Charles Dickens
LA CASA DEI FANTASMI
L'albero di Natale
Ci sarà sempre odore di caldarroste e di altri buoni generi di conforto, dato che raccontiamo storie d'inverno - o, per meglio dire, storie di fantasmi - intorno al fuoco di Natale. E una volta lì, non ci siamo mossi se non per avvicinarci ancora di più alla fiamma. Questo però non conta. Arriviamo alla casa, una vecchia casa con una quantità enorme di camini, dove la legna nel focolare brucia su antichi alari, e ritratti sinistri (certuni, anche, con leggende sinistre) aggrottano le sopracciglia con aria diffidente dall'alto dei pannelli in noce delle pareti. Chi vi parla è un nobiluomo di mezza età. Gustiamo un'abbondante cena con il padrone, la padrona di casa e i loro ospiti - è Natale, e la vecchia casa è piena di gente -, poi andiamo a coricarci. La nostra camera è vecchissima. Le pareti sono tappezzate di arazzi. Quel ritratto di Cavaliere verde, sul caminetto non ci piace. Ci sono grosse travi nere sul soffitto, e una grossa lettiera nera, sostenuta alla base da due grosse figure nere che paiono essersi staccate da due tombe della vecchia casa baronale del parco, proprio in nostro onore. Ma non siamo superstiziosi, dunque non ci facciamo caso. Così, congediamo il nostro cameriere, chiudiamo a chiave la porta e ci sediamo davanti al fuoco, riflettendo su un'infinità di cose. Alla fine ci corichiamo. Senonché, non riusciamo a prendere sonno. Ci voltiamo da una parte, ci rigiriamo dall'altra, e non riusciamo a prendere sonno. I tizzoni nel focolare bruciano allegramente e dànno alla camera un'aria spettrale. Non possiamo trattenerci dal far capolino da sopra il copriletto per sbirciare le due figure nere e il Cavaliere verde: che aspetto cattivo ha! Nel balenìo della luce, pare avanzare e indietreggiare: il che, anche se non siamo nobiluomini superstiziosi, non è piacevole. Allora, diventiamo nervosi, sempre più nervosi. Diciamo: - E' sciocco, ci fingeremo indisposti, e busseremo alla porta di qualcuno -. Ebbene, siamo lì lì per farlo, quando ecco che la porta chiusa a chiave si spalanca e entra una donna, dal pallore mortale e dai lunghi capelli biondi, che scivola silenziosamente vicino al fuoco, e si siede sulla sedia che avevamo lasciato lì, fregandosi le mani. Notiamo allora che i suoi vestiti sono bagnati. Abbiamo la lingua attaccata al palato, e non riusciamo a parlare; ma la osserviamo con attenzione. I vestiti sono bagnati, e i lunghi capelli sono intrisi di fango umido; è vestita alla moda di duecento anni fa, e dalla cintura le pende un mazzo di chiavi arrugginite. Insomma, lei è seduta lì, e noi non riusciamo nemmeno a perdere i sensi, tale è lo stato in cui ci troviamo. Poco dopo si alza e prova tutte le serrature della camera con le sue chiavi arrugginite, ma nessuna si rivela adatta; quindi fissa gli occhi sul ritratto del Cavaliere verde e, con voce cupa e terribile, dice: - I cervi sanno bene chi è!. Quindi torna a fregarsi le mani, passa vicino al letto, esce dalla porta. Ci infiliamo in tutta fretta la veste da camera, prendiamo le pistole (in viaggio le portiamo sempre con noi), e ci apprestiamo a seguirla, quando scopriamo che la porta è chiusa a chiave. Giriamo la chiave e guardiamo fuori nell'oscurità della galleria: di là, nessuno. Vaghiamo alla ricerca del nostro cameriere. Non riusciamo a trovarlo.
Camminiamo su e giù per la galleria fino allo spuntare del giorno; torniamo poi nella stanza deserta, ci addormentiamo e siamo risvegliati dal nostro cameriere (mai che un fantasma perseguiti lui!) e dal sole splendente. Ebbene, facciamo una triste colazione, e tutti gli ospiti notano che abbiamo una brutta cera. Dopo colazione visitiamo la casa in compagnia del nostro ospite, e lo portiamo quindi davanti al ritratto del Cavaliere verde; e allora tutta la storia viene fuori. Costui aveva ingannato una giovane governante, un tempo al servizio di quella famiglia, e famosa per la sua bellezza, e lei si era gettata in uno stagno; il suo corpo era stato scoperto, molto tempo dopo, poiché i cervi si erano rifiutati di bere l'acqua. Da allora si è mormorato che, a mezzanotte, lei si aggirasse per la casa (andando però di preferenza nella camera in cui il Cavaliere verde era solito coricarsi) e che provasse con le sue chiavi arrugginite le vecchie serrature. Ebbene, raccontiamo al nostro ospite quanto abbiamo visto; un'ombra gli scende sul viso, e lui ci supplica di mettere tutto a tacere; così è. Ma è la pura verità; e prima di morire (siamo ormai morti), l'abbiamo riferito a molte persone di nostra fiducia.
Non scompariranno mai le vecchie case con le gallerie che risuonano di echi, le camere da letto d'onore, le ali infestate dai fantasmi, chiuse da tanti anni, nelle quali ci permettevano di scorrazzare, con i brividi che piacevolmente ci salivano lungo la schiena, e di incontrare tutti i fantasmi che volevamo; questi però (conviene precisarlo, forse) si riducevano a pochissimi tipi o specie fondamentali: poiché i fantasmi sono poco originali e "passeggiano" per sentieri battuti. Capita così che in una certa camera di una certa casa di campagna, dove un certo Lord, Baronetto, Cavaliere o Gentiluomo scellerato si è ucciso sparandosi un colpo di pistola, il sangue "si rifiuti" di sparire da certe assi del pavimento. Puoi pure raschiare e raschiare, come l'attuale proprietario ha fatto, o piallare e piallare come fece suo padre, o strofinare e strofinare, come fece il nonno, o scrostare e scrostare con potenti acidi corrosivi, come fece il bisnonno, ma il sangue era sempre lì: né più rosso né più scolorito, né di più né di meno, sempre e solo lo stesso.
Capitò così che in una talaltra casa ci sia una porta stregata che non resterà mai aperta, o il suono stregato di un arcolaio, o di un martello, o un rumore di passi, o un urlo, o un sospiro, o uno scalpitìo di cavalli, o uno strepitìo di catene. Diversamente c'è un orologio sulla torre che a mezzanotte batte tredici rintocchi quando il capofamiglia sta per morire; o una carrozza nera, fosca e immobile, che in quei momenti qualcuno vede sempre ferma vicino ai grandi cancelli delle scuderie. E capitò così che Lady Mary andò a visitare una casa grande e isolata nelle Highlands scozzesi, e che, stanca per il lungo viaggio, si ritirò presto nella sua stanza, e la mattina seguente disse candidamente al tavolo della colazione: Che stramberia dare una festa così tardi, la notte scorsa, in un posto così fuori mano, e non avermelo detto, prima che andassi a letto! - Al che tutti chiesero a Lady Mary cosa voleva dire. Lady Mary allora rispose:
- Ma come, se per tutta la notte le carrozze non hanno mai smesso di rintronare sul pavimento del terrazzo, sotto la mia finestra! - A quelle parole il proprietario della casa impallidì, altrettanto fece la sua signora, e Charles Macdoodle di Macdoodle fece cenno a Lady Mary di non aggiungere altro, e tutti rimasero in silenzio. Dopo colazione, Charles Macdoodle informò Lady Mary che nella tradizione di quella famiglia lo strepito delle carrozze sul terrazzo era un segno di morte. E così fu, poiché due mesi più tardi la gentildonna della villa spirò. E Lady Mary, che era damigella d'onore a Corte, raccontava spesso questa storia alla vecchia regina Carlotta; e ogni volta il vecchio re diceva: - Eh, eh? Che, che? Fantasmi, fantasmi?
No, queste cose no, queste cose no! -. E non la smetteva di ripetere le stesse parole fino al momento di andare a dormire.
Capitò anche che l'amico di un tale, uno che la maggior parte di noi conosce, quando era giovane si fece un amico speciale all'università, con il quale strinse il patto che, se allo spirito fosse stato consentito di tornare sulla Terra dopo la separazione dal corpo, quello che dei due fosse morto prima sarebbe dovuto riapparire all'altro. Con il passare del tempo, il nostro amico dimenticò il patto; i due giovani, infatti, avevano continuato la loro vita prendendo strade molto differenti l'una dall'altra. Ma una notte, parecchi anni dopo, al nostro amico, che allora si trovava nel nord dell'Inghilterra e per la notte si era fermato in una locanda nelle brughiere dello Yorkshire, capitò di guardare poco più in là del letto; e lì, al chiarore della luna, appoggiato a uno scrittoio vicino alla finestra, con lo sguardo fisso su di lui, vide il suo compagno d'università! Rivolgendosi a lui in modo grave, l'apparizione disse in una specie di sussurro, ma ben percettibile: - Non ti avvicinare. Io sono morto. Sono qui per onorare la mia promessa. Vengo da un altro mondo, ma non posso rivelarne i segreti! -. Poi, la sagoma impallidì, si sciolse, per così dire, nel chiarore della luna, e svanì.
Si racconta poi della figlia del primo inquilino della pittoresca casa elisabettiana, tanto famosa dalle nostre parti. Avete mai sentito parlare di lei? No? Diamine: costei, una splendida fanciulla di appena diciassette anni, uscì di casa una sera d'estate, al tramonto, per cogliere fiori in giardino; poco dopo rientrò correndo nell'ingresso, terrorizzata, e disse al padre: - Oh, caro padre, ho incontrato me stessa! -. Lui la prese in braccio e le disse che era solo una fantasia; ma lei continuò: - Oh, no! Ho incontrato me stessa nel viale grande; ero pallida e coglievo fiori appassiti, ho girato la testa e li ho raccolti ! -. Quella notte lei morì; il quadro che avevano iniziato per illustrare la sua storia non fu mai finito, e ancora oggi, dicono, si trova in qualche parte della casa, rivolto contro il muro.
Si racconta ancora dello zio della moglie di mio fratello, che stava tornando a casa in sella al cavallo, una tiepida sera al crepuscolo, quando su un viottolo erboso vicino casa vide un uomo che gli stava di fronte, al centro esatto dello stretto sentiero. "Chissà perché si è messo là, quell'uomo col mantello...", pensò. "Vuole forse che lo travolga con il mio cavallo?". Ma la figura non si mosse. Fu preso, allora, da una strana sensazione, vedendola così quieta, ma rallentò al trotto, e avanzò guidando il cavallo in quella direzione. Quando fu tanto vicino da toccarla quasi con la staffa, il cavallo si impennò, e la figura scivolò sul lato del viottolo, con un movimento strano, che non pareva di questa terra - all'indietro, e senza dare l'impressione di usare i piedi -, e sparì. Lo zio della moglie di mio fratello esclamò: - Santo cielo! E' mio cugino Harry di Bombay! -.
Spronò il cavallo, che subito fu madido di sudore, e chiedendosi il perché di un comportamento tanto strano, si precipitò di gran carriera verso la casa finché non vi si fermò davanti. Lì vide la stessa figura varcare la soglia delle alte porte-finestre del salotto che si aprivano sul giardino. Lanciò le redini a un domestico, e le si affrettò dietro. Sua sorella sedeva lì, sola. - Alice, dov'è mio cugino Harry? - Tuo cugino Harry, John? - Sì, il mio cugino di Bombay. L'ho incontrato poco fa sul viottolo, e proprio ora l'ho visto entrare qui -. Nessuna creatura era stata vista da nessuno, a quell'ora, e in quell'attimo però, come poi si venne a sapere, questo cugino moriva in India.
Si racconta poi di quella anziana signorina, donna molto saggia, che morì a novantanove anni, conservando intatta la lucidità fino alla fine. Lei vide davvero l'Orfanello. Questa storia è stata spesso raccontata con molte inesattezze, ma la versione più attendibile - dato che, in realtà, è una storia che appartiene alla nostra famiglia, e l'anziana signorina era una nostra conoscente - è la seguente.
Quando lei aveva più o meno quarant'anni, ed era ancora una donna di straordinaria bellezza (il suo amato morì giovane, e questo è il motivo per cui lei non si sposò mai, anche se riceveva molte offerte di matrimonio), andò ad abitare in una residenza di campagna nel Kent che suo fratello, un mercante della Compagnia delle Indie, aveva di recente acquistato. Correva voce che la proprietà fosse un tempo appartenuta al tutore di un fanciullo, del quale era anche l'erede più prossimo, e che l'avesse ucciso, sottoponendolo a duri e crudeli maltrattamenti. Di questo, lei non sapeva niente. Si dice che nella sua camera da letto ci fosse una gabbia nella quale il tutore era solito rinchiudere il ragazzo. Ma una cosa del genere non c'è mai stata. C'è solo uno stanzino. Lei andò a coricarsi, e non diede nessun allarme durante la notte, e al mattino disse alla cameriera, quando entrò nella stanza: - Chi è il grazioso bimbo dall'aria derelitta che per tutta la notte ha fatto capolino da quello stanzino? - La cameriera rispose lanciando un grido stridulo, e abbandonò il campo in men che non si dica. Lei rimase stupita; ma era una donna di forte vigore intellettuale, e così si vestì, scese a pianterreno e si appartò in privato con il fratello. - Ebbene, Walter - disse -, tutta la notte sono stata disturbata da un grazioso ragazzo dall'aria derelitta che continuamente faceva capolino da quello stanzino che non riesco ad aprire. E' una burla. - Ho paura di no, Charlotte - lui disse -, è la leggenda della casa. E' l'Orfanello. Che faceva? - Apriva la porta pian pianino - lei rispose -, e faceva capolino.
Certe volte avanzava uno o due passi nella camera. Allora, quando lo chiamavo e lo invitavo a entrare, si faceva più piccolo, si metteva a tremare, sgattaiolava dentro un'altra volta, e chiudeva la porta. - Lo stanzino, Charlotte - disse il fratello -, non comunica con nessun'altra parte della casa, e la porta è inchiodata -. Cosa sicuramente vera, poiché ci vollero due falegnami e un'intera mattinata per aprirlo, e poterlo così ispezionare. Allora lei fu convinta di aver visto l'Orfanello. Ma la parte più raccapricciante e terribile della storia è che il fanciullo fu visto anche da tre dei figli del fratello, l'uno di seguito all'altro, che morirono tutti in tenera età. Ogni volta che si era ammalato, ogni bambino era tornato a casa, dodici ore prima, in preda a grande eccitazione, e aveva detto:
- Oh, mamma, ho giocato sotto quel tale albero di noce in quel tale prato, con uno strano ragazzo... un grazioso ragazzo dall'aria derelitta, molto timido, che mi ha fatto dei cenni! -. Per la loro fatale esperienza, i genitori arrivarono a capire che costui era l'Orfanello, e che il destino del bambino che egli aveva scelto per suo piccolo compagno di giochi era irrimediabilmente segnato.
Sono tantissimi i castelli tedeschi, dove vegliamo in solitudine in attesa dello Spettro; dove veniamo accompagnati in una camera relativamente allegra per il nostro arrivo; dove seguiamo con lo sguardo le ombre gettate sulle nude pareti dal fuoco scoppiettante; dove ci sentiamo davvero soli quando il proprietario della locanda del villaggio e la sua graziosa figlia si ritirano, dopo aver deposto una nuova provvista di legna nel focolare, e avvicinato sul tavolino una ricca imbandigione per cena, composta di arrosto freddo, di cappone, pane, uva, e un fiasco di vino invecchiato del Reno; dove le porte si richiudono, sbattendo l'una dopo l'altra, sui loro recessi segreti, come i ripetuti scoppi del lugubre tuono; e dove, intorno alle ore piccole della notte, facciamo la conoscenza di tanti misteri soprannaturali. Moltissimi sono gli studenti tedeschi ossessionati dai fantasmi, in compagnia dei quali ci trasciniamo ancora più vicini al fuoco, mentre lo scolaro nell'angolo sgrana tanto d'occhi e solleva lo sgabellino che si è scelto per sedile... mentre la porta accidentalmente si spalanca.
Occhio agli spiriti!
L'autore del presente articolo, nell'accingersi a riferire fedelmente tre esperienze spiritiche delle quali è stato testimone, ritiene essenziale precisare che, fino al momento di godere di tanto privilegio, non aveva creduto nei colpi battuti o nei tavoli mossi dagli spiriti. Nella sua idea grossolana del mondo spirituale, si immaginava i suoi abitanti verosimilmente progrediti, anche oltre la supremazia intellettuale di Peckham o di New York; e considerando la quantità di ignoranza presunzione e follia di cui si gloria questa Terra, pensava fosse assolutamente inopportuno evocare gli esseri immateriali per divertire il genere umano con brutti svarioni d'ortografia e insidiosi nonsensi. Pensava che una simile presunzione minacciasse apertamente di lacerare il sacro velo che ci protegge dai guai di quel mondo, per uno scopo non più nobile che diventare idioti di grado superlativo.
Era questa la rozza e terrestre disposizione mentale dell'autore, non più tardi dello scorso ventisei dicembre. Quel mattino memorabile, due ore circa dopo il sorgere del sole - cioè alle nove e quaranta, come segnava il suo orologio, sistemato sul comodino vicino al letto, e come si poteva vedere nell'ufficio dell'editore, su un semicronometro che ostentava il marchio di fabbrica di Bautte di Ginevra e il numero di matricola 67709 -, quel mattino memorabile, dunque, due ore circa dopo il sorgere del sole, l'autore, messosi a sedere sul letto e portata una mano alla fronte, sentì distintamente diciassette pulsazioni o battiti in quella regione. Erano accompagnati da un senso di sofferenza localizzato e da una vaga sensazione, non diversa da quella che in genere si avverte in coincidenza di una colica biliare.
Cedendo a un impulso incontrollabile, l'autore chiese:
- Che cos'è?
Immediata seguì la risposta (in pulsazioni o battiti sulla fronte): - Ieri.
L'autore, ancora non completamente sveglio, chiese:
- Che giorno era ieri?
Risposta: - Il giorno di Natale.
L'autore, che a questo punto aveva recuperato il pieno controllo di sé, domandò:
- Chi è il medium in questo caso?
Risposta: - Clarkins.
Domanda: - La signora o il signor Clarkins?!
Risposta: - Entrambi.
Domanda: - Chi intendete per signor Clarkins, il vecchio o il giovane?
Risposta: - Entrambi.
Ebbene, il giorno prima l'autore aveva cenato in compagnia del suo amico Clarkins (potete rintracciarlo all'Archivio di Stato), e nel corso di quella cena si era discusso proprio di spiriti, da vari punti di vista. Inoltre, da quanto l'autore ricordava, sia Clarkins padre sia Clarkins figlio avevano partecipato molto attivamente alla discussione, direi che l'avevano in un certo senso imposta ai presenti. Anche la signora Clarkins era intervenuta animatamente, e aveva osservato, in tono allegro per non dire esaltato, che "capitava soltanto una volta all'anno".
Convinto da simili indizi che quei colpi fossero di origine spirituale, l'autore procedette come segue:
- Chi siete?
La fronte riprese a battere, ma in un modo del tutto disordinato. Per un po' fu impossibile capirci qualcosa. Dopo una pausa l'autore (tenendosi la testa) ripeté la sua richiesta con voce solenne, strozzata da un gemito:
- Chi siete?
Per tutta risposta, seguirono altri colpi confusi.
Allora l'autore domandò, nel tono solenne di prima, e con un altro gemito:
- Come vi chiamate?
La risposta consistette in un suono esattamente identico a un alto singhiozzo. In seguito risultò che questa voce di spirito era stata distintamente sentita da Alexander Pumpion, il valletto dell'autore (settimo figlio di Widow Pumpion, manganatore), che si trovava in una stanza vicina.
Domanda: - Non vi chiamerete mica Singhiozzo? Singhiozzo è un nome proprio?
Poiché non seguì risposta, l'autore disse: - Vi ordino solennemente, in nome dei nostri comuni amici Clarkins, i medium- Clarkins padre, Clarkins figlio e Clarkins signora -, di svelare il vostro nome!
La risposta, battuta chiaramente controvoglia, fu: - Succo di prugne, legno di tronco, mora.
Il che sembrò all'autore abbastanza simile alla parodia di Ragnatelo, Bruscolino e Senapino nel "Sogno di una notte di mezza estate", da giustificare l'insolente controrisposta: - E' come non vi chiamate, vero?
Lo spirito autore di quei colpi ammise:
- No.
- Allora com'è che vi chiamano di solito?
Pausa.
- Ve lo chiedo un'altra volta: com'è che vi chiamano di solito?
Lo spirito, sentendosi evidentemente minacciato, ribatté, in modo molto solenne: - Porto!
Questa tremenda comunicazione ebbe l'effetto di sprofondare l'autore in uno stato di prostrazione, e farlo giacere sull'orlo dello svenimento, per un quarto d'ora; durante il quale i colpi continuarono violenti, e una schiera di apparizioni spettrali gli sfilò davanti agli occhi: erano nere, e assomigliavano incredibilmente a dei girini dotati, ogni tanto, della capacità di affilarsi fino a diventare delle note musicali, quando si tuffavano giù nello spazio. Dopo aver contemplato la foltissima legione di tali apparizioni, l'autore volle sapere dallo spirito tambureggiante:
- Come vi devo immaginare? Tutto considerato, cos'è che vi somiglia di più?
Terrificante, la risposta fu: - Un umore nerastro.
Appena fu in grado di vincere l'emozione, a quel punto molto violenta, l'autore chiese: - Farei meglio a prendere qualcosa?
Risposta: - Sì.
Domanda: - Posso scrivere?
Risposta: - Sì.
Immediatamente, una matita e una striscia di carta che si trovavano sul comodino vicino al letto gli rimbalzarono in mano, e l'autore si ritrovò a scrivere (in strani caratteri tremolanti e pendenti verso il fondo della pagina, mentre la sua calligrafia era notevolmente nitida e lineare) il seguente appunto di carattere spirituale:
"Il sottoscritto Signor C.D.S. Poney porge i suoi omaggi alla ditta Bell & Company, Prodotti Chimici e Farmaceutici, sede di Oxford Street, dal lato opposto di Portland Street, e si pregia di chiedere loro la cortesia di consegnare al latore della presente un cinque granuli di genuine pillole mercuriali e una porzione purgativa di equivalente efficacia".
Prima però di affidare questo documento ad Alexander Pumpion (che purtroppo lo perse sulla via del ritorno, ammesso che non si voglia sospettare che egli l'abbia infilato di proposito in uno dei fori della padella di un venditore ambulante di caldarroste, tanto per vedere se fosse combustibile), l'autore decise di saggiare lo spirito autore di quei colpi con un'ultima domanda. Chiese perciò con voce strascicata e grave:
- Mi daranno qualche sofferenza allo stomaco questi medicamenti?
E' impossibile descrivere la sicurezza profetica della risposta:- Sì -. La previsione fu ampiamente confermata dai fatti che seguirono, come l'autore avrà modo di ricordare per un bel pezzo; e dopo un'esperienza del genere, sarebbe superfluo osservare che egli non ebbe più motivo di dubitare.
La successiva comunicazione di sicuro interesse che l'autore ebbe l'onore di raccogliere si svolse su una delle principali linee ferroviarie. Le circostanze in cui la comunicazione gli fu concessa - il due gennaio di quest'anno - furono le seguenti. Egli si era ristabilito dagli inconvenienti della precedente significativa visita ed era tornato a fare onore alle cibarie generosamente provviste dalla stagione. Il giorno precedente era trascorso in allegria. Egli era in viaggio verso una famosa città, un rinomato centro commerciale, dove avrebbe dovuto concludere un affare, aveva pranzato un po' più in fretta di quanto in genere non accada sulla ferrovia, conseguenza del fatto che il treno era in ritardo. Il pranzo gli era stato servito visibilmente malvolentieri da una giovane donna dietro un bancone. Per tutto il tempo lei era stata occupatissima a sistemarsi capigliatura e vestito, e la sua inequivocabile espressione mostrava disprezzo. I fatti dimostreranno che la giovane era una potente medium.
L'autore era tornato al suo scompartimento di prima classe, nel quale si trovava a viaggiare da solo, il treno si era rimesso in movimento, e lui si era appisolato; il suo ineccepibile orologio indicava che erano già passati quarantacinque minuti dal suo colloquio con la medium, quando fu svegliato da uno strumento musicale davvero insolito. Lo strumento, scoprì con stupore non disgiunto da una certa apprensione, stava suonando dietro di lui. I suoi toni erano bassi e ondulatori, difficili da descrivere; ma, se mi si permette il paragone, somigliavano a una melodiosa acidità di stomaco. Sia quel che sia, fu questa l'oscura sensazione che suggerirono all'autore.
Oltre a prendere coscienza del fenomeno di cui si è detto, l'autore sentì che la sua attenzione era richiamata da una rapida successione di furiosi colpi allo stomaco e da una pressione al petto. Non più scettico ormai, si mise immediatamente in comunicazione con lo spirito. Il dialogo fu il seguente:
Domanda: - Sapete il vostro nome?
Risposta: - Io credo di sì!
Domanda: - Comincia con una P?
Risposta (per la seconda volta): - Io credo di sì.
Domanda: - Avete due nomi, e ognuno comincia con una P?
Risposta (per la terza volta): - Io credo di sì!
Domanda: - Basta con questa leggerezza, ve lo ordino. Ditemi come vi chiamano.
Lo spirito, dopo aver riflettuto per qualche secondo, compitò lettera per lettera P.O.R.C.O. Allora lo strumento musicale eseguì un'aria breve e frammentaria. Dopo di che lo spirito riprese a battere, e compitò la parola P.A.S.T.I.C.C.I.O.
Orbene, questa precisa specialità gastronomica, questa particolare vivanda o pietanza che dir si voglia, aveva costituito appunto il piatto forte del pranzo dell'autore - che lo schernitore lo sappia -, e gli era stata servita proprio dalla giovane che ora sapeva essere una potente medium! Grandemente gratificato dalla convinzione prepotentemente entrata nella sua testa che l'interlocutore con il quale stava conversando non fosse di questo mondo, l'autore continuò il dialogo.
Domanda: - Vi chiamano Pasticcio di Porco?
Risposta: - Sì.
Domanda (che l'autore formulò timidamente dopo aver lottato con una certa comprensibile riluttanza): - Siete un pasticcio di porco, in realtà?
Risposta: - Sì.
Sarebbe vano rischiare una descrizione del benessere mentale e del sollievo che l'autore trasse da questa fondamentale risposta. Egli continuò:
Domanda: - Cerchiamo di capirci. Una parte di voi è porco e una parte è pasticcio?
Risposta: - Esatto.
Domanda: - Di che cosa è fatta la parte pasticcio?
Risposta: - Lardo -. In quel momento si udì un'aria mesta arrivare dallo strumento musicale. Quindi la parola: - Strutto.
Domanda: - Come vi devo immaginare? A cosa somigliate di più?
Risposta (fulminea): - Piombo.
Domanda: - L'altra vostra natura è porcina. Di che cosa si è alimentata soprattutto questa natura?
Risposta (gioiosa): - Di porco, è certo!
Domanda: - Non direi. Porco che si ciba di porco?
Risposta: - No, eppure...
Uno strano moto interiore, simile a un volo di piccioni, si impadronì dell'autore. Ebbe poi un'illuminazione improvvisa, e riprese:
- Capisco bene quello che dite, insinuando che la razza umana, quando attacca incautamente le indigeste fortezze che portano il vostro nome, e non ha tempo abbastanza per aprirsi un varco, considerata l'eccezionale solidità delle loro quasi inespugnabili mura, è solita abbandonare gran parte di quello che si trova al loro interno in mano ai medium, che con questo porco nutrono i porci dei futuri pasticci?
Risposta: - Proprio così!
Domanda: - Dunque, per parafrasare le parole del nostro bardo immortale...
Risposta (interrompendo):
"Un solo porco in vita sua è buono per molti pasticci. Almeno per sette."
L'emozione dell'autore era profonda. Tuttavia, visto che voleva anche stavolta provare ulteriormente lo spirito per accertare se, usando la fraseologia poetica degli illustri profeti degli Stati Uniti, egli provenisse da una delle cerchie più alte ed esclusive, saggiò così il suo interlocutore:
Domanda: - Nella selvaggia armonia dello strumento musicale che ho dentro, e del quale sono ancora conscio, che arie di altre sostanze ci sono, oltre a quelle già nominate?
Risposta: - Gommagutta del Capo. Camomilla. Melassa. Alcool. Patate distillate.
Domanda: - Nient'altro?
Risposta: - Nient'altro di rilevante.
Lo schernitore tremi e si inchini; lo stolido scettico arrossisca di vergogna! L'autore a pranzo aveva ordinato alla potente medium un bicchiere di cherry e, in più, un bicchierino di acquavite. Chi può dubitare che gli articoli di consumo indicati dallo spirito non fossero stati forniti, sotto quelle due denominazioni, da quella fonte?
Basterà un altro esempio per dimostrare che non è più possibile mettere in dubbio esperienze della stessa natura di quelle sopra descritte, e che tentare di metterle in chiaro dovrebbe diventare di fondamentale importanza. E' uno squisito caso di tavolo mosso da uno spirito. Era scritto nel destino che l'autore dovesse nutrire una passione non corrisposta per la signorina L.B. di Bangay, nella contea del Suffolk. La signorina L.B., quando si manifestarono i sussulti del tavolo, non aveva respinto esplicitamente l'offerta di matrimonio e di devozione dell'autore; ma fino a quel momento era sembrato probabile che lei si sarebbe astenuta dal farlo per timore filiale nei confronti del padre, il signor B., che era propenso ad accogliere la proposta dell'autore. Ora, occhio ai sussulti del tavolo, un giovane, spregevole agli occhi di tutti quelli che hanno il bene dell'intelletto (dopo di allora sposo alla signorina L.B.), era ospite della casa. Anche il giovane B. vi si trovava, per le vacanze scolastiche. L'autore era dei loro. La famiglia al completo si era riunita intorno a un tavolo rotondo. Eravamo nel mese di luglio, all'ora spirituale del crepuscolo. Impossibile distinguere gli oggetti con il pur minimo grado di chiarezza. All'improvviso il signor B., i cui sensi si erano placati nel riposo, ci terrorizzò, lanciando un urlo di collera o di viva indignazione. Le sue parole (la sua educazione era stata trascurata in gioventù) furono esattamente le seguenti: - Maledizione, c'è come un qualcuno che mi ficca una lettera in mano, qui, sotto il mio tavolo di mogano! -. La costernazione si impadronì dei presenti. La signora B. aumentò lo sgomento generale dichiarando che qualcuno le stava pestando lievemente le dita dei piedi, a intervalli, da mezz'ora. Una costernazione ancora più grande si impadronì dei presenti. Il signor B. chiese le candele. Ora, occhio ai sussulti del tavolo. Il giovane B. esclamò (riporto fedelmente le sue espressioni): Sono gli spiriti, padre! Con me lo fanno ormai da due settimane!- Il signor B. chiese irato: - Che volete dire, signore? Fanno cosa? -. Il giovane B. ribatté: - Vogliono fare di me un vero e proprio Ufficio Postale, padre. Mi infilano sempre delle lettere impalpabili in mano, padre.
Una lettera vi deve essere scivolata addosso per sbaglio. Questa sì che è bella! - esclamò il giovane B. -. Caspita, sono un medium coi fiocchi! . A questo punto il ragazzo fu scosso da un violento accesso di convulsioni. Aveva la bava alla bocca e dimenava gambe e braccia in un modo che sembrava fatto proprio per procurarmi (come di fatto avvenne) un serio disagio; poiché stavo sostenendo sua madre a un tiro dai suoi stivali, e costui si comportava come un telegrafo prima dell'invenzione di quello elettrico. Intanto il signor B. era in perlustrazione sotto il tavolo alla ricerca della lettera, mentre lo spregevole giovane, dopo di allora sposo alla signorina L.B., proteggeva la fanciulla in modo, per l'appunto, spregevole. - Questa sì che è bella! - il giovane B. esclamava senza darsi tregua -.
Caspita, sono un medium coi fiocchi, padre! Questa sì che è bella! Tra un po' il tavolo comincerà a sussultare, padre. Guardate là! -. Ora, occhio ai sussulti del tavolo. Cominciò a sobbalzare in modo tanto violento che colpì una mezza dozzina di volte la testa calva del signor B., mentre costui era in perlustrazione lì sotto; questo fece sì che il signor B. sgattaiolasse fuori con grande agilità, lo massaggiasse con grande tenerezza (mi riferisco al capo) e lo maledicesse con violenza (mi riferisco al tavolo). Notai che i sussulti del tavolo seguivano invariabilmente il senso della corrente magnetica; ossia andavano da sud a nord, o dal giovane B. al signor B.
Avrei continuato a rilevare ulteriori dettagli su questo punto di notevole interesse, ma il tavolo all'improvviso ruotò su se stesso e si rovesciò su di me, scaraventandomi a terra con una forza accresciuta dalla spinta impartitagli dal giovane B., che gli si gettò sopra in uno stato di eccitazione mentale, e per un po' fu impossibile spostarlo da lì. Intanto io mi ero accorto di essere schiacciato dal peso suo e del tavolo, e anche che quello gridava senza posa a sua sorella e al giovane spregevole che, secondo le sue previsioni, entro breve il tavolo avrebbe ripreso i suoi sussulti.
Altri non ce ne furono, comunque. Il ragazzo si riebbe dopo una breve passeggiata al buio in compagnia degli altri, e di quella magnifica esperienza alla quale ci era stato concesso l'onore di partecipare non fu riscontrabile in lui durante il resto della serata nessun'altra conseguenza di una leggera tendenza al riso isterico, e di una visibile attrazione (dovrei quasi definirla fascinazione) della sua mano sinistra in direzione del cuore o del taschino del panciotto.
Fu o non fu un caso di picchiettìo spiritico? Lo scettico e lo schernitore vorrebbero negarlo?
I mortali della casa
Non c'era nessuna delle circostanze che in genere riteniamo annunciatrici di apparizioni spettrali, né lo scenario intorno a me aveva niente di convenzionalmente spettrale, quando per la prima volta incontrai la casa che è il soggetto di questo racconto di Natale. La vidi di giorno, con il sole che la illuminava dall'alto. Non c'erano vento, pioggia, lampi, tuoni, né nessuna circostanza terrificante o insolita ad accrescerne l'effetto. Di più: ero arrivato fin lì direttamente da una stazione ferroviaria; la casa non era lontana più di un miglio dalla stazione, e mentre mi soffermavo all'esterno, osservando la strada dalla quale ero venuto, potevo vedere i treni merci scivolare dolcemente lungo i binari della ferrovia giù nella valle. Non voglio dire che tutto fosse assolutamente banale, poiché dubito che qualcosa lo sia, tranne per le persone assolutamente banali; mi assumerò anzi la responsabilità di affermare che chiunque poteva vedere la casa come io la vidi, in un qualsiasi bel mattino d'autunno. Il caso volle che il nostro incontro avvenisse così.
Ero in viaggio per Londra, proveniente dal nord, e volevo fermarmi durante il tragitto per dare un'occhiata alla casa. La salute mi obbligava a un temporaneo soggiorno in campagna; un mio amico che ne era al corrente, e al quale era capitato di passare davanti alla casa, mi aveva scritto per raccomandarmela come un posto adatto. Ero salito sul treno di mezzanotte, mi ero addormentato, mi ero svegliato ed ero rimasto seduto guardando fuori del finestrino le luci del nord scintillanti nel cielo, mi ero riaddormentato e poi risvegliato per accorgermi che la notte era ormai passata, con la solita infelice convinzione di non aver per nulla dormito; cosa sulla quale, nello stato di idiozia in cui mi trovavo sul momento, credo, e provo vergogna a dirlo, che avrei scommesso la testa con l'uomo che mi sedeva di fronte. Costui - come puntualmente succede a chi ti siede di fronte durante la notte aveva dato prova di possedere un numero spropositato di gambe, e tutte troppo lunghe. Oltre a quella disdicevole condotta (benché fosse non più di quanto c'era da aspettarsi da lui), l'uomo aveva ostentato una matita e un taccuino, ed era stato continuamente assorto ad ascoltare e prendere appunti. Mi era parso che quei fastidiosi appunti avessero a che fare con i sobbalzi e gli scossoni dello scompartimento, e mi sarei rassegnato al fatto che ne prendesse nota, in base alla vaga ipotesi che quell'uomo fosse nel ramo dell'ingegneria civile, se non avesse guardato fisso, seduto com'era, proprio al di sopra della mia testa ogni volta che restava in ascolto. Era un tipo dagli occhi sporgenti e dall'aria perplessa, e il suo contegno diventò insopportabile.
Era un mattino freddo e spento (il sole non si era ancora alzato); dopo aver visto man mano svanire i fuochi della regione del ferro e la cortina di denso fumo sospesa insieme tra me e le stelle e tra me e il giorno, mi rivolsi al mio compagno di viaggio, e dissi: - VI CHIEDO SCUSA, signore, ma notate qualcosa di particolare in me? -. Poiché, ve lo garantisco, quel tale sembrava prendere appunti, sul mio berretto o sui miei capelli, con una minuziosità che era sfacciataggine bella e buona.
Il tipo dagli occhi sporgenti distolse lo sguardo da quel punto alle mie spalle, come se il fondo dello scompartimento si trovasse cento miglia lontano da lì, e con un altezzoso sguardo di compassione per la mia nullità disse: - In voi, signore?... B.
- B, signore? - dissi io, in tono più acceso.
- Non ho nessun interesse per voi, signore - ribatté -; vi prego, permettetemi di ascoltare... O.
Pronunciò questa vocale dopo una pausa, e ne prese nota.
Dapprima mi allarmai, poiché trovarsi con un pazzo a tutto vapore, senza poter comunicare con il capotreno, è un affare serio. Mi confortò il pensiero che costui potesse essere quel che comunemente si dice uno Spiritista: di quella setta cioè per i cui affiliati (non tutti) nutro il massimo rispetto, ma ai quali non do nessun credito.
Stavo per chiederglielo quando mi spense le parole in bocca.
- Vorrete scusarmi - disse l'uomo sdegnosamente - se mi trovo troppo al di sopra dei comuni mortali per darmene la benché minima pena. Ho passato la notte - come per la verità trascorro attualmente il mio tempo - in contatto con gli spiriti.
- Oh! - dissi io, un po' stizzito.
- I colloqui di questa notte - continuò, sfogliando parecchie pagine del suo taccuino - sono iniziati con questo messaggio: "Chi va con lo zoppo impara a zoppicare".
- Giusto - dissi io -; ma è proprio una novità?
- E' una novità sentirlo dagli spiriti - ribatté.
Fui solo capace di ripetere il mio "Oh!", alquanto stizzito, e chiedere se mi era concesso l'onore di conoscere l'ultima comunicazione.
- "Meglio un uovo oggi - disse quello leggendo con grande solennità la sua ultima annotazione - che una papera domani".
- Completamente d'accordo - dissi io -; ma non dovrebbe essere "gallina"?
- A me è arrivato "papera" - ribatté.
In seguito costui mi informò che lo spirito di Socrate, durante la notte, aveva fornito questa straordinaria rivelazione. "Amico mio, spero stiate abbastanza bene. Siete in due nello scompartimento. Come va? Non potete vederli, ma ci sono diciassettemilaquattrocentosettantanove spiriti qui. C'è Pitagora. Non ha la facoltà di dirvelo, ma spera che il viaggio sia di vostro gradimento". Anche Galileo, con la sua intelligenza scientifica, era venuto a farci visita. "Lieto di incontrarvi, "amico". "Come state"?
L'acqua congela quando è fredda al punto giusto. "Addio!"". Durante la notte, inoltre, c'erano stati i seguenti fenomeni. L'arcivescovo Butler aveva insistito che la scrittura del suo nome era "Bubler", e per questa offesa all'ortografia e alle buone maniere era stato congedato in quanto fuori tono. John Milton (sospetto di mistificazione intenzionale) aveva ripudiato la paternità de "Il paradiso perduto", e come autori congiunti del poema aveva indicato due sconosciuti, che rispondevano rispettivamente ai nomi di Grungers e Scadgingtone. E il principe Arturo, nipote di re Giovanni d'Inghilterra, aveva raccontato di passarsela discretamente bene giù al settimo cerchio, dove stava imparando a dipingere sul velluto sotto la guida della signora Trimmer e di Maria regina di Scozia.
Se queste pagine dovessero cadere sotto gli occhi di colui che mi concesse l'onore di accedere a simili rivelazioni, confido che egli vorrà scusarmi se confesso che la vista del sorgere del sole, e la contemplazione del magnifico ordine del vasto universo, me le rese tanto insopportabili: che fui infinitamente felice di scendere alla stazione successiva, e di scambiare nuvole e vapori con l'aria fresca del cielo.
A quell'ora il mattino era splendido. Mentre mi allontanavo camminando sulle foglie già cadute dagli alberi dorati, marroni e rossastri, e osservavo intorno a me le meraviglie del creato, considerando le leggi solide immutabili e armoniose che le governano, il contatto con gli spiriti di quel tipo mi sembrò il più mediocre passatempo di questo mondo. In questa scettica disposizione d'animo arrivai in vista della casa, e mi fermai a esaminarla con attenzione.
Era una casa solitaria, che sorgeva all'interno di un giardino tristemente trascurato, un quadrato quasi perfetto di circa dieci acri. Era più o meno dell'epoca di Giorgio Secondo: altera, fredda, formale e di cattivo gusto, proprio come potrebbe desiderarla un fedele ammiratore dell'intero quartetto dei Giorgi. Era disabitata, ma da uno o due anni era stata restaurata alla meglio per renderla abitabile; dico alla meglio perché il lavoro era stato eseguito in modo superficiale; quanto alla vernice e all'intonaco, si stavano già deteriorando, sebbene i colori fossero vivaci. Sul muro del giardino, inclinato da un lato, un cartello annunciava che la casa era "in affitto, a condizioni molto vantaggiose, ben ammobiliata". Era troppo soffocata e ombreggiata dagli alberi; in particolare, da sei grossi pioppi davanti alle finestre della facciata: la loro malinconia era eccessiva, e la scelta della loro posizione era stata proprio inopportuna.
Facile capire che era una casa evitata; una casa dalla quale il villaggio, verso il mio sguardo fu guidato dalla cuspide di una chiesa un mezzo miglio più in là, si teneva alla larga; una casa che nessuno avrebbe preso in affitto. E l'ovvia conclusione era che aveva fama di essere infestata dai fantasmi.
Nessun momento nelle ventiquattro ore del giorno e della notte è per me così solenne come il mattino di buon'ora. D'estate, mi alzo spesso molto presto, mi ritiro nella mia stanza per sbrigare prima di colazione il lavoro del giorno, e sono sempre colpito, in quei momenti, dalla quiete e dalla solitudine che mi circonda. C'è inoltre qualcosa di terribile nell'essere circondati dai volti addormentati dei nostri familiari, nel sapere che coloro che di più amiamo e dai quali siamo amati di più sono profondamente inconsapevoli di noi, in uno stato di impassibilità che prelude alla misteriosa condizione verso la quale tutti tendiamo: la vita interrotta, i fili di ieri tagliati, la sedia vuota, il libro chiuso, il lavoro lasciato a metà sono tutte immagini di morte. La tranquillità dell'ora è la tranquillità della morte. Il colore e il freddo si associano allo stesso modo. Perfino quella certa apparenza che gli oggetti familiari della casa assumono, nei primi momenti in cui emergono dalle ombre della notte alle luci del mattino, di essere più nuovi, nuovi come lo erano tanto tempo prima, ha come controparte il distendersi, nella morte, del viso consumato della maturità o della vecchiaia nell'antica apparenza della gioventù. Fu in quest'ora, inoltre, che una volta ebbi l'apparizione di mio padre. Era vivo e vegeto, e niente accadde, e lo vidi però alla luce del giorno, seduto di spalle su una sedia vicino al mio letto. Aveva il capo piegato su una mano, e se stesse schiacciando un sonnellino o se fosse triste, io non riuscii a distinguerlo. Stupito di vederlo lì, saltai su seduto, cambiai posizione, mi sporsi dal letto e lo guardai. Dato che non si muoveva, per più di una volta gli rivolsi la parola. E siccome neppure allora si mosse, mi spaventai, e gli posai una mano sulle spalle - così pensavo -: ma non c'era nulla, lì.
Per tutti questi motivi, e per molti altri meno facilmente e sinteticamente definibili, mi pare che il mattino presto sia l'ora per me più propizia agli spiriti. Di buon mattino, qualsiasi casa è più o meno infestata, secondo me; e una casa infestata difficilmente riuscirebbe a impressionarmi di più che a quell'ora.
Mi inoltrai nel villaggio, con la desolazione di quella casa in mente, e trovai il padrone della piccola locanda in piedi sulla porta.
Ordinai la colazione, e cominciai a parlare della casa.
- Ci sono i fantasmi? - chiesi.
Il locandiere mi guardò, scosse la testa e rispose: - Io non ne so niente.
- Allora, ci sono o no i fantasmi?
- Ebbene - esclamò il locandiere in un accesso di sincerità che aveva l'aria della disperazione -, io non ci dormirei.
- Perché no?
- Se volessi che tutti i campanelli di una casa si mettessero a suonare, senza nessuno a suonarli; che tutte le porte di una casa si mettessero a sbattere, senza nessuno a sbatterle; e che tanti e tanti piedi si mettessero a scalpicciare, senza piedi di nessun tipo... beh, allora - disse il locandiere -, dormirei in quella casa.
- Si è visto qualcosa?
Il locandiere mi guardò di nuovo e poi, con quell'aria di disperazione di poco prima, chiamò giù in direzione delle stalle: - Ikey!
A quel richiamo apparve un giovane lungagnone con una faccia tonda e rossastra, capelli a spazzola biondo sabbia, una bocca larga e ilare, un naso all'insù e un ampio gilé, con le maniche a strisce color porpora e bottoni di madreperla, che sembrava crescergli addosso e che, se non fosse stato sfrontato, avrebbe certamente finito per ricoprirgli la testa e per prolungarsi più in giù degli stivali.
- Questo gentiluomo - disse il locandiere - vuole sapere se si è visto qualcosa ai Pioppi.
- Una gnonna incappucciata con un pistrillo - disse Ikey con grande candore.
- Vuoi dire un urlo?
- No, voglio dire un volatile.
- Una donna incappucciata con un pipistrello. Povero me! L'avete mai vista?
- Ho visto il pistrillo.
- E la donna mai?
- Non tanto bene come il pipistrello, ma stanno sempre insieme.
- E nessuno ha mai visto la donna bene come il pipistrello?
- Che Dio vi benedica, signore! Tanti!
- Chi?
- Che Dio vi benedica, signore! Tanti!
- Il bottegaio di fronte che sta aprendo il negozio, per esempio?
- Chi, Perkins? Benedetto voi, Perkins non si avvicinerebbe a quel posto. No davvero! - osservò il giovane sensibile sdegnato -. Non sarà un cervello fino, non lo è proprio il nostro Perkins, ma non è mica così pazzo.
(A quel punto il locandiere bisbigliò che certamente Perkins la sapeva lunga).
- Chi è - o chi era - la donna incappucciata con il pipistrello? Lo sapete?
- Bene - disse Ikey, alzando il cappello con una mano, mentre con l'altra si grattava la testa -, per lo più dicono che fu assassinata, e che il pistrillo "strillava tutto il tempo".
Questo resoconto parecchio sommario fu quanto riuscii a sapere, oltre al fatto che un giovanotto, il più gagliardo e per bene di questo mondo, era stato preso da un attacco di convulsioni tale, dopo aver visto la donna incappucciata, che avevano dovuto tenerlo. E poi che un individuo, vagamente descritto come "un vecchio, un vagabondo orbo da un occhio che rispondeva al nome Joby, a meno che non lo provocavate chiamandolo Uccel di Bosco, al ché lui diceva: "Ebbene? E anche se così fosse, fatevi gli affari vostri"", aveva incontrato la donna incappucciata qualcosa come cinque o sei volte. Fatto sta, però, che non mi fu possibile essere materialmente assistito da quei testimoni, dato che il primo si trovava in California, e il secondo, come Ikey disse (e l'albergatore confermò), era chissà dove.
Ora, nonostante che io consideri con tacito e solenne timore i misteri tenuti separati da questo piano di esistenza dalla barriera del momento fatale e del trapasso che ricade su tutto quello che è in vita; e nonostante che io non abbia l'impudenza di dare a intendere di saperne qualcosa, non mi riesce possibile conciliare semplici porte che sbattono, campanelli che suonano, assi che scricchiolano, e banalità del genere, con la maestosa bellezza e l'ubiqua analogia di tutte le leggi divine che mi è dato comprendere, più di quanto non ero stato capace, solo poco prima, di associare il contatto con gli spiriti del mio compagno di viaggio con il carro del sole nascente.
Per di più, ero già vissuto in due case infestate, tutte e due all'estero. In una, un antico palazzo italiano, che aveva fama di essere infestato da spiriti veramente cattivi e che per questo motivo era stato da poco abbandonato due volte, vissi per otto mesi in modo assolutamente tranquillo e delizioso, sebbene la casa avesse una ventina di misteriose camere da letto, mai utilizzate, e possedesse, in una grande camera, nella quale parecchie volte e a tutte le ore mi appartavo in letture, e vicino alla quale dormivo, una cameretta infestata di prim'ordine. Accennai timidamente queste considerazioni al locandiere. E quanto al fatto che quella casa, in particolare, avesse una cattiva reputazione, ne ragionai con lui: del fatto che tante cose non godono di buon nome senza nessun motivo, di come fosse facile spargere calunnie, e se non pensasse, nel caso lui e io avessimo insistentemente mormorato nel villaggio che un qualunque vecchio stagnino ubriacone del circondario dall'aria spiritata si era venduto al diavolo, che col passare del tempo costui sarebbe stato sospettato di quella impresa commerciale! Fu un discorso assennato che però, devo confessarlo, non ebbe nessun effetto sul locandiere, e si rivelò il più completo fallimento della mia vita.
Per accorciare questa parte della storia, la casa infestata mi incuriosì, ed ero già mezzo deciso a prenderla. Così, dopo colazione, ottenni le chiavi dal cognato di Perkins (un frustaio e sellaio che gestisce l'Ufficio Postale, succube di una austerissima moglie, osservante del credo del Piccolo Emanuele Due Volte Secessionista), e salii alla casa accompagnato dal mio locandiere e da Ikey.
Dentro la trovai come mi ero aspettato, straordinariamente cupa. Vi fluttuavano, pigre e mutevoli, le ombre gettate dagli alberi folti, dolenti al massimo; la casa era male esposta, mal costruita, mal divisa e male ammobiliata. Era umida e chiazzata, di marciume secco, e c'era puzza di ratti: era insomma la triste vittima di quella indefinibile degradazione che assale tutto quello che è opera delle mani dell'uomo ogni volta che non sia messo a profitto. Le cucine e i servizi erano troppo grandi e troppo lontani le une dagli altri. Sia al pianterreno che al piano superiore, tra le oasi fertili delle stanze si frapponevano desolati tratti di corridoio; vicino al fondo delle scale di servizio, sotto una doppia fila di campanelli, c'era anche un vecchio pozzo ammuffito rivestito da un velo di verde, dissimulato come una trappola mortale. Uno di questi campanelli era contrassegnato, in lettere sbiadite su fondo nero, SIGNORINO B. E questo, mi dissero, era il campanello che suonava di più.
- Chi era il signorino B.? - chiesi -. Si sa quello che faceva quando il pipistrello strillava?
- Suonava il campanello - disse Ikey.
Fui parecchio colpito dalla pronta abilità con la quale il giovanotto lanciò il suo cappello di pelliccia sul campanello e lo fece suonare.
Era un campanello rumoroso e stridulo, ed emise un suono veramente sgradevole. Gli altri campanelli erano contrassegnati con i nomi delle stanze alle quali i fili di ognuno facevano capo, e cioè: "Stanza del Quadro", "Stanza Doppia", "Stanza dell'Orologio", e così via. Seguendo il filo del campanello del signorino B. fino al suo capo, scoprii che il giovane gentiluomo aveva goduto soltanto di una sistemazione mediocre, quasi una cabina triangolare di terza classe, sotto la soffitta della banderuola. In un angolo c'era un camino - e il signorino B. doveva essere incredibilmente piccolo se era riuscito a scaldarsi a quel fuoco - con una mensola angolare come una scaletta a piramide che saliva fino al soffitto e sembrava fatta su misura per un piccolo come Pollicino. Tutta la tappezzeria di una parete della stanza era caduta, insieme ai frammenti di intonaco che vi erano rimasti attaccati, e quasi bloccava la porta. Pareva che il signorino B., nella sua condizione di spirito, si fosse fatto un dovere di tirare la carta sempre più giù. Né il locandiere né Ikey furono capaci di spiegare perché si fosse comportato come un folle.
Non feci altre scoperte, eccetto che la casa aveva in cima una soffitta di forma irregolare, molto grande. L'arredamento era discreto, ma ridotto all'essenziale. Parte dei mobili - un terzo diciamo - era vecchio come la casa; il resto era un miscuglio di stili dell'ultimo mezzo secolo. Per trattare la casa, mi dissero di rivolgermi a un commerciante di granaglie del mercato del capoluogo.
Andai lì il giorno stesso, e affittai la casa per sei mesi.
Era giusto la metà di ottobre quando mi ci trasferii con mia sorella ancora nubile (tanto attraente, assennata e affabile che mi arrischio a darle trentotto anni). Portammo con noi uno stalliere duro d'orecchi, il mio bracco Turk, due donne di servizio e una giovane che chiamerò Stramba. Fra le persone al nostro seguito, ho motivo di ricordare quest'ultima, una affiliata alle Orfanelle della Pia Unione di San Lorenzo, come un errore fatale e una assunzione disastrosa.
L'anno volgeva alla fine in anticipo, le foglie cadevano rapidamente; era una gelida giornata quando ci insediammo, e la tetraggine della casa era parecchio deprimente. La cuoca (una donna amabile ma povera di spirito) scoppiò in lacrime alla vista della cucina e chiese, nel caso le fosse capitato qualcosa a causa dell'umidità, se avremmo potuto spedire il suo orologio d'argento alla sorella (2 Tuppinstock's Gardens, Liggs's Walk, Clapham Rise). Streaker, la cameriera, fingeva di essere allegra, ma si sentiva vittima più di tutti. Soltanto la Stramba, che non aveva mai vissuto in campagna, era soddisfatta, e manifestò l'intenzione di seminare una ghianda in giardino, vicino alla finestra del retrocucina, e di tirar su una quercia. Prima di sera, affrontammo tutte le miserie naturali - uso questo termine per distinguerle da quelle soprannaturali - relative alla nostra condizione. Bollettini scoraggianti salivano (come volute di fumo) dallo scantinato e si riversavano nelle stanze del piano superiore. In casa non c'era niente, né mattarello, né salamandre (il che non mi sorprese, perché non so cosa sono), e quello che c'era era rotto, gli ultimi inquilini dovevano aver vissuto come porci, con che razza di intenzioni il proprietario l'aveva affittata? In mezzo a queste pene, la Stramba fu allegra ed esemplare. Ma quattro ore dopo che si era fatto buio il soprannaturale era già di casa; la Stramba aveva visto "occhi" ed era in preda a una crisi di nervi.
Mia sorella e io avevamo stabilito di tenere segreta la faccenda dei fantasmi, e io avevo, e ho ancora, l'impressione di non aver mai lasciato Ikey solo con le donne quando mi aiutava a scaricare il carro, con nessuna di loro, neppure per un minuto. Nonostante questo, come ho detto, la Stramba aveva "visto occhi" (non si riuscì mai a tirarle fuori nessun particolare) prima delle nove e per le dieci le era stato applicato tanto aceto quanto ne serve per mettere in salamoia un salmone bello grosso.
Lascio giudicare al pubblico dei sagaci lettori quali furono i miei sentimenti quando, in queste sinistre circostanze, verso le dieci e mezzo, il campanello del signorino B. prese a suonare come una furia e Turk prese a ululare fino a che la casa risuonò dei suoi guaiti.
Spero di non dovermi mai più trovare in uno stato d'animo così poco cristiano, con tutto il rispetto per la memoria del signorino B., come fu la condizione mentale in cui vissi per alcune settimane. Se il suo campanello fosse suonato dai ratti, dai topi, dai pipistrelli, dal vento o da qualche altra accidentale vibrazione; se certe volte per un motivo, certe per un altro, e certe volte per collusione, davvero non saprei dirlo; è sicuro però che suonava due notti su tre, fino a quando non ebbi la felice idea di torcere il collo al signorino B. - in altre parole, di staccare di netto il suo campanello -, e di ridurre al silenzio per sempre, in base alla mia esperienza e alle mie convinzioni, il giovane.
Ma già a quel tempo la Stramba aveva tanto perfezionato la sua abilità di sprofondare in catalessi, da proporsi come fulgido esempio di quell'inopportuno disturbo. Si irrigidiva per i motivi più futili come un Guy Fawkes sprovvisto di raziocinio. Parlavo allora ai domestici con fredde argomentazioni, ricordavo loro che avevo ridipinto la stanza del signorino B. e bloccato la carta, avevo staccato il campanello e bloccato lo scampanellio, e se loro arrivavano a immaginare che quel balordo di ragazzo era vissuto e morto solo per tenere un comportamento non migliore di quello che nel nostro imperfetto stato attuale l'avrebbe senza dubbio messo in grande intimità con le particelle più pungenti di una bacchetta di betulla, bene, come riuscivano allora a spiegarsi che un modesto mortale quale io ero fosse in grado con quei meschini espedienti di contrastare e contenere i poteri degli spiriti incorporei dei morti o degli spiriti in generale? Confesso che diventavo retorico e convincente, per non dire piuttosto compiaciuto di questo mio argomentare, quando ecco che avevo sprecato il fiato per niente, poiché la Stramba di colpo si irrigidiva dalla punta dei piedi in su e ci fissava sbarrando gli occhi come una statua di chiesa.
Anche Streaker, la cameriera, aveva una caratteristica davvero sconcertante. Non sono in grado di dire se fosse di temperamento troppo linfatico o di quale altro inconveniente soffrisse, ma la giovane diventò una vera e propria distilleria per la produzione delle lacrime più copiose e trasparenti che io abbia mai visto. Oltre a queste due particolarità, quei suoi prodotti avevano una presa così tenace e particolare che non cadevano, ma le restavano appesi alle guance e al naso. In questo stato, e mentre scuoteva mitemente la testa in segno di deplorazione, il suo silenzio mi faceva più pena che vedere l'eccellente Crichton azzuffarsi a parole per la proprietà di un borsellino. Anche la cuoca riusciva a farmi sentire coperto di imbarazzo come di un vestito, e concludeva seccamente il colloquio con la rimostranza che la "chesa" la stava consumando a poco a poco, e ripeteva sommessa le sue ultime volontà circa il famoso orologio d'argento.
Quanto alla nostra vita notturna, il contagio del sospetto e della paura era tra noi, e un contagio del genere a cielo aperto non lo trovi proprio. Una donna incappucciata? Stando ai resoconti, eravamo in un vero e proprio convento di donne incappucciate. Rumori? Con quel contagio a pianterreno, io stesso mi ero seduto nel tetro salotto ed ero rimasto in ascolto fino a quando non avevo sentito così tanti e strani rumori che mi si sarebbe raggelato il sangue se non l'avessi riscaldato precipitandomi fuori per scoprirne l'origine. Provate una cosa del genere a letto, a notte fonda; provatela mentre sedete comodo vicino al caminetto, nel cuore della notte. Solo che lo vogliate, potete riempire qualunque casa di rumori, fino ad averne uno per ogni fibra del vostro sistema nervoso.
Ripeto: il contagio del sospetto e della paura era tra noi, e un contagio del genere a cielo aperto non lo trovi proprio. Le donne (i cui nasi erano cronicamente scorticati a forza di inalare sali) erano sempre prontissime sul grilletto, innescate e caricate per far partire uno svenimento. Le due più anziane riservavano alla Stramba le spedizioni considerate più rischiose, e lei puntualmente confermava la reputazione di quelle avventure tornando indietro catalettica. Se la cuoca o Streaker si ritiravano di sopra a notte fonda, già sapevamo che di lì a poco avremmo sentito un botto sul soffitto: il che regolarmente succedeva, ed era come se un uomo battagliero si aggirasse per la casa, somministrando un tocco della sua arte, chiamata a quanto mi risulta l'Arte del Banditore d'Asta, a ogni domestico che incontrava.
Tutto risultò inutile. Inutile spaventarsi per un pipistrello vero, in carne e ossa per una volta, e poi mostrare il pipistrello. Inutile accorgersi, suonando per caso un'aria stonata al piano, che Turk abbaiava a note e combinazioni particolari. Inutile fare il Rodomonte con i campanelli, e, se un disgraziato campanello si metteva a suonare senza posa, staccarlo inesorabilmente e metterlo a tacere. Inutile accendere i caminetti, buttare torce nel pozzo, irrompere con irruenza nelle stanze e negli angoli sospetti. Sostituimmo la servitù, e le cose non migliorarono. I nuovi venuti se la diedero a gambe, arrivò una terza squadra, e le cose non migliorarono. Alla fine la nostra comoda vita domestica diventò così caotica e infelice, che una sera avvilito dissi a mia sorella: - Patty, comincio a disperare di trovare persone che possano convivere con noi in questo posto, e penso che dovremmo arrenderci.
Mia sorella, che è una donna assai energica, rispose: - No, John, non arrenderti. Non darti per vinto, John. Un'altra via c'è.
- E qual è? - dissi.
- John - ribatté mia sorella -, se non vogliamo farci cacciare da questa casa, e questo non deve accadere per nessuna ragione al mondo che non sia evidente a te o a me, dobbiamo rimboccarci la maniche e prendere la casa interamente e soltanto sulle nostre spalle.
- Ma la servitù... - dissi.
- Faremo a meno della servitù - disse baldanzosa mia sorella.
Come la maggior parte di quelli del mio rango, non avevo mai pensato alla possibilità di tirare avanti senza quei devoti pesi morti. L'idea mi risultò così nuova quando mi fu suggerita, che mi mostrai molto scettico.
- Abbiamo la prova che arrivano qui per spaventarsi e contagiarsi gli uni con gli altri, e che poi davvero si spaventano e si contagiano l'uno con l'altro - disse mia sorella.
- Con l'eccezione di Bottles - osservai in tono meditativo.
(Lo stalliere duro d'orecchi. L'avevo preso, e ancora lo tenevo al mio servizio, perché era un fenomeno di musoneria difficile da eguagliare in tutta l'Inghilterra).
- Certo, John - assentì mia sorella -; con l'eccezione di Bottles.
E questo cosa prova? Bottles non rivolge la parola a nessuno e non sente nessuno, a meno che uno non urli a squarciagola, e che allarme ha mai dato o sentito Bottles? Nessuno.
Era completamente vero. L'individuo in questione, infatti, ogni sera alle dieci in punto si era ritirato nella sua stanza, posta proprio sopra la rimessa della carrozza, con nessun'altra compagnia che un forcone e un secchio d'acqua. Che il secchio d'acqua ci sarebbe caduto addosso, e che il forcone mi avrebbe passato da parte a parte, se dopo quell'ora mi fossi trovato nei paraggi di Bottles senza preavviso, me l'ero cacciato bene in testa come un fatto degno di essere ricordato.
Né Bottles si era mai minimamente accorto di nessuno dei nostri soliti trambusti. Imperturbabile e silenzioso, era rimasto seduto davanti alla sua cena, e mentre Streaker giaceva nel bel mezzo di uno svenimento, e la Stramba era dura e fredda come il marmo, lui si limitava a infilare un'altra patata nella guancia, o approfittando dell'infelicità generale, a servirsi un'altra porzione di pasticcio di manzo.
- E così - continuò mia sorella - risparmio Bottles. E considerando, John, che la casa è troppo grande e forse troppo triste, perché alla sua manutenzione possiamo bastare Bottles, tu e io, propongo di darci da fare tra i nostri amici e raccoglierne un certo numero, selezionati tra i più fidati e ben disposti, fondare qui una comunità per tre mesi, badare a noi stessi e gli uni agli altri, vivere in allegria e solidarietà, e vedere quello che succede. Ero così incantato da mia sorella che l'abbracciai immediatamente e mi dedicai al suo progetto con grande entusiasmo.
Eravamo nella terza settimana di novembre; fummo però così veloci nei preparativi e così bene assecondati dagli amici in cui avevamo confidato, che mancava ancora una settimana alla fine del mese quando tutta la nostra comitiva arrivò puntuale a allegra, e si riunì nella casa infestata.
Ricorderò a questo punto due piccole modifiche che apportai quando io e mia sorella eravamo ancora soli. Mi venne in mente, come non del tutto improbabile, che il motivo per cui Turk abbaiava di notte quando si trovava in casa fosse perché desiderava uscirne; lo rinchiusi allora nel recinto esterno, ma slegato, e avvertii giù al villaggio che chiunque si fosse aggirato nei suoi paraggi non avrebbe dovuto aspettarsi di andarsene senza uno squarcio in gola. Chiesi poi casualmente a Ikey se si intendesse di armi. In seguito alla sua risposta: "Sì, signore, so riconoscere una buona arma, quando la vedo", gli chiesi il favore di salire su in casa e dare un'occhiata alla mia.
- Quella sì che è un'arma coi fiocchi, signore - disse Ikey, dopo aver esaminato un fucile a doppia canna che avevo acquistato a New York qualche anno fa -. Non ci sono dubbi, signore.
- Ikey - dissi -, non farne parola con nessuno, ma ho visto qualcosa in questa casa.
- Davvero signore? - sussurrò, spalancando avidamente gli occhi -.
La nonna incappucciata, signore?
- Non ti spaventare - dissi -. Era una figura abbastanza simile alla tua.
- Dio mio, signore!
- Ikey - dissi, stringendogli la mano cordialmente: affettuosamente, se è lecito dirlo -, se c'è qualcosa di vero in queste storie di fantasmi, il migliore servizio che posso renderti è di impallinare quella figura. E, ti prometto, perdio, che lo farò con quest'arma, se la vedrò un'altra volta.
Il giovanotto mi ringraziò e si congedò un po' troppo in fretta, dopo aver rifiutato un bicchierino di liquore. Gli avevo confidato il mio segreto perché non lo avevo mai dimenticato nell'atto di lanciare il suo berretto contro il campanello; e in un'altra occasione, avevo notato qualcosa di molto simile a un berretto di pelliccia, in terra, non lontano dal campanello, una notte che questo aveva preso improvvisamente a suonare. Avevo inoltre osservato che i fenomeni si moltiplicavano ogni volta che lui saliva alla casa, di sera, per rincuorare i domestici. Concedetemi di non fare a Ikey nessun torto.
Era terrorizzato dalla casa, e credeva che ci fossero i fantasmi; nonostante questo è indubbio che simulasse falsi fenomeni appena ne aveva occasione. Completamente simile era il caso di Stramba. Costei si muoveva nella casa in uno stato di genuino terrore, e tuttavia mentiva spudoratamente e di proposito, si inventava molti degli allarmi che lanciava e produceva lei molti dei rumori che sentivamo.
Lo so perché li avevo tenuti d'occhio tutti e due. Non è necessario che io renda conto qui di questa irragionevole disposizione mentale; mi basta rilevare che è risaputa da ogni persona intelligente con una qualche pratica medica, legale, o con altre esperienze di osservazione; e è una condizione mentale ben individuata e assai comune fra quelle conosciute alla scienza. E, in faccende di questo genere, è uno dei primi elementi di cui sospettare, e da indagare scrupolosamente e distinguere, preferendoli ad altri.
Ma torniamo alla nostra comitiva. La prima cosa che facemmo quando fummo tutti riuniti insieme fu tirare a sorte per l'assegnazione delle camere. Fatto questo, e dopo che tutta la compagnia ebbe esaminato minuziosamente ogni camera e, a dire il vero, l'intera casa, ci dividemmo le varie incombenze domestiche come se fossimo stati una carovana di zingari, l'equipaggio di un veliero, una squadra di cacciatori, o un gruppo di naufraghi. Dopo di che io riferii le voci ricorrenti della donna incappucciata, il pipistrello e il signorino B., e le altre ancora più vaghe che si erano diffuse durante la nostra permanenza, su un ridicolo vecchio fantasma di sesso femminile che andava su e giù trasportando il fantasma di un tavolo rotondo, e perfino su uno stupido asino tanto impalpabile che nessuno era riuscito ad acchiapparlo. Alcune di queste idee credo davvero che i nostri subordinati se le fossero trasmesse gli uni agli altri in maniera in certo qual modo morbosa, senza formularle a parole. Ci giurammo allora l'un l'altro che non eravamo arrivati fin lì per farci imbrogliare o imbrogliare - che ritenemmo essere più o meno la stessa cosa -, e che con profondo senso di responsabilità ci saremmo comportati con perfetta, reciproca lealtà, e avremmo rigorosamente perseguito il vero. Si stabilì di comune accordo che chiunque avesse sentito strani rumori durante la notte, e avesse voluto accertarsi della loro provenienza, avrebbe dovuto bussare alla mia porta; stabilimmo infine che la vigilia dell'Epifania, l'ultima del santo Natale, tutte le esperienze vissute da ognuno di noi dal momento preciso in cui ci eravamo riuniti nella casa infestata fino a quel giorno, sarebbero state rivelate a beneficio di tutti. Prima di allora ci saremmo astenuti dal parlarne e avremmo violato la consegna del silenzio solo se costretti da qualche evento eccezionale.
Eravamo i seguenti, per numero e persone.
Per cominciare - così ci togliamo subito di mezzo - c'eravamo mia sorella e io. Nell'estrazione a sorte, a mia sorella capitò la sua stanza e a me quella del signorino B. C'era poi il nostro cugino di primo grado John Herschel, al quale era stato imposto il nome del grande astronomo: non penso che ci sia un uomo migliore di lui davanti a un telescopio sulla faccia della Terra. Lo accompagnava sua moglie, una creatura affascinante, alla quale si era unito in matrimonio la primavera precedente. Ritenni (date le circostanze) piuttosto imprudente da parte sua averla portata con sé, poiché non si sa proprio che cosa un falso allarme possa provocare in certi momenti: ma penso che sapesse perfettamente il fatto suo, e devo confessare che, se lei fosse stata MIA moglie, mai sarei riuscito a separarmi dal suo tenero e luminoso volto. A loro capitò la Stanza dell'Orologio. Alfred Starling, un giovane di ventotto anni straordinariamente gioviale, per il quale nutro la più profonda simpatia, si ritrovò nella Stanza Doppia, quella solitamente occupata da me, e così chiamata perché disponeva di uno spogliatoio interno, con due finestre grandi e ingombranti che nessuna delle zeppe da me fabbricate riuscì mai a impedire di sbattere con ogni tempo, ci fosse o non ci fosse vento.
Alfred è un giovane che si vanta di essere un "libertino" (un altro modo di dire "immorale", se capisco il significato del termine), ma è troppo onesto e assennato per certe sciocchezze, e avrebbe già trovato il modo per distinguersi per le sue qualità se il padre non gli avesse lasciato una piccola rendita di duecento sterline l'anno, grazie alla quale la sua sola occupazione nella vita è spenderne seicento. Spero, tuttavia, che il suo banchiere fallisca, o che egli si avventuri in qualche speculazione che garantisca una resa del venti per cento; poiché sono convinto che se solo potesse essere rovinato, ebbene, la sua fortuna sarebbe fatta. Belinda Bates, intima amica di mia sorella e ragazza coltissima, amabilissima e deliziosa, ebbe in sorte la Stanza del Quadro. Aveva uno spiccato talento per la poesia, unito a una passione davvero professionale, o "un pallino" - per usare un'espressione di Alfred - per il destino della Donna, i diritti della Donna, i torti subiti dalla Donna, e per tutto quello che è Donna con la lettera maiuscola, che non è e dovrebbe essere, o che è e non dovrebbe essere, della Donna. - E' assolutamente encomiabile, mia cara, e il cielo vi assista! - le sussurrai la prima notte, sulla soglia della Stanza del Quadro, al momento di congedarmi da lei -, ma non esagerate; e quanto alla grande necessità, mia cara, di più opportunità di impiego per la Donna di quante la nostra civiltà non le abbia già garantito, non prendetevela con quegli sventurati degli uomini, nemmeno con quelli che di primo acchito sembrano contrastare la vostra causa, come se fossero i naturali oppressori del vostro sesso; poiché, ascoltatemi, Belinda, costoro a volte spendono tutto quello che guadagnano tra mogli e figli, sorelle e madri, zie e nonne.
La partita non è tra il Lupo e Cappuccetto Rosso, no davvero, ci sono altre parti in gioco -. Ma stavo divagando.
Belinda, come ho detto, occupò la Stanza del Quadro; restavano solo tre camere: la Stanza ad Angolo, la Stanza della Credenza e la Stanza del Giardino. Il mio vecchio amico Jack Governor "appese l'amaca", come egli disse, nella Stanza ad Angolo. Ho sempre considerato Jack il più attraente marinaio che abbia solcato i mari. Oggi ha i capelli grigi, ma è bello com'era un quarto di secolo fa; anzi ancora più bello. La figura imponente, gioiosa e armonica di un uomo dalle larghe spalle, con un sorriso schietto, scintillanti occhi neri e generose sopracciglia nere. Le ricordo sotto capelli ancora più scuri, e guadagnano in bellezza incorniciate d'argento. Ovunque sventoli lo Union dallo stesso nome, lì il nostro Jack è stato, e ho incontrato suoi vecchi compagni di bordo, qua e là nel Mediterraneo o sull'altra sponda dell'Atlantico, che, sentendo casualmente pronunciare il suo nome, si illuminavano in volto di un raggiante sorriso, ed esclamavano: - Conoscete Jack Governor? Allora conoscete un vero principe! -. Ecco cos'è! E' un ufficiale di marina in modo tanto inequivocabile, che se vi capitasse di incontrarlo mentre sbuca fuori da un igloo eschimese, coperto da una pelle di foca, sareste inspiegabilmente portato a credere che indossa l'alta uniforme della marina.
Un tempo Jack aveva messo i suoi occhi limpidi e lucenti addosso a mia sorella; poi però capitò che prese in moglie un'altra signora e la portò in Sudamerica, dove lei morì. Succedeva una dozzina di anni fa, o forse più. Portò con sé, nella nostra casa dei fantasmi, un barile di carne salata di manzo, dato che è convinto da sempre che tutto il manzo salato non messo in salamoia da lui stesso è solo carne putrefatta, e non manca una volta, quando va a Londra, di infilarne un cartoccio nel suo baule. Aveva inoltre arruolato come volontario un tale "Nat Beaver", suo vecchio camerata, capitano di una nave mercantile. Il signor Beaver, tozzo e legnoso in faccia e nella figura, e chiaramente robusto come un tronco in tutto il corpo, si dimostrò un uomo intelligente con un mare di esperienze acquatiche e di tantissime cognizioni pratiche. Manifestava a volte un curioso nervosismo: erano evidentemente i postumi di un qualche vecchio malanno, ma raramente durava più di qualche minuto. Ebbe la Stanza della Credenza, vicino a quella del signor Undery, mio amico e avvocato: il quale era giunto fin lì con la determinazione propria del dilettante, "deciso ad andare fino in fondo", come diceva; giocava a whist meglio dell'intero Annuario di Giurisprudenza, dal primo nome in testa al volumone rosso fino all'ultimo.
Mai fui più felice in vita mia, e credo che tra noi questo fosse il sentimento generale. Jack Governor, da sempre uomo di sorprendente ingegno, faceva da capocuoco, e in questa veste preparò alcuni dei piatti migliori che io abbia mai mangiato in vita mia, comprese certe ineguagliabili pietanze al curry. Mia sorella, era addetta alla preparazione dei dolci e delle confetture. Starling e io, a turno, facevamo da sottocuochi, e in occasioni speciali il capocuoco "arruolava forzatamente" il signor Beaver. Ci concedemmo parecchio sport ed esercizio fisico all'aperto, ma niente all'interno fu trascurato, né nacquero screzi o malintesi tra noi; le nostre serate furono così piacevoli che avevamo almeno una buona ragione per non volere andare a letto.
All'inizio ci furono alcuni allarmi notturni. La prima notte fui svegliato da Jack che bussava alla mia porta; tenendo in mano una stupenda lanterna da nave, che ricordava le branchie di un mostro degli abissi, mi informò che sarebbe salito "in coffa, su alla formaggetta dell'albero di maestra" per tirare giù la banderuola. Era una notte di tempesta, e io protestai; Jack però mi fece notare che quel congegno produceva un suono simile a un grido di disperazione, e sostenne che se quell'operazione non fosse stata eseguita, tra non molto qualcuno avrebbe "gridato al fantasma". Salimmo dunque sul tetto della casa, dove a causa del vento riuscivo a malapena a reggermi in piedi, in compagnia del signor Beaver; e lì Jack si arrampicò, lanterna e tutto il resto, seguito dal signor Beaver, sulla cima di un cupolino, una mezza dozzina di piedi più su dei camini, senza appoggiarsi a niente di particolare, in tutta calma e si mise a menare colpi alla banderuola, finché tutti e due entrarono in sintonia così perfetta con il vento e l'altitudine che pensai non sarebbero più discesi. Un'altra notte si alzarono nuovamente dal letto e staccarono il fumaiolo di un comignolo. Un'altra notte troncarono un condotto dell'acqua che fiottava e gorgogliava. Un'altra notte scoprirono qualcos'altro ancora. In più di un'occasione, tutti e due, con tutta la calma di questo mondo, si calarono dalle finestre delle rispettive camere, avvolti nei copriletto, per "doppiare" qualcosa di misterioso in giardino.
Il patto tra noi fu scrupolosamente osservato, e nessuno rivelò nulla.
Tutto quello che sapevamo era che se la stanza di qualcuno era infestata, nessuno apparentemente dava segno per questo di soffrirne.
Il fantasma della stanza del signorino B.
Quando mi sistemai nella mansarda triangolare che si era guadagnata una reputazione così cospicua, i miei pensieri andarono spontaneamente al signorino B. Febbrili e numerosi furono le mie congetture al riguardo. Se il suo nome di battesimo fosse Beniamino, Bisestilio (per essere nato in un anno bisestile), Bartolomeo, o Beppe. Se quella lettera fosse l'iniziale del suo cognome, e se questo fosse Baxter, Black, Brown, Barker, Buggins, Baker, o Bird. Se fosse un trovatello e fosse stato battezzato B. Se da ragazzo fosse stato un Cuor di Leone e B. fosse l'abbreviazione di Britannico, o di Bufalo. Se fosse stato imparentato con una illustre dama che aveva allietato la mia infanzia, e se avesse avuto per bisavola la brillante comare Bunch.
Parecchio mi tormentai in queste inutili meditazioni. Portai la misteriosa lettera al cospetto e allo scrutinio dei defunti, e li interrogai se egli vestisse di blu, se portasse le babbucce (ma mica era un beduino!), se avesse avuto un qualche bernoccolo, se amasse le biblioteche, se fosse bravo al gioco delle bocce, se fosse un brocco o uno bravo a tirare di boxe, e perfino se da bambino, birbante com'era, avesse fatto il bagno, non lontano dalla battigia, a Bognor, Bangor, Bournemouth, Brighton o Broadstairs, come una balzellante boccetta da biliardo.
Così fin dall'inizio, fui ossessionato dalla lettera B.
Poco più su ho affermato di non avere mai sognato, neppure lontanamente, il signorino B., né niente che lo riguardasse. Ma nell'attimo in cui mi svegliavo dal sonno, a qualsiasi ora della notte, i miei pensieri lo catturavano e vagavano in libertà nel tentativo di collegare quell'iniziale a qualcosa che le si adattasse e la mettesse a tacere.
Per sei notti continuai ad affliggermi così nella stanza del signorino B., fino a quando cominciai a sentire che le cose si mettevano proprio male.
La prima apparizione si presentò di mattino presto, giusto alle primissime luci del giorno. Ero intento a radermi davanti allo specchio quando di colpo mi accorsi, costernato e stupito, che chi stavo radendo non ero io - ho cinquant'anni -, ma un ragazzo! Il signorino B., era chiaro!
Mi misi a tremare e mi guardai alle spalle: di là, niente. Guardai di nuovo nello specchio e vidi distintamente i tratti e l'espressione di un ragazzo che si radeva, non per togliersi la barba, ma per farsene spuntare una. Terribilmente sconvolto, girai più volte nella camera e tornai davanti lo specchio, deciso a completare con mano ferma l'operazione dalla quale ero stato distolto. Aprendo gli occhi, che avevo chiuso mentre cercavo di riacquistare la calma, vidi stavolta nello specchio, fissi su di me, gli occhi di un giovane di ventiquattro o venticinque anni. Atterrito da quest'altro fantasma, chiusi gli occhi e mi sforzai disperatamente di tornare in me. Quando nuovamente li riaprii, nello specchio, a radersi la guancia, vidi mio padre, da tempo morto. E come se non bastasse, perfino mio nonno vidi, mai conosciuto in vita mia.
Nonostante fossi, come è ovvio, molto turbato da quelle straordinarie apparizioni, decisi di mantenere il segreto fino al momento stabilito per la rivelazione generale. Agitato da una folla di strani pensieri, quella notte mi ritirai nella mia camera pronto ad affrontare qualche nuova esperienza di natura spettrale. Né mi ero preparato inutilmente perché, svegliatomi da un sonno agitato alle due in punto del mattino, non dico in quale stato scoprii che stavo dividendo il mio letto con lo scheletro del signorino B.!
Saltai su, e lo stesso fece lo scheletro. Sentii poi una voce lamentosa dire: - Dove sono? Che ne è stato di me? -, e guardando fisso in quella direzione mi avvidi del fantasma del signorino B.
Il giovane spettro era vestito di abiti di foggia antiquata: o meglio, non era tanto vestito quanto piuttosto insaccato in una stoffa color sale e pepe di pessima qualità, resa orribile da bottoni luccicanti.
Notai che i bottoni, allineati in doppia fila, sconfinavano da entrambe le spalle del giovane fantasma e parevano scendergli giù per la schiena. Il collo era avvolto in una gala increspata. Con la mano destra (che notai distintamente essere macchiata di inchiostro) si premeva lo stomaco; associai questo suo gesto a qualche leggero foruncolo sulla pelle del volto e all'aspetto generale, come di chi ha la nausea, e conclusi che doveva essere il fantasma di un ragazzo che era solito abusare di medicine.
- Dove sono? - disse il piccolo spettro con voce compassionevole -.
Perché sono nato al tempo del calomelano, e perché me ne hanno dato così tanto?
Risposi, in tutta onestà, che in fede mia non lo sapevo.
- Dov'è la mia sorellina? - disse il fantasma -, e quell'angelo della mia sposina, e il mio compagno di scuola, dove sono?
Supplicai il fantasma di farsi coraggio, e soprattutto di rincuorarsi per la perdita del ragazzo suo compagno di scuola. Gli feci presente che quel ragazzo, almeno in base all'umana esperienza, una volta che fosse stato ritrovato probabilmente non ci avrebbe fatto una bella figura. Sostenni che io stesso, in età adulta, mi ero fatto vivo con parecchi un tempo miei compagni di scuola, ma nessuno di loro si era dimostrato all'altezza delle aspettative. Era una figura mitica, affermai, una delusione e una beffa. L'ultima volta che ne avevo ritrovato uno, raccontai, era successo a una cena: era sepolto sotto una cascata di sciarpe bianche, mostrava un'opinione sconclusionata su ogni possibile argomento e una capacità assolutamente titanica di far ammutolire per la noia. Riferii come, grazie del fatto che eravamo stati insieme all'Old Doylance, lui si era autoinvitato a colazione da me (grossolanità mondana della peggior specie); e come, soffiando sulla debole fiamma della mia fiducia per i ragazzi di Doylance, io lo avessi ammesso a casa mia; come egli si fosse rivelato un ciarlatano di infimo ordine, perseguitando la razza di Adamo con inspiegabili teorie sulla moneta, e con l'assunto che la Banca d'Inghilterra, sotto pena di abolizione, dovesse immediatamente emettere e far circolare Dio solo sa quante migliaia di milioni di banconote da sedici "pence".
Il fantasma mi ascoltò in silenzio, con lo sguardo fisso su di me. - Barbiere! - mi apostrofò quando ebbi finito.
- Barbiere? - ripetei, visto che non è il mio mestiere.
- Condannato - proseguì il fantasma - a sbarbare una clientela sempre diversa; ora me - un giovanotto -, ora te stesso come sei; ora tuo padre, ora tuo nonno; e condannato anche a giacere con uno scheletro tutte le notti, e ad alzarti con lui ogni mattina...
(Rabbrividii nel sentire questo annuncio funesto).
- Seguimi, barbiere!
Mi ero accorto, già prima che quelle parole fossero pronunciate, che ero vittima di un sortilegio e che avrei dovuto seguire il fantasma.
Così feci immediatamente, e mi ritrovai fuori della stanza del signorino B.
Molti sanno quali interminabili ed estenuanti peregrinazioni notturne confessarono le streghe che furono costrette ad ammettere le loro colpe e che, non c'è dubbio, dicevano la pura verità, soprattutto quando venivano incalzate con domande insidiose e la tortura era lì sempre pronta. Vi garantisco che durante la permanenza nella stanza del signorino B. fui trascinato dal fantasma che la occupava in vagabondaggi assolutamente interminabili e selvaggi come quelli. Certo non fui portato al cospetto di nessun vecchio cencioso con corna e coda caprine (una via di mezzo tra Pan e un vecchio piazzista di stoffe), intento a indulgere in inutili convenevoli, idioti come quelli della vita reale e meno decenti; furono bensì altre le cose in cui mi imbattei, che mi sembrarono più piene di significato.
Sicuro di dire il vero e di essere creduto, non esito a dichiarare che seguii il fantasma prima su un manico di scopa, poi su un cavallo a dondolo. Sono pronto a giurare sull'odore particolare della vernice dell'animale, specialmente quando lo lanciavo a tutta forza facendolo surriscaldare. Dopo di che seguii il fantasma in una vettura di piazza, un'istituzione con una puzza particolare che l'attuale generazione ignora, ma sulla quale sono di nuovo pronto a giurare: un misto di stalla, di cane rognoso e logoro mantice. (A questo proposito, mi appello alla precedente generazione, che confermi o smentisca quanto dico). Seguii il fantasma su un asino senza testa, o quanto meno su un asino così interessato alla sua pancia da tenere la testa sempre abbassata a ispezionarla; su cavallini nati apposta per scalciare all'indietro; sulle giostre e le altalene delle fiere; sulla prima carrozzella, altra istituzione dimenticata, dove regolarmente il cliente si addormentava, e gli rimboccavano le coperte insieme al vetturino.
Per non annoiarvi con un dettagliato resoconto di tutti i miei viaggi al seguito del signorino B., più lunghi e meravigliosi di quelli di Sindbad il Marinaio, mi limiterò al racconto di un'esperienza dalla quale potrete giudicare tutte le altre.
Ero prodigiosamente trasformato. Ero io, sì, e però non ero io. Ero cosciente di qualcosa in me che era rimasto lo stesso in tutta la mia vita, e che avevo sempre riconosciuto immutato in tutte le fasi e le alterne vicende, ciononostante non ero io quello che era andato a coricarsi nella stanza del signorino B. Avevo il più glabro dei visi, le più corte gambe, e avevo portato dietro una porta una creatura a me simile, anch'essa con il più glabro dei visi e le più corte delle gambe, e le stavo confidando un progetto assolutamente sbalorditivo.
Si trattava della creazione di un serraglio.
L'altra creatura approvò con entusiasmo. Non aveva la minima idea di cosa fosse la decenza, e neppure io. Era un uso d'Oriente, abitudine del buon califfo Harun al-Rashid (permettetemi di pronunciare il nome corrotto una volta ancora, tanto profuma di dolci ricordi!), il costume era talmente lodevole, e degnissimo di essere imitato. - Oh, sì, - disse l'altra creatura con un salto di gioia. - Creiamo un serraglio!
Non fu perché nutrissimo il benché minimo dubbio sul carattere meritorio del sistema orientale che era nostra intenzione importare, che intuimmo di doverlo tenere nascosto alla signorina Griffin. Era piuttosto perché sapevamo che la signorina Griffin era priva di comprensione umana e incapace di apprezzare la maestà del grande Harun. Così, meticolosamente nascosto alla signorina Griffin, il segreto fu affidato alla signorina Bule.
Eravamo dieci nel collegio della signorina Griffin, situato nei pressi di Hampstead Ponds; otto signore e due gentiluomini. La signorina Bule, che penso avesse raggiunto la veneranda età di otto o nove anni, era al centro dell'attenzione in società. Le confidai la cosa durante il giorno, e le proposi di diventare la Favorita.
La signorina Bule, dopo aver lottato contro la diffidenza così naturale e così affascinante nel suo adorabile sesso, si disse lusingata all'idea, ma volle sapere cosa si intendeva riservare per la signorina Pipson. La signorina Bule - che, si capisce, in nome dell'amicizia aveva giurato a quella giovane signora di condividere tutto, senza nessun segreto, fino alla morte, sul libro delle Letture e del Servizio Liturgico, in edizione integrale in due volumi, completo di astuccio e lucchetto -, la signorina Bule disse che non avrebbe potuto fingere con se stessa, o con me, che la signorina Pipson fosse una qualsiasi.
Al che, considerato che la signorina Pipson aveva riccioli chiari e occhi blu (secondo me era l'essenza di quanto, in quel che è mortale e femminile, è chiamato biondo), io prontamente risposi che mi immaginavo la signorina Pipson nei panni della Bionda Circassa.
- E poi? - chiese la signorina Bule con aria pensosa.
Risposi che lei avrebbe dovuto essere circuita da un mercante, portata velata al mio cospetto e comprata come schiava.
(All'altra creatura era stata già assegnata la seconda carica maschile dello Stato, e così fu investita del ruolo di Gran Visir. Più tardi lei si oppose a tale corso di eventi, ma le furono tirati i capelli finché non cedette).
- Non dovrò essere gelosa? - chiese la signorina Bule, abbassando gli occhi.
- No, Zobeide - risposi -, tu sarai sempre la sultana favorita; il primo posto nel mio cuore, e sul mio trono, sarà tuo per sempre.
Confortata da questa assicurazione, la signorina Bule accettò di proporre l'idea alle sue sette magnifiche compagne. Quello stesso giorno venimmo a sapere che avremmo potuto contare sulla complicità di un'anima dal ghigno perpetuo ma di indole gentile di nome Tabby, l'inserviente della casa, informe come un letto, e con la faccia sempre più o meno imbrattata di nerofumo; a quello scopo, dopo cena feci scivolare un bigliettino in mano alla signorina Bule, in cui mi dilungavo sul fatto che il nerofumo era stato in qualche modo impresso su quella faccia dal dito della Provvidenza, e indicavo in Tabby Masrur il famoso capo dei Negri dell'Harem.
Creare l'agognata istituzione incontrò qualche difficoltà, come ne incontra ogni impresa collettiva. L'altra creatura si dimostrò di carattere ignobile, e dopo essere stata sconfitta nelle sue aspirazioni al trono, simulò degli scrupoli di coscienza rifiutando di inchinarsi davanti al califfo e di chiamarlo Principe dei Credenti; ne parlò poi in modo sprezzante e indegno, come si trattasse di un individuo qualsiasi. Affermò, quest'altra creatura, di "non voler recitare" - recitare! -, e in altre occasioni si dimostrò volgare e offensiva. La meschinità della sua condotta, però, suscitò l'indignazione unanime di un unito serraglio, e così io diventai il beato tra i sorrisi di otto delle più belle fanciulle della stirpe degli uomini.
Quei sorrisi potevano essere accordati solo quando la signorina Griffin guardava altrove, e solo con grande circospezione, poiché tra i seguaci del Profeta correva voce che lei vedesse attraverso un minuscolo ornamento rotondo al centro del motivo che decorava il dietro del suo scialle. Tutti i giorni però, dopo cena, ci ritrovavamo insieme per un'ora, e allora la Favorita e le altre dell'Harem reale gareggiavano su chi dovesse colmare di delizie gli ozi del Serenissimo Harun, quando si riposava dalle fatiche del governo: che, come succede in tutti gli affari di governo, in genere si rivelavano di natura aritmetica, poiché il Principe dei Credenti era allergico al far di conto.
In queste occasioni il fedele Masrur, capo dei Negri dell'Harem, si teneva sempre a disposizione (proprio allora la signorina Griffin si metteva a scampanellare come una furia, reclamando i servigi di quell'ufficiale), ma non si distinse mai in misura degna della sua memorabile reputazione. Prima di tutto non si riuscì mai a chiarire in modo del tutto soddisfacente perché, nonostante in quel momento avrebbe potuto benissimo farne a meno, si introdusse con una scopa nella sala del Consiglio del califfo anche quando Harun indossava sulle spalle il rosso mantello dell'ira (la mantellina della signorina Pipson). In secondo luogo, sempre sogghignando, si produceva in esclamazioni del tipo: "Cribbio, che carucce!", che non erano né orientali né rispettose. In terzo luogo, anche se appositamente addestrato a dire "Bismillah", diceva sempre "Alleluia!". Questo ufficiale, diversamente da quelli del suo mestiere, era troppo di buonumore, teneva la bocca troppo spalancata, esprimeva la propria approvazione in misura inopportuna e una volta - capitò in occasione dell'acquisto della Bionda Circassa per cinquecentomila piastre d'oro, ed era anche un buon prezzo - abbracciò perfino, una dopo l'altra, la schiava, la Favorita e il califfo. (Tra parentesi, lasciatemelo dire: che Dio benedica Masrur, e che tanti siano i figli e le figlie su quel tenero petto, capace di lenire l'asprezza dei tanti giorni trascorsi da allora!).
La signorina Griffin era un modello di decoro, e non so proprio immaginare quali sarebbero stati i sentimenti di quella donna virtuosa se avesse saputo, quando ci faceva sfilare in riga per due lungo Hampstead Road, che stava avanzando con passo marziale alla testa di poligami e maomettani. Credo che la misteriosa e terribile gioia che ci suscitava la contemplazione della signorina Griffin nello stato di perfetta ignoranza in cui si trovava, e la sinistra sensazione, dominante tra noi, che ci fosse un potere spaventoso nel sapere quello che la signorina Griffin (che conosceva tutto ciò che si può apprendere dai libri) non sapeva, fosse quello che soprattutto ci spingeva a mantenere il nostro segreto. Esso fu meravigliosamente conservato, ma una volta fu sul punto di tradirsi da solo. Corremmo questo pericolo, e lo scampammo, una domenica. Come ogni domenica, eravamo tutti e dieci allineati in una parte bene in vista della galleria della chiesa, con la signorina Griffin alla nostra testa - una propaganda in certo qual modo celestiale per il nostro collegio -, quando fu letto il brano in cui si parla di Salomone nel suo paradiso domestico. Proprio nel momento in cui venne pronunciato il nome del monarca, la coscienza mi sussurrò: "Anche tu, Harun". Il ministro officiante ebbe un lampo negli occhi, e questo permise alla mia coscienza di credere che stesse leggendo appositamente per me. Un rossore cremisi, seguito da un sudore spaventoso, mi coprì il volto.
Il Gran Visir sembrò più morto che vivo, e l'intero serraglio arrossì come se il tramonto di Bagdad si riflettesse direttamente sui loro volti deliziosi. In quel momento funesto, la tremenda Griffin si alzò in piedi, e con occhio torvo passò in rassegna i figli dell'Islam. La mia sensazione era che Chiesa e Stato si fossero uniti in complotto con la signorina Griffin per smascherarci, e che ci avrebbero avvolti in candidi sudari ed esposti al pubblico ludibrio nella navata centrale. Ma la dirittura morale della signorina Griffin era così occidentale se mi è concessa questa parola, per esprimere quello che si oppone a quanto associamo all'Oriente -, che lei sospettò solo bazzecole, e noi fummo salvi.
Del serraglio ho detto che era unito. Solo su una questione, se il Principe dei Credenti avesse l'ardire di esercitare il diritto di baciare in quei sacri recinti del palazzo i suoi ospiti di rango inferiore, si trovarono divisi. Zobeide accampò un pari diritto della favorita a graffiare, e la Bionda Circassa, per ripararsi il volto, lo infilò in una sacca di panno verde, originariamente destinata ai libri. Al contrario, una giovane gazzella di bellezza celestiale, giunta dalle fertili pianure di Camden Town (dalle quali era stata condotta, da mercanti, con la carovana di metà anno che aveva attraversato il deserto dopo le vacanze), espresse opinioni più liberali, ma stabilì di escludere da un simile beneficio quel cane, o figlio di un cane, del Gran Visir, che non aveva diritti ed era pertanto fuori discussione. Alla fine, la disputa fu ricomposta grazie alla nomina di una giovanissima schiava in qualità di deputata.
Costei, in piedi su uno scanno, riceveva ufficialmente sulle guance gli omaggi di baci destinati dal grazioso Harun alle altre sultane, e riceveva in privato una ricompensa attinta dai forzieri delle signore dell'Harem.
Accadde ora che, al culmine del piacere per la mia abitudine, io diventassi profondamente inquieto; cominciai a pensare a mia madre, e a quello che avrebbe detto quando, a metà dell'estate, avessi riportato a casa otto delle più bionde fanciulle della stirpe degli uomini, ma del tutto inaspettate. Pensai al numero di letti da preparare a casa nostra, alla rendita di mio padre, al fornaio, e il mio sconforto raddoppiò. Il serraglio e il malevolo Visir, sospettando l'origine dell'infelicità del loro signore, fecero tutto quello che era in loro in potere per accrescerla. Professarono incondizionata fedeltà, e dichiararono che avrebbero vissuto e sarebbero morti insieme a lui. Ridotto all'estrema prostrazione da quelle solenni dichiarazioni di devozione, giacevo ore e ore ogni notte senza riuscire a prendere sonno, rimuginando sulla mia tremenda sventura.
Nella mia disperazione, pensai di cogliere quanto prima l'occasione di prostrarmi in ginocchio davanti alla signorina Griffin, confessare la colpa di voler emulare Salomone e supplicarla di essere punito secondo le leggi violate del mio Paese, se non mi si fosse presentata un'imprevista via d'uscita.
Un giorno, mentre eravamo fuori camminando in riga per due - in questa occasione il Visir era stato come al solito incaricato di tenere d'occhio il ragazzo al cancello, e, se costui avesse profanato con il suo sguardo le bellezze dell'Harem (cosa che puntualmente succedeva), di farlo strangolare con un laccio durante la notte, - accadde che i nostri cuori fossero velati di cupa tristezza.
Un'irresponsabile azione da parte della gazzella aveva precipitato lo Stato in disgrazia. Quell'incanto di fanciulla, con il pretesto che il giorno prima era stato il suo compleanno, e che per la sua celebrazione era stata inviata una cesta piena di immensi tesori (affermazioni tutte e due infondate), aveva in segreto ma con insistenza invitato a un ballo con banchetto trentacinque principi e principesse dei paesi confinanti, e aveva loro imposto la clausola particolare di "non farsi venire a prelevare prima di mezzanotte".
Risultato di simili vaneggiamenti della fantasia della gazzella fu l'improvviso arrivo alla porta della signorina Griffin, con gran seguito e un numero imprecisato di scorte, di numerosi ospiti in pompa magna, che furono depositati in cima alle scale in un'ebbrezza di entusiastiche attese e poi congedati in lacrime. Non appena il cerimoniere aveva cominciato a scandire i nomi degli invitati battendo la mazza due volte, la gazzella si era rifugiata nella soffitta sul retro, e aveva messo il catenaccio alla porta; e a ogni nuovo arrivo la signorina Griffin si turbava sempre di più, e a tal punto, che alla fine l'avevano vista portarsi le mani ai capelli. Alla resa finale da parte della colpevole, avevano fatto seguito la reclusione della stessa nello stanzino della lavanderia, a pane e acqua, e una ramanzina, di vendicativa lunghezza, rivolta a tutti noi, in cui la signorina Griffin aveva usato espressioni del tipo, primo: "Sono certa che voi tutti ne eravate al corrente"; secondo: "Quanto a perfidia, l'uno vale l'altro"; terzo: "Una masnada di piccoli furfanti".
Date le circostanze, passeggiavano molto tristi; io, in particolare, con le responsabilità di musulmano che gravavano sulle mie spalle, ero proprio giù di morale. A un certo punto uno sconosciuto si avvicinò alla signorina Griffin, e dopo aver camminato per un po' al suo fianco, conversando con lei, mi guardò. Supponendo che fosse uno scagnozzo della legge, e che la mia ora fosse giunta, corsi via immediatamente, col vago proposito di riparare in Egitto.
Quando vide che me la battevo con quanta più forza avevo nelle gambe (mi parve che la prima svolta a sinistra e un giro nei pressi del può fossero la strada per le Piramidi), tutto il serraglio gridò, la signorina Griffin urlò nella mia direzione, il perfido Visir mi corse dietro, e il ragazzo al cancello mi strinse contro un angolo, come una pecora, e mi tagliò la strada. Nessuno mi rimproverò quando fui catturato e riportato indietro; la signorina Griffin disse soltanto, con sbalorditiva gentilezza, che tutto era molto strano. Perché ero corso via quando l'uomo mi aveva guardato?
Se avessi avuto abbastanza fiato per rispondere, oso dire che non avrei dato nessuna risposta: non avendo fiato, di sicuro non risposi.
La signora Griffin e lo sconosciuto mi presero in mezzo a loro e mi scortarono fino a palazzo come se fossi nella condizione di non so chi, ma certamente (come non potei fare a meno di rendermi conto, stupito) non in quella del colpevole.
Arrivati là, ci ritirammo in una stanza da soli, e la signorina Griffin chiamò in suo aiuto Masrur, capo degli scuri guardiani dell'Harem. Masrur, dopo che gli fu sussurrato qualcosa all'orecchio, comincio a piangere.
- Che siate benedetto, cuoricino! - disse quell'ufficiale, rivolto a me -. Il vostro papà se l'è vista proprio brutta!
Sconvolto nell'intimo, chiesi: - E' molto malato?
- Che il Signore mitighi il vento su di voi, agnellino mio! - disse il buon Masrur inginocchiandosi, sì che potessi trovare conforto appoggiando la testa sulla sua spalla -. Il vostro papà è morto!
A quelle parole Harun al-Rashid svanì; il serraglio scomparve; da allora non vidi mai più nemmeno una delle otto più bionde fanciulle della stirpe degli uomini.
Fui riportato a casa, e il debito era lì, almeno quanto la morte; ci fu così una vendita all'asta. Il mio lettino fu cinicamente scrutato da una potenza a me sconosciuta, nebulosamente definita "Commercio" e fu così che un secchiello di ottone, un girarrosto e una gabbia furono messi insieme per ricavarne un lotto, e furono poi venduti per un tozzo di pane. Lo addentai, lo masticai, e pensai quanto era duro e amaro da mangiare quel pane!
Poi fui mandato in una immensa, fredda e tetra scuola per ragazzi più grandi, dove tutto quello che c'era da mangiare e da mettersi addosso era pesante e dozzinale, senza essere sufficiente; dove tutti, grossi o piccoli che fossero, erano crudeli; dove i ragazzi sapevano tutto della vendita all'asta già prima del mio arrivo, e mi chiedevano quanto ero riuscito a raggranellare, chi mi aveva comprato, e mi strillavano dietro: "Uno, due, aggiudicato!". In quel posto di disgrazia non mi lasciai mai sfuggire che io ero stato Harun, o che avevo avuto un serraglio: poiché sapevo che se avessi detto una parola sul mio passato, mi sarei così abbattuto da buttarmi nello stagno melmoso vicino al campo da gioco, che era scuro come la birra.
Povero, povero me! Nessun altro fantasma ha abitato la stanza del ragazzo, amici miei, dal momento in cui io l'ho occupata, tranne il fantasma della mia fanciullezza, il fantasma della mia innocenza, il fantasma delle mie belle illusioni. Più e più volte ho inseguito il fantasma, e mai sono riuscito con questo passo di adulto a raggiungerlo, con queste mani di adulto a toccarlo, né a questo cuore di adulto è più riuscito di possederlo nella sua purezza. Ed eccomi qui, come potete vedere, mentre sconto, in tutta allegria e gratitudine, la condanna di radere nelle specchio una clientela sempre diversa, e di giacere e alzarmi dal letto con lo scheletro a me destinato quale mortale compagno.
Il fantasma della Stanza ad angolo.
Avevo notato che il signor Governor diventava sempre più irrequieto man mano che si avvicinava il suo turno - il suo "incantesimo", lo chiamava -, e a questo punto ci sorprese tutti, alzandosi in piedi con aria grave e chiedendo il permesso di "andare a poppa" e di avere un colloquio con me, prima di raccontare la sua storia. La grande simpatia di cui godeva fece sì che questa licenza gli venisse gentilmente concessa. Così uscimmo insieme nell'ingresso.
- Mio vecchio compagno di bordo - mi disse il signor Governor , da quando mi trovo su questa vecchia carcassa sono sempre ossessionato, giorno e notte.
- Da che cosa, Jack?
Il signor Governor, battendomi la mano sulla spalla, e lasciandocela, disse:
- Da qualcosa che ha le sembianze di una donna.
- Ah! La vostra antica pena. Non ne guarirete mai, Jack, doveste vivere cento anni!
- No, non parlate così, sto dicendo sul serio. Tutte le notti sono ossessionato da una figura. Durante il giorno, poi, mentre mi trovo in cucina, quella stessa figura mi mette una tale confusione addosso, che mi chiedo come ho fatto a non avvelenare l'intero equipaggio. Ebbene, niente fantasie in questo caso. Volete vedere la figura?
- Con molto piacere.
- Allora, eccola! - disse. E mi presentò mia sorella, che era uscita furtiva alle nostre spalle.
- Oh, davvero! - esclamai -. Allora suppongo, Patty cara, di non aver motivo di chiedere se anche tu sei stata ossessionata...
- Senza un attimo di tregua, Joe - lei rispose.
Quello che seguì quando rientrammo tutti e tre insieme, e io presentai mia sorella come il fantasma della Stanza ad Angolo e Jack come il fantasma della Stanza di mia Sorella, fu un trionfo, lo strepitoso successo della serata. Il signor Beaver, in particolare, era così deliziato che lì per lì dichiarò che "mancava poco e si sarebbe messo a ballare la danza del marinaio". Il signor Governor provvide subito a questo poco che mancava e si offrì di esibirsi in una danza del marinaio a ritmo doppio: fu così che prese a ballare di tacco e di punta, a percuotersi le fibbie, a strisciare i talloni, ed eseguì con le gambe in vibrazione tutta una serie di figure di scivolamento tali che nessuno di noi aveva mai visto prima, o che non vedrà più un'altra volta. Dopo aver riso e applaudito fino a essere esausti, Starling, per non restare nell'ombra, ci fece l'onore di intrattenerci con uno spettacolo di danza più moderno, alla maniera del ballo con gli zoccoli del Lancashire: per quello che ne so, la danza più lunga che mai sia stata eseguita. Mentre ballava, il suono dei suoi piedi diventò una locomotiva che attraversava trincee, gallerie e l'aperta campagna, e diventò un'incredibile quantità di altre cose, che non avremmo mai sospettato, a meno che egli non ci avesse gentilmente detto cosa fossero.
Quella notte, prima di separarci, si decise che il nostro soggiorno di tre mesi nella casa infestata dovesse chiudersi con il matrimonio di mia sorella e del signor Governor. Belinda fu nominata damigella della sposa e Starling fu designato quale accompagnatore dello sposo.
In breve, passammo il periodo che ci restava in grande allegria, e neppure per un attimo fummo ossessionati da qualcosa di più spiacevole delle nostre fantasie e dei nostri ricordi. La moglie di mio cugino, profondamente innamorata del marito e grata per il mutamento che l'amore aveva prodotto in lei, ci aveva svelato, per bocca del marito, la sua storia; e sono certo che non ci fu nessuno di noi che per questo non l'apprezzasse e la rispettasse di più.
Fu così che alla fine, prima che il mese più breve dell'anno fosse del tutto passato, ci incamminammo una mattina verso la chiesa con la cuspide, come se niente di insolito dovesse accadere; là Jack e mia sorella vennero uniti in matrimonio, come si conveniva. Mi sovviene di dire che Belinda e Starling, come notai, furono piuttosto sentimentali e languidi in quella occasione, e che da allora si sono fidanzati e vogliono sposarsi nella stessa chiesa. Cosa che considero eccellente per tutti e due, un tipo di unione molto salutare per i tempi in cui viviamo. Lui ha bisogno di un po' di poesia, lei di un po' di prosa, e il matrimonio delle due cose è il più felice che io conosca per tutti gli esseri umani.
In conclusione, ho appreso questi auguri di Natale dalla casa dei fantasmi, e affettuosamente li invio, di tutto cuore, a tutti i miei lettori: - Facciamo uso della grande virtù, la Fede, ma non ne abusiamo; e facciamone l'uso migliore avendo fede in quel grande libro di Natale che è il Nuovo Testamento, e gli uni negli altri.