quello solo che aveva trovato, ora non si faceva più vivo, forse perché la 'Rossa' gli aveva fatto qualche partaccia, invidiosa e pettegola com'era. Già Santo parlava sempre per dettato di sua moglie, la quale andava dicendo che quello delle rane era un fannullone, e certo era arrivata all'orecchio di compare Pino.


Perciò ad ogni momento scoppiava la guerra tra le due cognate:

- Qui la padrona, non son io! - brontolava Lucia. - In questa casa padrona è quella che ha saputo abbindolare mio fratello, e chiapparlo per marito.


- Se sapevo quel che veniva dopo, non l'abbindolavo, no, vostro fratello; ché se prima avevo bisogno di un pane, adesso ce ne vogliono cinque.


- A voi che ve ne importa se quello delle rane ha un mestiere o no? Quando fosse mio marito, ci avrebbe a pensar lui a mantenermi -.


La mamma, poveretta, si metteva di mezzo, colle buone; ma era donna di poche parole, e non sapeva far altro che correre dall'una all'altra, colle mani nei capelli, balbettando:
- Per carità! per carità! - Ma le donne non le davano retta nemmeno, piantandosi le unghie sulla faccia, dopo che la 'Rossa' si lasciò scappare una parolaccia «Arrabbiata!» - Arrabbiata tu! che m'hai rubato il fratello! - Allora sopravveniva Santo, e le picchiava tutte e due per metter pace, e la 'Rossa', piangendo, brontolava:

- Io dicevo per suo bene! ché quando una si marita senza roba, poi i guai vengono presto -.


E alla sorella che strillava e si strappava i capelli, Santo per rabbonirla tornava a dire:

- Cosa vuoi che ci faccia, ora che è mia moglie? Ma ti vuol bene e parla pel tuo meglio. Lo vedi che bel guadagno ci abbiamo fatto noi due a maritarci? - Lucia si lagnava colla mamma.


- Io voglio farci il guadagno che ci han fatto loro! Piuttosto voglio andare a servire! Qui se si fa vedere un cristiano, ve lo scacciano via -. E pensava a quello delle rane che non si lasciava più vedere.


Dopo si venne a conoscere che era andato a stare colla vedova di massaro Mariano; anzi volevano maritarsi: perché è vero che non aveva un mestiere, ma era un pezzo di giovanotto fatto senza risparmio, e bello come San Vito in carne e in ossa addirittura; e la sciancata aveva roba da pigliarsi il marito che gli pareva e piaceva.


- Guardate qua, compare Pino - gli diceva:
- questa è tutta roba bianca, questi son tutti orecchini e collane d'oro; in questa giara ci son 12 cafisi d'olio; e quel graticcio è pieno di fave.


Se voi siete contento, potete vivere colle mani sulla pancia, e non avrete più bisogno di stare a mezza gamba nel pantano per acchiappar le rane.


- Per me sarei contento - diceva il Tomo. Ma pensava agli occhi neri di Lucia, che lo cercavano di sotto all'impannata della finestra, e ai fianchi della sciancata, che si dimenavano come quelli delle rane, mentre andava di qua e di là per la casa, a fargli vedere tutta quella roba. Però una volta che non aveva potuto buscarsi un grano da tre giorni, e gli era toccato stare in casa della vedova, a mangiare e bere, e a veder piovere dall'uscio, si persuase a dir di sì, per amor del pane.


- È stato per amor del pane, vi giuro! - diceva egli colle mani in croce, quando tornò a cercare comare Lucia dinanzi all'uscio. - Se non fosse stato per la malannata non sposavo la sciancata, comare Lucia!

- Andate a contarglielo alla sciancata! gli rispondeva la ragazza, verde dalla bile. - Questo solo voglio dirvi: che qui non ci avete a metter più piede -.


E la sciancata gli diceva anche lei che non ci mettesse più piede, se no lo scacciava di casa sua, nudo e affamato come l'aveva preso. - Non sai che, prima a Dio, mi hai obbligo del pane che ti mangi?

A suo marito non gli mancava nulla: lui ben vestito, ben pasciuto, colle scarpe ai piedi, senza aver altro da fare che bighellonare in piazza tutto il giorno, dall'ortolano, dal beccaio, dal pescatore, colle mani dietro la schiena, e il ventre pieno, a vedere contrattare la roba. - Quello è il suo mestiere, di fare il vagabondo! - diceva la 'Rossa'. E Lucia rimbeccava che non faceva nulla perché aveva la moglie ricca che lo campava. - Se sposava me avrebbe lavorato per campar la moglie -. Santo, colla testa sulle mani, rifletteva che sua madre glielo aveva consigliato, di pigliarsela lui la sciancata, e la colpa era sua di essersi lasciato sfuggire il pan di bocca.


- Quando siamo giovani - predicava alla sorella - ci abbiamo in capo gli stessi grilli che hai tu adesso, e cerchiamo soltanto quel che ci piace, senza pensare al poi. Domandalo ora alla 'Rossa' se si dovesse tornare a fare quel che abbiamo fatto!... - La 'Rossa', accoccolata sulla soglia, approvava col capo, mentre i suoi marmocchi le strillavano intorno, tirandola per le vesti e pei capelli. - Almeno il Signore Iddio non dovrebbe mandarci la croce dei figliuoli! - piagnucolava.


Dei figliuoli quelli che poteva se li tirava dietro nel campo, ogni mattina, come una giumenta i suoi puledri; la piccina dentro le bisacce, sulla schiena, e la più grandicella per mano. Ma gli altri tre però era costretta lasciarli a casa, a far disperare la cognata. Quella della bisaccia, e quella che le trotterellava dietro zoppicando, strillavano in concerto per la viottola, al freddo dell'alba bianca, e la mamma di tanto in tanto doveva fermarsi, grattandosi la testa e sospirando:
- Oh, Signore Iddio!

- e scaldava col fiato le manine pavonazze della piccina, o tirava fuori dal sacco la lattante per darle la poppa, seguitando a camminare. Suo marito andava innanzi, curvo sotto il carico, e si voltava appena per darle il tempo di raggiungerlo tutta affannata, tirandosi dietro la bambina per la mano, e col petto nudo - non era per guardare i capelli della 'Rossa', oppure il petto che facesse l'onda dentro il busto, come al Castelluccio. Adesso la 'Rossa' lo buttava fuori al sole e al gelo, come roba la quale non serve ad altro che a dar latte, tale e quale come una giumenta. - Una vera bestia da lavoro - quanto a ciò non poteva lagnarsi suo marito - a zappare, a mietere e a seminare, meglio di un uomo, quando tirava su le gonnelle, colle gambe nere sino a metà, nel seminato.


Ora ella aveva ventisette anni, e tutt'altro da fare che badare alle scarpette e alle calze turchine. - Siamo vecchi, - diceva suo marito, - e bisogna pensare ai figliuoli -. Almeno si aiutavano l'un l'altro come due buoi dello stesso aratro. Questo era adesso il matrimonio.


- Pur troppo lo so anche io! - brontolava Lucia - che ho i guai dei figli, senza aver marito. Quando chiude gli occhi quella vecchierella, se vogliono darmi ancora un pezzo di pane me lo danno. Ma se no, mi mettono in mezzo a una strada -.


La mamma, poveretta, non sapeva che rispondere, e stava a sentirla, seduta accanto al letto, col fazzoletto in testa, e la faccia gialla dalla malattia. Di giorno si affacciava sull'uscio, al sole, e ci stava quieta e zitta sino all'ora in cui il tramonto impallidiva sui tetti nerastri dirimpetto, e le comari chiamavano a raccolta le galline.


Soltanto, quando veniva il dottore a visitarla, e la figliuola le accostava alla faccia la candela, domandava al medico, con un sorriso timido:

- Per carità, vossignoria... È cosa lunga? - Santo, che aveva un cuor d'oro, rispondeva:

- Non me ne importa di spendere in medicine, finché quella povera vecchierella resta qui, e so di trovarla nel suo cantuccio tornando a casa. Poi ha lavorato anche essa la sua parte, quand'era tempo; e allorché saremo vecchi, i nostri figli faranno altrettanto per noi -.


E accadde pure che Carmenio al Camemi aveva acchiappato le febbri.


Se il padrone fosse stato ricco gli avrebbe comprato le medicine; ma curatolo Vito era un povero diavolo che campava su di quel po' di mandra, e il ragazzo lo teneva proprio per carità, ché quelle quattro pecore avrebbe potuto guardarsele lui, se non fosse stata la paura della malaria. Poi voleva fare anche l'opera buona di dar pane all'orfanello di compare Nanni, per ingraziarsi la Provvidenza che doveva aiutarlo, doveva, se c'era giustizia in cielo. Che poteva farci se possedeva soltanto quel pezzetto di pascolo al Camemi, dove la malaria quagliava come la neve, e Carmenio aveva presa la terzana? Un dì che il ragazzo si sentiva le ossa rotte dalla febbre, e si lasciò vincere dal sonno a ridosso di un pietrone che stampava l'ombra nera sulla viottola polverosa, mentre i mosconi ronzavano nell'afa di maggio, le pecore irruppero nei seminati del vicino - un povero maggese grande quanto un fazzoletto da naso, che l'arsura si era mezzo mangiato. Nonostante zio Cheli, rincantucciato sotto un tettuccio di frasche, lo guardava come la pupilla degli occhi suoi, quel seminato che gli costava tanti sudori, ed era la speranza dell'annata. Al vedere le pecore che scorazzavano. - Ah! che non ne mangiano pane, quei cristiani? - E Carmenio si svegliò alle busse ed ai calci dello zio Cheli, il quale si mise a correre come un pazzo dietro le pecore sbandate, piangendo ed urlando. Ci volevano proprio quelle legnate per Carmenio, colle ossa che gli aveva già rotte la terzana! Ma gli pagava forse il danno al vicino cogli strilli e cogli ahimè? - Un'annata persa, ed i miei figli senza pane quest'inverno! Ecco il danno che hai fatto, assassino!

Se ti levassi la pelle non basterebbe! - Zio Cheli si cercò i testimoni per citarli dinanzi al giudice colle pecore di curatolo Vito. Questi, al giungergli della citazione, fu come un colpo d'accidente per lui e sua moglie. - Ah! quel birbante di Carmenio ci ha rovinati del tutto! Andate a far del bene, che ve lo rendono in tal maniera! Potevo forse stare nella malaria a guardare le pecore? Ora lo zio Cheli finisce di farci impoverire a spese! - Il poveretto corse al Camemi nell'ora di mezzogiorno, che non ci vedeva dagli occhi dalla disperazione, per tutte le disgrazie che gli piovevano addosso, e ad ogni pedata e ad ogni sorgozzone che assestava a Carmenio, balbettava ansante:

- Tu ci hai ridotti sulla paglia! Tu ci hai rovinato, brigante! - Non vedete come son ridotto? - cercava di rispondere Carmenio parando le busse. - Che colpa ci ho se non potevo stare in piedi dalla febbre? Mi colse a tradimento, là, sotto il pietrone! - Ma tant'è dovette far fagotto su due piedi, dir addio al credito di due onze che ci aveva con curatolo Vito, e lasciar la mandra. Che curatolo Vito si contentava di pigliar lui le febbri un'altra volta, tante erano le sue disgrazie.


A casa Carmenio non disse niente, tornando nudo e crudo, col fagotto in spalla infilato al bastone. Solo La mamma si rammaricava di vederlo così pallido e sparuto, e non sapeva che pensare. Lo seppe più tardi da don Venerando, che stava di casa lì vicino, e aveva pure della terra al Camemi, al limite del maggese dello zio Cheli.


- Non dire il motivo per cui lo zio Vito ti ha mandato via! - suggeriva la mamma al ragazzo - se no, nessuno ti piglia per garzone -. E Santo aggiungeva pure:

- Non dir nulla che hai la terzana, se no nessuno ti vuole, sapendo che sei malato -.


Però don Venerando lo prese per la sua mandra di Santa Margherita, dove il curatolo lo rubava a man salva; e gli faceva più danno delle pecore nel seminato. - Ti darò io le medicine; così non avrai il pretesto di metterti a dormire, e di lasciarmi scorazzare le pecore dove vogliono -. Don Venerando aveva preso a benvolere tutta la famiglia per amor della Lucia, che la vedeva dal terrazzino quando pigliava il fresco al dopopranzo. - Se volete darmi anche la ragazza gli dò sei tarì al mese -. E diceva pure che Carmenio avrebbe potuto andarsene colla madre a Santa Margherita, perché la vecchia perdeva terreno di giorno in giorno, e almeno alla mandra non le sarebbero mancate le ova, il latte e il brodo di carne di pecora, quando ne moriva qualcuna. La 'Rossa' si spogliò del meglio e del buono per metterle insieme un fagottino di roba bianca. Ora veniva il tempo della semina, loro non potevano andare e venire tutti i giorni da Licciardo, e la scarsezza d'ogni cosa arrivava coll'inverno. Lucia stavolta diceva davvero che voleva andarsene a servire in casa di don Venerando.


Misero la vecchierella sul somaro, Santo da un lato e Carmenio dall'altro, colla roba in groppa; e la mamma, mentre si lasciava fare, diceva alla figliuola, guardandola cogli occhi grevi sulla faccia scialba:

- Chissà se ci vedremo? chissà se ci vedremo? Hanno detto che tornerò in aprile. Tu statti col timor di Dio, in casa del padrone. Là almeno non ti mancherà nulla -.


Lucia singhiozzava nel grembiale; ed anche la 'Rossa', poveretta. In quel momento avevano fatto la pace, e si tenevano abbracciate, piangendo insieme. - La 'Rossa' ha il cuore buono - diceva suo marito. - Il guaio è che non siamo ricchi, per volerci sempre bene. Le galline quando non hanno nulla da beccare nella stia, si beccano fra di loro -.


Lucia adesso era ben accollata, in casa di don Venerando, e diceva che voleva lasciarla soltanto dopo che era morta, come si suole, per dimostrare la gratitudine al padrone. Aveva pane e minestra quanta ne voleva, un bicchiere di vino al giorno, e il suo piatto di carne la domenica e le feste. Intanto la mesata le restava in tasca tale e quale, e la sera aveva tempo anche di filarsi la roba bianca della dote per suo conto. Il partito ce l'aveva già sotto gli occhi nella stessa casa: Brasi, lo sguattero che faceva la cucina, e aiutava anche nelle cose di campagna quando bisognava.


Il padrone si era arricchito allo stesso modo, stando al servizio del barone, ed ora aveva il don, e poderi e bestiami a bizzeffe. A Lucia, perché veniva da una famiglia benestante caduta in bassa fortuna, e si sapeva che era onesta, le avevano assegnate le faccende meno dure, lavare i piatti, scendere in cantina, e governare il pollaio; con un sottoscala per dormirvi che pareva uno stanzino, e il letto, il cassettone e ogni cosa; talché Lucia voleva lasciarli soltanto dopo che era morta. In quel mentre faceva l'occhietto a Brasi, e gli confidava che fra due o tre anni ci avrebbe avuto un gruzzoletto, e poteva «andare al mondo», se il Signore la chiamava.


Brasi da quell'orecchio non ci sentiva. Ma gli piaceva la Lucia, coi suoi occhi di carbone, e la grazia di Dio che ci aveva addosso. A lei pure le piaceva Brasi, piccolo, ricciuto, col muso fino e malizioso di can volpino. Mentre lavavano i piatti o mettevano legna sotto il calderotto, egli inventava ogni monelleria per farla ridere, come se le facesse il solletico. Le spruzzava l'acqua sulla nuca e le ficcava delle foglie d'indivia fra le trecce. Lucia strillava sottovoce, perché non udissero i padroni; si rincantucciava nell'angolo del forno, rossa in viso al pari della bragia, e gli gettava in faccia gli strofinacci ed i sarmenti, mentre l'acqua gli sgocciolava nella schiena come una delizia.


- E colla carne si fa le polpette - fate la vostra, ché la mia l'ho fatta.


- Io no! - rispondeva Lucia. - A me non mi piacciono questi scherzi -.


Brasi fingeva di restare mortificato. Raccattava la foglia d'indivia che gli aveva buttato in faccia, e se la ficcava in petto, dentro la camicia, brontolando:

- Questa è roba mia. Io non vi tocco. È roba mia e ha da star qui.


Se volete mettervi della roba mia allo stesso posto, a voi! - E faceva atto di strapparsi una manciata di capelli per offrirglieli, cacciando fuori tanto di lingua.


Ella lo picchiava con certi pugni sodi da contadina che lo facevano aggobbire, e gli davano dei cattivi sogni la notte, diceva lui. Lo pigliava pei capelli, come un cagnuolo, e sentiva un certo piacere a ficcare le dita in quella lana morbida e ricciuta.


- Sfogatevi! sfogatevi! Io non sono permaloso come voi, e mi lascierei pestare come la salsiccia dalle vostre mani -.


Una volta don Venerando li sorprese in quei giuochetti e fece una casa del diavolo. Tresche non ne voleva in casa sua; se no li scacciava fuori a pedate tutt'e due. Piuttosto quando trovava la ragazza sola in cucina, le pigliava il ganascino, e voleva accarezzarla con due dita.


- No! no! - replicava Lucia. - A me questi scherzi non mi piacciono. Se no piglio la mia roba e me ne vado.


- Di lui ti piacciono, di lui! E di me che sono il padrone, no?

Cosa vuol dire questa storia? Non sai che posso regalarti degli anelli e dei pendenti di oro, e farti la dote, se ne ho voglia? - Davvero poteva fargliela, confermava Brasi, che il padrone aveva danari quanti ne voleva, e sua moglie portava il manto di seta come una signora, adesso che era magra e vecchia peggio di una mummia; per questo suo marito scendeva in cucina a dir le barzellette colle ragazze. Poi ci veniva per guardarsi i suoi interessi, quanta legna ardeva e quanta carne mettevano al fuoco.


Era ricco, sì, ma sapeva quel che ci vuole a far la roba, e litigava tutto il giorno con sua moglie, la quale aveva dei fumi in testa, ora che faceva la signora, e si lagnava del fumo dei sarmenti e del cattivo odore delle cipolle.


- La dote voglio farmela io colle mie mani - rimbeccava Lucia. - La figlia di mia madre vuol restare una ragazza onorata, se un cristiano la cerca in moglie.


- E tu restaci! - rispondeva il padrone. - Vedrai che bella dote!

e quanti verranno a cercartela la tua onestà! - Se i maccheroni erano troppo cotti, se Lucia portava in tavola due ova al tegame che sentivano l'arsiccio, don Venerando la strapazzava per bene, al cospetto della moglie, tutto un altro uomo, col ventre avanti e la voce alta. - Che credevano di far l'intruglio pel maiale? Con due persone di servizio che se lo mangiavano vivo! Un'altra volta le buttava la grazia di Dio sulla faccia! - La signora, benedetta, non voleva quegli schiamazzi, per via dei vicini, e rimandava la serva strillando in falsetto:

- Vattene in cucina; levati di qua, sciamannona! paneperso! - Lucia andava a piangere nel cantuccio del forno, ma Brasi la consolava, con quella sua faccia da mariuolo:

- Cosa ve ne importa? Lasciateli cantare! Se si desse retta ai padroni, poveri noi! Le ova sentivano l'arsiccio? Peggio per loro!

Non potevo spaccar legna nel cortile, e rivoltar le ova nel tempo istesso. Mi fanno far da cuoco e da garzone, e vogliono essere serviti come il re! Che non si rammentavano più quando lui mangiava pane e cipolla sotto un olivo, e lei gli coglieva le spighe nel campo? -.


Allora serva e cuoco si confidavano la loro «mala sorte» che nascevano di «gente rispettata» e i loro parenti erano stati più ricchi del padrone, già da tempo. Il padre di Brasi era carradore, nientemeno! e la colpa era del figliuolo che non aveva voluto attendere al mestiere, e si era incapricciato a vagabondare per le fiere, dietro il carretto del merciaiuolo: con lui aveva imparato a cucinare e a governar le bestie.


Lucia ricominciava la litania dei suoi guai:
- il babbo, il bestiame, la 'Rossa', le malannate:
- tutt'e due gli stessi, lei e Brasi, in quella cucina; parevano fatti l'uno per l'altra.


- La storia di vostro fratello colla 'Rossa'? - rispodeva Brasi. - Grazie tante! - Però non voleva darle quell'affronto lì sul mostaccio. Non gliene importava nulla che ella fosse una contadina. Non ricusava per superbia. Erano poveri tutti e due e sarebbe stato meglio buttarsi nella cisterna con un sasso al collo.


Lucia mandò giù tutto quell'amaro senza dir motto, e se voleva piangere andava a nascondersi nel sottoscala, o nel cantuccio del forno, quando non c'era Brasi.


Ormai a quel cristiano gli voleva bene, collo stare insieme davanti al fuoco tutto il giorno. I rabbuffi, le sgridate del padrone, li pigliava per sé, e lasciava a lui il miglior piatto, il bicchier di vino più colmo, andava in corte a spaccar la legna per lui, e aveva imparato a rivoltare le ova e a scodellare i maccheroni in punto. Brasi, come la vedeva fare la croce, colla scodella sulle ginocchia, prima d'accingersi a mangiare, le diceva:

- Che non avete visto mai grazia di Dio? - Egli si lamentava sempre e di ogni cosa: che era una galera, e che aveva soltanto tre ore alla sera da andare a spasso o all'osteria; e se Lucia qualche volta arrivava a dirgli, col capo basso, e facendosi rossa:

- Perché ci andate all'osteria? Lasciatela stare l'osteria, che non fa per voi.


- Si vede che siete una contadina! - rispondeva lui. - Voi altri credete che all'osteria ci sia il diavolo. Io son nato da maestri di bottega, mia cara. Non son mica un villano!

- Lo dico per vostro bene. Vi spendete i soldi, e poi c'è sempre il caso d'attaccar lite con qualcheduno -.


Brasi si sentì molle a quelle parole e a quegli occhi che evitavano di guardarlo. E si godeva il solluchero:

- O a voi cosa ve ne importa?

- Nulla me ne importa. Lo dico per voi.


- O voi non vi seccate a star qui in casa tutto il giorno?

- No, ringrazio Iddio del come sto, e vorrei che i miei parenti fossero come me, che non mi manca nulla -.


Ella stava spillando il vino, accoccolata colla mezzina fra le gambe, e Brasi era sceso con lei in cantina a farle lume. Come la cantina era grande e scura al pari di una chiesa, e non si udiva una mosca in quel sotterraneo, soli tutti e due, Brasi e Lucia, egli le mise un braccio al collo e la baciò su quella bocca rossa al pari del corallo.


La poveretta l'aspettava sgomenta, mentre stava china tenendo gli occhi sulla brocca, e tacevano entrambi, e udiva il fiato grosso di lui, e il gorgogliare del vino. Ma pure mise un grido soffocato, cacciandosi indietro tutta tremante, così che un po' di spuma rossa si versò per terra.


- O che è stato? - esclamò Brasi. - Come se v'avessi dato uno schiaffo! Dunque non è vero che mi volete bene?

Ella non osava guardarlo in faccia, e si struggeva dalla voglia.


Badava al vino versato, imbarazzata, balbettando:

- O povera me! o povera me! che ho fatto? Il vino del padrone!...


- Eh! lasciate correre; ché ne ha tanto il padrone. Date retta a me piuttosto. Che non mi volete bene? Ditelo, sì o no! - Ella stavolta si lascia prendere la mano, senza rispondere, e quando Brasi le chiese che gli restituisse il bacio, ella glielo diede, rossa di una cosa che non era vergogna soltanto.


- Che non ne avete avuti mai? - domandava Brasi ridendo. - O bella! siete tutta tremante come se avessi detto di ammazzarvi.


- Sì, vi voglio bene anche io - rispose lei; - e mi struggevo di dirvelo. Se tremo ancora non ci badate. È stata per la paura del vino.


- O guarda! anche voi? E da quando! Perché non me lo avete detto?

- Da quando si è parlato che eravamo fatti l'uno per l'altro.


- Ah! - disse Brasi, grattandosi il capo. - Andiamo di sopra, che può venire il padrone -.


Lucia era tutta contenta dopo quel bacio, e le sembrava che Brasi le avesse suggellato sulla bocca la promessa di sposarla. Ma lui non ne parlava neppure, e se la ragazza gli toccava quel tasto, rispondeva:

- Che premura hai? Poi è inutile mettersi il giogo sul collo, quando possiamo stare insieme come se fossimo maritati.


- No, non è lo stesso. Ora voi state per conto vostro ed io per conto mio; ma quando ci sposeremo, saremo una cosa sola.


- Una bella cosa saremo! Poi non siamo fatti della stessa pasta.


Pazienza, se tu avessi un po' di dote!

- Ah! che cuore nero avete voi! No! Voi non mi avete voluto bene mai!

- Sì, che ve n'ho voluto. E son qui tutto per voi; ma senza parlar di quella cosa.


- No! Non ne mangio di quel pane! lasciatemi stare, e non mi guardate più! - Ora lo sapeva com'erano fatti gli uomini. Tutti bugiardi e traditori. Non voleva sentirne più parlare. Voleva buttarsi nella cisterna piuttosto a capo in giù; voleva farsi 'Figlia di Maria'; voleva prendere il suo buon nome e gettarlo dalla finestra! A che le serviva, senza dote? Voleva rompersi il collo con quel vecchiaccio del padrone, e procurarsi la dote colla sua vergogna. Ormai!... Ormai!... Don Venerando l'era sempre attorno, ora colle buone, ora colle cattive, per guardarsi i suoi interessi, se mettevano troppa legna al fuoco, quanto olio consumavano per la frittura, mandava via Brasi a comprargli un soldo di tabacco, e cercava di pigliare Lucia pel ganascino, correndole dietro per la cucina, in punta di piedi perché sua moglie non udisse, rimproverando la ragazza che gli mancava di rispetto, col farlo correre a quel modo! - No! no! - ella pareva una gatta inferocita. - Piuttosto pigliava la sua roba, e se ne andava via! - E che mangi? E dove lo trovi un marito senza dote?

Guarda questi orecchini! Poi ti regalerei 20 onze per la tua dote.


Brasi per 20 onze si fa cavare tutti e due gli occhi! - Ah! quel cuore nero di Brasi! La lasciava nelle manacce del padrone, che la brancicavano tremanti! La lasciava col pensiero della mamma che poco poteva campare, della casa saccheggiata e piena di guai, di Pino il Tomo che l'aveva piantata per andare a mangiare il pane della vedova! La lasciava colla tentazione degli orecchini e delle 20 onze nella testa!

E un giorno entrò in cucina colla faccia tutta stravolta, e i pendenti d'oro che gli sbattevano sulle guance. Brasi sgranava gli occhi, e le diceva:

- Come siete bella così, comare Lucia!

- Ah! vi piaccio così? Va bene, va bene! - Brasi ora che vedeva gli orecchini e tutto il resto, si sbracciava a mostrarsi servizievole e premuroso quasi ella fosse diventata un'altra padrona. Le lasciava il piatto più colmo, e il posto migliore accanto al fuoco. Con lei si sfogava a cuore aperto, ché erano poverelli tutti e due, e faceva bene all'anima confidare i guai a una persona che si vuol bene. Se appena appena fosse arrivato a possedere 20 onze, egli metteva su una piccola bettola e prendeva moglie. Lui in cucina, e lei al banco. Così non si stava più al comando altrui. Il padrone se voleva far loro del bene, lo poteva fare senza scomodarsi, giacché 20 onze per lui erano come una presa di tabacco. E Brasi non sarebbe stato schizzinoso, no! Una mano lava l'altra a questo mondo. E non era sua colpa se cercava di guadagnarsi il pane come poteva. Povertà non è peccato.


Ma Lucia si faceva rossa, o pallida, o le si gonfiavano gli occhi di pianto, e si nascondeva il volto nel grembiale. Dopo qualche tempo non si lasciò più vedere nemmeno fuori di casa, né a messa, né a confessare, né a Pasqua, né a Natale.


In cucina si cacciava nell'angolo più scuro, col viso basso, infagottata nella veste nuova che le aveva regalato il padrone, larga di cintura.


Brasi la consolava con buone parole. Le metteva un braccio al collo, le palpava la stoffa fine del vestito, e gliela lodava.


Quegli orecchini d'oro parevano fatti per lei. Uno che è ben vestito e ha denari in tasca non ha motivo di vergognarsi e di tenere gli occhi bassi; massime poi quando gli occhi son belli come quelli di comare Lucia. La poveretta si faceva animo a fissarglieli in viso, ancora sbigottita, e balbettava:

- Davvero, mastro Brasi? Mi volete ancora bene?

- Sì, sì, ve ne vorrei! - rispondeva Brasi colla mano sulla coscienza. - Ma che colpa ci ho se non son ricco per sposarvi? Se aveste 20 onze di dote vi sposerei ad occhi chiusi -.


Don Venerando adesso aveva preso a ben volere anche lui, e gli regalava i vestiti smessi e gli stivali rotti. Allorché scendeva in cantina gli dava un bel gotto di vino, dicendogli:

- Tè! bevi alla mia salute -.


E il pancione gli ballava dal tanto ridere, al vedere le smorfie che faceva Brasi, e al sentirlo barbugliare alla Lucia, pallido come un morto:

- Il padrone è un galantuomo, comare Lucia! lasciate ciarlare i vicini, tutta gente invidiosa, che muore di fame, e vorrebbero essere al vostro posto -.


Santo, il fratello, udì la cosa in piazza qualche mese dopo. E corse dalla moglie trafelato. Poveri erano sempre stati, ma onorati. La 'Rossa' allibì anche essa, e corse dalla cognata tutta sottosopra, che non poteva spiccicar parola. Ma quando tornò a casa da suo marito, era tutt'altra, serena e colle rose in volto.


- Se tu vedessi! Un cassone alto così di roba bianca! anelli, pendenti e collane d'oro fine. Poi vi son anche 20 onze di danaro per la dote. Una vera provvidenza di Dio!

- Non monta! - Tornava a dire di tanto in tanto il fratello, il quale non sapeva capacitarsene. - Almeno avesse aspettato che chiudeva gli occhi nostra madre!... - Questo poi accadde l'anno della neve, che crollarono buon numero di tetti, e nel territorio ci fu una gran mortalità di bestiame, Dio liberi!

Alla Lamia e per la montagna di Santa Margherita, come vedevano scendere quella sera smorta, carica di nuvoloni di malaugurio, che i buoi si voltavano indietro sospettosi, e muggivano, la gente si affacciava dinanzi ai casolari, a guardar lontano verso il mare, colla mano sugli occhi, senza dir nulla. La campana del Monastero Vecchio, in cima al paese, suonava per scongiurare la malanotte, e sul poggio del Castello c'era un gran brulichìo di comari, nere sull'orizzonte pallido, a vedere in cielo 'la coda del drago', una striscia color di pece, che puzzava di zolfo, dicevano, e voleva essere una brutta notte. Le donne gli facevano gli scongiuri colle dita, al drago, gli mostravano l'abitino della Madonna sul petto nudo, e gli sputavano in faccia, tirando giù la croce sull'ombelico, e pregavano Dio e le anime del purgatorio, e Santa Lucia, che era la sua vigilia, di proteggere i campi, e le bestie, e i loro uomini anche essi, chi ce li avea fuori del paese.


Carmenio al principio dell'inverno era andato colla mandra a Santa Margherita. La mamma quella sera non istava bene, e si affannava pel lettuccio, cogli occhi spalancati, e non voleva star più quieta come prima, e voleva questo, e voleva quell'altro, e voleva alzarsi, e voleva che la voltassero dall'altra parte. Carmenio un po' era corso di qua e di là, a darle retta, e cercare di fare qualche cosa. Poi si era piantato dinanzi al letto, sbigottito, colle mani nei capelli.


Il casolare era dall'altra parte del torrente, in fondo alla valle, fra due grossi pietroni che gli si arrampicavano sul tetto.


Di faccia, la costa, ritta in piedi, cominciava a scomparire nel buio che saliva dal vallone, brulla e nera di sassi, fra i quali si perdeva la striscia biancastra del viottolo. Al calar del sole erano venuti i vicini della mandra dei fichidindia, a vedere se occorreva nulla per l'inferma, che non si moveva più nel suo lettuccio, colla faccia in aria e la fuliggine al naso.


- Cattivo segno! - aveva detto curatolo Decu. - Se non avessi lassù le pecore, con questo tempo che si prepara, non ti lascierei solo stanotte. Chiamami, se mai! - Carmenio rispondeva di sì, col capo appoggiato allo stipite; ma vedendolo allontanare passo passo, che si perdeva nella notte, aveva una gran voglia di corrergli dietro, di mettersi a gridare, di strapparsi i capelli - non sapeva che cosa.


- Se mai - gli gridò curatolo Decu da lontano - corri fino alla mandra dei fichidindia, lassù, che c'è gente -.


La mandra si vedeva tuttora sulla roccia, verso il cielo, per quel po' di crepuscolo che si raccoglieva in cima ai monti, e straforava le macchie dei fichidindia. Lontan lontano, alla Lamia e verso la pianura, si udiva l'uggiolare dei cani auuuh!...


auuuh!... auuuh!... che arrivava appena sin là, e metteva freddo nelle ossa. Le pecore allora si spingevano a scorazzare in frotta pel chiuso, prese da un terrore pazzo, quasi sentissero il lupo nelle vicinanze, e a quello squillare brusco di campanacci sembrava che le tenebre si accendessero di tanti occhi infuocati, tutto in giro. Poi le pecore si arrestavano immobili, strette fra di loro, col muso a terra, e il cane finiva d'abbaiare in un uggiolato lungo e lamentevole, seduto sulla coda.


- Se sapevo! - pensava Carmenio - era meglio dire a curatolo Decu di non lasciarmi solo -.


Di fuori, nelle tenebre, di tanto in tanto si udivano i campanacci della mandra che trasalivano. Dallo spiraglio si vedeva il quadro dell'uscio nero come la bocca di un forno; null'altro. E la costa dirimpetto, e la valle profonda, e la pianura della Lamia, tutto si sprofondava in quel nero senza fondo, che pareva si vedesse soltanto il rumore del torrente, laggiù, a montare verso il casolare, gonfio e minaccioso.


Se sapeva, anche questa! prima che annottasse correva al paese a chiamare il fratello; e certo a quell'ora sarebbe qui con lui, ed anche Lucia e la cognata.


Allora la mamma cominciò a parlare, ma non si capiva quello che dicesse, e brancolava pel letto colle mani scarne.


- Mamma! mamma! cosa volete? - domandava Carmenio - ditelo a me che son qui con voi! - Ma la mamma non rispondeva. Dimenava il capo anzi, come volesse dir no! no! non voleva. Il ragazzo le mise la candela sotto il naso, e scoppiò a piangere dalla paura.


- O mamma! mamma mia! - piagnucolava Carmenio -. O che sono solo e non posso darvi aiuto! - Aprì l'uscio per chiamare quelli della mandra dei fichidindia. Ma nessuno l'udiva.


Dappertutto era un chiarore denso; sulla costa, nel vallone, laggiù al piano - come un silenzio fatto di bambagia. Ad un tratto arrivò soffocato il suono di una campana che veniva da lontano, 'nton! 'nton! 'nton! e pareva quagliasse nella neve.


- Oh, Madonna santissima! - singhiozzava Carmenio -. Che sarà mai quella campana? O della mandra dei fichidindia, aiuto! O santi cristiani, aiuto! Aiuto, santi cristiani! - si mise a gridare.


Infine lassù, in cima al monte dei fichidindia, si udì una voce lontana, come la campana di Francofonte.


- Ooooh... cosi èeee? cosi èeee?...


- Aiuto, santi cristiani! aiuto, qui da curatolo Decuuu!...


- Ooooh... rincorrile le pecoreee!... rincorrileeee!...


- No! no! non son le pecore... non sono! - In quella passò una civetta, e si mise a stridere sul casolare.


- Ecco! - mormorò Carmenio facendosi la croce. - Ora la civetta ha sentito l'odore dei morti! Ora la mamma sta per morire! - A star solo nel casolare colla mamma, la quale non parlava più, gli veniva voglia di piangere. - Mamma, che avete? Mamma, rispondetemi? Mamma avete freddo? - Ella non fiatava, colla faccia scura. Accese il fuoco, fra i due sassi del focolare, e si mise a vedere come ardevano le frasche, che facevano una fiammata, e poi soffiavano come se ci dicessero su delle parole.


Quando erano nelle mandre di Resecone, quello di Francofonte, a veglia, aveva narrato certe storie di streghe che montano a cavallo delle scope, e fanno degli scongiuri sulla fiamma del focolare. Carmenio si rammentava tuttora la gente della fattoria, raccolta ad ascoltare con tanto d'occhi, dinanzi al lumicino appeso al pilastro del gran palmento buio, che a nessuno gli bastava l'animo di andarsene a dormire nel suo cantuccio, quella sera.


Giusto ci aveva l'abitino della Madonna sotto la camicia, e la fettuccia di santa Agrippina legata al polso, che si era fatta nera dal tempo. Nella stessa tasca ci aveva il suo zufolo di canna, che gli rammentava le sere d'estate - Juh! juh! - quando si lasciano entrare le pecore nelle stoppie gialle come l'oro, dappertutto, e i grilli scoppiettano nell'ora di mezzogiorno, e le lodole calano trillando a rannicchiarsi dietro le zolle col tramonto, e si sveglia l'odore della nepitella e del ramerino. - Juh! juh!

Bambino Gesù! - A Natale, quando era andato al paese, suonavano così per la novena, davanti all'altarino illuminato e colle frasche d'arancio, e in ogni casa, davanti all'uscio, i ragazzi giocavano alla 'fossetta', col bel sole di dicembre sulla schiena. Poi si erano avviati per la messa di mezzanotte, in folla coi vicini, urtandosi e ridendo per le strade buie. Ah! perché adesso ci aveva quella spina in cuore? e la mamma che non diceva più nulla!! ancora per mezzanotte ci voleva un gran pezzo. Fra i sassi delle pareti senza intonaco pareva che ci fossero tanti occhi ad ogni buco, che guardavano dentro, nel focolare, gelati e neri.


Sul suo stramazzo, in un angolo, era buttato un giubbone, lungo disteso, che pareva le maniche si gonfiassero; e il diavolo del San Michele Arcangelo, nella immagine appiccicata a capo del lettuccio, digrignava i denti bianchi, colle mani nei capelli, fra i zig-zag rossi dell'inferno.


L'indomani, pallidi come tanti morti, arrivarono Santo, la 'Rossa' coi bambini dietro, e Lucia che in quell'angustia non pensava a nascondere il suo stato. Attorno al lettuccio della morta si strappavano i capelli, e si davano dei pugni in testa, senza pensare ad altro. Poi come Santo si accorse della sorella con tanto di pancia, che era una vergogna, si mise a dire in mezzo al piagnisteo:

- Almeno avesse lasciato chiudere gli occhi a quella vecchierella, almeno!...


E Lucia dal canto suo:

- L'avessi saputo, l'avessi! Non le facevo mancare il medico e lo speziale, ora che ho 20 onze.


- Ella è in paradiso e prega Dio per noi peccatori; - conchiude la 'Rossa'. - Sa che la dote ce l'avete, ed è tranquilla, poveretta. Mastro Brasi ora vi sposerà di certo -.






Papa Sisto


Di commedianti come Vito Scardo non ne nascono più a Militello, massime dacché fu toccato dalla 'grazia', e da povero diavolo arrivò ad essere guardiano dei cappuccini, come Papa Sisto.


Dopo aver provato cento mestieri - e averne fatte d'ogni colore anche, dicevasi, colla donna e la roba altrui - ridotto colle spalle al muro, malandato di borsa e di salute, Vito Scardo capì alfine:
- Qui bisogna mutar strada -.


Era l'anno della fame per giunta, che i seminati, dal principio, dissero chiaro che si voleva ridere quell'inverno, e tutti quanti, poveri e ricchi, si strappavano i capelli, alla raccolta. Vito Scardo stava bestemmiando anche lui nell'aia di massaro Nasca - compare Nasca sfogandosi coi figliuoli a pedate - sua moglie covando le spighe magre cogli occhi arsi e il lattante al petto - lo stesso marmocchio che si disperava e non trovava nulla da poppare - una desolazione insomma da per tutto, per la campagna brulla, senza una canzone o un suono di tamburello, quando si vide arrivae fra Angelico, quello della cerca, fresco come una rosa, trottando allegramente sulla bella mula baia dei cappuccini. - Sia lodato San Francesco! - E lodato sia, fra Angelico! - disse compare Nasca fuori della grazia di Dio stavolta. - Che a voi altri, benedica, il pane e il companatico non ve lo fa mancare San Francesco!... Sangue di!... Corpo di!... - Le bestemmie della malannata, in una parola. Ma fra Angelico se ne rideva. - O dunque chi prega Domeneddio per la pioggia e pel bel tempo, gnor asino? - Un pezzo di tonaca sulle spalle, una presa di tabacco qua e là, il buon viso e la buona parola, e fra Angelico raccoglieva grano, olio, mosto, senza bisogno di mietere né di vendemmiare, e senza pensare ai guai e a malannate, ché al convento, grazie a Dio, il caldaione era sempre pieno, e i monaci non avevano altro da fare che ringraziare la Provvidenza e correre lesti al refettorio quando suonava la campanella. - Quello è il mestiere che fa per me, - disse allora Vito Scardo.


Di lì a poco, un bel giorno - volontà di Dio - lo trovarono tutto pesto e malconcio nel podere di Scaricalasino, o che l'avessero colto a cerca di olive senza permesso del padrone del campo, e senza la tonaca di San Francesco, o che a Scaricalasino quella notte gli dicessero le corna di tornare a casa insalutato ospite.


Il fatto è che glie ne diedero tante, al povero Vito Scardo, da lasciarlo più morto che vivo, e in quell'occasione volle confessarsi dal guardiano dei cappuccini appunto.


- Padre Giuseppe Maria - disse veramente contrito - padre Giuseppe Maria, o me ne vo in paradiso, o prometto di cambiar vita e fo voto di darmi a Dio.


- Va bene, va bene. A questo c'è tempo -. Il guardiano credeva che fossero le solite chiacchiere di ogni galantuomo ridotto al mal passo, e promise d'aiutarlo anche, per sbrigarsene. Ma però non furono chiacchiere. Vito Scardo aveva la pelle e la testa dura.


Non si era fitto in capo di mutar vita? O dunque perché gli aveva promesso Roma e toma quel servo di Dio? Il guardiano, di lì a un mese, come se lo vide capitar dinanzi con quel dettato, sano come una lasca, fece il segno della croce:
- Monaco tu? Non ci mancherebbe altro adesso! - E vossignoria che vi cresceva qualche cosa? Per arrivare guardiano anche!... - Voi che avreste fatto? Un arnese come Vito Scardo, che puzzava di tutti i sette peccati mortali! Però egli giurava che era un altro, ormai. Lo pigliassero a prova. Tanto disse e tanto fece che il povero guardiano dovette pigliarlo a prova, pel vitto e la tonaca soltanto, frate converso. - Se la tonaca fa questo miracolo, vuol dire che è una santa cosa davvero, figliuol mio!- Basta, o che la tonaca abbia fatto il miracolo, o che sia stato il bisogno a far trottare l'asino, Vito Scardo divenne l'esempio della comunità. Bravo, modesto, prudente - le donne, magari, non le guardava neanche, in strada. - E per la cerca poi valeva un Perù; meglio di fra Angelico, che è tutto dire. La gente al vederlo così cambiato, che pareva un santo, diceva:
- Questa è opera di San Francesco. - E mandava elemosine.


Però c'era ancora quella certa tizia che tirava a fargli perdere il pane - comare Menica la moglie di Scaricalasino, dopo che suo marito era andato in galera per le legnate di quella notte - lei a tentarlo fino in chiesa, e occhiate di fuoco, e imbasciate con questa e con quella. Una sera poi l'appostò al cancello del podere, che tornava tardi dalla cerca e non passava un cane, e lo strinse proprio colle spalle al muro:
- Dopo averla messa in quello stato - né vedova né maritata! - E tutto quello che aveva fatto per lui! - Le legnate che si era prese! - Sissignore! Eccole qua! - Quasi quasi si spogliava lì dov'era, dietro la siepe. La siepe fitta, l'ora tarda, sulla strada che non passava un cane...


San Francesco glorioso, se Vito Scardo tenne duro come Giuseppe Ebreo, fu tutto merito vostro. - Sorella mia - rispose lui - sorella mia, in galera si va e si viene, ma se mi scacciano dal convento cosa fo, ditelo voi? - E lo disse anche al Padre Guardiano, a titolo di confessione - la carne - il demonio. - La sai più lunga di lui! - pensò il guardiano. Ma dovette chinare il capo anche stavolta, toglierlo dalla cerca e metterlo ai servizi interni del convento. Vito, contentone, badava a far la sua strada. Un colpo al cerchio, un colpo alla botte, barcamenandosi fra questo e quell'altro, che il convento è come un piccolo mondo, e le nimicizie covano anche fra i seni di Dio. Quando si accapigliavano fra di loro, e volavano le scodelle, lui orbo e sordo. A tempo e luogo poi lisciare i pezzi grossi pel verso del pelo, e pigliare ciascuno pel vizio suo, fra Serafino col tabacco buono di Licodia, fra Mansueto chiudendo un occhio in portineria, il Padre Lettore a colpi d'incensiere. - Ah, che grazia v'ha fatto il Signore! Quante cose sapete, vossignoria!

- Figliuol mio, ho sudato sangue. Vedi, ho tutti i peli bianchi.


Che mi giova? Padre Lettore, e nulla più.


- Birbonate! La solita storia che chi più merita meno ha...


M'intendo io, se fossi padre da messa e avessi voce in capitolo, quando fanno il guardiano!...


Il guaio era che per entrare in noviziato ed arrivare padre da messa ci voleva un po' di latino, e 20 onze di patrimonio. Quanto al latino, pazienza, Vito Scardo, picchia e ripicchia, sudando sui libracci come Gesù all'orto, tendendo l'orecchio a questo e a quello, pigliandosi la testa a due mani - testa fine di villano che quel che voleva voleva - coll'aiuto di Dio e del Padre Lettore riescì a farvi entrare quel che ci voleva. Ma trovare le 20 onze del patrimonio era un altro paio di maniche. Ci si struggeva mattina e sera, senza contare i digiuni, le astinenze, e simili privazioni, che ormai era diventato tutto pelo e naso, e le divote susurravano anche che portava il cilizio sotto la tonaca. In chiesa poi servizievole con tutti quanti, premuroso colle figlie penitenti del guardiano e dei pezzi grossi, innamorato del Patriarca San Giuseppe, sì che la vedova Brogna si indusse a fare l'altare nuovo, e fu tutto merito suo. Insomma, se il Patriarca non gli faceva trovare i danari per entrare in noviziato e darsi a Dio, voleva dire che non c'è religione né nulla. - O tu che credi d'arrivare Papa? - Gli diceva alle volte il guardiano ridendo. E lui, minchione minchione:
- Papa, no -.


Bene, se il Patriarca non voleva farlo, l'avrebbe fatto lui il miracolo, Vito Scardo. A un tratto, corse la voce che egli guariva asini e muli, con certi rimedi che sapeva lui - e la fede viva. Se mancava la fede, addio virtù dei semplici, e tanto peggio per la bestia che crepava, salute a noi. Poi furono i numeri del lotto che gli vennero in mente, come un'ispirazione del cielo che gli diceva all'orecchio:
- Escirà il tale, il tale, e il tal altro numero -. Veramente a tanta grazia divina recalcitrava egli stesso, semplice frate laico, senza neppure gli ordini sacri.


Resisteva alla tentazione, si confessava indegno, faceva il sordo o lo scemo, arrivava a tapparsi le orecchie insino, quando i poveri giuocatori gli correvano dietro supplicando:
- Per la santa tonaca che portate! - Per l'anima dei vostri morti! - e per questo, e per quest'altro. - Due parole sole, e ci togliete dai guai! - Intanto i numeri che gli ballavano dentro, e le dita stesse che si tradivano e accennavano il terno, senza sua voglia, soltanto al modo di lisciare la barba e di far segno:
- zitto! - Chi sapeva intendere poi e cavarne il terno ci pigliava l'ambo almeno. E l'elemosine fioccavano.


Il padre guardiano, uomo rozzo all'antica, prese infine Vito Scardo a quattr'occhi, e gli fece una bella lavata di capo:
- A che giuoco giuochiamo? Che significa questa faccenda? - Lui a testa bassa, colle mani in croce nei maniconi, rispose tutto compunto che significava che il Signore lo chiamava in religione, e se non lo lasciavano entrare in noviziato sarebbe andato a fare l'eremita in cima a una montagna. - Fra Giuseppe Maria capì il latino. - A fare il santo per conto tuo, eh? E tirar l'acqua al tuo mulino? - Vito Scardo non capiva neppure. - L'acqua? - Il santo? - Il mulino? - E le 20 onze del patrimonio, per pigliar messa? le 20 onze le hai? - aggiunse il guardiano per tagliar corto. - Ah, le 20 onze?... - Come abbia fatto a procurarsele, quel diavolo di Vito Scardo, lo sa Dio e lui. O che siano stati frutti di stola, come dicevano le male lingue, denari rubati allo stesso San Francesco, messi da parte sulla cerca, in barba a lui; o che la vedova Brogna abbia fatto anche questa, e si sia lasciato toccare il cuore; o sia stata infine carità fiorita di qualche altra benefattrice, che tirava anime a salvamento - la Scaricalasino vendé allora un pezzo di terra, suo di lei. - Il fatto è che all'impensata saltò fuori il padre di Vito Scardo, 'Malannata', uno che il soprannome stesso diceva chi fosse, povero e pezzente che avrebbe cavato la pelle piuttosto al suo figliuolo per rattoppare la sua, e mise fuori i denari del patrimonio. - Qui, ecco le 20 onze! - Il guardiano, che cercava pretesti ancora, voleva sapere donde venivano e donde non venivano. Ma Vito Scardo che piangeva di tenerezza e di gratitudine, abbracciando gnor padre e baciandogli le mani, abbrancò il suo gruzzolo e minacciò di piantar su due piedi baracca e burattini.


- Allora, benedicite! Allora vi lascio la tonaca e me ne vo, giacché non volete salvarmi l'anima neppure col fatto mio! - Questo diavolo ci darà da fare a tutti quanti! - disse poi in capitolo il padre guardiano. E disse bene, che gli parlava il cuore.


Basta, per toglierselo dai piedi lo mandarono a fare il noviziato fuori provincia, alla Certosa di Santa Maria. Ci pensassero intanto quegli altri frati a vedere se spuntava grano o loglio da quel seme. E Vito Scardo zitto, fece l'obbedienza, fece il noviziato, girò anche un po' il mondo, come piaceva ai superiori, e tornò fra Giobattista da Militello, monaco fatto, con tanto di barba e qualche pelo bianco.


Però colla barba e i peli bianchi gli era cresciuto anche il giudizio. Trovò il paese sottosopra: bandiere, luminarie, ritratti di Pio IX da per tutto, Scaricalasino a spasso per le strade, e il padre guardiano colla coda fra le gambe. Cose che non potevano durare, in una parola. Intanto si doveva riunire il capitolo per la nomina dei superiori. Malcontenti ce n'erano molti, minchioni la più parte, che pensavano ciascuno:
- Ora infine tocca a me! - E brigavano, si arrabattavano, trappolandosi gli uni e gli altri, liberali e realisti. Lui invece né carne né pesce, affabile con tutti, rispettoso coi superiori, e tanto di coltello poi sotto la tonaca, a buon conto.


Come si avvicinava il gran giorno delle elezioni, il convento sembrava un formicaio messo in subbuglio. Un va e vieni di frati sospettosi - quelli che andavano a caccia di voti - quelli che stavano a spiare - quelli che montavano la trappola - un fruscìo di tonache e di piedi scalzi, specie la notte, capannelli nei corridoi, conciliaboli di religiosi fino in sagrestia, vestendosi per la santa messa, e occhiate torve, anche in refettorio, il campanello della portineria che tintinnava ogni momento, gente di fuori che veniva a confabulare, le figlie penitenti che si guardavano in cagnesco fra di loro esse pure, il servizio divino sbrigato alla diavola, tutti colle orecchie tese alle notizie che giungevano di fuori, al vento che soffiava. - Vincono i regi. - Vincono i rivoltosi. - Hanno bombardato Messina. - Catania si difende -. Gli umori e le alleanze segrete che ondeggiavano collo spirare del vento. Fra Giobattista vedeva e taceva, o al più rispondeva:
- Ah? - Eh? - Oh? - quando venivano a tastarlo anche lui, tirandolo ognuno dalla sua parte. - Fra Mansueto che gli raccomandava in tutta segretezza di guardarsi bene di Scaricalasino, il quale voleva reso conto del pezzo di terra venduto da sua moglie. - Il Padre Lettore che lo incensava lui adesso:
- Il merito deve premiarsi. Chi l'avrebbe detto di cosi era capace Vito Scardo se non fosse stato lui? - Lo stesso fra Serafino che veniva a sfogare le sue amarezze, dopo quarant'anni di religione, rimasto sempre a veder salire gli altri e vivere di elemosina - anche per una presa di tabacco! - Potete dirlo voi stesso, eh! Che ve ne pare? Non è un'ingiustizia? Allora vuol dire che non arriveremo mai a prendere il mestolo in mano, né voi né io!

Fra Giobattista, rassegnato invece, si stringeva nelle spalle. - Eh, tenere il mestolo... al giorno d'oggi... È un affare serio...


Ci vuol prudenza... ci vuol giustizia... ci vuol carità -. Tante belle cose. - E al Padre lettore:
- Non dubitate. Il vostro tempo è venuto. Ci vogliono uomini in testa e di lettere adesso. E senza di voi... Guardate, mettessero anche l'ultimo del convento a quel posto, mettessero me, guardate... Senza il vostro aiuto che potrei fare? - E dare perfino ragione a fra Mansueto, che era il capo del malcontenti. - Ci vuol politica... Chiudere un occhio. Non siamo più ai tempi che il guardiano faceva il commissario di polizia -.


In verità il povero guardiano aveva altro da fare adesso. La tremarella da una parte, e la bile che gli toccava ingoiare dall'altra, e far buon viso a chi gli mirava al cuore. Questo vuol dir politica, ora che il Santo Padre aveva mutato casacca, e il Re, Dio guardi, mandava truppe a far sacco e fuoco. Se la spuntava, bene. Ma se no, chi vi andava di mezzo per il primo era lui, padre Giuseppe Maria. Un calcio nella schiena, e lo sbalestravano chissà dove, a far penitenza, semplice fraticello, giacché i pochi a lui fedeli gli nicchiavano in mano anche essi.


Era quella famosa settimana santa del '48; le stesse funzioni sacre si trascinavano svogliate, la chiesa quasi vuota, tutta la gente in piazza dalla mattina alla sera, ad aspettare le notizie col naso in aria. Giungevano fuggiaschi, carri di masserizie che temevano il sacco anche essi, e rivoltosi di tutte le fogge, che contavano d'aver fatto prodigi, e correvano ad aspettare i regi laggiù, a Palermo, per massacrarli tutti. Il sindaco, a buon conto, fece armare i galantuomini per tener d'occhio la roba del paese.


La folla correva ogni tanto sulla collina del Calvario, in cima al villaggio, per vedere se era già cominciato il fuoco nella città laggiù, lontano, in fondo alla pianura verde - uomini, donne, cappuccini anche, ciascuno pel suo motivo. Vito Scardo invece non si muoveva, badava alla chiesa, badava al convento, badava ad aggiustare le sue faccende con questo o con quello, a quattr'occhi, intanto che fra Mansueto e il Padre Lettore perdevano il tempo a vendersi vesciche per lanterne l'un l'altro, o a correre lassù al Calvario a cercar notizie e le stelle di mezzogiorno. - Signori miei, badate a quel che fate! - ammoniva Vito Scardo. - Vincano questi, vincano quegli altri, badate a quel che fate! - Soltanto a sera tarda sguisciava fuori un momento per pigliar aria, e sentire quel che si diceva, e lì, sotto gli olmi della piazzetta, al buio, amici, conoscenti, che spuntavano come funghi, e perfino 'Malannnta', in gran sussurro. Alcuni dissero pure di averci visto Scaricalasino, in confidenza con fra Giobattista.


'Malannata' poi che faceva il mestiere di vender erbe, ed era sempre in giro, ne portava più di ogni altro, notizie fresche.


Andava a raccoglierle sino a Scordia e a Valsavoja, insieme alle erbe, talché il figliuolo, perché parlasse in libertà, lo ficcava anche in cucina, col naso sulla scodella.


Giunsero le funzioni del giovedì santo, la comunione per tutti i frati, abbracci e baci a destra e a sinistra. - Fra Giobattista adesso, colle lagrime agli occhi, si picchiava il petto quasi fosse giunta l'ultima sua ora. Tanto che il guardiano si mise in sospetto e lo chiamò in sagrestia:
- Che c'è, figliuol mio? Che sai? - Niente, Padre. Ho il cuore grosso. Il cuore mi dice che arriva il finimondo -.


Con tutta la comunione in corpo era più furbo che mai, quel diavolo di Vito Scardo, e non diceva altro. Ma il guardiano tirò un sospirone. Il finimondo, per un servo di Dio della taglia di fra Giobattista, doveva essere la vittoria dei regi e della podestà legittima. - Gli era rimasto sempre sullo stomaco quel religioso. - Fra Mansueto invece, giallo come un morto, lo aspettò nel corridoio per raccomandarsi a lui. C'era qualcosa per aria?

Eh? Che sapeva di certo? - Nulla... di certo, nulla...


Chiacchiere. «Tempo di guerre, menzogne per le terre» -. Insomma ciascuno più era al buio di tutto, e più aveva da perdere, e perciò era inquieto, e più Vito Scardo diventava un pezzo grosso, con quell'aria di dico e non dico di chi la sa lunga davvero.


Tanto più che verso sera mutò il vento di nuovo: bande, fiaccolate, grida di viva che arrivavano sin lassù, e non si sapeva che credere e che pesci pigliare. Il venerdì fu peggio ancora. Giorno di lutto, in chiesa e fuori, le notizie che facevano a pugni fra di loro, dei curiosi che correvano in piazza per vedere se c'era ancora la bandiera al Municipio. La sera i reverendi accompagnavano il Cristo morto, quando all'improvviso corse la voce:
- Correte! - Lassù, al Calvario! - Si vede la città in fiamme! - Figuratevi come restò la processione! Fra Mansueto, nel deporre il cero in sagrestia, gli tremavano le mani. Il guardiano non era tranquillo neppur lui. In refettorio non si mise neppur la tavola. Ciascuno, mogio mogio, era andato a rintanarsi nella sua cella, e aspettava come andava a finire. Verso mezzanotte, toc-toc, fra Giobattista in punta di piedi andò a bussare all'uscio del Padre guardiano - Che è, che non è? - Gli altri religiosi, che avevano il suo peccato ciascuno, e la tremarella addosso, stavano ad origliare, e quando lo videro uscire, poi, dopo mezz'ora, ciascuno voleva sapere la sua. Niente.


Si vedrà domani, in capitolo. - Fra Giuseppe Maria protestava che ne aveva abbastanza, del guardianato, e fra Mansueto non voleva fastidi neppur lui. - Basta, vedremo. Sentiremo quello che consiglia lo Spirito Santo -. E spunta infine il sabato santo, sempre in quell'incertezza. Gli stessi curiosi in piazza; la bandiera sul campanile; la città che si vedeva fumare, laggiù, dal Calvario. Intanto, per pigliar tempo, si fecero le funzioni in chiesa, prima di passare ai voti, suonarono le campane a gloria, si invocò il 'Veni creator', e finalmente si riunì il capitolo. Padre Giuseppe Maria esordì con un discorsetto tutto miele, tutta manna:
- La religione - la fratellanza, - la carità - . Lui domandava perdono a tutti se non era stato all'altezza della carica, mentre ne deponeva il peso, troppo grave per la sua età, supplicando di lasciarlo l'ultimo degli ultimi, semplice servo di Dio. - Fra Mansueto chinava il capo anche lui. Il Padre Lettore cominciò un'orazione in tre punti, per dichiarare che i tempi eran gravi e a reggere la comunità ci voleva giustizia - ci voleva prudenza - tutte le belle cose che aveva detto fra Giobattista.


Però il discorso diventava lungo, e fra Serafino pel primo cominciò a interrompere. - Basta. - Lo sappiamo. - Ai voti, ai voti -. Le lingue si confusero, e successe una babilonia. Allora saltò su fra Giobattista; che era stato zitto, e disse la sua:
- Signori miei, a che giuoco giuochiamo? Altro che perdere il tempo per sapere se deve essere Tizio o Caio a pigliare il mestolo in mano! Qui si tratta che stasera non si sa chi lo piglia sul capo, il mestolo! - Successe un putiferio. Fra Mansueto, che aveva la maggioranza, voleva approfittare del momento e passar subito ai voti. Fra Giuseppe Maria protestò invece che se ne lavava le mani. - Sì e no. - Una baraonda. In quella si udì scampanellare in furia alla portineria. - Un momento! - strillò fra Giobattista come un indemoniato, colle mani in aria. - Un momento! Eccoli qua! - Che cosa? Lo sapeva lui solo, che uscì correndo, colla tonaca al vento. Era proprio quell'altro, Scaricalasino, ansante e trafelato, che veniva a pigliar chiesa, quasi ci avesse già gli sbirri alle calcagna; poi 'Malannata', gongolante, e altri ancora, che confermavano la mal nuova. Vito Scardo li piantò tutti in asso, e capitò di nuovo come una bomba in mezzo ai reverendi che si accapigliavano già.


- Signori miei, non fate sciocchezze. Siamo belli e fritti!

Tolgono le bandiere. Andate a vedere -.


Era proprio vero, la notizia che i regi si erano impadroniti della città fin dal giorno innanzi si era sparsa come un fulmine. Il paesetto era allibito. E ogni frate, dal canto suo, per togliersi di impiccio, e assicurarsi il quieto vivere, dava il voto a chi gridava di più:

- Fra Giobattista - Fra Giobattista -. Vito Scardo che assisteva allo scrutinio con tanto d'orecchi aperti, a un certo punto cadde ginocchioni, colle mani in croce. Piegò il capo a recitare in fretta due parole di orazione, e poi disse:

- Sia fatta la volontà di Dio -.


E fece anche la sua, sbalestrando padre Giuseppe Maria a Sortino - glielo aveva detto il cuore al poveraccio! - fra Mansueto e altri turbolenti di qua e di là. Si intese pure col Giudice, ora che il buon ordine era tornato in paese, e le autorità si dovevano aiutare a vicenda per rimettere sotto chiave i malviventi sul fare di Scaricalasino, e vivere poi quieti e contenti com'era prima della rivoluzione, ciascuno al suo posto. Vito Scardo rimase alla testa della comunità temuto e rispettato, un colpo al cerchio, un colpo alla botte, chiudendo un occhio a tempo e luogo, badando a non far ciarlare le male lingue, a proposito della Scaricalasino, o della vedova Brogna, che era gelosa matta. Tutti contenti e lui pel primo.


Chi rimase scontento fu solo 'Malannata' che gli era parso di dover mutar vita anche lui, col figlio guardiano, e diventare non so che cosa. Ed era il solo che osasse lagnarsi.


- Monaco! - Tanto basta! - Nemico di Dio!





Passato!

(Ricordi)


Qui, quando la città è più festosa e la folla più allegra, penso alla campagna lontana, laggiù, fra i miei monti, dietro il mare azzurro.


Penso ai sentieri verdeggianti, alle siepi odorose, alle lodole che brillano al sole, alla canzone solitaria che sale dai campi, monotona e triste come un ricordo d'altre patrie.


Penso a quell'ora dolce del tramonto, quando l'ultimo raggio indora le nevi della montagna, e il fumo svolgesi dai casolari, e le campane degli armenti risuonano nella valle, e la campagna si nasconde lentamente nella notte.


Penso a quell'ora calda di luglio quando il sole innonda la pianura riarsa, e il cielo fosco di caldura sembra pesare sulla terra, e il grillo nelle stoppie canta la canzone dell'ora silenziosa.


Penso alle notti profonde, alle lucciole innamorate, al coro dei vendemmiatori, al rumore lontano dei carri che sfilano nella pianura odorosa di fieno, ai cespugli immobili e neri come spettri nel raggio misterioso della luna.


Penso alle lunghe notti d'inverno spazzate dal vento e dagli acquazzoni, agli alberi che gemono nel temporale, e vi raccontano fantastiche storie cui sorridono gli occhi dei vostri cari, raccolti intorno alla lampada domestica.


Penso alla mia fanciullezza, che sembra sia tutta trascorsa in quella nota campagna; penso a quei colli, a quei valloni, a quei sentieri, a quella fontana, davanti alla quale è passata tanta gente, che veniva da lontano, a quel cespuglio su cui moriva il sole d'autunno quel giorno in cui vi passaste anche voi, con me, per l'ultima volta.


Quest'ultimo raggio di sole che mi è rimasto in cuore come un addio, come la vaga angoscia dei giorni spensierati dell'infanzia, che ci fa presentire le amarezze della vita, con un senso di vaga e dolorosa dolcezza.


Penso a quel sasso in cui ho segnato il primo amore de' miei tredici anni, quando non conoscevo ancora altri dolori all'infuori di quelli creatimi dalla mia fantasia.


Ora che il dolore so cosa sia, il dolore vero, quelle che vi immerge le unghie nella carne viva e vi ricerca le fibre del cuore, quello che vi divorava le lagrime, le sensazioni e le idee, quando la morte entrò nella vostra casa...; penso ancora a quei luoghi, a quelle scene serene che vi tornano dinanzi agli occhi feroci come un'ironia nell'ora terribile di quell'angoscia; penso al muricciolo di quella fontana al quale si sono appoggiati quelli che non son più, a quell'erba che si è piegata sotto i loro passi, a quelle pietre sulle quali si sono messi a sedere.


Ora l'erba è morta anche essa, ed è risorta tante volte. Il sole l'ha bruciata, e la pioggia fatta rinascere. Quando le nuove gemme hanno verdeggiato nella siepe lì accanto, ne' bei giorni d'aprile, essi non sapevano più nulla di voi, miei cari!

Io che sono rimasto, penso a quell'erba che non è più la stessa, a quelle pietre che dureranno ancora, mentre voi siete passati su di loro - e per sempre; penso che dell'altra erba spunta e muore fra le pietre della vostra fossa; e quando penso che lo strazio feroce di questo dolore non è più così vivo dentro di me, che ogni strappo dell'anima lentamente va rimarginandosi, mi viene uno sconforto amaro, un senso desolato del nulla, d'ogni cosa umana, se non dura nemmeno il dolore, e vorrei sdraiarmi su quell'erba, sotto quei sassi, anche io nel sonno, nel gran sonno.





Pentolaccia


Adesso viene la volta di «Pentolaccia» che è un bell'originale anche lui, e ci fa la sua figura fra tante bestie che sono alla fiera, e ognuno passando gli dice la sua. Lui quel nomaccio se lo meritava proprio, ché aveva la pentola piena tutti i giorni, prima Dio e sua moglie, e mangiava e beveva alla barba di compare don Liborio, meglio di un re di corona.


Uno che non abbia mai avuto il viziaccio della gelosia, e ha chinato sempre il capo in santa pace, che Santo Isidoro ce ne scampi e liberi, se gli salta poi il ghiribizzo di fare il matto, la galera gli sta bene.


Aveva voluto sposare la Venera per forza, sebbene non ci avesse né re né regno, e anche lui dovesse far capitale sulle sue braccia, per buscarsi il pane. Inutile sua madre, poveretta, gli dicesse:
- Lascia star la Venera, che non fa per te; porta la mantellina a mezza testa, e fa vedere il piede quando va per la strada -. I vecchi ne sanno più di noi, e bisogna ascoltarli, pel nostro meglio.


Ma lui ci aveva sempre pel capo quella scarpetta e quegli occhi ladri che cercano il marito fuori della mantellina: perciò se la prese senza volere udir altro, e la madre uscì di casa, dopo trent'anni che c'era stata, perché suocera e nuora insieme ci stanno proprio come cani e gatti. La nuora, con quel suo bocchino melato, tanto disse e tanto fece, che la povera vecchia brontolona dovette lasciarle il campo libero, e andarsene a morire in un tugurio; fra marito e moglie erano anche liti e questioni, ogni volta che doveva pagarsi la mesata di quel tugurio. Quando infine la povera vecchia finì di penare, e lui corse al sentire che le avevano portato il viatico, non potè riceverne la benedizione, né cavare l'ultima parola di bocca alla moribonda, la quale aveva già le labbra incollate dalla morte, e il viso disfatto, nell'angolo della casuccia dove cominciava a farsi scuro, e aveva vivi solamente gli occhi, coi quali pareva che volesse dirgli tante cose. - Eh?... Eh?... - Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e la brutta fine.


La povera vecchia morì col rammarico della mala riuscita che aveva fatto la moglie di suo figlio; e Dio le aveva accordato la grazia di andarsene da questo mondo, portandosi al mondo di là tutto quello che ci aveva nello stomaco contro la nuora, che sapeva come gli avrebbe fatto piangere il cuore, al figliuolo. Appena Venera era rimasta padrona della casa, colla briglia sul collo, ne aveva fatte tante e poi tante, che la gente ormai non chiamava altrimenti suo marito che con quel nomaccio, e quando arrivava a sentirlo anche lui, e si avventurava a lagnarsene colla moglie - Tu che ci credi? - gli diceva lei. E basta. Lui allora contento come una pasqua.


Era fatto così, poveretto, e sin qui non faceva male a nessuno. Se gliel'avessero fatta vedere coi suoi occhi, avrebbe detto che non era vero, grazia di Santa Lucia benedetta. A che giovava guastarsi il sangue? C'era la pace, la provvidenza in casa, la salute per giunta, ché compare don Liborio era anche medico; che si voleva d'altro, santo Iddio?

Con don Liborio facevano ogni cosa in comune: tenevano una chiusa a mezzeria, ci avevano una trentina di pecore, prendevano insieme dei pascoli in affitto, e don Liborio dava la sua parola in garanzia, quando si andava dinanzi al notaio. «Pentolaccia» gli portava le prime fave e i primi piselli, gli spaccava la legna per la cucina, gli pigiava l'uva nel palmento; a lui in cambio non gli mancava nulla, né il grano nel graticcio, né il vino nella botte, né l'olio nell'orciuolo; sua moglie bianca e rossa come una mela, sfoggiava scarpe nuove e fazzoletti di seta, don Liborio non si faceva pagar le sue visite, e gli aveva battezzato anche un bambino. Insomma facevano una casa sola, ed ei chiamava don Liborio «signor compare» e lavorava con coscienza. Su tal riguardo non gli si poteva dir nulla a «Pentolaccia». Badava a far prosperare la società col «signor compare» il quale perciò ci aveva il suo vantaggio anche lui, ed erano contenti tutti.


Ora avvenne che questa pace degli angeli si mutò in una casa del diavolo tutt'a un tratto, in un giorno solo, in un momento, come gli altri contadini che lavoravano nel maggese, mentre chiacchieravano all'ombra, nell'ora del vespero, vennero per caso a leggergli la vita, a lui e a sua moglie, senza accorgersi che «Pentolaccia» si era buttato a dormire dietro la siepe, e nessuno l'aveva visto. - Per questo si suol dire «quando mangi, chiudi l'uscio, e quando parli, guardati d'attorno».


Stavolta parve proprio che il diavolo andasse a stuzzicare «Pentolaccia» il quale dormiva, e gli soffiasse nell'orecchio gli improperii che dicevano di lui, e glieli ficcasse nell'anima come un chiodo. - E quel becco di «Pentolaccia»! - dicevano, - che si rosica mezzo don Liborio! - e ci mangia e ci beve nel brago! - e c'ingrassa come un maiale! - Che avvenne? Che gli passò pel capo a «Pentolaccia»? Si rizzò a un tratto senza dir nulla, e prese a correre verso il paese come se l'avesse morso la tarantola, senza vederci più degli occhi, che fin l'erba e si sassi gli sembravano rossi al pari del sangue.


Sulla porta di casa sua incontrò don Liborio, il quale se ne andava tranquillamente, facendosi vento col cappello di paglia. - Sentite, «signor compare», - gli disse - se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! - Don Liborio lo guardò negli occhi, quasi parlasse turco, e gli parve che gli avesse dato volta al cervello, con quel caldo, perché davvero non si poteva immaginare che a «Pentolaccia» saltasse in mente da un momento all'altro di esser geloso, dopo tanto tempo che aveva chiuso gli occhi, ed era la miglior pasta d'uomo e di marito che fosse al mondo.


- Che avete oggi, compare? - gli disse.


- Ho, che se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! - Don Liborio si strinse nelle spalle e se ne andò ridendo. Lui entrò in casa tutto stralunato, e ripetè alla moglie:

- Se vedo qui un'altra volta il «signor compare» com'è vero Dio, gli faccio la festa! - Venera si cacciò i pugni sui fianchi, e cominciò a sgridarlo e a dirgli degli improperi. Ei si ostinava a dire sempre di sì col capo, addossato alla parete, come un bue che ha la mosca, e non vuol sentir ragione. I bambini strillavano al veder quella novità.


La moglie infine prese la stanga, e lo cacciò fuori dell'uscio per levarselo dinanzi, dicendogli che in casa sua era padrona di fare quello che le pareva e piaceva.


«Pentolaccia» non poteva più lavorare nel maggese, pensava sempre a una cosa, ed aveva una faccia di basilisco che nessuno gli conosceva. Prima d'imbrunire, ed era sabato, piantò la zappa nel solco, e se ne andò senza farsi saldare il conto della settimana.


Sua moglie, vedendoselo arrivare senza denari, e per giunta due ore prima del consueto, tornò di nuovo a strapazzarlo, e voleva mandarlo in piazza, a comprarle delle acciughe salate, che si sentiva una spina nella gola. Ma ei non volle muoversi di lì, tenendosi la bambina fra le gambe, che, poveretta, non osava muoversi, e piagnucolava, per la paura che il babbo le faceva con quella faccia. Venera quella sera aveva un diavolo per cappello, e la gallina nera, appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia.


Don Liborio soleva venire dopo le sue visite, prima d'andare al caffè, a far la sua partita di tresette; e quella sera Venera diceva che voleva farsi tastare il polso, perché tutto il giorno si era sentita la febbre, per quel male che ci aveva nella gola.


«Pentolaccia» lui, stava zitto, e non si muoveva dal suo posto. Ma come si udì per la stradicciuola tranquilla il passo lento del dottore che se ne venìa adagio adagio, un po' stanco delle visite, soffiando pel caldo, e facendosi vento col cappello di paglia, «Pentolaccia» andò a prender la stanga colla quale sua moglie lo scacciava fuori di casa, quando egli era di troppo, e si appostò dietro l'uscio. Per disgrazia Venera non se ne accorse, giacché in quel momento era andata in cucina a mettere una bracciata di legna sotto la caldaia che bolliva. Appena don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levò la stanga, e gli lasciò cadere fra capo e collo tal colpo, che l'ammazzò come un bue, senza bisogno di medico, né di speziale.


Così fu che «Pentolaccia» andò a finire in galera.






Prima e poi


- No - m'avete detto. - Non sciupiamo il bel sogno d'oro, Riccardo! - Ah, voi non sapete cosi è quel sogno d'oro nei vostri occhi che cercano i miei, e il fascino che metteva allora nel vostro pallido sorriso la triste scienza del 'poi'!

Tutto, tutto l'ho assaporato quel terribile fascino - nel dolce lividore che i baci altrui v'hanno lasciato sulle palpebre, nella rugiada di cui sono ancora umide le vostre labbra, nel molle abbandono con cui vi appoggiavate al parapetto del battello, nel gesto carezzevole della vostra mano che additava Capri, laggiù in fondo, a Casalengo - lui che non trema, né impallidisce più nel parlarvi.


No, non voglio pensare a lui. Mi sembra d'impazzire. Avete indovinato quanto ho sofferto in quell'eterna gita di piacere? E anche voi! Ho sentito tremare la vostra mano mentre vi aiutavo a scendere nella barca. Oh, Ginevra, quando vi siete abbandonata trasalendo contro il mio petto nel buio della Grotta Azzurra!...


Che m'importa di Casalengo, che m'importa del 'poi', che ve ne importa anche a voi, poiché le vostre pupille si intorbidano e si smarriscono figgendosi nelle mie?...


Sentite, ieri sera son tornato da voi, sapendo che vi avrei trovato 'quell'altro' e che non mi avreste ricevuto. Gioconda m'ha detto infatti:
- La signora non c'è -. E si è fatta rossa, vedendomi così pallido.


Avevo visto del lume nel vostro salotto. Mi son fermato nella via sino alle undici per vederlo ancora e sentirmene ardere gli occhi ed il sangue - sino all'ora in cui 'l'altro' se n'è andato.


Ho cercato di indovinare se l'amate ancora, dal suo passo e dalla sua andatura. Se avessi visto quel lume nella vostra camera da letto mi sarei ucciso.


Oggi avete risposto alla domanda insidiosa della vostra amica Gemma con uno scherzo amaro:
- Né mai, né sempre! - Ah, com'era dolorosa la vostra gaiezza in quella gita di piacere! e quanto avete dovuto amare quell'uomo, per non voler più amare!

Ho sentito parlarne sin laggiù, in capo al mondo, dove l'avventura di Alvise Casalengo metteva in rivoluzione il quadrato degli ufficiali, e il vostro bel nome correva come un bacio sulla bocca dei giovani allievi.


Voi mi avete preso sin d'allora, colla curiosità o la vaga gelosia che m'ispiravate, quando pensavo a voi che non conoscevo, nelle lunghe vigilie di quarto, sotto le stelle di un altro emisfero. M'avete preso colle vostre bianche mani, dandomi il ventaglio da tenere, la prima volta che c'incontrammo, vi rammentate? Voi, mondana, non immaginaste neppure ciò che poteva essere una vostra parola o un semplice gesto pel giovane selvaggio che vi arrivava da Zanzibar già innamorato e pauroso di voi, quanta avida e gelosa penetrazione fosse negli occhi che divoravano la vostra bellezza offerta alteramente, il sorriso noncurante col quale ne accoglievate l'omaggio, l'abbandono che era nel concedervi ai vostri ballerini, il suono della voce con cui parlavate ad Alvise - e in cui 'sentivo' le dolci parole che gli avrete dette - l'ebbrezza che provai io stesso la prima volta che mi deste del 'voi', quasi m'aveste già dato qualcosa della vostra persona. Vi rammentate? quel giorno che sorprendeste il primo lampo di follìa e d'adorazione nei miei occhi, e vi faceste di porpora, odorando il mazzo di fiori che vi aveva mandato Casalengo, per coprirvene il seno?... Così m'avete preso, per 'sempre'! Non ci credete voi a questa parola? Perché avete chinato il capo quando vi ho confidato tremando il mio segreto? e avete lasciato la vostra mano nella mia? Quante cose mi avete dette senza parlare, in quell'angolo del salotto che sono rimasto a guardare dalla strada, stanotte! Quante cose vi ho detto chinando la fronte sul vostro ritratto che sorride dalla cornicetta di 'strassi posata sul tavolino! Così mi pareva di veder brillare e sorridere a 'quell'altro' i vostri occhi in quelle tre ore orribili che ho passato sotto le vostre finestre. - Quando m'è sembrato di vedere Alvise dietro i vetri, quando vi siete avvicinata a lui, forse per porgergli una tazza di thè, forse per guardare nella via, e le vostre due ombre si sono confuse insieme... Mi avete visto voi, Ginevra, laggiù, sotto la pioggia, coi piedi nel rigagnolo? Vi siete rammentata allora del dubbio atroce che doveva torturarmi, e che cercate di scacciare, ogni volta, quando posate la mano sul mio capo, pallida anche voi della mia angoscia, e balbettate:
- No!... no, Riccardo, vi giuro?... - Vi credo, voglio credervi, ho bisogno di credervi. Perché dunque?

perché mi fate soffrire a questo modo? Perché temete di sciupare il bel sogno d'oro? Oh, se sapeste come l'ho visto dietro le cortine color di rosa, che sembravano agitarsi e palpitare allorché siete passata nella vostra camera da letto, e animarsi di un incarnato più vivo quando vi siete avvicinata allo specchio, e velarsi di un'ombra pudica, dove passava la carezza dei vostri movimenti! Poi quella stessa ombra ha trasalito quasi, e si è dileguata a un tratto dalla finestra del vostro spogliatoio, ed è solo rimasto il chiarore diffuso del globo roseo che veglia sui vostri sogni dolci e sulle vostre palpebre chiuse. Oh, struggersi e morire su quelle palpebre chiuse - perché non abbiate a temere il 'poi' - perché duri sempre il bel sogno d'oro! Sempre!

Sempre! Il 'poi' non esiste, quando si ama. Non esiste il domani, non esiste quel che è stato ieri, non penso più a Casalengo. Penso a voi, e vi amo, e vi voglio, come se tutta la mia vita e l'universo intero fossero in questo momento e in questo desiderio.


Ahimè, Riccardo, il bel sogno d'oro è finito, da che vi siete svegliato nelle mie braccia.


Non ve ne voglio, e vi prego di non volermene. Soltanto non ostiniamoci a chiudere gli occhi, con questo bel sole che deve accompagnarvi nella vostra traversata.


Buon viaggio, amico mio. Vi scrivo seduta a quel medesimo tavolinetto della veranda su cui posavate la vostra tazza, quando venivate a prendere il thè nel mio salotto. La signorina del N. 17 continua a strimpellare quel valzer che vi metteva di cattivo umore - 'Doloresi , mi sembra - e anche a me, quando vi vedevo così uggito. Ma adesso, non so il perché - forse il bel sole, dopo questa eterna notte in cui m'è parso d'impazzire, forse il vostro ricordo, come che sia - mi mette in cuore delle ondate di dolcezza malinconica, specialmente alla ripresa delle prime battute che piacevano anche a voi, alle volte, nei momenti buoni. Ho ancora dinanzi agli occhi il movimento del vostro capo che segnava il tempo - il bel tempo e le buone risate che si facevano, allora...


Dove vi raggiungerà questa lettera, a Lima, al Messico? Vorrei che vi portasse il sorriso che vi piaceva tanto, una volta, e che non aveste a temere di trovarvi né lagrime né piagnistei, prima d'aprirla. Le arie di salice piangente non mi vanno. Anzi! M'avete sempre detto che son venuta al mondo ridendo... e civettando. È vero, sì. Com'ero felice di vedervi fare il muso lungo! M'avete amata pazzamente e lealmente. Che Dio ve lo renda coll'amore delle altre, di tutte quelle a cui sorriderete e a cui piacerà il vostro sorriso. M'avete dato il bel fiore azzurro del vostro cuore e della vostra giovinezza. Quante volte ci siamo inebriati insieme del suo profumo, tenendoci per mano, fra gente nuova e paesi sconosciuti, sotto le altre stelle a cui davamo dei nomi dolci, appoggiando al vostro braccio la mia persona stanca e addolorata d'aver tanto amato - e non voi soltanto. - Vedete che vi dico tutto, e non mi faccio migliore di quel che sono. Voi mi avete amata forse per questo; e non mi amaste più di quando sentiste che ero tutta vostra, tutta, tutta, Riccardo! senza pensare al 'poi' che doveva venire tosto o tardi - e che è venuto.


Ora ho civettato e riso coi vostri amici, con tutti quelli che mi conducevate in casa per aiutarvi a passare le sere insieme a me. - Hadow specialmente, che ha i più bei denti di cristianità e mi faceva perdere la testa colla sua gaiezza. Voi non ve ne siete neppure accorto, ahimè!

Poi che siete partito ho paura di Hadow, e partirò anche io, appena mi sarò rimessa del tutto, per tornare in Europa. Questo cielo implacabilmente azzurro m'acceca e mi fa male. Gioconda, che sta preparando i bauli, ha trovato degli oggetti che avete dimenticato qui: una scatola di sigarette, un fazzoletto colla vostra cifra.


Vi porterò ogni cosa a Napoli, dove vi ho conosciuto, e dove ho lasciato degli altri amici come voi. Ve lo restituirò poi laggiù, il fazzoleno, «terso di lagrime» quando vi rivedrò, se vi rivedrò, e tornerete da me, come gli altri amici. Adesso mi sento abbastanza forte per affrontare il viaggio di ritorno. M'avete perdonato le pene e le noie che vi ho date da Genova sin qua? Come siete stato buono e affettuoso con questa povera ammalata! - malata di corpo e d'anima. - Quanto m'avete resa felice, e come m'avete guastata! Ieri sera, quando ci lasciammo, «ho fatto i capricci» proprio come una bimba viziata. Non me ne do pace, no, Riccardo! Gioconda pretendeva che avessi la febbre, che dovessi prendere del laudano, del cloralio, che so io, alle quattro del mattino, figuratevi! Ah, che misera cosa non poter cambiar d'umore come si cambia di vestito, e avere dei nervi che fanno la festa mentre si ha voglia di dormire! La buona dormita che vorrei fare sino a Napoli, tutta d'un fiato, senza sogni e senza sentirmi vivere, e svegliarmi laggiù, nel paese che ride e canta, senza pensare a quel che è stato ieri o a quel che sarà domani! Quando ci rivedremo, laggiù, se ci rivedremo, voglio che mi troviate savia, grassa e prosperosa come quella bionda vergine che è venuta a far la tisica, qui all'albergo, e la vocina sottile per cantare le arie del Tosti, svenendosi sul piano. Voglio che torniamo a ridere, senza musi lunghi, e senza «dolci languori negli occhi desiosi». Oh, no! A che pro adesso? Noi ci siamo detto tutto. E le parole amare che rimangono all'ultimo... No, Riccardo! quelle no! Ieri sera eravate nervoso anche voi. La mano che vi ho stesa nel dirvi addio, la mano 'che vi parlava' altre volte, e vi diceva tante cose, non ha saputo trattenervi.


Ho persa anche la fede in quel povero neo che vi faceva perdere la testa a voi, una volta, e che non ha saputo dirvi nulla neppure esso, ahimè!

Ecco ora che fo la sfacciata per non sembrarvi noiosa, perché l'ultima immagine mia, l'ultimo ricordo che vi lascio sia buono, dolce, affettuoso e piacevole. Sarà forse l'ultima civetteria che rimane, dopo la 'fine'. Vorrei che mi vedeste ancora come vi son piaciuta, quando vi son piaciuta, senza menzogne, senza reticenze, senza veli, tutta per voi, anima e corpo, 'tutta una cosa con voi', come quando si ama bene e molto - fin sopra ai capelli - direte voi. E la prova è che abbiamo vuotato il sacco della felicità, voi forse più in fretta, io certo con maggior spensieratezza, poiché dovevo sapere come vanno a finire queste cose, io che son più vecchia di voi. - Ho cent'anni da ieri in qua, amico mio. - Ma non mi pento di avervi lasciato sfogliare pazzamente «le rose del cammino» perché ce n'erano tante, e così belle, che sembrava non dovessero terminare giammai; e vi ho aiutato anche io a sfogliarle, sorridendo e chiudendo gli occhi, come fo adesso, per non sentirne le spine. Se mentre vi scrivo per l'ultima volta non ho saputo nascondervi tutte quelle che mi son rimaste nelle mani, perdonatemi. Non è come cavarsi un guanto, capirete! Ma «è pena così dolce» che tornerei a chiudere gli occhi, e a buttarmi a capofitto nelle spine. - Non con voi, Riccardo. Con voi il bel sogno d'oro è finito, e bisogna metterci sopra la croce delle orazioni funebri.


Il salice piangente stavolta son proprio io, la Ginevra vostra di un tempo.






Primavera


Allorché Paolo era arrivato a Milano colla sua musica sotto il braccio - in quel tempo in cui il sole splendeva per lui tutti i giorni, e tutte le donne erano belle - avea incontrato la Principessa: le ragazze del magazzino le davano quel titolo perché aveva un visetto gentile e le mani delicate; ma soprattutto perche era superbiosetta, e la sera, quando le sue compagne irrompevano in Galleria come uno stormo di passere, ella preferiva andarsene tutta sola, impettita sotto la sua sciarpetta bianca, sino a Porta Garibaldi. Così si erano incontrati con Paolo, mentre egli girandolava, masticando pensieri musicali, e sogni di giovinezza e di gloria - una di quelle sere beate in cui si sentiva tanto più leggiero per salire verso le nuvole e le stelle, quanto meno gli pesavano lo stomaco e il borsellino -. Gli piacque di seguire le larve gioconde che aveva in mente in quella graziosa personcina, la quale andava svelta dinanzi a lui, tirando in su il vestitino grigio quand'era costretta a scendere dal marciapiedi sulla punta dei suoi stivalini un po' infangati. In quel modo istesso la rivide due o tre volte, e finirono per trovarsi accanto. Ella scoppiò a ridere alle prime parole di lui; rideva sempre tutte le volte che lo incontrava, e tirava di lungo. Se gli avesse dato retta alla prima, ei non l'avrebbe cercata mai più.


Finalmente, una sera che pioveva - in quel tempo Paolo aveva ancora un ombrello - si trovarono a braccetto, per la via che cominciava a farsi deserta. Gli disse che si chiamava la Principessa, poiché, come spesso avviene, il suo pudore rannicchiavasi ancora nel suo vero nome, ed ei l'accompagnò sino a casa, cinquanta passi lontano dalla porta. Ella non voleva che nessuno, e lui meno d'ogni altro, potesse vedere in qual castello da trenta lire al mese vivessero i genitori della Principessa.


Trascorsero in tal modo due o tre settimane. Paolo l'aspettava in Galleria, dalla parte di via Silvio Pellico, rannicchiato nel suo gramo soprabito estivo che il vento di gennaio gli incollava sulle gambe; ella arrivava lesta lesta, col manicotto sul viso rosso dal freddo; infilava il braccio sotto quello di lui, e si divertivano a contare i sassi, camminando adagio, con due o tre gradi di freddo.


Paolo chiacchierava spesso di fughe e di cannoni, e la ragazza lo pregava di spiegarle 'la cossa' in milanese. - La prima volta che salì nella cameretta di lui, al quarto piano, e l'udì suonare sul pianoforte una di quelle sue romanze di cui le avevano tanto parlato, cominciò a capire, ancora in nube, mentre guardava attorno fra curiosa e sbigottita, si sentì venir gli occhi umidi, e gli fece un bel bacio - ma questo avvenne molto tempo dopo.


Dalla modista si ciarlava sottovoce, dietro le scatole di cartone e i mucchi di fiori e di nastri sparsi sulla gran tavola da lavoro, del nuovo 'moroso' della Principessa, e si rideva molto di 'quest'altro', il quale aveva un soprabitino 'che sembrava quello della misericordia di Dio', e non regalava mai uno straccio di vestito alla sua bella. La Principessa fingeva non intendere, faceva una spallata, e agucchiava, zitta e fiera.


Il povero grande artista in erba le avea tanto parlato della gloria futura, e di tutte le altre belle cose che dovevano far corteo a madonna gloria, che ella non poteva accusarlo di essersi spacciato per un principe russo o per un barone siciliano. - Una volta ei volle regalarle un anellino, un semplice cerchietto d'oro che incastonava una mezza perla falsa - erano i primi del mese allora. - Ella si fece rossa e lo ringraziò tutta commossa - per la prima volta - gli strinse le mani forte forte, ma non volle accettare il regalo: avea forse indovinato quante privazioni dovesse costare il povero gingillo al Verdi dell'avvenire, e sì che aveva accettato assai più da 'quell'altro', senza tanti scrupoli, ed anche senza tanta gratitudine. Quindi, per fare onore al suo amante, si sobbarcò a gravi spese; prese a credenza una vesticciuola al Cordusio; comperò una mantellina da venti lire sul Corso di Porta Ticinese, e dei gingilli di vetro che si vendevano in Galleria Vecchia. 'L'altro' le aveva ispirato il gusto e il bisogno di certe eleganze. Paolo non lo sapeva, lui; non sapeva nemmeno che si fosse indebitata, e le diceva:
- Come sei bella così! - Ella godeva di sentirselo dire, era felice per la prima volta di non dover nulla della sua bellezza al suo amante.


La domenica, quand'era bel tempo, andavano a spasso fuori la cinta daziaria, o lungo i bastioni, all'Isola Bella, o all'Isola Botta, in una di quelle isole di terraferma affogate nella polvere. Erano i giorni delle pazze spese; sicchè quand'era l'ora di pagare lo scotto, la Principessa si pentiva delle follie fatte nella giornata, si sentiva stringere il cuore, e andava ad appoggiare i gomiti alla finestra che dava sull'orto. Egli veniva a raggiungerla, si metteva accanto a lei, spalla contro spalla, e lì, cogli occhi fissi in quel quadretto di verdura, mentre il sole tramontava dietro l'Arco del Sempione, sentivano una grande e melanconica dolcezza. Quando pioveva avevano altri passatempi:

andavano in omnibus da Porta Nuova a Porta Ticinese, e da Porta Ticinese a Porta Vittoria; spendevano trenta soldi e scarrozzavano per due ore come signori. La Principessa arricciava blonde e attaccava fiori di velo su gambi di ottone durante sei giorni, pensando a quella festa della domenica; spesso il giovanotto non desinava il giorno prima o il giorno dopo.


Passarono l'inverno e l'estate in tal modo, giocando all'amore come dei bimbi giocano alla guerra o alla processione. Ella non accordavagli nulla più di codesto, e l'innamorato si sentiva troppo povero per osare di chieder altro. Eppure ella gli voleva 'proprio' bene; ma aveva troppo pianto, per via di 'quell'altro', ed ora credeva aver messo giudizio. Non sospettava che 'dopo quell'altro', ora che gli voleva proprio bene, non buttarglisi fra le braccia fosse l'unica prova d'amore che il suo istinto delicato le suggerisse: povera ragazza!

Venne l'ottobre; ei sentiva la grande melanconia dell'autunno, e le avea proposto di andare in campagna, sul lago. Approfittarono di un giorno in cui il babbo di lei era assente per fare una scappata, una scappata grossa che costò cinquanta lire, e andarono a Como per tutto un giorno. Quando furono all'albergo, l'oste domandò se ripartivano col treno della sera; Paolo lungo il viaggio avea domandato alla Principessa come avrebbe fatto se fosse stata costretta a rimaner la notte fuori di casa; ella avea risposto ridendo:
- Direi di aver passata la notte al magazzino per un lavoro urgente -. Ora il giovane guardava imbarazzato lei e l'oste, e non osava dir altro. Ella chinò il capo e rispose che partivano il domani; quando furono soli si fece di bracia - così gli si lasciò andare.


Oh, i bei giorni in cui si passeggiava a braccetto sotto gli ippocastani fioriti senza nascondersi, senza vedere le belle vesti di seta che passavano nelle carrozze a quattro cavalli, e i bei cappelli nuovi dei giovanotti che caracollavano col sigaro in bocca! le domeniche in cui si andava a far baldoria con cinque lire! le belle sere in cui stavano un'ora sulla porta, prima di lasciarsi, scambiando venti parole in tutto, tenendosi per mano, mentre i viandanti passavano affrettati! Quando avevano cominciato non credevano che dovessero arrivare a volersi bene sul serio; - ora che ne avevano le prove sentivano altre inquietudini.


Paolo non le avea mai parlato di 'quell'altro' di cui avea indovinato l'esistenza fin dalla prima volta che Principessa si era lasciata mettere sotto il suo ombrello; l'avea indovinato a cento nonnulla, a cento particolari insignificanti, a certo modo di fare, al suono di certe parole. Ora ebbe un'insana curiosità. - Ella possedeva in fondo una gran rettitudine di cuore, e gli confessò tutto. Paolo non disse nulla; guardava le cortine di quel gran letto d'albergo su cui delle mani sconosciute avevano lasciato ignobili macchie.


Sapevano che quella festa un giorno o l'altro avrebbe avuto fine; lo sapevano entrambi e non se ne davano pensiero gran fatto, - forse perché avevano ancora dinanzi la gran festa della giovinezza. - Lui anzi si sentì come alleggerito da quella confessione che la ragazza gli avea fatto, quasi lo sdebitasse di ogni scrupolo tutto in una volta, e gli rendesse più agevole il momento di dirle addio. A quel momento ci pensavano spesso tutt'e due, tranquillamente, come cosa inevitabile, con certa rassegnazione anticipata e di cattivo augurio. Ma adesso si amavano ancora e si tenevano abbracciati. - Quando quel giorno arrivò davvero fu tutt'altra storia.


Il povero diavolo avea gran bisogno di scarpe e di quattrini; le sue scarpe si erano logorate a correr dietro le larve dei suoi sogni d'artista, e della sua ambizione giovanile, - quelle larve funeste che da tutti gli angoli d'Italia vengono in folla ad impallidire e sfumare sotto i cristalli lucenti della Galleria, nelle fredde ore di notte, o in quelle tristi del pomeriggio. Le meschine follie del suo amore costavano care! A venticinque anni, quando non si è ricchi d'altro che di cuore e di mente, non si ha il diritto di amare, fosse anche una Principessa; non si ha il diritto di distogliere lo sguardo, fosse anche per un sol momento, sotto pena di precipitare nell'abisso, dalla splendida illusione che vi ha affascinato e che può farsi la stella del vostro avvenire; bisogna andare avanti, sempre avanti, cogli occhi intenti in quel faro, avidi, fissi, il cuore chiuso, le orecchie sorde, il piede instancabile e inesorabile, dovesse camminare sul cuore istesso. Paolo fu malato, e nessuno seppe nulla di lui per tre interi giorni, nemmen la Principessa.


Erano incominciati i giorni squallidi e lunghi in cui si va a passeggiare nelle vie polverose fuori le porte, a guardare le mostre dei gioiellieri, e a leggere i giornali appesi agli sportelli delle edicole, i giorni in cui l'acqua che scorre sotto i ponti del Naviglio dà le vertigini, e guardando in alto si vedono sempre le guglie del Duomo che vi affascinano. La sera, quando aspettava in via Silvio Pellico, faceva più freddo del solito, le ore erano più lunghe, e la Principessa non aveva più la solita andatura svelta e leggiadra.


In quel tempo gli capitò addosso una fortuna colossale, qualcosa come quattromila lire all'anno perché andasse a pestare il piano pei caffe e i concerti americani. Accettò colla stessa gioia come se avesse avuto il diritto di scegliere: dopo pensò alla Principessa. La sera, la invitò a cena, in un gabinetto riservato dei Biffi, al pari di un riccone dissoluto. Avea avuto un acconto di cento lire e ne spese buona parte. La povera ragazza spalancava gli occhi a quel festino da Sardanapalo, e dopo il caffè, col capo alquanto peso, appoggiò le spalle al muro, seduta come era sul divano. Era un po' pallida, un po' triste, ma più bella che mai.


Paolo le metteva spesso le labbra sul collo, vicino alla nuca; ella lo lasciava fare, e lo guardava con occhi attoniti, quasi avesse il presentimento di una sciagura. Ei sentivasi il cuore stretto in una morsa, e per dirle che le voleva un gran bene le domandava come avrebbero fatto quando non si fossero più visti. La Principessa stava zitta, volgendo il capo dalla parte dell'ombra, cogli occhi chiusi, e non si muoveva per dissimulare certi lagrimoni grossi e lucenti che scorrevano e scorrevano per le guance. Allorché il giovane se ne accorse ne fu sorpreso: era la prima volta che la vedeva piangere. - Cosi hai? - domandava. Ella non rispondeva, o diceva - nulla! - con voce soffocata; - diceva sempre così, che era poco espansiva, e aveva superbiette da bambina. - Pensi a quell'altro? - domandò Paolo per la prima volta. - Sì! - accennò ella col capo, - sì - ed era vero. Allora si mise a singhiozzare.


'L'altro'! voleva dire il passato: voleva dire i bei giorni di sole e d'allegria, la primavera della giovinezza, il suo povero affetto destinato a strascinarsi così, da un Paolo all'altro, senza pianger troppo quand'era gaio; voleva dire il presente che se ne andava, quel giovane che oramai faceva parte del suo cuore e della sua carne, e che sarebbe divenuto un estraneo anche lui, fra un mese, fra un anno o due.


Paolo in quel momento ruminava forse vagamente i medesimi pensieri e non ebbe il coraggio di aprir bocca. Soltanto l'abbracciò stretto stretto e si mise a piangere anche lui. - Avevano cominciato 'per ridere'.


- Mi lasci? - balbettò la Principessa. - Chi te l'ha detto? - Nessuno, lo so, lo indovino. Partirai? - Ei chinò il capo. Ella lo fissò ancora un istante cogli occhi pieni di lagrime, poi si voltò in là, e pianse cheta cheta.


Allora, forse perché non avea la testa a casa, o il cuore troppo grosso, ricominciò a vaneggiare, e gli raccontò quel che gli aveva sempre nascosto per timidità o per amor proprio; gli disse com'era andata con 'quell'altro'. A casa non erano ricchi, per dir la verità; il babbo aveva un piccolo impiego nell'amministrazione delle ferrovie, e la mamma ricamava; ma da molto tempo la sua vista si era indebolita, e allora la Principessa era entrata in un magazzino di mode per aiutare alquanto la famiglia.


Colà, un po' le belle vesti che vedeva, un po' le belle parole che le si dicevano, un po' l'esempio, un po' la vanità, un po' la facilità, un po' le sue compagne e un po' quel giovanotto che si trovava sempre sui suoi passi, avevano fatto il resto. Non avea capito di aver fatto il male, che allorquando aveva sentito il bisogno di nasconderlo ai suoi genitori: il babbo era un galantuomo, la mamma una santa donna; sarebbero morti di dolore se avessero potuto sospettare 'la cosa', e non l'aveano mai creduto possibile, giacché avevano esposto la figliuola alla tentazione. La colpa era tutta sua... o piuttosto non era sua; ma di chi era dunque? Certo che non avrebbe voluto conoscere 'quell'altro', ora che conosceva il suo Paolo, e quando Paolo l'avrebbe lasciata non voleva conoscer più nessuno...


Parlava a voce bassa, sonnecchiando, appoggiando il capo sulla spalla di lui.


Allorché uscirono dal Biffi indugiarono alquanto pel cammino, rifacendo tutta la triste 'via crucisi dei loro cari e mesti ricordi: la cantonata dove si erano incontrati, il marciapiedi sul quale si erano fermati a barattar parole la prima volta. - To'! - dicevano, - è qui! - No è più in là -. Andavano come oziando, intontiti; nel separarsi si dissero - a domani -.


Il giorno dopo Paolo faceva le valige, e la Principessa, inginocchiata dinanzi al vecchio baule sgangherato, l'aiutava ad assestavi le poche robe, i libri, le carte di musica sulle quali ella avea scarabocchiato il suo nome, in quei giorni là. - Quei panni glieli aveva visti indosso tante volte! - una cosa copriva l'altra, e stringeva il cuore il vederle scomparire così, una alla volta. Paolo le porgeva ad uno ad uno i panni che andava a prendere dal cassettone o dall'armadio; ella li guardava un momento, li voltava e rivoltava, poi li riponeva per bene, senza che facessero una piega, fra le calze e i fazzoletti; non dicevano molte parole, e mostravano d'aver fretta. La ragazza avea messo da banda un vecchio calendario sul quale Paolo soleva fare delle annotazioni. - Questo me lo lascerai? - gli disse. Ei fece cenno di sì senza voltarsi.


Quando il baule fu pieno rimanevano ancora qua e là, su per le seggiole e il portamantelli, dei panni logori e il vecchio soprabito. - A quella roba penserò domani, - disse Paolo; la ragazza premeva sul coperchio col ginocchio mentre egli affibbiava le corregge; poi andò a raccogliere il velo e l'ombrellino che aveva lasciati sul letto e si mise a sedere sulla sponda tristamente. Le pareti erano nude e tristi; nella camera non rimaneva altro che quella gran cassa, e Paolo il quale andava e venia, frugando nei cassetti, e raccogliendo in un gran fagotto le altre robe.


La sera andarono a spasso l'ultima volta. Ella gli si appoggiava al braccio timidamente, quasi l'amante cominciasse a diventare un estraneo per lei. Entrarono al Fossati, come nei giorni di festa, ma partirono di buon'ora, e non si divertirono molto. Il giovine pensava che tutta quella gente lì ci sarebbe tornata altre volte e avrebbe trovato la Principessa - ella, che non avrebbe più visto Paolo fra tutta quella gente. Solevano bere la birra in un caffeuzzo al Foro Bonaparte; Paolo amava quella gran piazza per la quale avea passeggiato tante volte, nelle sere di estate, colla sua Principessa sotto il braccio.


Da lontano si udiva la musica del caffe Gnocchi, e si vedevano illuminate le finestre rotonde del Teatro Dal Verme. Di tratto in tratto, lungo la via oscura, formicolavano dei lumi e della gente dinanzi i caffè e le birrerie. Le stelle sembravano tremolare in un azzurro cupo e profondo; qua e là, nel buio dei viali e fra mezzo agli alberi, luccicava una punta di gas, davanti alla quale passavano a due a due delle ombre nere e tacite. Paolo pensava:
- Ecco l'ultima sera! - Si erano messi a sedere lontano dalla folla, nel cantuccio meno illuminato, volgendo le spalle ad una controspalliera di arbusti rachitici piantati in vecchie botti di petrolio; la Principessa strappò due fogliuzze e ne diede una a Paolo - altre volte si sarebbe messa a ridere. - Venne un cieco che strimpellava un intero repertorio sulla chitarra; Paolo gli diede tutti i soldoni che aveva in tasca.


Si rividero un'ultima volta alla stazione, al momento della partenza, nell'ora amara dell'addio affrettato, distratto, senza pudore, senza espansione e senza poesia, fra la ressa, l'indifferenza, il frastuono e la folla della partenza. La Principessa seguiva Paolo come un'ombra, dal registro dei bagagli allo sportellino dei biglietti, facendo tanti passi quanti ne faceva lui, senza aprir bocca, col suo ombrellino sotto il braccio: era bianca come un cencio e null'altro. - Egli al contrario era tutto sossopra e avea un'aria affaccendata. Al momento d'entrare nella sala d'aspetto un impiegato domandò i biglietti; Paolo mostrò il suo; ma la povera ragazza non ne aveva; - colà dunque si strinsero la mano in fretta dinanzi un mondo di gente che spingeva per entrare, e l'impiegato che marcava il biglietto.


Ella era rimasta ritta accanto all'uscio, col suo ombrellino fra le mani, come se aspettasse ancora qualcheduno, guardando qua e là i grandi avvisi incollati alle pareti, e i viaggiatori che andavano dallo sportello dei biglietti alle sale d'aspetto; li accompagnava con quello stesso sguardo imbalordito dentro la sala, e poi tornava a guardare gli altri che giungevano.


Infine, dopo dieci minuti di quell'agonia, suonò la campana, e si udì il fischio della macchina. La ragazza strinse forte il suo ombrellino, e se ne andò lenta lenta, barcollando un poco; fuori della stazione si mise a sedere su di un banco di pietra.


- Addio! tu che te ne vai, tu con cui il mio cuore ha vissuto!

Addio tu che sei andato prima di lui! Addio tu che verrai dopo di lui, e te ne andrai come lui se n'è andato, addio! - Povera ragazza!

E tu, povero grande artista da birreria, va a strascinare la tua catena; va a vestirti meglio e a mangiare tutti i giorni; va ad ubbriacare i tuoi sogni di una volta fra il fumo delle pipe e del 'gin', nei lontani paesi dove nessuno ti conosce e nessuno ti vuol bene; va a dimenticare la Principessa fra le altre principesse di laggiù, quando i danari raccolti alla porta del caffè avranno scacciato la melanconica immagine dell'ultimo addio scambiato là, in quella triste sala d'aspetto. E poi, quando tornerai, non più giovane, né povero, né sciocco, né entusiasta, né visionario come allora, e incontrerai la Principessa, non le parlare del bel tempo passato, di quel riso, di quelle lagrime, ché anche ella si è ingrassata, non si veste più a credenza al Cordusio, e non ti comprenderebbe più. E ciò è ancora più triste - qualchevolta.






Un processo


All'Assise discutevasi una causa capitale. Si trattava di un facchino che per gelosia aveva ucciso il suo rivale, giovane dabbene e padre di famiglia. La folla inferocita voleva far giustizia sommaria dell'assassino, pallido e lacero dalla lotta, che i carabinieri menavano in prigione. La vedova dell'ucciso era venuta, come Maria Maddalena, per chiedere giustizia a Dio e agli uomini, in lutto, scarmigliata, coi suoi orfani attaccati alla gonnella, mentre l'usciere andava mostrando ai signori giurati l'arma con cui era stato commesso l'omicidio: un coltelluccio da tasca, poco più grande di un temperino, di quelli che servono a sbucciare i fichidindia, ancora nero di sangue sino al manico. Il presidente domandò:

- Con questo avete ucciso Rosario Testa? - Tutti gli occhi si volsero alla gabbia dov'era rinchiuso l'imputato, un vecchio alto e magro, dal viso color di cenere, coi capelli irti e bianchi sulla fronte rugosa. Egli ascoltava l'accusa senza dir verbo, col dorso curvo; e seguiva cogli occhi l'usciere, il quale passava dinanzi al banco dei giurati col coltello in mano. Soltanto batteva le palpebre, quasi la poca luce che lasciavano entrare le persiane chiuse fosse ancora troppo viva per lui.


Alla domanda del presidente si rizzò in piedi, diritto, col berretto ciondoloni fra le mani, e rispose:

- Sissignore, con quello -.


Corse un mormorio nell'uditorio. Era una giornata calda di luglio, e i signori giurati si facevano vento col giornale, accasciati dall'afa e dal brontolio sonnolento delle formule criminali.


Nell'aula c'era poca gente, amici e parenti dell'ucciso, venuti per curiosità. La vedova, stralunata, si teneva sul viso il fazzoletto orlato di nero, e faceva frequentemente un gesto macchinale, come per ravviare le folte trecce allentate, colle mani bianche, levando in aria le braccia rotonde, con un moto che sollevava il seno materno, orgoglio della sua bella giovinezza vedovata. E fissava sitibonda sull'uccisore gli occhi arsi di lagrime.


Costui non sapeva risponder altro che: - sissignore - a tutte le domande del presidente che gli stringevano il capestro alla gola, guardando inquieto i movimenti d'indignazione dei giurati, non avvezzi alla severa impassibilità della toga, con un'aria di bestia sospettosa. Incominciò la sfilata dei testimoni, tutti a carico. - Gli amici del morto, un buon diavolaccio, incapace di far male ad una mosca, - la vedova piangeva. - I vicini che l'avevano visto barcollare, come preso dal vino, e cadere balbettando:
- Mamma mia! - Quelli che avevano gridato:
- All'assassino! - Il coraggioso che aveva afferrato pel petto l'omicida, prima che giungessero le guardie, nella brusca e feroce lotta per lo scampo.


- Giustizia! giustizia! - gridava nella folla la vedova, colla voce del sangue che chiedeva sangue, accompagnata dal piagnisteo degli orfani, inteneriti dalla solennità.


Infine fu introdotto un testimonio sinistro, l'amante che quei due uomini si erano disputata a colpi di coltello: una creatura senza nome, senza età, quasi senza sesso, alta, nera, magra, mangiata dagli stenti e dal vizio, che solo le era rimasto vivo negli occhi arditi. - Destò un senso di ripugnanza al solo vederla. - Il pubblico accusatore l'aveva fatta venire appunto per ciò.


Ella si piantò tranquillamente in faccia al Cristo, alla legge, a tutti quei visi arcigni, colla sicurezza di chi ha visto in maniche di camicia gli sbirri e i doganieri, e giurò, levando la mano sudicia e nera verso il crocifisso d'avorio, come avrebbe fatto una vergine dinanzi all'altare, baciando lo scapolare bisunto che trasse dal seno cascante.


- Come vi chiamate?

- La Malerba -.


E siccome l'uditorio, nell'attesa tragica, si era messo a ridere, quasi per ripigliar fiato, ella soggiunse:

- Anche lui, gli dicevano Malannata -.


E indicò l'imputato nel banco.


- Di chi siete figlia?

- Di nessuno.


- Quanti anni avete?

- Non lo so.


- Che professione fate? - «Essa parve cercare la parola.» - Donna di mondo, - disse infine.


Scoppiò un'altra risata nell'uditorio. Il presidente impose silenzio scam- panellando.


- Sì, donna di mondo, - ribatté lei per spiegarsi meglio. - Ora con questo, e ora con quell'altro.


- Basta, abbiamo capito, - interruppe il presidente.


- Conoscete da molto tempo l'imputato?

- Sissignore. Questo qui me l'ha fatto lui, tre anni sono -.


E indicò fieramente uno sfregio che le segnava la guancia, dall'orecchio sinistro al labbro superiore.


- E non ve ne querelaste?

- No. Era segno che mi voleva bene.


- Foste presente all'uccisione di Rosario Testa?

- Sissignore. Fu alla Marina: il giorno di tutti i Santi.


- E ne sapete il motivo?

- Il motivo fu che Malannata era geloso...


- Geloso di Testa?

- Sissignore.


- E a ragione?

- Sissignore -.


Allora la vedova si celò il viso fra le mani.


- Com'è possibile che Rosario Testa, giovane, marito di una bella donna, gli desse ragione d'essere geloso... per voi?

- Com'è vero Dio, questa è la verità, - rispose la Malerba.


- Va bene, continuate.


- Avevo conosciuto quel poveretto... il morto, prima di quest'altro cristiano, molto tempo prima, prima ancora che si maritasse. Allora mi chiamavano la Mora dei Canali, Rosario Testa faceva il fruttaiuolo, lì alla Peschiera. Era un libertino, buon'anima. Le lavandaie dei Canali, le serve che venivano a far la spesa, con quella sua galanteria di far regali, se le pigliava tutte. Ma per me specialmente ci aveva il debole, ché una volta alla festa dell'Ognina gli ruppero la testa per via di un marinaio ubriaco che mi voleva. Poi seppi che si maritava e mutava vita.


Andò a stare a San Placido col suo banchetto. Né visto né salutato. Io mi misi con Malannata, sì, che erano i giorni del colèra.


Buon uomo anche lui, buono come il pane, e se lo levava di bocca, quel poco che guadagnava, per darlo a me. Ma geloso come il Gran Turco: «Dove sei stata? Cosa hai fatto?» E poi si picchiava la testa con un sasso, pentito delle botte che mi dava. Quell'annata del colèra, che tutti scappavano via e si moriva di fame davvero, egli voleva anche mettersi a beccamorto, per non farmi fare la mala vita, col castigo di Dio che si aveva addosso. Si lasciava morire di fame piuttosto che mangiare del mio guadagno.


Sì, glielo dico in faccia, ora che l'avete a condannare, perche questa è la verità dinanzi a Dio. Mi diceva, poveretto: «No, non me ne importa. È che penso al come lo guadagni, questo pane, e non posso mandarlo giù». Ma io che potevo farci? Poi lui lo sapeva che cosa io ero. «Non importa», tornava a dire: «almeno non ci voglio pensare». Ma aveva i suoi capricci anche lui, come una donna, e certuni non me li voleva attorno. Allora diventava come un pazzo; si strappava i capelli e si rosicava le mani, perché non era più giovane. Quando mi vedeva insieme al doganiere del molo, che era un bell'uomo, colla montura lucida, mi diceva: «Vedi questo quattrino arrotato, che io tengo in tasca apposta? con questo ti taglierò la faccia, e dopo m'ammazzo io». E lo fece davvero. Io gli dissi: «Che serve? Ora che m'avete sfregiata nessuno mi vorrà, e non sarete più geloso» -.


Si interruppe, con un orribile sorriso di trionfo, guardando sfrontatamente in giro il presidente, i giurati, i carabinieri, cinghiati di bianco, incrociando sul petto il vecchio scialle, con un gesto vago.


- Ma non fu così, signor presidente. Mi volevano ancora, per sua ontà. Già gli uomini, sono come i gatti...


- E anche Rosario Testa? - Ella chinò il capo, assentendo, due o tre volte, con quel sorriso.


- Sissignore, anche lui! - La vedova adesso la guardava cogli occhi ardenti e feroci, le labbra pallide come le guance.


- V'ho detto che era un discolo, buon'anima. E anche io, al rivederlo, mi sentivo tutta fiacca, come m'avesse fatto bere.


Dicevo di no, perché Malannata era lì vicino, a scaricar zolfo nel magazzino dietro la Villa, e tante volte mi aveva detto lui pure:

«Bada che se torni con Rosario, vi faccio la festa a tutti e due».


Ma l'amore antico non si scorda più, vossignoria!

- Basta. Dite come avvenne l'omicidio.


- Così, come ve lo dico adesso, signor presidente, col coltello dei fichidindia, quello lì.


- Testa era armato?

- Lui? povero ragazzo! Mi aveva invitato a' fichidindia, una galanteria delle sue, lì, al banco di Pocaroba, che ce li ha di quelli di Paternò, sino a Natale. Pocaroba dice: «Badate che Malannata è in sospetto. L'ho visto che si affaccia ogni momento alla porta del magazzino, e tien d'occhio compare Rosario». E Testa: «Lasciatelo guardare, compare Pocaroba, che me ne rido di Malannata e del suo santo». Allora lasciai stare i fichidindia, e cercavo di condurmi via l'altro; quand'ecco quel cristiano lì correre dall'arco della ferrovia, tutto bianco di zolfo, e cogli occhi come uno che ha bevuto, e in due salti ci fu addosso; afferrò il coltello, dal banco dei fichidindia, prima di dire Gesù e Maria...


- Accusato, avete qualche cosa da aggiungere?

- Nulla, signor presidente. Questa è la verità sacrosanta -.


Allora sorse il pubblico accusatore, togato e solenne, a malgrado della nota mondana dell'alto colletto inamidato che gli usciva dal nero della toga; e fulminò il reo colla sua implacabile requisitoria, facendo inorridire i giurati col quadro del vizio abbietto che vive nel fango dei bassi strati sociali, per dar l'orrido fiore del delitto, senza neppure la febbre della giovinezza, della passione o dell'onore, senza nemmeno la scusa della tentazione o della gelosia. - Il vizio che vive del disonore ed osa ribellarvisi col delitto -. E stendeva verso quel grigio capo avvilito l'indice minaccioso, dall'unghia rosea e lucente.


Le signore, che dovevano alla sua galanteria i posti riservati dell'aula, rianimavano la loro indignazione col profumo della boccetta di sale inglese, soffocate dall'afa; e i larghi ventagli si agitavano vivamente a scacciare il lezzo immondo della colpa, come farfalle gigantesche. Poscia il magistrato si assise tranquillamente, ringraziando, con un impercettibile sorriso, all'applauso discreto di quei ventagli che si inchinavano, ponendosi sul viso il fazzoletto di battista. Solo l'imputato non aveva caldo, seduto sulla sua panchetta, col dorso curvo, il viso color di terra rivolto verso tutte quelle infamie che gli rinfacciavano.


A sua volta prese a parlare l'avvocato. Era un giovane di belle speranze, delegato d'ufficio dal presidente a quella difesa senza compenso. Egli sfoderò gratuitamente tutte le sue brillanti qualità oratorie. Esaminò lo stato psicologico e morale degli attori del lugubre dramma; sciorinò le teorie più nove sul grado di responsabilità umana; argomentò sottilmente intorno alle circostanze di fatto, per farne risultare tutto ciò che occorreva a dimostrare la provocazione grave e l'ingiuria. Qui veniva a taglio una pittura commoventissima di quella morbosa gelosia senile, che doveva avere tutti gli strazi e le collere furibonde dell'umiliazione e dell'abbandono. Sì, egli lo sapeva, non erano le coscienze di uomini onesti, vissuti nel culto della famiglia, resi più sensibili dagli agi, che avrebbero potuto scendere negli abissi di quei cuori tenebrosi e di quelle infime esistenze per scoprire il movente di certe delittuose follie. Forse soltanto il sentimento più delicato e immaginoso di quelle dame eleganti, avrebbe potuto sorprendere il tenue filo per cui si legano i fatti più mostruosi al sentimento più nobile in quegli animi rozzi. Egli seguì cotesta fatale concatenazione che c'è fra tutti i sentimenti e le azioni umane con una analisi così acuta, che più di un onesto padre di famiglia sentì turbata la sua digestione dallo smarrimento della colpa, mentre era lì, seduto a giudicare, pensando al ricolto del podere, o al fresco del terrazzino dove lo stava aspettando la famigliuola. Per poco non si udirono degli applausi alla perorazione dell'avvocato. Lo stesso presidente gli fece velatamente i mirallegro.


- Accusato, avete nulla da dire a vostra discolpa? - conchiuse il presidente.


L'accusato si alzò di nuovo, colle braccia penzoloni, lungo la sua stecchita persona, e un gesto vago dell'indice, come d'uomo persuaso di quel che dice.


- Signor presidente, ho ucciso Rosario Testa, devo andare a morte anche io, com'è scritto nella legge, e va bene. La Malerba, poveretta, è quella che è, e anche ciò va bene. Ma quando me la lasciavano sulla panchina del molo come una scarpa vecchia, chi andava a dirle una buona parola ero io; e a chi ella diceva una buona parola quando aveva il cuore grosso, ero io pure. Gli altri, pazienza, oggi questo, domani quell'altro; le buttavano dei soldi e delle male parole, ed essa non ci pensava più. Ma Testa, nossignore! Essa quando era stata con lui, mi ritornava a casa tutta sossopra, cogli occhi che pareva ci avesse la luminaria dentro. Io glielo aveva detto a Testa: «Guarda che a te non te ne importa. Tu ci hai moglie e figliuoli; ma io non ho che questa qui, Testa!» - Poi tornò a sedersi, accennando ancora del capo, mentre la Corte si ritirava per deliberare. E rimase immobile, nell'ombra, aspettando il suo destino. Era venuta la sera. La folla si era diradata, e nella sala accendevano il gas. Infine squillò di nuovo un campanello, e comparvero di nuovo le stesse toghe nere, le stesse facce pallide e stanche che guardavano l'imputato. Egli non capiva nulla delle frasi che borbottavano in mezzo a quella folla, nell'ombra. Intese solo il presidente che pronunziava la condanna:

- A vita! - E si alzò un'ultima volta, barcollando sulle gambe, accennando sempre coll'indice quel gesto vago che era tutta la sua eloquenza, e balbettò:

- Io glielo avevo detto a colui, signor presidente -.







I ricordi del Capitano d'Arce


D'Arce, cullato dal rullìo del bastimento, aveva posato il bicchierino sulla tavola, affissando l'orizzonte mobile attraverso il cristallo del finestrino, quasi vedesse ancora ciò che stava narrando.


No, neanche la punta di un dito. Adesso è storia vecchia... e anche triste!... Non ci siamo neppur detto di amarci... quello che si chiama amare... Mi piaceva assai, ecco. Andavo da per tutto dove sapevo d'incontrarla, alla Villa, al Sannazzaro, al concerto serale dello 'Châlet'. Mi sentivo battere il cuore e inciampavo nelle seggiole appena scorgevo da lontano i nastri rossi del suo cappellino. Mi rassegnavo al cipiglio e all'accoglienza glaciale del Comandante, solo per vedere i begli occhi grigi di lei che mi cercavano nella folla. Essa mi salutava con un sorriso appena accennato: sapete, quel sorriso che vedete soltanto voi, quella fiamma lieve e rapida che illumina a un tratto un bel viso delicato, e vi dice:
- Grazie!... - Ma amore, no. Perché c'era di mezzo Alvise Casalengo, mio camerata, mio compagno d'armi e di scuola. - Adesso è andato a finire nella Navigazione Generale, 'requiescat' anche lui! - Ma allora era il mio Pilade, troppo Pilade, ahimé, perché potessi fingere d'ignorare quello che sapevano tutti, sebbene Alvise, com'è naturale, non me ne avesse fatta mai la confidenza. Appunto, giusto per rappresentare la parte di uno che non vuol sapere, 'filavo' anche io il mio briciolo di corte alla signora Ginevra Silverio, la moglie del mio Comandante, in quei due mesi di licenza che avevo passato a Napoli: una corte modesta e superficiale, da non passare il guanto, quel tanto d'omaggio che era indispensabile di tributare alla moglie del mio superiore, bella, elegante, un po' civetta pure, dicevano; ma civetta con tanta naturalezza e tanta grazia che quasi non se ne accorgeva.


Essa si era lasciata corteggiare anche da me perché non stonassi nel coro, perché tutti le facevano la corte, perche ero intimo di Alvise, perché le piacevo, infine. Ciò che era venuto in seguito, ciò che mi sembrava a volte vederle balenare negli occhi e sentirmi tremare nella voce... Sapete come avviene... gli ostacoli, i riguardi umani, la diffidenza del marito, la stessa sicurezza leale di Alvise... Tante premure deliziose, un'attrattiva di sacrificio, un profumo soave di frutto proibito, più velenoso di quelli rubati nell'orto coniugale... In conclusione, ditemi un po', adesso che ne parliamo coi gomiti sulla tovaglia, qual merito ne ho avuto agli occhi di quell'animale che ha piantato amici e spalline per fare il cabotaggio da Palermo a Genova? Il guaio era che il Comandante se la pigliava con l'intero genere umano, causa la pulce che Alvise gli aveva messo nell'orecchio - un pasticcio dell'ordinanza per cui c'erano state fra marito e moglie delle scene spiacevoli, convulsioni, lagrime, il dottore chiamato in fretta e furia, di notte... Insomma quello che non sarebbe avvenuto, se il Comandante, credendo di far meglio, non avesse avuto la cattiva idea di prendere al suo servizio un cretino di nuova leva il quale non capiva nulla. Poi ogni cosa si era chiarita per il meglio.


Alvise, com'è naturale, era rimasto 'a latere' del Comandante, e quella bestia dell'ordinanza, in punizione, sacco e branda, e imbarcarsi subito. I cocci rotti avevano dovuto pagarli gli altri, gli amici di casa, il Comandante stesso, pover'uomo, diventato un orso, un Otello, una bestia feroce. Ti rammenti, Serravalle, quando la signora Ginevra ti si svenne o quasi nelle braccia, ballando in casa Maio? Era tanto delicata, poveretta! E le piaceva tanto il ballo, che suo marito, per la tranquillità dell'alcova coniugale, si rassegnava ad essere di tutte le feste, insieme a lei.


Ma con che viso ci veniva, quell'uomo! Come faceva cascar le braccia ai poveri ufficialetti che gli arrivavano freschi freschi dalla Spezia o da Livorno, e che si immaginavano di disarmarlo pigliandolo colle buone! Anche io, purtroppo, ero nella lista dei sospetti. Non so per qual motivo - perché ero più gentile e premuroso degli altri, perché gli ero simpatico, perche ero amico d'Alvise, forsi anche... Giudizi umani! Il fatto è che nell'animo del Comandante ero un uomo perduto. Tante cose me l'avevano fatto capire: quel diavolo d'uomo aveva un modo di piantarvi gli occhi in faccia per dirvi buongiorno, che v'imbarazzava realmente. E le ingiustizie del superiore, le punizioni e gli arresti che piovevano come gragnuola, l'ordine d'imbarco comunicatomi per telegrafo, quando si sapeva che la squadra sarebbe rimasta a Genova un'altra settimana! Anche lei, povera donna, sembrava consegnata, colla sentinella alla porta, un genovese cane il quale si piantava rispettosamente per mandarmi via, se tentavo di rompere il blocco in un giorno della settimana che non fosse il martedì, il giorno di ricevimento della signora Ginevra, il giorno di tutti e di nessuno. Allorché l'avevo pregata di accordarmi un'entrata di favore, l'avevo vista così imbarazzata, così esitante... Ecco, se avessi voluto permettermi un'indiscrezione col mio amico Alvise, sarebbe stata quella di chiedergli in un orecchio:
- Come diavolo fai?... - Era una povera vittima, quella disgraziata! una schiava legata alla catena corta. Chi l'avrebbe immaginato, di voialtri, quando la vedevi arrivare, col nasino palpitante e la febbre negli occhi, e una voglia di divertirsi fino nelle scarpette che si sarebbero messe a ballare da sole? Ma una paura del marito con tutto ciò!

Bastava un'occhiata di lui per farle gelare il sorriso con cui vi si abbandonava nelle braccia, anelante, facendosi vento presto presto, smarrita da un capogiro delizioso. E le carezze timide colle quali cercava di sedurre quel cerbero, l'aria inquieta con cui si abbandonava a certe graziose imprudenze, guardandosi intorno per non esser sorpresa da lui, o gli fissava in volto i begli occhi sorridenti per cercare d'indovinare che vento tirasse, le piccole astuzie, le bugiette dietro il ventaglio, i complotti colle amiche per strappare al marito il permesso di un'ultima polca. Giacché la poveretta sapeva quel che le sarebbero costati poi a quattr'occhi quelle audacie disperate, quei colpi di testa ai quali cedeva con tutto il sangue al viso - delle audacie innocentissime. Noi altri uomini non sappiamo mai quanto coraggio ci vuole a fare certe cose.


Immaginate adesso un uomo che vi tira a bruciapelo l'ordine d'imbarco dopo una di quelle sere... innocente com'ero... e la povera signora Ginevra anche essa!... Nulla di nulla, vi giuro!

Neanche una parola, neanche un dito... Se ce ne fu il pericolo, dopo... un momento solo... la colpa fu tutta sua, di lui!...


D'Arce vuotò d'un fiato il resto del cognac, e posò il bicchierino sulla tavola, stringendosi nelle spalle come un uomo che ha navigato per tutti i mari, ne ha viste di tutte le razze e di tutti i colori, e non si meraviglia più di nulla.


Però non potevo abbandonare Napoli e l'ltalia senza andare a salutare la signora Ginevra, tanto più che non avevo potuto vedere neppure il lembo del suo vestito, quand'ero andato a fare la mia visita di congedo, in gran tenuta, fra le dieci e le undici. Lui sì, ce l'avevo trovato il signor Comandante, straordinariamente rabbonito dalla mia partenza, e mi aveva accomiatato con belle parole:

- Faccia buon viaggio, e metta il tempo a profitto. So da buona fonte che li terranno un pezzo imbarcati, e avranno tempo di studiare e di farsi onore. Il mare è una gran scuola e un gran corroborante per la gioventù -.


Grazie tante! Ma il buon viaggio volevo che me lo desse lei, la signora Ginevra. Non poteva rassegnarmi a tutte quelle belle cose che mi aveva detto suo marito, senza vederla un'ultima volta, e sentire anche quel che ne pensava lei. La mia stessa innocenza mi dava ai miei occhi una specie di salvacondotto per andare a trovarla. Per altro m'ero proposto di essere prudente ed audace come un vero innamorato. E contavo sul gran da fare che c'era al Comando, appunto per quella benedetta partenza. La sera, appena sbirciai il mio superiore che svoltava l'angolo della piazza... - due ore di guardia col naso incollato ai vetri del Caffè d'Europa, amici miei, temendo ogni momento di veder capitare Alvise, che volentieri avrei voluto sapere a casa, magari agli arresti, magari colla febbre. - Vedevo il mio amico in ogni soprabito gallonato che incontravo, lungo la strada, rasente al muro, e il cuore mi batteva un po'... Quando fui poi in via Partenope... Il cerbero che custodiva la porta della signora Ginevra mi lasciò passare senza alzare gli occhi dal 'Pungolo', o credette forse che venissi per un affare di servizio, o si lasciò ingannare dalla somiglianza dell'uniforme... prendendomi per 'quell'altro'...


Sì in quel momento mi faceva un certo effetto di esser scambiato con un altro. Pensavo ad Alvise, che andava e veniva senza tante difficoltà, e che sarebbe rimasto a Napoli!...


Entrava appunto un bel chiaro di luna dai finestroni colorati, e passava per la strada il ritornello della canzone in voga che solevano suonare allo 'Châlet'. Tutte le piccole seduzioni che vi formano le grandi, sapete!... Avevo il cuore alla gola nel bussare all'uscio della signora Ginevra, forse perché ella stava al terzo piano... o perche ero giovanissimo allora... Il fatto è che mi sentii penetrare lo squillo acuto e vibrante del campanello sino al cuore, come un sussulto, come una puntura, direi, ripensando ad Alvise... Al mio superiore, no, non ci pensai, altro che per almanaccare un pretesto, pel caso che mi avesse fatto trovare un marinaio comandato di sentinella all'uscio della moglie anche a quell'ora...


Ma invece venne ad aprire Gioconda, quella bella giovane che aveva il viso come il nome, vi rammentate? Essa mi aveva visto spesso venire, nei bei giorni in cui non avevo ancora perso la stima del Comandante, e mi accolse con un graziosissimo sorriso: il medesimo sorriso della sua padrona, indulgente e grato verso le debolezze umane, il sorriso che comprendeva e perdonava, e voleva farsi perdonare ciò che doveva dirmi:
- La signora era un po' sofferente, stava già per andare a letto...


Era scritto, vi dico! Mentre mi rassegnavo a tornarmene via, triste come la morte, e indugiavo a scusarmi per l'ora indebita, adducendo la partenza immediata..., l'assenza lunga, e questo e quell'altro... - intanto le vedevo negli occhi una gran simpatia, alla buona giovane. - In quel momento il campanello elettrico squillò di nuovo, premuroso e carezzevole, uno squillo che veniva dalle stanze interne stavolta, e diceva: Sì! sì! sì!...


- Se vuol passare un momento in sala, farò a ogni modo l'imbasciata... - Ho anche io adesso i galloni di Comandante, e molti anni di più sulle spalle, ma ancora, vedete, mi sembra di sentirmi battere il cuore nel soprabito attillato di guardiamarina, rammentando quell'istante in cui vidi comparire sull'uscio del salotto 'lei', tutta sorriso, nella bocca, negli occhi, nel fruscìo del vestito, quel sorriso carezzevole e buono con cui accoglieva i suoi amici e che ho ancora dinanzi agli occhi, quando vado a pregare sulla sua tomba, poveretta!

D'Arce riempì di nuovo il bicchiere, sforzandosi di mostrarsi disinvolto, ripreso, suo malgrado, dalla commozione di quei ricordi.


La vedo ancora, seduta su quel canapè basso e largo come un letto.


Aveva delle calze di seta nera, delle calze terribili, amici miei, sotto quel vestito bianco, tanto che ella se ne accorse, e ritirò adagio adagio i piedini, facendosi rossa. Proprio una bambina, vi dico! civetta, innocente nella sua civetteria come l'aveva fatta sua madre, e con una paura del marito, in quel momento, che le faceva tendere l'orecchio e troncare il discorso di tratto in tratto. Anche io mi sentivo assai sconvolto... Allora scappammo a parlare tutti e due in una volta, come cavalli spaventati, battendo la campagna, con una vivacità che voleva sembrar sincera.


- Io non avevo voluto partire senza andare a salutarla. - Essa non aveva voluto lasciarmi partire senza dirmi addio. - Partire, lasciarsi... - In fondo a ogni parola c'era sempre quella nota, sempre quel tono triste, in sordina, in note tenute, in tutte le note, all'infuori della tua, mio povero Alvise, che dormivi lealmente fra i due guanciali della tua felicità o piuttosto che perdevi al Circolo, in quel momento stesso, lieto del proverbio che lusingava il tuo amor proprio. - E le nostre parole dicevan tutt'altro, dicevano tutt'al più di viaggi e paesi lontani, di orizzonti sconosciuti, o delle memorie che si portano via, e dei luoghi cari che non si vorrebbero lasciare... - Felice lei che andrà così lontano, per tanto mare, per tanto mondo! Come vorrei volare anche io, come vorrei venire! - Felice lei piuttosto, che rimane in questa città di cui il cuore porta via tanti ricordi...


in questo nido di cui gli occhi non si saziano di baciare ogni angolo e ogni cosa!... - Questo dicevano i sorrisi vaghi, gli occhi umidi, erranti per quel salotto di cui tu conosci ogni gingillo, di cui ogni gingillo ha contato le tue ore felici, fortunato Alvise! - voi! - voi! - voi! - Ma non una parola d'amore, torno a dirvi. Si indovinava, era sottinteso, in ogni sillaba, in ogni frase, discorrendo di amici e di conoscenti...


anche di Alvise - ella per provarmi che era lontano, tanto lontano dal suo salotto e dal suo pensiero! - io per rallegrarmi della sua assenza - per rallegrarcene intimamente tutt'e due, come eravamo lieti dell'assenza del Comandante... il quale però avrebbe potuto ascoltare tutto ciò che si diceva, lei ed io, senza dover snudare il brando, senza che l'angelo custode della sua casa avesse avuto motivo di tapparsi le orecchie.


In quella squillò di nuovo il campanello dell'anticamera, forte, improvviso, minaccioso: una scampanellata da padrone, di quelle scampanellate che vi pigliano pei capelli, e vi fanno saltare in aria. Ella impallidì visibilmente, e si alzò di botto, come fuori di sé, agitando istintivamente la mano in un gesto vago. E tutto a un tratto mi si abbandonò fra le braccia, quasi stesse per svenire, cogli occhi smarriti, il seno palpitante... balbettando:

- lui! lui! - Proprio lui che l'aveva voluto, non è vero? Una povera donna il più delle volte si butta nel precipizio pel timore dell'abisso!

Non ascoltava più, non capiva più che così facendo si accusava della colpa di cui eravamo innocenti... Innocenti dinanzi agli uomini e dinanzi a Dio! Essa era caduta come una morta sul canapè, fissando gli occhi spaventati sull'uscio, quasi aspettando di veder comparire di momento in momento il suo giudice e il suo giustiziere... Aspettai anche io, in piedi, abbottonandomi macchinalmente l'uniforme, come si aspetta in un duello la pistolettata dell'avversario... cinque minuti... dieci...


un'eternità. Nulla, non era stato nulla. La cameriera venne a dire poco dopo che eran venuti a cercare il padrone per un affare di servizio.


Accidenti al servizio! La povera signora mi sfuggì di mano come un'anguilla, e non volle più saperne di ripigliare il duetto, proprio quando avevo tante altre cose da dirle, quando il suo viso pallido e i suoi occhi stralunati mi davano le vertigini, mentre respingevami colle mani tremanti, balbettando:
- Andatevene!

andatevene!... - Soltanto mi dava del voi; mi dava le mani tremanti e gli occhi che si smarrivano nei miei, bramosi e spaventati...


Nient'altro, amici miei... Una donna che ha paura, capite... La paura me l'aveva data un momento e la paura me la ritolse.





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