Virgilio Publio Marone



ENEIDE

Traduzione
di
Annibal Caro

 

 

 

 

 

 

LIBRO PRIMO


  Quell'io che già tra selve e tra pastori
di Titiro sonai l'umil sampogna,
e che, de' boschi uscendo. a mano a mano
fei pingui e cólti i campi, e pieni i vóti
d'ogn'ingordo colono, opra che forse
agli agricoli è grata; ora di Marte

  L'armi canto e 'l valor del grand'eroe
che pria da Troia, per destino, a i liti
d'Italia e di Lavinio errando venne;
e quanto errò, quanto sofferse, in quanti
e di terra e di mar perigli incorse,
come il traea l'insuperabil forza
del cielo, e di Giunon l'ira tenace;
e con che dura e sanguinosa guerra
fondò la sua cittade, e gli suoi dèi
ripose in Lazio: onde cotanto crebbe
il nome de' Latini, il regno d'Alba,
e le mura e l'imperio alto di Roma.
  Musa, tu che di ciò sai le cagioni,
tu le mi detta. Qual dolor, qual onta
fece la dea ch'è pur donna e regina
de gli altri dèi, sí nequitosa ed empia
contra un sí pio? Qual suo nume l'espose
per tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto
possono ancor là su l'ire e gli sdegni?
  Grande, antica, possente e bellicosa
colonia de' Fenici era Cartago,
posta da lunge incontr'Italia e 'ncontra
a la foce del Tebro: a Giunon cara
sí, che le fûr men care ed Argo e Samo.
Qui pose l'armi sue, qui pose il carro,
qui di porre avea già disegno e cura
(se tale era il suo fato) il maggior seggio,
e lo scettro anco universal del mondo.
  Ma già contezza avea ch'era di Troia
per uscire una gente, onde vedrebbe
le sue torri superbe a terra sparse,
e de la sua ruina alzarsi in tanto,
tanto avanzar d'orgoglio e di potenza,
che ancor de l'universo imperio avrebbe:
tal de le Parche la volubil rota
girar saldo decreto. Ella, che téma
avea di ciò, non posto anco in oblio
come, a difesa de' suoi cari Argivi,
fosse a Troia acerbissima guerriera,
ripetendone i semi e le cagioni,
se ne sentia nel cor profondamente
or di Pari il giudicio, or l'arroganza
d'Antígone, il concúbito d'Elettra,
lo scorno d'Ebe, alfin di Ganimede
e la rapina e i non dovuti onori.
  Da tante, oltre al timor, faville accesa,
quei pochi afflitti e miseri Troiani
ch'avanzaro agl'incendi, a le ruine,
al mare, ai Greci, al dispietato Achille,
tenea lunge dal Lazio; onde gran tempo,
combattuti da' vènti e dal destino,
per tutti i mari andâr raminghi e sparsi:
di sí gravoso affar, di sí gran mole
fu dar principio a la romana gente.
  Eran di poco, e del cospetto a pena
de la Sicilia navigando usciti,
e già, preso de l'alto, a piene vele
se ne gian baldanzosi, e con le prore
e co' remi facean l'onde spumose,
quando, punta Giunon d'amara doglia:
«Dunque, - disse - ch'io ceda? e che di Troia
venga a signoreggiar Italia un re,
ch'io nol distorni? Oh, mi son contra i fati!
Mi sieno: osò pur Pallade, e poteo
ardere e soffocar già degli Argivi
tanti navili, e tanti corpi ancidere
per lieve colpa e folle amor d'un solo,
Aiace d'Oïlèo. Contra costui
ella stessa vibrò di Giove il tèlo
giú dalle nubi; ella commosse i vènti
e turbò 'l mare, e i suoi legni disperse:
e quando ei già dal fulminato petto
sangue e fiamme anelava, a tale un turbo
in preda il diè, che per acuti scogli
miserabil ne fe' rapina e scempio.
Tanto può Palla? Ed io, io de gli dèi
regina, io sposa del gran Giove e suora,
son di quest'una gente omai tant'anni
nimica in vano? E chi piú de' mortali
sarà che mi sacrifichi, e m'adori?»
  Ciò fra suo cor la dea fremendo ancora,
giunse in Eòlia, di procelle e d'àustri
e de le furie lor patria feconda.
Eolo è suo re, ch'ivi in un antro immenso
le sonore tempeste e i tempestosi
vènti, sí com'è d'uopo, affrena e regge.
Eglino impetuosi e ribellanti
tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
che ne trema la terra e n'urla il monte.
Ed ei lor sopra, realmente adorno
di corona e di scettro, in alto assiso,
l'ira e gl'impeti lor mitiga e molce.
Se ciò non fosse, il mar, la terra e 'l cielo
lacerati da lor, confusi e sparsi
con essi andrian per lo gran vano a volo;
ma la possa maggior del padre eterno
provvide a tanto mal serragli e tenebre
d'abissi e di caverne; e moli e monti
lor sopra impose; ed a re tale il freno
ne diè, ch'ei ne potesse or questi or quelli
con certa legge o rattenere o spingere.
A cui davanti l'orgogliosa Giuno
allor umíle e supplichevol disse:
«Eölo, poi che 'l gran padre del cielo
a tanto ministerio ti prepose
di correggere i vènti e turbar l'onde,
gente inimica a me, mal grado mio,
naviga il mar Tirreno; e giunta a vista
è già d'Italia, al cui reame aspira;
e d'Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto
seco v'adduce e i suoi vinti Penati.
Sciogli, spingi i tuoi vènti, gonfia l'onde,
aggiragli, confondigli, sommergigli,
o dispergigli almeno. Appo me sono
sette e sette leggiadre ninfe e belle;
e di tutte piú bella e piú leggiadra
è Deiopèa. Costei vogl'io, per merto
di ciò, che sia tua sposa; e che tu seco
di nodo indissolubile congiunto,
viva lieto mai sempre, e ne divenga
padre di bella e di te degna prole».
  Eolo a rincontro: «A te, regina, - disse -
conviensi che tu scopra i tuoi desiri,
ed a me ch'io gli adempia. Io ciò che sono
son qui per te. Tu mi fai Giove amico,
tu mi dài questo scettro e questo regno;
se re può dirsi un che comandi a' vènti.
Io, tua mercé, su co' celesti a mensa
nel ciel m'assido; e co' mortali in terra
son di nembi possente e di tempeste».
  Cosí dicendo, al cavernoso monte
con lo scettro d'un urto il fianco aperse,
onde repente a stuolo i vènti usciro.
Avean già co' lor turbini ripieni
di polve e di tumulto i colli e i campi,
quando quasi in un gruppo ed Euro e Noto
s'avventaron nel mare, e fin da l'imo
lo turbâr sí, che ne fêr valli e monti;
monti, ch'al ciel, quasi di neve aspersi,
sorti l'un dopo l'altro, a mille a mille
volgendo, se ne gian caduchi e mobili
con suono e con ruina i liti a frangere.
Il grido, lo stridore, il cigolare
de' legni, de le sarte e de le genti,
i nugoli che 'l cielo e 'l dí velavano,
la buia notte, ond'era il mar coverto,
i tuoni, i lampi spaventosi e spessi,
tutto ciò che s'udia, ciò che vedevasi
rappresentava orror, perigli e morte.
Smarrissi Enea di tanto, e tale un gelo
sentissi, che tremante al ciel si volse
con le man giunte, e sospirando disse:
  «O mille volte fortunati e mille
color che sotto Troia e nel cospetto
de' padri e de la patria ebbero in sorte
di morir combattendo! O di Tidèo
fortissimo figliuol, ch'io non potessi
cader per le tue mani, e lasciar ivi
questa vita affannosa, ove lasciolla
vinto per man del bellicoso Achille,
Ettor famoso e Sarpedonte altero?
E se d'acqua perire era il mio fato,
perché non dove Xanto o Simoenta
volgon tant'armi e tanti corpi nobili?»
  Cosí dicea; quand'ecco d'Aquilone
una buffa a rincontro, che stridendo
squarciò la vela, e 'l mar spinse a le stelle,
Fiaccârsi i remi; e là 've era la prua,
girossi il fianco; e d'acqua un monte intanto
venne come dal cielo a cader giú.
Pendono or questi or quelli a l'onde in cima;
or a questi or a quei s'apre la terra
fra due liquidi monti, ove l'arena,
non men ch'ai liti, si raggira e ferve.
  Tre ne furon dal Noto a l'Are spinte;
- Are chiaman gli Ausoni un sasso alpestro
da l'altezza de l'onde allor celato,
che sorgea primo in alto mare altissimo -
e tre ne fûr dal pelago a le Sirti,
(miserabile aspetto) ne le secche
tratte da l'Euro, e ne l'arene immerse.
Una, che 'l carco avea del fido Oronte
con le genti di Licia, avanti agli occhi
di lui perí. Venne da Bora un'onda,
anzi un mar, che da poppa in guisa urtolla,
che 'l temon fuori e 'l temonier ne spinse;
e lei girò sí che 'l suo giro stesso
le si fe' sotto e vortice e vorago,
da cui rapita, vacillante e china,
quasi stanco palèo, tre volte volta,
calossi gorgogliando, e s'affondò.
  Già per l'ondoso mar disperse e rare
le navi e i naviganti si vedevano;
già per tutto di Troia, a l'onde in preda,
arme, tavole, arnesi a nuoto andavano;
già quel ch'era piú valido e piú forte
legno d'Ilïonèo, già quel d'Acate
e quel d'Abante e quel del vecchio Alete,
ed alfin tutti sconquassati, a l'onde
micidïali aveano i fianchi aperti;
quando, a tanto rumor, da l'antro uscito
il gran Nettuno, e visto del suo regno
rimescolarsi i piú riposti fondi:
«Oh - disse irato - ond'è questa importuna
tempesta?» E grazïoso il capo fuori
trasse de l'onde; e rimirando intorno,
per lo mar tutto dissipati e laceri
vide i legni d'Enea; vide lo strazio
de' suoi ch'a la tempesta, a la ruina
e del mare e del cielo erano esposti.
E ben conobbe in ciò, come suo frate,
che ne fôra cagion l'ira e la froda
de l'empia Giuno. Euro a sé chiama e Zefiro,
e 'n tal guisa acremente li rampogna:
  «Tanta ancor tracotanza in voi s'alletta,
razza perversa? Voi, voi, senza me,
nel regno mio la terra e 'l ciel confondere,
e far nel mare un sí gran moto osate?
Io vi farò... Ma di mestiero è prima
abbonazzar quest'onde. Altra fiata
in altra guisa il fio mi pagherete
del fallir vostro. Via tosto di qua,
spirti malvagi; e da mia parte dite
al vostro re che questo regno e questo
tridente è mio, e che a me solo è dato.
Per lui sono i suoi sassi e le sue grotte,
case degne di voi; quella è sua reggia;
quivi solo si vanti; e per regnare,
de la prigion de' suoi vènti non esca».
  Cosí dicendo, in quanto a pena il disse,
la tempesta cessò, s'acquetò 'l mare,
si dileguâr le nubi, apparve il sole.
Cimòtoe e Triton, l'una con l'onde,
l'altro col dorso, le tre navi indietro
ritirâr da lo scoglio in cui percossero.
Le tre che ne l'arena eran sepolte,
egli stesso, le vaste sirti aprendo,
sollevò col tridente ed a sé trassele.
Poscia sovra al suo carro d'ogn'intorno
scorrendo lievemente, ovunque apparve,
agguagliò 'l mare, e lo ripose in calma.
  Come addivien sovente in un gran popolo,
allor che per discordia si tumultua,
e imperversando va la plebe ignobile,
quando l'aste e le faci e i sassi volano
e l'impeto e 'l furor l'arme ministrano,
se grave personaggio e di gran merito
esce lor contro, rispettosi e timidi,
fatto silenzio, attentamente ascoltano,
ed al detto di lui tutti s'acquetano;
cosí d'ogni ruina e d'ogni strepito
fu 'l mar disgombro, allor che umíle e placido
a ciel aperto il gran rettor del pelago
co' suoi lievi destrier volando scórselo.
Stanchi i Troiani, ai liti ch'eran prossimi
drizzaro il corso, e 'n Libia si trovarono.
  È di là lungo a la riviera un seno,
anzi un porto; ché porto un'isoletta
lo fa, che in su la bocca al mare opponsi.
Questa si sporge co' suoi fianchi in guisa
ch'ogni vento, ogni flutto, d'ogni lato
che vi percuota, ritrovando intoppo,
o si frange, o si sparte, o si riversa.
Quinci e quindi alti scogli e rupi altissime,
sotto cui stagna spazïoso un golfo
securo e queto: e v'ha d'alberi sopra
tale una scena, che la luce e 'l sole
vi raggia, e non penètra: un'ombra opaca,
anzi un orror di selve annose e folte.
D'incontro è di gran massi e di pendenti
scogli un antro muscoso, in cui dolci acque
fan dolce suono; e v'ha sedili e sponde
di vivo sasso: albergo veramente
di ninfe, ove a fermar le stanche navi
né d'àncora v'è d'uopo, né di sarte.
Qui sol con sette, che raccolse a pena
di tanti legni, Enea ricoverossi.
Qui stanchi tutti e maceri, e del mare
ancor paurosi, i liti a pena attinsero,
che a terra avidamente si gittarono.
Acate fece in pria selce e focíle
scintillar foco, e dièlli esca e fomento.
Altri poscia d'intorno ad altri fuochi
(come quei che di vitto avean disagio,
e le biade trovâr corrotte e molli)
si diêr con vari studi e vari ordigni
a rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.
  Intanto Enea sovr'un de' scogli asceso,
quanto si discopria con l'occhio intorno,
stava mirando s'alcun legno fosse
per alcun luogo apparso, o quel d'Antèo,
o quel di Capi, o pur quel di Caíco
che in poppa avea la piú sublime insegna.
Nïun ne vide: ma ben vide errando
gir per la spiaggia tre gran cervi, e dietro
d'altri minori innumerabil torma,
che in sembianza d'armenti empian le valli.
Fermossi: e pronto a cotal uso avendo
l'arco e 'l turcasso (ché quest'armi appresso
gli portava mai sempre il fido Acate),
diè lor di piglio: e saettando prima
i primi tre, che piú vide altamente
erger le teste e inalberar le corna,
contra 'l volgo si volse; e 'l lito e 'l bosco,
ovunque gli scorgea, folgorò tutto.
Ne cacciò, ne ferí, strage ne fece
a suo diletto; né si vide prima
sazio che, come sette eran le navi,
sette non ne vedesse a terra stesi.
In questa guisa ritornando al porto,
gli spartí parimente a' suoi compagni;
e con essi del vin, che 'l buon Aceste
a l'uscir di Sicilia in don gli diede,
molt'urne dispensò per ricrearli;
poscia a conforto lor cosí lor disse:
  «Compagni, rimembrando i nostri affanni,
voi n'avete infiniti omai sofferti
vie piú gravi di questi. E questi fine,
(quando che sia) la dio mercede, avranno.
Voi la rabbia di Scilla, voi gli scogli
di tutti i mari omai, voi de' Ciclopi
varcaste i sassi; ed or qui salvi siete.
Riprendete l'ardir, sgombrate i petti
di téma e di tristizia. E' verrà tempo
un dí che tante e cosí rie venture,
non ch'altro, vi saran dolce ricordo.
Per vari casi e per acerbi e duri
perigli è d'uopo far d'Italia acquisto.
Ivi riposo, ivi letizia piena
vi promettono i fati, e nuova Troia
e nuovi regni al fine. Itene intanto:
soffrite, mantenetevi, serbatevi
a questo, che dal ciel si serba a voi,
sí glorioso e sí felice stato».
  Cosí dicendo a' suoi, pieno in se stesso
d'alti e gravi pensier, tenea velato
con la fronte serena il cuor doglioso.
  Fecer tutti coraggio; e di cibo avidi
già rivolti a la preda, altri le tèrgora
le svelgon da le coste, altri sbranandola
mentre è tiepida ancor, mentre che palpita,
lunghi schidioni e gran caldaie apprestano,
e l'acqua intorno e 'l fuoco vi ministrano.
Poscia d'un prato e seggio e mensa fattisi,
taciti prima sopra l'erba agiandosi,
d'opima carne e di vin vecchio empiendosi,
quanto puon lietamente si ricreano.
  Poiché fûr sazi, a ragionar si diêro,
con voce or di timore or di cordoglio,
de' perduti compagni, in dubbio ancora
se fosser vivi, e se pur giunti al fine
piú de' richiami lor nulla curassero.
Enea vie piú di tutti e di pietate
e di dolor compunto, il caso acerbo
or d'Àmico, or d'Oronte, e Lico e Gía
ne' sospir richiamava e 'l buon Cloanto.
  Erano al fine omai; quando il gran Giove
da l'alta spera sua mirando in giuso
la terra e 'l mar di questo basso globo,
mentre di lito in lito, e d'uno in altro
scerne i popoli tutti, al cielo in cima
fermossi, e ne la Libia il guardo affisse.
Venere, allor ch'a le terrene cose
lo vide intento, dolcemente afflitta
il volto, e molle i begli occhi lucenti,
gli si fece davanti, e cosí disse:
  « Padre, che de' mortali e de' celesti
siedi eterno monarca, e folgorando
empi di téma e di spavento il mondo,
e quale ha contra te fallo sí grave
commesso Enea mio figlio, o i suoi Troiani,
che, dopo tanti affanni e tante stragi,
c'han di lor fatto il ferro, il fuoco e il mare,
non trovin pace, né pietà, né loco
pur che gli accetti? In cotal guisa omai
del mondo son, non che d'Italia, esclusi.
Io mi credea, signor (quel che promesso
n'era da te), che tornasse anco un giorno,
quando che fosse, il generoso germe
di Dardano a produr quei glorïosi
eroi, quei duci invitti, quei Romani
de l'universo domatori e donni:
e tu ne 'l promettesti. Or come, padre,
il ciel cangia destino, e tu consiglio?
Questa sola credenza era cagione
di consolarmi in parte de l'eccidio
de la mia Troia, ch'io soffrissi in pace
tante ruine sue, fato con fato
ricompensando. Or la fortuna stessa
e vie piú fera la persegue e dura.
E quanto durerà, signore, ancora?
Tal non fu già d'Antènore l'esilio;
ch'ei non piú tosto de l'achive schiere
per mezzo uscio, che con felice corso
penetrò d'Adria il seno; entrò securo
nel regno de' Liburni; andò fin sopra
al fonte di Timavo; e là 've il fiume
fremendo il monte intuona, e là 've aprendo
fa nove bocche un mare, e, mar già fatto,
inonda i campi e rumoreggia e frange,
Padoa fondò, pose de' Teucri il seggio,
e diè lor nome e le lor armi affisse.
Ivi ridotto il suo regno, e composto
quïetamente, or lo si gode in pace.
E noi, noi del tuo sangue, e che da te
avemo anco del cielo arra e possesso,
ad una sola indegnamente in ira,
perdute, ohimè! le proprie navi, fuori
siamo d'Italia e di speranza ancora
di non mai piú vederla. Or questo è 'l pregio
che si deve a pietade? E questo è il regno
che da te, padre mio, ne si promette?»
  Sorrise Giove, e con quel dolce aspetto
con che 'l ciel rasserena e le tempeste,
rimirolla, basciolla, e cosí disse:
  «Non temer, Citerèa, ché saldi e certi
stanno i fati de' tuoi. S'adempieranno
le mie promesse; sorgeran le torri
de la novella Troia; vedrai le mura
di Lavinio; porrai qui fra le stelle
il magnanimo Enea. Ché né 'l destino
in ciò si cangerà, né 'l mio consiglio.
Ma per trarti d'affanni, io te 'l dirò
piú chiaramente; e scoprirotti intanto
de' fati i piú reconditi secreti.
Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia
sarà; farà gran guerra, vincerà:
domerà fere genti: imporrà leggi:
darà costumi, e fonderà città:
e di già, vinti i Rutuli, tre verni
e tre stati regnar Lazio vedrallo.
Ascanio giovinetto, or detto Iulo,
ed Ilo prima infin ch'Ilio non cadde,
succederagli; e trenta giri interi
del maggior lume, il sommo imperio avrà.
Trasferirallo in Alba: Alba la lunga
sarà la reggia sua possente e chiara.
Qui regneranno poi sotto la gente
d'Ettorre un dopo l'altro un corso d'anni
tre volte cento; finch'Ilia regina
d'un parto produrrà gemella prole.
Indi capo ne fia Romolo invitto.
Questi, in vece di manto, adorno il tergo
de la sua marzïal nudrice lupa,
di Marte fonderà la gran cittade:
e dal nome di lui Roma diralla.
A Roma non pongo io termine o fine:
ché fia del mondo imperatrice eterna.
E l'aspra Giuno, ch'or la terra e 'l mare
e 'l ciel per téma intorbida e scompiglia,
con piú sano consiglio al mio conforme,
procurerà che la romana gente
in arme e 'n toga a l'universo imperi.
E cosí stabilisco: e cosí tempo
ancor sarà ch'Argo, Micene e Ftia
e i Greci tutti tributari e servi
de la casa di Assàraco saranno.
Di questa gente, e de la Iulia stirpe,
che da quel primo Iulo il nome ha preso,
Cesare nascerà, di cui l'impero
e la gloria fia tal, che per confine
l'uno avrà l'Oceàno, e l'altra il cielo.
Questi, già vinto il tutto, poi che onusto
de le spoglie sarà de l'Orïente,
anch'egli avrà da te qui seggio eterno,
e là giú fra' mortali incensi e vóti.
L'aspro secolo allor, l'armi deposte,
si farà mite. Allor la santa Vesta
e la candida Fede e 'l buon Quirino
col frate Remo il mondo in cura avranno.
Allor con salde e ben ferrate sbarre
de la guerra saran le porte chiuse:
e dentro in fra la ruggine sepolto
con cento nodi incatenato e stretto
gran tempo si starà l'empio Furore;
e rabbioso fremendo orribilmente,
con fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti
morderà l'armi e le catene indarno».
  Cosí detto, spedí tosto da l'alto
di Maia il figlio a far sí ch'a' Troiani
fosse Cartago e il suo paese amico,
perché del fato la regina ignara,
non fosse lor, per ferità de' suoi
o per sua téma, inospitale e cruda.
Vassene il messaggier per l'aria a volo
velocemente, e ne la Libia giunto,
quel ch'imposto gli fu ratto eseguisce.
E già, la dio mercé, lasciano i Peni
la lor fierezza; e la regina in prima
s'imbeve d'un affetto e d'una mente
verso i Troiani affabile e benigna.
  La notte intanto, del pietoso Enea
molti furo i sospir, molti i pensieri.
Conchiuse alfin ch'a l'apparir del giorno
spïar dovesse, e riportarne avviso
a suoi compagni, in qual paese il vento
gli avesse spinti; e s'uomini o pur fere
(perché incolto il vedea) quivi abitassero.
Cosí tra selve ombrose e cave rupi
fatti i legni appiattar, sol con Acate,
e con due dardi in mano in via si pose.
  In mezzo de la selva una donzella,
ch'era sua madre, sí com'era avanti
che madre fosse incontro gli si fece.
Donzella a l'armi, a l'abito, al sembiante
parea di Sparta, o quale in Tracia Arpàlice
leggiera e sciolta, il dorso affaticando
di fugace destrier, l'Ebro varcava.
Al collo avea di cacciatrice un arco
abile e lesto, i crini a l'aura sparsi,
nudo il ginocchio; e con bel nodo stretto
tenea raccolto della gonna il seno.
  Ella fu prima a dire: «Avreste voi,
giovani, de le mie sorelle alcuna
vista errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco,
o che gli omeri vesta d'una pelle
di cervier maculato, o che gridando
d'un zannuto cignal segua la traccia?»
Cosí Venere disse. Ed, a rincontro,
di Venere il figliuol cosí rispose:
  «Nïuna ho de le tue veduta, o 'ntesa,
vergine... qual ti dico, e di che nome
chiamar ti deggio? Ché terreno aspetto
non è già 'l tuo, né di mortale il suono.
Dea sei tu veramente, o suora a Febo,
o figlia a Giove, o de le ninfe alcuna:
e chïunque tu sii, propizia e pia
vèr noi ti mostra, e i nostri affanni ascolta.
Dinne sotto qual cielo, in qual contrada
siamo or del mondo: ché raminghi andiamo;
e qui dal vento e da fortuna spinti
nulla o de gli abitanti o de' paesi
notizia abbiamo. A te, s'a ciò m'aíti,
di nostra man cadrà piú d'una vittima».
  Venere allor soggiunse: «Io non m'arrogo
celeste onore. In Tiro usan le vergini
di portar arco, e di calzar coturni;
e di Tiro e d'Agènore le genti
traggon principio, che qui seggio han posto:
ma 'l paese è di Libia, ed avvi in guerra
gente feroce. Or n'è capo e regina
Dido che, da l'insidie del fratello
fuggendo, è qui venuta. A dirne il tutto
lunga fôra novella e lungo intrico.
Ma toccandone i capi, avea costei
Sichèo per suo consorte, uno il piú ricco
di terra e d'oro, che in Fenicia fosse,
da la meschina unicamente amato,
anzi il suo primo amore. Il padre intatta
nel primo fior di lei seco legolla.
Ma del regno di Tiro avea lo scettro
Pigmalïon suo frate, un signor empio,
un tiranno crudele e scellerato
piú ch'altri mai. Venne un furor fra loro
tal, che Sichèo da questo avaro e crudo,
per sete d'oro, ove men guardia pose,
fu tra gli altari ucciso; e non gli valse
che la germana sua tanto l'amasse.
Ciò fe' celatamente: e per celarlo
vie piú, con finzïoni e con menzogne
deluse un tempo ancor l'afflitta amante.
Ma nel fin, di Sichèo la stessa imago,
fuor d'un sepolcro uscendo, sanguinosa,
pallida, macilenta e spaventevole,
le apparve in sogno, e presentolle, avanti
gli empi altari ove cadde, il crudo ferro
che lo trafisse, e del suo frate tutte
l'occulte scelleraggini le aperse.
Poscia: "Fuggi di qua, fuggi" le disse
"tostamente, e lontano". E per sussidio
de la sua fuga, le scoperse un loco
sotterra, ov'era inestimabil somma
d'oro e d'argento, di molt'anni ascoso.
Quinci Dido commossa, ordine occulto
di fuggir tenne, e d'adunar compagni;
ché molti n'adunò, parte per odio,
parte per téma di sí rio tiranno.
Le navi che trovâr nel lito preste,
caricâr d'oro, e fêr vela in un súbito.
Cosí 'l vento portossene la speme
de l'avaro ladrone. E fu di donna
questo sí degno e memorabil fatto.
  Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai
sorger la gran cittade e l'alta ròcca
de la nuova Cartago, che dal fatto
Birsa nomossi, per l'astuta merce
che, per fondarla, fêr di tanto sito
quanto cerchiar di bue potesse un tergo.
  Ma voi chi siete? onde venite? e dove
drizzate il corso vostro?» A tai richieste
pensando Enea, dal piú profondo petto
trasse la voce sospirosa, e disse:
«O dea, se da principio i nostri affanni
io contar ti volessi, e tu con agio
udissi una da me sí lunga istoria,
non finirei che fine avrebbe il giorno.
Noi siam Troiani (se di Troia antica
il nome ti pervenne unqua a gli orecchi),
e la tempesta che per tanti mari
già cotant'anni ne travolve e gira,
n'ha qui, come tu vedi, al fin gittati.
Io sono Enea, quel pio che da' nemici
scampati ho meco i miei patrii Penati,
fino a le stelle ormai noto per fama.
Italia vo cercando, che per patria
Giove m'assegna, autor del sangue mio.
Con diece e diece ben guarnite navi
uscii di Frigia, il mio destin seguendo
e lo splendor de la materna stella.
Or sette me ne son restate appena,
scommesse, aperte e disarmate tutte.
Ed io mendíco, ignoto e peregrino,
de l'Asia in bando, da l'Europa escluso,
e 'n fin dal mar gittato or ne la Libia
vo per deserti inospiti e selvaggi.
E qual m'è piú del mondo or luogo aperto?»
  Venere intenerissi; e nel suo figlio
tant'amara doglienza non soffrendo,
cosí 'l duol con la voce gl'interruppe:
  «Chïunque sei, tu non sei già, cred'io,
al cielo in ira; poi ch'a sí grand'uopo
ti diè ricovro a sí benigno ospizio.
Segui pur francamente: e quinci in corte
va' di questa magnanima regina;
ch'io già t'annunzio le tue navi, e i tuoi
da miglior vènti in miglior parte addotti
salvi e securi omai, se i miei parenti
non m'ingannâr quando gli augúri appresi.
Mira là sovra a quel tranquillo stagno
dodici allegri cigni, che pur dianzi
confusi e dissipati a cielo aperto
erano in preda al fero augel di Giove,
com'or sottratti dal suo crudo artiglio
rimessi in lunga ed ozïosa riga
si rivolgono a terra, e già la radono.
E sí com'essi con gioiose ruote
trattando l'aria, col cantar, col plauso
mostrato han d'allegria segno e di scampo;
cosí, placato il mare, a piene vele,
e le tue navi e gli tuoi naviganti
o preso han porto, o tosto a prender l'hanno:
vattene or lieto ove 'l sentier ti mena».
  Ciò detto, nel partir, la neve e l'oro
e le rose del collo e de le chiome,
come l'aura movea, divina luce
e divino spirâr d'ambrosia odore:
e la veste, che dianzi era succinta,
con tanta maestà le si distese
infino a' piè, ch'a l'andar anco, e dea
veracemente e Venere mostrossi.
  Poscia che la conobbe, e la sua fuga
o fermare, o seguir piú non poteo,
con un rammarco tal dietro le tenne:
  «Ahi! madre, ancora tu vèr me crudele,
a che tuo figlio con mentite larve
tante volte deludi? A che m'è tolto
di congiunger la mia con la tua destra?
Quando fia mai ch'io possa a viso aperto
vederti, udirti, ragionarti, e vera
riconoscerti madre?» Egli in tal guisa
si querelava; e verso la cittade
se ne giano invisibili ambidue:
ché la dea, sospettando non tra via
fossero distornati o trattenuti,
di folta nebbia intorno gli coverse.
Ella in alto levossi, e Cipri e Pafo
lieta rivide, ov'entro al suo gran tempio
da cento altari ha cento volte il giorno
d'incensi e di ghirlande odori e fumi.
Ed essi intanto in vèr le mura a vista
giunser de la città, ch'al colle incontro
fe' lor superba e specïosa mostra.
  Maravigliasi Enea che sí gran macchina
già sorga, ove pur dianzi non vedevasi
fors'altro che foreste, o che tuguri.
Mira il travaglio, mira la frequenzia
e le porte e le vie piene di strepito.
Vede con quanto ardor le turbe tirie
altri a le mura, altri a la ròcca intendono
e i gravi legni e i gran sassi che volgono
questi, che i siti ai propri alberghi insolcano;
e quei, che del senato e de gli offici
piantan le curie e i fòri e le basiliche.
Scorge là presso al mar che 'l porto cavano,
qua, sotto al colle, che un teatro fondano,
per le cui scene i gran marmi che tagliano,
e le colonne, che tant'alto s'ergono,
le rupi e i monti, a cui son figli, adeguano.
  Con tal sogliono industria a primavera
le sollecite pecchie al sole esposte
per fiorite campagne esercitarsi,
quando le nuove lor cresciute genti
mandano in campo a côr manna e rugiada,
di celeste liquor le celle empiendo;
o quando incontro a scaricare i pesi
van de l'altre compagne; o quando a stuolo
scacciano i fuchi, ingorde bestie e pigre,
che, solo intente a logorar l'altrui,
de le conserve lor si fan presepi,
allor che l'opra ferve, allor che 'l mèle
sparge di timo d'ogn'intorno odore.
  «O fortunati voi, di cui già sorge
il desïato seggio!», Enea dicendo,
a parte a parte lo contempla e loda.
Arriva intanto a la muraglia, e chiuso
ne la sua nube, maraviglia a dirlo!
tra gente e gente va, che non è visto.
Era nel mezzo a la cittade un bosco
di sacro rezzo e grato, ove sospinti
da la tempesta capitaro i Peni
primieramente; e nel fondar trovaro
quel che pria da Giunon fu lor predetto
di barbaro destrier teschio fatale,
la cui sembianza imagine e presagio
fu poi che quella gente e quella terra
saria per molte età ferace e fera.
Qui fabbricava la sidonia Dido
un gran tempio a Giunone, il cui gran nume
e i doni e la materia e l'artificio
lo facean prezïoso e venerando.
Mura di marmo avea; colonne e fregi
di mischi, e gradi e travi e soglie e porte
di risonante e solido metallo.
Qui si ristette Enea: qui vide cosa
che téma gli scemò, speme gli accrebbe,
e di pace affidollo e di salute;
ché mentre, in aspettando la regina
ch'ivi s'attende, la città vagheggia,
mentre nel tempio l'apparato e l'opre
e 'l valor degli artefici contempla,
a gli occhi una parete gli s'offerse,
in cui tutta per ordine dipinta
era di Troia la famosa guerra.
E, conosciuti a le fattezze conte
prima il troiano re, poscia l'argivo
e 'l fero d'ambidue nimico Achille,
fermossi, e lagrimando: «Oh, - disse - Acate,
mira fin dove è la notizia aggiunta
de le nostre ruine! Or quale ha 'l mondo
loco che pien non sia de' nostri affanni?
Ecco Priamo, ecco Troia; e qui si pregia
ancor virtú; ché ferità non regna
là 've umana miseria si compiagne.
Or ti conforta, ché tal fama ancora
di pro ti fia cagione e di salvezza».
  Cosí dicendo, e la già nota istoria
mirando, or con sospiri, ed or con lutto
va di vana pittura il cor pascendo.
E come quei ch'a Troia il tutto vide,
i siti rammentandosi e le zuffe,
col sembiante riscontra il vivo e 'l vero.
Quinci vede fuggir le greche schiere,
quindi le frigie: a quelle Ettorre infesto,
a queste Achille, a cui parea d'intorno
che solo il suon del carro e solo il moto
del cimiero avventasse orrore e morte.
  Né senza lagrimar Reso conobbe
ai destrier bianchi, ai bianchi padiglioni,
fatti di sangue in mille parti rossi:
che sotto v'era Dïomede, anch'egli
insanguinato; e si facea d'intorno
alta strage di gente che nel sonno,
prima che da lui morta, era sepolta.
Vedea quindi i cavalli al campo addotti,
che non potêr (fato a' Troiani avverso!)
di Troia erba gustare, o ber del Xanto.
  Scorge d'un'altra parte in fuga vòlto
Troïlo, già senz'armi e senza vita:
giovinetto infelice, che di tanto
diseguale ad Achille, ebbe ardimento
di stargli a fronte. Egli in su 'l vòto carro
giacea rovescio, e strascinato e lacero
da' suoi cavalli, avea la destra ancora
a le redini involta, e 'l collo e i crini
traea per terra; e l'asta, onde trafitto
portava il petto, con la punta in giuso
scrivea note di sangue in su la polve.
  Ecco intanto venir di Palla al tempio
in lunga schiera ed ordinata pompa
le donne d'Ilio a far del peplo offerta.
Battonsi i petti, e scapigliate e scalze
paion pregar divotamente afflitte
perdóno e pace; ed ella irata e fera,
vòlte le luci a terra e 'l tergo a loro,
mostra fastidio di mirarle e sdegno.
Vede il misero Ettòr che già tre volte
tratto era d'Ilio a la muraglia intorno.
Vede il padre piú misero, ch'in forza
del dispietato e suo nimico Achille,
oro in premio gli dà del suo cadavero;
spettacolo crudel che gli trafigge
profondamente e piú d'ogn'altro il core,
ove il carro, gli arnesi e 'l corpo stesso
vede d'un tanto amico, ed un re tale,
che solo e disarmato e supplichevole
stassi a l'ucciditor del figlio avanti.
  Vi riconobbe ancor se stesso, ov'era
a dura mischia incontro a' greci eroi.
Riconobbe lo stuol che d'Orïente
addusse de l'Aurora il negro figlio:
e lui raffigurò, che di Vulcano
avea lo sbergo e l'armatura in dosso.
  Scorge d'altronde di lunati scudi
guidar Pentesilèa l'armate schiere
de l'Amazzoni sue: guerriera ardita,
che succinta, e ristretta in fregio d'oro
l'adusta mamma, ardente e furïosa
tra mille e mille, ancor che donna e vergine,
di qual sia cavalier non teme intoppo.
  Stava da tante meraviglie ad una
sola vista ristretto, attento e fiso
Enea pien di vaghezza e di stupore:
quand'ecco la regina accompagnata
da real corte, con real contegno
entro al tempio bellissima comparve.
Qual su le ripe de l'Eurota suole,
o ne' gioghi di Cinto, allor Dïana
ch'a l'Orèadi sue la caccia indíce,
a mille che le fan cerchio d'intorno,
divisar vari offici, e faretrata
da la faretra in su gir sovra l'altre
neglettamente altera, onde a Latona
s'intenerisce per dolcezza il core;
tale era Dido, e tal per mezzo a' suoi
se ne gia lieta, e dava ordine e forma
al nuovo regno, a i magisteri, a l'opre.
Giunta al cospetto de la diva, in mezzo
de la maggior tribuna, in alto assisa,
cinta d'armati, in maestà si pose:
e mentre con dolcezza editti e leggi
porge a la gente, e con egual compenso
l'opre distribuisce e le fatiche;
rivolgendosi Enea, nel tempio stesso
vede da gran concorso attorneggiati
entrar Sergesto, Anteo, Cloanto e gli altri
Troiani, che da sé disgiunti e sparsi
avea dianzi del mar l'aspra tempesta.
Stupor, timor, letizia, tenerezza
e disio d'abbracciarli e di mostrarsi
assaliro in un tempo Acate e lui.
Ma, dubii del successo, entro la nube
dissimulando se ne stêro, e cheti,
per ritrar che seguisse e che seguito
fosse già de le navi e de' compagni,
di cui questi eran primi e li piú scelti
di ciascun legno. E già pieno era il tempio
di tumulto e di vóti ch'altamente
si sentian vènia risonare e pace.
  Poiché furo entromessi, e ch'udïenza
fur lor concessa, il saggio Ilïoneo
prese umilmente in cotal guisa a dire:
  «Sacra regina, a cui dal cielo è dato
fondar nuova cittade, e con giustizia
por freno a gente indomita e superba,
noi miseri Troiani, a tutti i vènti,
a tutti i mari omai ludibrio e scherno,
caduti dopo l'onde in preda al foco
che da' tuoi si minaccia ai nostri legni,
preghiamti a proveder che nel tuo regno
non si commetta un sí nefando eccesso.
Fa cosa di te degna, abbi di noi
pietà, che pii, che giusti, ch'innocenti
siamo, non predatori, non corsari
de le vostre marine o de l'altrui:
tanto i vinti d'ardire, e gl'infelici
d'orgoglio e di superbia, ohimè! non hanno.
  Una parte d'Europa è, che da' Greci
si disse Esperia, antica, bellicosa
e fertil terra, dagli Enotrei cólta.
Prima Enotria nomossi, or, come è fama,
preso d'Italo il nome, Italia è detta.
Qui 'l nostro corso era diritto, quando
Orïon tempestoso i vènti e 'l mare
sí repente commosse, e mar sí fero,
vènti sí pertinaci, e nembi e turbi
cosí rabbiosi, che sommersi in parte
e dispersi n'ha tutti: altri a le secche,
altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:
e noi pochi, di tanti, ha qui condotti.
Ma qual sí cruda gente, qual sí fera
e barbara città quest'uso approva,
che ne sia proibita anco l'arena?
Che guerra ne si muova, e ne si vieti
di star ne l'orlo de la terra a pena?
Ah! se de l'armi e de le genti umane
nulla vi cale, a dio mirate almeno,
che dal ciel vede e riconosce i meriti
e i demeriti altrui. Capo e re nostro
era pur dianzi Enea, di cui piú giusto,
piú pio, piú pro' ne l'armi, piú sagace
guerrier non fu già mai. Se questi è vivo,
se spira, se il destin non ce l'invidia,
quanto ne speriam noi, tanto potresti
tu non pentirti a provocarlo in prima
a cortesia. Ne la Sicilia ancora
avem terre, avem armi, avemo Aceste
che n'è signore, ed è de' nostri anch'egli.
Quel che vi domandiamo è spiaggia, è selva,
è vitto da munir, da risarcire
i vòti e stanchi e sconquassati legni,
per poter lieti (ritrovando il duce
e gli altri nostri, o se pur mai n'è dato
veder l'Italia) ne l'Italia addurne;
ma se nostra salute in tutto è spenta,
se te, nostro signor, nostro buon padre,
di Libia ha 'l mare, e piú speranza alcuna
non ci riman del giovinetto Iulo,
almen tornar ne la Sicania, ond'ora
siam qui venuti e dove il buon Aceste
n'è parato mai sempre ospite e rege».
  Al dir d'Ilïoneo fremendo tutti
assentirono i Teucri, e la regina
con gli occhi bassi e con benigna voce
brevemente rispose: «O miei Troiani,
toglietevi dal cuore ogni timore,
ogni sospetto. Gli accidenti atroci,
la novità di questo regno a forza
mi fan sí rigorosa, e sí guardinga
de' miei confini. E chi di Troia il nome,
chi de' Troiani i valorosi gesti,
e l'incendio non sa di tanta guerra?
Non han però sí rozzo core i Peni:
non sí lunge da lor si gira il sole,
che né pietà né fama unqua v'arrive.
Voi di qui sempre, o de la grand'Esperia
e di Saturno che cerchiate i campi,
o che vogliate pur d'Aceste e d'Èrice
tornare ai liti, in ogni caso liberi
ve n'andrete e sicuri. Ed io d'aíta
scarsa non vi sarò, né di sussidio:
e se qui dimorar meco voleste,
questa è vostra città. Tirate al lito
vostri navili: ché da' Teucri a' Tiri
nulla scelta farò, nullo divario.
Cosí qui fosse il vostro re con voi!
cosí ci capitasse! Ma cercando
io manderò di lui fino a l'estremo
de' miei confini la riviera tutta,
se per sorte gittato in queste spiagge
per selve errando o per cittadi andasse».
  Rincorossi a tal dire il padre Enea
e 'l forte Acate; e di squarciare il velo
stavan già disïosi. Acate il primo
mosse dicendo: «Omai, signor, che pensi?
Tutto è sicuro, e tutti a salvamento
i nostri legni e i nostri amici avemo.
Sol un ne manca; e questo a noi davanti
il mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto
di tua madre risponde». A pena Acate
ciò disse, che la nugola s'aperse,
assottigliossi e col ciel puro unissi.
Rimase in chiaro Enea, tale ancor egli
di chiarezza e d'aspetto e di statura,
che come un dio mostrossi: e ben a dea
era figliuol, che di bellezza è madre.
Ei degli occhi spirava e de le chiome
quei chiari, lieti e giovenili onori
ch'ella stessa di lui madre gl'infuse.
Tale aggiunge l'artefice vaghezza
a l'avorio, a l'argento, al pario marmo,
se di fin oro li circonda e fregia.
Cotal, comparso d'improvviso a tutti,
si fece avanti a la regina, e disse:
  «Quegli che voi cercate, Enea troiano,
son qui, dal mar ritolto. A te ricorro,
vera regina, a te sola pietosa
de le nostre ineffabili fatiche.
Tu noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l'onde
d'ogni strazio bersaglio, d'ogni cosa
bisognosi e mendíci, nel tuo regno
e nel tuo albergo umanamente accogli.
A renderti di ciò merito eguale
bastante non son io, né fôran quanti
de la gente di Dardano discesi
vanno per l'universo oggi dispersi.
Ma gli dèi (s'alcun dio de' buoni ha cura,
se nel mondo è giustizia, se si truova
chi d'altamente adoperar s'appaghe)
te ne dian guiderdone. Età felice!
Avventurosi genitori e grandi
che ti diedero al mondo! Infin che i fiumi
si rivolgono al mare, infin ch'a' monti
si giran l'ombre, infin c'ha stelle il cielo,
i tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi
mi saran sempre, ovunque io sia, davanti».
  Ciò detto, lietamente a' suoi rivolto,
al caro Ilïonèo la destra porse,
la sinistra a Sergesto, e poscia al forte
Cloanto, al forte Gía: l'un dopo l'altro
tutti gli salutò. Stupí Didone
nel primo aspetto d'un sí nuovo caso,
e d'un uom tale; indi riprese a dire:
  «Qual forza o qual destino a tanti rischi
t'hanno in sí strani, in sí feri paesi
esposto, o de la dea famoso figlio?
E sei tu quell'Enea che in su la riva
di Simoenta il gran dardanio Anchise
di Venere produsse? Io mi ricordo
quel che n'intesi già da Teucro, quando,
fuor di sua patria, il suo padre fuggendo,
nuovi regni cercava. Egli a Sidone
venne in quel tempo a dar sussidio a Belo.
Belo mio padre allor facea l'impresa
e 'l conquisto di Cipro. Infin d'allora
io del caso di Troia e del tuo nome
e de l'oste de' Greci ebbi notizia.
Ed ei ch'era sí rio nimico vostro,
celebrava il valor di voi Troiani,
e trar volea da Troia il suo legnaggio.
Voi da me dunque amico e fido ospizio,
giovini, arete. E me fortuna ancora,
a la vostra simíle, ha similmente
per molti affanni a questi luoghi addotta:
sí che natura e sofferenza e pruova
de' miei stessi travagli ancor me fanno
pietosa e sovvenevole a gli altrui».
  Ciò detto, Enea cortesemente adduce
ne la sua reggia. In ogni tempio indíce
feste e preci solenni. Ordina appresso
che si mandino al mar venti gran tori,
cento gran porci, cento grassi agnelli,
con cento madri, e ciò ch'a' suoi compagni
per vitto e per letizia è di mestiero.
Dentro al real palagio, realmente,
de' piú gentili e sontuosi arnesi
il convito e le stanze orna e prepara;
cuopre d'ostro le mura; empie le mense
d'argento e d'oro, ove per lunga serie
son de' padri e degli avi i fatti egregi.
  Enea, cui la paterna tenerezza
quetar non lascia, a le sue navi innanzi
ratto spedisce Acate, che di tutto
Ascanio avvisi, ed a sé tosto il meni;
ché in Ascanio mai sempre intento e fiso
sta del suo caro padre ogni pensiero.
Gli comanda, oltre a ciò, ch'a la regina
porti alcune a donar spoglie superbe
che si salvâr da la ruina appena
e dal foco di Troia: un ricco manto
ricamato a figure, e di fin'oro
tutto contesto: un prezïoso velo,
cui di pallido acanto un ampio fregio
trapunto era d'intorno: ambi ornamenti
d'Elena argiva, e di sua madre Leda
mirabil dono. In questo avea le bionde
sue chiome avvolte il dí che di Micene
a nuove nozze, e non concesse, uscio;
e porti anco lo scettro, onde superba
Ilïone di Prïamo sen giva
primogenita figlia, e 'l suo monile
di gran lucide perle; e quella stessa,
onde 'l fronte cingea, doppia corona,
di gemme orïentali ornata e d'oro.
Tutto ciò procurando il fido Acate
in vèr le navi accelerava il piede.
  Venere in tanto con nuov'arte e nuovi
consigli s'argomenta a far che in vece
e 'n sembianza d'Ascanio il suo Cupído
se ne vada in Cartago; e con quei doni,
con le dolcezze sue, con la sua face
alletti, incenda, amor desti e furore
nel petto a la regina, onde sospetto
piú non aggia o 'l suo regno, o 'la perfidia
de la sua gente, o di Giunon l'insidie,
che da pensare e da vegghiar le danno
tutte le notti. E fatto a sé venire
l'alato dio, cosi seco ragiona:
  «Figlio, mia forza e mia maggior possanza:
figlio, che del gran padre anco non temi
l'orribil tèlo, onde percosso giacque
chi ne diè fin nel ciel briga e spavento,
a te ricorro e dal tuo nume aíta
chieggio a l'altro mio figlio Enea tuo frate.
Come Giuno il persegua, e come l'aggia
per tutti i mari omai spinto e travolto,
tu 'l sai che del mio duol ti sei doluto
piú volte meco. Or la sidonia Dido
l'ave in sua forza, e con benigni e dolci
modi fin qui l'accoglie e lo trattiene.
Ma là dov'è, lassa! che val, comunque
sia caramente accolto? in casa a Giuno
da le carezze ancor chi m'assicura?
Ch'ella piú neghittosa o meno atroce,
in un caso non fia di tanto affare.
E però con astuzia e con inganno
cerco di prevenirla, e del tuo foco
ardere il cuor de la regina in guisa,
ch'altro nume nol mute, e meco l'ami
d'immenso affetto. Or come agevolmente
ciò porre in atto e conseguir si possa,
ascolta. Enea manda testé chiamando
il suo regio fanciullo, amor supremo
del caro padre, e mio sommo diletto,
perché de' Tiri a la città sen vada
con doni a la regina, che di Troia
a l'incendio avanzarono ed al mare.
Questo vinto dal sonno, o sopra l'alta
Citèra, o dentro al sacro bosco Idalio
terrò celato sí ch'ei non s'accorga,
ed accorto di ciò non faccia altrui
con alcun suo rintoppo. E tu che puoi,
fanciullo, il noto fanciullesco aspetto
mentire acconciamente, in lui ti cangia
sola una notte, e gli suoi gesti imita.
E quando Dido al suo real convito
riceveratti, e, come a mensa fassi,
sarà, bevendo e ragionando, allegra;
quando, come farà, cortese in grembo
terratti, abbracceratti, e dolci baci
porgeratti sovente, a poco a poco
il tuo foco le spira e 'l tuo veleno».
  Al voler della sua diletta madre
pronto mostrossi e baldanzoso Amore,
e gittò l'ali; ed in un tempo l'abito
e 'l sembiante e l'andar prese di Iulo.
Ciprigna intanto al giovinetto Ascanio
tale un profondo e dolce sonno infuse,
e 'n guisa l'adattò, che agiatamente
in grembo lo si tolse; e ne la cima
de la selvosa Idalia, entro un cespuglio
di lieti fiori e d'odorata persa,
a la dolce aura, a la fresc'ombra il pose.
Cupído co' suoi doni allegramente,
per far quanto gli avea la madre imposto,
con la guida si pon d'Acate in via.
Giunse che giunta era Didone appunto
ne la gran sala, che di fini arazzi,
di fior, di frondi e di festoni intorno
era tutta vestita, ornata e sparsa.
E già sopra la sua dorata sponda
con real maestà s'era nel mezzo
a tutti gli altri alteramente assisa.
Appresso Enea, poscia di mano in mano
sopra drappi di porpora e di seta
si stendea la troiana gioventute.
Già con l'acqua e con Cerere a le mense
gli aurati vasi e i nitidi canestri
e i bianchissimi lini eran comparsi.
Stavano dentro, a le vivande intorno,
intorno a' fuochi, a dar ordine a' cibi,
cinquanta ancelle, ed altre cento fuori
con altrettanti di una stessa etade
tra scudieri e pincerni; e gli atrii tutti
si rïempiêr di Tiri, a cui le mense
di tappeti dipinti eran distese.
  A l'apparir del giovinetto Iulo
corser tutti a mirare il manto e 'l velo
e gli altri ch'adducea leggiadri arnesi,
a sentir quelle sue finte parole,
a contemplar quel grazïoso aspetto,
ch'ardore e deità raggiava intorno.
Ma sopra tutti l'infelice Dido
non potea né la vista, né 'l pensiero
saziar, mirando or gli suoi doni, or lui;
e com' piú gli rimira, e piú s'accende.
  Poiché lunga fïata umile e dolce
del non suo genitor pendé dal collo,
e finse di figliuol verace affetto,
si volse a la regina. Ella con gli occhi,
col pensier tutto lo contempla e mira:
lo palpa, e 'l bacia, e 'n grembo lo si reca.
Misera! che non sa quanto gran dio
s'annidi in seno. Ei de la madre intanto
rimembrando il precetto, a poco a poco
de la mente Sichèo comincia a trarle,
con vivo amore e con visibil fiamma
rompendole del core il duro smalto,
e 'ntroducendo il suo già spento affetto.
  Cessati i primi cibi, e da' ministri
già le mense rimosse, ecco di nuovo
comparir nuove tazze e vino e fiori,
per lietamente incoronarsi e bere.
  Quinci un rumoreggiare, un riso, un giubilo
che d'allegrezza empian le sale e gli atrii.
E i torchi e le lumiere che pendevano
da i palchi d'oro, poiché notte fecesi,
vinceano 'l giorno e 'l sol, non che le tenebre.
Qui fattosi Didone un vaso porgere
d'oro grave e di gemme, ov'era solito
ne' conviti e ne' dí solenni e celebri
ber Belo, e gli altri che da Belo uscirono,
di fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo,
orò, cosí dicendo: «Eterno Giove,
che, Albergator nomato, hai de gli alberghi
e de le cortesie cura e diletto,
priegoti ch'a' Fenici ed a' Troiani
fausto sia questo giorno, e memorando
sempre a' posteri loro. E te, Lièo,
largitor di letizia, e te, celeste
e bionda Giuno, a questa prece invoco.
Voi co' vostri favori, e Tiri e Peni,
prestate a' prieghi miei divoto assenso».
  Ciò detto, riversollo, e lievemente
del sacrato liquor la mensa asperse,
poscia ella in prima con le prime labbia
tanto sol ne sorbí quanto n'attinse.
Indi con dolce oltraggio e con rampogne
a Bizia il diè, che valorosamente
a piena bocca infino a l'aureo fondo
vi si tuffò col volto, e vi s'immerse.
Ciò seguîr gli altri eroi. Comparve intanto
co' capei lunghi e con la cetra d'oro
il biondo Iopa: e, qual Febo novello,
cantò del ciel le meraviglie e i moti
che dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.
Cantò le vie che drittamente torte
rendon vaga la luna e buio il sole;
come prima si fêr gli uomini e i bruti;
com'or si fan le piogge e i venti e i folgori:
cantò l'Iade e l'Orse e 'l Carro e 'l Corno,
e perché tanto a l'Oceàno il verno
vadan veloci i dí, tarde le notti.
  Un novo plauso incominciaro i Tiri:
seguiro i Teucri: e l'infelice Dido,
che già fea dolce con Enea dimora,
quanto bevesse amor non s'accorgendo,
a lungo ragionar seco si pose
or di Priamo, or d'Ettorre, or con qual'armi
venisse a Troia de l'Aurora il figlio,
or qual fosse Diomede, or quanto Achille.
«Anzi, se non t'è grave, - al fin gli disse -
incomincia a contar fin da principio
e l'insidie de' Greci e la ruina
e l'incendio di Troia, e 'l corso intero
de gli errori vostri: già che 'l settim'anno
e per terra e per mar raminghi andate».


 

 

LIBRO SECONDO



  Stavan taciti, attenti e disïosi
d'udir già tutti, quando il padre Enea
in sé raccolto, a cosí dir da l'alta
sua sponda incominciò: «Dogliosa istoria
e d'amara e d'orribil rimembranza,
regina eccelsa, a raccontar m'inviti:
come la già possente e glorïosa
mia patria, or di pietà degna e di pianto,
fosse per man de' Greci arsa e distrutta.
E qual ne vid'io far ruina e scempio:
ch'io stesso il vidi, ed io gran parte fui
del suo caso infelice. E chi sarebbe,
ancor che Greco e Mirmidóne e Dòlopo,
che a ragionar di ciò non lagrimasse?
E già la notte inchina, e già le stelle
sonno, dal ciel caggendo,
a gli occhi infondono:
ma se tanto d'udire i nostri guai,
se brevemente di saver t'aggrada
l'ultimo eccidio, ond'ella arse e cadeo,
benché lutto e dolor mi rinnovelle,
e sol de la memoria mi sgomente,
io lo pur conterò. Sbattuti e stanchi
di guerreggiar tant'anni, e risospinti
ancor da' fati, i greci condottieri
a l'insidie si diêro; e da Minerva
divinamente instrutti, un gran cavallo
di ben contesti e ben confitti abeti
in sembianza d'un monte edificaro.
Poscia, finto che ciò fosse per vóto
del lor ritorno, di tornar sembiante
fecero tal, che se ne sparse il grido.
Dentro al suo cieco ventre e ne le grotte,
che molte erano e grandi, in sí gran mole,
rinchiuser di nascosto arme e guerrieri
a ciò per sorte e per valore eletti.
  Giace di Troia un'isola in cospetto
(Tènedo è detta) assai famosa e ricca,
mentre ch'Ilio fioriva. Ora un ridotto
è sol di naviganti e di navili,
infido seno, e mal sicura spiaggia.
Qui, poiché di Sigèo sciolse e spario,
la greca armata si rattenne, e dietro
appiattossi al suo lito ermo e deserto:
e noi credemmo che veracemente
fosse partita, e che a spiegate vele
gisse a Micene. Onde la Teucria tutta,
già cotant'anni lagrimosa e mesta,
volta ne fu subitamente in gioia.
S'aprîr le porte, uscîr d'Ilio e d'intorno
le genti tutte, disïose e liete
di veder vòti i campi e sgombri i liti,
ch'eran coverti pria di navi e d'armi.
"Qui s'accampava Achille, e qui de' Dòlopi
eran le tende, ivi solean le zuffe
farsi de' cavalieri e là de' fanti"
dicean parte vagando; e parte accolti
facean mirando al gran destriero intorno
meraviglie e discorsi: e chi per sacro,
e chi per esecrando il vóto e 'l dono
avean di Palla. Il primo fu Timete
a dir ch'entro le mura, e ne la ròcca
quindi si conducesse, o froda, o fato
che ciò fosse de' miseri Troiani.
Ma Capi e gli altri, il cui piú sano avviso
o per insidïose, o per sospette,
quantunque sacre, avea le greche offerte,
voleano o che del mar fosse nel fondo
precipitato, o che di fiamme ardenti
si circondasse, o che forato e lacero
gli fosse il petto e sviscerato il fianco.
  Stava tra questi due contrari in forse
in due parti diviso il volgo incerto;
quando con gran caterva e con gran furia
da la ròcca discese, e di lontano
gridò Laocoonte: "O ciechi, o folli,
o sfortunati! agli nemici, a' Greci
date credenza? a lor credete voi
che sian partiti? e sarà mai che doni
siano i lor doni, e non piú tosto inganni?
Cosí v'è noto Ulisse? O in questo legno
sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina
contra alle nostre mura, o spia per entro
ai nostri alberghi, o scala o torre o ponte
per di sopra assalirne. E che che sia,
certo o vi cova o vi si ordisce inganno,
ché de' Pelasgi e de' nemici è 'l dono".
  Ciò detto, con gran forza una grand'asta
avventogli, e colpillo, ove tremante
stette altamente infra due coste infissa:
e 'l destrier, come fosse e vivo e fiero,
fieramente da spron punto cotale,
si storcé, si crollò, tonogli il ventre,
e rintonâr le sue cave caverne.
E se 'l fato non era a Troia avverso,
se le menti eran sane, avea quel colpo
già commossi infiniti a lacerarlo,
e del tutto a scovrir l'agguato argolico:
ond'oggi e tu, grand'Ilio, e tu, diletta
Troia, staresti. Ma si vide intanto
de' pastor paesani una masnada
venir gridando al re, ch'ivi era giunto,
e trargli avanti un giovine prigione
ch'avea dietro le mani al tergo avvinte.
Questi era greco; e da' suoi Greci avea
di salvare il destrier, d'aprir lor Troia
assunto impresa; e per condurla, a tempo
ascosto, a tempo a quei pastori offerto
s'era per se medesmo, in sé disposto
e fermo di due cose una a finire,
o quest'opra, o la vita. A ciò concorso,
per desio di vedere, il popol tutto
dal caval si distolse, e diessi a gara
a schernire il prigione. Or ascoltate
le malizie de' Greci; e da quest'uno
conosceteli tutti. Egli nel mezzo
cosí com'era a le nemiche schiere,
turbato, inerme e di catene avvinto,
fermossi: e poi che rimirolle intorno,
con voce di pietà proruppe, e disse:
  "Or quale o terra, o mare, o loco altrove
sarà, misero me! che mi raccolga,
o che m'affidi omai? poiché tra' Greci
non ho dov'io ricovri, e da' Troiani
non deggio altro aspettar che strazio e morte?"
Ne commosse a pietà, n'acquetò l'ira
sí doglioso rammarco: e con dolcezza
e con promesse il confortammo a dire
chi, di che loco e di che sangue fosse,
e che portasse, e qual fidanza avesse
a darnesi prigione. Egli, in tal guisa
assecurato, al re si volse e disse:
"Signor, segua che vuole, in tuo cospetto
io dirò tutto; e dirò vero. E prima
d'esser greco io non niego; ché fortuna
può ben far che Sinon sia gramo e misero,
ma non già mai che sia bugiardo e vano.
  Non so se, ragionandosi, a gli orecchi
ti venne mai di Palamède il nome,
che nomato e pregiato e glorïoso,
e da Belo altamente era disceso;
se ben con falso e scelerato indizio
di tradigion, per detestar la guerra,
ei fu da' Greci indegnamente occiso:
com'or, che ne son privi, i Greci stessi
lo piangon tutti! A questo Palamede,
a cui per parentela era congiunto,
il pover padre mio ne' miei prim'anni
pria per valletto nel mestier de l'armi
poi per compagno a questa guerra diemmi.
Infin ch'ei visse, e fu 'l suo stato in fiore,
fioriro anco i miei giorni; e l'opre e 'l nome
e 'l grado mio ne fûr talvolta in pregio.
Estinto lui (che per invidia avvenne,
com'ognun sa, del traditore Ulisse),
amaramente il piansi. E 'l caso indegno
d'un tanto amico, e la mia vita oscura
tra me sdegnando, come soro e folle
ch'io fui, nol tacqui. Anzi, se mai la sorte
mel consentisse, o se mai fossi in Argo
vincitor ritornato, alta vendetta
ne gli promisi, e con minacce e motti
acerbi acerbamente il provocai.
  Questo fu del mio mal prima radice;
e quinci de' suoi falli e del mio duolo
consapevole Ulisse, a spaventarmi,
a travagliarmi, a seminar susurri
si diè nel volgo, e procurarmi inciampi
ond'io cadessi. E non cessò, ch'ordimmi
per mezzo di Calcante... Ma dov'entro,
lasso! senza profitto a fastidirvi
con noiose novelle? A voi sol basta
di saver ch'io son greco, già che i Greci
tutti egualmente per nimici avete.
Or datemi, signor, supplizio e morte
qual a voi piace, ché piacere e gioia
n'aranno i regi ancor d'Itaca e d'Argo".
E qui si tacque. Allor brama ne venne,
non che disio, di piú sapere avanti;
non ben sapendo ancor, miseri noi!
quanta scelleratezza e quanta astuzia
fosse ne' Greci. Egli, a seguir costretto,
mostrossi in prima paventoso, e poscia
di nuovo assicurossi, e finse, e disse:
  "Hanno molte fïate i Greci, afflitti
già da la guerra, e dal disagio astretti,
disïato e tentato anco piú volte
di qui ritrarsi, e lasciar Troia in pace.
Cosí fatto l'avessero! Ma sempre
or il verno, or i vènti, or le procelle
gli han distornati. E pur dianzi che l'opra
del caval che vedete era fornita,
di nuovo in sul partire, e 'n sul far vela,
di tempeste, di turbini e di nembi
risonò 'l cielo, e conturbossi il mare.
Onde, sospesi, Eurípilo mandammo
a spïar sopra a ciò quel che da Febo
ne s'avvertisse. Riportonne un empio
e spaventoso oracolo; e fu questo:
- Col sangue e con la morte d'una vergine
placaste i vènti per condurvi in Ilio;
col sangue e con la morte ora d'un giovine
convien placarli per ridurvi in Grecia. -
A cosí fiera voce sbigottissi,
impallidissi, e tremò 'l volgo tutto,
ciascun per sé temendo; e nessun certo
qual di loro accennasse Apollo e 'l fato.
  Qui fece Ulisse in mezzo al greco stuolo
con gran tumulto appresentar Calcante:
e del volere in ciò de' santi numi
interrogollo. Ed ei rispose in guisa
che la sua fellonia, benché da tutti
fusse prevista, fu però da molti
simulata e taciuta, e da molti anco
a me predetta: pur ei tacque ancora
per dieci giomi; e scaltramente al niego
si mise di voler che per suo detto
fosse alcun destinato o spinto a morte.
Ma poi, come da gridi astretto e vinto,
di conserto con lui ruppe il silenzio,
sí ch'io fui dichiarato al fin per vittima;
consentîr tutti, perché tutti ancora
finian con la mia morte il lor periglio.
  Era già da vicino il giorno orribile,
in che doveano al sacrificio offrirmi:
e già 'l farro e già 'l sale e già le bende
erano a le mie tempie intorno avvolte,
quando, rotto (io nol niego) ogni ritegno,
da la morte mi tolsi: e fin ch'a' vènti
desser le vele (ch'eran presti a darle)
di buia notte in un pantan m'ascosi,
ove nel fango infra le scarde e i giunchi
stava qual mi vedete. Ora son qui
privo d'ogni conforto e d'ogni speme
di mai piú riveder la patria antica,
i dolci figli e 'l desïato padre,
che saran, lasso me! per la mia fuga,
benché innocenti, ancor forse in mia vece
incarcerati, e tormentati, e morti.
  Or io, signor, per quelli eterni dèi
che scorgon di là su se 'l vero io parlo,
per quella pura e 'ntemerata fede
(se tra' mortali in alcun loco è tale)
ond'io già tutto a rivelar ti vegno,
priegoti che pietà di me ti prenda,
e de' miei tanti e sí gravosi affanni
ch'indegnamente io soffro". A cotal pianto
commossi, e da noi fatti anco pietosi,
vita e vènia gli diamo. E di sua bocca
comanda il re che si disferri e sciolga;
poi dolcemente in tal guisa gli parla:
"Qual tu ti sia, de' tuoi perduti Greci
ti dimentica omai; ché per innanzi
sarai de' nostri. Or mi rispondi il vero
di quel ch'io ti domando. A che fine hanno
qui sí grande edificio i Greci eretto?
Per consiglio di cui? Con qual avviso
l'han fabbricato? È vóto? è magia? è macchina?
Che trama è questa?" Avea 'l re detto a pena,
quand'ei, d'inganni e d'arte greca instrutto,
le già disciolte mani al cielo alzando,
disse: "Voi fochi eterni e 'nvïolabili,
voi fasce ond'io portai le tempie avvinte,
voi sacri altari, e voi cultri nefandi,
cui fuggendo anco adoro, a quel ch'io dico
per testimoni invoco. A me lece ora
ch'io mi disciolga, e mi dissacri in tutto
da l'obbligo de' Greci. E mi lece anco
che non gli ami, e che gli odii, e che divolghi
quel che da lor si cela, già ch'astretto
piú non son de la patria a legge alcuna.
Tu, se vero io ti dico, e se gran merto
di ciò ti rendo, e te, Troia, conservo,
conserva a me la già promessa fede.
  Nel cominciar di questa guerra i Greci
riposero ogni speme, ogni fidanza
ne l'aiuto di Palla; e ben riposte
fûr sempre, infin che l'empio Dïomede,
e l'inventor d'ogni mal'opra Ulisse,
il sacro tempio suo non vïolaro:
come fêr quando, ne la ròcca ascesi,
n'uccisero i custodi, e n'involaro
il Palladio fatale, osando impuri
por le man sanguinose al sacrosanto
suo simulacro; e macular le intatte
e 'ntemerate sue verginee bende.
Da indi in qua d'ardir sempre e di forze
scemâr, non che di speme; e Palla infesta
ne fu lor sempre; e ne diè chiari segni
e portentosi, allor ch'al campo addotta
fu la sua statua, che, posata a pena,
torvamente mirogli, e lampi e fiamme
vibrò per gli occhi, e per le membra tutte
versò salso sudore. Indi tre volte,
meraviglia a contarlo! alto da terra
surse, e 'mbracciò lo scudo, e brandí l'asta.
Allor gridando indovinò Calcante
che fuggir si dovesse, e tosto a' vènti
spiegar le vele: ché di Troia in vano
era l'assedio, se con altri augúri
d'Argo non si tornava un'altra volta,
e de la dea non si placava il nume,
ch'or, per ciò fare, han seco in Grecia addotto.
Onde giunti a Micene, incontinente
si daranno a dispor l'armi e le genti
e gli dèi che gli aíti, e gli accompagni.
Poi, ripassando il mar, con maggior forza
di nuovo assaliranvi e d'improvviso:
cosí Calcante interpreta, e predice.
  Or questa mole, che tant'alto sorge,
qui per consiglio di Calcante è posta
in vece del Palladio, e per ammenda
del nume offeso, a bello studio intesta
di legni cosí gravi e cosí grandi,
ed a sí smisurata altezza eretta,
a fin che per le porte entro a le mura
quinci addur non si possa, ove per segno
e per memoria poi del nume antico
riverita da voi, sacrata e cólta
sia ricovro e tutela al popol vostro.
Ché allor che questo dono a Palla offerto
per vostra man sia vïolato e guasto,
ruina estrema (la qual sopra lui
caggia piú tosto) a voi vuol che ne venga,
ed al gran vostro impero: ed, a rincontro,
quando da voi sia dentro al vostro cerchio
condotto e custodito, allor che l'Asia
congiurerà con le sue forze tutte
a l'esterminio d'Argo, e che tal fato
sopra a' nostri nepoti in cielo è fisso".
  Con tal arte Sinon, con tali insidie
fe' sí che gli credemmo; e quelli stessi
cui non potêr né 'l figlio di Tideo,
né di Larissa il bellicoso alunno,
né diece anni domar, né mille navi,
furon da lagrimette e da menzogne
sforzati e vinti. In questa a gl'infelici
un altro sopravvenne assai maggiore
e piú fiero accidente; onde a ciascuno
d'improvviso spavento il cor turbossi.
  Era Laocoonte a sorte eletto
sacerdote a Nettuno; e quel dí stesso
gli facea d'un gran toro ostia solenne:
quand'ecco che da Tènedo (m'agghiado
a raccontarlo) due serpenti immani
venir si veggon parimente al lito,
ondeggiando coi dorsi onde maggiori
de le marine allor tranquille e quete.
Dal mezzo in su fendean coi petti il mare,
e s'ergean con le teste orribilmente,
cinte di creste sanguinose ed irte.
Il resto con gran giri e con grand'archi
traean divincolando, e con le code
l'acque sferzando sí che lungo tratto
si facean suono e spuma e nebbia intorno.
Giunti a la riva, con fieri occhi accesi
di vivo foco e d'atro sangue aspersi,
vibrâr le lingue, e gittâr fischi orribili.
Noi, di paura sbigottiti e smorti,
chi qua, chi là ci dispergemmo; e gli angui
s'affilâr drittamente a Laocoonte,
e pria di due suoi pargoletti figli
le tenerelle membra ambo avvinchiando,
sen fêro crudo e miserabil pasto.
Poscia a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme
giunto in aiuto, s'avventaro, e stretto
l'avvinser sí che le scagliose terga
con due spire nel petto e due nel collo
gli racchiusero il fiato; e le bocche alte,
entro al suo capo fieramente infisse,
gli addentarono il teschio. Egli, com'era
d'atro sangue, di bava e di veleno
le bende e 'l volto asperso, i tristi nodi
disgroppar con le man tentava indarno,
e d'orribili strida il ciel feriva;
qual mugghia il toro allor che dagli altari
sorge ferito, se del maglio appieno
non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.
I fieri draghi alfin dai corpi esangui
disviluppati, in vèr la ròcca insieme
strisciando e zufolando, al sommo ascesero:
e nel tempio di Palla, entro al suo scudo
rinvolti, a' piè di lei si raggrupparo.
Rinnovossi di ciò nel volgo orrore
e tremore e spavento; e mormorossi
che degnamente avea Laocoonte
di sua temerità pagato il fio,
e del furor che contra al sacro legno
gli armò l'impura e scelerata mano:
e gridâr tutti che di Palla al tempio
si conducesse, e con preghiere e vóti
de la dea si facesse il nume amico.
A ciò seguire immantinente accinti,
ruiniamo la porta, apriam le mura,
adattiamo al cavallo ordigni e travi,
e ruote e curri a' piedi, e funi al collo.
Cosí mossa e tirata agevolmente
la macchina fatale il muro ascende,
d'armi pregna e d'armati, a cui d'intorno
di verginelle e di fanciulli un coro,
sacre lodi cantando, con diletto
porgean mano a la fune. Ella, per mezzo
tratta de la città, mentre si scuote,
mentre che ne l'andar cigola e freme,
sembra che la minacci. O patria, o Ilio,
santo de' numi albergo! inclita in arme
dardania terra! Noi la pur vedemmo
con tanti occhi a l'entrar, che quattro volte
fermossi, e quattro volte anco n'udimmo
il suon de l'armi: e pur, da furia spinti,
ciechi e sordi che fummo, i nostri danni
ci procurammo: ché 'l dí stesso addotto
e posto in cima a la sacrata ròcca
fu quel mostro infelice. Allor Cassandra
la bocca aperse, e quale esser solea
verace sempre e non creduta mai,
l'estremo fine indarno ci predisse:
e noi di sacra e di festiva fronde
velammo i templi il dí, miseri noi,
che de' lieti dí nostri ultimo fue.
  Scende da l'Oceàn la notte intanto,
e col suo fosco velo involve e copre
la terra e 'l cielo e de' Pelasgi insieme
l'ordite insidie. I Teucri a i loro alberghi,
a i lor riposi addormentati e queti
giacean securamente; e già da Tènedo
a l'usata riviera in ordinanza
vèr noi se ne venia l'argiva armata,
col favor de la notte occulta e cheta;
quando da la sua poppa il regio legno
ne diè cenno col foco. Allor Sinone,
che per nostra ruina era da noi
e dal fato maligno a ciò serbato,
accostossi al cavallo, e 'l chiuso ventre
chetamente gli aperse, e fuor ne trasse
l'occulto agguato. Usciro a l'aura in prima
i primi capi baldanzosi e lieti,
tutti per una fune a terra scesi.
E fûr Tisandro e Stènelo ed Ulisse,
Atamante e Toante e Macaóne
e Pirro e Menelao con lo scaltrito
fabbricator di questo inganno, Epèo.
Assalîr la città che già ne l'ozio
e nel sonno e nel vino era sepolta;
ancisero le guardie; aprîr le porte;
miser le schiere congiurate insieme;
e diêr forma a l'assalto. Era ne l'ora
che nel primo riposo hanno i mortali
quel ch'è dal cielo a i loro affanni infuso
opportuno e dolcissimo ristoro:
quand'ecco in sogno (quasi avanti gli occhi
mi fosse veramente) Ettòr m'apparve
dolente, lagrimoso, e quale il vidi
già strascinato, sanguinoso e lordo
il corpo tutto, e i piè forato e gonfio.
Lasso me! quale e quanto era mutato
da quell'Ettòr che ritornò vestito
de le spoglie d'Achille, e rilucente
del foco ond'arse il gran navile argolico!
Squallida avea la barba, orrido il crine
e rappreso di sangue; il petto lacero
di quante unqua ferite al patrio muro
ebbe d'intorno. E mi parea che 'l primo
foss'io che lagrimando gli dicessi:
"O splendor di Dardania, o de' Troiani
securissima speme, e quale indugio
t'ha fin qui trattenuto? Ond'or ne vieni
tanto da noi bramato? Ahi, dopo quanta
strage de' tuoi, dopo quanti travagli
de la nostra città già stanchi e domi
ti riveggiamo! E qual fero accidente
fa sí deforme il tuo volto sereno?
E che piaghe son queste?". Egli a ciò nulla
rispose, come a vani miei quesiti:
ma dal profondo petto alti sospiri
traendo: "Oh! fuggi, Enea, fuggi, - mi disse -
togliti a queste fiamme. Ecco che dentro
sono i nostri nemici. Ecco già ch'Ilio
arde tutto e ruina. Infino ad ora
e per Priamo e per Troia assai s'è fatto.
Se difendere omai piú si potesse,
fôra per questa man difesa ancora:
ma dovendo cader, le sue reliquie
sacre e gli santi suoi numi Penati
a te solo accomanda; e tu li prendi
per compagni a' tuoi fati; e, come è d'uopo,
cerca loro altre terre, ergi altre mura;
ché dopo lungo e travaglioso esilio
l'ergerai piú di Troia altere e grandi".
Detto ciò, da le chiuse arche riposte
trasse, e mi consegnò le sacre bende
e l'effigie di Vesta e 'l foco eterno.
  Spargonsi intanto per diverse parti
de la presa città le grida e 'l pianto
e 'l tumulto de l'armi; e rinforzando
via piú di mano in man, tanto s'avanza
che a l'antica magion del padre Anchise
(come che fosse assai remota, e chiusa
d'alberi intorno) il gran rumore aggiunge.
Allor dal sonno mi riscuoto, e salgo
subitamente d'un terrazzo in cima,
e porgo per udir gli orecchi attenti.
  Cosí rozzo pastor, se da gran suono
è da lunge percosso, in alto ascende,
e mirando si sta confuso e stupido
o foco che al soffiar d'un torbid'Austro
stridendo arda le biade e le campagne;
o tempestoso e rapido torrente
che dal monte precipiti, e le selve
ne meni e i cólti e le ricolte e i campi.
Allor tardi credemmo; allor le insidie
ne fûr conte de' Greci. E già 'l palagio
era di Deïfòbo arso e distrutto;
già 'l suo vicino Ucalegón ardea,
e l'incendio di Troia in ogni lato
rilucea di Sigèo ne la marina;
e s'udian gridar genti e sonar tube.
Io m'armo, e, forsennato, anco ne l'armi
non veggio ove m'adopri. Al fin risolvo,
raunati i compagni, avventurarmi,
menar le mani, e ne la ròcca addurmi;
mi fan l'impeto e l'ira ad ogni rischio
precipitoso; e solo a mente vienmi
che un bel morir tutta la vita onora.
  Eravam mossi; quando ecco tra via
ne si fa Panto d'improvviso avanti,
Panto figlio d'Otrèo, che de la ròcca
era custode, e sacerdote a Febo.
Questi, scampato da' nemici a pena,
inverso il lito attonito fuggendo,
i sacri arredi e i santi simulacri
de gli dèi vinti, e 'l suo picciol nipote
si traea seco."O Panto, o Panto, - io dissi -
a che siam giunti? Ove ricorso abbiamo,
se la ròcca è già presa?". Ei sospirando
e piangendo rispose: " È giunto, Enea,
l'ultimo giorno e 'l tempo inevitabile
de la nostra ruina. Ilio fu già;
e noi Troiani fummo: or è di Troia
ogni gloria caduta. Il fero Giove
tutto in Argo ha rivolto; e tutti in preda
siam de' Greci e del foco. Il gran cavallo,
ch'era a Palla devoto, altero in mezzo
stassi de la cittade, e d'ogni lato
arme versa ed armati. Il buon Sinone
gode de la sua frode, e d'ogn'intorno
scorrendo si rimescola, e s'aggira
gran maestro d'incendi e di ruine.
A porte spalancate entran le schiere
senza ritegno ed a migliaia, quante
né d'Argo usciron mai né di Micene.
Gli altri che prima entraro, han già le strade
assedïate: e stan con l'armi infeste,
parate a far di noi strage e macello.
Soli son fino a qui sorti in difesa
i corpi de le guardie: e questi al buio
fanno con lievi e repentini assalti
tale una cieca resistenza a pena".
  Dal parlar di costui, dal nume avverso
spinto, mi caccio tra le fiamme e l'armi,
ove mi chiama il mio cieco furore,
e de le genti il fremito e le strida
che feriscono il cielo. E per compagni
primieramente al lume de la luna
mi si scopron Rifèo, Ifito il vecchio
ed Ipane e Dimante: indi comparve
il giovine Corèbo. Era costui
figlio a Migdóne, insanamente acceso
de l'amor di Cassandra; e, come fosse
già suo consorte, pochi giorni avanti
in soccorso del suocero e de' Frigi
s'era a Troia condotto. Infortunato!
che non avea la sua sposa indovina
ben anco intesa. A questi insieme accolti,
per accendergli piú mi volgo e dico:
  "Giovini forti e valorosi, in vano
omai fia la fortezza e 'l valor vostro;
poiché perduti siamo e che Troia arde,
e gli dèi tutti, a cui tutela e cura
si reggea questo impero, in abbandono
lasciano i nostri templi e i nostri altari.
Ma se voi cosí fermi e cosí certi
siete pur, com'io veggio, a seguitarmi,
ancor che a morte io vada, in mezzo a l'armi
avventiamci, e moriamo. Un sol rimedio
a chi speme non have è disperarsi".
  Cosí l'ardir di quegli animi accesi
furor divenne. Usciam di lupi in guisa
che rapaci, famelici e rabbiosi,
col ventre vòto e con le canne asciutte
sentan de' lupicini urlar per fame
pieno un digiun covile. Andiam per mezzo
de' nemici e de l'armi a morte esposti,
senza riservo, e via dritti fendiamo
la città tutta, a la buia ombra occulti,
che l'altezza facea de gli edifici.
  Or chi può dir la strage e la ruina
di quella notte? E qual è pianto eguale
a tante occisïoni, a tanto eccidio?
Troia ruina, la superba, antica
e glorïosa Troia, che tant'anni
portò scettro e corona. Era, dovunque
s'andava, di cadaveri, di sangue,
d'ogni calamità pieno ogni loco,
le vie, le case, i templi. E non pur soli
caddero i Teucri, ché l'antico ardire
destossi, e surse alcuna volta ancora
negli lor petti. I vincitori e i vinti
giacean confusamente, e d'ogni lato
s'udian pianti e lamenti; e questi e quelli
eran da la paura e da la morte
in mille guise aggiunti. Andrògeo il primo
de' Greci fu ch'avanti ne s'offerse,
condottier di gran gente. Egli, avvisando
parte sollecitar de la sua schiera:
"Affrettatevi, - disse - a che badate?
che 'ndugio è 'l vostro? Altri espugnata ed arsa
e depredata han di già Troia, e voi
testé venite?" Avea ciò detto a pena,
che 'l segno e la risposta indarno attesa,
tra nemici si vide; e come attonito
restando, con la voce il piè ritrasse.
Come repente il vïator s'arretra,
se d'improvviso fra le spine un angue
avvien che prema, ed ei premuto e punto
d'ira gonfio e di tosco gli s'avventi;
cosí dal nostro subitano incontro
sovraggiunto in un tempo e spaventato,
Andrògeo per fuggir ratto si volse.
Ma noi che, impauriti e sconcertati,
a la sprovvista gli assalimmo in lochi
a lor non consueti, in breve spazio
li circondammo, e gli uccidemmo alfine:
tanto nel primo assalto amica e presta
ne fu la sorte. E qui fatto Corèbo
d'un tal successo e di coraggio altero:
"Compagni, - disse - poi che la fortuna
con questo sí felice agli altri incontri
ne porge aíta, a nostro scampo usiamla.
Mutiam gli scudi, accomodiamci gli elmi
e l'insegne de' Greci. O biasmo o lode
che ciò ne sia, chi co' nemici il cerca?
L'arme ne daranno essi". E, cosí detto,
la celata e 'l cimier d'Andrògeo stesso
e la sua scimitarra e la sua targa
per lui si prese, armi onorate e conte,
Cosí fece Rifèo, cosí Dimante,
e cosí tutti: ché per sé ciascuno
di nuove spoglie allegramente armossi.
  Ci mettemmo tra lor, che i nostri dii
non eran nosco; e ne l'oscura notte
con ogni occasïone in ogni loco
ci azzuffammo con essi; e di lor molti
mandammo a l'Orco, e ritirar molt'altri
ne facemmo a le navi: e fûr di quelli
che per viltà nel cavernoso e cieco
ventre si racquattâr del gran cavallo.
Ma che? Contra 'l voler de' regi eterni
indarno osa la gente. Ecco dal tempio
trar veggiam di Minerva, con le chiome
sparse, e con gli occhi indarno al ciel rivolti,
la vergine Cassandra. Io dico gli occhi,
perché le regie sue tenere mani
eran da' lacci indegnamente avvinte.
  A sí fero spettacolo Corèbo
infurïato, e di morir disposto,
anzi che di soffrirlo, a quella schiera
scagliossi in mezzo; e noi ristretti insieme
tutti il seguimmo. Or qui fessi di noi
una strage crudele e miserabile
e da' nostri medesmi, che la cima
tenean del tempio, e dardi e sassi e travi
ne versarono addosso, imaginando
da l'armi, da' cimieri e da l'insegne
di ferir Greci: e i Greci d'ogni intorno,
tratti dal gran rumore e da lo sdegno
de la ritolta vergine, s'uniro
ai nostri danni. Il bellicoso Aiace,
i fieri Atridi, i Dòlopi e gli Argivi,
tutti ne furon sopra in quella guisa
ch'opposti un contra l'altro Affrico e Bora
e Garbino e Volturno accolte in mezzo
han le selve stridenti o 'l mare ondoso,
quando col suo tridente in fin dal fondo
il gran Nereo il conturba. E tornâr anco
incontro a noi quei che da noi pur dianzi
sen gîr rotti e dispersi; e questi in prima
scoprîr le nostre insidie, e fêr palesi
le cangiate armi e gli mentiti scudi,
e 'l parlar che dal greco era diverso.
Cosí ne fu subitamente addosso
un diluvio di gente. E qui per mano
di Penelèo, davanti al sacro altare
de l'armigera Dea cadde Corèbo:
cadde Rifèo, ch'era ne' Teucri un lume
di bontà, di giustizia e d'equitate
(cosí a Dio piacque); ed Ipane e Dimante
caddero anch'essi; e questi, ohimè! trafitti
per le man pur de' nostri. E tu, pietoso
Panto, cadesti; e la tua gran pietate,
e l'ínfola santissima d'Apollo
in ciò nulla ti valse. O fiamme estreme,
o ceneri de' miei! fatemi fede
voi che nel vostro occaso io rischio alcuno
non rifiutai né d'arme, né di foco,
né di qual fosse incontro, né di quanti
ne facessero i Greci: e se 'l fato era
ch'io dovessi cader, caduto fôra:
tal ne feci opra. Ne spiccammo al fine
da quel mortale assalto. Ifito e Pelia
ne venner meco: Ifito afflitto e grave
già d'anni; e Pelia indebolito e tardo
d'un colpo, che di mano ebbe d'Ulisse.
  Quinci divelti, al gran palagio andammo
da le grida chiamati. Ivi era un fremito,
un tumulto, un combatter cosí fiero,
come guerra non fosse in altro loco,
e quivi sol si combattesse, e quivi
ognun morisse, e nessun altro altrove:
tal v'era Marte indomito, e de' Greci
tanto concorso. Avean la porta cinta
di schiere e di testuggini e di travi,
e d'ambi i lati a la parete in alto
appoggiate le scale; onde saliti
e spinti un dopo l'altro, con gli scudi
si ricoprian di sopra, e con le destre
rampicando salian di grado in grado.
  A rincontro i Troiani, altri di sopra
muri e tetti versando e torri intere,
i travi e i palchi d'oro e i fregi tutti
de la reggia e de' regi avean per armi;
fermi a far sí (poich'eran giunti al fine)
ch'ogni cosa con lor finisse insieme;
ed altri unitamente entro a la porta
stavan coi ferri bassi, in folta schiera
a guardia de l'entrata. E qui di novo
a sovvenir la corte, a far difesa
per entro, a dare a' vinti animo e forza
mi posi in core: e 'n cotal guisa il fei.
Era un andito occulto ed una porta
secretamente accomodata a l'uso
de le stanze reali, onde solea
Andromaca infelice al suo buon tempo
gir a' suoceri suoi soletta, e seco
per domestica gioia al suo grand'avo
il pargoletto Astïanatte addurre.
Quinci entromesso, me ne salsi in cima
a l'alto corridore, onde i meschini
facean di sopra a le nemiche schiere
tempesta in vano. Era dal tetto a l'aura
spiccata, e sopra la parete a filo
un'altissima torre, onde il paese
di Troia, il mar, le navi e 'l campo tutto
si scopria de' nemici. A questa intorno
co' ferri ci mettemmo e co' puntelli;
e da radice ov'era al palco aggiunta,
e da' suoi tavolati e da' suoi travi
recisa in parte la tagliammo in tutto,
e la spingemmo. Alta ruina e suono
fece cadendo; e di piú greche squadre
fu strage e morte e sepoltura insieme.
Gli altri vi salîr sopra; e d'ogni parte
senz'intermissïon d'ogni arme un nembo
volava intanto. In su la prima entrata
stava Pirro orgoglioso; e d'armi cinto
sí luminose, e da' riflessi accese
di tanti incendi, che di foco e d'ira
parean lunge avventar raggi e scintille.
  Tale un colúbro mal pasciuto e gonfio,
di tana uscito, ove la fredda bruma
lo tenne ascoso, a l'aura si dimostra,
quando, deposto il suo ruvido spoglio,
ringiovenito, alteramente al sole
lubrico si travolve, e con tre lingue
vibra mille suoi lucidi colori.
  Seco il gran Perifante e 'l grand'auriga
d'Achille, Automedonte, e lo stuol tutto
era de' Sciri: e di già sotto entrati,
fiamme a' tetti avventando, ogni difesa
ne facean vana. E qui co' primi, avanti
Pirro con una in man grave bipenne
le sbarre, i legni, i marmi, ogni ritegno
de la ferrata porta abbatte e frange,
e per disgangherarla ogni arte adopra.
Tanto al fin ne recide che nel mezzo
v'apre un'ampia finestra. Appaion dentro
gli atrii superbi, i lunghi colonnati,
e di Priamo e degli altri antichi regi
i reconditi alberghi. Appaion l'armi
che davanti eran pronte a la difesa.
S'ode piú dentro un gemito, un tumulto,
un compianto di donne, un ululato,
e di confusïone e di miseria
tale un suon che feria l'aura e le stelle.
Le misere matrone spaventate,
chi qua, chi là per le gran sale errando,
battonsi i petti; e con dirotti pianti
dànno infino a le porte amplessi e baci.
Pirro intanto non cessa, e furïoso,
in sembianza del padre, ogni riparo,
ogni intoppo sprezzando, entro si caccia.
  Già l'arïete a fieri colpi e spessi
aperta, fracassata, e d'ambi i lati
da' cardini divelta avea la porta;
quand'egli a forza urtò, ruppe e conquise
i primi armati; e quinci in un momento
di Greci s'allagò la reggia tutta.
Qual è se, rotti gli argini, spumoso
esce e rapido un fiume, allor che gonfio
e torbo e ruinoso i campi inonda,
seco i sassi traendo e i boschi interi,
e gli armenti e le stalle e ciò che avanti
gli s'attraversa; in cotal guisa io stesso
vidi Pirro menar ruina e strage;
e vidi ne l'entrata ambi gli Atridi;
vidi Ecúba infelice, ed a lei cento
nuore d'intorno; e Prïamo vid'anco
ch'estinguea col suo sangue, ohimè! quei fochi
che da lui stesso eran sacrati e cólti.
  Cinquanta maritali appartamenti
eran ne' suo serraglio: quale, e quanta
speranza de' figlioli e de' nipoti!
Quanti fregi, quant'oro, quante spoglie,
e quant'altre ricchezze! e tutte insieme
periro incontinente: e dove il foco
non era, erano i Greci. Or, per contarvi
qual di Prïamo fosse il fato estremo,
egli, poscia che presa, arsa e disfatta
vide la sua cittade, e i Greci in mezzo
ai suoi piú cari e piú riposti alberghi;
ancor che vèglio e debole e tremante,
l'armi, che di gran tempo avea dismesse,
addur si fece; e d'esse inutilmente
gravò gli omeri e 'l fianco; e come a morte
devoto, ove piú folti e piú feroci
vide i nemici, incontr' a lor si mosse.
  Era nel mezzo del palazzo a l'aura
scoperto un grand'altare, a cui vicino
sorgea di molti e di molt'anni un lauro
che co' rami a l'altar facea tribuna,
e con l'ombra a' Penati opaco velo.
Qui, come d'atra e torbida tempesta
spaventate colombe, a l'ara intorno
avea le care figlie Ecuba accolte;
ove agl'irati dèi pace ed aíta
chiedendo, agli lor santi simulacri
stavano con le braccia indarno appese.
Qui, poiché la dolente apparir vide
il vecchio re giovenilmente armato:
"O, - disse - infelicissimo consorte,
qual dira mente, o qual follia ti spinge
a vestir di quest'armi? Ove t'avventi,
misero? Tal soccorso a tal difesa
non è d'uopo a tal tempo: non, s'appresso
ti fosse anco Ettor mio. Con noi piú tosto
rimanti qui; ché questo santo altare
salverà tutti; o morren tutti insieme".
  Ciò detto, a sé lo trasse; e nel suo seggio
in maestate il pose. Ecco davanti
a Pirro intanto il giovine Polite,
un de' figli del re, scampo cercando
dal suo furore, e già da lui ferito,
per portici e per logge armi e nemici
attraversando, in vèr l'altar sen fugge:
e Pirro ha dietro che lo segue e 'ncalza
sí che già già con l'asta e con la mano
or lo prende, or lo fère. Alfin qui giunto,
fatto di mano in man di forza esausto
e di sangue e di vita, avanti agli occhi
d'ambi i parenti suoi cadde, e spirò.
  Qui, perché si vedesse a morte esposto,
Prïamo non di sé punto oblïossi,
né la voce frenò, né frenò l'ira:
anzi esclamando: "O scelerato, - disse -
o temerario! Abbiati in odio il cielo,
se nel cielo è pietate; o se i celesti
han di ciò cura, di lassú ti caggia
la vendetta che merta opra sí ria.
Empio, ch'anzi a' miei numi, anzi al cospetto
mio proprio fai governo e scempio tale
d'un tal mio figlio, e di sí fera vista
le mie luci contamini e funesti.
Cotal meco non fu, benché nimico,
Achille, a cui tu menti esser figliolo,
quando, a lui ricorrendo, umanamente
m'accolse, e riverí le mie preghiere;
gradí la fede mia; d'Ettor mio figlio
mi rendé 'l corpo esangue: e me securo
nel mio regno ripose". In questa, acceso,
il debil vecchio alzò l'asta, e lanciolla
sí che senza colpir languida e stanca
ferí lo scudo, e lo percosse a pena,
che dal sonante acciaro incontinente
risospinta e sbattuta a terra cadde.
A cui Pirro soggiunse: "Or va' tu dunque
messaggiero a mio padre, e da te stesso,
le mie colpe accusando e i miei difetti,
fa' conto a lui come da lui traligno:
e muori intanto". Ciò dicendo, irato
afferrollo, e, per mezzo il molto sangue
del suo figlio, tremante e barcolloni,
a l'altar lo condusse. Ivi nel ciuffo
con la sinistra il prese, e con la destra
strinse il lucido ferro, e fieramente
nel fianco infino agli elsi gliel'immerse.
  Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse
Prïamo, un re sí grande, un sí superbo
dominator di genti e di paesi,
un de l'Asia monarca, a veder Troia
ruinata e combusta; a giacer quasi
nel lito un tronco desolato, un capo
senza il suo busto, e senza nome un corpo.
  Allor pria mi sentii dentro e d'intorno
tale un orror, che stupido rimasi.
E, di Prïamo pensando al caso atroce,
mi si rappresentò l'imago avanti
del padre mio, ch'era a lui d'anni eguale.
Mi sovvenne l'amata mia Creúsa,
il mio picciolo Iulo, e la mia casa
tutta a la vïolenza, a la rapina,
ad ogni ingiuria esposta. Allora in dietro
mi volsi per veder che gente meco
fosse de' miei seguaci; e nullo intorno
piú non mi vidi: ché tra stanchi e morti
e feriti e storpiati, altri dal ferro,
altri da le ruine, altri dal foco,
m'avean già tutti abbandonato. In somma
mi trovai solo. Onde, smarrito errando,
e d'ogn'intorno rimirando, al lume
del grand'incendio, ecco mi s'offre a gli occhi
di Tindaro la figlia, che nel tempio
se ne stava di Vesta, in un reposto
e secreto ridotto ascosa e cheta:
Elena, dico, origine e cagione
di tanti mali, e che fu d'Ilio e d'Argo
furia comune. Onde comunemente
e de' Greci temendo e de' Troiani
e de l'abbandonato suo marito,
s'era in quel loco, e 'n se stessa ristretta,
confusa, vilipesa ed abborrita
fin dagli stessi altari. Arsi di sdegno,
membrando che per lei Troia cadea;
e 'l suo castigo e la vendetta insieme
de la mia patria rivolgendo: "Adunque -
dicea meco - impunita e trïonfante
ritornerà la scelerata in Argo?
E regina vedrà Sparta e Micene?
Goderà del marito, de' parenti,
de' figli suoi? Farà pompe e grandezze,
e d'Ilio avrà per serve e per ministri
l'altere donne e i gran donzelli intorno?
E qui Priamo sarà di ferro anciso,
e Troia incensa, e la dardania terra
di tanto sangue tante volte aspersa?
Non fia cosí; che se ben pregio e lode
non s'acquista a punire o vincer donna,
io lodato e pregiato assai terrommi,
se si dirà ch'aggia d'un mostro tale
purgato il mondo. Appagherommi almeno
di sfogar l'ira mia: vendicherommi
de la mia patria; e col fiato e col sangue
di lei placherò l'ombre, e farò sazie
le ceneri de' miei". Ciò vaneggiando,
infurïava; quand'ecco una luce
m'aprio la notte, e mi scoverse avanti
l'alma mia genitrice in un sembiante,
non come l'altre volte in altre forme
mentito o dubbio, ma verace e chiaro,
e di madre e di dea, qual, credo, e quanta
su tra gli altri Celesti in ciel si mostra.
Cotal la vidi, e tale anco per mano
mi prese; e con pietà le sante luci
e le labbia rosate aperse, e disse:
"Figlio, a che tanto affanno? a che tant'ira?
Ché non t'acqueti omai? Questa è la cura
che tu prendi di noi? Ché non piú tosto
rimiri ov'abbandoni il vecchio Anchise
e la cara Creúsa e 'l caro Iulo,
cui sono i Greci intorno? E se non fosse
che in guardia io gli aggio, in preda al ferro, al foco
fôran già tutti. Ah! figlio, non il volto
de l'odïata Argiva, non di Pari
la biasmata rapina, ma del cielo
e de' celesti il voler empio atterra
la troiana potenza. Alza su gli occhi,
ch'io ne trarrò l'umida nube, e 'l velo
che la vista mortal t'appanna e grava:
poscia credi a tua madre, e senza indugio
tutto fa' che da lei ti si comanda:
vedi là quella mole, ove quei sassi
son da' sassi disgiunti, e dove il fumo
con la polve ondeggiando al ciel si volve,
come fiero Nettuno infin da l'imo
le mura e i fondamenti e 'l terren tutto
col gran tridente suo sveglie e conquassa.
Vedi qui su la porta come Giuno
infurïata a tutti gli altri avanti
si sta cinta di ferro, e da le navi
le schiere d'Argo a' nostri danni invita:
vedi poi colà su Pallade in cima
a l'alta rocca, entro a quel nembo armata,
con che lucenti e spaventosi lampi
il gran Górgone suo discopre e vibra.
Che piú? mira nel ciel, che Giove stesso
somministra a gli Argivi animo e forza,
e incontro a le vostre armi a l'arme incita
gli eterni dèi. Cedi lor, figlio, e fuggi,
poi che indarno t'affanni. Io sarò teco
ovunque andrai, sí che securamente
ti porrò dentro a' tuoi paterni alberghi".
  Cosí disse; e per entro a le folt'ombre
de la notte s'ascose. Allor vid'io
gl'invisibili aspetti, e i fieri volti
de' numi a Troia infesti, e Troia tutta
in un sol foco immersa, e fin dal fondo
sottosopra rivolta. In quella guisa
che d'alto monte in precipizio cade
un orno antico, i cui rami pur dianzi
facean contrasto a' vènti e scorno al sole,
quando con molte accette al suo gran tronco
stanno i robusti agricoltori intorno
per atterrarlo, e gli dan colpi a gara,
da cui vinto e dal peso, a poco a poco
crollando e balenando, il capo inchina,
e stride e geme e dal suo giogo al fine
e con parte del giogo si diveglie,
o si scoscende; e ciò che intoppa urtando,
di suono e di ruina empie le valli.
Allor discesi; e la materna scorta
seguendo, da' nemici e da le fiamme
mi rendei salvo: ché dovunque il passo
volgea, cessava il foco, e fuggian l'armi.
  Poi ch'io fui giunto a la magione antica
del padre mio, di lui prima mi calse
e del suo scampo, e per condurlo a' monti
m'apparecchiava, quand'ei disse:"O figlio,
io decrepito, io misero, che avanzi
ai dí de la mia patria? Io posso, io deggio
sopravvivere a Troia? E fia ch'io soffra
sí vile esiglio? Voi, che ne' vostri anni
siete di sangue e di vigore intieri,
voi vi salvate. A me, s'io pur dovea
restare in vita, avrebbe il ciel serbato
questo mio nido. Assai, figlio, e pur troppo
son vissuto fin qui; poi ch'altra volta
vidi Troia cadere, e non cadd'io.
Fatemi or di pietà gli ultimi offici;
iteratemi il vale, e per defunto
cosí composto il mio corpo lasciate,
ch'io troverò chi mi dia morte; e i Greci
medesmi o per pietate, o per vaghezza
de le mie spoglie, mi trarran di vita
e di miseria: e se d'esequie io manco,
se manco di sepolcro, il danno è lieve.
Da l'ora in qua son io visso a la terra
disutil peso, ed al gran Giove in ira,
che dal vento percosso e da le fiamme
fui dal folgore suo". Ciò memorando
stava il misero padre a morte additto;
e d'intorno gli er'io, Creúsa, Iulo,
la casa tutta con preghiere e pianti
stringendolo a salvarsi, a non trar seco
ogni cosa in ruina, a non offrirsi
da se stesso a la morte. Ei fermo e saldo
né di proponimento, né di loco
punto si cangia; ond'io pur: "L'armi!" grido,
di morir desïoso. E qual v'era altro
rimedio o di consiglio, o di fortuna?
"Ah! che di questa soglia io tragga il piede,
padre mio, per lasciarti? Ah! che tu possa
creder tanto di me? Da la tua bocca
tanto di sceleranza e di viltate
è d'un tuo figlio uscito? Or s'è destino
che di sí gran città nulla rimanga,
se piace a te, se nel tuo core è fermo
che né di te, né de gli tuoi si scemi
la ruina di Troia; e cosí vada,
e cosí fia: ch'io veggio a mano a mano
qui del sangue del re tutto cosperso,
e bramoso del nostro, apparir Pirro,
ch'i padri occide anzi a gli altari, e i figli
anzi agli occhi de' padri. Ah! madre mia,
per questo fine qui salvo e difeso
m'hai da l'armi e dal foco, acciò ch'io veggia
con gli occhi miei ne la mia casa stessa
i miei nimici e 'l mio padre e 'l mio figlio
e la mia donna crudelmente occisi
l'un nel sangue de l'altro? Mano a l'arme!
Chi mi dà l'armi? Ecco che 'l giorno estremo
a morte ne chiama. Or mi lasciate
ch'io torni infra i nimici, e che di nuovo
mi razzuffi con essi: ché non tutti
abbiam senza vendetta oggi a perire".
  E già di ferro cinto, a la sinistra
m'adattavo lo scudo, e fuori uscia,
quand'ecco in su la soglia attraversata
Creúsa avanti a' piè mi si distende,
e me li abbraccia; e 'l fanciulletto Iulo
m'appresenta, e mi dice: "Ah! mio consorte,
dove ne lasci? S'a morir ne vai,
ché non teco n'adduci? E se ne l'armi
e nell'esperïenza hai speme alcuna,
ché non difendi la tua casa in prima?
ove Ascanio abbandoni? ove tuo padre?
ove Creúsa tua, che tua s'è detta
per alcun tempo?". E ciò gridando empiea
di pianto e di stridor la magion tutta:
quand'ecco innanzi a gli occhi, e fra le mani
de gli stessi parenti, un repentino
e mirabile a dir portento apparve;
ché sopra il capo del fanciullo Iulo
chiaro un lume si vide, e via piú chiara
una fiamma che tremola e sospesa
le sue tempie rosate e i biondi crini
sen gia come leccando, e senza offesa
lievemente pascendo. Orrore e téma
ne presi in prima. Indi a quel santo foco
d'intorno, altri con acqua, altri con altro,
ognun facea per ammorzarlo ogn'opra.
Ma 'l padre Anchise a cotal vista allegro,
le man, gli occhi e la voce al ciel rivolto,
orò dicendo: "Eterno onnipotente
signor, se umana prece unqua ti mosse,
vèr noi rimira, e ne fia questo assai.
Ma se di merto alcuno in tuo cospetto
è la nostra pietà, padre benigno,
danne anco aíta; e con felice segno
questo annunzio ratifica e conferma".
  Avea di ciò pregato il vecchio appena,
che tonò da sinistra e dal convesso
del ciel cadde una stella, che per mezzo
fendé l'ombrosa notte, e lunga striscia
di face e di splendor dietro si trasse.
Noi la vedemmo chiaramente sopra
da' nostri tetti ire a celarsi in Ida,
sí che lasciò, quanto il suo corso tenne,
di chiara luce un solco; e lunge intorno
fumò la terra di sulfureo odore.
  Allor vinto si diede il padre mio;
e tosto a l'aura uscendo, al santo segno
de la stella inchinossi, e con gli dèi
parlò devotamente: "O de la patria
sacri numi Penati, a voi mi rendo.
Voi questa casa, voi questo nipote
mi conservate. Questo augurio è vostro,
e nel poter di voi Troia rimansi".
Poscia, rivolto a noi: " Fa', figliuol mio,
ormai - disse - di me che piú t'aggrada;
ch'al tuo voler son pronto, e d'uscir teco
piú non recuso". Avea già 'l foco appresa
la città tutta, e già le fiamme e i vampi
ne ferian da vicino, allor che 'l vecchio
cosí dicea: "Caro mio padre, adunque, -
soggiuns'io - com'è d'uopo, in su le spalle
a me ti reca, e mi t'adatta al collo
acconciamente: ch'io robusto e forte
sono a tal peso: e sia poscia che vuole:
ch'un sol periglio, una salute sola
fia d'ambedue. Seguami Iulo al pari;
Creúsa dopo: e voi, miei servi, udite
quel ch'io diviso. È de la porta fuori
un colle, ov'ha di Cerere un antico
e deserto delúbro, a cui vicino
sorge un cipresso, già molt'anni e molti
in onor de la dea serbato e cólto.
Qui per diverse vie tutti in un loco
vi ridurrete; e tu con le tue mani
sosterrai, padre mio, de' santi arredi
e de' patrii Penati il sacro incarco,
che a me, sí lordo e sí recente uscito
da tanta uccisïon, toccar non lece
pria che di vivo fiume onda mi lave".
  Ciò detto, con la veste e con la pelle
d'un villoso leon m'adeguo il tergo;
e 'l caro peso a gli omeri m'impongo.
Indi a la destra il fanciulletto Iulo
mi s'aggavigna e non con moto eguale
ei segue i passi miei, Creúsa l'orme.
Andiam per luoghi solitari e bui:
e me, cui dianzi intrepido e sicuro
vider de l'arme i nembi e de gli armati
le folte schiere, or ogni suono, ogni aura
empie di téma: sí geloso fammi
e la soma e 'l compagno. Era vicino
a l'uscir de la porta, e fuori in tutto,
com'io credea, d'ogni sinistro incontro;
quand'ecco d'improvviso udir mi sembra
un calpestío di gente, a cui rivolto
disse il vecchio gridando: "Oh! fuggi, figlio,
fuggi, ché ne son presso. Io veggio, io sento
sonar gli scudi, e lampeggiar i ferri".
Qui ridir non saprei come, né quale
avverso nume a me stesso mi tolse:
ché mentre da la fretta e dal timore
sospinto esco di strada, e per occulte
e non usate vie m'aggiro e celo,
restai, misero me! senza la mia
diletta moglie, in dubbio se dal fato
mi si rapisse, o travïata errasse,
o pur lassa a posar posta si fosse.
Basta ch'unqua di poi non la rividi,
né per vederla io mi rivolsi mai,
né mai me ne sovvenne, infin che giunti
di Cerere non fummo al sagro poggio.
Ivi ridotti, ne mancò di tanti
sola Creúsa, ohimè! con quanto scorno
e con quanto dolor del suo consorte
e del figlio e del suocero e di tutti!
Io che non feci allora, e che non dissi?
Qual degli uomini, folle! e degli dèi
non accusai! Qual vidi in tanto eccidio,
o ch'io provassi, o che avvenisse altrui,
caso piú miserando e piú crudele?
  Qui mio figlio, mio padre e i patrii numi
lascio in guardia a' compagni, ed io de l'armi
pur mi rivesto, e 'ndietro me ne torno,
disposto a ritentar ogni fortuna,
a cercar Troia tutta, a por la vita
ad ogni repentaglio. Incominciai
in prima da le mura e da la porta,
ond'era uscito; e le vie stesse e l'orme
ripetei tutte per cui dianzi io venni,
gli occhi portando per vederla intenti.
Silenzio, solitudine e spavento
trovai per tutto. A casa aggiunsi in prima,
cercando se per sorte ivi smarrita
si ricovrasse. Era già presa e piena
di nemici e di foco; e già da' tetti
uscian da' vènti e da le furie spinte
rapide fiamme e minacciose al cielo.
Torno quinci al palagio; indi a la ròcca:
seguo a le piazze, a' portici, a l'asilo
di Giunon, che già fatti eran conserve
de la preda di Troia, a cui Fenice
e 'l fiero Ulisse eran custodi eletti.
Qui d'ogni parte le troiane spoglie
fin de le sacristie, fin de gli altari
le sacre mense, i prezïosi vasi
di solid'oro, e i paramenti e i drappi
e le delizie e le ricchezze tutte
a gli incendi ritolte, erano addotte.
D'intorno innumerabili prigioni
stavan di funi e di catene avvinti,
e matrone e donzelle e pargoletti,
che di sordi lamenti e di muggiti
facean ne l'aria un tuono; e men fra loro
era la donna mia: né dove fosse,
piú ripensar sapendo, osai dolente
gridar per le vie tutte; e, benché in vano,
mille volte iterai l'amato nome.
Mentre cosí tra furïoso e mesto
per la città m'aggiro, e senza fine
la ricerco e la chiamo, ecco davanti
mi si fa l'infelice simulacro
di lei, maggior del solito. Stupii,
m'aggricciai, m'ammutii. Prese ella a dirmi,
e consolarmi: "O mio dolce consorte,
a che sí folle affanno? A gli dèi piace
che cosí segua. A te quinci non lece
di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta
ch'io sia teco a provar gli affanni tuoi;
ché soffrir lunghi esigli, arar gran mari
ti converrà pria ch'al tuo seggio arrivi,
che fia poi ne l'Esperia, ove il tirreno
Tebro con placid'onde opimi campi
di bellicosa gente impingua e riga.
Ivi riposo e regno e regia moglie
ti si prepara. Or de la tua diletta
Creúsa, signor mio, piú non ti doglia:
ché i Dòlopi superbi, o i Mirmidóni
non vedranno già me, dardania prole,
e di Prïamo figlia, e nuora a Venere,
né donna lor, né di lor donne ancella:
ché la gran genitrice degli dèi
appo sé tiemmi. Or il mio caro Iulo,
nostro comune amore, ama in mia vece;
e lui conserva, e te consola. Addio".
  Cosí detto, disparve. Io, che dal pianto
era impedito, ed avea molto a dirle,
me le avventai, per ritenerla, al collo;
e tre volte abbracciandola, altrettante,
come vento stringessi o fumo o sogno,
me ne tornai con le man vòte al petto.
  E cosí scorsa e consumata indarno
tutta la notte, al poggio mi ritrassi
a' miei compagni, ove trovai con molta
mia maraviglia d'ogni parte accolta
una gran gente, un miserabil volgo
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado,
a l'esiglio parati, e 'nsieme additti
a seguir me, dovunque io gli adducessi,
o per mare o per terra. Uscia già d'Ida
la mattutina stella, e 'l dí n'apria,
quando in dietro mi volsi, e vidi Troia
fumar già tutta; e de la ròcca in cima,
e di sovr'ogni porta inalberate
le greche insegne; onde né via, né speme
rimanendomi piú di darle aíta,
cedei; ripresi il carco, e salsi al monte».


 

 

LIBRO TERZO



  «Poi che fu d'Asia il glorïoso regno
e 'l suo re seco e 'l suo legnaggio tutto,
com'al cielo piacque, indegnamente estinto,
Ilio abbattuto e la nettunia Troia
desolata e combusta; i santi augúri
spïando, a vari esigli, a varie terre
per ricovro di noi pensando andammo:
e ne la Frigia stessa, a piè d'Antandro,
ne' monti d'Ida, a fabbricar ne demmo
la nostra armata, non ben certi ancóra
ove il ciel ne chiamasse, e quale altrove
ne desse altro ricetto. Ivi le genti
d'intorno accolte, al mar ne riducemmo,
e n'imbarcammo alfine. Era de l'anno
la stagion prima, e i primi giorni a pena,
quando, sciolte le sarte e date a' venti
le vele, come volle il padre Anchise,
piangendo abbandonai le rive e i porti
e i campi ove fu Troia, i miei compagni
meco traendo e 'l mio figlio e i miei numi
a l'onde in preda, e de la patria in bando.
  È de la Frigia incontro un gran paese
da' Traci arato, al fiero Marte additto,
ampio regno e famoso, e seggio un tempo
del feroce Licurgo. Ospiti antichi
s'eran Traci e Troiani; e fin ch'a Troia
lieta arrise fortuna, ebbero entrambi
comuni alberghi. A questa terra in prima
drizzai 'l mio corso, e qui primieramente
nel curvo lito con destino avverso
una città fondai, che dal mio nome
Enèade nomossi; e mentre intorno
me ne travaglio, e i santi sacrifici
a Venere mia madre ed agli dèi,
che sono al cominciar propizi, indico:
mentre che 'n su la riva un bianco toro
al supremo Tonante offro per vittima,
udite che m'avvenne. Era nel lito
un picciol monticello, a cui sorgea
di mirti in su la cima e di corniali
una folta selvetta. In questa entrando
per di fronde velare i sacri altari,
mentre de' suoi piú teneri e piú verdi
arbusti or questo, or quel diramo e svelgo;
orribile a veder, stupendo a dire,
m'apparve un mostro: ché, divelto il primo
da le prime radici, uscîr di sangue
luride gocce, e ne fu 'l suolo asperso.
Ghiado mi strinse il core; orror mi scosse
le membra tutte; e di paura il sangue
mi si rapprese. Io le cagioni ascose
di ciò cercando, un altro ne divelsi;
ed altro sangue uscinne: onde confuso
vie piú rimasi; e nel mio cor diversi
pensier volgendo, or de l'agresti ninfe,
or del scitico Marte i santi numi
adorando, porgea preghiere umíli,
che di sí fiera e portentosa vista
mi si togliesse, o si temprasse almeno
il diro annunzio. Ritentando ancora,
vengo al terzo virgulto, e con piú forza
mentre lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,
e lo scuoto e lo sbarbo (il dico, o 'l taccio?),
un sospiroso e lagrimabil suono
da l'imo poggio odo che grida e dice:
  "Ahi! perché sí mi laceri e mi scempi?
Perché di cosí pio, cosí spietato,
Enea, vèr me ti mostri? A che molesti
un ch'è morto e sepolto? A che contamini
col sangue mio le consanguinee mani?
Ché né di patria, né di gente esterno
son io da te; né questo atro liquore
esce da sterpi, ma da membra umane.
Ah! fuggi, Enea, da questo empio paese:
fuggi da questo abbominevol lito:
ché Polidoro io sono, e qui confitto
m'ha nembo micidiale, e ria semenza
di ferri e d'aste che, dal corpo mio
umor preso e radici, han fatto selva".
  A cotal suon, da dubbia téma oppresso,
stupii, mi raggricciai, muto divenni,
di Polidoro udendo. Un de' figliuoli
era questi del re, ch'al tracio rege
fu con molto tesoro occultamente
accomandato allor che da' Troiani
incominciossi a diffidar de l'armi,
e temer de l'assedio. Il rio tiranno,
tosto che a Troia la fortuna vide
volger le spalle, anch'ei si volse, e l'armi
e la sorte seguí de' vincitori;
sí che, de l'amicizia e de l'ospizio
e de l'umanità rotta ogni legge,
tolse al regio fanciul la vita e l'oro.
  Ahi de l'oro empia ed esecrabil fame!
E che per te non osa, e che non tenta
quest'umana ingordigia? Or poi che 'l gelo
mi fu da l'ossa uscito, a' primi capi
del popol nostro ed a mio padre in prima
il prodigio refersi, e di ciascuno
il parer ne spiai. "Via, - disser tutti
concordemente - abbandoniam quest'empia
e scelerata terra; andiam lontano
da questo infame e traditore ospizio;
rimettiamci nel mare". Indi l'esequie
di Polidoro a celebrar ne demmo;
e, composto di terra un alto cumulo,
gli altar vi consacrammo a i numi inferni,
che di cerulee bende e di funesti
cipressi eran coverti. Ivi le donne
d'Ilio, com'è fra noi rito solenne,
vestite a bruno e scapigliate e meste
ulularono intorno; e noi di sopra
di caldo latte e di sacrato sangue
piene tazze spargemmo, e con supremi
richiami amaramente al suo sepolcro
rivocammo di lui l'anima errante.
Né pria ne si mostrâr l'onde sicure,
e fidi i venti, che, del porto usciti,
incontinente ne vedemmo avanti
sparir l'odiosa terra, e gir da noi
di mano in man fuggendo i liti e i monti.
  È nel mezzo a l'Egeo, diletta a Dori
ed a Nettuno, un'isola famosa,
che già mobile e vaga intorno a' liti
agitata da l'onde errando andava,
ma fatta di Latona e de' suoi figli
ricetto un tempo, dal pietoso arciero
tra Gïaro e Micon fu stretta in guisa,
ch'immota, e cólta, e consacrata a lui,
ebbe poi le tempeste e i vènti a scherno.
Qui porto placidissimo e securo
stanchi ne ricevette, e già smontati
veneravam d'Apollo il santo nido;
quand'ecco Anio suo rege, e rege insieme
e sacerdote, che di sacre bende
e d'onorato alloro il crine adorno,
ne si fa 'ncontro. Era al mio padre Anchise
già di molt'anni amico; onde ben tosto
lo riconobbe, e con sembiante allegro
lui primamente, indi noi tutti accolti,
n'abbracciò, ne 'nvitò, seco n'addusse.
  Quinci al delúbro, ch'ad Apollo in cima
era d'un sasso anticamente estrutto,
tutti salimmo; ed io devoto orai:
"Danne, padre Timbrèo, propria magione,
e propria terra, ove già stanchi abbiamo
posa e ristoro, e ne da' stirpe e nido
opportuno, durabile e securo;
danne Troia novella; e de' Troiani
serba queste reliquie, che avanzate
sono a pena agli storpi, a le ruine,
al foco, a' Greci, al dispietato Achille.
Mostrane chi ne guidi, ove s'indrizzi
il nostro corso, a qual fia 'l nostro seggio.
Coi tuoi piú chiari e manifesti augúri,
signor, tu ne predici e tu n'ispira".
  Avea ciò detto a pena, che repente
il limitare, il tempio, e 'l monte tutto
crollossi intorno; scompigliârsi i lauri;
aprissi, e dagli interni suoi ridotti
mugghiò la formidabile cortina.
Noi riverenti a terra ne gittammo;
e 'l suon, ch'era confuso, a l'aura uscendo,
articolossi, e cosí dire udissi:
  "Dardanidi robusti, onde l'origine
traeste in prima, ivi ancor lieto e fertile
di vostra antica madre il grembo aspettavi.
Di lei dunque cercate; a lei tornatevi:
ch'ivi sovr'ogni gente, in tutti i secoli
domineranno i glorïosi Enèadi,
e la posterità de gli lor posteri".
  Ciò disse Apollo: e del suo detto fessi
infra noi gran letizia e gran bisbiglio,
interrogando e ricercando ognuno
qual paese, qual madre, qual ricetto
ne s'accennasse. Allora il padre Anchise
da lunge i tempi ripetendo e i casi
dei nostri antichi eroi: "Signori, udite -
ne disse, - ch'io darò lume e compenso
a le vostre speranze. È del gran Giove
Creta quasi gran cuna in mezzo al mare
isola chiara, e regno ampio e ferace,
che cento gran città nodrisce e regge.
Ivi sorge un'altr'Ida, onde nomata
fu l'Ida nostra; ond'ha seme e radice
nostro legnaggio: onde primieramente
Teucro, padre maggior de' maggior nostri
(se ben me ne rammento), errando venne
a le spiagge di Reto, ov'egli elesse
di fondare il suo regno. Ilio non era,
né di Pergamo ancor sorgean le mura
fino in quel tempo: e sol ne l'ime valli
abitavan le genti. Indi a noi venne
la gran Cibele madre; indi son l'armi
de' Coribanti, indi la selva idea,
e quel fido silenzio, onde celati
son quei nostri misteri, e quei leoni
ch'al carro de la dea son posti al giogo.
Di là dunque veniamo, e là vuol Febo
che si ritorni. Or via seguiamo il fato:
plachiamo i vènti e ne la Creta andiamo,
che non è lunge; e se n'è Giove amico,
anzi tre dí n'approderemo ai liti".
  Ciò detto, a ciascun dio, come conviensi,
sacrificando, due gran tori occise:
e l'un diede a Nettuno e l'altro a Febo:
una pecora negra a la Tempesta;
al Sereno una bianca. Era in quei giorni
fama che Idomeneo, cretese eroe,
da la sua patria e da' paterni regni
era scacciato; onde di Creta i liti
d'armi, di duce e di seguaci suoi,
nostri nimici, in gran parte spogliati,
stavano a noi senza contesa esposti.
  Tosto d'Ortigia abbandonammo i porti;
trapassammo di Nasso i pampinosi
colli, e Bacco onorammo: i verdi liti
di Dònisa, e d'Olëaro varcammo:
giungemmo a Paro, e le sue bianche ripe
lasciammo indietro: indi di mano in mano
l'altre Cícladi tutte e 'l mar che rotto
da tant' isole e chiuso ondeggia e ferve;
e seguendo, com'è de' naviganti
marinaresca usanza, - in Creta! in Creta! -
lietamente gridando, con un vento
che ne feria senza ritegno in poppa,
quasi a volo andavamo; onde ben tosto
de' Cureti appressammo i liti antichi;
e gli scoprimmo, e v'approdammo alfine.
Giunti che fummo, avidamente diemmi
a fabricar le desïate mura,
e Pergamea da Pergamo le dissi.
Con questo amato nome amore e speme
destai di nuova patria, e studio intenso
d'alzar le mura e di fondar gli alberghi.
Eran le navi in su la rena addotte
per la piú parte; era la gente intenta
a l'arti, a la coltura, ai maritaggi,
ad ogni affare; ed io lor ministrava
leggi e ragioni, e facea templi e strade,
quando fera, improvvisa pestilenza,
ne sopravvenne; e la stagione e l'anno
e gli uomini e gli armenti e l'aria e l'acque
e tutto altro infettonne; onde ogni corpo
o cadeva o languiva; e la semente
e i frutti e l'erbe e le campagne stesse
da la rabbia di Sirio e dal veleno
de l'orribil contage arse e corrotte,
ci negavano il vitto. Il padre mio
per consiglio ne diè che un'altra volta,
rinavigando il navigato mare,
si tornasse in Ortigia, e che di nuovo
ricorrendo di Febo al santo oracolo,
perdon gli si chiedesse, aíta e scampo
da sí maligno e velenoso influsso,
ed alfin del cammino e de la stanza
chiaro ne si traesse indrizzo e lume.
  Era già notte, e già dal sonno vinta
posa e ristoro avea l'umana gente,
quando le sacre effigi de' Penati,
quelle che meco avea tratte dal foco
de la mia patria, quelle stesse in sogno
vive mi si mostrâr veraci e chiare:
tal piena, avversa e luminosa luna
penetrava, per entro al chiuso albergo,
di puri vetri i lucidi spiragli;
e com'eran visibili, appressando
la sponda ov'io giacea, soavemente
mi si fecero avanti, e 'n cotal guisa
mi confortaro: "Quel che Apollo stesso,
se tornaste in Ortigia, a voi direbbe,
qui mandati da lui vi diciam noi:
e noi siam quei che dopo Troia incensa
per tanti mari a tanti affanni teco
n'uscimmo, e te seguiamo e l'armi tue.
Noi compagni ti siamo, e noi saremo
ch'a la nova città, che tu procuri,
daremo eterno imperio, e i tuoi nipoti
ergeremo a le stelle. Alto ricetto
tu dunque e degno de l'altezza loro
prepara intanto; e i rischi e le fatiche
non rifiutar di piú lontano esiglio.
Cerca loro altro seggio; ergi altre mura
vie piú chiare di queste: ché di Creta
né curiam noi, né lo ti dice Apollo.
  Una parte d'Europa è, che da' Greci
si disse Esperia, antica, bellicosa
e fertil terra. Dagli Enotri cólta,
prima Enotria nomossi: or, com'è fama,
preso d'Italo il nome, Italia è detta.
Questa è la terra destinata a noi.
Quinci Dardano in prima e Iasio usciro;
e Dardano è l'autor del sangue nostro.
Sorgi dunque e riporta al padre Anchise
quel ch'or noi ti diciam, ché diciam vero:
e tu cerca di Còrito e d'Ausonia
l'antiche terre, ché da Giove in Creta
regnar ti s'interdice". Io di tal vista,
e di tai voci, ch'eran voci e corpi
de' nostri dèi, non simulacri e sogni
(ché ne vid'io le sacre bende e i volti
spiranti e vivi), attonito e cosperso
di gelato sudore, in un momento
salto dal letto; e con le mani al cielo
e con la voce supplicando, spargo
di doni intemerati i santi fochi.
Riveriti i Penati, al padre Anchise
lieto men vado, e del portento intera-
mente il successo e l'ordine gli espongo.
Incontinente riconobbe il doppio
nostro legnaggio, e i due padri e i due tronchi
de' cui rami siam noi vette e rampolli;
e d'erro uscito: "Ora io m'avveggio, - disse -
figlio, che segno sei de le fortune
e del fato di Troia; e ciò rincontro
che Cassandra dicea: sola Cassandra
lo previde e 'l predisse. Ella al mio sangue
augurò questo regno; e questa Italia
e questa Esperia avea sovente in bocca.
Ma chi mai ne l'Esperia avria creduto
che regnassero i Teucri? E chi credea
in quel tempo a Cassandra? Ora, mio figlio,
cediamo a Febo; e ciò che 'l dio del vero
ne dà per meglio, per miglior s'elegga".
  Ciò disse, e i detti suoi tosto eseguimmo;
ed ancor questa terra abbandonammo,
se non se pochi. N'andavamo a vela
con second'aura; e già d'alto mirando,
non piú terra apparia, ma cielo ed acqua
vedevam solamente, quando oscuro
e denso e procelloso un nembo sopra
mi stette al capo, onde tempesta e notte
ne si fece repente e di piú siti
rapidi uscendo imperversaro i vènti;
s'abbuiò l'aria, abbaruffossi il mare,
e gonfiaro altamente e mugghiâr l'onde.
Il ciel fremendo, in tuoni, in lampi, in folgori
si squarciò d'ogni parte. Il giorno notte
fessi, e la notte abisso: e l'un da l'altro
non discernendo, Palinuro stesso
de la via diffidossi e de la vita.
  Cosí tolti dal corso, e quinci e quindi
per lo gran golfo dissipati e ciechi,
da buio e da caligine coverti,
tre soli interi senza luce errammo,
tre notti senza stelle. Il quarto giorno
vedemmo al fin, quasi dal mar risorta,
la terra aprirne i monti e gittar fumo.
Caggion le vele; e i remiganti a pruova,
di bianche schiume il gran ceruleo golfo
segnando, inverso i liti i legni affrettano.
Né prima fui di sí gran rischio uscito,
che giunto nelle Stròfadi mi vidi.
Stròfadi grecamente nominate
son certe isole in mezzo al grande Ionio,
da la fera Celeno e da quell'altre
rapaci e lorde sue compagne Arpie
fin d'allora abitate, che per téma
lasciâr le prime mense, e di Finèo
fu lor chiuso l'albergo. Altro di queste
piú sozzo mostro, altra piú dira peste
da le tartaree grotte unqua non venne.
Sembran vergini a' volti; uccelli e cagne
a l'altre membra: hanno di ventre un fedo
profluvio, ond'è la piuma intrisa ed irta,
le man d'artigli armate: il collo smunto,
la faccia per la fame e per la rabbia
pallida sempre e raggrinzata e magra.
  Tosto che qui sospinti in porto entrammo,
ecco sparsi veggiam per la campagna
senza custodi andar gran torme errando
di cornuti e villosi armenti e greggi.
Smontiamo in terra; e per far carne, prese
l'armi, a predare andiamo, e de la preda
gli dèi chiamiamo e Giove stesso a parte.
  Fatta la strage e già parati i cibi
e distese le mense, eravam lungo
al curvo lito a ricrearne assisi,
quand'ecco che da' monti in un momento
con dire voci e spaventoso rombo
ne si fan sopra le bramose Arpie;
e con gli urti e con l'ali e con gli ugnoni,
col tetro, osceno, abbominevol puzzo
ne sgominâr le mense, ne rapiro,
ne infettâr tutti e i cibi e i lochi e noi.
  Era presso un ridotto, ove alta e cava
rupe d'arbori chiusa e d'ombre intorno
facea capace ed opportuno ostello.
Ivi ne riducemmo, e ne le mense
riposti i cibi e ne gli altari i fochi,
a convivar tornammo; ed ecco un'altra
volta d'un'altra parte per occulte
e non previste vie ne si scoverse
l'orribil torma; e con gli adunchi artigli,
co' fieri denti e con le bocche impure
ghermîr la preda, e ne lasciâr di novo
vòte le mense e scompigliate e sozze.
  Allor: "Via, - dico a' miei - di guerra è d'uopo
contra sí dira gente". E tutti a l'arme
ed a battaglia incito. Eglino, in guisa
ch'io li disposi, i ferri ignudi e l'aste
e gli scudi e le frombe e i corpi stessi
infra l'erba acquattaro; il lor ritorno
stêro aspettando. Era Miseno in alto
a la veletta asceso; e non piú tosto
scoprir le vide, e schiamazzare udille,
che col canoro suo cavo oricalco
ne diè cenno a' compagni. Uscîr d'agguato
tutti in un tempo, e nuova zuffa e strana
tentâr contra i marini uccelli in vano:
ché le piume e le terga ad ogni colpo
aveano impenetrabili e secure;
onde securamente al ciel rivolte
se ne fuggiro, e ne lasciâr la preda
sgraffiata, smozzicata e lorda tutta.
Sola Celèno a l'alta rupe in cima
disdegnosa fermossi e, d'infortuni
trista indovina infurïossi, e disse:
"Dunque non basta averne, ardita razza
di Laomedonte, depredati e scórsi
gli armenti e i campi nostri, che ancor guerra,
guerra ancor ne movete? E le innocenti
Arpie scacciar del patrio regno osate?
Ma sentite, e nel cor vi riponete
quel ch'io v'annunzio. Io son Furia suprema
ch'annunzio a voi quel che 'l gran Giove a Febo,
e Febo a me predice. Il vostro corso
è per l'Italia, e ne l'Italia arete
e porto e seggio. Ma di mura avanti
la città che dal ciel vi si destina
non cingerete, che d'un tale oltraggio
castigo arete; e dira fame a tanto
vi condurrà, che fino anco le mense
divorerete". E, cosí detto, il volo
riprese in vèr la selva, e dileguossi.
  Sgomentaronsi i miei, cadde lor l'ira;
e prieghi, invece d'armi, e voti oprando,
mercé chiesero e pace, o dive o dire
che si fosser l'alate ingorde belve:
e 'l padre Anchise in su la riva sporte
al ciel le palme, e i gran celesti numi
umilmente invocando, indisse i sacri
a lor dovuti onori: "O dii possenti,
o dii benigni, voi rendete vane
queste minacce; voi di caso tale
ne liberate; e voi giusti e voi buoni
siate pietosi a noi ch'empi non siamo".
  Indi ratto comanda che dal lito
si disciolgano i legni. Entriam nel mare,
spieghiam le vele agli austri, e via per l'onde
spumose a tutto corso in fuga andiamo
là 've 'l vento e 'l nocchier ne guida e spinge.
E già d'alto apparir veggiam le selve
di Zacinto; passiam Dulichio e Same;
varchiam Nèrito alpestro; e via fuggendo,
e bestemmiando, trapassiam gli scogli
d'Itaca, imperio di Laerte, e nido
del fraudolente Ulisse. Indi ne s'apre
il nimboso Leucàte, e quel che tanto
a' naviganti è spaventoso, Apollo.
Ivi stanchi approdammo; ivi gittate
l'àncore, ed accostati i legni al lito,
ne la picciola sua cittade entrammo.
  Grata vie piú quanto sperata meno
ne fu la terra; onde purgati ergemmo
altari e vóti, ed ostie a Giove offrimmo.
E d'Azio in su la riva festeggiando,
ignudi ed unti, uscîr de' miei compagni
i piú robusti, e, com'è patria usanza,
varie palestre a lotteggiar si diêro:
gioiosi che per tanto mare e tante
greche terre inimiche a salvamento
fosser tant'oltre addotti. Era de l'anno
compito il giro, e i gelidi aquiloni
infestavano il mare; ond'io lo scudo,
che di forbito e concavo metallo
fu già del grande Abante insegna e spoglia,
con un tal motto in su le porte appesi:
A' GRECI VINCITORI ENEA LEVOLLO,
ED A TE 'L SACRA, APOLLO. Indi al mar giunti
ne rimbarcammo: e remigando a gara,
fummo in un tempo de' Feaci a vista,
e gli varcammo: poi rivolti a destra,
costeggiammo l'Epiro, e di Caonia
giungemmo al porto, ed in Butroto entrammo.
Qui cosa udii, che meraviglia e gioia
mi porse insieme; e fu, ch'Eleno, figlio
di Prïamo re nostro, era a quel regno
di greche terre assunto, e che di Pirro
e del suo scettro e del suo letto erede
troiano sposo a la troiana Andromache
s'era congiunto. Arsi d'immenso amore
di visitarlo, e di spïar da lui
come ciò fosse; e de l'armata uscendo,
scesi nel lito, e me n'andai con pochi
a ritrovarlo. Era quel giorno a sorte
Andromache regina in su la riva
del nuovo Simoenta a far solenne
sepolcral sacrificio; e, come è rito
de la mia patria, avea, fra due grand'are
di verdi cespi una gran tomba eretta,
monumento di lagrime e di duolo.
ove con tristi doni e con lugúbri
voci del grand'Ettòr l'anima e 'l nome
chiamando, il finto suo corpo onorava.
  Poiché venir mi vide, e che di Troia
avvisò l'armi, e me conobbe, un mostro
veder le parve, e forsennata e stupida
fermossi in prima; indi gelata e smorta
disvenne e cadde; e dopo molto, a pena
risensando, mirommi, e cosí disse:
  "Oh! sei tu vero, o pur mi sembri Enea?
Sei corpo od ombra? Se da' morti udito
è il mio richiamo, Ettòr perché te manda?
Perch'ei teco non viene? E sei tu certo
nunzio di lui?" Ciò detto, lagrimando,
empia di strida e di lamenti i campi.
  Io di pietà e di duol confuso, a pena
in poche voci, e quelle anco interrotte,
snodai la lingua: "Io vivo, se pur vita
è menar giorni sí gravosi e duri:
ma cosí spiro ancora, e veramente
son io quel che ti sembro. O da qual grado
scaduta, e da quanto inclito marito!
Andromache d'Ettòr a Pirro, a Pirro
fosti congiunta? Or qual altra piú lieta
t'incontra, e piú di te degna fortuna?"
Abbassò 'l volto, e con sommessa voce
cosí rispose: "O fortunata lei
sovr'ogni donna, che regina e vergine,
ne la sua patria a sacrificio offerta,
del nimico fu vittima e non preda,
né del suo vincitor serva né donna:
io dopo Troia incensa, e dopo tanti
e tanti arati mari, a servir nata,
de la stirpe d'Achille il giogo e 'l fasto,
e 'l superbo suo figlio a soffrir ebbi.
Questi poi con Ermïone congiunto,
e lei, che de la razza era di Leda
e del sangue di Sparta, a me preposta,
volle ch'Eleno ed io, servi ambidue,
n'accoppiassimo insieme. Oreste intanto,
che tôr l'amata sua donna si vide,
da l'amore infiammato e da le faci
de le furie materne, anzi agli altari
del padre Achille, insidïosamente
tolse la vita a lui. Per la sua morte
fu 'l suo regno diviso; e questa parte
de la Caonia ad Eleno ricadde,
che dal nome di Càone troiano
cosí l'ha detta, come disse ancora
Ilio da l'Ilio nostro questa ròcca
che qui su vedi; e Simoenta e Pergamo
queste picciole mura e questo rivo.
Ma te quai vènti, o qual nostra ventura
ha qui condotto, fuor d'ogni pensiero
di noi certo, e tuo forse? Ascanio nostro
vive? cresce? che fa? come ha sentito
la morte di Creúsa? E qual presagio
ne dà ch'Enea suo padre, Ettor suo zio
si rinnovino in lui?" Cotali Andromache
spargea pianti e parole; ed ecco intanto
il teucro eroe che de la terra uscendo,
con molti intorno a rincontrar ne venne.
Tosto che n'adocchiò, meravigliando
ne conobbe, n'accolse, e lietamente
seco n'addusse, de' comuni affanni
molto con me, mentre andavamo, anch'egli
ragionando e piangendo. Entrammo al fine
ne la picciola Troia, e con diletto
un arido ruscello, un cerchio angusto
sentii con finti e rinnovati nomi
chiamar Pergamo e Xanto; e de la Scea
porta entrando abbracciai l'amata soglia.
Cosí fecero i miei, meco godendo
l'amica terra, come propria e vera
fosse lor patria. Il re le sale e i portici
di mense empiendo, fe' lor cibi e vini
da' regii servi realmente esporre
con vaselli d'argento e coppe d'oro.
  Passato il primo giorno e l'altro appresso,
soffiâr prosperi i vènti; ond'io commiato
a l'indovino re chiedendo, seco
mi ristrinsi e gli dissi: "Inclito sire,
cui non son degli dèi le menti occulte,
che Febo spiri e 'l tripode e gli allori
del suo tempio dispensi, e de le stelle
e de' volanti ogni secreto intendi,
danne certo, ti priego, indicio e lume
de le nostre venture. Il nostro corso,
com'ogni augurio accenna ed ogni nume
ne persuade, è per l'Italia; e lieto
e fortunato ancor ne si promette
infino a qui. Sola Celeno Arpia
novi e tristi infortuni, e fame ed ira
degli dèi ne minaccia. Io da te chieggio
avvertenze e ricordi, onde sia saggio
a tai perigli, e forte a tanti affanni".
  Qui pria solennemente Eleno, occisi
i dovuti giovenchi, in atto umíle
impetrò dagli dèi favore e pace;
poscia, raccolto in sé, le bende sciolse
del sacro capo; e me, cosí com'era
a tanto officio attonito e sospeso,
per man prendendo, a la febèa spelonca
m'addusse avanti, e con divina voce
intonando proruppe: "O de la dea
pregiato figlio (quando a gran fortuna
è chiaro in prima che 'l tuo corso è vòlto;
tal è del ciel, de' fati e di colui
che gli regge, il voler, l'ordine e 'l moto),
io di molte e gran cose che antiveggo
del tuo peregrinaggio, acciò piú franco
navighi i nostri mari, e 'l porto ausonio,
quando che sia, securamente attinga,
poche ne ti dirò, ch'a te le Parche
vietan che piú ne sappi; ed a me Giuno,
ch'io piú te ne riveli. In prima il porto,
e l'Italia che cerchi, e sí vicina
ti sembra, è da tal via, da tanti intrichi
scevra da te, ch'anzi che tu v'aggiunga,
ti parrà malagevole, e lontana
piú che non credi; e ti fia d'uopo avanti
stancar piú volte i remiganti e i remi,
e 'l mar de la Sicilia e 'l mar Tirreno,
e i laghi inferni e l'isola di Circe
cercar ti converrà, pria che vi fondi
securo seggio. Io di ciò chiari segni
darotti, e tu ne fa nota e conserva.
  Quando piú stanco e travagliato a riva
sarai d'un fiume, u' sotto un'elce accolta
sarà candida troia, ed arà trenta
candidi figli a le sue poppe intorno,
allor di': - Questo è 'l segno e 'l tempo e 'l loco
da fermar la mia sede, e questo è 'l fine
de' miei travagli -. Or che l'ingorda fame
addur ti deggia a trangugiar le mense,
comunque avvenga, i fati a ciò daranno
opportuno compenso; e questo Apollo
invocato da voi presto saravvi.
Queste terre d'Italia e questa riva
vèr noi vòlta e vicina ai liti nostri,
è tutta da' nimici e da' malvagi
Greci abitata e cólta: e però lunge
fuggi da loro. I Locri di Narizia
qui si posaro; e qui ne' Salentini
i suoi Cretesi Idomeneo condusse;
qui Filottete il melibeo campione
la piccioletta sua Petilia eresse.
Fuggili, dico, e quando anco varcato
sarai di là ne l'alto lito, intento
a sciôrre i vóti, di purpureo ammanto
ti vela il capo, acciò tra i santi fochi,
mentre i tuoi numi adori, ostile aspetto
te coi tuoi sacrifici non conturbi:
e questo rito poi sia castamente
da te servato e da' nepoti tuoi.
  Quinci partito, allor che da vicino
scorgerai la Sicilia, e di Peloro
ti si discovrirà l'angusta foce,
tienti a sinistra, e del sinistro mare
solca pur via quanto a di lungo intorno
gira l'isola tutta, e da la destra
fuggi la terra e l'onde. È fama antica
che questi or due tra lor disgiunti lochi
erano in prima un solo, che per forza
di tempo, di tempeste e di ruine
(tanto a cangiar queste terrene cose
può de' secoli il corso), un dismembrato
fu poi da l'altro. Il mar fra mezzo entrando
tanto urtò, tanto róse, che l'esperio
dal sicolo terreno alfin divise:
e i campi e le città, che in su le rive
restaro, angusto freto or bagna e sparte.
Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
è l'ingorda Cariddi. Una vorago
d'un gran baratro è questa, che tre volte
i vasti flutti rigirando assorbe,
e tre volte a vicenda li ributta
con immenso bollor fino a le stelle.
Scilla dentro a le sue buie caverne
stassene insidïando; e con le bocche
de' suoi mostri voraci, che distese
tien mai sempre ed aperte, i naviganti
entro al suo speco a sé tragge e trangugia.
Dal mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto
ha di donna e di vergine; il restante,
d'una pistrice immane, che simíli
a' delfini ha le code, ai lupi il ventre.
Meglio è con lungo indugio e lunga volta
girar Pachino e la Trinacria tutta,
che, non ch'altro, veder quell'antro orrendo,
serntir quegli urli spaventosi e fieri
di quei cerulei suoi rabbiosi cani.
  Oltre a ciò, se prudenti, se fedeli
sembrar ti può che sian d'Eleno i detti,
e se scarso non m'è del vero Apollo,
sovr'a tutto io t'accenno, ti predico,
ti ripeto piú volte e ti rammento,
la gran Giunone invoca: a Giunon vóti
e preghi e doni e sacrifici offrisci
devotamente; che, lei vinta alfine,
terrai d'Italia il desïato lito.
  Giunto in Italia, allor che ne la spiaggia
sarai di Cuma, il sacro averno lago
visita, e quelle selve e quella rupe,
ove la vecchia vergine Sibilla
profetizza il futuro, e 'n su le foglie
ripone i fati: in su le foglie, dico,
scrive ciò che prevede, e ne la grotta
distese ed ordinate, ove sian lette,
in disparte le lascia. Elle serbando
l'ordine e i versi, ad uopo de' mortali
parlan de l'avvenire, e quando, aprendo
talor la porta, il vento le disturba,
e van per l'antro a volo, ella non prende
piú di ricôrle e d'accozzarle affanno;
onde molti delusi e sconsigliati
tornan sovente, e mal di lei s'appagano.
Tu per soverchio che ti sembri indugio,
per richiamo de' vènti o de' compagni,
non lasciar di vederla, e d'impetrarne
grazia, che di sua bocca ti risponda,
e non con frondi. Ella daratti avviso
d'Italia, de le guerre e de le genti
che ti fian contra; e mostreratti il modo
di fuggir, di soffrir, d'espugnar tutte
le tue fortune, e di condurti in porto.
Questo è quel che m'occorre, o che mi lice
ch'io ti ricordi. Or vanne, e co' tuoi gesti
te porta e i tuoi con la gran Troia al cielo".
  Poscia che ciò come profeta disse,
comandò come amico ch'a le navi
gli portassero i doni, opre e lavori
ch'avea d'oro e d'avorio apparecchiati,
e gran masse d'argento e gran vaselli
di dodonèo metallo: una lorica
di forbite azzimine; e rinterzate
maglie, dentro d'acciaro e 'ntorno d'oro,
una targa, un cimiero, una celata,
ond'era a pompa ed a difesa armato
Nëottòlemo altero. Il vecchio Anchise
ebbe anch'egli i suoi doni: ebber poi tutti
cavalli e guide; e fu di remi e d'armi
ciascun legno provvisto; e perché 'l vento
che secondo feria, non punto indarno
spirasse, ordine avea di sciôr le vele
già dato Anchise, a cui con molto onore
si fece Eleno avanti, e cosí disse:
  "O ben degno a cui fosse amica e sposo
la gran madre d'Amore: o de' celesti
sovrana cura, ch'a l'eccidio avanzi
già due volte di Troia, eccoti a vista
giunto d'Italia. A questa il corso indrizza:
ma fa mestier di volteggiarla ancora
con lungo giro, poiché lunge assai
è la parte di lei che Apollo accenna.
Or lieto te ne va, padre felice
di sí pietoso figlio. Io, già che l'aura
sí vi spira propizia, indarno a bada
piú non terrovvi". Indi la mesta Andromache
fece con tutti, e con Ascanio al fine
la suprema partenza. Arnesi d'oro
guarniti e ricamati, e drappi e giubbe
di moresco lavoro, ed altri degni
di lui vestiti e fregi, e ricca e larga
copia di biancherie donogli, e disse:
  "Prendi, figlio, da me quest'opre uscite
da le mie mani, e per memoria tienle
del grande e lungo amor che sempre avratti
Andromache d'Ettorre; ultimi doni
che ricevi da' tuoi. Tu mi sei, figlio,
quell'unico sembiante che mi resta
d'Astïanatte mio. Cosí la bocca,
cosí le man, cosí gli occhi movea
quel mio figlio infelice; e, d'anni eguale
a te, del pari or saria teco in fiore".
  Ed io da loro, anzi da me partendo,
con le lagrime agli occhi al fin soggiunsi:
"Vivete lieti voi, cui già la sorte
vostra è compita: noi di fato in fato,
di mare in mar tapini andrem cercando
quel che voi possedete. A noi l'Italia
tanto ognor se ne va piú lunge, quanto
piú la seguiamo; e voi già la sembianza
d'Ilio e di Troia in pace vi godete,
regno e fattura vostra. Ah! che de l'altra
sia sempre e piú felice e meno esposta
a le forze de' Greci. Io, s'unqua il Tebro
vedrò, se fia giammai che ne' suoi campi
sorgan le mura destinate a noi;
come la nostra Esperia e 'l vostro Epiro
si son vicini, e come ambe le terre
fien vicine e cognate, ed ambe avranno
Dardano per autore, e per fortuna
un caso stesso; cosí d'ambedue
mi proporrò che d'animi e d'amore
siamo una Troia: e ciò perpetua cura
sia de' nostri nipoti". Entrati in mare,
ne spingemmo oltre a gli Ceràuni monti
a Butroto vicini, onde a le spiagge
si fa d'Italia il piú breve tragitto.
Già dechinava il sole, e crescean l'ombre
de' monti opachi, quando a terra vòlti
col desire e co' remi in su la riva
pur n'adducemmo, e procurammo a' corpi
cibo, riposo e sonno. Ancor la notte
non era al mezzo, che del suo stramazzo
surse il buon Palinuro; e poscia ch'ebbe
con gli orecchi spiati il vento e 'l mare,
mirò le stelle, contemplò l'Arturo,
l'Iadi piovose, i gemini Trïoni,
ed Orïone armato; e, visto il cielo
sereno e 'l mar sicuro, in su la poppa
recossi, e 'l segno dienne. Immantinente
movemmo il campo, e quasi in un baleno
giunti e posti nel mar, vela facemmo.
  Avea l'Aurora già vermiglia e rancia
scolorite le stelle, allor che lunge
scoprimmo, e non ben chiari, i monti in prima,
poscia i liti d'Italia. - Italia! - Acate
gridò primieramente. - Italia! Italia! -
da ciascun legno ritornando allegri
tutti la salutammo. Allora Anchise
con una inghirlandata e piena tazza
in su la poppa alteramente assiso:
"O del pelago - disse - e de la terra,
e de le tempeste numi possenti,
spirate aure seconde, e vèr l'Ausonia
de' nostri legni agevolate il corso".
  Rinforzaronsi i vènti; apparve il porto
piú da vicino; apparve al monte in cima
di Pallade il delúbro. Allor le vele
calammo, e con le prore a terra demmo.
  È di vèr l'Orïente un curvo seno
in guisa d'arco, a cui di corda in vece
sta d'un lungo macigno un dorso avanti,
ove spumoso il mar percuote e frange.
Ne' suoi corni ha due scogli, anzi due torri,
che con due braccia il mar dentro accogliendo,
lo fa porto e l'asconde; e sovra al porto
lunge dal lito è 'l tempio. Ivi smontati,
quattro destrier vie piú che neve bianchi,
che pascevano il campo, al primo incontro
per nostro augurio avemmo. "Oh! - disse Anchise, -
guerra ne si minaccia; a guerra additti
sono i cavalli; o pur sono anco al carro
talvolta aggiunti, e van del pari a giogo:
guerra fia dunque in prima, e pace dopo".
Quinci devoti venerammo il nume
de l'armigera Palla, a cui gioiosi
prima il corso indrizzammo. In su la riva
altari ergemmo; e noi d'intorno, come
Eleno ci ammoní, le teste avvolte
di frigio ammanto, a la gran Giuno argiva
preghiere e doni e sacrifici offrimmo.
  Poiché solennemente i prieghi e i vóti
furon compiti, al mar ne radducemmo
immantinente; e rivolgendo i corni
de le velate antenne, il greco ospizio
e 'l sospetto paese abbandonammo.
  E prima il tarentino erculeo seno
(se la sua fama è vera) a vista avemmo;
poscia a rincontro di Lacinia il tempio,
la ròcca di Caulóne e 'l Scillacèo,
onde i navili a sí gran rischio vanno;
indi ne la Trinacria al mar discosto
d'Etna il monte vedemmo, e lunge udimmo
il fremito, il muggito, i tuoni orrendi
che facean ne' suoi liti e 'ntorno a' sassi
e dentro a le caverne i flutti e i fuochi,
al ciel ruttando insieme il mare e 'l monte
fiamme, fumo, faville, arene e schiuma.
  Qui disse il vecchio Anchise:
"È forse questa
quella Cariddi? Questi scogli certo,
e questi sassi orrendi Eleno  dianzi
ne profetava. Via, compagni, a' remi
tutti in un tempo, e vincitori usciamo
d'un tal periglio". Palinuro il primo
rivolse la sua vela e la sua proda
al manco lato; e ciò gli altri seguendo,
con le sarte e co' remi in un momento
ne gittammo a sinistra; e 'l mar sorgendo
prima al ciel ne sospinse; indi calando,
ne l'abisso ne trasse. In ciò tre volte
mugghiar sentimmo i cavernosi scogli,
e tre volte rivolti in vèr le stelle
d'umidi sprazzi e di salata schiuma
il ciel vedemmo rugiadoso e molle.
  Eravam lassi; e 'l vento e 'l sole insieme
ne mancâr sí, che del vïaggio incerti
disavvedutamente a le contrade
de' Ciclopi approdammo. È per se stesso
a' vènti inaccessibile e capace
di molti legni il porto ove giugnemmo;
ma sí d'Etna vicino, che i suoi tuoni
e le sue spaventevoli ruine
lo tempestano ognora. Esce talvolta
da questo monte a l'aura un'atra nube
mista di nero fumo e di roventi
faville, che di cenere e di pece
fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse
vibrano ad ora ad or lucide fiamme
che van lambendo a scolorir le stelle;
e talvolta, le sue viscere stesse
da sé divelte, immani sassi e scogli
liquefatti e combusti al ciel vomendo
in fin dal fondo romoreggia e bolle.
  È fama, che dal fulmine percosso
e non estinto, sotto a questa mole
giace il corpo d'Encèlado superbo;
e che quando per duolo e per lassezza
ei si travolve, o sospirando anela,
si scuote il monte e la Trinacria tutta;
e del ferito petto il foco uscendo
per le caverne mormorando esala,
e tutte intorno le campagne e 'l cielo
di tuoni empie e di pomici e di fumo.
  A questi mostri tutta notte esposti,
entro una selva stemmo, non sapendo
le cagion d'essi, e di cercarle ogn'uso
ne si togliea, poiché 'l paese conto
non c'era: né stellato, né sereno
si vedea 'l ciel, ma fosco e nubiloso,
e tra le nubi era la luna ascosa.
  Già del giorno seguente era il mattino,
e 'l chiaro albore avea l'umido velo
tolto dal mondo, quando ecco dal bosco
ne si fa 'ncontro un non mai visto altrove
di strana e miserabile sembianza,
scarno, smunto e distrutto: una figura
piú di mummia che d'uomo. Avea la barba
lunga, le chiome incolte, indosso un manto
ricucito di spini: orrido tutto,
e squallido e difforme, con le mani
verso il lito distese, a lento passo
venia mercé chiedendo. Era costui,
come prima ne parve e poscia udimmo,
greco, e di quei che militaro a Troia.
Onde noi per Troiani e i nostri arnesi
e le nostr'armi conoscendo, in prima
attonito fermossi; e poscia quasi
rincomato a noi venne e con preghiere
e con pianto ne disse: "Oh! se le stelle,
se gli dèi, se quest'aura onde spiriamo,
generosi e magnanimi Troiani,
serbin la vita a voi, quinci mi tolga
la pietà vostra, e vosco m'adducete,
ove che sia; ché mi fia questo assai;
poi ch'io son greco, e di quei Greci ancora
che venner (lo confesso) a i danni vostri.
Se 'l fallo è tale, e se 'l vostro odio è tanto
ch'io ne deggia morir, morte mi date,
e (se cosí v'aggrada) a brano a brano
mi lanïate, e ne fate esca a' pesci;
ché se per man d'umana gente io pèro,
perir mi giova". E, cosí detto, a' piedi
ne si gittò. Noi l'esortammo a dire
chi fosse e di che patria e di che sangue,
e qual era il suo caso. Il vecchio Anchise
la sua destra gli porse, e con tal pegno
l'affidò di salute; ond'ei securo
tosto soggiunse: "Itaca è patria mia,
Achemènide il nome. Io fui compagno
de l'infelice Ulisse; e venni a Troia,
la povertà del mio padre Adamasto
fuggendo (cosí povero mai sempre
foss'io stato con lui!); qui capitai
con esso Ulisse; e qui, mentr'ei fuggia
con gli altri suoi questo crudele ospizio,
per téma abbandonommi e per oblio
ne l'antro del Ciclopo. È questo un antro
opaco, immenso, che macello è sempre
d'umana carne, onde ancor sempre intriso
è di sanie e di sangue: ed è 'l Ciclopo
un mostro spaventoso, un che col capo
tocca le stelle (o Dio, leva di terra
una tal peste!), ch'a mirarlo solo,
solo a parlarne, orror sento ed angoscia.
Pascesi de le viscere e del sangue
de la misera gente; ed io l'ho visto
con gli occhi miei nel suo speco rovescio
stender le branche e, due presi de' nostri,
rotargli a cerco e sbattergli e schizzarne
infra quei tufi le midolle e gli ossi.
Vist'ho quando le membra de' meschini
tiepide, palpitanti e vive ancora,
di sanguinosa bava il mento asperso,
frangea co' denti a guisa di maciulla.
  Ma nol soffrí senza vendetta Ulisse;
né di se stesso in sí mortal periglio
punto oblïossi; ché non prima steso
lo vide ebbro e satollo a capo chino
giacer ne l'antro, e sonnacchioso e gonfio
ruttar pezzi di carne e sangue e vino,
che ne restrinse; ed invocati in prima
i santi numi, divisò le veci
sí che parte il tenemmo in terra saldo,
parte, con un gran palo al foco aguzzo,
sopra gli fummo; e quel ch'unico avea
di targa e di febèa lampade in guisa
sotto la torva fronte occhio rinchiuso,
gli trivellammo, vendicando alfine,
col tôr la luce a lui, l'ombre de' nostri.
  Ma voi che fate qui? ché non fuggite,
miseri voi? Fuggite, e senza indugio
tagliate il fune e v'allargate in mare;
che cosí smisurati e cosí fieri,
com'è costui che Polifemo è detto,
ne son via piú di cento in questo lito,
tutti Ciclopi, e tutti antropofàgi,
che vanno il dí per questi monti errando.
Già visto ho la cornuta e scema luna
tornar tre volte luminosa e tonda,
da che son qui tra selve e tra burroni
con le fere vivendo. Entro una rupe
è 'l mio ricetto; e quindi, benché lunge
gli miri, ad or ad or d'avergl'intorno
mi sembra, e 'l suon n'abborro e 'l calpestio
de la voce e de' piè. Pascomi d'erbe,
di còccole e di more e di corniali,
e di tali altri cibi acerbi e fieri:
vita e vitto infelice. In questo tempo,
quanto ho scoperto intorno, unqua non vidi
ch'altro legno giammai qui capitasse,
salvo ch'i vostri. A voi dunque del tutto
m'addico: e, che che sia, parrammi assai
fuggir questa nefanda e dira gente.
Voi, pria che qui lasciarmi, ogni supplicio
mi date ed ogni morte". A pena il Greco
avea ciò detto, ed ecco in su la vetta
del monte avverso Polifemo apparve.
Sembrato mi sarebbe un altro monte
a cui la gregge sua pascesse intorno,
se non che si movea con essa insieme,
e torreggiando, inverso la marina
per l'usato sentier se ne calava.
Mostro orrendo, difforme e smisurato,
che avea come una grotta oscura in fronte
in vece d'occhio, e per bastone un pino,
onde i passi fermava. Avea d'intorno
la greggia a' piedi, e la sampogna al collo,
quella il suo amore, e questa il suo trastullo,
ond'orbo alleggeriva il duolo in parte.
Giunto a la riva, entrò ne l'onde a guazzo:
e pria de l'occhio la sanguigna cispa
lavossi, ad or ad or per ira i denti
digrignando e fremendo: indi si stese
per entro 'l mare, e nel piú basso fondo
fu pria co' piè che non fûr l'onde a l'anche.
Noi per paura, ricevuto in prima,
come ben meritò, l'ospite greco,
di fuggir n'affrettammo; e chetamente
sciolte le funi, a remigar ne demmo
piú che di furia. Udí 'l Ciclopo il suono
e 'l trambusto de' remi; e vòlti i passi
vèr quella parte e 'l suo gran pino a cerco,
poiché lungi sentinne, e lungamente
pensò seguirne per l'Ionio in vano,
trasse un mugghio, che 'l mare e i liti intorno
ne tremâr tutti; ne sentí spavento
fino a l'Italia; ne tonaron quanti
la Sicania avea seni, Etna caverne.
L'udir gli altri Ciclopi, e da le selve
e da' monti calando, in un momento
corsero al porto, e se n'empiero i liti.
Gli vedevam da lunge in su l'arena,
quantunque indarno, minacciosi e torvi
stender le braccia a noi, le teste al cielo:
concilio orrendo, ché ristretti insieme
erano quai di querce annose a Giove,
di cipressi coniferi a Dïana
s'ergono i boschi alteramente a l'aura.
  Fero timor n'assalse; e da l'un canto
pensammo di lasciar che 'l vento stesso
ne portasse a seconda ovunque fosse,
purché lunge da loro; ma da l'altro,
d'Eleno ce 'l vietava il detto espresso,
che per mezzo di Scilla e di Cariddi
passar non si dovesse a sí gran rischio,
e di sí poco spazio e quinci e quindi
scevri da morte. In questa, che già fermi
eravam di voltar le vele a dietro,
ecco che da lo stretto di Peloro,
ne vien Bora a grand'uopo, onde repente
a la sassosa foce di Pantagia,
al megarico seno, ai bassi liti
ne trovammo di Tapso. In cotal guisa
riferiva Achemenide, compagno
che s'è detto d'Ulisse, esser nomati
quei lochi, onde pria seco era passato.
  Giace de la Sicania al golfo avanti
un'isoletta che a Plemmirio ondoso
è posta incontro, e dagli antichi è detta
per nome Ortigia. A quest'isola è fama
che per vie sotto al mare il greco Alfeo
vien da Dòride intatto, infin d'Arcadia
per bocca d'Aretusa a mescolarsi
con l'onde di Sicilia. E qui del loco
venerammo i gran numi; indi varcammo
del paludoso Eloro i campi opimi.
Rademmo di Pachino i sassi alpestri,
scoprimmo Camarina, e 'l fato udimmo,
che mal per lei fôra il suo stagno asciutto.
La pianura passammo de' Geloi,
di cui Gela è la terra, e Gela il fiume.
Molto da lunge il gran monte Agragante
vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge
che di razze fur già madri famose.
Col vento stesso indietro ne lasciammo
la palmosa Seline; e 'n su la punta
giunti di Lilibeo, tosto girammo
le sue cieche seccagne, e 'l porto alfine
del mal veduto Drepano afferrammo.
  Qui, lasso me! da tanti affanni oppresso,
a tanti esposto, il mio diletto padre,
il mio padre perdei. Qui stanco e mesto,
padre, m'abbandonasti; e pur tu solo
m'eri in tante gravose mie fortune
quanto avea di conforto e di sostegno.
Ohimè! che indarno da sí gran perigli
salvo ne ti rendesti. Ah, che fra tanti
orrendi e miserabili infortuni,
ch'Eleno ci predisse e l'empia Arpia,
questo non era già, ch'era il maggiore!
Oh fosse questo ancor l'ultimo affanno,
com'è l'ultimo corso! Ché partendo
da Drepano, se ben fera tempesta
qui m'ha gittato, certo amico nume
m'ha, benigna regina, a voi condotto».
  Cosí da tutti con silenzio udito,
poich'ebbe Enea distesamente esposto
la ruina di Troia e i rischi e i fati
e gli error suoi, fece qui fine e tacque.


 

 

LIBRO QUARTO



  Ma la regina d'amoroso strale
già punta il core, e ne le vene accesa
d'occulto foco, intanto arde e si sface;
e de l'amato Enea fra sé volgendo
il legnaggio, il valore, il senno, l'opre,
e quel che piú le sta ne l'alma impresso,
soave ragionar, dolce sembiante,
tutta notte ne pensa e mai non dorme.
  Sorgea l'Aurora, quando surse anch'ella
cui le piume parean già stecchi e spini;
e con la sua diletta e fida suora
si ristrinse e le disse: «Anna sorella,
che vigilie, che sogni, che spaventi
son questi miei? che peregrino è questo
che qui novellamente è capitato?
Vedestu mai sí grazioso aspetto?
Conoscesti unqua il piú saggio, il piú forte,
e 'l piú guerriero? Io credo (e non è vana
la mia credenza) che dal ciel discenda
veracemente. L'alterezza è segno
d'animi generosi. E che fortune,
e che guerre ne conta! Io, se non fusse
che fermo e stabilito ho nel cor mio
che nodo marital piú non mi stringa,
poiché 'l primo si ruppe, e se d'ognuno
schiva non fossi, solamente a lui
forse m'inchinerei. Ché, a dirti 'l vero,
Anna mia, da che morte e l'empio frate
mi privâr di Sichèo, sol questi ha mosso
i miei sensi e 'l mio core, e solo in lui
conosco i segni de l'antica fiamma.
Ma la terra m'ingoi, e 'l ciel mi fulmini,
e ne l'abisso mi trabocchi in prima
ch'io ti vïoli mai, pudico amore.
Col mio Sichèo, con chi pria mi giungesti,
giungimi sempre, e 'ntemerato e puro
entro al sepolcro suo seco ti serba».
E qui piangendo e sospirando tacque.
Anna rispose: «O piú de la mia vita
stessa, amata sorella, adunque sola
vuoi tu vedova sempre e sconsolata
passar questi tuoi verdi e florid'anni?
Abbiti insino a qui fatto rifiuto
e del getúlo Iarba e di tant'altri
possenti, generosi e ricchi duci
peni e fenici; ch'io di ciò ti scuso,
com'allor dolorosa, e non amante.
Ma poich'ami, ad amor sarai rubella,
e ritrosa a te stessa? Ah! non sovvienti
qual cinga il tuo reame assedio intorno?
com'ha gl'insuperabili Getúli
da l'una parte, i Numidi da l'altra,
fera gente e sfrenata? indi le secche,
quinci i deserti, e piú da lunge infesti
i feroci Barcèi? Taccio le guerre
che già sorgon di Tiro, e le minacce
del fiero tuo fratello. Io penso certo
che la gran Giuno, e tutto 'l ciel benigno
ne si mostrasse allor che a' nostri liti
questi legni approdaro. O qual cittade,
qual imperio fia questo ! Quanto onore,
quanto pro, quanta gloria a questo regno
ne verrà, quando ei teco, e l'armi sue
saran giunte a le nostre! Or via, sorella,
porgi preci a gli dèi, fa' vezzi a lui,
assecuralo, onoralo, intrattienlo:
ché 'l crudo verno, il tempestoso mare,
il piovoso Orïone, i vènti, il cielo,
le sconquassate navi in ciò ne dànno
mille scuse di mora e di ritegno».
  Con questo dir, che fu qual aura al foco
ond'era il cor de la regina acceso,
l'infiammò, l'incitò, speme le diede
e vergogna le tolse. Andaro in prima
a visitare i templi, a chieder pace
e favor de' celesti, a porger doni,
a far d'elette pecorelle offerta
a Cerere, ad Apollo, al padre Bacco,
e, pria che a tutti gli altri, a la gran Giuno,
cui son le nozze e i maritaggi a cura.
La regina ella stessa ornata e bella
tien d'oro un nappo, e fra le corna il versa
d'una candida vacca; o si ravvolge
intorno a' pingui altari, ed ogni giorno
rinnova i doni, e de le aperte vittime
le palpitanti fibre, i vivi moti,
e le spiranti viscere contempla,
e con lor si consiglia. O menti sciocche
de gl'indovini! E che ponno i delúbri,
e i vóti, esterni aiuti, a mal ch'è dentro?
Nel cor, ne le midolle e ne le vene
è la piaga e la fiamma, ond'arde e père.
Arde Dido infelice, e furïosa
per tutta la città s'aggira e smania:
qual ne' boschi di Creta incauta cerva
d'insidïoso arcier fugge lo strale
che l'ha già colta; e seco, ovunque vada,
lo porta al fianco infisso. Or a diporto
va con Enea per la città, mostrando
le fabbriche, i disegni e le ricchezze
del suo novo reame; or disïosa
di scoprirgli il suo duol, prende consiglio:
poi non osa, o s'arresta. E quando il giorno
va dechinando, a convivar ritorna,
e di nuovo a spïar de gli accidenti
e de' fati di Troia, e nuovamente
pende dal volto del facondo amante.
Tolti da mensa, allor che notte oscura
in disparte gli tragge, e che le stelle
sonno, dal ciel caggendo, a gli occhi infondono;
dolente, in solitudine ridotta,
ritirata da gli altri, è sol con lui
che le sta lunge, e lui sol vede e sente.
Talvolta Ascanio, il pargoletto figlio
per sembianza del padre in grembo accolto,
tenta, se cosí può, l'ardente amore
o spegnere, o scemare, o fargli inganno.
  Le torri, i templi, ogn'edificio intanto
cessa di sormontar; cessa da l'arme
la gioventú. Le porte, il porto, il molo
non sorgon piú; dismesse ed interrotte
pendon l'opere tutte e la gran macchina
che fea dianzi ira a' monti e scorno al cielo.
Vide da l'alto la saturnia Giuno
il furor di Didone, e tal che fama
e rispetto d'onor piú non l'affrena;
onde Venere assalse, e 'n cotal guisa
disdegnosa le disse: «Una gran loda
certo, un gran merto, un memorabil nome
tu col fanciullo tuo, Ciprigna, acquisti
d'aver due sí gran dii vinta una femina!
Io so ben che guardinga e sospettosa
di me ti rende e de la mia Cartago
il temer di tuo figlio. Ma fia mai
che questa téma e questa gelosia
si finisca tra noi? Ché non piú tosto
con una eterna pace e con un saldo
nodo di maritaggio unitamente
ne ristringemo? Ecco hai già vinto; e vedi
quel che piú desïavi. Ama, arde, infuria:
con ogni affetto è verso Enea tuo figlio
la mia Dido rivolta. Or lui si prenda;
e noi concordemente in pace abbiamo
ambedue questo popolo in tutela;
né ti sdegnar che sí nobil regina
serva a frigio marito, e ch'ei le genti
n'aggia di Tiro e di Cartago in dote».
  Venere, che ben vide ove mirava
il colpo di Giunone; e che l'occulto
suo bersaglio era sol con questo avviso
distor d'Italia il destinato impero
e trasportarlo in Libia, incontro a lei
cosí scaltra rispose: «E chi sí folle
sarebbe mai ch'un tal fesse rifiuto
di quel ch'ei piú desia, per teco averne,
teco che tanto puoi, gara e tenzone,
quando ciò che tu di' possibil fosse?
Ma non so che si possa, né che 'l fato,
né che Giove il permetta, che due genti
diverse, come son Tiri e Troiani,
una sola divenga. Tu consorte
gli sei; tu ne 'l dimanda, e tu l'impetra,
ch'io, per me, me n'appago ». «Ed io, - soggiunse
Giuno - sopra di me l'incarco assumo,
ch'ei ne 'l consenta. Or odi brevemente
il modo che a ciò far già ne si porge.
Tosto che 'l sol dimane uscirà fuori,
uscire ancor l'innamorata Dido
col troian duce a caccia s'apparecchia.
Ove opportunamente a la foresta,
mentre de' cacciatori e de' cavalli
andran le schiere in volta, io loro un nembo
spargerò sopra tempestoso e nero,
con un turbo di grandine e di pioggia,
e di sí fieri tuoni il cielo empiendo,
ch'indi percossi i lor seguaci tutti,
andran dispersi e d'atra nube involti.
Solo con sola Dido Enea ridotto
in un antro medesimo accôrrassi.
Io vi sarò; saravvi anco Imeneo;
e se del tuo voler tu m'assecuri,
io farò sí ch'ivi ambidue saranno
di nodo indissolubile congiunti».
Venere in ciò non disdicendo, insieme
chinò la testa: e de la dolce froda
dolcemente sorrise. Uscio del mare
l'Aurora intanto; ed ecco fuori armati
di spiedi e di zagaglie, a suon di corni,
venirne i cacciatori, altri con reti,
altri con cani. Ha questi un gran molosso,
quegli un veltro a guinzaglio, e lunghe file
van di segugi incatenati avanti.
Scorrono intorno i cavalier Massíli:
e i maggior Peni, e' piú chiari Fenici
stanno in sella aspettando anzi al palagio,
mentre ad uscir fa la regina indugio;
e presto intanto d'ostro e d'oro adorno
il suo ginnetto, e, vagamente fiero,
ringhia, e sparge la terra, e morde il freno.
  Esce a la fine accompagnata intorno
da regio stuolo, e non con regio arnese,
ma leggiadro e ristretto. È la sua veste
di tirio drappo, e d'arabo lavoro
riccamente fregiata: è la sua chioma
con nastri d'oro in treccia al capo avvolta,
tutta di gemme come stelle aspersa;
e d'oro son le fibbie, onde sospeso
le sta d'intorno de la gonna il lembo.
Da gli omeri le pende una faretra,
dal fianco un arco. I Frigi, e 'l bello Iulo
le cavalcano avanti; e via piú bello,
ma di beltà feroce e grazïosa,
le giva Enea con la sua schiera a lato.
Qual se ne va da Licia e da le rive
di Xanto, ove soggiorna il freddo inverno,
a la materna Delo il biondo Apollo,
allor che festeggiando accolti e misti
infra gli altari i Drïopi, i Cretesi,
e i dipinti Agatirsi in varie tresche
gli s'aggirano intorno; o quando spazia
per le piagge di Cinto, a l'aura sparsi
i bei crin d'oro, e de l'amata fronde
le tempie avvolto, e di faretra armato;
tal fra la gente si mostrava, e tale
era ne' gesti e nel sembiante Enea,
sovra d'ogni altro valoroso e vago.
  Poscia che furo a' monti, e nel piú folto
penetrâr de le selve, ecco da i balzi
de l'alte rupi uscir capri e camozze;
e cervi altronde, che, d'armenti in guisa,
quasi in un gruppo, spaventati a torme
fuggono al piano, e fan nubi di polve.
Di ciò gioioso il giovinetto Iulo
sul feroce destrier per la campagna
gridando e traversando, or questo arriva,
or quel trapassa: e nel suo core agogna
tra le timide belve o d'un cignale
aver rincontro, o che dal monte scenda
un velluto leone. In questa il cielo
mormorando turbossi, e pioggia e grandine
diluvïando, d'ogni parte in fuga
Ascanio, i Teucri, i Tiri ai piú propinqui
tetti si ritiraro; e fiumi intanto
sceser da' monti, ed allagaro i piani.
Solo con sola Dido Enea ridotto
in un antro medesimo s'accolse.
Diè, di quel che seguí, la terra segno
e la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni
fûr de le nozze lor le faci e i canti;
testimoni assistenti e consapevoli
sol ne fûr l'aria e l'antro; e sopra 'l monte
n'ulularon le ninfe. Il primo giorno
fu questo, e questa fu la prima origine
di tutti i mali, e de la morte alfine
de la Regina; a cui poscia non calse
né de l'indegnità, né de l'onore,
né de la secretezza. Ella si fece
moglie chiamar d'Enea; con questo nome
ricoverse il suo fallo; e di ciò tosto
per le terre di Libia andò la Fama.
  È questa Fama un mal, di cui null'altro
è piú veloce; e com' piú va, piú cresce;
e maggior forza acquista. È da principio
picciola e debil cosa, e non s'arrischia
di palesarsi; poi di mano in mano
si discopre e s'avanza, e sopra terra
sen va movendo e sormontando a l'aura,
tanto che 'l capo infra le nubi asconde.
  Dicon che già la nostra madre antica,
per la ruina de' Giganti irata
contr'a' celesti, al mondo la produsse,
d'Encèlado e di Ceo minor sorella;
mostro orribile e grande, d'ali presta
e veloce de' piè; che quante ha piume,
tanti ha sotto occhi vigilanti, e tante
(meraviglia a ridirlo) ha lingue e bocche
per favellare, e per udire orecchi.
Vola di notte per l'oscure tenebre
de la terra e del ciel senza riposo,
stridendo sempre, e non chiude occhi mai.
Il giorno sopra tetti, e per le torri
sen va de le città, spïando tutto
che si vede e che s'ode: e seminando,
non men che 'l bene e 'l vero, il male e 'l falso
di rumor empie e di spavento i popoli.
Questa, gioiosa, bisbigliando in prima,
poscia crescendo, del seguíto caso
molte cose dicea vere e non vere.
  Dicea, ch'un di troiana stirpe uscito,
venuto era in Cartago, a cui degnata
s'era la bella Dido esser congiunta.
  Queste e cose altre assai, la sozza dea
per le bocche degli uomini spargendo,
tosto in Getulia al gran Iarba pervenne;
e con parole e con punture acerbe
sí de l'offeso re l'animo accese,
ch'arse d'ira e di sdegno. Era d'Ammone,
e de la garamantide Napea,
già rapita da lui, questo re nato,
onde a Giove suo padre entro a' suoi regni
cento gran templi e cento pingui altari
avea sacrati, e di continui fochi
mantenendo agli dèi vigilie eterne
di vittime, di fiori e di ghirlande
gli tenea sempre riveriti e cólti.
Ei sí com'era afflitto e conturbato
da l'amara novella, anzi agli altari
e fra gli dèi, le mani al cielo alzando,
cotali, umile insieme e disdegnoso,
porse prieghi e querele: «Onnipotente
padre, a cui tanti opimi e sontuosi
conviti, e di Lenèo sí larghi onori
offrisce oggi de' Mauri il gran paese,
vedi tu queste cose? o pure invano
tonando e folgorando ci spaventi?
Una femina errante, una che dianzi
ebbe a prezzo da me nel mio paese,
per fondar la sua terra un picciol sito:
una ch'arena ha per arare, ha vitto,
loco e leggi da me, me per marito
rifiuta; e di sé donno e del suo regno
ha fatto Enea. Questo or novello Pari
mitrato il mento e profumato il crine,
va del mio scorno e del suo furto altero:
ed io qui me ne sto vittime e doni
a te porgendo, e son tuo figlio indarno».
  Cosí Iarba dicea; né da l'altare
s'era ancor tolto, quando il padre udillo;
e gli occhi in vèr Cartagine torcendo
vide gli amanti ch'a gioire intesi
avean posti in oblio la fama e i regni.
Onde vòlto a Mercurio: «Va, figliuolo, -
gli disse, - chiama i vènti, e ratto scendi
là 've sí neghittoso il troian duce
bada in Cartago, e 'l destinato impero
non gradisce e non cura; e ciò gli annunzia
da parte mia, che Venere sua madre
non per tal lo mi diede, e ch'a tal fine
non è stato da lei da l'armi greche
già due volte scampato. EIla promise
ch'ei sarebbe atto a sostener gl'imperi
e le guerre d'Italia, a trar qua suso
la progenie di Teucro, a porre il freno,
a dar le leggi al mondo. A ciò se 'l pregio
di sí gran cose e de la gloria stessa
non muove lui, perché non guarda al figlio?
Perché di tanta sua grandezza il froda,
di quanta fian Lavinio ed Alba e Roma
ne' secoli a venire? E con che speme,
con che disegno in Libia fa dimora,
e co' nemici suoi? Navighi in somma.
Questo dilli in mio nome». Udito ch'ebbe
Mercurio, ad eseguir tosto s'accinse
i precetti del padre; e prima a' piedi
i talari adattossi. Ali son queste
con penne d'oro, ond'ei l'aria trattando,
sostenuto da' vènti, ovunque il corso
volga, o sopra la terra, o sopra al mare,
va per lo ciel rapidamente a volo.
Indi prende la verga, ond'ha possanza
fin ne l'inferno, onde richiama in vita
l'anime spente, onde le vive adduce
ne l'imo abisso, e dà sonno e vigilia
e vita e morte; aduna e sparge i vènti,
e trapassa le nubi. Era volando
giunto là 've d'Atlante il capo e 'l fianco
scorgea, de le cui spalle il cielo è soma;
d'Atlante la cui testa irta di pini,
di nubi involta, a piogge, a vènti, a nembi
è sempre esposta; il cui mento, il cui dorso,
e per nevi e per gel canuto e gobbo,
è da fiumi rigato. In questo monte,
che fu padre di Maia, avo di lui,
primamente fermossi. Indi calando
si gittò sovra l'onde, e lungo al lito
di Libia se n'andò, l'aure secando
in quella guisa che marino augello
d'un'alta ripa, a nuova pesca inteso,
terra terra sen va tra rive e scogli
umilmente volando. A pena giunto
era in Cartago, che davanti Enea
si vide, intento a dar siti e disegni
ai superbi edifici. Avea dal manco
lato una storta, di dïaspro e d'oro
guarnita, e di stellate gemme adoma.
Dal tergo gli pendea di tiria ardente
porpora un ricco manto, arnesi e doni
de la sua Dido, ch'ella stessa intesta
avea la tela, e ricamati i fregi.
Né 'l vide pria, che gli fu sopra, e disse:
  «Tu te ne stai sí neghittosamente,
Enea, servo d'amor, ligio di donna,
a fondar l'altrui regno; e 'l tuo non curi?
A te mi manda il regnator celeste,
ch'io ti dica 'n sua vece: "Che pensiero,
che studio è il tuo? con che speranza indugi
in queste parti? Se 'l tuo proprio onore,
se la propria grandezza non ti spinge;
ché non miri a' tuoi posteri, al destino,
a la speranza del tuo figlio Iulo,
a cui si deve il glorïoso impero
de l'Italia e di Roma?"» E piú non disse,
né piú risposta attese; anzi dicendo,
uscio d'umana forma, e dileguossi.
  Stupí, si raggricciò, tremante e fioco
divenne il troian duce, il gran precetto,
e chi 'l portava, e chi 'l mandava udendo.
Già pensa di ritrarsi. Ma che modo
terrà con Dido ad impetrar commiato?
Con quai parole assalirà, con quali
disporrà mai la furïosa amante?
Pensa, volge, rivolge: in un momento
or questo, or quel partito, or tutti insieme
va discorrendo; ed ora ad un s'appiglia,
ed ora a l'altro. Si risolve al fine:
e fatto a sé venir Memmo, Sergesto,
e l'ardito Cloanto: «Andate, - disse -
raunate i compagni; itene al porto,
e con bel modo chetamente l'arme
apprestate e l'armata; e non mostrate
segno di novità, né di partenza.
Intanto io troverò loco opportuno,
e tempo accomodato e destro modo
d'ottener da quest'ottima regina
che da lei con dolcezza mi diparta,
nulla sapendo ancor di mia partita,
né sperando tal fine a tanto amore».
  A l'ordine d'Enea lieti i compagni
obbedîr tutti; e prestamente in punto
fu ciò che impose. Ma Didon del tratto
tosto s'avvide: e che non vede amore?
Ella pria se n'accorse; ch'ogni cosa
temea, benché secura. E già la stessa
Fama importunamente le rapporta
armarsi i legni, esser i Teucri accinti
a navigare. Onde d'amore e d'ira
accesa, infurïata, e fuori uscita
di se medesma, imperversando scorre
per tutta la città. Quale a i notturni
gridi di Citeron Tïade, allora
che 'l trïennal di Bacco si rinnova,
nel suo moto maggior si scaglia e freme,
e scapigliata e fiera attraversando,
e mugolando al monte si conduce;
tal era Dido, e da tal furia spinta
Enea da sé con tai parole assalse:
  «Ah perfido! Celar dunque sperasti
una tal tradigione, e di nascosto
partir de la mia terra? E del mio amore,
de la tua data fé, di quella morte
che ne farà la sfortunata Dido,
punto non ti sovviene, e non ti cale?
Forse che non t'arrischi in mezzo al verno
tra' piú fieri Aquiloni a l'onde esporti?
Crudele! Or che faresti, se straniere
non ti fosser le terre, ignoti i lochi
che tu procuri? E che faresti, quando
fosse ancor Troia in piede? A Troia andresti
di questi tempi? E me lasci, e me fuggi?
Deh! per queste mie lagrime, per quello
che tu della tua fé pegno mi desti
(poiché a Dido infelice altro non resta
che a sé tolto non aggia), per lo nostro
marital nodo, per l'imprese nozze,
per quanti ti fei mai, se mai ti fei
commodo o grazia alcuna, o s'alcun dolce
avesti unqua da me; ti priego ch'abbi
pietà del dolor mio, de la ruina
che di ciò m'avverrebbe; e (se piú luogo
han le preci con te) che tu del tutto
lasci questo pensiero. Io per te sono
in odio a Libia tutta, a' suoi tiranni,
a' miei Tiri, a me stessa. Or come in preda
solo a morte mi lasci, ospite mio?
ch'ospite sol mi resta di chiamarti,
di marito che m'eri. E perché deggio,
lassa, viver io piú? Per veder forse
che 'l mio fratel Pigmalïon distrugga
queste mie mura, o 'l tuo rivale Iarba
in servitú m'adduca? Almeno avanti
la tua partita avess'io fatto acquisto
d'un pargoletto Enea che per le sale
mi scherzasse d'intorno, e solo il volto,
e non altro, di te sembianza avesse;
ch'esser non mi parrebbe abbandonata,
né delusa del tutto». A tai parole
Enea di Giove al gran precetto affisso
tenea il pensiero e gli occhi immoti e saldi;
e brevemente le rispose al fine:
  «Regina, e' non fia mai ch'io non mi tenga
doverti quanto forse unqua potessi
rimproverarmi. E non fia mai ch'Elisa
non mi ricordi, infin che ricordanza
avrò di me medesmo, e che 'l mio spirto
reggerà queste membra. Ora in discarco
di me dirò sol questo, che sperato,
né pensato ho pur mai d'allontanarmi
da te, come tu di'. Se 'l mio destino
fosse che la mia vita e i miei pensieri
a mia voglia reggessi, a Troia in prima
farei ritorno: raccôrrei le dolci
sue disperse reliquie: a la mia patria
di nuovo renderei la vita e i figli,
e la reggia e le torri e me con loro.
Ma ne l'Italia il mio fato mi chiama.
Italia Apollo in Delo, in Licia, ovunque
vado, o mando a spïarne, mi promette.
Quest'è l'amor, quest'è la patria mia.
Se tu, che di Fenicia sei venuta,
siedi in Cartago, e ti diletti e godi
del tuo libico regno; qual divieto,
qual invidia è la tua, che i miei Troiani
prendano Ausonia? Non lece anco a noi
cercar de' regni esterni? E non cuopre ombra
la terra mai, non mai sorgon le stelle,
che del mio padre una turbata imago
non veggia in sogno, e che di ciò ricordo
non mi porga e spavento. A tutte l'ore
del mio figlio sovviemmi e de l'ingiuria
che riceve da me sí caro pegno,
se del regno d'Italia io lo defraudo,
che gli son padre, quando il fato e Giove
ne 'l privilegia. E pur dianzi mi venne
dal ciel mandato il messaggier celeste
a portarmi di ciò nuova imbasciata
dal gran re degli dèi. Donna, io ti giuro
per la lor deità, per la salute
d'ambedue noi, che con quest'occhi il vidi
qui dentro in chiaro lume; e la sua voce
con quest'orecchi udii. Rimanti adunque
di piú dolerti; e con le tue querele
né te, né me piú conturbare. Italia
non a mia voglia io seguo». E piú non disse.
  Ella, mentre dicea, crucciata e torva
lo rimirava, e volgea gli occhi intorno
senza far motto. Alfin, da sdegno vinta
cosí proruppe: «Tu, perfido, tu
sei di Venere nato? Tu del sangue
di Dardano? Non già; ché l'aspre rupi
ti produsser di Caucaso, e l'Ircane
tigri ti fûr nutrici. A che tacere?
Il simular che giova? E che di meglio
ne ritrarrei? Forse ch'a' miei lamenti
ha mai questo crudel tratto un sospiro,
o gittata una lagrima, o pur mostro
atto o segno d'amore, o di pietade?
Di che prima mi dolgo? di che poi?
Ah! che né Giuno omai, né Giove stesso
cura di noi: né con giust'occhi mira
piú l'opre nostre. Ov'è qua giú piú fede?
E chi piú la mantiene? Era costui
dianzi nel lito mio naufrago, errante,
mendíco. Io l'ho raccolto, io gli ho ridotti
i suoi compagni, e i suoi navili insieme,
ch'eran morti e dispersi; ed io l'ho messo
(folle!) a parte con me del regno mio,
e di me stessa. Ahi, da furor, da foco
rapir mi sento! Ora il profeta Apollo,
or le sorti di Licia, ora un araldo,
che dal ciel gli si manda, a gran faccende
quinci lo chiama. Un gran pensiero han certo
di ciò gli dèi. D'un gran travaglio è questo
a lor quïete. Or va', che per innanzi
piú non ti tegno, e piú non ti contrasto.
Va' pur, segui l'Italia, acquista i regni
che ti dan l'onde e i venti. Ma se i numi
son pietosi, e se ponno, io spero ancora
che da' vènti e da l'onde e da gli scogli
n'avrai degno castigo; e che piú volte
chiamerai Dido, che lontana ancora
co' neri fuochi suoi ti fia presente:
e tosto che di morte il freddo gelo
l'anima dal mio corpo avrà disgiunta,
passo non moverai che l'ombra mia
non ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai
ricompensa a' tuoi merti, e ne l'inferno
tosto me ne verrà lieta novella».
Qui 'l suo dire interruppe; e lui per téma
confuso e molto a replicarle inteso
lasciando, con disdegno e con angoscia
gli si tolse davanti. Incontanente
le fûr l'ancelle intorno; e sí com'era
egra e dolente, entro al suo ricco albergo
le diêr sovra le piume agio e riposo.
  Enea, quantunque pio, quantunque afflitto
e d'amore infiammato e di desire
di consolar la dolorosa amante,
nel suo core ostinossi. E fermo e saldo
d'obbedire a gli dèi fatto pensiero,
calossi al mare, e i suoi legni rivide.
Allor furo in un tempo unti e rispinti
e posti in acqua; e, per la fretta, i remi
diventarono i rami che dal bosco
si portavano allor frondosi e rozzi.
  Era a veder da la cittade al porto
de' Teucri, de le ciurme, e de le robe
ch'al mar si conducean, pieno il sentiero:
qual è, quando le provvide formiche
de le lor vernaricce vettovaglie
pensose e procaccevoli, si dànno
a depredar di biade un grande acervo;
che va dal monte ai ripostigli loro
la negra torma, e per angusta e lunga
sèmita le campagne attraversando,
altre al carreggio intese o lo s'addossano,
o traendo o spingendo lo conducono;
altre tengon le schiere unite, ed altre
castigan l'infingarde; e tutte insieme
fan che tutta la via brulica e ferve.
  Che cor, misera Dido, che lamenti
erano allora i tuoi, quando da l'alto
un tal moto scorgevi, e tanti gridi
ne sentivi dal mare? Iniquo amore,
che non puoi tu ne' petti de' mortali?
Ella di nuovo al pianto, a le preghiere,
a sottoporsi a l'amoroso giogo
da la tua forza è suo malgrado astretta.
Ma per fare ogni schermo, anzi che muoia,
la sorella chiamando: «Anna, - le disse -
tu vedi che s'affrettano, e sen vanno.
Vedi già loro in su la spiaggia accolti,
le vele in alto, e le corone in poppa.
Sorella mia, s'avessi un tal dolore
antiveder potuto, io potrei forse
anco soffrirlo. Or questo solo affanno
prendi per la tua misera sirocchia,
poiché te sola quel crudele ascolta,
e sol di te si fida, e i lochi e i tempi
sai d'esser seco e di trattar con lui;
truova questo superbo mio nimico,
e supplichevolmente gli favella.
Dilli che Dido io sono, e che non fui
in Aulide co' Greci a far congiura
contra a' Troiani; e che di Troia a' danni
né i miei legni mandai, né le mie genti.
Dilli che né le ceneri, né l'ombre
né del suo padre mai, né d'altri suoi
non vïolai. Qual dunque o mio demerto
o sua durezza fa ch'ei non ascolti
il mio dire, e me fugga, e sé precipiti?
Chiedili per mercé dell'amor mio,
per salvezza di lui, per la mia vita,
ch'indugi il suo partir tanto che 'l mare
sia piú sicuro e piú propizi i vènti.
Né piú del maritaggio io lo richieggio,
c'ha già tradito, né vo' piú che manchi
del suo bel Lazio, o i suoi regni non curi.
Un picciol tempo, e d'ogni obbligo sciolto
io gli dimando, e tanto o di quïete,
o d'intervallo al mio cieco furore,
ch'in parte il duol disacerbando, impari
a men dolermi. Questo è 'l dono estremo
che da lui per tuo mezzo agogna e brama
questa tua miserabile sorella:
e se tu lo m'impetri, altro che morte
forza non avrà mai ch'io me n'oblii».
  Queste e tali altre cose ella piangendo
dicea con Anna, ed Anna al frigio duce
disse, ridisse, e riportò piú volte
or da l'una or da l'altro, e tutte in vano;
ché né pianti, né preci, né querele
punto lo muovon piú. Gli ostano i fati,
e solo in ciò gli ha dio chiuse l'orecchie;
benché dolce e trattabile e benigno
fusse nel resto. Come annosa e valida
quercia, che sia ne l'alpi esposta a Borea,
s'or da l'uno or da l'altro de' suoi turbini
è combattuta, si scontorce e títuba:
stridono i rami e 'l suol di frondi spargesi,
e 'l tronco al monte infisso immoto e solido
se ne sta sempre; e quanto sorge a l'aura
con la sua cima, tanto in giú stendendosi
se ne va con le barbe infino agl'inferi:
cosí, da preci e da querele assidue
battuto, duolsi il gran Troiano ed angesi,
e con la mente in sé raccolta e rigida
gitta indarno per lei sospiri e lagrime.
  La sfortunata Dido, poiché tronca
si vide ogni speranza, spaventata
dal suo fato, e di sé schiva e del sole,
disïò di morire; e gran portenti
di ciò presagio e fretta anco le fêro.
Ella, mentre a gli altari incensi e doni
offria devota (orribil cosa a dire!),
vide avanti di sé cogli occhi suoi
farsi lurido e negro ogni liquore,
e 'l puro vin cangiarsi in tetro sangue:
e 'l vide, e 'l tacque, e 'nfino a la sorella
lo tenne ascoso. Entro al suo regio albergo
avea di marmo un bel delúbro eretto,
e dedicato al suo marito antico.
Questo con molto studio, e molt'onore
fu mai sempre da lei di bianchi velli
e di festiva fronde ornato e cinto.
Quinci notturne voci udir le parve
del suo caro Sichèo che la chiamasse;
e nel suo tetto un solitario gufo
molte fïate con lugúbri accenti
fe' di pianto una lunga querimonia.
Oltre a ciò da l'antiche profezie,
da pronostici orrendi e spaventosi
de la vicina morte era ammonita.
Vedeasi Enea tutte le notti avanti
con fera imago, che turbata e mesta
la tenea sempre. Le parea da tutti
restare abbandonata, e per un lungo
e deserto cammino andar solinga
de' suoi Tiri cercando. In cotal guisa
le schiere de l'Eumènidi vedea
Pèntëo forsennato, e doppio il sole
e doppia Tebe. In cotal guisa Oreste
per le scene imperversa, e furïoso
vede, fuggendo, la sua madre armata
di serpenti e di faci, e 'n su le porte
le Furie ultrici. Or poi che la meschina
fu da tanto furor, da tanto affanno
oppressa e vinta, e di morir disposta,
divisò fra se stessa il tempo e 'l modo:
ed Anna, sí com'era afflitta e mesta,
a sé chiamando, il suo fiero consiglio
celò nel core, e nel sereno volto
spiegò gioia e speranza: «Anna, - dicendo -
rallegrati con me, che al fin trovato
ho com'io debba o racquistar quell'empio,
o ritôrmi da lui. Nel lito estremo
de l'Oceàn, là dove il sol si corca,
de l'Etïopia a l'ultimo confino,
e presso a dove Atlante il ciel sostiene,
giace un paese, ond'ora è qui venuta
una sacerdotessa incantatrice,
che, massíla di gente, è stata poi
del tempio de l'Espèridi ministra,
e del drago nudrice, e de le piante
del pomo d'oro guardïana un tempo.
  Questa, d'umido mèle e d'oblïosi
papaveri composto un suo miscuglio,
promette con parole e con malíe
altri sciôr da l'amore, altri legare,
com'a lei piace; distornare i fiumi,
ritrar le stelle, e convocar per forza
le notturne fantasme. Udrai la terra
mugghiar sotto a' tuoi piè. Vedrai da' monti
calar gli orni e le querce. Io per gli dèi,
per te, per la tua vita a me sí cara,
ti giuro, suora mia, che mal mio grado
m'adduco a questi magici incantesmi;
ma gran forza mi spinge. Or va, sorella;
scegli per entro a le mie stanze un luogo
il piú remoto e solo, a l'aura esposto.
Ivi ergi una gran pira, e vi conduci
l'armi che a la mia camera sospese
lasciò quel disleale, e quelle spoglie,
in somma ogni suo arnese. Ché la maga
cosí m'impone, e vuol ch'ogni memoria,
ogni segno di lui si spenga e pèra».
  Cosí detto, si tacque, e di pallore
tutta si tinse. Non però s'avvide
Anna che sotto a' nuovi sacrifici
si celasse di lei morte sí fera:
ché sí fero concetto non le venne,
e non temé che peggio le avvenisse
che in morte di Sichèo. Tosto fe' dunque
quel ch'imposto le fu. Fatta la pira,
e d'ilici e di tede aride e scisse
altamente composta, la regina
d'atre ghirlande e di funeste frondi
ornar la fece intorno: indi le spoglie
e la spada e l'effigie de l'amante
sopra a giacer vi pose, ben secura
di ciò che n'avverrebbe. Eran d'intorno
gli altari eretti; era tra lor la maga
scapigliata e discinta; e con un tuono
di voce formidabile invocava
trecento deità, l'Erebo, il Cao,
Ècate con tre forme, e con tre facce
la vergine Dïana. Avea già sparse
le finte acque d'Averno, e i suffumigi
fatti de le nocive erbe novelle
che per punti di luna, e con la falce
d'incantato metallo eran segate.
Si fe' venir la malïosa carne
che de la fronte al tenero pulledro
con l'amor de la madre si divelle.
Essa stessa regina il farro e 'l sale
con le man pie sovr'a gli altari impone,
e d'un piè scalza, e di tutt'altro sciolta,
solo accinta a morir, per testimoni
chiama li dèi. Protestasi a le stelle
del suo fato consorti: e s'alcun nume
mira a gli afflitti e sfortunati amanti,
questo prega e scongiura che ragione
e ricordo ne tenga, e ne gli caglia.
  Era la notte; e già di mezzo il corso
cadean le stelle; onde la terra e 'l mare,
le selve, i monti e le campagne tutte,
e tutti gli animali, i bruti, i pesci,
e i volanti e i serpenti e ciò che vive
avea da ciò che la lor vita affanna
tregua, silenzio, oblio, sonno e riposo.
Ma non Dido infelice, a cui la notte
né gli occhi grava, né 'l pensiero alleggia;
anzi maggior col tramontar del sole
in lei risorge l'amorosa cura:
e non men che d'amor, d'ira avvampando,
cosí fra sé farnetica e favella:
  «E che farò cosí delusa poi?
Chi piú mi seguirà de' primi amanti?
Proferirommi per consorte io stessa
d'un Zingaro, d'un Moro, o d'un Aràbo,
quando n'ho vilipesi e rifiutati
tanti e tai, tante volte? Andrò co' Teucri
in su l'armata? Mi farò soggetta,
di regina ch'io sono, e serva a loro?
Sí certo, che gran pro fin qui riporto
de le mie loro usate cortesie;
e grado me n'avranno, e grazia poi.
Ma ciò, dato ch'io voglia, chi permette
ch'io l'eseguisca? Chi cosí schernita
volentier mi raccoglie? Ahi sfortunata
Dido! ch'ancor non vedi a che sei giunta,
e le frodi non sai di questa iniqua
schiatta di Laomedonte. E poi, che fia
per questo? Deggio sola in compagnia
di marinari andar femina errante?
o condur meco i miei Fenici tutti
con altra armata? e trarli un'altra volta
d'un'altra patria in mare, in preda a' vènti
senz'alcun pro, senza cagione alcuna,
quando anco a pena di Sidon gli trassi
per ritôrli da man d'empio tiranno?
Ah! muor piú tosto, come degnamente
hai meritato; e pon col ferro fine
al tuo grave dolore. Ah, mia sorella!
tu sei prima cagion di tanto male;
tu, vinta dal mio pianto, in quest'angoscia
m'hai posta, e data ad un nemico in preda;
ché dovea vita solitaria e fera
menar piú tosto, che commetter fallo
sí dannoso e sí grave, e romper fede
al cener di Sichèo». Questi lamenti
uscian del petto a l'affannata Dido;
quando già di partir fermo e parato
Enea, per riposar pria che sciogliesse,
s'era a dormir sopra la poppa agiato.
Ed ecco un'altra volta in sogno, avanti
del medesmo celeste messaggiero
gli appar l'imago, con quel volto stesso,
con quel color, con quella chioma d'oro
con che lo vide pria giovane e bello;
e da la stessa voce udir gli parve:
  «Tu corri, Enea, sí gran fortuna, e dormi?
Non senti qual ti spira aura seconda?
Dido cose nefande ordisce ed osa
certa già di morire, e d'ira accesa
a dire imprese è vòlta; e tu non fuggi,
mentre fuggir ti lece? A mano a mano
di legni travagliar vedrassi il mare,
di fochi il lito, e di furor le genti
incontra a te, se tu qui 'l giorno aspetti.
Via di qua tosto: da' le vele a' vènti.
Femina è cosa mobil per natura,
e per disdegno impetuosa e fera».
E qui tacendo entrò nel buio, e sparve.
  Enea, preso da súbito spavento,
destossi, e fe' destar la gente tutta:
«Via, compagni, - dicendo - a i banchi, e a i remi;
ch'or d'altro uopo ne fa che di riposo.
Fate vela, sciogliete: ché di nuovo
precetto ne si fa dal cielo e fretta.
Ecco, qual tu ti sia, messo celeste,
che 'l tuo detto seguiamo; e tu benigno
n'aíta e 'l cielo e 'l mar ne rendi amico».
  Ciò detto, il ferro strinse, e fulminando
del suo legno la gómona recise.
Cosí fêr gli altri, e col medesmo ardore
tutti insieme sciogliendo, travasando,
e spingendosi in alto, in un momento
lasciaro il lito; e 'l mar, da i legni ascoso,
si fe' per tanti remi e tante vele
spumoso e bianco. Era vermiglio e rancio
fatto già de la notte il bruno ammanto,
lasciando di Titon l'Aurora il letto:
quando d'un'alta loggia la regina
tutto scoprendo, poi ch'a piene vele
vide le frige navi irne a dilungo,
e vòti i liti, e senza ciurma il porto;
contra sé fatta ingiurïosa e fera,
il delicato petto e l'auree chiome
si percoté, si lacerò piú volte;
e 'ncontra al ciel rivolta: «Ah, Giove!, - disse -
dunque pur se n'andrà? Dunque son io
fatta d'un forestier ludibrio e scherno
nel regno mio? Né fia chi prenda l'armi?
Né chi lui segua, né i suoi legni incenda?
Via tosto a le lor navi, a l'armi, al foco;
mano a le vele, a' remi; oltre, nel mare!
Che parlo? O dove sono? E che furore
è 'l tuo, Dido infelice? Iniquo fato,
misera, ti persegue. Allor fu d'uopo
ciò che tu di', quando di te signore
e del tuo regno il festi. Ecco la destra,
ecco la fede sua. Questi è quel pio
che seco adduce i suoi patrii Penati,
e 'l vecchio padre a gli omeri s'impose.
Non potea farlo prendere e sbranarlo?
e gittarlo nel mare? ancider lui
con tutti i suoi? dilanïare il figlio,
e darlo in cibo al padre? Oh, perigliosa
fôra stata l'impresa! E di periglio
la si fosse, e di morte; in ogni guisa
morir dovendo, a che temere indarno?
Arsi avrei gli steccati, incesi i legni,
occiso il padre, il figlio, il seme in tutto
di questa gente, e me spenta con loro.
  Sole, a cui de' mortali ogni opra è conta;
Ècate, che ne' trivi orribilmente
sei di notte invocata; ultrici Furie,
spiriti inferni, e dii de l'infelice
Dido ch'a morte è giunta, il mio non degno
caso riconoscete, e insieme udite
queste dolenti mie parole estreme.
Se forza, se destino, se decreto
è di Giove e del cielo, e fisso e saldo
è pur che questo iniquo in porto arrivi
e terra acquisti; almen da fiera gente
sia combattuto, e, de' suoi fini in bando,
da suo figlio divelto implori aiuto,
e perir veggia i suoi di morte indegna.
Né leggi che riceva, o pace iniqua
che accetti, anco gli giovi; né del regno,
né de la vita lungamente goda:
ma caggia anzi al suo giorno, e ne l'arena
giaccia insepolto. Questi prieghi estremi
col mio sangue consacro. E voi, miei Tiri,
coi discesi da voi, tenete seco
e co' posteri suoi guerra mai sempre.
Questi doni al mio cenere mandate,
morta ch'io sia. Né mai tra queste genti
amor nasca, né pace; anzi alcun sorga
de l'ossa mie, che di mia morte prenda
alta vendetta, e la dardania gente
con le fiamme e col ferro assalga e spenga
ora, in futuro e sempre; e sian le forze
a quest'animo eguali: i liti ai liti
contrari eternamente, l'onde a l'onde,
e l'armi incontro a l'armi, e i nostri ai loro
in ogni tempo». E ciò detto, imprecando,
schiva di piú veder l'eterea luce,
affrettò di morire. E Barce in prima
vistasi intorno, una nutrice antica
del suo Sichèo (ché la sua propria in Tiro
era cenere già): «Cara nutrice, -
le disse - va', mi chiama Anna mia suora,
e le di' che solleciti, e che l'onda
del fiume e l'ostie e i suffumigi adduca,
e ciò ch'è d'uopo, come pria le dissi,
a prepararmi: ché finire intendo
il sacrifizio che a Plutone inferno
solennemente ho di già fare impreso,
per fine imporre a' miei gravi martiri,
e dar foco a la pira, ov'è l'imago
di quell'empio Troiano». A tal precetto
mossa la vecchiarella, a suo potere
lentamente affrettossi ad eseguirlo.
  Dido nel suo pensiero immane e fiero
fieramente ostinata, in atto prima
di paventosa, poi di sangue infetta
le torve luci, di pallore il volto,
e tutta di color di morte aspersa,
se n'entrò furïosa ove secreto
era il suo rogo a l'aura apparecchiato.
Sopra vi salse; e la dardania spada,
ch'ebbe da lui non a tal uso in dono,
distrinse: e rimirando i frigi arnesi
e 'l noto letto, poich'in sé raccolta
lagrimando e pensando alquanto stette,
sopra vi s'inchinò col ferro al petto,
e mandò fuor quest'ultime parole:
«Spoglie, mentre al ciel piacque, amate e care
a voi rendo io quest'anima dolente.
Voi l'accogliete: e voi di questa angoscia
mi liberate. Ecco, io son giunta al fine
de la mia vita, e di mia sorte il corso
ho già compito. Or la mia grande imago
n'andrà sotterra: e qui di me che lascio?
Fondata ho pur questa mia nobil terra;
viste ho pur le mie mura; ho vendicato
il mio consorte; ho castigato il fiero
mio nimico fratello. Ah, che felice,
felice assai morrei, se a questa spiaggia
giunte non fosser mai vele troiane!»
E qui su 'l letto abbandonossi, e 'l volto
vi tenne impresso; indi soggiunse: «Adunque
morrò senza vendetta? Eh, che si muoia,
comunque sia. Cosí, cosí mi giova
girne tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo,
mentre meco era, il mio foco non vide,
veggalo di lontano; e 'l tristo augurio
de la mia morte almen seco ne porte».
Avea ciò detto, quando le ministre
la vider sopra al ferro il petto infissa,
col ferro e con le man di sangue intrise
spumante e caldo. In pianti, in ululati
di donne in un momento si converse
la reggia tutta, e 'nsino al ciel n'andaro
voci alte e fioche, e suon di man con elle.
N'andò per la città grido e tumulto,
come se presa da' nemici a forza
fosse Tiro, o Cartago arsa e distrutta.
  Anna, tosto ch'udillo, il volto e 'l petto
battessi e lacerossi; e fra la gente
verso la moribonda sua sorella,
stridendo, e 'l nome suo gridando corse:
«E per questo, - dicea - suora, son io
da te cosí tradita? Io t'ho per questo
la pira e l'are e 'l foco apparecchiato?
Deserta me! Di che dorrommi in prima?
Perché, morir dovendo, una tua suora
per compagna rifiuti? E perché teco,
lassa! non m'invitasti? Ch'un dolore,
un ferro, un'ora stessa ambe n'avrebbe
tolte d'affanno. Ohimé! con le mie mani
t'ho posto il rogo. Ohimé! con la mia voce
ho gli dèi de la patria a ciò chiamati.
Tutto, folle! ho fatt'io, perché tu muoia,
perch'io nel tuo morir teco non sia.
Con te, me, questo popol, questa terra
e 'l sidonio senato hai, suora, estinto.
Or mi date che 'l corpo omai componga,
che lavi la ferita, che raccolga
con le mie labbia il suo spirito estremo,
se piú spirto le resta». E, ciò dicendo,
già de la pira era salita in cima.
Ivi lei che spirava in seno accolta,
la sanguinosa piaga, lagrimando,
con le sue vesti le rasciuga e terge.
Ella talor, le gravi luci alzando,
la mira a pena, che di nuovo a forza
morte le chiude; e la ferita intanto
sangue e fiato spargendo anela e stride.
Tre volte sopra il cubito risorse:
tre volte cadde, ed a la terza giacque:
e gli occhi vòlti al ciel, quasi cercando
veder la luce, poiché vista l'ebbe,
ne sospirò. De l'affannosa morte
fatta Giuno pietosa, Iri dal cielo
mandò, che 'l groppo disciogliesse tosto,
che la tenea, malgrado anco di morte,
col suo mortal sí strettamente avvinta;
ch'anzi tempo morendo, e non dal fato,
ma dal furore ancisa, non le avea
Prosèrpina divelto anco il fatale
suo dorato capello; né dannata
era ancor la sua testa a l'Orco inferno.
  Ratto spiegò la rugiadosa dea
le sue penne dorate, e 'ncontra al sole
di quei tanti suoi lucidi colori
lunga striscia traendo; indi sospesa
sopra al capo le stette, e d'oro un filo
ne svelse e disse: «Io qui dal ciel mandata
questo a Pluto consacro, e te disciolgo
da le tue membra». Ciò dicendo, sparve.
Ed ella, in aura il suo spirto converso,
restò senza calore e senza vita.


 

 

LIBRO QUINTO



  Intanto Enea, spinto dal vento in alto,
veleggiava a dilungo; e pur con gli occhi,
da la forza d'amor rivolto indietro,
rimirava a Cartago. Ardea la pira
già d'Elisa infelice; e le sue fiamme
raggiavan di lontan gran luce intorno.
La cagion non sapea; ma la temenza
lo rimordea del vïolato amore,
e 'l saper quel che puote e quel che ardisce
femina furïosa; e 'l tristo augurio
del foco, che lugúbre era e funesto,
lo tenea con lo stuol de' Teucri tutti
disanimato e mesto. Eran di vista
già de la terra usciti, e cielo ed acqua
apparian solamente d'ogn'intorno,
allor ch'un denso e procelloso nembo
si fe' lor sopra; onde tempesta e notte
surse repente, e Palinuro stesso
da l'alta poppa il ciel mirando: «Oh! - disse -
che fia con tante intorno accolte nubi?
E che pensi e che fai, padre Nettuno?»
Indi cornanda: «Via, compagni, armiamci,
opriamo i remi, accomodiam le vele,
tegniamo al vento avverso obliquo il seno».
E rivolto ad Enea: «Con questo cielo,
signor, - diss'egli - ormai piú non m'affido
prender Italia, ancor che Giove stesso
nel promettesse, ed ei nocchier ne fosse.
Vedi il vento mutato, vedi il mare
di vèr ponente, che s'annera e gonfia:
vedi nel ciel qual ne s'accampa stuolo
di folte nubi. Traversia di certo
n'assalirà sí che né girle incontro,
né durar la potremo. Or poi ch'a forza
cosí ne spinge, noi per nostro scampo
assecondiamla; ché già presso i porti
ne son de la Sicilia e 'l fido ospizio
d'Èrice tuo fratello, s'abbastanza
de l'arte mi rammento e de le stelle».
  Rispose Enea: «Ben conosch'io che duro
è 'l contrasto de' vènti; e 'l nostro è vano.
Volgi le vele. E qual piú grata altrove,
o piú commoda riva, o piú sicura
aver mai ponno le mie stanche navi,
di quella che ne serba il caro Aceste,
e l'ossa accoglie del buon padre mio?»
  Cosí, vòlti a levante, e preso in poppa
il vento e 'l flutto, a tutta vela il golfo
correndo, fûr subitamente a proda
de l'amica riviera. Avea di cima
visto d'un monte il cacciatore Aceste
venir la frigia armata: onde in un tempo
fu con essi a la riva; e rincontrolli
allegramente, sí com'era incolto,
di dardi armato e d'irta pelle cinto
di libic'orso, umano insieme e rozzo,
de la troiana Egesta e di Criniso
fiume onorato figlio. Ei degli antichi
suoi parenti membrando, con gioioso
volto, se ben con rustico apparecchio,
gl'invita, gli riceve e gli consola.
  Era de l'altro dí l'aurora e 'l sole
già fuor de l'onde, allor che 'l frigio duce,
convocati i suoi tutti, alto in un greppo
posto in mezzo di lor cosí lor disse:
  «Generosi e magnanimi Troiani,
degna prole di Dardano e del cielo,
questa è l'amica terra, ove oggi è l'anno
ch'a le sante ossa del mio padre Anchise
demmo requie e sepolcro, e i mesti altari
gli consecrammo. Oggi è, s'io non m'inganno,
quel sempre acerbo ed onorato giorno,
ché onorato ed acerbo mi fia sempre
(poi che sí piacque a dio), quantunque ovunque
questo esiglio infelice mi trasporti:
pongami ne l'arene e ne le secche
de la Getulia; spingami agli scogli
del mar di Grecia; ne la Grecia stessa
mi chiugga, e dentro al cerchio di Micene;
ch'io l'arò sempre per solenne, e vóti
farogli ogni anno e sacrifici e ludi.
Or poi che da' celesti, oltre ogni avviso
nostro, tra' nostri siamo in pruova addotti
per onorar le sue ceneri sante,
onoriamle, adoriamle, e dal suo nume
imploriamo devoti amici i vènti,
e stabil seggio, ove gli s'erga un tempio,
in cui sian quest'esequie e questi onori
rinnovellati eternamente ogni anno.
Due pingui buoi per ciascun nostro legno
vi profferisce il buon troiano Aceste.
Voi d'Aceste e di Troia i patri numi
ne convitate; ed io, quando l'Aurora
tranquillo e queto il nono giorno adduca,
a' solenni spettacoli v'invito
di navi, di pedoni e di cavalli,
al corso, a la palestra, al cesto, a l'arco.
Ognun vi si prepari, ognun ne speri
degna del suo valor mercede e palma.
E voi datevi assenso, e tutti insieme
v'inghirlandate». E, ciò dicendo, il primo
del suo mirto materno il crin si cinse.
Èlimo lo seguí, seguillo Alete,
un di verd'anni e l'altro di maturi;
poscia il fanciullo Iulo; e dietro a loro
d'ogni età gli altri tutti. Enea disceso
dal parlamento, in mezzo a quante intorno
avea schiere di genti, umile e mesto
al sepolcro d'Anchise appresentossi:
e con rito solenne in terra sparte
due gran coppe di vino e due di latte
e due di sangue, di purpurei fiori
vi nevigò di sopra un nembo, e disse:
  «A voi sant'ossa, a voi ceneri amate
e famose e felici, anima ed ombra
del padre mio, torno di nuovo indarno
per onorarvi; poi che Italia e 'l Tebro
(se pur Tebro è per noi) ne si contende.
Or, quel ch'io posso con devoto affetto
v'adoro e 'nchino come cosa santa».
  Mentre cosí dicea, di sotto al cavo
de l'alto avello un gran lubrico serpe
uscio placidamente; e sette volte
con sette giri al tumulo s'avvolse.
Indi, strisciando infra gli altari e i vasi,
le vivande lambendo, in dolce guisa,
con le cerulee sue squamose terga
sen gio divincolando, e quasi un'Iri
a sole avverso scintillò d'intorno
mille vari color di luce e d'oro.
Stupissi Enea di cotal vista; e l'angue
di lungo tratto infra le mense e l'are,
ond'era uscito alfin si ricondusse.
Rinnovellò gl'incominciati onori
il frigio duce, del serpente incerto,
se del loco era il genio, o pur del padre
sergente o messo. E com'era uso antico,
cinque pecore elette e cinque porci,
con cinque di morello il tergo aspersi
grassi giovenchi anzi a la tomba occise,
nuove tazze versando, e nuovamente
fin d'Acheronte richiamando il nome
e l'anima d'Anchise. Indi i compagni,
ciascun secondo la sua possa offrendo,
lieti colmâr di doni i santi altari:
altri di lor le vittime immolaro;
altri cibi ne fêro; e tutti insieme
sul verde prato a convivar si diêro.
  Era già 'l nono destinato giorno
sereno e lieto a l'orïente apparso,
e già la vaga fama e 'l chiaro nome
avea d'Aceste convocati intorno
i vicin tutti, e pieni erano i liti
di gente, cui traea parte vaghezza
di vedere i Troiani, e parte ardire
di provarsi con loro. In prima esposti
con pompa riguardevole e solenne
furo in mezzo del circo armi indorate,
purpuree vesti, e tripodi e corone,
e piú guise d'arnesi e di monete,
d'argento e d'oro, e palme ed altri premi
di vincitori. Indi sonora tromba
d'alto diè segno ai desïati ludi,
e dal mar cominciossi. Avean di tutta
la teucra armata quattro legni scelti
piú di remi e di rémigi guarniti,
e di tutti piú destri. Un fu la Pistri,
e Memmo la reggea: Memmo che poi
l'Italo fu nomato, e diede il nome
a la stirpe de' Memmi. La Chimera
fu l'altro, a cui preposto era il gran Gía,
un gran vascello che a tre palchi avea
disposti i remi; e i remiganti tutti
eran troiani e giovani e robusti.
Fu 'l gran Centauro il terzo; e di quest'era
Sergesto il capo, che a la Sergia prole
diede principio. L'ultimo, la Scilla
guidata da Cloanto, onde i Cluenti
trasser nome e legnaggio. È lunge incontra
a la spumosa riva un basso scoglio
che da' flutti percosso, è talor tutto
inondato e sommerso. Il verno i vènti
vi tendon sopra un nubiloso velo
che ricuopre le stelle, e quando è il tempo
tranquillo, ha ne l'asciutto una pianura
ch'è di marini uccelli aprica stanza.
  Qui d'un elce frondoso il segno pose
il padre Enea, fin dove il corso avanti
stender pria si dovesse, e poi dar volta.
Indi, sortiti i luoghi, al suo ciascuno
si pose in fila. I capitani in poppa
addobbati di bisso e d'ostro e d'oro,
risplendean di lontano; e gli altri tutti
d'una livrea di pioppo incoronati
stavano con le terga ignudi ed unti,
sí che tra l'olio e 'l sol lumiere e specchi
parean da lunge. E già ne' banchi assisi,
tese a' remi le braccia, al suon l'orecchie,
aspettavano il segno. I cori intanto
palpitando movea disio d'onore
e timor di vergogna. Avea la tromba
squillato appena, che in un tempo i remi
si tuffâr tutti, e tutti i legni insieme
si spiccâr da le mosse. I gridi al cielo
n'andâr de' marinari. Il mar di schiuma
s'asperse intorno; e 'n quattro solchi eguali
fu con molto stridor da' rostri aperto,
e da' remi stracciato. Impeto pari
non fêr nel Circo mai bighe o quadrighe
da le carceri uscendo, allor ch'a sciolte
ed ondeggianti redini gli aurighi
ai volanti destrier sferzan le terga.
Le grida, il plauso, il fremito e le voci,
in favore or di questi ed or di quelli,
tra i curvi liti avvolte, e da le selve
e da' colli riprese e ripercosse,
facean l'aria intonar fino a le stelle.
  Nel primo uscire, il primo avanti a tutti
si vide Gía, mentre la gente freme;
e dopo lui Cloanto, che de' remi
migliore assai, per la gravezza indietro
rimanea del suo legno. Indi del pari,
o di poco infra loro avean contesa
il Centauro e la Pistri; e quando questa,
quando quello era avanti; e quando entrambi
or le fronti avean giunte ed or le code.
  Eran del sasso già presso a la mèta
e di buon tratto vincitore avanti
Gía se ne gía, quand'ei sen vide in alto
da la ripa piú lunge; onde rivolto
al suo nocchiero: «E dove - disse - andrai,
Menete? Attienti al lito e radi il sasso:
vadano gli altri in alto». Ei tuttavia
d'urtar temendo, in pelago si mise;
e Gía di nuovo: «In qua, Menete, al sasso,
al sasso, a la sinistra, a la sinistra!»
dicea gridando; e vòlto indietro, vide
ch'avea Cloanto addosso. Era Cloanto
già tra lo scoglio e la Chimera entrato;
e via radendo la sinistra riva,
tenne giro sí breve e sí propinquo,
che lui tosto e la mèta anco varcando,
si vide avanti il mare ampio e sicuro.
Grand'ira, gran dolore e gran vergogna
ne sentí 'l fiero giovine; e piangendo
di stizza, e non mirando il suo decoro,
né che Menete del suo legno seco
fosse guida e salute, in mezzo il prese,
e da la poppa in mar lunge avventollo.
Poscia, ei nocchiero e capitano insieme
diè di piglio al timone e, rincorando
i suoi compagni, al sasso lo rivolse.
  Menete, che di veste era gravato,
e via piú d'anni, infino a l'imo fondo
ricevé 'l tuffo; e risorgendo a pena
rampicossi a lo scoglio, e sí com'era
molle e guazzoso, de la rupe in cima
qual bagnato mastino al sol si scosse.
Rise tutta la gente al suo cadere;
rise al notare: e piú rise anco allora
che'a flutti vomitar gli vide il mare.
  Memmo intanto e Sergesto, che del pari
erano addietro, parimente accesi,
su l'indugio di Gía preser baldanza.
Sergesto in vèr lo scoglio avea 'l vantaggio
del primo loco; ma non tutto ancora
era il suo legno avanti, che la Pistri
premea col rostro del Centauro il fianco.
E Memmo, confortando i suoi compagni,
e 'n su e 'n giú per la corsia gridando:
  «Via fratelli, - dicea - via degni alunni
d'Ettore invitto, via! compagni eletti
al grand'uopo di Troia. Ora è mestiero
de' remi, de le forze e del coraggio,
ch'a le Sirti, a Cariddi, a la Malèa
mostraste già. Non piú vincer contendo,
che pur dovrei, se pur Memmo son io:
vinca cui ciò da te, Nettuno, è dato.
Ma ch'ultimi arriviamo, ah! non, fratelli,
questa vergogna; e ciò vincasi almeno
che di tanto rossor tinti non siamo».
  A cotal dir tutti insorgendo, a gara
steser le braccia, ed inarcaro i dorsi,
e fêr per avanzarsi estremo sforzo.
Tremava a i colpi il ben ferrato legno;
fuggia di sotto il mare: ansando i rémigi
aprian l'asciutte bocche; e spesso i fianchi
battendo, a gronde di sudor colavano.
  Diè lor fortuna il desïato onore:
ché, mentre furïoso oltre si spinge
Sergesto, e con la prora arditamente
rade la ripa, ebbe il meschino intoppo,
urtando de lo scoglio in una roccia
che nel mar si sporgea. Scheggiossi il sasso:
fiaccârsi i remi: si scoscese il rostro;
e d'un lato pendente e scossa tutta
tremò la nave, e scompigliossi, e stette.
I remiganti attoniti, con gridi,
con ferrate aste, con tridenti e pali
stavan pingendo e puntellando il legno,
e ripescando i remi. Intanto allegro,
e del successo coraggioso e baldo
Memmo ratto s'avanza, e vince il sasso;
e via vogando ed invocando i vènti
fende a la china ed a l'aperto il mare.
  Qual d'una grotta, ov'aggia i dolci figli
e 'l caro nido, spaventata in prima
da súbito schiamazzo esce rombando
ed arrostando una colomba a l'aura;
che poi, giunta ne' campi, a l'aer queto
quetamente per via dritta e sicura
sen va con l'ali immobili e veloci;
cosí la Pistri pria travolta e vaga
venia da sezzo; indi affilata e stretta
passò prima Sergesto che nel sasso,
come da vischio rattenuto augello
e spennacchiato, i suoi spezzati remi
dibattendo, chiedea soccorso invano;
poscia, spingendo, la Chimera aggiunse
e trapassolla: ché la sua gran mole
e 'l perduto nocchier la fea piú tarda.
  Sol restava Cloanto: e verso lui
affilandosi, al fin quasi del corso
con ogni sforzo il segue, e già l'incalza.
Levossi al cielo un'altra volta il grido
del favor che facea la gente tutta,
perché i secondi divenisser primi.
Quelli caccia lo sdegno e la vergogna
di non tener il conseguito onore,
ché la gloria antepongono a la vita;
questi il successo inanima e la speme
di ciò poter; poich'altrui par che possano.
S'eran già presso e, pareggiati i rostri,
del pari i premi avrian forse ottenuti,
se non ch'ambe le mani al cielo alzando,
cotal fece a gli dèi Cloanto un vóto:
  «Santi numi del pelago ch'io corro,
se 'l corso agevolate al legno mio,
nel medesimo lito un bianco toro
lieto consacrerovvi e de l'opime
sue viscere, e di vin limpido e puro
l'arena spargerovvi e l'onde salse».
  Furon da l'imo fondo i preghi uditi
del buon Cloanto da la schiera tutta
de le ninfe di Nerëo e di Forco,
e da la Panopèa vergine intatta:
e 'l gran padre Portunno di sua mano
gli spinse il legno; onde, qual vento o strale,
lanciossi a terra, e si scagliò nel porto.
  Il padre Enea (com'è costume) avanti
convocati a sé tutti, a suon di tromba
dichiarò vincitor Cloanto il primo,
e le tempie di lauro incoronogli.
Poscia a ciascuna de le navi in dono
diè tre grassi giovenchi, e tre grand'urne
di prezïoso vino, e di contanti
un gran talento. Ornò di maggior doni
i primi condottieri. Al vincitore
presentò di broccato un ricco arnese,
che d'ostro a' groppi sopra l'oro avea
doppio un lavoro di ricamo e d'ago.
  Nel mezzo entro al frondoso bosco idèo
un real giovinetto era tessuto,
ch'anelo e fiero con un dardo in mano
seguia per la foresta i cervi in caccia;
e poco indi lontano un'altra volta
era il medesmo da l'uccel di Giove
rapito in alto; e i suoi vecchi custodi
e i fidi cani lo miravan sotto,
quegli indarno le mani al cielo alzando,
e questi il muso, ed abbaiando a l'aura.
  A l'altro poi, che, per valore il primo,
fu per sorte secondo, in premio diede
per ornamento e per difesa in arme
una lorica che d'antica maglia
e di lucente e rinterzato acciaro,
di massiccio oro avea le fibbie e gli orli.
Questa di Simoenta in su la riva
sotto l'alto Ilio, e di sua propria mano
tolse al vinto Demòleo. Era sí grave,
che da Fegèo e da Sàgari, due forti
e robusti sergenti, ivi condotta
era stata a gran pena; e pur indosso
l'avea Demòleo il dí che combattendo
mise in quella riviera i Teucri in volta.
I terzi doni due gran nappi fôro
di forbito metallo, e due gran coppe,
di puro argento figurate intorno
con mirabile intaglio. E già donati,
e de' lor doni altieri e festeggianti
se ne gian tutti di purpuree bende
le tempie avvinti, e di lentischio adorni;
quando ecco da lo scoglio con grand'arte
e con molta fatica appena svelto
Sergesto, col suo legno infranto e monco
e tarpato de' remi, in vèr la terra
se ne venia disonorato e mesto.
  Com'angue suol, ch'o sia da ruota oppresso
tra la ripa e 'l sentiero, o sia di sasso
dal vïator percosso o di randello,
procacciando fuggir, con lunghe spire
s'arrosta indarno, e inalberato e fiero
dal mezzo in suso arde negli occhi e fischia:
e d'altra parte dilombato e tardo
debilmente guizzando, in se medesmo
si ripiega, s'attorce e si raggroppa:
cosí co' remi la fiaccata nave
se ne gia lenta, e con le vele a volo,
ch'a piene vele alfine in porto aggiunse.
  Ed a Sergesto anco i suoi doni assegna
il padre Enea, di ricovrar contento
il suo buon legno e i suoi fidi compagni,
e furo i doni una Cretese ancella,
Fòloe di nome, e di telaro e d'ago
maestra esperta e da Minerva instrutta,
giovine e bella, e con due figli al petto.
  Questo primo spettacolo compito,
Enea per gli altri una pianura elegge
che di teatro in guisa d'ogn'intorno
ha selve e colli, ed un gran circo avanti,
ove in un palco alteramente estrutto
tra molti mila collocossi in mezzo.
Qui prima al corso i corridori invita
con prezïosi premi, e i premi espone;
e de' Teucri e de' Sicoli mostrârsi
i piú famosi. Appresentossi in prima
Eurïalo con Niso. Un giovinetto
di singolar bellezza Eurïalo era;
e Niso un di lui fido e casto amante.
dopo questi Dïòro. Era costui
del legnaggio di Prïamo un rampollo,
giovine generoso; e Sàlio e Patro
vennero appresso: d'Acarnania l'uno,
d'Arcadia I'altro e del tegèo paese:
e due Sicilïani, Èlimo e Pànope,
ambedue cacciatori, ambi seguaci
del vecchio Aceste; e con questi, altri assai
d'oscura nominanza. A cui nel mezzo
stando il gran padre Enea, cosí ragiona:
  «Nissun da me di questa schiera eletta
andrà senza mie' doni, e parimente
una coppia di dardi avrà ciascuno
di rilucente acciaro, ed una d'oro
e d'argento commesso a l'arabesca
non piú vista bipenne. I principali
tre vincitori i primi pregi avranno,
e fian tutti d'oliva incoronati.
E 'l primiero de' tre d'un buon destriero
sarà provvisto ben guarnito e bello.
L'altro avrà d'un'Amazzone un turcasso
pien di tracie saette, un arco d'osso,
ed un bel cinto, a cui sono ambi appesi,
c'han di gemme il fermaglio e d'òr la fibbia.
Il terzo d'un'argolica celata
se ne vada contento; e sarà questa».
  Ciò detto, e presi i luoghi, e 'l segno dato
s'avventâr da la sbarra: e quasi un nembo
l'un da l'altro dispersi, insieme tutti
volâr, mirando al fine. Il primo avanti
si tragge Niso, e di gran lunga avanti:
ché va di vento e di saetta in guisa.
Prossimo a lui, ma prossimo d'un tratto
molto lontano, è Salio. A Salio, Eurïalo;
Eurïalo ha di poco Èlimo addietro;
ad Èlimo Dïòro appresso tanto
che già sopra gli anela e già l'incalza;
e se 'l corso durava, anco l'arebbe
o prevenuto o pareggiato almeno.
Eran presso a la mèta, ed eran lassi,
quando ne l'erba, pria di sangue intrisa
degli occisi giovenchi, il piè fermando
sinistramente e sdrucciolando a terra
cadde Niso infelice, e 'l volto impresse
nel sacro loto, sí che gramo e sozzo
ne surse poi. Ma del suo amore intanto
non obliossi: ché sorgendo, intoppo
si fece a Salio; onde con esso avvolto
stramazzò ne l'arena: e mentre ei giacque,
Eurïalo del danno e del favore
s'avanzò de l'amico, e de le grida,
con che gli diêr le genti animo e forza:
ond'ei fu 'l primo, ed Èlimo il secondo;
Dïòro il terzo. E tal fin ebbe il corso.
  Ma di rumor se n'empie e di tenzone
il circo tutto; e Salio anzi il cospetto
de' giudici e de' padri or si protesta,
or detesta, or esclama; e del tradito
suo valor si rammarca, e ragion chiede.
In difesa d'Eurïalo a rincontro,
è il favor de la gente, e quel decoro
suo dolce lagrimare, e quell'invitta
forza c'ha la vertú con beltà mista.
Grida Dïòro anch'egli, e lui sovviene,
e se stesso difende, poi ch'il terzo
essere non può quando sia Salio il primo.
  Enea cosí decise: «Aggiate voi,
generosi garzoni, i pregi vostri;
e nulla in ciò de l'ordine si muti:
ch'io supplirò con degna ammenda al caso,
ond'ha fortuna indegnamente afflitto
l'amico mio». Ciò detto, una gran pelle
presenta a Salio d'un leon getúlo,
c'ha il tergo irto di velli e l'unghie d'oro.
E qui Niso: «O signor, - disse, - di tanto
guiderdonate i perditori, e tale
di chi cade pietà vi prende; ed io
di pietà non son degno né di pregio,
io che son di fortuna a Salio eguale,
e di valore a tutti gli altri avanti?»
E ciò dicendo, sanguinoso il volto
e livido mostrossi e lordo tutto.
  Rise il buon padre Enea, poscia un pregiato
e degno scudo, ch'a le porte appeso
era già di Nettuno, ed ei riscosso
l'avea da' Greci, con mirabil arte
dal saggio Didimàone construtto,
venir tosto si fece, e Niso armonne.
  Finiti i corsi e dispensati i doni,
«Or - disse Enea - qual sia che vaglia ed osi
di forza e d'ardimento, al cesto invito.
Chïunque accetta, col suo braccio in alto
si mostri accinto». E ciò dicendo, in mezzo
propon due pregi: al vincitore un toro
di bende il tergo adorno e d'òr le corna:
un elmo ed un cimiero ed una spada
per conforto del vinto. Incontinente
uscio Darete poderoso in campo,
e con gran plauso si mostrò del volgo.
Era Darete un, che, di forze estreme,
fu solo ardito a star con Pari a fronte,
e che a la tomba del famoso Ettorre
in su l'arena il gran Bute distese:
e fu Bute un atleta, anzi un colosso,
di corpo immane, che in Bebrizia nato,
d'Àmico si vantava esser disceso.
Per tal da tutti avuto, e tal comparso
in su la lizza, altero ed orgoglioso
squassò la testa: e, i grandi omeri ignudo,
le muscolose braccia e 'l corpo tutto
brandí piú volte, e menò colpi a l'aura.
  Cercossi un pari a lui, né fu fra tanti
chi rispondesse, o che di cesto armato
s'appresentasse. Ond'ei lieto e sicuro,
come d'ogni tenzon libero fosse,
al toro avvicinossi, e 'l destro corno
con la sinistra sua gli prese, e disse:
«Signor, poiché non è chi meco ardisca
di stare a prova, a che piú bado? e quanto
badar piú deggio? Or di' che 'l pregio è mio
perch'io meco l'adduca». A ciò fremendo
assentirono i Teucri; e già co' gridi
de l'onor lo facean degno e del dono;
quando verso d'Entello il vecchio Aceste,
sí com'egli era in un cespuglio a canto,
si volse: e rampognando: «Ah, - disse - Entello,
tu sei pur fra gli eroi de' nostri tempi
il piú noto e 'l piú forte; e come soffri
ch'un sí gradito pregio or ti si tolga
senza contesa? Adunque è stato invano
fin qui da noi rammemorato e cólto
Èrice, in ciò nostro maestro e dio?
Ov'è la fama tua che ancor si spande
per la Trinacria tutta? Ove son tante
appese a i palchi tue famose spoglie?»
  Rispose Entello: «Né disio d'onore,
né vaghezza di gloria unqua, signore,
mi lasciâr mai, né mai viltà mi prese;
ma l'incarco de gli anni, il freddo sangue,
e la scemata mia destrezza e forza
mi ritraggono addietro. Io quando avessi
o men quei giorni, o non men quel vigore
onde costui di sé tanto presume,
già per diletto mio seco a le mani
sarei venuto, e non dal premio indotto,
ché premio non ne chero. E pur qui sono».
Disse, e sorgendo, due gran cesti e gravi
gittò nel campo, e quelli stessi, ond'era
solito a le sue pugne Èrice armarsi.
Stupîr tutti a quell'armi che di sette
dorsi di sette buoi, di grave piombo
e di rigido ferro eran conserti.
Stupí Darete in prima, e ricusolle
a viso aperto: onde d'Anchise il figlio
le prese avanti, e i lor volumi e 'l pondo
stava mirando, quando il vecchio Entello
cosí soggiunse: «Or che diria costui
se visto avesse i cesti e l'armi stesse
d'Ercole invitto, e l'infelice pugna,
onde in su questo lito Èrice cadde?
D'Èrice tuo fratello eran quest'armi.
Vedi che sono ancor di sangue infette
e d'umane cervella. Il grande Alcide
con queste Èrice assalse: e con quest'io
m'esercitai, mentre le forze e gli anni
eran piú verdi, e non canuti i crini.
Ma poscia che Darete or le rifiuta,
se piace a te, se mel consente Aceste
per cui son qui, di ciò, Troiano ardito,
non vo' che ti sgomenti. Io mi rimetto,
e cedo a queste; e tu cedi a le tue:
combattiam con altr'armi e siam del pari».
Cosí detto spogliossi; e sí com'era
de le braccia, de gli omeri e del collo
e di tutte le membra e d'ossa immane,
quasi un pilastro in su l'arena stette.
  Allora Enea fece due cesti addurre
d'ugual peso e grandezza; ed egualmente
ne fûro armati. In prima su le punte
de' piè l'un contra l'altro si levaro:
brandîr le braccia; ritirârsi in dietro
con le teste alte: in guardia si posaro
or questi, or quelli: al fine ambi ristretti
mischiâr le mani, ed a ferir si diêro.
Era giovine l'uno, agile e destro
in su le gambe: era membruto e vasto
l'altro, ma fiacco in su' ginocchi e lento,
e per lentezza (il fiato ansio scotendo
le gravi membra e l'affannata lena)
palpitando anelava. In molte guise
in van pria si tentaro, e molte volte
s'avvisâr, s'accennaro e s'investiro.
A le piene percosse un suon s'udia
de' cavi fianchi, un rintonar di petti,
un crosciar di mascelle orrendo e fiero.
Cadean le pugna a nembi, e vèr le tempie
miravan la piú parte; e s'eran vòte,
rombi facean per l'aria e fischi e vento.
  Stava Entello fondato; e quasi immoto,
poco de la persona, assai de gli occhi
si valea per suo schermo. A cui Darete
girava intorno, qual chi ròcca oppugna,
quantunque indarno, che per ogni via
con ogni arte la stringe e la combatte.
Alzò la destra Entello, ed in un colpo
tutto s'abbandonò contro Darete;
ed ei, che lo previde, accorto e presto
con un salto schivollo: onde ne l'aura
percosse a vôto, e dal suo pondo stesso
e da l'impeto tratto, a terra cadde.
Tal un alto, ramoso, antico pino
carco de' gravi suoi pomi si svelle
d'un cavo greppo, e con la sua ruina
d'Ida una parte, o d'Erimanto ingombra.
Allor gridò, gioí, temé la gente,
si com'eran de' Siculi e de' Teucri
gli animi e i vóti a i due compagni affetti.
Le grida al ciel ne giro. Aceste il primo
corse per sollevare il vecchio amico;
ma né dal caso ritardato Entello,
né da téma sorpreso, in un baleno
risurse e piú spedito e piú feroce;
ché l'ira, la vergogna e la memoria
del passato valor forza gli accrebbe.
Tornò sopra a Darete, e per lo campo
tutto a forza di colpi orrendi e spessi
lo mise in volta, or con la destra in alto,
or con la manca, senza posa mai
dargli, né spazio di fuggirlo almeno.
  Non con sí folta grandine percuote
oscuro nembo de' villaggi i tetti,
come con infiniti colpi e fieri
sopra Darete riversossi Entello.
Allor il padre Enea, l'un ritogliendo
da maggior ira, e l'altro da stanchezza
e da periglio, entrò nel mezzo; e prima
fermato Entello, a consolar Darete
si rivolse dicendo: «E che follia
ti spinge a ciò? Non vedi a cui contrasti?
Non senti e le sue forze e i numi avversi?
Cedi a dio, cedi». E, cosí detto, impose
fine a l'assalto. I suoi fidi compagni
cosí com'era afflitto, infranto e lasso,
col capo spenzolato, e con la bocca
che sangue insieme vomitava e denti,
lo portaro a le navi; e fu lor dato
l'elmo, il cimiero e la promessa spada.
Rimase al vincitor la palma e 'l toro,
di che lieto e superbo: «O de la dea -
disse - famoso figlio, e voi Troiani,
quinci vedete qual ne' miei verd'anni
fu la mia possa, e da qual morte aggiate
liberato Darete». E, ciò dicendo,
recossi anzi al giovenco, e 'l duro cesto
gli vibrò fra le corna. Al fiero colpo
s'aperse il teschio, si schiacciaron l'ossa,
schizzò 'l cervello; e 'l bue tremante e chino
si scosse, barcollò, morto cadé.
Ed ei soggiunse: «Èrice, a te quest'alma
piú degna di morire offrisco in vece
di quella di Darete, e vincitore
qui 'l cesto appendo, e qui l'arte ripongo».
  Immantinente Enea l'altra contesa
propon de l'arco, e i suoi premi dichiara.
Ma l'albero condur pria de la nave
fa di Sergesto, e ne l'arena il pianta:
suvvi una fune, e ne la fune appende
una viva colomba, e per bersaglio
la pon de le saette e degli arcieri.
Fêrsi i piú chiari avanti, e i nomi loro
del fondo si cavâr d'un elmo a sorte.
Uscio primiero Ippocoonte, il figlio
d'Irtaco generoso, a cui con lieto
grido la gente applause. A lui secondo
fu Memmo, che pur dianzi il pregio ottenne
del naval corso: e Memmo, sí com'era,
di verde oliva incoronato apparve.
Apparve Eurizio il terzo; ed era questi
minor, ma ben di te degno fratello,
Pàndaro glorïoso, che de' Teucri
rompesti i patti, e saettasti in mezzo
a l'oste greca il gran campione argivo.
Ultimo si restò de l'elmo in fondo
il vecchio Aceste, che sí vecchio anch'egli
ardí di porsi a giovenil contrasto.
Tesero gli archi, e trasser le quadrella
da le faretre. A tutti gli altri avanti
d'Irtaco il figlio a saettare accinto
col suon del nervo e del pennuto strale
l'aura percosse e sí dritto fendella
che l'albero investí. Tremonne il legno,
spaventossi l'augello; e d'alte grida
risonò 'l campo e la riviera tutta.
  Memmo vien dopo, e pon la mira, e scocca:
e 'l misero fra' piè colpisce appunto
in su la corda, e ne recide il nodo.
Libera la colomba a volo alzossi,
e per lo ciel veloce a fuggir diessi.
Eurizio allor, ch'avea già l'arco teso
e la cocca in sul nervo, al suo fratello
votossi, e trasse; e ne le nubi stesse
(sí come lieta se ne giva e sciolta)
la ferí sí che con lo strale a terra
cadde trafitta, e lasciò l'alma in cielo.
  Sol vi restava Aceste, a cui la palma
era già tolta: ond'ei scoccò ne l'alto
lo strale a vòto, e la destrezza e l'arte
mostrò nel gesto e nel sonar de l'arco.
Quinci subitamente un mostro apparve
di meraviglia e di portento orrendo;
come si vide, e come interpretato
fu poi da formidabili indovini.
Ché la saetta in su le nubi accesa
quanto volò, tanto di fiamma un solco
si trasse dietro, infin ch'ella nel foco,
e 'l foco in aura dileguossi e sparve.
Tal sovente dal ciel divelta cade
notturna stella, e trascorrendo lascia
dopo sé lungo e luminoso il crine.
A questo augurio attoniti i Sicani
e i Teucri tutti, umilemente a terra
gittârsi, ed agli dii pace chiedero.
Solo Enea per sinistro e per infausto
non l'ebbe; e 'l vecchio Aceste, che gioioso
era di ciò, gioiosamente accolse,
e molti doni appresentogli, e disse:
  «Prendi, padre, da me questi che scevri
dagli altri onori a te destina il cielo
con questi auspici, e questa coppa in prima,
un de' piú cari a me paterni arredi,
e caro e prezïoso al padre mio,
e per l'intaglio, e per la rimembranza
del buon re Cisso, che fra gli altri doni
questo in Tracia gli diè pegno e ricordo
de l'amor suo». Cosí dicendo, il fronte
gli ornò di verde alloro, e dichiarollo
vincitor primo. Né di ciò sentissi
il buon Eurizio offeso, ancor ch'ei solo
fosse de la colomba il feritore.
Di lui fu poscia il guiderdon secondo.
Chi recise la corda ottenne il terzo:
e l'ultim'ebbe chi confisse il legno.
Non era ancor questa contesa al fine,
quando in disparte Epítide chiamando
un che di Iulo era custode e guida:
«Va, - gli disse a l'orecchio, - e fa che Ascanio
si spinga avanti, se le schiere in punto
ha de' fanciulli, e ch'armeggiando onori
la memaria de l'avo». Impone intanto
che la gente s'apparti, e il circo tutto
quanto è largo si sgombri e quant'è lungo.
  Già si mettono in via; già nel cospetto
vengon de' padri i pargoletti eroi
su frenati destrier lucenti e vaghi.
Solo a veder gli abbigliamenti e i gesti,
ne sta di Troia e di Sicilia il volgo
meraviglioso, e ne gioisce e freme.
Parte ha di lor una ghirlanda in testa,
e sotto accolto e raccorciato il crine:
parte ha l'arco e 'l turcasso, e d'oro un fregio
che da le spalle attraversando il petto
sen va di serpe attorcigliato in guisa.
  Eran tutti in tre schiere; avean tre duci,
e ciascun duce conducea di loro
tre volte quattro, e 'n tre luoghi spartiti,
facean pomposa ed ordinata mostra.
L'una de le tre schiere avea per capo
Priamo novello, di Políte il figlio,
e di cui nome avea nipote illustre,
grand'acquisto d'Italia. Il suo destriero
era nato di Tracia d'un mantello
vario, balzàn d'un piè, stellato in fronte.
  Ati fu l'altro, onde i Latini han dato
nome a l'Attia famiglia: un fanciul caro
al garzonetto Iulo. Iulo il terzo,
ma di bellezza e di valore il primo,
cavalcava un corsier che sorïano
era di razza, e de la bella Dido
l'avea per un ricardo e per un pegno
de l'amor suo. Gli altri fanciulli tutti
eran d'Aceste in su' cavalli assisi.
  Con gran letizia, e con gran plauso i Teucri
gli ricevêr come che timidetti
fossero in prima, e le sembianze in loro
avvisaro e 'l valor de' padri stessi.
  Poscia che passeggiando al circo intorno
girârsi in lenta e grazïosa mostra,
si disposero al corso; e mentre accolti
se ne stavano a ciò schierati in fila
da l'un de' capi, Epítide da l'altro
diè lor col suon de la sua sferza il cenno.
Corsero a tre per tre, pari e disgiunti
l'una schiera da l'altra, e rivolgendo
tornâr di dardi e di saette armati.
Indi a cacciarsi, a rincontrarsi, a porsi
in varie assise, ad uno ad uno, a molti,
a tutti insieme, a far volte, rivolte,
e giri e mischie in piú modi si diêro;
or fuggendo, or seguendo; or come infesti
or come amici. In quante guise a zuffa
si viene in campo; in quante si discorre
per le molte intricate e cieche strade
del labirinto che si dice in Creta
esser costrutto; in tante s'aggiraro,
si confusero insieme, e si spartiro
de' Teucri i figli: e tali anco i delfini
per l'Iönio scherzando o per l'Egeo
fan giravolte e scorribande e tresche.
Questi tornïamenti e queste giostre
rinnovò poscia Ascanio, allor ch'eresse
Alba la lunga; appresongli i Latini;
gli mantenner gli Albani; e d'Alba a Roma
fur trasportati, e vi son oggi; e come
e l'uso e Roma e i giuochi derivati
son da' Troiani, hanno or di Troia il nome.
  Questi eran fino a qui del santo vecchio
celebrati al sepolcro onori e ludi,
allor che la fortuna ai Teucri infida
un nuovo storpio agl'infelici ordio:
ché mentre erano in ciò parte occupati,
e tutti intesi, la saturnia Giuno
da l'antico odio spinta, e de' lor danni
non ancor sazia, Iri coi vènti in prima
venir si fece; e poiché instrutta l'ebbe
di ciò ch'er'uopo, a la troiana armata
le commise ch'andasse. Ella veloce
infra mille suoi lucidi colori
occulta ed invisibile calossi.
Vide sul lito una gran gente accolta
da l'un de' lati; il porto abbandonato
da l'altro, e vòti e senza guardia i legni.
Vide poi che da gli uomini in disparte
stavan le donne d'Ilio, il morto Anchise
piangendo anch'esse; e ne' lor pianti il mare
mirando: «Oh - dicean tutte - ancor di tanto,
e con tanti perigli e tanti affanni
ne resta a navigarlo, e siam già vinte
da la stanchezza!», in ciò desio mostrando
di ricetto e di posa, e téma e tedio
di rimbarcarsi. Ella, che a nuocer luogo
e tempo vide accomodato ed atto,
deposto de la dea l'abito e 'l volto,
tra lor si mise, e Bèröe si fece,
una vecchia d'aspetto e d'anni grave,
che del tracio Doríclo era già moglie,
di famiglia, di nome e di figliuoli
matrona illustre; e, tal sembrando, disse:
  «O meschinelle, a cui per man de' Greci
non fu sotto Ilio di morir concesso,
gente infelice, a che strazio, a che scempio
la fortuna vi serba! Ecco già volge
il settim'anno, da che Troia cadde,
che 'l mar, la terra, il ciel, gli uomini, i sassi
avete incontro; e pur Lazio seguite
che vi fugge davanti? Or che vi toglie
di qui fermarvi? Non fûr questi liti
d'un già frate d'Enea? Non son d'Aceste,
ospite nostro? E perché qui non s'erge
la città che dal ciel ne si destina?
O patria! o da' nemici invan ritolti
santi numi Penati! Invano adunque
aspetterem de la novella Troia
le desïate mura! e non fia mai
che piú Xanto veggiamo e Simoenta?
Su, figlie; mano al foco; e queste infauste
navi ardete con me: ch'io da Cassandra
di cosí far son ammonita in sogno.
Ella con un'ardente face in mano
questa notte m'apparve, e m'era avviso
d'esser, com'or son, vosco, e ch'ella vòlta
vêr noi: "Prendete, - ne dicesse - e Troia
cercate qui; ché qui posar v'è dato".
Or questa è nostra patria, e questo è 'l tempo
di compir l'opra che 'l prodigio accenna.
Piú non s'indugi. Ecco Nettuno stesso
con questi quattro a lui sacrati altari
ne dà l'occasïon, l'animo e 'l foco».
  Ciò disse; ed ella in prima un tizzo ardente
rapí da l'are; e 'l braccio alto vibrando
via piú l'accese, e vèr le navi il trasse.
  Confuse ne restaro e stupefatte
le donne d'Ilio; e Pirgo, una di loro
ch'era d'anni maggiore, e fu di molti
figli del gran re Prïamo nutrice:
«Donne, - disse - non è, non è costei
né Troiana, né Bèröe, né moglie
fu di Doríclo: è dea. Notate i segni:
com'arde ne la vista, e quali spira
ne l'andar, ne la voce e nel sembiante
celesti onori. Io pur testé mi parto
da Bèröe, che, di corpo egra, languendo
stassi, e sdegnando che a quest'atto sola
nosco non intervenga». E qui si tacque.
  Le madri paventose e dubbie in prima
con gli occhi biechi rimirâr le navi,
sospese le meschine infra l'amore
di godersi la terra, e la speranza
che perdean de' reami, a cui chiamate
eran dal fato. Intanto alto in su l'ali
la dea levossi, e tra le opache nubi
per entro al suo grand'arco ascese, e sparve.
  Allor dal mostro spaventate, e spinte
da cieca furia, s'avventâr gridando:
e di faci e di frondi e di virgulti
spogliaro altre gli altari, altre infocaro
i legni sí che in un momento appresi
i banchi, i remi e l'impeciate poppe
mandâr fiamme e scintille e fumo al cielo.
Portò di questo incendio Eumelo avviso
là 've al sepolcro era la gente accolta,
e de l'incendio stesso un atro nembo
ne diè fumando e scintillando indizio.
  Ascanio il primo (sí com'era avanti,
duce del corso) al mar si spinse in guisa
che i suoi maestri impallidîr per téma,
e richiamando lo seguiro in vano.
Giunto che fu: «Che furor - disse - è questo?
Dove, dove ne gite? e che tentate,
misere cittadine? Ah! che non questi
de' Greci i legni o gli steccati sono.
Voi di voi stesse le speranze ardete.
Io sono il vostro Ascanio». E qui l'elmetto,
onde a la giostra era comparso armato,
gittossi a' piè. Córsevi intanto Enea:
vi corsero de' Teucri e de' Sicani
le schiere tutte. Allor per téma sparse
le donne per lo lito e per le selve
se ne fuggiro, ed appiattârsi ovunque
ebber di rupi o di spelonche incontro:
ché, pentite del fallo, odiâr la luce,
cangiâr pensieri, e con l'amor de' suoi
Iri del petto disgombrârsi e Giuno.
  Ma non però l'indomito furore
cessò del foco; ché la secca stoppa,
e l'unta pece, e gli aridi fomenti
l'avean fin dentro a le giunture appreso;
onde nel molle, ancor vivo, esalava
un lento fumo, e penetrava i fondi
sí ch'ogni forza, ogni argomento umano,
e 'l mare stesso, che da tante genti
sopra gli si versava, erano in vano.
  Squarciossi Enea da gli omeri la veste
ch'avea lugúbre, e da' celesti aíta
chiedendo, al ciel volse le palme, e disse:
  «Onnipotente Giove, se de' Teucri
ancor non t'è, senza riservo, in ira
la gente tutta, e se, qual sei, pietoso
miri gli umani affanni, a tanto incendio
ritogli, padre, i male addotti legni;
ritogli a morte queste poche afflitte
reliquie de' Troiani; o quel che resta
tu col tuo proprio tèlo, e di tua mano
(se tale è il merto mio) folgora e spegni».
  Ciò disse a pena, che da torbidi Austri,
e da nera tempesta il cielo involto
in disusata pioggia si converse.
Tremaro i campi, si crollaro i monti
al suon de' tuoni: a cateratte aperte
traboccâr da le nubi i nembi e i fiumi.
Cosí sotto dal mar, sovra dal cielo
le già quasi arse navi in mezzo accolte
furon da l'acque: onde le fiamme in prima,
poscia il vapor s'estinse, e tutte spente,
se non se quattro, si salvaro al fine.
  Di sí fero accidente Enea turbato,
molti e gravi pensier tra sé volgendo,
stava infra due, se per suo novo seggio
(posto il fato in non cale) ei s'eleggesse
de la Sicilia i campi, o pur di lungo
cercasse Italia. In ciò Naute, un vecchione,
ch'era (mercé di Pallade e degli anni)
di molta esperïenza e di gran senno,
o fosse ira di dio che lo movesse,
o pur ch'era cosí nel ciel prescritto,
in cotal guisa a suo conforto disse:
  «Magnanimo signor, comunque il fato
ne tragga o ne ritragga, e che che sia,
vincasi col soffrire ogni fortuna.
Aceste è qui, ch'è del dardanio seme
e di stirpe celeste un ramo anch'egli.
Prendi lui per compagno al tuo consiglio,
e con lui ti confedera e t'aduna,
che in grado prenderallo; e tu de' tuoi
ciò che t'avanza per gli adusti legni,
o fastidito è di sí lungo esiglio,
o che langua o che tema, o che sia manco
per etate o per sesso, a lui si lasci,
ch'è pur troiano; ed ei lor patria assegni,
che dal nome di lui si nomi Acesta».
  S'accese al detto del suo vecchio amico
il troian duce; e trapassando d'uno
in un altro pensiero, era già notte,
quando l'imago del suo padre Anchise
veder gli parve, che dal ciel discesa
in tal guisa dicesse: «O figlio, amato
vie piú de la mia vita infin ch'io vissi,
figlio, che segno sei de le fortune,
e del fato di Troia, io qui mandato
son dal gran Giove, che dal ciel pietoso
ti mirò dianzi, e i tuoi legni ritolse
da l'orribile incendio. Attendi al detto
del vecchio Naute, e ne l'Italia adduci
(sí come ei fedelmente ti consiglia)
de la tua gioventú soli i piú scelti,
i piú sani, i piú forti e i piú famosi,
ch'ivi aspra gente e ruvida e feroce
domar convienti. Ma convienti in prima
per via d'Averno, ne l'inferno addurti,
e meco ritrovarti, ov'ora io sono,
figlio, non già nel Tartaro, o fra l'ombre
de le perdute genti; ma felice
tra i felici e tra' pii, per quelli ameni
elisi campi mi diporto e godo.
A questi lochi, allor che molto sangue
avrai di negre pecorelle sparso,
ti condurrà la vergine Sibilla.
Ivi conto saratti il tuo legnaggio,
e 'l tuo seggio fatale: e qui ti lascio,
già che varcato è de la notte il mezzo,
e del nimico sol dietro anelando
i veloci destrier venir mi sento».
E ciò dicendo, allontanossi e sparve.
  «Dove, padre, ne vai, dove t'ascondi? -
dicendo Enea, - chi fuggi? o chi ti toglie
da le mie braccia?» al già sopito foco
si trasse, e lo raccese; e incenso e farro
offrí devoto ai sacrosanti numi
de l'alma Vesta e de' suoi patrii Lari.
  Indi i compagni, e pria di tutti Aceste,
de l'imperio di Giove e de' ricordi
del caro padre incontinente avvisa,
e 'l suo parer ne porge. In un momento
si propon, si consulta, e s'eseguisce.
Aceste non recusa; e già descritti
i nomi de le madri, degl'infermi,
e de le genti che mestiero o cura
avean piú di riposo che di lode,
essi pochi, ma scelti, e guerrier tutti,
rivolti a risarcir gli adusti legni,
rinnovaron le sarte, i remi, i banchi,
e ciò che 'l foco avea corroso ed arso.
  Enea de la città le mura intanto
insolca, e i lochi assegna; e parte Troia,
e parte Ilio ne chiama, e re n'appella
il buon troiano Aceste. Ei lieto il carco
ne prende; indíce il fòro, elegge i padri,
ode, giudica e manda. Allora in cima
de l'Ericinio giogo il gran delúbro
surse a Venere idalia: e i sacerdoti
gli si addissero in prima. Allor s'aggiunse
al tumulo d'Anchise il sacro bosco.
  Avea già nove dí fatti solenni
sarifici e conviti; e 'l mare e i vènti
eran placidi e queti. Austro sovente
spirando, in alto i lor legni invitava,
quando un pianto dirotto per lo lito
levossi, un condolersi, un abbracciarsi
che tutto il dí durò, tutta la notte.
Le meschinelle donne, e quegli stessi,
cui dianzi spaventosa era la faccia
e 'l nome intollerabile del mare,
voglion di nuovo ogni marin disagio
soffrire, e de l'esiglio ogni fatica.
Ma li racqueta e li consola Enea
con dolci modi, e lagrimando alfine
da lor si parte, ed al suo caro Aceste
quanto può caramente gli accomanda.
Poscia, fatta al grand'Èrice in sul lito
di tre giovenchi offerta, e d'un'agnella
a le Tempeste, si rimbarca e scioglie.
Ed ei stesso altamente in su la proda,
cinto il capo d'oliva, una gran tazza
in man si reca, e di lenèo liquore
e di viscere sacre il mare asperge.
  Sorgea da poppa il vento, e le sals'onde
ne gian solcando i remiganti a gara,
quando del figlio Citerea gelosa
Nettuno assalse, e seco querelossi
in cotal guisa: «La grav'ira e l'odio
di Giuno insazïabile m'inchina
ad ogni priego; poscia che né 'l tempo,
né la pietà, né Giove, né 'l destino
acquetar non la ponno. E non le basta
d'aver già Troia desolata ed arsa,
che le reliquie, il nome e l'ossa e 'l cenere
ne perseguita ancora. Ella ne sappia,
ella ne dica la cagione. Io chiamo
te per mio testimon de l'improvisa
micidïal tempesta che pur dianzi
per mezzo de l'eolide procelle
mosse lor contra (tua mercede) invano.
Or ha l'iniqua per le mani stesse
de le teucre matrone i teucri legni
dati sí bruttamente al foco in preda,
perché i meschini, arse le navi loro,
sian di lasciare i lor compagni astretti
per le terre straniere. Or quel che resta,
e ch'a te chieggo, è che il tuo regno omai
sia lor sicuro, e ch'una volta alfine
tocchin del Tebro e di Laurento i campi:
se però quel ch'io chieggo è che dal cielo
al mio figlio si debba, e se quel seggio
ne dan le Parche e 'l Fato». A lei de l'onde
rispose il domatore: «Ogni fidanza
prender puoi, Citerea, ne' regni miei
onde tu pria nascesti. E non son pochi
ancor teco i miei merti; ché piú volte
ho per  Enea l'ira e il furore estinto
e del mare e del cielo. Ed anco in terra
non ebb'io (Xanto e Simoenta il sanno)
de la salute sua cura minore,
allor ch'Achille a le troiane schiere
sí parve amaro, e che fin sotto al muro
le cacciò d'Ilio, e tal di lor fe' strage,
che ne gîr gonfi e sanguinosi i fiumi:
e Xanto da' cadaveri impedito
sboccò ne' campi, e deviò dal mare.
Era quel giorno Enea d'Achille a fronte,
né dii, né forze avea ch'a lui del pari
stessero incontro. Io fui che ne la nube
allor l'ascosi; io che di man ne 'l trassi,
quando piú d'atterrar avea desio
quelle mura odïose e disleali,
che pur de le mie mani eran fattura.
Or ti conforta che vèr lui son io
qual fui mai sempre, e come agogni, il porto
attingerà sicuramente; e 'l lago
vedrà d'Averno, e de' suoi tutti un solo
gli mancherà. Sol un convien che pèra
per condur gli altri suoi lieti e sicuri».
  Poiché di Citerea la mente queta
ebbe de l'onde il padre, i suoi cavalli
giunti insieme e frenati, a lente briglie
sovra de l'alto suo ceruleo carro
abbandonossi, e lievemente scórse
per lo mar tutto. S'adeguaron l'onde,
si dileguâr le nubi: ovunque apparve,
tutto sgombrossi, del suo corso al suono,
ch'avea di torbo il ciel, di gonfio il mare.
  Cingean Nettuno allor da la man destra
torme di pistri e di balene immani,
di Glauco il vecchio coro, e d'Ino il figlio,
e i veloci Tritoni, e tutto insieme
lo stuol di Forco. Da sinistra intorno
gli era Teti, Melite e Panopèa,
Spïo, Nisea, Cimòdoce e Talía.
  Qui per l'amara dipartenza afflitto,
il padre Enea rasserenossi in parte,
e ciò che a navigar facea mestiero
gioiosamente a' suoi compagni impose.
Tirâr l'antenne, inalberâr le vele,
sciolsero, ammaïnâr, calaro, alzaro,
fêr le marinaresche lor bisogne
tutti in un tempo, ed in un tempo insieme
drizzâr le prore al mar, le poppe al vento.
Innanzi a tutti con piú legni in frotta
gia Palinuro, il provvido nocchiero,
e gli altri dietro lui di mano in mano.
  Era l'umida notte a mezzo il cerchio
del ciel salita, e già languidi e stanchi
su i duri legni i naviganti agiati
prendean quïete; quando ecco da l'alte
stelle placido e lieve il Sonno sceso
si fece quanto avea d'aëre intorno
sereno e queto: e te, buon Palinuro,
senza tua colpa, insidïoso assalse,
portando a gli occhi tuoi tenebre eterne.
Ei di Forbante, marinaro esperto,
presa la forma, come noto, appresso
in su la poppa gli si pose, e disse:
«Tu vedi, Palinuro: il mar ne porta
con le stesse onde, e 'l vento ugual ne spira.
Temp'è che pòsi omai: china la testa,
e fura gli occhi a la fatica un poco,
poscia ch'io son qui teco, e per te veglio».
  Cui Palinuro, già gravato il ciglio,
cosí rispose: «Ah! tu non credi adunque
ch'io conosca del mar le perfid'onde,
e 'l falso aspetto? A tale infido mostro
ch'io fidi il mio signore e i legni suoi?
ch'al fallace sereno, a i vènti instabili
presti fede io, che son da lor deluso
già tante volte? E, ciò dicendo, avea
le man ferme al timon, gli occhi a le stelle.
  Il Sonno allora di letèo liquore
e di stigio veleno un ramo asperso
sovra gli scosse, e l'una tempia e l'altra
gli spruzzò sí che gli occhi ancor rubelli
gli strinse, gli gravò, gli chiuse al fine.
  A pena avean le prime gocce infusa
la lor virtú, che 'l buon nocchier disteso
ne giacque: e 'l dio col suo mentito corpo
sopra gli si recò, pinse e sconfisse
un gheron de la poppa, e lui con esso
e col temon precipitò nel mare.
Né gli valse a gridar, cadendo, aíta;
ché l'un qual pesce, e l'altro qual augello,
questi ne l'onda, e quei ne l'aura sparve.
Né l'armata ne gio però men ratta,
né men sicura; ché Nettuno stesso,
come promesso avea, la resse e spinse.
  Era delle Sirene omai solcando
giunta agli scogli, perigliosi un tempo
a' naviganti; onde di teschi e d'ossa
d'umana gente si vedean da lunge
biancheggiar tutti. Or sol, di canti in vece,
se n'ode un roco suon di sassi e d'onde.
Era, dico, qui giunta, allor ch'Enea
al vacillar del suo legno s'accorse
che di guida era scemo e di temone:
ond'egli stesso, infin che 'l giorno apparve,
se ne pose al governo, e 'l caso indegno
del caro amico in tal guisa ne pianse:
«Troppo al sereno, e troppo a la bonaccia
credesti, Palinuro. Or ne l'arena
dal mar gittato in qualche strano lito
ignudo e sconosciuto giacerai,
né chi t'onori avrai, né chi ti copra».


 

 

LIBRO SESTO



  Cosí piangendo disse: e navigando
di Cuma in vèr l'euboïca riviera
si spinse a tutto corso, onde ben tosto
vi furon sopra, e v'approdaro alfine.
Volser le prue, gittâr l'ancore; e i legni,
sí come stêro un dopo l'altro in fila,
di lungo tratto ricovrîr la riva.
  Lieta la gioventú nel lito esperio
gittossi: ed in un tempo al vitto intesi,
chi qua, chi là si diêro a picchiar selci,
a tagliar boschi, a cercar fiumi e fonti.
Intanto Enea verso la ròcca ascese,
ove in alto sorgea di Febo il tempio,
e là dov'era la spelonca immane
de l'orrenda Sibilla, a cui fu dato
dal gran delio profeta animo e mente
d'aprir l'occulte e le future cose.
  Avea di Trivia già varcato il bosco,
quando avanti di marmo ornato e d'oro
il bel tempio si vide. È fama antica
che Dedalo, di Creta allor fuggendo
ch'ebbe ardimento di levarsi a volo
con piú felici e con piú destre penne
che 'l suo figlio non mosse, il freddo polo
vide piú presso; e per sentier non dato
a l'uman seme, a questo monte alfine
del calcidico seno il corso volse.
Qui giunto e fermo, a te, Febo, de l'ali
l'ordigno appese, e 'l tuo gran tempio eresse,
ne le cui porte era da l'un de' lati
d'Andrògëo la morte, e quella pena
che di Cècrope i figli a dar costrinse
sette lor corpi a l'empio mostro ogn'anno:
miserabil tributo! e v'era l'urna,
onde a sorte eran tratti. Eravi Creta
da l'altro lato, alto dal mar levata,
ch'avea del tauro istorïata intorno
e di Pasífe il bestïale amore,
e la bestia di lor nata biforme,
di sí nefando ardor memoria infame.
Eravi l'intricato laberinto:
eravi il filo, onde gl'intrighi suoi
e le sue cieche vie Dedalo stesso,
per pietà ch'ebbe a la regina, aperse.
E tu, se 'l pianto del tuo padre e 'l duolo
nol contendea, saresti, Icaro, a parte
di sí nobil lavoro. Ma due volte
tentò ritrarti in oro, ed altrettante
sí l'abborrí, che l'opera e lo stile
di man gli cadde. Era con gli altri Enea
tutto a mirar sospeso, quando Acate
tornò, ch'era precorso, e seco addusse
Deïfobe di Glauco, una ministra
di Dïana e d'Apollo. Ella rivolta
al frigio duce: «Non è tempo, - disse, -
ch'a ciò si badi. Or è d'offrir mestiero
sette non domi ancor giovenchi, e sette
negre pecore elette». E ciò spedito
tosto, come s'impose, ella nel tempio
seco i Teucri condusse. È da l'un canto
dell'euboïca rupe un antro immenso
che nel monte penètra. Avvi d'intorno
cento vie, cento porte; e cento voci
n'escono insieme, allor che la Sibilla
le sue risposte intuona. Era a la soglia
il padre Enea, quando: «Ora è 'l tempo - disse
la vergine. - Di', di'; chiedi tue sorti:
ecco lo dio ch'è già comparso e spira».
Ciò dicendo, de l'antro in su la bocca
in piú volti cangiossi e in piú colori;
sconmpigliossi le chionme; aprissi il petto;
le batté 'l fianco, e 'l cor di rabbia l'arse.
Parve in vista maggior; maggior il tuono
fu che d'umana voce; e poiché 'l nume
piú le fu presso: «A che badi, - soggiunse -
figlio d'Anchise? Se non di', non s'apre
questa di Febo attonita cortina».
E qui si tacque. Orror per l'ossa e gelo
corse allor de' Troiani; e 'l teucro duce
infin de l'imo petto orò dicendo:
  «Febo, la cui pietà mai sempre a Troia
fu propizia e benigna, onde di Pari
già reggesti la man, drizzasti il tèlo
contro al corpo d'Achille, io, dal tuo lume
scòrto fin qui, tanto di mare ho corso,
tante terre ho girate, a tanti rischi
mi son esposto; insino a le remote
massíle genti, insin dentro a le Sirti
son penetrato; ed or, per tua mercede,
di questa fuggitiva Italia il lito
ecco già tocco, e ci son giunto al fine.
Ah, che questo sia il fine, e qui rimanga
l'infortunio di Troia! È tempo omai,
dii tutti e dee, cui la dardania gente
unqua fece onta, che perdono e pace
le concediate. E tu, vergine santa,
del futuro presaga, or ne dimostra
il seggio e 'l regno che ne dànno i fati
(se pur nel dànno) ove i Troiani afflitti,
ove di Troia i travagliati numi,
e i dispersi Penati alberghi e posi;
ch'allor di saldo marmo a Trivia, a Febo
ergerò i templi, e del suo nome i ludi
consacrerolli, e i dí fèsti e solenni;
ed ancor tu nel nostro regno avrai
sacri luoghi reposti, ove serbati
per lumi e specchi a le future genti
da venerandi a ciò patrizi eletti
saranno i detti e i vaticini tuoi.
Quel che prima ti chieggio è che i tuoi carmi
s'odan per la tua lingua, e non che in foglie
sian da te scritti, onde ludibrio poi
sian di rapidi vènti». E piú non disse.
  Ella già presa, ma non doma ancóra
dal febèo nume, per di sotto trarsi
a sí gran salma, quasi poltra e fiera
scapestrata giumenta, per la grotta
imperversando e mugolando andava.
Ma com' piú si scotea, piú dal gran dio
era affrenata, e le rabbiose labbia
e l'efferato core al suo misterio
piú mansueto e piú vinto rendea.
Eran da lor già della grotta aperte
le cento porte, allor ch'ella gridando
cosí mandò la sua risposta a l'aura:
  «Compíti son del mar tutti i pericoli;
restan quei de la terra, che terribili
saran veracemente e formidabili.
Verranno i Teucri al regno di Lavinio:
di ciò t'affido. Ma ben tosto d'esservi
si pentiranno. Guerre, guerre orribili
sorger ne veggio, e pien di sangue il Tevere.
Saravvi un altro Xanto, un altro Simoi,
altri Greci, altro Achille, che progenie
ancor egli è di dea. Giuno implacabile
allor piú ti sarà, che supplichevole
andrai d'Italia a quai non terre o popoli
d'aíta mendicando e di sussidii!
E fian di tanto mal di nuovo origine
d'esterna moglie esterne sponsalizie.
Ma 'l tuo cor non paventi, anzi con l'animo
supera le fatiche e gl'infortunii;
ché tua salute ancor da terra argolica
(quel che men credi) avrà lume e principio».
  Questi intricati e spaventosi detti
dal piú reposto loco alto mugghiando,
la cumèa profetessa empiea lo speco
d'orribil tuoni: e come il suo furore
era da Febo raffrenato o spinto,
o dal suo raggio avea barbaglio o lume,
cosí miste le tenebre col vero
sciogliea la lingua, e disgombrava il petto.
Poiché la furia e la rabbiosa bocca
quetossi, Enea ricominciando, disse:
«Vergine, a me nulla si mostra omai
faccia né di fatica né d'affanno,
che mi sia nuova, o non pensata in prima.
Tutto ho previsto, tutto ho presentito,
che da te m'è predetto; e tutto io sono
a soffrir preparato. Or sol ti chieggio
(poscia che qui si dice esser l'intrata
de' regni inferni, e d'Acheronte il lago)
che per te quinci nel cospetto io venga
del mio diletto padre; e tu la porta,
tu 'l sentier me ne mostra, e tu mi guida.
Io lui dal fuoco e da mill'armi infeste
tratto ho di mezzo a le nimiche schiere
su queste spalle; ed ei scorta e compagno
del mio viaggio e del mio esiglio, meco
i perigli, i disagi e le tempeste
del mar, del cielo e de l'età soffrendo,
vèglio, debile e stanco ha me seguíto;
ed egli stesso m'ha nel sonno imposto
che a te ne venga, e per tuo mezzo a lui
mi riconduca. Abbi pietà, ti priego,
e del padre e del figlio; ed ambi insieme,
come puoi (che puoi tutto), or ne congiungi:
ch'Ècate non indarno a queste selve
t'ha d'Averno preposta. Il tracio Orfeo
(sola mercé de la sonora cetra)
scender potevvi, e richiamarne in vita
l'amata donna. Ne poté Polluce
ritrarre il frate, ed a vicenda seco
vita e morte cangiando, irvi e redirvi
tante fïate. Andovvi Tèseo; andovvi
il grande Alcide; ed ancor io dal cielo
traggo principio, e son da Giove anch'io».
  Cosí pregando avea le braccia avvinte
al sacro altare, allor che la Sibilla
a dir riprese: Enea, germe del cielo,
lo scender ne l'Averno è cosa agevole
ché notte e dí ne sta l'entrata aperta;
ma tornar poscia a riveder le stelle,
qui la fatica e qui l'opra consiste.
Questo a pochi è concesso, ed a quei pochi
ch'a Dio son cari, o per uman valore
se ne poggiano al cielo. A questi è dato
come a' celesti. Il loco tutto in mezzo
è da selve intricato, e da negre acque
de l'infernal Cocíto intorno è cinto.
Ma se tanto disio, se tanto amore
t'invoglia di veder due volte Stige
e due volte l'abisso, e soffrir osi
un cosí grave affanno, odi che prima
oprar convienti. È ne la selva opaca,
tra valli oscure e dense ombre riposto
e ne l'arbore stesso un lento ramo
con foglie d'oro, il cui tronco è sacrato
a Giuno inferna: e chi seco divelto
questo non porta, ne' secreti regni
penetrar di Plutone unqua non pote.
Ciò la bella Prosèrpina comanda,
che per suo dono il chiede; e svèlto l'uno,
tosto l'altro risorge, e parimente
ha la sua verga e le sue chiome d'oro.
Entra nel bosco, e con le luci in alto
lo cerca, il trova, e di tua man lo sterpa;
ch'agevolmente sterperassi, quando
lo ti consenta il fato. In altra guisa
né con man, né con ferro, né con altra
umana forza mai fia che si schianti,
o che si tronchi. Oltre di ciò, nel lito
(mentre qui badi e la risposta attendi)
giace, lasso! d'un tuo, che tu non sai,
disanimato e non sepolto un corpo,
che tutti rende i tuoi legni funesti.
A questo procurar seggio e sepolcro
pria converratti. Or per sua purga in prima
negre pecore adduci; e 'n cotal guisa
vedrai gli elisi campi, e i stigi regni
cui vedere a' mortali anzi a la morte
non è concesso». E qui la bocca chiuse.
  Enea gli occhi abbassando, afflitto e mesto
de l'antro uscio, tra se stesso volgendo
l'oscure profezie. Giva con lui
il fido Acate, e con lui parimente
traea pensieri e passi. Erano entrambi
ragionando in pensar di qual amico,
di qual corpo insepolto ella parlasse,
che coprir si dovesse: allor che giunti
nel secco lito in su l'arena steso
vider Miseno indegnamente estinto;
Miseno il figlio d'Eolo, ch'araldo
era supremo e col suo fiato solo
possente a suscitar Marte e Bellona.
Era costui del grand'Ettòr compagno,
e de' piú segnalati intorno a lui
combattendo, or la tromba ed or la lancia
adoperava: e poi che 'l fiero Achille
Ettore ancise, come ardito e fido,
seguí l'arme d'Enea: ché non fu punto
inferiore a lui. Stava sul mare
sonando il folle con Tritone a gara,
quando da lui, ch'astio sentinne e sdegno
(se creder dêssi), insidïosamente
tratto giú da lo scoglio ov'era assiso,
fu ne l'onde sommerso. Al corpo intorno
convocati già tutti, amaro pianto
ed alte strida insieme ne gittaro;
e piú de gli altri Enea. Poscia seguendo
quel ch'era lor da la Sibilla imposto,
gli apprestaron l'esequie. Entrâr nel bosco,
di fere antico albergo; ed elci ed orni
e frassini atterrando, alzâr gli altari;
poser la tomba, fabbricâr la pira,
e la spinsero al cielo. Il frigio duce
fra le sue schiere di bipenne armato
a par degli altri, e piú di tutti ardente,
di propria mano adoperando, a l'opra
esortava i compagni; e fra se stesso
pensoso, inverso il bosco il guardo inteso,
cosí pregava: «Oh se quel ramo d'oro
ne si scoprisse in questa selva intanto,
come n'ha la Sibilla, ahimè, pur troppo
di te, Miseno, annunzïato il vero!»
  Ciò disse a pena, ed ecco da traverso
due colombe venir dal ciel volando,
ch'avanti a lui sul verde si posaro.
Conobbe il magno eroe le messaggiere
de la sua madre, e lieto orando: «O, - disse, -
siatemi guide voi, materni augelli,
s'a ciò sentier si truova; ite per l'aura
drizzando il nostro corso, ov'è de l'ombra
del prezïoso arbusto il bosco opaco.
E tu, madre benigna, in sí dubbioso
passo, del lume tuo ne porgi aíta».
E, ciò detto, fermossi. Elle pascendo,
andando, saltellando, a scosse, a volo,
quanto l'occhio scorgea, di mano in mano
giunsero ove d'Averno era la bocca:
e 'l tetro alito suo schivando, in alto
ratte l'ali spiegaro, e dal ciel puro
al desïato loco in giú rivolte,
si posâr sopra a la gemella pianta;
indi tra frondi e frondi il color d'oro,
che diverso dal verde uscia raggiando,
di tremulo splendor l'aura percosse.
  Come ne' boschi al brumal tempo suole
di vischio un cesto in altrui scorza nato
spiegar verdi le frondi e gialli i pomi,
e con le sue radici ai non suoi rami
abbarbicarsi intorno; cosí 'l bronco
era de l'oro avviticchiato a l'elce,
ond'era surto, e cosí lievi al vento
crepitando movea l'aurate foglie.
Tosto che 'l vide Enea, di piglio dielli,
e disïoso, ancor che duro e valido
gli sembrasse, a la fin lo svelse; e seco
a l'indovina vergine lo trasse.
  Non s'intermise di Miseno in tanto
condur l'esequie al suo cenere estremo.
E primamente la gran pira estrutta,
di pingui tede e di squarciati roveri
v'alzâr cataste: di funeste frondi,
d'atri cipressi ornâr la fronte e i lati,
e piantâr ne la cima armi e trofei.
Parte di loro al foco, e parte a l'acque,
e parte intorno al freddo corpo intenti,
chi lo spogliò, chi lo lavò, chi l'unse.
  Poiché fu pianto, in una ricca bara
lo collocaro, e di purpuree vesti
de' suoi piú noti e piú graditi arnesi
gli feron fregi e mostre e monti intorno.
Altri (pietoso e tristo ministero)
il gran feretro agli omeri addossârsi;
altri, com'è de' piú stretti congiunti
antica usanza, vòlti i volti indietro,
tenner le faci, e diêr foco a la pira;
e gran copia d'incenso e di liquori
e di cibi e di vasi ancor con essi,
sí come è l'uso antico, entro gittârvi.
  Poiché cessâr le fiamme, e 'ncenerissi
il rogo e 'l corpo; le reliquie e l'ossa
furon da Corinèo tra le faville
ricerche e scelte; e di vin puro asperse,
poi di sua mano acconciamente in una
di dorato metallo urna reposte.
Lo stesso Corinèo tre volte intorno
con un rampollo di felice oliva
spruzzando di chiar'onda i suoi compagni,
li purgò tutti, e 'l vale ultimo disse.
Oltre a ciò, fece Enea per suo sepolcro
ergere un'alta e sontuosa mole,
e l'armi e 'l remo e la sonora tuba
al monte appese, che d'Aërio il nome
fino allor ebbe, ed or da lui nomato
Miseno è detto, e si dirà mai sempre.
Ciò finito, a finir quel che gl'impose
la profetessa, incontinente mosse.
  Era un'atra spelonca, la cui bocca
fin dal baratro aperta, ampia vorago
facea di rozza e di scheggiosa roccia.
Da negro lago era difesa intorno,
e da selve ricinta annose e folte.
Uscia de la sua bocca a l'aura un fiato
anzi una peste, a cui volar di sopra
con la vita agli uccelli era interdetto;
onde da' Greci poi si disse Averno.
  Qui pria quattro giovenchi Enea condotti
di negro tergo, la Sibilla in fronte
riversò lor di vin le tazze intere;
e da ciascun di mezzo le due corna
di setole maggiori il ciuffo svèlto,
diè per saggio primiero al santo foco,
Ecate ad alta voce in ciò chiamando,
de l'Erebo e del ciel nume possente.
Parte di lor con le coltella in mano
le vittime svenando, e parte in vasi
stava il sangue accogliendo. Egli a la Notte,
che de le Furie è madre, ed a la Terra
ch'è sua sorella, con la propria spada
di negro vello un'agna, ed una vacca
sterile a te, Proserpina, percosse.
Poscia a l'imperador de' regni inferni
notturni altari ergendo, i tauri interi
sopra a le fiamme impose, e di pingue olio
le bollenti lor viscere consperse.
  Ed ecco a l'apparir del primo sole
mugghiò la terra, si crollaro i monti,
si sgominâr le selve, urlâr le Furie
al venir de la dea». «Via, via profani, -
gridò la profetessa, - itene lunge
dal bosco tutto; e tu meco te n'entra,
e la tua spada impugna. Or d'uopo, Enea,
fa d'animo e di cor costante e fermo».
Ciò disse, e da furor spinta, con lui,
ch'adeguava i suoi passi arditamente,
si mise dentro a le secrete cose.
  O dii, che sopra l'alme imperio avete,
o tacit'ombre, o Flegetonte, o Cao,
o ne la notte e nel silenzio eterno
luoghi sepolti e bui, con pace vostra
siami di rivelar lecito a' vivi
quel ch'ho de' morti udito. Ivan per entro
le cieche grotte, per gli oscuri e vòti
regni di Dite; e sol d'errori e d'ombre
avean rincontri: come chi per selve
fa notturno viaggio, allor che scema
la nuova luna è da le nubi involta,
e la grand'ombra del terrestre globo
priva di luce e di color le cose.
  Nel primo entrar del doloroso regno
stanno il Pianto, l'Angoscia, e le voraci
Cure, e i pallidi Morbi e 'l duro Affanno
con la debil Vecchiezza. Evvi la Téma,
evvi la Fame: una ch'è freno al bene,
l'altra stimolo al male: orrendi tutti
e spaventosi aspetti. Avvi il Disagio,
la Povertà, la Morte, e, de la Morte
parente, il Sonno. Avvi de' cor non sani
le non sincere Gioie. Avvi la Guerra,
de le genti omicida, e de le Furie
i ferrati covili, il Furor folle,
l'empia Discordia, che di serpi ha 'l crine,
e di sangue mai sempre il volto intriso.
  Nel mezzo erge le braccia annose al cielo
un olmo opaco e grande, ove si dice
che s'annidano i Sogni, e ch'ogni fronda
v'ha la sua vana imago e 'l suo fantasma.
Molte, oltre a ciò, vi son di varie fere
mostruose apparenze. In su le porte
i biformi Centauri, e le biformi
due Scille: Brïarèo di cento doppi;
la Chimera di tre, che con tre bocche
il fuoco avventa: il gran serpe di Lerna
con sette teste; e con tre corpi umani
Erilo e Gerïone; e con Medusa
le Górgoni sorelle; e l'empie Arpie,
che son vergini insieme, augelli e cagne.
  Qui preso Enea da súbita paura
strinse la spada, e la sua punta volse
incontro a l'ombre; e se non ch'ombre e vite
vòte de' corpi e nude forme e lievi
conoscer ne le fe' la saggia guida,
avrebbe impeto fatto, e vanamente
in vane cose ardir mostro e valore.
  Quinci preser la via là 've si varca
il tartareo Acheronte. Un fiume è questo
fangoso e torbo, e fa gorgo e vorago,
che bolle e frange, e col suo negro loto
si devolve in Cocito. È guardiano
e passeggiero a questa riva imposto
Caron demonio spaventoso e sozzo,
a cui lunga dal mento incolta ed irta
pende canuta barba. Ha gli occhi accesi
come di bragia. Ha con un groppo al collo
appeso un lordo ammanto; e con un palo,
che gli fa remo, e con la vela regge
l'affumicato legno, onde tragitta
su l'altra riva ognor la gente morta.
Vecchio è d'aspetto e d'anni; ma di forze,
come dio, vigoroso e verde è sempre.
  A questa riva d'ogn'intorno ognora
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado
a schiere si traean l'anime spente,
e de' figli anco innanzi a' padri estinti.
Non tante foglie ne l'estremo autunno
per le selve cader, non tanti augelli
si veggon d'alto mar calarsi a terra,
quando il freddo li caccia ai liti aprichi,
quanti eran questi. I primi avanti orando
chiedean passaggio, e con le sporte mani
mostravan il disio de l'altra ripa:
ma 'l severo nocchiero or questi or quelli
scegliendo o rifiutando, una gran parte
lunge tenea dal porto e da l'arena.
  Enea la moltitudine, e 'l tumulto
meravigliando: «Ond'è, vergine, - disse -
questo concorso al fiume? e qual disio
mena quest'alme? e qual grazia o divieto
fa che queste dan volta, e quelle approdano?»
  A ciò la profetessa brevemente
cosí rispose: «Enea, stirpe divina
veracemente (che di ciò n'accerta
il qui vederti), là Cocito stagna;
quinci va Stige, la palude e 'l nume
per cui di spergiurar fino a gli dèi
del cielo è formidabile e tremendo.
Questi è Caronte, il suo tristo nocchiero:
quella turba che passa, è de' sepolti:
questa che torna, è de' meschini estinti
che né tomba, né lacrime, né polve
ebber morendo. A lor non è concesso
traiettar queste ripe e questo fiume,
se pria l'ossa non han seggio e coverchio.
Erran cent'anni vagolando intorno
a questi liti, e 'l desïato stagno
visitando sovente, infin ch'al passo
non sono ammessi». Enea di ciò pensando,
mosso a pietà de la lor sorte iniqua,
fermossi; ed ecco incontro gli si fanno
mesti, d'esequie privi e di sepolcro,
Leucaspi, e 'l conduttor de' Lici Oronte,
ambi Troiani, ambi dal vento insieme
coi Lici tutti, e con l'intera nave
nel mar sommersi. Appresso Palinuro,
il gran nocchier de la troiana armata,
che dianzi nel tornar di Libia, il cielo
e le stelle mirando, in mar fu tratto.
A costui si rivolse, e poiché l'ebbe
per entro una grand'ombra a pena scorto,
cosí prima gli disse: «O Palinuro,
e qual fu de gli dèi ch'a noi ti tolse,
ed a l'onde ti diede? Or lo mi conta:
ché deluso da Febo unqua non fui,
se non se in te: Febo predisse pure
che tu nosco del mar securo e salvo
Italia attingeresti. Ah! dunque un dio,
e dio del vero, in tal guisa ne froda?»
  Rispose Palinuro: «Inclito duce,
né l'oracol d'Apollo ha te deluso,
né l'ira ha me di dio nel mar sommerso;
ché 'l temone, ond'io mai non mi divelsi
per tua salute, ancor per man ritenni
allor ch'in mare io caddi. Io giuro, Enea,
per l'onde irate, che di me non tanto,
quanto del tuo periglio ebbi timore,
che non la nave tua, del mio governo
spogliata e del suo freno, al mar già gonfio
restasse in preda. Austro tre notti intere
con la sua correntia per l'ampio mare
mi trasse a forza. Il quarto giorno a pena
discoverta l'Italia, a poco a poco
m'accostava a la terra; e giunto omai
cosí com'era ancor di veste grave,
e stanco e molle, con l'adunche mani
m'aggrappava a la ripa, e salvo fôra:
se non ch'ignara e fera gente incontro,
com'a preda marina, mi si fece,
e col ferro m'ancise. Or lungo ai liti
vassene il corpo mio ludibrio a' vènti,
e scherzo a' flutti. Ed io, signore invitto,
per la superna luce, per quell'aura
onde si vive, per tuo padre Anchise,
per le speranze del tuo figlio Iulo,
priegoti a sovvenirmi; o che di terra
mi cuopra (come puoi) cercando il corpo
per la spiaggia di Velia, o in altra guisa,
s'altra ne ti sovviene, o ti si mostra
da la tua diva madre; ché non senza
nume divino un tal passaggio imprendi.
Porgimi la tua destra, e teco trammi
oltre a quell'acque, perché morto almeno
pace truovi e riposo». Avea ciò detto,
quando cosí la vergine rispose:
  «Ah, Palinuro, e qual dira follia
a ciò t'invoglia? Non sepolto adunque
l'acque di Stige e la severa foce
traiettar de l'Eumènidi presumi?
Tu di qui tôrti a l'altra riva intendi
senza commiato? Indarno, indarno speri
che per nostro pregar fato si cangi.
Ma con questo t'acqueta, e ti conforta
de l'infortunio tuo: ché quelle terre
vicine al luogo, ove il tuo corpo giace,
da pestilenza e da prodigi astrette,
lo raccôrranno, e con solenne rito
gli faran sacrifici, esequie e tomba;
e da te per innanzi avrà quel loco
di Palinuro eternamente il nome».
Lieto d'un tanto onore, e consolato
da tale annunzio, il travagliato spirto
restò contento ed appagato in parte.
  Indi il cammin seguendo, a la riviera
s'approssimaro; e il passeggier da lunge,
poiché senza far motto entro a la selva
passar gli vide e 'ndirizzarsi al vado:
«Olà, ferma costí, - disse gridando -
qual che tu sei, ch'al nostro fiume armato
ten vai sí baldanzoso; e di costinci
di' chi sei, quel che cerchi, e perché vieni:
ché notte solamente e sonno ed ombre
han qui ricetto, e non le genti vive,
cui di varcare al mio legno non lece.
E s'Ercole e Tesèo e Piritòo
già v'accettai, scorno e dolore n'ebbi;
ché l'un d'essi il tartarëo custode
incatenovvi, e, di sotto anco al seggio
del proprio re, tremante a l'aura il trasse;
e gli altri alfin dal maritale albergo
rapir di Dite la regina osaro».
  «Nulla di queste insidie - gli rispose
la profetessa - a macchinar si viene.
Stanne sicuro; e quest'arme a difesa
si portan solamente, e non ad onta.
Spaventi il can trifauce a suo diletto
le pallid'ombre; eternamente latri
ne l'antro suo; col suo marito e zio
si stia casta Prosèrpina mai sempre,
ché di nulla cen cale. Enea troiano
è questi, di pietà famoso e d'armi,
che per disio del padre infino al fondo
de l'Èrebo discende; e se l'esempio
di tanta carità non ti commove,
questo almen riconosci». E, fuor del seno
d'oro il tronco traendo, altro non disse.
  Ei, rimirando il venerabil dono
de la verga fatal, già di gran tempo
non veduto da lui, l'orgoglio e l'ira
tosto depose, e la sua negra cimba
a lor rivolse, e ne la ripa stette.
Indi i banchi sgombrando e 'l legno tutto,
l'anime, che già dentro erano assise,
con súbito scompiglio uscir ne fece,
e 'l grand'Enea v'accolse. Allor ben d'altro
parve che d'ombre carco; e sí com'era
mal contesto e scommesso, cigolando
chinossi al peso, e piú d'una fissura
a la palude aperse. Alfin pur salvi
ne l'altra ripa, tra le canne e i giunchi,
sul palustre suo limo ambi gli espose.
  Giunti che furo, il gran Cèrbero udiro
abbaiar con tre gole, e 'l buio regno
intonar tutto; indi in un antro immenso
sel vider pria giacer disteso avanti,
poi sorger, digrignar, ràbido farsi,
con tre colli arruffarsi, e mille serpi
squassarsi intorno. Allor la saggia maga,
tratta di mèle e d'incantate biade
una tal soporifera mistura,
la gittò dentro a le bramose canne.
Egli ingordo, famelico e rabbioso
tre bocche aprendo, per tre gole al ventre
trangugiando mandolla, e con sei lumi
chiusi dal sonno, anzi col corpo tutto
giacque ne l'antro abbandonato e vinto.
  Cèrbero addormentato, occupa Enea
d'Èrebo il passo, e ratto s'allontana
dal fiume, cui chi varca unqua non riede.
  Sentono al primo entrar voci e vagiti
di pargoletti infanti, che dal latte
e da le culle acerbamente svèlti,
vider ne' primi dí l'ultima sera.
Varcano appresso i condannati e morti
senza lor colpa, e non senza compenso
di giudizio e di sorti. Han quelle genti
cosí disposti e divisati i lochi.
  Sta Minos ne l'entrata, e l'urna avanti
tien de' lor nomi, e le lor vite esamina,
e le lor colpe; e quale è questa o quella,
tal le dà sito, e le rauna e parte.
  Passan di mano in mano a quei che feri
incontro a sé, la luce in odio avendo
e l'alme a vile, anzi al prescritto giorno
si son da loro indegnamente ancisi.
Ma quanto ora vorrebbono i meschini
esser di sopra, e povertà, vivendo,
soffrire e de la vita ogni disagio!
Ma 'l fato il niega, e nove volte intorno
Stige odïosa li ristringe e fascia.
  Quinci non lunge si distende un'ampia
campagna che del Pianto è nominata;
per cui fra chiusi colli e fra solinghe
selve di mirti, occulte se ne vanno
l'alme, c'ha feramente arse e consunte
fiamma d'amor, ch'ancor ne' morti è viva.
  Qui vider Fedra e Procri ed Erifíle,
infida moglie e sfortunata madre,
di cui fu parricida il proprio figlio;
vider Laodamía, Pasífe, Evadne,
e Cènëo con esse, che di donna
in uomo, e d'uomo alfin cangiossi in donna.
  Era con queste la fenissa Dido,
che, di piaga recente il petto aperta,
per la gran selva spazïando andava.
Tosto che le fu presso, Enea la scòrse
per entro a l'ombre, qual chi vede o crede
veder tal volta infra le nubi e 'l chiaro
la nova luna, allor che i primi giorni
del giovinetto mese appena spunta;
e di dolcezza intenerito il core,
dolcemente mirolla e pianse e disse:
  «Dunque, Dido infelice, e' fu pur vera
quell'empia che di te novella udii,
che col ferro finisti i giorni tuoi?
Ah, ch'io cagion ne fui! Ma per le stelle,
per gli superni dèi, per quanta fede
ha qua giú, se pur v'ha, donna, ti giuro
che mal mio grado dal tuo lito sciolsi.
Fato, fato celeste, imperio espresso
fu del gran Giove, e quella stessa forza,
che da l'eteria luce a questi orrori
de la profonda notte or mi conduce,
che da te mi divelse; e mai creduto
ciò di me non avrei, che 'l partir mio
cagion ti fosse ond'a morir ne gissi.
Ma ferma il passo, e le mie luci appaga
de la tua vista. Ah, perché fuggi? e cui?
Quest'è l'ultima volta, ohimè! che 'l fato
mi dà ch'io ti favelli, e teco sia».
  Cosí dicendo e lagrimando intanto
placar tentava o raddolcir quell'alma,
ch'una sol volta disdegnosa e torva
lo rimirò; poscia o con gli occhi in terra,
o con gli omeri vòlta, a i detti suoi
stette qual alpe a l'aura, o scoglio a l'onde.
Alfin, mentre dicea, come nimica
gli si tolse davanti, e ne la selva
al suo caro Sichèo, cui fiamma uguale
e par cura accendea, si ricondusse.
Né però men dolente, e men pietoso
restonne il teucro duce; anzi quant'oltre
poté con gli occhi, e lungo spazio poi
col pianto e coi sospiri accompagnolla.
Poscia tornando al suo fatal vïaggio
giunse là 've accampata era in disparte
gente di ferro e di valore armata.
Qui 'l gran Tideo, qui 'l gran figlio di Marte
Partenopèo, qui del famoso Adrasto
la pallid'ombra incontro gli si fece.
Quinci de' suoi piú nobili Troiani
un gran drappello avanti gli comparve.
Pianse a veder quei glorïosi eroi,
tanto di sopra disïati e pianti,
come Glauco, Tersíloco, Medonte,
i tre figli d'Antenore, il sacrato
a Cerere ministro Polibete,
e 'l chiaro Idèo con l'armi anco e col carro.
Fatto gli avean costor chi da man destra,
chi da sinistra una corona intorno.
Né d'averlo veduto eran contenti,
ché ciascun desïava essergli appresso,
ragionar, passeggiar, far seco indugio,
e spïar come e d'onde e perché venne.
  Ma degli Argivi e le falangi e i duci,
quand'egli apparve, e che tra lor ne l'ombre
i lampi folgorâr de l'armi sue,
da gran timor furo assaliti; e parte
volser le terga, come già fuggendo
verso le navi, e parte alzâr le voci
che per téma sembrâr languide e fioche.
  Deífobo, di Prïamo il gran figlio,
vide ancor qui, che crudelmente anciso
in disonesta e miserabil guisa
avea le man, gli orecchi, il naso e 'l volto
lacerato, incischiato e monco tutto.
Per temenza il meschino e per vergogna
d'esser veduto, con le tronche braccia
un sí brutto spettacolo celando,
indarno si facea schermo e riparo;
ch'al fin lo riconobbe, e con l'usata
domestichezza incontro gli si fece,
cosí dicendo: «Poderoso eroe,
gran germoglio di Teucro, e chi sí crudo
fu mai, chi tanto osò, cui si permise
che facesse di te strazio sí fiero?
La notte che seguí l'orribil caso
de la nostra ruina, io di te seppi
ch'assaliti i nemici e di lor fatta
strage che memorabile fia sempre,
tra le caterve de' lor corpi estinti,
stanco via piú che vinto, alfin cadesti;
ed allor io di Reto in su la riva
a l'ombra tua con le mie mani un vòto
sepolcro eressi, e te gridai tre volte:
e 'l nome e l'armi tue riserba ancora
il loco stesso. Io te, dolce signore,
né veder, né coprir di patria terra
avanti il mio partir mai non potei».
  Deífobo rispose: «Ogni pietoso,
ogni onorato officio, Enea mio caro,
ha l'amor tuo vèr me compito a pieno.
Ma l'empio fato mio, l'empia e malvagia
argiva donna a tal m'ha qui condotto;
e tal di sé lasciò memoria al mondo.
Ben ti ricorda (e ricordar ten dêi)
di quell'ultima notte che sí lieta
mostrossi in pria, poi ne si volse in pianto,
quando il fatal cavallo il salto fece
sopra le nostre mura, e 'l ventre pieno
d'armate schiere ne votò fin dentro
a l'alta ròcca. Allor ella di Bacco
fingendo il coro, e con le frigie donne
scorrendo in tresca, una gran face in mano
si prese, e diè con essa il cenno a' Greci.
  Io dentro alla mia camera (infelice!)
mi ritrovai sol quella notte; e stanco
di tante che n'avea con tanti affanni
vegghiate avanti, un tal prendea riposo
che a morte piú che a sonno era simíle.
Fece la buona moglie ogn'arme intanto
sgombrar di casa, e la mia fida spada
mi sottrasse dal capo. Indi la porta
aperse, e Menelao dentro v'accolse,
cosí sperando un prezïoso dono
fare al marito, e de' suoi falli antichi
riportar vènia. Che piú dico? Basta
ch'entrâr là 'v'io dormia; e con essi era
per consultore Ulisse. O dii, se giusto
è 'l priego mio, ricompensate voi
di quest'opere i Greci. E tu, che vivo
sei qui, dimmi a rincontro, il caso o 'l fato
o l'errore o 'l precetto degli dèi,
o qual altra fortuna t'ha condotto,
ove il sol mai non entra e buio è sempre».
  Cosí tra lor parlando e rispondendo,
avea già 'l sol del suo cerchio dïurno
varcato il mezzo, e l'avria forse intero;
se non che la Sibilla rampognando
cosí li fe' del breve tempo accorti:
  «Enea, già notte fassi, e noi piangendo
consumiam l'ore. Ecco siam giunti al loco
dove la strada in due sentier si parte.
Questo a man dritta a la città ne porta
del gran Plutone e quindi ai campi Elisi;
quest'altro a la sinistra a l'empio abisso
ne guida, ov'hanno i rei supplizio eterno».
  Il figlio a ciò di Prïamo soggiunse:
«Non ti crucciare, o del gran Delio amica,
ch'or da voi mi tolgo, e mi ritiro
ne le tenebre mie. Tu, nostro onore,
vatten felice, già che scòrto sei
da miglior fato; e meglio te n'avvenga».
Tanto sol disse, e sparve. Enea si volse
prima a sinistra, e sotto un'alta rupe
vide un'ampia città che tre gironi
avea di mura, ed un di fiume intorno;
ed era il fiume il negro Flegetonte,
ch'al Tartaro con suono e con rapina
l'onde seco traea, le fiamme e i sassi.
Vede nel primo incontro una gran porta
c'ha la soglia, i pilastri e le colonne
d'un tal diamante, che le forze umane,
né degli stessi dèi, romper nol ponno.
Quindi si spicca una gran torre in alto
tutta di ferro. A guardia de l'entrata
la notte e 'l giorno vigilando assisa
sta la fiera Tesífone succinta,
col braccio ignudo, insanguinata e torva.
Quinci di lai, di pianti e di percosse
e di stridor di ferri e di catene
cotale un suono udissi, che spavento
Enea sentinne; e rattenuto il passo:
«Dimmi, vergine, - disse, - e che delitti
son qui puniti? e che pianti son questi?»
  Ed ella: «Inclito sire, a nessun lece,
che buono e giusto sia, di portar oltre
da quella soglia scelerata il piede.
Ma me di ciò che dentro vi s'accoglie
Ècate instrusse allor ch'ai sacri boschi
mi prepose d'Averno; e d'ogni pena
e d'ogni colpa e d'ogni loco a pieno,
quando seco vi fui, notizia diemmi.
Questo è di Radamanto il tristo regno,
là dov'egli ode, esamina, condanna
e discuopre i peccati che di sopra
son da le genti o vanamente ascosi
in vita, o non purgati anzi a la morte:
né pria di Radamanto esce il precetto,
che Tesífone è presta ad eseguirlo.
Ella con l'una man la sferza impugna,
ne l'altra ha serpi; ed ambe intorno arrosta,
e grida e fère, e de le sue sorelle
le mostruose ed empie schiere tutte
al ministerio de' tormenti invita.
Apronsi l'esecrate orrende porte
stridendo intanto. Tu, che quinci vedi
che faccia è quella che di fuor le guarda,
pensa qual a veder sia dentro un'Idra
ancor piú fiera aprir cinquanta ingorde
rabbiose bocche. Il Tartaro vien dopo;
una vorago che due volte tanto
ha di profondo, quanto in su guardando
è da la terra al cielo: e qui ne l'imo
suo baratro dal fulmine trafitti
son gli antichi Titani al ciel rubelli.
Qui vidi ambi d'Alòo gli orrendi figli,
che scinder con le mani il cielo osaro,
e tôr lo scettro del suo regno a Giove.
Vidivi l'orgoglioso Salmonèo
di sua temerità pagare il fio;
ché temerario veramente ed empio
fu di voler, quale il Tonante in cielo,
tonar qua giuso e folgorare a pruova.
Questi su quattro suoi giunti destrieri,
la man di face armato alteramente
per la Grecia scorrendo, e fin per mezzo
d'Èlide, ov'è di Giove il maggior tempio,
di Giove stesso il nume, e de gli dèi
s'attribuiva i sacrosanti onori.
Folle, che con le fiaccole e co' bronzi,
e con lo scalpitar de' suoi ronzoni
i tuoni, i nembi e i folgori imitava,
ch'imitar non si ponno: e ben fu degno
ch'ei provasse per man del padre eterno
d'altro fulmine il colpo e d'altro vampo
che di tede e di fumo, e degno ancora
che nel baratro andasse. Eravi Tizio,
quei de la terra smisurato alunno,
che tien disteso di campagna quanto
un giogo in nove giorni ara di buoi.
Questi ha sopra un famelico avoltore,
che con l'adunco rostro al cor d'intorno
gli picchia e rode; e perché sempre il pasca,
non mai lo scema sí che 'l pasto eterno
ed eterna non sia la pena sua;
ché fatto a chi lo scempia esca e ricetto,
del suo proprio martir s'avanza e cresce;
e perché sempre langua, unqua non more.
De' Làpiti a che parlo? d'Issïóne
di Piritòo, e di quegli altri tutti
cui sopra al capo un'atra selce pende,
che grave e ruinosa ad ora ad ora
sembra che caggia? Avvi la mensa d'oro
con prezïosi cibi in regia guisa
apparecchiati e proibiti insieme:
ché la Fame, infernal furia maggiore,
gli siede accanto; e com' piú 'l gusto incende
di lui, piú dal gustarne indietro il tragge,
e sorge, e la sua face estolle e grida.
  Quei che son vissi ai lor fratelli amari;
quei c'han battuti i padri; quei che frode
hanno ordito a' clienti; i ricchi avari,
e scarsi a' suoi, di cui la turba è grande:
gli occisi in adulterio; i vïolenti,
gl'infidi, i traditori in questo abisso
han tutti i lor ridotti e le lor pene.
E che pena e che forma e che fortuna
di ciascun sia, non è d'uopo ch'io dica:
ma chi sassi rivolgono, e chi vòlti
son da le ruote, ed altri in altra guisa
son tormentati. In un petron confitto
vi siede e sederavvi eternamente
Tèseo infelice; e Flegia infelicissimo
va tra l'ombre gridando ad alta voce:
"Imparate da me voi che mirate
la pena mia: non vïolate il giusto,
riverite gli dèi". Tra questi tali
è chi vendé la patria; chi la pose
al giogo de' tiranni; chi per prezzo
fece leggi e disfece; e cento lingue
e cento bocche, e voci anco di ferro,
non basterian per divisare i nomi
e le forme de' vizi e de le pene
ch'entro vi sono». Poi che la Sibilla
ebbe ciò detto: «Via - soggiunse, - attendi
a l'impreso viaggio, e studia il passo:
ché già le mura da' Ciclopi estrutte
mi veggio avanti, e sotto a quel grand'arco
la sacra porta che 'l tuo dono aspetta».
  Cosí mossi ambedue, lo spazio tutto,
ch'era nel mezzo, per sentiero opaco
tosto varcando, anzi a la porta furo.
Incontinente Enea l'intrata occúpa;
di viva acqua si spruzza: e 'l sacro ramo
a la regina de l'inferno affigge.
  Ciò fatto, a i luoghi di letizia pieni,
a l'amene verdure, a le gioiose
contrade de' felici e de' beati
giunsero al fine. È questa una campagna
con un aër piú largo, e con la terra
che di un lume di purpura è vestita,
ed ha 'l suo sole e le sue stelle anch'ella.
Qui se ne stan le fortunate genti,
parte in su' prati e parte in su l'arena
scorrendo, lotteggiando, e vari giuochi
di piacevol contesa esercitando;
parte in musiche, in feste, in balli, in suoni
se ne van diportando, ed han con essi
il tracio Orfeo, ch'in lungo abito e sacro
or con le dita, ed or col plettro eburno,
sette nervi diversi insieme uniti,
tragge del muto legno umani accenti.
Qui di Teucro l'antica e bella razza
facea soggiorno; quei famosi eroi
che in quei tempi migliori al mondo furo,
Ilo, Assàraco, Dàrdano, quei primi
de la gran Troia fondatori e regi.
Veggon da lunge le vane arme e i carri
a lor d'intorno, e l'aste in terra fisse,
e gli sciolti destrier per la campagna
vagar pascendo; ché 'l diletto antico
e de l'armi e de' carri e de' cavalli
gli segue anco sotterra. Indi altri altrove
scorgono, che da destra e da sinistra
convivando e cantando, sopra l'erba
si stanno assisi, ed han di lauri intorno
un odorato bosco, onde il Po sorge
sopra la terra, e spazïoso inonda.
  E questi eran color che combattendo
non fûr di sangue a la lor patria avari;
e quei che sacerdoti erano in vita
castamente vissuti, e quei veraci
e quei pii c'han di qua parlato o scritto
cose degne di Febo, e gl'inventori
de l'arti, ond'è gentile il mondo e bello;
e quei che ben oprando han tra' mortali
fatto di fama e di memoria acquisto;
cui tutti, in segno di celeste onore,
candida benda il fronte orna e colora.
  A questi, ch'a la vergine Sibilla
fêr cerchio intorno, ed a Musèo tra loro,
che dagli omeri in su gli altri avanzava,
diss'ella: «Alme felici e tu, buon vate,
ditene in qual contrada, e 'n qual magione
qui tra voi si ripara il grande Anchise,
ché lui cerchiamo, e sol per lui varcati
d'Èrebo i fiumi e le caverne avemo».
  A cui Musèo cosí breve rispose:
«Nullo è di noi che in alcun luogo alloggi
come in suo proprio; e tutti o per le sacre
opache selve, o per l'amene rive
de' chiari fiumi, o per gli erbosi prati
tra rivi e fonti i nostri alberghi avemo.
Ma se di ciò vi cale, itene meco
sovr'a quel giogo; e quindi agevolmente
il sentier ne vedrete». In ciò si mosse
come lor guida, e sopra al colle asceso,
mostrò lor d'alto i luminosi campi,
additò 'l calle, ed invïolli al piano.
  Era per avventura in una valle
Anchise, che da poggi era ricinta,
e di verde coverta. Ivi in disparte
de' suoi nepoti avea l'anime accolte
ch'a la vita di sopra eran chiamate,
e facendo di lor rassegna e mostra
gli annoverava, esaminava i fati,
le fortune, il valor di mano in mano,
gli ordini e i tempi loro. Enea comparve
sul campo intanto; a cui tosto che 'l vide,
lieto Anchise avventossi e con le braccia
in atto d'accoglienza: «O figlio, - disse
dolcemente piangendo - io pur ti veggio.
Pur sei venuto, ha pur la tua pietade
superati i disagi e la durezza
di sí strano vïaggio. Ecco m'è dato
di veder, figlio, il tuo bramato aspetto,
e sentirti e parlarti. Io di ciò punto
non era in forse, e sol pensava al quando,
contando i giorni. Oh, dopo quanti affanni,
dopo quanti perigli, e quanti storpi
e di mare e di terra io ti riveggio!
E quanto ebbi timor che di Cartago
venisse al corso tuo sinistro intoppo!»
  Ed egli a lui: «La sconsolata imago,
che m'è, padre, di te sovente apparsa,
per te, per te veder qua giú m'ha tratto:
e di sopra fin qui salvo a la riva
del mar Tirreno il mio navile è sorto.
Or dammi, padre mio, dammi ch'io giunga
la mia con la tua destra, e grazia fammi
che di vederti e di parlarti io goda».
  Mentre cosí dicea, di largo pianto
rigava il volto, e distendea le palme;
e tre volte abbracciandolo, altrettante
(come vento stringesse o fumo o sogno)
se ne tornò con le man vòte al petto.
  Intanto Enea per entro a la gran valle
vide scevra da l'altre una foresta,
i cui rami sonar da lunge udiva.
A piè di questa era di Lete il rio
ch'ai dilettosi e fortunati campi
correa davanti; e piene avea le ripe
di genti innumerabili, ch'intorno
a caterve alïando ivano in guisa
che fan le pecchie a' chiari giorni estivi,
quando di fiore in fior, di giglio in giglio
si van posando, e per l'apriche piagge
dolcemente ronzando. Enea, che nulla
di ciò sapea, di súbito stupore
fu sopraggiunto, e la cagion spiando:
«O - disse - padre, che riviera è quella?
e che gente, e che mischia, e che bisbiglio?» -
  «L'anime - gli rispose - a cui dovuti
sono altri corpi, a questo fiume accolte
beon dimenticanze e lunghi oblii
de l'altra vita; e questi io desïava
che tu vedessi, e che da me n'udissi
i nomi e i gesti, onde contezza appieno
del nostro sangue, e piena gioia avessi
dell'acquisto d'Italia». «O padre, adunque -
soggiunse Enea - creder si dee che l'alme,
che son qui scarche e libere e felici,
cerchin di nuovo a la terrena salma,
di nuovo a la prigion tornar de' corpi?
E qual, misere loro! empio desire
del lume di lassú tanto le invoglia?»
  «Figlio, - rispose Anchise, - acciò sospeso
piú non vacilli in questo dubbio, ascolta».
E 'n tal guisa per ordine gli narra:
  «Primieramente il ciel, la terra e 'l mare,
l'aër, la luna, il sol, quanto è nascosto,
quanto appare e quant'è, muove, nudrisce
e regge un, che v'è dentro, o spirto o mente
o anima che sia de l'universo;
che sparsa per lo tutto e per le parti
di sí gran mole, di sé l'empie, e seco
si volge, si rimescola e s'unisce.
Quinci l'uman legnaggio, i bruti, i pesci,
e ciò che vola, e ciò che serpe, han vita,
e dal foco e dal ciel vigore e seme
traggon, se non se quanto il pondo e 'l gelo
de' gravi corpi, e le caduche membra
le fan terrene e tarde. E quinci ancora
avvien che téma e speme e duolo e gioia
vivendo le conturba, e che rinchiuse
nel tenebroso carcere, e ne l'ombra
del mortal velo, a le bellezze eterne
non ergon gli occhi. Ed oltre a ciò, morendo,
perché sian fuor de la terrena vesta,
non del tutto si spoglian le meschine
de le sue macchie; ché 'l corporeo lezzo
sí l'ha per lungo suo contagio infette,
che scevre anco dal corpo, in nuova guisa
le tien contaminate, impure e sozze.
Perciò di purga han d'uopo, e per purgarle
son de l'antiche colpe in vari modi
punite e travagliate: altre ne l'aura
sospese al vento, altre ne l'acqua immerse,
ed altre al foco raffinate ed arse:
ché quale è di ciascuna il genio e 'l fallo,
tale è 'l castigo. Indi a venir n'è dato
negli ampi elisi campi; e poche siamo
cui sí lieto soggiorno si destini.
Qui stiamo infin che 'l tempo a ciò prescritto
d'ogni immondizia ne forbisca e terga,
sí ch'a nitida fiamma, a semplice aura,
a puro eterio senso ne riduca.
Quest'alme tutte, poiché di mill'anni
han vòlto il giro, alfin son qui chiamate
di Lete al fiume, e 'n quella riva fanno,
qual tu vedi colà, turba e concorso.
Dio le vi chiama, acciò ch'ivi deposto
ogni ricordo, men de' corpi schive,
e piú vaghe di vita, un'altra volta
tornin di sopra a riveder le stelle».
  Ciò detto, Anchise a quelle genti in mezzo
condusse il figlio, e la Sibilla insieme;
e prese un colle, ove le schiere tutte,
sí come ne venian di mano in mano,
avea d'incontro, e le scorgea nel volto.
  «Or qui ti mostrerò, - soggiunse Anchise, -
quanta sarà ne' secoli futuri
la gloria nostra; quanti e quai nepoti
de la dardania prole a nascer hanno;
e quante del mio sangue anime illustri
sorgeranno in Italia. Indi a te conte
le tue fortune e i tuoi fati saranno.
Vedi colà quel giovinetto ardito
che su quell'asta pura il braccio appoggia?
Quegli a la luce è destinato in prima,
primo che di Lavinia in Lazio avrai
figlio postumo a te già d'anni grave,
ch'alfin da lei fuor de le selve addutto,
re sarà d'Alba, e degli albani regi
autore e padre: e Silvi dal suo nome
fian tutti i nostri, che da lui discesi
ivi poscia gran tempo imperio avranno.
  Proca è quei dopo lui, gloria e splendore
de la stirpe troiana: e quegli è Capi,
e quegli è Numitore: e l'altro appresso
è Silvio Enea, che 'l tuo nome rinnova;
e se fia mai che 'l suo regno ricovri,
non sarà men di te pietoso e forte.
Mira che gioventú, mira che forze
mostran, solo a vederli. Appo costoro
quei che son là di quercia inghirlandati,
di Gabi, di Nomento e di Fidene
parte propagheranti il picciol regno,
parte su' monti il tempio ti porranno
d'Inúo, e la terra che da lui dirassi,
e Collazia e Pomezia e Bola e Cora;
ché questi nomi allor quei luoghi avranno
ch'or ne son senza. In compagnia de l'avo
Romolo se ne vien, di Marte il figlio,
di Roma il padre. Al mondo Ilia darallo
de la stirpe d'Assàraco un rampollo.
Vedil colà, c'ha in su la testa un elmo
con due cimieri, e tal, che il padre stesso
già par ch'in cielo e nel suo seggio il ponga.
Questi, figlio, sarà quel grand'eroe,
onde i suoi primi glorïosi auspici
avrà l'inclita Roma, quella Roma,
che, sette monti entro al suo cerchio accolti,
tanto si stenderà, che fia con l'armi
uguale al mondo, e con le menti al cielo;
Roma di cosí prodi e chiari figli
madre felice. Tal di Berecinto
la maggior madre infra i leoni assisa,
e di torri altamente incoronata,
va per la Frigia, glorïosa e lieta
che tanti ha figli in ciel, nepoti in seno,
tutti che dii già sono o dii si fanno.
  Or qui, figliuolo, ambe le luci affisa
a mirar la tua gente e i tuoi Romani.
Cesare è qui, qui la progenie è tutta
del grande Iulo, a cui già s'apre il cielo.
Questi, questi, è colui che tante volte
t'è già promesso, il gran Cesare Augusto,
di divo padre figlio, e divo anch'egli.
Per lui risorgerà quel secol d'oro,
quel del vecchio Saturno antico regno,
che fe' il Lazio sí bello e 'l mondo tutto.
Quest'oltre ai Garamanti ed oltre agl'Indi
impererà fin dove il sole e l'anno
non giunge, e piú non va se non s'arretra;
trapasserà di là dal mauro Atlante
che con gli omeri suoi folce le stelle.
Al venir di costui, sol de la voce
che ne dànno i profeti, i Caspi regni,
la Meotica terra, e quanto inonda
il sette volte geminato Nilo,
tremar già veggio, e star pensoso e mesto.
Tanto del mondo il glorïoso Alcide
non corse mai, se ben de' Cereniti,
di Lerna e d'Erimanto i mostri ancise:
né tanto ne domò chi domò gl'Indi,
e nel trionfo suo di viti e pampini
a le tigri di Nisa il giogo impose.
E sarà poi che 'l valor nostro manchi
di gloria, e tu di speme e d'ardimento
di far d'Ausonia il desïato acquisto?
Ma chi fia questi che da lungi scorgo
sí venerando, il crin cinto d'olivo,
con quelle bende e con quei sacri arredi?
A la chioma, a la barba irta e canuta
mi sembra, ed è di Roma il santo rege,
che dal picciolo Curi a grande impero
sarà da lei chiamato, e sarà il primo
che cerimonie introdurravvi e leggi.
  A lui Tullo vien dopo, il forte e saggio,
ch'ai dismessi trionfi rivocando
la gente già per lunga pace imbelle,
la tornerà, di neghittosa e mite,
un'altra volta armigera e guerriera.
Anco è quell'altro che lo segue appresso,
che d'onor troppo e del favor del volgo
di già si mostra ambizïoso e vago.
Or vedi là, se di vederli agogni,
anco i Tarquini regi, e quel superbo
vendicator de la superbia loro,
Bruto, consol primiero, e quei suoi fasci
e quelle accette ond'ei, padre crudele,
de la patria buon figlio, i figli suoi
per l'altrui bella libertate ancide.
Infortunato lui! che che dipoi
de la posterità se ne favelle.
Vince il publico amore, e 'l gran desio
d'umana lode in lui l'affetto interno
de la natura e del suo sangue stesso.
  Mira poco in disparte i Deci, i Drusi,
il severo Torquato e 'l buon Camillo;
l'uno che tien già la secure in mano,
e l'altro che da' Galli ne riporta
i perduti vessilli. I due, che vedi
sí risplender ne l'armi, e che rinchiusi
in questa notte, sembrano a la vista
gir di pari e d'accordo, oh se a la vita
vengon di sopra, quanta guerra e quale,
con che strage di genti e con che forze,
faran tra loro! Il suocero da l'Alpi
e da l'occaso, il genero da l'orto
verrà l'un contra l'altro. Ah figli, ah figli,
non cosí rio, non cosí fiero abuso
d'armar voi contr'a voi, contr'a le viscere
de la gran patria vostra! e tu che traggi
dal ciel legnaggio, tu, mio sangue, astienti
da tanta ferità; perdona il primo,
e gitta l'armi in terra. Ecco chi vince
Corinto e 'l popol greco, e 'n Campidoglio
trïonfando ne saglie. Ecco chi d'Argo
e di Micena ancor le torri abbatte,
e chi Pirro debella e 'l seme estingue
del bellicoso Achille; alta vendetta
che ben degli avi ricompensa i danni,
e 'l tempio vïolato di Minerva.
Dove lass'io te, gran Catone, e Cosso?
E i Gracchi, e i due gran folgori di guerra
ambedue Scipïoni, ambi Africani,
strage l'un di Cartago, e l'altro esizio?
Dove Fabrizio il povero, e potente,
con la sua povertà? Dove Serrano,
ch'e di bifolco, al grande imperio assunto?
Dove restano i Fabi? Eccone un solo,
Massimo veramente, che con arte
terrà il nemico tranquillando a bada.
Abbinsi gli altri de l'altre arti il vanto;
avvivino i colori e i bronzi e i marmi;
muovano con la lingua i tribunali,
mostrin con l'astrolabio e col quadrante
meglio del ciel le stelle e i moti loro:
ché ciò meglio sapran forse di voi:
ma voi, Romani miei, reggete il mondo
con l'imperio e con l'armi, e l'arti vostre
sien l'esser giusti in pace, invitti in guerra:
perdonare a' soggetti, accôr gli umíli,
debellare i superbi». In questa guisa
parlava il santo vèglio, ed essi attenti
stavan con maraviglia ad ascoltarlo,
quando soggiunse: «Ecco di qua Marcello;
mira come se n'entra adorno e carco
d'opime spoglie, e quanto a gli altri avanza.
Quest'è quel generoso, ch'a grand'uopo
vien di Roma a domare i Peni, i Galli,
e del gallico duce i fregi e l'armi
la terza volta al gran Quirino appende».
  Qui vide Enea ch'un giovinetto a pari
gli si traea, ch'era d'arnesi e d'armi,
e via piú di beltà, vago e lucente;
se non che poco lieta avea la fronte
e chino il viso. Onde rivolto al padre:
«E chi - disse - è costui che l'accompagna?
Saria de' figli, o de' nipoti alcuno
del gran nostro legnaggio? E che bisbiglio
e che mischia ha d'intorno? O quale e quanto
di già mi sembra! Ma gli veggio al capo
d'atra notte girar di sopra un nembo».
  Anchise lagrimando gli rispose:
«Amaro desiderio il cor ti tocca
a voler, figlio, un gran danno, un gran lutto
udir de' tuoi. Questi a la luce a pena
verrà, che ne fia tolto. O dii superni,
troppo parravvi la romana stirpe
possente allor che in sul fiorir preciso
ne fia sí vago e sí gentile arbusto.
O che duolo, o che pianto, o che funèbre
pompa ne vedrà Roma e 'l Marzio campo!
Qual, Tiberino padre, a la tua riva
nuova se n'ergerà funesta mole!
Germe non sorgerà del seme d'Ilio
piú di questo gradito, né che tanto
de' latini avi suoi la speme estolla:
né la terra di Romolo arà mai
figlio, onde piú si pregi e piú si vanti.
O pietà non piú vista; o fede antica!
O virtú senza pari! E qual ne l'armi
sarà? Chi sosterrà l'incontro suo
pedone o cavalier ch'armato in giostra,
o pur nel campo, il suo nemico assalga?
Miserabil fanciullo! Cosí morte
te non vincesse, come invitto fôra
il tuo valore, e come tu, Marcello,
non men de l'altro, eroica vertute,
e piú splendore e piú fortuna avesti!
Datemi a piene mani, ond'io di gigli
e di purpurei fiori un nembo sparga,
ché, se ben contro al già fisso destino
m'adopro invano, almen con questi doni
l'ombra d'un tanto mio nipote onori».
  Dopo ciò detto, per gli aerei campi
vagando, a parte a parte e l'ombre e i lochi
gli mostrò, l'invaghí, tutto d'amore
de la futura gloria il cor gli accese.
Indi le guerre e le fortune sue
d'Italia, di Laurento, e di Latino
la figlia, il regno, i popoli e lo stato
tutto gli rivelò. D'ogni suo affanno
(come a fuggir, come a soffrir l'avesse)
gli diè lume e compenso. Escono i Sogni
d'inferno per due porte; una è di corno,
l'altra è d'avorio: manda il corno i veri,
l'avorio i falsi; e per l'eburna Anchise
diede (quando lor diè commiato alfine)
a la Sibilla ed al suo figlio uscita.
  Enea verso le navi a' suoi compagni
fece ritorno. Indi sciogliendo, dritto
lungo la riva il suo corso riprese;
e giunto ov'oggi è di Caieta il porto,
l'afferrò, gittò l'àncore, e fermossi.


 

 

LIBRO SETTIMO



  Ed ancor tu, d'Enea fida nutrice
Caieta, ai nostri liti eterna fama
desti morendo; ed essi anco a te diêro
sede onorata, se d'onore a' morti
è d'aver l'ossa consecrate e 'l nome
ne la famosa Esperia. Ebbe Caieta
dal suo pietoso alunno esequie e lutto,
e sepoltura alteramente eretta.
lndi, già fatto il mar tranquillo e queto,
spiegâr le vele a' vènti, e i vènti al corso
eran secondi; e 'n sul calar del sole,
la luna, che sorgea lucente e piena,
chiare l'onde facea tremole e crespe.
Uscîr del porto; e pria rasero i liti
ove Circe, del Sol la ricca figlia,
gode felice, e mai sempre cantando
soavemente al periglioso varco
de le sue selve i peregrini invita:
e de la reggia, ove tessendo stassi
le ricche tele, con l'arguto suono
che fan le spole e i pettini e i telari,
e co' fuochi de' cedri e de' ginepri
porge lunge la notte indicio e lume.
  Quinci là verso il dí, lontano udissi
ruggir lioni, urlar lupi, adirarsi,
e fremire e grugnire orsi e cignali,
ch'eran uomini in prima; e 'n queste forme
da lei con erbe e con malie cangiati
giacean di ferri e di ferrate sbarre
ne le sue stalle incatenati e chiusi;
e perché ciò non avvenisse ai Teucri,
che buoni erano e pii, da cotal porto
e da spiaggia sí ria Nettuno stesso
spinse i lor legni, e diè lor vento e fuga,
tal che fuor d'ogni rischio li condusse.
  Già rosseggiava d'Oriente il balzo,
e nel suo carro d'ostro ornata e d'oro
l'Aurora si traea de l'onde fuori:
quando subitamente ogn'aura, ogn'alito
cessò del vento, e ne fu 'l mare in calma
sí ch'a forza ne gian de' remi a pena.
  Qui la terra mirando, il padre Enea
vede un'ampia foresta, e dentro, un fiume
rapido, vorticoso e queto insieme,
che per l'amena selva, e per la bionda
sua molta arena si devolve al mare.
  Questo era il Tebro, il tanto desïato,
il tanto cerco suo Tebro fatale:
a le cui ripe, a le cui selve intorno,
e di sopra volando, ivan le schiere
di piú canori suoi palustri augelli.
Allor: «Via, - dice a suoi - volgete il corso
itene a riva». E tutti in un momento
rivolti e giunti, de l'opaco fiume
preser la foce, e lietamente entraro.
  Porgimi, Èrato, aíta a dir quai regi,
quai tempi, e quale stato avesse allora
l'antico Lazio, quando prima i Teucri
con questa armata a' suoi liti approdaro;
ch'io dirò da principio le cagioni
e gli accidenti, onde con essi a l'arme
si venne in pria: dirò battaglie orrende,
dirò stragi d'eserciti, e duelli
di regi stessi, e la Toscana tutta,
e tutta anco l'Esperia in arme accolta.
Tu, d'Elicona dea, tu ciò mi detta;
ch'altr'ordine di cose, altro lavoro,
e maggior opra ordisco. Era signore,
quando ciò fu, di Lazio il re Latino,
un re che vèglio e placido gran tempo
avea 'l suo regno amministrato in pace.
Questi nacque di Fauno e di Marica,
ninfa di Laürento, e Fauno a Pico
era figliuolo, e Pico, a te, Saturno,
del suo regio legnaggio ultimo autore.
Non avea questo re stirpe virile,
com'era il suo destino; e quella ch'ebbe,
gli fu nel fior de' suoi verd'anni ancisa.
Sola d'un sangue tal, d'un tanto regno
restava una sua figlia unica erede,
che già d'anni matura, e di bellezza
piú d'ogni altra famosa, era da molti
eroi del Lazio e de l'Ausonia tutta
desïata e ricerca. Avanti agli altri
la chiedea Turno, un giovine il piú bello,
il piú possente e di piú chiara stirpe
che gli altri tutti; e piú ch'a gli altri, a lui,
anzi a lui sol la sua regina madre
con mirabil affetto era inchinata.
Ma che sua sposa fosse, avverso fato,
vari portenti e spaventosi augúri
facean contesa. Era un cortile in mezzo
a le stanze reali, ove un gran lauro
già di gran tempo consecrato e cólto
con molta riverenza era serbato.
Si dicea che Latino esso re stesso
nel designare i suoi primi edifici,
là 've trovollo, di sua mano a Febo
l'avea dicato; e ch'indi il nome diede
a' suoi Laurenti. A questo lauro in cima
meravigliosamente di lontano
romoreggiando a la sua vetta intorno
venne d'api una nugola a posarsi;
e con l'ali e co' piè l'una con l'altra,
e tutte insieme aggraticciate e strette
stiêr d'uva in guisa a le sue frondi appese.
Ciò l'indovino interpretando: «Io veggo -
disse - venir da lunge un duce esterno,
ed una gente che d'un loco uscita
in un loco medesmo si rauna,
ed altamente ivi s'alloga e regna».
Stando un giorno, oltre a ciò, Lavinia virgo
sacrificando col suo padre a canto,
ed a l'altar caste facelle offrendo,
parve (nefanda vista!) che dal foco
fossero i lunghi suoi capelli appresi,
e che stridendo, non pur l'oro ardesse
de le sue trecce, ma il suo regio arnese
e la corona stessa che di gemme
era fregiata. Indi con rogio vampo,
con nero fumo e con volumi attorti
s'avventasse d'intorno, e l'alta reggia
tutta di fiamme empiesse: orrendo mostro,
e di gran meraviglia a chiunque il vide.
Gli àuguri ne dicean che fama illustre
e gran fortuna a lei si portendea;
ma ruina a lo stato, e guerra a' popoli.
  A questi mostri attonito e confuso
il re tosto a l'oracolo di Fauno
suo genitor ne l'alta Albúnea selva
per consiglio ricorse. È questa selva
immensa, opaca, ove mai sempre suona
un sacro fonte, onde mai sempre esala
una tetra vorago. Il Lazio tutto
e tutta Italia in ogni dubbio caso
quindi certezza, aíta e 'ndrizzo attende.
E l'oracolo è tale. Il sacerdote
nel profondo silenzio de la notte
si fa de l'immolate pecorelle
sotto un covile, ove s'adagia e dorme.
Nel sonno con mirabili apparenze
si vede intorno i simulacri e l'ombre
di ciò ch'ivi si chiede; e varie voci
ne sente, e con gli dèi parla e con gl'inferi.
In questa guisa il re Latino stesso
al vaticinio del suo padre intento
cento pecore ancide e i velli e i terghi
nel suol ne stende, e vi s'involve e corca:
ed ecco un'alta repentina voce
che, de la selva uscendo, intuona e dice:
«Invan, figlio, procuri, invan t'imagini
che tua figlia s'ammogli a sposo ausonio.
Vane e nulle saran le sponsalizie
ch'or le prepari. Di lontano un genero
venir ti veggio, per cui sopra a l'ètera
salirà 'l nostro nome; e i nostri posteri
ne vedran sotto i piè quanto l'Oceano
d'ambi i lati circonda, e 'l sole illumina».
  Questa risposta e questi avvertimenti,
perché di notte e di secreta parte
fosser da Fauno usciti, il re non tenne
in se stesso celati; anzi la Fama
per le terre d'Ausonia gli spargea,
quando la frigia armata al Tebro aggiunse.
  Enea col figlio e co' suoi primi duci
a l'ombre d'un grand'albero in disparte
degli altri a prender cibo insieme unissi.
Eran su l'erba agiati; e, come avviso
creder si dee che del gran Giove fosse,
avean poche vivande; e quelle poche
gran forme di focacce e di farrate
in vece avean di tavole e di quadre,
e la terra medesma e i solchi suoi
ai pomi agresti eran fiscelle e nappi.
Altro per avventura allor non v'era
di che cibarsi. Onde, finiti i cibi,
volser per fame a quei lor deschi i denti,
e motteggiando allora: «O - disse Iulo -
fino a le mense ancor ne divoriamo?»
E rise e tacque. A questa voce Enea,
sí come a fin de le fatiche loro,
avvertí primamente, e stupefatto
del suo misterio, subito inchinando
disse: «O da' fati a me promessa terra,
io te devoto adoro: e voi ringrazio,
santi numi di Troia, amiche e fide
scorte degli error miei. Questa è la patria,
quest'è l'albergo nostro, e questo è 'l segno
che 'l mio padre lasciommi (or mi ricordo
de gli occulti miei fati): "Allor - dicendo -
che sarai, figlio, in peregrina terra
da fame a manducar le mense astretto,
fia 'l tuo riposo: allor fonda gli alberghi,
allor le mura. Or questa è quella fame,
ultimo rischio ad ultimar prescritto
tutti i nostri altri perigliosi affanni.
Or via, dimane a l'apparir del sole,
per diversi sentier lungi dal porto
tutti gioiosamente investighiamo
che paese sia questo, da che gente
sia cólto, dove sien le terre loro.
Ora a Giove si bea; faccinsi preci
al padre Anchise; e sian le mense tutte
di vin piene e di tazze». E, ciò dicendo,
di frondi s'inghirlanda; e del paese
il genio, e de la Terra il primo nume
primieramente inchina, e le sue Ninfe,
e 'l fiume ancor non conto. Indi la Notte,
e de la Notte le sorgenti stelle,
e Giove idèo, e d'Ida la gran madre,
e la madre di lui dal cielo invoca,
e da l'Èrebo il padre. E qui di lampi
cinto, di luce e d'oro, e di sua mano
folgorando il gran Giove a ciel sereno
tonò tre volte. In ciò repente nacque
tra le squadre troiane un lieto grido,
ch'era già 'l tempo di fondar venuto
le desïate mura. A tanto annunzio
tutti commossi, a rinnovar le mense,
ad invitarsi, a coronarsi, a bere
lietamente si diêro. Il dí seguente
nel sorger de l'aurora uscîr diversi
a spïar del paese, che contrade
e che liti eran quelli, e di che genti.
Trovâr che di Numíco era lo stagno,
e che 'l fiume era il Tebro, e la cittade
da' feroci Latini era abitata.
  Allor d'Anchise il generoso figlio
cento fra tutti i piú scelti oratori
d'oliva incoronati al re destina
con doni, con avvisi e con richieste
d'amicizia, di comodi e di pace.
  Questi il vïaggio lor sollecitando
se ne van senza indugio. Ed egli intanto,
preso nel lito il primo alloggiamento,
di picciol fosso la muraglia insolca;
e 'n sembianza di campo e di fortezza
d'argini lo circonda e di steccato.
  Seguon gl'imbasciatori, e già da presso
la città, l'alte torri e i gran palagi
scoprendo de' Latini, anzi a le mura
veggono il fior de' giovinetti loro
su' cavalli e su' carri esercitarsi,
lotteggiar, tirar d'arco, avventar pali,
e cotali altre oprar contese e prove
di corso, d'attitudine e di forza.
  Tosto che compariscono, un messaggio
quindi si spicca in fretta, e precorrendo
riporta al vecchio re, che nuova gente
di gran sembiante e d'abito straniero
vien dal mare a sua corte. Il re comanda
che siano ammessi; e ne l'antico seggio
per ascoltarli in maestà si reca.
  Era la corte un ampio, antico, augusto
di piú di cento colonnati estrutto
in cima a la città sublime albergo:
Pico di Laürento il vecchio rege
l'avea fondata. Era d'oscure selve,
era de' numi de' primi avi suoi
sovra d'ogn'altra veneranda e sacra.
Qui de' lor scettri, qui de' primi fasci
s'investivano i regi. In questo tempio
era la curia, eran le sacre cene,
eran de' padri i pubblici conviti
de l'occiso arïete. Avea d'antico
cedro, nel primo entrar, un dietro a l' altro,
de' suoi grand'avi i simulacri eretti.
Italo v'era, e il buon padre Sabino,
Saturno con la vite e con la falce,
Giano con le due teste, e gli altri regi
tutti di mano in man, che combattendo
non fur di sangue a la lor patria avari.
Pendean da le pareti e da' pilastri
un gran numero d'armi e d'altre spoglie
prese in battaglia. Ai portici d'intorno
carri, trofei, catene, elmi e cimieri
e securi e corazze e scudi e lance
e rostri di navili e ferri e sbarre
di fracassate porte erano affisse.
  In abito succinto e con la verga
che fu poi di Quirino, e con l'ancile
ne la sinistra esso re Pico assiso
v'era, pria cavaliero, e poscia augello:
ch'in augello il cangiò la maga Circe,
sdegnosa amante; e gli suoi regi fregi
gli converse in colori, e 'l manto in ali.
  In questo tempio sovra il seggio agiato
de' suoi maggiori, a sé Latino i Teucri
chiamar si fece; e dolcemente in prima
cosí parlò: «Dite, Troiani amici,
a che venite? ché venite in luogo
c'ha di Troia e di voi contezza a pieno;
siatevi, o per errore o per tempesta
o per bisogno a questi liti addotti,
come a gente di mar sovente avviene;
ch'a buon fiume, a buon porto, a buon ospizio
siete arrivati. Da Saturno scesi
sono i Latini, ed ospitali e buoni,
non per forza o per leggi, ma per uso
e per natura; e del buon vecchio dio
seguitiam l'orme e de' suoi tempi d'oro.
Io mi ricordo (ancor che questa fama
sia per molt'anni omai debile e scura)
che per vanto soleano i vecchi Aurunci
dir che Dardano vostro in queste parti
ebbe il suo nascimento; e quinci in Ida
passò di Frigia, e ne la tracia Samo,
ch'or Samotracia è detta. Da' Tirreni,
e da Còrito uscio Dardano vostro,
ch'or fatto è dio, e tra' celesti in cielo
d'oro ha la sua magion, di stelle il seggio,
e qua giú tra' mortali, altari e vóti».
Avea ciò detto, quando a' detti suoi
il saggio Ilïoneo cosí rispose:
  «Alto signor, di Fauno egregio figlio,
non tempesta di mar, non venti avversi,
non di stelle, o di liti o di nocchieri
error qui n'have, od ignoranza addotti.
Noi di nostro voler, di nostro avviso
ci siam venuti, discacciati e privi
d'un regno de' maggiori e de' piú chiari,
ch'unqua vedesse d'orïente il sole.
Da Dardano e da Giove il suo legnaggio
ha quella gente, e quel troiano Enea
ch'a te ne manda. La tempesta, i fati,
e la ruina che ne' campi idèi
venne di Grecia, onde l'Europa e l'Asia
e 'l mondo tutto sottosopra andonne,
cui non è conta? chi sí lunge è posto
da noi, che non l'udisse? o che da l'acque
de l'estremo Oceàno, o che dal foco
de la torrida zona sia diviso
da la nostra notizia? Il nostro affanno
tal fece intorno a sé diluvio e moto,
che scosse ed allagò la terra tutta.
Da indi in qua dispersi e vagabondi
per tanti mari, un sol picciol ridotto
agli dèi nostri, un lito che n'accolga,
non da nemici, un poco d'acqua e d'aura,
lassi! quel ch'ogn'uom ha, cercando andiamo.
Non disutili, credo, e non indegni
sarem del regno vostro: a voi non lieve
ne verrà fama; e d'un tal merto tanto
vi sarem grati, che l'ausonia terra
non mai si pentirà d'aver i figli
de la misera Troia in grembo accolti.
Io ti giuro, signor, per le fatiche,
per gli fati d'Enea, per la possente
sua destra, già per fede e per valore
famosa al mondo, che da molte genti
molte fïate (e ciò vil non ti sembri,
che da noi stessi a te ci proferiamo
e ti preghiamo) siam pregati noi,
e per compagni desïati e cerchi:
ma dai fati, signor, e dagli dèi
siam qui mandati. Dardano qui nacque,
qua Febo ne richiama. Febo stesso,
e quel di Delo, è ch'ai Tirreni, al Tebro,
al fonte di Numíco, a voi c'invia.
Queste, oltre a ciò, poche reliquie, e segni
de l'andata fortuna e del suo amore
il re nostro vi manda; che dal foco
son de la patria ricovrate a pena.
Con questa coppa il suo buon padre Anchise
sacrificava. Questo regno in testa,
quando era in solio, il gran Prïamo avea:
questo è lo scettro, questa è la tïara,
sacro suo portamento; e queste vesti
son de le donne d'Ilio opre e fatiche».
  Al dir d'Ilïoneo stava Latino
fisso col volto a terra immoto e saldo
come in astratto, e solo avea le luci
degli occhi intese a rimirar, non tanto
il dipint'ostro e gli altri regi arnesi,
quanto in pensar de la diletta figlia
il maritaggio, e 'l vaticinio uscito
dal vecchio Fauno. E 'n se stesso raccolto,
"Questi è certo - dicea, - quei che da' fati
si denunzia venir di stran paese
genero a me, sposo a Lavinia mia,
del mio regno partecipe e consorte.
Questi è da cui verrà l'egregia stirpe,
che col valor farassi e con le forze
soggetto e tributario il mondo tutto".
Ed al fin lieto: «O - disse, - eterni dèi,
secondate voi stessi i vostri augúri
e i pensier miei. Da me, Troiani, arete
tutto che desiate; e i vostri doni
gradisco e pregio; e mentre re Latino
sarà, sarete voi nel regno suo
cortesemente accolti, e 'l seggio e i campi
e ciò ch'è d'uopo, come a Troia foste,
in copia arete. Or s'ei tanto desia
l'amistà nostra e 'l nostro ospizio, vegna
egli in persona, e non abborra omai
il nostro amico aspetto. Arra e certezza
ne fia di pace il convenir con lui,
e di lui stesso aver la fede in pegno.
Da l'altra parte, a mio nome gli dite
quel ch'io dirovvi. Io senza piú mi trovo
una mia figlia. A questa il mio paterno
oracolo, e del ciel molti prodigi
vietan ch'io dia marito altro ch'esterno.
D'esterna parte, tal d'Italia è 'l fato,
un genero dal ciel mi si promette,
per la cui stirpe il mio nome e 'l mio sangue
ergerassi a le stelle. Or se del vero
punto è 'l mio cor presago, egli è quel desso
cred'io, che 'l fato accenna, e 'l credo, e 'l bramo».
  Ciò detto, de' trecento, che mai sempre
a' suoi presepi avea, nitidi e pronti
destrier di fazïone e di rispetto,
per gli cento orator cento n'elegge,
ch'avean le lor coverte e i lor girelli,
le pettiere e le briglie in varie guise
d'ostro e di seta ricamati e d'oro,
e d'òr le ghiere, e d'òr le borchie e i freni.
Al troian duce assente un carro invia
con due corsier ch'eran di quei del Sole
generosi bastardi, e vampa e foco
sbruffavan per le nari. Al Sol suo padre
la razza ne furò la scaltra Circe
allor ch'a l'incantate sue giumente
Eto e Piròo furtivamente impose.
Tali in su tai cavalli alteramente
tornando i Teucri al teucro duce, allegre
portâr novelle e parentela e pace.
  Ed ecco che di Grecia uscendo e d'Argo,
l'empia moglie di Giove, alto da terra
sospesa, infin dal sicolo Pachino
vide i legni troiani; e vide Enea
con tutti i suoi, che lieto e fuor del mare
e secur de la terra, incominciava
d'alzar gli alberghi, e di fondar le mura
già d'un altr'Ilio. E, punta il cor di doglia
squassando il capo: «Ah, - disse, - a me pur troppo
nimica razza! ah troppo a' fati miei
fati de' Frigi avversi! E forse estinti
fûr ne' campi sigèi? forse potuti
si son prender già presi, ed arder arsi?
Per mezzo de le schiere e de gl'incendi
han trovata la via. Stanca fia dunque
questa mia deità, quando ancor sazia
non è de l'odio? E già s'è resa, quando
ha fin qui nulla oprato? E che mi giova
che sian del regno, e de la patria in bando?
Che mi val ch'io mi sia con tutto il mare
a loro opposta? Ah! che del mar già tutte,
e del ciel contra lor le forze ho logre.
E che le Sirti, e che Scilla e Cariddi
a me con lor son valse? Ecco han del Tebro
la desïata foce; e non han téma
del mar piú, né di me. Marte poteo
disfar la gente de' Lapíti immane;
poté Dïana aver da Giove in preda
del suo disegno i Calidóni antichi,
quando de' Calidóni e de' Lapíti,
vèr le pene, era il fallo o nullo o leve:
ed io consorte del gran Giove e suora,
misera, incontro a lor che non ho mosso?
Che di me non ho fatto? E pur son vinta.
Enea, Enea mi vince. Ah se con lui
il mio nume non può, perché d'ognuno,
chïunque sia, non ogni aíta imploro?
Se mover contra lui non posso il cielo,
moverò l'Acheronte. Oh non per questo
il fato si distorna; ed ei non meno
di Latino otterrà la figlia e 'l regno.
Che piú? Lo tratterrò, gli darò briga:
porrò, s'altro non posso, in tanto affare
gara, indugio e scompiglio: a strage, a morte,
ad ogni strazio condurrò le genti
de l'un rege e de l'altro; e questi avanzi
faran primieramente i lor suggetti
de la lor amistà. Con questo in prima,
si sian suocero e genero. Di sangue
de' Troiani e de' Rutuli dotata
n'andrai, regia donzella, al tuo marito;
e del tuo maritaggio e del tuo letto
auspice fia Bellona in vece mia.
Cotal non partorí di face pregna
Ecuba a Troia incendio, qual Ciprigna
arà con questo suo novello Pari
partorito altro foco, altra ruina
a quest'altr'Ilio». Ciò dicendo, in terra
discese irata, e da l'inferne grotte
a sé chiamò la nequitosa Aletto.
De le tre dire Furie una e costei,
cui son l'ire, i dannaggi, i tradimenti,
le guerre, le discordie, le ruine,
ogn'empio officio, ogni mal'opra a core.
E tale un mostro in tanti e cosí fieri
sembianti si trasmuta, e de' serpenti
sí tetra copia le germoglia intorno,
che Pluto e le tartaree sorelle
sue stesse in odio ed in fastidio l'hanno.
Giunon le parla, e via piú co' suoi detti
in tal guisa l'accende: «O de la Notte
possente figlia, io per mio proprio affetto,
per onor dei mio nume, per salvezza
de la mia fama un tuo servigio agogno.
Adoprati per me, che, mal mio grado,
questo troiano Enea del re Latino
genero non divenga, e nel suo regno
con gran mio pregiudicio non s'annidi.
Tu puoi, volendo, armar l'un contra l'altro
i concordi fratelli: odi e zizzanie
seminar tra' congiunti; e per le case
con mill'arti nocendo, in mille guise
infra' mortali indur morti e ruine.
Scuoti il fecondo petto, e le sue forze
tutt'a quest'opra accampa. Inferma, annulla
questa lor pace; infiamma i cori e l'armi,
arme ognun brami, ognun le gridi e prenda».
  Di serpi e di gorgónei veneni
guarnissi Aletto; e per lo Lazio in prima
scorrendo, e per Laurento, e per la corte,
de la regina Amata entro la soglia
insidiosamente si nascose.
  Era allor la regina, come donna,
e come madre, dal materno affetto,
da lo scorno de' Teucri, dal disturbo
de le nozze di Turno in molte guise
afflitta e conturbata, quando Aletto,
per rivolgerla in furia, e co' suoi mostri
sossopra rivoltar la reggia tutta,
da' suoi cerulei crini un angue in seno
l'avventò sí, che l'entrò poscia al core.
Ei primamente infra la gonna e 'l petto
strisciando, e non mordendo, a poco a poco
col suo vipereo fiato non sentito
furor le spira. Or le si fa monile
attorcigliato al collo: or lunga benda
le pende da le tempie, or quasi un nastro
l'annoda il crine. Alfin lubrico errando,
per ogni membro le s'avvolge e serpe.
Ma fin che prima andò languido e molle
soli i sensi occupando il suo veleno,
fin che il suo foco penetrando a l'ossa
non avea tutto ancor l'animo acceso,
ella donnescamente lagrimando
sovra la figlia e sovra le sue nozze
con tal queto rammarco si dolea:
  «Adunque si darà Lavinia mia
a Troiani? a banditi? E tu, suo padre,
tu cosí la collochi? E non t'incresce
di lei, di te, di sua madre infelice?
Ch'al primo vento ch'a' suoi legni spiri,
di cosí caro pegno orba rimasa
(come dir si potrà), da questo infido
fuggitivo ladrone abbandonata
del mar vedrolla e de' corsari in preda?
O non cosí di Sparta anco rapita
fu la figlia di Leda? E chi rapilla
non fu troiano anch'egli? Ah! dov'è, sire,
quella tua santa invïolabil fede?
quella cura de' tuoi? quella promessa
che s'è fatta da te già tante volte
al nostro Turno? Se d'esterna gente
genero ne si dee; se fisso e saldo
è ciò nel tuo pensiero; se di Fauno
tuo padre il vaticinio a ciò si stringe;
io credo ch'ogni terra, ch'al tuo scettro
non è soggetta, sia straniera a noi.
Cosí ragion mi detta, e cosí penso
che l'oracolo intenda. Oltre che Turno
(se la sua prima origine si mira),
per suoi progenitori Inaco, Acrisio,
e per patria ha Micene». A questo dire
stava nel suo proposito Latino
ognor piú duro. E la regina intanto
piú dal veleno era del serpe infetta:
e già tutta compresa, e da gran mostri
agitata, sospinta e forsennata,
senza ritegno a correre, a scagliarsi,
a gridar fra le genti e fuor d'ogni uso
a tempestar per la città si diede.
Qual per gli atri scorrendo e per le sale
infra la turba de' fanciulli a volo
va sferzato palèo ch'a salti, a scosse,
ed a suon di guinzagli roteando
e ronzando s'aggira e si travolve,
quando con meraviglia e con diletto
gli va lo stuol de' semplicetti intorno,
e gli dan co' flagelli animo e forza;
tal per mezzo del Lazio e de' feroci
suoi popoli vagando, insana andava
la regina infelice. E, quel che poscia
fu d'ardire e di scandalo maggiore,
di Bacco simulando il nume e 'l coro
per tôr la figlia ai Teucri, e le sue nozze
distornare, o 'ndugiare, a' monti ascesa
ne le selve l'ascose: «O Bacco, o Libero, -
gridando - Eüöè; questa mia vergine
sola a te si convien, solo a te serbasi.
Ecco per te nel tuo coro s'esercita,
per te prende i tuoi tirsi, a te s'impampina,
a te la chioma sua nodrisce e dedica».
  Divolgasi di ciò la fama intanto
fra le donne di Lazio, e tutte insieme
da furor tratte, e d'uno ardore accese
saltan fuor degli alberghi a la foresta.
Ed altre ignude i colli e sciolte i crini,
d'irsute pelli involte, e d'aste armate,
di tralci avviticchiate e di corimbi,
orrende voci e tremuli ululati
mandano a l'aura. E la regina in mezzo
a tutte l'altre una facella in mano
prende di pino ardente, e l'imeneo
de la figlia e di Turno imita e canta;
e con gli occhi di sangue e d'ira infetti
al cielo ad ora ad or la voce alzando:
«Uditemi, - dicea - madri di Lazio,
quante ne siete in ogni loco, uditemi.
Se può pietade in voi, se può la grazia
de la misera Amata, e la miseria
di lei, ch'ad ogni madre è d'infortunio,
disvelatevi tutte e scapigliatevi;
Eüöè; a questo sacrificio
ne venite con me, meco ululatene».
  Cosí da Bacco e da le Furie spinta
ne gia per selve e per deserti alpestri
la regina infelice, quando Aletto,
ch'assai già disturbato avea il consiglio
di re Latino e la sua reggia tutta,
ratto su le fosc'ali a l'aura alzossi;
e là 've già d'Acrisio il seggio pose
l'avara figlia, ivi dal vento esposta,
a l'orgoglioso Turno si rivolse.
Ardea fu quella terra allor nomata,
e di Ardea il nome insino ad or le resta,
ma non già la fortuna. In questo loco
entro al suo gran palagio a mezza notte
prendea Turno riposo. Allor ch'Aletto
vi giunse, e 'l torvo suo maligno aspetto
con ciò ch'avea di Furia, in senil forma
cangiando, raggruppossi, incanutissi,
e di bende e d'olivo il crin velossi:
Càlibe in tutto fessi, una vecchiona
ch'era sacerdotessa e guardïana
del tempio di Giunone; e 'n cotal guisa
si pose a lui davanti, e cosí disse:
  «Turno, adunque avrai tu sofferto indarno
tante fatiche, e questi Frigi avranno
la tua sposa e 'l tuo regno? Il re, la figlia
e la dote, ch'a te per gli tuoi merti,
per lo sparso tuo sangue era dovuta,
e già da lui promessa, or ti ritoglie;
e de l'una e de l'altro erede e sposo
fassi un esterno. O va, cosí deluso,
e per ingrati la persona e l'alma
inutilmente a tanti rischi esponi.
Va, fa strage de' Toschi. Va, difendi
i tuoi Latini, e in pace li mantieni.
Questo mi manda apertamente a dirti
la gran saturnia Giuno. Arma, arma i tuoi;
preparati a la guerra; esci in campagna;
assagli i Frigi, e snidagli dal fiume
c'han di già preso, e i lor navili incendi.
Dal ciel ti si comanda. E se Latino
a le promissïon non corrisponde,
se Turno non accetta e non gradisce
né per suo difensor né per suo genero,
provi qual sia ne l'armi, e quel ch'importi
averlo per nimico». Al cui parlare
il giovine con beffe e con rampogne
cosí rispose: «Io non son, vecchia, ancora,
come te, fuor de' sensi; e ben sentita
ho la nuova de' Teucri, e me ne cale
piú che non credi. Non però ne temo
quel che tu ne vaneggi; e non m'ha Giuno
(penso) in tanto dispregio e 'n tale oblio.
Ma tu dagli anni rimbambita e scema
entri, folle, in pensier d'armi e di stati,
ch'a te non tocca. Quel ch'è tuo mestiero,
governa i templi, attendi ai simulacri,
e di pace pensar lascia e di guerra
a chi di guerreggiar la cura è data».
  Furia a la Furia questo dire accrebbe,
sí che d'ira avvampando, ella il suo volto
riprese e rincagnossi: ed ei, negli occhi
stupido ne rimase, e tremò tutto:
con tanti serpi s'arruffò l'Erinne,
con tanti ne fischiò, tale una faccia
le si scoverse. Indi le bieche luci
di foco accesa, la viperea sferza
gli girò sopra: e sí com'era immoto
per lo stupore, ed a piú dire inteso,
lo risospinse; e i suoi detti e i suoi scherni
cosí rabbiosamente improverogli:
  «Or vedrai ben se rimbambita e scema
sono entrata in pensier d'armi e di stati,
ch'a me non tocchi; e se son vecchia e folle:
guardami, e riconoscimi; ch'a questo
son dal Tartaro uscita, e guerra e morte
meco ne porto». E, ciò detto, avventogli
tale una face e con tal fumo un foco,
che fe' tenebre agli occhi e fiamme al core.
  Lo spavento del giovine fu tale,
che rotto il sonno, di sudor bagnato
si trovò per angoscia il corpo tutto:
e stordito sorgendo, arme d'intorno
cercossi, armi gridò, d'ira s'accese,
d'empio disio, di scelerata insania,
di scompigli e di guerra: in quella guisa
che con alto bollor risuona e gonfia
un gran caldar, quand'ha di verghe a' fianchi
chi gli ministra ognor foco maggiore,
quando l'onda piú ferve, e gorgogliando
piú rompe, piú si volve e spuma e versa,
e 'l suo negro vapore a l'aura esala.
Cosí Turno commosso a muover gli altri
si volge incontinente; e de' suoi primi,
altri al re manda con la rotta pace,
ad altri l'apparecchio impon de l'arme,
onde Italia difenda, onde i Troiani
sian d'Italia cacciati, ed ei si vanta
contra de' Teucri e contra de' Latini
aver forze a bastanza. E ciò commesso,
e ne' suoi vóti i suoi numi invocati,
i Rutuli infra loro a gara armando
s'esortavan l'un l'altro; e tutti insieme
eran tratti da lui, chi per lui stesso
(che giovin era amabile e gentile),
chi per la nobiltà de' suoi maggiori,
e chi per la virtude, e per le pruove
di lui viste altre volte in altre guerre.
  Mentre cosí de' suoi Turno dispone
gli animi e l'armi, in altra parte Aletto
sen vola a' Teucri; e con nuov'arte apposta
in su la riva un loco, ove in campagna
correndo e 'nsidïando, il bello Iulo
seguia le fere fuggitive in caccia.
Qui di súbita rabbia i cani accese
la virgo di Cocíto, e per la traccia
gli mise tutti; onde scopriro un cervo
che fu poi di tumulto, di rottura,
di guerra, e d'ogni mal prima cagione.
  Questo era un cervo mansueto e vago,
già grande e di gran corna, che divelto
da la sua madre, era nel gregge addotto
di Tirro e de' suoi figli: ed era Tirro
il custode maggior de' regi armenti
e de' regi poderi; ed egli stesso
l'avea nutrito e fatto umile e manso.
Silvia, una giovinetta sua figliuola,
l'avea per suo trastullo; e con gran cura
di fior l'inghirlandava, il pettinava,
lo lavava sovente. Era a la mensa
a lor d'intorno: e da lor tutti amava
esser pasciuto e vezzeggiato e tocco.
Errava per le selve a suo diletto,
e da se stesso poi la sera a casa,
come a proprio covil, se ne tornava.
Quel dí per avventura di lontano
lungo il fiume venia tra l'ombre e l'onde,
da la sete schermendosi e dal caldo;
quando d'Ascanio l'arrabbiate cagne
gli s'avventaro; ed esso a farsi inteso
d'un tale onore e di tal preda acquisto,
diede a l'arco di piglio, e saettollo.
La Furia stessa gli drizzò la mano,
e spinse il dardo sí ch'a pieno il colse
ne l'un de' fianchi, e penetrogli a l'epa.
Ferito, insanguinato, e con lo strale
il meschinello ne le coste infisso,
al consueto albergo entro ai presepi
mugghiando e lamentando si ritrasse;
ch'un lamentarsi, un dimandar aíta
d'uomo in guisa piú tosto che di fera,
erano i mugghi onde la casa empiea.
Silvia lo vide in prima, e col suo pianto,
col batter de le mani, e con le strida
mosse i villani a far turbe e tumulto.
Sta questa peste per le macchie ascosa
di topi in guisa, a razzolar la terra
in ogni tempo, sí che d'ogni lato
n'usciron d'improvviso; altri con pali
e con forche, e con bronchi aguzzi al foco;
altri con mazze nodorose e gravi,
e tutti con quell'armi ch'a ciascuno
fecer l'ira e la fretta. Era per sorte
Tirro in quel punto ad una quercia intorno,
e per forza di cogni e di bipenne
l'avea tronca e squarciata: onde affannoso,
di sudor pieno, fieramente ansando
con la stessa ch'avea secure in mano
corse a le grida, e le masnade accolse.
L'infernal dea, ch'a la veletta stava
di tutto che seguia, veduto il tempo
accomodato al suo pensier malvagio,
tosto nel maggior colmo se ne salse
de la capanna, e con un corno a bocca
sonò de l'armi il pastorale accento.
La spaventosa voce che n'uscio
dal Tartaro spiccossi. E pria le selve
ne tremâr tutte; indi di mano in mano
di Nemo udilla e di Diana il lago,
udilla de la Nera il bianco fiume,
e di Velino i fonti, e tal l'udiro,
che ne strinser le madri i figli in seno.
  A quella voce, e verso quella parte
onde sentissi, i contadini armati,
comunque ebber tra via d'armi rincontro,
subitamente insieme s'adunaro.
Da l'altro lato i giovani troiani
al soccorso d'Ascanio in campo usciro,
spiegâr le schiere, misersi in battaglia,
vennero a l'armi; sí che non piú zuffa
sembrava di villani, e non piú pali
avean per armi, ma forbiti ferri
serrati insieme, che dal sol percossi,
per le campagne e fin sotto a le nubi
ne mandavano i lampi; in quella guisa
che lieve al primo vento il mar s'increspa,
poscia biancheggia, ondeggia e gonfia e frange
e cresce in tanto, che da l'imo fondo
sorge fino a le stelle. Almone, il primo
figlio di Tirro, primamente cadde
in questa pugna. Ebbe di strale un colpo
in su la strozza, che la via col sangue
gli chiuse e de la voce e de la vita.
Caddero intorno a lui molt'altri corpi
di buona gente. Cadde tra' migliori,
mentre l'armi detesta, e per la pace
or con questi or con quelli si travaglia,
Galèso il vecchio, il piú giusto e 'l piú ricco
de la contrada. Cinque greggi avea
con cinque armenti; e con ben cento aratri
coltivava e pascea l'ausonia terra.
  Mentre cosí ne' campi si combatte
con egual Marte, Aletto già compita
la sua promessa, poi ch'a l'armi, al sangue
ed a le stragi era la guerra addotta,
uscí del Lazio, e baldanzosa a l'aura
levossi, ed a Giunon superba disse:
«Eccoti l'arme e la discordia in campo,
e la guerra già rotta. Or di' ch'amici,
di' che confederati, e che parenti
si sieno omai, poiché d'ausonio sangue
già sono i Teucri aspersi. Io, se piú vuoi,
piú farò. Di rumori e di sospetti
empierò questi popoli vicini;
condurrogli in aiuto; andrò per tutto
destando amor di guerra; andrò spargendo
per le campagne orror, furore ed armi».
«Assai, - Giuno rispose, - hai di terrore
e di frode commesso: ha già la guerra
le sue cagioni; hanno (comunque in prima
la sorte le si regga) ambe le parti
le genti in campo, e l'armi in mano; e l'armi
son già di sangue tinte, e 'l sangue è fresco.
Or queste sponsalizie e queste nozze
comincino a godersi il re Latino,
e questo di Ciprigna egregio figlio.
Tu, perché non consente il padre eterno
ch'in questa eterea luce e sopra terra
cosí licenziosa te ne vada,
torna a' tuoi chiostri; ed io, s'altro in ciò resta
da finir, finirò». Ciò disse a pena
la figlia di Saturno, che d'Aletto
fischiâr le serpi, e dispiegârsi l'ali
in vèr Cocíto. È de l'Italia in mezzo
e de' suoi monti una famosa valle,
che d'Amsanto si dice. Ha quinci e quindi
oscure selve, e tra le selve un fiume
che per gran sassi rumoreggia e cade,
e sí rode le ripe e le scoscende,
che fa spelonca orribile e vorago,
onde spira Acheronte, e Dite esala.
In questa buca l'odïoso nume
de la crudele e spaventosa Erinne
gittossi, e dismorbò l'aura di sopra.
  Non però Giuno di condur la guerra
rimansi intanto, ed ecco dal conflitto
venir ne la città la rozza turba
de' contadini, e riportare i corpi
del giovinetto Almone e di Galèso,
cosí com'eran sanguinosi e sozzi.
Gli mostrano, ne gridano, n'implorano
dagli dèi, da Latino e da le genti
testimonio, pietà, sdegno e vendetta.
Evvi Turno presente, che, con essi
tumultuando esclama, e 'l fatto aggrava,
e detesta e rimprovera e spaventa,
«Questi, questi, - dicendo, - son chiamati
a regnar ne l'Ausonia: ai Frigi, ai Frigi
dà Latino il suo sangue, e Turno esclude».
  Sopravvengono intanto i furïosi,
che, con le donne attonite scorrendo,
gian con Amata per le selve in tresca;
ché grande era d'Amata in tutto il regno
la stima e 'l nome; e d'ogni parte accolti
tutti contra gli annunzi, contra i fati
l'armi chiedendo e la non giusta guerra,
van di Latino a la magione intorno.
  Egli di rupe in guisa immoto stassi,
di rupe che, nel mar fondata e salda,
né per venti si crolla, né per onde
che le fremano intorno, e gli suoi scogli
son di spuma coverti e d'alga invano.
Ma poiché superar non puote il cieco
lor malvagio consiglio, e che le cose
givan di Turno e di Giunone a vóto,
molto pria con gli dèi, con le van'aure
si protestò; poscia: «Dal fato, - disse, -
son vinto, e la tempesta mi trasporta.
Ma voi per questo sacrilegio vostro
il fio ne pagherete. E tu fra gli altri,
Turno, tu pria n'avrai supplizio e morte;
e preci e vóti a tempo ne farai,
ch'a tempo non saranno. Io, quanto a me,
già de' miei giorni e de la mia quïete
son quasi in porto: e da voi sol m'e tolto
morir felicemente». E qui si tacque,
e 'l governo depose e ritirossi.
  Era in Lazio un costume, che venuto
è poi di mano in man di Lazio in Alba,
e d'Alba in Roma, ch'or del mondo è capo,
che nel muover de l'armi ai Geti, agl'Indi,
agli Arabi, agl'Ircani, a qual sia gente
ch'elle sian mosse, sí com'ora a' Parti
per ricovrar le mal perdute insegne,
s'apron le porte de la guerra in prima.
  Queste son due, che per la riverenza,
per la religïone e per la téma
del fiero Marte, orribili e tremende
sono a le genti; e con ben cento sbarre
di rovere, di ferro e di metallo
stan sempre chiuse; e lor custode è Giano.
Ma quando per consiglio e per decreto
de' padri si determina e s'appruova
che si guerreggi, il consolo egli stesso,
sí come è l'uso, in abito e con pompa
c'ha da' Gabini origine e da' regi,
solennemente le disferra e l'apre:
ed egli stesso al suon de le catene
e de la rugginosa orrida soglia
la guerra intuona: guerra dopo lui
grida la gioventú: guerra e battaglia
suonan le trombe; ed è la guerra inditta.
  In questa guisa era Latino astretto
d'annunzïarla ai Teucri; a lui quest'atto
d'aprir le triste e spaventose porte
si dovea come a rege. Ma 'l buon padre,
schivo di sí nefando ministero,
s'astenne di toccarle, e gli occhi indietro
volse per non vederle, e si nascose.
  Ma per tôrre ogni indugio un'altra volta,
ella stessa regina de' celesti
dal ciel discese, e di sua propria mano
pinse, disgangherò, ruppe e sconfisse
de le sbarrate porte ogni ritegno,
sí che l'aperse. Allor l'Ausonia tutta,
ch'era dianzi pacifica e quïeta,
s'accese in ogni parte. E qua pedoni,
là cavalieri; a la campagna ognuno,
ognuno a l'arme, a maneggiar destrieri,
a fornirsi di scudi, a provar elmi,
a far, chi con la cote, e chi con l'unto,
ciascuno i ferri suoi lucidi e tersi.
Altri s'addestra a sventolar l'insegne,
altri a spiegar le schiere, e con diletto
s'ode annitrir cavalli e sonar tube.
  Cinque grosse città con mille incudi
a fabbricare, a risarcir si dànno
d'ogni sorte armi: la possente Atina,
Ardea l'antica, Tivoli il superbo,
e Crustumerio, e la torrita Antenna.
Qui si vede cavar elmi e celate;
là torcere e covrir targhe e pavesi:
per tutto riforbire, aüzzar ferri,
annestar maglie, rinterzar corazze,
e per fregiar piú nobili armature,
tirar lame d'acciar, fila d'argento.
Ogni bosco fa lance, ogni fucina
disfà vomeri e marre, e spiedi e spade
si forman dai bidenti e da le falci.
Suonan le trombe, dassi il contrassegno,
gridasi a l'armi: e chi cavalli accoppia,
e chi prende elmo, e chi picca, e chi scudo.
Questi ha la piastra, e quei la maglia indosso,
e la sua fida spada ognuno a canto.
  Or m'aprite Elicona, e di conserto
meco il canto movete, alme sorelle,
a dir qual regi e quai genti e qual'armi
militassero allora, e di che forze,
e di quanto valore era in quei tempi
la milizia d'Italia. A voi conviensi
di raccontarlo, a cui conto e ricordo
de le cose e de' tempi è dato eterno:
a noi per tanti secoli rimasa
n'è di picciola fama un'aura a pena.
  Il primo, che le genti a questa guerra
ponesse in campo, fu Mezenzio, il fiero
del ciel dispregiatore e degli dèi.
D'Etruria era signore, e di Tirreni
conducea molte squadre. Avea suo figlio
Lauso con esso, un giovine il piú bello,
da Turno in fuori, che l'Ausonia avesse.
Gran cavaliero, egregio cacciatore
fino allor si mostrava; e mille armati
avea la schiera sua, che seco uscita
fuor d'Agillina, ne l'esiglio ancora
indarno lo seguia; degno che fosse
ne l'imperio del padre. A questi dopo
segue Aventino, de l'invitto Alcide
leggiadro figlio. Questi col suo carro
di palme adorno, e co' vittorïosi
suoi corridori in campo appresentossi.
Eran di mazzafrusti, di spuntoni,
di chiavarine, e di savelli spiedi
armate le sue schiere. Ed egli, a piedi,
d'un cuoio di leon velluto ed irto
vestia gli omeri e 'l dorso, e del suo ceffo,
che quasi digrignando ignudi e bianchi
mostrava i denti e l'una e l'altra gota,
si copria 'l capo. E con tal fiera mostra
d'Ercole in guisa, a corte si condusse.
  Vennero appresso i suoi fratelli argivi
Catillo e Cora, e di Tiburte il terzo
guidâr le genti, che da lui nomate
fûr Tiburtine. Dai lor colli entrambi
calando avanti a l'ordinate schiere,
due Centauri sembravano a vedergli,
che giú correndo da' nevosi gioghi
d'Omole e d'Otri, risonando fansi
dar la via da' virgulti e da le selve.
  Cècolo, di Preneste il fondatore,
comparve anch'egli: un re che da bambino
fu tra l'agresti belve appo d'un foco
trovato esposto; onde di foco nato
si credé poscia, e di Volcano figlio.
Avea costui di rustici d'intorno
una gran compagnia, ch'eran de l'alta
Preneste, de' sassosi Ernici monti,
de la gabina Giuno e d'Anïene,
e d'Amasèno e de la ricca Anagni
abitanti e cultori: e come gli altri,
non eran in su' carri, o d'aste armati
o di scudi coverti. Una gran parte
eran frombolatori, e spargean ghiande
di grave piombo, e parte avean due dardi
ne la sinistra, e cappelletti in testa
d'orridi lupi: il manco piè discalzo
il destro o d'uosa o di corteccia involto.
  Messapo venne poscia, de' cavalli
il domatore e di Nettuno il figlio,
contro al ferro fatato e contro al foco.
Questi subitamente armando spinse
le genti sue per lunga pace imbelli;
deviò dalle nozze i Fescennini,
da le leggi i Falisci: armò Soratte,
armò Flavinio, e tutti che d'intorno
ha di Cimini e la montagna e 'l lago,
e di Capena i boschi. Ivan del pari
in ordinanza, e del suo re cantando,
come soglion talor da la pastura
tornarsi in vèr le rive al ciel sereno
i bianchi cigni, e le distese gole
disnodar gorgheggiando, e far di tutti
tale una melodia, che di Caïstro
ne suona il fiume e d'Asia la palude.
Né pur un si movea di tanta schiera
da la sua fila, in ciò lo stuol sembrando
de' rochi augelli allor che di passaggio
vien d'alto mare, e come intera nube
a terra unitamente se ne cala.
  Ecco di poi venir Clauso il sabino,
di quel vero sabino antico sangue;
ch'avea gran gente, e la sua gente tutta
pareggiava sol egli. Il nome suo
fece Claudia nomare e la famiglia
e la tribú Romana allor che Roma
diessi a' Sabini in parte. Era con lui
la schiera d'Amiterno e de' Quiriti
di quegli antichi. Eravi il popol tutto
d'Ereto, di Mutisca, di Nomento
e di Velino e quei che da l'alpestra
Tètrica, da Severo, da Caspèria,
da Fòruli e d'Imella eran venuti:
quei che bevean del Fàbari e del Tebro,
che da la fredda Norcia eran mandati;
le squadre degli Ortini, il Lazio tutto,
e tutti alfin che nel calarsi al mare
bagna d'ambe le sponde Allia infelice.
Tanti flutti non fa di Libia il golfo
quando cade Orïon ne l'onde, il verno:
né tante spiche hanno dal sole aduste
la state, o d'Ermo o de la Licia i campi,
quante eran genti. Arme sonare e scudi
s'udian per tutto, e tutta al suon de' piedi
trepidar si vedea l'ausonia terra.
  Quindi ne vien l'agamennonio auriga
Aleso, del troian nome nimico;
che di mille feroci nazïoni,
in aíta di Turno, un gran miscuglio
dietro al suo carro avea di montanari.
Parte de' pampinosi a Bacco amici
Màssici colli, e parte degli Aurunci,
de' Sidicini liti, di Volturno,
di Cale, de' Satícoli e degli Osci.
Questi per armi avean mazze e lanciotti
irti di molte punte, e di soatto
scudisci al braccio, onde erano i lor colpi,
traendo e ritraendo, in molti modi
continüati e doppi. E pur con essi
aveano e per ferire e per coprirsi
targhe ne la sinistra, e storte al fianco.
  Né tu senza il tuo nome a questa impresa,
Èbalo, te n'andrai, del gran Telone
e de la bella Ninfa di Sebeto
figlio onorato. Di costui si dice
che, non contento del paterno regno,
Capri al vecchio lasciando e i Teleboi,
fe' d'esterni paesi ampio conquisto,
e fu re de' Sarrasti e de le genti
che Sarno irriga. Insignorissi appresso
di Bàtulo, di Rufra, di Celenne
e de' campi fruttiferi d'Avella.
Mezze picche avean questi a la tedesca
per avventarle, e per celate in capo
súveri scortecciati, e di metallo
brocchieri a la sinistra, e stocchi a lato.
  Calò di Nersa e de' suoi monti alpestri
Ufente, un condottier ch'era in quei tempi
di molta fama e fortunato in arme.
Equícoli, avea seco, la piú parte
orrida gente, per le selve avvezza
cacciar le fere, adoperar la marra,
arar con l'armi in dosso, e tutti insieme
viver di cacciagioni e di rapine.
  De la gente Marrubia un sacerdote
venne fra gli altri; sacerdote insieme
e capitan di genti ardito e forte:
Umbrone era il suo nome; Archippo il rege
che lo mandava. Di felice oliva
avea il cimiero e l'elmo intorno avvolto.
Era gran ciurmatore, e con gl'incanti
e col tatto ogni serpe addormentava:
degl'idri, de le vipere, e degli aspi
placava l'ira, raddolciva il tòsco,
e risanava i morsi. E non per tanto
poté, né con incanti né con erbe
de' Marsi monti, risanare il colpo
de la dardania spada; onde il meschino
ne fu da le foreste de l'Anguizia,
dal cristallino Fúcino e dagli altri
laghi d'intorno disïato e pianto.
  Mandò la madre Aricia a questa guerra
Virbio, del casto Ippolito un figliuolo
gentile e bello; e da le selve il trasse
d'Egèria, ove d'Imeto in su la riva
piú cólta e piú placabile è Dïana;
ché, per fama, d'Ippolito si dice,
poscia che fu per froda o per disdegno
de l'iniqua madrigna al padre in ira,
e che gli spaventati suoi cavalli
strazio e scempio ne fêro, egli di nuovo,
per virtú d'erbe e per pietà che n'ebbe
la casta dea, fu rivocato in vita.
Sdegnossi il padre eterno ch'un mortale
fosse a morte ritolto; e l'inventore
di cotal arte, che d'Apollo nacque,
fulminando mandò ne' regni bui.
Ippolito da Trivia in parte occulta,
scevro da tutti, a cura fu mandato
d'Egèria ninfa, e ne la selva ascoso,
là 've solingo, e col cangiato nome
di Virbio, sconosciuto i giorni mena
d'un'altra vita. E quinci è che dal tempio
e da le selve a Trivia consecrate
i cavalli han divieto: ché, lor colpa,
fu 'l suo carro e 'l suo corpo al marin mostro,
e poscia a morte indegnamente esposto.
Il figlio, che pur Virbio era nomato,
non men di lui feroce, i suoi destrieri
esercitava, e 'n su 'l paterno carro
arditamente a questa guerra uscio.
  Turno infra' primi, di persona e d'armi
riguardevole e fiero, e sopra tutti
con tutto 'l capo, in campo appresentossi.
Un elmo avea con tre cimieri in testa
e suvvi una Chimera, che con tante
bocche foco anelava quante a pena
non apria Mongibello; e con piú fremito
spargea le fiamme, come piú crudele
era la zuffa, e piú di sangue avea.
Lo scudo era d'acciaio, e d'oro intorno
tutto commesso, e d'òr nel mezzo un'Io
era scolpita, che già 'l manto e 'l ceffo,
le setole e le corna avea di bue;
memorabil soggetto! Eravi appresso
Argo che la guardava; eravi il padre
Inaco che, chiamandola, versava,
non men de gli occhi che de l'urna, un fiume.
Dopo Turno venia di fanti un nembo,
un'ordinanza, una campagna piena
tutta di scudi. Eran le genti sue
Argivi, Aurunci, Rutuli, Sicani
e Sacrani e Labici, che dipinti
portan gli scudi. Avea del tiberino,
avea del sacro lito di Numíco
e de' rutuli colli e del Circèo,
d'Ànsure a Giove sacro, di Feronia
diletta a Giuno, de la paludosa
Sàtura, e del gelato e scemo Ufente
gran turba di villani e d'aratori.
  L'ultima a la rassegna vien Camilla
ch'era di volsca gente una donzella,
non di conocchia o di ricami esperta,
ma d'armi e di cavalli, e benché virgo,
di cavalieri e di caterve armate
gran condottiera, e ne le guerre avvezza.
Era fiera in battaglia, e lieve al corso
tanto che, quasi un vento sopra l'erba
correndo, non avrebbe anco de' fiori
tocco, né de l'ariste il sommo a pena;
non avrebbe per l'onde e per gli flutti
del gonfio mar, non che le piante immerse,
ma né pur tinte. Per veder costei
uscian de' tetti, empiean le strade e i campi
le genti tutte; e i giovini e le donne
stavan con meraviglia e con diletto
mirando e vagheggiando quale andava,
e qual sembrava; come regiamente
d'ostro ornato avea 'l tergo, e 'l capo d'oro;
e con che disprezzata leggiadria
portava un pastoral nodoso mirto
con picciol ferro in punta; e con che grazia
se ne gia d'arco e di faretra armata.


 

 

LIBRO OTTAVO



  Poscia che di Laurento in su la ròcca
fe' Turno inalberar di guerra il segno,
e che guerra sonâr le roche trombe,
spinti i carri e i destrieri, e l'armi scosse
di Marte al tempio, incontinente i cuori
si turbâr tutti, e tutto il Lazio insieme
con súbito tumulto si ristrinse.
Fremessi, congiurossi, rassettossi
ognun ne l'arme. I tre gran condottieri
Messàpo, Ufente, e l'empio de' celesti
dispregiator Mezenzio, usciro in prima.
Accolsero i sussidi; armâr gli agresti;
spogliâr d'agricoltor le ville e i campi.
  In Arpi a Dïomede si destina
Vènulo imbasciatore, e gli s'impone
che soccorso gli chiegga, e che gli esponga
quanto ciò de l'Italia e del suo stato
torni a grand'uopo: con che gente Enea,
con quale armata v'ha già posto il piede,
e fermo il seggio, e rintegrato il culto
a' suoi vinti Penati; come aspira
a questo regno, e come anco per fato,
e per retaggio del dardanio seme,
lo si promette. Che perciò da molti
è già seguito, e ch'ogni giorno avanza
e di forze e di nome. Indi soggiunga:
«Quel che 'l duce de' Teucri in ciò disegni
e che miri e che tenti (se fortuna
gli va seconda) a te via piú ch'a Turno
esser può manifesto, e ch'a Latino».
Questi andamenti e queste trame allora
correan per Lazio, e lo scaltrito eroe
le sapea tutte, onde in un mare entrato
di gran pensieri, or la sua mente a questo,
or a quel rivolgendo in varie parti,
d'ogni cosa avea téma e speme e cura.
Cosí di chiaro umor pieno un gran vaso,
dal sol percosso, un tremulo splendore
vibra ondeggiando, e rinfrangendo a volo
manda i suoi raggi, e le pareti e i palchi
e l'aura d'ogni intorno empie di luce.
  Era la notte, e già per ogni parte
del mondo ogni animal d'aria e di terra
altamente giacea nel sonno immerso,
allor che 'l padre Enea, cosí com'era
dal pensier de la guerra in ripa al Tebro
già stanco e travagliato, addormentossi.
Ed ecco Tiberino, il dio del loco
veder gli parve, un che già vecchio al volto
sembrava. Avea di pioppe ombra d'intorno
di sottil velo e trasparente in dosso
ceruleo ammanto, e i crini e 'l fronte avvolto
d'ombrosa canna. E de l'ameno fiume
placido uscendo a consolar lo prese
in cotal guisa: «Enea, stirpe divina,
che Troia da' nemici ne riporti
e la ravvivi e la conservi eterna;
o da me, da' Laurenti e da' Latini
già tanto tempo a tanta speme atteso,
questa è la casa tua, questo è secura-
mente, non t'arrestare, il fatal seggio
che t'è promesso. Le minacce e 'l grido
non temer de la guerra. Ogn'odio, ogn'ira
cessa già de' celesti. E perché 'l sonno
credenza non ti scemi, ecco a la riva
sei già del fiume, u' sotto a l'elce accolta
sta la candida troia con quei trenta
candidi figli a le sue poppe intorno.
Questo fia dunque il segno e 'l tempo e 'l loco
da fermar la tua sede. E questo è 'l fine
de' tuoi travagli: onde il tuo figlio Ascanio
dopo trent'anni il memorabil regno
fonderà d'Alba, che cosí nomata
fia dal candore e dal felice incontro
di questa fera. E tutto adempirassi
ch'io ti predíco, e t'è predetto avanti.
Or brevemente quel ch'oprar convienti,
per uscir glorïoso e vincitore
di questa guerra, ascolta. È di qui lunge
non molto Evandro, un re che de l'Arcadia
è qua venuto; e sopra a questi monti
ha degli Arcadi suoi locato il seggio.
Il loco, da Pallante suo bisavo,
è stato Pallantèo da lui nomato:
ed essi, perché son nel Lazio esterni,
son nemici a' Latini, ed han con loro
perpetua guerra. A te fa di mestiero
con lor confederarti, e per compagni
a questa impresa avergli. Io, fra le ripe
mie stesse, incontro a l'acqua a la magione
d'Evandro agevolmente condurrotti.
Dèstati, de la dea pregiato figlio;
e come pria vedrai cader le stelle,
porgi solennemente a la gran Giuno
preghiere e vóti; e supplicando vinci
de l'inimica dea l'ira e l'orgoglio;
ed a me, poi che vincitor sarai,
paga il dovuto onore. Io sono il Tebro
cerco da te, che, qual tu vedi, ondoso
rado queste mie rive, e fendo i campi
de la fertile Ausonia, al cielo amico
sovr'ogni fiume. Quel che qui m'è dato,
è 'l mio seggio maggiore: e fia che poscia
sovr'ogni altra cittade il capo estolla».
  Cosí disse, e tuffossi. Enea dal sonno
si scosse; il giorno aprissi, ed ei col sole
sorgendo insieme, al suo nascente raggio
si volse umíle, e con le cave palme
de l'onda si spruzzò del fiume, e disse:
«Ninfe lauremti, ninfe, ond'hanno i fiumi
l'umore e 'l corso; e tu con l'onde tue,
padre Tebro sacrato, al vostro Enea
date ricetto, e da' perigli omai
lo liberate. Ed io da qual sia fonte
che sgorghi, in qual sii riva, in qual sii foce
(poiché tanta di me pietà ti stringe)
sempre t'onorerò, sempre di doni
ti sarò largo. O de l'esperid'onde
superbo regnatore, amico e mite
ne sia il tuo nume, e i tuoi detti non vani».
  Cosí dicendo, de' suoi legni elegge
i due migliori, e gli correda e gli arma
di tutto punto. Ed ecco d'improvviso
(mirabil mostro!) de la selva uscita
una candida scrofa, col suo parto
di candor pari, sopra l'erba verde
ne la riva accosciata gli si mostra.
Tosto il pietoso eroe col gregge tutto
a l'altar la condusse, e poiché sacra
l'ebbe al gran nume tuo, massima Giuno,
a te l'uccise. Il Tebro quella notte
quanto fu lunga, di turbato e gonfio
ch'egli era, si rendé tranquillo e queto,
sí che, senza rumore e quasi in dietro
tornando, come stagno o come piana
palude adeguò l'onde, e tolse a' remi
ogni contesa. Accelerando adunque
il cammin preso, i ben unti e spalmati
lor legni se ne vanno incontro al fiume
com'a seconda; sí che l'onde stesse
stavan meravigliose, e i boschi intorno,
non soliti a veder l'armi e gli scudi
e i dipinti navili, che da lunge
facean novella e peregrina mostra.
Se ne van notte e giorno remigando
di tutta forza, e i seni e le rivolte
varcan di mano in mano, or a l'aperto,
or tra le macchie occulti, e via volando
segan l'onde e le selve. Era il sol giunto
a mezzo il giorno, quando incominciaro
da lunge a discovrir la ròcca e 'l cerchio
e i rari allor del poverello Evandro
umili alberghi, ch'ora al cielo adegua
la romana potenza. Immantinente
volser le prore a terra, ed appressârsi
là 've per avventura il re quel giorno
solennemente in un sacrato bosco
avanti a la città stava onorando
il grande Alcide. Avea Pallante seco
suo figlio, e del suo povero senato
e de' suoi primi giovini un drappello
che d'incensi, di vittime e di fumo
di caldo sangue empiean l'are e gli altari.
  Tosto che di lontan vider le gaggie,
e per entro de' boschi occulte e chete
gir navi esterne, insospettiti in prima
si levâr da le mense. Ma Pallante
arditamente: «Non movete, - disse, -
seguite il sacrificio». E tosto a l'armi
dato di piglio, incontro a lor si spinse.
Giunto, gridò da l'argine: «O compagni,
qual fin v'adduce, o qual v'intrica errore
per cosí torta e disusata via?
Ov'andate? chi siete? onde venite?
che ne recate voi? la pace, o l'armi?
Enea di su la poppa un ramo alzando
di pacifera oliva: «Amici - disse -
vi siamo, e siam Troiani, e coi Latini
vostri nimici inimicizia avemo.
Questi superbamente il nostro esiglio
perseguitando ne fan guerra ed onta.
Ricorremo ad Evandro. A lui porgete
da nostra parte, che de' Teucri alcuni
son qui venuti condottieri eletti
per sussidi impetrarne e lega d'arme».
  Stupí primieramente a sí gran nome
Pallante, indi vèr lui rivolto umíle:
«Signor, qual che tu sii, scendi e tu stesso
parla, - disse, - al mio padre, e nosco alloggia».
E lo prese per mano ed abbracciollo.
Lasciato il fiume e ne la selva entrati,
Enea dinanzi al re comparve e disse:
  «Signor, che di bontà sovr'ogni Greco,
e di fortuna sovr'a me ten vai
tanto che supplichevole, e co' rami
di benda avvolti a tua magion ne vengo;
io, perché sia Troiano e tu di Troia
per nazïon nimico e per legnaggio
agli Atridi congiunto, or non pavento
venirti avanti, ché 'l mio puro affetto,
gli oracoli divini, il sangue antico
de' maggior nostri, il tuo famoso grido,
e 'l fato e 'l mio voler m'han teco unito.
Dardano, de' Troiani il primo autore,
nacque d'Elettra, come i Greci han detto;
e d'Elettra fu padre il grande Atlante,
che con gli omeri suoi folce le stelle.
Vostro progenitor Mercurio fue,
che nel gelido monte di Cillene
de la candida Maia al mondo nacque;
e Maia ancor, se questa fama è vera,
venne d'Atlante, e da lo stesso Atlante
che fa con le sue spalle al ciel sostegno.
Cosí d'un fonte lo tuo sangue e 'l mio
traggon principio. E quinci è che securo
senza opra di messaggi e senza scritti,
pria ch'io ti tenti, e pria che tu m'affidi,
posto ho me stesso e la mia vita a rischio,
e supplichevolmente a la tua casa
ne son venuto. I Rutuli ch'infesti
sono anche a te, se de l'Italia fuori
cacceran noi, già de l'Italia tutta
l'imperio si promettono, e di quanto
bagna l'un mare e l'altro. Or la tua fede
mi porgi, e la mia prendi; ch'ancor noi
siamo usi a guerra, e cor ne' petti avemo».
  Il re, mentre ch'Enea parlando stette,
il volto e gli occhi e la persona tutta
gli andò squadrando; e brevemente al fine
cosí rispose: «Valoroso eroe,
come lieto io t'accolgo, e come certo
raffigurar mi sembra il volto e i gesti
e la favella di quel grande Anchise
tuo genitore! Io mi ricordo quando
Priamo per riveder la sua sorella
Esïone e 'l suo regno, in un passaggio
che perciò fe' da Troia a Salamina,
toccò d'Arcadia i gelidi confini.
De le prime lanugini fiorito
era il mio mento a pena allor ch'io vidi
quei gran duci di Troia, e de' Troiani
lo stesso re. Con molto mio diletto
gli mirai, gli ammirai, notai di tutti
gli abiti e le fattezze, e sopra tutti
leggiadro, riguardevole ed altero
sembrommi Anchise. Un desiderio ardente
mi prese allor d'offrirmi, e d'esser conto
a quel signore. Il visitai, gli porsi
la destra, ospite il fei, nel mio Fenèo
meco l'addussi. Ond'ei poscia partendo,
un arco, una faretra e molti strali
di Licia presentommi, e d'oro appresso
una ricca intessuta sopravesta
con due freni indorati ch'ancor oggi
son di Pallante mio: sí che già ferma
è tra noi quella fede e quella lega
ch'or ne chiedete. E non fia il sol dimane
dal balcon d'orïente uscito a pena,
che le mie genti e i miei sussidi arete.
Intanto a questa festa, che solenne
facciamo ogni anno, e tralasciar non lece
(già che venuti siete amici nostri),
nosco restate, e come di compagni
queste mense onorate». Avea ciò detto,
allor che nuovi cibi e nuove tazze
ripor vi fece, e lor tutti nel prato
a seder pose; e sopra tutti Enea,
di villoso leon disteso un tergo,
seco al suo desco ed al suo seggio accolse.
Per man de' sacerdoti e de' ministri
del sacrificio, d'arrostite carni
de' tori, di vin puro, di focacce,
gran piatti, gran canestri e gran tazzoni
n'andaro a torno; e co' suoi Teucri tutti
Enea fu de le viscere pasciuto
del saginato, a dio devoto, bue.
  Tolte le mense, e 'l desiderio estinto
de le vivande, a ragionar rivolti,
Evandro incominciò: «Troiano amico,
questo convito e questo sacrificio
cosí solenne, e questo a tanto nume
sacrato altare, instituiti e posti
non sono a caso; ché del vero culto
e de gli antichi dèi notizia avemo.
Per memoria, per merito e per vóto
d'un gran periglio sua mercé scampato,
son questi onori a questo dio dovuti.
Mira colà quella scoscesa rupe,
e que' rotti macigni, e di quel colle
quell'alpestra ruina, e quel deserto.
Ivi era già remota e dentro al monte
cavata una spelonca, ov'unqua il sole
non penetrava. Abitatore un ladro
n'era, Caco chiamato, un mostro orrendo
mezzo fera e mezz'uomo, e d'uman sangue
avido sí, che 'l suol n'avea mai sempre
tiepido. Ne grommavan le pareti,
ne pendevano i teschi intorno affissi,
di pallor, di squallor luridi e marci.
Volcano era suo padre; e de' suoi fochi
per la bocca spirando atri vapori,
gia d'un colosso, e d'una torre in guisa.
Contra sí diro mostro, dopo molti
dannaggi e molte morti, il tempo al fine
ne diede e questo dio soccorso e scampo.
Egli di Spagna vincitor ne venne
in queste parti, de le spoglie altero
di Gerïone, in cui tre volte estinse
in tre corpi una vita, e ne condusse
tal qui d'Ibèro un copïoso armento,
ch'avea pien questo fiume e questa valle.
  Caco ladron feroce e furïoso,
d'ogni misfatto e d'ogni sceleranza
ardito e frodolente esecutore,
quattro tori involonne e quattro vacche,
ch'eran fior de l'armento. E perché l'orme
indicio non ne dessero, a rovescio
per la coda gli trasse; e ne la grotta
gli condusse e celogli. Eran l'impronte
de' lor piè volte al campo, e verso l'antro
segno non si vedea ch'a la spelonca
il cercator drizzasse. Avea già molti
giorni d'Anfitrïon tenuto il figlio
qui le sue mandre, e ben pasciuto e grasso
era il suo armento, sí che nel partire
tutte queste foreste e questi colli
di querimonia e di muggiti empiero.
Mugghiò da l'altro canto, e 'l vasto speco
da lunge rintonar fece una vacca
de le rinchiuse: onde schernita e vana
restò di Caco la custodia e 'l furto;
ch'udilla Alcide, e d'ira e di furore
in un súbito acceso, a la sua mazza,
ch'era di quercia nodorosa e grave,
diè di piglio, e correndo al monte ascese.
Quel dí da' nostri primamente Caco
temer fu visto. Si smarrí negli occhi,
si mise in fuga, e fu la fuga un volo:
tal gli aggiunse un timor le penne a' piedi.
  Tosto che ne la grotta si rinchiuse,
allentò le catene, e di quel monte
una gran falda a la sua bocca oppose;
ch'a la bocca de l'antro un sasso immane
avea con ferri e con paterni ordigni
di cataratta accomodato in guisa
con puntelli per entro e stanghe e sbarre.
Ecco Tirinzio arriva, e come è spinto
da la sua furia, va per tutto in volta
fremendo, ora ai vestigi, ora ai muggiti,
ora a l'entrata de la grotta intento.
E portato da l'impeto, tre volte
scórse de l'Aventino ogni pendice:
tre volte al sasso de la soglia intorno
si mise indarno; e tre volte affannato
ritornò ne la valle a riposarsi.
  Era de la spelonca al dorso in cima
di selce d'ogn'intorno dirupata
un cucuzzolo altissimo ed alpestro
ch'ai nidi d'avvoltoi e di tali altri
augelli di rapina e di carogna
era opportuno albergo. A questo intorno
alfin si mise; e siccom'era al fiume
da sinistra inchinato, egli a rincontro
lo spinse da la destra, lo divelse,
col calce de la mazza a leva il pose,
e gli diè volta. A quel fracasso il cielo
rintonò tutto, si crollâr le ripe,
e 'l fiume impaurito si ritrasse.
  Allor di Caco fu lo speco aperto:
scoprissi la sua reggia, e le sue dentro
ombrose e formidabili caverne.
Come chi de la terra il globo aprisse
a viva forza, e de l'inferno il centro
discovrisse in un tempo, e che di sopra
de l'abisso vedesse quelle oscure
del cielo abbominate orride bolge;
vedesse Pluto a l'improvviso lume
restar del sole attonito e confuso:
cotal Caco da súbito splendore
ne la sua tomba abbarbagliato e chiuso
digrignar qual mastino Ercole vide;
e non piú tosto il vide, che di sopra
sassi, travi, tronconi, ogn'arme addosso
fulgurando avventogli. Ei che né fuga
avea né schermo al suo periglio altronde,
da le sue fauci (meraviglia a dirlo!)
vapori e nubi a vomitar si diede
di fumo, di caligine e di vampa,
tal che miste le tenebre col foco
togliean la vista agli occhi e 'l lume a l'antro.
Non però si contenne il forte Alcide,
che d'un salto in quel baratro gittossi
per lo spiraglio, e là 'v'era del fumo
la nebbia e l'ondeggiar piú denso, e 'l foco
piú roggio, a lui che 'l vaporava indarno,
s'addusse, e lo ghermí; gli fece un nodo
de le sue braccia, e sí la gola e 'l fianco
gli strinse che scoppiar gli fece il petto,
e schizzar gli occhi; e 'l foco e 'l fiato e l'alma
in un tempo gli estinse. Indi la bocca
aprí de l'antro, e la frodata preda,
e del suo frodatore il sozzo corpo
fuor per un piè ne trasse, a cui d'intorno
corser le genti a meraviglia ingorde
di veder gli occhi biechi, il volto atroce,
l'ispido petto e l'ammorzato foco.
  Da indi in qua questo dí santo ogni anno
da' nostri è lietamente celebrato:
e ne sono i Potizi i primi autori,
e i Pinari ministri. Allor quest'ara,
che Massima si disse, e che mai sempre
massima ne sarà, fu consecrata
in questo bosco. Or via dunque, figliuoli,
per celebrar tant'onorata festa,
coi rami in fronte e con le tazze in mano
il comun dio chiamate, e lietamente
l'un con l'altro invitatevi, e beete».
  Ciò detto, il divisato erculeo pioppo
tessero altri in ghirlande, altri in festoni,
altri i mai ne piantaro. E di già pieno
di sacrato liquore il gran catino,
tutti a mensa gioiosi s'adagiaro,
e spargendo e beendo, ai santi numi
porser preghiere e vóti. Espero intanto
era a l'occidental lito vicino
già per tuffarsi, quando i sacerdoti
un'altra volta, e 'l buon Potizio avanti
con pelli indosso e con facelle in mano,
com'è costume, a convivar tornaro,
e le seconde mense e l'are sante
di grati doni e di gran piatti empiero.
I Salii intorno ai luminosi altari
givano in tresca, e di populea fronde
cingean le tempie. I vecchi da l'un coro
le prodezze cantavano e le lodi
del grande Alcide; i giovini da l'altro
n'atteggiavano i fatti: come prima
fanciul da la matrigna insidïato
i due serpenti strangolasse in culla;
come al suolo adeguasse Ecalia e Troia,
città famose; come superasse
mill'altre insuperabili fatiche
sotto al duro tiranno, e contr'ai fati
de l'empia dea. «Tu sei, - dicean cantando, -
invitto iddio, che de le nubi i figli
Nilèo e Folo uccidi; tu che 'l mostro
domi di Creta: tu che vinci il fiero
nemèo leone; te gl'inferni laghi,
te l'inferno custode ebbe in orrore
ne l'orrendo suo stesso e diro speco,
là, 've tra 'l sangue e le corrose membra
ha de la morta gente il suo covile.
Cosa non è sí spaventosa al mondo,
che te spaventi, non lo stesso armato
incontr'al ciel Tifèo; né quel di Lerna
con tanti e tanti capi orribil angue
senza avviso ti vide o senza ardire.
A te vera di Giove inclita prole,
umilmente inchiniamo, a te del cielo
nuovo aggiunto ornamento. E tu benigno
mira i cor nostri e i sacrifici tuoi».
  Cosí pregando e celebrando in versi
cantavan le sue pruove. E sopra tutto
dicean di Caco e de la sua spelonca
e de' suoi fochi: e i boschi e i colli intorno
rispondean rintonando. Eran finiti
i sacrifici, quando il vecchio Evandro
mosse vèr la cittade; e seco a pari
da l'un de' lati Enea, da l'altro il figlio
avea, cui s'appoggiava; e ragionando
di varie cose, agevolava il calle.
  Enea, meravigliando, in ogni parte
volgea le luci, desïoso e lieto
di veder quel paese e di saperne
i siti, i luoghi e le memorie antiche.
Di che spïando, il primo fondatore
de la romana ròcca in cotal guisa
a dir gli cominciò: «Questi contorni
eran pria selve; e gli abitanti loro
eran qui nati, ed eran fauni e ninfe,
e genti che di roveri e di tronchi
nate, né di costumi, né di culto,
né di tori accoppiar, né di por viti,
né d'altr'arti, o d'acquisto, o di risparmio
avean notizia o cura: e 'l vitto loro
era di cacciagion, d'erbe e di pomi,
e la lor vita, aspra, innocente e pura.
Saturno il primo fu che in queste parti
venne, dal ciel cacciato, e vi s'ascose.
E quelle rozze genti, che disperse
eran per questi monti, insieme accolse
e diè lor leggi: onde il paese poi
da le latèbre sue Lazio nomossi.
Dicon che sotto il suo placido impero
con giustizia, con pace e con amore
si visse un secol d'oro, in fin che poscia
l'età, degenerando, a poco a poco
si fe' d'altro colore e d'altra lega.
Quinci di guerreggiar venne il furore,
l'ingordigia d'avere, e le mischianze
de l'altre genti. L'assalîr gli Ausoni;
l'inondaro i Sicani; onde piú volte
questa, che pria Saturnia era nomata,
ha con la signoria cangiato il nome,
e co' signori. E quinci è che da Tebro,
che ne fu re terribile ed immane,
Tebro fu detto questo fiume ancóra,
ch'Àlbula si dicea ne' tempi antichi.
Ed ancor me de la mia patria in bando,
dopo molti perigli e molti affanni
del mar sofferti, ha qui l'onnipotente
fortuna e l'invincibil mio destino
portato alfine; e qui posar mi fêro
gli oracoli tremendi e spaventosi
di Carmenta mia madre, e Febo stesso
che mia madre inspirava». E fin qui detto,
si spinse avanti; e quell'ara mostrogli,
e quella porta che fu poi di Roma,
Carmental detta, onore e ricordanza
de la ninfa indovina, ch'anzi a tutti
del Pallantèo predisse e de' Romani
la futura grandezza. Indi seguendo,
un gran bosco gli mostra, ove l'Asilo
Romolo contraffece; e 'l Lupercale,
che, quale era in Arcadia a Pan Liceo,
sotto una fredda rupe era dicato.
Poscia de l'Argileto gli dimostra
la sacra selva; e d'Argo ospite il caso
gli conta, e se ne purga e se ne scusa.
A la Tarpeia rupe, al Campidoglio
poscia l'addusse; al Campidoglio or d'oro,
che di spini in quel tempo era coverto:
un ermo colle dai vicini agresti
per la religïon del loco stesso
insino allor temuto e riverito:
ch'a veder sol quel sasso e quella selva
si paventava. E qui soggiunse Evandro:
  «In questo bosco, e là 've questo monte
è piú frondoso, un dio, non si sa quale,
ma certo abita un dio. Queste mie genti
d'Arcadia han ferma fede aver veduto
qui Giove stesso balenar sovente,
e far di nembi accolta. Oltre a ciò vedi
qui su, quelle ruine e quei vestigi
di quei due cerchi antichi. Una di queste
città fondò Saturno, e l'altra Giano,
che Saturnia e Gianicolo fûr dette».
  In cotal guisa ragionando Evandro,
se ne gian verso il suo picciolo ostello.
E ne l'andar, là 'v'or di Roma è il Foro,
ov'è quella piú florida contrada
de le Carine, ad ogni passo intorno
udian greggi belar, mugghiare armenti.
Giunti che furo: «In questo umile albergo
alloggiò - disse - il vincitore Alcide.
Questa fu la sua reggia. E tu v'alloggia,
e tu 'l gradisci, e le delizie e gli agi
spregiando, imita in ciò Tirinzio e dio,
e del tugurio mio meco t'appaga».
Cosí dicendo, il grand'ospite accolse
ne l'angusta magione, e collocollo
là dove era di frondi e d'irta pelle
di libic'orsa attappezzato un seggio.
  Venne la notte, e le fosc'ali stese
avea di già sovra la terra, quando
Venere come madre, e non in vano
del suo figlio gelosa, il gran tumulto
veggendo e le minacce de' Laurenti,
con Volcan suo marito si ristrinse
con gran dolcezza; in tal guisa gli disse:
«Caro consorte, infinché i regi Argivi
furo a' danni di Troia, e che per fato
cader dovea, nullo da te soccorso
volsi, o da l'arte tua; né ti richiesi
d'armi allor, né di macchine, né d'altro
per iscampo de' miseri Troiani.
Le man, l'ingegno tuo, le tue fatiche
oprar non volli indarno, ancor che molto
con Prïamo e co' figli obbligo avessi,
e molto mi premesse il duro affanno
d'Enea mio figlio. Or per imperio espresso
e de' fati e di Giove egli nel Lazio
e tra' Rutuli è fermo. A te, mio sposo,
ricorro, a te, mio venerando nume;
e, madre, per un figlio arme ti chieggio;
quel che da te di Nèrëo la figlia,
e di Titon la moglie hanno impetrato.
Mira in quant'uopo io le ti chieggio, e quanti
e che popoli sono, a mia ruina
e de' miei, congregati; e qual fan d'armi
a porte chiuse orribile apparecchio».
  E 'l buon marito, che d'eterno amore
avea il cor punto, le si volse, e disse:
«A che sí lungo esordio? Ov'è, consorte,
vèr me la tua fidanza? Io fin d'allora,
se t'era grado, avrei d'arme provvisti
i Teucri tuoi; né 'l padre onnipotente,
né i fati ci vietavano che Troia
non si tenesse, e Prïamo non fosse
restato ancor per diece altr'anni in vita.
Ed or s'a guerra t'apparecchi, e questo
è tuo consiglio, quel che l'arte puote
o di ferro o di liquido metallo,
quanto i mantici han fiato, e forza il foco,
io ti prometto. E tu con questi preghi
cessa di rivocar la possa in forse
del tuo volere, e 'l mio desir ch'è sempre
di far le voglie tue paghe e contente».
  Finito il primo sonno, e de la notte
già corso il mezzo, come femminella
che col fuso, con l'ago e con la spola
la sua vita sostenta e de' suoi figli;
che la notte aggiungendo al suo lavoro,
e dal suo focolar pria che dal sole
procacciandosi 'l lume, a la conocchia,
a l'aspo, a l'arcolaio esercitando
sta le povere ancelle, onde mantenga
il casto letto e i pargoletti suoi;
tale in tal tempo, e con tal cura a l'opra
surse il gran fabbro, e la fucina aperse.
  Giace tra la Sicania da l'un canto,
e Lipari da l'altro un'Isoletta
ch'alpestra ed alta esce de l'onde, e fuma.
Ha sotto una spelonca, e grotte intorno,
che di feri Ciclopi antri e fucine
son, da' lor fochi affumicati e rosi.
Il picchiar de l'incudi e de' martelli
ch'entro si sente, lo stridor de' ferri,
il fremere e 'l bollir de le sue fiamme
e de le sue fornaci, d'Etna in guisa
intonar s'ode ed anelar si vede.
Questa è la casa, ove qua giú s'adopra
Volcano, onde da lui Volcania è detta;
e qui per l'armi fabbricar discese
del grand'Enea. Stavan ne l'antro allora
Stèrope e Bronte e Piracmóne ignudi
a rinfrescar l'aspre saette a Giove.
Ed una allor n'avean parte polita,
parte abbozzata, con tre raggi attorti
di grandinoso nembo, tre di nube
pregna di pioggia, tre d'acceso foco,
e tre di vento impetuoso e fiero.
I tuoni v'aggiungevano e i baleni,
e di fiamme e di furia e di spavento
un cotal misto. Altrove erano intorno
di Marte al carro, e le veloci ruote
accozzavano insieme, ond'egli armato
le genti e le città scuote e commuove.
Lo scudo, la corazza e l'elmo e l'asta
avean da l'altra parte incominciati
de l'armigera Palla, e di commesso
la fregiavano a gara. Erano i fregi
nel petto de la dea gruppi di serpi
che d'oro avean le scaglie, e cento intrichi
facean guizzando di Medusa intorno
al fiero teschio, che cosí com'era
disanimato e tronco, le sue luci
volgea d'intorno minacciose e torve.
Tosto che giunse: «Via, - disse a' Ciclopi -
sgombratevi davanti ogni lavoro,
e qui meco guarnir d'arme attendete
un gran campione. E s'unqua fu mestiero
d'arte, di sperïenza e di prestezza,
è questa volta. Or v'accingete a l'opra
senz'altro indugio». E fu ciò detto a pena,
che, divise le veci e i magisteri,
a fondere, a bollire, a martellare
chi qua chi là si diede. Il bronzo e l'oro
corrono a rivi; s'ammassiccia il ferro,
si raffina l'acciaio; e tempre e leghe
in piú guise si fan d'ogni metallo.
Di sette falde in sette doppi unite,
ricotte al foco e ribattute e salde,
si forma un saldo e smisurato scudo,
da poter solo incontro a l'armi tutte
star de' Latini. Il fremito del vento
che spira da' gran mantici, e le strida
che ne' laghi attuffati, e ne l'incudi
battuti, fanno i ferri, in un sol tuono
ne l'antro uniti, di tenore in guisa
corrispondono a' colpi de' Ciclopi,
ch'al moto de le braccia or alte or basse
con le tenaglie e co' martelli a tempo
fan concerto, armonia, numero e metro.
  Mentre in Eolia era a quest'opra intento
di Lenno il padre, ecco, sorgendo il sole,
surse al cantar de' mattutini augelli
il vecchio Evandro; e fuori uscio vestito
di giubba con le guigge a' piedi avvolte,
com'è tirrena usanza. Avea dal destro
omero a la Tegèa nel manco lato
una sua greca scimitarra appesa.
Avea da la sinistra di pantera
una picchiata pelle, che d'un tergo
gli si volgea su l'altro; e da la ròcca
scendendo, gli venian due cani avanti,
come custodi i suoi passi osservando.
In questa guisa il generoso eroe,
come quei che tenea memoria e cura
di compir quanto avea la sera avanti
ragionato e promesso, a le secrete
stanze del padre Enea si ricondusse.
Enea da l'altra parte assai per tempo
s'era levato: e solo in compagnia
l'un seco avea Pallante, e l'altro Acate.
Poscia che rincontrati e 'nsieme accolti
si salutaro, alfin, tra loro assisi,
a ragionar si diêro. E prima Evandro
cosí parlò: «Signor, cui vivo, in vita
dir si può che sia Troia, e che del tutto
non sia caduta e vinta; in questa guerra
quel che poss'io per tuo sussidio è poco
a tanto affare. Il mio paese è chiuso
quinci dal tosco fiume, e quindi ha l'armi
che gli suonan de' Rutuli d'intorno
fin sulle porte. Avviso e pensier mio
è per confederati e per compagni
darti una gente numerosa e grande
con molti regni. In tal qui tempo a punto
sei capitato, e tal felice incontro
ti porge amica e non pensata sorte.
  È non lunge di qui, su questi monti
d'Etruria, una famosa e nobil terra
ch'è sopra un sasso anticamente estrutta;
Agillina si dice, ove lor seggio
posero (è già gran tempo) i bellicosi
e chiari Lidi: e floridi e felici
vi fûr gran tempo ancora. Or sotto il giogo
son di Mezenzio capitati al fine.
A che di lui contar le sceleranze?
A che la ferità? Dio le riservi
per suo castigo e de' seguaci suoi.
Questo crudele insino a' corpi morti
mescolava co' vivi (odi tormento)
che giunte mani a mani, e bocca a bocca
in cosí miserando abbracciamento
gli facea di putredine e di lezzo,
vivi, di lunga morte alfin morire.
  I cittadini afflitti, disperati,
e fatti per paura alfin securi,
tesero insidie a lui, fecero strage
de' suoi, posero assedio, avventâr foco
a le sue case. Ei de le mani uscito
degli uccisori, ebbe rifugio a Turno
ch'or l'accoglie e 'l difende. Onde commossa
e per giusta cagione in furia volta
l'Etruria tutta in contra al suo tiranno
grida che muoia, e già con l'armi in mano
a morte lo persegue. A questa gente
di molte mila condottiero e capo
aggiungerotti. E già d'armate navi
son pieni i liti: ognun freme, ognun chiede
che si spieghin l'insegne. Un vecchio solo
aruspice e 'ndovino è, che sospesi
gli tiene infino a qui: "Gente meonia, -
dicendo, - fior di gente antica e nobile,
benché giusto dolor contra a Mezenzio,
e degn'ira v'incenda, incontro a Lazio
non movete voi già; ch'a nessun Italo
domar d'Italia una tal gente è lecito,
s'esterno duce a tant'uopo non prendesi".
  Cosí parato, e per timor confuso
del vaticinio stassi il campo etrusco.
E già Tarconte stesso a questa impresa
m'invita, e già mandato a presentarmi
ha la sedia e lo scettro e l'altre insegne
del tosco regno, perch'io re ne sia,
ed a l'oste ne vada. Ma la tarda
e fredda mia vecchiezza, e le mie forze
debili, smunte e diseguali al peso
fan ch'io rifiuti. Esorterei Pallante
mio figlio a questo impero, se non fosse
che nato di Sabella, Italo anch'egli
è per materna razza. Or questo incarco
dagli anni, da la gente, dal destino,
dal tuo stesso valore a te si deve.
E tu il prendi, signor, ch'abile e forte
sei piú d'ogni Troian, d'ogni Latino
a sostenerlo. Ed io Pallante mio,
la mia speranza e 'l mio sommo conforto,
manderò teco; che 'l mestier de l'arme,
che le fatiche del gravoso Marte
ne la tua scuola a tollerare impari:
e te da' suoi prim'anni, e i gesti tuoi
meravigliando ad imitar s'avvezze.
Dugento cavalieri, il nervo e 'l fiore
de' miei d'Arcadia, spedirò con lui,
e dugento altri il mio Pallante stesso
in suo nome daratti». Avea ciò detto
Evandro a pena, che d'Anchise il figlio
e 'l fido Acate stêr co' volti a terra
chinati. E da pensier gravi e molesti
fôran oppressi, se dal ciel sereno
la madre Citerea segno non dava,
sí come diè. Ché tal per l'aria un lume
vibrossi d'improvviso e con tal suono,
che parve di repente il mondo tutto
come scoppiando e ruinando ardesse;
ed in un tempo di tirrene tube
squillar ne l'aura alto concento udissi.
Alzaron gli occhi: e la seconda volta,
e la terza iterar sentiro il tuono;
e vider là 've il cielo era piú scarco
e piú tranquillo, una dorata nube
e d'armi un nembo che tra lor percosse,
scintillando, facean fremiti e lampi.
Stupiron gli altri. Ma il troiano eroe
che 'l cenno riconobbe e la promessa
de la diva sua madre: «Ospite, - disse, -
di saver non ti caglia quel ch'importi
questo prodigio; basta ch'ammonito
son io dal cielo, e questo è 'l segno e 'l tempo,
che la mia genitrice mi predisse:
che quandunque di guerra incontro avessi,
allora ella dal ciel presta sarebbe
con l'armi di Volcano a darmi aíta.
Oh quanta di voi strage mi prometto,
infelici Laurenti! e qual castigo
Turno, da me n'avrai! quant'armi, quanti
corpi volgere al mar, Tebro, ti veggio!
Via, patto e guerra mi si rompa omai».
  Cosí detto, dal soglio alto levossi:
e con Evandro e co' suoi Teucri in prima
d'Ercole visitando i santi altari,
il sopito carbon del giorno avanti
lieto desta e raccende; i Lari inchina;
i pargoletti suoi Penati adora,
e di piú scelte agnelle il sangue offrisce.
  Indi torna a le navi, e de' compagni
fatte due parti, la piú forte elegge
per seco addurre a preparar la guerra:
l'altra a seconda per lo fiume invia,
che pianamente e senz'alcun contrasto
si rivolga ad Ascanio, e dia novelle
de le cose e del padre. A quei che seco
in Etruria adducea, tosto provvisti
furo i cavalli. A lui venne in disparte
da tutti gli altri un palafreno eletto,
di pelle di leon tutto coverto,
ch'i velli avea di seta e l'ugna d'oro.
  Per la piccola terra in un momento
si sparge il grido ch'ai tirreni liti
ne va lo stuol de' cavalieri in fretta.
Le madri, paventose, ai templi intorno
rinnovellano i vóti; e già per téma
piú vicino il periglio, e piú l'aspetto
sembra di Marte atroce. Evandro il figlio
nel dipartir teneramente abbraccia;
né divelto da lui, né sazio ancora
di lagrimar, gli dice: «O se da Giove
mi fosse, figlio, di tornar concesso
ora in quegli anni e 'n quelle forze, ond'io
sotto Preneste il primo incontro fei
co' miei nemici, e vincitore i monti
arsi de' scudi, allor ch'Èrilo stesso,
lo stesso re con queste mani ancisi,
a cui nascendo avea Feronia madre
date tre vite e tre corpi, e tre volte
(meraviglia a contarlo!) era mestiero
combatterlo e domarlo; ed io tre volte
lo combattei, lo vinsi, e lo spogliai
d'armi e di vita; se tal, dico, io fossi,
mai non sarei da te, figlio, diviso;
mai non fôra Mezenzio oso d'opporsi
a questa barba; né per tal vicino
vedova resterebbe or la mia terra
di tanti cittadini. O dii superni,
o de' superni dii nume maggiore,
pietà d'un re servo e devoto a voi,
e d'un padre che padre è sol d'un figlio
unicamente amato. E se da' fati,
se da voi m'è Pallante preservato,
e s'io vivo or per rivederlo mai,
questa mia vita preservate ancora
con quanti unqua soffrir potessi affanni.
Ma se fortuna ad infortunio il tragge,
ch'io dir non oso, or or, prego, rompete
questa misera vita, or ch'è la téma,
or ch'è la speme del futuro incerta,
e che te, figlio mio, mio sol diletto
e da me desïato in braccio io tengo,
anzi ch'altra novella me ne venga,
che 'l cor pria che gli orecchi mi percuota».
Cosí 'l padre ne l'ultima partita
disse al suo figlio; e da l'ambascia vinto,
fu da' sergenti riportato a braccio.
A la campagna i cavalieri intanto
erano usciti. Enea col fido Acate,
e co' suoi primi era nel primo stuolo;
Pallante in mezzo risplendea ne l'armi
commesse d'oro, risplendea ne l'ostro
che l'arme avean per sopravesta intorno;
ma via piú risplendea ne' suoi sembianti
ch'eran di fiero e di leggiadro insieme.
Tale è quando Lucifero, il piú caro
lume di Citerea, da l'Oceàno,
quasi da l'onde riforbito, estolle
il sacro volto, e l'aura fosca inalba.
  Stan le timide madri in su le mura
pallide attentamente rimirando
quanto puon lunge il polveroso nembo
de l'armate caterve, e i lustri e i lampi
che facean l'armi tra i virgulti e i dumi
lungo le vie. Va per la schiera il grido
che si cavalchi; e lo squadron già mosso
al calpitar de la ferrata torma
fa 'l campo risonar tremante e trito.
  È di Cere vicino, appo il gelato
suo fiume un sacro bosco antico e grande
d'ombrosi abeti, che da cavi colli
intorno è cinto, venerabil molto
e di gran lunge. È fama che i Pelasgi,
primi del Lazio occupatori esterni,
a Silvan, dio de' campi e degli armenti,
consecrâr questa selva, e con solenne
rito gli dedicâr la festa e 'l giorno.
Quinci poco lontano era Tarconte
co' Tirreni accampato; e qui del campo
giunti a la vista, là 've un alto colle
lo scopria tutto. Enea, co' primi suoi
fermossi, ove i cavalli e i corpi loro
già stanchi ebbero alfin posa e ristoro.
  Era Venere in ciel candida e bella
sovr'un etereo nembo apparsa intanto
con l'armi di Volcano; e visto il figlio
ch'oltre al gelido rio per erma valle
sen gia da gli altri solitario e scevro,
apertamente gli s'offerse, e disse:
«Eccoti 'l don che da me, figlio, attendi,
di man del mio consorte. Or francamente
gli orgogliosi Laurenti e 'l fiero Turno
sfida a battaglia, e gli combatti e vinci».
E, ciò detto, l'abbraccia. Indi gli addita
d'armi quasi un trofeo, ch'appo una quercia
dianzi da lei diposte, incontro agli occhi
facean barbaglio, e, contro al sol, piú soli.
  D'un tanto dono Enea, d'un tale onore
lieto, e non sazio di vederlo, il mira,
l'ammira e 'l tratta. Or l'elmo in man si prende
e l'orribil cimier contempla e 'l foco
che d'ogni parte avventa: or vibra il brando
fatale; or ponsi la corazza avanti
di fino acciaio e di gravoso pondo,
che di sanguigna luce e di colori
diversamente accesi era splendente:
qual sembra di lontan cerulea nube,
arder col sole e varïar col moto.
Brandisce l'asta; gli stinier vagheggia
nitidi e lievi, che fregiati e fusi
son di fin oro e di forbito elettro.
Meravigliando alfin sopra lo scudo
si ferma, e l'incredibile artificio
ond'era intesto, e l'argomento esplora.
  In questo di commesso e di rilievo
avea fatto de' fochi il gran maestro
(come de' vaticini e del futuro
presago anch'egli) con mirabil arte
le battaglie, i trionfi e i fatti egregi
d'Italia, de' Romani e de la stirpe
che poi scese da lui; dal figlio Ascanio
incominciando, i discendenti tutti
e le guerre che fêr di mano in mano.
V'avea del Tebro in su la verde riva
finta la marzïal nudrice lupa
in un antro accosciata, e i due gemelli
che da le poppe di sí fiera madre
lascivetti pendean, senza paura
seco scherzando. Ed ella umíle e blanda
stava col collo in giro, or l'uno or l'altro
con la lingua forbendo e con la coda.
V'era poco lontan Roma novella
con una pompa, e con un circo avanti
pien di tumulto, ov'era un'insolente
rapina di donzelle, un darsi a l'arme
infra Romolo e Tazio, e Roma e Curi.
E poscia infra gli stessi regi armati,
di Giove anzi a l'altare un tener tazze
invece d'armi in mano, un ferir d'ambe
le parti un porco, e far connubi e pace.
  Né di qui lunge, erano a quattro a quattro
giunti a due carri otto destrier feroci,
che, qual Tullo imponea (stato non fossi
tu sí mendace e traditore, Albano!)
in due parti traean di Mezio il corpo;
e sí com'era tratto, i brani e 'l sangue
ne mostravan le siepi, i carri e 'l suolo.
V'era, oltre a ciò, Porsenna, il tosco rege,
ch'imperiosamente da l'esiglio
rivocava i Tarquini, e 'n duro assedio
ne tenea Roma, che del giogo schiva
s'avventava nel ferro. Avea nel volto
scolpito questo re sdegno e minacce,
e meraviglia, che sol Cocle osasse
tener il ponte; e Clelia, una donzella,
varcar il Tebro e sciôr la patria e lei.
  In cima dello scudo il Campidoglio
era formato e la Tarpeia rupe,
e Manlio che del tempio e de la ròcca
stava a difesa; e la romulea reggia
che 'l comignolo avea di stoppia ancora.
Tra' portici dorati iva d'argento
l'ali sbattendo e schiamazzando un'oca,
ch'apria de' Galli il periglioso agguato:
e i Galli per le macchie e per le balze
de l'erta ripa, da la buia notte
difesi, quatti quatti erano in cima
già de la ròcca ascesi. Avean le chiome,
avean le barbe d'oro: aveano i sai
di lucid'ostri divisati a liste,
e d'òr monili ai bianchi colli avvolti.
Di forti alpini dardi avea ciascuno
da la destra una coppia, e ne' pavesi
stavan coi corpi rannicchiati e chiusi.
  Quinci de' Salii e de' Luperci ignudi,
e de' greggi de' Flàmini scolpito
v'avea le tresche e i cantici e i tripudi,
ed essi tutti o coi lor fiocchi in testa,
o con gli ancili e con le tibie in mano:
cui le sacre carrette ivano appresso
coi santi simulacri e con gli arredi,
che traean per le vie le madri in pompa.
  E piú lunge nel fondo era la bocca
de la tartarea tomba, e del gran Dite
la reggia aperta: ov'anco eran le pene
e i castighi degli empi. E quivi appresso
stavi tu, scellerato Catilina,
sopra d'un ruinoso acuto scoglio
agli spaventi de le Furie esposto.
E scevri eran da questi i fortunati
luoghi de' buoni, a cui 'l buon Cato è duce.
  Gonfiava in mezzo una marina d'oro
con la spuma d'argento, e con delfini
d'argentino color, che con le code
givan guizzando, e con le schiene in arco
gli aurati flutti a loco a loco aprendo.
E i liti e 'l mare e 'l promontorio tutto
si vedea di Leucàte a l'azia pugna
star preparati; e d'una parte Augusto
sovra d'un'alta poppa aver d'intorno
Europa, Italia, Roma e i suoi Quiriti,
e 'l senato e i Penati e i grandi iddii.
Di tre stelle il suo volto era lucente.
Due ne facea con gli occhi, ed una sempre
del divo padre ne portava in fronte.
Ne l'altro corno Agrippa era con lui
del marittimo stuolo invitto duce,
ch'altero, e 'l capo alteramente adorno
de la rostrata sua naval corona,
i vènti e i numi avea fausti e secondi.
  Da l'altra parte vincitore Antonio,
di vèr l'aurora e di vèr l'onde rubre
barbari aiuti, esterne nazïoni
e diverse armi dal Cataio al Nilo
tutto avea seco l'Orïente addotto:
e la zingara moglie era con lui,
milizia infame. Ambe le parti mosse
se ne gian per urtarsi, e d'ambe il mare
scisso da' remi e da' stridenti rostri
lacero si vedea, spumoso e gonfio.
Prendean de l'alto i legni in tanta altezza,
che Cicladi con Cicladi divelte
parean nel mar gir a 'ncontrarsi, o 'n terra
monti con monti: da sí fatte moli
avventavan le genti e foco e ferro,
onde il mar tutto era sanguigno e roggio.
  Stava qual Isi la regina in mezzo
col patrio sistro, e co' suoi cenni il moto
dava alla pugna; e non vedea (meschina!)
quai due colúbri le venian da tergo.
L'abbaiatore Anúbi e i mostri tutti,
ch'eran suoi dii, contra Nettuno e contra
Venere e Palla armati eran con lei,
e Marte in mezzo, che nel campo d'oro
di ferro era scolpito, or questi or quelli
a la zuffa infiammava: e l'empie Furie
co' lor serpenti, la Discordia pazza
col suo squarciato ammanto, con la sferza
di sangue tinta la crudel Bellona
sgominavan le genti; e l'azio Apollo
saettava di sopra: agli cui strali
l'Egitto e gl'Indi e gli Arabi e i Sabei
davan le spalle. E già chiamare i vènti,
scioglier le funi, inalberar le vele
si vedea la regina a fuggir vòlta;
già del pallor de la futura morte,
ond'era dal gran fabbro il volto aspersa,
in abbandono a l'onde, e de la Puglia
ne giva al vento. Avea d'incontro il Nilo,
un vasto corpo, che, smarrito e mesto,
a' vinti aperto il seno e steso il manto,
i latebrosi suoi ridotti offriva.
  Cesare v'era alfin che trïonfando
tre volte in Roma entrava; e per trecento
gran templi a' nostri dii vóti immortali
si vedean consecrati. Eran le strade
piene tutte di plauso, di letizia,
e di feste e di giuochi. Ad ogni tempio
concorso di matrone; ad ogni altare
vittime, incensi e fiori. Egli di Febo
anzi al delúbro in maestade assiso
riconoscea de' popoli i tributi,
e la candida soglia e le superbe
sue porte ne fregiava. Iva la pompa
de le genti da lui domate intanto
varie di gonne, d'idïomi e d'armi.
Qui di Nomadi e d'Afri era una schiera
in abito discinta; ivi un drappello
di Lèlegi, di Cari e di Geloni
con archi e strali. Infin dai liti estremi
i Mòrini condotti erano al giogo,
e gl'indomiti Dai. Con meno orgoglio
giva l'Eufrate: ambe le corna fiacche
portava il Reno: disdegnoso il ponte
nel dorso si scotea l'Armenio Arasse.
  A tal, da tanta madre avuto dono,
e d'un tanto maestro, Enea mirando,
benché il velame del futuro occulte
gli tenesse le cose, ardire e speme
prese e gioia a vederle; e de' nepoti
la gloria e i fati agli omeri s'impose.


 

 

LIBRO NONO



  Mentre cosí de' suoi scevro e lontano,
Enea fa d'armi e di sussidi acquisto,
Giuno di concitar la furia e l'ira
di Turno unqua non resta. Erasi Turno
col pensier della guerra al sacro bosco
di Pilunno suo padre allor ridotto,
che mandata da lei di Taümante
gli fu la figlia in cotal guisa a dire:
  «Ecco, quel che tu mai chiedere a lingua,
o 'mpetrar dagli dèi, Turno, potessi,
per sé l'occasïon ti porge e 'l tempo.
Enea, mentre dagli altri implora aíta,
le sue mura, i suoi legni e le sue genti
lascia ora a te, se tu 'l conosci, in preda.
Ei coi migliori al palatino Evandro
se n'è passato, e quindi è ne l'estremo
penetrato d'Etruria. Ora è nel campo
de' Toschi, e favvi indugio, ed arma agresti.
E tu qui badi or che di carri e d'armi
e di prestezza è d'uopo? E che non prendi
i suoi steccati che son or di tanto
per l'assenza di lui turbati e scemi?»
Poscia che cosí disse, alto su l'ali
la dea levossi; e tra l'opache nubi
per entro al suo grand'arco ascese e sparve.
  Turno, che la conobbe, ambe a le stelle
alza le palme; e nel fuggir con gli occhi
seguilla e con la voce: «Iri, - dicendo, -
lume e fregio del cielo, e chi ti spiega
or da le nubi? E chi quaggiú ti manda?
Ond'è l'aër sí chiaro e sí tranquillo
cosí repente? Io veggio aprirsi il cielo,
vagar le stelle. O qual tu de' celesti
sii, ch'a l'armi m'inviti, io lieto accetto
un tanto augurio, e lo gradisco e 'l seguo».
Cosí dicendo al fiume si rivolse;
n'attinse; se ne sparse; e preci e vóti
molte fïate al ciel porse e riporse.
  Eran già le sue genti a la campagna,
e de' cavalli il condottier Messàpo
di ricca sopraveste ornato e d'oro
movea davanti. I giovini di Tirro
tenean l'ultime squadre, e Turno in mezzo
con tutto il capo a tutta la battaglia
sopravanzando, armato cavalcava
per l'ordinanza. In cotal guisa i campi
primieramente inonda il Gange o 'l Nilo
con sette fiumi; indi ristretto e queto
correndo, entro al suo letto si raccoglie.
  Qui d'improvviso d'un oscuro nembo
di polve il ciel ravvilupparsi i Teucri
scorgon da lunge, e 'ntorbidarsi i campi.
Caíco il primo da l'avversa mole
gridando: «O, - disse, - cittadini, un gruppo
vèr noi di polverio ne l'aura ondeggia.
Ognuno a l'armi; ognun a la muraglia:
ecco i nemici». Di ciò corre il grido
per tutta la città; chiuggon le porte:
empion le mura. Tale avea, partendo,
dato il sagace Enea precetto e norma,
ch'in caso di rottura, a campo aperto
senza lui non s'ardisse o spiegar schiere
o far conflitto; e solo a la difesa
s'attendesse del cerchio. Ira e vergogna
gli animava a la zuffa: editto e téma
gli ritenea del duce. Ond'entro armati
ne le torri, in su' merli e ne' ripari
aspettaro i nemici. A lento passo
procedea l'ordinanza; e Turno a volo
con venti eletti cavalieri avanti
si spinse e d'improvviso appresentossi.
Cavalcava di Tracia un gran corsiero,
di bianche macchie il vario tergo asperso,
e 'l suo dorato e luminoso elmetto
d'alto cimier copria cresta vermiglia.
  Qui fermo: «Chi di voi, giovini, - disse, -
meco sarà, contr'a' nemici il primo?»
E quel ch'era di pugna indizio e segno,
l'asta a l'aura avventando, alteramente
trascorse il campo, ed ingaggiò battaglia.
Con alte grida e con orribil voci
fremendo lo seguiro i suoi compagni,
non senza meraviglia che sí vili
fossero i Teucri a non osar del pari
uscirgli a fronte, non mostrarsi in campo,
ferir da lunge, e di muraglia armarsi.
Turno di qua di là turbato e fiero
si spinge e scorre il piano, e cerchia il muro,
e d'entrar s'argomenta ov'anche è chiuso.
  Come rabbioso ed affamato lupo
al pieno ovile insidïando, freme
la notte, al vento ed a la pioggia esposto;
quando sotto le madri i puri agnelli
belan securi, ed ei la fame e l'ira
incontro a lor che gli son lunge, accoglie;
cosí gli occhi di foco e 'l cor di sdegno
il Rutulo infiammato, anelo e fiero
va de' nimici agli steccati intorno,
ogni loco, ogni astuzia, ogni sentiero
lnvestigando, onde o co' suoi vi salga
o lor ne sbuchi, e ne gli tiri al piano.
  Alfin l'armata assaglie, ch'a' ripari
da l'un canto congiunta, entro un canale
d'onde e d'argini cinta, era nascosta.
Qui foco esclama, e foco di sua mano
con un ardente pino a' suoi seguaci
dispensa, e lor con la presenza accende:
onde tosto e le faci e i legni appresi,
fumo, fiamme, faville e vampi e nubi
e volumi di pece al ciel n'andaro.
  Muse, ditene or voi qual nume allora
scampò de' Teucri i legni, e come un tanto
de la novella Troia incendio estinse.
Fama di tempo in tempo e prisca fede
n'avvera il fatto, e voi conto ne 'l fate.
  Dicon che quando a navigar costretto
Enea primieramente i suoi navili
a formar cominciò nel bosco idèo:
d'Ida, di Berecinto e degli dèi
la madre, al sommo Giove orando, disse:
«Figlio, che sei per me de l'universo
monarca eterno, a me tua cara madre
fa quel ch'io chieggio, e tu mi devi, onore.
È nel Gàrgaro giogo un bosco in cima
da me diletto, ed al mio nume additto
già di gran tempo. Era d'abeti e d'aceri
e di pini e di peci ombroso e denso;
ma quando de l'armata ebbe uopo in prima
il giovine troiano, al magistero
volentier de' suoi legni il concedei.
Quinci uscîr le sue navi; e come figlie
di quella selva, a me son sacre e care
sí ch'or ne temo; e del timor che n'aggio
priego che m'assicuri: e 'l priego mio
questo possa appo te, che tanto puoi,
che né da corso mai, né da fortuna
sian di vènti, o di flutti, o di tempeste
squassate o vinte: e lor vaglia che nate
son ne' miei monti». A cui Giove rispose:
  «Madre, a che stringi i fati? E qual, per cui
cerchi tu privilegio? A mortal cosa
farò dono immortale? E mortal uomo
non sarà sottoposto a' rischi umani?
Ed a qual degli dèi tanto è permesso?
Piú tosto allor che saran giunte al fine,
e che in porto saranno, a quelle tutte
che, scampate da l'onde il teucro duce
avran ne' campi di Laurento esposto,
torrò la mortal forma, e dee farolle,
che qual di Nèreo, e Doto, e Galatea
fendan coi petti e con le braccia il mare».
Cosí detto, il torrente e la vorago
e la squallida ripa e l'atra pece
d'Acheronte giurando, abbassò 'l ciglio,
e fe' tutto tremar col cenno il mondo.
  Or questo era quel dí, quest'era il fine
da le Parche dovuto ai teucri legni:
onde la madre idèa contra l'oltraggio
si fe' di Turno, e gli sottrasse al foco.
Primieramente inusitata luce
balenando rifulse; indi un gran nembo
di coribanti per lo ciel trascorse
di vèr l'aurora; ed una voce udissi
ch'empié di meraviglia e di spavento
l'un esercito e l'altro: «O miei Troiani, -
dicendo, - non vi caglia a' miei navili
porger soccorso; né perciò nel campo
uscite a rischio. Arderà Turno il mare
pria che le sacre a me dilette navi,
e voi, mie navi, itene sciolte: e dee
siate del mare. Io genitrice vostra
lo vi comando». A questa voce, in quanto
udissi a pena, s'allentâr le funi
de' lor ritegni; e di delfini in guisa
coi rostri si tuffaro. Indi sorgendo
(mirabil mostro!), quante a riva in prima
eran le navi, tanti di donzelle
si vider per lo mar sereni aspetti.
  Sgomentaronsi i Rutuli; e Messapo
co' suoi cavalli attonito fermossi.
Il padre Tiberin roco mugghiando
dal mar fuggissi. Né perciò di Turno
cessò l'audacia, anzi via piú feroce,
gli altri esortando e riprendendo: «Ah, - disse, -
di che temete? Incontro ai Teucri stessi
vengon questi prodigi; e loro ha Giove
de le lor forze esausti. Il ferro e 'l fuoco
non aspettan de' Rutuli: han del mare
perduta e de la fuga ogni speranza.
Essi del mare infino a qui son privi;
e la terra è per noi: tante son genti
d'Italia in arme. Nè tem'io de' vanti
che de' lor vaticini e de' lor fati
da lor si dànno. Assai de' fati, assai
è l'intento di Venere adempito,
che son nel Lazio. E 'ncontro ai fati loro
son anco i miei, che tôr del Lazio io deggia,
anzi del mondo, questi scellerati
de l'altrui donne usurpatori e drudi:
ché non soli gli Atridi, e non sola Argo
n'han duolo e sdegno. Oh! basta ch'una volta
ne son periti. Sí, se lor bastasse
d'aver in ciò sol una volta errato.
Nuovo error; nuova pena. Or non aranno
omai quest'infelici in odio affatto
le donne tutte, a tal di già condotti,
che non han de la vita altra fidanza,
che questo poco e debile steccato
che da lor ne divide? e tanto a pena
son lunge dal morir, quanto s'indugia
a varcar questa fossa. In ciò riposto
han la speme e l'ardire. O non han visto
le mura anco di Troia, che costrutte
fûr per man di Nettuno, a terra sparse
e 'n cenere converse? Ma chi meco
di voi, guerrieri eletti, è che s'accinga
d'assalir queste mura e queste genti
già di paura offese? A me lor contra
d'uopo non son né l'armi di Volcano,
né mille navi. E vengane pur tutta
l'Etruria insieme. E non furtivamente
e non di notte, come fanno i vili,
il Palladio involando, e de la ròcca
i custodi occidendo, assalirogli;
né del cavallo ne l'oscuro ventre
m'appiatterò. Di giorno apertamente
d'armi e di fuoco cingerogli in guisa,
ch'altro lor sembri che garzoni e cerne
aver di Greci e di Pelasgi intorno,
di cui l'assedio infino al decim'anno
Ettor sostenne. Or poscia che del giorno
s'è buona parte insino a qui passata
felicemente, il resto che n'avanza
attendete a posarvi, a ristorarvi,
a disporvi a l'assalto; e ne sperate
lieto successo». Indi a Messapo incarco
si dà, che sentinelle e guardie e fochi
disponga anzi a le porte e 'ntorno al muro.
Ei sette e sette capitani egregi,
Rutuli tutti, a quest'impresa elesse,
con cento che n'avea ciascuno appresso
di purpurei cimieri ornati e d'oro.
Questi, le mute varïando e l'ore,
scorrevano a vicenda; e 'ntorno a' fochi
desti in su l'erba, infra le tazze e l'urne
traean la notte in gozzoviglie e 'n giuochi.
  Stavano i Teucri il campo rimirando
da la muraglia; e per timore, armati
visitavan le porte, e 'n su' ripari
facean bertesche e sferratoie e ponti.
Era Memmo lor sopra e 'l buon Sergesto,
che fûr dal padre Enea nel suo partire
a guerreggiar, se guerra si rompesse,
per condottieri e per maestri eletti.
Già su le mura, ovunque o da periglio
o da la vece eran disposti, ognuno
tenea il suo luogo. Un de' piú fieri in arme
Niso, d'Irtaco il figlio, ad una porta
era preposto. Da le cacce d'Ida
venne costui mandato al troian duce,
gran feritor di dardo e di saette.
Eurïalo era seco, un giovinetto
il piú bello, il piú gaio e 'l piú leggiadro
che nel campo troiano arme vestisse;
ch'a pena avea la rugiadosa guancia
del primo fior di gioventute aspersa.
Era tra questi due solo un amore
ed un volere; e nel mestier de l'armi
l'un sempre era con l'altro, ed ambi insieme
stavano allor vegghiando a la difesa
di quella porta. Disse Niso in prima:
  «Eurïalo, io non so se dio mi sforza
a seguir quel ch'io penso, o se 'l pensiero
stesso di noi fassi a noi forza e dio.
Un desiderio ardente il cor m'invoglia
d'uscire a campo, e far contr'a' nemici
un qualche degno e memorabil fatto:
sí di star pigro e neghittoso aborro.
Tu vedi là come securi ed ebri
e sonnacchiosi i Rutuli si stanno
con rari fochi e gran silenzio intorno.
L'occasione è bella, ed io son fermo
di porla in uso: or in qual modo, ascolta.
  Ascanio, i consiglieri e 'l popol tutto,
per richiamare Enea, per avvisarlo,
e per avvisi riportar da lui,
cercan messaggi. Io, quando a te promesso
premio ne sia (ch'a me la fama sola
basta del fatto), di poter m'affido
lungo a quel colle investigar sentiero,
onde a Pallanto a ritrovarlo io vada
securamente». Eurïalo a tal dire
stupissi in prima; indi d'amore acceso
di tanta lode, al suo diletto amico
cosí rispose: «Adunque ne l'imprese
di momento e d'onore io da te, Niso,
son cosí rifiutato? E te poss'io
lassar sí solo a sí gran rischio andare?
A me non diè questa creanza Ofelte
mio genitore, il cui valor mostrossi
ne gli affanni di Troia, e nel terrore
de l'argolica guerra. Ed io tal saggio
non t'ho dato di me, teco seguendo
il duro fato e la fortuna avversa
del magnanimo Enea. Questo mio core
è spregiatore, è spregiatore anch'egli
di questa vita, e degnamente spesa
la tiene allor che gloria se ne merchi,
e quel che cerchi, ed a me nieghi, onore».
  Soggiunse Niso: «Altro di te concetto
non ebbi io mai, né tal sei tu ch'io deggia
averlo in altra guisa. Cosí Giove
vittorïoso mi ti renda e lieto
da questa impresa, o qual altro sia nume
che propizio e benigno ne si mostri.
Ma se per caso o per destino avverso
(come sovente in questi rischi avvène)
io vi perissi, il mio contento in questo
è che tu viva, sí perché di vita
son piú degni i tuoi giorni, e sí perch'io
aggia chi dopo me, se non con l'arme,
almen con l'oro il mio corpo ricovre,
e lo ricuopra. E s'ancor ciò m'è tolto,
alfin sia chi d'esequie e di sepolcro
lontan m'onori. Oltre di ciò cagione
esser non deggio a tua madre infelice
d'un dolor tanto: a tua madre che sola
di tante donne ha di seguirti osato,
i comodi spregiando e la quïete
de la città d'Aceste». A ciò di nuovo
Eurïalo rispose: «Indarno adduci
sí vane scuse; ed io già fermo e saldo
nel proposito mio pensier non muto.
Affrettiamoci a l'impresa». E, cosí detto,
destò le sentinelle, e le ripose
in vece loro; e l'uno e l'altro insieme
se ne partiro, e ne la reggia andaro.
  Tutti gli altri animali avean, dormendo,
sovra la terra oblio, tregua e riposo
da le fatiche e dagli affanni loro.
I Teucri condottieri e gli altri eletti,
che de la guerra avean l'imperio e 'l carco,
s'erano e de la guerra e de la somma
di tutto 'l regno a consigliar ristretti:
e nel mezzo del campo altri agli scudi,
altri a l'aste appoggiati, avean consulta
di che far si dovesse, e chi per messo
ad Enea si mandasse. I due compagni
d'essere ammessi e 'ncontinente uditi
fecer gran ressa e di portar sembiante
cosa di gran momento e di gran danno
se s'indugiasse. A questa fretta, il primo
si fece Ascanio avanti, e, vòlto a Niso,
comandò che dicesse. Egli altamente
parlando incominciò: «Troiani, udite
discretamente, e quel che si propone
e si dice da noi, non misurate
da gli anni nostri. I Rutuli sepolti
se ne stan da la crapula e dal sonno;
e noi stessi appostato avemo un loco
da quella porta che riguarda al mare,
atto a le nostre insidie, ove la strada
piú larga in due si parte. Intorno al campo
sono i fochi interrotti; il fumo oscuro
sorge a le stelle. Se da voi n'è dato
d'usar questa fortuna, e quest'onore
ne si fa di mandarne al nostro duce,
al Pallantèo n'andremo, e ne vedrete
assai tosto tornar carchi di spoglie
de gli avversari nostri, e tutti aspersi
del sangue loro. E non fia che la strada
ne gabbi, ché piú volte qui d'intorno
cacciando, avemo e tutta questa valle
e tutto il fiume attraversato e scórso».
  Qui d'anni grave e di pensier maturo
Alete, al ciel rivolto: «O patrii dii, -
disse esclamando - il cui nome fu sempre
propizio a Troia, pur del tutto spenta
non volete che sia mercé di voi,
poscia che questo ardire e questi cori
ne' petti a' nostri giovini ponete».
E stringendo le man, gli omeri e 'l collo
or de l'uno or de l'altro, ambi onorava,
di dolcezza piangendo. «E qual, - dicea -
qual, generosi figli, a voi darassi
di voi degna mercede? Iddio, ch'è primo
degli uomini e supremo guiderdone,
e la vostra virtú premio a se stessa
sia primamente. Enea poscia useravvi
sua largitate, e questo giovinetto
che d'un tal vostro merto avrà mai sempre
dolce ricordo». - «Anzi io, - soggiunse Iulo -
che senza il padre mio la mia salute
veggio in periglio, per gli dèi Penati,
per la casa d'Assaraco, per quanto
dovete al sacro e venerabil nume
de la gran Vesta, ogni fortuna mia
ponendo, ogni mio affare in grembo a voi,
vi prego a rivocare il padre mio.
Fate ch'io lo riveggia, e nulla poi
sarà di ch'io piú tema. E già vi dono
due gran vasi d'argento, che scolpiti
sono a figure; un de' piú ricchi arnesi
che del sacco d'Arisba in preda avesse
il padre mio; due tripodi, due d'oro
maggior talenti, ed un tazzone antico
de la sidonia Dido. E se n'è dato
tener d'Italia il desïato regno,
e che preda sortirne unqua mi tocchi,
quello stesso destrier, quelle stesse armi
guarnite d'oro, onde va Turno altero,
e quel suo scudo, e quel cimier sanguigno
sottrarrò dalla sorte, e di già, Niso,
gli ti consegno; e ti prometto in nome
del padre mio che largiratti ancora
dodici fra mill'altri eletti corpi
di bellissime donne e dodici altri
di giovini prigioni, e l'armi loro
con essi insieme, e di Latino stesso
la regia villa. Or te, mio venerando
fanciullo, abbraccio, a gli cui giorni i miei
van piú vicini. Io te con tutto il core
accetto per compagno e per fratello
in ogni caso; e nulla o gloria o gioia
procurerommi in pace unqua od in guerra,
che non sii meco d'ogni mio pensiero,
e d'ogni ben partecipe e consorte;
e ne le tue parole e ne' tuoi fatti
somma speme avrò sempre e somma fede».
  Eurïalo rispose: «O fera o mite
che fortuna mi sia, non sarà mai
ch'io discordi da me: mai non uguale
lo mio cor non vedrassi a questa impresa:
ma sopra agli altri tuoi promessi doni
questo solo bram'io: la madre mia
che dal ceppo di Prïamo è discesa,
e che per me seguire ha, la meschina
non pur di Troia abbandonato il nido,
ma 'l ricovro d'Aceste, e la sua vita
stessa (a tanti per me l'ha rischi esposta),
di questo mio periglio, qual che e' sia,
nulla ha notizia; ed io da lei mi parto
senza che la saluti e che la veggia.
Per questa man, per questa notte io giuro,
signor, che né vederla, né la pieta
soffrir de le sue lagrime non posso.
Tu questa derelitta poverella
consola, te ne priego, e la sovvieni
in vece mia. Se tu di ciò m'affidi,
andrò, con questa speme, ad ogni rischio
con piú baldanza». Si commosser tutti
a tai parole, e lagrimaro i Teucri;
e piú di tutti Ascanio, a cui sovvenne
de la pietà ch'ebbe suo padre al padre;
e disse al giovinetto: «Io mi ti lego
per fede a tutto ciò che la grandezza
di questa impresa e 'l tuo valor richiede.
E perché mia sia la tua madre, il nome
sol di Creusa, e null'altro, le manca.
Né di picciolo merto è ch'un tal figlio
n'aggia prodotto; segua che che sia
di questo fatto. Ed io per lo mio capo
ti giuro, per lo qual solea pur dianzi
giurar mio padre, ch'a la madre tua,
a tutta la tua stirpe si daranno
i doni stessi che serbar mi giova
pur a te nel felice tuo ritorno».
  Cosí disse piangendo; e la sua spada,
che di man di Licàone guarnito
avea d'avorio il fodro, e l'else d'oro,
distaccossi dal fianco, e lui ne cinse.
Memmo al tergo di Niso un tergo impose
di villoso leone; e 'l fido Alete
gli scambiò l'elmo. Cosí tosto armati
se n'uscîr da la reggia; e i primi tutti,
giovini e vecchi, in vece d'onoranza
fino a la porta con preconi e vóti
gli accompagnaro. Il giovinetto Iulo
con viril cura e con pensier maturi
innanzi agli anni, ragionando in mezzo
giva d'entrambi: ed or l'uno ed or l'altro
molto avvertendo, molte cose a dire
mandava al padre: le quai tutte al vento
furon commesse, e dissipate a l'aura.
Escono alfine. E già varcato il fosso,
da le notturne tenebre coverti,
si metton per la via che gli conduce
al campo de' nemici, anzi a la morte.
Ma non morranno, che macello e strage
faran di molti in prima. Ovunque vanno
veggion corpi di genti, che sepolti
son dal sonno e dal vino. In carri vòti
con ruote e briglie intorno, uomini ed otri
e tazze e scudi in un miscuglio avvolti.
  Disse d'Irtaco il figlio: «Or qui bisogna,
Eurïalo, aver core, oprar le mani,
e conoscere il tempo. Il cammin nostro
è per di qua. Tu qui ti ferma, e l'occhio
gira per tutto, che non sia da tergo
chi n'impedisca; ed io tosto col ferro
sgombrerò 'l passo, e t'aprirò 'l sentiero».
Ciò cheto disse. Indi Rannete assalse,
il superbo Rannete, che per sorte
entro una sua trabacca avanti a lui
in su' tappeti a grand'agio dormia
e russava altamente. Era costui
al re Turno gratissimo, ed anch'egli
rege e 'ndovino; ma non seppe il folle
indovinar quel ch'a lui stesso avvenne.
Tre suoi famigli, che dormendo appresso
giacean fra l'armi rovesciati a caso,
tutti in un mucchio uccise, ed un valletto
ch'era di Remo, e sotto i suoi cavalli
lo stesso auriga. A costui trasse un colpo
che gli mandò giú ciondoloni il collo:
indi al padron di netto lo recise
sí, che 'l sangue spicciando d'ogni vena,
la terra, lo stramazzo e 'l desco intrise.
Tàmiro estinse dopo questi e Lamo,
e 'l giovine Serrano. Un bel garzone
era costui, gran giocatore, e 'n gioco
insino ad ora avea sempre vegliato.
Felice lui per lo suo vizio stesso,
se giocato e perduto ancora avesse
tutta la notte! Era a veder tra loro
il fiero Niso, qual da fame spinto
non pasciuto leone un pieno ovile
imbelle e per timor già muto assaglie,
che d'unghie armato, e sanguinoso il dente
traendo e divorando ancide e rugge.
Né fe' strage minor da l'altro canto
Eurïalo, ch'acceso e furïoso
tra molta plebe molti senza nome
e quasi senza vita a morte trasse;
sí dal sonno eran vinti: e de' nomati
occise Ebèso, Fabo, Àbari e Reto.
Questo Reto era desto: onde veggendo
con la morte degli altri il suo periglio,
per la paura appo d'un'urna ascoso
quatto e queto si stava. Indi sorgendo
gli fu 'l giovine sopra, e 'l ferro tutto
entro al petto gl'immerse, e con gran parte
de la sua vita indietro lo ritrasse;
sí che tra 'l vino e 'l sangue ond'era involta,
gli uscí l'alma di purpura vestita.
  Con questa occisïon di buia notte
e di furtivo agguato il buon garzone
fervidamente instava. E già rivolto
s'era contro a la schiera di Messapo
là 've 'l foco vedea del tutto estinto,
e là 've i suoi cavalli a la campagna
pascean legati, allor che Niso il vide
che da l'occisïone e da l'ardore
trasportar si lasciava. E brevemente:
«Non piú, - gli disse - ché 'l nimico sole
ne sorge incontra. Assai di sangue ostile
fin qui s'è sparso: assai di largo avemo».
Molt'armi, molt'argenti e molt'arnesi
lasciaro indietro. I guarnimenti soli
del caval di Rannete e le sue borchie
Eurïalo si prese, con un cinto
bollato d'oro, un prezïoso dono
che Cèdico, un ricchissimo tiranno,
a Rèmolo tiburte ospite assente
fece in quel tempo. Rèmolo al nipote
lo lasciò per retaggio e questi in guerra
ne fu poscia da' Rutuli spogliato;
quinci gli ebbe Rannete, e quinci preda
fûr d'Eurïalo al fine. Egli gravonne
i forti omeri indarno. Appresso in campo
s'adattò di Messapo un lucid'elmo
d'alto cimiero adorno: e 'n questa guisa
se ne partian vittorïosi e salvi.
  Intanto di Laurento eran le schiere
uscite a campo, e i lor cavalli avanti
precorrean l'ordinanza, ed al re Turno
ne portavano avviso. Eran trecento
tutti di scudo armati; e capo e guida
n'era Volscente. Già vicini al campo
scorgean le mura; quando fuor di strada
videro da man manca i due compagni
tener sentiero obliquo. Era un barlume
là 'v'era l'ombra; e là 'v'era la luna,
a gli avversi suoi raggi la celata
del male accorto Eurïalo rifulse.
Di cotal vista insospettí Volscente,
e gridò da la squadra: «Olà, fermate.
chi viva? A che venite? Ove n'andate?
Chi siete voi?» La lor risposta incontro
fu sol di porsi in fuga, e prevalersi
de la selva e del buio. I cavalieri
ratto chi qua chi là corsero a' passi,
circondarono il bosco; ad ogni uscita
posero assedio. Era la selva un'ampia
macchia d'elci e di pruni orrida e folta,
ch'avea rari i sentieri, occulti e stretti.
E gl'intrichi de' rami e de la preda
ch'era pur grave, e 'l dubbio de la strada
tenean sovente Eurïalo impedito.
Niso disciolto e lieve, e del compagno
non s'accorgendo ch'era indietro assai,
oltre si spinse. E già fuor de' nemici
era ne' campi che dal nome d'Alba
si son poi detti Albani. Allor le razze
e le stalle v'avea de' suoi cavalli
il re Latino. E qui poscia ch'un poco
ebbe il suo caro amico indarno atteso,
gridando: «Ah! - disse - Eurïalo infelice,
u' sei rimaso? U' piú (lasso!) ti trovo
per questo labirinto?» E tosto indietro
rivolto, per le vie, per l'orme stesse
di tornar ricercando, si rimbosca.
Erra pria lungamente, e nulla sente;
poscia sente di trombe e di cavalli
e di voci un tumulto; e vede appresso
Eurïalo fra mezzo a quelle genti,
qual cacciato leone. E già dal loco
e da la notte oppresso si travaglia,
e si difende il poverello invano.
Che farà? Con che forze, e con qual armi
fia che lo scampi? Avventerassi in mezzo
de' nimici a morir morte onorata?
Cosí risolve, e prestamente un dardo
s'adatta in mano; e vòlto in vèr la luna,
ch'allora alto splendea, cosí la prega:
  «Tu, dea, tu de la notte eterno lume,
tu, regina de' boschi, in tanto rischio
ne porgi aíta. E s'Irtaco mio padre
per me de le sue cacce, io de le mie
il dritto unqua t'offrimmo; e se t'appesi,
e se t'affissi mai teschio né spoglia
di fera belva, or mi concedi ch'io
questa gente scompigli, e la mia mano
reggi e i miei colpi». E ciò dicendo, il dardo
vibrò di tutta forza. Egli volando
fendé la notte, e giunse ove a rincontro
era Sulmone, e l'investí nel tergo
là 've pendea la targa; e 'l ferro e l'asta
passogli al petto, e gli trafisse il core.
Cadde freddo il meschino; e, con un caldo
fiume di sangue, che gli uscio davanti,
finí la vita, e con singhiozzo il fiato.
  Guardansi l'uno a l'altro; e tutti insieme
miran d'intorno di stupor confusi
e di timor d'insidie. E Niso intanto
via piú si studia; ed ecco un altro fiero
colpo, ch'avea di già librato, e dritto
di sopra gli si spicca da l'orecchio,
e per l'aura ronzando in una tempia
si conficca di Tago, e passa a l'altra.
Volscente, acceso d'ira, non veggendo
con chi sfogarla, al giovine rivolto:
«Tu me ne pagherai per ambi il fio» -
disse, e strinse la spada, e vèr lui corse.
Niso a tal vista spaventato, e fuori
uscito de l'agguato e di se stesso
(che soffrir non poteo tanto dolore):
«Me, me, - gridò - me, Rutuli, uccidete.
io son che 'l feci, io son che questa froda
ho prima ordito. In me l'armi volgete;
ché nulla ha contro a voi questo meschino
osato, né potuto. Io lo vi giuro
per lo ciel che n'è conscio e per le stelle,
questo tanto di mal solo ha commesso,
che troppo amato ha l'infelice amico».
  Mentre cosí dicea, Volscente il colpo
già con gran forza spinto, il bianco petto
del giovine trafisse. E già morendo
Eurïalo cadea, di sangue asperso
le belle membra, e rovesciato il collo,
qual reciso dal vomero languisce
purpureo fiore, o di rugiada pregno
papavero ch'a terra il capo inchina.
  In mezzo de lo stuol Niso si scaglia
solo a Volscente, solo contra lui
pon la sua mira. I cavalier che intorno
stavano a sua difesa, or quinci or quindi
lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre
addosso a lui la sua fulminea spada
rotava a cerco. E si fe' largo in tanto
ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava,
cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse.
Cosí non morse, che si vide avanti
morto il nimico. Indi da cento lance
trafitto addosso a lui, per cui moriva,
gittossi; e sopra lui contento giacque.
Fortunati ambidue! Se i versi miei
tanto han di forza, né per morte mai,
né per tempo sarà che 'l valor vostro
glorïoso non sia, finché la stirpe
d'Enea possederà del Campidoglio
l'immobil sasso, e finché impero e lingua
avrà l'invitta e fortunata Roma.
  I Rutuli con l'armi e con le spoglie
dei due compagni uccisi, il morto corpo
al campo ne portâr del duce loro.
Lagrimosa vittoria! E non meno anco
fu nel campo di lagrime e di lutto,
allor che di Rannete e di Serrano
e di Numa la strage si scoverse,
e di tant'altri ch'eran morti in prima.
Corse ognuno a veder; ché parte spenti,
parte eran mezzi vivi; e caldo e pieno
e spumante di sangue era anco il suolo
ove giacean quegl'infelici estinti.
Riconobber tra lor le spoglie e l'elmo
e 'l cimier di Messapo, e i guarnimenti
che con tanto sudor ricoverati
s'erano a pena. Era vermiglio e rancio
fatto già de la notte il nero ammanto,
lasciando di Titon l'Aurora il letto;
e comparso era il sole, e discoverto
già 'l mondo tutto, allor che Turno armato
a l'arme, a l'ordinanza, a la battaglia
concitò 'l campo; e diede ordine e loco
ciascuno a' suoi. Vendetta, ira e disio
d'assalir, di combatter, di far sangue
vedeansi in tutti. A due grand'aste in cima
conficcaron le teste (orribil mostra!)
d'Eurïalo e di Niso, e con le grida
ne fêro onta e spettacolo a' nemici.
  I Teucri arditamente in su le mura
da la sinistra incontra si mostraro;
ché la destra dal fiume era difesa.
E chi da le trincee, chi da le torri
stavan dolenti rimirando i teschi
ne l'aste affissi, polverosi e lordi,
ch'ancor sangue gocciando eran pur troppo
cosí lunge da' miseri compagni
raffigurati a le fattezze conte.
Spiegò la Fama le sue penne intanto,
e la trista novella in ogni parte
sparse per la città, sí ch'agli orecchi
de la madre d'Eurïalo pervenne.
Corse subitamente un gel per l'ossa
a la meschina; e da le man le usciro
le sue tele e i suoi fili. Indi, rapita
dal duolo e da la furia, forsennata
e scapigliata ne la strada uscio;
e per mezzo de l'armi e de le genti
correndo, e mugolando, senza téma
di periglio e di biasmo, andò gridando,
e di questi lamenti il cielo empiendo:
«Ahi, cosí concio, Eurïalo, mi torni?
Eurïalo, sei tu? Tu sei 'l mio figlio,
ch'eri la mia speranza e 'l mio riposo
ne l'estreme giornate di mia vita?
Ahi! come cosí sola mi lasciasti,
crudele? E come a cosí gran periglio
n'andasti, anzi a la morte, che tua madre
non ti parlasse, ohimè! l'ultima volta,
né che pur ti vedesse? Ah! ch'or ti veggio
in peregrina terra esca di cani,
d'avoltoi e di corvi. Ed io tua madre,
io cui l'esequie eran dovute e 'l duolo
d'un cotal figlio, non t'ho chiusi gli occhi,
né lavate le piaghe, né coperte
con quella veste che con tanto studio
t'ho per trastullo de la mia vecchiezza
tessuta io stessa e ricamata invano.
Figlio, dove ti cerco? ove ti trovo
sí diviso da te? come raccozzo
le tue cosí sbranate e sparse membra?
Sol questa parte del tuo corpo rendi
a la tua madre, che per esser teco
t'ha per terra e per mar tanto seguito,
e seguiratti dopo morte ancora?
In me, Rutuli, in me tutti volgete
i vostri ferri, se pur regna in voi
pietade alcuna. A me la morte date
pria ch'a null'altro. O tu, padre celeste,
miserere di me. Tu col tuo tèlo
mi trabocca nel Tartaro e m'ancidi,
poiché romper non posso in altra guisa
questa crudele e disperata vita».
  Da questo pianto una mestizia, un duolo
nacque ne' Teucri, e tale anco ne l'armi
un languore, un timore, una desidia,
che grami, addolorati e di già vinti
sembravan tutti. Onde Àttore ed ldèo
con quel di lei togliendo il pianto altrui,
per consiglio del saggio Ilïonèo
e per compassïon del buono Iulo
che molto amaramente ne piangea,
tosto a braccia prendendola, ambedue
la portaro a l'albergo. Ed ecco intanto
squillar s'ode da lunge un suon di trombe,
un dare a l'arme ed un gridar di genti
tal, che ne tuona e ne rimugghia il cielo.
E veggonsi in un tempo i Volsci tutti,
sotto pavesi consertati e stretti
in guisa di testuggine, appressarsi,
empier le fosse, dirupare il vallo,
e tentar la salita, e por le scale
là dove la muraglia era di sopra
con minor guardia, e là 've raro il cerchio
tralucea de la gente. Incontro a loro
i Teucri i sassi, i travi ed ogni tèlo
avventaron dal muro; e con le picche
risospingendo, come il lungo assedio
insegnò lor di Troia, a la difesa
si fermâr de' ripari; e le pareti
e i pilastri e le torri addosso a loro
e sopra la testuggine gittando,
gli scudi dissiparono e le genti,
sí che piú di combattere al coverto
non si curaro. Ma d'ogni arme un nembo
lanciando a la scoperta, i bastïoni
offendean de' Troiani. E d'una parte
Mezenzio, formidabile a vedere,
sen gia con un gran pino acceso in mano
lo steccato infocando. Iva da l'altro
il fier Messapo di Nettuno il figlio,
domator de' corsieri; e scisso il vallo:
- «Scale, scale!» - gridava, e per lo muro
rampicando saliva. Or qui m'è d'uopo,
Callïope, il tuo canto a dir le pruove,
a dir l'occisïon che di sua mano
fece Turno in quel dí; chi, quali e quanti
a l'Orco ne mandasse. Ogni successo
spiega di questa guerra in queste carte.
Tutto a voi, Muse, è conto; e voi la possa
e l'arte avete di contarlo altrui.
  Era una torre di sublime altezza
con bertesche e con ponti un sopra l'altro,
loco opportuno. A questa eran d'intorno
di fuor gl'Italïani, e dentro i Teucri;
e quei facean per espugnarla ogni opra,
e questi per tenerla. Avanti a tutti
si spinse Turno; ed una face ardente
lanciovvi da l'un fianco, ove s'apprese
con molta fiamma; cosí fiero il vento,
cosí secchi e disposti erano i legni.
Ardea la torre da quel canto, e dentro
la gente per timor cercava indarno
di ritrarsi dal foco: onde a la parte
da l'incendio remota in un sol mucchio
si ristrinsero insieme; e da quel peso
da quel lato in un súbito la torre
quasi spinta inchinossi, aprissi e cadde.
Il ciel ne rintonò; la gente infranta,
storpiata, sfracellata, infra i suoi legni
da l'armi proprie infissa, e fin ne l'aura
morta e sepolta a terra se ne venne.
  Soli due vivi e per ventura intatti
dal nembo de la polvere, e dal fumo
uscîr nel campo: Elènore fu l'uno,
Lico fu l'altro; Elènore, un garzone
di prima barba, a militar mandato
furtivamente. E' si trovò com'era
pria ne la terra lievemente armato
col brando ignudo e con la targa al collo
bianca del tutto, come non dipinta
d'alcun suo fatto glorïoso ancora.
Questi, vistosi in mezzo a tante genti
di Turno e de' Latini, come fera
ch'aggia di cacciatori un cerchio intorno,
muove contra agli spiedi, incontr'a l'armi;
mosse là 've piú folte eran le schiere,
e certo di morire a morte corse.
  Ma Lico in su le gambe assai piú destro
infra l'armi e i nimici a fuggir vòlto,
giunse a le mura ed aggrappossi in guisa
che stendea già le mani a' suoi compagni;
quando Turno e co' piedi e con la spada
lo sopraggiunse, e come vincitore
rampognando gli disse: «E che? pensasti,
folle, uscirmi di mano?» E le man tosto
gli pose addosso, e sí come dal muro
pendea, col muro insieme a terra il trasse.
In quella guisa che gli adunchi ugnoni
contra una lepre, o contra un bianco cigno
stende l'augel di Giove, o 'l marzio lupo
da le reti rapisce un agnelletto,
che da la madre sia belato invano.
  Si rinnovâr le grida, e tutti insieme
o le faci avventando, o 'l fosso empiendo,
rinforzavan l'assalto. Ilïonèo
con un pezzo di monte, a cui la pinta
diè giú da' merli, sopra al ponte infranse
Lutezio ch'a la porta era col foco.
Ligero occise Emazïone; Asila
uccise Corinèo, buon feritori
l'uno di dardo, e l'altro di saette.
Ortigio da Cenèo trafitto giacque:
Cenèo da Turno: ammazzò Turno ancora
Iti e Pròmolo e Clònio e Dïosippo,
e Sàgari con Ida: Ida che in alto
stava d'un torrïone a la difesa.
Capi ancise Priverno. Avea costui
pria nel fianco una picciola ferita,
anzi una graffiatura, che passando
fe' l'asta di Temilla: e il male accorto,
per su porvi la mano, abbandonato
avea lo scudo; quando ecco volando
venne una freccia che la mano e 'l fianco
insieme gli confisse; e via passando
penetrogli al polmone. Il mortal colpo
sí lo spirar de l'anima gli tolse,
che non mai piú spirò. Stavasi Arcente,
d'Arcente il figlio, in su' ripari ardito
egregiamente armato, e sopra l'arme
d'una purpurea cotta era addobbato
di ferrigno color, di drappo ibèro;
un giovine leggiadro, che dal padre
fu nel bosco di Marte a l'armi avvezzo
lungo al Simeto, u' l'ara di Palico
tinta non come pria di sangue umano,
piú pingue e piú placabile si mostra.
Mezenzio il vide: e l'altre armi deposte,
prese la fromba, e con tre giri intorno
se l'avvolse a la testa. Indi scoppiando
allentò 'l piombo, che dal moto acceso
squagliossi, e con gran rombo in una tempia
il garzon percotendo, ne l'arena
morto, quanto era lungo, lo distese.
  Ascanio che fin qui solo a la caccia
avea l'arco adoprato, or primamente
oprollo in guerra, e col primiero colpo
il feroce Numano a terra stese.
Rèmolo era costui per soprannome
chiamato; e poco avanti avea per moglie
presa di Turno una minor sorella.
Ei di questo favor, di questo nuovo
suo regno insuperbito, altero e gonfio
stava ne l'antiguardia, e con le grida
si ringrandiva: e di lontano i Teucri
schernendo, in cotal guisa alto dicea:
«Questo è l'onor che voi, Frigi, vi fate
d'un altro assedio? un'altra volta in gabbia
vi riponete; e pur col vostro muro,
e coi vostri ripari or da la morte
vi riparate? E voi, voi fate guerra
per usurpare a noi le donne nostre?
Qual dio, qual infortunio, qual follia
v'ha condotti in Italia? e chi pensaste
di trovar qui? quei profumati Atridi,
o 'l ben parlante Ulisse? In una gente
avete dato che da stirpe è dura.
I nostri figli non son nati a pena,
che si tuffan ne' fiumi. A l'onde al gelo
noi gl'induriamo e gl'incallimo in prima;
poscia per le montagne e per le selve
fanciulli se ne van la notte e 'l giorno.
Il lor studio è la caccia; e 'l lor diletto
è 'l cavalcare, e 'l trar di fromba e d'arco.
La gioventú ne le fatiche avvezza,
e contenta del poco, o col bidente
doma la terra, o con l'aratro i buoi,
o col ferro i nemici. Il ferro sempre
avemo per le mani. Una sol'asta
ne fa picca e pungetto. A noi vecchiezza
non toglie ardire, e de le forze ancora
non ci fa, come voi, debili e scemi.
Per canute che sian le nostre teste,
veston celate, e nuove prede ognora,
quando da' boschi e quando da' nemici,
addur ne giova, e viver di rapina.
Voi con l'ostro e co' fregi e co' ricami,
con le cotte a divisa e con le giubbe
immanicate e coi fiocchetti in testa,
a che valete? A gir cosí dipinti
e cosí neghittosi? A far balletti
da donnicciuole? O Frigi, o Frigïesse
piú tosto! In questa guisa si guerreggia?
Via ne' Dindimi monti, ove la piva
vi chiama e 'l tamburino e 'l zufoletto;
e con quei vostri galli, anzi galline
di Berecinto, ite saltando in tresca;
e l'armi e 'l ferro, che non fan per voi,
lasciate a quei che son prodi e guerrieri».
  Non poté tanto orgoglio e tanto oltraggio
soffrir d'un folle il generoso Iulo,
e teso l'arco con la cocca al nervo,
rimirò 'l cielo e disse: «Onnipotente
Giove, tu l'ardir mio, tu la mia mano
fomenta e reggi, ed io sacri e solenni
ti farò doni: io condurrotti a l'ara
un candido giovenco che la fronte
aggia indorata, e de la madre al pari
erga la testa, e già scherzi e già cozzi
con le corna, e co' piè sparga l'arena».
  Giove, mentre dicea, tonò dal manco
sereno lato: e col suo tuono insieme
scoccò l'arco mortifero di Iulo.
Volò l'orribil tèlo, e per le tempie
di Rèmolo passando, le trafisse.
«Or va', t'insuperbisci: or va', deridi,
scempio, l'altrui virtú. Queste risposte
mandano i Frigi che son chiusi in gabbia
ai Rutuli signor de la campagna».
Questo sol disse Ascanio; ed al suo colpo
le grida i Teucri e gli animi in un tempo
al cielo alzaro. Era il crinito Apollo,
quando ciò fu, ne la celeste piaggia
sovra una nube assiso; e d'alto il campo
scorgendo de' Troiani e degli Ausoni,
come vede ogni cosa, visto il colpo
del vincitore arciero, in vèr lui disse:
«Ahi, buon fanciullo, in cui vertú s'avanza!
cosí vassi a le stelle. Or ben tu mostri
che dagli dii sei nato, e ch'altri dii
nasceranno da te. Tu sei ben degno
ch'ogni guerra, che 'l fato ancor minacci
a la casa d'Assaraco, s'acqueti
per tua grandezza, a cui Troia è minore,
sí che già non ti cape». E, cosí detto,
si fendé l'aura avanti e vèr la terra
calossi, trasmutossi, e come fusse
il vecchio Bute, al giovine accostossi.
Fu Bute in prima del dardanio Anchise
valletto d'arme e cameriero e paggio,
e poscia per custode e per compagno
l'ebbe Ascanio dal padre. A questo vecchio
mostrossi Apollo di color, di voce,
d'andar, di canutezza e d'armatura
simile in tutto; ed a l'ardente Iulo
fatto vicino, in tal guisa gli disse:
«Bàstiti aver, d'Enea preclaro figlio,
senza alcun rischio tuo Numano ucciso.
Di questa prima lode il grande Apollo
ti privilegia, e non t'invidia il colpo,
né 'l paraggio de l'arco. Or da la pugna
ritraggiti». E, ciò detto, da la vista
de' circostanti si ritrasse anch'egli,
e sormontando dissipossi e sparve.
Rassembrarono in Bute i Teucri Apollo
e riconobber la faretra e l'arco,
che fuggendo sonar anco s'udiro.
E fêr sí con le preci e col precetto
d'un tanto iddio, ch'Ascanio, ancor che vago
fosse di pugna, se ne tolse alfine;
ed essi apertamente a ripentaglio
misero in vece sua le vite loro.
  Spargesi un grido per le mura intanto,
per tutte le difese; e tutti agli archi,
tutti a tirar, tutti a lanciar si diêro
d'ogni sorte arme, e d'ogni parte il suolo
n'era coverto; quando altro conflitto
cominciossi di scudi e di celate;
una mischia di picche, una battaglia
che crescea, tuttavolta, rinforzando
con quella furia che di pioggia un nembo
vien da l'occaso, allor che d'orïente
fan sorgendo i Capretti a noi tempesta:
o quando orrido e torbo e d'austri cinto
e 'n grandine converso irato Giove,
d'alto precipitando, si devolve
sopra la terra, e 'l ciel rompendo intuona.
  Pàndaro e Bizia d'Alcanòro idèo,
e d'Iëra salvatica sua moglie
figli, in Ida acquistati, e d'Ida usciti
l'uno a l'altro simíle, ed ambidue
a quegli abeti ed a quei monti uguali
ond'eran nati, avean dal teucro duce
una porta in custodia. E confidati
ne le forze e ne l'armi, a bello studio
la lasciarono aperta, ed a' nemici
fêr da le mura marzïale invito:
essi armati di ferro, un da la destra,
l'altro da la sinistra, a due pilastri
sembianti, anzi a due torri che nel mezzo
tengan la porta, con le teste in alto
e co' raggi degli elmi i campi intorno
folgorando, squassavano i cimieri
fin sovr'a' merli. In cotal guisa nate
ne le ripe si veggon di Liquezio,
de l'Adige, o del Po due querce altiere
sorgere al cielo e sventolarsi a l'aura.
  Visto l'adito aperto, incontinente
vi si spinsero i Rutuli. E Quercente
ed Equícolo, i primi armati e fieri,
l'ardito Omàro e 'l bellicoso Emone
tutti co' lor compagni impeto fêro;
e tutti o fûr da' Teucri in fuga vòlti,
o ne l'entrar di quella porta ancisi.
Giunto agli animi infesti il sangue sparso,
s'accrebber l'ire e de' Troiani intanto
tale un numero altronde vi concorse,
che prender zuffa e tener campo osaro.
  Turno sfogava il suo furore altrove
contr'a nemici; quando un messo avanti
gli comparve dicendo, che di Troia
erano usciti, e stavan con le porte,
quanto eran larghe, a far strage e macello,
de le sue genti. Ei tosto da quel canto
lasciò l'impresa; e contra i due fratelli
a la dardania porta irato accorse.
E primamente Antífate, che primo
gli venne avanti, un giovine bastardo
di Sarpedonte e di tebana madre,
con un colpo di dardo a terra stese.
Colpillo ne lo stomaco, e passolli
oltre al polmone, onde di caldo sangue,
quasi d'un antro, dilagossi un fonte.
Mèrope, Afidno ed Erimanto appresso
uccise con la spada, un dopo l'altro
come a caso incontrogli. Atterrò Bizia
dopo costoro, ma non già col dardo,
e men col brando; ch'altro colpo er'uopo
a sí gran corpo. A costui, mentre infuria,
mentre stizza per gli occhi avventa e foco,
infuocato, impiombato e grave un tèlo
scaricò di falarica, che in guisa
di fulmine stridendo e percotendo
lo giunse sí che né lo scudo avvolto
di due bovine terga, né la fida
lorica di due squame e d'or contesta
non lo sostenne. Barcollando cadde
la smisurata mole, e tal diè crollo
che 'l terren se ne scosse, e 'l gran suo scudo
gli tonò sopra. In tal guisa di Baia
su l'eüboica riva il grave sasso,
ch'è sopra l'onde a fermar l'opre eretto,
da l'alto ordigno ov'era dianzi appreso,
si spicca e piomba, e fin ne l'imo fondo
ruinando si tuffa, e frange il mare,
e disperge l'arena: onde ne trema
Procida ed Ischia, e il gran Tifèo se n'ange,
cui sí duro covile ha Giove imposto.
  Qui Marte il suo potere e 'l suo favore
volse verso i Latini. Animi e forze
aggiunse loro, gl'incitò, gli accese;
e di téma e di fuga e di scompiglio
diè cagione a' Troiani. E già ch'a pugna
s'era venuto, e de la pugna il nume
era con loro; accolti d'ogni parte
si ristringono i Rutuli, e fan testa.
Pàndaro, poi che 'l suo fratello estinto
si vide avanti, e la fortuna avversa,
a la porta con gli omeri appuntossi;
e sí com'era poderoso e grande,
con molta forza la rispinse e chiuse,
molti esclusi de' suoi, che per la fretta
rimaser ne le peste; e molti inclusi
ch'eran nimici: e non s'avvide il folle,
che de' nimici in quella calca ancora
era lo stesso re da lui raccolto
a far de' suoi, qual tra le greggi imbelli
ircana tigre immane. Ei non piú tosto
fu dentro, che raggiò dagli occhi un lume
spaventevole e fiero; e l'armi sue
fieramente sonaro. Il suo cimiero
ne l'aura ondeggiò sangue, e dal suo scudo
uscîr folgori e lampi. Incontinente
la sua faccia odïata e 'l suo gran fusto
raffigurando i Teucri si turbaro.
Pàndaro allor de la fraterna morte
fervidamente irato, avanti a tutti
gli si fe' incontro e disse: «E' non è, Turno,
questa la reggia che t'assegna in dote
la tua regina; e non hai d'Ardea intorno
le patrie mura. Ne le forze entrato
sei de' nemici onde scampar non puoi».
  «Or via, - Turno ghignando gli rispose
placidamente, - via, se tanto ardisci,
meco ti prova; ché ben tostamente
a Prïamo dirai ch'in questa Troia,
come ancor ne la sua, trovossi Achille».
Ciò detto, gli avventò Pàndaro un dardo
di tutta forza nodoroso e grave,
e di ruvida ancor corteccia involto.
L'aura lo prese, e la Saturnia Giuno
deviò 'l colpo sí che da la mira
si torse e ne la porta si confisse.
  «Non sí cadrà questa mia spada in fallo, -
disse allor Turno; - tale è chi la vibra,
e tal fa colpo». Ed a ferire alzato
l'investí ne la fronte, e gli divise
le tempie, le mascelle e 'l mento ignudo
ancor di barba, infin là 've s'appicca
il collo al petto. Al suon de la percossa,
al fracasso de l'armi, a la ruina,
che fêr cadendo quelle membra immani,
tremò la terra e ne fu d'atro sangue
e di cervella aspersa. Egli morendo
giacque rovescio, e dechinò la testa
parte a l'omero destro e parte al manco.
  Al cader di costui tal prese i Teucri
téma e spavento, che dispersi in fuga
sen gîro. E s'era il vincitore accorto
d'aprir la porta e di por dentro i suoi,
fôra stato quel giorno e de la guerra
e de' Troiani il fine. Ma la furia
e l'ardor di combattere e l'insana
ingordigia di sangue ne 'l distolse.
Onde seguendo, in Falari ed in Gige
s'abbatté prima. A l'uno il petto aperse;
sgherrettò l'altro. A quei ch'erano in fuga
con l'aste di color ch'eran caduti
feria le terga: e nuova occisïone
gli ponea tuttavia nuov'armi in mano:
sí come ancor Giunon nuovo ardimento
gli dava e nuove forze. Ali tra questi
mandò per terra, e Fègëa confisse
con lo suo scudo. Occise in su le mura,
mentre a' nemici eran di fuori intenti,
Alio ed Alcandro e Prítane e Nomone.
A Líncëo, ch'osò di starli a fronte
e chiamare i compagni, con un colpo,
che di rovescio con gran forza dielli,
recise il capo, e l'avventò con l'elmo
lunge dal busto. Dopo questi ancise
Àmico, un cacciator ch'era in campagna
gran distruttor di fere, e gran maestro
d'armar di tòsco le saette e 'l ferro:
e Clizio ancise, d'Eölo il buon figlio,
e Cretèo, de le Muse il caro amico
e 'l diletto compagno, che di versi
e di cetre e di numeri e di corde
era sol vago, e di cantar mai sempre
o d'armi o di cavalli o di battaglie.
  I condottier de' Teucri udita alfine
de' suoi la strage, insieme s'adunaro,
Memmo e Seresto. E visti i lor compagni
dispersi, e già 'l nemico in salvo addursi,
gridando: «Oh, - disse Memmo, - ove fuggite?
Ove n'andate? e qual ridotto avete
o di mura o di sito altro che questo?
Dunque un sol uomo, e d'ogni parte chiuso
in poter vostro, avrà, miei cittadini,
senza alcun danno suo fatto di noi
ne la nostra città sí gran macello?
Tanti de' nostri giovini sotterra
avrà mandati? E noi, noi non avremo
(sí codardi saremo) o de la nostra
infortunata patria, o degli antichi
nostri Penati, o del gran nostro Enea
né pietà, né rispetto, né vergogna?»
  Da questo dire accesi e rincorati
si ristrinsero insieme. E Turno intanto
da la pugna allentando in vèr la parte
che dal fiume era cinta, a poco a poco
appressossi a la riva: onde i Troiani
con impeto maggior, con maggior grida
gli furon sopra. E qual fiero leone
che da la moltitudine e da l'armi
si vede oppresso, tra fierezza e téma
torvamente mirando si ritira;
ché né 'l valor, né l'ira gli consente
volgere il tergo, né de' cacciatori,
né di spiedi spuntar puote il rincontro;
cosí Turno dubbioso o di ritrarsi
o di spingersi avanti, irato e lento,
guardingo e minaccioso se n'andava:
e due volte avventandosi nel mezzo
si cacciò de' nemici; ed altrettante
gli ruppe e salvo indietro si ritrasse.
Alfine in un drappello insieme accolte
le teucre genti incontro gli si fêro,
e di Saturno non osò la figlia
di piú forza prestargli; ché dal cielo
Giove a la sua sorella avea mandato
Iri a farne richiamo, e minacciarlo,
se Turno immantinente da le mura
non uscia de' Troiani. Or non potendo
piú 'l giovine supplire o con la destra,
ch'era a ferir già stanca, o con lo scudo,
che di dardi e di frecce era coverto;
l'elmo già spennacchiato, e l'armi tutte
smagliate e fesse, con un nembo addosso
di sassi per le tempie e d'aste a' fianchi
già da Memmo incalzato, alfin cedette.
  E come di sudor colava, ansava,
e quasi rifiatar piú non potea,
con tutte l'armi indosso un salto prese,
e nel Tebro avventossi. Il biondo Tebro
placido lo raccolse e salvo e lieto,
e da l'occisïon purgato e mondo,
su l'altra riva a' suoi lo ricondusse.


 

 

LIBRO DECIMO



  Aprissi la magion celeste intanto,
e del cielo il gran padre in cima ascese
del suo cerchio stellato. Indi mirando
la terra, e de' Troiani e de' Latini
visto il conflitto, a sé degli altri dèi
chiamò 'l consiglio. E com'era da l'orto
e da l'occaso la sua reggia aperta,
ratto tutti adunati, assisi e cheti,
disse egli in prima: «Cittadini eterni,
qual v'ha cagione a distornar rivolti
quel ch'è già stabilito? A che tra voi
con tanta iniquità tanto contrasto?
Non s'è da me già proibito e fermo
che non deggian gli Ausoni incontro a' Teucri
sorgere a l'armi? Che discordia è questa
contro al divieto mio? Qual ha timore
a la guerra incitati o questi o quelli?
Tempo vi si darà ben degno allora
di guerreggiar (non l'affrettate or voi)
che la fera Cartago aprirà l'Alpi,
grave a Roma portando esizio e strage.
Allora agli odi, al sangue, a le rapine
larga vi si darà licenza e campo.
Or lietamente la tenzone e l'armi
fermate, e sia tra voi concordia e pace».
  Tal fece ragionando il gran monarca
breve proposta. Ma non brevemente
Venere in questa guisa gli rispose:
  «Padre e re de' celesti, e de' mortali
eterna possa (e qual altra maggiore
s'implora altronde?), ecco tu stesso vedi
l'arroganza de' Rutuli, e quel fasto
con che Turno cavalca; e vedi il vampo
e la ruina che si mena avanti,
da la sua tracotanza e dal successo
di questa pugna insuperbito e gonfio.
Vedi i Teucri infelici, ch'ancor chiusi
non son securi; e 'n fin dentro a le porte
e 'n su' ripari e 'n su le lor difese
son combattuti: e la lor propria fossa
è di lor sangue un lago. Di ciò nulla
il mio figlio non sa; tanto n'è lunge.
Or non fia ch'una volta esca d'assedio
questa misera gente? Ecco han le mura
de l'altra Troia altri nimici a torno;
altro esercito in campo; un'altra volta
d'Arpi vien Dïomede a' danni suoi.
Resta cred'io ch'un'altra volta ancora
io sia da lui ferita, e che di nuovo
sia la tua figlia a mortal ferro esposta.
Signor, se contra la tua voglia i Teucri
son venuti in Italia, è ben ragione
che sian puniti, e del tuo aiuto indegni:
ma se tratti vi sono, e s'è lor dato
dagli oracoli tutti e de' celesti
e degl'inferni, qual può senno o forza
a Giove opporsi, e far nuovo destino?
Ch'io non vo' dir de le combuste navi
su la spiaggia ericina, né de' vènti
che 'l re spinse d'Eolia a tempestarlo,
né d'Iri che di qui fu già mandata
per darle al foco. Infin da l'Acheronte
tratte ha le Furie (questa sol mancava
parte de l'universo non tentata
a loro offesa); d'Acheronte, dico,
ha tratto Aletto a suscitar l'Italia
incontr'a loro. Or, Signor mio, non curo
piú d'altro imperio. Io lo sperava allora
ch'era piú fortunata. Imperi e vinca
or chi t'aggrada. E s'anco non è loco
nel mondo, ove a la tua dura consorte
piaccia che sian quest'infelici accolti,
per l'incendio, signor, per la ruina,
e per la solitudine ti prego
de la mia Troia che ritrar mi lasci
salvo da questa guerra Ascanio almeno.
Lasciami, padre mio, questo nipote
mantener vivo; e se ne vada Enea
ramingo ovunque il mare o la fortuna
lo si tramandi. Io lo terrò da l'armi
remoto ne' miei lochi o d'Amatunta
o d'Idalio o di Pafo o di Citèra
a menar vita ignobile e privata,
pur che sicura. E tu, come a te piace,
comanda ch'a l'Ausonia il giogo imposto
sia da Cartago, sí che piú non l'osti
in alcun tempo. Or che, padre, ne giova
che da l'occisïoni e dagl'incendi
de la lor patria e da tant'altri rischi
sian già del mare e de la terra usciti?
E che val che da te sia lor promessa,
da lor tanto ricerca, e già trovata
questa Troia novella, se di nuovo
convien che caggia? Assai meglio sarebbe
che fosser tra le ceneri e nel guasto,
dove fu l'altra. A Xanto, a Simoenta
fa, ti prego, signor, che si radduca
questa gente infelice, e che ritorni
a passar d'Ilio i guai». Giunone allora
infurïata: «A che, - disse - mi tenti,
perch'io rompa il silenzio, e mostri il duolo
c'ho portato nel cor gran tempo ascoso?
Qual è mai per tua fé stato uomo o dio
ch'Enea sforzasse a cercar briga, e farsi
nemico il re Latino? Oh 'l fato addotto
l'ha ne l'Italia! Sí, ma da le furie
c'è spinto di Cassandra. E chi gli ha dato
consiglio, io forse? Ch'abbandoni i suoi?
Io, che dia la sua vita in preda a' vènti?
Io, che la cura e 'l carco de la guerra
lasci in man d'un fanciullo? e che sollevi
i popoli d'Etruria, e l'altre genti
che si stavano in pace? E quale dio,
qual mia durezza de' lor danni è rea?
Qui che rileva o di Giuno lo sdegno,
o d'Iri il ministero? Indegna cosa
è certo che dagl'Itali s'infesti
questa tua nuova Troia; e degno e giusto
sarà che Turno non si stia sicuro
ne la sua patria terra? un tal nipote
di Pilunno ch'è divo, un tanto figlio
di Venilia ch'è ninfa? E degna cosa
ti par che muova Enea la guerra a Lazio?
ch'assalga, che soggioghi, che deprede
le terre altrui? che l'altrui donne usurpi?
ch'in man porti la pace, e che per mare
e per terra armi? Tu potrai tuo figlio
scampar da' Greci; tu riporre invece
di lui la nebbia e 'l vento; tu la forma
cangiar de le sue navi in altrettante
ninfe di mare; ed io cosa nefanda
farò, se porgo a' Rutuli un aiuto,
per minimo che sia? Non v'è tuo figlio
presente; non vi sia: non sa; non sappia.
Sei regina di Pafo, d'Amatunta,
di Citèra e d'Idàlio: e che vai dunque
provocando con l'armi una contrada
non tua, pregna di guerra? e stuzzicando
sí bellicosa gente? Ed io son quella,
io, che l'afflitte lor fortune agogno
di porre al fondo? E perché non piú tosto
chi de' Greci a le man gli pose in prima?
Chi prima fu cagion ch'a guerra addusse
l'Europa e l'Asia? chi commise il furto
che fu de la rottura il primo seme?
Io condussi l'adultero pastore
a l'impresa di Sparta? Io fui ch'a l'armi,
io ch'a l'amor l'accesi? Allora il tempo
fu d'aver téma e gelosia de' tuoi,
non or che le querele e le rampogne
che ne fai, sono ingiuste e tarde e vane».
  Cosí Giuno dicea; quando fremendo
gli dèi tutti mostrâr che chi con questa
consentian, chi con quella. In guisa tale
s'odono i primi vènti entro una selva
mormorar lunge, e non veduti ancora
porgere a' marinari indicio e téma
di propinqua tempesta. Allor del cielo
il sommo, eterno, onnipotente padre
riprese a dire. Al suo parlar chetossi
la celeste magion; chetârsi i vènti,
e l'aria e l'onde; e sola infino al centro
tremò la terra. Ei disse: «Or che gli Ausoni
confederar co' Teucri ne si toglie,
e voi tra voi non v'accordate, udite
quel ch'io vi dico, e i miei detti avvertite.
  Quella stessa fortuna e quella speme,
qual ch'ella sia, ch'i Rutuli o i Troiani
oggi da lor faransi, io vi prometto
aver per rata, e non punto inchinarmi
piú da quei che da questi: e sia l'assedio
de' Teucri o per destino, o per errore,
o per false risposte. E ciò dico anco
de' Rutuli. Il successo e buono e rio
fia d'una parte e d'altra qual ciascuna
per sé lo s'ordirà. Giove con ambi
si starà parimente, e 'l fato in mezzo».
Cosí detto, il torrente e la vorago
e la squallida ripa e l'atra pece
d'Acheronte giurando, abbassò 'l ciglio,
e tremar fe' col cenno il mondo tutto.
Finito il ragionar, suso levossi
del seggio d'oro; e gli fêr tutti intorno
corona e compagnia fino a l'albergo.
  L'esercito de' Rutuli stringendo
l'assedio intanto, in su le porte e 'ntorno
facea de la muraglia incendi e stragi;
e i Teucri assedïati, entro ai ripari
e sopr ai torrïoni a la difesa
stavan, miseri! indarno; e senza speme
di fuga un raro cerchio avean disteso
su per le mura. Era de' primi Iaso
d'Imbrasio il figlio, e 'l figlio d'Icetone
detto Timete, e 'l buon Càstore insieme
col vecchio Timbri, ed ambi dopo questi
di Sarpedonte i frati: e Chiaro, ed Emo
onor di Licia, e di Lirnesso Ammone.
Questi con un gran sasso era venuto
su la muraglia, che 'l maggior catollo
era d'un monte; ed egli era non punto
minor del padre Clizio e di Menesto
suo famoso fratello. Altri con sassi,
altri con dardi, e chi con le saette,
e chi col foco a guardia eran del muro.
  In mezzo de le schiere il vago Iulo,
gran nipote di Dardano e gran cura
de la bella Ciprigna, il volto e 'l capo
ignudo, risplendea qual chiara gemma
che in òr legata altrui raggi dal petto
o da la fronte; o qual da dotta mano
in ebano commesso, o in terebinto
candido avorio agli occhi s'appresenta.
Sovra al collo di latte il biondo crine
avea disteso, e d'oro un lento nastro
gli facea sotto e fregio insieme e nodo.
  Ismaro, e tu fra sí famosa gente
con l'arco saettar ferite e tòsco
fosti veduto, generosa pianta
del meonio paese, ove fecondi
sono i campi di biade, e i fiumi d'oro.
  Memmo v'era ancor egli, a cui la fuga
dianzi di Turno avea gloria acquistata,
ond'era fino al ciel sublime e chiaro.
Eravi Capi, onde poi Capua il nome
e l'origine ha presa. Avean costoro
tra lor diviso il carico e 'l periglio
di sí dura battaglia. E 'n questo mentre
solcava Enea di mezza notte il mare.
  Egli, poi che d'Evandro ebbe lasciato
l'amico albergo e che nel campo giunse
de' Toschi, al tosco rege appresentossi;
e con lui ristringendosi, il suo nome
il suo lignaggio, la sua patria, in somma
chi fosse, che chiedesse, che portasse
gli espose; e qual Mezenzio appoggio avesse,
e l'orgoglio di Turno, e l'apparecchio
e l'incostanza de l'umane cose
gli pose avanti. A le ragioni aggiunse
esempi e preci sí, ch'immantinente
Tarconte acconsentí. Strinser la lega,
unîr le £orze ed apprestâr le genti
in un momento. Di straniero duce
provvisti i Lidi, e già dal fato sciolti,
salîr sovra l'armata. E pria di tutti
uscio d'Enea la capitana avanti.
  Questa avea sotto al suo rostro dipinti,
quai sotto al carro de la madre idèa,
due che 'l legno traean frigi leoni,
e d'Ida gli pendea di sopra il monte,
amaro suo disio, dolce ricordo
del patrio nido. In su la poppa assiso
stava il duce troiano; e da sinistra
avea d'Evandro il figlio, che tra via
l'interrogava or del vïaggio stesso
e de le stelle, ed or degli altri suoi
o per terra o per mar passati affanni.
  Apritemi Elicona, alme sorelle,
e cantate con me che gente e quanta
d'Etruria Enea seguisse, e di che parte,
e con qual'armi e come il mar solcasse.
  Màssico il primo in su la Tigre imposto
avea di mille giovini un drappello,
che di Chiusi e di Cosa eran venuti
con l'arco in mano e con saette a' fianchi.
Appresso a lui, seguendo, il torvo Abante
sotto l'insegna del dorato Apollo
seicento n'imbarcò di Populonia,
trecento d'Elba, in cui ferrigna vena
abbonda sí, che n'erano ancor essi
dal capo ai piè tutti di ferro armati.
Asíla il terzo, sacerdote e mago
che di fibre e di fulmini e d'uccelli
e di stelle era interprete e 'ndovino,
mille ne conducea, ch'un'ordinanza
facean tutta di picche: e tutti a Pisa
eran soggetti, a la novella Pisa,
che, già figlia d'Alfeo, d'Arno ora è sposa.
Asture, ardito cavaliero e bello,
e con bell'armi di color diverse,
vien dopo questi con trecento appresso
di vari lochi, ma d'un solo amore
accesi a seguitarlo. Eran mandati
da Cerète e dai campi di Mignone,
dai Pirgi antichi e da l'aperte spiagge
de la non salutifera Gravisca.
Di te non tacerò, Cigno gentile,
di Cupàvo dicendo, ancor che poche
fosser le genti sue. Questi di Cigno
era figliuol, onde ne l'elmo avea
de le sue penne un candido cimiero
in memoria del padre, e de la nuova
forma in ch'ei si cangiò, tua colpa, Amore.
Ché de l'amor di Faetonte acceso,
come si dice, mentre che piangendo
stava la morte sua, mentre ch'a l'ombra
de le pioppe, che pria gli eran sorelle,
sfogava con la musa il suo dolore,
fatto cantando già canuto e vèglio
in augel si converse, e con la voce
e con l'ali da terra al cielo alzossi.
Il suo figlio co' suoi portava un legno
a cui sotto la prora e sopra l'onde
stava un centauro minaccioso e torvo,
che con le braccia e con un sasso in atto
sembrava di ferirle, e via correndo
col petto le facea spumose e bianche.
Ocno poscia venia, del tosco fiume
e di Manto indovina il chiaro figlio,
che te, mia patria, eresse e che dal nome
de la gran madre sua Mantua ti disse:
Mantua d'alto legnaggio, illustre e ricca,
e non d'un sangue. Tre le genti sono,
e de le tre ciascuna a quattro impera,
di cui tutte ella è capo, e tutte insieme
son con le forze de l'Etruria unite.
  Quinci ne fûr contra Mezenzio armati
cinquecento altri; e Mincio, un figlio altero
del gran Benàco, fu che gli condusse,
di verdi canne inghirlandato il fronte.
Giva il superbo Aulete con un legno
di cento travi il mar solcando in guisa
che spumante il facea, sonoro e crespo.
Premea le spalle d'un Tritone immane
che con la cava sua cerulea conca
tremar si facea l'acqua e i liti intorno.
Dal mezzo in su, la fronte ispido e 'l mento
sembra d'umana forma; e 'l ventre in pesce
gli si ristringe, e col ferino petto
fende il mar sí che rumoreggia e spuma.
Da questi eletti eroi, con queste genti
eran l'onde tirrene allor solcate
in sussidio di Troia. E già dal cielo
caduto il giorno, era de l'erta in cima
la vaga luna, quando il frigio duce,
or al timone, or a la vela intento,
co' suoi pensier vegliava. Ed ecco avanti
nuotando gli si fa di ninfe un coro,
di lui prima compagne, e quelle stesse
che, già sue navi, da Cibele in ninfe
furon converse, e dee fatte del mare.
Tante in frotta ne gian per l'onde a nuoto
quante eran navi in prima. E di lontano
riconosciuto il re, danzando in cerchio
gli si strinsero intorno. Una fra l'altre,
la piú di tutte accorta parlatrice,
Cimodocèa, la sua nave seguendo,
con la destra a la poppa, e con la manca
tacita remigando, il capo e 'l dorso
solo a galla tenendo, d'improvviso
cosí gli disse: «Enea, stirpe divina,
vegli tu? Veglia: il fune allenta, e 'l seno
apri a le vele tue. De la tua classe
noi fummo i legni e de la selva idèa,
e siamo or ninfe. I Rutuli col foco
n'hanno e col ferro dipartite e spinte
da' tuoi nostro malgrado. Or te cercando
siam qui venute. Per pietà di noi
la berecinzia madre in questa forma
n'ha del mar fatte abitatrici e dee.
  Ma 'l tuo fanciullo Iulo in mezzo a l'armi
si sta cinto di fossa e di muraglia
da' feroci Latini assedïato.
I tuoi cavalli e gli Arcadi e gli Etruschi
unitamente han di già preso il loco
comandato da te. Turno disegna
co' suoi d'attraversarli e porsi in mezzo
tra 'l campo e loro. Or via, naviga, approda;
sorgi tu pria che 'l sole, e sii tu 'l primo
ad ordinar le tue genti a battaglia.
Prendi l'invitto e luminoso scudo
da Volcan fabbricato, e d'òr commesso;
ché diman, se mi credi, alta e famosa
farai tu strage de' nemici tuoi».
  Ciò disse, e, come esperta, al legno in poppa
tal diè pinta al partir, che piú veloce
corse che dardo o stral che 'l vento adegui.
Dietro gli altri affrettâr, sí che stupore
n'ebbe d'Anchise il figlio. E rincorato
da sí felice annunzio, al cielo orando
divotamente si rivolse, e disse:
«Alma dea, degli dèi gran genitrice,
di Díndimo regina, che di torri
vai coronata e 'n su leoni assisa,
te per mia duce a questa pugna invoco.
Tu rendi questo augurio e questo giorno,
ti priego, a i Frigi tuoi propizio e lieto».
  Questo sol disse; e luminoso intanto
si fece il mondo. Ei primamente impose
che ratto al segno suo ciascun ne gisse,
ch'ognun s'armasse, ognuno a la battaglia
si disponesse. E già venuto a vista
de' Rutuli e de' Teucri, alto levossi
in su la poppa; s'imbracciò lo scudo,
e lo vibrò sí ch'ambedue raggiando
empié di luce e di baleni i campi.
Di su le mura la dardania gente
gioiosa infino al ciel le grida alzaro,
e sopraggiunta la speranza a l'ira,
a trar di nuovo e saettar si diêro
con un rumor, qual sotto l'atre nubi
nel dar segno di nembi e nel fuggirli
fan le strimonie gru schiamazzo e rombo.
  Mentre ciò Turno e gli altri ausoni duci
stavan meravigliando, ecco a la riva
si fa pien d'armi e di navili il mare.
Enea di cima al capo e da la cresta
del fin elmo spargea lampi e scintille
d'ardente fiamma; e gran lustri e gran fochi
raggiava de lo scudo il colmo e l'oro,
come ne la serena umida notte
la lugubre e mortifera cometa
sembra che sangue avventi, o 'l sirio Cane
quando nascendo a' miseri mortali
ardore e sete e pestilenza apporta,
e col funesto lume il ciel contrista.
  Non men per questo ha Turno ardire e speme
d'occupar prima il lito, e da la terra
ributtare i nemici. Egli, animando
e riprendendo la sua gente, avanti
si spinge a tutti, e griada: «Ecco adempito
vostro maggior disio. Piú non vi sono
le mura in mezzo. In voi, ne le man vostre
la pugna e Marte e la vittoria è posta.
Or qui de la sua donna, de' suoi figli,
de la sua casa si rammenti ognuno;
ognun davanti si proponga i fatti
e le lodi de' padri. Andiam noi prima
a rincontrargli, infin che l'onde e 'l moto
ce gli rende del mar non fermi ancora.
Via, ch'agli arditi è la fortuna amica».
  Detto cosí, va divisando come
parte lor contra ne conduca, e parte
a l'assedio ne lasci. Intanto Enea
per disbarcare i suoi, le scafe e i ponti
avea già presti. E di lor molti attenti
al ritorno de' flutti con un salto
si lanciarono in secco; e chi co' remi,
chi con le travi ne l'arena usciro.
  Tarconte, poi ch'ebbe la riva tutta
ben adocchiata, non là dove il vado
disperava del tutto, o dove l'onda
mormorando frangea, ma dove cheta
e senza intoppo avea corso e ricorso,
voltò le prore; e: «Via, - disse - compagni,
via, gente eletta, ite con tutti i remi,
di tutta forza, e sí pingete i legni,
che si faccian da lor canale e stazzo.
Dividete co' rostri e con le prore
questa nemica terra: in questa terra
mi gittate una volta, e che che sia
segua poi del navile. A questo pregio
non curo del suo danno: afferri, e pèra».
  Al detto di Tarconte alto in su' remi
levârsi e sí co' rostri a' liti urtaro,
ch'empiêr di spuma il mar, di sabbia i campi;
e i legni tutti ne l'asciutto infissi
fermârsi interi. Ma non già, Tarconte,
il legno tuo, che d'una ascosa falda
ebbe di sasso in approdando intoppo;
dal cui dorso inchinato, e dal mareggio
lungamente battuto, alfin del tutto
aperto e sconquassato, in mezzo a l'onde
le genti espose; e 'l peso e l'imbarazzo
de l'armi, e gli armamenti infranti e sparsi
del rotto legno, e 'l flutto che rediva
le tennero impedite e risospinte.
  Turno le schiere sue rapidamente
al mar condusse, e tutte in ordinanza
su 'l lito incontra a' Teucri le dispose.
Diêron le trombe il segno. Il troian duce
fu che prima assalí le torme agresti,
e si fe' con la strage de' Latini
e con la morte di Terone in prima
augurio a la vittoria. Era Terone
un di corpo maggior degli altri tutti;
e tanto ebbe d'ardir che da se stesso
incontr'Enea si mosse. Enea col brando
tal un colpo gli trasse, che lo scudo,
benché ferrato, e la corazza e 'l fianco
forogli insieme. Indi avventossi a Lica
che da l'aperte viscere fu tratto
de la già morta madre, e pargoletto,
preservato dal ferro, a te fu sacro,
Febo, padre di luce; ed or morendo
vittima cadde a Marte. Occise appresso
Cisso feroce, e Gía di corpo immane,
ch'ambi di mazze armati ivan le schiere
de' suoi Teucri atterrando. E lor non valse
né d'Ercole aver l'armi né le braccia
d'erculea forza, né che già Melampo
lor padre in compagnia d'Ercole fosse
allor che de la terra a soffrir ebbe
i duri affanni. A Faro un dardo trasse,
mentre gridando e millantando incontra
gli si facea. Colpillo in bocca a punto,
sí che la chiuse e l'acchetò per sempre.
  E tu, Cidon, per le sue mani estinto
misero! giaceresti a Clizio appresso,
tuo novo amore, a cui de' primi fiori
eran le guance colorite a pena;
se non che de' fratelli ebbe una schiera
subitamente a dosso. Eran costoro
sette figli di Forco, e sette dardi
gli avventaro in un tempo. Altri de' quali
da l'elmo e da lo scudo risospinti,
altri furon da Venere sbattuti
sí, ch'o vani, o leggieri il corpo a pena
leccâr passando. In questa, Enea rivolto:
«Dammi, - disse ad Acate, - degl'intrisi
nel sangue greco, e sotto Ilio provati;
e non fia colpo in fallo». Una grand'asta
gli porse Acate in prima, ed ei la trasse
sí, che volando ne lo scudo aggiunse
di Mèone, e la piastra ond'era cinto
e la corazza e 'l petto gli trafisse.
Alcanor suo fratello nel cadere,
mentre le braccia al tergo gli puntella,
l'asta nel trapassare, il suo tenore
continüando, insanguinata e calda
la destra gli confisse: e da le spalle
pendé del frate, infin che l'un già morto,
e l'altro moribondo a terra stesi
giacquero entrambi. Numitore il terzo
da questo sconficcandola e da quello,
lanciolla incontro Enea. Di ferir lui
non gli successe, ma del grande Acate
graffiò la coscia lievemente, e scórse.
  Clauso, il Sabino, ardito e poderoso
qui si mostrò con una picca in mano,
e Drïope investí nel primo incontro.
Glie n'appuntò nel gorgozzule, e pinse
tanto, che la parola e 'l fiato e l'alma
in un gli tolse. Ed ei cadde boccone,
e per bocca gittò di sangue un fiume.
Cacciossi avanti, e tre di Tracia appresso
de la gente di Borea, e tre de' figli
d'Idante, alunni d'Ismara e di Troia,
in varïate guise a terra stese.
Venne a rincontro Aleso, e degli Aurunci
un'ordinanza. Di Nettuno il figlio
Messapo i suoi cavalli avanti spinse,
ed or questi sforzandosi, ed or quelli
di cacciare i nemici, in su l'entrata
si combattea d'Italia. E quai tra loro
s'azzuffano a le volte avversi, e pari
di contesa e di forza in aria i vènti,
che né lor, né le nugole, né 'l mare
ceder si vede, e lungamente incerta
sí la mischia travaglia, ch'ogni cosa
d'ogni parte tumultüa e contrasta;
tale appunto de' Rutuli e de' Teucri
era la pugna e sí fiera e sí stretta,
che giunte si vedean l'armi con l'armi,
e le man con le mani, e i piè co' piedi.
  D'altra parte ove rapido e torrente
avea 'l fiume travolti arbori e sassi,
da loco malagevole impediti
gli Arcadi cavalieri a piè smontaro;
e ne' pedestri assalti ancor non usi,
da' Latini incalzati, avean le terga
già volte a Lazio, quando (quel che s'usa
in sí duri partiti) a lor rivolto
Pallante, or con preghiere, or con rampogne:
«Ah, compagni, ah, fratelli, - iva gridando, -
dove fuggite? Per onor di voi,
per la memoria di tant'altri vostri
egregi fatti, per l'egregia fama,
per le vittorie del gran duce Evandro,
e per la speme che di me concetta
a la paterna lode emula avete,
non ponete ne' piè vostra fidanza.
Col ferro aprir la strada ne conviene
per mezzo di color che là vedete,
che piú folti n'incalzano e piú feri.
Per là comanda l'alta patria nostra
che voi meco n'andiate. E di lor nullo
è che sia dio: son uomini ancor essi
come siam noi: e noi com'essi avemo
il cor, le mani e l'armi. E dove, dove
vi salverete? Non vedete il mare
che v'è davanti, e che la terra manca
al fuggir vostro? E se per l'onde ancora
fuggiste, alfin dove n'andrete? a Troia?»
  E, cosí detto, in mezzo de' piú densi
e de' piú formidabili nemici
anzi a tutti avventossi. E Lago il primo
per sua disavventura gli s'oppose.
Stava costui chinato, e per ferirlo
divelto avea di terra un gran macigno,
quando lo sopraggiunse, e nella schiena
tra costa e costa il suo dardo piantogli;
sí che tirando e dimenando a pena
ne lo ritrasse. Isbon, di Lago amico,
mentr'egli in ciò s'occúpa, ebbe speranza
di vendicarlo, e 'ncontra gli si mosse.
Ma non gli riuscí: ché mentre, incauto,
dal dolor trasportato e da lo sdegno
del suo morto compagno, infurïava,
ne la spada del giovine infilzossi
da l'un de' fianchi: onde trafitto e smunto
ne fu di sangue il cor, d'ira il polmone.
Poscia Stènelo occise; occise appresso
Anchèmolo. Costui fu de l'antica
stirpe di Reto. E voi, Laride e Timbro,
figli di Dauco, ambi d'un parto nati,
per le sue man cadeste. Eran costoro
sí l'un del tutto a l'altro somigliante,
che dal padre indistinti e da la madre
facean lor grato errore e dolce inganno.
Sol or Pallante (ahi! troppo duramente)
vi fe' diversi: ch'a te 'l capo netto,
Timbro, recise; a te, Laride, in terra
mandò la destra. E questa anche guizzando
te per suo riconobbe, e con le dita
strinse il tuo ferro, e 'l brancicò piú volte.
Gli Arcadi da' conforti e da le prove
accesi di Pallante; e per dolore
e per vergogna di furor s'armaro
contr'a' nimici. Seguitò Pallante;
ed a Retèo ch'era fuggendo in volta
sopra una biga, nel passargli a canto,
trasse d'un'asta; e tanto Ilo d'indugio
ebbe a la morte sua, ch'ad Ilo indritto
era quel colpo in prima. Ma Retèo
venne di mezzo, e ricevello in vece
d'altri colpi che dietro minacciando
gli venian Teutro e Tiro, i due buon frati
che gli eran sopra. Traboccò dal carro
mezzo tra vivo e morto, e calcitrando
de' Rutuli batté l'amica terra.
  Come il pastor ne' dolci estivi giorni
a lo spirar de' vènti il foco accende
in qualche selva: che diversamente
lo sparge in prima; e con diversi incendi
súbito di Volcan ne va la schiera
ciò ch'è di mezzo divorando in guisa
ch'un sol diventa; ed ei stassi in disparte
del fatto altero, e di veder gioioso
la vincitrice fiamma, e l'arso bosco;
cosí 'l valor degli Arcadi ristretto
per soccorrer Pallante insieme unissi.
Ma 'l bellicoso Aleso incontro a loro
si ristrinse ancor ei con l'armi sue,
e Ladone e Demòdoco e Fereto
occise in prima. Indi a Strimonio un colpo
trasse di spada, che la destra mano,
mentre con un pugnal gli era a la gola,
gli recise di netto. E sí d'un sasso
ferí Toante in volto, che gl'infranse
il teschio tutto, e ne schizzâr col sangue
l'ossa e 'l cervello. Era d'Aleso il padre
mago e 'ndovino; e del suo figlio il fato
avea previsto; onde gran tempo ascoso
in una selva il tenne. E non per questo
franse il destino; ché già vèglio a pena
chiusi ebbe gli occhi, che le Parche addosso
gli diêr di mano: onde a morir devoto
fu per l'armi d'Evandro. Incontro a lui
mosse Pallante in cotal guisa orando:
«Da', padre Tebro, a questo dardo indrizzo,
fortuna e strada; ond'io nel petto il pianti
del duro Aleso; e 'l dardo e le sue spoglie,
a te fian poscia in questa quercia appese».
Udillo il Tebro: e mentre Aleso, aíta
porgendo ad Imaon, lo scudo stende
per coprir lui, se stesso discoverse
al colpo di Pallante, e morto cadde.
  Lauso che de la pugna era gran parte,
visto al cader d'un sí degno campione
caduta la contesa e l'ardimento
de le schiere latine, egli in sua vece
tosto avanti si spinse e rinfrancolle.
E prima di sua mano Abante ancise,
ch'era di quella zuffa un duro intoppo,
e de' nemici il piú saldo sostegno.
  Or qui strage si fa d'Arcadi insieme,
e di Toschi e di voi, Troiani, intatti
ancor da' Greci. E qui d'ambe le parti
tutti con tutti ad affrontar si vanno.
Pari le forze e pari i capitani
son d'ambi i lati; e quinci e quindi ardenti
si ristringono in guisa che gli estremi
fanno ancor calca e 'mpedimento a' primi.
  Da questa parte sta Pallante, e Lauso
da quella, i suoi ciascuno inanimando,
spingendo e combattendo. E l'un diverso
non è molto da l'altro né d'etate
né di bellezza; e parimente il fato
a ciascuno ha di lor tolto il ritorno
ne la sua patria. E non però tra loro
s'affrontâr mai; ché 'l regnator celeste
riserbava la morte d'ambedue
a nemici maggiori. In questo mezzo
la ninfa, che di Turno era sorella,
il suo frate avvertisce che soccorso
procuri a Lauso. Ond'ei tosto col carro
le schiere attraversando, a' suoi compagni
giunto che fu: «Via, - disse - or non è tempo
che voi piú combattiate. Io sol ne vado
contra Pallante; a me solo è dovuta
la morte sua: cosí 'l suo padre stesso
v'intervenisse, e spettator ne fosse».
  Detto ch'egli ebbe, incontinente i suoi,
siccome imposto avea, del campo usciro.
Pallante, visti i Rutuli ritrarsi,
e lui sentendo che con tanto orgoglio
lor comandava, poscia che 'l conobbe,
lo squadrò tutto, e stupido fermossi
a veder sí gran corpo. Indi feroce
gli occhi intorno girando, a i detti suoi
cosí rispose: «Oggi o d'opime spoglie
o di morte onorata il pregio acquisto.
E 'l padre mio (tal è d'animo invitto
incontr'ogni fortuna, o buona o rea
che sia la mia) ne porrà 'l core in pace.
Via, che d'altro è mestier che di minacce».
E, ciò detto, si mosse, e fiero in mezzo
presentossi del campo. Un gel per l'ossa
e per le vene agli Arcadi ne corse.
E Turno dalla biga con un salto
lanciossi a terra; ch'assalirlo a piedi
prese consiglio. E qual fiero leone
che, veduto nel pian da lunge un toro
con le corna a battaglia esercitarsi,
dal monte si dirupa e rugge e vola,
tal fu di Turno la sembianza a punto
nel girgli incontro. Il giovine, che meno
avea di forze, s'avvisò di tempo
prender vantaggio, e di provare osando
s'aver potesse in alcun modo amica
almen fortuna; e già ch'a tiro d'asta
s'eran vicini, al ciel rivolto disse:
«Ercole, se ti fu del padre mio
l'ospizio accetto, e la sua mensa a grado,
allor che peregrin seco albergasti,
dammi, ti priego, a tanta impresa aíta,
sí che Turno egli stesso in chiuder gli occhi
veggia e senta, morendo, ch'a me tocca
vincere e spogliar lui d'armi e di vita».
  Udillo Alcide, e per pietà che n'ebbe
nel suo cor se ne dolse e lacrimonne,
quantunque indarno. E Giove, per conforto
del figlio suo, cosí seco ne disse:
«Destinato a ciascuno è 'l giorno suo;
e breve in tutti e lubrica e fugace
e non mai reparabile sen vola
l'umana vita. Sol per fama è dato
agli uomini che sian vivaci e chiari
piú lungamente. Ma virtute è quella
che gli fa tali. E non per questo alcuno
è che non muoia. E quanti ne moriro
sotto il grand'Ilio, ch'eran nati in terra
di voi celesti? E Sarpedonte è morto
ch'era mio figlio, e Turno anco morrà;
e già de la sua vita è giunto al fine».
  Cosí disse, e da' rutuli confini
torse la vista. Allor Pallante trasse
con gran forza il suo dardo, e 'l brando strinse
incontro a Turno. Investí 'l dardo a punto
là 've 'l braccial su l'omero s'affibbia,
e tra 'l suo groppo e l'orlo de lo scudo
come strisciando, di sí vasto corpo
lievemente afferrò la pelle a pena.
  Turno, poi che 'l nodoso e ben ferrato
suo frassino brandito e bilanciato
ebbe piú volte: «Or prova tu - gli disse -
se 'l mio va dritto, e se colpisce e fóra
piú del tuo ferro». E trasse. Andò ronzando
per l'aura, e con la punta a punto in mezzo
si piantò de lo scudo. E tante piastre
di metallo e d'acciaio, e tante cuoia
ond'era cinto, e la corazza e 'l petto
passogli insieme. Il giovine ferito
tosto fuor si cavò di corpo il tèlo;
ma non gli valse, ché con esso il sangue
e la vita n'uscio. Cadde boccone
in su la piaga, e tal diè d'armi un crollo,
che, ancor morendo, la nimica terra
trepida ne divenne e sanguinosa.
  Turno sopra il cadavere fermossi
alteramente e disse: «Arcadi, udite,
e per me riportate al vostro Evandro,
che qual di rivedere ha meritato
il suo Pallante, tal glie ne rimando;
e gli fo grazia che d'esequie ancora
e di sepolcro e di qual altro fregio
che conforto gli sia, l'orni e l'onori;
ch'assai ben caro infino a qui gli costa
l'amicizia d'Enea». Cosí dicendo,
col manco piè calcò l'estinto corpo;
e d'oro un cinto ne rapí di pondo,
d'artificio e di pregio, ove per mano
era del buon Eurizio istorïata
la fiera notte e i sanguinosi letti
di quell'empie fanciulle, in grembo a cui
fûr già tanti in un tempo e frati e sposi,
sotto fé d'Imeneo, giovani ancisi.
  Di questa spoglia altero e baldanzoso
vassene or Turno. O cieche umane menti,
come siete de' fati e del futuro
poco avvedute! E come oltra ogni modo
ne' felici successi insuperbite!
Tempo a Turno verrà ch'ogni gran cosa
ricompreria di non aver pur tocco
Pallante; e le sue spoglie e 'l dí che l'ebbe
in odio gli cadranno. Il morto corpo,
nel suo scudo composto, i suoi compagni
levâr dal campo, e con solenne pompa
e con molti lamenti, e molto pianto
lo riportaro al padre. Oh, qual, Pallante,
tornasti al padre tuo gloria e dolore!
Ch'una stessa giornata, ch'a la guerra
ti diede, a lui ti tolse. Oh pur gran monti
lasciasti pria di tuoi nemici estinti!
  Corse la fama, anzi il verace avviso
a l'orecchie d'Enea d'un danno tale
e d'un tanto periglio, che già vòlto
era il suo campo in fuga. Incontinente
si fa col ferro una spianata intorno;
poscia s'apre una via, di te cercando,
Turno, e 'l tuo rintuzzar cresciuto orgoglio
per la vittoria di Pallante occiso.
Pallante, Evandro e l'accoglienze loro
e le lor mense ove con tanto amore
forestier fu raccolto, e la contratta
già tra loro amistà davanti agli occhi
si vedea sempre. E per onore a l'ombra
de l'amico, e per vittima al grand'Orco,
molti giovini avea già destinati
vivi sacrificar sopra il suo rogo;
e di già ne facea quattro d'Ufente
addur legati, e quattro di Sulmona.
  E tra via combattendo, incontr'a Mago
tirò d'un'asta, a cui sotto chinossi
l'astuto a tempo sí che sopra al capo
gli trapassò divincolando il colpo;
e ratto risorgendo umilemente
gli abbracciò le ginocchia, e cosí disse:
«Per tuo padre e tuo figlio, Enea, ti prego,
a mio padre, a mio figlio mi conserva.
Di gran legnaggio io sono: gran tesori
tengo d'argento sotterrati e d'oro
in massa e 'n conio. La vittoria vostra
solo in me non consiste. Una sol'alma
in cosí grave e grande affar che monta?»
Rispose Enea: «Le tue conserve d'oro
e d'argento conserva a' figli tuoi.
Questi mercati ha Turno primamente
tolti fra noi, poi c'ha Pallante occiso:
ed al mio padre ed al mio figlio in grado
fia la tua morte. Ciò dicendo, a l'elmo
la man gli stese: e poiché gli ebbe il collo
chinato al colpo, insino a l'else il ferro
ne la gola gl'immerse. Indi non lunge
Emònide incontrando, un sacerdote
di Febo e di Dïana, il fronte adorno
di sacra benda, e tutto rilucente
di vesti e d'armi, addosso gli si scaglia.
Fugge Emònide, e cade. Enea gli è sopra,
lo sacrifica a l'ombra e d'ombra il cuopre.
Poscia de l'armi, che 'l meschino a pompa
portò piú ch'a difesa, il buon Seresto
lo spoglia, e per trofeo le appende in campo
a te, gran Marte. Ecco di nuovo intanto
Cècolo, di Vulcan l'ardente figlio,
e 'l marso Ombron ne la battaglia entrando,
e rimettendo le lor genti insieme,
spingonsi avanti. Enea da l'altra parte
infurïava. Ad Ànsure avventossi,
e 'l manco braccio con la spada in terra
gittogli e de lo scudo il cerchio intero.
Gran cose avea costui cianciate in prima
e concepute; e d'adempirle ancora
s'era promesso. Avea forse anco in cielo
riposti i suoi pensieri, e s'augurava
lunga vita e felice. E pur qui cadde.
  Poscia Tàrquito ardente, e d'armi cinto
fulgenti e ricche, incontro gli si fece.
Era costui di Fauno montanaro
e de la ninfa Drïope creato,
giovine fiero. Enea parossi avanti
a la sua furia, e pinse l'asta in guisa
che lo scudo impedigli e la corazza.
Allora indarno il misero a pregarlo
si diede. E mentre a dir molto s'affanna
per lo suo scampo, ei con un colpo a terra
gittogli il capo; e travolgendo il tronco
tiepido ancor, sopra gli stette e disse:
«Qui con la tua bravura te ne stai,
tremendo e formidabile guerriero:
né di terra tua madre ti ricuopra,
né di tomba t'onori. Ai lupi, ai corvi
ti lascio, o che la piena in alcun fosso
ti tragga, o che nel fiume, o che nel mare
ai famelici pesci esca ti mandi».
  Indi muove in un tempo incontro a Lica.
E segue Anteo, che ne le prime schiere
era di Turno. Assaglie il forte Numa,
fere il biondo Camerte. Era Camerte
figlio a Volscente, generoso germe
del magnanimo padre, e de' piú ricchi
d'Ausonia tutta: in quel tempo reggea
la taciturna Amicla. In quella guisa
che si dice Egeon con cento braccia
e cento mani, da cinquanta bocche
fiamme spirando e da cinquanta petti,
esser già stato col gran Giove a fronte
quando contra i suoi folgori e i suoi tuoni
con altrettante spade ed altrettanti
scudi tonava e folgorava anch'egli;
in quella stessa Enea per tutto 'l campo,
poi ch'una volta il suo ferro fu caldo,
contra tutti vincendo infurïossi.
Ecco Nifeo su quattro corridori
si vede avanti; e contra gli si spinge
sí ruïnoso, e tal fa lor fremendo
téma e spavento, che i destrier rivolti
lui dal carro traboccano, e disciolti
sen vanno e vòti imperversando al mare.
Lúcago intanto e Lígeri, due frati
con due giunti cavalli ambi in un tempo
gli si fan sopra. Lígeri a le briglie
sedea per guida, Lúcago rotava
la spada a cerco. Enea, non sofferendo
la tracotanza, a la già mossa biga
piantossi avanti; e Lígeri gli disse:
«Enea, tu non sei già con Dïomede,
né con Achille questa volta a fronte;
né son questi i cavalli e 'l carro loro:
di Lazio è questo e non de' Frigi il campo:
qui finir ti convien la guerra e i giorni».
Queste vane minacce e questo vento
soffiava il folle. Enea d'altro risposta
non gli diè che de l'asta. E mentre avanti
spinge l'uno i destrieri, e l'altro al colpo
si sta chinato e col piè manco in atto
di ferir lui, la sua lancia a lo scudo
entrò sotto di Lúcago, e nel manco
lato ne l'anguinaia il colse a punto,
e giú del carro moribondo il trasse.
Indi ancor egli motteggiollo e disse:
«A te né paventosi né restii
son già, Lúcago, stati i tuoi cavalli.
Tu da te stesso un sí bel salto hai preso
fuor del tuo carro». E, ciò detto, ai destrieri
diè di piglio. Il suo frate uscito intanto
dal carro stesso, umíle e disarmato
stendea le palme in tal guisa pregando:
«Deh, per lo tuo valore e per coloro
che ti fêr tale, abbi di me, signore,
pietà, che supplicando in don ti chieggio
questa misera vita». E seguitando
la sua preghiera, a lui rispose Enea:
«Tu non hai già cosí dianzi abbaiato.
Muori; e morendo il tuo frate accompagna».
E con queste parole il ferro spinse,
e gli aprí 'l petto, e l'alma ne disciolse.
  Mentre cosí per la campagna Enea
strage facendo, e di torrente in guisa
e di tempesta infurïando scorre,
Ascanio e la troiana gioventute,
indarno entro a le mura assedïata,
saltano in campo. Ed a Giunone intanto
cosí Giove favella: «O mia diletta
sorella e sposa, ecco testé si vede
com'ha la tua credenza e 'l tuo pensiero
verace incontro, e come Citerea
sostenta i Teucri suoi. Vedi com'essi
non son né valorosi né guerrieri,
e i cor non hanno ai lor perigli eguali».
A cui Giunon tutta rimessa: «Ah, - disse -
caro consorte, a che mi strazi e pugni,
quando è pur troppo il mio dolor pungente
e pur troppo tem'io le tue punture?
Ma se qual era e qual esser potrebbe,
fosse or teco il poter de l'amor mio,
teco che tanto puoi, da te negato
non mi fôra, signor, ch'oggi il mio Turno
fosse da la battaglia e da la morte
per me sottratto e conservato al vecchio
Dauno suo padre. Or pèra, e col suo sangue,
che pure è pio, la cupidigia estingua
de' suoi nemici. E pur anch'egli è nato
dal nostro sangue; e pur Pilunno è quarto
padre di lui: da lui pur largamente
gli altar molte fïate e i templi tuoi
son de' suoi molti doni ornati e carchi».
  Cui del ciel brevemente il gran motore
cosí rispose: «Se indugiar la morte,
ch'è già presente, e prolungare i giorni
al già caduco giovine t'aggrada
per alcun tempo, e tu con questo inteso
l'accetti, va tu stessa, e da la pugna
sottrallo e dal destino. A tuo contento
fin qui mi lece. Ma se in ciò presumi
anco piú di sua vita, o de la guerra,
che del tutto si mute o si distorni,
invan lo speri». A cui Giuno piangendo
soggiunse: «E che saria, se quel ch'in voce
ti gravi a darmi, almen nel tuo secreto
mi concedessi? e questa vita a Turno
si stabilisse? già ch'indegna e cruda
morte gli s'avvicina, o ch'io del vero
mi gabbo. Tu che puoi, signor, rivolgi
la mia paura e i tuoi pensieri in meglio».
  Poscia che cosí disse, incontinente
dal ciel discese, e con un nembo avanti
e nubi intorno, occulta infra i due campi
sopra terra calossi. Ivi di nebbia,
di colori e di vento una figura
formò (cosa mirabile a vedere!)
in sembianza d'Enea; d'Enea lo scudo,
la corazza, il cimiero e l'armi tutte
gli finse intorno, e gli diè 'l suono e 'l moto
propri di lui, ma vani, e senza forze
e senza mente; in quella stessa guisa
che si dice di notte ir vagabonde
l'ombre de' morti, e che i sopiti sensi
son da' sogni delusi e da fantasme.
  Questa mentita imago anzi a le schiere
lieta insultando, a Turno s'appresenta,
lo provoca e lo sfida. E Turno incontra
le si spinge e l'affronta; e pria da lunge
il suo dardo le avventa, al cui stridore
volg'ella il tergo e fugge. Ed ei sospinto
da la vana credenza e da la folle
sua speme insuperbito, la persegue
con la spada impugnata «E dove, e dove, -
dicendo, - Enea, ten fuggi? ove abbandoni
la tua sposa novella? Io di mia mano
de la terra fatale or or t'investo,
che tanto per lo mar cercando andavi».
E gridando l'incalza, e non s'avvede
che quel che segue e di ferir agogna,
non è che nebbia che dal vento è spinta.
  Era per sorte in su la riva un sasso
di molo in guisa; ed un navile a canto
gli era legato, che la scala e 'l ponte
avea su 'l lito, onde ne fu pur dianzi
Osinio, il re di Chiusi, in terra esposto.
In questo legno, di fuggir mostrando,
ricovrossi d'Enea la finta imago,
e vi s'ascose. A cui dietro correndo
Turno senza dimora, infurïato
il ponte ascese. Era a la prora a pena
che Giunon ruppe il fune, e diede al legno
per lo travolto mare impeto e fuga.
  Intanto Enea, di Turno ricercando,
a battaglia il chiamava. Ed or di questo
ed or di quello e di molti anco insieme
facea strage e scompiglio; e la sua larva,
poiché di piú celarsi uopo non ebbe,
fuor de la nave uscendo alto levossi,
e con l'atra sua nube unissi e sparve.
  Turno, cosí schernito, e già nel mezzo
del mar sospinto, indietro rimirando
come del fatto ignaro, e del suo scampo
sconoscente e superbo, al ciel gridando
alzò le palme, e disse: «Ah, dunque io sono
d'un tanto scorno, onnipotente padre,
da te degno tenuto? a tanta pena
m'hai riservato? ove son io rapito?
onde mi parto? chi cosí mi caccia?
chi mi rimena? e fia ch'un'altra volta
io ritorni a Laurento? e ch'io riveggia
l'oste piú con quest'occhi? e che diranno
i miei seguaci, e quei che m'han per capo
di questa guerra, che da me son tutti
ahi vitupèro!) abbandonati a morte?
E già rotti li veggio, e già gli sento
gridar cadendo. O me lasso! che faccio?
Qual è del mar la piú profonda terra
che mi s'apra e m'ingoi? A voi piuttosto,
vènti, incresca di me. Voi questo legno
fiaccate in qualche scoglio, in qualche rupe,
ch'io stesso lo vi chieggio; o ne le sirti
mi seppellite, ove mai piú non giunga
Rutulo che mi veggia, o mi rinfacci
questa vergogna e quest'infamia, ond'io
sono a me consapevole e nimico».
  Cosí dicendo, un tanto disonore
in sé sdegnando, e di se stesso fuori,
strani, diversi e torbidi pensieri
si volgea per la mente, o con la spada
passarsi il petto, o traboccarsi in mezzo,
sí com'era, del mare, e far, notando,
pruova o di ricondursi ond'era tolto,
o d'affogarsi. E l'una e l'altra via
tentò tre volte; e tre volte la dea,
di lui mossa a pietà, ne lo distolse.
Dal turbine e dal mar cacciato intanto
si scórse il legno, che del padre Dauno
a l'antica magion per forza il trasse.
  Mezenzio in questo mentre che da l'ira
era spinto di Giove, ardente e fiero
entrò ne la battaglia; e i Teucri assalse
che già 'l campo tenean superbi e lieti.
Da l'altro canto le tirrene schiere
mossero incontro a lui. Contra lui solo
s'unîr tutti de' Toschi e gli odi e l'armi;
ed egli, a tutti opposto, alpestro scoglio
sembrava, che nel mar si sporga, e i flutti,
e i vènti minacciar si senta intorno,
e non punto si crolli. Ognun ch'avanti
o l'ardir gli mandava o la fortuna,
a' piè si distendea. Nel primo incontro
Ebro di Dolicào, Làtago e Palmo
tolse di mezzo. Ebro passò fuor fuori
con un colpo di lancia: il volto e 'l teschio,
un gran macigno a Làtago avventando,
infranse tutto; ambi i garretti a Palmo
ch'avanti gli fuggia, tronchi di netto,
lasciò che rampicando a morir lunge
a suo bell'agio andasse; ma de l'armi
spogliollo in prima, e la corazza in collo
e l'elmo in testa al suo Lauso ne pose.
Occise dopo questi il frigio Evante:
poscia Mimante ch'era pari a Pari
di nascimento, e d'amor seco unito.
D'Àmico nacque, e ne la stessa notte
Teàna la sua madre in luce il diede,
che diè Paride al mondo Ecuba pregna
di fatal fiamma. E pur l'un d'essi occiso
fu ne la patria, e l'altro sconosciuto
qui cadde. Era a veder Mezenzio in campo
qual orrido, sannuto, irto cignale
in mezzo a' cani allor che da' pineti
di Vèsolo, o da' boschi o da' pantani
di Laurento è cacciato, ove molt'anni
si sia difeso; ch'a le reti aggiunto
si ferma, arruffa gli omeri e fremisce
co' denti in guisa che non è chi presso
osi affrontarlo, ma co' dardi solo,
e con le grida a man salva d'intorno
gli fan tempesta. Cosí contra a lui
non s'arrischiando le nemiche squadre
stringere i ferri, le minacce e l'armi
gli avventavan da lunge; ed ei fremendo
stava intrepido e saldo, e con lo scudo
sbattea de l'aste il tempestoso nembo.
  Di Còrito venuto a questa guerra
era un Greco bandito, Acron chiamato,
novello sposo che, non giunto ancora
con la sua donna, a le sue nozze il folle
avea l'armi anteposte. E in quella mischia
d'ostro e d'òr riguardevole e di penne,
sponsali arnesi e doni, ovunque andava,
per le schiere facea strage e baruffa.
Mezenzio il vide; e qual digiuno e fiero
leon da fame stimolato, errando
si sta talor sotto la mandra, e rugge:
se poi fugace damma, o di ramose
corna gli si discopre un cervo avanti,
s'allegra, apre le canne, arruffa il dorso,
si scaglia, ancide e sbrana, e 'l ceffo e l'ugne
d'atro sangue s'intride; in tal sembiante
per mezzo de lo stuol Mezenzio altero
s'avventa. Acron per terra al primo incontro
ne va rovescio; e l'armi e 'l petto infranto,
sangue versando, e calcitrando, spira.
  Morto Acrone, ecco Orode, che davanti
gli si tolle. Ei lo segue; e non degnando
ferirlo in fuga, o che fuggendo occulto
gli fosse il feritor, lo giunge e 'l passa,
l'incontra, lo provòca, a corpo a corpo
con lui s'azzuffa, che di forze e d'armi
piú valea che di furto. Alfin l'atterra
e l'asta e 'l piè sopra gl'imprime e dice:
«Ecco, Orode è caduto: una gran parte
giace de la battaglia». A questa voce
lieti alzaro i compagni al ciel le grida;
ed ei mentre spirava: «Oh, - disse a lui, -
qual che tu sii, non fia senza vendetta
la morte mia: né lungamente altero
n'andrai: ché dietro a me nel campo stesso
cader convienti». A cui Mezenzio un riso
tratto con ira: «Or sii tu morto intanto, -
rispose, - e quel che può Giove disponga
poscia di me». Cosí dicendo il tèlo
gli divelse dal corpo, ed ei le luci
chiuse al gran buio ed al perpetuo sonno.
  Cèdico occise Alcato, Socratóre
occise Idaspe; a due la vita tolse
Rapo, a Partenio ed al gagliardo Orsone;
Messapo anch'egli a due la morte diede:
a Clònio da cavallo, ad Ericate,
ch'era pedone, a piede. Agi di Licia
movendo incontro a lui, fu da Valero
valoroso, e de' suoi degno campione,
a terra steso; Atron da Salio anciso;
e Salio da Nealce, che di dardo
era gran feritore e grande arciero.
  D'ambe le parti erano Morte e Marte
del pari; e parimente i vincitori
e i vinti ora cadendo, ora incalzando,
seguian la zuffa; né viltà, né fuga
né di qua né di là vedeasi ancora.
L'ira, la pertinacia e le fatiche
erano e quinci e quindi ardenti e vane.
E di questi e di quelli avean gli dèi
che dal ciel gli vedean, pietà e cordoglio.
Stava di qua Ciprigna e di là Giuno
a rimirarli; e pallida fra mezzo
di molte mila infurïando andava
la nequitosa Erinni. Una grand'asta
prese Mezenzio un'altra volta in mano
e turbato squassandola, del campo
piantossi in mezzo, ad Orïon simíle
quando co' piè calca di Nereo i flutti,
e sega l'onde, con le spalle sopra
a l'onde tutte; o qual da' monti a l'aura
si spicca annoso cerro, e 'l capo asconde
infra le nubi. In tal sembianza armato
stava Mezenzio. Enea tosto che 'l vede
ratto incontro gli muove. Ed egli immoto
di coraggio e di corpo ad aspettarlo
sta qual pilastro in sé fondato e saldo.
Poscia ch'a tiro d'asta avvicinato
gli fu d'avanti: «O mia destra, o mio dardo,
disse, - che dii mi siete, il vostro nume
a questo colpo imploro: ed a te, Lauso,
già di questo ladron le spoglie e l'armi
per mio trofeo consacro». E, cosí detto,
trasse. Stridendo andò per l'aura il tèlo:
ma giunto, e da lo scudo in altra parte
sbattuto, di lontan percosse Antòre
fra le costole e 'l fianco, Antor d'Alcide
onorato compagno. Era venuto
d'Argo ad Evandro; e qui cadde il meschino
d'altrui ferita. Nel cader, le luci
al ciel rivolse e, d'Argo il dolce nome
sospirando, le chiuse. Enea con l'asta
ben tosto a lui rispose. E lo suo scudo
percosse anch'egli, e l'interzate piastre
di ferro e le tre cuoia e le tre falde
di tela, ond'era cinto, infino al vivo
gli passò de la coscia. Ivi fermossi,
ché piú forza non ebbe. Ma ben tosto
ricovrò con la spada, e fiero e lieto,
visto già del nemico il sangue in terra
e 'l terror ne la fronte, a lui si strinse.
  Lauso, che in tanto rischio il caro padre
si vide avanti, amor, téma e dolore
se ne sentí, ne sospirò, ne pianse.
E qui, giovine illustre, il caso indegno
de la tua morte e 'l tuo zelo e 'l tuo fato
non tacerò; se pur tanta pietate
fia chi creda de' posteri, e d'un figlio
d'un empio padre. Il padre a sí gran colpo
si trasse indietro; ché di già ferito,
benché non gravemente, e da l'intrico
de l'asta imbarazzato, era a la pugna
fatto inutile e tardo. Or mentre cede,
mentre che de lo scudo il dardo ostile
di sferrar s'argomenta, il buon garzone
succede ne la pugna, e del già mosso
braccio e del brando che stridente e grave
calava per ferirlo, il mortal colpo
ricevé con lo scudo e lo sostenne.
E perch'agio a ritrarsi il padre avesse
riparato dal figlio, i suoi compagni
secondâr con le grida; e con un nembo
d'armi, che gli avventâr tutti in un tempo,
lo ributtaro. Enea via piú feroce
infurïando, sotto al gran pavese
si tenea ricoverto. E qual, cadendo
grandine a nembi, il vïator talora,
ch'in sicuro a l'albergo è già ridotto,
ogni agricola vede, ogni aratore
fuggir da la campagna; o qual d'un greppo,
d'una ripa, o d'un antro il zappatore,
piovendo, si fa schermo, e 'l sole aspetta
per compir l'opra; in quella stessa guisa,
tempestato da l'armi, Enea la nube
sostenea de la pugna; e Lauso intanto
minacciando garria: «Dove ne vai,
meschinello, a la morte? A che pur osi
piú che non puoi? La tua pietà t'inganna,
e sei giovane e soro». Ei non per questo,
folle, meno insultava; onde piú crebbe
l'ira del teucro duce. E già la Parca,
vòta la rócca e non pien anco il fuso,
il suo nitido filo avea reciso.
Trasse Enea de la spada, e ne lo scudo,
che liev'era e non pari a tanta forza,
lo colpí, lo passò, passogli insieme
la veste che di seta e d'òr contesta
gli avea la stessa madre; e lui per mezzo
trafisse, e moribondo a terra il trasse.
  Ma poscia che di sangue e di pallore
lo vide asperso e della morte in preda,
ne gl'increbbe e ne pianse; e di paterna
pietà quasi un'imago avanti agli occhi
veder gli parve, e 'ntenerito il core,
stese la destra e sollevollo e disse:
«Miserabil fanciullo! e quale aíta,
quale il pietoso Enea può farti onore
degno de le tue lodi e del presagio
che n'hai dato di te? L'armi, che tanto
ti son piaciute, a te lascio, e 'l tuo corpo
a la cura de' tuoi, se di ciò cura
ha pur l'empio tuo padre, acciò di tomba
e d'esequie t'onori. E tu, meschino,
poi che dal grand'Enea morte ricevi,
di morir ti consola». Indi assecura,
sollecita, riprende, e de l'indugio
garrisce i suoi compagni; e di sua mano
l'alza, il sostiene, il terge e de la gora
del suo sangue lo tragge, ove rovescio
giace languido il volto e lordo il crine,
che di rose eran prima e d'ostro e d'oro.
  Stava del Tebro in su la riva intanto
lo sfortunato padre, e la ferita
già lavata ne l'onde, afflitto e stanco
s'era con la persona appo d'un tronco
per posarsi appoggiato; e l'elmo a canto
da' rami gli pendea. L'armi piú gravi
su 'l verde prato avean posa con lui.
Stavagli intorno de' piú scelti un cerchio
e de' piú fidi. Ed egli anelo ed egro,
chino il collo al troncone e 'l mento al petto,
molto di Lauso interrogava, e molti
gli mandava or con preci or con precetti,
ch'al mesto padre omai si ritraesse.
Ma già vinto, già morto e già disteso
sopra al suo scudo, a braccia riportato
da' suoi con molto pianto era il meschino.
  Udí Mezenzio il pianto, e di lontano
(come del mal sovente è l'uom presago)
morto il figlio conobbe. Onde di polve
sparso il canuto crine, ambe le mani
al ciel alzando, al suo corpo accostossi:
«Ah! mio figlio, - dicendo - ah! come tanto
fui di vivere ingordo, che soffrissi
te, di me nato, andar per me di morte
a sí gran rischio, a tal nimica destra
succedendo in mia vece? Adunque io salvo
son per le tue ferite? Adunque io vivo
per la tua morte? Oh miserabil vita!
Oh, sconsolato esiglio! Or questo è 'l colpo
ch'al cor m'è giunto. Ed io, mio figlio, io sono
c'ho macchiato il tuo nome, c'ho sommerso
la tua fortuna e 'l mio stato felice
co' demeriti miei. Dal mio furore
son dal seggio deposto. Io son che debbo
ogni grave supplizio ed ogni morte
a la mia patria, al grand'odio de' miei.
E pur son vivo, e gli uomini non fuggo?
E non fuggo la luce? Ah! fuggirolla
pur una volta». E, cosí detto, alzossi
su la ferita coscia. E, benché tardo
per la piaga ne fosse e per l'angoscia,
non per questo avvilito, un suo cavallo,
ch'era quanto diletto e quanta speme
avea ne l'armi, e quel che in ogni guerra
salvo mai sempre e vincitor lo rese,
addur si fece. E poi che addolorato
sel vide avanti, in tal guisa gli disse:
«Rebo, noi siam fin qui vissuti assai,
se pur assai di vita ha mortal cosa.
Oggi è quel dí che o vincitori il capo
riporterem d'Enea con quelle spoglie
che son de l'armi del mio figlio infette,
e che tu del mio duolo e de la morte
di lui vendicator meco sarai;
o che meco, se vano è 'l poter nostro,
finirai parimente i giorni tuoi;
ché la tua fé, cred'io, la tua fortezza
sdegnoso ti farà d'esser soggetto
a' miei nemici, e di servire altrui».
  Cosí dicendo, il consueto dorso
per se medesmo il buon Rebo gli offerse,
ed ei, l'elmo ripreso, il cui cimiero
era pur di cavallo un'irta coda,
suvvi, come poté, comodamente
vi s'adagiò. Poscia d'acuti strali
ambe carche le mani, infra le schiere
lanciossi. Amor, vergogna, insania e lutto
e dolore e furore e coscïenza
del suo stesso valore, accolti in uno,
gli arsero il core e gli avvamparo il volto.
  Qui tre volte a gran voce Enea sfidando
chiamò; che tosto udillo, e baldanzoso:
«Cosí piaccia al gran padre, - gli rispose -
cosí t'inspiri Apollo. Or vien pur via»
soggiunge; e ratto incontro gli si mosse.
Ed egli: «Ah dispietato! a che minacci,
già che morto è 'l mio figlio? In ciò potevi
darmi tu morte. Or né la morte io temo,
né gli tuoi dèi. Non piú spaventi. Io vengo
di morir desïoso: e questi doni
ti porto in prima». E 'l primo dardo trasse,
poi l'altro e l'altro appresso, e via traendo
gli discorrea d'intorno. Ai colpi tutti
resse il dorato scudo. E già tre volte
l'un girato il cavallo, e l'altro il bosco
avea de' dardi nel suo scudo infissi,
quando il figlio d'Anchise, impazïente
di tanto indugio e di sferrar tant'aste,
visto 'l suo disvantaggio, a molte cose
andò pensando. Alfin di guardia uscito
addosso gli si spinse, e trasse il tèlo
sí che del corridore il teschio infisse
in mezzo de la fronte. Inalberossi
a quel colpo il feroce, e calci a l'aura
traendo, scalpitando, e 'l collo e 'l tèlo
scotendo, s'intricò: cadde con l'asta,
con l'armi, col campione, a capo chino,
tutti in un mucchio. Andâr le grida al cielo
de' Latini e de' Teucri. E tosto Enea
col brando ignudo gli fu sopra e disse:
«Or dov'è quel sí fiero e sí tremendo
Mezenzio? Ov'è la sua tanta bravura?»
E 'l Tosco a lui, poiché l'afflitte luci
al ciel rivolse, e seco si ristrinse:
«Crudele, a che m'insulti? A me di biasmo
non è ch'io muoia, né per vincer, teco
venni a battaglia. Il mio Lauso morendo
fe' con te patto che morissi anch'io.
Solo ti prego (se di grazia alcuna
son degni i vinti) che 'l mio corpo lasci
coprir di terra. Io so gli odi immortali
che mi portano i miei. Dal furor loro
ti supplico a sottrarmi, e col mio figlio
consentir ch'io mi giaccia». E ciò dicendo
la gola per se stesso al ferro offerse;
e con un fiume che di sangue sparse
sopra l'armi, versò l'anima e 'l fiato.


 

 

LIBRO DECIMOPRIMO



  Passò la notte intanto, e già dal mare
sorgea l'Aurora. Enea, quantunque il tempo,
l'officio e la pietà piú lo stringesse
a seppellire i suoi, quantunque offeso
da tante morti il cor funesto avesse;
tosto che 'l sole apparve, il vóto sciolse
de la vittoria. E sovra un picciol colle
tronca de' rami una gran quercia eresse;
de l'armi la rinvolse, e de le spoglie
l'adornò di Mezenzio, e per trofeo
a te, gran Marte, dedicolla. In cima
l'elmo vi pose, e 'n su l'elmo il cimiero,
ancor di polve e d'atro sangue asperso.
L'aste d'intorno attraversate e rotte
stavan quai secchi rami; e 'l tronco in mezzo
sostenea la corazza che smagliata
e da dodici colpi era trafitta.
Dal manco lato gli pendea lo scudo:
al destr'omero il brando era attaccato,
che 'l fodro avea d'avorio e l'else d'oro.
Indi i suoi duci e le sue genti accolte,
che liete gli gridâr vittoria intorno,
in cotal guisa a confortar si diede:
  «Compagni, il piú s'è fatto. A quel che resta
nulla temete. Ecco Mezenzio è morto
per le mie mani, e queste che vedete,
l'opime spoglie e le primizie sono
del superbo tiranno. Ora a le mura
ce n'andrem di Latino. Ognuno a l'armi
s'accinga: ognun s'affidi, e si prometta
guerra e vittoria. In punto vi mettete,
ché quando dagli augúri ne s'accenne
di muover campo, e che mestier ne sia
d'inalberar l'insegne, indugio alcuno
non c'impedisca, o 'l dubbio o la paura
non ci ritardi. In questo mezzo a' morti
diam sepoltura, e quel che lor dovuto
è sol dopo la morte, eterno onore.
Itene adunque, e quell'anime chiare
che n'han col proprio sangue e con la vita
questa patria acquistata e questo impero,
d'ultimi doni ornate. E primamente
al mesto Evandro il figlio si rimandi,
che, di virtú maturo e d'anni acerbo,
cosí n'ha morte indegnamente estinto».
  Ciò detto, lagrimando il passo volse
vèr la magione, u' di Pallante il corpo
dal vecchierello Acete era guardato.
Era costui già del parrasio Evandro
donzello d'armi; e poscia per compagno
fu (ma non già con sí lieta fortuna)
dato al suo caro alunno. Avea con lui
d'Arcadi suoi vassalli e di Troiani
una gran turba. Scapigliate e meste
le donne d'Ilio, sí com'era usanza,
gli piangevano intorno; e non fu prima
Enea comparso che le strida e i pianti
si rinnovaro. Il batter de le mani,
il suon de' petti, e de l'albergo i mugghi
n'andâr fino a le stelle. Ei poi che vide
il suo corpo disteso, e 'l bianco volto,
e l'aperta ferita che nel petto
di man di Turno avea larga e profonda,
lagrimando proruppe: «O miserando
fanciullo, e che mi val s'amica e destra
mi si mostra fortuna? E che m'ha dato,
se te m'ha tolto? Or che, vincendo, ho fatto?
Che, regnando, farò, se tu non godi
de la vittoria mia, né del mio regno?
Ah! non fec'io queste promesse allora
al buon Evandro, ch'a l'acquisto venni
di questo impero. E ben temette il saggio,
e ben ne ricordò che duro intoppo,
e d'aspra gente, avremmo. E forse ancora
il meschino or fa vóti e preci e doni
per la nostra salute, e vanamente
vittoria s'impromette. E noi con vana
pompa gli riportiam questo infelice
giovine di già morto, e di già nulla
piú tenuto a' celesti. Ahi, sconsolato
padre! vedrai tu dunque una sí cruda
morte del figlio tuo? Questo ritorno,
questo trionfo ohimè! d'ambi aspettavi?
E da me questa fede? Oh pur, Evandro,
no 'l vedrai già di vergognose piaghe
ferito il tergo; e non gli arai tu stesso
(se con infamia a te vivo tornasse)
a desïar la morte. Ahi, quanto manca
al sussidio d'Italia, e quanto perdi,
mio figlio Iulo!» E, posto al pianto fine,
ordine diè che 'l miserabil corpo
via si togliesse; e del suo campo tutto
scelse di mille una pregiata schiera
che scorta gli facesse e pompa intorno,
e d'Evandro a le lagrime assistesse,
e le sue gli mostrasse, a tanto lutto
assai debil conforto, e pur dovuto
al suo misero padre. Altri al suo corpo,
altri a la bara intenti, avean di quercia,
d'àrbuto e di tali altri agresti rami
fatto un ferètro di virgulti intesto
e di frondi coperto, ove altamente
del giovinetto il delicato busto
composto si giacea qual di vïola,
o di giacinto un languidetto fiore
còlto per man di vergine, e serbato
tra le sue stesse foglie, allor che scemo
non è del tutto il suo natio colore
né la sua forma; e pur da la sua madre
punto di cibo o di vigor non ave.
  Enea due prezïose vesti intanto,
l'una d'òr fino e l'altra di scarlatto,
addur si fece, ambe ornamenti e doni
de la sidonia Dido, e da lei stessa
con dolce studio e con mirabil arte
ricamate e distinte. E l'una indosso
gli pose, e l'altra in capo, ultimo onore
con che dolente la dorata chioma
allor velogli, ch'era additta al foco.
De le prede oltre a ciò di Laürento
gli fa gran parte. Fagli in ordinanza
spiegar l'armi, i cavalli e l'altre spoglie
tolte a' nimici. Gli fa gir legati
con le man dietro i destinati a morte
per ordinanza del funereo rogo.
Portar gli fa davanti a' duci loro
l'armi ai tronchi sospese, e i nomi scritti
degli occisi e de' vinti. Il vecchio Acete
che, sí com'era afflitto e d'anni grave,
gli era appresso condotto, or con le pugna
si battea 'l petto, ed or con l'ugna il volto
si lacerava, e tra la polve e 'l fango
si volgea tutto. Ivano i carri aspersi
del sangue de' Latini, iva lugúbre,
e d'ornamenti ignudo, Eto, il piú fido
suo caval da battaglia, che gemendo
in guisa umana e lagrimando andava.
Seguian le meste squadre i Teucri, i Toschi
e gli Arcadi, con l'armi e con l'insegne
rivolte a terra. Or poi ch'oltrepassata
con quest'ordine fu la pompa tutta,
Enea fermossi, e verso il morto amico
ad alta voce sospirando disse:
  «Noi quinci ad altre lagrime chiamati
dal medesimo fato, altre battaglie
imprenderemo. E tu, magno Pallante,
vattene in pace, e con eterna gloria
godi eterno riposo». Indi partendo
vèr l'alte mura, al campo si ritrasse.
  Eran nel campo già co' rami avanti
di pacifera oliva ambasciatori
de la città latina a lui venuti,
che tregua a' vivi e sepoltura a' morti,
pregando, gli mostrâr che piú co' vinti
né co' morti è contrasto, e che Latino
gli era d'ospizio amico, e che chiamato
l'avea genero in prima. Il buon Troiano
a le giuste preghiere, ai lor quesiti,
che di grazia eran degni, incontinente
grazïoso mostrossi; e da vantaggio
cosí lor disse: «E qual indegna sorte
contra me, miei Latini, in tanta guerra
cosí v'intrica? Che pur vostro amico
son qui venuto: né venuto ancora
vi sarei, se da' fati e dagli dèi
mandato io non vi fossi. E non pur pace,
siccome voi chiedete, io vi concedo
per color che son morti, ma co' vivi
ve l'offro, e la vi chieggo. E la mia guerra
non è con voi; ma 'l vostro re s'è tolto
da l'amicizia mia: s'è confidato
piú ne l'armi di Turno, e Turno ancora
meglio e piú giustamente in ciò farebbe,
s'a questa guerra sol con suo periglio
ponesse fine. E poiché si dispose
di cacciarmi d'Italia, il suo dovere
fôra stato che meco, e con quest'armi
difinita l'avesse. E saria visso
cui la sua propria destra, e dio concesso
piú vita avesse; e i vostri cittadini
non sarian morti. Or poiché morti sono,
io me ne dolgo, e voi gli seppellite».
  Restaro al dir d'Enea stupidi e cheti
i latini oratori, e l'un con l'altro
si guardarono in volto. Indi il piú vecchio,
Drance nomato, a cui Turno fu sempre
per sua natura e per sua colpa in ira,
rotto il silenzio, in tal guisa rispose:
«O di fama e piú d'arme eccelso e grande
troiano eroe, qual mai fia nostra lode
che 'l tuo gran merto agguagli? e di che prima
ti loderemo? ch'io non veggio quale
in te maggior si mostri, o la giustizia,
o la gloria de l'armi. A questa tanta
grazia che tu ne fai, grati saremo:
rapporto ne faremo; e s'al consiglio
nostro è fortuna amica, amico ancora
ti fia Latino. E cerchisi d'altronde
Turno altra lega. A noi co' sassi in collo
gioverà di trovarne a fondar vosco
questa vostra fatal novella Troia».
  Poi che Drance ebbe detto, ai detti suoi
tutti gli altri fremendo acconsentiro,
e per dodici dí commercio e pace
fur tra l'un oste e l'altro. E senza offesa
entrambi si mischiaro, e per gli monti
e per le selve a lor diletto andaro.
Allor sonare accette e strider carri
per tutto udissi. In ogni parte a terra
ne gîro i cerri e gli orni e gli alti pini
e gli odorati cedri al funebre uso
svèlti, squarciati e tronchi. E già la Fama,
che di Pallante a Pallantèo volata
dicea pria le sue prove, e vincitore
l'avea gridato, or d'ogni parte grida
che morto si riporta. In ciò commossa
la città tutta in vedovile aspetto
di funeste facelle e d'atri panni
si vide piena; e vèr le porte ognuno
gli usciro incontro. Si vedea di lumi
e di genti una fila che le strade
e i campi in lunga pompa attraversava.
I Frigi e gli altri col suo corpo intanto
piangendo ne venian da l'altra parte,
e con pianto incontrârsi. Indi rivolti
tutti vèr la città, non pria fûr giunti,
che di pianti di donne e d'ululati
risonar d'ogn'intorno il cielo udissi.
Né forza, né consiglio, né decoro
fu ch'Evandro tenesse. Uscí nel mezzo
di tutta gente; e la funerea bara
fermando, addosso al figlio in abbandono
si gittò, l'abbracciò, stretto lo tenne
lunga fïata, e da l'angoscia oppresso
pria lagrimando, e sospirando, tacque.
Poscia, la strada al gran dolore aperta,
cosí proruppe: «O mio Pallante, e queste
fûr le promesse tue, quando partendo
il tuo padre lasciasti? In questa guisa
d'esser guardingo e cauto mi dicesti
ne' perigli di Marte? Ah! ben sapeva,
ben sapev'io quanto ne l'armi prime
fosse, in cor generoso, ardente e dolce
il desio de la gloria e de l'onore.
Primizie infauste, infausti fondamenti
de la tua gioventú! vane preghiere,
vóti miei non accetti e non intesi
da nïun dio! Santissima consorte,
che morendo fuggisti un dolor tale,
quanto sei tu di tua morte felice!
Quanto infelice e misero son io,
che vecchio e padre al mio diletto figlio
sopravvivendo, i miei fati e i miei giorni
prolungo a mio tormento! Ah! foss'io stesso
uscito co' Troiani a questa guerra!
ch'io sarei morto! e questa pompa avrebbe
me cosí riportato, e non Pallante.
Né per questo di voi, né de la lega,
né de l'ospizio vostro io mi rammarco,
Troiani amici. Era a la mia vecchiezza
questa sorte dovuta. E se dovea
cader mio figlio, perché tanta strage
io vedessi de' Volsci, e perché Lazio
fosse a' Teucri soggetto, in pace io soffro
che sia caduto. E piú compíto onore
non aresti da me, Pallante mio,
di questo che 'l pietoso e magno Enea
e i suoi magni Troiani e i toschi duci
e tutte insieme le toscane genti
t'han procurato. Con sí gran trofei
del tuo valor sí chiara mostra han fatto,
e de' vinti da te. Né fôra meno
tra questi il tuo gran tronco, s'a te fosse,
Turno, stato d'età pari il mio figlio,
e par de la persona e de le forze
che ne dan gli anni. Ma che piú trattengo
quest'armi a' Teucri? Andate, e da mia parte
riferite ad Enea che, quel ch'io vivo
dopo Pallante, è sol perché l'invitta
sua destra, come vede, al figlio mio
ed a me deve Turno. E questo solo
gli manca per colmar la sua fortuna
e 'l suo gran merto; ché per mio contento
no 'l curo; e contentezza altra non deggio
sperare io piú che di portare io stesso
questa novella di Pallante a l'ombra».
  Avea l'Aurora col suo lume intanto
il giorno e l'opre e le fatiche insieme
ricondotte a' mortali. Il padre Enea
e 'l buon Tarconte, ambi, in su 'l curvo lito
i cadaveri addotti, a' suoi ciascuno
com'era l'uso, un'alta pira eresse,
la compose e l'incese. E mentre il foco
di fumo e di caligine coverto
tenea l'aëre intorno, in ordinanza
tre volte, armati, a piè la circondaro,
e tre volte a cavallo, in mesta guisa
ululando, piangendo, e l'armi e 'l suolo
di lagrime spargendo. Infino al cielo
penetrâr de le genti e de le tube
i dolorosi accenti. Altri gridando
le pire intorno, elmi, corazze e dardi
e ben guernite spade e freni e ruote
avventaron nel foco, e de' nemici
armi d'ogni maniera, arnesi e spoglie;
altri i lor propri doni, e degli occisi
medesmi vi gittâr l'aste infelici,
e gl'infelici scudi, ond'essi invano
s'eran difesi. A le cataste intorno
molti gran buoi, molti setosi porci,
molte fûr pecorelle occise ed arse.
A sí mesto spettacolo in sul lito
stavan altri piangendo, altri osservando
ciascuno i suoi piú cari, infin che 'l foco
gli consumasse. E questi l'ossa, e quelli
le ceneri accogliendo, il giorno tutto
in sí pietoso officio trapassaro:
né se ne tolser finché, spenti i fochi,
non s'acceser le stelle. In altra parte
i miseri Latini ai corpi loro
fêr cataste infinite. Altri sotterra
ne seppelliro; altri a le ville intorno,
ed altri a la città ne trasportaro.
E quei che senza numero confusi
giacean nel campo, senza onore a mucchi
furon combusti: onde i villaggi insieme
e le campagne di funesti incendi
lucean per tutto. E tre luci e tre notti
durâr gli afflitti amici e i dolorosi
parenti a ricercar le tiepid'ossa,
e ne l'urne riporle e ne' sepolcri.
  Ma la confusïone e 'l pianto e 'l duolo
era ne la città per la piú parte,
e ne la reggia al re Latino avanti.
Qui le madri, le nuore, le sorelle
e i miseri pupilli, che de' padri,
de' figli, de' mariti e de' fratelli
erano in questa guerra orbi rimasi,
la guerra abbominavano e le nozze
detestavan di Turno. «Ei da se stesso, -
dicendo, - ei che d'Italia al regno aspira,
e le grandezze e i primi onori agogna,
con l'armi e col suo sangue le s'acquisti,
e non col nostro». In ciò Drance aggravando
vie piú le cose, come a Turno infesto,
attestando dicea che sol con Turno
volea briga il Troiano, e che sol esso
era a pugna con lui cerco e chiamato.
Altri d'altro parere, altre ragioni
dicean per Turno: e 'l gran nome d'Amata
e 'l suo favore e di lui stesso il merto
con la fama de' suoi tanti trofei
sostenean la sua causa. Ed ecco, intanto
che cosí si tumultua e si travaglia,
mesti sopravvenir gl'imbasciadori
ch'in Arpi a Dïomede avean mandati;
e riportar, che le fatiche e i passi
avean perduti: che né dono alcuno,
né promesse, né preci, né ragioni
furon bastanti ad impetrar soccorso
né da lui né da' suoi: ch'era d'altronde
di mestiero a' Latini avere altr'armi,
o trattar co' nemici accordo e pace.
  Gran cordoglio sentinne, e gran rammarco
ne fece il re Latino. E ben conobbe
che manifestamente Enea da' fati
era portato; e via piú manifesta
si vedea degli dèi l'ira davanti
in tanta che de' suoi negli occhi avea
strage recente. Il gran consiglio adunque,
e de' suoi primi, ne la regia corte
chiamar si fece. In un momento piene
ne fûr le strade; e di già tutti accolti
ne la gran sala, il re, di grado e d'anni
il primo, a tutti in mezzo, in non sereno
sembiante, comandò che primamente
i legati che d'Arpi eran tornati,
fossero uditi; ed a lor vòlto disse:
«Esponete per ordine il seguíto
de la vostra ambasciata, e la risposta
che ritratta n'avete». A tal precetto
tacquero tutti; e Vènolo sorgendo,
cosí pria incominciò: «Noi dopo molti
superati pericoli e fatiche,
egregi cittadini, al campo argivo
ne la Puglia arrivammo; e Dïomede
vedemmo alfine; e quell'invitta destra
toccammo, ond'è 'l grand'Ilio arso e distrutto.
In Iapigia il trovammo a le radici
del gran monte Gargàno, ove fondava,
già vincitore, Argíripa, una terra
che dal patrio Argirippo ha nominata.
Intromessi che fummo, il presentammo;
gli esponemmo la patria, il nome e 'l fatto
de la nostra imbasciata, e la cagione,
onde a lui venivamo. Il tutto udito,
cosí benignamente ne rispose:
  "O fortunate genti, o di Saturno
felice regno, o degli antichi Ausoni
famosa terra! E quale iniqua sorte
da la vostra quïete or vi sottragge?
Qual consiglio, qual forza vi costringe
di nemicarvi e guerreggiar con gente
che non v'è nota? Noi quanti già fummo
col ferro a vïolar di Troia i campi
(non parlo degli strazi e de le stragi
di quei che vi rimasero, ché pieni
ne sono i fossi e i fiumi); ma quanti anco
n'uscimmo con la vita, in ogni parte
siam poi giti del mondo tapinando,
con nefandi supplíci, e con atroci
morti pagando il fio, come d'un grave
e scellerato eccesso. E non ch'altrui,
Prïamo stesso a pietà mosso avrebbe
il fiero, che di noi s'è fatto, scempio.
Di Palla il sa la sfortunata stella;
sallo il vendicator Cafàreo monte
e gli euboïci scogli: il san di Proteo
le longinque colonne, insino a dove,
dopo quella milizia, andò ramingo
l'un de' figli d'Atreo. D'Etna i Ciclopi
ne vide Ulisse. Il suo regno a' suoi servi
ne lasciò Pirro. Idomeneo cacciato
ne fu dal patrio seggio. Esso re stesso,
condottier degli Argivi, il piede a pena
nel suo regno ripose, che del regno,
del letto e de la vita anco privato
fu da la scellerata sua consorte.
Né gli giovò che doma l'Asia e spento
l'uno adultero avesse; ché de l'altro
scherno e preda rimase. A me l'invidia
ha degli dèi di piú veder disdetto
la mia bella città di Calidóna,
e la mia cara e desïata donna.
Né di ciò sazi, orribili spaventi
mi dànno ancora. E pur dianzi in augelli
conversi i miei compagni (o miseranda
lor pena!) van per l'aura e per gli scogli
di lacrimosi accenti il cielo empiendo.
Questi sono i profitti e le speranze
ch'io fin qui ne ritraggo, da che, folle!
stringer contro a' celesti il ferro osai,
e che di Citerea la destra offesi.
Or ch'io di nuovo una tal pugna imprenda
testé con voi? No, no, ch'io co' Troiani,
dopo Troia espugnata, altra cagione
non ho di guerra; e de' passati mali
volentier mi dimentico, e dolore
ancor ne sento. E, quanto a' doni, andate,
riportateli vosco, e 'l magno Enea
ne presentate. E solo a me credete
del valor suo, che fui con esso a fronte
con l'armi in mano; e so di scudo e d'asta
qual mi rese buon conto, e quanto vaglia.
Se due tali altri avea la terra idèa,
d'Ida fôra piuttosto ita la gente
ai danni de la Grecia; e 'l troian fato
piangerebb'ella. Enea sol con Ettorre
fu la cagion che tanto s'indugiasse
la ruina di Troia, e che diece anni
durammo a conquistarla. Ambedue questi
eran di cor, di forze e d'arme uguali,
ma ben fu di pietate Enea maggiore.
Io vi consiglio che, comunque sia,
lega seco, amicizia e pace aggiate,
e l'incontro fuggiate e l'armi sue".
Questa è la sua risposta; e quinci avete,
ottimo re, qual sia di questa guerra
il suo parere e 'l nostro». A pena uditi
furo i legati, che bisbiglio e fremito
infra i turbati Ausoni udissi, in guisa
che di rapido fiume un chiuso gorgo
mormora allor che fra gli opposti sassi
s'apre la strada, e gorgogliando cade,
e frange e rugghia, e le vicine ripe
ne risuonan d'intorno. Or poiché un poco
restò 'l tumulto, e gli animi acquetârsi,
gli dèi prima invocando, un'altra volta
il re da l'alto seggio a dir riprese:
  «Latini miei, lo mio parere e 'l meglio
sarebbe stato, che d'un tanto affare
si fosse prima consultato, e fermo
il nostro avviso; e non chiamar consiglio,
quando il nimico in su le porte avemo.
Una importuna e perigliosa guerra
s'è, cittadini, impresa, e per nimica
tolta una gente, che dal ciel discesa,
da' celesti e da' fati è qui mandata;
feroce, insuperabile, indefessa,
ne l'armi invitta, che né vinta ancora
cessa dal ferro. Se speranza alcuna
negli esterni soccorsi e ne l'aíta
aveste degli Etòli, ora del tutto
la deponete: e sia speme a se stesso
ciascun per sé. Ma noi per noi, che speme
e che possanza avemo? Ecco davanti
agli occhi vostri, e fra le vostre mani
vedete la strettezza e la ruina
in che noi siamo. Né però ne 'ncolpo
alcun di voi. Tutto 'l valor s'è mostro
che mostrar si potea: con tutto 'l corpo,
e con quanto ha di forza il nostro regno
s'è combattuto. Or quale in tanto dubbio
sia la mia mente, udite. È nel mio stato
vicino al Tebro un territorio antico,
che in vèr l'occaso per lunghezza attinge
fin dove de' Sicani era il confine.
Dagli Rutuli è cólto e dagli Aurunci,
che i duri colli e i piú deserti paschi
ne tengon da l'un canto: a questo aggiungo
quella piaggia di pini e quella costa
de la montagna; e tutto è mio disegno
che si ceda a' Troiani e ch'amicizia,
accordo e patti e lega e leggi eguali
abbiam con essi; e qui, s'a qui fermarsi
sono o da' fati o dal desire indotti,
ferminsi; e i loro alberghi e le lor mura
fondino a lor diletto. E s'altra parte
cercano e d'altre genti (se pur ponno
tôrsi da noi) quando di venti navi,
o di piú sovvenir ne gli bisogni,
su la stessa marina apparecchiata
è la materia. Essi de' legni il modo
e 'l numero diranno: e noi le selve,
la maestranza, i ferramenti e tutto
che fia lor di mestiero appresteremo.
Con questa offerta io manderei de' primi
de la nostra città cento oratori
co' rami de la pace, col mandato
di contrattarla, co' presenti appresso
d'avorio e d'oro e col seggio e col manto
del nostro regno. Consultate or voi,
ed a l'afflitte e mal condotte cose
d'aíta provvedete e di soccorso».
  Surse allor Drance, quei che già s'è detto
avversario di Turno. Era costui
del regno de' Latini un de' piú ricchi
e de' piú reputati cittadini:
di fazïon, di sèguito e di lingua
possente assai; ne le consulte avuto
di qualche stima; nel mestier de l'armi
codardo, anzi che no. La sua chiarezza
e 'l suo fasto venia da la sua madre
ch'era d'alto legnaggio. Il padre a pena
era noto a le genti. Or questo, infesto
a la gloria di Turno, asperso il core
d'amarezza e d'invidia, in questa guisa
il suo fatto aggravando, e l'ire altrui
irritando, parlò: «Chiaro, evidente
e necessario, ottimo re, n'è tanto
quel che tu ne consigli, che bisogno
d'altro non ha che di comune assenso.
Ognun vede, ognun sa quel che conviene
in sí dura fortuna: e nullo ardisce
pur d'aprir bocca. Libertate almeno
di parlar ne si dia. Scemi una volta
tanta sua tracotanza e tanto orgoglio
chi co' suoi male avventurosi auspíci,
co' sinistri suoi modi (io pur dirollo,
benché d'armi e di morte mi minacci)
n'ha qui condotti, e per cui tanti duci,
tanta gente è perita, e tutta in pianto
questa cittade e questo regno è vòlto;
mentre ne la sua furia, o ne la fuga
confidando piuttosto, il troian campo
ha d'assalire osato, e fin nel cielo
posto ha con l'armi sue téma e scompiglio.
Solo un dono, signor, fra tanti doni
che si mandano a' Teucri, un sol n'aggiungi;
né consentir che vïolenza altrui
tel proibisca. Da', buon padre, ancora
questa tua figlia a genero sí degno
e con sí degno maritaggio eterna
fa questa pace. E se 'l terrore è tanto
che s'ha di lui, da lui stesso impetriamo
grazia e licenza che la patria sua,
che 'l suo re prevaler si possa almeno
del suo sangue a suo modo. E tu cagione,
tu di tanta ruina autore e capo,
a che pur tante volte, a tanti strazi,
a tanti rischi, a manifesta morte
questi tuoi meschinelli cittadini
esponi indarno? e qual è ne la guerra
piú salute e speranza? A te noi tutti
pace, Turno, chiedemo, e de la pace
quel ch'è sol fermo e 'nviolabil pegno;
ed io prima di tutti, io cui tu fingi
che nimico ti sia (né tal mi curo
che tu mi tenga) a supplicar ti vegno
umilemente. Abbi pietà de' tuoi;
pon giú la stizza; e poi che sei cacciato,
vattene. Assai di strage, assai di morti
s'è visto: assai ne son le genti afflitte;
vedovi i tetti e desolati i campi;
ma se l'onor ti muove, e se concepi
di te tanto in te stesso, e tanto agogni
o la donna o la dote, a che non osi
contro a chi te ne priva? A Turno adunque
regno col nostro sangue e regia moglie
procureremo: e noi vili alme, e turba
non sepolta e non pianta, a' cani in preda
giaceremo in su' campi? Or tu, tu stesso,
se tanto hai d'ardimento e di valore
dal paterno legnaggio, a lui rispondi,
a lui ti volgi, che ti sfida e chiama».
  Turno, ch'impetuoso e vïolento
era da sé, questo parlare udito,
alto un gemito trasse, e d'ira acceso
cosí proruppe: «Usanza tua fu sempre,
Drance, allor che di mani è piú bisogno,
oprar la lingua; essere in corte il primo,
l'ultimo in campo. Ma non piú parole
in questo loco, ché già pieno troppo
ne l'hai; pur troppo grandi e troppo gonfie
l'avventi, e senza rischio or ch'i nemici
son lunge, e buone fosse e buone mura
ci son di mezzo, e non c'inonda il sangue.
Apri qui bocca al solito, e rintuona
con la facondia tua. Tu, che se' Drance,
me, che son Turno, imbelle e vile appella;
tu la cui dianzi sanguinosa destra
pieni i campi di morti, e pieni i colli
ha di trofei. Ma che non pruovi ancora
questa tua gran virtú? Forse, ch'avemo
a cercar de' nemici? Ecco d'intorno
ci sono, e 'n su le porte. Andrem lor contra?
Che badi? Ov'è la tua tanta prodezza?
sempre è nel vento, sempre è ne la fuga
de la lingua e de' piè? tu mi rinfacci
ch'io sia cacciato? tu, vituperoso,
di dirlo osasti? e chi meritamente
sarà che 'l dica? Oh! non s'è visto il Tebro
fatto gonfio da me del frigio sangue?
non s'è vista la casa e 'l seme tutto
spento d'Evandro, e gli Arcadi spogliati
d'armi e di vita? Io non fui già da Pandaro
cacciato, né da Bizia, né da mille
che in un dí vincitore a morte io diedi,
circondato da loro e cinto e chiuso
da le lor mura. Nulla è ne la guerra
piú salute o speranza: al teucro duce,
a te, folle, al tuo capo, a le tue cose
fa' questo annunzio. E non tutto in soqquadro
por con tanta paura, e tanta stima
che fai de la prodezza e de le forze
d'una gente che già due volte è vinta;
e non tanto avvilir da l'altro canto
l'armi del re Latino. Ai Mirmidóni
son ora, al gran Dïomede, al grande Achille
i Teucri formidabili e tremendi;
e dal mar se ne torna per paura
l'Àufido indietro. E forse che non finge
temer di me, perché il mio fallo aggravi?
Malvagia astuzia! Ma non piú per nulla
vo' che ne tema. Un'anima sí vile
non ti torrà la mia destra già mai.
Stiesi pur teco, e nel tuo petto alloggi,
di lei ben degno albergo. Or a te vegno,
gran padre, e 'l tuo parer discorro, e dico:
Se tu piú non t'affidi, e piú non credi
ne l'armi tue; s'abbandonati affatto
siam d'ogni parte; se una volta rotti,
siam per sempre perduti; e se fortuna,
varïando le veci, unqua non cangia,
signor, pace imploriamo; e l'armi in terra
gittando, a giunte mani accordo e vènia
impetriam dai nemici. Ancorché, quando
oh! del nostro valor punto in noi fosse!
sopra tutti felice, riposato,
e glorïoso spirito sarebbe
chi, per ciò non veder, morto si fosse!
Ma se le nostre forze ancor son verdi,
la nostra gioventú florida, intatta,
disposta e pronta a l'armi; e per sussidio
i popoli d'Italia e le cittadi
son con noi tutte; e s'a' nemici ancora
sanguinosa, dannosa e poco lieta
è questa gloria; ed han de' morti anch'essi
la parte loro; e la tempesta è pari
d'ambe le parti; a che nel primo intoppo
con tanto scorno, a noi stessi mancando,
gittarne a terra? a che tremare avanti
che la tromba si senta? A la giornata
il tempo stesso, il varïar de' casi,
l'industria, le vicende, il moto e 'l giuoco
potria de la fortuna in molte guise,
come suol l'altre cose, ancor le nostre,
cangiando, risarcire, e porre in saldo.
Non avrem Dïomede in nostro aiuto;
avrem Messapo; avremo il fortunato
Tolunnio; avrem tant'altri incliti duci
di tant'altre città. Né di men gloria,
né di minor virtú saranno i nostri
di Laurento e di Lazio. Avrem Camilla,
la gran volsca virago, che n'addusse
di cavalieri e di caterve armate
sí bella gente. E se me solo appella
il nemico a battaglia, e se v'aggrada
che sol io gli risponda ed io sol osto
al ben comune, io solamente assumo
sopra me questa impresa. E già non credo
che le mie man sí la vittoria abborra,
che per tanta ch'io n'aggia, e speme e gioia,
accettar non la deggia. Androgli incontro
con l'animo, se fosse anco maggiore
del magno Achille, e come Achille, anch'egli
l'armi di Mongibello indosso avesse.
Io Turno, io che non punto a qual si fosse
mai degli antichi di valor non cedo,
questa mia vita stessa a voi, Latini,
ed a Latin mio suocero consacro
solennemente. Enea me solo invita;
l'accetto, il bramo e 'l prego, anzi che Drance,
s'ira è questa di dio, con la sua morte
la purghi, o che la gloria me ne tolga,
s'è pur gloria o vertute». In cotal guisa
consultando i Latini avean tra loro
dispareri e tenzoni. Usciti a campo
erano i Teucri intanto. Ed ecco un messo
venir volando, che la reggia tutta
e tutta la città pose in tumulto,
annunzïando che dal tosco fiume
già mosso de' Troiani e de' Tirreni
se ne venia l'esercito in battaglia
in vèr Laurento; e che di genti e d'armi
si vedean piene le campagne e i colli.
  Gli animi incontinente si turbaro;
sgomentossene il volgo: ai valorosi
s'acceser l'ire. Trepidando ognuno
discorrea per le strade; arme fremea
la gioventú; dolenti e lagrimosi
i padri discordando, e chi per Turno
sentendo e chi per Drance, avean tra loro
vari bisbigli. E tutto il corpo insieme
facea de la città tale un trambusto,
e tal ne l'aura unitamente un suono,
qual è se spaventata esce d'un bosco
torma di rochi augelli, o qual talora
da le pescose rive di Padusa
van per gli stagni schiamazzando a schiere
turbati i cigni. In tale occasïone
gridava Turno: «Or questo è, padri, il tempo
di seder a consiglio: or consigliate
agiatamente: aggiate sopra tutto
cura a la pace, or ch'i nemici armati
ne son già sopra». E, cosí detto a pena,
saltò fuor de la reggia; e vòlto a torno:
«Arma, - disse, - tu, Vòluso, i tuoi Volsci,
e tu, Messapo, i rutuli cavalli.
Tu, Catillo, e tu Cora, uscite a campo:
va tu con la tua gente a la muraglia
incontinente; e tu dispensa i tuoi
fra le porte e le torri. Ite voi meco,
che rimanete; e ciascuno armi i suoi».
  Per tutta la città si va scorrendo
a le mura. A l'insegne, ai capitani
ognun s'adduce. I padri irresoluti
se n'escon dal consiglio. Il re turbato
si ritira, e si pente che non aggia
per sé, senza consulta, il frigio duce
per amico e per genero accettato.
Dansi tutti a munire, a cavar fosse,
tutti a somministrar chi sassi e travi,
e chi dardi e chi strali. E già la roca
tromba ne va per la città squillando
de la battaglia il sanguinoso accento.
Le matrone, i fanciulli, i vecchi, ognuno
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado
a l'ultimo periglio, al gran bisogno
corrono a la muraglia. E d'altra parte
da gran corteo di donne accompagnata
con doni e preci di Minerva al tempio
va la regina, ed ha Lavinia seco,
la vergine sua figlia, onde venuta
era tanta ruina: e di ciò mesta,
porta i begli occhi lagrimosi e chini.
Seguon le madri e d'odorati incensi
vaporando il delúbro, in flebil voce
pregano in su la soglia: «Armipotente
Tritonia, tu che puoi, la possa e l'armi
frangi al frigio ladrone, e di tua mano
anciso in su la porta me lo stendi».
  Esso re Turno da la furia spinto
ricorre a l'armi; e di squamoso acciaro
e d'òr già tutto orribile e splendente,
cinto di brando, e sol del capo ignudo
lieto mostrossi, e di speranza altiero
di vedere il nemico. E 'n quella guisa
da la ròcca scendea che da' presepi
sciolto destriero esce ruzzando in campo,
o ch'amor di giumente, o che vaghezza
di verde prato, o pur desio lo tragga
del noto fiume; che sbuffando freme,
e ringhia e drizza il collo e squassa il crine.
  A l'uscir de la porta ecco davanti
gli si fa co' suoi volsci cavalieri
la vergine Camilla: e sí com'era
non men gentil che valorosa e bella,
tosto che l'incontrò con tutti i suoi
dismontò da cavallo, e vèr lui disse:
«Turno, se degnamente uom forte ardisce,
io mi rincoro, e ti prometto io sola
di gire ai cavalier toscani incontro.
Lascia me col mio stuolo assalir prima
la troiana oste, e che primiera io tragga
di questa pugna e de' suoi rischi un saggio;
e tu qui co' pedoni a piè rimanti
a guardia de la terra». A tal proposta
Turno ne la terribile virago
gli occhi fissando: «O de l'Italia, - disse -
ornamento e sostegno, e di che lode,
e di che premio al tuo gran merto uguale
ristorar ti poss'io? Ma (poiché cosa
non è che la pareggi) abbi, famosa
guerriera, in grado ch'io con te comparta
questa fatica. Enea, come dal grido
avemo e da le spie fin qui ritratto,
spinte ha le schiere de' cavalli avanti
per batter la campagna: ed egli altronde
presa la via del monte, per alpestro
sentiero a la città di sopra al giogo
vien con l'altre sue genti. Il mio disegno
è fargli agguato, e collocarmi appresso
là, 've sopra la foce il doppio bosco
del curvo monte ambe le strade accoglie.
Tu, raünati i tuoi con gli altri tutti
nostri cavalli, i suoi nel piano assagli
a spiegate bandiere. Il fier Messapo
sarà con te: saranvi de' Latini,
vi saran di Corace e di Catillo
le squadre tutte; e tu con essi il carco
prendi di comandarle». Indi esortando
parimente Messapo e gli altri duci
a la lor fazïone, egli a la sua
tostamente si volse. È tra due branche
del monte una vallea che d'ambi i lati
ha folte selve, e luoghi occulti e chiusi,
a l'insidie de l'armi accomodati.
Ha ne l'imo una sèmita per mezzo
angusta, malagevole e scontorta
che d'ogn'intorno è da le ripe offesa.
In cima, in su l'uscita, è tra le selve
ascosa una pianura, con ridotti
acconci a ritirarsi, ed opportuni
a spingersi o dal destro o dal sinistro
lato, che si rincontri o che s'aspetti
nemica gente, o pur che di gran sassi
si tempesti di sopra. A questo loco,
di cui ben era pratico, in agguato
Turno si pose, e i suoi nimici attese.
  Dïana intanto timorosa e mesta
favellando con Opi, una del coro
de le sue Ninfe, in tal guisa le disse:
«Vedi a che perigliosa e mortal guerra
a morir se ne va la mia Camilla,
ne le nostr'armi ammaestrata invano.
E pur m'è cara, e sovr'ogni altra io l'amo.
Né questo è nuovo, o repentino amore.
Fin da le fasce è mia. Mètabo, il padre
di lei, fu per invidia e per soverchia
potenza da Priverno, antica terra,
da' suoi stessi cacciato; e da l'insulto,
che gli fece il suo popolo, fuggendo,
nel suo misero esiglio ebbe in campagna
questa sola bambina che, mutato
di Casmilla sua madre il nome in parte,
fu Camilla nomata. Andava il padre
con essa in braccio per gli monti errando
e per le selve, e de' nemici Volsci
sempre d'intorno avea l'insidie e l'armi.
Ecco un giorno assalito con la caccia
dietro, fuggendo, a l'Amasèno arriva.
Per pioggia questo fiume era cresciuto,
e rapido spumando, infino al sommo
se ne gia de le ripe ondoso e gonfio;
tal che, per téma de l'amato peso
non s'arrischiando di passarlo a nuoto,
fermossi; e poiché a tutto ebbe pensato,
con un súbito avviso entro una scorza
di salvatico súvero rinchiuse
la pargoletta figlia. E poscia in mezzo
d'un suo nodoso, inarsicciato e sodo
tèlo, ch'avea per avventura in mano,
legolla acconciamente; e l'asta e lei
con la sua destra poderosa in alto
librando, a l'aura si rivolse, e disse:
  "Alma latonia virgo, abitatrice
de le selve e de' monti, io padre stesso
questa mia sfortunata figlioletta
per ministra ti dedico e per serva.
Ecco ch'a te devota, a l'armi tue
accomandata, dal nimico in prima
sol per te la sottraggo. In te sperando
a l'aura la commetto; e tu per tua
prendila, te ne prego, e tua sia sempre".
  Ciò detto, il braccio in dietro ritraendo,
oltre il fiume lanciolla; e 'l fiume e 'l vento
e 'l dardo ne fêr suono e fischio e rombo.
Mètabo, da la turba sopraggiunto
de' suoi nemici, a nuoto alfin gettossi
e salvo a l'altra riva si condusse.
Ivi d'un verde cespo, ove piantato
avea Trivia il suo dono, il dardo e lei
divelse, e via fuggissi; e piú mai poscia
non fu da tetti o da cittadi accolto;
ché per natia fierezza a legge altrui
non si fôra unqua additto. Il tempo tutto
de la sua vita, di pastore in guisa,
menò per monti solitari ed ermi;
e per grotte e per dumi e per orrende
selve e tane di fere ebbe ricetto
con la fanciulla, a cui fu cibo un tempo
ferino latte, e balia una d'armento
ancor non doma e pavida giumenta.
Ne le tenere labbra il padre stesso
de la fera premea l'orride mamme;
né pria tenne de' piè salde le piante,
che d'arco, di faretra e di nodosi
dardi le mani e gli omeri gravolle.
Non d'òr le chiome, o di monile il collo,
né men di lunga, o di fregiata gonna
la ricoverse; ma di tigre un cuoio
le facea veste intorno, e cuffia in capo.
Il fanciullesco suo primo diletto
e 'l primo studio fu lanciar di palo,
e trar d'arco e di fromba; e 'n fin d'allora
facea strage di gru, d'oche e di cigni.
Molte la desiâr tirrene madri
per nuora indarno. Ed ella di me sola
contenta, intemerata e pura e casta,
la sua verginità, l'amor de l'armi
sol ebbe in cale. Or mio fôra disio
che di questa milizia e de la pugna,
che presa ha co' Troiani e co' Tirreni,
fosse digiuna; per sí cara io l'aggio,
e tale or mi saria grata compagna.
Ma poi che acerbo fato la persegue,
scendi, ninfa, dal cielo, e nel paese
va de' Latini. Ivi al conflitto assisti,
che per Lazio e per lei mal s'apparecchia.
Prendi quest'arco e prendi questa mia
stessa faretra, e di qui traggi il tèlo
per vendicarmi di qualunque ardito
sarà di vïolar quest'a me sacra
e devota virago, Italo, o Teucro
che sia. Poscia io verrò di nube involta
a provveder che 'l miserabil corpo
non sia d'armi spogliato, e che raccolto
sia ne la patria, e seppellito e pianto».
  Cosí dicendo, entro un sonoro nembo,
da' mortali occhi non veduta, a terra
lievemente calossi. I teucri intanto
e i toschi duci le lor genti avanti
spingendo, a la città s'avvicinaro.
Piena d'armi, d'insegne, di cavalli
e di schierati fanti e di squadroni
si vedea la campagna. Eran per tutto
gualdane, giramenti, scorribande
di cavalieri: in secche selve i colli
parean conversi: ardea la terra e 'l cielo
di ferrigni splendori, e d'ogni parte
s'udian fremer cavalli e squillar trombe.
  Incontro a lor da l'altra parte usciro
il fier Messapo, i cavalier latini,
Corace col suo frate, e di Camilla
la bellicosa banda. Era il concorso
tuttavia de le genti, e de' cavalli
il fremito maggiore. E già la massa
ristretta, e già vicine ambe le parti
a tiro d'asta, a fronte si fermaro
l'una de l'altra; e con le lance in resta,
con saette e con dardi incominciaro
primamente da lunge a salutarsi.
Poi di subite grida udito un tuono
al ciel levossi; e due contrari nembi
da la terra sorgendo, armi fioccaro
di neve in guisa, e coprîr d'ombra il sole.
Alfin da ciascun lato i destrier punti
andâr tutti con tutti a rincontrarsi.
  Era Tirreno al fiero Aconte opposto
ne la battaglia; e questi primamente
s'urtaro, e per la furia e per la forza
de l'urto ambe le lance, ambi i cavalli,
ed ambi i corpi infranti, stramazzati,
l'un da l'altro disgiunti, quai percossi
da fulmine o da macchine avventati,
caddero a terra. E pria ne l'aura Aconte
lasciò la vita. Conturbate e sparse
le schiere de' Latini, incontinente
con le targhe rivolte a tutta briglia
vèr le mura spronando in fuga andaro.
Gli seguiro i Troiani; e primo Asila
gli assalse e gli cacciò fin su le porte.
Qui fermi e rincorati alzan le grida,
volgon le teste, e si rifan lor sopra,
ch'eran lor contra. Cosí quando questi,
e quando quelli or cacciano, or cacciati
tornano: in quella guisa ch'a vicenda
il mare or d'alto a riva i flutti increspa,
e ne l'ultima arena ondeggia e spuma;
or da la riva indietro se ne torna,
e le stess'onde, e la commossa ghiara
sorbendo e voltolando, si ritragge.
Due volte i Toschi i Rutuli incalzaro
fino a le mura; e i Rutuli due volte
risospinsero i Toschi. Al terzo assalto
mischiârsi ambe le schiere, e l'un con l'altro
vennero a zuffa. Allor le grida e i mugghi
si sentîr de' cadenti: allor si vide
il pian tutto di sangue, e tutto d'armi
e d'uomini coverto e di cavalli
feriti e morti. Orsíloco a rincontro
di Rèmolo trovossi; e non osando
di star seco a le mani, al suo cavallo
trasse del dardo, e 'n su l'orecchio il colse.
Del colpo impazïente e per sé fiero
si scosse, s'avventò, col petto in alto
e con le zampe il corridor levossi,
e 'n su l'arena il cavalier distese.
Catillo Iola e 'l grande Erminio occise;
Erminio, che di corpo e d'armi e d'animo
era de' piú robusti, de' piú chiari
e de' piú riguardevoli guerrieri
de' Toschi tutti. Avea la chioma stessa
per sua celata; avea gli omeri ignudi
di ferro al ferro esposti, e di ferite
ampio bersaglio. In su l'aperte spalle
Catillo il colse; e tremolando il tèlo
passogli il petto, e raddoppiogli il duolo.
Per tutto si fa sangue; in ogni parte
si tragge, si ferisce, si stramazza;
e chi cede e chi segue. In varie guise
ne van tutti a morir morte onorata.
  In mezzo a tanta occisïone, ignuda
da l'un de' lati infurïando esulta
la vergine Camilla; ed or di dardo
fulminando, or di lancia, or di secure
non mai stanca percuote. E qual Dïana
di sonora faretra e d'arco aurato
gli omeri onusta, ancor che si ritragga,
saettando, ferite e morti avventa.
D'intorno ha per compagne e per guerriere
d'archi, di mazze e di bipenni armate,
Tulla, Tarpèa, Larina ed altre illustri
italiche donzelle, a suo decoro
scelte da lei per sue degne ministre
ne la pace e ne l'armi. In tal sembianza
Termodoonte il bellicoso stuolo
de l'Amazzoni sue vide in battaglia
attorneggiare Ippolita, o col carro
gir di Pentesilèa le schiere aprendo
con feminei ululati. Or chi fu prima,
chi poi, cruda virago, e quali e quanti
quei ch'abbattesti, e che di vita spenti
mandasti a l'Orco? Eumenio primamente
di Clizio il figlio, da costei trafitto
fu d'un colpo di lancia in mezzo al petto.
Cadde il meschino, e fe' di sangue un rivo,
sopra cui voltolandosi, e mordendo
il sanguigno terren, di vita uscio.
Indi va sopra a Liri e sopra a Pègaso
quasi in un tempo, a l'un mentre, inciampando
il suo destriero, il fren raccoglie; a l'altro
mentre a lui, che trabocca, il braccio stende
per sostenerlo: onde in un gruppo entrambi
precipitaro. A cui d'Ippòta il figlio
Amastro aggiunse, e via seguendo, Arpàlico
e Tèreo e Cromi e Demofonte occise.
Quanti dardi lanciò, tanti Troiani
gittò per terra. Orníto, un cacciatore,
gli gia davanti, e stranamente armato
cavalcava di Puglia un gran destriero:
per sua corazza avea d'ispido toro
un duro tergo; per celata un teschio
di lupo, che dal capo insino al mento
sbarrava le mascelle, e digrignando
mostrava i denti. In man portava, ad uso
di contadini, un nodoroso palo
di grave ronca armato. Egli nel mezzo
degli altri suoi con le due teste andava
sovrano a tutti, e le ferine orecchie
ergea di cresta e di pennacchi in vece.
Camilla il giunse, lo fermò, l'occise
senza contrasto, già che vòlta in fuga
era la schiera sua. Sovra al suo corpo
disse rimproverando: «E che pensasti,
Tosco insolente? di venire a caccia
in qualche selva, e seguir damme imbelli?
Venuto sei là 've una dama armata
col ferro amaramente vi rintuzza
la superbia e la lingua. Oh pur non poco
ti fia di vanto, referendo a l'ombre
de' tuoi: per man fui di Camilla occiso».
  Indi Orsíloco assalse, e Bute appresso,
due corpi de' maggiori e de' piú forti
del troian oste. A Bute un colpo trasse
che 'l giunse ove tra l'elmo e la corazza
si scopre il collo, onde lo scudo appeso
sta da sinistra. Orsíloco, fuggendo
e gridando, gabbò; ch'al giro interno
s'attenne e strinse; e là 've era seguita,
seguitò lui. Gli fu sopra in un tempo
a colpi di secure, e l'armi e l'ossa
gli pestò sí che per suo scampo a' prieghi
si volse. Alfine un tal sopra la testa
ne gli piantò, che le cervella infrante
gli schizzâr da la fronte e da le tempie.
  D'Àüno montanar de l'Appennino
il bellicoso figlio a l'improvviso
fu da lei còlto: un Ligure scaltrito,
che per ordire inganni (in fin che 'l fato
gliel concedé) non degli estremi avuto
era tra' suoi. Costui nel primo incontro
sbigottito fermossi. E poiché vide
non poter con la fuga a lei sottrarsi,
che gli era sopra, a la malizia usata
ricorrendo: «Oh! gran prova, - a dir comincia -
sarà la tua, se ben femina sei,
di sfidar me, quando a un caval t'affidi
sí fugace e sí forte. Or al vantaggio
rinunzia de la fuga e meco a piede
prendi zuffa del pari; e poi vedrassi
a cui questa ventosa tua bravura
onore acquisti». A cotal dir Camilla
di furia, di dolor, di sdegno ardendo
ratto dismonta; e 'l corridor deposto
in man de la compagna, a piè si pianta;
stringe la spada, imbracciasi lo scudo,
e con pari armi intrepida l'attende.
Il giovine, che vinto si credette
aver con quello avviso, incontinente
la groppa le mostrò del suo cavallo,
e via spronando a tutta briglia il pinse.
«Ligure vano, vano orgoglio in prima
ti mosse: or vana astuzia e vana fuga
sarà la tua; ché l'arte del fallace
tuo padre, e di tua patria, a far non basta
che vivo da le man mi ti ritolga».
Disse la virgo, e qual da cocca strale
dietro gli si spiccò: ratto l'aggiunse,
passollo, attraversollo, al fren di piglio
diedegli; lo ferí, l'ancise alfine.
Cosí d'un alto sasso agevolmente
sparvier grifagno al timido colombo
s'avventa, e lo ghermisce; onde in un tempo
sangue e piuma dal ciel neviga e piove.
  In questa, de' mortali e de' celesti
l'eterno regnator, che pur talvolta
alcun de' raggi suoi vèr noi rivolge,
non con lieve disdegno o picciol'ira
mosse Tarconte a sovvenir le schiere
de' suoi ch'erano in volta. Egli per mezzo
va de l'occisïoni e de le mischie,
or il destrier contra i nemici urtando,
or le sue squadre inanimando, insieme
le ristringe, le instiga, le garrisce,
e per nome ciascun chiamando: «Ah, - disse, -
Tirreni, e che timore, e che spavento
è 'l vostro? che viltà, che codardia
v'ha presi? e quando mai fia che vi punga
o dolore, o vergogna? Adunque in fuga
gite per una femina? Una femina
vi disperde e v'ancide? A che di ferro
invan cosí le destre e i petti armate?
De le donne temete? Or via, campioni
da letti e da bottiglie, a nozze, a pasti,
a sacrifizi, allor che ne le sacre
foreste è da l'aruspice intonato
che la vittima e grassa, itene tutti
seco a goder del saginato bue
a piena pancia, ché null'altro amore,
null'altro studio è 'l vostro». E, ciò dicendo,
ne va come devoto a morte anch'egli.
Con Vènolo s'affronta; e sí com'era
turbato, l'aggavigna, e fuor lo tragge
del suo cavallo. Alto levossi un grido
tal, che tutti a veder le ciglia alzaro
i Latini e i Tirreni. Iva Tarconte
per la campagna con la preda in grembo
del nimico e de l'armi; e 'n mezzo al corso
svelge da l'asta sua medesma il ferro,
e cerca ov'è di piastra il corpo ignudo
per darli morte. E mentre ne la gola
tenta ferirlo, ei con le braccia in alto
si scherma, regge il colpo, e da la forza
quanto può con la forza si districa.
  Come ne l'aria insieme avviticchiati
si son visti talor l'aquila e 'l serpe
pugnar volando, e l'una aver con l'ugne
e col becco ghermito e morso l'altro:
e l'altro co' suoi giri e co' suoi nodi
farle vincigli a' piè, volumi a l'ali;
e questo con la testa alto fischiando,
e quella schiamazzando e dibattendo,
ambedue voltolarsi, ambedue stretti
far di squame e di piume un sol viluppo;
cosí Tarconte per lo campo a volo,
vincitor de le schiere di Tiburte,
Vènolo sen portava. E questo esempio
del suo duce seguendo, e del successo
assecurata, la meonia torma
tutta contr'a Latini impeto fece.
Tra questi Arunte, un che di già dovuto
era al suo fato, con un dardo in mano
Camilla astutamente insidïando,
si diede a seguitarla, a circuïrla,
a cercar destra e comoda fortuna
di darle morte. Ovunque ella o per mezzo
fendea le schiere, o vincitrice indietro
si ritraea, l'era vicino Arunte;
e tutti i moti suoi, tutte le vie
osservando, attendea che netto il colpo
gli rïuscisse; e da fellone intanto
avea l'asta a ferir librata e pronta.
  Giva per avventura a lei davanti
Cloro, un giovine idèo che sacerdote
era già di Cibele. I Frigi tutti
non avean chi di lui fosse ne l'armi
piú riccamente adorno. Un suo corsiero
per lo campo spingea, di spuma asperso,
cinto di barde e d'acciarine lame
come di scaglie e di leggiadre piume
leggiadramente inteste. Un arco d'oro
gli pendea da le spalle, una faretra
a la cretese. In testa, in gambe, in dosso
d'armi e d'arnesi in barbara sembianza,
di peregrina porpora e di seta,
di bisso, di teletta e d'ostro e d'oro
tutto coverto, tutto ricamato,
tutto trinciato; e saettando andava.
  Costui veduto, ogni altra impresa indietro
lasciando, a lui si volse o per vaghezza
di consecrar le sue bell'armi al tempio,
o pur che di sí vago ostile arnese
di gir pomposa cacciatrice amasse.
Basta che per le schiere incauta, ardente,
e, come donna, vogliolosa e folle
de l'amor de la preda e de le spoglie,
contro a lui se ne giva; allor ch'Arunte,
dopo molto appostarla, alfin le trasse
in tal guisa pregando: «O di Soratte
sommo custode, Apollo, a cui devoti
noi fummo in prima, a cui di sacri pini
nutriamo il foco, e per cui nudi e scalzi
tra le fiamme saltando e per le brage
securamente e senza offesa andiamo,
dammi, ché tutto puoi, padre benigno,
che questa infamia per mia man si tolga
da l'armi nostre. Io di costei non bramo
armi, spoglie o trofeo. Gli altri miei fatti
mi sian di lode, e pur che questo mostro
caggia spento da me, ne la mia patria
senza piú gloria andrò di questa guerra
pago e contento». Udí Febo del vóto
parte, e parte per l'aura ne disperse.
Udí che morta da quel colpo fosse
la vergine Camilla; e non udio
di lui, ch'ei vivo in patria ne tornasse;
ché ciò per l'aura ne portaro i vènti.
  Tosto che da le man l'asta ronzando
gli uscio, fûr gli occhi e gli animi e le grida
de' Volsci tutti a la regina intenti.
Ed ella né del tèlo, né de l'aura
moto o fischio sentí; né vide il colpo,
mentre giú discendea, finché non giunse.
Giunsele a punto ove divelta e nuda
era la poppa; e del virgineo sangue,
non già di latte, sitibonda scese
sí che 'l petto l'aprí. Le sue compagne
le fûr trepide intorno; e già che morta
cadea, la sostentaro. Arunte in fuga
ratto si volge, di paura insieme
turbato e di letizia; ché ne l'asta
piú non confida, e piú di star non osa
incontro a lei. Qual affamato lupo
ch'ucciso de l'armento un gran giovenco,
o lo stesso pastore, in sé confuso
di tanta audacia, anzi che da' villaggi
gli si levin le grida, infra le gambe
si rimette la coda, e ratto a' monti
fuggendo, si rinselva; in cotal guisa
Arunte, dopo 'l tratto, impaürito,
solo a salvarsi inteso, in mezzo a l'armi
si mischiò tra le schiere. Ella, morendo,
di sua man fuor del petto il crudo ferro
tentò svelgersi indarno; ché la punta
s'era altamente ne le coste infissa:
onde languendo abbandonossi, e fredda
giacque supina; e gli occhi, che pur dianzi
scintillavano ardor, grazia e fierezza,
si fêr torbidi e gravi. Il volto, in prima
di rose e d'ostro, di pallor di morte
tutto si tinse. In tal guisa spirando,
Acca a sé chiama, una tra l'altre sue
la piú fida di tutte e la piú cara;
e dice: «Acca, sorella, i giorni miei
son qui finiti: questa acerba piaga
m'adduce a morte, e già nero mi sembra
tutto che veggio. Or vola, e da mia parte
di' per ultimo a Turno che succeda
a questa pugna e la città soccorra;
e tu rimanti in pace». A pena detto
ebbe cosí, che abbandonando il freno
e l'arme e sé medesma, a capo chino
traboccò da cavallo. Allora il freddo
l'occupò de la morte a poco a poco
le membra tutte. E, dechinato il collo
sopra un verde cespuglio, alfin di vita
sdegnosamente sospirando uscio.
Camilla estinta, per lo campo un grido
levossi che n'andò fino a le stelle,
e surse al cader suo zuffa maggiore;
ché i Teucri e i Toschi gli Arcadi in un tempo
pinsero avanti. Opi, ministra intanto
di Trivia, che nel monte era discesa
vicino a la battaglia, indi il conflitto
stava mirando intrepida e sicura,
e visto di lontan tra molte genti
nascer nuovo tumulto e nuove grida,
poscia in mezzo di lor caduta e morta
la vergine Camilla: «Ah, - sospirando
disse, - virgo infelice! troppo, troppo
crudel supplizio hai de l'ardir sofferto,
se d'irritar l'armi troiane osasti.
E di che pro t'è stato a viver nosco
solinga vita, armar de l'armi nostre,
gradire i boschi e venerar Dïana?
Ma te non lascerà la tua regina
giacer disonorata in questa fine
de la tua vita; e la tua morte oscura
non sarà tra le genti; e non dirassi
che non è chi di te vendetta faccia;
ché chïunque di ferro avrà ferito
il corpo tuo, sarà meritatamente
di ferro anciso». Era a Dercenno, antico
re de' Laurenti, un gran sepolcro eretto,
cui sopra era di terra un monte imposto
e d'elci annosi e folti un bosco opaco.
Qui la veloce dea dal ciel calossi
al primo volo; e di qui visto Arunte
splender ne l'armi, e gir di sua follia
superbo e gonfio: «Ove ne vai? - diss'ella, -
qui convien che ti fermi, e qui morendo
de la morta Camilla il premio avrai
degno di te, se di perir sei degno
de l'armi di Dïana». E, ciò dicendo,
la buona arciera del turcasso aurato
trasse un acuto strale, e l'arco tese,
e tirò sí ch'ambe le corna estreme
vennero al mezzo, ed ambe parimente
le mani, una tirata e l'altra spinta,
quella toccò la poppa e questa il ferro.
L'arco, l'aura, lo stral sonare udio,
e ferir e morir sentissi Arunte
tutto in un tempo. I suoi quasi in oblio
cosí come spirava, in mezzo al campo
lo lasciâr fra la polve in abbandono;
ed Opi al ciel tornando a volo alzossi.
  Caduta lei, la schiera di Camilla
primieramente in fuga si rivolse.
Indi turbârsi i Rutuli, e diêr volta.
Diè volta il fiero Atina; e i duci tutti,
e tutte fûr le insegne abbandonate.
Cerca ognun di salvarsi, e vèr le mura
ne vanno a tutta briglia, e piú nel campo
alcun non è che di far testa ardisca
contra la strage e contra la ruina
che fanno i Teucri. Se ne van con gli archi
scarichi in su le terga e spenzoloni;
e piú che di galoppo in vèr Laurento
battono il campo, e fan nubi di polve.
Le madri da' balconi e da' torrazzi
percossi i petti, alzano al ciel le grida
con femineo ululato. E quei che primi
giunti trovâr le porte ancor non chiuse,
mischiati co' nemici, ove piú salvi
si credean ne l'entrata e fra le mura
de la stessa lor patria, anzi agli alberghi
lor propri e da' nemici e da la morte
fûr sopraggiunti. In cotal guisa in prima
stette la porta agli avversari aperta;
poi chiusa escluse i suoi, che fuori in preda
restando de' nemici, ai lor piú cari,
che morir gli vedean, perché s'aprisse
supplicavano indarno. E qui tra quelli
che n'erano a difesa, e quei ch'a forza,
anzi a furia, a ruina incontro a loro
s'avventavan ne l'armi, orrenda strage
si fece e miseranda. E degli esclusi
altri in cospetto degli stessi padri,
e de le madri che dogliose grida
ne facean da le torri e da le mura,
da l'impeto cacciati o da la calca
precipitâr ne' fossi, e giú da' ponti
cadder sospinti; ed altri ne la fuga
da' sfrenati cavalli e da la cieca
lor furia trasportati, a dar di cozzo
gîr ne le chiuse porte. In su' ripari
ancor le donne (che le donne ancora
il vero della patria amore infiamma),
come giunte a l'estremo, allor che morta
vider Camilla, il femminil timore
volgono in sicurezza, e sassi e dardi
lanciando, e con aguzzi, inarsicciati
pali il ferro imitando, osano anch'elle
per la difesa delle patrie mura
gir le prime a morir morte onorata.
  A Turno intanto ne le selve arriva
Acca, la già spedita messaggiera,
con l'amara novella; un gran tumulto
portando, che l'esercito è sconfitto,
morta Camilla, annichilati i Volsci,
e i Teucri d'ogni cosa impadroniti
stanno in campagna col favor che porta
seco de la vittoria il corso e 'l nome;
assalgon la città. D'ira, di sdegno
e di furore il giovine infiammato
(ché tale era il voler empio di Giove)
da l'insidie si toglie, esce de' boschi
ov'era ascoso, e giú scende da' colli.
Smarriti non gli avea di vista a pena,
a pena era nel piano, allor ch'Enea
prese del monte; e là 'v'era l'agguato,
trovando aperto, senz'offesa anch'egli
superò 'l giogo, e de la selva uscio.
Cosí con passi frettolosi entrambi
con tutte le lor genti, e l'un da l'altro
poco lontani a la città sen vanno.
E 'nsiememente da l'un canto Enea
vide di polverio fumare i campi,
e di Laurento sventolar l'insegne;
Turno da l'altro Enea scoperse, udendo
l'annitrir de' cavalli e 'l calpestio
crescer di mano in mano. Eran vicini
sí, che venuto a zuffa ed a battaglia
si fôra anco quel dí: se non che Febo,
fatto vermiglio, i suoi stanchi destrieri
stava già per tuffar ne l'onde ibère;
onde avanti a le mura ambi accampati
di trincee si muniro e di ripari.


 

 

LIBRO DECIMOSECONDO



  Turno, poscia che vede afflitti e domi
già due volte i Latini, e non pur scemi
di forze, ma di speme e di baldanza,
da lui farsi rubelli, e che a lui solo
ognun rivolto in tanto affare attende
le pruove, le promesse e i vanti suoi,
furïoso, implacabile, inquïeto
arde, s'inanimisce, e si rinfranca
prima in se stesso. Qual massíla fera
ch'allor d'insanguinar gli artigli e il ceffo
disponsi, allor s'adira, allor si scaglia
vèr chi la caccia, che da lui si sente
gravemente ferita; e già godendo
de la vendetta, sanguinosa e fiera
con le iube s'arruffa, e con le rampe
frange l'infisso tèlo e graffia e rugge:
cosí la vïolenza era di Turno
accesa, impetüosa e furibonda;
e cosí conturbato appresentossi
al re davanti, e disse: «Indugio, o scusa
piú non fa Turno: e piú non ponno i Teucri
da quel ch'è patteggiato, e stabilito,
se non se per viltà, ritrarsi omai.
Eccomi in campo: ecco parato e pronto
sono al duello. Or fa', padre, che 'l patto
sia fermo e rato e sacro; e i sacrifici
e 'l giuramento appresta. Oggi, signore,
sii certo ch'io con le mie mani a morte
questo de l'Asia fuggitivo adduco,
e 'l difetto di tutti io solo ammendo
(stiansi pure a vedere i tuoi Latini);
o ch'ei vincendo fia padrone a voi,
e marito a Lavinia». A cui Latino
col cor sedato in tal guisa rispose:
  «Giovine valoroso, al tuo valore,
a la ferocia tua che tanto eccede
ne l'armi, io deferisco. E tu dovrai
appagarti di me, s'io, d'ogni cosa
temendo, con ragione e con maturo
consiglio in tutti i casi inveglio e curo
che 'l mio stato si salvi e la tua vita.
A te del vecchio Dauno erede e figlio,
seggio e regno non manca, oltre a le terre
di cui tu fatto hai da te stesso acquisto
per forza d'armi. Oro, favori e gradi
da Latino avrai sempre; e maritaggi
e donne d'alto affar son per lo Lazio,
e per le terre di Laurento assai.
Ma soffri ch'io ti parli, e senti, e nota
poscia quel ch'io dirò: che dirò vero,
ben che noia ti sia. Fatal divieto
mi proibiva, e gli uomini e gli dèi
m'avean vaticinando in molte guise
denunzïato, che mia figlia a nullo
io maritassi di color che chiesta
me l'avean prima. E pur dall'amor vinto
che ti port'io, dal parentado astretto
c'ho con la casa tua, mosso dal pianto
e da le preci de la donna mia,
dandola a te mi sono al fato opposto:
ho rotto fede al genero; ho con lui
presa non giusta e non sicura guerra.
  Da indi in qua tu stesso, tu che primo
soffri tante fatiche e tanti affanni,
hai veduto in che rischi, in che travagli
siam noi caduti; ché due volte rotti
in due sí gran battaglie, in questo cerchio
ne siam rinchiusi a sostentare a pena
la speranza d'Italia. Il Tebro è caldo
del nostro sangue. I campi son già bianchi
de le nostr'ossa. Ed io, folle, a che torno
tante fïate al precipizio mio?
Chi cosí da me stesso mi sottragge?
Se, Turno estinto, io nel mio regno deggio
i Troiani accettar, ché non gli accetto
or ch'egli è vivo e salvo? e ché non pongo
fine a la guerra, a la ruina espressa
del mio regno e de' miei? Che ne diranno
i Rutuli parenti? che diranne
Italia tutta, quando a morte io lasci
(voglia Dio che non sia) gir un che tanto
ama la parentela e 'l sangue mio?
Rimira de la guerra come vana
sia la fortuna. Abbi pietà del vecchio
Dauno tuo padre, che da te lontano
in Ardea se ne sta mesto e dolente».
Turno a questo parlar nulla si mosse
de la ferocia sua: crebbe piú tosto
il suo furore; e lo rimedio stesso
gli aggravò 'l male. Ei, come pria poteo
formar parola, in tal guisa rispose:
«Nulla per conto mio di me ti caglia,
signor benigno: anzi, ti prego, in grado
prendi ch'io per la lode e per l'onore
patteggi con la morte. Ed anch'io, padre,
ho le mie mani; ed anco il ferro mio
ha taglio e punta, e fa ferita e sangue.
Non sempre avrà, cred'io, la madre a canto
che di nube lo cuopra e lo trafugga
come vil femminella, e di vane ombre
seco s'involva». E, ciò detto, si tacque.
  Ma la regina, de l'audace impresa
del genero dolente e spaventata,
piangendo, e per angoscia a morte giunta,
lo tenea, lo pregava, e gli dicea:
«Turno, per queste lagrime, per quanto
t'è, se pur t'è, de l'infelice Amata
l'onor, l'amore e la salute in pregio
(già che tu sola speme, e sol riposo
sei de la mia vecchiezza: a te s'appoggia,
in te si fonda di Latino il regno,
e la sua dignitade, e la sua casa
che ruina minaccia) in don ti chieggio,
astienti di venir co' Teucri a l'arme;
ché qualunque ne segua avverso caso
sopra me cade; ch'io teco di vita
escirò pria che mai suocera o serva
io mi veggia d'Enea». Queste parole
de la madre sentí Lavinia virgo,
di rugiadose lagrime e d'un foco
di vergineo rossor le guance aspersa,
qual fôra se di purpura macchiato
fosse un candido avorio, o che di rose
si spargessero i gigli. In lei mirando
il giovine, d'amor non men che d'ira
acceso, a la regina brevemente
cosí rispose: «Ah, madre mia, ti prego,
in cosí perigliosa e dura impresa
non mi far col tuo pianto e col tuo duolo
sinistro annunzio. Ché s'a Turno è dato
che muoia, in suo poter piú non è posto
che di morire indugi». Indi a l'araldo
rivolto: «Va, - gli disse, - e da mia parte
quest'ingrata e spiacevole ambasciata
porta al frigio tiranno, che dimane
tosto che fia la rubiconda Aurora
a l'orïente apparsa, i Teucri suoi
contr'a Rutuli addur piú non s'affanni.
Stiensi l'armi de' Rutuli e de' Teucri
per mio conto in riposo. Ché tra noi
col nostro sangue a diffinir la guerra,
e di Lavinia le bramate nozze
in su quel campo a procurar ci avemo».
  Detto cosí, vèr la magion s'invia
rapidamente; addur si fece avanti
i suoi cavalli, e le fattezze e 'l fremito
notando, se ne gode, e ne concepe
speme e vittoria: ché di razza usciti
eran già d'Orizía, da cui Pilunno
ebbe giumente e corridori in dono,
che di candor la neve, e di prestezza
superavano il vento. Avean d'intorno
i valletti e gli aurighi che palpando,
forbendo e vezzeggiando, in varie guise
gli facean lieti, baldanzosi e fieri.
Fatte poscia venir l'armi, si veste
la sua corazza d'oricalco e d'oro
e dentro vi s'adatta e vi si vibra
con la persona. Imbracciasi lo scudo,
pruovasi l'elmo; e la vermiglia cresta
squassando, il brando impugna, il fido brando
da lo stesso Vulcano al padre Dauno
temprato in Mongibello a tutte pruove.
Alfine un'asta poderosa e grave,
ch'appo un'alta colonna era appoggiata
in mezzo de la casa, in man si pianta,
spoglio d'Àttore aurunco. E poiché l'ebbe
brandita e scossa: «Asta, - gridando disse, -
ch'a le mie fazïoni unqua non fosti
chiamata indarno, ora al maggior bisogno
da te soccorso imploro. Il grande Attòre
armasti in prima, or sei di Turno in mano.
Dammi che 'l corpo atterri, e la corazza
dischiodi, e 'l petto laceri e trapassi
di questo frigio effeminato eunuco;
dammi che 'l profumato, inanellato,
col ferro attorcigliato zazzerino
gli scompigli una volta, e ne la polve
lo travolga e nel sangue». In cotal guisa
dicendo, infurïava, ardea nel volto,
scintillava negli occhi, orribilmente
fremea, qual mugghia il toro allor che irato
si prepara a battaglia, e l'ira in cima
si reca de le corna, indi l'arruota
a qualche tronco, e 'l tronco e l'aura in prima
ferendo, alto co' piè sparge l'arena
e del futuro assalto i colpi impara.
  Da l'altro canto Enea, non men feroce
ne l'armi di sua madre, al fiero Marte
s'inanima e s'accinge, e del partito
che gli era per compor la guerra offerto,
si rallegra, l'accetta; e i suoi compagni
e 'l suo figlio assicura, or di se stesso
la franchezza mostrando, or le venture
de' fati rammentando e le promesse.
  Indi con la risposta al re Latino
manda chi la disfida e 'l patto accetti,
e del patto i capitoli e le leggi
stabilisca e confermi. Era de' monti
in su la cima a pena il sole apparso
de l'altro giorno, allor ch'i suoi destrieri
sorgon da l'onde, e con le nari in alto
fiamme anelando, il mondo empion di luce:
quando nel campo i Rutuli discesi
e i Teucri insieme, sotto l'alte mura,
fabbricâr lo steccato, a cui nel mezzo
i fochi e l'are di gramigna asperse
furo agli dèi d'ambe le parti eretti
comunemente; e d'ambi i sacerdoti
di bianco lino involti, e di verbena
cinti le tempie, andaro altri con l'acqua,
altri con le facelle intorno accese.
Poscia ecco degli Ausoni da l'un canto
a piene porte l'ordinate schiere
uscir da la città di picche armate;
da l'altro de' Troiani e de' Tirreni
gir l'esercito tutto in varie guise
d'abiti e d'armi; e questi incontro a quelli
non altramente ch'a battaglia instrutti.
Fra mezzo a tante mila i condottieri
ciascun da la sua parte si vedea
gir d'oro e d'ostro alteramente adorni.
E 'l gran Memmo con questi e 'l forte Asila,
e Messapo con quelli, de' cavalli
il domatore e di Nettuno il figlio.
Poscia che, dato il segno, ebbe ciascuno
chi di qua chi di là preso il suo loco,
piantâr le lance, dechinâr gli scudi.
Le donne, i vecchi, i putti e 'l volgo inerme,
di veder desïosi, altri in su' tetti,
altri in su' rivellini e 'n su le torri
stavan mirando. E non dal campo lunge
sedea Giuno in un colle, Albano or detto,
ch'allor né d'Alba il nome avea, né 'l pregio
né i sacrifici. In questo monte assisa
vedea de' Laürenti e de' Troiani
l'accolte genti, e di Latino il seggio.
Ivi la dea di Turno a la sirocchia,
che dea de' laghi era e de' fiumi anch'ella,
disse cosí: «Ninfa, de' fiumi onore,
sovr'ogni ninfa a me gioconda e cara,
tu sai come te sola ho preferita,
e come volontier del cielo a parte
meco t'ho posta. Ascolta i tuoi dolori,
perché di me dolerti unqua non possa.
Finché di Lazio la fortuna e 'l fato
me l'han concesso, io prontamente e Turno
e la tua terra e i tuoi sempre ho difeso.
Or veggio questo giovine a duello
con disegual destino esser chiamato:
veggio il dí della Parca e la nemica
forza che gli è vicina. Io questo accordo,
questa pugna veder con gli occhi miei
per me non posso. Tu, se cosa ardisci
in pro del tuo germano, ora è mestiero
che tu l'adopri; e puoi farlo, e convienti.
Fallo: e chi sa che 'l misero non cangi
ancor fortuna?» A pena avea ciò detto
che Iuturna gemendo e lagrimando
tre volte e quattro il petto si percosse.
A cui Giuno soggiunse: «E' non è tempo
da stare in pianti. Affretta; e da la morte
scampa, se scampar puossi, il tuo fratello,
o turbando l'accordo, o suscitando
nuova cagion di mischia e di tumulto.
Io son che l'impongo, e te n'affido».
Con questo la lasciò sospesa e mesta,
e d'amara puntura il cor trafitta.
  Ecco vengono al campo i regi intanto;
Latino il primo, alto in un carro assiso,
che da quattro suoi nitidi corsieri,
di gran macchina in guisa, era tirato,
e, di dodici raggi il fronte adorno,
del Sole, avo di lui, sembianza avea.
Turno traean due candidi destrieri,
con due suoi dardi in mano agili e forti.
Enea, de la romana stirpe autore,
con l'armi sue celesti e con lo scudo
che dianzi da le stelle era venuto,
uscio da l'altro canto, e seco a pari
Ascanio il figlio suo, de la gran Roma
la seconda speranza. A mano a mano
il sacerdote in pura veste involto
anzi agli accesi altari il nuovo parto
d'una setosa porca, ed una agnella
ancor non tosa al sacrificio addusse;
e vòlti a l'orïente, in atto umíle
s'inchinâr tutti; e vino e farro e sale
sparser d'ambe le parti; ambe col ferro,
sí com'era uso, a le devote belve
segnâr le tempie. Allor il padre Enea
strinse la spada, e, gli occhi al ciel rivolti,
cosí disse pregando: «Io questo sole
per testimone invoco e questa terra,
per cui tanti ho fin qui sofferti affanni;
invoco te, celeste, onnipotente,
eterno padre, e te, saturnia Giuno,
già vèr me piú benigna, e ben ti prego
che mi sii tale, e te gran Marte invoco,
ch'a l'armi imperi; e voi fonti e voi fiumi,
e voi tutti del mar, tutti del cielo
numi possenti; e vi prometto e giuro
che se Turno per sorte è vincitore
di questa pugna, il successor del vinto
gli cederà: ch'a la città d'Evandro
si ritrarrà; che mai poscia ribelle
non gli sarà: che guerra o lite o sturbo
alcun altro piú mai non gli farà.
Ma se piú tosto, come io prego, e come
spero che mi succeda, al nostro Marte
la dovuta vittoria non si froda;
io non vo' già che gl'Itali soggetti
siano a' miei Teucri, né d'Italia io solo
tener l'impero; io vo' ch'ambi del pari
questi popoli invitti aggian tra loro
governo e leggi eguali, e pace eterna.
A me basta ch'io dia ricetto e culto
a' miei numi, a' miei Teucri, e sia Latino
suocero mio, del suo regno e de l'armi
signor, rettore e donno. Io poscia altrove
altre mura ergerommi, e de' miei stessi
fien le fatiche, e di Lavinia il nome».
  Cosí pria disse Enea; cosí Latino
seguitò poi con gli occhi e con la destra
al ciel rivolto: «Ed io giuro, - dicendo, -
le stesse deità, la terra, il mare,
le stelle, di Latona ambo i gemelli,
di Giano ambe le fronti, il chiuso centro,
e la gran possa degl'inferni dii.
Odami di là su l'eterno padre,
che fulminando stabilisce e ferma
le promesse e gli accordi. I numi tutti
chiamo per testimoni: e tocco l'ara,
e tocco il foco, e questa pace approvo
dal canto mio. Né mai, che che si sia
di questa pugna, né per forza alcuna,
né per tempo sarà ch'ella si rompa
di voler mio; non se la terra in acqua
si dileguasse, non se 'l ciel cadesse
ne l'imo abisso: cosí come ancora
questo mio scettro (ché lo scettro in mano
avea per sorte) piú né fronda mai
né virgulto farà poiché reciso
dal vivo tronco, o da radice svèlto
mancò di madre, e già d'arbore ch'era,
sfrondato, diramato e secco legno
di già venuto, e d'oricalco adorno
e per man de l'artefice ridotto
in questa forma, e per quest'uso in mano
dei re latini è posto». In cotal guisa
fermati i patti e l'ostie in mezzo addotte,
tra i piú famosi, anzi a l'accese fiamme
le svenâr, le smembrâr, le svisceraro.
E sí com'eran palpitanti e vive,
le fibre ne spiâr, le diêro al foco,
n'empiêr le squadre e ne colmâr gli altari.
  Di già disvantaggioso e diseguale
questo duello a' Rutuli sembrava;
e già vari bisbigli, e vari moti
n'eran tra loro; e com' piú sanamente
si rimirava, piú di forze impàri
si vedea Turno; ed egli stesso indizio
ne diè, che lento e tacito e sospeso
entrò nel campo. E come ancor di pelo
avea le guance lievemente asperse,
orando anzi a l'altar pallido il volto
mostrossi, e chino il fronte, e grave il ciglio.
  Tale una languidezza rimirando,
e tal del volgo un sussurrare udendo
Iuturna, sua sorella, infra le schiere
gittossi, e di Camerte il volto prese.
D'alto legnaggio, di valor paterno,
e di propria virtute era Camerte
famoso in fra la gente. E tal sembrando,
già degli animi accorta, iva Iuturna
rumor diversi e tai voci spargendo:
«Ahi! che vergogna, che follia, che fallo,
Rutuli, è 'l nostro, che per tanti e tali
sola un'alma s'arrischi? Or siam noi forse
di numero a' nemici inferïori,
o d'ardire, o di forze? Ecco qui tutti
accolti i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi
che sono anco per fato a Turno infensi.
A due di noi contra un di loro a mischia
che si venisse, di soverchio ancora
fôrano i nostri. Ei che per noi combatte,
ne sarà fra gli dèi, cui s'è devoto,
in ciel riposto, e qui tra noi famoso
viverà sempre. Ma di noi che fia,
ch'or ce ne stiam sí neghittosi a bada?
La patria perderemo? e da stranieri,
e da superbi in servitude addotti,
preda e scherno d'altrui sempre saremo?
  Da questo dir la gioventú commossa
via piú s'accende, e 'l mormorio serpendo
piú cresce per le squadre. Onde i Latini
e gli stessi Laurenti, che pur dianzi
di pace eran sí vaghi e di quïete,
pensier cangiando e voglie, or l'arme tutti
gridano, tutti pregan che l'accordo
sia per non fatto; e tutti han de l'iniqua
sorte di Turno ira, pietate e sdegno.
  In questa, ecco apparir ne l'aria un mostro
per opra di Iuturna, onde turbati
e dal primo proposito distolti
fûr da vantaggio de' Latini i cuori.
Videsi per lo lito e per lo cielo
di roggio asperso un di palustri augelli
impaürito e strepitoso stuolo.
Dietro un'aquila avea, ch'a mano a mano
giuntolo de lo stagno in su la riva,
un cigno ne ghermí ch'era di tutti
il maggiore e 'l piú bello. A cotal vista
gli occhi e gli animi alzâr l'itale squadre;
e gli augei, che pur dianzi erano in fuga
(mirabile a vedere!), in un momento
stridendo si rivolsero, e ristretti
in densa nube, ond'era il ciel velato,
la nimica assaliro. E sí d'intorno
la cinser, l'aggirâr, l'attraversaro,
ch'a cielo aperto, u' dianzi erano in fuga,
le fêr gabbia, ritegno e forza, al fine
che, gravata dal peso e stretta e vinta,
de la lena mancasse e de la preda.
Il cigno dibattendosi, da l'ugne
sovra l'onde gli cadde; ed ella scarca,
da la turba fuggendo, al cielo alzossi.
  I Rutuli a tal vista con le grida
salutâr pria l'augurio: indi a la pugna
si prepararo. E fu Tolunnio il primo,
ch'augure, incontro al patto, anzi le schiere
si spinse armato, e disse: «Or questo è, questo
ch'io desïava; e questo è quel ch'io cerco
ho ne' miei vóti. Accetto e riconosco
il favor degli dèi. Me, me seguite,
Rutuli miei. Con me l'armi prendete
contro al malvagio, che di strana parte
venuto con la guerra a spaventarci,
ha voi per vili augelli, e i vostri lidi
cosí scorre e depreda. Ma ritolto
questo cigno gli fia; di nuovo al mare
in fuga se n'andrà. Voi combattendo
in guisa de la pria fugace torma,
ristringetevi insieme, e riponete
il vostro re, che v'è rapito, in salvo».
  Detto cosí, spinse il destriero, e trasse
contr'a' nimici. Andò stridendo e dritto
l'aura secando il fulminato dardo:
e 'nsieme udissi col suo rombo un grido
che insino al ciel, de' Rutuli, sentissi.
Insieme scompigliossi il campo tutto,
turbârsi i petti, ed infiammârsi i cuori.
L'asta volando giunse ove a rincontro
nove fratelli eran per sorte accolti,
che tutti d'una sola etrusca moglie
da l'arcadio Gilippo eran creati.
Un di lor ne colpí là 've nel mezzo
il cinto s'attraversa, e con la fibbia
s'afferra al fianco. Ivi tra costa e costa,
penetrando altamente, lo trafisse,
e morto in su l'arena lo distese.
Questi, il piú riguardevole ne l'armi
era degli altri, e 'l piú bello e 'l piú forte,
e gli altri come tutti eran feroci,
dal dolore infiammati incontinente
chi la spada impugnò, chi prese il dardo;
e contra il feritor tutti in un tempo
come ciechi, avventârsi. Incontro a loro
si mosser de' Laurenti e de' Latini
le genti a schiere, e d'altro lato a schiere
spinsero i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi.
Cosí d'arme e di sangue uguale ardore
surse d'ambe le parti; e l'are e 'l foco
ch'eran di mezzo, e l'ostie e le patene
n'andâr sossopra; e tal di ferri e d'aste
denso levossi e procelloso un nembo,
che 'l sol se n'oscurò, sangue ne piovve.
Grida e fugge Latino, e i numi offesi
se ne riporta, e detestando abborre
il vïolato accordo. Armasi intanto
il campo tutto; e chi frena i destrieri,
chi 'l carro appresta; e già con l'aste basse,
e con le spade ad investir si vanno.
  Messapo desïoso che l'accordo
si disturbasse, incontro al tosco Auleste
che, come re, di regal fregi adorno
e d'ostro, al sacrificio era assistente,
spinse il cavallo e spaventollo in guisa,
che mentre si ritragge infra gli altari
ch'avea da tergo, urtando, si travolse.
Messapo con la lancia incontinente
gli si fe' sopra, e sí com'era in atto
di supplicarlo, il petto gli trafisse,
«Cosí ben va, - dicendo, - or a' gran numi
porco piú grato e miglior ostia cadi».
Cadde il meschino, e fu, spirante e caldo,
sovraggiunto dagl'Itali e spogliato.
  Diè Corinèo per un gran tizzo a l'ara
di piglio; e sí com'era ardente e grave,
ad Ebuso ch'incontro gli venia,
nel volto il fulminò. Schizzonne insieme
il foco e 'l sangue; e di baleno in guisa
un lampo ne la barba gli rifulse
che diè d'arsiccio odore, indi gli corse
sopra senza ritegno; e qual trovollo
da la percossa abbarbagliato e fermo,
l'afferrò per la chioma, a terra il trasse,
col ginocchio lo strinse, e col trafiere
gli passò 'l fianco. Podalirio ad Also
pastor, che fra le schiere infurïava,
s'affilò dietro; e già col brando ignudo
gli soprastava, allor ch'Also rivolto
la gravosa bipenne ond'era armato
gli piantò nella fronte e 'nsino al mento
il teschio gli spartí, l'armi gli sparse
tutte di sangue: ond'ei cadde, e le luci
chiuse al gran buio ed al perpetuo sonno.
  Enea senz'elmo in testa, infra le genti
la disarmata destra alto levando,
e discorrendo, e richiamando i suoi:
«Dove, dove ne gite? Che tumulto, -
dicea, - che furia, che discordia è questa
cosí repente? Oh trattenete l'ire;
oh non rompete. Il patto è stabilito;
l'accordo è fatto. Solo a me concesso
è ch'io combatta. A me sol ne lasciate
la cura e 'l carco. Io, non temete, io solo
il patto vi ratifico e vi fermo
con questa sola destra; e Turno a morte
di già mi si promette, e mi si deve
da questi sacrifici». In questa guisa
gridava il teucro duce; ed ecco intanto
venir d'alto stridendo una saetta;
non si sa da qual mano, o da qual arco
si dipartisse. O caso, o dio che fosse
che tanta lode a' Rutuli prestasse,
l'onor se ne celò, né mai s'intese
chi del ferito Enea vanto si desse.
  Turno, poiché dal campo Enea fu tratto,
e turbar vide i suoi, di nuova speme
s'accese, e gridò l'armi, e sopra al carro
d'un salto si slanciò, spinse i cavalli
infra' nemici, e molti a morte dienne.
Molti ne sgominò, molti n'infranse,
e con l'aste, fuggendo, ne percosse.
Qual è de l'Ebro in su la fredda riva
il sanguinoso Marte, allor ch'entrando
ne la battaglia, o con lo scudo intuona,
o fulmina con l'asta, e i suoi cavalli
da la furia e da lui cacciati e spinti
ne van co' venti a gara, urtando i vivi,
e calpestando i morti; e fan col suono
de' piè fino agli estremi suoi confini
tremar la Tracia tutta, e van con essi
lo spavento, il timor, l'insidie e l'ire,
del bellicoso iddio seguaci eterni;
in cosí fiera e spaventosa vista
se ne gia Turno, la campagna aprendo,
uccidendo, insultando e di nemici
miserabil ruina e strage e strazio
or con l'armi facendo, or co' destrieri
che sudanti, fumanti e polverosi,
spargean di sangue e di sanguigna arena
con le zampe e con l'ugne un nembo intorno.
Stènelo, ne l'entrar, Tàmiro e Polo
condusse a morte; i due primi da presso,
l'ultimo da lontano. E da lunge anco
Glauco percosse e Lado; i due famosi
figli d'Imbraso, ne la Licia nati,
da lui stesso nutriti, e parimente
a cavalcare e guerreggiare instrutti.
  Da l'altra parte Eumède il chiaro germe
de l'antico Dolone. Il nome avea
costui de l'avo, e l'ardimento e i fatti
seguia del padre, che de' Greci il campo
spïare osando, osò d'Achille ancora
in premio de l'ardir chiedere il carro.
Ma d'altro che di carro premïollo
il figlio di Tidèo; né però degno
d'un tanto guiderdone unqua si tenne.
Turno, poscia che 'l vide (che da lunge
lo scòrse) con un dardo il giunse in prima:
indi a terra gittossi: e qual trovollo
di già caduto e moribondo, il piede
sopr'al collo gl'impresse, e ne la strozza
lo suo stesso pugnal cacciogli, e disse:
«Troiano, ecco l'Italia, ecco i suoi campi,
che tanto desïasti: or gli misura
costí giacendo. E questo si guadagna
chi contra a Turno ardisce; e 'n questa guisa
si fondan le città». Dietro a costui
Bute, e di mano in man Darete, Cloro
e Síbari e Tersíloco e Timete
lanciando, uccise. Ma Timete in terra
ferí, che per sinistro o per difetto
d'un suo restio cavallo era caduto.
  Qual sopra al grande Egeo sonando scorre
il tracio Bora, che le nubi e i flutti
si sgombra avanti; e questi ai lidi, e quelle
a l'orizzonte in fuga se ne vanno:
tal per lo campo, ovunque si rivolge,
fa Turno sgominar l'armi e le schiere;
e tal seco ne va furia e spavento,
che financo al cimier morte minaccia.
  Fegèo, tanta fierezza e tanto orgoglio
non sofferendo, al concitato carro
parossi avanti, e lievemente un salto
spiccando, con la destra al fren s'appese
del sinistro corsiero. E sí com'era
da la fuga rapito e da la forza
di tutti insieme, insiememente a tutti
(dal sentier divertendoli e dal corso)
facea storpio e disturbo. Ed ecco al fianco
che da la destra parte era scoperto,
cotal sentissi de la lancia un colpo
che la corazza ancor che doppia e forte,
stracciogli, e 'n fino al vivo lo trafisse
ma di lieve puntura. Ond'ei rivolto,
e 'mbracciato lo scudo e stretto il brando,
contra gli s'affilava, e per soccorso
gridava intanto. Ma la ruota e l'asse
ch'erano in moto, urtandolo, a rovescio
gittârlo, e Turno immantinente addosso
sagliendogli, infra l'elmo e la gorgiera
il collo gli recise, e dal suo busto
tronco il capo lasciogli in su l'arena.
  Mentre cosí vincendo e d'ogni parte
con tanta strage il campo trascorrendo
se ne va Turno; Enea dal fido Acate,
da Memmo e dal suo figlio accompagnato
(come da la saetta era ferito),
sovr'un'asta appoggiato, a lento passo
verso gli alloggiamenti si ritragge.
Ivi contro a lo stral, contro a se stesso
s'inaspra e frange il tèlo, di sua mano
ripesca il ferro. e poi che indarno il tenta,
comanda che la piaga gli s'allarghi
con altro ferro, e d'ogn'intorno s'apra,
sí che tosto dal corpo gli si svelga,
e tosto alla battaglia se ne torni.
Comparso intanto era a la cura Iapi
d'Iäso il figlio, sovr'ogn'altro amato
da Febo. E Febo stesso, allor ch'acceso
era da l'amor suo, la cetra e l'arco
e 'l vaticinio, e qual de l'arti sue
piú l'aggradasse, a sua scelta gli offerse.
Ei che del vecchio infermo e già caduco
suo padre la salute e gli anni amava,
saper de l'erbe la possanza, e l'uso
di medicare elesse, e senza lingua
e senza lode e del futuro ignaro
mostrarsi in pria, che non ritorre a morte
chi li diè vita. A la sua lancia Enea
stava appoggiato, e fieramente acceso
fremendo, avea di giovani un gran cerchio
col figlio intorno, al cui tenero pianto
punto non si movea. Sbracciato intanto
e con la veste e la cintura avvolta,
qual de' medici è l'uso, il vecchio Iapi
gli era d'intorno; e con diverse pruove
di man, di ferri, di liquori e d'erbe
invan s'affaticava, invano ogn'opra,
ogn'arte, ogni rimedio, e i preghi e i vóti
al suo maestro Apollo eran tentati.
  De la battaglia rinforzava intanto
lo scompiglio e l'orrore; e già 'l periglio
s'avvicinava; già di polve il cielo,
di cavalieri il campo era coverto;
che fin dentro a' ripari e fra le tende
ne cadevano i dardi; e già da presso
s'udian de' combattenti e de' caduti
i lamenti e le grida. Il caso indegno
d'Enea suo figlio, e 'l suo stesso dolore
in sé Ciprigna e nel suo cor sentendo,
ratto v'accorse, e fin di Creta addusse
di dittamo un cespuglio, che recente
di sua man còlto, era di verde il gambo,
di tenero le foglie, e d'ostro i fiori
tutto consperso e rugiadoso ancora.
Quest'erba per natura ai capri è nota,
e da lor cerca allor che 'l tergo o 'l fianco
ne van di dardo o di saetta infissi.
Con questa Citerèa per entro un nembo
ne venne ascosa, e col salubre sugo
d'ambrosia e d'odorata panacea
mischiolla, e poscia i tiepidi liquori
ch'eran già presti in tal guisa ne sparse,
che nïun se n'avvide. E n'ebbe a pena
la piaga infusa, che l'angoscia e 'l duolo
cessò repente, il sangue d'ogni parte
de la ferita in fondo si raccolse,
e seguendo la mano, il ferro stesso
come da sé n'uscio. Spedito e forte,
e nel pristino suo vigor ridotto,
Enea dritto levossi. Iäpi il primo:
«A che, - disse, - badate? e perché l'arme
tosto non gli adducete?» Indi a lui vòlto,
contro a' nemici in tal guisa infiammollo:
«Enea, non è, non è per possa umana
o per umano avviso o per mia cura
questo avvenuto. Un dio, certo un gran dio
a gran cose ti serba». In questo mezzo
ei, già di pugna desïoso, entrambi
s'avea gli stinchi di dorata piastra,
il dorso di lorica, e la sinistra
di scudo armata. E già l'asta squassando,
d'indugio impazïente, in su la soglia
tanto sol de la tenda si ritenne,
che, sí com'era di tutt'armi involto,
il caro Iulo caramente accolse,
e con le labbia a pena entro l'elmetto
baciollo, e disse: «Figlio mio, da me
la sofferenza e la virtute impara;
la fortuna dagli altri. Io, quel che posso
or con questa mia destra ti difendo:
onor, grandezza e signoria t'acquisto
col sangue mio. Tu poi, quando maturi
fian gli anni tuoi, fa che d'Enea tuo padre
e d'Ettore tuo zio sí ti rammenti,
che ti sian le fatiche e i gesti loro
a gloria ed a vertute esempi e sproni».
  Detto cosí, fuor de le porte uscendo,
brandí la lancia, e tutti in un drappello
ristrinse i suoi. Memmo ed Antèo con esso,
e quanti altri del vallo erano in prima
lasciati a guardia, il vallo abbandonando,
dietro gli s'inviaro. Allor di polve
levossi un nembo, e d'ogn'intorno scossa
al calpitar de' piè tremò la terra.
  Turno di sopra un argine mirando,
questa gente venir si vide incontro.
Viderla, e ne temero e ne tremaro
gli Ausoni tutti. Udinne il suon da lunge
Iuturna in prima, e per timore indietro
se ne ritrasse. Enea volando, al campo
spinse lo stuol, che polveroso e scuro
tal se n'andò qual d'alto mare a terra
squarciato nembo, quando, ohimè! che segno
e che spavento, e che ruina apporta
ai miseri coloni! e quanta strage
agli alberi, a le biade, a la vendemmia
se ne prepara! e qual se n'ode intanto
sonar procella, e venir vento a riva!
Cotal contro a' nemici il teucro duce
co' suoi, come in un gruppo insieme uniti,
entrò ne la battaglia. Al primo incontro
Osiri, Archezio, Ufente ed Epulone
ne gir per terra. Acate e Memmo e Gia
e Timbrèo gli affrontaro, e ciascun d'essi
atterrò 'l suo. Cadde Tolunnio appresso,
l'augure che primiero il dardo trasse
nel turbar de l'accordo. Al suo cadere
tutto in un tempo empiessi il ciel di grida,
la campagna di polve; e vòlti in fuga
se ne giro i Latini. Enea sdegnando
e di seguire e d'incontrar qual fosse
pedone o cavalier, che o lunge o presso
di provocarlo e di ferirlo osasse,
sol di Turno cercando iva per entro
quella densa caligine, e 'l suo nome
solamente gridando, a la battaglia
lo disfidava. Impaürita e mesta
di ciò Iuturna, la virago ardita,
tosto di Turno al carro appropinquossi,
e giú Metisco, il suo fedele auriga,
subito trabocconne. Ed ella in vece
e 'n sembianza di lui, lui stesso al corpo,
a l'armi, a la favella, ad ogni moto
rassomigliando, in seggio vi si pose,
e ne prese le redini, e lo resse.
  Qual ne va negra rondine alïando
per le case de' ricchi, allor che piume
e fuscelletti al cominciato nido
quinci e quindi rauna, o picciol'esca
a' suoi loquaci pargoletti adduce;
che sotto a' porticali e sopra l'acque,
e per gli atri volando e per le sale
or alto or basso si travolve e gira;
cotal Iuturna il campo attraversando
per ogni parte si spingea col carro
e co' destrieri infra i nemici a volo,
sovente a loco a loco il suo fratello
vincitor dimostrando, e non soffrendo
che punto dimorasse, o ch'a rincontro,
o pur vicino al gran Teucro ne gisse.
Enea da l'altro canto incontro a lui
volgendo, e rivolgendo, e fra le schiere
cosí com'eran dissipate e sparse
indarno ricercandolo, il chiamava
ad alta voce. E mai gli occhi non torse
ov'ei si fusse, e dietro non gli mosse,
ch'ella co' suoi corsieri in piú diversa
e piú lontana parte non fuggisse.
Or che farà, ch'ogni pensiero, ogni opra,
ogni disegno gli rïesce invano?
e i pensier son diversi? Ecco Messapo,
che per lo campo discorrendo intanto
d'improvviso l'incontra. E sí com'era
d'una coppia di dardi a la leggiera
ne la sinistra armato, un ne gli trasse
dritto sí che feria; se non ch'Enea
gli fece schermo, e rannicchiato e stretto
chinossi alquanto. E pur ne l'elmo il colse
e 'l cimier ne divelse. Irato surse;
e poiché da' nemici attorneggiato
si vide, e che i cavalli eran di Turno
di già spariti, a Giove, ai sacri altari
del vïolato accordo e de l'insidie
molto si protestò: poscia tra loro
gittossi impetuoso, e strazio e strage
prosperamente, ovunque si rivolse,
ne fece a tutto corso; e senza freno
si diede a l'ira ed a la furia in preda.
  Or qual nume sarà ch'a dir m'aíti
le tante occisïoni e sí diverse
che di duci e di schiere e di falangi
fecer quel giorno, Enea da l'una parte,
Turno da l'altra? Ah, Giove, sí crudele,
sí sanguinosa guerra infra due genti
che saran poscia eternamente in pace?
  Enea Sucrone, un de' piú forti Ausoni
occise in prima, e primamente i Teucri
fermò, ch'eran da lui rivolti in fuga.
L'incontrò, lo ferí, senza dimora
morto a terra il gittò; ch'in un de' fianchi
con la spada lo colse, e ne le coste
e ne la vita stessa ne gl'immerse.
  Turno a piè dismontato, Àmico in terra,
che da cavallo era caduto, infisse:
e seco il frate suo Dïoro estinse.
L'un di lancia ferí, l'altro di brando;
e d'ambi i capi dai lor tronchi avulsi,
sí com'eran di polvere e di sangue
stillanti e lordi, per le chiome appesi
anzi al carro si pose. E via seguendo
quegli Talone e Tànai e Cetègo
tre feroci Latini ad un assalto
si stese avanti, e 'l mesto Onite appresso
figlio di Peridía, gloria di Tebe.
E tre dal canto suo questi n'ancise
ch'eran fratelli de la Licia usciti
e de' campi d'Apollo; a cui per quarto
Menete aggiunse. Ah, come il fato indarno
si fugge! Infin d'Arcadia fu costui
qui condotto a morire. E 'n su la riva
era nato di Lerna, ove pescando,
da l'armi, da le corti e da' palagi
si tenea lunge; e solo il suo tugurio
avea per reggia, e per signore il padre,
povero agricoltor de' campi altrui.
  Come due fochi in due diverse parti
d'un secco bosco accesi, ardon sonando
le querce e i lauri; o due rapidi e gonfi
torrenti che nel mar dagli alti monti
precipitando, se ne va ciascuno
il suo cammino aprendo, e ciò che truova
si caccia avanti e rumoreggia e spuma;
cosí per la campagna, ambi fremendo,
le schiere sgominando, e questi e quelli
atterrando ne gian, da l'una parte
Enea, Turno da l'altra. Or sí che d'ira,
or sí che di furor si bolle e scoppia,
e con tutte le forze a ferir vassi;
ché l'esser vinto, e non la morte è morte.
E qui Murrano (un che superbo e gonfio,
del nome e de l'origine vantando
se ne gia degli antichi avi e bisavi
latini regi) fu d'un balzo a terra
da la furia d'Enea spinto e travolto;
sí che di lui, del carro e de le ruote
fatto un viluppo, i suoi stessi cavalli,
il signore oblïando, incrudelîrsi,
e sotto al giogo e sotto ai calci accolto
l'infranser, lo pigiâr, lo strascinaro
e l'ancisero alfine. Ilo, che fiero
e minaccioso avanti gli si fece,
seguí Turno a ferir di dardo, in guisa
che de l'elmetto la dorata piastra
e le tempie e 'l cerèbro gli trafisse.
Né tu, Crèteo, di man di Turno uscisti,
perché de' piú robusti e de' piú forti
fosti de' Greci. Né di man d'Enea
scampâr Cupento i suoi numi invocati:
ché nel petto ferillo, e non gli valse
lo scudo che di bronzo era coverto.
E tu che contra a tante argive schiere
e contra al domator di Troia Achille,
Eölo, non cadesti, in questi campi
fosti, qual gran colosso, a terra steso.
Ma che? Quest'era il fin de' giorni tuoi:
qui cader t'era dato. Appo Lirnesso
altamente nascesti: appo Laurento
umil sepolcro avesti. Eran già tutti
quinci i Latini e quindi i Teucri a fronte,
e tra lor mescolati Asila e Memmo,
e Seresto e Messapo, e le falangi
degli Arcadi e de' Toschi, ognun per sé,
e tutti insieme con estrema possa,
con estremo valor senza riposo
facean mortale e sanguinosa mischia.
  Qui nel pensiero al travagliato figlio
pose Ciprigna di voltar le schiere
subitamente a le nimiche mura,
e con quel nuovo, inopinato avviso
assalir, disturbare, e l'oste insieme
e la città por de' Latini in forse.
E sí come, di Turno investigando,
volgea le luci in questa parte e 'n quella,
vide Laurento che non tocco ancora
stava da tanta guerra immune e scevro.
E da l'occasïon subitamente
preso consiglio, a sé Memmo, Seresto
e Sergesto chiamando, indi vicino
sovr'un colle si trasse, ove de' Teucri
a mano a man si raunâr le schiere.
E sí come raccolti, armati e stretti
s'eran già fermi, in mezzo alto levossi
e cosí disse: «Udite, e senza indugio
fate quel ch'io dirò. Giove è con noi.
E perché sí repente io mi risolva
a questa impresa, non però di voi
alcun sia che men pronto vi si mostri.
Oggi o che re Latino al nostro impero
converra ch'obbedisca e freno accetti;
o che questa città, seme e cagione
di questa guerra, e questo regno tutto
a foco, a ferro ed a ruina andranne.
E che deggio aspettar? Che non piú Turno
fugga, si come fa, la pugna mia?
E che vinto una volta, si contenti
di combattere un'altra? Il capo e 'l fine,
cittadin miei, di questa guerra è questo.
Via, col foco a le mura, e con le fiamme
ne vendichiam del vïolato accordo».
  Avea ciò detto, quando ognuno a gara
e tutti insieme inanimati e stretti
di conio in guisa, qual intera massa,
appressâr la città. Vi furon preste
le scale e 'l foco. Altri assalîr le porte,
e questi e quelli occisero e cacciaro,
come pria s'abbattero. Altri lanciando
oppugnâr la muraglia; onde levossi
di terra un nembo che fece ombra al sole.
  Enea sotto le mura attorneggiato
da' primi suoi, la destra alto e la voce
levando, or con Latino or con gli dèi
si protestava, che due volte a l'armi
era forzato e che due volte il patto
gli si turbava. I cittadini intanto
facean tumulto. E chi volea che dentro
si chiamassero i Teucri e che le porte
fossero aperte, il re fin su le mura
a ciò traendo;, e chi l'armi gridando
s'apprestava a difesa. Era a vederli
qual è di pecchie entro una cava rupe
accolto sciame allor che dal pastore
d'amaro fumo è la caverna offesa;
che trepide, confuse e d'ira accese,
per l'incerate fabbriche travolte,
discorrendo e ronzando se ne vanno:
al cui stridor l'affumigata grotta
mormora, e tetro odore a l'aura esala.
  In questo tempo un infortunio orrendo,
timor, confusïone e duolo accrebbe
agli afflitti Latini, e pose in pianto
il popol tutto: e fu che la reina,
visto da lunge incontro a la cittade
venire i Teucri, e già le faci e l'armi
volar per entro, e piú nulla sentendo
o vedendo de' Rutuli o di Turno,
onde aíta o speranza le venisse,
si credé la meschina che già l'oste
fosse sconfitto, e, 'l genero caduto,
ogni cosa in ruina. E presa e vinta
da súbito dolore, alto gridando:
«Ah! ch'io la colpa, - disse - io la cagione,
io l'origine son di tanto male».
E dopo molto affliggersi e dolersi,
già furïosa e di morir disposta,
il petto aprissi, e la purpurea veste
si squarciò, si percosse, e dell'infame
nodo il collo s'avvinse, e strangolossi.
  Udito il caso, la diletta figlia
i biondi crini e le rosate guance
prima si lacerò, poscia la turba
v'accorse de le donne, e di tumulto,
di pianti, di stridori e d'ululati
la reggia tutta e la cittade empiessi.
Ognun si sgomentò. Latino, afflitto
de la morte d'Amata e del periglio
del regno tutto, lanïossi il manto,
bruttossi il bianco e venerabil crine
d'immonda polve; amaramente pianse
che per suocero dianzi e per amico
non si confederò col frigio duce.
  Turno, che in questo mezzo combattendo
rimaso era del campo in su l'estremo
incontro a pochi, e quelli anco dispersi,
già scemo di vigore, e trasportato
da' suoi cavalli, che ritrosi e stanchi
ognor piú se n'andavano lontani,
in sé confuso e dubbio se ne stava.
Quando ecco di Laurento ode le grida
con un terror che, non compreso ancora,
gli avea da quella parte il vento addotto.
Porse l'orecchie, e 'l mormorio sentendo
de la città, che tuttavia piú chiaro
di tumulto sembrava e di travaglio:
«Oh, - disse, - che sent'io? che novitate
e che rumore e che trambusto è questo
che di dentro mi fère?». E, quasi uscito
di sé, mirando ed ascoltando stette.
Cui la sorella (come già conversa
era in Metisco, e come i suoi cavalli
stava reggendo) si rivolse, e disse:
«Di qua, Turno, di qua. Quinci la strada
ne s'apre a la vittoria. Altri a difesa
saran de la città. Se d'altra parte
Enea de' tuoi fa strage, e tu da questa
distruggi i suoi, che mon men gloria aremo,
e piú sangue faremo». E Turno a lei:
«O mia sorella! (che mia suora certo
sei tu) ben ti conobbi infin da l'ora
che turbasti l'accordo, e che poi meco
ne la battaglia entrasti. Or, benché dea,
indarno mi t'ascondi. E chi dal cielo
cosí qua giú ti manda a soffrir meco
tante fatiche? A veder forse a morte
gir tuo fratello? E che, misero! deggio
far altro mai? qual mi si mostra altronde
o salute o speranza? Io stesso ho visto
con gli occhi miei, lo mio nome chiamando,
cadere il gran Murrano. E chi mi resta
di lui piú fido e piú caro compagno?
E 'l magnanimo Ufente anco è perito,
credo, per non veder le mie vergogne:
e 'l corpo e le armi sue, lasso! in potere
son de' nemici. E soffrirò (ché questo
sol ci mancava) di vedermi avanti
aprir le mura, e ruinare i tetti
de la nostra città? Né fia che Drance
menta de la mia fuga? E fia che Turno
volga le spalle, e quella terra il vegga?
Sí gran male è morire? inferni dii,
accoglietemi voi, poiché i superni
mi sono infesti. A voi di questa colpa
scenderò spirto intemerato e santo,
e non sarò de' miei grand'avi indegno».
  Ciò disse a pena; ed ecco a tutta briglia
venir per mezzo a le nemiche schiere
un cavalier che Sage era nomato.
Di spuma e di sudore il suo cavallo,
e di sangue era sparso. In volto infissa
portava una saetta, e con gran furia
Turno chiamando e ricercando andava.
  Poscia che 'l vide: «In te, - disse, - è riposta
ogni speranza: abbi pietà de' tuoi.
Enea va come un folgore atterrando
tutto ciò che davanti gli si para;
e le mura e le torri e 'l regno tutto
di ruinar minaccia; e già le faci
volano ai tetti. A te gli occhi rivolti
son de' Latini. E già Latino stesso
vacilla, e fra due stassi a qual di voi
s'attenga, e di cui suocero s'appelli.
La regina che solo era sostegno
de la tua parte, di sua propria mano,
per timore e per odio de la vita,
s'è strangolata. Solamente Atina
e Messapo a difesa de le porte
fan testa; ma gli vanno i Teucri a schiere
con tant'aste a rincontro e tante spade
serrati insieme, quante a pena in campo
non son le biade. E tu per questa vòta
e deserta campagna il carro indarno
spingendo e volteggiando te ne stai?»
  Turno da tante orribili novelle
sopraggiunto in un tempo e spaventato,
si smagò, s'ammutí, col viso a terra
chinossi. Amor, vergogna, insania e lutto
e dolore e furore e coscïenza
del suo stesso valore accolti in uno,
gli arsero il core e gli avvamparo il volto.
  Ma poscia che gli fu la nebbia e l'ombra
de la mente sparita, e che la luce
gli si scoprí de la ragione in parte:
cosí com'era ancor turbato e fero,
di sopra al carro a la città rivolse
l'ardente vista. Ed ecco in su le mura
vede che una gran fiamma al cielo ondeggia,
gli assiti, i ponti e le bertesche ardendo
d'una torre ch'a guardia era da lui
de la muraglia in su le ruote eretta.
E disse: «Già, sorella, già son vinto
dal mio destino. A che piú m'attraversi?
Via, dove la fortuna e dio ne chiama!
Fermo son di venir col Teucro a l'armi,
e soffrir de la pugna e de la morte
ogni acerbezza, anzi che tu mi vegga
de la gloria de' miei, sorella, indegno.
Or al fato mi lascia e sostien ch'io
disfoghi infurïando il mio furore».
  Cosí dicendo, fuor del carro a terra
gittossi incontinente, e la sirocchia
lasciando afflitta, via per mezzo a l'armi
e per mezzo a' nemici a correr diessi.
  Qual di cima d'un monte in precipizio
rotolando si volge un sasso alpestro,
che dal vento o dagli anni o da la pioggia
divelto, per le piagge a scosse, a balzi
vada senza ritegno, e de le selve
e degli armenti e de' pastori insieme
meni guasto, ruina e strage avanti;
tal per l'opposte e sbaragliate schiere
se ne gia Turno. E giunto ove in cospetto
de la città di molto sangue il campo
era già sparso, e pien di dardi il cielo,
alzò la mano, e con gran voce disse:
  «State, Rutuli, a dietro; e voi, Latini,
toglietevi da l'armi. Ogni fortuna,
qual ch'ella sia di questa pugna, è mia.
A me la colpa, a me si dee la pena
del vïolato accordo: a me per tutti
pugnar debitamente si conviene».
  A questo dir di mezzo ognun si tolse,
ognun si ritirò. Di Turno il nome
Enea sentendo, il cominciato assalto
dismise e da le mura e da le torri
e da tutte l'imprese si ritrasse.
Per letizia esultò, terribilmente
fremé, si rassettò, si vibrò tutto
nell'armi, e 'n sé medesmo si raccolse;
quanto il grand'Ato, o 'l grand'Erice a l'aura
non sorge a pena, o 'l gran padre Appennino,
allor che d'elci la fronzuta chioma
per vento gli si crolla, e che di neve
gioioso alteramente s'incappella.
I Rutuli, i Latini, i Teucri, e tutti
o ch'a la guardia o ch'a l'offesa in prima
fosser de la muraglia, ognuno a gara
l'armi deposte, a rimirar si diêro.
Latino esso re stesso spettatore
ne fu con meraviglia, ch'anzi a lui
altri due re sí grandi, e di due parti
del mondo sí diverse e sí remote,
fosser de l'armi al paragon venuti.
  Eglino, poiché largo e sgombro il campo
ebber davanti, non si fur da lunge
veduti a pena, che correndo entrambi
mosser l'un contra l'altro. I dardi in prima
s'avventâr di lontano, indi s'urtaro;
e 'l tonar degli scudi e 'l suon degli elmi
fe' la terra tremare, e l'aura ai colpi
fischiò de' brandi. La fortuna insieme
si mischiò col valore. In cotal guisa
sopra al gran Sila o del Taburno in cima,
d'amore accesi, con le fronti avverse
van due tori animosi a riscontrarsi;
che pavidi in disparte se ne stanno
i lor maestri, s'ammutisce e guarda
la torma tutta, e le giovenche intanto
stan dubbie a cui di lor marito e donno
sia de l'armento a divenir concesso:
ed essi urtando, con le corna intanto
si dan ferite, che le spalle e i fianchi
ne grondan sangue, e ne rimugghia il bosco;
tal del troiano e dell'ausonio duce
era la pugna e tal de le percosse
e degli scudi il suono. A questo assalto
il gran Giove nel ciel librate e pari
tenne le sue bilance, e d'ambi il fato,
contrapesando, attese a qual di loro
desse la sua fatica e 'l suo valore
de la vittoria o de la morte il crollo.
  Qui Turno a tempo, che sicuro e destro
gli parve, alto levossi, e con la spada
di tutta forza a l'avversario trasse,
e ne l'elmo il ferí. Gridaro i Teucri,
trepidaro i Latini, e sgomentârsi
tutte d'ambi gli eserciti le schiere.
Ma la perfida spada in mezzo al colpo
si ruppe, e 'n sul fervore abbandonollo,
sí che la fuga in sua vece gli valse:
ch'a fuggir diessi, tosto che la destra
disarmata si vide, e che da l'else
l'arme conobbe che la sua non era.
  È fama che da l'impeto accecato,
allor che prima a la battaglia uscendo
giunse Turno i cavalli e 'l carro ascese,
per la confusïone e per la fretta
lasciato il patrio brando, a quel di piglio
diè per disavventura, che davanti
gli s'abbatté del suo Metisco in prima.
E questo, fin che dissipati e rotti
n'andaro i Teucri, assai fedele e saldo
lungamente gli resse. Ma venuto
con l'armi di Vulcano a paragone
(come quel che di mano era costrutto
di mortal fabbro) mal temprato e frale,
qual di ghiaccio, si franse e ne la sabbia
ne rifulsero i pezzi. E cosí Turno
fuggendo, or quinci or quindi per lo campo,
qual forsennato, indarno s'aggirava,
d'ogni parte rinchiuso; che da l'una
lo serravano i Frigi e la palude,
e 'l fosso e la muraglia era da l'altra,
e non men ch'ei fuggisse, il teucro duce
(come che da la piaga ancor tardato
fosse de la saetta, e le ginocchia
si sentisse ancor fiacche) il seguitava.
L'ardente voglia, e la speranza eguale
a la téma di lui, sí lo spingea,
che già già gli era sopra, e già 'l feria.
Cosí cervo fugace o da le ripe
chiuso d'un alto fiume, o circondato
da le vermiglie abbominate penne,
se da veltro è cacciato o da molosso
che correndo e latrando lo persegua,
di qua di lui, di là del precipizio
temendo e degli strali e degli agguati,
fugge, rifugge, si travolge e torna
per mille vie; né dal feroce alano
è però meno atteso e men seguíto,
che mai non l'abbandona; e già gli è presso
a bocca aperta, e già par che l'aggiunga,
e 'l prenda e 'l tenga, e come se 'l tenesse,
schiattisce, e 'l vento morde, e i denti inciocca.
  Allor le grida alzârsi, a cui le rupi
de' monti e i laghi intorno rispondendo,
l'aria e 'l ciel tutto di tumulto empiero.
Mentre cosí fuggia Turno, gridando
e rampognando i suoi, del proprio nome
ciascun chiamava, e 'l suo brando chiedea.
  Enea da l'altra parte, minacciando
a tutti unitamente ed a qualunque
di sovvenirlo e d'appressarlo osasse,
che faria delle genti occisïone
senza pietà, ch'a sacco, a ferro, a foco
metteria la cittade e 'l regno tutto,
sí com'era ferito, il seguitava.
  Cinque volte girando il campo tutto,
e cinque rigirando, e molte e molte
di qua di là correndo, imperversaro;
ché non per gioco, non per lieve acquisto
d'onor, ma per l'imperio, per lo sangue,
per la vita di Turno era il contrasto.
Per sorte in questo loco anticamente
era a Fauno sacrato un oleastro
d'amare foglie, venerabil legno
a' naviganti che dal mare usciti
a salvamento, al tronco, ai rami suoi
lasciavano i lor vóti e le lor vesti
a questo dio de' Laürenti appese.
Non ebbero i Troiani a questo sacro
piú ch'agli altri profani arbori o sterpi
alcun riguardo; onde con gli altri tutti
lo distirpâr, perché netto e spedito
restasse il campo al marzïale incontro.
  De l'oleastro in loco era caduta
l'asta d'Enea: qui l'impeto la trasse;
qui si tenea tra le sue barbe infissa.
E qui per ricovrarla il teucro duce
chinossi, e per far pruova se con essa
lanciando lo fermasse almen da lunge,
poi ch'appressar correndo nol potea.
  Allor per téma in sé Turno confuso:
«Abbi, Fauno, di me cura e pietate, -
disse, pregando, - e tu, benigna terra,
sii del suo ferro a mio scampo tenace,
se i vostri sacrifici e i vostri onori
io mai sempre curai, che pur da' Frigi
son cosí vilipesi e profanati».
  Ciò disse, e non fu 'l detto e 'l vóto in vano:
ch'Enea molta fatica e molto indugio
mise intorno al suo tèlo, né con forza,
né con industria alcuna ebbe possanza
mai di sferrarlo. Or mentre vi s'affanna
e vi studia e vi suda, ecco Iuturna
un'altra volta ne lo stesso auriga
mutata gli si mostra, e la sua spada
al fratello appresenta. E d'altra parte
Venere, disdegnando che la ninfa
cotanto osasse, incontinente anch'ella
accorse al figlio, e l'asta gli divelse.
Cosí d'arme, di speme e d'ardimento
ambidue rinforzati, e l'un del brando,
l'altro de l'asta altero, un'altra volta
a vittoria anelando s'azzuffaro.
Stava Giuno a mirar questa battaglia
sovr'un nembo dorato, allor che Giove
cosí le disse: «E che faremo alfine,
donna? E che far ci resta? Io so che sai,
e tu l'affermi, che da' fati Enea
si deve al cielo, e che tra noi s'aspetta.
Ch'agogni piú? Che macchini, e che speri?
A che tra queste nubi or ti ravvolgi?
Convenevol ti sembra e degna cosa
che mortal ferro a vïolar presuma
un che fia Divo? E ti par degno e giusto
ch'a Turno in man la spada si riponga
quando egli stesso la si tolse e ruppe?
E l'avria senza te Iuturna osato,
non che potuto, a crescer forza ai vinti?
Togliti giú da questa impresa omai,
togliti; e me, che te ne prego, ascolta:
né soffrir che 'l dolor, ch'entro ti rode,
cangiando il dolce tuo sereno aspetto,
sí ti conturbi, e sí spesso cagione
mi sia d'amaritudine e di noia.
Quest'è l'ultima fine. Assai per mare,
assai per terra hai tu fin qui potuto
a vessare i Troiani, a muover guerra
cosí nefanda, a scompigliar la casa
del re Latino, e 'ntorbidar le nozze,
sí come hai fatto. Or piú tentar non lece;
ed io tel vieto». E qui Giove si tacque.
  Abbassò 'l volto, ed umilmente a lui
cosí Giuno rispose: «Io, perché noto
m'è, signor mio, questo tuo gran volere,
ancor contra mia voglia abbandonata
ho l'aíta di Turno, e qui da terra
mi son levata. Che se ciò non fosse,
me cosí solitaria non vedresti,
com'or mi vedi, in queste nubi ascosa,
e disposta a soffrir tutto ch'io soffro
degno e non degno; ma di fiamme cinta
mi rimescolerei per la battaglia
a danno de' Troiani. Io, solo in questo,
tel confesso, a Iuturna ho persüaso
ch'al suo misero frate in sí grand'uopo
non manchi di soccorso, e ch'ogni cosa
tenti per la salute e per lo scampo
de la sua vita. E non però le dissi
giammai che l'arco e le saette oprasse
incontr'Enea. Tel giuro per la fonte
di Stige, quel ch'a noi celesti numi
solo è nume implacabile e tremendo.
Ora per obbedirti e perché stanca
di questa guerra e fastidita io sono,
cedo e piú non contendo. E sol di questo
desio che mi compiaccia (e questo al fato
non è soggetto), che per mio contento,
per onor de' Latini, per grandezza
e maestà de' tuoi, quando la pace,
l'accordo e 'l maritaggio fia conchiuso
(che sia felicemente), il nome antico
di Lazio e de le sue native genti,
l'abito e la favella non si mute:
né mai Teucri si chiamino e Troiani.
Sempre Lazio sia Lazio, e sempre Albani
sian d'Alba i regi, e la romana stirpe
d'italica virtú possente e chiara.
Poiché Troia perí, lascia che pèra
anco il suo nome». A ciò Giove sorrise,
e cosí le rispose: «Ah! sei pur nata
ancor tu di Saturno, e mia sorella,
e consenti che l'ira e l'acerbezza
cosí ti vinca? Or, come follemente
la concepisti, il cor te ne disgombra
omai del tutto. E tutto io ti concedo
che tu domandi, e vinto mi ti rendo.
La favella, il costume e 'l nome loro
ritengansi gli Ausoni, e solo i corpi
abbian con essi i Teucri uniti e misti.
D'ambedue questi popoli i costumi,
i riti, i sacrifici in uno accolti,
una gente farò ch'ad una voce
Latini si diranno. E quei che d'ambi
nasceran poi, sovr'a l'umana gente,
si vedran di possanza e di pietade
girne a' celesti eguali; e non mai tanto
sarai tu cólta e riverita altrove».
  Di ciò Giuno appagossi, e lieta e mite
già verso i Teucri, al ciel fece ritorno.
Giove poscia Iuturna da l'aíta
distor pensò di suo fratello, e 'l fece
in questa guisa. Due le pèsti sono,
che son Dire chiamate, al mondo uscite
con Megera ad un parto, a lei sorelle,
figlie a la Notte, e di Cocito alunne,
che d'aspi han parimente irte le chiome,
e di ventose bucce i dorsi alati.
Queste di Giove al tribunale intorno,
e de la sua gran reggia anzi la soglia
si presentano allor che pena e pèsti
e morti a noi mortali, e guerre a' luoghi
che ne son meritevoli apparecchia.
Una di loro a terra immantinente
spinse il padre celeste, onde Iuturna
de la fraterna morte augurio avesse.
  Mosse la Dira, e di tempesta in guisa
ch'impetüosamente trascorresse,
volò come saetta che da Parto,
e da Cidone avvelenata uscisse,
e, non vista, ronzando e l'ombre aprendo,
ferita immedicabile portasse.
Giunta là 've di Turno e de' Troiani
vide le schiere, in forma si ristrinse
subitamente di minore augello,
ed in quel si cangiò che da' sepolcri
e dagli antichi e solitari alberghi
funesto canta, e sol di notte vola.
  Tal divenuta, a Turno s'appresenta,
gli ulula, gli svolazza, gli s'aggira
molte volte d'intorno; e fin con l'ali
lo scudo gli percuote, e gli fa vento.
  Stupí, si raggricciò, muto divenne
Turno per la paura. E la sorella,
tosto che lo stridor sentinne e l'ali,
le chiome si stracciò, graffiossi il volto,
e con le pugna il petto si percosse:
«Or che - dicendo - omai, Turno, piú puote
per te la tua germana? E che piú resta
a far per lo tuo scampo, o per l'indugio
de la tua morte? E come a cotal mostro
oppor mi posso io piú? Già già mi tolgo
di qui lontano. A che piú spaventarmi?
Assai di téma, sventurato augello,
nel tuo venir mi désti. E ben conosco
a i segni del tuo canto e del tuo volo
quel che m'apporti. E non punto m'inganna
il severo precetto del Tonante.
E perché vita mi concesse eterna?
Perché 'l morir mi tolse? Acciò morendo
non finisse il mio duolo? Acciò compagna
gir non potessi al misero fratello?
Immortal io? Che valmi? E che mi puote
ne l'immortalità parer soave
senza il mio Turno? Or qual mi s'apre terra
che seco mi riceva e mi rinchiugga
tra l'ombre inferne; e non piú ninfa e dea
ma sia mortale e morta?» E cosí detto,
grama e dolente, di ceruleo ammanto
il capo si coverse. Indi correndo
nel suo fiume gittossi, ove s'immerse
infino al fondo, e ne mandò gemendo
in vece di sospir gorgogli a l'aura.
  Intanto il suo gran tèlo Enea vibrando
col nimico s'azzuffa, e fieramente
lo rampogna, e gli dice: «Or qual piú, Turno,
farai tu mora, o sotterfugio, o schermo?
Con l'armi, con le man, Turno, e da presso,
non co' piè si combatte e di lontano.
Ma fuggi pur, dileguati, trasmutati,
unisci le tue forze e 'l tuo valore,
vola per l'aria, appiattati sotterra,
quanto puoi t'argomenta e quanto sai,
che pur giunto vi sei». Turno, squassando
il capo: «Ah! - gli rispose - che per fiero
che mi ti mostri, io de la tua fierezza,
orgoglioso campion, punto non temo,
né di te: degli dèi temo, e di Giove,
che nimici mi sono e meco irati».
  Nulla piú disse; ma rivolto, appresso
si vide un sasso, un sasso antico e grande
ch'ivi a sorte per limite era posto
a spartir campi e tôr lite a' vicini.
Era sí smisurato e di tal peso,
che dodici di quei ch'oggi produce
il secol nostro, e de' piú forti ancora,
non l'avrebbon di terra alzato a pena.
Turno diegli di piglio, e con esso alto
correndo se ne gia verso il nimico,
senza veder né come indi il togliesse,
né come lo levasse, né se gisse,
né se corresse. Disnervate e fiacche
gli vacillâr le gambe, e freddo e stretto
gli si fe' 'l sangue. Il sasso andò per l'aura
sí che 'l colpo non giunse, e non percosse.
  Come di notte, allor che 'l sonno chiude
i languid'occhi a l'affannata gente,
ne sembra alcuna volta essere al corso
ardenti in prima, e poi freddi in su 'l mezzo,
manchiam di lena sí ch'i piè, la lingua,
la voce, ogni potenza ne si toglie
quasi in un tempo: cosí Turno invano
tutte del suo valor le forze oprava
da la Dira impedito. Allora in dubbio
fu di se stesso, e molti per la mente
gli andaro e vari e torbidi pensieri.
Torse gli occhi a' suoi Rutuli, e le mura
mirò de la città: poscia sospeso
fermossi, e pauroso; sopra il tèlo
vistosi del gran Teucro, orror ne prese,
non piú sapendo o dove per suo scampo
si ricovrasse, o quel che per suo schermo,
o per l'offesa del nimico oprasse.
  Mentre cosí confuso e forsennato
si sta, la fatal asta Enea vibrando,
apposta ove colpisca, e con la forza
del corpo tutto gli l'avventa e fère.
Macchina con tant'impeto non pinse
mai sasso, e mai non fu squarciata nube
che sí tonasse. Andò di turbo in guisa
stridendo, e con la morte in su la punta
furïosa passò di sette doppi
lo rinforzato scudo; e la corazza
aprendo, ne la coscia gli s'infisse.
Diè del ginocchio a questo colpo in terra
Turno ferito. I Rutuli gridaro:
e tal surse fra lor tumulto e pianto,
che 'l monte tutto e le foreste intorno
ne rintonaro. Allor gli occhi e la destra
alzando in atto umilmente rimesso,
e supplicante: «Io - disse - ho meritato
questa fortuna; e tu segui la tua;
ché né vita, né vènia ti dimando.
Ma se pietà de' padri il cor ti tange
(ché ancor tu padre avesti, e padre sei),
del mio vecchio parente or ti sovvenga.
E se morto mi vuoi, morto ch'io sia,
rendi il mio corpo a' miei. Tu vincitore,
ed io son vinto. E già gli Ausoni tutti
mi ti veggiono a' piè, che supplicando
mercé ti chieggio. E già Lavinia è tua;
a che piú contra un morto odio e tenzone?»
  Enea ferocemente altero e torvo
stette ne l'arme, e vòlti gli occhi a torno,
frenò la destra; e con l'indugio ognora
piú mite, al suo pregar si raddolciva;
quando di cima all'omero il fermaglio
del cinto infortunato di Pallante
negli occhi gli rifulse. E ben conobbe
a le note sue bolle esser quel desso,
di che Turno quel dí l'avea spogliato,
che gli diè morte; e che per vanto poscia
come nimica e glorïosa spoglia
lo portò sempre al petto attraversato.
Tosto che 'l vide, amara rimembranza
gli fu di quel ch'ei n'ebbe affanno e doglia;
e d'ira e di furore il petto acceso,
e terribile il volto: «Ah! - disse - adunque
tu de le spoglie d'un mio tanto amico
adorno, oggi di man presumi uscirmi,
sí che non muoia? Muori; e questo colpo
ti dà Pallante, e da Pallante il prendi.
A lui, per mia vendetta e per sua vittima,
te, la tua pena, e 'l tuo sangue consacro».
E, ciò dicendo, il petto gli trafisse.
Allor da mortal gelo il corpo appreso
abbandonossi; e l'anima di vita
sdegnosamente sospirando uscio.