Charles Dickens
POTENZA DEL DENARO
Nella vasta camera in penombra, adagiato sulla comoda poltrona accanto al letto, il signor Dombey si sentiva fiero e felice perché si era finalmente avverato l'evento a lungo atteso. Sposato da dieci anni, da sei aveva una figlia, Florence, che tuttavia per lui non contava nulla, ma ora la ditta fondata da suo padre si trovava ancora una volta garantita nel suo avvenire di prosperi commerci. E tutto l'orgoglioso affetto paterno di quell'uomo duro si riversava sul minuscolo essere di cui egli si riteneva il proprietario assoluto e che si sarebbe chiamato Paolo come già il padre e il nonno, mentre non una sola parola di tenerezza egli rivolgeva alla povera donna, silenziosa e innocente vittima della sua domestica tirannia. Non l'aveva commosso nemmeno l'annuncio datogli dal medico di famiglia e dal luminare di scienza chiamato a consulto che la puerpera si trovava in preda a un preoccupante stato di prostrazione non scevro di pericolo. Ma gli fece senz'altro molto piacere che la sorella Luisa, sopraggiunta come un turbine insieme con l'amica intima signorina Tox, lo abbracciasse esclamando con fervore: Paolo carissimo, mio diletto fratello! Il bambino è davvero un autentico Dombey!
Florence fu ammessa a conoscere il nuovo fratellino; parve allora che la madre, già rimasta insensibile alle esortazioni della cognata, la quale insisteva nel dirle che doveva farsi forza per reagire a quella passeggera debolezza, non potesse più staccare gli occhi dalla bimba che subito l'aveva stretta nel suo abbraccio. Povera piccola Florence! Di lì a poco si abbandonava sul letto singhiozzando e invocando invano colei che non poteva ormai più rispondere.
La signora Luisa Chick si dichiarava profondamente persuasa che la cognata avesse ceduto semplicemente alla propria debolezza di carattere, e che se si fosse anche solo sforzata di non dimenticare il grandissimo onore fattole dal titolare della ditta Dombey e Figlio quando l'aveva presa in sposa, una semplice indisposizione non sarebbe stata sufficiente a privarla della vita. In ogni modo le aveva già perdonato quella specie di rinuncia ai doveri della famiglia, e cominciò a occuparsi della questione più urgente, che era di trovare una nutrice per il neonato. L'amica signorina Tox si diede d'attorno con ammirevole sollecitudine, e nel pomeriggio stesso della luttuosa giornata riuscì a presentare al signor Dombey un certo numero di giovani spose prosperose. Si deve ammettere che nel signor Dombey il dolore per la morte della moglie non era scevro da una sfumatura di collera; nell'intimo del suo cuore freddo vi era soprattutto la consapevolezza della grave perdita subita dal figlio, infatti era solo intento a costruire dentro di sé la giovinezza, gli studi e l'alto destino di quel suo rampollo ed erede. Riteneva piuttosto umiliante doversi occupare di un particolare secondario quale certo era la scelta di una nutrice, ma vi accondiscese di buon grado, e così una giovane donna si lasciò indurre dietro promessa di un buon compenso, ad abbandonare temporaneamente il marito e i quattro robusti figlioletti per andare a nutrire il signorino Paolo Dombey e a prendersi cura di lui. Il signor Dombey non lesinò sul prezzo, ma pose delle condizioni molto precise.
- Sento - disse il signor Dombey - che il suo nome è Polly Toodle, ma desidero che in casa mia lei sia chiamata Richards perché è più conveniente. E inoltre mi ascolti bene: desidero che lei s'incontri il meno possibile con la sua famiglia; una volta poi che le sue prestazioni non siano più richieste, intendo che insieme con la cessazione del salario sia troncato anche ogni altro rapporto fra noi.
La donna rimase alquanto stupita, ma accettò i termini del contratto e prese congedo dal marito e dai bambini con molte lagrime e tuttavia confortata dal pensiero che a loro avrebbe badato una sua giovane sorella di nome Gemina. Poi le fu dato solennemente in consegna il bambino, l'unico prezioso rampollo della ricca famiglia Dombey.
La casa era grande e sontuosa, ma priva di sole; poche le stanze abitate, mentre le sale rimanevano sempre nella penombra delle persiane abbassate e con i mobili ben riparati dalle fodere in attesa che l'erede crescesse. La nutrice viveva quasi prigioniera con il bambino al secondo piano; il signor Dombey aveva riservate per sé tre stanze che si aprivano sul vestibolo, di cui una era una specie di veranda e guardava attraverso una vasta vetrata su un angusto cortile ornato di tre alberi stecchiti e anneriti dalla fuliggine. Appunto qui la nutrice doveva scendere e passeggiare avanti e indietro con il bambino perché il signor Dombey lo vedesse mentre consumava la prima colazione, e poi di pomeriggio quando egli rientrava per il pranzo. Qualche giorno, se il tempo era bello, veniva la signora Chick in compagnia dell'inseparabile signorina Tox per far prendere aria al bambino, e cioè la nutrice doveva camminare solennemente su e giù per il marciapiede fra le due donne, reggendo con delicatezza la creaturina.
Un giorno Florence, che aveva trascorso alcune settimane presso la zia, salì per vedere il fratellino, ma subito la raggiunse Susan, la giovanissima cameriera che fungeva anche da governante della fanciulla, con l'ordine di non disturbare la nutrice.
- Non mi disturba affatto! - esclamò la buona donna, che vedeva la bimba per la prima volta. - E come sarà contenta la signorina Florence di essere tornata a casa e di abbracciare il suo babbo!
- Che dice mai, signora Richards! - ribatté Susan. - Il padrone ha ben altro per la testa! Lui s'interessa di chi è venuto dopo, ma nemmeno prima aveva né tempo né voglia di vedere molto la signorina Florence, e poi da quando è morta la povera signora non l'ha più vista e non la vuol vedere e credo che se l'incontrasse per via forse non la riconoscerebbe nemmeno!
- Poverina, poverina! - gemette la buona donna tutta compassionevole. - Ma ci dobbiamo almeno vedere fra noi, sia buona Susan! - E con grande conforto della bambina l'inflessibile Susan si lasciò indurre a promettere che non avrebbe ostacolato quegli incontri necessariamente semiclandestini.
Inutile negare che il signor Dombey non avesse mai amato la figlia, perché aveva per lei quasi addirittura del rancore, come se fosse colpa sua se non era nata maschio, come se le rimproverasse di essere tanto attaccata alla madre, di essere stata per lei l'unico grande conforto. La bambina era molto sensibile; senza comprenderne il motivo, intuiva l'ostilità paterna e soffriva dolorosamente di rappresentare agli occhi del padre una presenza affatto priva d'importanza o peggio ancora, indesiderabile.
Poco lontano dagli uffici della ditta Dombey e Figlio, in quella City che forma il centro degli affari della grande città di Londra, fra i tanti negozi di attrezzature nautiche del quartiere, ve n'era uno zeppo di innumerevoli strumenti oltremodo misteriosi per il pubblico non specializzato, come per esempio cronometri, barometri, telescopi, bussole, carte nautiche, sestanti e quadranti, e tutto era bene riposto su mensole e scaffali, o dentro scatole, cassette e cassetti. E come di fronte alle altre rivendite del genere, anche davanti alla porta di questa se ne stava impettito un minuscolo guardiamarina di legno dall'antiquata divisa. Circondato dalla sua merce il signor Solomon Gills era fiero come un capitano di nave in procinto di salpare verso chi sa quali remote sponde, e poiché i suoi amici erano quasi tutti fornitori di generi vari per la marina mercantile, sulla sua tavola non mancava mai l'autentica galletta dei marinai, insieme con la carne secca, i sottaceti nei grossi vasi del commercio all'ingrosso e i liquori nei barilotti. Il signor Solomon Gills era un vecchio tranquillo e benevolo (che molti chiamavano semplicemente il vecchio Sol), che viveva solo con il nipote Walter, un bel ragazzo di quattordici anni. Erano le cinque e mezza di un pomeriggio d'autunno, e dopo avere consultato il suo infallibile cronometro, il signor Gills esclamò: - Dove sarà andato Walter! Il pranzo è pronto già da mezz'ora e lui non si fa vedere! Se non sapessi che mi vuole troppo bene per andare a imbarcarsi contro la mia volontà, comincerei a preoccuparmi.
- Ciao, zio Sol!
- Ciao, ragazzo mio! - rispose il vecchio, girandosi di scatto. Sei arrivato, finalmente! Come stai?
- Bene, zio! E tu, come hai passato la giornata senza di me? Il pranzo è pronto? Ho una fame da lupi!
- Quanto a me, figurarsi se non sto meglio solo, piuttosto che in compagnia di un cucciolo come te! Ma quanto al pranzo, ti aspetta da mezz'ora, e quanto alla fame, ce l'ho anch'io.
- E allora andiamo, zio, evviva! - gridò il ragazzo di rimando.
Senza opporre alcuna resistenza, il vecchio si lasciò trascinare nel retrobottega, e ben presto zio e nipote si dedicarono al lavoro di far sparire una sogliola fritta in attesa di passare al manzo.
- E ora, Walter, ascoltami bene! - disse lo zio. - Adesso noi brindiamo al signor sindaco, perché siamo due uomini d'affari, apparteniamo ormai alla City e questa mattina abbiamo iniziato la nostra nuova vita.
- Benissimo, zio! Purché io cominci a bere alla tua salute, poi farò come vuoi: e dunque, alla salute del sindaco, della giunta e di tutti i consiglieri!
Lo zio accennò soddisfatto di sì, poi aggiunse: - E adesso parlami della ditta.
- Oh, quanto alla ditta c'è poco da dire, zio - rispose il ragazzo senza smettere di maneggiare le posate. - Vi sono tanti uffici con poca luce, e nella stanza dove lavoro io vi è un grande parafuoco, una cassaforte di ferro, avvisi di bastimenti in partenza, un calendario, scrivanie e sgabelli, una bottiglia d'inchiostro e dei registri, certe cassette e una massa di ragnatele, e in una che mi pende giusto sulla testa c'è un moscone risecchito che ha l'aria di star lì chissà da quanto. Ah, sì, c'è anche una vecchia gabbia da uccelli e un secchio per il carbone. Ci saranno certo nella ditta anche i libretti di assegni, le cambiali e tutti gli altri documenti, ma solo nell'ufficio del signor Carker, o in quello del signor Morfin, o in quello del signor Dombey.
- Oggi è venuto in ufficio il signor Dombey? - si affrettò a chiedere il vecchio.
- Oh, sì, non faceva che entrare e uscire. Si è pure accorto di me (vorrei che fosse un po' meno solenne e legnoso, zio), e ha detto:
"Ah, tu sei il figlio del signor Gills che ha un negozio di strumenti nautici!". "Sono suo nipote, signore" gli ho risposto.
"Infatti, ragazzo, ho detto nipote" ha ribattuto, ma ti potrei giurare che aveva detto "figlio".
- Ti sarai sbagliato. Ma non importa.
- No, non importa, ma poteva tralasciare di replicare con tanta severità. Ha seguitato dicendo, che tu gli avevi parlato di me e lui mi aveva dato quel posto nella ditta per farti piacere, e che il mio dovere era di mostrarmi diligente e puntuale. Non pare che mi abbia trovato molto simpatico.
Alla fine del pranzo il signor Gills discese nell'angusta cantina e subito risalì reggendo una bottiglia vecchia e polverosa.
- Ma zio Sol, che cosa fai! - gridò il ragazzo. - E' quel meraviglioso vino di Madera, e ne rimane solo un'altra bottiglia!
Il vecchio chinò la testa e in un silenzio solenne stappò la bottiglia, colmò due bicchieri e ne posò un terzo sulla tavola.
- Walter! - disse il vecchio. - Berrai l'altra bottiglia quando avrai fatto fortuna; quando sarai diventato un uomo agiato, rispettato e felice; quando il primo importante passo che hai compiuto oggi ti avrà condotto, e voglia il cielo che così avvenga, sul tratto piano e facile della tua strada nella vita.
Auguri, figliolo!
- Caro zio Sol! - rispose il ragazzo, cercando di scherzare, ma con gli occhi lucidi - ti ringrazio, eccetera, eccetera, dell'onore che mi hai fatto. E adesso ti propongo di brindare alla salute del signor Solomon Gills: evviva! E tu, zio, mi ricambierai il brindisi quando berremo insieme anche l'ultima bottiglia, d'accordo, zio?
I due bicchieri si toccarono tintinnando e dopo un breve silenzio lo zio riprese l'argomento che gli stava a cuore: Vedi, Walter, per me questa vecchia bottega non è più se non un'abitudine; un tempo era tutto diverso, ma ora c'è la concorrenza, ci sono le nuove invenzioni... e io non vedo più clienti! Sono vecchio e non ho più le forze per tenermi al corrente; anche la strada non è più quella di una volta... il frastuono del traffico mi fa girar la testa... E così, Walter, io temo di non poterti lasciare in eredità quasi nulla. Ecco perché ho messo a profitto quel po' di influenza che ancora mi rimane per farti entrare come apprendista in una ditta importante, ed ecco perché devi applicarti con diligenza, sforzandoti di amare il tuo lavoro e di raggiungere in tal modo una felice indipendenza!
Il ragazzo promise che avrebbe seguito in tutto e per tutto i consigli dello zio, e poi zio e nipote, mentre centellinavano il vino esotico, passarono come di consueto a parlare delle valorose navi inglesi che arditamente solcavano tutti i mari, ricordando qualche eccezionale episodio drammatico o eroico, di cui il ragazzo, con la sua passione per il mare, non si stancava mai di parlare.
A una certa ora un terzo personaggio completò la piccola brigata, appunto colui per il quale era stato preparato il terzo bicchiere:
era un vecchio signore con un abito blu molto largo, sopraccigli scuri e folti, l'impugnatura di un grosso bastone nodoso nella sinistra, e al polso destro invece della mano, un uncino di ferro.
Egli appese al solito gancio dietro l'uscio il pesante pastrano e un cappello talmente duro e stretto da lasciargli impresso un cerchio rosso sulla fronte; avvicinò una sedia alla tavola di fronte al bicchiere pulito e sedette. Tutti lo chiamavano capitano e forse lo era stato davvero, a meno che non fosse stato invece pilota, o corsaro, o tutte queste cose insieme; aveva insomma l'aria di un autentico vecchio lupo di mare, burbero e poco ciarliero. Sorrise appena, stringendo la mano a zio e nipote, e disse: - Come va?
- Tutto bene! - gli replicò il signor Gills, spingendo verso di lui la bottiglia.
- Ah, sì? - chiese il capitano.
- Ma sì! - gli rispose il vecchio amico, dopo di che il capitano lanciò un lungo fischio e colmò il bicchiere: - Walter, ragazzo mio, al tuo successo!
Dato il carattere eccezionale della serata il vecchio marinaio dimenticò addirittura la sua natura taciturna per celebrare con parole solenni i meriti civili, scientifici e commerciali del suo amico Sol, il quale finì col dire che dovevano vuotare la bottiglia, facendo un ultimo brindisi alla ditta Dombey e Figlio, che era diventata la ditta di Walter ormai, e volesse il cielo che un giorno diventasse davvero almeno in parte sua, se per sua fortuna gli riuscisse di sposare, come nella favola, la figlia del principale!
L'aveva detto scherzando, perché credeva che il signor Dombey non avesse figlie, ma Walter saltò su a dire che della signorina Dombey aveva sentito parlare quel giorno stesso.
- Dicono - dichiarò il ragazzo - che il padre non le voglia affatto bene. Nemmeno le bada e la fa vivere con le cameriere; non pensa che al figlio, anche se adesso è ancora tanto piccolo. Gira tra le banchine del porto, guardando i suoi bastimenti come se fosse finalmente felice delle sue ricchezze perché suo figlio ne godrà con lui. Io questo l'ho sentito dire, e non so se è tutto vero.
- Ah, ah! - rise lo zio Sol. - Ecco Walter che è già informato sulla ragazza.
- Ma che sciocchezze, zio! - ribatté il nipote, ridendo, ma facendosi tutto rosso. - Non potevo tralasciare di sentire quello che dicevano lì vicino a me, ecco tutto. Però, se dite che io so molto di lei, avrò anche l'ardire di mettere un'aggiunta al tuo brindisi: dunque, alla salute della ditta Dombey... e Figlio... e figlia!
Il piccolo Paolo si faceva di giorno in giorno più grasso e robusto, ed era pure ogni giorno più amato dalla signorina Tox, la cui devozione ai due personaggi della ditta Dombey e Figlio non conosceva limiti. Pareva che le procurasse una gioia indicibile assistere ai pasti del bimbo e partecipare attivamente alle cure della nutrice. Il signor Dombey non mancò di rilevare e debitamente apprezzare quei tanti piccoli segni di rispettoso attaccamento, e decise di conferire alla signorina Tox l'onore di fungere da madrina del bambino.
- Tu capisci, Luisa, - le spiegò dopo essere riuscito ad arginare l'abituale loquacità della sorella - capisci benissimo che io non cerco per mio figlio padrini o madrine importanti: noi non ne abbiamo bisogno. Mio figlio avrà in seguito quali e quanti amici vorrà, e non dubito che saranno tutti di grande levatura e capaci di dare il loro contributo al mantenimento, e se possibile all'incremento del credito e della dignità della ditta. Ma fino allora basterò io a mio figlio, e io sarò tutto per lui, come egli è tutto per me. Sono lieto di riconoscere i meriti della signorina Tox offrendo l'onore di fungere da madrina a una persona come lei, che sa stare al suo posto e riconoscere i meriti dove si trovano.
Tu e tuo marito basterete a dare con me una sufficiente solennità alla cerimonia, direi!
La signora Chick, oltremodo soddisfatta, corse a comunicare all'amica la lietissima notizia, e insieme le due donne salirono al piano superiore dove si trovavano le stanze dei bambini, e dopo averli visti tranquillamente addormentati nei loro lettini l'uno accanto all'altra, si accomodarono alla tavola preparata per il tè con l'intenzione di gustarne qualche tazza e chiacchierare.
- Come dorme quella bambina! - esclamò la signorina Tox.
- Sai bene quanto si muove tutto il giorno per far giocare Paolo.
- E' una bambina strana - osservò la signorina Tox.
- Mia cara! - confidò la signora Chick all'amica, abbassando la voce (e intanto la vivace Susan si dava daffare nella stanza per avere l'occasione di nascondere in cassetti, armadi, brocche e catini i sorrisetti sarcastici e le smorfie di disapprovazione che ogni volta destava in lei la presenza delle due intruse) Mia cara, è tutta sua madre!
- Davvero? Ah, che disgrazia! - fu il commento della signorina Tox, che ben sapeva quali sentimenti l'amica esigesse da lei.
- Florence non diventerà mai una vera Dombey - seguitò la signora Chick - mai, nemmeno se vivesse mille anni! Non so davvero che ne sarà di lei una volta cresciuta, né quale posizione potrà occupare da signorina, visto che non riesce per nulla a cattivarsi la simpatia di suo padre. E come potrebbe, poverina, se non ha nulla della nostra famiglia?
La signorina Tox mostrò di apprezzare la logica di quel ragionamento.
- Povera Florence! - disse ancora la signora Chick. - E' tutta sua madre, vedrai che non farà mai il minimo sforzo per conquistare il cuore di suo padre, mai, poveretta! - E la signora Chick scosse la testa e si asciugò una lagrima.
- Non agitarti, mia cara! - l'ammonì l'amica. - Ti può far male, sei troppo sensibile.
A questo punto la nutrice si fece animo e ardì avvertire la signora che la signorina Florence s'era svegliata e s'era tirata su a sedere sul letto. Solo la buona donna s'era accorta che la bambina aveva le lagrime agli occhi, e solo lei andò a chinarsi sulla poveretta che piangendo la supplicò che la portasse accanto al fratellino perché lui sì le voleva bene. Dovettero accontentarla, e quando fu coricata di fianco al bimbo, trattenne il respiro per non disturbarlo e a poco a poco si calmò.
- Poverina! - bisbigliò la signorina Tox. - Avrà sognato.
L'incidente valse ad affrettare la partenza delle due signore, e permise alla buona Susan di dare libero sfogo alla sua indignazione.
La cerimonia del battesimo del piccolo Paolo ebbe luogo in un grigio mattino d'autunno. La piccola comitiva si radunò nella biblioteca del signor Dombey, dove gli invitati faticarono non poco a non battere i denti per il freddo, pur senza accennare minima mente al fatto. Erano così impressionati dalla solennità del momento, e ancor più dal portamento maestoso del signor Dombey, che il breve corteo delle due carrozze verso la chiesa ebbe più l'aria di un funerale che di una festa. Sulla via del ritorno il piccolo Paolo lanciò molti acuti strilli, che nemmeno i vezzeggiamenti della sorellina riuscirono a calmare. La colazione fredda preparata con rigida pompa di argenteria e cristalli era talmente gelida che tutti, eccetto il signor Dombey, dovettero radunare tutto il decoro che possedevano per non elevare alte proteste, e l'atmosfera conviviale si mantenne decisamente su valori eccezionalmente bassi fino al termine. Allora il signor Dombey fece chiamare la nutrice, che si presentò senza il bimbo, presto addormentatosi dopo le emozioni della mattina, e avendole graziosamente offerto un bicchiere di vino, le rivolse il seguente indirizzo:
- Desidero dirle, Richards, che nei sei mesi in cui è stata in casa mia, lei ha fatto il suo dovere. Desidero pertanto offrirle un piccolo dono a ricordo di questo giorno solenne e ho ricordato che nel momento in cui ha preso servizio da me suo marito mi ha confessato di non sapere leggere né scrivere, e di sperare di acquistare qualche po' di istruzione dal primo figlio che potesse andare a scuola. Io sono ben lungi dall'approvare il progetto che i democratici chiamano dell'istruzione popolare, ma approvo le scuole in quanto le classi inferiori vi apprendano quale condotta debba essere la loro e sappiamo quale posizione hanno da tenere.
Ho la facoltà di collocare uno scolaro presso una pia istituzione denominata "I devoti arrotini", dove non solo viene impartita una sana istruzione, ma si fornisce anche un vestito con distintivo, dopo avere messo in contatto la signora Chick con la sua famiglia, ho ottenuto che un posto rimasto vacante fosse assegnato al suo figlio maggiore; sono informato che oggi stesso ha cominciato a frequentare quella scuola. Credo che il numero del ragazzo - disse il signor Dombey, volgendosi alla sorella, come se stesse parlando del numero di una vettura di piazza - sia centoquarantasette.
Luisa, diglielo tu.
- Centoquarantasette - ripeté la signora Chick. - E la divisa, Richards, è una bella giubba con le falde di buon panno blu pesante e caldo, berretto blu con i cordoni arancione, calze rosse di lana e brache di cuoio molto robusto. Tutto molto bello!
- Ha sentito, Richards! - disse la signorina Tox. - Potrà essere fiera del suo ragazzo!
- Le sono molto obbligata, signore, di avere pensato alla mia famiglia - mormorò la nutrice, ma in quel momento le si affacciò alla mente l'immagine del suo bambino rivestito della divisa dei "devoti arrotini" e le venne da piangere.
- E' bello, Richards, - disse la signorina Tox - vedere che lei è tanto riconoscente.
Il fatto - aggiunse la signora Chick - lascia davvero sperare che sulla terra non sia ancora spenta l'ultima scintilla della gratitudine.
La donna ringraziò di quelle squisite cortesie inchinandosi più volte e mormorando parole deferenti, ma ancora sconvolta dalla visione del suo bambino camuffato da "devoto arrotino~, si ritirò pian piano verso l'uscio e scivolò via.
La presenza della nutrice era servita a riscaldare un pochino l'aria, ma ora il gelo risultò insopportabile, e i pochi ospiti se ne andarono tutti intirizziti e con il timore di finire congelati.
La nutrice aveva ripreso in collo il piccolo Paolo e lo cullava con gesto tutto materno, ma non riusciva a superare il cocente rammarico di non poter salutare il suo primogenito prima che partisse per la scuola. La vivacissima Susan non tardò a venirle in soccorso con un ardito piano:
- Dia retta a me, signora Richards! - la incitò la ragazza. Vada a trovarlo e si metta il cuore in pace. Il signor Dombey non lo permetterebbe mai? Non importa, signora Richards! Ho sentito che domattina quelle due ficcanaso della Tox e della Chick non saranno qui a fare da gendarmi per la passeggiata del bambino, e che invece ha l'ordine di accompagnarci la signorina Florence: se non le rincresce, cara la mia signora Richards, tutti crederanno che noi si passeggi avanti e indietro per la via, e invece andremo a dare una capatina in casa sua!
Se la giovane Susan non avesse tanto insistito sulla necessità di una completa segretezza, la povera Richards avrebbe preferito correre il rischio di chiedere al signor Dombey licenza di andare a salutare "il numero centoquarantasette". Finì invece che non appena il signor Dombey fu all'ora solita in cammino verso la City, il suo innocente rampollo era condotto verso il sobborgo di Camden Town, uno squallido quartiere di strade sconnesse, di lunghe file di casupole cadenti con giardinetti stenti, e dappertutto scavi e polvere per i lavori di costruzione della strada ferrata.
- Ecco mia sorella Gemina! - gridò la Richards. - Là sulla porta con in braccio il mio piccolo!
D'un balzo la donna fu davanti a casa e in un batter d'occhio fece con la sorella lo scambio dei marmocchi.
- Polly, ma che sorpresa! Mi hai quasi fatto venire un colpo! Chi poteva pensare di vederti qui! I bambini diventeranno matti dalla gioia di vederti.
Indescrivibile la confusione che seguì, e alla fine la donna si trovò seduta di fronte al camino della piccola cucina con i due ultimi figli in grembo e quello più grandicello arrampicato sulla spalliera della seggiola.
Seguirono le presentazioni: - Guardate, bambini, che bella signorina è venuta a trovarvi! E' la signorina Florence! E anche lei, Susan, venga avanti, si accomodi.
La gioia dell'inattesa riunione doveva tuttavia rimanere offuscata dall'assenza del primogenito, che la mattina stessa era partito di buon'ora per la scuola, e del capofamiglia, il quale per quel giorno sarebbe tornato dal lavoro solo a sera. Superata la delusione causata da queste notizie, la conversazione proseguì molto cordialmente, e alle visitatrici fu servito un piatto di gamberetti con birra, mentre Florence si divertiva un mondo a giocare con i bambini fuori dell'uscio. Poi tra Polly e Gemina fu rifatto lo scambio dei marmocchi e la visita si concluse.
- Susan! - disse la nutrice. - Non crede che si potrebbe allungare un po' la strada e girare verso la City per incontrare il mio ragazzo che a quest'ora starà tornando a casa? Le pare che abbiamo abbastanza tempo?
- Ma sicuro! - approvò la giovane cameriera. - Andiamo senz'altro.
Avvenne che il piccolo Robin avesse già trovato scomoda e sgradevole la propria divisa perché si era reso conto che i giovani sfaccendati della zona non la potevano soffrire e manifestavano un'invincibile antipatia per il malcapitato che la indossava lanciandogli pietre, dandogli lo sgambetto per farlo cadere nelle pozzanghere, urtandolo con violenza per mandarlo a sbattere contro i pali. Ecco perché adesso il ragazzo cercava di sfuggire ai suoi tormentatori infilando quanti più vicoli e angusti passaggi gli riuscisse di scovare. Ma costretto infine a uscire nella via principale, la sfortuna lo fece imbattere in una piccola brigata di monelli capeggiati da un feroce garzone di macellaio, i quali se ne stavano a guardarsi attorno in attesa di qualche svago. La comparsa di un "devoto arrotino" in carne, ossa e brache parve loro un vero dono del cielo, e con un urlo si lanciarono per assalirlo.
Avvenne pure che in quello stesso momento, poco lontano, la povera Polly guardasse giù per la via senza più speranza, dicendo che ormai non valeva più la pena di proseguire, ma vedesse all'improvviso l'inizio dello scontro. Senza perdere un istante, la donna affidò alla piccola cameriera dagli occhi neri il signorino Dombey, e con un grido si lanciò in aiuto dell'infelice rampollo.
Come le disgrazie, anche le sorprese non vengono quasi mai sole:
prima ancora che si accorgessero di avere corso un mortale pericolo, Susan e i due bambini a lei affidati furono salvati dai passanti quando stavano per essere travolti da una carrozza che passava in corsa velocissima, e in quel momento stesso si levò da più parti il grido non tanto improbabile dato che era un giorno di mercato: - Il toro! il toro!
Frastornata dal trambusto e spaventata da quel vociare, Florence prese a strillare e a correre, incitando Susan a seguirla, e poi ricordando che avevano lasciato indietro la nutrice e il bambino, si fermò di colpo, solo per accorgersi con spavento indescrivibile di trovarsi del tutto sola.
- Susan! Susan! - gridò Florence. - Oh, dove sono? dove sono andate?
- Dove sono? - ripeté una vecchia cenciosa e bruttissima, che si affrettò ad attraversare la via e ad afferrare la bambina per la mano. - Ti farò vedere io dove sono andate.
Florence si guardò intorno più che mai terrorizzata: l'angusto vicolo in cui s'era per caso ficcata era affatto deserto.
- Vieni con me, carina e non aver paura, io sono la signora Brown, la buona signora Brown.
- Nessuno si è fatto male? - chiese con ansia la bambina.
- Assolutamente nessuno! - le rispose con enfasi la vecchia e la notizia confortò Florence tanto da indurla a seguire la vecchia senza ribellarsi. La donna aperse la porta di un tugurio, e costrinse la bambina a sedere su un mucchio di stracci, ammonendola con durezza: - Bada di non seccarmi! Se fai baccano, ti uccido! Ma se rimani calma e tranquilla non ti farò male e ti lascerò andare fra nemmeno un'ora, capisci? Adesso dimmi chi sei.
A Florence pareva fare un brutto sogno, ma con fatica riuscì tuttavia a raccontare la sua piccola storia.
- Ah, sì! - esclamò la vecchia. - Allora sei una Dombey. Bene, signorina Dombey, io voglio quel tuo bel cappellino, e anche il tuo piccolo cappotto, e qualche altra cosa. Sbrigati, via!
Con le mani che le tremavano, Florence sfilò quegli indumenti e li passò alla vecchia, che li esaminò con cura, mostrandosi soddisfatta della qualità della stoffa.
- Mmmh...! - brontolò la vecchia scrutando la figuretta della bambina. - Che cos'altro mi puoi dare... ecco, le scarpe! Devi darmi anche le scarpe, signorina Dombey... Ma sì, anche... - e la megera brandì ridacchiando un enorme paio di forbici. Ecco... se non avessi una figlia... che adesso è di là del mare... te li avrei presi già tutti questi riccioli, tutti dal primo all'ultimo!
E invece no! Presto, presto, andiamo! - Così dicendo diede da portar alla bambina una pelle di coniglio perché la credessero una piccola straccivendola sua aiutante, e disse che l'avrebbe condotta dove poi avrebbe potuto chiedere a qualche passante la via per andare nell'ufficio di suo padre, ma guai se fosse andata a casa! (perché in tal caso avrebbe impiegato meno tempo e per la vecchia sarebbe aumentato il pericolo di essere scoperta), e dopo un gran girare tra vicoli e androni, lasciò libera Florence con l'ordine di non muoversi prima che l'orologio della torre poco lontana battesse le tre.
A Florence quei pochi minuti parvero interminabili, e non appena udì i tre colpi che la liberavano, si lanciò di corsa verso una via frequentata, sempre stringendo nella mano la pelle di coniglio, e scivolando sul fango con le ciabatte sdrucite che la vecchia le aveva date in cambio delle sue belle scarpine.
Le ci vollero due ore buone per giungere a una banchina sul fiume tutta ingombra di balle, barili e casse, dove si trovò sbucando da una strada stretta fra le case, piena di carri e furgoni. Un uomo corpulento se ne stava fermo là in mezzo a fischiettare e a contemplare i battelli a vela e le barche ormeggiate, con le mani in tasca e la penna infilata dietro l'orecchio come se la sua giornata di lavoro stesse per terminare.
- Per favore, questa è la City? - gli chiese tremando Florence.
- Ma sicuro, e tu lo sai benissimo! Vattene! Non abbiamo niente per te!
- Grazie, non voglio nulla - ribatté la bimba timidamente. - Mi dica solo, per favore, dove si trova la ditta Dombey e Figlio.
L'uomo fu stupito da quella richiesta e per schiarirsi le idee si grattò la nuca tanto energicamente da farsi cadere il cappello.
Poi si volse a un facchino e gli chiese dove fosse andato quel fattorino di Dombey che era venuto a sorvegliare un carico.
- E' appena uscito dall'altro cancello.
- E allora chiamalo.
L'uomo partì di corsa e un momento dopo era di ritorno con un bel ragazzo dall'aria sveglia.
- Guarda un po' qui! - gli disse l'uomo grasso, e il ragazzo si avvicinò subito alla piccola Florence, pur chiedendosi meravigliato che cosa ci avesse a che fare lui con quella personcina. Ma la bimba, felice di essere finalmente giunta alla meta e rassicurata dall'aria gentile del giovanetto, gli corse incontro e prendendogli una mano fra le sue esclamò: - Mi sono perduta!
- Perduta? - gridò il ragazzo.
- Sì, mi chiamo Florence Dombey, sono l'unica sorella del mio fratellino, mi sono perduta stamattina, e poi mi hanno preso gli abiti e le scarpe... questa roba che porto non è mia... per favore, per favore, aiutami, oh, aiutami! - e non potendo più dominarsi, la bambina scoppiò in lagrime, lasciando impietrito per lo stupore il giovane Walter, perché il ragazzo era proprio lui, il nipote di Solomon Gills.
- Oh, la prego, signorina Dombey, non pianga! - la supplicò Walter in un trasporto di entusiasmo. - Pensi che adesso lei è al sicuro come se si trovasse sulla più bella scialuppa di salvataggio di una nave da guerra! Per favore, non pianga!
- Oh, ma adesso piango solo per la gioia! - spiegò la bambina, e Walter, immensamente fiero di avere procurato lui stesso quella gioia, prese Florence per la mano e s'incamminò con lei verso gli uffici della ditta. Ma subito rifletté che li avrebbe trovati già vuoti e chiusi, e allora propose alla bimba di condurla presso lo zio, e di là egli sarebbe corso a casa di lei per dire che era sana e salva e a ritirare quanto le occorreva per vestirsi.
Florence accettò volentieri, e in quel momento un uomo che li aveva superati si girò per fissare Walter come se gli paresse di conoscerlo senza tuttavia esserne ben certo. Ma Walter subito lo riconobbe e lo chiamò.
- Signorina Dombey, questo è il signor Carker - spiegò Walter. Non il signor Carker, direttore della ditta, ma l'altro, lo scrivano.
Signor Carker!
- E' lei, Walter Gay? - rispose l'uomo fermandosi e tornando sui suoi passi. - Mi pareva impossibile trovarla in questa strana compagnia.
I tre si fermarono sotto un lampione e Walter riferì in fretta all'altro la singolare avventura in cui s'era trovato coinvolto.
Carker approvò il suo piano di condotta, ma quando il ragazzo lo incitò perché andasse lui stesso a recare al signor Dombey la lietissima notizia del ritrovamento della figlia, egli si schermì quasi con spavento, mostrando una ritrosia ben in carattere con la persona che era smilza e curva, come oppressa dal fardello di pensieri dolorosi, e con un volto dall'espressione ansiosa, non vecchio, ma già incorniciato da capelli bianchi. Si limitò a consigliare con tono di voce basso e umile che Walter si affrettasse e subito si allontanò con un semplice - Buona notte! - e un breve gesto della mano.
Il ragazzo e la bambina ripresero il cammino, e per svagare la compagna Walter le narrò vari gloriosi episodi di vita marinara, nei quali dei ragazzi ancora più giovani di lui liberavano e portavano in salvo signorine ben più alte di Florence.
- Ciao, zio Sol! - gridò Walter, irrompendo nella bottega. Senti che avventura m'è capitata! La figlia del signor Dombey s'era perduta per la via, e poi una vecchia megera le ha rubato gli abiti, e poi io l'ho trovata e l'ho condotta a riposarsi in casa nostra!
- Santo cielo! - esclamò lo zio Sol, arretrando d'un passo e appoggiandosi di spalle al suo scaffale preferito. - Ma è impossibile! Come posso credere...
- Nessuno potrebbe credere una cosa simile! - lo interruppe Walter. - Ma non importa! Ora, zio, aiutami a portare il divano vicino al caminetto... e se non ti rincresce, dalle qualcosa da mangiare... via quelle scarpe! Signorina Florence, appoggi i piedi sul parafuoco... come sono bagnati... Non ti pare che sia un'autentica avventura, eh, zio? Povero me, soffoco dal caldo!
Per simpatia verso il nipote, Solomon Gills si sentiva lui pure soffocare dal caldo e per l'eccesso dello stupore. Carezzò Florence sui capelli, insistette perché mangiasse e bevesse, le massaggiò i piedi con il suo fazzoletto riscaldato alla fiamma, sempre seguendo con gli occhi quell'argento vivo del nipote che non smetteva di urtarlo agitandosi qui e là nel tentativo di fare venti cose insieme e non riuscendo a combinare un bel nulla.
- Scusa un momento, zio! - disse afferrando la candela. - Corro di sopra a infilare la giubba pulita e poi scappo. Via, zio, non ti pare che sia una vera avventura, questa?
Walter impiegò pochi minuti per salire nella soffitta e ridiscendere di corsa, ma intanto, stremata dalla stanchezza, Florence s'era già addormentata accanto al fuoco, e Solomon Gills l'aveva coperta e aveva sistemato il parafuoco in modo che non le desse fastidio la luce.
- Bravo, zio, benissimo! - gli mormorò Walter. - Vado! Prendo un pezzo di pane perché ho una gran fame. Non svegliarla, bada!
E Solomon Gills, cui l'avventura aveva fatto perdere l'appetito, rimase all'angolo opposto del caminetto a contemplare la bella bambina immersa nel suo pacifico sonno.
Intanto Walter si avvicinava in carrozza alla casa del signor Dombey con una velocità che ben di rado raggiungono le vetture di piazza quando si allontanano dal posteggio, tuttavia ogni due o tre minuti si sporgeva dal finestrino per sollecitare il cocchiere. Giunto che fu alla meta, saltò a terra, si presentò al domestico che gli aperse, lo seguì senza fare cerimonie e si trovò nella biblioteca dove stavano radunati il signor Dombey, la sorella, la signorina Tox, la Richards e Susan fra un gran vociare delle donne.
- Oh, scusi, signore! - esclamò Walter, correndo verso il suo principale. - Sono felice di dirle che è tutto a posto, signore.
La signorina è sana e salva!
Quel ragazzo con l'espressione aperta, i lunghi capelli ondeggianti e gli occhi vivaci, il quale non riusciva quasi a parlare, sopraffatto dall'ansietà e dalla gioia, presentava un impressionante contrasto con il signor Dombey, seduto rigido e impassibile nella sua poltrona.
- Te l'avevo detto Luisa, che l'avremmo senz'altro ritrovata osservò il signor Dombey, volgendosi appena verso la sorella tutta in lagrime accanto alla piangente signorina Tox. - Ordina ai domestici che non occorre più organizzare le ricerche. Questo ragazzo che ci ha recato la notizia del ritrovamento è il giovane Gay, impiegato della ditta. Dimmi, ragazzo, come hanno trovato mia figlia? Ho saputo che s'era perduta. - A questo punto il signor Dombey lanciò un'occhiataccia alla Richards. Ma come è stata ritrovata? Chi l'ha trovata? Veramente, signore,gli rispose modestamente Walter - sono io che l'ho trovata... anzi non so se ho il diritto di dire che l'ho effettivamente trovata, ma senza dubbio ho avuto la fortuna di servire come strumento...
- Che intendi adesso dire, ragazzo? - lo interruppe il signor Dombey con evidente antipatia per l'accento d'orgoglio e di gioia con cui il ragazzo spiegava di avere avuto parte nell'evento.
- Fammi il favore di spiegarti chiaramente.
Chiedere a Walter in quel momento di esprimersi con chiarezza voleva dire esigere davvero troppo da lui; comunque, egli riuscì a esporre la situazione e ciò che gli aveva impedito di condurre subito a casa la bambina.
- Hai sentito? - disse con grande severità il signor Dombey alla piccola cameriera. - Corri a prendere quanto occorre e va subito con questo giovanotto dal quale avrai in consegna la signorina Florence per ricondurla a casa. Gay, il compenso lo riceverai domani.
- Oh, grazie, signore! - esclamò Walter. - Lei è molto buono, ma non desidero davvero essere ricompensato, non ci penso nemmeno.
- Tu sei un ragazzo! - ribatté di scatto e quasi con violenza il signor Dombey - e non ha alcuna importanza ciò che tu pensi, o credi di pensare. Ragazzo, hai compiuto una buona azione: ora non guastarla. Luisa, ti prego di versare un bicchiere di vino a questo giovane. - E il signor Dombey seguì con uno sguardo tutt'altro che benevolo il ragazzo che usciva accompagnato dalla signora Chick, e forse con non minore antipatia lo seguì col pensiero mentre in compagnia di Susan ripartiva in carrozza verso la casa dello zio Sol.
A Florence quel buon sonno aveva fatto molto bene; aveva poi cenato, e ormai lei e Solomon Gills si trovano a loro agio come due vecchi amici. La piccola cameriera dagli occhi neri, che aveva tanto pianto da averli ormai decisamente rossi abbracciò emozionatissima la padroncina e senza perder tempo la rivestì da capo a piedi preparandola in tutta fretta per la partenza.
- Buonasera! - esclamò Florence, correndo da Solomon. - Lei è stato molto buono con me!
Il vecchio Sol era conquistato dalla grazia della bambina e la baciò con affetto di nonno.
- Buona sera, Walter! Addio! - disse Florence, e il ragazzo le strinse tutte e due le mani con grandissimo calore. - Oh, non ti dimenticherò mai, no, mai! Addio Walter!
Già seduta in carrozza, Florence ripeté più volte quel suo saluto, mentre sulla soglia della bottega Walter rispondeva con molto calore, rimanendo poi a seguire fin che poté con gli occhi la vettura, non meno immobile del piccolo guardiamarina di legno ritto dietro a lui.
Nella biblioteca del signor Dombey non si era ancora finito di discorrere, e quando la carrozza si fermò alla porta, il cocchiere ebbe l'ordine di attendere.
Dopo tutto il ritorno della fanciulla perduta e ritrovata non produsse una grande impressione. Il signor Dombey le posò un leggero bacio sulla fronte e l'ammonì di non scappare un'altra volta, né di andare chissà dove con qualche domestica ingannatrice. La signora Chick e la signorina Tox riservarono alla bambina un'accoglienza affettuosa, ma non quanto avrebbe meritato un'autentica Dombey. Solo la grande colpevole, la povera Richards, le corse incontro a cuore aperto e con parole di sincero e caldo benvenuto.
- Luisa, basta così! - ingiunse il signor Dombey alla sorella, che unitamente all'amica non la finiva di lanciare le sue recriminazioni contro l'infelice nutrice. - Questa donna è stata licenziata e pagata. Richards, lei lascia questa casa per aver condotto mio figlio... mio figlio, ripeto! in luoghi e fra gente il cui solo pensiero mi fa rabbrividire di orrore. Quanto all'incidente accaduto stamattina alla signorina Florence, lo ritengo più che altro una fortunata combinazione, perché altrimenti non avrei potuto mai scoprire di che cosa lei si è resa colpevole. Io penso, Luisa, che la bambinaia più giovane, la quale senza dubbio ha subito la cattiva influenza della nutrice di Paolo, possa rimanere con noi. - A questo punto si udì Susan che singhiozzava forte. - Ti prego, Luisa, dà ordine che la carrozza sia pagata perché riporti questa donna fino a...- il signor Dombey non poté trattenere una smorfia di disgusto fino a Stagg's Gardens.
La poveretta si volse per uscire, ma Florence le si avvinghiò al collo piangendo e gridandole di restare, supplicandola che non se ne andasse, e guadagnandosi quindi il silenzioso disprezzo del padre.
Anche il piccolo Paolo strillò a lungo quella sera, e poteva ben piangere perché nella sua breve esistenza era costretto a subire già una seconda e dolorosa perdita: a lui e alla sorella era stata tolta un'amica fedele dal cuore buono e affettuoso.
In seguito al congedo della buona nutrice, il piccolo Paolo prese a subire ininterrottamente le cure assidue e assillanti della zia signora Chick e della di lei amica, la signorina Tox. Oppresse dalla responsabilità del nuovo e ambito incarico, le due donne abbandonarono affatto i loro precedenti doveri e svaghi, vale a dire la signora Luisa Chick lasciò che il marito conducesse per suo conto una vita abbastanza allegra tra desinari al circolo e serate a teatro, mentre la signorina Tox volse decisamente le spalle al vicino, il vecchio maggiore Bagstock, il quale da lungo tempo la rallegrava con un cauto e cavalleresco corteggiamento. Ma nonostante le sollecitudini e le cure, e sebbene nella sua primissima infanzia fosse apparso tutt'altro che cagionevole di salute, il piccolo Paolo era diventato gracile, ed era come se il dolore di perdere, dopo la madre, anche un'affettuosa nutrice avesse superato la sua forza di sopportazione. Durante quel primo periodo parve addirittura che non facesse se non attendere un'occasione per sfuggire di mano alle sue custodi e andare a raggiungere la madre. In seguito ogni dentino che gli spuntava rappresentava una enorme difficoltà da valicare, e tutte le malattie infantili che dovette superare furono altrettante scalate oltremodo pericolose. La nuova balia asciutta una donnetta insipida e gemebonda, che se non era intenta a commiserarsi manifestava una querula pietà verso il prossimo, diceva di non avere mai visto un bimbo così malaticcio. Non occorre aggiungere che il signor Dombey non era per nulla preoccupato, ritenendo che si dovesse trattare di inevitabili debolezze infantili, tutto preso com'era dai suoi sogni di futura grandezza del figlio e irritato contro l'impertinenza della natura e la lentezza del tempo. In quella sua personalità rigida e fredda le sole manifestazioni di calore e di tenerezza si volgevano al figlio, oggetto per lui di un amore esclusivo, non tanto nella sua realtà infantile, quanto in quella dell'adulto che sarebbe diventato, e di partecipe ai prosperi affari della ditta Dombey e Figlio.
A cinque anni Paolo era un bel bambino dal piccolo volto stranamente pallido e pensoso; mostrava di comprendere l'importante posto che già occupava nella vita con la sua smilza personcina, e il potere che già gli era concesso esercitare su quanti lo circondavano. Una sera l'avevano portato come di consueto a tenere compagnia al padre, e se ne stavano entrambi rigidi e immobili di fronte al caminetto, quando il bambino ruppe il lungo silenzio chiedendo all'improvviso:
- Babbo, il denaro, che cos'è?
Il signor Dombey ebbe un sussulto perché stava appunto rimuginando dentro di sé delle questioni finanziarie, e avrebbe saputo subito offrire una dotta risposta in termini di valuta, cambi, valore dell'oro, deprezzamento e via discorrendo; ma abbassò gli sguardi sulla piccola figura infantile e si limitò a rispondere non senza un certo imbarazzo: - Oro, argento e rame: sai bene quali sono le sterline, gli scellini e i denari, non è vero?
Ma il bambino non era soddisfatto e insistette:
- Lo so, babbo! Voglio dire che cos'è in fondo il denaro? A che cosa serve?
Il signor Dombey fissò sbigottito il figlio, poi gli sorrise, gli accarezzò la testina e rispose: - Lo capirai meglio più tardi, caro il mio ometto. Ma intanto sappi che il denaro è tutto, serve per tutto!
- Serve per tutto, babbo?
- Sì - precisò il signor Dombey. - Per tutto... o quasi tutto. E allora - esclamò il bambino - perché il denaro non ha salvato la vita della mia mamma? Non è forse crudele, il denaro?
- Crudele! - ribatté il signor Dombey, aggiustandosi il fazzoletto annodato al collo e avendo l'aria di trovare assurda la domanda. - No! Una cosa buona non può essere crudele.
- E allora, se è buono e può fare tutto, chissà perché non ha fatto vivere la mia mamma... - Non era più una domanda rivolta al padre, ma pareva che ripetesse a voce alta un pensiero già tante volte rimuginato dentro di sé.
Seguì un breve silenzio.
- Non può nemmeno fare che io diventi forte, e che io mi senta bene, vero, babbo?
- Oh, ma tu sei robusto e sano, non è forse vero che stai benissimo? - replicò il signor Dombey.
- Lo so che Florence è più vecchia di me - seguitò il bambino con tono riflessivo - ma io credo che quando Florence era piccola come me poteva giocare tanto senza stancarsi; io sono tanto stanco certe volte - disse il bambino, tendendo le piccole mani esili al calore dei carboni accesi e tenendovi fisso lo sguardo - e mi dolgono tanto le ossa... dice la balia che sono le ossa a dolermi e io non so che cosa fare.
- Ah! - lo confortò il padre, posandogli la mano sulla spalla. Ma è giusto che i bambini siano stanchi di sera, così dormono bene quando vanno a letto.
- No, babbo, non solo di sera. Tante volte Florence mi fa riposare sulle sue ginocchia e canta per me.
Era tardi ormai; venne Florence, prese in collo il bimbo, uscì dal salotto, e il padre la sentì che saliva lentamente e con fatica lo scalone, sempre cantando a bassa voce, mentre a momenti alla sua si univa come un soffio la vocina del bimbo.
Il giorno seguente il signor Dombey invitò a colazione la signora Chick e la signorina Tox, e non appena dalla tavola fu rimossa la tovaglia, affrontò l'argomento: - Il bambino non è forte come vorrei - dichiarò il signor Dombey.
- Mio caro fratello! - rispose la signora Chick - tu come al solito hai perfettamente ragione! Per dire la verità, la sua mente è troppo grande per lui; la sua anima è così vasta che fatica a rimanere dentro il suo corpicino. E come parla, quel piccolo tesoro! - esclamò la signora Chick, scotendo il capo. Solo ieri, che cosa non ha saputo dire a proposito dei funerali!...
- Temo - la interruppe con durezza il signor Dombey - che qualcuno della servitù abbia fatto al bambino discorsi sconvenienti. Ieri sera mi ha parlato addirittura delle sue... delle sue ossa! - Il signor Dombey era irritato. - Chi si permette di parlare delle ossa di mio figlio? Non mi vorrete dire che sia tutto pelle e ossa, spero!
- Tutt'altro - replicò la signora Chick inorridita.
- Lo spero bene! - riprese il fratello. - Ma chi ha parlato di funerali al bambino? Siamo forse imprenditori di pompe funebri o becchini?
- Oh, tutt'altro! - ripeté la signora Chick con l'abituale espressione di insondabile profondità.
- E allora, chi gli mette in capo delle cose del genere?
insistette il signor Dombey. - Ieri sera è stato un vero colpo per me. Rispondimi, Luisa: chi gli mette quelle idee per il capo?
- Mio caro Paolo - rispose dopo un minuto di silenzio la signora Chick - non servirebbe a nulla chiederlo. Ti confesso che non giudico la nuova bambinaia un tipo molto allegro. Noi tutti sappiamo - la verità era invece che il signor Dombey non lo sapeva affatto - che il caro bambino è rimasto alquanto indebolito dopo l'ultimo attacco di febbre, e d'altra parte anche se perdesse per un certo tempo l'uso delle gambe... non sarebbe una gran cosa, succede a tanti bambini. Lo diceva anche il medico stamattina, dopo averlo visitato, come fa ogni giorno in questo ultimo periodo, che non è una cosa grave, ma consigliava l'aria di mare.
Io lo giudico un consiglio molto saggio, Paolo!
- L'aria di mare - ripeté il signor Dombey, fissando intensamente la sorella.
- Non c'è da preoccuparsi affatto! - lo rassicurò la donna. Anche ai miei due ragazzi hanno raccomandato l'aria di mare quando avevano l'età del tuo Paolo; e l'hanno ordinata moltissime volte anche a me. Sono d'accordo con te che le domestiche possono avere parlato in sua presenza di argomenti poco adatti, ma che vuoi è tanto intelligente, afferra tutto. Per dire il vero, io e la signorina Tox abbiamo pensato che non gli farebbe male stare un po' lontano da casa; abbiamo pensato che l'aria marina di Brighton, e magari le cure materiali e spirituali di una donna giudiziosa come la signora Pipchin...
- Chi è questa Pipchin, Luisa? - chiese di scatto il signor Dombey che sentiva quel nome per la prima volta.
- Mio caro fratello, - rispose la signora Chick - la signora Pipchin è una donna anziana e di ottima famiglia. Suo marito, prima di morire per la disperazione, aveva investito e perduto ogni suo avere nel crollo di certe azioni di una miniera del Perù.
La signora Pipchin si dedica da molti anni all'infanzia e tiene una pensione per bambini, un vero collegio molto aristocratico!
Il progetto non dispiacque al signor Dombey, il quale disse che il giorno seguente avrebbe assunto informazioni. Poi chiese chi sarebbe dovuto partire con il bambino, e la signora Chick dichiarò che sarebbe stata utile la compagnia della bambinaia, e inoltre indispensabile la presenza di Florence perché senza di lei il bambino non sarebbe partito, dato che l'adorava addirittura. - E tu andresti a visitare Paolo almeno una volta la settimana, naturalmente.
- Naturalmente! - ripeté il signor Dombey, e poi rimase per un'ora con gli occhi fissi sulla stessa pagina senza leggere nemmeno una parola.
La famosa signora Pipchin era vecchia, brutta e acida, ingobbita e con lo sguardo freddo e duro come il ferro. Vedova da una quarantina d'anni, non aveva mai smesso il lutto, e la sua tenebrosa presenza bastava a spegnere qualunque scintilla di allegria che riuscisse ad accendersi intorno a lei. Il segreto della sua abilità nel trattare i piccoli alunni consisteva nell'abitudine inveterata di dare loro tutto ciò che trovavano sgradevole e nel negare loro tutto quanto avrebbero desiderato.
Il castello di quella strega specialista nella repressione dell'infanzia stava in una ripida via traversa di Brighton, dove le case erano straordinariamente sconnesse e fragili, dove il terreno era più che altrove gessoso, sassoso e sterile, dove i minuscoli giardini avevano l'inspiegabile facoltà di produrre unicamente calendole, qualunque fosse la pianta di cui vi si gettasse il seme, e dove le chiocciole aderivano alle porte d'ingresso con la tenacia di autentiche ventose. D'inverno non si poteva far uscire l'aria che ristagnava dentro alle mura, e d'estate non si poteva farvi scorrere quella esterna. Il vento circolava nelle stanze con tale incessante fragore che gli abitanti della casa avevano l'impressione di tenere continuamente accostata all'orecchio una grossa conchiglia marina contorta. Sul davanzale della finestra del salotto, che non veniva mai aperta, la signora Pipchin teneva una mezza dozzina di piante sbilenche e pelose, e un'altra pianta che pareva un'aragosta verde con grosse pinze; vi erano poi nella stanza dei rampicanti forniti di foglie appiccicose, e dal soffitto penzolava un vaso da cui la pianta traboccava, facendo il solletico con la punta dei ramoscelli a chi passava là sotto per caso, e dando la gradevole impressione di zampine di ragni. D'altra parte non si può dire che nemmeno i ragni mancassero nella dimora della signora Pipchin.
Erano trascorsi solo tre giorni da quando la signora Chick aveva parlato al signor Dombey della signora Pipchin, e già costei poteva contare su un notevole contributo ai suoi incassi per opera del signor Dombey, e riceveva quali nuovi ospiti del "castello" Florence in compagnia del fratellino Paolo e di Susan.
Le seguenti battute formarono il primo dialogo che si svolse tra Paolo e la signora Pipchin.
- Ebbene, giovanotto, - lo interpellò la vecchia - credi che io ti piacerò?
- No - rispose il piccolo Paolo - non credo che lei mi piacerà affatto. E voglio andar via da qui. Questa non è la mia casa.
- No, infatti è la mia! - replicò la signora Pipchin.
- E' molto brutta - affermò il bambino.
- Ho nella casa un locale ancora più brutto di questo - dichiarò la signora Pipchin - e vi chiudiamo i bambini cattivi!
Alle tredici in punto fu servito un pranzo composto soprattutto di farinacei e di verdure per i piccoli ospiti, mentre la signora Pipchin, il cui fisico aveva l'assoluta necessità di un nutrimento sostanzioso, ebbe un piatto di cotolette di montone ben calde, e Berinzia, la nipote e assistente della signora, consumò una porzione di carne fredda di maiale.
Nel pomeriggio pioveva, impossibile andare a passeggiare sulla spiaggia, e siccome il fisico della signora Pipchin esigeva un regolare periodo di riposo, i bambini furono condotti da Berinzia nella "segreta del castello", cioè in uno stanzone vuoto con la vista poco allegra di un muro senza finestre e di un serbatoio d'acqua, ma dopo tutto quello era l'ambiente più gradevole della casa perché la ragazza giocava con i bambini e li faceva divertire un mondo, fino al momento in cui la signora Pipchin batteva sulla parete colpi rabbiosi di protesta contro quel baccano, e allora tutti si mettevano tranquilli e fino al crepuscolo Berinzia raccontava sotto voce delle favole.
All'ora di merenda i bambini ebbero latte annacquato e pane e burro a sazietà; la signora Pipchin e Berinzia bevettero il tè, e la signora Pipchin ebbe anche un piatto di crostini caldi imburrati. Non tardò a venire per i bambini l'ora di andare a letto, e siccome la piccola Pankey, una bimbetta molto timida con grandi occhi azzurri, aveva paura di dormire sola, la signora Pipchin non tralasciava mai di condurla personalmente in una camera brutta e spoglia, dove la poverina rimaneva in solitudine a piangere, così che di quando in quando la signora Pipchin si sentiva in dovere di salire a darle una scrollatina.
La prima colazione era identica alla merenda, con la sola differenza che la signora Pipchin mangiò pane fresco in luogo dei crostini, ma la sua aria di continua irritazione non ne risultò per nulla addolcita. Paolo e Florence andarono a passeggio lungo la spiaggia con la bambinaia che da quando erano arrivati al mare non faceva che piangere. Verso le dodici la signora Pipchin radunava i piccoli ospiti per un'oretta di letture istruttive. La signora Pipchin aveva per sistema di non permettere che la mente infantile si formasse e si aprisse con la spontaneità di un fiore, bensì di spalancarla a forza come un'ostrica, e quindi la morale di quelle lezioni era sempre di natura violenta e drammatica: il protagonista, un bambino indocile, finiva, ma solo nelle storie meno impressionanti, per essere divorato da un leone o da un orso.
In tal modo si trascorreva la giornata presso la signora Pipchin.
Al sabato pomeriggio arrivava il signor Dombey, e Florence e Paolo erano invitati a prendere il tè nel suo albergo; poi rimanevano con lui tutta la domenica.
I rapporti fra la signora Pipchin e Paolo erano a dir poco singolari: fin dall'inizio il bambino non si era lasciato spaventare dall'aria scostante di quella strega, e anzi era come ne fosse interessato e cercasse, a forza di osservarla, di comprenderne l'anima; le poneva le più strane domande con la massima disinvoltura e senza lasciarsi intimorire dalle minacce, così che dopo un poco la vecchia mostrò una certa simpatia per quel bambino dalla personalità già tanto sviluppata.
A Paolo non pareva tuttavia che il soggiorno marino giovasse, si sentiva anzi ancora più debole e perciò gli fu procurata una carrozzella in cui poteva starsene comodamente adagiato per essere sospinto lungo la spiaggia.
- Per piacere, va via! - diceva il piccolo Paolo ogni volta che un bambino gli si avvicinava per tenergli compagnia. - Grazie, ma non ti voglio. - E volgendosi a Florence che gli stava sempre accanto con un lavoro di cucito o con un libro per leggergliene qualche pagina ad alta voce, concludeva: - Noi due non vogliamo gente intorno, non è vero? Io ho bisogno solo di te.
Il punto in cui preferiva sostare era abbastanza lontano da dove passeggiava la gente, e tanto vicino al mare che il vento mosso dalle onde lo circondava tutto e l'acqua arrivava fin tra le ruote della carrozzella.
Un giorno si destò all'improvviso da un breve sonno e si drizzò di scatto come se tendesse l'orecchio a una voce.
Florence gli chiese che cosa gli pareva di udire.
- Voglio sapere che cosa dice - le rispose, fissandole gli occhi in volto. - Il mare, Florence, che cosa continua a dire?
La sorella gli rispose che non era se non il rumore prodotto dalle onde.
- Sì, sì! - ribatté il bambino. - Ma io so che le onde seguitano a dire qualcosa; sempre la stessa cosa. Che cosa c'è laggiù? Si teneva ritto a sedere e scrutava l'orizzonte.
La fanciulla gli spiegò che di là del mare vi era un'altra terra, ma egli disse che non intendeva dire quella: voleva dire tanto, tanto più lontano!
Dopo d'allora molte volte s'interrompeva mentre stavano conversando e tendeva l'orecchio nel tentativo di comprendere che cosa dicessero continuamente le onde; e si tendeva tutto dalla carrozzella per scrutare lontano in quella lontananza invisibile.
L'indole del giovane Walter Gay, romantica e innamorata di ogni volo meraviglioso, non era stata molto disciplinata dalla saggia esperienza dello zio e tutore Solomon Gills, ed era inevitabile che il ragazzo conservasse ben viva nella memoria l'avventura di Florence con la buona signora Brown; ma più che mai ricordava quella parte degli eventi in cui era stato egli pure coinvolto.
Era troppo giovane e spensierato per analizzare la natura dei propri sentimenti, ma provava un grande affetto per la banchina sulla quale aveva incontrato Florence e per le vie (prive affatto di bellezza) che aveva percorse quella sera con lei. E' inoltre vero che a partire da quella memorabile occasione era diventato un po' più elegante nel vestire, ed è certo che nelle ore libere non mancava di recarsi a passeggiare nel quartiere dove si trovava la casa del signor Dombey con la vaga speranza di incontrare per via la piccola Florence. Era tuttavia il suo un sentimento affatto innocente e alimentato in lui soprattutto dal pensiero che in quella grande casa ricca e tetra la fanciulla fosse trattata con freddezza e trascurata.
Avvenne così che nel corso di un anno egli la incontrasse almeno cinque o sei volte: la salutava levandosi il cappello, e Florence si fermava a stringergli la mano, senza che la bambinaia se ne scandalizzasse poiché sapeva bene come si erano conosciuti. A volte il ragazzo pensava che sarebbe stato magnifico se il giorno dopo quel loro primo incontro egli si fosse imbarcato per rimanere via a lungo, compiere sul mare delle imprese grandiose, ritornare ammiraglio o almeno capitano di vascello fornito di abbaglianti spalline, rivedere Florence (diventata intanto una bellissima giovane) e sposarla a dispetto del signor Dombey e del suo aspetto raggelante e scostante, portandola via trionfalmente verso le azzurre sponde di qualche remoto e incantato paese. I suoi sogni non interferivano tuttavia con il lavoro, che egli sbrigava con vivace solerzia, ed era ancora lo stesso ragazzo allegro e impetuoso della sera in cui aveva aggredito lo zio Solomon con la splendida notizia che aveva indotto il vecchio ad aprire la sua penultima bottiglia di Madera.
- Zio Sol! - esclamò un mattino Walter. - Tu non stai bene. Non hai mangiato nulla. Se vai avanti così, farò venire il medico!
- Non potrà mai darmi quello di cui ho bisogno, ragazzo mio rispose il vecchio.
- Che cosa, zio? Una bella clientela, forse?
- Ma sì - convenne il signor Solomon con un sospiro. - Una bella clientela mi farebbe del bene.
- Hai ragione! Sapessi che rabbia mi fanno quelli che si fermano a studiare la vetrina e poi se ne vanno con la massima indifferenza!
Come vorrei uscire a prenderne qualcuno per il collo e portartelo qui! Ma non c'è rimedio, zio, e tu non te la prendere! Vedrai che un giorno o l'altro le ordinazioni arriveranno a mucchi e a sacchi!
- Non prima che io me ne sia andato via da qui, ragazzo mio replicò il vecchio.
Le proteste del ragazzo non mancarono di giungere copiose, e il vecchio finì per assicurare al nipote che la sua salute era buona e non aveva alcuna preoccupazione grave. Ma rientrato prima di mezzogiorno per dare un'occhiata allo zio, non sentendosi del tutto tranquillo, quale non fu la sua sorpresa nel trovare seduto a tavola di fronte allo zio Solomon un certo signor Brogley, il quale era rigattiere e perito stimatore con negozio di mobili usati appena girato l'angolo.
- E' successo qualcosa? - gridò spaventato Walter, perché l'uomo non era un amico di casa.
- No, no! - lo rassicurò il signor Brogley. - Non è successo niente, non agitarti.
Walter tornò a fissare sbigottito lo zio che aveva una strana espressione avvilita, e il visitatore spiegò:
- Il fatto è che abbiamo un piccolo debito per cambiale scaduta...
trecento settanta sterline, e il credito è in mia mano. Sicuro.
Sequestro giudiziario. Ma non agitarti. Sono venuto io stesso per tenere segreta la cosa. Voi due mi conoscete bene. E' una faccenda privata che rimane fra noi.
- Zio Sol! - esclamò con voce tremante Walter.
- Ragazzo mio caro, - gli rispose il signor Solomon - è la prima volta che mi capita una disgrazia come questa. E sono troppo vecchio... - Il poveretto alzò di nuovo sulla fronte gli occhiali con i quali aveva cercato invano di mascherare l'emozione, e copertosi gli occhi con la mano prese a singhiozzare forte.
- Zio Sol, no, ti prego, non fare così! - gridò Walter, che alla vista di quelle lagrime provò un brivido di vero spavento. - No, per amor del cielo, signor Brogley, ditemi che cosa posso fare.
- Il mio consiglio sarebbe che tu andassi a cercare un amico per discorrere insieme della cosa - rispose l'agente giurato.
- Ma sicuro! - esclamò Walter, disposto ad afferrare qualunque filo di salvezza. - Certo! Grazie! Zio, qui ci vuole il capitano Cuttle. Lei aspetti un momento che faccio una corsa a chiamarlo.
La prego, signor Brogley, badi lei a mio zio finché torno. Zio non disperarti, su, da bravo, fatti animo!
Walter non badò alle proteste che il vecchio gli rivolgeva con voce rotta e schizzò via dalla bottega; diede una capatina negli uffici della ditta, pregando che scusassero la sua assenza dovuta a una improvvisa indisposizione del congiunto e correndo a perdifiato si diresse verso la casa del capitano Cuttle.
Il vecchio lupo di mare abitava sull'orlo di uno stretto canale nei pressi degli scali dell'India, dove vi era un ponte girevole che di tanto in tanto si apriva per dare libero accesso a qualche grosso bastimento, il quale pareva un grosso mostro acquatico gettato fragorosamente in secca fra le case. Superato l'ostacolo della padrona di casa, che era una vedova loquace e aggressiva, Walter poté salire al primo piano ed essere ammesso nella stanza del capitano, il quale stava consumando il desinare composto di cosciotto di montone freddo, patate bollenti e birra scura.
- Siedi! - esclamò il capitano. - Come sta il mio amico Gills?
Walter, che era riuscito con fatica a riprendere fiato, a quella domanda si perdette affatto di coraggio, e mormorando: - Oh, capitano! - scoppiò in lagrime. Il vecchio non poté proferire sillaba dalla costernazione, e già immaginava ogni sorta di catastrofe, ma non appena Walter gli ebbe spiegato la situazione balzò in piedi senza degnare d'uno sguardo il desinare ancora quasi intatto, frugò nell'armadio e nello stipo radunando e ficcandosi in tasca tutti i suoi tesori, che consistevano in tredici sterline e pochi spiccioli, due cucchiaini d'argento molto consumati, un paio di mollette da zucchero tutte contorte e di foggia antiquata, e un enorme orologio pure d'argento a doppia cassa. Il capitano era molto ansioso che la sua formidabile padrona di casa non si accorgesse di quella sua uscita insolita, e quindi applicò con successo la strategia di far uscire prima da solo il ragazzo, ordinandogli di attenderlo qualche minuto per via appena girato l'angolo, dove appunto lo raggiunse tardando di poco. Erano entrambi troppo preoccupati per discorrere prima di raggiungere la bottega del povero vecchio Sol, davanti alla quale il piccolo guardiamarina di legno pareva scrutare l'orizzonte in cerca di un soccorso per il padrone.
- Gills! - gridò il brav'uomo, attraversando di corsa la bottega e raggiungendo nel salottino l'amico al quale strinse a lungo la mano. - Avanti con la prora al vento, e vedrai che ce la faremo!
Tenere testa al vento, ecco quello che occorre!
Il vecchio Sol ricambiò la stretta di mano, ringraziando a bassa voce il fedele amico. Seguì una conversazione fra i due alla presenza di Walter e del signor Brogley, ma la questione del reperimento di fondi sufficienti a estinguere il grosso debito rimaneva insoluta, quando il capitano Cuttle esclamò tutto eccitato:
- Walter! Ho trovato!
- Davvero, capitano? - replicò vivacemente il ragazzo.
- Sì! - confermò il capitano, traendolo in disparte. - Una garanzia è data dalla merce che si trova in bottega; e l'altra sono io a darla con il mio discreto vitalizio: il capitale lo anticiperà il tuo principale!
- Il signor Dombey! - balbettò Walter.
Il capitano accennò gravemente di sì. - Guardalo! - disse emozionato. - Guarda tuo zio: se gli portassero via la sua merce, lui morirebbe; lo sai bene che morirebbe. Non dobbiamo lasciare nulla di intentato, Walter, e il primo passo è tuo!
- Mio!... il signor Dombey... - tornò a balbettare Walter.
- Tu corri subito in ufficio e vedi se è là! - ordinò il capitano Cuttle, dando un'amichevole manata sulle spalle del ragazzo. - Svelto!
Walter non se lo fece dire la seconda volta: filò via e fu presto di ritorno con la notizia che essendo sabato il signor Dombey era partito per Brighton.
- Lo so ben io quello che faremo! - dichiarò il capitano, che pareva essersi già preparato a quella eventualità. - Partiamo per Brighton tutti e due! Prendiamo la diligenza del pomeriggio.
Walter provava la vaga impressione che avrebbe forse preferito dover affrontare il formidabile signor Dombey senza la compagnia del vecchio amico, ma costui era chiaramente deciso a porre in atto di persona il progetto, e quindi i due si congedarono in fretta dal vecchio Sol e partirono verso la stazione della diligenza di Brighton.
La mattina dopo il signor Dombey si trovava a colazione e in piacevoli conversari con la signora Chick e la signorina Tox, da lui invitate a trascorrere la giornata festiva al mare, e stavano tutti insieme cantando le lodi del maggiore Bagstock, il quale si sentiva da tempo trascurato dalla sua amabile vicina la signorina Tox; aveva deciso di scoprirne la ragione e con sottili e astute manovre era riuscito a fare la conoscenza del signor Dombey, rendendosi talmente gradito da farsi più volte invitare a pranzo in città e anche a Brighton. Naturalmente lo scopo recondito del maligno maggiore era di mettere energicamente il bastone fra le ruote della signorina Tox nel caso ella sognasse (e da molteplici indizi egli era pronto a giurare che la signorina tendeva attivamente alla realizzazione di tale sogno) di diventare la seconda legittima consorte del signor Dombey.
Ignare di tanta perfidia, le due amiche approvavano il giudizio del signor Dombey, il quale diceva che il maggiore, oltre a possedere una spiccata personalità militaresca aveva il merito di riconoscere apertamente l'importanza di cose, come quelle attinenti alle imprese commerciali, affatto estranee al suo ambiente.
Nel salotto entrò di corsa Florence con il volto acceso e gli occhi scintillanti di gioia.
- Babbo! - gridò la fanciulla - c'è qui Walter e non vuole venire avanti!
- Chi è? - protestò il signor Dombey. - Come ti permetti, Florence? Che succede?
- E' Walter, babbo! - ripeté timidamente Florence, rendendosi conto di essersi comportata in maniera poco conveniente. Walter, che mi ha trovata quando m'ero perduta.
- Luisa, parla forse del giovane Gay? - chiese alla sorella il signor Dombey, aggrottando la fronte. - Questa bambina sta diventando davvero sgarbata. Non credo si tratti del giovane Gay.
Vuoi andare a vedere tu, Luisa?
La signora Chick si affrettò a uscire nel corridoio e ritornò con la notizia che era infatti il giovane Gay accompagnato da uno stranissimo individuo; il giovane Gay diceva che non voleva prendersi la libertà di entrare, avendo saputo che il signor Dombey stava facendo colazione, e che avrebbe atteso fino al momento in cui il signor Dombey avesse gradito di riceverlo.
- Di' al ragazzo che venga subito qui - ordinò il signor Dombey.- Ebbene, Gay, che cosa c'è? Chi ti ha mandato? Non c'era nessun altro in ufficio che potesse venire?
- La prego di scusarmi, signore, - disse Walter - ma non mi hanno mandato. Ho avuto l'ardire di venire per mio conto, ma spero che mi perdonerà quando saprà il motivo che mi ha spinto a presentarmi così da lei.
Il signor Dombey però non gli prestava attenzione e volgeva lo sguardo alquanto irritato verso l'uscio alle spalle del ragazzo.
- Che cosa c'è là? - disse il signor Dombey. - Chi è? Signore, credo che lei abbia sbagliato porta!
- Oh, le chiedo mille scuse per il disturbo, signore! - si affrettò a spiegare Walter - ma questo è... è il capitano Cuttle, signore.
E subito il capitano Cuttle, con il suo fantastico aspetto di vecchio lupo di mare, si fece avanti, inchinandosi profondamente al signor Dombey.
Il signor Dombey fissò quel fenomeno con stupore e indignazione; il piccolo Paolo era entrato dietro a Florence e, avendo visto il capitano agitare il suo uncino, parve assumere un atteggiamento di difesa.
- E allora avanti, spiegati! - ordinò a Walter il signor Dombey in tono ben poco incoraggiante, ma Florence rivolse al ragazzo un gentilissimo sorriso.
- Ecco, signore, - balbettò Walter - sono venuto da lei per una questione del tutto privata e personale e il capitano Cuttle...
- Presente, signore! - esclamò il capitano come volesse ricordare che lui era a disposizione degli amici, e che di lui ci si poteva fidare a occhi chiusi.
- Il capitano è un vecchio amico di mio zio, signore, ed è una persona eccellente - seguitò Walter. - Ha avuto la bontà di offrirsi di accompagnarmi, perciò io non potevo rifiutare...
- Certo, certo! - lo interruppe il capitano. - Non potevi assolutamente rifiutare, Walter! Va pure avanti.
Il povero ragazzo era sull'orlo della disperazione, ma radunò il coraggio che poté e spiegò la triste situazione in cui si trovava quell'ottimo vecchio che era suo zio, il solo parente che aveva sulla terra; e come si trovasse sul punto di perdere ogni suo avere e di rimanere alla sua età sul lastrico se non vi fosse il modo di saldare un grosso debito, e che se il signor Dombey avesse avuto la bontà di aiutarlo, lui Walter, non meno dello zio, gli sarebbe stato eternamente grato. - ... e la prego di credere che... una buona garanzia non manca... vi è la bottega, ancora ben fornita... e poi il capitano vuole essere garante... e io, signore, se lei accetta che il compenso del mio lavoro sia messo da parte... mio zio è tanto buono... un vecchio tanto onesto e risparmiatore...
Walter non riuscì a terminare in maniera coerente il suo discorso e quando le parole gli morirono in bocca rimase di fronte al suo principale a testa bassa e in silenzio.
Il capitano ritenne che fosse il momento adatto per mettere in mostra i suoi tesori e avanzò verso la tavola, ne liberò una parte accanto al braccio del signor Dombey, radunando piatti e tazze, e dopo avere vuotato le tasche e fatto un piccolo mucchio dei suoi preziosi, tornò ad arretrare di un passo.
- Meglio poco di niente, signore, come si suol dire! - dichiarò il capitano Cuttle. - Senza contare il mio assegno vitalizio di cento sterline l'anno, pure disponibile ai vostri comandi perché se esiste al mondo un uomo pieno zeppo di sapienza, questo è il vecchio Sol Gills, e se c'è sulla terra un ragazzo che promette bene, questo è suo nipote!
Poi il capitano si ritirò di un altro passo e si ravviò i capelli con il gesto dell'attore soddisfatto di avere condotto a termine una scena specialmente impegnativa.
Quando Walter aveva smesso di parlare, l'attenzione del signor Dombey s'era fissata sul piccolo Paolo, il quale nel vedere la sorellina piangere di compassione per ciò che aveva udito, le si era avvicinato per confortarla e intanto lasciava scorrere uno sguardo profondamente espressivo da Walter al padre. In silenzio il padre non finiva di osservare il bambino, infine chiese:
- Perché questo debito? Chi è il creditore?
- Il ragazzo non lo sa - rispose subito il capitano, posando la mano sulla spalla di Walter - ma io sì. Il mio amico Gills s'è trovato con questo debito da pagare per avere aiutato un individuo che adesso è morto e che già prima gli era costato varie centinaia di sterline. Pronto a fornire, signore, altri particolari a quattr'occhi, se occorre.
- Chi possiede appena di che vivere - dichiarò il signor Dombey senza badare ai cenni misteriosi che il capitano gli rivolgeva da dietro le spalle di Walter - farebbe meglio a badare alle proprie difficoltà e a far fronte ai propri impegni, invece di aumentarli dando garanzie in favore d'altri. E' anche un atto disonesto e presuntuoso - disse con grande severità il signor Dombey - un atto di grave presunzione e disonestà. Nemmeno per i ricchi sarebbe un dovere arrivare a tanto!... Paolo, vieni da me!
Il bambino ubbidì e il signor Dombey se lo fece sedere sulle ginocchia.
- Senti un po'... - disse il signor Dombey al piccolo Paolo.
Guardami bene: se tu avessi denaro adesso, tutto quel denaro di cui ha parlato il giovane Gay, che cosa faresti?
- Lo darei al suo vecchio zio - rispose subito il bambino.
- Lo presteresti al suo vecchio zio, allora? - esclamò il signor Dombey. - Ma quando sarai più grande, sai bene che il mio denaro sarà anche tuo e lo useremo insieme.
- Dombey e Figlio! - esclamò il piccolo Paolo.
- Dombey e Figlio! - ripeté il padre. - Vuoi cominciare dunque a operare nella ditta Dombey e Figlio prestando questo denaro allo zio del giovane Gay?
- Oh, sì, babbo, ti prego! - rispose subito il bambino. - Anche Florence lo desidera.
- Le bambine non hanno nulla a che vedere con la ditta Dombey e Figlio! - precisò il signor Dombey. - Tu vuoi dunque?
- Sì, babbo, sì!
- E allora daglielo! - concluse il padre. - Vedi, Paolo aggiunse abbassando la voce - com'è grande la potenza del denaro e come la gente è ansiosa di procurarselo. Il giovane Gay ha fatto questo lungo viaggio per chiederci del denaro, e tu che sei ricco e importante e possiedi molto denaro, hai deciso di darglielo, come speciale favore e con obbligo di restituzione.
Per un attimo Paolo levò sul padre uno sguardo quasi vecchio tanto era comprensivo, ma subito tornò bambino e con vivacità scivolò giù dalle ginocchia del padre e corse a dire a Florence che non piangesse più perché avrebbe lui stesso dato il denaro al giovane Gay.
Poi il signor Dombey si girò verso un tavolino che gli stava di fianco, scrisse un biglietto e lo sigillò, mentre Paolo e Florence parlavano a bassa voce con Walter e il capitano Cuttle rivolgeva al terzetto un sorriso di enorme soddisfazione. Dando a Walter il biglietto, il signor Dombey gli disse: - Consegna questo domattina al signor Carker appena lo vedi; egli provvederà affinché un mio impiegato prosciolga tuo zio dall'impegno che attualmente lo lega, tacitando il suo creditore e stipulando con tuo zio i termini della restituzione, compatibili con le condizioni in cui egli si trova. Tieni presente che il favore ti è concesso dal signorino Paolo.
Per la felicità di stringere in pugno il mezzo capace di scacciare dagli occhi dello zio l'infelicità che vi si era affacciata, Walter avrebbe voluto a ogni costo esprimere almeno in parte la gioia della sua gratitudine, ma il signor Dombey gli troncò la parola in bocca.
- Tieni presente che il favore ti è concesso dal signorino Paolo- ripeté. - Gli ho spiegato la questione ed egli ha perfettamente compreso. Non una parola di più.
Così dicendo indicava la porta e a Walter non rimase che inchinarsi e uscire. La signorina Tox, vedendo che il capitano stava per seguirlo, lo trattenne, rivolgendosi al signor Dombey.- Mio caro signore - esclamò tra le lagrime, che insieme con la signora Chick stava copiosamente versando per l'emozione suscitata in lei dalla vista di tanta munificenza. - Perdoni la libertà, ma credo che nella generosità della sua mente sublime ella abbia dimenticato un piccolo dettaglio...
- Davvero, signorina Tox? - esclamò il signor Dombey.
- Questo signore ha lasciato sulla tavola... qualcosa...
- Santo cielo! - esclamò il signor Dombey, spingendo via da sé il tesoro del capitano come fosse spazzatura. - Signore, porti via queste cose! Signorina Tox, le sono molto grato dell'attenzione.
Signore, mi faccia il favore di prendere tutto!
Il capitano Cuttle non poteva se non aderire alla perentoria richiesta, e tanto lo colpì la magnanimità del signor Dombey di rifiutare quel piccolo tesoro offertogli, che non appena ebbe di nuovo intascata ogni cosa non poté trattenersi dallo stringere con la sinistra (la sola che possedeva) la destra di quel gentiluomo, con la conseguenza di fare rabbrividire per il disgusto il suddetto signore. Poi si congedò con rispetto da Florence e da Paolo e uscì con Walter. Florence fece per seguirli di corsa perché aveva dimenticato di inviare uno speciale messaggio di saluti al vecchio Sol, ma il signor Dombey la richiamò con l'ordine che non si movesse di un centimetro da dove si trovava.
- Mia cara, temo che non diventerai proprio mai una vera Dombey!- la rimproverò la signora Chick con dolcezza drammatica.
- Zia cara, - Florence replicò - non arrabbiarti con me! Io sono tanto riconoscente al babbo!
Se avesse osato, avrebbe abbracciato il padre, ma non ebbe l'ardire di farlo, e rimase a guardarlo mentre egli, non badandole affatto, contemplava il piccolo Paolo che era rientrato tutto fiero della sua nuova importanza: aveva prestato del denaro al giovane Gay !
E il giovane Gay... vale a dire il nostro Walter, lui che pensava di tutto questo?
Naturalmente era felicissimo di poter correre a liberare lo zio dalle minacce di protesti e sequestri, e non vedeva l'ora di recare la buona novella. Ebbe la gioia di sapere che tutto era sistemato il giorno seguente già prima di mezzogiorno e di trascorrere come al solito la sera nel salottino dietro la bottega in compagnia dei due vecchi amici pienamente ritornati al loro umore faceto. Ma pur senza che ne venisse affatto diminuita la sua gratitudine verso il signor Dombey, si deve ammettere che Walter si sentiva umiliato e abbattuto. Appunto nel momento in cui le speranze sono uccise in boccio dalla violenza dell'uragano si è più che mai disposti a sognare quali stupendi fiori sarebbero potuti sbocciare in un clima favorevole. Walter aveva l'impressione che un nuovo baratro si fosse spalancato fra lui e le invalicabili altezze su cui dimorava la famiglia Dombey, e gli venne pure il sospetto che senza gli eventi di quegli ultimi due giorni il suo costante ricordo di Florence l'avrebbe potuto indurre a sperare di poter giungere in un lontano futuro a farsi accettare come pretendente della fanciulla.
Chi nutriva opinioni del tutto contrarie era il capitano Cuttle, il quale riteneva che la spedizione di Brighton fosse stata coronata da pieno successo per il tempo presente e inoltre per il più remoto avvenire.
Un giorno il signor Dombey si recò in visita dalla signora Pipchin per interrogarla intorno alle condizioni di salute del figlio.
- L'aria di Brighton gli ha giovato molto, signore, - gli rispose la donna - davvero moltissimo!
- Ciò mi rallegra, signora Pipchin, e intendo che mio figlio rimanga ancora per un certo periodo a Brighton. Ma ormai ha sei anni, signora, già sei anni e temo che negli studi si trovi molto indietro rispetto a tanti ragazzi della sua età, invece di essere il primo di tutti. L'istruzione di un signorino come mio figlio non deve essere trascurata, avere imperfezioni né lacune, ma essere organizzata con metodo e fermezza.
- Certo, signore! - approvò la signora Pipchin. - Sono anch'io di questa idea.
- Sono lieto di sentirvelo dire, signora! E ho già pensato per mio figlio al collegio diretto dal dottor Blimber.
- Il mio vicino di casa, signore! - disse la signora Pipchin. Ho sentito dire che la scuola è ottima e molto severa: non si fa che studiare dalla mattina alla sera.
- Ed è molto cara - aggiunse il signor Dombey. - Ho preso contatti per corrispondenza con il dottor Blimber, il quale non pensa che mio figlio sia troppo giovane per iniziare il suo corso di studi.
Ho perciò deciso di mandare Paolo come alunno interno per il prossimo semestre scolastico, ma siccome egli si sente legato da un affetto perfino eccessivo alla sorella maggiore, in questo primo periodo Florence resterà qui presso di lei e lo terrà con sé il sabato e la domenica; in tal modo si disavvezzerà pian piano alla compagnia della ragazza, affatto inutile per la futura carriera dei suoi studi.
La signora Pipchin non aveva alcuna obiezione da fare, e il progetto venne posto in esecuzione.
Paolo e la sorella erano stati quasi un anno ospiti del "castello" sul mare, erano tornati a casa un paio di volte, ma solo per pochi giorni e avevano sempre trascorso la domenica all'albergo con il signor Dombey. A poco a poco Paolo si era alquanto irrobustito e non doveva più farsi spingere nella carrozzella per andare a passeggiare lungo la spiaggia, ma era sempre esile e pallido, alieno da ogni gioco rumoroso e incline ai lunghi silenzi e ai sogni a occhi aperti.
Il dottor Blimber teneva presso di sé non più di dieci alunni, ma siccome la sua sapienza sarebbe bastata per cento studenti, quei dieci ne ricevevano una dose spropositata in un ambiente che era una vera serra, in cui le tenere piante infantili erano indotte anche non senza una certa violenza mentale a fiorire anzi tempo.
Naturalmente il sistema non era privo di qualche svantaggio, come avviene che i prodotti di culture intensive siano spesso insipidi e facilmente deteriorabili. Il dottore era sempre vestito di nero calvo e grasso, dotato di una voce profonda e di un gigantesco doppio mento. La sua casa guardava sul mare, ma era tutt'altro che allegra, con i tendaggi scuri alle finestre, le stanze quasi sempre fredde e umide, così che un visitatore il quale vi entrasse per la prima volta poteva avere l'impressione di essere un secchio fatto calare nel pozzo.
La signorina Blimber era giovane e abbastanza graziosa, ma nell'insegnamento della cultura classica era non meno inflessibile del padre e aveva la passione delle lingue morte. Sua madre invece non possedeva molta istruzione, ma era abilissima nel fingere di averla, e quando si trovava a un ricevimento non mancava mai di dire che se avesse avuto la fortuna d'incontrare Cicerone, le pareva che sarebbe morta contenta. La sua gioia più grande era vedere uscire per la passeggiata gli allievi del marito con il colletto della camicia più ampio e la cravatta più rigida di ogni altro giovane gentiluomo della città.
Vi era poi il professor Feeder, l'assistente del dottore, che era come un organetto caricato a molla sempre desideroso di far sentire le poche arie che sapeva a menadito, fatte apposta per produrre nella mente dei giovani studenti del dottor Blimber la massima confusione.
Per effetto dei metodi di insegnamento di quella scuola, ogni giovane costretto a frequentarla viveva in un incubo popolato di verbi assassini, sostantivi selvaggi, torturatrici regole di sintassi. Gli bastavano tre settimane per incitrullire, tre mesi per essere tormentato da tutte le preoccupazioni della terra, quattro per odiare i genitori o il tutore, cinque per affondare nella misantropia, sei per invidiare qualunque antico romano morto e sepolto, e giungendo così alla fine del primo corso a nutrire l'idea incrollabile che tutte le fantasie dei poeti e le lezioni dei sapienti non fossero se non collezioni di parole e di regole grammaticali prive del ben che minimo significato.
- Ah! - disse il dottor Blimber seduto fra gli innumerevoli volumi del suo studio severo e sontuoso, quando il signor Dombey gli presentò il figlio, che da dietro la barriera dei libri egli non riuscì da prima a vedere tanto era piccino. - Ah, ecco il mio nuovo piccolo amico! Come stai, mio caro giovanetto? chiese il dottore con voce tonante.
- Bene, grazie, signore - gli rispose il bambino.
- Vogliamo fare di te un uomo, non è vero? - esclamò il dottore, chiedendo l'approvazione del suo nuovo alunno.
- Io preferirei rimanere un bambino - confessò ingenuamente il piccolo Paolo.
- Ma davvero! - fece stupito il dottore. - E perché mai?
Il bambino rimase a fissare l'altro per un momento facendo uno sforzo per dominarsi, poi si strinse alla sorella, si aggrappò a lei e scoppiò in lagrime, e quella fu la risposta che tutta la sua forza di volontà non era riuscita a far tacere.
Superato quel primo momento di commozione, il bambino seguì gli altri nella visita allo studio dove lo attendeva un tavolino con sopra una pila di libri, e al dormitorio.
Non gli riuscì difficile separarsi dal padre, ma fu per lui uno strazio prendere congedo dalla sorella, e fu il sorriso tenero e incoraggiante di lei che cercò fino all'ultimo momento con lo sguardo.
Il dottore decise che da principio Paolo avrebbe studiato sotto la direzione della signorina Blimber, la quale rimase inorridita nell'apprendere che il bambino ignorava affatto la grammatica latina.
- Vede, signorina, - spiegò Paolo - io ero molto debole e non potevo studiare il latino quando andavo a passeggio con Glubb.
- Che nome volgare, orribile! - esclamò la signorina. - Chi è costui?
- E' un vecchio tanto buono - rispose Paolo - che spingeva la mia carrozzella sulla spiaggia. Lui sa tutto del mare e dei pesci e dei grandi mostri marini che a volte escono dall'acqua e si coricano sugli scogli e non appena qualcuno li spaventa sbuffano e sprofondano in acqua facendo un baccano che si ode molto lontano.
Il vecchio Glubb non sa, è vero, perché il mare mi fa venire in mente la mia mamma che è morta, e nemmeno che cosa dicono sempre le onde... ma sa tante altre cose. Vorrei...mormorò il bambino, perdendo a un tratto quel po' di vivacità che l'aveva animato - vorrei che permetteste al vecchio Glubb di venire a salutarmi perché lo conosco bene e lui mi conosce.
- Ah! - esclamò il dottore, scotendo il capo. - Male, malissimo, tuttavia con lo studio riusciremo a fare qualcosa.
E così ebbe inizio la vita di collegio del piccolo Paolo. Le giornate erano dure per lui, ma faticava di buona lena sui libri e la signorina Blimber non era affatto scontenta, e poi il sabato giungeva a compensarlo di ogni pena con l'arrivo immancabile dell'affezionata sorella. Una domenica sera Florence tornava al "castello" dopo avere riaccompagnato in collegio Paolo, e pregò la cameriera Susan che era sempre con lei di comperarle i libri di cui aveva segnato i titoli su un foglietto, e che Paolo portava con sé per fare la domenica tutti i lunghi esercizi che gli assegnavano. Susan protestò dicendo che Florence aveva, è vero, tutto il denaro necessario, ma possedeva già un gran numero di libri e non occorreva davvero che per la sua istruzione se ne procurasse altri. Ma il progetto di Florence era ben preciso: la fanciulla intendeva studiare tutte le materie che tanto affaticavano il fratellino: e così infatti avvenne, e Paolo rimase sbigottito da quell'insperato soccorso, e il suo amore per la sorella si arricchì di nuova gratitudine. Ma tutto si risolse in una maggiore fatica perché se il dottor Blimber diceva al signor Dombey che il figlio era dotato di buona intelligenza e faceva notevoli progressi, costui insisteva che la sua istruzione procedesse con più intensità: era pertanto l'identica replica che dava il padre di un altro allievo quando gli dicevano che il ragazzo era poco sveglio e faceva scarsi progressi.
Anche su Paolo il sistema d'istruzione del dottor Blimber aveva prodotto il suo effetto, e il bambino non mostrava più quel po' di vivacità della prima infanzia; conservava invece nel carattere tutto ciò che vi era di singolare, la tendenza al fantasticare, l'inclinazione a una solitaria malinconia. Gli piaceva soprattutto stare solo, tendere l'orecchio al grande orologio a pendolo ritto sul pianerottolo della scalinata, dalla cui voce, fin dal primo momento in cui l'aveva udita, non faceva che sentirsi dire: - Come stai, Come stai! - gli piaceva scoprire nel disegno delle tappezzerie e nelle macchie dei pavimenti figure orride o stupende che solo a lui si rivelavano e che non confidava ad alcuno. Il bambino viveva così tutto chiuso negli arabeschi delle sue fantasie e nessuno lo comprendeva.
Una sera il giovane signor Toots che fungeva da sorvegliante dei ragazzi, lo trovò affacciato alla finestra della sua cameretta.
- Dimmi un po'! - gli chiese - a che cosa pensi?
- A tante cose... - rispose il bambino. - Per esempio, se lei dovesse morire, non le pare che preferirebbe morire in una notte di luna, quando il cielo è tutto limpido e c'è un gran vento come quello che soffiava ieri sera?
Il giovane scosse il capo con uno sguardo molto perplesso e rispose che non lo sapeva.
- Oppure non con un gran vento - seguitò Paolo - ma con quel mormorio che si sente nelle grosse conchiglie. Era tanto bello ieri notte. Ho ascoltato a lungo il rumore del mare, poi mi sono alzato e ho guardato. C'era una barca laggiù, tutta illuminata dalla luna; una barca con la vela.
Il giovane non sapeva che cosa dire e mormorò solo:
Contrabbandieri... - ma poi ricordò che ogni questione presenta due lati opposti e aggiunse: - Forse erano le guardie.
- Una barca con la vela - ripeté Paolo con voce seria e forte tutta illuminata dalla luna. La vela come un braccio d'argento. Si allontanava, e che cosa crede mi pareva facesse mentre galleggiava sulle onde?
- Forse dondolava - suggerì il precettore.
- Mi pareva che mi facesse cenno - rispose il bambino. - Che mi facesse cenno di andare... Eccola! Eccola!
A quelle parole il giovane sobbalzò costernatissimo e gridò: Cosa?
- Mia sorella Florence! - esclamò Paolo. - Alza il viso e mi saluta con la mano. Mi vede... mi vede! Buonanotte, sorellina, buonanotte, buonanotte!
Era straordinario come la gioia più viva avesse illuminato il volto del bambino, e come subito si spegnesse con la scomparsa della fanciulla, facendolo ricadere nell'abituale paziente malinconia.
Gli uffici della ditta si aprivano in un cortile dove all'angolo si trovava da tempo immemorabile un banco per la vendita di frutta scelta, e inoltre vari venditori ambulanti dei due sessi offrivano ogni giorno, fra le dieci e le diciassette, pantofole, taccuini, spugne, collari per cani, saponette e a volte perfino un cane da caccia o un quadro a olio.
Quando compariva il signor Dombey, tutti i piccoli commercianti si scostavano con rispetto, e il facchino di piazza, se non era assente per qualche lavoro, si affrettava a spalancare la porta degli uffici per il signor Dombey e a tenergliela bene aperta, rimanendo con il cappello in mano fino che fosse entrato.
Non minori erano le manifestazioni di rispetto degli impiegati all'interno dell'edificio quando il signor Dombey ne varcava la soglia, a partire dal fattorino che aveva per il principale una deferenza che rasentava l'adorazione, su fino al direttore, l'importante signor Carker. Costui era un signore non ancora sulla quarantina dal colorito florido e con una doppia fila di denti tanto regolari e candidi da abbagliare; non era assolutamente possibile non notarli perché li metteva in mostra ogni volta che apriva bocca; quando poi sorrideva (e in genere lo faceva solo con la bocca) la smorfia era tanto ampia da rassomigliare non poco a quella di un gatto infuriato. A imitazione del suo principale, sfoggiava un cravattone bianco inamidato, vestiva molto attillato ed era sempre abbottonato fino al collo. Le sue maniere verso il signor Dombey contenevano una ben dosata sfumatura di familiarità intesa a porre più che mai in evidenza l'abisso che lo separava da tanto eminente altezza. Tale era il direttore signor Carker, e lo scrivano Carker, il buon amico di Walter, era suo fratello, di due o tre anni maggiore, ma infinitamente inferiore a lui rispetto alla posizione: il più giovane dei due fratelli aveva raggiunto la cima della scala gerarchica mentre quello maggiore stava in fondo, rassegnato a lasciarsi superare da chiunque, senza alcuna speranza di avanzare e senza nemmeno lamentarsene.
- Buongiorno, signore! - disse il direttore Carker, entrando nello studio del signor Dombey poco dopo il suo arrivo, con un fascio di carte in mano.
- Buongiorno, Carker - disse il signor Dombey, alzandosi dalla poltrona e mettendosi con le spalle al caminetto. - Ha niente per me?
- Non vorrei disturbarla - rispose Carker, sfogliando le carte.Sa bene che ha una riunione di comitato alle tre.
- E un'altra alle tre e tre quarti - aggiunse il signor Dombey.
- Lei non si dimentica di nulla! - esclamò Carker, sempre sfogliando le carte. - Se il signorino Paolo erediterà la sua buona memoria non sarà un socio tanto comodo per la ditta. Uno come lei basta e avanza!
- Anche lei ha una discreta memoria, Carker - osservò il signor Dombey.
- Oh, io! - replicò il direttore. - Ma per uno come me è il solo capitale da poter amministrare.
L'adulazione appena dissimulata in quelle parole non dispiacque affatto al signor Dombey, come non gli dispiaceva nel suo uomo di fiducia la severa eleganza del vestire e quel po' di arroganza nel portamento che non faceva se non dare maggior rilievo alla sua ostentata umiltà. Pareva un uomo disposto a lottare contro qualunque antagonista, per quanto potente, ma affatto disarmato di fronte alla grandezza e alla superiorità del signor Dombey.
- Ah, ecco! - disse Carker, scegliendo una carta. - Abbiamo ricevuto avviso della morte di un impiegato subalterno dell'agenzia della ditta a Barbados. Morfin propone di riservare un passaggio per chi vada a sostituirlo sul Figlio ed Erede che salperà fra circa un mese. Non è certo un gran bel posto...
In quel momento sentirono bussare all'uscio, Carker gridò: Avanti!
- ed entrò Walter con in mano alcune lettere appena giunte.
- Oh! perdoni, signor direttore Carker, non sapevo che lei fosse qui - si scusò Walter. - Mi aveva detto il signor Carker...
Nell'udire quel nome il signor direttore Carker fece mostra di essere punto sul vivo dalla vergogna e dall'umiliazione. Fissò gli occhi in faccia al signor Dombey con espressione di scusa, li chinò a terra e stette per un momento senza parlare.
- Giovanotto! - esclamò all'improvviso, rivolgendosi con tono di collera a Walter. - Mi pareva di averle già detto di non parlare mai in mia presenza dello scrivano Carker!
- Le chiedo scusa! - ripeté Walter. - Volevo solo dire che il signor Carker mi ha detto che credeva lei fosse uscito, altrimenti non avrei bussato se avessi saputo che era nell'ufficio del signor Dombey. Queste sono lettere indirizzate al signor Dombey, signore.
- Sta bene - disse seccamente il signor direttore Carker strappandogliele di mano. - Vada al suo lavoro.
Una delle lettere, la prima del piccolo mazzo, doveva contenere il solito resoconto della signora Pipchin, poiché l'indirizzo era scritto di mano di Florence. Il signor Dombey rimase a fissare la missiva con profonda irritazione, come se pensasse che il ragazzo avesse fatto apposta a presentarla così alla sua attenzione, poi se la ficcò in tasca senza dissuggellarla.
- Lei diceva che occorre mandare qualcuno nelle Indie Occidentali, non è vero? - disse in fretta il signor Dombey.
- Sì - rispose Carker.
- Vi mandi il giovane Gay.
- Benissimo! Nulla di più facile - approvò il signor Carker senza mostrare alcun segno di sorpresa.
- Lo faccia venire qui.
Il signor Carker obbedì subito e un momento dopo Walter tornava a presentarsi.
-Gay, - lo apostrofò il signor Dombey, che gli voltava le spalle, e girò appena la testa - c'è qui per te...
- Una buona occasione! - concluse il signor Carker, spalancando la bocca fino alle orecchie.
- Nelle Indie Occidentali. A Barbados. Ti mando là - spiegò il signor Dombey senza minimamente curarsi di addolcire la nuda verità - a occupare un posto di subalterno nella nostra agenzia di Barbados. Di' a tuo zio da parte mia che ti ho scelto per mandarti nelle Indie Occidentali. Fra un mese, o forse fra due.
Walter era rimasto senza fiato a quella comunicazione e solo dopo un momento riuscì ad aprir bocca. - Dovrò rimanere là, signore? - chiese.
- Certo! - rispose il signor Dombey.
Walter s'inchinò.
- Questo e tutto. Va' pure. A meno che tu non abbia qualcosa da dire.
- Io non so come... io... le sono molto obbligato, signore.
- Puoi andare - disse seccamente il signor Dombey, e Walter si ritirò senza aggiungere altro.
Poco dopo il ragazzo dovette essere testimone involontario di un furioso scontro verbale tra James Carker, il direttore, e lo scrivano John Carker, o per meglio dire, dell'aggressione subita dal secondo da parte del primo, e che lo lasciò addolorato e indignato. Più tardi volle dimostrare a John Carker quanto lo stimasse e come gli fosse grato delle sue attenzioni, ma con profondo abbattimento il poveretto gli rivelò il segreto della sua esistenza umiliata: già maggiorenne, aveva commesso un furto; rubò di nuovo, sempre nella ditta; prima che compisse ventidue anni era già scoperto e disonorato; il vecchio signor Dombey era stato buono con lui, l'aveva tenuto con sé, ma il fratello non gli aveva mai perdonato, nemmeno considerando che una parte di merito della sua rapida carriera andava anche al silenzioso e oscuro ma intelligente e solerte lavoro del fratello. Tutto questo il poveretto confidò a Walter, pregandolo pure che non ne facesse più parola. E concluse dicendo: - Prima che il piccolo Dombey cresca e gli rivelino la mia vergogna, può darsi che la mia sedia sia già occupata da qualcun altro, magari così fosse! Sarà il solo cambiamento che il destino avrà in serbo per me dal giorno in cui, uscendo dallo studio del vecchio capo della ditta, mi sono lasciato alle spalle la giovinezza e la speranza di ogni buona amicizia. Dio ti assista, Walter! Il Signore conservi te e tutti i tuoi cari sulla retta via, ma se dovessero deviare, li faccia piuttosto morire!
L'emozione suscitata in lui da quella drammatica storia, aveva fatto dimenticare per un poco a Walter la situazione quasi altrettanto drammatica in cui si trovava: era dunque vero che fra poco tempo si sarebbe trovato in viaggio per le Indie, senza speranza di mai più rivedere lo zio Sol, il capitano Cuttle e nemmeno di quando in quando Florence Dombey? Era vero, purtroppo, e la notizia aveva fatto il giro dell'ufficio, tutti già la conoscevano.
Per vari giorni Walter non ebbe l'animo di confidarsi con lo zio, nutrendo forse la vaga fiducia che il signor Dombey potesse recedere dalla sua paurosa decisione e dirgli che la partenza per le Indie era sospesa. Ma poiché non vi fu invece alcun indizio che ciò sarebbe avvenuto, pensò di pregare il capitano Cuttle che si incaricasse lui stesso di rivelare con le debite maniere allo zio Sol la triste notizia, facendogli credere, per non impressionarlo troppo, che la separazione imminente fosse solo temporanea. Il vecchio amico fu molto rattristato nell'udire inoltre che il signor Dombey mostrava di non avere alcuna simpatia per Walter. E questo gli fece venire in mente un'idea grandiosa, che tuttavia ritenne opportuno tenere affatto segreta: si sarebbe recato lui in persona dal signor Dombey per sistemare nel miglior modo possibile l'avvenire del suo giovane amico. A Walter disse solo che in quel frangente gli sarebbe piaciuto avere l'assistenza di un altro vecchio lupo di mare, un suo amico intimo di nome Bunsby, un individuo incredibilmente forte che da mozzo era stato picchiato sulla testa per tre settimane (a intervalli, s'intende) e poi era caduto fuori bordo per due volte, eppure stava sempre benissimo e aveva la mente più limpida che si potesse immaginare: peccato che in quei giorni fosse in navigazione !
Decisero che sarebbero andati insieme fino alla casa del signor Gills, il capitano Cuttle sarebbe entrato a compiere la sua missione e intanto Walter avrebbe fatto una lunga passeggiata.
- E bada che sia ben lunga, ragazzo mio! - lo ammonì il capitano quando si separarono.
Walter riprese a camminare senza avere una meta precisa, desiderava soprattutto trovarsi in aperta campagna per cercare conforto nel verde e nella solitudine; conosceva bene il parco di Hampstead, e per giungere fin là dovette necessariamente passare davanti alla casa del signor Dombey. Imponente e scura come sempre, gli presentò la sua facciata arcigna con le persiane tutte abbassate al primo piano, ma le finestre del piano superiore erano spalancate, e l'unico segno di vita era dato dalle tende che si agitavano alla brezza vivace. Poco più avanti si volse e alzò lo sguardo a quelle finestre che gli ricordavano, se ce ne fosse stato bisogno, l'avventura della bambina sperduta e ritrovata, vecchia ormai di parecchi anni. In quel momento davanti alla casa si fermò una carrozza padronale, e ne discese un signore grasso, tutto vestito di nero, che subito entrò; era certo un medico, e Walter si domandò chi fosse il malato.
Si trovò a pensare che forse la bella fanciulla che gli era stata così grata e aveva sempre mostrato tanta gioia nel rivederlo, un giorno avrebbe potuto parlare in favore di lui al fratello e mutare in meglio le sue condizioni. Si cullava in questa illusione, mentre insieme pensava come fosse più logico ritenere che in un prossimo avvenire egli si sarebbe trovato di là del mare, ed ella sarebbe stata una signora felice e ricca, senza alcun motivo per ricordarlo nella sua nuova vita di sposa più di quanto avrebbe ricordato un giocattolo con il quale avesse giocato da bambina.
D'altro canto non riusciva a immaginare che sarebbe mai divenuta una vera signora superba della propria posizione e ricchezza; per lui era sempre la creatura innocente, graziosa e spontanea del giorno lontano in cui s'era imbattuta nella buona signora Brown.
Insomma se ragionava tra sé intorno a Florence, Walter ammetteva di essere affatto irragionevole e di non poter altro se non tenere sempre cara l'immagine della fanciulla come una visione preziosa, irraggiungibile, immutabile e indefinita... indefinita in tutto fuorché nel potere di procurargli gioia e di trattenerlo con mano d'angelo da tutto ciò che fosse indegno di lei.
Il capitano Cuttle aveva condotto a termine con discreto successo la missione affidatagli di rivelare al vecchio amico Solomon le ultime notizie sul nipote, e gli aveva pure tanto parlato delle prospettive splendide che gli avrebbe aperto quel breve soggiorno di là del mare e di un rimpatrio sicurissimo e non tanto remoto, da lasciare il poveretto sbigottito e più ancora che addolorato estremamente confuso.
Intanto il capitano stava dentro di sé alterando il progetto che gli era sembrato da prima logico e facile (aveva pensato di presentarsi con disinvoltura al signor Dombey, ricordandogli quella bella mezz'ora che avevano trascorso insieme a Brighton discorrendo di affari...), e che gli pareva adesso un tantino rischioso, per cui decise di mutar rotta, chiedendo invece un'intervista al direttore della ditta Dombey e Figlio, quell'importante signor Carker di cui Walter gli aveva parlato non senza un vago timore.
Per schiarirsi le idee sorbì una bella porzione calda di rhum e acqua nella vicina taverna, quindi si precipitò nella piazzetta e dentro gli uffici nel timore che il benefico effetto si dileguasse prima del dovuto. Riuscì non senza fatica a farsi annunciare e introdurre nell'ufficio privato del signor direttore Carker.
Il signor direttore era in piedi al centro del tappeto di fronte al caminetto spento, e quando il capitano entrò gli rivolse un'occhiata ben poco incoraggiante.
Il signor Carker? - chiese il capitano Cuttle.
Credo bene! - rispose il signor Carker, mettendo in mostra tutti i suoi candidi denti.
Al capitano quel sorriso riuscì gradito. - Vede, signor Carker, disse il capitano, girando gli occhi lentamente intorno alla piccola stanza, e guardando quanto gli permetteva di vedere il colletto alto e rigido della camicia - sono anch'io un uomo di mare, e Walter, che fa il contabile qui da voi, è quasi un figlio per me.
Walter Gay? - chiese il direttore, tornando a mostrare i denti.
Sicuro, proprio Walter Gay! Io sono intimo amico suo e di suo zio.
Ma forse il signor Dombey le ha parlato di me?... sono il capitano Cuttle.
- No! - rispose il signor Carker, mettendo più che mai in evidenza la dentatura.
- Già! - disse il capitano. - Ma io ho avuto il piacere di conoscerlo: gli ho fatto visita giù a Brighton con il mio giovane amico Walter quando... sicuro, quando vi fu un piccolo accomodamento da stipulare. Forse questo lo ricorda?
- Mi pare - convenne il signor Carker - che ebbi io stesso il piacere di regolare la questione.
- Ma sicuro! Benissimo! - approvò il capitano. - Ecco, e adesso mi sono preso la libertà di venire qui...
- Non vuole accomodarsi? - lo invitò sempre sorridendo il signor Carker.
- Grazie! - rispose il capitano, approfittando subito dell'offerta. - Magari quando si è seduti la conversazione prende meglio il vento. E lei, non siede?
No, grazie - rispose il direttore, che rimase in piedi dando di spalle al caminetto, forse per un'abitudine contratta nell'inverno: e pareva che fissasse il capitano non solo con gli occhi, ma anche con tutti i denti e perfino con le gengive. Dice che ha preso la libertà di venire qui...
- Sicuro! - prese a spiegare il capitano. - Sono venuto qui per il mio amico Walter; suo zio Sol Gills è un uomo di scienza: quanto alla scienza è un campione; ma per navigare gli manca la pratica.
Walter è un ragazzo in gamba, ha solo il vizio di tenere la testa un po' bassa, ma è tutto effetto di modestia. Ora io vorrei chiedere a lei, senza disturbare il principale, e parlando fra lei e me con la massima riservatezza, è tutta buona l'aria che spira qui per Walter? Per lui imbarcarsi vuol dire viaggiare con un buon vento in poppa?
- E che cosa ne pensa lei, capitano Cuttle? - chiese a sua volta Carker. - Lei, che è un uomo pratico di navigazione, che ne pensa?
- Ma via! - esclamò il capitano, che aveva l'impressione di essere oltremodo incoraggiato. - Che ne dice lei invece? Ho ragione o torto?
Ha ragione - rispose il signor Carker. - Io non ne dubito. Allora è il suo buon vento che lo spinge! - esclamò il capitano.
Il signor Carker scoperse i denti in un sorriso di consenso - Bene, bene! - approvò il capitano grandemente sollevato. - Lo sapevo già e l'ho anche detto a Walter. Grazie, grazie mille.
- Gay ha la prospettiva di un brillante avvenire - osservò il signor Carker, allargando ancor più la bocca. - Il mondo gli si spalanca davanti.
- Ha mondo e moglie pronti da conquistare, come si suol dire!
aggiunse tutto giulivo il capitano. Aveva pronunciato senza badare la parola moglie, ma ripensandovi strizzò l'occhio e posando il cappello duro e lucido sull'impugnatura del suo nodoso bastone lo fece girare, guardando di sotto in sù quel sorridente personaggio.
- Scommetto che so perché ride - disse il capitano.
L'astuto signor Carker dilatò ancor più il sorriso.
- Sono sicuro che di qui non esce una sillaba? - chiese il capitano.
Sicurissimo!
E allora posso supporre che lei pensi a un nome che parte da una F a cui segue una l?
Il signor Carker non negò, anzi continuava a sorridere.
- E la terza lettera è una o? Vuol forse dire che ho ragione e ho indovinato? - suggerì il capitano.
Per tutta risposta il signor Carker accennò di sì sorridendo, il capitano Cuttle si levò in piedi e gli strinse la mano con calore, spiegandogli che il ragazzo (ma si trattava di un segreto, naturalmente) dopo aver conosciuto la signorina in maniera così singolare aveva sempre avuto una grande simpatia per lei, e lei per lui, e lui, Cuttle, e il suo amico Sol Gills avevano sempre detto che parevano fatti l'uno per l'altra.
Nessun gatto, o scimmiotto, nessuna iena o testa di morto avrebbero potuto mostrare al capitano più denti di quanti gliene mostrò il signor Carker durante queste ultime battute dell'intervista. Qualche altra osservazione altrettanto sottile, accolta da quell'immutabile sorriso diedero al capitano l'incrollabile certezza della propria sagacia e del pieno consenso del suo interlocutore.
- Capitano Cuttle! - disse infine il signor Carker, chinandosi alquanto. - Ciò che pensa nei confronti di Walter Gay corrisponde perfettamente alla realtà. Devo però chiederle di conservare il segreto.
Tacerò, parola d'onore!
Benissimo! Più tardi potrà parlare con il principale, ma c'è tempo.
- Sicuro! - confermò il capitano. - E lei mi garantisce che questo viaggio di Walter fa parte del piano generale che la ditta ha organizzato per condurre in porto le sue grandi speranze?
Senza articolar motto, ma chinando il capo, movendo le labbra e spalancandole in quel suo stupendo sorriso, il signor Carker mostrò di consentire incondizionatamente a tale interpretazione del suo pensiero.
- Se le cose stanno così -concluse il capitano - posso mettermi il cuore in pace e attendere gli eventi. Non sono un uomo di molte parole, ma le dirò che sono molto grato della cortesia e le chiedo scusa del disturbo.
- Nessun disturbo! - ribatté l'altro. Il capitano se ne andò sommamente soddisfatto, lasciando il signor Carker sempre appoggiato con le spalle al caminetto spento. Era immobile, ma una diabolica astuzia felina si manifestava nel suo sguardo vigile, nella bocca tirata ma senza sorriso, nelle stesse basette e nel gesto lento della mano che passava e ripassava sul volto liscio e sulla cravatta immacolata.
Quel giorno Walter passeggiò a lungo in aperta campagna, prestando ascolto agli uccellini e ai rintocchi di lontane campane, contemplando con amore il bel verde degli alberi e dell'erba inglese, spingendo a volte lo sguardo verso il lontano orizzonte incerto e nebbioso al di là del quale si trovava la meta del viaggio che gli avevano destinato, e tuttavia senza riuscire a rendersi pienamente conto che di lì a non molto avrebbe dovuto abbandonare la patria.
Aveva ormai infilato la via del ritorno quando udì dietro a se un uomo che lanciava un richiamo, e poi una voce acuta di donna chiamarlo forte per nome. Si girò sorpreso e vide una carrozza di piazza ferma in direzione opposta alla sua, che doveva averlo appena incrociato: il cocchiere s'era girato e agitava la frusta per attirare la sua attenzione e una giovane si sporgeva dal finestrino. Accorse e riconobbe Susan Nipper, la cameriera di Florence.
- Oh, per favore, signorino Walter mi dica la prego dove si trova Staggs's Gardens! - gli gridò tutto d'un fiato la giovane, ed era evidentemente agitatissima.
- Ma sì! - aggiunse il cocchiere. - Vuole andare là e non si trova dov'è.
- Sicuro! - continuò Susan. - Non so dov'è, ecco la verità! Vi andai una volta, esattamente il giorno in cui la signorina Florence poi si perdette, ed eravamo io, la signora Richards, il nostro povero signorino Paolo e la signorina; e al ritorno vi fu il ragazzo della signora Richards che faceva baruffa con una massa di ragazzi, e anche quel toro infuriato; e vi andai ancora, ma non ricordo più dove si trova! Oh, signorino Walter, il nostro caro piccolo signorino Paolo, il nostro povero angelo...
Oh, santo cielo! - esclamò Walter. - E' malato? E' grave?
Povero fiorellino! - gridò Susan torcendosi le mani. - Gli è venuta l'idea che gli piacerebbe rivedere la sua vecchia balia e io sono corsa a cercarla perché corra accanto al suo letto! Sì, era indisposto da molto tempo, ma nessuno sapeva che fosse una cosa seria. Ah, lo so che è male non perdonare al prossimo, ma io vorrei che quei Blimber li mettessero a lavorare sulle strade, e la signorina Blimber davanti a tutti per spaccare le pietre con il piccone! Walter si diede a correre in ogni direzione in cerca del misterioso indirizzo, e la carrozza lo seguiva, finché alla fine Susan e il ragazzo piombarono in una nitida cucina piena di bambini, in mezzo ai quali sedeva la prosperosa signora Richards.
- Ma quella è Susan! - esclamò la buona donna alzandosi di scatto.
- Sì, signora Richards, anima cara, sono io! - gridò Susan. - il signorino Paolo è tanto malato e ha detto al suo babbo che vuole vedere la faccia della sua vecchia balia e anche la signorina Florence spera che lei non pensi più a quello che è successo e venga subito via con me!
Il marito della donna, che era appena tornato dal lavoro e stava pranzando, mise giù coltello e forchetta e senza dir nulla aiutò la moglie a infilare la cuffia, e posandole lo scialle sulle spalle e dandole un amichevole colpetto sulla spalla si limitò a ordinarle: Corri, Polly!
Non ci volle molto prima che la carrozza depositasse Walter e le due donne di fronte alla casa del signor Dombey (Walter era salito a cassetta con il cocchiere per evitare nuovi errori nel percorso), e il ragazzo avrebbe tanto desiderato rimanere per chiedere notizie del malatino, ma si rese conto che il signor Dombey avrebbe giudicato quel suo atto indiscreto e importuno, stava quindi allontanandosi lentamente dopo avere salutato le due donne, quando un domestico lo rincorse pregandolo che entrasse lui pure.
Nelle ultime settimane prima delle vacanze estive una nuova atmosfera meno tetra si era diffusa nell'istituto di istruzione del dottor Blimber, sebbene la direzione fosse troppo aristocratica per ammettere alcun segno di gioia rumorosa. Il giovane sorvegliante signor Toots, diventato ufficialmente lo speciale protettore e amico di Paolo (per questo la vecchia strega della Pipchin l'aveva preso in forte antipatia e lo giudicava un povero deficiente), aveva già detto al piccolo studente, e glielo ripeteva ogni giorno, che stava per spirare il suo ultimo semestre di soggiorno presso il dottor Blimber, dopo di che avrebbe avuto l'età per occuparsi personalmente dei suoi beni; dicendo questo il giovane sospirava sempre profondamente e Paolo capiva che lo addolorava il pensiero della loro imminente separazione e gli era profondamente grato della buona opinione che nutriva per lui.
Il giudizio che di Paolo dava la signorina Blimber, e che trascritto parola per parola su un foglio ella avrebbe spedito al signor Dombey, era invece alquanto diverso.
- Si può in via generale osservare di Dombey - lesse la signorina Blimber con voce chiara e alta, e ogni due parole sollevando lo sguardo per posarlo sulla figuretta ritta dinanzi a lei - che la sua intelligenza e le sue inclinazioni sono buone e che, tenuto conto delle circostanze, i progressi da lui compiuti sono soddisfacenti. Ma è deplorevole che questo signorino sia troppo singolare nel carattere e nel comportamento e cioè molto diverso da tutti gli altri giovani gentiluomini della sua età e della sua posizione sociale. - Ora la signorina Blimber si rivolse direttamente all'imputato: - Vedi bene, Dombey, che il tuo signor padre si rattristerà non poco nel sapere che tu sei singolare nel carattere e nel comportamento. La cosa addolora anche noi, naturalmente, ed è inevitabile che non ti possiamo voler bene come vorremmo.
Questo era per Paolo un punto dolente perché di giorno in giorno si era sempre più sforzato di farsi amare da tutti, condiscepoli e maestri, provando insieme un desiderio sempre maggiore di voler bene a tutti coloro che avvicinava: il giudizio gli parve ingiusto e lo addolorò profondamente. La verità era però che dal giovane signor Toots ai domestici e al grosso e rumoroso cane di guardia, tutti avevano per lui un affetto sincero, misto di compassione per i suoi pochi anni e la gracile costituzione, e soprattutto per la lealtà e la bontà che dimostrava in ogni occasione.
Con l'intenzione di rimediare alle proprie gravi mancanze Paolo si applicava più che mai allo studio, e un paio di volte il signor Toots l'aveva dovuto portare semisvenuto fuori dall'aula del professor Feeder, il quale aveva l'abitudine di fumare dei grossi sigari. E una sera il capo gli doleva tanto che non gli servì a nulla sorreggerlo con il braccio appoggiato sul tavolino, e cadde addirittura ai piedi del signor Toots come se, vinto da una immensa stanchezza, il sonno l'avesse colto di sorpresa. Si destò udendo il dottor Blimber che gli chiedeva ripetutamente come si sentisse, e rispose di stare bene, ma intanto tutto ciò che lo circondava si comportava in maniera stranissima: pavimento, pareti e soffitto mutavano misura e inclinazione e il signor Toots che lo sollevava da terra per portarlo a letto non infilava l'uscio e le scale, ma saliva lungo la cappa nera del camino...
Poi il signor Toots e il professor Feeder svanirono, trasformandosi nella signora Pipchin, alla quale Paolo si affrettò a raccomandare che non dicesse nulla a Florence. Dopo un poco, si sentì meglio e le disse:
- Quando sarò grande, sa che cosa voglio fare, signora Pipchin?
Voglio mettere tutto il mio denaro in una banca e non cercare di guadagnare nemmeno un soldo in più, e poi andare in campagna con la mia cara sorellina Florence e vivere con lei tutta la vita in un bel giardino con tanti campi e boschi intorno!
- Ma davvero! - esclamò la signora Pipchin.
- Sì - ripeté Paolo - voglio far questo quando... - s'interruppe e parve riflettere prima di concludere la frase: - Lo farò se diventerò grande.
In seguito lo liberarono dalla schiavitù dei libri e divenne l'ospite privilegiato del collegio, libero di visitare ogni stanza e di starsene a lungo in riposo. Quando Florence lo rivide non poté trattenere le lagrime.
- Ma perché, Floy! - protestò il bambino.
- Andremo a casa insieme e ti curerò io! - rispose la fanciulla.
- Oh, sì, Floy, portami a casa, portami a casa!
Giunse a casa e dovettero portarlo di peso nella sua cameretta perché non aveva la forza di reggersi, quando il padre lo accolse nel vestibolo parve al bambino che piangesse, ma non era possibile, no, certo!
Paolo non si era più alzato dal suo lettino; se ne stava tranquillo ad ascoltare i rumori della strada senza preoccuparsi di come passare il tempo, ma osservando tutto quello che accadeva intorno a lui. Quando calava la sera gli veniva di ricordare il grande fiume che attraversava la sua città, pensava come doveva sembrare nero e profondo sotto le stelle, e soprattutto pensava al suo incessante scorrere verso il mare. A volte il fiume in continuo movimento gli era causa di incubi: avrebbe voluto fermarlo con le sue mani, almeno rallentarne il corso, e sentendosi impotente gridava addirittura, ma bastava una parola di Florence per farlo tornare tranquillo, e subito sorrideva e le parlava delle sue strane visioni.
Una sera quasi non riconobbe il padre che lo contemplava con il volto contratto per l'angoscia, poi si riprese, e attirandolo a sé gli disse piano con dolcezza:
- Non avere dispiacere per me, babbo caro! Io sono felice, tanto felice.
Una sera pensò tanto alla madre e gli venne di chiedere se l'avesse mai veduta. No, gli rispose Florence.
- Ma quando ero molto piccolo non vi era un'altra mamma che mi sorrideva? - domandò.
- Certo! - gli rispose la sorella. - Era la tua balia, ti voleva tanto bene.
- Oh, Floy, fammi vedere la mia vecchia balia, ti prego Floy!
Così la brava donna comparve accanto al letto del piccolo Paolo e pianse nel rivederlo e lo chiamò il suo bel bambino, il suo povero carissimo bambino con indicibili accenti di tenerezza e di pietà.
- Floy, come sono contento di vederla! - disse Paolo.
- Resta qui con me, balia, non andare più via.
Qualcuno bisbigliava in fondo alla stanza.
- Chi ha detto Walter? - mormorò Paolo. - Qualcuno ha detto Walter. E qui? Sarei tanto contento di vederlo.
Nessuno gli rispose, ma suo padre ordinò a Susan che lo mandasse subito a cercare, e mentre il bambino seguitava a sorridere alla sua vecchia nutrice, Walter entrò nella camera. Paolo ne ricordava con simpatia il volto aperto con gli occhi ridenti, e appena lo vide gli tese la manina mormorando: " Addio! Addio, caro Walter. - Poi cercò il padre con lo sguardo e subito ne sentì il respiro sulla guancia.
- Babbo caro, non dimenticarti mai di Walter... - bisbigliò guardandolo fisso. - Io ho voluto tanto bene a Walter! - agitò ancora debolmente la piccola mano come se volesse tornare a dire addio all'amico.
Poi volle che Florence lo abbracciasse stretto.
- Floy, come corre il fiume fra le sponde verdi! Ma ormai è vicino al mare. Sento le onde. Mi hanno sempre parlato, le onde!
Disse che lo cullava il dondolio della barca sul fiume...
com'erano verdi e fiorite ora le sponde! Ecco, la barca era uscita in mare e scivolava via... ma lui vedeva una riva... e chi vi era sulla riva... Congiunse le mani come era solito fare quando pregava, pur senza staccarle dal collo della sorella.
- La mamma è come te, Floy, la riconosco! E quanta luce...
La casa del signor Dombey piombò nel silenzio. Giunsero alcuni visitatori, ma il padre del piccolo Paolo non ricevette nessuno:
rimaneva nel suo studio, sprofondato nella poltrona, o a passeggiare avanti e indietro senza fine.
Dopo il funerale chiamò l'uomo incaricato di incidere l'iscrizione sulla pietra tombale e gli consegnò un foglio, che l'altro lesse, e poi esitando obiettò: - Credo vi sia un errore, signore. Sotto al nome con l'età vi sono le parole "unico e amatissimo figlio"; penso che lei volesse dire: "unico e amatissimo figlio maschio", non è vero?
- Ha ragione; corregga pure - fu la risposta del signor Dombey.
Il dolore di Florence non trovava conforto; comprendeva la disperazione in cui si dibatteva suo padre, ma non le era concesso nemmeno di vederlo; la zia Luisa le aveva detto che egli preferiva rimanere solo, che si sarebbe ritirato per qualche tempo in campagna, che la lasciava libera di accettare l'invito di certi amici a trascorrere un periodo con loro, o di rimanere a casa.
Florence non volle abbandonare la casa, naturalmente, e non aveva se non la compagnia dell'affezionata Susan.
Di lì a pochi giorni la giovane cameriera le annunciò un visitatore: il signor Toots veniva a presentarle le sue condoglianze e dall'emozione non riusciva quasi a proferir parola, ansimava e annaspava, e pareva sempre sul punto di annegare.
Finalmente disse di essere venuto anche a recarle un piccolo dono, il grosso cane Diogene che nel collegio del dottor Blimber il piccolo Paolo aveva avuto tanto caro. Non era certo un elegante cane da salotto quell'animale invadente e rumoroso, tuttavia pronto a fare amicizia e a giurare fedeltà alla sua nuova padroncina che lo ricevette con vera gioia e gratitudine. Susan ne fu da prima spaventata a morte, ma si adattò ben presto alla nuova presenza che riusciva a far sorridere la sua povera signorina.
Poco dopo le disse di avere appreso dalla cuoca che il signor Dombey sarebbe partito l'indomani, non si sapeva per quale meta; aveva accettato il consiglio della sorella e invitato a tenergli compagnia il maggior Bagstock.
Quella sera nella grande casa quasi vuota sotto il battere malinconico della pioggia, Florence provò più che mai il desiderio di confortare il padre, di parlargli del suo affetto, e come già tante altre volte si avvicinò all'uscio dello studio, per la prima volta solo socchiuso. Riuscì a vedere il padre seduto allo scrittoio, intento a riordinare certe carte. Florence osò farsi avanti silenziosamente, e quando gli fu accanto senza che egli si accorgesse di lei, lo supplicò: Babbo, babbo caro, dimmi una parola!
Egli trasalì, si alzò di scatto, ignorò le braccia tese della fanciulla.
- Cosa vuoi? - esclamò con severità. - Perché sei entrata? Ti ha spaventato qualcosa?
La poverina (quasi ancora una bimba, non aveva compiuto quattordici anni!) si sentì raggelare: nello sguardo che il padrele rivolgeva notò un'ombra nuova che non era più solo la vecchia indifferente freddezza, che non avrebbe saputo descrivere e di cui tuttavia intuiva l'intensità.
Era possibile che egli vedesse in lei la vittoriosa rivale del figlio? La considerava forse la trionfatrice nell'amore a lui negato di quel figlio? Possibile che la gelosia e l'orgoglio avvelenassero per lui i dolci ricordi che gliela avrebbero invece dovuta rendere tanto più cara e preziosa? Col pensiero del suo povero bambino morto, gli era forse di tormento contemplare la fiorente bellezza della figlia?
Non certo questo pensò Florence, che tuttavia sotto quel gelido sguardo abbassò il capo e scoppiò in singhiozzi. Egli la guidò verso l'uscio, le fece lume, dicendole che andasse a riposare, impassibile rimase a guardarla mentre saliva lo scalone dopo avergli detto fra i singhiozzi: - Buona notte, babbo! - senza commuoversi nemmeno ricordando che l'ultima volta in cui l'aveva vista salire la medesima scala ella aveva avuto in collo il piccolo Paolo.
Nelle sue stanze l'attendeva Diogene, bene all'erta e pronto a dimostrarle la sua devozione con ogni sorta di lazzi; e quando la fanciulla riuscì ad addormentarsi, dalla sua cuccia il cane seguitò a guardarla adorante fin quando anche a lui si chiusero gli occhi nel sonno.
Era l'ultimo giorno che Walter avrebbe trascorso a casa. Era salito nella sua cameretta che guardava sui comignoli e sui tetti, tutta spoglia delle sue poche cose già chiuse nel bagaglio pronto per l'imbarco.
- Ancora poche ore - pensava tra sé il ragazzo - e sarò sempre padrone dei miei sogni, ma probabilmente uscirò per sempre da questa vecchia casa che mi è tanto cara. Altra gente verrà ad abitarvi e forse nessuno avrà per lei il mio rispetto e il mio affetto...
Doveva scendere a tenere compagnia allo zio, tutto solo nel suo salottino dietro la bottega, perché il capitano Cuttle aveva avuto il gentile pensiero di lasciare che zio e nipote trascorressero fra loro quelle ultime ore.
- Zio! - disse il giovane, posando la mano sulla spalla del vecchio - che cosa vuoi che ti mandi dall'isola di Barbados?
- Un po' di speranza, mia caro Walter. La speranza che noi due ci si possa ancora vedere su questa terra. Mandamene quanta puoi!
- Sicuro, zio! Io ne ho abbastanza e più di quanta me ne occorre!
Quanto poi a tartarughe, cedri per il ponce del capitano Cuttle e conserve per il tuo pranzo della domenica, e tante altre cose, appena divento ricco, zio, te ne manderò dei bastimenti pieni!
Il vecchio Solomon si pulì gli occhiali e si sforzò di sorridere.
- Bravo, così va bene! - esclamò Walter, dando innumerevoli colpetti sulla spalla dello zio. - Tu mi fai coraggio e io ti tengo allegro, e domani saremo vispi come fringuelli... Non dimenticherai di mandarmi quello che ti ho chiesto, zio, non è vero?
- No, figliolo, - rispose il vecchio - sta sicuro che ti scriverò tutte le notizie che potrò avere intorno alla signorina Dombey, ma temo che non saranno tanto liete. Poverina, è rimasta così sola adesso!
- Ti voglio dire, zio, - aggiunse Walter dopo un attimo di esitazione - che oggi sono stato là...
- Ah, sì, davvero? - mormorò il vecchio, rialzando gli occhiali sulla fronte con aria interrogativa.
- Non proprio a cercare di lei - spiegò Walter - per quanto se l'avessi chiesto credo che avrei potuto vederla, dato che il signor Dombey è fuori città, ma solo per dire addio a Susan. Ho pensato che questo l'avrei potuto fare, tenuto conto delle circostanze e ricordando l'ultima volta in cui avevo visto la signorina Dombey.
- Certo, figliolo! - mormorò lo zio.
- E così l'ho vista... Susan, s'intende. E le ho detto di avere sempre pensato molto alla signorina a partire da quella sera in cui venne qui, e che le auguravo ogni bene e ogni felicità e sarei stato felice di servirla in qualunque modo... vedi, zio, ho pensato che, date le circostanze, avrei potuto mandarle a dire questo; tu che ne pensi?
- Sì, sì... - approvò lo zio.
- E le ho pure detto che se mai lei, voglio dire Susan, potesse mai formarti direttamente o farti dire che la signorina Dombey stava bene ed era felice, tu l'accoglieresti come una grande cortesia, e me lo scriveresti subito e anche per me sarebbe una cortesia grandissima. Spero di non avere sbagliato, zio! Ma non ho potuto tralasciare di farlo, e se mai la vedrai, voglio dire se vedrai la signorina Dombey, potrai forse dirle i sentimenti che avevo per lei e quanto la ricordavo quando ero qui. Le dirai, zio, che non dimenticherò mai la sua gentilezza, il suo bel viso, la sua bontà che era per me la cosa più bella della terra. Dille che il mio pensiero non andrà a lei già signorina, ma a quella bimba di un giorno lontano; ho conservato quelle scarpe troppo grandi per lei che seguitava a perderle e me le sono portate via come ricordo...
Infatti in quel momento stesso uscivano dentro uno dei bauli di Walter che un facchino stava caricando su un carretto per trasportarli a bordo del Figlio ed Erede.
Walter era seduto voltando le spalle alla porta e non si sarebbe accorto di chi era entrato se lo zio che gli stava di fronte non fosse balzato di scatto in piedi, rischiando nella fretta di inciampare nella sedia vicina.
- Zio, che cosa c'è? - esclamò Walter.
E il vecchio Solomon rispose: - La signorina Dombey!
- Possibile! - gridò Walter girandosi e trasalendo pure lui.
Florence era corsa verso lo zio Sol: gli afferrò i risvolti della giubba color tabacco, lo baciò sulle due guance, si volse e tese la mano a Walter con quella semplice naturalezza che era tutta sua, esclusivamente sua!
- Lei parte, Walter! - disse Florence.
- Si, signorina Dombey, - rispose il giovane, ma non con quella sicurezza che avrebbe voluto mostrare - avrò una lunga traversata.
- E suo zio è spiacente di vederla partire - disse Florence guardando il vecchio. - Ah, vedo bene che gli dispiace. Caro Walter, dispiace anche a me.
- Lo sa il cielo - disse la signorina Susan - se non ci piacerebbe che partisse invece qualche altra persona, per esempio la signora Pipchin, che andrebbe benissimo come sorvegliante dei lavori, e come esperti in fatto di governare gli schiavi i Blimber sarebbero fatti apposta.
Detto questo, Susan sciolse i nastri del cappellino e dopo avere osservato qualche momento con aria assente la piccola teiera scura pronta come al solito sulla tavola con intorno le sue modeste tazze, scosse la testa, diede una scossa anche alla scatola di latta del tè, e senza farsi pregare si diede a preparare la ristoratrice bevanda.
Florence s'era di nuovo rivolta al vecchio Solomon, il quale la stava contemplando con evidente stupore e ammirazione. - Come è cresciuta! - mormorò il vecchio Sol. - Come s'è fatta bella! Però non è cambiata affatto, è sempre la stessa!
- Davvero? - esclamò Florence.
- Si... - rispose il vecchio, fregandosi lentamente le mani, e osservando gli occhi lucenti della fanciulla come se un pensiero l'avesse colpito all'improvviso. - Sì, questa espressione era anche nel viso della bimba.
- Ricorda - chiese con un sorriso Florence - com'ero piccola allora?
- Mia cara signorina, - replicò il negoziante di strumenti nautici - e come avrei potuto dimenticarla se non abbiamo fatto che pensare a lei e parlare di lei! Anche nel momento preciso in cui è entrata Walter stava parlandomi di lei e dicendomi che cosa le avrei dovuto dire...
- Davvero? - lo interruppe Florence. - Grazie, oh, grazie, Walter!
Temevo tanto che partisse senza ricordarsi di me! - e tornò a dargli la mano con tale franchezza e cordialità che Walter la trattenne un lungo momento fra le sue e gli riuscì quasi insopportabile doverla infine lasciare.
- Signore, io temo che... - disse Florence al vecchio - temo che se me lo permetterà io seguiterò a chiamarla lo zio di Walter!
- Se glielo permetto! Ma signorina che dice mai! - protestò il vecchio Sol.
- L'abbiamo sempre conosciuto sotto questo nome, e cosi abbiamo parlato di lei - spiegò Florence, guardandosi intorno con un sospiro. - Questo caro vecchio salottino! Lo stesso di allora!
Come lo ricordo!
Susan intanto era riuscita a scovare nella credenza altre due tazze con i piattini e attendeva con aria di profonda concentrazione che il tè fosse pronto.
- Ora voglio dire una cosa allo zio di Walter - disse Florence, posando la mano timidamente su quella che il vecchio aveva posato sulla tavola - una cosa a cui tengo molto. Egli sarà molto solo adesso, e io gli chiedo, non di lasciare che io prenda il posto di Walter, perché non potrei, ma di essergli amica e di offrirgli quell'aiuto che sta in me durante l'assenza di Walter...
Il vecchio Solomon si portò la mano della fanciulla alle labbra senza parlare, e Susan Nipper, già seduta di sua iniziativa a capo tavola, si ficcò tra i denti uno dei nastri del cappellino, sospirò dolcemente e sollevò gli occhi al soffitto.
- Devi lasciarmi venire quando potrò - disse Florence - e mi dirà tutto di lei e di Walter, e quando verrà Susan non avrà alcun segreto con lei come non ne ho io, e si fiderà di noi, si confiderà, lascerà che noi due le diamo un po' di conforto, non è vero, zio di Walter?
Quelle parole, e ancor più l'espressione e il gesto che le accompagnavano, tanto commossero il povero vecchio da non lasciargli se non la forza di rispondere:
- Walter caro, di' tu una parola per me... le sono tanto grato...
- No, Walter, la prego! - replicò Florence con il suo dolce sorriso un po' triste. - Non dica nulla, io lo capisco benissimo e noi due dobbiamo imparare a parlare fra noi senza il suo aiuto, caro Walter.
Ora toccò a Walter lottare per dominare la commozione che aveva destato in lui la tristezza chiaramente manifestata nell'ultima frase.
- Signorina Florence! - disse con slancio. - Nemmeno io so dirle quanto le sia riconoscente per la sua bontà e cortesia. Ma anche se riuscissi a parlare per un'ora, dopo tutto non farei se non ripetere che la più bella generosità del mondo è così degna di lei!
Susan Nipper si ficcò in bocca un altro lembo di nastro, e sempre con gli occhi levati all'abbaino accennò di si perché approvava in tutto e per tutto quel giudizio.
- Oh, ma le devo dire un'altra cosa, Walter! - aggiunse Florence.
- E per favore non mi chiami signorina come se fossi una estranea per lei!
- Un'estranea! - protestò Walter. - Io non potrei mai pensare a lei come a un'estranea!
- Un'altra cosa prima che lei parta... - e Florence scoppiò in lacrime. - Paolo... le voleva tanto bene, Walter, e l'ha detto poco prima di morire... e adesso che lui se n'è andato e io non ho più nessuno al mondo, se lei vuole essere un fratello per me, io sarò la sua sorellina per tutta la vita e dovunque ci troviamo io penserò sempre a lei come a un fratello. Ecco, volevo dirle questo, ma non riesco a dirlo bene perché il mio cuore è troppo...
Con tenerezza spontanea tese al giovane tutte e due le mani; Walter le afferrò, si chinò verso di lei, avvicinò il suo al volto bagnato di lagrime della fanciulla, che non si ritrasse né arrossì, ma rimase levato verso di lui con la pienezza della sua fiducia. In quel momento dall'animo di Walter si dissipò ogni ombra di dubbio o di ansia. Gli parve di ritrovarsi con lei accanto al letto del povero fanciullo morente, e dentro di sé giurò solennemente di tener cara e proteggere nella sua vita di esilio l'immagine di lei con fraterno rispetto; di ricambiare intatta la semplice fiducia della fanciulla e di ritenersi disonorato se avesse permesso anche il solo affacciarsi al proprio cuore del più lieve pensiero che nel congedarsi da lui ella non aveva avuto.
Susan Nipper, la quale durante quelle manifestazioni di simpatia aveva finito per ficcarsi fra i denti tutti e due i nastri del cappellino e manifestare al soffitto gran copia di emozioni personali, ora mutò il corso dell'intervista chiedendo chi preferiva il latte e chi lo zucchero, e una volta chiarito questo punto cominciò a versare il tè.
La merenda si svolse tranquillamente sotto la direzione dell'attivissima Susan, e Walter riuscì a chiamare Florence per nome, cosa che solo mezz'ora prima avrebbe ritenuta impossibile.
Guardando la fanciulla riuscì a riflettere con calma quanto fosse bella e quale felicità un giorno avrebbe scoperto nel suo cuore il più fortunato degli uomini. Poté senza tremare rendersi conto del posto che egli stesso occupava in quel cuore, sentirsene fiero e decidere con fermezza se non di meritarlo, perché lo riteneva troppo elevato per lui, almeno di non perderlo per sua colpa.
Il vecchio Sol accompagnò le due giovani fino alla porta e poi lasciò che Walter le scortasse fino alla carrozza. Per via Florence ebbe un'altra domanda da porre a Walter.
- Walter, - disse - non ho avuto l'ardire di chiederlo in presenza di suo zio: mi dica se crede che resterà via a lungo.
- Non so davvero - le rispose Walter. - Non credo che il nuovo incarico sia un favore per me... non credo infatti di godere la simpatia di suo padre!
- Ma io penso che ritornerà molto presto, Walter, lo spero!
- Penso invece che ritornerò quando sarò ormai vecchio e lei sarà una vecchia signora... ma speriamo per il meglio!
Florence, che era già salita in carrozza, trattenne fra le sue la mano del giovane, e fissandolo con affetto disse: - Io pure spero per il meglio, e pregherò che tutto si accomodi e lo spererò tanto. Avevo ricamato questo piccolo dono per Paolo. Per favore lo accetti per amor mio e non lo guardi finché non sarà partito. Che Dio la benedica, Walter! E non mi dimentichi, fratello caro!
Walter fu grato a Susan Nipper di essersi messa fra loro perché altrimenti avrebbe lasciato di sé a Florence il ricordo di uno sguardo colmo di lagrime. Fu lieto che la fanciulla non si affacciasse al finestrino e che invece seguitasse ad agitare la mano in segno di saluto finché scomparve. Non riuscì a obbedire e la sera prima di coricarsi aperse il pacchetto: era un portamonete di seta, e conteneva del denaro.
Per la colazione di addio del giorno seguente il capitano Cuttle giunse di buon'ora con l'omaggio di una lingua affumicata da consumare insieme in allegria, o per meglio dire, il meno tristemente possibile. Poi Walter salì a prendere congedo dagli inquilini del primo piano, e appena disceso stava attraversando la bottega per tornare dallo zio quando scorse un volto noto schiacciato contro il vetro della porta e corse ad aprirla.
- Signor Carker! - esclamò Walter stringendo la mano allo scrivano John Carker. - Entri, la prego! Com'è stato gentile a venire a salutarmi. Sa benissimo quanto piacere mi fa poterle stringere ancora una volta la mano prima di partire! Non so dirle quanto sono felice di rivederla. Entri, la prego.
- Walter, - replicò l'altro, resistendo con dolce fermezza all'invito - io pure sono contento di parlarti ancora una volta, che io credo sarà senz'altro l'ultima... addio, Walter! E se quando ritornerai non mi vedrai più nel mio vecchio angolo, e ti diranno dove mi hanno sepolto, vieni a visitare la mia tomba!
Pensa che sarei potuto vivere onesto e felice come te! E quando saprò che sarà giunta per me la mia ultima ora, lasciami sperare che un uomo, simile a colui che sono stato nella mia prima giovinezza, si fermerà laggiù per un momento, ricordandosi di me con indulgenza e con pietà.
La figura esile del poveretto scivolò via e scomparve come un'ombra lungo la via inondata dal sole di quel mattino d'estate.
Venne finalmente l'ora in cui Walter, accompagnato dallo zio e dal vecchio amico il capitano dovette salire in una carrozza di piazza per giungere alla banchina del porto dove il bastimento Figlio ed Erede stava per lasciare gli ormeggi con il ponte ancora ingombro di svariate mercanzie e di facchini che si affrettavano per disporre il carico nel miglior ordine possibile. All'ultimo istante il capitano Cuttle avrebbe voluto che Walter accettasse in dono il suo enorme orologio d'argento, avvertendolo che sarebbe andato sempre benissimo purché avesse ricordato di farlo avanzare di un'ora ogni mattina, e ancora di un quarto d'ora nel primo pomeriggio. Ma Walter, pur ringraziando il capitano di tutto cuore, disse che non poteva accettare che l'altro se ne privasse e lo pregava invece di lasciargli come ricordo il suo nodoso bastone, e soprattutto gli chiedeva di badare allo zio, di tenergli compagnia, di non lasciarlo troppo solo!
Poi le barche di coloro che non sarebbero partiti ritornarono a riva, il vento gonfiò le vele, la prua cominciò a tagliare l'acqua sollevandola in lucenti spruzzi: aveva inizio la lunga traversata.
E la sera, quando il vecchio Sol saliva nella soffitta al suo solitario riposo, se udiva il vento soffiare con violenza, rimaneva a lungo a contemplare le stelle, ed era come se montasse una lunghissima guardia a bordo del bastimento sempre presente ai suoi pensieri.
Un giorno il signor Dombey accettò un invito a colazione del maggiore Bagstock, il quale con il suo piglio soldatesco gli espresse la sua profonda gratitudine e amicizia. Non si può dire che il signor Dombey provasse verso il rumoroso maggiore una vera simpatia, ma lo giudicava un uomo di mondo che intratteneva rapporti amichevoli con persone altolocate e sapeva raccontare molte storielle, gli pareva insomma un bello spirito degno di brillare nella migliore società, soprattutto perché privo di quel velenoso componente che è la povertà, e che troppo sovente guasta non pochi spiriti eletti. Quando furono seduti a tavola il maggiore si mostrò più che mai vivace e facondo e a un certo punto fece cadere il discorso sulla signorina Tox.
- L'ha veduta di recente? - chiese.
- No - rispose seccamente il signor Dombey.
- Una donna affascinante! - esclamò il maggiore con una risata di gola che minacciò di soffocarlo. - Non le pare?
- Ritengo che la signorina Tox sia una brava donna - rispose il signor Dombey, e l'altera freddezza di quel giudizio parve deliziare addirittura il maggiore.
- Mi lasci dire, signor Dombey, che il sottoscritto aveva per un certo periodo goduto il favore della signorina, ma poi è stato messo da parte, rimpiazzato, signor Dombey!... Creda a me, quella è una donna maledettamente ambiziosa.
Il signor Dombey si limitò a esclamare:- Davvero? - con un'indifferenza in cui si univa forse una lieve e sprezzante incredulità all'idea che la modesta signorina Tox si permettesse di coltivare tale qualità di ordine superiore.
- Quella poverina - aggiunse il maggiore - ha delle aspirazioni; delle aspirazioni matrimoniali eccelse, in fede mia, signore!
- Mi duole per lei - osservò il signor Dombey.
- La signorina ha manifestato di recente un grande interesse per la sua famiglia - dichiarò il maggiore dopo un breve intervallo dedicato al cibo e alla tosse in cui si trasformavano le sue gorgoglianti risate. - Viene molto di frequente a visitarla, Dombey!
- Sì - convenne il signor Dombey con atteggiamento molto maestoso - la signorina Tox è stata ricevuta in casa mia nella sua qualità di amica di mia sorella, ed essendo una persona molto bene educata, e dato che mostrava un certo interesse per il mio povero bambino, fu incoraggiata a ripetere le sue visite. Io ho un certo rispetto per la signorina Tox - precisò il signor Dombey con l'aria di fare una concessione oltremodo generosa. Io la rispetto.
Ha avuto la cortesia di rendersi utile con qualche piccolo favore... dei favori molto piccoli e quasi insignificanti, maggiore, ma non per questo trascurabili. Naturalmente ho cercato di ricambiarli nel miglior modo possibile, ma sono soprattutto grato alla signorina Tox per il piacere di avermi fatto fare la sua conoscenza, maggiore!
Tuttavia il maggiore non permise che la conversazione seguitasse sul filo di un semplice scambio di cortesie, e con sottili insinuazioni condusse il signor Dombey a tenere per vero che l'ambiziosa signorina Tox aspirasse a conquistare il cuore e le ricchezze di lui, e che inoltre tramasse per giungere a tale scopo!
Era tempo ormai che i due amici si portassero alla stazione per prendere posto sul treno di Birmingham, sul quale avrebbero viaggiato fino a Leamington, dove il maggiore sarebbe stato ospite del signor Dombey per un periodo destinato al riposo e allo svago di entrambi. Sfortuna volle che la povera signorina Tox, occupata ad annaffiare i fiori sulla finestra vedesse i due gentiluomini salire in carrozza e volesse salutarli agitando un candido fazzolettino, e che il signor Dombey ricambiasse quel saluto con il più gelido e lieve cenno del capo, recando in tal modo la massima soddisfazione al maggiore, il quale da parte sua ricambiò invece il saluto con grandissima cordialità.
Alla stazione ebbe luogo un lieve incidente, che tuttavia riuscì a turbare il signor Dombey: era sul marciapiede con il maggiore in attesa di salire in carrozza, quando gli si avvicinò un individuo incredibilmente sudicio che lo salutò rispettosamente mostrando di conoscerlo bene: era il marito della buona Richards, di professione macchinista delle ferrovie, il quale non voleva chiedere alcun obolo, come aveva da prima creduto con disgusto il signor Dombey ma solo scambiare le ultime notizie di famiglia.
Quelle di maggior rilievo erano che da quando la moglie aveva lasciato la casa del signor Dombey, la famiglia era aumentata di tre bambini, ma purtroppo ne aveva perduto uno, e poi che Robin, il maggiore chiamato anche Rob, già mandato a frequentare la scuola per la generosità dello stesso signor Dombey, prometteva male, si era messo con delle cattive compagnie, e la madre era continuamente in ansia (ma quale istruzione ed educazione poteva aver ricevuto quel poveretto da un maestro ignorante e manesco, più adatto a fare il macellaio che il precettore?), mentre gli altri davano piena soddisfazione ed erano anche riusciti a istruire il padre nella difficile arte del leggere e dello scrivere.
- Bella riconoscenza! - borbottò rabbiosamente il signor Dombey allontanandosi con il maggiore, e costui rincarò la dose:- Dia retta a me, dia retta a me, è un errore mandare a scuola quella razza di gente, un errore gravissimo! - e il signor Dombey ripeté fra i denti: - Bella riconoscenza! mentre il bravo macchinista suggeriva timidamente che forse il povero Robin non aveva ricevuto l'educazione adatta per lui...
Il breve incidente valse a rendere sgradito il viaggio al signor Dombey, che non si degnò di osservare le bellezze della campagna, né di apprezzare le spiritose battute del maggiore apoplettico, o di gustare gli intervalli dedicati al cibo e alle bevande.
Giunsero finalmente alla stazione di Leamington e quindi al Royal Hotel per un meritato riposo.
Il mattino seguente subito dopo colazione i due amici passeggiavano lungo il viale, e il maggiore aveva già risposto con brevi cenni al saluto di vari conoscenti, quando ebbe un sobbalzo di stupore vedendo che stava per incontrare una elegante signora di mezza età in una carrozzella sospinta da un valletto lungo e sparuto, con accanto una giovane molto bella e molto altera, la quale procedeva a testa alta e con le palpebre abbassate come per dire che se esistevano cose meritevoli d'essere guardate più dello specchio non erano certo la terra e il cielo.
- Perdinci, ma guardate chi si incontra! - gridò il maggiore.
- Edith cara! - esclamò strascicando le parole la dama adagiata nella carrozzella. - E' il maggiore Bagstock!
Il maggiore, non appena udì quelle parole abbandonò il braccio del signor Dombey, si lanciò avanti e baciò la mano alla dama anziana, poi con non minore galanteria incrociò sul petto ambedue le mani guantate e s'inchinò profondamente alla più giovane.
Seguì uno scambio di complimenti, vennero fatte le presentazioni, e la vivace signora (doveva avere quasi settanta anni, ma portava una veste adatta a una trentenne, con riccioli posticci, ciglia false, la dentiera e una carnagione di porcellana rosea) osservò che il nome di Dombey non poteva non dire molto anche a chi come lei era da qualche tempo assente dalla più grande città dell'universo... Il signor Dombey ringraziò del complimento inchinandosi, e quando alzò la testa il suo sguardo incontrò quello della giovane. La signora non finiva di rivolgere al maggiore epiteti scherzosi come birbante, briccone, uomo abominevole e così via, poi gli diede il permesso di renderle visita una sera, e aggiunse che se avesse condotto il signor Dombey l'avrebbe resa felice.
Si congedarono e il maggiore spiegò all'amico che Edith, la bella figlia della signora Skewton, a diciotto anni aveva sposato un certo colonnello Granger, il quale l'aveva lasciata vedova meno di due anni dopo.
- La vecchia non è ricca, poveretta! - disse il maggiore. Diciamo pure che è povera, non ha se non una piccola rendita, ma quanto a nobiltà... fantastica, glielo assicuro, è sorella del defunto lord Feenix e zia del lord attuale. La giovane non ha ancora trent'anni, e avete visto che squisitezza di donna!
- Ha avuto figli? - chiese dopo un momento il signor Dombey.
- Sì, un ragazzo, ma è morto annegato quando aveva quattro o cinque anni.
- Davvero? - esclamò il signor Dombey con improvviso interesse.
- Sicuro! S'è capovolta la barca su cui la bambinaia non avrebbe dovuto affatto portarlo: ecco la sua storia. Magari fossi un po' più giovane... vedreste se non riuscirei a far mutare di nuovo il nome a quello splendore di vedova! Però è orgogliosa, oh, se è superba! Ma dopo tutto è una bella qualità accidenti se non è un'altissima virtù! Dombey, anche lei è orgoglioso e il suo vecchio amico Joe Bagstock la rispetta appunto per questo!
La sera stessa il maggiore mandò il domestico a portare gli omaggi suoi e del signor Dombey alla nobildonna signora Skewton e alla di lei figlia signora Granger e a dire che se le signore erano libere sarebbero andati subito a visitarle. Il domestico ritornò con un biglietto molto piccolo e molto profumato sul quale era scritto che il maggiore era davvero un orso insopportabile e che la signora aveva una mezza idea di non perdonargli le sue colpe, ma se prometteva di essere buono e bravo l'avrebbe ricevuto.
Seguivano gli ossequi di entrambe le signore per il signor Dombey.
I due amici trovarono la signora Skewton adagiata come una moderna Cleopatra fra i cuscini di un divano, ma non certo somigliante alla Cleopatra di Shakespeare sulla quale gli anni non avevano lasciato traccia. Edith era più bella e altera che mai. Si rendeva conto di essere bella, sarebbe stato impossibile che non lo sapesse, ma pareva che nel suo orgoglio disprezzasse perfino la propria bellezza.
Vi fu il solito battibecco scherzoso e lezioso fra la signora e il maggiore, poi fu servito il tè.
- Mi pare che non vi sia molta gente qui - osservò il signor Dombey rivolto a Edith con l'abituale tono maestoso.
- Credo di no. Noi non vediamo nessuno.
- Ecco - s'intromise la signora Skewton dal suo divano - diciamo che adesso non vi è qui nessuno di cui gradiremmo la compagnia.
- Nessuno che abbia abbastanza cuore - disse Edith con un lieve sorriso che presentò una singolare fusione d'ombra e di luce.
- La mia cara Edith si burla di me! - esclamò la madre scotendo la testa. - Cattiva!
- Lei è stata già altre volte qui, se non erro? - chiese ancora a Edith il signor Dombey.
- Oh, si, molte volte. Credo che siamo state dappertutto.
- E' un bel posto!
- Sarà. Lo dicono tutti. Ma io me ne sono stancata e spero di non far torto al mio buon gusto.
- Avrebbe ragione - replicò il signor Dombey, dando un'occhiata ai numerosi disegni sparsi intorno alla stanza e che senza dubbio rappresentavano vedute dei dintorni- se queste non fossero opere delle sue mani.
Bella e sdegnosa, la giovane non replicò.
- Sono opera sua? - insistette il signor Dombey.
- Sì.
- E lei suona, credo (vi era un'arpa nel salotto).
- Sì.
- Sa pure cantare?
- Sì.
A tutte quelle domande aveva risposto con una strana riluttanza, quasi una contrarietà contro se stessa, e tuttavia senza alcun imbarazzo, anzi con la più perfetta disinvoltura.
- Lei ha almeno molte risorse contro la noia - disse il signor Dombey.
- Efficaci o no - replicò la giovane - le conosce già tutte: non ne ho altre.
- Posso sperare di giudicarle tutte personalmente? - disse il signor Dombey con solenne galanteria, posando un disegno che aveva esaminato e accennando all'arpa.
- Oh, certo, se vuole.
Il maggiore aveva intanto fatto la pace con la vecchia signora e cominciava una partita a carte con lei.
- Le piace la musica, signor Dombey? - chiese la signora, mentre Edith era uscita.
- Moltissimo! - fu la risposta del signor Dombey.
- Oh, sì, è una cosa tanto carina - disse quella moderna Cleopatra guardando le carte che aveva in mano. - C'è tanto cuore nella musica... e vi sono ricordi confusi di precedenti condizioni di vita... e così via... tutto molto attraente!
Edith ritornò e sedette all'arpa, e il signor Dombey si alzò e rimase ad ascoltare di fianco alla giovane. Non aveva gusto musicale e non conosceva il pezzo, ma ammirava la figura china sullo strumento.
Cleopatra possedeva un occhio acuto capace di tenere sotto controllo le carte e insieme l'intera stanza con l'arpa, la sonatrice e lo spettatore senza perdere alcun particolare.
Quando ebbe finito, la bella sdegnosa e fiera si alzò, accolse con la stessa indifferenza le congratulazioni e le lodi del signor Dombey, e senza attendere nemmeno un minuto sedette al piano forte.
Lo straordinario fu che la canzone era precisamente la stessa che la figlia non amata dell'ascoltatore soleva cantare al suo povero bambino morto! Ma egli non lo sapeva e rimase tranquillamente ad ammirare quel tocco brillante sui tasti e la voce ricca di risonanze profonde.
Nitido ed elegante come d'abitudine, il signor Carker sedeva alla scrivania, intento a leggere quelle lettere di carattere riservato che egli solo poteva aprire: vi aggiungeva di quando in quando annotazioni o riferimenti, quindi le distribuiva in vari gruppi e le faceva poi recapitare nei diversi uffici della ditta. Quella mattina la posta in arrivo era stata molta, e il direttore signor Carker ebbe un gran daffare a sbrigarla.
Veduto dall'esterno questo lavoro somiglia non poco a un gioco di solitario, e in armonia con tale immagine è l'espressione dell'uomo, il quale conduce la sua partita con prudenza, intuisce i punti di forza e quelli deboli delle sue carte, se le stampa in mente via via che gli cadono sotto gli occhi, sa esattamente quello che dicono, che non dicono e che lasciano intendere; ha insieme l'abilità di scoprire il valore delle carte tenute in mano dall'antagonista, senza tuttavia lasciargli intuire il valore delle proprie. Le missive erano scritte in varie lingue, ma il signor Carker riusciva a leggerle tutte: impossibile che negli uffici della ditta Dombey e Figlio vi fosse per lui alcunché di incomprensibile. Con le sue maniere furtive, i denti bianchi e aguzzi, il passo felino, l'occhio attento, le parole melate, il cuore crudele e l'aspetto corretto, il signor direttore Carker si dedicava al suo lavoro con la costanza e la pazienza di un vero gatto in agguato presso la tana del topo.
Finalmente fu libero dalla corrispondenza, chiuse a chiave in un cassetto le lettere confidenziali, mise da parte quella a cui voleva dedicare un ulteriore esame e sonò il campanello.
- Perché vieni tu? - fu l'accoglienza che il fratello sopraggiunto ebbe da lui.
- Il fattorino è uscito e tocca a me sostituirlo - rispose umilmente il sottoposto.
- Sicuro! - masticò fra i denti il direttore. - Un bell'onore per me!
Indicò i pacchetti delle lettere smistate, e voltandosi sprezzantemente nella poltrona girevole infranse il sigillo della missiva che aveva tenuta in mano.
- Mi rincresce disturbarti, James, ma... - osò dire il fratello.
- Ah, vuoi dirmi qualcosa, lo sapevo! Ebbene, parla!
Il signor direttore non volse lo sguardo al fratello e nemmeno alzò gli occhi, ma li tenne fermi sulla lettera che non aveva ancora spiegata.
- Vuoi parlare? - ripeté aspro.
- Sono preoccupato per Harriet.
- Chi? Non la conosco, non so di chi parli!
- Non sta bene, è molto cambiata in questi ultimi tempi.
- E' cambiata molti anni fa - ribatté il direttore. Sull'argomento non ho altro da dire.
- Se tu volessi darmi ascolto...
- Perché, fratello John, dovrei ascoltarti?- replicò il direttore con sarcasmo, gettando indietro la testa, ma sempre senza alzare gli occhi. - Io so che Harriet Carker molti anni ha fatto la sua scelta fra i due fratelli. Può darsi che ora se ne penta, ma non potrà mai rifarla.
- Non fraintendermi, non voglio dire che sia pentita. Sarebbe nera ingratitudine da parte mia accennare a una cosa del genere spiegò l'altro. - Sebbene, credimi, James, del suo sacrificio mi rammarico quanto te!
- Quanto me? - esclamò il direttore. - Quanto me?
- Sono io spiacente della scelta... di quella che chiami la sua scelta... come tu ne sei irritato - disse lo scrivano.
- Irritato? - ripeté l'altro facendo gran mostra dei denti.
- Dispiaciuto allora, o qualunque aggettivo preferisci. Sai bene ciò che voglio dire. E non ho alcuna intenzione di offenderti.
- Tutto quello che fai è offensivo! - replicò il direttore, lanciando all'improvviso al fratello un'occhiata maligna, che subito si trasformò in un sorriso ancora più largo del primo.
Porta via queste lettere, se non ti dispiace. Ho da fare.
Quella simulata cortesia era tanto più offensiva di uno scoppio di collera che lo scrivano si avviò verso la porta, ma si fermò prima di aprirla e girandosi disse:
- Quando Harriet cercò invano di intercedere in mio favore presso di te al tempo della tua giusta indignazione per il mio delitto, e quando ti ha lasciato per seguirmi nella mia disgrazia e dedicarsi con affetto mal riposto a un fratello colpevole che senza di lei non avrebbe avuto nessuno al mondo e si sarebbe perduto senza speranza, era giovane e graziosa. Se tu la vedessi ora... se tu andassi a trovarla... non potresti non avere per lei ammirazione e pietà.
Il direttore inclinò il capo e mostrò i denti con l'espressione di chi esclama durante una conversazione priva d'importanza: Ma davvero? - tuttavia non disse nulla.
- Allora, in quel tempo lontano, tu e io pensavamo che si sarebbe sposata giovane per condurre una vita serena e felice seguitò a dire l'altro. - Se tu sapessi con quanta letizia ha rinunciato a ogni speranza... Posso continuare?
- Verso la porta? - rispose sorridendo il fratello. - Fa pure.
Con un sospiro John Carker stava per uscire, quando la voce del fratello lo trattenne sulla soglia.
- Se lei ha scelto e segue allegramente la sua strada - disse il direttore gettando sulla scrivania la lettera che aveva ripiegata e ficcandosi le mani in tasca - dille che io pure vado allegramente per la mia, e se qualche volta mi sono voltato indietro, l'ho fatto solo per ricordare che ha scelto di tenere dalla tua parte; e la mia decisione - concluse con un sorriso di grande dolcezza - è più resistente del marmo!
Il signor direttore Carker afferrò la lettera e l'agitò in direzione dell'uscio con un gesto di beffarda cortesia. Attese che il fratello fosse uscito, quindi riprese in mano la lettera e si dispose a leggerla con attenzione.
La lettera veniva da Leamington, era scritta dal signor Dombey, di suo pugno. Il signor Carker scorreva con rapidità ogni missiva in arrivo, ma questa la lesse molto attentamente, pesando ogni parola e con un sorriso che gli scopriva tutti i denti. Infine ne rilesse qualche paragrafo: "Il cambiamento d'aria mi giova e per ora preferisco non fissare la data del mio ritorno... Vorrei che lei venisse una volta a trovarmi qui e a riferirmi personalmente come vanno gli affari... Dimenticavo di parlarle del giovane Gay: se non s'è imbarcato sul Figlio ed Erede, o se il bastimento è ancora fermo in porto, desidero che lei faccia partire un altro giovane e che trattenga per ora Gay negli uffici della City. Sono ancora incerto nei suoi confronti".
- Un vero peccato! - esclamò il signor direttore Carker - visto che ormai il ragazzo è già lontano!
Aveva ripiegato il foglio e giocherellava con esso, posandolo sulla scrivania per diritto, per traverso e capovolto (facendo forse dentro di sé lo stesso con il contenuto) quando il fattorino bussò, entrò in punta di piedi, s'inchinò profondamente, posò delle carte sulla scrivania si fregò le mani e chiese con deferenza: - Lei è occupato, non è vero, signore?
- Chi mi cerca?
- Oh, non vale nemmeno la pena di parlarne! - rispose a bassa voce il fattorino. - Solo il signor Gills, quello che ha la bottega degli strumenti nautici; è venuto per la questione di un piccolo pagamento, ma gli ho detto che lei era occupatissimo.
- Altri?
- Ecco, signore, non dovrei avere il coraggio di parlarne, ma il ragazzo che venne ieri è tornato e insiste. Un tipo come quello è insopportabile che arrivi fin qui a dire che sua madre ha fatto da nutrice al signorino del nostro principale e che forse per questo motivo la ditta accetterà di prenderlo in prova! Forse - aggiunse dopo un momento il fattorino - potrei dirgli che se si fa vedere qui un'altra volta lo facciamo mettere in prigione e staremo attenti che vi stia per un pezzo...
- Perch, fa entrare questo individuo - ordinò il signor Carker.
- Voglio vederlo.
- Sì, signore. Mi scuserà se oso dirle che è d'aspetto rozzo...
- Non importa! Fallo entrare. E più tardi vedrò il signor Gills.
Digli che aspetti.
Il signor Carker andò a occupare il suo posto preferito dinanzi al caminetto e poco dopo gli si presentò un ragazzo sui quindici anni, grasso e robusto, testa e faccia rotonde, occhi tondi, e con in mano un cappelluccio tondo senza un'ombra di tesa. Il fattorino si ritirò, e di scatto il signor Carker afferrò il ragazzo per la gola e lo scosse con tanta forza da fargli ciondolare la testa sulle spalle.
Al colmo dello sbigottimento il ragazzo spalancò gli occhi in faccia a quel signore tutto denti che stava per strozzarlo e riuscì appena a mormorare ansimando.
- Signore... mi lasci andare...
- Lasciarti andare! Non senti come ti tengo? Cane! - ringhiò il signor Carker fra i denti, e il ragazzo terrorizzato dimenticò di essere quasi un uomo e si mise a piangere.
- Io non le ho fatto niente, signore, a lei!... - gemette e protestò il giovane Robin Toodle.
- Canaglia! - esclamò il signor Carker, allentando lentamente la stretta, arretrando d'un passo e riprendendo la sua posizione abituale. - Come osi venire qui? Che intenzioni hai, briccone?
- Io non ho nessuna intenzione cattiva, signore... - singhiozzò Robin, portandosi una mano alla gola e strofinandosi gli occhi con le nocche dell'altra. - Non ci verrò più, signore. Volevo solo cercare lavoro!
- Lavoro! Briccone! - ripeté il signor Carker, fissando il ragazzo negli occhi. - Non sei forse il più ozioso vagabondo di tutta Londra?
L'accusa era perfettamente meritata, e il giovane non protestò, ma rimase a fissare il suo giudice tra pentito e spaventato, e come affascinato.
- Non sei un ladro? - disse il signor Carker, intrecciando le mani dietro la schiena.
- No, signore! - si difese Robin.
- Sei un ladro! - insistette il signor Carker.
- No, signore, no! - piagnucolò Robin. - Io non ho mai rubato, mi creda, da quando sono andato in cerca di nidi e mi sono ridotto così male (infatti era piuttosto mal vestito) e saranno dieci mesi che non sono andato a casa nemmeno venti volte. Come faccio a vedere i miei se tutti mi trattano come se fossi un disgraziato?
Non so perché non mi sono ancora buttato nel fiume, non lo so proprio! E pensare che tutto è cominciato perché invece di andare a scuola fingevo di andare e poi mi nascondevo, perché, signore, per la strada appena mi trovavano i ragazzi mi picchiavano!
- E tu mi vorresti dire - esclamò il signor Carker, afferrando di nuovo il ragazzo alla gola e tenendolo a braccia tese - mi vorresti dire che sei venuto per cercare un posto?
- Sì, signore, sarei tanto contento di avere un lavoro... dichiarò con il fiato che gli rimaneva il giovane Toodle.
Il direttore lo spinse da parte e senza togliergli gli occhi di dosso nemmeno per un attimo sonò il campanello.
- Fa' entrare il signor Gills! - ordinò al fattorino e lo zio Solomon entrò sull'istante.
- Signor Gills! - esclamò il signor Carker con un sorriso - Si accomodi. Come va? Spero che la salute sia sempre ottima.
- Grazie, signore, - rispose lo zio Sol, togliendo di tasca il portafogli e porgendo alcune banconote. - I miei unici malanni sono dovuti all'età. Ecco, signore.
- Signor Gills, - disse il sorridente direttore, togliendo un foglio da uno dei tanti cassetti e prendendo nota del versamento- lei è altrettanto preciso dei suoi cronometri. Benissimo.
- Ho visto nell'elenco esposto che non si parla del Figlio ed Erede - disse lo zio Sol con un tremito più accentuato del solito nella voce.
- No, non è nella lista degli arrivi - rispose Carker. - Pare che vi siano state delle tempeste, signor Gills, e probabilmente avrà deviato dalla solita rotta.
- Voglia il cielo che la nave sia al sicuro! - esclamò il vecchio Sol.
- Signor Gills! - lo apostrofò il direttore, buttandosi indietro contro la spalliera della poltrona - sente molto la mancanza di suo nipote?
Lo zio Sol scosse il capo e sospirò profondamente.
- Signor Gills! - disse Carker, accarezzandosi lentamente la bocca e il mento e fissando intensamente il vecchio. - Le farebbe certo piacere avere nella bottega un ragazzo in questo periodo, e a me farebbe piacere se gli desse alloggio per un po' di tempo. No, so bene - aggiunse in fretta, prevedendo ciò che avrebbe obiettato il vecchio - so bene che non ha molto lavoro, ma può fargli pulire la bottega, gli strumenti, insomma può fargli sbrigare i mestieri di fatica. Ecco il ragazzo!
Sol Gills abbassò gli occhiali dalla fronte sugli occhi e guardò il giovane Toodle ritto nel suo angolo, con la testa che pareva, come sempre, appena uscita da un secchio di acqua fredda, e gli occhi fissi, non sul suo futuro datore di lavoro ma sul signor Carker.
- Vuole prenderlo in casa, signor Gills? - chiese il direttore.
Pur senza dimostrarsi entusiasta del progetto, il vecchio Sol rispose che era ben lieto di cogliere anche la minima occasione di far piacere al signor Carker, il quale scoperse tutti i denti e addirittura tutte le gengive, (provocando nel giovane Toodle un tremito ancor più accentuato) e ringraziò con grande affabilità il signor Gills della sua cortesia.
- E così, signor Gills, io lo sistemo - disse alzandosi e stringendo la mano al vecchio - finché decido come utilizzarlo e quali meriti abbia. Siccome mi considero responsabile per lui e qui il direttore rivolse un ampio sorriso a Robin che tremò da capo a piedi - le sarò grato se lo sorveglierà con attenzione e mi riferirà come si comporta. Oggi stesso prima di tornare a casa passerò a scambiare due parole con i suoi genitori, che sono persone molto per bene, e domani mattina, signor Gills, glielo mando. Arrivederci !
Il suo sorriso di congedo mise in mostra una tale fantastica dentatura che il vecchio Sol rimase confuso e si sentì vagamente a disagio. Tornò a casa con la mente piena di mari in tempesta, di navi che affondavano, di annegati, di una bottiglia di vecchio Madera che non avrebbe visto più la luce e di altre cose terribili.
- E ora a noi, ragazzo! - esclamò il signor Carker, posando la mano sulla spalla del giovane Toodle e trascinandolo al centro della stanza.
- Mi hai sentito?
- Sì, signore.
- Forse hai già compreso che se mai ti capitasse di ingannarmi o di giocarmi qualche tiro, sarebbe meglio per te che ti fossi gettato nel fiume una volta per tutte prima di venire qui?
Robin l'aveva compreso benissimo.
- Se mi hai mentito - concluse il signor Carker - bada di non lasciarti più vedere da me. Se mi hai detto la verità, fatti trovare vicino alla casa di tua madre questo pomeriggio; uscirò dall'ufficio alle cinque, verrò a cavallo. Ora dammi l'indirizzo Il direttore prese nota dell'indirizzo, quindi congedò il ragazzo che fino al momento di sparire rimase con gli occhi spalancati e fissi sul suo protettore.
Nel corso della giornata il signor direttore Carker sbrigò un gran numero di affari e mostrò i denti a un gran numero di persone, facendoli brillare nell'ufficio, per via, alla Borsa. Giunsero le cinque del pomeriggio e giunse il cavallo baio del signor Carker il quale balzò in sella e partì lentamente fra la ressa che a quell'ora ingombrava le vie della City.
La conversazione fra il signor Carker e l'ottima Polly Toodle si svolse con soddisfazione di entrambi: il direttore spiegò che voleva correre il rischio di mettere alla prova le buone intenzioni di quel poco di buono di Robin senza informarne il signor Dombey, occupandosi della cosa personalmente e assumendone ogni responsabilità; la povera donna pianse di gioia e colmò di benedizioni l'inatteso benefattore. Già in sella, e prima di congedarsi dal ragazzo, il signor Carker si chinò su di lui e gli rivolse ancora una volta la parola fissandolo bene negli occhi:
- Verrai da me domattina e ti farò indicare dove abita il vecchio signore che hai visto e dal quale andrai come sai già.
- Sì, signore.
- Io m'interesso molto a quel vecchio signore, e servendo lui tu servi me, capisci, ragazzo? Bene, vedo che hai capito. Voglio sapere tutto di quel vecchio, come se la passa di giorno in giorno, perché sono ansioso di essergli utile, e soprattutto voglio sapere chi va a trovarlo. Hai capito?
Robin chinò la testa con forza e ripeté: - Sì, signore.
- Voglio sapere se ha degli amici che lo frequentano e se gli tengono compagnia perché adesso è molto solo, poveretto. Forse andrà a trovarlo una signorina molto giovane: voglio sapere tutto specialmente di lei.
- Me ne ricorderò, signore! - disse il ragazzo.
- E ricordati pure - insistette il benefattore, dando al ragazzo un colpetto sulla spalla con l'impugnatura del frustino, ricordati bene di non parlare con nessuno degli affari miei.
- Mai a nessuno, signore! - promise Robin scotendo il capo.
Il signor Carker si allontanò con l'andatura tranquilla e l'aria serena dell'uomo che sta chiudendo una giornata di lavoro pienamente soddisfacente e può mettere da parte ogni preoccupazione. Il signor Carker prese addirittura a cantarellare fra i denti, era come un gatto che facesse le fusa, tanto si sentiva contento.
- Una signorina molto giovane! - pensava il signor direttore Carker. - Ah! L'ultima volta che la vidi era una bambina. Una bambina con occhi e capelli scuri e un bel visino, un visino molto bello, me la ricordo bene! Una ragazza proprio graziosa!
Il signor Carker passò davanti alla casa del signor Dombey, rallentò l'andatura e levò gli occhi alle finestre, immaginando di poter scorgere un visino serio attraverso i tendaggi, ma in quel momento vi si affacciò invece la testa irsuta di Diogene, che da quella altezza si diede a ringhiare e ad abbaiare quasi volesse buttarsi giù a sbranare il felino cavallerizzo.
Florence viveva sola nella vasta e tetra casa paterna, un giorno dopo l'altro senza distrazioni. In tutte le stanze regnava un silenzio opprimente e quasi in ogni angolo si annidava la desolazione dell'abbandono. I ripostigli cominciavano a coprirsi di muffa, e ciuffi di funghi ingombravano i punti di convergenza tra pavimenti e pareti delle cantine. Vi erano, è vero, i fastosi saloni con mobili, quadri e specchi ben riparati con le fodere dalla polvere e dall'umidità, ma vi era anche lo scalone sul quale ben di rado il signore di quel regno posava il piede, e vi erano altre scale e altri corridoi lungo i quali di rado risuonava un passo, e le due camere sbarrate, ciascuna rimasta com'era quando la morte era entrata a visitare successivamente due membri della famiglia; e in tutta la casa non vi era oltre ai domestici se non la graziosa figuretta di Florence a muoversi con gentilezza nella malinconia di quel deserto.
Florence fioriva tuttavia come la bella principessa prigioniera della favola, in compagnia dei suoi libri, della musica, delle lezioni che vari maestri andavano a impartirle e soprattutto con l'amicizia di Susan Nipper e di Diogene; la prima, che assisteva la padroncina anche nelle ore di studio, cominciava ella pure a diventare sapiente, e il cane, forse migliorato dalle stesse benefiche influenze, trascorreva pacificamente quelle mattine d'estate con la grossa testa posata sul davanzale e adocchiando la strada con occhi sonnacchiosi.
La fanciulla scendeva sovente nelle stanze del padre e indugiava a ricordarlo immerso nel suo cupo dolore; contemplava le cose che da tempo formavano l'ambiente di lui e si compiaceva di riordinarle lei stessa, aggiungendo talvolta qualche ninnolo opera delle sue mani; ma la notte si destava di colpo con l'impressione di averlo contrariato, scendeva di corsa a togliere il piccolo oggetto forse sgradito, e preferiva lasciar cadere sul piano della scrivania solo un bacio e una lagrima. Nessuno sapeva di quelle sue frequenti visite, ma la sua presenza era come un raggio di sole capace di recare un po' di calore in quegli ambienti disabitati.
In quel periodo l'unico scopo della sua vita, sia che fosse intenta allo studio, alla musica o alla preghiera serale, era di scoprire il modo adatto per giungere al cuore di suo padre.
Una mattina Susan Nipper era di fronte alla sua padroncina che stava ripiegando e sigillando un biglietto, e mostrava di approvarne pienamente il contenuto.
- Meglio tardi che mai, cara signorina Floy! - disse Susan - e io dico solo che anche una visita ai vecchi Skettles sarà un dono della provvidenza.
- Sicuro, Susan, Sir Barnet e Lady Skettles sono stati molto gentili a invitarmi - disse Florence, correggendo gentilmente il modo troppo familiare con cui la giovane aveva alluso ai vecchi amici di famiglia. No, Susan, non sono molto ansiosa di andare a Fulham - osservò con aria pensosa Florence - ma credo sia meglio accettare l'invito.
- Meglio, sì, molto meglio! - approvò Susan.
- E così - concluse Florence - benché avrei preferito andare quando non vi fossero altri ospiti, e non adesso mentre mi pare si trovi riunita nella casa parecchia gioventù, ho ringraziato promettendo di andare.
- Da quanto tempo non sappiamo nulla di Walter, Susan! - esclamò Florence dopo un breve silenzio - Sì, e quel Perch che venne poco fa per vedere se vi erano lettere indirizzate al padrone diceva che non è mai successo che una nave su quella rotta lasciasse passare tanto tempo senza far sapere notizie; disse che ieri andò nell'ufficio la moglie del capitano, e pareva abbastanza preoccupata. Ma naturalmente questo non significa nulla, assolutamente nulla.
- Prima di partire devo salutare lo zio di Walter - disse in fretta Florence. - Andremo da lui stamattina, anzi subito, Susan!
- Furono presto in ordine per uscire, e durante il cammino Florence non smise di manifestare il timore che la leggera brezza spirante allora in città bastasse a lasciar prevedere che in quel momento il mare fosse in burrasca.
Sulla soglia della bottega del signor Gills ebbero la sorpresa di scorgere un ragazzo grosso e paffuto intento a lanciare fischi di richiamo verso i piccioni in volo, per mezzo di due dita di ciascuna mano ficcate nella sua capace bocca.
- Ma guarda! - esclamò Susan. - Quello è il figlio maggiore della cara signora Richards, che le ha dato non si sa quante preoccupazioni!
Polly era già andata a confidare a Florence le nuove speranze di ravvedimento che pensava di poter nutrire per il suo primogenito, e l'incontro non stupì la fanciulla.
Il ragazzo, tutto assorto nella contemplazione del volo dei pennuti, si accorse delle visitatrici solo quando Susan gli diede un bell'urtone che lo fece arretrare fin dentro la bottega.
- Dov'e il signor Gills? - chiese Susan.
Robin disse che era fuori.
- Vallo a chiamare! - gli ordinò Susan - e digli che c'è qui la mia signorina.
Robin rispose di non sapere dove fosse andato - Il signor Gills ti ha detto quando sarebbe tornato? - chiese Florence.
Sì, il padrone gli aveva detto che sarebbe rientrato di lì a un paio d'ore.
- E' molto in ansia per suo nipote? - chiese Susan.
- Sì, signorina! - rispose Robin, preferendo rivolgersi a Florence che alla cameriera. - Direi che è moltissimo in ansia. Non passa un quarto d'ora che non esca di casa, e non resta mai fermo cinque minuti nello stesso posto.
- Conosci il capitano Cuttle, un amico del signor Gills? chiese Florence dopo un momento di riflessione.
- Quello con l'uncino, signorina? - precisò Robin, facendo con la sinistra un gesto significativo. - Sì, signorina, era qui l'altro ieri.
- Forse lo zio di Walter è andato da lui, Susan - osservò Florence.
- Dal capitano Cuttle, signorina? - s'intromise Robin. - No, di sicuro non è andato là, signorina, perché mi ha raccomandato che se fosse venuto il capitano gli dicessi quanto era stato meravigliato di non vederlo ieri, e che si fermasse qui fino al suo ritorno.
- Sai dove abita il capitano Cuttle? - chiese Florence.
Robin rispose di sì e trovò e lesse l'indirizzo in un quaderno di pergamena, unto e bisunto, posato sul banco della bottega.
Florence si consultò a bassa voce con la cameriera, e Robin, sollecito di adempiere l'incarico affidatogli dal suo protettore, stette lì a guardare e ad ascoltare. Florence propose di andare subito dal capitano Cuttle per sentire da lui che cosa pensasse della mancanza di notizie del Figlio ed Erede e riportarlo in una carrozza di piazza (Susan, da prima incerta, a questo punto approvò il progetto) perché confortasse lo zio Sol. Robin, che aveva ascoltato tutto con perfetta diligenza, ebbe l'incarico di correre a cercare una vettura, e poi di riferire allo zio Sol che le due visitatrici sarebbero tornate da lui più tardi.
Sfortuna volle che fosse uno dei grandi giorni di bucato della signora MacStinger, la quale come di consueto in tali occasioni era agitatissima e pronta a distribuire scapaccioni ai più turbolenti dei suoi rampolli. Pertanto quando Florence le chiese se quella fosse la casa del capitano Cuttle, rispose con un secco no.
- Scusi, questo non è il numero nove? - insistette timidamente Florence.
- E chi ha detto che non sia il numero nove? ribatté alteramente la donna.
Intervenne Susan indignata da tanta mancanza di cortesia, e al termine di un bel battibecco il problema fu risolto: la casa apparteneva invero alla signora MacStinger, non al capitano, che era un semplice inquilino. Le visitatrici furono quindi fatte entrare e dirette verso le stanze del capitano, il quale era seduto con le gambe tirate sotto la seggiola in una distesa di acqua e sapone come un naufrago sul suo isolotto, perché intorno a lui tutto era stato lavato e strofinato e luccicava di umidità, ma la sua espressione desolata si mutò in altra di stupore e delizia quando vide Florence. Subito si preoccupò di trasportare di peso le due fanciulle all'asciutto sull'isola, mentre egli rimaneva, non essendovi posto per più di due persone, con i piedi immersi nella saponata e il sorriso che esprimeva la più profonda e cavalleresca devozione - Se ho timore per la salvezza di Walter? - replicò il capitano alla domanda di Florence. - No, no! Nessun timore! Walter è capace di superare ben altro che una semplice tempesta di mare. E' vero che vi è stato un tempo eccezionalmente brutto, ma il bastimento è solido e il ragazzo ha il cuore saldo. Quanto a dare conforto al mio vecchio amico Gills, che io certo non abbandonerò mai, io direi che un vecchio marinaio come il mio amico Bunsby saprebbe dirgli qualcosa di addirittura formidabile.
- E allora andiamo a cercare questo signore e sentiamo che cosa ci dirà! - esclamò Florence. - Abbiamo la carrozza: viene anche lei?
In quel momento il cappello duro e lucido del capitano fu lanciato con violenza nella stanza, il capitano Cuttle lo afferrò con gioia e si diede a lucidarlo sulla manica, mentre spiegava di essere stato in certo qual modo tenuto prigioniero, visto che gli avevano sottratto il copricapo senza il quale non avrebbe mai pensato di poter uscire, e tutto in seguito a un piccolo diverbio con la sua padrona di casa: ecco perché il giorno prima non si era fatto vedere nella bottega del vecchio amico.
Il bastimento del capitano Bunsby, la Clara Prudente, era ormeggiato alla banchina Ratcliffe poco lontano. Dietro consiglio di Cuttle salirono tutti e tre a bordo e le due giovani poterono fare la conoscenza di quel formidabile personaggio, felicissimo dell'incontro insperato, e subito persuaso a compiere a terra la missione di conforto che gli chiedevano.
Lo zio Sol era già tornato a casa, li attendeva sulla porta e subito li condusse nel salottino dove si trovavano sparse dappertutto le carte nautiche e quelle geografiche sulle quali il vecchio cercava di convincersi che la mancanza di notizie di Walter non dovesse ancora preoccuparlo.
Florence lo trovò stranamente agitato, gli disse con dolcezza che forse non stava bene, ma il vecchio protestò di sentirsi benissimo, cioè il meglio possibile per un uomo della sua età.
Poi il grande comandante Bunsby fu incitato a dire la sua, e infatti parlò fra il silenzio e l'attenzione dei presenti, ma non fece se non affermare che il Figlio ed Erede poteva essere affondato perché i rilevamenti esistono, ma non sono perfetti, e d'altra parte chi poteva esserne certo? Il compito del marinaio è di fare buona guardia e tenersi al largo delle scogliere, ecco tutto!
La voce dell'oracolo si affievolì via via che s'allontanava attraverso la bottega nella via c così si spense mentre il personaggio tornava di corsa verso la banchina e a bordo, soddisfatto di avere compiuto un'opera buona. I suoi temporanei discepoli rimasero alquanto perplessi, ma l'ammirazione del capitano Cuttle uscì dall'intervista se possibile, ancora accresciuta, e il buon uomo si affrettò a spiegare che il sapiente amico incitava senza alcun dubbio alla speranza e a una fiducia più che mai giustificata. Fatti animo, vecchio mio! gridò il capitano, cercando di strappare lo zio Sol dallo studio delle sue carte a cui era subito tornato. - Io accompagno adesso a casa la signorina e poi corro qui da te, Sol Gills, e ti conduco a rimorchio fino a sera. Sicuro ce ne andiamo a pranzare da qualche parte insieme!
- No, oggi no, Ned! - rispose il vecchio, come se quell'invito lo turbasse non poco.
- Perché no? - fece il capitano sbigottito.
- Ho... ho tanto da fare. Cioè, tante cose a cui pensare... Non posso, Ned, davvero non posso!
Il capitano fissò l'amico, poi lanciò un'occhiata a Florence e tornò a rivolgersi al vecchio Sol. - E allora domani! - finì per suggerire.
- Sì, sì, domani! - rispose il vecchio. - Pensa a me domani.
- Bada che verrò molto di buon'ora, stammi bene a sentire, Sol Gills! - insistette il capitano.
Si separarono con raccomandazioni e promesse, e il capitano prima di andarsene trasse da parte Robin, ordinandogli di fare bene attenzione al suo padrone quella sera, dandogli uno scellino di mancia e promettendogliene un altro mezzo la mattina dopo. Poi scortò fino a casa Florence e la giovane cameriera, ma invece di ritornare nelle sue stanze, visto che era ormai quasi sera, pranzò in una piccola locanda nella City, molto frequentata dagli uomini di mare e infine tornò davanti alla bottega di Sol Gills per darvi un'occhiata dalla finestra: attraverso l'uscio in fondo riuscì a vedere il suo vecchio amico intento a scrivere frettolosamente alla tavola del salottino, mentre sotto il banco Robin disponeva il proprio giaciglio, ultimo lavoro prima di sbarrare porta e finestre della bottega. Rassicurato dalla pace che regnava là dentro, il capitano s'incamminò verso casa, deciso a levare l'ancora di buon'ora l'indomani.
Sir Barnet e lady Skettles erano due ottime persone che abitavano a Fulham sulle rive del Tamigi in una bella villa, la quale aveva come unico inconveniente la comparsa nel salotto dell'acqua del fiume e la contemporanea e momentanea scomparsa per allagamento del prato antistante e del giardino.
Sir Barnet si dedicava con passione al compito di far incontrare la gente presso di lui. Quando gli riusciva di conquistare un ospite nuovo, si affrettava a chiedergli: - Carissimo, c'è qualcuno che le piacerebbe conoscere? Chi vorrebbe incontrare qui da me?
In quei giorni oltre a Florence si trovavano con altri nella villa anche il dottor Blimber e signora poiché il rampollo degli Skettles aveva il profondo dispiacere di risiedere per tutto l'anno scolastico presso di loro in qualità di recalcitrante allievo. Vi erano anche bambini e fanciulle con i loro genitori, e Florence non si stancava di ammirare i rapporti che i giovanissimi avevano con il padre e con la madre, rapporti di affetto e di spontaneità affatto scevri da timidezza o timore: perciò la fanciulla non finiva di riflettere, sospirare, sognare la maniera di conquistare anche per sé l'amore del padre di cui tanto sentiva la necessità. Pensava persino che se fosse morta, egli avrebbe perduto verso di lei la sua inflessibile durezza. Le pareva che se l'avesse trovata morente sullo stesso letto su cui aleggiavano i ricordi del suo carissimo bambino, egli si sarebbe commosso e avrebbe detto: - Florence cara, vivi per me, vedrai che ci vorremo bene come non mai e che saremo felici come non siamo stati in tutti questi anni! - Pensava che se avesse potuto udire dalle labbra del padre queste parole avrebbe saputo rispondere con un sorriso: - E' troppo tardi ormai, babbo mio caro, ma sappi che non potrei essere mai più felice di adesso! e se ne sarebbe andata benedicendolo.
Un giorno quando Florence si trovava nella villa già da un paio di settimane, sir Barnet e signora la invitarono a fare con loro una passeggiata nei campi e poiché la fanciulla consentì, era naturale che ordinassero al figlio di farle da cavaliere, benché il ragazzo, sebbene incapace di ribellarsi, ritenesse una terribile seccatura ogni obbligo di cortesia verso "le ragazze". A un certo punto incontrarono un signore a cavallo, il quale li guardò con interesse, frenò la corsa, fece dietro front e li raggiunse togliendosi rispettosamente il cappello.
L'uomo fissava soprattutto Florence e fu a lei che s'inchinò prima ancora di salutare sir Barnet e signora. Florence non ricordava di avere conosciuto quell'individuo e quando se lo trovò vicino istintivamente si trasse indietro.
- Sia certa che il mio cavallo non è affatto ombroso!- la rassicurò il gentiluomo, ma Florence non aveva paura dell'animale, era stato qualcosa di strano nell'uomo, e che non avrebbe saputo spiegare, a farla trasalire.
- Ho l'onore di rivolgermi alla signorina Dombey, non è vero?
disse l'uomo, chinando il capo con un sorriso melato, e dopo il cenno di assenso di Florence aggiunse: - Mi chiamo Carker. Oso sperare che la signorina Dombey ricorderà forse il mio nome, Carker.
Florence ebbe la strana sensazione di rabbrividire benché la giornata fosse limpida e calda, ma presentò l'intruso ai suoi ospiti che gli dimostrarono la loro benevolenza.
- Chiedo loro mille volte perdono! - disse Carker - ma domattina mi recherò a visitare il signor Dombey a Leamington, e se la signorina mi affidasse un messaggio per il suo signor padre, non occorre dire quanto sarei felice di servirla.
Sir Barnet previde immediatamente che Florence avrebbe desiderato scrivere una lettera al padre, suggerì di tornare subito a casa e pregò vivamente il signor Carker di fermarsi a pranzo senza preoccuparsi affatto di non essere in abito da sera. Il signor Carker rispose che per sua sfortuna quella sera era impegnato, ma se la signorina Dombey desiderava scrivere la lettera, nulla l'avrebbe rallegrato più che seguirli e attendere per tutto il tempo necessario. Disse tutto questo con il suo sorriso più aperto, e mentre si chinava per accarezzare il collo del cavallo, Florence incontrò il suo sguardo, e più che udire queste parole credette di leggervele: - Del bastimento non vi sono notizie.
Confusa e impaurita la fanciulla si ritrasse, non avendo neppure la certezza che l'uomo avesse pronunciato la frase, parendole invece che gliela avesse presentata in qualche modo straordinario attraverso il sorriso, e disse a bassa voce soltanto che gli era molto obbligata, ma non avrebbe scritto, non aveva nulla da dire.
- Nulla da dire, signorina Dombey? - chiese l'uomo scoprendo tutti i denti.
- Nulla...- ripeté Florence - eccetto... i miei saluti più affettuosi, la prego!
Profondamente turbata, Florence alzò gli occhi in viso al signor Carker come volesse supplicarlo di risparmiarle la tortura di ricordare i rapporti esistenti fra lei e il padre, ma l'uomo si limitò a sorridere inchinandosi profondamente e prese congedo, avendo ricevuto l'incarico di trasmettere al signor Dombey anche i più deferenti omaggi di sir Barnet e signora.
Quando al mattino il capitano Cuttle aperse gli occhi non si può dite certo che fosse un dormiglione perché erano appena le sei, ma lo stupore glieli fece spalancare smisuratamente quando scorse sulla soglia della sua camera, tutto ansimante, spettinato e con il viso acceso nientemeno che il giovane Robin.
- Ohilà! - ruggì il capitano saltando giù dal letto. - Che cosa c'è?
Ma prima ancora che l'altro potesse aprir bocca gliela chiuse con la mano aperta ingiungendogli:
- Calma, ragazzo! Nemmeno una parola, aspetta!
Fissando il visitatore con la massima costernazione, il capitano lo sospinse con dolce violenza nella stanza attigua, e scomparendo per brevi attimi ritornò vestito a puntino con il solito completo blu. Con la mano levata per far intendere al ragazzo che l'ordine durava ancora, il capitano Cuttle si avvicinò alla credenza, versò un goccio di liquore per sé e un altro per il messaggero, quindi andò ad appoggiarsi in un angolo contro la parete, quasi prevedesse la possibilità di venire buttato a terra dalla comunicazione che stava per ricevere, e dopo avere trangugiato il suo goccio, sempre con gli occhi fissi sul messaggero, e pallido come un lenzuolo, ordinò - Parla!
- Ecco, signore, - disse Robin - io ho poco da dire, ma guardi qui.
Rob mostrò un mazzo di chiavi. Il capitano scrutò le chiavi, non si mosse dal suo angolo e tornò a fissare il messaggero.
- E guardi qui! - aggiunse Robin.
Il ragazzo mostrò un plico sigillato, che il capitano fissò con occhi sbarrati come aveva fissato le chiavi.
- Quando mi sono svegliato stamattina, saranno state le cinque e un quarto, capitano, - spiegò Robin - ho trovato queste cose sul guanciale. La porta della bottega non era più chiusa a chiave e sprangata e il signor Gills era sparito. Sparito! - ruggì il capitano. Partito, signore - confermò Robin.
La voce del capitano era così terribile, ed egli s'era lanciato con tanta furia fuori del suo angolo, che Robin arretrò fino all'angolo opposto, presentando a braccia tese per difesa personale le chiavi e il plico.
- "Per il capitano Cuttle", signore! - gridò Robin. - Dice così il biglietto attaccato alle chiavi e anche l'indirizzo sul plico. Le giuro, capitano Cuttle, e il Signore mi faccia morire sul colpo se non dico la pura verità, che non so altro. Bella storia per un giovane che è appena riuscito a trovarsi un posto!- gridò l'infelice Robin, strofinandosi il volto con i polsi della giubba.
- Il padrone che se ne va con il posto e la colpa la danno a lui!
Il lamento era in risposta al feroce sguardo in cui balenavano vaghi sospetti, minacce e accuse, con il quale lo dardeggiava il capitano. Finalmente il capitano Cuttle afferrò il plico, l'aperse e lesse:
"Mio caro Ned Cuttle. Accludo le mie ultime volontà e il testamento!". Il capitano rigirò il foglio con sospetto. - Dov'è il testamento? - disse il capitano, passando immediatamente all'accusa. - Ragazzo, che ne hai fatto del testamento?
- Non l'ho mai visto! - piagnucolò Robin. - La finisca di tormentare un povero innocente, capitano! Io non ho mai toccato il testamento!
Il capitano Cuttle scosse la testa, dando chiaramente a vedere che dalla sparizione qualcuno sarebbe stato tenuto responsabile.
"Non aprirlo prima che passi un anno" seguitò a leggere il capitano "o fino a quando tu abbia informazioni precise intorno al mio diletto Walter, che so bene quanto è caro anche a te". Il capitano s'interruppe e scosse la testa emozionato; poi riprese.
"Se tu non dovessi più rivedermi, né ricevere mie notizie, Ned, ricorda il vecchio amico, il quale da parte sua ti ricorderà fino all'ultimo respiro; e ti prego inoltre di tenere in ordine la vecchia casa per Walter, almeno fino allo spirare del tempo già nominato. Non lascio debiti, il prestito fattomi dalla ditta Dombey e figlio è già rimborsato per intero e ti consegno con la presente le mie chiavi. Tieni la cosa a tacere, non fare alcuna ricerca, è inutile, non mi troveresti. E ora ti saluto, caro Ned, e sono il tuo sincero amico Solomon Gills". Il capitano trasse un lungo sospiro, poi lesse anche le parole aggiunte sotto la firma:
"Il giovane Robin mi è stato raccomandato, come ti dissi, dalla ditta Dombey. Se dovesse accadere il peggio, abbi cura, Ned, del piccolo guardiamarina di legno".
Il capitano era troppo sbigottito e addolorato per riuscire a connettere i pensieri e a formarsi un'idea chiara della situazione, perciò sedette e rimase a lungo a leggere e rileggere il foglio; alla fine agguantò il ragazzo come fosse un prigioniero di guerra recalcitrante e partì con lui verso la bottega di Solomon Gills. Tutto era in perfetto ordine, mancavano solo pochi effetti personali e il capitano fu pienamente convinto che l'amico fosse partito di sua piena volontà. Poi il capitano tornò a casa dove rimase fino all'imbrunire, e allora chiuse nel baule tutte le sue proprietà, fece un involto delle poche cose necessarie e in punta di piedi uscì dalla casa. Si fece aprire da Robin al quale aveva ordinato di non andare a dormire prima del suo arrivo, poi insieme sprangarono la bottega e il ragazzo si coricò al suo posto sotto il banco, mentre il capitano saliva nella soffitta di Solomon Gills.
Così ebbe inizio per il capitano Cuttle una nuova vita, ed egli si preoccupò soprattutto di sottrarsi a eventuali ricerche della sua invadente padrona di casa e di far sì che Robin fosse occupato dalla mattina alla sera nel lucidare gli strumenti. Volle inoltre informare Florence della strana scomparsa dello zio Sol, ma gli dissero che la signorina era assente da casa.
- Fortunatissimo! Servo suo, signore!- disse il maggiore Bagstock quando il signor Dombey lo presentò a Carker. Felicissimo di conoscerla, signore! Un amico del mio amico Dombey è amico mio!
- Carker, - spiegò il signor Dombey - sono estremamente grato al maggiore, che mi è stato di grande aiuto con la sua compagnia e con la conversazione.
Il signor direttore Carker era appena arrivato a Leamington, e mostrando al maggiore due perfette file di denti abbaglianti lo ringraziò di tutto cuore per avere tanto contribuito a migliorare l'aspetto e l'umore del signor Dombey.
- E adesso - concluse il maggiore - lei e Dombey hanno certo da discutere intorno a una maledetta massa di affari. Non protesti Dombey! Mi permetterà di sapere che un vero colosso dei commerci come lei non deve sprecare un solo istante. Ci troveremo all'ora di pranzo. Nel frattempo il vecchio Joe Bagstock scompare. Signor Carker, non dimentichi l'ora: si pranza alle diciannove in punto!
Ma appena uscito, il maggiore fece di nuovo capolino dall'uscio.- Scusi, Dombey, nessun messaggio per loro?
Il signor Dombey lanciò uno sguardo imbarazzato al suo deferente segretario e depositario di tutti i segreti d'affari, e pregò il maggiore di presentare i suoi complimenti.
- Per bacco! - protestò il maggiore. - Se lei non manda un saluto più caldo questo povero maggiore avrà un'accoglienza gelida.
- Allora diciamo i miei ossequi - propose il signor Dombey.
- Accidenti - fu la nuova protesta del maggiore. - Non ha niente di meglio?
- E allora decida lei come crede - concluse il signor Dombey.
- Il nostro amico è astuto, signore! - confidò il maggiore al signor Carker. - Maledettamente astuto! Ma anche Bagstock ha la sua parte di astuzia! - e qui il maggiore sogghignò. - Dombey, le invidio i suoi sentimenti, che Dio la benedica! - e finalmente il maggiore scomparve.
- Quel signore deve essere stato pieno di risorse per lei osservò Carker dopo avere seguito con il balenare dei denti il maggiore Bagstock.
- Infatti! - consentì il signor Dombey.
- Avrà certo molti amici - seguitò Carker. - Da quanto ha detto deduco che lei qui ha ripreso a frequentare la società: me ne rallegro! Per nascita e per il posto che occupa, lei è la persona più adatta che io conosca per frequentare la migliore società, e mi stupivo sempre di vedere che se ne teneva lontano.
- Anche lei, Carker ha delle ottime qualità per giungere al successo in questo campo.
- Oh, io, - replicò l'altro con tono di profonda umiltà. - Per un uomo come me la questione è ben diversa! Io non mi posso nemmeno paragonare a lei!
Il signor Dombey si aggiustò il colletto infilandovi due dita e girando la testa, tossicchiò e per qualche momento rimase a fissare in silenzio quel fedele amico e servitore.
- Avrò il piacere - disse finalmente il signor Dombey, e fu come se inghiottisse un boccone troppo grosso per la sua gola - avrò il piacere di presentarla alle mie... alle amiche del maggiore.
Persone molto simpatiche.
- Sorelle? - s'informò con voce felpata il signor Carker.
- Madre e figlia - rispose il signor Dombey, che in quel momento abbassò gli occhi e tornò ad aggiustarsi la cravatta.
Immediatamente l'espressione di Carker si fece intensamente scrutatrice e le sue labbra si atteggiarono a un volgare sogghigno, che però non mancò di trasformarsi di scatto in un sorriso a piena bocca non appena il signor Dombey ebbe rialzato gli occhi.
- Lei è molto buono e io sarò felice di fare la loro conoscenza!- disse Carker. - A proposito di figlie, ho visto la signorina Florence.
Al signor Dombey salì d'improvviso il sangue alla testa.
- Mi sono preso la libertà di passare da lei - spiegò Carker per chiederle se avesse qualche piccolo messaggio da affidarmi. Non ho avuto questa fortuna... Le reco solo i suoi saluti.
Il signor Dombey non aggiunse parola e mentre Carker disponeva sulla tavola varie carte, chiese:
- Quali notizie sui nostri affari?
- Non molte - rispose Carker. Tutto sommato, di recente non abbiamo avuto la solita fortuna, ma per lei nulla di grave. Ai Lloyd danno come perso il Figlio ed Erede, ma era assicurato da cima a fondo.
- Carker, - disse il signor Dombey, prendendo posto alla tavola accanto al direttore - non posso dire che il giovane Gay mi abbia mai fatto una buona impressione...
- Neppure a me! - lo interruppe l'altro.
- Ma vorrei che non fosse partito con quel bastimento - concluse il signor Dombey senza badare all'interruzione. - Vorrei non fosse partito affatto.
- Oh, peccato che non me l'abbia detto in tempo! - ribatté con freddezza Carker. - Credo tuttavia che sia tutto per il meglio. Le ho detto che vi è stato un piccolo scambio di confidenze tra la signorina Florence e me?
- No! - fu la risposta data con tono duro.
- Ho la profonda certezza - riprese a dire il signor Carker dopo una pausa intesa a fare colpo - che dovunque si trovi oggi il giovane Gay, è molto meglio non sia in Inghilterra. Se mai fossi, o potessi trovarmi al suo posto, signor Dombey, non avrei alcun rammarico. Da parte mia non ne ho. La signorina Florence è giovane e fiduciosa; per essere sua figlia forse non è abbastanza orgogliosa, ecco il solo difetto che si potrebbe trovare in lei, e non è poi tanto grave. Vuole controllare con me questi conti?
L'orgoglio impediva al signor Dombey di chiedere spiegazioni al direttore intorno alle insinuazioni a carico di sua figlia; d'altra parte egli si sentiva indotto a ritenere frutto di delicatezza la reticenza di costui, che in tal modo saliva ancor più nella sua stima. Avvenne così che per la diabolica astuzia del suo direttore il signor Dombey cominciasse a covare in sé, in luogo dell'abituale fredda mancanza di affetto, pensieri di precisa avversione.
Intanto il maggiore aveva la fortuna di trovare la sua "Cleopatra" mollemente adagiata sul solito divano e occupata a sorbire languidamente una tazzina di caffè in una penombra quasi impenetrabile.
- Chi è quell'individuo insopportabile? - esclamò la signora Skewton. - Non lo voglio vedere! Se ne vada!
- Signora, non vorrà avere la crudeltà di scacciare il suo devoto servitore Joe Bagstock! - protestò giocosamente il maggiore mettendosi sull'attenti con la canna da passeggio appoggiata alla spalla.
- Oh, è lei? Bene... ci ho ripensato, venga pure.
La dama congedò la cameriera con l'ordine di chiudere l'uscio e di non disturbarla per alcun motivo, volse appena languidamente il capo verso il maggiore e gli chiese come stesse di salute il suo amico.
- Signora! - rispose il maggiore con un faceto gorgoglio di gola - Dombey sta come può stare un uomo che si trova nelle sue condizioni, che sono assolutamente disperate. E' ferito, quel povero Dombey, anzi trafitto da parte a parte!
- Immagino, maggiore, che nelle sue parole sia da scoprire una allusione a un argomento che non può non commuovermi profondamente, e che mi ha già fatto molto soffrire - qui la signora Skewton toccò il lato sinistro del petto con il ventaglio, poi accostò alle labbra l'orlo di merletto del fazzolettino. - Ma non intendo sottrarmi al mio dovere. La prima visita del signor Dombey ha procurato un grandissimo piacere a me, e senza dubbio anche a Edith, così come ci hanno rallegrato quelle successive. Mi pare di avere osservato che il signor Dombey ha molto cuore, ed è cosa molto confortante.
- Ma ormai il suo cuore l'ha perduto, signora! - osservò il maggiore.
Che insinuazione! Mai avrei pensato che la mia semplicità di vita e di abitudini sarebbe servita a incoraggiare il signor Dombey nelle sue visite e nelle sue speranze... Mi dica, mio caro maggiore, lei crede che il signor Dombey faccia sul serio? Mi dica, da bravo, se mi consiglia di parlare con lui o di tacere...
- Non vogliamo forse che sposi Edith, signora? - ridacchiò il maggiore. - Dia retta a me, cara signora, Dombey è un ottimo partito!
- Oh, che volgarità! - protestò la dama con uno strillo. - Lei mi scandalizza!
- E Dombey, signora mia, - seguitò il maggiore sporgendosi molto dalla sedia - fa sul serio! Glielo dice il suo devoto Joe Bagstock. Dombey non dà preoccupazioni, è sicuro; lei non deve far nulla più di quanto ha già fatto. Va tutto bene, e per la conclusione abbia fiducia nel suo vecchio amico Joe Bagstock.
Stamattina è venuto da lui il suo braccio destro, signora, e lasci dire a me che ho la mia buona parte di astuzia, mi lasci dire che Dombey è ansioso, molto ansioso: desidera che il suo direttore venga a sapere che vento spira senza avere la necessità di informarlo personalmente! Perché, dia retta a me, signora, Dombey ha più orgoglio di Lucifero!
- Una qualità deliziosa - mormorò la signora Skewton - che mi fa pensare alla mia diletta Edith.
- Benissimo, signora! - disse il maggiore. - Ho già lasciato cadere degli accenni e so che il direttore della ditta Dombey li ha raccolti, ma gliene offrirò altri prima di stasera. Per domani Dombey ha in animo di organizzare una gita al castello di Warwick e a Kenilworth, da compiere dopo la colazione consumata nel nostro albergo. Sono stato incaricato di recarle questo invito: signora, avremo l'onore della sua presenza? - Così dicendo il maggiore consegnò alla donna un biglietto del signor Dombey.
In quel momento Edith entrò nel salotto, e la madre riprese l'abituale espressione svagata e assente.
Edith, sempre tanto bella, ma gelida e sprezzante, rispose appena al saluto del maggiore, scostò una tenda e sedette guardando fuori della finestra.
- Mia diletta Edith... - cominciò con voce strascicata la madre- il maggiore Bagstock, che di solito è la persona più inutile e antipatica della terra, come sai bene...
- Non vale la pena, mamma, - replicò Edith girandosi appena non vale la pena che tu faccia lo sforzo di parlare così. Siamo sole.
Ci conosciamo bene.
Il fermo disprezzo che si leggeva sul bel volto della giovane, un disprezzo che evidentemente investiva lei stessa non meno degli altri, era così intenso e profondo che per il momento la madre abbandonò l'atteggiamento lezioso, per quanto inveterato fosse in lei.
- Bambina mia cara! - protestò.
- Non sono ancora donna? - ribatté con un sorriso Edith.
- Come sei strana, oggi, mia cara! Lasciami almeno dire che il maggiore Bagstock ci ha portato un gentilissimo invito del signor Dombey per domani: colazione da lui e poi gita in carrozza a Warwick e a Kenilworth. Vuoi andare, Edith?
- E me lo chiedi? - fu la risposta della figlia, che volgendosi verso la madre si accese tutta in volto respirando in fretta come in preda alla collera.
- Lo sapevo, mia cara, che avresti accettato - disse tranquillamente la madre. - La domanda era una semplice formalità, hai ragione. Ecco il biglietto del signor Dombey.
- Grazie, ma non desidero leggerlo.
- Allora toccherà a me rispondere - disse la signora Skewton sebbene avessi pensato che mi avresti fatto da segretaria, mia cara... Aggiungo i tuoi saluti, Edith? - aggiunse la donna, con la penna in mano.
- Come vuoi, mamma - rispose Edith senza volgere il capo che teneva rivolto alla finestra e con perfetta indifferenza.
- Benissimo! - disse tra sé il maggiore quando fu di ritorno all'albergo con la risposta affermativa per il signor Dombey.
Edith Granger e l'amico Dombey sembrano fatti l'una per l'altro:
vedremo gli effetti dello scontro. Bagstock tiene dalla parte del vincitore, ecco tutto!
Durante la cena a tre il maggiore fu più che mai brillante e discorsivo nel perseguire il suo duplice scopo di svagare il suo severo amico e di lasciar intendere al signor Carker senza possibilità di equivoci che il loro maestoso amico era innamoratissimo di una autentica dea! Finì per proporre un brindisi alla divina fanciulla di nome Edith, al quale gli altri due commensali si unirono. Poteva sembrare strano che il signor Dombey accettasse che si scherzasse sui suoi sentimenti, ma probabilmente il maggiore aveva compreso il segreto desiderio del grand'uomo che il suo braccio destro fosse posto al corrente della nuova situazione con le relative prospettive, senza da parte sua la necessità di confidarsi.
La serata si concluse con una lunga partita a carte fra il maggiore e il signor Carker, mentre il signor Dombey si abbandonava con gli occhi socchiusi alle sue recondite riflessioni.
Il signor direttore Carker si levò il mattino seguente di buon'ora come l'allodola e con espressione intensamente concentrata uscì a passeggiare nella campagna; e via via che gli uccelli rendevano più forte e limpido il loro canto, sempre più egli si chiudeva in quel silenzio carico di cose non dette ma profondamente meditate.
Alla fine si scosse e atteggiò la bocca all'abituale gigantesco sorriso, cancellando in tal modo anche l'ultima ombra che i suoi pensieri gli potessero avere lasciato sul volto. Già agghindato a puntino, tutto nitido e florido nonostante il consueto pallore, il signor Carker passeggiava con passo elastico sull'erba verde e nei viali alberati, quando si accorse che si avvicinava l'ora della importante colazione e infilò il cammino più breve per il ritorno, esclamando ad alta voce e con tutti i denti in bella mostra: - E adesso andiamo a vedere la seconda signora Dombey!
Si trovò a rientrare in città attraverso un boschetto piuttosto folto, framezzato da radure con delle panchine per la comodità dei gitanti, e pensava di essere il solo ad avere scelto quel luogo di prima mattina, ma nel momento in cui stava per sbucare da dietro un grosso tronco nodoso scorse all'improvviso una persona, appunto quella intorno alla quale in un avvenire non lontano avrebbe stretto la catena che già aveva cominciato a forgiare.
La donna, che era bellissima e molto elegante, teneva chini a terra gli occhi neri e alteri, che dovevano ardere di emozione o di collera perché stringeva fra i denti un angolo del labbro inferiore, aveva il petto ansante, le tremavano le ciglia, lagrime di indignazione le brillavano sulle guance e con il piede premeva il muschio con tanta violenza da far pensare che avrebbe voluto distruggerlo addirittura. E tuttavia Carker aveva appena finito di cogliere i particolari di quell'atteggiamento, che egli vide la stessa giovane levarsi dalla panchina con aria di sdegnosa stanchezza e allontanarsi lentamente senza che sul volto e nella figura nulla esprimesse altro che bellezza composta e superba noncuranza.
Non era stato Carker l'unico a osservare la bella giovane perché una bruttissima vecchia tutta risecchita, non vestita esattamente da zingara, ma piuttosto come quel genere di donne che vagano per la campagna e vivacchiano un po' mendicando, un po' rubando o vendendo canestri di giunchi intrecciati, si levò con fatica da un angolo in ombra dove era stata accoccolata e quasi invisibile e si fece incontro alla signora.
- Mia bella signora, lasci che le dica la buona ventura! borbottò supplichevole la vecchia agitando la bocca dentata.
- Non occorre, io già la conosco - rispose l'altra.
- Sì, sì, bella signora, ma non la sapeva giusta e intera quando era seduta là. Io la so! Mi dia una monetina d'argento, bella signora e io le dirò la sua buona ventura. Lei ha una gran fortuna scritta nel suo bel visino!
- Lo so - rispose la dama, passando accanto alla vecchia con un sorriso tenebroso e il passo altero. - Lo sapevo prima che me lo dicesse.
- Ah sì? Non mi vuole dar nulla? - gridò la vecchia. - Bella signora, non mi vuole dar nulla perché io le dica la buona ventura? Ma badi bene di darmi qualcosa, altrimenti griderò!
gracchiò la vecchia arrabbiata.
La dama si allontanava senza ribattere, e Carker sgusciò da dietro l'albero che l'aveva nascosto, si fece avanti, si tolse il cappello con gesto di silenzioso omaggio e gridò alla vecchia che smettesse di fare baccano. La signora mostrò con un breve cenno di capo di gradire l'intervento e proseguì senza fermarsi.
- Mi dia qualcosa lei, allora, altrimenti glielo griderò il suo destino! strillò la vecchia levando in alto le braccia e poi tendendo la mano. - Ma guarda! - esclamò, abbassando all'improvviso la voce e scrutando l'altro intensamente in volto, tanto che parve avere dimenticato per il momento l'oggetto della sua furia. - Mi dia qualcosa, se non vuole che gridi anche la sua ventura!
- La mia, buona donna! - esclamò il direttore, ficcandosi la mano in tasca.
- Sì - disse la donna che non smetteva di scrutarlo e sempre tendendo la mano. - Io so tutto!
- Che cosa sai? - chiese Carker gettandole uno scellino. - Sai chi è quella bella signora?
La vecchia raccattò la moneta e si ritirò strisciando all'indietro, si accoccolò sul groviglio di radici di un vecchissimo albero, sfilò una corta pipa nera dalla cuffia, l'accese e si mise a fumare, sempre con lo sguardo fisso sull'uomo che la interrogava.
Il signor Carker rise e si girò sui tacchi.
- Ma sì! - brontolò la vecchia. - Un figlio morto e una figlia viva, una moglie morta e una che arriva. Vada pure da lei!
Suo malgrado il direttore si volse e si fermò. La vecchia, che seguitava a fumare e a borbottare fra sé, indicò la direzione in cui s'era incamminata la signora e scoppiò in una risata.
- Che cosa vai dicendo, vecchia pazza? - disse l'uomo. Ma nel brontolio dell'altra non riuscì a decifrare nulla e proseguì per la sua via, tuttavia quando fu alla svolta del viale si girò a mezzo e rivide l'indice puntato e gli parve di udir gridare: Va' da lei!
La colazione era pronta nel salotto dell'albergo, il signor Dombey attendeva freddo e tranquillo e il maggiore stava per scoppiare dalla rabbia per la lunga attesa, quando fu introdotta una dama oltremodo elegante, ma non giovanissima, la quale con grazia leziosa si scusò del ritardo, disse che la cara Edith era uscita per tempo a studiare una nuova visuale, ma stava ella pure per giungere.
Il signor Dombey uscì a precipizio e subito rientrò dando il braccio alla giovane bellissima e molto elegante che il signor Carker aveva incontrato sotto gli alberi.
- Carker... - il signor Dombey stava per eseguire le presentazioni, ma vide che i due si riconoscevano e s'interruppe stupito.
- Sono molto grata al signore - disse Edith con un leggero inchino altero - di avermi liberata poco fa da una mendicante che mi importunava.
- Sono io grato alla mia buona sorte - replicò inchinandosi profondamente Carker - che mi ha permesso di rendere un tale lievissimo servigio alla signora di cui mi dichiaro devoto servitore.
Quando l'occhio brillante e scrutatore della giovane si posò per un attimo su di lui prima di chinarsi a terra, gli parve di leggervi il dubbio che egli non fosse arrivato sul posto solo nel momento in cui s'era fatto vivo, ma che l'avesse osservata già da un po' di tempo prima. E in quello stesso istante la donna gli lesse nello sguardo quanto bastava per sapere che il suo dubbio non era infondato.
- Oh! - esclamò la signora Skewton, che aveva approfittato di quello scambio di battute per studiare a suo agio l'aspetto del signor Carker, rimanendone appieno soddisfatta. - Oh, ma questa è la più straordinaria coincidenza che abbia mai sentita!
Con elaborata galanteria il signor Dombey commentò a sua volta l'evento:
- Sono oltremodo lieto che un uomo tanto vicino a me qual è Carker abbia avuto l'onore e la felicità di rendere un sia pur minimo servizio alla signora Granger. - A questo punto prima di proseguire s'inchinò alla giovane. - Tuttavia ne provo un certo dolore e sono indotto a invidiare veramente Carker per non avere avuto io stesso tale onore e tale fortuna! - Dombey tornò a inchinarsi. Edith si limitò ad arricciare lievemente il labbro e rimase impassibile.
A tavola la signora Skewton poté scrutare a suo piacimento il signor Carker e anche questo secondo esame gli fu favorevole.
Parlarono del programma per la giornata.
- Sono felice, signor Carker, - disse la signora - che lei sia giunto in tempo per fare con noi questa incantevole gita!
- Qualunque gita sarebbe incantevole in simile compagnia rispose Carker. - Ma sono luoghi davvero molto interessanti.
- Oh! - esclamò la signora Skewton con un piccolo strillo di entusiasmo. - Com'è delizioso il castello di Warwick!... e poi tutti quei ricordi del medioevo... tempi così deliziosi, squisiti, pieni di fede, pittoreschi... così lontani da ogni volgarità...
lei ama il medioevo, non è vero, signor Carker?
- Moltissimo! - rispose l'interpellato.
- I quadri che sono al castello sono divini! - disse la signora.
- Spero che le piacciano i quadri, signor Carker!
- Signora Skewton, - s'intromise il signor Dombey, celebrando solennemente le lodi del suo direttore - le assicuro che Carker ha un gusto perfetto per le pitture, una capacità affatto naturale di gustarle. E' lui stesso un vero artista di valore.
- Per bacco! - gridò il maggiore Bagstock - mi toccherà credere che lei è un genio, signor Carker e che sa fare di tutto!
- Oh! - protestò umilmente Carker con un sorriso. - Lei mi confonde, maggiore! Il signor Dombey è troppo generoso nel giudicarmi. E' logico che un uomo nella mia posizione cerchi di acquisire qualche modesta abilità... la mia è una sfera talmente umile rispetto a quella tanto superiore in cui egli vive, che...- il signor Carker non disse altro, limitandosi a stringersi nelle spalle come se trovasse inutile ogni altra lode.
In tutto quel tempo Edith non aveva mai sollevato gli occhi, se non per lanciare uno sguardo alla madre quando l'aveva sentita esprimere i suoi entusiasmi artistici, ma quando Carker tacque guardò il signor Dombey: era stata un'occhiata brevissima, un fuggevole lampo di stupore e di sdegno, che tuttavia non fu perduto per uno degli astanti, un attento osservatore che mostrava i denti in un ampio sorriso.
La colazione finì con piena soddisfazione del maggiore Bagstock, il quale s'era rimpinzato fino alla gola; la carrozza era pronta, il domestico del maggiore e il paggio della signora Skewton presero posto a cassetta, le signore si accomodarono all'interno insieme con il signor Dombey e il maggiore, mentre il signor Carker a cavallo formava la retroguardia.
Il signor Carker seguiva la carrozza al piccolo galoppo a una cinquantina di metri, e la sua attenzione era non meno intensa di quella di un grosso gatto astuto lanciato all'inseguimento di quattro poveri topolini. Poi si allontanò brevemente per saltare di là di una siepe, attraversare un campo, trovarsi ad accogliere la carrozza alla prima meta, e aiutare con la sua bianca mano di velluto le signore a scendere.
La signora Skewton si mostrò decisa a compiere la visita del castello dando braccio da un lato al maggiore e dall'altro al signor Carker, una sistemazione che dava certo per puro caso al signor Dombey la libertà di scortare Edith. La vecchia signora intratteneva i suoi accompagnatori chiacchierando a vanvera, ma sia lei sia il signor Carker non facevano se non tenere d'occhio la coppia che li precedeva.
A un certo punto la signora si sdilinquiva nel cantare le lodi di quel simpaticone d'un uomo che era Enrico ottavo e della sua deliziosa figlia, la regina Elisabetta, lodi che Carker approvava senza riserve, quando costui la interruppe a un tratto esclamando:
- Ah, signora, ma se parliamo di quadri, eccone là uno autentico da ammirare! Ditemi voi se in una galleria se ne potrebbe trovare uno più artistico! - e più che mai sorridente l'uomo indicò il signor Dombey ed Edith, soli al centro della sala accanto e visibili attraverso la cornice della porta: l'uomo borioso, rigido, corretto e austero; la donna eccezionalmente bella e aggraziata, ma indifferente a tutto ciò che la circondava, compresa la propria bellezza che mostrava di disprezzare come un'insegna vana o una divisa. Non si parlavano né si guardavano, e così a braccetto davano la sensazione di essere più lontani che se fra loro scorresse l'oceano; tuttavia la signora Skewton fu tanto affascinata che non poté trattenersi dall'esclamare con voce non tanto bassa che quella visione era molto dolce e piena di sentimento. Edith la udì, si volse, e per l'indignazione diventò scarlatta sino agli occhi e alla fronte. Carker rivide i segni della lotta interiore che aveva già scorti rimanendo nascosti fra gli alberi, e di nuovo notò che la più altera indifferenza subito calava su di essa e la celava come una nube fosca.
La visita al primo castello, molto accurata, così che il maggiore fu ridotto letteralmente all'esaurimento, finì con Edith che seduta in carrozza accanto al signor Dombey rigido e impassibile, disegnava uno schizzo tra l'ammirazione di tutti, mentre Carker, fermo a cavallo accanto allo sportello della vettura, temperava con cura le matite dell'artista e gliele porgeva non appena richieste.
Dombey giudicò il lavoro assolutamente perfetto.
- Straordinario! - esclamò Carker, scoprendo tutti i denti. Non avrei mai pensato di trovarmi dinanzi a una tale eccezionale bellezza.
La lode si sarebbe potuta applicare all'artista, non meno che allo schizzo, ma le maniere del signor Carker erano troppo sincere per lasciar adito a dubbi, tant'è vero che egli seguitò a sorridere anche quando il disegno fu donato al signor Dombey, e a lui non rimase se non restituire con un profondo inchino tutte le matite senza ricevere nemmeno uno sguardo in ringraziamento.
Seguì la visita alle rovine del castello di Kenilworth, e seguirono altri schizzi disegnati da Edith di alcune fra le più belle vedute, poi si ritornò in città. Le due signore furono portate al loro alloggio e la signora Skewton invitò amabilmente il signor Carker a tornare di sera con il signor Dombey e il maggiore, perché Edith avrebbe fatto un po' di musica.
Il pranzo dei tre gentiluomini differì da quello della sera avanti solo perché il maggiore era più palesemente trionfante e meno misterioso. Di nuovo propose di brindare alla salute di Edith e di nuovo il signor Dombey si mostrò amabilmente imbarazzato. Il signor Carker era tutto lodi e premurose attenzioni Quella sera non vi erano altri visitatori presso la signora Skewton. I disegni di Edith erano sparsi intorno in numero ancor maggiore del solito, e la giovane sonò l'arpa e cantò accompagnandosi al pianoforte secondo i precisi desideri chiesti al signor Dombey e da lui elegantemente formulati. Il signor Carker non mancò di osservare il fatto che il signor Dombey era apertamente fiero dell'ascendente attribuitogli e molto desideroso di farne sfoggio; pertanto il suo direttore riuscì a rendersi ancor più gradito alla vecchia signora, la quale si rammaricò molto nell'udire che il mattino seguente sarebbe dovuto ripartire per Londra, ma confidava di rivederlo ancora sovente perché era davvero eccezionale la comunanza di gusti e di sentimenti che avevano scoperta fra loro!
Dopo essersi congedato con solennità da Edith, il signor Dombey Si rivolse sotto voce alla signora Skewton:
- Signora, ho chiesto alla sua signora figlia il permesso di farle visita domattina... per uno scopo preciso. Ha fissato la visita per le ore dodici. Posso sperare, signora, di vedere più tardi anche lei?
La signora Skewton provò una tale emozione nell'udire quelle parole (naturalmente per lei affatto misteriose) che non riuscì a proferir sillaba e si limitò a tendere la mano al signor Dombey, il quale dimenticò di baciargliela.
A lungo le due donne rimasero in silenzio, la signora Skewton adagiata sul divano, Edith un po' discosta, seduta accanto all'arpa. La donna anziana avrebbe desiderato interrogare la figlia, ma vedendola tanto immersa nei suoi pensieri non osò disturbarla e attese che la cameriera fosse venuta a prepararla per la notte (e a trasformarla, togliendole i fronzoli, nella vecchia cadente che in effetti era) e si fosse ritirata, prima di chiederle:
- Non mi dici che domattina gli hai dato un appuntamento!
- Perché lo sai già, mamma! - ribatté beffarda Edith, e la madre non seppe che cosa ribattere.
- Lo sai benissimo - continuò Edith - che mi ha comprata, o che mi compererà domani. Ha studiato l'affare; si è consigliato con gli amici; ne va perfino abbastanza fiero; pensa che io gli convenga e che non sia nemmeno troppo cara; domani farà l'offerta ufficiale.
Dio santo, pensare che sono vissuta per arrivare a questo, avendo piena coscienza del punto dove mi trovo!
Un invincibile sussulto di ribrezzo costrinse la giovane donna a celare fra le candide mani tremanti il viso alterato dall'indignazione.
- Che cosa dici? - la investì con rabbia la madre. - Non ti ho forse fin da bambina...
- Da bambina! - la interruppe Edith, fissandola negli occhi - ma quando sono stata bambina? Quale infanzia mi hai permesso di avere? Ero già una donna astuta, calcolatrice, adescatrice prima ancora di conoscere me stessa, di conoscere te e lo scopo ignobile di ogni nuovo gesto che apprendevo. Mi hai fatta nascere già donna adulta. Guardami adesso al colmo della mia fierezza di donna!
Guarda! Io non ho mai saputo ciò che volesse dire avere un cuore onesto e capace di amare. Ero una bambina, e invece di giocare tessevo le mie trame. Giovanissima, fui obbligata a sposare un uomo verso il quale non provavo se non indifferenza. E presto rimasi vedova, e povera, perché mio marito era morto prima di entrare in possesso dell'eredità di famiglia... te la sei meritata quella delusione!... e poi dimmi che vita è stata la mia in questi dieci anni!
- Ci siamo entrambe sforzate di trovare per te una buona sistemazione, ecco tutto! - rispose la madre. - La tua vita aveva questo scopo e ora l'hai raggiunto.
- Per dieci anni messa in mostra, offerta, esaminata, come un cavallo alla fiera, non è vero, mamma? - gridò Edith, appoggiando con disprezzo la voce sull'ultima parola. - Dieci anni di vergogna. Quanti pretendenti, stupidi libertini e vecchi cadenti, non mi sono stati intorno prima di ritirarsi dal primo fino all'ultimo perché i tuoi astuti piani diventavano troppo palesi a dispetto dei trucchi? Ma sì, posta in vendita, con licenza di guardare e toccare, nei posti di villeggiatura di mezza Inghilterra fino a perdere ogni rispetto per me stessa e giungere a odiarmi! Non è stata questa la mia giovinezza? E dopo non avere avuto neppure un'ombra di infanzia! Ma non devi cominciare proprio stasera a parlarmi della mia infanzia!
- Ti saresti potuta sposare benissimo almeno venti volte - disse la madre - venti volte, ripeto, Edith, se solo avessi dato qualche po' di incoraggiamento.
- No, mai!- ribatté la giovane, sconvolta dalla vergogna e dall'orgoglio, gettando indietro la testa. - Se quest'uomo vuole prendermi, ridotta come sono, mi prenderà senza che io muova un dito per attirarlo. Mi ha visto così messa all'asta e crede che gli convenga comprarmi. Faccia pure. E' venuto a esaminare di quali abilità io sia capace e non gli ho detto di no. Ha voluto mostrare i miei meriti al suo amico e gli ho detto ancora di sì.
Ma non intendo fare altro. L'acquisto egli lo compie di sua piena volontà calcolandone il valore e con la potenza del suo denaro.
Spero che non rimarrà deluso. Io non ho insistito perché firmasse il contratto: e non l'hai fatto nemmeno tu, nella misura in cui sono riuscita a impedirtelo.
- Edith, stasera parli a tua madre in modo molto strano!
- Pare strano anche a me, forse ancora più che a te. Ma sono troppo vecchia, ormai, e sono caduta troppo in basso per scegliere una strada nuova, o impedire che tu segua la tua e salvarmi... e così, visto che siamo due gentildonne prive di mezzi di fortuna, mi adatto a diventare ricca andando avanti per la vecchia strada.
La sola cosa che potrò mai dire in mio favore, mamma, sarà che ho avuto la forza di non tentare mai quest'uomo a concludere l'affare!
- Quest'uomo, dici! - esclamò la madre. - Come se tu lo odiassi.
- Credevi che lo amassi, non è vero? - ribatté la giovane, che stava attraversando la stanza per uscire, ma si fermò e si volse.
- Vuoi dunque sapere - continuò fissando la madre negli occhi - il nome dell'individuo che ci conosce già a fondo, riesce a leggere nei nostri pensieri, e di fronte al quale provo una vergogna ancora più grande di quella che abbia mai sentita, appunto perché mi ha capita così a fondo?
Senza turbarsi, la madre replicò con freddezza:
- Immagino che tu intenda alludere con tanta violenza a quel povero... come diavolo si chiama!... ah, ecco, al signor Carker!
Mia cara, la tua mancanza di sicurezza e la tua vergogna di fronte a costui (che dopo tutto credo di poter giudicare molto simpatico) non potrà giovare gran che alle tue prospettive per il futuro. ...
Perché mi guardi così? Ti senti male?
Edith chinò d'improvviso il volto come sotto un colpo, e portando le mani al viso fu scossa da un lungo brivido. Ma non durò a lungo, e presto ella uscì dal salotto con l'abituale passo altero.
Ricomparve la cameriera a sorreggere verso il letto e il riposo notturno i passi vacillanti della padrona che pareva colta da un attacco di paralisi senile, ma che già si disponeva ad attendere di risorgere l'indomani in tutto il suo splendore di moderna Cleopatra rediviva.
- Susan! - disse Florence alla affezionata cameriera il giorno in cui era deciso che sarebbero tornate in città. - Sono contenta che fra poco ci troveremo nella nostra casa tranquilla.
Susan tirò un profondo sospiro, poi si concesse anche un breve colpo di tosse e infine rispose con un'espressione che non sarebbe stato molto facile decifrare: - Tranquilla, certo, signorina Florence. Fin troppo, direi.
- Quando ero piccola - riprese Florence dopo avere alquanto riflettuto - hai visto qualche volta quel signore che si è preso il disturbo di venire fin qui a parlarmi... per tre volte, mi pare... tre volte, non è vero, Susan?
- Proprio così, signorina! La prima volta quando lei era a passeggio con questa gente... scusi, volevo dire con i signori e il signorino. E poi due volte di sera.
- Quando ero piccola e mio padre riceveva parecchi visitatori non hai mai visto che venisse anche quel signore?
La cameriera pensò alquanto prima di rispondere, poi disse Ecco, signorina, io credo in verità di non averlo mai visto, ma allora io ero ancora nuova nel servizio e dovevo stare molto ritirata. Ma ricordo benissimo di aver sentito dire che questo signor Carker era già allora un personaggio quasi importante come il suo babbo, se non proprio identico a lui per la grandezza. Dicevano in casa che lui dirigeva tutti gli affari del padrone nella City, era a capo di tutto, e il signor Dombey lo teneva in considerazione più di qualunque altra persona, anche se questo vuol dire ben poco, visto che lui, e mi scusi tanto se lo dico io, signorina, non ha mai stimato nessuno al mondo. Anche adesso il signor Carker è più che mai in alto; dicono che il padrone non muove un dito senza il signor Carker, lascia fare tutto al signor Carker, agisce dietro consiglio del signor Carker e tiene continuamente il signor Carker a portata di mano. Per il padrone, di fronte al signor Carker l'imperatore della Cina sarebbe meno importante di un bambino in fasce!
Florence non perdette una sola parola di quel lungo discorso, che anzi trovò di particolare interesse, e distogliendo lo sguardo dal paesaggio che distrattamente contemplava lo fissò sulla domestica per meglio concentrare sull'argomento tutta la sua attenzione.
- Sì, Susan, - disse infine. - Il signor Carker è il confidente del babbo, e sono certa che sia anche suo amico.
Da qualche giorno Florence non faceva se non rimuginare dentro di sé quell'argomento. Nelle due visite che il signor Carker aveva fatto seguire alla prima, egli aveva assunto verso la fanciulla un atteggiamento alquanto confidenziale: si era arrogato il diritto di mostrarsi misterioso e allusivo nel dirle che non erano ancora giunte notizie della nave... era come se egli si fosse sentito investito di fronte a lei di un certo potere, di una effettiva autorità, e questo le dava molto da pensare, le procurava una viva preoccupazione. Sapeva di non avere alcuna possibilità di rifiutare quell'autorità, come neppure di liberarsi dalla rete che egli stava pian piano intessendole intorno, perché ciò avrebbe richiesto una certa conoscenza delle arti e delle astuzie del mondo, che ella invece ignorava affatto. E vero, egli si era limitato a dirle che nessuna notizia era giunta della nave e che egli temeva il peggio; ma come aveva scoperto che lei portava interesse a quella data nave, e perché si arrogava il diritto di farle intendere che lo sapeva? Ecco le domande che turbavano Florence.
D'altra parte, lo strano comportamento del signor Carker e l'abitudine che la fanciulla aveva preso di riflettervi sovente con stupore misto a disagio finirono per rivestire di un maligno fascino il personaggio in fondo ai pensieri di Florence. Se si sforzava talvolta di ricordarne le fattezze, la voce e i modi con lo scopo di ridurlo a più modeste proporzioni e cancellarne l'ascendente, trovava il risultato affatto deludente perché non poteva ricordarlo se non sorridente e con l'espressione serena.
Dato poi che Florence non finiva mai di tormentarsi a proposito dei rapporti esistenti fra lei e il padre e di ascrivere a propria colpa il fatto che fossero tanto freddi e lontani, il pensiero che il signor Carker avesse pur saputo accattivarsi le simpatie di suo padre la induceva a chiedersi se l'antipatia e il timore che quell'uomo suscitava in lei non fossero semplicemente causati da un infelice temperamento che le aveva alienato l'amore paterno e la costringeva a subire le tristezze della solitudine. Finiva a volte di persuadersi che le premure dimostratele dall'amico del padre dovessero farle piacere, e che se le avesse ricambiate con fiduciosa gratitudine avrebbe trovato il modo di percorrere l'aspro sentiero in fondo a cui trovare il calore dell'affetto paterno.
Così la povera Florence, alla quale era preclusa ogni possibilità di chiedere un consiglio, perché non avrebbe potuto rivolgersi ad alcuno senza insieme tradire un atteggiamento critico verso il padre, si sentiva travolta da un mare di dubbi, sballottata fra timori e speranze. Il suo desiderio di ritrovarsi a casa era inoltre alimentato dalla più vaga delle speranze di trovare ancora qualche insperata occasione per rendere al padre nuove testimonianze di affetto.
A Walter pensava sovente, specie la sera e quando sentiva scorrere l'ululo del vento intorno alla casa, ma non riusciva a disperare; non mancava di versare lagrime al pensiero delle sofferenze del ragazzo, ma di rado e mai a lungo per l'idea che potesse essere perito in mare. Aveva scritto al vecchio Solomon, senza tuttavia ricevere riscontro: non che le sue righe esigessero una risposta, è vero. Tale dunque era lo stato d'animo di Florence il giorno in cui sarebbe ripartita verso casa.
Il dottore e la signora Blimber insieme con il riluttante rampollo della casata affidato alle loro cure erano già tornati a Brighton, dove senza dubbio il signorino e i suoi compagni di viaggio verso le classiche vette del Parnaso avevano già ripreso gli studi. Le vacanze erano giunte alla fine e la maggior parte dei giovani ospiti della villa aveva già preso congedo; stava per finire anche la lunga visita di Florence. Vi era tuttavia nel vicinato un amico il quale era rimasto fedele e costante nelle sue visite, lasciando alla porta il suo biglietto almeno una volta ogni due giorni.
Costui era il signor Toots, che inoltre ansioso di non essere mai dimenticato aveva fatto acquisto di una bella barca a remi, e tutto elegante si faceva portare su e giù per il fiume nel tratto che fronteggiava la tenuta di sir Barnet. Se poi gli capitava di scorgere qualcuno della famiglia nel giardino che scendeva fin sulla riva, faceva le più alte meraviglie come non avesse mai immaginato di avere una tale fortuna, e se vedeva Florence si affrettava a informarla che il cane stava benissimo, era andato a informarsene quella mattina stessa. Ma non aveva mai l'ardire di accettare l'invito che gli rivolgevano di scendere a terra, e così la barca ripartiva come una freccia con il domestico al timone e la ciurma ai remi e il signor Toots mollemente adagiato sui cuscini.
Il mattino destinato per la partenza di Florence la barca (battezzata Gioia di Toots) attendeva in tutto il suo splendore di fronte ai gradini che scendevano nel fiume dal giardino di sir Barnet, ma il signor Toots era nel salotto in attesa che Florence si congedasse dai suoi gentili ospiti, e il giovane ebbe addirittura l'ardire di invitare la fanciulla a compiere sulla barca il viaggio per Londra.
- Le sono tanto grata... - gli rispose Florence con esitazione.- Tanto grata davvero... ma... è meglio che parta in carrozza.
- Benissimo, benissimo! - esclamò con disinvoltura il signor Toots - Non importa! Buon viaggio! - e scomparve rapidamente.
Il congedo non fu senza lagrime sia da parte dell'ottima lady Skettles, sia da parte di Florence, ma nella fanciulla l'ansia e la gioia di ritornare a casa ebbe presto la meglio. Anche Susan Nipper si sentiva alquanto addolcire l'animo verso la casa che da tanti anni ormai era la sua sola dimora.
- Sì, signorina Florence! - disse la giovane. - Non dico di no! Mi farà piacere rivederla, anche se non è poi una gran bellezza; e in ogni caso non vorrei che s'incendiasse o che la demolissero.
- Ma sarai anche lieta di entrare in quelle vecchie stanze, non è vero, Susan? - esclamò sorridendo Florence.
- Ecco, signorina, non posso dire che non sarò contenta, anche se molto probabilmente tornerò subito a odiarle a cominciare da domani!
Florence pensò che, dopo tutto, per lei vi era più pace dentro le vecchie mura di casa che in qualunque altro luogo; le riusciva più facile nascondere e accarezzare il suo segreto nella penombra delle alte stanze dai soffitti scuri, che tentare di velarlo in piena luce e sotto lo sguardo di occhi estranei e sorridenti.
Preferiva senz'altro sperare, pregare e amare tutta sola nel santuario dei suoi ricordi infantili, anche se lo vedeva andare lentamente in rovina per l'incuria dell'abbandono, che in ambienti nuovi e diversi, per quanto sereni e allegri. Dava sinceramente il benvenuto al suo vecchio sogno di vita irreale e non vedeva il momento di sentirsi chiudere alle spalle il vecchio portone scuro.
Animate da tali pensieri, le due giovani donne girarono in carrozza l'angolo della lunga strada tetra. Florence era accanto al finestrino che dava sul lato opposto della via e ne osservava il noto aspetto, quando un'esclamazione di sorpresa sfuggita a Susan le fece di scatto volgere la testa.
- Povera me! - gridò Susan al colmo della meraviglia. - Dov'è andata a finire la nostra casa?
- La nostra casa! - le fece eco Florence.
Susan ritirò il capo dal finestrino, tornò ad affacciarsi, si tirò di nuovo indietro mentre la carrozza si fermava e fissò la padroncina con occhi spalancati.
Tutto intorno all'edificio, dalla base fino al tetto, non si vedeva se non una fitta rete di impalcature, mentre una buona metà della via attigua era ingombrata da mucchi di mattoni e di pietre, da monticelli di calcina e cataste di legname. Contro le mura della casa erano rizzate numerose scale a pioli lungo le quali salivano e scendevano i muratori, altri lavoravano sui diversi ripiani dell'impalcatura e nell'interno si vedevano all'opera pittori e decoratori; da un carro stavano scaricando dinanzi all'ingresso grossi rotoli di carta da parati, e c'era a ingombrare la via anche un furgone di tappezzerie; attraverso le aperture spoglie delle finestre non si scorgeva alcun mobile, nient'altro era visibile all'infuori di squadre di operai con i loro attrezzi in continuo movimento dalle cucine alle soffitte: si udiva in effetti un grandioso frastuono di martelli, pennelli, picconi, seghe e cazzuole in una piena armonia di movimenti.
Florence scese dalla carrozza con aria smarrita, dubitando quasi che quella fosse davvero la sua casa, ma subito scorse il maggiordomo accorso a riceverla sulla soglia con il volto abbondantemente abbuiato.
- E' successo qualche guaio? - gli chiese Florence.
- Oh, no, signorina.
- Vedo che si fanno grandi cambiamenti.
- Sì, signorina, cambiamenti grandissimi.
Come in sogno Florence entrò e corse di sopra: nella lunga sala già tenuta in penombra del primo piano e ora inondata dalla luce cruda, vi erano tutto intorno corte scale e piccole piattaforme con sopra operai riparati da berretti di carta. Sparito con il resto anche il quadro della mamma e al suo posto poche parole tracciate con il gesso: " da rivestire tutta; pannelli verde e oro". Come l'esterno della casa, anche la scalinata era un labirinto di pali e di assi, e un intero olimpo di vetrai e stagnai era disposto negli atteggiamenti più vari sul lucernario.
Florence scoperse che la sua camera non era stata toccata, ma rimaneva quasi buia per le impalcature che ostruivano dall'esterno le finestre. Corse nella camera attigua dove si trovava ancora il lettino di Paul, e si trovò faccia a faccia con un gigante di carnagione bruna, con la pipa fra i denti e il capo ravvolto in un fazzoletto colorato che la fissava ritto fuori del davanzale.
In quel momento la raggiunse Susan Nipper, che la cercava per dirle di scendere subito dal signor Dombey il quale voleva parlarle.
- Il babbo a casa a quest'ora e vuole parlarmi! - esclamò turbatissima la fanciulla, e corse via con la speranza di poter presto calmare i palpiti furiosi del suo piccolo cuore sul petto paterno.
Ma il signor Dombey non era solo, nello studio erano con lui due signore; Florence dovette compiere uno sforzo tanto grande per dominare l'emozione che minacciava di travolgerla, che avrebbe senza dubbio perso i sensi, se il suo grosso cane non si fosse precipitato nella stanza a darle il più affettuoso e rumoroso saluto di benvenuto.
- Florence, come stai? - la salutò il padre, porgendole con freddezza la mano.
Florence strinse quella mano fra le sue e la portò alle labbra nel breve attimo prima che egli la ritirasse.
- Questo cane, da dove è capitato? - esclamò dispiaciuto il signor Dombey.
- Viene da... Brighton... babbo.
- Bene! - disse il signor Dombey con la fronte rannuvolata perché aveva compreso l'allusione.
- E' molto buono - spiegò la fanciulla, rivolgendosi con gentilezza spontanea alle due signore sconosciute. - E' solo contento di rivedermi. Vi prego di perdonare il chiasso che ha fatto.
Ora notò che la donna seduta, la quale aveva lanciato uno strillo era piuttosto vecchia, mentre l'altra, in piedi accanto al babbo era molto bella ed elegante.
- Signora Skewton, - disse il signor Dombey, volgendosi alla prima - ecco mia figlia Florence.
- Deliziosa davvero! - esclamò la vecchia signora inforcando l'occhialetto. - E poi tanto spontanea! Carissima Florence, vieni a darmi un bacio, se non ti rincresce.
Florence aderì al desiderio della donna, poi si rivolse all'altra che si teneva al fianco di suo padre.
- Edith, - disse il signor Dombey - ti presento mia figlia Florence. Florence, questa signora diventerà presto la tua mamma.
Florence trasalì e levò gli occhi su quel bel volto, turbata dalle emozioni che destava in lei quel nome, combattuta per un attimo fra la sorpresa, l'interesse, l'ammirazione e un'indefinibile ombra di timore. Poi esclamò: - Oh, babbo, ti auguro di essere felice, felice, tanto felice per tutta la vita!- e scoppiando in lagrime si strinse alla bella giovane.
Seguì un breve silenzio. La bellissima donna, che da prima aveva esitato ad avvicinarsi alla fanciulla, la strinse a sé come per rassicurarla e confortarla. Senza profferir parola si chinò su Florence e la baciò sulla guancia.
- Vogliamo fare il giro delle stanze per vedere come procedono i lavori? - propose il signor Dombey. - Mi permetta, cara signora, di offrirle il braccio.
La signora Skewton era rimasta a scrutare Florence attraverso l'occhialetto e pareva che trovasse in lei un eccesso di naturalezza unito a una certa mancanza di cuore... nel senso che ella dava a questo termine!
I due passarono nella veranda e poco dopo si accorsero che Edith non li aveva seguiti e la incitarono perché li raggiungesse.
La bella giovane tornò a baciare Florence, poi corse via, e la fanciulla rimase là tutta stordita, incerta fra il dolore e la gioia, il sorriso e le lagrime, e non si era ancora mossa quando tornò da lei la sua seconda mamma e la strinse di nuovo fra le braccia.
- Florence! - disse in fretta la donna, fissando la fanciulla con espressione tesa. - Non comincerai con l'odiarmi, vero?
- Odiarti, mamma! - protestò Florence, gettandole le braccia al collo e ricambiandole lo sguardo.
- Zitta! Non devi pensare male di me. Comincia subito a credere che io cercherò di renderti felice, che sono pronta a volerti bene, Florence. Addio. Ci rivedremo presto. Addio. Non rimanere più qui sola!
Aveva parlato in fretta, ma con fermezza; tornò ad abbracciare la fanciulla e corse a raggiungere gli altri due.
Nel cuore di Florence subito si accese la speranza che la sua nuova e bellissima mamma le avrebbe insegnato a cattivarsi l'affetto del padre; in quella stessa notte sognò che la sua vera mamma le sorrideva radiosa, benedicendo la piccola sognatrice e i suoi teneri sentimenti.
Una mattina in cui un timido raggio di sole faceva capolino alle finestre della signorina Tox, la brava donna, ancora ignara di quanto stava accadendo intorno e dentro la casa del signor Dombey per opera di operai affaccendati su impalcature e su scale, finì l'abituale colazione composta di un uovo fresco, tè e pane, cominciò a riordinare le stanze con la solita cura meticolosa, passando dai ninnoli al canarino, vecchio ma ancora abilissimo cantore, per finire con l'importante compito di annaffiare le piante sul davanzale.
Alla fine sedette accanto alla finestra a contemplare i passeri e a godere il tepore; il maggiore, da poco tornato a casa, le aveva appena fatto un cenno di saluto dalla finestra di fronte; da lui i pensieri della signorina vagarono in direzione del signor Dombey con una serie di oziose domande: era ancora tanto triste o si era rassegnato ai decreti del destino? Pensava forse di prender moglie un'altra volta? E in questo caso, quale tipo di donna avrebbe scelto?
La signorina Tox si accorse di arrossire, e arrossì una seconda volta quando vide entrare nell'angusta piazza una piccola carrozza che si fermava precisamente dinanzi alla sua porta. La signorina Tox si levò in fretta e fu pronta ad accogliere la signora Chick.
- Come sta la mia dolcissima amica? - esclamò la signorina abbracciando la visitatrice, la quale, oltre alla dolcezza, mostrava un'ombra di solenne distacco, e tuttavia ricambiò il bacio della signorina Tox, dicendo: - Grazie, Lucrezia, io sto abbastanza bene e spero lo stesso di te. Hem!
La signora Chick pareva afflitta da un lievissimo accesso di tosse.
- Sei venuta a trovarmi molto di buon'ora, mia cara, come sei gentile! - riprese la signorina Tox. - Ma dimmi, hai già fatto colazione?
- Grazie, Lucrezia. - rispose la signora Chick. - Ho fatto colazione prima del solito... - e qui la brava donna girò intorno lo sguardo come se provasse all'improvviso la più viva curiosità di studiare l'ambiente in cui si trovava. - ... ho fatto colazione con mio fratello, che è tornato in città.
- Cara, spero davvero che stia meglio di salute... - balbettò la signorina.
- Sta molto, molto meglio, grazie. Hem!
- Luisa cara! - l'ammonì l'amica. - Devi fare attenzione alla tua tosse!
- Non è nulla - replicò la signora Chick. - Colpa della stagione che sta cambiando. Non è possibile evitare i cambiamenti.
- I cambiamenti di stagione? - chiese in tutta innocenza la signorina Tox.
- Di tutto! - precisò la signorina Chick. - E' inevitabile! Tutto il mondo cambia. Sarei molto stupita, Lucrezia, se qualcuno cercasse di contraddire questa realtà di fatto e dovrei pensare che una persona del genere avesse perduto il buon senso. Tutto cambia! - esclamò la signora Chick con filosofica severità. - Santo cielo, che cosa vi è sulla terra che non stia cambiando?
Perfino il baco da seta, che non si crederebbe mai si dovesse occupare di questo argomento, non fa che trasformarsi continuamente nei modi più inattesi.
- La mia cara Luisa - osservò con dolcezza la signorina Tox - ha sempre delle immagini così felici!
- Sei sempre tanto gentile, Lucrezia, - replicò la signora Chick, addolcendo alquanto l'espressione - nel dir bene di me e credo anche nel pensare bene di me.
- E' verissimo che penso ogni bene di te! - confermò l'amica.
La signora Chick tornò a tossicchiare e prese a tracciare dei ghirigori sul tappeto con la punta d'avorio del parasole. Alla signorina Tox parve che la visitatrice si trovasse in un momento di particolare stanchezza o irritazione e pensò bene di mutare argomento.
- Scusa, cara Luisa, - disse - mi sbaglio, o non c'è davvero il tuo signor marito giù in carrozza?
-Sì, c'è, ma ti prego di lasciarlo dove si trova. Ha il suo giornale e per due ore sarà tranquillo e felice. Tu seguita pure a curare i tuoi fiori, Lucrezia e permetti che io mi riposi un poco.
- La mia Luisa sa benissimo - osservò la signorina Tox - che fra noi non è il caso di fare cerimonie, data l'amicizia che ci lega.
E perciò... - la signorina tralasciò di concludere la frase passando invece all'azione: tornò a infilare i guanti che aveva tolti, e di nuovo armata di forbici ricominciò a sforbiciare tra le foglie con abilissima precisione.
- E' tornata a casa anche Florence - disse la signora Chick dopo essere rimasta in silenzio e con il capo inclinato da una parte a disegnare sul pavimento con la punta del parasole. - Bisogna dire che Florence è ormai troppo cresciuta per condurre una vita solitaria come è sempre stata la sua. E' vero, assolutamente vero, e non avrei più alcuna stima verso chi negasse una tale verità.
Anche volendo, io non riuscirei a rispettare questa gente. Dopo tutto, non si può affermare di essere padroni dei propri sentimenti fino a questo punto!
La signorina Tox, senza avere la pretesa di approfondire la questione, accennò brevemente di sì.
- E' una ragazza strana - proseguì la signora Chick. - E se mio fratello, dopo tutto quello di triste che è accaduto, non si trova tanto bene e d'accordo con lei, quale sarà la soluzione del problema? Tocca a lui compiere uno sforzo. Ha il dovere di compierlo. Nella nostra famiglia tutti si sono straordinariamente adoperati per fare il proprio dovere... - a questo punto la signora Chick si sentì salire le lagrime agli occhi. - Io pure, sebbene la mia persona sia dotata di poca importanza... Insomma, l'aver saputo che mio fratello compirà il suo dovere mi ha procurato una specie di scossa... perché sono una povera donna debole e sciocca, e non è affatto una fortuna esserlo, tant'è vero che ho desiderato tante volte di avere un cuore duro come il marmo, o come una pietra di marciapiede...
Ma Luisa cara... - protestò la signorina Tox.
E' tuttavia una gioia per me sapere che ancora una volta mio fratello ha tenuto fede a se stesso e al suo nome, per quanto non ho mai dubitato che gli accadesse di non farlo. Spero solo che anche lei sia degno del nome!...
La signorina Tox versò dell'acqua dalla brocca in un minuscolo annaffiatoio verde, e poi volgendo per caso lo sguardo verso l'amica, fu tanto sorpresa dall'espressione di lei che si sentì indotta a depositare il recipiente sulla tavola e a sedere accanto alla signora Chick.
- Mia cara Luisa, - osservò con dolcezza la signorina Tox - se sapessi di poterti recare qualche minimo conforto ti direi che mi permetto di giudicare tua nipote una fanciulla che sotto ogni aspetto promette bene, benissimo!
Ma la signora Chick era stata fraintesa.
- Lucrezia! - ribatté con tono solenne e insieme di generosa pazienza. - Naturalmente la colpa è mia se non mi sono espressa con sufficiente chiarezza. Ma ho voluto manifestare il mio pensiero nella speranza vivissima che la nostra intima amicizia non potrà mai essere turbata!... - L'amica più umile si scusò della mancanza di perspicacia, e intanto la signora girava lo sguardo su ogni oggetto della stanza fuorché posarlo sulla signorina Tox. Alla fine, prima di chinarlo sul tappeto e di trattenervelo sollevando i sopraccigli, sfiorò appena il volto della signorina Tox, la quale non le toglieva gli occhi di dosso, e disse:
- Lucrezia, non parlavo di mia nipote Florence, ma della seconda moglie di mio fratello. Mi pare infatti di avere già detto, se non con queste precise parole, che ha deciso di riprender moglie.
La signorina Tox si levò di scatto e riprese a lavorar di forbici tra le foglie, ma ora con una violenza decisamente crudele.
- Se poi costei sarà del tutto consapevole dell'onore conferitole - seguitò con tono altero la signora Chick - è un'altra questione.
Io spero vivamente che lo sia. Il mio consiglio non è stato richiesto. Se mio fratello Paul si fosse consultato con me come a volte fa... ma no, devo dire come faceva, perché ormai non lo farà più, e d'altra parte io non sono per nulla gelosa, grazie a Dio!... - ora le guance della signora Chick erano solcate dalle lagrime. - Se mio fratello mi avesse chiesto quali qualità ritenessi necessarie nella sua nuova futura moglie, gli avrei certo risposto che doveva senz'altro cercare una donna dotata di bellezza, di decoro, di una famiglia dignitosa. Ecco che cosa gli avrei detto.
La signorina Tox cessò di sforbiciare e rimase ad ascoltare a testa china e con la massima attenzione: forse pensava che nella solennità di quell'esordio fosse implicita una speranza per lei.
- Mio fratello Paul ha fatto ciò che tutti ci aspettavamo facesse nel caso avesse deciso di contrarre un secondo matrimonio.
Confesso di essere rimasta alquanto sorpresa, perché quando partì per la villeggiatura non pensavo affatto che avrebbe stretto un legame fuori città, e certo quando era partito non aveva alcun impegno sentimentale. Tuttavia pare che l'evento sia degno di approvazione sotto ogni punto di vista. La madre è una donna elegante e gentilissima, non tocca a me discutere la decisione presa da Paul di accettare che anche lei faccia parte della famiglia. Lei... non l'ho ancora vista se non in ritratto, e la trovo bellissima. Ha pure un nome molto bello- affermò la signora Chick, agitandosi con energia sulla sedia.- Ritengo che Edith sia un nome fuori del comune e molto distinto. Perciò non dubito Lucrezia, che sarai contenta di sentire che il matrimonio avrà luogo subito. Lo so che sarai felice del mutamento nella situazione di mio fratello. tenuto conto che in varie occasioni egli ti ha dimostrato numerose attenzioni.
Miss Tox non aperse bocca, si limitò ad afferrare con mano tremante il piccolo annaffiatoio, guardandosi intorno con aria smarrita, come se fosse incerta intorno alla scelta del mobile che avrebbe ricavato maggiore giovamento dall'uso di quell'attrezzo.
In quel momento la porta si aperse: la signorina Tox trasalì, scoppiò in una risata e cadde svenuta fra le braccia di chi aveva varcato la soglia. Alla finestra di fronte si affacciava il faccione del maggiore, colorito e dilatato da una gioia mefistofelica alla vista della sua adoratrice infedele sorretta dal servitore di colore che egli aveva spedito dalla sua vicina per informarsi intorno alle condizioni della sua salute.
Per qualche minuto l'imbarazzatissimo forestiero tenne stretta a sé la scarna figura della signorina Tox, mentre la poveretta gli faceva gocciolare addosso le ultime stille rimaste nel piccolo annaffiatoio. Poi la signora Chick si riebbe alquanto dalla sorpresa, e dopo avere ordinato al domestico di depositare il suo fardello sul divano e di ritirarsi, si diede d'attorno per far tornare in sé l'amica.
Ma non si pensi che ne seguisse una scena di affettuose premure, perché anzi la signora Chick si limitò a somministrare le necessarie cure con energia e quasi con durezza, e non appena la signorina Tox riaperse gli occhi e mostrò di avere ripreso oltre ai sensi anche la conoscenza, la signora Chick si ritrasse da lei come ritenendola colpevole e la fissò piuttosto in collera.
- Lucrezia! - esclamò la signora Chick. - Non cercherò davvero di nascondere i sentimenti che provo. Mi si sono aperti gli occhi.
Non l'avrei creduto possibile nemmeno se fosse venuto a dirmelo un angelo del cielo!
- Sono stata una sciocca a cedere a quell'attacco di debolezza balbettò la signorina Tox. - Fra poco mi sentirò meglio.
- Ti sentirai meglio, Lucrezia! - ripeté con tono di scherno la signora Chick. - Immagini forse che io sia cieca? Immagini che sia rimbambita? Grazie tante, Lucrezia, non lo sono affatto!
La signorina Tox rivolse all'amica un'occhiata supplichevole e si coperse gli occhi con il fazzolettino.
- Credo che avrei dato uno schiaffo a chi me l'avesse detto ieri, o anche solo mezz'ora fa, credo proprio che non mi sarei potuta trattenere! - dichiarò con alterigia la signora Chick. Lucrezia Tox, i miei occhi si sono di colpo aperti sulle tue malefatte!
Lucrezia, la mia cieca fiducia è morta per sempre!
- Oh, carissima, perché mi parli con tanta crudeltà? - protestò fra le lagrime la signorina Tox.
- L'idea pazzesca - disse la signora Chick - che hai avuto di insinuarti come un serpente nella casa di mio fratello e di penetrare nella sua stima attraverso di me, Lucrezia, con la mira segreta di indurlo a considerare la possibilità di unirsi a te è un'idea talmente folle - disse la signora Chick con amaro sarcasmo - che per la sua enorme assurdità quasi cessa di essere un tradimento.
- Ti prego, Luisa - la pregò la signorina Tox - smetti di dirmi queste cose spaventose! - e singhiozzava da far pietà. - Anche se posso avere avuto il vago pensiero che il signor Dombey provasse una certa simpatia per me, non devi essere proprio tu a condannarmi!
- Cielo!- esclamò la signora Chick, levando le braccia al soffitto con gesto di invocazione e insieme di rassegnazione. Lo sapevo che mi avrebbe accusata di averla incoraggiata nelle sue aberrazioni!
- Ma io non mi lamento! - insistette la povera Tox. - Luisa cara, io non ti voglio rimproverare, dico solo a mia difesa... lo dico per difendermi di fronte alle tue parole scortesi e ti chiedo semplicemente se non è vero che tante volte hai incoraggiato le mie fantasie... se non hai detto addirittura che si sarebbero potute realizzare, per quanto ne sapevamo noi due?
La signora Chick si levò in piedi con gesto così maestoso da lasciar immaginare che non avrebbe tenuto i piedi a terra, ma si sarebbe addirittura librata ben più in alto e dichiarò: Esiste un limite al di là del quale la pazienza diventa ridicola, se non addirittura colpevole. Io posso sopportare molte cose, ma ve ne sono certe che superano anche la mia forza di sopportazione. Non so quale sensazione abbia provato oggi entrando in questa casa, ma avevo un certo presentimento, un presentimento funesto! Lucrezia, era giusto che l'avessi, perché in un attimo avrei contemplato la scomparsa di una confidenza durata lunghi anni. Ora i miei occhi si sono aperti, Lucrezia, e ti vedo quale sei veramente. Mi sono ingannata sul tuo conto: è meglio per tutte e due chiudere a questo punto l'argomento. Ti auguro ogni bene, e ti augurerò sempre ogni bene. Ma nella mia qualità di donna che vuole soprattutto tener fede a se stessa nella posizione in cui si trova, e per quanto modesta questa possa essere, oppure per quanto poco modesta sia, dato il grado di parentela che ho con mio fratello, e quale cognata della moglie stessa di mio fratello, e come futura parente della madre della moglie di mio fratello... mi sia lecito infine concludere che nella mia qualità di appartenente alla famiglia Dombey non ti posso augurare più di un semplice buongiorno!
Nel pronunciare quest'ultima frase piuttosto lunga con acidità camuffata di dolcezza e temperata dal più solenne tono di rettitudine morale, la signora Chick era giunta alla porta; si volse per salutare con un cenno del capo sommamente rigido e gelido, quindi uscì per andare a cercare conforto fra le braccia del marito le quali erano tuttavia tutte ingombre dalle pagine del quotidiano che egli stava leggendo. Il signor Chick si limitò a lanciare alla consorte un'occhiata di straforo, e seguitò nella sua lettura, canticchiando fra i denti un ritornello popolare, e senza dire una sola parola buona, cattiva o indifferente.
Naturalmente la signora Chick non sopportò a lungo quel silenzio a due, e mentre la carrozza si metteva in moto riuscì a imbastire un discreto litigio con il compagno della sua vita, perché avendogli essa confidato l'estrema e deprecabile presunzione della signorina Tox di avere sognato di poter diventare una Dombey, il signor Chick ribatté che fino a quella mattina anch'essa aveva accarezzato quel medesimo progetto.
Nell'udir ciò la signora Chick scoppiò in lagrime e dichiarò al marito che se voleva continuare a calpestarla sotto i suoi stivali, facesse pure, con notevole spavento del consorte, il quale si aspettava di vederla presto cedere a un attacco di nervi.
Ma la signora riuscì a dominarsi alquanto e a concludere come segue le sue riflessioni di povera vittima dell'altrui malvagità:
- Posso accettare di rinunciare alla confidenza che Paul riponeva in me, in favore di una donna che spero la meriti e che ha tutto il diritto di prendere accanto a lui il posto della povera Fanny; posso sopportare di venire informata con estrema freddezza da Paul del suo progetto quando tutto è deciso e senza essere stata consultata in precedenza; ma l'inganno, quello no, non lo sopporto, e quanto a Lucrezia Tox, ho chiuso l'argomento. Meglio così! Non so davvero se l'avrei potuta ancora frequentare senza compromettermi ora che Paul aprirà la sua casa alla migliore società: povera donna, è ben poco presentabile! Tutto è andato per il meglio, c'è sempre una provvidenza! Per me è stata una prova dura, ma non me ne lamento.
Il signor Chick si sentiva senza dubbio colpevole, perché colse l'occasione di scendere all'angolo di una via, e si allontanò fischiettando, alzando bene le spalle e con le mani in tasca.
Intanto la povera signorina Tox, che pur essendo non del tutto aliena dal praticare l'adulazione, e certo molto abile nell'inghiottire rospi, era tuttavia una creatura onesta e fedele, avendo nutrito verso la sua crudele accusatrice una sincera amicizia e per la grandezza del signor Dombey una vera devozione, cominciò ad annaffiare le sue piante con le lagrime, provando la sensazione che sul quartiere fosse all'improvviso calato il gelo dell'inverno.
La casa aveva perduto il silenzio e la penombra, seguitava a essere invasa da ogni sorta di operai che inducevano il cane Diogene ad abbaiare quasi senza interruzione dall'alba al tramonto, ma per Florence la vita aveva ripreso quasi l'identico ritmo. La sera ascoltava lo scalpiccio degli uomini che uscivano dalle stanze, scendevano le scale e se ne andavano, e le piaceva immaginare che ciascuno rientrasse a casa dove l'attendeva una famiglia amorosa. Le pareva che tutti fossero contenti di ciò che li attendeva, ed era felice per loro.
Accoglieva ogni volta il silenzio come un vecchio amico disposto a recarle una nuova speranza. La bella giovane che sarebbe diventata la sua seconda mamma l'aveva accarezzata e confortata nella camera stessa dove aveva sofferto la seconda cocente perdita della sua vita. Le pareva di poter sognare che pian piano sarebbe riuscita a conquistare l'affetto paterno e che sarebbe spuntata anche per lei l'alba da tanto tempo agognata. Non provava timore di accogliere nei suoi affetti una rivale per la sua diletta mamma, anzi le pareva che ogni parola di bontà uscita dalle labbra della bella sconosciuta non fosse se non l'eco della voce da tanto tempo spenta, e che mai il suo amore per la cara memoria sarebbe stato diminuito dalla tenerezza nuova che sentiva fiorire nel cuore.
Un giorno Florence era intenta a leggere nella sua stanza, quando levò lo sguardo dal libro e scorse Edith sulla soglia.
- Mamma! - esclamò Florence, correndole incontro con gioia. Sei ritornata, me l'avevi promesso!
- Non ancora mamma! - le rispose la giovane, stringendo a sé la fanciulla. - Ma presto, Florence, molto presto.
Rimasero per un poco in silenzio abbracciate, poi sedettero l'una accanto all'altra, e Florence ebbe più che mai la sensazione di una tenerezza davvero materna.
- Sei stata sempre qui sola dal giorno in cui ci siamo conosciute?
- Oh, sì - rispose in fretta Florence - ma... sono abituata a rimaner sola e non m'importa... mi capita di passare vari giorni senza vedere nessuno... all'infuori del mio cane Diogene e di Susan, la mia cameriera.
- E queste sono le tue stanze... - disse Edith, guardandosi intorno. - Quel giorno non me le hanno fatte visitare. Ma devono diventare più belle, devono essere le più belle della casa!
- Mamma, se potessi cambiare... - fece Florence con esitazione di sopra vi è una camera che mi piace ancora di più.
- Non ti sembra di essere già abbastanza in alto, bambina? replicò sorridendo Edith.
- Vedi, quella è la camera del mio fratellino, e io sono tanto affezionata a quella camera - spiegò Florence. - Ne avrei voluto parlare al babbo quando sono tornata a casa e ho trovato qui i muratori che trasformavano tutto, ma... ma avevo timore di dargli un dispiacere; mi avevi detto che saresti tornata presto, e siccome sarai tu la padrona di tutto, avevo deciso di pregare te di esaudire il mio desiderio.
Edith rimase in silenzio a fissare la fanciulla con gli occhi luminosi, ma quando Florence levò lo sguardo su lei, distolse il suo e lo chinò a terra. Fu allora che la fanciulla si accorse com'era diversa da come aveva pensato la bellezza di quella donna:
l'aveva giudicata fiera e superba, era invece tanto gentile e mite che non avrebbe potuto sollecitare maggiormente la sua confidenza se avesse avuto la sua identica età.
Edith promise che si sarebbe adoperata subito per renderla contenta, avrebbe dato lei stessa i necessari ordini agli operai per riordinare la camera al piano superiore, poi s'informò intorno al piccolo Paul e infine disse a Florence che era venuta per condurre la fanciulla a casa sua.
- Mia madre e io - spiegò Edith - siamo tornate in città, e tu resterai con noi fino al giorno del mio matrimonio. Desidero che ci conosciamo meglio, Florence, e che vi sia fra noi una sincera fiducia.
- Come sei buona con me, mamma cara! - la ringraziò Florence. E come ti sono grata.
- Lascia che ti dica anche un'altra cosa, ora che abbiamo questa occasione di parlare - seguitò Edith, guardandosi intorno, vedendo che erano affatto sole, e tuttavia abbassarono la voce.- Dopo sposati resteremo via per qualche settimana: mi sentirò più tranquilla se saprò che sarai tornata in questa casa. Ti prego di tornare qui anche se gli altri ti invitassero. Meglio tu rimanga sola che... voglio dire - fece la donna correggendosi- che io ritengo tu stia meglio qui a casa tua, Florence cara.
- Farò come tu dici, mamma.
- Brava. Conto sulla tua promessa. E ora preparati a venire con me. Quando sarai pronta mi troverai da basso.
Con passo lento e l'espressione assorta Edith visitò ogni stanza del palazzo nel quale sarebbe fra poco entrata da padrona, senza mostrarsi in alcun modo entusiasta dello sfarzo che già vi si dispiegava. In quei saloni ella dimostrava con l'atteggiamento del labbro e dello sguardo la stessa indomita alterigia, l'abituale espressione fiera, solo di poco attenuate dalla consapevolezza del proprio meschino valore, e del poco valore di tutto ciò che la circondava. In ogni particella delle dorature non vedeva se non un odioso atomo della ricchezza in cambio della quale si era venduta.
E pensando che tutto questo fosse più o meno evidente anche agli sguardi altrui, non trovava scampo se non rifugiandosi nell'orgoglio che notte e giorno le rodeva il cuore e con cui affrontava il destino, lo sfidava e cercava di sconfiggerlo.
Ma era la stessa donna che Florence, fanciulla innocente e armata solo della sua semplice, seria verità, riusciva a influenzare e pacificare tanto che al suo fianco si sentiva un'altra perché si placava in lei la tempesta delle passioni e si attenuava perfino il suo orgoglio? Era lei stessa che nella carrozza pregava la fanciulla di volerle bene e di darle la sua fiducia, stringendo sul petto la bella testina bionda come se avesse l'intenzione di proteggerla da ogni male o danno anche a prezzo della vita?
Oh, Edith, meglio sarebbe stato per te morire allora! Saresti stata più fortunata a morire così, che a seguitare a vivere sino alla fine dei tuoi giorni!
La nobile signora Skewton aveva ottenuto in prestito dal cugino Feenix temporaneamente fuori città una bella casa di Brook Street nell'elegante quartiere di Grosvenor Square; quell'importante congiunto aveva di buon grado accondisceso alla richiesta, che era in rapporto con le prossime nozze di Edith, perché era sottinteso che sarebbero così cessate da parte della madre e della figlia tutte le abituali richieste di donazioni e di prestiti.
La signora Skewton accolse Florence con entusiasmo e la colmò di elogi. La sera stessa, quando il signor Dombey si recò a visitare la futura sposa e la futura suocera, per cenare con esse, egli ebbe la sorpresa di trovare presso di loro anche la figlia, e la vecchia signora gli spiego che Edith lo amava tanto che nelle ore in cui non lo poteva avere accanto aveva desiderato di trovarsi almeno con la deliziosa fanciulla che già amava come una figlia.
Il signor Dombey non sollevò alcuna obiezione al progetto, e così per l'intera settimana che doveva trascorrere prima della celebrazione del matrimonio Florence si trovò a contemplare involontariamente i numerosi incontri straordinariamente freddi e stancati del padre con la promessa sposa, e l'inesauribile vivacità e letizia di cui faceva invece ogni volta sfoggio la vecchia signora, riuscendo addirittura quasi a mitigarne il gelo.
La settimana scorse via rapida in un turbine di visite a sarte, modiste, gioiellieri, avvocati, fioristi e pasticceri, mentre Edith non si degnava di ammirare nulla né di occuparsi di alcunché, pur adattandosi in silenzio alle fatiche delle prove e degli incontri. Tutto era organizzato dalla vecchia signora, e tutto fu minuziosamente completato la sera precedente il gran giorno. Florence aveva confessato di essere stanca e avevano permesso che andasse a letto; Edith era seduta accanto alla finestra spalancata, il signor Dombey e la vecchia signora discorrevano seduti sul divano, nella penombra resa indispensabile dal mal di capo della signora Skewton (la quale aveva tuttavia già dichiarato che al mattino seguente si sarebbe sentita senza dubbio benissimo). La signora si lamentò che fra poche ore il signor Dombey le avrebbe rapito la sua diletta figlia e chiedeva almeno di tenere con sé Florence in attesa del ritorno degli sposi; purtroppo Florence aveva detto che sarebbe tornata a casa non più tardi del giorno dopo. Poteva il signor Dombey essere tanto crudele di privarla di quella consolazione? (Edith si riscosse dalla sua indifferenza e prestò un orecchio attento). No, il signor Dombey non era tanto crudele, sarebbe stato felice di affidare la figlia alla custodia di una dama tanto compita. La dama espresse con accenti rapiti la sua riconoscenza mentre il signor Dombey si disponeva a congedarsi. Edith si alzò, ma non si mosse; il signor Dombey si diresse con incedere solenne verso la giovane, le prese la mano e la portò alle labbra, disse: - Domani avrai la gioia di poterti chiamare signora Dombey. - E si ritirò.
Le due donne rimasero sole e la vecchia si concesse finalmente di protestare. - Sono stanca morta! - esclamò. - - Ti comporti come una bambina! Ma che dico! Nessuna bambina sarebbe altrettanto ostinata e disobbediente di te!
Edith non mostrò nemmeno di avere udito quelle parole e disse invece:
- Ascoltami, mamma. Devi restare qui sola fino al mio ritorno.
- Devo restare qui sola! - ripeté la donna.
- E bada che altrimenti ti giuro nel nome di Colui che dovrò prendere a testimonio della mia promessa falsa e vergognosa, che domani in chiesa io rifiuterò la mano di quest'uomo. Te lo giuro, e possa io in caso di spergiuro cadere morta sul colpo!
La madre si allarmò sul serio e non osò ribattere parola.
- Basta che siamo noi le donne che siamo - dichiarò Edith. - Non voglio che per dare uno svago alla tua noia sia corrotta una innocente creatura! Florence deve tornare a casa sua.
- Stupida! - scattò incollerita la madre. - Credi forse di trovare mai pace in quella casa prima che la ragazza se ne sia andata?
- Chiedimi pure, o chiedilo a te stessa, se io prevedo di trovare mai la pace in quella casa - ribatté la figlia - e saprai da te la risposta.
La donna anziana sfogò con rancore la sua collera, ma vedendo che non ne ricavava alcun vantaggio, si dominò e prese invece a gemere e a protestare che di fronte a tanta ingratitudine non le rimaneva se non di sperare in una prossima fine delle sue sofferenze. Edith non le aveva staccato gli occhi di dosso e alla fine ripeté con lo stesso tono duro e freddo: - Ti ho detto che Florence deve andare a casa sua.
- E se ne vada pure! - concluse l'afflitta e impaurita genitrice.
- M'importa forse che rimanga? Sarò felicissima che se ne vada!
- Io voglio tanto bene a Florence che pur di salvarla da ogni ombra di quel male che io tengo nel petto, sono disposta a rinunciare a te, mamma, o a lui domani in chiesa, se mi costringi!
- ribatté Edith. - Lasciala stare. Per quanto è in mio potere non voglio che sia turbata e macchiata dalle lezioni che ho appreso io. Non è una condizione troppo dura questa che ti pongo stanotte.
- No, certo, Edith! - gemette la donna. - Se solo tu avessi usato delle parole gentili in luogo di quelle così taglienti...
- Fra noi le parole non hanno più importanza - disse Edith.
Seguita a fare come vuoi, mamma; prendi la tua parte di quello che hai guadagnato; spendi, godi e divertiti e sii felice quanto vuoi.
Abbiamo raggiunto il nostro scopo. D'ora in poi rispetteremo il silenzio. Da questo momento le mie labbra si chiudono sul passato.
Io ti perdono la parte che hai nell'atto malvagio di domani. Possa Dio perdonarmi la mia!
Senza un fremito nel tono della voce e con l'abituale incedere altero e sdegnoso, la giovane augurò alla madre la buona notte e uscì dalla sala. Ma prima di ritirarsi nella sua camera entrò in quella di Florence in punto di piedi e trattenendo il respiro; la fanciulla dormiva tranquilla, e la scorse alla luce della lampada rimasta accesa, in tutta la grazia della sua fiorente innocenza.
Edith la contemplò a lungo, poi le si inginocchiò accanto e rimase fino nel cuore della notte a versare cocenti lagrime.
L'alba si levò fredda e fosca; i topolini della chiesa, sempre intenti ai libri di preghiera più dei loro legittimi proprietari, e interessati a logorare gli inginocchiatoi imbottiti più delle ginocchia dei fedeli, corsero a celare nelle tane gli occhietti brillanti non appena risonò il tremendo fragore delle porte che si spalancavano. Il sagrestano era giunto per tempo con il suo aiutante, seguito dalla signora Miff, la minuscola e asmatica vecchia addetta da tempo immemorabile alla pulizia e manutenzione dei banchi. Mentre si dava daffare a battere e spazzolare la tovaglia dell'altare, il tappeto e i cuscini, la donna pensava al matrimonio che si sarebbe celebrato fra poco. Aveva sentito dire che il restauro della casa e i mobili nuovi dovevano essere costati almeno cinquemila sterline, e una grande autorità in materia di pettegolezzi le aveva pure detto che la sposa non possedeva un soldo. La signora Miff ricordava come fossero eventi del giorno avanti il funerale della prima moglie del signor Dombey, poi il battesimo del bambino e quel secondo funerale. Il sagrestano, che data la sua importanza non poteva occuparsi di lavori servili e stava scaldandosi al primo sole seduto sul gradino del portico, si degnò di aggiungere a beneficio della signora Miff che la sposa era di eccezionale bellezza, notizia che, data la fonte, impressionò profondamente la donna delle pulizie.
Anche nella casa del signor Dombey regna un gran trambusto. Il maggiordomo non è del suo abituale umore solenne e benevolo perché lo irrita la presenza di uno straniero fornito di abbondanti basette, il quale è stato assunto per accompagnare la coppia felice a Parigi e che sta caricando il numeroso bagaglio sulla nuova carrozza. Il maggiordomo dichiara che dagli stranieri non vi è da attendersi nulla di buono, e poiché le cameriere replicano che forse esagera, le convince di avere perfettamente ragione ribattendo che ricordino le infinite malefatte commesse da Bonaparte, già capo riconosciuto di tutti gli stranieri!
La signorina Tox è già alzata e si prepara a uscire perché ha deciso, nonostante il dolore che l'attanaglia, di assistere alla cerimonia nuziale da un angolo buio della chiesa. Anche l'alloggio del guardiamarina di legno è pieno di vita perché il capitano Cuttle sta facendo colazione agghindato da festa e intanto presta un orecchio attento al giovane Robin a cui ha ordinato di leggergli ad alta voce il servizio nuziale per avere la certezza di comprendere a fondo la solenne cerimonia che intende recarsi ad ammirare.
Il cugino Feenix è rientrato per l'occasione dall'estero dove si trovava e si prepara con ogni sforzo personale di fare una bellissima figura: una quarantina d'anni prima era un famoso uomo di mondo nella migliore società londinese, e anche adesso qualcuno può credere che lo sia ancora, purché non lo veda attraversare una sala con passo molto malfermo e si astenga dall'osservare il suo volto grinzoso.
Il signor Dombey passa dallo spogliatoio al salotto fra bisbigli di ammirazione della servitù di sesso femminile: è addirittura splendido in giubba azzurra, pantaloni color tortora e panciotto viola pallido; si mormora pure che il signor Dombey si sia fatto arricciare i capelli.
Giunge il maggiore non meno sfarzosamente abbigliato, con un intero ramoscello di geranio all'occhiello e segue uno scambio di cortesie.
- Perdinci, Dombey! - concluse il maggiore. - Lei, oggi, è l'uomo più invidiato di tutta l'Inghilterra.
Il signor Dombey accetta con riserva il complimento perché sta per conferire a una donna un enorme onore, ed è quindi la donna che è più da invidiare, ma le lodi del maggiore Bagstock non si fermano qui, e risultano gradevoli.
Entra il signor Carker più che mai elegante e sorridente e con un bellissimo discorso per accompagnare la presentazione di un mazzo di fiori esotici destinato alla futura signora Dombey, dono che il signor Dombey garbatamente accetta.
E' tempo che i tre uomini si rechino alla chiesa, dove sono accolti con la massima deferenza. Poco dopo entra la sposa che non reca traccia sul volto dell'uragano di passioni che l'ha sconvolta la sera avanti, e accanto a lei avanza la fanciulla modesta e graziosa che sarà sua figlia. Nel brevissimo intervallo in cui il sagrestano va ad avvertire nella sagrestia il pastore e il suo assistente, la signora Skewton rivolge la parola al signor Dombey, non tanto a bassa voce che la figlia non la possa udire.
- Mio caro Dombey! - esclama la brava donna. - Mi rincresce di dover rinunciare alla compagnia della cara Florence. Sono costretta a lasciare che ritorni a casa come si era proposta. Dopo le emozioni di questa giornata e la perdita della mia diletta figlia temo, mio caro Dombey, che non avrò la forza di godere nemmeno della sua cara compagnia.
Il signor Dombey insiste, dicendo che la presenza di Florence potrebbe riuscirle gradita, ma la signora Skewton conclude di non potere accettare la gentile proposta, non vuole affliggere la cara fanciulla con il suo malinconico stato d'animo, ne ha già parlato alla carissima Edith, la quale ha compreso benissimo.
Compaiono il pastore e il suo assistente, il sagrestano fa avanzare il gruppo e dispone ciascuno secondo l'ordine stabilito.
Il cugino Feenix presenta la sposa allo sposo (è arrivato apposta per tale funzione da Baden-Baden: "Perdinci, se ci capita di accogliere in famiglia un ricco affarista della City, dobbiamo mostrargli la nostra cordialità, si deve fare qualcosa per incoraggiarlo!").
Seguono le domande di rito, il sì del signor Dombey, il sì di Edith. I due si scambiano la promessa di volersi bene scambievolmente "nella buona e Della cattiva sorte, fin che la morte li divida".
La sposa pone la firma con grafia tanto ferma e chiara da suscitare l'ammirazione dello scaccino. Firma anche Florence, ma senza ottenere alcuna lode perché le trema la mano. Tutti baciano la sposa, per ultimo il signor Carker, il quale le si avvicina mostrando tutti i suoi denti scintillanti quasi la volesse mordere, e negli occhi di Edith si accende un lampo inteso forse a proibirgli di seguire l'esempio degli altri, ma non serve a nulla.
Le mormora auguri di ogni felicità, "sebbene di fronte a una tale unione ogni augurio sarebbe superfluo". La sposa lo ringrazia arricciando le labbra e con un visibile attimo di smarrimento. Ma ritorna subito altera, immota e silenziosa, e appoggia la mano sul braccio dello sposo.
Le carrozze sono di nuovo alla porta della chiesa per riportare a casa i felici sposi e gli ospiti.
Dopo che tutti se ne sono andati, la signorina Tox emerge dal suo angolo e si avvia lentamente all'uscita. Ha gli occhi molto rossi e il fazzolettino inzuppato di lagrime. Si sente ferita, ma non offesa, e rivolge in cuor suo alla coppia i suoi auguri sinceri.
Riconosce senza riserve la meschinità delle proprie attrattive di fronte alla bellezza della sposa, ma ha sempre davanti allo sguardo lo splendore del signor Dombey in panciotto lilla e pantaloni color tortora, e mentre si dirige verso casa torna a versare qualche lagrima dietro la veletta.
La comitiva giunge alla residenza della sposa, passa tra una piccola folla di gente vociante che la festeggia, e subito varca la soglia dell'imponente ingresso. Ma perché il signor Carker, prima di entrare, pensa alla vecchia che si era imposta quel giorno alla sua attenzione sbucando fra gli alberi di un boschetto? E perché Florence, avanzando fra la gente, ricorda con un brivido il giorno lontano in cui s'era perduta in città e al volto della buona signora Brown?
Cresce, ma non molto, il numero degli invitati e si rinnovano i rallegramenti e gli auguri; dal salotto passano tutti nella tetra sala da pranzo dove il pasticcere ha superato se stesso nel preparare una squisita colazione. Tra gli altri sono giunti anche i signori Chick, e la signora esprime la propria soddisfazione facendo rilevare come Edith mostri di essere un'autentica Dombey, volgendosi inoltre con affabilità alla signora Skewton, la quale si sente sollevata da un gran peso, e accetta la coppa di spumante che le spetta. Tutti sono piuttosto freddi e tranquilli, i più allegri sono il cugino Feenix e il maggiore, ma il signor Carker riesce a sorridere a ogni singolo commensale. Riserva un sorriso speciale per la sposa, che tuttavia solo di rado lo ricambia con un'occhiata.
Terminata la colazione, il cugino Feenix si alza e pronuncia un brindisi piuttosto insolito e confuso, che però riesce gradevole a tutti ed è molto applaudito. Anche nelle cucine viene festeggiato l'evento con una sontuosa refezione, che s'interrompe solo quando si diffonde la notizia che la sposa è pronta, e allora tutti corrono per essere presenti alla partenza.
La carrozza da viaggio è alla porta; la sposa scende nel salone d'ingresso dove l'attende il signor Dombey. Anche Florence è pronta per partire, e la signorina Susan Nipper, che ha occupato un posto intermedio fra il salotto e la cucina, si dispone ad accompagnarla. Appena vede Edith, Florence corre ad abbracciarla.
Ha freddo, Edith, per tremare così? La turba tanto il contatto della fanciulla da costringerla a staccarsi in fretta come se le riuscisse insopportabile? Perché una partenza così rapida?
Colpita nei suoi sentimenti materni e vinta dall'emozione, la signora Skewton si adagia sul divano in atteggiamento di perfetta Cleopatra e non si lascia confortare da alcuno degli ospiti, i quali poco dopo si congedano ed ella si addormenta saporitamente.
Anche i domestici sonnecchiano nei loro quartieri, sazi di cibo, un po' brilli e stanchi. Scende la sera sulla casa abbandonata di Grosvenor Square e anche nell'altra, tutta rinnovata e riccamente addobbata. Florence è passata di stanza in stanza fino a raggiungere la sua camera, che la sollecitudine di Edith ha abbellita e ornata, si spoglia dell'abito elegante, indossa quello semplice nero, l'abito di lutto per il fratellino. Siede e comincia a leggere con Diogene accoccolato ai piedi che la sbircia e sonnecchia. Ma Florence non riesce a leggere. La casa le pare troppo nuova e piena di strani echi. Si sente oppressa, non sa da che cosa e perché. Chiude il libro e accarezza il cane, che subito le strofina contro le mani le lunghe orecchie; ma poco dopo Florence non riesce più a vederlo distintamente per il velo che le cala sugli occhi e attraverso il quale brillano come angeli il volto della madre e quello del fratello. Ma Walter, oh, tu, povero naufrago sperduto, dove sei ora?
Il signor Toots non aveva perduto l'abitudine di cercare ogni occasione per incontrare Florence o almeno vederla di sfuggita Una sera d'autunno si trovava a girovagare nei pressi della abitazione del signor Dombey quando Susan lo scorse, gli fece cenno che si avvicinasse e in gran mistero lo fece scendere nella dispensa. La giovane era in preda a una forte emozione e riuscì appena a pregarlo che andasse a un certo indirizzo della City recando con sé il giornale che gli dava, perché vi era stampata una notizia intorno a un certo amico, la quale si poteva forse ancora sperare che non fosse vera, ma che avrebbe recato alla signorina Florence un gran dolore quando l'avesse appresa.
Il servizievole signor Toots era corso all'indirizzo indicato, ma invece di trovare il signor Solomon Gills ebbe la sorpresa di trovarsi alla presenza del capitano Cuttle, il quale tuttavia gli spiegò la situazione e si disse disposto ad ascoltarlo. La notizia che aveva attirato l'attenzione di Susan si riferiva a un naufragio: un mercantile era arrivato nel porto di Southampton con un carico di zucchero e altre merci dalla Giamaica, e il capitano si era affrettato a informare le autorità che durante la navigazione aveva avvistato il relitto di una nave senza tracce di vita per varie miglia all'intorno; e su un pezzo ancora intatto della poppa erano rimaste leggibili le parole " Figlio ed E ". Si trattava evidentemente del bastimento Figlio ed Erede appartenente al porto di Londra, partito per le Barbados e che da tempo si riteneva perduto in mare. Fino a qui la notizia del giornale. Il povero capitano Cuttle rimase per alcuni minuti a fissare come smarrito il giovanotto, poi gli voltò le spalle e chinò la testa sulla mensola del caminetto.
Il gentile signor Toots era molto sensibile, il dolore del vecchio capitano lo commosse profondamente ed esclamò: - Santo cielo, in quale strano mondo viviamo! La gente non fa che andare a morire, magari chissà dove! Giuro che se l'avessi saputo non avrei tanto desiderato di venire in possesso dei miei beni, visto che nel mondo si vive molto peggio che alla scuola del dottor Blimber!
Il capitano Cuttle gli fece segno di non badare a lui, e poco dopo si volse, lisciandosi con la mano il volto rabbuiato.
- Addio, Walter, mio caro figliolo! - esclamò il capitano. - Ti ho voluto tanto bene, Walter, da bambino, da ragazzo e da giovanotto!
- disse il capitano, tornando a fissare la fiamma del caminetto. - Non ho mai avuto figli, io, ma ora che perdo Walter mi pare di provare quello che un padre sente quando perde un figlio. Ma la perdita non è una sola, sono tante. Dov'è quello scolaretto che ogni settimana trovavo qui in questa stanza, allegro come un fringuello? Annegato con Walter. Dov'è il fanciullo dalla vivacità instancabile, capace di arrossire che era uno spettacolo guardarlo quando si parlava della sua bella? Annegato con Walter. Dov'è quel giovane di animo fortissimo che non permetteva al suo vecchio di abbattersi nemmeno per un momento? Annegato con Walter!
Il signor Toots non osava aprir bocca e seguitava a cincischiare il malaugurato giornale, piegandolo e ripiegandolo.
- E tu, povero Sol Gills, rimasto solo al mondo, dove sei andato a finire, tu che Walter mi ha raccomandato di proteggere... Che cosa ti sei ficcato in testa, Sol, quando hai deciso di dire addio al tuo vecchio amico Ned? Sol Gills, Sol Gills! - ripeté il capitano Cuttle, scotendo lentamente il capo. - Lo so bene io, che se ti capita di leggere questo giornale così lontano da casa e senza nessuno che abbia conosciuto Walter con cui parlare di lui lo so ben io che affondi di colpo anche tu senza speranza!
- Caro giovanotto, - disse infine il capitano rivolgendosi al signor Toots - lei deve dire sinceramente a quella giovane che questa fatale notizia deve essere vera. Non vi è da sperare che su un argomento come questo raccontino delle favole. Tutto quello che succede durante la navigazione si trova scritto nel libro di bordo, che è il più sincero di tutti quelli scritti dagli uomini.
Domattina uscirò in cerca di informazioni, ma non penso di trovare buone notizie, no, purtroppo non vi è alcuna speranza.
- Sono davvero profondamente rattristato, le assicuro, capitano- disse il signor Toots - come se avessi conosciuto io pure quella persona... ma mi dica, crede che la notizia farà una certa impressione alla signorina Dombey?
- Una certa impressione! - esclamò il capitano sbigottito di fronte a una tale ignoranza. - Ma se si volevano un ben dell'anima fin da quando lei era una bambina piccola così!
La rivelazione colse affatto di sorpresa l'ottimo Toots, il quale scoppiò addirittura in lagrime e confessò piangendo che adorava la signorina Florence, ma il suo era un amore del tutto disinteressato, avrebbe dato volentieri la vita pur di risparmiarle un dolore! Il capitano, che il giovane chiamava "capitano Gills" per la confusione mentale in cui si trovava, confortò il poveretto e gli disse di tornare il giorno dopo, se voleva.
La mattina dopo il capitano Cuttle ordinò a Rob di non aprire le imposte della bottega e così la casa rimase silenziosa e buia come vestita a lutto. Uscì non appena fu l'ora di apertura degli uffici della City e arrivò a quelli della ditta Dombey in tempo per incontrare il signor Carker e seguirlo nella sua stanza.
Brutto affare, capitano Cuttle, - disse il direttore non appena si trovò al suo solito posto con le spalle al caminetto - gran brutto affare!
- Ha visto la notizia stampata sul giornale?
- Sì - confermò il signor Carker. - Abbiamo ricevuto la notizia con molti particolari. Una grossa perdita per gli assicuratori. Ce ne rincresce molto. Nulla da fare! Così è la vita!
Ma il capitano desiderava essere rassicurato su certi dubbi: era vero, come gli aveva detto Walter, che il suo viaggio non aveva tanto rapporto con un suo avanzamento di carriera, ma era piuttosto un pretesto per allontanarlo? L'altra volta il signor Carker era stato molto cortese con lui e ora il capitano lo pregava di essere altrettanto sincero... Ora invece il signor direttore montò su tutte le furie, ordinò al visitatore di andarsene sull'istante se non voleva essere scacciato con la forza e magari arrestato dai gendarmi per quelle sue insensate insinuazioni! E poi, che ne aveva fatto del suo vecchio amico? E che cosa andava complottando con le sue gentili visitatrici? Era meglio che sparisse da quella stanza! Il capitano lo fissava sbigottito, ma non uscì prima di avere ribattuto con la voce tremante per l'emozione: - Giovanotto, avrei molte cose da dirle, ma in questo momento non riesco a metterle in ordine. Però se non moriremo prima, noi due torneremo a incontrarci!
Il capitano aveva la sensazione che tutto il suo mondo fosse crollato, che egli fosse un semplice relitto senza alcun valore in balia della tempesta. Non trascurò tuttavia di procurarsi da un rigattiere un completo da lutto per sé e uno per il giovane aiutante: entrambi li indossarono subito e si trovarono trasformati sull'istante in due nuove specie di spaventapasseri perché al ragazzo l'abito era stretto striminzito, mentre quello del capitano era d'una spropositata larghezza.
Tornò al pomeriggio il signor Toots e il capitano lo intrattenne brevemente: la cattiva notizia era stata confermata; non rimaneva se non raccomandare alla ragazza di rivelarla con delicatezza alla sua padroncina. Rimasto solo nella bottega silenziosa e buia, il capitano intrattenne a lungo il giovane Rob sul carattere, la vita e i sentimenti del povero Walter, lodando l'attenzione e le premure del suo aiutante, il quale riuscì a rimanere affatto impassibile, senza nemmeno arrossire, mentre si sforzava di tenere a mente ogni parola per servirsene nel suo lavoro di promettente spia in erba.
Una sera tutte le finestre della grande casa sono illuminate, e in tutte le stanze brillano mobili e argenterie, luccicano le sete, nel caminetto della sala da pranzo il fuoco divampa ancora più allegro che negli altri ambienti, e la tavola è sontuosamente preparata per quattro persone. Di momento in momento si attende l'arrivo della coppia felice di ritorno dal lungo viaggio di nozze.
Pronta a ricevere il babbo e la nuova mamma, Florence non sa bene se l'emozione che le fa battere il cuore e le accende le guance sia tutta di gioia, o se alla gioia si aggiunga un'ombra di angoscia. E' presente anche la signora Skewton e si dispone ad accogliere a braccia spalancate la diletta figlia e il carissimo genero, avendo indossato per l'occasione una veste molto giovanile per il colore e la foggia, e con maniche molto corte. Aggiungeremo che la sua cameriera personale ha pure l'aria soddisfatta perché pensa che da oggi il suo salario non sarà più in pericolo, e che avrà un notevole miglioramento nel vitto e nell'alloggio.
Finalmente una carrozza si ferma dinanzi al portone, il valletto francese ne balza giù e si lancia sul battente agitandolo fragorosamente e riuscendo a far parere in ritardo il maggiordomo, che pure stava da chissà quanto tempo di fazione al suo posto. Il signor Dombey e la consorte varcano la soglia tenendosi sottobraccio. Ai piedi della scalinata una voce acuta si leva a invocare il nome dei nuovi arrivati, e la signora Skewton sommerge in un abbraccio colmo di trine la figlia e il marito.
Anche Florence è scesa nell'atrio e si fa avanti timidamente; Edith corre ad abbracciarla, il padre le stende la mano e le chiede semplicemente: - Come va, Florence? - Ma mentre Florence porta alle labbra la mano del padre, solleva lo sguardo sul volto di lui, e in quella espressione pur sempre fredda e distaccata le pare di scorgere un barlume di interesse, una scintilla di gradevole sorpresa. Quale brivido di gioia pervade ora la fanciulla: sì, aveva ragione di sperare che la nuova e bellissima mamma l'avrebbe aiutata a conquistare l'affetto del padre!
- Non ti occorre molto per cambiarti d'abito, non è vero cara?
chiede il signor Dombey alla moglie.
- No davvero, sarò subito pronta.
- E allora pranzeremo fra un quarto d'ora esatto.
Detto questo il signor Dombey si diresse rapidamente verso il proprio spogliatoio e la signora salì nella sua camera, mentre la signora Skewton e Florence li attendevano nel salotto.
Il primo a giungere fu il signor Dombey.
- Dica, mio carissimo Dombey, - chiese la signora Skewton, la quale si era creduta in dovere di spremere qualche lagrima nel fazzolettino di merletto per festeggiare il felice ritorno della figlia - come ha trovato quella deliziosa città che è Parigi?
- Faceva freddo - rispose il signor Dombey.
- Ma gaia e vivace come al solito, immagino!
- Non molto - replicò il signor Dombey. - L'ho trovata noiosa.
- Via, via! - protestò la suocera. - Noiosa, Parigi!
- A me ha dato questa impressione - insistette con severa cortesia il signor Dombey. - Credo che la stessa idea abbia avuta anche mia moglie: almeno due o tre volte mi disse di trovarla noiosa.
- Oh, birichina, birichina! - gridò la signora Skewton alla sua figlia diletta che entrava in quel momento. - Quali eresie hai dette su Parigi?
Edith si limitò a sollevare i sopraccigli con gesto di stanchezza, e senza aprir bocca andò a sedere accanto a Florence.
- Mio caro Dombey, - disse la signora Skewton - questa casa è diventata un vero palazzo, con quanta abilità hanno realizzato ogni nostro suggerimento!
- Sì, è una bella casa - disse il signor Dombey, guardandosi intorno. - Avevo ordinato che non si lesinasse nelle spese e credo sia stato fatto tutto ciò che si può ottenere con il denaro.
- E che cosa non si può ottenere con il denaro, mio caro Dombey?- osservò quella moderna Cleopatra.
- Infatti è molto potente, signora! - confermò il signor Dombey, il quale rivolse uno sguardo solenne alla moglie, che tuttavia non aperse bocca. Il bel volto aveva l'abituale espressione sprezzante, ma si accendeva di nuovo e violento sdegno ogni volta che il marito facesse la benché minima allusione alle proprie ricchezze. Non si sa se il signor Dombey, tutto chiuso nell'alterigia della propria grandezza, se ne fosse già accorto, ma se avesse voluto avrebbe potuto scoprire l'intera verità in quello stesso momento, osservando il rapido lampeggiare di quegli occhi neri: avrebbe potuto moltiplicare per dieci le sue già notevoli ricchezze, senza tuttavia ottenere che l'animo indomito della donna a lui legata si volgesse mai a lui con dolcezza, perché pur accettando tutti gli agi che le spettavano di diritto avendo accettato di diventare la sua sposa, essa lo disprezzava.
Fu annunciato il pranzo, il signor Dombey offerse il braccio alla suocera, lo seguirono Edith e Florence, la prima affatto indifferente alla vista dello splendido vasellame esposto sulla credenza. E così Edith prese posto alla tavola che era diventata la sua, dura e fredda come una statua.
Dato che il signor Dombey aveva anch'egli non poche delle caratteristiche del marmo, egli si compiaceva di vedere la bellissima moglie così imperturbabile, altera e fredda; ella era inoltre sempre elegante e aggraziata nel portamento, e pertanto egli trovava tutto questo molto gradevole e congeniale. La cena proseguì in una atmosfera piuttosto glaciale e alla fine le signore si ritirarono lasciando il signor Dombey a trascorrere come preferiva le ultime ore della sera, mentre la signora Skewton, non poco annoiata da quella mancanza di allegria, si ritirava, dicendosi profondamente commossa di aver toccato con mano la perfetta felicità della figlia diletta, ed Edith seguiva Florence nella sua camera, dove rimasero a lungo a conversare come due affettuose sorelle.
Florence dovette da prima spiegare come aveva trascorso quelle ultime settimane e quali libri aveva letti; all'improvviso la fanciulla divenne mesta e le salirono le lagrime agli occhi.
- Oh, mamma, se tu sapessi quale grandissimo dolore ho sofferto in questi ultimi giorni!
- Tu, Florence, hai avuto un dolore?
- Sì, il povero Walter è dato come perduto nel naufragio della sua nave!
Florence nascose il volto fra le mani e non cercò di trattenere la piena del suo piccolo cuore angosciato. La triste sorte di Walter le era già costata innumerevoli lagrime, eppure il suo dolore non si esauriva, ma la investiva con sempre nuova intensità ogni volta che pensava a quel poveretto o ne pronunciava il nome.
- Ma dimmi, cara, - la esortò Edith accarezzandola con materna dolcezza. - Chi era Walter? Che cosa era lui per te?
- Era mio fratello, mamma. Dopo la morte del nostro piccolo Paolo avevamo deciso di essere fratello e sorella. Lo conoscevo da tanto tempo... fin da quando ero bambina. Lui conosceva Paolo e piaceva molto al mio fratellino. Quasi le ultime parole che disse prima di morire furono: "Babbo, non dimenticarti mai di Walter! Io gli ho voluto tanto bene!". Avevano fatto salire Walter perché lo vedesse, e fu allora... in questa camera...
- E tuo padre si è ricordato di lui? - chiede con durezza Edith.
- Il babbo? Ha ordinato che andasse nelle colonie... Il naufragio è avvenuto durante la traversata.... - singhiozzò Florence.
- Egli sa che è morto? - chiese ancora Edith.
- Non so, mamma, non lo posso sapere. Mamma cara! - gridò Florence abbracciando la giovane e nascondendole il volto sulla spalla. - Tu hai veduto...
- Zitta, zitta, Florence! - Edith si era fatta pallidissima e con la mano aveva coperto le labbra della fanciulla. - Dimmi invece di Walter, spiegami bene tutto di lui.
Florence le riferì ogni cosa, fino all'amicizia del signor Toots, al quale nemmeno ora poteva pensare senza sorridere fra le lagrime.
Alla fine Edith le chiese: - Che cosa credi, Florence, che io abbia veduto?
- Che non sono la figlia diletta del babbo - spiegò Florence, nascondendo di nuovo il volto - che non sono mai stata la sua diletta figlia. Non sono mai riuscita a farmi voler bene da lui, non avevo nessuno che me lo insegnasse. Oh, mamma, insegnami tu che lo sai tanto bene! - e tra le braccia protettrici della sua nuova mamma Florence pianse ancora a lungo, ma non più disperatamente come prima.
Pallida come la morte, Edith si dominava a fatica, infine staccò da sé la fanciulla, e con la voce che tradiva l'emozione solo per essere ancora più ferma e più profonda del solito, disse:
- Florence, tu non mi conosci! Ti salvi il cielo dall'apprendere questo da me!
- Perché mi parli così, mamma? - chiese sorpresa Florence.
- Il cielo non voglia che io ti insegni ad amare o a essere amata!
- esclamò Edith. - Sarebbe meglio che lo insegnassi tu a me, ma è troppo tardi ormai. Mi sei tanto cara, Florence, non avrei mai pensato di affezionarmi tanto a te in così breve tempo.
Florence stava per replicare, ma non lasciò che aprisse bocca.
- Sarò sempre la tua più cara amica. Abbi fiducia in me, carissima, non credere che io possa mai tradire il tuo affetto.
Tuo padre avrebbe potuto scegliere fra mille donne migliori di me sotto ogni riguardo, Florence, ma sii certa che nessuna si sarebbe potuta sentire più vicina al tuo cuore di quanto sia adesso io.
- Lo so, mamma! - gridò Florence. - L'ho saputo appena ti ho vista!
- Ma non cercare di trovare in me - seguitò Edith - quello che non posso avere. Ti prego di non volermi meno bene per questo, nemmeno quando mi conoscerai meglio, quando mi vedrai nella realtà come io mi vedo. E allora non essere troppo dura con me, non volgere in amarezza l'unico dolce ricordo che mi resterà.
Lagrime trattenute le brillavano negli occhi mentre non smetteva di tenerli fissi in quelli della fanciulla, ed era chiaro che la sua ferma espressione non era se non una bellissima maschera che la forza di volontà le permetteva di non gettare.
- Ho visto infatti quello che hai detto e so che è la verità riprese - ma credimi, e se non puoi adesso, mi crederai più tardi, che io sono l'ultima creatura della terra a poterti aiutare in questo. Non chiedermi perché, non parlarmi più dell'argomento, né di mio marito. Su tale punto fra noi due vi deve essere una barriera di silenzio, un silenzio di tomba.
Florence non osò ribattere parola; nella sua mente ancora incredula cominciava a farsi strada una vaga ombra della realtà che le era stata fatta intravvedere. Poco dopo il volto di Edith era tornato dolcissimo e affettuoso come Florence l'aveva sempre visto quando si trovavano insieme senza testimoni. Poi la donna si alzò, diede la buona notte alla fanciulla con un bacio e uscì in fretta senza voltarsi.
Ma quando Florence si fu coricata, e la camera era illuminata solo dal bagliore del caminetto, Edith ritornò, disse che non poteva dormire, che nelle sue stanze aveva freddo. Avvicinò una seggiola al fuoco e stette con gli occhi fissi sulle braci. Florence rimase a contemplarla fino a quando il sonno la vinse. Ma non era tranquilla e fu tormentata da sogni sgradevoli e paurosi: suo padre fuggiva attraverso deserti e montagne impervie, ed ella vanamente lo inseguiva cercando di liberarlo da sofferenze durissime, che tuttavia non comprendeva. Poi lo vedeva morto, e si rendeva conto che non l'aveva mai amata nemmeno alla fine, e lo abbracciava disperata. Poi si trovava sulle rive di un gran fiume e da lontano scorgeva Walter, sereno e immobile. E sempre Edith entrava e usciva dal sogno, a volte lieta e a volte triste, fino che si trovarono insieme sull'orlo di una fossa, Edith le faceva cenno di guardare, e sul fondo... ma come?... ecco, sul fondo stava adagiata un'altra Edith!
Terrorizzata da quell'ultimo sogno, si destò e le parve di udire una voce dolcissima che le mormorava: "Florence, cara piccola Florence, non temere, è solo un sogno!" e si trovò a ricambiare le carezze della sua nuova mamma, che poco dopo usciva in silenzio dalla stanza nella prima luce grigia dell'alba. Florence adesso era seduta sul letto e si chiedeva se tutto era stato un sogno.
Così era trascorsa la notte dopo che la coppia felice era arrivata nella casa rifatta nuova e sontuosa.
Andremo adesso a posare lo sguardo su due case piuttosto lontane l'una dall'altra, ma entrambe situate nei dintorni della grande metropoli londinese.
La prima è in una zona verde e boscosa in direzione di Norwood:
non è un palazzo, non è imponente per le dimensioni, ma perfettamente proporzionata e molto ben tenuta. Non manca il prato in dolce pendio, con aiuole di fiori e il boschetto; non manca la serra né la veranda di stile rustico dai pilastri coperti di rampicanti. L'interno è addirittura ricco per i mobili di ottimo gusto che adornano tutte le stanze e l'armonia dei colori vivaci delle stoffe; vi abbondano i libri raccolti in angoli deliziosi, e vi sono tavolini con stupendi pezzi per il gioco degli scacchi, con i dadi e le carte. E tuttavia da tutta quella opulenza esala un non so che di malsano. Forse che i tappeti e i cuscini sono troppo morbidi sino a dare l'impressione che le persone le quali se ne servono per calpestarli o adagiarvisi lo facciano sempre con movimenti furtivi? O forse perché i dipinti e le stampe che ornano le pareti non celebrano grandezza di pensieri o di gesta, ma sono tutti di carattere frivolo, semplici manifestazioni di forma e di colore prive di contenuto? Anche i libri sono per lo più i degni compagni dei quadri e il loro valore consiste soprattutto nell'oro delle rilegature. Si nota inoltre qui e là qualche tocco ostentatamente umile che suona falso come il ritratto molto realistico che domina il tavolino preparato per la prima colazione, di fronte al quale se ne sta adagiato in poltrona l'originale del dipinto.
Chi siede su quella poltrona è il signor direttore Carker, occupato in quel momento a osservare con un sorriso misterioso il quadro che gli sta di fronte.
- Una somiglianza davvero straordinaria per essere accidentale!- mormora il signor Carker.
La figura rappresenta forse Giunone, o forse la moglie di Putifarre, o una sdegnosa ninfa, o chissà quale altro nome di moda possono averle dato i trafficanti d'arte quando l'hanno gettata sul mercato. Comunque è una figura di donna bellissima che volge le spalle a chi la guarda, ma tiene il capo girato e fa balenare un'occhiata superba. Rassomiglia molto a Edith.
L'uomo le rivolge un breve gesto della mano, che potrebbe essere di minaccia, o forse di trionfo, o solo un insolente saluto, quindi torna a occuparsi della colazione interrotta.
La seconda casa che vogliamo visitare è dal lato opposto rispetto a Londra, poco discosta dalla grande strada su cui un tempo si incanalava tutto il traffico per il nord, ma ora percorsa più che altro da stanchi viandanti. E' piccola, questa casa, ammobiliata poveramente, ma ordinata e linda, e nel minuscolo giardino vi è persino la pretesa di una modesta coltivazione di fiori. La zona non si raccomanda per essere decisamente di campagna, né per appartenere alla città, da cui dista troppo, ma che la investe con la confusione di alti comignoli neri e di fabbriche di mattoni.
La donna che abita in questa casa ha abbandonato l'altra che abbiamo appena descritta per seguire un fratello caduto in disgrazia. Harriet Carker è parecchio mutata da quel giorno, ma è ancora bella di una bellezza dolce e modesta che nemmeno l'abito meschino può del tutto celare. Ora sta salutando il fratello per amore del quale ha rinunciato a una vita di agi.
- E' presto, John! - gli dice. - Perché vuoi uscire così per tempo?
- Non è tanto presto, Harriet. Ma se avessi qualche minuto da perdere vorrei... una semplice fantasia che m'è venuta... vorrei passare accanto alla casa in cui sono andato a congedarmi da lui... dove l'ho salutato per l'ultima volta.
- Vorrei averlo conosciuto io pure, John.
- Meglio così, mia cara, se pensi al suo triste destino. Mi pare a volte che avrei potuto coltivare di più la sua amicizia...
- Ma sicuro!
Il giovane dall'aria invecchiata e stanca scuote la testa. - No, lo sa il cielo quanto volentieri l'avrei fatto, ma rispettavo troppo la sua reputazione per permettere che lo vedessero amico di un tipo come me... No, no, meglio così, anche se allora gli ho dato un dispiacere! - E con un sorriso cerca di rasserenare la sorella.
- Addio, John caro! Ci troveremo stasera, verrò a incontrarti come al solito.
Il volto gentile che si avvicina al suo per l'abituale bacio del congedo è tutto per lui, la famiglia, la vita, il mondo intero, e tuttavia fa anche parte del suo castigo e del suo dolore, perché nella sorella sacrificata egli non può non vedere ogni giorno gli amari frutti della sua antica colpa.
Poco dopo Harriet Carker ricevette una visita gradita e insieme temuta per l'emozione che ogni volta ridestava in lei. Quell'uomo di mezza età di quando in quando andava rispettosamente a ricordarle che il suo amore era fedele e costante. E di nuovo la donna accolse con gentilezza il visitatore che si limitò a entrare nel piccolo giardino, e tornò a dichiarargli che avrebbe accettato di abbandonare il fratello solo quando egli fosse stato reintegrato, almeno in parte, nella posizione che era un tempo la sua...
Il cielo che al mattino era stato limpido, lentamente si rannuvolò, si levò il vento, seguì una pioggia pesante. In giornate come quelle Harriet si attardava sovente alla finestra e guardava con pietà i radi viandanti diretti verso la metropoli.
Ora aveva preso un lavoro di cucito e vi si dedicava assiduamente nonostante la poca luce, quando levando il capo scorse nella strada una donna che avanzava lottando contro il vento; mostrava una trentina d'anni, era miseramente vestita, senza la cuffia, ma solo con un fazzoletto lacero a ripararle i folti capelli neri; poi Harriet ne scorse il volto d'una bellezza fiera e sfrontata che pareva sfidare gli elementi e perfino il cielo. Harriet ne ebbe un vivo senso di pietà e fu di scatto alla porta che aperse:
la poveretta che nonostante l'aria ardita doveva essere stanchissima, rassegnata d'un tratto a subire la pioggia senza più resistere, si era seduta su un mucchio di pietre. Harriet le fece segno che si avvicinasse e la donna obbedì senza addolcire l'espressione.
- Perché resta così sotto la pioggia? - le chiese gentilmente Harriet.
- Perché non so dove andare!
- Ma vi sono tanti posti intorno dove rifugiarsi! Anche qui sotto... - e Harriet indicò il piccolo portico che riparava l'ingresso della sua povera casa. - Venga pure, se vuole.
L'altra si fece avanti come intimorita e zoppicava; si accoccolò per sfilarsi una scarpa mezzo sfondata e togliere le pietruzze che vi erano entrate con la pioggia. Harriet vide che il piede era ferito, e insistette perché la poveretta entrasse; le diede qualcosa da mangiare, volle che rimanesse un poco davanti alla fiamma del caminetto. Disse che veniva da molto lontano dopo mesi e mesi di navigazione... dalle terre dove vanno i deportati, perché era stata anch'essa condannata alla deportazione.
- Il Signore le perdoni e la benedica! - mormorò Harriet.
- Ah, se tanto per cominciare gli uomini ci aiutassero un po' di più sarebbe meglio!
- Ma si può sempre sperare, non è mai troppo tardi per rimediare... - suggerì Harriet. - Se è pentita...
- No! - la interruppe la donna. - Non mi sono pentita e non mi pentirò. Perché dovrei pentirmi io, quando gli altri non sono condannati a far penitenza? Chi si pente dei torti fatti a me?
Si alzò e tornò a legare il fazzoletto sui capelli che aveva sciolti sulle spalle perché asciugassero.
- Adesso dove va? chiese Harriet.
- Laggiù, a Londra.
- Ha una casa dove andare?
- Credo di avere una madre, ma è tanto madre come la sua casa è una tana! - concluse la giovane con una risata amara.
- Prenda! - esclamò Harriet, mettendole in mano una moneta. - E' poco, ma almeno per un giorno basterà.
La donna era finalmente commossa, chiese di baciare Harriet, le posò le labbra sulla guancia, si coperse gli occhi con il braccio, e si allontanò in fretta nell'aria nebbiosa e già scura.
In una stanza scura e misera una vecchia brutta e nera come una strega stava accoccolata accanto a un meschino focherello ad ascoltare la pioggia e il vento. A poco a poco aveva lasciato ciondolare il capo sino alle ginocchia ed era caduta in uno stato di torpore in cui i rumori della sera diventavano un monotono rombo, simile a quello che giunge dal mare a chi lo contempla dalla spiaggia.
L'unica luce della stanza era data dal fuoco del camino, che a volte si ravvivava come l'occhio d'una bestia feroce mezzo addormentata, e serviva a rivelare nient'altro che un mucchio di stracci, un altro di ossa, un lercio giaciglio, due o tre sedie sfondate, le pareti annerite e il soffitto ancora più sudicio delle pareti.
Se in quel momento Florence si fosse trovata nella stanza e avesse potuto lanciare anche solo un'occhiata alla vecchia, avrebbe subito riconosciuto in lei la 'buona' signora Brown, benché il lontano ricordo infantile doveva esserle rimasto impresso nella mente con tutte le deformazioni ingigantite e grottesche delle ombre fatte danzare dal fuoco sulle pareti. Ma Florence non era presente quella sera, e la 'buona' signora Brown se ne stava tutta sola a godere quel po' di calore.
La riscosse uno sfrigolio più forte del solito delle gocce che sibilando cadevano lungo il camino, e fu pronta a udire una mano che toccava il saliscendi e un passo nella stanza.
- Chi è? - chiese girando la testa.
- Chi ti porta delle notizie - rispose una voce di donna.
- Notizie? Da dove?
- Da lontano.
- Di là del mare? - gridò la vecchia drizzandosi.
- Sì, di là del mare.
La vecchia attizzò in fretta il fuoco, e avvicinatasi alla visitatrice, che intanto aveva richiuso la porta, le posò le mani sul mantello inzuppato di pioggia, e senza incontrare resistenza fece voltare la figura così che il fuoco ne illuminasse il volto.
Fu da prima con un grido di delusione che lasciò ricadere le braccia.
- Non è la mia ragazza! - gridò la vecchia, levando le braccia.- Dov'è la mia Alice? Dov'è la mia bella figlia? Me l'hanno ammazzata!
- Non ancora, se il tuo nome è Marwood - ribatté la visitatrice.
- L'hai vista allora? Mi ha scritto?
- Dice che tu non sai leggere!
- E' vero! - gemette la vecchia torcendosi le mani.
- Non hai una lucerna qui? - domandò la visitatrice, guardandosi intorno.
Borbottando e scotendo la testa, la vecchia riuscì ad afferrare una candela da uno stipo in un angolo, l'accese non senza difficoltà ficcandone tra i carboni ardenti il lucignolo polveroso e la posò sulla tavola. Vide la visitatrice seduta con le braccia incrociate sul petto e gli occhi bassi; s'era tolta dal capo il fazzoletto.
La vecchia si mise a fissarla.
- Guarda bene, madre! - disse la visitatrice alzando gli occhi.
Allora la vecchia lanciò un urlo e si lanciò ad abbracciare la giovane.
- E' la mia ragazza. La mia Alice! La mia bellissima figlia che è tornata sana e salva! - e si lasciò cadere a terra, stringendole le ginocchia e agitando freneticamente la testa. E' la mia ragazza, la mia bella Alice!
- Sì, madre, - rispose Alice, chinandosi a baciare la vecchia, ma subito cercando di sciogliersi da quell'abbraccio. - Lasciami andare, madre. Alzati e vatti a sedere. A che serve fare scene?
- E' tornata ancora più dura di quando è partita! - gridò la madre senza levarsi da terra. - Non mi vuol bene! Dopo tutti questi anni e la vita disgraziata che è sempre stata la mia!
- Su, madre! - ribatté Alice, scotendo le gonne cenciose per togliersi a quella stretta. - Gli anni sono passati anche per me, e anch'io ho avuto le mie disgrazie. Credevi di vedermi tornare giovane come quando ero partita? Credevi che una vita come quella che dovevo condurre laggiù potesse far bene alla mia bellezza?
Certo che mi troverai più dura di allora!
Più dura con me! Con la tua buona mamma! - protestò la vecchia.
- Ascoltami bene, madre: se ci comprendiamo subito, può darsi che riusciamo ad andare d'accordo. Sono partita che ero una ragazza, sono tornata donna. Ero cattiva allora, e ci puoi scommettere che non sono meno cattiva adesso. Ma tu sei stata buona con me?
- Io! Io non sono stata buona con la mia ragazza!
- Senti un po', madre, - prese a dire con durezza la giovane ho avuto il tempo di riflettere in questi anni, tanto per passare il tempo. E ho pensato che se tanti mi dicevano di essere buona con la gente, forse qualcuno doveva essere buono con me. Ma quella bambina che si chiamava Alice Marwood è cresciuta nella povertà e nell'abbandono, senza che nessuno si curasse di lei, né le volesse bene. Cresceva nella strada fra una massa di piccoli disgraziati come lei, e tuttavia conservava la bellezza della sua infanzia.
Sarebbe stato meglio se fosse diventata brutta e che l'avessero perseguitata per la bruttezza fino a farla morire!
- Vai avanti, vai avanti! - la incitò la madre.
- Sì, vado avanti - rispose la figlia. - La ragazza che si chiamava Alice Marwood era bella, curata, vezzeggiata, e le fu insegnato a vivere, ma a vivere male. Allora tu le volevi bene, e non eri più povera allora! Ma per lei era stata la rovina.
- Dopo tutti questi anni! - gemette la vecchia. - La mia ragazza viene a dirmi questo...
- Stai tranquilla che ho quasi finito. Vi fu una ladra di nome Alice Marwood, ancora giovanissima, ma ormai una fuori legge. Fu processata e condannata, e il giudice le indirizzò un bellissimo discorso per dirle che si era servita dei suoi doni di natura pel commettere il male mentre il braccio forte della legge avrebbe potuto salvarla quando era giovane e innocente! Sì, ho riflettuto poi molte volte su quel discorso... E così, madre, quella Alice Marwood fu deportata perché imparasse a fare il bene in un luogo, dove il male e il vizio superavano mille volte il bene. E Alice Marvood è ritornata donna, la donna che è diventata dopo una tale vita. Ma sì, con l'andare del tempo vi saranno per lei altri bei discorsi e il braccio della legge diventerà ancora più forte, e per lei sarà la fine. Ma il signor giudice non deve temere di rimanere senza lavoro perché vi saranno sempre a tenerlo occupato tutti quei piccoli disgraziati, ragazzi e ragazze, che cresceranno e studieranno la vita sui marciapiedi delle strade dove sono nati.
La vecchia aveva appoggiato i gomiti sulla tavola e stringeva il volto fra le mani con gesto desolato, che forse non era del tutto insincero.
- Ecco, madre, ho finito! - disse la figlia con uno scatto del capo, volendo forse dire che intendeva chiudere per sempre l'argomento. - Ho parlato abbastanza. Qualunque cosa faremo noi due, non parliamo più di doveri da compiere. Immagino che la tua infanzia sia stata identica alla mia: tanto peggio per noi! Non voglio biasimare te, né difendermi: a che scopo? Tutto questo appartiene al passato. Ma non sono più una ragazza... sono una donna, e non occorre più che rifacciamo la storia della nostra vita come hanno fatto i signori della corte. Noi sappiamo già tutto fin troppo bene.
Per quanto perduta e disonorata, la giovane conservava nel volto e nella figura una bellezza che nessuno avrebbe potuto mancare di notare alla prima occhiata, la stanca, sciupata e dolorosa bellezza di un povero angelo caduto.
La madre rimase a lungo a fissarla in silenzio, allungò timidamente la mano, e non vedendosi respinta prese a carezzarle il volto e i capelli, le sfilò dai piedi le scarpe informi e inzuppate di pioggia e di fango, poi le ravvolse le spalle in un panno asciutto.
- Madre, vedo che sei povera - disse Alice guardandosi intorno dopo un lungo silenzio. - Come sei riuscita a vivere?
- Andando a chiedere l'elemosina, mia cara.
- Anche rubando?
- A volte, sì, Alice, ma poco, poco. Sono vecchia e senza coraggio. Ho preso cose di poco valore a qualche signorino o signorina, ma non tanto spesso. Invece sono andata in giro, colombella mia, e so io quello che sono riuscita a sapere.
Guardavo.
- Guardavi? - ripeté la figlia fissandola.
- Tesoro mio, ho tenuto d'occhio una famiglia - spiegò la madre con tono ancora più umile e sottomesso.
- Quale famiglia?
- Zitta, zitta, bambina. Non arrabbiarti, l'ho fatto per te, per amore della mia povera bambina mandata di là dei mari... Anni fa- aggiunse, osando appena dare un'occhiata al volto duro e attento che le stava di fronte - ho incontrato per caso la figlia piccola...
- La figlia di chi?
- Non la sua, Alice cara! Non guardarmi così, non la sua! E come potrebbe essere! Lo sai bene che non ha figli.
- Di chi allora? - la rimbeccò la figlia. - Hai detto sua figlia.
- Zitta, zitta, Alice, mi spaventi! La figlia del signor Dombey, solo del signor Dombey. E più tardi li ho visti ancora tutti. Ho visto anche lui.
Nel pronunciare l'ultima parola, la vecchia si ritrasse quasi temendo che la figlia levasse la mano su di lei perché il volto della giovane tradiva una collera furiosa.
- Lui non immaginava chi fossi io! - esclamò la vecchia stringendo il pugno.
- E nemmeno si curava di saperlo! - mormorò la figlia fra i denti.
- Ma ci siamo trovati a faccia a faccia - seguitò la vecchia. Gli ho parlato e lui ha parlato a me. Sono rimasta a guardarlo mentre se ne andava per il viale di quel bosco, e lo maledicevo nel corpo e nell'anima a ogni passo che faceva.
- Gran male gli avrai fatto! - la beffò la figlia, che tuttavia era scossa da una furia indicibile e che solo con un supremo sforzo della volontà riuscì a dominarsi. Dopo un breve silenzio chiese:
- E' sposato?
- No, colombella mia.
- Fidanzato?
- Che io sappia, no. Ma s'è sposato il suo amico e padrone. Oh, facciamogli pure i nostri auguri, possiamo fare gli auguri a tutta quella gente - gridò la vecchia, incrociando per l'esultanza le braccia sul petto incavato - perché da quel matrimonio a noi non verrà nient'altro che della gioia, bada ben a quello che ti dico!
La figlia la fissò con aria interrogativa.
- Ma tu sei bagnata e stanca, tu hai fame e sete - disse la vecchia zoppicando verso la credenza - e c'è ben poco qui, e poco... - si ficcò la mano in tasca e fece tintinnare qualche moneta che gettò sulla tavola - anche qui. Alice cara, tu hai un po' di quattrini?... Tutto qui? - esclamò la vecchia fissando con occhi avidi il poco denaro che la figlia aveva poco prima ricevuto in dono.
- Non avrei nemmeno questo se qualcuno non mi avesse fatto la carità.
- Bene, bene... se dai a me vado a comperarti qualcosa da mangiare e da bere... - e già si annodava i nastri della vecchia cuffia e si gettava sulle spalle uno scialle lacero, senza staccare gli occhi dalla mano in cui la figlia teneva ancora stretto il suo microscopico tesoro.
- Madre, quale gioia ci dovrà venire da quel matrimonio? chiese la figlia. - Non hai detto quale sia questa gioia.
- La gioia - rispose la vecchia, aggiustandosi con le mani tremanti lo scialle e la cuffia - di un matrimonio dove manca affatto l'amore, colombella mia, e dove non vi è che orgoglio e odio. La gioia di stare a vedere come lotteranno fra loro, superbi come sono l'uno e l'altra, e poi la gioia del pericolo... del pericolo, Alice!
- Quale pericolo?
- So io quello che ho veduto! So io quello che so! - sogghignò la vecchia. - Che stiano bene attenti, quelli! Che stiano in guardia!
Può darsi che la mia ragazza trovi ancora da fare fortuna!...
Dammi, dammi, che vado a comperarti qualcosa di buono!
La giovane teneva ancora il denaro stretto nella mano, e prima di cederlo lo portò alle labbra come volesse baciarlo.
- Ah, ah! - sogghignò la vecchia. - Sicuro, Alice, li bacio anch'io i quattrini! Peccato che non vengano a mucchi e li bacerei tutti!
- Pensavo alla persona che me li ha dati... che ne sai tu?
- Io so tanto più di quanto tu non creda! Io so più di quello che lui non immagini! Io so tutto di lui!
La figlia ebbe un sorriso incredulo.
- So di suo fratello - disse la vecchia, allungando il collo e contorcendo i lineamenti con uno spaventoso sogghigno - di suo fratello che per aver rubato si doveva trovare dove hanno mandato te... e che invece vive con sua sorella nella strada che esce da Londra a nord...
- Dove?
- Sulla strada a nord, colombella. Vedrai la casa, se vuoi. Non è gran che, niente di bello in paragone alla sua. No, no, non andare adesso! - gridò la vecchia, vedendo che la figlia si alzava dalla seggiola. - E' troppo lontana... vicino alla pietra miliare, dove c'è un mucchio di sassi... domani, cara, andrai domani, se ne hai voglia. Ora vado a comprare...
- Fermati! - urlò la giovane, balzando su come una furia. - La sorella ha una bella faccia e i capelli castani?
Sbigottita e terrorizzata la vecchia accennò di sì.
- Ho ben visto che gli rassomigliava! E' una casa rossa, distaccata dalle altre? C'è un portico verde davanti alla porta?
La vecchia tornò ad accennare di sì.
- E oggi sono stata là! Ridammi quel denaro!
- Ma cosa dici, Alice cara!
- Ridammi quel denaro o guai a te!
Strappò la moneta dal pugno della madre, riprese di furia il mantello e il fazzoletto e si lanciò a precipizio fuori della stanza, seguita dalla madre che non finiva di supplicarla che si fermasse, che le ridesse i quattrini. Poi la vecchia si stancò di pregare. Non era tanto lontana la mezzanotte quando le due donne si trovarono fuori delle vie abitate, nella zona desolata dove il buio era quasi completo.
- Guarda là! - ordinò la figlia per tutta risposta a un'ultima supplica della vecchia. - Io sono stata in quella casa: è quella che tu dici?
La madre accennò di sì e poco dopo si trovarono alla porta. Dalla finestra trapelava un bagliore di fuoco e di candela. Alice bussò e John Carker, aperta la porta, domandò stupito che cosa volessero a quell'ora le due donne.
- Voglio sua sorella! - disse Alice. - La donna che oggi mi ha dato questo denaro.
Nell'udire la voce, Harriet si fece sulla porta anch'essa.
- Ah! - esclamò Alice. - Eccola! Si ricorda di me?
- Sì - le rispose Harriet stupita.
Colei che si era umiliata poche ore prima ai suoi piedi ora la fissava con espressione di odio e di sfida e levava il braccio tanto minacciosamente che la giovane si accostò per difesa al fratello.
- Come ho potuto parlare con te e non riconoscere il sangue che ti scorre nelle vene, come ho potuto stare di fronte a te senza sentire ribollire il mio! - gridò Alice.
- Ma perché? Che cosa le ho fatto di male, io?
- Che cosa hai fatto! - ribatté l'altra. - Mi hai fatto sedere vicino al tuo fuoco; mi hai dato cibo e denaro; mi hai dato la tua pietà! Tu, che hai un nome sul quale io sputo il mio disprezzo!
A conferma di quanto diceva la figlia, la vecchia agitò contro la giovane e il fratello la mano risecchita con un'espressione tanto maligna da far apparire addirittura ributtante la sua bruttezza, ma intanto si aggrappava con l'altra mano ai panni di Alice, supplicandola a bassa voce che non buttasse via il denaro.
- Se ho lasciato cadere una lagrima sulla tua mano, te la faccia marcire. Se ho detto una parola gentile al tuo orecchio, ti diventi sordo! Se ti ho toccato la guancia con le labbra, ti serva di veleno! Maledetto questo tetto che mi ha dato riparo! Vergogna e miseria su di te e rovina su tutti i tuoi!
Così dicendo gettò a terra la moneta e la calpestò.
- Ecco che cosa ne faccio del tuo denaro! Non lo accetterei nemmeno se bastasse a pagarmi l'ingresso in Paradiso!
Pallida e tremante, Harriet riuscì tuttavia a trattenere il fratello per lasciare che la donna finisse e si allontanasse indisturbata.
Quando la porta della casa fu chiusa, la vecchia sarebbe voluta ritornare a raccattare la moneta, ma la figlia la trascinò via, e non poté se non seguirla piagnucolando e gemendo sulla cattiveria della sua bella Alice che la sera stessa del suo ritorno la defraudava di una bella cenetta.
Andò infatti a coricarsi senza mangiare, dopo essere rimasta a biascicare un tozzo di pane accanto alla brace semispenta, quando la figlia già dormiva da un pezzo.
Questa madre sciagurata e la sua sciagurata figlia non erano forse la riduzione al grado più basso della scala dei valori di certi vizi non di rado imperanti in uno stato sociale ben più elevato?
In questo nostro mondo costruito a cerchi concentrici, si deve percorrere il lungo viaggio dal più alto all'infimo solo per scoprire alla fine che i due sono vicinissimi, che gli estremi si toccano e che la fine del viaggio non è se non il punto di partenza? Ammessa la grandissima differenza della materia prima e della tessitura, il disegno della stoffa è dunque sempre il medesimo?
Dillo tu, Edith Dombey! E tu, moderna Cleopatra, ottima fra le madri, dacci la tua testimonianza!
Erano trascorsi ormai vari giorni dal ritorno in città della coppia felice senza alcuna novità di rilievo nella casa del signor Dombey. Vi era stato, è vero, un fitto scambio di visite fatte e ricevute, e si deve aggiungere che il maggiore Bagstock era di frequente ospite nelle stanze private della signora Skewton.
Florence invece non poteva dire di avere dei veri rapporti filiali con il padre, benché lo vedesse ogni giorno. La sua nuova mamma non perdeva l'occasione di starle un po' vicina e non mancava mai di salire a darle la buona notte, ma non aveva modo di conversare con lei se non molto brevemente, e nei rapporti con tutti gli altri di casa la vedeva superba e scostante. Florence aveva sperato tanto da quel matrimonio e si trovava a dover riconoscere che non era derivato alcun calore di affetto; soffriva in silenzio e non si lasciava sfuggire alcuna parola di rammarico.
Poi il signor Dombey, incitato dalla suocera, decise che in un certo pomeriggio avrebbero ricevuto parenti e amici e che la sera stessa sarebbe seguito un pranzo di gala con un gran numero di invitati appartenenti al mondo degli affari dello sposo e a quello più aristocratico e frivolo della sposa. Tutto si svolse con maestosa solennità, i padroni di casa erano supremamente eleganti, la signora sprezzante e indifferente come una compassata regina.
Il cugino Feenix gareggiava con la signora Skewton nella vivacità, ma le sue storielle finivano spesso per fare scorrere un gelido brivido fra i commensali, come quando narrò di un tipo molto spiritoso, il quale dopo essere stato invitato a un matrimonio elegante, richiesto da un collega in parlamento di notizie intorno alla coppia male assortita, aveva risposto allegramente: "Per nulla affatto male assortita. Un contratto decisamente corretto.
Lei è stata legalmente acquistata, e si può giurare che lui si sia altrettanto regolarmente venduto!".
Non bastarono davvero i cibi ricercati, i vini di gran prezzo, l'inesauribile vampa dei caminetti a dissipare il disagio che era inevitabile regnasse tra la gente così disparata e che solo il tatto e la sollecitudine di una volenterosa padrona di casa avrebbero saputo almeno mitigare. Finì che gli invitati elencati nella lista del signor Dombey s'indignarono non poco contro gli invitati elencati nella lista della signora Dombey, mentre questi ultimi non facevano mistero del loro stupore e della relativa noia che provavano nel trovarsi a contatto di gomito con tanti noiosi personaggi del commercio e della finanza. L'eco della generale scontentezza non tardò a diffondersi anche fra i valletti radunati nell'atrio, così che qualcuno fra i più spiritosi osò paragonare quella festa a un funerale in cui nessuno mostrasse il minimo dolore e tutti sapessero di non essere stati ricordati nel testamento.
A una certa ora gli ospiti avevano terminato di congedarsi, nel salone erano rimasti il signor Carker, il quale parlava in disparte al signor Dombey, la signora Dombey seduta in poltrona e la madre adagiata su un divano, più che mai in atteggiamento di invecchiata Cleopatra. Poi il signor Carker avanzò verso le signore, avendo finito di conferire col principale.
- Spero - disse - che le fatiche di questa deliziosa serata non abbiano stancato eccessivamente la signora Dombey.
- La signora Dombey - dichiarò avvicinandosi anch'egli il signor Dombey - si è tanto poco sprecata che lei non deve nutrire alcuna preoccupazione del genere. Dirò anzi, Edith, che in un'occasione come questa avrei preferito che tu ti affaticassi maggiormente.
La moglie gli rivolse un'occhiata sdegnosa, ma presto distolse il volto senza aprir bocca.
- Mi rincresce - disse il signor Dombey - che tu non abbia ritenuto tuo dovere...
La donna tornò a guardarlo.
-... che tu non abbia ritenuto fosse tuo dovere accogliere i miei amici con un po' più di deferenza. Non mi perito a dirti, mia cara, che alcuni fra coloro che stasera ti sei divertita a disprezzare ci hanno reso un segnalato onore venendoci a visitare.
- Lo sai che non siamo soli? - disse ora la donna fissando negli occhi il marito.
- No! Carker, la prego di restare. Insisto perché rimanga! esclamò il signor Dombey non appena l'intruso ebbe mossi i primi silenziosi passi verso la porta. - Come sai bene, il signor Carker gode della mia piena fiducia. Conosce quanto me l'argomento di cui parlo. Ti prego di tenere bene a mente, mia cara, che quei ricchi e importanti personaggi rendono con la loro presenza in questa casa un segnalato onore a me! - e il signor Dombey si drizzò con fierezza, dimostrando di aver reso loro con quelle parole l'omaggio più grande che avessero mai potuto ricevere.
- Ti chiedo - ripeté la donna, tornando a rivolgergli un'occhiata fredda e sdegnosa - se non sai che non siamo soli.
- La prego, signore! - esclamò Carker facendosi avanti - la supplico di congedarmi. Per quanto lieve e trascurabile sia il diverbio...
A questo punto venne in suo soccorso la signora Skewton, la quale era rimasta a fissare il volto della figlia.
- Edith mia dolce! - disse - e lei, mio carissimo Dombey! Il nostro ottimo amico signor Carker, perché oso dire che tale titolo gli compete di diritto...
- Troppo onore! - mormorò il signor Carker.
- ... ha pronunciato le precise parole che avevo in mente e che da un pezzo morivo dal desiderio di introdurre nel discorso:
diverbio lieve e trascurabile! Mia diletta Edith e mio carissimo Dombey, non sappiamo forse che ogni diverbio tra voi, dati i sentimenti che avete in comune e che tanto deliziosamente vi legano, non può se non essere lieve e trascurabile? Permettetemi dunque di cogliere questa piccola occasione, questa lievissima occasione tanto adatta per far salire le lagrime agli occhi di una madre amorosa, per dire che io non dò loro la minima importanza, e che tenuto conto come siano inevitabili in questo nostro mondo, ahimè, troppo poco spirituale, io prometto di non tentare mai di mettermi fra voi in momenti come questo...
Quell'ottima madre lanciava intanto delle occhiate vivaci a entrambi i suoi diletti figli, che forse volevano dire ben più di quanto le parole non rivelassero.
- Ho fatto presente a mia moglie - dichiarò il signor Dombey con il suo tono più solenne - che non approvo il suo modo di comportarsi in questo nostro inizio di vita comune, e che spero lo emendi. Carker!- finì con un cenno del capo - le dò la buona notte!
Il signor Carker s'inchinò di fronte alla figura superba della sposa che teneva gli occhi scintillanti fissi sul consorte, e prima di andarsene si chinò umilmente a baciare la mano che la signora Skewton amabilmente gli porgeva.
Quando la coppia rimase sola, il signor Dombey non sarebbe stato contrario a spiegare i motivi della sua irritazione contro la moglie, se la sua bellissima sposa l'avesse rimproverato, e avesse almeno compiuto un gesto, e con una sola parola avesse rotto il silenzio ora che erano scomparsi tutti i testimoni: ma si trovò affatto disarmato di fronte alla sdegnosa alterigia che gli dimostrava, alla fredda risoluzione impressa in ogni lineamento con cui ella dava a vedere di volerlo umiliare; ed egli uscì dalla sala sentendo tutto il peso di quel silenzioso e inflessibile disprezzo.
Un'ora dopo fu per viltà, o solo per caso, che si trovò a spiare da un angolo buio sulle scale che la donna scendesse dopo avere dato come al solito il saluto serale a Florence? La vide scendere, e reggeva nella mano una candela accesa che le illuminava un volto bellissimo e dolce che per lui non esisteva!
La mattina seguente Edith e Florence erano nel salotto della Signora Skewton, e la carrozza era già alla porta in attesa che scendessero, quando fu annunciato un visitatore e la signora Dombey, che l'aveva scorto dalla finestra, rispose alla cameriera senza nemmeno guardare il biglietto che non poteva ricevere perché sarebbe uscita subito. La signora Skewton protestò per l'eccessiva fretta e visto che alla porta si trovava il signor Carker, (quell'uomo tanto pieno di buon senso!) insistette perché lo facessero salire.
Florence chiese di potersi ritirare, e ricevuto il permesso da Edith corse fuori, ma fu sgradevolmente costretta a ricevere gli omaggi del visitatore e varie espressioni melate di ammirazione, sotto cui non poté fare a meno di intuire un misterioso e segreto senso di padronanza, inspiegabile e appunto per questo paurosamente minaccioso.
La signora Skewton porse con grazia la mano al visitatore, ma Edith ricambiò freddamente il saluto senza levare gli occhi e rimase in piedi in attesa che l'intruso parlasse. Edith non riusciva a cancellare in sé l'impressione che quell'uomo avesse compreso la vera natura sua e di sua madre fin dal primo incontro e che leggesse come in un libro aperto l'intera storia delle sue umiliazioni e degli intrighi che l'avevano resa spregevole ai suoi propri occhi.
Il signor Carker cominciò a scusarsi con squisita delicatezza di essere dovuto rimanere presente la sera avanti a una lieve discussione privata... e ancora Edith non lo invitava a sedere, ma restava in attesa tutt'altro che cortese di udire il motivo di quella visita. Finalmente egli accondiscese a spiegarsi, ed Edith comprese benissimo, ancor prima che una parola fosse detta sull'argomento, che l'enorme sorriso di quell'uomo era malevolo in somma misura.
- La signorina Florence... la signorina che è uscita or ora dalla stanza...
Edith ora gli levò gli occhi sul volto e le parve di odiarlo con tutte le sue forze.
- La posizione della signorina Florence - cominciò a dire Carker- non è mai stata fortunata. Non so come dirlo a lei che per l'amore che porta al signor Dombey ha tutto il diritto di risentirsi di ogni mia parola... Ma a uno come me che non vive se non per ammirare il carattere del signor Dombey sarà lecito dire, senza offendere la sua tenerezza di sposa, che la signorina Florence è stata trascurata e molto da suo padre...
Edith replicò: - Lo so. Dica pure tutto! - e una furia sorda già la sconvolgeva.
- La signorina Florence - disse Carker - fu lasciata alle cure, se pur è lecito parlare di cure, di servitori e cameriere ed è inevitabile che rimanesse priva di guida nella fanciullezza, ed è pure naturale che abbia pertanto commesso qualche mancanza e in una certa misura dimenticato il decoro proprio della sua condizione sociale. Vi è stata una breve follia con un certo Walter, un ragazzo del popolo, che per fortuna è morto; e poi vi fu una certa amicizia, purtroppo, con certi vecchi marinai di fama dubbia, e con un vecchio fallito e scomparso.
- Conosco i fatti, signore, - replicò Edith con espressione sdegnata. - So che lei li travisa. Forse non volontariamente. O almeno lo spero.
- Mi perdoni, signora, - disse il signor Carker - ma mi lasci dire che nessuno meglio di me conosce i fatti. Nella mia qualità di confidente del signor Dombey avevo il dovere e i mezzi di accertare ogni circostanza per il semplice motivo di mostrare in concreto la mia diligenza e rendermi sempre più utile; seguo questi fatti da lungo tempo attraverso fedeli strumenti della mia volontà oltre che personalmente e possiedo innumerevoli e dettagliate prove.
Nemmeno adesso Edith sollevò lo sguardo fino agli occhi dell'uomo, e tuttavia intuì di quanta malignità dovessero brillare.
- Mi perdoni, signora, - seguitò Carker - ma ho notato il grande interesse che porta alla signorina Florence e nella mia profonda perplessità ho osato rivolgermi a lei per consiglio...
Divisa tra la collera e l'umiliazione, Edith strinse i denti per dominarsi e accennò un breve consenso.
- Il suo interessamento, signora, che non è se non una delle manifestazioni della sua sollecitudine verso tutto ciò che si riferisce al signor Dombey, mi ha indotto a indugiare prima di metterlo al corrente di circostanze che egli tuttora ignora. Tanto mi turba il pensiero di tacergli alcunché, lo confesso, che ne provo un vero rimorso, ma sarei pronto a dimenticare ogni cosa se con questo potessi sia pur minimamente compiacere lei!
Edith sollevò di colpo la testa e lo sguardo: l'uomo le rivolgeva il suo sorriso più mellifluo e deferente.
- Ella dice, signora, che ho travisato i fatti... temo di no, lo temo proprio, ma ammettiamo che sia vero. Il mio turbamento deriva tuttavia dal timore che i rapporti intrattenuti dalla signorina Florence, per quanto spontanei e innocenti da parte sua, una volta portati a conoscenza del signor Dombey possano riuscire conclusivi per lui, che è già mal disposto nei confronti della figlia, e lo inducano a compiere certi passi, e so che li aveva già presi in considerazione, per la separazione definitiva della signorina da lui e dalla famiglia. Mi perdoni, signora, se oso tanto, ma conosco e ammiro il signor Dombey essendo al suo servizio quasi fin dall'infanzia, e tuttavia mi permetto di dire che se nel suo splendido carattere si può scoprire un difetto è quello di una ostinazione implacabilmente radicata nel nobile orgoglio e nel senso del potere che gli appartengono di diritto.
Edith non distolse lo sguardo che teneva fisso negli occhi del suo interlocutore, ma il fremito delle narici e il respiro subitamente affrettato bastarono a rivelare al signor Carker come fosse stata colpita dalla veritiera osservazione sulla mentalità di un uomo, di fronte al quale sia il segretario sia la moglie dovevano inchinarsi.
Egli comprese benissimo ed ella capì di essere stata compresa. Se osassi ricordare il trascurabile incidente di ieri sera proseguì Carker - troverei un'ulteriore conferma del mio pensiero. La ditta Dombey e Figlio non bada al tempo né al luogo quando abbia uno scopo da raggiungere. Ma io oso rallegrarmi di quell'incidente perché mi ha aperto la via all'incontro di oggi con la signora Dombey, sia pure a rischio di riuscirle sgradito almeno sul momento. Signora, io l'ho incontrata a Leamington dove il signor Dombey mi aveva convocato. Non potei se non intuire subito quale posizione ella avrebbe presto occupato presso di lui per la sua personale felicità e per quella di lui. Subito decisi di attendere la sua sistemazione in questa casa prima di muovere il passo che oggi mi ha condotto da lei. Non mi turba più il pensiero di tacere un segreto al signor Dombey dopo che lei ha accettato di prestare ascolto alle mie parole, poiché nel matrimonio si può dire che l'uno dei due contraenti rappresenti per via legittima anche l'altro. Posso sperare, signora, che la rivelazione confidenziale fatta a lei mi sollevi da ogni personale responsabilità?
Egli avrebbe sempre ricordato l'occhiata di fuoco rivoltagli dalla donna e la lotta interiore che ella dovette sostenere prima di rispondergli con brevi parole di consenso.
Poi il signor Carker prese congedo inchinandosi con la massima umiltà, ma chi lo vide uscire dal salotto e nel breve viaggio a cavallo che lo portò a casa, rimase abbagliato dal candore della dentatura che egli seguitava a mettere in mostra nel più ampio dei sorrisi.
Per tutto il tempo dell'intervista la signora Skewton si era tenuta in disparte, solo intenta a sorbire la sua tazza di cioccolata e senza prestare attenzione ad alcuna parola dopo che le era giunta all'orecchio la richiesta portata dalla cameriera che il signor Carker chiedeva di essere ricevuto per trattare un piccolo affare: gli affari non potevano se non essere aridi argomenti privi di sentimenti delicati e perciò da bandire assolutamente da ogni squisito stato d'animo come il suo.
Edith era invece sconvolta e dovette fare appello a tutto il suo orgoglio per dominare l'agitazione che la tormentava.
Abbandonata dall'amica Luisa Chick e privata della vista del signor Dombey, la povera signorina Tox era molto oppressa dalla malinconia. Non avendo tuttavia ancora raggiunto l'età in cui si crolla sotto il peso di vani ricordi, finì per ammettere lealmente fra sé e sé di non provare alcun rancore verso il signor Dombey, per il quale nessuna donna poteva essere troppo bella e superba; con il suo affetto davvero sincero e profondo aveva sempre visto il personaggio in una posizione tanto eccelsa che se gli insulti immeritati a lei rivolti da Luisa l'avevano profondamente ferita, dimenticava invece addirittura la superba condiscendenza con cui il signor Dombey l'aveva semplicemente accettata fra le persone più indicate a servire il suo bambino senza madre, e ricordava solo di avere trascorso in quella casa tante ore felici la cui luce non si sarebbe mai spenta nella sua memoria. Insomma non avrebbe mai cessato di ritenere il signor Dombey uno degli uomini più affascinanti e imponenti della terra.
Le riusciva pertanto molto duro non sapere più nulla di quanto avveniva in casa Dombey, e poiché si era da tempo abituata all'idea che la ditta Dombey e Figlio rappresentasse il perno intorno a cui l'umanità intera compiva le sue rotazioni, piuttosto che seguitare a non saper nulla di quell'importante argomento, pensò di coltivare la vecchia amicizia con l'ex nutrice signora Richards: sapeva che dopo l'ultima memorabile intervista avuta dalla donna con il signor Dombey essa non aveva tagliato i ponti con i domestici della casa, e poteva diventare quindi una preziosa fonte di informazioni. In tal modo la signorina Tox, nel riallacciare la buona conoscenza con la famiglia Toodle perseguiva il segreto fine di poter discorrere intorno al signor Dombey con qualcuno, sia pure di umile estrazione. Un pomeriggio sul tardi ella dunque s'incamminò verso la casa dei Toodle, nell'ora in cui il capo famiglia consumava in seno alla famiglia una sostanziosa merenda a base di tè. Ricorderemo che l'esistenza del signor Toodle si svolgeva in tre settori: sedeva a tavola circondato da tutti i membri della famiglia, correva sulla via ferrata a una velocità che oscillava tra le venticinque e le cinquanta miglia orarie, o trascorreva i meritati riposi dormendo profondamente; e cioè seguitava a passare dalla più frenetica e rumorosa attività alla pace più serena e soddisfatta.
La sera designata dalla signorina Tox per la sua visita era anche quella in cui il giovane Robin compiva la visita settimanale ai suoi, non più considerato la pecora nera che li disonorava, ma un leale impiegato al servizio di un benevolo e potente principale, che in via ufficiale era l'ottimo capitano Cuttle, e in via riservata il grande signor Carker; ma di questo segreto contratto i genitori del ragazzo erano affatto all'oscuro.
La comparsa della signorina Tox, per quanto inattesa, ricevette il più cordiale benvenuto, e la signorina si mostrò entusiasta di fare la conoscenza del figlio maggiore che aveva avuto la fortuna di trovare un posto di lavoro attraverso i buoni uffici del segretario particolare del signor Dombey. Il signor Toodle s'arrischiò a dire che a suo parere detto signore doveva avere un carattere piuttosto difficile, ma la signorina Tox si affrettò a ribattere:
- La prego di non ripetere mai e poi mai un tale giudizio! Ne sarei vivamente addolorata perché se fra me e la famiglia Dombey si è di recente stabilita una certa freddezza, che tuttavia non ha la minima importanza, io sarò sempre felicissima di chiacchierare con voi tutti della famiglia Dombey e di tempi ormai lontani. Con lei, signora Richards, sono sempre stata in ottimi rapporti e ora sarò lieta di avere da lei e da Robin tutte le notizie intorno alla famiglia Dombey che vi capiterà di sentire. Vede, signora Richards, io le sarò grata se accetterà che io venga di tanto in tanto a trovarla; potrò esserle di qualche aiuto insegnando qualcosa ai suoi piccoli, portando loro quale libretto di facile lettura e così via. Anzi, signor Toodle, non vuole considerarmi già di casa accendere la pipa senza fare complimenti?
Il brav'uomo approvò in pieno quel discorso, sia perché aveva un grande rispetto per la cultura, sia perché era davvero ansioso di farsi una bella pipata, così il contratto soddisfece entrambe le parti, e quando la signorina Tox si congedò dopo avere baciato dal primo fino all'ultimo i numerosi rampolli della casa, il maggiore si offerse di accompagnarla fino a casa e la signorina graziosamente accettò, intrattenendo il ragazzo con esortazioni morali e ricompensandolo alla fine con una bella mancia, cose che il ragazzo bugiardo mostrò di accettare con umiltà e gratitudine.
E ora due parole intorno alla situazione del capitano Cuttle, il quale trascorreva giornate intere senza scambiare parola con alcuno all'infuori del suo aiutante, il giovane Robin. Era già ormai trascorso l'anno allo spirare del quale avrebbe dovuto dissuggellare il plico affidatogli dal vecchio amico insieme con la lettera a lui indirizzata. La sera stava a contemplare a lungo e quasi affascinato il misterioso plico, posandolo di fronte a sé quando accendeva la pipa, naturalmente senza che gli venisse mai l'idea di anticipare nemmeno di un'ora l'ordine dell'amico. Ma ormai quel plico l'ossessionava. Vi è poi da dire che a partire dall'ultima visita da lui fatta al signor Carker, il capitano Cuttle era oppresso da non pochi dubbi intorno all'utilità del suo precedente intervento in favore della signorina Dombey e del suo carissimo Walter: dopo tutto il risultato non era stato così favorevole come gli era sembrato di poterlo giudicare sul momento.
E se avesse fatto con quella sua iniziativa più male che bene?
Modesto com'era per natura, non gli fu difficile aprire la porta ai rimorsi, e nell'intento di compiere la sola riparazione possibile, che era quella di evitare ogni altra occasione di fare del male al suo prossimo, s'impose di condurre una vita più che mai ritirata: non andò più nemmeno nelle vicinanze della casa del signor Dombey, né si fece in alcun modo vivo con Florence o Susan Nipper. Non mancava invece di coltivare l'istruzione del giovane che viveva con lui e ogni sera lo obbligava a leggere ad alta voce un brano scelto da uno dei libri raccolti nella bottega senza alcuna speciale preferenza, data la sua illimitata ammirazione per la carta stampata, e non si può dire quanta varia cultura il giovane ebbe in tal modo l'occasione di raccogliere, pur fra i tanti sbadigli che non riusciva a reprimere.
Da buon uomo d'affari, il capitano Cuttle prese inoltre a compilare una specie di diario, prendendo nota delle condizioni atmosferiche e del mutevole flusso dei carri e degli altri veicoli: si era accorto che, vista dal suo osservatorio, la marea del traffico tendeva al mattino e in genere durante la giornata in direzione ovest, per girare verso est di sera. Una settimana due o tre persone entrarono nella bottega per informarsi a proposito di un paio di occhiali; pur senza farne effettivamente acquisto, dissero che sarebbero tornati, e il capitano si sentì in diritto di scrivere che "gli affari andavano migliorando".
Per il capitano una delle maggiori difficoltà era rappresentata dal signor Toots, il quale mostrava di sentirsi a proprio agio nel salottino in fondo alla bottega, e veniva abbastanza spesso per rimanervi anche varie ore senza quasi aprir bocca. Reso molto prudente dalle sue ultime esperienze, il capitano non sapeva risolversi a giudicare il singolare giovanotto l'individuo timido e mansueto che appariva, un astuto e pericoloso dissimulatore.
Quando poi il giovane gli confessò di adorare talmente la dolcissima signorina Florence Dombey, che pur di avere la gioia di starle accanto sarebbe stato felice di trasformarsi in uno schiavo negro, o anche nel cane che teneva tanto compagnia alla suddetta signorina, il capitano lo interruppe per dichiarare con grande solennità che non avrebbe in alcun modo potuto continuare a coltivare la conoscenza del gentile signor Toots se costui non gli avesse promesso di non parlargli mai più della signorina Dombey.
Il signor Toots rispose con non minore solennità che avrebbe potuto giurare di non pronunciare più quel nome, ma non di bandirlo dalla sua mente perché vi era irrimediabilmente radicato.
- Ragazzo mio! - disse allora con benevolenza il buon capitano Cuttle - i pensieri degli uomini sono come i venti che soffiano e nessuno ne ha la colpa. Ma quanto al pronunciare quel nome, promette di non farlo mai più?
- Quanto al pronunciarlo a voce alta, credo di poterle promettere che riuscirò a non farlo.
I due si strinsero con solennità la mano per suggellare il patto, e il giovane era lieto di non essere stato bandito da quel simpatico rifugio, e il capitano era soddisfattissimo di avere in tal maniera dimostrato la propria saggezza e prudenza.
La sera stessa il capitano ebbe un'altra sorpresa da parte di un altro giovane, perché il suo aiutante gli disse che intendeva lasciarlo, avendo trovato un impiego molto migliore. La notizia sorprese non poco il capitano Cuttle, che non si peritò di chiamare disertore il giovane Rob, ma accondiscese a liquidargli il salario pattuito purché se ne andasse immediatamente. Quindi si recò a prendere quei provvedimenti che il caso richiedeva: ordinò alla trattoria lì accanto di dimezzare la fornitura quotidiana del cibo e incaricò un guardiano privato di togliere i battenti di legno alla vetrina e di passare a metterli di nuovo la sera.
Infine decise di occupare il giaciglio sotto il banco invece di salire a coricarsi nella camera della soffitta per montare meglio la guardia ai beni di cui era rimasto l'unico custode. Non faceva se non lucidare dalla mattina alla sera gli strumenti che ingombravano la bottega, leggere di quando in quando qualche pagina e trascorrere lunghe ore in profonda meditazione, dimenticando addirittura il suono della propria voce.
Era scaduto ormai il termine stabilito per l'apertura del plico, e il capitano Cuttle si sentì in dovere di ubbidire all'amico scomparso, ma essendo insieme desideroso di non trovarsi solo a compiere un gesto di tale importanza, invitò a recarsi da lui una sera il capitano John Bunsby, che dalle notizie esposte nell'albo degli avvisi marittimi doveva essere da poco rientrato in porto dopo un periodo di navigazione lungo le coste.
L'amico accolse l'invito, e in sua presenza avvenne l'apertura del plico: vi erano due lettere chiuse, l'una recava l'intestazione:
"Ultime volontà e testamento di Solomon Gills", l'altra era indirizzata "a Ned Cuttle".
Bunsby, con l'occhio fisso sulla costa della Groenlandia, ben disegnata nella carta nautica appesa di fronte a lui, parve pronto o almeno disposto ad ascoltare.
Il capitano Cuttle si schiarì la voce e cominciò a leggere.
- "Mio caro Ned Cuttle, quando sono partito per le Indie Orientali... ".
Il capitano Cuttle s'interruppe per fissare l'amico, il quale tuttavia non distolse lo sguardo dalle coste della Groenlandia, e quindi l'altro riprese.
- "nella disperata ricerca di notizie del mio carissimo ragazzo, sapevo bene che se ti avessi messo al corrente del mio progetto l'avresti ostacolato, o saresti voluto venire con me; per questo lo tenni segreto. Se mai leggerai questa mia lettera, è probabile che io sarò morto. Allora ti sarà facile perdonare al tuo vecchio amico la sua follia e comprenderai il motivo che lo spinse a intraprendere una tale impresa. Ma lasciamo questo argomento. Ho ben poche speranze che il mio povero ragazzo possa mai leggere queste righe, o rallegrarti con la vista della sua bella faccia leale. Ma se dovesse trovarsi accanto a te nel momento in cui questa mia viene aperta, o se in qualunque altro momento ne venisse a conoscenza, sappia che io non ho mai cessato di benedirlo! Nel caso che la carta qui allegata non abbia valore legale importa ben poco perché interessa solo te e lui, e il mio desiderio puro e semplice è che se egli vive abbia quel poco che ancora rimane, e se (come temo) il caso sia diverso, che abbia tutto invece tu, Ned. So che tu rispetterai i miei desideri e Dio te ne renda merito e ti ricompensi di tutta la bontà che hai avuta per il tuo vecchio amico che si firma Solomon Gills".
- Bunsby! - esclamò il capitano quando ebbe finito di leggere la lettera - cosa ne pensi? Te ne stai li a sedere come uno che fin dall'infanzia non ha fatto che rompersi la testa e che è pieno di idee, una per ogni punto che il chirurgo gli ha dato per ricucirgliela. Su, coraggio, che ne pensi?
- E allora - disse Bunsby con inusitata prontezza - se è morto, la mia idea è che non torna più. Nel caso però che sia vivo, io credo che ritornerà. Dico forse che ritornerà senz'altro? No! Perché no?
Perché il valore dell'osservazione dipende dal modo come la si applica.
- Bunsby! - gridò il capitano, che senza dubbio apprezzava le opinioni dell'amico in proporzione della fatica immensa cui doveva sobbarcarsi per afferrarne vagamente il significato. Bunsby! - esclamò il capitano, a cui l'enormità dell'ammirazione dava il capogiro - il tuo cervello riesce a portare un carico tale che farebbe andare subito a fondo la mia barca! Ma quanto al testamento non intendo prendere alcuna decisione, Dio me ne guardi dal farlo! So che custodirò ancora la proprietà per il suo legittimo padrone; io credo ancora che Sol Gills sia vivo e che, un giorno o l'altro, tornerà a casa, sebbene sia strano che non abbia mai mandato a dire nulla di nulla. Che ne diresti, Bunsby, se tornassimo a stivare questi documenti dopo avere scritto sopra che il plico è stato aperto in questo preciso giorno alla presenza di John Bunsby e di Edward Cuttle?
Bunsby aderì senza riserve al progetto, che venne realizzato sull'istante: i documenti furono di nuovo chiusi nella cassaforte, il capitano girò la chiave, pregò l'ospite di voler gradire un altro bicchiere e di riempire ancora una volta la pipa; poi rimase a lungo in silenzio a contemplare il fuoco e a fare congetture sulla sorte del vecchio orologiaio.
Non rientrava nell'ordine delle possibilità che un uomo della tempra del signor Dombey, trovandosi a fronteggiare una personalità come quella che si era inimicata, addolcisse in alcuna misura le asperità del proprio carattere; né era possibile che, sottoposta a una continua frizione per opera di un antagonista altero e sprezzante, divenisse più flessibile l'armatura di orgoglio che egli non deponeva mai. Nella sua fredda e distaccata arroganza, il signor Dombey si era comportato verso la prima moglie come l'uomo decisamente superiore che egli immaginava di essere. Per tutto quel breve periodo matrimoniale aveva affermato la propria grandezza, accettata con umiltà dalla donna, che senza un lamento se ne stava in ombra, ai piedi del trono del suo signore. Egli aveva poi immaginato che il temperamento orgoglioso della sua seconda moglie si sarebbe fuso con il suo, potenziandone ancor più la grandezza. Aveva pensato di poter essere più altero che mai, sottoponendo alla propria la fierezza di Edith. Mai avrebbe immaginato che la donna potesse contrastare il suo volere, e nel vedersi ora fatto oggetto di resistenza, opposizione e disprezzo a ogni passo il suo orgoglio, lungi dal mitigarsi e inaridire sotto i colpi, metteva nuovi germogli, si faceva più che mai intenso, tetro, cupo, aspro e intrattabile.
A chi porta una corazza come questa spetta inoltre una pena inevitabilmente collegata a essa, cioè l'insensibilità a ogni tentativo di conciliazione, di amore e di fiducia, a ogni offerta esteriore di bontà e di tenerezza, e nello stesso tempo la massima vulnerabilità per le ferite inferte all'amor proprio. Sono ferite che degenerano in maligne piaghe cancrenose, e di queste appunto soffriva colui che invano cercava ristoro nella solitudine delle sue stanze.
A chi andava la responsabilità della sua cattiva sorte? A chi mai se non a colei che ora si era accattivata l'affetto di sua moglie, come già quello del suo povero figlio? A chi, se non a colei, che pur allontanata e trascurata da lui si faceva sempre più fiorente e bella, mentre la morte colpiva gli oggetti di un amore intenso come era stato il suo? Questo si chiedeva l'uomo infelice, che non potendo negare la bellezza e la grazia della sua creatura, le faceva perfino colpa dei doni naturali che l'ornavano. Sin da quando era nata non aveva mai provato verso di lei un vero sentimento paterno; ora poi la vedeva alleata contro di sé e nel tumulto delle passioni generate dall'orgoglio sentì che avrebbe potuto finire per odiarla. Alla moglie era risoluto a dimostrare che il padrone era lui e che la sua volontà doveva far legge.
Dopo avere a lungo riflettuto nella sua solitudine rabbiosa, una sera andò a cercare la moglie nelle sue stanze, non appena la udì rientrare a ora abbastanza avanzata. La colse in un attimo di pensosa malinconia, perché ancora elegantemente abbigliata per il passeggio era andata a salutare nelle sue stanze la madre che da qualche tempo non stava affatto bene di salute.
- Edith! - le disse entrando - desidero scambiare qualche parola con te.
- Domani - rispose la donna.
- Meglio adesso! - replicò. - Tu t'inganni intorno alla posizione che hai il diritto di occupare. Io sono abituato a scegliere personalmente gli incontri, non a lasciare ad altri la scelta.
Temo che tu non abbia ancora compreso chi sono io!
- Credo di averlo compreso benissimo! - fu la risposta.
Se nel suo atteggiamento freddo e composto ella fosse stata meno bella e maestosa, non sarebbe forse riuscita a ferire tanto l'orgoglio dell'uomo facendogli sentire la sua posizione di svantaggio. Egli si guardò intorno, e dappertutto i suoi sguardi non si posarono se non su oggetti bellissimi e preziosi, che tuttavia mostravano di essere tenuti in nessun conto, disprezzati appunto per il loro alto valore intrinseco. Cupo e solenne come sapeva di essere, si sentì più che mai estraneo alla bellezza di quel quadro, e tuttavia sempre più irritato sedette per discorrere come aveva deciso di fare.
- Edith! - disse - è assolutamente necessario che vi sia fra noi due una spiegazione. Sappi che la tua condotta non mi piace.
La donna si limitò a lanciargli un'occhiata e subito distolse lo sguardo, ma sarebbe stata minore l'eloquenza di un lungo discorso.
- Ti ripeto, Edith, che non mi piace la tua condotta. Già in altra occasione ti ho chiesto di correggerti, e adesso insisto!
- Hai scelto davvero una bella occasione per la tua prima protesta, e per la seconda hai adottato una bellissima maniera e una parola molto adatta: tu insisti, dici!
- Signora mia! -ribatté il signor Dombey con solennità oltremodo offensiva - ho fatto di te mia moglie. Ti ho dato il mio nome. Sei legata alla mia posizione e al mio decoro. Non voglio dire che tutti saranno pronti a riconoscere che da ciò ti venga un onore, ma ti dirò solo che sono abituato a impormi quando tratto sia con parenti, sia con dipendenti.
- Ti rincresce dirmi a quale delle due categorie ritieni che io appartenga?
- Posso ritenere che mia moglie debba appartenere, come infatti appartiene, lo voglia o no, a entrambe le categorie.
La donna fissò il marito stringendo le labbra che le tremavano ed egli la vide arrossire vivamente e subito farsi mortalmente pallida.
- Spendi troppo - dichiarò il signor Dombey. - Commetti delle stravaganze e sprechi una quantità di denaro, o per lo meno quella che nelle tasche di tanti gentiluomini sarebbe una grande quantità e tutto per frequentare un tipo di società che a me non serve e che nell'insieme trovo sgradevole. Insisto perché la tua condotta muti sotto ogni riguardo. Comprendo che trovandoti all'improvviso a poter disporre dei mezzi finanziari che la tua buona fortuna ti ha offerto puoi essere stata tentata a compiere degli eccessi. Ma ora basta! Ti chiedo di utilizzare nella tua presente situazione di signora Dombey le esperienze ben diverse che hai dovuto subire quando eri la signora Granger.
Seguitava a trovarsi di fronte lo stesso sguardo fisso, le labbra tremanti e serrate, il seno palpitante di furia trattenuta, il volto ora acceso e d'un tratto sbiancato, ma non udiva che in fondo al cuore la donna seguitava a invocare con ogni battito del cuore il nome che le permetteva di non prorompere in una protesta definitiva: "Florence, Florence...".
Egli fraintese quel silenzio, credette che volesse dire sottomissione: e chi mai avrebbe resistito a lungo al suo volere?
Aveva ormai deciso di vincere e seguitò:
- Abbi inoltre la cortesia di comprendere che mi si deve ubbidienza e deferenza. Queste manifestazioni tu me le devi offrire in presenza della gente. Lo esigo come mio diritto, lo voglio. Non è certo un ricambio eccessivo per l'avanzamento nella società che hai raggiunto, e nessuno può sorprendersi né che io reclami, né che tu mi renda ciò che chiedo!
Nessuna parola usciva ancora dalle labbra della donna, che teneva sempre lo sguardo fisso duramente su di lui.
- Mi ha detto tua madre - disse il signor Dombey con misurata solennità - ciò che senza dubbio già sai, e cioè che le hanno raccomandato per la sua salute l'aria di Brighton. Il signor Carker ha avuto la bontà di...
Nell'udire quel nome, la donna ebbe quasi un impercettibile brivido, ma il marito l'interpretò a modo suo e seguitò:
- Il signor Carker ha avuto la bontà di recarsi a Brighton per contrattare l'affitto di una casa per un certo periodo. Quando ritornerete in città prenderò quelle misure che riterrò convenienti per migliorare l'andamento domestico. Fra l'altro assumerò in qualità di governante una certa Pipchin, una signora decaduta di ottima reputazione, che ha già avuto occasione di lavorare per me. Una casa come questa, su cui la padrona governa di nome ma non di fatto, esige una direzione giudiziosa.
Ora la donna s'era mossa, e senza distogliere lo sguardo dagli occhi del marito rigirava sul polso uno dei braccialetti, premendolo con tale forza da imprimere sulla pelle bianca e liscia un segno scarlatto.
- Ho notato - disse il signor Dombey - e con questo ho finito di dire ciò che per ora giudicavo necessario... ho notato che un momento fa, quando mi hai udito nominare il signor Carker hai avuto una singolare benché lieve reazione. Il giorno in cui ebbi l'occasione di farti rilevare, presente questo mio agente di fiducia, che non approvavo il modo con cui avevi ricevuto i miei amici, ti sei permessa di obiettare che non gradivi la sua presenza. E' bene, mia cara, che tu superi tale contrarietà e che ti prepari ad altre eventualità del genere, a meno che tu voglia adottare il rimedio sempre a tua disposizione di non darmi alcun motivo di biasimarti. Il signor Carker gode della mia fiducia, e per questo appunto puoi concedergli anche la tua. Spero che non dovrò trovare necessario affidare al signor Carker l'incarico di trasmetterti qualche mio ordine o biasimo; sarebbe tuttavia disdicevole alla mia posizione e alla mia dignità dover sprecare il tempo a discutere su cose da poco con una donna alla quale ho conferito l'onore più grande che fosse in mio potere concederle, e quindi non mi farò scrupolo di servirmi eventualmente di Carker in qualità di intermediario.
- E adesso - pensò il signor Dombey, alzandosi più che mai rigido e impenetrabile, in tutto lo splendore della sua rettitudine - costei ha ben compreso chi sono io e quale sia la mia linea di condotta.
La mano con cui la donna aveva stretto con tanta violenza il braccialetto, ora salì a comprimerle il seno, ma il volto e lo sguardo rimasero inalterati, sebbene la voce fosse bassa e tesa:
- Per amor del cielo, aspetta! Devo parlarti... Ho mai fatto nulla perché tu chiedessi la mia mano? Durante il tempo in cui mi corteggiavi sono stata forse più dolce di quanto sia stata dopo il nostro matrimonio? Ho mai finto di essere diversa da quella che sono?
- E inutile - ribatté il signor Dombey - iniziare una discussione intorno a questo argomento.
- Hai mai creduto che ti amassi? Non lo sapevi che non ti amavo?
Ti sei mai preoccupato, tu! del mio cuore e di conquistare un oggetto così meschino? Vi è forse mai stata anche solo una finzione d'amore nel nostro contatto, da parte tua o da parte mia?
- Questi sono particolari che esulano dall'argomento! - dichiarò il signor Dombey.
La donna avanzò tra lui e la porta per impedirgli di uscire, senza cessare di fissarlo, arditamente eretta nella superba persona.
- Le tue risposte sono chiare, non occorre che tu parli: conosci non meno di me la nostra meschina verità. Se ti amassi con tutta l'anima, potrei fare più di quanto hai detto poc'anzi di esigere da me? Se il mio cuore fosse puro e intatto e tu ne fossi l'idolo, potresti pretendere di più, chiedere di più?
- Forse no - ammise freddamente il marito.
- E sai quanto sono diversa. Conosci la storia della mia vita, almeno in generale. Credi forse di riuscire a piegarmi o a spezzarmi, di riuscire a impormi la sottomissione e l'ubbidienza?
Il signor Dombey sorrise come avrebbe sorriso di fronte a qualcuno che gli avesse chiesto se poteva disporre di diecimila sterline.
- Se vi è qualcosa di insolito qui - disse la donna toccandosi leggermente la fronte senza mutare l'espressione impassibile come so che sono insoliti i sentimenti del mio cuore, tieni presente che è fuori del comune l'appello che sto per farti. Sì- si affrettò ad aggiungere in risposta a una silenziosa domanda che intuì nel volto dell'uomo. - Ti rivolgo una preghiera.
Con un lieve cenno condiscendente che portò il suo mento a far frusciare il cravattone rigido che gli fasciava strettamente il collo, il signor Dombey si accomodò sul divano per accogliere quella preghiera.
- Se mi conosci come sono adesso, ti sembrerà incredibile, come pare a me, che io mi adatti a supplicare proprio mio marito, proprio te. Pensa dunque che nel disastro a cui noi due stiamo dirigendoci e che forse raggiungeremo, non saremo noi soli a subirne le conseguenze... vi è qualcun altro.
Qualcun altro! Egli comprese a chi alludeva e subito indurì lo sguardo.
- Ti parlo non per me. Dal giorno del nostro matrimonio tu sei arrogante con me e io ti ho ripagato della stessa moneta. Pare che tu non comprenda o non ammetta che la nostra vita deve seguire due vie diverse. Al contrario tu esigi da me una deferenza che non avrai mai. Sai che non provo per te alcuna tenerezza, ma non te ne curi e non senti alcuna tenerezza per me. Ma siamo uniti, e nel nodo che ci lega fa già parte la morte che poi coglierà anche noi, perché entrambi abbiamo avuto un figlio e l'abbiamo perduto.
Sopportiamoci.
Il signor Dombey ebbe un lungo respiro di sollievo.
- Non vi è ricchezza - seguitò la donna, che ora aveva gli occhi lucidi - capace di pagare le parole che ora dico, e nessuna ricchezza né potenza potrebbe cancellarle dopo che le ho pronunciate. Le ho pesate, sono veritiere e vi terrò fede. Se mi prometti che da parte tua sarai paziente, io prometto di essere pure paziente. Siamo una coppia infelice, ma con l'andare del tempo è possibile che nasca fra noi una certa amicizia. Se tu ti sforzerai almeno un poco, io cercherò di avere questa speranza, e farò che i miei anni futuri siano migliori di quelli della mia giovinezza.
Aveva parlato con voce piana, senza elevarne o abbassarne il tono, ma quando alla fine abbassò la mano fu chiaro quanto avesse dovuto lottare contro se stessa per conservare la calma.
- Signora Dombey! - rispose il marito con la massima dignità. Io non posso tenere in alcuna considerazione questa straordinaria proposta.
La donna seguitava a fissarlo senza tradire alcuna emozione.
- Non posso in alcun modo accettare di temporeggiare - disse il signor Dombey alzandosi. - Ti ho già espresso il mio ultimatum e non mi resta se non pregarti di prestarvi la maggiore attenzione.
Egli non poté non vedere che nella donna l'espressione seria e intensa aveva ceduto il posto a una di avversione, di collera, di sdegno: tutto questo ora si specchiava nella bianca fronte altera.
- Esci! - esclamò, indicandogli con gesto imperioso la porta.
Questa è la prima e ultima volta in cui ti parlo con sincerità e fiducia. Ormai nulla potrà allontanarci più di quanto adesso ci estranea.
Gli girò le spalle e sedette alla toeletta.
- Seguirò la mia linea di condotta - concluse il signor Dombey.- Confido che vorrai migliorare il tuo senso del dovere e correggere i tuoi sentimenti. Spero che rifletterai con serietà, mia cara.
La donna non aperse bocca; nello specchio egli le vide sul volto l'abituale espressione di suprema indifferenza, era come se avesse girato le spalle a un oggetto trascurabile, come a un insetto schiacciato sul pavimento.
Prima di uscire dalla stanza, il signor Dombey si volse un momento e girò la sguardo su quell'ambiente così elegante e bene illuminato che serviva di cornice alla figura di Edith seduta di fronte allo specchio nella sua veste magnifica; vide il volto della donna che lo specchio gli rimandava e si ritirò nello studio portando con sé il vivido quadro di tutte quelle forme, colori, lucentezze, e chiedendosi senza volerlo e per nessun vero motivo come li avrebbe ritrovati quando li avesse riveduti.
Da quella sera il signor Dombey fu molto taciturno, molto solenne, molto fiducioso di condurre felicemente in porto il proprio piano.
Un paio di giorni dopo, il mattino della partenza della famiglia per Brighton, informò gentilmente la suocera che non sarebbe partito con gli altri, ma che l'aspettassero in visita fra non molto. Non si doveva davvero perder tempo a trasferire la povera 'Cleopatra' dove i medici dicevano che avrebbe trovato un ambiente favorevole, perché era chiaro che la sua salute andava di male in peggio, la mente era più che mai confusa, giungeva sino a confondere il nome del signor Dombey con quello del defunto primo marito della figlia. Anche adesso ringraziò con calore il signor "Granger" e gli raccomandò, con parole smozzicate, di venire presto a trovarla. Era presente anche il maggiore Bagstock, venuto a salutare le signore, ma la signora Skewton dichiarò che non avrebbe gradito vederlo a Brighton perché aveva bisogno di molto riposo, di un grandissimo riposo. Subito dopo chiamò la cameriera, ordinandole di fare bene attenzione che durante la sua assenza facessero tante piccole alterazioni nella sua camera, perché avrebbe dovuto ricevere moltissima gente e avrebbe anche dovuto fare un gran numero di visite importanti; intanto, nel maneggiare coltello e forchetta con le mani scosse dal tremito, produceva un rumore quasi di nacchere.
Tutti si scambiarono occhiate di apprensione, eccetto Edith, che non mostrava mai di preoccuparsi, qualunque cosa dicesse la madre; si limitava a rispondere molto brevemente quando era indispensabile, o con un semplice monosillabo riusciva a farla rientrare nella logica se divagava troppo. E la madre, per quanto svagata o ribelle sotto ogni altro riguardo, non mancava mai di ubbidire alla figlia: rimaneva a fissare il bellissimo volto severo e marmoreo, a volte con una sorta di timorosa ammirazione e a volte con un tentativo di vacuo sorriso, o con due lagrime di stizza e seguitando a scuotere il capo. Spesso lasciava vagare lo sguardo da Edith a Florence, e di nuovo a Edith quasi con una incomprensibile violenza.
Le signore partirono in carrozza con due domestici subito dopo colazione, e dopo avere assistito alla partenza, il maggiore avvertì il signor Dombey che non sperasse di conservare ancora a lungo la suocera, perché a suo avviso la vecchia era decisamente spacciata.
Non si poteva dire che l'aria di mare facesse un gran bene alla signora Skewton, la quale passava continuamente da uno stato di prostrazione a un altro di irritazione nervosa anche durante le gite in carrozza in cui Edith le era quotidiana compagna. Un giorno grigio e pieno di vento aveva voluto scendere dalla vettura e moveva faticosamente qualche passo di fianco a Edith, sorretta da un lato dal braccio del domestico e appoggiando l'altra mano al bastone. Poco prima aveva afferrato fra le sue la mano della figlia e l'aveva baciata, ma sentendola inerte e fredda aveva cominciato a piagnucolare, borbottando fra sé come la trascuravano tutti, eppure che madre tenera era sempre stata!... A un tratto Edith vide spuntare da una svolta della strada fra le dune due figure che le parvero la caricatura stessa di lei con la madre, tanto che per un attimo si arrestò. Vide che la vecchia curva e sbilenca si rivolgeva alla compagna, le parlava vivamente e puntava il dito verso loro due. Pareva desiderosa di tornare indietro, ma l'altra, nella quale con uno strano brivido Edith riconobbe una singolare somiglianza con se stessa, seguitò ad avanzare, e la vecchia le tenne dietro.
Edith notò, quando la distanza diminuì fra le due coppie che stavano per incontrarsi, che le due donne erano poveramente vestite, che la più giovane reggeva dei lavori fatti a maglia come se li portasse a vendere e che la vecchia era a mani vuote.
Quando furono vicine la vecchia si fermò stendendo la mano e chiedendo con insistenza l'elemosina alla signora Skewton; anche la giovane si fermò e rimase a fissare Edith negli occhi.
- Che cosa ha da vendere? - chiese Edith.
- Solo queste cose - rispose la giovane sporgendo le braccia cariche della sua mercanzia, ma senza abbassare gli occhi. Quanto a me, mi sono già venduta tanto tempo fa.
- Signora, non le creda! - gracidò la vecchia, rivolgendosi alla signora Skewton. - Non creda quello che dice! Le piace parlare a questo modo. E' la mia bella figlia ribelle. In cambio di tutto quello che ho fatto per lei, signora, non mi dà che rimproveri. La guardi anche adesso, signora, se non mi fa gli occhi cattivi!
Mentre la signora Skewton traeva con la mano tremante il portamonete dalla reticella e frugava per toglierne le poche monete che l'altra vecchia attendeva avidamente di afferrare (e le due teste decrepite quasi si toccavano, chine per l'ansia e l'avidità), Edith si fece avanti.
- Ci siamo incontrate un'altra volta - disse alla vecchia.
- Oh, sì, bella signora! - le rispose l'altra chinandosi. Laggiù nello Warickshire. Quella mattina nel bosco. E non mi ha voluto dare nulla. Ma quel signore, lui sì mi fece l'elemosina, che Dio lo benedica! - e la vecchia stese la mano scarna, rivolgendo alla figlia uno spaventoso sogghigno.
- E' inutile che tu voglia impedirmi di fare come voglio, Edith!- esclamò irritata la signora Skewton. - Tu non sai nulla! Voglio fare io come mi garba. Sono sicura che costei è una brava donna e una buonissima madre.
- Sì, signora, sì! - borbottava la vecchia miserabile, stendendo la mano avida. - Grazie, signora, che il Signore la benedica.
Ancora un mezzo scellino, me lo dia, lei che è pure una madre tanto brava!
- E vi assicuro, brava donna, che anch'io a volte sono trattata abbastanza male! - piagnucolò la signora Skewton. - Via!
Stringetemi la mano. Voi siete una buonissima creatura... tutta sentimenti, e tutta cuore...
- Oh, sì, sì, signora!
- Certo che lo siete e voglio stringervi la mano un'altra volta!
Adesso andiamo, Edith!
Edith era rimasta a fissare la giovane, quel suo singolare alter ego, e quando stava per muoversi, costei le mormorò alle spalle:- Oh, sì, lei è una bella donna, ma la bellezza non ci salva. Lei è orgogliosa, ma l'orgoglio non ci salva. La prossima volta che c'incontreremo dovremo conoscerci meglio!
Florence trovava un malinconico piacere nel ripercorrere le vie la spiaggia che le rendevano più che mai vivo il ricordo del diletto e infelice fratello. Anche il signor Toots si era temporaneamente trasferito a Brighton, e un giorno ebbe finalmente l'animo di avvicinarsi alla fanciulla per invitarla a visitare la vecchia scuola del dottor Blimber. Florence fu ben lieta dell'occasione che le si offriva di ritornare dove senza un lamento il piccolo Paul aveva consumato sui libri le sue ultime povere energie. I due ricevettero la più cordiale accoglienza e Florence rivide la cameretta alla cui finestra il fratello si era tante volte affacciato per meglio udire la canzone delle onde. Sulla via del ritorno il povero signor Toots non riuscì a trattenere la piena dei suoi affetti, e con uno straordinario balbettio confuso era sul punto di iniziare più bella dichiarazione d'amore che avesse da lungo tempo immaginata, quando la fanciulla si affrettò con gentilezza a troncargli la parola in bocca, insieme pregandolo però di credere che gli sarebbe stata sempre grata delle premure e della cordiale amicizia. Al povero innamorato respinto non rimase se non accettare quell'amabile congedo, il che egli fece infatti con la migliore grazia possibile, ritirandosi nell'albergo in preda alla più nera disperazione, dalla quale tuttavia dovette liberarsi poco dopo, per sua fortuna, per accogliere un amico che aveva invitato a pranzo, altrimenti non si sa dove la dolorosa delusione l'avrebbe potuto condurre.
Più tardi l'amico scese sulla spiaggia a prendere aria e a sognare di conquistare la mano della signorina Cornelia Blimber, e il signor Toots andò a sospirare senza speranza sotto una finestra illuminata della casa in cui alloggiava la famiglia Dombey. Ma quella era la camera dove la povera signora Skewton trascorreva le sue ultime notti sulla terra. L'inferma soffriva ed era agitatissima, e la figlia che l'assisteva le vedeva il terrore in fondo allo sguardo già velato.
- Edith, perché si alza per colpirmi quel braccio di pietra? Non lo vedi?
- E' la tua fantasia, mamma!
- La mia fantasia! La mia fantasia! Guarda! Possibile che tu non lo veda?
- Davvero, mamma, non vi è nulla. Resterei forse così tranquilla a sedere se vi fosse un pericolo?
- Sei tranquilla? - e la morente aveva gli occhi stravolti. Ecco, ora non c'è più... ma perché sei tranquilla? Non è la mia fantasia, Edith. Mi fa venir freddo vederti seduta così accanto a me.
- Mi rincresce, mamma.
- Ti rincresce! Ma sì, tu sembri triste, ma non per me!
Al colmo di quella crisi, la poveretta prese a singhiozzare e a smaniare, ricordando con parole rotte quanto la trascuravano, e quale madre era stata, e che ottima madre era la povera vecchia che avevano incontrata, e come le figlie di tali madri ricambiano l'amore con la freddezza. Poi s'interruppe, guardò la figlia, si mise a gridare che non poteva più resistere e nascose il volto fra le lenzuola.
Sinceramente pietosa, Edith si chinò sulla malata ed ella la strinse a sé, chiedendole terrorizzata:
- Edith! Andiamo subito a casa! Andiamo a casa! Non è vero che io tornerò ancora a casa?
- Sì, mamma, sì...
Altre notti seguirono, e la finestra dell'inferma era sempre illuminata; Edith non si staccava da quel capezzale, e nel silenzio notturno la voce delle onde seguitava misteriosamente a parlare a entrambe le donne.
Florence era ammessa di rado nella camera della morente, che mostrava di non gradire la sua presenza. Nel suo letto Florence pensava con un brivido che presto la morte si sarebbe presentata in forma spaventosa...
Poi venne quel velo più denso che alla fine cala sugli occhi già quasi spenti, preannuncio dell'ultima separazione dalle cose della terra. Le mani che si agitavano convulsamente si congiunsero palmo a palmo e si tesero verso la figlia, e con una voce che non era la sua, né più risonava umana, la morente mormorò: - ... perché io ti ho dato il mio latte...
Senza versare una lagrima, Edith s'inginocchiò per avvicinare le labbra al volto esangue e rispose:
- Mamma, mi senti?
Con gli occhi sbarrati e fissi, la donna cercò di fare un cenno di assenso.
- Ricordi la sera prima del mio matrimonio?
La testa rimase immobile, ma si indovinava che la donna aveva compreso.
- Allora ti dissi che ti perdonavo la parte che avevi avuta nel mio fidanzamento e pregavo Dio che perdonasse a me il resto. Ti dissi che fra noi due il passato era sepolto. Ora te lo ripeto.
Baciami, mamma.
Edith toccò con le sue quelle labbra sbiancate, poi tutto fu silenzio.
Per il funerale giunse da Londra il signor Dombey, prontamente avvertito, in compagnia del cugino Feenix, e la madre di Edith fu posta a giacere ignorata e negletta, lontano dai suoi eleganti amici come lei sordi al misterioso mormorio delle onde che senza posa lambiscono la spiaggia.
Dopo avere lasciato il posto di assistente del capitano Cuttle, che gli era venuto a noia per l'assoluta mancanza di visitatori e di svaghi, il giovane Rob si rivolse al suo protettore e padrone signor Carker nella sua residenza fuori città, ma vi ricevette un'accoglienza tutt'altro che benevola. Quel gentiluomo ridusse il ragazzo alla più nera disperazione con una gragnuola di insulti e di minacce e formulando le più nere previsioni per il suo avvenire di precoce delinquente, tuttavia alla fine accettò di assumerlo al suo diretto servizio.
- Ma bada bene, maledetto briccone, di non cercare di ingannarmi, perché se ti scoprissi colpevole della minima infedeltà, nessuno al mondo mi impedirebbe di... hai imparato a conoscermi, o non ancora?
- Sì, signore! - balbettò il ragazzo abbattuto e umiliato, costretto suo malgrado a fissare gli occhi magnetici del suo torturatore. - Io non la tradirei mai, signore, nemmeno se mi offrissero un sacco di sterline d'oro!
- Bene! - concluse il signor Carker. - So che sei molto abile quanto a origliare alle porte, e tenere aperti gli occhi a destra e a sinistra. Hai anche l'abitudine di fare la spia: bada però di non fare nulla di questo in casa mia, se non vuoi trovarti eliminato dalla faccia della terra.
Il ragazzo protestò con il respiro corto per il terrore, dichiarando l'assoluta purezza delle sue intenzioni, e alla fine, soddisfatto di quell'atteggiamento di servile abiezione, il gentiluomo ordinò al suo nuovo domestico di scendere nelle stanze della servitù.
Rob era da alcuni mesi al servizio del signor Carker, quando un mattino di buon'ora aperse il cancello del giardino al signor Dombey che veniva a far colazione con il suo padrone. Nello stesso momento il signor Carker si affrettava ad accogliere personalmente quel distinto ospite, offrendogli il più smagliante benvenuto della sua integra e impeccabile dentatura.
- Non avrei davvero mai immaginato - disse Carker, aiutando il principale a scendere di cavallo - di poterla vedere qui in casa mia. Questo è un giorno solenne per me. Per un uomo nelle mie condizioni è una occasione eccezionale.
- Ha una residenza molto di buon gusto, Carker, - osservò il signor Dombey, degnandosi di fermarsi sul praticello per guardarsi intorno.
- Lei è molto generoso. Grazie! Vuol degnarsi di entrare?
Il signor Dombey si degnò di entrare e non mancò di rilevare l'ottima sistemazione delle stanze, la gran copia di comodità e di ornamenti. Il signor Carker accoglieva le lodi con ostentazione di grande umiltà e con il suo più deferente sorriso, dicendo che, sì, quella casetta era abbastanza bella per un uomo modesto come lui, e che forse il signor Dombey la giudicava anche migliore della realtà allo stesso modo che i re si figurano che esistano delle singolari attrattive nella vita dei mendicanti.
Così parlando lanciò all'ospite un'occhiata penetrante, che divenne ancora più acuta quando il signor Dombey, mettendosi ritto con le spalle al caminetto, cominciò a osservare i quadri appesi alle pareti. Carker seguiva quell'esame con felina intensità di attenzione, ma non riuscì a scoprire se il suo principale fosse attirato da un particolare quadro più che dagli altri: era, naturalmente, il quadro con la figura di donna che rassomigliava in modo così impressionante a Edith, e di fronte a tanta indifferenza ebbe sul volto l'ombra di un maligno sorriso rivolto in parte al ritratto e in parte al grand'uomo che gli stava accanto.
Durante la colazione il signor Dombey fu ancor più silenzioso del solito. Da parte sua Rob era tanto ansioso di servire a tavola in maniera impeccabile per compiacere il suo severo padrone, da non ricordare quasi nemmeno che il visitatore era l'importante personaggio al quale andava debitore di quelle sue malaugurate brache di cuoio.
- Mi permetta - disse all'improvviso Carker - di chiederle come sta la signora Dombey.
Nel rispondere il signor Dombey fu colto da un subitaneo rossore.
- La signora Dombey sta benissimo. Carker, mi ha fatto venire in mente che voglio parlare con lei di un certo argomento.
- Rob, puoi andare! - ordinò il padrone, e il ragazzo, che non aveva mai cessato di pendere dalle labbra del padrone come fosse in stato di ipnosi, ubbidì sull'istante.
- Vede, signor Dombey, non credo che una persona del suo grado possa ricordare l'esistenza di quel ragazzo che è diventato mio domestico - mormorò Carker - ma le devo dire che appartiene alla famiglia della donna che un tempo ella aveva scelto come bambinaia... In seguito volle generosamente incaricarsi di farlo educare e istruire...
- Sicuro! - disse rabbuiandosi in volto il signor Dombey. Ma non mi pare che si sia fatto onore.
- No davvero, anzi è un piccolo delinquente - precisò Carker.
Ma poiché non trovava lavoro e seppi che si considerava in diritto di esigere da lei altre elemosine (forse glielo avevano detto in famiglia, anzi è molto probabile), e insisteva per arrivare fino a importunare lei personalmente, ho deciso di assumerlo al mio servizio. So benissimo che i miei rapporti con lei sono unicamente di affari, tuttavia provo naturalmente il massimo interesse per tutto ciò che la riguarda...
- Carker! - lo interruppe il signor Dombey con magnanima condiscendenza. - Lei sa benissimo che i nostri non sono semplici rapporti di affari, ma anche di autentica stima e fiducia; le sono grato anche della cortesia con cui mi ha parlato or ora. Mi è pertanto facile passare a ciò che stavo per dirle e che da parte mia significa nei suoi confronti una fiducia ancora maggiore...
- Sarò onorato, onoratissimo! - rispose a bassa voce il signor Carker, chinando umilmente il capo.
- Mia moglie e io - dichiarò il signor Dombey entrando nel vivo della questione - non andiamo d'accordo su certi argomenti. La signora Dombey non mi ha ancora compreso appieno.
- La signora Dombey possiede molte rare doti e senza dubbio è abituata alle continue adulazioni. Ma con l'affetto, il rispetto e il senso del dovere le sarà facile correggere ogni eventuale piccolo errore.
Al signor Dombey tornò in mente il volto bellissimo e altero che aveva scorto nello specchio, e poi l'espressione della moglie quando gli aveva indicato la porta ordinandogli di uscire, e non poté impedire che gli salisse il sangue alla testa, mentre il suo dipendente non perdeva una sola sfumatura dei sentimenti che gli si dipingevano sul volto.
- Prima della morte della signora Skewton ho avuto qualche alterco con mia moglie e lei un giorno era presente...
- Sì, e con molto rammarico da parte mia - replicò il sorridente Carker - perché un signore come lei non ha bisogno di testimoni, essendo padrone assoluto nella propria casa. Penso inoltre che la signora Dombey sia rimasta non poco dispiaciuta della mia presenza occasionale nel momento in cui il suo signor marito le manifestava un certo disappunto. La signora è dotata di una grande naturale fierezza, che le si addice tanto bene...
- Le ricordo, Carker, che quando si tratta di me e di mia moglie, la persona di mia moglie non può non assumere una posizione di importanza secondaria...
- Senza dubbio, signor Dombey, senza dubbio! - si affrettò ad affermare Carker. - Benissimo! - approvò con indifferenza fredda e solenne il signor Dombey. - Ora le dirò che non molto tempo fa trovai necessario insistere presso mia moglie affinché ella mutasse il suo atteggiamento intorno a certi punti di deferenza e di sottomissione a me dovuti, ma non riuscii a convincerla.
Orbene, Carker, io intendo far comprendere a mia moglie che la mia volontà è legge, e che non posso ammettere nemmeno una eccezione a quella che è la regola della mia vita. Chiedo alla sua cortesia di compiere questo incarico, con la certezza che, venendo da me, non le riuscirà inaccettabile, per quanto poco gradito per il motivo che interessa la signora Dombey.
- Lei sa bene che non ho mai mancato di ubbidire ai suoi ordini- rispose il signor Carker.
- Lo so! - convenne maestosamente il signor Dombey - E badi bene che è indispensabile sradicare dalla mente della signora Dombey ogni inizio di opposizione; è necessario comprenda una volta per tutte che l'idea di opporsi a me è mostruosa e assurda.
- Noi, che siamo i suoi dipendenti, questo lo sappiamo benissimo!
- osservò Carker, spalancando la bocca in un sorriso che andava da un orecchio all'altro.
- Sì, perché mi conoscete bene, voi. Ora, lei, Carker, avrà la cortesia di informare da parte mia la signora Dombey che sono stupito nel constatare che la nostra ultima conversazione non ha avuto l'effetto desiderato. Le dica che sono molto scontento del suo modo di comportarsi, e che se non aderirà ai miei desideri mi troverò nella spiacevole necessità di farle giungere con lo stesso mezzo delle comunicazioni ancor più forti. La mia prima moglie non ha mai contrastato i miei desideri e ritengo che nessun'altra donna debba mai farlo.
- La prima signora Dombey ebbe una vita molto felice disse Carker.
- La mia prima moglie era dotata di grande buon senso e di rettitudine.
Pensa che la signorina Dombey rassomigli a sua madre?
- chiese Carker.
Di colpo il signor Dombey si rannuvolò, e il suo agente di fiducia notò subito quel cambiamento d'umore.
- Perdoni se mi sono permesso di toccare un tasto doloroso disse costui con un tono di umiltà in netto contrasto con la vivace acutezza dello sguardo. - Il mio interesse verso la sua casa mi ha indotto a essere indiscreto. La prego di perdonarmi.
Dopo qualche istante di silenzio il signor Dombey riprese a parlare con tono più teso e con le labbra strette.
- Oh, non occorre che lei si scusi. Si tratta solo dell'argomento che stiamo trattando, non di ricordi del passato, come poteva pensare. Non approvo l'atteggiamento che la signora Dombey ha verso mia figlia, ecco tutto. Tenga anzi bene presente anche questo quando parlerà a mia moglie. Le dica quanto mi riescono sgradite le sue manifestazioni di affetto verso mia figlia.
Nessuno può non notarle. E tutti finiranno per vedere come sono diversi i modi che la signora Dombey usa con me. Può darsi che mia moglie faccia sul serio, oppure che sia per lei un semplice capriccio, ma le dica di smettere in ogni caso, anche se non voglio nemmeno pensare che lo faccia per irritarmi. Le dica di ricordare che non fa se non nuocere a mia figlia, e soprattutto che esigo da lei la sottomissione!... Carker, concluse il signor Dombey, calmatosi dall'improvvisa emozione che aveva reso insolitamente concitate le sue parole - spero che non dimenticherà di dare una grande importanza a questo punto.
Il signor Carker chinò la testa per esprimere la sua completa ubbidienza, quindi chiese: - Nient'altro?
- Soltanto questo - rispose il signor Dombey. - Abbia la bontà di tener presente, Carker, che nessun messaggio indirizzato a mia moglie e che lei sia incaricato di trasmettere ammette risposta.
Non intendo ricevere alcuna replica. La signora Dombey deve sapere che non è nelle mie abitudini temporeggiare o scendere a patti; ciò che dico è definitivo. Finalmente i due gentiluomini volsero la loro attenzione alla colazione che non avevano ancora toccata, e poi montarono a cavallo per dirigersi insieme verso la City.
Il signor Carker era di ottimo umore e parlò molto. Il signor Dombey prestava orecchio con sovrana condiscendenza, facendo di quando in quando udire la sua voce, e indifferente com'era a tutto ciò che non fosse alla sua altezza, praticava l'indifferenza anche nel cavalcare, così che a un certo punto, quando il cavallo incespicò in un ostacolo, non fu pronto a trattenerlo. Cadendo, l'animale lo trascinò con sé e nel dibattersi per rialzarsi lo urtò e lo colpì con uno zoccolo ferrato.
Il signor Carker, che era un ottimo cavallerizzo, fu subito a terra e in un attimo aveva già rimesso in piedi il cavallo del suo principale, il quale aveva davvero corso il rischio di non potergli mai più fare alcuna confidenza. Il signor Dombey, svenuto, ferito al capo e con il volto coperto di sangue, fu trasportato da alcuni uomini che lavoravano per riparare la strada in una vicina locanda sotto gli ordini solleciti del signor Carker. Si trovò ben presto chi lo esaminasse e gli medicasse i danni peggiori. La diagnosi fu che l'infortunato si era rotto un paio di costole e soffriva di varie escoriazioni e contusioni, ma che prima di notte sarebbe stato possibile trasportarlo a casa sua senza pericolo. Quando il poveretto ebbe ripreso i sensi, fu lasciato tranquillo a godere in pace il conforto delle molte fasciature, mentre il signor Carker si rimetteva in sella per recare la triste notizia alla famiglia. Dovette faticare non poco per farsi ricevere dalla signora Dombey, e infine la trovò in un salottino in compagnia di Florence. Aveva già tante volte ammirata quella donna, ma provò la sensazione di non aver mai visto effettivamente quanto fosse bella. Dalla soglia incontrò lo sguardo altero e sprezzante di lei, ma non appena, accennando un breve inchino, volse l'occhio verso la fanciulla, ebbe la soddisfazione di vedere che Edith faceva l'atto di alzarsi per riceverlo e insieme abbassava le belle ciglia altere.
Si disse addoloratissimo. infinitamente rattristato di dover comunicare alla signora la notizia di un lieve incidente...
pregava la signora di non allarmarsi, le giurava che non era affatto il caso di temere, ma il signor Dombey... Fu la fanciulla che lanciò un grido di terrore, non la donna che si affrettò a confortarla. Sì, il signor Dombey era caduto da cavallo, ma era ferito in modo molto lieve, non correva alcun pericolo, il signor Carker lo giurava sul suo onore.
- Mamma! - balbettò in lagrime Florence. - Non credi che potrei andare io...
Il signor Carker teneva la donna sotto il fuoco del suo sguardo:
con un breve cenno di diniego le fece comprendere con implacabile chiarezza che se non avesse replicato come egli voleva avrebbe senz'altro parlato, a costo di spezzare il cuore alla fanciulla, ed ella cedette.
- Ho ricevuto l'ordine - disse il signor Carker - di informare la nuova governante... la signora Pipchin, mi pare sia questo il suo nome, che il signor Dombey desidera siano preparate per lui le stanze del pianoterra perché così preferisce. Ritorno subito da lui. Non occorre le dica, signora, che al signor Dombey è stato subito provveduto con la massima cura e che si trova tra gente sicura. La prego di non avere alcuna preoccupazione. - Poi si ritirò dopo avere fatto sfoggio della massima deferenza e considerazione, ma non gli era sfuggito che l'allusione alla governante era stato un nuovo insulto del signor Dombey alla moglie.
Il signor Carker dimenticò affatto di sorridere per tutto il tempo in cui provvide a cercare una carrozza molto comoda, e solo quando si ritrovò al capezzale dell'infortunato ricordò di mettere in mostra di nuovo tutti i suoi splendidi denti. Il ritorno a casa era stato molto penoso per l'infortunato che finalmente venne accolto dall'acida strega incaricata di tenere la direzione della sua casa. Il signor Carker attese che fosse adagiato e bene sistemato a letto, poi, siccome il signor Dombey dichiarò di non voler altre visitatrici, ritenne doveroso ripresentarsi alla signora, rivolgerle calde parole di conforto e perfino prenderle la mano e portarla alle labbra.
Edith non ritirò la mano, né schiaffeggiò quell'impudente, riuscì a dominare la collera che le accese d'un subito le guance, ma quando fu sola colpì con tanta forza la mensola di marmo del caminetto che la mano insultata le rimase ferita a sangue. Pareva che avrebbe voluto gettarla via da sé, lasciarla consumare nel fuoco.
Vegliò fino a notte alta, al fioco bagliore della brace quasi spenta, tutta chiusa nella sua fosca bellezza, intenta a contemplare le ombre minacciose che i suoi pensieri evocavano sulle pareti: insulti e oltraggi che prendevano confusamente forma e tracce indistinte di eventi futuri scatenati contro di lei da una gigantesca figura nemica. Ed era la figura di suo marito.
Non erano trascorsi molti giorni, quando un giorno la signorina Susan Nipper decise di compiere un passo di eccezionale gravità:
cogliendo il momento in cui la sua giurata nemica, la signora Pipchin, si era ritirata per schiacciare un sonnellino pomeridiano, e il signor Dombey se ne stava coricato sul divano tutto solo, bussò all'uscio del suo terribile padrone, e ricevuta licenza di entrare, si fece avanti in punta di piedi e gli fece la sua più profonda reverenza.
Il signor Dombey, che era intento a fissare meditabondo la fiamma del caminetto, chiese stupito alla giovane che cosa volesse.
- Signore! -disse Susan Nipper, parlando con l'abituale vivacità e rapidità. - Sono ormai al suo servizio da dodici anni, da quando la mia signorina Florence non sapeva quasi ancora parlare, e anche se non sono vecchia come Matusalemme, non posso più dire di essere una bambina in fasce.
Il signor Dombey si era un poco sollevato, appoggiandosi al gomito, e rimase in silenzio a fissare la donna.
- La mia signorina è la più cara e gentile creatura della terra, e posso ben dirlo io che l'ho vista quando soffriva e quando era lieta (ma di allegria ne ha avuta ben poca), e l'ho vista in compagnia di suo fratello e l'ho vista sola e ho il dovere e il diritto di dire ben chiaro a tutti che la signorina Florence è un vero angelo, e lo ripeterei anche a costo di essere messa alla tortura e fatta a pezzi!
Lo stupore e l'indignazione resero ancor più livido il pallore che l'incidente aveva procurato al signor Dombey.
- Io voglio, signore, parlare con rispetto e senza recare offesa- riprese Susan - ma quello che io sola so devo pur dirlo: oh! lei non conosce affatto la mia buona signorina, lei non la conosce per nulla!
Ora il signor Dombey era in preda a furiosa collera e con la mano cercò il cordone del campanello, che però si trovava dall'altro lato del caminetto, e non l'avrebbe potuto raggiungere senza essere sorretto.
- La signorina Florence - disse Susan - è la più paziente, rispettosa e bella delle figlie, e non c'è nessun gentiluomo dei più grandi e ricchi dell'Inghilterra che non sarebbe orgoglioso di lei! Non vi è nessun padre sulla terra che non preferirebbe perdere la sua grandezza e i suoi quattrini piuttosto che perdere una figlia come lei - gridò Susan Nipper scoppiando in lagrime - e nessuno al mondo fuori di questa casa avrebbe la cattiveria di farla soffrire come l'ho vista io stessa con i miei occhi tormentata qui senza mai lamentarsi!
Il signor Dombey le gridò che uscisse, gridò per chiamare qualcuno dei domestici, ma inutilmente.
- Io non sono una santa del cielo - finì Susan - ma anche se per questo dovessi perdere il posto, e spero che lei non farà la brutta azione di cacciarmi, devo dirle che lei non conosce sua figlia, signore, e che è un vero peccato mortale, oh sì, un peccato mortale!
In quel momento, attirata dalle voci concitate, la signora Pipchin entrò di colpo a far ondeggiare nella stanza le sue abbondanti gramaglie, e Susan l'accolse gettandole l'occhiata fierissima inventata apposta per lei fin dal primo momento che l'aveva conosciuta. Il dialogo che seguì si concluse con il licenziamento in tronco di Susan Nipper, la quale dichiarò che se n'andava invece di sua spontanea volontà, e che non le rincresceva perché era riuscita a dire apertamente quello che pensava della situazione; dopo di che salì a fare i bagagli nella sua cameretta.
La trovò Florence che piangeva seduta sull'ultima valigia già chiusa, decisa a non lasciarsi commuovere da nessuna supplica della sua padroncina, perché la dignità le impediva di compiere verso il nemico alcun gesto umiliante di conciliazione.
Addolorata e sbigottita, Florence riuscì solo a sapere che la ragazza sarebbe andata ad abitare con un fratello in una fattoria della contea di Essex; aveva messo da parte qualche risparmio e per il prossimo avvenire non aveva preoccupazioni materiali.
Era appena scesa nel vestibolo dopo un intenso e doloroso scambio di abbracci con la padroncina, quando il maggiordomo avvertì Florence che il signor Toots era in salotto, chiedeva di presentarle i suoi omaggi e di informarsi intorno alla salute di Diogene e del padrone.
Florence non si fece pregare, anzi si affrettò a chiedere al vecchio e fedele amico di seguire e assistere la sua cara amica Susan che partiva all'improvviso per la campagna, sola e forse bisognosa di protezione.
Il signor Toots si disse felicissimo di compiere cosa grata alla signorina e balbettò anche delle scuse per come si era comportato quel giorno a Brighton. Florence gli rispose in fretta che si tenesse per scusato e lo pregò di seguire subito Susan, al che l'ottimo giovane si affrettò ad ubbidire. Invitò addirittura la ragazza a far colazione a casa sua prima di partire, giurandole che aveva una cuoca eccellente e talmente gentile che l'avrebbe fatta stare perfettamente a suo agio. Poi il giovanotto accompagnò Susan alla diligenza e l'attimo prima che partisse le chiese con molta esitazione se con l'andar del tempo, e magari in un tempo abbastanza lontano, sarebbe stato possibile che la signorina Dombey riuscisse ad amarlo almeno un poco.
- No - gli rispose Susan, scotendo il capo. - Assolutamente no, mai!
- Grazie! - disse il signor Toots. - Non importa. Buona notte.
Non importa e grazie tante.
Quel giorno Edith uscì di casa in carrozza di buon'ora, e poco dopo le dieci era già di ritorno. Aveva appena messo piede a terra che qualcuno usciva in fretta e silenziosamente dall'ingresso, e con un profondo inchino le offriva il braccio. La donna accettò il braccio senza sul momento nemmeno accorgersi chi fosse quel premuroso cavaliere, ma subito chiese arricciando sprezzantemente le labbra:
- Il suo paziente come sta oggi?
- Meglio - rispose Carker. - Ha fatto dei progressi notevoli. L'ho lasciato che riposava.
La donna fece per congedarlo con un cenno del capo e si diresse allo scalone, ma egli la seguì e la chiamò fermandosi sul primo gradino.
- Signora! Posso chiederle il favore di essere ricevuto per qualche istante?
Ella si fermò e si volse. - E' tardi, signore, e sono stanca. La cosa è tanto urgente?
- Urgentissima! E poiché ho avuto la fortuna di incontrarla, permetta che insista nella mia richiesta.
Per un momento la donna rimase a fissare quello smagliante sorriso, e il giovane rimase a contemplarla, così altera e splendidamente vestita, e tornò a pensare che era davvero bellissima.
- Dov'è la signorina Dombey? - chiese la donna a una domestica.
- Nel salottino, signora.
- Andiamo là - disse la donna, con un cenno del capo verso l'uomo rimasto in attesa per indicargli che era libero di seguirla.
- Signora, la prego! Signora Dombey! - esclamò il signor Carker, lanciandosi agilmente su per lo scalone e raggiungendo in un attimo la donna. - Mi permetto di insistere che non sia presente al dialogo la signorina.
Edith gli lanciò una rapida occhiata, ma senza perdere la sua calma altera.
- Vorrei risparmiare alla signorina Dombey il dispiacere di venire a conoscere quanto le ho da dire - spiegò a bassa voce Carker. - O almeno, signora, lascio a lei decidere se debba o no essere presente. Lo dico per deferenza a lei, signora...
La donna gli staccò lentamente gli occhi dal volto e ordinò alla cameriera che accendesse i lumi in un'altra stanza. Entrarono, ma nessuno dei due aperse bocca prima che la porta fosse richiusa.
- Voglio dirle - cominciò la donna - che se l'uomo con il quale è stato sino a poco fa le ha dato l'incarico di trasmettermi qualche messaggio, io non sono disposta a riceverne alcuno. Credo lei sia venuto da me per questo. Ne sono certa.
Le proteste del signor Carker furono eloquenti e appassionate.
Indicibile era il suo rammarico nel dover recare un dispiacere alla signora; ma avrebbe ella potuto esigere che egli mancasse al suo primo dovere? Edith non riuscì a moderare la collera e replicò con violenza. L'uomo non si mostrò scosso; attese in silenzio che la sua antagonista si calmasse alquanto, quindi parlò senza staccare lo sguardo dagli occhi ardenti di lei.
- Signora, - disse Carker - so, e non solo da oggi, perché non sono potuto entrare nelle sue grazie. Lo so. Mi ha parlato così apertamente, e mi dà tanto conforto possedere le sue confidenze...
- Le mie confidenze! - ripeté sdegnosamente la donna, ma l'altro non badò all'interruzione.
- ... che non fingerò di ignorarle. Ho veduto con i miei occhi fin da principio che da parte sua non vi era affetto verso il signor Dombey... e come poteva esistere fra esseri tanto diversi?
Ho visto poi come l'indifferenza dava posto in lei a sentimenti ben più forti... e come non sarebbe potuto avvenire, date le circostanze in cui era venuta a trovarsi? E tuttavia quale diritto avevo di confessarle in parole chiare tale mia conoscenza?
- E quale diritto aveva allora lei, signore, di fingere di credere tutto il contrario, gettandomi in faccia ogni giorno questa menzogna?
- Sì, signora, questo io dovevo fare! - replicò l'altro con passione. - Se non l'avessi fatto, se mi fossi comportato diversamente, non le potrei parlare così ora; perché io prevedevo, e chi più di me avrebbe potuto formulare delle previsioni, se io sono la sola persona a conoscere tanto bene e a fondo il signor Dombey... io prevedevo che se il suo carattere non fosse diventato arrendevole e ubbidiente non meno di quello della prima signora Dombey, il che non potevo credere...
Il sorriso altero della donna gli diede motivo di pensare che avrebbe potuto insistere su quel punto.
-...il che, ripeto, io non credevo, era molto probabile che sarebbe giunto il momento in cui si potesse stabilire fra noi due un'utile intesa.
- Utile a chi, signore? - ella chiese sprezzante.
- A lei, signora. E non aggiungerò che possa riuscire un pochino utile anche a me, in quanto mi vorrà esimere dall'obbligo di formulare nei confronti del signor Dombey quelle sia pur moderate lodi che potrei onestamente manifestare, senza insieme incorrere nella sfortuna di pronunciare alcunché di sgradevole a colei che sa provare avversione e disprezzo con tale intensità.
- Le pare onesto - disse Edith - parlare così di un uomo del quale è pure il primo consigliere e adulatore?
- Consigliere, sì - rispose Carker. - Ma non adulatore. Non nel vero significato del termine, benché le rispettive posizioni possano indurre anche ogni giorno, per comodità o per interesse, a dichiarare quanto non corrisponde in effetti alla realtà. Esistono pure le intese di affari, le amicizie di comodo e i matrimoni d'interesse!
La donna si morse a sangue il labbro, ma senza distogliere lo sguardo severo e duro che teneva fisso al volto del suo antagonista.
- Signora! - disse Carker mettendosi a sedere accanto alla donna con l'espressione del massimo rispetto e di una intensa devozione.
- Ora che mi sono dichiarato così il suo umile servitore, perché dovrei esitare a parlare? Era naturale che una donna tanto ricca di doti come lei ritenesse possibile mutare almeno in una certa misura il carattere del proprio sposo... era per lo meno naturale che lei pensasse alla possibilità di vivere in qualità di moglie del signor Dombey senza dover avere con lui degli scontri così gravi. Ma poi, signora, ha ben compreso di essersi illusa intorno alla personalità del signor Dombey. Non poteva sapere quanto esigente e superbo egli sia, e come sia, per così dire, lo schiavo della propria grandezza, aggiogato al suo stesso carro trionfale, senz'altro pensiero al mondo all'infuori di ciò che gli sta alle spalle... Il signor Dombey è affatto incapace di provare alcun rispetto per lei, come non ne prova per me. Il paragone le potrà parere assurdo, signora, eppure veda come corrisponde alla realtà:
nella pienezza del suo potere il signor Dombey ha chiesto a me, e io ho ricevuto l'ordine dalla sua viva voce, di fargli da intermediario presso di lei, signora, perché sa che io le sono antipatico, e perché intende servirsi di me per castigarla... egli non pensa alla dignità che potrei possedere io, perché mi paga e devo servirlo; non pensa alla dignità della signora alla quale ho l'onore di rivolgere la parola in questo momento, perché tale persona per lui non esiste; egli ritiene solo che io sia l'ambasciatore più adatto per umiliare sua moglie, un essere che gli appartiene di diritto. Egli è perfettamente indifferente di fronte a quelli che possono essere i miei sentimenti nel ricevere questo incarico, e i suoi, signora, nell'ascoltare da me il messaggio.
La donna seguitava a osservare, ad ascoltare in silenzio, ma egli comprese che la intuizione da parte di lui della verità le era penetrata nel petto come una freccia avvelenata.
- Non le parlo, signora, per approfondire la frattura che la divide dal signor Dombey... quale vantaggio ne avrei?... ma solo per dirle come lavora la mente di suo marito. E poi ricordi che egli non ha mai trattato se non con persone che al suo cospetto hanno piegato la fronte e le ginocchia... ha trovato tutti sottomessi alla sua volontà. Non ha mai saputo che cosa voglia dire trovarsi di fronte alla collera dell'orgoglio ferito, alla violenza dei risentimenti.
- Ma infine lo saprà! - parvero dire le labbra immobili della donna, senza che il suo sguardo vacillasse.
- Il signor Dombey - disse Carker con la morbidezza del serpente che svolge con lentissima prudenza le sue spire - è senza dubbio un gentiluomo, ma incline a travisare perfino i fatti che si sono svolti sotto i suoi occhi, nel caso non siano di suo gradimento!
Lei perdonerà quanto le dico, sapendo che l'idea non è mia, naturalmente... ma egli crede sinceramente che la severità da lui dimostrata verso la moglie in una circostanza che forse ricorderà, prima della morte della signora Skewton, abbia potuto produrre un effetto formidabile, condurre addirittura a una, sia pure temporanea, sottomissione!
Edith rise. Fu una risata dura e aspra da non si dire, ma egli la trovò affatto di suo gusto.
- Signora! - riprese Carker - ora basta su questo argomento. Sono convinto che le sue opinioni sono forti e incrollabili, e temo addirittura di incorrere ancora nel suo dispiacere dicendo che nonostante io conosca a fondo questi difetti del signor Dombey, mi sono abituato alla sua mentalità e gli porto stima. Non lo dico per vantarmi d'un sentimento che non può essere condiviso da lei, signora... bensì unicamente per darle la certezza che in questa disgraziata faccenda io sono tutto dalla sua parte, e che non so esprimerle con quale indignazione giudico la parte che si vuole farmi recitare!
Pareva che la donna avesse paura di distogliere lo sguardo da quello di lui.
E adesso a lui non mancava se non di svolgere l'ultima delle sue spire.
- E' tardi ormai - disse Carker, dopo un breve silenzio - e lei è stanca, ma non devo dimenticare il secondo scopo di questa mia visita. Le devo raccomandare e insistere con il maggior calore di usare prudenza nel manifestare affetto verso la signorina Dombey.
- Prudenza! Che vuol dire? Chi si permette di giudicare le mie inclinazioni? Lei forse?
- Signora, - egli rispose, fingendosi esitante - mi trovo in un grandissimo imbarazzo. Ha detto di non voler ricevere alcun messaggio, mi ha proibito di tornare sull'argomento, ma le due cose sono talmente intrecciate che sono costretto a chiederle, con la forza che mi dà l'onore di possedere ormai la sua confidenza, di infrangere l'ordine da lei datomi...
- Sa benissimo di poterlo fare! - rispose Edith. - Parli dunque.
Era pallidissima, tremante, scossa dall'emozione: dunque egli non aveva esagerato nel prevedere quale effetto avrebbero prodotto le sue parole.
- Egli mi ha ordinato di dirle - cominciò con voce molto bassa che non trova gradite le sue manifestazioni di affetto verso la signorina Dombey. Invitano a fare dei confronti che non gli sono favorevoli. Desidera che lei muti atteggiamento e faccia bene attenzione che questo affetto non si tramuti in danno per chi ne è l'oggetto.
- E una minaccia! - ella disse.
- E' una minaccia - egli ripeté movendo appena le labbra, e aggiunse ad alta voce: - Ma non contro di lei.
La donna si levò superbamente in piedi, fissandogli in volto gli occhi fiammeggianti, e aveva sulle labbra un sorriso di amaro disdegno; all'improvviso fu come le fosse mancato il terreno sotto i piedi e sarebbe caduta se egli non l'avesse stretta fra le braccia. Subito la donna si riprese e lo respinse, ma rimase a fissarlo.
- La prego di lasciarmi, ora. Non mi dica più nulla stasera.
- Sapevo come fosse urgente questa comunicazione - disse Carker.- E' impossibile prevedere quali conseguenze sarebbero potute accadere se lei, signora, non fosse stata informata in tempo. So che la signorina Dombey è rattristata dal licenziamento di una cameriera che le era vicina da gran tempo; non è impossibile che ciò faccia già parte di un piano di rivalse. Ho insistito perché la signorina Dombey non fosse presente al nostro colloquio: ora oso sperare che mi darà ragione...
- Sì. Ma la prego di lasciarmi sola.
- Sarò continuamente qui per assistere lui, da basso, perché conduca avanti gli affari della ditta attraverso la mia persona.
Mi permetto di chiederle che mi riceva ancora per discutere sul da farsi e per comunicarmi i suoi desideri?
La donna gli fece cenno di uscire.
- Non so nemmeno se mi convenga dirgli che le ho già parlato, oppure se sia bene lasciargli credere che non ne ho trovato l'occasione, o non so che altro. Sarà necessario che mi permetta di consultarla ancora presto.
- Quando vorrà; ma ora basta.
- E allora si rende conto che se chiedo di parlarle la signorina Dombey non dovrà essere presente; e se vorrò vederla sarà con la gioia di aver guadagnato la sua confidenza e solo nell'intento di renderle ogni servigio in mio potere, magari di porre in guardia la signorina da qualche pericolo... mi crede?
La donna lo guardava ancora come se temesse di liberarlo dall'influenza che i suoi occhi dovevano esercitare su di lui. Si limitò a rispondere di sì, e tornò a indicare la porta.
Egli mostrò di accettare l'ordine, s'inchinò, ma insistette:
- Mi ha dunque perdonato... ho spiegato quale sia la mia colpa.
Posso... per amore della signorina Dombey, e anche per me stesso... posso baciarle la mano?
La donna gli porse la mano chiusa nel guanto, che la sera avanti si era volontariamente ferita; egli la prese e la portò alle labbra si ritirò. E quando ebbe richiuso l'uscio, agitò in aria la destra e se la ficcò dentro la giubba, premendola sul petto.
Tra i vari piccoli cambiamenti sopravvenuti nelle abitudini del signor Carker, nessuno era più importante della triplicata attenzione con cui si dedicava a studiare e analizzare ogni particolare degli affari relativi alla Ditta. Il suo occhio di lince divenne venti volte più acuto nella revisione non solo degli affari in corso, ma anche di quelli passati, lungo la serie degli anni in cui aveva prestato la sua opera. Ma badava pure alle cose sue con molto acume, e non erano pochi nella City a supporre che quel certo James Carker della Ditta Dombey fosse ormai ricco per suo conto, e siccome si diceva che si occupasse attivamente di incassare il proprio denaro già impiegato in vari modi, non mancò nemmeno chi giunse a dire che stava certo per sposare qualche ricca vedova. Ne faceva fede, si sarebbe detto, anche la cura più che mai meticolosa che dedicava alla sua persona. L'unico vero mutamento profondo era però quello di cedere a lunghi periodi di profonda meditazione, magari quando percorreva a cavallo la distanza che separava la sua residenza privata dall'ufficio, e allora non vedeva né udiva nulla, limitandosi a evitare istintivamente gli ostacoli in cui gli accadesse di imbattersi. Un giorno in uno di quei suoi momenti assorti fu scorto dalla vecchia signora Brown, la quale subito lo riconobbe e lo indicò alla figlia.
- Non avrei mai pensato di rivederlo! - esclamò la giovane. - Ma guarda, è sempre come allora! E perché dovrebbe essere cambiato!
Che cosa ha sofferto lui? Basta che sia cambiata io, e come!
- E che superbia! - ringhiò la vecchia. - Bello, elegante e nobile, mentre noi restiamo qui nel fango...
- Che t'importa! - ribatté irritata la figlia. - Noi siamo il fango sotto gli zoccoli del suo cavallo. Che altro dovremmo essere? - Ma l'intensità dello sguardo con cui lo seguì finché scomparve smentiva l'ostentazione di indifferenza.
La vecchia le afferrò la manica per attirare la sua attenzione.
- E lo lasci andare così, quando potresti spremergli un bel po' di quattrini? Ma è una vera cattiveria figlia mia!
- Non ti ho già detto che non voglio denaro da lui? - ribatte la giovane. - Ancora non mi credi? Ho forse tenuto l'elemosina di sua sorella? Ti ho detto che non vorrei toccare un soldo se sapessi che è passato fra le sue mani bianche a meno di non poterglielo rendere avvelenato! Basta, mamma, andiamo.
- Lui così ricco, e noi tanto povere! - si lamentò la vecchia.
- La povertà per me vuol dire non potergli ripagare nemmeno una parte del male che gli dobbiamo! - ribatté la figlia. - Mi venga pure questo genere di ricchezze, le accetterò e me ne servirò.
Vieni via! Non c'è niente da fare, vieni!
Poi la vecchia trovò il giovane Robin che faceva prendere aria al cavallo del padrone, e lo trattò come un caro amico, ricordandogli tanti piccoli affari poco puliti fatti insieme, specialmente quando lui andava intorno a dar la caccia di frodo ai piccioni, a malincuore il ragazzo accettò di essere riconosciuto e di rispondere a qualche domanda intorno al suo padrone e alle sue amicizie altolocate, e sarebbe stato addirittura disposto a deporre nella vecchia mano grinzosa l'offerta di uno scellino, se la giovane non gli avesse ingiunto violentemente di rimetterselo in tasca, nonostante le proteste della madre.
Anche quel giorno il signor Carker lavorò intensamente fino a sera. Ricevette vari visitatori, esaminò un fascio di documenti uscì parecchie volte per recarsi in molti uffici mercantili, e non si concesse alcun intervallo per dedicarsi a personali riflessioni prima di avere sbrigato la quantità di lavoro che si era prefisso di condurre a termine. A sera andò dove era custodito il suo cavallo, montò in sella e si diresse verso l'abitazione del signor Dombey.
Giunto nei pressi mise il cavallo al passo e alzò lo sguardo alle finestre della casa, da prima verso quella dietro la quale un giorno aveva scorto Florence con accanto il cane, ma poi sorrise e distolse gli occhi quasi con compatimento.
- E' passato il tempo - si disse - in cui mi conveniva osservare il levarsi della tua piccola stella per sapere da che parte accorressero le nubi e magari all'occorrenza proteggerti. E' ormai sorto un magico pianeta e ti sei perduta nella sua luce!
Girò l'angolo della casa e fra quelle illuminate sul retro ne cercò una che gli ricordava un'imponente figura, una manina guantata, il fruscio della splendida veste nell'istante in cui minacciava di cadere a terra come l'ala di un magnifico uccello ferito, un fruscio quasi premonitore dell'avvicinarsi di un temporale. Erano quelli i pensieri che portò con sé facendo girare da capo il cavallo e spingendolo a un buon trotto entro il parco ormai solitario e quasi buio.
Al termine della sua cavalcata, quando uscì di nuovo dopo essersi mutato d'abito e si trovò nel salotto fortemente illuminato della donna che aveva occupato i suoi pensieri, e la salutò chinando il capo, sorridendole e parlandole con il tono più dolce della voce morbida, la rivide esattamente come se l'era raffigurata. Gli parve di indovinare persino il mistero della mano destra coperta dal guanto, e appunto per quel dubbio la trattenne più a lungo fra le sue. Lungo la via pericolosa su cui ella stava per incamminarsi, ma non aveva ancora impresso alcuna orma, egli già l'attendeva premendo con forza il piede.
Il tempo non poté indebolire la barriera che separava il signor Dombey dalla moglie perché il suo trascorrere non alterava la realtà della coppia male assortita, l'infelicità personale dei due e della loro vita in comune, il legame che li avvinceva e contro il quale si dibattevano invano fino a rimanere profondamente feriti. Il loro orgoglio differiva per qualità e nel fine, ma era di pari intensità e aveva fatto di quel matrimonio un deserto di cenere.
Per non peccare di ingiustizia nei confronti di lui si deve ammettere che era perfettamente ignaro di stare incitando la moglie verso chissà quale meta, perché l'illusione della sua vita lo accecava, sebbene provasse verso la donna i sentimenti sinceri che l'avevano indotto a chiederne la mano di sposa. Ma contro di lui ella aveva commesso il grande errore di ergersi come intrattabile antagonista che ignorasse e negasse ogni importanza della sua personalità d'uomo d'affari. Nei sei mesi che seguirono l'incidente della caduta da cavallo, moglie e marito non mutarono di un ette i loro rapporti: la donna fredda e rigida come una statua di marmo; lui gelido e fosco quanto un fiume sepolto e mai raggiunto da nessun raggio di luce.
Florence aveva dovuto abbandonare ormai l'ultima speranza di riavere una vera famiglia, e dopo due anni, se ancora le rimaneva l'idea vaga che in un tempo magari lontano Edith e suo padre potessero trovare il mezzo per convivere in pace, non prevedeva più che suo padre cominciasse ad amarla perché troppa era la freddezza che non cessava di mostrare verso lei. Adesso aveva diciassette anni e conduceva una vita molto solitaria perché la sua nuova mamma era stranamente cambiata, addirittura la evitava; con vivo dolore non finiva di chiedersi come ciò potesse essere accaduto quando fra loro l'affetto era sorto così pronto e spontaneo. Una sera andò a cercarla nella sua camera.
- Mamma! - disse Florence avvicinandosi con dolcezza a Edith.- Ti ho forse offesa involontariamente?
- No - rispose Edith.
- Mamma, devo avere sbagliato... - insistette Florence. - Non sei più la stessa con me. Ti voglio tanto bene e sento che sei tanto cambiata...
- Anch'io ti voglio bene, Florence, - disse Edith - e mai quanto adesso, Florence, credimi! Eppure... - la donna esitò, chinando lo sguardo verso la fanciulla che le stava inginocchiata accanto e levava gli occhi supplichevoli verso di lei. - Io non ti posso dir nulla, tu non udrai nulla da me... quanto deve avvenire accadrà!
Ci dovremo separare.
Disperata, la fanciulla scoppiò in lagrime.
- Ma non del tutto! - la confortò Edith. - Solo in apparenza, perché nel segreto del mio cuore il mio affetto per te non muterà mai. E sappi che non per me faccio questo.
- Per me, allora, mamma? - chiese Florence.
Edith tacque a lungo, e infine spiegò che la cosa era inevitabile, inutile cercarne i motivi.
- Sarà per sempre così, mamma? - chiese ancora la fanciulla.
- Non so, non so! Bambina, non ti dirò che la nostra amicizia fosse indegna di te o pericolosa, e che avrei dovuto sapere non poteva durare. Ma io sono giunta qui lungo vie che tu non percorrerai mai, e dove finirà il mio cammino futuro, e quando, lo sa il cielo! io non te lo so dire... Ora lasciami, cara, e non badare al modo che avrò di comportarmi con te... sembrerò diversa, ma per te il mio cuore sarà sempre colmo di affetto... ora va, cara!
Da quel momento Edith e Florence s'incontrarono pochissimo, e sempre alla presenza del signor Dombey; Edith non rivolgeva quasi mai lo sguardo o la parola alla fanciulla, meno che mai quando era presente il signor Carker, il quale seguitò a frequentare molto la casa in tutta la convalescenza del suo principale. E Florence soffriva in silenzio, oppressa da una indicibile tristezza.
La vigilia del secondo anniversario di matrimonio, mentre il signor Carker sedeva a colazione con la famiglia, ed Edith aveva già indossato un abito da gran sera e s'era ornata con i più bei gioielli perché più tardi si sarebbe recata a un ricevimento con il marito, non appena i domestici si furono ritirati dopo avere servito la frutta e i dolci, il signor Dombey si raschiò la gola con una solennità che non prometteva nulla di buono e parlò autorevolmente.
- Edith, credo tu sappia già che ho dato ordini alla governante perché provveda: domani sera avremo degli invitati a pranzo.
- Domani io non pranzerò a casa - rispose la donna.
- Dodici o quattordici in tutto - proseguì il signor Dombey, come se non avesse udito la frase. - Vi saranno mia sorella, il maggiore Bagstock e altre persone che tu conosci appena.
- Io non pranzerò a casa - ripeté la donna.
- Nonostante tutto - seguitò solennemente il signor Dombey imperturbabile - è bene salvare le apparenze e rispettare le convenienze. Se tu avessi un po' di rispetto verso te stessa...
- Non ne ho affatto - disse Edith.
Il signor Dombey batté con forza il pugno sulla tovaglia e fissò infuriato il bel volto freddo e immobile come fatto di marmo, poi si rivolse all'ospite:
- Carker! Dato che altre volte lei ha fatto da intermediario tra me e mia moglie, e siccome è mia precisa intenzione rispettare le usanze, abbia la cortesia di avvertire la signora Dombey che se ella non ha rispetto verso lei stessa io ho del rispetto verso la mia persona, e perciò insisto sul mio progetto per domani sera.
- Signor Carker! - disse Edith - dica al suo signore e padrone che mi permetterò di parlargli fra non molto sull'argomento, e che gli parlerò quando saremo soli.
- Ti rispondo che il signor Carker, al quale è già noto il motivo che mi costringe a rifiutarti la richiesta, è esentato dall'obbligo di trasmettermi alcun tuo messaggio. - Vide che la moglie girava lo sguardo, e lo seguì con il suo.
- E' presente tua figlia - disse Edith.
- Mia figlia resterà presente! - ribatté il signor Dombey.
Florence, che si era alzata, risedette tutta tremante e coprendosi il volto con le mani.
- Mia figlia... - cominciò il signor Dombey.
Ma Edith lo fermò senza alzare la voce, e con accento così limpido, enfatico e distinto che le sue parole si sarebbero potute udire anche nel mezzo di un uragano.
- Ti ripeto che voglio parlare con te solo! - disse. - Se non sei impazzito, bada a quello che ti dico.
- Ho tutta l'autorità per parlarti dove e quando mi piace! Ho deciso di parlarti qui, adesso. Ti dirò anche subito che vedo nel tuo atteggiamento un tono di minaccia affatto disdicevole con la tua posizione.
La donna rise, e i brillanti che le ornavano i capelli tremarono lanciando freddi baleni. Il signor Carker ascoltava con gli occhi bassi.
- Quanto a mia figlia - disse il signor Dombey riprendendo il filo del discorso - non è male che sappia quale condotta dovrà evitare.
Tu gliene dai ora un esempio e spero che ne approfitterà.
- Ora non ti chiederò più di tacere - rispose la donna, impietrita nella voce, nell'atteggiamento e nello sguardo. - Non me ne andrei per risparmiarti di pronunciare anche una sola parola nemmeno se la casa s'incendiasse!
- E' abbastanza naturale che tu ti senta a disagio in presenza di chi sta ascoltando queste spiacevoli verità... ma il rimedio si trova nelle tue stesse mani. Non dimenticare dunque che domani vi saranno qui varie persone da me invitate e che nel pieno rispetto delle circostanze le dovrai ricevere in maniera adatta.
Ma ormai Edith era in preda a una furia incontenibile e ricordò al marito tutte le umiliazioni che le aveva inflitte, gli ricordò l'avversione che provava per lui, e il signor Dombey fece cenno a Florence di uscire. In lagrime, tutta tremante e senza abbassare le mani dal volto, la fanciulla si affrettò a ubbidire.
- Non farò ciò che mi chiedi - concluse Edith.
- Non sono abituato a chiedere - precisò il signor Dombey. - Le mie richieste sono degli ordini.
- Non intendo festeggiare la ricorrenza di domani. Non permetterò che tu mi esibisca come la schiava ribelle che hai comperata. Il giorno delle mie nozze è per me il ricordo della mia vergogna. La dignità! Il decoro! Hai fatto quanto hai potuto per rendermeli odiosi e io li rifiuto!
- Carker! - disse il signor Dombey dopo un momento di riflessione, parlando con voce molto severa. - La signora Dombey mi ha posto in una posizione tanto sconveniente per il mio carattere, che sono costretto a metter fine a questo stato di cose.
- Liberami dalle catene che mi legano - disse Edith, ritornata di ghiaccio. - Lasciami libera.
- Che dici? - esclamò il signor Dombey.
- Rendimi la mia libertà. Lasciami andare.
- Cosa? - fece il signor Dombey. - Che intendi dire?
- Gli dica - disse Edith rivolta a Carker - che desidero la separazione. E meglio che ci separiamo. Gli consiglio di farlo.
Gli dica di chiedere la separazione alle condizioni che preferisce... non mi importa nulla del suo denaro... ma che faccia presto.
- Santo cielo! - esclamò il signor Dombey, sinceramente sbigottito. - Immagini che io darò mai ascolto a una tale proposta? Non sai chi sono io? Hai mai sentito parlare della Ditta Dombey e Figlio? Dar motivo alla gente di dire che il signor Dombey si è separato dalla moglie, il signor Dombey! Credi che io permetterei mai alla gente di apprendere una notizia del genere?
Oh, vergognati di averlo anche solo pensato!- Il signor Dombey rise addirittura, poi si volse al signor Carker, il quale ora alzò gli occhi insolitamente brillanti.
- ... come le dicevo, Carker, - riprese il signor Dombey - devo pregarla di informare la signora Dombey che in tutta la mia vita mi sono imposto la regola di non lasciarmi contrastare da alcuno... da alcuno, Carker! Ho udito nominare mia figlia, e devo dire che trovo assurdo che ci si serva di mia figlia per fare opposizione a me. Non so e non mi curo di sapere se mia figlia sia davvero in combutta con mia moglie, ma dopo ciò che costei mi ha detto oggi, e che anche mia figlia ha udito, terrò evidentemente anche mia figlia responsabile di aver fatto della mia casa una sede di continue dispute, e mi riterrò in diritto di agire con severità in conseguenza.
- Scusi, signore! - esclamò all'improvviso Carker - un momento! Mi permetta di farle presente che forse non sarebbe male riesaminare l'argomento della separazione. Mi perdoni, perché io so quanto ella è deciso nelle sue risoluzioni... ma non crede che la continua presenza della signora Dombey in questa casa, oltre a compromettere, come ha detto, la signorina Dombey, non possa finire per recarle una continua irritazione di spirito... forse intollerabile per l'incessante sensazione di una ingiustizia reciproca...
- Carker! - lo rintuzzò il signor Dombey. - Lei dimentica di non essere in condizione di darmi consigli in materia. E mi sorprende il genere del consiglio. Non voglio dir altro.
- Forse - replicò Carker con un'insolita e indefinibile nota di sfida nella voce - ella non ha tenuto conto della mia posizione quando mi ha fatto l'onore di incaricarmi di trattare con lei...- e accennò con la mano la donna.
- Niente affatto, niente affatto! - ribatté alteramente Dombey.- Mi sono servito di lei...
- ... data la mia condizione di inferiorità, appunto per questo, alfine di umiliare la signora Dombey. Me n'ero dimenticato. Oh sì, era esattamente questo! - disse Carker. - Mi perdoni.
E chinando la testa verso il signor Dombey con un gesto di deferenza che mal s'accordava con le sue parole, pronunciate tuttavia con grande umiltà, Carker si girò impercettibilmente verso la donna e la tenne sotto il lampo costante dei suoi occhi.
Edith si levò con un terribile sorriso sul volto, levò la mano al monile di brillanti, lo strappò con tanta violenza dai capelli che le trecce brune furono sciolte e lacerate. Gettò a terra gli anelli e anche i braccialetti che sganciò dai polsi, calpestò il piccolo mucchio scintillante: senza una sola parola, senza che un'ombra calasse sul suo terribile sorriso, guardò per l'ultima volta il signor Dombey, si diresse alla porta, uscì.
Florence era corsa a rifugiarsi nella sua stanza e vi rimase fino a sera. Poi seppe che suo padre era uscito solo, che Edith era nelle sue stanze, e non osò recarsi da lei. Tuttavia sperava sempre di incontrarla prima di andarsi a coricare, e intanto vagava in silenzio per la bella casa tanto cupa e tetra. Si trovava in un breve corridoio che finiva sullo scalone, e che non era illuminato se non nelle grandi occasioni, quando attraverso l'arco basso vide qualcuno che scendeva. Si ritrasse ancor più nel timore che fosse suo padre, ma si accorse che era il signor Carker: scendeva da solo nell'atrio, non chiamò alcun domestico per avvertire che partiva; attraversò il vestibolo senza far rumore, aperse la porta di strada, scivolò fuori, la richiuse pian piano alle sue spalle. Era incredibile la ripugnanza che Florence provava per quell'uomo; le parve inoltre che l'atteggiamento di lui in quel momento tradisse un senso di colpa, ne fu terrorizzata e corse nella sua camera, rinchiudendosi a doppio giro di chiave insieme al fedele amico a quattro zampe, senza tuttavia riuscire a tener sgombri da un profondo senso di oppressione il sonno e i sogni notturni.
Anche al mattino seguente ricominciò a girare per la casa nella speranza di incontrare Edith, che non si era ancora fatta vedere.
Apprese che era stato sospeso il progettato ricevimento, e pensò che la matrigna sarebbe uscita di sera come aveva detto. Rimase con l'orecchio teso a spiarne i passi, e la colse infatti che scendeva le scale, ma quale non fu il suo doloroso stupore quando, invece di accettare il suo abbraccio, la donna si ritrasse con un grido!
- Non avvicinarti! - le ingiunse Edith. - Stammi lontana! Lasciami andare.
- Mamma! - gridò Florence.
- Non darmi quel nome! Non parlare! Non guardarmi! Florence... non toccarmi! - e la donna le strisciò accanto coprendosi il volto con la mano, tutta scossa da brividi, e corse giù piegata su se stessa come un animale braccato.
Florence cadde svenuta e si destò coricata sul suo letto, circondata dai domestici e dalla signora Pipchin.
- Dov'è la mamma? - fu la sua prima domanda.
- E' andata a pranzare fuori - le rispose la governante.
- E il babbo?
- E' nelle sue stanze, signorina Florence, - le rispose la governante. - E se vuole accettare il mio consiglio, lei dovrebbe subito spogliarsi e mettersi a dormire! - Era il rimedio a ogni male che la signora Pipchin aveva sempre ordinato a tutte le giovani vittime del collegio di Brighton, sia che fosse la sera, o fossero le dieci di mattina.
Florence non promise nulla, ma disse di essere stanca e di voler riposare. Rimasta sola ripensò a quanto aveva osservato nelle ore precedenti; risolvette che prima di coricarsi avrebbe atteso che Edith rincasasse, sia pure accettando la possibilità di non parlarle: un timore che non avrebbe saputo spiegare le stringeva il cuore e le tormentava l'anima.
A mezzanotte la porta d'ingresso non si era ancora aperta; Florence s'era vestita come per uscire e girava senza pace intorno alla stanza e per la casa, poi sedeva a scrutare i disegni tracciati dalla fiamma del caminetto, e presto si alzava e dalla finestra contemplava la luna che pareva navigare tra le nubi come un battello sospinto dalla tempesta.
Alle cinque del mattino Edith non era rientrata, ma la governante scendeva per bussare all'uscio della stanza del signor Dombey, e lui usciva in veste da camera e aveva un gesto di collera nell'apprendere che la moglie era ancora assente da casa.
Immediatamente si vestiva e mandava un domestico alle scuderie per informarsi se il cocchiere vi si trovasse. I due uomini tornavano poco dopo e il cocchiere diceva di essere andato a letto alle dieci della sera avanti. Aveva portato la signora nella sua vecchia residenza di Brook Street, dove l'attendeva il signor Carker...
A Florence parve di rivedere Carker uscire furtivamente dalla casa, rabbrividì da capo a piedi e riuscì appena a comprendere ciò che l'uomo aggiungeva: la padrona gli aveva detto che non avrebbe avuto bisogno della carrozza per rincasare e l'aveva congedato.
Florence vide che il padre sbiancava in volto; con voce che gli tremava chiedeva di vedere subito la cameriera della signora e la ragazza si presentava tutta umile e sconvolta: aveva aiutato la signora a vestirsi almeno due ore prima che uscisse, poi la signora le aveva detto che per quella sera non l'avrebbe più chiamata, era appena salita nelle stanze della signora, ma... lo spogliatoio era chiuso a chiave e la chiave non si trovava...
Florence vide il padre che afferrava una candela e si lanciava su per lo scalone con una furia tale che riuscì appena a scansarsi ritirandosi nell'ombra. Udì che tempestava di colpi la porta chiusa, la quale infine cedette: sparsi a terra vi erano tutti gli abiti eleganti e costosi che Edith aveva indossato dopo le nozze, vi erano pure tutti i gioielli e gli ornamenti che erano diventati suoi.
In preda a una collera furiosa egli ficcò ogni cosa nei cassetti, girò le chiavi e se le ficcò in tasca. Poi notò delle carte sul tavolino: l'atto notarile con cui sposando Edith le aveva garantito una rendita, e una lettera. Lesse e apprese che la donna era fuggita e che egli era disonorato. Era fuggita nell'anniversario del loro matrimonio con l'uomo da lui scelto per umiliarla. Si lanciò fuori della stanza con l'idea folle di rintracciare la moglie, di punirla con le sue stesse mani, privandola di tutta quella bellezza che le ornava trionfalmente il volto. Oppressa dallo spavento e dal dolore, Florence si era rifugiata in una delle sale, ansiosa di trovarsi al fianco del padre, di mostrargli come partecipava alle sue sofferenze e all'affronto da lui subito.
Lo udì rientrare di lì a poco e ordinare ai domestici che tornassero ai soliti lavori di casa, prima di ritirarsi nelle sue stanze. Florence si affrettò a correre verso quella soglia, egli vi si affacciò, ed ella corse verso di lui con le braccia spalancate, gridando: - Babbo! Oh, caro babbo mio!
Ma egli levò la mano e la colpì due volte sulle guance con tale violenza da farla vacillare; e nel colpire le gridò come giudicava Edith; le ordinò di seguirla, visto che fra loro erano state in combutta, sempre!
La fanciulla non si abbatté ai piedi dell'uomo furioso, non pianse, non pronunciò una sola parola di protesta, ma gettò un grido di spavento. Aveva compreso che la crudeltà, l'indifferenza, l'odio di lui avevano ucciso l'affetto che nonostante tutto ella aveva sempre nutrito. Comprese di non avere più un padre sulla terra, e con la sensazione di trovarsi all'improvviso orfana e sola fuggì da quel tetto inospitale.
Uscita dalla casa ancora buia, perché nessuno ne aveva spalancato le finestre, a capo chino e con il volto rigato di lagrime, Florence all'improvviso si trovò nell'inattesa luce liberatrice del mattino, a camminare ormai povera e sola per le vie della metropoli.
Quasi impazzita per il dolore, la vergogna e lo spavento, la povera Florence si mise in cammino senza sapere dove, e con la sensazione di essere la sola sopravvissuta al naufragio di un grande veliero, abbandonata sulla riva di una terra sconosciuta.
A poco a poco si accorse che le vie si popolavano, che i negozi si aprivano; qualcuno la fissava con sorpresa e curiosità; voci ignote le chiedevano se si sentiva male e dove fosse diretta, e per quanto le domande la spaventassero ancor più degli sguardi, le furono di non poca utilità perché la richiamarono alla necessità di ricomporsi.
Dove andare? Via, via, lontano! Ma dove? Ricordò che un'altra volta si era trovata sperduta nella grande città, sebbene in maniera del tutto diversa, e allora prese la stessa direzione di quella sera si avviò verso l'abitazione dello zio di Walter. Si sforzò di trattenere i singhiozzi, asciugò gli occhi arrossati, cercò di controllarsi in modo di non attirare l'attenzione, e aveva deciso di tenersi per quanto possibile fuori delle strade principali, quando una vivace ombra familiare balzò avanti a lei sul marciapiede inondato di sole, si fermò di botto, si rigirò, le corse accanto, ripartì di volata prese a saltarle intorno, e Diogene, che sebbene ansimante faceva echeggiare la via del suo gioioso latrare, le si gettò ai piedi.
- Oh, Di, caro e fedele Di, come sei potuto arrivare da me?
E come ti ho potuto abbandonare, tu che non mi avresti mai lasciata sola?
Florence si chinò per stringere al petto la grossa testa irsuta del vecchio amico, e poi procedettero insieme, il cane più in aria che a terra tanto saltava e saltellava intorno alla ritrovata padroncina, pronto a lanciarsi per gioco contro tutti i cani più grossi di lui, a terrorizzare con finti assalti le cameriere intente a scopare le soglie delle case, e sempre abbaiando, così che tutti i cani del quartiere gli fecero coro, e quelli non legati alla catena accorsero per vedere con i propri occhi quel tipo tanto allegro.
Non più sola, Florence affrettava il passo verso la City tra una folla sempre più numerosa che la trasportava quasi con sé nell'abituale corsa mattutina. Poi riconobbe da lontano il negozio del piccolo guardiamarina, e infine il guardiamarina stesso apparve ai suoi occhi, immobile come al solito al suo posto di guardia. La porta della bottega era aperta, accogliente: Florence attraversò di corsa la strada e seguita da vicino da Diogene, ormai calmo e alquanto frastornato dal traffico, ebbe appena la forza di varcare la soglia ben nota del salottino prima di accasciarsi a terra.
Il capitano, vestito in tutto punto e con il cappello in testa, era intento all'operazione di prepararsi la prima tazza di cacao della giornata. Udì uno scalpiccio di piccoli passi e il fruscio di una veste, si volse di scatto, e non meno pallido della fanciulla, la sollevò senza fatica e la depose sullo stesso divano sul quale già tanti anni prima aveva riposato.
- E' lei! - esclamò il capitano, scrutando con emozione il bel visino.- E' quella deliziosa bambina diventata donna!
Il brav'uomo si ritrasse con profondo rispetto, pregando e supplicando la bella visitatrice perché si degnasse di guardarlo e di parlargli, ma visto che non otteneva risposta, afferrò una tazza di acqua dalla tavola, e ne spruzzò un poca sulla fronte della fanciulla; le allentò i nastri del cappellino, le bagnò le labbra, le coperse i piedini con la giubba che si affrettò a sfilarsi, le prese una mano e gliela strinse, sbigottito di trovarla tanto minuta fra le sue enormi, e finalmente si accorse che le tremavano le ciglia.
- Allegra, allegra, signorina cara! - disse il capitano. Coraggio, mia carina. Ora lei sta molto meglio... ecco, ecco! Come si sente adesso la mia bella signorina?
Poco dopo Florence si sollevò un poco a sedere.
- Capitano Cuttle! E' proprio lei? - esclamò Florence.
- Oh, sì, signora damigella! - rispose il capitano, dopo avere in fretta deliberato fra sé e sé che fosse questa la maniera più elegante di rivolgere la parola a quella bella creatura.
- Lo zio di Walter è qui? - chiese Florence - Qui, signorina? Da un bel po' non è più qui. Non è qui da quando è partito in cerca del povero Walter. Ma - concluse il capitano solennemente - per quanto lontano dagli occhi, sempre vicino al cuore e caro alla memoria!
- E lei abita qui?
- Sì, signora damigella!
- Oh, capitano Cuttle! - gridò Florence, giungendo le mani. - Mi salvi! Mi tenga qui! Non faccia sapere a nessuno dove mi trovo!
Poi le dirò tutto, appena mi sentirò. Non ho più nessuno al mondo, oh, non mi cacci via!
- Mandar via lei, mia bella damigella! - esclamò il capitano. Un momento! Vado a rimettere gli scuri sulla porta e la chiudo a doppio giro di chiave...
Quando ritornò accanto al divano, Florence gli prese la mano e la baciò, portando al colmo dell'emozione il pover'uomo che immaginava benissimo quanto avesse dovuto soffrire quella poverina.
- Signorina bella! - disse, dopo essersi ben bene strofinato gli occhi con la manica. - Non dica una sola parola a Edward Cuttle prima di sentirsi perfettamente bene, cioè non certo oggi né domani. Quanto a rivelare dove lei si trova, o a permettere che se ne vada via di qui, con l'aiuto di Dio io non lo farò mai, lo giuro solennemente!... E adesso, mia bella signorina, deve fare un po' di colazione. e mangerà anche il cane. E poi se ne andrà dritta filata su nella camera del vecchio Sol Gills a farci un bellissimo sonno! Il capitano accarezzò Diogene, e Diogene accolse cordialmente quella profferta di amicizia. Fu subito chiaro che giudicava il capitano uno degli uomini più simpatici della terra, un uomo che ogni cane si doveva sentire onorato di conoscere.
L'interesse che il cane dimostrò per i preparativi culinari del vecchio marinaio non fu però condiviso da Florence, la quale non riuscì a inghiottire nemmeno un boccone; così mentre il cane divorava il suo pasto, il capitano salì a riordinare la cameretta, che era però già nitida e ordinata, stendendo le lenzuola di bucato sul letto e disponendo in bella mostra sul tavolino i tesori che poté sul momento racimolare: il suo orologio da tasca, un vaso da fiori vuoto, un telescopio, un pettine, il libro dei salmi. Tirò la tenda sulla finestra, tolse le grinze ai pezzi di vecchi tappeti stesi sul pavimento e ridiscese per condurre Florence nella stanza che sarebbe stata d'ora in avanti la sua, con il cane a farle da guardia sulle scale e lui stesso di sentinella nella bottega. La portò addirittura di peso fino al letto perché vedeva che faticava a reggersi, e subito la lasciò dopo averle garantito che lassù doveva sentirsi al sicuro come se fosse stata in cima alla cupola della cattedrale di San Paolo, dopo avere ritirato la scala usata per salirvi.
Ridisceso nel salottino, il capitano Cuttle tenne un frettoloso consiglio con se stesso, decidendo di dovere senza indugio aprire la porta della bottega per accertarsi se qualcuno girasse là intorno e avesse quindi avuto la possibilità di sentire abbaiare il cane, che una volta si era addirittura lanciato furiosamente contro la porta di strada. Andò quindi ad aprirla, e si trovò subito di fronte il signor Toots, il quale gli chiese con grande cortesia come stesse di salute.
- Io sto benissimo, caro giovanotto, e lei? - replicò il capitano.
- Abbastanza bene, grazie, capitano, - rispose Toots - ma naturalmente non posso sperare di tornare mai com'ero un tempo...
il mio sarto ha dovuto letteralmente cambiare tutte le misure, sono molto dimagrito, questa è la verità.
Con il tremendo segreto che gli pesava nel cuore, il capitano temeva che il cane scegliesse quel preciso momento per scendere a dare una capatina nella bottega, e si lanciò come al solito a parlare in gergo marinaresco, lasciando il giovanotto sommamente perplesso e frastornato. Era evidente che avevano entrambi un motivo per essere innervositi.
- Vede, capitano, mi trovo in uno stato d'animo che non mi permette di dormire - spiegò Toots - e così stamattina mi trovavo qui intorno e qualcuno mi disse di aver sentito abbaiare un cane nella sua bottega, e siccome le mie condizioni di spirito sono legate anche all'esistenza di un certo cane... ecco! Quel tipo era sicuro di avere sentito abbaiare un cane. Quell'uomo, trovando la porta chiusa, mi chiese se per caso io sarei tornato, gli dissi di sì, e allora mi pregò di avvertire lei che andasse al più presto, anche solo per un minuto, dal signor Brogley, l'agente. Mi è sembrato che fosse una cosa molto importante e direi che le conviene andare subito, ecco il mio consiglio.
Il capitano non sapeva che fare, diviso fra il timore di sbagliare non obbedendo alla chiamata, e lo spavento di dover lasciare il giovanotto solo in casa, sia pure per breve tempo. Finalmente risolvette di scegliere il meno grave dei due mali, e scusandosi chiuse a chiave la porta che conduceva alla scala, ficcò la chiave in tasca e si scusò vagamente dell'atto con il visitatore.
- Capitano! - gli rispose il signor Toots. - Per me tutto quello che fa lei va benissimo.
Il capitano lo ringraziò di cuore, promise di essere di ritorno entrò cinque minuti e corse fuori. L'assenza durò più del previsto e rientrando il capitano era stranamente pallido, pareva addirittura che avesse pianto.
Dovette perfino sorbire una lunga sorsata di rhum prima di riuscire a tirare un lungo respiro.
- Capitano! - disse con gentilezza Toots - spero che non abbia ricevuto cattive notizie.
- Grazie, amico, nemmeno per sogno, anzi tutt'altro. Sono turbato, ma non è nulla.
- Posso fare qualcosa per lei, capitano? Si serva pure di me come crede!
- Grazie, non ho bisogno di nulla - rispose il capitano. - Solo la prego per ora di non farsi vivo qui intorno. Badi bene che la considero il più simpatico ragazzo della terra, subito dopo il nostro Walter! - E il brav'uomo strinse calorosamente la mano al giovane, il quale si disse onoratissimo di quella buona opinione e si congedò. Il capitano girò subito la chiave nella toppa e salì a vedere se Florence avesse bisogno di nulla; ora la sua espressione era incredibilmente strana, a momenti pareva felice e subito dopo la velava un'ombra di tristezza che dava a tutto il volto una gravità nuova, una sorta di sublimazione.
Accanto al letto Diogene stava sdraiato pacificamente e agitò la coda strizzando l'occhio al capitano, ma senza darsi la pena di alzarsi. Florence dormiva tranquilla come se sapesse di trovarsi fra amici fidati e avesse dimenticato di essere ormai orfana e sola.
Florence dormì a lungo, ignara di riposare su un letto sconosciuto, indisturbata dal frastuono che saliva dalla strada e dalla luce che filtrava attraverso la tenda della finestra. La provvidenza l'aveva resa beatamente inconsapevole di quanto accadeva nella casa che aveva cessato di essere la sua, e tuttavia nemmeno l'invincibile stanchezza che le impediva di riscuotersi riusciva a renderla affatto insensibile; conservava una sorda impressione di latente dolore, e sovente le gote le si rigavano di lagrime. Era l'ora del tramonto quando si destò del tutto, e mettendosi a sedere si guardò intorno, da prima stupita e poi ricordando ogni cosa. Vedendo che il capitano si affacciava all'uscio, corse ad accoglierlo, chiamandolo il suo buon amico e chiedendogli se fosse trascorsa più di una giornata. Ma no, calava appena il crepuscolo, non erano trascorse nemmeno dodici ore da quel drammatico mattino.
Scesero insieme, il capitano si pose con sollecitudine all'opera di cucinare la cena, e la fanciulla fu ben presto di nuovo investita dalla piena del suo smarrimento: era dunque rimasta sola al mondo, non avrebbe più osato rivelare fino alla morte il proprio nome; le rimaneva unicamente il Padre che sta nei cieli, perché sulla terra non aveva più padre! Il gruzzolo che aveva con sé nel momento della fuga era ben modesto e non osava pensare quanto le sarebbe durato. Poi forse avrebbe trovato un'occupazione dignitosa; amava tanto i bambini, chissà, poteva diventare maestra... Il buon capitano l'aveva fatta accomodare in un angolo ben caldo fra i cuscini del divano, e divideva l'attenzione fra il pollo che rosolava allo spiedo, le patate che bollivano in pentola, la piccola casseruola della salsa all'uovo e quella del sugo di carne.
La tavola fu presto preparata e il capitano poteva dirsi fiero delle vivande che aveva allestite e che dispose in bella mostra sulla tovaglia.
- Su, coraggio, signorina bella! - disse il vecchio. - Lei deve farmi onore! - e intanto disponeva un'abbondante porzione sul piatto di fronte a Florence, aggiungendo: - Ah, se solo fosse qui Walter...
- Oh, se avessi lui, mio caro fratello non meno caro del mio piccolo Paolo!...
- Oh, sì, sì mia bella signorina! Se fosse qui il povero Walter...
ma è naufragato, morto in mare, non è vero?
Florence scosse la testa con desolazione.
- Ecco, se Walter fosse qui le direbbe di assaggiare un boccone per non correre il rischio di rovinare la salute... Che buon ragazzo, quello, e tanto coraggioso, non è vero?
Florence accennò di sì e non smetteva di piangere.
- Ma è annegato, non è vero, bellezza mia? - insistette con dolcezza il capitano.
Florence non poté se non accennare ancora di sì.
- Aveva più anni di lei, signorina bella, - seguitò il capitano- ma da principio eravate come due bambini, non è vero?
Florence rispose di sì.
- E Walter è morto annegato - disse il capitano - non è forse cosi?
Non poteva certo servire di consolazione ripetere quella triste verità, ma al capitano pareva desse un inspiegabile conforto.
Florence non riuscì davvero a far onore alla cena, e se ne scusò con grazia presso il cortese anfitrione, il quale tuttavia mostrò di essersi dimenticato del cibo, e seguitava a gemere tra sé con tono di grande rammarico: - Povero Walter, sì, sì! E' annegato, non è vero?
Da prima non voleva assolutamente che la fanciulla gli desse una mano a riordinare, ma finì col non far nulla lui stesso e rimanere a contemplarla come fosse una gentile fata, giunta apposta per rendergli quel segnalato favore. La sua emozione giunse al colmo quando Florence gli porse la pipa che aveva scoperta sulla mensola del caminetto, insistendo perché fumasse, e poi gli mise di fronte una tazza con la migliore miscela di rhum e acqua che avesse potuto desiderare.
E' necessario dire che il buon capitano Cuttle era oltremodo felice di entrare a far parte di quella scenetta domestica, la quale si sarebbe potuta raffigurare come una conversazione accanto al fuoco di una principessa in visita di passaggio con un mostro buono. Non si preoccupava affatto delle conseguenze che la sua offerta di ospitalità avrebbe potuto infliggergli; aveva chiuso ben bene porta e finestre della bottega e sentiva con ciò di avere assolto nel migliore dei modi a ogni responsabilità nei confronti della fanciulla.
Era già buio, ma Florence voleva compiere qualche piccolo acquisto, e il capitano la condusse in un negozio di articoli per signora poco lontano, prendendo la maggiore precauzione prima di uscire per via, presentandola come una "nipote", e rimanendo a fare la guardia accanto alla vetrina in attesa che uscisse.
Avrebbe voluto che accettasse anche una piccola somma da lui, ma la fanciulla rifiutò, dicendogli che possedeva un bel gruzzolo e ne avrebbe speso solo una parte.
Appena rientrati si ritirarono per la notte, e Florence non finiva di ripensare al suo povero amico sperduto in mare, adesso che si trovava in quella che era stata la sua casa, e tuttavia nemmeno la scomparsa di quel suo diletto "fratello" fece sì che pensasse a una sia pure lontana possibilità di ritornare nella casa di suo padre: aveva la sensazione che il suo affetto per lui si fosse irrimediabilmente spento nel momento in cui il padre rifiutava lo slancio di amore e di conforto che gli offriva e la insultava tanto da non lasciarle altro scampo se non la fuga.
Il giorno seguente Florence rimase quasi sempre seduta e intenta a un lavoro di cucito, non le sfuggì tuttavia che il buon capitano sembrava piuttosto imbarazzato e spesso sul punto di iniziare chissà quale discorso. Fu solo sul far del tramonto, davanti alla tavola già preparata per il tè, che dopo un lungo silenzio il capitano Cuttle mostrò di volere iniziare una conversazione logica.
- Lei, carina, non ha mai navigato?
- No, mai - rispose Florence.
- Ah! - esclamò religiosamente il vecchio - il mare è un elemento straordinario. Provi a immaginare che effetto fa quando soffiano i venti di burrasca e il fragore delle onde è fantastico. Pensi quando le notti sono tutte nere e tempestose tanto che non si riesce nemmeno a vedere le proprie mani, eccetto quando sono illuminate dai lampi!
- Lei ha mai visto una di quelle terribili tempeste? - chiese Florence.
- Sì, sì, bella mia! - rispose il vecchio, scotendo il capo. Mi sono trovato in un bel numero di tempeste, ma... non è di me che volevo parlare. Il nostro caro ragazzo, il nostro Walter... lui s'è annegato.
Il capitano parlava con voce così tremante. ed era diventato così pallido, che Florence si strinse a lui spaventata e gli serrò la mano fra le sue.
- Ma no, signorina bella! Non abbia paura - la confortò il capitano. - Stavo appunto dicendo che il nostro Walter... s'è annegato in mare. Non è forse vero?
Florence lo fissava intensamente; si sentiva mancare, diventava rossa in volto e subito cerea.
- Vi sono grandissimi pericoli sul mare, bellezza! - proseguì il capitano. - E le onde hanno sepolto tante belle navi e tanti cuori arditi senza permettere che se ne sapesse mai più nulla. Ma vi sono anche salvataggi sul mare, a volte su venti uomini se ne salva uno solo, o magari si salva uno su cento, e quell'uno che era stato dato per morto se ne torna a casa. Io, bellezza mia...
so una di queste storie... - balbettò il capitano - me l'hanno raccontata una volta... e stasera che ci troviamo qui vicini noi due, forse non vuole che gliela racconti?
Florence non sapeva che dire, e girando lo sguardo si accorse che la porta che dava nella bottega era aperta e si vedeva di là un lume, ma il capitano si accorse che non guardava più lui e corse a chiudere la porta quasi del tutto.
- Mia carina, - cominciò a narrare il capitano - è la storia di un bastimento che partì dal porto di Londra con il tempo bello e il vento favorevole per... insomma doveva compiere una lunga traversata, bellezza mia!
Florence era tanto agitata che il capitano s'impaurì, tuttavia non era più calmo nemmeno lui.
- Devo continuare? - chiese.
- Oh, sì, la prego! - lo supplicò la fanciulla.
Il capitano fece l'atto di inghiottire con fatica un boccone che rischiava di soffocarlo, e riprese a parlare a sbalzi.
- Quel disgraziato bastimento... al largo trovò una di quelle burrasche che si levano una volta ogni vent'anni... veri uragani che se piombano sulla terra strappano via gli alberi e le case...
quel povero bastimento si comportò valorosamente... ma alla fine le onde lo spaccarono come un guscio di noce, e ogni ondata se ne andava con un pezzo di scafo o con un uomo di quelli a bordo...
no, l'erba non crescerà mai sulle loro tombe...
- Ma non saranno morti tutti! - gridò Florence. - Qualcuno si salvò, non è vero? Uno almeno?
- A bordo di quel bastimento - disse il capitano, alzandosi e stringendo il pugno con forza e con esultanza - vi era un giovane, un bravo giovane, mi hanno detto, che da ragazzo aveva letto e studiato storie di naufragi e di atti eroici, e ne parlava... l'ho sentito anch'io, anch'io! E nell'ora del bisogno li ricordò, e quando anche i migliori di quegli uomini si rassegnarono alla morte, lui rimase allegro e svelto, pieno di ardire...
- E si è salvato! - gridò Florence. - Si è salvato!
- Quel bravo ragazzo... - disse il capitano - mi guardi bene, bella signorina, non giri la testa! - ordinò il capitano.
Florence ebbe appena un filo di fiato per ribattere: - Perché?
- Perché là non c'è niente, carina! - rispose il capitano. - Ma non si scoraggi, per favore, non si perda d'animo per amore del nostro Walter! Sì, quel ragazzo, insieme con il secondo ufficiale e un marinaio galleggiarono sulle onde aggrappati a un pezzo del bastimento fino al momento in cui un veliero li trovò e li raccolse... due vivi e uno già morto...
- Non il ragazzo, vero? Non il ragazzo era morto! - gridò Florence.
- No, no! Coraggio, bella signorina, coraggio! Ma poi anche un altro morì... e il solo che era in vita ritornò nella sua città, e un giorno si avvicinò alla sua casa, ma non osò bussare perché aveva sentito abbaiare un cane...
- Abbaiare un cane! - gridò Florence.
- Sì! - urlò il capitano. - Calma, bellezza! Coraggio. Non si volti ancora! Guardi là sul muro!
Sulla parete accanto alla fanciulla si disegnava l'ombra di un uomo, e la fanciulla balzò in piedi, si girò d'impeto, vide dietro a sé Walter Gay in carne e ossa, il suo caro fratello redivivo, e con un urlo lo strinse a sé in un purissimo abbraccio fraterno.
Il capitano si lanciò nella bottega, e subito ne uscì e vi scomparve di nuovo in un frenetico andirivieni senza scopo che minacciò di procurargli un autentico colpo apoplettico, così che i due giovani dovettero darsi da fare per calmarlo, ed egli si salvò mettendosi a contemplare il bel volto forte e abbronzato di Walter e il grazioso visino sorridente di Florence, e finalmente si trovarono tutti e tre seduti intorno alla tavola preparata, dopo avere liberato Diogene, che il capitano aveva avuto la precauzione di chiudere in soffitta.
Presero a discorrere del povero zio Sol, delle circostanze che avevano preceduto la sua scomparsa, e compresero come la loro gioia fosse attenuata dall'assenza del caro vecchio e dalle disgrazie capitate a Florence. Sarebbero rimasti così insieme a parlare senza fine, ma si faceva tardi e Walter si alzò per congedarsi.
- Te ne vai, Walter - esclamò Florence. - Dove?
- Per il momento, mia damigella, - spiegò il capitano - va ad appendere la sua amaca poco lontano, dal signor Brogley; a due passi da qui bellezza!
- Cara signorina Dombey... se non è troppo ardire da parte mia chiamarla così... è tanto cambiata...
- Io, cambiata, Walter! - protestò Florence.
- Ho lasciato una bambina, e la trovo...
- Ma sono sempre la tua piccola sorella, Walter. Non hai dimenticato la promessa che ci siamo scambiata quando ci siamo separati?
- Se ho dimenticato... - disse il giovane, ma non aggiunse altro.
- Oh, Walter! - esclamò Florence, scoppiando in lagrime. - Caro fratello mio, insegnami a trovare anche per me una piccola strada umile nel mondo... lavorerò, Walter, ma non devi abbandonarmi, ho tanto, tanto bisogno del tuo aiuto...
- Signorina Dombey... Florence! Darei la vita per aiutarti. Ma tu hai degli amici ricchi e potenti. Tuo padre...
- No, Walter! - urlò la fanciulla, e levò le mani al volto con tale gesto di terrore che il giovane rimase per un momento impietrito. - Non quella parola!
In tutta la vita egli non dimenticò mai la voce e lo sguardo con cui la fanciulla gli aveva fermato quel nome sulle labbra.
Sarebbe potuta andare in qualunque paese della terra, ma non a casa, mai più a casa... In breve Florence disse come e perché fosse fuggita.
Alla fine Walter comprese che era davvero sola al mondo, eppure la vedeva ancora tanto più in alto di lui e quasi irraggiungibile, più lontana di quanto non fosse quando si trovava al centro di tutti i suoi sogni infantili.
- Bene, bene! - concluse il capitano. - E adesso tutti a riposo.
Il mio bravo ragazzo ci saluta per la notte e la mia bellezza si asciuga gli occhi e fa un bel sonno tranquillo, e fra poco ci si ritrova tutti in ottima salute!
Walter ritornò al mattino per tempo a svegliare il capitano con il progetto di sistemare quella che era stata la sua cameretta al piano di sopra verso il cortile per farne un salottino riservato a Florence, trasportandovi quanto di meglio si trovava nella stanza dietro la bottega. Il capitano si pose con entusiasmo all'opera fino a sentirsi mancare il respiro, ma con la massima soddisfazione, specie dopo avere appeso al di sopra del caminetto il famoso quadro con la fregata tartara, che non si stancava di ammirare, dimenticando affatto di fare altro. Naturalmente non mancarono in qualità di principali ornamenti il grosso orologio da tasca, le mollette da zucchero e i cucchiaini d'argento, la cui proprietà il capitano dichiarò con solennità di avere trasferita "una volta per sempre" alla gentile signorina Florence. La nuova sistemazione rendeva possibile togliere gli scuri alla porta e alle finestre della bottega e rimettere al suo posto di osservazione il piccolo guardiamarina di legno. Il giorno avanti parecchi sfaccendati s'erano radunati sul marciapiede di fronte, stupefatti nel vedere che la bottega rimaneva chiusa, e vari conoscenti del capitano avevano cominciato a chiedersi se per caso non fosse venuto un malore al vecchio.
Era ancora molto presto quando Walter e il capitano si riposavano delle fatiche, guardando la via ancora deserta dalla soglia della bottega; presero a discorrere del buon vecchio Sol, e Walter non era convinto che non avesse mai inviato sue notizie. Diceva inoltre che non poteva essere morto, perché allora qualcuno avrebbe informato il vecchio amico. Durante la notte che aveva trascorsa senza riuscire a chiudere occhio, Walter s'era persuaso che il suo carissimo zio fosse in vita e che ora toccava a lui andare per il mondo a cercarlo.
- Bravo, Walter! - fu il commento del capitano. - Avanti con la speranza in poppa e una buona ancora a bordo... ma a che serve un'ancora, se non si trova un fondale dove calarla? - Pareva un'osservazione destinata a scoraggiare il giovane, ma non era se non un invito alla prudenza, visto che gli si erano accesi gli occhi per il fiducioso entusiasmo di cui il giovanotto aveva contagiato anche lui, mentre concludeva il pensiero filosofico esclamando: - Evviva, ragazzo mio! Personalmente sono tutto con te!
E Walter chiuse l'argomento dichiarando che non avrebbe toccato nulla di quanto apparteneva allo zio Sol, e di volere che tutto rimanesse affidato al più fedele dei custodi e degli amici, vale a dire al carissimo capitano Cuttle.
- Ora parliamo della signorina Dombey - e nel dir questo l'espressione di Walter perdette ogni sicurezza e letizia. - Lei ricorda, capitano, quando ieri sera accennai a suo padre, e come mi troncò la parola in bocca?
Il capitano se ne ricordava benissimo e si limitò a scuotere il capo.
- Prima di quel momento - seguitò Walter - avevo pensato che il nostro unico e preciso dovere fosse di insistere che accettasse di farsi viva con i suoi e ritornare a casa sua...
Il capitano masticò fra i denti una delle sue frasi marinaresche ma quelle parole di Walter l'avevano talmente abbattuto da rendere le sue affatto incomprensibili.
- Naturalmente questo è ormai escluso - disse Walter. Preferirei trovarmi ancora su quel relitto del mio bastimento che mi ha salvato la vita, e sul quale sogno ogni notte di andare per sempre alla deriva fino alla morte!
- Bravo! Evviva, evviva! - gridò il capitano, esprimendo così la sua incontrollabile soddisfazione.
- Pensare che una giovane bella, buona e gentile come lei e così bene istruita abbia da conoscere le lotte per la vita... Ma ho visto l'abisso che la separa ormai da tutto il suo mondo, benché lei sola saprà quanto sia profondo; non vi può essere un ritorno!
Naturalmente non può essere lasciata sola... Con il suo cuore innocente la signorina Dombey mi considera suo fratello adottivo, ma che viltà e quale inganno vi sarebbe nel mio cuore se fingessi di avere il diritto di stare accanto a lei con sentimenti fraterni...
- Walter, ragazzo mio, non vi sarebbero altri sentimenti per avvicinarti a lei?
- Oh, ma lei vorrebbe che mi disonorassi! Come potrei approfittare delle circostanze per... per farmi avanti come innamorato... no, mai!
- Se credi di aver ragione tu su questo punto... sarà così! disse il capitano, estremamente abbattuto e per nulla convinto.
Per confortarlo, Walter abbordò con vivacità un altro argomento.
- E adesso, capitano Cuttle, la mia idea è che dobbiamo darci da fare per trovare alla signorina Dombey una compagna fidata per il tempo in cui resterà in questa casa. Non una parente, è chiaro, ma che ne è di Susan?
- Quella ragazza? Sicuro! Credo che sia stata licenziata dal signor Dombey con grandissimo dispiacere della signorina.
- E allora chieda alla signorina Dombey dov'è andata e cercheremo di trovarla. Si fa tardi. Lei vada di sopra a vedere se le occorre nulla e io baderò alla bottega.
Florence era entusiasta della sua nuova stanza, ansiosa di rivedere Walter e felice dell'idea di ritrovarsi con la sua cara Susan, ma non sapeva di preciso dove fosse andata a vivere, questo l'avrebbe saputo solo il signor Toots.
Il capitano spiegò a Walter chi fosse Toots, Florence disse con sorriso di avere la massima fiducia in lui, e stavano pensando come scovarlo, quando il signor Toots in persona entrò nella bottega con aria oltremodo turbata. Disse di trovarsi in uno stato d'animo disperato e che stava per impazzire: chiedeva pertanto al capitano Cuttle il segnalato favore di un colloquio a quattr'occhi.
- Carissimo giovanotto! - esclamò il capitano Cuttle, stringendogli calorosamente la mano. - Lei è proprio la persona che stavamo cercando!
Ma il giovane, vedendo Walter che per lui era uno sconosciuto, si schermì.
- Capitano! - esclamò il signor Toots. - Non sono assolutamente presentabile. Ho la barba lunga, l'abito in disordine e impolverato, e sono tutto spettinato. Ho detto al mio domestico che se insisteva nel volermi lucidare gli stivali l'avrei trucidato!
L'aspetto del giovane faceva piena fede alle sue parole, ma il capitano insistette:- Lasci andare queste cose prive di importanza, mio caro! Questo che vede è il nostro Walter, il nipote del vecchio Sol Gills, che tutti credevano morto in mare!
Il signor Toots abbassò la mano con cui si comprimeva la fronte e spalancò su Walter due occhi sbigottiti.
- Santo cielo! - balbettò il povero Toots. - Povero, povero me!. .
Tanto piacere di vederla... come sta? Ho paura che si sarà molto bagnato... Capitano, mi permette di entrare a dirle una parola nella bottega? Il giovane gli afferrò il braccio e spingendolo fuori del salottino gli bisbigliò: - Allora è lui... capitano, lei pensava a lui quando mi disse che erano fatti l'uno per l'altra?
- Sì, sì, ragazzo mio, un tempo lo pensavo!
- E lo deve pensare anche adesso... - disse il signor Toots, riportando la mano alla fronte. - Il mio rivale, proprio lui, il mio odiato rivale!... Storie! Io non lo odio affatto! - e il signor Toots abbassò la mano. - Dovrei forse odiarlo? No.
Capitano! Voglio dimostrare che il mio amore era disinteressato:
glielo provo subito!
Il signor Toots rientrò di corsa nel salottino, afferrò la mano di Walter e gliela strinse e scosse mentre gli rivolgeva il seguente discorsetto:
- Come sta? Spero che non si sia infreddato. Io... io sarò felice se mi permetterà di coltivare la sua amicizia, sarà per me un grandissimo piacere. Le auguro cento di questi giorni. Le dichiaro sul mio onore che sono felice di vederlo!
- Mille grazie di tutto cuore! - gli rispose Walter. - Non avrei potuto desiderare un'accoglienza più cordiale.
- Capitano! - disse il signor Toots. - Voglio tenermi su una linea di perfetta discrezione, ma... se potessi parlare di quel certo argomento...
- Sì, sì, ragazzo mio! - lo incoraggiò il capitano. - In tutta libertà, in tutta libertà.
- E allora, capitano Cuttle, e lei, tenente Walter, - disse il signor Toots - voi dovete sapere che nella casa del signor Dombey sono accadute cose spaventose: la signorina Dombey ha lasciato suo padre, il quale è un tale mostro che sarebbe troppo onore per lui chiamarlo un pezzo di ghiaccio o un avvoltoio... e sapete che la signorina è introvabile e non si sa dove sia andata?
- Posso chiederle da chi ha saputo queste notizie? - chiese Walter.
Chissà perché Toots aveva promosso Walter al grado di tenente, forse aveva fatto le sue deduzioni dal fatto che se il vecchio era un capitano, il più giovane dei due non poteva essere se non tenente.
Comunque fosse, rispose che per l'interesse affatto privo di alcun secondo fine da lui nutrito per la signorina Dombey, aveva preso l'abitudine di offrire qualche piccolo regalo al maggiordomo del signor Dombey, un uomo molto per bene, che da gran tempo si trovava in quella casa. E la sera avanti quel gentile conoscente gli aveva fornito la terribile notizia.
- Signor Toots! - disse Walter. - Sono ben felice di poterle dare la confortante informazione che la signorina Dombey è sana e salva.
- Signore! - gridò il signor Toots, balzando in piedi e andando a stringere di nuovo la mano a Walter. - Mi sento così straordinariamente sollevato che se anche mi dicesse che la signorina s'è maritata riuscirei ormai a sorridere! Sì, capitano!
Ve lo giuro sull'anima mia! Non so che cosa farei subito dopo, ma in questo momento potrei sorridere!
- Sono certo - gli replicò molto cordialmente Walter - che lei sarà ancor più lieto nel sapere che potrà rendere alla signorina Dombey un grande favore. Capitano Cuttle, vuol avere la cortesia di condurre di sopra il signor Toots?
Quando il bravo giovane, senza una parola di preavviso, si trovò introdotto alla presenza di Florence nel suo nuovo salottino, egli rimase talmente sopraffatto e travolto da una gioia non scevra da sbigottimento che senza dir nulla le corse accanto, le afferrò la mano, la baciò, cadde in ginocchio, scoppiò in lagrime, poi sorrise e tornò a baciarle la mano, senza per nulla badare a Diogene, il quale pareva sospettare che vi fosse in quelle manifestazioni un sentimento ostile verso la sua padroncina e mostrava da vari segni di stare studiando dove azzannare il povero signor Toots per infliggergli il danno maggiore. Se n'accorse Florence, che sgridò il cane e diede al giovane un sincero e cordiale benvenuto. Gli disse che avrebbe molto gradito sapere dove fosse andata ad abitare Susan, e subito Toots promise di intraprendere con il massimo piacere le ricerche, e ripetendo che lei e gli amici potevano fare affidamento su di lui in ogni momento e per qualunque incarico, poco dopo si ritirò, combattuto fra il dolore di lasciare la dama dei suoi disperati sogni e la gioia di servirla.
In seguito per vari giorni il signor Toots non si fece vedere, e Florence viveva come un povero uccellino prigioniero nella cameretta segreta sopra la bottega di strumenti nautici. La fanciulla, senza tuttavia essere effettivamente malata, languiva, e lo sguardo che lasciava vagare nel cielo dalla finestrella alta sui tetti rassomigliava sempre più a quello del suo povero fratellino negli ultimi tempi della sua breve esistenza. Le maggiori preoccupazioni gliele procurava Walter, il quale la evitava nonostante gli avesse mostrato con gioia il desiderio di assisterlo, di lavorare per lui, di godere della sua compagnia. Se la veniva a trovare, invitato, si presentava con tutta la vivacità dei tempi andati, ma presto diventava freddo e serio. La sera per la fanciulla era il momento più lieto, quando egli saliva a darle la buona notte, e le sembrava di ritrovarlo spontaneo e affettuoso, ma bastava chissà quale parola o pensiero per ridurlo al silenzio, a un atteggiamento di disagio. Pareva a Florence che anche il buon capitano si fosse accorto del mutamento avvenuto in Walter e che ne soffrisse.
Infine la fanciulla credette di avere scoperto la chiave di quel mistero e una domenica pomeriggio, mentre il vecchio era accanto a lei intento a leggere, gli disse che avrebbe voluto vedere Walter che desiderava parlargli. Il capitano scese subito e le mandò il giovane, il quale rimase colpito dall'espressione triste della fanciulla.
- Sì, Walter, non sto molto bene e ho pianto. Voglio parlarti.
Egli le sedette di fronte, e rimanendo a fissare quel visino tanto bello e innocente impallidì e sentì che gli tremavano le labbra.
- Walter, - disse la fanciulla - la sera in cui ho saputo che ti eri salvato... oh, Walter, che gioia provai quella sera!... mi dicesti che mi trovavi molto cambiata. Mi ero stupita, allora, e solo adesso ti comprendo, ma non arrabbiarti con me, Walter!
Egli si sforzava di vedere in lei la bimba ignara e fiduciosa dei giorni lontani, non la donna amata, ai piedi della quale avrebbe voluto portare tutte le ricchezze della terra.
- Ricordi, Walter, l'ultima volta che ci salutammo prima della tua partenza?
Egli infilò la mano nel petto della giubba, trasse una piccola borsa di seta.
- L'ho sempre portata su di me! - disse Walter. - E se fossi caduto in fondo al mare, sarebbe stata con me sino alla fine!
- E la terrai ancora per mio ricordo, Walter?
- Fino alla morte!
- Grazie, mi farà sempre piacere pensarlo. Ma ora so che ti ho fatto del male, che tu nutrivi altre speranze, e che io ti ho procurato troppi fastidi...
Walter provò un tale stupore che sul momento riuscì appena a parlare.
- E' possibile che io ti abbia data l'impressione di non valutare, come valuto, il maggiore di tutti i doni che la provvidenza mi potrebbe offrire, questo di essere trattato da te come un fratello, un amico fidato... sentirti ricordare la sera in cui ci siamo detti addio, rivederti come eri allora...
- E allora, Walter, - disse Florence, levando gli occhi sul giovane, con espressione ferma e tuttavia sul punto di trasformarsi - che cosa ti senti di dovermi dare in cambio?
- Il mio rispetto - mormorò Walter - la mia venerazione.
La fanciulla seguitava a fissarlo.
- Ma non ho diritto all'affetto che un fratello potrebbe esigere.
Ti ho lasciata bambina. Ti trovo donna.
La fanciulla fece un gesto come per supplicarlo di tacere, chinò fra le mani il volto in lagrime.
- Se tu fossi felice e circondata come dovresti essere da amici e da ammiratori e da tutto ciò che rende invidiabile la classe sociale a cui appartieni - disse Walter - e se nel ricordo affettuoso del passato tu mi chiamassi fratello, io potrei da lontano tener fede a tale nome, senza rendermi conto di tradire nell'intimo la verità che è la tua. Ma ora... qui...
- Grazie, grazie, Walter! E perdonami il torto che ti ho fatto.
Non ho nessuno che mi consigli, sono tanto sola...
- Florence! - esclamò appassionatamente Walter. - Devo, devo dirti ciò che solo pochi momenti fa credevo nulla mi avrebbe strappato dalle labbra. Se fossi ricco, se avessi i mezzi o la speranza di poterti un giorno collocare in una posizione almeno simile a quella che era la tua... ti avrei detto che esiste un nome, e tu mi avresti potuto chiamare con tale nome, e soprattutto mi avresti potuto concedere il diritto di adorarti e proteggerti... pur sapendo di non avere alcun merito eccetto quello di amarti e di averti per sempre dato il mio cuore. Ti avrei detto, se avessi avuto il diritto di palesarti il mio animo, che avrei considerato la mia vita con tutto il suo fervore di verità una ben misera cosa indegna di reclamare quel diritto...
A capo chino la fanciulla era sempre scossa dai singhiozzi.
- Florence, mia diletta Florence! come ti chiamavo nei miei pensieri prima di comprendere quanto fossero pazzi ed egoisti.
Lascia che per l'ultima volta ripeta il tuo caro nome e tocchi la tua mano gentile in pegno del tuo perdono per quanto ho avuto l'ardire di dirti, e che tu dimenticherai.
La fanciulla sollevò il capo e lo fissò con una nuova dolcezza negli occhi che sorridevano fra le lagrime.
- No, Walter, non potrò dimenticare le tue parole; non le vorrei dimenticare per tutto l'oro del mondo. Sei... sei molto povero?
- Posso guadagnarmi da vivere viaggiando sul mare. E' questo adesso il mio mestiere.
- Parti presto, Walter?
- Molto presto.
Essa rimase a guardarlo in silenzio, poi gli prese timidamente la mano.
- Walter, se vuoi prendermi in moglie, ti amerò tanto. Se mi porterai con te, Walter, andrò senza timore fino in capo al mondo.
Per te non rinuncerò a nulla... non ho più nulla e nessuno da lasciare; ma tutta la mia vita e il mio amore saranno dedicati a te, e davanti a Dio il mio ultimo respiro dirà il tuo nome, Walter...
Egli se la strinse al cuore, posò la gota sulla sua, e la fanciulla non più negletta e respinta poté piangere sul cuore del suo diletto.
Che cosa faceva con il trascorrere dei giorni l'uomo impietrito nel proprio orgoglio? Pensava mai alla figlia, si chiedeva dove fosse andata, riteneva che fosse tornata a casa e vi conducesse l'abituale vita ritirata? Nessuno avrebbe saputo rispondere a tali interrogativi perché da quel giorno funesto egli non aveva più pronunciato il nome di Florence. I domestici tacevano, troppo spaventati per fiatare sui recenti avvenimenti, e alla sola persona che aveva ardito parlargliene egli impose immediatamente di tacere.
- Mio caro Paolo! - mormorò la sorella del signor Dombey, scivolando nel suo studio il giorno della fuga di Florence. Che ha osato fare tua moglie! Quella disgraziata venuta su dal nulla!
vero che ha ricambiato in maniera così orribile tutte le tue attenzioni e la tua impareggiabile generosità? Povero fratello mio...
Così dicendo, e maneggiando con vigore il fazzolettino per frenare le abbondanti lagrime, la signora Chick gettò le braccia al collo del congiunto, il quale con freddezza la respinse e la fece accomodare su una sedia di fronte alla sua poltrona.
- Ti ringrazio, Luisa, - disse - per questa tua dimostrazione di affetto, ma non desidero affrontare con te questo argomento.
Potrai offrirmi le tue parole di conforto solo quando mi vedrai piangere sul mio destino.
- Mio caro Paolo, - replicò la sorella scotendo il capo e senza smettere di lacrimare - conosco la grandezza del tuo animo e non dirò più nulla intorno a un argomento così penoso e ripugnante...
ma ti prego, lascia che ti interroghi intorno a una notizia che mi ha sconvolta... è vero che la nostra disgraziata piccola Florence...
- Luisa! - la interruppe il fratello con severità. - Basta così!
Non una sola parola!
In tal modo alla inquisitiva signora Chick non rimase se non gemere su quei degenerati membri della famiglia Dombey, che in realtà non hanno mai avuto il diritto di appartenere a essa e chiedersi senza speranza di ricevere una risposta se Florence era stata incolpata della fuga di Edith, se l'aveva seguita, se aveva fatto troppo, o troppo poco, o qualcosa, o nulla affatto per trattenere la matrigna: di tutto ciò non aveva la minima idea!
Il signor Dombey non si confidava con anima viva, teneva per sé ogni sentimento e pensiero. Non cercò affatto la figlia: forse immaginava che abitasse presso la sorella, o addirittura sotto il suo stesso tetto. Nessuno poteva intuire se pensasse molto a lei, o se non vi pensasse affatto. Si può solo dire per certo che non credeva di averla perduta, non aveva alcun sospetto intorno alla realtà dei fatti. Era troppo abituato a vedersela accanto, paziente e sottomessa per temere che si fosse sottratta alla sua autorità. Per quanto scosso dalla sua disgraziata vicenda coniugale, non era ancora disceso con umiltà al livello dei miseri mortali: l'albero rigoglioso della sua superbia era stato colpito, non abbattuto.
E tuttavia dentro di sé non era più lo stesso perché egli temeva le chiacchiere e le critiche del suo mondo, di quel mondo per lui onnipresente come un invisibile demone, e al quale non sarebbe potuto sfuggire. Non era un fantasma della sua fantasia, bensì vivo e attivo anche per altri e ne poté far fede la visita del cugino Feenix, giunto apposta da Baden-Baden per parlargli, accompagnato dal maggiore Bagstock. I due erano animati dalle migliori intenzioni, pronti a dichiararsi sbigottiti, scandalizzati e rattristati dalla condotta indegna di quella donna. Feenix le negava ormai il titolo di cugina e si rallegrava che la vecchia non fosse più in vita, perché altrimenti sarebbe stata la vittima innocente della disperazione causatale dalla figlia. Ma agli occhi del vecchio Feenix l'evento era ancor più deplorevole per essersi la donna compromessa con un uomo, un individuo con molti denti bianchi sempre in mostra, di condizione tanto inferiore a quella estremamente onorevole, benché non nobile, del signor Dombey. Il maggiore aggiunse che il signor Dombey conosceva bene il mondo, sapeva quale condotta era indispensabile tenere in casi del genere, si rendeva certo conto che l'uomo meritava di essere ucciso in duello, e che egli si metteva a piena disposizione dell'amico signor Dombey.
- Dove si trova quell'individuo? - chiese infine il maggiore.
- Non lo so.
- Nessuna notizia di lui?
- Sì.
- Dombey, questo mi rallegra! E mi congratulo con te!
- Scusatemi tutti e due - dichiarò il signor Dombey - se per il momento non vi posso dare altri particolari. La notizia pervenutami è strana, ed è strano il modo come l'ho ottenuta. Può darsi che risulti falsa, ma può darsi che sia vera. Ora non posso dir altro. Le mie spiegazioni devono arrestarsi qui.
I due visitatori dovettero a loro volta concludere le effusioni e la visita: il maggiore oltremodo lieto alla prospettiva di offrire in un tempo non lontano al mondo quanto dovutogli, entrambi lasciando il marito tradito a fare tutte le congetture che volesse intorno all'idea autentica che s'erano formati intorno al vero stato d'animo di lui e alle decisioni che aveva deciso di prendere.
Ma chi era la misteriosa visitatrice salita nella stanza della governante e intenta a conversare a bassa voce con la signora Pipchin, versando copiose lagrime e levando le mani con gesto drammatico? La signorina Tox s'era fatta prestare dalla domestica una cuffia nera che le copriva metà del viso, e così travestita era accorsa a rinnovare la vecchia amicizia con la signora Pipchin per informarsi intorno allo stato di salute del signor Dombey.
- Cara la mia brava donna, mi dica, il signor Dombey come sta?
- Bene! - replicò la Pipchin con l'abituale tono brusco. - Sta come al solito.
- Nell'aspetto, certo... - osservò la signorina Tox. - Ma nel suo intimo?
- Ah! Forse... Chissà! - fu la risposta che la Pipchin diede per manifestare i suoi dubbi sull'argomento. E aggiunse con più vivacità: - Signorina Lucrezia, se vuol sapere quel che penso io, le dirò che se quella se n'è andata, tanto meglio per tutti! E se capitano dei dispiaceri, bisogna sopportarli, ecco tutto!
Non rimaneva nulla da dire; la signorina Tox si alzò, per scortarla venne Towlinson, chiamato dal campanello della governante, e prima di uscire la signorina Tox gli raccomandò di ricordare che lei veniva solo per salutare la signora Pipchin e nient'altro. Nel vestibolo, la signorina passò in punta di piedi davanti all'uscio dello studio, e l'uomo che stava rintanato là dentro non seppe quale tesoro di compassione e di sollecitudine gli era in quel momento passato accanto.
La signorina Tox ritornò ogni sera al crepuscolo, e quando pioveva portava con sé oltre alla cuffia nera l'ombrello e le soprascarpe, solo per chiedere come stesse di salute il signor Dombey, rassegnata a sopportare i rabbuffi della signora Pipchin e i sorrisetti del servitore, e senza entrare a far parte del mondo del signor Dombey: la sua era una piccola orbita in margine a un altro sistema, dove la vita si svolgeva in maniera più semplice e molto meno esigente che nell'altro grande e importante.
Negli uffici della ditta era inevitabile che la disgrazia fosse commentata da ogni punto di vista; ma l'argomento più interessante era quale sarebbe stato il successore del signor Carker, e gli impiegati che non potevano aspirare al posto perché il loro grado era troppo inferiore, dicevano ad alta voce che non l'avrebbero mai accettato a causa delle nere previsioni che si potevano fare sull'avvenire della ditta.
I domestici della casa avevano dimenticato le antiche rivalità, tutti uniti nel comune intento di approfittare delle circostanze per diminuire quanto possibile le fatiche quotidiane e invece spassarsela insieme, d'accordo anche nel celebrare come un grande vantaggio la scomparsa di una padrona tanto altera che mostrava di non ritenere la terra su cui camminava degna di essere calpestata!
Era il tardo pomeriggio di una giornata primaverile abbastanza calda. La buona signora Brown si trovava con la figlia Alice nel suo meschino alloggio, e a lungo le due donne rimasero sedute in silenzio, immobili e quasi senza fiatare. L'espressione di entrambe era di vigile attesa, più ansiosa quella della madre. Fu Alice che ruppe il silenzio esclamando:
- Rassegnati, madre, non verrà.
- Al diavolo la rassegnazione! - ribatté la vecchia. - Vedrai se non viene! Mi credi rimbambita un bel rispetto ricevo da mia figlia! Altro che se verrà! L'altro giorno, quando l'ho tirato per la manica nella strada, si è voltato a guardarmi come se fossi una serpe. Ma santo Iddio, se tu l'avessi visto quando ho detto i loro nomi e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto sapere dove si trovano!
- Tanto arrabbiato era? - chiese la figlia con un sussulto di interesse.
- Arrabbiato? Di' piuttosto pazzo furioso! Ah, ah! - ghignò la vecchia, alzandosi per andare ad accendere una candela che portò sulla tavola perché s'era fatto ormai buio. - Sarebbe come dire che tu sei solo arrabbiata quando pensi a quei due o ne parli.
Infatti la giovane in quel momento, accoccolata così nel suo angolo, aveva lo sguardo acceso e feroce quasi come quello di una tigre.
- Senti! - mormorò la madre. - Questo non è il passo di qualcuno che abita qui intorno.
- Forse hai ragione, madre, - replicò Alice a voce bassa. - Taci e apri la porta. - Mentre la vecchia obbediva, Alice si strinse ancor più nello scialle quasi fino a scomparire contro la parete annerita dalla fuliggine.
Appena varcata la soglia, il signor Dombey si fermò, guardandosi intorno con sospetto.
- E' una misera stanza per un gentiluomo come sua signoria! disse la vecchia inchinandosi umilmente. - Glielo avevo detto, ma niente di male nella mia miseria.
- Chi è quella? - chiese il signor Dombey, indicando la giovane, che riuscì appena a intravedere.
- E' la mia bella figlia! - rispose la vecchia. - Ma sua signoria non abbia timore; sa già tutto.
L'ombra che scese sul volto dell'uomo altero era eloquente come se egli avesse gridato: - E chi non sa già tutto! - ma si limitò a fissarla, e la giovane lo ricambiò con lo sguardo fermo e senza un solo accenno di saluto.
- Sentite un po' voi! - disse il signor Dombey, volgendosi quasi con fatica alla vecchia. - Forse ho sbagliato, umiliandomi fino a venire qui dentro, ma sapete perché sono venuto. Dite che cosa potete dirmi intorno a quello che voglio sapere, e spiegatemi perché siete riuscite voi a sapere quello che io non ho potuto, pur avendo ben altri mezzi! Non credo abbiate avuto l'ardire di scherzare con me perché non accetto gli scherzi e ve ne accorgereste con vostro danno!
- Oh, che gentiluomo superbo e duro! - gemette la vecchia, scotendo la testa e fregandosi le mani ossute. - Oh, duro, duro!
Ma vostra signoria udirà con le sue orecchie e vedrà con i suoi occhi... e se sua signoria si troverà davvero sulle loro tracce, non le rincrescerà allora pagare un compenso?
- Vi darò del denaro, sì - disse il signor Dombey, che la richiesta parve avere rinfrancato. - Pagherò ogni utile informazione, ma devo prima ricevere l'informazione, e poi giudicare io stesso quanto valga! So bene che il denaro può produrre gli effetti più inattesi.
- Lei non crede che esista qualcosa più potente del denaro? gli chiese la giovane senza muoversi dal suo angolo.
- Almeno qui, nulla, direi! - fu la risposta del signor Dombey.
- Dovrei credere che fuori di qui lei abbia visto qualcosa di più potente del denaro! - ribatté Alice. - Ha forse conosciuto l'odio furioso di una donna?
- Ragazza, sei troppo impertinente!- la investì il signor Dombey.
- Ho parlato - spiegò la giovane imperturbabile - solo perché ci conosca meglio e abbia fiducia in noi. Perché io tengo dentro di me la furia dell'odio, la tengo da molti anni, e il mio motivo non è meno buono del suo, e tutti e due hanno per oggetto lo stesso uomo.
Egli non riuscì a dominare un sussulto e fissò la ragazza stupefatto.
- Sì! - ella gridò con uno strano scoppio di risa. - E' vero, per quanto possa sembrarle che un abisso ci divida. Come sia possibile, non lo dirò. La storia è mia e la tengo per me. Mia madre è povera e avara, è giusto che le dia del denaro se si rende utile, ma il mio scopo non è questo; il mio è di farvi incontrare a faccia a faccia... lei con l'altro! Il compenso che cerco è solo questo e non parlerò più, ecco tutto!
Il signor Dombey era profondamente turbato e fu con voce diversa dalla sua abituale che insistette rivolgendosi alla vecchia.
- Su, dite... che cosa sapete?
- Non tanta fretta, signore! Aspettiamo qualcuno. E le informazioni bisognerà strappargliele di bocca, a quello!
- Cosa dite? - ribatté il signor Dombey.
- Pazienza! - gracidò la vecchia, posandogli sul braccio una mano adunca. - Ci vuol pazienza, ma sono sicura di riuscire, altrimenti... lo faccio a pezzi, lo faccio!
- Devo incontrarmi con uno sconosciuto?
- Che importa! - fece la vecchia con una risata stridula. - Che importa! Ma per vostra signoria non sarà, no, uno sconosciuto.
Bisogna però che non la veda, avrebbe paura e non parlerebbe. Lei si metta dietro quella porta e giudichi da sé; noi non vogliamo essere credute sulla parola. Che?... il signore sospetta che in quella stanza... E allora guardi!
La vecchia lo precedette con la candela in mano e il signor Dombey si rassicurò vedendo che la stanza era sporca e in disordine, ma vuota; ritornò nell'altra, e declinando l'invito di mettersi a sedere, prese a passeggiare a lunghi passi avanti e indietro, fino al momento in cui la vecchia lo avvertì che aveva udito il passo del suo amico e lo invitò a nascondersi.
L'amico era naturalmente il giovane Robin, il quale recava in dono alla esigentissima vecchia, sua antica cliente, una graziosa gabbia con il piccolo pappagallo già del suo padrone, il signor Carker. Fra i due la conversazione proseguì tra abbracci, blandizie e minacce da parte della vecchia, la quale giunse perfino a versare per il ragazzo un mezzo bicchiere dalla sua bottiglia prediletta, invitandolo poi a ripetere lui stesso l'operazione. Ma per farlo parlare del padrone ci volle del bello e del buono, vale a dire ci vollero le maniere forti e l'intervento di Alice, la quale incitò la madre a "fare a pezzi quel ladruncolo"!
Per salvarsi da quelle arpie l'infelice Robin dovette ammettere di avere visto una volta la signora Dombey la sera della sua fuga, e che non pareva spaventata né commossa, ed era stata sempre imperturbabile per tutto il viaggio che egli aveva fatto con lei fino a Southampton, dove era salita su un bastimento. E il padrone? Il padrone gli aveva detto che se mai si fosse permesso di ripetere una sillaba di ciò che aveva udito, di fronte a quello che sarebbe stato il castigo, tanto valeva che si facesse saltare subito il cervello.
Ma la vecchia non la smetteva di tormentarlo e alla fine egli rivelò che i due fuggitivi avevano deciso di incontrarsi in un luogo a lui sconosciuto, che aveva visto scrivere e che riuscì a tracciare con grandi lettere incerte: Digione. Assolutamente esausto, e per di più mezzo brillo, il ragazzo finì per incrociare le braccia sulla tavola, posarvi il capo e addormentarsi profondamente. Lasciato trascorrere un po' di tempo, la vecchia andò alla porta della stanza attigua, fece segno al signor Dombey che poteva uscire, stese la mano e la serrò sul delizioso lieve tintinnio dell'oro.
Gli occhi scuri e accesi di Alice seguirono l'uomo, che era divenuto spaventosamente pallido, e che si affrettò a uscire, come se non potesse sopportare il minimo indugio. La vecchia le si fece accosto.
- Che cosa farà? - chiese con un soffio alla figlia.
- Una tragedia.
- Li ucciderà?
- La ferita nel suo orgoglio lo fa impazzire. Può darsi che pensi di ucciderli.
Nessuna delle due donne disse altro. Nella stanza quasi buia l'unico suono era il rauco russare del ragazzo; l'unico movimento quello del piccolo pappagallo che unghiava e cercava di strappare con il becco adunco ogni sottile sbarra della gabbia, come fosse infuriato di non poter volare dal suo padrone per avvertirlo del pericolo che lo minacciava.
Il fratello e la sorella del direttore fedifrago della ditta Dombey e Figlio soffrivano intanto forse ancor più dell'uomo tradito, il quale poteva almeno svagarsi con i progetti di vendetta. Il mattino del giorno stesso in cui il signor Dombey avrebbe trovato un'esca alla sua sete di crudele rivalsa, i due fratelli stavano consumando per tempo la loro modesta prima colazione, quando ricevettero la visita del fattorino della ditta, il quale recava una lettera con il sigillo stesso del signor Dombey. Fu ricevuto con gentilezza e quindi congedato senza avere la soddisfazione di osservare l'effetto della missiva di cui non ignorava il tenore.
- John, mio caro, - disse Harriet dopo che il fratello ebbe letto le poche righe - hai ricevuto delle cattive notizie, non è vero?
- Sì, ma non inattese. Ieri il signor Dombey attraversò due volte l'ufficio dove mi trovavo; fino allora ero riuscito a evitare di incontrarlo, ma sapevo che non poteva durare a lungo. Non disse nulla, si limitò di fissarmi un momento e compresi ciò che sarebbe accaduto. Mi ha licenziato.
La donna cercò di rimanere tranquilla, di non mostrare l'apprensione che l'aveva colta, ma la notizia era tale da sconvolgerla.
Allegata al biglietto vi era una somma di denaro corrispondente a una discreta liquidazione.
- Tutto considerato, Harriet, non mi ha trattato molto male... non ha torto di voler dimenticare il nostro nome, di credere che nel nostro sangue scorra qualcosa di malvagio, di nocivo per lui... ma tu non c'entri, Harriet!
- Fratello! - protestò la donna. - Se è vero che tu hai qualche speciale motivo per concedermi il tuo costante affetto (mentre io insisto nel dire che non ne hai alcuno!) ti prego di non pronunciare parole tanto ingiuste... comprendo come ti sia duro separarti dopo tanti anni dal tuo onesto lavoro... sarà triste cercare i mezzi per vivere, ma lotteremo insieme senza timore e sorretti dall'orgoglio che anche noi possediamo.
Ma l'uomo era profondamente abbattuto.
- Oh, sorella diletta, quale sorte la tua, essere legata a un fratello rovinato oltre che disonorato!
A questo punto Harriet non si peritò di rivelare il suo segreto, disse che rimaneva loro un amico fidato, non più giovane e con i capelli grigi, che l'aveva sempre supplicata perché gli permettesse di rendersi utile ed ella aveva sempre risposto che non aveva bisogno di nulla, che né lei né il fratello mancavano di nulla; gli aveva permesso di passare a salutarla una volta alla settimana, senza entrare, senza nemmeno fermarsi, solo per vederla e salutarla con la mano mentre si dirigeva a piedi verso Londra.
Non ne conosceva il nome, e la descrizione approssimativa che seppe dare al fratello non glielo rese riconoscibile. Ma la sera qualcuno bussò alla porta, John andò ad aprire, seguì un breve scambio di battute, e subito rientrò per presentare alla sorella il signor Morfin, già da lungo tempo socio della ditta Dombey.
Harriet non poteva credere ai suoi occhi perché si trovò di fronte l'ignoto e gentile amico dai capelli scuri spruzzati di bianco, dall'alta fronte limpida sopra agli amorevoli occhi castani!
- John! - esclamò Harriet con fatica perché riusciva appena a respirare. - E' il signore di cui ti ho parlato oggi!
Il visitatore aveva esitato sulla soglia, ma a quelle parole si fece avanti con disinvolta cordialità.
- Signorina Harriet! sono molto sollevato nel sentirla dir questo.
Signor John, in questa casa non sono per mia fortuna un perfetto sconosciuto. Lei è rimasto meravigliato di vedermi alla sua porta.
Ora la sua meraviglia non è per nulla diminuita, e ammetto che sia abbastanza logico.
Aveva salutato Harriet con quel misto di cordialità e di rispetto che la donna non aveva mai dimenticato, si era tolto i guanti e si era seduto accanto a lei.
- Signor John, - disse il gentiluomo - non vi è nulla di strano nel mio desiderio di conoscere sua sorella, e nemmeno nelle mie regolari successive visite: siamo schiavi delle abitudini, mio caro amico, proprio così!
Il signor Morfin prese a raccontare: per un numero di anni che preferiva non precisare, egli aveva occupato il suo posto nella ditta Dombey e osservato con attenzione come James Carker accresceva via via la sua importanza, mentre il fratello John faticava senza posa nel suo modesto posto di lavoro. Non si occupava d'altro, se non di avere il violoncello bene intonato quando giungeva il mercoledì sera e contribuiva la sua parte nel quartetto organizzato fra amici. John Carker lo interruppe per dire che egli era sempre stata la persona più rispettata di tutta la ditta, ma l'altro si schermì. Sì, era un uomo di buon temperamento e abbastanza socievole, nient'altro, e avrebbe seguitato con tranquillità il suo lavoro se non si fosse dato il caso che tra il suo ufficio e quello del direttore non vi era un autentico muro, bensì una semplice sottile parete divisoria. Aveva fischiettato addirittura un'intera sonata di Beethoven per far notare al suo collega che avrebbe a sua volta udito quanto avveniva nell'altra stanza, ma l'altro non vi aveva badato, e così a volte aveva involontariamente udito conversazioni che sarebbero dovute rimanere riservate fra i due fratelli, e avendo anche sentito parlare della sorella a lui sconosciuta, s'era incuriosito ed era riuscito a presentarsi alla signorina senza svelare la sua identità. Finì per pregare John che lo lasciasse un momento solo con la sorella e a lei rivelò, interpretando la sua ansia di sapere, che il fratello James non era fuggito portando con sé denaro della ditta. Aveva tuttavia abusato della posizione che occupava speculando per proprio conto e ricavando maggiori profitti per sé che per la ditta che pure rappresentava. Aveva implicato la ditta in rischiose imprese che fino a quel momento si erano sempre risolte per il meglio, ma che esigevano costante attenzione per non riuscire alla fine disastrose. Disse che in quel momento il signor Dombey era inavvicinabile da alcuno, che si trovava in uno stato d'animo tanto violento da essere irragionevole e incontrollabile. Non era possibile prevedere quando sarebbe stato in condizione di occuparsi seriamente degli affari. Disse che per quella sera aveva parlato abbastanza, baciò la mano alla giovane, seguì John nel corridoio, non gli permise di aprir bocca, dichiarando che si sarebbero presto incontrati e avrebbero avuto tutto il tempo per discorrere più a lungo, e scomparve prima che una sola parola di gratitudine potesse essergli rivolta.
La sera seguente John Carker era uscito, avendo ricevuto dal signor Morfin due righe che lo invitavano a un incontro in città.
Nel crepuscolo che di poco precede l'oscurità, Harriet si sentiva oppressa da tristi pensieri, la fantasia le presentava il fratello lontano che la chiamava, la respingeva, si trovava in pericolo, moriva, era morente. Era seduta accanto alla finestra a capo chino, quando si accorse che un volto pallidissimo era schiacciato contro il vetro: una mano si levò a bussare e una voce soffocata le diceva:
- Mi lasci entrare! Ho da parlarle!
Riconobbe subito la donna con i lunghi capelli neri da lei ospitata una sera, e che poi si era comportata in modo tanto violento e strano. Era naturale che provasse timore ed esitasse a ubbidire, ma l'altra insisteva.
- Mi lasci entrare! Lasci che le parli! Sono calma... le sono grata, ma deve darmi ascolto!
Harriet corse alla porta, l'aperse.
- Posso entrare, o devo parlare qui? - chiese la donna afferrandole la mano.
- Che cosa vuole? Che cosa mi vuole dire?
- Non molto, ma lasci che lo dica subito perché potrei non dirlo più. Ho già la tentazione di andarmene. E' come se qualcuno mi trascinasse via... mi lasci entrare, se riesce ad avere fiducia in me!
Entrarono nella piccola cucina illuminata dal fuoco del caminetto.
- Si metta a sedere! - disse Alice, inginocchiandosi accanto a Harriet. - Mi guardi: ricorda?
- Si, ricordo.
- Non le chiedo di perdonarmi, voglio solo che creda alle mie parole. Giudichi lei se merito di essere creduta!... Quando ero giovane e bella ero ammirata e mia madre mi viziava. Era povera e avara... Per questo mi rovinai! Qualcuno mi trattò come un giocattolo che per poco tempo diverte e poi si butta, senza preoccuparsi dove finisca... Non mi chiede quali mani mi gettarono nel fango?
- Io lo posso sapere? - chiese a sua volta Harriet.
- Perché trema?... Dopo essere stata tanto maltrattata, la mia vita diventò infernale. Caddi sempre più in basso, fui implicata in una rapina... senza che guadagnassi un soldo... scoperta, condotta al processo, ero in miseria, senza un solo amico...
Piuttosto che andare a chiedere aiuto a lui, sarei andata diritta all'inferno, ma mia madre volle vederlo dicendosi mandata da me, e... sa che fece colui? Senza muovere un passo, né spendere una parola, e non dico un soldo, lasciò che mi condannassero alla deportazione, ben lieto di liberarsi definitivamente di me... Chi crede sia quest'uomo? Vedo che mi ha già compresa, oh! sì, era suo fratello James !
Harriet era sconvolta, non faceva che tremare, non riusciva a staccare lo sguardo dagli occhi infocati della donna ai suoi piedi.
- Quella sera... quando seppi che lei era sua sorella, affranta com'ero, tornai a gettarle in faccia il suo denaro. Pensavo che avrei percorso la terra intera per trovarlo, per pugnalarlo a morte la prima volta che lo incontrassi solo.
- Ma perché è tornata da me?
- Poi l'ho rivisto - disse Alice, stringendo sempre come in una morsa il braccio di Harriet. - E ogni volta che i miei occhi si posavano su di lui la fiamma del mio odio si riaccendeva. Lei sa che ha insultato un superbo personaggio e ha fatto di lui il suo più mortale nemico: che importa se gli ho fornito delle informazioni? che importa se l'ho visto prendere l'espressione di una bestia feroce e partire come una belva assetata di sangue?
- Mi lasci! - gridò Harriet. - Vada via! Credo alle sue parole...
è terribile!
- Non ancora, mi ascolti! Mi vergogno a dirlo, faccio uno sforzo enorme... e mi disprezzo! Senza alcun motivo ho cominciato a non odiarlo più, vorrei rimediare, se possibile, a ciò che ho fatto.
Non voglio che l'uomo che l'insegue lo ritrovi mentre è tanto arrabbiato.
- Ma come fare? Che cosa posso fare? - gridò Harriet.
- Per tutta la notte ho sognato che stava accanto a me... ho sognato di vederlo coperto di sangue...
- Che cosa posso fare? - ripeté disperata Harriet.
- Se qualcuno può scrivergli, o correre da lui, che non perda un minuto. Si trova a Digione: sa dov'è?
- Sì.
- Gli dicano che il suo nemico è pazzo furioso! Gli dicano che lo insegue e che non è lontano. Deve fuggire, guai se lo incontra!
Più tardi, forse, ma non adesso, non per causa mia! Senza questo delitto ho già abbastanza da scontare...
Il riflesso del fuoco non balenò più sui capelli d'ebano della donna, su quel volto sconvolto, sugli occhi pieni di terrore, Harriet sentì che il braccio era libero dalla stretta, la donna era scomparsa.
Sono le undici di sera, in Francia, in un appartamento al primo piano di un palazzo che deve aver visto tempi migliori, ma conserva ancora un'aria di lusso decoroso appena un po' decadente.
L'ingresso dà sullo scalone, le sei stanze sono tutte comunicanti, ma attraverso usci secondari si aprono anche su un corridoio interno e su una scala di servizio che porta a un secondo ingresso sulla via laterale. Quella sera nel salottino tutto illuminato in fondo alla prospettiva dell'atrio in penombra e delle stanze buie, nel cuore di quell'alloggio sontuoso, si trova una donna sola, bellissima e dal portamento altero, dalla fronte impassibile e nemmeno sfiorata dalla più leggera ombra di pentimento e di vergogna. Priva persino della compagnia di un lavoro o di un libro, sola con i suoi pensieri.
Le meditazioni di Edith furono interrotte dall'ingresso di due camerieri venuti ad apparecchiare la cena. Il più anziano rammentò umilmente alla signora che durante la sua breve sosta all'albergo della Testa d'Oro il signore aveva ordinato per quell'ora una cena leggera e prelibata. Sperava che il signore non avrebbe tardato, altrimenti la bontà dei cibi delicatissimi avrebbe sofferto... Ma in quel momento le chiacchiere furono interrotte dall'ingresso rapido e rumoroso del signore in persona, il quale abbracciò la donna, chiamandola in francese la sua diletta sposa e l'anziano cameriere ebbe l'impressione che la signora si sentisse venir meno dalla felicità di rivedere il consorte. Disse che i bagagli del signore stavano nella sua camera; il più giovane dei due, che non appena visto arrivare il gentiluomo si era precipitato fuori, tornò dopo qualche attimo con i piatti caldi tenuti alla giusta temperatura sugli appositi fornelli a spirito, mentre quelli freddi erano già disposti con bellissimo effetto sulla credenza.
Il signore disse che non aveva bisogno di servizio, preferiva occuparsi lui stesso della tavola, e la signora era abituata a viaggiare sola, per quella sera non aveva bisogno della cameriera.
Il signor Carker chiuse a chiave la porta dell'appartamento alle spalle dei camerieri. Ritornò nel salottino, chiudendo una dopo l'altra le porte delle stanze. Edith era ancora in piedi accanto alla tavola, solo staccò un momento la mano dalla spalliera di velluto della seggiola per avvicinare a sé uno dei coltelli.
- Amor mio! - disse l'uomo. - Che strana idea quella di arrivare qui tutta sola! Senza dubbio un eccesso di prudenza. Avresti potuto assumere una cameriera a Le Havre o a Rouen, avevi tutto il tempo di farlo anche se tu fossi la più esigente delle donne, come sei la più bella!
Lo sguardo che Edith fissò sul compagno ebbe uno strano bagliore, ma ella non si mosse né aprì bocca.
- Non ti ho mai vista più bella di questa sera! - proseguì Carker.
- Superi perfino l'immagine che ho portato con me durante questa lunga attesa e che ho avuta giorno e notte davanti agli occhi.
Non una parola. La testa scultorea superbamente eretta, ma gli occhi velati dalle lunghe ciglia.
- Una prova ben dura e crudele, la mia! - esclamò con un sorriso Carker. - Ma ora la prova è finita, e tanto più grande è la felicità di questo momento. Andremo a vivere in Sicilia, mia carissima!il più comodo angolino della terra e noi troveremo laggiù tutta la libertà che ci occorre per dimenticare la nostra passata schiavitù.
Ora le si avvicinò con aria lieta, ma all'improvviso la donna afferrò il coltello e di scatto indietreggiò.
- Fermo, o vi ammazzo! - gridò.
Quell'inatteso mutamento di tono, l'odio e la collera che le balenavano negli occhi e le avevano acceso la fronte lo fermarono in tronco.
Rimasero a fissarsi. Stupefatto e furioso, l'uomo riuscì tuttavia a dominarsi e a replicare con disinvoltura.
- Via, via! Ora siamo soli, al sicuro da ogni orecchio indiscreto.
Credi forse di spaventarmi con il tuo sfoggio di virtù?
- Credete voi di spaventare me, piuttosto - ribatté la donna con violenza - e di farmi rinunciare alle decisioni che ho prese ricordandomi la solitudine in cui mi trovo e la mancanza di soccorso? Credete di spaventare me, dopo che volontariamente sono arrivata fin qui? Se avessi paura di voi, non avrei forse evitato di rivedervi? Se avessi paura di voi, sarei forse qui, di notte e sola a dirvi in faccia quello che vi sto per dire?
- E che cosa mi dirai, mia bellissima strega, tanto più bella di ogni sorridente creatura?
- Non dirò nulla prima che vi siate seduto su quella sedia laggiù... Non un passo, badate! Altrimenti, com'è vero Dio, vi ammazzo!
- Mi hai preso dunque per tuo marito? - replicò l'uomo con un sogghigno.
Sdegnando di ribattere, la donna gli indicò la sedia a braccio teso ed egli non poté se non obbedire, mordendosi le labbra per l'amarezza della sconfitta, benché cercasse ancora di mostrare che accettava di buon grado quei capricci.
La donna posò il coltello e portandosi la mano al petto disse:
- Quello che ho qui non è un gioiello né un pegno d'amore e se cercate ancora di toccarmi l'userò contro di voi... con meno riluttanza che per uccidere un serpente!
Con una risata egli si sforzò di volgere il dramma in farsa, e la pregò che terminasse in fretta di recitare perché la cena si raffreddava, ma lo sguardo che le lanciò era cupo e masticò un'imprecazione fra i denti.
- Quante volte non mi avete insultata con la vostra disonestà?- disse con voce profonda Edith. - Quante volte con le vostre maniere servili e beffarde non vi siete fatto gioco del mio fidanzamento e del mio matrimonio? Quante volte non avete ferito e lacerato il mio affetto verso quella povera bambina innocente e perseguitata? Quante volte non avete alimentato il fuoco in cui per due anni mi sono consumata, fino a tentarmi di ricorrere alla più disperata delle vendette quando più il tormento mi faceva impazzire?
- Signora! - rispose l'uomo. - Non dubito che lei avrà tenuto il conto esatto di quelle occasioni... suvvia, Edith, una scenata come questa poteva andare bene per tuo marito!
La donna ebbe una tale espressione di sdegno e disgusto che egli si sentì suo malgrado umiliato.
- Anche se tutti i motivi che avevo per disprezzarlo fossero potuti svanire, a tenerli solidamente ancorati sarebbe bastato il fatto che egli teneva voi quale amico e confidente.
- E questo è forse il motivo per cui hai deciso di scappare con me? - chiese beffardo Carker.
- Sì, è il motivo per cui ci troviamo per l'ultima volta a faccia a faccia. Disgraziato! In questa notte ci siamo incontrati e ci separiamo, perché non resterò in questa casa un minuto solo dopo che avrò finito di parlare.
Egli era sconvolto e con tutte e due le mani si afferrò all'orlo della tavola, ma non si alzò né aperse bocca.
- Sono una donna - proseguì Edith imperturbabile - che fin dall'adolescenza è stata svergognata e impietrita. Sono stata offerta e respinta, messa in mostra e valutata fino a sentirmi morire l'anima. Non ho mai avuto un'amicizia che valesse più dell'affetto che potrei avere per un cagnolino. Sono sola al mondo e ricordo benissimo come il mondo è sempre stato vuoto per me, e dentro di me non ho mai avuto che il vuoto. Lo sapete, questo, e sapete pure che il giudizio del mondo non m'interessa.
Sì, lo immaginavo - egli rispose.
E avete contato su questo per perseguitarmi! - ella proseguì Dal giorno del mio matrimonio mi sono trovata a dover affrontare questa nuova vergogna... le sollecitazioni (chiare come se fossero state scritte a caratteri di scatola) di un meschino briccone, e fu per me come se prima d'allora non avessi mai saputo che cosa vuol dire essere umiliata. E in questa vergogna mio marito mi fece affondare cento volte di sua mano! E così, spinta e costretta da voi due a cedere se non volevo recare altro danno a una povera innocente, ho preso a odiare entrambi... non so se più il padrone o il servo!
Egli non cessava di fissarla, superba di bellezza e di indignazione, e comprese che sarebbe stata indomita, che lo giudicava meno pericoloso di un verme. Scoppiò in una breve risata. Ebbene, mia regina?...
Ora vi dirò che il semplice tocco della vostra mano mi fa gelare il sangue! Vi ho odiato dal momento in cui vi ho conosciuto, siete stato per me la più odiosa creatura della terra!... La sera in cui avete avuto l'ardire di propormi questa fuga... non questa, ma la fuga progettata da voi, mi diceste che per avere accettato di ricevervi allora, e tante altre volte prima, e per avervi io confessato che non amavo mio marito, mi ero perduta, vi avevo dato il diritto di trattare con me a piacer vostro...
- Dice il proverbio che nell'amore ogni trucco vale... - egli la interruppe ridendo.
- Quella sera per me fu la fine di tutto, non avevo che odio e rancore. Agii come ho fatto, scaraventando nella polvere il vostro grandissimo padrone, e solo per avervi qui di fronte a me adesso.
Ora sapete che faccio sul serio.
Egli balzò in piedi con un'imprecazione. Senza un fremito la donna si portò la mano dentro al corpetto. Egli rimase immobile, ed ella pure fermò il gesto: rimasero così separati dalla tavola.
- Se potrò dimenticare che quest'uomo quella sera mi ha stretto fra le sue braccia profanandomi la guancia sulla quale poco dopo Florence avrebbe voluto posare le sue labbra angeliche; se mai potrò dimenticare che disonorandomi ho portato nel disonore il suo nome, e che nel futuro io sarò per lei il primo esempio della donna disonesta da evitare... se dimenticherò tutto questo potrò dimenticare anche i due anni in cui rimasi legata a un marito al quale nulla ormai mi potrà riavvicinare e un giorno potrò essere sincera con lui!
Edith abbassò lo sguardo, subito tornò a levarlo su Carker, e con la sinistra gli tese delle lettere ancora sigillate. Gliele gettò ai piedi. - Me le avete spedite mentre ero in viaggio, l'ultima qui. Riprendetele! Ci siamo ritrovati stasera e ci separiamo.
Avete pensato troppo presto a mettervi in riposo nella bella Sicilia. Avreste dovuto prolungare ancora un poco i vostri servizi di adulatore e di traditore: sareste diventato più ricco...
Edith! - egli gridò con gesto di minaccia. - Basta. Finiamola!
Questo è il mio trionfo. Ho scelto l'uomo più meschino che conosco, il parassita del superbo tiranno, il giocattolo nelle sue mani perché la ferita fosse per lui più profonda e avvelenata!
Carker aveva la schiuma alle labbra, la fronte coperta di sudore.
- Non ci possiamo lasciare così! - gridò. - Come posso lasciarti andare così, sei impazzita?
Come credi di potermi trattenere? - ribatté la donna.
Vedrai...! - egli la minacciò.
Se ti avvicini, lo fai a rischio della vita! - gli rispose.
E se accettassi che tutto fosse diverso? - egli insistette.
Facciamo un patto fra noi, se non vuoi che ti succeda il peggio...
ma siedi, siedi e parliamo!
Troppo tardi! - gridò la donna. - Ho buttato , al vento il mio onore! Ho deciso di accettare la vergogna, sapendo che il mio disonore non è vero e tu lo sai, ma egli non lo sa, e non lo saprà mai! Io morirò senza dir nulla. Per questo mi trovo qui sola con te di notte. Per questo ti ho ricevuto come se fossi tua moglie.
Per questo mi sono lasciata vedere da quegli uomini. E ora nulla ti potrà salvare!
Egli avrebbe venduto l'anima per ridurre all'impotenza quella donna, ma non poteva non temerla: vedeva in lei una forza invincibile; la vedeva disperata, sapeva che l'odio verso di lui l'avrebbe spinta a tutto. Non osò tentare di sopraffarla.
- Un'ultima cosa! - disse la donna, e sorrise. - In guardia! Come succede a tutti i traditori, anche tu sei stato tradito. Qualcuno deve avere rivelato che eri qui o dovevi arrivare in questa città.
Giuro di aver visto passare oggi mio marito in una carrozza!
- E' falso, maledetta! - gridò Carker.
In quel momento si udì una forte scampanellata. L'uomo impallidì; la donna levò la mano come se avesse prodotto lei stessa per incantesimo quel suono.
- Ecco! Hai sentito?- esclamò, e subito scivolò via nella attigua camera da letto. Egli la seguì a precipizio, ma la stanza era al buio, chiamò invano la donna, dovette ritornare a prendere una lampada e corse anche nelle altre stanze, ma Edith era scomparsa.
Intanto il campanello tornava a squillare e bussavano anche alla porta. Posò il lume e si avvicinò senza fare rumore: la porta era robusta, ma riuscì a distinguere varie voci, almeno due parlavano in inglese, e una di queste gli era troppo nota perché non la riconoscesse senza ombra di dubbio. Tornò a girare per le stanze trovò una porta secondaria, chiusa a chiave dall'esterno, e vi era rimasto impigliato un lembo del velo di Edith.
Quell'uomo non era un vile, ma la gente che stava per abbattere la porta d'ingresso, e soprattutto la scena che aveva dovuto subire l'avevano sconvolto, era ridotto a cercare disperatamente una via per la fuga. Finalmente riuscì a forzare la porta di servizio, scese di corsa per la scala buia, ci ripensò e risalì a prendere cappello e cappotto, richiuse la porta come meglio poté, e poco dopo si trovava a uscire nella via attraverso un cortile e un cancello rimasto accostato.
Tormentato dalla vergogna, dalla delusione, dalla sconfitta, non riusciva a riflettere; non aveva se non l'ansia di mettere quanta più distanza possibile fra lui e l'altro. Per un giorno e una notte passò da una carrozza a un'altra correndo, non sulle strade che l'avrebbero portato verso i paesaggi di sogno del sud, bensì in direzione della patria, che gli appariva come un porto, se non sicuro, tuttavia meno pericoloso di paesi poco o punto noti. E senza sosta la collera che gli tempestava l'animo gli suggeriva anche suoni di inseguimenti inesistenti, perpetuandogli un angoscioso stato di allarme che non gli concedeva riposo. Giunse alla costa senza danno e nessuno lo aggredì nemmeno durante la breve traversata. Il conforto di ritrovarsi in Inghilterra gli fece venire in mente un remoto villaggio di campagna, dove sarebbe potuto rimanere in attesa di sapere come si mettessero le cose per lui. Esausto com'era, si rammentò vagamente che doveva scendere a una certa stazione per prendere poi un treno locale. Salì quindi in vettura il più rapidamente possibile e si rincantucciò tutto ravvolto nel pastrano come se fosse già addormentato. Raggiunse la prima meta, soddisfatto di trovarsi in quel minuscolo e tranquillo gruppo di case, prese alloggio nella modesta locanda, soddisfatto che nessuno lo avesse seguito né visto entrare. Ma la fantasia non gli dava pace, ripresentandogli senza posa eventi di un recente passato e specialmente la figura di Edith, splendida e sdegnosa, desiderabile e perfida. Il passato gli si confondeva con il presente, e il presente non gli appariva meno incerto e misterioso del futuro. Sarebbe ripartito all'alba, il locandiere gli aveva detto che nessun viaggiatore era sceso al mattino, ma poi seppe che due uomini erano arrivati la sera e attendevano di ripartire per Londra. Si coricò sperando di ottenere qualche ora di oblio, ma ogni volta che il passaggio di un treno faceva tremare la casa correva alla finestra e seguiva con gli occhi quasi affascinato le luci che scomparivano.
Al primo bagliore dell'alba fu in piedi, pagò il conto e uscì nel freddo umido, che invece di dargli refrigerio lo investì di brividi. Forse in quei pochi momenti non pensò a nulla, era febbricitante e attanagliato da un'angoscia senza nome. Acquistò il biglietto per il luogo che gli era venuto in mente la sera avanti, si mise a passeggiare lungo le rotaie, che da una parte infilavano la valle, dall'altra s'incurvavano verso un ponte poco lontano. Quando si girò per rifare in senso inverso il breve percorso, scorse l'uomo da cui cercava di fuggire. I loro occhi s'incontravano.
Per la sorpresa Carker vacillò, scivolò giù dal marciapiede, ma subito riprendendosi, indietreggiò di qualche passo e da quella breve distanza rimase a fissare il suo inseguitore, sentendosi quasi soffocare, incapace di muoversi.
Poi udì un urlo... un altro... vide il volto che gli stava di fronte mutare l'espressione, passare dall'odio al terrore... sentì tremare il terreno... capì che il treno stava per arrivare...
lanciò un grido... si volse... il mostro dagli occhi di fuoco, ora pallidi nella luce dell'alba, gli fu sopra, lo abbatté, lo straziò, lo maciullò.
Quando il viaggiatore che l'infelice aveva per sua sventura riconosciuto, ritornò in sé dopo il breve svenimento che l'aveva colto vide da lontano che degli uomini portavano via qualcosa su una barella improvvisata, mentre altri rovesciavano secchi di cenere tutto intorno ai binari.
Ora la bottega custodita dal piccolo guardiamarina di legno era tutta in subbuglio perché erano finalmente arrivati il signor Toots e Susan, e quest'ultima era corsa di sopra da Florence come pazza di ansia e di gioia.
- Oh, la mia bella e cara signorina Florence! - gridò la giovane precipitandosi nella stanza, gettandosi ai piedi della fanciulla e abbracciandola freneticamente. - Come avrei potuto mai immaginare di trovar qui la mia dolce colomba tutta sola, senza nessuno che badi a lei e senza nemmeno più la sua casa... ma io non me ne andrò più via di qui perché non ho il cuore di pietra, io, ed è una fortuna perché altrimenti dovrebbe scoppiare come una bomba, sì, che dovrebbe...
- La mia cara, carissima Susan! - le rispose Florence.
- Benedetta lei! Era una bambina quando ero la sua giovane cameriera, ed è proprio vero che adesso va sposa?
- Chi te l'ha detto, Susan?
- Santo cielo! Ma quel povero innocente di Toots, che è candido come un bambino appena nato!
Durarono un pezzo quelle effusioni intercalate da scoppi di lagrime, abbracci e sorrisi da parte dell'ottima giovane, la quale trovò anche modo di parlare con perfetto buon senso del signor Toots, dichiarando che senza dubbio egli non aveva la sapienza di Salomone ed era anzi piuttosto buffo nel modo di parlare e di comportarsi, ma commovente nella sua devozione per Florence e nel godere intimamente della felicità altrui, benché parlasse di voler scendere tranquillamente nella tomba per non importunare più quei carissimi amici con la sua presenza!
Più tardi si presentò in persona alle due giovani per offrire alla futura sposa i suoi più profondi e ultimi omaggi, promettendo eterna fedeltà a colei che sarebbe sempre rimasta la dama dei suoi pensieri, e che era disposto a servire fino alla morte. Florence lo ringraziò molto cordialmente delle sue cortesie e il giovane scese a prendere congedo dal capitano Cuttle. Pregò quest'ultimo di accettare in seguito qualche sua visita e dichiarò che aveva deciso di non trascurare più la sua persona come aveva fatto di recente: si sarebbe fatto lucidare gli stivali e fra non molto sarebbe tornato dal sarto.
Da una breve conferenza privata che il buon capitano ebbe con Susan derivò la decisione di sostituire la donna che sbrigava le faccende domestiche con un'altra di piena fiducia e di sicura segretezza: chi avrebbe potuto assolvere a tali requisiti più della buona nutrice del piccolo Paolo, cioè della signora Richards? Subito Susan si recava da lei e la sera stessa l'accompagnava entro le modeste mura custodite dal piccolo guardiamarina di legno.
Florence dovette faticare non poco a convincere Susan di non poterla condurre con sé quando sarebbe partita col marito addirittura per la Cina subito dopo le nozze. Il pensiero dell'enorme distanza non bastava a dissuaderla, e Florence dovette spiegarle che Walter era povero, che lei stessa era povera e avrebbe dovuto imparare a bastare a se stessa oltre che a darsi d'attorno per lui. La brava giovane non voleva sentire ragione e si piegò solo quando Florence dichiarò con intenso fervore che amava Walter con tutta l'anima era pronta a seguirlo in capo al mondo e ad affrontare senza timore ogni disagio. Dopo di che Susan non toccò più l'argomento e si dedicò assiduamente a cucire quel po' di biancheria che i limitati mezzi della sua padroncina le avrebbero permesso di portare con sé. Da parte sua il capitano Cuttle avrebbe voluto contribuire almeno con qualche parasole elegante, calze di seta e scarpine da ballo, ma glielo impedirono recisamente. In questo campo riuscì solo a prendersi la bella soddisfazione di acquistare le due più capaci ed eleganti scatole di legno per il lavoro e per gli oggetti da toeletta che poté trovare, e a far fissare sul coperchio di ciascuna una piastra di ottone in forma di cuore con sopra inciso FLORENCE GAY.
Walter era occupato tutto il giorno, ma passava di mattina a salutare Florence, e rimaneva a trascorrere la sera con lei.
Florence non lasciava mai la sua stanza se non per scendere a incontrarlo quando s'avvicinava l'ora, e più tardi per accompagnarlo fino alla porta, da cui si affacciava a volte per dare un'occhiata rapida nella via.
Susan teneva fede alla promessa di non affrontare più con Florence l'argomento della imminente separazione, ma confidò al signor Toots di volere semplicemente salvare le apparenze fino al momento fatale, e che allora si sarebbe abbandonata senza ritegno alla disperazione. Il signor Toots le rispose di provare i medesimi sentimenti e le promise che si sarebbero confortati a vicenda mescolando le loro lagrime.
Una sera Florence manifestò a Walter il suo rammarico di non potergli offrire nulla in cambio della sua adorante dedizione, perché non possedeva più casa, famiglia né amici; era una poveretta senza alcuna speranza per il presente o per l'avvenire, accolta per carità nella cara vecchia bottega dello zio Sol e che riponeva ogni fiducia solo in lui, nel suo diletto Walter, nel desiderio di donargli per tutta la vita il suo amore di sposa...
- Ma tu, Florence, - aveva replicato il giovane - credi forse di non essere nulla?... non sai di essere per me un inestimabile tesoro? ...
Non tardò molto che Walter annunciasse la partenza della nave: il carico era stato quasi completato, il giorno in cui avrebbe avuto luogo il loro modestissimo matrimonio sarebbe partita dal porto di Londra per scendere dal Tamigi e lungo le coste del Kent: era contenta Florence di Partire quella mattina stessa per il Kent e di attendere a Gravesend l'imbarco previsto per la settimana dopo?
Florence fu ben lieta di accettare quel programma; chiese solo che al mattino, prima di andare in chiesa, Walter la conducesse in un certo luogo triste e caro... il giovane comprese, e senza parlare suggellò con un tenerissimo bacio la promessa.
La vigilia del giorno solenne sul far della sera erano tutti riuniti nel salottino al piano di sopra, al sicuro da ogni visita importuna perché da qualche tempo non vi erano più inquilini nella casa. Walter in silenzio accanto a Florence, intenta a dare gli ultimi punti a un ricamo destinato come dono di addio al capitano, costui giocava alle carte con il signor Toots, il quale per ogni mossa chiedeva consiglio alla signorina Nipper, che tutta seria forniva di buon grado e con la massima segretezza savi suggerimenti. Diogene se ne stava buono e attento, rizzando di quando in quando le orecchie e concedendosi un mezzo ringhio subito soffocato; mostrava poi subito di vergognarsi del disturbo recato e si faceva perdonare agitando con forza la coda.
Il capitano era tutto immerso nel gioco, stava per incitare Toots a decidere la propria mossa e aveva alzato gli occhi, quando di colpo li spalancò, aprendo contemporaneamente anche la bocca, lasciando cadere di colpo le carte e rimanendo a fissare la porta.
Visto che nessuno degli altri si accorgeva di nulla, il capitano riuscì con grande fatica a riprendere fiato, batté con violenza il pugno sulla tavola e urlando: "E' lui, Sol Gills!" si trovò con un balzo stretto fra le braccia che uscivano con fatica da un vecchio, enorme impermeabile stinto. La buona Polly aveva introdotto in silenzio il padrone di casa, il quale ora abbracciava Florence e Walter, e finalmente lasciava che lo aiutassero a deporre l'ingombrante indumento, dal quale emerse identico a come gli altri lo ricordavano, solo un po' invecchiato e dimagrito, ma con la solita giubba di panno marrone dai bottoni lucidi e l'infallibile cronometro grosso e rumoroso nel taschino.
- Eccolo il nostro Sol Gills!- gridò raggiante il capitano Cuttle. - E come sempre pieno di scienza e di sapienza! Sol Gills, Sol Gills, vecchio mio, dove sei stato in tutto questo tempo?
- Ned! - rispose il vecchio. - Mi sento quasi cieco, sordo e muto per la gioia!
- E' proprio la sua voce!- gridò il capitano, guardandosi intorno con aria di trionfo. - La sua voce piena zeppa di scienza!
Sol Gills, amico mio, riposati fra le tue cose da quel vero, vecchio patriarca che sei! Ci racconterai più tardi tutte le tue avventure con quella tua cara vecchia voce!
Il capitano si era appena seduto che subito si alzò per presentare al vecchio amico il signor Toots, il quale se ne stava sbigottito, senza capire l'importanza dell'inatteso visitatore e la gioia che tutti dimostravano.
- Sono felice... felicissimo di conoscerla, signore... balbettò il signor Toots. - Spero... spero che stia bene di salute... - dopo di che il giovanotto arrossì e sorridendo nervosamente si rimise a sedere.
Il vecchio Sol, stretto fra Walter e Florence, rispose infine all'amico.
- Ho saputo qualcosa degli eventi che sono accaduti qui da quella brava donna che ha dato il bentornato al povero pellegrino... - e Sol Gills si rivolse con un sorriso riconoscente alla buona Polly.
- Ma lasciatemi dire che sono rimasto senza parole alla vista del mio carissimo ragazzo e di... lei... e che stasera non riuscirò a parlare molto. Ma caro il mio Ned Cuttle, perché non mi hai mai scritto?
Lo stupore che si dipinse sul volto del capitano era talmente enorme che il signor Toots ne fu addirittura spaventato.
- Scriverti... - ripeté il capitano. - Scriverti... Sol Gills?
- Ma sicuro! - disse con forza il vecchio. - A uno degli indirizzi che ti indicavo ogni volta, scrivendoti da Barbados, Giamaica o Demerara. Ti chiedevo sempre di scrivermi, è impossibile che te ne sia dimenticato!... Pare che tu non mi comprenda!
- Sol Gills! - disse il capitano, dopo avere fissato a lungo in silenzio il vecchio amico. - Mi sento andare alla deriva... Vuoi dirmi qualcosa delle tue avventure, amico?
- Sai bene, Ned, - rispose Sol Gills - perché sono partito. Hai aperto il plico, Ned?
- Sì, sì, sì! - rispose il capitano. - L'ho aperto e letto.
- Bene! - esclamò il vecchio. - Un momento! La prima volta che ti scrissi... era da Barbados... e ti pregavo di aprire il plico, anche se tu avessi ricevuto la mia lettera molto prima che fosse trascorso l'anno, e avresti saputo il motivo della mia partenza.
Benissimo, Ned. La seconda, la terza e forse la quarta volta io ti scrissi dalla Giamaica... ti dissi che ero allo stesso punto delle ricerche, non avevo pace e non potevo lasciare quella parte della terra senza prima aver saputo se il mio ragazzo si era o no salvato. Poi, mi pare di averti scritto da Demerara... non è vero?
- Chiede se mi ha scritto da Demerara, lo sentite? - ripeté il capitano, guardandosi intorno con aria smarrita.
- Ti dicevo - proseguì il vecchio Sol - di non avere ancora trovato notizie sicure. Ma avevo incontrato molti uomini di mare e capitani miei vecchi amici, che mi aiutavano nei viaggi e nelle ricerche, tutti pieni di compassione e anche di interesse per me.
Ricambiavo come potevo con qualche lavoretto del mio mestiere, e cominciavo a credere che sarei stato destinato a navigare in cerca del mio ragazzo fino al giorno della mia morte!... Ma poi, Ned, dopo che fui di ritorno a Barbados, mi dissero che il mio ragazzo era stato visto su un mercantile cinese, e allora, Ned, salii a bordo del primo piroscafo che faceva vela per l'Inghilterra, ed eccomi qui, grazie a Dio! a scoprire che la notizia era vera!
A quell'invocazione pronunciata con gran fervore, il capitano Cuttle chinò con reverenza il capo, quindi prese a parlare, dopo avere girato lo sguardo su tutti i presenti e averlo fermato sul vecchio amico.
Naturalmente dichiarò di non avere mai ricevuto alcuna missiva Sol Gills insistette nel dire di averle tutte spedite con le sue proprie mani al vecchio indirizzo dell'amico, e infine fu chiaro che di tante prolungate ansie la colpa non poteva se non risalire alla perfida signora MacStinger. Il mistero era svelato, e a cuor leggero tutti si ritirarono per la notte. Non meno lieto degli altri era il fedele signor Toots perché Walter gli aveva rivelato che Florence voleva fargli sapere proprio alla vigilia del suo matrimonio che lo considerava il suo amico più caro e lo pregava di accettare per sempre il suo riconoscente affetto. Quella prova di generosità l'aveva tanto commosso che non volendo essere da meno aveva ripetutamente stretto la mano a Walter, riuscendo perfino a dichiarare con la voce che gli tremava non poco di essere certo che la signorina Florence aveva compiuto la scelta adatta, e che il suo sposo era adorno di tali doti da poterla effettivamente meritare in moglie!
Quando Walter e Florence il mattino seguente per tempo si recarono a piedi nella chiesa poco lontana dalla casa del signor Dombey, la trovarono solennemente preparata per un matrimonio di lusso che non era il loro; i due giovani non sostarono a lungo nella chiesa e rimasero solo qualche momento a fissare una lapide alla memoria di qualcuno che era sepolto nel cimitero attiguo.
Walter temeva che Florence si stancasse, avrebbe voluto prendere una carrozza, ma la fanciulla disse che era felice di compiere con lui quella passeggiata nelle vie ancora deserte, e così andarono tenendosi sotto braccio fino alla loro chiesa, che era molto modesta e polverosa. Prima di loro erano giunti gli amici, il capitano, lo zio Sol, il signor Toots, la fedele Susan Nipper.
La sola musica che accompagnò la breve cerimonia fu quella di un merlo che levava il suo fischio limpido e felice su un sottofondo di passeri pigolanti. Alla fine Florence in lagrime si trovò stretta nell'abbraccio frenetico della sola amica rimastale sulla terra, mentre il signor Toots contemplava la scena con gli occhi rossi, il capitano non finiva di strofinarsi il naso lucido e lo zio Sol aveva abbassato gli occhiali dalla fronte sul naso.
Avevano deciso di separarsi all'uscita della chiesa, dove una carrozza attendeva gli sposi. La signorina Nipper era talmente sconvolta e scossa dai singhiozzi che il signor Toots dovette darsi daffare per confortarla; un abbraccio di tutti alla sposa e il capitano Cuttle, deciso a rallegrare quella partenza, agitava ii cappello gridando: - Hurrà per Walter! Hurrà per la sposa!
Evviva! Evviva! - così che l'ultimo sguardo gettato dall'interno della carrozza si posò su volti commossi, ma festosamente ansiosi di sorridere.
Il capitano e il vecchio Sol erano stati a bordo della nave per sistemarvi i bagagli della coppia e Diogene; di ritorno nel salottino dietro alla bottega non finivano di lodare l'arredamento della cabina a cui Walter aveva dedicato tante fatiche. - Bada bene a quel che ti dico! - ripeteva il capitano.- Una cabina degna di un ammiraglio, ecco com'è quella cabina! - Ma il capitano era soprattutto soddisfatto per essere riuscito ad abbellire la cabina con il suo grosso orologio da tasca, le mollette da zucchero e i cucchiaini d'argento.
Nella casa ormai vuota il vecchio Sol si sentiva sperduto e tuttavia prima di sedersi alla tavola preparata con cura da Susan, che era uscita a fare le compere insieme con il signor Toots, si rimproverò quella tristezza esclamando: - Il mio ragazzo si è salvato e ha trovato la via buona da seguire, che diritto avrei di non essere felice e riconoscente a Dio?
Il capitano era ancora in piedi, era nervoso, e non senza un certo imbarazzo suggerì all'amico di andare a prendere quell'ultima bottiglia di vecchio Madera rimasta in cantina: non sarebbe stato bello bere alla salute del carissimo Walter e della sua sposa?
Ma il vecchio Sol scosse il capo, fissò con aria seria l'amico trasse di tasca il portafogli, ne tolse una lettera.
- E' diretta da Walter al signor Dombey - spiegò. - Da spedire fra tre settimane. Te la leggo.
- "Signore, sono diventato il marito di sua figlia. E' partita con me per un lungo viaggio sul mare. Lo sa il cielo che non mi faccio un merito se le dichiaro la mia profonda devozione alla mia sposa e quindi anche a lei, signore.
"Non le dirò perché, amando io Florence sopra ogni cosa al mondo, ho tuttavia accettato senza rimorso che divida con me le incertezze e i pericoli di questa mia vita. Ella, signore, conosce la ragione di questo, ed ella è il padre di Florence.
"Non la rimproveri: Florence non ha mai rimproverato lei.
"Io non oso pensare o sperare che ella vorrà mai perdonarmi, ma se un giorno la dovesse confortare la certezza che Florence ha accanto a sé qualcuno che ha per sempre deciso di dedicare la propria vita a farle dimenticare ogni passata sofferenza, io solennemente dichiaro che potrà nutrire tale certezza".
Solomon ripose con cura la lettera nel portafogli e tornò a infilare questo nella tasca della giubba.
- No! - disse il vecchio, e aveva l'aria di riflettere profondamente. - Non dobbiamo ancora bere la bottiglia di Madera, Ned. Non ancora.
- Non ancora! - ripeté convinto il capitano. - No. Non ancora.
Della medesima opinione furono Susan e il signor Toots, e finita la cena brindarono alle fortune della giovane coppia, ma senza disturbare la bottiglia di vino vecchio, riposta fra la polvere e le ragnatele.
Sono trascorsi alcuni giorni e un bastimento maestoso naviga al largo con le bianche vele spiegate per cogliere il vento favorevole.
Sul ponte una figuretta che anche per il più rozzo marinaio di servizio è la quintessenza della grazia, della bellezza e dell'innocenza: Florence è una presenza gradita a tutti, è ritenuta di buon augurio per la traversata. E' notte, i due sposi seduti l'uno accanto all'altro contemplano il lungo riflesso luminoso che la luna getta sul mare.
Poi alla giovane gli occhi si velano di lagrime, ella china la testa sul petto del marito, lo abbraccia mormorando: - Walter, amor mio, sono tanto felice!
Lo sposo la stringe in silenzio e rimangono immobili; la nave procede serena e maestosa lungo il suo corso.
- Quando ascolto il mare e lo contemplo - dice Florence - mi tornano in mente i giorni lontani... Il mare mi fa tanto pensare a...
- A Paolo, amor mio. Lo so.
Il mare la fa pensare a Paolo e al suo Walter. E a Florence la voce delle onde seguita con mormorio incessante a parlare di amore... dell'amore eterno e sconfinato che supera i limiti della terra e del tempo, che si dilata oltre il mare e il cielo, nell'invisibile regno dell'al di là!
Il mare aveva seguitato per un anno il suo incessante moto di flusso e riflusso. Per un anno il tempo era trascorso in una alternativa di nubi e di vento, di sole e di uragani. E lungo tutto l'anno la ditta Dombey e Figlio aveva dovuto lottare per sopravvivere contro incidenti inattesi, voci incontrollate, momenti avversi, fallire di imprese, ma soprattutto contro l'irriducibile ostinazione del suo titolare che rifiutava ogni consiglio alla prudenza, non dando ascolto nemmeno a chi gli diceva che i venti contrari stavano seriamente minacciando l'esistenza della sua nave indebolita e corrosa.
Era scaduto l'anno e la ditta affondava.
Un anno dopo la celebrazione del modesto matrimonio nella polverosa chiesa della City, in un pomeriggio d'estate si mormorava alla Borsa di un imminente grandioso fallimento. Un noto e superbo personaggio quel giorno non si fece vedere in Borsa, né vi mandò un agente. Il giorno seguente si sentì dire intorno che la ditta Dombey e Figlio aveva chiuso gli sportelli, e la sera dopo il nome della ditta compariva per primo nell'elenco dei fallimenti.
Il mondo degli affari fu messo a rumore e si levò un coro di voci indignate, di cui le più forti erano di coloro che in un mondo meno disonesto avrebbero meritato chissà quante volte di fallire.
Il vecchio fattorino della ditta era occupatissimo a correre da una taverna all'altra per rivelare in gran segreto a chiunque vi si trovasse che egli la sapeva lunga da un pezzo su quell'argomento, ma naturalmente la sua fedeltà al principale gli aveva impedito di parlare, ora però si sentiva libero, tanto più che non appena fossero terminate le pratiche del fallimento era quasi certo di essere assunto di nuovo come fattorino presso una ditta di assicurazioni contro gli incendi.
Per il maggiore Bagstock l'evento fu una vera calamità. Non che ne rimanesse emozionato, perché il solo essere al mondo verso cui provava un sincero attaccamento era lui stesso, ma al circolo, tra gli antichi commilitoni aveva tanto sbandierato la sua amicizia con il signor Dombey, che ora nessuno di quegli ufficiali a riposo poteva resistere alla tentazione di chiedergli notizie del suo amico signor Dombey, come avesse sopportato il colpo, e se il crollo era stato in qualche misura prevedibile.
La signora Chick aveva tre idee intorno alla sventura di cui era rimasto vittima il fratello: in primo luogo non riusciva a spiegarsela; poi diceva che suo fratello non si era sforzato abbastanza; e infine era certa che non sarebbe accaduto nulla se avessero invitato anche lei al primo ricevimento dopo le nozze:
l'aveva detto fin da allora!
Il fatto certo era che gli affari della ditta sarebbero stati liquidati nel miglior modo possibile, che il signor Dombey aveva spontaneamente messo a disposizione dei creditori ogni suo avere, e che non chiedeva favori ad alcuno. Aveva già dato le dimissioni da ogni carica o posto di fiducia già tenuto nella sua qualità di uomo d'affari degno di grande considerazione, e pertanto qualcuno diceva che fosse in punto di morte, altri mormorava che fosse in preda a una tranquilla pazzia, ma tutti concordavano nel dichiarare che era un uomo finito.
Gli impiegati di ogni grado si dispersero dopo una cena di addio, che sarebbe dovuta essere triste come un funerale, ma che non mancò di venire rallegrata da canzoni. Non mancò nemmeno qualcuno che in vena di fare il moralista ricordò a chi se ne fosse scordato che ambizione ha sempre fatto rima con perdizione.
Il signor Morfin, il simpatico scapolo dagli occhi color nocciola e con i capelli e le basette color pepe e sale fu il solo, dopo il titolare della ditta, a provare un sincero rincrescimento. Per un lungo numero di anni aveva trattato il signor Dombey con rispettosa deferenza, tuttavia senza mai abbassarsi al servilismo o all'adulazione. Non aveva alcun motivo di rancore, né alcuna umiliazione da vendicare. Ora lavorava da mattina a sera per chiarire ogni particolare degli affari condotti dalla ditta, era sempre disponibile per ogni spiegazione che si rendesse opportuna, desideroso di risparmiare al signor Dombey la necessità di intervenire personalmente presso i curatori fallimentari. E quando rincasava a tarda sera, per calmarsi prima di andarsi a coricare, traeva dall'amato violoncello le melodie più lugubri e sconsolate.
Una sera stava chiedendo conforto alle note basse, senza tuttavia disturbare la sua padrona di casa, la quale era molto dura d'orecchio, e di tutta quella musica avvertiva solo un vago brontolio, quando ricevette l'inattesa visita di Harriet Carker.
La giovane si scusò di essere venuta sola e in ora così insolita, ma desiderava un'informazione riservata: la ditta Dombey era davvero finita?
- Assolutamente finita! - rispose il signor Morfin.
- E il signor Dombey è rovinato?
- E' rovinato. Ricorderà quanto le dissi: è sempre stato impossibile ragionare con lui o persuaderlo; a volte era impossibile addirittura farsi ricevere... Non so bene a quanto ammonti la sua fortuna, che è senza dubbio notevole; ma le passività della ditta sono enormi. E' un gentiluomo, questo non lo si può negare. Chiunque, trovandosi nella sua posizione, avrebbe cercato di salvare il salvabile, scendendo a patti con i creditori e in tal modo aumentando le perdite altrui; ma egli ha deciso di offrire quanto possiede fino all'ultimo soldo.
- Signore, - disse Harriet con un'espressione di tale dolcezza negli occhi da apparire addirittura bellissima - lei forse immagina lo scopo della mia visita... del mio povero fratello morto non dirò nulla... del mio caro fratello con il quale vivo potrei dir molte cose, ma basterà che le dica questo: sono venuta da parte di lui che non avrà pace fin che non otterrà la sua collaborazione in questo progetto. Tutto va fatto in gran segreto, sono certa che la sua grande esperienza le indicherà la via da seguire... sarà forse possibile far credere al signor Dombey che dal disastro della sua ditta qualcosa si sia potuto salvare; oppure gli si dirà che è l'offerta spontanea di qualcuno che dopo avere a lungo trattato affari con lui serba il ricordo della sua grande onestà; o ancora che si tratta di vecchio credito riscosso quando si era disperato di poterlo realizzare... Lei saprà decidere per il meglio. Il nostro desiderio è che lei non ne parli mai a mio fratello John, il quale è felice di compiere questo atto di restituzione; egli desidera che a noi rimanga solo una piccola parte dell'eredità e che l'interesse della parte principale vada al signor Dombey fino alla sua morte. Io la prego vivamente, signor Morfin, di non parlare mai più di questo argomento con mio fratello né con me, ma di provvedere come crederà opportuno... per me sarà un altro motivo per ringraziare il cielo che mi ha dato un fratello di cui posso andare tanto fiera...
- Cara signorina Harriet! - disse dopo un silenzio commosso il signor Morfin - a una sua richiesta di questo genere non ero davvero preparato...
- ...ma mio fratello e io possiamo contare sul suo fraterno aiuto, non è vero? - insistette Harriet.
- Sarei davvero l'ultimo degli uomini se non le garantissi tutta la mia collaborazione e il segreto più assoluto! Le prometto che se il signor Dombey seguiterà nella sua determinazione di non sottrarre nulla di quanto possiede ai suoi creditori, e si troverà perciò ridotto in miseria, io mi adopererò per realizzare il progetto che suo fratello John e lei hanno così generosamente formulato. Harriet... - disse il brav'uomo trattenendo fra le sue la mano che la donna gli aveva teso con un sorriso di gratitudine.
- Non ho il diritto di parlarle di me in questo momento... mi lasci dire soltanto che nutro per lei un'ammirazione ancora più grande dopo questa nuova prova della sua bontà sublime e che desidero solo esserle sempre amico... voglio solo continuare a essere il suo devoto servitore! Mi permette di accompagnarla a casa?
- Grazie, ma devo fare una visita e la devo compiere sola. Verrà a trovarci domani?
- Certo! A domani, dunque, e intanto rifletterò al modo migliore per agire come lei desidera... e forse, carissima Harriet, anche lei penserà un pochino a me...
Il vetturino della carrozza di piazza che attendeva Harriet alla porta, la condusse a un altro indirizzo che l'uomo pareva conoscere già benissimo, appena fuori città, dove alcune vecchie case erano circondate da tranquilli giardini.
- Come sta la sua malata questa sera?- chiese Harriet all'infermiera dall'aria triste che le aperse il cancello.
- Oh, non sta bene affatto, signorina! - rispose la donna. Anzi mi ricorda una mia cugina... le rassomiglia in maniera impressionante, la sola differenza è che sul punto di morire quella era ancora bambina!
Salirono insieme in una camera modesta, ma linda, in cui una vecchia fissava immobile le tenebre attraverso la finestra spalancata. Un uscio si apriva in una seconda camera fiocamente illuminata: sul letto era coricata l'ombra di colei che una sera d'inverno non aveva avuto paura di affrontare il vento e la pioggia gelida, ma non la si sarebbe riconosciuta se non per i lunghi capelli neri che risaltavano sul pallore del volto e il candore delle lenzuola. La malata spalancò gli occhi ansiosi.
- Alice! - la chiamò con dolcezza la visitatrice. - Sono in ritardo?
- Per me lei è sempre in ritardo anche se è in anticipo...
Harriet posò la sua sulla mano esangue abbandonata sulla coperta.
- Ti senti meglio, non è vero?
- Oh, non ha più importanza! - rispose con un lieve sorriso Alice.
- Le cattiverie e i rimorsi, viaggi e miseria, le tempeste dentro di me e quelle venute dal cielo mi hanno logorato la vita... Ne rimane ben poco ormai... - Attirò a sé la mano di Harriet e vi appoggiò la guancia. - A momenti penso che mi piacerebbe vivere almeno ancora un poco per dimostrarle la mia riconoscenza... ma è una debolezza che passa... meglio così per lei, e anche per me...
- Quanto tempo è trascorso da quando sono venuta da lei seguitò Alice - per dirle quello che avevo fatto, e poi le dissero che era troppo tardi, nessuno avrebbe fatto in tempo a correre per avvertire del pericolo?...
- E trascorso più di un anno - rispose Harriet.
- Più di un anno da quando lei mi ha portata qui e a forza di bontà e di gentilezza ha fatto di me un essere umano...
Harriet si chinò per carezzarla e calmarla; Alice le tratteneva sempre la mano a cui aveva appoggiato la guancia. Disse che voleva vedere sua madre e Harriet dovette chiamare più d'una volta la vecchia, intenta a fissare trasognata le tenebre.
- Mamma! - disse la poveretta, senza staccare dalla visitatrice lo sguardo degli occhi accesi. - Dille quello che sai!
- Stasera, figlia mia?
- Sì, mamma! - le ordinò Alice, riuscendo appena a bisbigliare e tuttavia con forza. - Stasera!
- Figlia mia, ma tu guarirai, e sarai ancora la più bella e potrai andare a testa alta fra la gente ricca e superba... vi sono dei matrimoni che si fanno anche senza il pastore e l'anello... Fatemi vedere la signora Dombey e vi troverete davanti agli occhi la prima cugina della mia Alice...
Harriet distolse lo sguardo dalla vecchia per fissare l'inferma, e trovò la conferma dell'inattesa rivelazione nell'espressione di quegli occhi neri e febbricitanti.
- Sicuro! - gridò la vecchia, levando a fatica per un gesto di fierezza la testa tremante. - Ora sono vecchia e brutta, ma vecchia più per gli stenti che per gli anni... ero carina, allora, più bella e fresca di tante ragazze di campagna! Laggiù nel mio paese i più allegri signori che venivano da Londra a villeggiare erano il padre della signora Dombey e suo fratello... morti da tempo, quei poveretti... da più tempo dell'altro il fratello, il padre della mia Alice.
La donna tacque, poi si chinò sul letto, posò il capo sulle braccia distese.
- Si rassomigliavano tanto quei due, avevano quasi la stessa età, nemmeno due anni di differenza, se ben ricordo... e bisognava vedere la mia creatura, come la vidi una volta fianco a fianco di quell'altra, com'erano simili fra loro, benché la differenza del vestire fosse così grande... Oh, che differenza, ormai, e doveva essere la mia ragazza a dover tanto cambiare!
- Mamma, un giorno o l'altro toccherà a tutti di cambiare mormorò Alice.
- Toccherà a tutti! - ribatté la vecchia. - Ma perché non prima a lei? La madre, sì, era mutata... pareva quasi vecchia come me a dispetto della faccia dipinta... ma lei era sempre bella! Che cosa ho fatto io di male perché la mia ragazza si consumi come una candela...
La vecchia si drizzò e fece l'atto di fuggire nell'altra stanza, ma si dominò e tornò vacillando verso Harriet.
- Ecco, mia cara, Alice voleva che le dicessi questo. Ecco tutto.
Io scopersi tutto un'estate di qualche anno fa, m'informai intorno a quella donna. Naturalmente loro avrebbero negato tutto. Forse avrei chiesto un po' di denaro, ma credo che se l'avessi fatto la mia Alice avrebbe minacciato di ammazzarmi... a modo suo era superba quanto l'altra, la mia Alice... anche se ora sta così quieta... ma tornerà, se tornerà! a fare svergognare tutti con la sua bellezza, sicuro che tornerà!
Con una risata più drammatica delle sue lagrime e delle abituali lamentele, e che si spense in un borbottio ebete, la vecchia tornò a sedere accanto alla finestra dell'altra stanza e si rimise a contemplare le tenebre.
Alice non aveva mai staccato gli occhi dal volto di Harriet, né aveva smesso di tenerle stretta la mano. Ora parlò.
- Ho voluto che lei sapesse questo. Ho pensato che avrebbe capito perché sono diventata come sono. Nella mia vita sbagliata, a forza di sentir parlare dei doveri ai quali avevo mancato, presi a credere di avere subito io pure tanti torti e che non avrei potuto agire diversamente. Mi pareva di vedere che anche tra i signori vi erano famiglie e madri cattive, e figlie che erano destinate a finir male, ma non era mai il male capitato a me... eppure adesso mi pare tutto un sogno che non comprendo, che non ricordo più. E' diventato un sogno per me dal giorno in cui lei ha cominciato a venire per tenermi compagnia e a leggermi quel libro... Le ho detto solo il po' che riesco ancora a ricordare. Legge anche stasera?... La prego, non abbandoni mia madre... se ha avuto dei torti verso di me, le ho perdonato. So che lei mi perdona, mi vuol bene e le rincresce per me... non l'abbandonerà?
- Mai, Alice!
Harriet stava ritirando la mano per aprire il libro, ma la malata la trattenne, la pregò che l'aiutasse a girare il capo perché udendo le sue parole gliele potesse anche vedere sulle labbra.
Harriet lesse alla morente le parole della saggezza eterna, le parole di speranza per tutti gli infelici, i peccatori, i diseredati di questa terra, i quali pure possiedono quel seme di eternità che nulla e nessuno può loro sottrarre... lesse di Colui che ebbe compassione di tutte le vicende umane, dalla nascita alla morte, e di tutti i dolori che possono colpire l'umanità.
- Harriet chiuse il libro. - Cara, tornerò domattina per tempo disse.
Gli occhi lucidi che non l'avevano abbandonata un istante furono velati dalle palpebre, tornarono a spalancarsi. Harriet si chinò a baciare la poveretta.
I grandi occhi seguirono l'amica fino alla porta e rimasero immobili; sul volto scese l'ombra leggera di un remoto sorriso che lentamente si spense con l'ultimo palpito della vita.
Sul letto rimaneva la spoglia mortale, esangue sotto la massa dei capelli neri che il vento e la pioggia avevano tormentato quella sera lontana di bufera.
Nella lunga via tetra, la grande casa già dimora dell'infanzia e della solitudine di Florence, ancora solida e resistente contro il vento e la pioggia dalle fondamenta al tetto, va tuttavia in rovina, e i topi l'abbandonano come fosse un bastimento che sta per affondare. Il maggiordomo, la cuoca e la prima cameriera hanno udito parlare di un gigantesco fallimento imminente e una sera trovano opportuno celebrare la notizia con una riunione conviviale prima di separarsi e andare a utilizzare altrove le loro abilità.
Anche la signora Pipchin, piuttosto agitata, ha dato ordine che le portino in camera quell'avanzo di animelle ben riscaldate e anche del vino caldo perché ha bisogno di tenersi in forze. Del signor Dombey si parla poco nel seminterrato fra i domestici. Ci si domanda che cosa farà adesso; il maggiordomo ritiene che sarà accolto in un ospizio e la cuoca conclude esclamando:- La superbia finisce sempre per essere buttata a terra, così è sempre stato e sempre sarà!
Pochi giorni dopo la casa viene invasa da personaggi strani che si radunano nella sala da pranzo facendola da padroni, girano per i saloni e chiedono al maggiordomo se per caso ricorda quanto siano costati quei tendaggi rossi con le frange dorate. Finalmente la governante avverte la servitù che il padrone "si trova nei guai" e chi vuole può andarsene per i fatti propri, e chi voglia rimanere può avere vitto e alloggio ancora per un paio di settimane, a patto di continuare il servizio. Quando la cuoca dichiara che preferisce partire subito, anche gli altri la seguono, tutti si occupano di far fagotto alla svelta e in breve se ne vanno. - Dobbiamo far presto! - dichiara una saggia fantesca. - Figuratevi che cosa proverebbe dentro di sé il povero signor Dombey se incontrasse per le scale uno dei domestici ai quali ha fatto credere per tanti anni di essere immensamente ricco! - E sebbene il signor Dombey rimanga sempre chiuso nelle sue stanze, e il rischio sia inesistente, prima di sera nella casa non rimane più nessun domestico.
Uomini rozzi che non si tolgono mai il berretto di panno muovono i mobili trascinandoli qui e là, mentre i signori muniti di penna e inchiostro ne compilano l'inventario, adoperando come sedili mensole o tavolini per nulla adatti all'uopo, e ritirandosi a mangiare pane e formaggio negli angoli più imprevedibili e sconvenienti. Viene finalmente comunicata al pubblico la data dell'asta per mezzo di un avviso a stampa affisso sul portone d'ingresso, e comincia la processione di quanti vanno a visitare ogni remoto angolo della casa per toccare, soppesare, valutare ogni singolo articolo. Nulla si salva dall'attenzione di quei futuri concorrenti, che, finito il giro, si ritirano nel salotto a prendere appunti sui margini del catalogo messo a loro disposizione.
L'asta dura quattro giorni, e in capo a una settimana la casa rimane spogliata di ogni suppellettile: su un carrettino tirato da un asinello se ne va anche il piccolo letto del povero Paolo. La totale razzia ha risparmiato solo le stanze al pianterreno, sempre chiuse a chiave e con le cortine abbassate, e le stanze della governante, dove la signora Pipchin ha radunato qualche mobile e oggetto che trovava particolarmente attraente: ha molto lottato soprattutto per conquistare una certa poltrona, su cui la trova seduta molto soddisfatta la signora Chick, giunta per salutarla e informarsi intorno alla salute del fratello.
- Che ne so io! - risponde la signora Pipchin. - Non mi fa mai l'onore di rivolgermi la parola. Si fa portare il vassoio dei pasti nella stanza attigua alla sua camera, e lo ritira quando nessuno è presente. E inutile chiedere informazioni a me, ne so meno di ogni altro sulla terra!
- Santo cielo! - esclama la signora Chick. - Quando finirà questa storia! E come finirà lui se non compie uno sforzo di volontà?...
Chi lo crederebbe che il giorno in cui gli dissi gentilmente:
"Paolo, sarò forse una sciocca, anzi lo sono senz'altro, ma non riesco a capire come i tuoi affari siano potuti arrivare a questo punto", egli mi abbia addirittura aggredita, ordinandomi di non tornare più da lui prima che mi facesse chiamare!
- Ah! - osserva la governante. - La sua non è poi una disgrazia tanto eccezionale, è capitata a tanta altra gente. Io pure sono stata costretta a disfarmi dei mobili di casa mia!
- Ma come finirà? - insistette la signora Chick. - E' questo che mi domando. Che cosa intende fare mio fratello? Qualcosa deve pur fare! E' inutile che se ne stia rinchiuso nella sua camera. Gli affari non andranno a cercare lui! Tocca a lui andarne in cerca!
Naturalmente poteva venire da me fin che avvenivano queste spaventose operazioni. L'ha detto e ripetuto anche mio marito. Che sarà di lui se affitteranno la casa?
- Questo non lo so! - dichiarò con forza la signora Pipchin. So invece che io me ne vado immediatamente! Se rimanessi ancora una settimana, morirei prima della fine. Ieri mi sono dovuta cucinare con le mie mani la solita costoletta di maiale, e non ci sono abituata. Finirei con l'ammalarmi. Ho scritto a una nipote che abita a Brighton, ha già risposto che mi aspetta.
- Ha parlato con mio fratello? - chiese la signora Chick.
- Ah! E' proprio facile parlare al signor Dombey! - replicò la governante. - Come fare? Ieri gli ho gridato che non avevo più nulla da fare qui, era meglio che mi permettesse di far chiamare la signora Richards. Ha brontolato "sì, la cosa non m'interessa!" E l'ho mandata a chiamare, ecco tutto!
La signora Pipchin emerge dai cuscini di sua proprietà per accompagnare alla porta la signora Chick, la quale se ne va in punta di piedi, tutta soddisfatta della propria profetica sagacia, e deplorando tra sé e sé le ultime madornali stramberie del fratello.
Sul calar della sera il signor Polly, che è libero dal lavoro, accompagna la moglie dal signor Dombey e la fa scendere dalla vettura di piazza insieme con un piccolo baule, dopo averle detto:
- Cara mia, adesso che sono diventato primo macchinista e guadagno bene, non ti dovrei lasciar venire qui, se non fosse per il pensiero dei favori ottenuti nel passato. Ma i favori, cara la mia Polly, non si dimenticano! E poi a chi si trova nei guai serve di conforto anche solo vedere la tua bella faccia. E allora dammi un altro bacio! So bene che vuoi solo fare quello che è giusto, e io sono perfettamente d'accordo con te. Buona notte, Polly!
La signora Pipchin è già pronta per la partenza, tutta in nero compreso scialle e cuffia, con il bagaglio personale e la famosa poltrona che ha conquistato all'asta in attesa di essere posti su un furgone che partirà per Brighton quella sera stessa. Il furgone arriva, tutto viene caricato, per ultima la signora Pipchin, la quale effettuerà il viaggio seduta in un angolo sulla famosa poltrona. L'ultimo sguardo che getta alla casa abbandonata luccica di soddisfazione e di avidità: è come se già pregustasse i piaceri di una tavola sempre ben fornita e la gioia di tormentare e soffocare una nuova generazione di bambini affidati alle sue cure di orco in gonnella.
Polly si mette a cucire nella stanza della governante, ma presto riceve una visita: arriva la signorina Tox, seminascosta da una enorme cuffia nera e con gli occhi rossi.
- Oh, Polly! - esclama la buona donna. - Ero andata per tenere un po' compagnia ai suoi bambini e mi hanno dato il suo messaggio. Mi sono fatta animo e sono corsa qui. Non c'è più nessuno?
- Neppure un'anima!
- L'ha visto? - mormora la signora Tox.
- No, cara signorina! - le risponde Polly. - Da vari giorni nessuno lo vede. Dicono che non esce mai dalla camera.
- Sarà malato? ...
- No, non credo sia malato. Ma nella testa, povero signor Dombey, credo che stia piuttosto male.
La signorina Tox è talmente commossa che riesce appena a parlare.
Non è più giovane, ma l'età e la solitudine non l'hanno indurita:
il cuore in lei è ancora tenero, la compassione è genuina, l'omaggio al grand'uomo è sincero. Rimane a lungo in compagnia della buona Polly, la quale poi si ritira per la notte e al mattino dispone come le è stato detto la colazione per il padrone in una delle stanze al pianterreno, che hanno le persiane sempre abbassate.
La signorina Tox ritorna spesso e prende l'abitudine di portare qualche delicato bocconcino per il padrone di casa, e il suo desinare da dividere con Polly, trascorrendo così la maggior parte della giornata nella casa in cui regna la desolazione, entrando e uscendo di soppiatto, solo desiderosa di conservarsi fedele all'oggetto della sua umile ammirazione.
Il maggiore Bagstock ha scoperto il segreto (avendo mandato il domestico a prendere notizie sulla salute del signor Dombey e a tener d'occhio la casa) e ha riso fino a diventar paonazzo e a farsi quasi schizzare gli occhi dalle orbite. - Accidenti! - ha esclamato fra starnuti e colpi di tosse. - Quella donna... che idiota!
E l'uomo caduto rovinosamente dal suo piedistallo, come trascorre le ore? Non può non ricordare. Gli sta presente al pensiero l'ultima invocazione della figlia.. e il ricordo si materializza in angoscia, dolore, rimorso, disperazione.
A poco a poco fu come se per la prima volta conoscesse la vera natura della sua Florence: gli parve di poter rinunciare ormai senza fatica alle ambizioni e alle ricchezze, ai vivi e ai morti, ma non a lei! Naturalmente questo pensiero era nato in lui nel momento in cui aveva letto la lettera indirizzatagli dal marito della figlia. La notizia del matrimonio aveva da prima destato in lui una terribile collera, gli era parso che se avesse incontrato sua figlia per via non avrebbe nemmeno mostrato di conoscerla. Ma poi era cambiato tutto: ora pensava a quello che sarebbe potuto accadere e che non era accaduto. Pensava di avere perduto sua figlia e un peso enorme fatto di dolore e di rimorsi gli faceva chinare il capo.
Uscì dalla sua solitudine a notte fonda, e con la candela in mano salì lentamente lo scalone che gli parve tutto coperto di orme incancellabili. Entrò nei saloni già splendidi, ora così tetri e spogli da sembrare alterati anche nella misura. Il ricordo dei passi che un tempo vi risonavano glieli fece addirittura riudire, ed egli cominciò a temere che gli avesse dato di volta il cervello. Salì ancora d'un piano, sempre seguito e circondato da quel battere di passi che gli parlavano del suo orgoglio, della moglie infedele, dell'amico che l'aveva tradito... Solo nella cameretta dove un tempo era il piccolo letto di Paolo riuscì a far tacere ogni altro ricordo, a pensare unicamente ai due figli perduti e a sciogliere in pianto la disperazione che da tempo gli faceva groppo nel cuore.
L'alba lo trovò di nuovo chiuso nel suo rifugio. Aveva deciso di andarsene, ma non riusciva a distaccarsi dalla casa, la sola cosa che gli fosse rimasta sulla terra. Sarebbe partito l'indomani... o il giorno seguente: intanto ogni notte girava come un fantasma per le stanze disabitate e spoglie. Pensava di avere ormai perduto entrambi i suoi figli, e li sentiva ugualmente vicini nell'amore e nel rimorso. Era sconvolto e se ne rendeva conto benissimo; aveva la sensazione di avere camminato per anni su un terreno malfermo, che ora di attimo in attimo inesorabilmente cedeva.
Alla fine cominciò a pensare che non era necessario andarsene dalla casa... poteva rinunciare anche a quel poco che i creditori gli avevano lasciato (era colpa sua se non gli avevano lasciato di più), e spezzare i legami che lo legavano a quelle mura, tagliando insieme anche il filo della vita...
Fu allora che nelle stanze già della governante salì l'eco dei suoi passi concitati. Sedeva un momento di fronte allo specchio, vi contemplava la propria immagine cupa e spaventosa, si alzava e prendeva un oggetto dal cassetto del tavolino, tornava a percorrere in lungo e in largo la stanza e quella attigua, si fermava a riflettere, toccando la cosa che aveva ficcato nella tasca della giubba, guardandosi la mano destra che già gli pareva quella di un assassino... Il sangue avrebbe impiegato molto tempo a strisciare come una serpe fino all'uscio... per giungere fino a lui l'avrebbero dovuto calpestare...
Sedette con gli occhi fissi al focolare spento, e mentre era così immerso nei pensieri un fioco raggio di sole illuminò la stanza.
All'improvviso fu di scatto in piedi e la sua mano omicida fece l'atto di afferrare qualcosa nella tasca... ma il gesto fu interrotto da un grido straziante di spavento e di amore... ai suoi piedi sua figlia gli abbracciava i ginocchi...
Sì, era la sua Florence, che lo chiamava, angosciata e supplichevole.
- Babbo, mio caro babbo, perdonami! Sono tornata per chiederti perdono in ginocchio! Senza il tuo perdono non posso più essere felice!
Sua figlia era la stessa di quella sera in cui l'aveva scacciata, lo stesso identico viso in un mondo totalmente sconvolto, e sua figlia gli chiedeva perdono!
- Babbo, non guardarmi così! Non ho mai pensato di lasciarti, mai!
Ho avuto paura, sono andata via... non potevo ragionare! Ma sono pentita, conosco la mia colpa, ora so bene quale sia il mio dovere. Babbo, non respingermi se non vuoi farmi morire!
Egli si avvicinò vacillando alla poltrona, vi si lasciò cadere, e sentì che la figlia lo stringeva nel suo abbraccio, avvicinava alla sua la guancia calda che i singhiozzi facevano tremare.
- Babbo! Adesso sono mamma, ho un bambino che presto chiamerà il mio Walter con il nome che io dò a te. Quando è nato e ho capito quanto lo amassi, ho saputo quanto male ti avevo fatto lasciandoti! Perdonami, babbo caro, dimmi che invochi la benedizione di Dio su di me e sul mio bambino!
Egli avrebbe risposto, se solo fosse riuscito a parlare.
- Eravamo sul mare quando è nato il mio bambino, e abbiamo tanto pregato, Walter e io che io mi salvassi e potessi ritornare.
Sono appena arrivata ed eccomi qui da te! Babbo, non voglio che ci separiamo mai più!
Ora Florence accarezzava la grigia testa paterna, ed egli gemeva dentro di sé al pensiero di avere fino allora rinunciato a quelle carezze.
- Verrai con me, babbo, vedrai la mia creatura. E' un maschietto, babbo... si chiama Paolo e mi pare che gli rassomigli... Babbo caro, per amore del nome che gli ho dato, per amore del mio bambino, per amor mio, perdona a Walter... è tanto buono con me...
sono tanto felice... non è colpa sua se ci siamo sposati, la colpa è tutta mia, ma lo amavo tanto!
Florence si strinse al padre con tenerezza ancor più grande.
- Io lo amo di tutto cuore, babbo. Darei la vita per lui. E lui ti porta amore e rispetto. Insegneremo al nostro bambino a volerti bene e a rispettarti. Quando capirà, gli diremo che un giorno tu avevi un figlio con il suo stesso nome, e che morì, e tu ne avesti un grandissimo dolore, ma egli è in cielo, dove tutti confidiamo di rivederlo quando verrà la nostra ora.
Allora egli si chinò a baciare la figlia e sollevando gli occhi mormorò: - Dio mio, perdonami! Come ti devo chiedere perdono!
Rimasero a lungo abbracciati in silenzio, e il sole che aveva fatto la sua comparsa insieme con Florence, seguitava a illuminare la stanza, benché faticasse a entrare scivolando tra le fessure delle persiane.
Docile alle preghiere della figlia, egli si vestì per uscire, passò con lei nell'atrio lasciandole il compito di sorreggerlo, di guidarlo verso la carrozza che li attendeva.
Poi uscirono dal loro nascondiglio Polly e la signorina Tox, entrambe in lagrime, ma esultanti. Con gran cura riposero nelle valigie gli abiti e i libri del signor Dombey e prima di sera consegnarono ogni cosa a qualcuno che Florence aveva mandato perché ritirasse il bagaglio. Bevettero insieme un'ultima tazza di tè, poi la signorina Tox se ne andò con il giovane Robin, al quale intendeva dare l'occasione di riabilitarsi agli occhi della gente onesta servendo presso di lei in qualità di domestico. Infine Polly spense l'ultima lampada, chiuse la porta d'ingresso, consegnò la chiave all'amministratore che abitava poco lontano, e si avviò con passo lesto verso casa, pregustando il piacere di ritrovarsi fra poco tra i suoi.
La grande casa, insensibile verso quanti fra le sue mura avevano sofferto e di fronte ai mutamenti di cui era stata testimone, seguitava a incombere muta e arcigna sulla via, disposta a rispondere a ogni eventuale visitatore con il semplice avviso già esposto: "Affittasi".
Grandi festeggiamenti a Brighton in occasione delle nozze della signorina Cornelia, figlia del professore e della signora Blimber con il professor Feeder. Fra gli invitati non poteva mancare il signor Toots e anche la sua signora fu lieta di rivedere quei luoghi che aveva conosciuti quando era la signorina Susan Nipper.
Toots dovette scusarsi con l'amico di non averlo invitato alle sue nozze, ma spiegò che l'evento era accaduto in circostanze piuttosto eccezionali, alla sola presenza di un certo capitano, carissimo amico suo e della moglie. Spiegò inoltre che la signora Toots era una donna assolutamente eccezionale, anzi eccezionale in misura affatto impensabile.
- Amor mio! - esclamò il signor Toots, correndo verso la moglie.
- Ti prego di non affaticarti!
- Stavo solo facendo conversazione! - rispose la sposina. Ma il signor Toots insistette: - Ti supplico, mia carissima Susan, non dimenticare i consigli del medico, non ti devi stancare!
La colazione nuziale, a cui parteciparono solo pochissimi invitati, fu molto rallegrata dal discorso che il signor Toots si credette assolutamente in obbligo di pronunciare, e che tra varie incertezze riuscì tuttavia a condurre in porto, grazie ai vari opportuni suggerimenti di quella donnina pratica e intelligente che era sua moglie. La risposta del signor Feeder fu un brillante alternarsi di note comiche e di note sentimentali.
Partiti gli sposi novelli, i signori Toots ritornarono al loro albergo, dove il signor Toots trovò una lettera. Non finiva mai di leggerla e Susan cominciava ad agitarsi per la curiosità di sapere chi gli avesse scritto.
- Ti prego, sta calma, carissima! Scrive il capitano Gills che Walter e Florence arriveranno fra poco a Londra.
- Oh! - esclamò Susan, levandosi di scatto dal divano e facendosi pallida. - Vedo che m'inganni, sono già arrivati, te lo leggo in viso!
- Che donna! Che donna straordinaria! - esclamò estasiato il signor Toots. - Hai perfettamente ragione, amor mio. La signora Florence s'è incontrata con suo padre e si sono riconciliati.
- Riconciliati! - gridò la signora Toots, battendo le mani per la gioia.
- Amor mio! - la supplicò il consorte. - Ti prego di non affaticarti. Ricorda i consigli del medico!... Ecco, mi pare di capire da quanto scrive il capitano Gills che la signora Florence ha portato il suo infelice padre ad abitare nella casa dove hanno preso alloggio lei e Walter... dice che il signor Dombey è molto malato, addirittura quasi in punto di morte, e che lei lo assiste giorno e notte.
La signora Toots scoppiò in lagrime.
- Mia carissima Susan! - supplicò il marito. - Cerca, se puoi, di ricordare i consigli del medico. Se proprio non riesci... non importa! Ma sforzati di ricordarli, te ne prego.
Susan lo pregò a sua volta che la conducesse immediatamente dalla sua preziosa colomba, dalla sua diletta padroncina, dalla sua amatissima signorina Florence, e l'ottimo signor Toots accondiscese di buon grado a organizzare una immediata partenza per Londra. Invece di rispondere alla lettera del "capitano", si sarebbero recati subito a visitarlo.
La malattia del signor Dombey si protrasse a lungo, ed egli fu più volte in punto di morte; quando era in preda al delirio e lo tormentavano i ricordi del suo triste passato, solo la figlia riusciva a calmarlo. Più tardi accettò anche la presenza della buona Susan, e comprendendo quanto si fosse affaticata per lui Florence, insistette perché si allontanasse a tratti dal suo letto e andasse a passeggiare con il marito.
Un giorno fece segno a Walter che gli andasse vicino, gli strinse la mano e mormorò che si sentiva tranquillo perché la sua bambina era affidata a mani sicure.
Ci vollero varie settimane prima che superasse il periodo critico del male, ma infine la sua agitazione ebbe termine, si trovò debolissimo, ma fuori pericolo.
Una sera Florence era seduta in fondo alla camera, come gli piaceva poterla vedere, con accanto il marito e il bimbo in grembo: la udì intonare una vecchia ninna nanna che da prima credette di non poter sopportare; levando la mano tremante pregò che tacesse; ma poi la volle riascoltare, e tante altre volte ancora, sempre con profonda emozione, ma senza più agitarsi.
Un giorno il malato riposava e Florence cuciva accanto alla finestra, quando Walter le si accostò per dirle a bassa voce e con tono grave che un visitatore chiedeva di vederla. Florence si lasciò indurre a cedere il suo posto alla fedele signora Toots.
Nel salottino al pianterreno trovò un vecchio signore che da prima non riuscì a riconoscere; poi ricordò: chi era venuto a cercarla era il cugino Feenix, il quale cominciò scusandosi di non essere venuto prima d'allora a porgere i suoi doverosi rallegramenti e auguri, ma un seguito di impreviste e deprecabili circostanze l'aveva indotto a non cercare altra compagnia all'infuori di quella della sua persona, e a scoprire ben presto che in tale compagnia trovava inevitabile annoiarsi a morte...
Florence intuì che nonostante le parole svagate il vecchio gentiluomo era venuto da lei con uno scopo preciso, e ne trovò conferma anche nell'espressione di Walter.
- Ho appena detto al mio giovane amico signor Gay, se pure mi è lecito dichiararmi suo amico - seguitò il cugino Feenix - quanto piacere mi ha procurato il sentire che il mio amico Dombey sta decisamente meglio. Spero vivamente che il mio amico Dombey non si lascerà tormentare più che tanto dal pensiero di quella gran perdita di denaro. Non posso dire di avere sperimentato io stesso una disgrazia del genere, soprattutto per il motivo che non ho mai posseduto molto denaro. Tuttavia mi è capitato di perdere ciò che avevo e non vi ho gran che badato. So che il mio amico Dombey è un uomo maledettamente onesto e sono sicuro che gli sarà di grandissimo conforto sapere che tale è il giudizio di tutti.
Nessuno osa dire una sola parola contro di lui, nemmeno Tommy Screwzer, un individuo eccezionalmente maligno, che forse conosce anche il mio giovane amico Gay.
Florence era in attesa di ciò che sarebbe seguito, e la sua ansia era tanto palese che il vecchio gentiluomo si dispose a entrare in argomento.
- Signora, le devo confessare di avere discusso insieme con il mio amico Gay sulla opportunità o no di chiederle un grandissimo favore. Il mio amico Gay mi ha accolto con immensa cortesia, una cortesia di cui gli sono particolarmente grato, e mi ha dato il permesso di parlarle. Sono certo che la gentile e amabilissima figlia del mio amico Dombey non si farà molto pregare, e sono felice di aggiungere che il mio amico Gay mi ha concesso l'appoggio della sua approvazione...
A questo punto il cugino Feenix si permise una lunga digressione che si riferiva alle sue esperienze di parlamentare, avvenute in un tempo molto remoto. Florence cominciava a preoccuparsi davvero e interrogò il marito con lo sguardo.
- Carissima, sta tranquilla, non è successo nulla! - la rassicurò Walter.
- Assolutamente nulla! - ripeté il cugino Feenix. - E sono vivamente rammaricato di averla impressionata anche solo per un attimo. Il favore che ho da chiederle è molto semplice... ma può apparire tanto strano da indurmi a pregare il mio giovane amico Gay che mi faccia la gentilezza di... di rompere il ghiaccio!
Così chiamato in causa, Walter si volse a Florence dicendole:
- Carissima, non è una gran cosa. Ti si prega soltanto di fare una corsa in città nella carrozza di questo signore che ben conosci.
- Insieme anche al mio amico Gay... scusi l'interruzione! precisò il cugino Feenix.
- ... e con me... a compiere una visita.
- A chi? - chiese Florence, passando con lo sguardo dall'uno all'altro.
- Vorrei prendermi la libertà di chiederle - disse con deferenza il cugino Feenix - il favore di non rivolgermi questa domanda.
- Tu lo sai, Walter?
- Sì.
- E' giusto che io vada?
- Sì. Te lo dico solo perché sono sicuro che tu diresti di sì. Vi sono però dei motivi per cui è meglio non parlarne in anticipo.
- Se il babbo sta ancora riposando, e vedo che non ha bisogno di me - rispose Florence - vengo subito! - Si alzò e uscì, e i due uomini compresero che era un pochino preoccupata, ma fiduciosa.
Poco dopo partirono insieme per quella corsa in carrozza, e il crepuscolo già calava su Londra. Florence cercava di riconoscere le vie che percorrevano, e quando la carrozza si fermò di fronte alla casa di Brook Street in cui aveva avuto luogo il ricevimento per festeggiare l'infelice secondo matrimonio di suo padre, non poté trattenersi dal chiedere: - Walter, perché? Chi vedrò qui? - Il marito la rassicurò con lo sguardo, le disse che sarebbe rimasto ad attenderla nella carrozza, ed ella entrò con il vecchio signore nella casa dalle finestre sbarrate e buie. Tremava un poco nel salire lo scalone, ma non si fece pregare quando il cugino Feenix la invitò a entrare in una stanza sul retro della casa.
Una donna era seduta a un tavolino accanto alla finestra; pareva contemplasse l'ultima luce del giorno e teneva il mento appoggiato sulle mani.
Florence si fece avanti incerta e la donna si volse, si alzò.
- Cielo! - esclamò. - Sei tu...
- Mamma! - gridò Florence, ma rimase come impietrita. In silenzio le due donne si guardarono e su entrambi i volti si leggeva la meraviglia e il timore.
La prima a rompere quel silenzio fu Florence, che scoppiò in lagrime.
- Oh, mamma, mamma! Dover incontrarti così! Tu che sei stata buona con me quando ero sola... doverti incontrare così!
Edith le stava ritta di fronte e la fissava negli occhi.
- Ho paura di pensare... - disse Florence. - Vengo dal letto del babbo, che è tanto malato. Ora non c'è più incomprensione fra noi.
Se vuoi che gli chieda perdono in nome tuo, mamma, lo farò. Sono quasi certa che ora te lo vorrà concedere. E che il cielo ti assista, mamma!
Edith non aperse bocca.
- Walter... siamo sposati, abbiamo un bambino - disse timidamente Florence. - Walter mi ha accompagnato, mi aspetta. Gli dirò che sei pentita, che sei cambiata... parlerà anche lui al babbo. C'è altro che io possa fare per te?
Sempre immobile, Edith rispose lentamente:
- La macchia sul vostro nome, su quello di tuo marito, del tuo bambino: quella, Florence, sarà mai perdonata?
- Chiedi se ti sarà mai perdonata, mamma? Oh, da Walter e da me è già perdonata! Credimi, mamma. Ma tu non... non parli del babbo.
Certo desideri che gli chieda perdono per te, non è vero?
Edith non rispose.
- Glielo chiederò! - esclamò Florence. - Te lo porterò, se me lo permetterai, e allora, forse, riusciremo a salutarci come facevamo un tempo. Anche adesso, mamma, non sono io che non ti voglio abbracciare. Vedi, penso al mio dovere di figlia. Mio padre mi tiene tanto cara e io gli voglio tanto bene. Ma non dimenticherò mai che sei stata buona con me! Oh, mamma, prega che dal cielo ti sia tutto perdonato e che si perdoni anche me se sbaglio... ma come posso dimenticare quella che sei stata per me?
Appena toccata dalle mani di Florence che la volevano serrare, Edith cadde in ginocchio, abbracciandola.
- Florence! - gridò. - Mio buon angelo! Prima che il mio pazzo orgoglio torni a impadronirsi di me, prima che la mia durezza mi chiuda la bocca, ascoltami: ti giuro sull'anima mia che sono innocente!
- Mamma!
- Sono colpevole, e quanto! Colpevole di ciò che ci separa per sempre, sì! Colpevole di un rancore tanto violento del quale nemmeno adesso posso pentirmi; ma non colpevole di peccato con quell'uomo che è morto, lo giuro davanti a Dio!
Era sconvolta, in lagrime.
- Lascia che per l'ultima volta io ti abbracci. Nessuna cosa al mondo mi avrebbe mai strappato questa confessione; né odio, minaccia, amore o speranza! Avevo deciso di morire senza rivelare il mio segreto, l'avrei fatto, Florence, se non ti avessi rivista.
In quel momento il cugino Feenix si affacciò alla porta e prese a parlare rimanendo per metà fuori e metà dentro la stanza.
- Confido che la mia bella cugina mi perdonerà il piccolo stratagemma. Confesso che da principio ero quasi disposto a credere che la mia bella e compita parente si fosse compromessa con quell'individuo che mostrava continuamente i denti... perché in questo mondo si vedono le cose più strane e inverosimili. Ma come dissi al mio amico Dombey, non ero disposto a ritenere colpevole la mia bella cugina prima di avere le prove sicure della sua colpevolezza. E quando seppi che quel pover'uomo era morto in maniera tanto orribile e che la posizione di lei doveva essere molto penosa... mi resi inoltre conto che la nostra famiglia si era curata troppo poco di lei... e forse anche sua madre, mia zia, era stata una donna maledettamente vivace, e magari non la migliore delle madri... mi sono preso la libertà di andarla a cercare in Francia per offrirle quella meschina protezione che sono in condizione di darle. La mia bella cugina mi fece l'onore di dirmi che mi giudicava una bravissima persona e che si poneva con piacere sotto la mia protezione. Un atto di grande bontà da parte sua, perché le gambe mi reggono sempre meno e le sue premure mi danno grandissimo conforto... La mia bella congiunta ricorderà che non le ho mai chiesto nulla della sua fuga. In verità avevo l'impressione che vi fosse un mistero nell'affare, e che l'avrebbe potuto spiegare lei stessa quando avesse voluto. Di recente compresi che il suo punto debole era un grandissimo affetto verso la figlia del mio amico Dombey, pensai quindi che un incontro inatteso di queste due persone avrebbe condotto forse a un ottimo risultato. E così feci, ora che siamo in procinto di partire verso l'Italia meridionale, dove intendiamo fissare la nostra dimora per quel tanto di vita che ci rimane... ma questo, per un uomo come me, è un pensiero particolarmente sgradevole... ripeto che andai in cerca dell'indirizzo del mio amico Gay, un giovanotto molto bello e di ottimo carattere, il quale permise che conducessi qui la sua amabilissima consorte. E ora ti scongiuro, bella cugina, di non lasciare le cose a mezzo! Non per l'onore della famiglia, né per la gloria o alcun'altra causa più o meno assurda, ma solo per raddrizzare, nella misura del possibile, quel torto che puoi avere commesso!
Il lungo discorso era finito, il cugino Feenix si ritirò e chiuse l'uscio.
Edith aveva fatto sedere Florence sul divano accanto a sé, e rimase a lungo in silenzio. Poi si trasse dal seno un foglio piegato e sigillato.
- Ho pensato tanto se scrivere e spiegare tutto o no - disse a bassa voce. - E poi sono stata tante volte sul punto di distruggere lo scritto. Prendilo, Florence. C'è tutta la verità.
- Per mio padre? - chiese Florence.
- Per chi vorrai. Dò a te questa carta, sei tu che l'hai ottenuta da me. Egli non l'avrebbe mai avuta altrimenti.
Seguì un altro silenzio nel buio che s'infittiva.
- Mamma! - disse Florence. - Ha perduto tutta la sua ricchezza.
E' stato in punto di morte. Nemmeno oggi siamo certi che possa guarire. Vuoi che gli dica una parola da parte tua?
- Mi hai detto - replicò Edith - che ti vuole bene?
- Oh, sì, tanto! - esclamò con fervore Florence.
- Digli questo: mi rincresce che ci siamo incontrati.
- Solo così? - chiese Florence dopo un'altra pausa.
- Digli, se lo chiede, che non mi pento di ciò che ho fatto... non ancora... perché penso che, nelle stesse circostanze, lo rifarei.
Ma se non è più lo stesso...
S'interruppe: Florence le aveva preso la mano fra le sue.
- Ma ora che non è più lo stesso, egli sa che non sarebbe dovuto accadere. Digli che vorrei non fosse accaduto.
- Posso dirgli - chiese Florence - che ti rincresce sapere che ha sofferto tanto?
- No - rispose Edith. - No, se il dolore gli ha insegnato ad amare sua figlia. Se i patimenti gli avranno insegnato questo, vedrai, Florence, che un giorno non se ne lamenterà.
- Tu gli auguri ogni bene, so che desideri la sua pace, ne sono certa! - insistette Florence. - Oh, dammi il diritto di dirglielo, magari in un giorno lontano...
Edith tacque a lungo con gli occhi spalancati sulla finestra buia.
- Digli - disse infine - che se nella sua realtà presente trova un motivo per avere pietà del mio passato, digli pure che gli ho chiesto di farlo. Digli che se nella sua realtà presente trova un motivo per ricordarmi con minore amarezza, io gli ho chiesto di farlo. Digli che, per quanto destinati a non incontrarci mai più su questa terra, egli sa che ora abbiamo in comune un sentimento, mentre un tempo non ne avevamo alcuno.
La donna inflessibile parve cedere all'emozione e gli occhi le si gonfiarono di lagrime.
- Quanto più amerà la sua Florence, tanto meno odierà me. Quanto più sarà fiero e felice di vivere con lei e con i suoi figli, tanto più si pentirà della parte che ha avuto nella nostra disgraziata vita in comune. Allora mi sarò pentita anch'io...
digli pure allora, che quando davo tanta importanza alle cause che avevano fatto di me quella che ero, avrei dovuto tener più conto delle cause che avevano fatto di lui l'uomo che egli era... Io cercherò di perdonare a lui la sua parte di colpa. Cerchi, lui di perdonare la mia!
- Oh, mamma! - disse Florence. - Quanto bene mi fanno le tue parole, e come mi sento il cuore più leggero, anche se ci dobbiamo subito separare!
Edith abbracciò la figliastra, stringendola a sé come se volesse in quel momento riversare su di lei tutta la sua tenerezza materna.
- Questo bacio per la tua creatura! Questi per te, che ti siano di benedizione dal cielo! Addio, mia diletta Florence, mia dolce bambina!
- Arrivederci, invece! - protestò Florence.
- No! Questo è il nostro addio. Pensa che io sia già morta.
Ricorda solo che un giorno ero viva e ti ho voluto tanto bene!
Così si lasciarono, e il cugino Feenix ricondusse Florence da Walter.
- Sono maledettamente spiacente - disse il vecchio gentiluomo, asciugandosi gli occhi senza dimostrare il minimo imbarazzo per quella manifestazione di debolezza - che l'amabilissima figlia del mio amico Dombey e dolcissima sposa del mio amico Gay sia rimasta così turbata e commossa dall'incontro testé avvenuto. Confido e spero di avere agito per il meglio e che il mio egregio amico Dombey derivi conforto dalle rivelazioni di cui sarà informato. Mi rammarico profondamente che l'amico Dombey abbia sofferto guai deplorevoli per essersi imparentato con la mia famiglia, ma ritengo sia perfettamente vero che se non si fosse immischiato nella faccenda quel maledetto briccone... vale a dire quell'individuo con la bocca piena di denti bianchi, tutto sarebbe andato piuttosto liscio. Quanto alla mia congiunta che mi fa l'onore di giudicarmi in maniera straordinariamente lusinghiera, posso dirle alla gentilissima consorte del mio amico Gay che stia affatto tranquilla perché io le farò effettivamente da padre.
Quanto ai mutamenti che avvengono nella vita, e alla maniera straordinaria in cui gli esseri umani si comportano, vale a dire tutti ci comportiamo, posso dire solo con il mio amico Shakespeare, un uomo che ha scritto non per i suoi tempi ma per tutti i secoli presenti e futuri, e che il mio amico Gay senza dubbio ben conosce, posso dire con lui che la vita sembra l'ombra di un sogno.
E' stata portata alla luce una bottiglia che per lunghi anni ne è rimasta priva, tutta coperta di polvere e di ragnatele, e il vino dorato versato nei bicchieri dà lustro alla tavola.
E' l'ultima bottiglia di quel vecchio vino di Madera.
- Signor Gills, lei ha perfettamente ragione! - dice il signor Dombey. - E' un vino raro e delizioso.
Della compagnia fa parte anche il capitano, che è raggiante.
- Abbiamo sempre pensato, Ned e io... - comincia a dire il signor Gills.
Il signor Dombey fa un cenno di consenso al capitano, il quale non sta in sé dalla soddisfazione.
- ... abbiamo sempre pensato che un giorno o l'altro avremmo sturato questa bottiglia per brindare al felice ritorno a casa di Walter... sebbene non avremmo mai pensato che lei sarebbe entrato a far parte della famiglia!
- Alla salute di Walter e della sua sposa! - esclama il signor Dombey. - Florence, bambina mia... - e si volge a baciarla.
- A Walter e alla sua sposa! - grida il signor Toots.
- A Walter e alla sua signora! - grida il capitano. - Urrà!
E poiché il capitano mostra il vivo desiderio di toccare con il suo un altro bicchiere, il signor Dombey è pronto a tendergli il proprio. Tutti seguono quell'esempio e risuona un tintinnare quasi di allegre campanelle nuziali.
Nelle cantine invecchiano altre bottiglie, come già fecero quelle del vecchio vino di Madera, e di ragnatele.
Il signor Dombey ha i capelli tutti bianchi e sul volto i segni di molte preoccupazioni e sofferenze, ma l'uragano ha lasciato posto alla pace di una sera serena.
Non lo turba più alcun progetto ambizioso, egli va ormai fiero solo di sua figlia e del genero. E' piuttosto silenzioso, raccolto nei suoi pensieri e sempre in compagnia della figlia. La signorina Tox viene spesso in visita, è molto affezionata a tutti i componenti della famiglia e da tutti riceve la più cordiale accoglienza.
Al titolare della già prospera ditta nulla è rimasto dopo il naufragio che l'ha fatta colare a picco, all'infuori di una certa somma che riceve di anno in anno, non sa da chi: lo pregano di non voler scoprire chi la invia e gli assicurano che è frutto di un debito e di un atto di riparazione. Egli si è consigliato con il suo ex socio anziano, il quale l'ha rassicurato, dicendogli che doveva essere in rapporto a qualche vecchio contratto dimenticato, stipulato al tempo in cui la ditta ne trattava in gran numero.
Lo scapolo dagli occhi color nocciola non è più tale perché ha sposato la sorella dell'impiegato in sott'ordine della ditta.
Costui si reca talvolta a salutare il vecchio principale, ma non sovente: il nome che porta non può rendere del tutto gradita la sua presenza al vecchio signore; vive con la sorella e il marito di lei, e nemmeno loro vanno spesso a visitare il signor Dombey.
Si recano invece da loro Walter e Florence, e allora tutta la casa accogliente risuona di allegri concerti con violoncello e pianoforte.
Come sta ora il piccolo guardiamarina di legno, dopo tante vicende? E sempre in perfetta forma, intento a studiare come al solito lo scorrere del traffico cittadino, e più che mai vivace per essere stato dipinto a nuovo dal tricorno alle scarpe con fibbia. Sopra di lui si legge la nuova insegna del negozio, ben chiara a caratteri d'oro: Gills & Cuttle.
Non si potrebbe affermare che i due soci conducano affari commerciali molto intensi, ma nel quartiere si afferma con fondata sicurezza che il signor Gills potrebbe vantarsi di avere moltiplicato le proprie rendite in seguito a vecchi investimenti di capitale che proprio adesso mostrano il loro carattere vantaggioso. Sta di fatto che a vederlo sulla porta della bottega con il vecchio completo color caffè, il cronometro in tasca e gli occhiali rialzati sulla fronte, non mostra davvero di soffrire per la scarsità della clientela: appare invece come un tempo soddisfatto e gioviale.
Da parte sua, il capitano si trova benissimo in compagnia di una sua fantomatica situazione commerciale; è soddisfatto dell'importante posto che il piccolo guardiamarina di legno occupa nei traffici e nella navigazione del paese, precisamente come sarebbe se nessun bastimento uscisse dal porto di Londra senza l'assistenza tecnica del sunnominato guardiamarina. La gioia che prova nel contemplare il proprio nome stampato sopra la porta della bottega risulta inesauribile, visto che almeno venti volte al giorno attraversa la strada per vederlo su uno sfondo più ampio, e ogni volta mormora tra sé: "Edward Cuttle, ragazzo mio, se la tua povera mamma avesse mai saputo che saresti diventato un uomo di scienza, immagina quale colpo sarebbe stato per lei!" Ecco il signor Toots che arriva con passo concitato, entra di colpo nel salottino dietro la bottega ed è molto rosso in viso.
- Capitano Gills e signor Sol! - esclama, facendo una certa confusione di nomi e di titoli. - Sono felice di informarvi che la signora Toots mia consorte mi ha procurato una nuova gioia: siamo cresciuti in famiglia!
- Brava la signora! - grida il capitano.
- I miei rallegramenti! - esclama il vecchio Sol.
- Grazie, grazie! - ridacchia il signor Toots. - Lo sapevo che vi avrebbe fatto piacere e perciò sono corso a dirvelo. Abbiamo già Florence e Susan, e adesso...
- Un'altra bambina? - s'informa il capitano.
- Precisamente, capitano Gills! - risponde il signor Toots. - E ne sono felicissimo. Mia moglie è talmente straordinaria che sarà una fortuna se rassomiglieranno tutte a lei.
Poiché è già sera, pipe e bicchieri si trovano bene disposti sulla tavola, e il capitano invita il signor Toots a far onore alla compagnia. Il signor Toots è ben lieto di accettare, accende la pipa e subito diventa particolarmente loquace.
- Fra tutti gli esempi straordinari che quella donna deliziosa mi ha dato del suo eccellente buon senso - dice l'ottimo Toots voglio confidare a lei, capitano Gills e a lei, signor Sol, come nessuno sia maggiore del modo perfetto con cui ha compreso la natura della mia devozione alla signorina Dombey.
I due vecchi amici annuiscono gravemente.
- Perché voi sapete benissimo che i miei sentimenti verso la signorina Dombey non hanno subito alcun mutamento: sono sempre gli stessi! Ella rappresenta per me la medesima visione sublime che avevo di lei prima di conoscere Walter! E quando la signora Toots ed io cominciammo... insomma quando si cominciò a parlare di sentimenti teneri, io le spiegai subito di essere quello che si potrebbe definire un fiore appassito!
Il capitano apprezza non poco la bella similitudine.
- Ma che il cielo mi fulmini se lei non era già al corrente più ancora di me delle condizioni di spirito in cui mi trovavo. Non avrei dovuto dirle una parola di più! Era lei la sola persona che si sarebbe potuta mettere tra me e una fossa fredda e solitaria...
e ci si è messa in maniera da guadagnare la mia imperitura gratitudine! Sa che per la signorina Dombey io darei anche la vita. Sa che ritengo la signorina Dombey la più bella, amabile e angelica donna della terra, e a questo che cosa ribatte? Con una frase che è un monumento al buon senso! "Mio caro!" mi risponde.
"Hai perfettamente ragione. Penso lo stesso anch'io!" - E lo penso io pure! - dice il capitano.
- E anch'io - dice Sol Gills.
- E poi - riprende il signor Toots, dopo una pausa in cui si è dedicato alla pipa con un'aria di profonda e placida soddisfazione - che donna osservatrice è mia moglie! - Che intelligenza la sua!
Che frasi dice! Solo ieri sera, mentre ce ne stavamo tranquilli nell'intimità della famiglia (ma ci vorrebbero parole ben più espressive per esprimere la gioia che provo a stare con lei!) disse che la situazione in cui si trova il nostro amico Walter è davvero notevole. "Ecco" disse mia moglie "che dopo quel lunghissimo viaggio per mare in compagnia della sua novella sposa non è più obbligato a riprendere il mare..." come lei sa bene, signor Sol!
- Sicuro, sicuro! - approva il vecchio orologiaio, fregandosi le mani.
- "Ecco", dice mia moglie "non è più costretto ad andare per mare e subito la stessa ditta gli offre in patria un posto di grande fiducia e responsabilità; e lui se ne mostrerà degno, e salirà di grado con rapidità, amato da tutti, aiutato da suo zio con estrema larghezza"... esatto, non è vero signor Sol? Mia moglie è sempre tanto precisa.
- Ma sì, ma sì... Alcuni dei nostri bastimenti carichi d'oro e dati come perduti, sono arrivati in porto sani e salvi!... esclama ridendo il vecchio Sol. - Piccoli scafi, signor Toots, ma tuttavia sempre utili per il mio ragazzo!
- Proprio così! - conferma il signor Toots. - E' impossibile che mia moglie s'inganni. "Ecco dunque il signor Walter bene sistemato" dice quella donna straordinaria di mia moglie "e poi? E poi?" dice la signora Toots. Ora vi prego di osservare, capitano Gills e signor Sol, la profonda intuizione di mia moglie. "E poi, sotto gli occhi stessi del signor Dombey sono gettate le fondamenta di un edificio che si eleva pian piano, destinato a uguagliare, e chissà, forse a superare quello di cui il vecchio signore era il titolare! E così, dopo tutto" conclude mia moglie "per opera della figlia del signor Dombey sta davvero sorgendo una ditta identica a quella che andava sotto il nome di Dombey e Figlio!
Con l'aiuto della pipa, che trova utile per gesticolare, ancor più che per bruciarvi tabacco, dato che il fumo gli procura una sensazione sgradevole, Toots pone talmente in evidenza il potere profetico della moglie, che il capitano getta in aria il cappello e grida con entusiasmo:
- Sol Gills, grand'uomo di scienza e mio vecchio socio, che cosa non ti ho detto la sera del primo giorno in cui Walter si è dedicato agli affari? Non ti ho forse detto che proprio a Londra Walter avrebbe fatto fortuna?
- E' vero, Ned! - conferma il vecchio orologiaio. - Me ne ricordo benissimo.
- E allora, sapete quello che vi dico? - concluse il capitano appoggiandosi comodamente alla spalliera della seggiola e dilatando il torace per essere pronto a lanciare il più fragoroso attacco. - Io intono La bella Peg, e voi, pronti per il coro!
Altro vino invecchia nelle cantine, e le bottiglie, come già quelle del Madera esaurito, si coprono sempre più di polvere e di ragnatele.
Il vecchio signore canuto passeggia con il nipotino, gli parla, lo aiuta nei giochi, lo sorveglia, lo serve come fosse per lui il tesoro più prezioso. Se il bambino è serio anch'egli si fa serio.
Il bambino a volte siede accanto a lui, lo interroga e il vecchio gli stringe fra le sue la piccola mano e dimentica di rispondere.
Allora il bimbo chiede:
- Nonno! Ti pare che rassomigli ancora tanto al mio povero piccolo zio?
- Sì, Paolo. Ma lui era debole, e tu sei tanto forte.
- Oh, sì, io sono forte, nonno.
- E lui doveva rimanere coricato nel suo lettino a guardare il mare, ma tu puoi correre!
Allora si alzano, perché il vecchio signore preferisce che il bambino salti e corra o passeggi accanto a lui, e chi li vede sempre insieme comprende quali legami indissolubili esistono fra loro.
Ma nessuno all'infuori di Florence conosce la misura dell'affetto che il vecchio signore porta alla nipotina, un sentimento così profondo da sembrare addirittura misterioso. Perfino la bimba a momenti se ne meraviglia. Egli non sopporta di vedere nemmeno un'ombra su quel visino, non sopporta che sia lasciata in disparte un solo minuto. Immagina che abbia subito un torto quando nessuno le ha fatto nulla di male. Rimane a contemplarla a lungo quando dorme. E' felice se al mattino la bimba viene a svegliarlo. E' attaccatissimo a lei, e si mostra più che mai affettuoso quando nessuno è presente. A volte la bimba gli chiede:
- Nonnino caro, perché piangi quando mi abbracci?
- Mia piccola Florence, mia piccola Florence! - mormora il vecchio stanco, e ravvia i riccioli che le velano la piccola fronte, le ombreggiano i grandi occhi infantilmente seri, identici a quelli di sua madre.