Nathaniel Hawthorne
LA LETTERA SCARLATTA
PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
Con grande sorpresa dell'autore e (se gli è concesso dir questo senza suscitare ulteriore scandalo), con suo considerevole divertimento, egli constata che il suo schizzo della vita d'ufficio, che fa da introduzione a "La lettera scarlatta", ha provocato un'agitazione senza precedenti nella rispettabile comunità con cui egli è a diretto contatto. Essa difficilmente avrebbe potuto essere più violenta, invero, se egli avesse incendiato la Dogana e spento le sue ultime braci fumanti nel sangue di un certo venerabile personaggio, contro il quale si suppone che nutra un astio particolare. Poiché la pubblica riprovazione gli peserebbe molto se fosse consapevole di meritarla, l'autore si pregia di dire che ha letto e riletto le pagine introduttive, con il proposito di modificare o cancellare tutto ciò che fosse parso inopportuno, e di riparare come meglio poteva alle iniquità di cui è stato giudicato colpevole. Ma è dell'opinione che le uniche caratteristiche notevoli dello schizzo siano la sua franca e genuina bonomia, e la generale accuratezza con la quale egli ha manifestato le proprie sincere impressioni sui personaggi in esso descritti. Per ciò che riguarda inimicizie o rancori di qualunque sorta, sia personali sia politici, nega recisamente che in lui ci siano tali moventi. Lo schizzo avrebbe forse potuto essere omesso del tutto, senza che il pubblico ci perdesse niente o senza che derivasse detrimento al libro; ma, dato che ha stabilito di scriverlo, egli ritiene che esso non avrebbe potuto essere fatto con animo meglio disposto o più benevolo, né, sin dove lo consentiva il suo talento, con un maggior effetto di veridicità.
L'autore è quindi costretto a ripubblicare il suo schizzo senza cambiare una parola.
Salem, 30 marzo 1850.
LA VECCHIA DOGANA
Introduzione a "La lettera scarlatta"
E' abbastanza curioso che, per quanto sia restio a parlare eccessivamente di me stesso e dei miei affari accanto al caminetto e agli amici più intimi, per la seconda volta in vita mia, nel rivolgermi al pubblico, io abbia ceduto a un istinto autobiografico. La prima volta fu tre o quattro anni fa, quando gratificai il lettore, ingiustificabilmente e senza una ragione plausibile che il lettore indulgente o l'importuno scrittore potessero immaginare, di una descrizione della vita che conducevo nella profonda quiete di un vecchio presbitero. E ora, poiché, malgrado le mie scarse doti quella volta fui così fortunato da trovare un paio d'ascoltatori, agguanto nuovamente il pubblico per il bavero della giacca per narrargli i miei tre anni di esperienza in un ufficio doganale. L'esempio del famoso "P.P., chierico di questa parrocchia" non fu mai seguito con maggior fedeltà. Pare dunque che la verità sia che, quando l'autore sparge i suoi fogli al vento, egli non si rivolga ai tanti che getteranno in disparte il suo libro per non interessarsene più, ma ai pochi che saranno in grado di capirlo meglio di quasi tutti i suoi compagni di scuola e di vita. Alcuni autori, del resto, si spingono ancora più in là, e si abbandonano a confidenze così profondamente rivelatrici che si dovrebbero fare, solo ed esclusivamente, all'unico cuore e spirito capaci di perfetta comprensione, come se il libro stampato, gettato allo sbaraglio nel vasto mondo, dovesse per forza trovare la parte disgiunta della natura dell'autore, e ne completasse l'esistenza ponendolo in intimo contatto con essa.
Anche parlando impersonalmente, però, non è decoroso dire tutto.
Giacché i pensieri, d'altra parte, restano gelati e incomunicabili, a meno che non si stabilisca una reciproca comprensione tra l'oratore e il pubblico, è ammissibile immaginare che un amico, cortese e perspicace, anche se non sia il più intimo, ci stia ad ascoltare: solo allora, vinta la naturale ritrosia da questa confortante consapevolezza, potremo discorrere di quel che accade attorno a noi, e addirittura di noi stessi, pur mantenendo velato il nostro Io più intimo. A queste condizioni ed entro questi limiti un autore può, secondo me, essere autobiografico, senza calpestare né i suoi diritti né quelli del lettore.
Si vedrà poi come questo schizzo della Dogana abbia un'attinenza, di una sorta che ha sempre avuto diritto di cittadinanza nella letteratura, con il resto del libro, perché spiega come la maggior parte delle pagine seguenti sia entrata in mio possesso e fornisce le prove dell'autenticità del racconto che contengono. E' questo in realtà, e nessun altro, il vero motivo per cui mi metto personalmente in rapporto col pubblico: il desiderio di pormi nella mia vera veste di curatore, o poco più, del più prolisso dei racconti che costituiscono il mio libro. Nel seguire questo scopo principale mi è sembrato lecito dare, con pochi tocchi di mio pugno, un pallido ritratto di un genere di vita che finora non era mai stato descritto e di alcuni dei personaggi che ne fanno parte, uno dei quali s'è trovato a essere l'autore.
Nella mia città natale, Salem, si trovava cinquant'anni fa, ai tempi del vecchio King Derby, un molo pieno di movimento, ma che oggi è soffocato da magazzini di legno in rovina, e mostra pochi o nessun segno di vita commerciale, eccetto forse una goletta a palo o un brigantino attraccati a metà della sua malinconica lunghezza, che scaricano pelli; o, più vicino, una goletta della Nuova Scozia, che scarica legna da ardere; all'estremità, dico, di questo molo in rovina, che spesso la marea inonda, e lungo il quale, alla base e sul retro della fila di edifici, le tracce di molti noiosi anni si scorgono su un margine di stentate erbe, c'è una spaziosa costruzione di mattoni, dalle cui finestre anteriori si può ammirare questo poco allegro panorama e tutto il porto. Sul punto più elevato del tetto, esattamente per tre ore e mezzo ogni mattina, sventola o pende, col vento o la bonaccia, la bandiera della repubblica, ma con le tredici strisce disposte verticalmente invece che orizzontalmente, a indicare che il governo dello zio Sam ha destinato l'edificio a usi civili e non militari. La facciata si adorna di un portico di una mezza dozzina di pilastri di legno che reggono un terrazzo, sotto cui una rampa di ampi gradini di granito scende verso la strada. Sulla porta d'ingresso si protende un enorme esemplare dell'aquila americana con le ali spiegate, uno scudo sul petto e, se ricordo bene, un mazzo di saette mischiate assieme e di frecce acuminate in ciascun artiglio. Con l'abituale brutto carattere che distingue questo sfortunato volatile sembra che, con la ferocia insita nel becco e negli occhi e, nel complesso, con il suo atteggiamento truculento, minacci guai a tutta la pacifica comunità, e soprattutto pare che voglia avvertire ogni cittadino, al quale stia a cuore la propria incolumità, di non entrare nello stabile che essa protegge con l'ombra delle sue ali. Malgrado ciò, per rabbiosa che sembri, molti in questo stesso momento stanno cercando riparo sotto le ali dell'aquila federale, credendo, immagino, che il suo petto abbia la morbidezza e la comodità di un guanciale di piume di struzzo.
Ma anche nei momenti migliori l'aquila non è mai affettuosa, e presto o tardi, - e di solito più presto che tardi - finisce col gettar fuori la sua nidiata con un colpo dei suoi artigli, una beccata, o una dolorosa ferita delle sue frecce acuminate.
Nelle crepe del marciapiede che circonda l'edificio sopra descritto (che potremmo chiamare sin d'ora la Dogana del porto) cresce erba sufficiente per mostrare che, ultimamente, non è stato consumato da un numeroso concorso di persone. In alcuni mesi dell'anno però ci sono spesso delle mattine in cui gli affari procedono con un ritmo più vivace. Tali occasioni potrebbero ricordare, ai cittadini più anziani, quel periodo, prima della guerra contro l'Inghilterra, quando Salem era un porto di rilievo, non trascurato, com'è ora, dai suoi mercanti e dai suoi armatori, che lasciano cadere in rovina i moli, mentre le loro speculazioni vanno ad accrescere, senza necessità e poco alla volta, il robusto flusso del commercio di Nuova York o di Boston. In queste mattinate, quando il caso fa sì che attracchino tre o quattro navi contemporaneamente, di solito dall'Africa o dal Sud America, o siano in procinto di salpare verso quelle regioni, sui gradini di granito si sentono scendere e salire passi affrettati. Qui, prima che la sua stessa moglie gli abbia dato il benvenuto, potete incontrare il capitano dal volto bruciato dalla salsedine, appena arrivato in porto, con le carte di bordo rinchiuse in una scatola di latta arrugginita che porta sotto il braccio. Qui viene pure il suo armatore, festoso o tetro, cortese o in preda ai nervi, a seconda che il viaggio appena compiuto gli abbia portato merci che si tramuteranno presto in denaro, o lo abbia sepolto sotto un cumulo di difficoltà, dalle quali nessuno si curerà di tirarlo fuori. Qui abbiamo ancora l'embrione del mercante dalla fronte rugosa, consunto dalle preoccupazioni, con la barba brizzolata, ovvero il giovane impiegato astuto, che sente il gusto di trafficare come il lupacchiotto quello del sangue, e già fa speculazioni con le navi del principale mentre potrebbe starsene a giocare con le barchette nella gora di un mulino. Altra figura della scena è il marinaio pronto a imbarcare, che ha bisogno d'un salvacondotto, o quello che è appena arrivato, pallido e debole, che cerca un certificato per andare in ospedale. E non possiamo certo dimenticare i capitani delle piccole golette rugginose che trasportano legna dalle province britanniche: rozzi lupi di mare, senza l'aria vivace degli yankee, ma che forniscono un elemento tutt'altro che trascurabile nel nostro commercio in declino.
Riunite assieme tutti questi tipi, come capitava a volte, e aggiungetene altri per dare varietà all'ambiente: ed ecco quel che per un po' di tempo faceva della Dogana una scena interessante.
Più spesso, tuttavia, salendo le scale, si vedeva,- nell'ingresso, d'estate, o nelle loro stanze, se il tempo era cattivo o d'inverno - una fila di venerabili figure, sedute sulle loro seggiole antiquate, che avevano il puntale delle gambe posteriori appoggiato al muro. Spesso dormivano, ma ogni tanto era possibile sentirle parlare tra loro, con voci che andavano dall'acuto al brontolio indistinto, e con quella mancanza di energia che distingue gli abitanti degli ospizi e tutti quegli esseri umani che vivono di carità o di lavoro monopolizzato, o di qualsiasi cosa che non siano i propri sforzi indipendenti. Questi vecchi signori, che sedevano, come Matteo, al tavolo delle gabelle, ma che era difficile ne venissero distolti, come lui, per mansioni apostoliche, erano funzionari della dogana.
C'è pure, a sinistra dell'ingresso principale, una certa stanza, o un ufficio, di circa quindici piedi quadrati e di notevole altezza, con due delle sue finestre ogivali da cui si gode il panorama del molo semiabbandonato di cui abbiamo già parlato, e con la terza che dà su uno stretto vicolo e su una parte di Derby Street. Da tutte e tre si possono scorgere le botteghe dei droghieri, dei bozzellai, dei venditori di abiti per marinai e dei fornitori navali, davanti alle porte delle quali si radunano, ciarlando e ridendo, crocchi di vecchi lupi di mare e altri topi di banchina che infestano ogni porto. La stanza non è priva di ragnatele, e sudicia di vecchio intonaco; il pavimento è cosparso di sabbia grigia, come ormai non si usa più da tempo: ed è facile concludere, dalla generale incuria del luogo, che è un santuario dove il genere femminile, con i suoi strumenti magici, la ramazza e lo strofinaccio, accede molto raramente. Per mobilio c'è una stufa con una canna voluminosa, accanto alla quale si trova un vecchio tavolo di pino con uno sgabello a tre gambe, oltre a due o tre sedie prive di imbottitura, ormai eccessivarnente vecchie e instabili; e, per non dimenticare la biblioteca, su qualche scaffale si può trovare una ventina o più di volumi degli "Atti del Congresso", e un massiccio "Digesto delle leggi sulle imposte". Un tubo di lama stagnata attraversa il soffitto, e costituisce un mezzo di comunicazione orale con altre parti dell'edificio. E qui, qualche mese fa, passeggiando su e giù da un angolo all'altro, o appollaiato sullo sgabello dalle lunghe gambe, col gomito sul tavolo, e gli occhi vaganti tra le colonne dei giornali del mattino, avrai riconosciuto, onorevole lettore, lo stesso individuo che ti aveva introdotto amichevolmente nel suo allegro studiolo, dove il sole occhieggiava così piacevolmente tra i rami di salice sul lato di ponente del vecchio presbiterio. Ma ora, se ci andassi a cercarlo, chiederesti invano del sovrintendente Locofoco (1). Il vortice delle riforme lo ha spazzato via dal suo ufficio, e un successore più meritevole di lui è subentrato nella sua carica e intasca i suoi emolumenti.
Questa vecchia città di Salem - il mio luogo di nascita, benché per molti anni, da ragazzo e da adulto, abbia passato la vita altrove - ha, o ebbe, il potere di emozionarmi con una forza di cui non mi sono mai reso conto durante i periodi che ci trascorrevo. Invero, per quel che riguarda il suo aspetto esterno, con la sua superficie piana e monotona, coperta principalmente di case di legno, poche o nessuna delle quali possono aspirare alla bellezza architettonica, con la sua irregolarità, che non è né caratteristica né pittoresca, ma soltanto monotona, la sua lunga strada silenziosa, che si snoda faticosamente attraverso tutta la penisola, con il colle della Forca e la Nuova Guinea da un lato, e il panorama dell'ospizio dall'altro; questi essendo i lineamenti della mia città natale, tanto varrebbe affezionarsi a una scacchiera in disordine. E invece, per quanto io sia sempre più felice altrove, c'è qualcosa in me per la vecchia Salem che, in mancanza di un'espressione migliore, mi accontenterò di chiamare attaccamento. Forse questo sentimento va attribuito alle antiche e profonde radici che la mia famiglia ha messo in questo suolo. Sono ormai quasi due secoli e un quarto dacché l'originario britanno, il primo emigrante che portasse il mio nome, fece la sua comparsa in quel paese selvaggio e circondato dai boschi che doveva diventare una città. Qui sono nati e morti i suoi discendenti, e con questo suolo hanno mischiato la loro materia terrena, così non c'è parte di esso, per piccola che sia, la quale non sia in rapporto di parentela con la forma mortale con cui, per breve tempo, me ne vado a spasso per le strade. In parte, quindi, l'attaccamento di cui parlo è la semplice affinità elettiva della polvere per la polvere. Pochi dei miei concittadini sanno di che si tratti e, d'altronde, poiché i trapianti frequenti sono proficui per la razza, non è necessario che desiderino di saperlo.
Ma questo sentimento ha contemporaneamente la sua parte morale.
L'immagine di quel primo antenato, circondato dalla tradizione familiare di una grandezza fosca e oscura, fu presente alla mia immaginazione di ragazzo fin dove si spinge la mia memoria. Ancora mi ossessiona, e mi fa sentire un senso di continuità col passato, che difficilmente si può attribuire all'effetto della città nel suo stato attuale. Mi pare di avere un più forte diritto di risiederci per via di questo austero, barbuto, ammantellato progenitore dal cappello a cono, che venne in tempi tanto lontani, con la Bibbia e la spada, e calcò le strade intatte con la sua andatura maestosa, e diventò una figura tanto prominente come uomo di guerra e di pace; un diritto ben più forte di quanto io non abbia per la mia persona, perché il mio nome si sente raramente e il mio volto è quasi sconosciuto. Fu soldato, legislatore, giudice; fu rettore della chiesa; ebbe tutte le caratteristiche dei puritani, buone e cattive. Fu parimenti un fiero persecutore, come testimoniano i quaccheri, che lo hanno ricordato nelle loro storie, e che raccontano un esempio della sua estrema severità nei confronti di una donna della loro setta, che c'è da temere venga ricordato più a lungo delle sue azioni migliori, che pure furono molte. Pure suo figlio ereditò lo spirito della persecuzione, e si rese talmente rinomato nel martirizzare le streghe che non è assurdo pensare che il loro sangue abbia lasciato una macchia su di lui. Una macchia così indelebile, in effetti, che le sue vecchie ossa essiccate, nel cimitero di Charter Street, devono ancora recarla, se pure non si sono già ridotte del tutto in polvere! Non so se questi miei antenati hanno creduto opportuno pentirsi, e abbiano chiesto perdono al cielo per le loro crudeltà, o se invece ora sopportino gemendo le pesanti conseguenze di quello che fecero in un diverso stato di esistenza. In ogni caso, io, lo scrittore di questo volume, assumo su di me l'obbrobrio in loro nome, e prego che tutte le maledizioni che sono piovute su di loro (come mi è stato detto, e come sarebbe dimostrato dalle tristi e difficili condizioni della mia famiglia, che durano da un così gran numero di anni) siano allontanate dal loro capo ora e per sempre.
Non c'è dubbio, d'altronde, che entrambi questi puritani duri e accigliati avrebbero considerato sufficiente punizione dei propri peccati vedere che, dopo tanti anni, il vecchio tronco dell'albero genealogico, coperto di tale venerabile musco, non fosse stato capace di produrre come ultimo germoglio che uno sfaccendato come me. Nessuno degli intenti da me perseguiti sarebbe parso loro lodevole; nessuno dei miei successi (se la mia vita, oltre la cerchia domestica, fosse mai stata illuminata dal successo) sarebbe parso degno di qualche considerazione ai loro occhi, se non addirittura disonorevole. "Che cosa fa?" mormora l'ombra grigia di uno dei miei progenitori all'altra. "Lo scrittore di romanzi! Che razza di professione, che maniera di rendere gloria a Dio, o di essere utile all'umanità nella sua vita temporale e nella sua generazione può essere questa? Tanto valeva che questo degenerato facesse il musicante!". Sono questi i complimenti che ci scambiamo io e i miei lontani antenati attraverso l'abisso del tempo! Eppure, anche se si prendono gioco di me a loro piacimento, è innegabile che numerosi tratti del loro carattere si siano intrecciati col mio.
Piantata in profondità, nella prima infanzia e nell'età puerile della città, da questi due uomini onesti ed energici, la razza è rimasta da allora, e sempre anche mantenendo intatta la propria rispettabilità, senza che mai, per quanto mi risulta, un membro indegno la disonorasse; ma anche, d'altro canto, raramente o mai segnalandosi per qualche fatto memorabile, dopo le due prime generazioni, e senza neppure cercare di mettersi in mostra. A poco a poco sono quasi scomparsi dalla scena, come le vecchie case, qua e là per le strade, restano ricoperte ai piani inferiori dall'accumularsi di nuova terra. Di padre in figlio, per più di cento anni, presero la via del mare; a ogni generazione un capitano dal capo incanutito passava dal cassero alla quiete familiare, mentre in sua vece un ragazzo di quattordici anni ereditava il suo posto davanti all'albero di maestra, sfidando la spuma salmastra e le tempeste che avevano infierito contro suo padre e il padre di suo padre. Anche il ragazzo, a suo tempo, passava dal castello di prua al quadrato, e dopo aver trascorso una tempestosa virilità tornava dai suoi pellegrinaggi per invecchiare, morire e mischiare la sua polvere con quella della terra natale. Questo lungo legame di una famiglia con uno stesso luogo, come culla e come tomba, crea una sorta di parentela tra l'essere umano e il posto, che non dipende in alcun modo dal fascino del panorama o da un condizionamento morale del primo. Non si tratta d'affetto, ma d'istinto. Il nuovo abitante, giunto lui stesso da un paese straniero, o di vicina ascendenza straniera, può accampare ben pochi diritti al nome di salemita; gli manca l'idea di quella tenacia da ostriche con la quale un vecchio colonizzatore, che ci si è stabilito da più di due secoli, si attacca al luogo dove sono state concepite le generazioni dei suoi discendenti. Non importa che il paese non gli dia alcuna gioia:
non conta che sia stanco delle vecchie case di legno, del fango e della polvere, della mortale monotonia del luogo e dei sentimenti che ci aleggiano, del vento gelido dell'est, e dell'atmosfera sociale ancor più gelida; per lui tutte queste cose, e qualunque altro difetto peggiore veda o immagini, non significano nulla.
L'incantesimo sopravvive, e con tanta potenza da fargli apparire il paese natìo come un paradiso. Così è stato nel mio caso.
Presentii sempre come un destino che Salem sarebbe stata anche la mia dimora, perché tutto quel complesso di lineamenti e di caratteristiche che per tanto tempo era stato familiare qui (e per sempre, poiché ogni volta che un membro della stirpe veniva posto nel sepolcro, un altro ne riprendeva la marcia di vedetta per la via principale), potesse ancora, per la breve durata della mia vita, essere visto e riconosciuto nella vecchia città. E d'altronde questo sentimento stesso è la riprova che il legame, il quale è divenuto malsano, debba essere infine reciso. La natura umana non può prosperare, proprio come una patata, se viene piantata e ripiantata nello stesso suolo immiserito per una serie troppo lunga di generazioni. I miei figli sono nati altrove e, fin tanto che potrò influire sul loro destino, porranno le radici in un suolo novello.
Quando mi separai dal vecchio presbiterio, fu soprattutto quest'attaccamento strano, fiacco e triste per la mia città che mi portò a occupare un posto nell'edificio di mattoni dello zio Sam, mentre avrei potuto trovare qualche altra occupazione altrettanto buona, e forse migliore. Il fato incombeva su di me. Non era né la prima né la seconda volta che me ne andavo, in apparenza definitivamente, ma poi ritornavo, come la monetina contraffatta, o come se Salem fosse per me l'inevitabile centro dell'universo.
Fu così che, un bel mattino, salii la rampa di scale di granito, con in tasca la nomina firmata dal presidente, e fui presentato all'assemblea di gentiluomini che avrebbero dovuto alleggerirmi di una parte delle mie pesanti responsabilità di ispettore capo alla Dogana.
Nutro forti dubbi, o meglio, non ho dubbi di sorta, sulla possibilità che altri pubblici funzionari, civili o militari, degli Stati Uniti si siano mai trovati a dirigere un corpo patriarcale di veterani simile al mio. Quando li vidi, riuscii a stabilire immediatamente dove si trovasse l'Abitante più Vecchio.
Erano più di vent'anni che la posizione indipendente dell'esattore aveva mantenuto la Dogana di Salem al di fuori del turbine delle vicissitudini politiche che solitamente rendono così aleatorie le cariche pubbliche. Come soldato, e come il miglior soldato della Nuova Inghilterra, l'esattore si era tenuto ben saldo sul piedestallo delle sue valorose gesta e, poiché lui stesso se ne stava al sicuro per la saggia longanimità delle amministrazioni successive durante le quali era rimasto in carica, era stato la salvezza dei suoi subordinati in più di un momento di pericolo e di subbuglio. Il generale Miller era sostanzialmente un conservatore: un uomo sulla cui natura affabile le abitudini avevano un'influenza non trascurabile, che si attaccava con tenacia ai volti noti, ed era difficile che li cambiasse, anche se il mutamento avrebbe prodotto indiscutibili vantaggi. Fu per questo che, assumendo la direzione del mio ufficio, trovai uomini scarsi di numero ma non di anni. Erano per la maggior parte vecchi capitani di mare che, dopo essere stati sballottati per tutti i mari e aver resistito con vigore ai colpi violenti della vita, avevano finito col ritirarsi in questa baia tranquilla, dove, con poche preoccupazioni, tranne i periodici terrori delle elezioni presidenziali, avevano acquistato un nuovo ritmo di vita. Per quanto non fossero meno soggetti del loro prossimo all'età e alle malattie, dovevano certamente possedere un qualche talismano che teneva in scacco la morte. Due o tre membri del gruppo, a quel che mi si disse, essendo reumatizzati e gottosi, o forse inchiodati al letto, non si sognavano neppure di fare la loro apparizione alla Dogana per gran parte dell'anno, ma, dopo un inverno letargico, arrancavano fuori casa sotto il caldo sole di maggio o di giugno, si avviavano pigramente verso quello che chiamavano il dovere e, quando a loro pareva e piaceva, se ne tornavano a letto. Mi devo riconoscere colpevole dell'accusa di avere aiutato a esalare l'ultimo respiro più d'uno di questi venerabili servitori della repubblica. Su mia richiesta ebbero la concessione di riposare dalle loro ardue fatiche, e poco tempo dopo, poiché credo onestamente che desiderassero vivere soltanto per servire il loro paese, si ritirarono in un mondo migliore. E' una pia consolazione per me ritenere che sia stato proprio il mio intervento a concedergli tempo sufficiente per potersi pentire di tutto il male e delle malversazioni in cui è luogo comune pensare che cada ogni funzionario di dogana. Né la porta anteriore né quella posteriore della Dogana si aprono sulla strada del paradiso.
La maggior parte dei miei funzionari era costituita da "whigs". Fu un bene per la loro veneranda confraternita che il nuovo sovrintendente non fosse un politico e, malgrado la sua fede democratica, non avesse ricevuto e non mantenesse la sua carica per aderenze di partito. Altrimenti se un politicante attivo fosse stato collocato in quel posto di rilievo per assumersi il facile compito di sopraffare un esattore "whig" che le malattie trattenevano dall'esercitare personalmente il suo incarico, con ogni probabilità neppure uno dei membri del vecchio corpo avrebbe potuto respirare l'aria dell'ufficio per più di un mese dall'arrivo dell'angelo sterminatore alla Dogana. Secondo il codice di prammatica in casi del genere, se un politico avesse messo sotto la ghigliottina tutte quelle teste canute, non avrebbe fatto niente di più del suo dovere. Era del resto abbastanza evidente che i vecchi si aspettavano un servizio del genere da parte mia. Mi addolorò, e nello stesso tempo mi divertì, osservare i terrori che si accompagnarono al mio arrivo; vedere guance rugose, mummificate da mezzo secolo di tempeste, diventare grigio- cenere all'occhiata di un individuo innocuo come me; sentii, quando si rivolsero a me, tremare voci che, in giorni ormai lontani, avrebbero ridotto al silenzio perfino Borea urlando nei megafoni. Questi eccellenti vegliardi sapevano che, in omaggio a regole ben definite, e per quanto riguardava alcuni di loro, aggravate dalla loro inefficienza nel lavoro, avrebbero dovuto cedere il posto a uomini più giovani, più ortodossi politicamente, e comunque più idonei di loro al servizio del nostro comune zio.
Anch'io lo sapevo, ma non riuscii mai a trovare il coraggio di mettere in pratica questa mia convinzione. A mia profonda e meritata vergogna, perciò, e con grande svantaggio della mia coscienza amministrativa, continuarono, per tutta la durata del mio incarico, ad arrancare per i moli, e a bighellonare per le scalinate della Dogana. Passavano buona parte del loro tempo dormendo negli angoli abituali, con le sedie appoggiate al muro, ma svegliandosi una o due volte durante la mattinata per annoiarsi a vicenda con l'ennesima narrazione di vecchie storie di mare e con facezie ammuffite, che erano ormai diventate parole d'ordine tra di loro.
Presto si scoprì, immagino, che il nuovo sovrintendente non era poi molto temibile. Perciò, col cuore più leggero e la felice consapevolezza di essere impiegati utilmente- per vantaggio loro, almeno, se non per quello del nostro amato paese -, questi bravi vecchi continuarono a compiere le loro varie mansioni. Con quanta sagacia, di sotto ai loro occhiali, scrutavano nelle stive delle navi! Facevano un sacco di storie per cose di poco conto, e a volte era stupefacente la dabbenaggine con cui si lasciavano sgusciare tra le dita quelle di maggior importanza. Quando si verificava una sventura del genere, se, per esempio, un intero carico di merce pregiata veniva contrabbandato a terra, magari in pieno giorno, e proprio sotto i loro nasi fiduciosi, nulla superava l'attenzione e l'alacrità con cui essi procedevano a mettere sotto lucchetto, a chiudere a doppia mandata, a sigillare con nastri e ceralacca tutti i boccaporti del vascello colto in fallo. Invece di un rabbuffo per la precedente negligenza, la circostanza sembrava a loro meritare un elogio per la loro commendevole cautela dopo che il pasticcio era avvenuto: un grato riconoscimento dello zelo mostrato soltanto quando non c'era più niente da fare.
A meno che non si tratti di esemplari particolarmente anticipati, è mia stupida abitudine affezionarmi alla gente. Il lato migliore del carattere di chi mi sta vicino, se esiste, è quello che viene per primo nella mia considerazione, e costituisce il contrassegno del tipo sotto il quale classifico il mio uomo. Dato che quasi tutti questi vecchi funzionari della Dogana avevano dei lati buoni, e poiché il mio atteggiamento nei loro riguardi (che era paterno e protettivo) favoriva lo sviluppo di sentimenti d'amicizia, ben presto presi a benvolerli tutti. Era piacevole, nelle mattine d'estate, quando il caldo torrido, che quasi liquefaceva gli altri membri del consorzio umano, comunicava ai loro organismi intorpiditi un gradevole tepore, era piacevole, dicevo, ascoltarli chiacchierare all'ingresso posteriore, tutti seduti in fila contro il muro, come al solito, mentre le arguzie congelate delle passate generazioni si scioglievano al sole e salivano alle loro labbra con gorgoglii di riso. Esteriormente l'allegria delle persone anziane ha molto in comune con la gioia dei bambini: l'intelletto e un profondo senso dell'umorismo non hanno molto a che farci; per entrambi si tratta di un bagliore che gioca sulla superficie, e dà un'aria solare e gioiosa al ramoscello verdeggiante e al tronco grigio e in disfacimento. In un caso però è vero sole; nell'altro, somiglia piuttosto alla luminescenza fosforescente del legno marcito.
Sarebbe una vergognosa ingiustizia, prego il lettore di comprendermi, dipingere tutti i miei vecchi amici come un gruppo di rammolliti. In primo luogo, non tutti i miei collaboratori erano vecchi: c'erano tra loro uomini nel pieno vigore delle loro forze, di abilità e di energia collaudate, e nel complesso superiori a quel sonnacchioso e sottomesso modo di vivere cui li aveva condannati la loro cattiva stella. Oltre a questo, in numerosi casi i bianchi capelli dei vecchi erano il graticcio che copriva una dimora intellettuale in buone condizioni. Tuttavia, per quel che riguarda la maggioranza del mio corpo di veterani, non farò torto a nessuno rappresentandoli come un'accolta di anime stanche, che non avevano raccolto attraverso le loro svariate esperienze nulla che valesse la pena di conservare. Sembravano aver buttato via gli aurei granelli della saggezza empirica, che avevano avuto tante occasioni di raccogliere, e avere invece conservato gelosamente nella memoria soltanto le scorie. Parlavano con interesse molto più profondo della colazione del mattino, o del pranzo di ieri, di oggi o di domani, che del naufragio di quaranta o cinquant'anni prima, e di tutte le meraviglie del mondo di cui erano stati testimoni con gli occhi della giovinezza.
Il padre della Dogana, il patriarca, oserei dire, non solo di questo modesto squadrone di funzionari, ma dell'intero rispettabile corpo degli scaldasedie degli Stati Uniti, era un certo ispettore stabile, che non sarebbe stato ingiusto chiamare figlio legittimo del sistema tributario, del quale era impregnato fino al midollo, dal momento che il padre, un colonnello dell'epoca della rivoluzione, già esattore nel porto, aveva creato un ufficio apposta per lui, e l'aveva incaricato della sua direzione in un periodo così remoto che pochi viventi possono ora ricordarlo. Questo ispettore, quando lo conobbi, aveva all'incirca ottant'anni, ed era senza dubbio uno degli esemplari più impressionanti di pianta sempreverde che sia dato scoprire anche in una vita intera dedicata a tale ricerca. Le guance vive, la figura soda ben attillata in una giubba blu dai bottoni brillanti, il passo rapido e forte, l'aria allegra e coraggiosa, sembrava, nell'insieme, se non certamente giovane, almeno una specie di nuovo congegno di madre natura in forma d'uomo, che gli anni e le malattie non riuscivano a sfiorare. La sua voce e le sue risate, che echeggiavano di continuo tra le mura della Dogana, non avevano il tono tremulo e catarroso di quelle dei vecchi: venivano baldanzose dai polmoni, come il canto di un gallo o lo squillo di un trombone. Osservandolo da un punto di vista puramente zoologico - e c'era ben poco da osservare, all'infuori di questo- era un oggetto che dava notevole soddisfazione, per la sua perfetta salute e per l'integrità del suo organismo, e per la capacità che manteneva, a un'età così avanzata, di godersi tutte, o quasi tutte, le delizie che desiderava o che poteva immaginare. La spensierata confidenza della sua vita alla Dogana, con un regolare stipendio e con lievi e sporadiche apprensioni di destituzione, aveva indubbiamente contribuito a far sì che il tempo usasse una mano leggera nei suoi confronti. Le cause originali e più potenti, però, andavano ricercate nella rara perfezione della sua natura animale, nelle modeste proporzioni del suo intelletto, e nella scarsa miscela di ingredienti morali e spirituali; queste ultime qualità, anzi, erano appena sufficienti a far sì che il vecchio gentiluomo non camminasse carponi. Non aveva capacità razionali né profondità di sentimenti, e tanto meno preoccupazioni dovute alla propria sensibilità: nulla, a farla breve, all'infuori di pochi istinti basilari che, con l'aiuto del carattere gioviale che era una conseguenza inevitabile della sua robusta salute, facevano egregiamente, e con soddisfazione generale, la parte che sarebbe spettata al cuore. Aveva avuto tre mogli, tutte sotterrate da tempo; era padre di venti figli, la maggior parte dei quali, nelle età più svariate, aveva fatto ritorno alla polvere. Si sarebbe potuto credere che un dolore simile fosse bastato a venare di grigio anche l'indole più spensierata, ma nel caso del nostro ispettore non era certo così! Bastava un rapido sospiro a sollevarlo del pesante fardello di questi tristi ricordi, e già un attimo dopo era di nuovo pronto allo scherzo come un bimbo inesperto: ben più pronto del giovane impiegato dell'esattore, che a diciannove anni era di gran lunga il più maturo dei due.
Era mia abitudine studiare e osservare questo personaggio patriarcale con curiosità più viva di quella suscitata in me da qualsiasi altro esemplare d'umanità del luogo. Era proprio un fenomeno singolare: così perfetto, da un punto di vista, e così fatuo, così deludente e inafferrabile, un nulla assoluto, da tutti gli altri. Dovetti giungere alla conclusione che era privo di anima, di cuore e di mente: non c'erano in lui altro che degli istinti, e pur tuttavia il poco che conteneva era stato assortito con tanta destrezza che non si provava nessun penoso senso di disagio al suo contatto, ma piuttosto, da parte mia, un completo appagamento in ciò che riuscivo a trovarci. Sarebbe stato difficile, e lo era realmente, attribuirgli un'esistenza futura, vedendolo così terreno e materiale; ma certo la sua esistenza attuale, ammesso che dovesse terminare col suo ultimo respiro, era molto piacevole, priva com'era di responsabilità più pesanti di quelle degli animali dei campi, ma con una possibilità di godimento molto maggiore della loro, e con la stessa beata immunità dallo squallore e dall'ottundimento dell'età.
In un campo però godeva di un ampio vantaggio sui suoi confratelli a quattro gambe: era abilissimo nel ricordare i buoni pasti, la cui consumazione aveva costituito per lui una parte non trascurabile della felicità della sua vita. La ghiottoneria assumeva in lui connotati tutt'altro che urtanti, e sentirgli descrivere un arrosto non era meno stuzzicante per l'appetito dei sottaceti o di un'ostrica. Essendo privo di qualità più elevate, e quindi non sacrificando né guastando neppure una minima parte del suo patrimonio spirituale col dedicare tutte le sue energie e il suo ingegno al servizio della soddisfazione e della delizia del suo stomaco, mi faceva sempre piacere sentirlo dissertare sul pesce, sul pollame, sulla carne macellata, e sul modo migliore di presentarli in tavola. I suoi ricordi di belle bisbocce, per quanto remota fosse la data del banchetto, sembravano portare alle narici gli aromi di porchetta o di tacchino. C'erano sul suo palato sapori che vi avevano dimorato non meno di sessanta o settant'anni, e parevano ancora freschi come quello della braciola di montone che aveva appena finito di divorare per colazione. Gli ho sentito schioccare la lingua per pranzi, i cui ospiti, lui eccettuato, erano tutti pasto dei vermi da tempo. E' stupefacente rendersi conto di come i fantasmi dei pasti trascorsi gli sorgessero dinanzi di continuo: non come furie a chiedere il contrappasso, ma con una specie di gratitudine per il suo apprezzamento d'un tempo, nel tentativo di riportarlo a una serie di godimenti interminabili, sfumati e sensuali a un tempo. Una lombata di manzo, un posteriore di vitello, una costoletta di maiale, un certo pollo, o un tacchino particolarmente notevole che avevano forse adornato la sua tavola all'epoca del primo Adams, erano ancora vivi nel suo ricordo, mentre tutta la successiva odissea della nostra razza, e tutti gli avvenimenti che avevano rallegrato o rattristato la sua carriera personale, erano trascorsi su di lui con lo stesso effetto di una brezza momentanea. La disgrazia più grave nella vita del vecchio era stata, a quel che potei capire, la sua disavventura con una certa oca, che visse e morì una quarantina d'anni fa: un'oca dall'aspetto molto promettente, ma che, a tavola, si era rivelata così coriacea che neppure il trinciante era riuscito a scalfirne la carcassa, e si era dovuto ricorrere a un'ascia e a una sega a mano.
Ma è ora di tralasciare questo ritratto, sul quale non mi dispiacerebbe, d'altronde, dilungarmi ancora per un pezzo, perché, di tanti uomini che ho conosciuto, costui era senza dubbio il più adatto a fare il funzionario di dogana. Un grandissimo numero di persone, per cause che non ho il tempo di specificare, vengono a patire di un certo deterioramento morale in una vita come questa.
Il vecchio ispettore non apparteneva alla loro razza e, se avesse dovuto continuare a ricoprire il suo posto fino alla fine dei tempi, non sarebbe stato né migliore né peggiore di quanto era stato fino ad allora, e si sarebbe messo a tavola con lo stesso buon appetito.
C'è ancora un'immagine, senza la quale la mia galleria di ritratti della Dogana sarebbe inspiegabilmente incompleta, ma che le poche occasioni di osservarla che ho avuto mi costringono ad abbozzare appena nelle sue linee principali. E' quella dell'esattore, il nostro generoso vecchio generale che, dopo il suo brillante servizio nell'esercito e dopo aver governato un territorio selvaggio nel West, era venuto qui, vent'anni prima, a trascorrere il declino della sua movimentata e onorevole esistenza. Il coraggioso soldato contava già settant'anni o all'incirca, e proseguiva quel che gli restava della sua marcia terrena appesantito da acciacchi che neppure la musica marziale dei suoi corroboranti ricordi poteva alleggerire di molto. Tremante era ormai il passo che era stato in testa durante la carica. Era solo con l'aiuto di un servitore, e puntellandosi pesantemente con la mano alla balaustra di ferro, che il vecchio poteva salire lentamente e penosamente gli scalini della Dogana per raggiungere, dopo essersi trascinato a fatica sul pavimento, la sua solita sedia accanto al caminetto. Là si sedeva osservando con una certa quale serenità confusa le figure che andavano e venivano, tra il fruscio delle carte, le continue bestemmie, le discussioni d'affari, e le occasionali chiacchiere dell'ufficio: suoni ed eventi, questi, che sembravano imprimersi sui suoi sensi solo indistintamente, senza riuscire ad aprirsi la strada fino alla sfera contemplativa interiore. Il suo aspetto, in questi momenti di riposo, era mite e benevolo. Se si chiedeva il suo parere, compariva sul suo volto un'espressione di cortesia e di interessamento che dimostrava il sussistere della luce dentro di lui, e che era soltanto lo schermo materiale della lampada intellettuale che intercettava i raggi al loro passaggio. Quanto più ci si addentrava nella sostanza della sua mente, tanto più sana essa appariva. Quando non gli si chiedeva più di parlare o di ascoltare, operazioni che gli costavano entrambe un visibile sforzo, il suo volto subito si ricomponeva in un'espressione di serenità. Cogliere il suo sguardo non era penoso, perché, seppure vago, mancava in esso il rimbambimento della vecchiaia. La sua complessione, in origine forte e massiccia, non era ancora caduta completamente in sfacelo.
Osservare e definire il suo temperamento, tuttavia, con tali svantaggi, era un compito altrettanto difficile quanto ricostruire un'antica fortezza, come Ticonderoga (2), avendone sott'occhio le rovine grigie e sparpagliate. Può darsi che un muro, qua e là, sia rimasto in piedi, ma altrove non resta che un cumulo informe, ingombrante per la sua stessa solidità, e semicoperto, dopo lunghi anni di pace e di incuria, da piante ed erbe selvatiche.
Ciò nonostante, osservando con affetto il vecchio guerriero, poiché, per insufficienti che fossero i miei contatti con lui, come quelli di qualunque bipede o quadrupede lo conoscesse, è proprio d'affetto che si può parlare, riuscii a delineare gli aspetti più caratteristici del suo ritratto. Le qualità buone ed eroiche che s'imponevano all'attenzione dimostravano che non era per puro caso, ma a buon diritto, che si era acquistato la sua fama. Non credo che il suo spirito fosse mai stato contrassegnato da un'attività frenetica; penso piuttosto che, in ogni periodo della sua vita, avesse avuto bisogno di un impulso esterno per mettersi in moto; ma una volta avviato, con degli ostacoli da superare e un obiettivo dignitoso da raggiungere, non era uomo da arrendersi o da fallire. Il calore che aveva pervaso la sua persona, e che non si era ancora spento, non era mai stato di quello che si accende e brilla come un lampo, ma piuttosto un'incandescenza cupa come quella del ferro in una fornace.
Ponderazione, solidità, fermezza: ecco la sua espressione di riposo, anche in una fase di decadenza come quella in cui si trovava innanzi tempo, nel periodo del quale parlo. Ma potevo immaginare, anche allora, che in conseguenza di qualche stimolo che raggiungesse direttamente la sua coscienza risvegliato da uno squillo di tromba, abbastanza forte da scuotere tutte quelle energie che ancora non si erano spente, ma giacevano in letargo - fosse ancora capace di gettar via da sé le sue malattie come una veste da infermo, lasciando dietro di sé la stampella da vecchio per impugnare la spada e tornare ancora una volta guerriero. Del resto, anche in un momento del genere non avrebbe perso la calma abituale. Uno spettacolo di questo tipo, però, era confinato nel regno della fantasia: non lo si poteva né prevedere né desiderare.
Quello che notai in lui- con tanta chiarezza come gli indistruttibili bastioni della vecchia Ticonderoga, già citata come la similitudine più appropriata, - erano i tratti di una pazienza tenace e meditata, che molto probabilmente era stata ostinazione nella prima gioventù; di un'integrità che, come tutte le altre doti, esisteva sotto forma di una massa pesante, ed era tanto maneggevole e malleabile quanto una tonnellata di minerale di ferro; e di una bontà che, nonostante tutta la violenza con la quale fece avanzare le baionette a Chippewa o a Fort Erie, non era di uno stampo meno genuino di quella di tutti i combattivi filantropi del nostro tempo. Aveva ucciso degli uomini con le sue mani: certamente dovevano essere caduti come fili d'erba sotto la falce, davanti alle cariche cui il suo spirito comunicava la propria trionfante energia; ma, fosse quel che fosse, non ci fu mai nel suo animo tanta crudeltà da fargli soffiar via la polvere dalle ali di una farfalla. Non ho mai conosciuto un uomo alla cui innata gentilezza mi sarei rivolto con più fiducia.
Molti particolari - e, certamente, di quelli che contribuiscono in non minima parte a dare rassomiglianza a un ritratto dovevano essere svaniti od offuscati prima che conoscessi il generale.
Tutti gli attributi che non contengono altro che grazia sono i primi ad andarsene, e la natura non abbellisce il rudere umano con boccioli di nuova bellezza che pongano le radici e traggono nutrimento dalle rughe e dalle screpolature della vecchiaia, come fa con le violacciocche sulla vecchia fortezza di Ticonderoga.
Eppure c'era ancora qualcosa che valeva la pena di osservare, anche dal punto di vista della bellezza. Una scintilla d'arguzia, ogni tanto, si apriva la strada tra il velo che ci circondava, e si rifletteva piacevolmente sui nostri volti. Un tratto dell'eleganza naturale, così difficile a trovarsi nel sesso maschile trascorsi gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, appariva nell'amore che il generale aveva per la vista e per il profumo dei fiori. Si potrebbe credere che, da vecchio soldato, apprezzasse soltanto la sanguinosa corona d'alloro sulla sua fronte; e invece la sua passione per la famiglia dei fiori era degna di una fanciulla.
Là, accanto al caminetto, era solito sedersi il generale, mentre il sovrintendente (anche se raramente, quando non poteva farne a meno, si assumeva il difficile compito d'impegnarlo in una conversazione) amava osservare il suo comportamento tranquillo e quasi sonnolento da una certa distanza. Sembrava lontano da noi, anche se lo vedevamo seduto a pochi passi, remoto, anche se passavamo accanto alla sua sedia; irraggiungibile, anche se ci sarebbe bastato allungare le mani per stringere le sue. Forse viveva una vita più reale entro i suoi pensieri che in mezzo all'ambiente inadatto dell'ufficio dell'esattore. Le evoluzioni della sfilata, il tumulto della battaglia, il rimbombare della vecchia musica eroica, ascoltata trent'anni prima, tutte queste scene e questi suoni sopravvivevano probabilmente nella sua immaginazione. Attorno a lui i commercianti e i capitani, gli eleganti impiegati e i rozzi marinai, andavano e venivano; il movimento di questa vita commerciale e doganale lo circondava col suo lieve mormorìo: ma il generale sembrava non avere il più lontano rapporto né con gli uomini né coi loro affari. Era fuori posto come lo sarebbe stato una vecchia spada (ormai arrugginita, ma che aveva lampeggiato un tempo in prima linea, e che mostrava ancora dei vivi riflessi lungo la lama) tra i calamai, le cartelle e i regoli di mogano sulla scrivania dell'esattore.
Una cosa mi aiutava a rievocare e a ricostruire nella fantasia quello che doveva essere stato il prode soldato della frontiera del Niagara, l'uomo di tempra semplice e sincera. Si trattava del ricordo delle sue memorabili parole: "Proverò, signore!", dette al culmine di un'impresa disperata ed eroica, nelle quali alitavano l'anima e lo spirito dell'ardimento della Nuova Inghilterra, che aveva coscienza di tutti i rischi e li affrontava tutti. Se, nel nostro paese, il valore fosse ricompensato con onori araldici, questa frase che sembra così semplice da pronunciare, ma che lui solo disse di fronte a un compito così pieno di rischio e di gloria, sarebbe il motto migliore e più adatto per lo stemma del generale.
Giova molto alla salute intellettuale e morale dell'uomo la compagnia di persone diverse da lui, che si curino poco delle sue occupazioni, costringendolo a uscire dalla propria sfera di interessi perché si renda conto delle loro qualità. Le peripezie della vita mi hanno spesso offerto questo vantaggio, ma mai con tanta pienezza e varietà come durante la mia permanenza nell'ufficio. C'era un uomo, soprattutto, osservando il quale ero indotto a costruirmi un nuovo ideale dell'ingegno. Le sue doti erano senza possibilità di dubbio quelle di un uomo d'affari: era svelto, intelligente, lucido; con un occhio penetrava tutte le difficoltà, ed era fornito di una facoltà speciale, la quale faceva sì che esse scomparissero come al tocco di una bacchetta magica. Cresciuto nella Dogana fin dall'adolescenza, quello era il campo d'attività a lui più adatto; e i numerosi intrichi del mestiere, tanto molesti per un profano, avevano per lui la regolarità di un sistema compreso alla perfezione. Ai miei occhi, rappresentava l'ideale della categoria. Era, in un certo senso, la Dogana stessa, o, comunque, la molla principale che ne teneva in movimento i vari ingranaggi rotanti, poiché in istituzioni come quella, dove i funzionari sono nominati perché badino al proprio tornaconto, e raramente in considerazione della loro capacità di eseguire il compito a loro affidato, è inevitabile che essi finiscano col cercare altrove l'abilità che non è in loro. Era così che, come un magnete attrae la limatura di ferro, il nostro uomo d'affari attirava verso di sé tutte le difficoltà che incontravano gli altri. Con una cordiale condiscendenza, e una gentile sopportazione della nostra ottusità, che a uno con una forma mentis del genere doveva sembrare poco meno che delittuosa, trasformava in un batter d'occhio ciò che prima era sembrato incomprensibile in qualcosa di chiaro come la luce del sole. I commercianti non avevano meno stima per lui di quanta ne avessimo noi, che eravamo i suoi amici intimi. La sua onestà era proverbiale; raggiungeva in lui più una dignità di legge naturale che di principio o di scelta, né poteva essere altrimenti: in una mente così eccezionalmente chiara e precisa come la sua, I'onestà e la regolarità nell'amministrazione erano una condizione imprescindibile. Una macchia sulla coscienza, dovuta a qualsiasi cosa fosse in relazione con il suo mestiere, avrebbe preoccupato un uomo del suo stampo nello stesso modo, anche se con più asprezza, di un errore nella tenuta dei conti, o di una macchia d'inchiostro sulla bella copia di un libro mastro. Era qui, insomma, che, caso raro nella mia vita, avevo incontrato un uomo perfettamente adatto alla situazione in cui si trovava.
Queste erano alcune delle persone con cui mi trovai a essere in rapporto. Non me la presi con la Provvidenza per avermi gettato in una situazione così poco affine alle mie precedenti abitudini; e mi accinsi seriamente a trarne il maggior profitto possibile. Dopo essere stato compagno della sognante confraternita della Brook Farm in progetti laboriosi e irraggiungibili; dopo aver vissuto per tre anni dominato dalla sottile influenza di un intelletto come quello di Emerson; dopo quei giorni di libertà primordiale sull'Assabeth, indulgendo a fantasticherie sfrenate, seduti attorno al nostro falò di rami divelti, insieme con Ellery Channing; dopo aver parlato con Thoreau di pini e di reliquie indiane nel suo eremo di Walden; dopo essere diventato esigente a contatto della cultura classica e raffinata di Hillard; dopo essermi permeato di sentimenti poetici al focolare di Longfellow, era tempo ormai di esercitare altre facoltà del mio spirito, e di nutrirmi di cibi che fino a quel momento mi avevano messo ben poco appetito. Anche il vecchio ispettore poteva apparire attraente, come cambiamento di dieta, a chi avesse conosciuto Alcott (3). Mi parve anzi, in un certo senso, una prova di equilibrio spirituale e di sana organizzazione interiore l'essere riuscito, avendo presente il ricordo di tali compagni, ad ambientarmi rapidamente con gente di qualità così diverse, senza mai lamentarmi del cambiamento.
La letteratura, con le sue mire e i suoi esercizi, contava ora molto poco ai miei occhi. In quel periodo non mi curavo dei libri:
erano per me un mondo separato. La natura, eccetto quella umana, la natura che si esprime nella terra e nel cielo, mi era in un certo senso nascosta, e tutta la delizia intellettuale che avevo provato nello spiritualizzarla mi era sfuggita dalla mente. Una dote, una facoltà si era, se non allontanata, per lo meno addormentata dentro di me. In tutto ciò avrebbe potuto esserci qualcosa di triste, di insopportabilmente pesante, se non fossi stato consapevole del fatto che dipendeva soltanto da me rievocare quel che c'era stato di positivo nel mio passato. Era vero forse che questa era una vita che non si sarebbe potuto continuare troppo a lungo impunemente; altrimenti essa avrebbe fatto probabilmente di me un altro uomo per sempre, senza trasformarmi in uno stato che sarebbe valso la pena di assumere. Ma non considerai mai questa vita se non come transitoria. Rimase sempre vivo in me un istinto profetico, un tenue sussurro all'orecchio, che, in breve tempo, e ogni volta che un cambiamento d'abitudini fosse stato indispensabile per il mio bene, il cambiamento sarebbe venuto.
Intanto, ero un sovrintendente alle Imposte e, per quello che mi è dato capire, non peggiore di qualsiasi altro. Un uomo ricco di pensiero, di fantasia e di sensibilità (anche se avesse queste qualità in proporzione dieci volte maggiore di quelle del sovrintendente) può diventare un uomo d'affari quando vuole, purché voglia prendersene la briga. I miei colleghi, i commercianti e i capitani di marina con cui i miei doveri d'ufficio mi misero in contatto, mostrarono di non vedermi sotto altra luce né sotto altro punto di vista che questo. Nessuno di loro, suppongo, lesse mai una pagina delle mie pubblicazioni, né si sarebbe curato di me un'unghia di più se le avesse lette tutte, e la situazione non sarebbe minimamente cambiata se quelle stesse inutili pagine fossero state scritte con la penna di Burns o di Chaucer, entrambi i quali, ai loro tempi, erano ufficiali doganali come me. E' un'utile lezione, anche se a volte può essere dura, per un uomo che abbia sognato la celebrità nel campo delle lettere come mezzo per elevarsi tra i grandi del mondo, quella di uscire dal circolo ristretto in cui sono riconosciute le sue pretese e scoprire quanto sia assolutamente privo di significato, al di fuori del circolo stesso, tutto ciò che egli compie e ciò a cui mira. Non so se meritassi in particolare questa lezione, come avvertimento o come rampogna, ma a ogni buon conto, la imparai alla perfezione; e mi fa piacere pensare che quando mi resi conto della realtà non provai nessun dolore e non ebbi neppure un sospiro. Per quel che riguarda le discussioni letterarie, d'altronde, spesso il funzionario addetto allo sdoganamento (un'ottima persona che era entrato nella carriera assieme a me, e che ne uscì poco dopo) attaccava discorso con me su uno dei suoi soggetti preferiti, Napoleone o Shakespeare. Anche l'impiegato più giovane dell'esattoria, un ragazzo che, a quanto si diceva, copriva ogni tanto un foglio di carta da lettere dello zio Sam con qualcosa che, ad alcuni metri di distanza, poteva sembrare una poesia, mi parlava a volte di libri, come materia nella quale poteva trovare in me un interlocutore. I miei passatempi culturali erano tutti qui, e bastavano ampiamente alle mie necessità.
Essendomi ormai del tutto indifferente che il mio nome venisse strombazzato per il mondo sulle prime pagine, potevo sorridere pensando che ora aveva una rinomanza completamente diversa. Il controllore della Dogana lo stampigliava con un marchio in nero su sacchi di pepe, su cesti di curcuma, su scatole di sigari e su balle di mercanzie d'ogni tipo, a riprova che questi generi disparati avevano pagato l'imposta, ed erano regolarmente passati dall'ufficio. Su un così strano mezzo di propagazione della fama, la nozione della mia esistenza, per quello che la trasmette un nome, arrivava dove non era mai stata, e dove, spero, non tornerà mai.
Il passato però non era morto. A intervalli molto lunghi i pensieri che mi erano stati così indispensabili e corroboranti, e che erano stati così tranquillamente messi da parte, tornavano a farsi sentire. Una delle occasioni più importanti in cui si risvegliò in me l'abitudine dei giorni andati, fu quella che mi consente, nell'ambito della pura letteratura, di offrire al pubblico lo schizzo che sto per scrivere.
Al secondo piano della Dogana c'è uno stanzone dove i mattoni e le spoglie intelaiature di legno non sono mai stati ricoperti né intonacati. L'edificio, progettato in origine secondo dimensioni adeguate alla prosperità di cui aveva goduto il porto, e con una previsione di attività futura che non si sarebbe mai concretata, racchiude molto più spazio di quanto ne serva ai suoi occupanti.
Questo ampio salone, sopra le stanze dell'esattore, è rimasto fino a oggi incompiuto e, malgrado le vecchie ragnatele che ne decorano le intelaiature polverose, sembra aspettare ancora l'opera del carpentiere e del muratore. A un'estremità della stanza, in un ripostiglio, si trovavano dei barili accatastati, pieni di fasci di documenti ufficiali. Pacchi di simili scartoffie ingombravano il pavimento, ed era triste pensare a quanti giorni, settimane, mesi e anni d'attenzione erano stati sprecati su quei fogli ammuffiti, i quali ora non erano che un impiccio sulla terra, e se ne stavano nascosti in quell'angolo appartato dove nessun occhio umano li avrebbe mai più visti. Ma in fondo, quali altri patrimoni letterari - non certo scritti con l'aridità della formalità d'ufficio, ma con l'immaginazione di cervelli fantasiosi e con le ricchezze di cuori sensibili erano caduti egualmente nell'oblio e, quel che è peggio, senza ottenere lo scopo che avevano raggiunto quelle carte ammonticchiate; e, più tristemente ancora, senza neppure procurare ai loro autori la comoda vita che veniva agli impiegati della Dogana dall'imbrattare le loro inutili carte! Non del tutto inutili, poi, come documenti di storia locale. Qui indubbiamente si sarebbe potuto scoprire statistiche dell'antico commercio di Salem e memorie dei suoi potenti mercanti, il vecchio King Derby, il vecchio Billy Gray, il vecchio Simon Forrester e di molti altri magnati del tempo andato: le loro teste incipriate si erano appena posate nella tomba che i loro patrimoni avevano cominciato a scemare. Qui si potrebbero rintracciare i capostipiti della maggior parte delle famiglie che ora compongono l'aristocrazia di Salem, dai modesti e oscuri inizi dei loro traffici, in tempi di solito molto posteriori alla rivoluzione, fino al raggiungimento di una posizione che i loro discendenti considerano ormai ben consolidata.
Prima della rivoluzione c'è una lacuna nei documenti, probabilmente perché gli atti e gli archivi della Dogana furono trasportati a Halifax quando tutti i funzionari del re seguirono l'esercito britannico nella sua fuga da Boston. Me ne sono rammaricato spesso, perché se quelle carte si fossero spinte indietro fino, diciamo, ai giorni del protettorato, avrebbero potuto contenere molti riferimenti a uomini noti o dimenticati, e ad antiche costumanze, che mi avrebbero dato la stessa gioia che provavo quando raccoglievo punte di frecce indiane nel campo vicino al vecchio presbiterio.
Ma, un giorno triste e piovigginoso, ebbi la fortuna di fare una scoperta di un certo interesse. Frugando e scavando tra queste scartoffie ammucchiate nell'angolo, aprendo ora l'uno ora l'altro documento e leggendo i nomi dei vascelli che molti anni prima erano sprofondati nell'oceano o erano marciti all'attracco, e quelli di mercanti di cui in Borsa oggi non si sente più parlare, che il tempo ha reso difficilmente decifrabili sulle loro stesse pietre tombali; scorrendo dunque queste cose con quell'interesse triste, stanco e quasi riluttante che suscitano in noi le spoglie di un'attività ormai defunta - ed esercitando la mia fantasia, impigrita dalla lunga inazione, nel cercare di ricreare con quelle vecchie ossa l'immagine dei giorni migliori della vecchia città, quando l'India era un paese nuovo, e soltanto Salem conosceva la rotta verso di essa, - mi capitò in mano un pacchetto, avvolto con cura in un pezzo di vecchia pergamena gialla. Questo pacco aveva l'aria di un documento ufficiale di un'epoca assai lontana, quando gli impiegati ricoprivano della loro calligrafia rigida e formale materiali più consistenti di quelli d'oggi. C'era in esso qualcosa che solleticava la mia curiosità istintiva e che mi costrinse a sciogliere lo sbiadito nastro rosso che lo legava, con la sensazione che ci fosse dentro un tesoro da riportare alla luce.
Scartando le rigide falde dell'involucro, trovai che si trattava della nomina, di pugno del governatore Shirley e col suo sigillo, di un tale Jonathan Pue, a sovrintendente della Dogana di Sua Maestà per il porto di Salem, nella provincia della Baia del Massachusetts. Ricordai d'aver letto (forse negli "Annals" di Felt) la notizia del decesso del signor sovrintendente Pue, circa ottant'anni prima; e anche un giornale, in tempi recenti, portava il resoconto della riesumazione dei suoi resti nel piccolo cimitero della chiesa di Saint Peter, durante un restauro dell'edificio. Se i miei ricordi erano esatti, non restava del mio rispettabile predecessore altro che uno scheletro malridotto, qualche residuo del vestiario, e una parrucca dall'arricciatura maestosa, la quale, diversamente dalla testa che aveva adornato, era in soddisfacente stato di conservazione. Ma, esaminando le carte che l'imballatore aveva usato per l'involto, trovai più tracce della mentalità del signor Pue e delle operazioni interne della sua testa di quante non ne avesse potuto fornire la parrucca arricciata che aveva contenuto lo stesso venerabile cranio.
Erano documenti, insomma, non ufficiali, ma di natura privata o, almeno, scritti nella sua veste di privato e, a quanto pareva, di suo pugno. Potevo giustificare la loro presenza nel mucchio delle vecchie scartoffie della Dogana soltanto pensando che la morte del signor Pue fosse stata improvvisa, e che queste carte, che probabilmente teneva nella scrivania del suo ufficio, non fossero mai venute a conoscenza dei suoi eredi, o che si fosse pensato avessero qualcosa che fare con le imposte. Quando gli archivi vennero trasferiti a Halifax, questo pacchetto, che non sembrò di pubblico interesse, venne lasciato stare, e da allora era rimasto intatto.
L'antico sovrintendente (al quale, suppongo, le faccende del suo ufficio, in quei tempi lontani, non davano un gran da fare) doveva aver dedicato molte delle sue ore libere a ricerche di antiquariato locale e ad altri studi del genere. Trovava in questo modo alimento per un cervello che altrimenti sarebbe stato divorato dalla ruggine. Una parte del suo materiale, tra parentesi. mi fu preziosa per la redazione dell'articolo "Main Street" che fa parte di questo volume. Ciò che rimane potrà forse essere utilizzato per scopi analoghi, e non è impossibile che venga elaborato in una vera e propria storia di Salem, se mai la mia venerazione per il suolo natìo mi spingerà a un compito così nobile. Nel frattempo, restano a disposizione di chiunque abbia l'inclinazione e la competenza sufficienti a liberarmi di un lavoro così poco redditizio. Penso che nel testamento li depositerò alla Società Storica dell'Essex.
Ma quel che attrasse con più forza la mia attenzione per il pacchetto misterioso fu un oggetto di prezioso tessuto rosso molto consunto e sbiadito. In esso si potevano ancora vedere tracce di ricami d'oro, che però erano molto malridotti e talmente scoloriti che dell'originario luccicchìo nulla restava, o almeno molto poco.
Era facile vedere che era opera di una ricamatrice abilissima, e il punto (come mi hanno assicurato delle signore iniziate a questi misteri) testimonia un'arte ormai scomparsa, che non potrebbe essere riscoperta neppure disfacendone i fili. Questo straccio di stoffa rossa, perché il tempo, l'uso e la tarma sacrilega lo avevano ridotto a poco più di uno straccio, assumeva, a un più attento esame, la forma di una lettera. Era una A maiuscola. Una misurazione accurata dimostrò che ogni asta era lunga tre pollici e un quarto. Era chiaro che si era voluto farne un articolo di vestiario, un ornamento, ma come dovesse essere portato, quale rango, carica o dignità comportasse in passato, era un rebus che (tanto sono effimere le passioni del mondo per questi particolari) non avevo molte speranze di risolvere. La lettera serbava per me uno strano interesse, e vecchia e scarlatta com'era, i miei occhi si fissavano su di essa e non riuscivano a staccarsene. Certo doveva esserci in essa qualche profondo significato, che ben sarebbe valso le fatiche di un'interpretazione, e che, allo stato attuale, aveva per me qualcosa del simbolo mistico, che si comunicava impercettibilmente ai miei sensi, ma sfuggiva all'analisi della mia mente.
Rimuginando tra me questi pensieri, e vagliando, tra le altre possibilità, quella che la lettera fosse una di quelle decorazioni che i bianchi indossavano per fare effetto agli indiani, me l'appoggiai casualmente sul petto. Mi parve allora, rida pure il lettore, ma non dubiti della mia parola, mi parve di provare una sensazione, per nulla fisica, ma tuttavia quasi corporea, di un calore bruciante, come se la lettera non fosse stata di stoffa, ma di ferro rovente. Rabbrividii, e involontariamente la lasciai cadere a terra.
Assorto nella contemplazione della lettera scarlatta non mi ero curato fino a quel momento di esaminare il rotolino di carta ingiallita attorno al quale essa era avvolta. Lo aprii dunque, ed ebbi la soddisfazione di scoprire una spiegazione quasi completa di tutta la storia di mano del vecchio sovrintendente. Erano parecchi fogli protocollo che contenevano molti particolari concernenti la vita e l'adulterio di una certa Hester Prynne, che sembrava essere stata un personaggio notevole agli occhi dei nostri antenati. Il periodo in cui si erano svolti i fatti in questione andava dai primi tempi della colonizzazione del Massachusetts alla fine del diciassettesimo secolo. Al tempo del signor sovrintendente Pue erano ancora in vita dei vecchi, dalla cui testimonianza egli aveva ricavato la sua storia, che la ricordavano, all'epoca della loro giovinezza, come una donna molto anziana, ma non decrepita, di portamento nobile e solenne. Da tempo immemorabile aveva preso l'abitudine di girare il paese come una specie di infermiera volontaria, e di fare del bene in ogni modo e in ogni forma le fosse possibile, non risparmiandosi neppure la fatica di dare consigli in ogni campo, e soprattutto in quello sentimentale, così da acquistarsi (com'è inevitabile che succeda a chi faccia altrettanto) la venerazione e la fama di angelo presso molti, ma, credo, quella di importuna e di noiosa presso altri. Studiando ulteriormente il singolare manoscritto vi scoprii il racconto di altre azioni e di altre sofferenze di questa donna straordinaria, la maggior parte delle quali il lettore potrà trovare nella storia intitolata "La lettera scarlatta"; e bisogna sempre ricordarsi che i fatti principali di questa storia hanno i crismi e l'autenticazione del signor sovrintendente Pue. Il manoscritto originale e la stessa lettera scarlatta, reliquia veramente insolita, sono ancora in mio possesso, e sarò lieto di mostrarli a chiunque sia stato spinto dall'interesse presentato dal mio racconto al desiderio di vederli. Non voglio dire di essermi limitato, nella stesura dell'opera e nella descrizione dei sentimenti e delle passioni che spinsero ad agire i personaggi che vi compaiono, alla mezza dozzina di fogli protocollo del vecchio sovrintendente; al contrario, mi sono permesso in questo campo quasi o del tutto la stessa libertà di cui mi sarei servito se i fatti fossero stati frutto della mia immaginazione. Insisto soltanto sull'autenticità dell'abbozzo.
Questo avvenimento riportò in parte i miei pensieri sulla vecchia strada. Mi parve di avere trovato un buon soggetto per un romanzo.
Ebbi come l'impressione che il vecchio sovrintendente, nel suo costume di cent'anni prima, e con la sua immortale parrucca, che fu sepolta con lui, ma non perì nella tomba, mi fosse venuto incontro nella stanza abbandonata della Dogana. Nel suo portamento c'era la dignità di uno che avesse ricevuto un incarico ufficiale da Sua Maestà, e che fosse perciò illuminato da un raggio di quella magnificenza che splendeva abbagliante intorno al trono.
Ohimé, quanto diverso in questo dall'aria da cane bastonato dei funzionari repubblicani, i quali, come servi del popolo, si sentono da meno dell'ultimo e più in basso del più basso dei loro padroni! Con la sua mano spettrale, la figura evanescente ma dignitosa mi aveva affidato il simbolo scarlatto e il piccolo rotolo del manoscritto chiarificatore. Con la sua voce spettrale mi aveva esortato, in considerazione dei sacri doveri filiali e della riverenza nei suoi confronti, che poteva a ragione ritenersi mio antenato d'ufficio, a sottoporre al pubblico le sue elucubrazioni ammuffite e corrose dalle tarme. "Fa' questo", mi disse il fantasma del signor sovrintendente Pue, scuotendo enfaticamente la testa che appariva così imponente con la sua memoranda parrucca, "fa' questo, e ne trarrai ogni vantaggio! Non passerà molto che ne avrai bisogno, perché i tuoi tempi non sono i miei, quando un impiego era una sinecura, e spesso un bene ereditario. Ma ti ordino, in questa storia della vecchia signora Prynne, di dare alla memoria del tuo predecessore il credito che le spetta di diritto". E io risposi allo spettro del signor sovrintendente Pue: "Sarà fatto!".
Alla storia di Hester Prynne, quindi, dedicai molto studio. Fu l'oggetto delle mie meditazioni per molte ore, mentre misuravo a grandi passi la mia stanza da un capo all'altro, o compivo per la centesima volta il lungo tragitto tra la porta principale della Dogana e l'ingresso laterale, e viceversa. Era grande l'insofferenza e la noia del vecchio ispettore, dei pesatori e dei misuratori, i cui pisolini erano disturbati dallo spietato rimbombo dei miei passi concitati all'andata e al ritorno: essi fecero appello alle loro antiche abitudini, e cominciarono a dire che il sovrintendente passeggiava sul cassero. Credevano probabilmente che il mio unico scopo (e, certo, il solo per il quale un uomo sano di mente potesse mettersi in moto di sua spontanea volontà) fosse di farmi venire appetito per il pranzo; e, a dire il vero, un certo appetito, aguzzato dal vento di levante che molto spesso soffiava nel corridoio, era l'unico risultato apprezzabile di tanto indefesso esercizio. L'atmosfera di una Dogana è così poco adatta ai frutti delicati della fantasia e della sensibilità che anche se ci fossi rimasto per altre dieci presidenze, non credo che il racconto de "La lettera scarlatta" sarebbe mai stato presentato al pubblico. La mia immaginazione era uno specchio appannato: non riusciva a riflettere, o rifletteva solo con deplorevole opacità, le immagini con le quali studiavo di popolarla. I personaggi del romanzo non si arroventavano e non diventavano malleabili a dispetto di ogni fuoco che riuscissi ad attizzare nella mia fucina intellettuale. Non acquistavano né il calore della passione né la tenerezza del sentimento, ma serbavano tutta la rigidità di cadaveri, e mi contemplavano con uno spettrale sogghigno di sfida. "Che cosa hai tu da spartire con noi?" sembrava dire quell'espressione. "Quell'ombra di poteri che una volta esercitavi sulla stirpe delle immagini è ormai scomparsa! Sei tu che l'hai barattata per una manciata di denaro pubblico: vattene a guadagnare il tuo stipendio!". Insomma, le torpide larve della mia stessa fantasia mi schernivano e mi davano dell'imbecille, e non senza buone ragioni.
Infatti l'aridità del mio spirito non durava soltanto per le tre ore e mezzo quotidiane che dovevo allo zio Sam, ma mi accompagnava nelle passeggiate in riva al mare e nelle scorribande in campagna, ogni volta (cosa che avveniva raramente e non senza riluttanza) che mi risolvevo a ricercare quel tonificante fascino della Natura che una volta mi dava tanta freschezza e agilità di pensiero al solo varcare la soglia del vecchio Presbiterio. Lo stesso torpore, la stessa incapacità di sforzi intellettuali, mi accompagnavano a casa e mi si accumulavano addosso nella camera che senza ragioni plausibili chiamavo il mio studio. Non mi abbandonavano neppure quando, a notte fonda, sedevo nel salotto deserto, illuminato soltanto dalla luna e dalla brace del caminetto, sforzandomi di dipingere scene immaginarie da stendere poi in pittoresche descrizioni il giorno seguente.
Se l'immaginazione si rifiutava di agire anche a quell'ora, il caso poteva essere giustamente considerato disperato. I raggi della luna in una stanza familiare, che illuminano della loro luce bianca il tappeto e ne mostrano i disegni con tanta precisione, che rendono visibili tutti i particolari con tanta minuzia, eppure in maniera tanto diversa dai raggi del sole mattutino o meridiano, sono di solito il mezzo più adatto per mettere in intimo contatto un romanziere con i suoi ospiti immaginari. C'è la piccola scena domestica dell'appartamento, ci sono le sedie, ognuna con la sua distinta individualità, la tavola centrale, su cui si vedono un cestino da lavoro, un paio di volumi, e una lampada spenta; c'è il sofà, la libreria, il quadro alla parete - tutti questi dettagli, visti nella loro totalità, vengono a essere spiritualizzati dalla luce insolita, al punto che sembrano aver perduto la loro sostanza reale, per trasformarsi in creature dell'intelletto. Nulla è troppo volgare o troppo banale perché non possa subire questo cambiamento, da cui deriva un certo decoro. Una scarpa da bambino, una bambola seduta nella sua carrozzina di vimini, un cavallo a dondolo, tutto ciò che abbiamo adoperato o con cui abbiamo giocato durante il giorno, ora è rivestito di un alone di lontananza e di novità, anche se la luce che lo illumina è quasi altrettanto vivida di quella del giorno. Il pavimento della nostra stanza si è trasformato quindi in una specie di terra di nessuno, a metà strada tra il mondo reale e quello delle fiabe, dove la fantasia e la realtà possono incontrarsi e partecipare ciascuna della natura dell'altra. Potrebbero entrare dei fantasmi, e non ci spaventerebbero. Sarebbe troppo in armonia con la scena per sorprenderci, se girando l'occhio scoprissimo una forma amata, ma ormai scomparsa, tranquillamente adagiata su uno di questi magici raggi di luna, con un aspetto che ci farebbe sorgere il dubbio se veramente essa sia tornata a noi da lontano, o non si sia invece mai mossa dal focolare domestico.
Il rosseggiare fioco della brace ha anch'esso la sua parte nel generare le sensazioni che sto descrivendo. La loro tranquilla luminosità è per tutta la stanza, e accende dei bagliori sulle pareti e sul soffitto, specchiandosi nella vernice lucida dei mobili. Questa luce più calda si fonde con la gelida spiritualità dei raggi di luna, comunicando in tal modo alle larve di cui la fantasia ci circonda, un cuore e sensazioni di umana tenerezza. Le trasformazioni da pupazzi di neve in uomini e donne. Se guardiamo nello specchio, vediamo, nel profondo del suo circolo stregato lo spento occhieggiare dell'antracite semispenta, i bianchi raggi di luna sul pavimento, e una ripetizione di tutti i bagliori e le ombre del quadro ancora più distaccati dalla realtà e più vicini al fantastico. Se allora un uomo, con questa scena sotto gli occhi, seduto tutto solo, non riesce a sognare cose strane, e a dare a esse l'aspetto della realtà, è meglio che non provi mai a scrivere romanzi.
Ma, quanto a me, per tutta la durata della mia esperienza alla Dogana, sole o luna e rosseggiare di braci, tutto mi era indifferente, e nulla di tutto ciò m'aiutava più dello scintillio di una candela di sego. Un'intera categoria di emozioni, e una facoltà a esse connessa, non molto fertili o preziose, pur essendo le migliori che avessi, si era allontanata da me.
Con tutto ciò, credo che se mi fossi cimentato in un altro genere di narrativa le mie facoltà non si sarebbero dimostrate così insulse e inefficienti. Avrei potuto limitarmi a mettere per iscritto i racconti di un veterano del mare, uno degli ispettori, persona che sarebbe estremamente ingrato da parte mia non ricordare, visto che raramente passava un giorno senza che egli non suscitasse in me l'allegria o l'ammirazione con le sue straordinarie doti di narratore. Se fossi riuscito a rendere la forza pittorica del suo stile e il senso dell'umorismo che la natura gli aveva insegnato a profondere nei suoi racconti, il risultato sarebbe stato, penso, qualcosa di nuovo nella letteratura. Avrei potuto anche trovare un compito più serio in pochi giorni. Era una pura follia, con le necessità della vita quotidiana che mi pressavano con tanta insistenza, cercare di immedesimarmi in un'altra epoca, e insistere per creare un mondo intero con materie impalpabili, quando, a ogni momento, l'evanescente bellezza della mia bolla di sapone era distrutta dal rude contatto dei fatti reali. Lo sforzo più ragionevole sarebbe consistito nell'infondere pensiero e immaginazione nella grigia sostanza d'oggi, trasformandola così in una brillante trasparenza; nello spiritualizzare il fardello che cominciava a pesarmi tanto; nel cercare con risolutezza i valori reali e indistruttibili latenti nei meschini e noiosi fatti, e nei comuni personaggi, con i quali mi trovavo in continuo rapporto. La colpa era mia. La pagina della vita che mi si apriva davanti sembrava oscura e trita solamente perché non ne avevo sondato il significato più profondo.
Davanti a me c'era un libro più bello di quanti mai ne avessi potuto scrivere, che mi si presentava foglio per foglio, man mano che veniva composto dalla realtà dell'ora fuggente, e che svaniva appena scritto solamente perché alla mia mente mancava la profondità, e alla mia mano l'abilità necessaria a trascriverlo.
Forse un giorno, nel futuro, mi torneranno alla memoria dei frammenti sparpagliati e dei paragrafi interrotti, e riuscirò a metterli per iscritto, e vedrò le lettere trasformarsi in oro sulla pagina.
Queste intuizioni sono giunte troppo tardi. In quel momento vedevo soltanto che quello che una volta sarebbe stato un piacere si era trasformato ora in uno sforzo vano. Non c'era ragione di darsi alla disperazione per questo stato di cose. Avevo cessato di essere lo scrittore di racconti e saggi alquanto mediocri, ed ero diventato un sovrintendente doganale alquanto mediocre. Ecco tutto. Non è per niente piacevole, d'altra parte, sentirsi perseguitati dal sospetto che il proprio intelletto stia declinando, o esalando, senza esserne coscienti, come l'etere da una fiala, così che, ogni volta che lo si guarda, trovi un residuo più scarso e meno volatile. Del fatto in sé non si poteva dubitare; e dall'esame di me stesso e degli altri, fui portato a conclusioni relative all'effetto esercitato sul carattere dal pubblico impiego, non troppo favorevoli per questo modo di guadagnarsi la vita. Forse potrò dilungarmi altrove e in altra forma su questo effetto: in queste pagine basterà dire che un funzionario doganale, che sia rimasto in carica a lungo, sarà difficilmente una figura encomiabile o degna di rispetto per molte ragioni, una delle quali è il modo in cui ottiene l'impiego, e un'altra la natura stessa del suo mestiere che, benché in verità sia onesto, è di un tipo che gli impedisce di partecipare agli sforzi collettivi del genere umano.
Un effetto che credo si possa osservare più o meno in ogni individuo che abbia esercitato questo mestiere è che, nell'appoggiarsi al poderoso braccio della Repubblica, gli sfuggono le sue proprie forze. Egli finisce col perdere, in misura proporzionata alla debolezza o all'energia della sua natura originaria, la capacità di sorreggersi da solo. Se possiede una carica eccezionale di energia innata, o se la malia snervante del luogo non agisce troppo a lungo su di lui, si possono risvegliare le forze così assopite. Il funzionario, privato della sua carica (fortunato per il colpo brutale che lo rimanda indietro in tempo per lottare in un mondo in lotta) può tornare se stesso, e recuperare tutte le sue qualità precedenti. Questo però si verifica raramente, perché di solito resta al suo posto quel tanto che basta a rovinarlo, e poi viene buttato fuori, coi nervi a pezzi, a brancolare come può lungo il difficile sentiero della vita. Consapevole della propria malattia, ossia della perdita della sua tempra d'acciaio e della possibilità di recupero, egli si guarderà intorno smarrito per sempre, da allora in poi, in cerca di un aiuto che gli arrivi dall'esterno. La sua speranza ostinata e indefettibile (un'allucinazione che, a dispetto di ogni scoraggiamento, non dando peso all'impossibile, lo perseguita per tutta la vita e forse, come gli spasimi convulsi del colera, lo tormenta anche per qualche tempo dopo la morte) è di riuscire alla fine, dopo un'attesa non troppo lunga, per qualche felice combinazione di circostanza, a riottenere il suo posto. Questa fede, più di qualsiasi altra cosa, toglie il mordente e il valore a ogni impresa che egli sogni di compiere. Perché darsi tanto da fare, e affaticarsi tanto a tirarsi su dal fango, quando, a saper aspettare, il potente braccio dello Zio verrà a sollevarlo e a sostenerlo? Perché dovrebbe lavorare per vivere qui, o andare a scavare l'oro in California, quando tra poco sarà reso felice, a intervalli mensili, da un mucchietto di monete sonanti uscite dalla tasca dello Zio? E' tristemente istruttivo osservare come un tantino di vita d'ufficio basti a infettare un poveretto di questa insolita malattia. L'oro dello zio Sam, senza voler mancare di rispetto al vecchio gentiluomo, possiede, in questo caso, una sorta di incantesimo simile a quello della farina del diavolo.
Chiunque la tocchi, dovrà stare bene attento o si troverà impastoiato tra gravosi ceppi, che avvilupperanno, se non la sua anima, almeno molti dei suoi migliori attributi: la sua forza incrollabile, il suo coraggio e la sua tenacia, la sua sincerità, la sua fiducia in se stesso, e tutto ciò che distingue il carattere virile.
Eccomi quindi davanti a una bella prospettiva! Certo, il sovrintendente non considerò la lezione rivolta a lui, né ammise di poter essere mai così vergognosamente disfatto o dalla continuità dell'impiego o dall'estromissione; le mie riflessioni non erano però delle più rosee. Diventai a poco a poco malinconico e irrequieto, logorandomi sempre la mente per scoprire quali delle sue misere qualità erano sfuggite, e quali danni avevano già riportato le altre. Cercai di calcolare per quanto tempo avrei potuto stare alla Dogana, rimanendo un uomo. La verità è che il mio peggior timore (perché non sarebbe mai stata una saggia misura politica licenziare un elemento tranquillo come me e non certo nella natura di un funzionario pubblico dare le dimissioni), la mia più profonda apprensione, dunque, era di diventare grigio e decrepito al mio posto di sovrintendente, e di trasformarmi in un animale simile al vecchio ispettore. Non sarebbe capitato anche a me, nel tedioso corso di vita d'ufficio che mi stava davanti, di diventare alla fine come questo venerabile amico, di fare dell'ora di pranzo il centro della giornata, per passarne il resto dormicchiando, al sole o all'ombra, come un vecchio cane? Una triste prospettiva, questa, per uno che considerava il colmo della felicità vivere nella piena esplicazione delle proprie facoltà! Ma per tutto quel tempo non avevo fatto che preoccuparmi con allarmi superflui.
La Provvidenza aveva in serbo per me cose migliori di quelle che io stesso mi sarei potuto augurare. Un fatto degno di nota del terzo anno della mia sovrintendenza, per usare il tono di "P.P.", fu l'elezione del generale Taylor alla presidenza. E' essenziale, per dare un quadro completo dei vantaggi della vita nella pubblica amministrazione, osservare i funzionari all'avvento di un partito avversario. La loro posizione è una delle più penose e, in ogni caso, una delle più sgradevoli che uno sventurato mortale possa occupare; controbilanciata, da una parte e dall'altra, da rarissimi lati positivi, anche se quella che a essi sembra l'alternativa peggiore si possa trasformare, a ben vedere, nella migliore. E' una strana esperienza, per un uomo orgoglioso e sensibile sapere che i suoi interessi sono nelle mani di gente che non lo ama e non lo capisce e da cui, giacché una volta o l'altra qualcosa dovrà succedere, riceverà piuttosto un danno che una cortesia. E' curioso, anche, per chi abbia conservato la calma durante la campagna, osservare la sete di sangue che si manifesta nell'ora del trionfo, e rendersi conto di essere nel numero delle vittime! Ci sono ben pochi tratti della natura umana peggiori della tendenza, che ora vedevo in uomini non peggiori dei loro simili, a diventare crudeli soltanto per essersi trovati in possesso della facoltà di fare del male. Se la "ghigliottina", invece di essere una delle metafore più efficaci per designare l'estromissione dei pubblici impiegati, fosse stata presa alla lettera, credo sinceramente che i membri più attivi del partito trionfante sarebbero stati abbastanza feroci da mozzarci la testa, ringraziando il cielo per l'occasione. Pare a me, che sono stato un osservatore tranquillo e curioso, sia nella vittoria sia nella sconfitta, che questo spirito feroce e amaro di malvagità e di vendetta non abbia mai caratterizzato i numerosi trionfi del mio partito come ora inquinava quello dei "whigs". I democratici si prendono di regola le cariche, perché ne hanno bisogno, e perché una pratica pluriennale ha fatto di ciò la legge della lotta politica, protestare contro la quale sarebbe debolezza e vigliaccheria finché non ne verrà instaurata un'altra. Tuttavia una lunga abitudine alle vittorie li ha resi generosi. Sanno risparmiare quando ce n'è motivo; e quando colpiscono, per affilata che sia l'ascia, ben di rado il filo ne è avvelenato di malevolenza; e non hanno l'abitudine di prendere a calci la testa che hanno appena spiccato dal busto.
A farla breve, per sgradevole che fosse la mia condizione, per lo meno potevo rinvenirvi qualche motivo di congratularmi con me stesso per essermi trovato dalla parte dello sconfitto piuttosto che da quella del trionfatore. Se, fino ad allora, non ero stato partigiano molto acceso, cominciai adesso, in questo momento di pericolo e di difficoltà, a rendermi conto di quale fosse in realtà il mio partito favorito, e non fu senza rimorso e vergogna che vidi che, secondo un ragionevole calcolo delle probabilità, io avevo migliori prospettive di mantenere l'impiego che non i miei colleghi democratici. Ma chi può vedere nel futuro un pollice più in là del proprio naso? La mia testa fu la prima a cadere.
L'attimo in cui ci si sente decapitare non è mai, o è raramente, secondo la mia modesta opinione, quello più piacevole della propria vita. Ma come la maggior parte delle sfortune che capitano, anche una disgrazia così seria porta con sé il proprio rimedio e la propria consolazione, se chi ci va di mezzo riesce a vedere i lati migliori e non i peggiori di quel che gli è capitato. Nel mio caso particolare non mi era difficile trovare argomenti per consolarmi, visto che già erano oggetto delle mie meditazioni molto tempo prima di tornarmi utili. Vista la mia precedente insofferenza per l'impiego e i miei vaghi propositi di dimettermi, la mia sorte fu simile a quella di uno che covasse l'idea del suicidio, e avesse la fortuna insperata di essere assassinato. Alla Dogana, come già al Presbiterio, avevo trascorso tre anni; tempo più che sufficiente per far riposare un cervello stanco; abbastanza lungo per interrompere vecchie abitudini mentali, e per far posto alle nuove: tempo bastante, ed eccessivo, per vivere in una posizione innaturale, facendo cose che non procuravano diletti o vantaggio ad alcuno, senza dedicarmi a quegli sforzi che almeno, avrebbero fatto tacere un impulso irrequieto dentro di me. Allo stesso sovrintendente non dispiacque affatto la propria estromissione senza cerimonie, che lo qualificava tra gli avversari del partito "whig" poiché la sua inerzia nella vita politica, la sua tendenza a vagare a suo piacimento in quegli spazi vasti e tranquilli dove tutta l'umanità può venirsi incontro, piuttosto che ridursi a quegli stretti sentieri dove i figli di una stessa famiglia devono separarsi l'uno dall'altro, aveva spesso fatto dubitare i suoi fratelli democratici della sua amicizia. Ora, ottenuta la corona del martirio (anche se non c'era più una testa su cui metterla), la controversia si poteva considerare risolta. Infine, per poco eroico che fosse, gli parve più dignitoso essere defenestrato nel crollo del partito dalla parte del quale si era schierato, piuttosto che restare un sopravvissuto isolato nella caduta di tanta gente più degna di lui, per trovarsi poi alla fine di quattro anni di servizio alla mercé di un'amministrazione ostile di nuovo costretto a chiarire la sua posizione, e a chiedere l'appoggio ancora più umiliante di un'amministrazione amica.
Intanto la stampa si era impadronita dal mio caso, e mi fece galoppare per le agenzie per una settimana o due, decapitato com'ero, simile al "Cavaliere senza testa" di Irving, tetro e agghiacciante, e desideroso di sepoltura come si conviene a un cadavere politico. Questo per la mia personalità ufficiale. Il mio vero essere, per tutto questo tempo, con la testa ben posata sul collo, era arrivato alla confortante conclusione che quanto accadeva fosse per il meglio; e investendo un piccolo capitale in inchiostro, carta e pennini, aveva riaperto la scrivania da tanto trascurata, ed era ridiventato uno scrittore.
Fu ora che tornarono alla ribalta le elucubrazioni del mio antico predecessore, il signor sovrintendente Pue. Poiché il meccanismo della mia mente si era arrugginito a causa del lungo disuso, ci volle un po' di tempo perché si persuadesse a elaborare il racconto, con un effetto in qualche modo soddisfacente. Ancora adesso, nonostante che tutti i miei pensieri si fossero finalmente concentrati nel compito, esso ha per me un aspetto austero e tetro; insufficientemente illuminato da una luce solare, e troppo poco vivificato dalle influenze tenere e familiari che addolciscono quasi ogni scena della natura e della vita reale, e che certo dovrebbero smussare gli angoli di ogni loro rappresentazione; ma forse questo sgradevole effetto è dovuto a quel periodo appena terminato, di rivoluzione e di tumulto non ancora sedato, nel quale si svolge la storia. Questo non significa che dalla fantasia dello scrittore fosse assente la letizia, perché egli era più felice quando scriveva, mentre vagava fra il grigiore di queste cupe fantasticherie, che in qualsiasi altro periodo da quando aveva lasciato il vecchio Presbiterio. Anche altri degli articoli più brevi che formano il volume sono stati scritti dopo il mio involontario ritiro dalle cure e dagli onori della vita pubblica, e i rimanenti sono raccolti da annuari e riviste di così antica data che ormai hanno compiuto il ciclo e sono tornati nuovi (4). Per non abbandonare la metafora della ghigliottina politica, queste novelle possono essere chiamate le "Carte postume di un sovrintendente decapitato"; e lo schizzo che sto ormai concludendo, se è troppo autobiografico perché possa essere pubblicato da una persona modesta finché è in vita, potrà essere facilmente perdonato a un distinto signore che scrive dall'oltretomba. Pace al mondo intero! Benedico i miei amici, e perdono i miei nemici! Io sono nel regno della quiete!
La vita della Dogana giace alle mie spalle come un sogno. Il vecchio ispettore (il quale, tra parentesi, mi rincresce dirlo, fu travolto e ucciso da un cavallo qualche tempo fa), egli, e tutti quegli altri venerabili personaggi che sedevano con lui alla ricevitoria della Dogana, non sono che ombre ai miei occhi; immagini canute e rugose, delle quali si dilettava la mia fantasia, che ora le ha respinte per sempre. I mercanti: Pinegree, Phillips, Shepard, Upton, Kimball, Bertram, Hunt; questi e tanti altri nomi che suonavano così familiari al mio orecchio sei mesi fa, questi trafficanti che sembravano occupare un posto di tanto rilievo nel mondo, oh, quanto poco tempo è bastato a separarmi da loro, e non solo nella realtà, ma nello stesso ricordo! Soltanto con sforzo posso richiamare alla memoria il nome e l'aspetto di questi pochi. Presto anche la mia vecchia città natale resterà avvolta nella nebbia dell'oblio, e mi tornerà in mente circondata e sepolta nella foschia, come se non fosse un luogo terreno e materiale, ma un paese cresciuto nel regno delle nuvole, popolato da abitanti immaginari nelle casette di legno, che percorrono le viuzze familiari e la strada principale nella sua monotona lunghezza. D'ora in poi non fa più parte della mia vita reale: non sono più cittadino di Salem. I miei bravi concittadini non mi rimpiangeranno troppo, perché, per quanto non sia stata l'ultima delle mie preoccupazioni, nei miei tentativi letterari, quella di procacciarmi un po' d'importanza ai loro occhi, e di acquistarmi una fama onorevole nel luogo dove vissero e furono sepolti i miei padri, non sono mai riuscito a trovare qui quell'atmosfera congeniale di cui un letterato ha bisogno per far maturare i migliori frutti del suo ingegno. Farò di meglio tra altri volti ed è inutile dire che quelli familiari potranno benissimo fare a meno di me.
Forse però (oh, pensiero commovente ed eccitante!) i bisnipoti della generazione attuale penseranno qualche volta con simpatia all'imbrattacarte dei tempi andati, quando, fra molti anni, una guida additerà, tra i luoghi memorabili della storia della città, il punto in cui si trovava LA FONTANA PUBBLICA! (5).
1. LA PORTA DELLA PRIGIONE.
Una folla di uomini barbuti, con vestiti dai colori severi e cappelli a cono grigi, e di donne in cuffia o a capo scoperto, era raccolta davanti a una costruzione di legno, la cui porta era rafforzata da pesanti assi di quercia, ed era coperta di borchie di ferro.
I fondatori di una nuova colonia, qualunque utopia di virtù umane e di felicità abbiano concretato, hanno sempre dovuto riconoscere tra le prime necessità pratiche quella di destinare una parte del terreno vergine a cimitero, e un'altra alla costruzione di una prigione. In omaggio a tale regola, si può supporre con ragionevole certezza che i progenitori di Boston abbiano costruito il primo stabilimento di reclusione nelle vicinanze di Cornhill, all'incirca nello stesso tempo in cui tracciarono il primo cimitero, sul terreno di Isaac Johnson, e intorno alla sua tomba, che poi diventò il nucleo di tutti i sepolcri riuniti nell'antico camposanto di King's Chapel. In ogni modo è certo che, quindici o vent'anni dopo la fondazione della cittadina, la prigione di legno era già segnata dalle intemperie e da altre cicatrici dell'età, che facevano sembrare ancora più tetra la sua facciata lugubre e cupa. La ruggine sulla massiccia armatura di ferro della sua porta di quercia sembrava la cosa più antica del Nuovo Mondo, e come tutto ciò che ha mai avuto che fare col delitto, si sarebbe detto che ignorasse la giovinezza. Di fronte a questo brutto edificio, tra di esso e la carreggiata della strada, c'era un praticello, infestato dalla lappola, dal farinaccio selvatico, dallo stramonio e da erbacce d'ogni specie che evidentemente trovavano un terreno ideale nel suolo che per primo aveva prodotto il nero fiore della società civile, una prigione. Da un lato della porta, però, e abbarbicato quasi alla soglia, c'era un arbusto di rose selvatiche, coperto in quel mese di giugno di delicati boccioli, che sembravano offrire la loro fragranza e la loro fragile bellezza in dono al prigioniero che facesse il suo ingresso e al condannato che uscisse incontro al suo destino, in pegno della pietà e e della gentilezza che il cuore profondo della natura serbava anche per lui.
Questo arbusto di rose, per un caso strano, è sopravvissuto nel corso della storia; ma che sia semplicemente sopravvissuto all'austera durezza dei tempi andati, per tanto tempo dopo il crollo dei giganteschi pini e delle querce che lo sovrastavano, o che, come attestano fonti autorevoli, sia germogliato sotto i passi della santa Ann Hutchinson (6) che varcò la soglia della prigione, non potremmo prenderci la responsabilità di deciderlo.
Trovandolo proprio sul limitare della nostra narrazione, che sta per uscire da quell'infausto portone, difficilmente potremmo fare a meno di coglierne un fiore e di offrirlo al lettore. Speriamo che serva a simboleggiare qualche delicato fiore morale che incontreremo lungo il nostro cammino, o a ingentilire gli oscuri avvenimenti di una storia di umana fragilità e di dolore.
2. LA PIAZZA DEL MERCATO
Il prato di fronte alla prigione, in Prison Lane, in una certo mattino d'estate non meno di due secoli fa, era calpestato da un certo numero di abitanti di Boston, i cui occhi fissavano attenti la porta di quercia ferrata. Presso qualunque altro popolo, o in un periodo successivo nella storia della Nuova Inghilterra, la truce immobilità che impietriva le fisionomie barbute di questi buoni cittadini avrebbe significato l'imminenza di qualche tremendo avvenimento, certo non meno grave dell'esecuzione di un celebre malfattore, la cui condanna da parte del tribunale trovasse completa rispondenza nel verdetto dell'opinione pubblica.
Considerando tuttavia la primitiva severità del carattere puritano, sarebbe stato imprudente venire subito a questa conclusione. Avrebbe potuto trattarsi di un servitore pigro, o di un figlio disobbediente che i genitori avessero affidato all'autorità civile per essere castigato con la pubblica fustigazione. Forse si sarebbe preso un antinomiano, o un quacchero, o un altro membro di una confessione non ortodossa, e lo si sarebbe scacciato dalla città a colpi di sferza; o un indiano, che avesse dato molestia per le strade in preda agli effetti dell'acquavite dei bianchi, sarebbe stato cacciato a suon di sferzate nell'ombra della foresta. Poteva essere pure che una strega, come la vecchia signora Hibbins, la stizzosa vedova del magistrato, dovesse salire sulla forca. In tutti i casi, gli spettatori avevano un uguale aspetto solenne, come si conveniva a un popolo per cui la legge e la religione quasi si identificano, compenetrandosi talmente l'una nell'altra che ogni atto della disciplina pubblica, dai più trascurabili ai più severi, prendeva lo stesso aspetto pauroso e venerabile. Il trasgressore sul patibolo non poteva contare che su una simpatia molto generica e fredda da parte di un pubblico come questo. D'altro canto, però, punizioni che ai nostri giorni lascerebbero un marchio d'infamia, di scherno e di ridicolo, potevano assumere a quei tempi una dignità severa come la stessa pena capitale.
Nel mattino d'estate in cui comincia la nostra storia si poteva notare un particolare interesse tra le donne, che erano molto numerose tra la folla, per la pena che sarebbe stata inflitta al colpevole. Non c'era in quel periodo quel ritegno che oggi farebbe sembrare disdicevole a un'appartenente al sesso delle sottane e delle crinoline di andarsene a passeggio per le pubbliche vie, e spingere la propria non evanescente persona nel bel mezzo della folla che circonda un patibolo in occasione di un'esecuzione. Sia moralmente sia materialmente c'era, in queste donne e fanciulle di vecchia stirpe ed educazione britanniche, una fibra più grossolana di quella delle loro belle discendenti, dalle quali le dividono sei o sette generazioni: infatti attraverso tutta questa catena atavica ogni madre ha trasmesso alla sua prole un sangue più delicato, una bellezza più fine e più effimera, e una complessione più snella, se non un carattere dotato di minor saldezza e resistenza del proprio. Le donne raccolte davanti alla porta della prigione non distavano più di mezzo secolo dall'epoca in cui la virile Elisabetta era stata la rappresentante, tutt'altro che inadatta, del proprio sesso. Esse erano sue concittadine, e la carne di bue e la birra del loro paese, accompagnate da una dieta morale altrettanto raffinata, entravano in gran parte nella loro costituzione. Il luminoso sole del mattino splendeva dunque su spalle larghe e busti ben sviluppati, e su gote tornite e rubiconde che, maturate nell'isola lontana, non erano ancora impallidite né sfiorite nell'atmosfera della Nuova Inghilterra. Si sarebbe potuto notare inoltre in quelle rispettabili matrone (perché tali sembravano nella maggioranza) un eloquio audace e colorito che oggi non mancherebbe di stupirci sia per il suo contenuto sia per il suo tono.
"Comari", diceva una cinquantenne signora dai lineamenti duri, "vi dirò come la penso. Andrebbe certamente a vantaggio del pubblico bene se a noi, donne d'età ormai matura e membri stimati della congregazione, venisse affidato il giudizio di peccatrici come quella Hester Prynne. Che ve ne pare, amiche? Se quella poco di buono avesse per giudici noi cinque qui riunite in gruppo se la caverebbe forse con una sentenza come quella che ha ottenuto dai degni magistrati? Perdinci, mi immagino di no!".
"Ho sentito dire", fece un'altra, "che il reverendo padre Dimmesdale, il suo buon pastore, è infinitamente dispiaciuto che uno scandalo come questo sia piombato sulla sua congregazione".
"I magistrati sono gentiluomini timorati di Dio, ma hanno troppa compassione, questo è certo", aggiunse una terza matrona parecchio avanti negli anni. "Avrebbero dovuto almeno imporre un marchio di ferro rovente sulla fronte di Hester Prynne. Allora sì che non avrebbe fatto l'insolente, la signora Hester, ve lo dico io. Ma lei, quel bell'arnese, sta proprio a preoccuparsi di ciò che le attaccano sul vestito? Ma se basta, guardate, se basta che lo copra con una spilla o con qualche altro ornamento pagano, per andarsene per le strade più fiera che mai!".
"Ah, no", osservò in tono più blando una sposina, che teneva un bimbo per mano, "anche se coprirà il segno, gli resterà sempre il marchio nel cuore".
"Ma cosa ce ne stiamo a parlare di segni e contrassegni, sul corpetto del vestito o sulla carne della fronte?" gridò un'altra donna, la più brutta e la più spietata di questo consesso che si arrogava il diritto di giudicare. "Questa donna ci ha tutte disonorate, e bisognerebbe ucciderla. Non c'è nessuna legge che lo dica? Ce n'è una, in verità, nella Scrittura e nel nostro statuto; e i magistrati, che l'hanno posta in non cale, dovranno ringraziare se stessi se le loro mogli e le loro figlie usciranno dal seminato!".
"Dio ci scampi, buona donna", esclamò un uomo in mezzo alla folla, "non c'è dunque nella donna altra virtù che non venga dal salutare terrore del patibolo? Mi sembra esagerato affermarlo! E ora via, comari! Ecco che si apre la porta, e viene la signora Prynne in persona".
La porta della prigione era stata infatti spalancata dall'interno, e inquadrata in essa prima di tutto apparve, come un'ombra nera che si inoltra nel sole, la figura tetra e orribile del birro della città, con la spada al fianco, e in mano la mazza propria della sua carica. Questi nel suo aspetto personificava tutta la funerea severità del codice puritano, che aveva l'incarico d'applicare con estremo rigore sulla persona del colpevole.
Stendendo rigidamente la mazza che teneva nella sinistra, pose la destra sulla spalla di una giovane donna, che spinse in questa maniera fino alla porta, dove lei lo respinse con un gesto pieno di dignità e di naturale forza di carattere, avanzando all'aperto come di sua spontanea volontà. Portava tra le braccia una bambina di circa tre mesi, che ammiccava e cercava di allontanare il visino dalla luce troppo forte del giorno, perché fino a quel momento la vita non le aveva mostrato che il grigio crepuscolo di un sotterraneo, o qualche altro oscuro recesso della prigione.
Quando la giovane madre della bimba comparve al cospetto della folla, sembrò che il suo primo impulso fosse di stringersi forte la creatura al seno, non tanto per uno slancio di amor materno, quanto per nascondere così un certo segno, che era cucito o appuntato sul vestito. Subito dopo però, giudicando saggiamente che un segno della sua vergogna non sarebbe molto servito a nasconderne un altro, prese in braccio la bambina, e con il volto in fiamme, ma con un sorriso di sfida, e uno sguardo niente affatto intimidito, scrutò i suoi concittadini e i suoi vicini.
Sul petto del vestito spiccava la lettera A, di fine tessuto rosso, circondata da un elaborato ricamo e da fantasiose fioriture di filo d'oro. Era eseguita con tanta arte, e con tanta ricchezza e sfoggio d'immaginazione, che sembrava quasi un ultimo e intonatissimo accessorio dell'abito che indossava, ed era di uno splendore in accordo col gusto del tempo, ma ben al di sopra di ciò che era consentito dalle spartane regole della comunità.
La giovane era alta, con una figura armoniosa ed elegante. Aveva una massa di capelli castano-scuri, così lucenti che riflettevano con dei barbagli i raggi del sole, e il suo volto, oltre a essere bello per la regolarità dei lineamenti e la magnificenza dell'incarnato, doveva la ricchezza dell'espressione alle sopracciglia ben disegnate e ai profondi occhi neri. Aveva anche un portamento da gran signora, secondo l'ideale di bellezza femminile del tempo, caratterizzata più da una certa maestà e dignità che da quell'indescrivibile grazia evanescente che piace ai nostri giorni. Mai Hester Prynne aveva avuto un'aria più da gran signora, nell'antica accezione del termine, che alla sua uscita dalla prigione. Quelli che l'avevano conosciuta prima, e si erano aspettati di vederla coperta e velata dalla nube della sventura, rimasero attoniti, e perfino scandalizzati, nel vederla risplendere di una bellezza che trasformava in aureola la sfortuna e l'ignominia che l'avevano colpita. Forse un osservatore più sensibile avrebbe potuto notare in essa qualcosa di squisitamente doloroso. L'abito della donna, che lei stessa si era cucito per l'occasione in carcere, e che aveva tagliato seguendo la propria fantasia, sembrava esprimere l'atteggiamento del suo spirito, la disperata irrequietezza del suo io, con la sua stravaganza selvaggia e pittoresca. Ma il particolare che attirava tutti gli sguardi e, per così dire, trasfigurava colei sulla quale si trovava (al punto che uomini e donne che erano stati in relazione d'amicizia con Hester Prynne rimasero impressionati come se la vedessero allora per la prima volta), era la LETTERA SCARLATTA ricamata in modo così fantastico e splendente sul suo petto. Aveva l'effetto di un incantesimo che la ponesse al di fuori dei normali rapporti con il resto dell'umanità per includerla in una sua sfera particolare.
"Se la sa cavare con l'ago, questo è un fatto", fece notare una delle spettatrici; "ma quale donna, prima di questa peccatrice sfrontata, se n'è mai vantata con tanta spudoratezza? Ma insomma, comari, questo è ridere in faccia ai nostri magistrati, se ci si adorna di ciò che questi buoni e degni gentiluomini hanno stabilito come punizione!".
"Non sarebbe male", bofonchiò la vecchia dal volto più indurito, "strappare questo bel vestito dalle graziose spalle della signora Hester; e per quanto riguarda la lettera che ha lavorato con tanta bizzarria, le potrei prestare un pezzo della flanella che uso per i miei reumatismi per farsene una più adatta!".
"Oh, vi prego, buone vicine, piano!" sussurrò la loro compagna più giovane; "non vi dovesse sentire! Non c'è un punto di quella lettera ricamata che non le abbia attraversato il cuore".
Il tetro sbirro fece un cenno con la mazza. "Fate largo, buona gente! Fate largo, in nome del re!" gridò. "Aprite un varco e vi prometto che la signora Prynne sarà posta là dove uomini, donne e bambini possano vedere bene il suo ornamento per tutto il tempo da adesso all'una del pomeriggio. Sia benedetta l'onesta colonia del Massachusetts, dove l'iniquità viene portata alla luce del sole!
Venite, signora Hester, venite a mostrare la vostra lettera scarlatta sulla piazza del mercato!".
Tra la folla degli spettatori si aprì immediatamente un varco.
Preceduta dal birro, e seguita da una disordinata processione di uomini severi e di donne malevole, Hester Prynne si avviò al luogo destinato alla sua punizione. Una turba di scolari eccitati e curiosi, senza capire bene di cosa si trattasse, a parte la mezza giornata di vacanza, correva al corteo, girando sempre la testa per guardare il suo volto, la bambina che le ammiccava in braccio, e la vergognosa lettera sul petto. A quei tempi non c'era molta strada tra la prigione e la piazza del mercato, ma alla prigioniera parve un viaggio di notevole lunghezza, perché, orgogliosa com'era, forse si sentiva morire a ogni passo di quelli che si affollavano per vederla, come se il suo cuore fosse stato gettato in terra per essere vilipeso e calpestato da tutti. Nella nostra natura, comunque, c'è una facoltà mirabile, e insieme pietosa, per cui chi soffre non conosce mai l'intensità del dolore che sopporta dalla tortura presente, ma piuttosto dal tormento che le tiene dietro. Fu perciò con animo quasi sereno che Hester Prynne affrontò questa parte del suo martirio, per arrivare a una sorta di palco, sul lato orientale della piazza del mercato. Esso era situato quasi sotto il cornicione della prima chiesa di Boston, e aveva tutta l'aria di essere un'istituzione del luogo.
In effetti quel palco faceva parte di un sistema penale che da due o tre generazioni è diventato un semplice relitto storico e tradizionale, ma che nei tempi passati fu considerato uno strumento necessario alla formazione dei buoni cittadini non meno della ghigliottina fra i terroristi francesi. In breve, era la piattaforma della gogna; e sopra a esso sorgeva l'intelaiatura di quell'ordigno di disciplina, congegnato in modo da mantenere la testa umana nella sua stretta spietata, esponendola così agli sguardi del pubblico. L'ideale stesso dell'ignominia era impersonato ed espresso da questa costruzione di legno e ferro.
Non esiste oltraggio alla nostra comune natura, secondo me, qualunque sia la colpa commessa, non esiste oltraggio più bruciante che proibire al colpevole di nascondere il suo volto per la vergogna; e questa era la sostanza della punizione. Nel caso di Hester Prynne, tuttavia, come in parecchi altri, la sentenza non la costringeva a quella stretta del collo e all'imprigionamento del capo, che costituiva la caratteristica più diabolica di quest'orribile macchina: lei doveva soltanto rimanere per un certo tempo sul palco. Ben conoscendo la propria parte, la donna salì la scaletta di legno, e si espose alla moltitudine che l'attorniava a una distanza dal livello stradale uguale all'incirca a quella che da esso ha la spalla d'un uomo.
Se tra la folla di puritani ci fosse stato un papista, l'aspetto di questa donna di tanta bellezza, così pittoresca nel suo abbigliamento e quella sua posa, con la bimba al collo, avrebbe potuto ricordargli l'immagine della Divina Maternità che tanti illustri pittori hanno rivaleggiato nel rappresentare; qualcosa che avrebbe potuto richiamare alla mente, per contrasto, quella sacra immagine di maternità immacolata, il cui frutto avrebbe redento il mondo. Qui c'era invece la macchia di un peccato infamante nella più sacra funzione della vita umana, e faceva sì che il mondo diventasse più tetro in conseguenza della bellezza di quella donna, e più colpevole per la fanciulla che lei aveva generato.
Non mancava alla scena quel senso di timore riverenziale che sempre si accompagna allo spettacolo delle colpe e delle vergogne del nostro prossimo, prima che la società sia diventata così corrotta da riderne piuttosto che rabbrividirne. I testimoni della vergogna di Hester Prynne non avevano ancora perso il loro candore. Essi erano abbastanza rigidi da accettarne la condanna a morte, se questa fosse stata la sentenza, senza mormorare contro la severità di essa, ma non avevano l'aridità di cuore di altri ceti sociali, che non avrebbero trovato nello spettacolo presente altro che un pretesto di derisione. Se anche qualcuno si fosse sentito portato a volgere la cosa in ridicolo, questa disposizione d'animo sarebbe stata repressa e sopraffatta dalla solenne presenza di uomini di elevata dignità come il governatore e diversi suoi consiglieri, un giudice, un generale, e i ministri della città, i quali sedevano tutti insieme su un balcone del locale del culto che dava sul patibolo. In un periodo in cui personaggi di tale rango potevano partecipare allo spettacolo senza compromettere la maestà e il rispetto di cui erano circondati la loro posizione ed il loro titolo, si può dire senza temere di sbagliare che una sentenza del tribunale possedeva un profondo e reale significato. Di conseguenza, la folla era seria e cupa. La sventurata colpevole si comportava come meglio poteva una donna oppressa dallo sguardo di mille occhi instancabili, tutti puntati su di lei e concentrati sul suo petto. Era quasi impossibile sopportarlo. Di carattere impulsivo e appassionato, si era preparata a subire le punture e le pugnalate velenose del pubblico vituperio, che si fosse sfogato in ogni specie di insulti; c'era però qualcosa di tanto più spaventoso nell'umore solenne della gente, che avrebbe preferito vedere tutte quelle rigide fisionomie contorte negli scherni più crudeli, ed esserne lei stessa oggetto. Se dalla moltitudine fosse esplosa una salva di sghignazzate, alla quale contribuisse per conto suo ogni donna, ogni uomo, ogni fanciullo, Hester Prynne avrebbe potuto ricambiarli tutti con un sorriso amaro e sdegnoso; ma sotto la plumbea condanna che era destinata a sopportare essa ebbe momenti nei quali fu presa da un impulso irresistibile di gridare con tutto il fiato che aveva in corpo, e gettarsi dal palco, o perdere la ragione d'un colpo.
C'erano però degli intervalli durante i quali l'intera scena, di cui lei era l'oggetto più notevole, pareva svanire alla sua vista, o almeno trasformarsi in un'indistinta macchia di colori, come un'accolta di immagini informi e spettrali. La sua mente, e più ancora la sua memoria, erano alacri in un modo fuori del comune, e le presentavano continuamente scene ben diverse da questa stradina mal pavimentata di una cittadina, al margine dell'Ovest selvaggio, e visi che non somigliavano a quelli che la scrutavano di sotto le falde di quegli alti cappelli a cono. Le reminiscenze più fuggevoli e immateriali, attimi dell'infanzia e dei giorni di scuola, di divertimenti, di capricci infantili, e i fatterelli domestici della sua vita di ragazza, si affollavano nella sua mente, intimamente uniti a ricordi di quel che c'era stato di più serio nella sua vita successiva, ogni immagine vivida e precisa come le altre, come se tutte fossero state della stessa importanza, o come scene di uno stesso dramma. Forse era un istintivo meccanismo di autodifesa del suo spirito per evitarle, col mostrarle queste forme fantasmagoriche, la disperazione, che le sarebbe venuta dal peso crudele e dalla durezza della realtà.
Comunque sia, il palco della gogna fu per Hester Prynne come un posto d'osservazione che le mostrò tutto il cammino che aveva percorso dalla sua serena infanzia. In piedi su quel miserevole rialzo, rivide il villaggio dov'era nata, nella vecchia Inghilterra, e la dimora paterna: una casa decrepita di pietra grigia, dall'aria impoverita, ma imbellita da uno stemma gentilizio semicancellato sopra il portale, a testimonianza di un'antica nobiltà. Vide il volto di suo padre, la testa calva e l'imponente barba bianca che scendeva sull'antiquato colletto elisabettiano; e vide quello di sua madre, con l'espressione d'affetto e di premura che nel suo ricordo non si scindeva mai da quei lineamenti, e che tante volte, dalla sua morte, si era messo attraverso il sentiero della figlia opponendole garbate rimostranze. Vide il suo stesso volto, illuminato di bellezza giovanile, accendere di luce tutto il fondo dello specchio oscuro in cui era costretto a guardarsi, e dove poteva scorgere un'altra fisionomia, quella di un uomo avanti negli anni, un viso pallido e sottile di studioso, dagli occhi oscuri e arrossati dalla lampada che lo aveva aiutato a scrutare nel contenuto di tanti e tanti pesanti volumi. Quegli occhi arrossati, tuttavia, avevano un conturbante potere di penetrazione quando l'intento del loro possessore era di leggere nelle anime umane. Questo personaggio di studio e di chiostro, come la fantasia femminile di Hester non mancò di rievocare, era leggermente deforme nelle spalle, una delle quali, la destra, era un po' più bassa dell'altra. Subito dopo le sorsero davanti, nella pinacoteca della memoria, le viuzze strette e tortuose, le case alte e grigie, le immense cattedrali e gli edifici pubblici d'antica data e di bizzarra architettura di una città del Continente, dove una nuova vita l'aveva attesa, sempre assieme al deforme studioso: una vita nuova, ma fondata su materiali corrosi dal tempo, come una chiazza di musco verde su un muro che si stia sgretolando. Infine, al posto di queste mutevoli scene, tornava la rustica piazza del mercato della colonia puritana, con tutta la folla radunata dei cittadini, i suoi severi sguardi erano fissi su Hester Prynne - sì, proprio su di lei - dritta sul palco della gogna, con una bimba in braccio, e la lettera A, scarlatta, meravigliosamente ricamata in filo d'oro sul suo petto!
Poteva esser vero? Strinse la creatura al petto con tanta forza da farla gridare; abbassò gli occhi alla lettera scarlatta e la toccò anche con un dito, per accertarsi che la bimba e la sua infamia non fossero un sogno. Sì, questa era la sua realtà, tutto il resto era scomparso!
3. IL RICONOSCIMENTO
Da tale acuta sensazione d'essere l'oggetto della severa attenzione di tutti, la portatrice della lettera scarlatta fu alla fine distolta fine scorgendo, ai margini della folla, una figura che s'impadronì irresistibilmente dei suoi pensieri. C'era un indiano in piedi, nel suo costume primitivo, ma i pellirosse non erano ospiti tanto insoliti in una colonia inglese da attrarre i pensieri di Hester Prynne in un momento del genere, e tanto meno da scacciarle dalla mente ogni altro oggetto di meditazione.
Accanto all'indiano, però, ed evidentemente in sua compagnia, c'era un bianco, abbigliato in un costume bizzarro, fra il selvaggio e il civilizzato.
Era di piccola statura e aveva un volto rugoso che a rigor di termini non si sarebbe potuto definire vecchio. I suoi lineamenti denotavano un'intelligenza particolare, com'era inevitabile che succedesse a uno che aveva tanto coltivato il suo spirito da non potergli impedire di fondersi col suo stesso corpo, e di manifestarsi con caratteristiche inconfondibili. Benché avesse cercato, con un abbigliamento apparentemente trasandato ed eterogeneo, di nascondere o di minimizzare queste sue caratteristiche, Hester Prynne non poté non accorgersi che una delle spalle dell'uomo era leggermente più alta dell'altra. Non appena ebbe scorto quel viso emaciato e quella lieve deformità della figura, si strinse di nuovo la bimba al petto con una forza tanto convulsa che la povera creatura emise un altro strillo di dolore; ma sembrò che la madre neppure la udisse.
Fin dal suo arrivo sulla piazza del mercato, qualche tempo prima che la donna lo vedesse, lo straniero aveva fissato lo sguardo su Hester Prynne, prima con indifferenza, da uomo abituato a rivolgere la sua attenzione soprattutto all'intimo, e per il quale le circostanze esteriori sono di scarso valore e senza importanza, a meno che non si accordino con i suoi pensieri. Presto però il suo sguardo divenne acuto e penetrante. Uno spasimo d'orrore gli sconvolse i lineamenti, come se un serpente, strisciandoci sopra, si fosse fermato per un istante, mostrando tutte le sue spire. Il suo volto si oscurò sotto l'effetto di un'emozione violenta, che egli tuttavia riuscì a controllare così rapidamente con uno sforzo di volontà che un momento dopo la sua espressione poteva sembrare tranquilla. Dopo un breve intervallo, lo spasimo si fece quasi impercettibile, e poi scomparve nelle profondità della sua anima.
Quando scoprì gli occhi di Hester Prynne fissi sui suoi, e comprese di essere stato riconosciuto, alzò un dito con un movimento lento e tranquillo, fece con esso un cenno nell'aria e se lo posò sulle labbra.
Si rivolse poi, toccandolo sulla spalla, a un cittadino che gli stava accanto, e gli chiese in modo affettato e cortese:
"Per cortesia, gentile signore, chi è quella donna? E perché si trova qui esposta alla vergogna pubblica?".
"Dovete essere forestiero in questa regione, amico", rispose il cittadino, osservando con curiosità il suo interlocutore e il suo selvaggio compagno, "altrimenti non ignorereste certo la storia della signora Hester Prynne e delle sue malefatte. Ha dato grande scandalo, vi assicuro, nella santa chiesa del pio pastore Dimmesdale!".
"Dite il vero", rispose l'altro, "sono forestiero, e ho girovagato a lungo, anche se non per mia volontà. Ho assistito a terribili sciagure in terra e sul mare, e per molto tempo i pagani del sud mi hanno tenuto prigioniero; solo ora questo indiano mi ha portato qui per essere riscattato dalla prigionia. Vorreste quindi essere così gentile da raccontarmi qualcosa di questa Hester Prynne, se questo è il suo nome, dei delitti di questa donna, e di ciò che l'ha portata su quel patibolo?".
"In tutta sincerità, amico; e credo che vi si rallegrerà il cuore, dopo le vostre sventure e la vostra vita tra i selvaggi, nel ritrovarvi infine in una terra dove l'iniquità sia perseguitata e punita sotto gli occhi dei giudici e del popolo, come qui nella nostra benedetta Nuova Inghilterra. Dovete sapere, signore, che quella donna era la moglie di un uomo di scienza, inglese di nascita, che però aveva vissuto per molto tempo ad Amsterdam, dalla quale molti anni or sono aveva deciso di partire per attraversare l'oceano e riunirsi alla sua gente qui nel Massachussetts. A tale scopo mandò qui prima la moglie e rimase indietro per occuparsi di certi affari importanti. Perbacco, signore, da un paio d'anni, o poco meno, che la donna abita a Boston, non si sono avute notizie di sorta di questo dotto gentiluomo, il signor Prynne; e la sua giovane moglie, capite, ridotta a condursi malamente da se stessa... ".
"Ah, ah, vi capisco bene!" disse il forestiero con un sorriso amaro. "Un uomo dotto come voi dite avrebbe dovuto imparare anche questo nei suoi libri. E, se non vi spiace, signore, chi sarebbe il padre di quella creatura... dovrebbe avere tre o quattro mesi, penso... che la signora Prynne stringe tra le braccia?".
"In verità, amico, questo rimane un mistero, e ancora si aspetta il Daniele che scioglierà l'enigma", rispose il cittadino. "Madama Hester si rifiuta decisamente di farne il nome, e invano i magistrati si sono lambiccati il cervello in assemblea. Forse il colpevole assiste anche lui a questo triste spettacolo, sconosciuto a tutti, dimenticando che Dio lo vede".
"Quest'uomo di scienza", osservò il forestiero, sorridendo di nuovo, "dovrebbe venire lui stesso a risolvere il mistero".
"Spetterebbe certamente a lui, se fosse in vita", ammise il cittadino. "Dunque, mio buon signore, i nostri magistrati del Massachusetts, considerando che la donna è giovane e bella, e che senza dubbio fu fortemente tentata prima della sua caduta, e che, per di più, suo marito potrebbe trovarsi in fondo al mare, non hanno voluto applicare contro di lei gli estremi della nostra giusta legge, che avrebbe significato la sua morte. Nella loro grande misericordia e bontà d'animo hanno condannato la signora Prynne a esporsi per tre ore soltanto sul palco della gogna, portando da allora in poi sul petto un marchio d'infamia per tutto il resto della sua vita".
"Una saggia sentenza!" commentò il forestiero, chinando il capo con gravità. "Lei sarà un sermone vivente contro il peccato, fino a che la lettera ignominiosa non sarà scolpita sulla sua lapide.
Ciò nonostante mi spiace che il suo compagno di iniquità non si trovi con lei sul palco, al suo fianco. Ma si saprà chi è! Si saprà! Si saprà!".
Si inchinò cortesemente al loquace cittadino, e sussurrando qualche parola al suo aiutante indiano si fecero strada insieme attraverso la folla.
Mentre avveniva questo dialogo, Hester Prynne era rimasta in piedi sul suo palco, sempre con lo sguardo fisso sul forestiero; uno sguardo così fisso che, nei momenti di massima concentrazione, le pareva che ogni altro oggetto del mondo visibile svanisse, lasciando soltanto lui e lei soli. Una faccenda del genere, forse, sarebbe stata ancora più terribile che incontrarlo come ora avveniva, col caldo sole di mezzogiorno che le scottava il viso, illuminando la sua vergogna, col figlio del peccato che stringeva tra le braccia, col marchio scarlatto dell'infamia sul petto, con una folla intera, radunata come per una festa a spiare quei lineamenti che avrebbero dovuto essere visti soltanto al quieto lume del focolare, nell'ombra serena di una casa, o nascosti da un velo dignitoso in chiesa: per spaventoso che fosse, lei si sentiva protetta dalla presenza di quelle migliaia di testimoni. Era meglio stare in piedi così, con tante persone tra lui e lei, che trovarsi a tu per tu con lui solo. Essa cercò rifugio, per così dire, nell'esposizione alla folla, tremando per il momento in cui sarebbe stata privata di questa protezione. E tutta presa da questi pensieri, non sentì quasi una voce dietro di lei, finché non ebbe ripetuto il suo nome più d'una volta, in tono alto e solenne perché tutta la gente radunata in piazza potesse sentire.
"Ascoltami, Hester Prynne!" disse la voce.
Si è già fatto notare che sopra il palco sul quale si trovava Hester Prynne sporgeva una specie di balconata, o di galleria aperta, annessa al locale del culto. Da qui si usava leggere i proclami, nelle assemblee dei magistrati, con tutto il cerimoniale che accompagnava le solennità pubbliche di quei tempi. Qui, spettatore della scena che abbiamo descritto, sedeva il governatore Bellingham in persona, con quattro sergenti intorno alla scranna, ognuno con una lunga alabarda di guardia d'onore.
Aveva una piuma scura sul cappello, un orlo di pizzo al bavero del mantello, e sotto indossava una tunica di velluto nero, come si conveniva a un gentiluomo d'età avanzata, le cui dure esperienze erano incise sul volto rugoso. Non era inadatto a rappresentare e a dirigere una comunità che doveva le sue origini e il suo sviluppo, e il suo attuale stato di prosperità, non agli impulsi della gioventù, ma alle energie temperate e costanti della virilità e alla grigia sagacia dell'età più matura, e che aveva ottenuto dei risultati così promettenti proprio perché aveva nutrito così poche fantasie e speranze. Gli altri notabili che facevano corona al giudice supremo erano caratterizzati da un portamento dignitoso, come doveva essere in un'epoca in cui l'autorità era considerata parte delle istituzioni divine. Erano certamente uomini virtuosi, giusti e saggi. Ma non sarebbe stato facile scegliere in tutto il consorzio umano lo stesso numero di persone sagge e virtuose meno adatte a esprimere il loro giudizio sugli errori di un cuore femminile, e a discernere in esso l'intrigo di bene e di male, di questi saggi d'aspetto severo verso i quali Hester Prynne ora volgeva il viso. Parve rendersi conto che qualunque simpatia lei si potesse aspettare, si trovava nel cuore più vasto e più caldo della folla, perché, quando volse gli occhi al balcone, l'infelice impallidì e fu scossa da un tremito.
La voce che aveva richiamato la sua attenzione era quella del venerabile e famoso John Wilson, il più vecchio religioso di Boston, profondo studioso, come la maggior parte dei suoi colleghi del tempo, e per giunta d'animo buono e cordiale. Quest'ultima dote, però, non era stata coltivata con la stessa cura dedicata alle sue facoltà intellettuali, e a dire il vero, egli se ne vergognava più che andarne orgoglioso. Ora era in piedi sul balcone, e un ricciolo di capelli grigi gli sfuggiva dallo zucchetto, mentre gli occhi chiari, abituati alla penombra del suo studio, ammiccavano, come quelli della bimba di Hester, alla luce diretta del sole. Sembrava uno di quei ritratti ingialliti che si trovano sul frontespizio dei vecchi libri di sermoni, e non aveva più diritto di quanto ne avrebbe avuto uno di quei ritratti, di farsi avanti, come fece, per immischiarsi in un problema di colpevolezza umana, di passione e di dolore.
"Hester Prynne", disse l'ecclesiastico, "ho discusso a lungo con questo mio giovane confratello dal quale avete avuto la fortuna di sentir predicare la Parola (a questo punto il reverendo Wilson pose la mano sulla spalla di un giovane pallido che gli sedeva accanto); ho cercato, dico, di persuadere questo santo giovane a parlare con voi, qui di fronte al Cielo, e davanti a questi saggi ed equanimi giudici, al cospetto del popolo intero, della bassezza e della gravità del vostro peccato. Lui, che conosce meglio di me il vostro carattere, potrebbe scegliere meglio gli argomenti da usare, se la tenerezza o il rigore, per aver ragione della vostra inveterata durezza e ostinazione nel nascondere fino a ora il nome di chi vi ha indotta a compiere un delitto così atroce. Lui però ribatte, con la dolcezza estrema di un giovane, quantunque più saggio di quel che non comportino i suoi anni, che sarebbe fare un torto alla natura stessa della donna costringerla a rivelare i segreti del suo cuore così alla piena luce del giorno, e in presenza di una folla così numerosa. E' vero, come ho cercato di fargli capire, che la vergogna è nel commettere il peccato, e non nel confessarlo. Ancora una volta, cosa avete da rispondermi, fratello Dimmesdale? Chi di noi due avrà cura dell'anima di questa peccatrice?".
Ci fu un mormorio tra i dignitosi e venerabili occupanti del balcone, e il governatore Bellingham se ne fece interprete, parlando in tono autoritario, anche se temperato dal rispetto per il giovane ecclesiastico al quale si rivolgeva.
"Buon pastore Dimmesdale", disse, "la responsabilità dell'anima di questa donna è in gran parte vostra, e spetta quindi a voi esortarla al pentimento e alla confessione, come prova e come conseguenza del suo fallo".
Un appello così diretto non poteva fare a meno di richiamare l'attenzione della folla intera sul reverendo pastore Dimmesdale, giovane ecclesiastico proveniente da una delle maggiori università inglesi, che aveva portato con sé tutta la scienza del tempo in quei boschi selvaggi. La sua eloquenza e il suo fervore religioso avevano già dimostrato che era destinato a eccellere nel suo ufficio: il suo volto colpiva dal primo istante, con la fronte bianca, ampia, pensosa, gli occhi scuri grandi e malinconici, e la bocca che, quando non la stringeva con forza, vibrava esprimendo una sensibilità nervosa e un forte potere di autocontrollo.
Nonostante i suoi grandi talenti innati e i suoi progressi negli studi, il giovane ecclesiastico aveva un'aria preoccupata, timida, quasi spaventata, come di un essere che non si sentiva a suo agio, sperduto nel sentiero dell'esistenza terrena, e che poteva trovarsi bene soltanto raccolto in se stesso. Si teneva infatti in disparte, per quel che gli consentivano i suoi impegni, per le ombrose strade secondarie della vita, riuscendo così a mantenersi semplice e simile a un fanciullo, uscendone, quando ne capitava l'occasione, con una freschezza, una fragranza e una cristallina purezza di pensiero che, come dicevano molte persone, le colpiva come la voce di un angelo.
Era questo il giovane che le parole del reverendo Wilson e del governatore avevano esposto così apertamente all'attenzione generale, costringendolo a parlare, al cospetto di tutti i presenti, e a rivolgersi al mistero di quell'anima femminile, così casta anche nella sua contaminazione. L'importanza della posizione in cui veniva posto da questa richiesta lo fece impallidire, e gli fece tremare le labbra.
"Parla alla donna, fratello mio", disse il reverendo Wilson. "E' di capitale importanza che tu lo faccia per la sua anima, e quindi, come dice il degno governatore, anche per la tua, alla quale essa è affidata. Esortala a confessare la verità!".
Il reverendo pastore Dimmesdale chinò la testa in silenziosa orazione, come parve, e poi si fece avanti.
"Hester Prynne", disse, chinandosi sulla balaustra e fissandola negli occhi, "tu senti cosa dice questo buon uomo, e conosci la responsabilità che mi tormenta. Se credi che questo possa essere di qualche profitto per la pace della tua anima, e che la tua punizione diventerà così strumento più efficace della sua salvezza, ti impongo di dire il nome di colui che è stato il tuo compagno nel peccato ed è ora il tuo compagno nella sofferenza!
Non tacere per una malintesa pietà o tenerezza nei suoi confronti, perché, credimi, Hester, se anche dovesse scendere dall'alto per venirti accanto, sul tuo palco di vergogna, sarebbe cosa migliore che nascondere un cuore colpevole per tutta la vita. A cosa può servirgli il tuo silenzio, se non a tentarlo, a costringerlo, forse, ad aggiungere l'ipocrisia al peccato? Il Cielo ha voluto concederti una vergogna palese, per mezzo della quale potrai operare un trionfo completo sul male che è dentro di te, e sul dolore che è al di fuori. Bada, che tu gli sottrai il calice amaro ma salutare, che forse egli non ha il coraggio di afferrare da solo, e che ora viene offerto alle tue labbra!".
La voce del giovane pastore tremava, dolce, ricca, profonda, e rotta dalla commozione. Più che il semplice significato delle parole, era il sentimento che esse esprimevano con tanta evidenza che faceva vibrare i cuori dei presenti, e univa tutti gli ascoltatori in un unico accordo di simpatia. Anche la povera bimba al collo di Hester subì la stessa influenza, perché diresse il suo sguardo, che fino a quel momento non aveva avuto nessun oggetto preciso, sul signor Dimmesdale, alzando le piccole braccia con un mormorio a metà compiaciuto e a metà addolorato. L'appello del ministro sembrò così irresistibile che la gente non poteva fare a meno di credere che Hester Prynne pronunciasse il nome del colpevole, o che il colpevole stesso, non importa se fosse di elevata o di bassa condizione, sarebbe stato sospinto da un bisogno interiore e insopprimibile che lo costringesse a salire sul palco. Hester scosse il capo.
"Donna, non oltrepassare i limiti della misericordia celeste!" gridò il reverendo Wilson, con maggior asprezza di prima. "Una voce ha parlato in quella piccola innocente per confermare e dare forza a quello che hai sentito. Di' quel nome! Il nome, e il tuo pentimento, potranno fare sparire la lettera scarlatta dal tuo petto".
"Mai", replicò Hester Prynne, fissando non il pastore Wilson, ma gli occhi profondi e turbati del sacerdote più giovane. "Essa vi è impressa ormai troppo profondamente e non potete più cancellarla.
E potessi sopportare io stessa la sua agonia, oltre la mia!".
"Parla, donna", disse un'altra voce, fredda e severa, proveniente dalla folla che circondava il patibolo. "Parla, e dai un padre alla creatura che hai generato!".
"Non parlerò!" rispose Hester, pallida come una morta nel rispondere a questa voce, che aveva ben riconosciuto. "Mia figlia dovrà cercarsi un padre celeste, perché quello terreno non lo conoscerà mai!".
"Non parlerà!" mormorò Dimmesdale, che aveva atteso la risposta alla sua invocazione proteso sul balcone, con la mano sul cuore.
Si ritrasse quindi con un respiro profondo. "Mirabile forza e generosità di un cuore di donna! Non parlerà!".
Vista l'assoluta reticenza della sciagurata colpevole, il vecchio ecclesiastico, che si era preparato con cura per l'occasione, rivolse alla folla un discorso sul peccato in tutte le sue possibili forme, non senza continui riferimenti alla lettera ignominiosa. Si dilungò su questo simbolo con tanta veemenza, per l'ora abbondante nella quale fece tuonare le sue frasi sulle teste della gente, che esso evocò nuovi terrori nella loro immaginazione, così che il suo stesso colore scarlatto parve essere un'emanazione delle fiamme del baratro infernale. Intanto Hester Prynne restava in piedi sul palco della vergogna, con gli occhi attoniti e un'espressione di stanca indifferenza. Aveva sofferto quella mattina tutto ciò che la natura poteva sopportare, e non essendo di quelle persone che possono sfuggire alle sofferenze troppo violente con uno svenimento, il suo animo poteva soltanto trincerarsi dietro una crosta marmorea di insensibilità, senza che ne restassero menomate le sue facoltà fisiche. In questo stato rimase, mentre la voce del predicatore rimbombava spietatamente, ma inutilmente, su di lei. La bimba, per tutta la parte finale della requisitoria, aveva rotto il silenzio con strilli e vagiti: lei cercò di calmarla, meccanicamente, ma parve interessarsi poco della sua agitazione. Fu ricondotta in prigione con la stessa aria severa, e scomparve alla vista del pubblico dietro la grande porta ferrata. Quelli che l'avevano seguita con lo sguardo sussurrarono che la lettera scarlatta aveva rischiarato l'oscuro corridoio che portava alle celle con un livido luccichìo.
4. L'INCONTRO
Tornata in prigione, Hester Prynne apparve in uno stato di eccitazione nervosa tale da richiedere una continua sorveglianza, nel timore che commettesse qualche violenza su se stessa, o si abbandonasse a qualche follia sulla povera bimba. Al calar della notte, vedendo che era impossibile calmare la sua agitazione con rimproveri o con minacce di punizione, il signor Brackett, il carceriere, pensò che fosse il caso di mandare a chiamare un medico. Lo descrisse come uomo versato in tutte le pratiche fisiologiche note al mondo cristiano, e nel contempo esperto di quanto potevano insegnare i popoli selvaggi riguardo alle erbe e alle radici medicinali che crescono nei boschi. A dire il vero, l'assistenza medica era ormai necessaria, non soltanto per Hester, ma con molta più urgenza per la piccola, che pareva aver succhiato con il latte della madre tutta la confusione, l'angoscia e la disperazione che avevano pervaso il suo organismo. Ora si dibatteva tra convulsioni dolorose e, nel suo piccolo corpo, sembrava un'esasperata rappresentazione dell'agonia morale che Hester Prynne aveva provato per tutto il giorno.
Al seguito del carceriere che gli faceva strada nella cella inospitale, apparve quell'uomo dal singolare aspetto, la cui presenza tra la folla aveva suscitato un interesse così profondo nella condannata. Egli veniva a vivere nella prigione, non come sospetto di qualche colpa, ma perché quello era il modo più conveniente e opportuno di alloggiarlo finché i magistrati non si fossero messi d'accordo con i capi indiani per quel che concerneva il suo riscatto. Si presentò sotto il nome di Roger Chillingworth.
Il carceriere, dopo averlo introdotto nella stanza, resto un attimo stupito per la relativa quiete che seguì al suo ingresso, perché Hester Prynne era diventata di colpo silenziosa come la morte, anche se la bimba continuava a lamentarsi.
"Ti prego, amico, lasciami solo con la mia malata", disse il medico. "Fidati di me, buon carceriere, presto ci sarà la pace nella tua casa, e ti prometto che la signora Prynne sarà d'ora in poi più obbediente verso l'autorità di quanto non lo sia mai stata".
"Ma davvero, se la vostra scienza può arrivare a tanto", rispose il signor Brackett, "dovrò proprio considerarvi un principe della vostra arte! In fede mia, questa donna si è comportata come un'invasata, e poco mancava che dalle parole io passassi ai fatti, per cacciar via Satana da lei a frustate".
Il forestiero era entrato nella stanza con la silenziosità caratteristica della professione alla quale dichiarava di appartenere, e il suo contegno non cambiò affatto quando, ritiratosi il carceriere, rimase a faccia a faccia con la donna, la cui intensa attenzione, fissa su di lui in mezzo alla folla, aveva mostrato l'esistenza di una relazione molto intima tra i due. Rivolse le sue prime cure alla bambina che si contorceva nel lettino a rotelle, perché le sue grida rendevano assolutamente necessario posporre ogni altra preoccupazione al compito di calmarla. Egli la esaminò con cura, e poi disfece un involto di pelle che aveva estratto dai suoi abiti. Scelse una delle medicine che conteneva, e la sciolse in una ciotola d'acqua.
"I miei vecchi studi d'alchimia", osservò poi, "e la mia permanenza per più di un anno tra gente molto esperta delle benefiche virtù dei semplici, hanno fatto di me un medico migliore di molti di quelli che ostentano un titolo di dottore. Ecco, donna! La creatura è tua, non mia di certo, e non riconoscerebbe in me suo padre dalla voce o dall'aspetto. Dalle quindi la pozione tu stessa, con le tue mani".
Hester respinse la medicina che le veniva offerta, guardando l'uomo con i segni della più profonda apprensione sul volto.
"Ti vendicheresti su questa creatura innocente?" bisbigliò.
"Stupida donna!" rispose il medico, in tono a metà freddo, a metà carezzevole. "Perché dovrei far del male a quest'illegittima e miserevole bambina? La medicina è solo per il suo bene, e se anche fosse figlia mia, sì, mia, oltre che tua, non avrei nulla di meglio da darle".
Poiché lei ancora esitava, non essendo certo in condizione di ragionare molto chiaramente, l'uomo prese la neonata in braccio, e le diede lui stesso la pozione. Questa non impiegò molto tempo a fare il suo effetto, e dimostrò la giustezza delle sue asserzioni.
I gemiti della piccola malata cessarono, e i suoi fremiti convulsi si acquietarono pian piano; poco dopo, come spesso avviene ai bambini quando sia cessato un forte dolore, cadde in un sonno profondo e salutare. Il medico, come aveva ben diritto di farsi chiamare, rivolse poi la sua attenzione alla madre. Con calma e attenzione profonda le tastò il polso, la fissò negli occhi, con uno sguardo che le diede una stretta al cuore e la fece rabbrividire, così familiare e contemporaneamente così freddo; e alla fine, compiuta la sua visita, si mise a preparare un'altra pozione.
"Non conosco Lete o Nepente", osservò, "ma ho imparato molti segreti lontano dalla civiltà, e qui ce n'è uno; è una ricetta che mi ha insegnato un indiano, in cambio di alcune lezioni dell'arte di Paracelso che io gli volli impartire. Bevila! Forse è meno confortevole di una coscienza innocente e senza peccato, ma quella non posso dartela. Calmerà il rumoreggiare delle onde della tua disperazione, come l'olio gettato sui cavalloni placa il mare in tempesta".
Porse la tazza a Hester, che la prese lentamente con un'espressione incerta, non proprio di paura, ma tuttavia piena di dubbio e di incertezza su quelle che potevano essere le sue intenzioni. Diede anche un'occhiata alla bambina che dormiva profondamente.
"Ho pensato alla morte", disse poi, "l'ho desiderata, avrei anche pregato di ottenerla, se una persona come me potesse pregare per qualcosa. Sì, se è morte che mi offri in questa tazza, devi pensarci ancora, prima di vedermela bere. Guarda! L'ho già portata alle labbra".
"Allora bevi", rispose l'uomo, sempre nello stesso atteggiamento freddo e composto. "Così poco mi conosci, Hester Prynne? Devono proprio essere così meschine le mie azioni? Se anche meditassi la vendetta, cosa potrei fare di meglio che lasciarti vivere, che darti medicine contro ogni male e contro ogni pericolo di morte, perché la tua bruciante vergogna continui a splenderti sul petto?". Parlando aveva posto l'indice sulla lettera scarlatta, che parve infiammarsi nel petto di Hester come se fosse stata di ferro rovente. Egli vide il suo involontario moto di ripulsa, e sorrise. "Vivi, dunque, e porta con te la tua condanna, davanti a ogni uomo e a ogni donna, davanti a quello che hai chiamato tuo marito, davanti agli occhi di quella bambina! E, perché tu viva, bevi questa pozione".
Senza ulteriori indugi od obiezioni, Hester vuotò la tazza e, a un gesto del medico, sedette sul letto dove dormiva la piccola, mentre lui prendeva l'unica sedia che c'era nella stanza e le si poneva accanto. Lei non poteva fare a meno di tremare durante questi preamboli, perché sentiva che, dopo aver compiuto tutto ciò che l'umanità, i princìpi o forse una raffinata crudeltà gli imponevano di fare, per sollevarla dalle sofferenze fisiche, ora si sarebbe rivolto a lei come l'uomo che era stato da lei offeso nel modo più profondo e irreparabile.
"Hester", disse, "non ti chiedo perché o come tu sia caduta nel baratro, o piuttosto salita sul palco dell'infamia dove ti ho trovata. La ragione non è difficile da capire. E' stata la mia follia e la tua debolezza. Io, uno studioso, un topo di biblioteca, un uomo già al tramonto, che ha dedicato i suoi anni migliori a coltivare il sogno famelico del sapere, cosa avevo a che fare con la tua bellezza, con la tua gioventù? Deforme dalla nascita, come potevo illudermi con l'idea che i doni dell'intelletto potessero nascondere i difetti fisici alla fantasia di una ragazza? Mi hanno chiamato saggio. Se i saggi hanno mai approfittato del sapere a loro vantaggio, avrei potuto prevedere tutto questo. Avrei dovuto sapere che, uscendo dalla grande foresta inospitale ed entrando in questa colonia di cristiani, la prima cosa che mi si sarebbe mostrata agli occhi saresti stata tu, Hester Prynne, in piedi come la statua dell'ignominia davanti a tutti. Sì, dal momento stesso che scendemmo insieme la scalinata della vecchia chiesa, sposi novelli, avrei dovuto vedere il fuoco maledetto di questa lettera scarlatta brillare in fondo al nostro cammino!".
"Tu sai", disse Hester la quale, pur depressa com'era, non poteva sopportare quest'ultimo colpo inferto freddamente al simbolo della sua vergogna, "tu sai che sono sempre stata onesta con te. Non ho mai provato amore per te, né ho cercato di fingere".
"E' vero", replicò l'uomo. "E' stata mia la follia. L'ho già detto, ma fino a quel momento della mia vita io avevo vissuto invano. Il mondo non aveva gioie per me! Il mio cuore, che era abbastanza grande da contenere molti affetti, restava solitario e gelido, come una casa senza il focolare. Ne bramavo uno! Non sembrava un sogno così irragionevole, per vecchio, triste e deforme che fossi, sperare di afferrare un po' di quella benedizione semplice che è sparsa in ogni dove con tanta larghezza, a portata di tutto il genere umano. Per questo, Hester, ti ho introdotta nel mio cuore, nelle sue stanze più interne, cercando di scaldare anche te col calore che la tua presenza ci portava!".
"Io ti ho fatto un grave torto", mormorò Hester.
"Ci siamo fatti torto a vicenda", rispose lui; "ma il primo fui io, che ingannai la tua fiorente gioventù per metterla in una relazione falsa e innaturale con il mio decadimento. E' perciò che, da uomo che non ha pensato né filosofato invano, non chiedo vendetta, non architetto alcun male contro di te. Tra noi due la bilancia sta bene in equilibrio. Ma, Hester, c'è al mondo un uomo che ci ha feriti entrambi! Chi è?".
"Non chiedermelo", replicò Hester Prynne, guardandolo direttamente in viso. "Non lo saprai mai".
"Mai, tu dici?" ripeté l'uomo, con un sorriso di oscura e fiduciosa intelligenza. "Non sapere mai chi è! Credimi, Hester, sono ben poche le cose - sia nel mondo esterno, sia, fino a un certo livello, nell'invisibile sfera del pensiero ben poche le cose che rimangono nascoste a chi si consacri totalmente e senza riserve alla soluzione del mistero. Puoi conservare il segreto per nasconderlo alla moltitudine. Puoi celarlo anche ai sacerdoti e ai magistrati, proprio come hai fatto oggi, quando hanno cercato di strapparti quel nome dal cuore per darti un compagno su quel palco. Io però, io vengo a indagare con ben altri mezzi di quelli che sono in loro possesso. Cercherò quest'uomo come ho cercato la verità nei libri, come ho inseguito l'oro con l'alchimia. C'è un sesto senso che me lo farà riconoscere. Lo vedrò tremare, e inaspettatamente e all'improvviso sentirò un fremito in me stesso.
Presto o tardi sarà mio".
Gli occhi del rugoso scienziato brillavano su di lei con tanta intensità che Hester Prynne si premette una mano sul cuore, quasi temendo che egli leggesse subito il segreto che racchiudeva.
"Non vuoi rivelare il suo nome? Non per questo mi sfuggirà", concluse, con uno sguardo fiducioso, come se il destino fosse costretto a dargli ragione. "Non ha una lettera infamante cucita sul vestito, come te, ma io la leggerò sul suo cuore. Non aver paura per lui! Non pensare che io voglia interferire nei metodi di castigo del Cielo, né che, a mio svantaggio, lo consegni al braccio secolare. Non credere neppure che attenterò alla sua vita, né alla sua fama se, come credo, è un uomo di ottima reputazione.
Che viva! Che si nasconda dietro gli onori esteriori, se può. Non per questo riuscirà a sfuggirmi".
"I tuoi atti sembrano improntati a clemenza", disse Hester, smarrita e sgomenta, "ma le tue parole ti denunciano come un essere terribile".
"Una cosa ti prego di fare, tu che sei stata mia moglie", proseguì lo studioso; "tu hai tenuto il segreto del tuo amante. Mantieni, ti prego, anche il mio! Nessuno mi conosce in questo paese, perciò non ti sfugga dalle labbra un accenno che io fui tuo marito! Qui, in questo selvaggio recesso del mondo, io pianterò la mia tenda, perché non c'è luogo sulla terra dove non sarei un viandante, isolato dagli interessi umani, ma qui io trovo una donna, un uomo e una bimba a me vincolati dai più stretti legami. Non conta che siano di odio o d'amore: non conta che siano ispirati al male o al bene! Tu e i tuoi, Hester Prynne, mi appartenete! La mia casa è dove tu sei e dove egli è. Ma non tradirmi!".
"A quale scopo me lo chiedi?" volle sapere Hester, con una certa riluttanza, senza sapere perché, per questo patto segreto. "Perché non annunciare apertamente chi sei, subito, per potermi ripudiare subito?".
"Forse", lui le rispose, "per evitare il disonore che rende ridicoli i mariti delle donne infedeli. Forse anche per altre ragioni. Ma basta, ho deciso di vivere e di morire sconosciuto.
Lascia quindi che tuo marito sia già morto per il mondo, e non giungano notizie di lui. Non riconoscermi con parole, con segni, con sguardi! Non ti sfugga il segreto, soprattutto, con l'uomo al quale sei appartenuta. Se mi mancherai in questo, attenta! La sua fama, la sua posizione, la sua vita saranno nelle mie mani.
Attenta!".
"Manterrò il tuo segreto, come ho mantenuto il suo", rispose Hester.
"Giuralo!" insistette il medico.
Lei pronunciò il giuramento.
"E ora, signora Prynne", disse il vecchio Roger Chillingworth, come verrà chiamato d'ora in poi, "ti lascio sola: sola con la tua bambina e con la lettera scarlatta! Come dunque, Hester? La tua condanna ti obbliga a portare il marchio anche nel sonno? Non hai paura degli incubi e dei sogni più spaventosi?".
"Perché mi sorridi così?" chiese Hester, turbata dall'espressione dei suoi occhi. "Sei come l'Uomo Nero che vive nella foresta attorno a noi? Mi hai trascinata in un patto che distruggerà la mia anima?".
"Non la tua anima", " rispose l'uomo, sorridendo ancora, "no, non la tua!".
5. HESTER AL SUO LAVORO DI CUCITO
Il periodo di reclusione di Hester Prynne era giunto alla fine. La porta della prigione venne spalancata, e lei uscì alla luce del sole, che risplendeva allo stesso modo su ogni cosa, ma a lei parve, stanca e impaurita com'era, che brillasse al solo scopo di rivelare la lettera scarlatta sul suo petto. Forse la tortura dei primi passi da sola, fuori della prigione, fu più tormentosa della stessa processione e dello spettacolo che abbiamo descritto, dove era stata oggetto del pubblico ludibrio, e ai quali tutta l'umanità era stata invitata perché la segnasse a dito. In quel momento era stata sostenuta da un'innaturale tensione dei nervi e dall'energia combattiva del suo carattere, che riusciva a trasformare la scena in una specie di terribile trionfo; per di più era un avvenimento isolato e a sé stante, che non poteva ripetersi mai più in vita sua, per far fronte al quale aveva potuto fare appello senza risparmio alle forze vitali che le sarebbero altrimenti bastate per molti anni. La stessa legge che la condannava, - un gigante dai tratti severi, ma potente e capace di sostenere, oltre che di distruggere, con il suo braccio d'acciaio, - l'aveva sorretta per tutta la terribile prova della sua ignominia. Ma ora, con questi passi solitari fuori della porta della sua prigione, cominciava la vita di tutti i giorni, che lei doveva essere capace di sopportare e di affrontare con le risorse abituali del suo carattere per non lasciarsene travolgere. Non poteva più chiedere energie in prestito al futuro per essere aiutata nel dolore presente: il domani avrebbe portato con sé la sua tribolazione, e lo stesso il giorno seguente e il successivo ancora; ciascuno la sua, eppure identica a quella che già adesso era così difficilmente sopportabile. I giorni del più lontano futuro si sarebbero fatti avanti lentamente, sempre carichi dello stesso dolore che lei avrebbe dovuto prendere sulle spalle e portare con sé, senza la speranza di potersene mai disfare, perché i giorni e gli anni avrebbero accumulato col loro trascorrere il loro tormento sul cumulo della sua vergogna. Una settimana dopo l'altra, perdendo la sua individualità, sarebbe diventata il simbolo incarnato al quale avrebbero fatto appello predicatori e moralisti, in cui essi avrebbero dato vita e corpo alle loro immagini di fragilità femminile e di passione peccaminosa. Così i giovani e gli innocenti avrebbero imparato a guardarla, con la lettera scarlatta fiammeggiante sul petto, a guardare lei, figlia di onorati genitori, lei, madre di una bimba che sarebbe diventata una donna, lei, che un tempo era stata innocente, come l'immagine, il corpo, la realtà stessa del peccato. E sul suo sepolcro l'infamia che avrebbe dovuto portare fin lì sarebbe stata il suo solo monumento funebre.
Può sembrare incredibile che, con tutto il mondo a sua disposizione, senza essere trattenuta da alcuna clausola restrittiva della sua condanna nei confini della colonia puritana, così remota e quasi sconosciuta, libera di tornarsene al suo paese natale, o in qualunque altro paese europeo, dove nascondere il suo stato e la sua identità sotto nuove spoglie come se fosse nata una seconda volta, ed essendole aperti i sentieri della foresta oscura e impenetrabile, dove il suo carattere indomabile avrebbe potuto procurarle l'amicizia di un popolo la cui vita e i cui costumi erano estranei alla legge che l'aveva condannata, può sembrare incredibile che questa donna continuasse a considerare sua patria quella città, che era l'unico luogo dove fosse costretta a impersonare l'infamia e la vergogna. Ma c'è una fatalità, un sentimento così irresistibile che può sembrare un destino, che costringe quasi invariabilmente gli esseri umani a restare, vagando come spettri, sul luogo dove qualche avvenimento grandioso o eccezionale ha dato risalto alla loro vita, e tanto più inevitabilmente quanto più fosca è la tinta che la rattrista. Il suo peccato e la sua vergogna erano le radici che la trattenevano su quel suolo. Era come se una nuova nascita, con legami ben più forti della prima, avesse trasformato il paese delle foreste, ancora così estraneo e inospitale per ogni altro viaggiatore o pellegrino, nella patria di Hester Prynne: una patria triste e selvaggia, ma che sarebbe rimasta la sua per tutta la vita. Ogni altro panorama sulla terra, perfino quel villaggio agricolo in Inghilterra, dove l'infanzia felice e l'adolescenza incontaminata sembravano restare sotto la custodia di sua madre, come ninnoli messi da parte molti anni prima, era estraneo per lei, in confronto a questo. La catena che la costringeva a restare aveva gli anelli di ferro, e le attraversava il più profondo recesso dell'anima, ma essa non avrebbe mai potuto infrangerla.
E forse anche (anzi, certamente, anche se non confessava questo segreto neppure a se stessa, e impallidiva ogni volta che esso cercava di divincolarsi dal suo cuore, come un serpente dalla sua tana), forse anche un altro sentimento la tratteneva sulla scena e sul sentiero che le erano stati così fatali. Là posavano, là ponevano la loro impronta i piedi di colui al quale si riteneva unita in un vincolo che, ignoto agli occhi del mondo, li avrebbe condotti insieme alla sbarra del giudizio finale, che sarebbe stata l'altare del loro matrimonio, per un interminabile futuro di punizione comune. Ancora e ancora il tentatore delle anime aveva instillato quest'idea nella mente di Hester, e aveva sghignazzato della gioia appassionata e senza speranza con cui lei ci si attaccava, e poi tentava di scacciarla da lei. Essa osava appena contemplare questa possibilità direttamente, e poi si affrettava a rinchiuderla nella sua cella. Quel che si costringeva a credere, la giustificazione che dava a se stessa per essere rimasta a vivere nella Nuova Inghilterra, era a metà verità, e a metà illusione. Qui, diceva a se stessa, si era svolta la scena della sua colpa, e questa doveva essere la scena della sua punizione terrena; soltanto così, forse, la tortura della sua quotidiana vergogna avrebbe finito col purgare la sua anima, e avrebbe creato in lei una purezza nuova in luogo di quella che aveva perduto: una più santa purezza, perché le sarebbe venuta dal martirio.
Per questo Hester Prynne non fuggì. Alle estreme propaggini della città, proprio sulla punta della penisola, ma lontano da ogni altra abitazione, c'era una casupola col tetto di paglia. Era stata costruita da uno dei primi coloni, che poi l'aveva abbandonata perché il terreno che la circondava era troppo sterile affinché valesse la pena di coltivarlo, mentre la sua relativa distanza la poneva al di fuori di quella sfera di attività sociale che già era una delle più spiccate caratteristiche degli emigranti. Si trovava sulla costa e guardava, di là da un bacino di mare, le colline boscose che si ergevano a occidente. Una macchia di alberi stenti, com'erano tutti quelli che crescevano sulla penisola, non riusciva a nascondere la casupola alla vista, ma sembrava dire che là si trovava qualcosa che avrebbe preferito, o almeno che avrebbe dovuto, essere nascosto. In questa piccola abitazione solitaria, con i pochi mezzi che aveva e con il permesso dei magistrati, che ancora la tenevano sotto la loro oculata sorveglianza, si stabilì Hester con la sua bambina.
Un'ombra di misterioso sospetto rivestì subito il luogo. I bambini, troppo giovani per capire perché questa donna dovesse essere esclusa dall'ambito della carità umana, si avvicinavano tanto da vederla intenta a opere di cucito presso la finestra della casetta, o in piedi nel corridoio, o al lavoro nel suo piccolo giardino, o mentre si stava incamminando sul sentiero che portava in città, e alla vista della lettera scarlatta sul suo petto fuggivano da lei con una strana e contagiosa paura.
Per quanto triste fosse la sua condizione, e senza un amico al mondo che osasse recarsi a trovarla, Hester non correva affatto il rischio di cadere in miseria. Aveva in mano un'arte che era sufficiente, anche in un paese che offriva un campo relativamente limitato per il suo esercizio, a mantenere se stessa e la sua fiorente bambina. Era l'arte, allora come ora quasi la sola alla portata delle donne, del ricamo. Portava sul petto, nella lettera stranamente intessuta, un campione della sua fantasia e delicata abilità, della quale ben volentieri si sarebbero servite le dame di una corte, per aggiungere il prodotto più ricco e più spirituale dell'ingegno umano ai loro abiti di seta e d'oro. Qui certo, nell'austera semplicità che era solita contraddistinguere l'abbigliamento dei puritani, il bisogno dei raffinati prodotti del lavoro di Hester non era tra i più sentiti. Tuttavia il gusto dell'epoca, che richiedeva ogni possibile elaborazione nei lavori di questo genere, non mancava di far sentire la sua influenza sui nostri severi progenitori, che pure erano riusciti a liberarsi di tante usanze apparentemente più difficili da abolire. Le cerimonie pubbliche, come le ordinazioni, la nomina dei magistrati, e tutto ciò che poteva conferire maestà alle forme nelle quali un nuovo governo si manifestava al popolo, erano elementi politici di non secondaria importanza, contrassegnati da un dignitoso e ben studiato cerimoniale, e da un'austera, anche se voluta, magnificenza. Collettoni profondi, nastri abilmente intrecciati, e guanti ricamati in modo meraviglioso erano considerati accessori indispensabili a chi prendeva le redini del potere, e il loro uso era facilmente concesso a chi aveva ottenuto reputazione per il rango o per il censo, anche se leggi generiche proibivano queste e altre simili stravaganze al ceto plebeo. Anche nelle cerimonie funebri, o per l'abbigliamento del cadavere, o per rappresentare, con simboli complicati e contrapposizioni di tessuti neri con pizzi candidi come neve, il dolore dei sopravvissuti, c'era una notevole e urgente richiesta delle opere di Hester. Anche i corredini per i neonati, poiché in quel tempo i neonati indossavano indumenti di valore, le offrivano un'altra fonte di fatiche e di guadagno.
Poco alla volta, e nemmeno molto lentamente, le sue creazioni diventarono quello che oggi si chiamerebbe la moda. O per la commiserazione che molti provavano verso una donna dal destino così triste, o per la morbosa curiosità che attribuisce un valore fittizio anche agli oggetti più comuni e meno pregevoli, o per una qualsiasi altra circostanza inafferrabile che allora, come adesso, era sufficiente a conferire a una persona ciò che altri cercano invano; fatto sta che lei ebbe subito del lavoro ben remunerato, tanto da occupare con il suo ago tutte le ore che avesse voluto.
Forse la vanità voleva mortificarsi indossando nelle cerimonie più solenni e fastose gli ornamenti che erano stati lavorati dalle sue mani peccaminose. Si videro i suoi ricami sulla gorgiera del governatore; i militari li portavano sulle sciarpe, e il pastore sulla fascia; e allo stesso modo in cui rallegravano la cuffietta del bambino, venivano rinchiusi a imputridire e a cadere in polvere nelle bare dei morti. Non si trova tuttavia menzionato un solo caso in cui si fosse ricorso alla sua abilità per ricamare il velo bianco destinato a coprire il casto rossore di una sposa.
Questa eccezione dimostrava l'instancabile vigore con cui la società stigmatizzava il suo peccato.
Hester non cercava di guadagnare nulla di più di ciò che fosse sufficiente per condurre la più semplice e la più ascetica delle esistenze per se stessa, e a procurare una discreta agiatezza alla sua bambina. Il suo vestito era dei tessuti più ordinari e dei colori meno vistosi, col solo ornamento della lettera scarlatta che era stata condannata a portare. L'abbigliamento della bambina, d'altro canto, si distingueva per un'eleganza fantasiosa o, diremmo meglio, bizzarra, che contribuiva ad accentuare il fascino brioso che presto cominciò a svilupparsi nella piccola, ma che sembrava possedere pure un significato più profondo. Ne parleremo ancora in seguito. A parte la piccola spesa che affrontava per adornare la sua bambina, Hester donava tutto il superfluo in carità a persone che nella loro disgrazia erano meno reiette di lei, e che spesso arrivavano a insultare la mano che le nutriva.
Gran parte del tempo che non le sarebbe stato difficile impiegare nelle espressioni migliori della sua arte, Hester lo passava cucendo semplici indumenti per i poveri. E' probabile che in questa sua occupazione fosse implicita un'idea di penitenza e che sacrificasse realmente una gioia dedicando tante ore a un lavoro manuale così faticoso. C'era nel suo carattere una vena ricca, voluttuosa, orientale, un gusto per la bellezza sgargiante che, a parte le squisite opere del suo ago, non trovavano nulla in cui esplicarsi nella vita quotidiana. Le donne provano un piacere, incomprensibile all'altro sesso, nella delicata fatica dell'ago, e forse per Hester Prynne questo era il modo di esprimere, e quindi di lenire, la passione della sua vita. Come ogni altro piacere, lei lo respingeva come un peccato. Questa morbosa ingerenza della coscienza in cose di nessuna importanza denunciava, è lecito temerlo, non un pentimento genuino e duraturo, ma qualcosa di dubbio, qualcosa che sotto sotto poteva essere del tutto sbagliato.
Fu così che Hester Prynne si trovò ad avere una parte da svolgere nel mondo. Con la sua naturale energia di carattere e la sua rara abilità, esso non poteva ripudiarla completamente, anche se le aveva imposto un marchio più insopportabile per un cuore di donna di quello che segnava la fronte di Caino. Non c'era però nulla, nei suoi rapporti con la società, che le facesse sentire di appartenere a essa. Ogni gesto, ogni parola, lo stesso silenzio di quelli con cui era in contatto, sottintendevano, e spesso dicevano esplicitamente, che era al bando, e tanto sola come se fosse vissuta in un'altra sfera, e dovesse comunicare con la natura per mezzo di organi del tutto diversi da quelli del resto del genere umano. Lei se ne stava in disparte dalle faccende dei mortali, eppure rimaneva sempre attaccata a esse, come uno spettro che rivisiti il focolare della sua famiglia e non possa più farsi vedere o sentire, né sorridere della gioia comune, né prender parte al dolore familiare; e che, qualora trovasse il modo di manifestare la sua simpatia proibita, riuscirebbe a destare soltanto terrore e ripugnanza. A quanto pareva, queste emozioni, e inoltre lo scorno più amaro, erano l'unica porzione che lei manteneva nel cuore universale. Non era certo quella un'epoca di delicatezza, e la sua posizione, che pure lei capiva, e che non avrebbe mai corso il rischio di dimenticare, le veniva spesso imposta all'attenzione, come un'angoscia nuova, con i più rudi colpi sulla parte che era in lei più sensibile. Il povero che, come già abbiamo detto, essa faceva oggetto della sua bontà, spesso oltraggiava la mano tesa a soccorrerlo. Le signore della buona società, alle cui case lei aveva accesso per via del suo lavoro, avevano anch'esse l'abitudine di stillarle gocce del veleno più amaro nel cuore, a volte con quell'alchimia della malizia tranquilla, con cui le donne riescono a estrarre un veleno sottile dai contrattempi più banali, e a volte pure con espressioni più grossolane, che cadevano sul petto indifeso della poveretta come colpi violenti su una ferita infiammata. Hester ci si era assuefatta dopo essersi fatta forza a lungo e con pazienza, e non rispondeva mai a questi attacchi altro che con un'ondata di rossore che le saliva irrefrenabile alle gote pallide, e subito tornava a seppellirsi nelle profondità del suo seno. Era paziente, una martire, addirittura, ma si asteneva dal pregare per i suoi nemici perché, nonostante le sue pie intenzioni, non si dovessero inaspettatamente trasformare in maledizioni le parole delle preghiere.
Sempre, e in migliaia di forme diverse, sentiva le innumerevoli trafitture dell'angoscia che la sentenza eternamente operante del tribunale puritano le aveva astutamente inflitto per tutta la vita. Degli ecclesiastici si fermavano per la strada per pronunciare parole d'esortazione al pentimento che raccoglievano una folla di gente scandalizzata o ghignante attorno alla povera peccatrice. Se entrava in una chiesa, sperando di ottenere una parte del sorriso del Padre Universale nel giorno del riposo, non di rado le capitava la disgrazia di essere l'oggetto del sermone.
Cominciò a temere i bambini: avevano assorbito dai loro genitori una vaga sensazione d'orrore per questa donna triste che attraversava in silenzio la città, senz'altra compagnia che una bambina, e incontrandola la lasciavano passare per poi seguirla a distanza con grida acute, lanciandole una parola che non aveva un chiaro senso per loro, ma che non era meno terribile per lei, provenendole da labbra che la balbettavano inconsapevolmente. Le sembrava che la sua vergogna fosse così diffusa che tutta la natura ne fosse a conoscenza; e non ne avrebbe sofferto di più se le foglie degli alberi si fossero sussurrate la fosca storia l'una con l'altra, se la brezza estiva l'avesse mormorata, se il vento invernale l'avesse propagata ululando! Un'altra tortura singolare era rappresentata dallo sguardo di ogni nuovo venuto. Quando i forestieri guardavano con curiosità la lettera scarlatta, come non mancavano mai di fare, la imprimevano con nuovo vigore nell'anima di Hester, sicché a volte si tratteneva a stento, ma ci riusciva sempre, dal coprire il simbolo con la mano. E gli occhi familiari avevano anch'essi la loro angoscia da infliggere. Era insostenibile il loro freddo sguardo consueto. In breve, Hester Prynne provava sempre un'agonia spaventosa quando si sentiva un occhio umano fisso sul marchio: la sua ferita non si cicatrizzava, ma sembrava al contrario diventare più sensibile in seguito ai tormenti quotidiani.
Ma talora, una volta in tanti giorni, o forse in tanti mesi, lei sentiva uno sguardo, uno sguardo umano, sul suo simbolo d'ignominia, che sembrava darle un momentaneo sollievo, come se qualcuno si fosse accollato metà della sua tortura. Un attimo dopo, tutto rifluiva nel suo io, con un fremito di dolore più acuto, perché, in quel breve intervallo di tempo, lei aveva peccato di nuovo. Aveva peccato da sola?
Il suo spirito era in un certo senso intaccato e, se fosse stata di una fibra morale e intellettuale meno resistente lo sarebbe stato ancor più, a causa della pena strana e solitaria della sua vita. Mentre camminava ripercorrendo in ogni senso con i suoi passi desolati il piccolo mondo al quale era esteriormente collegata, sembrava a volte a Hester (e se era una sua fantasticheria, era d'altronde troppo insistente perché potesse scacciarla), sentiva o immaginava, dunque, che la lettera scarlatta le avesse dato una nuova facoltà. Rabbrividiva nel pensare, senza tuttavia poter fare a meno di crederlo, che essa l'avesse dotata della peculiare sensibilità di leggere il peccato nascosto nei cuori altrui. Le rivelazioni che le provenivano da questa nuova capacità la spaventavano. Che cosa erano esse?
Potevano forse essere altro che i suggerimenti insidiosi dell'angelo malvagio, nel tentativo di persuadere la disgraziata penitente, ancora sua vittima soltanto a metà, che l'estrema apparenza della purezza era soltanto una menzogna, e che, se la verità fosse apparsa dappertutto, una lettera scarlatta avrebbe dovuto far pompa di sé su molti petti oltre quello di Hester Prynne? O doveva invece considerare queste intuizioni oscure ma così distinte, come verità? Nella sua sventurata esperienza non c'era nulla di così spaventoso e lubrico come questa facoltà, che la scandalizzava e la colpiva per l'inopportunità delle situazioni nelle quali agiva con chiarezza inequivocabile. A volte la rossa vergogna sul suo petto dava un balzo di simpatia al passaggio di un onorevole pastore o magistrato, modelli di pietà e di giustizia, che in quel periodo di antica riverenza venivano considerati quasi compagni mortali degli angeli. "Quale orrore mi sta vicino in questo momento?" si chiedeva Hester. Alzando gli occhi riluttanti non trovava altro essere umano in vista che questa specie di santo incarnato! Ancora, sentiva i segni di una misteriosa fratellanza quando incontrava l'edificante cipiglio di una matrona che, a detta della voce pubblica, aveva mantenuto per tutta la vita il cuore freddo come la neve. La neve mai sfiorata dal sole nel seno della pia signora e la vergogna che ardeva su quello di Hester Prynne che cosa potevano avere in comune? Altre volte, era come una scossa elettrica che l'avvertiva: "Guarda, Hester! Ecco una tua compagna!", e lei, girando gli occhi, incontrava quelli di una fanciulla che fissava la lettera scarlatta, timidamente e in disparte, e che subito si girava con un debole rossore sulle guance, come se la sua purezza fosse stata in qualche modo contaminata da quello sguardo occasionale. O Demonio, il cui talismano fu questo simbolo fatale, non hai dunque voluto lasciare nulla, né tra la gioventù né tra la vecchiaia, che questa povera peccatrice possa ancora riverire? Questa perdita di fede è una delle conseguenze più tristi del peccato. Si accetti come prova che non tutto era corrotto in questa povera vittima della propria fragilità, e della dura legge umana, il fatto che Hester Prynne lottava ancora per credere che nessun altro colpevole fosse colpevole come lei.
Il popolo minuto che, in quegli oscuri tempi andati, rivestiva sempre d'orrori grotteschi tutto ciò che colpisce la sua fantasia, aveva coniato una storia della lettera scarlatta che noi potremmo agevolmente trasformare in una paurosa leggenda. Si affermava che il segno non era di stoffa rossa qualsiasi, tinta in un calderone terreno, ma era incandescente per il fuoco infernale, e si poteva vederla brillare di tutta la sua luce quando Hester Prynne usciva a passeggio di notte. E dobbiamo dire che essa bruciava così profondamente il petto di Hester che forse c'era in quella favola popolare più verità di quanta sia propenso a riconoscere il nostro moderno scetticismo.
6. PERLA
Finora abbiamo appena parlato della bambina; di quella povera creatura la cui vita innocente era germogliata, per un imperscrutabile decreto della Provvidenza, come un fiore grazioso e immortale, dalla sfrenata esuberanza di una passione colpevole.
Come sembrava strano tutto questo alla mesta donna che ne osservava la crescita, la bellezza che diventava ogni giorno più luminosa, e l'intelligenza che risplendeva ancor tremula sui minuti lineamenti di questa bambina! La sua Perla! Questo era il nome che le aveva dato Hester, non perché esso richiamasse in qualche modo il suo aspetto fisico, che non aveva nulla della lucentezza bianca, tranquilla e indifferente alla quale farebbe pensare il confronto; ma aveva chiamato la bambina Perla, come cosa di grande valore, comprata con tutto ciò che possedeva, con l'unico tesoro di sua madre! Strano davvero! Gli uomini avevano marcato il peccato di questa donna con una lettera scarlatta, il cui effetto era così potente e disastroso che nessuna simpatia umana poteva raggiungerla, se non quella dei peccatori come lei.
Dio, come conseguenza diretta del peccato che gli uomini avevano punito in questo modo, le aveva donato una graziosa bambina, il cui posto si trovava su quello stesso petto disonorato, per collegare per sempre sua madre con la razza e la discendenza degli uomini, e per diventare alla fine un'anima benedetta nel cielo!
Peraltro questi pensieri davano a Hester meno speranze che apprensioni. Lei sapeva di avere commesso il male: non poteva perciò aver fede nella bontà del risultato. Un giorno dopo l'altro studiava con timore il carattere nascente della bambina, sempre preoccupata di scoprirvi dei tratti oscuri e selvaggi che rispecchiassero la colpa alla quale doveva l'esistenza.
Difetti fisici non ce n'erano certamente. Per la forma perfetta, per il vigore e per la naturale destrezza con cui si serviva delle sue agili membra, la piccola avrebbe meritato di essere venuta alla luce nell'Eden: degna di esserci lasciata per servire da balocco agli angeli dopo la cacciata dei progenitori del mondo. La bimba aveva una grazia naturale che non sempre si accompagna alla bellezza senza difetti; il suo abbigliamento, per semplice che potesse essere, faceva sempre a chi la guardava l'effetto di essere proprio quello che le donava di più. La piccola Perla non era certo vestita di panni rustici: sua madre, per un impulso morboso che si potrà capire meglio più avanti, aveva comprato le stoffe più costose che esistessero in commercio, e aveva lasciato lavorare la sua sbrigliata fantasia nella scelta dei modelli e degli ornamenti dei vestiti che la bimba portava davanti alla gente. La sua piccola figura era così bella in quegli ornamenti, e tale era lo splendore della bellezza della stessa Perla, bellezza rilucente attraverso gli abiti sgargianti che avrebbero potuto soffocare una grazia più evanescente, che attorno a lei si creava un alone luminoso nell'atmosfera oscura della casupola. D'altro canto anche una gonnella di tessuto grossolano, consunta e strappata nei violenti giochi della bambina, faceva di lei un quadro altrettanto perfetto. Il sembiante di Perla era impregnato di una seduzione di una varietà infinita: in quella sola bimba c'erano molti bambini, che comprendevano l'intera gamma che separa la bellezza da fiore di campo del bambino di paese dallo sfarzo in miniatura di una principessina. In ogni suo stato, però, restava un segno della passionalità del suo carattere, una certa profondità di incarnato, che non perdeva mai; e se, in un suo cambiamento, essa fosse diventata più smunta o più pallida, avrebbe cessato di essere se stessa, e non sarebbe più stata Perla.
Questa mutevolezza esteriore indicava ed esprimeva abbastanza bene le varie caratteristiche della sua vita interiore. Sembrava che nella sua natura, oltre alla varietà, ci fosse anche la profondità; ma, se le paure di Hester non le facevano vedere ciò che non era, le mancava la capacità di mettersi in rapporto e di adattarsi al mondo in cui viveva. La bimba non poteva essere sottoposta a regole di sorta. La sua nascita era stata l'infrazione di una legge importante, e il risultato era un essere i cui elementi erano forse belli e appariscenti, ma tutti in disordine, o rispondenti a un loro ordine particolare, dove era difficile dire quale parte spettasse alla varietà e quale a uno sforzo volontario. Hester poteva soltanto spiegarsi il carattere della figlia (e anche così in modo molto vago e imperfetto) solo cercando di ricordarsi cosa aveva provato lei stessa nel periodo in cui Perla stava ricevendo un'anima dal mondo spirituale e un corpo dalla sua sostanza terrena. Lo stato d'agitazione della madre aveva costituito il mezzo attraverso il quale erano stati trasmessi al nascituro i raggi della vita spirituale, e per bianchi e limpidi che fossero stati in origine, avevano preso le profonde macchie d'oro e cremisi, il fiammeggiare luminoso, l'ombra oscura e la luce smodata della sostanza interposta.
Soprattutto, l'esaltazione dello spirito di Hester in quell'epoca si era perpetuata in Perla. La madre ci riconosceva le sue maniere selvatiche, disperate, arroganti, l'incostanza del suo carattere, e perfino alcune delle ombre di disperazione e di abbattimento che incombevano sul suo cuore. Ora esse erano illuminate dalla luce mattutina dell'anima di un bambino, ma, in un'epoca successiva della vita terrena, avrebbero potuto trasformarsi in fonti di tempeste e di uragani.
La disciplina familiare era a quei tempi molto più rigida di quanto non è ora. La fronte aggrottata, l'aspro rimprovero, il frequente ricorso alla bacchetta, imposti dall'autorità della Scrittura, non venivano soltanto usati come mezzi di punizione per marachelle effettive, ma come dieta salutare alla crescita e allo sviluppo di tutte le virtù infantili. Hester Prynne però, madre solitaria di quell'unica figlia, non correva certo il rischio d'essere accusata d'eccessiva severità. Memore, d'altronde, delle proprie sventure e dei propri sbagli, cercò fin dall'inizio di imporre un controllo affettuoso ma rigido sull'anima immortale della piccola che era stata affidata alla sua custodia. Il compito era al di sopra delle sue possibilità. Dopo avere sperimentato i sorrisi e i cipigli, senza aver ottenuto risultati apprezzabili da nessuno dei due metodi, Hester fu costretta a restare da parte e a permettere alla bimba di lasciarsi dominare dai propri impulsi. La costrizione fisica o il castigo erano efficaci, s'intende, finché duravano. Come qualsiasi altra disciplina, della mente o del cuore, che si provasse a impartirle, la piccola Perla poteva essere ricettiva o non esserlo affatto a seconda del capriccio del momento. Sua madre, quando Perla era ancora una neonata, si abituò a un certo sguardo particolare che l'avvertiva quando sarebbe stata fatica sprecata insistere, persuadere o pregare. Era uno sguardo così intelligente, e allo stesso tempo così inesplicabile, così perverso e a volte così malizioso, ma accompagnato di solito da tanta vivacità, che Hester non poteva fare a meno di chiedersi in quei momenti se Perla fosse una creatura umana. Sembrava piuttosto uno spirito folletto, che dopo aver fatto i suoi giochi fantastici sul pavimento della casetta se ne sarebbe volato via con un sorriso di scherno. Ogni volta che quello sguardo selvaggio le appariva nei profondi occhi neri, le dava un aspetto incorporeo e distaccato; era come se lei si librasse nell'aria, e potesse scomparire come una luce tremolante di cui si ignorino la provenienza e la destinazione. Quando la vedeva, Hester si sentiva costretta a slanciarsi verso la bimba, a inseguire il piccolo elfo nella fuga che prendeva immancabilmente, per stringersela forte al cuore e coprirla di fervidi baci, non tanto per irrefrenabile affetto, quanto per rassicurarsi che fosse di carne e di sangue, e non piuttosto una vana illusione. Ma il riso di Perla, una volta che era stata acchiappata, benché musicale e pieno di gioia, non faceva altro che aumentare i dubbi della madre.
Colpita nel più profondo del cuore da questo enigmatico e conturbante sortilegio che così di frequente si interponeva tra lei e il suo unico tesoro, che aveva acquistato così a caro prezzo, e che era tutto ciò che avesse al mondo, Hester scoppiava spesso in lacrime appassionate. Allora poteva darsi (infatti non era possibile prevedere con esattezza quali sarebbero state le sue reazioni) che Perla assumesse un'espressione corrucciata, e stringesse il piccolo pugno, irrigidendo i lineamenti minuti in uno sguardo duro, scontento e astioso: spesso si rimetteva a ridere più forte di prima, come un essere senz'anima, incapace di rendersi conto del dolore. Talvolta, anche se molto raramente, veniva colta da parossismi di dolore, ed esprimeva tutto il suo amore per la madre tra singulti e parole smozzicate, come se avesse voluto provare che aveva un cuore facendoselo spezzare dal dispiacere. Del resto Hester non poteva fare assegnamento su questo suo lato di tenero affetto, che passava in fretta com'era venuto. Assorta nel considerare tutte queste cose, la madre si sentiva come chi avesse evocato uno spirito ma, per qualche imperfezione nell'incantesimo, non riuscisse a controllare la formula magica che le desse il potere sull'essere nuovo e incomprensibile. I suoi unici momenti di quiete erano quelli in cui la bimba si abbandonava alla pace del sonno. Allora era tranquilla, e godeva di qualche ora di tregua e di una felicità triste ma piacevole, sino a che Perla non si svegliava, spesso con quell'espressione perversa che le luccicava sotto le palpebre semiaperte.
Quanto poco ci volle a Perla, e con che strana rapidità, per giungere a un'età in cui si è in grado di stabilire rapporti sociali, senza avere davanti solo il sollecito sorriso della madre e udire le solite tiritere! E che felicità sarebbe stata per Hester Prynne se avesse potuto sentire la sua limpida vocina da passero mischiarsi al lieto chiasso delle altre voci infantili, e avesse potuto distinguere e isolare le grida del suo tesoro dal confuso vocìo di un gruppo di bambini intenti a giocare tra loro!
Ma questo non avvenne mai. Perla era nata per essere una reproba nel mondo infantile. Espressione del male, emblema e prodotto del peccato, non aveva diritto di vivere tra i fanciulli battezzati.
Non c'era nulla di più strano dell'istinto, o di ciò che sembrava tale, con cui la bimba comprendeva la sua solitudine; il destino che aveva tracciato attorno a lei un circolo inviolabile; tutta la particolarità, in breve, della sua posizione rispetto agli altri bambini. Dal momento in cui era uscita dalla prigione, Hester non si era mai offerta all'occhio del pubblico senza di lei. In tutti i suoi pellegrinaggi per la città c'era sempre Perla; prima neonata, in braccio, e poi, bambina, minuscola compagna della madre, il cui indice stringeva forte nella sua mano, mentre le trotterellava dietro al ritmo di tre o quattro passi per ognuno di quelli di Hester. Vedeva i bambini della colonia ai margini erbosi della strada, o sulle porte delle loro case, intenti a quei tristi svaghi che venivano loro concessi dall'austera educazione puritana, come fingere di andare in chiesa, forse, o di frustare i quaccheri, o di scotennare gli indiani in qualche scaramuccia, o di spaventarsi a vicenda con tentativi di stregoneria rudimentale.
Perla li guardava con molta attenzione, ma non si sognò mai di fare amicizia con loro. Se le rivolgevano la parola, non rispondeva. Se i bambini si riunivano intorno a lei, come avveniva ogni tanto, Perla diventava veramente terribile nella sua piccola rabbia, e raccattava delle pietre da buttargli addosso, con esclamazioni rauche e incoerenti che facevano tremare la madre, perché somigliavano tanto agli anatemi di una strega, in qualche lingua sconosciuta.
Certo i piccoli puritani, appartenendo alla razza più intollerante che fosse mai esistita, avevano una vaga sensazione che ci fosse qualcosa di estraneo, di innaturale, o almeno di diverso dagli usi comuni, nella madre e nella figlia; perciò le disprezzavano nel profondo del cuore, e spesso le insultavano ad alta voce. Perla sentiva quell'atmosfera ostile, e la ricambiava con l'odio più amaro che il suo petto infantile potesse ospitare. Le sue esplosioni di insofferenza avevano un certo valore agli occhi di sua madre, e le davano perfino qualche conforto, perché c'era in esse almeno una franchezza comprensibile di carattere, invece del capriccio e della bizzarria che la sconcertavano così spesso nelle altre azioni della bambina. Ciò nonostante l'addolorava e l'angosciava vedere qui un altro riflesso oscuro del male che era stato in lei. Tutta quest'animosità passionale Perla l'aveva ereditata, per diritto inalienabile, dal cuore di Hester. Madre e figlia si trovavano nello stesso cerchio che le tagliava fuori dalla società degli uomini, e pareva che nel carattere della piccola si perpetuassero gli stessi elementi di irrequietezza che avevano turbato Hester Prynne prima della nascita di Perla, ma che poi si erano addolciti per le benefiche influenze della maternità.
Nel suo ambiente, nella casupola della madre e nei suoi pressi, Perla non sentiva il bisogno di un'ampia e notevole cerchia d'amicizie. La magia della vita erompeva dal suo spirito instancabilmente creativo, per comunicarsi a migliaia di oggetti, come una torcia applica il fuoco a tutto ciò che tocca. Le cose più disparate come un bastone, un pacco di stracci, un fiore, erano le marionette della stregoneria di Perla e, senza subire alcun cambiamento apparente, si adattavano spiritualmente a qualunque dramma occupasse la scena del suo mondo interiore. La sua sola voce infantile faceva parlare una folla di personaggi immaginari, vecchi e giovani. I pini, vecchi, scuri e solenni, pieni di gemiti e di altri malinconici mormorii nella brezza, non avevano bisogno di grandi trasformazioni per assumere l'aspetto di puritani d'età avanzata: le erbacce del giardino erano la loro prole, che Perla schiacciava e sradicava senza nessuna pietà. Era meravigliosa l'immensa varietà di forme nella quale riusciva a impegnare la propria immaginazione, senza alcuna continuità, ma sempre mutando oggetto e danzando in uno stato di attività soprannaturale, e cedendo rapidamente alla tristezza, come esaurita da una marea vitale troppo rapida e febbrile, alla quale facevano seguito nuove forme di un'energia altrettanto selvaggia.
Nulla le rassomigliava più della fantasmagoria dell'aurora boreale. D'altronde non si sarebbe potuto osservare nel semplice esercizio della fantasia e nella gaiezza di una mente in formazione nulla di più che in altri bambini d'intelligenza vivace, con l'eccezione che Perla, mancandole compagni di gioco umani, si gettava con più passione nella trama immaginaria che creava lei stessa. Quello che c'era di strano erano i sentimenti ostili con cui la bimba considerava tutte quelle creazioni del suo cuore e della sua immaginazione. Non si creava mai un amico, ma pareva non facesse che seminare in giro i denti del drago, dai quali spuntava una messe abbondante di nemici armati, contro cui era sempre pronta a combattere. Era una cosa estremamente triste (e più che mai per una madre, la quale si addolorava profondamente avvertendone l'origine nel proprio cuore) notare la consapevolezza che quella creatura tanto giovane già possedeva dell'esistenza di un mondo avverso, e vederne gli sforzi per temprare le energie che avrebbero dovuto sostenere la sua buona causa nella lotta che era destinata a seguire.
Guardando Perla, Hester Prynne spesso lasciava cadere il lavoro sulle ginocchia, e piangeva con un'angoscia e una disperazione che cercava vanamente di nascondere, e che si esprimeva in qualcosa che stava tra la preghiera e il gemito: "Oh! Padre celeste, se ancora Tu sei il mio Padre, che cosa è questa creatura che ho dato alla luce?". E Perla, ascoltando ciò, o sentendo per qualche strana via di comunicazione più sottile i singhiozzi d'angoscia della madre, le volgeva il visino bello e luminoso, le sorrideva con intelligenza scintillante, e si rimetteva a giocare. Resta ancora da descrivere una caratteristica del comportamento della bambina. La prima cosa che essa notò in vita sua fu, non già il sorriso della madre, al quale rispondere, come fanno gli altri bambini, con quel debole, embrionale movimento della boccuccia, che in seguito verrà ricordato con la tanta incertezza, e susciterà discussioni così appassionate se fosse o no un vero sorriso. No, certo! Il primo oggetto che Perla parve riconoscere fu (dobbiamo dirlo?) la lettera scarlatta sul petto di Hester! Un giorno che sua madre si curvava sulla culla, gli occhi della piccola furono attratti dal luccicare del ricamo dorato attorno alla lettera e, sporgendo la mano, cercò di afferrarla, sorridendo senza alcuna incertezza, ma con una gioia ben definita, che le dava l'aria di una bambina molto più grande. Allora, ansimando, Hester Prynne afferrò il segno fatale, cercando istintivamente di strapparselo di dosso, tanto era insopportabile la tortura che le infliggeva il tocco cosciente della manina di Perla. E di nuovo, come se il gesto disperato della madre fosse stato fatto al solo scopo di divertirla, la piccola Perla la guardò negli occhi e sorrise.
Da allora Hester non aveva più avuto un momento di pace, né aveva più potuto godersi con calma la sua bambina, se non quando dormiva. E' vero che potevano trascorrere intere settimane senza che gli occhi di Perla si appuntassero una sola volta sulla lettera scarlatta, ma poi la cosa si ripeteva all'improvviso, come la morte d'un colpo, e di nuovo con quello strano sorriso e quell'espressione degli occhi.
Una volta questo sguardo strano e capriccioso apparve negli occhi della bimba mentre Hester ricercava in essi la propria immagine, come amano fare le madri, e all'improvviso, poiché le donne solitarie e col cuore gravido di preoccupazioni sono perseguitate da delusioni irragionevoli, le parve di vedere, invece del suo ritratto in miniatura, un altro viso riflesso nello specchio nero dell'occhio di Perla. Era una faccia malevola, piena di sorridente cattiveria, e tuttavia aveva quegli stessi lineamenti che lei aveva una volta ben conosciuto e che, per quanto fossero raramente atteggiati a un sorriso, erano sempre stati privi di malvagità.
Era come se uno spirito maligno avesse posseduto la piccola, e proprio in quel momento si fosse affacciato per schernirla. Da quel giorno la stessa impressione torturò Hester molte volte, anche se non con la stessa vivezza.
In un pomeriggio d'estate Perla, che era già abbastanza grande da andarsene in giro, si divertì a raccogliere manciate di fiori di campo, e a lanciarli a uno a uno contro il seno della madre, saltellando come un piccolo elfo ogni volta che riusciva a colpire la lettera scarlatta. Il primo impulso di Hester era stato di coprirsi il petto con le mani incrociate; ma, forse per orgoglio o per rassegnazione, o per la convinzione che avrebbe espiato la sua pena più profondamente con questo dolore ineffabile, resistette a questo moto istintivo, e sedette rigida, pallida come la morte, guardando tristemente gli occhi eccitati della piccola Perla. Il lancio di fiori continuò ancora, mancando il segno molto di rado, e coprendo il petto della madre di ferite per le quali non c'era un balsamo in questo mondo, e poca speranza di trovarne nell'altro. Alla fine, terminati i proiettili, la bimba stette ferma e fissò Hester. con quell'immagine ridente d'un demonio che faceva capolino (o, comunque, che facesse capolino o no, sua madre se lo figurava così), dall'abisso insondabile dei suoi occhi neri.
"Figlia, chi sei?" gridò la madre.
"Oh, sono la tua piccola Perla!" rispose la bambina.
Ma, mentre lo diceva, Perla rideva e cominciò a ballare da forsennata, con la gesticolazione impertinente d'un folletto, il cui prossimo ghiribizzo fosse quello di volarsene su per il camino.
"Sei figlia mia, in tutta verità?" chiese Hester.
Non fece questa domanda con indifferenza, ma, in quel momento, con profonda sincerità, perché era così meravigliosa l'intelligenza di Perla, che sua madre aveva provato per un attimo il dubbio che conoscesse la maledizione segreta della sua esistenza, e fosse sul punto di rivelarle il suo vero essere.
"Sì, sono la piccola Perla!" ripeté la bambina, continuando i suoi salti e le sue danze.
"Non sei mia figlia! Non sei la mia Perla!" disse la madre, quasi per gioco, perché spesso, in mezzo alle sue sofferenze più pesanti, le veniva in aiuto un impulso di gaiezza. "Dimmi, su, chi sei e chi ti ha mandata qui?".
"Dimmelo tu, mamma!" disse la bimba, seriamente, avvicinandosi a Hester e stringendosi alle sue ginocchia. "Dimmelo tu!".
"Ti ha mandata il Padre Celeste!" rispose Hester Prynne.
Ma lo disse con un'esitazione che non sfuggì all'acutezza della piccola. Spinta dalla sua naturale estrosità, o stimolata da uno spirito maligno, sporse l'indice e toccò la lettera scarlatta.
"Non è lui che mi ha mandata!" gridò con convinzione. "Io non ho nessun Padre Celeste!".
"Taci, Perla, taci! Non devi dire così!" ribatté la madre, soffocando un gemito. "E' lui che ci ha mandati tutti in questo mondo. Ha mandato anche me, tua madre, e quindi te, a maggior ragione. E altrimenti, strana bambina simile a un folletto, da dove sei venuta?".
"Dillo tu! Dillo tu!" ripeteva Perla, non più seria, ma ridendo e facendo capriole sul pavimento. "Sei tu che devi dirlo a me!".
Ma Hester non poteva rispondere alla sua domanda, perché lei stessa si era sperduta nel fosco labirinto del dubbio. Ricordava, tra un sorriso e un brivido, le chiacchiere dei vicini, che dopo aver cercato invano il padre della sua bambina, e averne notato le strane caratteristiche, avevano concluso che la povera piccola Perla era prole del demonio, come, fin dai più remoti tempi del cattolicesimo, altri erano stati mandati sulla terra tramite il peccato delle madri, per portare a termine qualche impresa crudele e malvagia. Lutero, a detta dei frati suoi nemici, era un prodotto di quella schiatta infernale, e Perla non fu certo l'unica bambina della Nuova Inghilterra alla quale i puritani attribuissero quest'infausta origine.
7. IL PALAZZO DEL GOVERNATORE
Un giorno Hester Prynne si recò alla dimora del governatore Bellingham, con un paio di guanti che aveva orlato e ricamato dietro sua ordinazione, per essere sfoggiati in occasione di qualche solenne cerimonia civile, perché, anche se le sorti di un'elezione popolare avevano fatto discendere di un gradino o due dal suo elevato rango questo facente funzioni di sovrano, egli occupava ancora un posto onorevole e influente nella magistratura coloniale.
Una ragione diversa e ben più importante della consegna di un paio di guanti ricamati spingeva Hester in questa occasione, a cercare di ottenere un colloquio con un personaggio di tanta potenza e di tale rilievo nella vita della cittadina. Era infatti venuta a sapere che alcuni dei più influenti personaggi del paese, che affermavano e difendevano i più saldi principi della religione e del governo, progettavano di toglierle la figlia. Supponendo che Perla, come si è già accennato, fosse di origine diabolica, queste brave persone ne deducevano abbastanza logicamente che era opportuno e cristianamente indispensabile per l'anima della madre togliere questa pietra che ne impacciava il cammino. Se d'altro canto, la piccola fosse stata suscettibile di un'evoluzione morale e religiosa, e avesse posseduto gli elementi necessari alla salvezza eterna, le sue prospettive in questo senso non potevano che aumentare una volta che la si fosse sottoposta a una guida più saggia di quella di Hester Prynne. Tra gli animatori del progetto, pareva che il governatore Bellingham fosse dei più convinti. Può sembrare strano e, in fin dei conti, abbastanza ridicolo, che una questione del genere, che in tempi successivi non avrebbe interessato un organo più elevato di un giudice tutelare, formasse allora oggetto di pubblica discussione, alla quale dovessero prender parte i principali membri dello Stato. Tuttavia, in quel periodo di primitiva semplicità, anche materiale di interesse pubblico minore, e di contenuto meno rilevante della salvezza di Hester e della sua bambina, si trovavano stranamente frammischiate alle deliberazioni dei legislatori e agli atti di Governo. Era di poco precedente, se non contemporaneo a quello della nostra storia, il periodo in cui la disputa per la proprietà di un maiale non solo originava una fiera e accesa battaglia nel corpo legislativo della colonia, ma finiva in una fondamentale trasformazione della struttura stessa della legislazione. Piena d'angoscia, dunque, ma tanto cosciente del proprio diritto, che non sembrava del tutto impari la lotta tra la pubblica opinione da un lato, e una donna sola, sostenuta soltanto dalla naturale simpatia che doveva ispirare, dall'altro, Hester Prynne si era mossa dalla sua abitazione. Naturalmente era in compagnia di Perla. Essa era ormai abbastanza grande da correre con agilità al fianco della madre e, sempre in moto dalla mattina alla sera, avrebbe potuto percorrere un tragitto ben più lungo di quello che l'aspettava. Spesso però, più per capriccio che per necessità, chiedeva di essere presa in braccio, ma presto ordinava perentoriamente di essere rimessa a terra, per correre davanti a Hester sul sentiero erboso, con una serie di innocue capriole e scivoloni. Si è già descritto la ricca e lussureggiante bellezza di Perla, una bellezza che brillava di colori intensi e vivaci, un corpo già ben formato, degli occhi ricchi di profondità e di luce interiore, e dei capelli di un castano bruno e carico che, in pochi anni, sarebbe divenuto quasi nero. C'era del fuoco in lei e in tutto il suo corpo: aveva l'aspetto del frutto inatteso di un momento di passione. Sua madre, nel creare vestiti per la bimba, aveva sciolto le briglie alle fantasiose tendenze del suo gusto:
la vestiva infatti con una tunica di velluto cremisi di taglio inconsueto, cosparsa di ricami e di fantastiche fioriture di filo d'oro. Un contrasto di colori così forte, che avrebbe dato un'aria pallida e scialba a gote di un incarnato meno brillante, si adattava a meraviglia alla bellezza di Perla, e la trasformava nella più scintillante fiammella che mai avesse danzato sulla superficie terrestre.
Ma un'altra caratteristica di questo abbigliamento e, nel complesso, di tutta la piccola figura della bambina, era di richiamare irresistibilmente e inevitabilmente i pensieri di chi la guardava sul segno che Hester era costretta a tenere sul petto.
Era la lettera scarlatta in altra forma: era la lettera scarlatta col dono della vita! Come se la rossa vergogna fosse stata impressa così profondamente nella sua mente, che ogni sua opera ne dovesse assumere la forma, era la madre stessa che aveva sottolineato con cura questa rassomiglianza, in lunghe veglie di morbosa ingegnosità tese a creare un'analogia tra l'oggetto del suo amore e l'emblema della sua colpa e della sua tortura. Ma, a dire il vero, Perla era l'una come l'altra cosa; e soltanto a causa di questa identità Hester era riuscita a rappresentare così perfettamente in lei la lettera scarlatta.
Quando le due pellegrine giunsero ai sobborghi della città, i piccoli puritani interruppero i loro giochi, o quelli che quei tristi birichini consideravano giochi, e si dissero l'un l'altro con gravità:
"Guarda, davvero quella è la donna della lettera scarlatta: e per di più, è altrettanto vero che l'immagine della lettera scarlatta le corre al fianco! Orsù, dunque, venite, e tiriamo loro del fango!".
Ma Perla che, piccola com'era, non aveva paura di nessuno, dopo aver corrugato la fronte, battuto il piede in terra, e scosso le manine in una serie di gesti minacciosi, si scagliò sul gruppetto dei suoi nemici, e li mise tutti in fuga. Nell'inseguirli con ira, sembrava un flagello dell'infanzia, la scarlattina, o qualche angelo del giudizio, con le ali tarpate, la cui missione fosse di punire i peccati della generazione nascente. Le sue urla e le sue grida spaventosamente alte fecero certo tremare il cuore di molti dei fuggitivi. A vittoria ottenuta, Perla tornò tranquillamente al fianco della madre, e la guardò in viso sorridendo.
Senza altri incidenti giunsero alla casa del governatore Bellingham. Era una grande casa di legno, costruita secondo un modello di cui restano ancora alcuni esemplari nelle strade delle nostre città più antiche, oramai ricoperti di musco e in sfacelo, e in fondo deprimenti per i tanti eventi lieti o tristi, vivi nel ricordo o dimenticati, che sono capitati e si sono dileguati nelle loro camere semibuie. Allora, invece, all'esterno c'era tutta la freschezza dell'anno in corso, e l'allegria, che prorompeva dalle finestre soleggiate, di un'abitazione umana mai visitata dalla morte. Anche l'aspetto era molto accogliente, perché le pareti erano state ricoperte di fresco con una specie di stucco, al quale erano stati mischiati pezzettini di vetro in abbondanza, così che, quando i raggi del sole cadevano di traverso sulla facciata dell'edificio, lo facevano brillare e risplendere come se vi fossero stati profusi diamanti a manciate Questo gaio luccichìo sarebbe stato certo più adatto alla reggia di Aladino che alla residenza di un austero vecchio legislatore puritano. La decoravano strane figurazioni dall'aria cabalistica e graffiti, in carattere col gusto bizzarro dell'epoca, che erano stati impressi nello stucco fresco, ed erano diventati resistenti e durevoli, per l'ammirazione delle generazioni future.
Perla, nel vedere questa meraviglia splendente di casa, cominciò a danzare e a far capriole, e chiese con fare perentorio che venisse strappato tutto il sole che batteva sulla facciata e che le fosse dato per giocare.
"No, mia piccola Perla", disse la madre. "Devi prenderti da sola la luce che desideri. Io non ne ho da darti".
Si avvicinarono alla porta, che era fatta ad arco, e fiancheggiata dai due lati da uno stretto torrione o aggetto dell'edificio, con finestre a traliccio, che avevano imposte da chiudere al bisogno.
Alzando il martello di ferro che era attaccato al portone, Hester Prynne diede un colpo, al quale rispose uno dei servi del governatore, un inglese nato libero, ma ora schiavo per sette anni. Per tutto questo tempo restava di proprietà del suo padrone, oggetto di compravendita come un bue o uno sgabello. Indossava una livrea blu, che era il costume abituale dei servi in quel periodo, e molto tempo prima lo era stato nei vecchi palazzi delle dinastie inglesi.
"E' in casa il degno governatore Bellingham?" chiese Hester.
"Sì, in fede mia", rispose il servo, guardando con occhi sbarrati la lettera scarlatta, che non aveva mai visto, essendo nuovo del paese. "Sì, la sua onorevole signoria è in casa, ma con lui ci sono uno o due santi prelati, e forse uno speziale. Non potete vedere sua signoria adesso".
"Entrerò lo stesso", rispose Hester; e il servitore, forse convinto dalla sua aria decisa e dal segno che le brillava sul petto che lei doveva essere qualche gran signora del paese, non oppose alcuna resistenza.
La madre e la piccola Perla vennero fatte accomodare nell'ingresso. Con numerose varianti, rese necessarie dalla natura dei materiali da costruzione a sua disposizione, dalla differenza del clima, e dalle diverse consuetudini della vita sociale, il governatore Bellingham si era fatto una dimora a imitazione delle residenze dei ricchi signori del suo paese natale. In essa si trovava un vestibolo ampio e abbastanza alto, che si estendeva per tutta la profondità della casa, e faceva da mezzo di comunicazione, più o meno diretto, tra tutti i diversi appartamenti. A un'estremità, questo spazioso vestibolo era rischiarato dalle finestrelle dei due torrioni, che con le loro cavità formavano due vani ai lati della porta. Dall'altra parte, anche se relativamente schermata da una tenda, veniva luce in abbondanza da una di quelle grandi finestre a nicchia che sono descritte nei vecchi libri, sotto la quale non mancavano dei comodi sedili coperti di cuscini. Su uno di questi cuscini si trovava un volume in folio, forse delle Cronache d'Inghilterra, o di altre opere letterarie dello stesso tipo, proprio come noi, ai nostri giorni, lasciamo sparpagliati sul tavolo centrale dei volumi dorati a disposizione di ospiti casuali. Il mobilio del vestibolo consisteva in alcune massicce seggiole, i cui schienali erano decorati da viluppi di fiori di quercia intagliati minuziosamente e in un grande tavolo nello stesso stile, appartenente come il resto all'età elisabettiana, o a un'epoca precedente a essa: erano cimeli di famiglia che provenivano dalla casa avita del governatore. Sul tavolo, a dimostrare che non si era spento l'antico spirito d'ospitalità inglese, troneggiava un grosso boccale di peltro, in fondo al quale Hester o Perla avrebbero potuto scorgere, se ci avessero guardato, un rimasuglio schiumoso di birra chiara.
Sulla parete erano allineati i ritratti degli antenati del governatore Bellingham, alcuni col petto ricoperto dall'armatura, e altri con dignitosi pizzi e abiti pacifici. In tutti risaltavano l'austerità e la severità proprie dei vecchi ritratti, come se essi fossero più i fantasmi che le immagini dei degni trapassati, e guardassero con spirito aspramente critico e intollerante i passatempi e i piaceri dei vivi.
Quasi al centro dei pannelli di rovere che rivestivano il vestibolo era appesa una cotta di maglia, non già, come i ritratti, un'anticaglia avita, ma di data recentissima, essendo stata fabbricata da un abile armaiolo l'anno stesso in cui il governatore Bellingham si era recato nella Nuova Inghilterra.
C'erano un elmo d'acciaio, una corazza, una gorgiera e dei gambali, oltre a un paio di guanti ferrati sotto ai quali pendeva una spada: tutti questi pezzi, e specialmente l'elmo e la piastra d'acciaio che doveva coprire il petto, erano lucidati con tanta cura da brillare di riflessi metallici che illuminavano il pavimento a chiazze discontinue. Questa rilucente panoplia non stava lì soltanto a scopo decorativo, ma era stata indossata dal governatore parecchie volte in occasione di parate e di esercizi militari, e per di più aveva scintillato alla testa di un reggimento nella guerra contro i Pequod. Infatti, pur essendo il governatore un uomo di toga, portato a discorrere di Bacone, Coke, Noye, Finch, e di tutti i suoi colleghi nella professione, le necessità del paese nuovo lo avevano trasformato in soldato, oltre che in statista e legislatore.
La piccola Perla, alla quale l'armatura lucente non era piaciuta meno del frontone variegato della casa, se ne stette a guardare per un po' lo specchio terso del pettorale.
"Mamma", gridò, "ti vedo qui. Guarda! Guarda!".
Hester guardò, per tener buona la bambina, e vide che, per uno strano effetto dello specchio convesso in quella forma, la lettera scarlatta assumeva in esso proporzioni esagerate e gigantesche, fino a diventare la caratteristica più appariscente della sua persona. Sembrava addirittura che lei ne fosse nascosta completamente. Perla le mostrò, in alto, un'altra immagine simile nell'elmo, sorridendo a sua madre con l'intelligenza da elfo che appariva così spesso sui suoi lineamenti. Anche questo sguardo di allegria malvagia fu riflesso dallo specchio con tanta larghezza e intensità d'effetto, che a Hester Prynne non sembrò l'immagine di sua figlia, ma piuttosto quella di un demone che cercasse di assumerne la forma.
"Via, via, Perla", le disse, tirandola per la mano, "vieni a vedere questo bel giardino. Forse ci saranno dei fiori, e certo molto più belli di quelli che si trovano nei boschi".
Obbediente, Perla corse alla finestra, dalla parte opposta del salone, e vide un giardino con dell'erba rasa ordinatamente, contornata da una siepe rudimentale e incompleta di mortella.
Sembrava però che il proprietario avesse abbandonato ogni speranza di riprodurre da questa parte dell'Atlantico, su un terreno duro e nella continua lotta per la sopravvivenza, il gusto originario inglese del giardinaggio ornamentale. Ci si vedevano crescere dei cavoli; e una zucca, che aveva le radici poco lontane, aveva riempito lo spazio intermedio, e aveva depositato uno dei suoi frutti giganteschi proprio sotto la finestra del vestibolo come per ricordare al governatore che questo massiccio vegetale era l'ornamento più ricco che il suolo della Nuova Inghilterra potesse offrirgli. C'erano alcuni cespugli di rose selvatiche, e perfino dei meli, probabilmente discendenti da quelli che aveva piantato il reverendo Blackstone, il primo colono della penisola, quel personaggio mezzo mitico che cavalca nei nostri primi annali sul dorso di un toro.
Perla, alla vista dei rosai, si mise a piangere, e non voleva calmarsi se prima non avesse ottenuto una rosa rossa.
"Zitta! figlia mia, zitta!" le diceva la madre, preoccupata. "Non gridare, cara piccola Perla! Sento delle voci nel giardino: stanno venendo il governatore e degli altri signori".
Infatti, lungo il viale che attraversava il giardino, si vedeva un gruppo di persone che si avvicinavano alla casa. Perla, a dispetto degli sforzi che la madre faceva per calmarla, lanciò un urlo acutissimo, e poi tacque, non certo per obbedienza, ma perché la sua rapida e mutevole curiosità era stata eccitata dall'apparire di questi personaggi.
8. IL FOLLETTO E L'ECCLESIASTICO
Il governatore Bellingham, con indosso un'ampia sopravveste e una comoda berretta (che i signori di una certa età usavano di preferenza nella pace domestica), precedeva gli altri, e pareva che stesse spiegando loro le bellezze della sua proprietà, e illustrando le migliorie che intendeva realizzare. L'ampiezza del colletto di elaborati merletti che risaltava sotto la sua barba grigia, alla moda sorpassata del regno di re Giacomo, faceva sì che la sua testa rassomigliasse non poco a quella di Giovanni Battista sul vassoio. Il suo aspetto così rigido e severo, e morso dal gelo di un'età più che autunnale, contrastava stranamente con le apparenze di felicità mondana di cui aveva fatto il possibile per circondarsi. E' un errore credere che i nostri austeri antenati, i quali erano certo abituati a considerare e a parlare dell'esistenza umana come di un semplice periodo di prove e di lotte, e pronti a sacrificare i loro beni e la vita stessa per il dovere, si negassero per una questione di principio ogni comodità, e addirittura ogni lusso che fosse alla loro portata. Questa dottrina non era mai stata predicata, per esempio, dal venerabile pastore John Wilson, la cui barba, bianca come la neve, poggiava quasi sulla spalla del governatore Bellingham, mentre il proprietario spiegava come si potessero acclimatare le pere e le pesche nella Nuova Inghilterra, e che forse si poteva riuscire a far fiorire addirittura l'uva porporina sul muro del giardino esposto al sole. Il vecchio ecclesiastico, che aveva succhiato dal ricco seno della Chiesa d'Inghilterra, aveva un'antica e legittima predilezione per tutto ciò che c'era al mondo di buono e di piacevole e, per severo che sembrasse dal pulpito, o nelle sue pubbliche condanne di trasgressioni come quella di Hester Prynne, la cordiale benevolenza della sua vita privata gli aveva procurato un affetto più sincero di quello tributato ai suoi colleghi dell'epoca.
Dietro al governatore e al pastore Wilson venivano altri due ospiti: il reverendo Arthur Dimmesdale, che probabilmente il lettore ricorderà in quanto prese parte, anche se per poco e con riluttanza, allo spettacolo dell'ignominia di Hester Prynne; e, in intima compagnia con lui, il vecchio Roger Chillingworth, uomo di provata abilità nella medicina, che si era stabilito nella cittadina ormai da due o tre anni. Si vedeva che questo scienziato era sia il medico che l'amico del giovane sacerdote, la cui salute aveva recentemente cominciato ad accusare gli effetti della sua incondizionata dedizione al lavoro e ai doveri della sua missione ecclesiastica.
Il governatore, facendo strada ai suoi visitatori, salì un paio di scalini e, aperti i battenti della grande porta finestra del vestibolo, si trovò accanto la piccola Perla. L'ombra della tenda cadeva su Hester e la nascondeva parzialmente.
"Chi c'è qui?" domandò il governatore Bellingham, guardando sorpreso la figurina scarlatta che gli stava davanti. "Affermo di non aver mai visto nulla di simile dai giorni della mia vanità, ai tempi del vecchio re Giacomo, quando dovevo considerare un alto onore essere ammesso a una mascherata a corte! In occasione delle feste, c'erano sciami di queste piccole apparizioni, e noi le chiamavamo figlie del Signore del Disordine (7). Ma com'è che un simile ospite è entrato nelle mie stanze?".
"Ma davvero!" gridò il bonario vecchio pastore Wilson. "Quale uccellino dalle piume scarlatte è mai questo? Credo d'aver visto figure proprio eguali a questa quando il sole brillava attraverso finestre riccamente dipinte, disegnandone i tratti d'oro e cremisi sul pavimento. Ma questo succedeva nel vecchio paese. Ti prego, bimba mia, chi sei, e chi ha spinto tua madre a vestirti come un folletto in questo strano modo? Sei una piccola cristiana, sì? Sai il catechismo? O sei uno di quei piccoli elfi o fate cattivelle che credevamo di aver lasciato nella gaia vecchia Inghilterra con gli altri rimasugli del papismo?".
"Sono figlia della mamma", rispose la visione scarlatta, "e mi chiamo Perla!".
"Perla? Rubino, piuttosto, o Corallo, o Rosa Rossa, almeno, a giudicare dal tuo colore!" rispose il vecchio sacerdote, tendendo un braccio, nel vano tentativo di dare un buffetto sulla guancia alla piccola Perla. "Ma dov'è questa tua madre? Ah! vedo", aggiunse e, rivolto al governatore Bellingham, sussurrò: "E' proprio la bambina di cui si è parlato insieme; ed ecco là sua madre, Hester Prynne, quella disgraziata!".
"Davvero?" gridò il governatore. "Già, avremmo dovuto immaginare che la madre di una bimba come quella fosse una donna scarlatta, degna figlia di Babilonia! Ma è venuta in buon punto, e vedremo di occuparci di quel che la riguarda senza perdere tempo".
Il governatore Bellingham salì gli ultimi scalini ed entrò nella stanza, seguito dai suoi tre ospiti.
"Hester Prynne", disse, guardando la donna dalla lettera scarlatta con la sua abituale aria severa, "in questi ultimi tempi si è molto discusso sul tuo conto. Si è soppesato con attenzione il quesito se sia opportuno che noi, nella nostra autorità e potenza, ci liberiamo del carico dell'anima immortale di quella bambina affidandola alla guida di una che ha già perduto la sua strada inciampando e cadendo nei tranelli di questo mondo. Parla tu, che sei la madre della piccola! Non credi tu che sarebbe di maggior profitto alla salvezza temporale ed eterna di tua figlia essere sottratta alla tua potestà, per essere vestita sobriamente, e abituata a una stretta disciplina, e istruita nelle verità del cielo e della terra? Cosa puoi fare tu per la tua bambina in questo senso?".
"Posso insegnare alla mia piccola Perla quello che ho imparato da questa!" rispose Hester Prynne, appoggiando un dito sulla lettera scarlatta.
"Donna, quello è il segno della tua vergogna!" replicò l'austero magistrato. "E' proprio per la macchia indicata da quella lettera che vorremmo affidare tua figlia ad altre mani".
"Tuttavia", disse la madre tranquillamente, ma diventando più pallida, "questo marchio mi ha insegnato, e mi insegna ogni giorno, e in questo momento, lezioni che potranno rendere mia figlia più saggia e più buona, anche se ormai non possono più essere di alcuna utilità per me".
"Si giudicherà con coscienza", disse Bellingham, "e si vedrà ciò che si dovrà fare. Buon pastore Wilson, ve ne prego, esaminate questa Perla, se così si chiama, e rendetevi conto se abbia avuto o no il nutrimento cristiano che conviene a una bimba della sua età".
Il vecchio ecclesiastico sedette su un seggiolone, e fece un tentativo di prendere Perla sulle ginocchia, ma la piccola, che non era abituata a contatti o a familiarità con altri che non fossero sua madre, sfuggì per la porta aperta, e si fermò sull'ultimo gradino, come un uccello selvaggio dei tropici dalle piume meravigliose pronto a volarsene via per l'aria. Il pastore Wilson, che aveva l'aspetto del vecchio nonno, e di solito era molto ben visto dai bambini, rimase non poco sbalordito da questa fuga improvvisa, ma provò a fare lo stesso il suo esame.
"Perla", disse, con molta solennità, "devi tenere in gran conto la tua istruzione, così da poter portare a suo tempo nel cuore la perla più preziosa. Sai dirmi, bimba mia, chi ti ha fatta?".
Ora Perla sapeva benissimo chi l'aveva fatta, perché Hester Prynne, che veniva da una famiglia molto religiosa, fin dal giorno in cui aveva parlato con la piccola del Padre Celeste, aveva cominciato a rivelarle quelle verità che lo spirito umano assorbe con tanto interesse a qualunque età. Perla, quindi, avrebbe potuto sostenere perfettamente, tanto vaste erano le conoscenze dei suoi tre anni, un esame sul Sillabario della Nuova Inghilterra, o sulla prima colonna del catechismo di Westminster, anche se non aveva dimestichezza con la forma esteriore di questi due celebri capolavori. Ma la perversità che è propria dei bambini in misura più o meno accentuata, e che in Perla era per lo meno decuplicata, si impossessò di lei proprio ora, nel meno adatto dei momenti, e le sigillò le labbra, o la fece parlare a sproposito. Dopo essersi ficcata un dito in bocca, e aver rifiutato con mala grazia di rispondere alle domande del buon pastore Wilson, la piccola annunciò alla fine che non era stata fatta da nessuno, ma che sua madre l'aveva colta dalla pianta di rose che cresceva accanto alla porta della prigione.
Questa fantasia le era stata probabilmente suggerita dalla vicinanza delle rose rosse del governatore, poiché Perla stava fuori del finestrone, oltre che dal ricordo del roseto della prigione, davanti al quale era transitata mentre veniva qui.
Il vecchio Roger Chillingworth, con il sorriso in volto, sussurrò qualcosa all'orecchio del sacerdote più giovane. Hester Prynne guardò lo scienziato, e perfino in un momento come quello, col suo destino appeso ad un filo, non poté fare a meno di restare sorpresa dal cambiamento sopravvenuto nei suoi lineamenti, che erano diventati molto più brutti, mentre la sua carnagione scura sembrava esser diventata più fosca, e il suo corpo ancor più deforme che ai tempi in cui erano stati marito e moglie. Per un attimo incontrò il suo sguardo, ma subito fu costretta a concentrare la sua attenzione sulla scena che si stava svolgendo.
"E spaventoso!" gridava il governatore, riprendendosi dallo sbigottimento nel quale lo aveva lasciato la risposta di Perla.
"Ecco una bambina di tre anni che non sa dire neppure chi l'ha creata! Non si può dubitare che essa sia egualmente all'oscuro di tutto ciò che riguarda la sua anima, la sua presente depravazione, e il suo destino futuro! Penso, signori miei, che sia inutile continuare l'esame".
Hester afferrò Perla, e se la prese in braccio con violenza, sfidando il vecchio magistrato puritano con un'espressione quasi feroce. Sola al mondo, respinta da tutti, e con questo unico tesoro che le scaldasse il cuore, sentiva di possedere inconfutabili diritti contro chiunque altro, ed era pronta a morire per difenderli.
"Dio mi ha dato questa figlia!" gridò. "Me l'ha data per tutte le cose che voi mi avete tolto. E' tutta la mia felicità, pur essendo la mia tortura! E' Perla che mi fa vivere qui, è Perla che mi punisce! Non vedete che lei è la lettera scarlatta, che ha in più la capacità di farsi amare, accrescendo la punizione del mio peccato di un milione di volte? Non me la prenderete! Piuttosto morirò!".
"Mia povera donna", disse il non crudele vecchio religioso, "la bimba sarà posta in ottime mani, che potranno avere cura di lei molto meglio di quanto non possa farlo tu!".
"E' Dio che me l'ha affidata!" ripeté Hester Prynne, alzando la voce quasi a gridare. "Non la cederò!". E con un gesto impulsivo e improvviso si volse all'ecclesiastico più giovane, Dimmesdale, al quale, fino a quel momento, non aveva rivolto che qualche occhiata. "Parla tu per me! " gridò. "Tu sei stato il mio pastore, e avevi la responsabilità della mia anima, e mi conosci meglio di tutti costoro. Parla tu in mia difesa. Non voglio perdere mia figlia! Sai, perché hai una sensibilità che manca a loro, sai cosa c'è nel mio cuore, e quali siano i diritti di una madre, e quanto questi diritti siano più forti quando lei non abbia che sua figlia e la lettera scarlatta! Pensaci tu! Non voglio perdere mia figlia!
Pensaci tu!".
A questa supplica inconsueta e sconnessa, che dimostrava che Hester era stata spinta quasi alla follia dal pericolo che la minacciava, il giovane sacerdote fece un passo avanti, pallidissimo, e tenendo una mano sul cuore, come faceva sempre quando il suo carattere particolarmente nervoso subiva una scossa.
Aveva un aspetto più preoccupato ed emaciato del giorno in cui lo descrivemmo alla scena della pubblica ignominia di Hester, e forse per la salute incerta o per qualsiasi altra ragione, i suoi grandi occhi scuri contenevano un universo intero di dolore nelle loro profondità turbate e malinconiche.
"C'è del vero in quel che dice", cominciò il prelato, con voce tremula e dolce, ma tanto potente che ne echeggiò il vestibolo, e l'armatura vibrò nelle sue cavità; "del vero in quello che dice Hester, e nel sentimento che la ispira! Dio le ha dato la bimba, e le ha dato anche una conoscenza istintiva della sua natura e delle sue necessità, che sembrano così strane, che nessun altro essere umano potrà mai eguagliare. E per di più, non c'è forse qualcosa di terribilmente soprannaturale nel legame tra queste due creature?".
"Ah, ma come, buon pastore Dimmesdale?" interruppe il governatore.
"Spiegatevi, vi prego!".
"Dev'essere proprio così", riprese il sacerdote, "perché, se pensassimo altrimenti, non diremmo implicitamente che il Padre Celeste, il creatore di tutta la carne, ha riconosciuto con leggerezza un'azione peccaminosa, ponendo in non cale la differenza tra l'empia lussuria e l'amore benedetto? Questa figlia della colpa paterna e dell'onta materna è venuta dalle mani di Dio, per operare in molte maniere sul cuore di colei che prega con tanta franchezza e con tanta amarezza di spirito che le venga concesso il diritto di tenerla. Doveva essere una benedizione per lei, l'unica benedizione della sua vita! Doveva essere, non c'è dubbio, come ci ha detto la madre stessa, anche un fio per il suo peccato: una tortura che si sarebbe fatta sentire nei momenti più inattesi, una fitta, una ferita, un'agonia sempre ricorrente, anche in mezzo a gioie sommesse. Non ha forse lei espresso questo sentimento nell'abbigliamento della bambina, che ci costringe a ricordare quel simbolo rosso che le arroventa il petto?".
"E' giusto anche questo!" gridò il buon pastore Wilson. "Temevo che la donna non avesse altra idea che di trasformare la piccola in una saltimbanca!".
"Oh, no, no", continuò Dimmesdale. "Lei riconosce, credetemi, il solenne miracolo che ha operato Dio nell'essenza stessa della bimba. E possa anche sentire (e questa non è che la pura verità) che questa grazia fu intesa, sopra ogni altra cosa, per tener viva l'anima della madre, e per salvarla dalle più oscure voragini del peccato dove altrimenti Satana avrebbe cercato di precipitarla! E' bene perciò per questa povera donna piena di peccati che abbia la responsabilità della salvezza di una giovane anima immortale, di un essere capace di gioia eterna come di eterno dolore, e che proprio a lei tocchi allevarla alla rettitudine, nel continuo ricordo della sua colpa, ma anche per un sacro impegno del Creatore, che saprà aprire alla piccola la strada del cielo, anche la figlia vi condurrà sua madre! Là la madre colpevole sarà più felice del padre con il quale ha peccato. Per il bene di Hester Prynne, quindi, e non meno per il bene di questa povera creatura, lasciamole entrambe nello stato che la Provvidenza ha designato per loro!".
"Parlate con una strana foga, amico mio", disse il vecchio Roger Chillingworth, sorridendogli.
"E c'è un profondo contenuto nelle parole del mio giovane confratello", aggiunse il reverendo Wilson. "Che ne dite, degno signor Bellingham? Non ha perorato bene la causa di questa povera donna?".
"Davvero, è stato così", rispose il magistrato, "e ha addotto tali argomenti, che lasceremo le cose come stanno ora, almeno fin quando la donna non darà ulteriormente scandalo. Bisogna tuttavia provvedere a che la piccola sia sottoposta a una seria istruzione religiosa, come si conviene, nelle mani tue o del pastore Dimmesdale. Inoltre, a suo tempo, i messi comunali dovranno provvedere che partecipi alla scuola e alle riunioni religiose".
Il giovane ecclesiastico, dopo aver terminato il suo discorso, si era ritirato dal gruppo di qualche passo, e se ne stava col viso parzialmente nascosto tra le pesanti pieghe della tenda della finestra, mentre la sua ombra, che il sole proiettava sul pavimento, tremava ancora per la veemenza della sua arringa.
Perla, il piccolo elfo selvatico e sfuggente, gli si avvicinò senza far rumore, e prendendogli una mano nelle sue, vi appoggiò la guancia, in una carezza così tenera, e nello stesso tempo così discreta che la madre, guardandola, si chiese: "E' questa la mia Perla?". Sapeva d'altronde che c'era molto amore nel cuore di sua figlia, anche se si rivelava soltanto nei momenti di eccitazione, e forse un paio di volte in vita sua era stata addolcita da una tenerezza come quella di quell'attimo. Il sacerdote, non essendoci nulla di più dolce, eccettuate le carezze di una donna a lungo desiderata, di questi segni di predilezione infantile, accordati spontaneamente da un istinto spirituale, e che quindi sembrano implicare l'esistenza in noi di qualcosa di veramente degno d'essere amato, il sacerdote dunque si guardò intorno, mise una mano sul capo della bambina, e dopo un attimo d'esitazione la baciò sulla fronte. Quello stato d'animo sentimentale, insolito in Perla, non durò a lungo; rise e si mise a saltare per il vestibolo con tanta agilità, che il vecchio reverendo Wilson pose scherzosamente la questione se toccasse il suolo con le punte dei piedi.
"La piccina è stregata, a mio parere", disse a Dimmesdale. "Non ha bisogno di una scopa per volare!".
"Strana bambina", osservò il vecchio Roger Chillingworth. "Non è difficile rilevare in lei le tracce del carattere della madre.
Credete che sarebbe possibile a un filosofo, signori, analizzarne la natura, e dalla sua composizione indovinare all'incirca chi possa essere il padre?".
"No, sarebbe peccato servirsi della chiave della filosofia profana in una materia così delicata", disse il reverendo Wilson. "E' meglio vegliare e pregarci sopra, e forse è ancora più opportuno lasciare il mistero come lo abbiamo trovato, a meno che la Provvidenza non voglia rivelarcelo di sua iniziativa. Nel frattempo, ogni buon cristiano ha il dovere di avere la bontà di un padre per la povera piccola abbandonata".
Concluso l'affare in modo così conveniente, Hester Prynne prese congedo dalla casa del governatore in compagnia della piccola Perla. Mentre scendevano gli scalini, c'è chi afferma che gli scuri di una finestra si aprissero, e che apparisse alla luce del sole la faccia della vecchia signora Hibbins, la bisbetica sorella del governatore, quella stessa che pochi anni dopo venne giustiziata come strega.
"Sst, sst!" disse, mentre il suo volto perverso sembrava lanciare un'ombra sulla gaiezza della casa appena costruita. "Vuoi unirti a noi stanotte? Ci sarà una lieta brigata nella foresta, e ho quasi promesso all'Uomo Nero che la graziosa Hester Prynne ne avrebbe fatto parte".
"Fategli le mie scuse, ve ne prego! " rispose Hester, con un sorriso di trionfo. "Devo scapparmene a casa per badare alla mia piccola Perla. Se me l'avessero tolta, sarei venuta molto volentieri con voi, e avrei anche scritto il mio nome nel libro dell'Uomo Nero, col mio stesso sangue!".
"Ci verrai un'altra volta!" disse la strega, con uno scuro cipiglio mentre ritirava la testa.
Ma qui, se ammettiamo che questo dialogo tra la signora Hibbins e Hester Prynne sia autentico, e non si tratti invece di una leggenda, esisteva già un esempio a favore della ragione addotta dal giovane prelato contro quelli che volevano dividere una madre caduta nel peccato dal frutto della sua fragilità. Già così presto la piccola l'aveva salvata dagli artigli di Satana.
9. IL CERUSICO
Sotto l'appellativo di Roger Chillingworth, il lettore lo ricorderà, si nascondeva un altro nome, che il possessore aveva deciso di lasciar cadere nell'oblio. E' stato detto detto che tra la folla che assisteva all'ignominiosa messa alla gogna di Hester Prynne si trovava un uomo, vecchio, spossato dai lunghi viaggi, che, appena uscito dalle strette della foresta, aveva visto la donna in cui aveva sperato di trovare l'incarnazione del calore e della gioia del focolare, esposta come vivente esempio del peccato di fronte al popolo. La sua reputazione era calpestata dai piedi di ogni passante. L'infamia le faceva circolo intorno nella pubblica piazza del mercato. Per i suoi parenti, se mai fossero giunte loro notizie di quel che era stato, e per tutti i compagni della sua vita immacolata, non restava che il contagio del suo disonore, che non avrebbe mancato di colpirli in proporzione al carattere intimo e sacro delle loro relazioni precedenti. E allora perché, se aveva la possibilità di fare lui stesso la scelta, l'uomo il cui vincolo con la donna perduta era il più intimo e il più sacro di tutti, avrebbe dovuto avanzarsi a reclamare un'eredità così poco piacevole? Egli decise di non salirle accanto sul piedestallo dell'ignominia. Ignoto a tutti fuorché a Hester Prynne, e in possesso della chiave del suo silenzio, aveva preferito cancellare il suo nome dall'elenco dei viventi e, per quello che riguardava i suoi legami e interessi precedenti, era svanito come se davvero si fosse trovato in fondo all'oceano, dove si diceva già da tempo che fosse scomparso. Una volta mandato a effetto questo proposito, nacquero immediatamente in lui nuovi interessi, e ugualmente un nuovo proposito, cupo, è vero, se non abietto, ma così appassionatamente da impegnare interamente tutte le sue capacità.
Per ottenere il risultato che si era prefisso, si stabilì nella colonia puritana col nome di Roger Chillingworth, senza altra presentazione che la scienza e l'intelligenza che possedeva in misura davvero eccezionale. I suoi studi, nel periodo precedente della sua vita, lo avevano reso perfettamente padrone della scienza medica di quel tempo, e fu quindi come cerusico che si presentò, e come tale fu cordialmente ricevuto. Uomini versati nella scienza medica e chirurgica capitavano raramente nella città, e le poche volte che vi facevano ingresso non era con quello zelo religioso che aveva portato gli altri emigranti oltre Atlantico. Forse le continue ricerche sulla struttura degli uomini materializzavano le facoltà più elevate e sottili di questi scienziati fino al punto di fargli perdere la visione spirituale dell'esistenza, tra le complicazioni di questo meraviglioso meccanismo, che sembrava essere congegnato così perfettamente da esaurire in sé il mistero della vita. Fino a quel giorno, dunque, la salute della buona città di Boston, per quello che aveva che fare con la medicina, era rimasta affidata alla tutela di un vecchio diacono farmacista, la cui devozione e il cui comportamento esemplare erano titoli migliori di qualunque diploma avesse mai potuto esibire. L'unico chirurgo della colonia univa l'occasionale esercizio della sua nobile arte con il quotidiano e abituale esercizio del rasoio. Per un simile corpo professionale, Roger Chillingworth costituiva un acquisto prezioso. Non gli ci volle molto per dimostrare la sua familiarità con il ponderoso e rispettabile meccanismo della medicina antica, nella quale ogni rimedio era costituito da una congerie di ingredienti bizzarri ed eterogenei, frammisti in proporzioni così complesse che il risultato pareva dover essere almeno l'elisir di lunga vita.
Durante il periodo della sua prigionia tra gli indiani, inoltre, aveva appreso le numerose virtù delle erbe e delle radici del paese, e non si peritava di spiegare ai suoi pazienti che queste semplici medicine, dono della natura ai derelitti selvaggi, godevano della sua fiducia esattamente come la farmacopea europea, a elaborare la quale tanti sapienti dottori avevano passato secoli interi.
Questo dotto forestiero poteva essere preso a modello per quel che riguardava le formalità esteriori della vita religiosa; e poco tempo dopo il suo arrivo si era posto sotto la guida spirituale del reverendo Dimmesdale. Il giovane prelato, la cui fama di studioso ancora perdurava a Oxford, era considerato dai suoi ammiratori più ferventi poco meno di un apostolo che avesse ricevuto gli ordini direttamente dal cielo, destinato, se avesse potuto vivere e lavorare per tutto il tempo che viene di solito accordato sulla terra agli uomini, a compiere grandi cose per la debole Chiesa della Nuova Inghilterra, come i primi Padri avevano fatto per l'infanzia della fede cristiana. In quegli ultimi tempi, tuttavia, la salute di Dimmesdale aveva cominciato a declinare in modo evidente. Per quelli che meglio conoscevano le sue abitudini, il pallore del volto del giovane ecclesiastico andava attribuito alla sua eccessiva passione per gli studi, al suo scrupoloso adempimento dei doveri parrocchiali e, più ancora che a queste cose, ai digiuni e alle veglie alle quali si sottoponeva con grande frequenza, per impedire alla materialità della natura terrena di offuscare la sua lampada spirituale. Alcuni dichiaravano che se Dimmesdale stava davvero per morire, ne era causa sufficiente il fatto che il mondo non era degno d'essere ancora calcato dai suoi piedi. D'altro canto lui stesso, con la sua caratteristica umiltà, diceva di credere che, se la Provvidenza avesse deciso di toglierlo di mezzo, sarebbe stato a causa della sua indegnità di svolgere anche la sua più umile missione sulla terra. Malgrado la differenza di opinioni sulle ragioni del suo peggioramento, il fatto non poteva essere negato.
La figura si era assottigliata, la voce, anche se restava potente e dolce, recava una traccia di malinconia che faceva prevedere una prossima fine, e spesso era stato notato che, a ogni minimo allarme e per qualsiasi improvviso incidente, egli si metteva la mano sul cuore arrossendo, e poi impallidendo, il che dimostrava con evidenza che soffriva.
Queste erano le condizioni del giovane ecclesiastico, ed era così vicina la prospettiva che la sua luce nascente si estinguesse prima del tempo, quando Roger Chillingworth fece il suo ingresso in città. La sua prima comparsa sulla scena, non si sa da dove, come se fosse piovuto dal cielo o fosse scaturito dagli inferi, aveva un qualcosa di misterioso, a cui non fu difficile attribuire la qualifica di miracolo. Se ne riconobbe ora il valore; lo si vide raccogliere erbe e boccioli di piante selvatiche, e scavare radici e svellere ramoscelli dagli alberi della foresta da uomo pratico delle virtù nascoste in cose prive di valore per occhi non esperti. Lo si udì parlare di sir Kenelm Digby e di altre celebrità, le cui scoperte scientifiche erano considerate poco meno che soprannaturali, come di suoi antichi corrispondenti o colleghi. E dunque, con quale rango nel mondo dei dotti era egli venuto nel paese? Che cosa poteva cercare uno, il cui ambiente era nelle grandi città, in quella desolata terra selvaggia? In risposta a tali interrogativi, si sparse la voce (benché fosse assurda, ebbe credito presso gente di notevole intelligenza) che il Cielo aveva operato un vero portento, trasportando materialmente attraverso l'aria un sommo dottore in medicina di un'università tedesca, e depositandolo davanti alla porta dello studio di Dimmesdale! Anche persone la cui fede era temperata dalla riflessione, e che sapevano che il Cielo realizza i suoi progetti pur senza ricorrere a quelle esibizioni che vengono chiamate interventi miracolosi, erano portate a vedere la mano della Provvidenza nell'arrivo di Roger Chillingworth in un momento così opportuno.
Questa idea era suffragata dal profondo interesse che il cerusico aveva mostrato in ogni occasione nei riguardi del giovane sacerdote, del quale era subito diventato parrocchiano, cercando di ottenere l'amicizia e la fiducia di quel carattere così naturalmente riservato. Il medico si mostrò molto preoccupato per lo stato di salute del suo pastore, ma era anche impaziente di cercare di curarlo, non disperando di ottenere risultati favorevoli se avesse potuto intervenire in tempo. Tutti i membri del gregge di Dimmesdale, gli anziani, i diaconi, le materne signore e le ragazze giovani e graziose, insistevano con la stessa premura perché mettesse alla prova quelle arti che il medico gli offriva con tanta cortesia, ma Dimmesdale respingeva con garbo le loro richieste.
"Non ho bisogno di medicine", diceva.
Ma come poteva dire una cosa simile il giovane sacerdote, quando, ogni domenica che passava, il suo volto era più pallido e più affilato, e la sua voce più incerta di prima, e l'atto di posarsi la mano sul cuore era diventato più un'abitudine che un gesto casuale? Era stanco della sua opera? Desiderava morire? Queste domande vennero poste con solennità a Dimmesdale dai più anziani sacerdoti di Boston, e dai diaconi della sua chiesa, che, per usare le loro stesse parole, "si sentivano corresponsabili con lui" nel peccato di respingere l'aiuto che la Provvidenza gli aveva così chiaramente inviato. Egli li ascoltò senza interromperli, e alla fine promise di parlare col medico.
"Se fosse davvero la volontà di Dio", disse il reverendo Dimmesdale, chiedendo il parere professionale del vecchio Roger Chillingworth per esaudire la preghiera dei suoi amici, "sarei ben contento che le mie fatiche, i miei dispiaceri e i miei peccati finissero in breve tempo con la mia morte, e che con essi venisse sepolto nella tomba tutto ciò che è in me di terreno, perché la mia parte spirituale possa raggiungere la vita eterna, e non verrei a chiedervi di mettere alla prova la vostra abilità su di me".
"Ah", replicò Roger Chillingworth, con quella pacatezza che, naturale o voluta che fosse, improntava ogni sua azione, "è così che deve parlare un giovane sacerdote! Soltanto i giovani, che non hanno piantato radici profonde, possono abbandonare la vita con tanta facilità; e i santi, che seguono i passi di Dio sulla terra, preferirebbero lasciarla, per camminare con lui sugli aurei selciati della Nuova Gerusalemme".
"Oh, no", ribatté il giovane ecclesiastico, mettendosi una mano sul cuore, mentre una contrazione dolorosa gli attraversava il viso, "se fossi più degno di quel mondo, non mi dispiacerebbero gli affanni di questo".
"Spesso sono i buoni che hanno di sé la peggiore opinione", disse il medico.
Fu così che il misterioso vecchio Roger Chillingworth divenne il tutore della salute del reverendo Dimmesdale. Poiché allo scienziato non interessava la sola malattia, ma anche il carattere e le qualità più riposte del suo paziente, questi due uomini, di età così diversa, finirono col passare insieme gran parte del loro tempo. Per il maggior vantaggio della salute del giovane ecclesiastico, e per permettere al cerusico di raccogliere erbe medicamentose, cominciarono a fare lunghe passeggiate sulla riva del mare o nella foresta, durante le quali le loro frequenti conversazioni erano accompagnate dallo sciacquio e dal mormorìo delle onde e dal solenne canto del vento tra le creste degli alberi. Spesso l'uno si recava nell'eremo di studi e di solitudine dell'altro. La compagnia dello scienziato affascinava il religioso, che doveva riconoscere al suo compagno una cultura di profondità più che mediocre, oltre a una larghezza e a una libertà di idee che avrebbe cercato invano tra i propri colleghi. Questa caratteristica del medico, anzi, lo stupiva addirittura, anche se non lo scandalizzava. Dimmesdale era un vero sacerdote, un vero religioso, con un senso della riverenza profondamente radicato, e con una mente che si spingeva con grande vigore sul sentiero della fede, scavandosi in esso un solco sempre più profondo con l'andar del tempo. In nessuna società lo si sarebbe potuto considerare un uomo di idee liberali, poiché era necessario alla sua tranquillità interiore sentirsi sostenuto dalla pressione di una dottrina che lo sostenesse e nello stesso tempo lo imprigionasse nella sua ferrea struttura. Pur tuttavia, anche se con gioia non priva di timore, non gli dispiaceva vedere di tanto in tanto il mondo per il tramite di un intelletto diverso da quelli con i quali aveva rapporti nella sua professione. Era come se gli fosse stata aperta davanti una finestra, dalla quale penetrasse un soffio d'aria nuova nel suo studio rinchiuso e soffocante, dove la sua vita andava sprecata alla luce delle lampade o di raggi del sole troppo schermati, tra l'odore di muffa, fisico o spirituale che fosse, che esala dai libri. Quell'aria però era troppo pura e gelida per poter essere respirata a lungo senza disagio. Così il sacerdote, e il medico con lui, finivano col ritirarsi di nuovo entro i limiti di ciò che la loro chiesa considerava ortodosso.
Roger Chillingworth riusciva in questo modo a osservare il suo paziente con minuziosa attenzione, sia come lo vedeva nella sua vita comune, mentre seguiva l'abituale sentiero nell'ambito dei pensieri a lui familiari, sia come gli appariva quando si ritrovava in mezzo a un panorama morale diverso, la novità del quale poteva far affiorare qualcosa di nuovo alla superficie del suo carattere. Sembrava che per lui fosse essenziale conoscere l'uomo, prima di tentare di giovargli. Infatti dovunque siano un cuore e un intelletto, le malattie dell'organismo ne rispecchiano sempre lo stato particolare. In Arthur Dimmesdale il pensiero e l'immaginazione erano tanto ferventi, e la sensibilità così accentuata, che non era da escludere che la sua infermità fisica traesse di là le sue origini. Per questo Roger Chillingworth, il cerusico, il dottore umano e cortese, si sforzava di penetrare nel cuore del suo ammalato, scavando tra i suoi principi, scartabellando tra i suoi ricordi, e saggiando ogni cosa con tocco delicato, come un cercatore di tesori in un'oscura caverna. Pochi segreti possono sfuggire a un investigatore che abbia l'occasione e il permesso di intraprendere una ricerca come questa, oltre all'abilità di svolgerla fino in fondo. Un uomo la cui coscienza sia oppressa da un segreto dovrebbe evitare con cura speciale l'intimità del proprio medico. Se infatti questi è dotato di intuizione, e di qualcosa in più che non ha nome e che potremo chiamare intuito; e se riesce a non mostrare un egocentrismo urtante, né caratteristiche personali troppo evidenti; se ha il potere, che dev'essere innato in lui, di portare la mente a un tale punto di affinità con quella del malato, che quest'ultimo dica inavvertitamente quello che immagina di avere soltanto pensato; e se queste rivelazioni vengono accolte senza scomporsi eccessivamente, e più con una silenziosa simpatia che con affetto espresso troppo chiaramente, con un sospiro inarticolato, e ogni tanto una parola che dimostri che tutto è stato compreso; e se a questi requisiti di un confidente si aggiungano i vantaggi derivanti dalla qualifica riconosciuta di medico, allora non potrà mancare il momento nel quale l'anima del sofferente si scioglierà per fluire in una corrente oscura ma trasparente, che porterà alla luce del giorno tutti i suoi misteri.
Roger Chillingworth possedeva tutte, o quasi, le qualità che abbiamo elencato. Tuttavia, il tempo continuava a passare e, per quanto si fosse creata una sorta di intimità tra questi due spiriti eletti, che spaziavano in un campo vasto quanto tutta la sfera del pensiero e della scienza umana, e che discutevano su ogni tema d'etica e di religione, di affari pubblici e privati, e spesso e con abbondanza di particolari anche di problemi personali; eppure nessun segreto, della cui esistenza il medico era certissimo, si era aperto la strada dalla coscienza del sacerdote all'orecchio del suo compagno. Quest'ultimo aveva del resto ottime ragioni per sospettare che la stessa natura della malattia fisica di Dimmesdale non gli fosse mai stata rivelata completamente. Era certo uno strano ritegno!
Col passar del tempo, dietro suggerimento di Roger Chillingworth, gli amici di Dimmesdale riuscirono a farli abitare nella stessa casa, così che nessun flusso e riflusso della marea della vita del giovane sacerdote potesse sfuggire all'occhio ansioso del suo affezionato medico. In città tutti furono molto contenti quando seppero che era stato ottenuto un risultato così promettente, che veniva considerato la miglior precauzione possibile per la salute dell'ecclesiastico, a meno che, come tanto spesso lo avevano sollecitato quelli che si sentivano autorizzati a far ciò, non si fosse scelto una delle numerose fanciulle in fiore a lui spiritualmente devote per farne la propria affezionata moglie.
D'altronde, non c'era alcuna prospettiva che Arthur Dimmesdale si lasciasse piegare a quest'ultima soluzione; egli, anzi, respingeva ogni proposta del genere, come se il celibato ecclesiastico fosse stato uno dei suoi dogmi disciplinari. Condannato quindi per propria scelta, com'era evidentemente il caso di Dimmesdale, a mangiare sempre il suo insipido boccone al tavolo altrui e a sopportare il perpetuo senso di freddo che non abbandona mai chi cerchi di riscaldarsi a un focolare che non sia il suo, sembrava davvero che questo intelligente, esperto e benevolo dottore, con il suo amore paterno e reverente a un tempo per il giovane sacerdote, fosse, tra tutti gli uomini, il più adatto a restargli sempre a portata di voce.
La nuova dimora dei due amici era la casa di una vecchia vedova, di ottima famiglia, che si trovava poco lontana dal luogo dove venne poi costruita la veneranda mole della King's Chapel. Da un lato dava sul cimitero, un tempo proprietà di Isaac Johnson, ed era quindi adatta a suscitare le austere riflessioni consone alle rispettive professioni del sacerdote e del cerusico. La materna sollecitudine della vedova assegnò a Dimmesdale un appartamento sulla strada, esposto al sole, e con pesanti tendaggi per creare all'occorrenza un'atmosfera crepuscolare. Sulle pareti facevano mostra di sé degli arazzi che si diceva provenissero dai telai dei Gobelin, e che, comunque, rappresentavano la storia biblica di David e Betsabea e quella di Nathan il profeta, in colori ancora brillanti che rendevano la bella donna della scena altrettanto arcignamente pittoresca quanto il veggente in atto di profetizzare sciagure. Qui il pallido ecclesiastico accatastò la sua biblioteca, composta da volumi "in-folio" rilegati in pergamena delle opere dei Padri della saggezza dei rabbini, e dell'erudizione dei monaci, dei quali gli studiosi protestanti, anche se schernendoli e disprezzandoli, erano ancora costretti a servirsi sovente. Dall'altro lato della casa il vecchio Roger Chillingworth aveva impiantato il suo studio e il suo laboratorio, che certo uno scienziato moderno non considererebbe affatto sufficiente, ma che tuttavia non mancava di un apparecchio per la distillazione né del necessario per comporre pozioni e miscele che l'esperto alchimista sapeva utilizzare egregiamente per i suoi scopi. Con una sistemazione così ben studiata, questi due sapienti si insediarono ciascuno nel proprio dominio, liberi di spostarsi rapidamente da un appartamento all'altro, sempre esercitando una reciproca non indifferente sorveglianza sulle loro occupazioni.
Gli amici più intelligenti del reverendo Arthur Dimmesdale, come abbiamo già accennato, supposero con molta coerenza che la mano della Provvidenza avesse compiuto tutto ciò nell'intento, da loro tante volte auspicato in preghiere pubbliche, domestiche e segrete, di rimettere il giovane sacerdote in buone condizioni di salute. Bisogna però che diciamo ora che un'altra parte della comunità aveva cominciato ad assumere una posizione molto diversa circa i rapporti tra Dimmesdale e il vecchio cerusico misterioso.
Quando una massa ignorante cerca di vedere con i propri occhi, è estremamente facile che si sbagli. Quando però essa si forma un giudizio, come avviene di solito, partendo dalle intuizioni del suo cuore caldo e generoso, le conclusioni che raggiunge sono spesso così profonde e così esatte da possedere gli stessi caratteri della verità rivelata per vie soprannaturali. Nel caso di cui parliamo, nessuna delle persone in questione avrebbe saputo giustificare i propri pregiudizi contro Roger Chillingworth con fatti o argomenti degni di essere ribattuti seriamente. C'era un vecchio artigiano, a dir la verità, che viveva a Londra al tempo dell'assassinio di sir Thomas Overbury (8), circa trent'anni prima; egli asseriva di avere visto il medico sotto qualche altro nome, che il narratore della storia aveva ormai dimenticato, in compagnia del dottor Forman, il celebre stregone, che era stato implicato nell'affare Overbury. Due o tre cittadini asserirono che il cerusico, durante la sua prigionia tra gli indiani, aveva ampliato le sue cognizioni mediche unendosi alle cerimonie dei sacerdoti selvaggi, che erano universalmente noti come abili incantatori, spesso capaci di compiere cure con effetti in apparenza miracolosi per mezzo della magia nera. Parecchi poi, ed erano per lo più persone di tale buon senso e di tale spirito pratico che le loro opinioni avrebbero avuto peso anche in altre questioni, affermavano che Roger Chillingworth era mutato profondamente da quando si era stabilito in città, e specialmente dall'inizio della sua coabitazione con Dimmesdale. Nei primi tempi la sua espressione era stata serena, riflessiva, da studioso. Ora invece c'era qualcosa di brutto e di malvagio sul suo volto, che in precedenza non avevano notato, e che si faceva sempre più evidente quanto più spesso lo si guardava. Secondo l'opinione del popolo, il fuoco del suo laboratorio proveniva dall'Ade, ed era alimentato con combustibile infernale, cosicché, com'era logico aspettarsi, il viso gli si era annerito col fumo.
Per riassumere la situazione in poche parole, divenne opinione largamente accettata che il reverendo Arthur Dimmesdale, come molti altri personaggi di eccezionale santità in ogni epoca nel mondo cristiano, era perseguitato o da Satana in persona, o da qualche suo emissario, sotto le spoglie del vecchio Roger Chillingworth. Questo agente diabolico aveva un permesso divino, per un certo periodo, che gli rendeva possibile entrare nell'intimità dell'ecclesiastico per tramare contro l'anima sua.
Nessun essere umano di senno, poteva dubitare da quale parte si sarebbe volta la vittoria. Tutti si aspettavano, con fede incrollabile, di veder uscire il pastore dalla battaglia trasfigurato dalla gloria che non poteva mancargli. Intanto, però, era triste pensare all'agonia mortale, forse, in cui egli doveva compiere la sua lotta quotidiana verso il trionfo.
Ahimé! a giudicare dalla tristezza e dal terrore che trasparivano dal profondo degli occhi del povero sacerdote, la battaglia era delle più dure, e la vittoria tutt'altro che certa.
10. IL CERUSICO E IL SUO PAZIENTE
Per tutta la vita il vecchio Roger Chillingworth era stato di temperamento tranquillo, gentile, seppure incapace di affetti profondi, e in tutti i suoi rapporti col prossimo si era mantenuto retto e onesto. Aveva cominciato la sua ricerca credendo di poter serbare l'equa e severa integrità di un giudice, desideroso soltanto di scoprire la verità, come se la questione implicasse nient'altro che le linee e le figure immateriali di un problema geometrico, e non passioni umane e torti dei quali egli stesso era stato vittima. Ma, via via che procedeva, un terribile fascino, una specie di necessità feroce, benché ancora pacata, si era impossessata del vecchio, né lo lasciò libero un istante, se non dopo che ne ebbe adempiuto il comando. Ora scavava nel cuore dello sventurato sacerdote come un minatore in cerca d'oro; o piuttosto come un becchino, che violasse una tomba alla caccia di un gioiello che forse riposava sul petto del cadavere, mentre probabilmente non avrebbe trovato che resti mortali in decomposizione. Ahimé per la sua anima, se era proprio questo che cercava!
Di tanto in tanto una luce brillava negli occhi del medico, una luce che aveva dei riflessi bluastri e sinistri, come i riflessi di una fornace o, se si vuole, come una di quelle lugubri lingue di fuoco che si sprigionavano dalla terrificante porta di Bunyan, sul pendio della collina, e balenavano sul viso del pellegrino.
Forse il terreno che questo fosco minatore stava scavando gli aveva già mostrato degli indizi favorevoli.
"Quest'uomo", diceva fra sé di tanto in tanto, "che la gente immagina così puro, e che sembra così spirituale, deve avere ereditato dal padre o dalla madre un temperamento fortemente sensuale. Addentriamoci dunque lungo questa vena!".
Poi, dopo lunghe esplorazioni nella cupa anima del sacerdote, e dopo aver meditato attentamente su molti materiali preziosi, come le elevate aspirazioni al benessere della sua gente, il caldo amore per le loro anime, i sentimenti incontaminati, la devozione naturale, rafforzata dalla riflessione e dallo studio, e illuminata dalla rivelazione tutto oro inestimabile, ma che per il ricercatore non era forse che ciarpame - si volgeva indietro, scoraggiato, e rivolgeva la sua indagine in altre direzioni. Si faceva strada con tanta circospezione, con un passo così cauto, in un modo così prudente, come se fosse stato un ladro entrato nella stanza di un uomo addormentato soltanto a metà, o forse perfettamente sveglio, con l'intento di derubarlo dell'unico tesoro caro al dormiente come la luce stessa dei suoi occhi. A dispetto della sua calcolata cautela, il pavimento ogni tanto scricchiolava, i vestiti che indossava frusciavano, e la sua ombra, troppo vicina, si stagliava sulla vittima. In altri termini, Dimmesdale, la cui sensibilità nervosa spesso produceva l'effetto di un intuito spirituale, si rendeva vagamente conto che qualcosa di ostile alla sua serenità era venuto a porsi al suo fianco. Anche il vecchio Roger Chillingworth, però, aveva delle percezioni quasi profetiche, e quando l'ecclesiastico lo guardava con gli occhi sbarrati, si trovava accanto il medico, il suo amico cortese, attento, comprensivo e sempre discreto.
Certo però Dimmesdale avrebbe meglio capito il carattere del cerusico se una specie di morbosità, alla quale sono soggetti i cuori ammalati, non lo avesse reso diffidente verso l'intero genere umano. Non tenendo nessuno in conto di amico, non era in grado di riconoscere un nemico quando se lo trovava effettivamente di fronte. Continuava perciò a mantenere con lui rapporti familiari, ricevendo ogni giorno il medico nel suo studio, o facendogli visita nel laboratorio e, per passare il tempo, osservava i procedimenti in virtù dei quali le erbe si trasformavano in potenti medicine.
Un giorno, stringendosi la fronte fra le mani, con i gomiti sul davanzale della finestra aperta, che dava sul cimitero, se ne stava a parlare con Roger Chillingworth, mentre il vecchio esaminava un ciuffo d'erbe dall'aspetto repellente.
"Dove mai", chiese, guardando di traverso, perché era caratteristica dell'ecclesiastico, negli ultimi tempi, di guardare direttamente ben di rado un oggetto umano o inanimato; "dove mai, mio buon dottore, avete raccolto queste erbe dalle foglie così flaccide e scure?".
"Proprio nel cimitero qui a pochi passi", rispose il medico, continuando il suo lavoro. "Non ne avevo mai viste. Le ho trovate su un sepolcro privo di lapide e d'ogni altro ricordo del defunto, eccetto queste brutte piante, che si sono incaricate di mantenerne la memoria. Sono cresciute dal suo cuore, e personificano forse qualche vergognoso segreto che fu sepolto con lui e che avrebbe fatto meglio a confessare finché era in vita".
"Forse", disse Dimmesdale, "lo desiderava ardentemente, ma non poteva".
"E perché?" replicò il dottore. "Perché non poteva, se tutte le forze della natura reclamano con tanta potenza la confessione dei peccati, tanto che queste erbe nere sono spuntate da un cuore sotterrato per rendere palese un crimine nascosto?".
"Questa, mio buon amico, è solo una vostra fantasia", ribatté il sacerdote. "Se non sbaglio di grosso, non c'è potenza, al di fuori della misericordia divina, che possa esprimere con parole, simboli o emblemi, i segreti che vengono sepolti col cuore di un uomo. Il cuore che ha la colpa di questi segreti è costretto a sopportarne il peso, fino al giorno in cui ogni mistero sarà chiarito. Né ho letto o interpretato la Scrittura nel senso che la propalazione dei fatti e dei segreti degli uomini che avverrà in quel giorno sia da considerarsi come parte del castigo. Questa sarebbe certo una cosa meschina. No, se non sono in errore, queste rivelazioni hanno il solo scopo di soddisfare l'intelletto degli esseri pensanti, i quali aspetteranno, in quel giorno, la spiegazione dell'oscuro problema della vita. La conoscenza dei cuori degli uomini sarà necessaria alla piena soluzione di questo problema, e credo, per di più, che quelli che avranno sulla coscienza segreti meschini come quelli cui accennate li riveleranno, il giorno del giudizio finale, non già con riluttanza, ma con inesprimibile gioia".
"E allora perché non rivelarli qui?" chiese Roger Chillingworth senza scomporsi, guardando di sfuggita il religioso. "Perché i colpevoli non dovrebbero giovarsi di questo ineffabile conforto al più presto possibile?".
"E' quello che fanno quasi tutti", disse il sacerdote, premendosi con forza la mano sul petto, come se fosse stato preso da una fitta inaspettata. "Molte, molte anime sventurate mi hanno concesso la loro confidenza, e non solo sul letto di morte, ma anche nel loro pieno vigore, e in possesso della stima generale. E dopo questo sfogo, oh, che sollievo ho notato in questi nostri fratelli caduti! Come se solo allora respirassero, dopo avere agonizzato per lungo tempo nell'aria contaminata dal loro stesso respiro! E come potrebbe essere altrimenti? Perché un disgraziato, colpevole, diciamo, di un omicidio, dovrebbe preferire seppellire il cadavere nel proprio cuore, invece che gettarlo via immediatamente, perché se ne occupi l'universo?".
"E tuttavia ci sono uomini che seppelliscono così i loro segreti", osservò calmo il dottore.
"E' vero, esistono esseri siffatti", rispose Dimmesdale. "Ma, senza dover pensare a più ovvi motivi, potrebbero essere costretti al silenzio dalla costituzione stessa della loro personalità.
Oppure (e perché non supporlo?) colpevoli come sono, mantenendo tuttavia l'ardore per la gloria di Dio e il bene dell'uomo, rifuggono dal mostrarsi neri e sporchi al cospetto degli uomini, perché, così facendo, non otterrebbero nulla di buono, e nessun male passato potrebbe essere riscattato da migliori servigi. Con indicibili sofferenze, dunque, essi si aggirano in mezzo ai loro simili, in apparenza puri come neve appena caduta, mentre i loro cuori sono tutti offuscati e macchiati dall'iniquità di cui non possono liberarsi".
"Questi uomini s'ingannano", disse Roger Chillingworth, con maggior enfasi del solito, e facendo un lieve cenno con l'indice.
"Essi temono di assumersi l'onta che spetta loro a buon diritto.
Il loro amore per gli uomini, il loro zelo per il servizio di Dio, tutti i loro istinti più sacri, possono forse coesistere nelle loro anime con i malvagi compagni ai quali la loro colpa ha spalancato la porta, e che devono necessariamente propagare la loro mala genia. Se però essi vogliono glorificare Iddio, ebbene, non sollevino verso il cielo le loro mani contaminate! Se essi vogliono veramente far del bene al loro prossimo, lo facciano mostrando la forza e l'esistenza del rimorso, costringendosi a umiliarsi nella penitenza! Vorresti tu farmi credere, o pio e saggio amico, che una messinscena piena d'ipocrisia possa giovare alla gloria di Dio, o al bene dagli uomini, più della stessa divina verità? Credimi, costoro s'ingannano".
"Forse", disse il giovane ecclesiastico con indifferenza, come per interrompere una conversazione che riteneva irrilevante o inopportuna. Non gli era difficile, del resto, sfuggire ogni argomento che mettesse in agitazione il suo temperamento troppo sensibile e nervoso. "Ma ora, vorrei chiedere al mio esperto medico se, in tutta onestà, crede che io abbia tratto qualche giovamento dalla paterna cura che si è preso delle mie spoglie mortali".
Prima che il vecchio Roger Chillingworth potesse dare una risposta, sentirono una risata chiara e sfrenata di bambino, che proveniva dal vicino cimitero. Volgendo istintivamente gli occhi alla finestra aperta (si era infatti in estate), il sacerdote vide Hester Prynne e la piccola Perla che camminavano lungo il sentiero che attraversava il recinto. Perla era bella come la luce del sole, ma era in uno di quei momenti di allegria crudele che, quando le capitavano, sembravano dividerla dal mondo della simpatia e del contatto umano. Saltava con poco riguardo da un sepolcro all'altro, finché, giunta alla lapide larga, piatta e imponente di uno dei più illustri defunti, forse quella dello stesso Isaac Johnson, non si mise addirittura a ballarci sopra.
L'ordine di sua madre e la preghiera di comportarsi più decorosamente la fecero interrompere per raccogliere delle lappole da una pianta che cresceva presso la tomba. Raccoltane una manciata, le dispose lungo le linee della lettera scarlatta che decorava il petto della madre, al quale le lappole, com'è loro natura, si attaccarono tenacemente. Hester non le strappò.
Nel frattempo Rogers Chillingworth si era avvicinato alla finestra e aveva un cupo sorriso mentre guardava verso il basso.
"In quella bimba non c'è legge, né rispetto per l'autorità, né considerazione per le abitudini e per le opinioni degli uomini, siano esse giuste o ingiuste", osservò, rivolto tanto al suo compagno quanto a se stesso. "L'ho vista, l'altro giorno, gettare acqua addosso al governatore stesso, all'abbeveratoio di Spring Lane. Chi è, in nome del cielo? E' un folletto malvagio? E' suscettibile agli affetti umani? Si possono scoprire i principi della sua esistenza?".
"Non ce ne sono altri che la libertà che deriva dall'aver infranto una legge", rispose Dimmesdale, senza scomporsi, come se fino a quel momento avesse cercato di risolvere lo stesso problema tra sé e sé. "Non so se sia capace di bene".
La bambina doveva aver sentito le loro voci, perché guardando verso la finestra con un sorriso allegro ma birichino, pieno di gioia e di intelligenza, lanciò una lappola al reverendo Dimmesdale. Il sensibile ecclesiastico scansò il leggero proiettile con un fremito di timore nervoso; e Perla, alla quale non sfuggì la sua emozione, si mise a battere le mani con il più inspiegabile entusiasmo. Anche Hester Prynne aveva sollevato gli occhi, involontariamente, e tutti e quattro, il vecchio e i giovani, si guardarono l'un l'altro in silenzio, finché la piccola scoppiò a ridere e gridò: "Andiamo, mamma! Vieni via, o quel vecchiaccio tutto nero ti porterà via! Già si è preso il prete; scappa, mamma, o prenderà anche te! Ma non prenderà la piccola Perla!".
Si trascinò la madre appresso, saltellando, ballando, e folleggiando tra i tumuli, come una creatura che non avesse nulla da spartire con una generazione scomparsa e sepolta, e non sentisse con essa alcun legame di sangue. Era come se fosse stata fatta di elementi nuovi, e le si dovesse quindi permettere di vivere a modo suo, con una sua propria legge, senza che le sue stravaganze potessero esserle imputate a reato.
"Ecco là una donna", rispose Roger Chillingworth, dopo una pausa, "che, quali che siano i suoi peccati, non sopporta certo quel mistero della colpa nascosta che voi considerate così pesante da sostenere. Credete che Hester Prynne sia meno disgraziata per quella lettera scarlatta che ha sul petto?".
"Lo credo sinceramente", rispose l'ecclesiastico. "E tuttavia, non posso rispondere per lei. C'era sul suo volto un'espressione dolorosa che avrei fatto volentieri a meno di vedere; tuttavia, secondo me, è certamente meglio per chi soffre essere libero di mostrare il suo dolore, come fa quella sventurata Hester, piuttosto che doverlo tenere racchiuso nell'anima".
Ci fu un'altra pausa, e il medico ricominciò a esaminare e a classificare le piante che aveva raccolto.
"Mi avete chiesto, poco fa", disse alla fine, "il mio giudizio sullo stato della vostra salute".
"Sì", rispose l'ecclesiastico "e sarei felice di conoscerlo.
Parlatemi sinceramente, ve ne prego, sia il vostro parere di vita o di morte".
"A dirla con parole semplici e franche", disse il medico, sempre occupandosi delle sue piante, ma tenendo un occhio fisso su Dimmesdale, "la vostra è una strana malattia; non tanto in se stessa, o nei suoi sintomi esterni, almeno sin dove i sintomi si sono rivelati al mio esame. Osservandovi quotidianamente, mio buon signore, e osservando le trasformazioni del vostro volto da qualche mese a questa parte, dovrei qualificarvi come un uomo gravemente ammalato, tuttavia non così gravemente che un medico esperto e attento non sia in grado di curarvi. Ma, non so che dire, la malattia è ciò che credo di conoscere, e che pure non conosco affatto".
"Parlate per enigmi, dotto messere", disse il pallido ecclesiastico, sbirciando dalla finestra.
"Allora, a esser più franchi", continuò il medico, "e chiedo perdono, se vi pare necessario, per la franchezza delle mie parole, permettetemi di chiedervi, come vostro amico, come colui che ha ricevuto dalla divina Provvidenza l'incarico di pensare alla vostra vita e al vostro benessere fisico, se tutte le cause di questa malattia mi sono state rivelate e descritte".
"Come potete dubitarne?" chiese l'ecclesiastico. "Sarebbe una puerilità chiamare un dottore per nascondergli il male!".
"Vorreste dire, quindi, che io so tutto?" chiese Roger Chillingworth, con determinazione, e fissando il volto del pastore con un'espressione piena di perspicacia acuta e concentrata. "E sia pure! Ma non basta! Colui che conosce soltanto il male esteriore e corporale spesso non vede che a metà la malattia che gli è stato chiesto di curare. Una malattia fisica, che noi consideriamo un fatto completo e a sé stante, può non essere, dopo tutto, che un sintomo di qualche malessere della parte spirituale.
Perdonatemi di nuovo, buon signore, se quel che dico può sembrare offensivo. Di tutti gli uomini che io abbia mai conosciuto, voi siete quello il cui corpo è congiunto più strettamente, e connaturato, e immedesimato, per così dire, con lo spirito di cui è lo strumento".
"Allora è inutile chiedervi altro", disse l'ecclesiastico, alzandosi dalla sedia con una certa precipitazione. "Non credo che vi intendiate anche di medicine per l'anima!".
"E' così che una malattia", continuò Roger Chillingworth, nello stesso tono, come se non avesse notato l'interruzione, ma alzandosi in piedi, e mettendo a confronto l'emaciato e pallido sacerdote con la propria persona bassa, scura e deforme, "un'infermità, un focolaio dolente, se possiamo chiamarlo così, del vostro spirito, trova subito la sua adeguata manifestazione nella vostra persona. Volete quindi che il medico riesca a curare la malattia del corpo? E come potrebbe, se non gli rivelate la ferita o il tormento della vostra anima?".
"No! Non a te! Non a un medico terreno!" gridò Dimmesdale, con passione, volgendo gli occhi sbarrati e lucidi sul vecchio Roger Chillingworth, con una specie di furore. "Non a te! Ma, se è un male dell'anima, allora io mi rimetto all'unico Medico delle anime! E' lui solo che, se la cosa rientra nei suoi disegni, può curare o uccidere. Che faccia di me quello che egli, nella sua giustizia e nella sua saggezza, crede meglio. Chi sei tu, per volerti immischiare in questo? Tu, che osi intrometterti tra chi soffre e il suo Dio?".
Poi uscì dalla stanza a gran passi.
"Tanto vale essersi decisi a fare questo passo", disse a se stesso Roger Chillingworth, seguendo il sacerdote con lo sguardo, con un riso sardonico. "Nulla è perduto. Torneremo di nuovo amici tra poco. Ma ecco come la passione s'impadronisce di quest'uomo, e lo fa uscire di sé! C'è un'interrelazione fra una passione e l'altra.
Ha compiuto una cosa avventata prima d'ora, questo pio pastore Dimmesdale, spinto dalla veemenza della sua passione!".
Infatti non fu difficile ristabilire l'intimità tra i due compagni, nelle stesse forme e con la stessa profondità di prima.
Il giovane ecclesiastico, dopo poche ore di solitudine, si rese conto che il cattivo stato dei suoi nervi lo aveva spinto a un indecoroso scatto di rabbia, che niente nelle parole del medico poteva far perdonare o giustificare. Si stupì della violenza con cui aveva respinto il gentile vecchio, che gli aveva soltanto offerto quel parere che era tenuto a fargli conoscere, e che il sacerdote stesso gli aveva chiesto espressamente. Pieno di rimorsi, non perse tempo prima di fargli le sue più ampie scuse, e pregò l'amico di continuare la cura che, se non gli aveva reso la salute, era stata, con ogni probabilità, l'unica cosa che lo aveva mantenuto in vita, sia pure a stento, fino ad allora. Roger Chillingworth accettò le sue scuse senza farsi pregare, e continuò a prodigare al sacerdote la sua assistenza medica, facendo del suo meglio per lui, in perfetta buona fede, ma lasciando sempre l'appartamento del suo paziente, dopo ogni visita, con un sorriso misterioso e perplesso sulle labbra. Quest'espressione era ben mascherata in presenza di Dimmesdale, ma si faceva molto evidente quando il medico aveva attraversato la soglia.
"Un caso strano", borbottava. "E' necessario andare più a fondo.
Che strana correlazione tra corpo e spirito! Fosse soltanto per amore della mia arte, devo andare a fondo di questa faccenda".
Non molto tempo dopo la scena che abbiamo appena descritto, avvenne che il reverendo Dimmesdale, in pieno giorno e senza aspettarselo, cadde in un torpore profondissimo, seduto sulla sua sedia, davanti a un grosso volume aperto sulla tavola. Doveva essere un'opera molto ben riuscita di letteratura soporifera. La profondità del sonno del sacerdote era tanto più strana, essendo egli una di quelle persone il cui sonno è abitualmente leggero, fuggevole e nervoso come un passero su un ramoscello. Il suo spirito, del resto, non si era ritirato in una zona così inaccessibile da impedire che egli si scuotesse sulla sedia quando Roger Chillingworth, senza prendere alcuna precauzione particolare, entrò nella sua stanza. Il medico gli andò direttamente di fronte, gli mise una mano sul petto, e aprì quegli abiti che fino a quel momento glielo avevano nascosto.
Allora, invero, Dimmesdale rabbrividì, e accennò un movimento.
Un attimo dopo, il medico uscì.
Ma con quale selvaggio sguardo di meraviglia, di gioia e d'orrore!
Con quale lugubre estasi, per così dire, troppo incontenibile perché la si potesse esprimere soltanto con lo sguardo e con l'espressione, e che traboccava quindi da tutta la bruttezza della sua figura, manifestandosi perfino tumultuosamente con gli insoliti gesti con cui alzava le braccia al soffitto e batteva il piede sul pavimento! Se qualcuno avesse visto il vecchio Roger Chillingworth in quell'attimo di rapimento, non avrebbe più avuto bisogno di chiedersi come si comporti Satana in persona, quando la preziosa anima di un essere umano è perduta al cielo, e acquistata ai suoi domini.
Ma ciò che distingueva il tripudio del medico da quello di Satana era lo stupore che vi si mescolava.
11. NELL'INTIMO DI UN CUORE
Dopo questo ultimo avvenimento, i rapporti tra il medico e l'ecclesiastico, anche senza subire cambiamenti esteriori, assunsero un carattere ben diverso dal precedente. L'intelletto di Roger Chillingworth si trovava ora davanti a un cammino relativamente facile, ma non era certo la strada più semplice che egli voleva percorrere. Calmo, cortese, equilibrato come appariva, questo vecchio sciagurato coltivava una fredda e profonda malvagità, fino ad allora allo stato latente, ma che si andava ridestando, e che lo spingeva a escogitare la vendetta più intima che mai uomo avesse compiuto su un nemico. Diventare l'amico più fedele per farsi confidare tutti i timori, i rimorsi, l'angoscia, lo sterile pentimento, il riflusso dei pensieri peccaminosi, scacciati invano! Far rivelare tutto quel dolore colpevole, celato al mondo, il cui grande cuore avrebbe saputo compatire e perdonare, a lui, lo Spietato, a lui l'Irremovibile! Sperperare tutto quell'oscuro tesoro proprio per colui al quale nessun'altra cosa avrebbe potuto pagare in maniera così adeguata il debito della vendetta!
La riservatezza pudica e sensibile dell'ecclesiastico aveva ostacolato questo progetto. Ma Roger Chillingworth non era certo meno soddisfatto dell'andamento che la Provvidenza, servendosi del vendicatore e della sua vittima per i suoi scopi, e forse perdonando proprio quando sembrava maggiormente punire, aveva impartito agli eventi, rendendo superflue le sue oscure macchinazioni. Egli poteva quasi affermare di aver ricevuto una rivelazione. Ai suoi fini contava poco che essa provenisse dal cielo o da altre regioni, poiché per suo mezzo egli avrebbe sempre avuto sotto gli occhi non soltanto la presenza esteriore, ma i più profondi segreti dell'anima di Dimmesdale, in tutti i suoi futuri rapporti con lui, e ne avrebbe potuto capire e spiegare ogni impulso. Da quel momento egli non fu più un semplice spettatore, ma uno degli attori principali nel mondo interiore dello sventurato pastore. Poteva agire su di lui a proprio piacimento.
Desiderava farlo scuotere con una fitta d'angoscia? La vittima era sempre sulla ruota della tortura: bastava conoscere la molla che comandava la macchina, e il medico la conosceva bene. Voleva farlo tremare d'un terrore improvviso? Come al tocco d'una bacchetta magica, ecco sorgere un fantasma spaventoso, ecco sorgerne mille, in forme che variavano dalla morte alle vergogne più infamanti, che danzavano in una ridda infernale attorno all'ecclesiastico, puntandogli le dita al petto!
Tutto questo veniva posto in atto con un'astuzia così perfetta, che il pastore, pur rendendosi confusamente conto di qualche persistente influenza maligna sul suo capo, non riusciva mai a scoprire la sua effettiva natura. Certo, il suo sguardo si posava con incertezza, con timore, a volte persino con orrore e odio profondo, sulla figura deforme del vecchio cerusico. I suoi gesti, il suo portamento, i suoi atti più comuni e indifferenti, la stessa foggia dei suoi abiti, erano odiosi alla vista dell'ecclesiastico, implicando certo un'antipatia che si annidava nel suo cuore più profondamente di quanto mai avrebbe ammesso.
Infatti era impossibile attribuire una causa qualsiasi a questa sua fiducia e a questa sua repulsione, e Dimmesdale, sapendo che il veleno della sua piaga nascosta gli infettava ogni angolo del cuore, dava a esso la colpa di tutti i suoi presentimenti. Volle accusare se stesso di mancanza di simpatia per Roger Chillingworth, e invece di trarre profitto dalle sue sensazioni fece il possibile per sradicarle. Non riuscendoci assolutamente, continuò lo stesso a intrattenere rapporti amichevoli con il vecchio, per principio, offrendogli in questo modo numerose occasioni di perfezionare gli strumenti per quello scopo al quale, povero essere perduto e più sventurato della sua stessa vittima, il vendicatore si era dedicato completamente.
Pur soffrendo così gravemente dell'infermità del suo corpo, e artigliato e torturato da un funesto turbamento dell'anima, preda delle macchinazioni del suo più mortale nemico, il reverendo Dimmesdale aveva raggiunto una fama brillante nel suo sacro ministero. Se l'era acquistata in gran parte per merito delle sue sofferenze, poiché le sue doti intellettuali, la sua intuizione spirituale, la sua emotività e la sua comunicativa erano tenute in stato d'attività sovrannaturale dal rovello e dall'angoscia della sua vita quotidiana. La sua celebrità, seppure ancora nella fase ascendente, già oscurava l'austera reputazione dei suoi colleghi, molti dei quali erano gente di gran nome. C'erano tra di loro studiosi che avevano passato nella ricerca dell'astrusa scienza, connessa alla professione divina, più anni di quanti Dimmesdale ne avesse vissuto, e che certo avrebbero dovuto essere ben più versati in queste solide e degne materie del loro confratello più giovane. C'erano anche uomini di struttura mentale più robusta della sua, dotati di un'intelligenza ben più granitica e temprata, che, mista alla giusta proporzione di ingredienti dottrinali, suole originare una delle varietà più rispettabili, efficienti e insopportabili della specie ecclesiastica. C'erano anche altri, dei veri santi padri, le cui facoltà erano state affinate dalla diuturna fatica tra i libri, e dalla paziente meditazione, e per di più erano state distillate da contatti spirituali con il mondo migliore, nel quale la loro purezza di vita aveva quasi introdotto questi personaggi, ancora vestiti delle loro spoglie mortali.
Tutto ciò che a loro mancava era il dono che discese sui discepoli prescelti il giorno di Pentecoste, in lingue di fuoco, a simboleggiare, sembra, non già la capacità di parlare lingue straniere e sconosciute, ma quella di rivolgersi a tutta la famiglia degli uomini nel primitivo linguaggio del cuore. Questi padri, in tutti gli altri sensi così simili agli apostoli, mancavano dell'estremo e più raro riconoscimento del Cielo, la Lingua di Fiamma. Avrebbero cercato invano, anche se si fossero mai sognati di provarci, di esprimere le supreme verità con l'umilissimo mezzo delle parole e delle immagini familiari. Le loro voci giungevano lontane e indistinte dalle altezze intangibili in cui si libravano.
E' probabile che Dimmesdale, per molte particolarità del suo carattere, appartenesse per natura proprio a quest'ultima categoria di uomini. Erano le alte vette della fede e della santità che egli avrebbe asceso, se questa tendenza non fosse stata frustrata dal fardello del peccato e dell'angoscia, sotto il quale era condannato a stentare. Per esso il sacerdote restava al livello dei più umili; lui, l'uomo dagli eterei pensieri, la cui voce avrebbe potuto essere ascoltata dagli angeli, e ne avrebbe ottenuto risposta! Ma proprio questo fardello gli guadagnava le profonde simpatie dei suoi confratelli peccatori, perché faceva pulsare il suo cuore all'unisono con il loro, e lo lasciava aperto al loro dolore, e gli faceva comunicare il proprio fremito d'angoscia a mille altri cuori in fiotti d'eloquenza triste e persuasiva. Tanto più spesso persuasiva, quanto alle volte terribile! Nessuno sapeva quale fosse il potere che li commuoveva tanto. Il giovane sacerdote veniva considerato un miracolo di santità. Lo si credeva il tramite dei messaggi di sapienza, di ammonimenti e d'amore che il Cielo mandava agli uomini. Agli occhi di tutti, il suolo stesso che lui calpestava era santificato. Le vergini della sua parrocchia gli impallidivano intorno, vittime di una passione così commista di sentimento religioso, che esse credevano fosse tutta religione, e la ostentavano sul loro candido seno come il sacrificio più accetto all'altare. I componenti più anziani del gregge, vedendo Dimmesdale così debole di corpo, ed essendo ormai abituati alle proprie infermità, ritenevano che egli li avrebbe preceduti in cielo, e insistevano con i figli perché facessero seppellire le loro vecchie ossa accanto al santo sepolcro del loro giovane pastore. E per tutta la durata di queste discussioni, forse, Dimmesdale, pensando alla propria tomba, si chiedeva se mai sarebbe cresciuta l'erba sulla sepoltura di una creatura maledetta!
L'angoscia di questa pubblica venerazione lo torturava in modo indicibile. Era suo istinto naturale adorare la verità, e aborrire ogni cosa il cui colore non fosse ben definito, o che non avesse un contenuto o un valore, o un'essenza divina. E dunque cos'era lui stesso? Un'entità materiale, o la più cupa delle ombre?
Desiderava ardentemente liberarsi la coscienza parlando con tutta la forza della sua voce dal pulpito, per rivelare alla gente quale fosse la sua vera natura. "Io, quello che voi vedete in questi neri abiti sacerdotali, io, che salgo alla sacra mensa e volgo al cielo la mia pallida faccia, assumendomi il compito di comunicare per vostro conto con la Perfetta Onniscienza, io, l'uomo nella cui vita quotidiana voi riconoscete la santità di Enoch, io, i cui passi, voi credete, lasciano una scia luminosa lungo il cammino terreno, a guida per i pellegrini che dopo di me si dirigeranno al Regno benedetto, io, che ho levato la mano a battezzare i vostri figli, io che ho mormorato le preghiere estreme su vostri amici in punto di morte, ai quali l'amen sembrava un'eco appena percettibile dal mondo che avevano abbandonato, io, il vostro pastore, per il quale voi provate tanta fiducia e reverenza, io non sono altro che corruzione e menzogna!".
Più di una volta Dimmesdale era salito sul pulpito col proposito ben fermo di non discenderne i gradini prima d'aver pronunciato queste parole. Più d'una volta si era schiarito la voce, e aveva aspirato il lungo, profondo e tremulo respiro, che, all'atto dell'emissione, sarebbe stato carico del segreto vergognoso della sua anima. Più di una volta, oh, no, più di cento volte, egli aveva parlato davvero! Parlato! Ma come? Aveva detto ai suoi ascoltatori di essere un uomo spregevole, il più spregevole degli uomini, il peggiore dei peccatori, un abominio, una creatura d'iniquità indescrivibile, e che c'era soltanto da stupirsi che non vedessero il suo sciagurato corpo polverizzato davanti ai loro occhi dalla folgore rovente del Signore! Si poteva parlare più chiaramente di così? Non avrebbero dovuto alzarsi tutti dai loro banchi, spinti da un impulso simultaneo, per strapparlo dal pulpito che disonorava con la sua presenza? Oh, no certamente!
Ascoltavano tutto quel che diceva, e lo veneravano ancora di più.
Non immaginavano neppure quale fosse il tremendo significato di quelle frasi di autocondanna! "Santo giovine!" dicevano tra loro.
"Un santo sulla terra! Ahimé! Se egli trova così ripiena di peccato la sua stessa anima immacolata, come gli sembrerebbe orrenda la mia o la tua!". L'ecclesiastico conosceva bene, sottile ipocrita pieno di rimorsi com'era, la luce sotto la quale sarebbe stata vista la sua confessione. Aveva tentato di ingannare se stesso facendo professione di colpevolezza, ma non aveva fatto che aggiungere un peccato a un altro peccato, mettendosi davanti alla sua vergogna senza neppure il momentaneo sollievo dell'essersi ingannato da sé. Aveva detto la più pura verità, e l'aveva trasformata nella più perfetta menzogna. Eppure, per natura, egli amava la verità e disprezzava la falsità come pochi altri uomini al mondo. Era per questo che al di sopra d'ogni altra cosa egli disprezzava se stesso!
Il suo travaglio interiore lo condusse a pratiche più vicine alla vecchia e corrotta fede di Roma che alla luce più chiara della chiesa in cui era nato ed era stato allevato. Nel ripostiglio segreto di Dimmesdale, ben chiuso a doppia mandata, si trovava uno staffile insanguinato. Spesso il sacerdote protestante e puritano se ne era servito per sferzarsi le spalle e, mentre lo faceva, rideva amaramente di se stesso, e si colpiva con tanta più forza a causa di quel riso amaro. Aveva anche l'abitudine di imporsi frequenti digiuni, come molti altri devoti puritani, e non per purificare il corpo e renderlo un mezzo più degno della rivelazione, come loro, ma piuttosto come mortificazione rigorosa spinta fino a che le ginocchia non tremassero. Vegliava per notti e notti consecutive, a volte nel buio assoluto, a volte al barlume di una piccola lampada, e ogni tanto guardandosi il volto in uno specchio, illuminato dalla più spietata luce che potesse procurarsi. Esprimeva così l'incessante introspezione nella quale si torturava senza riuscire a purificarsi. In queste veglie prolungate spesso gli vacillava il cervello, era ossessionato da visioni, ora intraviste alla debole luce che emanavano esse stesse, nella vaga oscurità della stanza, ora invece più chiare e vicinissime a lui dentro lo specchio. Ora un'accolta di forme diaboliche sghignazzava all'indirizzo del pallido sacerdote burlandosi di lui, e invitandolo a unirsi a loro; ora un gruppo di angeli rilucenti spiccavano pesantemente il volo verso l'alto, come se fossero stati oppressi dal dolore, alleggerendosi tuttavia e facendosi più evanescenti nell'ascesa. Ora gli venivano incontro gli amici scomparsi della sua giovinezza, e suo padre con la gran barba bianca e il volto da santo, e la madre, che volgeva il viso passandogli davanti. Fantasma di una madre, sottilissima e inafferrabile fantasia di una mamma, credo che avresti potuto rivolgere almeno uno sguardo pietoso a tuo figlio! Ora, in quella stanza resa così tetra da questi pensieri spettrali, alleggiava Hester Prynne, che conduceva con sé la piccola Perla, col suo vestito scarlatto, e con l'indice additava prima la lettera scarlatta sul suo petto, poi il petto del sacerdote.
Nessuna di queste visioni era mai riuscita a ingannarlo. In ogni istante, con uno sforzo di volontà, riusciva a distinguere le sostanze attraverso la loro nebbiosa immaterialità, e a convincersi che esse non erano di natura consistente come quel tavolo di quercia intagliata, o quel massiccio, quadrato volume di teologia rilegato in cuoio con le borchie d'ottone. Eppure, in un certo senso, quelle ombre erano le cose più reali e più materiali con cui il povero pastore aveva che fare. E' l'indicibile squallore di una vita falsa come la sua che toglie la linfa e la sostanza alla realtà che ci circonda, e che il Cielo vuole sia la nostra gioia e il nostro alimento spirituale. Per l'uomo in cattiva fede, tutto l'universo è falso, impalpabile, e si riduce a niente nella stretta del suo pugno, ed egli stesso, finché resta in questa falsa luce, si trasforma in un'ombra, quando non cessi addirittura d'esistere. L'unica realtà che continuasse a rendere effettiva la presenza di Dimmesdale sulla terra era l'angoscia interiore del suo animo, e il modo in cui essa si manifestava con evidenza nel suo aspetto. Se per una volta fosse riuscito a sorridere, e ad avere un'espressione gaia, non ci sarebbe stato un uomo come lui.
In una di quelle notti terribili, che noi abbiamo tentato appena di descrivere, senza addentrarci in eccessivi particolari, il sacerdote balzò dalla sua scranna. Un pensiero nuovo lo aveva colpito, e forse da esso poteva trarre un attimo di pace.
Vestendosi con la stessa cura che avrebbe usato per una funzione pubblica, e indossando gli stessi abiti, scese le scale in punta di piedi, aprì la porta e uscì.
12. LA VEGLIA DELL'ECCLESIASTICO
Camminando, per così dire, avvolto nell'ombra di un sogno, e forse sotto l'influsso di una specie di sonnambulismo, Dimmesdale raggiunse il luogo dove, non molto tempo prima, Hester Prynne aveva sopportato le sue prime ore di pubblica ignominia. Lo stesso palco o patibolo, nero e corroso dalle tempeste e dal sole di sette lunghi anni, e consunto dal passo dei numerosi colpevoli che vi erano saliti da quel giorno in poi, si ergeva ancora sotto la balconata del locale del culto. Il sacerdote ne salì i gradini.
Era una buia notte dei primi di maggio. Una coltre ininterrotta di nubi oscurava tutta la distesa del cielo dallo zenith all'orizzonte. Se la stessa folla che aveva assistito alla punizione di Hester Prynne si fosse riunita di nuovo, nessuno sarebbe riuscito a distinguere il viso di colui che si trovava sul patibolo, e si sarebbe riconosciuta a stento una forma umana nella profonda oscurità di mezzanotte. Ma tutta la città dormiva. Non c'era pericolo d'essere scoperto. Il sacerdote poteva restarci finché voleva, finché l'aurora non avesse colorato di rosa il cielo a oriente, senza altro pericolo che l'infiltrarsi dell'aria notturna, umida e fredda, nel suo organismo, le cui giunture sarebbero state irrigidite dai reumatismi, mentre la gola sarebbe rimasta preda della tosse e del catarro, recando una delusione a quelli che attendevano con ansia la preghiera e il sermone del giorno successivo. Non c'era occhio che lo vedesse, a eccezione di quello che, sempre sveglio, lo aveva visto vibrare lo staffile insanguinato nel ripostiglio. Perché, dunque, era venuto proprio qui? Era un'irriverente finzione di penitenza? Uno scherno, sì, ma in esso la sua anima non si prendeva gioco d'altri che di se stessa! Uno scherno che faceva arrossire e piangere gli angeli, mentre i dannati esultavano con lubriche risate! Era stato spinto qui dall'impeto di quel rimorso che lo perseguitava dappertutto, ed era la Vigliaccheria, sua sorella e inseparabile compagna, che sempre lo faceva tirarsi indietro, con la sua tremula stretta, proprio quando l'altro impulso l'aveva condotto sull'orlo di una rivelazione. Povero, disgraziato essere! Che diritto aveva una debolezza come la sua di caricarsi del pesante fardello della colpa? La colpa è per gli uomini dai nervi d'acciaio, che hanno la possibilità di scegliere se sopportarla o, se essa pesa troppo, di scagliarsela subito via di dosso, concentrando tutte le loro indomabili energie su un fine degno d'approvazione. Uno spirito debole e delicato come il suo non era capace di nessuna delle due cose, e riuniva in sé nello stesso inestricabile viluppo l'agonia del peccato che grida vendetta al cospetto di Dio e il pentimento sterile e vano.
Perciò, in piedi sul palco, nella sua inutile mostra di espiazione, Dimmesdale si sentiva sopraffatto da un profondo orrore, come se l'universo intero stesse rimirando una lettera scarlatta sul suo petto nudo, proprio sul cuore. Era proprio in quel punto, a dire il vero, che da lungo tempo si affondava l'aguzzo dente avvelenato del dolore fisico. Senza alcuna partecipazione della volontà o capacità di trattenersi, egli gettò un grido acuto: un urlo che risuonò nella notte, e che fu respinto da casa a casa, ed echeggiò dalle colline che chiudevano l'orizzonte, come se una torma di diavoli, trovando in esso tanta sofferenza e terrore, se ne fosse appropriata per il suo divertimento, e se lo stesse palleggiando da un capo all'altro del paese.
"Ci siamo!" gemette il pastore, coprendosi il volto con le mani.
"Tutta la città si risveglierà, e uscendo di casa mi troverà qui!".
Non fu così. Forse alle sue orecchie il grido era sembrato molto più penetrante di quel che non fosse davvero. La città non si svegliò o, se lo fece, gli intorpiditi dormienti scambiarono il grido per qualche orribile immagine di un sogno, o per lo strepito delle streghe, le cui voci in quel periodo venivano udite spesso sopra la colonia o sulle capanne isolate, mentre Satana le faceva volare con sé attraverso il cielo. L'ecclesiastico, perciò, non vedendosi scoperto da nessuno, riaprì gli occhi e si guardò intorno. A una delle finestre del palazzo del governatore Bellingham, qualche centinaio di passi più in là, in una strada vicina, intravide il magistrato in persona, con una lampada in mano, e un berretto da notte bianco in testa, avvolto in una lunga camicia da notte bianca. Sembrava un fantasma inopportunamente evocato dalla tomba. Il grido doveva averlo sorpreso. A un'altra finestra della stessa casa si affacciò anche la vecchia signora Hibbins, la sorella del governatore, anche lei con una lanterna, che pure a quella distanza rivelava l'espressione acida e scontenta del suo viso. Sporse il capo fuori del davanzale, e sollevò con ansia gli occhi verso l'alto. Non c'era ombra di dubbio che questa rispettabile strega avesse udito il gemito di Dimmesdale e, a causa dei suoi infiniti echi e rimbombi, lo avesse scambiato per il clamore dei demoni e degli spiriti notturni, in compagnia dei quali, come tutti sapevano, era solita fare delle escursioni nella foresta.
Scorto il chiarore della lampada del governatore Bellingham, la vecchia fu svelta a spegnere la sua, e scomparve. Forse si dileguò tra le nubi, perché il sacerdote non riuscì più a distinguerne i movimenti. Il magistrato, dopo avere scrutato con attenzione nell'oscurità, nella quale, d'altronde, i suoi sguardi non potevano penetrare più che in una macina da mulino, si ritirò e chiuse la finestra.
L'ecclesiastico si sentì relativamente tranquillo. I suoi occhi però vennero attratti da un lieve barlume che, prima molto distante, si stava avvicinando lungo la strada. Al suo fioco chiarore si potevano riconoscere qui un paracarro, là una staccionata, o una finestra piombata, o una pompa col suo mastello pieno d'acqua, e una porta di quercia col battente di ferro, e un tronco non squadrato sullo stipite come scalino. Il reverendo Dimmesdale non poté fare a meno di osservare tutti questi minuti particolari, pur essendo fermamente convinto che il fato della sua esistenza si stesse avvicinando con i passi che ora riusciva a distinguere nettamente, e che il raggio della lanterna sarebbe caduto su lui tra qualche istante, rivelando il suo segreto nascosto da tanto tempo. All'avvicinarsi della luce, scorse nel suo cerchio brillante il suo confratello ecclesiastico, o, per dir meglio, il suo padre spirituale, oltre che carissimo e stimato amico, il reverendo Wilson, il quale immaginò Dimmesdale - doveva essersi attardato pregando al capezzale di qualche moribondo. Non si era ingannato: il buon vecchio sacerdote stava appena tornando dal letto di morte del governatore Winthrop, che meno di un'ora prima era passato da questa terra al cielo. E ora, circondato, come i santi di una volta, da un'aureola luminosa, che lo faceva risplendere in quell'oscura notte di peccato, come se il governatore scomparso gli avesse lasciato in eredità una parte della sua gloria, o come se fosse rimasto riflesso sulla sua persona il lontano splendore della Città celeste alla quale aveva tenuto rivolto lo sguardo per seguire il trionfale ingresso del pellegrino nei suoi cancelli, ora, in conclusione, il buon pastore Wilson se ne andava a casa, assicurandosi il passo con una lanterna accesa. Fu proprio il suo splendore che suggerì i pensieri di cui sopra a Dimmesdale, che sorrise - ma no, che quasi scoppiò in una fragorosa risata - per chiedersi poi se non stesse perdendo la ragione.
Al passaggio presso il palco del reverendo Wilson, che con un braccio si stringeva nella pellegrina e con l'altro teneva la lanterna ben protesa davanti a sé, il sacerdote poté trattenersi appena dal rivolgergli la parola.
"Buona sera a voi, venerabile padre Wilson. Venite qui, vi prego, a passare con me un'ora piacevole!".
Per l'amor del Cielo! Dimmesdale aveva dunque parlato davvero? Per un attimo credette che quelle parole gli fossero uscite dalle labbra, ma era soltanto nella fantasia che le aveva pronunciate.
Il venerabile padre Wilson continuò ad avanzare lentamente, concentrando la sua attenzione sul sentiero fangoso che gli stava davanti, senza volgere neppure una volta il capo al palco dei condannati. Quando la luce della lanterna fu scomparsa in lontananza, il sacerdote si rese conto della crisi di tensione nervosa che aveva attraversato negli ultimi istanti, benché il suo spirito avesse fatto uno sforzo involontario per riprendersi con un'ignobile specie di allegria.
Poco dopo, questo pazzesco senso d'umorismo tornò a mischiarsi tra i fantasmi solenni che popolavano i suoi pensieri. Sentiva irrigidirsi le proprie giunture per l'insolita umidità della notte, e si chiese se sarebbe riuscito a ridiscendere i gradini del palco. Sarebbe giunta l'alba e lo avrebbe trovato ancora là. I vicini avrebbero cominciato a mettersi in movimento, e il primo ad alzarsi, uscendo nella luce incerta del mattino, avrebbe scorto una sagoma indefinita sul piedistallo della vergogna e, perplesso tra il timore e la curiosità, sarebbe andato battendo da una porta all'altra, insistendo con tutti perché andassero a vedere il fantasma, il quale altro non poteva essere che di qualche criminale defunto. Un'insolita animazione si sarebbe sparsa da una casa all'altra e, con l'avanzare del giorno, i vecchi padri di famiglia si sarebbero alzati in gran fretta, nelle loro camicie da notte di flanella, assieme alle loro matronali consorti, senza neppure indugiare per togliersi il berretto da notte. Tutta la tribù dei personaggi più in vista, che fino a quel giorno non si erano mai mostrati in pubblico con un cappello fuori posto, avrebbe fatto la sua apparizione in un aspetto da incubo. Il vecchio governatore Bellingham avrebbe avuto un'espressione accigliata, con la sua gorgiera alla re Giacomo tutta a sghimbescio, e la signora Hibbins gli avrebbe fatto seguito con gli sterpi della foresta ancora impigliati nelle sottane, con uno sguardo più cattivo del solito per non aver avuto tempo di chiudere occhio dopo la scorribanda della notte; ci sarebbe stato il buon padre Wilson, che, dopo una mezza nottata al capezzale di un moribondo, non avrebbe certo molto gradito d'essere stato disturbato, a un'ora così antelucana, nel bel mezzo dei suoi sogni popolati di santi in gloria. Qui sarebbero venuti anche gli anziani e i diaconi della parrocchia di Dimmesdale, e le fanciulle che idolatravano il loro pastore, e gli avevano eretto un santuario nei petti candidi che ora, nella fretta e nella confusione del momento, avrebbero avuto appena il tempo di coprire con le loro sciarpe. Tutta la città, a farla breve, si sarebbe portata sugli usci con passo incerto, e ciascuno avrebbe rivolto un viso meravigliato e pieno d'orrore al patibolo. E chi vi avrebbero visto, con la fronte illuminata dalla rosea luce dell'oriente? Chi, se non il reverendo Arthur Dimmesdale, mezzo morto dal freddo, sopraffatto dalla vergogna, in piedi là dove era stata Hester Prynne?
Trascinato dall'orribile comicità di questa fantasticheria, il sacerdote scoppiò inavvertitamente, e con suo infinito spavento, in una fragorosa risata. A essa ne fece immediatamente seguito un'altra, lieve e puerile, nella quale, con un sussulto del cuore, "ma egli non avrebbe saputo dire se dovuto a un dolore insopportabile o a un piacere altrettanto intenso", egli riconobbe la voce della piccola Perla.
"Perla! La piccola Perla!" gridò, dopo un istante di silenzio, e poi, a voce più bassa: "Hester! Hester Prynne! Ci sei anche tu?".
"Sì, sono io, Hester Prynne!" rispose la donna, in tono sorpreso, e il sacerdote sentì i suoi passi che si avvicinavano lungo il marciapiede che essa stava percorrendo. "Sono io, con la mia piccola Perla".
"Da dove vieni, Hester?" chiese il sacerdote. "Cosa ti ha spinta qui?".
"Sono stata a vegliare un moribondo", rispose Hester Prynne, "il governatore Winthrop, e gli ho preso le misure per un abito funebre; ora me ne stavo tornando a casa".
"Vieni qui, Hester, tu e la piccola Perla. Siete già state qui tutte e due, ma io non ero con voi. Tornaci ancora una volta, e staremo tutti e tre insieme".
Lei salì i gradini in silenzio, e si pose al suo fianco, tenendo per mano la piccola Perla. Il sacerdote prese l'altra mano della bimba. Appena l'ebbe afferrata, fu preso da un empito di vitalità nuova, una vitalità diversa dalla sua che fluiva come un torrente nel suo cuore e si diramava in ogni sua vena, come se la madre e la figlia stessero trasmettendo il calore vitale al suo organismo semintorpidito. I tre formavano come una catena magnetica.
"Pastore!" sussurrò Perla.
"Dimmi, piccina!" fece Dimmesdale.
"Starai qui con me e la mamma domani, a mezzogiorno?" volle sapere la piccola Perla.
"No, no di certo, mia piccola Perla", rispose il sacerdote, perché, con l'insolita energia di quel momento, gli era tornato anche il timore della pubblica gogna, che per tanto tempo era stato l'incubo della sua vita, e già cominciava ad aver paura della situazione in cui, non senza uno strano compiacimento, era venuto a trovarsi. "No di certo, bimba mia. Ma non dubitare, starò con te e con la mamma un altro giorno, anche se non domani".
Perla rise, e cercò di liberare la mano dalla sua stretta, ma il sacerdote non la lasciò andare.
"Ancora un istante, bimba mia", disse.
"Ma mi prometti", chiese Perla, "che domani terrai per mano me e la mamma a mezzogiorno?".
"Non domani, Perla", disse il sacerdote, "un altro giorno".
"E quale altro giorno?" insisté la bambina.
"Il giorno del giudizio", sussurrò l'ecclesiastico e, cosa abbastanza strana, fu la coscienza di essere un insegnante professionista della verità che lo costrinse a rispondere così alla bambina. "Allora, in quel luogo, davanti al trono del giudice, io, tua madre e te staremo insieme. Ma la luce di questo mondo non vedrà la nostra unione!".
Perla rise di nuovo.
Ma prima che Dimmesdale finisse di parlare, un lampo balenò per tutto il cielo rannuvolato. Certamente esso era stato causato da una di quelle meteore che il nottambulo può così spesso osservare mentre si estingue negli spazi siderali. La sua luminosità era così forte che rischiarò completamente il denso strato di nubi che si frapponeva tra la terra e il cielo. Come il paralume di un'immensa lampada, il cielo rifulse da un capo all'altro. Mostrò lo spettacolo familiare della strada come se si fosse in pieno giorno, ma anche con quella maestosità impressionante che assumono gli oggetti più familiari colpiti da una luce insolita. Le case di legno, con i loro piani aggettanti e le loro rozze staccionate, i gradini e le soglie incorniciate dall'erba primaverile che cominciava a spuntare, le aiuole nereggianti delle zolle appena rivoltate, la strada solcata dalle ruote dei carri, e verdeggiante d'erba fin sulla piazza del mercato, tutto era visibile distintamente, ma con una strana apparenza che sembrava attribuire alle cose di questo mondo un'interpretazione diversa da quella che era stata accettata fino a quel momento. Là si ergeva il sacerdote, con la mano sul cuore, con Hester Prynne, alla quale brillava sul petto la lettera scarlatta, e la piccola Perla, un simbolo lei stessa, vivente legame tra i due. Stavano assieme nel meriggio di quello strano e solenne splendore, come se fosse stata la luce che rivela tutti i segreti, e l'alba che unirà tutti quelli che appartengono l'uno all'altro.
C'era della stregoneria negli occhi della piccola Perla, e il suo viso, quando lo rivolse verso il sacerdote, aveva quel sorriso malizioso che tanto spesso la faceva simile a un folletto.
Ritrasse la mano da quella di Dimmesdale, e additò qualcosa dall'altra parte della strada, ma egli si batté le mani sul petto, e rivolse gli occhi al cielo.
Non era affatto insolito, a quei tempi, interpretare ogni stella cadente, e gli altri fenomeni naturali che si verificassero con minore regolarità del sorgere e del tramontare del sole e della luna, come altrettante rivelazioni d'origine soprannaturale. Una lama di luce, o una spada fiammeggiante, un arco o un fascio di frecce apparsi nel cielo di mezzanotte, venivano interpretati come presagi di guerre con gli indiani. Era noto che la peste era preceduta da una pioggia di luce cremisi. Esitiamo a credere che si sia mai verificato nella Nuova Inghilterra un evento di qualche importanza, fausto o infausto, dai primi tempi fino alla rivoluzione, senza che i suoi abitanti ne siano stati avvertiti da qualche portento di questa natura. Spesso intere folle ne furono testimoni. Ancora più spesso però la loro credibilità dipendeva dalla fiducia accordata a qualche solitario testimone oculare, il quale aveva visto il fatto meraviglioso attraverso la lente colorata, che ingrandisce e che deforma, della sua immaginazione, e gli dava una forma definitiva soltanto dopo averci pensato sopra. Era certo un'idea piena di sublimità pensare che il destino delle nazioni fosse rivelato in mirabili geroglifici sulla volta del cielo. Non si poteva certo ritenere troppo vasto un rotolo del genere perché la Provvidenza vi scrivesse sopra il destino d'un popolo. Questa convinzione era molto diffusa tra i nostri progenitori, come dimostrazione, secondo loro, che la loro nascente repubblica era sotto la protezione, particolarmente vigile e rigorosa, del cielo. Cosa si deve dunque pensare di uno che scopra una rivelazione rivolta a lui solo, sullo stesso grande foglio del libro? In un caso del genere non può trattarsi che di un sintomo del profondo disordine della mente di un uomo che, reso morbosamente introspettivo da una lunga pena intensa e segreta, abbia diffuso il suo egocentrismo su tutta l'immensità della natura, al punto che il firmamento stesso gli appaia soltanto una pagina della storia della sua anima e del suo destino.
Dobbiamo quindi attribuire soltanto all'infermità della coscienza e dell'occhio del sacerdote il fatto che egli, levando gli occhi al cielo, ci vedesse comparire un'immensa lettera, la lettera A, marcata a tratti di una profonda luce rossa. Certo, la meteora aveva potuto illuminare quella porzione di cielo, ardendo attraverso l'oscuro velo di nuvole, ma non in quella forma che le aveva attribuito la sua fantasia colpevole o, per lo meno, non in una forma tanto definita che un altro perseguitato dai rimorsi non ci potesse scorgere un simbolo diverso.
C'era una circostanza particolare che caratterizzava lo stato d'animo di Dimmesdale in quel momento. Per tutto il tempo che aveva tenuto gli occhi fissi verso l'alto, era stato tuttavia perfettamente conscio del fatto che la piccola Perla stava additando il vecchio Roger Chillingworth, che si trovava a pochi passi dal palco. Il sacerdote sembrò vederlo, con lo stesso bagliore che distingueva la lettera prodigiosa. I suoi lineamenti, come tutti gli altri oggetti, avevano una nuova espressione sotto quella luce astrale, o forse il medico non si era curato, come aveva sempre fatto, di nascondere la malevolenza con la quale guardava la sua vittima. Certo, se la meteora aveva illuminato il cielo e rischiarato la terra, con un terrificante splendore che doveva ricordare a Hester Prynne e al sacerdote il giorno del giudizio, Roger Chillingworth sarebbe potuto sembrar loro Satana, in piedi di fronte a loro, con un sorriso di scherno per reclamare i suoi diritti. Era così marcata la sua espressione, o forse fu il sacerdote che la vide con tanta chiarezza, che essa sembrò restare dipinta nell'oscurità, dopodiché la meteora fu svanita, ottenendo l'effetto di annullare contemporaneamente sia la strada che ogni altra cosa.
"Chi è quell'uomo, Hester?" disse con voce rotta Dimmesdale, sopraffatto dal terrore. "Tremo al vederlo! Conosci quell'uomo? Lo odio, Hester!".
Lei ricordò il suo giuramento, e tacque.
"Ti dico che di fronte a lui la mia anima vacilla!" gemette l'ecclesiastico. "Chi è mai? Chi è? Non puoi dunque far nulla per me? Provo un orrore senza nome alla vista di quell'uomo!".
"Reverendo", disse la piccola Perla, "io posso dirti chi è!".
"Allora presto, piccola!" gridò l'ecclesiastico, chinando l'orecchio all'altezza delle sue labbra. "Presto, e dillo più piano che puoi!".
Perla gli sussurrò qualcosa all'orecchio che sembrava espresso in linguaggio umano, ma era soltanto quel farfugliare privo di senso col quale i bambini si divertono ogni tanto. Comunque, anche se avesse contenuto qualche segreta informazione sul conto del vecchio Roger Chillingworth, essa era in una lingua ignota al dotto ecclesiastico, e non servì che ad accrescere lo smarrimento del suo spirito. La bimba rise forte, come un folletto.
"E' me che schernisci, ora?" chiese l'ecclesiastico.
"Non hai avuto coraggio! Non sei stato sincero!" rispose la piccola. "Non hai voluto promettere che prenderai me e la mamma per mano domani a mezzogiorno!".
"Degno signore", fece il medico, che si era avanzato fino alla base del palco, "pio pastore Dimmesdale! Sareste forse voi ? Bene, ma bene davvero! Noi gente di studio, che abbiamo sempre la testa tra i libri, abbiamo veramente bisogno che qualcuno ci sorvegli con cura! Sogniamo durante la veglia, e camminiamo nel sonno.
Venite, buon signore e caro amico, lasciate, vi prego, che io vi accompagni a casa!".
"Come sapevi che mi trovavo qui?" chiese l'ecclesiastico, spaventato.
"In verità, e in tutta buona fede", replicò Roger Chillingworth, "non ne sapevo assolutamente nulla. Avevo passato la maggior parte della nottata al capezzale del degno governatore Winthrop, esercitando le mie povere arti per lenire le sue sofferenze. Egli tornò al mondo migliore al quale apparteneva, e allo stesso modo io me ne stavo tornando a casa per la mia strada quando questa luce mi ha abbagliato. Venite con me, ve ne prego, venerabile signore, o non sarete certo in grado di assolvere ai vostri doveri festivi, domani. Ah, ecco quanto male fanno alla mente questi libri! Dovreste studiare di meno, mio buon signore, e prendervi qualche svago, o sarete sopraffatto da questi incubi notturni".
"Tornerò a casa con voi", disse Dimmesdale.
Con una passività gelida, come uno che si fosse appena risvegliato da un sogno orribile senza essersi ancora ripreso, il sacerdote diede la mano al medico, e si lasciò portar via.
Il giorno dopo, tuttavia (era la domenica), egli pronunciò una predica che venne considerata la più efficace e la più potente, e quella più ricca di influssi divini, che mai fosse uscita dalle sue labbra. Si dice che numerose anime venissero avviate sul sentiero della verità dall'efficacia di quel sermone, e facessero voto dentro di sé di dedicare una santa gratitudine a Dimmesdale per lunghi anni a venire. Ma, quando discese i gradini del pulpito, gli venne incontro il sagrestano dalla barba grigia, recando un guanto nero, che il sacerdote riconobbe per suo.
"E' stato rinvenuto questa mattina", disse il sagrestano, "sul palco dove i malfattori vengono esposti alla pubblica ignominia.
E' Satana che ce l'ha deposto, a parer mio, nell'intento d'offendere con un gesto di scherno scurrile la vostra santità. Ma è stato davvero sciocco e cieco, com'è sempre e in ogni occasione.
Una mano pura non ha bisogno di guanti per coprirsi!".
"Grazie, mio buon amico", disse il sacerdote, con gravità, ma trasalendo nell'intimo, perché il suo ricordo era talmente confuso, che era quasi riuscito a considerare gli avvenimenti della notte passata come allucinazioni. "Sì, pare che sia proprio il mio guanto!" "E, se Satana ha creduto opportuno rubarlo, la riverenza vostra dovrà trattarlo senza guanti, d'ora in poi", osservò il vecchio sagrestano, sorridendo con gravità. "Ma vostra riverenza ha udito del portento che è stato visto la notte scorsa? Una grande lettera è apparsa in cielo, la lettera A, che noi abbiamo interpretato come l'iniziale di Angelo. Infatti il nostro buon governatore Winthrop è diventato un angelo la notte scorsa, e senza dubbio si è creduto opportuno darne notizia!".
"No", rispose l'ecclesiastico; "non ne sapevo nulla".
13. UN ALTRO ASPETTO DI HESTER
Nel suo ultimo e singolare incontro con Dimmesdale, Hester Prynne era rimasta colpita dalle condizioni in cui aveva trovato ridotto l'ecclesiastico. I suoi nervi sembravano aver ceduto completamente, e la sua forza morale era ridotta a una debolezza quasi puerile. Egli era a terra senza speranza, anche se le sue facoltà intellettuali mantenevano la loro forza primitiva, o avevano forse acquistato un'energia morbosa che poteva essere stata causata soltanto dalla malattia. Essendo a conoscenza di una serie di circostanze nascoste a chiunque altro, non le era difficile dedurre che, oltre alla naturale azione dei rimorsi, qualche tremenda macchinazione era stata ordita ai danni del benessere e della quiete di Dimmesdale, e continuava a operare per la sua perdizione. Conoscendo quello che una volta era stato quel povero essere caduto così in basso, la sua anima venne scossa nel più profondo dal terrore con cui egli si era rivolto a lei, a una reietta, in cerca d'aiuto contro quel nemico che l'istinto gli aveva rivelato. Essa giunse quindi alla conclusione che il sacerdote aveva diritto a ogni aiuto che fosse in suo potere di dargli. Poco abituata, per la sua lunga esclusione dalla società, a misurare il suo concetto di giusto e di ingiusto secondo criteri a lei estrinseci, Hester scoprì, o credette di scoprire, di avere una responsabilità nei confronti dell'ecclesiastico, alla quale non era tenuta verso nessun altro, né verso il mondo intero. I vincoli che la univano al resto dell'umanità, vincoli di fiori, di seta, d'oro, o di qualsiasi altro materiale, erano stati tutti spezzati. Ecco che restava quello di ferro del male compiuto insieme, che a nessuno dei due era possibile rompere. Come ogni altro legame, esso portava con sé i suoi obblighi.
Hester Prynne non si trovava più nella posizione che le abbiamo visto occupare nei primi tempi che avevano seguito la sua vergogna. Erano venuti e passati degli anni: Perla ne aveva ormai sette. Sua madre, con la lettera scarlatta sul petto, rilucente dei suoi fantastici ricami, era diventata da tempo una figura familiare per i cittadini. Com'è solito accadere a chi occupi una posizione di qualche rilievo in una comunità, senza nello stesso tempo interferire negli interessi generali o in quelli particolari di chicchessia, Hester Prynne era andata conquistandosi negli ultimi anni una specie di rispetto generale. Bisogna dire a favore della natura umana che essa, quando non entri in gioco l'egoismo, è più disposta all'amore che all'odio. Quest'ultimo può addirittura, con un procedimento lento e quieto, trasformarsi in amore, a meno che il cambiamento non sia reso impossibile da un continuo ripetersi delle irritazioni che erano alla base del primitivo sentimento d'ostilità. Nel caso di Hester Prynne non c'erano né irritazione né risentimento: lei non sfidava mai la pubblica opinione, sottomettendosi invece senza recriminazioni ai maltrattamenti; non si lamentava mai delle sofferenze che le venivano inflitte, né cercava le simpatie di nessuno. Finalmente anche l'incontestabile purezza della sua vita per tutti gli anni della sua segregazione venne riconosciuta a suo favore. Non avendo più nulla da perdere al cospetto del genere umano, e nessuna speranza o apparente desiderio di guadagnare qualcosa, non poteva essere altro che un autentico rispetto per la virtù che aveva riportato la povera viandante sulla retta via.
Si finì con l'accorgersi anche del fatto che Hester, la quale non reclamava neppure il più umile diritto di partecipare ai privilegi del mondo, oltre a quel poco d'aria che respirava e al pane quotidiano per sé e per la piccola Perla che guadagnava con l'alacre opera delle proprie mani, era sempre pronta a riconoscere la sua appartenenza alla razza umana quando si trattava di fare del bene. Nessuno era più disposto di lei a far dono delle sue piccole sostanze a ogni richiesta dei poveri, anche se i diseredati dal duro cuore ricambiavano con uno scherno il cibo che veniva deposto regolarmente davanti alla loro porta o gli indumenti cuciti per loro da quelle dita che avrebbero potuto ricamare gli abiti di gala di un monarca. Nessuno poteva eguagliare la dedizione di Hester quando la peste appariva in città. In qualunque genere di calamità, generale o individuale che fosse, la reietta della società trovava sempre il modo di rendersi utile. Essa non si presentava come un'ospite, ma come abitante legittima, nella casa oscurata dalle difficoltà, come se il suo triste tramonto fosse la sola sostanza attraverso la quale potesse avere rapporti col proprio prossimo. Attraverso l'oscurità la lettera ricamata brillava a recar conforto col suo raggio ultraterreno. Altrove era il marchio del peccato, ma nella camera dell'ammalato si trasformava in un candelabro. Aveva mandato perfino il suo barbaglio, quando il paziente si avvicinava agli estremi, oltre la barriera del tempo. Essa gli aveva mostrato dove poggiare il piede, mentre la luce terrena si affievoliva rapidamente, e prima che quella celeste gli venisse incontro. In questi momenti eccezionali, il carattere di Hester si mostrava caldo e prodigo: vera sorgente di tenerezza umana, pronta a esaudire ogni sincera richiesta, e instancabile nelle maggiori necessità. Il suo petto, con il suo ornamento di vergogna, era il più soffice dei guanciali per la testa che ne cercasse uno. Lei si era ordinata da sola suora di Carità o, per dir meglio, la pesante mano del mondo le aveva imposto questo titolo, senza che né lei né il mondo stesso ne prevedessero il risultato. La lettera era il simbolo della sua vocazione. In lei si poteva trovare tanto aiuto, tanta capacità di fare e di comprendere, che molti rifiutavano di interpretare la A scarlatta nel suo significato originale. Essi sostenevano che significava Abile, tanto forte era Hester Prynne, con la sua forza di donna.
Soltanto la casa sulla quale si proiettava l'ombra della sventura poteva accoglierla. Quando il sole tornava a brillare, lei non era più là. La sua immagine era svanita attraverso la soglia, e la soccorrevole ospite era partita senza voltarsi indietro a raccogliere la ricompensa della gratitudine, se pure ce n'era, nei cuori di quelli che aveva assistito con tanto zelo. Incontrandoli per strada, non alzava mai il capo a raccogliere il loro saluto.
Se qualcuno era deciso ad avvicinarla, lei posava il dito sulla lettera scarlatta, e procedeva. Forse era orgoglio, ma somigliava tanto all'umiltà, che produceva tutti i benefici effetti di quest'ultima virtù sull'opinione pubblica. Il popolo è dispotico per natura; spesso rifiuta di rendere giustizia a chi la reclami troppo strenuamente come suo diritto, ma quasi altrettanto spesso dà più che la semplice giustizia quando si faccia appello, come piace ai tiranni, alla sua sola generosità. Interpretando il comportamento di Hester come una richiesta del genere, la società si trovò disposta a mostrare alla sua vittima un volto più benigno di quanto le importasse o, forse, di quanto meritasse.
I governatori e i membri più saggi e istruiti della comunità furono più lenti del popolo a riconoscere l'influenza delle buone qualità di Hester. I pregiudizi che avevano in comune con esso erano in loro rinvigoriti da una ferrea armatura di ragionamenti che rendeva molto più difficile estirparli. Giorno per giorno, però, le loro rughe dure e amare si addolcivano, trasformandosi in qualcosa che, col passare di un buon numero di anni, poteva assumere quasi l'aspetto della benevolenza. In tal modo si comportavano i membri più autorevoli della comunità, ai quali la posizione elevata imponeva la sorveglianza della morale pubblica.
Come individui, però, nella vita privata, tutti avevano perdonato Hester Prynne per la sua fragilità e, addirittura, avevano cominciato a non considerare più la lettera scarlatta come il marchio di quel peccato che le aveva fatto sopportare una penitenza così lunga e pesante, ma come il simbolo delle sue molte buone azioni da quel giorno in poi. "Vedete quella donna col segno ricamato?" dicevano ai forestieri. "E' la nostra Hester, la Hester della città, che è così caritatevole coi poveri, così soccorrevole coi malati, così comprensiva con gli afflitti!". E' vero che, subito dopo, l'inclinazione della natura umana a mostrare il peggio di sé, quando si tratti di una persona diversa da chi parla, li spingeva a bisbigliare la storia dello scandalo degli anni passati, ma non per questo, tuttavia, la lettera scarlatta perdeva agli occhi di chi raccontava il carattere della croce sul seno di una monaca. Essa dava a colei che la portava una specie di santità che le permetteva di camminare sicura attraverso qualsiasi pericolo. Se fosse caduta preda dei ladroni, la lettera l'avrebbe salvata. Si raccontava, e molti lo credevano, che un indiano avesse scagliato la lancia contro il simbolo, e che il proiettile l'avesse colpito, ma fosse ricaduto al suolo senza far male alla donna.
L'effetto della lettera, o piuttosto della posizione nella società che essa implicava, sull'animo della stessa Hester Prynne, era forte e strano. Tutte le foglie leggere e graziose della sua natura erano state disseccate da questo marchio rovente, ed erano cadute da tempo, lasciando un'essenza scabra e lineare, che avrebbe potuto essere poco simpatica se lei avesse avuto amici o compagni che potessero esserne urtati. Anche il fascino della sua persona aveva subìto un cambiamento del genere, che forse era dovuto in parte alla studiata austerità del suo abbigliamento, e in parte alla mancanza di ostentazione nei suoi modi. Un'altra triste trasformazione era quella della sua copiosa e lussureggiante capigliatura, che o era stata tagliata o era nascosta da una cuffia così completamente, che mai un ricciolo scomposto brillava al sole. In parte dunque doveva essere tutto questo complesso di cause, ma doveva essere ancor più qualcos'altro, che faceva sembrare il volto di Hester chiuso per sempre all'Amore; nel corpo di Hester, seppure ancora maestoso e statuario, non c'era più nulla che la Passione avrebbe mai sognato di stringere nel suo amplesso; nel seno di Hester non c'era nulla da farne ancora il giaciglio dell'Affetto. Qualcosa le era sfuggito, qualcosa che era stato essenziale in lei e che ne faceva una donna. E' questo spesso il destino, e queste le amare conseguenze, del carattere e della personalità femminile, quando una donna abbia incontrato e affrontato un'esperienza particolarmente dura. Se nel suo carattere non c'è che tenerezza, essa perirà. Se sopravviverà, o la tenerezza sarà per sempre bandita da lei, o (e l'espressione esteriore è la stessa) verrà schiacciata così profondamente nel suo cuore che non potrà mostrarsi mai più. Quest'ultima è forse la teoria più vicina al vero. Quella che una volta era stata una donna, e aveva cessato di esserlo, potrebbe ridiventare tale in qualsiasi momento, purché ci fosse un tocco magico a compiere la sua trasfigurazione. Vedremo se Hester Prynne venne mai toccata e trasfigurata in tal modo.
Gran parte della marmorea freddezza dell'aspetto di Hester andava attribuita al fatto che la sua vita si era rivolta in misura notevole dal sentimento e dalla passione alla riflessione. Rimasta sola al mondo, sola per quel che concerneva la dipendenza dalla società, e con la piccola Perla da guidare e da proteggere, sola e senza speranza di riacquistare la sua dignità, anche se non avesse sdegnato di stimarlo auspicabile, lei scosse da sé i frammenti della catena spezzata. La legge del mondo non era più in vigore per lei. Era quello un periodo in cui l'intelletto umano, appena emancipato, spaziava in un campo più vasto e più aperto all'azione che per molti secoli addietro. Uomini di spada avevano rovesciato nobili e sovrani. Uomini ancora più audaci di loro avevano rovesciato e riordinato, non nella realtà, ma nella teoria, che era il loro ambiente più naturale, l'intero sistema degli antichi pregiudizi, ai quali erano legati molti degli antichi principi.
Hester Prynne era permeata di questo spirito. Lei aveva raggiunto una libertà di pensiero che era in quel periodo abbastanza comune sull'altra sponda dell'Atlantico, ma che i nostri antenati, se ne avessero avuto sentore, avrebbero considerato un delitto peggiore di quello che avevano bollato con la lettera scarlatta. Nella sua casupola solitaria, vicino alla riva del mare, le venivano idee che non avrebbero osato fare ingresso in nessun'altra abitazione della Nuova Inghilterra; ospiti intabarrati, che sarebbero stati pericolosi come demoni per colei che li intratteneva, se li si fosse visti bussare alla sua porta.
E' interessante osservare come quelli che si dedicano alle speculazioni più audaci siano spesso proprio quelli che si adeguano con la più perfetta impassibilità alle regole esteriori del mondo. Il pensiero è loro sufficiente, e non si concreta nel sangue e nella carne dell'azione. Questo sembrava il caso di Hester. Certo, se non avesse ricevuto la piccola Perla dal mondo spirituale, le cose avrebbero potuto andare in modo molto diverso.
Forse in quel caso la storia ce l'avrebbe tramandata, a fianco di Ann Hutchinson, come fondatrice di una setta religiosa. Lei avrebbe potuto, in un momento particolare, diventare una profetessa. Forse, e quasi certamente, sarebbe stata condannata a morte dall'austero tribunale dell'epoca, per aver tentato di minare alla base i principi della colonia puritana. Ma, nell'educazione della piccola, l'entusiasmo di pensiero della madre ebbe qualcosa su cui sfogarsi. La Provvidenza, nella persona della bimba, aveva affidato a Hester il germe e il bocciolo della femminilità, perché ne avesse cura e lo allevasse tra un cumulo di difficoltà. Tutto era contro di lei. Il mondo le era nemico. Lo stesso carattere della piccola aveva in sé qualcosa di insolito che denotava incessantemente che era nata a sproposito, risultato dell'illecita passione della madre, e spesso costringeva Hester a chiedersi, col cuore pieno di sconforto, se era un bene o un male che la povera creatura fosse venuta al mondo.
Per la verità, spesso questa stessa oscura domanda si ripeteva nella sua mente a proposito dell'intera razza delle donne. Valeva la pena di esistere, anche per la più felice di loro? Per quel che riguardava la sua personale esistenza, lei aveva da tempo deciso in senso negativo, e considerava il problema risolto. La tendenza a riflettere tiene tranquilla la donna come l'uomo, ma la rende triste. Forse vede davanti a sé una missione priva di speranze di successo. Per prima cosa, l'intero sistema sociale andrebbe capovolto e ricostruito. Poi, la stessa natura del sesso opposto, o le abitudini da lungo tempo ereditarie, dovrebbero essere modificate sostanzialmente prima che la donna possa assumere quella che sembra una posizione degna e rispettabile. Infine, venute che fossero a capo di queste difficoltà, le donne non potrebbero giovarsi dei vantaggi di tali riforme preliminari senza essersi sottoposte esse stesse a una trasformazione ancor più radicale, in cui forse quell'emanazione eterea, che costituisce la loro vita più autentica, finirebbe con il dissolversi. Una donna non può riuscire a superare questi problemi con l'esercizio della riflessione. Essi non possono essere risolti, o forse possono esserlo in un modo solo. Se il cuore riesce a ottenere il sopravvento, essi svaniscono. Per questo Hester Prynne, il cui cuore aveva perduto le sue sane e regolari pulsazioni, vagava alla cieca nell'oscuro labirinto del pensiero, ora respinta da un precipizio invalicabile, ora riprendendo a salire da un abisso profondo. Intorno a lei si allargava un panorama selvaggio e spettrale, dove mancavano un focolare e un aiuto. Di tanto in tanto un dubbio spaventoso tentava d'impadronirsi dell'anima sua, se non fosse meglio mandare subito Perla in cielo, e lei stessa sottoporsi al destino che le sarebbe stato assegnato dall'Eterna Giustizia.
La lettera scarlatta aveva mancato il suo scopo.
Ora però il suo incontro con Dimmesdale, la notte della sua veglia, le aveva fornito un nuovo tema di riflessione, e le aveva proposto un fine, il raggiungimento del quale le sembrava degno di ogni sforzo e di ogni sacrificio. Essa aveva visto coi suoi occhi quanto fosse intensa la disperazione in cui l'ecclesiastico si dibatteva o, per dir meglio, aveva cessato di dibattersi. Si era accorta che lui si trovava sull'orlo della pazzia, se pure non l'aveva di già varcato. Era impossibile dubitare che, per quanto penosamente efficace fosse il segreto tormento del rimorso, un veleno più mortale vi era stato instillato dalla mano che offriva il sollievo. Lui aveva sempre avuto a fianco un nemico nascosto sotto l'aspetto di amico e di consolatore, che si era valso di ogni occasione che gli si era offerta per frugare tra le delicate leve del carattere di Dimmesdale. Hester non poteva fare a meno di chiedersi se il difetto di coraggio, di lealtà e di onestà non era stato inizialmente proprio dalla sua parte, nel lasciare che il sacerdote venisse a trovarsi in una posizione in cui si doveva presagire tanto male e dalla quale non ci si poteva aspettare niente di buono. La sua sola giustificazione consisteva nel non aver saputo scorgere alcun mezzo per salvarlo da una rovina ancor più completa di quella che aveva colpito lei, altro che accettando l'infingimento proposto da Roger Chillingworth. Sotto quest'impulso, lei aveva fatto la sua scelta, e aveva scelto, come ora si accorgeva, l'alternativa più sciagurata delle due. Decise quindi di correggere il proprio errore per quanto fosse ancora nelle sue facoltà. Rafforzata da anni di prove dure e faticose, non si sentiva più così inerme nella lotta contro Roger Chillingworth come quella notte, prostrata dal peccato e semimpazzita per quella vergogna ancora fresca, quando avevano parlato assieme nella prigione. Da quel giorno era riuscita a raggiungere arrancando una posizione più elevata. Il vecchio, d'altro canto, si era avvicinato al suo livello o, forse, era sceso anche al di sotto, nella sua affannosa ricerca di vendetta.
Alla fine, Hester Prynne decise di incontrarsi con l'uomo che era stato suo marito, e di fare quello che poteva per salvare la vittima che egli aveva stretto evidentemente tra i suoi artigli.
Non dovette cercare a lungo l'occasione. Un pomeriggio, passeggiando con Perla in una zona deserta della penisola, vide il vecchio cerusico con un canestro sotto il braccio e un bastone nell'altra, che perlustrava il terreno in cerca di radici e di erbe da cui distillare le sue pozioni.
14. HESTER E IL MEDICO
Hester mandò la piccola Perla a fare una corsa lungo la spiaggia e a giocare con le conchiglie e i ciuffi d'alghe, mentre si soffermava a parlare con l'erborista. La bimba fuggì via come un uccellino e, denudatasi i bianchi piedini, se ne andò trotterellando sulla sabbia umida. Ogni tanto si fermava per sbirciare con curiosità in una pozza, lasciata dall'alta marea perché Perla avesse uno specchio nel quale vedere il proprio volto. Diritta negli occhi la guardava dalla pozza, con scuri riccioli scintillanti attorno alla testa e un sorriso da spiritello negli occhi, l'immagine di una bambina che Perla, in mancanza d'altri compagni di giochi, invitava a prenderla per mano e a correre con lei. Ma la fanciulla immaginosa la attirava dalla sua parte allo stesso modo, come per dire: "Questo posto è migliore: vieni tu nella pozza". E Perla, sprofondata dentro fino a mezza gamba, vedeva i suoi piedini bianchi in fondo, mentre da una distanza ancora minore le giungeva un barbaglio di sorriso sminuzzato, che fluttuava nell'acqua agitata.
Intanto la madre si era avvicinata al medico.
"Vorrei dirvi qualcosa", disse, "qualcosa che ci riguarda molto da vicino".
"Ah! Ed è proprio la signora Hester che vuole parlare col vecchio Roger Chillingworth?" rispose l'uomo, raddrizzandosi dalla sua scomoda posizione. "Ma con tutto il cuore. Eh sì, signora, dovunque io vada non sento dire di voi altro che bene! Non prima dell'altro ieri un magistrato, uomo saggio e timorato, discorreva dei vostri affari, signora Hester, e mi sussurrò che in consiglio eravate stata oggetto di una questione molto dibattuta. Ci si chiedeva se, senza pregiudizio della morale pubblica, vi si potesse togliere dal petto quella lettera scarlatta. Sulla mia stessa vita, Hester, ho insistito con il degno magistrato perché lo si facesse al più presto".
"Non dipende dall'arbitrio del magistrato strappare questo marchio", rispose Hester tranquillamente. "Se fossi degna di esserne liberata, cadrebbe spontaneamente, o si trasformerebbe in qualcosa che parlerebbe un linguaggio diverso".
"E allora tenetevela pure, se preferite", replicò lui. "Le donne devono seguire il proprio gusto, quando si tratta del loro abbigliamento. La lettera è ricamata a regola d'arte, e sta bene, sul vostro petto!".
Per tutto questo tempo Hester aveva tenuto lo sguardo fisso sul vecchio, ed era rimasta meravigliata, non meno che intimorita, nell'osservare la trasformazione operata su di lui dal passare degli ultimi sette anni. Non si trattava tanto del fatto che era invecchiato, perché, anche se mostrava le tracce della vita che aveva trascorso, portava bene i suoi anni, e sembrava mantenere una sorta di asciutto vigore e di continua tensione nervosa. Ma quell'aspetto di intellettuale sereno, tranquillo e dedito agli studi, che era la miglior cosa che Hester gli ricordasse, era completamente svanito, e al suo posto era subentrata un'aria cupida, inquisitrice, quasi feroce, anche se attentamente controllata. La sua prima preoccupazione sembrava consistere nel mascherare la propria espressione dietro un sorriso, ma questo gli dava un'apparenza di falsità, e rendeva i suoi lineamenti così sardonici che il suo occasionale interlocutore ne scorgeva la malvagità molto più facilmente. Ogni tanto gli lampeggiava negli occhi una luce rossastra, come se l'anima del vecchio fosse stata in fiamme, e mantenesse delle braci accese nel suo petto, finché, per uno sbuffo accidentale di collera, saltava fuori in una vampa momentanea. Egli la reprimeva il più rapidamente possibile, e si sforzava di fingere che nulla del genere fosse accaduto.
A farla breve, il vecchio Roger Chillingworth era la prova evidente della possibilità che ha l'uomo di tramutarsi in demone, qualora se ne assuma le mansioni per uno spazio di tempo sufficiente. Questo infelice aveva compiuto una simile trasformazione dedicandosi per sette anni alla continua analisi di un cuore tormentato, traendone il proprio divertimento, e aggiungendo combustibile a quelle atroci torture che erano l'oggetto delle sue analisi e delle sua malevole osservazioni.
La lettera scarlatta bruciava sul petto di Hester Prynne. Ecco un altro essere umano distrutto, la cui responsabilità pesava in parte su di lei.
"Che cosa vedete nel mio volto", chiese il medico, "per fissarlo con tanta attenzione?".
"Qualcosa che mi farebbe piangere, se esistessero lacrime abbastanza amare", rispose lei, "ma lasciamo andare! E' di quel poveretto che vorrei parlarvi".
"E che cosa volete dire di lui?" gridò il vecchio Roger Chillingworth, ansiosamente, come se l'argomento fosse il suo preferito, ed egli godesse dell'occasione che gli si presentava per parlarne con l'unica persona nella quale gli fosse possibile riporre la sua confidenza. "Per dire la verità, signora Hester, in questo stesso momento i miei pensieri riguardavano proprio questo gentiluomo. Parlate dunque liberamente, e io vi risponderò".
"L'ultima volta che parlammo insieme", disse Hester, "sette anni or sono, voleste estorcermi la promessa di mantenere il segreto su quanto riguardava il precedente legame tra voi e me. La vita e la reputazione di quell'uomo erano nelle vostre mani, e mi parve di non avere altra scelta che tacere, secondo il vostro desiderio.
Non fu tuttavia senza profondo turbamento che mi costrinsi ad agire in questo modo, poiché, pur avendo rinnegato ogni dovere nei confronti degli altri esseri umani, mi restava tuttavia un dovere verso di lui, e qualcosa mi diceva che venivo meno anche a esso piegandomi ad accettare la vostra proposta. Da quel giorno in poi nessun uomo gli è stato più vicino di voi. Voi lo seguite passo per passo. Voi siete al suo fianco, nel sonno o nella veglia. Voi vi addentrate nei suoi pensieri. Voi penetrate nel suo cuore per appiccarvi il fuoco! Voi attentate alla sua vita, e lo fate morire giorno per giorno; ed egli non vi conosce ancora. Permettendovi di far questo, io ho mancato nei confronti dell'unico essere umano verso il quale mi era ancora dato d'essere sincera".
"Avevate forse da scegliere?" rispose Roger Chillingworth. "Il mio indice teso su quell'uomo lo avrebbe fatto precipitare dal pulpito in una cella, e di là, forse, al patibolo!" "Sarebbe stato meglio così!" disse Hester Prynne.
"Che male gli ho fatto?" chiese di nuovo Roger Chillingworth. "Io ti dico, Hester Prynne, che il più lauto onorario che mai medico abbia guadagnato da un monarca non avrebbe potuto pagare le cure che io ho sprecato per quel miserabile prete! Se non fosse stato per il mio aiuto, la sua vita si sarebbe consumata tra i tormenti entro i primi due anni dall'epoca del suo e del tuo misfatto, poiché il suo spirito, Hester, mancava della forza necessaria a sostenere un fardello pesante come la lettera scarlatta che tu hai portato. Oh, un bel segreto davvero potrei rivelarti! Ma basta.
Quello che la mia arte poteva per lui, io l'ho fatto. Se egli ancora respira e striscia su questa terra, è a me che lo deve!".
"Meglio per lui, se fosse morto subito!" disse Hester Prynne.
"Sì, donna, è vero ciò che hai detto!" gridò il vecchio Roger Chillingworth, lasciando lampeggiare davanti ai suoi occhi il livido fuoco che ardeva nel suo cuore. "Meglio per lui, se fosse morto subito! Nessun essere umano ha mai sofferto le pene di quest'uomo. E tutto, tutto davanti agli occhi del suo peggior nemico! Egli ha sempre saputo chi sono. Ha sempre sentito pendere su di sé l'influsso di una maledizione. Egli sapeva, per qualche istinto dello spirito (poiché mai il Creatore fece un essere più sensibile di lui), sapeva che la mano che sfiorava le corde del suo cuore non era quella di un amico, e che un occhio scrutava dentro di lui, cercando soltanto il male, e trovandolo. Ma non sapeva che miei erano l'occhio e la mano! Con la superstizione comune alla sua genia, egli si credeva in preda a uno spirito maligno, che lo torturasse con sogni spaventosi e pensieri disperati, con il pungolo del rimorso e la certezza di non trovare perdono, come assaggio di ciò che lo aspetta di là dal sepolcro.
Ma era l'ombra costante della mia presenza, l'intimità sempre più stretta dell'uomo al quale aveva fatto il più grave degli affronti, e che ormai non esisteva più che in grazia del perpetuo veleno della più spietata delle vendette! Sì, davvero non si sbagliava, era uno spirito maligno che aveva al fianco! Un mortale, che aveva avuto un cuore d'uomo, una volta, si è trasformato in demone al solo scopo di tormentarlo".
Lo sciagurato medico, dicendo queste parole, alzò le mani con uno sguardo di terrore, come se avesse scorto un'immagine, spaventosa, a lui ignota, che usurpasse il posto della sua figura in uno specchio. Era uno di quei momenti, che capitano talvolta soltanto a distanza di anni, nei quali l'aspetto morale di un uomo si rivela fedelmente al suo spirito. Non era improbabile che mai prima d'allora si fosse visto con tanta chiarezza.
"Non l'hai dunque torturato abbastanza?" disse Hester, che aveva notato l'espressione del vecchio. "Non ti ha ancora pagato a sufficienza?".
"No, no! Il suo debito è ancora aumentato!" rispose il medico, e mentre continuava a parlare i suoi modi persero la loro aggressività, e si fecero tristi. "Ricordi, Hester, com'ero nove anni fa? Già allora mi trovavo nell'autunno dei miei anni, e neppure nel primo autunno. Ma tutta la mia vita era trascorsa tra anni onesti, di studio, pensosi e sereni, dedicati costantemente ad aumentare la mia scienza, e sinceramente, anche, benché quest'ultimo scopo non fosse secondario rispetto all'altro, sinceramente rivolti al progresso ed al bene dell'umanità. Non c'era vita più pacifica e innocente della mia, e poche erano state così benefiche. Mi ricordi? Non ero, per freddo che potessi apparirti, un uomo che si preoccupava del prossimo, chiedendo poco per sé, cortese, fedele, onesto, e di affetti costanti, anche se non ardenti? Non ero tutto questo?".
"Tutto questo, e altro ancora", ammise Hester.
"E che cosa sono ora?" chiese l'uomo, guardandola in viso, e permettendo a tutto il male che covava dentro di lui di disegnarsi chiaramente sui suoi lineamenti. "Ti ho già detto quello che sono... uno spirito del male! Chi è che mi ha costretto a diventarlo?".
"Sono stata io", gridò Hester, rabbrividendo. "Sono stata io, non meno di quanto non sia stato lui. Perché non ti sei vendicato su me?".
"Ho voluto lasciare te alla lettera scarlatta", replicò Roger Chillingworth. "Se essa non è riuscita a vendicarmi non posso fare di più!".
Ci pose sopra il dito sorridendo.
"Ti ha vendicato", rispose Hester Prynne.
"Non mi ero sbagliato", disse il medico. "E ora, che cosa volevi dirmi sul conto di quell'uomo?".
"Io devo rivelare il segreto", rispose Hester, con fermezza.
"Bisogna che ti veda quale tu sei veramente. Quale sarà il risultato, non lo so, ma questo lungo debito di fiducia, che gli devo io, io che l'ho distrutto e rovinato, sarà finalmente pagato.
Per quello che concerne il tracollo o il mantenimento della sua reputazione e della sua dignità mondana, e forse la sua vita, egli è nelle tue mani. E io stessa non vedo, io, abituata alla verità dalla lettera scarlatta, anche se si è trattato di una verità che mi è penetrata in cuore come un ferro rovente, non vedo, nel suo continuare a vivere una vita orribilmente vuota, un vantaggio tale da abbassarmi a implorare la tua misericordia. Fa' di lui quello che vuoi! Non c'è bene per lui, non c'è bene per me, non c'è bene per te. Non c'è bene per la piccola Perla. Non c'è sentiero che possiamo seguire per sottrarci a questo angoscioso labirinto".
"Donna, mi sento quasi di compatirti", disse Roger Chillingworth, incapace di trattenere un fremito di ammirazione, poiché c'era qualcosa di maestoso nella disperazione della donna. "Tu avevi delle grandi doti. Forse, se tu ti fossi imbattuta prima di me in qualcuno che avesse saputo amarti meglio, il male non sarebbe stato fatto. Ti compiango, perché il bene che era nella tua natura è stato sprecato".
"E io compiango te, per l'odio che ha fatto un demone di un uomo saggio e retto. Vuoi tu liberartene, e tornare un essere umano? Se non per amor suo, fallo per te stesso! Perdona, e lascia il giudizio finale a Colui che ne ha il diritto! Proprio ora ho detto che non poteva esserci al mondo nulla di buono per lui, per te o per me, che ci aggiriamo insieme in questo oscuro labirinto del male, inciampando a ogni passo nella colpa di cui abbiamo disseminato il nostro cammino. Non è così? Può esserci ancora del bene per te, e per te solo, perché tu sei stato gravemente offeso, e solo da te dipende perdonare. Vuoi tu rinunciare a questo tuo unico privilegio? Vuoi tu respingere questo inestimabile beneficio?".
"Silenzio, Hester, silenzio!" replicò il vecchio, con amara severità, "a me non è concesso perdonare. Non ho il potere che tu dici. La mia antica fede, da tempo dimenticata, mi torna alla memoria e mi spiega tutte le nostre azioni e tutte le nostre sofferenze. Con il primo passo fuori della retta via tu hai piantato il seme del male, ma da quel momento in poi ogni cosa è stata un'oscura necessità. Voi che mi avete fatto quest'oltraggio non siete colpevoli, se non per una specie di caratteristica illusione. Io, che ho tolto il compito a un demonio, non sono per questo più simile a uno spirito del male. E' il nostro fato.
Lascia germogliare a suo piacimento il fiore nero! Ora va' per la tua strada, e con quell'uomo, comportati come vuoi".
Agitò la mano, e si rimise a raccogliere erbe.
15. HESTER E PERLA
Roger Chillingworth, deforme figura di vecchio con un volto che si scolpiva nella memoria degli uomini, persistendo in essa più a lungo di quel che avrebbero voluto, si accomiatò così da Hester Prynne, e proseguì tutto curvo il suo cammino. Raccoglieva qua e là delle erbe, o strappava una radice che metteva nel cesto che recava al braccio. La barba grigia gli arrivava quasi al suolo mentre andava per la strada. Hester lo seguì per un po' con lo sguardo, cercando con curiosità semi incantata di vedere se le tenere erbette primaverili non avvizzissero al contatto dei suoi piedi, e non segnassero le orme serpeggianti dei suoi passi, aride e scure, tra il loro lieto verdeggiare. Si chiese quali fossero le erbe che il vecchio sembrava così intento a raccogliere. La terra, spinta a un intento malvagio dalla potenza del suo sguardo, non gli avrebbe forse donato germogli velenosi di specie fino ad allora sconosciute, che sarebbero sbocciati sotto le sue dita? O gli sarebbe forse bastato trasformare ogni pianta salutifera in qualcosa di maligno e deleterio col suo tocco? Cadeva davvero anche su di lui quel sole che brillava così vivo su ogni altra cosa? O c'era invece, come sembrava, un cerchio d'ombra infausta che circondava la sua deformità qualunque strada egli prendesse? E dove si dirigeva ora? Non sarebbe sprofondato d'improvviso nel suolo, lasciando una chiazza sterile e bruciacchiata, dove, col tempo, sarebbero spuntate l'erba morella, il corniolo e il giusquiamo, e qualunque altra malefica specie di vegetali che il paese potesse produrre, tutte in pieno e orrido rigoglio? O avrebbe forse spalancato ali di pipistrello e se ne sarebbe volato via, apparendo tanto più mostruoso quanto più si fosse avvicinato al cielo?
"Sia peccato o no", disse amaramente Hester Prynne, continuando a seguirlo con gli occhi, "io odio quell'uomo!".
Si rimproverò per questo sentimento, ma non riuscì a sopraffarlo o ad attenuarlo. Nel tentativo di riuscirci, pensò a quei lontani giorni in un paese remoto, quando egli usava uscire alla sera dal suo studio per sedere davanti al focolare della loro casa, illuminato dal sorriso della sua donna. Egli aveva bisogno di riscaldarsi a quel sorriso, le diceva, per sciogliere il ghiaccio che occupava il suo cuore di studioso dopo tante ore solitarie trascorse tra i libri. Scene come quella le erano sembrate felici, un tempo, ma ora, viste attraverso il doloroso intermezzo degli anni successivi venivano a porsi tra i suoi peggiori ricordi. Lei si meravigliava di come avessero potuto avere luogo simili scene!
Si meravigliava di come avesse potuto lasciarsi indurre a sposarlo! Si faceva una colpa, della quale era necessario pentirsi, di aver accettato e ricambiato la stretta indifferente della sua mano, e di avere lasciato che il sorriso delle sue labbra e dei suoi occhi si unisse e si fondesse con quello di lui.
E le sembrava una crudeltà ancora peggiore da parte di Roger Chillingworth, la peggiore anzi di quante ne avesse mai commesse, aver cercato di persuaderla, quando ancora il cuore della donna non conosceva di meglio, d'essere felice al suo fianco.
"Sì, lo odio!" ripeté Hester, con più amarezza di prima. "Lui mi ha tradita! Mi ha fatto più male di quanto non gliene abbia fatto io!".
Temano gli uomini di ottenere la mano di una donna, quando a essa non si accompagni anche la più profonda passione del suo cuore!
Altrimenti toccherà loro la sventura, come avvenne a Roger Chillingworth, quando un tocco più potente del loro abbia risvegliato tutte le sensibilità della donna, d'essere rimproverati anche per la tranquilla serenità, l'immagine di marmo della felicità, che essi tentarono d'imporle come realtà palpitante. Ma Hester avrebbe dovuto essere ormai da tempo di là da questa ingiustizia. Che cosa significava? Forse che sette lunghi anni sotto la tortura della lettera scarlatta le avevano inflitto tanta disperazione e non avevano portato con sé alcun pentimento?
L'emozione di quell'attimo nel quale aveva fissato la figura contorta di Roger Chillingworth gettò una luce scura sull'umore di Hester, e le rivelò molte cose delle quali altrimenti non si sarebbe mai resa conto.
Quando si fu allontanato, ella chiamò la figlia.
"Perla! Piccola Perla! Dove sei?".
Perla, il cui spirito era sempre attivo, non si era certo annoiata mentre sua madre parlava con quello strano erborista. Prima, come si è detto, aveva scherzato allegramente con la propria immagine in una pozza d'acqua, invitandola a saltar fuori e, poiché essa rifiutava d'uscire, cercando di penetrare nella sua sfera di terra impalpabile e di cielo irraggiungibile. Rendendosi presto conto, però, che o lei o l'immagine erano irreali, cercò altrove passatempi più divertenti. Fece delle barchette di scorza di betulla, le caricò di gusci di lumaca, e apprestò più spedizioni rischiose sugli abissi marini di qualsiasi mercante della Nuova Inghilterra; ma la maggior parte di esse naufragò poco lontano dalla spiaggia. Prese un ippocampo vivo per la coda, si ornò di parecchie stelle di mare, e mise una medusa a sciogliersi al calore del sole. Poi raccolse la schiuma bianca che segnava il limite della marea crescente, e la lanciò al vento, correndovi sotto con le ali ai piedi per prendere i grandi fiocchi simili a neve prima che ricadessero al suolo. Vedendo uno stormo di uccelli che becchettavano lungo la spiaggia, la dispettosa bambina si riempì il grembiale di ciottoli e, strisciando verso i piccoli uccelli marini dietro gli scogli li bersagliò con notevole abilità. Un uccellino grigio col petto bianco se ne volò via faticosamente, e Perla fu quasi sicura di avergli spezzato un'ala con un ciottolo. Allora il folletto sospirò, e interruppe il gioco, perché le dispiaceva aver fatto del male a una piccola creatura selvaggia come le brezze marine, o come la piccola Perla stessa.
Alla fine si diede a raccogliere varie specie di alghe, e se ne fece uno scialle o una mantellina, e un cappuccio, assumendo l'aspetto di una piccola sirena. Aveva ereditato dalla madre il dono di creare drappeggi e abiti. Come ultimo tocco del suo costume da sirena, Perla raccolse della zotera marina e si mise sul petto un'imitazione dell'ornamento che vedeva sempre su quello della madre. Era una lettera A, ma di un bel verde vivace anziché scarlatta! La bimba appoggiò il mento sul petto e contemplò quest'ultima trovata con strano interessamento, come se l'unica cosa per la quale fosse stata messa al mondo consistesse nello svelare ciò che essa segretamente significava.
"Non so se la mamma mi domanderà cosa significa", pensò Perla.
Proprio in quel momento udì la voce della madre, e correndo rapida come uno di quegli uccellini, comparve davanti a Hester ballando, ridendo, e additando l'ornamento che aveva sul petto.
"Mia piccola Perla", disse Hester, dopo un attimo di silenzio, "una lettera verde, e sul tuo petto infantile, non significa niente. Ma sai tu forse, bimba mia, cosa significhi la lettera che tua madre è condannata a portare?".
"Sì, mamma", disse la piccola. "E' una A maiuscola. Me lo hai insegnato sul sillabario".
Hester la guardò fissa in volto, ma anche se c'era quell'espressione che aveva così spesso notato nei suoi occhi neri, non poté accertare se Perla attribuisse o no qualche significato al simbolo. Sentiva un desiderio morboso di accertarsene.
"Bimba, sai tu perché tua madre porti su di sé questa lettera?".
"Certo che lo so!" rispose Perla, guardando con intelligenza negli occhi della madre. "E' per la stessa ragione per cui il sacerdote si tiene la mano sul cuore!".
"E che ragione sarebbe?" chiese Hester, quasi sorridendo per l'incoerenza dell'osservazione della piccola, ma, dopo un attimo di riflessione, impallidendo. "Cosa ha che fare la lettera con altri cuori che non siano il mio?".
"No, mamma, ho detto tutto quello che so", disse Perla, parlando con più serietà del suo solito. "Chiedi a quel vecchio col quale hai appena finito di parlare! Lui forse te lo saprà dire. Ma in tutta serietà e franchezza, mamma cara, che significa quella lettera scarlatta? E perché la porti sul petto? E perché il sacerdote si tiene la mano sul cuore?".
Prese la mano della mamma tra le sue, e la guardò negli occhi con un candore che appariva raramente nella sua natura selvatica e capricciosa. Hester immaginò che la piccola stesse realmente cercando di venirle incontro con infantile fiducia, e che facesse tutto quello che poteva, con tutta l'intelligenza a sua disposizione, per stabilire un punto d'incontro e di comprensione reciproca. Questo poneva Perla in una luce inconsueta. Fino a quel momento la madre, pur amando la sua bimba con tutta l'intensità d'un unico affetto, si era sforzata d'abituarsi a non aspettarsi in cambio nulla di più della capricciosità di una brezza d'aprile, che passa il tempo in aeree capriole, e ha i suoi accessi di inesplicabile furore, e nei suoi momenti migliori è indiscreta, e vi gela più spesso di quanto non vi accarezzi, quando le offriate il petto; in cambio di tutte queste birichinate, essa talvolta vi bacerà una gota con una specie di dubbiosa tenerezza, seguendo i suoi vaghi propositi, e giocherà lievemente con i vostri capelli, e poi se ne andrà per i fatti suoi, lasciandovi in cuore un senso di sogno piacevole. E per di più, questo era il giudizio che dava la madre sul carattere della piccola. Qualsiasi altro osservatore non avrebbe potuto discernere quasi altro che tratti spiacevoli, e ne avrebbe dato un'interpretazione meno ottimistica. Ma ora si imponeva alla mente di Hester l'idea che Perla, con tutta la sua notevole precocità e intelligenza, si fosse già avvicinata all'età in cui era possibile farsene un'amica, nel cui petto riversare tutti i dolori che la madre ritenesse opportuno confidarle, senza irriverenze né da parte della madre né da parte della figlia. Nel piccolo caos del temperamento di Perla si cominciavano a distinguere, come già si sarebbe potuto fare da tempo, i saldi principi di un coraggio indomabile, di una volontà che non vacillava di fronte agli ostacoli, di un radicato orgoglio, che avrebbe potuto essere trasformato dall'educazione in rispetto di se stessa, e di un amaro disprezzo per molte cose che, a un esame attento, non si sarebbero probabilmente mostrate prive di una vena di falsità. Essa sentiva pure gli affetti, anche se fino a ora in modo acerbo e sgradevole, con lo stesso gusto dei sapori più delicati nei frutti ancora acerbe. Con tutte queste ottime qualità, pensò Hester, avrebbe dovuto essere ben grande il male che aveva ereditato dalla madre se da quella specie di folletto non si fosse sviluppata una donna di nobili sentimenti.
L'inevitabile tendenza di Perla a tornare a insistere sull'enigma della lettera scarlatta sembrava una caratteristica innata del suo essere. Dai primi giorni della sua vita cosciente sembrava averne fatto la sua missione. Hester aveva spesso immaginato che la Provvidenza avesse formato un disegno di giustizia e di retribuzione, attribuendo alla piccola questo interessamento così marcato; ma prima di quel momento non si era mai sognata di chiedersi se, connessa a tale disegno, non ci fosse anche un'idea di misericordia e di benevolenza. Se la piccola Perla fosse accolta con fede e speranza, come messaggero spirituale non meno che come bambina terrena, non avrebbe potuto forse essere suo compito spazzare via il dolore che albergava nel cuore della madre, e renderlo muto come una tomba, aiutandola a soffocare la passione che una volta era stata così violenta, e che ancora non era né morta né assopita, ma soltanto imprigionata nello stesso suo cuore come in un sepolcro?
Questi erano alcuni dei pensieri che si agitavano nella mente di Hester con tanta precisione e vivezza, come se realmente qualcuno glieli avesse sussurrati all'orecchio. E per tutto questo tempo la piccola Perla aveva tenuto la mano della madre tra le sue, e aveva volto in alto il viso, mentre poneva le sue domande, prima una volta, poi un'altra, e finalmente una terza.
"Che cosa significa la lettera, mamma? E perché la porti su di te?
Perché il reverendo si tiene la mano sul cuore?".
"Che cosa ti devo dire?" pensò Hester. "No! Se questo è il prezzo della confidenza della mia bambina, io non posso pagarlo". Poi parlò ad alta voce:
"Mia sciocca Perla", disse, "che razza di domande sono queste? Ci sono molte cose a questo mondo sulle quali i bambini non devono fare domande. Che cosa ne so del cuore del reverendo? E quanto alla lettera scarlatta, la porto perché mi piacciono i suoi ricami d'oro".
In tutti i sette anni che erano trascorsi dalla sua condanna, Hester Prynne non era mai stata sleale al simbolo che portava sul petto. Può darsi che fosse il talismano di uno spirito austero e arcigno, ma pur sempre protettore, che ora la abbandonava, come se si fosse reso conto che, a dispetto della sua stretta guardia sul cuore di lei, qualche nuovo male vi si era insinuato, o qualche vecchio male non ne era mai stato espulso. Quanto alla piccola Perla, la serietà le era già scomparsa dal volto.
Ma la piccola non credette fosse il caso di lasciar cadere l'argomento. Due o tre volte, nel camminare verso casa, e altrettante volte durante la cena, e mentre Hester la metteva a letto, e ancora una volta quando già sembrava profondamente addormentata, Perla alzò gli occhi, con un lampo di cattiveria nelle pupille nere.
"Mamma", chiese, "che cosa significa la lettera scarlatta?".
E il mattino seguente, il primo segno che diede la bambina di essersi svegliata fu quello di alzare la testa dal guanciale, e di chiedere l'altra cosa, che lei associava in modo così inesplicabile alle sue indagini sulla lettera scarlatta:
"Mamma! Mamma! Perché il reverendo si tiene la mano sul cuore?".
"Sta' zitta, cattiva!" rispose la madre, con un'asprezza che non si era mai permessa fino a quel giorno. "Non seccarmi, o ti chiuderò nel ripostiglio buio!".
16. UNA PASSEGGIATA NELLA FORESTA
Hester Prynne restò ferma nel suo proposito di far conoscere a Dimmesdale, a rischio di qualsiasi pena presente o conseguenza futura, la vera natura dell'uomo che era penetrato furtivamente nella sua intimità. Per molti giorni, tuttavia, cercò invano l'occasione di rivolgergli la parola in una di quelle meditabonde passeggiate che lei sapeva essere sua abitudine compiere sulle coste della penisola, o sulle colline boscose della campagna circostante. Non ci sarebbe certamente stato alcuno scandalo, né pericolo per il sacro candore della fama del religioso, se gli avesse fatto visita nel suo studio, dove tanti penitenti prima d'allora si erano recati a confessargli peccati d'un colore forse non meno fosco di quello marcato dalla lettera scarlatta.
Tuttavia, o che la donna temesse la palese o latente influenza del vecchio Roger Chillingworth, o che il suo cuore consapevole provasse sospetto là dove nessun altro ne avrebbe sentito, o che pensasse che lei e il sacerdote avrebbero avuto bisogno d'inspirare l'aria di tutto il mondo, quando avrebbero parlato insieme; per tutte queste ragioni, Hester non volle incontrarlo in alcun luogo più raccolto dell'aperta cappa del cielo.
Infine, prestando le sue cure al capezzale di un ammalato, dove il reverendo Dimmesdale era stato supplicato di venire a recitare una preghiera, venne a sapere che egli era andato, il giorno prima, a trovare l'apostolo Eliot (9) tra i suoi convertiti indiani.
Sarebbe ritornato, con ogni probabilità a una certa ora del pomeriggio del giorno successivo. Hester prese quindi il giorno dopo con sé la piccola Perla, che era immancabilmente la compagna di tutte le spedizioni della madre, per importuna che fosse la sua presenza, e s'incamminò.
La strada, quando le due viandanti ebbero attraversato la penisola fino a raggiungere la terraferma, divenne poco più che un sentiero, che si snodava inoltrandosi nei misteri della foresta primeva. Essa anzi lo contornava così da vicino, e si ergeva tanto nera e folta sui suoi margini, rivelando alla sommità squarci di cielo così rari e frastagliati che, nella fantasia di Hester, prese a simboleggiare singolarmente la selvatichezza morale che per tanto tempo l'aveva circondata. La giornata era gelida e scura. In cielo si estendeva un grigio velario di nubi, che tuttavia una leggera brezza faceva muovere lentamente, di modo che un raggio di sole appariva ogni tanto lungo il sentiero a illuminarlo col solitario gioco dei suoi barbagli. Questa sfuggevole gaiezza appariva sempre in fondo a un prospetto nella foresta. La luce giocosa, anche se non molto giocosa nella dominante tristezza e pensosità della giornata e del panorama, si ritirava all'avanzarsi delle due donne, lasciando tanto più scuri i punti nei quali aveva danzato, quanto più esse avevano sperato di trovarli illuminati.
"Mamma", disse la piccola Perla, "la luce del sole non ti ama.
Corre via a nascondersi perché ha paura di qualcosa che hai sul petto. Guarda! Eccola lì che brilla poco lontana! Sta' qui ferma, e fammi andare a prenderla. Io sono soltanto una bambina, e non mi sfuggirà, perché ancora non ho nulla sul petto!".
"E non l'avrai mai, bimba mia, io spero", disse Hester.
"E perché no, mamma?" chiese Perla, arrestandosi di colpo, proprio appena si era messa a correre. "Non verrà da sé, appena sarò una donna grande?".
"Corri via, piccola", rispose la madre, "e prendi la luce del sole! Presto sarà scomparsa".
Perla si avviò a gran passi, e Hester sorrise vedendola prendere realmente il raggio di sole, e restarci immersa ridendo, tutta illuminata dal suo splendore, e scintillante per l'eccitazione della corsa. La luce circondava la bimba solitaria, come se provasse gioia di averla come compagna di gioco, finché la madre non le si fu avvicinata tanto da essere sul margine del circolo magico.
"Ma ora se ne andrà", disse Perla, scuotendo il capo.
"Guarda!" rispose Hester sorridendo; "basterà che io tenda la mano per prenderla".
Appena cercò di farlo, il sole sparì e, a giudicare dalla lieta espressione che attraversò i lineamenti di Perla, la madre avrebbe detto che la piccola lo avesse assorbito dentro di sé, per restituirlo poi, nel suo procedere sul sentiero, quando si fosse inoltrata in qualche oscuro recesso. Non c'era caratteristica nel temperamento di Perla che la colpisse con quel senso di vigore e di energia latente come questa immancabile allegria: non era certo ammalata di quella tristezza che quasi tutti i bambini, di questi tempi, ereditano, assieme alla scrofola, dalle preoccupazioni dei loro progenitori. Forse era anche questa una malattia, o non si trattava d'altro che del riflesso della selvaggia energia con cui Hester aveva lottato contro le sue sventure prima della nascita di Perla. Certo, era un discutibile pregio, che dava all'umore della piccola una vernice dura e metallica. Essa aveva bisogno, come molti altri l'hanno per tutta la vita, di un dolore che la colpisse nell'intimo, rendendola così umana e capace di comprensione. Ma per la piccola Perla c'era ancora abbastanza tempo.
"Vieni, piccola mia!" disse Hester, guardandosi intorno dal luogo dove Perla se ne era stata a farsi illuminare dal sole, "staremo sedute nel bosco per un po', e ci riposeremo".
"Io non sono stanca, mamma", replicò la bambina. "Ma tu puoi sederti, se intanto mi racconti una storia".
"Una storia, figliola!" disse Hester. "E che storia?".
"Oh, una delle storie sull'Uomo Nero", rispose Perla, afferrando la sottana della madre, e fissandone il volto con uno sguardo un po' serio e un po' ironico. "Perché infesta il bosco, con un libro sotto il braccio, un grosso libro pesante, con borchie di ferro; e come se ne vada in giro, questo brutto Uomo Nero, offrendo il libro e una penna di ferro a chiunque lo incontri tra gli alberi, e quello deve scrivere il suo nome col sangue, poi lui mette il suo marchio sul loro petto! Hai mai incontrato l'Uomo Nero, mamma?".
"E chi ti ha raccontato questa storia, Perla?" chiese la madre, riconoscendo una superstiziosa leggenda abbastanza diffusa in quell'epoca.
"E' stata quella vecchia signora, all'angolo del caminetto, in quella casa dove hai vegliato la notte scorsa", disse la bimba.
"Ma credeva che dormissi mentre la raccontava. Diceva che migliaia e migliaia di persone l'hanno incontrato qui, e hanno scritto sul libro i loro nomi, e hanno il suo marchio su di loro. E quella vecchia dal caratteraccio, la signora Hibbins, era una di loro. E, mamma, la vecchia ha detto che questa lettera scarlatta è il marchio dell'Uomo Nero su di te, e che brilla come una fiamma rossastra quando gli vai incontro a mezzanotte, qui nel fondo del bosco.
E' vero, mamma? E lo vai a incontrare proprio di notte?".
"Ti sei mai svegliata senza trovarmi accanto a te?" chiese Hester.
"Che io mi ricordi, no", disse la bimba; "ma se hai paura di lasciarmi sola a casa potresti portarmi con te. Ci verrei molto volentieri. Ma, mamma, dimmi, ti prego! Esiste l'Uomo Nero? E lo hai mai incontrato? E questo è il suo marchio?".
"Mi lascerai in pace, se te lo dirò?" chiese la madre.
"Sì, se mi dici tutto", rispose Perla.
"Una volta nella mia vita incontrai l'Uomo Nero!" disse la madre.
"Questa lettera scarlatta è il suo segno".
Così chiacchierando, si erano addentrate abbastanza nel bosco da essere al riparo dagli sguardi indiscreti di chiunque venisse a passare per caso lungo il sentiero attraverso la foresta. Qui sedettero su un grosso mucchio di borraccina che in qualche tempo del secolo precedente era stato un pino gigantesco, con le radici e il tronco nell'ombra accogliente; e la chioma esposta all'atmosfera. Era una valletta quella dove s'erano sedute, con un pendio cosparso di foglie che si elevava dolcemente da ambo i lati e con un ruscelletto che scorreva nel mezzo, su un letto di foglie sommerse. Gli alberi sovrastanti avevano lasciato cadere di quando in quando grossi rami che ne intralciavano il corso, disseminandolo di rapide e di oscuri trabocchetti, mentre nei suoi tratti più rapidi e vivaci si scorgeva un fondo di ciottoli e di scura sabbia lucente. Seguendo la corrente con lo sguardo, se ne potevano scorgere i riflessi a qualche distanza, nella foresta, ma presto se ne perdevano le tracce tra il groviglio dei tronchi e del sottobosco, e le grosse rocce coperte di grigi licheni disseminate qua e là. Tutti questi alberi giganteschi e questi macigni di granito sembravano indaffarati a celare misteriosamente il corso del ruscelletto, temendo forse che, nella sua inarrestabile loquacità, esso non dovesse sussurrare rivelazioni al cuore della vecchia foresta dalla quale sgorgava, o non rispecchiasse i suoi segreti sulla piana superficie di uno stagno.
Certo, nel suo faticoso avanzare, la corrente non cessava d'emettere un balbettìo, cortese, tranquillo, sereno come quello di un bambino che trascorra l'infanzia senza allegria, e non sappia come essere felice circondato da tristi conoscenti e da eventi pieni d'oscuro dolore.
"Oh, ruscelletto, o sciocco e noioso ruscelletto!" gridò Perla, dopo averne ascoltato il chiacchiericcio per qualche attimo.
"Perché sei così triste? Fatti coraggio, e non startene sempre lì a sospirare e a mormorare!".
Ma il ruscello, nel corso della sua minuscola vita tra gli alberi della foresta, aveva avuto delle esperienze così solenni che non poteva fare a meno di parlarne, e pareva non avesse altro da dire.
Perla rassomigliava al ruscello, perché altrettanto misteriosa era la sorgente dalla quale scaturiva la corrente della sua vita, che aveva attraversato rive non meno adombrate di tristezza. Ma, a differenza del piccolo corso d'acqua, lei danzava e brillava, e percorreva con brio il suo cammino.
"Che cosa dice questo triste ruscelletto, mamma?" volle sapere la bimba.
"Se tu avessi un dolore interiore, il ruscello te ne potrebbe parlare", rispose sua madre, "proprio come ora parla a me del mio.
Ma ora, Perla, sento dei passi lungo il sentiero, e il rumore di qualcuno che scosta i rami. Preferirei che tu te ne stessi a giocare per conto tuo, e mi lasciassi parlare con la persona che sta venendo".
"E' l'Uomo Nero?" chiese Perla.
"Vuoi andartene a giocare, bimba?" ripeté la madre. "Non ti allontanare troppo, però. E sii pronta a venire appena ti chiamo".
"Sì, mamma", rispose Perla. "Ma se è l'Uomo Nero, mi lascerai stare un momento, perché possa vederlo, col suo librone sotto il braccio?".
"Vai, stupidina!" disse la madre con impazienza. "Non è affatto l'Uomo Nero! Puoi vederlo, ora, tra gli alberi. E' il sacerdote!".
"E' proprio lui! " fece la bambina. "E, mamma, ha la mano sul cuore? E' perché, quando ha scritto il suo nome sul libro, I'Uomo Nero lo ha segnato sul petto? Ma perché non porta il marchio sul vestito, come fai tu, mamma?".
"Vattene ora bambina, e mi potrai annoiare a tuo piacere un'altra volta", gridò Hester Prynne. "Ma non ti allontanare. Resta in un punto dove tu possa udire lo sciacquio del ruscello".
La bimba se ne andò canterellando, seguendo la corrente del rigagnolo, e cercando di accompagnare il suo tono malinconico con una cadenza più allegra. Ma il ruscelletto non si lasciava consolare, e continuava a raccontare l'inintelligibile segreto di qualche lugubre mistero che aveva luogo, o forse lamentando profeticamente qualcosa che ancora doveva accadere, sotto la volta della triste boscaglia. Allora Perla, che già nella sua piccola vita aveva avuto abbastanza ombre, decise di troncare ogni rapporto col mesto corso d'acqua. Si mise quindi a raccogliere violette e anemoni di bosco, e le scarlatte aquilegie che crescevano tra i crepacci di una roccia scoscesa.
Appena il suo folletto si fu allontanato, Hester Prynne fece un passo o due verso il sentiero che si addentrava nella foresta, senza uscire però dall'ombra scura degli alberi. Vide avanzare il sacerdote tutto solo lungo il sentiero, sorretto da un bastone che si era tagliato strada facendo. Aveva un aspetto malaticcio e debole, e la sua espressione tradiva una snervata disperazione, che mai gli si era stampata così chiaramente in volto nelle sue passeggiate cittadine, né in alcun'altra occasione nella quale potesse temere d'esser visto. Ora però la si scorgeva in tutta la sua dolorosa interezza, in quest'oscuro isolamento della foresta che di per sé sarebbe stato una prova abbastanza dura per qualsiasi temperamento. C'era un abbandono nella sua andatura, come se non avesse visto alcuna ragione di fare un passo in avanti, o mai ne avesse provato alcun desiderio, ma sarebbe stato lieto, se poteva esser lieto di qualcosa, di lasciarsi cadere sulle radici del primo albero, e di giacere là passivamente per sempre. Le foglie avrebbero potuto accumularsi su di lui, e il terreno lo avrebbe rivestito gradualmente fino a formare una collinetta sulla sua persona, senza tener conto del fatto che ci fosse vita o no. La morte era qualcosa di troppo preciso per essere desiderata o evitata.
Agli occhi di Hester, il reverendo Dimmesdale non mostrava alcun sintomo di sofferenza acuta e reale, eccetto quello, che Perla aveva notato, di tenersi la mano sul cuore.
17. IL PASTORE E LA SUA PARROCCHIANA
Per quanto lentamente camminasse l'ecclesiastico, era già quasi scomparso quando Hester riuscì a raccogliere abbastanza voce da richiamare l'attenzione. Alla fine ci riuscì.
"Arthur Dimmesdale!" disse lei, prima piano, poi con voce più forte ma rauca, "Arthur Dimmesdale!".
"Chi mi chiama?" rispose l'ecclesiastico.
Rientrato rapidamente in sé, assunse un atteggiamento più eretto, come un uomo sorpreso in uno stato nel quale non ami essere visto.
Volti ansiosamente gli occhi dalla parte donde proveniva la voce, scorse una forma indistinta tra gli alberi, vestita d'abiti così severi, e così poco distinta dalla luce del crepuscolo nel quale il cielo rannuvolato e il denso fogliame avevano trasformato il luminoso pomeriggio, che non si rese conto se fosse un essere umano o una larva. Forse il sentiero della sua vita era infestato in modo tale da uno spettro che non mancava di affacciarsi tra i suoi pensieri.
Avanzò di un passo, e riuscì a discernere la lettera scarlatta.
"Hester! Hester Prynne!" disse; "sei tu? Sei tu in carne e ossa?".
"Proprio così", rispose lei, "e viva, se vita si può chiamare quella che ho trascorso in questi sette anni! E tu, Arthur Dimmesdale, anche tu vivi ancora?".
Non c'era da stupirsi che si ponessero domande del genere sulla reale esistenza reciproca, e dubitassero addirittura della propria. Tanto strano era il loro incontro nel folto della boscaglia, da somigliare al primo riconoscersi nell'oltretomba di due spiriti che avessero avuto un'intima connessione nella loro vita precedente, ma che ora se ne stessero immobili e spaventati l'uno dell'altro, non ancora abituati al loro nuovo stato, e non abituati alla compagnia d'altri esseri disincarnati. Entrambi fantasmi, ed entrambi spaventati dell'altro fantasma. Allo stesso modo avevano paura di se stessi, perché tornava alla loro memoria, nel momento della crisi, la coscienza del passato, rivelando ai singoli cuori la loro storia e le loro esperienze, come la vita evita sempre di fare, tranne che in questi istanti d'angoscia.
L'anima scorgeva il suo volto nello specchio dell'attimo fuggente.
Fu con timore e con un tremito e, per così dire, con una lenta e riluttante sensazione di necessità, che Arthur Dimmesdale tese la mano, gelida come la morte a sfiorare quella, gelida anch'essa, di Hester Prynne. Il contatto, freddo com'era, tolse all'incontro quel che aveva di più angoscioso. Ora essi si sentivano nuovamente se stessi e, per lo meno, abitanti di uno stesso mondo.
Senza che un'altra sola parola venisse pronunciata, e senza che l'uno o l'altra guidassero il compagno, ma con una tacita intesa, essi si avviarono verso l'ombra dei boschi, dalla quale Hester era emersa, e sedettero su quel mucchio di borraccina dove la donna si era intrattenuta con Perla poco prima. Quando trovarono la voce per parlare, prima fu soltanto per rivolgersi osservazioni e domande come avrebbero potuto fare due conoscenti qualunque, sul cielo coperto, sulla minaccia di tempesta e infine sul reciproco stato di salute. Così proseguirono, senza precipitazione, ma passo per passo, e si addentrarono negli argomenti che stavano loro più profondamente a cuore. Da tanto tempo divisi dal fato e dalle circostanze, avevano bisogno di qualcosa di leggero e d'occasionale su cui discorrere, prima di aprire le porte alla confidenza affinché i loro pensieri reali potessero varcare la soglia.
Dopo un po', l'ecclesiastico fissò gli occhi in quelli di Hester Prynne.
"Hester", disse, "hai trovato la pace?".
Lei sorrise mestamente, e si contemplò il petto.
"E tu, l'hai trovata?" domandò.
"No, no, nient'altro che disperazione!" rispose lui. "Che cos'altro potrei cercare, essendo quello che sono, e facendo la vita che faccio? Se fossi un ateo, un uomo privo di coscienza, un disgraziato, preda di istinti rozzi e brutali, avrei trovato da tempo la tranquillità. No, non solo questo, non l'avrei mai neppure perduta! Ma essendo la mia anima quella che è, e possedendo tutte quelle buone disposizioni che aveva alle origini, tutti i migliori doni di Dio si sono trasformati in veicoli di tortura spirituale. Hester, sono disperato!".
"La gente ti venera", disse Hester, "ed è certo che tu fai loro del bene. Questo non ti dà alcun conforto?".
"Mi fa disperare maggiormente, Hester! Soltanto disperare!" rispose l'ecclesiastico con un amaro sorriso. "E quanto al bene che sembra che io faccia, non ho fede in esso. Non può essere un'ingannevole illusione. Cosa può fare un'anima rovinata come la mia per la redenzione delle altre anime? Come può contribuire uno spirito corrotto alla purificazione del prossimo? E la venerazione della gente, quanto sarebbe meglio che si volgesse in scherno e in odio! Puoi forse considerare una consolazione, Hester, che io debba stare sul pulpito, e vedere tanti occhi fissi sul mio volto, come se ne irradiasse la luce del cielo, che io debba osservare il mio gregge assetato di verità sorbire le mie parole come se parlasse la lingua della Pentecoste, e che poi io sia costretto a guardarmi dentro, e discernere la nera realtà di ciò che esso idolatra? Ho riso, con cuore amaro e pieno d'angoscia, del contrasto tra ciò che sembro e ciò che sono! E anche Satana ne ride!".
"In questo t'inganni", disse dolcemente Hester. "Ti sei pentito profondamente e amaramente. Il tuo peccato l'hai lasciato dietro di te, in quei giorni trascorsi da tempo. La tua vita presente non è meno santa, in tutta verità, di quel che appare agli occhi della gente. Forse che non è autentica una penitenza sigillata e garantita dalle buone opere? E perché non dovrebbe darti la pace?".
"No, Hester, no!" replicò l'ecclesiastico. "Non c'è nulla di sostanziale in questo. Ciò è freddo e morto, e non può fare nulla per me. Pene, ne ho avute tante, ma penitenza non ne ho mai fatta.
Da tempo, altrimenti, avrei gettato lontano da me questi abiti di falsa santità, e mi sarei mostrato al mio prossimo come esso mi vedrà nel giorno del giudizio. Felice te, Hester, che porti apertamente sul petto la tua lettera scarlatta! La mia brucia in segreto! Tu non puoi capire che sollievo sia per me, dopo il tormento di un inganno durato sette anni, poter guardare un volto che mi riconosca per quel che sono! Se avessi un solo amico, o fosse anche il mio peggior nemico, al quale, stanco delle lodi degli altri uomini, potessi confidarmi quotidianamente e farmi riconoscere per l'ultimo dei peccatori, credo che la mia anima potrebbe riuscire a sopravvivere. Mi basterebbe questo minimo di verità! Ma ora tutto è falsità, tutto vuoto, tutto è morte!".
Hester Prynne lo guardò fisso, ma esitò prima di parlare. Tuttavia lo scoppio delle emozioni represse da tanto tempo era stato così violento, e le parole di lui le offrivano il destro di comunicargli ciò che era venuta per dire. Vinse i suoi timori, e disse:
"Un amico come quello che or ora ti auguravi, con il quale piangere sul tuo peccato, tu lo hai in me, che sono stata tua compagna nel commetterlo!". Ancora esitò, ma alla fine riuscì a proseguire non senza sforzo. "Da molto tempo hai un nemico, e abiti con lui, sotto lo stesso tetto!".
L'ecclesiastico balzò in piedi, ansando, e stringendosi le mani al cuore, come se avesse voluto strapparselo dal petto.
"Ah, cosa dici?" gridò. "Un nemico? E sotto il mio stesso tetto!
Di chi vuoi parlare?".
Hester Prynne si rendeva pienamente conto soltanto ora del grave torto di cui si era resa responsabile verso 1o sventurato lasciandolo per tanti anni, o anche per un momento solo, alla mercé del solo essere i cui intenti non potevano essere che malefici. La stessa prossimità fisica del suo nemico, sotto qualsiasi maschera si celasse, bastava a disturbare la sfera magnetica di una creatura sensibile come Arthur Dimmesdale. C'era stato un tempo in cui Hester Prynne s'era resa meno conto di questo fatto, o forse, nella misantropia causata dalle proprie difficoltà, aveva lasciato che il sacerdote portasse il fardello di un destino che lei forse s'immaginava più sopportabile. Ma da pochi giorni, dalla veglia notturna in poi, tutte le sue apprensioni nei confronti dell'uomo si erano rinvigorite. Non aveva più dubbi che la continua presenza di Roger Chillingworth, il segreto veleno della sua malvagità che contaminava l'aria attorno a lui, e la sua ingerenza autorizzata, nella sua qualità di medico, nelle infermità fisiche e spirituali del sacerdote, che tutte queste cattive occasioni, insomma, fossero rivolte a un fine crudele. Per opera loro, la coscienza del paziente era stata mantenuta in stato d'irritazione, il cui scopo non era di lenire le sofferenze del sacerdote, ma di sconvolgere e corrompere il suo spirito. Il risultato, su questa terra, non poteva non essere la pazzia, e in seguito sarebbe stato quell'eterno allontanamento dal Giusto e dal Vero, del quale la pazzia è forse il simbolo terreno.
Questa era la rovina che lei aveva causato all'uomo un tempo ma no, perché non dirlo? - ancora tanto appassionatamente amato!
Hester sentiva che il sacrificio della reputazione dell'ecclesiastico, e la morte stessa, come aveva già detto a Roger Chillingworth, sarebbero stati infinitamente preferibili al partito che lei si era presa la responsabilità di scegliere. E anche ora, piuttosto che dover confessare questa grave colpa, avrebbe preferito gettarsi distesa sulle foglie della foresta, e morire ai piedi di Arthur Dimmesdale.
"Oh, Arthur", gridò, "perdonami! In ogni altra cosa, mi sono sforzata di essere sincera! La sincerità era la sola virtù alla quale mi potessi aggrappare, e alla quale mi sia aggrappata, attraverso ogni prova, tranne quando il tuo bene, la tua vita, la tua reputazione sono stati messi in gioco! Soltanto allora ho consentito a una menzogna. Ma un inganno non è mai cosa buona, anche se all'estremità opposta minacci la morte! Non capisci ciò che voglio dire? Quel vecchio... il medico... quello che chiamano Roger Chillingworth... era mio marito!".
L'ecclesiastico la guardò fisso per un istante, con tutta quella violenza della passione che, mista in varie forme a tutte le sue qualità più elevate, più pure e più dolci, era, in realtà, la parte di lui sulla quale il demonio reclamava maggiori diritti, e per mezzo della quale cercava di sopraffare le altre. Mai si vide un cipiglio più bieco o più feroce di quello che Hester ora dovette affrontare. Per l'attimo che durò, fu un'oscura trasfigurazione. Ma il suo animo era stato così indebolito dalla sofferenza, che anche i suoi istinti più bassi erano incapaci di sostenere una lotta di lunga durata. Egli cadde al suolo, e si nascose il volto tra le mani.
"Avrei dovuto saperlo!" mormorò. "Lo sapevo! Forse che il segreto non s'era svelato a me nella repulsione naturale del mio cuore, la prima volta che lo vidi, e tutte le volte che da allora in poi l'ho visto? Perché non ho capito? Oh, Hester Prynne, tu, tu ti rendi ben poco conto dell'orrore di tutto questo! E la vergogna!
L'indelicatezza! La spaventevole malvagità di esporre un cuore malato e colpevole proprio a quell'occhio che si sarebbe rallegrato a tale vista! Donna, donna, di tutto questo è tua la colpa! Non posso perdonarti!".
"Devi perdonarmi!" gridò Hester, gettandosi sulle foglie morte, accanto a lui. "Sarà Dio a giudicare e a punire! Tu devi perdonare!".
Con tenerezza disperata e improvvisa lei lo abbracciò, e pose la testa di lui sul suo seno, senza preoccuparsi che il volto dell'uomo si trovasse contro la lettera scarlatta. Egli avrebbe voluto liberarsi, ma si sforzò invano. Hester non lo voleva lasciare, perché egli non la fissasse severamente in volto. Tutto il mondo l'aveva disprezzata, sette lunghi anni di disprezzo per questa povera donna solitaria, e lei aveva sopportato tutto, senza mai abbassare gli occhi fermi e tristi. Il cielo, pure, l'aveva condannata, e lei non era morta. Ma il disprezzo di quell'uomo pallido, debole e ferito dal dolore, Hester non avrebbe potuto sopportarlo mai nella sua vita!
"Mi perdoni?" ripeté ancora più volte. "Non mi disprezzi? Mi perdoni?".
"Io ti perdono, Hester", rispose l'ecclesiastico dopo qualche istante, sospirando profondamente, come da un abisso di tristezza, ma senza ira. "Ti perdono di tutto cuore. Possa Dio perdonarci entrambi! Hester, noi non siamo i peggiori peccatori che ci siano al mondo. Ce n'è uno che è ancora più infame del sacerdote impuro!
La vendetta di quel vecchio è stata più nera del mio peccato. Ha violato, a sangue freddo, la santità di un cuore umano. Io e te, Hester, non abbiamo mai fatto nulla di simile!".
"Mai, mai!" sussurrò la donna. "Quel che facemmo aveva una sua consacrazione, o almeno così noi sentivamo! Ce lo dicemmo l'un l'altro. L'hai forse dimenticato?".
"Taci, Hester", disse Arthur Dimmesdale, alzandosi da terra. "No, io non l'ho dimenticato!".
Di nuovo sedettero, a fianco a fianco, la mano stretta nella mano, sul tronco muscoso dell'albero caduto. La vita non aveva mai dato loro istante più triste: quello era il punto al quale per tanto tempo si erano diretti i loro sentieri, diventando sempre più scuri col loro progredire - e tuttavia c'era in quell'attimo un fascino che faceva sì che essi vi si adagiassero, e chiedessero che durasse ancora, ancora, ancora. La foresta che li circondava era oscura, e gemeva d'una raffica di vento che l'attraversava. I rami stormivano pesantemente sul loro capo, mentre un vecchio albero maestoso si lamentava con un altro, come se gli narrasse la triste storia della coppia che sedeva ai suoi piedi, o cercasse di presagire il male futuro.
Eppure indugiavano. Come sembrava triste il sentiero che riportava in città, dove Hester Prynne avrebbe dovuto riprendere il fardello della sua vergogna, e l'ecclesiastico la vuota menzogna della sua buona reputazione! Così si attardarono ancora un momento. Nessuna luce dorata era mai stata più preziosa dell'oscurità della buia foresta. Qui, vista solo dagli occhi di lui, la lettera scarlatta non bruciava più il petto della donna adultera! Qui, visto solo dagli occhi di lei, Arthur Dimmesdale, falso di fronte a Dio e agli uomini, poteva essere sincero per un istante!
Egli trasalì a un'idea che gli venne improvvisamente.
"Hester!" gridò. "Ecco una nuova cosa terribile! Roger Chillingworth sa che vuoi rivelare la sua vera natura. Continuerà allora a mantenere il nostro segreto? Quale sarà la nuova forma della sua vendetta?".
"C'è una strana segretezza nella sua natura", replicò pensosa Hester, "e credo risalga alle pratiche nascoste della sua vendetta. Non mi sembra, però, probabile che tradisca il suo segreto. Certamente egli cercherà altri mezzi per riuscire a saziare la sua oscura passione".
"E io! Come potrò continuare a vivere respirando la stessa aria di questo mio mortale nemico?" esclamò Arthur Dimmesdale, stringendosi nelle spalle, e premendosi nervosamente la mano sul cuore, con un gesto che ormai gli era divenuto così naturale da essere involontario. "Pensa tu per me, Hester! Tu sei forte.
Risolvi il mio problema!".
"Non devi più vivere a contatto di quell'uomo", disse Hester, con lentezza e con decisione. "I moti del tuo cuore non devono più essere spiati da quell'occhio malefico".
"Sarebbe peggio della morte!" disse l'ecclesiastico. "Ma com'è possibile evitarlo? Che soluzione mi resta? Devo restare a giacere su queste foglie avvizzite, dove mi gettai quando mi dicesti chi era? Devo abbandonarmi qui, e morire` subito?".
"Ahimé, che sciagura t'ha colpito!" fece Hester, con le lacrime agli occhi. "Morirai dunque di debolezza? Non ce n'è altra ragione!".
"Il giudizio di Dio pesa su di me", rispose il sacerdote, tormentato dalla propria coscienza. "Ed è troppo potente perché io possa lottare contro di esso!".
"Il cielo sarebbe misericordioso", ribatté Hester, "se tu avessi la forza di trarne profitto".
"Abbi tu forza per me!" rispose l'uomo. "Dimmi tu che devo fare".
"Ma dunque il mondo è così piccolo?" esclamò Hester Prynne, fissando i suoi occhi profondi in quelli del sacerdote, ed esercitando istintivamente una specie di potere magnetico su uno spirito così sconvolto e prostrato che a stento si manteneva padrone di sé. "Forse l'universo si trova tutto entro i confini di quella città, che solo poco tempo fa non era che un deserto ricoperto di foglie secche, solitario come quello che ci circonda?
Dove conduce quel sentiero? Ritorna alla colonia, tu dici! Sì, ma si inoltra anche nella foresta! Più avanti va, e più si perde nella selva, e il suo tracciato si fa sempre più confuso; fino a che, a qualche miglio di qui, le foglie gialle non recano più traccia del passaggio dell'uomo bianco! Là si è liberi! Un viaggio tanto breve ti porterebbe da un mondo nel quale sei il più sventurato degli uomini a un altro nel quale potresti ancora essere felice! Non c'è abbastanza ombra in questa sconfinata foresta per celare il tuo cuore agli sguardi di Roger Chillingworth?".
"Sì, Hester, ma soltanto sotto le foglie cadute!" rispose il sacerdote, con un triste sorriso.
"Allora resta anche l'ampia strada del mare!" continuò Hester.
"Essa ti ha condotto qui. Se così vuoi, essa ti ricondurrà indietro. Nel nostro paese d'origine, o in qualche villaggio sperduto nella campagna, o nell'immensa Londra, o forse anche in Germania, in Francia, nella bella Italia, tu sfuggiresti al suo potere e ai suoi segreti! E tu, che hai a che fare con questi uomini di ferro e con le loro opinioni? E' già da troppo tempo che tengono in catene la parte migliore di te!".
"E' impossibile!" rispose l'ecclesiastico, ascoltandola come se lei gli si fosse rivolta per realizzare un sogno. "Non è in mio potere partire di qui. Sventurato e peccatore come sono, non ho mai avuto altro pensiero che di tirare avanti la mia esistenza terrena nella sfera dove la Provvidenza ha voluto mettermi. Per quanto l'anima mia sia perduta, continuerò a fare ciò che posso per le anime degli altri! Non ho il coraggio di abbandonare il mio posto, pur essendo una sentinella infedele, la cui sicura ricompensa sarà la morte e il disonore, il giorno in cui la sua lugubre vigilia giungerà alla fine!".
"Tu sei crollato sotto il peso di sette anni di sventura", replicò Hester, fermamente risolta a sostenerlo col fervore della sua energia. "Ma tutto questo devi lasciartelo dietro le spalle! Non devi trovartelo tra i piedi a ogni passo, nell'attraversare la foresta, né lo stiverai sulla nave, se preferisci passare il mare.
Lascia il naufragio e la rovina qui dove sono stati generati. Non crucciartene più! Ricomincia tutto dall'inizio! Forse che il cattivo esito di questa prova ti ha privato di ogni altra possibilità? Niente affatto! Il futuro è ancora pieno di prove e di successi. C'è felicità da godere, e bene da fare! Cambia la falsa esistenza che conduci con una vera vita! Se il tuo spirito ti spinge a dedicarti a questa missione, sii il maestro e l'apostolo dei pellirosse. O, se il tuo temperamento ti porta piuttosto a questo, sii uno studioso e un saggio tra i più sapienti e rinomati del mondo della scienza. Predica! Scrivi!
Agisci! Fa' qualcosa che non sia gettarti a terra e morire!
Abbandona questo nome di Arthur Dimmesdale, e trovane un altro, un nome che abbia prestigio, perché tu lo possa portare senza timore né vergogna. Perché dovresti logorarti ancora sia pure un sol giorno nei tormenti che ti hanno attanagliato la vita? Che ti hanno reso incapace di fare e di volere? Che non ti lasceranno neppure la forza di pentirti? Alzati, e avanti!".
"Oh, Hester", gridò Arthur Dimmesdale, nei cui occhi un lampo d'energia, acceso dall'entusiasmo della donna, brillò un attimo prima di spegnersi, "tu dici di correre a un uomo al quale si piegano le ginocchia! Io devo morire qui! Non mi restano né la forza né il coraggio di addentrarmi da solo nel vasto mondo, estraneo e difficile".
Era l'ultima espressione dello sconforto di un'anima distrutta.
Gli mancavano le energie di afferrare la sorte migliore che sembrava essere a portata della sua mano.
Egli ripeté quella parola:
"Solo, Hester!".
"Non andrai solo!" rispose lei in un bisbiglio.
Allora, tutto fu detto!
18. UNO SQUARCIO Dl LUCE
Arthur Dimmesdale fissò il volto di Hester con uno sguardo nel quale si mostravano certamente gioia e speranza, ma frammiste alla paura, e a una specie di orrore per la sua audacia, che le aveva fatto dire chiaramente ciò che egli aveva vagamente accennato, senza tuttavia osare di parlarne.
Ma Hester Prynne, donna di carattere naturalmente attivo e coraggioso, e che per un periodo così lungo era stata allontanata, anzi, bandita dalla società, si era abituata a un orizzonte di pensiero talmente vasto da essere del tutto estraneo all'ecclesiastico. Lei aveva vagato, senza regola né guida, in un abbandono morale così vasto, ombroso e intricato, come la foresta selvaggia nell'oscurità della quale essi tenevano ora un colloquio che avrebbe deciso del loro futuro. L'intelletto e il cuore di Hester vivevano, per così dire, in zone disabitate, nelle quali lei vagava con la stessa libertà dell'indiano selvaggio nelle sue foreste. Da anni ormai osservava le istituzioni umane, e tutto ciò che preti e legislatori avevano stabilito, da questo remoto punto d'osservazione, criticando tutto con un rispetto di poco superiore a quello che l'indiano proverebbe per la stola ecclesiastica, la toga dei giudici, la gogna, il patibolo, il focolare o la chiesa.
Il suo destino e gli eventi l'avevano resa libera. La lettera scarlatta era il suo passaporto per regioni nelle quali altre donne non osavano avventurarsi. La vergogna, la disperazione, la solitudine! Questi erano stati i suoi maestri, severi e crudeli, ed essi l'avevano resa forte, ma l'avevano anche condotta molto fuori strada.
Il sacerdote, d'altronde, non aveva mai vissuto un'esperienza capace di condurlo di là dai limiti delle leggi accettate dai più, anche se, in un solo caso, aveva trasgredito una tra le più sacre di esse. Ma questo era stato un peccato di passione, non di principio, e neppure di intenzione. Da quello sventurato istante aveva osservato con morbosa attenzione, non i suoi atti, che non era difficile controllare, ma ogni suo sospiro d'emozione, e ogni suo pensiero. Al vertice del sistema sociale, poiché tale era il posto del clero in quell'epoca, egli era tanto più inceppato dalle sue regole, dai suoi principi e dai suoi stessi pregiudizi. Come sacerdote, la natura della sua professione lo rendeva inevitabilmente più legato a essi. Come uomo che aveva una volta peccato, ma che manteneva viva e penosamente sensibile la propria coscienza tormentando una ferita non ancora rimarginata, lo si poteva ritenere più sicuro entro i confini della virtù che se non avesse peccato affatto.
Ci sembra quindi che, per quel che riguarda Hester Prynne, tutti i sette anni di bando e d'ignominia non fossero stati altro che un tirocinio in vista dell'ora presente. Ma Arthur Dimmesdale! Se un uomo come lui fosse caduto ancora una volta, quale scusa si sarebbe potuto addurre, quale circostanza attenuante del suo crimine? Nessuna, anche volendo riconoscere che la sua resistenza era stata spezzata da lunghe e raffinate sofferenze; che la sua mente era oscurata e confusa dallo stesso rimorso che la tormentava; che, tra la fuga come reo confesso, e la permanenza come un ipocrita, difficilmente la sua coscienza gli avrebbe potuto additare da quale parte far pendere la bilancia; che era umano evitare il pericolo della morte e dell'infamia, e le inscrutabili macchinazioni di un nemico; che, infine, a questo povero pellegrino, debole, malato e degno di compassione; su un sentiero triste e deserto, appariva ora un raggio d'affetto e di comprensione umana, una nuova vita, e una vita vera, al posto della pesante condanna che espiava di giorno in giorno. E, a dire la nuda e triste verità, lo squarcio prodotto dalla colpa nell'anima degli uomini non si cicatrizza mai nella loro vita terrena. Lo si può sorvegliare e tenere al riparo, perché il nemico non si apra di nuovo la strada a forza nella cittadella, e non possa, in uno dei suoi successivi assalti, scegliere altra strada da quella già percorsa una volta con successo. Ma resta il muro in rovina, accanto al quale si scorgono le tracce furtive del nemico che vuol rinnovare il suo indimenticato trionfo.
La lotta, se lotta ci fu, non merita d'essere descritta. Basti sapere che il sacerdote decise di fuggire, e non da solo.
"Se, nei sette anni che sono passati", pensò, "potessi ricordare un solo attimo di pace o di speranza, resisterei ancora, per quel pegno della divina misericordia. Ma ora, poiché io sono condannato senza remissione, perché non dovrei accettare il conforto offerto al reo prima dell'esecuzione? D'altro canto, se questo è il sentiero che conduce a una vita migliore, come Hester vorrebbe farmi credere, certamente, seguendolo, non abbandono alcuna prospettiva più vantaggiosa. Non posso neppure continuare a vivere diviso da lei, tanto è forte nel sostenermi, tanto è dolce nel confortarmi! O Tu al quale non oso levare gli occhi, vorrai Tu ancora perdonarmi?".
"Partirai!" disse Hester tranquillamente, quando egli incontrò il suo sguardo.
Presa la decisione, una fiamma di insolita gioia diffuse il suo tremulo splendore sul dolore che albergava nel suo petto. Era l'effetto eccitante, su un prigioniero appena sfuggito alla segreta del suo cuore, del respirare l'aria libera e selvaggia di una regione non ancora civilizzata, né convertita, né soggetta alle leggi degli uomini. Il suo spirito sorse, per così dire, con un balzo, e giunse a vedere il cielo più da vicino di quanto mai avesse fatto in tutti gli anni nei quali la sventura lo aveva trattenuto a strisciare sulla superficie della terra. Carattere profondamente religioso, non poté evitare di esprimersi con una sfumatura di pietismo.
"Provo ancora la gioia?" gridò, meravigliandosi di se stesso.
"Credevo che ne fosse morto in me il germe stesso! Oh, Hester, tu sei il mio buon angelo! Mi pare d'essermi gettato sulle foglie di questa foresta, malato, corrotto dal peccato e intristito dal dolore, e di essermi rialzato rigenerato, con nuove forze per glorificare Dio per la Sua misericordia! Questa è già la mia vita migliore! Perché non l'abbiamo trovata prima?".
"Non guardiamoci indietro", rispose Hester Prynne. "Il passato è passato! A che scopo dovremmo pensarci ora? Guarda! Con questo simbolo, lo distruggo tutto, e lo rendo come se non fosse mai stato!".
Così dicendo, aprì il fermaglio che le tratteneva al petto la lettera scarlatta, e la gettò via tra le foglie secche. Il marchio misterioso brillò sulla sponda del ruscello, dalla loro parte. Se fosse stato lanciato un palmo più in là sarebbe caduto nell'acqua, affidando al piccolo rivo un altro dolore da portar via con sé, assieme all'inintelligibile racconto che esso continuava a mormorare. Invece la lettera ricamata giaceva là, brillando come una gemma dimenticata, che qualche sventurato pellegrino avrebbe potuto raccogliere, per restare a sua volta perseguitato da sconosciuti fantasmi di colpa, da sussulti del cuore e da inspiegabili sventure.
Allontanato da sé il marchio, Hester emise un lungo e profondo sospiro, con il quale il fardello della vergogna e dell'angoscia si separavano dal suo spirito. O indicibile sollievo! Lei non ne aveva conosciuto tutto il peso prima di provare la libertà!
Seguendo un altro impulso, si tolse l'austera cuffia che le imprigionava i capelli, ed essi le ricaddero sulle spalle, scuri e abbondanti, mostrando nella loro massa una luce e un'ombra allo stesso tempo, e aggiungendo dolcezza al fascino dei lineamenti della donna. Attorno alla sua bocca, e dalle sue pupille, si irradiava un sorriso smagliante e tenero, che pareva sgorgare dal cuore stesso della femminilità. Un'onda di rossore le brillava sulle gote, che per tanto tempo erano state pallide. Il suo sesso, la sua gioventù, e tutta la vivacità della sua bellezza, le tornavano da quello che gli uomini chiamano l'irrevocabile passato, e si raggruppavano, con la sua virginea speranza, e con una felicità fin allora sconosciuta, nel magico circolo di quell'ora. E, come se l'oscurità della terra e del cielo fosse stato soltanto un'emanazione di questi due cuori mortali, essa scomparve con il loro dolore. D'improvviso, come per un subitaneo sorriso del cielo, eruppe la luce del sole, inondando l'oscurità della foresta, ravvivando il verde di ogni foglia, trasformando in oro il giallo di quelle cadute, e brillando sui tronchi degli alberi solenni. Gli oggetti, che fino a quel momento si erano persi nell'ombra, incarnavano ora la lucentezza. Il corso del ruscelletto si poteva indovinare dal suo lieto scintillìo lontano nel cuore del bosco, il cui mistero era divenuto un mistero di gioia.
Tale era la partecipazione della natura, di quella selvaggia e pagana natura della foresta, mai soggiogata da leggi umane, o illuminata da verità superiori, alla beatitudine di quelle due anime! L'amore, sia appena nato, sia destato da un letargo simile alla morte, crea sempre un alone luminoso, riempiendo il cuore di tanto chiarore, che esso ne trabocca sul mondo esteriore. Anche se la foresta fosse rimasta scura com'era, sarebbe apparsa luminosa agli occhi di Hester e a quelli di Arthur Dimmesdale!
Hester lo guardò con un nuovo fremito di gioia.
"Devi conoscere Perla!" disse. "La nostra piccola Perla! L'hai vista, sì, lo so, ma ora la vedrai con occhi nuovi. E' una strana bambina! Mi è difficile capirla. Ma tu la amerai molto, come me, e mi consiglierai sul modo di educarla".
"Credi che la bimba sarà contenta di conoscermi?" chiese il sacerdote, con una specie di disagio. "E' tanto tempo che non ho più contatti con i bambini, perché spesso mostrano sfiducia e ritrosia nei miei confronti. Ho perfino temuto la piccola Perla!".
"Ah, dev'essere stata una cosa molto triste!" rispose la madre.
"Ma la piccola ti amerà molto, e tu amerai lei. Non dev'essere lontana. La chiamerò. Perla! Perla!".
"Vedo la bimba", disse il reverendo. "E' là, in una chiazza di sole, abbastanza lontana, dall'altra parte del ruscello. Così, credi che mi vorrà bene?".
Hester sorrise e chiamò di nuovo Perla, che si poteva vedere a una certa distanza, e sembrava, come il sacerdote l'aveva descritta, una scintillante visione avvolta in un raggio di sole che scendeva su di lei da un viluppo di rami. Il raggio appariva e spariva, rendendo la sua figura scura o luminosa - ora simile a una bimba in carne e ossa, ora come uno spiritello -, con l'andare e venire dei riflessi luminosi. Udì la voce della madre, e si fece avanti lentamente attraverso la foresta.
Perla non aveva trovato noiosa l'ora che sua madre aveva passato a discorrere con l'ecclesiastico. La grande foresta scura, per quanto si mostrasse austera a chi portava nel suo seno le colpe e gli affanni del mondo, si trasformava meglio che poteva in compagna di giochi della piccola solitaria. Triste com'era, le dava il benvenuto con il suo migliore sorriso. Le offriva le bacche nate l'autunno precedente, che sarebbero maturate soltanto a primavera, e che ora rosseggiavano come gocce di sangue sopra le foglie morte. Perla le raccoglieva, e le piaceva il loro sapore selvatico. I piccoli abitanti della foresta non si prendevano quasi neppure la briga di scostarsi dalla sua strada. Una pernice, con dieci pulcini alle calcagna, le corse addirittura addosso con aria minacciosa, pur pentendosi presto della sua audacia per tornarsene pigolando a rassicurare i suoi piccoli. Un piccione, appollaiato su un ramo basso, lasciò avvicinare Perla, e l'accolse con un suono che era tanto di allarme quanto di benvenuto. Uno scoiattolo, dalla cima fronzuta dell'albero dove viveva, squittì di rabbia o di divertita sorpresa, poiché gli scoiattoli sono individui così collerici e buffi che è difficile sapere come la pensino esattamente, e dopo essersi rivolto così alla piccola le tirò una noce sulla testa. Era una noce dell'anno precedente, già intaccata dai suoi dentini aguzzi. Una volpe, che i suoi leggeri passi sulle foglie avevano risvegliato, guardò con diffidenza Perla, come chiedendosi se fosse meglio sgattaiolare via o riprendere sul posto il suo pisolino. Un lupo, si dice - ma qui il racconto è certamente scivolato nell'inverosimile - venne ad annusare l'abito di Perla, e le porse la testa da accarezzare.
Quello che dev'essere vero, però, è che la foresta madre, e quelle creature selvagge che essa proteggeva, riconoscevano tutte una selvaggia parentela con la figlia dell'uomo.
Anche Perla, del resto, era più buona qui che sui margini erbosi delle strade della colonia, o nella casupola della madre. Sembrava che i fiori lo sapessero, e sussurrassero in coro al suo passaggio: "Adornati di me, bella bambina, adornati di me!", e, per far loro piacere, Perla raccoglieva le viole, gli anemoni, le aquilegie e i ramoscelli del verde più vivo, che i vecchi alberi le offrivano protendendoli all'altezza dei suoi occhi. Si decorava i capelli e si tramutava in una giovane ninfa, o in una driade bambina, o in qualsiasi altra cosa che si trovasse in intima comunione con l'antica boscaglia. In questo modo si era adornata Perla, quando udì la voce della madre, e tornò indietro lentamente.
Lentamente, perché aveva visto il reverendo!
19. LA PICCOLA AL RUSCELLO
"Le vorrai molto bene", insisté Hester Prynne, mentre, seduta accanto al sacerdote, guardava avvicinarsi la piccola Perla. "Non ti sembra bella? Guarda con che grazia naturale si è adornata con quei fiori! Se nel bosco avesse raccolto perle, diamanti e rubini non potrebbero starle meglio! E' una splendida bambina! Ma so da chi ha preso!".
"Sai tu, Hester", disse Arthur Dimmesdale, con un sorriso inquieto, "che quella cara bambina che ti porti sempre accanto mi ha preoccupato più di una volta? Mi pareva (oh, Hester, che pensiero è mai questo, e come è doloroso doverne temere!) che i miei stessi lineamenti si fossero riprodotti sul suo viso, e con tanta evidenza che tutti se ne dovessero accorgere. Ma lei somiglia più a te!".
"No, no! Non più che a te!" rispose la madre, con un tenero sorriso. "Ancora un poco, e non dovrai più temere che mostri di chi è figlia. Che strana bellezza le danno quei fiori selvatici nei capelli! E come se una delle fate, che abbiamo lasciato nella nostra cara vecchia Inghilterra, l'avesse adornata per mandarcela incontro".
Fu con una sensazione, che nessuno dei due aveva mai provato in precedenza, che osservarono il lento avvicinarsi di Perla. In lei era visibile il legame che li univa. Era stata offerta al mondo come il geroglifico vivente, nel quale era racchiuso il segreto che per sette anni essi avevano cercato di nascondere con tanta costanza: tutto scritto in quel simbolo, tutto manifesto chiaramente, se ci fosse stato un profeta o un mago capace di leggere nella natura di quella fiamma! E Perla rappresentava l'unità del loro essere. Qualunque cosa fosse il male passato, come avrebbero potuto dubitare che la loro vita terrena e il loro futuro destino non fossero congiunti, quando a un tempo ne avevano sotto gli occhi l'unione materiale e l'idea spirituale, in cui essi si erano incontrati, e avrebbero dovuto restare uniti per sempre? Pensieri come questi, e forse altri, che non potevano riconoscere o definire, gettavano un'atmosfera misteriosa sulla piccola che stava venendo verso di loro.
"Cerchiamo di fare in modo che non si accorga di nulla di insolito... nessuna agitazione e nessun ardore... nel rivolgerti a lei", sussurrò Hester. "La nostra Perla è, a volte, un folletto fantastico ed estroso. Soprattutto nei riguardi dell'emozione si mostra raramente tollerante, se non è in grado di comprenderne a fondo il perché e il percome. Ma è una bambina capace di amare profondamente! Vuol bene a me, e ne vorrà anche a te!".
"Non puoi immaginare", disse il reverendo, gettando un'occhiata a Hester Prynne, "quanto il mio cuore tema quest'incontro, e quanto lo brami! Ma a dire il vero, come già ti ho ricordato, non è facile che i bambini si trovino a loro agio con me. Non mi si arrampicano sulle ginocchia, non mi bisbigliano all'orecchio, non ricambiano il mio sorriso, ma se ne restano da parte, e mi guardano con strani occhi. Anche i bambini molto piccoli, quando li prendo in braccio, piangono a dirotto. E tuttavia Perla, già due volte nella sua breve vita, è stata gentile con me! La prima volta, tu sai quando fu! L'ultima fu quando la portasti con te in casa di quel severo vecchio governatore!".
"E tu perorasti così bene in favore di entrambe noi due!" rispose la madre. "Me ne ricordo, e se ne deve ricordare anche Perla. Non temere. Forse all'inizio sarà un po' ritrosa e scostante, ma presto imparerà a volerti bene".
Ormai Perla aveva raggiunto la sponda del ruscello, e lì se ne stava, fissando in silenzio Hester e l'ecclesiastico, che erano ancora seduti accanto sul tronco muscoso ad aspettarla. Proprio nel punto dove si era fermata, il ruscello formava un piccolo specchio così fermo e tranquillo che rifletteva perfettamente l'immagine della sua piccola figura, in tutta la pittoresca bellezza dei suoi ornamenti di fronde e di fiori, in un aspetto più raffinato e idealizzato di quello reale. Quest'immagine, alla quale mancava tanto poco per essere identica alla piccola Perla, sembrava comunicare parte della sua ombrosa intangibilità alla bambina. Era strano l'atteggiamento di Perla, che se ne stava a fissarli attraverso l'oscurità del bosco; lei stessa, frattanto, tutta illuminata da un raggio di sole che sembrava attratto lì da una strana simpatia. Nel ruscello ai suoi piedi stava un'altra bambina, diversa ma identica, anche lei avvolta nel suo raggio di luce dorata. Hester si sentiva, in modo indistinto e tormentoso, estranea a Perla, come se la bimba, nella sua scorribanda solitaria per la foresta, fosse uscita dalla sfera in cui viveva assieme alla madre e ora cercasse invano di rientrarci.
C'era in questa impressione del vero e del falso; la bimba e la madre erano, sì, estranee l'una all'altra, ma per colpa di Hester, non di Perla. Da quando lei si era allontanata dal fianco della donna, un altro compagno era stato ammesso nella cerchia dei sentimenti della madre, modificando il loro aspetto al punto che Perla, sulla via del ritorno dai suoi vagabondaggi, non riusciva a ritrovare il suo posto consueto, e si rendeva conto a stento di dove fosse.
"Ho la strana impressione", osservò il sensibile sacerdote, "che questo ruscello non sia altro che il confine tra due mondi, e che tu non potrai mai ritrovare la tua piccola Perla. O forse lei è uno di quei folletti ai quali, come ci insegnarono le leggende della nostra infanzia, è vietato attraversare la corrente? Ti prego di dirle che si affretti, perché questo ritardo mi ha già scosso i nervi".
"Vieni, bambina cara!" disse Hester in tono incoraggiante, protendendo le braccia aperte. "Come sei lenta! Non ti avevo mai vista così pigra prima d'ora! C'è qui un mio amico, che deve diventare anche amico tuo. Così d'ora in poi sarai amata il doppio di quanto non potesse fare tua madre da sola! Salta il ruscello e vieni da noi. Sai saltare come una cerbiatta!".
Perla, senza rispondere in alcun modo a queste espressioni melate, restò dall'altro lato del ruscello. Ora fissava i suoi lucenti occhi selvaggi sulla madre, ora sul sacerdote, e ora li comprendeva entrambi in uno sguardo solo, quasi per scoprire e chiarire a se stessa la relazione in cui si trovavano. Per qualche inspiegabile ragione, sentendo gli occhi della figlia su di sé, Arthur Dimmesdale, col gesto che gli era così abituale da essere divenuto ormai involontario, si portò una mano al cuore. Infine, con una strana espressione autoritaria, Perla sporse una mano, con il piccolo indice teso, evidentemente verso il seno della madre. E ai suoi piedi, nello specchio del ruscello, c'era l'immagine adorna di sole e di fiori della piccola Perla, anch'essa col piccolo indice puntato.
"Strana bambina, perché non vuoi venire da me?" esclamò Hester.
Perla teneva sempre l'indice puntato, e aveva la fronte aggrottata, cosa tanto più impressionante considerando il suo aspetto puerile. Mentre sua madre continuava a blandirla, e ad atteggiare il volto a insoliti sorrisi, la bimba batté un piede in terra con uno sguardo e un gesto ancor più imperiosi. Nel ruscello la fantastica bellezza dell'immagine rifletteva l'espressione adirata, il dito puntato e il gesto imperioso, aggiungendo rilievo all'aspetto della piccola Perla.
"Sbrigati, Perla, o mi farai arrabbiare!" gridò Hester Prynne, la quale, del resto, abituata a un simile comportamento della bimba in altre occasioni, ora desiderava un comportamento più decoroso da parte sua. "Salta il ruscello, cattiva, e corri qui! Bada, altrimenti verrò io!".
Ma Perla, senza che le minacce della madre avessero su di lei effetto maggiore delle sue lusinghe, cedette improvvisamente a un accesso di disperazione, gesticolando violentemente, e abbandonandosi a una serie di stravaganti contorsioni che l'agitavano tutta. Unì a questa crisi selvaggia grida laceranti che echeggiarono in ogni recesso del bosco, tanto che, per sola che fosse nel suo puerile e irragionevole disappunto, sembrava che una folla nascosta le manifestasse la sua simpatia e il suo incoraggiamento. Ancora si poteva vedere nel ruscello l'ira indistinta dell'immagine di Perla, incoronata e cinta di fiori, ma che batteva il piede e gesticolava selvaggiamente, e pur sempre tenendo il piccolo indice puntato al seno di Hester.
"Capisco ciò che turba la piccola", sussurrò Hester all'ecclesiastico, impallidendo nonostante i suoi sforzi per nascondere il proprio smarrimento. "I bambini non sopportano il minimo cambiamento nell'aspetto delle cose che sono abituati a vedersi ogni giorno davanti. Perla sente la mancanza di qualcosa che mi ha sempre visto addosso!".
"Ti prego", rispose il reverendo, "se possiedi il mezzo di calmare la bambina, usalo subito! Fatta eccezione per gli ammuffiti incantesimi di una vecchia strega come la signora Hibbins", aggiunse, sforzandosi di sorridere, "non c'è nulla che io affronti meno volentieri di questi capricci infantili. Queste cose, nella giovane bellezza di Perla come nella strega rugosa, hanno qualcosa di soprannaturale. Falla calmare, se mi ami!".
Hester si volse di nuovo a Perla, con una vampa di rossore sul viso, una fugace occhiata piena di imbarazzo all'ecclesiastico, e poi un profondo sospiro, ma, prima ancora che avesse il tempo di dire una sola parola, il rossore si trasformò in un pallore mortale.
"Perla", disse tristemente, "guarda davanti ai tuoi piedi! Là, proprio davanti a te! Da questa parte del ruscello!".
La bimba volse lo sguardo al punto indicato, dove giaceva la lettera scarlatta, così vicina alla corrente che il ricamo d'oro ci si rifletteva.
"Portala qui!" disse Hester.
"Vieni a prenderla tu!" rispose Perla.
"C'è mai stata al mondo una bambina come questa?" disse Hester all'ecclesiastico, senza farsi sentire della piccola. "Oh, avrei tante cose da raccontarti sul suo conto! Ma, in fondo, ha ragione per quel che riguarda quel marchio odioso. Devo sopportare la sua tortura ancora per poco, soltanto per pochi giorni, fino a che non ce ne saremo andati da questo paese, e potremo ricordarcene come di qualcosa che è esistito soltanto in un sogno. La foresta non può nasconderlo. Sarà l'oceano aperto che lo riceverà dalla mia mano, e lo inghiottirà per sempre!".
Con queste parole, si avvicinò alla sponda del ruscello, raccolse la lettera scarlatta, e se la appuntò di nuovo sul petto. Soltanto un attimo prima Hester, piena di speranza, aveva parlato di gettarla nel fondo del mare, ma ora sembrava pesasse su di lei una condanna ineluttabile, mentre riceveva il suo simbolo crudele dalle mani del fato. Lo aveva gettato nello spazio senza limiti!
Aveva goduto di un'ora di respiro! Ed ecco di nuovo che la sua vergogna scarlatta tornava a brillare al suo solito posto! Accade sempre così, anche se in forme diverse: i fatti più dolorosi assumono l'aspetto di fatalità. Hester raccolse poi i pesanti riccioli dei suoi capelli, e li imprigionò nella cuffia. Come se la tetra lettera avesse contenuto un maligno incantesimo, la sua bellezza, il calore e la ricchezza della sua femminilità scomparvero come il sole al tramonto, e un'ombra grigia parve abbattersi su di lei.
Quando il triste cambiamento fu compiuto, tese la mano a Perla.
"Riconosci tua madre ora, bambina?" chiese con tono di rimprovero, ma anche di rassegnazione. "Vuoi attraversare il ruscello e riconoscere tua madre, ora che indossa di nuovo la sua vergogna, ora che è triste?"- "Sì, ora sì!" rispose la piccola, attraversando il ruscello d'un balzo e correndo ad abbracciare Hester. "Ora sì che sei mia madre!
E io sono la tua piccola Perla!".
In uno slancio di tenerezza, non insolito in lei, attirò verso di sé la testa della madre e la baciò in fronte e sulle guance. Ma poi, seguendo una specie di necessità che faceva sì che la bimba non potesse mai dare quel po' di conforto che sapeva senza accompagnarlo con un palpito d'angoscia, Perla alzò la bocca e baciò anche la lettera scarlatta!
"Questo è stato molto brutto da parte tua!" disse Hester. "Appena mi mostri un po' d'affetto subito mi schernisci!".
"Perché il reverendo è seduto lì?" chiese Perla.
"Ti aspettava per salutarti", rispose la madre. "Vieni, e fatti dare la sua benedizione. Ti vuol bene, piccola Perla, e vuol bene anche alla tua mamma. Gli vorrai bene anche tu? Vieni, è ansioso di salutarti!".
"Ci vuol bene?" disse Perla, scrutando il viso della madre con intelligenza. "Tornerà in città con noi, tenendoci per mano, tutti e tre insieme?".
"Non ora, bambina cara", rispose Hester. "Ma presto verrà il giorno in cui camminerà con noi tenendoci per mano. Avremo una casa e un focolare tutti per noi, e tu gli starai sulle ginocchia:
ti insegnerà tante cose, e sarà molto affettuoso con te. Gli vorrai bene, vero?".
"E continuerà a tenersi la mano sul cuore?" volle sapere Perla.
"Stupidina, che razza di domande!" esclamò la madre. "Vieni a farti dare la sua benedizione!".
Ma, o per effetto della gelosia istintiva dei bambini troppo viziati verso i rivali pericolosi, o per qualsiasi altro capriccio del suo carattere irrequieto, Perla non volle mostrarsi gentile col sacerdote. Fu solo spingendola avanti a forza che la madre riuscì a condurgliela, e la piccola manifestò la sua riluttanza con strane boccacce; ne conosceva infatti una singolare varietà, fin dai tempi della sua primissima infanzia, e sapeva trasformare la sua mobile fisionomia in una serie di espressioni diverse, ognuna delle quali aveva una sua ironia particolare. Il sacerdote, penosamente imbarazzato, ma sperando che un bacio costituisse un talismano per aprirsi l'accesso alle simpatie della bambina, si chinò, e gliene diede uno in fronte. Allora Perla si liberò dalla madre, corse al ruscello e, chinatasi sulla corrente, vi bagnò la fronte, fino a che il bacio indesiderato non fu rimosso completamente, e sparso per vasto tratto dallo scorrere placido delle acque. Poi se ne rimase in disparte, osservando in silenzio Hester e l'ecclesiastico che parlavano insieme, e facevano progetti riguardo alla loro nuova situazione e alle loro intenzioni che presto avrebbero realizzato.
Adesso questo fatale incontro era giunto alla fine. La valletta sarebbe tornata alla sua solitudine in mezzo agli alberi vecchi e scuri, i quali, con le loro innumerevoli lingue, avrebbero sussurrato a lungo parlando dell'accaduto, e nulla ne avrebbe saputo alcun mortale. Il malinconico ruscello avrebbe aggiunto anche questo racconto al mistero dal quale il suo cuore era già sopraffatto, e di cui continuava a mormorare sommessamente, senza che il suo tono divenisse più lieto di quel che non fosse stato da secoli.
20. L'ECCLESIASTICO IN UN LABIRINTO
Mentre l'ecclesiastico si allontanava, precedendo Hester Prynne e la piccola Perla, si guardò un attimo, quasi aspettandosi di vedere soltanto qualche tratto indistinto o la sagoma della madre e della figlia dileguarsi pian piano nella luce crepuscolare del bosco. Un evento di tanta importanza nella sua vita non poteva essere accettato subito come reale. Ma c'era Hester, con il suo vestito grigio, ancora in piedi accanto al tronco d'albero che un fulmine aveva abbattuto in un'epoca ormai remota, e che il tempo aveva da allora ricoperto di musco, perché i due predestinati, carichi del più pesante fardello della terra, potessero sedervi insieme, per trovare un'ora di riposo e di conforto. E c'era anche Perla, che danzava con agilità sulla sponda del ruscello, ora che il terzo incomodo se n'era andato, e che si apprestava a riprendere il suo posto a fianco della madre. Dunque il sacerdote non si era addormentato e non aveva sognato!
Per liberarsi la mente da questa indistinta sovrapposizione d'immagini e d'impressioni, che la turbava con una strana irrequietudine, ripensò e definì con la massima precisione i progetti che lui e Hester avevano fatti a proposito della loro partenza. Avevano deciso che il Vecchio Mondo, con le sue folle e le sue città, avrebbe offerto loro un rifugio e un nascondiglio migliore delle terre selvagge della Nuova Inghilterra o di tutta l'America, con le sue prospettive che andavano da una tenda all'indiana a una delle poche colonie europee sparpagliate lungo la costa. A prescindere dalla salute dell'ecclesiastico, così poco adatta a sopportare gli stenti della vita nella foresta, le sue doti naturali, la sua cultura e tutta la sua formazione gli avrebbero assicurato una dimora soltanto in un ambiente raffinato e civile; quanto più elevata fosse stata la sua posizione, tanto meglio ci si sarebbe adattato. A incoraggiare questa scelta, si dava il caso che ci fosse una nave in porto: una di quelle discutibili corvette comuni a quell'epoca, le quali, pur senza essere del tutto fuorilegge degli oceani, avevano tuttavia bisogno di una bella dose di irresponsabilità per scorrazzare sulla loro superficie. La nave in questione era arrivata non molti giorni prima dal Mar dei Caraibi, ed entro tre giorni sarebbe ripartita per Bristol. Hester Prynne, che per la sua vocazione di suora di carità, aveva già fatto la conoscenza del capitano e dell'equipaggio, si sarebbe preoccupata di assicurare un passaggio per due adulti e un bambino con tutta la segretezza che le circostanze rendevano più che desiderabile.
L'ecclesiastico aveva voluto sapere da Hester, con notevole insistenza, il giorno preciso in cui la nave avrebbe dovuto salpare. Probabilmente sarebbe stato il quarto a partire da quello. "E' veramente una fortuna!" si era detto. Ora, siamo in dubbio se rivelarvi o no la ragione per la quale il reverendo Dimmesdale riteneva l'occasione tanto fortunata. Tuttavia, per non nascondere nulla al lettore, la ragione era che, tre giorni dopo, avrebbe dovuto tenere il sermone dell'Elezione; e, poiché tale circostanza rappresentava uno dei momenti più solenni nella vita di un sacerdote della Nuova Inghilterra, non avrebbe potuto trovare un tempo e un modo più adatto per concludere la sua carriera professionale. "Almeno non penseranno di me", rifletteva quest'uomo esemplare, "che lascio trascurato o incompiuto qualche dovere nei confronti della comunità!". Peccato davvero che un potere di introspezione profondo e acuto come quello del sacerdote dovesse ingannarsi così miseramente! Abbiamo avuto, e forse avremo ancora, cose peggiori di questa da narrare sul suo conto, ma nessuna, a parer nostro, di una debolezza così pietosa; nessuna prova più sottile e inconfutabile di questa, di una malattia sottile che da tempo aveva cominciato a distruggere la vera sostanza del suo carattere. Nessuno può presentare due volti diversi a se stesso e alla gente per un periodo di tempo considerevole senza finire col dubitare quale sia il vero.
L'euforia di Dimmesdale al suo ritorno dall'incontro con Hester Prynne gli diede una forza fisica inusitata, e lo spinse verso la città con passo spedito. Il sentiero del bosco sembrava più selvaggio, più ostile con i suoi rozzi ostacoli naturali, e meno calcato da passi umani di quanto egli non ricordasse nel viaggio d'andata. Ma egli scavalcava le pozzanghere, si apriva un varco tra l'intrico del sottobosco, si inerpicava per le salite, si buttava a precipizio giù per le discese e, in breve, superava tutte le difficoltà del percorso con un'energia instancabile che stupì anche lui. Non poteva non ricordare che solo due giorni prima aveva fatto la stessa strada a stento, fermandosi a prender fiato il più spesso possibile. Mentre s'avvicinava alla città, gli oggetti familiari che gli apparvero gli diedero una sensazione di nuovo. Non sembrava certamente che li avesse lasciati soltanto ieri, né due giorni prima, ma da mesi e forse addirittura da anni.
Certo, la strada aveva tutta l'apparenza che egli ne ricordava, e le case avevano tutte le loro particolari caratteristiche, dai frontoni sporgenti alle banderuole a forma di gallo disposte esattamente là dove si aspettava di trovarle. E tuttavia provava questo fastidioso senso di cambiamento, che si verificava anche nei confronti dei conoscenti che incontrò lungo la via, e di tutte le forme di vita umana della città che pure gli erano ben note.
Non che sembrassero più vecchi o più giovani: le barbe degli anziani non erano più bianche, né l'infante che fino a ieri camminava carponi poteva oggi reggersi in piedi; era impossibile definire in cosa differissero da quelli su cui egli aveva lanciato uno sguardo d'addio così di recente, e tuttavia l'istinto più profondo del sacerdote lo avvertiva della loro trasformazione. La stessa impressione lo colpì con più forza quando passò sotto i muri della sua chiesa. L'edificio aveva un aspetto così strano, e a un tempo così familiare, che la mente di Dimmesdale oscillava tra due idee: o fino a quel momento non l'aveva visto che in sogno, o lo stava sognando in quello stesso momento.
Questo fenomeno, nelle varie forme che assumeva, non indicava alcun cambiamento esterno, ma ne dimostrava uno così improvviso e importante nell'osservatore della scena abituale, che l'intervallo di un solo giorno aveva agito sulla sua coscienza come se fossero passati molti anni. Erano stati il libero volere del sacerdote, e quello di Hester, e il destino che li univa, a compiere la trasformazione. Era la stessa città di prima, ma non era lo stesso sacerdote che era tornato dalla foresta. Avrebbe potuto dire agli amici che lo salutavano: "Io non sono quello che credete! L'ho lasciato nella foresta, ritirato in un prato nascosto, presso un tronco muscoso, accanto a un malinconico ruscello! Andate a cercare il vostro sacerdote, e guardate se il suo corpo emaciato, il suo volto scarno, il suo sguardo appesantito dal dolore non si trovino ancora laggiù, come un abito gettato via!". I suoi amici avrebbero certamente insistito: "Ma sei tu quell'uomo!"; ma sarebbero stati loro a sbagliarsi, e non lui.
Prima di arrivare a casa, l'uomo nuovo che era sorto in Dimmesdale gli diede altre prove di una rivoluzione nella sfera dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. In verità, nulla che non fosse un radicale cambiamento di governo e di codice morale, nel suo regno interiore, poteva giustificare gli impulsi che colpivano il disgraziato e stupito sacerdote. A ogni passo provava la tentazione di fare questa o quest'altra stranezza, cattiveria o stramberia, rendendosi conto che sarebbe stata contemporaneamente involontaria e intenzionale, a dispetto di se stesso, e tuttavia proveniente da uno strato della sua personalità più profondo di quello che si opponeva all'impulso. Incontrò, per esempio, uno dei suoi diaconi. Il buon vecchio gli si rivolse con l'affetto paterno e la patriarcale autorità che i suoi anni, il suo carattere retto e timorato, e la sua posizione nella gerarchia della chiesa lo autorizzavano a usare e, nello stesso tempo, con quel profondo e quasi religioso rispetto imposto dalla vita pubblica e privata del giovane sacerdote. Mai ci fu un esempio più bello di come la maestà degli anni e della saggezza si conciliassero con la deferenza e il rispetto imposti a essa, quando provengano da un rango sociale più basso e da un talento inferiore e siano diretti a un superiore. Ora, nei due o tre minuti di conversazione tra il reverendo Dimmesdale e questo eccellente diacono dalla barba bianca, fu soltanto per mezzo del più accurato autocontrollo che il primo riuscì a trattenersi dal pronunciare certe idee blasfeme che gli erano venute in mente a proposito della mensa eucaristica.
Egli tremava in tutta la persona, e divenne pallido come la cenere, perché temeva che la propria lingua si muovesse per pronunciare tali orrende bestemmie, servendosi per far questo di un consenso che egli non le aveva dato affatto. E, anche con questo terrore in cuore, non poté quasi fare a meno di ridere, pensando a come sarebbe rimasto pietrificato il vecchio e santo diacono dall'aspetto patriarcale nel sentire l'empietà del suo sacerdote!
E ancora, gli capitò un incidente dello stesso genere.
Affrettandosi lungo la strada, il reverendo Dimmesdale incontrò la sua parrocchiana più vecchia, una signora dalla religiosità più che esemplare, povera, vedova, sola, col cuore pieno di ricordi del marito e dei figli defunti, e degli amici morti da tanti anni, proprio come un cimitero è pieno di lapidi istoriate. Tuttavia tutte queste circostanze, che sarebbero state così dolorose per un altro, erano quasi una gioia solenne per questa vecchia anima devota, a causa delle consolazioni della religione e delle verità della Scrittura, di cui si era nutrita ininterrottamente per più di trent'anni. E, da quando Dimmesdale aveva cominciato a prendersi cura di lei, il più gran conforto terreno della signora, che non sarebbe stato certamente un conforto se non avesse avuto in sé qualcosa di celeste, era di incontrare il suo parroco, sia per caso o di proposito, ed essere ristorata con una parola di verità evangelica calda, fragrante e odorosa di cielo, deposta dalle amate labbra del sacerdote nel suo orecchio assordito ma estaticamente attento. Questa volta, però, sino al momento di accostare le labbra all'orecchio della donna, Dimmesdale, di sicuro per volere del grande nemico delle anime, non riuscì a ricordare nessun passo delle Scritture o altro, tranne un breve, succoso e, come gli apparve allora, inconfutabile argomento contro l'immortalità dell'anima umana. L'introduzione di qualcosa del genere nella mente di questa vecchia sorella l'avrebbe probabilmente fatta cadere morta di colpo, come sotto l'effetto di un infuso contenente un forte veleno. Quello che bisbigliò realmente, il sacerdote non riuscì mai a ricordarlo in seguito.
Forse ci fu nelle sue parole una fortunata incoerenza, che non riuscì a comunicare all'intelletto della buona vedova un'idea precisa, o che la Provvidenza interpretò con un suo metodo particolare. Certo, quando il sacerdote si volse, scorse sul viso della donna un'espressione di divina gratitudine e di estasi che sembrava lo splendore della città celeste sui suoi lineamenti pallidi e rugosi.
Di nuovo, un terzo esempio. Dopo essersi separato dalla vecchia parrocchiana, incontrò la ragazza più giovane della congregazione.
Era una fanciulla da poco convinta, e convinta dalla predica tenuta dallo stesso reverendo Dimmesdale la domenica successiva alla sua veglia, a rinunciare ai transitori piaceri mondani in cambio della celeste speranza che si sarebbe colorita di tinte sempre più vivaci all'impallidire della vita che la circondava, e che avrebbe trasformato la tristezza dell'ora finale nello splendore della gloria eterna. Era bella e pura come un giglio fiorito in Paradiso. Il sacerdote sapeva di avere un altare nell'immacolata santità del cuore di lei, dove la sua immagine era circondata di cortine candide come la neve, unendo alla religione il calore dell'amore, e all'amore una purezza religiosa. Satana, quel pomeriggio, l'aveva strappata al fianco della madre, e aveva posto la povera giovinetta sul sentiero di quell'uomo così aspramente tentato o, per dir meglio, di quell'uomo perduto e disperato. Al suo avvicinarsi, il re dei demoni sussurrò al sacerdote di condensare in un breve assioma il germe stesso del male, e di versarlo nel suo tenero petto, dove certo non avrebbe mancato di fiorire cupamente presto, per portare col tempo i suoi venefici frutti. Tanto era il potere che egli aveva su quella fiduciosa anima virginale, che l'ecclesiastico si sentiva sicuro di poterne spazzar via l'innocenza con un solo sguardo cattivo, e di poter far sorgere tutto il contrario con una sola parola.
Perciò, lottando con se stesso più aspramente di quanto non avesse fatto fin allora, si velò il viso col mantello e si affrettò per la sua strada, senza dar segno d'averla riconosciuta, lasciando la giovane sorella a digerire come poteva la sua scortesia. Lei passò al setaccio la propria coscienza, piena di piccole cose futili e innocue come la sua tasca o il suo cestino da lavoro, e si rimproverò poveretta, per mille piccole colpe immaginarie, e il mattino seguente fece le faccende di casa con gli occhi gonfi.
Prima che l'ecclesiastico avesse il tempo di compiacersi con se stesso della sua ultima vittoria sulla tentazione, si rese conto di un altro impulso, più stravagante, e quasi altrettanto orribile. Esso gli suggeriva (arrossiamo nel riferirlo), gli suggeriva di fermare in mezzo alla strada un gruppetto di bambini puritani che giocavano, e che si erano messi a discutere tra loro, e di insegnargli delle parole sconce. Negatosi questo spasso come indegno dell'abito che portava, incontrò un marinaio ubriaco, uno di quelli che facevano parte dell'equipaggio della nave proveniente dai Caraibi. E a questo punto, dopo aver resistito con tanto successo a tutte le altre tentazioni, il povero Dimmesdale provò un forte desiderio di stringere almeno la mano al ribaldo incatramato, per ricrearsi in sua compagnia con qualche facezia oscena, di quelle che i marinai corrotti conoscono a bizzeffe, e con una salva di bestemmie robuste, sanguigne, soddisfacenti e tali da sfidare le potenze celesti! Non fu tanto un principio morale, quanto in parte il suo naturale buon gusto, e ancor più il suo radicato costume di decoro ecclesiastico, che lo portarono a salvamento in quest'ultima crisi.
"Cos'è che mi perseguita e mi tenta in questo modo?" gridò il sacerdote dentro di sé, fermandosi in mezzo alla via, e battendosi la mano sulla fronte. "Sono forse pazzo? Mi sono arreso definitivamente al demonio? Ho concluso un contratto con lui, nella foresta, e l'ho firmato col mio sangue? Mi spinge egli ora a eseguirlo, suggerendomi di commettere tutte le malvagità che la sua corrotta immaginazione può concepire?".
Mentre il reverendo Dimmesdale si arrovellava così, e si colpiva la testa con la mano, la vecchia signora Hibbins, la celebre strega, passava da quelle parti. Faceva una magnifica figura, con la sua alta acconciatura, un ricco abito di velluto e una gorgiera di pizzo indurita dal famoso amido giallo del quale Ann Turner, sua intima amica, le aveva confidato la ricetta prima di essere impiccata per l'assassinio di sir Thomas Overbury. Sia che la strega fosse riuscita a leggere i pensieri del sacerdote, o sia che li avesse immaginati, si fermò, lo guardò malignamente in viso, sorrise con astuzia e, per quanto non amasse molto la compagnia degli ecclesiastici, iniziò una conversazione.
"Dunque, reverendo signore, avete fatto una visita nella foresta", osservò la strega, chinando verso di lui la sua smisurata acconciatura. "La prossima volta vi prego soltanto di essere così gentile da avvertirmi in tempo, e sarò fiera di tenervi compagnia.
Senza volermi dare troppa importanza, la mia parola può far molto per procurare una buona accoglienza a un gentiluomo estraneo da parte del potente signore che sapete".
"Vi assicuro, signora", rispose l'ecclesiastico, in tono di solenne riverenza, come richiedeva la posizione sociale della signora, e come gli imponeva la propria buona educazione, "vi assicuro, signora, in tutta coscienza e onestà, che il significato delle vostre parole mi lascia completamente sbalordito! Non mi sono recato nella foresta a incontrare nessun potente signore, né credo proprio che farò mai una simile visita nel futuro con l'intenzione di guadagnarmi i favori di un tale personaggio. Il mio unico e sufficiente proposito era di salutare un mio devoto amico, l'apostolo Eliot, e di congratularmi con lui per le molte preziose anime che egli ha strappato al paganesimo!".
"Ah, ah, ah!" sghignazzò la vecchia strega, chinando ancora la sua alta acconciatura verso il pastore. "Bene, bene! E' così che bisogna parlare in pieno giorno! Ve la cavate come uno vecchio del mestiere! Ma a mezzanotte, nella foresta, faremo discorsi ben diversi!".
Essa proseguì per la via con la sua attempata maestà, non senza volgere spesso indietro la testa per sorridergli, come vogliosa di riconoscere un rapporto di segreta intimità.
"Mi sono dunque venduto", pensò il reverendo, "al demonio che, se la gente non s'inganna, questa vecchia fattucchiera e rinvoltata nel velluto si è scelta per signore e padrone?".
Sventurato sacerdote! Aveva stretto un patto molto simile a questo! Tentato da un sogno di felicità, si era abbandonato deliberatamente, come mai aveva fatto prima, a quello che sapeva essere peccato mortale. Il veleno infetto del peccato si era diffuso nel suo organismo morale con rapidità spaventosa. Aveva narcotizzato tutte le sue tendenze più sante e risvegliato, riportandole in vita, tutte le peggiori. Ironia, amarezza, malignità gratuita, inutile desiderio di fare del male, disprezzo di quanto esistesse di buono e di sacro, tutto si ridestò a tentarlo, pur empiendo di terrore il suo animo. E il suo stesso incontro con la signora Hibbins, anche se fu davvero un caso, gli mostrò la simpatia che provava per i suoi compagni nel male, e per tutto il mondo degli spiriti perversi.
Ormai aveva raggiunto la sua abitazione al margine del cimitero e, fatte le scale in fretta, si rifugiò nel suo studio. Il sacerdote fu lieto di aver raggiunto questo riparo senza essersi tradito davanti al mondo con nessuna di quelle strane e malvage stramberie alle quali si era continuamente spinto lungo la strada. Entrò nella sua solita stanza, e rivolse lo sguardo ai libri, alle finestre, al caminetto, e all'accogliente tappezzeria sulle pareti, in preda alla stessa sensazione di novità che lo aveva perseguitato per tutto il tragitto dalla valletta nella selva alla città, e fino alla sua stessa casa. Qui egli aveva studiato e scritto; qui aveva sostenuto veglie e digiuni, dai quali era uscito mezzo morto; qui aveva cercato di pregare; qui aveva sopportato centomila agonie! Là era la Bibbia, nel suo magniloquente ebraico antico, dove gli parlavano Mosé e i Profeti, e sopra ogni cosa la voce di Dio! Là, sulla tavola, accanto alla penna sporca d'inchiostro, si trovava un sermone incompiuto, con una frase lasciata a metà, là dove i pensieri avevano cessato di fluire sulla pagina, due giorni prima. Sapeva che era proprio lui, il sacerdote magro e pallido, che aveva fatto e sofferto tutto questo, e che aveva composto il discorso dell'Elezione fino a quel punto! Ma si sentiva isolato, e guardava le manifestazioni della sua personalità precedente con sprezzante pietà, eppure non senza una curiosità piena d'invidia. Quell'io era scomparso. Un altro uomo aveva fatto ritorno dalla foresta, un uomo più saggio, a conoscenza di occulti segreti che mai la semplicità del suo predecessore avrebbe potuto comprendere. Quale amara specie di conoscenza!
Assorto in queste riflessioni, udì bussare alla porta del suo studio, e disse "Avanti!" senza riuscire a scacciare completamente l'idea che potesse trattarsi di uno spirito maligno. Ed era proprio così! Fu il vecchio Roger Chillingworth a entrare. Il sacerdote si alzò pallido e incapace di pronunciar parola, con una mano sulle Scritture ebraiche, e l'altra aperta sul petto.
"Bentornato a casa, reverendo signore", disse il medico. "Come stava quel sant'uomo dell'apostolo Eliot? Ma davvero, signore, sembrate pallido, proprio come se il viaggio per le selve fosse stato troppo faticoso per voi. Non avrete bisogno del mio aiuto per rimettervi in forze prima della predica dell'Elezione?".
"No, credo di no", replicò il reverendo Dimmesdale. "Il viaggio, la vista del santo apostolo laggiù, e l'aria pura che ho respirato, mi hanno fatto bene, dopo una reclusione così lunga nel mio studio. Credo che potrò fare a meno delle vostre medicine, mio buon dottore, benché siano efficaci e somministrate da una mano amica".
Per tutto questo tempo Roger Chillingworth aveva scrutato il sacerdote con lo sguardo grave e attento del medico per i suoi pazienti. Tuttavia, a dispetto di queste apparenze, quest'ultimo era quasi sicuro che il vecchio fosse a conoscenza, o per lo meno sospettasse fondatamente, del suo incontro con Hester Prynne. Il medico sapeva dunque di non essere più, agli occhi del sacerdote, un amico fidato, ma il peggiore dei nemici. Poiché il dado era stato tratto, sembrerebbe naturale che venisse manifestata una parte di quella conoscenza. E' strano, invece, osservare quanto tempo trascorra di solito prima che le parole esprimano i fatti, e quanto spesso avvenga che due persone, le quali preferiscono evitare un certo argomento, riescano a sfiorarlo, e a ritirarsi senza averlo affrontato. Così, il sacerdote non nutrì nessun timore che Roger Chillingworth volesse fare esplicitamente il punto sulla posizione in cui l'uno si trovava nei confronti dell'altro, mentre d'altra parte il medico, con i suoi modi insinuanti, si avvicinò strisciando pericolosamente al segreto.
"Non sarebbe meglio", chiese quest'ultimo, "che questa notte vi giovaste della mia scarsa abilità? In verità, signore, è nostro dovere darci la pena di rafforzarvi e di rinvigorirvi in occasione del discorso dell'Elezione. Ci si aspetta molto da voi, nel timore di non avervi più con noi il prossimo anno".
"Sì, mi troverò in un mondo diverso", rispose il sacerdote con devota rassegnazione. "E la fede mi dice che sarà migliore; onestamente, non credo neppure io di potermi curare del mio gregge per il volgere delle stagioni di un intero anno! Ma quanto alla vostra medicina, gentile signore, nel mio attuale stato di salute non ne sento il bisogno".
"Sono lieto di sentirvelo dire", replicò il medico. "Forse le mie cure, che per tanto tempo vi ho somministrato invano, cominciano soltanto ora a produrre l'effetto desiderato. Sarei un uomo felice, e meriterei tutta la gratitudine della Nuova Inghilterra, se riuscissi davvero a guarirvi!".
"Vi ringrazio di cuore, mio premuroso amico", disse il reverendo Dimmesdale con un sorriso solenne. "Vi ringrazio, e pregherò perché si realizzino i vostri buoni propositi".
"Le preghiere di un giusto sono un'aurea ricompensa!" rispose il vecchio Roger Chillingworth, prendendo congedo. "Sì, esse sono la moneta corrente della Nuova Gerusalemme, coniata col marchio del Re in persona!".
Rimasto solo, il sacerdote chiamò uno dei servitori di casa, e chiese del cibo, che mangiò con grandissimo appetito appena gli fu posto dinnanzi. Gettò poi nel fuoco le pagine già scritte della predica dell'Elezione e ne cominciò un'altra, che scrisse con tale impeto di pensieri e d'emozioni da credersi ispirato; e restò perplesso a chiedersi come mai il Cielo potesse considerare strumento adatto per la sua grandiosa e solenne musica una canna d'organo corrotta come lui. Tuttavia, lasciando che il mistero si risolvesse da solo, o restasse insoluto per sempre, continuò nel suo lavoro con la massima rapidità, come rapito in un'estasi felice. Così passò veloce la notte, come se fosse un destriero alato, che lo portasse in groppa; venne il mattino, e sbirciò, arrossendo, attraverso le tende; e infine il pieno splendore dell'alba lanciò un raggio dorato nello studio, e lo pose sotto gli occhi abbacinati del sacerdote. Egli era ancora là, con la penna in mano, e dietro di lui si era accumulata un'immensa quantità di pagine!
21. LA FESTA DELLA NUOVA INGHILTERRA
La mattina del giorno in cui il nuovo governatore avrebbe ricevuto la sua carica dalle mani del popolo, Hester Prynne e la piccola Perla arrivarono di buon'ora sulla piazza del mercato. Essa era già affollata dagli artigiani e dagli altri abitanti plebei della città, tra i quali si potevano osservare anche molte rudi fisionomie di individui i cui abiti di pelle di daino dimostravano la loro appartenenza ad alcuni degli stabilimenti coloniali della foresta, che circondavano la piccola metropoli.
In questo giorno di pubblica festività Hester, come in tutte le altre ricorrenze degli ultimi sette anni, indossava un abito di un ruvido tessuto grigio. Sia il suo colore sia qualche impercettibile particolare nel suo taglio ottenevano l'effetto di farne scomparire la figura e i suoi contorni, mentre la sola lettera scarlatta la traeva da questa indeterminatezza crepuscolare per farla risaltare nella luce morale che si rifletteva da lei. Il suo viso, ormai abituale ai cittadini, mostrava la quiete marmorea che essi erano soliti scorgervi. Era come una maschera o, piuttosto, come i lineamenti irrigiditi di una morta, e questa triste similitudine era tanto più esatta in quanto Hester era effettivamente morta per tutto ciò che riguardava la comprensione umana, ed era completamente estranea a quel mondo del quale sembrava ancora far parte.
Forse però c'era quel giorno sul suo volto un'espressione insolita, ancora troppo tenue perché qualcuno se ne accorgesse, a meno che qualche osservatore provvisto di doti soprannaturali non le avesse prima letto nel cuore, per poi cercare una trasformazione corrispondente nel suo portamento e nella sua fisionomia. Un tale chiaroveggente spirituale avrebbe potuto supporre che, dopo aver sostenuto per sette dolorosi anni gli sguardi sprezzanti della folla come una necessità, come una punizione, e come qualcosa che era da stoici sopportare, essa volesse ora affrontarli per l'ultima volta di sua libera e spontanea volontà, per trasformare quella che era stata per tanto tempo un'angoscia in una specie di trionfo. "Gettate un ultimo sguardo sulla lettera scarlatta e su colei che la porta!" avrebbe potuto gridar loro la vittima della gente e, come essi credevano, la loro schiava a vita. "Ancora un poco, e lei sarà fuori della vostra portata! Ancora qualche ora, e il profondo e misterioso oceano nasconderà ed estinguerà per sempre il simbolo che voi avete voluto far bruciare sul suo petto!". Né del resto ci sbaglieremmo di molto, se attribuissimo all'animo di Hester un senso di rancore, nel momento in cui stava per ottenere la liberazione dalla sofferenza che era stata parte di lei stessa per tanto tempo. Avrebbe potuto non sentire il desiderio di bere ancora un ultimo, lungo, profondo sorso dalla coppa d'assenzio e d'aloe che aveva dato il suo sapore a quasi tutti gli anni della sua maturità di donna? Il vino della vita che avrebbe portato alle labbra da quel momento in poi avrebbe dovuto essere davvero corposo, delizioso e inebriante nel suo calice d'oro cesellato, per non lasciarle un languore inevitabile e pesante, dopo la feccia amara con cui era stata intossicata, come con un cordiale di eccessivo vigore.
Perla era adornata con la più allegra fantasia. Sarebbe stato impossibile indovinare che quest'apparizione d'una luminosità solare doveva la sua esistenza alla triste figura grigia, o che l'immaginazione fervida e delicata che aveva ideato il costume della bimba fosse la stessa che era riuscita nell'intento, forse più arduo, di dare un aspetto così particolare alla semplice tenuta di Hester. Gli abiti di Perla le erano così congeniali da sembrare un'emanazione, o uno sviluppo inevitabile e una manifestazione esteriore della sua personalità, inseparabili da lei come il multicolore riflesso dalle ali di una farfalla, o lo splendore variopinto dai petali di un fiore spampanato. La bimba era come loro: il suo abbigliamento era tutt'uno con la sua natura. In questo giorno fatidico, per di più, c'erano nei suoi modi un'irrequietezza e un'eccitazione particolare, che a nulla rassomigliavano tanto quanto al brillare di un diamante che scintilli e lampeggi ai sussulti del petto sul quale viene messo in mostra. Spesso i bambini vibrano all'unisono con le agitazioni dei loro congiunti, e sentono sempre in anticipo ogni disgrazia e ogni rivoluzione domestica imminente; perciò Perla, che era il gioiello sul seno della sua inquieta madre, rivelava, nel folle alternarsi dei suoi stati d'animo, le emozioni che nessuno avrebbe potuto scoprire sulla marmorea impassibilità del volto di Hester.
Questa effervescenza la faceva svolazzare con un movimento simile a quello d'un uccello, anziché camminare tranquillamente al fianco della madre. Spesso erompeva in grida di una musicalità selvaggia, inarticolata, e talvolta assordante. Quando raggiunsero la piazza del mercato, divenne ancora più irrequieta, alla vista della confusione e del fracasso che animavano il luogo; poiché di solito esso somigliava di più alla vasta spianata silenziosa che si apre davanti alla chiesa d'un villaggio che al centro commerciale di una città.
"Di', mamma, che cosa succede?" gridò. "Perché tutta questa gente ha lasciato oggi il suo lavoro? E' giorno di svago per tutti?
Guarda, ecco il fabbro! Si è lavato la fuliggine dal viso, e si è messo i vestiti della festa, e si direbbe che abbia voglia di spassarsela, se soltanto qualcuno gli insegnasse come si fa! E quello è mastro Brackett, il vecchio secondino, che mi saluta e mi fa dei sorrisi. Perché fa così, mamma?".
"Ti ricorda quando ieri molto piccola, bimba mia", rispose Hester.
"Non è affatto una buona ragione per salutarmi e sorridermi come sta facendo, il vecchiaccio nero, torvo, con quegli occhiacci!" disse Perla.
"Può salutare te se vuole, perché tu sei vestita di scuro, e hai la lettera scarlatta. Ma guarda, mamma, quanti visi sconosciuti, e quanti indiani, e marinai! Cosa sono venuti a fare, tutti qui sulla piazza del mercato?".
"Aspettano che passi il corteo", disse Hester. "Sfileranno il governatore e i magistrati, e i sacerdoti e tutte le persone importanti e la buona gente, con la banda, e con i soldati che marciano davanti a loro".
"E ci sarà anche quel sacerdote?" chiese Perla. "E mi tenderà le mani come quella volta che mi portasti da lui, al ruscello?".
"Ci sarà, figliola", rispose la madre; "ma non ti saluterà oggi, e tu non devi salutare lui".
"Che uomo strano e triste che è!" disse la bimba, come parlando a se stessa. "A notte fonda ci chiama presso di lui, e ci prende per mano, come quella volta che ci trovammo insieme sul palco! E nel profondo della foresta, dove soltanto i vecchi alberi possono ascoltarlo, e solo una striscia di cielo vederlo, parla con te, seduto su un tronco muscoso! E mi bacia pure in fronte, in modo tale che lo stesso ruscello deve faticare a lavarla! Ma qui, alla luce del sole, e in mezzo alla gente, non ci conosce, né noi dobbiamo conoscere lui! Strano uomo che è, così triste e con la mano sul cuore!".
"Sta' buona, Perla, non puoi capire queste cose", disse la madre.
"Non pensare a lui, ma guardati intorno, vedi che facce allegre che hanno tutti? I bambini sono usciti da scuola, e i grandi dalle botteghe e dai campi, per festeggiare questa giornata, perché oggi un uomo diverso comincia a governarli, e per questo, com'è sempre stata abitudine del genere umano da quando si è formata la prima nazione, si riuniscono per starsene allegri e in pace, come se finalmente dovesse venire un anno aureo e fortunato per questo povero vecchio mondo!".
Era proprio come diceva Hester, per quel che riguardava l'insolita allegria che illuminava i visi della gente. In questo periodo festivo dell'anno, come già era e come continuò a essere per quasi due secoli, i puritani condensarono tutta l'allegria e la pubblica gioia che consideravano lecita all'umana fragilità, disperdendo con essi la consueta nube di tristezza, così che, per un solo giorno di festa, apparivano solamente un po' più tetri della maggior parte delle altre comunità in un periodo di generale afflizione.
Forse tuttavia noi esageriamo il tono oscuro e triste che indubbiamente caratterizzava l'atmosfera e i modi dell'epoca.
Quelli che ora affollavano il mercato di Boston non erano nati con un'eredità di tristezza puritana. Erano oriundi inglesi, i cui padri erano vissuti nel fasto abbagliante dell'epoca elisabettiana; periodo in cui la vita inglese, vista nel suo complesso, sarebbe apparsa più maestosa, splendida e lieta di ogni altra. Se avessero seguito i loro gusti ancestrali, i coloni della Nuova Inghilterra avrebbero dovuto festeggiare ogni evento di importanza pubblica con fuochi artificiali, banchetti, quadri viventi e processioni. Né sarebbe stato loro impossibile, in occasione di cerimonie grandiose, combinare gli svaghi con le solennità, per adornare di un ricamo grottesco e variegato l'ampia toga di dignità di cui le nazioni usano rivestirsi in queste ricorrenze. L'ombra di un tentativo del genere si proiettava nel modo in cui la colonia celebrava l'inizio del suo anno politico.
L'offuscato riflesso di uno splendore ancor vivo nella memoria, una ripetizione incolore e diluita di quel che i nostri antenati avevano visto nella vecchia Londra, non diremo a un'incoronazione, ma all'insediamento di un sindaco, si poteva riscontrare nelle cerimonie che avevano istituito per la nomina annuale dei magistrati. I padri e i fondatori della repubblica, lo statista, il sacerdote e il soldato, consideravano a quel tempo un preciso dovere rivestirsi di una maestà e di un portamento esteriore che, secondo i loro costumi, veniva considerato l'inseparabile attributo della loro elevata posizione politica o sociale. Tutti si avanzavano per sfilare sotto gli occhi del popolo, per comunicare la necessaria dignità alla semplice struttura del loro Stato di così recente formazione.
In tali occasioni la gente era spronata, anche se non incoraggiata, a concedersi un po' di respiro dalla costante e austera diligenza che essa rivolgeva alle svariate forme di rozza industria, la quale, in ogni altro caso, sembrava essere tutt'uno con la sua religione. E' vero che qui non sarebbe stato possibile trovare nessuno di quegli svaghi ai quali l'allegria popolare sarebbe prontamente ricorsa nell'Inghilterra della regina Elisabetta o del re Giacomo; né rustiche rappresentazioni teatrali, né trovatori con le loro arpe e le loro epiche ballate, né suonatori ambulanti con uno scimmione ballerino, né giocolieri con i loro trucchi mimici, nessun buffone che sapesse rallegrare la moltitudine con le sue battute, vecchie forse di cent'anni, ma ancora efficaci perché si rifacevano alle fonti più popolari dell'allegria. Tutti questi professori nelle varie specializzazioni del divertimento sarebbero stati severamente messi a tacere non soltanto dalla rigida disciplina imposta dalle leggi, ma da quel sentimento generale che dà alle leggi la loro vitalità. Malgrado questo, il largo, onesto volto del popolo sorrideva - forse erano sorrisi arcigni, ma anche aperti. Non mancavano, del resto, i giochi che i coloni avevano visto, e ai quali avevano partecipato, tanti anni prima, alle fiere di campagna e sulle piazze dei villaggi d'Inghilterra, e che si riteneva opportuno mantenere in uso in questo nuovo paese, per sviluppare il coraggio e la virilità che ne costituivano parte essenziale. Incontri di pugilato, nei due stili diversi della Cornovaglia e del Devonshire, avevano luogo in vari punti della piazza del mercato, in un angolo c'era un amichevole duello a bastonate e, spettacolo seguito da tutti con la massima attenzione, sul palco dei condannati, del quale si è già tanto parlato in queste pagine, due maestri di scherma stavano cominciando a fare sfoggio della loro abilità in uno scontro con lo scudo rotondo e la sciabola. Tuttavia, con grande delusione del pubblico, quest'ultimo spettacolo fu interrotto dall'intromissione del birro della città, che non avrebbe potuto tollerare a nessun patto che la maestà della legge fosse insultata da tale offesa a uno dei suoi luoghi consacrati.
Forse ci è lecito affermare, nel complesso (essendo allora quella gente al primo stadio della loro vita tetra, e discendendo da messeri che avevano saputo stare allegri, ai loro tempi), che dal punto di vista dei festeggiamenti il paragone con i loro attuali discendenti, anche dopo tanto tempo, sarebbe tornato a vantaggio degli antichi progenitori. La generazione a loro immediatamente successiva recava su di sé l'ombra più scura del puritanesimo, e se ne servì per rattristare talmente il carattere nazionale che tutti gli anni successivi non sono bastati a cancellarne le tracce. Noi dobbiamo ancora apprendere la dimenticata arte della gaiezza.
Per quanto questo affresco di vita sociale sulla piazza del mercato fosse in genere del colore grigio scuro, bruno o nero degli emigranti inglesi, c'erano tuttavia delle macchie di tono diverso a rallegrarlo. Un gruppetto di indiani, nei loro selvaggi addobbi di pelli di daino dagli strani ricami, di collane di conchiglie, di ocra rossa e gialla e di piume, armati di archi, di frecce e di lance dalla punta di pietra, se ne stava da una parte, mantenendo il più impeccabile contegno che gli stessi puritani potessero desiderare. E del resto, per selvaggi che fossero questi barbari dipinti, essi non rappresentavano l'elemento meno civilizzato della scena. Questo titolo poteva essere reclamato a buon diritto da alcuni marinai dell'equipaggio della nave proveniente dai Caraibi, che erano sbarcati per prender parte ai divertimenti del giorno dell'Elezione. Erano dei "desperados" dall'aspetto deciso, con facce abbronzate e barbe indescrivibili, con le corte brache rette alla vita da cinturoni, spesso affibbiati da una rozza piastra d'oro, dai quali pendevano sempre dei lunghi coltellacci, e in qualche caso delle spade. Da sotto le teste dei loro cappelloni di fibra di palma brillavano occhi che, anche nei momenti di buon umore e di allegria, mostravano una ferocia quasi animalesca. Essi trasgredivano senza timore e senza scrupolo quelle regole che disciplinavano rigidamente il contegno degli altri, fumando tabacco proprio sotto il naso del birro, cosa che a un cittadino sarebbe costata uno scellino di multa per ogni boccata, e tracannando sorsate di vino o d'acquavite dalle loro fiasche senza misura, offrendone anche alla folla stupita che li circondava. Era un tratto molto caratteristico della zoppicante moralità dell'epoca, per rigida che possa sembrarci, quello di concedere una certa impunità ai naviganti, non soltanto per le loro malefatte a terra, ma per atti ben più gravi nel loro proprio elemento. Un marinaio dell'epoca ci apparirebbe oggi molto simile a un pirata. Non si potevano nutrire dubbi sul fatto che, per esempio, la ciurma di quella stessa nave, costituita da elementi non peggiori del normale, si fosse resa colpevole, come diremmo noi, di grassazione e di saccheggio del commercio spagnolo, cosa che avrebbe posto in pericolo il loro collo in una corte di giustizia moderna.
Ma il mare in quei vecchi tempi si agitava, spumeggiava e si frangeva senza chiedere consigli a nessuno, soggetto soltanto al vento burrascoso, senza che le leggi umane tentassero quasi di imporgli alcun regolamento. Colui che sulle onde era un bucaniere poteva cambiare nome e diventare subito, se voleva, un uomo pio e timorato in terraferma, né perfino al culmine della sua spericolata carriera, era considerato una persona con cui fosse disdicevole avere rapporti di commercio o d'amicizia. Perciò gli antichi puritani, nei loro mantelli neri, con le loro gorgiere inamidate e i cappelli a pan di zucchero, sorridevano allo schiamazzo e al comportamento rozzo di questi allegri marinai non senza benevolenza; e vedere un cittadino rispettabile come il vecchio Roger Chillingworth, il medico, intrattenersi sulla piazza del mercato a conversare a lungo col capitano della nave in questione non suscitava né sorpresa né riprovazione.
Quest'ultimo era la figura più elegante e appariscente, almeno per quanto riguardava il vestiario, che fosse dato vedere tra la moltitudine. Aveva sulla giubba una pioggia di nastri, un gallone d'oro sul cappello, che era anche adorno di una catena d'oro e di una piuma. Aveva la spada al fianco, e una cicatrice d'arma da taglio sulla fronte, che, con la sua pettinatura, sembrava più desideroso di mettere in risalto che di nascondere. Un abitante della terraferma non avrebbe potuto mostrarsi in giro in un abbigliamento simile, e con un'aria così insolente e gagliarda, senza dover subire un severo interrogatorio da un magistrato e prendersi probabilmente una multa, la prigione, o forse qualche ora di gogna. Quanto al capitano, però, si passava sopra a tutto questo come parte della sua natura, come si sarebbero scusate in un pesce le sue squame brillanti.
Dopo essersi separato dal medico, il comandante della nave di Bristol si aggirò senza meta e con indifferenza per la piazza del mercato, fino a che, imbattutosi in Hester Prynne, non gli parve di riconoscerla, e non esitò a rivolgerle la parola. Come sempre succedeva dove si trovava Hester, si era formato uno spazio vuoto, una specie di circolo magico, nel quale, quantunque la gente dovesse farsi avanti a gomitate a poca distanza, nessuno osava o desiderava avventurarsi Era una specie di forzata solitudine morale nella quale la lettera scarlatta aveva avvolto la portatrice che le era stata destinata, in parte per la sua stessa riservatezza, e in parte per l'istintivo, anche se ora meno scortese, ritrarsi del prossimo di fronte a lei. Ora, forse per la prima volta, essa ottenne un buon risultato, permettendo a Hester e al lupo di mare di parlare assieme senza pericolo d'essere uditi; ed era tanto cambiata l'opinione pubblica nei confronti di Hester, che la matrona più celebre in città per la rigidezza della sua morale non avrebbe potuto intrattenere un colloquio con questa persona dando meno scandalo di lei.
"Dunque, signora", disse il marinaio, "dovrò avvertire il cambusiere di mettere una branda in più oltre a quelle che avevamo convenuto! Non ci sarà da aver paura dello scorbuto o del colera in questa traversata, perché, tra il chirurgo di bordo e quest'altro dottore, l'unico pericolo saranno le medicine o le pillole; e ce ne sono in abbondanza, perché a bordo abbiamo un carico intero di medicinali, che io ho acquistato da una nave spagnola".
"Che dite?" chiese Hester, più emozionata di quanto non volesse sembrare. "Avete un altro passeggero?".
"Ma come, non sapete", gridò il capitano, "che quel medico, Chillingworth, come diavolo si chiama, ha deciso di assaggiare la mia cabina e il mio vitto con voi? Sì, sì, dovete saperlo, perché mi dice che è dei vostri, ed è intimo amico di quel signore di cui mi avete parlato, quello che si trova nei pasticci per colpa di quei vecchi inaciditi legislatori puritani".
"Si conoscono molto bene davvero", rispose Hester, cercando di restar calma, anche se in preda alla più profonda costernazione.
"Hanno vissuto per molto tempo insieme".
Hester Prynne e l'uomo di mare non si dissero altro. Ma in quel momento lei scorse il vecchio Roger Chillingworth in persona, in fondo all'angolo più remoto della piazza del mercato, che le sorrideva; un sorriso che, attraverso l'ampia piazza affollata, e attraverso tutti i discorsi e i clamori, e i vari pensieri, umori e interessi della folla, le giunse carico di sottintesi segreti e terribili.
22. IL CORTEO
Prima che Hester Prynne potesse raccogliere le proprie idee per decidere come affrontare questo nuovo e imprevedibile svolgimento della situazione, si udì avvicinarsi da una strada vicina il fragore della musica marziale, che precedeva la marcia del corteo di magistrati e di cittadini diretti al locale del culto, dove, seguendo una tradizione già radicata e scrupolosamente osservata, il reverendo Dimmesdale avrebbe dovuto pronunciare la predica dell'Elezione.
Presto si poté vedere l'avanguardia del corteo, che, girato un angolo, marciò con lenta maestà attraversando la piazza del mercato. In testa veniva la banda, che comprendeva una serie di strumenti, forse non perfettamente intonati l'uno all'altro e suonati senza grande maestria, ma tuttavia adatti a ottenere il risultato in vista del quale si rivolge alle folle il suono del tamburo e della tromba: quello cioè di dare alla scena di vita che passa sotto gli occhi un tono più elevato e più epico. La piccola Perla dapprima batté le mani, ma poi fu abbandonata per un attimo dall'irrequieta agitazione che l'aveva tenuta in stato di continua effervescenza per tutta la mattinata: rimase a guardare a occhi spalancati, e parve che si lasciasse trasportare dalle lunghe ondate del suono nelle loro creste e nei loro avvallamenti come un uccello marino a galla sull'acqua. Presto però tornò all'umore precedente, alla vista del luccichio del sole sulle armi e sulle lustre armature della compagnia di soldati che seguiva la banda, e costituiva la scorta d'onore del corteo. Questo corpo militare, che ancor oggi ha un'esistenza autonoma, e che marcia dalle epoche passate carico di un'antica tradizione d'onore, non era formato da mercenari. Le sue file erano composte di gentiluomini che sentivano gli stimoli dell'impulso marziale, e cercavano di costituire una specie di Collegio di Guerra, dove, come in una confraternita di Cavalieri Templari, potessero apprendere la scienza e, per quel che insegnavano loro i pacifici addestramenti, la pratica stessa della guerra. In quanta stima fosse tenuta allora la posizione dei militari si poteva comprendere dall'orgoglioso portamento di ognuno dei membri della compagnia.
Alcuni di essi, in effetti, avendo combattuto nei Paesi Bassi e su altri campi di battaglia europei, si erano più che guadagnato il diritto di assumere il nome e il titolo di combattenti. Il loro costume, inoltre, d'acciaio brunito e di piume ondeggianti sui loro lucidi cimieri, raggiungeva un effetto di marzialità al quale nessun moderno soldato potrebbe aspirare.
Con tutto ciò i titolari delle principali cariche civili che venivano immediatamente dopo la scorta militare meritavano maggiormente attenzione da parte di un occhio riflessivo. Fin nel loro portamento esteriore dimostravano una regalità che faceva apparire volgare, se non assurda, la boria dei militari. Era un'epoca, quella, in cui ciò che noi chiamiamo talento veniva tenuto in molto minore considerazione di quanto non sia oggi, ma dove i pesanti materiali che generano la stabilità e la dignità di carattere venivano stimati molto di più. Il popolo possedeva per diritto ereditario il pregio del rispetto, che nei suoi discendenti, se sopravvive ancora, esiste in proporzioni minori, e ha un peso molto ridotto nella scelta e nella reputazione dei titolari delle cariche pubbliche. Il cambiamento può essere un bene o un male, e forse è in parte tutt'e due. In quei giorni lontani, il colono inglese di questi aspri lidi, lasciati dietro di sé, nobili e ogni tipo di ordine gerarchico, mentre erano ancora forti in lui la facoltà e la necessità della riverenza, la riversava sulle chiome candide e sulla fronte venerabile della vecchiaia, sull'integrità di lunga data, sulla solida saggezza e sulla tetra esperienza, su doti insomma di quel tipo severo e pesante che danno l'idea della stabilità, e che vanno sotto la generica denominazione di rispettabilità. Questi primi uomini di Stato dunque, Bradstreet, Endicott, Dudley, Bellingham e i loro colleghi, i quali erano stati innalzati al potere dalle prime elezioni popolari, non sembrano essere mai stati particolarmente brillanti, distinguendosi piuttosto per la massiccia sobrietà che per l'attività del loro intelletto. Erano forti e ricchi di fiducia in se stessi, e nei tempi difficili si ergevano a difesa dello Stato come una catena di montagne contro una tempesta.
Questi tratti di carattere che abbiamo descritto erano ben rappresentati dalla forma quadrata del volto e dall'abbondante sviluppo fisico dei nuovi magistrati coloniali. Per quel che riguardava l'aspetto di autorevolezza naturale, la stessa madre patria non avrebbe dovuto vergognarsi a vedere questi uomini, i più eminenti di una vera democrazia, seduti alla Camera dei Pari, o membri del Consiglio Privato del sovrano.
Subito dopo i magistrati veniva il giovane e promettente ecclesiastico, dalle cui labbra si attendeva il discorso dell'anniversario. La sua professione era, in quell'epoca, quella in cui l'intelletto si manifestava ancor più che nella vita politica, poiché, tralasciando motivi più elevati, essa offriva abbastanza attrattive, con il rispetto quasi religioso della comunità, da indurre le persone più ambiziose a dedicarsi a essa.
Lo stesso potere politico, come nel caso di Increase Mather (10), era alla portata di un sacerdote fortunato.
Quelli che lo vedevano ora, notarono che mai, dalla prima volta che Dimmesdale aveva messo piede sulle coste della Nuova Inghilterra, aveva mostrato tanta energia quanta ne traspariva ora dal suo incedere e dall'aria con cui partecipava al corteo. Il suo passo non era impacciato come le altre volte; la schiena non era curva, e la mano non poggiava funestamente sul cuore. Eppure, se il sacerdote fosse stato visto nella giusta luce, la sua forza non sarebbe sembrata del corpo. Poteva essere d'origine spirituale, ed essere stata trasmessa al sacerdote dagli angeli. Poteva essere l'ebbrezza di quel potente cordiale che si distilla soltanto nell'alambicco della severa e prolungata riflessione. Forse il suo carattere sensibile era rinvigorito dalla musica strepitosa che saliva al cielo, e lo sollevava con sé nell'onda ascendente.
D'altronde, il suo sguardo era così distratto che ci si poteva chiedere se Dimmesdale sentisse affatto la musica. C'era sì il suo corpo che avanzava con energia inconsueta, ma dov'era la sua mente? Essa si trovava lontana e nel profondo della sua propria sfera, industriandosi con attività straordinaria a mettere ordine alla sfilza di nobili idee che presto avrebbero dovuto nascerne; il sacerdote perciò non vedeva nulla, non sentiva nulla, non sapeva nulla di ciò che aveva intorno; ma la sua anima aveva afferrato il debole organismo e lo spingeva avanti, incurante del peso, e trasformandolo in spirito simile a se stessa. Uomini di non comune intelletto, ma inclini alla morbosità, possono essere capaci di questi formidabili sforzi occasionali, nei quali essi consumano la vitalità di molti giorni per restarne privi in seguito.
Hester Prynne, che teneva lo sguardo fisso sul sacerdote, si sentì afferrare dalla tristezza, ma perché e da dove le venisse non lo sapeva, a meno che non fosse perché lui le sembrava tanto lontano da lei, e così al di fuori della sua portata. Essa aveva creduto che tra loro dovesse passare almeno uno sguardo d'intesa e di riconoscimento. Pensò alla foresta buia, con il suo praticello solitario, all'amore, all'angoscia, al tronco muscoso sedendo sul quale, le mani nelle mani, essi avevano unito le loro parole tristi e appassionate al malinconico mormorio del ruscello. Come si erano conosciuti l'un l'altro in quel momento! Ed era questo l'uomo di allora? Riusciva appena a riconoscerlo! Lui, che incedeva con tanta fierezza, circondato da un corteo di anziani maestosi e venerabili, tra il fragore della musica; lui, così irraggiungibile nella sua posizione mondana, e ancor più lontano nella vasta prospettiva dei suoi rigidi pensieri, dove lei lo vedeva in quel momento! La sua anima si sentì sprofondare all'idea che quanto era stato non fosse che un'illusione, e che, per distinto che fosse stato il sogno, non potesse esistere alcun vero legame tra lei e il sacerdote. E tanta femminilità c'era ancora in Hester, che non riusciva quasi a perdonargli adesso meno che mai, quando il passo pesante del destino che avanzava si sentiva vicino, vicino, sempre più vicino! - il fatto che riuscisse a ritirarsi così completamente dal loro mondo comune, mentre lei brancolava nel buio, e tendeva le sue mani gelide senza riuscire a trovarlo.
Perla o vide e corrispose ai sentimenti della madre, o sentì anche lei l'alone di lontananza e di intangibilità che aveva avvolto il sacerdote. Mentre il corteo le sfilava davanti, la piccola non stette ferma un momento, alzandosi e abbassandosi, come un uccellino sul punto di volar via. Quando la sfilata fu terminata, guardò in viso Hester.
"Mamma", disse, "quello era lo stesso sacerdote che mi ha dato un bacio in riva al ruscello?".
"Sta' un po' zitta, cara Perla!" bisbigliò la madre. "Non dobbiamo parlare di quello che è accaduto nella foresta qui, sulla piazza del mercato".
"Non riuscivo a credere che potesse essere lui, da quanto è cambiato", proseguì la bambina. "Altrimenti gli sarei corsa incontro, e mi sarei fatta baciare da lui qui davanti a tutti, come ha fatto laggiù tra i vecchi alberi scuri. Che cosa mi avrebbe risposto il sacerdote, mamma? Si sarebbe battuto la mano sul cuore, e mi avrebbe sgridata e mandata via?".
"Che cosa avrebbe potuto dirti, Perla", rispose Hester, "se non che non è questo il momento più adatto per darsi dei baci, e che non sta bene baciarsi sulla piazza del mercato? E' stato molto meglio, sciocchina, che tu non gli abbia parlato!".
La stessa opinione, anche se in forma diversa, sul conto di Dimmesdale, fu espressa da una persona la cui stravaganza, o la cui pazzia, come sarebbe più giusto che la chiamassimo, la spinse a fare quello che ben pochi dei cittadini avrebbero osato, cioè ad attaccare discorso in pubblico con la donna dalla lettera scarlatta. Era la signora Hibbins che, abbigliata in pompa magna, con tripla gorgiera di pizzo, corpetto ricamato, un abito di velluto e un bastone dal pomo d'oro, era uscita a veder sfilare il corteo. La vecchia signora godeva della fama (che in seguito doveva costarle nientemeno che la vita) di essere la prima attrice in tutte le operazioni di negromanzia continuamente in via d'effettuazione, e la folla le si apriva davanti, temendo di sfiorarle il vestito, quasi celasse la peste tra i suoi ricchi drappeggi. Vista accanto a Hester Prynne, per quanto molti vedessero quest'ultima ormai di buon occhio, la paura ispirata dalla signora Hibbins raddoppiò, e fu causa di uno spostamento generale dalla zona della piazza del mercato dove si trovavano le due donne.
"In fede mia, quale mai fantasia mortale avrebbe potuto immaginare una cosa simile!" bisbigliò la vecchia a Hester in tono confidenziale. "Quel sant'uomo! Quell'eletto sulla terra, come la gente lo considera, e come, sono costretta a dirlo, sembra davvero! Chi fra quelli che lo hanno visto sfilare in processione potrebbe immaginare quanto poco tempo fa egli sia uscito dal suo studio, masticando un passo della Scrittura in ebraico, ci giurerei, per andare a prendere un po' d'aria nella foresta? Aha!
Noi sappiamo cosa significhi, Hester Prynne! Ma in verità, parola mia, mi riesce difficile crederlo lo stesso uomo! Ho visto sfilare oggi dietro la banda molti buoni parrocchiani che sono stati miei compagni di danza, mentre suonava un certo Violinista, e si dava il caso che uno stregone indiano o un mago lappone ci desse la mano. Questa è una bagattella per una donna che conosce il mondo.
Ma questo sacerdote! Potresti affermare con sicurezza, Hester, che è lo stesso che hai incontrato sul sentiero nella foresta?".
"Signora, io non so di chi stiate parlando", rispose Hester Prynne, rendendosi conto di aver che fare con una mente malata, non senza restare egualmente stupefatta e spaventata dalla sicurezza con cui lei dichiarava tanta gente, oltre se stessa, in stretti rapporti con il Maligno. "Non mi sentirei di parlare con leggerezza di un dotto e pio testimone del Verbo, come il reverendo Dimmesdale".
"Ma via, mia cara, via!" gridò la vecchia signora, scuotendo il dito all'indirizzo di Hester. "Credi che dopo essere stata tante volte nella foresta, io non sia ancora in grado di giudicare chi altri ci sia stato? Ma sì, anche se non resta loro nei capelli neppure una foglia delle ghirlande che portavano al ballo! Io conosco te, Hester, dal marchio che porti! Tutti possono vederlo alla luce del sole, e nell'oscurità scintilla come una fiamma rossastra. Tu lo porti apertamente, e quindi non c'è ragione di discutere. Ma questo sacerdote! Lascia che te lo dica in un orecchio: quando l'Uomo Nero vede che uno dei suoi servi, segnato e marcato, è restio a confessare il patto come il reverendo Dimmesdale, sa come sistemare le cose in modo da rivelare, in pieno giorno, il suo simbolo agli occhi del mondo! Cos'è che egli cerca sempre di nascondere, con la mano sul cuore? Eh, Hester Prynne?".
"Che cos'è, buona signora Hibbins?" chiese ansiosamente la piccola Perla. "L'hai visto?".
"Non fa nulla, carina", rispose la signora Hibbins, facendo un profondo inchino a Perla. "Lo vedrai tu stessa, una volta o l'altra. Dicono, piccola, che tu sia della stirpe del Principe dell'Aria! Vuoi volartene via con me, una notte serena, a far la conoscenza di tuo padre? Allora saprai perché il sacerdote si tiene sempre una mano sul cuore!".
Ridendo in modo così stridulo da farsi sentire da tutta la piazza, la vecchia strega prese congedo.
Intanto la preghiera preliminare era già stata recitata in chiesa, e si sentirono le prime frasi del discorso di Dimmesdale. Una sensazione irresistibile trattenne Hester nei paraggi. Siccome l'edificio sacro era troppo affollato per accogliere un altro ascoltatore, prese posto vicino al palco della gogna. Era abbastanza vicino da farle pervenire all'orecchio tutto il sermone, sotto forma di un bisbiglio e di un flusso indistinto, ma mutevole, della caratteristica voce del pastore.
Una voce come quella era in se stessa una dote preziosa, tanto che un ascoltatore, senza comprendere neppure una parola della lingua del predicatore, avrebbe potuto essere egualmente cullato dall'intonazione e dalla cadenza delle frasi. Come ogni forma di musica, spirava passione e sentimento, e emozioni tenere o elevate, in una lingua che era quella del cuore umano, dovunque fosse nato. Per confuso che le giungesse il suono attraverso le pareti della chiesa, Hester Prynne ascoltava con tale grande attenzione, e vi prendeva parte così intimamente, che il discorso assumeva per lei un significato, affatto indipendente dalle sue parole indistinguibili. Forse, se le avesse sentite più chiaramente, esse sarebbero state soltanto uno strumento più grossolano, e avrebbero tarpato le ali del suo spirito. Ora lei ne coglieva il tono basso, come quello del vento quando si abbassa a riposarsi; ora risaliva, con l'elevarsi di un tono acuto, per gradazioni progressive di dolcezza e di potenza, sino a che il volume più pieno non sembrava avvolgerla in una sfera di religioso timore e di solenne grandiosità. E tuttavia, per maestosa che talvolta diventasse la voce, restava sempre in essa un elemento fondamentale di disperazione. Era un'espressione alta o bassa d'angoscia, il grido o il bisbiglio, si sarebbe potuto immaginare, dell'umanità sofferente, che risvegliava qualcosa in tutti i cuori! A momenti questa profonda vena di sentimento era tutto quel che si poteva sentire, e si sentiva appena, sospirare in un silenzio desolato. Ma anche quando la voce del sacerdote si faceva alta e imperiosa, quando sgorgava irresistibilmente verso il cielo, quando si rivestiva di tutta la sua ampiezza e potenza, colmando la chiesa al punto da farsi strada attraverso le mura massicce per espandersi all'aria aperta, anche allora, se l'ascoltatore avesse teso l'orecchio con attenzione e apposta, avrebbe potuto scoprire lo stesso grido d'angoscia. Cos'era? Era il lamento di un cuore umano, sovraccarico di dolore, forse colpevole, che narrava il segreto, di dolore o di colpa che fosse, al grande cuore dell'umanità, cercando di ottenere la compassione o il perdono, in ogni istante, con ogni parola, e non invano! Era questo tono sommesso, profondo e continuo, che dava al sacerdote la forza a lui più adatta.
Per tutto questo tempo Hester era rimasta come una statua ai piedi del palco. Se la voce dell'ecclesiastico non ce l'avesse trattenuta, ci sarebbe stato egualmente una specie di magnetismo in quel punto, dal quale era cominciata la sua vita di vergogna.
Provava una strana sensazione, troppo incerta per diventare un pensiero, ma che le incombeva pesantemente sull'animo, come se tutta l'orbita della sua esistenza sia passata sia futura fosse legata a quel punto, come l'unico che le conferisse unità.
La piccola Perla, intanto, si era allontanata dal fianco della madre, e giocava liberamente sulla piazza del mercato. Rendeva allegra la folla immusonita con il brillare del suo raggio irrequieto, proprio come un uccello dal piumaggio lucente illumina un intero albero dallo scuro fogliame saltellando qua e là, a metà visibile e a metà nascosto nel crepuscolo della folta ramaglia. Si muoveva con grazia, ma spesso con scatti improvvisi e irregolari.
Mostrava così l'irrequieta vivacità del suo spirito, che oggi era doppiamente instancabile nella sua continua danza sulle punte perché era accompagnato dalle vibrazioni dell'inquietudine della madre. Ogni volta che Perla scorgeva qualcosa che potesse eccitare la sua curiosità, sempre desta e mutevole, gli volava incontro e, potremmo dire, si appropriava dell'uomo o della cosa per tutto il tempo che voleva, ma senza concedere in cambio il minimo controllo sui propri atti. I puritani la guardavano e, anche se sorridevano, non erano per questo meno disposti a dichiararla di origine diabolica per l'indescrivibile fascino di bellezza e d'eccentricità che irradiava dalla sua piccola figura e scintillava della sua vivacità. Lei correva a guardare in faccia gli indiani, e veniva a contatto con nature ancora più selvagge della sua. Di là, con l'audacia innata che la contraddistingueva, ma con una riservatezza altrettanto caratteristica, correva in mezzo a un gruppo di marinai, abbronzati uomini dell'oceano come gli indiani lo erano della terraferma; ed essi guardavano con stupore e ammirazione la piccola Perla, come se la schiuma del mare avesse preso la forma di una bambina, con l'anima di uno di quei fuochi fatui che brillano di notte sulla prua delle navi.
Uno di questi lupi di mare, lo stesso capitano che aveva parlato con Hester, restò così colpito dall'aspetto di Perla che cercò di afferrarla per darle un bacio. Visto che era più difficile a prendersi di un colibrì in volo, tolse dal cappello la catena d'oro che lo adornava e la lanciò alla bambina. Perla se l'avvolse subito intorno al collo e alla vita con un gesto così abile e grazioso che la catena sembrò aver sempre fatto parte di lei, ed era difficile immaginare la bambina senza di essa.
"Tua madre è quella donna con la lettera scarlatta", disse il marinaio. "Vorresti recarle un messaggio da parte mia?".
"Sì, se il messaggio mi piace", rispose Perla.
"Dille allora", replicò l'uomo, "che ho parlato di nuovo con il vecchio dottore curvo con il viso scuro, e che egli si incarica di portare a bordo con sé il gentiluomo di cui lei si preoccupa tanto. Di' quindi a tua madre che non si dia pensiero altro che di se stessa e di te. Le dirai questo, piccola strega?".
"La signora Hibbins dice che mio padre è il Principe dell'Aria!" gridò Perla con il suo sorriso birbone. "Se mi chiami con quel brutto nome, gli parlerò di te, e lui assalirà la tua nave con una tempesta!".
Correndo a zig-zag per la piazza, la bimba tornò dalla madre, e le comunicò quello che aveva detto il marinaio. L'animo forte, calmo e pieno di sopportazione di Hester fu quasi sul punto di cedere, vedendo questo accanirsi su di lei del destino che, nel momento in cui sembrava che nel loro labirinto di disperazione si stesse aprendo, a lei e al pastore, una via, si mostrava con un sorriso spietato proprio nel mezzo del loro cammino.
Con la mente sconvolta dalla terribile perplessità causatale dalla comunicazione del capitano, dovette sottostare a un'altra prova.
C'erano molti che provenivano dalla campagna intorno alla città, i quali avevano sentito spesso parlare della lettera scarlatta, e avevano imparato a considerarla qualcosa di impressionante a causa di centinaia di chiacchiere false o esagerate, senza averla mai vista con i propri occhi. Costoro, dopo aver esaurito le altre fonti di divertimento, finirono con l'affollarsi attorno a Hester Prynne, con rozza e fastidiosa indiscrezione. Per indelicata che fosse, tuttavia essa non riuscì a farli oltrepassare un circolo di parecchie iarde. Restarono tutti a quella distanza, trattenuti là dalla forza centrifuga della ripugnanza ispirata dal simbolo misterioso. L'intera masnada dei marinai, osservando l'affollarsi del pubblico, saputo cosa significava la lettera scarlatta, venne; e ognuno di loro cacciò nel crocchio il suo volto abbronzato e da delinquente. Pure gli indiani furono toccati da una specie di gelido riflesso della curiosità dell'uomo bianco e, scivolando tra la folla, fissarono i loro neri occhi da serpenti sul petto di Hester, immaginando forse che chi portava sul petto quel lucente ricamo dovesse essere un personaggio della massima importanza tra la sua gente. Infine gli abitanti della città (il cui interesse per questo soggetto ormai esaurito si ridestava fiaccamente per non esser da meno con quello che sentivano gli altri) si avvicinarono pigramente allo stesso punto per tormentare Hester Prynne ancor più degli altri con il loro sguardo freddo e abituato da tempo alla sua antica ignominia. Hester vide e riconobbe gli stessi volti di quel gruppo di matrone che sette anni prima l'avevano aspettata alla porta della prigione; tutte, meno una, la più giovane e la sola tra loro sensibile alla compassione, per la quale aveva ricamato molto tempo prima il sudario con le sue mani.
All'ultima ora, quando tanto poco mancava al momento di gettar via da sé la lettera ardente, era divenuta centro di nuove attenzioni e di nuova eccitazione, che le faceva dolere il petto come mai prima d'allora, a eccezione del primo giorno.
Mentre Hester stava nel suo magico cerchio di vergogna, dove l'astuta crudeltà della sentenza sembrava averla condannata a restare per sempre, il sublime predicatore abbassava gli occhi dal pulpito su una folla, i ripostigli più intimi dell'anima della quale aveva piegato alla sua parola. Il santo sacerdote nella chiesa! La donna dalla lettera scarlatta sulla piazza del mercato!
Quale immaginazione sarebbe stata così irriverente da supporre che su entrambi ardesse lo stesso marchio?
23. LA RIVELAZIONE DELLA LETTERA SCARLATTA
La voce eloquente, sulla quale le anime degli ascoltatori s'erano librate verso l'alto come sulle onde gonfie del mare, giunse infine a una pausa. Ci fu un attimo di silenzio, profondo come quello che doveva seguire i responsi degli oracoli. Seguì poi un mormorio e un tumulto in sordina, come se gli ascoltatori, liberi dall'incantesimo che li aveva trasportati nel mondo interiore d'un altro, stessero rientrando in sé, ancora sotto l'influsso del più profondo e sbigottito timore. Un istante più tardi la folla cominciò a riversarsi fuori dalle porte della chiesa. Ora che erano giunti alla fine, avevano bisogno di respirare un'aria diversa, più idonea a sostenere la grossolana vita terrena, nella quale tornavano a cadere, di quanto non fosse l'atmosfera infiammata dalle parole del predicatore, e greve della ricca fragranza del suo pensiero.
All'aria aperta, la loro estasi si trasformò in parole. La strada e la piazza del mercato echeggiarono addirittura, da un lato all'altro, degli applausi diretti al sacerdote. I suoi ascoltatori non riuscivano a darsi pace finché non si erano detti l'un l'altro ciò che ognuno di essi conosceva meglio di quanto riuscisse a dire o a sentire. A loro concorde parere, mai nessuno aveva parlato in modo così elevato, così saggio e così santo, come colui che aveva predicato quel giorno; e l'ispirazione divina non si era mai manifestata attraverso labbra mortali, così chiaramente come attraverso le sue. Se ne poteva vedere, per così dire, discendere l'influsso su di lui, impossessarsene, ed elevarlo a ogni minuto al di sopra del discorso scritto che aveva davanti, riempiendogli la mente d'immagini che stupivano lui non meno del suo pubblico.
L'argomento, sembrava, era stato il rapporto tra la Divinità e il consorzio umano, con un riferimento speciale alla Nuova Inghilterra, che essi stavano fondando tra le avversità. E, mentre si avvicinava alla conclusione, uno spirito profetico era sceso su di lui, costringendolo alla sua volontà come aveva costretto gli antichi profeti d'Israele, con questa sola differenza, che mentre i veggenti ebrei avevano preannunciato il giudizio e la rovina del loro paese, era suo compito invece predire un futuro nobile e glorioso a questo popolo del Signore da poco riunito. Ma al fondo di ogni frase, per tutto il discorso, era rimasto un profondo e triste tono di dolore, che non poteva essere inteso altrimenti che come il naturale rimpianto di chi fosse destinato a scomparire prematuramente. Sì, il loro sacerdote che amavano tanto, e che tanto li amava tutti che non poteva andarsene in cielo senza un sospiro, aveva la precognizione di una morte precoce incombente su di sé, e presto li avrebbe lasciati in lacrime. Quest'idea di una sosta transitoria sulla terra aveva dato l'ultimo tocco di enfasi all'effetto prodotto dal predicatore; era come se un angelo, nel suo volo verso il cielo, avesse agitato per un istante sul suo popolo le sue ali, splendore e ombra a un tempo, e avesse disseminato su di esso una pioggia di auree verità.
Per tutte queste ragioni, era arrivata per il reverendo Dimmesdale, come per la maggior parte degli uomini, nei loro vari ambienti, anche se essi raramente se ne accorgono fino a che non possono guardarsi indietro da molto lontano, un'epoca della vita brillante e piena di trionfi più d'ogni altra precedente o futura.
In questo momento egli si ergeva sulla vetta più alta del primato, a cui i doni dell'intelletto, della vasta erudizione, dell'eloquenza appassionata, e della reputazione della più chiara santità, potessero elevare un ecclesiastico in quei primi anni della Nuova Inghilterra, in cui la sua professione stessa era posta su un alto piedistallo. Questa era la posizione che il sacerdote occupava nel momento in cui piegava la testa sui cuscini del pulpito, al termine del suo discorso dell'Elezione. Frattanto Hester Prynne stava accanto al palco della gogna, con la lettera scarlatta ancora scintillante sul petto!
Si udì di nuovo il clamore della musica, e il passo cadenzato della scorta militare che oltrepassava la porta della chiesa. Il corteo doveva avviarsi di lì diretto verso il municipio, dove un solenne banchetto avrebbe concluso le cerimonie del giorno.
Ancora una volta, dunque, si vide la schiera di padri venerandi e maestosi attraversare la folla, che si apriva rispettosamente su entrambi i lati per dare il passo al governatore, ai magistrati, ai nobili e ai saggi, ai ministri del culto, e a tutti quelli che erano altolocati e famosi. Quando furono nella piazza del mercato, il loro arrivo venne salutato da un gran grido. Questo, anche se indubbiamente aveva preso forza supplementare dalla puerile lealtà che in quell'epoca si tributava ai reggitori dello Stato, parve un'incontenibile eruzione dell'entusiasmo acceso negli ascoltatori da quell'elevato brano d'eloquenza che ancora echeggiava nelle loro orecchie. Ognuno ne sentì l'impulso in se stesso e, con il respiro stesso, lo trasse dal proprio vicino; nella chiesa era stato trattenuto a stento, ma a cielo aperto rimbombò in alto fino allo zenith. C'erano esseri umani e sentimenti elevati e armonici in numero sufficiente da produrre un frastuono più impressionante della voce da organo d'una raffica di vento, d'un tuono o del muggio del mare, e quel poderoso ondeggiare di tante voci si fuse in una sotto quella spinta cosmica che fa di molti cuori un'anima sola. Mai, dalle lande della Nuova Inghilterra, si era levato un tale grido! Mai, nelle lande della Nuova Inghilterra, si era trovato un uomo onorato dai suoi confratelli come il predicatore!
E dunque, che cos'era di lui? Non c'erano i punti luminosi di un'aureola attorno al suo capo? Reso così etereo dallo spirito e glorificato dai suoi fedeli ammiratori, potevano forse i suoi passi, nel corteo, lasciar tracce sulla polvere della terra?
All'avanzare delle file dei soldati e dei padri della nazione, tutti gli occhi si volsero verso il punto dal quale si vedeva avvicinarsi il sacerdote. Il grido si spegneva fino a diventare un mormorio, man mano che una parte della folla dopo l'altra riusciva a vederlo. Come appariva debole e pallido, in mezzo al suo trionfo! L'energia o, diciamo piuttosto, l'ispirazione che lo aveva sostenuto, fino a che non avesse consegnato il sacro messaggio che portava con sé la sua forza dal cielo, era svanita, ora che la sua missione era stata compiuta così fedelmente. Il lampo che essi avevano visto ardere sul suo volto pochi istanti prima era spento, come una fiamma che si smorzi senza speranza tra gli ultimi tizzoni consunti. Non sembrava quasi il viso d'un vivo, tanto era cadaverico il suo incarnato; si poteva credere non ci fosse vita in quell'uomo che percorreva la sua strada sfibrato a tal punto, eppure egli continuava a percorrerla senza abbattersi al suolo!
Un suo confratello, il venerabile John Wilson, vedendo in che stato era ridotto Dimmesdale al riflusso dell'intelletto e della sensibilità, si fece avanti premurosamente per offrirgli il suo appoggio. Il sacerdote respinse il braccio del vecchio con un gesto tremante ma deciso. Proseguì nel suo cammino, se così si può descrivere un movimento che somigliava piuttosto agli sforzi incerti di un bambino che veda le braccia della madre tese verso di lui. E ora, per quanto impercettibili fossero i suoi ultimi passi, giunse davanti al palco annerito dal tempo e scolpito nella memoria, dove, tanto tempo prima, con tutti i desolati anni che seguirono l'evento, Hester Prynne aveva sfidato lo sguardo sprezzante del mondo. Là si trovava Hester Prynne, tenendo la piccola Perla per mano! E sul suo petto c'era la lettera scarlatta! Il sacerdote si fermò, benché la musica continuasse a suonare la marcia solenne e allegra sulla quale il corteo segnava il passo. Lo spingeva avanti, avanti, alla cerimonia, ma lui si fermò.
Bellingham negli ultimi istanti aveva tenuto ansiosamente gli occhi fissi su di lui. Lasciò ora il posto che occupava nella processione, e avanzò a prestargli aiuto, giudicando dall'aspetto di Dimmesdale che altrimenti sarebbe caduto a terra. Ma c'era qualcosa nell'espressione di quest'ultimo che trattenne il magistrato, che pure non era uno di quegli uomini che obbediscono facilmente alle vaghe istanze che passano da uno spirito all'altro. La folla, intanto, guardava con timore e meraviglia.
Questa debolezza terrena, a parer loro, era soltanto un'altra manifestazione della forza celestiale del sacerdote, né sarebbe loro sembrato un miracolo troppo eccelso se quel sant'uomo fosse asceso al cielo sotto i loro occhi, divenendo sempre più luminoso e trasparente, fino a scomparire nella luce del cielo!
Egli si volse al palco, e tese le braccia.
"Hester", disse, "vieni qui! Vieni, mia piccola Perla!".
Era agghiacciante lo sguardo col quale si rivolgeva a loro, ma c'era in esso anche qualcosa di affettuoso e di stranamente trionfante. La piccola, con quei movimenti da uccellino che erano uno dei suoi tratti più particolari, gli corse incontro, e gli abbracciò le ginocchia. Hester Prynne, lentamente, come spinta da un fato ineluttabile e contro la sua stessa volontà, si spinse tuttavia verso di lui, ma si arrestò prima di raggiungerlo. In questo momento il vecchio Roger Chillingworth si lanciò attraverso la folla (o forse, tanto era cupo, sconvolto e perverso il suo aspetto, sorse da qualche regione infernale) a impedire alla sua vittima di fare quel che lui voleva. Il vecchio si gettò dunque avanti, e prese il sacerdote per un braccio.
"Fermati, pazzo! Cosa vuoi fare?" sussurrò. "Allontana quella donna! Scaccia quella bambina! Tutto può andar bene! Non rovinare la tua reputazione per morire disonorato! Posso ancora salvarti!
Vuoi infamare il tuo sacro ministero?".
"Ah, tentatore! Arrivi in ritardo!" rispose il sacerdote, fissandolo con occhi pieni di terrore, ma decisi. "Non hai più su di me il potere che avevi! Con l'aiuto di Dio, ora potrò sfuggirti!".
Tese di nuovo la mano alla donna dalla lettera scarlatta.
"Hester Prynne", gridò, con ardore straziante, "in nome di Colui che, terribile ma misericordioso, mi fa la grazia in quest'ultima ora di fare ciò che, con mio grave peccato e con terribile dolore, non ho avuto il coraggio di fare sette anni or sono, vieni qui adesso, e fammi scudo della tua forza! E che questa forza, Hester, sia guidata dalla volontà che Dio ha voluto donarmi! Questo sventurato e tristo vecchio vi si vuole opporre con tutto il suo potere, con tutto il potere suo e quello del demonio! Vieni, Hester, vieni! Aiutami a salire su quel palco!".
La folla era in preda all'emozione. I personaggi di riguardo e dignitosi che attorniavano il sacerdote più da vicino restarono così sorpresi e così sbalorditi da quel che vedevano, non potendo accettare la spiegazione più immediata, o immaginarne un'altra, che furono soltanto spettatori silenziosi e immobili del giudizio che la Provvidenza stava per compiere. Videro il sacerdote, appoggiato alla spalla di Hester, e sostenuto dal suo braccio che lo circondava, avvicinarsi al palco e salirne i gradini, senza lasciare la mano della piccola figlia del peccato. Il vecchio Roger Chillingworth li seguiva, come parte intimamente collegata al dramma di colpa e di dolore nel quale tutti erano stati attori, e quindi in pieno diritto di partecipare alla sua scena finale.
"Se tu avessi percorso tutta la terra", diss'egli, gettando uno sguardo bieco all'ecclesiastico, "non avresti potuto trovare un luogo abbastanza nascosto, alto o basso che fosse, dove avresti potuto sfuggirmi, eccettuato questo palco!".
"Siano rese grazie a Colui che mi ha guidato qui!" rispose il sacerdote.
Egli tuttavia era agitato da un tremito, e si volse a Hester con un'espressione di dubbio e di ansietà negli occhi, che un debole sorriso che gli aleggiava sulle labbra non riusciva a celare.
"Non è meglio questo", mormorò, "di quello che sognammo nella foresta?".
"Non so, non so", rispose lei concitata. "Meglio? Sì, così forse moriremo entrambi, e con noi la piccola Perla!".
"Per te e Perla, sarà fatta la volontà di Dio", disse il sacerdote, "e Dio è misericordioso! Ora, devo adempiere la volontà che Egli mi ha rivelato. Io, Hester, sto per morire. Lascia che la mia onta ricada in fretta su di me".
Aiutato in parte da Hester Prynne, e tenendo per mano la piccola Perla, il reverendo Dimmesdale si volse ai degni e venerabili legislatori; ai pii sacerdoti, suoi confratelli; al popolo, il cui gran cuore era così commosso, e così straripante di lacrimosa comprensione, come se sapesse che qualche profondo mistero della vita (che, anche se ricolmo di peccato, conteneva anche angoscia e pentimento) stava per essergli rivelato. Il sole, che da poco aveva cominciato a declinare, splendeva sull'ecclesiastico, e stagliava la sua figura, come se si fosse distaccato dalla terra per dichiararsi colpevole di fronte al tribunale dell'Eterna Giustizia.
"Popolo della Nuova Inghilterra!" gridò, con una voce che si levò alta, solenne e maestosa, e tuttavia sempre pervasa da un tremore, e talvolta incrinata, come se lottasse per emergere da un abisso insondabile di rimorso e di dolore, "voi, che mi avete amato! Voi, che mi avete chiamato santo! Guardatemi qui, il peggior peccatore del mondo! Infine, infine io mi trovo dove già avrei dovuto essere sette anni or sono, con questa donna, il cui braccio, più di quella poca forza con la quale sono salito quassù, mi sorregge in questo terribile momento, e mi impedisce di giacere con il viso nella polvere! Eccola, quella lettera scarlatta che porta Hester, davanti alla quale tutti voi avete rabbrividito! Dovunque lei abbia diretto i suoi passi, dovunque abbia cercato riposo dal suo miserevole fardello, essa ha gettato il suo raggio raccapricciante di terrore e di ripugnanza tutt'intorno a lei. Ma c'era uno tra voi, davanti al marchio di peccato e d'infamia del quale non avete rabbrividito!".
A questo punto parve che il sacerdote non riuscisse a svelare il suo segreto fino alla fine. Ma egli vinse la sua debolezza fisica, e ancor più quella del suo cuore, che cercava di avere il sopravvento. Rifiutò ogni aiuto, e avanzò di un passo oltre la donna e la bambina.
"Egli lo portava su di sé!" continuò, con una specie di ferocia, tanto era risoluto a narrare l'intera verità. "L'occhio di Dio lo vedeva! Gli angeli se lo additavano! Il diavolo lo conosceva bene, e lo inaspriva col tocco del suo dito rovente! Ma egli continuava a nasconderlo con tutta la sua abilità allo sguardo degli uomini, e camminava tra di voi atteggiandosi a spirito triste, perché così puro in un mondo corrotto, e malinconico per la sua esclusione dal mondo celeste! Ora, al momento di morire, si offre alla vostra vista! Vuole che guardiate di nuovo la lettera scarlatta di Hester! Vi dice che, con tutto il misterioso terrore che incute, non è che l'ombra di quella che lui porta sul proprio petto, e che essa stessa, il suo marchio del color del fuoco, non è che il simbolo di quello che ha disseccato il suo cuore! C'è qui qualcuno che ponga in dubbio il castigo che Dio riserva a un peccatore?
Guardate! Eccone la terribile testimonianza!".
Con un gesto convulso si strappò l'abito che gli copriva il petto!
Fu rivelato! Ma sarebbe irriverente descrivere una tale rivelazione. Per un istante lo sguardo della folla attonita restò fisso sull'agghiacciante miracolo, mentre il sacerdote si ergeva, con un rossore trionfante in volto, come chi abbia ottenuto una strepitosa vittoria nell'acme del più acuto dolore. Poi, si abbatté sul palco! Hester lo sollevò un poco, e ne prese la testa in grembo. Il vecchio Roger Chillingworth si inginocchiò al suo fianco, con una faccia spenta e ottusa, da cui sembrava che fosse sfuggita la vita.
"Mi sei sfuggito!" ripeteva. "Mi sei sfuggito!".
"Che Dio ti perdoni!" disse il sacerdote. "Anche tu hai peccato gravemente!".
Distolse gli occhi morenti dal vecchio, e li fissò sulla donna e sulla bambina.
"Mia piccola Perla", disse con voce fioca; e c'era sul suo viso un sorriso dolce e gentile, come di un'anima che stesse trovando l'eterno riposo: ma sì, ora che il fardello era stato rimosso dalle sue spalle, sembrava quasi che volesse scherzare con la bambina, "cara, piccola Perla, mi darai un bacio, adesso? Non hai voluto, laggiù, nella foresta! Ma ora, lo vuoi fare?".
Perla lo baciò sulle labbra. Fu il dissolversi di un incantesimo.
La grandiosa scena di dolore, alla quale partecipava, aveva sviluppato in quella selvatica bambina tutte le sue capacità affettive; e le lacrime che caddero sul volto di suo padre furono il pegno che sarebbe cresciuta ormai tra le gioie e le sofferenze dell'uomo, non già per ingaggiare perpetua battaglia col mondo, ma per essere, in questo, una donna. Anche verso la madre era finita la missione di Perla come messaggera d'angoscia.
"Hester", disse l'ecclesiastico, "addio!".
"Dunque non ci rivedremo?" sussurrò lei, accostando il viso al suo. "Non trascorreremo assieme la vita eterna? Certo, certo, con tutto questo dolore ci siamo riscattati a vicenda! Tu vedi nel profondo dell'eternità con quegli occhi lucenti di morente! Dimmi dunque che vedi?".
"Taci, Hester, taci!" replicò l'uomo, solennemente. "La Legge che abbiamo infranto! Il peccato che qui è stato così terribilmente rivelato! Pensa soltanto a questo! Ho paura! Ho paura! Forse è dal momento in cui abbiamo dimenticato il nostro Dio, quando abbiamo violato il rispetto per le nostre anime, che è diventato vano sperare di poterci rincontrare in seguito, in unione casta ed eterna. Dio lo sa, ed è misericordioso! Egli ha dimostrato la sua compassione soprattutto nelle afflizioni che ha voluto darmi.
Dandomi questo marchio rovente da portare sul petto! Mandandomi quel terribile e cupo vecchio, per mantenere sempre deste le mie sofferenze! Conducendomi qui, perché morissi questa morte di trionfante vergogna davanti al popolo! Se una sola di queste torture fosse mancata, io sarei stato perduto per sempre! Sia lodato il Suo nome! Sia fatta la Sua volontà! Addio!".
Quest'ultima parola fu esalata col suo ultimo respiro. La folla, silenziosa fino a quel momento, proruppe in una voce strana e cupa, di paura e di stupore, che non riusciva sinora a esprimersi se non con quel mormorio che rombò così sinistramente dietro allo spirito dipartito.
24. CONCLUSIONE
Molti giorni dopo, quando la gente ebbe avuto tempo a sufficienza per riordinare i propri pensieri a proposito della scena precedente, ci furono varie versioni di ciò che s'era visto sul palco.
La maggior parte degli spettatori affermò di aver visto sul petto dello sventurato sacerdote una Lettera Scarlatta, l'immagine precisa di quella portata da Hester, impressa sulla carne. Quanto alla sua origine, vennero fornite varie spiegazioni, nessuna delle quali poté essere considerata qualcosa di più che una semplice congettura. Alcuni asseriscono che il reverendo Dimmesdale, il giorno stesso in cui Hester Prynne aveva indossato per la prima volta il suo marchio d'infamia, si fosse abbandonato alla penitenza, proseguita poi in diverse forme, infliggendosi l'orribile tortura. Altri sostennero invece che le stigmate non si fossero prodotte che molto più tardi, quando il vecchio Roger Chillingworth, da potente negromante com'era, le fece comparire per mezzo di filtri magici e velenosi. Altri, ancora (e questi erano quelli che apprezzavano meglio la singolare sensibilità del sacerdote, e la mirabile azione del suo spirito sul corpo) sussurrarono la loro opinione, e cioè che il terribile segno fosse la cicatrice dell'inarrestabile dente del rimorso, che, scavatasi la via dai recessi del cuore, si era mostrato a manifestare il terribile giudizio del Cielo con la presenza visibile della lettera. Il lettore può scegliere tra queste teorie. Noi abbiamo cercato di far luce su questo prodigio con tutti i mezzi a nostra disposizione, e saremmo ben lieti, ora che ha adempiuto al suo ufficio, di cancellarne la traccia profonda dalla nostra mente, dove la lunga meditazione l'ha fissata con una precisione maggiore di quel che vorremmo.
E' strano, però, che alcuni, i quali assistettero a tutta la scena e dichiararono di non aver mai distolto lo sguardo dal reverendo Dimmesdale, negassero di aver visto sul suo petto marchi di sorta, più di quanti ce ne siano su quello d'un neonato. E, secondo quanto riferirono, le ultime parole del morente non avevano riconosciuto, né ammesso anche lontanamente, alcuna responsabilità da parte sua, neppure la più lieve, nella colpa per cui Hester Prynne portava la lettera scarlatta da tanti anni. Secondo queste attendibilissime testimonianze, il sacerdote, sapendo di essere in procinto di morire, e sapendo altresì che la venerazione del popolo lo poneva già accanto agli angeli e ai santi, aveva voluto, rendendo il suo ultimo anelito tra le braccia della peccatrice, dimostrare al mondo che misera cosa fosse mai la rettitudine del migliore degli uomini. Dopo aver consumato la vita nei suoi sforzi per il bene spirituale dell'umanità, aveva voluto fare della sua morte una parabola, per tramandare ai suoi ammiratori la triste e grande lezione che, di fronte all'Infinita Purezza, tutti noi peccatori siamo eguali. Fu per insegnar loro che il più santo di essi si era elevato al di sopra dei suoi simili soltanto per distinguere meglio la Misericordia che guarda dal cielo, e per ripudiare definitivamente il fantasma del valore umano, che tenderebbe a guardare verso l'alto. Senza discutere una così profonda verità, ci è lecito considerare questa versione della storia di Dimmesdale soltanto come una manifestazione di quella ostinata fedeltà con la quale gli amici - e soprattutto quelli di un ecclesiastico - difendono talvolta la figura di un uomo, anche quando prove, chiare come il sole del meriggio sulla lettera scarlatta, lo dichiarino una falsa e corrotta creatura del fango.
La fonte sulla quale ci siamo essenzialmente basati, un manoscritto di antica data, ricavato dalle testimonianze orali di individui, alcuni dei quali avevano conosciuto Hester Prynne, mentre altri avevano udito il racconto da testimoni contemporanei, conferma pienamente il punto di vista espresso nelle pagine precedenti. Tra le molte conclusioni che possiamo trarre dalla triste esperienza del povero sacerdote, ricaveremo soltanto questo assioma: "Sii sincero! Sii sincero! Mostra liberamente al mondo, se non la parte peggiore di te stesso, almeno qualche segno dal quale essa si possa riconoscere!".
Non ci fu nulla di più singolare, dopo la morte di Dimmesdale, del cambiamento nell'aspetto e nel contegno del vecchio noto come Roger Chillingworth. Tutte le forze e le energie, tutta la sua linfa vitale e intellettuale, parvero abbandonarlo d'un colpo, al punto che egli avvizzì, si raggrinzì, e quasi sparì alla vista degli uomini, come un'erbaccia sradicata che appassisce sotto la luce del sole. Questo sventurato aveva fatto unico scopo della sua vita la ricerca e l'esercizio sistematico della vendetta; e quando il suo più completo trionfo lasciò questo malefico principio privo di ulteriore ragion d'essere, quando, in breve, non ci fu più al mondo lavoro diabolico da svolgere, non restava al mortale disumanizzato che recarsi dove il suo Padrone avrebbe trovato per lui lavoro a sufficienza, e gli avrebbe pagato il salario che meritava. Ma a tutte queste chimeriche creature, da tanto tempo nostre intime conoscenze, a Roger Chillingworth e ai suoi compagni, vorremmo usare misericordia. E' uno strano argomento da discutere, se l'odio e l'amore non siano in fondo la stessa cosa.
Entrambi, nelle loro forme più esasperate, presuppongono un alto grado di intimità e di comprensione; entrambi pongono un individuo alle dipendenze di un altro per il nutrimento dei suoi affetti e della sua vita spirituale; entrambi lasciano l'amante appassionato, o il nemico non meno appassionato, solo e disperato alla scomparsa dell'oggetto dei suoi pensieri. Considerate da un punto di vista filosofico, dunque, le due passioni sembrano sostanzialmente una sola, salvo che una ci appare circonfusa di un'aureola celeste, e l'altra di un bagliore livido e fosco. Nel mondo dello spirito, il vecchio medico e il sacerdote, vittime l'uno dell'altro, potranno forse, senza volerlo, ritrovare il loro terreno fardello di odio e di antipatia trasformato nel puro oro dell'amore.
Tralasciando questa discussione, dobbiamo comunicare al lettore una questione d'affari. Alla morte del vecchio Roger Chillingworth (che avvenne quello stesso anno), e per sua espressa volontà testamentaria, di cui furono esecutori il governatore Bellingham e il reverendo Wilson, egli lasciò delle proprietà ragguardevoli, sia in America sia in Inghilterra, alla piccola Perla, la figlia di Hester Prynne.
Perla, il folletto, la figlia del demonio, come alcuni continuavano ancora a considerarla, divenne quindi la più ricca ereditiera dei suoi tempi nel Nuovo Mondo. Non è improbabile che fosse questa circostanza a provocare un completo capovolgimento dell'opinione pubblica; e se la madre e la figlia fossero rimaste dove si trovavano, la piccola Perla, giunta in età da marito, avrebbe potuto unire il suo sangue selvaggio con quello del più devoto dei puritani. Ma, non molto tempo dopo la morte del medico, la donna dalla lettera scarlatta scomparve assieme a Perla. Per molti anni, anche se attraverso l'oceano ne giungevano di tanto in tanto vaghe notizie, come informi pezzi di legno con delle iniziali incise gettati sulla spiaggia dalle onde, non si ebbero notizie veramente attendibili sul conto loro. La storia della lettera scarlatta diventò una leggenda. Il suo incantesimo però era ancora efficace, e faceva sì che tutti guardassero con religioso terrore il palco dove era morto lo sciagurato sacerdote, e la casupola presso la riva del mare dove aveva vissuto Hester Prynne. Presso quest'ultima, un pomeriggio, dei bambini erano intenti a giocare, quando videro una donna alta, vestita di scuro, avvicinarsi alla porta. In tutti quegli anni non era mai stata aperta, ma lei riuscì a farne scattare la serratura, o il ferro e il legno marcito cedettero alle sue mani, o forse superò questi ostacoli come un'ombra; fatto sta che entrò.
Sulla soglia si arrestò per un attimo, si volse parzialmente, forse perché l'idea di entrare da sola e tanto cambiata in una casa dove aveva vissuto così intensamente era troppo triste e sconsolata persino per lei. Ma le sue esitazioni non durarono più di un istante, anche se questo fu sufficiente a mostrare una lettera scarlatta sul suo petto.
Hester Prynne era tornata a riprendere la sua ignominia da tempo dimenticata. Ma dov'era la piccola Perla? Se era ancora in vita, doveva fiorire ora in tutto il rigoglio dei primi anni di maturità! Nessuno sapeva, e nessuno seppe mai con assoluta certezza, se il folletto fosse finito tanto prematuramente in un sepolcro verginale, o se il suo generoso e selvaggio carattere si fosse addolcito e sottomesso, e fosse diventato capace di apprezzare la tenera felicità che si addice alle donne. Ma, finché Hester visse, ci furono indizi che la reclusa dalla lettera scarlatta fosse oggetto d'amore e di interessamento da parte di qualcuno che abitava oltre oceano. Le giungevano lettere con sigilli stemmati, anche se le insegne campite che portavano erano ignote all'araldica inglese. Nella casupola si trovavano oggetti di una comodità e di un lusso tali, che Hester non si curava mai di usare, ma che soltanto la ricchezza avrebbe potuto acquistare, e l'amore immaginare per lei. C'erano anche ninnoli, piccoli ornamenti, pegni meravigliosi di incancellabile ricordo, che dovevano essere stati messi insieme da dita delicate sotto l'impulso di un cuore affezionato. Una volta Hester fu vista ricamare un completino per neonato con un tale sfarzo di preziose fantasie che avrebbe provocato un pubblico tumulto se un bambino della nostra sobria e austera colonia ne avesse indossato uno simile.
Insomma, le comari dell'epoca credevano, e lo credeva anche il signor sovrintendente Pue, che aveva condotto delle indagini un secolo dopo, e lo crede fermamente uno dei suoi ultimi successori, che Perla non solo fosse ancora in vita, ma fosse sposata, e felice, e piena di premure per la madre; e che sarebbe stata ben lieta di tener questa madre triste e solitaria accanto al proprio focolare.
Ma c'era una vita più vera per Hester Prynne, qui, nella Nuova Inghilterra, che nello sconosciuto paese dove Perla aveva trovato una casa. Qui era stato commesso il suo peccato; qui aveva sofferto, e qui doveva fare la sua penitenza. Era tornata, dunque, a riprendere di sua volontà, perché neppure il più severo magistrato di quell'epoca ferrea avrebbe potuto imporglielo, a riprendere il simbolo sul quale abbiamo narrato una storia tanto cupa. Esso non lasciò mai il suo petto. Col trascorrere dei tristi, penosi anni di raccoglimento che conclusero la vita di Hester, la lettera scarlatta cessò tuttavia di essere un marchio che attirava il disprezzo e la cattiveria del mondo, e divenne il simbolo di qualcosa da compiangere, e da considerare con sgomento, eppure con riverenza. Poiché Hester Prynne non perseguiva fini egoistici, e non viveva certo per suo vantaggio o per suo godimento, la gente cominciò a confidarle i suoi dolori e le sue preoccupazioni, e richiedeva i suoi consigli, dato che lei stessa aveva attraversato momenti così difficili. Le donne, soprattutto, negli incessanti affanni delle passioni oltraggiate, sprecate, ferite, malriposte o aberranti e peccaminose, o col triste fardello di un cuore chiuso in sé, perché trascurato e sottovalutato, si recavano nella casupola di Hester, chiedendole perché fossero così disgraziate, e se ci fosse un rimedio! Hester le confortava e le consigliava meglio che poteva. Le assicurava pure della sua ferma convinzione che, in un periodo migliore, quando il mondo sarebbe stato maturo, quando fosse piaciuto al Cielo. sarebbe stata rivelata una nuova verità per ristabilire le relazioni tra uomo e donna su fondamenta più sicure di mutua felicità. In un periodo precedente della propria vita, Hester aveva invano creduto di esser lei stessa la profetessa designata, ma da molto tempo ormai aveva riconosciuto l'impossibilità di veder affidata una verità divina e misteriosa ad una donna macchiata dal peccato, prostrata dalla vergogna, o anche soltanto carica di una vita di dolore. L'angelo e l'apostolo della futura rivelazione sarebbe stata certamente una donna, ma nobile, pura e bella; e resa saggia, inoltre, non dal tetro dolore, ma dall'etereo strumento della gioia, dimostrando quanto si possa esser resi felici dall'amore sacro, attraverso la prova più veridica di una vita tesa fruttuosamente a tal fine!
Così diceva Hester Prynne, e abbassava il suo sguardo triste sulla lettera scarlatta. E dopo molti, molti anni, fu scavata una nuova tomba, vicino a una, antica e semisepolta, nel cimitero presso il luogo dove venne poi innalzata la King's Chapel. Essa era vicina a quella tomba antica e semisepolta, ma pur sempre divisa da uno spazio, come se la polvere dei due trapassati non avesse alcun diritto di mescolarsi. Tuttavia una sola lapide serviva a entrambi. Attorno a loro si ergevano monumenti istoriati d'armi nobiliari, ma su quella semplice lastra d'ardesia, come l'attento visitatore può ancora distinguere, per lambiccarsi la mente sul suo significato, si vedeva la forma di uno stemma inciso. Esso portava un'insegna, un simbolo araldico che può servire da motto e da sigillo per la nostra leggenda ormai conclusa; tanto esso è cupo, e ravvivato soltanto da un unico punto da cui emana sempre luce più fosca dell'ombra:
"UNA LETTERA A SCARLATTA IN CAMPO NERO".
NOTE.
NOTA 1: "Locofoco", nome con cui si usa designare i membri dell'ala radicale del partito democratico. Il 22 ottobre 1835, infatti, si presentarono al congresso del loro partito a Nuova York muniti di fiammiferi (detti "locofoco") per sventare il progetto degli avversari, i quali volevano disturbare l'assemblea spegnendo le luci.
NOTA 2: Fortezza situata nello Stato di Nuova York, intorno alla quale si svolsero molte battaglie.
NOTA 3: A Brook Farm (vicino a Boston) l'autore aveva partecipato alla direzione d'una comunità di tipo socialista.
Ralph Waldo Emerson (1803-1882): scrittore e filosofo "trascendentalista".
Ellery Channing (1780-1842): noto capo della chiesa degli "Unitarians" della Nuova Inghilterra.
Henry David Thoreau (1817-1862): uno degli esponenti più originali del trascendentalismo, giunto a posizioni di tipo anarchico, autore di "Walden o vita nei boschi" pubblicato in queste edizioni, di "Disobbedienza civile", eccetera.
Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882): poeta, fu compagno dl scuola dell'autore, assieme al presidente Pierce.
Amos Bronson Alcott (1799-1888): riformatore e filosofo, uno dei fondatori del movimento trascendentalista; sua figlia, Louisa May Alcott (1832-1888), è l'autrice del romanzo "Piccole donne".
NOTA 4 (dell'autore): All'epoca in cui scriveva questo articolo, l'autore aveva l'intenzione di pubblicare insieme a "La lettera scarlatta" parecchi racconti e bozzetti più brevi. E' stato ritenuto opportuno posporre la pubblicazione di questi.
NOTA 5: allusione a "Un rivoletto dalla fontana pubblica", pubblicato nella raccolta che rese famoso Hawthorne, i "Racconti narrati due volte".
NOTA 6: Celebre eretica antinomiana; venne costretta nel 1638 a lasciare il Massachusetts per ordine delle autorità e del clero puritani.
NOTA 7: "Signore del Disordine": nome dato al funzionario che organizzava feste nel palazzo reale.
NOTA 8: Poeta e statista inglese (1581-1613); in seguito a un intrigo di corte, fu imprigionato nella Torre di Londra e avvelenato su ordine di Lady Essex.
NOTA 9: John Eliot (1604-1690), missionario protestante.
NOTA 10: Increase Mather (1639-1723), teologo non-conformista, che ebbe importanti cariche a Boston e nella Nuova Inghilterra.