Jack London



LA CROCIERA DELLO SNARK

 

 

A Charmian Secondo dello "Snark"
che fu sempre al timone, notte e giorno nell'uscire dai porti o nell'entrarvi in ogni difficile passaggio
che fu sempre al timone in ogni emergenza e che pianse, dopo due anni di navigazione alla vela,
quando il viaggio fu interrotto.

 

 

CAPITOLO 1


PREMESSA


Tutto cominciò alla piscina di Glen Ellen. Tra una nuotata e l'altra avevamo l'abitudine di uscire dall'acqua e sdraiarci sulla sabbia, lasciando che i nostri corpi si saturassero di aria calda e di sole.


Roscoe era uno yachtman. Io ero andato un po' per mare. Era inevitabile che venissimo a parlare di barche. Parlammo di barche piccole e di come tengono il mare; ricordammo il capitano Slocum e il suo viaggio di tre anni intorno al mondo sullo "Spray".


Dichiarammo che l'idea di fare il giro del mondo in una barca di piccole proporzioni, per esempio di quaranta piedi, non ci spaventava.


Sostenemmo per giunta che l'idea ci sarebbe piaciuta. Infine dichiarammo che nessuna cosa al mondo ci sarebbe stata più gradita che avere una possibilità di farlo.


- Facciamolo - si disse per scherzo.


Più tardi chiesi a Charmian in privato se veramente ci teneva, e lei rispose che era troppo bello per essere vero.


La volta dopo che ci ritrovammo sdraiati sulla sabbia accanto alla piscina, io dissi a Roscoe: - Facciamolo. - Facevo sul serio, e lui pure: infatti chiese: - Quando si parte?


Avevo in progetto di costruire una casa nella tenuta, un orto, una vigna. Avevo da piantare varie siepi e mille altre cose da fare. Così pensammo che saremmo partiti fra quattro o cinque anni. Ma a poco a poco il fascino dell'avventura ci afferrò. Perché non partire subito?


Non saremmo mai più stati giovani come ora, nessuno di noi; l'orto, la vigna e le siepi potevano crescere durante la nostra assenza. Al nostro ritorno sarebbero stati pronti ad accoglierci, e mentre costruivamo la casa, avremmo potuto abitare nella rimessa.


Così il viaggio fu deciso ed ebbe inizio la costruzione dello "Snark".


La barca fu battezzata col nome di "Snark" perché non riuscimmo a trovarne uno migliore - questa informazione è a beneficio di quelli che altrimenti potrebbero sospettare qualcosa di misterioso in questo nome.


I nostri amici non riescono a capire la ragione di questo viaggio.


Rabbrividiscono, piangono, si lamentano. Nessuna spiegazione riesce a convincerli che in realtà stiamo seguendo la linea di minor resistenza, ossia che metterci per mare con una barca è per noi molto più facile che rimanere sulla terraferma. Questo stato d'animo deriva da un eccessivo predominio dell'"ego". Non possono evadere da loro stessi; non riescono a uscire da loro stessi quel tanto che basti per capire che la loro linea di minore resistenza non è necessariamente quella degli altri. Del loro bagaglio personale di desideri, simpatie e antipatie essi fanno il metro con cui misurano desideri, simpatie e antipatie di ogni altro essere; questo non è onesto e lo dico, ma loro non riescono a uscire da loro stessi quel tanto da ascoltarmi. Mi credono pazzo - in ricambio io li compatisco. E' questo uno stato d'animo che mi è familiare. Siamo tutti propensi a credere che c'è qualcosa che non va nel modo di ragionare di quelli con cui non andiamo d'accordo.


La parola finale è questa: MI PIACE. E' alla base della filosofia ed è inseparabile dal nocciolo dell'esistenza. Quando la filosofia ha brontolato pedantemente per un mese, per mostrare all'individuo quello che deve fare, l'individuo a un tratto dice: "mi piace", fa qualcos'altro e la filosofia se ne va a spasso. Perché così gli piace; l'ubriaco beve e il martire indossa il cilicio, l'uno diventa un crapulone e l'altro un anacoreta, l'uno cerca la gloria, l'altro la ricchezza, l'altro l'amore e l'altro ancora Dio. Molto spesso la filosofia è il mezzo con cui l'uomo spiega il proprio "mi piace".


Ma ritorniamo allo "Snark" e al perché del mio desiderio di viaggiare con esso intorno al mondo. Le cose che mi piacciono costituiscono il mio sistema di valori. La cosa che preferisco è il SUCCESSO PERSONALE - non per l'applauso del mondo, ma per una mia intima soddisfazione.


E' l'antico grido: "Ce l'ho fatta! ce l'ho fatta con le mie proprie mani!". Ma per me il successo dev'essere concreto. Preferirei vincere una gara in piscina o restare in sella a un cavallo che tenta di buttarmi a terra, piuttosto che scrivere il Grande Romanzo Americano.


A ognuno il proprio gusto: un altro al mio posto preferirebbe scrivere il Grande Romanzo Americano piuttosto che vincere una gara in acqua o domare un cavallo.


L'impresa di cui forse io fui più fiero, il più grande momento della mia vita, accadde quando avevo diciassette anni. Ero su un tre alberi al largo della costa giapponese - nel bel mezzo di un tifone.


L'equipaggio era stato in coperta quasi tutta la notte. Alle sette del mattino venni chiamato dalla mia cuccetta per prendere il timone.


Senza una vela, la nave scappava davanti all'uragano con i soli alberi. C'erano almeno duecento metri tra un'onda e l'altra e il vento strappava le candide creste dalla loro sommità, rendendo l'aria così densa di spruzzi sferzanti che era impossibile riuscire a vedere più di due ondate alla volta. Il veliero non si poteva quasi più governare. A ogni rollata metteva le murate sott'acqua, poggiando e straorzando follemente tra scirocco e libeccio, e minacciava di traversarsi ogni volta che un colossale maroso ne sollevava la poppa.


Se si fosse traversato, non se ne sarebbe saputo più niente e sarebbe stato dato per perso con tutto l'equipaggio.


Presi la ruota del timone. Il capitano mi stette a guardare per un po': era allarmato dalla mia gioventù, aveva paura che io mancassi di forza e di coraggio; ma quando mi vide lottare vittoriosamente con la nave a più riprese, se ne andò sottocoperta a colazione. Tutto l'equipaggio, da poppa a prua, era giù a colazione. Se la nave si fosse traversata, nessuno di loro avrebbe avuto il tempo di salire in coperta. Per quaranta minuti me ne stetti lì solo al timone, con in mano la sorte del veliero nella sua corsa sfrenata e la vita di ventidue uomini. Ci fu un momento in cui un colpo di mare si abbatté sulla poppa. Lo vidi venire e, mezzo affogato, schiacciato da tonnellate d'acqua, riuscii a frenare l'impeto della nave a traversarsi. In capo a un'ora, sudato e sfinito, mi fu dato il cambio.


Ma ce l'avevo fatta! Con le mie mani avevo saputo tenere il timone e guidare cento tonnellate di legno e di ferro attraverso alcuni milioni di tonnellate di vento e di onde.


Ero felice d'esserci riuscito - non per il fatto che ventidue uomini ne fossero a conoscenza. Prima della fine dell'anno una buona metà di essi era morta o dispersa, ma questo non diminuì il mio orgoglio per l'impresa compiuta. Sono tuttavia pronto a riconoscere che non mi dispiace un po' di pubblico; ma dev'essere un pubblico scelto, composto di gente che mi vuol bene e al quale voglio bene; quando allora ottengo un successo, ho l'impressione di giustificare così il loro affetto per me. Ma ciò non ha nulla a che vedere con il successo in sé. Questa gioia è particolarmente mia e non dipende dall'avere o no dei testimoni. Quando ho fatto qualcosa del genere mi sento esaltato, brucio di un orgoglio che è mio e mio soltanto. E' qualcosa di organico, ogni fibra in me ne vibra. E' una cosa proprio naturale, null'altro che la soddisfazione di essermi saputo adattare all'ambiente. Insomma è il successo.


La vita che si vive intensamente è vita di successo, e il successo è l'aria che si respira. La riuscita di un'impresa difficile consiste nell'essersi saputi conformare a circostanze che esigevano un severo adattamento. Più l'impresa è difficile, più grande è la soddisfazione di averla saputa effettuare. Così è per chi dal trampolino si tuffa nella piscina ed entra nell'acqua di testa prima con un mezzo giro rovesciato. Nell'attimo in cui ha lasciato il trampolino, l'ambiente che lo circondava è diventato di colpo crudele, e crudele sarebbe la pena inflittagli se sbagliasse e toccasse l'acqua di piatto.


Naturalmente non aveva nessun bisogno di correre il rischio di pagare la pena. Avrebbe potuto rimanersene placidamente sdraiato sulla riva in una dolce atmosfera di aria estiva, sole e stabilità. Ma non era fatto a quel modo. In quel rapido movimento a mezz'aria egli ha vissuto con un'intensità che non avrebbe mai raggiunto standosene sulla riva. Quanto a me, preferisco essere l'uomo che si è tuffato dal trampolino, piuttosto che di quelli seduti a guardarlo.


Ecco perché mi sto costruendo lo "Snark". Sono fatto a questo modo: mi piace, ecco tutto. Il viaggio intorno al mondo significa grandi momenti di vita. Abbiate pazienza un istante e pensateci un po'.


Eccomi qui, un piccolo animale che chiamano uomo, frammento di materia animata, cento e sessantacinque libbre di carne e sangue, nervi, tendini, ossa e cervello - il tutto tenero e delicato, suscettibile al dolore, fragile e caduco. Se do un leggero manrovescio sul muso di un cavallo recalcitrante, mi rompo un osso della mano. Se tengo la testa sott'acqua per cinque minuti, annego. Se cado da sei metri, mi sfracello. Sono suscettibile alla temperatura: qualche grado in meno e le orecchie e le dita mi si anneriscono e si staccano; qualche grado in più e la pelle mi si copre di vesciche e si accartoccia, separandosi dalla carne viva e dolorante. Ancora qualche grado in più o in meno e la vita e la luce in me si estinguono. Se una goccia di veleno mi è iniettata nel corpo da un serpente non mi muovo più - per sempre. Se una pallottola di piombo mi penetra nel cranio, sono per sempre avvolto nelle tenebre.


Fragile e caduco, frammento di vita gelatinosa e pulsante, non sono altro che questo. Intorno a me ci sono le grandi forze naturali - colossali minacce, titani distruttori, mostri spietati che hanno per me meno riguardo di quanto non ne abbia io per il granello di sabbia che calpesto. Essi non hanno per me riguardo alcuno, non mi conoscono.


Sono incoscienti, spietati e amorali. Sono i cicloni e gli uragani, i fulmini e i nubifragi, le maree e le onde di marea, i risucchi e le trombe marine, i grandi vortici, i gorghi e le correnti, i terremoti e i vulcani, la risacca che romba sulle coste dentate e i marosi che si avventano sopra i bastimenti più grandi, riducendo gli uomini in poltiglia o spazzandoli via in mare a morte sicura - questi mostri insensati ignorano il minuscolo essere sensibile, tutto nervi e debolezza, che viene chiamato Jack London e che considera se stesso un essere superiore e con le carte in regola.


Nella confusione e nel caos del conflitto di questi immani e burrascosi titani, spetta a me tracciare la mia precaria strada. Quel frammento di vita che io sono esulterà su di essi. Se riuscirà a sventarli o a imbrigliarli, si crederà simile a Dio. E' bello cavalcare la tempesta e sentirsi simile a Dio, e oso dire che sentirsi tale è ancora più meraviglioso per un corpuscolo di vita gelatinosa che per un vero e proprio Dio.


Qui c'è il mare, il vento e l'onda; qui sono i mari, i venti e le onde di tutto il mondo. Ecco l'ambiente crudele, le circostanze che esigono un rigoroso adattamento, la cui riuscita è pura gioia per questa piccola vibrante vanità che sono io. Mi piace, sono fatto così. E' la mia particolare forma di vanità, ecco tutto.


C'è ancora un altro lato in favore del mio viaggio sullo "Snark".


Finché sono in vita, voglio vedere, e il mondo intero è cosa più grande da vedersi che non una piccola città o vallata. Non abbiamo ancora pensato a stabilire il nostro itinerario. Una cosa sola è sicura, che il primo porto che toccheremo sarà Honolulu. A parte alcune idee generiche, non abbiamo ancora stabilito quale sarà il porto che verrà dopo le Hawaii. Aspetteremo a decidere quando saremo più vicini; ma in linea di massima sappiamo che andremo vagando per i mari del sud, toccando Samoa, la Nuova Zelanda, la Tasmania, l'Australia, la Nuova Guinea, Borneo e Sumatra e poi attraverso le Filippine proseguiremo fino al Giappone. Poi verrà la Corea, la Cina, l'India, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Dopo di che il percorso diventa troppo incerto per poterlo descrivere, benché ci siano varie cose che sappiamo di voler fare, e tra l'altro prevediamo di passare uno o più mesi in ogni paese d'Europa.


Lo "Snark" sarà a vela. Ci sarà un motore a benzina, ma verrà usato solo in casi d'emergenza, per esempio in acque pericolose tra secche e scogli a fior d'acqua, là dove un'improvvisa bonaccia lascia la barca in balia della corrente. L'attrezzatura dello Snark sarà del tipo chiamato "ketch". L'attrezzatura a "ketch" è un compromesso tra la "yawl" e la goletta. In questi ultimi anni l'attrezzatura a "yawl" si è dimostrata la migliore per crociera. Il "ketch" conserva le doti da crociera della "yawl" e ha inoltre alcune delle qualità veliche della goletta. Quanto ho detto va preso con riserva, perché per me è tutta teoria. Non ho mai navigato su di un "ketch", anzi non ne ho mai visto uno. E' la teoria che mi sembra buona; aspettate che io sia in alto mare, allora potrò dire di più sulle qualità veliche e di crociera del "ketch".


Nel progetto originale, lo "Snark" doveva avere una lunghezza di quaranta piedi al galleggiamento. Ma poi si scoprì che non c'era spazio per un gabinetto da bagno, e allora si portò la sua lunghezza fino a quarantacinque piedi. La sua larghezza massima è di quindici piedi; non c'è né tuga né stiva; ha sei piedi di puntale e la coperta è interrotta solo da due scalette di discesa e da un boccaporto a prua. Il fatto che non vi sia tuga a diminuire la resistenza del ponte fa sì che ci sentiremo più sicuri il giorno in cui i colpi di mare ci rovesceranno addosso le loro valanghe d'acqua. Un pozzetto grande e spazioso, affogato nella coperta, con paramare alto e ombrinali di sfogo, renderà un po' più comode le nostre giornate e nottate di tempo cattivo.


Quanto a marinai, non ce ne saranno. O piuttosto saremo Charmian, Roscoe e io. Faremo tutto da noi. Noi con le nostre mani faremo il giro del mondo - lo faremo o andremo a fondo. Naturalmente ci saranno un cuoco e un mozzo. Perché dovremmo stare a cucinare sopra un fornello, lavare i piatti e apparecchiare? Potremmo starcene a terra, se avessimo voglia di far questo. Senza contare che avremo il turno di guardia e la manovra delle vele. Non solo, ma dovrò pure lavorare al mio mestiere di scrittore per procurarci da mangiare, comprare nuove vele e sartiame e mantenere lo "Snark" in efficienza. E poi c'è la fattoria; devo fare in modo che la vigna, l'orto e le siepi continuino a crescere.


Quando aumentammo la lunghezza dello "Snark" per ricavare un bagno, scoprimmo che non tutto lo spazio era assorbito dal bagno; abbiamo potuto così mettere un motore più grosso. E' un motore di sessanta cavalli e poiché ci dovrebbe spingere a una velocità di nove nodi, non ci sarà fiume che abbia una corrente tale da ostacolarci.


Ci ripromettiamo di fare molta navigazione interna, resa possibile dalle misure dello "Snark": allora si serrano le vele e si accende il motore. Ci sono i canali della Cina e lo Yang-tse. Ci passeremo dei mesi, se otterremo il permesso dal Governo; i permessi dei governi saranno l'unica cosa che potrà ostacolare la nostra navigazione interna. Me se li otterremo, non ci sarà quasi limite alla strada che potremo fare.


Quando arriveremo al Nilo, beh, potremo risalire il Nilo. Potremo risalire il Danubio fino a Vienna e il Tamigi fino a Londra e la Senna fino a Parigi, fermandoci ad attraccare di fronte al Quartiere Latino con una cima di prua a Nôtre-Dame e una cima di poppa alla Morgue.


Potremo lasciare il Mediterraneo e risalire il Rodano fino a Lione, lì entrare nella Saona, passare alla Marna attraverso il canale di Borgogna, e dalla Marna entrare nella Senna e riuscire dalla Senna a Le Hâvre.


Quando attraverseremo l'Atlantico per tornare negli Stati Uniti, potremo risalire lo Hudson, passare lungo il canale dell'Erie, attraversare i Grandi Laghi, lasciare il lago Michigan a Chicago, raggiungere il Mississippi per mezzo del fiume Illinois e del canale che li collega e seguire il Mississippi fino al golfo del Messico. E poi ci sono i grandi fiumi del Sud America. Al nostro ritorno in California, ne sapremo qualcosa di geografia.


La gente che si costruisce delle case è spesso gravemente perplessa - ma a tutti quelli che provano un godimento in queste difficoltà, consiglio di costruirsi una barca come lo "Snark". Considerate solo per un istante la complessità dei particolari. Prendete il motore.


Qual è il tipo migliore di motore? Quello a due tempi? a tre tempi? a quattro tempi?


Ho le labbra paralizzate a furia di pronunciare vocaboli inconsueti, e così pure il cervello, stanco di percorrere simili nuove ed erte vie del pensiero. Per esempio: il sistema d'accensione: dovrà essere a spinterogeno o a magnete? Dovremo usare pile a secco o una batteria di accumulatori? Una batteria avrebbe dei numeri, ma richiede una dinamo.


Una dinamo di quale potenza? E dal momento che abbiamo installato una dinamo e una batteria, sarebbe sciocco non illuminare la barca con la luce elettrica. Quindi si mette in discussione quante dovranno essere le lampadine e di quante candele. E' un'ottima idea, ma l'illuminazione elettrica vuol dire avere una batteria più potente, la quale a sua volta richiede una dinamo più grossa. E giacché ci siamo, perché non avere un proiettore? Sarebbe estremamente utile, ma consuma tanta energia elettrica che, quando sarà acceso, metterà fuori uso tutte le luci. Eccoci da capo a percorrere lo stesso faticoso cammino in cerca di una maggiore potenza per la batteria e la dinamo. E quando infine anche questo problema è risolto, qualcuno viene a dire: - E se il motore fa avaria? - E' allora che abbiamo un collasso. Ci sono i fanali di via, la luce della bussola, il fanale di fondo. La nostra vita stessa ne dipende. Perciò non ci rimane che fornire l'intera barca con lampade ad olio di riserva.


Ma non abbiamo ancora finito con quel motore. Questo motore è potente.


Noi non siamo che due piccoli uomini e una piccola donna! La fatica di salpare l'ancora a mano ci spezzerà cuore e schiena: lasciamo il compito al motore. Ed ecco che si presenta il problema di come trasmettere l'energia dal motore al verricello a prora. Quando tutto questo è stato definito, dobbiamo ricominciare la ripartizione dello spazio tra il locale del motore, la cucina, il gabinetto da bagno, le cuccette e la cabina, e ricominciare tutto da capo. E quando il motore è stato spostato, mando ai suoi costruttori a New York un telegramma senza senso, che suona press'a poco così: "Rinunciato al giunto a croce modificate di conseguenza cuscinetto reggi spinta distanza tra faccia anteriore volano e dritto di poppa sedici piedi sei pollici".


Se volete affaticarvi con altri particolari, perché non vi mettete in cerca della migliore attrezzatura di governo o non provate a decidere se guarnirete il sartiame con arridatoi a bigotte all'antica o a vite?


La chiesuola della bussola dovrà essere situata di fronte alla ruota del timone al centro della barca o essere messa da un lato, ma sempre di fronte alla ruota? Bastano questi argomenti per riempire un'intera biblioteca di controversie marinaresche.


Poi c'è il problema della benzina - millecinquecento galloni di benzina - qual'è il modo migliore di stivarla e pomparla? E qual è il miglior estintore per un incendio di benzina? E poi c'è il simpatico problema del battello di salvataggio e del come sistemarlo. E quando anche questo è risolto, arrivano cuoco e mozzo a porre uno di fronte a veri incubi. La barca è piccola e saremo stipati. Il problema della donna di servizio per quelli che vivono a terra diventa insignificante al confronto. Avevamo scelto un mozzo, e almeno per quanto lo riguardava, le nostre perplessità erano risolte, quand'ecco che questo va a innamorarsi e dà le dimissioni.


E in mezzo a tutto ciò, come può un individuo trovare il modo di studiare navigazione, se il suo tempo è diviso fra tutti questi problemi e la necessità di far soldi per poterli risolvere? Sia Roscoe che io non sappiamo niente di navigazione, ed ecco che già l'estate è passata e si avvicina il momento di partire e i problemi sono più assillanti che mai e la cassa è completamente vuota. In ogni modo, ci vogliono degli anni per imparare a essere marinai e noi siamo entrambi marinai. Se ci mancherà il tempo, ci muniremo di libri e strumenti e impareremo navigazione da soli sull'oceano tra San Francisco e le Hawaii.


C'è un fatto disgraziato e imbarazzante nel viaggio dello "Snark":


Roscoe, che dividerà con me il compito di ufficiale di rotta, è seguace di un certo Cyrus R. Teed. Ora questo Teed crede in una cosmologia diversa da quella generalmente accettata, e Roscoe condivide la sua opinione. Ne segue che Roscoe crede che la superfice della terra sia concava e che noi viviamo all'interno di una sfera vuota, per cui, pur navigando su di un'unica barca, lo "Snark", Roscoe farà il giro del mondo dall'interno, mentre io lo farò all'esterno. Ma di questo parleremo ancora. Prima che il viaggio sia finito, rischiamo di trovarci di una stessa opinione. Io ho fiducia di poterlo convertire a fare il viaggio all'esterno, mentre lui è altrettanto sicuro che prima di tornare a San Francisco io mi troverò all'interno della terra. Non ho idea di come lui potrà farmi passare attraverso la crosta terrestre, ma Roscoe è un uomo dalle molte risorse.


P.S. - Accidenti a quel motore! Dal momento che l'abbiamo e che abbiamo la dinamo, e la batteria, perché non avere anche una macchina per fare il ghiaccio? Avere ghiaccio nei tropici! E' più necessario del pane. E vada per la macchina per il ghiaccio! Ora sono sprofondato nella chimica, mi bruciano le labbra e mi duole il cervello; dove mai troverò il tempo per studiare navigazione?




CAPITOLO 2


ENORMITA' IMPREVEDIBILI


- Non badiamo a spese - dissi a Roscoe. - Per lo "Snark" voglio tutto quello che c'è di meglio. L'estetica non ha importanza. Tavole di pino grezzo, secondo me, non hanno bisogno di altre rifiniture. I soldi devono andare tutti per la costruzione. Voglio che lo "Snark" sia più stagno e robusto di qualsiasi altra barca. Non ti preoccupare per quel che si spende per renderlo stagno e robusto. Tu bada che sia costruito stagno e robusto, e io continuerò a scrivere e a guadagnare i soldi per pagare i conti.


E così feci, come meglio potevo; perché lo "Snark" inghiottiva denaro più in fretta di quanto io non ne guadagnassi. Tant'è vero che ero sempre a chiedere soldi in prestito per arrotondare i miei guadagni.


Una volta erano mille dollari, una volta duemila, una volta cinquemila. E per tutto quel tempo continuavo a scrivere ogni giorno e profondevo i miei guadagni in quell'impresa. Lavoravo anche la domenica senza concedermi una vacanza. Ma ne valeva la pena. Ogni volta che pensavo allo "Snark", sapevo che ne valeva la pena.


Sappi, caro lettore, quant'è robusto lo "Snark". Ha una lunghezza al galleggiamento di 45 piedi. I torelli hanno uno spessore di tre pollici; le tavole del fasciame di due pollici e mezzo; quelle della coperta di due pollici; e tra tutte le tavole non c'è un nodo. Lo so, perché per il legno ho fatto un'ordinazione speciale a Puget Sound.


Poi lo "Snark" ha quattro compartimenti, il che equivale a dire che è sezionato da tre paratie stagne. In questo modo, per quanto grande sia un'eventuale via d'acqua, solo uno dei compartimenti si allaga. Gli altri tre compartimenti lo manterranno a galla egualmente e ci permetteranno inoltre di riparare la via d'acqua. Queste paratie stagne hanno un altro vantaggio. L'ultimo dei compartimenti, quello di estrema poppa, contiene sei serbatoi, che tengono più di mille galloni di benzina. Ora la benzina è un articolo molto pericoloso, specie ad averne una grande quantità su una piccola barca in alto mare. Ma se i sei serbatoi, che non presentano perdite, sono a loro volta contenuti in un compartimento ermeticamente isolato dal resto della barca, il pericolo è veramente molto ridotto.


Lo "Snark" è una barca a vela. E' stata costruita essenzialmente per andare a vela. In aggiunta però è stato sistemato a bordo un motore ausiliario di settanta cavalli. E' un buon motore, resistente; lo so bene, io che ho pagato per farlo venire da lontano, da New York.


Inoltre, in coperta, sopra il motore, c'è un verricello; è un affare grandioso, che pesa centinaia di libbre e ingombra mezza coperta.


Capite, è ridicolo salpare l'ancora a forza di braccia quando si ha a bordo un motore di settanta cavalli. E per questo abbiamo sistemato sulla barca il verricello, azionandolo dal motore a mezzo di una trasmissione ad ingranaggi costruita apposta in una fonderia di San Francisco.


Lo "Snark" fu costruito in modo che fosse confortevole, e non si badò a spese a questo riguardo. Ecco il gabinetto da bagno, per esempio, piccolo e ingombro sia pure, ma che possiede tutte le comodità di un qualunque bagno in terraferma. Il gabinetto da bagno è un ideale di trovate e congegni, pompe e leve e valvole di scarico. E' vero che mentre lo stavano costruendo, passavo le notti sveglio a pensarci.


Subito dopo il bagno eccovi il battello di servizio e la lancia. Sono sistemati in coperta e occupano quel po' di spazio che ci sarebbe rimasto per sgranchirci le gambe; d'altra parte valgono più di un'assicurazione sulla vita; e una persona prudente, anche se ha costruito una barca stagna e robusta come lo "Snark", provvederà a munirsi anche di un buon battello di servizio - e il nostro è proprio buono, un gioiello. Doveva costare 150 dollari e al momento di pagare venne fuori che il conto era di 395!!! Basta questo a dimostrare che razza di battello sia!


Potrei dilungarmi ancora molto sulle varie virtù e i pregi dello "Snark", ma mi trattengo. L'ho già magnificato abbastanza, e l'ho fatto a ragion veduta, come si vedrà prima della fine di questo capitolo. E vi prego di ricordarne il titolo: "Enormità imprevedibili".


Secondo i programmi, lo "Snark" avrebbe dovuto far vela il primo ottobre del 1906, e già il fatto che non sia partito allora è di per sé inconcepibile ed enorme. Non c'era alcuna ragione valida per non partire, se non il fatto che esso non era pronto, né alcuna ragione concepibile per cui non lo fosse. Ce l'avevano promesso per il primo novembre, per il 15 novembre, per il primo dicembre; eppure non era mai pronto. Il primo dicembre Charmian e io lasciammo la dolce e pulita campagna di Sonoma e scendemmo a vivere nella città soffocante - ma non per molto; solo per due settimane, perché il 15 dicembre saremmo partiti. E direi che ne potevamo essere sicuri, dato che l'aveva detto Roscoe, e fu per suo consiglio che venimmo in città per starci due settimane. Ahimé, le due settimane passarono, ne passarono quattro, sei, otto, e la partenza era più lontana che mai. Chi può spiegarlo? Non io certamente. Questa è la prima volta in vita mia che mi sono tirato indietro da una cosa. Non c'è modo di spiegarlo; se ci fosse, lo farei. Proprio io, che sono un artefice della parola, confesso la mia incapacità a spiegare perché lo "Snark" non fosse pronto. Come ho già detto e come devo ripetere, era inconcepibile ed enorme.


Le otto settimane diventarono sedici, e infine un giorno Roscoe ci tirò su il morale, dicendo:


- Se non partiamo prima del primo aprile, potrete giocare a pallone con la mia testa.


Due settimane dopo disse:


- La mia testa si sta preparando per quella famosa partita.


- Pazienza - dicevamo Charmian e io - pensa, che splendore di barca, quando sarà pronta!


E allora, per incoraggiarci a vicenda, ricapitolavamo le infinite virtù e i pregi dello Snark. Inoltre prendevo altro denaro in prestito e mi mettevo con maggior lena al mio lavoro e scrivevo con maggior impegno, rifiutando eroicamente di far vacanza la domenica e di partecipare con gli amici alle gite in collina. Mi stavo costruendo una barca, e quant'è vero Iddio doveva essere una barca, una barca in lettere maiuscole, e per quanto costasse non me ne importava niente, purché fosse una BARCA.


E poi c'è un altro pregio dello "Snark" di cui devo vantarmi, e precisamente la sua prua. Nessuna ondata potrebbe mai scavalcarla; essa si prende gioco del mare, ecco cosa fa - lo sfida - lo provoca. E con tutto ciò è una bellissima prua - la sua linea è un sogno; mi chiedo se una barca ebbe mai la fortuna di avere una prua più bella e nello stesso tempo più efficiente. E' stata costruita apposta per cozzare contro la tempesta - toccare quella prua è come posare la mano sul naso cosmico delle cose; guardandola si capisce che nei suoi riguardi non si è badato a spese. E ogni volta che si rimandava la nostra partenza o che veniva fuori una nuova spesa, noi pensavamo a quella meravigliosa prua ed eravamo contenti.


Lo "Snark" è una barca piccola. Quando calcolai con larghezza che ci sarebbe costato settemila dollari, fui abbondante ma pure esatto. Ho costruito case e rimesse, e so che queste cose hanno la caratteristica particolare di superare il preventivo. Questo lo sapevo, e lo sapevo già quando valutai a settemila dollari il probabile costo della costruzione dello "Snark". Ebbene, ci costò trentamila dollari. Ora per favore non venite a chiedermi il perché. E' la verità, ho firmato gli assegni e mi sono procurato il denaro. Naturalmente non c'è modo di spiegarlo. E' davvero inconcepibile ed enorme, e su questo sono certo che sarete d'accordo prima che il capitolo sia terminato.


Poi c'era la questione del ritardo. Ebbi a che fare con quarantasette operai di diverse specie e con centoquindici ditte differenti; e non ci fu mai né un operaio né una ditta che effettuasse una consegna alla data convenuta; erano puntuali solo per ritirare la paga e per riscuotere le fatture. Certuni mi garantirono sulla loro testa che avrebbero consegnato una data cosa entro un certo giorno; di regola, dopo tale garanzia, raramente erano in ritardo di più di tre mesi nella consegna. E così si andava avanti, e Charmian e io ci consolavamo dicendo che splendida barca era lo "Snark", così stagna e robusta; e poi anche prendevamo il battello e facevamo un giro attorno allo "Snark", beandoci dell'indicibile bellezza della prua.


- Immagina - dicevo a Charmian - una burrasca al largo della costa cinese, e pensa allo "Snark" alla cappa con quella sua splendida prua che si apre un varco nella tempesta, asciutta, senza imbarcare neanche uno spruzzo; e noi saremo tutti sottocoperta a giocare a whist mentre urla la bufera.


E Charmian mi afferrava la mano nel suo entusiasmo esclamando:


- Davvero ne vale la pena, nonostante il ritardo, il costo, i fastidi e tutto il resto. Che barca meravigliosa!


Ogni volta che guardavo la prua dello "Snark" o pensavo ai suoi compartimenti stagni, mi sentivo sollevato. Nessun altro, però, lo era. I miei amici cominciarono a scommettere sulle diverse date di partenza dello "Snark". Il signor Wiget, al quale era stato affidato l'incarico di badare alla nostra fattoria di Sonoma, fu il primo a vincere la scommessa. Gliela pagai il giorno di capodanno del 1907.


Dopo di che le scommesse incalzarono senza tregua. Gli amici mi circondavano come un branco di arpie, scommettendo contro ogni data di partenza che fissavo. Io ero avventato e ostinato. Scommettevo e scommettevo e continuavo a scommettere; e pagavo tutti. Figuratevi che persino le mie amiche si fecero così baldanzose che quelle che non avevano mai fatto una scommessa in vita loro cominciarono con me. E pagai anche loro.


- Non te la prendere - mi diceva Charmian - ma pensa a quella prua alla cappa nei mari della Cina.


- Vedete - dissi agli amici quando pagai l'ultimo mazzetto di scommesse - non stiamo risparmiando né pene né denaro per rendere lo "Snark" la barca più marina che mai fece vela dal Golden Gate, ecco la causa di tutto il ritardo.


Nel frattempo i direttori e gli editori con i quali avevo dei contratti mi tempestavano di domande, esigendo spiegazioni. Ma come potevo spiegare a loro quando non sapevo spiegare a me stesso e quando nessuno, nemmeno Roscoe, era in grado di farlo?


I giornali cominciarono a burlarsi di me e a pubblicare delle poesiole sulla partenza dello "Snark" con ritornelli come: "Non ancora ma ben presto". E Charmian mi consolava ricordandomi la prua, e io andavo da un banchiere e mi facevo prestare altri cinquemila dollari.


Ci fu tuttavia un compenso per il ritardo. Un amico mio, che fa il critico, scrisse una presa in giro di me e di tutto quello che avevo fatto e di quello che avrei dovuto fare; e progettò di farla pubblicare quando io fossi stato in alto mare. Senonché quando uscì ero ancora in porto, e da allora non ha fatto altro che giustificarsi.


Intanto il tempo continuava a passare. Una cosa stava diventando evidente, e cioè che era impossibile finire lo "Snark" a San Francisco. C'era voluto tanto di quel tempo per la sua costruzione che cominciava a logorarsi e a cadere a pezzi. Anzi aveva raggiunto lo stadio in cui si guastava a una tale velocità che non si faceva in tempo a ripararlo. Era diventato uno scherzo. Nessuno lo prendeva sul serio; e tanto meno gli uomini che ci lavoravano. Dissi che saremmo partiti così com'era, e che avremmo finito di costruirlo a Honolulu.


Immediatamente si aprì una via d'acqua che dovette essere riparata prima che potessimo partire. Lo avviai allo scalo d'alaggio; prima di arrivarci, rimase preso in mezzo a due enormi chiatte e subì una violenta compressione. Lo portammo sull'invasatura e a metà dell'alaggio l'invasatura si allargò e lo lasciò cadere di poppa nel fango.


Era un bel pasticcio, un lavoro di recupero, non di costruzione. Ci sono due alte maree nelle ventiquattr'ore, e ad ogni alta marea, giorno e notte, per una settimana, due rimorchiatori tirarono a tutto vapore sullo "Snark". Era lì incastrato e, senza sostegno, appoggiava sulla poppa. In seguito, mentre ancora si trovava in quella situazione critica, cominciammo a mettere in funzione la trasmissione a ingranaggi fabbricata nella fonderia locale, per mezzo della quale il motore doveva azionare il verricello. Era la prima volta che si tentava di usare quel verricello. La trasmissione era difettosa e si sfasciò, gli ingranaggi stridettero gli uni contro gli altri e il verricello fu fuori servizio. Subito dopo andò fuori servizio il motore di settanta cavalli. Il motore veniva da New York e così pure la piastra di fondazione; c'era un difetto nella piastra, c'erano un mucchio di difetti; e il motore di settanta cavalli si staccò dalla base infranta, si impennò, spezzò tutti i collegamenti e le ritenute e ricadde di fianco. Intanto lo "Snark" era sempre incastrato nell'invasatura deformata e i due rimorchiatori continuavano vanamente a tirare.


- Non ha importanza - diceva Charmian - pensa a quanto è forte e robusta questa barca.


- Sì - dicevo - e pensa a quella meravigliosa prua.


Così riprendevamo animo e ci rimettevamo al lavoro. Il motore massacrato fu fissato a ciò che rimaneva del basamento. Gli elementi spezzati e gli ingranaggi della trasmissione di forza furono smontati e messi da parte al solo scopo di portarli a Honolulu, dove sarebbero state fatte le riparazioni e costruiti i pezzi nuovi. Allo "Snark" era stata data non so dove nel suo confuso passato una mano di pittura bianca all'esterno dello scafo; a vederlo in buona luce, tuttavia, c'era ancora un'apparenza di colore; all'interno non era mai stato pitturato - al contrario era stato ricoperto da uno strato spessissimo di grasso e sputi di tabacco lasciati dalle moltitudini di meccanici che ci avevano trafficato dentro. Pazienza, dicemmo, il grasso e la sporcizia si potevano raschiare via, e in seguito, quando avremmo raggiunto Honolulu, lo "Snark" poteva essere pitturato mentre lo si ricostruiva.


Con vera fatica riuscimmo a strappare via lo "Snark" dall'invasatura danneggiata e lo ormeggiammo di fianco alla banchina municipale. I furgoni portarono tutto l'equipaggiamento da casa, i libri, le coperte e il bagaglio personale. Insieme a questo, come un torrente disordinato, giunse a bordo tutto il resto: legna e carbone, acqua e serbatoi per l'acqua, verdura, provvista, lubrificante, il battello di servizio e la lancia, i nostri amici al completo, tutti gli amici dei nostri amici e quelli che si spacciavano per loro amici, senza parlare di alcuni degli amici degli amici degli amici dell'equipaggio. C'erano anche cronisti, fotografi, estranei e ciarlatani, e soprattutto, nuvole di polvere di carbone dalla banchina.


Dovevamo far vela domenica alle undici ed era il pomeriggio del sabato. La folla sulla banchina e la polvere di carbone erano più fitte che mai. In una tasca avevo un libretto d'assegni, una penna stilografica, un'agenda e una carta assorbente. In un'altra tasca avevo uno o duemila dollari in biglietti di banca e in oro. Ero pronto per i creditori, con denaro liquido per quelli minori e assegni per quelli più grossi, e aspettavo solo l'arrivo di Roscoe con il residuo dei conti delle centoquindici ditte che mi avevano ritardato la partenza per tanti mesi. Quand'ecco che accadde ancora una volta il fatto imprevedibile ed enorme. Prima che potesse venire Roscoe, sopraggiunse un altro individuo. Era un ufficiale giudiziario del Governo Federale. Attaccò un cartello sul fiero albero maestro dello "Snark" in modo che tutti quelli che erano sulla banchina potessero leggerci che lo "Snark" era stato sequestrato per debiti. L'ufficiale giudiziario lasciò un vecchietto a guardia della barca e se ne andò.


Non avevo più nessun controllo sullo "Snark" e sulla sua splendida prua. Il vecchietto ne era da questo momento il padrone e signore, e appresi che lo pagavo tre dollari al giorno per questo. Inoltre venni a sapere il nome dell'uomo che aveva fatto sequestrare lo "Snark". Si chiamava Sellers ("venditori"); il debito era di duecentotrentadue dollari e l'azione era quanto ci si poteva aspettare dal detentore di un nome simile. Sellers! Buon Dio! Sellers!


Ma chi mai poteva essere questo Sellers? Consultai il mio libretto di assegni e vidi che due settimane prima gli avevo versato un assegno di cinquecento dollari. Altre matrici mi dimostrarono che, durante i lunghi mesi della costruzione dello "Snark", gli avevo versato varie migliaia di dollari. Allora perché in nome della più elementare correttezza non aveva cercato di farsi pagare questo miserabile residuo invece di far sequestrare lo "Snark"? Misi le mani nelle tasche e in uno trovai il libretto degli assegni, l'agenda e la penna e nell'altra le monete d'oro e i biglietti di banca. C'era di che saldare questo misero conto decine di volte - perché non me ne aveva dato la possibilità? Non c'era nessuna spiegazione; era puramente inconcepibile ed enorme.


Per rendere ancora più grave la faccenda, lo "Snark" era stato sequestrato nel tardo pomeriggio del sabato - e benché avessi sguinzagliato avvocati e agenti per tutto Oakland e San Francisco non si riuscì a trovare né un giudice federale né un agente giudiziario né il signor Sellers né il suo legale - nessuno.


Erano tutti fuori città per la vacanza di fine settimana. Così lo "Snark" non poté partire alle undici di domenica mattina. Il vecchietto era ancora al suo posto e disse di no. Charmian e io ci portammo sulla banchina di fronte e ci consolammo guardando la splendida prua dello "Snark" e pensando a tutte le bufere e i tifoni contro cui essa avrebbe superbamente lottato.


- Un espediente borghese - dissi a Charmian, parlando del signor Sellers e del suo sequestro - il panico di un trafficante meschino. Ma non fa niente, i nostri guai termineranno appena saremo lontani da tutto questo, in mare aperto.


E finalmente facemmo vela la mattina di martedì 23 aprile 1907. La partenza fu piuttosto mediocre, lo confesso. Dovemmo salpare l'ancora a forza di braccia, perché la trasmissione del motore era un disastro.


Oltre a ciò, i resti del nostro motore di settanta cavalli erano ben legati nella sentina dello "Snark", a fare da zavorra. Ma che importavano queste cose? A Honolulu avremmo potuto metterle a posto, e intanto che meraviglia era tutto il resto della barca!


E' vero, il motore della lancia non funzionava, e il battello faceva acqua come una cesta, ma d'altra parte essi non erano lo "Snark", ma solo accessori. Quello che contava erano le paratie stagne, il tavolame spesso senza nodi, i congegni del gabinetto da bagno - queste cose erano lo "Snark". E oltre a esse, la più grande di tutte, c'era quella nobile prua, avversaria dei venti.


Uscimmo a vela attraverso il Golden Gate e dirigemmo la rotta a sud, verso quella parte del Pacifico dove potevamo sperare di trovare l'aliseo di nord-est. Ma subito cominciarono i "fatti nuovi". Avevo calcolato che la gioventù fosse quanto ci voleva per un viaggio come quello dello "Snark", e avevo assunto tre giovani - il motorista, il cuoco e il cameriere. I miei calcoli erano sbagliati solo per due terzi; avevo dimenticato di considerare che i giovani possono soffrire il mal di mare, e due dei nostri, il cuoco e il cameriere, lo soffrivano. Si buttarono immediatamente in cuccetta e per tutta la settimana successiva non servirono più a niente. Da quanto precede si comprenderà perché noi non avemmo i cibi caldi che avremmo potuto avere, né sottocoperta furono mantenuti l'ordine e la pulizia.


Comunque questo importava molto relativamente, dato quello che non tardammo a scoprire: le nostre arance dovevano aver subito una gelata, le mele erano molli e stavano andando a male, i cavoli, andati a male fin da prima della consegna, dovettero essere gettati a mare immediatamente; il petrolio si era rovesciato sulle carote e le rape erano legnose e le barbabietole fradicie, mentre le fascine per accendere il fuoco consistevano di legno morto che non bruciava, e il carbone, giunto in sacchi da patate imputriditi, si era sparso sulla coperta e veniva spazzato via dal rigurgito degli ombrinali.


Ma che importanza aveva? Questi non erano che dettagli. Ma la barca - la barca era in gamba, no? Feci quattro passi in coperta e in un minuto contai quattordici nodi nel bel tavolame ordinato appositamente a Puget Sound onde non avesse neanche un nodo. Inoltre quella coperta faceva passare l'acqua, e tanta. L'acqua allagò la cuccetta di Roscoe, obbligandolo a traslocare, e rovinò i ferri nel locale del motore, per non parlare delle provviste che guastò in cucina. Ma anche il fasciame dello "Snark" faceva acqua, e trovavamo tanta acqua in sentina da dover ogni giorno pompare per tenerci a galla. L'impiantito della cucina è di un paio di piedi più alto della sentina; eppure mi è accaduto di essere in piedi su quell'impiantito, tentando di mangiare un boccone (freddo), e di essere a mollo fino alle ginocchia nell'acqua che sciacquava tutto attorno, solo quattro ore dopo l'ultima pompata.


E poi, quei magnifici compartimenti stagni che erano costati tanto tempo e denaro: ebbene, in realtà non erano stagni per niente. L'acqua passava da un compartimento all'altro con la facilità dell'aria; non solo, ma una forte puzza di benzina dal compartimento di poppa mi indusse a sospettare che uno o più di quella mezza dozzina di serbatoi che vi erano stati sistemati avessero cominciato a perdere. Così i serbatoi perdevano e la tenuta del loro compartimento non era ermetica. Poi c'era il gabinetto da bagno con le sue pompe e leve e valvole di scarico - andò fuori uso prima di venti ore.


Massicce leve di ferro si spezzarono presso all'impugnatura mentre uno provava a pompare. Il gabinetto da bagno, di tutte le parti dello "Snark", fu quello che andò a pezzi più rapidamente.


E le ferramenta dello "Snark", qualunque ne fosse la provenienza, si rivelarono di cartapesta. Ad esempio, la piastra di sostegno del motore era giunta da New York, ed era di cartapesta; e così erano gli ingranaggi e le trasmissioni del verricello, provenienti da San Francisco. E c'era infine il ferro dolce impiegato nell'alberatura, che cominciò a cedere in tutte le direzioni non appena subì i primi sforzi. Ferro fuso, badate bene, e si spezzava come un fuscello. La trozza del picco della randa si spezzò vicino all'attacco - la sostituimmo con la trozza della pennola della vela di fortuna, e pure questa seconda trozza si spezzò all'attacco dopo un quarto d'ora, e badate bene che era quello della pennola della randa di fortuna, a cui avremmo dovuto affidarci nei momenti di tempesta. Attualmente lo "Snark" trascina la sua randa come un'ala spezzata, dato che la trozza è stata sostituita con una rozza legatura. Vedremo se riusciremo a trovare a Honolulu del ferro come si deve.


Gli uomini ci avevano traditi e ci avevano mandati per mare su di una cesta, ma bisogna dire che il Signore ci voleva bene, perché il tempo durò buono mentre stavamo imparando che per tenerci a galla dovevamo pompare ogni giorno, e che ci si poteva fidare di più di uno stuzzicadenti di legno che del più massiccio pezzo di ferro esistente a bordo.


Man mano che la tenuta stagna e la robustezza dello "Snark" venivano meno, Charmian e io riponevamo sempre di più la nostra fiducia su quella magnifica prua. Non restava altro su cui contare. Era tutto inconcepibile ed enorme, lo sapevamo, ma quella prua, almeno essa, era razionale. Ma infine, una sera, cominciammo a cappeggiare.


Come potrò descriverlo? Lasciate prima di tutto che spieghi, ad uso dei principianti, che la cappa è un'andatura in cui la nave è obbligata da una velatura ridotta ed equilibrata a mantenere la prua al vento e al mare. Quando il vento è troppo violento e il mare troppo grosso, una barca della grandezza dello "Snark" può prendere la cappa senza difficoltà, dopo di che in coperta non c'è più niente da fare.


Non ci vuole nessuno al timone; anche la vedetta è superflua; l'equipaggio al completo scende sotto coperta a dormire o a giocare a whist.


Ebbene, eravamo in una mezza burraschetta estiva quando dissi a Roscoe che avremmo preso la cappa. Stava scendendo la notte. Avevo tenuto il timone per quasi tutta la giornata e tutti noi in coperta (Roscoe e Bert e Charmian) eravamo stanchi, mentre quelli abbasso stavano soffrendo il mare. A quel punto alla maestra avevamo già preso due mani di terzaroli. Fiocco e controfiocco furono ammainati, e prendemmo un terzarolo alla trinchettina. Anche la mezzana fu ammainata.


All'incirca a questo punto il bome della trinchettina scomparve in un'onda e si spezzò all'attacco. Cominciai a metter barra per venire all'orza. In quell'istante lo "Snark" stava rollando, traversato al mare. Rimase traversato, sempre rollando; una caviglia dopo l'altra, detti sempre più timone: ma esso rimaneva traversato. (Traversato al mare, amico lettore, è la posizione più pericolosa in cui una nave possa trovarsi). Misi tutta la barra ma lo "Snark" rollava sempre traversato. Non riuscii a stringere il vento più di 90 gradi. Feci venire Roscoe e Bert alla randa di maestra. Lo "Snark" continuava a rollare traversato, mettendo il trincarino sott'acqua ora da un lato ora dall'altro.


Ancora una volta l'inconcepibile, l'enorme, mostrava il suo volto misterioso. Era grottesco, impossibile. Rifiutavo di crederci. Lo "Snark", tenendo la maestra con due mani e il fiocco con una di terzaroli, si rifiutava di venire all'orza per cappeggiare. Bordammo la randa di maestra a ferro. La rotta dello "Snark" non cambiò di un decimo di grado. Allascammo la stessa vela senza maggior risultato.


Inferimmo una vela di fortuna alla mezzana e imbrogliammo la maestra.


Nessun cambiamento. Lo "Snark" restava traversato a rollare. Quella sua bella prua rifiutava di venire all'orza e di far fronte al vento.


Subito dopo ammainammo il fiocco già terzarolato. In questo modo l'unico pezzo di tela ancora a riva era la mezzanella di fortuna.


Nulla sarebbe mai riuscito a far orzare lo "Snark", se non ci riusciva quella. Non mi crederete forse, quando vi dico che non ci riuscì, ma è così. Non riesco a crederlo neanche io. E' incredibile, ma vi sto raccontando non quello che credo, ma quello che ho visto.


Ora, amico lettore, tu cosa faresti se ti trovassi su una piccola barca, traversata al mare e sotto rollate violente, con una randa di fortuna a poppa che non ce la fa a far venire la prua al vento?


Metteresti a mare l'ancora galleggiante. Proprio quello che facemmo noi. Ne avevamo una brevettata, fatta apposta per noi e di galleggiabilità garantita. Pensate a un cerchio d'acciaio impiegato per tenere aperta la bocca di un grande sacco conico di tela: questa è un'ancora galleggiante. Ebbene, legammo una cima all'ancora galleggiante, demmo volta alla stessa cima sulla prua dello "Snark", e gettammo poi l'ancora fuori bordo. Andò subito sotto. Avevamo anche un cavo per abbatterla, così l'abbattemmo e la recuperammo a bordo. Le attaccammo un grosso trave come galleggiante, e la ributtammo di nuovo a mare. Questa volta rimase a galla. La cima sulla prua venne in forza. La mezzanella di fortuna tendeva a portare la prua all'orza, ma nonostante tale tendenza lo "Snark" prese tranquillamente l'ancora fra i denti e proseguì in avanti, trascinandosela dietro, sempre rollando con il mare al traverso. E ora state a sentire.


Arrivammo persino ad ammainare la randa di fortuna, e ad alzare invece la randa grande di mezzana. La bordammo a segno, e sempre lo "Snark" ballava traversato e si trascinava dietro l'ancora galleggiante. Non credetemi pure. Non ci credo neanch'io, non faccio che raccontarvi quello che ho visto.


Lascio giudicare a voi. Chi ha mai sentito parlare di una barca a vela che non prende la cappa? Che non viene all'orza neanche con l'aiuto di un'ancora galleggiante? Nella mia breve esperienza di barche io non l'ho mai sentito. E, in piedi sulla coperta, guardai la nuda faccia dell'inconcepibile e dell'enorme - lo "Snark" che non prendeva la cappa. Era sopraggiunta la notte, tempestosa e illuminata a tratti dalla luna. C'era nell'aria una certa umidità, e lontano a sopravvento incombevano dei piovaschi. C'era poi il cavo dell'onda, freddo e crudele nella luce lunare, e in esso lo "Snark" rollava compiaciuto.


Recuperammo allora l'ancora galleggiante, ammainammo la mezzana, alzammo il fiocco terzarolato, ci mettemmo a correre in poppa e scendemmo sotto coperta - non al pasto caldo che avrebbe dovuto attenderci, ma ad attraversare scivolando sulla melma viscida l'impiantito della saletta, dove cuoco e cameriere giacevano come morti nelle loro cuccette, e a gettarci sulle nostre, tutti vestiti e pronti alla chiamata, con negli orecchi lo sciacquio dell'acqua di sentina che in cucina giungeva a mezza gamba.


Al Bohemian Club di San Francisco si trovano marinai di prim'ordine.


Lo so, perché li ho sentiti discettare sullo "Snark" mentre era in costruzione. Una sola cosa veramente importante gli rimproveravano, e su di essa erano tutti d'accordo: che non avrebbe potuto correre in poppa. Andava benissimo in tutto il resto, dicevano, ma non sarebbe mai stato capace di correre in poppa con un vento e un mare fresco.


"Le sue linee", spiegavano misteriosamente, "è colpa delle sue linee.


Non si può ASSOLUTAMENTE farlo correre in poppa, ecco tutto".


Bene, avrei proprio voluto avere a bordo dello "Snark", l'altra notte, quei gran marinai del Bohemian Club, perché vedessero con i loro occhi quel loro unico giudizio, fondamentale e unanime, rovesciato totalmente. Correre in poppa? Ma è proprio la cosa che lo "Snark" fa alla perfezione. Lo ha fatto con un'ancora galleggiante data volta a prua e la mezzana grande bordata a ferro a poppa. In questo momento, mentre sto scrivendo, stiamo scivolando via in poppa, a una media di sei nodi, in pieno aliseo di nord-est. C'è un bel po' di mare; nessuno è al timone, la ruota non è nemmeno fissata ed è messa mezza caviglia all'orza. Per essere precisi, il vento è da nord-est; la mezzana dello "Snark" è serrata, la randa di maestra è orientata sulla dritta, i fiocchi sono a segno, la rotta dello "Snark" è sud-sud-ovest. Eppure ci sono delle persone che hanno battuto i mari per quarant'anni e sostengono che nessuna barca può correre in poppa senza timoniere. Mi daranno del bugiardo quando leggeranno questo; ma lo dissero anche del capitano Slocum, quando egli affermò la stessa cosa dello "Spray".


Per quanto riguarda il futuro dello "Snark" sono in alto mare. Non so.


Se avessi denaro o credito, costruirei un altro "Snark" capace di prendere la cappa. Ma ho dato fondo a tutte le mie risorse. Devo adattarmi a questo "Snark" o rinunciare, e non posso rinunciare. Credo proprio quindi che dovrò cercare di arrangiarmi, prendendo con lo "Snark" la cappa di poppa. Aspetto la prossima bufera per vedere se funziona. Penso che sia una cosa fattibile. Tutto dipende da come la sua poppa agguanta le ondate. E chi sa che magari in una tempestosa mattina nel mare della Cina, un capitano dalla barba grigia non spalanchi gli occhi, se li stropicci incredulo, e torni a spalancarli alla vista di una piccola e strana nave, molto simile allo "Snark", alla cappa con la poppa al vento, in attesa che la bufera si calmi.


Tornando in California dopo il viaggio sono venuto a sapere che lo "Snark" era lungo, al galleggiamento, 43 piedi e non 45. Questo perché il costruttore non aveva familiarità con il metro e la squadra.




CAPITOLO 3


SPIRITO D'AVVENTURA


No, lo spirito d'avventura non è morto, malgrado la locomotiva a vapore e Thomas Cook e figlio.


Quando venne annunciato il progettato viaggio dello "Snark", i giovani di "temperamento girovago" si rivelarono in quantità e così pure le giovani - per non dire degli uomini e delle donne anziane che si offrirono volontari per il viaggio. Per esempio fra i miei amici personali almeno una mezza dozzina rimpiansero i loro recenti o imminenti matrimoni; e so di un matrimonio che minacciò di andare all'aria per colpa dello "Snark".


La mia posta era sempre carica di lettere di candidati che si sentivano asfissiare nelle città, "soffocate dall'uomo", e ben presto cominciai a capire che un Ulisse del ventesimo secolo aveva bisogno di un reggimento di stenografe che sbrigasse la sua corrispondenza prima di poter far vela. No, certamente lo spirito d'avventura non è morto, finché uno riceve lettere che cominciano così: "Non c'è dubbio che quando leggerete questa supplica dell'anima da parte di una sconosciuta di Nuova York", eccetera; e nel corso della quale si viene a sapere che questa sconosciuta pesa solo 40 chili, desidera fare il mozzo e "anela a vedere i paesi del mondo".


Un postulante, per esprimere la propria smania di viaggiare, si diceva affetto da un "appassionato amore per la geografia"; mentre un altro scriveva: "Sono perseguitato da un eterno desiderio di essere sempre in movimento, donde questa lettera". Ma meglio ancora fu quello che disse che voleva venire perché gli prudevano i piedi.


Ce n'erano alcuni che scrivevano anonimamente, suggerendo nomi di amici loro e dandone le qualifiche; ma secondo me c'era qualcosa di un po' sinistro in questo modo di procedere e non approfondivo oltre la questione.


Tolte due o tre eccezioni, le centinaia di persone che si offrirono volontarie per far parte dell'equipaggio erano assolutamente in buona fede. Molti mandarono la loro fotografia. Il novanta per cento si offrì per qualsiasi genere di lavoro, e il novantanove per cento si offrì di lavorare senza paga. "Riflettendo al vostro viaggio sullo 'Snark'", scriveva uno, "e nonostante i pericoli inerenti, l'accompagnarvi con qualsiasi incarico sarebbe il massimo delle mie ambizioni". Il che mi rammenta il giovane che era "diciassettenne e ambizioso" e che alla fine della lettera mi chiedeva sinceramente: "ma per favore, non lasciate che questo venga pubblicato sui giornali o sulle riviste". Ben diverso era quello invece che diceva: "Sarei disposto a sgobbare come un negro senza chiedere un soldo". Quasi tutti volevano che io telegrafassi a spese loro l'accettazione dei loro servizi; e un buon numero di essi offrivano di versare una cauzione a garanzia della loro comparsa il giorno della partenza.


Alcuni avevano delle idee alquanto vaghe circa il lavoro da farsi sullo "Snark"; come per esempio quello che scriveva: "Mi prendo la libertà di scrivervi questo biglietto per sapere se vi sia alcuna possibilità per una mia assunzione come membro dell'equipaggio della vostra barca per fare disegni e illustrazioni". Parecchi, inconsapevoli del lavoro necessario su di un'imbarcazione piccola come lo "Snark", offrivano i loro servizi, come uno di essi si espresse, "in qualità di assistente nel catalogare il materiale raccolto per libri e romanzi". Questo è quanto si ottiene a essere prolifico.


"Lasciate che vi segnali le mie attitudini per l'impiego", scriveva un tale. "Sono orfano e vivo con mio zio, il quale è un fervente socialista rivoluzionario e sostiene che chi non ha il sangue vermiglio dell'avventura è uno strofinaccio fatto uomo". Un altro disse: "Me la cavo nel nuoto, benché non conosca nessuno dei nuovi stili. Ma, quel che importa più dello stile, sono amico dell'acqua".


"Se mi lasciassero solo in una barca a vela, la saprei portare dove voglio", così si raccomandava un terzo - e sempre meglio del seguente:


"Ho anche visto scaricare le barche da pesca". Ma in fondo il premio spetterebbe a quest'altro, che esprime molto ingenuamente la sua profonda conoscenza del mondo e della vita con queste parole: "La mia età, in cifre, è di ventidue anni".


Poi c'erano le lettere semplici, dirette, alla buona e disadorne di giovani ragazzi, privi, è vero, di felicità di espressione, ma grandemente desiderosi di fare il viaggio. Queste erano le più difficili da respingere, e ogni volta che ne respingevo una era come se avessi dato uno schiaffo alla Giovinezza. Erano talmente in buona fede questi ragazzi, e avevano una così gran voglia di partire. "Ho sedici anni, ma sono grande per la mia età", scriveva uno; e un altro:


"Ho diciassette anni ma sono grande e robusto". "Sono per lo meno altrettanto forte quanto un ragazzo normale della mia corporatura", scriveva un tale, evidentemente di costituzione delicata.


"Non temo nessun genere di lavoro", dicevano in molti, mentre uno in particolare, evidentemente per tentarmi con l'economicità della sua proposta, scrisse: "Sono in grado di pagare il mio viaggio fino alla costa del Pacifico, cosicché questo lato vi dovrebbe essere accettabile". "Andare in giro per il mondo è l'UNICA cosa che voglio fare", diceva uno, e pareva che fosse l'unica cosa che volevano fare a centinaia. "Non ho nessuno a cui possa importare che io parta o non parta", era la patetica nota di un altro. Un tale aveva mandato la sua fotografia, e accennandovi disse: "Sono un ragazzo non bello, ma non sempre l'aspetto ha importanza". E sono sicuro poi che il ragazzo che scrisse quanto segue avrebbe dato un'ottima prova di sé: "Ho diciannove anni ma sono piuttosto piccolo e di conseguenza non occuperò troppo posto, ma sono forte come un accidente". E c'era poi un aspirante di tredici anni di cui Charmian e io ci innamorammo e quasi ci si spezzò il cuore nel rifiutarlo.


Ma non si deve immaginare che la maggior parte dei miei volontari fossero ragazzi; al contrario, i ragazzi costituivano una piccolissima proporzione. C'erano uomini e donne di ogni professione. Medici, chirurghi e dottori si offrirono di accompagnarci in gran numero e, come tutti i professionisti, si offrirono di venire senza compenso, con qualsiasi incarico, e persino di pagare per avere il privilegio di arruolarsi in questo modo.


C'era un'infinità di tipografi e giornalisti che volevano venire con noi, per non parlare dei camerieri, cuochi e domestici esperti.


Ingegneri civili desideravano ardentemente fare il viaggio, dame di compagnia in quantità spuntarono fuori per Charmian; mentre io ero sopraffatto dalle offerte di sedicenti segretari privati.


Molti studenti delle scuole superiori e di università ardevano di fare il viaggio, e nella classe lavoratrice ogni mestiere produsse alcuni candidati, tra cui i più volonterosi erano i meccanici, gli elettricisti e i motoristi. Fui sorpreso dal numero di coloro che in ammuffiti uffici legali, furono raggiunti dal richiamo dell'avventura; e fui ancora più sorpreso dal numero di capitani di lungo corso anziani e a riposo che ancora erano soggiogati dal mare. Parecchi giovani che più tardi sarebbero diventati milionari, erano pazzi per l'avventura, e così pure lo erano parecchi sovrintendenti alle scuole.


Padri e figli volevano venire, e molti uomini con le mogli, per non parlare della giovane stenografa che scrisse: "Avvertitemi immediatamente se avete bisogno di me. Verrò col primo treno portando la mia macchina da scrivere". Ma la migliore lettera è questa - osservate con che delicatezza riesce a includere la moglie: "Ho pensato di scrivervi due righe per sapere se ci sarebbe la possibilità di fare il viaggio con voi; ho ventiquattro anni, sono sposato e al verde, e un viaggio di quel genere è proprio la cosa che ci vorrebbe per noi".


A pensarci bene, per la media degli uomini dev'essere discretamente difficile scrivere una lettera onesta di autoraccomandazione. Uno dei miei corrispondenti era così imbarazzato che iniziò la sua lettera con queste parole: "Questo è un compito difficile"; e dopo aver tentato invano di descrivere i punti in suo favore, terminò così: "E' difficile scrivere di se stessi". Tuttavia ce ne fu uno che fece di sé un ritratto molto colorito e prolisso, e in conclusione affermò che questo lo aveva molto divertito.


"Ma supponete questo: che il vostro cameriere sia in grado di far andare il motore, di ripararlo quando va in avaria. Supponete che sia in grado di fare la sua guardia al timone, che sappia fare qualsiasi lavoro da falegname e da meccanico. Supponete che sia robusto, sano, e con molta voglia di lavorare. Non preferireste forse avere lui piuttosto che un ragazzino che soffre il mal di mare e che non sa fare altro che lavare i piatti?". Erano le lettere di questo genere che odiavo di dover respingere. L'autore di questa, autodidatta in inglese, era stato solo due anni negli Stati Uniti, e, come diceva, "non desidero venire con voi per guadagnarmi il pane, ma desidero imparare e vedere". All'epoca in cui mi scriveva era disegnatore per una delle grandi Società produttrici di motori, aveva avuto una certa esperienza di mare, e fin dall'infanzia aveva avuto familiarità con le barche.


"Ho una buona posizione, ma non me ne importa affatto, poiché preferisco viaggiare", scrisse un altro. "In quanto alla paga, guardatemi, e se valgo un dollaro o due, bene, se no, come non detto.


Per quel che riguarda il mio carattere e la mia onestà, sarò felice di dimostrarvi i miei principali. Mai bere, niente tabacco, ma, per essere sincero, anch'io, dopo un altro po' di esperienza, voglio scrivere qualcosa".


"Posso assicurarvi che sono altamente rispettabile, ma trovo le altre persone rispettabili noiose". L'individuo che scrisse questo mi diede certamente da pensare, ancora mi sto domandando se mi avrebbe trovato noioso o no, o che cosa diavolo volesse dire.


"Ho visto giorni migliori di quelli che sto attraversando ora", scriveva un vecchio marinaio, "ma ne ho anche visti di molto peggiori".


Ma la volontà di sacrificio da parte di quello che scrisse quanto segue era così commovente che non mi fu possibile accettare: "Ho un padre, una madre, fratelli e sorelle, cari amici e una posizione remunerativa, e tuttavia sono pronto a sacrificare tutto quanto per entrare a far parte del vostro equipaggio".


Un altro volontario che non avrei mai potuto accettare era il giovane schizzinoso, che, per dimostrarmi quanto fosse indispensabile che io gli offrissi un'opportunità, mi fece notare "che mi sarebbe impossibile andare su una nave normale, sia veliero che piroscafo, perché mi toccherebbe vivere e mescolarmi con il comune tipo di marinaio, il che di regola non è un modo di vivere pulito".


Poi c'era il giovane di ventisei anni, che aveva "provato tutta la gamma delle emozioni umane" e che "aveva fatto di tutto, da cucinare a frequentare l'Università di Stanford", e che, al momento in cui scriveva, era "vaquero", su di una distesa di 2000 ettari. In assoluto contrasto era la modestia di quello che diceva: "Non mi pare di possedere alcuna delle qualità particolari che potrebbero segnalarmi alla vostra attenzione. Ma se aveste un'impressione favorevole, potreste considerare che i pochi minuti impiegati a rispondermi non sono del tutto sprecati. In caso contrario, c'è sempre lavoro nel mio mestiere. Senza contarci troppo, ma con speranza, sono il vostro eccetera eccetera".


Ancora adesso mi sto scervellando per cercare di scoprire la fratellanza intellettuale tra me e quello che scrisse: "Molto tempo prima di sentir parlare di voi avevo studiato insieme l'economia politica e la storia, e ne avevo dedotto in concreto molte delle vostre conclusioni".


Questa, a modo suo, è una delle lettere migliori, come pure è la più breve, che abbia mai ricevuto: "Se a qualcuno dell'equipaggio attualmente arruolato per la crociera dovesse venir paura, e vi servisse un'altra persona che s'intenda di barche, motori, eccetera, sarei contento se me lo faceste sapere, eccetera". Eccone un'altra breve: "Di punto in bianco: vorrei impiegarmi come cameriere durante il vostro viaggio intorno al mondo, o con qualsiasi altro incarico a bordo. Ho diciannove anni, peso 63 chili e sono americano".


Ed ecco una buona lettera da parte di un uomo poco più alto di un metro e cinquanta: "Quando lessi del vostro nobile progetto di navigare intorno al mondo su di una piccola barca con la signora London, ne fui così rallegrato che mi parve di averlo progettato io stesso, e pensai di scrivervi circa la possibilità di impiegarmi come cuoco o come cameriere, ma per qualche ragione non lo feci, e venni a Denver da Oakland il mese scorso per entrare nell'azienda di un mio amico, ma le cose vanno meno bene e le prospettive sono poco favorevoli. Fortunatamente avete ritardato la vostra partenza per via del grande terremoto, così mi sono finalmente deciso a proporvi di assumermi in una mansione o nell'altra. Non sono molto forte, essendo alto poco più di un metro e mezzo, però ho una salute di ferro e una buona competenza".


"Credo di poter aggiungere alla vostra attrezzatura un sistema in più per sfruttare la forza del vento", scrisse un individuo benevolo, "il quale sistema, pur non intralciando le vele normali quando il vento è leggero, vi darà la possibilità di impiegare tutta la spinta del vento, nelle sue raffiche più forti, in modo che anche quando la sua violenza è tanta da costringervi a serrare tutte le vele, se usate come di consueto, potrete col mio sistema mantenere il massimo della velatura. Con questa mia sistemazione la barca non potrebbe mai fare scuffia".


La lettera sopraccitata era stata scritta a San Francisco il 16 aprile 1906. Due giorni dopo, il 18 aprile, ci fu il Gran Terremoto. E questa è la ragione per cui ce l'ho con quel terremoto, perché esso dell'uomo che scrisse la lettera fece un profugo, e ci impedì di incontrarci mai.


Molti dei miei compagni socialisti fecero obiezioni alla mia crociera, di cui la seguente è tipica: "La Causa Socialista e i milioni di vittime oppresse dal Capitalismo hanno un giusto diritto sulla tua vita e sulla tua attività. Se tuttavia persisti nel tuo proposito, ricordati, quando starai inghiottendo l'ultimo boccone di galletta salata che potrai prendere prima di andare a fondo, ricordati che noi almeno abbiamo protestato".


Uno che aveva girato il mondo, e che "poteva, se se ne fosse presentata l'occasione, narrare molti strani episodi ed eventi", consumò parecchie pagine tentando ardentemente di venire al sodo, e riuscì finalmente a buttar giù quanto segue: "Ancora non sono venuto all'argomento di cui era mia intenzione parlarvi. Così vi dirò subito che è stato asserito sulla stampa che voi e uno o due altri state per fare una crociera intorno al mondo in una piccola barca di cinquanta o sessanta piedi. Non posso però risolvermi a pensare che un uomo della vostra statura ed esperienza possa intraprendere una tale azione, perché non sarebbe altro che un modo di andare a cercare la morte. E anche se doveste scampare per qualche tempo, la vostra Persona, e quelli che sono con voi, verrebbero ad essere tutti pesti per l'incessante movimento di una barca di quelle dimensioni, anche se essa fosse imbottita, cosa abbastanza insolita per mare". Grazie, gentile amico, grazie per quel chiarimento "cosa abbastanza insolita per mare". Né si può dire che questo amico sia inesperto di mare. Come dice di se stesso, "non sono un terraiolo e ho percorso tutti i mari e tutti gli oceani". E chiude la sua lettera così: "Benché non voglia offendere nessuno, sarebbe pazzia portare qualunque donna persino fuori della baia, in una simile imbarcazione".


Eppure, nel momento in cui sto scrivendo, Charmian è nella sua cabina dinanzi alla macchina da scrivere, Martin sta facendo da mangiare, Tochigi sta apparecchiando la tavola, Roscoe e Bert stanno calafatando la coperta, e lo "Snark", senza nessuno al timone, si fa i suoi cinque nodi con un buon mare vivo - e lo "Snark" non è neanche imbottito.


"Vedo un trafiletto nel giornale sul viaggio che progettate, e vorrei sapere se desiderate un buon equipaggio, dato che siamo in sei ragazzi, tutti buoni marinai, con buoni documenti di congedo sia della Marina Militare che della Marina Mercantile, tutti veri americani, tutti tra i venti e i ventidue anni, e siamo al momento impiegati come attrezzatori all'Union Iron Works, e ci piacerebbe molto partire con voi".


Queste erano le lettere che mi facevano rimpiangere che la barca non fosse più grande.


E questa è la lettera dell'unica donna al mondo - eccetto Charmian - adatta alla crociera: "Se non siete riusciti a procurarvi una cuoca, mi piacerebbe molto fare il viaggio con tale mansione. Sono una donna di cinquant'anni, sana e capace, e mi sento in grado di fare il lavoro per il piccolo gruppo che compone l'equipaggio dello "Snark". Sono un'ottima cuoca e un ottimo marinaio e in parte anche una viaggiatrice, e se il viaggio fosse di dieci anni sarebbe per me ancora meglio che se fosse di uno. Referenze, eccetera".


Un giorno o l'altro, quando avrò un sacco di soldi, voglio costruire una grossa nave dove ci sia posto per un migliaio di volontari.


Dovranno fare loro tutto il lavoro per portare quella nave intorno al mondo, o se ne staranno a casa. Io credo che lo faranno, perché so che lo spirito d'avventura non è morto. So che lo spirito d'avventura non è morto, perché ho avuto una lunga e intima corrispondenza con esso.




CAPITOLO 4


IMPARANDO A DIRIGERSI


"Ma", obiettarono i nostri amici, "come osi metterti per mare senza uno che si intenda di navigazione a bordo? Tu non te ne intendi, no?".


Dovetti confessare che non me ne intendevo, che non avevo mai guardato in un sestante in vita mia e che mi domandavo se avrei saputo distinguere un sestante dalle tavole nautiche. Quando chiesero se Roscoe si intendeva di navigazione, dissi di no. Roscoe se ne risentì.


Aveva dato uno sguardo all'"Epitome" comprata per il viaggio, sapeva servirsi delle tavole logaritmiche, gli era capitato di vedere un sestante in qualche occasione, e per questo, e per i suoi antenati marinai concluse che conosceva la navigazione. Ma Roscoe si sbagliava, insisto ancora nel dirlo.


Da ragazzo era andato dal Maine alla California attraverso l'istmo di Panama, e quella era stata l'unica volta in vita sua che si era trovato fuori vista dalla terra. Non era mai stato a una scuola di navigazione, né aveva mai sostenuto un esame in questa materia; e neppure aveva navigato in alto mare e imparato quest'arte da qualche ufficiale di rotta. Era uno yachtman della Baia di San Francisco, dove la terra non è mai che a qualche miglio di distanza, e non c'è mai bisogno dell'arte della navigazione.


Così lo "Snark" partì per il suo lungo viaggio senza uno esperto in navigazione. Riuscimmo a passare il Golden Gate il 23 aprile, e ci dirigemmo verso le isole Hawaii distanti 2100 miglia marine in linea d'aria. Il risultato ci giustificò: arrivammo. Non solo, ma, come vedrete, arrivammo senza difficoltà, o meglio, senza difficoltà rilevanti. Per cominciare, fu Roscoe a occuparsi della rotta. Aveva bensì tutte le nozioni teoriche, ma era la prima volta che le applicava, come fu dimostrato dal modo di procedere capriccioso dello "Snark" - non che lo "Snark" non fosse perfettamente stabile nell'acqua, i suoi capricci erano solo sulla carta nautica. Il giorno che c'era una brezza leggera, esso faceva un salto sulla carta che faceva pensare a "vela bagnata e scotte filate", e il giorno che pareva volasse sull'oceano, il punto sulla carta non si spostava quasi. Ora quando una barca ha mantenuto i sei nodi per ventiquattr'ore consecutive, è indubbio che ha percorso 144 miglia di mare. Il mare era quello che era e il solcometro brevettato andava bene; quanto alla velocità, la si vedeva a occhio nudo. Pertanto quello che non andava erano i calcoli che si ostinavano a non voler riconoscere sulla carta il progresso dello "Snark". Questo non capitava tutti i giorni, ma capitava. Era perfettamente giusto e non ci si poteva aspettare di più da un primo tentativo di mettere la teoria in pratica.


La conoscenza della navigazione ha uno strano effetto sulla mente umana; in generale l'ufficiale di rotta parla della navigazione con profondo rispetto. Per il profano la navigazione è un mistero profondo e terrificante, e questo sentimento è stato causato in lui dal profondo e terrificante rispetto per la navigazione che egli ha riscontrato negli ufficiali di rotta. Ho conosciuto giovani semplici, modesti e leali, limpidi come l'acqua, che, appena imparata la navigazione, subito diventavano misteriosi, riservati e pieni di sé, quasi avessero conseguito un successo intellettuale di grande portata.


Un qualsiasi ufficiale di rotta è per il profano come il sacerdote di un rito sacro.


Per questo i nostri amici erano tanto preoccupati nel vederci partire senza uno che si intendesse di navigazione.


Durante la costruzione dello "Snark", Roscoe e io venimmo ad un accordo, press'a poco in questi termini: "Io provvederò libri e strumenti", dissi, "ma tu mettiti subito a studiare la navigazione. Io avrò troppo da fare per avere il tempo di studiare. Poi, quando saremo per mare, mi potrai insegnare quello che avrai imparato". Roscoe accettò con gioia. Per giunta egli era semplice, modesto e leale come i giovani di cui parlavo. Ma quando fummo per mare ed egli cominciò a celebrare il sacro rito, mentre io lo guardavo con ammirazione, il suo modo di fare subì un cambiamento sottile ma inequivocabile. Quando prendeva l'altezza del sole a mezzogiorno, l'aureola del successo lo avvolgeva di una fiamma lucente. Quando scendeva sotto coperta, eseguiva i suoi calcoli e poi tornava su e proclamava la nostra latitudine e longitudine, c'era nella sua voce una nota autorevole che nessuno di noi aveva mai sentito. Ma questo non era ancora il peggio.


Egli divenne un pozzo di nozioni non comunicabili; e quanto più scopriva la causa dei salti capricciosi dello "Snark" sulla carta, tanto più le sue nozioni diventavano non comunicabili, sacre e terrificanti. Quando timidamente gli feci notare che era ormai tempo che cominciassi a imparare anch'io, non ebbi una risposta entusiasta né alcuna offerta di aiuto. Non manifestò la minima intenzione di tener fede al nostro accordo.


La colpa non era di Roscoe; era inevitabile; egli non faceva che seguire l'esempio di tutti quelli che prima di lui avevano imparato la navigazione. A causa di una comprensibile e perdonabile confusione di valori, oltre alla perdita dell'orientamento, si sentiva oppresso dalla responsabilità e si trovava in possesso di un potere simile a quello di un dio. Roscoe aveva vissuto tutta la sua vita sulla terraferma, e quindi l'aveva sempre avuta sotto gli occhi. Essendo sempre stato in vista della terra, e con punti di riferimento su cui regolarsi, era riuscito, salvo qualche difficoltà di tanto in tanto, a pilotare il suo corpo di qua e di là su di essa. Ora si trovava sul mare, con le sue distese infinite, limitate soltanto dall'eterno cerchio dell'orizzonte. Questo cerchio appariva sempre uguale; non c'erano punti di riferimento. Il sole sorgeva a oriente e tramontava a occidente e le stelle ruotavano nella notte. Ma chi può guardare il sole e le stelle e affermare: "La mia posizione sulla faccia della terra in questo momento preciso è quattro miglia e tre quarti a ponente della bottega di Jones a Smithersville?" oppure: "So dove mi trovo adesso, perché l'Orsa Minore mi dice che Boston è a tre miglia di distanza alla seconda svolta a destra?".


Eppure questo è proprio quello che si mise a fare Roscoe. Che fosse sbalordito dal successo è dir poco; era pieno di un timore reverenziale per se stesso; aveva compiuto un'impresa miracolosa.


L'azione di scoprire la sua posizione sulla superficie del mare divenne un rito e si sentì un essere superiore a noi che non conoscevamo questo rito e dipendevamo da lui per essere guidati attraverso l'infinito e agitato deserto del mare, la strada maestra salmastra che collega i continenti e sulla quale non ci sono pietre miliari. Così, con il sestante, rendeva omaggio al dio-sole, consultava antichi testi e tavole con caratteri magici, mormorava preghiere in una lingua strana che suonava come ERRORE D'INDICE PARALLASSE RIFRAZIONE, tracciava segni cabalistici sulla carta, sommava e riportava uno, e poi, su di un documento sacro chiamato "Graal" - scusate, carta nautica - posava il dito su un certo spazio perfettamente vuoto e diceva: "Siamo qui". Quando guardavamo lo spazio vuoto chiedendo "Qui dove?", ci rispondeva nel linguaggio cifrato dei Gran Sacerdoti: "31-15-47 nord, 133-5-30 ovest". E noi rispondevamo "Ah!" e ci sentivamo estremamente insignificanti.


Ma sostengo che non era colpa sua. Era simile a un dio, e ci trasportava nel palmo della mano attraverso gli spazi vuoti sulla carta nautica. Cominciai a provare un grande rispetto per Roscoe; questo divenne così profondo che se mi avesse ordinato di inginocchiarmi e di adorarlo, so che mi sarei buttato giù sulla coperta balbettando. Ma un giorno mi venne un pensiero, dapprima appena abbozzato, e mi dissi: "Costui non è un dio, costui è Roscoe, e non è altro che un uomo come me. Quello che ha fatto lui lo posso fare anch'io. Chi gli ha insegnato? Nessuno. Va e fa come lui. Impara da solo". E di colpo il mito di Roscoe si infranse, ed egli non fu più il Gran Sacerdote dello "Snark". Invasi il santuario e pretesi gli antichi testi e le tavole magiche, nonché la ruota della preghiera - voglio dire il sestante.


E ora, in parole povere, vi dirò come ho imparato da solo la navigazione. Trascorsi un intero pomeriggio seduto nel pozzetto, tenendo il timone con una mano e studiando i logaritmi con l'altra.


Per due pomeriggi, due ore alla volta, studiai la teoria generale della navigazione, e in particolare il modo di prendere l'altezza meridiana. Poi presi il sestante, ricavai l'errore d'indice, e presi l'altezza del sole. Il calcolo sui dati di questa osservazione fu un gioco da ragazzi. Nell'"Epitome" e nelle Tavole Nautiche c'erano decine di tavole ingegnose, tutte calcolate da matematici e astronomi.


Era come servirsi delle tavole d'interesse e di calcolo rapido che tutti conoscete. Il mistero non era più tale. Posi il dito sulla carta e annunciai che quello era il nostro punto. E per giunta avevo ragione, o per lo meno l'avevo quanto Roscoe, che scelse un punto lontano dal mio un quarto di miglio - persino lui era d'accordo nel dividere questa distanza a metà con me. Avevo svelato il mistero; eppure, e questo era il suo lato prodigioso, avevo coscienza di un nuovo potere in me, e provavo l'emozione e lo stimolo dell'orgoglio.


Quando Martin mi chiese la nostra posizione, nello stesso tono umile e rispettoso che io aveva usato in precedenza con Roscoe, risposi esaltato e pieno di prosopopea nel linguaggio cifrato dei Gran Sacerdoti e Martin mi rispose con un "ah" umile e riverente. In quanto a Charmian, mi pareva d'aver dimostrato in un nuovo modo di meritarla; e mi rendevo conto anche di un altro sentimento, e cioè la consideravo una donna fortunatissima per aver sposato un uomo come me.


Non potevo farci nulla. Lo racconto per giustificare Roscoe e tutti gli altri ufficiali di rotta. Il veleno del potere stava operando in me. Non ero come gli altri uomini - o come la maggior parte di essi, almeno; conoscevo ciò che essi ignoravano, il mistero dei cieli che indicava la strada attraverso l'Oceano. E fu il gusto del potere che mi era stato dato a spingermi oltre. Per lunghe ore manovravo con una mano la ruota del timone e con l'altra studiavo i misteri. Dopo una settimana, essendomi istruito per conto mio, ero in grado di fare diverse cose. Per esempio presi l'altezza della Stella Polare, di notte naturalmente, e ne ricavai l'altezza vera corretta dell'errore d'indice e della depressione, eccetera, e trovai la nostra latitudine.


Questa latitudine corrispondeva a quella del mezzogiorno precedente, corretta fino a quel momento con la stima. Se ero fiero? Ebbene lo fui ancor di più dopo avere compiuto il miracolo successivo. Alle nove dovevo ritirarmi sotto coperta. Eseguii il calcolo e, sempre studiandoci da solo, trovai quale stella di prima grandezza sarebbe passata al meridiano verso le otto e mezza. Risultò che era Alpha Crucis. Non l'avevo mai sentita nominare prima d'allora; la ricercai sulla carta delle stelle; era una delle stelle della Croce del Sud. Ma come, pensai, abbiamo forse navigato con la Croce del Sud sull'orizzonte tutte queste notti senza saperlo? Che imbecilli siamo!


Che stupide talpe! Non potevo crederci. Ritornai da capo sul problema e ne ebbi conferma. Charmian, quella sera, era di guardia al timone dalle otto alle dieci. Le dissi di tenere gli occhi bene aperti e di cercare la Croce del Sud nell'esatta direzione del sud. Quando apparvero le stelle, ecco che la Croce del Sud brillava bassa sull'orizzonte .


Se ero fiero? Nessun stregone o Gran Sacerdote lo fu mai più di me.


Per giunta, con la ruota della preghiera presi l'altezza di Alpha Crucis e dalla sua altezza ricavai la nostra latitudine. E ancora, presi l'altezza della Stella Polare e mi venne confermato quello che avevo appreso dalla Croce del Sud. Se ero fiero? Il linguaggio delle stelle non aveva più segreti per me, io stavo in ascolto ed esse mi dicevano la via da seguire sull'oceano.


Fiero? Io operavo miracoli. Dimenticai la facilità con cui mi ero istruito sui libri stampati. Dimenticai che tutto il lavoro (un formidabile lavoro) era stato fatto da menti superiori prima di me, da matematici e astronomi che avevano scoperto ed elaborato l'intera scienza della navigazione e calcolato le tavole della "Epitome". Non rammentavo altro che il miracolo indimenticabile di aver ascoltato le voci delle stelle e di averne appreso la mia posizione sulle grandi vie del mare. Charmian non sapeva niente, e neppure Martin, e neppure Tochigi, il cameriere. Ero io che li illuminavo, io ero il messaggero di Dio. Io stavo tra loro e l'infinito. Io traducevo il sublime linguaggio celeste in termini per loro facilmente comprensibili.


Eravamo guidati dall'alto ed IO sapevo leggere i cartelli indicatori del cielo. Io, proprio io!!


Ma ora, in un momento di maggior calma, mi affretto a rivelare la grande semplicità di tutto ciò, a spettegolare su Roscoe, sugli altri intenditori di navigazione e su tutti gli altri Gran Sacerdoti, e tutto per paura di diventare come sono loro, segreti, presuntuosi e pieni di sé. E ora voglio dire questo: qualunque ragazzo fornito di un cervello normale, di una normale istruzione, e con un minimo di attitudine allo studio, può rendersi padrone dei libri, delle carte nautiche, degli strumenti e imparare da sé la navigazione. Non bisogna però fraintendermi: essere un buon marinaio è una cosa del tutto diversa. Non si impara né in uno né in molti giorni, ci vogliono anni.


Per giunta, saper navigare con la stima richiede un lungo studio e molta pratica. Ma navigare mediante l'osservazione del sole, della luna e delle stelle, grazie agli astronomi e ai matematici, è un gioco da ragazzi. Un qualsiasi ragazzo normale può imparare da sé in una settimana. Ma di nuovo non bisogna fraintendermi, non intendo dire che in capo a una settimana un ragazzo possa prendersi la responsabilità di un piroscafo da 15000 tonnellate che solca il mare a 20 nodi, che corre da una terra all'altra con buono o cattivo tempo, con cielo sereno o coperto, governando alla bussola con l'esattezza del grado e compiendo atterraggi di una meravigliosa precisione. Ma intendo invece questo: il ragazzo normale di cui parlavo può salire su una solida barca a vela e spingersi sull'Oceano senza intendersi di navigazione, e in capo a una settimana ne saprà abbastanza da determinare il suo punto sulla carta nautica. Sarà in grado di prendere un'altezza meridiana con buona precisione, e da quell'altezza, con dieci minuti di calcolo, ricavare la sua latitudine e longitudine. E, dal momento che non trasporta né carico né passeggeri, e non ha nessuna urgenza di raggiungere la sua destinazione, può prendersela con calma, e se in qualsiasi momento gli vengono dei dubbi sulla sua posizione e ha paura dell'atterraggio imminente, può mettersi alla cappa per tutta la notte e proseguire la mattina.


Joshua Slocum fece il giro del mondo a vela alcuni anni fa con una barca da 37 piedi, da solo. Non dimenticherò mai che, nel corso della narrazione della sua crociera, egli ribadisce con entusiasmo l'idea che un simile viaggio possa essere affrontato da giovani uomini su barche altrettanto piccole. Io da parte mia sottoscrissi immediatamente l'idea, e con tale entusiasmo che portai mia moglie con me. Naturalmente un giro organizzato da Cook diventa una cosa da quattro soldi al confronto, ma oltre a ciò, e oltre al divertimento e al piacere, è una splendida educazione per un giovane - educazione non limitata alle cose del mondo esterno, ai paesi, alle genti, ai climi - ma educazione nei riguardi del proprio mondo interiore, e di se stesso, opportunità di conoscere se stesso, di comunicare con la propria anima. C'è inoltre un lato formativo del fisico e dello spirito. In principio, com'è naturale, il giovane imparerà a conoscere i propri limiti; e subito dopo, inevitabilmente, egli si adoprerà per superarli.


Al ritorno da un simile viaggio, egli non potrà non essere un uomo di maggior valore. In quanto poi al divertimento, è un divertimento da re portare se stessi in giro per il mondo, farlo con le proprie mani, non dipendere che da se stessi, e alla fine, di ritorno al punto di partenza, contemplare nella propria mente il pianeta che solca lo spazio e poter dire: "Ce l'ho fatta! Ce l'ho fatta con le mie proprie mani! Ho fatto il giro completo di questa sfera ruotante e posso viaggiare da solo, senza essere tenuto a balia da un qualche capitano che mi guidi attraverso i mari. Magari non potrò volare fino agli altri astri, ma di questo io stesso sono padrone".


Mentre scrivo queste righe, alzo gli occhi e guardo verso il mare.


Sono sulla spiaggia di Waikiki nell'isola di Oahu. In lontananza, nel cielo azzurro, le nuvole dell'aliseo vagano basse sul turchese-blu- verde del mare profondo. Più vicino il mare è color smeraldo e di un tenue verde-oliva. Più in là c'è la barriera corallina, dove l'acqua è tutta di un viola ardesia chiazzato di rosso. Più vicino ancora ci sono verdi più vivaci e colori fulvi in strisce alterne che indicano le zone di sabbia tra i banchi di vivo corallo. Fuori da questi meravigliosi colori, attraverso e al di sopra di essi, tuonando si elevano e rovesciano magnifici i frangenti. Come dicevo, alzo gli occhi per contemplare tutte queste cose, e improvvisamente, in mezzo alla cresta bianca di un cavallone compare una figura scura, uomo- pesce o dio marino, dritto in piedi sulla estremità anteriore della cresta dove questa si incurva e ricade, avanzante verso la riva, immerso fino alle reni nel ribollire degli spruzzi, e afferrato dall'onda e scagliato verso terra con tutto il suo peso per un quarto di miglio. E un kanaka su di una tavola galleggiante. E so che quando avrò terminato queste righe sarò anch'io in quel tumulto di colori e di schiuma martellante, tentando come lui di domare quei cavalloni senza riuscirci, cosa che a lui non è mai capitata, ma vivendo la vita nel modo a cui i migliori di noi possono aspirare.


Lo spettacolo di quel mare intensamente colorato e di quel kanaka alato dio marino diventa un motivo di più per il giovane di andare verso occidente, sempre più in là, oltre le acque del tramonto, e poi ancora verso ovest, finché non avrà raggiunto di nuovo la sua casa.


Ma per tornare al discorso di prima, non crediate, ve ne prego, che io sappia già tutto: conosco solo i rudimenti della navigazione: ho ancora un mucchio di cose da imparare. Sullo "Snark" mi attendono una ventina di libri affascinanti sulla navigazione. C'è l'angolo di sicurezza di Lecky, c'è la retta di Sumner, che, quando proprio non sapete dove vi trovate, vi indica in maniera assolutamente definitiva dove siete e dove non siete. Ci sono decine e decine di sistemi per fare il punto in alto mare, e uno può lavorare per anni prima di riuscire a impadronirsi di tutta la materia con tutte le sue sottigliezze.


Persino nel mettere in pratica quel poco che imparammo, commettemmo degli errori che giustificavano il comportamento apparentemente bizzarro dello "Snark". Per esempio giovedì, 16 maggio, l'aliseo ci venne a mancare. Nel periodo di ventiquattr'ore che andava fino al mezzogiorno di venerdì alla stima, non avevamo percorso neanche venti miglia. Eppure ecco qui le nostre posizioni a mezzogiorno dell'una e dell'altra giornata, ricavate dalle nostre osservazioni:


Giovedì 20 gradi 57 primi 9 secondi Nord 152 gradi 40 primi 30 secondi Ovest.


Venerdì 21 gradi 15 primi 33 secondi Nord 154 gradi 12 primi Ovest.


La differenza tra una posizione e l'altra era di una ottantina di miglia. Eppure sapevamo di non avere percorso neanche venti miglia.


Ora i nostri calcoli erano giustissimi; li rivedemmo più di una volta.


L'errore era nelle osservazioni eseguite. Fare un'osservazione giusta richiede pratica e abilità, specialmente in un'imbarcazione piccola come lo "Snark". La difficoltà è dovuta ai violenti movimenti della barca e alla vicinanza dell'occhio dell'osservatore alla superficie dell'acqua. Una grossa onda che si solleva a un miglio di distanza può facilmente nascondere l'orizzonte.


Ma nel nostro caso particolare c'era un altro elemento di disturbo.


Il Sole, durante il suo percorso in cielo verso il nord, come tutti gli anni, stava aumentando la sua declinazione. Al diciannovesimo parallelo di latitudine nord alla metà di maggio, il Sole è quasi a perpendicolo. L'altezza era tra gli ottantotto e gli ottantanove gradi. Se fosse stata di novanta gradi, il Sole sarebbe stato esattamente allo zenit. Fu in un altro giorno che imparammo qualcosa su come si prende l'altezza del Sole quando è quasi a perpendicolo.


Roscoe cominciò a portare giù il Sole all'orizzonte dal lato di levante, e restò in quella direzione nonostante che il Sole stesse passando in meridiano a sud. Io, d'altra parte, cominciai a portare giù il Sole a sud-est e me ne allontanai via via verso sud-ovest.


Stavamo imparando da soli, capite? Il risultato fu che alle dodici e venticinque, ora di bordo, io proclamai che era mezzogiorno vero.


Questo voleva dire che avevamo variato la nostra posizione sulla faccia della terra di venticinque minuti di orologio, cioè qualcosa come sei gradi di longitudine, o trecentocinquanta miglia.


Questo comportava che lo "Snark" aveva filato a quindici nodi per ventiquattro ore consecutive - e noi non ce ne eravamo mai accorti!


Era assurdo e grottesco! Ma Roscoe, che stava ancora guardando verso est, dichiarò che non erano ancora le dodici. Voleva assolutamente darci una media di venti nodi. Allora cominciammo a puntare i nostri sestanti irregolarmente per tutto l'orizzonte, e dovunque puntassimo, si rivedeva il Sole, misteriosamente vicino alla linea del mare, talvolta sopra e talvolta sotto di essa. In una direzione il Sole proclamava che era mattina, mentre in un'altra stava proclamando che era pomeriggio. Sul Sole non c'erano dubbi - questo almeno era sicuro; di conseguenza noi stavamo sbagliando in pieno. Il resto di quel pomeriggio lo trascorremmo nel pozzetto, cercando di chiarire la questione sui libri, e scoprendo quale era lo sbaglio. Saltammo l'osservazione per quel giorno, ma non il giorno dopo. Avevamo imparato.


E imparammo bene, meglio di quanto noi stessi per un certo tempo credessimo. Una sera, all'inizio del secondo gaettone (periodo di guardia tra le 18 e le 20), Charmian e io eravamo seduti a prora estrema per una partita di cribbage. Guardando per caso di prora, avvistai delle montagne, con le cime coperte di nubi, e che spuntavano dal mare. Fummo rallegrati alla vista della terra, ma io fui desolato per la nostra navigazione. Credevo che avessimo imparato qualcosa, e, invece, secondo il nostro punto di mezzogiorno e tenendo conto del percorso coperto in seguito, non potevamo essere a meno di cento miglia da terra. Eppure la terra era là, che svaniva sotto i nostri occhi nell'incendio del tramonto. La terra senza dubbio c'era. Questo era indiscutibile. Quindi la nostra navigazione era completamente sbagliata.


E invece era giusta: la terra che avvistammo era la vetta dell'Haleakala, la Casa del Sole, il vulcano spento più grande del mondo. Esso torreggiava sul mare con i suoi tremila metri, ed era a oltre cento miglia di distanza. Per tutta la notte navigammo mantenendo i sette nodi, e al mattino la Casa del Sole era sempre davanti a noi, e ci vollero ancora alcune ore di navigazione per averla al traverso.


- Quell'isola è Maui - dicemmo, confrontando la carta. - Quell'altra isola che spunta dietro è Molokai, dove ci sono i lebbrosi. E quella ancora dopo è Oahu. Ecco adesso Capo Makapuu. Domani arriveremo a Honolulu. La nostra navigazione va benissimo.




CAPITOLO 5


IL PRIMO ATTERRAGGIO


- Non sarà così monotono in alto mare - avevo promesso ai miei compagni dello "Snark". - Il mare brulica di vita. E' così popoloso che ogni giorno vi accade qualcosa di nuovo. Non appena avremo oltrepassato il Golden Gate e ci dirigeremo verso sud, troveremo i pesci volanti. Ce li mangeremo fritti come prima colazione. Prenderemo e tonni e delfini e dal bompresso infilzeremo con la fiocina le focene. E infine ci saranno i pescicani, pescicani a non finire.


Attraversammo il Golden Gate e dirigemmo verso sud, lasciando dietro l'orizzonte le montagne della California, e di giorno in giorno il Sole si faceva più caldo. Ma né pesci volanti, né tonni e delfini comparivano. L'oceano sembrava privo di vita. Non avevo mai navigato su un mare così desolato. Sempre, prima d'ora, alla stessa latitudine, avevo trovato i pesci volanti.


- Non importa - dissi. - Aspettiamo di esserci allontanati dalla costa della California meridionale. E troveremo i pesci volanti.


Arrivammo all'altezza della California meridionale, all'altezza della penisola della Bassa California, all'altezza delle coste del Messico:


niente pesce volante. E nemmeno qualsiasi altro. Nessun segno di vita.


Man mano che i giorni passavano, l'assenza di vita finiva per avere qualcosa di magico.


- Non importa - dissi. - Quando avremo trovato i pesci volanti, troveremo anche tutti gli altri. Il pesce volante è la staffetta che annuncia la vita di tutte le altre specie. Verranno a frotte, non appena avremo trovato il pesce volante.


Quando avrei dovuto dirigere lo "Snark" per sud-ovest verso le Hawaii, continuai a far rotta verso sud. Dovevo trovare quei benedetti pesci volanti. Alla fine giunse il momento in cui, se intendevo andare a Honolulu, avrei dovuto dirigere per ponente esatto. E invece continuai nella rotta a sud. Solo al diciannovesimo grado latitudine incontrammo il primo pesce volante. Era veramente solo; e fui io a vederlo. Altre cinque paia di occhi scrutarono avidamente il mare per tutta la giornata, senza vederne un altro. Erano così rari quei pesci volanti che ci volle quasi una settimana perché ognuno di noi ne avesse avvistato uno. Quanto a delfini, tonni, focene e tutti gli altri esemplari di fauna marina - non ce n'era neppure uno.


Neppure un pescecane fu visto fendere la superficie con la sua minacciosa pinna dorsale. Bert si tuffava quotidianamente sotto il bompresso, tenendosi attaccato alla briglia e lasciando strascicare il corpo nell'acqua, e quotidianamente riprendeva in esame un suo progetto di lasciarsi andare per fare una bella nuotata. Facevo di tutto per dissuaderlo, ma ai suoi occhi avevo perduto ormai qualsiasi autorità in fatto di abitatori del mare.


- Se ci sono dei pescicani - insisteva a chiedere - perché non si fanno vedere?


Gli garantivo che se realmente si fosse lasciato andare per mettersi a nuotare, i pescicani sarebbero subito apparsi. Era una fanfaronata, la mia. Non ci credevo. Ma per due giorni riuscii a dissuaderlo. Il terzo giorno, il vento cadde e faceva piuttosto caldo, e lo "Snark" navigava a un nodo all'ora. Bert s'immerse sotto il bompresso e si lasciò andare. E ora guardate un po' la malignità del destino! Avevamo percorso duemila miglia e più di oceano, senza incontrare un pescecane. Cinque minuti dopo che Bert aveva finito la sua nuotata, la pinna di uno squalo fendeva la superficie dell'acqua in circoli concentrici tutto attorno allo "Snark".


Però c'era qualcosa di non chiaro in quel pescecane. Mi infastidiva.


Non avrebbe dovuto esserci in quell'oceano deserto. Quanto più ci pensavo, tanto più la cosa mi diventava incomprensibile. Ma due ore dopo avvistammo terra e il mistero si chiarì. Era venuto a noi dalla terra e non dalle profondità disabitate. Era stato un presagio di atterraggio. Era un annunciatore della terra.


Ventisette giorni dopo la partenza da San Francisco, arrivammo nell'isola di Oahu, nell'arcipelago delle Hawaii. Nel primo mattino scivolammo pigramente attorno al Capo Diamond, finché ci apparve in pieno Honolulu; e di colpo l'oceano fu tutto un fremito di vita. Pesci volanti in frotte luccicanti fendevano l'aria: in dieci minuti ne vedemmo più che durante l'intero viaggio. Altri pesci, di quelli grossi, di tipi svariati, balzavano nell'aria. Dappertutto pulsava la vita, in mare e sulla riva. Potevamo vedere gli alberi e i fumaioli del naviglio nel porto, in costa gli alberghi e i bagnanti sulla spiaggia di Wainiki, il fumo che si elevava dalle case su per i pendii vulcanici di Punch Bowl e Tantalus. Il rimorchiatore della Dogana si affrettava a venirci incontro, e un grosso branco di delfini si portò sotto la nostra prua e incominciò a fare le più pazze capriole. La lancia dell'ufficiale sanitario di porto sembrò precipitarsi su di noi e una grossa tartaruga marina emerse con lo scudo e ci diede una guardatina. Non s'era mai visto un simile erompere di vita. Ci furono strani visi sulla nostra coperta, strane voci parlarono, e copie del giornale di quel mattino, con telegrammi da ogni parte del mondo, ci furono messe sotto gli occhi. Fra l'altro potemmo leggere che lo "Snark" con tutto l'equipaggio si era perso in mare e che in ogni modo era una barca molto poco marina. E mentre leggevamo una simile informazione, un radiogramma giungeva a una comitiva di membri del Congresso sulla sommità dell'Haleakala, annunciando il felice arrivo dello "Snark".


Fu il primo atterraggio dello "Snark" - e quale atterraggio!


Per ventisette giorni ci eravamo trovati in pieno oceano deserto, e a stento ora si riusciva a realizzare quanta vita ci fosse nel mondo; ce ne sentivamo storditi, quasi non potessimo adeguarci ad essa di colpo.


Eravamo come tanti Rip Van Winkle ridestati, e ci sembrava di continuare ancora a sognare. Da un lato il mare azzurro si riversava all'orizzonte nel cielo azzurro, dall'altro il mare stesso si sollevava in grossi frangenti color smeraldo, che ricadevano in bianche nuvole di spuma su una candida spiaggia corallina. Oltre la spiaggia, verdi piantagioni di canne da zucchero ondulavano dolcemente verso pendii sempre più scoscesi, che a loro volta si tramutavano in frastagliate creste vulcaniche, inzuppate da acquazzoni tropicali e coronate da masse stupende di nubi spinte dagli alisei. Era, ad ogni modo, un magnifico sogno. Lo "Snark" accostò e si diresse verso il frangente smeraldino, finché questo non si sollevò rombando da ogni lato, e da ogni lato, lontano quanto si può gettare una galletta, la scogliera mostrava la sua lunga dentatura minacciosa di un verde pallido.


Bruscamente la terra stessa, in un'orgia di verdi oliva dalle mille sfumature, protese le braccia a racchiudere lo "Snark". Non ci fu più nessun passaggio pericoloso attraverso la scogliera, nessun frangente smeraldino o mare azzurro - nient'altro che terra soffice e calda, un'immobile laguna, e piccole spiagge sulle quali si bagnavano bambini del tropico dal bruno colorito. Il mare era scomparso. La catena dell'ancora scese rumoreggiando per la cubìa, e ci trovammo immobili in uno specchio d'acqua piatto e liscio. Era tutto così bello e strano che non potevamo concepirne la realtà. Sulla carta quel luogo era detto Pearl Harbour - porto delle perle; ma noi lo chiamammo Dream Harbour - porto del sogno.


Una lancia si staccò nella nostra direzione; erano alcuni membri dello Yacht Club di Hawaii, che venivano a darci il benvenuto e a mettere a nostra disposizione, con pretta ospitalità hawaiana, tutto quanto era loro. Uomini come tutti gli altri, carne e sangue e tutto il resto: ma nulla in loro che disturbasse il nostro sogno. L'ultimo ricordo di uomini che serbavamo era quello di ufficiali giudiziari degli Stati Uniti, e di piccoli mercanti in preda al panico, dalle anime simili a dollari arrugginiti, che, in un'affumicata atmosfera di fuliggine e polvere di carbone, piantavano sullo "Snark" le loro sudicie mani per inibirgli la sua avventura attraverso il mondo. Ma questi uomini che ci venivano incontro erano invece individui puri, dal sano viso abbronzato, dagli occhi senza occhiali, e non abbagliati da una diuturna contemplazione di luccicanti mucchi di dollari. No, essi non facevano che rendere più vero il sogno, confermarlo con le loro anime incontaminate. Così andammo a terra con loro, solcando un mare piatto e splendente, fino alla verde terra meravigliosa; sbarcammo su di una piccola banchina e il senso del sogno si fece più insistente; perché in verità per ben ventisette giorni avevamo ballonzolato sull'oceano con quel piccolo "Snark".


Non una volta sola, in tutti quei ventisette giorni, avevamo conosciuto un momento di requie, un momento di cessazione di quel moto. E questo moto incessante si era radicato in noi. Corpo e cervello, avevamo beccheggiato e rollato così a lungo che, quando salimmo su quella stretta banchina, continuammo a beccheggiare e a rollare. E naturalmente ne demmo la colpa alla banchina. Era un caso di psicologia proiettata. Io mi trascinai sulla banchina e per poco non caddi nell'acqua, gettai uno sguardo a Charmian, e il suo modo di camminare mi depresse. La banchina aveva tutta l'apparenza della coperta di una nave. Si sollevava, s'inclinava di lato, si gonfiava, ricadeva; e poiché non c'erano ringhiere, avevamo un bel da fare, Charmian e io, per evitare di perdere l'equilibrio. Non avevo mai visto una piccola banchina così assurda. Se la osservavo da vicino si rifiutava di rollare, ma non appena mi distraevo, se ne fuggiva via, proprio come lo "Snark". Una volta la sorpresi proprio nel momento in cui si rizzava dritta e potei scorrerla con lo sguardo per tutti i suoi duecento piedi di lunghezza; ed era precisamente come la coperta di una nave che si infilasse in un mare di prora.


Alla fine, però, con l'aiuto dei nostri ospiti, venimmo a patti con la banchina e toccammo terra. Ma anche la terra non si comportò meglio.


La primissima cosa che fece fu di inclinarsi da un lato, e fin dove poteva giungere il mio sguardo, la vedevo piegarsi proprio fino alla sua dentata spina dorsale vulcanica, e vedevo inclinarsi anche le nuvole, al di sopra. Questa non era una terra stabile, dalle solide fondamenta, che non avrebbe fatto simili acrobazie. Era come tutto il resto del nostro atterraggio, irreale. Era un sogno. In qualsiasi momento, come vapore mutevole, avrebbe potuto dissolversi. Mi venne l'idea che la colpa fosse mia, che mi girasse la testa o che mi avesse fatto male qualcosa che avevo mangiato. Ma mi voltai a guardare Charmian e il suo deprimente modo di camminare, e proprio mentre la guardavo, la vidi vacillare e andare a sbattere contro il socio dello Yachting Club che le camminava vicino. Quando le rivolsi la parola, si lamentò del grottesco comportamento della terra. Traversata una vasta e magnifica prateria, percorso un viale di magnifiche palme, di nuovo attraversammo un altro meraviglioso prato, ombreggiato da piante maestose. L'aria era tutta un canto di uccelli, era pregna di calde fragranze - esalate da grandi gigli e fiammeggianti fiori di ibisco e altri strani e sgargianti fiori tropicali.


Il sogno, per noi che così a lungo avevamo visto soltanto l'irrequieto mare salato, stava diventando fin quasi troppo bello. Charmian mi tese la mano, si strinse a me, forse per trovare un appoggio di fronte a tanta insostenibile bellezza, immaginai. Ma no. Mentre la sostenevo, irrigidii le gambe, poiché sia fiori che prato vacillavano e ondulavano intorno a me. Sembrava una scossa di terremoto, solo che passò di botto senza far danni. Era piuttosto difficile cogliere la terra nell'atto di fare simili scherzi; finché ci stavo attento, non succedeva niente, ma non appena mi distraevo, tutto quanto il panorama se ne fuggiva via, e oscillava, si gonfiava, e assumeva tutte le inclinazioni possibili. Una volta, però, nel girare il capo all'improvviso, sorpresi quella fila imponente di palme regali che oscillava descrivendo un grande arco nel cielo. Ma non appena la sorpresi, si fermò, e il sogno diventò nuovamente placido.


Arrivammo poi a una casa tutta fresca con una grande veranda ventilata, che avrebbe potuto essere la dimora dei mangiatori di loto.


Finestre e porte erano spalancate alla brezza e canzoni e profumi pigramente ne entravano e uscivano a fiotti. Le pareti erano foderate di tapa, e ovunque divani ricoperti da stuoie apparivano invitanti; c'era anche un grande pianoforte, che certamente non poteva suonare nulla di più eccitante di nenie. Cameriere - fanciulle giapponesi nel loro costume - vagavano qua e là, silenziosamente, come farfalle.


Tutto era straordinariamente fresco. Non più il dardeggiare di un sole tropicale sopra un mare implacabile. Era troppo bello per essere vero.


Ma non era una cosa reale. Quella dimora era una dimora di sogno. Lo sapevo, perché mi voltai di colpo e vidi il grande piano compiere delle evoluzioni in un angolo spazioso della stanza. Non dissi nulla, perché proprio in quel momento ci stava dando il benvenuto una donna graziosa, una bella Madonna, che indossava un'ampia veste bianca e aveva i sandali ai piedi, salutandoci come se ci avesse sempre conosciuti.


Ci mettemmo a tavola nella veranda immersa in una calma sognatrice, serviti dalle fanciulle-farfalle, a mangiare strani cibi e a gustare un nettare detto "poi". Ma il sogno minacciava di dissolversi, splendeva di una luce tremula, come una bolla iridescente sul punto di scoppiare. Ero per l'appunto intento a guardare là fuori l'erba verde e gli alberi imponenti e i fiori di ibisco, quando sentii a un tratto la tavola muoversi. La tavola e la Madonna di fronte a me e la veranda dei mangiatori di loto, l'ibisco rosso, e il tappeto verde e le piante - tutto si sollevò e inclinò dinanzi ai miei occhi, e si gonfiò e ricadde nel cavo di un immane cavallone. Afferrai convulsamente la seggiola, tenendola stretta. Mi pareva di tenermi stretto al sogno oltre che alla seggiola. Non mi sarei sorpreso se il mare fosse penetrato d'impeto, sommergendo tutta quella terra fatata, e io mi fossi ritrovato al timone dello "Snark", sollevando distrattamente lo sguardo da uno studio dei logaritmi. Ma il sogno continuava. Guardai di soppiatto la Madonna e suo marito. Non davano segno di turbamento.


Sulla tavola i piatti non si erano mossi. L'ibisco e gli alberi e l'erba erano sempre là. Nulla era mutato. Sorseggiai ancora un po' di nettare e il sogno fu più che mai rea]e.


- Volete un po' di tè ghiacciato? - chiese la Madonna; e in quel mentre il suo lato della tavola si piegò dolcemente e io le risposi di sì a un angolo di quarantacinque gradi.


- A proposito di pescicani - disse suo marito - su a Niihau c'era un uomo.... - E in quell'istante la tavola si drizzò e gonfiò, e io alzai gli occhi su di lui, a un angolo di quarantacinque gradi.


Così la colazione continuò, e io mi rallegravo di non dover soffrire nel vedere Charmian camminare. A un tratto, però, una parola misteriosa uscì a intimorirmi dalle labbra dei mangiatori di loto.


"Ah, ah", pensai, "ecco che il sogno comincia a svanire". Di nuovo mi aggrappai disperatamente alla seggiola, deciso a riportare alla realtà dello "Snark" qualche vestigio tangibile della terra del loto. Sentivo che tutto il sogno stava subdolamente cercando di sfuggire. Proprio allora la misteriosa parola, che incuteva timore, venne ripetuta.


Suonava come "giornalisti". Alzai gli occhi e ne vidi tre venire avanti nel prato. Oh, benedetti quei giornalisti! Ma allora il sogno era indiscutibilmente vero, dopo tutto. Guardai fuori, verso l'acqua splendente, e vidi lo "Snark" all'ancora, ricordai che con esso avevo navigato da San Francisco alle Hawaii, e che questo era Pearl Harbour, e che proprio in quell'istante alcune persone mi erano presentate e io dicevo, rispondendo alla prima domanda: "Sì, durante tutta la navigazione abbiamo avuto un tempo magnifico".




CAPITOLO 6


UNO SPORT DA RE


Ecco cos'è: uno sport da re per i re naturali della terra.


Sulla spiaggia di Waikiki, l'erba cresce proprio fino all'acqua, e anche in mare per una fascia di venti piedi oltre la linea della bassa marea. Anche le piante crescono fino al limite salino delle cose, e si sta seduti alla loro ombra, si guarda in direzione del mare, verso i maestosi frangenti che si abbattono rombando sulla spiaggia ai nostri piedi. Mezzo miglio più in là c'è la scogliera, e lì i frangenti dalle candide creste si innalzano ad un tratto verso il cielo dalla placida distesa azzurra e giungono rotolando fino a riva. Vengono, uno dopo l'altro, per tutto un miglio, con le creste frangiate di spuma, battaglioni infiniti dell'infinito esercito del mare.


Si sta seduti, prestando l'orecchio al rombo perpetuo, contemplando la processione senza fine, e ci si sente piccoli e fragili di fronte a questa forza terrificante che si esprime in furore e schiuma e suono.


Davvero, ci si sente microscopicamente minuscoli, e il pensiero che si potrebbe avere da lottare con un simile mare desta nell'immaginazione un fremito d'apprensione, quasi di paura.


Ma via, vengono dalla lontananza di un miglio, questi mostri dalle fauci ferine, e pesano migliaia di tonnellate, e vengono all'attacco della spiaggia più velocemente di quanto un uomo possa correre. Quale possibilità in una simile lotta? Proprio nessuna, ecco il verdetto dell'IO intimorito: e si continua a star seduti, a guardare e ascoltare, e si pensa che erba e ombra compongono un piacevole rifugio.


Ma ad un tratto, là fuori, dove una grande nuvola di spruzzi si drizza verso il cielo, come un dio marino che sorga da quell'accavallarsi di spuma e di un bianco ribollire, sulla cresta instabile, vorticosa, che crolla, s'impenna e ricade, del frangente, appare il bruno capo di un essere umano. Veloce si erge nel mezzo di quel bianco precipitare. Le sue brune spalle, il torace, i fianchi, le membra, tutto si staglia bruscamente dinanzi ai nostri occhi. Là dove solo un istante prima non c'era che un'ampia distesa desolata e un rombare incontenibile, ecco ora un uomo eretto in tutta la sua statura, non lottando freneticamente in quel moto selvaggio, non sepolto e schiacciato e sbattuto da quei mostri possenti, ma ritto al di sopra di essi, calmo e superbo, in equilibrio sull'instabile sommità, i piedi immersi nella spuma ribollente, avvolto dagli spruzzi salini fino alle ginocchia, e tutto il resto del suo essere nella libera aria e nel sole splendente.


Si erge e vola attraverso l'aria, vola avanzando, vola alla velocità dell'onda su cui si erge. E' un Mercurio, un bronzeo Mercurio, dai talloni alati e veloci quanto il mare. In verità è sorto dal mare, balzando sul dorso del mare, e sul mare cavalca, sul mare che romba e muggisce e non riesce a scuoterselo di dosso. Ma il suo non è un frenetico cercare di sopravanzare e tenersi in equilibrio. Egli è impassibile, immobile, come una statua che, miracolosamente scolpita, sorga dalle profondità del mare da cui anch'egli è sorto. E dritto verso la riva vola sui talloni alati e sulla bianca cresta dell'onda.


Con un furioso erompere di spuma, un lungo e tumultuoso rombare, l'onda ricade vana ed esausta sul lido ai nostri piedi; e dinanzi a noi si avanza quietamente un kanaka, abbronzato dal sole tropicale.


Pochi minuti prima non era che un puntolino alla distanza di un quarto di miglio: ora ha "domato il frangente dalle fauci ferine", montandoci sopra, e l'orgoglio dell'impresa è visibile nel portamento del suo magnifico corpo, mentre noncurante getta uno sguardo su di voi, seduto all'ombra sulla spiaggia. E' un kanaka, più ancora, è un uomo, appartiene alla razza regale che ha soggiogato la materia e gli esseri bruti e domina su tutto il creato.


E allora, continuando a stare seduti, si pensa all'ultima lotta di Tristano con il mare in quel fatale mattino, si pensa anche che il kanaka ha fatto quanto Tristano non fece mai, conosce una gioia offerta dal mare che Tristano mai conobbe. E si pensa ancora che è bellissimo stare seduti nell'ombra quieta della spiaggia, ma che voi siete un uomo, appartenente a quella razza regale, e che ciò che un kanaka può fare, lo potete fare pure voi. Suvvia, toglietevi gli abiti, che ingombrano, in questo dolce clima. Entrate in mare, lottate con esso, rendete alati i vostri talloni con l'abilità e la forza che è in voi; imbrigliate le onde del mare, dominatele, cavalcate sui loro dorsi, come spetta a un re.


Fu così che io mi diedi allo sport di correre sulle onde. E ora che l'ho praticato, più che mai lo considero uno sport da re. Ma prima lasciate che ve ne spieghi la natura fisica.


Un'onda è un'agitazione che si trasmette. L'acqua che costituisce la sostanza di un'onda non si muove. Se lo facesse, quando un sasso è buttato in uno stagno e le increspature si allargano in un cerchio sempre più vasto, al centro si dovrebbe formare una cavità in continuo aumento. No, l'acqua che costituisce la sostanza di un'onda resta ferma. Così, se guardate un punto determinato della superficie dell'oceano, vedrete sempre la stessa acqua sollevarsi e ricadere mille volte per l'agitazione trasmessa da mille onde successive.


Immaginate ora che questa agitazione che si comunica si diriga verso terra. Quando il fondo del mare si rialza, la parte inferiore dell'onda è la prima a urtare la terra ed è fermata. Ma l'onda è fluida, e la parte superiore dell'onda non ha urtato nulla, quindi continua a comunicare il suo moto, continua ad andare avanti. E quando la sommità di un'onda continua ad avanzare, mentre la parte inferiore rimane indietro, qualcosa dovrà pur accadere.


Infatti la parte inferiore dell'onda rimane indietro al disotto, la sommità si incurva e ricade al di là, in avanti, e all'ingiù, arricciandosi, increspandosi e rombando, come infatti succede. Ed è la parte inferiore dell'onda, che urta contro la terra, la causa di tutti i frangenti.


Ma la trasformazione da una lieve ondulazione a un frangente non è subitanea, se non dove il fondo si rialza improvvisamente. Se il fondo si eleva gradatamente in uno spazio che va da un quarto di miglio a un miglio, su un'eguale distanza avverrà la trasformazione. Così avviene, per esempio, dinanzi alla spiaggia di Waikiki, che dà origine a un frangente fatto apposta per lo sport di correre sulle onde.


Si balza sulla sommità di un frangente proprio là dove incomincia a rompersi e ci si mantiene in equilibrio, man mano che l'onda si rompe prima di arrivare alla spiaggia.


Ed ora parliamo un po' delle caratteristiche di questo sport.


Portatevi al largo su una tavola piatta, lunga sei piedi e larga due, di una forma vagamente ovale, stendetevi sopra, come un bimbo sopra una slitta, e vogate con le mani fino ad arrivare dove l'acqua è profonda, dove le onde incominciano a incresparsi. Rimanete tranquillamente stesi sulla tavola. Un'onda dopo l'altra continuerà a infrangersi dinanzi, dietro a voi, sopra e sotto di voi, e a precipitarsi verso la spiaggia, lasciandovi dietro di sé. Se stesse ferma, voi potreste percorrerla scivolando come fanno i ragazzini lungo il pendio di una collina. "Ma", voi obietterete, "l'onda non sta ferma". Verissimo: ma l'acqua che costituisce la sostanza di un'onda non si sposta, e in ciò sta il segreto di questo sport.


Se voi cominciate a scivolare lungo la superficie anteriore di quell'onda, continuerete a scivolare, senza mai cadere nel cavo dell'onda stessa. Non ridete, vi prego. L'altezza di quell'onda potrà essere di soli sei piedi, pure voi potrete continuare a scivolare su di essa per un quarto o una metà di miglio, senza cadere nel cavo dell'onda. Perché, vedete, dal momento che un'onda non è che un'agitazione trasmessa o una spinta, e l'acqua che forma l'onda cambia a ogni momento, nuova acqua si eleva nell'onda, alla stessa velocità di percorso dell'onda stessa. Voi scivolate lungo questa nuova acqua, ma rimanete nella vostra posizione iniziale sull'onda, scivolando lungo l'acqua sempre rinnovantesi che si eleva e forma l'onda. E scivolate precisamente alla stessa velocità di percorso dell'onda. Se essa percorre quindici miglia all'ora, voi percorrerete scivolando quindici miglia all'ora.


Tra voi e la spiaggia si stende un quarto di miglio d'acqua. Mentre l'onda avanza, quest'acqua cortesemente si ammassa nell'onda, la gravità fa il resto e voi ve ne andate giù, percorrendola tutta di scivolata. Se continuate a essere dell'opinione, mentre scivolate, che l'acqua si muove con voi, immergeteci le braccia e tentate di remare con le mani; vi accorgerete che dovrete essere notevolmente rapido per riuscire a fare una palata, perché quell'acqua sta scadendo di poppa con la stessa velocità con cui voi vi precipitate in avanti.


Ed ora parliamo di un altro lato di questo sport. Ogni regola ha le sue eccezioni. E' vero che l'acqua di un'onda non va avanti, ma c'è quella che si potrebbe chiamare la spinta del mare.


L'acqua della cresta che ricade al di là continua ad avanzare, come potrete presto constatare se vi schiaffeggia in viso, o se rimanete al di sotto di essa e da un colpo potente siete spinti sotto la superficie dell'acqua, rimanendo senza fiato e ansimanti per mezzo minuto.


L'acqua della sommità dell'onda si appoggia su quella della parte inferiore dell'onda stessa. Ma quando quest'ultima urta contro la terra, si ferma, mentre la parte superiore dell'onda continua ad avanzare, senza però avere più la parte inferiore dell'onda a sostenerla, sicché dove prima c'era tutta acqua, ora c'è dell'aria.


Avviene così che per la prima volta l'onda risente l'effetto della forza di gravità, e cade giù, venendo nello stesso tempo strappata dalla parte inferiore, che rimane indietro, e scagliata in avanti. E per questa ragione scivolare sull'onda sopra una tavola è qualcosa di diverso dal semplice lasciarsi scivolare giù per una collina. A dire il vero, è proprio come se si fosse afferrati e scagliati verso terra dalla mano di un Titano.


Abbandonai l'ombra fresca, indossai un costume da bagno, mi procurai una tavola adatta a questo sport (era troppo piccola: ma io non lo sapevo, e nessuno me lo disse), e raggiunsi alcuni ragazzini kanaka che giocavano in acqua poco profonda, dove le onde arrivavano già esaurite e ridotte - un vero giardino d'infanzia. Mi soffermai a guardarli: non appena arrivava un'onda che prometteva bene, si gettavano bocconi sulle loro tavole, scalciavano pazzamente e arrivavano con l'onda sino a terra. Decisi di imitarli. Continuai a guardarli, mi sforzai di fare tutto quello che facevano e feci un fiasco completo. L'onda passava via, e senza di me. Ritentai a più riprese, scalciai ancora più freneticamente dei ragazzini, ma non serviva a niente. Ne avevo intorno una mezza dozzina e tutti balzavano sulle tavole davanti a un'onda promettente; i nostri piedi roteavano come pale di battelli fluviali a ruota, e ogni volta quei bricconi sfrecciavano via, mentre io, sciagurato, rimanevo indietro.


Tentai per una buona ora, senza riuscire a convincere una sola onda a issarmi fino alla spiaggia. Poi arrivò un amico, Alexander Hume Ford, globe-trotter di professione, un tipo sempre in cerca di nuove sensazioni. E ne aveva trovate a Waikiki. Diretto in Australia, si era fermato lì per una settimana per vedere se si provava qualche emozione nello scivolare sulle onde sopra una tavola, e non se ne era più staccato. Per un mese intero si era dato ogni giorno a quello sport, né riscontrava in sé alcun sintomo di un diminuire dell'attrazione. Mi parlò da competente.


- Togliti da quella tavola - disse - sbattila via subito. Vedi un po' come fatichi a starci sopra. Se mai il naso di quella tavola urta contro la terra, ti troverai sbudellato. Su, prendi la mia. E' di dimensioni adatte per un uomo.


Sono sempre umile di fronte alla competenza. Ford era un competente, e mi insegnò a salire correttamente sulla sua tavola, poi aspettò un bel cavallone, mi diede una spinta al momento giusto, e così mi avviò. Oh, il momento delizioso, in cui sentii quell'onda afferrarmi e lanciarmi!


Sfrecciai via per quattrocento metri, e mi afflosciai con l'onda sulla spiaggia. Da quel momento il mio caso fu disperato. A guado riportai a Ford la sua tavola, che era larga, di uno spessore di parecchi pollici e pesava buone settantacinque libbre. Ford mi diede dei consigli, tanti. Non aveva avuto nessuno che gli desse delle lezioni, e tutto quanto aveva imparato faticosamente in varie settimane, me lo trasmise in mezz'ora. Davvero imparai per procura! E alla distanza di mezz'ora fui in grado di darmi l'avvio da solo e iniziare la scivolata.


Continuai a farlo ancora e ancora, mentre Ford applaudiva e consigliava. Mi disse, ad esempio, di stendermi sulla tavola solo fino a un certo punto e non più in là; ma probabilmente dovetti essere andato un pochino più in là, perché, mentre arrivavo a tutta carica in terra, quella disgraziata tavola ficcò il naso nel fondo, si arrestò bruscamente e fece una bella capriola, troncando di botto ogni nostro rapporto. Fui lanciato in aria come un pezzetto di legno, e vergognosamente sommerso dal frangente che ricadeva. E compresi che, senza i consigli di Ford, sarei stato sbudellato. E' appunto questo rischio una parte del divertimento, Ford almeno lo sostiene. Può essere che tale emozione tocchi a lui, prima di lasciare Waikiki, e allora, ne sono convinto, la sua smania di sensazioni sarà soddisfatta per un bel po'.


Tutto ben considerato, è una mia netta convinzione che un omicidio è peggiore di un suicidio, soprattutto se, nel primo caso, si tratta di una donna. Ford mi salvò dal diventare un omicida. - Immagina che le tue gambe siano un timone - mi disse. - Tienile ben strette, e governa con quelle. - Pochi minuti dopo stavo arrivando a tutta velocità su di un frangente crestato, e mentre mi avvicinavo alla riva, lì nell'acqua, che le giungeva alla vita, proprio di fronte a me, comparve una donna. Come fermare quel cavallone, su cui mi trovavo?


Diedi la donna per morta. La tavola pesava settantacinque libbre, io ne pesavo centosessantacinque; questo peso addizionato aveva una velocità di quindici miglia orarie; la tavola e io formavamo un proiettile. Lascio ai fisici di calcolare la forza dell'urto contro quella povera, tenera creatura. Ma in quell'istante mi ricordai del mio angelo custode, Ford. - Governa con le gambe! - Le sue parole mi risuonarono nel cervello. Governai con le gambe, governai energicamente, bruscamente, con tutte le mie gambe e con tutta la mia energia. La tavola deviò mettendosi di traverso sulla cresta. Molte cose accaddero allora simultaneamente. L'onda mi schiaffeggiò di sfuggita, un debole colpetto, per essere quello di un'onda, ma sufficiente a gettarmi giù dalla tavola e a scagliarmi in basso attraverso l'acqua impetuosa, fino sul fondo, con cui venni a violenta collisione e sul quale rotolai a più riprese. Misi la testa fuori dell'acqua per respirare un po' e poi mi rizzai in piedi. La donna era lì dinanzi a me. Mi sentii un eroe: le avevo salvata la vita. E lei mi sorrise. Oh, non per isterismo: non si era mai sognata di essere in pericolo! Ad ogni modo, così mi consolai, non ero stato io, ma era stato Ford a salvarla, e quindi non avevo nessuna ragione di sentirmi un eroe. Per di più quel governare con i piedi era una cosa grande.


Con altri pochi minuti di esperienza fui in grado di infilarmi tra i vari bagnanti, rimanendo sulla cresta del mio frangente, invece di esserne sommerso.


- Domani - disse Ford - ti porterò in mare aperto.


Guardai il mare nella direzione che lui additava, e vidi dei grossi cavalloni spumeggianti che facevano sembrare i frangenti su cui avevo scivolato sino allora delle leggere increspature. Non so cosa potrei aver detto, se non mi fossi ricordato proprio allora che io appartenevo a una razza regale. Così mi limitai a dire: - Benone, domani me la vedrò con quelle onde là.


L'acqua che arriva rotolando sulla spiaggia di Waikiki è proprio la stessa di quella che bagna le spiagge di tutte le isole delle Hawaii, e in certo modo, specialmente dal punto di vista di un nuotatore, è un'acqua meravigliosa, abbastanza fresca per dare un senso di piacere, ma abbastanza calda perché ci si possa rimanere immersi tutto il giorno senza provare freddo. Sotto il Sole o le stelle, a mezzogiorno o a mezzanotte, in pieno inverno o in piena estate, non importa quando, ha sempre la stessa temperatura, né troppo calda né troppo fredda - giusta. E' un'acqua meravigliosa, salata come il vecchio oceano, pura, cristallina. Se si pensa alle caratteristiche di quest'acqua, non è poi tanto strano, dopo tutto, che i kanaka siano una delle razze più esperte in fatto di nuoto.


Avvenne così che l'indomani mattina, quando Ford si presentò, io mi tuffai in quell'acqua meravigliosa per una nuotata di durata indefinita. A cavalcioni delle nostre tavole, o meglio stesi bocconi su di esse, vogando con le mani, superammo il giardino d'infanzia dove i piccoli kanaka stavano giocando, e presto ci trovammo nell'acqua fonda dove i frangenti giungevano rombando. Anche solo lottare con essi, vogare verso il mare aperto passando sopra o attraverso ad essi era già un divertimento. Si doveva stare ben attenti, perché era una lotta in cui da un lato venivano inferti duri colpi e dall'altro si ricorreva all'astuzia - una lotta tra la forza bruta e l'intelligenza.


Presto mi feci esperto. Quando un frangente si arricciava sopra la mia testa, per un breve istante potevo vedere la luce del sole attraverso la sua verde fluidità, poi abbassavo la testa e mi tenevo stretto alla tavola con tutte le mie forze. Poi veniva l'urto, e per chi guardava dalla spiaggia io non esistevo più. In realtà e la tavola e io eravamo passati attraverso la cresta dell'onda, riemergendo nella zona di respiro dall'altra parte. Non raccomanderei questi urti a un malato o a una persona delicata, perché sono dotati di un certo peso, e la pressione dell'acqua sospinta è come quella di uno spruzzo violento di sabbia, quando si fabbrica il vetro. Certe volte si passa in rapida successione attraverso una mezza dozzina di frangenti, e proprio allora è facile scoprire nuove attrattive alla terraferma e nuove ragioni per rimanersene sulla spiaggia. Fu lì fuori, in mezzo a una successione di grosse onde spumeggianti, che un terzo uomo si unì a noi, un certo Freeth.


Mentre, emergendo da un'onda, scrollavo il capo per togliermi l'acqua dagli occhi e guardavo davanti a me per cercare di vedere com'era l'onda successiva, lo vidi che avanzava veloce su di essa, ritto sulla tavola, in noncurante equilibrio, un giovane dio abbronzato dal sole.


Attraversammo il frangente sulla cui sommità egli correva; quando Ford lo chiamò, con una piroetta nell'aria si staccò dall'onda, recuperò la sua tavola, vogando con le mani ci raggiunse e si unì a Ford nel mostrarmi come si doveva fare. Una cosa specialmente imparai da Freeth: come affrontare i cavalloni di dimensioni eccezionali che talvolta si presentavano. Questi ultimi erano proprio spaventosi, e affrontarli sopra la tavola era una cosa arrischiata.


Ma Freeth mi insegnò, ogni volta che ne vedevo uno di quel calibro venirmi addosso, a scivolare verso l'estremità posteriore della tavola, lasciandomi cadere giù, sotto la superficie dell'acqua, tenendo la tavola con le braccia ripiegate sopra la testa. Così, se l'onda me l'avesse strappata di mano, cercando di servirsene per colpirmi (uno scherzetto normale di queste onde), ci sarebbe stato un cuscinetto d'acqua della profondità di un piede almeno, se non di più, tra la mia testa e il colpo.


Passata l'onda, risalivo sulla tavola e andavo avanti vogando con le mani. Sentii dire che molta gente si era ferita molto gravemente per i colpi inferti dalle loro stesse tavole.


Imparai anche che lo sport di lasciarsi portare dai frangenti e quello di affrontarli si basano sul principio della non-resistenza. Schiva il colpo che ti è destinato, tuffati dentro l'onda che cerca di schiaffeggiarti, immergiti, piedi all'ingiù, ben lontano dalla superficie dell'acqua e lascia che il grosso cavallone che tenta di sfracellarti si allontani al di sopra della tua testa. Non essere mai rigido, rilassati, cedi all'acqua che violentemente ti strappa e ti scrolla. Quando il risucchio dell'onda ti afferra e trascina verso il largo sul fondo, non lottare contro di esso. Se lo fai, potresti affogare, perché è più forte di te - cedi al risucchio, nuota con esso, non contro di esso, e sentirai diminuire la pressione. E mentre nuoti con l'onda, assecondandola, così che non ti tenga avvinghiato a sé, nuota anche verso l'alto. Non ti sarà difficile raggiungere la superficie dell'acqua.


L'individuo che voglia imparare lo sport di lasciarsi portare dai frangenti dovrà essere un forte nuotatore e abituato ad andare sott'acqua. Oltre a ciò, un po' di forza e di buon senso, ecco tutto quanto è necessario. La forza del grosso cavallone è piuttosto inaspettata e succedono delle mischie in cui la tavola e l'uomo che ci sta sopra sono violentemente strappati l'uno all'altro e separati da centinaia di metri. L'individuo che pratica questo sport deve badare a se stesso poiché, se anche ci fossero quanti si vogliano altri individui a praticarlo con lui, non potrà assolutamente contare sul loro aiuto. Il senso di sicurezza immaginaria che provavo in compagnia di Ford e di Freeth mi aveva fatto dimenticare di essere alla mia prima nuotata in acqua profonda e in mezzo ai cavalloni. Me lo ricordai però, e piuttosto bruscamente, quando una grossa onda venne avanti, portandosi via i due uomini sopra di sé e fino a terra, e io avrei potuto annegare in una dozzina di modi differenti prima che loro mi avessero di nuovo raggiunto.


Si scivola lungo la superficie di un frangente sulla tavola speciale adatta a questo sport, ma per iniziare la scivolata bisogna sapersi dare la spinta. Tavola e individuo dovranno essere in moto verso la terra a una buona velocità prima che l'onda li raggiunga. Quando vedete avvicinarsi l'onda da cui volete essere portati, dovete voltarle le spalle e vogare con le mani verso la terra con tutta l'energia di cui disponete, imitando la bracciata a stile libero. E questa specie di spinta dev'essere esercitata proprio dinanzi all'onda. Se la tavola ha acquistato una velocità sufficiente, l'onda la accelera, e la tavola inizia la sua scivolata di un quarto di miglio.


Non dimenticherò mai la prima grossa onda che mi riuscì di acchiappare in mare aperto. La vidi arrivare, le voltai la schiena e vogai per avere salva la vita! La tavola avanzava sempre più velocemente, finché mi parve che le braccia mi si spezzassero. Non potrei dire che cosa accadeva dietro di me. Non si può guardare dietro di sé e nello stesso tempo vogare imitando le pale di un mulino! Sentii la cresta dell'onda turbinare sibilando, poi la mia tavola fu sollevata e scagliata in avanti. Nel primo mezzo minuto quasi non potei capire cosa succedeva.


Sebbene tenessi gli occhi aperti, non riuscivo a vedere nulla, sepolto com'ero nella bianca spuma avanzante della cresta. Ma non me ne curai.


Ero conscio unicamente di un senso di gioia estatica per avere acchiappato l'onda. E alla fine del primo mezzo minuto cominciai a vedere tutto attorno a me e respirare.


Vidi che l'estremità anteriore della mia tavola era per un metro fuori dell'acqua e avanzava nell'aria; mi spostai allora in avanti, facendola inclinare. Poi rimasi bocconi, in tranquillo riposo in mezzo a quel moto violento, guardando la terra e i bagnanti sulla spiaggia, che a poco a poco diventavano riconoscibili. Non feci neppure un quarto di miglio su quell'onda perché, per impedire alla tavola di tuffarsi in avanti, riportai indietro il mio peso ma fin troppo, e caddi giù per la china posteriore dell'onda.


Era il secondo giorno che sperimentavo quello sport, e mi sentivo veramente fiero di me stesso. Rimasi fuori quattro ore, deciso, alla fine di questo tempo, a ricominciare l'indomani, questa volta ritto in piedi sulla tavola; ma l'inferno, a quanto dicono, è pavimentato di buone intenzioni. L'indomani io ero a letto, non malato, ma infelicissimo e a letto.


Nel descrivere la meravigliosa acqua delle Hawaii, ho dimenticato di descrivere il meraviglioso Sole delle Hawaii - un Sole tropicale e per di più, nella prima metà del mese di giugno, un Sole allo zenit. E inoltre un Sole insidioso, ingannatore. Per la prima volta nella mia vita, non mi ero accorto di essere stato bruciato. Braccia, spalle e schiena lo erano state tante volte in passato da essere diventate resistenti; non così le mie gambe, di cui per quattro ore avevo esposto i teneri polpacci posteriori a quel Sole hawaiano a perpendicolo. Soltanto quando mi ritrovai sulla spiaggia scoprii che risentivo degli effetti.


Ora una scottatura da Sole in principio è semplicemente calda, poi si fa sentire più forte, vengono fuori le vesciche, e le giunture, là dove la pelle si raggrinza, rifiutano di piegarsi. Ed ecco perché oggi ancora sto scrivendo tutto questo a letto. E' più facile così che non il contrario. Ma domani, ah, domani tornerò fuori in quell'acqua meravigliosa e verrò fino a terra ritto in piedi sulla tavola, proprio come Ford e Freeth. Se domani non ci riuscissi, ebbene, ritenterò il giorno dopo o quello dopo ancora. A una cosa sono deciso: lo "Snark" non salperà da Honolulu finché anch'io non avrò dotato i miei talloni di ali veloci quanto il mare e mi sarò trasformato in un Mercurio abbronzato, spellato dal Sole.




CAPITOLO 7


I LEBBROSI DI MOLOKAI


Mentre lo "Snark" veleggiava lungo la costa sopravvento di Molokai, diretto a Honolulu, guardai la carta; poi posi il dito su una bassa penisola addossata a una montagna scoscesa alta dai due ai quattromila piedi, e dissi: - Ecco lì il vero inferno, il luogo più maledetto sulla terra! - Sarei stato ben sorpreso se in quel momento avessi potuto vedermi un mese dopo, sbarcato nel luogo più maledetto sulla terra, mentre me la spassavo vergognosamente in compagnia di ottocento lebbrosi che se la spassavano anche loro. Il loro divertimento non era vergognoso, il mio sì, perché mi pareva sconveniente divertirmi in mezzo a tanta infelicità, - così almeno io pensavo: e l'unica mia attenuante era che non potevo fare a meno di divertirmi.


Per esempio il pomeriggio del 4 luglio, tutti i lebbrosi si radunarono all'ippodromo per le corse. Mi ero allontanato dal Soprintendente e dai medici per prendere un'istantanea della fase finale di una gara, una gara interessante, che destava gran fervore nei tifosi. Erano iscritti tre cavalli, cavalcati uno da un cinese, uno da un hawaiano e il terzo da un ragazzo portoghese; tutti e tre i fantini erano lebbrosi, e lo erano pure i giudici e la folla. La gara si svolgeva percorrendo due volte la pista. Il cinese e l'hawaiano partirono insieme e correvano testa a testa, mentre il ragazzo portoghese arrancava circa duecento piedi più indietro. Fecero il primo giro sempre nelle stesse posizioni: a metà del secondo e ultimo, il cinese si avvantaggiò e superò per una lunghezza l'hawaiano, mentre il ragazzino portoghese stava cominciando a guadagnare terreno, per quanto il suo sembrasse un caso disperato. La folla diventò frenetica.


Tutti i lebbrosi sono appassionati per i cavalli. Il ragazzino portoghese guadagnava sempre più terreno, e anch'io diventai frenetico. Erano ormai tutti e tre sulla dirittura finale. Il ragazzo portoghese superò l'hawaiano, si udì un rombo di zoccoli, l'impeto di tre cavalli riuniti in gruppo, mentre i fantini lavoravano di frusta, e tutti gli spettatori, dal primo all'ultimo, si sgolavano a furia di gridi e urla. Avvicinandosi sempre più, a grado a grado, il ragazzo portoghese avanzò sino a superare il cinese, per una lunghezza.


Passata l'emozione, mi ritrovai in mezzo a un gruppo di lebbrosi, che urlavano, lanciavano in aria i berretti e ballavano come matti. Mi accorsi che facevo lo stesso anch'io, e agitando il cappello mormoravo con voce estatica: - Perbacco, il ragazzo vince, il ragazzo vince!


Cercai di frenarmi, ripetendomi che mi trovavo dinanzi a uno degli orrori di Molokai, e che in simili circostanze non dovevo comportarmi da persona senza cuore e senza testa; ma inutilmente.


Il programma offriva poi una corsa di asini, che stava per avere inizio e anche il divertimento era all'inizio. L'asino arrivato ultimo avrebbe vinto la corsa: e a complicare maggiormente le cose, ogni fantino non cavalcava il proprio asino, ma quello di un altro, sicché cercava che l'asino da lui montato vincesse il proprio montato da un altro. Naturalmente solo chi possedeva asini molto lenti o estremamente indisciplinati li aveva iscritti alla gara. Uno di essi era stato allenato a piegare le gambe e a buttarsi per terra ogni volta che il fantino lo spronava con i talloni; altri cercavano di girarsi e tornare indietro, altri ancora mostravano una decisa simpatia per i lati della pista, dove piantavano i musi sopra le sbarre e si fermavano; tutti quanti poi avevano un'andatura lentissima. A metà percorso uno degli asini cominciò ad avere a che dire con il suo fantino, e tutti gli altri avevano già superato il traguardo, che quello stava ancora lì litigando, e così vinse la corsa, se anche il suo fantino la perdette e dovette finirla a piedi.


Durante tutto questo tempo un migliaio di lebbrosi ridevano e schiamazzavano; e qualsiasi altro al mio posto avrebbe fatto come loro e si sarebbe divertito.


Tutto quanto precede serve da preambolo all'affermazione che gli orrori di Molokai, come sono stati dipinti in passato, non esistono.


La Colonia è stata a più riprese descritta da gente che amava il sensazionale, e di solito da persone del genere che però non l'avevano mai vista. La lebbra è la lebbra, si capisce, ed è una cosa terribile:


ma su Molokai è stato scritto in un modo tanto disgustoso da non rendere giustizia né ai lebbrosi né a quelli che dedicano a essi le loro esistenze. Eccovene un esempio. Un giornalista, che naturalmente non si era mai avvicinato alla Colonia, dipinse efficacemente il Soprintendente MacVeigh accovacciato in una capanna d'erbe e assediato ogni notte da lebbrosi affamati che ginocchioni gli chiedevano lamentosamente da mangiare. Un simile quadro, davvero raccapricciante, fu riportato dalla stampa di tutti gli Stati Uniti e provocò molti articoli di indignata protesta. Ebbene, ho vissuto e dormito per cinque giorni e notti nella capanna d'erbe del signor MacVeigh (tra parentesi, una comoda casetta di legno: e in tutta la Colonia non esiste una sola capanna d'erbe) e ho sentito i lebbrosi che chiedevano lamentosamente da mangiare - solo che il lamento era particolarmente armonioso e ritmico, accompagnato dalla musica di strumenti a corda, violini, chitarre, ukulele, banjo. Inoltre questo lamento era di vario genere: c'era quello della fanfara dei lebbrosi, quello di due società corali, e infine un quintetto di magnifiche voci. Tanto a confutazione di una bugia che non avrebbe mai dovuto essere stampata. Il lamento era la serenata che i circoli corali fanno sempre al signor MacVeigh, quando torna da una gita a Honolulu.


La lebbra non è così contagiosa come ci si immagina. Feci un soggiorno di una settimana nella Colonia, portando con me anche mia moglie; e tutto questo non sarebbe accaduto, se avessi avuto il minimo timore di prendermi la malattia. Né calzammo dei lunghi guanti speciali o ci tenemmo in disparte dai lebbrosi, ché anzi ci frammischiammo spontaneamente a loro, e prima di venircene via, ne avevamo conosciuto un buon numero di vista e di nome. Bastano le sole precauzioni di una semplice pulizia. Ritornando alle proprie case, dopo essere stati in mezzo ai lebbrosi e averli toccati, i non lebbrosi, come i dottori e il Soprintendente, si limitano a lavarsi visi e mani con un sapone lievemente antisettico e a cambiarsi d'abito.


Invece si dovrebbe insistere sul fatto che un lebbroso è infetto, e quindi la segregazione dei malati, per quel poco che si sa di questa malattia, dovrebbe essere severamente mantenuta. D'altro lato l'orrore spaventato con cui si è considerato il lebbroso in passato, e il terribile trattamento che gli era riservato, sono stati non indispensabili e crudeli. Per dissipare alcuni degli equivoci più diffusi riguardo alla lebbra, vorrei dirvi qualcosa delle relazioni fra lebbrosi e non lebbrosi, come potei osservarle da vicino a Molokai.


Il mattino dopo il nostro arrivo Charmian e io partecipammo a una gara di tiro al Circolo del fucile di Kalaupapa, facendoci così una prima idea della democrazia della sofferenza e delle mitigazioni ora in vigore. Al circolo era appena incominciata allora una gara a premio per una coppa messa in palio dal signor MacVeigh, pure socio del Circolo, come lo sono i dottori Goodhue e Hollmann, medici residenti (che, sia detto incidentalmente, vivono nella Colonia con le loro mogli). Tutti intorno a noi, nel padiglione, erano lebbrosi: e lebbrosi e non lebbrosi usavano gli stessi fucili, spalla a spalla nello spazio ristretto. La maggioranza dei lebbrosi era hawaiana.


Seduto accanto a me sulla panca c'era un norvegese, e proprio di fronte, sul palco, un americano, veterano della Guerra Civile, che aveva combattuto dalla parte dei Confederati, un uomo di sessantacinque anni, ciò che non gli impedì di raggiungere un buon punteggio. Dei tipi vigorosi di poliziotti hawaiani, lebbrosi, vestiti di kaki, stavano pure tirando, così come facevano portoghesi, cinesi e "kokuas" - questi ultimi degli indigeni non lebbrosi che lavorano nella Colonia. E quel pomeriggio che Charmian e io salimmo sul "pali", alto duemila piedi, per avere un'ultima visione della colonia, Soprintendente, dottori e tutta quella mescolanza di nazionalità e di malati e non malati, erano tutti quanti impegnati in un'eccitante partita di baseball.


Non così erano trattati in Europa il lebbroso e la sua malattia, tanto temuta e incompresa, nelle età di mezzo, quando egli era considerato legalmente e politicamente defunto, collocato nel mezzo di una processione e condotto in chiesa, dove le preghiere dei defunti erano lette nel suo nome dal sacerdote officiante. Poi una spalata di terra gli era gettata sul petto, ed egli era morto - un morto vivente.


Benché questo trattamento severo non fosse affatto necessario, esso servì almeno a far conoscere una cosa. La lebbra era sconosciuta in Europa, e vi fu importata dai crociati al loro ritorno, per poi diffondersi lentamente, finché contagiò un gran numero di persone.


Evidentemente tale malattia poteva essere presa per contatto, era una malattia contagiosa; ed era altrettanto evidente che essa poteva essere sradicata mediante la segregazione. Per quanto sia stato terribile e mostruoso il trattamento del lebbroso in quei tempi, esso servì a insegnare la grande lezione della segregazione, e in tal modo a fugare la lebbra.


Con questo stesso mezzo anche adesso la lebbra continua a diminuire nelle isole hawaiane. Ma la segregazione dei lebbrosi a Molokai non è affatto quel terribile incubo così spesso sfruttato dagli scrittori di "libri gialli". Anzitutto il lebbroso non è spietatamente strappato alla famiglia; quando uno di essi è scoperto, dalla Direzione di Sanità è invitato a recarsi all'ufficio ricevente di Kalihi a Honolulu, e tutte le spese gli sono ripagate. Come prima cosa, egli viene sottoposto a un esame al microscopio da parte del batteriologo della Direzione di Sanità. Se è trovato il "bacillus leprae", il paziente è esaminato da una commissione di medici, cinque in tutto; qualora sia riconosciuto come lebbroso, è dichiarato tale, e il verdetto è poi confermato ufficialmente dalla Direzione di Sanità, la quale impartisce l'ordine che il lebbroso sia mandato a Molokai.


Inoltre, durante tutto l'esame a cui è sottoposto, il paziente ha il diritto di essere assistito e curato da un medico di sua scelta. E anche dopo essere stato dichiarato lebbroso, il paziente non è scaraventato immediatamente a Molokai, ma gli è concesso un periodo sufficiente, di settimane e persino di mesi, talvolta, in cui egli sta a Kalihi e liquida o sistema i suoi affari. A Molokai, a turno, potrà ricevere la visita dei suoi familiari, amministratori eccetera, benché non sia loro permesso di mangiare e dormire nella sua casa. E a tale scopo speciali edifici per i visitatori sono mantenuti sempre disinfettati.


Potei constatare come avviene l'esame completo al quale viene sottoposto un soggetto, quando visitai Kalihi con il signor Pinkham presidente della Direzione di Sanità. L'individuo sospetto era un hawaiano settantenne, che per trentaquattro anni aveva lavorato a Honolulu presso una casa editrice. Secondo il batteriologo egli era lebbroso, ma il Comitato di investigazione non era riuscito a prendere una decisione e quel giorno si era trasferito al completo a Kalihi per compiere un ulteriore esame.


Anche quando è a Molokai, il lebbroso dichiarato tale ha il diritto di essere riesaminato; e a tale scopo i pazienti ritornano continuamente a Honolulu. A bordo del piroscafo che mi portò a Molokai c'erano due lebbrose che vi ritornavano, ambedue giovani donne, una delle quali era andata a Honolulu per sistemare una sua proprietà e l'altra per visitare la madre malata. Ambedue erano rimaste un mese a Kalihi.


Lo colonia di Molokai gode di un clima assai più favorevole della stessa Honolulu, trovandosi sul lato sopravvento dell'isola lungo il percorso dei freschi alisei di nord-est. Il paesaggio è magnifico: da un lato il mare azzurro, dall'altro la meravigliosa parete del "pali", che qua e là si apre in belle vallate montagnose. Ovunque pascoli erbosi, su cui vagano centinaia di cavalli, di proprietà dei lebbrosi, alcuni dei quali hanno i propri veicoli e relativo equipaggiamento.


Nel porticciolo di Kalaupapa sono alla fonda barche da pesca e una scialuppa a vapore, tutte proprietà privata dei lebbrosi, che le manovrano personalmente. Naturalmente possono allontanarsi solo entro limiti determinati, ma nessun'altra restrizione è posta alle loro gite in mare. Il pesce pescato è da essi venduto alla Direzione di Sanità e il ricavato appartiene a loro stessi. Mentre mi trovavo lì, la pesca di una sola notte fu di 4000 libbre.


E mentre questa gente pesca, altra si occupa di agricoltura. Tutti i mestieri sono esercitati. Un lebbroso, hawaiano puro, è il capo dei pittori, ha otto uomini sotto di sé e assume lavori per conto della Direzione di Sanità; è anche socio del Tiro a segno di Kalaupapa, dove lo incontrai, e devo confessare che era vestito molto meglio di me. Un altro individuo, nella medesima situazione sociale, è il capo dei falegnami. E oltre a un negozio della Direzione di Sanità, ci sono molte piccole botteghe, proprietà di privati, dove chi abbia l'anima del commerciante può esercitare le proprie attitudini. Il Vicesoprintendente, signor Waiamau, una persona capace e istruita, è hawaiano e lebbroso; il signor Bartlett, l'attuale magazziniere, è un americano che si occupava di affari a Honolulu prima di essere colpito dal male. Tutto ciò che questi uomini guadagnano va a finire nelle loro tasche, e di chi non lavora si occupa l'amministrazione locale, che assicura vitto, abitazione, vestiario e cure mediche. La Direzione sanitaria provvede all'agricoltura, all'allevamento del bestiame e alla produzione del latte per usi locali, e impieghi con buoni salari sono offerti a chiunque voglia lavorare. Però nessuno è obbligato a farlo, poiché tutti sono ospiti dell'amministrazione locale, e ci sono case di ricovero e ospedali per i giovani, i molto vecchi e gli impotenti.


Mi accadde di conoscere il maggiore Lee, americano e per lungo tempo ingegnere navale della Compagnia di Navigazione interinsulare, mentre si occupava attivamente di sistemare il macchinario di una nuova lavanderia a vapore; in seguito lo incontrai spesso, e un giorno fu lui a dirmi:


- Fate un bel racconto di come viviamo qui, per amor del Cielo, dite le cose come sono, parlate chiaro su tutta quella roba da camera degli orrori. Non ci può far piacere essere rappresentati sotto una luce falsa. Abbiamo la nostra suscettibilità! Dite soltanto al mondo come realmente viviamo qui.


Ogni uomo che incontrai nella colonia, e ogni donna, tutti espressero in un modo o nell'altro lo stesso sentimento. Era evidente che li offendeva aspramente il modo sensazionale e non corrispondente alla verità in cui erano stati sfruttati in passato.


Nonostante siano affetti da una malattia, i lebbrosi costituiscono una colonia felice, divisa in due villaggi e in numerose case in aperta campagna o lungo il mare, composta di ben duemila anime, con sei chiese, un edificio per la Young Men's Christian Association, parecchie sale di riunioni, un palchettone per la banda, un ippodromo, dei campi di baseball e di tiro a segno, una società di ginnastica, numerosi circoli di divertimento e due bande musicali.


- Sono così contenti qui - mi affermò il signor Pinkham - che non si riesce a mandarli via neppure a fucilate.


E io stesso lo riscontrai in seguito. Nel gennaio di quell'anno undici lebbrosi, nei quali la malattia, dopo avere compiuto un'opera devastatrice, non mostrava più segni di attività, furono riportati a Honolulu per esservi riesaminati. Non volevano saperne di andarci; e alla domanda se, in caso di immunità da lebbra, volevano essere lasciati liberi, risposero tutti quanti senza eccezioni: - Vogliamo tornare a Molokai.


In passato, prima della scoperta del bacillo della lebbra, alcuni pochi uomini e donne, affetti da varie malattie completamente diverse, furono giudicati lebbrosi e inviati a Molokai: anni dopo, furono veramente costernati quando i batteriologhi dichiararono loro che non erano affetti da lebbra né lo erano mai stati. Lottarono per non essere mandati via da Molokai e in un modo o nell'altro, o come aiutanti o come infermieri, ottennero un impiego dalla Direzione di Sanità e ci rimasero. L'attuale guardia carceraria è uno di quelli:


dichiarato non lebbroso, accettò un salario, e l'incarico di custode della prigione, per evitare di essere mandato via.


Attualmente a Molokai c'è un lustrascarpe, un negro degli Stati Uniti, di cui ci narrò la storia il signor MacVeigh. Parecchio tempo fa, prima che si facessero gli esami batteriologici, si mise a fare l'indipendente in modo superlativo, dando così origine a una quantità di piccoli guai. Poi un giorno, dopo essere stato per anni la fonte di seccature, all'esame batteriologico risultò non lebbroso.


- Ah, ah! - rise sotto i baffi il signor MacVeigh - adesso ti aggiusto io! Te ne andrai via col primo piroscafo, e sarà una bella liberazione!


Ma il negro non voleva saperne di andare via. Immediatamente sposò una vecchia nell'ultimo stadio della lebbra, e cominciò a inviare petizioni alla Direzione di Sanità, chiedendo che gli fosse concesso di rimanere a curare la moglie ammalata, affermando pateticamente che nessuno avrebbe saputo curare sua moglie tanto bene quanto lui. Ma gli altri capirono il gioco, e venne spedito via sopra un piroscafo e messo in completa libertà. Ma preferiva Molokai. Sbarcato sulla costa sottovento di Molokai, una notte scese furtivamente dal "pali" e si stabilì nuovamente nella Colonia; fu arrestato, processato, condannato per violazione di confini a pagare una lieve multa e rispedito via sul piroscafo con l'ammonizione che, se avesse una volta ancora contravvenuto agli ordini, sarebbe stato multato per cento dollari e mandato in prigione a Honolulu. E ora, quando il signor MacVeigh si reca a Honolulu, il lustrascarpe gli lucida le scarpe e gli dice:


- Beh, capo, stavo proprio bene laggiù. Sissignore, stavo proprio bene. - Poi la sua voce si smorza in un sussurro per confidare: - Dite, capo, non potrei tornarci? Non potete fare in modo che io ci torni?


Aveva vissuto nove anni a Molokai, e molto meglio laggiù di quanto non sia mai stato, prima o dopo, fuori di lì.


Quanto alla paura della lebbra per se stessa, non ne riscontrai mai nessun segno nella Colonia, sia tra i lebbrosi che tra i non lebbrosi.


L'orrore della lebbra è sempre più forte nell'animo di quelli che non hanno mai visto un lebbroso e non sanno niente della malattia.


All'albergo di Waikiki una signora manifestò il suo stupore atterrito perché io avevo avuto l'audacia di visitare la Colonia. Parlando con lei, venni a sapere che era nata a Honolulu e c'era sempre vissuta, senza avere mai messo gli occhi sopra un lebbroso. E' più di quanto io personalmente potrei vantare, poiché negli Stati Uniti, dove la segregazione dei lebbrosi è eseguita con molta larghezza, ho visto ripetutamente dei lebbrosi nelle vie di grandi città. La lebbra è una terribile malattia, non c'è che dire: ma da quel poco che so di essa e del suo grado di contagiosità, preferirei di molto passare il resto della mia vita a Molokai piuttosto che in qualsiasi tubercolosario.


In ogni ospedale di città o di campagna, o in istituti dello stesso genere in altri paesi, si possono vedere spettacoli altrettanto terribili quanto quelli di Molokai, e l'ammontare totale di questi spettacoli è infinitamente più terribile. Per questa ragione, se mi fosse permesso di scegliere tra essere costretto a passare il resto della mia vita a Molokai o nell'East End londinese, nell'East Side di Nuova York o negli Stockyards di Chicago, sceglierei Molokai senza esitazioni. Preferirei un anno di esistenza a Molokai a cinque anni nelle suddette sentine di ogni degradazione e miseria umane.


A Molokai la gente è felice. Non dimenticherò mai la celebrazione del 4 luglio (anniversario della dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti) a cui assistetti laggiù. Alle sei del mattino, maschere mostruose erano già in giro, vestite in modo fantastico, a dorso di cavalli, muli e asini (di loro proprietà), caracollando per tutta la Colonia. Poi c'erano le magnifiche amazzoni "pa-u", una trentina o quarantina, tutte donne hawaiane, vestite in modo sgargiante con i vecchi costumi indigeni, che sfrecciavano da ogni parte a due, a tre o in gruppo. E anche le due bande erano già in giro. Nel pomeriggio Charmian e io partecipammo nel palco della giuria alla premiazione di queste amazzoni per i loro costumi e l'abilità nel cavalcare. Attorno a noi c'erano centinaia di lebbrosi, con ghirlande di fiori in testa, intorno al collo e sulle spalle, che guardavano e si divertivano un mondo. E ovunque, sui pendii delle colline e nelle ampie distese erbose, apparivano e scomparivano gruppi di uomini e donne, vestiti a colori vivaci, su cavalli al galoppo, cavalli e cavalieri adorni e inghirlandati di fiori, che cantavano, ridevano e filavano come il vento. Mentre mi trovavo sul palco della giuria e contemplavo tutto ciò, mi tornò alla memoria il Lazzaretto di Avana, dove una volta avevo visto circa duecento lebbrosi rinchiusi entro quattro strette mura finché non morivano. No, ci sono in tutto il mondo alcune migliaia di posti che io conosco bene, e ai quali preferirei Molokai quale mia residenza fissa. La sera ci recammo in una delle sale di riunione dei lebbrosi, dove, con la partecipazione di un folto pubblico, ci fu un concorso a premi tra le varie società corali, e la serata terminò con un ballo. Ho visto gli hawaiani che vivono nei bassifondi di Honolulu; e avendoli visti, posso capire facilmente perché i lebbrosi, ricondotti dalla Colonia in città per subirvi un nuovo esame, gridano tutti dal primo all'ultimo: - Vogliamo tornare a Molokai!


Una cosa è sicura. Nella Colonia il lebbroso vive in condizioni molto migliori di quello che se ne sta nascosto fuori, ridotto a un paria solitario, vivendo nella continua paura di essere scoperto e marcendo lentamente ma sicuramente. L'azione della lebbra non è costante; essa si impadronisce della sua vittima, compie le sue devastazioni e poi rimane latente per un periodo indeterminato. Può darsi che non provochi altre devastazioni per cinque o dieci, o anche quarant'anni, durante i quali il paziente godrà di una buona salute ininterrotta, però è raro che queste prime distruzioni cessino da sole; di solito è necessario un abile medico, e questi non può essere chiamato dal lebbroso che vive nascosto. Per esempio, la prima distruzione potrebbe assumere la forma di un'ulcera perforante nella pianta del piede.


Quando l'osso è intaccato, ne consegue la necrosi. Se il lebbroso vive nascosto, non può essere operato, la necrosi continuerà la sua opera di distruzione dell'osso della gamba, e in poco tempo, tra orribili sofferenze, quel lebbroso morirà di cancrena o di qualche altra tremenda complicazione. Se invece lo stesso lebbroso si troverà a Molokai, il chirurgo gli opererà il piede, estirpando l'ulcera e ripulendo l'osso, e arresterà completamente la particolare distruzione causata dalla malattia. Un mese dopo l'operazione il lebbroso potrà andare a cavallo, prendere parte a corse podistiche, nuotare fra i frangenti, o scalare i fianchi scoscesi delle vallate alla ricerca di mele di montagna. E, come dicemmo prima, la malattia, diventata latente, potrà non attaccarlo più per cinque, dieci o anche quarant'anni.


Gli orrori che si raccontavano in passato a proposito della lebbra risalgono alle condizioni esistenti prima della chirurgia antisettica, e prima che dottori come il dottor Goodhue e il dottor Hollman andassero a vivere nella Colonia. Il dottor Goodhue è il miglior chirurgo di nuovo stampo che esista lì, e non si potrà mai lodarlo abbastanza per l'opera così nobile che compie. Passai una mattinata con lui nella sala operatoria, e delle tre operazioni da lui eseguite, due lo furono su uomini appena arrivati con me sul mio piroscafo. In tutti e due i casi la malattia aveva attaccato un punto solo: uno aveva un'ulcera perforante alla caviglia, in uno stadio piuttosto avanzato, e l'altro soffriva dello stesso male, ma sotto il braccio.


Nei due casi la malattia aveva fatto molti progressi, perché si trattava di gente vissuta fuori, senza poter essere curata; il dottor Goodhue riuscì ad arrestare la distruzione dei tessuti in modo completo e immediato, e quattro settimane dopo quei due uomini si saranno trovati in condizioni di buona salute ed efficienza, come erano stati sempre nella loro vita. La sola differenza tra loro e voi o me sarà che nei loro corpi la malattia rimarrà latente, e potrebbe in futuro provocare altre distruzioni.


La lebbra è vecchia quanto la storia e accenni a essa si possono trovare nelle più antiche testimonianze. Eppure oggi non si conosce su di essa più di quanto si conosceva allora. Ossia allora si sapeva questo: che era contagiosa, e quindi chi ne era affetto doveva essere segregato. La differenza tra allora e ora è che oggi il lebbroso è segregato più severamente e trattato più umanamente, ma la lebbra in sé rimane lo stesso spaventoso e profondo mistero. La lettura dei rapporti di dottori e specialisti di tutti i paesi rivela la natura sconcertante del male. Questi specialisti della lebbra non concordano su nessuna fase della malattia. Non la capiscono. In passato si accontentavano di generalizzare in modo irriflessivo o dogmatico; ora invece non generalizzano più. Il solo concetto generale che si possa ricavare da tutte le ricerche fatte è che la lebbra è "debolmente contagiosa"; ma in che modo essa lo sia, si ignora. Il bacillo della lebbra è stato isolato, si può determinare mediante esami batteriologici se un individuo è lebbroso o no, ma si è sempre allo stesso punto per quanto riguarda il modo in cui quel bacillo penetra nel corpo di un non lebbroso. Non si sa quanto tempo dura l'inoculazione. Si è cercato di inoculare la lebbra in ogni sorta di animali, senza riuscire a nulla.


E' stata vana la ricerca di un siero con cui combattere il male, e nonostante infiniti studi non si è trovato nessun indizio, nessuna cura. Si è avuto ora qua ora là un divampare di speranze, di teorie sulle cause e di cure proclamate con grande sfoggio di pubblicità, ma ogni volta l'ombra dell'insuccesso ha spento la fiamma. Un dottore insiste che la causa della lebbra è una dieta prolungata a base di pesce e prova diffusamente la sua teoria, finché un altro dottore dell'altopiano dell'India manda a chiedere come mai allora gli abitanti di quella zona sono affetti da lebbra, mentre né essi né tutte le generazioni che li hanno preceduti hanno mai mangiato pesce.


Un altro ancora tratta un lebbroso con un certo tipo di olio o di medicina, annuncia una cura, e cinque, dieci, quarant'anni dopo, la malattia si manifesta nuovamente. Si deve a questa caratteristica della malattia di rimanere latente nel corpo per periodi indeterminati l'abbondanza delle sedicenti cure. Ma questo solo è certo: FINORA NON SI E' AVUTO NESSUN CASO PROVATO DI GUARIGIONE.


La lebbra è "debolmente contagiosa", sta bene: ma come lo è? Un medico austriaco ha inoculato la lebbra in se stesso e nei suoi assistenti, e non è riuscito a infettarsi. Pure la prova non è decisiva, poiché c'è sempre il famoso caso di quell'assassino hawaiano, la cui condanna a morte fu commutata in reclusione a vita, dopo che egli accettò di essere inoculato con il bacillo della lebbra. Poco dopo l'inoculazione la lebbra si manifestò e l'uomo morì lebbroso a Molokai. E neppure questa prova è decisiva, perché si scoprì che quando egli era stato inoculato, parecchi membri della sua famiglia erano già a Molokai, colpiti da]la stessa malattia, quindi egli avrebbe potuto avere contratto il male da loro, ed essere stato inoculato ufficialmente proprio durante il misterioso periodo di incubazione. E c'è ancora il caso di quell'eroe della Chiesa, Padre Damiano, che venne a Molokai sano e vi morì lebbroso; sono state elaborate molte teorie sul come egli contrasse la lebbra, ma nessuno lo sa con precisione e lui stesso non lo sapeva. D'altra parte ciò che egli rischiò allora, è rischiato attualmente da una donna che vive nella Colonia, c'è vissuta per molti anni, sposandosi con cinque mariti lebbrosi, ha concepito dei figli da loro, e oggi ancora è immune dalla malattia come lo è sempre stata.


Finora nessuna luce è stata fatta sul mistero della lebbra. Quando se ne saprà di più, ci si potrà aspettare un rimedio. Non appena verrà scoperto un siero efficace, la lebbra, dato che è così debolmente contagiosa, dopo una battaglia breve ed energica scomparirà rapidamente dalla terra. Ma nel frattempo, come scoprire quel siero o qualche altra arma impensata? Ai giorni nostri il problema è serio. Si calcola che ci sia mezzo milione di lebbrosi, non segregati, nella sola India. Biblioteche Carnegie, Università Rockefeller e altre simili iniziative umanitarie sono una gran bella cosa, ma non si può fare a meno di pensare quanto sarebbero efficaci poche migliaia di dollari, ad esempio, per la Colonia lebbrosa di Molokai. Quelli che vi risiedono sono vittime del destino, capri espiatori di una misteriosa legge naturale ignorata dall'uomo, isolati per il bene dei loro simili, che potrebbero altrimenti prendersi la terribile malattia proprio come essi se la sono presa, nessuno sa come.


Non solo per il bene loro, ma per quello delle generazioni future, poche migliaia di dollari aiuterebbero una ricerca fondata e scientifica di una cura della lebbra, di un siero, o di qualche scoperta finora impensata, che permetterà al mondo medico di sterminare il "bacillus leprae".


Ecco dove profondere il vostro denaro, o filantropi.




CAPITOLO 8


LA CASA DEL SOLE


Ci sono migliaia di persone che viaggiano come spiriti irrequieti per tutto il mondo alla ricerca di paesaggi di terra e di mare e di prodigi e bellezze della natura - che a falangi percorrono l'Europa, e si possono incontrare a sciami e mandrie nella Florida e nelle Indie Occidentali, vicino alle piramidi e sui declivi o sulle sommità delle Montagne Rocciose del Canadà e dell'America. Ma nella Casa del Sole, esse sono altrettanto rare di vivi e guizzanti dinosauri.


Haleakala è una parola hawaiana che significa "Casa del Sole", ed è veramente un nobile edificio, questo, situato nell'isola di Maui; ma così pochi turisti vi hanno posato lo sguardo, e meno ancora ci sono entrati, che il loro numero può addirittura essere ridotto a zero.


Eppure oso dire che, per bellezze e meraviglie naturali, chi ama la natura potrà vedere altre cose grandiose quanto Haleakala, ma nessuna più grandiosa, mentre non vedrà mai in nessun posto qualcosa di più bello o meraviglioso.


Honolulu è a sei giorni di navigazione a vapore da San Francisco, Maui è alla distanza di una notte di piroscafo da Honolulu, e altre sei ore, se il viaggiatore ha fretta, possono portarlo a Kolikoli, che si eleva a diecimilatrentadue piedi sopra il livello del mare e proprio accanto al portale d'ingresso della Casa del Sole. Eppure il turista non ci viene, e Haleakala continua a sonnecchiare nella sua grandiosità solitaria e ignorata.


Non essendo dei turisti, noi, gente dello "Snark", ci recammo a Haleakala. Sulle balze di quella colossale montagna c'è una fattoria per l'allevamento del bestiame di circa cinquantamila acri dove passammo la notte a un'altitudine di duemila piedi. La mattina dopo si ricorse agli stivali e alle selle, e in compagnia di cow-boys e di cavalli da soma ci arrampicammo sino a Ukulele, un casolare di montagna, che per la sua altitudine di cinquemilacinquecento piedi, ha un clima moderatamente rigido, tale da richiedere delle coperte la notte e un fuoco scoppiettante nella stanza di riunione. Sia detto incidentalmente, Ukulele è una parola hawaiana che significa "pulce che salta", ma corrisponde pure a uno strumento musicale che potrebbe essere paragonato a una chitarra primitiva. Secondo me, quel casolare è stato chiamato così pensando allo strumento musicale. Non avevamo fretta; così passammo la giornata a Ukulele, discutendo dottamente di altitudini e di barometri, e scuotendo il nostro barometro personale tutte le volte che l'asserzione di qualcuno richiedeva una dimostrazione. Il nostro barometro è lo strumento più gentile e compiacente che io abbia mai visto. Inoltre raccogliemmo delle fragole di montagna, grosse come uova di gallina, e anche più, alzammo gli occhi sui pendii lavici ricoperti di pascoli fino alla vetta dell'Haleakala, a circa quattromilacinquecento piedi al di sopra di noi, e li abbassammo su una violenta zuffa tra nuvole, che si svolgeva sotto di noi mentre noi eravamo in pieno Sole radioso.


Ogni giorno dell'anno questa battaglia interminabile continua. Ukiukiu è il nome dell'aliseo che scende infuriando da nord-est e si scaglia su Haleakala. Ora Haleakala è tanto massiccio e alto che devia l'aliseo di nord-est e da un lato e dall'altro, sicché a ridosso di Haleakala non soffia più nessun aliseo, ma anzi il vento soffia nella direzione opposta, in faccia all'aliseo di nord-est, ed è chiamato Naulu. Giorno e notte, senza requie, Ukiukiu e Naulu si azzuffano, avanzando, ritraendosi, compiendo un movimento aggirante, curvandosi, arricciandosi, voltandosi e attorcendosi, in un conflitto reso visibile da masse di nubi strappate dai cieli e scaraventate avanti e indietro in squadroni, battaglioni, armate e grandi cumuli simili a montagne. Di tanto in tanto Ukiukiu, con raffiche possenti, getta masse immense di nuvole proprio sulla vetta di Haleakala, dopo di che Naulu abilmente le cattura, le riordina in nuove formazioni da battaglia e con esse colpisce di rimando il suo antico ed eterno antagonista. Allora Ukiukiu invia un grosso esercito di nubi sul lato di levante della montagna, in un movimento aggirante bene eseguito. Ma Naulu, dalla sua tana di sottovento, costringe le forze attaccanti a concentrarsi, spingendole e avvolgendole e trascinandole, martellandole così da modellarle, e le rinvia all'attacco contro Ukiukiu sul lato a ponente della montagna. E nel frattempo, sopra e sotto il vasto campo di battaglia, su per i pendii digradanti sino al mare, continuamente Ukiukiu e Naulu mandano fuori piccoli bioccoli di nuvole, in ordine sparso, che avanzano lentamente strisciando sul terreno, insinuandosi fra gli alberi e su per le valli, si attaccano di sorpresa e si catturano in subitanee imboscate e sortite. Talvolta Ukiukiu o Naulu, mandando inaspettatamente all'attacco una colonna pesante, fa prigionieri quei deboli combattenti isolati o li sospinge verso il cielo, girandoli e rigirandoli a più riprese, in vortici verticali, su per migliaia di piedi nell'aria.


Ma è sulle pendici occidentali di Haleakala che si svolge la battag]ia principale; qui Naulu concentra le sue formazioni più pesanti e ottiene le sue maggiori vittorie. Nel tardo pomeriggio Ukiukiu si indebolisce, com'è uso di tutti gli alisei, ed è respinto indietro da Naulu, la cui strategia è eccellente. Per tutta la giornata questi ha raccolto e ammucchiato immense riserve, e man mano che il pomeriggio avanza, le fonde insieme in una salda colonna a forma appuntita, di una lunghezza di miglia e larga un miglio, e profonda un centinaio di piedi. Questa colonna, la fa penetrare lentamente entro l'ampio campo di battaglia di Ukiukiu, e in modo lento, ma sicuro Ukiukiu, che rapidamente perde le forze, viene frantumato. Ma non sempre ciò avviene senza perdite. Qualche volta Ukiukiu si oppone selvaggiamente, e con nuovi rinforzi provenienti dallo sconfinato nord-est fa a pezzi persino mezzo miglio alla volta della colonna di Naulu, e la spazza via, in direzione del Maui occidentale. Ora invece, quando le due armate attaccanti s'incontrano alle estremità, ne risulta un terribile vortice verticale, così che i grossi nembi, avvinti l'uno all'altro, si innalzano per migliaia di piedi nell'aria, continuando a roteare.


Uno stratagemma favorito di Ukiukiu consiste nel mandare fuori una formazione bassa, tozza, fitta fitta, che avanza lungo il terreno e sotto Naulu. Quando Ukiukiu si trova proprio al di sotto del nemico, comincia a inarcarsi, la possente parte mediana di Naulu cede al colpo e si incurva all'insù, ma di solito esso riesce a respingere la colonna attaccante su se stessa, dando inizio a un processo di schiacciamento. E in tutto questo tempo i piccoli combattenti isolati, dispersi e frazionati, s'infiltrano fra le piante e nelle valli, strisciando sopra e dentro l'erba, si sorprendono a vicenda con balzi e corse inaspettate; mentre al disopra, parecchio al di sopra, sereno e solitario nei raggi del sole al tramonto, Haleakala guarda giù sulla lotta. Poi, cala la notte. Ma al mattino, secondo il costume degli alisei, Ukiukiu riacquista forza e respinge le falangi di Naulu che ripiegano in una ritirata disordinata. E un giorno è simile all'altro nella battaglia delle nuvole, eternamente combattuta da Ukiukiu e Naulu sulle pendici di Haleakala.


La mattina seguente stivali e selle furono nuovamente rimessi in funzione, così pure cow-boys e cavalli da soma, ed ebbe inizio la scalata alla vetta. Ogni cavallo portava venti galloni d'acqua, appesi da ambo i lati in sacche da venti galloni, perché l'acqua è preziosa e rara persino nel cratere, anche se parecchie miglia a nord e a est dell'orlo del cratere la pioggia cade in misura maggiore che in qualsiasi altra parte del mondo. Il cammino saliva attraverso innumerevoli colate di lava, senza preoccuparsi di piste, e non ho mai visto dei cavalli che avessero un passo così sicuro come quello dei tredici che costituivano il nostro equipaggiamento, e che si arrampicavano o scendevano lungo chine ripidissime con la sicurezza e l'indifferenza di capre di montagna, senza che mai un cavallo cadesse o facesse uno scarto.


C'è una strana illusione ben nota a tutti quelli che scalano montagne isolate. Quanto più si sale, tanto più vasta è la superficie terrestre che diventa visibile, e in conseguenza di ciò l'orizzonte sembra più alto rispetto all'osservatore. Questa illusione è particolarmente sentita a Haleakala, poiché il vecchio vulcano si eleva direttamente sul mare, senza contrafforti o catene scaglionate; e così, per quanto noi ascendessimo rapidamente il difficile pendio di Haleakala, ancora più rapidamente e Haleakala e noi stessi e tutto intorno a noi affondava nel centro di quello che sembrava un abisso profondo. Da ogni lato, molto al di sopra di noi, l'orizzonte dominava. L'oceano declinava dall'orizzonte fino a noi. Quanto più salivamo, tanto più profondamente ci sembrava di affondare, tanto più lontano sopra di noi risplendeva l'orizzonte, e tanto più accentuata era la pendenza fino a quella linea orizzontale dove cielo e mare si incontravano. Era una sensazione magica e irreale, e nella nostra mente aleggiarono vaghi ricordi del Buco di Simms e del vulcano attraverso il quale Giulio Verne giunse sino al centro della terra.


E poi, quando giungemmo finalmente alla sommità di quella colossale montagna, la cui vetta era come il vertice di un cono rovesciato situato nel centro di un impressionante abisso cosmico, trovammo che non eravamo né in cima né in fondo. Molto al di sopra di noi c'era l'orizzonte torreggiante sul cielo, e molto al di sotto di noi, dove avrebbe dovuto essere la vetta della montagna, c'era un abisso più profondo, il grande cratere, la "Casa del Sole". Per ventitre miglia tutt'attorno si stendevano le vertiginose pareti del cratere. Ci trovavamo sull'orlo della parete occidentale quasi verticale, e il fondo del cratere era a circa mezzo miglio più in giù, solcato da colate di lava e da coni di cenere, ma altrettanto rosso, recente e intatto da erosioni, come se il fuoco si fosse spento solo il giorno prima. I coni di cenere, i più piccoli alti oltre quattrocento piedi e i più grandi oltre novecento, apparivano dei disprezzabili monticelli di sabbia, tale era la grandiosità della cornice. Due fenditure, profonde migliaia di piedi, interrompevano l'orlo del cratere, e attraverso ad esse Ukiukiu si sforzava vanamente di far penetrare le sue orde fioccose di nuvole spinte dall'aliseo. Man mano che esse si avanzavano attraverso le fenditure, il calore del cratere le dissolveva nell'aria chiara, e per quanto avanzassero sempre, non arrivavano mai in nessun luogo.


Era una vasta scena di lugubre desolazione, priva di vegetazione, severa, respingente, affascinante. Abbassavamo gli occhi su un terreno sconvolto dal fuoco e dal terremoto e l'intima struttura della terra si manifestava in tutta la sua nudità: era come se ci apparisse un'officina della natura, ancora ingombra del primo materiale grezzo servito alla costruzione dell'universo. Qua e là grandi dighe di rocce primordiali si erano elevate erompendo dalle viscere della terra, aprendosi a forza il passaggio attraverso la fusa ebollizione superficiale, che evidentemente da ben poco tempo si era raffreddata.


Tutto quanto era irreale e incredibile. Guardando all'insù, molto al di sopra di noi (in realtà, al di sotto di noi) si svolgeva nell'aria la battaglia di nuvole tra Ukiukiu e Naulu. E ancora più al di sopra del pendìo di quello che sembrava un abisso, sopra la battaglia di nuvole, nell'aria e nel cielo, stavano appese le isole di Lanai e Molokai. Al di là del cratere, a sud-est, sempre nell'illusione di guardare verso l'alto, vedevamo elevarsi prima il mare color turchese, poi la bianca linea dei frangenti sulla costa di Hawaii, sopra ancora la fascia di nuvole portate dall'aliseo e infine, a una distanza di ottanta miglia, stagliarsi con la loro massa stupenda sul cielo azzurro, coronate di neve e inghirlandate di nuvole, tremule come un miraggio, le vette di Mauna Kea e di Manaloa, appese in bell'equilibrio alla parete del cielo.


Si narra che molto, molto tempo fa un Maui, figlio di Hina, vivesse nella località ora detta il Maui occidentale. Sua madre Hina passava tutto il tempo a fare delle "kapas", e doveva farle di notte, perché di giorno cercava di farle asciugare. Ogni mattina e per tutta la mattinata si affaccendava a stenderle al Sole, ma non appena aveva finito di metterle fuori, incominciava a rientrarle per poterle avere tutte quante al riparo prima di notte. E dovete sapere che i giorni allora erano più brevi di adesso. Maui osservava la vana fatica di sua madre e ne soffriva; decise perciò di fare qualcosa - oh, non di aiutarla ad appendere fuori le "kapas" e a rientrarle, no, era troppo intelligente per questo. La sua idea era di fare andare il Sole più adagio. Forse egli fu il primo astronomo hawaiano; di certo prese una serie di osservazioni del Sole da vari punti dell'isola, giungendo alla conclusione che il corso del Sole passava proprio per Haleakala.


A differenza di Giosué, non ebbe bisogno di aiuti divini: raccolse una grande quantità di noci di cocco, con la loro fibra intessé una solida corda, facendoci un nodo scorsoio a un'estremità, proprio come fanno anche oggi i cow-boys di Haleakala, poi si arrampicò sino alla Casa del Sole, e rimase in attesa. Quando il Sole sopraggiunse frettoloso, deciso a portare a termine il suo viaggio nel più breve tempo possibile, il bravo giovane gettò il suo lazo attorno a uno dei più grossi e forti raggi del Sole, costrinse così il Sole a rallentare un pochino, poi spezzò il raggio stesso, strappandolo via; e continuò a prendere raggi al lazo e a strapparli, finché il Sole non si disse pronto a venire a patti. Maui espose le sue condizioni di pace che il Sole accettò, convenendo di andare più lentamente da allora in poi. E così Hina ebbe tempo in abbondanza per asciugare le sue "kapas", e i giorni sono più lunghi di quanto non solevano essere, ciò che del resto si accorda perfettamente con i dettami della moderna astronomia.


Facemmo colazione con carne di bue seccata al Sole e "poi" duro, in un recinto di pietre usato nei tempi passati per racchiuderci la notte il bestiame che doveva attraversare l'isola; poi costeggiammo l'orlo del vulcano per mezzo miglio e iniziammo la discesa nel cratere. Il fondo era a duemilacinquecento piedi più sotto, e ci scendemmo lungo un ripido declivio di molle cenere vulcanica, sulla quale i cavalli dal piede sicuro continuamente scivolavano senza cadere. L'oscura superficie della cenere, rotta dagli zoccoli dei cavalli, si cambiava in polvere di un giallo ocra, velenosa all'apparenza e acida al gusto, che si sollevava a folate. Si poté andare al galoppo per un tratto piano fino all'inizio di un provvidenziale canalone, poi la discesa proseguì in mezzo al turbinìo di cenere vulcanica, serpeggiando fra coni di cenere, di un colore rosso mattone, vecchio rosa e nero purpureo. Al di sopra di noi, sempre più alte, si drizzavano le pareti del cratere, mentre continuavamo il nostro itinerario fra innumerevoli colate di lava, aprendoci tortuosamente il cammino tra i flutti adamantini di un mare pietrificato. Onde di lava frastagliata tormentavano la superficie di questo magico oceano, mentre da ogni lato si elevavano creste dentate e a spirale di forme fantastiche, e la traccia che seguivamo ci portò a costeggiare per sette miglia un abisso senza fondo, e a passare lungo e sopra la colata principale di lava più recente.


All'estremità più bassa del cratere c'era il punto dove avremmo fatto sosta, in un boschetto di piante olapa e kolea, ficcato in un angolo del cratere alla base di pareti che si elevavano verticalmente per millecinquecento piedi. Lì trovammo anche il pascolo per le bestie, ma non l'acqua, e la nostra prima cura fu di deviare da un lato, aprendoci per un miglio la strada attraverso la lava fino a un punto dove si sapeva che ci sarebbe stata una fonte in una fessura della parete del cratere.


Ma la fonte era asciutta. Però, arrampicandoci per cinquanta piedi sopra la fessura, trovammo una pozza che conteneva una mezza dozzina di barili di acqua; ci procurammo un secchio, e presto un fiotto continuo del prezioso liquido prese a scorrere giù per la roccia, riempiendo il bacino inferiore, mentre i cow-boys avevano il loro da fare a tenere indietro i cavalli, dato che per lo spazio ristretto uno solo alla volta poteva bere. Venne poi il momento di preparare il campo ai piedi della parete, sulla quale mandrie di capre selvatiche si arrampicavano belando; e la tenda fu rizzata al suono di fucilate.


Di nuovo bue seccato al Sole, "poi" duro e capretto arrostito formarono il nostro pasto. Sull'orlo del cratere, proprio sopra le nostre teste, un mare di nuvole spinte da Ukiukiu si accavallava, e per quanto passasse ininterrottamente non riusciva mai a cancellare e oscurare del tutto la Luna, ché il calore del cratere dissolveva le nuvole, non appena comparivano. Nel chiarore lunare, attratti dai fuochi dell'accampamento, gli animali che vivevano nel cratere venivano a guardarci, quasi sfidandoci, e ci sembrarono grassi, pur bevendo raramente acqua, sostituita dalla rugiada mattutina sull'erba.


Fu a causa di questa rugiada che la tenda diventò una camera da letto assai gradita; e ci addormentammo al suono delle "hulas" cantate dagli instancabili cow-boys hawaiani, nelle cui vene, senza dubbio, scorre il sangue di Maui, il loro prode progenitore.


La macchina fotografica non riesce a rendere bene la Casa del Sole. La chimica sublimata della fotografia non può mentire, ma certamente non dice tutta la verità. Il Koolau Gap è riprodotto fedelmente, proprio come si impresse sulla retina della macchina fotografica, eppure nella positiva che ne risulta mancano le dimensioni gigantesche dell'insieme. Quelle pareti che sembrano alte parecchie centinaia di piedi lo sono in realtà parecchie migliaia: quel cuneo avanzante di nubi è largo un miglio e mezzo nella fenditura, mentre al di là di essa è addirittura un vero oceano, e quel primo piano di coni di cenere e di cenere vulcanica, che appaiono flosci e incolori, sono in realtà di tinte sgargianti, rosso mattone, terracotta, rosa, giallo ocra e rosso scuro. Allo stesso modo anche le parole sembrano vane e disperanti. Dire che la parete di un cratere è alta duemila piedi è dire solo che essa è precisamente alta duemila piedi, ma quella parete del cratere rappresenta molto di più che una semplice cifra statistica. Il Sole è distante novantatre milioni di miglia, ma a noi mortali sembra molto più lontano il paese confinante con il nostro.


Questa facilità di errori di giudizio dell'intelletto umano, se è ingiusta nei riguardi del Sole, lo è anche per la Casa del Sole.


Haleakala ha un messaggio di meravigliosa bellezza da trasmettere all'umanità, ed esso non può essere trasmesso per procura. Kolikoli è a sei ore da Kahului, Kahului è a una notte di navigazione da Honolulu, Honolulu è a sei giorni da San Francisco. Non c'è bisogno di aggiungere altro.


Scalammo le pareti del cratere, superando con i cavalli passi difficilissimi, facendo rotolare pietre e ammazzando capre selvatiche.


Io non ne colpii nemmeno una: ero troppo occupato a far rotolare pietre. Ricordo specialmente un punto, in cui mettemmo in moto una pietra delle dimensioni di un cavallo; iniziò la discesa abbastanza facilmente, capovolgendosi, zigzagando incerta e minacciando di fermarsi, ma in pochi minuti volava per l'aria facendo dei salti di duecento piedi. Rapidamente si fece più piccola, finché andò ad urtare un insignificante monticello di sabbia vulcanica, da cui sfrecciò via come un coniglio impaurito, sollevando dietro di sé una minuscola scia di polvere gialla. Pietra e polvere diminuirono di dimensioni, finché qualcuno del gruppo disse che la pietra si era fermata: e lo disse solo perché non la poteva più vedere. Era sparita in lontananza, là dove non giungevano i nostri sguardi. Altri la videro che continuava a rotolare, come la vidi io, ed è mia ferma convinzione che quella pietra stia tuttora rotolando.


L'ultimo nostro giorno sul cratere, Ukiukiu ci offrì un assaggio della sua forza. Annientò Naulu ricacciandolo su tutta la linea, colmò la Casa del Sole di nuvole fino a straboccarne, e ci sommerse completamente. Ci serviva da pluviometro una ciotola da mezzo litro messa sotto un buchetto della tenda. Quell'ultima notte di bufera e pioggia colmò la ciotola e non ci fu modo di misurare l'acqua che si riversò sopra le nostre coperte. Con un pluviometro fuori combattimento non c'era più nessuna ragione di rimanere: così levammo le tende nell'alba umida e grigia, e ci avviammo in direzione est attraverso la lava fino al Kaupo Gap (o Passo di Kaupo). Il Maui orientale non è né più né meno che l'ampia corrente di lava che in un remoto passato fluì da un capo all'altro del Kaupo Gap; seguendo questa corrente scendemmo da un'altezza di seimilacinquecento piedi fino al mare.


In fondo non si trattò che di una giornata di fatica per i cavalli: ma non vidi mai cavalli come quelli che, sicuri nei punti pericolosi, non si davano mai alla fuga, non perdevano mai la testa, e appena trovavano una pista abbastanza ampia e liscia per poter correre, correvano. Non c'era modo di fermarli finché la pista non ridiventava cattiva, e allora si fermavano da soli. Continuamente, per giorni interi, avevano fatto un lavoro dei più duri cibandosi quasi sempre di erba pascolata la notte, mentre noi dormivamo; eppure quel giorno percorsero ben ventotto miglia, e di quelle che spezzano le gambe, e galopparono fino a Hana come tanti puledri. E oltre a tutto ce ne erano alcuni, allevati nella regione arida sul lato sottovento di Haleakala, che in tutta la loro esistenza non erano stati mai ferrati.


Un giorno dopo l'altro, e dal mattino alla sera, senza essere ferrati, camminarono sulla lava pungente, con il peso supplementare di un uomo sul dorso, e i loro zoccoli erano alla fine in condizioni migliori di quelli dei cavalli ferrati.


Nella zona tra Vieiras's (dove il Kaupo Gap termina a mare) e Hanai vale la pena di rimanere una settimana o un mese, mentre ci sostammo solo mezza giornata; ma pur nella sua selvaggia bellezza essa appare sbiadita e minuscola in confronto al paese di sogno che si stende al di là delle piantagioni di gomma tra Hana e il Honomanu Gulch (gulch significa voragine, burrone). Ci vollero due giorni per percorrere questo tratto meraviglioso, situato sul lato sopravvento di Haleakala.


Quelli che ci abitano lo chiamano "ditch country", il paese del fosso, un nome antipatico, ma non ce n'è un altro. All'infuori di essi, nessuno ci si reca mai, nessuno ne sa qualcosa. Ad eccezione di pochi uomini, che vi sono stati portati da ragioni di lavoro, nessuno ha mai sentito parlare del "paese del fosso" di Maui. Ora un fosso è un fosso, quasi sempre fangoso, e di solito posto in paesaggi non interessanti e monotoni. Ma il Nahiku Ditch non è un fosso ordinario.


Il lato sopravvento di Haleakala è solcato da mille gole ripide, giù per le quali si precipitano altrettanti torrenti, e ognuno di essi dà origine a una ventina di cascate e salti d'acqua prima di giungere al mare. Qui cade la pioggia più abbondante che in qualsiasi altra regione del mondo. Nel 1904 la quantità di pioggia caduta in un anno fu di quattrocentoventi pollici. L'acqua significa zucchero e lo zucchero è la spina dorsale del territorio di Hawaii e tutto dipende dal Nahiku Ditch, che non è poi un vero fosso, ma un susseguirsi di tunnel. L'acqua scorre sottoterra, comparendo solo a intervalli per balzare al di là di una gola, gettandosi alta nell'aria al di sopra di un vertiginoso precipizio, e sprofondando entro e attraverso la montagna di fronte. Questo magnifico corso d'acqua è chiamato un "fosso" e con altrettanta esattezza la barca di Cleopatra avrebbe potuto essere chiamata un carro merci.


Non esistono strade carrozzabili in questo paese, e prima che il fosso fosse costruito, o meglio, scavato, non c'era neppure una pista per cavalli. Centinaia di pollici di pioggia ogni anno, su suolo fertile sotto un Sole tropicale, vogliono dire una giungla di vegetazione sempre avvolta da vapori. Un uomo che ci si avventuri a piedi, potrebbe avanzare di un miglio al giorno, ma alla fine di una settimana sarebbe tanto esausto da tornarsene indietro ben in fretta per uscirne, prima che la vegetazione abbia ricoperto il passaggio che egli si è aperto. O' Shaughness fu l'ardito ingegnere che assoggettò la giungla e le gole, tracciò il fossato e la pista per i cavalli; che costruì in modo duraturo, in cemento e muratura, e progettò uno dei più rinomati sistemi idraulici del mondo. Ogni minimo ruscelletto e sgocciolìo è raccolto e convogliato per mezzo di canali sotterranei al grande fosso, ma talvolta la pioggia è così abbondante che innumerevoli canaletti permettono al sovrappiù di riversarsi nel mare.


La pista per cavalli non è molto ampia, ma, come l'ingegnere che la costruì, è assai ardita. Là dove il fosso sprofonda nella montagna, la pista dà la scalata alla montagna: e dove invece il fosso scavalca una gola sopra un precipizio, essa si serve dello stesso fosso per arrivare al di là della gola, passando sull'orlo del precipizio.


Questa pista pazzerellona non si preoccupa affatto di percorrere all'insù o all'ingiù i fianchi di un precipizio: si scava il suo stretto solco nella parete, girando attorno alle cascate o passando sotto di esse, dove cadono rombando in un bianco turbinare, mentre sopra la parete si eleva verticale per centinaia di piedi e sotto sprofonda verticale per mille. E quei meravigliosi cavalli di montagna sono altrettanto pazzerelloni della pista. La percorrono a passo di danza, come una cosa naturale, anche se il suolo è scivoloso per la pioggia, pronti, se glielo permettete, a mettersi al galoppo, con le gambe posteriori che slittano sull'orlo. Soltanto a gente che abbia sangue freddo e nervi saldi consiglio di tentare la pista del Nahiku Ditch. Uno dei nostri cow-boys era rinomato come il più bravo e il più forte del grande ranch di Haleakala; per tutta la vita aveva montato cavalli di montagna sulle aspre pendici occidentali di Haleakala. Era il migliore di tutti nel domare i cavalli, e quando gli altri si tiravano indietro, ci si aspettava come una cosa naturale che si facesse avanti lui ad affrontare un toro selvaggio nel recinto del bestiame. Aveva una reputazione, insomma. Ma non aveva mai fatto a cavallo il Nahiku Ditch, e fu là che la perse. Quando si trovò di fronte al primo canalone, che imbrigliava una gola da far rizzare i capelli, stretto, senza parapetti, con una cascata rombante al disopra, un'altra al di sotto e ancora più sotto una furiosa cateratta, l'aria piena di schiuma volteggiante, in cui risonavano il fracasso e l'impeto di tanto movimento, beh, quel cow-boy smontò da cavallo, spiegò brevemente che aveva moglie e due bimbi, e attraversò a piedi, conducendo il cavallo dietro a sé.


Unico sollievo ai canaloni erano i precipizi, e unico sollievo dopo i precipizi erano i canaloni, eccetto dove il fosso era ben affondato nella terra, nel qual caso facevamo passare al di là cavalli e relativi cavalieri uno alla volta, su primitivi ponti di tronchi d'albero che oscillavano e minacciavano di trascinarci via. Confesso che le prime volte superai a cavallo uno di questi punti con i piedi quasi fuori dalle staffe, e che sulle nude pareti verticali mi preoccupai, per un deciso e cosciente atto di volontà, che il piede esterno, il quale sporgeva sui mille piedi di vuoto, fosse del tutto fuori dalla staffa. Dico "le prime volte" perché, come nel cratere avevamo perduto rapidamente la nostra concezione abituale di grandezza, sul Nahiku Ditch perdemmo rapidamente il nostro timore delle profondità. Il susseguirsi incessante di altezze e profondità generò uno stato di consapevolezza, in cui altezza e profondità erano accettate come condizioni abituali di esistenza; e guardare giù verticalmente, dal dorso di un cavallo, per quattrocento o cinquecento piedi, diventò una cosa assolutamente comune, che non suscitava più fremiti. E con la stessa indifferenza della pista e dei cavalli salivamo e scendevamo le altezze vertiginose e passavamo a testa china attorno o sotto le cascate.


E quale cavalcata fu la nostra! Dappertutto c'erano cascate.


Cavalcavamo sopra le nuvole, sotto le nuvole e attraverso le nuvole! E di tanto in tanto il Sole raggiava penetrando come un proiettore nelle profondità che si spalancavano sotto di noi, o splendeva su qualche guglia dell'orlo del cratere, migliaia di piedi al di sopra. A ogni curva della pista una cascata o una dozzina di cascate, con salti di centinaia di piedi nell'aria, apparivano bruscamente nel nostro campo visivo. La nostra prima notte al campo, al Keanae Gulch, da un solo punto contammo trentadue cascate. La vegetazione cresceva esuberante in quella terra selvaggia. C'erano foreste di acacie e cola, e alberi a candela, e poi quegli alberi detti ohia-ai, che producono rosse mele di montagna, tenere, succose, squisite da mangiare. Banane selvatiche crescevano dappertutto, abbarbicandosi su per i fianchi delle gole, e, per il peso dei grossi grappoli di frutti maturi, ricadendo sulla pista e ostruendo il cammino. E sopra la foresta si gonfiava un mare di vita verde, rampicanti di mille varietà, di cui alcuni aleggiavano leggeri, in filamenti che rammentavano un merletto, penduli dai rami più alti, altri si arrotolavano e avvolgevano attorno agli alberi, come enormi serpenti, ed uno, l'ei-ei, simile a una palma rampicante, dotato di un grosso stelo, passava da ramo a ramo e da pianta a pianta, soffocando i sostegni su cui si arrampicava. Attraverso quel mare di verde, altissime felci gettavano le loro grandi foglie delicate e la lehua metteva in mostra i suoi fiori scarlatti. Al di sotto dei rampicanti, in profusione non minore, crescevano le piante dai caldi colori, dalle strane caratteristiche, che negli Stati Uniti si è soliti vedere conservare nelle serre come esmplari preziosi. In realtà il "paese del fosso" di Maui non è altro che un'immensa serra.


Ogni varietà conosciuta di felci vi cresce, e molte altre ancora poco familiari, dal delicato capelvenere al grosso e vorace corno di cervo, quest'ultimo il terrore dei boscaioli, perché s'intreccia in masse intricate profonde cinque o sei piedi, ricoprendo acri interi di terreno.


Mai si vide una simile cavalcata; durò due giorni, poi ci ritrovammo in una zona a basse ondulazioni, su una strada veramente carrozzabile, e tornammo al galoppo al ranch. Lo so, era crudele far galoppare i cavalli dopo un percorso così lungo, così duro; ma ci coprimmo le mani di vesciche nel vano sforzo di trattenerli. Ecco il tipo di cavalli che sono allevati a Haleakala. Al ranch ebbe luogo una grande festa, in cui il bestiame venne radunato e marcato a fuoco, e alcuni cavalli furono domati. In alto Ukiukiu e Naulu lottavano gagliardamente, e più su ancora, nella luce del Sole, torreggiava la possente vetta di Haleakala.




CAPITOLO 9


UNA TRAVERSATA DEL PACIFICO


Dalle Isole Sandwich (Hawaii) a Tahiti. "Questa traversata è molto difficile, passando per la zona degli alisei. Sia i balenieri che tutti gli altri esprimono molti dubbi sulla possibilità di raggiungere Tahiti partendo dalle isole Sandwich. Il capitano Bruce dice che una nave dovrebbe tenersi a nord finché non trova un inizio di vento, prima di dirigere verso le sua destinazione. Nel far questa traversata nel novembre 1837 egli non trovò nessun vento variabile vicino all'equatore, mentre dirigeva a sud, e non poté mai guadagnare verso est su nessuno dei due bordi, nonostante tutti i suoi sforzi per riuscirci." Così dicono le "Istruzioni per la navigazione" nell'Oceano Pacifico meridonale: e non dicono altro. Niente altro che possa aiutare lo stanco viaggiatore a compiere questa lunga traversata - né si accenna affatto alla traversata dalle Hawaii alle Isole Marchesi, situate circa ottocento miglia a nord-est di Tahiti e altrettanto ben difficili da raggiungere.


La ragione di tale mancanza di informazioni è, secondo me, che nessun viaggiatore è ritenuto capace di volersi logorare nel tentare una traversata così impossibile. Ma l'impossibile non dissuase lo "Snark" - soprattutto per il fatto che soltanto dopo essere partiti ci capitò di leggere quel particolare paragrafetto nelle "Istruzioni per la navigazione".


Facemmo vela da Hilo, nelle Hawaii, il 7 ottobre e arrivammo a Nukahiva nelle Isole Marchesi il 6 dicembre. La distanza era di duemila miglia a volo di uccello, mentre in realtà ne percorremmo almeno il doppio per coprirla, provando così una volta per sempre che la più breve distanza fra due punti non è sempre una linea retta. Se avessimo messo la prua direttamente sulle Isole Marchesi, avremmo potuto percorrere cinque o seimila miglia.


A una cosa eravamo decisi: a non attraversare l'Equatore a ovest di 130 gradi longitudine ovest. Perché in questo consisteva il problema.


Se gli alisei di sud-est soffiavano esattamente da sud-est, attraversando l'Equatore a ovest di quel punto ci saremmo trovati tanto a sottovento delle Marchesi, che bordeggiare per tutta quella rotta controvento sarebbe stata una cosa maledettamente impossibile.


Inoltre non dovevamo dimenticarci della corrente equatoriale, che si muove in direzione ovest a una velocità variabile dalle dodici alle settantacinque miglia al giorno. Un bell'affare, di certo, trovarsi a sottovento della propria destinazione con una simile corrente contraria. No: non avremmo attraversato l'Equatore un minuto, un secondo a ovest di 130 gradi longitudine ovest. Ma poiché ci si poteva aspettare di trovare gli alisei di sud-est a cinque, sei gradi a nord dell'Equatore (ciò che, se essi soffiavano proprio da sud-est o da sud-sud-est, avrebbe reso necessario che noi dirigessimo verso sud- sud-ovest), avremmo dovuto tenerci verso levante, a nord dell'Equatore e a nord degli alisei di sud-est, finché non fossimo pervenuti almeno a 128 gradi longitudine ovest.


Ho dimenticato di accennare al fatto che, al solito, il motore a benzina da settanta cavalli non funzionava, e che avremmo dovuto fare affidamento soltanto sul vento. E neppure il motore della lancia funzionava. E giacché ci sono, tanto vale che io confessi che il motorino da cinque cavalli che serviva all'illuminazione, ai ventilatori e alle pompe, era pure sulla lista dei malati. Mi perseguita, che io dorma o sia sveglio, un titolo impressionante per un libro. Mi piacerebbe scriverlo un giorno, quel libro, e intitolarlo "Intorno al mondo con tre motori a benzina e una moglie". Ma temo che non lo scriverò per paura di urtare la suscettibilità dei giovanotti di San Francisco, Honolulu e Hilo, che impararono il loro mestiere a spese dei motori dello "Snark".


Sulla carta la cosa sembrava facile. Qui c'era Hilo e lì il nostro obiettivo, a 128 gradi longitudine ovest. Se avessimo potuto essere sicuri dell'aliseo di nord-est, avremmo potuto far rotta diretta fra i due punti, e persino allascare un bel po' le nostre scotte. Ma uno dei guai più grossi con gli alisei è quello che nessuno sa mai precisamente dove li incontrerà e in quale direzione precisa soffieranno. Incontrammo l'aliseo di nord-est appena usciti dal porto di Hilo, ma era una misera brezza molto spostata verso est. Poi c'era la corrente equatoriale che si muoveva verso ovest, come un grande fiume. Per di più una piccola imbarcazione, che debba navigare di bolina, e con mare grosso in prora, non riesce a guadagnare molto al vento, ballonzola su e giù senza fare progressi. Con tutte le vele piene e tesate al limite, ogni tanto immerge nell'acqua la murata sottovento, si dibatte, picchia giù, solleva spruzzi d'acqua, e non succede altro. Quando comincia ad abbrivarsi, va a sbattere con un gran tonfo contro una muraglia d'acqua, e si ferma di nuovo. Così, per lo "Snark", la risultante della sua piccolezza, dell'aliseo che era spostato verso est, e della forte corrente equatoriale, fu una lunga deviazione verso sud. Oh, non è che proprio andasse in direzione sud, ma il progresso verso est fu desolante. L'11 ottobre fece 40 miglia verso est, il 12 ottobre quindici, il 13 ottobre niente, il 14 ottobre trenta, il 15 ottobre ventitre, il 16 ottobre undici, e il 17 ottobre in realtà tornò indietro verso ovest di quattro miglia. Così in una settimana esso fece centoquindici miglia verso est, ciò che equivale a sedici miglia al giorno. Ma tra la longitudine di Hilo e i 128 gradi longitudine ovest c'è una differenza di ventisette gradi, o, approssimativamente, di mille e seicento miglia. A sedici miglia al giorno, ci sarebbero voluti cento giorni per ricoprire questa distanza, e anche in quel caso il nostro obiettivo, 128 gradi longitudine ovest, si trovava cinque gradi a nord dell'Equatore, mentre Nuka-hiva, nelle Isole Marchesi, era situata nove gradi a sud dell'Equatore e dodici gradi a ovest!


Non restava che una cosa sola da fare: cercare di procedere verso sud, fuori dalla zona dell'aliseo, ed entro quella dei venti variabili. E' vero che il capitano Bruce non aveva trovato tali venti nella sua traversata e che non aveva mai potuto "guadagnare verso est su nessuno dei due bordi". Ma quanto a noi, si trattava o di trovare questi venti o di non potere fare null'altro, e pregammo per avere più fortuna di lui.


I venti variabili corrispondono alla zona d'oceano che si trova tra gli alisei e la zona delle calme equatoriali, e si vuole che derivino dalle correnti d'aria riscaldata che si innalzano nella zona delle calme equatoriali, soffiano alte nell'aria in senso contrario agli alisei, e gradualmente si abbassano fino a increspare la superficie dell oceano, dove può capitare di incontrarli. E si incontrano... dove si incontrano, incuneati come sono tra gli alisei e le calme equatoriali, che ambedue si spostano di zona di giorno in giorno, di mese in mese.


Trovammo i venti variabili a 11 gradi latitudine nord, e rimanemmo gelosamente abbracciati a questa latitudine. A sud c'era la zona delle calme equatoriali, a nord l'aliseo di nord-est, che non voleva saperne di soffiare da nord-est. I giorni venivano e passavano, e sempre trovavano lo "Snark" nelle vicinanze dell'undicesimo parallelo. I venti variabili erano veramente variabili. Un leggero vento contrario compariva, moriva, e ci lasciava a rollare in una calma piatta per quarantotto ore. Poi si levava un altro leggero vento contrario, soffiava per tre ore, e ci lasciava a rollare in un'altra calma piatta per altre quarantotto ore. Poi - evviva! - si metteva vento da ponente, un vento teso, deliziosamente teso, che mandava avanti lo "Snark", come se avesse le ali, con la scia che ribolliva, la sagola del solcometro dritta di poppa. Alla fine di una mezz'ora, mentre ci preparavamo a sistemare lo spinnaker, con poche folate affannose il vento moriva, e si continuava così. Scommettevamo da ottimisti su qualsiasi favorevole réfola che durasse più di cinque minuti; ma non serviva a nulla. Le réfole si spegnevano lo stesso.


Pure c'erano delle eccezioni. Nella zona dei venti variabili, se solo avete la pazienza di aspettare, qualcosa deve pur succedere, e noi eravamo riforniti di cibo e acqua con tale abbondanza che potevamo permetterci il lusso di aspettare. Il 26 ottobre percorremmo effettivamente centotré miglia verso est, e in seguito ne parlammo per giorni e giorni. Una volta fummo sorpresi da un vento fortissimo proveniente da sud, che si esaurì in otto ore, ma ci aiutò a percorrere ben settantuno miglia in direzione est, proprio in quelle sole ventiquattro ore. E poi, mentre quello si stava spegnendo, il vento si levò dritto da nord (la direzione completamente opposta) e ci spinse avanti per un altro grado, sempre verso est.


Per anni e anni nessuna nave a vela ha mai tentato questa traversata; e ci trovammo nel mezzo di una delle più solitarie fra le solitudini del Pacifico. Nei sessanta giorni in cui l'attraversammo, non avvistammo neanche una vela, non rilevammo nessun fumo di nave a vapore sull'orizzonte. Una nave in avaria potrebbe andare alla deriva in questa estensione deserta per decine di generazioni, senza che nessuno venisse a salvarla. La sola possibilità di salvataggio potrebbe essere offerta da una barca come lo "Snark", e lo "Snark" capitò lì principalmente per il fatto che la traversata era stata iniziata prima che avessimo letto quel particolare paragrafetto nelle "Istruzioni per la navigazione". Stando in piedi in coperta, una linea retta tracciata dall'occhio all'orizzonte avrebbe misurato tre miglia e mezzo. Quindi il diametro del circolo di mare, di cui noi eravamo il centro, era di sette miglia. Poiché noi rimanevamo sempre al centro, e poiché ci muovevamo costantemente in una direzione qualsiasi, noi contemplammo molti di questi circoli, ma tutti apparivano eguali.


Nessuna isoletta fronzuta, nessun promontorio grigio, né macchie facilmente distinguibili di bianche tende guastarono mai la simmetria di quella curva ininterrotta. Le nubi venivano e se ne andavano, sorgendo sull'orlo del cerchio, percorrendone tutto lo spazio e calando sfatte all'orlo opposto.


Il mondo svaniva, man mano che le settimane si susseguivano. Il mondo svanì finché cessò di esistere un mondo che non fosse il piccolo mondo dello "Snark", con il suo carico di sette anime, galleggiante su quella distesa di acque. I nostri ricordi del mondo, del grande mondo, si affievolirono in tanti sogni di esistenze precedenti, vissute in qualche posto prima che il nostro destino ci facesse rinascere sullo "Snark". Dopo essere rimasti senza legumi freschi per un po' di tempo, ne parlavamo proprio come avevo sentito mio padre menzionare le mele scomparse della sua infanzia. L'uomo è un essere abitudinario, e noi a bordo dello "Snark" avevamo preso l'abitudine dello "Snark". Tutto quello che lo concerneva o che era a bordo di esso era una cosa naturale, e qualsiasi cosa differente sarebbe stata irritante e offensiva.


Né il mondo avrebbe potuto importunarci in alcun modo. La campana segnava le ore, ma nessun visitatore la suonava, non c'erano invitati ai pasti, né telegrammi o insistenti chiamate telefoniche a invadere la nostra intimità. Non avevamo nessun impegno da mantenere, nessun treno da prendere, e nessun giornale del mattino su cui sprecare il tempo per informarci su quanto stava succedendo agli altri millecinquecento milioni di esseri umani, nostri compagni.


Ma non era noioso. I problemi del nostro piccolo mondo dovevano essere regolati, e diversamente dal grande mondo, il nostro doveva essere governato nel suo viaggio attraverso lo spazio. Inoltre c'erano dei turbamenti cosmici da affrontare e sventare, i quali non affliggono la grande terra nel suo moto orbitale senza attriti attraverso il vuoto, dove non soffia nessun vento. E non sapevamo mai quello che sarebbe potuto accadere da un momento all'altro. C'era abbastanza sapore e varietà, ce n'era persino d'avanzo. Così alle quattro del mattino io rilevo Hermann al timone:


- Est-nord-est - mi dà la rotta. - E' fuori rotta di otto quarte, ma non governa.


Non c'è da meravigliarsi. Non esiste la nave che possa essere governata in una calma così assoluta.


- C'era una brezza poco fa, forse soffierà di nuovo - dice Hermann in tono di speranza, prima di avviarsi verso la sua cabina e la sua cuccetta.


La mezzanella è serrata e ben rizzata. Nella notte, sia per il rollìo, sia per la mancanza di vento, essa aveva reso la vita troppo sgradevole perché le si potesse concedere di continuare a sfregare contro l'albero, scuotendo i paranchi, e di schiaffeggiare l'aria ferma con vani schiocchi intermittenti. Ma la maestra è ancora spiegata, e trinchettina, fiocco e controfiocco scoppiettano e frustano le scotte a ogni rollata. Tutte le stelle sono in cielo.


Quasi a tentare la sorte, metto il timone proprio nella direzione opposta a quella in cui è stato lasciato da Hermann, mi piego all'indietro e alzo gli occhi alle stelle. Non mi resta altro da fare.


Non c'è niente da fare con una barca a vela che sta rollando in una calma completa.


Sento allora un soffio aleggiarmi sul viso, ma debole, così debole, che appena me ne accorgo è già andato via. Però ne viene un altro e un altro ancora, finché una brezza veramente percettibile incomincia a soffiare. Come le vele dello "Snark" riescano a sentirla mi riesce incomprensibile, ma la sentono di certo, come la sente anche la barca, perché il quadrante della bussola comincia lentamente a ruotare nella chiesuola. In realtà, non sta affatto ruotando. E' trattenuto in un punto dal magnetismo terrestre, ed è lo "Snark" che sta ruotando, facendo perno su quel delicato congegno di cartone che galleggia nella vaschetta piena di alcool.


Così lo "Snark" torna indietro sulla sua rotta. Il soffio aumenta sino a essere una leggera raffica, lo "Snark" ne sente l'effetto ed effettivamente sbanda un pochino. C'è una fuga di nuvole sopra di noi, e m'accorgo che le stelle si stanno celando alla nostra vista.


Muraglie di oscurità mi racchiudono da ogni parte, cosicché, sparita l'ultima stella, l'oscurità è così vicina da dare l'impressione di poter stendere la mano e toccarla da ogni lato. Quando mi chino verso di essa, la posso sentire a contatto del mio volto. Una raffica tien dietro all'altra, e sono contento che la mezzana sia serrata.


Accidenti, questa sì che era robusta! Lo "Snark" sbanda tanto che il bordo sottovento va sott'acqua e tutto quanto l'Oceano Pacifico si riversa nella barca. Quattro o cinque di questi colpi di vento mi fanno desiderare che fiocco e controfiocco fossero serrati. Il mare si sta ingrossando, e le raffiche diventano più robuste, frequenti, e l'aria è pregna di umidità per gli spruzzi. Non serve a nulla cercare di guardare sopravvento; la muraglia di oscurità è alla distanza del mio braccio, pure non posso fare a meno di cercare di vedere per misurare i colpi inferti allo "Snark". C'è qualcosa di minaccioso e sinistro lì a sopravvento, e ho l'impressione che se continuerò a guardare con intensità costante e per un tempo sufficiente, capirò di che si tratta.


Impressione vana. Tra due colpi di vento lascio il timone e corro a prua alla scala della saletta, dove accendo un fiammifero e consulto il barometro. Segna "29-90". Quel sensibile strumento si rifiuta di accorgersi dell'agitazione che sta rombando sommessamente con un suono gutturale e profondo nel sartiame. Ritorno al timone appena in tempo per trovarmi di fronte a un altro colpo di vento, il più forte sinora.


Beh, ad ogni modo il vento è al traverso, e lo "Snark" è sulla sua rotta, guadagnando in direzione est. Almeno questo va bene.


Il fiocco e il controfiocco mi preoccupano, e vorrei che fossero ammainati. La barca se la caverebbe più facilmente e anche con minor rischio. Il vento ronfa, e gocce rade picchiettano come pallini da caccia. Dovrò certamente chiamare tutto l'equipaggio, così decido: e un istante dopo decido di aspettare ancora un po'. Può darsi che questa sia la fine e li avrò chiamati inutilmente. Meglio lasciarli dormire. Tengo lo "Snark" fermo al suo compito, e dall'oscurità, a 90 gradi dalla rotta, scende un diluvio di pioggia accompagnato dall'urlo del vento. Poi tutto si cheta, eccetto l'oscurità, e io mi rallegro di non avere chiamato gii altri.


Non appena il vento si cheta, il mare si rinforza. Ora le onde alte s'infrangono, e la barca è sballottata come un sughero; poi i colpi di vento balzano fuori dall'oscurità più secchi e frequenti di prima. Se solo sapessi cosa si nasconde lì a sopravvento nell'oscurità! Lo "Snark" procede a fatica e il suo bordo di sottovento è più spesso sott'acqua che fuori. Altri urli e sibili del vento. Ora, se mai, è il momento di chiamare gli altri.


"Li chiamerò", decido. Poi c'è uno scroscio di pioggia, un abbonacciarsi del vento, e non chiamo nessuno. Ma ci si sente ben soli, lì al timone, governando un piccolo mondo nell'oscurità da cui esce un urlìo lamentoso. Ed è una vera responsabilità quella di essere completamente soli sulla coperta di un piccolo mondo con tempo cattivo, dovendo provvedere a tutto, anche per quelli che dormono.


Rifuggo da tanta responsabilità, quando altri colpi di vento cominciano a sferzare e le onde lambiscono il paramare, inondando il pozzetto. L'acqua salata fa l'effetto di essere stranamente calda sul mio corpo, ed è traversata da strie spettrali di luce fosforescente.


Certamente chiamerò tutti quanti a diminuire le vele. Perché dovrebbero dormire? Sono sciocco a farmi tanti scrupoli al riguardo.


Il mio intelletto si schiera contro il mio cuore, era il mio cuore che aveva detto: "Lasciamoli dormire". Sì, ma era stato il cervello ad appoggiare il cuore, in quella decisione. Ora il mio cervello prenda una decisione contraria; e mentre sto chiedendomi quale particolare facoltà abbia impartito quell'ordine al mio cervello, i colpi di vento smettono. La preoccupazione per le comodità materiali non può sussistere in una vera esistenza da marinaio, saggiamente io giungo a questa conclusione; ma bisogna anche studiare l'effetto della prossima serie di colpi di vento, e aspettare a chiamare gli altri. Dopo tutto, E' il mio cervello, dietro ogni cosa, il cervello che procrastina, misura la propria esperienza della resistenza dello "Snark" ai colpi ricevuti, e aspetta a chiamare il resto dell'equipaggio quando verranno colpi ancora più duri.


Il giorno, grigio e violento, s'insinua furtivamente attraverso la coltre di nubi e mostra un mare spumeggiante, che si spiana sotto il peso di ripetute e forti raffiche. Poi viene la pioggia, che riempie i tempestosi avvallamenti del mare con schiuma lattea e spiana ancor più le onde, le quali aspettano solo un chetarsi del vento e della pioggia per balzar su più selvaggiamente che mai. La gente sale in coperta, a sonno finito, e sale anche Hermann, sul volto un ampio sorriso di soddisfazione per il vento che ho trovato.


Cedo il timone a Warren e mi avvio a scendere dabbasso, fermandomi un istante a recuperare il tubo del fornello della cucina che sta andandosene col mare. Ho i piedi nudi, e le loro dita hanno avuto un magnifico allenamento nell'arte di aggrapparsi; ma quando la murata s'immerge in un mare verde, di botto mi trovo seduto in coperta, dove l'acqua scorre da ogni parte. Hermann, bonaccione, coglie quel momento per criticare la mia scelta di un simile posto; ma alla prossima rollata anche lui si siede di botto, e senza premeditazione. Lo "Snark" beccheggia, la murata s'immerge nel verde, e Hermann e io, attaccati al prezioso tubo del fornello, andiamo a finire contro la battagliola sottovento. Dopo di che posso portare a termine il mio viaggio dabbasso, e mentre mi cambio, sorrido soddisfatto - lo "Snark" progredisce verso est.


No, no, non è tutta una vita monotona. Quando, essendoci preoccupati per il percorso da fare verso est fino a 128 gradi longitudine ovest, lasciammo i venti variabili e dirigemmo verso sud, attraverso le calme equatoriali, dove trovammo tempo molto più calmo, ci fu spesso concessa la gioia, sfruttando ogni soffio d'aria, di fare una ventina di miglia in altrettante ore. Eppure anche in una giornata di quelle, ci capitava di passare attraverso una dozzina di groppi e di essere circondati da altre dozzine ancora. E ogni groppo doveva essere considerato una randellata capace di sfracellare lo "Snark". Talvolta eravamo colpiti dal centro e talvolta dagli orli di questi groppi, e non sapevamo mai bene dove o come saremmo stati colpiti. La bufera che si sollevava, ricoprendo a metà il cielo, e balzava giù sopra di noi, quasi sempre si divideva in due groppi che ci passavano accanto dai due lati senza recare danno; mentre il piccolo groppo dall'aspetto innocente, che sembrava portare non più di una cinquantina di galloni d'acqua e una libbra di vento, assumeva di punto in bianco proporzioni ciclopiche, e ci ricopriva di un diluvio di pioggia, soverchiandoci con le sue raffiche di vento. C'erano poi groppi traditori, che retrocedevano fieramente e da un miglio sottovento ripiombavano furtivamente su di noi. Oppure due groppi si separavano, allargandosi sui lati e da ambedue ci arrivava uno schiaffetto. Ora una raffica di vento diventa certamente tediosa dopo poche ore, ma i groppi non lo diventano mai. Il millesimo groppo di cui uno faccia l'esperienza è altrettanto interessante del primo, e forse un pochino di più. E' il principiante che non ne ha paura. L'individuo che è al millesimo groppo lo rispetta. Sa cosa vogliono dire.


Fu nella zona delle calme che ci capitò l'avventura più eccitante.


Il 20 novembre venimmo a scoprire che per un guasto avevamo perduto più di metà della nostra provvista di acqua dolce, e poiché erano già passati quarantatré giorni dalla partenza da Hilo, la provvista di acqua dolce rimanente non era molta, e perderne più di metà era una vera catastrofe. Mettendoci a stretto regime, quanto rimaneva avrebbe potuto bastare per venti giorni. Ma eravamo nella zona delle calme equatoriali, e non si poteva sapere dov'era l'aliseo di sud-est, né dove lo avremmo trovato.


Bloccammo prontamente con un chiavistello la pompa, e una volta al giorno le razioni d'acqua erano distribuite; ognuno di noi ne riceveva un quarto di gallone per uso personale, e otto quarti erano dati al cuoco. E ora subentra la psicologia della situazione. Non appena fatta la scoperta della penuria d'acqua, io per primo fui tormentato da una sete ardente. Mi sembrava di non averne mai avuta tanta nella mia vita. Avrei potuto facilmente bere il mio piccolo quarto d'acqua in un solo sorso, e astenermi dal farlo richiedeva un severo sforzo di volontà. Né in ciò io ero solo. Tutti noi parlavamo dell'acqua, pensavamo all'acqua, sognavamo l'acqua, nel sonno. Esaminammo le carte alla ricerca di possibili isole verso cui fare rotta in caso estremo, ma non ne esistevano. Le Isole Marchesi erano le più vicine, e si trovavano dall'altra parte dell'Equatore, e anche della zona delle calme, ciò che era anche peggio. Ci trovavamo a 3 gradi latitudine nord, mentre le Marchesi erano a 9 gradi latitudine sud - una differenza di circa mille miglia. E inoltre le Isole Marchesi si trovavano circa 14 gradi a ovest della nostra longitudine. Un bell'affare per un gruppetto di esseri umani sperduti in pieno oceano, che soffocavano nel calore delle calme tropicali.


Stendemmo delle sagole da ambo i lati tra le sartie di maestra e di mezzana, a queste assicurammo la grande tenda di coperta, rialzandola dalla parte posteriore con una drizza, di modo che tutta l'acqua che ci si potesse depositare scorresse in avanti, dove sarebbe stata raccolta. Ogni tanto dei piovaschi passavano all'orizzonte sull'oceano. Tutto il giorno li sorvegliavamo ora sulla dritta ora sulla sinistra, e di nuovo di prua o di poppa, ma non uno ci venne così vicino da bagnarci. Nel pomeriggio un groppo massiccio ci piombò addosso, allargandosi sull'oceano nell'avvicinarsi, e lo potemmo vedere che riversava innumerevoli galloni d'acqua nel mare salato.


Dedicammo un'attenzione ancora maggiore alla tenda, e rimanemmo in attesa. Warren, Martin e Hermann formavano un bel quadretto. Stretti in gruppo, aggrappati al sartiame, oscillando a seconda del rollìo, tenevano gli occhi fissi sul groppo, e ogni atteggiamento dei loro corpi denotava tensione, ansietà e desiderio.


Accanto a loro, la tenda asciutta e vuota.


Poi, man mano che il groppo si divideva in due, di cui una parte ci passò di prua, mentre l'altra retrocesse verso poppa dirigendosi sottovento, li vidi deprimersi e in certo modo afflosciarsi.


Ma quella notte cominciò a piovere. Martin, la cui sete psicologica lo aveva costretto a bere di buon mattino il suo quarto d'acqua, avvicinò la bocca all'orlo della tenda e trangugiò il sorso più profondo che io abbia mai visto bere. La preziosa acqua cadde a secchi e a vasche, e in due ore ne raccogliemmo e stivammo nelle casse di lamiera centoventi galloni. Strano a dirsi, in tutto il resto del nostro viaggio verso le Marchesi non un'altra goccia di pioggia cadde a bordo. Se quella burrasca non ci avesse raggiunto, il chiavistello sarebbe rimasto sulla pompa, e avremmo dovuto sforzarci di utilizzare la benzina di riserva per distillare l'acqua salata.


E poi c'era la pesca. Non era necessario andare a cercare il pesce, era lì, accanto alla murata. Un amo d'acciaio di tre pollici, all'estremità di una lenza robusta, con un cencetto bianco come esca, ecco tutto quanto ci voleva per prendere dei tonni da dieci a venticinque libbre. I tonni si nutrono di pesce volante, quindi non sono avvezzi a mordere all'amo. Pure lo mordono allegramente, quanto il più sportivo pesce del mare, e il loro primo morso è qualcosa che nessuno uomo che ne abbia presi può dimenticare. Inoltre i tonni sono i più autentici cannibali. Non appena uno è preso all'amo, è attaccato dai suoi simili, e molto spesso li alavamo a bordo con degli squarci recenti dovuti a morsi, grossi come tazze da tè.


Un banco di tonni, di parecchie migliaia, rimase con noi giorno e notte per più di tre settimane. Con l'aiuto dello "Snark", fecero caccia grossa; perché essi portarono la distruzione nell'oceano su una fascia larga mezzo miglio e lunga millecinquecento. Si disponevano in fila di prua allo "Snark" da ambedue i lati, piombando sui pesci volanti spaventati dal dritto di prora. Per quanto continuamente essi inseguissero di poppa il pesce volante, che per più voli riusciva a salvarsi, sempre però riacchiappavano lo "Snark", e in qualsiasi momento, guardando verso poppa, si poteva vedere, sulla faccia anteriore di un frangente, a sciami le loro forme argentee costeggiarci, appena sotto il pelo dell'acqua.


Quando avevano mangiato a sazietà, si divertivano a mettersi nell'ombra della nave o delle vele, e se ne scorgevano sempre circa un centinaio scivolare pigramente, rimanendo al fresco.


Ma quei poveri pesci volanti! Inseguiti e mangiati vivi dai tonni e dai delfini, cercavano scampo nell'aria dove i rapaci uccelli marini li costringevano a tornare nell'acqua. Sotto il cielo non c'era per essi nessun luogo dove rifugiarsi. Cercare di stare in aria non è un gioco per i pesci volanti, ma una questione di vita o di morte. Mille volte al giorno potevamo alzare gli occhi e vedere svolgersi la tragedia. Il volo veloce, circolare, a sbalzi, di un albatro attirava la nostra attenzione, poi uno sguardo in basso mostrava il dorso di un delfino che fendeva la superficie dell'acqua con impeto selvaggio.


Proprio davanti al suo naso una stria argentea luccicante, palpitante, si slancia dall'acqua nell'aria - un meccanismo di volo organico, delicato, dotato di sensibilità, di facoltà di dirigersi e amore della vita. L'albatro piomba su di lui e se lo lascia sfuggire, e il pesce volante, guadagnando in altezza a mo' di un aquilone, contro il vento, compie un mezzo giro e passa via rasente a sottovento, scivolando nella direzione del vento. Sotto di lui la scia del delfino è visibile nella schiuma che ribolle: questi tien dietro, guardando all'insù, con occhi spalancati, al lampeggiare del cibo che naviga in un elemento diverso dal proprio. Non può innalzarsi di tanto, ma è un perfetto empirico, e sa che presto o tardi il pesce volante, se non sarà mangiato dall'albatro, dovrà tornare all'acqua. E allora - buon appetito!


Di solito noi avevamo compassione del povero pesce alato, ed era triste dover assistere a un eccidio così vile e sanguinoso. E allora, durante la guardia di notte, quando un povero piccolo pesce volante, urtando contro la vela maestra, cadeva boccheggiante, spruzzando dappertutto in coperta, ci precipitavamo su di lui con la stessa impazienza, con la stessa avidità, con la stessa voracità dei tonni e dei delfini. Perché, sappiatelo, i pesci volanti sono uno dei cibi più gustosi per la prima colazione. E mi stupisce sempre che da una carne così delicata non derivi un tessuto altrettanto delicato nei corpi dei suoi divoratori. Forse delfini e tonni sono di una fibra meno fine per la grande velocità con cui si muovono nel cercare di catturare la loro preda. Benché anche il pesce volante, anche lui, si muove a grande velocità.


Quanto ai pescecani, ne prendevamo ogni tanto, con grossi ami e mulinelli a catena, attaccati a una lunghezza di cordicella. E "pescecani" voleva dire pescipiloti, e remore, e ogni sorta di altri animali parassiti. Alcuni dei pescecani avevano l'aspetto di veri mangiatori di uomini con il loro sguardo feroce e le dodici file di denti, taglienti come rasoi. A proposito, noialtri dello "Snark" siamo tutti dello stesso parere: nessun pesce che abbiamo mangiato può sostenere il confronto con il pescecane arrostito e affogato in un sugo al pomodoro.


Nella zona delle calme equatoriali pescammo ogni tanto un pesce chiamato "hakè" dal cuoco giapponese. E una volta con un amo a cucchiaio filato a cento iarde di poppa, prendemmo un pesce che rassomigliava a un serpente, lungo più di tre piedi e al massimo di un diametro di tre pollici, con quattro denti aguzzi nella mascella, che giudicammo il pesce più delizioso - delizioso per la carne e per il sapore - che avessimo mai mangiato a bordo.


Ad arricchire la nostra dispensa fu apprezzata soprattutto una grossa tartaruga marina, che pesava ben cento libbre e che comparve in tavola sotto forma di appetitose bistecche, di minestre e stufati, e finalmente in un meraviglioso riso al curry che invitò tutto l'equipaggio a mangiare più riso di quanto non fosse giovevole alla salute. La tartaruga fu avvistata sopravvento, mentre dormiva tranquillamente alla superficie in mezzo a un grosso sciame di delfini curiosi, ed era certamente una tartaruga d'alto mare, perché la terra più vicina era lontana mille miglia. Virammo in prua e dirigemmo lo "Snark" su di lei, mentre Hermann le sparava in testa e nel collo.


Alata a bordo, ci accorgemmo che molte remore erano appiccicate al suo guscio, e dalle cavità alla base delle sue zampe strisciarono fuori parecchi grossi gamberi. Bastò un solo pasto perché l'equipaggio dello "Snark" giungesse all'unanime conclusione che in qualsiasi momento avrebbe volentieri fatto virare di bordo lo "Snark" per una tartaruga.


Ma è il delfino il re dei pesci d'alto mare. Il suo colore non è mai lo stesso. Mentre nuota nel mare, un essere etereo dell'azzurro più pallido, appare già di un colore meraviglioso, ma non è nulla in confronto alle trasformazioni cui può andare soggetto. Talvolta sembra verde - di un verde pallido, verde cupo, verde fosforescente: altre volte turchino - turchino cupo, turchino elettrico, tutta la gamma dei turchini. Acchiappatelo con un amo e diventa d'oro, di un giallo oro, tutto oro. Alatelo in coperta, e lo vedrete sorpassare qualsiasi gamma di colore, passando attraverso sfumature turchine, verdi e gialle, e poi, di colpo, diventando di un bianco spettrale, a macchie sparse di un azzurro vivace. E a un tratto vi accorgete che si è fatto screziato come una trota. Poi nuovamente da bianco che era ripercorre tutta la gamma di colori, assumendo alla fine una tonalità madreperlacea.


Per gli appassionati della pesca, non posso raccomandare sport migliore della caccia al delfino. Naturalmente dovrà essere fatta con una lenza sottile, con mulinello e canna. Un amo da tarpon (NOTA) del tipo O'Shaughnessy numero 7 è quello che ci vuole, con un intero pesce volante come esca. Come per il tonno, il nutrimento del delfino consiste in pesce volante, ed esso si avventa fulmineamente sull'esca.


Il primo avvertimento si ha quando il molinello sibila e voi vedete la lenza che si svolge fumando normalmente allo scafo. Prima che abbiate il tempo di provare una certa ansietà per la lunghezza della vostra lenza, il pesce si drizza nell'aria in un susseguirsi di salti. Dal momento che quasi certamente sarà lungo quattro piedi o anche più, non potrà mancare il divertimento di alare a bordo un pesce così vivace.


Quando è preso all'amo, invariabilmente diventa dorato. Il concetto che ispira la serie di salti è quello di liberarsi dell'amo, e l'uomo che ha fatto il colpo deve essere o un tipo insensibile o un decadente se non ha il cuore che batte con pulsazioni accelerate nel contemplare un pesce così sgargiante, brillante nella sua aurea corazza, che si scrolla come uno stallone a metà di ogni salto nell'aria. State bene attenti a filare! Se non lo fate, in uno di quei salti, l'amo sarà scagliato via a venti piedi di distanza. Se non filate, il delfino inizierà una seconda corsa, culminante in un'altra serie di salti. A questo punto ci si comincia a preoccupare per la lenza e a desiderare di averne novecento piedi sul mulinello invece dei seicento che ci sono. Con un'abile manovra la lenza potrà essere salvata, e dopo un'ora di intensa eccitazione, il pesce potrà essere afferrato con un rampone. Uno di questi delfini che io alai a bordo dello "Snark" misurava quattro piedi e sette pollici.


Hermann prendeva i delfini in modo più prosaico. Una lenza a mano e un pezzetto di carne di pescecane, ecco tutto ciò che gli occorreva. La sua lenza a mano era molto spessa, ma più di una volta se ne andò via e il pesce fu perduto. Un giorno un delfino riuscì a scappare con un'esca di fabbricazione personale di Hermann, a cui erano attaccati quattro ami O'Shaughnessy. Nello spazio di un'ora lo stesso delfino fu alato a bordo con la lenza, e nel farlo a pezzi recuperammo i quattro ami. I delfini che rimasero con noi per più di un mese, ci abbandonarono a nord dell'Equatore e non ne vedemmo più uno nel resto della traversata.


Così i giorni passavano. C'era tanto da fare che il tempo non sembrava mai lungo. Anche se ci fosse stato poco da fare, il tempo non avrebbe potuto sembrare lungo, con quei meravigliosi scenari di mare e di nubi, - aurore simili a città imperiali in fiamme sotto arcobaleni che s'inarcavano fin quasi allo zenit, tramonti che immergevano il mare purpureo in rossi fiumi di luce, raggianti da un sole i cui raggi divergenti, che si elevavano nel cielo, erano dell'azzurro più puro.


Fuori bordo, nel calore diurno, il mare era di un tessuto satinato azzurro, e nelle sue profondità la luce del sole convergeva in fasci luminosi. Di poppa, giù nel profondo, quando soffiava una brezza, si vedeva un pullulare di spettri di un turchese latteo - a schiuma respinta dallo scafo dello "Snark", ogni volta che esso urtava contro un'onda. Di notte la scia era fuoco fosforescente, dove la gelatinosa medusa si irritava per il passaggio dello scafo, mentre molto più giù si poteva osservare una fuga incessante di comete, dalle lunghe, ondulanti, nebulose code - causata dal passaggio dei tonni attraverso il liquido viscoso emesso dalle meduse. E di tanto in tanto, dall'oscurità su ambo i lati, proprio sotto il pelo dell'acqua, organismi fosforescenti più grossi si accendevano come lampadine elettriche a segnalare la collisione con gli spensierati tonni, diretti frettolosi a fare buona caccia a prua al di là del nostro bompresso.


Guadagnammo verso est quanto era necessario, riuscimmo ad attraversare le calme equatoriali e incontrammo una brezza tesa di sud una quarta sud-ovest. Sospinti dal vento, in questa rotta inclinata, saremmo passati all'altezza delle Isole Marchesi assai più a ovest. Ma il giorno dopo, un martedì, 26 novembre, nel bel mezzo di una burrasca, il vento girò improvvisamente a sud-est. Era finalmente l'aliseo.


Non ci furono più groppi, null'altro che bel tempo. Un vento favorevole, e un solcometro che girava con le scotte allascate e spinnaker e maestra che palpitavano e si gonfiavano, uno per lato.


L'aliseo continuò a retrocedere finché soffiò da nord-ovest, mentre noi tenevamo una rotta decisa per sud-ovest. Dieci giorni così, e la mattina del 6 dicembre alle cinque avvistammo terra, "proprio dove avrebbe dovuto essere", dritto di prora. Passammo sottovento di Ua- huka, costeggiammo l'orlo meridionale di Nuka-hiva, e quella notte, in mezzo a raffiche sferzanti e in una oscurità da inchiostro, faticosamente arrivammo all'ancoraggio nella stretta baia di Taiohae.


L'ancora affondò rumoreggiando, fra i belati delle pecore selvagge sulle alture; e l'aria che respiravamo era pregna di profumi di fiori.


La traversata era finita. Sessanta giorni da terra a terra attraverso un mare solitario, sui cui orizzonti non si stagliano mai vele di navi.




NOTA:


1) tarpon, grosso pesce delle acque dolci della Florida che si avventura anche in mare (N. d. T.)




CAPITOLO 10


TYPEE


Quella sera, a levante, Ua-huka era nascosta da un piovasco che rapidamente stava raggiungendo lo "Snark". Ma questa piccola barca, con il suo grosso spinnaker gonfio per l'aliseo di sud-est, correva validamente. Capo Martin, la punta più a sud-est di Nuku-hiva, era al traverso, e la Comptroller Bay si rivelò a poco a poco, quando sorpassammo rapidi la sua ampia imboccatura, dove Sail Rock, veramente rassomigliante a una vela di tarchìa di una barca per la pesca del salmone, affrontava valorosamente l'urto dei frangenti di sud-est.


- Cosa pensi che sia? - chiesi a Hermann che era al timone.


- Un peschereccio - rispose dopo avere osservato accuratamente. Eppure sulla carta era chiaro il nome: "Sail Rock".


Ma a noi interessavano di più i recessi della Comptroller Bay, e i nostri occhi vi cercavano avidamente le tre insenature, soffermandosi su quella di mezzo, dove il crepuscolo calante mostrava i fianchi oscuri di una vallata che si addentrava nell'interno. Quante volte avevamo studiato la carta, sempre fermandoci su quella cala mediana e sulla valle che vi finiva - la valle di Typee. "Taipi" era scritto sulla carta ed era la dizione corretta, ma io preferisco "Typee" e la chiamerò sempre così. Da piccolo lessi un libro che portava quel titolo - il "Typee" di Herman Melville, - e passai lunghe ore a sognare su quelle pagine. Fu allora che presi la ferma risoluzione, qualsiasi cosa avvenisse, di andare anch'io a Typee, quando fossi cresciuto di anni e di forza, perché nella mia infantile consapevolezza stava penetrando il senso di quanto c'è di prodigioso in questo nostro mondo - quel senso che mi ha condotto in tanti paesi, e ancora mi conduce, né accenna ad attutirsi. Passarono gli anni, ma Typee non fu mai dimenticata. Di ritorno a San Francisco dopo una crociera di sette mesi nel Pacifico settentrionale, decisi che era giunto il momento. Il brigantino "Galilea" stava partendo per le Isole Marchesi, con un equipaggio al completo; e io, che ero un buon marinaio e abbastanza giovane per esserne smisuratamente fiero, non avevo nessuna difficoltà a imbarcarmi in qualità di cameriere, pur di fare il pellegrinaggio a Typee. Naturalmente il "Galilea" avrebbe salpato dalle Isole Marchesi senza di me, perché ero deciso a trovare un altro Fayaway e un altro Kory-Kory (personaggi del libro di Melville). Dubito che il capitano leggesse nei miei occhi la decisione di disertare, o forse anche la cuccetta del cameriere di bordo era già occupata. Ad ogni modo, non ottenni quel posto.


Poi venne il rapido passare degli anni, pieni zeppi di progetti, di successi e di insuccessi: ma Typee non era mai dimenticata, ed ecco che ora mi ritrovavo a guardare il suo profilo indistinto nella nebbia, finché il groppo non piombò giù e lo "Snark" sfrecciò via sotto l'impeto del vento. Di prua scorgemmo un bagliore, e prendemmo il rilevamento di Sentinel Rock, inghirlandato dal frangente che lo martellava. Poi anch'esso fu cancellato dalla pioggia e dall'oscurità.


Dirigemmo dritto su di esso, confidando di sentire il rumore dei frangenti in tempo per una tempestiva accostata. Noi dovevamo governare direttamente su di esso. Non avevamo altro rilevamento per orientarci, e se perdevamo Sentinel Rock, perdevamo anche Taiohae Bay, e avremmo poi dovuto buttare lo "Snark" al vento e rimanere fuori alla cappa per tutta la notte - prospettiva non piacevole per dei viaggiatori stanchi dopo una traversata di sessanta giorni nella vasta solitudine del Pacifico, desiderosi di terraferma, di frutta e anelanti da anni alla dolce vallata di Typee.


Improvvisamente, fra un rombare di onde, Sentinel Rock apparve dritto di prua nella pioggia. Accostammo con maestra e spinnaker gonfi di vento e passammo oltre. A sottovento della punta, il vento ci mancò, e ci trovammo a rollare in una calma assoluta. Poi una réfola che proveniva dalla Taiohae Bay ci colpì proprio di prora. Rientrammo lo spinnaker e alzammo la mezzana, ben bordata per bolinare: cominciammo così ad avanzare lentamente di prua, scandagliando e sforzandoci di vedere la luce rossa fissa sul forte in rovine, che ci avrebbe fornito il rilevamento per l'ancoraggio. La brezza era leggera e incostante, ora di est, ora di ovest, ora di nord, ora di sud, mentre da ogni lato giungeva il rombo di invisibili frangenti. Dalla scogliera, che appariva indistinta, si elevava il belato di capre selvagge, e sopra di noi le prime stelle scintillavano debolmente attraverso lo scrosciare a tratti di un nembo fuggevole. Alla fine di due ore, dopo aver percorso un miglio nella baia, demmo fondo all'ancora in undici braccia. E così ci trovammo a Taiohae.


La mattina dopo ci destammo in un paesaggio di sogno. Lo "Snark" era alla fonda in un placido porto annidato in un vasto anfiteatro, i cui fianchi scoscesi, rivestiti di vigne, sembravano sorgere direttamente dall'acqua. Lontano, verso est, scorgemmo la traccia sottile di un sentiero, visibile in un punto solo, dove solcava il lato anteriore del pendio.


- Il sentiero per cui Toby fuggì da Typee! - esclamammo.


In un batter d'occhio, scesi a terra, ci trovammo montati su cavalli, per quanto la realizzazione del nostro pellegrinaggio dovette essere rimandata all'indomani. Due mesi di vita sul mare, sempre a piedi nudi, senza spazio in cui esercitare le membra, non sono la migliore preparazione a calzare nuovamente scarpe di pelle e per una camminata.


Inoltre la terra doveva smettere quel suo disgustoso rollìo, prima che ci sentissimo in condizione di stare in sella a cavalli che sembravano capre, su per sentieri che davano le vertigini. Così dopo una breve cavalcata, tanto per cominciare, penetrammo faticosamente nella fitta giungla per fare la conoscenza di un venerando idolo ricoperto di muschio, accanto al quale si erano radunati un commerciante tedesco e un capitano norvegese per calcolare il peso di detto idolo e il suo valore, qualora fosse stato tagliato in due. Trattavano quel povero diavolo in modo veramente sacrilego, affondando in esso i loro coltelli per vedere quanto era duro e quanto era profondo il rivestimento di muschio, e quasi gli ordinavano di mettersi in piedi e camminare da solo fino alla nave, per risparmiare loro tanta fatica. E invece ci vollero diciannove kanaka, che lo appesero a un telaio di tronchi d'albero e lo trasportarono fino alla nave dove, ben assicurato sotto i boccaporti, proprio ora sta valicando il Pacifico meridionale in direzione di Capo Horn e dell'Europa - il luogo dove vanno a finire tutti i buoni idoli pagani, eccetto pochi rimasti in America, e uno in particolare, che sogghigna vicino a me, mentre scrivo, e che, se non andremo a fondo, sogghignerà dovunque vicino a me, finché non morirò.


E sarà lui a vincerla. Continuerà a sogghignare, quando io sarò ormai polvere.


Inoltre, quale inizio del nostro soggiorno, partecipammo a un banchetto con cui un tale Taiara Tamarii, figlio di un marinaio hawaiano disertore da una baleniera, commemorava la morte di sua madre, oriunda delle Isole Marchesi, arrostendo quattordici maiali interi e invitando tutto il villaggio. Così arrivammo pure noi, accolti dal benvenuto di un'indigena, una ragazza che, in piedi sopra una grande roccia, cantava l'informazione che il banchetto sarebbe diventato perfetto in grazia della nostra presenza - informazione che essa dava imparzialmente a ogni nuovo arrivato. Tuttavia non avevamo quasi fatto a tempo a sederci che lei cambiò tono, mentre tutta l'adunanza manifestava una grande eccitazione. Le sue grida divennero accalorate e penetranti, e si sentirono altre grida in risposta, voci di uomini che si fondevano in un canto violento, barbarico, che parlava di sangue e di guerra e faceva l'impressione di qualcosa di incredibilmente selvaggio. Poi, attraverso la vegetazione tropicale, apparve in lontananza una processione di indigeni, nudi ad eccezione di sgargianti teli attorno ai lombi. Avanzavano lentamente, emettendo grida gutturali di trionfo ed esaltazione. Appesi a giovani alberetti, che essi portavano sulle spalle, c'erano dei misteriosi oggetti di un peso notevole, celati al nostro sguardo da involucri di foglie verdi.


Null'altro che maialini, innocenti, grassi e arrostiti a dovere, erano dentro quegli involucri, ma gli uomini li portavano sul luogo della riunione come usava nei tempi antichi, quando portavano dei "lunghi maiali", - l'eufemismo polinesiano usato dai cannibali per indicare la carne umana: e quei discendenti di cannibali, con alla testa il figlio di un re, portavano in tavola i maiali come i loro progenitori avevano portato i nemici uccisi. Di tanto in tanto la processione si fermava perché i portatori potessero emettere più comodamente degli urli particolarmente feroci, che esprimevano gioia per la vittoria, disprezzo per i nemici, avidità di cibo. Così Melville, due generazioni prima, aveva assistito al trasporto di cadaveri di guerrieri Happar uccisi, avvolti in foglie di palma, al banchetto al Ti. Un'altra volta, al Ti, egli aveva "notato un'imbarcazione di legno, scolpita in modo curioso", e, nel guardarla più da vicino, i suoi occhi "erano caduti sulle membra ammucchiate in disordine di uno scheletro umano, le ossa ancora imbevute di umidore e resti di carne ancora attaccati qua e là".


Spesso il cannibalismo è stato considerato una favola dagli uomini ultracivilizzati, ai quali spiace forse l'idea che i propri selvaggi progenitori fossero dediti in passato a simili pratiche. Il capitano Cook era piuttosto scettico al riguardo finché un giorno, in un porto della Nuova Zelanda, decise di fare una prova. Per caso un indigeno aveva portato a bordo, per venderla, una bella testa disseccata al sole, e per ordine di Cook alcune fettine di carne furono tagliate via e date all'indigeno che si affrettò a divorarle avidamente. Il meno che si possa dire è che il capitano Cook era un perfetto empirico; ma ad ogni modo, facendo così egli fornì un'informazione sicura di cui la scienza aveva gran bisogno, né egli immaginava certamente l'esistenza di un gruppo di isole, distanti migliaia di miglia, dove in futuro si sarebbe svolto un curioso processo, quando un vecchio capo di Maui sarebbe stato accusato di millantato credito, perché insisteva nell'asserire che il suo corpo era il deposito vivente dell'alluce di Cook! Si vuole che gli accusatori non riuscirono a dimostrare che il vecchio capo non era la tomba dell'alluce dell'esploratore, e perciò l'accusa fu respinta.


Immagino che in questa nostra epoca degenerata non mi sarà possibile di vedere nessun "lungo maiale" mangiato, ma sono almeno già in possesso di una zucca vuota delle Isole Marchesi, debitamente autenticata, di forma oblunga, stranamente scolpita, risalente a un secolo fa, in cui è stato bevuto il sangue di due comandanti di navi, uno dei quali era un uomo spregevole, perché vendette una vecchia baleniera, che di buono aveva solo la pittura fresca, a un capo delle Isole Marchesi. Ma non appena il capitano se ne fu andato, la baleniera andò in pezzi. Il destino volle che qualche tempo dopo, egli facesse naufragio, fra tanti posti, proprio su quell'isola. Il capo indigeno era assolutamente ignorante di pagamenti e interessi, ma aveva un senso primitivo della giustizia e un concetto egualmente primitivo dell'economia naturale; e pareggiò il conto mangiando l'uomo che lo aveva truffato.


Nell'alba fresca partimmo per Typee, montati su feroci piccoli stalloni, che scalpitavano, nitrivano, mordevano il freno e si azzuffavano a vicenda, assolutamente dimentichi dei fragili esseri umani sul loro dorso, e dei ciottoli scivolosi, delle rocce friabili, dei precipizi spalancati. Il sentiero saliva su per un'antica pista, attraverso una giungla di alberi "hau". Da ogni parte si scorgevano vestigia di una popolazione un tempo numerosa. Ovunque l'occhio poteva penetrare nella folta vegetazione s'intravedevano pareti di pietra e fondamenta di pietra, alte da sei a otto piedi, costruite solidamente in ogni particolare, e per un'estensione e una profondità di molte iarde. Formavano delle grandi piattaforme di pietra su cui, in passato, si erano elevate dalle case. Ma le case e le persone erano sparite, e immensi alberi affondavano le loro radici attraverso le piattaforme, e svettavano sulla giungla sottostante. Queste fondamenta sono dette "pae-paes", i "pi-pis" di Melville, la cui ortografia si basava sulla fonetica.


Gli attuali indigeni delle Isole Marchesi non hanno la forza di rimuovere e ricollocare simili pietre, pesanti, né del resto hanno alcun incentivo a farlo. C'è abbondanza di "pae-paes", così da bastare per tutti, e ne rimangono ancora alcune migliaia inutilizzate. Una volta o due, mentre risalivamo la valle, ci capitò di vedere dei magnifici "pae-paes", sulla cui ampia superficie si elevavano delle meschine capannucce di paglia, con la stessa differenza di proporzioni che ci può essere tra un'edicola votiva posata sull'ampia base della piramide di Cheope e la piramide stessa. Infatti gli indigeni di queste isole stanno scomparendo, e a giudicare da quanto osservammo a Taiohae, l'unica cosa che ritarda la loro distruzione totale è l'infusione di nuovo sangue. Un indigeno puro delle Isole Marchesi è una rarità. Sembrano tutti gente di sangue misto, strani miscugli di una dozzina di razze differenti. Diciannove lavoratori efficienti, ecco tutto quello che un commerciante può mettere insieme a Taiohae per l'imbarco sulle navi della copra; e nelle loro vene scorre sangue inglese, americano, danese, tedesco, francese, corso, spagnolo, portoghese, cinese, hawaiano, paumotano, tahitiano e dell'isola di Pasqua. Ci sono più razze che persone, e nel migliore dei casi si tratta di relitti di razze.


La vita qui si indebolisce, vacilla, si spegne. In questo clima caldo, eguale - un vero paradiso terrestre - dove non si verificano mai temperature estreme e dove l'aria è balsamica, conservata sempre pura dall'aliseo di sud-est carico di ozono, l'asma, la tisi, la tubercolosi fioriscono altrettanto rigogliose della vegetazione.


Ovunque, dalle poche capanne d'erba, si sentono uscire colpi lancinanti di tosse o un lamento fioco di polmoni consunti. Altri orribili mali vi prosperano altrettanto bene, ma i più letali sono quelli che attaccano i polmoni. C'è una forma di consunzione detta "galoppante", particolarmente temuta, che in due mesi riduce l'uomo più robusto a uno scheletro avvolto in un sudario.


Una vallata dopo l'altra, l'ultimo abitante si è estinto, e il suolo fertile è tornato a essere giungla. Al tempo di Melville, la valle di Hapaa (da lui chiamata "Happar") era popolata da una tribù forte e guerriera; una generazione dopo, non contava più che duecento individui. Oggi è una distesa tropicale deserta, dove si sente solo l'urlo del vento.


Continuammo a salire sempre più nella vallata, e i nostri stalloni non ferrati procedevano prudenti sul sentiero quasi cancellato, che ondulava penetrando sinuoso tra i "pae-paes" abbandonati ed entro la giungla insaziabile. La vista di rosse mele di montagna, le "ohias", già gustate alle Hawaii, ci suggerì di far arrampicare un indigeno sopra un albero per coglierne, e di nuovo egli si arrampicò per prendere delle noci di cocco. Ho bevuto il cocco della Giamaica e delle Hawaii, ma non ho mai gustato una bevanda simile a quella che gustai qui nelle Isole Marchesi. Ogni tanto si cavalcava sotto limoni e aranci selvatici - grandi alberi sopravvissuti nel deserto più a lungo delle molecole umane che li avevano coltivati.


Cavalcammo attraverso innumerevoli macchie di cinnamomo, dal giallo polline - se si poteva dirlo un cavalcare, giacché quei cespugli profumati erano invasi da vespe. E quali vespe! Grossi esemplari delle dimensioni di piccoli canarini, che volavano rapidi per l'aria trascinandosi dietro quelle loro zampe lunghe un paio di pollici. Un puledro si rizza di botto, sulle gambe davanti, gettando al cielo quelle posteriori: le riabbassa abbastanza lentamente, tanto da fare un balzo selvaggio in avanti, e poi le riporta alla loro posizione abituale. Non è nulla. Semplicemente la sua spessa pelle è stata trafitta dal dardo bruciante dell'organo virile di una vespa. Poi un secondo e un terzo puledro, e tutti quanti, incominciano a impennarsi sulle gambe anteriori in quel paesaggio fatto di precipizi. Zaf! Un pugnale incandescente penetra nella mia guancia. Zaf, di nuovo! Ora sono pugnalato nel collo. Tutta la retroguardia si butta su di me e ne ho per più del mio dovuto. Non c'è modo di battere in ritirata, e i cavalli, che si slanciano avanti sulla pista malsicura, non danno molte garanzie di salvezza. Il mio cavallo oltrepassa quello di Charmian, il quale, da animale suscettibile, offeso in un preciso momento psicologico, pianta uno dei suoi zoccoli sul mio cavallo e l'altro su di me. Ringrazio la mia stella che non sia ferrato, e mi drizzo a metà sulla sella, sotto la trafittura di un'altra daga bruciante. Certamente quello che mi tocca è più del mio dovuto; e lo è anche per il mio povero cavallo, e la sua sofferenza e la sua paura non sono superate che dalle mie.


"Via! Via! Via di qui! Ve la farò vedere!" grido cercando freneticamente di colpire con il berretto le vipere alate che mi circondano.


Da un lato del cammino il paesaggio si eleva verticalmente, dall'altro scende verticalmente. L'unica via d'uscita consiste nell'andare avanti, ed è un miracolo se quella fila di cavalli non cade, poiché si slanciano avanti, sorpassandosi a vicenda, al trotto, al galoppo, incespicando, saltando, scrollandosi, e metodicamente scalciando verso il cielo ogni volta che una vespa si getta su di loro.


Dopo un po' ci fermammo a riprendere fiato e a contare le nostre ferite. E questo accadde non una sola volta o due, ma si ripeté continuamente. Strano a dirsi, la cosa non diventò mai monotona. Per conto mio posso dire che ogni volta passai attraverso ogni cespuglio lottando con l'ardore sempre eguale di un uomo che cerca di sfuggire a una morte improvvisa. No, il pellegrino da Taiohae a Typee non potrà mai patire la noia durante il viaggio.


Alla fine ci innalzammo al di sopra del tormento delle vespe, ma fu più una questione di altezza che di fortezza. Tutto attorno a noi si stendevano, fin dove lo sguardo poteva giungere, le dentate dorsali di catene, con le vette immerse nelle nuvole dell'aliseo. Sotto di noi, lì da dove eravamo partiti, lo "Snark" sembrava un giocattolo nelle acque placide della baia di Taiohae; davanti a noi erano visibili le insenature della Comptroller Bay, che penetravano nel retroterra.


Scendemmo per un migliaio di piedi e Typee apparve sotto di noi.


"Se mi fosse stato dato di intravedere per un attimo i giardini del paradiso, non avrei potuto essere più rapito dallo spettacolo", così narra Melville dell'istante in cui gettò il primo sguardo sulla valle.


Egli vide un giardino, noi vedemmo un deserto incolto. Dov'erano mai finite le centinaia di cespugli di alberi del pane che lui vide? A noi non fu dato di scorgere che giungla, null'altro che giungla, ad eccezione di due capanne d'erba e di alcuni gruppi di noci di cocco che interrompevano il verde manto primordiale. Dov'era il "Ti" di Mehevi, il luogo di riunione dei celibi, il palazzo dove le donne non erano ammesse, e dove egli governava con i suoi capi minori, tenendosi una mezza dozzina di anziani sonnacchiosi e sporchi a ricordo di un passato valoroso? Dal torrente rapido nessun suono si elevava di fanciulle e matrone che macinassero il "tapa". E dov'era la capanna che il vecchio Narheyo costruiva eternamente? Invano lo cercai appollaiato a novanta piedi da terra su qualche alto albero di cocco, a farsi la sua fumatina mattutina.


Scendevamo ora lungo un sentiero sinuoso sotto la giungla intricata, mentre grandi farfalle svolazzavano nel silenzio. Nessun selvaggio coperto di tatuaggi e munito di randello e giavellotto vi montava la guardia, e una volta guadato il corso d'acqua, fummo liberi di vagare dove volevamo. Non più il tabù, sacro e implacabile, regnava in quell'amena vallata. No, il tabù vi regnava ancora, ma un nuovo tabù, poiché quando ci avvicinammo troppo ad alcune miserabili donne indigene, la parola "tabù", venne pronunciata a guisa di avvertimento.


E giustamente. Esse erano lebbrose. L'uomo che ci aveva avvertito era orribilmente deformato dall'elefantìasi. Tutti quanti erano malati di polmoni. La valle di Typee era diventata la dimora della morte, e in quella dozzina di sopravviventi della tribù si stava lentamente e penosamente spegnendo la razza.


Certamente la vittoria non era toccata ai forti, giacché un tempo gli abitanti di Typee erano molto forti, più degli Happar, più degli abitanti di Taiohae, più di tutte le tribù di Nuku-hiva. La parola "typee", o meglio "taipi", in origine significava mangiatore di carne umana. Ma poiché tutti gli indigeni delle Isole Marchesi lo erano, essere così designati testimoniava che i typeani erano gli antropofaghi per eccellenza. Né solo fino a Nuku-hiva arrivava la reputazione del coraggio e della ferocia dei typeani, ma in tutte le Isole Marchesi il loro nome era pronunciato con terrore. L'uomo non riusciva a soggiogarli. Persino la flotta francese, che s'impossessò delle Marchesi, li lasciò tranquilli. Il comandante Porter della fregata "Essex", una volta invase la valle con i suoi marinai e le truppe da sbarco, rinforzati da duemila uomini di Happar e Taiohea; riuscirono a penetrare abbastanza profondamente nella valle, ma vi incontrarono una resistenza così accanita da essere ben felici di ritirarsi e andarsene via con la loro flottiglia di barche e canoe da guerra.


Di tutti gli abitanti dei Mari del Sud quelli delle Isole Marchesi erano giudicati i più robusti e i più belli; Melville ne disse: "Fui colpito specialmente dalla forza e bellezza fisica di cui facevano mostra.... Quanto a bellezza esteriore, essi sorpassavano qualsiasi cosa da me vista. Non un solo caso di deformità naturale poteva essere riscontrato tra la folla che prese parte alle feste.... Ogni individuo appariva privo di quelle imperfezioni che talvolta sciupano l'effetto di una figura altrimenti perfetta. Ma la loro perfezione fisica non consisteva soltanto nell'essere privi di queste imperfezioni; quasi ogni individuo fra loro avrebbe potuto essere preso come modello da uno scultore".


Mendaña, lo scopritore delle Isole Marchesi, descrisse gli indigeni come meravigliosamente belli, e Figueroa, il cronista del suo viaggio, ne disse: "Di pelle erano quasi bianchi, di bella statura e ben fatti". Il capitano Cook li definì i più splendidi fra gli abitanti delle Isole del Sud; e disse degli uomini, che erano "generalmente di statura elevata, quasi mai inferiore ai sei piedi".


E ora tutta questa forza e bellezza è sparita, e nella valle di Typee dimorano alcune dozzine di creature infelici, malate di lebbra, elefantiasi, tubercolosi. Melville calcolò che la popolazione fosse di duemila persone alla sua epoca, senza contare la valletta adiacente di Ho-oumi. La vita è imputridita in questo meraviglioso giardino, dove il clima è altrettanto delizioso e sano quanto qualsiasi altro nel mondo. E i typeani non soltanto erano magnifici fisicamente, ma erano anche puri, la loro aria non conteneva i bacilli e germi e microbi di cui è piena la nostra aria. Quando gli uomini bianchi importarono con le loro navi questi vari microrganismi di malattie, i typeani ne furono contagiati e distrutti.


Se si riflette su questo fatto, si è quasi spinti a concludere che la razza bianca fiorisce nell'impurità e nella corruzione. Ma la vera spiegazione ci è data dalla selezione naturale. Noi di razza bianca siamo i sopravviventi e discendenti di migliaia di generazioni sopravvissute nella lotta contro i microrganismi. Se mai uno di noi nacque con una costituzione particolarmente favorevole ad accogliere questi piccolissimi nemici, quello morì ben presto. E di noi sopravvissero soltanto coloro che potevano opporsi a essi. Noi che siamo vivi siamo gli immuni, siamo gli idonei - i più idonei per la loro costituzione a vivere in un mondo di microrganismi ostili. I poveri abitanti delle Isole Marchesi non avevano subito questa selezione, non erano immuni, ed essi, usi a divorare i loro nemici, furono a loro volta divorati da nemici così microscopici da essere invisibili, e contro i quali nessuna guerra con dardi e giavellotti era possibile. D'altro lato, se ci fossero state alcune centinaia di migliaia di indigeni all'inizio, ci sarebbe stato anche un numero sufficiente di sopravviventi a porre le basi di una nuova razza - una razza rigenerata, se l'immersione in un bagno contaminato di veleno organico può essere detta una rigenerazione.


Dissellammo i cavalli per fare colazione, e dopo essere riusciti a stento a separarli - il mio con parecchi segni di grossi morsi sul dorso - e dopo avere vanamente lottato contro le pulci della sabbia, mangiammo banane e carne conservata, innaffiata da abbondanti sorsi di latte di cocco. C'era poco da vedere. La giungla aveva respinto e inghiottito avidamente le meschine opere degli uomini. Qua e là si poteva incespicare su alcuni "pae-paes", ma senza iscrizioni, geroglifici, tracce del passato che essi attestavano - solo pietre mute, costruite e scolpite da mani ormai fatte polvere e dimenticate.


Dai "pae-paes" sorgevano grossi alberi, che, invidiosi del lavoro fatto dall'uomo, fendevano le pietre, disperdendole e rinnovando il caos primitivo.


Abbandonammo la giungla per cercare il corso d'acqua nella speranza di sfuggire alle pulci della sabbia. Vana speranza. Per entrare in acqua a nuotare ci si doveva togliere i vestiti: le pulci lo sapevano, e a miriadi innumerevoli stavano in agguato sulla riva del torrente. Nel linguaggio indigeno sono chiamate "nau-nau", con un suono corrispondente all'inglese "now-now" (ora-ora), e il nome è certamente ben dato, perché esse sono insistenti e sempre presenti. Non c'è più né passato né futuro, quando si avviticchiano a un'epidermide, e sono pronto a scommettere che Omar Khayyam non avrebbe mai potuto scrivere il Rubaiyat nella valle di Typee - sarebbe stata una cosa psicologicamente impossibile. Commisi l'errore strategico di svestirmi sull'orlo di una riva scoscesa da dove potevo tuffarmi in acqua, ma non risalirne. Quando fui pronto a rivestirmi, dovetti percorrere un centinaio di iarde sulla riva prima di giungere ai miei vestiti. Al primo passo, ben diecimila "nau-nau" si gettarono su di me, al secondo camminavo dentro una nuvola, al terzo non si vedeva più il sole nel cielo. Dopo ciò, non so cosa accadde. Quando arrivai dov'erano i miei vestiti, ero impazzito. E qui avvenne il mio grande errore tattico.


Non c'è che una sola norma di condotta con le "nau-nau". Non schiacciatele mai! Qualsiasi cosa facciate, non schiacciatele mai.


Sono così maligne che nell'istante dell'annientamento emettono il loro ultimo atomo di veleno nella vostra carcassa. Dovete afferrarle delicatamente, tra il pollice e l'indice, e persuaderle gentilmente a staccare le loro proboscidi dalla vostra carne fremente. E' come togliere un dente. Ma la difficoltà era che i denti spuntavano più rapidamente di quanto io non li distaccassi, così finii per schiacciare e in tal modo mi riempii del loro veleno. Questo è avvenuto una settimana fa. Ancora adesso rassomiglio a un convalescente di un vaiolo curato male.


Ho-o-umi è una valletta, separata da Typee da un basso contrafforte, e ci dirigemmo colà dopo avere finalmente costretto all'obbedienza le nostre indomabili e insaziabili cavalcature. E nonostante questo, il cavallo di Warren, dopo una corsa di un miglio, scelse la parte più pericolosa del sentiero per un'esibizione che ci tenne tutti in ansia per buoni cinque minuti. Eravamo giunti all'imboccatura della valle di Typee e guardavamo giù verso la spiaggia da cui Melville era scappato.


Ecco là il punto dove la baleniera stava pronta sui remi in prossimità dei frangenti, ed ecco dove Karakoee, il kanaka tabù, si trovava nell'acqua e si affannava a salvare la vita del navigatore. Quello, di certo, era il punto in cui Melville aveva dato l'ultimo abbraccio a Fayaway prima di lanciarsi sulla barca. Ed ecco laggiù la punta di terra da cui Mehevi e Mow-mow e i loro seguaci si sono buttati a nuoto per intercettare la barca, con l'unico risultato di avere i polsi tagliati dai coltelli a serramanico, quando ormai avevano posto le mani sulla murata, benché fosse riservato a Mow-mow di essere trafitto in gola dalla gaffa per mano di Melville.


Proseguimmo verso Ho-o-umi. Melville era stato sorvegliato così strettamente da non avere mai immaginato l'esistenza di questa valletta, per quanto dovesse incontrarne continuamente gli abitanti, che appartenevano a Typee. Passammo attraverso le stesse "pae-paes" abbandonate, ma nell'avvicinarci al mare trovammo una profusione di noci di cocco, piante del pane e macchie di aro, e una buona dozzina di capanne d'erbe. Ci accordammo di passare la notte in una di esse, e immediatamente ebbero inizio i preparativi per un banchetto. Un maialino da latte fu spacciato in un batter d'occhio, e mentre arrostiva in mezzo a pietre calde, e mentre alcuni polli stavano cuocendo in latte di cocco, convinsi uno dei cuochi ad arrampicarsi sopra un albero di cocco eccezionalmente alto. Il grappolo di noci alla sommità era a più di centoventicinque piedi dal suolo, ma l'indigeno si mise a cavalcioni dell'albero, lo afferrò con entrambe le mani, ripiegato sulla cintola, in modo che le palme dei piedi appoggiassero piatte contro il tronco, e poi si arrampicò sino in cima senza fermarsi. Non c'erano sporgenze sull'albero, non corde ad aiutarlo; semplicemente egli risalì l'albero camminando sino a centoventicinque piedi per aria e dalla cima gettò giù le noci.


Nessuno degli altri uomini avrebbe avuto l'energia fisica per una simile impresa, o meglio i polmoni, poiché la maggior parte di essi non faceva che tossire. Alcune delle donne avevano i polmoni tanto malati che non cessavano di gemere continuamente. Ben pochi tra quegli uomini e donne erano puri indigeni delle Isole Marchesi, ma in maggioranza per metà o per tre quarti di origine francese, inglese, danese e cinese. Nel migliore dei casi queste infusioni di sangue nuovo servivano unicamente a ritardare la morte, e - visti i risultati - ci si poteva chiedere se ne valeva la pena.


Il banchetto fu servito su un vasto "pae-pae", la cui parte posteriore era occupata dalla casa in cui avremmo dormito. La prima portata consistette in pesce crudo e "poi-poi", quest'ultimo di un gusto più forte e acre di quello del "poi" delle Hawaii, fatto con l'aro. Il "poi-poi" delle Isole Marchesi è fatto con l'albero del pane. Il frutto maturo, dopo averne estratto il torsolo, è messo in una zucca vuota e battuto con un pestello di pietra fino a diventare una pasta dura e appiccicosa. A questo punto, avvolto in foglie, può essere seppellito nella terra dove rimarrà per anni. Prima di essere mangiato, però, altre manipolazioni sono necessarie. Un pacco involto in foglie è messo fra pietre calde, come si fa col maiale, e arrostito bene; in seguito viene mescolato con acqua fredda e reso più molle - non tanto da scorrere ma abbastanza per poter essere mangiato prendendolo con due dita. Dopo averlo assaggiato più volte, lo si apprezza come un cibo piacevole e sanissimo. E' il frutto dell'albero del pane, maturo e ben bollito o arrostito! E' delizioso! I frutti dell'albero del pane e dell'aro sono cibi da re, tutti e due, per quanto il primo abbia ovviamente un nome inesatto, e rassomigli più a una patata dolce che ad altro, pur non essendo né così dolciastro né così farinoso come una patata dolce.


Terminato il banchetto, ci soffermammo a vedere la luna che saliva in cielo al disopra di Typee. L'aria era balsamica, con un vago profumo di fiori. Era una notte magica, mortalmente tranquilla, senza la minima brezza a muovere le foglie; e si tratteneva il fiato, quasi si soffriva per tanta squisita bellezza. Debole e lontano giungeva il tenue rimbombo dei frangenti sulla spiaggia. Non c'erano letti: ci sdraiammo dove la terra pareva più soffice. Accanto a noi una donna ansimava e gemeva nel sonno, e tutto intorno a noi gli indigeni morenti tossivano nella notte.




CAPITOLO 11


L'UOMO DELLA NATURA


Lo avevo incontrato una prima volta a San Francisco, in Market Street, in un pomeriggio umido e piovigginoso, mentre camminava a lunghi passi, vestito solo con un paio di cortissimi pantaloncini e una camicia cortissima, i piedi nudi che guazzavano nella mota del selciato. Alle sue calcagna una ventina di ragazzi eccitati. Nel vederlo passare ogni testa - e ce n'erano migliaia - si voltava per gettargli uno sguardo di curiosità, e anch'io mi ero voltato. Non avevo mai visto un'abbronzatura più bella. Era tutto abbronzato, di quel colore che prendono i biondi quando l'epidermide non si spella. I suoi lunghi capelli color stoppia erano pure bruciati dal sole, e così la sua barba, evidentemente decoro di un mento che non conosceva il rasoio. Era un uomo di una tonalità rossiccia, rossiccio-dorata, che sembrava risplendere e irraggiare sole. Un altro profeta - pensai - , venuto in città a portare un suo messaggio per la salvezza del mondo.


Alcune settimane dopo mi trovavo con degli amici in una villetta sui Piedmont Hills che sovrastano la baia di San Francisco, e "lo abbiamo visto, lo abbiamo visto", strepitavano, "l'abbiamo sorpreso su un albero: ma ora è quieto, mangia nella mano. Venite a vederlo".


Così li accompagnai su per una collina scoscesa e in una malferma capannuccia in mezzo a una macchia di eucalyptus scorgemmo quel profeta abbronzato, che avevo visto per le vie della città.


Si affrettò a venirci incontro, in un roteare confuso di capriole. Non ci strinse la mano, anzi il suo benvenuto prese la forma di uno sfoggio di esercizi ginnastici. Fece altre capriole, contorse il suo corpo sinuosamente come un serpente, finché, quando si fu sufficientemente sgranchito le membra, si chinò sui fianchi e a gambe rigide e ginocchi stretti, si mise a tamburellare sul terreno con le palme delle mani; poi continuò a fare giravolte e piroette, a ballare e a fare capriole intorno a noi come una scimmia ubriaca. Tutto il calore solare di una vitalità ardente irraggiava dal suo viso. Sono così felice, ecco la canzone senza parole che egli cantava.


La cantò tutta la sera, ritmando i vari cambiamenti di tonalità con una varietà infinita di prodezze ginnastiche. "Un pazzo! E' un pazzo!


Ho incontrato nella foresta un pazzo!" pensai. Ma si dimostrava un pazzo sensato.


Tra capriole e girotondi, egli ci confidò il suo messaggio che avrebbe salvato l'umanità. Era duplice. Anzitutto, l'umanità sofferente avrebbe dovuto spogliarsi di ogni indumento e andare a fare la vita di un selvaggio sulle montagne e nelle vallate; e in secondo luogo, questo infelicissimo mondo avrebbe dovuto adottare un'ortografia fonetica. Mi vidi dinanzi i grandi problemi sociali risolti dalle popolazioni cittadine sciamanti nude per tutto il paesaggio, fra i colpi di fucile, l'abbaiare dei cani delle fattorie, e innumerevoli assalti con i forconi maneggiati da contadini inferociti.


Passarono gli anni e in un mattino soleggiato lo "Snark" ficcò la sua prua in una stretta apertura della scogliera, vaporante di spuma per l'urto furioso delle onde mosse dall'aliseo, e bordeggiò lentamente entro il porto di Papeete. C'era un'imbarcazione, con bandiera gialla, che si dirigeva verso di noi, e sapevamo che portava l'ufficiale sanitario del porto. Ma molto indietro, nella sua scia, c'era una piccola canoa fuori scalmo che ci rese perplessi. Sventolava una bandiera rossa. La osservai accuratamente con il binocolo, per paura che indicasse qualche pericolo nascosto per la navigazione, un recente naufragio, o una boa o un segnale asportati dal mare. Poi il dottore salì a bordo, e quando ebbe finito di esaminare le nostre condizioni di salute e si fu assicurato che non avevamo nessun topo vivo nascosto sullo "Snark", gli chiesi il significato di quella bandiera rossa.- Oh, è Darling - fu la risposta.


E allora Darling, Ernest Darling, che inalberava la bandiera rossa, la quale significa la fraternità umana, ci salutò: - Allò, Jack - gridò!


- Allò Charmian! - Vogando rapidamente si avvicinò ancora di più, e io riconobbi in lui l'abbronzato profeta dei Piedmont Hills.


Si affiancò a noi, un dio solare cinto di un telo rosso attorno ai lombi, con dei regali arcadici quale benvenuto in ambedue le mani - una bottiglia di miele dorato, con macchie di un oro più scuro, ananassi dorati e limoni dorati, e aranci gustosi prodotti dallo stesso prezioso materiale di sole e terra. E in tal modo, sotto il sole tropicale, incontrai ancora una volta Darling, l'Uomo della Natura.


Tahiti è uno dei più bei posti del mondo, popolato da ladri e truffatori e bugiardi, e anche da alcuni pochi uomini e donne onesti e sinceri. Perciò, a causa della maledizione scagliata sulla meravigliosa bellezza di Tahiti dalla spregevole canaglia umana che la infesta, ho deciso di raccontare non di Tahiti, ma dell'Uomo della Natura. Lui, almeno, è confortante e salutare. Da lui emana un efflusso così dolce e gentile, che non potrebbe fare del male a nessuno, ferire i sentimenti di nessuno, se non forse quelli di un capitalista rapace e plutocratico.


- Che vuol dire quella bandiera rossa? - gli domandai.


- Il socialismo, naturalmente.


- Sì, sì, lo so - continuai - ma che vuol dire in mano vostra?


- Beh, che ho trovato il mio messaggio.


- E lo state forse annunciando a Tahiti? - chiesi incredulo.


- Di sicuro - rispose semplicemente: e in seguito mi accorsi che egli ne era veramente sicuro.


Dato fondo all'ancora, calammo in mare il battello e ci avviammo verso la spiaggia, seguiti dall'Uomo della Natura. Adesso, pensai, chissà come sarò mortalmente perseguitato da questo pazzo; che io sia sveglio o dorma, non me ne potrò più liberare, fin quando non me ne andrò via di qui.


Ma in tutta la mia vita non feci mai sbaglio più grande. Presi in affitto una casa per andarci a stare e a lavorare, ma l'Uomo della Natura non si avvicinò mai a me: aspettava di essere invitato. Invece nel frattempo andò a bordo dello "Snark", prese possesso della sua biblioteca, soddisfattissimo per l'abbondanza di libri scientifici e disgustato, come venni poi a sapere, dall'eccessivo numero di romanzi.


L'Uomo della Natura non spreca mai il suo tempo a leggere romanzi.


Dopo una settimana o due, la coscienza mi rimordeva e lo invitai a pranzo in un albergo giù in città. Arrivò con un'arietta decisamente infelice, infagottato com'era in una giacchetta di cotone; invitato a togliersela, s'irradiò di gioia e gratitudine, e nel farlo mise in mostra la sua pelle dorata dal sole, dalla cintola alle spalle, coperta solo da una rada rete di un tessuto grossolano. Un telo rosso attorno ai lombi completava il suo abbigliamento. Fu quella sera che incominciai a conoscerlo, e durante il mio lungo soggiorno a Tahiti la conoscenza si trasformò in amicizia.


- Dunque voi scrivete dei libri - disse un giorno che, stanco e sudato, avevo appena finito il mio compito del mattino. - Anch'io scrivo dei libri - annunciò.


Ah, ah, pensai, sta a vedere che ora mi perseguiterà con i suoi conati letterari. Provai un senso di ribellione. Non avevo fatto tutta quella strada fino ai Mari del Sud per diventare un agente letterario!


- Ecco il libro che sto scrivendo - egli spiegò, dandosi a pugno chiuso un colpo rimbombante sul torace. - Il gorilla nella giungla africana si batte il petto finché il rumore può essere sentito a mezzo miglio di distanza.


- Un torace ragguardevole! - dissi con ammirazione - che persino un gorilla potrebbe invidiare!


Fu allora, e in seguito che venni a sapere i particolari del libro meraviglioso scritto da Ernest Darling.


Dodici anni prima si era trovato in punto di morte; non pesava che novanta libbre ed era troppo debole per parlare. I dottori l'avevano dato per spacciato e così suo padre, pure medico di professione. Erano stati tenuti dei consulti con altri professori, ma non si aveva più nessuna speranza di salvarlo. Uno studio eccessivo (quale maestro di scuola e studente di università) e due successive polmoniti erano state la causa del suo crollo fisico. Di giorno in giorno perdeva le forze, senza poter trarre alcun vantaggio dai cibi pesanti che gli ammannivano, mentre né pillole né polverine riuscivano ad aiutare lo stomaco a compiere la sua funzione digerente. E non soltanto egli era rovinato fisicamente, ma anche mentalmente, perché il suo cervello era stato logorato dall'eccessivo lavoro. Quindi era stanco e sazio di medicine, stanco e sazio degli esseri umani; e i discorsi degli altri gli riuscivano insopportabili, le attenzioni altrui lo facevano impazzire. Gli venne l'idea, dal momento che doveva morire, che avrebbe potuto altrettanto bene morire all'aria aperta lontano da ogni fonte di cruccio e di irritazione. E dietro questa idea se ne insinuò un'altra; che forse, dopo tutto, non sarebbe morto, se soltanto fosse riuscito a sfuggire ai cibi pesanti, alle medicine e alle persone piene di buone intenzioni che lo facevano impazzire.


Così Ernest Darling, un mucchietto di ossa e un teschio da morto, un cadavere ambulante, con in sé appena il più tenue fremito di vita bastante a farlo muoversi; voltò la schiena agli uomini e alle loro case e si trascinò per cinque miglia attraverso la boscaglia, lontano dalla città di Portland nell'Oregon. Naturalmente era un pazzo.


Soltanto un pazzo si sarebbe trascinato fuori dal suo letto di morte.


Ma nella boscaglia Darling trovò quello che cercava - il riposo.


Nessuno lo importunava con bistecche e carne di maiale, nessun dottore lacerava i suoi nervi tesi tastandogli il polso, o tormentava il suo stomaco stanco con pillole e polverine. Incominciò a sentirsi più calmo. Il Sole splendeva caldo, e lui ci si scaldava, provando la sensazione che la luce del Sole fosse un elisir di salute. Poi gli parve che tutto quanto il suo corpo consunto chiedesse il Sole. Si tolse i vestiti e fece dei bagni di Sole. Si sentì meglio. Ne ebbe un giovamento - il primo senso di sollievo in lunghi mesi di sofferenza.


Man mano che migliorava, si mise a sedere e incominciò a guardarsi attorno. Era tutto un battito d'ali e un cinguettìo di uccelli, intorno a lui; gli scoiattoli giocavano chiacchierini. Invidiava la loro salute e il loro buon umore, la loro esistenza felice, senza preoccupazioni. Che dovesse contrapporre le loro condizioni di vita alle proprie, era inevitabile; e inevitabile pure che si dovesse chiedere perché essi apparivano così vigorosi, mentre egli era una debole larva di uomo morente. La sua conclusione fu la più ovvia, ossia che essi vivevano naturalmente, mentre egli viveva nel modo più innaturale. Quindi, se voleva vivere, doveva tornare alla natura.


Solo lì nella boscaglia, meditò il suo problema e cominciò subito ad attuare i risultati della sua meditazione. Si tolse ogni indumento, andò in giro facendo salti e sgambetti, camminando a quattro zampe, arrampicandosi sugli alberi, insomma facendo delle prodezze ginnastiche - e intanto continuando a impregnarsi della luce del Sole.


Imitò gli animali. Si costruì un nido di foglie secche e di erbe per dormirci la notte, ricoprendolo di corteccia quale protezione dalle prime piogge autunnali.


- Ecco un bell'esercizio - mi disse una volta, agitando le braccia e dandosi dei colpi sui fianchi - l'ho imparato guardando i galli, quando cantano - Un'altra volta notai il suo modo sonoro, aspirante di bere un sorso di latte di cocco, ed egli mi spiegò di avere osservato che le mucche bevevano a quel modo e di averne concluso che doveva esserci qualcosa di buono. Aveva provato il metodo, lo aveva trovato giovevole - e da allora aveva bevuto a quel modo.


Osservò che g]i scoiattoli si cibavano di frutta e di noci, e iniziò una dieta di frutta e noci, con l'aggiunta di pane, e diventò forte e cominciò a crescere di peso. Per tre mesi continuò questa esistenza primitiva nella boscaglia, poi le forti piogge dell'Oregon lo costrinsero a rientrare nelle abitazioni umane. Un essere di novanta libbre, che aveva superato due attacchi di polmonite, non poteva certamente acquistare in tre mesi una robustezza sufficiente a permettergli di vivere all'aperto nell'inverno dell'Oregon.


Aveva già fatto molto, ma perché vi era stato costretto dalle circostanze. Ora non gli restava che tornare a casa, da suo padre; e lì, vivendo in camere chiuse con i polmoni che anelavano a tutta l'aria del cielo aperto, fu di nuovo ridotto male da un terzo attacco di polmonite. Divenne più debole di quanto non fosse mai stato prima, e in quel vacillante tabernacolo di carne, la mente subì un collasso.


Stava sempre disteso, come un morto; troppo debole per resistere alla fatica di parlare, troppo irritato e stanco di cervello per ascoltare con interesse i discorsi degli altri. Il solo atto di volontà di cui era capace era quello di ficcarsi le dita nelle orecchie e rifiutarsi risolutamente a sentire una sola parola che gli fosse detta. Furono chiamati degli psichiatri, che lo giudicarono pazzo, ma dichiararono anche che non sarebbe vissuto più a lungo di un mese.


Da uno di questi psichiatri venne spedito in una clinica sul monte Tabor. Qui, quando si accorsero che era inoffensivo, lo lasciarono libero di fare come voleva e non gli prescrissero più quello che doveva mangiare; così ritornò alla frutta e alle noci - olio d'oliva, burro di noccioline e banane erano gli elementi principali della sua alimentazione. Quando ebbe ripreso le forze, decise di vivere da ora in avanti come voleva lui. Se fosse vissuto come gli altri, secondo le convenzioni sociali, sarebbe morto di certo. E non voleva morire. La paura della morte fu uno dei fattori più decisivi nella genesi dell'Uomo della Natura. Per vivere, doveva seguire una dieta naturale, vivere all'aria aperta e nella benedetta luce solare.


Ora un inverno nell'Oregon non offre proprio nessuna attrattiva a chi desideri tornare alla natura; perciò Darling si mise alla ricerca di un altro clima, inforcò una bicicletta e si diresse verso il sud, verso le terre assolate. La Stanford University lo trattenne per un anno, e qui egli studiò e lavorò come piaceva a lui, assistendo alle lezioni nell'abbigliamento più succinto permesso dalle autorità, e applicando per quanto gli era possibile i princìpi di vita appresi nel mondo degli scoiattoli. Il suo metodo prediletto di studio consisteva nell'andare sulle colline dietro l'Università, lì spogliarsi e sdraiarsi sull'erba, imbevendosi di Sole e di salute, mentre s'imbeveva anche di cultura.


Ma anche la California Centrale ha i suoi inverni e la ricerca di un clima adatto all'Uomo della Natura lo spinse oltre. Tentò Los Angeles e la California Meridionale, più volte arrestato e portato davanti alle commissioni psichiatriche perché, in verità, il suo modo di vivere non corrispondeva a quello degli altri uomini. Tentò le Hawaii, dove, non potendo provare la sua pazzia, le autorità gli intimarono di andarsene. Non lo scacciarono esattamente: avrebbe potuto rimanere se avesse fatto un anno di prigione. Gli lasciarono la scelta. Ora la prigione è morte per l'Uomo della Natura, che prospera solo all'aria aperta e nella luce del Sole dato a noi da Dio. Le autorità di Hawaii non possono essere biasimate. Qualsiasi uomo che non vada d'accordo con un altro è indesiderabile. E il fatto che nessun uomo poteva andare d'accordo con Darling per il suo modo di applicare senza limiti la sua filosofia della vita semplice giustifica abbondantemente le autorità hawaiane per il loro verdetto sulla sua qualità di indesiderabile.


Così Darling se ne andò via anche da qui alla ricerca di un clima che non soltanto fosse desiderabile, ma dove non sarebbe stato indesiderabile. E lo trovò a Tahiti, giardino di tutti i giardini. E fu lì, come abbiamo narrato, che scrisse le pagine del suo libro. Non porta che un telo attorno ai lombi e una camicia di rete senza maniche. Il suo peso, nudo, è di centosessantacinque libbre. La sua salute è perfetta. La vista, già dichiarata rovinata, è eccellente, i polmoni, praticamente distrutti dai tre attacchi di polmonite, non solo sono guariti, ma sono più robusti che mai.


Non dimenticherò mai la prima volta che egli schiacciò una zanzara, mentre mi parlava. Questa pestifera punzecchiatrice si era fissata nel mezzo del suo dorso tra le spalle. Senza interrompere il discorso, senza neppure tralasciare una sillaba, egli drizzò il suo pugno chiuso nell'aria, lo abbassò, si colpì il dorso tra le spalle, ammazzando la zanzara e facendo risuonare il torace come un sonoro tamburo. A nessun'altra cosa mi fece pensare quanto ai cavalli che nelle scuderie tirano calci contro le partizioni di legno.


- Il gorilla nella giungla africana si batte il petto finché il rumore può essere sentito a un miglio di distanza - mi annunciava improvvisamente, e incominciava un tambureggiare insopportabile, diabolico, sul proprio torace.


Un giorno notò un paio di guanti da boxe appesi alla parete. I suoi occhi si illuminarono all'istante:


- Sapete fare la lotta ? - gli chiesi.


- Quando ero a Stanford, davo lezioni di boxe - fu la risposta.


E immediatamente ci spogliammo e infilammo i guanti. Bang! Un lungo braccio scimmiesco lampeggiò, stampando l'estremità guantata sul mio naso. Bif! In un tuffo improvviso egli mi raggiunse su un lato della testa quasi buttandomi giù di fianco. Mi rimase un bozzo per una settimana, in seguito a quel colpo. Mi chinai per evitare un diretto sinistro e gli sferrai un diretto destro sullo stomaco. Era un colpo terribile. L'intero peso del mio corpo lo appoggiava e incontrò il suo corpo, mentre egli si protendeva in avanti. Mi aspettavo che si piegasse e finisse per terra. Invece la sua faccia espresse un'approvazione soddisfatta ed egli esclamò: - Bel colpo! -. L'istante appresso io cercavo di difendermi da una gragnuola di colpi, spintoni e uppercuts. Poi aspettai il momento buono e mirai al plesso solare.


colpendo nel segno. L'Uomo della Natura abbassò le braccia, respirò affannosamente e si sedette:


- Passerà subito - disse - aspettate un momento solo.


E trenta secondi dopo egli era di nuovo in piedi - sì, e mi restituiva il complimento, agganciandomi nel plesso solare, e a mia volta io respiravo affannosamente, abbassavo le braccia e mi sedevo un poco più improvvisamente di quanto non avesse fatto lui.


Tutto questo io lo racconto per provare che l'uomo con cui feci la lotta era un individuo completamente differente dal povero essere del peso di novanta libbre di otto anni prima, l'essere che, dato per spacciato da medici e alienisti, stava lentamente spegnendosi in una stanza chiusa di Portland nell'Oregon. Il libro che Ernest Darling ha scritto è un buon libro, ed è buona anche la sua rilegatura.


Hawaii per anni ha lamentato il proprio fabbisogno di immigranti desiderabili, e ha speso molto tempo, fatica e denaro nell'importare dei cittadini desiderabili, ma finora non si può vantare dei risultati. Eppure Hawaii ha scacciato l'Uomo della Natura, gli ha rifiutato una possibilità di vita. Così, per castigare questa mentalità orgogliosa di Hawaii, colgo l'occasione per mostrarle quanto ha perduto, scacciando l'Uomo della Natura.


Quando egli giunse a Tahiti, cominciò col cercare un pezzo di terra, dove coltivare il cibo di cui si nutriva, ma era difficile trovare della terra - cioè della terra che costasse poco. L'Uomo della Natura non nuotava nell'abbondanza. Per intere settimane andò vagando per i monti scoscesi finché, su in alto sulla montagna, dove era un succedersi di tanti piccoli canyon, trovò ottanta acri di boscaglia, che sembravano non appartenere a nessuno. I funzionari del governo gli dissero che, se avesse voluto disboscare la terra e coltivarla per trent'anni, gliene avrebbero riconosciuto la proprietà.


Immediatamente si mise al lavoro, e non si vide mai un simile lavoro.


Nessuno coltivava a quell'altezza: il terreno era coperto da un groviglio di giungla, e ci scorrazzavano cinghiali e innumerevoli topi. La vista di Papeete e del mare era magnifica, ma le prospettive non sembravano incoraggianti. Gli ci vollero settimane pcr costruire una strada in modo da poter accedere alla piantagione, e cinghiali e topi divoravano qualsiasi cosa lui piantasse, non appena spuntava.


Uccise i maiali, prese in trappola i topi; di questi ultimi, in sole due settimane, ne acchiappò millecinquecento. Doveva portare a dorso ogni cosa, e di solito faceva la notte questo lavoro di bestia da soma.


A poco a poco incominciò ad avere il sopravvento; si costruì una casetta dalle pareti d'erba, e sul terreno vulcanico, fertile, che aveva strappato alla giungla e agli animali della giungla, fece crescere cinquecento alberi di cocco, cinquecento papaye, trecento manghi, molti alberi da pane e peri d'alligatore per non parlare delle vigne, degli arbusti e dei legumi. Accentuò la pendenza dei declivi nei canyon, e fece funzionare un efficiente sistema d'irrigazione, scavando canali paralleli tra un canyon e l'altro a differenti quote.


I suoi stretti canyon diventarono dei giardini botanici. Le aride balze dei monti, dove prima il Sole bruciante aveva inaridito la giungla, abbassandola quasi al livello del suolo, produssero alberi e arbusti e fiori. Non soltanto l'Uomo della Natura ormai bastava a se stesso, ma era divenuto un prospero coltivatore di prodotti che vendeva ai cittadini di Papeete.


Si scoprì allora che la sua terra la quale, secondo l'informazione data dai funzionari del Governo, era senza proprietario, ne aveva realmente uno, e che atti, descrizione eccetera, tutto era registrato.


Tutto il suo lavoro sarebbe andato perduto. La terra non valeva niente, quando lui l'aveva presa; e il proprietario, un facoltoso possessore di terre, ignorava fino a che punto l'Uomo della Natura l'avesse resa fertile. Si concordò un prezzo equo, e l'atto di acquisto di Darling fu redatto regolarmente.


Ma venne poi un colpo più terribile. L'accesso di Darling al mercato fu distrutto. La strada, che lui aveva costruito, fu chiusa con un triplice ferro spinato, per uno di quegli imbrogli negli affari umani così comuni in questo nostro assurdissimo sistema sociale. Dietro a esso si celava la lunga mano di quell'elemento conservatore che aveva trascinato l'Uomo della Natura davanti alla Commissione per gli alienati di Los Angeles e che lo aveva bandito da Hawaii. E' così difficile per uomini soddisfatti di loro stessi comprendere qualsiasi uomo le cui soddisfazioni siano completamente diverse. E' evidente che i funzionari governativi s'erano messi d'accordo con l'elemento conservatore, perché ancora oggi la strada costruita dall'Uomo della Natura è chiusa: nulla è stato fatto in proposito, e da ogni parte appare evidente l'ostinata volontà di non fare niente. Ma l'Uomo della Natura va avanti per la sua strada danzando e cantando. Non passa le notti a ripensare ai torti che gli sono stati fatti, lascia le preoccupazioni a chi ha commesso questi torti. Non perde tempo in queste amarezze. Crede di essere al mondo per essere felice e non ha un momento da sprecare in altri scopi.


La strada che porta alla sua piantagione è bloccata, né egli può costruire una nuova strada, perché non c'è suolo su cui lo possa fare.


Il Governo gli ha concesso soltanto un sentiero da cinghiali, che sale ripido su per la montagna. L'ho percorso con lui, e dovemmo arrampicarci con mani e piedi per riuscire a salire, né esso potrebbe essere trasformato in una strada, per quanto ci si fatichi, se non con l'aiuto di un ingegnere, di un motore e di un cavo d'acciaio. Ma che importa all'Uomo della Natura? Nella sua etica di mitezza, egli ricambia con la bontà il male che gli uomini gli fanno. E chi sa se egli non è più felice di loro!


- Non preoccupiamoci della loro dannata strada - mi disse quando, dopo esserci issati faticosamente su una roccia, ci sedemmo ansanti a riposare. - Presto mi procurerò un aereo e me ne riderò di loro. Sto disboscando uno spiazzo per farne un campo d'atterraggio, e la prossima volta che voi arriverete a Tahiti, scenderete proprio davanti alla mia porta.


Sì, l'Uomo della Natura ha delle idee strane, oltre a quella del gorilla che si batte il torace nella giungla africana. L'Uomo della Natura ha delle idee personali anche riguardo alla levitazione. - Sì - mi disse - la levitazione non è impossibile. E pensate che cosa magnifica, sollevarsi dal suolo con un atto di volontà! Pensateci! Gli astronomi ci dicono che tutto il nostro sistema solare si sta spegnendo e che, a meno di imprevisti, tutto diventerà così freddo, che nessuna vita sarà più possibile. Benissimo. Quel giorno tutti gli uomini saranno diventati abili levitazionisti, e lasceremo questo pianeta moribondo per cercare dei mondi più ospitali. Come si può effettuare la levitazione? Con salti progressivi. Sì, ho provato e alla fine mi sentivo realmente diventare più leggero.


Quest'uomo è un maniaco, pensai.


- Naturalmente - egli aggiunse - queste non sono che teorie mie. Mi piace speculare su un futuro glorioso dell'umanità. Può anche darsi che la levitazione non sia possibile, ma mi piace pensare che lo sia.


Una sera, vedendolo sbadigliare, gli chiesi quante ore di sonno si concedeva.


- Sette - fu la risposta. - Ma fra dieci anni dormirò solo sei ore, e fra venti solo cinque. Vedete, diminuirò un'ora di sonno ogni dieci anni.


- Allora, quando sarete centenario, non dormirete più del tutto - esclamai.


- Proprio così. Esattamente. Quando avrò cent'anni, non avrò più bisogno di sonno. E inoltre, vivrò d'aria. Ci sono delle piante che vivono d'aria, sapete.


- Ma c'è stato qualche uomo che sia riuscito a farlo?


Scrollò il capo.


- Non l'ho mai sentito dire. Ma non è che una teoria mia, questa, di vivere d'aria. Sarebbe bello, vero? Naturalmente può anche essere impossibile, molto probabilmente lo sarà. Vedete, non è che io non pensi al lato pratico. Non dimentico mai il presente. Quando mi elevo nel futuro, lascio sempre un filo con cui ritrovare la strada per tornare indietro.


Ho paura che l'Uomo della Natura sia un burlone. Ad ogni modo vive la sua semplice vita. Il suo conto della lavandaia non dev'essere forte.


Su nella sua piantagione vive di frutta, il cui costo lavorativo, tradotto in moneta sonante, è secondo lui di cinque cents al giorno.


Attualmente, sia per la strada ostruita, sia perché si è dato a fare propaganda di socialismo, vive in città, dove le sue spese, affitto compreso, sono di venticinque cents al giorno. Per pagare queste spese, tiene un corso serale per cinesi.


L'Uomo della Natura non è un fanatico. Quando non c'è nulla di meglio da mangiare che carne, mangia la carne, e così anche, ad esempio, quando è in prigione o a bordo di una nave e non ci sono più né noci né frutta. Né sembra categorico in nulla, eccetto nella questione dell'abbronzatura.


- Date fondo all'ancora ovunque e l'ancora arerà, cioè se la vostra anima è un mare illimitato, insondabile, e non una pozzanghera per cani - citò, e aggiunse: - Vedete, la mia ancora sta sempre arando.


Vivo per la salute e il progresso dell'umanità, e cerco che la mia ancora ari sempre in quella direzione. Per me le due cose sono identiche. L'ancora che ara è quella che mi ha salvato. La mia ancora non faceva presa, quando ero sul letto di morte. La trascinai nella boscaglia e me ne risi dei dottori. Quando ebbi recuperato forza e salute, incominciai con la parola e con l'esempio a insegnare alla gente a diventare uomini e donne della natura; ma essi non vollero sentirmi. Poi sul piroscafo che mi portava a Tahiti, un secondo capo mi spiegò il socialismo e mi dimostrò che era necessaria una perequazione economica prima che donne e uomini potessero vivere secondo natura. Così trascinai nuovamente l'ancora e ora sto lavorando per una comunità cooperativistica. Quando questa si avvererà, sarà facile realizzare un modo di vivere naturale.


- Ho fatto un sogno la notte scorsa - continuò pensieroso, mentre il suo viso lentamente si stava rischiarando. - Mi pareva che venticinque uomini e donne, decisi a vivere in modo naturale fossero appena arrivati sul piroscafo dalla California, e che io mi avviassi a salire con loro il sentiero da cinghiali che porta alla piantagione.


Oh caro Ernest Darling, adoratore del Sole e Uomo della Natura, ci sono dei momenti in cui non posso fare a meno di invidiare te e la tua esistenza spensierata. Ti vedo ora, mentre sali i gradini a passo di danza e sgambetti nella veranda, i capelli gocciolanti per un tuffo nel mare, gli occhi brillanti, il tuo corpo dorato dal Sole risplendente, il torace che rimbomba per un tamburinare diabolico, mentre canti: "Il gorilla nella giungla africana si batte il torace finché il rimbombo può essere sentito a mezzo miglio di distanza". E ti vedrò sempre come ti vidi quell'ultimo giorno, quando una volta ancora lo "Snark" ficcò la prua attraverso il passaggio nella scogliera spumeggiante, dirigendo verso il mare aperto, e io salutavo i rimasti sulla spiaggia.


Il gesto con cui dissi addio al dorato dio del Sole, con il suo telo rosso intorno ai lombi, dritto in piedi nella sua piccola canoa fuori scalmo, fu tra i più benevoli e affettuosi.




CAPITOLO 12


IL REGNO DELL'ABBONDANZA


"Quando arrivano degli stranieri, ognuno cerca di prendersene uno come amico e di portarselo nella propria casa, dov'è trattato con la massima gentilezza dagli abitanti del distretto; lo mettono sopra un alto sedile e lo nutrono abbondantemente con i cibi migliori".


("Ricerche sulla Polinesia").


Lo "Snark" era alla fonda a Raiatea, proprio al largo del villaggio di Uturca; arrivati la sera prima, a crepuscolo calato, ci stavamo preparando per la nostra prima gita a terra. Di buon mattino avevo notato una minuscola canoa a bilanciere con una vela a tarchia impossibile, che sfiorava lo specchio d'acqua della laguna. La canoa stessa era a forma di bara, semplicemente scavata in un tronco, lunga quattordici piedi, larga dodici pollici scarsi e profonda forse ventiquattro. Non aveva sagoma, eccetto il fatto che era appuntita in ambedue le estremità. I fianchi erano diritti. Priva del bilanciere, si sarebbe capovolta in un decimo di secondo. Era il bilanciere che la teneva dritta.


Ho detto che quella vela a tarchia era impossibile: e lo era. Era una di quelle cose, non che bisogna vedere per crederci, ma che non si possono credere neppure dopo averle viste. La caduta e il bordame erano già terrificanti, ma, non contento di questo, il suo artefice le aveva dato un'antenna smisurata, così lunga che in nessun modo avrebbe potuto sostenere lo sforzo anche con un vento moderato. Così alla canoa era stato assicurato un tangone, che si protendeva verso poppa sull'acqua. A questo erano stati fissati due canapi; in questo modo il bordame della vela era sostenuto dalla scotta e l'antenna dal vento.


Non era una semplice barca, non era una semplice canoa, ma un meccanismo a vela. E l'uomo che ci stava dentro lo governava con il suo peso e con il suo coraggio, soprattutto con quest'ultimo. Rimasi a guardare la canoa bordeggiare da sottovento e filare verso il villaggio con l'unica persona a bordo tutta spostata all'infuori sul bilanciere, orzando o puggiando a seconda delle raffiche di vento.


- Beh, so una cosa - annunciai - non lascerò Raiatea prima di aver fatto una corsa su quella canoa.


Pochi minuti dopo Warren mi chiamava dall'alto della scaletta: - C'è qui quella canoa di cui parlavate.


Immediatamente balzai in coperta per accogliere il suo proprietario, un polinesiano alto, snello, dal viso ingenuo e dagli occhi chiari, brillanti, intelligenti. Portava un telo scarlatto attorno ai fianchi e un cappello di paglia. In mano recava dei doni - un pesce, un mazzo di legumi e parecchi enormi ignami. Tutto questo accompagnato da cenni del capo e da sorrisi (che sono ancora moneta corrente in alcuni luoghi isolati della Polinesia) e da frequenti ripetizioni di "mauruuru" (grazie in tahitiano). Mi accinsi a fargli capire a gesti che desideravo fare una corsa con la sua canoa. Il suo viso s'illuminò di piacere e disse una sola parola "Tahaa", voltandosi nello stesso tempo e designando le cime elevate, coronate da nubi, di un'isola distante tre miglia - l'isola di Tahaa. C'era un buon vento fuori, ma un po' troppo di prua.


Ora io non avevo nessuna intenzione di andare a Tahaa. A Raiatea dovevo consegnare delle lettere, vedere dei funzionari, e sotto coperta Charmian si preparava per andare a terra. Con gesti insistenti feci capire che non desideravo altro che una rapida corsa nella laguna. Una rapida ombra di disappunto apparve sul suo volto, ma sorridendo assentì.


- Vieni a fare una corsa - chiamai Charmian che era sotto - ma mettiti in costume da bagno. Ci bagneremo.


Non fu una cosa reale, fu un sogno. Quella canoa scivolava sull'acqua come una stria argentea. Io mi spostai in fuori sul bilanciere e feci da contrappeso per tenerla dritta, mentre Tehei (da pronunciarsi Te- he-yi) forniva il coraggio, e anche lui, sotto le raffiche, veniva un po' fuori sul bilanciere, governando nello stesso tempo con tutte e due le mani per mezzo di una grossa pagaia e tenendo con il piede la scotta.


- Pronti a virare! - gridò.


Accuratamente spostai il mio peso dentro la barca per mantenere l'equilibrio, mentre la vela si afflosciava.


- Tutto alla puggia - gridò, venendo velocemente al vento.


Scivolai fuori dal lato opposto al di sopra dell'acqua, sull'asta assicurata di traverso alla canoa, e ci trovammo in piena vela e in velocità sull'altro fianco.


- Bene - disse Tehei.


Quelle tre frasi, "pronti alla vira", "tutto alla puggia" e "bene" costituivano tutto il vocabolario inglese di Tehei e mi indussero a sospettare che un tempo avesse fatto parte di un equipaggio kanaka agli ordini di un comandante americano. Tra una raffica e l'altra gli feci dei cenni e ripetutamente e in tono interrogativo pronunciai la parola "marinaio" in inglese, poi tentai di dirla in un francese atroce. Ma "marin" non voleva dire niente per lui, e neppure "matelot". O il mio francese era cattivo, o lui non era in grado di capirlo. In seguito venni alla conclusione che tutte e due le congetture erano esatte. Alla fine incominciai a elencare le isole vicine. Col capo accennò di esserci stato. Quando la mia inchiesta giunse a Tahiti, capì a che cosa miravo. L'evoluzione del suo pensiero era quasi visibile, ed era un piacere vederlo pensare. Accennò energicamente con il capo. Sì, era stato a Tahiti, e aggiunse egli stesso nomi di isole come Tikitau, Rangiroa e Fakarava, provando così di aver navigato fino alle Paumotu - indubbiamente come membro dell'equipaggio di una nave mercantile.


Dopo la nostra breve navigazione, quando egli fu tornato a bordo, a segni si informò della destinazione dello "Snark", e quando io ebbi menzionato Samoa, le Figi, ]a Nuova Guinea, la Francia, l'Inghilterra e la California, secondo la loro successione geografica, egli disse "Samoa" e a gesti fece capire che avrebbe voluto andarci. Al che mi trovai in difficoltà per spiegargli che a bordo non c'era posto per lui. "Petit bateau" finalmente ci riuscì, e di nuovo il disappunto sul suo viso si unì a una sorridente acquiescenza, e prontamente ripeté più volte l'invito ad accompagnarlo a Tahaa.


Charmian e io ci guardammo. L'ebbrezza del volo appena fatto era ancora in noi. Lettere da portare a Raiatea, funzionari da vedere, tutto fu dimenticato. Un paio di scarpe, una camicia, un paio di calzoni, sigarette, fiammiferi e un libro da leggere furono ficcati di furia in una latta da biscotti e avvolti in un telo di gomma, e scavalcato il bastingaggio, scendemmo nella canoa.


- Quanto vi dovremo aspettare? - chiese Warren mentre il vento gonfiava la vela e spingeva me e Tehei precipitosamente sul bilanciere.


- Non so - risposi - quando torneremo; non vi saprei dire altro!


E ce ne andammo via. Il vento era aumentato e con le scotte allascate noi correvamo in poppa. Il bordo libero della canoa non era più alto di due pollici e mezzo, e la maretta continuamente si riversava oltre il bordo, ciò che rendeva necessario sgottare. Ora sgottare è una delle funzioni principali della "vahine", il nome della donna in tahitiano, e poiché Charmian era l'unica donna a bordo, la funzione spettò giustamente a lei. Tehei e io non avremmo potuto farlo bene, essendo tutti e due in parte appollaiati fuori sul bilanciere e occupati a mantenere dritta la canoa. Così Charmian sgottò, con una sassola di legno dalla forma primitiva, e lo fece così bene che ci furono dei momenti in cui poteva stare in riposo buona parte del tempo!


Raiatea e Tahaa formano una cosa sola, perché si trovano tutte e due all'interno di una stessa scogliera che le circonda. Tutte e due sono isole vulcaniche, che si stagliano con una linea dentata sull'orizzonte, con vette e punte aguzze che tendono al cielo. Dal fatto che Raiatea ha una circonferenza di trenta miglia e Tahaa di quindici si può ricavare un'idea della scogliera che le racchiude. Tra le isole e la scogliera c'è una distesa d'acqua larga da un miglio a due, che forma una bella laguna. I grandi frangenti del Pacifico, che si stendono in una linea ininterrotta talvolta per un altro miglio o due di lunghezza, si scagliano sulla scogliera, impedendo e ricadendo su di essa con uno schianto tremendo; eppure la fragile struttura corallina resiste all'urto e protegge la terra. Fuori, l'imbarcazione più robusta è minacciata di distruzione, all'interno regna la calma delle acque tranquille, dove una canoa come la nostra poteva veleggiare con appena un paio di pollici di bordo libero.


Volavamo sull'acqua. E che acqua! chiara come la fonte più chiara, e cristallina nella sua limpidezza, tutta percorsa da uno sfolgorìo di colori e sfumature dell'arcobaleno - una cosa da impazzire! - ma più splendidamente smaglianti che in qualsiasi arcobaleno. Il verde giada si alternava al turchino, il blu pavone allo smeraldo, mentre ora la canoa passava sfiorandole su acque di un rosso purpureo, e ora su altre di un bianco tremulo, scintillante, là dove il fondo era di finissima sabbia corallina, su cui posavano mostruosi molluschi. Un momento ci trovavamo sopra a un giardino delle meraviglie di corallo, in cui pesci colorati folleggiavano, svolazzando come farfalle marine; un momento dopo sfrecciavamo attraverso l'oscura superficie di canali profondi, da cui sciami di pesci volanti si levavano in un argenteo volo: e in un terzo ancora eravamo sopra altri giardini di corallo vivo, ognuno più meraviglioso dell'altro. E su tutto incombeva il cielo tropicale, da aliseo, con le nuvole fioccose, in corsa attraverso lo zenit, che riempivano l'orizzonte con le loro soffici masse.


Quasi senza accorgercene, ci trovammo vicini a Tahaa (da pronunciarsi Tah-ah-ah, con ogni sillaba accentata), mentre Tehei sorridendo esprimeva la sua approvazione per l'efficiente sgottare della "vahine". La canoa si arenò sulla spiaggia bassa a venti piedi da terra e guadammo attraverso un fondo morbido, dove grossi molluschi si arricciavano e torcevano sotto i nostri piedi e dove minuscoli cefalopodi segnalavano la loro esistenza per la superlativa morbidezza su cui si camminava.


Accanto alla spiaggia, tra palme di cocco e alberi di banane, elevata su trampoli, fatta di bambù e con un tetto d'erbe, c'era la casa di Tehei. E da essa uscì fuori la "vahine" di Tehei, una snella figurina di donna dagli occhi dolci e dalle fattezze mongoliche - se pure lei non discendeva da una razza indiana del Nord America. "Bihaura", la chiamò Tehei, ma non pronunciò questo nome secondo le norme inglesi di pronuncia. Compitò il nome in modo che suonava come "Bi-ah-uu-rah" con ogni sillaba fortemente accentata.


Lei prese per mano Charmian e la guidò nella casa, lasciando che Tehei e io le seguissimo. E qui, mediante gesti il cui significato non poteva essere frainteso, fummo informati che tutto quanto essi possedevano era nostro. Nessun hidalgo fu mai più generoso nell'offrire, mentre sono sicuro che pochi hidalghi lo furono mai altrettanto nel dare realmente.


Ben presto scoprimmo che non dovevano ammirare ciò che loro possedevano, perché non appena ammiravamo un determinato oggetto, esso ci era immediatamente regalato. Le due "vahine", com'è costume delle "vahine", si misero a esaminare e a discutere degli aggeggi donneschi, mentre Tehei e io, come usano fare gli uomini, guardavamo gli attrezzi da pesca e per la caccia al cinghiale, e anche un'ingegnosa apparecchiatura per prendere dei tonni con aste da quaranta piedi, stando su canoe accoppiate. Charmian ammirò un cestino da lavoro - il più bell'esempio di cesto polinesiano che avesse mai visto: e fu suo.


Io ammirai un amo per tonni, scavato in un pezzo solo in una conchiglia madreperlacea: e fu mio. Charmian fu attirata da una buffa treccia di corda di paglia, un rotolo lungo trenta piedi, sufficiente a fare un cappello di qualsiasi forma: e il rotolo di treccia fu suo.


Il mio sguardo indugiò su un mortaio per il "poi", che risaliva all'epoca della pietra: fu mio. Charmian si soffermò un po' troppo a lungo su una ciotola di legno per il "poi" a forma di canoa, con quattro piedini, tutta ricavata da un solo pezzo di legno: fu sua. Io guardai una seconda volta una gigantesca fiasca di cocco: e fu mia.


Allora Charmian e io ci riunimmo a colloquio e decidemmo di non ammirare più niente - non perché la cosa non fosse redditizia, ma perché lo era fin troppo. Di più ci stavamo tormentando le meningi per trovare a bordo dello "Snark" dei regali che potessero servire al contraccambio. Il problema dei regali natalizi è un'inezia in confronto a un'orgia di regali polinesiana.


Ci sedemmo sotto il portico fresco, sulle migliori stuoie di Bihaura, mentre preparavano il pranzo, e nello stesso tempo facemmo la conoscenza degli abitanti del villaggio. Si presentavano a gruppi di due o tre o più ancora, ci stringevano la mano, pronunciando la parola tahitiana di benvenuto - "Ioarana", pronunciato yo-rahnah. Gli uomini, bei tipi aitanti, portavano un telo intorno ai lombi, e certi erano con la camicia e certi senza, mentre le donne indossavano l'universale "ahu", una specie di grembiale per persone grandi, che cadeva in pieghe graziose dalle spalle fino a terra. Era triste vedere l'elefantiasi da cui alcune di esse erano afflitte. Per esempio una bella donna dalle forme magnifiche, e dal portamento regale, era rovinata da un braccio quattro - o dodici volte - più grosso dell'altro. Accanto a lei stava un uomo alto sei piedi, dritto, dalla muscolatura possente, abbronzato, con il corpo di un dio, ma con piedi e polpacci così gonfi che si confondevano formando qualcosa di informe, di mostruoso, che si sarebbe potuto prendere per gambe di elefante.


Sembra che nessuno conosca realmente la causa dell'elefantiasi dei Mari del Sud. Secondo una teoria, essa è causata dal bere acqua infetta, secondo un'altra da un'intossicazione dovuta a morsicature di zanzare. Una terza teoria l'attribuisce a predisposizione, più un processo di acclimatazione. D'altro lato nessuno che viva in un perpetuo terrore di questa e di altre malattie del genere si può permettere di viaggiare nei Mari del Sud. Ci saranno dei momenti in cui bisogna bere dell'acqua, e ci saranno anche dei momenti in cui le zanzare cominceranno a pinzare. Ma ogni precauzione di genere schizzinoso sarà inutile. Se si corre a piedi nudi sulla spiaggia per gettarsi in acqua, si mettono i piedi dove pochi minuti prima li ha messi un malato di elefantiasi. Se ci si rinchiude nella propria casa, ogni boccone di cibo fresco che verrà in tavola avrà potuto essere contaminato, sia che si tratti di carne o di pesce o di selvaggina o di legumi. Al mercato pubblico di Papeete due ben noti lebbrosi hanno dei banchi di vendita, e Dio solo sa per quale tramite vi arrivano quotidianamente i rifornimenti di pesce, frutta, carne e legumi.


Il solo modo di viaggiare spensieratamente nei Mari del Sud è quello di farlo con una certa noncuranza, senza apprensioni e con una fede simile a quella degli Scienziati Cristiani nel brillante destino della propria stella. Quando vedete una donna, affetta da elefantiasi, che a mani nude fa sprizzare il latte dalla polpa della noce di cocco, bevete e pensate a quanto è buono il latte, dimenticando le mani che lo hanno spremuto. E ricordate anche che malattie quali l'elefantiasi e la lebbra non pare che si possano trasmettere per contagio.


Ci fermammo a guardare una donna di Raratonga, dalle membra gonfie e distorte, che preparava il nostro latte di cocco, e poi andammo al capannone della cucina, dove Tehei e Bihaura facevano cuocere il pranzo, e questo ci fu poi servito nella casa sopra una scatola di latta. I nostri ospiti attesero che noi avessimo finito e poi si prepararono la loro tavola per terra. Ma il nostro pranzo!


Indubbiamente ci trovavamo nel regno dell'abbondanza! Anzitutto ci fu del magnifico pesce crudo, preso in mare alcune ore prima e lasciato a macerare in sugo di limone diluito con acqua. Poi venne un pollo arrosto; due noci di cocco, di una dolcezza un po' aspra, servivano da bevanda. C'erano delle banane che avevano il sapore di fragole e che si disfacevano in bocca, e c'era un "poi" di banana così buono da far rimpiangere che i nostri antenati americani abbiano mai tentato di fare dei pudding. Poi c'era dell'igname bollito, dell'aro bollito, e dei "fei" arrostiti, i quali ultimi non sono né più né meno che grosse banane da far cuocere, polpose, sugose, di colore rosso. Ci meravigliavamo per tanta abbondanza; e proprio mentre ci stavamo meravigliando, fu portato in tavola un maiale, un maiale intero, un maialino da latte, avvolto in foglie verdi e arrostito sulle pietre calde di un forno indigeno, il piatto più rinomato e squisito di tutta la cucina polinesiana. E dopo questo venne il caffè, un caffè delizioso, del luogo, coltivato sulle pendici delle colline di Tahaa.


Gli attrezzi da pescatore di Tehei mi affascinavano; e dopo avere organizzato di andare a pescare, Charmian e io decidemmo di rimanere lì per la notte. Di nuovo Tehei tirò fuori l'argomento di Samoa, e di nuovo il mio "petit bateau" fece sorgere il disappunto e un sorriso acquiescente sul suo viso. Bora Bora era il porto successivo che avremmo dovuto toccare; e non era tanto lontano che una barca a vela non potesse fare l'andata e ritorno fra lì e Raiatea. Così invitai Tehei a venire fin lì con noi sullo "Snark". Venni allora a sapere che sua moglie era nata a Bora Bora ed ancora vi possedeva una casa. Anche lei venne invitata, e immediatamente giunse in ricambio l'invito a essere loro ospiti nella casa di Bora Bora.


Era lunedì. Il martedì saremmo andati a pescare, tornando a Raiatea.


Mercoledì avremmo fatto vela verso Tahaa, e quando a un certo punto ci fossimo trovati a un miglio di distanza al largo, avremmo preso a bordo Tehei e Bihaura e continuato per Bora Bora. Tutto questo venne deciso in ogni particolare, e parlammo anche di molti altri argomenti, eppure Tehei conosceva tre frasi inglesi, Charmian e io sapevamo al massimo una dozzina di parole in tahitiano, e fra tutti e quattro c'erano solo una dozzina di parole francesi che tutti capivano.


Naturalmente una conversazione così poliglotta era lenta, ma con l'aiuto di un notes, di una matita, il disegno di un orologio che Charmian tracciò sul rovescio del notes, e centomila gesti riuscimmo a cavarcela bene.


Non appena ci mostrammo desiderosi di coricarci gli indigeni invitati con sommessi "Ioarana" sparirono, ed egualmente sparirono Tehei e Bihaura. La casa consisteva in una grande stanza, che venne ceduta a noi mentre i nostri ospiti andavano a dormire altrove. Insomma il loro castello era nostro. E voglio dire subito che di tutte le ospitalità ricevute in questo mondo da ogni sorta di razze in ogni sorta di luoghi, nessuna accoglienza poté mai eguagliare quella che ricevemmo da questa coppia di negri di Tahaa. Non intendo parlare dei regali, della generosità liberale, della notevole abbondanza, ma della finezza delle loro cortesie, del loro tatto, delle loro attenzioni, e della simpatia vera in quanto basata sulla comprensione. Essi non fecero nulla che ritenevano dovesse essere fatto per noi secondo le loro norme, ma fecero quello che indovinavano essere nostro desiderio, con uno spirito di divinazione veramente felice. Sarebbe impossibile enumerare le centinaia di piccoli gesti, di attenzioni, che ci usarono nei pochi giorni in cui ci trovammo insieme. Mi basti dire che fra tutte le ospitalità e accoglienze che io ricordi in nessun caso la loro fu non dico superata, ma nemmeno eguagliata. Forse la sua caratteristica più simpatica era di essere non già il risultato di un'educazione o di complessi ideali sociali, ma un'effusione spontanea, istintiva dei loro cuori.


La mattina dopo andammo a pescare, cioè Tehei, Charmian e io, nella canoa a forma di bara, ma questa volta la vela enorme fu lasciata a casa. Non era possibile veleggiare e pescare nello stesso tempo in quel piccolo scafo. Dopo aver percorso parecchie miglia, all'interno della scogliera, in un canale profondo venti braccia, Tehei gettò in acqua gli ami innescati e delle pietre come ancora. L'esca era formata da pezzettini di carne di cefalopodi, che egli staccò a morsi da un cefalopode vivo, che si contorceva sul fondo della canoa. Sistemò nove di queste lenze, ognuna di esse attaccata all'estremità di un corto bambù che galleggiava alla superficie dell'acqua. Quando un pesce abboccava, questa estremità del bambù era trascinata sott'acqua: e naturalmente l'altra estremità si drizzava nell'aria, agitandosi pazzamente quasi perché ci spicciassimo. E ci affrettavamo a vogare da un bambù segnalatore all'altro, in mezzo a grida e urli, alando dal profondo dei magnifici pesci brillanti, lunghi da due a tre piedi.


Intanto a levante un groppo minaccioso aveva continuato insistentemente a levarsi, offuscando il cielo sereno spazzato dall'aliseo. E noi eravamo tre miglia sottovento da casa. Iniziammo il ritorno, mentre le prime raffiche di vento imbiancavano l'acqua. Poi venne la pioggia, la pioggia come si vede solo nei tropici, quando si direbbe che ogni rubinetto e condotto del cielo si spalanchi e, per colpo, lo stesso serbatoio si riversi in un diluvio accecante. Beh, Charmian era in costume da bagno, io in pigiama, e Tehei non aveva che il telo intorno ai lombi. Bihaura era sulla spiaggia ad aspettarci e si portò Charmian in casa proprio come potrebbe farlo una madre con una bimba cattiva che si è divertita a giocare nelle pozzanghere.


Il cambiamento di abiti e una tranquilla fumata, ben asciutti, occuparono il tempo mentre si stava preparando il "kai-kai". "Kai- kai", tra parentesi, è la parola polinesiana per "cibo" o "mangiare", o piuttosto è una forma di una radice originaria, qualunque essa sia stata, che si è largamente diffusa in un'ampia zona del Pacifico. E' "kai" nelle Isole Marchesi, a Raratonga, Manahiki, Niue, Fakaafo, Tonga, nella Nuova Zelanda e a Vatè. A Tahiti "mangiare" diventa "amu", alle Hawaii e a Samoa "ai", a Bau "kana", a Niua "kaina", a Nongone "kaka" e nella Nuova Caledonia "ki". Ma qualsiasi forma abbia preso quel segno o simbolo, esso risuonò assai piacevole alle nostre orecchie dopo la lunga vogata sotto la pioggia. Una volta ancora ci trovammo nel regno dell'abbondanza, tanto da finire per rimpiangere di non essere fatti a somiglianza di una giraffa o di un cammello.


Di nuovo mentre ci preparavamo a tornare sullo "Snark", il cielo a sopravvento si offuscò e un altro groppo piombò giù. Ma questa volta si trattò di poca pioggia e tutto vento. Soffiò per più ore, gemendo e urlando fra le palme, spezzando e strappando e squassando la fragile casa di bambù, mentre sul lato esterno della scogliera si udiva un cupo rimbombo là dove l'urto delle onde agitate veniva infranto.


All'interno della scogliera, la laguna, per quanto riparata, era bianca per l'infuriare del vento, e neppure l'abilità di marinaio di Tehei avrebbe permesso alla sua minuscola canoa di resistere in un mare così sconvolto.


Al tramonto, la coda del groppo si era scissa in due, benché il mare fosse ancora troppo agitato per la canoa. Così incaricai Tehei di trovare un indigeno disposto a tentare con la sua barca la traversata fino a Raiatea per la somma enorme di due dollari cileni, ciò che equivarrebbe a novanta cents americani. Una metà del villaggio fu incaricata di portare i regali di cui Tehei e Bihaura avevano munito gli ospiti partenti - polli legati, pesci ripuliti e avvolti in involucri di foglie verdi, grandi grappoli dorati di banane, ceste di foglie riboccanti di aranci e limoni, di pere d'alligatore (il frutto dell'albero del burro, chiamato anche "avoca"), grandi ceste di ignami, grappoli di frutti di aro e di noci di cocco, e, per ultimo, grossi rami e tronchi di alberi - legna da bruciare sullo "Snark".


Mentre stavamo recandoci alla barca incontrammo l'unico uomo bianco di Tahaa, e chi era mai se non George Lufkin, un oriundo del New England!


Aveva ottantasei anni, di cui una sessantina passati nelle Isole della Società, con assenze saltuarie, come quando aveva preso parte alla corsa all'oro nell'Eldorado nel 1849 o aveva dedicato un breve periodo all'allevamento del bestiame in California, vicino a Tulare. Quando i dottori non gli avevano dato più di tre mesi di vita, era tornato ai suoi Mari del Sud, e c'era vissuto sino a ottantasei anni, beffandosi dei dottori predetti, a loro volta invece già nella tomba.


Era affetto da "fee-fee", la parola indigena per elefantiasi (che è pronunciata fay-fay). Venticinque anni prima la malattia lo aveva colpito e non lo avrebbe lasciato fino alla morte. Gli domandammo se aveva famiglia; accanto a lui era seduta una vivace damigella di sessant'anni, sua figlia. - E' tutto ciò che mi resta - mormorò tristemente - e non ha figli viventi.


La barca era un piccolo affare attrezzato a sloop, ma sembrava grossa vicino alla canoa di Tehei. D'altra parte, quando ci spingemmo fuori dalla laguna, e un altro duro groppo ci colpì, la barca diventò lillipuziana, mentre nella nostra fantasia lo "Snark" sembrava promettere la stabilità e inamovibilità di un continente. Erano tutti buoni marinai, Tehei e Bihaura erano pure venuti per accompagnarci fino allo "Snark", e quest'ultima si dimostrò anche lei un buon marinaio. La barca era ben zavorrata, e affrontammo il groppo senza ridurre la velatura. La laguna era cosparsa di banchi di coralli e noi tiravamo avanti. Nel più forte del groppo dovemmo virare di bordo per fare un corto bordo di bolina, allo scopo di girare attorno a un banco di corallo, che si trovava a non più di un piede proprio sotto il pelo dell'acqua. Mentre la barca stava prendendo vento sull'altro bordo ed era in quel punto morto che precede il riabbrivarsi, sbandò completamente. Mollate la scotta di fiocco e la scotta di randa, essa si raddrizzò venendo all'orza. Tre volte sbandò e tre volte le scotte furono mollate, prima che essa potesse mettersi a correre su quel bordo.


Quando venne il momento di virare di nuovo, l'oscurità era ormai calata. Ci trovavamo ora sopravvento dello "Snark", e la bufera ululava. Rientrammo il fiocco, ammainammo la vela di maestra, tutta eccetto un pezzo delle dimensioni di una federa da guanciale.


Sfortunatamente non riuscimmo ad accostare allo "Snark", il quale ballava alla fonda su due ancore, e andammo in secco sul banco di corallo verso terra. Allungando sulla barca la più lunga cima che avessimo a bordo dello "Snark" per mezzo della lancia, riuscimmo a rimettere a galla la barca stessa dopo un'ora di duro lavoro, e a ormeggiarla sicuramente di poppa allo "Snark".


Il giorno che facemmo vela per Bora Bora il vento era lieve, e attraversammo la laguna a motore fino al punto in cui dovevamo incontrarci con Tehei e Bihaura. Mentre ci avvicinavamo alla terra tra i banchi di corallo, scrutavamo invano la spiaggia cercando i nostri amici. Non se ne vedeva nessun segno.


- Non possiamo aspettare - dissi - questa brezza non ci farà raggiungere nel buio Bora Bora, e io non voglio usare più benzina di quanto non sia necessario.


Vedete, la benzina è un problema nei Mari del Sud: nessuno sa mai quando ci si potrà rifornire di nuovo.


Ma proprio allora Tehei apparve fra gli alberi, dirigendosi verso la riva; si era tolto la camicia e la stava agitando freneticamente. A quanto pareva, Bihaura non era pronta. Salito a bordo, Tehei ci informò a gesti che dovevamo andare avanti lungo la terra finché ci fossimo trovati all'altezza della sua casa. Prese il timone e diresse lo "Snark" attraverso i banchi di corallo, superando una punta dopo l'altra, finché scapolammo l'ultima di tutte e grida di benvenuto si elevarono sulla spiaggia, dove Bihaura, con l'aiuto di parecchi altri abitanti del villaggio, aveva preparato di che riempire due canoe.


C'erano ignami, frutti di aro, fei, frutti dell'albero del pane, noci di cocco, aranci, limoni, ananassi, cocomeri, pere d'alligatore, melograni, pesce, galline in quantità che schiamazzavano e poi deposero le uova sulla nostra coperta dello "Snark", e un maialino vivo che strillava in modo infernale per il continuo terrore di essere ammazzato.


Nella luna crescente superammo lo stretto passaggio nella scogliera di Bora Bora e demmo fondo al largo del villaggio di Vaitapè. Bihaura, con l'ansia di una buona massaia, non vedeva l'ora di scendere a terra e andare a casa sua a preparare altro ben di Dio per noi. Mentre la lancia la portava con Tehei a una piccola banchina, un'armonia di musica e canti si sparse nella quieta laguna. Dappertutto nelle Isole della Società ci avevano informato che avremmo trovato molto allegri gli abitanti di Bora Bora. Charmian e io scendemmo a terra per constatarlo e sopra uno spiazzo verde del villaggio, accanto a tombe dimenticate sulla spiaggia, trovammo giovanotti e ragazze che ballavano, inghirlandati e ornati di fiori, con nei capelli strani fiori fosforescenti che palpitavano e si oscuravano e brillavano nel chiaro di luna. Più lontano lungo la spiaggia ci capitò di vedere una grande casa d'erbe, di forma ovale, lunga settanta piedi, dove gli anziani del villaggio stavano cantando delle "himine", anche loro inghirlandati e allegri; e ci accolsero cordialmente tra di loro come pecorelle smarrite che rientrassero all'ovile dopo avere vagato nell'oscurità.


Il mattino dopo, di buon'ora Tehei venne a bordo, con un'infilata di pesci appena presi e un invito a pranzo per la stessa sera. Nel recarci a pranzo ci fermammo alla casa delle "himine". Gli stessi anziani stavano cantando, con qua e là un giovane o una ragazza che non avevamo visto la sera prima. Secondo tutti gli indizi, si stava preparando un gran banchetto. Da terra si elevava una catasta di frutti e legumi, fiancheggiati da ogni parte da numerosi polli legati con stringhe di cocco. Dopo che furono cantate parecchie "himine", uno degli uomini si alzò in piedi e pronunciò un discorso. Questo discorso era rivolto a noi, e per quanto ci fosse incomprensibile, capimmo che in qualche modo c'era una connessione tra noi e quella catasta di viveri.


- Che ci vogliano regalare tutta quella roba? - mormorò Charmian.


- Impossibile - sussurrai. - Perché ce la dovrebbero dare? Del resto, non c'è neppure posto sullo "Snark". Non potremmo mangiarne neanche la decima parte. Il resto andrebbe a male. Forse ci stanno invitando al banchetto. Ad ogni modo è impossibile che ci vogliano dare tutto quanto.


Eppure ci trovammo una volta ancora in pieno regno dell'abbondanza.


L'oratore, a gesti il cui significato non poteva essere frainteso, ci regalò ogni oggetto in modo particolare, e poi ce li regalò "in toto".


Fu un momento imbarazzante. Cosa fareste voi, se viveste in una sola camera che serve da salotto, camera da letto eccetera, e un vostro amico vi regalasse un elefante bianco? Il nostro "Snark" non era altro che un alloggio di una sola camera, e già era stato colmato con tutta l'abbondanza di Tahaa. Questo nuovo rifornimento era eccessivo.


Arrossimmo, balbettammo e continuammo a dire "mauruuru". Continuammo a dirlo con dei ripetuti "nui", che dovevano esprimere la schiacciante profondità della nostra gratitudine. Nello stesso tempo, sempre a gesti, commettemmo la terribile infrazione all'etichetta di non accettare il regalo. Il disappunto dei cantori di "himine" fu evidente, e quella sera, con l'aiuto di Tehei, venimmo a un compromesso. Avremmo accettato un pollo, un grappolo di banane, un grappolo di aro e così via, insomma un po' di ogni cosa.


Ma non c'era modo di sfuggire all'abbondanza.


Comprai una dozzina di polli da un indigeno nella campagna, e il giorno dopo egli me ne portò tredici insieme a un carico di frutta che riempiva una canoa. Il commerciante francese ci regalò dei melograni e ci prestò il suo più bel cavallo, e lo stesso fece il gendarme, prestandoci un cavallo che era la pupilla dei suoi occhi. Ognuno poi ci mandò dei fiori. Lo "Snark" era diventato un negozio di frutta e verdura camuffato da serra. Tutto il tempo andavamo in giro inghirlandati di fiori. Quando i cantori di "himine" vennero a bordo per cantare, le ragazze ci abbracciarono per darci il benvenuto, e l'equipaggio, dal capitano al cameriere, perse la testa per le ragazze di Bora Bora. Tehei organizzò in nostro onore una grande partita di pesca, a cui ci recammo in una doppia canoa, manovrata da una dozzina di magnifiche amazzoni. Per fortuna non prendemmo pesci, perché diversamente lo "Snark" sarebbe andato a fondo all'ormeggio.


I giorni passavano, ma l'abbondanza non diminuiva. Il giorno della partenza, una canoa dopo l'altra, lasciarono tutte la riva per venire sottobordo. Tehei ci portò dei cetrioli e un alberello di papaya carico di splendidi frutti, e inoltre, per me personalmente, portò una piccola canoa doppia con una completa attrezzatura da pesca; e ancora frutti e vegetali con la stessa generosità di Tahaa. Bihaura portò vari regali particolari per Charmian, come cuscini di sterculia, ventagli e stuoie variopinte. L'intera popolazione portò frutti, fiori e polli, e Bihaura ci aggiunse un maialino da latte vivo. Indigeni che io non ricordavo di avere mai visto saltarono sulla murata e ci regalarono oggetti come pali per la pesca, lenze e ami ricavati da conchiglie madreperlacee.


Quando lo "Snark" oltrepassò veleggiando la scogliera, aveva una barca a rimorchio, l'imbarcazione che avrebbe riportato a Tahaa Bihaura, non Tehei. Alla fine avevo ceduto ed egli era entrato a far parte dell'equipaggio dello "Snark". Ma poi la barca mollò il rimorchio e mise la prua a levante, e lo "Snark" diresse verso ponente; e Tehei allora si inginocchiò nel pozzetto e mormorò una silenziosa preghiera, mentre delle lacrime gli scorrevano sul volto. Una settimana dopo, allorché Martin, sviluppate e stampate le fotografie fatte, ne mostrò alcune a Tehei, quell'abbronzato figlio della Polinesia, nel vedere le fattezze della sua amata Bihaura, ruppe in pianto.


Ma quale abbondanza! Ce n'era fin troppo. Non potevamo manovrare lo "Snark" tanto ingombrava tutta quella quantità di frutta. La barca era festonata di frutti, il battello di servizio e la lancia ne erano ricolmi. Le ritenute della tenda gemevano sotto tanto peso.


Ma non appena ci trovammo in mare aperto, mosso per un forte aliseo, cominciò lo scarico. A ogni rollata lo "Snark" lasciava cadere fuori bordo un grappolo di banane o di noci di cocco o un cesto di limoni.


Un rivolo dorato di limoni si riversava negli ombrinali. Le grandi ceste di ignami si spezzarono, e ananassi e melograni rotolarono da ogni parte. I polli si erano liberati e vagavano dappertutto, appollaiati sulle tende, svolazzando e gracchiando sul bompresso, sperimentando il gioco pericoloso di dondolarsi sul tangone dello spinnaker. Erano polli selvatici, abituati a volare. Quando facevamo dei tentativi per acchiapparli, volavano via sull'oceano, descrivendo dei cerchi attorno a noi, e ritornavano. Qualche volta non tornavano.


E nella confusione, inosservato, il maialino di latte si slegò e scivolò fuori bordo.


"Quando arrivano degli stranieri, ognuno cerca di prendersene uno quale amico e di portarlo nella propria casa, dov'è trattato con la maggiore gentilezza dagli abitanti del distretto: lo mettono sopra un alto sedile e lo nutrono abbondantemente con i cibi migliori" ("Ricerche sulla Polinesia").




CAPITOLO 13


LA PESCA CON IL SASSO A BORA BORA


Alle cinque del mattino le conchiglie, soffiate, incominciarono a risuonare. Lungo tutta la spiaggia si levavano quei suoni magici, come un antico richiamo alla guerra, per avvisare i pescatori di alzarsi e prepararsi a uscire. Anche noi dello "Snark" ci alzammo, perché non era possibile dormire in quel pazzo frastuono di conchiglie. E inoltre anche noi saremmo andati alla pesca con il sasso, per quanto i nostri preparativi fossero ben pochi.


"Tautai-taora", così è detta la pesca con il sasso, e "tautai" significa "strumento per pescare", mentre "taora" significa "gettato".


Ma "tautai-taora", una parola sola, significa pesca con il sasso, perché il sasso è lo strumento che viene gettato. In realtà la pesca con il sasso è una caccia al pesce, simile in linea di principio a una caccia alle lepri o ad altre bestie, solo che in queste ultime cacciatori e cacciati operano nello stesso mezzo, mentre nella caccia ai pesci gli uomini devono rimanere nell'aria per respirare, e i pesci sono inseguiti nell'acqua. Non importa se l'acqua è profonda cento piedi; gli uomini, che lavorano in superficie, inseguono il pesce proprio allo stesso modo.


Ecco come si fa. Le canoe si dispongono su una linea, lontane da cento a duecento piedi. A prua di ogni canoa un uomo tiene in mano un sasso, pesante parecchie libbre, al quale è attaccata una corta cima. Egli non fa altro che percuotere l'acqua con il sasso, lo recupera e percuote di nuovo. E continua così a percuotere l'acqua. A poppa di ogni canoa un altro uomo voga, mandando avanti la canoa e nello stesso tempo tenendola al suo posto nella fila. La linea di canoe avanza incontro a una seconda linea lontana un miglio o due fino a riunirsi con essa a una delle estremità, in modo da formare un cerchio, la cui circonferenza è completata dalla spiaggia. Il cerchio comincia a restringersi in direzione della spiaggia, dove le donne, che stanno ritte dentro l'acqua del mare in lunga fila, formano una siepe di gambe, che serve a impedire qualsiasi tentativo di fuga dei pesci diventati frenetici. Al momento opportuno, quando il cerchio si è sufficientemente ristretto, una canoa sfreccia dalla spiaggia, calando fuori bordo una lunga graticciata di foglie di cocco, che chiude il cerchio, rinforzando così la palizzata di gambe. Naturalmente la pesca avviene sempre nella laguna, all'interno della scogliera.


- "Très jolie" - disse il gendarme, dopo avere spiegato a cenni e gesti che si sarebbero prese migliaia di pesci di ogni dimensione, dagli spinarelli ai pescecani, e che il pesce catturato sarebbe stato cotto sulla stessa sabbia della spiaggia.


E' un metodo molto redditizio di pescare, che ha inoltre più il carattere di una festa popolare all'aperto che non quello di una prosaica fatica per procacciarsi del cibo. Queste pesche avvengono circa una volta al mese a Bora Bora, secondo un'usanza che risale a tempi antichi. Non si sa chi sia stato l'innovatore; si sono sempre fatte. Ma non si può fare a meno di rievocare quell'ignoto e dimenticato selvaggio vissuto tanti anni fa alla cui mente si affacciò per la prima volta questo metodo di pescare facilmente grandi quantità di pesci senza amo, rete o fiocina. Una cosa sappiamo su di lui:


dovette essere un estremista, e senza dubbio fu considerato un leggerone e un anarcoide dai membri conservatori della sua tribù. Le sue difficoltà furono molto più grandi di quelle dell'inventore odierno, a cui basta convincere in anticipo uno o due capitalisti.


L'inventore di quei tempi dovette convincere in anticipo l'intera tribù, perché senza la cooperazione di tutta quanta la tribù non si poteva attuare il suo progetto. Ci si può immaginare facilmente le discussioni notturne in quel primitivo mondo insulare, quando egli tacciò i suoi compagni di ammuffiti e parrucconi, e loro gli diedero dello sciocco, del capriccioso, dell'incostante e lo accusarono di volere sempre delle novità! Dio solo sa a prezzo di quanti capelli grigi e di quante maledizioni egli riuscì alla fine a convincere un numero di persone sufficiente a potere sperimentare la sua idea. Ad ogni modo l'esperimento ebbe successo. La cosa superò la prova della verità - funzionò! E da allora in poi, ne possiamo essere certi, non si trovò più nessuno che non avesse sempre detto che la cosa avrebbe funzionato!


I nostri buoni amici, Tehei e Bihaura, che avevano organizzato la pesca in nostro onore, avevano anche promesso di venirci a prendere.


Eravamo sottocoperta quando da sopra ci avvertirono che essi stavano arrivando. Ci precipitammo verso la scaletta, rimanendo sbalorditi alla vista dell'imbarcazione polinesiana sulla quale avremmo dovuto salire. Era una lunga canoa doppia, composta da due canoe tenute insieme da pezzi di legno discontinui, tra i quali si vedeva l'acqua, il tutto decorato con fiori ed erbe di un giallo oro. Una dozzina di amazzoni con corone floreali erano ai remi, mentre a poppa di ogni canoa stava un aitante timoniere. Tutti portavano ghirlande di fiori gialli e rossi e arancioni, mentre ognuno aveva intorno ai fianchi un "pareu" scarlatto. C'erano fiori dappertutto, fiori, fiori, fiori, senza fine. Tutto l'insieme era un'orgia di colori. Sopra una piattaforma anteriore, appoggiata sulle prore delle canoe, Tehei e Bihaura stavano ballando. E tutte le voci si innalzarono in un pazzo canto di benvenuto.


Tre volte essi fecero il giro dello "Snark", prima di venire sottobordo per imbarcare Charmian e me. Poi partimmo per il luogo della pesca, una vogata di cinque miglia dritto contro vento. "E' tutta gente allegra a Bora Bora", così dicono in tutte le Isole della Società, e certamente anche noi trovammo che erano tutti allegri.


Canzoni della canoa, canzoni del pescecane e canzoni da pesca, tutte erano cantate con l'accompagnamento dei colpi di remo, e tutti si univano nei cori travolgenti.


Ogni tanto si sentiva un grido "mao", dopo di che tutti si mettevano a vogare freneticamente. "Mao" è il pescecane, e quando le tigri di alto mare compaiono, gli indigeni si affrettano ad andare a riva per salvare la vita, ben sapendo il pericolo che corrono di vedere rovesciate le loro fragili canoe e finire divorati. Naturalmente nel nostro caso non c'era nessun pescecane, ma il grido di "mao" era usato per incitare a vogare con altrettanta energia che se veramente un pescecane fosse lì a inseguirci. "Hoè! Hoè!" era un altro grido che ci faceva navigare in un mare tutto schiuma e spruzzi.


Sulla piattaforma Tehei e Bihaura danzavano, accompagnati da canti e cori o da un ritmico batter di mani. In altri momenti un picchiare ritmico delle pagaie contro i fianchi delle canoe segnava il tempo.


Una ragazza abbandonò la sua pagaja, balzò sulla piattaforma e danzò una hula, nel mezzo della quale, sempre continuando a ballare, essa ondulò, si curvò e impresse sulle nostre guance il bacio del benvenuto. Alcune delle canzoni o "himine" erano religiose e particolarmente belle, e in esse il basso profondo degli uomini si fondeva con i soprani e i contralti delle donne, formando un'armonia musicale che irresistibilmente faceva venire alla mente quella di un organo. E realmente "organo kanaka" è la definizione scherzosa delle "himine".


Altre canzoni o ballate erano invece assai barbare, e risalivano a epoche precristiane.


E così, cantando, ballando, vogando, questi gai polinesiani ci portarono sul luogo della pesca. Il gendarme, che rappresenta il Governo francese a Bora Bora, ci accompagnava con la sua famiglia in una doppia canoa di sua proprietà, vogata dai suoi prigionieri; perché egli non è soltanto il gendarme e il rappresentante del Governo, ma anche il carceriere, e in questo paese di gente allegra, quando uno va a pescare, tutti quanti vanno a pescare. Una ventina di canoe singole, a bilanciere, ci accompagnava. Da dietro una punta sbucò una grossa canoa a vela, filando meravigliosamente con il vento in poppa, che diresse verso di noi per venirci a salutare. Appollaiati in equilibrio precario sul bilanciere, tre giovanotti ci salutarono con un selvaggio rullare di tamburi.


La punta seguente, mezzo miglio più in là, ci portò sul luogo della riunione. Qui la lancia a motore, che era stata condotta lì da Warren e Martin, attirò l'attenzione generale, e gli abitanti di Bora Bora non riuscivano a capire che cosa la facesse camminare. Le canoe furono tirate in secco sulla sabbia e tutti i vogatori scesero a terra a bere noci di cocco, a cantare e a ballare. Poi il numero dei presenti aumentò per l'arrivo a piedi di molti dalle abitazioni vicine; ed era veramente bello vedere le fanciulle incoronate di fiori, che giungevano lungo la spiaggia tenendosi per mano a due a due.


- Di solito si fa una grande pescata - ci spiegò Allicot, un commerciante di sangue misto. - All'ultimo l'acqua è tutta un pesce vivo. E' un divertimento da pazzi. Naturalmente sapete che tutto il pesce sarà vostro.


- Tutto? - brontolai, poiché lo "Snark" era già sovraccarico di regali generosi, di frutta, legumi, maiali e polli, portati a bordo sulle canoe.


- Sì, fino all'ultimo pesce - confermò Allicot. - Vedete, quando l'accerchiamento è finito, voi, che siete l'ospite d'onore, dovrete prendere un arpione e infilzare il primo pesce. E' la consuetudine.


Poi tutti ci si mettono con le mani e gettano la pesca sulla sabbia.


Se ne fa una montagna. Poi uno dei capi pronuncia un discorso in cui vi regala attrezzi e tutto quanto. Ma voi non dovrete prendere tutto.


Dovrete alzarvi in piedi e fare un discorso, scegliendo il pesce che volete per voi e restituendo tutto il resto. Allora tutti dicono che voi siete molto generoso.


- Ma che cosa succederebbe se io mi tenessi tutto quanto il regalo? - chiesi.


- Non è mai successo - fu la risposta. - La consuetudine è quella di dare e riprendere.


Il sacerdote indigeno diede il segnale d'inizio con una preghiera per il felice esito della pesca, che tutti ascoltarono a capo scoperto.


Poi i capi della pesca contarono le canoe e assegnarono a ognuna il suo posto. Quindi tutti si imbarcarono sulle canoe e filammo via. Ma nessuna donna ci accompagnò, ad eccezione di Bihaura e di Charmian.


Nei tempi passati anch'esse sarebbero state escluse. Le donne rimanevano indietro nell'acqua bassa a formare una palizzata di gambe.


La grande canoa doppia fu lasciata sulla sabbia e noi salimmo sulla lancia. Metà delle canoe vogarono sottovento, mentre noi, con l'altra metà, ci dirigemmo per un miglio e mezzo sopravvento, finché l'estremità della nostra fila fu a contatto con la scogliera.


L'individuo che dirigeva l'accerchiamento si trovava su una canoa a metà della nostra fila e ci stava ritto in piedi; era una bella figura di vecchio con la bandiera in mano, e dirigeva lo spostamento sulle posizioni fissate e la formazione delle due file soffiando dentro una conchiglia. Quando tutto fu pronto, agitò ]a bandiera verso destra.


Quelli che in ogni canoa di quel lato dovevano gettare i sassi, colpirono l'acqua con essi, tutti nello stesso istante. Mentre li stavano ricuperando - questione di un minuto, perché i sassi non andavano che poco oltre la superficie dell'acqua - la bandiera segnalò a sinistra, e con precisione ammirevole ogni sasso da quella parte colpì l'acqua. Si continuò così, da un lato e dall'altro, a destra e a sinistra: a ogni segnale della bandiera, una lunga onda di concussione percorreva la laguna. Nello stesso tempo le pagaie facevano avanzare le canoe; e quanto succedeva nella nostra fila, succedeva anche nell'opposta fila di canoe, lontana più di un miglio.


A prua della lancia Tehei, gli occhi fissi sul capo, gettava il suo sasso all'unisono con gli altri. Una volta il sasso si sfilò dalla cima e nello stesso istante Tehei si gettò fuori bordo per recuperarlo. Non so se il sasso toccò o no il fondo, ma so che un attimo dopo Tehei sbucò dall'acqua lungo il nostro bordo con il sasso in mano. Notai che lo stesso incidente si verificò più volte sulle canoe vicine, ma sempre chi aveva gettato il sasso lo seguiva nell'acqua e lo riportava a galla.


Le estremità delle nostre linee verso la scogliera accelerarono la loro attività, quelle verso la spiaggia la rallentarono, il tutto sotto l'attenta sorveglianza del capo, finché vicino alla scogliera le due linee si riunirono, formando un cerchio. Ebbe inizio allora la contrazione del cerchio, e i poveri pesci atterriti furono spinti verso la spiaggia dalle onde di concussione che percorrevano l'acqua.


Proprio nello stesso modo gli elefanti sono inseguiti nella giungla dai piccoli uomini che, accovacciati fra le lunghe erbe o nascosti dietro gli alberi, emettono strani suoni. La palizzata di gambe era già stata formata, e potevamo vedere le teste delle donne, in lunga fila, che punteggiavano il placido specchio d'acqua della laguna. Le donne più alte si spingevano più al largo, cosicché ad eccezione di quelle vicinissime alla spiaggia, quasi tutte erano nell'acqua fino al collo.


Il cerchio continuò a restringersi finché le canoe quasi si toccavano.


Ci fu allora una pausa. Una lunga canoa si staccò da terra, seguendo il perimetro del cerchio, alla massima velocità consentita dalle pagaie. A poppa un uomo gettava fuori bordo una lunga, continua graticciata di foglie di cocco. Le canoe non servivano più, e gli uomini si gettarono anch'essi fuori bordo per andare a rafforzare la palizzata con le loro gambe, perché la graticciata non era che una graticciata, non una rete, e il pesce, se avesse voluto, avrebbe potuto attraversarla. Da ciò la necessità delle gambe che continuavano ad agitare la graticciata, e delle mani che diguazzavano nell'acqua e delle voci che urlavano. Quanto più la trappola si stringeva, tanto più aumentava il pandemonio.


Ma nessun pesce apparve alla superficie dell'acqua o venne a cozzare contro le gambe celate nell'acqua. Alla fine il capo dei pescatori entrò nella trappola e accuratamente a guado ne ispezionò ogni punto.


Ma non c'era nessun pesce che si agitasse in basso o in alto sulla sabbia, non una sardina, non uno spinarello, non un girino. Ci doveva essere stato qualcosa di sbagliato nella preghiera; oppure, più probabilmente, come spiegò l'individuo dai capelli grigi, il vento non era nel suo quadrante abituale, e il pesce si trovava altrove nella laguna. Insomma, non c'era nessun pesce da pescare.


- Una volta su cinque queste pesche sono dei fiaschi - ci consolò Allicot.


Beh, era stata la pesca con il sasso a farci andare a Bora Bora, ed era toccata proprio a noi quella sola volta su cinque. Se si fosse trattato di una lotteria, sarebbe stato esattamente il contrario. Non è pessimismo questo, né un'accusa rivolta all'ordinamento dell'universo. Semplicemente, è lo stato d'animo familiare alla maggior parte dei pescatori verso la fine infruttuosa di una faticosa giornata.




CAPITOLO 14


IL NAVIGATORE DILETTANTE


Ci sono dei capitani marittimi d'ogni sorta, e ce ne sono di bravissimi, lo so: quelli che si succedettero sullo "Snark" erano ben differenti. La mia esperienza nei loro riguardi mi ha portato alla conclusione che è più difficile dover badare a un capitano su una piccola imbarcazione, che badare a due bambini piccoli. Naturalmente è quanto ci si poteva aspettare.


I bravi tipi hanno una loro posizione, e non è probabile che rinuncino alle loro destinazioni su navi da mille a quindicimila tonnellate per lo "Snark" con le sue dieci tonnellate nette. Lo "Snark" dovette così procurarsi i suoi capitani a terra, e quelli che sono a terra di solito sono degli inetti congeniti - quel tipo d'uomo che per una quindicina di giorni va battendo il mare da ogni parte alla ricerca di un'isola oceanica e ritorna con la sua goletta a riferire che l'isola è affondata con tutti i suoi abitanti, il tipo d'uomo il cui carattere, o la cui passione per l'alcool lo fa licenziare dagli impieghi prima ancora di averci lavorato.


Lo "Snark" ebbe tre capitani marittimi, e per grazia di Dio non ne avrà più altri. Il primo era così senile da non essere in grado di dare a un carpentiere la misura per una trozza di boma, così completamente impotente per l'età da non essere capace di ordinare a un marinaio di gettare alcuni buglioli di acqua salata sulla coperta dello "Snark". Per dieci giorni, alla fonda sotto un sole tropicale a picco, la coperta rimase all'asciutto. Era una coperta nuova, e mi era costata centotrentacinque dollari per calafatarla di nuovo.


Il secondo capitano era nato rabbioso. - Papà è sempre rabbioso - così lo descriveva un suo figliolo di sangue misto. Il terzo capitano era così tortuoso da non potersi nascondere dietro un cavaturaccioli. La verità non esisteva in lui, ed era altrettanto lontano da qualsiasi onestà e procedimento corretto, quanto dalla sua rotta esatta, quanto per poco non fece naufragare lo "Snark" sulle isole Ringgold.


Fu a Suva, nelle Figi, che io licenziai il mio terzo e ultimo capitano e mi assunsi di nuovo il compito di navigatore dilettante. Lo avevo già fatto un'altra volta, al tempo del mio primo capitano, quando questi, al largo di San Francisco, aveva fatto fare tali balzi sulla carta allo "Snark" da costringermi proprio a scoprire cosa succedeva; e fu abbastanza facile scoprirlo, perché avevamo davanti a noi duemilacento miglia da percorrere.


Io non ne sapevo nulla di navigazione; ma dopo parecchie ore di studio e una mezz'ora d'esercizio con il sestante, fui in grado di trovare la latitudine dello "Snark" mediante l' osservazione meridiana e la sua longitudine con il semplice metodo conosciuto come quello delle "altezze corrispondenti". Questo non è un metodo corretto, e neppure sicuro, ma il mio capitano stava tentando di navigare con quello, ed era la sola persona a bordo che avrebbe dovuto essere in grado di dirmi che non era un metodo da usare. Riuscii a portare lo "Snark" ad Hawaii ma perché le circostanze mi favorirono. Il sole era in declinazione nord, e quasi a picco. Del giusto metodo della "osservazione astronomica o cronometrica" avevo sentito parlare - sì, ne avevo sentito parlare. Il mio primo capitano lo aveva menzionato vagamente ma dopo uno o due tentativi di usarlo non lo aveva menzionato più.


Nelle Figi ebbi il tempo di confrontare il mio cronometro con altri due. Due settimane prima, a Pago Pago, nell'Isola di Samoa, avevo chiesto al mio capitano di confrontare il nostro cronometro con i cronometri di un incrociatore americano, l'"Annapolis". E questo, egli mi aveva detto di averlo fatto - naturalmente non aveva fatto nulla del genere: e mi aveva detto che la differenza riscontrata era solo di una piccola frazione di secondo. Me l'aveva detto con una gioia abilmente simulata e con parole di lode per il mio magnifico misuratore del tempo. Lo ripeto ora, con parole di lode per la sua magnifica abilità nel dire bugie senza arrossire. Perché, badate, quattordici giorni dopo, a Suva, io confrontai il cronometro con uno dell'"Atua", un piroscafo australiano, e trovai che il mio anticipava di trentun secondi. Ora trentun secondi di tempo, convertiti in arco, corrispondono a sette miglia e un quarto. Cioè, se io stessi navigando in direzione ovest, di notte, e la mia posizione secondo la stima basata sull'osservazione astronomica del pomeriggio risultasse sette miglia distante da terra, ebbene, proprio in quel momento io sarei in procinto di fracassarmi sulla scogliera. Poi confrontai il mio cronometro con quello del capitano Wooley. Il capitano Wooley, comandante del porto, dà il segnale orario a Suva sparando un colpo di cannone a mezzogiorno tre volte alla settimana. Secondo il suo cronometro, il mio era in anticipo di cinquantanove secondi, cioè, navigando in direzione ovest, io sarei stato in procinto di fracassarmi sulla scogliera, quando ritenevo di esserne distante quindici miglia.


Me la cavai sottraendo trentun secondi dal totale dell'errore in ritardo del mio cronometro, e feci vela per Tanna, nelle Nuove Ebridi, deciso, quando avessi messo la prua nelle vicinanze di terra in notti oscure, a tenere a mente le altre sette miglia di possibile errore, secondo lo strumento del capitano Wooley. Tanna si trova a circa seicento miglia a ovest-sud-ovest delle Figi, e io ero convinto che nel coprire quella distanza avrei potuto ficcarmi in testa delle nozioni di navigazione sufficienti a farmi arrivare fino là.


Beh, ci arrivai, ma sentite prima tutti i miei guai.


La navigazione è facile, io lo sosterrò: ma quando un uomo porta a fare il giro del mondo tre motori a benzina e una moglie, e ogni giorno si affatica a scrivere per mantenere i motori riforniti di benzina e la moglie di perle e vulcani, non gli resta molto tempo per studiare navigazione. Inoltre è certamente più facile studiare la predetta scienza a terra, dove latitudine e longitudine non cambiano, in una casa la cui posizione non muta mai, che studiarla su un'imbarcazione che corre notte e giorno verso la terra che uno cerca di trovare, e che gli potrà malauguratamente capitare di trovare nel momento in cui meno se l'aspetta.


Per cominciare, ci sono le bussole e la definizione della rotta.


Partimmo da Suva un sabato pomeriggio, il 6 giugno 1908, e l'oscurità scese prima che avessimo percorso lo stretto passaggio cosparso di scogli tra le isole di Viti Levu e Mbengha. L'oceano aperto si stendeva dinanzi a me. Non c'era nessun altro impedimento ad eccezione di Vatu Leile, un'isoletta da nulla, che insisteva nello sbucare dal mare a circa venti miglia a ovest-sud-ovest proprio dove volevo andare io. Naturalmente sembrava una cosa semplicissima evitarla seguendo una rotta che passasse otto o dieci miglia a nord. La notte era scura, e noi correvamo con il vento in poppa. A chi stava al timone bisognava dire la direzione da seguire per evitare Vatu Leile. Ma quale direzione? Mi rivolsi ai libri di navigazione. "Rotta vera". Mi ci buttai sopra. Proprio quella! Proprio la rotta vera di cui avevo bisogno io! E avidamente continuai a leggere:


"La rotta vera è l'angolo fatto con il meridiano da una linea retta tracciata sulla carta a congiungere la posizione della nave con il luogo di destinazione".


Proprio quello che mi serviva. La posizione dello "Snark" era all'entrata occidentale del passaggio tra Viti Levu e Mbengha. La sua immediata destinazione era un punto sulla carta dieci miglia a nord di Vatu Leile. Segnai quel posto sulla carta con i miei compassi, e con la parallela trovai che la rotta vera era ovest una quarta sud-ovest.


Non avevo che da darla a chi stava al timone e lo "Snark" si sarebbe fatto strada sino alla franchìa del mare aperto.


Ma, ahimè, ahimè, e fortunatamente per me, continuai a leggere.


Scoprii che la bussola, quella sicura sempiterna amica del marinaio, non ha l'abitudine di indicare il nord. Varia. Qualche volta si dirige più a levante del nord, qualche volta più a ponente, e in certe occasioni volta persino la coda al nord e punta verso sud. La variazione nel punto particolare del globo occupato dallo "Snark" era 9 gradi 40 primi verso est. Beh, io dovevo tenerne conto, prima di dare al timoniere la rotta su cui governare. Lessi:


"La rotta magnetica corretta si deduce dalla rotta vera, applicandole la variazione".


Perciò, io ragionai, se la bussola si dirigeva 9 gradi 40 primi a levante del nord, e io volevo navigare verso nord esatto, avrei dovuto governare 9 gradi 40 primi a ponente del nord indicato dalla bussola, e che non era per niente il nord vero. Così aggiunsi 9 gradi 40 primi a sinistra della mia rotta ovest una quarta sud-ovest, ottenendo così la mia rotta magnetica corretta, e una volta ancora fui pronto a navigare verso il mare aperto.


Di nuovo ahimè! ahimè! La rotta magnetica corretta non era la rotta bussola. C'era un altro sornione diavoletto che mi aspettava al varco per farmi lo sgambetto e mandarmi a fracassare sugli scogli di Vatu Leile. Questo diavoletto aveva nome Deviazione.


Lessi: "La rotta bussola è la rotta da seguire e si deduce dalla rotta magnetica corretta applicando a essa la deviazione".


Ora la deviazione è la variazione nell'ago causata dalla distribuzione del ferro a bordo della nave. Questa variazione puramente locale, io la dedussi dalla tabella di deviazione della mia bussola normale e poi l'applicai alla rotta magnetica corretta. Il risultato fu la rotta bussola.


Eppure, non ancora. La mia bussola normale era a mezza nave, sulla scaletta di discesa. La mia bussola di rotta era a poppa nel pozzetto, accanto al timone. Quando la bussola di rotta indicava "ovest una quarta e tre quartine sud" (la rotta da seguire), la bussola normale indicava "ovest mezza quarta nord", che non era certamente la rotta da seguire. Io feci accostare lo "Snark", finché la prua fu per ovest una quarta e tre quartine sud alla bussola normale, e mi risultò sulla bussola di rotta l'indicazione sud-ovest una quarta ovest.


Le operazioni predette costituiscono la semplice piccola faccenda di definire la rotta. E il peggio è che si deve eseguire ogni operazione con esattezza, altrimenti si sentirà in una notte piacevole il grido "frangenti di prora", si farà un bel bagno di mare e si avrà il delizioso diversivo di cercare di giungere a terra in mezzo a un'orda di pescecani.


Proprio come la bussola è maliziosa e cerca di prendersi gioco del marinaio indicando tutte le direzioni eccetto il nord, così agisce pure quel palo indicatore del cielo che è il Sole, il quale persiste nel non essere dove dovrebbe essere in un dato momento. Questa spensieratezza del Sole è la causa di altri guai, almeno fu la causa di guai miei. Per sapere dove uno si trova sulla superficie terrestre, deve sapere, precisamente nello stesso istante, dov'è il Sole nella sfera celeste. In altre parole il sole, che è il cronometro degli uomini, non segna bene il tempo. Quando lo scoprii, caddi in una profonda depressione e tutto il cosmo mi parve pieno di dubbi. Leggi immutabili, come quelle della gravitazione universale e della conservazione dell'energia, diventarono incerte, e io mi preparai ad assistere a una loro violazione in qualsiasi momento, rimanendo impassibile. Poiché, badate, se la bussola mente e il Sole non mantiene i suoi impegni, perché gli oggetti non dovrebbero perdere la mutua attrazione e perché una quantità modesta di energia non potrebbe annullarsi? Diventava possibile persino il moto perpetuo, e io mi trovai nello stato d'animo di chi è pronto ad acquistare azioni di una società costruttrice di motori perpetui dal primo agente di borsa intraprendente che avesse messo piede sulla coperta dello "Snark". E quando scoprii che in realtà la terra ruota intorno al suo asse 366 volte all'anno, mentre ci sono soltanto 365 albe e tramonti, fui pronto a dubitare della mia stessa identità.


Ed è così che funziona il Sole. E' così irregolare che l'uomo non può escogitare un orologio che segna l'ora solare. Il Sole accelera e ritarda come non si potrebbe fare accelerare e ritardare nessun orologio. Talvolta il Sole è in anticipo sul suo orario, in altri momenti rimane indietro; e in altri ancora corre oltre il limite di velocità per riprendersi, o meglio, per raggiungere il punto in cui dovrebbe trovarsi nel cielo. In quest'ultimo caso non rallenta poi abbastanza in fretta, e quale risultato, oltrepassa il punto dove dovrebbe fermarsi. In realtà per soli quattro giorni in tutto un anno, il Sole coincide con il punto in cui dovrebbe essere. Negli altri 361 giorni, il Sole si agita inquieto tutto intorno nella sua bottega.


L'uomo, essendo più perfetto del Sole, fa degli orologi che segnano il tempo regolarmente.


Inoltre egli riesce a calcolare di quanto il Sole anticipa o ritarda sul suo orario di marcia. La differenza tra la posizione del Sole e quella in cui il Sole dovrebbe trovarsi, se fosse un Sole per bene, un Sole che si rispetta, è detta dall'uomo equazione del tempo. Così il navigatore, che sta cercando di trovare la posizione della sua nave sul mare, guarda il suo cronometro per vedere dove precisamente il Sole dovrebbe essere secondo il custode del Sole che sta a Greenwich.


Poi a quella posizione applica l'equazione del tempo e trova dove il Sole dovrebbe trovarsi e non si trova. Quest'ultima posizione, insieme a parecchie altre, lo pone in grado di determinare la propria, esattamente quello che anch'io desideravo sapere.


Lo "Snark" fece vela dalle Figi il sabato, 6 giugno, e l'indomani, domenica, in aperto oceano, fuori vista della terra, mi accinsi a trovare la mia posizione mediante l'osservazione astronomica per la longitudine e l'osservazione meridiana per la latitudine.


L'osservazione astronomica fu fatta al mattino, quando il Sole era a circa 21 gradi al di sopra dell'orizzonte. Guardai nelle Effemeridi astronomiche e riscontrai che quel giorno, 7 giugno, il Sole era in ritardo di 1 minuto e 26 secondi, e che stava recuperando in ragione di 14,67 secondi all'ora. Il cronometro diceva che, nel momento preciso in cui io avevo preso l'altezza del Sole, erano le ore 8 25 minuti, ora di Greenwich.


Partendo da questo dato, sembrerebbe un giochetto da scolari quello di correggere l'equazione del tempo. Purtroppo io non ero uno scolaretto.


Evidentemente, a metà della giornata, a Greenwich, il Sole era in ritardo di 1 minuto 26 secondi. E altrettanto evidentemente, se fossero state le undici del mattino, il Sole sarebbe stato in ritardo di 1 minuto 26 secondi, più 14,67 secondi. Se fossero state le dieci del mattino si sarebbe dovuto aggiungere due volte 14,67 secondi. E se erano le ore 8 25 minuti del mattino, allora avrebbero dovuto essere aggiunti tre volte e mezza 14,67 secondi. Quindi, con assoluta chiarezza, se invece di essere le ore 8 25 minuti antimeridiane, fossero state le ore 8 25 minuti pomeridiane, allora 8 volte e mezza 14,67 secondi avrebbero dovuto essere non aggiunti, ma sottratti; perché se a mezzogiorno il Sole era in ritardo di 1 minuto 26 secondi, e se stava recuperando verso il punto in cui avrebbe dovuto essere in ragione di 14,67 secondi all'ora, quindi alle ore 8 25 minuti pomeridiane sarebbe stato molto più vicino al punto in cui avrebbe dovuto essere di quanto non fosse stato a mezzogiorno.


Fin qui, va tutto bene. Ma quelle 8 ore 25 minuti del cronometro erano antimeridiane o pomeridiane? Guardai l'orologio dello "Snark":


segnava le ore 8 9 minuti, ed erano certamente antimeridiane, perché avevo appena finito di fare la prima colazione.


Perciò, se a bordo dello "Snark" erano le otto del mattino, le otto del cronometro (che era l'ora effettiva di Greenwich) dovevano essere "8 ore" diverse dalle "8 ore" dello "Snark". Ma quali otto erano? Non potevano essere le otto di quel mattino, ragionai: perciò dovevano essere o le otto di quella sera o le otto della sera precedente.


Fu a questo punto che io sprofondai in un abisso senza fondo di caos intellettuale. Noi siamo in longitudine est, ragionai, quindi siamo in anticipo su Greenwich. Se siamo in ritardo su Greenwich, allora oggi è ieri: se siamo in anticipo, allora ieri è oggi, ma se ieri è oggi, allora cos'è mai l'oggi? Domani? Assurdo! Eppure doveva essere proprio così. Quando avevo osservato il Sole la mattina alle ore 8 25 minuti, i custodi del Sole a Greenwich si stavano alzando in quel momento da tavola, dopo il pranzo della sera precedente.


"Allora correggi l'equazione del tempo per ieri" diceva la mia logica innata.


"Ma oggi è oggi", insisteva la mia mentalità letterale. "Io devo correggere il Sole per oggi e non per ieri".


"Ma oggi è ieri", incalza la logica.


"Tutto questo va benissimo", continua la mentalità letterale. "Se io fossi a Greenwich potrei trovarmi a ieri. Strane cose succedono a Greenwich. Ma io sono altrettanto sicuro di essere in vita quanto di essere qui, ora, nella giornata di oggi, 7 giugno, e di avere osservato il Sole qui, ora, oggi, 7 giugno".


"Storie!" ribatte irritata la logica innata. "Lecky dice...".


"Non m'importa affatto di quello che dice Lecky", interrompe la mentalità letterale. "Lascia che ti ripeta quello che dicono le Effemeridi astronomiche. Le effemeridi dicono che oggi, 7 giugno, il Sole è in ritardo di 1 minuto 26 secondi e sta recuperando in ragione di 14,67 secondi all'ora. Dicono che ieri, 6 giugno, il Sole era in ritardo di 1 minuto 36 secondi, e stava recuperando in ragione di 15,66 secondi all'ora. Come vedi, è assurdo pensare di correggere il Sole d'oggi con la tabella del tempo di ieri".


"Cretina!".


"Idiota!".


E continuano tutte e due a bisticciarsi finché mi gira la testa e sono pronto a credere di trovarmi al domani dell'ultima settimana prima della prossima.


Ricordai un avvertimento che mi aveva dato alla partenza il nostromo di porto di Suva: "In longitudine est, prendete dalle Effereridi astronomiche gli elementi per il giorno precedente".


Allora mi venne un nuovo pensiero. Corressi l'equazione del tempo per domenica e per sabato, facendo due calcoli separati, e guarda un po', quando confrontai i risultati, c'era una differenza di solo quattro decimi di secondo. Mi sentii trasformato. Avevo trovato il modo di uscire dal labirinto. Lo "Snark" non era abbastanza grosso per contenere me e la mia esperienza. Quattro decimi di un secondo corrispondono a una differenza di un solo decimo di miglio - una gomena!


Tutto filò allegramente per dieci minuti, finché non mi venne in mente quella strofetta dei naviganti: "Greenwich time least - longitude east; Greenwich best - longitude west".


(Ora di Greenwich minore - longitudine est: Ora di Greenwich maggiore - longitudine ovest).


Cielo! Ma l'ora dello "Snark" era minore di quella di Greenwich - quando a Greenwich erano le ore 8 25 minuti, a bordo dello "Snark" erano soltanto le ore 8 9 minuti. "Ora di Greenwich maggiore - longitudine ovest". Ecco dov'ero, in longitudine ovest, senza dubbio alcuno.


"Stupido", grida la mentalità letterale. "Le tue ore 8 9 minuti sono antimeridiane, quelle di Greenwich le ore 8 25 minuti pomeridiane.


"Benissimo", risponde la logica. "Per essere esatti, le ore 8 25 minuti pomeridiane corrispondono in realtà alle ore 20 25 minuti ed è certo più tardi delle ore 8 25 minuti. No, non c'è da discutere:


siamo in longitudine ovest".


Allora la mentalità letterale trionfa: "Abbiamo fatto vela da Suva nelle Figi, no?" chiede, e la logica consente. "E Suva è in longitudine est?". Di nuovo la logica consente. "E noi abbiamo fatto vela verso ovest (ciò che avrebbe dovuto portarci sempre più in longitudine est), no?". Perciò, senza che tu ci possa fare niente.


siamo in longitudine est.


"Ora di Greenwich maggiore, longitudine ovest", canticchia la logica:


"devi concedermi che le ore 20 25 minuti sono più delle ore 8 25 minuti".


"Benone", nella disputa intervengo io, "calcoliamo l'osservazione astronomica e poi vedremo".


E faccio il mio bravo calcolo, solo per trovare che la mia longitudine è a 184 gradi ovest.


"Te l'avevo detto", esplode la logica.


Ammutolisco. Così fa pure la mentalità letterale, per alcuni minuti; poi enuncia: "Ma non esiste 184 gradi longitudine ovest e nemmeno longitudine est, né nessun'altra longitudine. L'ultimo meridiano è quello a 180 gradi, come dovresti ben sapere".


Giunti a questo punto, la mentalità letterale ha un collasso per la tensione mentale, la logica rimane muta per la stupefazione; e quanto a me, assumo uno sguardo lugubre e glaciale, e comincio a vaneggiare, chiedendomi se sto veleggiando verso le coste della Cina o verso il Golfo di Darien.


Fu allora che una vocetta sottile, che non riconobbi, proveniente da un punto sconosciuto della mia coscienza, disse:


"Il numero totale dei gradi è 360. Sottrai 184 gradi longitudine ovest da 360, e avrai 176 gradi longitudine est.


"Questa è un'ipotesi gratuita" obiettò la mentalità letterale, e la logica protestò: "Non c'è nessuna regola che lo dica".


"Al diavolo le regole" esclamai, "non ci sono qui io?".


"La cosa è evidente di per sé", continuai, "184 gradi longitudine ovest significa uno sconfinare in longitudine est per 4 gradi. Inoltre sono stato tutto il tempo in longitudine est. Ho fatto vela dalle Figi, e le Figi sono in longitudine est. Ora farò il punto della mia posizione e lo verificherò con la stima".


Ma altri guai e dubbi erano in serbo per me. Eccone un esempio. In latitudine sud, quando il Sole è in declinazione nord, l'osservazione al cronometro o astronomica può essere fatta di buon mattino. Io feci la mia alle otto del mattino. Ora, uno degli elementi necessari per effettuare questa osservazione è la conoscenza della latitudine. Ma la latitudine, uno la misura a mezzogiorno, con l'osservazione meridiana.


E' chiaro che per calcolare la mia osservazione astronomica delle ore otto, devo avere la mia latitudine alle ore otto. Naturalmente se lo "Snark" veleggiasse verso ovest esatto a sei nodi all'ora per le quattro ore intermedie, la sua latitudine non cambierebbe. Se esso veleggiasse verso sud esatto, la sua latitudine varierebbe della bellezza di ventiquattro miglia, nel qual caso una semplice addizione o sottrazione convertirebbe la latitudine di mezzogiorno in quella delle ore otto. Ma supponete che lo "Snark" navighi per sud-ovest.


Allora si dovranno consultare le tavole dell'appartamento.


Vi chiarisco la cosa. Alle ore 8 antimeridiane feci la mia osservazione astronomica. Nello stesso istante presi nota del percorso segnato dal solcometro.


A mezzogiorno, quando feci l'osservazione di latitudine, di nuovo presi nota del solcometro, il quale mi mostrò che dalle ore otto lo "Snark" aveva percorso 24 miglia. La sua rotta vera era stata ovest tre quarte sud. Consultai la prima tavola, alla colonna delle distanze, alla pagina delle rotte per tre quarte, e mi fermai a 24, il numero delle miglia percorse. In corrispondenza nelle due colonne vicine, trovai che lo "Snark" aveva percorso tre miglia e mezzo verso sud o in latitudine e 23,7 verso ovest. Trovare la mia latitudine alle ore 8 fu facile: non ebbi che da sottrarre 3,5 miglia dalla mia latitudine di mezzogiorno. Essendo in possesso di tutti gli elementi, calcolai la mia longitudine.


Ma questa era la mia longitudine alle ore otto. Da allora e fino a mezzogiorno, avevo fatto 23,7 miglia verso ovest. Qual era dunque la mia longitudine a mezzogiorno?


Mi attenni alle regole, rivolgendomi alla seconda tavola per la navigazione di appartamento. Consultando la tavola, secondo le regole, ed eseguendo tutte le operazioni prescritte, secondo le regole, trovai che la differenza di longitudine per le quattro ore era di 25 miglia.


Ne rimasi allibito. Consultai nuovamente la tavola, secondo le regole, ripetei le operazioni una dozzina di volte, secondo le regole, e ogni volta trovai che la mia differenza di longitudine era di 25 miglia. Mi rimetto a te, caro lettore. Supponi di avere navigato 24 miglia e di avere coperto 3,5 miglia di latitudine, come potresti allora avere coperto 25 miglia di longitudine? Anche se tu avessi diretto verso ovest esatto per 24 miglia, senza cambiare latitudine, come avresti potuto cambiare la tua longitudine di 25 miglia? In nome del buon senso, come potresti avere coperto un miglio di longitudine in più del numero totale di miglia percorse navigando?


Eppure la mia tavola di appartamento era una tavola nota, nientemeno quella di Bowditch! La regola era semplice, come quasi tutte quelle per i navigatori; non avevo commesso nessun errore. Passai un'ora a studiare il problema e alla fine mi trovavo ancora di fronte alla patente impossibilità di avere percorso 24 miglia, durante le quali avevo variato la latitudine di 3,5 miglia e la longitudine di 25 miglia. Il peggio era che nessuno era in grado di aiutarmi. Né Charmian né Martin ne sapevano in fatto di navigazione quanto me. E in tutto quel frattempo lo "Snark" faceva vela follemente verso Tanna, nelle Nuove Ebridi. Bisognava pur fare qualcosa.


Come mi sia venuto in mente, io non lo so - chiamatela un'ispirazione, se volete. Ma in me nacque il pensiero: se lo spostamento verso sud equivale alla variazione di latitudine, perché lo spostamento verso ovest non equivale alla variazione di longitudine? Perché io devo trasformare lo spostamento verso ovest, per ottenere la variazione di longitudine?


E allora tutta quanta la bella situazione mi apparve chiara. I meridiani di longitudine distano fra loro 60 miglia (nautiche) all'Equatore: ai poli convergono. Perciò se io dovessi risalire il meridiano 180 fino a raggiungere il Polo Nord, e se un astronomo di Greenwich risalisse il meridiano 0 fino al Polo Nord, allora, a quel Polo Nord, ci potremmo stringere la mano lui e io, anche se prima di partire per il Polo Nord distavamo alcune migliaia di miglia. E ancora: se un grado di longitudine al Polo non ha ampiezza, e se lo stesso grado è ampio 60 miglia all'Equatore, allora in un punto situato tra il polo e l'Equatore quel grado sarà largo mezzo miglio, e in altri un miglio, due miglia, trenta miglia, sì, e sessanta miglia.


Di nuovo tutto era chiaro. Lo "Snark" era a 19 gradi latitudine sud.


Il mondo non era così ampio lì come all'Equatore, quindi ogni miglio di percorso verso ovest a 19 gradi sud era più di un minuto di longitudine: perché sessanta miglia sono sessanta miglia, ma sessanta minuti sono sessanta miglia soltanto all'Equatore. Giorgio Francis Train ha battuto il record di Giulio Verne in fatto di giri intorno al mondo, ma qualsiasi uomo che lo voglia può battere il record di Giorgio Francis Train. Gli basterà andare, con un piroscafo veloce, alla latitudine di Capo Horn, e fare tutto il giro continuando a navigare verso est esatto. Il mondo è molto piccolo a quella latitudine e non c'è nessuna terra che costringa a dirottare. Se il suo piroscafo tenesse una media di sedici nodi, la circumnavigazione del globo sarà compiuta in circa quaranta giorni.


Ma ci sono dei compensi. Il 10 giugno, un mercoledì sera, avevo dedotto la mia posizione meridiana a mezzo della stima alle ore 8 pomeridiane. Poi tracciai la rotta dello "Snark" e vidi che sarebbe andato a finire dritto su Futuna, una delle isole più a est delle Nuove Ebridi, un cono vulcanico alto duemila piedi che sembra scaturire dall'oceano. Modificai la rotta, in modo che lo "Snark" passasse dieci miglia a nord. Poi dissi a Wada, il cuoco, che era di guardia al timone ogni mattina dalle quattro alle sei:


"Wada San, domani mattina, tua guardia, tu guardare bene per mura sopravvento, tu vedere terra".


E poi me ne andai a dormire. Il dado era gettato. Avevo messo in gioco la mia reputazione di navigatore. Supponete, supponete soltanto, che allo spuntar del giorno la terra non ci fosse. Ebbene, che ne sarebbe stato della mia navigazione? E dove saremmo stati? E come avremmo mai ritrovato la rotta? O dove avremmo trovato una terra? Ebbi visioni terrificanti di uno "Snark" che veleggiava per mesi e mesi nella solitudine degli oceani, cercando vanamente una terra, mentre noi consumavamo le nostre provviste e ci spiavamo a vicenda per cogliere nei rispettivi volti la tentazione del cannibalismo.


Confesso che il mio sonno non fu


"... come un cielo estivo - che contenga la musica di un'allodola".


Piuttosto "mi risvegliai all'oscurità senza voce" e ascoltai lo scricchiolìo delle paratìe, e l'incresparsi del mare lungo il bordo, mentre lo "Snark" continuava a farsi le sue brave sei miglia all'ora.


Mi rifeci più volte tutti i miei calcoli, sforzandomi di trovarci qualche sbaglio; finché il mio cervello fu in una tale effervescenza da scoprirne dozzine. Supponete che, invece di essere a sessanta miglia da Futuna, tutta la mia navigazione fosse sbagliata e io mi trovassi a sole sei miglia? In questo caso, la mia rotta sarebbe sbagliata, anche quella, e per quanto ne sapevo io, lo "Snark" poteva anche dirigere proprio su Futuna. Per quanto ne sapevo io, lo "Snark" poteva anche andare a cozzare contro Futuna tra un minuto.


A quel pensiero quasi balzai fuori dalla cuccetta: e per quanto mi frenassi, so che rimasi per un momento, nervoso e teso, ad aspettare l'urto.


Il mio sonno fu interrotto da tristissimi incubi. Il terremoto sembrava il tormento preferito, benché ci fosse un uomo, con un conto in mano, che insistette nel perseguitarmi tutta la notte. E, di più, voleva venire alle mani; e Charmian continuamente mi dissuadeva dal farlo. Alla fine, però, l'uomo con il suo sempiterno credito capitò in un sogno da cui era assente Charmian. Era l'occasione che mi ci voleva, e ci azzuffammo in modo magnifico, lungo tutto il marciapiedi e per la strada, finché chiese grazia. E allora gli dissi:


"Beh, e quel conto?". Avendo trionfato, ero disposto a pagare. Ma l'uomo mi guardò in faccia e brontolò: "Era tutto uno sbaglio. Il conto è per la casa vicina".


Questo lo calmò, perché non disturbò più i miei sogni; e calmò anche me, che mi svegliai ridendo per l'episodio. Erano le tre del mattino.


Salii in coperta. Henry, l'indigeno dell'isola Rapa, era al timone.


Guardai il solcometro: segnava quarantadue miglia. Lo "Snark" non aveva ridotto la sua andatura di sei nodi, e non era ancora incappato nella scogliera di Futuna. Alle cinque e mezza tornai in coperta.


Wada, al timone, non aveva avvistato nessuna terra. Mi sedetti sul bordo del pozzetto, in preda a pensieri morbosi per un quarto d'ora. E allora avvistai terra, un pezzetto piccolino, alto, di terra, proprio dove avrebbe dovuto essere, sorgente sull'acqua. Alle ore sei potei identificarlo per il bel cono vulcanico di Futuna. Alle otto, quando si presentò al traverso, presi la sua distanza con il sestante e trovai che era lontano 9,3 miglia. E io avevo deciso di passare alla distanza di 10 miglia.


Poi, a sud, Aneiteum sorse dal mare, a nord Aniwa e dritto di prora, Tanna. Per Tanna non ci si poteva sbagliare, perché il fumo del suo vulcano si innalzava alto nel cielo. Era distante quaranta miglia, e nel pomeriggio, mentre ci avvicinavamo all'isola, senza smettere di fare i nostri sei nodi, vedemmo che si trattava di una terra montagnosa, avvolta da nebbia, senza nessun passaggio visibile nella sua linea costiera. Mi misi a cercare Port Resolution, per quanto fossi preparatissimo a trovare che, come ancoraggio, esso non esisteva più. I terremoti vulcanici ne avevano rialzato il fondo negli ultimi quarant'anni, sicché là dove un tempo le navi più grosse stavano alla fonda, ora, secondo le notizie più recenti, c'erano spazio e profondità appena sufficienti per lo "Snark". E perché un altro movimento tellurico, dopo le ultime notizie, non avrebbe potuto chiudere del tutto il porto?


Veleggiai vicino alla costa ininterrotta, frangiata di rocce a fior d'acqua, su cui le onde alte e rombanti spinte dall'aliseo si gettavano, bianche di spuma. A lungo scrutai con il binoccolo senza riuscire a vedere un'entrata. Presi un rilevamento bussola di Futuna, un altro di Aniwa, e li segnai sulla carta: dove i due si incontravano, avrebbe dovuto essere la posizione dello "Snark". Poi, con la mia parallela, tracciai la rotta tra la posizione dello "Snark" e Port Resolution. Dopo aver corretto questa rotta per la variazione e la deviazione, salii in coperta, e, guarda un po', la rotta si dirigeva verso quella linea costiera ininterrotta di fragorosi frangenti. Malgrado la viva preoccupazione del mio isolano di Rapa, continuai nella stessa direzione, finché gli scogli a fior d'acqua furono a un ottavo di miglio da noi.


- Nessun porto questo posto - egli annunciò, scrollando il capo in modo sinistro.


Ma io modificai la rotta e navigai parallelamente alla costa. Charmian era al timone, Martin al motore, pronto a mettere in moto. La stretta fenditura apparve a un tratto; però attraverso il binocolo potei vedere che la linea dei frangenti si presentava continua. Henry, il nativo di Rapa, guardava con occhi timorosi, e così Tehei, il nativo di Tahaa.


- Nessun passaggio lì - disse Henry. - Noi andare lì, noi andare a fondo presto, sicuro.


Confesso che lo pensavo anch'io, ma continuai nella rotta al traverso, guardando attentamente se per caso la linea dei frangenti da un lato dell'entrata non si proiettava contro quella dei frangenti dall'altro lato. Ma certo, succedeva proprio così. Un punto stretto in cui le onde correvano lisce apparve. Charmian mise tutta la barra e diresse per l'entrata. Martin mise in moto il motore, mentre tutti gli altri e il cuoco si affrettarono ad ammainare le vele.


La casa di un commerciante apparve nell'insenatura della baia. Un geyser, sulla spiaggia, cento iarde più in là, emetteva una colonna di vapore. A sinistra, mentre doppiavamo un piccolo promontorio, vedemmo l'edificio della missione.


- Tre braccia - annunciò Wada allo scandaglio.


- Tre braccia -, due braccia - si susseguirono rapidamente.


Charmian mise tutta la barra, Martin fermò il motore, lo "Snark" accostò, e l'ancora scese rumoreggiando in tre braccia. Prima che potessimo riprendere fiato, uno sciame di neri abitanti di Tanna era lungo il bordo e a bordo - esseri scimmieschi, dal ghigno feroce, con i capelli attorti e gli occhi torbidi, che nei lobi forati delle orecchie avevano infisse delle spille di sicurezza e pipe di argilla, e che, del resto non avevano nulla a ricoprirli davanti e meno ancora dietro. E non ho scrupolo a dirvi che quella sera, quando tutti si furono addormentati, io tornai furtivamente in coperta, e contemplando quel tranquillo paesaggio, mi sentii fierissimo - sì, fierissimo della mia navigazione.




CAPITOLO 15


IN CROCIERA NELLE ISOLE SALOMONE


- Perché non venite adesso? - ci chiese il capitano Jansen a Penduffryn, nell'isola di Guadalcanar.


Charmian e io ci guardammo in viso e silenziosamente discutemmo della cosa per mezzo minuto. Poi simultaneamente assentimmo. E' un modo nostro di prendere una decisione sulle cose da fare: ed è un modo comodissimo, quando non si è tipi da versare fiumi di lacrime sull'ultimo barattolo di latte condensato, che si è appena rovesciato.


(Stavamo vivendo in quei giorni di roba in conserva, e poiché si vuole che la nostra mente sia un'emanazione della materia, i nostri paragoni ricadevano naturalmente nella categoria del genere "casse di roba di conserva").


- Farete bene a portarvi le vostre rivoltelle e un paio di fucili - disse il capitano Jansen. - A bordo ho cinque fucili, ma il Mauser è senza munizioni. Avete qualche cartuccia da cedermi?


Portammo i nostri fucili a bordo, parecchie manciate di cartucce Mauser, e Wada e Nakata, rispettivamente cuoco e cameriere dello "Snark". Wada e Nakata avevano la tremarella: per minimizzare la cosa, non erano entusiasti, benché Nakata non si fosse mai mostrato vigliacco di fronte a un pericolo. Ma le Isole Salomone non li avevano trattati gentilmente. Prima di tutto, tutti e due avevano sofferto di piaghe delle Salomone. Era accaduto lo stesso anche a tutti noi altri (in quel periodo, me ne stavo curando due recenti a base di sublimato corrosivo), ma i due giapponesi ne avevano avuto più di quanto gli spettava. E le piaghe non sono simpatiche. Si possono definire delle ulcere eccessivamente attive. Una morsicatura di zanzara, un taglio o la minima screpolatura bastano perché vi si annidi il veleno di cui l'aria sembra satura. Immediatamente l'ulcera comincia ad allargarsi, si allarga in ogni direzione, distruggendo pelle e muscoli con stupefacente rapidità. L'ulcera a capocchia di spillo del primo giorno, il secondo ha le dimensioni di una monetina, alla fine della settimana un dollaro d'argento non basterà a coprirla.


Peggio ancora, i due giapponesi erano stati tormentati dalle febbri delle Isole Salomone. Tutti e due ne avevano sofferto a più riprese, e nei loro momenti di debolezza e di convalescenza, solevano stringersi l'uno all'altro in quella parte dello "Snark" che per caso era più vicina al lontano Giappone, e guardare a lungo nostalgicamente in quella direzione.


Ma ora, la cosa peggiore di tutte, li avevamo imbarcati sul "Minota" per una crociera lungo la costa selvaggia di Malaita a scopo di reclutamento.


Wada, che aveva la paura più forte, era sicuro di non rivedere più il Giappone, e con occhi tristi, spenti, stava a vedere fucili e munizioni portati a bordo del "Minota". Sapeva tutto sul "Minota" e sulle sue crociere a Malaita. Sapeva che la nave era stata catturata sei mesi prima sulle coste di Malaita, che il suo capitano era stato fatto a pezzi a colpi di tomahawk, e che, secondo il barbaro senso di equità in vigore in quella dolce isola, essa era in credito di altre due teste. Inoltre un coltivatore della piantagione di Penduffryn, un ragazzo di Malaita, era appena morto per dissenteria, e Wada sapeva che Penduffryn era ritenuta debitrice di un'altra testa ancora a Malaita. E ancora, nello stivare i nostri bagagli nella saletta del capitano, aveva visto le fenditure nella porta per i colpi d'ascia dati dagli uomini della boscaglia quando, dopo aver sopraffatto quelli del "Minota", erano riusciti a salire a bordo. Infine la cucina era senza tubo, detto tubo avendo fatto parte del bottino.


Il "Minota" era uno yacht australiano, costruito in legno di teck, attrezzato a ketch, lungo e stretto, con chiglia di piombo, progettato piuttosto per gareggiare in rada che per servire a reclutare dei negri. Quando Charmian e io arrivammo a bordo, lo trovammo affollato.


Il doppio equipaggio della nave, compreso il cambio, ammontava a quindici persone, inoltre c'era una ventina e più di giovani "di ritorno", i quali, per contratto ultimato nelle piantagioni, dovevano tornare ai loro villaggi nella boscaglia. A vederli, si sarebbero detti, senza dubbio alcuno, dei veri cacciatori di teste. Nelle loro narici perforate erano infissi ossi e spilloni di legno della grossezza di matite. Parecchi fra loro avevano la punta estrema carnosa del naso bucata e ne sporgevano dritti dei pezzi appuntiti fatti con gusci di tartaruga o perle infilate su un filo metallico rigido. Alcuni, invece, avevano inoltre forato il naso con file di buchi che seguivano la curva delle narici, dal labbro alla punta del naso. Ogni lobo d'orecchio di quegli uomini recava da due a dodici buchi - da quelli abbastanza grandi per portare delle spine di legno del diametro di tre pollici fino a quelli minuscoli, che servivano a portare pipe d'argilla e altre inezie del genere. Insomma, avevano tanti di quei buchi da essere a corto di ornamenti per riempirli; e quando, l'indomani, nell'avvicinarci a Malaita, provammo i nostri fucili per vedere se erano in buono stato, ci fu una mischia generale per le cartucce vuote, che erano subito infilate nei vuoti - purtroppo numerosi - delle orecchie dei nostri passeggeri.


Mentre provavamo i nostri fucili, furono sistemate le battagliole di ferro spinato. Il "Minota", con una grande coperta priva di tuga, e con un bastingaggio alto sei pollici, era troppo accessibile a un arrembaggio. Perciò dei candelieri d'ottone furono avvitati sulla coperta e una doppia spira di filo spinato fu stesa tutto intorno da prora a poppa e di nuovo a prora. Il che era una bellissima cosa come protezione contro i selvaggi, ma veramente scomoda per chi si trovava a bordo, quando il "Minota" cominciò a impennarsi e a tuffare la prua nell'acqua.


Quando uno non ha molta simpatia per scivolare sul filo spinato del bordo di sottovento, e quando, con queste varie tendenze antitetiche, si trova su una coperta sdrucciolosa, sgombra e inclinata di 45 gradi, potrà capire alcune delle delizie di una crociera nelle Isole Salomone. Inoltre, e questo dev'essere tenuto a mente, lo scotto da pagare per una caduta sul filo spinato è più di semplici graffiature, perché ognuna di esse con assoluta certezza diventerà un'ulcera maligna. Che le precauzioni non salvassero dal filo spinato, ne avemmo la prova un bel mattino, mentre stavamo veleggiando lungo la costa di Malaita con una brezza al giardinetto. Il vento era teso e il mare si faceva sentire. Un ragazzo negro era alla barra. Il capitano Jansen, Mister Jacobsen (il secondo), Charmian e io c'eravamo appena seduti in coperta per fare colazione. Tre ondate insolitamente grosse ci colsero di sorpresa. Il ragazzo alla barra perse la testa, e tre volte il "Minota" fu spazzato dal mare. La colazione precipitò fuori dalla murata sottovento, coltelli e forchette andarono a finire negli ombrinali, un giovane a poppa fu sbalzato fuori del tutto e recuperato; e il nostro formidabile comandante si trovò metà a bordo e metà fuori, imbrigliato nel filo spinato. Da allora in poi, per il resto della crociera, il nostro uso cumulativo dei vari utensili per mangiare rimasti fu un magnifico esempio di comunismo primitivo. Sulla "Eugénie" ad esempio, fu anche peggio, perché ci trovammo ad avere un solo cucchiaino da té in quattro - ma quella dell'"Eugénie" è un'altra storia.


Il nostro primo porto fu Su'u sulla costa occidentale di Malaita. Le Isole Salomone sono al limite delle zone conosciute. E' già abbastanza difficile navigare nella notte buia attraverso canali punteggiati da scogli e con correnti irregolari, dove non ci siano fanali a guidare, (da nord-ovest a sud-est le Salomone si stendono per un migliaio di miglia di mare, e in tutte le migliaia di miglia di coste non c'è un solo faro): ma la difficoltà è molto aumentata dal fatto che della terra stessa non c'è una carta esatta. Su'u ne è un esempio. Sulla carta di Malaita dell'Ammiragliato, la costa in questo punto segue una linea dritta, ininterrotta. Eppure in questa linea dritta ininterrotta il "Minota" navigò in venti braccia d'acqua. Dove avrebbe dovuto esserci terra c'era una profonda insenatura. Vi penetrammo, mentre le mangrovie s'intrecciavano sulle nostre teste, finché demmo fondo in un piccolo e tranquillo specchio d'acqua.


Al capitano Jansen questo ancoraggio non piaceva; era la prima volta che ci si trovava, e Su'u godeva di una cattiva fama. Non c'era vento per allontanarsi in caso d'attacco, mentre l'equipaggio poteva essere ammazzato da gente annidata nella boscaglia fino all'ultimo uomo, se avesse tentato di rimorchiare fuori la nave con la baleniera. Era una graziosa trappola, se le cose si fossero messe male.


- Supponiamo che il "Minota" vada in secco, che fareste? - chiesi.


- Non andrà in secco - fu la risposta del capitano Jansen.


- Ma nel caso che questo succedesse? - insistetti.


Rimase un istante a riflettere, volgendo gli occhi dal secondo, che si affibbiava il revolver, all'equipaggio che stava imbarcandosi allora sulla baleniera, ogni uomo con il proprio fucile.


- Ci metteremmo nella baleniera e ce ne andremmo via di qui al più presto che Dio ci permettesse - fu, dopo l'indugio, la risposta del comandante, che continuò poi a spiegare come nessun bianco potesse essere sicuro del proprio equipaggio oriundo di Malaita in un posto isolato: che gli uomini della boscaglia consideravano ogni relitto loro proprietà personale: che essi possedevano in abbondanza fucili Snider, e che lui aveva a bordo una dozzina di quei giovani "di ritorno", diretti a Su'u, i quali certamente si sarebbero uniti ai loro amici e parenti a terra, quando si fosse trattato di saccheggiare il "Minota".


Il primo compito della baleniera fu quello di portare a terra i giovani "di ritorno" e i loro bagagli, togliendo così di mezzo un pericolo.


Mentre si faceva questo, una canoa manovrata da tre selvaggi nudi venne sottobordo. E quando dico nudi, voglio dire nudi. Non avevano indosso nessun segno di indumenti, a meno che anelli nel naso, bastoncini negli orecchi e braccialetti di conchiglie possano essere considerati indumenti. Il capo della canoa era un vecchio, con un occhio solo, che sembrava amico, e così sporco che una raschietta avrebbe perso il suo filo su di lui. La sua missione consisteva nell'avvertire il comandante di non permettere a nessuno dell'equipaggio di andare a terra, e l'ammonimento ci fu ripetuto anche a sera.


Invano la baleniera si aggirò per le varie spiagge della baia alla ricerca di reclute. La boscaglia era piena di indigeni armati, tutti abbastanza propensi a parlare con il reclutatore, ma nessuno voleva impegnarsi con un contratto di lavoro nella piantagione per tre anni a sei sterline l'anno. Eppure sembrava che desiderassero attirare la nostra gente a terra. Il secondo giorno fecero una fumata sulla spiaggia all'estremità della baia, e poiché questo era il segnale consueto degli uomini che volevano essere assunti, mandammo la baleniera. Ma senza alcun risultato. Nessuno venne a farsi assumere e nessuno dei nostri uomini si sentì attirato a scendere a terra.


Poco dopo scorgemmo vagamente un certo numero di indigeni armati che si aggiravano per la spiaggia.


All'infuori di questi pochi indizi, non si poteva dire quanti di essi potessero essere in agguato nella boscaglia. Non c'era modo di penetrare con lo sguardo in quella giungla primordiale. Nel pomeriggio il capitano Jansen, Charmian e io andammo a pescare con la dinamite.


Ogni uomo dell'equipaggio portava un fucile Lee-Entfield. "Johnny", il reclutatore indigeno, aveva un Winchester accanto a sé al timone.


Vogammo vicino a una parte della spiaggia che sembrava deserta. Qui la barca fu fatta accostare e indietreggiare; in caso d'attacco, sarebbe stata pronta a schizzare via. Per tutto il tempo in cui fui a Malaita, non vidi mai una barca prendere terra con la prua. Anzi, di solito, le navi che vanno alla ricerca di lavoratori si servono di due battelli - uno per andare a riva, armato, naturalmente, e l'altro per rimanere in attesa, qualche centinaio di piedi al largo, e "proteggere" il primo.


Il "Minota" però, essendo una nave piccola, non disponeva di un battello di protezione.


Eravamo già prossimi a terra e ci stavamo avvicinando ancor di più di poppa, quando fu avvistato un banco di pesci. Demmo fuoco alla miccia e gettammo lo spezzone di dinamite. Per l'esplosione lo specchio d'acqua fu solcato dal lampeggiare di pesci che saltavano fuori. Nello stesso momento i boschi si animarono, e una ventina di selvaggi nudi, armati di archi, frecce e lance, e di fucili Snider, sbucarono sulla spiaggia. Istantaneamente l'armamento della barca imbracciò i fucili.


E così i due gruppi opposti rimasero l'uno di fronte all'altro, mentre i nostri uomini in eccedenza si buttavano in acqua alla ricerca dei pesci storditi dall'esplosione.


Passammo a Su'u tre giornate infruttuose. Il "Minota" non trovò nessun nuovo lavoratore nella boscaglia, e gli indigeni non ricavarono nessuna testa dal "Minota". In verità il solo che prese qualcosa fu Wada, e fu una buona dose di febbre. Ci facemmo rimorchiare al largo dalla baleniera e navigammo lungo la costa fino a Langa Langa, un grosso villaggio di gente di mare, costruito con un lavoro prodigioso su un banco di sabbia nella laguna - letteralmente costruito; un'isola artificiale elevata quale rifugio contro gli abitanti della boscaglia assetati di sangue. Lì, inoltre, sul lato costiero della laguna, c'era Binu, il luogo dove sei mesi prima il "Minota" era stato catturato e il suo capitano ucciso dagli uomini della boscaglia. Mentre passavamo attraverso la stretta imboccatura, una canoa venne sottobordo con la notizia che una nave da guerra era appena andata via quella stessa mattina dopo avere incendiato tre villaggi, ucciso una trentina di maiali e affogato un bambino. Si trattava del "Cambrian", al comando del capitano Lewes. Lui e io ci eravamo già conosciuti in Corea al tempo della guerra russo-giapponese, e da allora le nostre strade si erano spesso incrociate senza che ci potessimo mai incontrare. Il giorno che lo "Snark" era entrato a Suva, nelle Figi, avevamo avvistato il "Cambrian" che ne usciva. A Vila, nelle Nuove Ebridi, ci eravamo mancati per un giorno solo. C'eravamo passati accanto al largo dell'isola di Santo. E il giorno in cui il "Cambrian" era arrivato a Tulagi, noi lasciavamo Penduffryn, a circa dodici miglia di distanza.


E qui a Langa Langa non ci eravamo incontrati per poche ore di differenza.


Il "Cambrian" era venuto a punire gli uccisori del capitano del "Minota", ma che cosa fosse riuscito realmente a fare, lo venimmo a sapere soltanto più tardi, quel giorno, quando un missionario, Mister Abbott, venne sottobordo con la sua baleniera. I villaggi erano stati incendiati e i maiali uccisi, ma gli indigeni personalmente non avevano subito alcun danno. Gli uccisori non erano stati fatti prigionieri, anche se erano stati recuperati la bandiera e altri attrezzi del "Minota". L'annegamento del bambino era stata la conseguenza di un equivoco. Il capo Johnny di Binu si era rifiutato di guidare la compagnia da sbarco attraverso la boscaglia, e nessuno dei suoi uomini aveva potuto essere persuaso ad assumere questo incarico.


Perciò il comandante Lewes, giustamente indignato, aveva detto a capo Johnny che egli si meritava di avere il suo villaggio bruciato. Ma l'idioma anglo-indigeno di Johnny non aveva nessuna parola che corrispondesse al verbo "meritare". Così egli aveva interpretato che il suo villaggio sarebbe stato comunque bruciato. L'immediata evacuazione degli abitanti era stata così precipitosa che il bimbo era caduto nell'acqua.


Nel frattempo capo Johnny si era affrettato a recarsi da Mister Abbott, gli aveva messo in mano quattordici sterline, supplicandolo di andare a bordo del "Cambrian" e consegnare quella somma al Comandante Lewes per placarlo. Il villaggio di Johnn non era stato bruciato né il comandante Lewes aveva preso le quattordici sterline, perché le vidi poi in possesso di Johnny, quando venne a bordo del "Minota". La scusante che Johnny mi addusse per non avere guidato la compagnia da sbarco fu un grosso foruncolo, che mi mostrò con grande fierezza.


Tuttavia la sua vera ragione, e una perfettamente valida, per quanto non la dicesse, era la paura di vendette da parte degli abitanti della boscaglia. Se lui o qualcuno dei suoi uomini avesse guidato i marinai, avrebbe potuto aspettarsi delle rappresaglie sanguinose, non appena il "Cambrian" avesse salpato.


A illustrare le condizioni di vita nelle Isole Salomone, racconterò che lo scopo di Johnny nel venire a bordo era quello di consegnare, in cambio di tabacco, il buttafuori, la vela maestra e il fiocco di una baleniera. Più tardi, nella stessa giornata, un altro capo Billy venne pure a bordo e consegnò in cambio di tabacco l'albero e il boma, il tutto appartenente all'attrezzatura di una baleniera che il capitano Jansen aveva recuperato in un precedente viaggio del "Minota".


La baleniera apparteneva alla Piantagione Meringe nell'isola Isabella.


Undici lavoratori sotto contratto, per di più oriundi di Malaita e abitanti della boscaglia, avevano deciso di scappare, ma essendo gente della boscaglia, erano del tutto digiuni di mare e del maneggio di una barca. Così avevano indotto due indigeni di San Cristobal, gente di mare, a fuggire con loro. Quelli di San Cristobal ebbero quello che si meritavano, perché avrebbero dovuto essere più accorti; infatti, dopo che ebbero portato al sicuro a Malaita quella barca rubata, gli altri tagliarono loro la testa. Ed era questa barca ed erano questi attrezzi che il capitano Jansen aveva recuperato.


Non fu inutilmente che io feci tutto quel lungo viaggio fino alle Salomone. Finalmente mi fu dato di vedere la tempra orgogliosa di Charmian umiliata e la sua imperiosa regalità femminile trascinata nella polvere. Questo avvenne a Langa Langa, a terra, nell'isola costruita che quasi non si può vedere, tante case vi sono.


Qui, circondati da centinaia di uomini, donne e bambini, tutti nudi, e senza vergognarsene, continuammo a girare per ammirare il panorama.


Avevamo le rivoltelle affibbiate alla cintura, e l'equipaggio del battello, armato di tutto punto, stava ai remi, poppa a terra; ma la lezione della nave da guerra era troppo recente perché dovessimo temere delle complicazioni. Girammo dappertutto e vedemmo tutto, finché all'ultimo ci avvicinammo a un grosso tronco d'albero che serviva da ponte al di sopra di un basso estuario. I negri ci sbarrarono il passo, formando come un muro davanti a noi, e rifiutarono di lasciarci passare. Chiedemmo perché ci avevano fermato, e i negri risposero che noi potevamo andare avanti. Ci fu un malinteso e noi ci avviammo. Le spiegazioni diventarono allora più chiare.


Il capitano Jansen e io, essendo degli uomini, potevamo andare avanti, ma a nessuna Maria era permesso di passare a guado quel corso d'acqua e tanto meno di attraversare quel ponte. "Maria" è la parola in quel linguaggio anglo-indigeno per "donna". Charmian era una Maria. Per lei il ponte era "tambo" - la parola indigena per tabù. Ah, come mi gonfiai d'orgoglio! Finalmente la mia virilità era rivendicata. In verità io appartenevo al sesso dominante. Charmian poteva trascinarsi alle nostre calcagna, ma noi eravamo uomini e avremmo potuto andare dritti in quel punto, mentre lei avrebbe dovuto passare oltre con la baleniera.


Ora io non vorrei essere frainteso per quanto dirò ora: ma è una cosa comunemente risaputa nelle Isole Salomone che gli attacchi di febbre sono spesso dovuti a forti emozioni. Meno di un'ora dopo che a Charmian era stato rifiutato il diritto di passaggio, la dovevamo riportare in fretta a bordo del "Minota", avvolgerla in coperte e rimpinzarla di chinino. Non so quale genere di forte emozione fosse toccata a Wada e a Nakata, ma anche loro furono colti dalla febbre. Le Isole Salomone potrebbero essere più salubri.


Inoltre, durante l'attacco di febbre, a Charmian venne fuori una piaga caratteristica di quelle isole. Fu l'ultima pagliuzza. Ognuno a bordo dello "Snark" ne aveva sofferto salvo lei. Io avevo creduto di dover perdere un piede fino alla caviglia per una noiosa ulcera eccezionalmente maligna. Henry e Tehei, i marinai di Tahiti, ne avevano avuto in quantità, Wada era arrivato al punto di contare le sue a ventine. Nakata ne aveva avuto di quelle lunghe ognuna tre pollici, Martin era stato arcicerto che la necrosi dell'osso della sua tibia avesse avuto origine nella stupefacente colonia che aveva scelto di coltivare in quella zona. Ma Charmian si era salvata, e dalla sua lunga immunità era germogliato un senso di disprezzo per tutti quanti noi. Il suo "io" ne era così orgoglioso che un giorno timidamente mi aveva informato come fosse tutta una questione di sangue puro. Siccome in tutti noi altri queste ulcere si manifestavano e in lei no - beh, ad ogni modo la sua era grossa quanto un dollaro d'argento, e la purezza del suo sangue le permise di farla guarire dopo parecchie settimane di cure energiche.


Lei ripone tutta la sua fiducia nel sublimato corrosivo, Martin non vuole che iodoformio, Henry si serve di succo di limone puro, e io ritengo che quando il sublimato corrosivo è lento nel fare il suo effetto, medicazioni alternate di acqua ossigenata sono proprio quello che ci vuole. Ci sono dei bianchi nelle Isole Salomone che si fidano solo dell'acido borico, e altri che hanno un preconcetto a favore del lisolo.


Anch'io ho la debolezza di conoscere una panacea. Ed è la California.


Sfido qualsiasi uomo a prendersi un'ulcera delle Isole Salomone in California.


Partendo da Langa Langa, percorremmo tutta la laguna in mezzo ad acquitrini di mangrove, attraversando bracci appena più larghi del "Minota", passando accanto ai villaggi di Kaloka e Auki, sulla scogliera. Come i fondatori di Venezia, questa gente di mare era in origine fuggita dalla terraferma. Troppo deboli per sapersi difendere nella boscaglia, sopravvissuti a massacri di interi villaggi, essi avevano cercato rifugio sui banchi di sabbia della laguna, e ne avevano fatto delle isole. Costretti a cercarsi di che vivere nel mare, col tempo erano diventati dei marinai, avevano imparato a conoscere le usanze dei pesci e dei molluschi, inventato ami e lenze, reti e nasse, e avevano finito per avere dei corpi adatti alle canoe, erano diventati individui dalle braccia muscolose e dall'ampio torace, con una vita sottile e gambe fragili simili a quelle dei ragni. Poiché controllavano tutta la costa del mare, si erano arricchiti e il commercio con l'interno era venuto a passare quasi tutto per le loro mani.


Ma tra loro e gli uomini della boscaglia esiste una perenne inimicizia. Praticamente le loro tregue corrispondono soltanto ai giorni di mercato, il quale si effettua a intervalli determinati, di solito due volte per settimana. Le donne della boscaglia e quelle della gente di mare fanno i baratti, mentre dietro, nella boscaglia, alla distanza di cento iarde, ben armati, stanno in agguato gli uomini della boscaglia, e, dal lato del mare, nelle canoe, ci sono i marinai.


Si sono verificati pochissimi casi in cui queste tregue nei giorni di mercato non sono state rispettate. Gli uomini della boscaglia hanno troppa passione per il pesce, mentre la gente di mare ha un bisogno organico dei vegetali, che non può far crescere sulle isolette affollate.


Trenta miglia di navigazione da Langa Langa ci condussero al canale tra l'isola Bassakanna e la terraferma. Qui, al crepuscolo, il vento ci lasciò e per tutta la notte, con la baleniera che ci rimorchiava di prua e l'equipaggio a bordo che sudava ai remi, ci sforzammo di avanzare. Ma la marea ci era contraria. A mezzanotte, a metà del canale, raggiungemmo l'"Eugénie", una grossa goletta che serviva per il reclutamento, rimorchiata da due baleniere. Il suo comandante, capitano Keller, un ardito giovanotto tedesco di ventidue anni, venne a bordo per fare quattro chiacchiere, e ci confidammo le recentissime di Malaita. Lui era stato più fortunato di noi, essendo riuscito ad assoldare una ventina di uomini nel villaggio di Fiu.


Mentre era lì alla fonda, era avvenuto uno dei soliti esecrandi assassinii. Il giovane ucciso era quello che si dice un uomo della boscaglia - marinaio - ossia un marinaio che è anche per metà uomo della boscaglia e che vive sulle rive del mare ma non in un'isoletta.


Tre uomini della boscaglia lo avevano avvicinato, mentre stava lavorando nel suo orto, si erano mostrati amichevoli e dopo un poco avevano accennato al "kai-kai", la parola che significa cibo. Lui aveva acceso il fuoco e incominciato a far bollire un po' di aro.


Mentre era chino sulla pentola, uno degli uomini della boscaglia gli aveva sparato in testa. Era caduto tra le fiamme: poi quelli gli avevano infilzato una lancia nello stomaco, lo avevano sbudellato e fatto a pezzi. - Parola d'onore - disse il capitano Keller - non vorrei mai morire ammazzato da un colpo di Snider. Che squarcio! Si sarebbe potuto far passare un cavallo e una carrozza attraverso quel buco nella sua testa. Un altro recente e sanguinoso assassinio di cui sentii parlare a Malaita era quello di un vecchio. Un capo di queste tribù era morto di morte naturale. Ora gli indigeni della boscaglia non credono alle morti naturali. Nessuno è mai morto di morte naturale; il solo modo di morire è per una pallottola o per un colpo di tomahawk o per una ferita di lancia. Quando un uomo muore per qualche altra causa, evidentemente è per effetto di un sortilegio.


Quando quel capo morì naturalmente, la sua tribù ne attribuì la colpa a una certa famiglia, e siccome non importava quale membro della famiglia fosse ammazzato, venne prescelto questo vecchio che viveva solo, ciò che avrebbe reso l'impresa facile, tanto più che egli non possedeva nessun Snider ed era pure cieco. Il vecchio ebbe sentore di quanto si stava preparando e ammucchiò un ampio rifornimento di frecce. Tre valorosi guerrieri, ognuno con il proprio Snider, lo vennero ad assalire quando fu buio, e tutta la notte lottarono strenuamente con lui. Non appena si muovevano nella boscaglia o facevano il minimo rumore o fruscìo, il vecchio lanciava una freccia in quella direzione. Al mattino, quando aveva ormai esaurito l'ultima sua freccia, i tre eroi avanzarono strisciando fino alla sua casa e gli fecero saltare le cervella.


La mattina ci trovò che stavamo ancora cercando vanamente di risalire il canale. Alla fine, disperati, invertimmo la rotta, dirigendo verso il mare aperto e navigammo in franchìa attorno a Bassakanna verso il nostro obiettivo, Malu. L'ancoraggio a Malu era ottimo, ma si trovava tra la spiaggia e una brutta scogliera, e mentre era facile entrarci, era difficile uscirne. La direzione dell'aliseo di sud-est rendeva necessario di puggiare al vento: la punta della scogliera era estesa e bassa, mentre una corrente con qualsiasi tempo spingeva verso la punta.


Mister Caulfeild, il missionario di Malu, arrivò nella sua baleniera, reduce da un giro lungo la costa; era un individuo snello, delicato, entusiasta del suo lavoro, equilibrato e pratico, un vero soldato di Dio del ventesimo secolo. Quando era arrivato in questa destinazione di Malaita, come ci raccontò, si era impegnato a rimanerci sei mesi.


Successivamente aveva acconsentito a rimanere ulteriormente, se alla fine di quel periodo fosse stato ancora in vita. Erano passati sei anni, e lui era ancora lì. Tuttavia aveva avuto le sue buone ragioni per dubitare di sopravvivere più di sei mesi. Tre missionari lo avevano preceduto a Malaita, e in un periodo di tempo ancora minore, due erano morti di febbre e il terzo era tornato in patria ridotto un vero relitto.


- Di quale assassinio state parlando? - domandò a un tratto, nel bel mezzo di una conversazione animata con il capitano Jansen.


Questi glielo spiegò.


- Oh, non è quello di cui parlavo io - disse Mister Caulfeild. - Quello è roba vecchia, è successo due settimane fa.


Fu qui a Malu che io espiai il senso di orgoglio ed esultanza di cui mi ero reso colpevole a proposito dell'ulcera delle Salomone, che Charmian si era presa a Langa Langa; e Mister Caulfeild fu indirettamente il responsabile della mia espiazione. Ci regalò un pollo, che io inseguii nella boscaglia con un fucile, con l'intenzione di fargli volar via la testa. Ci riuscii, ma nel farlo caddi su un tronco d'albero e mi scorticai.


Risultato: tre ulcere delle Salomone. Così in tutto ne avevo cinque ad adornare la mia persona. Inoltre il capitano Jansen e Nakata si erano presi il "gari-gari" che, tradotto letteralmente, significa "gratta- gratta". Ma la traduzione non era necessaria per tutti noi. La ginnastica del capitano e di Nakata serviva da traduzione senza bisogno di parole.


No, le Isole Salomone non sono così salubri come potrebbero essere.


Scrivo queste righe nell'isola Isabella, dove abbiamo portato lo "Snark" a carenare e pulire la chiglia di rame. Stamattina ho superato il mio ultimo attacco di febbre, e tra un attacco e l'altro non sono rimasto senza che un giorno solo. Quelli di Charmian si distanziano di due settimane, Wada è diventato un cencio per le febbri, e la notte scorsa presentava tutti i sintomi della polmonite. Henry, un magnifico gigante tahitiano, che ha appena lasciato il letto, dopo la sua ultima dose di febbre, si trascina per la coperta come una mela selvatica raggrinzita, e sia lui che Tehei hanno messo insieme uno spettacolo impressionante di piaghe. Inoltre si sono presi una nuova forma di "gari-gari", una specie di intossicazione per un veleno vegetale, come di quercia velenosa o di edera velenosa.


Ma in questo non sono soli. Parecchi giorni fa Charmian, Martin e io siamo andati a caccia di colombi in una piccola isola e da allora abbiamo pregustato gli eterni tormenti. Inoltre, in quella isoletta Martin si è tagliuzzato le piante dei piedi sulla scogliera di corallo, mentre inseguiva un pescecane - almeno così dice lui, che, da quanto ne potei vedere io, ritenevo che fosse esattamente il contrario. Tutti i tagli sono diventati altrettante piaghe delle Salomone. Prima del mio ultimo attacco di febbre mi spellai le nocche delle dita mentre facevo forza su una cima, e ora ho altre tre piaghe fresche fresche. E il povero Nataka! Per tre settimane non gli è stato possibile rimanere seduto. Ieri lo aveva fatto per la prima volta, ed è riuscito a starci per un quarto d'ora. Lui sostiene allegramente che conta di essere guarito del suo "gari-gari" il mese prossimo. Inoltre il suo "gari-gari", in seguito al grattarsi con eccessivo entusiasmo, ha fornito le basi per innumerevoli piaghe delle Salomone. E come se ciò non bastasse, ha appena avuto il suo settimo attacco di febbre.


Se fossi un re, la peggiore punizione che vorrei infliggere ai miei nemici sarebbe quella di esiliarli nelle Salomone.


(Ripensandoci, re o no, non credo che avrei il coraggio di farlo).


Cercare di assoldare lavoratori per una piantagione con un'imbarcazione piccola e stretta non è neppure troppo simpatico. La coperta brulica di operai reclutati e delle loro famiglie. La saletta ne è strapiena, e di notte essi ci dormono. Il solo ingresso alla nostra piccola cabina dà sulla saletta, e tutte le volte che dobbiamo attraversarla, non riusciamo a superare l'ostacolo altro che camminando su di loro. E neppure questo è simpatico, poiché dal primo all'ultimo sono tutti affetti da malattie della pelle d'ogni genere.


Alcuni hanno l'impetigine, altri la "bukua", causata da un parassita vegetale, che penetra nella pelle e la rode; il prurito è intollerabile, e quelli che ne sono affetti si grattano finché l'aria è piena di sottili squame secche. Ci sono poi le frambesie e molte altre ulcerazioni del]a pelle. Gli uomini vengono a bordo con piaghe delle Salomone nei piedi, così grandi che possono camminare solo sulle punte, o con buchi così orribili nelle gambe che ci si potrebbe ficcare dentro la mano chiusa arrivando fino all'osso. L'avvelenamento del sangue è molto frequente, e il capitano Jansen, con coltello e ago da vele, opera generosamente tutti quanti. Anche se le condizioni sono disperate, dopo aver aperto e ripulito, egli applica un impiastro fatto di galletta imbevuta d'acqua. Ogni volta che vediamo un caso particolarmente orribile, ci ritiriamo in un angolo a inondare le nostre piaghe con sublimato corrosivo. E così viviamo e mangiamo e dormiamo a bordo del "Minota", correndo l'alea e "facendo finta che tutto vada per il meglio".


A Suava, altra isola artificiale, ebbi una seconda grana a proposito di Charmian. Un "grande uomo padrone di Suava" (ossia il capo principale di Suava) venne a bordo, ma prima mandò al capitano Jansen un messo, chiedendo un braccio di cotonata con cui ricoprire le sue nudità, e frattanto si fermò ad aspettare nella canoa sottobordo.


Giuro che la regale sporcizia era spessa mezzo pollice, mentre si poteva scommettere a colpo sicuro che gli strati sottostanti risalivano a qualcosa come dieci o vent'anni prima. Di nuovo egli rimandò il suo messo a bordo, e questi spiegò che il "grande uomo padrone di Suava" avrebbe accondisceso a stringere la mano al capitano Jansen e a me, e a chiedere una stecca o due di tabacco da rivendere, ma che tuttavia la sua nobile anima era di tanta elevatezza da non potere abbassarsi a una degradazione così profonda come quella di stringere la mano a una semplice femmina.


Povera Charmian! Dopo le sue esperienze di Malaita, è diventata un'altra donna, la sua mitezza e umiltà le si addicono in modo impressionante: e io non sarei sorpreso se, tornando alla civiltà, me la vedessi camminare lungo un marciapiede, restando a capo chino una iarda dietro di me.


A Suava non accadde quasi nulla. Bichu, il cuoco indigeno, disertò, il "Minota" arò sull'ancora, ci furono forti groppi di vento e di pioggia, il secondo, Jacobsen, e Wada furono prostrati dalla febbre, e le nostre piaghe aumentarono e si moltiplicarono. E gli scarafaggi di bordo festeggiarono insieme il 4 luglio e la Rivista dell'Incoronazione, scegliendo per farlo la mezzanotte e, come località, la nostra piccola cabina.


Ce n'erano lunghi da due a tre pollici, ce n'erano delle centinaia, e camminavano su tutto quanto il nostro corpo. Quando cercavamo di inseguirli, abbandonavano la base solida, si innalzavano nell'aria e svolazzavano attorno a noi come uccelli ronzanti. Ed erano molto più grossi dei nostri a bordo dello "Snark". E' vero che i nostri sono ancora giovani e non hanno ancora avuto la possibilità di crescere.


Inoltre lo "Snark" ha delle scolopendre, grosse, lunghe sei pollici.


Ogni tanto ne ammazziamo, di solito nella cuccetta di Charmian. Due volte sono stato morsicato, e in modo osceno, mentre dormivo. Ma il povero Martin è stato più sfortunato: dopo essere rimasto a letto per tre settimane, il primo giorno che si mise a sedere sul letto, si adagiò proprio su una di quelle bestie!


In seguito ritornammo a Malu, riuscendo ad assoldare alcuni uomini; salpammo l'ancora e incominciammo a bordeggiare per uscire da quella infida entrata della baia. Il vento era variabile, e la corrente spingeva fortemente in direzione della pericolosa punta della scogliera. Proprio mentre stavamo per scapolarla e guadagnare il largo, il vento saltò di novanta gradi; il "Minota" cercò di virare in prua, ma non ce la fece. Aveva perso due delle sue ancore a Tulagi, e si diede fondo all'unica rimasta, filando la catena in modo che potesse far presa sul corallo. Poi la chiglia urtò il fondo, l'albero di maestra oscillò e sussultò come se stesse per cadere sulle nostre teste. La nave venne in forza sull'imbando dell'ancora proprio nell'istante in cui un grosso frangente la spingeva con violenza verso riva. La catena si spezzò, e si trattava della nostra unica ancora; e il "Minota" girò su se stesso, facendo perno sulla chiglia, e derivò, prua in avanti, nel frangente.


Fu un vero manicomio. Tutti gli operai reclutati, che si trovavano sotto coperta, uomini della boscaglia e paurosi del mare, si slanciarono in coperta presi dal panico, intralciando tutti quanti.


Nello stesso tempo l'equipaggio della nave si precipitò sui fucili.


Sapevano quello che voleva dire andare in costa a Malaita - una mano per la nave e l'altra per combattere gli indigeni. A cosa si tenessero attaccati, non lo so, e d'altronde a qualcosa dovevano pur tenersi, poiché il "Minota" si sollevava, rollava, e tallonava sul corallo. Gli uomini della boscaglia si tenevano stretti all'attrezzatura, troppo stupidi per preoccuparsi dell'albero di maestra. La baleniera fu messa in acqua con un cavo di rimorchio, in un misero tentativo di impedire che il "Minota" fosse gettato ancora più verso la scogliera, mentre il capitano Jansen e il suo secondo, quest'ultimo pallido e debole per la febbre, stavano improvvisando un'ancora con della zavorra e un ceppo di fortuna. Il missionario arrivò in aiuto con i giovani della missione.


Quando il "Minota" aveva toccato il fondo per la prima volta, non c'era una canoa in vista: ma come avvoltoi che scendessero dal cielo descrivendo dei cerchi, cominciarono ora ad arrivare da ogni parte.


L'equipaggio della nave, i fucili puntati, le tenne a bada alla distanza di cento piedi, con la minaccia di morte se si fossero azzardate ad avvicinarsi. E se ne stavano lì, alla distanza di cento piedi, oscure e minacciose, sovraccariche di uomini che le trattenevano con le pagaie sull'orlo pericoloso del frangente. Nel frattempo gli uomini della boscaglia accorrevano dalle colline, armati di lance, Snider, frecce e randelli, finché la spiaggia ne fu piena. A complicare le cose, almeno dieci delle nostre reclute erano state scelte proprio fra quei negri che aspettavano avidamente di poter fare bottino del tabacco e delle altre merci e di tutto quello che avevamo a bordo.


Il "Minota" era stato costruito bene, la dote più essenziale per qualsiasi nave che stia tallonando su di una scogliera. Una pallida idea di quello che esso sopportò può essere dedotta dal fatto che nelle prime ventiquattro ore esso spezzò due catene da ancora e otto cavi d'ormeggio. L'equipaggio della nostra nave non faceva altro che tuffarsi per recuperare le ancore e dar volta nuovi cavi. Ci furono dei momenti in cui il "Minota" spezzò le catene rinforzate da cavi d'ormeggio. Eppure tenne duro. Tre tronchi d'albero furono portati da terra e messi in opera sotto di esso per salvarne la chiglia e la sentina, ma furono corrosi e scheggiati, e i cavi che li tenevano ridotti a pezzi; eppure esso continuava a tallonare sul corallo e a resistere.


Fummo in questo molto più fortunati dall'"Ivanhoe", una grossa goletta addetta al reclutamento, che era andata in costa a Malaita alcuni mesi prima, e subito era stata invasa dagli indigeni. Capitano ed equipaggio erano riusciti a fuggire nelle baleniere, e gli uomini della boscaglia e la gente di mare indigena avevano completamente ripulito la nave di quanto ci fosse a bordo.


Un groppo dopo l'altro, raffiche di vento e pioggia sferzante, colpivano il "Minota", mentre il mare si faceva sempre più grosso.


L'"Eugénie" era alla fonda a cinque miglia sopravvento, ma dietro un promontorio, e non poteva sapere delle nostre disavventure. Su suggerimento del capitano Jansen scrissi un biglietto al capitano Keller, chiedendogli di portarci altre ancore e attrezzi per aiutarci.


Ma non si riuscì a persuadere una canoa a portare la lettera. Offrii una mezza cassa di tabacco, ma i negri sogghignarono e continuarono a tenere le loro canoe con la prora al frangente. Una mezza cassa di tabacco valeva tre sterline. In due ore, anche con vento e mare contrari, un uomo avrebbe potuto portare la lettera e ricevere in pagamento quanto avrebbe guadagnato faticando per sei mesi in una piantagione. Riuscii a scendere in una canoa e vogai fin dove il missionario stava filando un'ancora con la sua baleniera. Pensavo che egli avrebbe avuto più influenza sugli indigeni. Caulfeild disse alle canoe di avvicinarsi alla sua, e una ventina di esse gli si riunirono attorno e ascoltarono l'offerta di una mezza cassa di tabacco. Nessuno fiatò.


- So cosa voi pensate - li avvertì il missionario - voi pensate tanto tabacco su goletta e voi lo avrete. Vi dico tanti fucili su goletta.


Voi non avrete tabacco, voi avrete pallottole.


Finalmente un uomo, solo in una piccola canoa, prese la lettera e partì. In attesa di soccorso, il lavoro continuò alacremente a bordo del "Minota". Le casse d'acqua furono vuotate, e alberi, vele e zavorra presero la via della terra. Ci furono dei momenti d'ansia a bordo quando il "Minota" rollò violentemente sbandando da un lato all'altro, mentre una ventina di uomini cercavano a salti di salvare la vita e le gambe, poiché le casse di mercanzia, le bome e i pani di ferro di zavorra da ottanta libbre rotolavano avanti e indietro da una murata all'altra. Quella povera barca da diporto! Le sue coperte e le sue manovre correnti facevano pensare a un bailamme! Sotto coperta ogni cosa era a pezzi. L'impianto della saletta era stato strappato per raggiungere la zavorra e acqua di sentina rugginosa vi sciabordava e ondeggiava. Un cesto di limoni, in mezzo a una mescolanza d'acqua e farina, ci veniva incontro da ogni parte come tanti gnocchi affusolati sfuggiti a uno stufato mezzo cotto. Nella nostra cabina interna, Nataka faceva la guardia ai fucili e alle munizioni.


Tre ore dopo che il nostro messaggero era partito, una baleniera, che avanzava sotto una gran forza di vele, riuscì a passare nel pieno di uno sferzante groppo di sopravvento: era il capitano Keller, bagnato per la pioggia e gli spruzzi, un revolver alla cintura, con l'equipaggio della barca armato di tutto punto, ancore e cavi ammucchiati sui paglioli, che sopraggiungeva così rapido come il vento gli consentiva - l'uomo bianco, l'inevitabile uomo bianco, che veniva in soccorso di un altro uomo bianco.


La fila delle canoe di rapina, che aveva atteso così a lungo, si spezzò e scomparve con la stessa rapidità con cui si era formata. Dopo tutto, il corpo inerte non era ancora un cadavere. Ora avevamo tre baleniere di cui due facevano incessantemente la spola tra la nave e la costa, l'altra occupata a stendere ancore, a intugliare i cavi spezzati e a ricuperare le ancore perdute.


Nel tardo pomeriggio, dopo esserci consultati e avere preso in considerazione il fatto che un certo numero degli uomini che componevano l'equipaggio della nave, come pure dieci degli uomini assoldati, erano oriundi di quella località, disarmammo l'equipaggio - ciò che, fra parentesi, permise agli uomini di lavorare con tutte e due le mani per la nave. I fucili furono affidati a cinque giovani della missione di Mister Caulfeild. E sottocoperta, in quel disordine della saletta, il missionario e i suoi neofiti pregavano perché Iddio salvasse il "Minota". Era una scena impressionante. Il sacerdote disarmato che pregava con fede incrollabile, i suoi fedeli selvaggi che mormoravano "amen", appoggiandosi ai fucili. Le pareti della cabina ondeggiavano intorno a loro, la nave si sollevava e ricadeva, fracassandosi, sul corallo a ogni ondata. Dalla coperta giungevano le grida degli uomini che alavano e si affaticavano, pregando, in altro modo, con volontà decisa e forza di braccia.


Quella notte Mister Caulfeild ci venne ad avvertire che una delle nostre reclute aveva sulla propria testa una taglia di cinquanta braccia di monete di metallo e quaranta maiali, e che, frustrati nella loro aspirazione a impadronirsi della nave, gli abitanti della boscaglia avevano deciso di impadronirsi della testa di quell'uomo.


Quando si comincia ad ammazzare non si può mai dire come e quando si finirà. Così il capitano Jansen armò una baleniera e vogò fino al limite della spiaggia. Ugi, un marinaio, che faceva parte dell'equipaggio del "Minota", si alzò in piedi e parlò in nome suo.


Ugi era eccitatissimo. L'avviso del capitano Jansen che qualsiasi canoa avvistata quella notte sarebbe stata crivellata di colpi, fu da Ugi trasformato in una bellicosa dichiarazione di guerra, che terminava con una perorazione press'a poco di questo tenore:


"Voi uccidere mio capitano, io bere suo sangue e morire con lui". Gli uomini della boscaglia si accontentarono di dar fuoco a una casa disabitata della missione e se ne tornarono furtivamente nella boscaglia.


Il giorno dopo l'"Eugénie" entrò nella baia e diede fondo. Per tre giorni e due notti il "Minota" tallonò sulla scogliera ma continuò a resistere e alla fine il suo scafo fu disincagliato e ormeggiato in acque tranquille. Allora dicemmo addio alla nave e a tutti quelli che erano a bordo, e ci allontanammo sulla "Eugénie", diretti all'isola di Florida (1).


NOTA:


1) Per dimostrare che noi altri dello "Snark" non eravamo un gruppetto di deboli creature, come si potrebbe concludere dalle nostre varle malattie, cito quanto segue, ricavato parola per parola dal giornale di bordo della "Eugénie", e che può essere ritenuto un esempio tipico di una crociera nelle Isole Salomone.


Ulava, giovedì, 12 marzo 1908.


Barca andata a terra al mattino. Presi due carichi di noci d'avorio, quattromila copra. Capitano con febbre.


Ulava, venerdì, 13 marzo 1908.


Comperato noci da indigeno 1 tonnellata e mezza. Secondo e capitano con febbre.


Ulava, sabato, 14 marzo 1908.


A mezzogiorno salpato e navigato con leggerissimo vento di est-nord- est per Ngora-Ngora. Dato fondo in 8 braccia - conchiglie e coralli.


Secondo con febbre.


Ngora-Ngora, domenica, 15 marzo 1908.


All'alba trovato che il mozzo Bagua era morto durante la notte di dissenteria. Era ammalato da circa 14 giorni. Al tramonto, forte raffica da nord-ovest (pronto a dar fondo la seconda ancora). Durata un'ora e trenta minuti.


In mare, lunedì, 16 marzo 1908.


Fatto rotta per Sikiana alle ore 4 pomeridiane. Vento cessato. Forti piovaschi durante la notte. Capitano malato di dissenteria, anche uno dell'equipaggio.


In mare, martedì, 17 marzo 1908.


Capitano e 2 uomini dell'equipaggio con dissenteria. Secondo con febbre.


In mare, mercoledì, 18 marzo 1908.


Mare grosso. Murata di sottovento sempre in acqua. Nave con terzaroli alla maestra, vela di straglio e piccolo fiocco. Capitano e 3 uomini con dissenteria. Secondo con febbre.


In mare, giovedì, 18 marzo 1908.


Troppa foschìa per vedere nulla. Burrasca tutto il tempo. Pompa tappata, si sgotta con buglioli. Capitano e cinque dell'equipaggio con dissenteria.


In mare, venerdì, 20 marzo 1908.


Durante la notte raffiche di vento con forza di uragano. Capitano e sei uomini con dissenteria.


In mare, sabato, 21 marzo 1908.


Invertita la rotta. Groppi tutto il giorno con forte pioggia e vento; Capitano e maggior parte dell'equipaggio con dissenteria.


E così, da un giorno all'altro, con quasi tutta la gente di bordo malata, continua il giornale di bordo della "Eugénie". La sola variante si verificò il 31 marzo, quando il secondo si ammalò di dissenteria e il capitano dovette mettersi a letto con la febbre.




CAPITOLO 16


UN MEDICO DI BORDO DILETTANTE


Quando partimmo da San Francisco sullo "Snark", ne sapevo di malattie quanto ne può sapere di mare un ammiraglio della Marina svizzera! E subito, fin da ora, lasciatemi dare dei consigli a chiunque mediti di andare in remote località tropicali. Andate da un ottimo farmacista, di quelli che hanno per collaboratori quegli specialisti che sanno tutto. Parlate a lungo della cosa con uno di quelli, prendete nota con la massima cura di tutto quanto egli vi dirà, fate una lista di tutto quanto vi suggerirà, firmate un assegno per il totale della somma... e poi strappatelo.


Vorrei aver fatto lo stesso. Sarei stato molto più saggio, lo so adesso, se avessi comprato una di quelle cassette di medicinali bell'e pronte, automatiche, di uso facile anche per gente ignorante, come si trovano dai provveditori di roba di mare di quart'ordine. In una simile cassetta ogni bottiglia ha un numero. Nell'interno del coperchio è affissa una semplice lista di prescrizioni: Numero 1, mal di denti; Numero 2, vaiolo; Numero 3, mal di stomaco; Numero 4, colera; Numero 5, reumatismo e così via, enumerando tutte le malattie dell'umanità. E avrei potuto usarla come faceva un certo venerando capitano il quale, quando il Numero 3 era vuoto, mescolava una dose del Numero 1 e del Numero 2, o quando il Numero 7 era esaurito, curava il suo equipaggio con una miscela del Numero 4 e del Numero 3, finché anche il Numero 3 era finito, e allora usava il Numero 5 e il Numero 2. E' differente la cosa per quanto riguarda i miei strumenti chirurgici. Mentre non ho ancora avuto nessuna seria occasione di servirmene, non rimpiango lo spazio che occupano. Sono come una specie di assicurazione sulla vita, solo che, più simpaticamente di quest'ultimo funereo contratto, non è necessario morire per ritirare il premio. Naturalmente non li so usare, e quello che ignoro in fatto di chirurgia, fornirebbe una clientela fiorente a una dozzina di ciarlatani. Ma quando la fame caccia il lupo dal bosco, bisogna fare di necessità virtù, e noi dello "Snark" non sappiamo quando al lupo potrà venire in mente di presentarsi, magari a mille miglia da terra e a venti giorni dal porto più vicino.


Non so nulla in fatto di odontoiatria, ma un amico mi rifornì di pinze e simili strumenti, e a Honolulu trovai per caso un libro sui denti; inoltre in quella città subtropicale, riuscii a impossessarmi di un teschio dal quale estrassi i denti rapidamente e senza dolore. Così equipaggiato ero pronto, anche se non esattamente entusiasta, a cavare qualsiasi dente mi fossi trovato dinanzi.


Fu a Nuku-hiva, nelle Isole Marchesi, che si presentò spontaneamente il primo caso nella persona di un piccolo e vecchio cinese. La prima cosa che feci fu di prendermi una febbre da cavallo, e io domando a qualsiasi persona equanime se una febbre da cavallo, con le sue conseguenze di palpitazione di cuore e tremito di braccia, è la condizione migliore per un uomo che sta sforzandosi di atteggiarsi a vecchio praticante in campo odontoiatrico. Non riuscii a ingannare il vecchio cinese; era spaventato quanto me e un pochino più tremante.


Quasi dimenticai di aver paura per la paura che lui scappasse via come una freccia. Lo giuro, se avesse tentato di farlo gli avrei fatto lo sgambetto e mi sarei seduto su di lui finché non fosse venuto a più miti consigli. Volevo quel dente, e poi Martin voleva una mia istantanea, mentre lo cavavo. E anche Charmian aveva preso la sua macchina fotografica.


Poi la processione si avviò e ci fermammo davanti a quello che una volta era un circolo, quando Stevenson giunse alle Isole Marchesi con la sua imbarcazione "Casco". Sulla veranda, dove trascorse tante ore piacevoli, la luce non era buona - per le istantanee, s'intende.


Guidai tutti in giardino, una seggiola in mano, l'altra piena di pinze di vario tipo; e avevo le ginocchia che tremavano in modo vergognoso.


Dopo di me veniva quel povero cinese, che tremava pure lui. Charmian e Martin formavano la retroguardia, armati di kodak. Passammo sotto degli alberi avocado, ci aprimmo la strada fra le palme di cocco e arrivammo in un punto che soddisfaceva le esigenze fotografiche di Martin.


Guardai il dente, e scoprii allora di non ricordare più nulla sui denti, che avevo strappato al mio teschio cinque mesi prima. Aveva una radice? ne aveva due? ne aveva tre? Quello che ne rimaneva e si poteva vedere era a pezzi, e sapevo che avrei dovuto afferrare il dente ben profondamente nella gengiva. Era indispensabile che io sapessi quante radici aveva quel dente. Ritornai a casa per cercare il libro sui denti. La povera vecchia vittima aveva tutto l'aspetto di quei suoi compatrioti criminali, che avevo visto spesso in fotografia, inginocchiati in attesa del colpo che li avrebbe decapitati.


- Non lasciarlo andare via - avvertii Martin - voglio quel dente.


- Sta pure tranquillo - rispose con entusiasmo, da dietro il suo apparecchio fotografico. - E io voglio questa fotografia.


Per la prima volta mi sentii addolorato per il cinese.


Anche se il libro non parlava di come si cavano i denti, mi fu utile, perché in una pagina trovai una riproduzione di tutti i denti, comprese le radici e il modo in cui erano infisse nella mascella. Poi venne la scelta delle pinze. Ne avevo sette paia, ma ero in dubbio su quale usare. Non volevo sbagliarmi. Mentre rigiravo fra le mani con un tintinnio metallico tutta quella chincaglieria, la povera vittima cominciò a perdere il proprio controllo e a diventare di un colore giallo-verdastro in volto; si lamentò del sole, ma questo era indispensabile al fotografo, ed egli lo dovette sopportare.


Afferrai con le pinze il dente, e il paziente rabbrividì e cominciò a perdere le forze.


- Pronto? - chiesi a Martin.


- Prontissimo - rispose.


Diedi uno strappo. Dei! Il dente era già staccato, e venne via in un momento. Ero giubilante, mentre lo tenevo in aria fra le pinze.


- Rimettilo al suo posto, ti prego, rimettilo al suo posto - invocò Martin. - Sei stato troppo svelto per me.


E quel povero vecchio cinese rimase lì seduto, mentre rimettevo il dente a posto e lo strappavo nuovamente. Martin prese l'istantanea. La grande impresa era compiuta. Esaltazione? Orgoglio? Nessun cacciatore fu mai più fiero del suo primo cervo abbattuto di quanto io lo fui di quel dente a tre radici. Io lo avevo tolto! Proprio io! Con le mie stesse mani e un paio di pinze lo avevo fatto, senza contare i ricordi dimenticati del teschio di un cadavere.


Il caso seguente fu quello di un marinaio di Tahiti, un ometto, in uno stato di estrema debolezza per lunghi giorni e notti di dolore lancinante. Prima feci un'incisione nelle gengive; non sapevo come farla, ma le incisi lo stesso. Dovetti strappare a lungo ed energicamente. Quell'uomo fu un eroe. Gemette, si lamentò, credevo che stesse per svenire, ma tenne la bocca aperta e mi lasciò tirare. E finalmente il dente venne via.


Dopo questo, ero pronto ad affrontare chiunque fosse venuto - il vero stato d'animo per una disfatta alla Waterloo. E la disfatta ci fu.


Ebbe nome Tomi.


Era un bel pezzo di pagano, con la cattiva reputazione di essere dedito ad atti di violenza. Fra le altre cose, aveva ammazzato a furia di pugni due sue mogli. Suo padre e sua madre erano stati dei cannibali, avvezzi a girare nudi. Quando si fu seduto e gli ebbi messo la pinza in bocca, era quasi alto quanto me, che ero in piedi. Gli uomini grossi, inclini alla violenza, molto spesso hanno qualcosa di stupido nella loro mentalità, così non ero molto tranquillo su di lui.


Charmian gli afferrò un braccio e Warren l'altro. Allora cominciò una vera mischia. Non appena le pinze si strinsero attorno al dente, le sue mascelle si schiusero sulla pinza, le sue mani si alzarono di scatto e strinsero la mia mano che tirava. Io continuai a tirare e lui a tenermi. Charmian e Warren tenevano anche loro. Fu una lotta violentissima. Eravamo tre contro uno, e la mia presa su un dente non era certamente leale, ma nonostante lo svantaggio, fu lui ad avere la meglio. La pinza mi sfuggì, colpendo e arrotando i denti della mascella superiore con un rumore stridente che agghiacciava, poi gli volò via dalla bocca, ed egli si drizzò in piedi con un urlo raccapricciante. Noi tre cademmo all'indietro. Ci aspettavamo di essere massacrati. Ma quell'ululante selvaggio in fama di sanguinario ricadde sulla seggiola, si prese il capo fra le mani e continuò per un bel po' a gemere, senza voler sentire ragioni. Io ero un ciarlatano, la mia estrazione di denti indolore era stata un inganno, un'insidia e un basso espediente pubblicitario.


Avevo una tale smania di cavargli quel dente da essere quasi propenso a pagarlo, ma a tanto si oppose il mio orgoglio professionale; e lo lasciai andare via con il dente ancora intatto, il solo caso, che io ricordi finora, di insuccesso da parte mia, una volta messe in azione le pinze. Da allora non mi sono mai lasciato sfuggire un dente. Ancora l'altro ieri ho bordeggiato per tre giorni per andare a togliere un dente di una missionaria, e prima che la crociera dello "Snark" sia finita, mi aspetto di essere capace di sistemare ponti e corone d'oro.


Non so se si tratti o no di verruche endemiche (dette delle Ande, o del Perù, sono una malattia contagiosa, si manifesta con neoformazioni cutanee simili a lamponi, che a volte si ulcerano) - un medico delle Figi mi disse che lo erano e un missionario delle Isole Salomone mi disse il contrario: ad ogni modo posso attestare che sono veramente sgradevoli. Mi capitò di imbarcare a Tahiti un marinaio francese che, quando fummo in mare, riconoscemmo affetto da una brutta malattia della pelle. Lo "Snark" era troppo piccolo e ci si faceva una vita troppo in comune per poterlo tenere a bordo, ma per forza, finché non era possibile toccare terra e sbarcarlo, spettava a me curarlo.


Rilessi i miei libri e mi accinsi a medicarlo, avendo sempre cura di lavarmi poi con un forte disinfettante. Quando giungemmo a Tutuila, invece di potercene sbarazzare, l'ufficiale sanitario del porto lo dichiarò in quarantena, e rifiutò di lasciarlo sbarcare. Ma ad Apia, nelle Samoa, riuscii a trasbordarlo su un vapore diretto nella Nuova Zelanda.


Lì ad Apia le mie caviglie furono punte in malo modo da zanzare, e confesso di avere grattato le pinzate, come avevo già fatto mille volte. Allorché giunsi nella isola di Savaii, si era formata una piaghetta sul collo del piede, che io ritenni dovuta al calore e alle esalazioni acide della lava calda su cui avevo camminato.


Un'applicazione di unguento l'avrebbe fatta guarire - così almeno pensavo. L'unguento la richiuse superficialmente, ma poi si manifestò una straordinaria infiammazione, la nuova pelle venne via e apparve una piaga più grande. La cosa si ripeté a più riprese, e ogni volta che si formava una nuova pelle, poi subentrava l'infiammazione, e la circonferenza della piaga aumentava. Ero sconcertato e spaventato. Per tutta la mia vita la facoltà di cicatrizzarsi della mia pelle era stata rinomata; eppure lì c'era qualcosa che non le permetteva di cicatrizzarsi, anzi che quotidianamente rodeva la pelle e aveva intaccato persino il muscolo.


Nel frattempo lo "Snark" si trovava in mare diretto alle Figi. Mi ricordai del marinaio francese e per la prima volta fui seriamente allarmato. Quattro altre piaghe dello stesso tipo erano apparse - o meglio che piaghe, ulcere, le quali dal dolore non mi lasciavano dormire la notte. Avevo fatto tutti i piani per disarmare lo "Snark" alle Figi e andarmene sul primo piroscafo in partenza per l'Australia a farmi curare da medici di professione. Nell'attesa, feci del mio meglio, da medico dilettante. Lessi attentamente tutte le opere di medicina che avevo a bordo, senza trovare né una linea né una parola che corrispondesse al mio male. Ragionai sul problema con tutto il buon senso possibile; si trattava di ulcere maligne ed eccessivamente attive, e un veleno organico e corrodente era all'opera. Ne conclusi che due cose si potevano fare: anzitutto trovare un mezzo per distruggere il veleno, secondo, poiché le ulcere non potevano essere guarite dall'esterno, curarle per via interna. Decisi di combattere il veleno con il sublimato corrosivo, ma lo stesso nome mi colpì come sbagliato. Era combattere il fuoco con altro fuoco. C'era un veleno corrodente che mi stava consumando, e mi veniva in mente di combatterlo con un altro veleno corrodente. Dopo alcuni giorni alternai le medicazioni con il sublimato corrosivo ad altre di acqua ossigenata. E, guardate un po', quando giungemmo alle Figi, quattro ulcere su cinque erano guarite, mentre l'unica rimanente non era più grossa di un pisello.


Mi ritenni allora pienamente qualificato a curare le verruche endemiche, per le quali del resto provavo un salutare rispetto. Non così il resto dell'equipaggio dello "Snark", poiché nel loro caso vedere non significava credere. Dal primo all'ultimo, avevano visto le mie terribili condizioni, e tutti quanti, ne sono convinto, erano certi nel subcosciente che la loro personale magnifica costituzione e superba individualità non avrebbero mai permesso che nelle loro carcasse si insediasse un veleno così abietto come quello che il mio organismo anemico e la mia mediocre personalità avevano lasciato insediarsi in me. A Port Resolution, nelle Ebridi, Martin volle camminare a piedi nudi nella boscaglia e rientrò a bordo con molti tagli e scorticature, specialmente sulle tibie.


- Faresti bene a badarci - lo ammonii. - Ti preparerò un po' di sublimato corrosivo per lavare quei tagli. E' meglio essere previdenti, lo sai!


Ma Martin sorrise da uomo superiore. Anche se non lo disse, voleva però farmi capire che lui non era come gli altri uomini (io ero il solo uomo a cui avrebbe potuto fare allusione) e che in un paio di giorni i tagli si sarebbero cicatrizzati. Anzi mi fece pure una conferenza sulla particolare purezza del suo sangue e sulle sue notevoli doti cicatrizzanti. Quando ebbe finito, mi sentii davvero umile: evidentemente ero diverso dagli altri uomini, quanto a purezza di sangue.


Nakata, il cameriere di bordo, mentre un giorno stirava, scambiò il polpaccio della sua gamba per un portaferro, e si fece una bruciatura lunga tre pollici e larga mezzo, ed ebbe anch'egli lo stesso sorriso di superiorità, quando gli offrii il sublimato corrosivo e gli ricordai la mia dolorosa esperienza. Mi fece capire, con la debita soavità e cortesia, che qualsiasi cosa potesse succedere al mio sangue, il suo, perfetto, giapponese, di reduce da Port-Arthur, era a postissimo e disprezzava questo avidissimo microbo.


Wada, il cuoco, partecipò a un disastroso atterraggio della barca, in cui dovette balzare fuori bordo e parare l'imbarcazione fino alla riva in mezzo ai frangenti che si rompevano. Tra conchiglie e coralli, si tagliò in bel modo gambe e piedi. Gli presentai la bottiglia di sublimato corrosivo, e una volta ancora subii il sorriso di superiorità, e mi si fece capire che il suo sangue era lo stesso sangue che le aveva suonate alla Russia e le avrebbe suonate un giorno futuro agli Stati Uniti, e che se il suo sangue non era capace di far guarire pochi tagli da nulla, dal disonore si sarebbe fatto karakiri.


Da tutto ciò conclusi che un medico dilettante non è considerato affatto a bordo della propria nave, anche se si è saputo curare da solo. Il resto dell'equipaggio aveva preso a considerarmi come la vittima di una tranquilla fissazione, in fatto di piaghe e di sublimato. Se il mio sangue era infetto, non era una ragione perché io credessi che lo fosse quello di tutti gli altri. Non feci più offerte.


Il tempo e i microbi avrebbero lavorato in mio favore, e non mi restava che aspettare.


- Credo che ci sia un po' di terra in quei tagli - disse Martin, qualche giorno dopo, a titolo d'assaggio. - Li laverò e poi saranno a posto - aggiunse, quando vide che io rifiutavo di abboccare all'amo.


Passarono altri due giorni, ma i tagli non passavano e sorpresi Martin, mentre immergeva gambe e piedi in un bugliolo d'acqua calda.


- Non c'è niente che faccia bene come l'acqua calda - proclamò entusiasta. - E' meglio di qualsiasi porcheria inventata dai dottori.


Queste piaghe andranno benone domattina.


Ma l'indomani aveva un aspetto preoccupato, e io capii che l'ora del mio trionfo si avvicinava.


- Vorrei quasi provare un po' di quella medicina - annunciò più tardi, lo stesso giorno. - Non che creda che mi farà molto bene - specificò - ma tanto per provare.


Poi venne il fiero sangue del Giappone a chiedere un medicamento per le sue gloriose piaghe, mentre io alimentavo la loro inquietudine, spiegando in tono di comprensione e con i particolari più minuti la cura da seguire. Nakata si confermò alle istruzioni, senza dire nulla, e di giorno in giorno le sue piaghe rimpicciolirono. Wada fu più apatico e guarì meno rapidamente. Ma Martin dubitava ancora e siccome non guarì immediatamente, elaborò la teoria che, anche se la porcheria del dottore andava bene, non ne conseguiva che la medesima porcheria fosse efficace per tutti. Quanto a lui, il sublimato corrosivo non serviva a nulla. E poi, come potevo sapere io che era quello che ci voleva? Non avevo nessuna esperienza. Il fatto che mi fosse successo di guarire mentre la usavo, non provava affatto che il merito della guarigione dovesse essere attribuito alla detta porcheria. Poteva trattarsi di una semplice coincidenza. Indubbiamente c'era una porcheria che curava tutte le piaghe, e non appena egli si fosse trovato con un vero dottore, gli avrebbe chiesto qual era quella medicina e l'avrebbe usata.


Verso quest'epoca arrivammo nelle Isole Salomone. Nessun medico la raccomanderebbe mai come soggiorno per convalescenti o come casa di cura. Bastò rimanerci poco tempo perché io capissi realmente, e per la prima volta nella mia vita, quanto i tessuti umani siano fragili e mutevoli.


Il nostro primo ancoraggio fu Port Mary, nell'isola di Santa Anna.


L'unico solitario uomo bianco, un commerciante, venne sottobordo; si chiamava Tom Butler, ed era un bellissimo esempio di come le Salomone possano ridurre un uomo forte. Stava disteso nella sua baleniera con l'aspetto di un morente, né un sorriso né un bagliore d'intelligenza illuminavano il suo viso. Aveva una lugubre testa da teschio, troppo spenta per sorridere. E aveva anche delle verruche, grosse. Fummo costretti a issarlo sulla murata dello "Snark". Disse che la sua salute era buona, che non aveva avuto febbre da qualche giorno, e che, ad eccezione del braccio, si sentiva in ottime condizioni. Il braccio sembrava paralizzato, ma egli negò sprezzantemente che lo fosse. Lo era stato prima, ma adesso era guarito. Era una malattia diffusa a Sant'Antonio, disse, mentre lo aiutavamo a scendere la scaletta, e il braccio morto penzoloni urtava, bump-bump, a ogni gradino. Fu certamente l'ospite più raccapricciante che avessimo mai avuto, e a bordo c'erano stati non pochi lebbrosi e malati di elefantiasi.


Martin si informò sulle verruche, perché quello era un uomo che avrebbe dovuto saperne qualcosa. Certamente ne era esperto, a giudicare dalle braccia e dalle gambe, tutte a cicatrici e ulcere aperte nel mezzo delle cicatrici. Oh, ci si abituava alle verruche, disse Tom Butler. Non erano realmente una cosa grave finché non arrivavano a corrodere profondamente la carne. Allora attaccavano le pareti delle arterie, le arterie scoppiavano, e si faceva un funerale.


Parecchi indigeni a terra erano morti recentemente in quel modo. Ma che importava? Se non erano le verruche, era sempre qualcosa d'altro - nelle Salomone.


Notai che da quel momento Martin dimostrò un interesse sempre crescente per le proprie verruche. Le medicazioni con sublimato corrosivo diventarono più frequenti, mentre nel conversare egli prese a rievocare con un entusiasmo sempre più vivo il sano clima del Kansas e tutte le altre cose di quella regione. Charmian e io eravamo del parere che la California fosse un pezzetto di Paradiso, Henry sosteneva Rapa, e Tehei difendeva a spada tratta Bora Bora in onore della propria razza, mentre Wada e Nakata innalzavano un peana alla salubrità del Giappone.


Una sera, mentre lo "Snark" oltrepassava l'estremità meridionale dell'isola di Ugi, cercando un famoso ancoraggio, un missionario della Chiesa d'Inghilterra, Mister Drew, che si dirigeva in baleniera verso la costa di San Cristoval, venne sotto bordo e si fermò a pranzo.


Martin, le gambe fasciate in bende della Croce Rossa tanto da sembrare una mummia, mise la conversazione sull'argomento delle verruche. Sì, disse Mister Drew, erano comunissime nelle Isole Salomone. Tutti i bianchi ne erano affetti.


- E le avete avute? - domandò Martin, scandalizzato nel fondo della sua anima che un Reverendo della Chiesa d'Inghilterra potesse avere una malattia così volgare.


Mister Drew assentì e aggiunse che non solo le aveva avute, ma che in quel periodo se ne stava curando parecchie.


- E cosa ci mettete sopra? - interrogò di botto Martin.


Il cuore mi si fermò quasi, nell'attesa della risposta. Da quella risposta il mio prestigio medico-professionale sarebbe stato confermato o rovinato. E la risposta fu... - benedetta risposta!


- Sublimato corrosivo - disse Mister Drew.


Martin si arrese elegantemente, lo ammetto, e ritengo che se in quell'istante gli avessi chiesto il permesso di cavargli un dente, non me lo avrebbe rifiutato.


Tutti i bianchi sono affetti da verruche nelle Isole Salomone, e qualsiasi taglio o scalfittura praticamente significa un'altra verruca. Ogni uomo che vi incontrai ne aveva avute, e nove volte su dieci ne aveva ancora in atto. Non ci fu che una sola eccezione, un giovanotto che era nelle isole da cinque mesi, ci si era ammalato di febbri dieci giorni dopo il suo arrivo, e che da allora in poi era stato così spesso malato di febbri da non avere avuto né il tempo né l'occasione di prendersi le verruche.


Ognuno sullo "Snark" ne aveva avuto, ad eccezione di Charmian. Il suo era lo stesso egotismo dimostrato dal Giappone e dal Kansas. Lei attribuiva la sua immunità alla purezza del suo sangue, e quanto più i giorni passavano, tanto più lo attribuiva con maggiore energia e frequenza alla purezza del suo sangue. Personalmente, invece, io lo attribuivo al fatto che, essendo una donna, essa sfuggiva alla maggior parte dei tagli e delle scalfitture a cui andavamo soggetti noi uomini, nei lavori pesanti indispensabili per far navigare lo "Snark" intorno al mondo. Non gielo dissi però: vedete, non volevo offendere il suo IO con dei fatti brutali. Essendo un dottore in medicina, anche se dilettante, ne sapevo più di lei su quella malattia, e sapevo che il tempo sarebbe stato mio alleato. Ma ahimè! trattai male il mio alleato, quando si trattò di una deliziosa piccola verruca sulla tibia. Le applicai con tale rapidità una medicazione antisettica che la verruca guarì prima che Charmian fosse convinta di averne avuta una. Una volta ancora, nella mia qualità di Dottore in Medicina, mi vedevo ben poco apprezzato sulla mia stessa nave; peggio ancora, ero accusato di avere cercato di indurla erroneamente a credere di avere avuto una verruca. La purezza del suo sangue fu più esaltata che mai, e io mi rituffai senza fiatare nei miei libri di navigazione.


E giunse poi il mio giorno. Stavamo navigando lungo la costa di Malaita.


- Che hai sulla caviglia? - dissi.


- Niente - disse lei.


- Bene - dissi io - però mettici sopra lo stesso un po' di sublimato corrosivo. E tra due o tre settimane, quando sarai guarita, ma ti rimarrà una cicatrice che ti porterai fin nella tomba, dimentica tutto sulla purezza del tuo sangue e sulla storia dei tuoi antenati e dimmi, ad ogni modo, la tua opinione sulle verruche.


Era grossa come un dollaro d'argento, quella verruca, e ci vollero ben tre settimane perché guarisse. C'erano dei momenti in cui Charmian non poteva camminare, tanto le faceva male, e c'erano numerose altre volte in cui lei spiegava che il posto più doloroso per avere una verruca era proprio la caviglia. A mia volta le spiegai che, non avendo mai fatto l'esperienza di una verruca in quel punto, ero indotto a concludere che il punto più doloroso per la crescita di una verruca era il collo del piede. Lasciammo la decisione a Martin, che dissentì da tutti e due e affermò energicamente come il solo punto veramente doloroso fosse la tibia. Non c'è da meravigliarsi che le corse di cavalli siano così popolari.


Ma dopo un po' anche le verruche smisero di essere una novità. Nel momento preciso in cui sto scrivendo ne ho cinque sulle mani e altre tre sulla tibia. Charmian ne ha una da ogni lato del collo del piede destro. Tehei impazzisce per le sue. Le più recenti coltivazioni di verruche di Martin, sulla tibia, hanno eclissato le altre sue precedenti. E Nakata ne ha sempre una ventina che rodono i suoi tessuti. Ma la storia dello "Snark" nelle Salomone è stata la storia di ogni nave, sin dal tempo dei primi scopritori.


Cito dalle "Istruzioni sulla navigazione" quanto segue:


"Gli equipaggi delle navi che rimangono un certo tempo nelle Salomone constatano che le ferite e le piaghe sono soggette a trasformarsi in ulcere maligne".


Né quelle Istruzioni sono più incoraggianti per quanto riguarda le febbri, poiché vi leggo:


"I nuovi arrivati sono quasi sicuri di essere soggetti a febbri presto o tardi. Anche i nativi vi vanno soggetti. Il numero dei morti fra i bianchi ammontò nell'anno 1897 a 9 su una popolazione di 50".


Però talune di queste morti erano state accidentali.


Nakata fu il primo a essere colpito dalla febbre, e la cosa avvenne a Penduffryn. Wada e Henry seguirono l'esempio, poi si arrese Charmian.


Io riuscii a cavarmela per un paio di mesi, ma quando fui sistemato anch'io, Martin per simpatia si unì a me alcuni giorni dopo. Su sette che eravamo in tutto, il solo Tehei riuscì a evitarle, ma le sue sofferenze per la nostalgia erano peggiori della febbre. Nakata, come al solito, seguì fedelmente le istruzioni, cosicché alla fine del terzo attacco, con una sudata di due ore e da due a due grammi e mezzo di chinino ingurgitato, si ritrovò debole ma guarito alla fine di sole ventiquattro ore.


Wada e Henry, invece, furono dei pazienti più difficili da curare.


Anzitutto Wada era in uno stato di perpetua paura, perché aveva la ferma convinzione che la sua stella era al tramonto e che le Isole Salomone avrebbero accolto le sue ossa. Vedeva che intorno a lui la vita umana valeva ben poco; a Panduffryn aveva visto le stragi fatte dalla dissenteria, e sfortunatamente per lui, aveva visto una delle vittime portata a seppellire su una lamiera di ferro e ficcata in un buco nella terra senza né bara né funerale. Tutti avevano la febbre, tutti avevano la dissenteria, tutti avevano tutto. La Morte era un fatto usuale. Oggi qui, domani morti - e Wada dimenticava tutto dell'oggi e aveva deciso che era già arrivato il domani.


Non si curava delle sue ulcere, trascurava di lavarle con il sublimato, e grattandosi senza frenarsi le aveva diffuse in tutto il suo corpo. E neppure voleva seguire le istruzioni per la febbre, con il risultato che ce l'aveva per cinque giorni alla volta, mentre un giorno avrebbe dovuto bastare. Henry, un tipo gigantesco, era altrettanto difficile. Si rifiutava energicamente di prendere il chinino, perché anni prima aveva avuto delle febbri, e le pillole che gli aveva dato allora il dottore erano di dimensioni e colore differenti dalle pastiglie che gli offrivo io. Così Henry si associava a Wada.


Ma io mi burlai di tutti e due, e li curai con la loro stessa medicina, ossia la credulità. Essi avevano fede nella loro paura di dover morire. Io feci loro ingoiare una quantità di chinino, poi misurai la loro temperatura. Era la prima volta che usavo il termometro della mia cassetta di medicinali, e mi accorsi rapidamente che non funzionava, che era stato messo nella cassetta a scopo di lucro, non di utilità. Se avessi lasciato capire ai miei due pazienti che il termometro non funzionava, ci sarebbero stati due funerali entro un breve periodo di tempo. Giuro che la loro temperatura era di 41 gradi. Solennemente misi in bocca all'uno e all'altro il termometro, mi permisi di assumere una radiosa espressione di soddisfazione, e allegramente dissi loro che la loro temperatura era di 35 gradi! Poi li rimpinzai di nuovo di chinino, dicendo che qualsiasi sofferenza o debolezza avessero provato sarebbe stata dovuta al chinino, e li lasciai migliorare. E migliorarono, anche Wada, a dispetto di se stesso. Se un uomo può morire per colpa di un inganno, che c'è di immorale nel farlo vivere per merito di un inganno?


Vi raccomando la razza bianca, in quanto a fegato e resistenza.


Uno dei nostri due giapponesi e ambedue i nostri tahitiani erano in preda al terrore e si durò fatica a rialzare il loro morale, a furia di battere loro sulla spalla e tenerli di buon umore. Charmian e Martin prendevano allegramente le loro sofferenze, le minimizzavano, e continuavano con calma sicurezza la loro vita. Quando Wada e Henry si convinsero che sarebbero morti, l'atmosfera funebre risultò eccessiva per Tehei, il quale pregava con estrema afflizione e certe volte piangeva per ore intere.


Martin, d'altro lato, bestemmiava e guariva, e Charmian brontolava e progettava quello che avrebbe fatto, quando fosse stata di nuovo bene.


Charmian era cresciuta in un ambiente di vegetariani e salutisti. La zia Netta, che l'aveva allevata e viveva in un clima salubre, non credeva alle medicine; e neppure Charmian ci credeva. Inoltre le medicine non le andavano e i loro effetti erano peggiori dei mali che avrebbero dovuto alleviare. Però essa ascoltò l'elogio del chinino, lo accettò come un male minore; e di conseguenza ebbe degli attacchi di febbre meno brevi, meno dolorosi e meno frequenti. Incontrammo un missionario, Mister Caulfeild, i cui due predecessori erano morti dopo meno di sei mesi di residenza nelle Salomone. Al pari di loro egli era stato un fervente assertore dell'omeopatìa, fin dopo la sua prima febbre quando, a differenza di loro, fece ritorno all'allopatìa e al chinino, guarendo della febbre e continuando la sua opera evangelica.


Ma il povero Wada! La goccia che fece traboccare il vaso fu quando Charmian e io ce lo portammo dietro in una crociera nell'isola cannibala di Malaita, su un piccolo yacht, sul cui ponte il comandante era stato ucciso sei mesi prima. "Kai-kai" significa mangiare, e Wada era sicuro che sarebbe stato "kai-kai-to". Giravamo bene armati, la nostra vigilanza era incessante, e quando andavamo a fare il bagno alla foce di un corso d'acqua dolce, dei negri, armati di fucili, ci facevano da sentinella. Incontrammo delle navi da guerra inglesi che avevano bruciato e bombardato dei villaggi per punire degli assassini.


Indigeni con taglie sul loro capo cercavano di trovare rifugio a bordo da noi. L'assassinio era in agguato dappertutto. In luoghi isolati indigeni amici ci preavvertirono di attacchi imminenti. La nostra nave era debitrice di due teste a Malaita, e i cannibali avrebbero potuto esigerle in ogni momento. E per colmo, andammo in secco su una scogliera e con i fucili in una mano tenemmo lontane le canoe dei razziatori, mentre con l'altra lavoravamo a salvare la nave. Tutto ciò si dimostrò eccessivo per Wada, che impazzì e alla fine disertò dallo "Snark" nell'isola Isabella, sbarcando definitivamente durante uno sferzante piovasco, tra due attacchi di febbre e con la minaccia di una polmonite. Se sfuggirà alla sorte di essere mangiato, e potrà sopravvivere alle piaghe e alle febbri che imperversano a terra, potrà sperare, con una dose ragionevole di fortuna, di andarsene da quel luogo all'isola vicina in circa sei od otto settimane. Wada non aveva mai avuto molta fiducia nelle mie medicine, sebbene gli avessi tolto trionfalmente al primo tentativo due denti che gli facevano male.


Lo "Snark" era stato un ospedale per mesi, e confesso che ci stavamo abituando alla cosa. Nella laguna di Meringe, dove carenammo e ripulimmo la fodera di rame dello "Snark", c'erano dei momenti in cui uno solo di noi era in grado di andare in acqua, mentre gli altri tre bianchi della piantagione a terra erano tutti malati di febbri.


Mentre sto scrivendo queste righe, siamo sperduti in mare a nord-est di Isabella e cerchiamo vanamente di trovare l'isola di Lord Howe, un atollo che non può essere avvistato prima di arrivarci addosso. Il cronometro non funziona. Il Sole ad ogni modo non splende, né posso fare una osservazione di stelle la notte, e per giorni e giorni non abbiamo avuto altro che raffiche di vento e pioggia. Il cuoco se ne è andato; Nakata, che ha cercato di fare da cameriere e da cuoco insieme, è in cuccetta con la febbre. Martin si è appena alzato dopo un attacco di febbre. Charmian, la cui febbre è diventata periodica, sta studiando sulla sua agenda quando avrà il prossimo attacco. Henry, in uno stato d'animo di attesa, ha cominciato a prendere chinino. E siccome i miei attacchi mi colpiscono con la subitaneità di randellate, non so da un momento all'altro quando me ne verrà uno. Per sbaglio abbiamo dato via l'ultima farina che ci restava a dei bianchi che non ne avevano più, e non sappiamo quando potremo toccare terra.


Le nostre piaghe delle Salomone sono peggiori e più numerose che mai.


Il sublimato corrosivo è stato dimenticato a terra a Penduffryn; l'acqua ossigenata è terminata, e sto provando l'acido borico, il lisolo e l'antiflogistina. Beh, se non riuscirò a diventare un buon medico, non sarà per mancanza di pratica.


P. S. Sono passati ormai due mesi da quando ho scritto ciò che precede, e Tehei, il solo immune a bordo, è stato a letto dieci giorni con una febbre molto più forte di quelle avute da tutti noi, e vi è ancora. La sua temperatura è stata a più riprese di 41 gradi e il polso era 115.


P. S. In mare, tra l'atollo di Tasman e lo stretto di Manning.


L'accesso di febbre di Tehei si è poi trasformato in febbre della lingua nera, la forma più grave di febbri malariche, che è anche dovuta a un'infezione esterna, come assicura il mio libro di medicina.


Essendo riuscito a tirarlo fuori dalla febbre, ora non so più a che santo rivolgermi, perché egli sragiona completamente. La mia esperienza medica è troppo recente perché io mi possa assumere la cura di una pazzia. E questo è il secondo caso di pazzia in un breve viaggio come il nostro.


P. S. Un giorno scriverò un libro (per i professionisti) dal titolo "Intorno al mondo con la nave ospedale 'Snark'". Persino i nostri animali favoriti non hanno evitato una triste sorte. Siamo salpati dalla laguna di Meringe con due di essi, un terrier irlandese e un pappagallo bianco. Il terrier è caduto dalla scaletta e si è azzoppato la gamba posteriore sinistra, poi ha ripetuto la manovra e si è azzoppato quella anteriore destra. Attualmente non ha che due gambe su cui camminare. Fortunatamente sono ai lati opposti e alle opposte estremità, cosicché può ancora cavarsela in parte. Il pappagallo è rimasto schiacciato sotto l'osteriggio della cabina, e ha dovuto essere ammazzato. E' stato questo il nostro primo funerale - benché anche i vari polli che avevamo, e che avrebbero fatto un brodo apprezzato per i nostri convalescenti, siano volati fuori bordo e siano così annegati. Soltanto gli scarafaggi prosperano. Né malattie né disgrazie li colpiscono mai e diventano ogni giorno più grossi e più carnivori, a furia di rosicchiare le nostre unghie delle mani e dei piedi, mentre dormiamo.


P. S. Charmian ha un altro attacco di febbre. Martin, disperato, ha cominciato a fare una cura da cavallo per le sue verruche, a base di solfato di rame, e a mandare accidenti alle Isole Salomone. Quanto a me, che devo navigare, curare e scrivere brevi racconti, non sto affatto bene. Ad eccezione dei casi di pazzia verificatisi a bordo, sono l'individuo in condizioni peggiori. Prenderò il primo piroscafo per l'Australia per farmi operare. Tra le mie afflizioni minori, devo accennare a una nuova e misteriosa. Per tutta la settimana scorsa le mie mani hanno continuato a gonfiarsi come se fossi idropico. E soltanto con uno sforzo doloroso riesco a chiuderle: tirare una cima, poi, è un vero tormento. Le mie sensazioni sono le stesse di quando si hanno dei forti geloni. Inoltre la pelle delle due mani si squama in modo impressionante, mentre la nuova pelle che cresce sotto è ruvida e spessa. Il libro di medicina non parla di questa malattia. Nessuno sa cosa sia.


P. S. Beh, ad ogni modo ho regolato il cronometro. Dopo essere stati sballottati in mare per otto giorni tra raffiche continue di vento e di pioggia, quasi sempre alla cappa, sono riuscito a fare un'osservazione parziale di Sole a mezzogiorno. Da essa ho ricavato la mia latitudine, e poi ho diretto per raggiungere in base al solcometro la latitudine di Lord Howe. Così facendo, mi sono trovato a raggiungere insieme la latitudine e l'isola stessa. Qui ho controllato il cronometro a mezzo di un'osservazione di longitudine, e ho trovato un errore di circa tre minuti. Poiché ogni minuto equivale a quindici miglia, si può valutare l'importanza dell'errore totale. Con ripetute osservazioni a Lord Howe, ho controllato la marcia del cronometro, trovando che esso ritardava ogni giorno di sette decimi di secondo.


Ora proprio un anno fa, quando facemmo vela dalle Hawaii, questo stesso cronometro aveva il medesimo ritardo di sette decimi di secondo. Poiché tale errore era stato accuratamente aggiunto ogni giorno, e poiché tale errore, come confermarono le osservazioni fatte a Lord Howe, non era variato, che cosa era mai accaduto sotto il Sole perché il cronometro di colpo accelerasse e recuperasse tre minuti?


Possono succedere cose simili? Gli orologiai esperti dicono di no, ma io dico che essi non hanno mai fatto un'esperienza di costruzione e regolazione di orologi nelle Salomone. Dipende dal clima, ecco la mia diagnosi. Ad ogni modo, ho curato con successo il cronometro, anche se non ci sono riuscito nei casi di pazzia e con le verruche di Martin.


P. S. Martin ha appena provato l'allume calcinato, e sta più che mai mandando accidenti alle Isole Salomone.


P. S. Tra lo Stretto di Manning e le Isole Pavuvu.


A Henry sono venuti dei dolori reumatici nella schiena, dieci pelli sono squamate dalle mie mani e l'undicesima si sta squamando ora, mentre Tehei è più pazzo che mai, e giorno e notte prega Dio di non ucciderlo. Anche Nakata e io siamo di nuovo in piena febbre. E l'ultimissima è che Nakata ha avuto un'intossicazione di ptomaina, e perciò abbiamo passato metà della notte a metterlo fuori pericolo.




EPILOGO


Lo "Snark" aveva una lunghezza di 43 piedi al galleggiamento e di 55 piedi fuori tutto, una larghezza di 15 piedi (fra i madieri) e un pescaggio di 7 piedi e 8 pollici. Era armato a ketch, con trinchettina, fiocco, controfiocco, randa, mezzana e spinnaker. Aveva 6 piedi di puntale sottocoperta ed era costruito con ponte a corona e continuo.


C'erano quattro compartimenti cosiddetti stagni. Un motore ausiliario a benzina di settanta cavalli riusciva a far muovere sporadicamente la nave con una spesa approssimata di venti dollari per miglio. Un motorino di cinque cavalli metteva in funzione le pompe, quando era in efficienza, e in due occasioni si dimostrò in grado di fornire alimento per il proiettore. Le batterie di accumulatori di riserva funzionarono quattro o cinque volte nel corso di due anni. Si sosteneva che la lancia di 14 piedi poteva funzionare, ma invariabilmente fece avarìa tutte le volte che io salii a bordo.


Ma lo "Snark" navigava a vela, il solo modo con cui poté giungere in qualsiasi posto. Navigò a vela per due anni, senza mai toccare roccia o scogliera o bassofondo. Non aveva zavorra interna, la sua chiglia di ghisa pesava cinque tonnellate, ma il suo forte pescaggio e il suo alto bordo libero lo rendevano molto stabile. Sorpreso da groppi tropicali in piena vela, metteva la murata sott'acqua e molte volte anche il trincarino, ma ostinatamente si rifiutava di sbandare oltre.


Poteva navigare facilmente giorno e notte senza muovere il timone, di bolina, al lasco, a mezza nave. Con il vento al giardinetto e le vele in un assetto opportuno, poteva governarsi da solo entro due quarte, e con il vento quasi di poppa muoveva entro tre quarte scarse, governando da solo.


Lo "Snark" era stato in parte costruito a San Francisco. La mattina che la sua chiglia di ghisa avrebbe dovuto essere fusa, fu proprio quella del grande terremoto. Poi venne il finimondo. Poiché la sua costruzione era in ritardo di sei mesi, ne portai a vela lo scafo alle Hawaii per ultimarlo laggiù, con il motore legato in sentina e i materiali da costruzione legati in coperta. Se fossi rimasto a San Francisco per ultimarlo, ci sarei ancora adesso. Pur stando così le cose, e parzialmente costruito, mi costò il quadruplo di quanto avrebbe dovuto costare.


Lo "Snark" fu sfortunato fin dalla nascita. Fu registrato a San Francisco, alle Hawaii protestarono i suoi assegni come se fossero stati a vuoto, e nelle Salomone fu multato per infrazione alla quarantena. Per salvare la faccia, i giornali non potevano dire la verità a mio riguardo. Quando sbarcai un capitano incompetente, dissero che io ne avevo fatto polpette. Quando un giovane tornò a casa per continuare i suoi studi, riferirono che io ero un vero mostro e che tutto l'equipaggio aveva disertato perché io lo bastonavo a sangue. In realtà il solo colpo dato a bordo dello Snark fu quando il cuoco fu malmenato da un capitano che si era imbarcato con me con false commendatizie, e che io licenziai alle Figi. Inoltre Charmian e io facevamo la boxe come esercizio ginnastico, ma nessuno dei due ne rimase seriamente storpiato.


Il viaggio fu il nostro sogno di un bel periodo di esistenza.


Io costruii lo "Snark" e lo pagai, come pagai tutte le spese, essendomi impegnato a scrivere trentacinquemila parole, narrando il viaggio, con un periodico che mi avrebbe pagato la stessa somma che io ricevevo per i libri scritti a casa. Subito dopo, il periodico pubblicò che io andavo in giro per il mondo quale suo inviato speciale. Si trattava di un periodico ricco, e ogni persona che ebbe a che fare con lo "Snark" triplicava i suoi prezzi, perché in verità il periodico poteva permetterselo. Questo mito diede i suoi frutti perfino nella più minuscola isola dei Mari del Sud, e io per conseguenza pagai. Ancora oggi tutti credono che il periodico mi abbia rifuso tutte le spese e che io mi sia arricchito in questo viaggio. E' difficile, dopo una simile pubblicità, far penetrare nel comprendonio degli uomini che l'intero viaggio fu fatto per il solo divertimento di farlo.


Andai in Australia per entrare in una clinica, dove passai cinque settimane; poi rimasi cinque tristi mesi ammalato in albergo. La misteriosa malattia che mi aveva colpito alle mani superava le cognizioni degli specialisti australiani, era ignota nella letteratura della medicina. Di nessun caso simile si era mai sentito dire. Essa si estese dalle mani ai piedi, tanto che in certi periodi ero impotente quanto un neonato. Talvolta le mie mani raggiungevano dimensioni doppie delle normali, con sette pelli morte e morenti che si squamavano nello stesso tempo. E talvolta le unghie dei piedi, in ventiquattro ore, diventavano tanto lunghe quanto spesse. Dopo che le avevo limate, in altre ventiquattro ore ritornavano come prima.


Gli specialisti australiani furono concordi nel giudicare la malattia non parassitaria, e quindi, di origine nervosa. Ma essa non migliorava e mi fu impossibile continuare il viaggio. Il solo modo in cui io avrei potuto continuarlo sarebbe stato quello di farmi legare nella mia cuccetta, perché nelle mie condizioni di impotenza, incapace com'ero di afferrare con le mani, non avrei potuto andare in giro per il mare su una piccola barca che rollava. Inoltre, dissi a me stesso che mentre c'erano tante barche e tanti viaggi, non avevo che un paio di mani e una decina di unghie dei piedi. Feci anche il ragionamento che nel mio clima nativo della California avevo sempre mantenuto in equilibrio stabile il mio sistema nervoso. E così tornai indietro.


Da quando sono tornato, sono guarito completamente, e ho scoperto di che si trattava. Mi è capitano sott'occhio un libro del tenente colonnello Charles E. Woodruff dell'Esercito degli Stati Uniti, intitolato "Effetti della luce dei tropici sugli uomini bianchi". E allora ho capito. In seguito mi sono incontrato con il colonello Woodruff e ho saputo da lui che anch'egli aveva avuto la stessa malattia, quando era egli stesso un medico delle Forze Armate, e che diciassette medici militari si erano occupati del suo caso alle Filippine e, come gli specialisti australiani, si erano dichiarati incapace di curarla. A farla breve, io avevo una forte predisposizione alla distruzione dei tessuti sotto l'azione della luce tropicale. Ero stato fatto a pezzi dai raggi ultravioletti, proprio come molti di coloro che fanno esperienze con i raggi X, sono fatti a pezzi da essi.


Di sfuggita, permettetemi di menzionare che fra le altre malattie che unite insieme costrinsero a rinunciare a proseguire il viaggio, ce ne fu una chiamata in modo vario, "malattia dell'uomo sano", "lebbra europea" o "lebbra biblica". A differenza dalla vera lebbra, non si sa nulla di questa misteriosa malattia. Nessun dottore ha mai potuto vantarsi di averla guarita, per quanto si ricordino delle guarigioni spontanee. Essa viene, non si sa come; cosa sia, non si sa. Se ne va, non si sa perché. Senza prendere medicine, solo vivendo nel salubre clima della California, la mia pelle argentea sparì. La sola speranza che i dottori mi avevano dato era quella di una guarigione spontanea, e tale fu la mia.


Un'ultima cosa: l'esperienza del viaggio.


E' abbastanza facile per me e per qualsiasi uomo dire che essa fu piacevole. Ma c'è una teste più attendibile, la sola donna che lo fece dal principio alla fine. All'ospedale, quando dovetti dare a Charmian l'annuncio che saremmo tornati in California, gli occhi le si riempirono di lacrime. Per due giorni rimase costernata, disperata all'idea che il bel viaggio era stato abbandonato.


Clen Ellen, California


7 aprile 1911




PICCOLO GLOSSARIO MARINARESCO


ALABBASSO, cavo o manovra che serve ad alare in giù la vela, il picco o un pennone.


ALARE, tirare, tesare.


ALBERETTO, pezzo superiore dell'albero (che può essere formato di uno, due o tre pezzi).


ALISEI, venti costanti che spirano da nord-est a sud-ovest nell'emisfero settentrionale e da sud-est a nord-ovest in quello meridionale.


ALLASCARE, filare un cavo, manovra o vela.


ANCA, la parte esterna e rotonda della poppa da ciascuna banda. Detta anche giardinetto.


ANTENNA, asta di legno a cui si allaccia il lato superiore di una vela latina.


ARARE, si dice di bastimento o di àncora quando per effetto di vento o di corrente l'àncora non riesce a trattenere il bastimento e striscia sul fondo.


ARRIDARE, dare tutta la tensione dovuta alle manovre dormienti.


BAGLI, pezzi costruttivi trasversali che uniscono i fianchi e sostengono la coperta.


BANDO (venire in bando), si dice quando un cavo o una vela cessano di essere tesi.


BARRA, quella stanga che, fissata sulla testa del timone, serve a governarlo. Si dice anche barra quell'ammasso di rena, sassi o fanghiglia che si forma alla foce dei fiumi e davanti all'imboccatura dei porti e dei seni.


BASTINGAGGIO, parapetto formato dalle murate di una nave che si elevino al di sopra del ponte di coperta.


BATTAGLIOLA, aste fissate verticalmente sulla coperta che formano una ringhiera di riparo.


BATTELLO, piccola imbarcazione che sta legata ai bastimenti per le necessità che possono sorgere.


BIGOTTA, disco di legno con più fori dove passa un canapo (corridore) per tesare le sartie.


BOLINA, andatura di un bastimento quando naviga il più possibile contro la direzione del vento. Si dice anche stringere il vento.


BOMA, asta orizzontale sostenuta per una estremità a snodo sull'albero e per l'altra manovrata dalla scotta. Serve a tener distesa in basso una vela aurica o Marconi.


BOMPRESSO, asta sporgente dalla prua che sostiene i fiocchi.


BORDARE, detto di vela: legare al bordo le scotte delle vele. Metterle su uno dei bordi perché piglino vento e portino.


BORDAME, lato inferiore di ogni vela detto anche linea di scotta.


BORDEGGIARE, è il frequentativo di bordare e significa navigare contro il vento cambiando spesso di bordo.


BORDO, l'uno o l'altro lato di un bastimento. Anche percorso in una direzione di un bastimento che naviga di bolina o stringendo il vento.


BOROSA, cavo passato negli occhielli posti agli angoli o lungo la caduta di una vela per distenderla o per prendere terzaroli.


BOZZELLO, nome generico di tutte le carrucole di legno o di metallo che si adoperano nella marineria.


BRACCIO, misura di lunghezza equivalente a 2 yarde, pari a metri 1828 circa.


BRACCIARE, orientare una vela perché prenda o rifiuti il vento.


BRIGLIA, catena o cavo teso tra il bompresso e il dritto di prua ("tagliamare").


BUGLIOLO, secchio usato a bordo, generalmente di legno.


BUGNA, angolo di una vela in cui vi è l'occhiello che serve a passarvi la legatura con cui si da volta la vela stessa al boma, picco o pennone. Per traslato, anche questa legatura.


BUTTAFUORI, asta che serve a spiegare in fuori una vela o a dare un passaggio a una manovra.


CADUTA, ciascuno dei lati verticali delle vele.


CALAFATAGGIO, guarnizione di stoppa od altro, inserita fra le connessure delle tavole formanti il fasciame o la coperta di un bastimento per impedire l'infiltrazione dell'acqua.


CAPO DI BANDA, orlo superiore del bordo.


CAPONARE, alzare l'àncora a bordo mediante la grua di capone CAPPA, andatura che un bastimento deve prendere per affrontare con i minimi danni il cattivo tempo.


CARENA, parte immersa dello scafo.


CAVIGLIA, sorta di piuolo di legno o di metallo tornito, infilato in apposito supporto (cavigliera), a cui si danno volta cavi e manovre.


Anche una delle impugnature della ruota del timone.


COLLO (prendere a collo), si dice di una vela quando per errata manovra o per improvviso salto di vento, è colpita dal vento a rovescio.


COMENTI, unione delle tavole del fasciame o della coperta.


COPPO, piccola rete da pesca di forma conica, tenuta aperta da un anello di ferro munito di manico. Detta volgarmente anche salario.


CORRIDOI, cavi sottili che servono a tesare ed assicurare l'estremità di qualsiasi manovra dormiente (come per esempio le sartie).


COSTE, pezzi costruttivi trasversali che formano l'ossatura dello scafo.


CUBIA (occhio di cubia), foro od apertura sul bordo, in cui passa la catena dell'àncora.


DERIVA, quello spostamento che soffre un bastimento per la forza della corrente.


DRIZZA, nome generico di ogni manovra corrente per drizzare, issare e mettere a posto qualsiasi cosa, specialmente vele.


FALCHETTA, orlo sporgente superiormente dal bordo.


FASCIAME, tavolame che copre esternamente uno scafo.


FIL DI RUOTA (navigare in fil di ruota), si dice quando un bastimento corre col vento esattamente in poppa.


FORCELLA, elemento di legno o di metallo a forma lunata con cui il boma o il picco si appoggiano all'albero.


FRANCHIA, zona di sicurezza in cui è una nave dopo aver lasciato l'ormeggio, fuori da rischi di secche, scogli, eccetera.


GAFFA, gancio munito di asta che serve ad afferrare un cavo, un'imbarcazione, eccetera. Si dice anche "alighiero" e, volgarmente, "mezzo marinaio".


GALLOCCIA, specie di caviglia di legno o di metallo a forma di T schiacciato su cui si danno volta cavi e manovre.


GAVITELLO, galleggiante generalmente con la forma di due coni riuniti per le basi che serve a sostenere il cavo di un'àncora, a indicare un punto in mare, eccetera.


GOLE, pezzi strutturali a forma di squadra che collegano i due fianchi a prua. Diconsi pure ghirlande.


GOMENA, misura di lunghezza pari a 200 metri circa. Anche grosso cavo.


GRIPPIALE, cavo sostenuto da un gavitello che si getta in mare e, legato al diamante (parte centrale) di un'àncora, serve a spedarla (vedi) tirandola a rovescio nel caso in cui sia rimasta impigliata sul fondo (incattivata)


GROPPO, burrasca improvvisa violenta e di breve durata.


IMBROGLIARE, avviluppare a festoni la vela per sottrarla speditamente all'azione del vento.


INFERIRE, distendere e fissare una vela su di un pennone, picco o boma.


INGAVONARSI, si dice di imbarcazione o bastimento sbandato di circa 90 gradi, e cioè coricato sull'acqua, in modo da avere la coperta pressoché verticale.


INVERGARE, lo stesso che inferire (vedi).


LAPAZZARE, riparare temporaneamente un'asta rotta mediante legature e con l'ausilio di stecche laterali dette lapazze.


LASCO, andatura di un bastimento a vela quando riceve il vento a circa 90 gradi dalla prora, e cioè pressoché sul traverso.


LEGA, misura di distanza pari a tre miglia marine, e corrispondente a metri 5556 circa.


MANOVRA, operazione eseguita a bordo in dipendenza della navigazione, entrata o uscita dai porti, eccetera. Anche cavo facente parte dell'attrezzatura. "Manovra corrente": quel cavo che, passando per i bozzelli assegnati, può essere filato, mollato o tesato al bisogno: la stessa manovra si dice libera mobile, volante. "Manovra dormiente":


quel cavo che resta stabile al posto per tener fermo alcun oggetto.


Cavo che non fila.


MASCELLA, la metà di una forcella (vedi).


MASCONE, la parte esterna e rotonda della prua da ciascuna banda, detto anche masca.


MATAFIONE, ciascuno di quei cavetti che stanno penzoloni sul corpo della vela aperta e servono a legarla, quando si vuol sottrarne una parte al vento forte.


MEDA, colonna o piramide di muratura, asta metallica o di legno che segnala bassifondi o scogliere, e indica il passaggio alle navi.


MEZZANELLA, vela di mezzana di uno yawl.


MIGLIO MARINO, misura di lunghezza pari a un primo d'arco di meridiano e corrispondente a metri 1852 circa.


MURATE, i fianchi di uno scafo.


MURE, i due lati anteriori di uno scafo. Si dice che un bastimento naviga mure a dritta quando riceve il vento sulla dritta, e mure a sinistra quando lo riceve sulla sinistra.


NODO, parlando del cammino di un bastimento significa miglio marino.


In genere il bastimento col bel vento fresco e tutto invelato può correre sino agli otto nodi. Con le vele di fortuna, volendo correre, sino a quindici.


OMBRINALE, ciascuna delle aperture praticate sui fianchi in corrispondenza della coperta per far ricadere l'acqua in mare.


ORDINATA, pezzo di costruzione costituente la costola dell'ossatura del bastimento.


ORZARE, evoluzione di un bastimento per cui avvicina la prua alla direzione da cui spira il vento. Si dice anche venire all'orza.


"Orza!" comando di governare timone e vele all'orza: barra sottovento, forza di vele a poppa, levità a prua.


ORZIERO, si dice di bastimento che ha tendenza a venire all'orza.


PARABORDI, specie di cuscini di cavo intrecciato, sughero o gomma, usati per proteggere i fianchi di un'imbarcazione dagli urti.


PARAMEZZALE, pezzo strutturale interno longitudinale, posto sopra alla chiglia.


PARANCO, apparecchio di forza costituito da due o più bozzelli con relativo cavo.


PATENTE, quella specie di passaporto, nella quale si scrive il nome del bastimento, la sua portata, il numero dell'equipaggio, la provenienza, la destinzione, eccetera.


PENNA, l'estremità poppiera del picco.


PENNONE, ognuna delle aste orizzontali sostenute a metà lunghezza dagli alberi che servono a tener distese le vele quadre.


PICCO, asta obliqua sostenuta anteriormente dall'albero, che serve a tener distesa in alto una vela aurica.


PIEDE, misura di lunghezza equivalente a dodici pollici, pari a metri 0,305 circa.


POGGIARE, evoluzione di un bastimento per cui allontana la prua dalla direzione da cui spira il vento. "Poggia!" comando di volgere di più a seconda del vento. Caricare le vele a prua e scaricare a poppa.


POLLICE, misura di lunghezza pari a millimetri 25 circa.


QUARTA, la quarta parte dell'angolo di 45 gradi, pari a 11 gradi 15 primi, corrispondente alla trentaduesima parte della circonferenza.


Chiamasi anche rombo di bussola.


RANDEGGIARE, navigare molto vicino a una costa.


RITENUTA, legatura con cui si assicura un oggetto perché non venga spostato o vada perduto a seguito dei movimenti dello scafo.


RIVA, si dice per designare tutto ciò che della nave si trova sull'alberatura.


RIZZARE, assicurare mediante una rizza o ritenuta.


ROMBO, lo stesso che quarta (vedi).


SARTIA, ognuno dei cavi che sostengono l'albero lateralmente.


SCALMOTTI, estremità delle coste, sporgenti dal trincarino (vedi) a cui è appoggiato il bastingaggio.


SCAPOLARE, si dice di un bastimento che rimonta e doppia un capo od un ostacolo di stretta misura.


SCARROCCIARE, si dice dello spostamento laterale di un bastimento sul mare prodotto dal vento (scarroccio).


SCASSA, quel grosso pezzo di rovere piantato sul fondo del naviglio, che serve ad incastrarvi dentro il piede dell'albero.


SCOTTA, cavo o manovra che serve a tesare una vela.


SEGNO (mettere a segno), tesare o allascare convenientemente una vela in modo che utilizzi bene il vento.


SENALE, paranco formato con due bozzelli, ognuno di tre pulegge: serve a sollevare grossi pesi, poiché ha un recupero di potenza (teorico) di sei volte.


SFERIRE, il contrario di inferire (vedi).


SOLCOMETRO, apparecchio costituito da un'elica-pesce che si getta in mare a poppa ed è collegata ad un contatore per mezzo di un cavetto:


per effetto del moto del bastimento l'elica-pesce gira, trasmettendo le rotazioni al contatore che registra il cammino percorso.


SPEDARE, distaccare un'àncora dal fondo.


STRAGLIO, cavo che sostiene l'albero verso prua o verso poppa.


STRAORZARE, si dice di imbarcazione o bastimento a vela che, a causa del mare grosso, o per essere sovraccarico di vele, non riesce a tenere la rotta ma accosta (cioè gira) con la prora bruscamente ora da un lato, ora dall'altro.


STROPPO, anello metallico o di cavo che serve per collegare un'asta, il bome, il picco, i bozzelli, eccetera.


TANGONE, vedi "buttafuori".


TERZAROLARE, diminuire la superficie di una vela quando il vento è troppo forte. Si dice anche "fare terzaroli".


TERZAROLO, porzione della vela che è destinata ad essere ripiegata per diminuire la superficie.


TONNEGGIARE, spostare un bastimento in porto o all'ormeggio alando o filando cavi assicurati a terra o su gavitelli o boe.


TORELLO, la prima tavola del fasciame in basso, che corre sui due fianchi lungo alla chiglia.


TRINCA, stretta legatura che serve ad assicurare certe parti dell'attrezzatura o dell'armamento. Si dice che un bastimento è alla trinca, quando tutto è predisposto per affrontare il tempo cattivo.


TRINCARINO, la tavola più esterna della coperta, che corre lungo i fianchi dello scafo. Si dice anche suola.


TRINCHETTINA, la più interna delle vele triangolari ("fiocchi") che si alzano a proravia dell'albero.


TROZZA, attrezzo di forma circolare composto di cavi o armature di ferro con cui il picco della randa si appoggia e scorre sull'albero.


TUGA, sovrastruttura sporgente dalla coperta che serve per dar maggiore altezza ai locali interni.


VELA, la superficie di tela che, spiegata al vento da un'imbarcazione, gli imprime il moto. "Vele quadre": di forma quadrangolare che si inferiscono sui pennoni e si orientano con essi. "Vele di taglio":


quelle che si inferiscono ad antenne, picchi, stralli, e per conseguenza possono essere messe anche di taglio rispetto al vento.


"Vela aurica o randa": di forma trapezoidale è sostenuta in alto dal picco. "Vela Marconi o bermudiana": triangolare, che sostituisce la randa e la controranda abolendo il picco e si inferisce sull'albero e alla boma. "Vele latine": sono triangolari con un solo lato inferito all'antenna e si alzano una per albero.


VENTI, cavi che sostengono lateralmente un'asta muovendola nella direzione voluta.


VERRICELLO, apparecchio a tamburo ad asse orizzontale usato generalmente per salpare le àncore: se ad asse verticale, si dice argano.


YARDA, misura di lunghezza equivalente a 3 piedi, pari a metri 0,914 circa.