Arthur Conan Doyle

 

SHERLOCK HOLMES

IL SUO ULTIMO SALUTO

 

(Titolo dell'opera originale: His Last Bow - 1917)

 

 

 

L'AVVENTURA DEL POLIZIOTTO MORENTE

 

La signora Hudson, la povera padrona di casa di Sherlock Holmes, era una creatura dotata di infinita pazienza. Non soltanto il suo appartamento del primo piano era invaso a tutte le ore da gente d'ogni specie, dall'aspetto singolare e spesso poco convincente, ma il suo straordinario inquilino mostrava una tale eccentricità e irregolarità di vita da mettere a dura prova la sua longanimità.

Il suo disordine incredibile, la sua passione per la musica nelle ore più inconsuete, le sue esercitazioni di tiro a segno tra quattro mura, i suoi strampalati e spesso maleodoranti esperimenti scientifici e l'atmosfera di violenza e di pericolo che regnava intorno a lui, facevano di Sherlock Holmes il peggior inquilino di tutta Londra. D'altro canto però pagava come un principe, e sono sicuro che l'intero stabile avrebbe potuto essere acquistato, in cambio del prezzo versato da Holmes per le poche stanze da lui occupate durante gli anni che rimasi con lui.

La povera signora Hudson aveva un sacro terrore del mio amico, e non osava mai rimproverarlo, per strampalato che fosse il suo modo d'agire. Del resto gli era affezionata giacché Holmes usava con le donne una gentilezza e una cortesia non comune. Disamava il sesso opposto e ne diffidava, ma fu sempre un avversario cavalleresco.

Sapendo quanto fossero genuine le attenzioni della brava donna nei suoi confronti, ascoltai avidamente il racconto che venne a riferirmi a casa mia, durante il secondo anno della mia vita di uomo ammogliato, e in cui mi narrò del triste stato in cui il mio povero amico s'era ridotto.

"Sta morendo, dottor Watson" mi disse. "Sono già tre giorni che peggiora, e dubito che possa arrivare fino a sera. Ma non vuole che vada a chiamargli un medico. Stamattina, quando gli ho visto le ossa saltar fuori dalla faccia, e quei suoi grandi occhi lustri che mi guardavano, non ho più potuto resistere. - Col suo permesso o senza, signor Holmes, vado a chiamare immediatamente un dottore - gli ho detto. - Se proprio ci tiene, chiami Watson - mi ha risposto. Se io fossi in lei, dottore, non tarderei un'ora di più se vuole ancora trovarlo in vita".

Quella notizia mi inorridì, dato che non sapevo assolutamente nulla della sua malattia. E' inutile dire che mi precipitai a prendere cappotto e cappello, e mentre ci avviavamo insieme in carrozza chiesi alla brava signora Hudson ulteriori particolari.

"Non posso dirle gran che, dottore. Si occupava di un caso giù a Rotherhithe, in un vicolo vicino al fiume, e laggiù si è beccato questa malattia. Si è messo a letto mercoledì pomeriggio e da allora non si è più mosso. Da tre giorni non inghiotte né cibo né bevanda".

"Santo Dio! Ma perché non ha mandato a chiamare un dottore?".

"Non me l'ha permesso. Sa com'è autoritario! Io non ho osato disobbedirgli. Ma ormai ha poco da vivere; del resto lo capirà da sé non appena lo vedrà".

Holmes offriva davvero uno spettacolo miserevole. Nella luce incerta di una nebbiosa giornata di novembre, la stanza dell'ammalato era un luogo di tenebre, ma fu soprattutto quella faccia scarna, distrutta, che mi fissava dal letto, a darmi una stretta e un brivido al cuore. I suoi occhi luccicavano di febbre, aveva gli zigomi invermigliati di un rossore malaticcio e le labbra ricoperte di croste nerastre; le mani esangui posate sulla coperta si contorcevano incessantemente, la sua voce aveva un suono gracchiante ed era costantemente interrotta da singulti spasmodici. Quando entrai giaceva inerte nel letto, ma la mia vista portò nei suoi occhi un barlume di lucidità.

"Caro Watson, a quanto pare per me va molto male", disse con un fil di voce ma con una traccia ancora del suo antico accento scanzonato. "Mio carissimo", esclamai avvicinandomi a lui.

"Indietro, si tiri indietro!" esclamò con quell'imperiosità brusca che era sempre associata in lui ai momenti di crisi. "Se lei mi viene vicino, Watson, sarò costretto a farla buttare fuori di casa".

"Ma perché?".

"Perché voglio così; non le basta questo?" Sì, la signora Hudson aveva ragione. Era più autoritario che mai, ma faceva ugualmente pietà vederlo in quello stato.

"Io volevo semplicemente aiutarla" mormorai.

"Appunto! Lei potrà aiutarmi se farà esattamente quello che le dirò".

"Certamente, Holmes".

La sua imperiosità di modi si placò alquanto.

"Non è in collera, vero?" mi domandò, ansando in cerca di fiato.

Poveretto, come potevo essere in collera vedendolo così ridotto?

"E' per il suo bene, Watson" gracchiò.

"Per il mio bene?" "So quello che ho. E' il cosiddetto morbo dei coolie di Sumatra...

Una malattia di cui gli olandesi si intendono assai più di noi, benché sino a oggi siano riusciti a capirne ben poco. Una sola cosa comunque è certa: che è infallibilmente mortale, e orribilmente contagiosa".

Parlava ora con energia febbrile, mentre le sue lunghe mani si agitavano e si torcevano nel gesto di allontanarmi.

"La si prende col semplice contatto, Watson... proprio così, col semplice contatto. Stia alla larga e tutto andrà bene".

"Gran Dio, Holmes! E lei crede che una simile considerazione possa influenzarmi sia pure per un istante? Non ci penserei su due volte neppure se si trattasse di un estraneo, e lei ritiene di potermi impedire di compiere il mio dovere verso un vecchio amico come lei?" Feci nuovamente per avvicinarmi ma egli mi respinse con uno sguardo carico di collera furiosa.

"Se si fermerà lì dov'è parlerò. In caso contrario dovrà lasciare questa stanza".

Io ho un rispetto così profondo per le doti straordinarie di Holmes che ho sempre aderito ai suoi desideri, anche quando li comprendevo meno. Ma in quel momento tutti i miei istinti professionali erano risvegliati. Facesse pure il padrone altrove, ma al capezzale d'un malato le redini le dovevo tenere io!

"Holmes" dissi, "lei non è in sé. Un infermo è come un bambino, e io la tratterò come tale. Che le piaccia o no esaminerò i suoi sintomi e la curerò".

Per tutta risposta mi lanciò un'occhiata carica di veleno.

"Se dovrò avere un medico per forza mi conceda almeno che sia qualcuno in cui ho fiducia", mi disse.

"Come! Non si fida di me?" "Della sua amicizia, certamente; ma i fatti sono fatti, Watson, e dopotutto lei non è che un medico generico con un'esperienza molto limitata e qualità mediocri. E' doloroso dover dire queste cose, ma lei non mi concede altra scelta".

Mi sentii terribilmente offeso.

"Un'osservazione simile sul mio conto è indegna di lei, Holmes.

Essa rivela chiaramente lo stato dei suoi nervi. Se però non ha fiducia in me non insisterò per offrirle i miei servigi, ma mi permetta almeno di portarle sir Jasper Meek oppure Penrose Fisher, o un altro qualsiasi dei nostri più illustri luminari londinesi.

Ma qualcosa deve essere fatto. Su questo non c'è dubbio. Se lei crede che io ho intenzione di restarmene qui a vederla morire senza permettermi di aiutarla o senza permettermi di portarle qualche medico competente, si è sbagliato di grosso".

"Lo so che lei è pieno di buone intenzioni, Watson", disse il malato con un accento che era tra il singhiozzo e il gemito.

"Vuole che le dimostri la sua ignoranza? Che ne sa lei, per favore, della febbre di Tapanuli? Che nozioni ha intorno alla putrefazione nera di Formosa?" "Non le ho mai intese nominare".

"Ci sono molte malattie ignote, molti problemi patologici sconosciuti, in Oriente, Watson". A ogni frase s'interrompeva per raccogliere quel poco di forze che gli restavano. "Quante cose ho appreso durante alcune recenti ricerche, e che hanno un aspetto medico-criminale. E' stato appunto nel corso di tali ricerche che ho contratto questa infezione. Lei non può farci nulla".

"Probabilmente no; ma so per caso che il dottor Ainstree, la più grande autorità vivente in fatto di malattie tropicali, si trova attualmente a Londra. Ogni rimostranza è inutile, Holmes. Vado da lui". E mi mossi risolutamente verso la porta.

Mai in vita mia avevo provato un'emozione simile! In un attimo, con un balzo felino, il morente m'aveva preceduto. Udii un brusco giro di chiave. Un attimo dopo si era riaccasciato nel suo letto, esausto e ansimante in seguito a un così forsennato scoppio di energia.

"Lei non mi prenderà questa chiave neppure con la forza, Watson.

Ormai è in mio potere, amico mio. Qui c'è e qui resterà fino a mio ordine. Ma la capisco". (Tutto questo era detto a sbalzi, con accenti interrotti, tra un terribile sforzo e l'altro per prendere fiato). "Lo so che lei ha a cuore soltanto il mio bene. Si capisce che lo so. Lei farà poi come vuole, ma mi dia il tempo di recuperare le forze. Non adesso, Watson, non adesso. Adesso sono le quattro. Alle sei potrà andare".

"Ma questa è pazzia, Holmes".

"Mancano solo due ore, Watson. Le prometto che alle sei la lascerò andare. Non è contento di aspettare?".

"A quanto pare non ho altra scelta".

"Proprio così, Watson. Grazie. Ma non occorre che lei mi aiuti ad accomodare le coperte. E la prego di tenersi a distanza. E adesso, Watson, devo imporle un'altra condizione. Lei cercherà sì aiuto, ma non dall'uomo di cui ha parlato, bensì da quello che vorrò io".

"Va bene".

"Sono le due prime parole sensate che ha pronunciato da quando è entrato in questa stanza, Watson. Troverà dei libri laggiù. Mi sento alquanto esausto: mi chiedo che cosa deve provare una batteria costretta a riversare elettricità in un elemento cattivo conduttore. Alle sei, Watson, riprenderemo la nostra conversazione".

Questa era però destinata a essere ripresa molto prima dell'ora da lui stabilita, e in circostanze che mi procurarono un'emozione quasi altrettanto forte quanto quella causatami dal suo balzo verso la porta. Ero rimasto per alcuni minuti a osservare la silenziosa figura chinato nel letto. Aveva il viso quasi interamente coperto dalle lenzuola, sembrava che dormisse... A un tratto, incapace di mettermi tranquillamente a leggere, presi a girare lentamente per la stanza, esaminando i ritratti di criminali famosi di cui le pareti erano adorne. Infine, nel mio girovagare senza scopo, mi avvicinai alla mensola del camino. Vi erano sparsi sopra alla rinfusa pipe, sacchetti di tabacco, siringhe, temperini, cartucce di rivoltella, e altri oggetti disparati. Tra questi c'era una scatoletta di avorio bianco e nero munita di un coperchio scorrevole. Era una cosetta graziosa, e già avevo allungato la mano per esaminarla più da vicino, quando...

Che urlo spaventoso lanciò... un urlo che certamente dovettero udire anche giù in strada. A quello strido orrendo la pelle mi si accapponò e i capelli mi si rizzarono sul capo. Voltandomi colsi la visione fuggevole di un viso convulso e di due occhi forsennati. Rimasi paralizzato, con la scatoletta in mano.

"La metta giù! Giù, subito, Watson... immediatamente, dico!" La sua testa riaffondò nel guanciale ed egli emise un profondo sospiro di sollievo appena vide che rimettevo la scatola sulla mensola. "Non posso soffrire che si tocchi la mia roba, Watson. Lo sa che è una cosa che non sopporto. Lei mi esaspera al di là d'ogni sopportazione, lei, medico... è più che sufficiente per portare al manicomio un povero malato. Si sieda, la supplico, e mi lasci riposare in pace!".

Quell'incidente lasciò in me un'impressione sgradevolissima.

Un'eccitazione così violenta e futile, accompagnata da tanta brutalità di parola, così lontana dalla sua dolcezza naturale, mi rivelava quanto era profonda la disorganizzazione della sua mente.

Di tutte le rovine quella di un nobile cervello è la più dolorosa.

Rimasi seduto in profondo abbattimento sinché non giunse il momento fissato. Si sarebbe detto che fosse rimasto a osservare l'orologio al pari di me, poiché non erano quasi neppure scoccate le sei che incominciò a discorrere con la stessa febbrile animazione di prima.

"Su, Watson", mi disse. "Ha degli spiccioli in tasca?" "Sì".

"Spiccioli d'argento?".

"Abbastanza".

"Quante mezze corone?".

"Cinque".

"Ah, troppo poche! Troppo poche! Che sfortuna, Watson! Comunque per poche che siano sarà meglio che se le metta nel taschino del panciotto e il resto degli altri soldi nella tasca sinistra dei pantaloni. Bravo! Sarà molto più equilibrato, così!".

Questo era veramente delirio furioso. A un tratto rabbrividì e di nuovo gli uscì dalla strozza quel suono misto tra la tosse e il singhiozzo.

"Ora accenderà il gas, Watson, ma starà bene attento a non alzarlo a più di metà, sia pure per un istante. La supplico di essere prudente. Grazie, così va benissimo. No, non ha bisogno di abbassare le persiane. E adesso avrà la cortesia di mettermi qui su questo tavolo, a portata di mano, alcune lettere e delle carte.

Grazie. Mi dia un po' di quella roba che sta sulla mensola.

Benissimo, Watson! Troverà laggiù una molletta per lo zucchero.

Sollevi piano piano, con l'aiuto di questa, il coperchio di quella scatoletta d'avorio. La metta lì tra le carte. Bene ! Adesso può andare a prendere al numero tredici di Lower Burke Street il signor Culverton Smith".

Per dire la verità il mio desiderio di andare a cercare un medico si era alquanto rallentato, poiché il povero Holmes era così evidentemente in istato di delirio che mi sembrava molto pericoloso lasciarlo solo. Ora però appariva altrettanto ansioso che io consultassi la persona da lui nominata quanto ostinato si era mostrato due ore prima nel rifiutare chicchessia.

"Non l'ho mai inteso nominare", dissi.

"Può darsi, mio buon Watson. La sorprenderà forse sapere che l'uomo più versato al mondo in questa malattia non è un medico ma un piantatore. Il signor Culverton Smith è un noto residente di Sumatra, attualmente in visita a Londra. Uno scoppio di questa epidemia nella sua piantagione che si trovava lontana da ogni assistenza sanitaria lo indusse a studiarla personalmente con risultati molto soddisfacenti. E' una persona molto metodica e non ho desiderato che lei uscisse prima delle sei perché sapevo che non l'avrebbe trovato nel suo studio. Se riuscisse a persuaderlo a venire qui e a concederci il beneficio della sua esperienza, unica nel campo di questa malattia, e la cui ricerca è sempre stata la sua passione preferita, sono certo che egli potrebbe giovarmi".

Riferisco queste frasi di Holmes come se fossero state pronunciate consecutivamente, senza tentar di spiegare come venissero invece interrotte da gemiti e ansiti continui e da quell'incessante annaspare delle mani che rivelava le sofferenze che lo travagliavano. In quelle poche ore il suo aspetto era gravemente peggiorato. Le macchie di rossore malaticcio sulle sue guance si erano accentuate, gli occhi brillavano di una luce ancor più febbrile, fuori dalle orbite cave, e un gelido sudore gli imperlava la fronte. E tuttavia nel suo accento c'era sempre quel tocco autoritario che gli sarebbe rimasto sino all'ultimo respiro.

"Riferirà esattamente in quali condizioni mi ha lasciato", disse.

"Gli dirà l'impressione precisa che ho fatto su di lei... cioè di un uomo morente... di un uomo morente e delirante. Francamente non riesco a capire come mai tutto il letto dell'oceano non sia un'unica massa solida di ostriche, tanto sembrano prolifiche queste creature. Ah, sto divagando! Strano come il cervello riesca a controllare il cervello! Che cosa le stavo dicendo, Watson?".

"Mi stava dando istruzioni per il signor Smith".

"Ah, già, ricordo. La mia vita dipende da lui. Lo supplichi, Watson. Tra noi non esistono buoni rapporti. Suo nipote... io avevo sospettato qualcosa di losco e gliel'ho lasciato capire. Il ragazzo ha fatto una morte orribile e lui mi serba rancore. Cerchi di impietosirlo, Watson. Lo preghi, lo supplichi, lo conduca qui con ogni mezzo. Solo lui può salvarmi... solo lui!".

"Lo porterò qui con una carrozza, dovessi trascinarlo di peso".

"Lei non farà nulla di tutto ciò. Lo persuaderà a venire e quindi lo precederà. Trovi una scusa qualunque, ma non venga insieme a lui. Non lo dimentichi, Watson. Lei non mi tradirà. Non mi ha mai tradito. Senza dubbio esistono nemici naturali che limitano l'aumento delle creature. Lei e io, Watson, abbiamo fatto la nostra parte. Dovrà dunque l'universo essere sommerso da ostriche?

No, no; che orrore sarebbe! Le raccomando, segua attentamente le mie istruzioni".

Lo lasciai con l'animo sconfortato al pensiero di quello splendido cervello vaneggiante come quello di un bambino idiota. Mi aveva consegnato la chiave e la presi al volo nel timore che potesse rinchiudersi dall'interno. La signora Hudson aspettava nel corridoio tremante e piangente. Dietro di me, mentre mi allontanavo, udii la voce acuta e sottile di Holmes disperdersi in un canto sconnesso. Sotto, mentre aspettavo che passasse una vettura per chiamarla con un fischio, un uomo mi raggiunse tra la nebbia.

"Come sta il signor Holmes, dottore?" mi chiese.

Era una vecchia conoscenza, l'ispettore Morton di Scotland Yard, vestito in borghese.

"Malissimo", risposi.

Mi guardò in un modo così strano che se questo pensiero non fosse stato troppo perverso mi sarei immaginato di veder risplendere sulla sua faccia, sotto la luce debole del lampione, un lampo di esultanza.

"Avevo ben udito qualcosa del genere", osservò. Intanto era arrivata la vettura e io lo lasciai.

Lower Burlie Street era una strada fiancheggiata di belle abitazioni che si snodava in quel tratto un po' incerto della città stendentesi tra Notting Hill e Kensington. Il palazzo particolare di fronte al quale il mio vetturino si fermò aveva un aspetto di ritrosa e delicata rispettabilità nei suoi cancelli di ferro di foggia antiquata, nel suo portone massiccio a due battenti, nelle sue luccicanti maniglie d'ottone. Il tutto era in carattere con un maggiordomo solenne che apparve incorniciato nella rosea radiosità di una luce elettrica schermata che lo illuminava di spalle.

"Sissignore, il signor Culverton Smith è in casa. Il dottor Watson? Molto bene, signore, gli porterò il suo biglietto".

Ma il mio umile nome e il mio modesto titolo non parvero impressionare il signor Culverton Smith. Dall'uscio semiaperto sentii provenire una voce acuta, petulante, penetrante.

"Chi è questa persona? Cosa vuole? Santo Cielo, Staples, quante volte ti ho detto che non voglio essere disturbato quando studio!".

La voce del maggiordomo mi giunse in un sommesso fluire di spiegazioni propiziatorie.

"Non importa, non voglio vederlo, Staples. Non posso permettere che si interrompa così il mio lavoro. Digli che non sono in casa.

Digli di venire domattina se proprio vuole vedermi".

Altro mormorìo sommesso. "Bene, bene, digli così. Può venire domani mattina, o può anche non ritornare più. Non posso permettere che qualcuno interrompa il mio lavoro".

Pensai a Holmes, dolorante nel suo letto d'infermo, intento forse a contare i minuti, nell'attesa che io potessi portargli soccorso.

Non era il caso di badare a cerimonie. La sua vita dipendeva dalla mia prontezza d'azione. Prima ancora che l'apologetico maggiordomo avesse potuto riferirmi il messaggio del suo padrone io lo avevo spinto da una parte ed ero entrato nella stanza.

Da una sedia a sdraio posta accanto al fuoco si alzò un uomo lanciando una stridula esclamazione di collera. Vidi una grossa faccia gialla, una carnagione dalla grana rozza e sudaticcia, un doppio mento enorme e due occhi grigi, minacciosi e accigliati che mi scrutarono da sotto un paio di chiare sopracciglia irsute. La testa calva, appuntita, era ricoperta da una papalina di velluto inclinata in modo civettuolo su un lato della sua rosea curva.

Aveva un cranio di capacità enorme e tuttavia abbassando lo sguardo vidi con mio stupore che la figura dell'uomo era piccola e fragile, contorta nelle spalle e nella schiena, come di chi abbia sofferto durante l'infanzia di rachitismo.

"Che cos'è questa storia?" gridò con voce altissima, quasi urlante. "Che cosa significa questa intrusione? Non le avevo mandato a dire che non volevo vederla prima di domattina?".

"Mi spiace" dissi, "ma si tratta di una cosa troppo importante.

Sherlock Holmes...".

Il solo udire menzionare questo nome ebbe sull'omino un effetto straordinario. Ogni espressione di collera scomparve immediatamente dalla sua faccia. I suoi tratti si fecero tesi e vigili.

"Lei viene da parte di Holmes?" domandò.

"L'ho lasciato in questo momento".

"Che cos'ha? Come sta?".

"E' gravissimo, senza speranza. Ecco perché sono venuto".

L'uomo mi fece cenno di sedere e tornò a sedersi a sua volta. In questo intervallo colsi una visione fuggevole della sua faccia riflessa nello specchio che stava sopra il parafuoco. Avrei giurato di poterci leggere un sorriso maligno, odioso. Tuttavia mi persuasi che forse dovevo avere sorpreso una contrazione nervosa incontrollata poiché subito si volse verso di me con genuina preoccupazione.

"Mi spiace di sentir questo", disse. "Io conosco il signor Holmes soltanto per alcune trattative d'affari che abbiamo avuto insieme, ma nutro il massimo rispetto per il suo talento e il suo carattere. E' un appassionato del delitto, come io lo sono della malattia. A lui il delinquente, a me il microbo. Ecco le mie prigioni", continuò, indicandomi una fila di bottiglie e di vasi allineati sul tavolino. "Tra queste colture in gelatina stanno ora scontando la loro pena alcuni tra i peggiori nemici dell'umanità".

"E' appunto per via delle sue particolari conoscenze che il signor Holmes desidera vederla. Egli ha un'alta opinione di lei ed è certo che sia l'unico uomo di Londra in grado d'aiutarlo".

L'ometto trasalì e l'elegante papalina scivolò a terra.

"Come mai?" esclamò. "Come mai il signor Holmes crede che io possa aiutarlo nel frangente in cui si trova?".

"Per via della sua esperienza in fatto di malattie tropicali".

"Ma perché ritiene che questa malattia da lui contratta sia di origine tropicale?".

"Perché durante un'inchiesta professionale ha dovuto lavorare al porto in mezzo a marinai cinesi".

Il signor Culverton Smith ebbe un sorriso compiaciuto e raccattò la sua papalina. "Oh, è così?" disse. "Credo che la cosa non sia poi grave come lei teme: da quanto tempo è infermo?".

"Da tre giorni circa".

"Va soggetto a delirio?".

"Di quando in quando".

"Ahi! Questo mi sembra grave. Sarebbe inumano non rispondere al suo appello. Io non tollero che nessuno m'interrompa nel mio lavoro, ma questo è senza dubbio un caso eccezionale. Verrò subito con lei".

Mi ricordai dell'ingiunzione di Holmes.

"Ma io ho un altro impegno", dissi.

"Non importa, andrò da solo. Conosco l'indirizzo di Holmes. Può essere certo che mi troverò da lui tra mezz'ora al massimo".

Rientrai nella stanza del mio amico col cuore in tumulto. Per quel che mi era dato di sapere poteva benissimo essere capitato il peggio, durante la mia assenza; ma con mio enorme sollievo era invece migliorato, durante quell'intervallo. Il suo aspetto era sempre impressionante, ma ogni traccia di delirio lo aveva lasciato, ed egli ora parlava con voce debole, è vero, ma con una lucidità e una prontezza di mente ancora più vive del solito.

"Bene, lo ha visto, Watson?".

"Sì, viene".

"Fantastico, Watson! Fantastico! Lei è il migliore dei messaggeri".

"Voleva venire con me".

"Questo non doveva accadere, Watson. Bisognava impedirglielo a tutti i costi. Le ha chiesto di che cosa soffrivo?".

"Gli ho spiegato che aveva dovuto lavorare nell'East-End, in mezzo a marinai cinesi".

"Benissimo! E adesso, Watson, lei ha fatto tutto ciò che un buon amico poteva fare: può anche scomparire dalla scena".

"Devo aspettare per sentire il suo parere, Holmes!".

"Si capisce! Ma io ho motivo di supporre che la sua opinione sarà molto più franca e preziosa se crederà che siamo soli. C'è giusto un po' di spazio dietro la testata del mio letto, Watson".

"Mio caro Holmes!".

"Temo non ci sia altra alternativa: la stanza non si presta a nascondigli, il che è un bene perché offre minor adito a sospetti.

Ma se si mette proprio lì, Watson, credo che tutto andrà benissimo". A un tratto si tirò su a sedere con un'espressione rigidamente attenta sul volto smarrito. "Si sente un rumore di ruote, Watson, su, faccia presto, se mi vuole bene! E non si muova, qualunque cosa accada... qualunque cosa accada... mi capisce? Non parli! Non faccia un gesto! Si limiti ad ascoltare tendendo al massimo le orecchie". Poi in capo a un istante quel suo improvviso ritorno di forze lo abbandonò e la sua voce dominatrice, autoritaria, si perse in mormorii sconnessi, incerti, semideliranti.

Dal nascondiglio in cui ero stato con tanta fretta cacciato, udii risuonare dei passi sulle scale, poi l'aprirsi e il chiudersi dell'uscio della stanza. Quindi, con mia sorpresa, seguì un lungo silenzio, interrotto soltanto dal respiro affannoso e dai gemiti dell'infermo. Forse era in piedi vicino al capezzale ed esaminava il paziente. Finalmente quell'innaturale silenzio si ruppe.

"Holmes!" esclamò il nuovo venuto. "Holmes!". Col tono perentorio di chi cerca di svegliare un dormiente. "Non mi sente, Holmes?".

Si sentì un fruscìo come se avesse energicamente scosso per la spalla l'ammalato.

"E' lei, signor Smith?" mormorò Holmes. "Non speravo che sarebbe venuto".

L'altro rise.

"Nemmeno io l'avrei immaginato" rispose, "eppure, come vede, eccomi qui. E' il rimorso, Holmes... il rimorso".

"E' molto gentile da parte sua, molto nobile. Io apprezzo moltissimo le sue speciali conoscenze".

L'ospite ebbe un ghigno.

"Lei sì, ma per sfortuna lei è il solo uomo a Londra che l'apprezzi. Sa che cosa l'affligge?".

"La stessa cosa", disse Holmes.

"Ah, ne riconosce i sintomi?".

"Fin troppo bene".

"Be', non ne sarei sorpreso, Holmes. Non sarei sorpreso che si trattasse proprio della stessa malattia. Un brutto guaio per lei se è effettivamente la stessa. Il povero Victor era già cadavere al quarto giorno... eppure era un giovanotto forte e robusto. E' stata veramente una cosa molto strana che egli abbia potuto contrarre nel cuore di Londra una rara malattia asiatica... e una malattia appunto di cui io avevo fatto uno studio così speciale.

Strana coincidenza, Holmes. E' stato molto abile da parte sua notarlo, ma assai poco caritatevole suggerire che tra questi due casi esistesse un rapporto di causa ed effetto".

"Sapevo che era stato lei".

"Oh, davvero, lo sapeva? Be', comunque non ha potuto dimostrarlo.

Ma come giudica se stesso, lei? Prima mi diffama in quella maniera, e poi si butta in ginocchio a chiedermi aiuto non appena si trova nei pasticci! A che gioco sta giocando... eh?".

Udii il respiro travagliato, raschiante, dell'infermo. "Mi dia un po' d'acqua!" balbettò.

"Temo proprio che sia prossimo a tirare le cuoia, mio caro amico, ma non voglio che se ne vada prima d'avere scambiato quattro chiacchiere con lei. Ecco perché le do da bere. Su, non se la rovesci tutta addosso! Così va bene. Riesce a capire quello che le dico?".

Holmes gemette.

"Mi aiuti; faccia qualunque cosa, ma mi aiuti. Mettiamo una pietra sul passato", bisbigliò. "Io dimenticherò quello che ho detto...

Giuro che lo dimenticherò. Mi guarisca e dimenticherò tutto".

"Dimenticherà che cosa?".

"Mah, la morte di Victor Savage. Lei ha praticamente ammesso poco fa di esserne stato l'autore; ma io lo dimenticherò".

"Può dimenticarlo o ricordarlo come meglio le piace. Tanto non la vedo sul banco dei testimoni; la vedo piuttosto in una bella cassetta ben squadrata, mio caro Holmes, glielo garantisco... A me non importa proprio un bel nulla che lei sappia come mio nipote è morto. Non è di lui che stiamo discutendo, ma di lei".

"Sì, sì".

"Il tizio che è venuto a chiamarmi... non ricordo più come si chiama... mi ha detto che lei ha contratto questa malattia lavorando nell'East End tra un gruppo di marinai".

"Non saprei come spiegare altrimenti la cosa".

"Lei è molto orgoglioso del suo cervello, non è vero, Holmes? Si crede molto furbo, vero? Ma questa volta si è imbattuto in uno che è stato più furbo di lei. Ora rifletta bene per un momento, Holmes. Non riesce a immaginare un altro modo per cui avrebbe potuto contrarre questa malattia?".

"Non saprei dire. La mia mente è distrutta. Per l'amor di Dio mi aiuti!".

"Certo che l'aiuterò. L'aiuterò a comprendere a che punto si trova e come c'è arrivato. Voglio che lo sappia prima di morire".

"Mi dia qualcosa che mi calmi i dolori".

"Sta male, vero? Sì, i coolie di solito strillano parecchio quando sono alla fine. Credo che sopravvengano dei crampi".

"Sì, sì; ho proprio un crampo qua".

"Be', comunque può ascoltare ciò che le dirò. Mi stia bene a sentire! Si ricorda di un incidente insolito che le capitò press'a poco il giorno in cui questi sintomi sono cominciati?".

"No, non riesco a rammentare nulla".

"Ci pensi di nuovo".

"Sto troppo male per poter pensare".

"L'aiuterò io allora. Non le è arrivato niente per posta?".

"Per posta?".

"Una scatola... per caso?".

"Sto svenendo... sono finito!".

"Mi ascolti, Holmes!".

Ebbi l'impressione che scuotesse il morente, e dovetti fare uno sforzo su me stesso per restarmene calmo nel mio nascondiglio.

"Bisogna che mi ascolti. DEVE ascoltarmi. Si ricorda una scatola... una scatola d'avorio? Dev'essere arrivata mercoledì.

Lei l'ha aperta... ricorda?".

"Sì, sì, l'ho aperta. C'era dentro una molla appuntita. Doveva essere uno scherzo...".

"Non era uno scherzo, come si accorgerà a sue spese. Imbecille che è stato, se l'è voluta e l'ha avuta. Chi le aveva chiesto di attraversarmi il sentiero? Se mi avesse lasciato in pace non le avrei fatto alcun male".

"Ricordo", balbettò Holmes. "La molla! Mi è uscito del sangue.

Quella scatola... quella lì sul tavolo".

"Proprio quella, per Giove! E sarà meglio che lasci questa scatola in tasca mia. Così scomparirà la sua ultima speranza di prova. Ma lei conosce la verità, adesso, Holmes, e può morire con la consapevolezza che sono stato io a ucciderla. Lei sapeva troppe cose sul destino di Victor Savage, così l'ho mandata a tenergli compagnia. E' ormai prossimo alla fine, Holmes. Mi siederò per vederla morire".

La voce di Holmes era scesa a un sussurro appena percettibile.

"Che cosa vuole?" chiese Smith. "Che alzi il gas? Ah, le ombre incominciano a cadere, non è vero? Sì, lo alzerò, così potrò vederla meglio in faccia". Attraversò la stanza e la luce si fece improvvisamente più viva. "Posso renderle qualche altro favore, amico mio?".

"Vorrei un fiammifero e una sigaretta".

Per un vero miracolo non gridai di gioia, tanto fu il mio stupore.

Parlava con la sua voce naturale... un po' debole, forse, ma era la nota voce che ben conoscevo. Seguì una lunga pausa ed ebbi la sensazione che Culverton Smith stesse fissando il mio compagno in preda a un muto sbalordimento.

"Che cosa significa questa storia?" lo sentii dire infine con voce secca, rauca.

"Il miglior modo per rappresentare con successo una parte è quello di viverla", disse Holmes. "Le do la mia parola d'onore che per tre giorni non ho gustato né cibo né bevanda sino al momento in cui lei ha avuto la cortesia di versarmi quel bicchiere d'acqua.

Ma è stato soprattutto il tabacco che ho trovato il più duro. Ah, ecco finalmente delle sigarette!". Udii l'accensione di una fiammifero. "Così va meglio. Perbacco! Perbacco! Ma mi pare di sentire un passo amico".

Fuori infatti si sentì uno scalpiccìo di piedi, la porta si aprì e comparve l'ispettore Morton.

"Tutto è a posto e questo è il suo uomo", disse Holmes.

Il funzionario diede gli avvertimenti consueti, quindi concluse:

"Lei è in arresto sotto l'imputazione di omicidio nella persona di un certo Victor Savage".

"E potrebbe anche aggiungere per tentato omicidio di un certo Sherlock Holmes", osservò il mio amico con un risolino. "Per risparmiare il disturbo a un infermo, ispettore, il signor Culverton Smith ha avuto la bontà di dare il nostro segnale alzando la luce a gas. A proposito, il prigioniero ha nella tasca destra della sua giacca una scatoletta che è bene togliergli.

Grazie, e la maneggi con attenzione. La posi giù. Può avere la sua parte nel processo".

Sentii un rumore improvviso di lotta accompagnato da uno scatto metallico e da un grido di dolore.

"Vuol farsi del male?" disse l'ispettore. "Stia fermo, ha capito?". Seguì un clicchettìo di manette che si chiudevano.

"Bella trappola!" gridò la voce acuta e schernevole di Smith.

"Sarà lei, Holmes, a salire sul banco degli accusati, non io. E' stato lui a chiedermi di venire qui per curarlo. Mi dispiaceva per lui e sono accorso. Ora sosterrà senza dubbio che io ho detto qualcosa che certamente lui inventerà per convalidare i suoi insani sospetti. Ma può mentire fin che vuole, Holmes! La mia parola vale quanto la sua!".

"Gran Dio!" gridò Holmes. "Lo avevo completamente dimenticato. Mio caro Watson, le debbo mille scuse. Pensare che ho potuto scordarmi di lei! Non ho bisogno di presentarla al signor Culverton Smith dal momento che credo vi siate già incontrati qualche ora fa. C'è una carrozza sotto? Vi seguirò non appena sarò vestito poiché può darsi che la mia presenza sia necessaria al commissariato".

"Non ne ho mai sentito tanto il bisogno", disse Holmes mentre si rifocillava con un bicchiere di chiaretto e alcuni biscotti, durante gli intervalli della sua toeletta. "Per quanto, come sa, le mie abitudini siano irregolari e un fatto come questo possa incidere sul mio fisico meno che sugli altri uomini in genere. Ma era essenziale per me impressionare la signora Hudson dando al mio stato immaginario un'effettiva apparenza di realtà, giacché doveva fare impressione su di lei e lei a sua volta su Smith. Non è mica offeso, vero, Watson? Lei si rende perfettamente conto che tra le sue molte doti la dissimulazione non è il suo forte, e se lei avesse condiviso il mio segreto non sarebbe mai stato in condizioni di convincere Smith della necessità urgente della sua presenza, che era invece il punto vitale di tutto il mio disegno.

Conoscendo la sua natura vendicativa ero sicurissimo che sarebbe venuto ad accertarsi di persona del successo del proprio operato".

"Ma il suo aspetto, Holmes... quella faccia spettrale?".

"Tre giorni di digiuno assoluto non migliorano la bellezza di nessuno, Watson. Per il resto non c'è nulla che una buona spugna non possa curare. Con un po' di vaselina sulla fronte, della belladonna negli occhi, un pizico di rossetto sulle guance, e qualche crosta di cera d'api intorno alle labbra si può ottenere un effetto parecchio soddisfacente. La finzione di una malattia è un argomento sul quale ho più di una volta pensato di scrivere una monografia. E qualche divagazione occasionale intorno a mezze corone, ostriche o altri argomenti estranei produce senza possibilità di equivoco un piacevole effetto delirante".

"Ma perché non ha voluto che io le venissi vicino, dal momento che in realtà non esisteva pericolo d'infezione?".

"E me lo chiede, mio caro Watson? Crede che non abbia rispetto per il suo talento di medico? Potevo immaginare che il suo abile giudizio si sarebbe ingannato su un morente che per quanto debole non presentava nessuna alterazione di polso o di temperatura? A tre metri di distanza mi era facile imbrogliarla, ma se non ci fossi riuscito chi avrebbe portato a tiro il mio Smith? No, Watson, io non toccherei quella scatola. Può vedere benissimo, se la guarda di lato, il punto da cui scatta la molla aguzza come un dente di vipera, se per disgrazia qualcuno commettesse l'imprudenza di aprirla. Io credo che è stato con un trucco simile che il povero Savage, il quale si frapponeva tra quel mostro e un'eredità, venne fatto morire. Come lei sa però la mia corrispondenza è molto varia, e io sto sempre molto in guardia contro tutti i pacchi che mi vengono recapitati. Compresi tuttavia che fingendo che egli fosse riuscito nel suo intento avrei forse potuto ottenere una confessione. E sono riuscito nella finzione con un successo veramente degno di un artista. Grazie, Watson, bisogna proprio che mi aiuti a mettere la giacca. Quando avremo finito al posto di polizia credo che una buona bistecca da Simpson's non sarà affatto fuori luogo".

 

 

 

 LA SCOMPARSA DI LADY FRANCES CARFAX

 

"Ma perché turco?" mi chiese Sherlock Holmes fissando con interesse il paio di scarpe che avevo indosso. In quel momento me ne stavo sdraiato in una seggiola di vimini, e certamente i miei piedi che sporgevano dovevano aver attratto la sua sempre pronta attenzione.

"Ma è inglese", risposi alquanto sorpreso. "L'ho comprato da Latimer in Oxford Street".

Holmes sorrise con un'espressione di tediata pazienza.

"Ma io parlo del bagno", ribatté: "del bagno! Perché far uso del bagno turco, dispendioso e debilitante, invece del rinvigorente articolo domestico?".

"Perché in questi ultimi giorni mi sono sentito vecchio e pieno d'acciacchi. Un bagno turco è quel che noi in medicina chiamiamo alterativo - cioè un punto di partenza nuovo, un purificatore del sistema".

"A proposito, Holmes" soggiunsi, "sono sicuro che il rapporto tra le mie scarpe e un bagno turco dev'essere molto evidente per una mente logica; io però le sarei obbligato se mi volesse spiegare tale rapporto".

"Il filo del ragionamento non è infatti molto oscuro, Watson", disse Holmes strizzandomi l'occhio con aria maliziosa. "Esso appartiene alla stessa classe di deduzione elementare che io illustrerei se le chiedessi chi ha condiviso la sua vettura nella sua scarrozzata di stamattina".

"Non ammetto che una nuova illustrazione possa essere una spiegazione", replicai non senza asprezza.

"Bravo, Watson! Rimostranza dignitosa e perfettamente logica.

Vediamo, quali erano i punti? Prendiamo l'ultima: la vettura.

Osservi: lei ha qualche macchia sulla manica e sulla spalla sinistre della sua giacca. Se si fosse seduto al centro di una carrozza, probabilmente non sarebbe stato inzaccherato, e comunque lo sarebbe stato in modo simmetrico. E' evidente pertanto che lei è rimasto seduto da un lato ed è perciò altrettanto evidente che con lei c'era qualcuno".

"Questo è evidentissimo".

"Addirittura banale, non trova?".

"Ma il rapporto tra le scarpe e il bagno?".

"E' altrettanto puerile. Lei ha l'abitudine di allacciarsi le scarpe in una certa maniera. Ora invece io le vedo allacciate con un doppio nodo complicato che non è il suo solito sistema di legarsele. Se le è dunque tolte. E chi gliele ha allacciate? Un calzolaio... oppure un inserviente del bagno? E' poco probabile che si tratti di un calzolaio dal momento che le sue scarpe sono seminuove. Che rimane allora? Il bagno turco. Facilissimo, non le pare? Ma con tutto questo il bagno turco è servito a qualcosa".

"A che cosa?".

"Mi ha detto poco fa di aver preso un bagno turco perché aveva bisogno di rinnovarsi. Ora io le propongo un rinnovamento completo. Che cosa ne direbbe di un viaggetto a Losanna, mio caro Watson? Con biglietti di prima classe e tutte le spese pagate su scala principesca?".

"Direi che è splendido, ma per quale motivo?".

Holmes si allungò nella sua poltrona e trasse di tasca il suo inseparabile taccuino.

"Una delle classi più pericolose della società" incominciò, "è la donna sola e senza amici. E' la più inoffensiva, e spesso la più utile delle mortali, ma costituisce per gli altri un inevitabile incentivo al delitto. E' priva d'aiuti, migratoria; ha mezzi sufficienti per spostarsi da un paese all'altro e da un albergo all'altro. Molto spesso se ne perdono le tracce in un labirinto di pensioni oscure. E' come un pulcino sperduto in un universo di volpi. Quando viene ingollata nessuno si accorge o quasi della sua scomparsa. Ecco perché temo che qualche grosso guaio sia accaduto a Lady Frances Carfax".

Questa improvvisa discesa dal generale al particolare mi sollevò parecchio. Holmes consultò i suoi appunti.

"Lady Frances" proseguì, "è la sola superstite in linea diretta del defunto Conte di Rufton. Come forse ricorderà, i beni andarono alla discendenza maschile. La signora rimase con mezzi limitati ma con un assortimento di gioielli d'antica foggia spagnola in argento e diamanti stranamente tagliati cui era attaccatissima.

Troppo attaccata anzi, perché si è sempre rifiutata di lasciarli in custodia presso una banca, portandoseli invece costantemente con sé. E' una figura direi patetica, questa Lady Frances; è una donna bellissima, ancora fresca benché non più molto giovane, e nondimeno, per uno strano caso, l'ultimo relitto di ciò che soltanto vent'anni fa costituiva una flotta imponente".

"Ma cos'è successo dunque a questa donna?".

"Mah, che cosa le è successo? E' viva o morta? Ecco il nostro problema. Lady Frances è una signora dalle abitudini precise e per quattro anni è sempre stato suo costume scrivere ogni due settimane alla signorina Dobney, la sua ex governante, la quale si è ritirata da molto tempo e abita a Camberwell. E' stata appunto la signorina Dobney a consultarmi. Sono trascorse quasi cinque settimane senza che abbia ricevuto una sola parola dalla sua ex pupilla. L'ultima lettera proveniva dall'Hotel National di Losanna. A quanto sembra Lady Frances ha lasciato quell'albergo senza dare il suo indirizzo. La sua famiglia è in ansia e siccome sono gente ricchissima sono pronti a non risparmiare qualsiasi somma pur di chiarire questo mistero".

"Ma è possibile che la signora non avesse altri corrispondenti?

Questa signorina Dobney è l'unica fonte di informazioni che abbiamo?".

"C'è un corrispondente che offre sempre un punto sicuro, Watson; e questo corrispondente è la banca. Anche le signore sole devono vivere e i loro libretti bancari sono diari in succinto. La signora ha il suo conto da Silvester. Ho dato un'occhiata a questo conto. Con il penultimo assegno essa pagò la sua nota di spese a Losanna, ma si trattava di un grosso assegno che probabilmente la lasciò con parecchio contante in mano. Da allora è stato emesso soltanto un altro assegno".

"In favore di chi e dove?".

"In favore della signorina Marie Devine. Non c'è nulla che possa indicare dove questo assegno sia stato emesso. E' stato però incassato presso il Credit Lyonnais di Montpellier meno di tre settimane fa. La cifra ammontava a cinquanta sterline".

"E chi è questa signorina Marie Devine?".

"Sono stato in grado di scoprire anche questo. La signorina Marie Devine era cameriera presso Lady Frances Carfax. Perché le abbia pagato questo assegno non l'abbiamo ancora potuto accertare, ma sono sicuro che le sue ricerche chiariranno ben presto anche questo particolare".

"Le mie ricerche?".

"Per questo appunto le consiglio una ristoratrice spedizione a Losanna. Lei sa benissimo che io non posso assolutamente lasciare Londra mentre il vecchio Abrahams si trova in un così mortale terrore di rimetterci la pelle. Inoltre, per principio generale, è meglio che io non abbandoni il paese. Scotland Yard si sente solo, senza di me, e la mia assenza provoca sempre tra le classi criminali un'agitazione malsana. Vada, dunque, mio caro Watson, e se il mio umile consiglio può essere valutato allo stravagante tasso di due penny la parola, esso sarà sempre a sua disposizione notte e giorno all'altro capo del telegrafo continentale".

Due giorni più tardi mi trovavo davanti all'Hotel National di Losanna dove fui accolto con ogni cortesia dal noto direttore signor Moser. Questi m'informò che Lady Frances aveva soggiornato lì per diverse settimane. Tutti quelli che l'avevano conosciuta l'avevano trovata molto simpatica. Non doveva avere più di quarant'anni. Era ancora molto bella, e appariva evidente che doveva essere stata una donna splendida in gioventù. Il signor Moser non sapeva nulla in fatto di gioielli di valore di proprietà della signora, ma i domestici avevano osservato che un grosso baule nella sua camera da letto era sempre chiuso a chiave. Marie Devine, la cameriera, era conosciuta e amata quanto la padrona. Si era da poco fidanzata con un capo cameriere dell'albergo, e non aveva alcuna difficoltà a fornirmi il suo indirizzo che era: rue de Trajan undici, Montpellier. Scribacchiai tutti questi appunti ed ebbi la sensazione che neppure Holmes in persona sarebbe riuscito meglio di me a raccogliere tutti i dati necessari al caso.

Restava però ancora un punto oscuro. Nessuno sapeva spiegarmi il motivo dell'improvvisa partenza della signora. Era sembrata felicissima, a Losanna. C'era ogni motivo di ritenere che intendesse restarci per tutta la stagione, nel suo lussuoso appartamento prospiciente il lago. Invece se n'era andata con il preavviso di un solo giorno, il che aveva comportato per lei l'inutile spesa di una settimana di pensione. Soltanto Jules Vibart, l'innamorato della cameriera, aveva qualche suggerimento da offrire. Egli metteva in relazione l'improvvisa partenza della signora con la visita all'albergo, avvenuta un giorno o due prima, di un uomo alto, nero, barbuto.

"Un sauvage... un véritable sauvage", mi spiegò Jules Vibart.

Quest'uomo aveva preso delle stanze non si sapeva bene in quale punto della città. Era stato visto discutere animatamente con la signora sul lungo lago. Poi era venuto a trovarla all'albergo ma la signora si era rifiutata di vederlo. Era certamente inglese, ma nessuno ne conosceva il nome. Madame era partita subito dopo.

Jules Vibart e, quel che più importava, la sua fidanzata, pensavano che questa visita e questa strana partenza fossero rispettivamente causa ed effetto. Su un punto solo Jules non volle discutere: sul motivo cioè per cui Marie aveva lasciato la sua padrona. Su questo non poteva o non voleva dire nulla. Se volevo saperlo dovevo recarmi a Montpellier e chiederlo a lei.

In questo modo si concluse il primo capitolo della mia inchiesta.

Il secondo fu dedicato al luogo ricercato da Lady Frances Carfax al momento di lasciare Losanna. A questo proposito mi trovai improvvisamente impigliato in un'aura di segreto, ciò che confermava l'ipotesi che la signora se n'era andata con l'intenzione di far perdere le proprie tracce a qualcuno. Perché altrimenti il suo bagaglio non sarebbe stato apertamente etichettato per Baden? Sia questa che quello avevano raggiunto la stazione termale renana attraverso un giro vizioso. Questo lo appresi dal direttore della locale agenzia Cook. Mi recai pertanto a Baden dopo aver spedito a Holmes un resoconto di tutte le mie mosse, ricevendone in risposta un telegramma di lode a metà ironica.

A Baden la traccia non era difficile da seguire. Lady Frances si era trattenuta per una quindicina di giorni all'Englischer Hof.

Durante questo suo soggiorno aveva fatto la conoscenza di un certo dottor Shlessinger, missionario di ritorno dal Sud America, e di sua moglie. Come la maggior parte delle signore sole, Lady Frances trovava nella religione un'occupazione e un conforto. La personalità non comune del dottor Shlessinger, la sua pietà profonda, e il fatto che fosse convalescente di una malattia contratta nell'esercizio del suo apostolato, avevano prodotto sulla signora un effetto vivissimo. Lady Frances aveva aiutato la signora Shlessinger a curare il pio convalescente. Questi trascorreva la sua giornata, come mi fu descritto dal direttore, su una sedia a sdraio della veranda, nella vigile compagnia delle due signore. Stava preparando una carta topografica della Terra Santa, con speciale riferimento al regno dei Midianiti intorno ai quali stava scrivendo una monografia. Infine, essendo la sua salute molto migliorata, lui e sua moglie avevano fatto ritorno a Londra, e Lady Frances li aveva seguiti. Questo era accaduto tre settimane prima e da allora il direttore non ne aveva saputo più nulla. In quanto alla cameriera, Marie, se n'era partita qualche giorno prima in un mare di lacrime, dopo aver informato le altre cameriere che lasciava il servizio per sempre. Il dottor Shlessinger aveva pagato il conto per tutti prima di andarsene.

"A proposito" mi disse il proprietario concludendo, "lei non è il solo amico di Lady Frances Carfax che s'interessa della signora.

Non più di una settimana fa è stata qui un'altra persona con lo stesso scopo".

"Ha lasciato il nome?" domandai.

"No, ma era certamente inglese, per quanto di un tipo molto insolito".

"Un selvaggio?" chiesi, collegando i miei dati secondo il sistema del mio illustre amico.

"Esattamente. Questa definizione lo descrive benissimo. E' un individuo massiccio, barbuto, bruciato dal sole, che ha l'aria di trovarsi molto più a casa sua in una locanda di agricoltori che non in un albergo alla moda. Dev'essere un uomo duro, impulsivo, un tipo che non vorrei offendere per nulla al mondo".

Ecco che già il mistero cominciava a delimitarsi, così come le figure delle cose appaiono più distinte a mano a mano che la nebbia si dirada. Ci trovavamo di fronte a una buona e pia dama perseguitata di luogo in luogo da un figuro sinistro, inesorabile.

Lei doveva temerlo, altrimenti non sarebbe certo fuggita da Losanna. Ma costui l'aveva seguita. Presto o tardi l'avrebbe raggiunta. C'era già riuscito, forse? Era questo il segreto del suo prolungato silenzio? Non era possibile che la brava gente in compagnia della quale viaggiava non riuscisse a proteggerla dalla violenza di questo ricattatore? Quale orribile scopo, quale disegno oscuro si nascondeva dietro questo inseguimento accanito?

Ecco il problema che era mio compito risolvere.

Scrissi a Holmes spiegandogli la rapidità e la sicurezza con cui ero pervenuto alla radice del mistero. Per tutta risposta ebbi da lui un telegramma in cui mi si chiedeva una descrizione dell'orecchio sinistro del dottor Shlessinger. Il concetto di spirito che ha Holmes è molto strano e a volte offensivo. Perciò non feci caso a quella sua uscita di cattivo gusto... D'altronde ero già arrivato a Montpellier, alla ricerca della cameriera Marie, prima che mi giungesse il suo messaggio.

Non ebbi alcuna difficoltà a trovare l'ex domestica e ad apprendere da lei tutto ciò che era in grado di dirmi. Era una creatura devota, che aveva lasciato la sua signora soltanto perché era sicura di averla affidata in buone mani e perché comunque il suo matrimonio imminente avrebbe reso la separazione inevitabile.

In verità la sua padrona, come essa mi confessò con vera angoscia, aveva dimostrato una certa irritabilità di carattere nei suoi confronti durante la permanenza a Baden, e una volta l'aveva persino interrogata astiosamente, quasi sospettasse della sua onestà, cosa che aveva reso la separazione più facile di quanto altrimenti sarebbe stata. Lady Frances le aveva dato cinquanta sterline come regalo di nozze. Al pari di me, Marie giudicava con profonda diffidenza lo straniero che aveva costretta la signora ad abbandonare Losanna. Aveva visto personalmente, con i suoi propri occhi, costui afferrare violentemente la signora per i polsi, lungo la passeggiata pubblica in riva al lago. Era un uomo selvaggio e dall'aspetto terribile. Essa riteneva che fosse per terrore di lui che Lady Frances aveva accettato la scorta degli Shlessinger sino a Londra. Non avevo mai parlato a Marie di questo, ma da molti piccoli indizi la cameriera si era convinta che la sua padrona viveva in un continuo stato di apprensione nervosa. Era giunta a questo punto della narrazione quando a un tratto balzò dalla seggiola e il suo viso si alterò in un'espressione di sorpresa e di paura.

"Guardi" gridò. "Quel mascalzone è ancora qui! Ecco precisamente l'uomo di cui sto parlando".

Attraverso la finestra aperta del salottino scorsi un uomo bruno, enorme, con una barba nera ricciuta, che passeggiava lentamente nel mezzo della strada fissando con attenzione i numeri delle case. Era evidente che al pari di me costui era in cerca della cameriera. Agendo sotto l'impulso del momento balzai fuori e lo accostai.

"Lei è inglese", dissi.

"Ebbene?" mi chiese con un cipiglio odioso.

"Posso chiederle il suo nome?".

"No, non può", mi rispose secco.

La situazione era imbarazzante, ma spesso il sistema diretto è il migliore.

"Dov'è Lady Frances Carfax?" domandai.

L'uomo mi fissò trasecolato.

"Che ha fatto di lei? Perché l'insegue a questa maniera? Esigo una risposta", dissi.

L'uomo lanciò un ruggito di collera e mi balzò addosso come una tigre. Io me la sono sempre cavata in più di una zuffa, ma quell'individuo aveva una stretta d'acciaio e la furia di un dèmone. Già la sua mano mi serrava la gola e io avevo quasi perso i sensi quando un operaio francese dalla barba incolta, vestito di un camiciotto azzurro, sbucò da un'osteria di fronte roteando un manganello e colpì il mio assalitore con una botta secca all'avambraccio che lo costrinse a mollare la presa. Lo sconosciuto rimase per un istante a schiumare di collera, incerto se rinnovare o no il proprio attacco. Infine con un ghigno inferocito mi lasciò ed entrò nella casetta da cui io ero poco prima uscito. In quanto a me, mi voltai per ringraziare il mio salvatore che mi era rimasto accanto nel mezzo della strada.

"Bravo, Watson" mi disse. "Bel pasticcio ha combinato! Sarà meglio che ritorni con me a Londra con il rapido della notte".

Un'ora più tardi Sherlock Holmes, nella sua foggia e nelle sue vesti normali, era seduto nella sala privata del mio albergo. La spiegazione della sua improvvisa e provvidenziale comparsa era di una semplicità lineare: rendendosi infatti conto che gli era possibile allontanarsi da Londra, aveva deciso di precedermi alla prossima evidente stazione del mio viaggio; e travestito da operaio si era seduto in un'osteria ad aspettare che uscissi.

"Bella investigazione ha fatto, e di una consistenza veramente notevole, mio caro Watson", disse. "Creda che così sul momento non riesco a ricordare una possibile papera che lei non abbia omesso.

Il risultato complessivo della sua inchiesta è stato quello di dare l'allarme ovunque senza riuscire a scoprire un bel nulla".

"Probabilmente lei non avrebbe saputo fare meglio", risposi piccato.

"Non c'è 'probabilmente' che tenga. Io HO fatto meglio. Ecco l'onorevole Philip Green, suo compagno di vita in questo albergo, e chissà che non si possa trovare in lui il punto di partenza per una ricerca più costruttiva".

C'era stato presentato su una guantiera un biglietto da visita, cui seguì immediatamente quello stesso mascalzone barbuto che mi aveva assalito per la strada. Come mi vide sobbalzò.

"Che cos'è questa storia, signor Holmes?" domandò. "Ho avuto il suo invito e sono venuto. Ma che cosa c'entra quest'uomo?".

"Questo è il mio carissimo amico e socio dottor Watson che ci sta aiutando nelle nostre ricerche".

Lo straniero mi tese una mano enorme, cotta dal sole, e mormorò brevi parole di scusa.

"Spero di non averle fatto male. Quando lei mi ha accusato a quel modo, ho perso ogni controllo di me stesso. Per dire la verità non sono responsabile, in questi giorni. Ho i nervi allo scoperto; ma questa situazione mi rende pazzo. Quello però che desidero chiarire per prima cosa, signor Holmes, è come diavolo lei sia riuscito a sapere della mia esistenza".

"Sono in rapporti con la signorina Dobney, la governante di Lady Frances".

"Oh, la vecchia Susanna dalla cuffietta! La ricordo".

"E anche Susanna ricorda lei. E' stato nei giorni prima... prima che lei si accorgesse che le conveniva partire per il Sud Africa".

"Ah, vedo che sa proprio tutto! Non mi conviene dunque nascondere nulla! Ma le giuro, signor Holmes, che non c'è mai stato in questo mondo un uomo che abbia amato una donna con più disinteressato amore di quanto io abbia amato Frances. Ero un po' una testa calda, lo so... ma non ero certo peggiore degli altri giovanotti della mia classe. Il suo animo però era puro come la neve. Lei non sapeva sopportare neppure l'ombra di una scorrettezza. Perciò quando venne a conoscenza di certe cose che io avevo fatto, non volle più saperne di me. Eppure mi voleva bene... questa è la stranezza della cosa!... Mi voleva tanto bene che se n'è rimasta nubile in tutti questi lunghi e santi giorni della sua vita unicamente per amor mio. Ora che tanti anni erano ormai passati e io mi ero messo via un bel gruzzolo a Barberton, pensai che forse sarei riuscito a ripescarla e a convincerla. Avevo saputo che non si era sposata. La rintracciai a Losanna e feci di tutto per persuaderla. Si commosse, credo, ma ha una volontà di ferro, e quando mi recai da lei la seconda volta, se n'era già andata. La rintracciai a Baden e poi dopo un certo tempo seppi che la sua cameriera si trovava qui. Io sono un tipo rozzo, ho sempre vissuto un'esistenza dura, e quando il dottor Watson mi parlò in quel modo, per un attimo persi il dominio di me stesso. Ma per l'amor di Dio mi dica che cos'è successo di Lady Frances!".

"E' quello che dobbiamo cercar di sapere", rispose Sherlock Holmes con particolare gravità. "Qual è il suo indirizzo a Londra, signor Green?".

"Mi troverà certamente al Langham Hotel".

"Posso allora raccomandarle di rientrare subito a Londra e di trovarsi a disposizione nel caso io abbia bisogno di lei? Non voglio incoraggiarla con false speranze, ma le posso assicurare che tutto il possibile sarà fatto per la salvezza di Lady Frances.

Per il momento non posso dirle altro. Le lascio questo biglietto da visita in modo che lei possa tenersi in contatto con noi. E adesso, Watson, se vuol fare la sua valigia, io telegraferò alla signora Hudson perché compia uno dei suoi più grossi sforzi, domani mattina alle sette e trenta, per due poveri viaggiatori affamati".

Quando arrivammo nelle nostre stanze di Baker Street, trovammo un telegramma che ci aspettava e che Holmes, dopo averlo letto lanciando un'esclamazione di interesse, mi porse. "Seghettato o strappato", diceva il messaggio che recava la data di Baden.

"Che significa questa storia?" domandai.

"Significa tutto", fu la risposta di Holmes. "Lei ricorda forse la mia domanda apparentemente futile circa l'orecchio sinistro di questo evangelico gentiluomo: domanda alla quale lei non diede risposta".

"Ero già partito da Baden, e non mi fu possibile informarmi".

"Precisamente, per questo motivo spedii un secondo telegramma al direttore dell'Englischer Hof".

"Che cosa significa?".

"Significa, mio caro Watson, che ci troviamo di fronte a un individuo eccezionalmente scaltro e pericoloso. Il reverendissimo dottor Shlessinger, missionario di ritorno dal Sud America, altri non è se non Peters il Santone, uno dei mascalzoni più incalliti che l'Australia abbia mai prodotto... e bisogna ammettere che, per essere una nazione giovane, ha sfornato degli esemplari particolarmente finiti. La sua specialità è quella di irretire signore sole giocando sui loro sentimenti religiosi, e la sua cosiddetta moglie, un'inglese di nome Fraser, è la sua degna compagna. La sua tattica caratteristica mi suggerì la sua identità, e questa anomalia fisica - fu morsicato in malomodo in una rissa da osteria ad Adelaide nel 1889 - confermò i miei sospetti. Questa povera signora è nelle mani di una coppia satanica che non indietreggierà di fronte a nulla, Watson.

Purtroppo l'ipotesi che sia già morta è più che probabile. In caso contrario dev'essere senza dubbio segregata e impossibilitata a scrivere sia alla signorina Dobney sia ad altri amici. E' possibilissimo che non sia mai arrivata a Londra, o che ci sia soltanto passata, ma la prima ipotesi è improbabile perché dato il sistema di registrazione non è facile che gli stranieri possano giocare dei trucchi alla polizia continentale. E anche la seconda ipotesi è ugualmente improbabile perché questi farabutti non potevano sperare di trovare altro luogo dove sia facile come a Londra tenere una persona sotto segregazione. Tutti i miei istinti mi dicono che Lady Frances si trova a Londra, ma poiché non abbiamo per il momento alcun mezzo possibile per sapere dove, non ci resta che fare i passi necessari, mangiare in santa pace la nostra cena e portar pazienza. Più tardi in serata farò una passeggiata sino a Scotland Yard dove scambierò due chiacchiere con l'amico Lestrade".

Ma né la polizia ufficiale né la piccola ma efficace organizzazione di Holmes bastarono a chiarire il mistero. Tra i milioni d'abitanti che formicolano per Londra quei tre che cercavamo erano introvabili come se non fossero mai neppure esistiti. Tentammo con gli annunci sui giornali, ma inutilmente.

Furono seguiti degli indizi che non approdarono a nulla. Tutti i ritrovi loschi che Shlessinger potesse eventualmente frequentare furono perlustrati inutilmente. I suoi ex compari furono sorvegliati, ma questi si guardavano bene dal farsi vedere con lui. Quando a un tratto, dopo una settimana di inutili ricerche, venne un guizzo di luce. Da Bevington, in Westminster Road, era stato impegnato un ciondolo in argento e brillanti di antica foggia spagnola. Quello che l'aveva impegnato era un uomo dal viso glabro e dall'aspetto ecclesiastico. Fu dimostrato che il suo nome e il suo indirizzo erano falsi. L'orecchio caratteristico era sfuggito all'attenzione dello strozzino, ma la descrizione era indubbiamente quella di Shlessinger.

Il nostro barbuto amico dell'albergo Langham era venuto tre volte a chiedere notizie - e la terza un'ora dopo che avevamo ricevuto questa comunicazione inattesa. I vestiti erano diventati troppo larghi per quel suo gran corpo. Sembrava che per l'ansia si sciogliesse a vista d'occhio. "Se almeno mi deste qualcosa da fare!" era la sua lamentela costante. Finalmente Holmes fu in grado di accontentarlo.

"Ha incominciato a impegnare i gioielli; forse riusciremo a pescarlo".

"Ma questo significa che forse è accaduta qualche disgrazia a Lady Frances!".

Holmes scosse gravemente il capo.

"Ammesso che l'abbiano tenuta prigioniera fino a oggi, è evidente che non possono liberarla senza distruggersi con le proprie mani.

Dobbiamo essere preparati al peggio".

"Che devo fare?".

"Questa gente non la conosce di vista, per caso?".

"No".

"Può darsi che in avvenire si rechi da qualche altro strozzino: e in tal caso dovremo ricominciare tutto da capo. D'altronde però ha ricevuto un buon prezzo e nessuno gli ha rivolto domande. Perciò se avrà bisogno di denaro spicciolo è probabile che ritorni da Bevington. Le darò un biglietto per quella gente, così la lasceranno aspettare in bottega. Se il tizio dovesse venire, lei lo seguirà sino a casa. Ma non commetta indiscrezioni e soprattutto non ricorra alla violenza. Mi affido al suo onore affinché non muova un passo senza che io lo sappia e senza il mio consenso".

Per due giorni l'onorevole Philip Green (dirò per inciso che era il figlio del celebre ammiraglio Green che comandò la flotta del Mare d'Azof durante la guerra di Crimea), non ci portò alcuna notizia. La sera del terzo giorno si precipitò nel nostro salottino pallido, tremante; ogni muscolo della sua potente massa vibrava di emozione.

"Lo abbiamo scoperto!" gridò.

L'agitazione lo rendeva incoerente. Holmes cercò di calmarlo e lo costrinse a sedere in poltrona.

"Su, andiamo, ci racconti con ordine", disse.

"E' arrivata soltanto un'ora fa; era la moglie, questa volta, ma il ciondolo che aveva in mano era il gemello dell'altro. E' una donna alta, pallida, con due occhi da furetto".

"Sì, è lei", confermò Holmes.

"Quando uscì mi misi a seguirla. Si avviò su per la Kennington Road, e io le tenni dietro. Poco dopo entrò in un negozio, signor Holmes... Era il negozio di un impresario di pompe funebri".

Il mio amico trasalì. "Sì?" chiese con quella voce vibrante che rivelava dietro il viso freddo e impassibile uno spirito in tumulto.

"Stava parlando con una donna dietro il banco. Entrai anch'io. - E' tardi - la sentii dire, o qualcosa di simile. La donna si scusò. - Dovrebbe essere già stato portato - soggiunse poi. - C'è voluto più tempo del solito essendo di misura fuori del normale -.

Poi improvvisamente s'interruppe e tutte e due mi guardarono; perciò io rivolsi qualche domanda banale e lasciai il negozio".

"Si è comportato benissimo. Che accadde in seguito?".

"La donna uscì ma io mi ero nascosto in un portone. Credo che dovevo avere risvegliato i suoi sospetti, perché si guardò attorno. Dopo di che chiamò una vettura e ci salì; io ebbi la fortuna di poterne fermare subito un'altra e di seguirla.

Finalmente scese al numero trentasei di Poultney Square, a Brixton. Io oltrepassai la casa, fermai la mia vettura all'angolo della piazza e osservai la casa".

"Ha visto qualcuno?".

"Le finestre erano tutte buie a eccezione di una al piano inferiore. La persiana però era abbassata, e non potei guardarci dentro. Io ero lì fermo, chiedendomi che cosa avrei dovuto fare, quando passò un furgone con due uomini dentro. Costoro discesero, tolsero qualcosa dal furgone e la trasportarono sino ai gradini dell'ingresso. Signor Holmes, era una bara".

"Ah!".

"Per un attimo fui sul punto di accorrere. La porta era stata aperta per lasciar passare i due uomini col loro fardello. Era venuta ad aprire la donna. Ma mentre ero lì fermo mi scorse e temo che mi abbia riconosciuto. La vidi trasalire e richiudere bruscamente la porta. Mi rammentai allora della sua promessa ed eccomi qui".

"E' stato bravissimo", disse Holmes scribacchiando alcune parole su un foglietto di carta. "Senza mandato non possiamo intraprendere alcuna azione legale, e lei potrebbe essermi di grandissimo aiuto se potesse avere la bontà di portare questo messaggio alle autorità facendosene rilasciare uno. Può darsi che le muovano qualche difficoltà, ma penso che la vendita dei gioielli dovrebbe essere sufficiente. Lestrade provvederà a tutti i dettagli".

"Ma potrebbero ucciderla nel frattempo! Che significherebbe altrimenti quella bara e per chi possono averla ordinata se non per lei?".

"Tenteremo tutto il possibile, signor Green. Non perderemo un attimo. Lasci fare a noi. E adesso, Watson", soggiunse, mentre il nostro cliente si allontanava a precipizio, "lui metterà in moto le forze regolari. Noi invece, come al solito, siamo gli irregolari, e dobbiamo scegliere la nostra linea d'azione. A parer mio la situazione è talmente disperata che anche le misure più estreme saranno giustificate. Dobbiamo arrivare a Poultney Square il più in fretta possibile".

"Cerchiamo intanto di ricostruire la situazione", mi disse mentre passavamo con una carrozza rapidissima oltre alle Case del Parlamento e superavamo il Ponte di Westminster. "Quei farabutti hanno indotto la disgraziata signora a seguirli a Londra, dopo averla separata dalla sua fedele cameriera. Anche ammesso che abbia scritto delle lettere, queste sono state sicuramente intercettate. Attraverso qualche complice devono avere affittato una casa ammobiliata. Una volta là installati l'hanno fatta loro prigioniera e si sono impossessati dei preziosi gioielli che erano stati il loro scopo sin dall'inizio. E adesso hanno già incominciato a venderne una parte, e devono certamente sentirsi al sicuro, giacché non hanno motivo di ritenere che qualcuno si possa interessare della sorte della signora. Se costei fosse rilasciata è evidente che li denuncerebbe. Perciò per loro è questione di vita o di morte non lasciarla libera. Ma non possono d'altronde tenerla eternamente sotto chiave. Perciò la loro unica via di uscita non può che essere il delitto".

"Questo mi sembra molto chiaro".

"Seguiamo invece adesso un altro ragionamento. Quando si percorrono due linee di pensiero separate, Watson, si trova sempre qualche punto di intersezione che dovrebbe approssimarsi alla verità. Incominciamo dunque adesso, non dalla signora, bensì dalla bara, e argomentiamo a ritroso. L'incidente dimostra purtroppo senza possibilità di dubbio, temo, che la signora è morta. Esso fa anche pensare a un funerale ortodosso con accompagnamento in piena regola di certificato medico e di sanzione ufficiale. Se avessero già ucciso la signora l'avrebbero certamente seppellita in qualche buca del giardino dietro alla casa. Ma ci troviamo di fronte a un procedimento patente, regolare. Che significa ciò? Certamente che l'hanno uccisa in qualche modo che ha ingannato il medico, simulando una fine naturale, mediante avvelenamento, forse. Eppure è ben strano che l'abbiano lasciata avvicinare da un medico a meno che si tratti di un loro complice, il che è un'ipotesi poco plausibile".

"Non potrebbero avere falsificato un certificato medico?".

"E' un passo pericoloso, Watson, molto pericoloso. No, non credo che l'abbiano tentato. Ferma, conducente! Quello dev'essere senz'altro l'impresario delle pompe funebri, poiché abbiamo appena passato lo strozzino. Le spiace entrare, Watson? Il suo aspetto ispira fiducia. Chieda a che ora avranno luogo domani i funerali di Poultney Square".

La proprietaria del negozio mi rispose senza esitazione che il servizio funebre era stato fissato per l'indomani alle otto.

"Come vede, Watson, niente misteri; tutto è chiaro, limpido, irreprensibile! Chissà come avranno ottemperato a tutte le formalità legali, e certo non devono aver nulla da temere. Bene, non ci resta che tentare un attacco frontale diretto. E' armato?".

"Ho il mio bastone!".

"Pazienza. Riusciremo lo stesso a prevalere. 'Tre volte è armato colui che combatte per la giusta causa'. Non possiamo assolutamente aspettare l'arrivo della polizia. Né attenerci ai dovuti regolamenti della legge. Può andare, vetturino... E ora, Watson, affronteremo la fortuna insieme come tante volte abbiamo fatto in passato".

Bussò violentemente all'uscio di una grande casa che sorgeva al centro di Poultney Square. Ci venne subito aperto, e nell'ingresso in penombra si stagliò la sagoma di una donna alta.

"Che volete?" domandò bruscamente, fissandoci nelle tenebre con due occhi inquisitori.

"Desideriamo parlare col dottor Shlessinger", disse Holmes.

"Qui non c'è nessun dottor Shlessinger", rispose la donna, e fece per richiudere l'uscio; ma Holmes glielo impedì introducendo fulmineamente il piede tra il battente e lo stipite.

"Bene, voglio vedere la persona che abita qui, comunque si chiami", insistette fermamente Holmes.

La donna esitò, quindi spalancò l'uscio. "Va bene, entrino", disse. "Mio marito non ha paura di nessuno". Richiuse l'uscio dietro di noi e ci fece entrare nel salotto che si trovava sul lato destro del vestibolo, accendendo il gas prima d'uscire. "Il signor Peters sarà da voi tra un attimo", disse.

Le sue parole si avverarono alla lettera, poiché non avevamo quasi avuto il tempo di osservare la stanza polverosa e divorata dalle tarme in cui eravamo stati introdotti, che l'uscio si aprì e un uomo massiccio, dal volto accuratamente raso e dalla testa calva, avanzò nella stanza con passo lieve. Aveva una grossa faccia rossa dalle guance pendule, e un aspetto generale di superficiale benevolenza guastato però da una bocca crudele e cattiva.

"Ci dev'essere certamente un errore, signori", disse con voce untuosa, accomodante. "Credo vi abbiano male indirizzati. Se voleste provare nella casa vicina..".

"Basta così; non abbiamo tempo da perdere", lo interruppe brusco il mio compagno. "Lei è Henry Peters, di Adelaide, alias il reverendo dottor Shlessinger, di Baden e del Sud America. Ne sono sicuro come sono sicuro di chiamarmi Sherlock Holmes".

Peters, come lo chiamerò d'ora in avanti, trasalì e fissò con sguardo duro il suo formidabile avversario. "Non creda che il suo nome mi spaventi, signor Holmes", replicò freddamente. "Quando un uomo ha la coscienza a posto nessuno può spaventarlo. Che vuole da me e in casa mia?".

"Voglio sapere che fine ha fatto Lady Frances Carfax che lei ha persuaso ad abbandonare Baden in compagnia sua e di sua moglie".

"Sarei ben felice se potesse dirmi lei dove si è cacciata questa degna signora", rispose Peters senza scomporsi. "Ho un conto in sospeso con lei di quasi cento sterline, avendone ricevuto in cambio soltanto un paio di ciondoli finti che nessuno mi vuol comprare. Si è messa alle costole di mia moglie e alle mie a Baden (effettivamente in quel periodo io avevo assunto un nome diverso) e rimase appiccicata a noi finché arrivammo a Londra. Fui io a pagare il suo conto e il suo biglietto. Una volta a Londra ci diede lo sgambetto e come ripeto ci lasciò in pagamento dei suoi debiti quattro carabattole fuori moda. Se lei riesce a trovarla, signor Holmes, sarò io in debito verso di lei".

"Certo che la troverò", rispose Sherlock Holmes. "Perquisirò questa casa finché non l'avrò trovata".

"Ha un mandato regolare?".

Per tutta risposta Holmes estrasse di tasca la rivoltella.

"Per il momento basta questa".

"Ma lei è un volgare scassinatore!".

"Mi chiami pure come vuole", rispose allegramente Holmes. "E anche il mio compagno è un pericoloso mascalzone, e insieme abbiamo l'intenzione di perquisire la sua casa da cima a fondo".

Il nostro avversario accorse all'uscio.

"Va a chiamare un agente, Annie!" rispose. Si sentì per il corridoio un fruscìo di gonne femminili, e la porta d'ingresso fu aperta e chiusa.

"Il nostro tempo è limitato, Watson", disse Holmes. "Se lei cerca di fermarci, Peters, sarà certamente per lo meno ferito. Dov'è la bara che è stata portata qui?".

"Che volete farne? E' occupata! C'è dentro un cadavere".

"Devo vedere questo cadavere".

"Mai col mio permesso".

"E allora senza!". Con un movimento rapido Holmes spinse Peters da un lato e passò nel vestibolo. Proprio davanti a noi c'era un uscio socchiuso. Entrammo. Era la sala da pranzo. Sul tavolo, sotto il lampadario semi illuminato, giaceva il feretro. Holmes accese il gas e sollevò il coperchio. Sprofondata nei recessi della bara era distesa una figura emaciata. Il riverbero violento delle luci sovrastanti ne illuminava in pieno il volto antico e distrutto. Né trattamenti crudeli, né fame, né malattia per quanto spaventosa, potevano avere così alterato il volto ancora giovanilmente bellissimo di Lady Frances. Sul viso di Holmes si dipinse un'espressione di estremo stupore, ma anche di sollievo.

"Grazie al Cielo!" mormorò. " E' un'altra!".

"Ah! Questa volta ha preso un bel granchio, mio caro signor Holmes", disse Peters che ci aveva seguiti.

"Chi è questa morta?".

"Ecco, se proprio vuole saperlo, è una vecchia bambinaia di mia moglie; si chiamava Rosa Spender e l'abbiamo trovata nell'Ospizio per Vecchi di Brixton. Noi l'abbiamo portata qui, abbiamo chiamato il dottor Horsom che abita al numero 13 di Firbank Villas - badi di annotarsi l'indirizzo, signor Holmes - e la facemmo curare con amore, com'è dovere di ogni buon cristiano. E' morta al terzo giorno - sul certificato c'è scritto per deperimento senile - ma questa è semplicemente l'opinione del medico, e lei certamente la saprà più lunga. Ordinammo il suo funerale all'impresa di pompe funebri Stimson e soci, della Kennington Road, che faranno il trasporto domattina alle otto. Trova nulla da ridire in tutto questo, signor Holmes? Ha preso un bel granchio, glielo ripeto, e darei non so cosa per avere una fotografia della faccia che ha fatto quando ha tirato su il coperchio del feretro aspettandosi di trovarci Lady Frances Carfax e ci ha scoperto invece una povera vecchia di novant'anni".

L'espressione di Holmes, malgrado i dileggi del suo antagonista, era rimasta impassibile, ma i suoi pugni chiusi tradivano in lui un'ira mal repressa.

"Perquisirò questa casa", ripeté.

"Ah, siete arrivati", gridò Peters mentre una voce di donna e alcuni passi pesanti risuonavano nel corridoio. "Questo lo vedremo. Di qui, signori agenti, per favore. Questi due uomini sono entrati a viva forza in casa mia e non riesco a farli uscire.

Aiutatemi a buttarli fuori". Sulla soglia apparvero un sergente e un metropolitano. Holmes presentò loro il suo biglietto da visita.

"Ecco il mio nome e il mio indirizzo, e questo è il mio amico dottor Watson".

"Perbacco, signor Holmes, la conosciamo benissimo", disse il sergente, "ma lei non può restare qui senza un mandato ufficiale".

"Si capisce che non posso! Questo lo so da me".

"Arrestatelo!" gridò Peters.

"Non abbiamo bisogno di ricevere ordini da lei per sapere come comportarci con questo signore", replicò il sergente in tono solenne, "ma lei deve proprio andarsene, signor Holmes", soggiunse poi rivolto al mio amico.

"Sì, Watson, dobbiamo andarcene".

Un minuto dopo eravamo di nuovo in strada. Holmes era calmo come sempre, ma io avvampavo di collera e di umiliazione. Il sergente ci aveva seguiti.

"Mi spiace, signor Holmes, ma questa è la legge".

"Ha fatto benissimo, sergente; lei non poteva comportarsi altrimenti".

"Credo che la sua presenza in quella casa fosse veramente giustificata. Se posso far qualcosa..".

"Cerchiamo una signora scomparsa, sergente, e pensiamo che sia là dentro. Aspetto un mandato da un momento all'altro".

"Allora terrò gli occhi bene aperti, e se succede qualcosa glielo farò sapere subito".

Erano appena le nove e ci rimettemmo senza indugio in piena caccia. Ci recammo prima di tutto all'ospizio per vecchi di Brixton, dove fummo informati che effettivamente una coppia caritatevole si era presentata alcuni giorni prima a reclamare una vecchia rimbecillita che era stata loro antica domestica, ottenendo il permesso di portarsela via. Nessuno espresse la minima sorpresa che la donna fosse poi deceduta.

La nostra successiva visita fu per il medico. Costui era stato veramente chiamato, aveva trovato la donna moribonda di vecchiaia, l'aveva anzi vista trapassare, e aveva firmato il certificato in piena coscienza. "Vi garantisco che tutto si è svolto in modo perfettamente normale, e non è possibile sospettare sia pur l'ombra di un imbroglio", ci disse. Nella casa non aveva notato nulla di strano, senonché aveva trovato curioso che gente della loro classe non tenesse servitù. Questa la deposizione del dottore. Arrivammo finalmente a Scotland Yard. Per quanto riguardava il mandato c'erano state alcune difficoltà di procedura. Un certo ritardo era inevitabile. Non sarebbe stato possibile avere la firma del magistrato prima dell'indomani mattina. Se Holmes fosse venuto verso le nove avrebbe potuto accompagnarsi a Lestrade e procedere alla sua esecuzione. Così si concluse la giornata, sennonché verso la mezzanotte il nostro amico sergente venne ad avvertirci che aveva visto qua e là alle finestre della grande casa scura un balenìo di luci, ma che nessuno ne era uscito e nessuno entrato. Non ci restava che portar pazienza e aspettare l'indomani.

Sherlock Holmes era troppo irritabile per conversare e troppo irrequieto per dormire. Lo lasciai che stava fumando come una ciminiera, le folte scure sopracciglia corrugate, le lunghe dita nervose tambureggianti sui braccioli della poltrona, mentre nel suo cervello dovevano certamente agitarsi tutte le possibili soluzioni del mistero. Più di una volta nel corso di quella notte lo sentii aggirarsi per la casa. Infine, proprio poco dopo che mi avevano svegliato, me lo vidi arrivare nella mia stanza come un razzo. Era in veste da camera, ma la sua faccia pallida, dalle occhiaie infossate, mi rivelò come la sua notte fosse stata completamente insonne.

"A che ora doveva essere il funerale? Alle otto, vero?" mi domandò con voce ansiosa. "Bene, adesso sono le sette e venti. Perbacco, Watson, che cosa è successo di quel po' di cervello che Dio mi ha dato? Presto, presto, su! E' questione di vita o di morte...

novantanove probabilità di morte contro una di vita. Ma non mi perdonerò mai se arriveremo troppo tardi!".

Non erano trascorsi cinque minuti che già volavamo in una vettura chiusa giù per Baker Street. E pure a velocità folle passavamo Big Ben alle sette e trentacinque e le otto scoccavano mentre imboccavamo come bolidi la Brixton Road. Ma anche gli altri erano in ritardo come noi. Dieci minuti dopo l'ora fissata, il carro funebre era ancora fermo davanti al portone della casa, e proprio nel momento in cui il nostro cavallo schiumante di bava si fermava, il feretro comparve sulla soglia trasportato da tre uomini. Holmes scese come un pazzo e sbarrò loro la strada.

"Riportatelo indietro!" gridò, fermando con la mano il primo dei portatori. "Riportatelo indietro immediatamente".

"Ma che diavolo vuole? Ancora una volta le chiedo dov'è il suo mandato?" urlò furibondo Peters, mentre la sua grossa faccia rossa scrutava verso l'altro capo della bara.

"Il mandato è per strada. Questo feretro resterà in questa casa finché non arriverà la polizia".

L'autorità che emanava dalla voce di Holmes ebbe il suo effetto sui becchini. Peters era improvvisamente scomparso, e gli uomini obbedirono agli ordini del nuovo venuto. "Presto, Watson, presto.

Ecco qua un cacciavite", urlò mentre la bara veniva riadagiata sul tavolo. "Eccone uno anche a lei, brav'uomo! Le do una sovrana se riesce a sollevare questo coperchio in un minuto. Non faccia domande... lavori! Bene! Su! Forza! Adesso tirate tutti insieme!

Cede! Cede! Ah, finalmente ci siamo!".

Grazie ai nostri sforzi riuniti riuscimmo a svellere il coperchio della bara, e contemporaneamente uscì dall'interno di essa un odore stordente e insopportabile di cloroformio. Dentro giaceva un corpo con la testa tutta avvolta in cotone idrofilo imbevuto di narcotico. Holmes lo strappò con violenza rivelando il volto statuario di una donna bellissima, dall'aspetto spirituale, di mezza età. Immediatamente passò il braccio intorno alla figura inerte e la sollevò in posizione seduta.

"E' già morta, Watson? C'è ancora speranza? Non è possibile che siamo arrivati troppo tardi".

Per mezz'ora sembrò che non ci fosse veramente più nulla da fare.

Tra la soffocazione della bara e i vapori venefici del cloroformio Lady Frances pareva aver oltrepassato la linea di demarcazione che divide la morte dalla vita. Ma finalmente, grazie alla respirazione artificiale, a iniezioni di etere e a vari altri mezzi suggeriti dalla scienza, un barlume di vita, un trepido vibrare di ciglia, una lieve appannatura dello specchio accennarono che la vita lentamente ritornava. Una vettura si era fermata, intanto, e Holmes scostando la persiana guardò in strada.

"Ecco Lestrade col suo mandato" osservò. "Ed ecco qua", soggiunse, mentre un passo pesante risuonava nel corridoio, "qualcuno che ha più diritto di noi a curare la signora. Buongiorno, signor Green; credo che più presto riusciremo a trasportare Lady Frances, tanto meglio sarà. Frattanto il funerale può aver luogo, e la povera vecchia che ancora giace in quella bara potrà finalmente raggiungere il luogo del suo eterno riposo, ma sola, per fortuna!".

"Se le interessasse aggiungere questo caso ai suoi annali, mio caro Watson", mi disse Holmes quella sera, "esso potrà fornire un esempio delle eclissi temporanee cui anche le menti più equilibrate possono andare soggette. Sviste simili sono comuni a tutti i mortali, e tanto maggiore è pertanto il merito di chi riesce a riconoscerle e rimediarle. A questo merito io credo di avere qualche diritto. La mia notte fu ossessionata dal pensiero che un indizio, una frase curiosa, un'osservazione insolita erano passati sotto il mio giudizio e che io li avevo troppo facilmente trascurati. Poi a un tratto, nelle prime luci grigie del mattino, le parole esatte mi ritornarono alla mente. Era l'osservazione della moglie dell'impresario delle pompe funebri, quale mi era stata riferita da Green. La donna aveva detto: - Dovrebbe essere già pronta, ma c'è voluto più tempo perché era di misura fuori del normale -. Parlava appunto della bara. Era di misura fuori del normale... Ciò non poteva significare altro che era stata fatta secondo dimensioni speciali. Ma perché? Perché? Poi a un tratto mi ricordai dell'ampiezza del feretro e della piccola fragile spoglia della donnetta da noi vista. Perché un feretro così grande per un cadavere così piccolo? Per lasciar spazio a un altro cadavere, o a un corpo vivo! Le due donne sarebbero state seppellite con un unico certificato. Tutto sarebbe stato così chiaro se la mia perspicacia non fosse stata temporaneamente ottenebrata. Alle otto Lady Frances doveva essere sepolta; ora la nostra unica speranza era quella di arrivare in tempo a fermare il corteo funebre prima che abbandonasse la casa.

"Avevamo una probabilità su mille di trovarla ancora viva, ma era pur sempre una probabilità e i risultati ci diedero ragione. Che io sappia quella gente non aveva mai commesso un delitto; probabilmente dovettero rifuggire sino all'ultimo dalla violenza materiale. Era facile per loro seppellirla senza lasciar traccia del proprio misfatto, e anche se fosse stata esumata avevano sempre qualche speranza di cavarsela. Io speravo che queste considerazioni avessero in loro il sopravvento. Le sarà facile ricostruire la scena. Lei ha visto quell'orribile tana all'ultimo piano dove la povera signora è stata sequestrata per tanto tempo.

Dovettero stordirla col cloroformio, trasportarla di sotto, versare dell'altro narcotico nella bara per impedire che si risvegliasse, quindi avvitarne il coperchio. Hanno agito con molta astuzia, Watson. Questo fatto per me è nuovo negli annali del delitto. Se i nostri ex missionari riusciranno a sfuggire alle grinfie di Lestrade, prevedo che udremo parlare ancora ben presto di parecchie altre gesta brillanti, nella loro losca carriera!".

  

 

 

L'AVVENTURA DEL PIEDE DEL DIAVOLO

 

Nell'annotare di tanto in tanto alcune delle curiose esperienze e degli interessanti ricordi che si collegano alla mia lunga e intima amicizia con Sherlock Holmes, mi sono costantemente trovato a dover fronteggiare le difficoltà causate dalla sua invincibile avversione contro ogni forma di pubblicità. Il suo spirito scettico e solitario nutrì sempre il più profondo disprezzo verso l'applauso popolare, e nulla lo divertiva di più, al termine di un'inchiesta fortunata, del riversare tutto il merito del successo su qualche funzionario ortodosso, e ascoltare con un sorriso ironico il coro generale delle mal riposte congratulazioni. Fu effettivamente questo atteggiamento da parte del mio amico, e non già la mancanza di materiale interessante, che mi ha fatto presentare al pubblico in questi ultimi anni solo pochissimi racconti. La parte da me presa in qualcuna delle sue avventure fu sempre un gran privilegio per me, ma questo mi impose anche in più di un caso molta reticenza e la massima discrezione.

Il lettore potrà quindi facilmente immaginare la mia sorpresa quando martedì scorso ricevetti un telegramma da parte di Holmes - non scriveva mai quando gli era possibile spedire un telegramma - concepito nei seguenti termini: "Perché non raccontare dello sterminio di Cornovaglia... il caso più strano che mi sia mai capitato?". Non so quale memoria retrospettiva gli aveva riportato alla mente l'argomento, o quale capriccio lo aveva indotto a desiderare che io lo rendessi di dominio pubblico; comunque mi affretto ad accontentarlo prima che possa arrivarmi un altro telegramma da parte sua che annulli questo precedente; ho riunito in fretta i miei appunti dove avevo fermato tutti i precisi particolari del caso, ed eccomi a narrarlo ai miei lettori.

Fu dunque nella primavera del 1897: la ferrea costituzione di Holmes aveva cominciato a manifestare alcuni sintomi di debolezza in seguito a un lavoro costante e durissimo, e l'indisposizione era forse pure aggravata da eccessi non del tutto inerenti agli sforzi impostigli dall'esercizio della sua professione. Nel marzo di quell'anno il dottor Moore Agar, di Harley Street, di cui forse narrerò un giorno il drammatico incontro con Holmes, dichiarò esplicitamente che il famoso poliziotto privato doveva abbandonare ogni attività e concedersi un riposo totale se voleva evitare un esaurimento nervoso irreparabile. Lo stato della sua salute era un argomento che a Holmes personalmente non interessava affatto, ma alla fine si rassegnò, di fronte alla minaccia di diventare definitivamente inabile al lavoro, e accettò un mutamento completo di atmosfera e d'ambiente. Fu così che all'inizio della primavera di quell'anno ci trovammo riuniti in un villino in prossimità di Poldhu Bay, al limite estremo della penisola di Cornovaglia.

Era una località singolare e particolarmente adatta all'umore tetro del mio paziente. Dalle finestre della nostra casetta imbiancata a calce che sorgeva su un promontorio erboso, la vista abbracciava tutto il sinistro emiciclo della Mounts Bay, l'antica trappola di morte di tutti i velieri, con la sua frangia di rupi nere e la sua cintura di scogli spazzati dalla risacca dove innumerevoli navigatori erano miseramente periti. Grazie a una brezza settentrionale che vi spira, essa si stende placida e riparata, invitando i navigli squassati dalle tempeste a rifugiarcisi in cerca di riposo e di protezione.

Poi il vento gira improvviso e vorticoso; sopraggiunge il fortunale irrompente da sud-ovest, l'ancora prende ad arare, ecco la spiaggia dalla parte di sottovento, e infine la suprema battaglia tra i marosi schiumanti come cavalli impazziti. Il marinaio saggio si tiene lontano da questo luogo di sciagura!

Sul lato di terra il paesaggio che ci circondava era tetro non meno del mare. Era un paese tutto lande ondulate, solitario e di color perso, con un campanile ad affiorare di quando in quando per segnare l'ubicazione di qualche villaggio sperduto. Dappertutto su queste lande si vedono tracce di una razza scomparsa definitivamente, che ha lasciato in suo ricordo strani monumenti di pietra, tumuli irregolari contenenti le ossa bruciate dei morti e curiosi terrapieni, indici di conflitti preistorici. Il fascino e il mistero di questo luogo, la sua sinistra atmosfera di genti dimenticate, aveva fatto presa sull'immaginazione del mio amico, ed egli trascorreva gran parte del suo tempo in lunghe passeggiate e in solitarie meditazioni sulla landa. Anche l'antico linguaggio di Cornovaglia aveva attratto la sua attenzione, e ricordo come avesse concepito l'idea che fosse affine al caldeo, e che traesse ampie derivazioni dai trafficanti di stagno fenici. Si era fatto spedire un grosso pacco di libri di filologia, e s'era messo a sviluppare questa tesi quando a un tratto, con mio dolore e con sua non celata gioia, ci trovammo, persino in quella terra di sogni, tuffati a capofitto in un problema, accaduto proprio lì, davanti alla nostra stessa soglia, che era molto più profondo, molto più interessante e infinitamente più misterioso di tutti quelli che ci avevano cacciato da Londra. La nostra esistenza piana, pacifica, il nostro salubre andazzo venne violentemente interrotto, e venimmo precipitati nel bel mezzo di una serie di vicende che suscitarono la massima emozione non solo in Cornovaglia, ma in tutta la regione occidentale dell'Inghilterra.

Forse molti tra i miei lettori ricorderanno quel che venne chiamato allora "L'orrore di Cornovaglia", per quanto alla stampa londinese fosse giunto un resoconto molto incompleto della vicenda.

Ho detto che i villaggi disseminati in quella parte della Cornovaglia erano contrassegnati da torri sparse. Il più vicino di questi villaggi era il paesino di Tredannick Wollas, dove le casupole di circa duecento abitanti si assiepavano intorno a un'antica chiesa tappezzata di muschio. Il vicario della parrocchia, il signor Roundhay, si dilettava in archeologia, e perciò Holmes aveva stretto conoscenza con lui. Era un uomo di mezz'età, maestoso e affabile, dotato di un notevole bagaglio di erudizione locale. Dietro suo invito eravamo stati a prendere il tè al vicariato, ed eravamo così venuti a conoscere anche il signor Mortimer Tregennis, un gentiluomo che viveva solo e che aiutava il curato a impinguare le magre risorse affittando alcune stanze della sua grande casa disordinata. Il vicario, essendo scapolo, era stato ben felice di questa sistemazione, anche se c'era molto poco di comune tra lui e il suo inquilino che era un uomo alto, scuro, occhialuto, e talmente curvo da suggerire un'impressione di vera e propria deformità fisica. Ricordo che durante la nostra breve visita notammo che il vicario era molto loquace, mentre il suo pigionante si era mostrato stranamente taciturno: ripeto, era un uomo dal viso triste, dall'aspetto pensieroso, e rimase quasi sempre seduto senza guardarci e immerso apparentemente nei propri affari personali.

Ecco i due uomini che irruppero bruscamente nel nostro salottino quel martedì sedici marzo, poco dopo la nostra prima colazione, mentre stavamo facendo una fumatina preparatoria per la nostra quotidiana passeggiata sulle lande.

"Signor Holmes", disse il vicario con voce agitatissima, "si è verificato durante la notte un fatto straordinario e spaventosamente tragico. Si tratta di un avvenimento inaudito, e possiamo considerare come un dono speciale della Provvidenza che lei si trovi qui in un simile frangente, dato che in tutta l'Inghilterra lei è proprio l'uomo di cui abbiamo bisogno".

Fissai il vicario con occhi tutt'altro che amichevoli; ma Holmes si tolse la pipa di bocca e si tirò su dritto sulla seggiola come un vecchio cane da caccia che senta squillare l'hallalì. Con un gesto della mano indicò il sofà, dove il nostro visitatore ansante e il suo esagitato compagno sedettero a fianco a fianco. Il signor Mortimer Tregennis appariva più composto del parroco, ma il tremito delle sue mani sottili e la lucentezza febbrile dei suoi occhi scuri rivelavano quanto condividesse l'emozione che sconvolgeva il suo padrone di casa.

"Parla lei o vuole che parli io?" domandò il vicario.

"Ecco, dal momento che è stato lei a fare la scoperta, di qualunque cosa possa trattarsi, e il vicario l'ha appresa soltanto di seconda mano, sarà forse meglio che parli lei", disse Holmes.

Lanciai un'occhiata al vicario sommariamente vestito, mentre il suo inquilino gli era seduto accanto abbigliato in piena regola, e mi divertì la sorpresa che la semplice deduzione di Holmes aveva dipinto sui loro volti.

"Sarà forse meglio che dica due parole prima io", interloquì il vicario, "quindi giudicherà lei se ascoltare i particolari dal signor Tregennis, o se non sarà invece meglio che ci affrettiamo a recarci tutti insieme sul posto di questa misteriosa tragedia. Le spiegherò dunque che il nostro amico qui presente passò la serata di ieri in compagnia dei suoi due fratelli, Owen e George, e di sua sorella Brenda, nella loro casa di Tredannick Wartha, che si trova vicino all'antica croce di pietra della landa. Li lasciò poco dopo le dieci, che giocavano a carte intorno al tavolo della sala da pranzo, in ottima salute e in perfetta allegria. Stamane, poiché si alza sempre molto presto, si avviò a piedi in quella direzione prima di far colazione, e fu raggiunto dalla carrozza del dottor Richards, che gli spiegò come fosse stato mandato a chiamare con la massima urgenza da Tredannick Wartha. Il signor Mortimer Tregennis logicamente si accompagnò a lui. Giunto a Tredannick Wartha si trovò di fronte a uno spettacolo inaudito. I suoi due fratelli e la sorella erano seduti intorno al tavolo, esattamente come lui li aveva lasciati, con le carte ancora sparse sul tavolo e le candele consumate sino al bocciuolo. La sorella giaceva abbandonata sulla seggiola, morta stecchita, mentre i due fratelli erano seduti ai due lati di lei che ridevano, urlavano, cantavano, completamente fuori di senno. Tutti e tre, la morta e i due dementi, avevano impressa nel volto un'espressione di terrore indescrivibile, un tale stravolgimento di orrore che faceva spavento guardarli. Non c'era traccia di alcuna presenza estranea nella casa, fatta eccezione per la signora Porter, la vecchia cuoca e governante di casa, che dichiarò di aver dormito profondamente e di non aver sentito durante la notte il benché minimo rumore. Non era stato rubato né spostato nulla, e non è possibile dare alcuna spiegazione dell'orrore che ha spaventato una donna sino a farla morire e ha tolto il senno a due uomini robusti. Questa in succinto la situazione, signor Holmes, e se lei potrà aiutarci a chiarirla avrà compiuto una grande cosa".

Avevo sperato di riuscire in qualche modo a convincere il mio amico a restarsene nella pace che era stata lo scopo del nostro viaggio, ma mi bastò un'occhiata al suo viso intento e alle sue sopracciglia contratte per capire che ogni mia supplica sarebbe stata inutile. Si mise a sedere alquanto in silenzio, assorto nella meditazione del misterioso dramma che era così improvvisamente scoppiato a scompaginare la nostra quiete.

"Accetto di occuparmi di questo problema", disse infine. "Così di primo acchito sembrerebbe un caso di natura assolutamente eccezionale. Lei è stato laggiù, signor Roundhay?".

"No, signor Holmes. Il signor Tregennis è ritornato alla parrocchia, mi ha riferito l'accaduto e io sono venuto qui subito a consultarmi con lei".

"Quanto dista la casa dove si è verificata questa singolare tragedia?".

"Un miglio circa entro terra".

"Ci andremo dunque a piedi insieme, ma prima di avviarci desidero rivolgerle alcune domande, signor Mortimer Tregennis".

Tregennis era rimasto sempre in silenzio, ma io avevo notato che la sua agitazione, per quanto meglio controllata, era tuttavia più forte dell'appariscente emozione del curato. Sedeva con un viso pallido, tirato, lo sguardo ansioso fisso su Holmes, e le sue mani sottili erano strette insieme in un gesto convulso. Le sue labbra esangui erano scosse da un tremito, mentre ascoltava la descrizione della sorte spaventosa toccata alla sua famiglia, e nei suoi occhi cupi pareva riflettersi qualcosa dell'orrore della tragedia che l'aveva annientata.

"Mi chieda quello che vuole, signor Holmes", rispose prontamente.

"Mi fa male parlarne, ma le risponderò la verità".

"Mi dica di ieri sera".

"Come il vicario le ha spiegato, cenai laggiù, e mio fratello maggiore, George, propose dopo cena che si facesse un giro di whist. Incominciammo verso le nove circa. Quando mi mossi per ritornare mancava un quarto alle dieci. Li lasciai tutti e tre intorno al tavolo, apparentemente allegrissimi".

"Chi l'accompagnò fuori?".

"La signora Porter era andata a letto, perciò uscii solo. Mi richiusi alle spalle la porta del vestibolo. La finestra della stanza in cui erano seduti era chiusa, ma la persiana era rimasta alzata. Questa mattina non c'era nessun cambiamento né nella porta né nella finestra, e niente faceva supporre che un estraneo avesse potuto entrare in casa. Eppure erano lì, impazziti completamente dal terrore, e Brenda morta di paura, la testa ciondoloni sul bracciolo della seggiola. Dovessi campare cent'anni non potrò mai levarmi dal cuore e dalla mente lo spettacolo che offriva quella stanza!".

"I fatti, così come lei me li ha esposti, sono innegabilmente straordinari", disse Holmes. "Immagino che lei non possa formulare alcuna ipotesi atta a spiegarli!".

"E' opera del demonio, signor Holmes; del demonio!", gridò Mortimer Tregennis. "Non di questo mondo! Qualcosa dev'essere entrato in quella stanza che ha spento nelle loro menti la luce della ragione. Quale mezzo umano poteva operare questo?".

"Temo che se si tratta di cosa trascendente l'umana natura è certamente tale da trascendere anche, logicamente, le mie modeste facoltà. Tuttavia dobbiamo esaurire tutte le spiegazioni naturali prima di arrenderci a un'ipotesi come questa. In quanto a lei, signor Tregennis, mi sembra che abbia avuto qualche dissenso con la sua famiglia, altrimenti per quale altro motivo i suoi fratelli vivevano uniti mentre lei abita solo in camere ammobiliate?".

"Effettivamente era così, signor Holmes, per quanto ormai quella vicenda fosse da tempo morta e seppellita. Noi possedevamo infatti una miniera di stagno a Redruth, ma vendemmo i nostri diritti a una società, e ci ritirammo con abbastanza di che vivere. Non negherò che ci fu infatti qualche vivace scambio di vedute tra me e i miei fratelli riguardo alla spartizione del denaro, ma tutto era ormai da tempo dimenticato, ed eravamo ridiventati da un pezzo ottimi amici".

"Ripensando all'ultima sera che avete trascorso insieme, non ricorda nulla che possa gettare eventualmente qualche luce sulla tragedia? Ci pensi bene, signor Tregennis, perché anche il più piccolo filo conduttore può essermi d'immenso aiuto".

"Non ricordo proprio nulla, signor Holmes".

"I suoi fratelli erano del loro solito umore?".

"Eccome! Non li avevo mai visti così allegri".

"Erano persone nervose? Avevano mai mostrato di temere qualche pericolo imminente?".

"No".

"Non può dunque dirmi assolutamente nulla che mi aiuti a far luce?".

Mortimer Tregennis parve riflettere a lungo e intensamente, quindi disse:

"Adesso mi viene in mente una cosa. Mentre eravamo seduti al tavolo, io stavo con la schiena rivolta alla finestra e mio fratello George, essendo mio compagno di gioco, era invece di faccia. Notai che una volta guardò fisso al disopra della mia spalla, tanto che mi girai e guardai a mia volta. La persiana era alzata e la finestra chiusa, ma riuscivo ugualmente a distinguere i cespugli del prato, ed ebbi per un attimo la sensazione di vedere qualcosa muoversi là in mezzo. Non saprei dire se si trattasse di uomo o di animale, ma ebbi comunque l'impressione che qualcosa ci fosse. Quando gli chiesi che cosa stava guardando mi rispose che aveva avuto la stessa sensazione. Questo è tutto ciò che io posso dire".

"Non siete andati a vedere?".

"No; non demmo importanza alla cosa".

"Dunque li ha lasciati senza aver avuto alcun presagio funesto?".

"Assolutamente no".

"Non ho ben capito come abbia appreso la notizia così per tempo questa mattina".

"Non sono un dormiglione, e di solito faccio sempre una passeggiata prima di colazione. Stamattina mi ero appena avviato quando fui raggiunto dal dottore che mi passò davanti col suo calesse. Mi avvertì che la vecchia signora Porter l'aveva mandato a chiamare con un messaggio urgente, perciò balzai in cassetta accanto a lui e proseguimmo insieme. Appena arrivati entrammo nella tragica stanza. Le candele e il fuoco dovevano essersi spenti da molte ore, ed essi erano rimasti seduti così nelle tenebre sino allo spuntare dell'alba. Il dottore dichiarò che Brenda doveva essere morta da almeno sei ore. Non fu riscontrata su di lei alcuna traccia di violenza. Era semplicemente rovesciata sul bracciolo della poltrona con quella terribile espressione di spavento nel volto. George e Owen stavano cantando frammenti di canzoni e si agitavano come due grosse scimmie. Dio mio, che orrore! Io non potei resistere a quello spettacolo, e anche il dottore si sbiancò come un lenzuolo. Anzi si accasciò su una seggiola in preda a una specie di svenimento e per poco non ci toccò di curare anche lui".

"Strano... veramente stranissimo", disse Holmes alzandosi e prendendo il suo cappello. "Credo che sarà forse meglio recarci a Tredannick Wartha senza ulteriori indugi. Confesso di aver visto raramente un caso che presenti a prima vista un aspetto più singolare".

Le operazioni di quella prima mattina non servirono gran che a farci avanzare nelle nostre ricerche. Esse furono contrassegnate all'inizio da un incidente che lasciò nel mio animo un'impressione terribilmente sinistra. Si accede al punto dove era avvenuta la tragedia, lungo il viottolo di campagna angusto e serpeggiante.

Mentre lo percorrevamo udimmo un cigolìo di ruote e una vettura avanzò verso di noi: ci tirammo da parte per lasciarla passare.

Mentre ci superava ebbi come una visione fuggevole, attraverso il finestrino abbassato, di un volto ghignante, orribilmente convulso, che ci guardava. Quegli occhi forsennati, quei denti digrignanti ci passarono accanto in un lampo, come uno spettacolo spaventoso.

"I miei fratelli!" gridò Mortimer Tregennis, diventato pallido come un cadavere. "Li stanno portando a Helston".

Fissammo con orrore la carrozza nera che stava scomparendo rapidamente al nostro sguardo. Quindi volgemmo i nostri passi verso l'infausta casa i cui occupanti avevano incontrato un così strano destino.

Era una dimora grande e luminosa, piuttosto una villa che non una semplice casa di campagna, circondata da un vasto giardino che grazie alla tiepida aria di Cornovaglia era già fragrante di fiori primaverili. Su questo giardino dava la finestra del salotto e da lì, secondo le dichiarazioni di Mortimer Tregennis, doveva essere giunto quello strumento del demonio che aveva in un solo attimo sconvolto le menti dei suoi congiunti, per semplice effetto di orrore. Holmes si aggirò lento e pensoso tra le aiuole e lungo il sentiero, prima di entrare sotto il porticato. Era talmente assorto nelle sue meditazioni, ricordo, che inciampò nell’annaffiatoio, rovesciandone il contenuto e inzuppando non solo il sentiero del giardino ma anche i nostri piedi.

Nell'interno della casa fummo accolti dalla vecchia governante, la signora Porter, che con l'aiuto di una giovane domestica provvedeva ai bisogni della famiglia. Costei rispose prontamente a tutte le domande di Holmes. Quella notte non aveva sentito nulla.

I suoi padroni si erano dimostrati in quegli ultimi tempi sempre di ottimo umore, e non li aveva mai visti, anzi, più allegri e più soddisfatti. Quando al mattino era entrata nella stanza, era svenuta dallo spavento vedendo quell'impressionante compagnia seduta intorno al tavolo. Non appena si era riavuta, aveva spalancato la finestra per lasciare entrare l'aria fresca del mattino e si era poi precipitata nel viottolo a chiamare aiuto; aveva poi trovato un garzone di fattoria che aveva spedito in cerca di un medico. La signora era stata adagiata nel suo letto, di sopra, se desideravamo vederla. C'erano voluti quattro uomini robusti per portare i fratelli nella vettura del manicomio. In quanto a lei non sarebbe rimasta un altro giorno in quella casa, e partiva quello stesso pomeriggio per andare a raggiungere la sua famiglia a Saint Ives.

Salimmo le scale ed esaminammo il cadavere. La signorina Brenda Tregennis doveva esser stata una ragazza bellissima, benché avesse ormai raggiunto la mezza età. Il suo viso bruno e nettamente stagliato era affascinante anche nella morte, ma in esso aleggiava ancora qualcosa dell'orrore senza nome che era stata la sua ultima emozione terrena. Dalla camera da letto della morta scendemmo nel salotto in cui si era verificata quella misteriosa tragedia. Le ceneri bruciacchiate del fuoco notturno erano ammonticchiate sulla grata. Sul tavolo erano ancora sparse delle carte da gioco, stavano tuttora le quattro candele completamente sgocciolate e consumate. Le seggiole erano state riaccostate alle pareti, ma per tutto il resto nient'altro era stato spostato. Holmes percorse la stanza col suo passo rapido e leggero; si mise a sedere sulle varie seggiole, avvicinandole e ricostruendo le loro rispettive posizioni. Fece la prova di quanta parte di giardino fosse visibile dall'interno; ispezionò il pavimento, il soffitto, il camino, ma mai, neppure per un attimo, notai in lui quell'improvviso luccicare degli occhi e quella contrazione delle labbra che mi avrebbero fatto presagire come fosse riuscito a scorgere in quel mareggiare di tenebre un guizzo di luce.

"Ma perché il fuoco?" domandò ad un tratto. "Accendevano sempre il camino in questa stanzetta, anche in una notte di primavera?".

Mortimer Tregennis spiegò che la serata era stata fredda e umida; per questo motivo avevano acceso il fuoco dopo il suo arrivo. "Che intende fare adesso, signor Holmes?" chiese.

Il mio amico sorrise e mi posò una mano sul braccio. "Credo, Watson, che riprenderò la mia vecchia abitudine di autointossicazione tabagica che lei così spesso e così giustamente ha condannato", disse. "Col vostro permesso, signori, faremo adesso ritorno al nostro villino, perché non credo che ci si possa presentare qui qualche fattore nuovo. Rielaborerò gli avvenimenti dentro di me, signor Tregennis, e se mi venisse in mente qualcosa mi metterò immediatamente in comunicazione con lei e col vicario.

Intanto auguro a entrambi il buongiorno".

Fu solo molto tempo dopo, quando fummo rientrati a Poldhu Cottage, che Holmes ruppe il suo lungo e ostinato silenzio. Si era tutto raggomitolato nella sua poltrona, la sua faccia magra e ascetica quasi spariva tra le azzurrognole spire della pipa, le sue nere sopracciglia erano contratte, la fronte solcata di rughe, gli occhi assorti vagavano nello spazio. Improvvisamente posò la pipa e balzò in piedi.

"Non va, Watson", disse scoppiando in una risata. "Andiamo a fare una passeggiata insieme sino alle rocce, in cerca di frecce di selce. Sarà più facile trovare relitti neolitici che non la chiave di questo problema. Permettere al cervello di lavorare senza materiale sufficiente è come mettere un motore in folle. Non si fa che ridurlo in pezzi. Occorrono aria marina, sole e pazienza, mio caro Watson... e il resto verrà da sé".

"E adesso tentiamo di definire con calma la nostra posizione", proseguì mentre costeggiavamo insieme gli scogli. "Cerchiamo di afferrare saldamente il pochissimo che sappiamo, di modo che quando sorgeranno fatti nuovi noi potremo essere pronti a sistemarli nelle loro giuste caselle. Suppongo in primo luogo che nessuno di noi due è disposto ad ammettere intrusioni diaboliche in questioni umane. Incominciamo con lo scartare totalmente questa evenienza. Benissimo. Rimangono così tre persone che sono state spaventosamente colpite da un elemento umano, conscio o inconscio.

Qui ci muoviamo su terreno sicuro. Ora, quando si verificò questo incidente? Ammettendo naturalmente che la sua narrazione sia esatta, la tragedia dovette avvenire subito dopo che il signor Mortimer Tregennis ebbe lasciato la stanza. Questo è un punto importantissimo. Dobbiamo perciò supporre che il fatto avvenne pochissimi minuti dopo. Le carte erano ancora sparse sul tavolo.

L'ora normale in cui erano soliti coricarsi era già trascorsa, eppure né cambiarono di posto né scostarono le seggiole. Ripeto pertanto che il fatto dovette verificarsi subito dopo la partenza di Tregennis, e comunque non più tardi delle undici di ieri sera.

La nostra prima mossa sarà dunque quella di controllare, per quanto possibile, tutti i passi di Mortimer Tregennis dal momento in cui lasciò quella stanza. In questo non dobbiamo incontrare alcuna difficoltà e mi sembra che ogni suo movimento sia al di sopra di qualsiasi sospetto. Lei che conosce bene i miei sistemi avrà notato il pretesto alquanto goffo dell’annaffiatoio al quale sono ricorso per ottenere un'impronta più chiara del suo piede di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Il sentiero umido e sabbioso la ritenne in modo perfetto. Anche la notte scorsa era umida, se ben ricordo, e non mi fu difficile, avendo ottenuto un'impronta di campione, ritrovare la sua traccia tra le altre e seguire i suoi movimenti. Mi è risultato che lui si sia allontanato rapidamente in direzione del vicariato.

Se dunque Mortimer Tregennis è scomparso dalla scena e tuttavia qualcuno dall'esterno ha potuto esercitare la sua letale influenza sui giocatori di carte, come possiamo ricostruire l'identità di questa persona e come fu possibile creare intorno a quei tre disgraziati una così spaventosa e mortifera atmosfera di orrore?

Dobbiamo scartare assolutamente la signora Porter. E' una persona evidentemente inoffensiva. Esiste una prova che qualcuno sia salito strisciando sino alla finestra producendo non sappiamo come un effetto così terrificante da far uscire di senno quei tre poveretti? La sola ipotesi in tal senso ci è fornita dallo stesso Mortimer Tregennis, il quale sostiene che suo fratello ebbe la sensazione di un movimento in giardino. Questo è indubbiamente un fatto strano, poiché la notte era piovosa, nuvolosa e buia.

Chiunque avesse avuto l'intenzione di spaventare questa gente sarebbe stato costretto ad avvicinare la faccia direttamente contro il vetro, prima di poter essere scorto. Intorno a questa finestra, dall'esterno, corre un bordo di fiori largo circa novanta centimetri, ma esso non reca alcuna traccia d'impronte. E perciò difficile immaginare come qualcuno dall'esterno possa aver fatto su quei tre un'impressione così spaventosa, né abbiamo trovato alcun motivo plausibile per un attentato tanto strano e complesso. Si rende conto delle difficoltà che dobbiamo affrontare, Watson?".

"Altroché!" risposi con la massima convinzione.

"Eppure se avessimo un poco più di elementi, potremmo dimostrare che non sono poi insormontabili", proseguì Holmes. "Io credo che nei suoi vasti archivi lei riuscirebbe a trovare qualche altro caso che offrirebbe probabilmente oscurità analoghe. Tuttavia metteremo da parte per il momento questo problema sino a quando non avremo raccolto dati più precisi, e dedicheremo il resto della nostra mattinata alla ricerca dell'uomo neolitico".

Ho già accennato più volte al potere di distacco mentale di Holmes, ma questa sua facoltà non mi stupì mai tanto come in quella mattina di primavera in Cornovaglia, quando per ben due ore si mise a discutere ininterrottamente di Celti, di punte di freccia, di cocci arcaici, con una disinvoltura come se nessun mistero sinistro attendesse da lui una soluzione. Fu soltanto nel pomeriggio, di ritorno al nostro villino, quando trovammo un visitatore ad aspettarci, che le nostre menti ritornarono alla tragedia. Né io né Holmes avemmo bisogno che qualcuno ci dicesse chi era questo visitatore. Quel corpo immenso, quel volto solcato di rughe e scavato come una roccia, quegli occhi fieri, quel naso aquilino, quei capelli brizzolati che quasi sfioravano il soffitto della nostra casetta, quella barba dorata ai bordi e bianca presso le labbra, salvo le macchie di nicotina lasciate da un sigaro perenne, tutti questi lineamenti erano altrettanto noti a Londra quanto lo erano in Africa, e non potevano che essere associati alla formidabile personalità del dottor Leon Sterndale, il celebre cacciatore di leoni ed esploratore.

Avevamo saputo della sua presenza nella regione e un paio di volte avevamo avvistato la sua gigantesca figura lungo i sentieri della landa. Ma egli non aveva mai fatto nulla per avvicinarsi a noi, né noi d'altronde ci saremmo mai sognati di abbordarlo, poiché era risaputo che unicamente per amore di isolamento, egli era solito trascorrere la maggior parte degli intervalli concessi dai suoi lunghi viaggi in un minuscolo bungalow seppellito nel bosco isolato di Beauchamp Arriance. Laggiù, tra i suoi libri e le sue mappe, trascorreva un'esistenza di assoluta segregazione, badando da sé alle proprie semplici necessità, e senza minimamente curarsi degli affari del proprio prossimo. Fui quindi grandemente sorpreso di udirlo chiedere a Holmes con voce ansiosa se aveva fatto qualche passo in avanti nella ricostruzione di quel misterioso episodio. "La polizia della contea è completamente nel falso", disse; "ma forse la sua assai più vasta esperienza sarà riuscita a suggerirle qualche spiegazione plausibile. La mia sola pretesa a essere messo a parte della sua fiducia sta nel fatto che durante i miei numerosi soggiorni qui, mi sono legato di stretta amicizia con la famiglia dei Tregennis, anzi da parte di mia madre potrei chiamarli cugini, e il loro tragico destino mi ha naturalmente parecchio colpito. Le dirò anzi che ero già giunto a Plymouth, diretto in Africa, ma ebbi la notizia questa mattina, e sono ritornato indietro immediatamente per collaborare all'inchiesta".

Holmes inarcò le sopracciglia.

"Dunque a causa di questo ha perduto il piroscafo?".

"Prenderò il prossimo".

"Perbacco! Questa sì che è amicizia!".

"Se le dico che erano parenti!".

"Già... cugini da parte di sua madre. Il suo bagaglio è rimasto a bordo della nave?".

"Una parte, ma il grosso l'ho con me all'albergo".

"Capisco. Ma la notizia di questo avvenimento non può certo averla raggiunta sui giornali del mattino di Plymouth!".

"No, signore; mi è stata data per telegramma".

"Posso chiederle chi le ha mandato questo telegramma?".

Sul volto scabro dell'esploratore passò un'ombra.

"Com'è inquisitivo, signor Holmes!".

"E' il mio mestiere".

Con uno sforzo il dottor Sterndale si ricompose.

"Non ho alcuna obiezione a dirglielo", rispose. "E' stato il vicario a spedirmi il telegramma che mi ha richiamato".

"Grazie", disse Holmes. "Rispondendo alla sua prima domanda le dirò che non ho ancora idee molto chiare su questo caso, ma che nutro ogni speranza di arrivare presto a una conclusione. Sarebbe prematuro aggiungere altro".

"Non le dispiacerebbe dirmi se i suoi sospetti si appuntano in qualche particolare direzione?".

"No, su questo non posso rispondere".

"Allora io ho sprecato il mio tempo, ed è inutile che prolunghi la mia visita". Il celebre dottore uscì a lunghi passi dal nostro villino, in preda a visibile malumore, e in capo a cinque minuti Holmes lo aveva seguito. Non lo rividi più sino a sera. Quando ritornò camminava piano e con un viso smarrito, il che mi fece capire come le sue ricerche non avessero fatto gran che progressi.

Gettò un'occhiata a un telegramma che lo aspettava, ma subito lo buttò nel fuoco.

"Mi è stato mandato dall'albergo di Plymouth, Watson", mi spiegò.

"Me ne son fatto dire il nome dal vicario, e ho telegrafato per accertarmi che la versione del dottor Leon Sterndale fosse esatta.

Sembra che abbia effettivamente passato la notte laggiù, e che una parte del suo bagaglio sia già partita per l'Africa, mentre lui è rientrato per essere presente a questa inchiesta. Lei che cosa arguisce da tutto questo, Watson?".

"Che la cosa lo interessa profondamente".

"Lo interessa profondamente... già. C'è un filo qui che non siamo ancora riusciti ad afferrare e che forse potrebbe servirci a districare questo garbuglio. Su allegro, Watson, perché sono sicurissimo che non abbiamo ancora in mano tutti gli elementi necessari. Quando questo avverrà tutte le nostre difficoltà saranno dissipate".

Non avrei mai pensato che le parole di Holmes si sarebbero così presto avverate, né mai avrei potuto supporre quanto strani e sinistri sarebbero stati i nuovi sviluppi del caso che dovevano aprirci dinanzi una linea di ricerche assolutamente inattesa. Mi stavo facendo la barba accanto alla finestra, il mattino dopo, quando sentii uno scalpitìo di zoccoli, e alzando lo sguardo vidi un calesse che sopraggiungeva divorando letteralmente la strada.

Il veicolo si fermò davanti alla nostra porta e ne balzò a terra il nostro vicario che cominciò a correre su per il sentiero del giardino. Holmes era già vestito e insieme ci muovemmo subito al suo incontro.

Il nostro ospite era talmente emozionato che non riusciva quasi ad articolare parola, ma infine tra balbettii e affannamenti riuscimmo a cavargli alla meglio di bocca il suo tragico racconto.

"Siamo invasati dal diavolo, signor Holmes. La mia povera parrocchia è ossessa!" gridava. "Ci si è scatenato addosso Satana in persona! Siamo stati abbandonati in suo potere!". Era talmente agitato che quasi ballava, e sarebbe stato oggetto di ridicolo se non fosse stato per quel suo volto cinereo e gli occhi strabuzzati. Finalmente sparò fuori la sua terribile notizia.

"Mortimer Tregennis è morto durante la notte, presentando esattamente gli stessi sintomi che sono stati riscontrati negli altri componenti la sua famiglia".

Holmes balzò in piedi, fremente di energia dai talloni alla radice dei capelli.

"Può farci salire tutti e due sul suo calesse?".

"Sì, certo".

"In questo caso, Watson, rimanderemo la nostra colazione. Signor Roundhay, siamo a sua completa disposizione. Presto... presto, prima che avvenga uno spostamento".

Tregennis aveva occupato due camere del vicariato, che si trovavano in un angolo, isolate dal resto della costruzione, l'una sopra l'altra. Al piano di sotto c'era un ampio salotto, a quello superiore la camera da letto. Davano su un prato, adibito al gioco del "croquet", che arrivava fin sotto le finestre. Eravamo giunti prima del medico e della polizia, di modo che tutto era rimasto assolutamente intoccato. Desidero descrivere esattamente la scena come essa si presentò a noi in quella nebbiosa mattina di marzo.

Mi ha lasciato nell'animo un'impressione che nulla potrà mai cancellare.

L'atmosfera della stanza era intollerabilmente soffocante. La domestica che era entrata per prima nel locale aveva dovuto spalancare la finestra, che altrimenti l'aria sarebbe stata ancora più irrespirabile. Ciò poteva essere dovuto in parte al fatto che una lampada posata al centro della tavola ardeva e fumava ancora. Accanto a questa sedeva il morto, rovesciato nella poltrona, la rada barba sporgente, gli occhiali spinti indietro sulla fronte, la scura e magra faccia volta verso la finestra e contorta in quella stessa smorfia di orrore che aveva alterato i lineamenti della sua povera sorella. Anche le sue membra erano convulse e le dita contratte come se fosse morto in un vero e proprio parossismo di paura. Era completamente vestito, per quanto appariva evidente che aveva dovuto far toeletta in modo sommario.

Già sapevamo che il suo letto mostrava chiaramente come Tregennis ci avesse dormito, e che la tragica fine era sopravvenuta durante le prime ore del mattino.

Chiunque avesse assistito al mutamento improvviso sopravvenuto in lui dal momento in cui entrò in quella stanza fatale, avrebbe compreso l'incandescente energia che si nascondeva sotto l'aspetto esternamente flemmatico di Holmes. In un attimo era diventato vigile, intento; i suoi occhi si erano messi a brillare, la sua faccia si era chiusa, le sue membra vibravano di un fremito intensissimo di attività. Usciva sul prato, rientrava dalla finestra, faceva il giro della stanza, saliva su nella camera da letto, proprio come un cane irrequieto a caccia di volpi che si appresti a stanare la sua preda. Nella camera da letto fece un rapido giro, e finì con lo spalancare la finestra, il che sembrò procurargli un nuovo motivo di agitazione, poiché si sporse da questa lanciando alte esclamazioni d'interesse e di compiacimento.

Si precipitò quindi di sotto, e fuori un'altra volta per la finestra aperta; quindi si buttò a faccia a terra sul prato, balzò in piedi e ripiombò di nuovo nella stanza, il tutto con l'energia del cacciatore che è sul punto di acciuffare la sua selvaggina. La lampada, che era di tipo ordinario, venne da lui esaminata con cura minuziosa, soprattutto per quel che riguardava certe misurazioni della boccia. Ispezionò quindi attentamente con la propria lente lo schermo che ricopriva la sommità del tubo, e ne grattò alcuni rimasugli di cenere che avevano aderito alla sua superficie, nel punto più alto, e che ripose in una busta che mise a sua volta nel portafoglio. Infine, proprio mentre il medico e la polizia ufficiale facevano la loro comparsa, fece un cenno al vicario e tutti e tre ci avviammo sul prato.

"Sono lieto di comunicarle che la mia investigazione non è stata del tutto infruttuosa", disse. "Non posso fermarmi a discutere l'argomento con la polizia, ma le sarei obbligatissimo, signor Roundhay, se volesse avere la bontà di salutare da parte mia l'ispettore e di rivolgere la sua attenzione alla finestra della camera da letto e alla lampada del salotto. Ciascuno di questi elementi è interessante e insieme io li giudicherei pressoché conclusivi. Se la polizia desiderasse ulteriori informazioni, sarò lieto di fornirgliele al villino. E adesso, Watson, credo che la nostra presenza si dimostrerà più utile altrove".

E' probabile che la polizia si fosse seccata dell'intrusione di un dilettante, o forse pensava di trovarsi su una linea di ricerca più sicura; comunque è certo che nessuno della forza ufficiale si fece vedere nei due giorni seguenti. Durante questo intervallo Holmes trascorse parzialmente il proprio tempo fumando e sognando nella casetta; ma spese la maggior parte di quelle giornate in passeggiate campestri che intraprendeva da solo, ritornando dopo molte ore senza dirmi sia pure con accenni dove fosse stato.

Un'esperienza servì a dimostrarmi la sua linea di ricerca. Aveva acquistato una lampada che era la copia esatta di quella che era rimasta accesa nella stanza di Mortimer Tregennis il mattino della tragedia. La riempì con lo stesso petrolio usato al vicariato, e calcolò esattamente il tempo necessario che occorreva a esaurirla.

Eseguì poi un'altra esperienza di natura più sgradevole, e tale che non mi sarà facile dimenticarla.

"Lei avrà notato, Watson", mi disse un pomeriggio, "che c'è un unico punto comune di somiglianza negli elementi disparati che siamo riusciti a raccogliere. Questo consiste nell'effetto prodotto in ciascun caso dall'atmosfera della stanza su quelli che ci sono entrati per primi. Ricorderà che Mortimer Tregennis, nel descrivere l'episodio della sua ultima visita alla casa dei suoi fratelli, disse che il medico entrando nella stanza si era accasciato su una seggiola... Lo ha dimenticato? Bene, io no. E adesso ricorderà che anche la signora Porter, la governante, ci disse che pure lei era svenuta, appena entrata, e che solo successivamente aveva aperto la finestra. Nel secondo caso, nel caso dello stesso Mortimer Tregennis, lei non può aver scordato il senso orribile di soffocazione che ci serrò la gola appena arrivammo, benché la domestica avesse già spalancato la finestra.

Orbene, questa domestica, mi sono informato, era stata talmente male che aveva dovuto mettersi a letto. Lei ammetterà, Watson, che questi fatti sono molto significativi. In ciascun caso abbiamo una prova inconfutabile di avvelenamento dell'atmosfera. In ciascun caso inoltre ci troviamo di fronte a un processo di combustione.

Nel primo caso il fuoco era acceso nel camino, nel secondo una lampada ardeva. Del fuoco c'era stato bisogno, ma la lampada era stata accesa - come dimostrerà un paragone col petrolio consumato - molto tempo dopo che s'era fatto giorno. Perché? Indubbiamente perché deve esistere un nesso tra questi tre fattori: la combustione, l'atmosfera soffocante e infine la pazzia o la morte di questa disgraziata gente. Questo è chiaro, non trova?".

"Direi di sì".

"Accettiamola almeno come ipotesi operante. Ammetteremo dunque che in ciascun caso fu bruciato qualcosa che produsse nell'atmosfera misteriosi effetti tossici. Benissimo. Nel primo caso - il caso della famiglia Tregennis - questa sostanza fu posta nel fuoco. Ora la finestra era chiusa, ma il fuoco avrebbe naturalmente trasportato i vapori su per la cappa, almeno per un certo tempo.

Perciò si dovrebbe supporre che qui gli effetti del veleno fossero minori che non nel secondo caso, dove i fumi venefici avevano una via di uscita minore. I risultati sembrano indicare che così fu infatti, poiché nel primo caso la donna soltanto, dotata presumibilmente di un organismo più sensibile, fu uccisa, mentre gli altri offrirono fenomeni di pazzia temporanea o permanente che dev'essere evidentemente il primo stadio provocato dalla droga.

Nel secondo caso il risultato fu totale. Pertanto i fatti sembrano avvalorare l'ipotesi di un veleno operante attraverso un processo di combustione.

Seguendo nel mio cervello questo procedimento argomentativo era naturale che cercassi nella stanza di Mortimer Tregennis qualche traccia di questa sostanza. Il primo oggetto che ispezionai, logicamente, fu lo schermo o paralume che dir si voglia della lampada. Ed ecco infatti che vi scorsi immediatamente una certa quantità di cenere fioccosa, e intorno ai bordi notai una frangia di polvere bruniccia, che non si era ancora del tutto consumata.

Di questa ho prelevato una parte, come lei ha visto, e l'ho riposta in una busta".

"Perché una parte soltanto, Holmes?".

"Non sta a me, mio caro Watson, intralciare le ricerche della polizia ufficiale. Io lascio a loro le stesse prove trovate da me.

Se avranno l'intelligenza di scoprirlo, il veleno si trova ancora sullo schermo. E adesso, Watson, accenderemo la nostra lampada.

Prenderemo la precauzione di aprire la finestra onde evitare il prematuro decesso di due degni membri della società umana, e lei si metterà in poltrona vicino a quella finestra aperta, a meno che da persona di buon senso non decida di non aver nulla a che fare con questa storia. Oh, vuol vedere come va a finire? Ero sicuro di conoscere il mio Watson. Questa seggiola la metterò di fronte alla sua, in modo da poter restare entrambi a uguale distanza dal veleno, e a faccia a faccia. La porta la lasceremo socchiusa.

Adesso siamo ciascuno in posizione di osservare l'altro e di sospendere l'esperienza nel caso in cui sintomi dovessero rivelarsi allarmanti. E' chiaro? Ecco dunque, tolgo la nostra polvere - o quel che ne rimane - da questa busta, e la poso sopra la lampada accesa. Così. E adesso, Watson, sediamoci e aspettiamo gli avvenimenti".

Non tardarono certo a presentarsi. Mi ero appena messo a sedere che immediatamente mi resi conto di un odore grave, muschioso, sottile e nauseabondo. Alla prima sua zaffata il mio cervello e la mia immaginazione persero ogni controllo. Una nube fitta e nera mi calò sugli occhi, e la mia mente mi disse che in questa nube, invisibile ancora, ma pronta a balzare sui miei sensi terrificati, si celava quanto di vagamente orribile, quanto di mostruoso e di inconcepibilmente malvagio si aggira per l'universo. Forme indistinte roteavano e giravano vorticosamente in mezzo al nero banco di nubi, e ciascuna era una minaccia e un avvertimento di qualcosa che stava per sopraggiungere. Era la premonizione di un innominabile essere che stava per comparire sulla soglia, e la cui sola ombra sarebbe bastata a incenerire la mia anima. Un raggelante orrore si impadronì di me. Sentii che i capelli mi si rizzavano sul capo, che gli occhi mi schizzavano dalle orbite, che la mia bocca si era aperta, e che la lingua mi si era indurita come cuoio. Tale era il tumulto del mio cervello che qualcosa in esso doveva certamente spaccarsi. Tentai di urlare, ebbi la vaga sensazione di un gracidare rauco che doveva essere la mia voce, ma infinitamente lontana e distaccata da me. Nello stesso istante, in un supremo sforzo di fuga, irruppi attraverso quella nube di desolazione e colsi una visione fuggevole del viso di Holmes, bianco, irrigidito, impietrito dall'orrore, trasformato nella stessa maschera che io aveva visto impressa sui lineamenti dei cadaveri. Fu questa visione a darmi un attimo di lucidità e di forza. Balzai dalla mia seggiola, gettai le braccia intorno ad Holmes, insieme ci precipitammo barcollando verso la porta, e un attimo dopo eravamo distesi a fianco a fianco sull'aiuola, consapevoli soltanto del radioso sole che si apriva gloriosamente il varco attraverso l'infernale nube di terrore che ci aveva avvolti. Questa si sollevò lentamente dalle nostre anime, simile alle brume diradantisi da un paesaggio, finché la pace e la ragione ritornarono in noi, e ci mettemmo a sedere sull'erba, asciugandoci la fronte madida e guardandoci l'un l'altro con apprensione, quasi a fissare nei nostri spiriti le ultime tracce della spaventosa esperienza alla quale ci eravamo sottoposti.

"Parola d'onore, Watson", disse finalmente Holmes con voce ancora malferma, "devo ringraziarla e farle le mie scuse al tempo stesso.

E' stato un esperimento imperdonabile anche nei miei confronti, ma doppiamente nei confronti di un amico. Non so come chiederle perdono".

"Lei sa benissimo", risposi non senza emozione, dato che non avevo mai visto prima d'allora un Holmes così affettuoso, "che per me la più grande gioia, il massimo privilegio consiste nel poterle essere di aiuto".

Ricadde subito nella vena semi ironica, semi cinica che era il suo atteggiamento abituale verso quelli che lo circondavano. "Sarebbe stato più che sufficiente per farci impazzire, mio caro Watson", disse, "per quanto un osservatore senza pregiudizi dichiarerebbe certamente che lo eravamo già ancor prima di imbarcarci in un'esperienza così temeraria. Ma confesso che non avrei mai immaginato che l'effetto potesse essere tanto grave e subitaneo".

Rientrò di corsa nella casetta e ricomparve con la lampada ancora accesa, ma tenendola a debita distanza, e si affrettò a buttarla tra un mucchio di rovi secchi. "Dobbiamo dar tempo all'ambiente di purificarsi un po'. Io penso, Watson, che lei non abbia più ombra di dubbio sul modo come siano accadute queste tragedie!".

"Certamente".

"La causa però ne rimane più oscura che mai. Andiamo sotto quella pergola e discutiamo insieme. Ho la sensazione che quella porcheria mi pizzichi ancora la gola. A parer mio tutte le prove stanno a dimostrare che Mortimer Tregennis sia stato l'assassino nella prima tragedia, e sia diventato vittima nella seconda. Non dimentichiamo infatti che ci fu un litigio di famiglia seguito da una riconciliazione. Non sappiamo però sino a che punto si spinse il litigio, né il valore effettivo di questa riconciliazione. Se penso a Mortimer Tregennis, a quella sua faccia volpina e a quei suoi occhietti tondi e astuti dietro gli occhiali, dubito che egli fosse un uomo facile al perdono. D'altronde rammenterà che l'idea che qualcuno si muovesse nel giardino, e che per un attimo distolse la nostra attenzione dalla causa reale della tragedia, emanò da lui. Egli aveva un motivo per metterci fuori strada. E d'altronde se non è stato lui a gettare nel fuoco questa sostanza nel momento di lasciare la sala da pranzo, chi altri può essere stato? La tragedia scoppiò immediatamente dopo la sua partenza; ora, se fosse entrato qualcun altro, la famiglia si sarebbe certamente alzata da tavola. D'altronde nella pacifica Cornovaglia la gente non va a far visita al prossimo dopo le dieci di sera.

Possiamo quindi supporre con ogni probabilità che tutte le prove indicano Mortimer Tregennis come il solo colpevole".

"Allora la sua morte fu un suicidio".

"Ecco, Watson, così a tutta prima non sembrerebbe un'ipotesi impossibile. Un uomo che si sia macchiato la coscienza di un così spaventoso fratricidio potrebbe benissimo essere spinto dal rimorso a infliggere su se stesso una fine analoga. Ci sono però parecchi forti motivi a sfavore di questa ipotesi. C'è per fortuna un uomo in Inghilterra che sa tutto a questo proposito, e ho predisposto le cose in modo che potremo apprendere i fatti direttamente dalle sue labbra, e questo pomeriggio stesso. Ah! Ma eccolo che arriva un po' in anticipo... La prego di passare da questa parte, dottor Sterndale. Abbiamo tentato un'esperienza chimica dentro casa che ha ridotto la nostra stanza in condizioni assolutamente inadatte a ricevere un ospite di riguardo qual è lei".

Avevo udito il clicchettìo del cancello del giardino, e ora la maestosa figura del celebre esploratore africano apparve sul sentiero. Egli si volse con una certa sorpresa verso la rustica pergola sotto la quale sedevamo.

"Lei mi ha mandato a chiamare, signor Holmes. Ho ricevuto il suo messaggio circa un'ora fa, e sono venuto, anche se non so francamente per quale motivo dovrei obbedire alle sue ingiunzioni".

"Potremo forse chiarire la situazione prima di separarci", replicò Holmes. "Nel frattempo le sono molto obbligato per la sua cortese accondiscendenza. Vorrà scusare questo ricevimento alla buona, così all'aria aperta, ma al mio amico Watson e a me poco è mancato che si aggiungesse, per causa nostra, un ulteriore capitolo a ciò che i giornali chiamano l''Orrore di Cornovaglia'. E per qualche oretta preferiamo un'atmosfera pulita. Ma siccome le cose di cui dobbiamo discutere la riguardano personalmente e in maniera assai intima, sarà forse meglio anche per lei che discutiamo in un luogo dove nessuno possa origliare".

L'esploratore si tolse il sigaro di bocca e fissò intensamente il mio compagno.

"Non so veramente immaginare che cosa possono essere questi argomenti che mi riguardano, come lei dice, in modo così personale e intimo", rispose.

"Alludo all'assassinio di Mortimer Tregennis", sbottò Holmes.

Rimpiansi per un attimo di non essere armato. La faccia crudele di Sterndale si era fatta di un rosso cupo, i suoi occhi lanciarono fiamme, e grossi noduli venosi gli gonfiarono la fronte, mentre balzava sul mio compagno coi pugni chiusi. Ma subito si fermò, e con uno sforzo violento su se stesso riprese un aspetto di calma rigida e fredda ancor più pericoloso, forse, che non quel suo precedente scoppio appassionato d'ira.

"Ho vissuto tanto tempo tra i selvaggi e al di fuori della legge" disse, "che ho finito col prendere l'abitudine di essere la legge io stesso. La pregherei di non dimenticare questo, signor Holmes, poiché non è affatto mio desiderio recarle danno".

"E non è neppure mio desiderio recar danno a lei, egregio dottore.

Certamente la prova migliore di ciò è che, pur sapendo quello che so, ho mandato a chiamare lei e non la polizia".

Sterndale cadde a sedere con un gemito, intimorito forse per la prima volta in tutta la sua avventurosa esistenza. Ma dalla forte e sicura calma di Holmes emanava un fascino imperioso al quale era difficile resistere. Il nostro ospite balbettò per un istante, e nell'agitazione di cui era preda, le sue grandi e vigorose mani si chiusero e si aprirono convulsamente.

"Che intende dire?" chiese infine. "Se lei crede di spaventarmi non ha scelto l'uomo adatto, signor Holmes. Ma smettiamola di menar il can per l'aia. Che intende dire, ripeto?".

"La servirò subito", rispose Holmes, "e il motivo per cui voglio parlarle è che spero che dalla franchezza possa nascere la verità.

La mia mossa successiva dipenderà esclusivamente dal modo in cui lei si difenderà".

"Come mi difenderò?".

"Sissignore".

"Ma difendermi da che cosa?".

"Dall'accusa di assassinio nella persona di Mortimer Tregennis".

Sterndale si passò il fazzoletto sulla fronte madida. "Perbacco, come corre", disse. "Tutti i suoi successi dipendono forse da questa sua prodigiosa abilità nel bluff?".

"Il bluff", disse Holmes con voce severa, "è tutto dalla sua parte, dottor Sterndale, e non dalla mia. Come prova di quanto le dico le riferirò alcuni dei fatti sui quali sono basate le mie conclusioni. Del suo ritorno da Plymouth, in seguito al quale lei ha permesso che gran parte del suo bagaglio proseguisse da solo per l'Africa, non dirò nulla, se non che esso mi rivelò come lei era uno dei fattori che occorreva prendere in considerazione per ricostruire questo dramma..".

"Io sono ritornato..".

"Mi ha già detto le sue ragioni ma io le ritengo poco convincenti e inadeguate. Ma per il momento trascuriamole. Lei è venuto qui per chiedermi di chi io sospettassi. Io mi sono rifiutato di risponderle. Lei allora si è recato alla parrocchia, ha aspettato per qualche tempo fuori di questa, e infine è rientrato al suo villino".

"Come sa tutto questo?".

"Perché l'ho seguita".

"Ma se io non ho visto nessuno!".

"Questo è il meno che può capitare a un mio simile quando io mi metto a seguirlo. Lei ha trascorso nel suo villino una notte inquieta, e ha formulato certi piani che all'alba ha deciso di mettere in atto. Ha lasciato casa sua proprio mentre il giorno spuntava, e si è riempito le tasche di una ghiaietta rossastra che giaceva ammucchiata presso il suo cancello".

Sterndale sobbalzò violentemente e fissò Holmes sbalordito.

"Ha proceduto quindi a passi rapidi lungo il miglio di strada che separa la sua casa dal vicariato. Aggiungerò che calzava questo stesso paio di scarpe da tennis che ha attualmente ai piedi.

Giunto alla parrocchia è passato dall'orto e dalla siepe laterale e si è portato sotto alla finestra di Tregennis. Era ormai giorno, ma la gente di casa non si muoveva ancora. Si è cavato di tasca un po' di quella ghiaia e l'ha buttata contro la finestra del piano di sopra".

Sterndale balzò in piedi.

"Io credo che lei sia il diavolo in persona!" gridò.

Holmes sorrise del complimento. "Dovette lanciarne due e fors'anche tre manciate prima che Tregennis venisse alla finestra.

Lei gli ingiunse di scendere abbasso. Tregennis si vestì sommariamente e discese nel suo salottino. Lei entrò dalla finestra. Seguì tra voi due un colloquio, un colloquio molto breve, durante il quale lei ha continuato a passeggiare avanti e indietro per la stanza. Quindi è uscito e ha chiuso la finestra, e si è fermato sul prato davanti a fumare un sigaro e a osservare quello che succedeva. Infine, dopo la morte di Tregennis, se ne è andato così com'era venuto. E adesso, egregio dottore, come giustifica questa sua condotta, e quali sono stati i motivi che l'hanno spinta a un simile gesto? Se lei cerca d'imbrogliarmi, sia pure di poco, le do la mia parola d'onore che io mi laverò per sempre e completamente le mani di questa faccenda".

Mentre ascoltava queste parole del suo accusatore, il nostro ospite si era fatto cinereo in volto. Rimase seduto per qualche tempo in silenzio, il capo affondato tra le mani. A un tratto, con un gesto impulsivo, si cavò dalla tasca del panciotto una fotografia che gettò davanti a noi, sulla tavola rustica.

"Ecco perché ho fatto quel che ho fatto", disse.

La fotografia rivelava il busto e il volto di una donna bellissima. Holmes si chinò a osservarla.

"E' Brenda Tregennis", disse.

"Sì, è Brenda Tregennis", ripeté lentamente il nostro visitatore.

"L'ho amata per anni, e per anni anche lei mi ha amato. Ecco il segreto di questo mio isolamento cornovagliese di cui la gente tanto si stupisce. Esso mi permetteva di avvicinarmi alla sola creatura sulla terra che mi fosse cara. Non potevo sposarla, poiché ho una moglie che da anni mi ha abbandonato e dalla quale tuttavia, per colpa delle odiose leggi inglesi, non mi era possibile divorziare. Brenda aspettò per anni, per anni aspettai anch'io, ed ecco il risultato della nostra attesa..".

Un singhiozzo spaventoso scosse la sua gigantesca sagoma, ed egli si afferrò la gola, di sotto alla barba chiazzata. Infine con un grande sforzo si padroneggiò e riprese:

"Il vicario sapeva: era al corrente del nostro segreto. Lui vi dirà se mai donna fu più di lei angelo in terra. Ecco perché mi ha telegrafato e perché sono tornato. Che m'importava del mio bagaglio e dell'Africa dopo aver appreso il tragico destino toccato alla mia donna? E così lei ha adesso l'indizio che le mancava per spiegare il modo di procedere, signor Holmes".

"Continui", disse il mio amico.

Il dottor Sterndale cavò di tasca un pacchetto di carta e lo posò sulla tavola. Sopra c'era scritto "Radix Pedis Diaboli", e la scritta era accompagnata da un'etichetta rossa su cui era stampato "veleno". Spinse il pacchetto verso di me. "So che lei è medico:

ha mai sentito parlare di questo preparato?".

"Radice di piede di diavolo! No, mai".

"Infatti non può avere rapporti con le sue conoscenze professionali poiché credo che, tranne un unico campione che si trova in un laboratorio di Budapest, non ne esista un altro in Europa. Non ha ancora trovato il suo posto né nella farmacopea, né nella letteratura tossicologica. E' una radice che ha forma di piede per metà umano e per metà caprino; di qui il nome fantasioso datole da un botanico missionario. E' usata come veleno, nelle prove che ricordano i medievali giudizi di Dio, dai medici stregoni di certe regioni dell'Africa occidentale, ed è un segreto che essi si tramandano tra loro. Mi fu possibile ottenere questo particolare campione nella zona dell'Ubanghi, in circostanze del tutto straordinarie". Così dicendo aprì il pacchetto mettendo allo scoperto un mucchietto di polvere rossobruna, simile a tabacco da presa.

"Ebbene?" domandò Holmes in tono severo.

"Sto appunto per spiegarle, signor Holmes, tutto quello che effettivamente accadde, poiché lei sa già tante cose, ormai, che è evidentemente nel mio interesse che sappia pure il resto. Già le ho spiegato i rapporti intercorrenti tra me e la famiglia Tregennis. Per amore della sorella frequentavo con cordialità anche i fratelli. In seguito a un litigio familiare per questioni di denaro, Mortimer si era straniato dagli altri, ma sembrava che la cosa si fosse riappacificata, e in seguito mi ero rimesso a frequentarlo come frequentavo gli altri. Era un essere astuto, sottile, sempre pronto a tramare, e per varie ragioni avevo preso a sospettare di lui, ma non mi diede mai motivo per una vera e propria lite.

Un giorno, non più di un paio di settimane fa, venne a trovarmi al mio villino e io gli mostrai qualcuna delle mie curiosità africane. Tra l'altro gli feci vedere questa polvere, e gliene spiegai le strane proprietà, dicendogli cioè come essa stimoli i centri cerebrali che controllano l'emozione della paura, e come la pazzia o la morte siano il destino del disgraziato indigeno che il santone della sua tribù sottomette a questa prova. Gli spiegai anche come la scienza europea sarebbe incapace di scoprirne gli effetti. Come riuscì a impadronirsene non saprei dire, perché io non uscii mai dalla stanza, ma dovette certamente farlo mentre stavo aprendo degli stipi o mi ero chinato su alcune casse; certo è che riuscì a sottrarmi qualche radice di piede di diavolo.

Ricordo perfettamente, ora, come mi tempestasse di domande circa la quantità e il tempo necessari a produrre l'effetto desiderato, ma ero ben lontano dal sognare che potesse avere un motivo personale per farlo.

Non pensai più alla cosa finché il telegramma del vicario mi raggiunse a Plymouth. Il farabutto si era immaginato che io mi sarei trovato in alto mare prima che la notizia potesse raggiungermi, e che per anni sarei rimasto sperduto nel cuore dell'Africa. Io invece ritornai immediatamente. Naturalmente appena appresi i particolari della tragedia, ebbi la matematica certezza che qualcuno si era servito del mio veleno. Venni da lei nella speranza che le si fosse suggerita qualche altra spiegazione. Ma non poteva essercene un'altra. Mi convinsi che l'assassino era Mortimer Tregennis; per amore del denaro e col pensiero forse che se gli altri membri della sua famiglia fossero tutti impazziti, egli sarebbe diventato il solo custode dei loro beni indivisi, si era avvalso contro di loro della polvere di piede di diavolo, riducendo fuori di senno i suoi due fratelli maschi, e uccidendo sua sorella Brenda, il solo essere umano che io abbia mai amato e che mi abbia amato. Questo il suo delitto; quale il suo castigo?

Dovevo appellarmi alla legge? Ma quali erano le mie prove? Sapevo che i fatti erano quelli, ma potevo indurre una giurìa di compatrioti a credere a un racconto così fantastico? Forse sì e forse no. Ma non potevo concedermi il lusso di fallire. La mia anima invocava vendetta. Già le ho detto poco fa, signor Holmes, che ho trascorso tanta parte della mia vita al di fuori della legge, che alla fine ho imparato a diventare io stesso la legge.

Così fu anche in questo caso. Decisi che il destino che lui aveva inflitto agli altri si sarebbe ritorto a suo danno. O questo, oppure mi sarei fatto giustizia con le mie stesse mani. In tutta l'Inghilterra non c'è un uomo che faccia meno caso della propria vita di quanto non ne faccia io in questo momento.

Ormai le ho detto tutto. Il resto l'ha detto lei. Come ha scoperto, infatti, dopo una notte insonne sono uscito presto dal mio villino, ho preveduto la difficoltà di svegliarlo, perciò ho raccolto un po' di ghiaia dal mucchio cui lei ha accennato, e me ne sono servito per lanciarla contro la sua finestra. Mortimer è sceso e mi ha fatto entrare dalla finestra del salotto. Io lo sbugiardai. Gli dissi che ero venuto come giudice e come carnefice. Di fronte alla mia pistola il disgraziato si accasciò su una seggiola, paralizzato dalla paura. Io accesi la lampada, vi cosparsi sopra la polvere e mi appostai fuori della finestra, pronto a mettere in atto la mia minaccia e a sparargli addosso nel caso avesse tentato di abbandonare la stanza. Morì nel giro di cinque minuti. Dio mio, che morte! Ma il mio cuore rimase d'acciaio, perché Mortimer non sopportò nulla che la mia innocente diletta non avesse provato prima di lui. Questa è la mia storia, signor Holmes. Forse, se avesse amato una donna, avrebbe fatto altrettanto. Comunque sono nelle sue mani. Faccia di me quello che vuole. Come già le ho detto non c'è un uomo al mondo che possa temere la morte meno di me".

Holmes rifletté alquanto in silenzio.

"Quali erano i suoi progetti?" domandò infine.

"Era mia intenzione seppellirmi nel centro dell'Africa. La mia opera laggiù è ancora per metà incompiuta".

"Vada dunque e finisca l'altra metà", disse Holmes. "Almeno per quanto mi riguarda, non ho la minima intenzione di impedirglielo".

Il dottor Sterndale alzò la sua figura gigantesca, si inchinò gravemente e uscì dalla pergola. Holmes si accese la pipa e mi tese la sua sacca del tabacco.

"Un po' di vapori non velenosi saranno un diversivo gradito", disse. "Io spero che lei sarà d'accordo con me, Watson, che questo non è un caso in cui noi abbiamo il diritto d'intrometterci. La nostra inchiesta è stata indipendente, e indipendente resterà anche la nostra azione. Lei non denuncerebbe quest'uomo, non è vero?".

"Certamente no", risposi.

"Io non ho mai amato, Watson, ma se avessi amato e la mia donna avesse incontrato una simile morte, probabilmente avrei agito come il nostro cacciatore di leoni senza legge. Chissà? Be', Watson, non voglio offendere la sua intelligenza spiegandole ciò che è ovvio. La ghiaia rimasta sul davanzale della finestra costituì naturalmente il punto di partenza delle mie ricerche. Era completamente diversa da quella che si trova nel giardino del vicariato. Fu solo quando la mia attenzione si diresse verso il dottor Sterndale e il suo villino che ne trovai la controparte. La lampada accesa in pieno giorno e i residui di polvere sullo schermo furono gli anelli successivi di una catena abbastanza facile da saldare. E adesso, mio caro Watson, credo che possiamo distogliere la mente da questo increscioso argomento e ritornare con chiara coscienza allo studio di quelle radici caldee che devono essere certamente rintracciabili nella branca cornovagliese della grande parlata celtica".

 

 

  

IL SUO ULTIMO SALUTO

 

Epilogo di Sherlock Holmes

Erano le 9 di sera del 2 agosto, l'agosto più terribile nella storia del mondo. Si poteva già pensare che la maledizione divina pendesse minacciosa sul mondo degenere, poiché nell'aria afosa e stagnante aleggiava un silenzio carico di paura e uno strano senso di inquieta attesa. Il sole era già da tempo tramontato, ma nel lontano orizzonte appariva ancora uno squarcio sanguigno, simile a una ferita aperta. In alto le stelle brillavano luminose; sotto, le luci dei bastimenti scintillavano nella baia. I due celebri tedeschi stavano presso il parapetto di pietra del viale del giardino; alle loro spalle si stendeva la lunga casa bassa dai frontoni appuntiti, ed essi guardavano l'ampia curva della spiaggia digradante ai piedi della grande roccia calcarea sulla quale Von Bork, simile a un'aquila errante, si era appollaiato quattro anni prima. Erano fermi, le teste vicine, e parlavano in tono sommesso e confidenziale. Dal basso le due estremità lucenti dei loro sigari sembravano gli occhi fiammeggianti di qualche demone maligno che spiasse nelle tenebre.

Uomo straordinario, questo Von Bork, un uomo che non aveva eguali tra tutti i fidi agenti del Kaiser. Erano state le sue doti particolari a raccomandarlo soprattutto per la missione inglese, la missione più importante d'ogni altra; ma dal momento in cui aveva assunto l'iniziativa, queste doti si erano dimostrate sempre più manifeste a quella mezza dozzina di persone che in tutto il mondo erano in diretto contatto con la verità. Una di queste era il suo attuale compagno, il barone Von Herling, Primo Segretario di Legazione, la cui enorme Benz da cento cavalli bloccava il sentierino di campagna, nell'attesa di riportare a Londra il suo proprietario.

"Per quel che mi è dato giudicare dallo svolgersi degli avvenimenti, lei sarà probabilmente di ritorno a Berlino entro la settimana", stava dicendo il segretario. "Quando sarà laggiù, mio caro Von Bork, credo che rimarrà sorpreso dell'accoglienza che ci troverà. So infatti quello che si pensa nelle più alte sfere dell'opera da lei svolta in questo paese". Era un uomo immenso, il segretario, era alto, grande, grosso e dotato di un eloquio lento e pesante che aveva costituito la principale fortuna della sua carriera politica.

Von Bork rise.

"Non è certo molto difficile imbrogliarli", osservò. "Non si può immaginare gente più docile e semplice!".

"Questo non lo so", rispose l'altro pensieroso. "Hanno curiose limitazioni e occorre imparare a osservarli. E' questa loro semplicità in superficie che facilmente intrappola uno straniero.

La prima impressione che si ha di loro è che siano molli come la cera. Poi a un tratto ci si imbatte in qualcosa di molto duro, e si capisce di aver raggiunto il limite, e allora bisogna adattarsi alla realtà. Hanno per esempio quelle loro convenzioni insulari che NON si può fare a meno di notare".

"Lei intende dire la loro buona educazione e tutto il resto?". Von Bork sospirò come chi abbia molto sofferto.

"Intendo dire i pregiudizi britannici con tutte le loro strambe manifestazioni. Posso citarle come esempio una delle mie peggiori 'gaffes'... Posso permettermi di parlarle delle mie 'gaffes', dato che lei conosce abbastanza la mia opera, per rendersi conto dei miei successi. Ero appena arrivato. Fui invitato a una riunione di fine settimana nella casa di campagna di un ministro di Gabinetto.

La conversazione fu straordinariamente indiscreta".

Von Bork annuì. "C'ero anch'io", disse seccamente.

"Appunto. Be', naturalmente mandai a Berlino un riassunto dell'informazione. Per disgrazia il nostro bravo Cancelliere ha la mano un po' pesante in queste cose, e trasmise un'osservazione che rivelò come fosse al corrente di quanto era stato detto. Questo naturalmente servì a farmi subito rintracciare come fonte dell'informazione. Lei non ha idea del danno che questo mi recò.

Non c'era proprio niente di morbido nei nostri ospiti inglesi in quell'occasione, posso garantirglielo. Pagai per due anni consecutivi. Ma lei, con quella sua posa sportiva!".

"No, no, non la chiami una posa. Posare significa essere artificiosi; questo invece è naturalissimo, per me. Io sono uno sportivo nato. Lo sport mi piace immensamente".

"Appunto, questo rende la cosa ancora più efficace. Lei gareggia contro di loro col suo panfilo, va a caccia con loro, gioca a polo, li batte in qualsiasi incontro, il suo tiro a quattro ottiene il primo premio a Olympia. Ho persino sentito dire che arriva fino al punto di sfidare a pugilato gli ufficiali giovani.

Quale ne è il risultato? Nessuno la prende sul serio. Lei diventa un simpaticone, 'un tipo proprio in gamba per essere un tedesco', un bevitore sodo, un festaiolo, un mattacchione. E intanto questa sua tranquilla casa di campagna diventa il centro di metà dei garbugli che succedono in Inghilterra e il gentiluomo sportivo è il più furbo agente segreto d'Europa. Questo sì che è genio, mio caro von Bork. Genio bello e buono!".

"Lei mi sta adulando, barone! Ma certo le posso assicurare che i miei quattro anni in questo paese non sono stati inutili. Non le ho mai fatto vedere la mia piccola riserva. Le spiace entrare un momento?".

La porta dello studio si apriva direttamente sulla terrazza. Von Bork la spinse indietro e facendo strada girò il commutatore della luce elettrica. Richiuse quindi l'uscio dietro la massiccia forma che lo seguiva e calò con cura il pesante cortinaggio sulla finestra a tralicci. Solo dopo aver preso tutte queste precauzioni, girò verso il suo ospite la faccia abbronzata dal sole.

"Alcuni dei miei documenti sono partiti", disse; "quando mia moglie e il resto della famiglia si sono recati ieri a Flushing, hanno portato con sé i meno importanti. Ma devo naturalmente invocare la protezione dell'Ambasciata per gli altri".

"Il suo nome è già stato registrato tra quelli del seguito personale. Non ci saranno difficoltà né per lei né per il suo bagaglio. Ma può darsi naturalmente che non si debba partire.

Forse l'Inghilterra abbandonerà la Francia al suo destino...

Dopotutto non esiste tra loro nessun trattato impegnativo".

"E il Belgio?".

"Già, anche il Belgio".

Von Bork scosse il capo. "Non vedo come questo potrebbe essere.

Qui c'è un trattato definito. Potrebbe non riaversi mai più da una simile umiliazione".

"Però per il momento almeno avrebbe la pace".

"Ma, e il suo onore?".

"Calma, calma, amico mio, viviamo in un'era utilitaria. L'onore è un concetto medievale. D'altronde l'Inghilterra non è preparata.

Sembra una cosa inconcepibile, ma neppure la nostra tassa speciale di guerra di cinquanta milioni, che, sembrerebbe, ha reso evidente il nostro proposito come se lo avessimo annunciato, quasi fosse una propaganda pubblicitaria sulla prima pagina del Times, non ha risvegliato questo popolo dai suoi sonni. Di tanto in tanto qualcuno muove una domanda. E' mio compito trovare una risposta.

Di tanto in tanto, pure, qualcuno si secca: è mio compito calmarlo. Ma le posso garantire che per quanto riguarda l'essenziale, cioè la riserva di munizioni, i preparativi per eventuali attacchi sottomarini, gli stanziamenti per la fabbricazione di esplosivi ad alto potenziale, nulla di tutto ciò è pronto. Come si può dunque pensare a un intervento dell'Inghilterra, soprattutto da quando le abbiamo scatenato addosso quella sarabanda infernale che è la guerra civile irlandese, e non so quant'altro per tenere i suoi pensieri rivolti a casa propria?".

"Deve pur pensare al suo avvenire!".

"Ah, questa è un'altra faccenda. Credo che per quanto concerne l'avvenire noi abbiamo sull'Inghilterra piani ben precisi, e ritengo che su questo punto le notizie che lei ci ha fornito siano per noi di carattere vitale. Con John Bull, se non è oggi sarà domani, e se preferisce oggi, noi siamo prontissimi. Se poi preferirà domani, ci troverà ancora più pronti. Secondo me mostrerebbero più saggezza a combattere con degli alleati invece che senza, ma questo è affar loro. Questa settimana è la settimana del loro destino. Ma lei mi stava parlando delle sue carte".

Sedette in poltrona con la luce che gli splendeva sul largo cranio calvo, mentre dal suo sigaro uscivano morbide spire di fumo.

La grande stanza tappezzata di pannelli di quercia e ricoperta di libri aveva un cortinaggio appeso nell'angolo estremo. Quando questo fu scostato, apparve una grossa cassaforte dalle borchie di bronzo. Von Bork staccò dalla catena dell'orologio una piccola chiave e dopo aver armeggiato a lungo intorno alla serratura ne spalancò il pesante sportello. "Guardi!" disse facendosi da parte e accennando con un ampio gesto della mano.

La luce illuminò vividamente la cassaforte aperta, e il segretario d'Ambasciata fissò con attento interesse le numerose file di caselle di cui era fornita. Ogni casellario aveva la sua etichetta, e i suoi occhi scorsero una lunga serie di nomi quali "Ford", "Difese Portuali", "Fortificazioni di Portsmouth", "Manica", "Rosyth", e una ventina d'altri. Ogni reparto traboccava di carte e di piani.

"Formidabile!" mormorò il segretario, e posando il sigaro batté piano l'una contro l'altra le sue mani grasse.

"E tutto questo in quattro anni, barone. Non è poi roba da poco per il signorotto di campagna bevitore sodo e cavalcatore accanito! La gemma della mia collezione sta per arrivare e ha la sua incastonatura già pronta che l'aspetta". Così dicendo indicò uno spazio vuoto su cui era stampato "Segnalazioni navali".

"Ma lei ha già uno schedario notevole".

"Tutta roba antiquata: carta straccia. Non so come, l'Ammiragliato deve aver avuto sentore di qualcosa e ha fatto cambiare tutti i codici. E' stato un colpo, barone... La peggiore sconfitta di tutta la mia campagna. Ma grazie al mio libretto d'assegni e al buon Altamont tutto sarà sistemato stanotte".

Il barone consultò il proprio orologio e lanciò un'esclamazione gutturale di disappunto. "Peccato! Non posso proprio aspettare ancora! Come lei immaginerà, le cose stanno andando di gran carriera in questo momento, a Carlton Terrace, e tutti dobbiamo stare ai nostri posti. Avevo sperato di poter portare la notizia del suo grandioso colpo. Altamont non ha accennato a nessuna ora?".

Von Bork gli mostrò un telegramma.

"Verrò sicuramente stanotte e porterò nuove candele d'accensione.

Altamont".

"Candele d'accensione, eh?".

"Vede, lui posa a esperto di motori e io tengo un'autorimessa in piena regola. Nel nostro codice tutto quel che può avere importanza è indicato col nome di qualche accessorio automobilistico. Se parla di un radiatore si tratta di una nave da battaglia, una pompa per l'olio è un incrociatore, e così via di seguito. Le candele d'accensione sono le segnalazioni navali".

"E' stato spedito a Portsmouth a mezzogiorno", disse il segretario, esaminando la soprascritta. "A proposito, quanto lo paga?".

"Cinquecento sterline per questo particolare lavoro, ma naturalmente ha anche uno stipendio regolare".

"Che farabutto! Sono utili questi traditori, ma io rimpiango il maledetto denaro che siamo costretti a versare".

"Nei confronti di Altamont non rimpiango nulla. E' un lavoratore meraviglioso. Se lo pago bene, lui almeno mi consegna la merce, per usare la sua frase. D'altronde non è un traditore, posso assicurarle che il nostro Junker pangermanista più scalmanato è una colombella innocente in fatto di sentimenti verso l'Inghilterra al confronto con questo fanatico irlandese- americano".

"Oh, è un irlandese d'America?".

"Se lo sentisse parlare non ne avrebbe il minimo dubbio. Ci sono momenti che, le assicuro, stento quasi a capirlo. Sembra che oltre ad aver dichiarato guerra al re inglese, l'abbia dichiarata anche all'inglese del re... Ma deve proprio andare? Potrebbe arrivare da un momento all'altro".

"No, mi spiace, ma per me è già passata l'ora. L'aspettiamo per tempo domani mattina, e quando lei farà passare quel libro di segnalazioni attraverso la porticina sui gradini del Duke of York, potrà mettere trionfalmente la parola fine alla sua carriera inglese. Cosa? Del Tokay!". E accennò a una bottiglia polverosa e coperta di sigilli, posta su una guantiera in mezzo a due lunghi calici.

"Posso offrirgliene un bicchiere prima che lei si metta in viaggio?".

"No, grazie; ma mi ha tutta l'aria di un festino".

"Ad Altamont il vino piace molto e ha fatto una vera passione per il mio Tokay. E' un tipo suscettibile e occorre lisciarlo, in certe piccole cose. Ho dovuto proprio studiarlo, glielo assicuro!" Intanto erano ritornati sulla terrazza, l'avevano percorsa tutta sino alla fine dove, al tocco dell'autista del barone, la grande macchina tremò e starnutì. "Quelle devono essere le luci di Harwich, immagino", disse il segretario indossando il suo spolverino. "Come tutto sembra tranquillo e immobile. Potranno esserci altre luci tra una settimana, e allora la costa inglese diventerà un luogo molto meno tranquillo. Può darsi che anche i cieli diventino meno pacifici se si avvera tutto quello che ci sta promettendo il nostro buon Zeppellin. Ma chi è quella?".

C'era una sola finestra illuminata; accanto a essa era posata una lampada e vicino, seduta a un tavolo, c'era una vecchietta dal viso rubizzo, col capo coperto da una cuffietta campagnola. Era china a sferruzzare e ogni tanto si interrompeva per accarezzare un grosso gatto nero che sonnecchiava su uno sgabello vicino.

"Quella è Martha, la sola domestica che mi sia rimasta".

Il segretario ebbe un risolino.

"Potrebbe quasi essere la Britannia in persona" osservò, "con quell'aria così completamente assorta e quell'aspetto generale di confortevole sonnolenza. Bene, arrivederci Von Bork!"; e con un cenno finale di saluto della mano balzò in macchina e un attimo dopo due dorati coni di luce uscenti dai riflettori bucavano a velocità vertiginosa la coltre dalla notte. Il segretario si era adagiato sui cuscini della lussuosa limousine, e la sua mente era talmente occupata dal pensiero dell'imminente tragedia europea, che non si accorse neppure che, mentre la sua automobile imboccava la strada del villaggio, per un pelo non si scontrò con una piccola Ford che proveniva in direzione opposta.

Quando le ultime luci dell'automobile si furono dileguate in lontananza, Von Bork rientrò lentamente nel proprio studio. Nel passare osservò che la sua vecchia governante aveva spento la lampada e si era ritirata. Erano per lui un'esperienza nuova il silenzio e l'oscurità della vasta casa, poiché la sua famiglia e la sua servitù erano di solito numerose. Provava però un profondo sollievo nel pensare che tutti erano in salvo e che ad eccezione della vecchia che aveva indugiato in cucina, l'intera dimora era rimasta a lui solo. Aveva molte cose da riordinare nel suo studio, e si rimise all'opera finché la sua intelligente e bella faccia fu arrossata dal calore dei documenti che bruciavano. C'era sul tavolo una valigia di cuoio, e in questa cominciò a riporre, con grandi cure e sistematicamente, il prezioso contenuto della cassaforte. Aveva però cominciato da poco questo lavoro quando le sue pronte orecchie percepirono il rombo di un'automobile lontana.

Lanciò subito un'esclamazione di sollievo, tirò i cingoli della valigia, chiuse la cassaforte a chiave e si precipitò sulla terrazza. Arrivò giusto in tempo per vedere i fanali di un'automobilina che si era fermata presso il cancello. Un passeggero saltò dalla vettura e si mosse rapidamente verso di lui, mentre l'autista, un uomo anziano, di struttura massiccia, con un paio di baffi grigi, si accomodò meglio sul sedile, come chi è rassegnato a una lunga attesa.

"Dunque?" domandò ansiosamente Von Bork correndo incontro al suo ospite.

Per tutta risposta l'uomo agitò alto sul capo, con un gesto di trionfo, un pacchettino di carta marrone.

"Può essere contento di vedermi, stasera, mio bravo signore", gridò. "Finalmente le porto il prosciutto".

"Le segnalazioni?".

"Come le ho detto nel mio telegramma. Ci sono tutte, il codice a semaforo, a lampada, il Marconi... la copia, ben inteso, non gli originali. Sarebbe stato troppo pericoloso. Ma è merce buona, può esserne sicuro", e così dicendo batté una mano sulla spalla del tedesco con una rozza familiarità sotto la quale l'altro si contrasse in un moto istintivo di repulsione.

"Entri" disse. "Sono solo in casa. Aspettavo soltanto lei.

Naturalmente una copia è meglio dell'originale. Se questo mancasse cambierebbe un'altra volta tutto. E' sicuro che sia questa la copia esatta?".

Intanto l'irlandese-americano era entrato nello studio e si era buttato in una poltrona allungando le sue interminabili gambe. Era un uomo alto e magro sui sessant'anni, dai tratti taglienti e il mento ornato di una barbetta caprigna che lo faceva assomigliare vagamente a una caricatura dello Zio Sam. Da un angolo della bocca gli pendeva un sigaro mezzo fumato e mezzo masticato, e mentre si sedeva aveva acceso un fiammifero per riattizzarlo. "Pronto a partire?" osservò guardandosi in giro. "Ehi, amico", soggiunse mentre i suoi occhi si posavano sulla cassaforte da cui ora il cortinaggio era stato scostato, "non mi vorrà mica far credere di tenere i suoi documenti là dentro?".

"Perché no?".

"Perdinci, in un posto aperto come quello! E poi lei sarebbe una spia! Perbacco! Un qualsiasi ladruncolo americano saprebbe farla saltare con un semplice apriscatole. Se avessi saputo che una mia lettera sarebbe andata a finire là dentro, mi sarei giudicato ben scemo a scriverle!".

"Anche il più abile scassinatore non saprebbe forzare questa cassaforte", rispose von Bork. "Non è possibile tagliarne il metallo con nessun strumento".

"Ma la serratura?".

"No, è una serratura a doppia combinazione. Sa cosa significa questo?".

"Io no", rispose l'americano.

"Ecco, occorre non soltanto una parola, ma anche una serie di cifre prima di poter aprire questa serratura". Si alzò e mostrò attraverso il buco della serratura un disco a doppi raggi. "Questo è il disco esterno per le lettere, quello interno è per le cifre".

"Bene, bene. Mi piace!".

"Però non è così semplice come lei crede. L'ho fatta fare quattro anni fa. E che cosa immagina che abbia scelto come parole e come cifre?".

"Proprio non saprei".

"Bene, come parola ho scelto agosto, e come cifra 1914, ed eccoci qua".

La faccia dell'americano mostrò ammirazione e sorpresa.

"Perbacco, fantastico! L'ha proprio imbroccata!".

"Sì, anche da noi eravamo in pochi a immaginare questa data. Ma ormai ci siamo, e io chiudo bottega domani mattina".

"Bene, credo che dovrà sistemare anche me. Non ho certo intenzione di restarmene tutto solo in questo fottutissimo paese. Tra una settimana e anche meno John Bull sarà ritto sulle sue zampe di dietro e avrà il suo da fare ad arrancare, ma io preferisco guardarlo dall'altra parte dell'acqua".

"Ma lei non è cittadino americano?".

"Anche Jack James era cittadino americano, eppure l'hanno ficcato lo stesso in gattabuia a Portland. A un questurino inglese non frega proprio niente se gli dici che sei cittadino americano. 'Qui governano la legge e l'ordine britannico', ti risponde. A proposito, mio caro signore, parlando di Jack James ho l'impressione che lei non si preoccupi troppo di proteggere i suoi uomini".

"Che intende dire?" domandò brusco Von Bork.

"Be', è lei il principale, no? Ora tocca a lei badare che non caschino. Purtroppo cadono, e quando mai lei si preoccupa di raccoglierli? James...".

"E' stata tutta colpa di James, lo sa benissimo. Era troppo ostinato nel lavoro".

"James era un testone... questo lo ammetto. Poi c'è stato quell'Hollis".

"Ma era pazzo!".

"Be', ammetto che verso la fine fosse diventato un po' tocco. Ce n'è più che d'avanzo per far impazzire un uomo quando deve fingere una parte dalla mattina alla sera con un centinaio di questurini tutt'intorno pronti a mettergli le manette. Ma adesso c'è anche Steiner...".

Von Bork ebbe un violento sobbalzo, e la sua faccia abbronzata impallidì leggermente.

"Che cos'è successo a Steiner?".

"Gli è successo che l'hanno pizzicato, ecco tutto! Hanno fatto un'irruzione nel suo negozio ieri sera e lui e le sue carte si trovano sotto chiave nella prigione di Portsmouth. Lei taglierà la corda, e lui, poveraccio, dovrà affrontare le conseguenze, e potrà dirsi fortunato se se la caverà con l'ergastolo. Ecco perché voglio passare dall'altra parte dell'acqua il più presto possibile".

Von Bork era un uomo forte, controllatissimo, ma era facile capire che quelle notizie lo avevano sconvolto.

"Come hanno fatto a prendere Steiner?" mormorò. "Questo finora è il colpo peggiore".

"Be', per poco non le toccava forse il peggio, perché ho l'impressione che mi stiano fiutando".

"No!".

"Sì! Sono stati a chiedere informazioni dalla mia padrona di casa e quando l'ho saputo ho pensato che era venuto il momento per me di partire in quarta. Ma quello che io vorrei capire è come fanno i poliziotti a sapere queste cose! Steiner è il quinto uomo che le hanno soffiato da quando ho accettato di lavorare per lei, e se non me la squaglio in fretta saprò purtroppo chi sarà il sesto.

Come spiega lei questo fatto, e non si vergogna forse di vedere i suoi uomini cadere l'uno dopo l'altro come birilli?".

Il volto di Von Bork divenne vermiglio di collera.

"Come osa lei parlarmi in questo modo?".

"Se non osassi, mio caro signore, non sarei al suo servizio. Ma le dirò senza peli sulla lingua ciò che penso. Ho sentito dire che a voi tedeschi, quando un agente ha sbrigato il proprio lavoro, non dispiace se lo fanno fuori".

Von Bork balzò in piedi.

"Lei osa insinuare che io ho tradito i miei agenti?".

"Non voglio dire questo, signore mio, ma certo qualcosa ci deve essere sotto, e tocca a lei adesso sbrigarsela, perché io me ne lavo le mani. Voglio andarmene in Olanda al più presto".

Von Bork era riuscito a dominare la sua collera.

"Siamo stati alleati per troppo tempo per litigare adesso, proprio al momento della vittoria", disse. "Lei ha compiuto un lavoro splendido, e ha corso dei rischi che non posso dimenticare. Si rechi dunque senza indugio in Olanda, e da lì potrà prendere un piroscafo che da Rotterdam la porterà a New York. Tra una settimana non ci sarà più una sola linea di navigazione sicura.

Prenderò adesso il suo libro e lo riporrò col resto".

L'americano aveva sempre in mano il pacchetto, ma non accennava minimamente a consegnarlo.

"E il malloppo?" chiese.

"Il che cosa?".

"Sì, il morto, la ricompensa, le cinquecento sterline. Il cannoniere si era fatto cattivissimo l'ultima volta, e ho dovuto placarlo con altri cento dollari extra, altrimenti sarebbe stato 'nitsky' per lei e per me. 'Niente da fare!' mi rispondeva, e diceva sul serio, ma le ultime cento svanziche lo hanno placato.

Questa storia mi è costata duecento sterline tonde tonde, perciò è logico che non possa mollare senza prendermi quello che mi spetta".

Von Bork sorrise con una certa amarezza. "A quanto pare lei non ha un'opinione molto alta del mio onore" osservò, "se vuole il denaro prima di consegnarmi il libro".

"Egregio signore, gli affari sono affari".

"E va bene, come vuole". Si sedette al tavolo e riempì un assegno che staccò quindi dal libretto di banca, ma prima di consegnarlo all'americano si trattenne. "Dopotutto, dal momento che queste sono le condizioni, signor Altamont", disse, "non vedo perché io debba fidarmi di lei più di quanto lei si fida di me. Mi capisce?" soggiunse quindi guardando sulla spalla dell'americano. "Ecco l'assegno sul tavolo. Esigo il diritto di esaminare quel pacco prima che lei ritiri il denaro".

L'agente glielo consegnò senza proferire parola. Von Bork disfece la funicella che lo legava e svolse due strati di carta. Sedette poi per un attimo, fissando con silenzioso stupore il libriccino azzurro che era emerso dal doppio involucro. Sulla sua copertina era stampato in lettere d'oro: "Manuale pratico d'apicoltura". Ma la celebre spia poté fissare questo titolo stranamente banale solo per un attimo. Un istante dopo già era imprigionato per la nuca da una morsa di ferro, mentre sulla sua faccia contorta veniva fatta passare una spugna imbevuta di cloroformio.

"Un altro bicchiere, Watson", disse Sherlock Holmes allungando la mano alla bottiglia di Tokay imperiale.

Il grosso autista, che intanto si era seduto al tavolo, porse prontamente il suo bicchiere.

"Che buon vino, Holmes".

"Un vino veramente notevole, Watson. Il nostro amico che si trova in questo momento abbandonato sul divano, mi ha garantito che proviene dalla cantina privata di Francesco Giuseppe, direttamente dal palazzo di Schonbrunn... La prego di aprire la finestra perché i vapori di cloroformio non sono gradevoli al palato".

La cassaforte era socchiusa, e Holmes, in piedi davanti a essa, ne stava togliendo un incartamento dopo l'altro, esaminandoli uno per uno, per poi riporli accuratamente nella valigia di von Bork. Il tedesco sul divano russava stentoreamente, con una cinghia che gli immobilizzava le braccia e un'altra intorno alle gambe.

"Non occorre che ci affrettiamo, Watson. Nessuno ci disturberà.

Vuole suonare il campanello? Non c'è nessuno in casa tranne la vecchia Martha che ha rappresentato a meraviglia la sua parte.

Sono stato io a trovarle questo posto non appena mi sono messo nel servizio. E sarà contenta di sapere che tutto è andato benissimo".

La brava vecchia era comparsa sulla soglia. S'inchinò con un sorriso a Holmes, ma fissò con una certa apprensione la figura inerte distesa sul divano.

"Niente pericolo, Martha. E' incolume".

"Ne sono contenta, signor Holmes. Dal suo punto di vista era un buon padrone. Voleva che io partissi con sua moglie per la Germania ieri, ma questo non sarebbe rientrato nei suoi piani, vero, signor Holmes?".

"Francamente no, Martha. Finché lei era qui io stavo tranquillo.

Però stasera abbiamo aspettato parecchio la sua segnalazione".

"E' stato per via del segretario, signor Holmes".

"Lo so: la sua macchina ha incrociato la nostra".

"Credevo che non se ne sarebbe mai andato. Sapevo che non rientrava nei suoi piani trovarlo qui".

"No davvero. Bene, è stato soltanto questione di dover aspettare mezz'ora in più. Finché non ho visto la sua lampada spegnersi e ho capito che la via era libera. Venga a Londra da me domani, Martha, al Claridge's Hotel".

"Benissimo, signor Holmes".

"Credo che lei sarà pronta a partire".

"Sissignore. Lui ha imbucato sette lettere oggi, e io ho preso gli indirizzi come al solito".

"Benissimo, Martha; li guarderò domani. Buonanotte. Queste carte", proseguì mentre la vecchia si ritirava, "non sono di grande importanza giacché naturalmente le informazioni al riguardo sono già state spedite al Governo germanico. Questi sono gli originali che non era possibile far uscire impunemente dal paese".

"Allora non rappresentano alcuna utilità".

"Questo io non direi, Watson. Serviranno per lo meno a dimostrare alla nostra gente cosa sanno e cosa non sanno. Posso dire che parecchi di questi documenti sono passati per le mie mani, e non occorre che aggiunga che sono totalmente falsi. Rallegrerebbe i miei ultimi anni vedere un incrociatore germanico navigare nel Solent secondo progetti di campi di mine che io ho fornito. Ma lei, Watson", interruppe il proprio lavoro e strinse per le spalle il suo vecchio amico, "non l'ho ancora guardata alla luce, si può dire. Che hanno fatto di lei gli anni? Mi sembra sempre lo stesso eterno ragazzo di un tempo".

"Mi sento ringiovanito di vent'anni, Holmes. Poche volte ho provato una felicità più grande del momento in cui ho ricevuto il suo telegramma dove mi chiedeva di venirle incontro a Harwich con l'automobile. Ma lei, Holmes... lei è cambiato pochissimo...

tranne che per quell'orribile barbetta".

"Sono i piccoli sacrifici che bisogna pur fare per il proprio paese, Watson", disse Holmes lisciandosi quel suo ridicolo pizzo.

"Domani non sarà che un ricordo spiacevole. Con i capelli tagliati e altri pochi cambiamenti superficiali, riapparirò certamente al Claridge domani com'ero prima di questa mia combinazione americana... Mi scusi, Watson, ma temo che la mia fonte di britannico purismo resterà perpetuamente inquinata... prima di questa mia impresa americana".

"Ma lei si era ritirato, Holmes. Avevamo saputo che viveva come un eremita tra le sue api e i suoi libri in una piccola fattoria dei Downs meridionali".

"Esattamente, Watson. Ecco il frutto dei miei ozi, l''opus magnum' di questi miei ultimi anni!". Raccolse dal tavolo il volume e ne lesse ad alta voce il titolo completo: "Manuale pratico di apicoltura, con alcune note sull'isolamento della regina". L'ho scritto tutto da solo. Contempli il frutto di notti pensose e di laboriose giornate, in cui ho studiato le piccole squadre di lavoratrici come studiavo un tempo il mondo criminale londinese".

"Ma come mai si è rimesso a lavorare?".

"Mah, è quello che mi sono chiesto anch'io molte volte. Se fosse stato soltanto per il ministro degli Affari Esteri, avrei resistito. Ma quando il Premier in persona si è degnato di visitare la mia umile dimora...! Il fatto è, Watson, che quel signore sul divano era un po' troppo furbo per i nostri.

Apparteneva a una classe a parte. Le cose andavano male, e nessuno riusciva a capire perché andassero male. Agenti venivano sospettati e pure acciuffati, ma si aveva l'impressione di una forza centrale segreta e potente. Era assolutamente necessario smascherarla. Mi furono fatte violente pressioni perché me ne occupassi io. Quest'avventura mi è costata due anni, Watson, ma sono stati due anni pieni d'interesse. Quando le avrò detto che ho incominciato il mio pellegrinaggio a Chicago, mi sono iniziato a Buffalo in una società irlandese, ho fatto passare i peggiori guai al commissariato di Skibbareen riuscendo così per caso a mettere gli occhi addosso a un agente subalterno di Von Bork, il quale mi raccomandò come un uomo promettente, lei si renderà conto della complessità della cosa. Da quel momento sono sempre stato onorato della sua fiducia, il che non ha impedito alla maggior parte dei suoi piani di andare a rotoli, e a cinque dei suoi agenti migliori di essere buttati in prigione. Io li tenevo d'occhio, Watson, e li ho pizzicati proprio al momento buono... Be', egregio signore, spero che non stia troppo male!".

Quest'ultima osservazione era rivolta a Von Bork in persona, che dopo molto affannare e sbattere di palpebre era rimasto ad ascoltare tranquillamente le spiegazioni di Holmes. Ma ora scoppiò in un fiume furibondo di invettive germaniche, mentre la collera gli sconvolgeva la faccia. Holmes però proseguì imperturbabile nel suo rapido spoglio dei documenti anche se il suo prigioniero imprecava e bestemmiava.

"Per quanto antimusicale, il tedesco è la più espressiva di tutte le lingue", osservò quando Von Bork si interruppe unicamente per semplice esaurimento. "Perbacco, perbacco!" soggiunse poi fissando più attentamente l'angolo di un tracciato prima di rimetterlo nella scatola. "Questo dovrebbe servire a far mettere in gabbia un altro fringuello. Non avrei mai immaginato mai che il capo- dipartimento del Tesoro fosse così porco, benché da molto tempo gli avessi messo gli occhi addosso. Signor Von Bork, lei deve rispondere di molti crimini".

Il prigioniero si era sollevato con difficoltà sul divano e stava fissando il suo avversario con stupore e odio.

"Mi vendicherò di lei, Altamont", disse parlando con lenta deliberazione, "seppure mi costasse tutta l'esistenza, mi vendicherò di lei!".

"Sempre la vecchia eterna canzone", disse Holmes. "Quante volte l'ho sentita nei tempi passati. Era il ritornello del compianto professore Moriaty e anche il colonnello Sebastian Moran aveva imparato a modularla. Eppure io faccio l'apicoltore nei Downs meridionali".

"Maledetto, due volte traditore!" gridò il tedesco cercando di liberarsi dei legami che lo immobilizzavano e scrutando con occhio omicida il suo avversario.

"No, no, non sono poi così cattivo", rispose Holmes sorridendo.

"Come le rivelerà certamente la mia pronuncia, il signor Altamont di Chicago in realtà non esiste affatto. Me ne sono servito e l'ho liquidato".

"Ma chi è lei, allora?".

"Per dir la verità non importa gran che chi sono. Ma dal momento che la cosa sembra interessarla, signor Von Bork, posso dirle che questa non è la prima volta che faccio conoscenza con un membro della sua famiglia. Ho lavorato parecchio in Germania, in passato, e può darsi che il mio nome le sia familiare".

"Vorrei conoscerlo", disse cupo il prussiano.

"Sono stato io a provocare la separazione tra Irene Adler e il defunto re di Boemia quando suo cugino Henrich era Messo Imperiale. Fui ancora io a salvare da un attentato nichilista, a opera di Klopman, il conte Von Zugrafenstein, che era il fratello maggiore di sua madre. Sono stato io..".

Von Bork sgranò gli occhi stupefatto.

"Non c'è che un uomo solo", gridò.

"Appunto", disse Holmes.

Von Bork diede in un gemito e si accasciò sul divano. "E quasi tutte le mie informazioni venivano per tramite suo", esclamò. "Dio mio! Che ho fatto? E' la mia rovina!".

"Certo non può farne troppo caso, delle informazioni che le ho dato", ribatté Holmes. "Bisognerà controllarle e lei avrà poco tempo per far questo. Il suo ammiraglio si accorgerà che i nuovi cannoni sono un po' più grossi di quel che crede, e gli incrociatori un po' più veloci".

Von Bork si strinse la gola in preda alla disperazione.

"Ci sono parecchi altri punti di dettaglio che senza dubbio verranno alla luce a tempo debito. Ma lei possiede una qualità che è molto rara per un tedesco, signor Von Bork: è uno sportivo e non mi serberà rancore quando capirà che lei, che è riuscito a mettere nel sacco tanta altra gente, si è finalmente messa nel sacco da sé. Dopo tutto lei ha operato con le migliori intenzioni del mondo per il bene del suo paese, e io ho fatto altrettanto per il mio. E ehe cosa ci potrebbe essere di più naturale? D'altronde", soggiunse non senza dolcezza, mentre posava una mano sulla spalla dell'uomo annientato, "è meglio questo che cadere di fronte a qualche nemico più ignobile. I documenti sono ormai pronti, Watson. Se vuole avere la bontà di aiutarmi col nostro prigioniero, credo che potremo partire per Londra immediatamente".

Non fu un compito facile muovere Von Bork, perché era un uomo forte e disperato. Infine, stringendolo ciascuno per un braccio, i due amici lo sospinsero piano piano lungo il sentiero del giardino che lui aveva percorso con tanta orgogliosa sicurezza quando, non più di poche ore prima, aveva ricevuto le congratulazioni del celebre diplomatico. Dopo una breve lotta finale venne issato, sempre legato mani e piedi, nel sedile libero della vetturetta. La sua preziosa valigia gli venne posata accanto.

"Spero che si sentirà comodo per quanto possano permetterlo le circostanze", disse Holmes quando tutto fu sistemato. "Mi renderei colpevole di un'eccessiva libertà se le accendessi un sigaro e glielo mettessi tra le labbra?".

Ma ogni cortesia era sciupata con quell'iroso tedesco.

"Suppongo che lei si renda conto, signor Sherlock Holmes", disse, "che se il suo Governo la sostiene in questa azione, ciò sarà considerato un atto di guerra".

"E il suo Governo allora, e tutta questa roba?" disse Holmes battendo una mano sulla valigia.

"Lei è un privato cittadino e non ha alcun diritto di arrestarmi.

Il suo modo di procedere è assolutamente illegale e oltraggiante".

"Ha perfettamente ragione", disse Holmes.

"Lei rapisce un suddito tedesco".

"E gli ruba i suoi documenti privati".

"Bene, spero che comprenderà la sua posizione, la sua e quella del suo complice qui presente. Se dovessi mettermi a gridare quando passeremo davanti al villaggio...".

"Mio caro signore, se commettesse una sciocchezza del genere aumenterebbe probabilmente il numero troppo limitato delle denominazioni delle nostre locande di campagna, dandoci come insegna quella del 'Prussiano penzolante'. Il buon Britanno è una creatura paziente, ma in questo momento è un po' nervoso e sarebbe prudente non eccitarlo troppo. No, signor Von Bork, lei se ne verrà con noi buono buono a Scotland Yard, da dove potrà mandare a chiamare il suo amico barone Von Herling per vedere se anche adesso vorrà darle il posto che le aveva riservato nel seguito dell'Ambasciata. In quanto a lei, Watson, ho sentito dire che rientra in servizio, perciò credo che Londra sia sulla sua strada.

Rimanga qui con me sulla terrazza poiché sarà forse l'ultima conversazione tranquilla che ci sarà dato di avere".

I due amici conversarono in intimo colloquio per alcuni minuti, riandando ancora una volta con la memoria ai giorni del passato, mentre il loro prigioniero si dibatteva invano per liberarsi dei legami che lo stringevano. Mentre si avviavano all'automobile, Holmes indicò il mare illuminato dalla luna e scosse la testa pensieroso.

"Si sta levando un vento da Est, Watson".

"Non credo, Holmes. Fa così caldo!".

"Caro vecchio Watson! Lei è l'unico punto immutabile in un'era che si chiude. Comunque, si sta levando un vento da Est, un vento che l'Inghilterra finora non conosce. Sarà un vento gelido e pungente, Watson, e molti di noi ne saranno falciati. Ma nondimeno esso è un vento di Dio, e quando la tempesta sarà passata si leverà nella luce del sole una terra più pura, migliore, più forte. Avvii la marcia, Watson, perché è tempo che partiamo. Ho in tasca un assegno di cinquecento sterline che vorrei incassare al più presto, poiché il traente sarebbe capacissimo di fermarlo, se lo potesse..".