William Shakespeare
TUTTO E' BENE
QUEL CHE FINISCE BENE
PERSONAGGI
IL RE DI FRANCIA
IL DUCA DI FIRENZE
BELTRAMO, conte di Rossiglione
LAFEU, un vecchio Signore
PAROLLES, compagno di Beltramo
RINALDO, maggiordomo della contessa di Rossiglione
LAVACHE, buffone della Contessa
Un Paggio
LA CONTESSA DI ROSSIGLIONE
ELENA, gentildonna protetta dalla Contessa
Una vedova di Firenze
DIANA, figlia della vedova
MARIANA, VIOLANTE: vicine e amiche della vedova
Signori, Ufficiali, Soldati e altri personaggi francesi e fiorentini
Scena: Rossiglione; Parigi; Firenze; Marsiglia
ATTO PRIMO
CONTESSA: Nel separarmi da mio figlio seppellisco un secondo marito.
BELTRAMO: Ed io partendo, signora, piango un'altra volta la morte di mio padre: ma devo ubbidire al comando di Sua Maestà, del quale or sono pupillo e sempre sarò suddito.
LAFEU: Troverete nel re uno sposo, signora, voi, signore, un padre.
Egli, che è in tutto sempre così buono, si sentirà obbligato a dimostrare la sua bontà verso di voi, perché i vostri meriti, ben lungi dal farla diminuire dove è tanto abbondante, la susciterebbero anche dove mancasse.
CONTESSA: V'è qualche speranza di miglioramento nella salute del re?
LAFEU: Egli non ne vuol più sapere dei medici, signora. Seguendo le loro prescrizioni ha trascorso inutilmente il tempo nella speranza, senza vantaggio alcuno, se non la perdita di ogni speranza col passare del tempo.
CONTESSA: Questa giovane gentildonna aveva un padre - ahi! che parola triste quell'"aveva"! - un padre, la cui abilità era grande quasi come la sua onoratezza; se fosse stata uguale avrebbe reso immortale la natura, e la morte, mancatole il lavoro, avrebbe dovuto far vacanza.
Volesse il cielo che, per il bene del re, fosse ancora vivo. La sua vita sarebbe stata la morte della malattia del re, ne sono certa.
LAFEU: Come si chiamava l'uomo di cui parlate, signora?
CONTESSA: Era famoso nell'arte sua, e ben a ragione: Gerardo di Narbona.
LAFEU: Davvero fu eccellente. Alcun tempo fa il re ne parlò con ammirazione e con rimpianto. La sua bravura era tale che egli sarebbe ancora in vita se la scienza potesse vincere la morte.
BELTRAMO: Mio buon signore, di quale malattia soffre il re?
LAFEU: D'una fistola, mio signore.
BELTRAMO: Non ho mai udito parlarne.
LAFEU: E' una cosa purtroppo ben nota... E questa gentildonna è figlia di Gerardo di Narbona?
CONTESSA: Sua figlia unica, mio signore, lasciata alle mie cure. Io ho per il suo bene quelle speranze che la sua educazione promette: le inclinazioni che ella ha ereditato rendono ancor più belli i bei talenti. Le virtuose qualità, possedute da uno spirito impuro, non si possono lodare che con rincrescimento; sono sì virtù, ma traditrici; in lei le virtù sono felicemente accompagnate dalla semplicità; ella ha ereditato onoratezza e si vien acquistando virtù.
LAFEU: Le vostre lodi, signora, le fanno versare lacrime.
CONTESSA: Sono il miglior sale col quale una fanciulla può assaporare le lodi fatte a lei. Ogni volta che il ricordo del padre ritorna al suo cuore, la tirannia del dolore toglie ogni vivacità al suo volto...
Basta, Elena, orsù, basta: non vorrei che si credesse che voi mostrate un dolore che forse non avete.
ELENA: Sì, lo dimostro, il dolore, ma lo sento anche.
LAFEU: I morti han diritto ad un rimpianto moderato, il dolore eccessivo è nemico ai vivi.
CONTESSA: E come si deve intendere?. Che se il vivere è nemico del dolore, l'esagerazione uccide presto lo stesso dolore.
BELTRAMO: Signora, io desidero i vostri santi auguri.
CONTESSA: Sii tu benedetto, Beltramo; possa tu essere il successore di tuo padre nella cortesia come lo sei nelle fattezze: il sangue e la virtù si contendano il dominio sopra di te, e la tua bontà sia pari ai doni della tua nascita. Ama tutti, fidati di pochi, non recar torto ad alcuno: sii forte contro il tuo nemico, ma possa tu non usare della tua forza, e custodisci l'amico sotto la chiave della tua stessa vita:
ti si rimproveri d'aver taciuto, ma che tu non venga mai biasimato per aver parlato... Scenda ancora sul tuo capo tutto quanto di cui il cielo ti vuol adornato, e che le mie preghiere gli possono strappare... Addio, mio signore. (A Lafeu) E' un cortigiano ingenuo.
Mio buon signore, dategli dei buoni consigli.
LAFEU: Colui che segue il suo signore non mancherà dei migliori consigli.
CONTESSA: Il cielo lo benedica. Addio, Beltramo.
(Esce)
BELTRAMO: I migliori desideri che si possono formare nel vostro pensiero vi siano servitori. (Ad Elena) Confortate mia madre, vostra padrona, ed abbiatene grande cura.
LAFEU: Addio, graziosa fanciulla; sappiate mantenere alta la fama di vostro padre.
(Beltramo e Lafeu escono)
ELENA: Oh, se ciò fosse tutto! Io non penso a mio padre, ma queste grandi lacrime ne onorano il ricordo più di quelle che versai per lui.
Come erano le sue fattezze? L'ho dimenticato; nella mia immaginazione soltanto il volto di Beltramo è impresso... Sono perduta; non si può vivere se Beltramo è lontano. Sarebbe come amare una luminosissima stella e pensare di sposarla, tanto egli è al di sopra di me; devo trovar conforto nel suo radioso riverbero e nella sua luce collaterale, non nella sua sfera... L'ambizione del mio cuore punisce se stessa: la cerva che volesse unirsi al leone è condannata a morir d'amore. Era bello, benché doloroso, vederlo ogni ora, e, sedendo, disegnare l'arco delle sue sopracciglia, il suo occhio di falco, i suoi riccioli, sulla tavola del mio cuore; un cuore troppo impressionabile ad ogni linea e ad ogni gioco del suo dolce volto...
Ma ora egli se n'è andato, e al mio amore idolatra non son lasciate che reliquie da adorare. Chi viene?
(Entra PAROLLES)
(A parte) Uno che parte con lui: gli voglio bene per amor suo, benché io sappia che è un ben noto impostore, e benché lo ritenga sciocchissimo e completamente vile; ma questi inveterati vizi gli si adattano tanto bene, che incontran favore, mentre le ossa d'acciaio della virtù illividiscono nel freddo vento: così vediam spesso la sapienza nuda e poverella servire alla fastosa follia.
PAROLLES: Salute a voi, bella regina.
ELENA: E a voi, monarca.
PAROLLES: Non monarca.
ELENA: E non regina.
PAROLLES: State meditando sulla verginità?
ELENA: Sì... Trovo in voi un certo che di soldatesco, lasciate che vi faccia una domanda. L'uomo è il nemico della verginità: come possiamo innalzare barricate contro di lui?
PAROLLES: Col tenerlo fuori.
ELENA: Ma egli ci assale e la nostra verginità, benché valorosa nel difendersi, è però debole: indicatemi come resistere da soldati.
PAROLLES: Non si può. L'uomo vi assedia, vi scava sotto la mina, e vi fa saltare in aria.
ELENA: Dio liberi la nostra povera verginità da coloro che nascondono mine, e che ci fanno saltare per aria! Non potrebbero avere le vergini uno stratagemma per far saltare gli uomini?
PAROLLES: Una volta a terra la verginità, più facilmente in aria sarà l'uomo: e diamine, se lo mettete a terra una seconda volta grazie alla breccia aperta da voi stessa, voi perderete la vostra città. Nella repubblica della natura non è buona politica conservare la verginità.
La perdita della verginità significa un aumento ragionevole. Non venne mai al mondo una vergine senza che prima non si perdesse la verginità.
Voi foste fatta con quella stoffa con cui si formano le vergini. La verginità, perduta una volta, la si può ritrovare decuplicata:
custodita per sempre, sarà per sempre perduta: è una compagna troppo fredda: liberatevene!
ELENA: Eppure voglio difenderla un poco, a costo di morir vergine.
PAROLLES: E ci sarebbe poco da dire in suo favore: è contro la legge di natura. Parlare in favore della verginità, vuol dire accusare vostra madre: certissima mancanza di rispetto. Rimanere vergine vale quanto impiccarsi: la verginità commette un suicidio, e dovrebbe essere sepolta lungo le strade, lontano dai sacri recinti, come disperata peccatrice contro la natura. La verginità genera vermi come il formaggio, si consuma fino alla crosta, e muore a forza di riempirsi lo stomaco. Inoltre la verginità è irritabile, è superba, fannullona, piena d'amor proprio, che è il peccato più proibito di tutto il canone. Non mantenetela, non ne avrete che danno. Mettetela a interesse: in dieci anni verrà aumentata dieci volte tanto: un buon profitto! E senza alcun danno al capitale. Su, liberatevene.
ELENA: E che cosa dovrebbe fare, signore, colei che volesse perderla secondo il proprio piacere?
PAROLLES: Vediamo. Ma! Dovrebbe far male. Dovrebbe farsi piacere colui al quale non piace la verginità. E' una mercanzia che perde la sua lucentezza se la si lascia giacere: più la si custodisce e più perde di valore: liberatevene, finché è vendibile: sappiate andare incontro alla richiesta. La verginità, come un vecchio cortigiano, ha un cappello fuor di moda, ha un costume ricco che non costuma più, come il fermaglio e lo stuzzicadenti che ormai non si usano più... E' meglio il dattero nella torta e nella minestra, che la data sulla vostra guancia. La vostra verginità, la vostra vecchia verginità, assomiglia alle nostre pere francesi vizze; brutta al di fuori, secca al palato; già, è una pera vizza; prima era migliore, ma ora, già, è vizza. Ecco!
ELENA: Ma non ancora la mia verginità. Là il vostro padrone avrà mille amori, una madre, un'amante, ed un'amica, una fenice, una capitana, e una nemica, una guida, una dea, e una sovrana, una consigliera, una traditrice e un'amata: la sua umile ambizione, la sua superba umiltà:
la sua discordante concordia, la sua discordia armoniosa: la sua fede, la sua dolce rovina: con tutt'un mondo di nomi affettuosi, inventati al battesimo dove è padrino il cieco Cupido. Ora egli deve... Non so che cosa deve. Iddio gli mandi bene! A corte si può molto imparare, ed egli è tale...
PAROLLES: Tale che cosa, prego?
ELENA: E' uno al quale io desidero ogni bene. Peccato che...
PAROLLES: Peccato che cosa?
ELENA: Che i desideri non abbiano un corpo che si possa toccare; che a noi, inferiori per nascita e limitati ai desideri per l'influsso delle più umili stelle, non sia concesso di accompagnare i nostri amici con gli effetti dei nostri voti; che non ci sia dato mostrare ciò che dobbiamo soltanto pensare, e per cui nessuno ci ringrazia.
(Entra un paggio)
PAGGIO: Signor Parolles, il mio signore vi chiama.
(Esce)
PAROLLES: Elenuccia, addio. Se potrò ricordarmi di te, penserò a te, a corte.
ELENA: Signor Parolles, voi nasceste sotto una stella caritatevole.
PAROLLES: Io nacqui sotto Marte, io.
ELENA: Proprio quello che volevo dire, sotto Marte.
PAROLLES: Perché sotto Marte?
ELENA: Le guerre vi hanno talmente tenuto sotto, che voi di certo siete nato sotto Marte.
PAROLLES: Marte predominante.
ELENA: No, anzi, retrogrado, direi.
PAROLLES: E perché?
ELENA: Perché quando combattete andate sempre indietro.
PAROLLES: E' per pigliar vantaggio.
ELENA: Già, come quando si scappa perché la paura consiglia di mettersi in salvo: ma in voi il miscuglio di valore e di timore crea la forza di una buona ala: moda che io apprezzo molto.
PAROLLES: Ho tante cose da fare che non posso risponderti argutamente:
ma tornerò cortigiano perfetto, e le mie istruzioni sapranno scozzonarti, se tu sei capace di ricevere il consiglio di un cortigiano, e di capire ciò che il consiglio ti imporrà; nel caso contrario morirai nella tua ingratitudine, la tua ignoranza t'annienterà. Addio: quando avrai tempo, di' le preghiere, quando avrai soldi, ricordati degli amici: fa' di trovare un buon marito, e trattalo come lui tratterà te: addio dunque.
(Esce)
ELENA: Sovente i rimedi che noi riferiamo al cielo, li abbiamo dentro di noi: il fato celeste ci concede la libertà, e ritarda i nostri disegni soltanto quando noi stessi siamo lenti. Qual potere attrae tanto in alto il mio amore? Mi fa scorgere, e poi non sazia il mio occhio? La natura unisce, come se fossero uguali, cose che la fortuna ha fatto distantissime, e le porta al bacio quali consanguinee. Le imprese straordinarie possono sembrare impossibili a coloro che ne misurano la fatica secondo il giudizio comune, e credono che quanto è avvenuto non possa più avvenire. Vi fu mai alcuno che, tentando di mostrare i suoi meriti, abbia perduto il suo amore? La malattia del re... il mio progetto mi può ingannare, ma le mie intenzioni sono ormai fissate e non mi vogliono lasciare.
(Esce)
SCENA SECONDA - Parigi. Una sala nel Palazzo Reale
(Suono di trombe; entra il RE DI FRANCIA, con in mano alcune lettere Signori ed altre persone lo seguono)
RE: I Fiorentini e i Senesi sono alle prese fra loro. Han combattuto con pari fortuna e continuano la guerra duramente.
PRIMO SIGNORE: Così si dice, signore.
RE: La cosa è anzi molto probabile. Ecco, ne abbiamo una notizia certa attestataci dal nostro cugino d'Austria, il quale ci avverte che i Fiorentini verranno a chiederci sollecito aiuto. Il nostro carissimo amico previene il nostro giudizio, e pare che desideri da noi una risposta negativa.
PRIMO SIGNORE: Il suo amore e la sua saggezza, della quale Vostra Maestà ha avuto tante prove, esigono che gli si creda ampiamente.
RE: Egli ha dato armi alla nostra risposta, ed al Signore di Firenze opponiamo un rifiuto prima ancora che chieda. Tuttavia i nostri sudditi che volessero prestare servizio nelle milizie in Toscana potranno liberamente scegliere fra le due parti.
SECONDO SIGNORE: Sarà una buona scuola per la nostra nobiltà, desiderosa di azione e di gesta.
(Entrano BELTRAMO, LAFEU e PAROLLES)
RE: Chi viene?
PRIMO SIGNORE: Mio buon signore, è il conte di Rossiglione, il giovane Beltramo.
RE: Giovane, tu porti il volto di tuo padre. La natura generosa, più attenta che avventata, ti ha ben formato. Possa tu ereditare anche le qualità morali di tuo padre! Benvenuto a Parigi.
BELTRAMO: La mia gratitudine e la mia obbedienza alla Maestà Vostra.
RE: Vorrei avere ora, nelle membra, la sanità che possedevo quando tuo padre ed io, da amici, facevamo le prime prove nelle armi. Egli vedeva molto addentro nelle cose della guerra d'allora, ed ebbe per maestri i migliori; egli durò a lungo, ma a poco a poco su tutt'e due la turpe vecchiezza prese il sopravvento e ci rese inabili... Mi è di grande sollievo parlare del vostro buon padre... In gioventù egli possedeva quell'arguzia che anche oggi è possibile incontrare nei nostri giovani signori; ma prima di poter nascondere sotto il manto dell'onore la propria leggerezza, costoro avran da scherzare fino a non riconoscer più le loro stesse facezie su labbra altrui. Vero cortigiano, nel suo orgoglio e nella sua ironia non v'era ne disprezzo né amarezza, a meno che non fossero suscitati dai suoi pari. Il suo onore, orologio a se stesso, sapeva il minuto preciso che la disapprovazione lo obbligava a parlare, ed allora la lingua obbediva all'inclinazione della sfera.
Trattava con coloro che gli erano inferiori come se fossero superiori, e piegava la sua eminente altezza al loro basso livello, facendoli onorati della sua umiltà e godendo umilmente della loro povera lode...
Tale uomo potrebbe essere, per questi tempi moderni, un modello, che, ben seguito, li farebbe apparire retrogradi.
BELTRAMO: Il buon ricordo di lui, signore, è scolpito nei vostri pensieri più gloriosamente che nella sua tomba, il suo epitaffio non trova conferma migliore delle vostre regali parole.
RE: Potessi io essere con lui! Egli soleva sempre dire - mi sembra di udirlo ora: le sue parole amiche non le gettava nelle orecchie, ma ve le innestava, ed esse crescevano e recavan frutto -: "Che io non viva - così spesso cominciava la sua mite melanconia dopo un passatempo finito male e che l'aveva stancato- che io non viva - diceva - quando la mia fiamma mancherà d'olio, piuttosto che essere una moccolaia a quei giovani spiriti, i cui vivaci sensi disdegnano tutto ciò che non è novità, i cui giudizi si limitano a crear vestiti, e la cui costanza spira prima ancora delle loro mode"... Tale era il suo desiderio, e tali sono ora anche i miei voti. Poiché non posso portare a casa né cera né miele, possa io essere licenziato presto dalla mia arnia, per lasciar posto ad altri lavoratori.
SECONDO SIGNORE: Voi siete amato, signore, e coloro che poco vi amano sentirebbero per primi la vostra mancanza.
RE: Io riempio un posto, lo so... Da quanto tempo, conte, è morto il medico di vostro padre? Egli era ben famoso.
BELTRAMO: Da circa sei mesi, mio signore.
RE: Se fosse vivo chiederei il suo aiuto. Datemi il braccio... Gli altri mi hanno rovinato con le loro medicine. Natura e malattia combattono a loro piacimento. Benvenuto, conte; mio figlio non mi è più caro.
BELTRAMO: Grazie alla Vostra Maestà.
(Suonano le trombe. Tutti escono)
SCENA TERZA - Rossiglione. Una sala nel Palazzo della Contessa
(Entrano la CONTESSA, il Maggiordomo, il Buffone)
CONTESSA: Ora sono disposta ad ascoltarvi. Che mi dite di quella gentildonna?
MAGGIORDOMO: Signora, la cura che mi son preso per soddisfare i vostri desideri, vorrei che fosse scritta sul calendario dei miei buoni servizi passati; se li facciamo noti a tutti. rechiamo ferita alla nostra modestia, ed offuschiamo la chiarezza dei nostri meriti.
CONTESSA: Che fa qui questo briccone? Andatevene, voi! Le lamentele che ho udite sul conto vostro non le credo tutte, ma è ottusità da parte mia: so che non vi manca la necessaria sciocchezza per commettere tali bricconate, e che avete capacità sufficiente per farle vostre.
BUFFONE: V'è ben noto, signora, che io sono un povero diavolo.
CONTESSA: Bene, messere.
BUFFONE: No, signora, non è proprio un gran bene che io sia povero, benché molti ricchi sian dannati. Ma se io posso ottenere da Vostra Signoria il permesso di accasarmi, Isabella, la vostra donna, ed io, faremo come potremo.
CONTESSA: Vuoi proprio diventare un accattone?
BUFFONE: Vi chiedo la carità del vostro buon volere in questo caso.
CONTESSA: In quale caso?
BUFFONE: Nel caso di Isabella, e mio... Il servire non procura eredità, e non potrò mai avere la benedizione di Dio finché non avrò rampolli del mio sangue; si dice che i figli siano benedizioni.
CONTESSA: Dimmi la ragione per la quale vuoi sposarti.
BUFFONE: Il mio povero corpo, signora, lo esige. Sono trascinato dalla carne, e chi è trascinato dal diavolo bisogna che cammini.
CONTESSA: E' tutta qui la ragione che spinge vostra signoria?
BUFFONE: In fede, signora, ne ho altre di ragioni, e sante.
CONTESSA: Può il mondo conoscerle?
BUFFONE: Io sono stato, signora, una creatura trista, come lo siete voi, e come lo sono tutti quelli che son fatti di carne e di sangue:
ed ecco, mi sposo per pentirmi.
CONTESSA: Per pentirti del tuo matrimonio, più presto che della tua cattiveria.
BUFFONE: Non ho amici, signora, e spero di farmene alcuni per amore di mia moglie.
CONTESSA: Amici di tal sorta ti saranno nemici, briccone.
BUFFONE: Voi non vedete in fondo, signora. Sono anzi grandi amici, perché questi furfanti vengono a fare per me quello di cui sono stanco... Colui che ara la mia terra mi risparmia i buoi, e lascia a me di ammassare il raccolto; se io sono il suo becco, egli è la mia bestia da soma; colui che conforta mia moglie rende un servizio alla mia carne e al mio sangue: colui che rende un servizio alla mia carne e al mio sangue ama la mia carne e il mio sangue: colui che ama la mia carne e il mio sangue è mio amico: ergo, colui che bacia mia moglie è mio amico... Se gli uomini si accontentassero d'essere quel che sono, non vi sarebbe pericolo alcuno nel matrimonio: poiché il giovane Chairbonne, puritano, e il vecchio Poisson, papista, quantunque divisi di cuore per la religione, hanno unita la testa, possono cozzarsi con le corna, come un qualunque daino nel branco.
CONTESSA: Ma quando chiuderai quella boccaccia e la finirai con le tue fandonie, briccone?
BUFFONE: Io sono profeta, signora, e dico la verità nel modo più breve.
Ché vi voglio ripeter la ballata che a ognun la verità dice più pura:
la gente al matrimonio è destinata, come il cuculo canta per natura.
CONTESSA: Andatevene, messere. Avrò da parlarvi ancora fra poco.
MAGGIORDOMO: Signora, vi piaccia di mandarlo a chiamar Elena. Vi debbo parlare di lei.
CONTESSA: Ehi! Dite alla mia gentildonna che le debbo parlare: Elena voglio dire BUFFONE: Fu questo viso, diss'ella, causa che i Greci saccheggiar Troia?
O stolta azione, azione stolta, di Priamo era lei la gioia?
Con ciò s'arresta lei e sospira, con ciò s'arresta lei e sospira, poi tal sentenza dà:
se una è buona tra nove pessime, se una è buona tra nove pessime, su dieci una buona v'ha.
CONTESSA: Che? Una buona fra dieci? Voi corrompete la canzone, gaglioffo.
BUFFONE: Una buona donna fra dieci, signora, significa purificare la canzone. Piacesse a Dio di servire il mondo a questo modo per tutto l'anno! Non troveremmo niente da ridire sulla decima delle donne se io fossi parroco. Una su dieci, dico io! Oh, se almeno ci nascesse una donna buona all'apparire d'ogni cometa, o ad ogni scossa di terremoto, la nostra lotteria se n'avvantaggerebbe: è più facile ad un uomo estrarsi il cuore, che pescarne anche una sola buona.
CONTESSA: Andatevene dunque messer furfante, e fate come io vi comando!
BUFFONE: Che l'uomo debba esser soggetto al comando della donna, e che nulla di grave succeda! Benché l'onestà non sia puritana, non farà nulla di male, e porterà la cotta dell'umiltà sulla nera cappa di un cuore superbo... Sì, sì, me ne vado. Dirò dunque ad Elena di venir qui.
(Esce)
CONTESSA: Ebbene, sentiamo.
MAGGIORDOMO: Io so, signora, che voi amate con grande affetto la vostra gentildonna.
CONTESSA: Sì, davvero. Suo padre me la lasciò come un'eredità, ed ella stessa, anche se non vi fossero altri motivi in suo favore, ha diritto a tutto l'affetto che le porto. Le si deve sempre più di quanto le vien dato, e le verrà dato più di quanto ella chiederà.
MAGGIORDOMO: Signora, di recente mi trovai più vicino a lei di quanto, credo, desiderasse. Era sola, e comunicava le sue parole alle sue stesse orecchie, credendo, sarei pronto a giurarlo per lei, che non venissero ascoltate da estranei. L'argomento era che amava vostro figlio: e diceva che la Fortuna non è una dea, perché ha posto una diversità tanto grande fra le condizioni di loro due; che Amore non è un dio, perché non vuole estendere il suo potere unicamente dove è eguaglianza di grado; Diana non è regina delle vergini, perché permette che la sua povera cavaliera venga presa alla sprovvista e non la libera al primo assalto, né la riscatta dopo... Tali cose diceva col più amaro tono di dolore in cui io mai abbia udito lamentarsi una vergine. Ho ritenuto mio dovere farvelo sapere subito, poiché è giusto che ne siate informata pel caso che accadesse qualche disgrazia.
CONTESSA: Avete compiuto il vostro dovere onestamente; serbate ogni cosa per voi. Alcuni segni me lo avevano già fatto sospettare: ma oscillavano talmente sulla bilancia che non potevo né credere né dubitare... Vi prego, lasciatemi. Custodite per voi questo segreto; vi ringrazio per la vostra onesta sollecitudine: presto avrò ancora bisogno di parlarvi. (Il Maggiordomo esce) Fu così anche di me, quando ero giovane... Come noi siamo della natura, così sono nostre queste cose. E' una spina che dirittamente appartiene alla rosa della nostra gioventù. L'abbiamo nel sangue al modo stesso che il sangue è in noi.
La forte passione dell'amore, impressa nella gioventù, è il segno e il sigillo della verità della natura. Nei ricordi dei nostri giorni passati, queste furono le prime mancanze, o piuttosto allora noi non le credevamo tali.
(Entra ELENA)
Il suo occhio ne langue, ora me ne accorgo.
ELENA: Quali sono i vostri desideri, signora?
CONTESSA: Voi sapete, Elena, che io sono una madre per voi.
ELENA: La mia onorata padrona.
CONTESSA: No, una madre. Perché no una madre? Quando ho detto "una madre" mi è parso come se voi vedeste un serpente. Che cosa c'è nella parola "madre" perché ve ne spaventiate? Lo ripeto, io sono vostra madre, e vi metto fra coloro che portai in seno. Spesso si può vedere l'adozione combattere con la natura, e la scelta produrre un ramoscello tutto nostro, pur da semi estranei. Voi non mi faceste mai gemere con il grido di dolore della madre, ma io vi dimostro una cura materna. Per l'amore di Dio, fanciulla! Ti raggela il sangue, a dirti che son tua madre? Perché, perché questa inclemente messaggera di pianto, la multicolore Iride, ti circonda gli occhi? Perché? Forse perché siete mia figlia?
ELENA: Perché non lo sono.
CONTESSA: Ma io vi dico che sono vostra madre.
ELENA: Perdonatemi, signora. Il conte di Rossiglione non può essere mio fratello: il mio nome è umile, il suo illustre; nessuna distinzione ebbero i miei genitori, i suoi sono tutti nobili. Egli è mio padrone, è il mio caro signore, io vivo come sua serva, e voglio morire sua vassalla: egli non deve essere mio fratello.
CONTESSA: E neppure io vostra madre?
ELENA: Sì, voi siete mia madre, signora. Oh, foste voi veramente mia madre! e così il mio signore vostro figlio non fosse mio fratello. O foste voi la madre d'entrambi - io non lo desidero meno del cielo - purché io non fossi sua sorella! Bisogna proprio che egli mi sia fratello, se io sono vostra figlia?
CONTESSA: Sì, Elena, voi potreste essere mia figlia, mia nuora. Dio vi guardi da un tal pensiero! tanto questi nomi di "figlia" e di "madre" vi fan tremare i polsi. Che! ancora pallida! Il mio timore ha dunque sorpreso il vostro amore! ora comprendo il mistero della vostra solitudine, ed ho scoperto la fonte delle vostre lacrime amare. Ora salta agli occhi che voi amate mio figlio! Sarebbe vergogna mentire contro questa chiara manifestazione della tua passione, e dire che non lo ami: perciò dimmi la verità - ma dimmelo davvero, che è proprio così poiché, guarda, le tue guance lo confessano l'una all'altra, e gli occhi tuoi lo vedono con tal evidenza nel tuo modo di comportarti, che, a loro maniera, parlano. Solo il peccato ed una ostinazione infernale possono legare la tua lingua perché si dubiti della verità.
Parla, è così? Se è così, avete avvolto una bella matassa: se non lo è, giuratelo. Ad ogni modo io ti ingiungo di dirmi il vero, pel cielo che può far di me lo strumento della tua felicità.
ELENA: Buona signora, perdonatemi.
CONTESSA: Amate mio figlio?
ELENA: Il vostro perdono, nobile padrona.
CONTESSA: Amate mio figlio?
ELENA: Non lo amate voi, signora?
CONTESSA: Non cercate di sfuggire: il mio amore è un legame che tutto il mondo conosce. Via, mostratemi lo stato del vostro affetto, poiché i vostri sentimenti vi hanno pienamente accusata.
ELENA: Ebbene, confesso, qui in ginocchio, davanti al cielo ed a voi, che, prima di voi e subito dopo il cielo, io amo vostro figlio... La mia famiglia era povera, ma onesta; e tale è il mio amore; non vi offendete, poiché non viene a lui alcun male dall'essere amato da me; io non lo importuno con segni di corteggiamento presuntuoso, né lo vorrei avere prima di essermelo meritato; eppure non so quale potrebbe essere il mio merito... So di amare invano, di lottare contro ogni speranza; in questo insidioso staccio, che non sa contenere, io verso continuamente le acque del mio amore, e non me ne mancano mai da perder così. Così, come un indiano, religiosa nel mio errore, adoro il sole che guarda il suo adoratore ma non ne sa nulla di più... Mia signora amatissima, non venite incontro al mio amore con odio, perché io amo ciò che voi amate. Se mai in voi stessa, la cui onorata età attesta una virtuosa giovinezza, se mai con fiamma di passione così sincera amaste castamente e desideraste ardentemente che la vostra Diana fosse insieme Diana e Venere, oh! allora abbiate pietà di colei che, nel suo stato, altro non può fare se non prestare e dare dove è sicura di perdere; che non cerca per trovare l'oggetto della sua ricerca, ma che pure, come in un indovinello, vive giocondamente dove muore.
CONTESSA: Non avevate voi l'intenzione, ultimamente, di andare a Parigi? Siate sincera!
ELENA: Sì, l'avevo.
CONTESSA: Perché? Siate sincera!
ELENA: Dirò la verità. Lo giro per la grazia stessa... Voi sapete che mio padre mi lasciò alcune ricette d'un'efficacia rara e sicura, che i suoi studi e la sua esperienza pratica avevano composto come universale e sovrano rimedio. Sapete come m'ingiunse di dispensarle con la più attenta riserva come se fossero motti d'imprese che contengono più di quanto sembrano esprimere. Fra le altre vi è una medicina, provata, efficace, che può curare la disperata malattia per la quale il re è dichiarato perduto.
CONTESSA: Era questo dunque il vostro motivo per recarci a Parigi?
Ditemelo.
ELENA: Il mio signore, vostro figlio, mi ha fatto pensare a ciò.
Altrimenti Parigi, e la medicina, e il re, sarebbero forse stati assenti dalla conversazione dei miei pensieri.
CONTESSA: Ma, Elena, pensate voi che il re accetterebbe il presunto aiuto che voi vorreste offrirgli? Lui e i suoi medici sono di uno stesso pensiero: lui, che i medici non lo possono guarire, e loro di non poterlo guarire. Come presterebbero fede a una povera verginella indotta, mentre le scuole, esaurita tutta la loro scienza, han lasciato la malattia a se stessa?
ELENA: C'è qualcosa, più che l'eccellenza di mio padre, la più grande nella sua scienza, qualcosa che mi fa presentire che la sua buona ricetta sarà santificata, per mia ricchezza, dalle più fortunate stelle del cielo; e se Vostro Onore mi permettesse solo di tentare il successo, io m'impegnerei, a costo di perder la mia vita per sì buona causa, a guarire il re per il tal giorno e la tale ora.
CONTESSA: Lo credi proprio?
ELENA: Ne son certa, signora, con tutta la mia coscienza.
CONTESSA: Ebbene, Elena: tu avrai il mio permesso e il mio affetto, i mezzi e i servitori e le mie amorevoli raccomandazioni ai miei amici a corte. Io starò a casa e pregherò la benedizione di Dio sulla tua impresa. Domani partirai; e sta' certa che non ti mancherà ciò che sarà in mio potere di fare per aiutarti.
(Escono)
ATTO SECONDO
RE: Giovani signori, addio! Non gettate al vento questi sentimenti guerrieri. E anche a voi, miei signori, addio! Dividetevi fra voi il consiglio che vi ho dato. Ma se ciascuno lo prenderà intero, il dono aumenterà nel modo che è ricevuto, e anche allora sarà sufficiente per tutti.
PRIMO SIGNORE: Signore, è nostra speranza di poter tornare soldati ben addestrati, e di trovare Vostra Grazia in buona salute.
RE: No, no, ciò non potrà essere. Eppure il mio cuore non vuol ammettere di dover cedere alla malattia che assedia la mia vita...
Addio, giovani signori! Muoia io o viva, dimostratevi figli degni di degni Francesi; fate che la più alta Italia (eccetto coloro che hanno ereditato soltanto la decadenza dell'ultima monarchia), comprenda che voi non andate a corteggiare l'onore, ma a sposarlo. Quando il più valente segugio si ritrarrà, fate in modo di trovare voi ciò che avete cercato, sì che la fama alto vi gridi... Addio, vi ripeto.
SECONDO SIGNORE: La salute possa ubbidire al comando della Maestà Vostra!
RE: Quelle ragazze d'Italia! Stateci bene attenti! Dicono che ai nostri Francesi manchi la lingua per negare quando esse chiedono.
State attenti a non diventare schiavi prima ancora di servire come soldati.
PRIMO e SECONDO SIGNORE: Vi siamo grati per le vostre raccomandazioni.
RE: Addio. (Ai Servi) Venitemi vicino. (Vien portato fuori)
PRIMO SIGNORE (a Beltramo): O mio dolce signore, peccato che voi dobbiate rimanere qui.
PAROLLES: Non è colpa di lui, il bellimbusto.
SECONDO SIGNORE: Oh! queste magnifiche guerre!
PAROLLES: Mirabilissime! Io le ho viste, queste guerre.
BELTRAMO: Devo star qui perché mi è comandato e perché m'intronan le orecchie con "troppo giovane", e "l'anno venturo", e "è troppo presto".
PAROLLES: Se proprio ne hai l'intenzione, ragazzo, svignatela di qui, con coraggio. BELTRAMO: Invece dovrò starmene qui, come il cavallo di davanti sotto la guida di una gonnella, a far scricchiolar le scarpe sul ben levigato pavimento, finché l'onore sarà tutto venduto, finché l'unica spada che ancora si porterà sarà lo spadino per danzare! Per il cielo, voglio scappar via di nascosto, come un ladro.
PRIMO SIGNORE: Sarà un furto che vi farà onore.
PAROLLES: Commettetelo, conte.
SECONDO SIGNORE: Io vi sarò complice. Addio.
BELTRAMO: Mi sento come una parte di voi, e il dovermi separare mi lacera la carne.
PRIMO SIGNORE: Addio, capitano.
SECONDO SIGNORE: Dolce signor Parolles!
PAROLLES: Nobili eroi, la mia spada e la vostra sono sorelle.
Scintillanti e lucenti lame, in una parola ottime tempre: nel reggimento degli Spini incontrerete un certo capitano Spurio, con una cicatrice, emblema di guerra, qui sulla guancia sinistra; fu questa spada che ve la scavò, sì, proprio questa. Gli direte che io sono vivo, e fate bene attenzione a ciò che vi dirà di me.
PRIMO SIGNORE: Lo faremo, nobile capitano.
PAROLLES: Marte si innamori di voi come suoi novizi (I Signori escono)
(A Beltramo) E voi, che avete intenzione di fare?
(Rientra il RE portato dai Servi sulla sedia)
BELTRAMO (mettendo il dito sulla bocca): Zitto. Ecco il re.
PAROLLES (conducendolo via in fretta): Le vostre cerimonie di rispetto verso quei nobili signori debbono essere più ossequiose; vi siete limitato nella cinta d'un addio troppo freddo; siate più cordiale con loro; essi sono il cimiero del bel mondo, e praticano le vere creanze, mangiano, parlano e si muovono sotto la guida dell'astro più di moda.
Anche se fosse il diavolo a guidar la danza, quei signori bisogna seguirli. Raggiungeteli, e salutateli con più effusione.
BELTRAMO: Lo farò.
PAROLLES: Sono compagni degni; e sapranno certo dimostrarsi vigorosi spadaccini. (Beltramo e Parolles escono. Entra LAFEU)
LAFEU (inginocchiandosi): Il vostro perdono, mio signore, per me e per la notizia che vi reco.
RE: Te lo concederò se ti alzerai.
LAFEU (alzandosi): Se è così, ecco qui in piedi un uomo che si porta con sé il perdono. Avrei voluto che vi inginocchiaste voi, mio signore, a chiedermi pietà, e che, al mio comando, vi foste alzato così.
RE: Magari! E t'avessi anche rotto la testa per chiedertene perdono.
LAFEU: In fede mia, una lancia spezzata di traverso!. Ma, mio buon signore, ascoltate: volete guarire della vostra malattia?
RE: No.
LAFEU: Oh! Non volete dunque mangiar l'uva, mia reale volpe? Ma se la mia volpe reale potesse arrivare a prenderla, sicuro che la mangerebbe, la mia nobile uva! Ho visto un medico capace di infondere la vita in una pietra, di vivificare la roccia, di farvi ballare il canario con foga e brio indiavolati. Il solo suo tocco ha la potenza di far risuscitare il re Pipino, anzi, di porre in mano al grande Carlomagno una penna, per scrivere a lei un biglietto d'amore.
RE: Di che "lei" si tratta?
LAFEU: Il Dottor Lei. E' arrivata, mio buon signore, se volete vederla. In fede mia e sul mio onore, se posso manifestare seriamente i miei pensieri con questo scherzoso modo d'esprimermi, ho parlato con una persona che, per il suo sesso, i suoi anni, la sua professione, saggezza e costanza, mi ha riempito di meraviglia tanto grande che non la si può tutta attribuire alla mia debolezza. Vorreste vederla, come ella desidera, e sapere cosa vuole? Poi riderete pure di me.
RE: Ebbene, buon Lafeu, fa' entrare questa meraviglia. Voglio prender parte anch'io alla tua ammirazione, o liberarti dalla tua meraviglia, meravigliandomi come tu te la sia presa.
LAFEU: Sì, vi soddisferò, e prima della fine del giorno.
(Esce)
RE: Tale è sempre il suo prologo quando deve far seguire qualche speciale nulla.
(LAFEU ritorna con ELENA)
LAFEU: Su, venite da questa parte.
RE: La sua fretta ha veramente le ali.
LAFEU: Su, venite da questa parte. Ecco Sua Maestà; apritegli la vostra mente. Vi presentate quasi come un traditore: ma traditori come voi Sua Maestà li teme raramente. Io sono lo zio di Cressida, e m'azzardo a lasciarvi tutt'e due insieme. State bene.
(Esce)
RE: Bella fanciulla, in che modo ci riguardano le vostre occupazioni?
ELENA: Mio buon signore, Gerardo di Narbona fu mio padre, e fu ben noto nella sua professione.
RE: Lo conobbi.
ELENA: Allora non ripeterò le sue lodi, averlo conosciuto è sufficiente... Sul letto di morte egli mi consegnò molte ricette, ma una in modo particolare, il rampollo più prezioso della sua arte, e l'unico beniamino della sua vecchia esperienza, mi comandò di custodirla come un terzo occhio, più efficace e più prezioso dei miei due. Così ho fatto. Ed avendo udito che la Vostra Maestà è afflitta da una maligna infermità, contro la quale la virtù del dono del mio caro padre è specialmente sovrana, io vengo ad offrirvelo, con la mia obbedienza, e con ogni dovuta umiltà.
RE: Vi ringraziamo, fanciulla, ma non possiamo aver troppa fiducia di guarire, dacché i nostri medici più valenti ci abbandonano, e tutto il Collegio riunito ha concluso che l'arte, per sforzi che faccia, non potrà mai riscattare la natura da questo suo stato incurabile. Non dobbiamo talmente offuscare il nostro giudizio, o corrompere la speranza, fino a prostituire la nostra incurabile malattia in mano a empirici, o a mettere a repentaglio il nostro onore e la nostra dignità, dimostrando stima a una cura insensata, quando il solo tentare una cura già ci pare insensato.
ELENA: La coscienza di aver compiuto il mio dovere mi ripagherà delle mie fatiche: non verrò più ad importunarvi con i miei rimedi ed imploro umilmente dai vostri regali pensieri quello modesto di permettermi di ritornare.
RE: Non posso concederti meno, se non voglio passare per ingrato... Tu pensavi di potermi guarire, e io ti rendo quelle grazie che un moribondo dà a coloro che gli augurano di vivere. Ma ciò che io so in modo completo tu non sai neppure in parte. Io conosco interamente il pericolo nel quale mi trovo, ma tu non sai l'arte di liberarmene.
ELENA: Non potrebbe recar male alcuno tentare ciò che potrei fare, dal momento che voi siete ben sicuro di non guarire. Colui che porta a compimento le più grandi cose lo fa spesso per mezzo del ministro più debole. Così la Sacra Scrittura mostra giudizio nei bambini, laddove i giudici si son rivelati bambini; grandi corsi d'acqua sono sgorgati da semplici sorgenti, e vasti mari si sono disseccati, quando i potenti negavano i miracoli. Spesso fallisce l'aspettativa, e molto più sovente là dove più promette; spesso dà nel segno dove più fredda è la speranza, e dove la disperazione è più appropriata.
RE: Non posso darti ascolto. Addio, gentile fanciulla. Le tue fatiche non adoperate devono essere ricompensate da te stessa. Le offerte non accettate raccolgono, come ricompensa, soltanto ringraziamenti.
ELENA: Il semplice alito arresta dunque un'ispirazione meritoria. Non avviene così con Colui che sa tutto, mentre avviene invece con noi, che misuriamo le nostre congetture secondo le apparenze. Ma è ben grande la presunzione nostra, di stimare azione dell'uomo l'aiuto del cielo. Caro signore, vogliate dare il vostro assenso al mio tentativo, fate un esperimento non di me ma del cielo. Io non sono una bugiarda, che pretenda di fare più di quanto so fare. Ma sappiate che io penso, e pensate che io so sicurissimamente, che la mia arte non è senza potere, e che voi non siete incurabile.
RE: Hai dunque tanta sicura confidenza? Entro quanto tempo speri di guarirmi?
ELENA: Se la somma grazia mi sarà graziosa, prima che i cavalli del sole abbiano portato due volte nel suo diurno circolo il loro ardente lampadoforo, prima che due volte l'umido Espero abbia spenta la sua lampada assonnata nell'oscurità e nel vapore occidentale, o che ventiquattro volte l'ampolletta del pilota abbia indicato come passano i furtivi minuti, ciò che è infermo si allontanerà rapidamente dalle vostre parti sane, la salute vivrà libera, e la malattia liberamente morrà.
RE: Che cosa osi d'arrischiare sulla tua sicura fiducia?
ELENA: L'accusa d'impudenza, la sfrontatezza d'una bagascia, una vergogna famosa vilipesa in odiose ballate, il mio nome di vergine infamato; oppure - non certo la peggiore fra le cose peggiori - fate che la mia vita termini dilaniata dalla tortura più vile.
RE: Sembra che uno spirito beato faccia risonare in te, debole organo, la sua potente parola; e ciò che è ripudiato come impossibile dal senso comune, un sentimento superiore lo accetta su altra base... La tua vita è preziosa, poiché tutto ciò che la vita stima degno del nome di vita ha gran valore in te: gioventù, bellezza, saggezza, coraggio, tutto quanto la felicità e la primavera della vita benedicono. Se sei disposta a sacrificare tutto ciò, è segno che tu devi possedere o una sagacia infinita, o una disperazione mostruosa. Dolce medico, voglio tentare la tua medicina, ma se io morrò essa darà la morte a te.
ELENA: Se non rimarrò entro i limiti di tempo fissati, se verrò meno all'esattezza di quanto ho detto, mi farete morire illagrimata, e ben mi starà. Se non vi farò guarire mi pagherete con la morte. Ma se saprò risanarvi, che cosa promettete voi a me?
RE: Chiedi.
ELENA: E voi me lo concederete?
RE: Sì, per il mio scettro e per la mia speranza del cielo.
ELENA: Ebbene, tu mi darai, con la tua mano regale, quel marito che è in tuo potere concedermi e che io ti chiederò. E' ben lontana da me l'arroganza di scegliere fra il sangue reale di Francia, per tramandare il mio nome umile e basso con un ramo e un rappresentante della tua casa; ma uno, tuo vassallo, che io so di poter liberamente chiedere, e che tu liberamente mi potrai concedere.
RE: Eccoti la mia mano. Se le condizioni verranno osservate, otterrai per mio mezzo ciò che desideri. Stabilisci dunque il tempo, poiché io, deciso ad essere tuo paziente, ormai ho fiducia in te... Dovrei chiederti di più, sì, lo dovrei, benché sapere di più non aggiungerebbe nulla alla fiducia: dovrei chiederti donde vieni, da chi sei stata accompagnata, ma sii benvenuta, pur senza queste domande, e sii benedetta senza riserva. Olà, venite ad aiutarmi! Se saprai mantenere la tua grande parola, ciò che io farò per te sarà pari a ciò che tu farai.
(Suono di trombe. Tutti escono)
CONTESSA: Avanti, messere. Voglio misurare l'altezza della vostra educazione.
BUFFONE: Mi dimostrerò altamente pasciuto e bassamente educato. Si sa, io non son fatto altro che per la corte.
CONTESSA: Per la corte! Oh! per che luogo avete dunque riguardo, se voi vi cavate quello di torno con tanto disprezzo: "altro che per la corte"!
BUFFONE: In verità, signora, se Iddio ha prestato a un uomo qualche creanza, egli può agevolmente cavarsela a corte; chi non può fare un inchino, né cavarsi il cappello, o baciarsi la mano, o dire alcunché, non possiede né gamba, né mani, né labbro, né cappello; e, in realtà, un tipo così, a dirla schietta, non sarebbe affatto per la corte. Ma, quant’ a me, posseggo una risposta che può servire per tutti gli uomini.
CONTESSA: Oh! dev'essere ben capace una risposta che va bene per tutte le domande.
BUFFONE: E' come la sedia del barbiere, che è adatta per tutte le natiche, per quelle puntute, per quelle spampanate, per quelle sode, per qualsiasi natica insomma.
CONTESSA: E la vostra risposta sarebbe adatta per tutte le domande?
BUFFONE: A perfezione: come si adattano dieci grossi alla mano di un avvocato, come la corona francese alla sgualdrinella vestita di taffettà, come l'anel di vinco di Berta al dito di Martino, come i cenci al martedì grasso, come la moresca al primo maggio, come un chiodo al suo buco, come il cornuto al suo corno, come una scanfarda arrabbiata a un manigoldo attaccabrighe, come le labbra d'una monaca alla bocca del frate, anzi, come la salsiccia alla sua pelle.
CONTESSA: Dunque, voi avete una risposta adatta proprio a tutte le domande?
BUFFONE: Dal duca in giù, fin sotto il birro, si adatta a qualsiasi domanda.
CONTESSA: Dev'essere una risposta di proporzioni sproporzionate, se deve adattarsi a tutte le domande.
BUFFONE: Ma non è nemmeno un'inezia, in fede mia, se i sapienti la giudicassero come si deve. Eccola tutta intera. Domandatemi se sono un cortigiano; non vi farà nulla di male a imparare.
CONTESSA: A esser giovane di nuovo, se potessi.... Mi comporterò da sciocca nelle mie domande, colla speranza di diventar più sapiente dopo, per le vostre risposte. Ditemi, messere, siete un cortigiano?
BUFFONE: Mio Dio, signore! Ecco un modo semplice di menare il can per l'aia. Ancora, ancora, fatemene cento.
CONTESSA: Messere, sono un vostro povero amico, che vi vuol bene.
BUFFONE: Mio Dio, signore! In fretta, in fretta. Non risparmiatemi.
CONTESSA: Io credo, messere, che non possiate mangiare di questo cibo grossolano.
BUFFONE: Mio Dio, signore! Anzi fatemene far la prova e vi farò vedere io.
CONTESSA: Poco tempo fa voi foste frustato, mi pare, messere.
BUFFONE: Mio Dio, signore! Non risparmiatemi.
CONTESSA: Quando vi si frusta voi gridate "Mio Dio, signore" e "Non risparmiatemi"? In verità, "Mio Dio, signore" è una risposta che ben s'adatta quando si è frustati: se foste messo alle strette, voi sapreste rispondere bene alle frustate.
BUFFONE: Non sono mai stato più sfortunato, in tutta la mia vita, con il mio "Mio Dio, signore!". Comprendo che certe cose possono servire per lungo tempo, ma non per sempre.
CONTESSA: La brava massaia che sto facendo col tempo, a passarlo così allegramente con uno sciocco.
BUFFONE: Mio Dio, signore! Ecco, qui serve ancora.
CONTESSA: Basta, signore, di questo. Consegnate ciò ad Elena ed insistete perché risponda subito. Salutate per me i miei parenti e mio figlio. Non è molto.
BUFFONE: Non molti saluti per loro?
CONTESSA: Non molto lavoro per voi. Avete capito?
BUFFONE: Fruttuosissimamente. Sarò là prima delle mie gambe.
CONTESSA: Tornate in fretta.
(Escono da porte diverse)
LAFEU: Si dice che il tempo dei miracoli è passato, e vi sono presso di noi teste filosofiche che ci rendono giornaliere e familiari le cose soprannaturali e inesplicabili. Perciò riteniamo come sciocchezze le cose spaventose, e ci trinceriamo dietro una scienza apparente, mentre dovremmo invece sottometterci a un ignoto timore.
PAROLLES: Sì, è la cosa più meravigliosa che sia sorta ai giorni nostri.
BELTRAMO: Veramente.
LAFEU: Essere abbandonato dai medici...
PAROLLES: Dico io! Dai seguaci di Galeno e da quelli di Paracelso...
LAFEU: Da tutti i dotti patentati...
PAROLLES: Già, lo dico anch'io.
LAFEU: Che lo dichiararono incurabile...
PAROLLES: Già, proprio, anch'io dico così.
LAFEU: Spacciato...
PAROLLES: Proprio come un uomo sicuro di...
LAFEU: Di una vita incerta e di una morte certa.
PAROLLES: Giusto, dite bene; lo stavo per dire anch'io.
LAFEU: Dire che è cosa nuovissima al mondo, è dire la semplice verità.
PAROLLES: E lo è davvero. Se la volete scritta e stampata, la potrete leggere nel... la... come si chiama codesta cosa costì?
LAFEU: "La dimostrazione di un affetto celeste, in uno strumento terrestre".
PAROLLES: Ecco: avrei detto proprio così.
LAFEU: Il delfino non è più allegro; voglio dire quanto a...
PAROLLES: Oh!, è strano, stranissimo, ecco né più né meno come sta la faccenda; e sarebbe empio colui che non volesse riconoscerla come...
LAFEU: La mano del cielo.
PAROLLES: Sicuro; lo dico anch'io.
LAFEU: In un debolissimo...
PAROLLES: E gracile ministro, grande potere, grande trascendenza, che dovrebbe condurci ben più in là, che la semplice guarigione del re; come, per esempio, ad essere...
LAFEU: Tutti grati.
(Entrano il RE, ELENA, e Persone del seguito)
PAROLLES: L'avrei detto anch'io. Voi dite bene... Ecco che viene il re.
LAFEU: "Lustick"! Come dicono gli Olandesi. Amerò le fanciulle di più, fin che mi rimarrà un dente in bocca: ma guardate, potrebbe ballare la coranta con lei.
PAROLLES: "Mort du vinaigre"! Ma non è questa Elena?
LAFEU: Per Dio, mi pare di sì.
RE: Andate, chiamate davanti a me tutti i signori della corte. Siedi, mia salvatrice, qui di fianco al tuo ammalato, e, da questa mano ormai sana, dalla quale tu hai richiamato la vita bandita, ricevi di nuovo la conferma del mio promesso dono che attende solo di essere nominato da te...
(Entrano alcuni Signori)
Bella fanciulla, volgi intorno i tuoi occhi, questa giovanile accolta di nobili celibi è a mia disposizione; la mia voce ha su di loro l'autorità del sovrano e del padre; eleggi liberamente, tu hai il potere di scegliere, ed essi non ne hanno alcuno di negare.
ELENA: A ciascuno di voi possa capitare un'amante bella e virtuosa, quando piacerà ad Amore! Sì, a tutti, tranne che ad uno.
LAFEU (a parte, a Parolles): Darei il mio baio Codimozzo, con tutti i finimenti, per avere i denti sani come quelli di tutti questi giovani e la barba altrettanto tenera.
RE: Considerali bene: neppure uno fra loro che non abbia avuto nobile il padre.
ELENA: Signori, il cielo ha ridonato la vita al re, per mezzo mio.
TUTTI: Lo sappiamo, e ne ringraziamo il cielo.
ELENA: Io sono una vergine semplice, e tanto ricca per questo, che mi glorio soltanto di essere vergine... Se piace a Vostra Maestà io ho già deciso. I rossori sulle mie guance mi mormorano: "Noi arrossiamo che tu debba scegliere; ma, se ti si opporrà un rifiuto, che la pallida morte si posi per sempre sulla tua guancia; noi non vi torneremo mai più".
RE: Scegli, e sappi che colui che non vorrà accettare il tuo amore, rifiuterà con ciò anche il mio.
ELENA: Ora, o Diana, io mi fuggo dal tuo altare, ed i miei sospiri si effondono verso l'imperiale Amore, altissimo dio... Signore, siete disposto ad udire la mia dichiarazione?
PRIMO SIGNORE: E anche ad accettarla.
ELENA: Grazie, signore; non ho altro da dire.
LAFEU (a parte): Non m'importerebbe che la mia vita corresse l'alea, se avessi soltanto la probabilità d'essere scelto da lei.
ELENA: Signore, l'onore che fiammeggia nei vostri begli occhi, prima ancora che io parli, è una risposta troppo minacciosa; l'amore innalzi le vostre fortune venti volte al disopra di colei che ve le augura, e del suo umile amore!
SECONDO SIGNORE: Eppure nulla di meglio io desidererei, se voi voleste.
ELENA: Accettate il mio augurio, e l'Amore ve lo conceda! Così mi congedo.
LAFEU (a parte): Tutti la rifiutano? Se fossero miei figliuoli li frusterei ben bene, o li manderei in Turchia, per farne degli eunuchi.
ELENA: Non abbiate timore che io prenda la vostra mano; per vostro amore non vi farò mai torto; la benedizione scenda sui vostri voti! E possiate trovare nel vostro letto una fortuna più bella, se mai vi sposerete!
LAFEU (a parte): Questi ragazzi sono di ghiaccio: nessuno di loro la vuole: sono di certo bastardi inglesi, non figli di Francia.
ELENA: Voi siete troppo giovane, troppo felice, e troppo buono, per volere un figlio dal mio sangue.
QUARTO SIGNORE: Bella giovane, non lo credo.
LAFEU (a parte): Rimane ancora un acino - son certo che tuo padre il vino lo beveva - ma se tu non sei un somaro, io sono un ragazzo di quattordici anni; ti conosco bene.
ELENA (a Beltramo): Non oso dire che vi scelgo, ma, finché vivrò, consegno me e i miei servigi al vostro potere e alla vostra guida...
Questo è l'uomo.
RE: Ebbene, giovane Beltramo, prendila, essa è tua moglie.
BELTRAMO: Mia moglie, mio signore? Io imploro Vostra Altezza di permettermi, in un affare come questo, di far uso dei miei propri occhi.
RE: Non sai, Beltramo, ciò che ella ha fatto per me?
BELTRAMO: Lo so, mio buon signore, ma non posso mai sperare di sapere perché dovrei sposarla.
RE: Tu sai che ella mi ha fatto alzare dal mio letto d'infermità.
BELTRAMO: Ma forse ne segue, mio buon signore, che al vostro alzarsi debba corrispondere il mio abbassarsi? Io la conosco bene: ella venne educata a spese di mio padre: mia moglie la figlia di un povero medico! Piuttosto mi avvilisca un eterno vituperio!
RE: E' dunque soltanto la mancanza di un titolo che vitùperi in lei, il titolo che io posso creare... E' cosa strana che i nostri sangui, i quali, mescolati tutti insieme, non si potrebbero in nessun modo distinguere, nel colore nel peso e nel calore, si mantengano tuttavia tanto staccati, in così forti differenze... Se ella è tutto quel che c'è di virtuoso (salvo ciò che a te dispiace, che è la figlia di un povero medico), a te dispiace la virtù a causa d'un nome. Ma tu non arriverai a tal punto. Quando virtuosi effetti procedono dal grado più basso, quel grado viene nobilitato dall'azione compiuta. Il nostro onore è idropico, se ci gonfiano i grandi titoli in luogo della virtù:
il bene è bene senza bisogno di un titolo, e tale è anche la bassezza; la qualità dovrebbe essere giudicata per ciò che è, non per il nome...
Ella è giovane, saggia, bella; in tutto ciò è erede immediata della natura; e queste sono le cose che conferiscono onore; l'onore che si vanta di essere nato tale, e che non somiglia a suo padre, è uno spregio dell'onore. L'onore fiorisce quando deriva dai nostri atti, piuttosto che dai nostri antenati. Il solo nome è uno schiavo, prostituito su tutte le tombe, è un trofeo bugiardo su tutti i sepolcri, troppo spesso muto dove la polvere e il maledetto oblìo sono l'avello di ossa degne d'onore. Che ti dirò? Sa a te può piacere questa creatura come fanciulla, io posso creare il resto; la virtù e la sua stessa persona sono la sua dote, da me avrà onore e ricchezza.
BELTRAMO: Non la posso amare e non voglio sforzarmi di amarla.
RE: Faresti ingiuria a te stesso, se tentassi di scegliere.
ELENA: Mio signore, io sono contenta che voi siate guarito. Al resto non ci si pensi più.
RE: Il mio onore è a repentaglio e userò del mio potere per difenderlo. Qua, prendi la sua mano, ragazzo superbo e sprezzante, indegno di questo ottimo dono. Tu avvinci nel tuo basso disprezzo il mio amore e il suo merito. Tu non sei neppur capace d'immaginare che noi, mettendo il nostro peso sul suo piatto leggero, tanto pesiamo da poter far toccare il giogo al tuo. Tu non vuoi riconoscere che è nostro diritto piantare il tuo onore dove a noi piace farlo crescere.
Raffrena il tuo disprezzo: ubbidisci alla nostra volontà che lavora per il tuo bene: non prestar fede al tuo disdegno, ma senza indugio paga alle tue fortune quel tributo di obbedienza che è tuo dovere rendere e che è nostro potere esigere, altrimenti io ti rigetterò per sempre lontano dalla mia protezione, nei vacillamenti e nelle cadute rovinose della gioventù e dell'ignoranza: la mia vendetta e il mio odio piomberanno sopra di te, in nome della giustizia, senza alcuna pietà. Parla rispondi!
BELTRAMO: Perdonate, mio grazioso signore. Io sottometto il mio talento ai vostri occhi. Se penso qual grande esaltazione e qual porzione d'onore sorgono ove lo comandate, m'accorgo come colei che pur ora tenevo in bassa stima nei miei pensieri superbi, sia adesso portata in palmo di mano dal re, e, divenuta nobile in tal modo, è come se fosse stata sempre tale.
RE: Prendile la mano, e dille che ella è tua; io le prometto un contrappeso; se essa non sarà tua uguale nel rango, colmerò la sua bilancia di più.
BELTRAMO: Prendo la sua mano.
RE: La fortuna buona e il favore del re sorridano a questo fidanzamento. La cerimonia deve seguire immediatamente al mio ordine appena firmato, e si compirà questa sera: la festa solenne verrà riservata a più tardi, in attesa degli amici assenti. Se tu l'amerai, il tuo amore per me sarà sincero; diversamente sarà falso.
(Escono tutti. Lafeu e Parolles, restano a far commenti sullo sposalizio)
LAFEU: Ehi, signore! Ho da dirvi una parola.
PAROLLES: Ai vostri ordini, messere.
LAFEU: Il vostro signore e padrone ha fatto bene a ritrattarsi.
PAROLLES: Ritrattarsi! Il mio signore! Il mio padrone.
LAFEU: Già. Non parlo in una lingua chiara?
PAROLLES: In una lingua asprissima, e che non si può capire senza che ne segua uno spargimento di sangue. Il mio padrone!
LAFEU: Siete forse compagno al conte di Rossiglione?
PAROLLES: A ogni conte, a tutti i conti, a tutto ciò che è uomo!
LAFEU: A tutto ciò che è uomo del conte: il padrone del conte ha uno stile diverso.
PAROLLES: Voi siete troppo vecchio, messere; vi basti questo, siete troppo vecchio.
LAFEU: Giovanotto, sono un uomo: al qual titolo l'età non ti potrà mai far giungere.
PAROLLES: Non oso fare ciò che ho il coraggio di fare troppo bene.
LAFEU: Per la durata di due pasti, mi hai fatto l'impressione di un tipo piuttosto saggio: parlavi passabilmente bene dei tuoi viaggi, e poteva andare; ma le sciarpe e le bandierine di cui eri ornato mi dissuasero a parecchie riprese dal crederti un vascello di stazza considerevole. Ora ti trovo qual sei e non m'importa di perderti di nuovo. Non sei buono a nulla se non per essere ripreso: ma non ne vale neppure la pena.
PAROLLES: Se tu non fossi protetto dal privilegio dell'antichità...
LAFEU: Non immergerti troppo nell'ira se non ti preme d'affrettare il tuo cimento: che se... il Signore abbia misericordia di te, pulcin bagnato! Dunque, mia bella finestra d'osteria, stammiti bene; non mi è necessario aprire la tua impannata per vederti da parte a parte...
Dammi la mano.
PAROLLES: Mio signore, voi mi trattate con la più egregia indegnità.
LAFEU: Sì, con tutto il mio cuore. Ne sei degno.
PAROLLES: Mio signore non lo merito.
LAFEU: In fede mia, te lo meriti fino all'ultima dramma, e non te ne voglio togliere neppure un ette.
PAROLLES: Ebbene, imparerò più saggezza.
LAFEU: Fallo più presto che potrai, perché c'è un gusto del contrario nella pozione che ti tocca bere. Se mai verrai legato con la tua sciarpa e battuto, proverai che cosa significa essere orgoglioso dei tuoi legami. Desidero mantenere la conoscenza con te, o meglio di te, per poter dire al caso: è un tipo che conosco.
PAROLLES: Mio signore, voi mi strapazzate in modo insopportabile.
LAFEU: Pel tuo bene vorrei che queste fossero le pene dell'inferno, e che la mia rigidezza durasse eterna. Ma la mia rigidezza è passata, come io passo via da te, con la velocità che gli anni mi consentono.
(Esce)
PAROLLES: Va'! hai un figlio che mi laverà l'onta di questo affronto:
fetente, vecchio, sporco fetente signore! Ma è necessario ch'io sia paziente: l'autorità non si può mettere in ceppi. Lo batterò, lo giuro per la vita mia, se mi sarà dato d'incontrarlo con vantaggio, anche se fosse quattro volte nobile. Non avrò compassione della sua età, più di quanta ne avrei di... Lo batterò, se lo potrò incontrare ancora.
(LAFEU ritorna)
LAFEU: Ehi! ci sono novità per voi. Il vostro signore e padrone è sposato; avete una nuova padrona.
PAROLLES: Prego nel modo più sincero Vostra Signoria a voler porre un freno ai vostri insulti. Egli è solo il mio buon signore. Quello che servo lassù è mio padrone.
LAFEU: Chi? Dio?
PAROLLES: Sì, messere.
LAFEU: Il diavolo è il tuo padrone! Ma perché ti leghi le braccia in quella foggia? Vuoi far diventar calzoni le maniche? Fanno così anche gli altri servitori? Sarebbe meglio che tu mettessi le tue parti basse dove hai il naso. Sul mio onore, se io fossi più giovane, anche soltanto di due ore, ti picchierei; son convinto che tu sei un'offesa per tutti, ed ognuno dovrebbe picchiarti, ed è mia opinione che tu sia venuto al mondo perché gli uomini si allenino sopra di te.
PAROLLES: Mio signore, voi mi trattate duramente, in un modo ch'io non merito.
LAFEU: Via, via, messere! voi foste picchiato in Italia per aver rubato un chicco da una melagrana; voi non siete un vero viaggiatore, voi siete un vagabondo; con i nobili e con i personaggi ragguardevoli siete troppo impertinente, più di quanto ve ne dia diritto la nascita ed il valore. Non siete neppure degno di una parola di più: perché altrimenti vi chiamerei canaglia. Ora vi lascio.
(Esce)
PAROLLES: Bene, benissimo, dunque è così; bene, benissimo; facciam finta di nulla per un po' di tempo.
(Entra BELTRAMO)
BELTRAMO: Rovinato, e condannato a eterni guai.
PAROLLES: Che cosa succede, cuoricino mio?
BELTRAMO: Ho fatto un solenne giuramento davanti al sacerdote, ma con lei non giacerò mai.
PAROLLES: Che, che, cuoricino mio?
BELTRAMO: Oh, mio Parolles, mi hanno obbligato a sposarmi! Ma io me ne andrò in guerra in Toscana; a letto con lei mai.
PAROLLES: La Francia è un canile, e non merita neppure d'essere calpestata dal piede di un uomo. Alla guerra!
BELTRAMO: Ho qui una lettera di mia madre, ma non so ancora che cosa contenga.
PAROLLES: Già,, sarebbe bene saperlo... Alla guerra, ragazzo mio, alla guerra! Porta il suo onore nascosto in una scatola colui che accarezza la sua coccolina, qui, in casa, consumando nelle sue braccia quel nerbo virile che dovrebbe raffrenare il salto e l'alta corvetta del focoso destriero di Marte. Cambiar aria! La Francia è una stalla, e noi, che ci viviamo, delle brenne. Alla guerra, dunque!
BELTRAMO: Faro così. La manderò a casa mia, farò sapere a mia madre l'odio che porto a lei, e la ragione della mia fuga. Scriverò al re ciò che non oso dirgli: il dono che mi ha fatto mi equipaggerà pei campi d'Italia dove combattono i nobili. La guerra non è più guerra se la si confronta con l'ospedale dei matti e con una moglie che si detesta.
PAROLLES: Sei sicuro che ti manterrai sempre fedele a questo tuo capriccio?
BELTRAMO: Vieni con me nella mia camera e consigliami. La manderò via subito; partirò domani per la guerra ed ella se ne andrà al suo solitario struggimento.
PAROLLES: Ecco delle palle che rimbalzano, e con rumore. E' duro: uomo sposato giovane, è uomo spostato. Dunque, via, e lasciatela con coraggio. Andate, il re vi ha fatto torto: ma, sst! la va così.
(Escono)
ELENA: Mia madre gentilmente mi manda i suoi saluti. Sta bene?
BUFFONE: No, non sta bene, eppure è in buona salute; è molto allegra, eppure non posso dire che stia bene; ma, sian rese grazie al cielo, ella sta benissimo e non desidera nulla al mondo; eppure, eppure... la verità è che non sta bene.
ELENA: Se sta benissimo, qual è la cosa che la turba, e che le impedisce di star bene?
BUFFONE: In verità, ella sta molto bene, tranne che per due cose.
ELENA: Che cose sono?
BUFFONE: Una che non è in cielo, dove Dio la mandi presto! due, che è sulla terra, dalla quale Dio la spedisca presto, (Entra PAROLLES)
PAROLLES: Dio vi benedica, mia fortunata signora!
ELENA: Confido, messere, che la vostra buona volontà accompagnerà le mie buone fortune.
PAROLLES: Aveste le mie preghiere per ottenerle, e le avete tuttora perché le possiate mantenere. Oh, mio briccone, come se la passa la mia vecchia signora?
BUFFONE: Purché aveste voi le sue rughe e io i suoi soldi, vorrei che fosse passata come dite voi.
PAROLLES: Ma io non dico nulla.
BUFFONE: Perdinci! Siete dunque tanto più saggio. Le lingue di molti servitori provocano col dimenarsi la rovina dei loro padroni; non dire nulla, non fare nulla, non saper nulla, e non aver nulla, sono gran parte del vostro appannaggio che è qualcosa di molto vicino al nulla.
PAROLLES: Vattene, sei una birba.
BUFFONE: Avreste dovuto dire, messere: "A petto a una birba, tu sei un birbone", vale a dire se mi metto la mano al petto, sei un birbone; questa, messere, sarebbe stata la verità.
PAROLLES: Va', sei un pazzo intelligente: ti ho scovato.
BUFFONE: Mi avete scovato da voi, signore, o vi fu insegnato il modo come scovarmi? La ricerca, signore, non è stata senza profitto: in voi stesso potete trovare un gran pazzo, per il piacere del mondo e per l'incremento delle risa.
PAROLLES: Siete un buon furfante, in fede mia e ben pasciuto. Signora, il mio padrone, pressato da un affare molto importante, partirà questa notte. Il solenne diritto e il grande rito dell'amore, che il momento reclama come a voi dovuti, egli li riconosce ma li rimanda per un forzato impedimento. La loro mancanza, la loro dilazione, sono ripiene di dolcezze che, distillate ora nella storia del tempo, faranno sovrabbondare di gioia il tempo avvenire e traboccare il piacere oltre l'orlo.
ELENA: Che altro comanda?
PAROLLES: Che prendiate subito congedo dal re, e che gli presentiate questa urgenza come cosa che proceda da voi, rafforzandola con quella scusa che, secondo voi, la potrà far sembrare quasi una necessità.
ELENA: Che cosa ordina ancora?
PAROLLES: Che ottenuto ciò, vi rimettiate subito al suo ulteriore piacimento.
ELENA: Ubbidirò in ogni cosa alla sua volontà.
PAROLLES: Glielo riferirò.
(Esce)
ELENA: Ve ne prego. (Al Buffone) Venite, voi.
(Escono)
LAFEU: Ma io spero che Vostra Signoria non lo vorrà stimare un soldato.
BELTRAMO: Sì, mio signore, e molto valoroso.
LAFEU: Voi vi fondate su quanto egli stesso vi dice.
BELTRAMO: Ed anche su altre prove sicure.
LAFEU: Allora la mia bussola s'è sbagliata e ho scambiato quest'allodola per uno zigolo.
BELTRAMO: V'assicuro, mio signore, che grande è la sua scienza, e il suo valore è alla stessa stregua.
LAFEU: Dunque ho peccato contro la sua capacità, ho trasgredito contro il suo valore e mi trovo in uno stato d'animo pericoloso, perché nel mio cuore non sento motivo di pentirmi...
(Entra PAROLLES)
Eccolo che viene. Vi prego, fateci diventare amici, voglio fare di tutto per avere la sua amicizia.
PAROLLES (a Beltramo): Quei vostri comandi verranno eseguiti, signore.
LAFEU: Vi prego, messere, chi è il suo sarto?
PAROLLES: Messere?
LAFEU: Oh, lo conosco bene. Sì, messere, è un buon lavorante, un ottimo sarto.
BELTRAMO (a parte a Parolles): E' andata dal re?
PAROLLES: Sì.
BELTRAMO: Partirà stasera?
PAROLLES: Come voi volete.
BELTRAMO: Ho scritto le mie lettere, ho chiuso nel forziere il mio tesoro, e dato ordini che si preparino i cavalli. Questa sera, quando dovrei prendere possesso della sposa, terminerò prima di cominciare.
LAFEU: Un buon viaggiatore val sempre qualcosa alla fine di un pranzo, ma chi smentisce per tre terzi, e fa uso di una verità conosciuta per far passare mille inezie, dovrebbe essere ascoltato una volta e battuto tre volte... Dio vi salvi, capitano.
BELTRAMO: V'è qualche screzio tra il mio signore e voi, signore?
PAROLLES: Non so come mi sia meritato di cadere nella disgrazia del mio signore.
LAFEU: Siete riuscito a cadervi con gli stivali e gli speroni e con tutto il resto: come colui che fece un salto dentro la crema; e vi converrà venirne fuori di nuovo, per non dover rendere ragione della vostra permanenza.
BELTRAMO: Può darsi che siate voi che vi sbagliate sul suo conto, mio signore.
LAFEU: E penserò sempre così, anche se lo sorprendessi a pregare.
State bene, mio signore, e, credetemi, in questa noce leggera non vi può essere gheriglio; l'anima di quest'uomo sono i suoi vestiti; non fidatevi di lui nelle cose importanti; ho avuto a che fare con altri animali domestici di questo genere, e ne conosco la natura... (A Parolles) Addio, signore. Ho parlato di voi meglio di quanto abbiate meritato, e potrete meritare, da me, ma dobbiamo render bene per male.
(Esce)
PAROLLES: E' un signore scemo. Giuro.
BELTRAMO: Forse.
PAROLLES: Come? Non lo conoscete?
BELTRAMO: Sì, lo conosco bene, e tutti ne parlano come di persona degna...
(Entra ELENA)
Ecco qui la mia pastoia che viene.
ELENA: Signore, come mi venne comandato in nome vostro, ho parlato con il re, e ho ottenuto il permesso di partire subito; soltanto egli desidera parlarvi a quattr'occhi.
BELTRAMO: Ubbidirò la sua volontà. Non vi deve meravigliare, Elena, questo mio modo di agire, che sembra fuori tempo, come non vi si accorda il servizio che si attende da me. Io non ero preparato a quanto è avvenuto, e perciò mi trovo tutto sossopra... Ciò mi spinge a pregarvi di andare subito a casa, a riflettere perché vi supplico, piuttosto che a chiedermelo. Poiché le mie ragioni sono più forti che non sembri, ed i miei affari più urgenti di quanto appaia a prima vista a voi che non li conoscete... (Le dà una lettera) Questa è per mia madre. Non vi vedrò che fra due giorni; perciò vi lascio alla vostra saggezza.
ELENA: Nulla posso dire, signore, se non che io sono la vostra obbedientissima ancella.
BELTRAMO: Andiamo, andiamo, non parliam più di questo.
ELENA: E con fedele devozione cercherò sempre di supplire a ciò che non mi ha concesso la mia povera stella, per essere pari alla mia grande fortuna.
BELTRAMO: Basta: ho molta fretta. Addio: subito a casa.
ELENA: Vi prego, signore, perdonatemi.
BELTRAMO: Ebbene, che cosa volete dirmi?
ELENA: Io non son degna della ricchezza che possiedo, e neppure oso dire che essa è mia... per quanto lo sia... Ma, come un ladro timoroso, desidererei ardentemente rubare ciò che la legge mi concede come cosa mia.
BELTRAMO: Che cosa vorreste avere?
ELENA: Qualcosa, e appena tanto: nulla, veramente. Non vorrei dirvi ciò che vorrei, mio signore... ma, in verità, solo gli estranei e i nemici si separano, e non baciano.
BELTRAMO: Vi prego di non trattenervi più lungo; a cavallo, subito.
ELENA: Non verrò meno al vostro comando, buon signore...
BELTRAMO: Dove sono gli altri miei uomini, signore? Addio. (Elena esce) Vattene a casa, dove io non verrò mai più, finché potrò brandire la spada e udire il suono del tamburo... Via, fuggiamo.
PAROLLES: Bravo! Coraggio!
(Escono)
ATTO TERZO
DUCA: E così voi ora conoscete punto per punto le ragioni fondamentali di questa guerra, la cui grande asprezza ha già fatto spargere molto sangue, e ne è ancora assetata.
PRIMO SIGNORE: Il conflitto appare sacrosanto da parte di Vostra Grazia, iniquo e terribile da quella del vostro nemico.
DUCA: Perciò ci fa non poca meraviglia che in una causa tanto giusta il nostro cugino di Francia abbia chiuso i suoi sentimenti alle nostre richieste di soccorso.
SECONDO SIGNORE: Mio buon signore, io, uomo comune ed estraneo che so leggere nel grande oroscopo di un Consiglio con le mie deboli nozioni, non posso comunicare le nostre ragioni di Stato e neppure oso esprimere ciò che ne penso, giacché molte volte mi son sbagliato nelle mie congetture, partendo da incerti fondamenti.
DUCA: E sia come gli piace.
PRIMO SIGNORE: Per me non ho alcun dubbio che i giovani della nostra nobiltà, sazi dal non far nulla, accorreranno qui ogni giorno, per guarirsi del loro ozio.
DUCA: Essi saranno i benvenuti: e tutti gli uomini che potranno muover da noi, andranno a posarsi sopra di loro... Voi già conoscete i vostri incarichi; quando vi saranno posti migliori li occuperete voi. Domani al campo.
(Suono di trombe. Tutti escono)
CONTESSA: Tutto è accaduto come io desideravo, salvo che egli non ritorna insieme con lei.
BUFFONE: In fede mia, mi pare che il mio giovane signore sia un uomo molto melanconico.
CONTESSA: Come l'avete osservato, dite?
BUFFONE: Ma! si guarda lo stivale, e canta; si aggiusta la gorgiera, e canta; fa delle domande, e canta: si stuzzica i denti, e canta; conoscevo un tale che aveva questo vezzo della melanconia, che si vendette un ottimo castello per una canzone.
CONTESSA: Lasciatemi vedere che cosa scrive e quando intende ritornare.
(Apre la lettera)
BUFFONE (a parte): Dacché sono stato a corte, Isabella non mi va più a genio. Il nostro baccalà e le nostre Isabelle non campagnole sono nulla in confronto al vostro baccalà e alle vostre Isabelle di corte; al mio Cupido n'è schizzato fuori il cervello, ed anch'io comincio ad amare come un vecchio ama il denaro, senza gusto.
CONTESSA: Che abbiamo qui?
BUFFONE: Proprio ciò che avete lì.
(Esce)
CONTESSA (legge): "V'ho mandata a casa una nuora. Ella ha risanato il re ed ha rovinato me; l'ho sposata ma ancora non son giaciuto con lei, ed ho giurato che il 'non' sia eterno. Vi verrà detto che me ne son fuggito: sappiatelo da me, prima che altri ve lo dica. Se v'è spazio abbastanza nel mondo, manterrò una ben lunga distanza. La mia devozione a voi. Il vostro sfortunato figlio Beltramo". No, non è cosa buona, ragazzo sventato e scavezzato, fuggire i favori di un re tanto clemente, e attirarsi sul capo la sua indignazione col disprezzare una fanciulla così virtuosa che nemmeno un imperatore la potrebbe disprezzare.
(Rientra il Buffone)
BUFFONE: Oh, madama! Ecco là notizie tristi, fra due soldati e la mia giovane signora.
CONTESSA: Che cosa succede?
BUFFONE: Eppure, in queste notizie c'è anche un po' di conforto.
Proprio. Vostro figlio non verrà ucciso così presto come io credevo.
CONTESSA: Perché dovrebbe essere ucciso?
BUFFONE: E' quello che dico anch'io, signora, se, come m'han detto, egli fugge. Il pericolo c'è, ma nel far fronte; è allora che si perdono gli uomini, benché in compenso si possano generare bambini. Da loro potrete sapere di più. Eccoli che vengono. Io so soltanto che vostro figlio è fuggito via.
(Entra ELENA con due Signori)
PRIMO SIGNORE: Dio vi salvi, buona signora.
ELENA: Signora, il mio sposo è partito, partito per sempre.
(Singhiozza)
SECONDO SIGNORE: Non dite così.
CONTESSA: Sii paziente. Vi prego, signori, ho passato tante vicende di gioia e di dolore, che, al primo apparire dell'una o dell'altro, non vengo meno come una donna... Ditemi, dov'è mio figlio?
SECONDO SIGNORE: Signora, è partito per mettersi al servizio del duca di Firenze. Lo abbiamo incontrato diretto al luogo donde noi veniamo, e dove torneremo dopo aver trattato un affare a corte.
ELENA: Ascoltate questa lettera, signora; è il mio permesso d'accattonaggio. (Legge) "Quando sarai in possesso dell'anello che io ho in dito, e che non mi toglierò mai, e quando mi mostrerai un figlio del tuo grembo, del quale io sarò il padre, allora potrai chiamarmi marito; per me questo 'allora' significa 'mai'". E' una sentenza spaventosa.
CONTESSA: Avete portata voi questa lettera, signori?
PRIMO SIGNORE: Si, signora, ed ora che ne conosciamo il contenuto, siam dolenti per le nostre pene.
CONTESSA: Ti prego, signora, sii più lieta; se vuoi far monopolio di tutti i tuoi dolori, me ne rubi la metà... Egli fu mio figlio, ma dal mio sangue lavo il suo nome, e tu sarai tutta la mia prole... E' egli diretto a Firenze?
SECONDO SIGNORE: Si, signora.
CONTESSA: Per farsi soldato?
SECONDO SIGNORE: Tale è la sua nobile intenzione: e, credetemi, il duca gli conferirà tutto l'onore che gli spetta secondo convenienza.
CONTESSA: Voi ritornate colà?
PRIMO SIGNORE: Si, signora, con l'ala più rapida della velocità.
ELENA (legge): "Finché non avrò più moglie, non avrò più nulla in Francia". E' ben amaro!
CONTESSA: Sta scritto cosi?
ELENA: Sì, signora.
PRIMO SIGNORE: Fu soltanto la superbia della sua mano, alla quale il cuore forse non acconsentiva.
CONTESSA: Nulla in Francia, finché non sarà senza moglie! Qui ella è l'unica cosa troppo buona per lui; ella merita un signore che si faccia servire da venti ragazzi sgarbati come lui, e che chiamino lei padrona ad ogni ora. Chi aveva con sé?
PRIMO SIGNORE: Soltanto un servo, e un signore che mi sembra di aver visto altre volte.
CONTESSA: Parolles forse?
PRIMO SIGNORE: Proprio, mia buona signora, lui.
CONTESSA: E' un individuo assai bacato, carico di cattiveria. Sotto il suo influsso mio figlio corrompe l'onoratezza che ebbe dalla natura.
PRIMO SIGNORE: In verità, mia buona signora, egli è un individuo che possiede un bel po' di quel di più, che lo fa parer da più con certuni.
CONTESSA: Benvenuti, signori. Vi prego di dire a mio figlio, quando lo vedrete, che la sua spada non potrà mai conquistargli l'onore che egli perde; altre cose vi pregherò di recargli scritte in una lettera.
SECONDO SIGNORE: Siamo al vostro servizio, signora, in questo e in tutti i vostri affari di riguardo.
CONTESSA: Solo se permetterete che vi si ricambi con la stessa gentilezza. Volete seguirmi?
(La Contessa esce con i Signori)
ELENA: "Finché non avrò più moglie, non avrò più nulla in Francia".
Nulla in Francia, finché non sarà senza moglie! No, non ne avrai, Rossiglione, non avrai moglie in Francia, così avrai ancora tutto...
Povero signore! Son io che ti scaccio dal tuo paese, e che espongo le tue tenere membra ai rischi della guerra spietata? Son io che ti allontano dalla lieta corte, dove venivi preso di mira dagli occhi belli, per farti bersaglio ai fumanti moschetti? O voi, messaggeri di piombo, che cavalcate sulla violenta velocità del fuoco, volate con falsa meta; movete l'aria invulnerabile che forata canta, non toccate il mio signore! Se qualcuno lo colpirà, son io che gliel'avrò posto dinanzi; se qualcuno si slancerà contro il suo temerario petto, son io la sciagurata che ve lo tengo. Benché io non l'uccida, sono io la causa di tal sua morte. Meglio sarebbe stato incontrare il vorace leone che urla per gli acuti stimoli della fame; meglio che fossero tutte mie le miserie della natura. No, vieni alla tua casa, Rossiglione, ritorna da quel luogo dove l'onore non può guadagnare dal pericolo più di una cicatrice, mentre spesse volte perde ogni cosa...
Io me ne andrò: tu stai lontano perché io son qui e posso dunque star qui ancora? No, no, anche se la casa fosse ventilata dall'aria del paradiso, anche se vi si fosse serviti da tutti gli angeli, me ne andrò, che la compassionevole fama riferisca della mia fuga e consoli il tuo orecchio. Vieni, notte! Termina, o giorno! Con l'oscurità io, povero ladro, partirò furtivamente.
(Esce)
SCENA TERZA - Firenze. Di fronte al Palazzo Ducale
(Suono di trombe. Entrano il DUCA, BELTRAMO, PAROLLES, Soldati, il Tamburino e i Trombettieri)
DUCA: Tu sarai il generale della nostra cavalleria, e noi, con grande speranza, riponiamo il nostro più vivo affetto e la nostra miglior fiducia nella tua promettente fortuna.
BELTRAMO: Signore, l’incarico è troppo pesante per le mie forze, ma faremo di tutto onde portarlo all'estremo limite del pericolo, per amore della vostra gloria.
DUCA: Va', dunque, e che la fortuna, divenuta tua benigna amante, giuochi sul tuo elmo vittorioso.
BELTRAMO: Gran Marte, io entro oggi nei tuoi ranghi! Fammi soltanto uguale ai miei pensieri, e mi dimostrerò amante dei tuoi tamburi, odiatore dell'amore.
(Escono)
SCENA QUARTA - Rossiglione. Sala nel Palazzo della Contessa
(Entrano la CONTESSA e il Maggiordomo)
CONTESSA: Ahimè! Perché accettaste la sua lettera? Non potevate immaginare che ella avrebbe fatto ciò che ha fatto, mandandomi una lettera? Leggetela di nuovo.
MAGGIORDOMO (legge): "A San Giacomo io fo pellegrinaggio:
sì peccò in me l'ambizioso amore, che scalza il freddo suol premo in viaggio, con santi voti onde espiar l'errore.
Oh, scrivete, scrivete sì che il figlio vostro e mio sire dalla guerra torni; beneditelo in pace, io dall'esiglio vuo' con pio zel santificargli i giorni.
Deh, che perdoni a me le sue fatiche; io, perversa Giunon, via dalla corte lo spinsi a viver tra bande nemiche, dove l'onore incalzan danno e morte.
Per la morte e per me troppo egli è buono:
Io quella abbraccio, e libertà gli dono".
CONTESSA: Ah quali aculei pungenti nelle sue parole più miti! Rinaldo, voi non siete mai stato meno accorto, che lasciandola partire così: se le avessi parlato io, avrei potuto farle cambiare intento. Ma la sua partenza ora me lo impedisce.
MAGGIORDOMO: Perdonatemi, signora. Se vi avessi consegnata la lettera ieri sera, si sarebbe potuto trattenerla. Tuttavia ella scrive che sarebbe inutile seguirla.
CONTESSA: Quale angelo potrà benedire questo indegno marito? Egli non sarà mai più fortunato, se le parole di colei che il cielo ascolta con gioia ed ama esaudire, non lo libereranno dall'ira della somma giustizia... Scrivete, scrivete Rinaldo, a questo marito indegno di sua moglie, e che ogni parola pesi del merito della sposa che egli stima troppo leggero; ditegli con pungenti frasi il mio immenso dolore, per quanto egli vi sia poco sensibile. Mandate il corriere più veloce. Forse, sapendo che è partita, ritornerà, ed anche ella, posso sperare, sapendolo, rifarà in fretta i suoi passi, ricondotta qui da puro amore. Quale di loro mi sia più caro io non son capace di discernere... Cercate dunque il corriere... Il mio cuore è pesante e la mia età debole; vorrei piangere per il dispiacere, e il dolore mi comanda di parlare.
(Escono)
VEDOVA: Su, venite; se si avvicinano alla città, perderemo tutto lo spettacolo.
DIANA: Si dice che il conte francese abbia reso i più gloriosi servigi.
VEDOVA: Si dice che abbia fatto prigioniero il comandante in capo del nemico, e che abbia ucciso di propria mano il fratello del duca...
(squillo) Oh! senti le trombe! Fatica sprecata la nostra! Sono passati per un'altra strada.
MARIANA: Su, torniamo indietro; ci accontenteremo di quanto ci racconteranno gli altri... Diana, state bene attenta a questo conte francese. L'onore di una fanciulla sta nel suo buon nome, e nessuna eredità è più preziosa dell'onestà.
VEDOVA: Ho detto a questa nostra vicina che un signore suo amico v'ha fatto delle brutte proposte.
MARIANA: Conosco quel briccone, che lo possano impiccare. E' un certo Parolles, il turpe mezzano delle tentazioni del giovane conte. Non fidarti di loro, Diana. Le loro promesse, i raggiri, i giuramenti, i doni, tutte queste macchinazioni della lussuria, non sono ciò che vorrebbero dare ad intendere: molte fanciulle se ne son lasciate sedurre. E il gran male è che l'esempio, che appare così terribile nella perdita della verginità, non riesce, nonostante tutto, a dissuader le altre dal seguir la stessa strada, sicché s'invescan in quelle pericolose panie. Non è necessario, spero, che vi dia altri consigli, e confido che la vostra grazia vi farà stare al vostro posto, anche se non vi fosse altro pericolo che la perdita della modestia.
DIANA: Non temete per me.
(Entra ELENA, travestita da pellegrina)
VEDOVA: Lo spero... Guardate, viene una pellegrina. Son certa che verrà ad alloggiare in casa mia, dove si mandan fra di loro. Glielo voglio chiedere. Dio vi protegga, pellegrina! Dove siete diretta?
ELENA: A San Giacomo Maggiore. Ditemi, vi prego, dov'è l'alloggio dei pellegrini?
VEDOVA: A San Francesco, qui, vicino alla porta.
ELENA: E' questa la strada?
VEDOVA: Sì, è questa... (Una fanfara lontana) Ascoltate! Vengono di qua. Se volete avere la bontà, santa pellegrina, di fermarvi un poco, fin che le truppe saranno passate, vi condurrò io dove potrete trovare alloggio: tanto più che credo di conoscere la vostra locandiera, non meno di me stessa.
ELENA: Siete voi?
VEDOVA: Se così vi piace, pellegrina.
ELENA: Vi ringrazio. Attenderò il vostro comodo.
VEDOVA: Voi venite di Francia, vero?
ELENA: Sì.
VEDOVA: Qui potrete vedere un vostro compatriota, che ha reso grandi servigi.
ELENA: Vi prego, qual è il suo nome?
DIANA: Il conte di Rossiglione; lo conoscete?
ELENA: Soltanto per averne sentito parlare e per averne sentito parlare molto bene: di viso non lo conosco.
DIANA: Sarà quel che sarà, ma qui è ritenuto molto valoroso. E' scappato dalla Francia, si dice, perché il re lo aveva obbligato a sposarsi contro la sua inclinazione. Sapete se è proprio così?
ELENA: Sì, è la pura verità. Io conosco la sua sposa.
DIANA: Un signore che è al servizio del conte parla molto male di lei.
ELENA: Come si chiama?
DIANA: Signor Parolles.
ELENA: Oh! in fatto di lodi, o in confronto al merito del gran conte, penso anch'io come lui, che ella sia tanto meschina da non meritare neppure che il suo nome venga pronunciato. Tutto il suo merito è una castità ben custodita, che, per quanto ne so, non è stata mai messa in dubbio.
DIANA: Ah, povera signora! E' ben dura schiavitù diventar la moglie di uno che non ne vuol sapere.
VEDOVA: Povera creatura! Dovunque ella si trovi, il suo cuore deve essere oppresso dalla tristezza. Questa giovane fanciulla potrebbe giocarle un brutto tiro, se volesse.
ELENA: Che intendete dire? Forse che il conte amoroso la invita a fare cosa disonesta?
VEDOVA: Proprio così; e adopera ogni lenocinio che in tal genere di corte può corrompere la castità di una tenera fanciulla; ma ella è ben armata contro di lui, e sa difendersi con la più forte onestà.
MARIANA: Gli dèi non permettano che sia altrimenti!
VEDOVA: Ecco che vengono...
(Bandiere e tamburi. Entrano BELTRAMO e PAROLLES, con tutto l'Esercito)
Quello è Antonio, il figlio più anziano del duca, e quell'altro è Escalo.
ELENA: Qual è il francese?
DIANA: Quello là, quello con la piuma; è davvero un prode. Se volesse bene a sua moglie! Più onesto sarebbe ancor più leggiadro. Non è forse un bel gentiluomo?
ELENA: Mi piace molto.
DIANA: Peccato che non sia onesto. E là, è quel furfante che lo conduce in quei posti. Se io fossi la sua donna vorrei avvelenare quel brutto ribaldo.
ELENA: Qual è?
DIANA: Quello scimmiotto con quelle sciarpe. Perché è malinconico?
ELENA: Forse sarà stato ferito in battaglia.
PAROLLES: Perdere il nostro tamburo! Bene!
MARIANA: Dev'essere preoccupato per qualche cosa. Ci ha visto.
VEDOVA: Il diavolo vi porti!
MARIANA: Con tutta la vostra gentilezza, ruffiano!
(Escono Beltramo, Parolles, Ufficiali e Soldati)
VEDOVA: La truppa se n'è andata... Venite, pellegrina, vi condurrò dove potrete riposare. Vi sono già quattro o cinque penitenti legate dal voto, a casa mia, dirette a San Giacomo Maggiore.
ELENA: Le mie umili grazie. E piaccia a questa signora e a questa gentile fanciulla di cenare con noi questa sera. Toccherà a me offrire e ringraziare. E per ripagarvi ancora darò a questa vergine consigli degni di essere presi in considerazione.
A DUE: Accettiamo di buon cuore la vostra offerta.
(Escono)
SECONDO SIGNORE: No, mio buon signore, mettetelo alla prova; lasciategli fare ciò che vuole.
PRIMO SIGNORE: Se Vostra Signoria non troverà che è un vile, non abbia più fiducia in me.
SECONDO SIGNORE: Per la mia vita, signore, quello è una bolla di sapone.
BELTRAMO: Ma potete voi pensare che io mi sia ingannato su di lui fino a questo punto?
SECONDO SIGNORE: Credetemi, mio signore, lo conosco per esperienza personale e ne parlo senz'alcuna malizia, come se fosse un mio parente; è un insigne codardo, che non cessa mai di mentire in lungo e in largo, che rompe ad ogni momento la parola data, e che non possiede neppure una buona qualità degna della compagnia di Vostra Signoria.
PRIMO SIGNORE: Dovreste conoscerlo meglio, altrimenti, fidandovi troppo della bontà che non ha, vi potrebbe, in affari importanti e fidati, venir meno all'ora del cimento.
BELTRAMO: Ditemi voi come potrei metterlo alla prova.
PRIMO SIGNORE: Nulla di meglio che lasciarlo andare a riprendere il suo tamburo: avete sentito con quanta sicumera s'impegna di riuscirvi?
SECONDO SIGNORE: Io, con una truppa di Fiorentini, farò in modo di sorprenderlo improvvisamente. Prenderò con me gente che egli non potrà capire se siano o no nemici; lo legheremo e lo benderemo talmente, che quando si porterà nelle nostre tende, avrà l'impressione di essere portato al campo avversario... Vostra Signoria voglia solo esser presente all'esame che gli faremo. Se egli, dietro promessa di aver salva la vita, e sotto la stringente minaccia di una bassa paura., non si mostrerà pronto a tradirvi e a rivelare tutto quanto saprà in vostro sfavore, e se tutto ciò non farà giurando sulla salute della propria anima, allora potrete non fidarvi più del mio giudizio, in nessuna cosa.
PRIMO SIGNORE: Oh, lasciatelo andare a prendere il suo tamburo: ci divertiremo un mondo! Egli afferma d'avere uno stratagemma speciale per riuscirvi. Quando Vostra Signoria vedrà la misera fine del suo successo, e in che vil metallo si fonderà questo falso massello di minerale prezioso, se non gli darete una stamburata coi fiocchi, segno è che la vostra inclinazione per lui è irremovibile. Eccolo che viene.
(Entra PAROLLES)
SECONDO SIGNORE: (a parte, a Beltramo): Oh, se volete stare allegro, non opponetevi a questo suo onorevole disegno: lasciate a ogni costo che vada a prendere il suo tamburo.
BELTRAMO: Ebbene, signore! questo tamburo v'è rimasto sullo stomaco.
PRIMO SIGNORE: Alla malora! Lasciatelo andare; dopo tutto è soltanto un tamburo.
PAROLLES: "Soltanto un tamburo"! già, è "soltanto un tamburo"? si è perduto un tamburo! Ottimo il comando, caricare con la nostra cavalleria proprio sulle nostre ali e sfondare i nostri stessi soldati!
PRIMO SIGNORE: Non è una cosa che si possa rimproverare al comando...
Fu uno di quei disastri di guerra che neppur Cesare avrebbe potuto impedire se fosse stato lui a comandare.
BELTRAMO: Be'! non possiamo troppo lamentarci del nostro successo; la perdita di quel tamburo non ci fa certo molto onore; ma ormai è impossibile riaverlo.
PAROLLES: Si sarebbe potuto riprenderlo.
BELTRAMO: Si sarebbe potuto, ma ora non si può più.
PAROLLES: Ma sì che si può. Se non fosse che ben di rado il merito di un servizio reso viene attribuito a chi lo ha veramente compiuto, andrei io a riprendere quel tamburo, quello o un altro: diversamente si scriva pure per me: "hic jacet".
BELTRAMO: Ebbene, se ne avete il fegato, tentate, signore. Se credete che la vostra astuzia in fatto di stratagemmi possa riuscire a riportare questo onorato strumento al quartiere dove prima si trovava, dimostrate la vostra magnanimità in questa impresa: avanti. Io renderò onore a questo tentativo come a una degna gesta; se riuscirete bene, il duca vi loderà, e saprà anche premiarvi in modo consono alla sua grandezza, fino all'ultima sillaba del vostro merito.
PAROLLES: Per la mia mano di soldato, mi ci voglio mettere.
BELTRAMO: Ma adesso non dovete dormirci sopra.
PAROLLES: Mi ci accingerò questa sera stessa. Ora voglio calcolare le mie probabilità, farmi coraggio con la certezza della riuscita, e far tutti i preparativi per la mia morte. Aspettatevi di sentire novità da parte mia verso mezzanotte.
BELTRAMO: Mi permettete di far sapere a Sua Grazia ciò che volete fare?
PAROLLES: Io non so quale sarà il successo, mio signore, ma giuro di tentare.
BELTRAMO: Lo so che sei valoroso, e sono disposto ad essere garante delle tue capacità di soldato... Addio.
PAROLLES: Troppe parole non mi piacciono.
(Esce)
SECONDO SIGNORE: Non più di quanto piaccia l'acqua ad un pesce... Ma non è dunque un tipo strano costui, mio signore, che sembra voglia mettersi con tanta sicurezza a quest'impresa nella quale sa che non si può riuscire - e si danna a farla, quando preferirebbe esser dannato che farla?
PRIMO SIGNORE: Voi non lo conoscete, signore, come lo conosciamo noi.
E' certo che riesce a insinuarsi nelle buone grazie d'uno, e a non farsi cogliere in fallo per una settimana; ma, una volta scoperto, non vi becca più.
BELTRAMO: Come! Voi dunque pensate che egli non farà nulla di ciò a cui s'è accinto seriamente?
SECONDO SIGNORE: Nulla di nulla. Solo tornerà con una qualche invenzione, e si appiopperà due o tre bugie verosimili. Ma noi lo abbiamo quasi messo alle strette e questa notte stessa lo vedrete cadere. Poiché non si merita proprio il rispetto di Vostra Signoria.
PRIMO SIGNORE: Vi faremo un po' divertire con la volpe, prima di cavarle la pelle. Il vecchio signor Lafeu fu il primo a scovarlo nella sua tana. Quando sarà smascherato, mi direte che fior di canaglia vi sembrerà: lo vedrete questa notte.
SECONDO SIGNORE: Io devo andare a preparare le mie panie: sarà preso.
BELTRAMO: Vostro fratello verrà con me.
SECONDO SIGNORE: Come piace a Vostra Signoria. Io vi lascio.
(Parte)
BELTRAMO: Ora vi voglio condurre in quella casa e mostrarvi la ragazza della quale vi ho parlato.
PRIMO SIGNORE: Ma voi dite che è onesta.
BELTRAMO: Questo è l'unico difetto; le ho parlato soltanto una volta, e l'ho trovata meravigliosamente fredda: ma poi le ho mandato, per mezzo di questo stesso damerino che stiam subodorando, regali e lettere che ella ha rifiutato. Ecco quanto ho fatto finora... E' una leggiadra creatura, volete venire a vederla?
PRIMO SIGNORE: Molto volentieri, mio signore.
(Escono)
ELENA: Se voi non credete che sono proprio io, non so con quali altre prove vi possa rendere sicura, senza distruggere le fondamenta stesse sulle quali sto costruendo.
VEDOVA: Io sono decaduta, è vero, ma nacqui in una famiglia onorata.
Non so nulla di questi pasticci, e non vorrei ora arrischiare la mia reputazione in un atto che potesse macchiarla.
ELENA: Neppure io lo vorrei. Prima prestatemi fede: il conte è mio marito, e quanto vi ho confidato sotto pegno di segretezza è vero alla lettera; e allora non vi potete sbagliare, concedendomi il caritatevole aiuto che vi chiedo.
VEDOVA: Vi dovrei credere, perché m'avete fatto vedere cose che dimostrano come voi siate d'elevata fortuna.
ELENA: Tenete questa borsa d'oro e lasciatemi comperare fino a questo punto l'aiuto amichevole che vi ripagherò in cento doppi quando l'avrò messo alla prova... Il conte corteggia vostra figlia e ha posto il suo assedio galante alla sua bellezza, deciso a conquistarla; che lei alla fine acconsenta, regolandosi secondo le nostre istruzioni. La foga della sua passione non permetterà a lui di negarle nulla di quanto ella gli chiederà. Il conte porta un anello, che è stato trasmesso di padre in figlio nella sua famiglia, per quattro o cinque generazioni dopo il primo antenato che lo portò; quest'anello egli lo custodisce gelosamente, ma nel vaneggiamento del suo desiderio non gli sembrerà troppo caro per comprarsi ciò che brama, benché più tardi se ne debba pentire.
VEDOVA: Ora vedo il fondo del vostro intento.
ELENA: E ne vedete dunque l'onestà. Non si tratta altro che di questo:
vostra figlia, prima di sembrar compiacente, dovrà soltanto chiedergli l'anello; fissargli un convegno; e lasciar me a osservarne l'ora, mentre ella, castamente, se ne starà lontana. Quando tutto sarà fatto, aggiungerò tremila corone a quanto ho già dato, onde ella si possa maritare.
VEDOVA: Acconsento. Indicate a mia figlia quanto dovrà fare, perché il tempo e il luogo possano efficacemente concorrere alla riuscita di questa giustissima frode. Egli viene tutte le notti con musiche d'ogni sorta e con canti fatti apposta per darle cattiva fama. A nulla ci giova il cercare di cacciarlo via di sotto la nostra grondaia; egli vi rimane come se si trattasse del riparo della sua vita.
ELENA: Ebbene, tenteremo il nostro piano questa notte. Se avremo successo, ci sarà stata una cattiva intenzione in una azione onesta, ed insieme un'intenzione onesta in un atto onesto; i due non peccheranno, eppure un peccato verrà commesso. Andiamo; all'opera.
(Escono)
ATTO QUARTO
SECONDO SIGNORE: Non può venire che da questa strada, da quest'angolo della siepe... Mentre gli salterete addosso, usate tutti la più terribile lingua che volete: non importa se voi stessi non la capirete. Dobbiamo poi tutti fingere di non capir lui, tranne uno di noi, che presenteremo come interprete.
PRIMO SOLDATO: Buon capitano, fatelo fare a me l'interprete.
SECONDO SIGNORE: Ma forse lo conoscete? Non conosce egli per caso la tua voce?
PRIMO SOLDATO: No, signore, ve l'assicuro.
SECONDO SIGNORE: E quale gergo userai con noi?
PRIMO SOLDATO: Quello che voi userete con me.
SECONDO SIGNORE: Deve crederci una banda di stranieri al soldo del suo nemico. Ora, egli ha più o meno una infarinatura di tutte le lingue qui intorno; perciò ciascuno di noi deve seguire la propria fantasia; senza capire noi stessi ciò che ci diciamo; purché fingiamo d'intenderci, otterremo lo scopo; lingua di gracchie, o qualunque altro crocidìo, farà al caso. Voi, interprete, poi, dovete darvi l'aria d'un politicone. Ma. giù a terra! Ecco che viene, coll'intenzione di ammazzare due orette dormendo e tornare poi e spergiurare sulle bugie che inventerà.
(Entra PAROLLES)
PAROLLES: Le dieci: fra tre ore sarà tempo di tornare a casa. E che cosa debbo dire d'aver fatto? Bisogna che sia un'invenzione assai plausibile perché se la bevano. Si incomincia già a subodorarmi; e in questi ultimi tempi gli affronti seno venuti troppo spesso a battere alla mia porta... M'accorgo d'essere troppo ardito con la lingua, mentre il mio cuore ha dinanzi a sé il timor di Marte e delle sue creature, e non ha il coraggio di fare ciò che la lingua ha pronunciato.
SECONDO SIGNORE (a parte): Questa è la prima verità della quale s'è resa colpevole la tua lingua.
PAROLLES: Che diavolo m'ha spinto a tentare di riprendere il tamburo, mentre ben sapevo che mi sarebbe stato impossibile, e neppure avevo l'intenzione di riuscirvi? Mi farò delle ferite e poi dirò d'averle ricevute durante l'impresa... Ma se saranno leggere non mi si crederà.
"Siete scappato per queste inezie?" mi diranno. E delle ferite gravi, no, non ho il coraggio di farmene. Dunque, che prove potrò produrre? O lingua, bisognerà che vi metta in bocca ad una burraia, e che me ne compri un'altra da uno dei muti di Bajazet, se continuate a cacciarmi colle chiacchiere in questi impicci.
SECONDO SIGNORE (a parte): E' mai possibile che costui si riconosca per quello che è, e rimanga tale?
PAROLLES: Se almeno mi bastasse tagliarmi i panni, e rompere la mia spada spagnola.
SECONDO SIGNORE (a parte): Non ve lo possiamo concedere.
PAROLLES: O tagliarmi la barba e dire che ciò faceva parte dello stratagemma.
SECONDO SIGNORE (a parte): Non attaccherebbe.
PAROLLES: O buttare in acqua le vesti, e dire che sono stato denudato.
SECONDO SIGNORE (a parte): E' difficile che ciò possa servire.
PAROLLES: E se giurassi d'essere saltato giù dalla finestra della cittadella...
SECONDO SIGNORE (a parte): Da quale altezza?
PAROLLES: Da trenta tese.
SECONDO SIGNORE (a parte): Forse non ve lo crederebbero neppure dopo tre solenni giuramenti.
PAROLLES: Vorrei avere qui qualche tamburo del nemico; giurerei d'averlo recuperato. SECONDO SIGNORE (a parte): Tra poco ne sentirai uno.
PAROLLES: Il tamburo del nemico, adesso...
(I Soldati battono il tamburo e lo assalgono)
SECONDO SIGNORE: "Throca movousus, cargo, cargo; cargo!" TUTTI: "Cargo, cargo, cargo, villianda par corbo, cargo".
PAROLLES: Oh! riscatto! riscatto! Non bendatemi gli occhi.
(Lo legano e gli bendano gli occhi)
PRIMO SOLDATO: "Boskos thromuldo boskos".
PAROLLES: Ah! siete del reggimento dei Muskos. E io ho da perder la vita perché non so la lingua. Se v'è tra voi un tedesco, o un danese, un olandese, un italiano, o francese, parli con me, e gli rivelerò cose che condurranno alla rovina i Fiorentini.
PRIMO SOLDATO: "Boskos vauvado". Io ti capisco, io so parlare la tua lingua: "Kerelybonto", messere, rifugiati nella tua fede, poiché diciassette pugnali ti stanno al petto.
PAROLLES: Oh!
PRIMO SOLDATO: Oh! prega, prega, prega! "Manka revania dulche".
SECONDO SIGNORE: "Oscorbindulches volivorco".
PRIMO SOLDATO: Il generale acconsente a lasciarti ancora in vita, e ti vuol condurre altrove, imbacuccato come sei, perché vuol avere informazioni da te. Può darsi che quanto rivelerai ti possa salvare la vita.
PAROLLES: Oh! Lasciatemi vivere! E vi rivelerò tutti i segreti del nostro campo, le loro forze, i loro piani, sì, vi dirò cose che vi faranno meravigliare.
PRIMO SOLDATO: Ma dirai la verità?
PAROLLES: Se non la dirò, ch'io sia dannato.
PRIMO SOLDATO: "Acordo linta". Andiamo, ti viene accordata una dilazione.
(Esce con Parolles scortato mentre batte il tamburo)
SECONDO SIGNORE: Andate, e dite al conte di Rossiglione e a mio fratello che abbiamo preso il merlo, e che lo terremo ad occhi bendati finché essi non ci mandino istruzioni.
SECONDO SOLDATO: Sì, capitano.
SECONDO SIGNORE: E inoltre dirai loro che vuol tradire tutti noi a noi stessi.
SECONDO SOLDATO: Va bene, signore.
SECONDO SIGNORE: Intanto lo terrò all'oscuro, e chiuso ben bene sotto chiave.
(Escono)
SCENA SECONDA - Firenze. Una camera nella casa della Vedova
(Entrano BELTRAMO e DIANA)
BELTRAMO: M'hanno detto che il vostro nome è Fontebella.
DIANA: No, mio buon signore, mi chiamo Diana.
BELTRAMO: Il nome di una dea. E ne siete degna, più che degna... Ma, anima gentile, non v'è posto per l'amore nella vostra bella persona?
Se il vivo fuoco della giovinezza non illumina la vostra mente, voi siete una statua, non una fanciulla. Morta, sarete come siete ora, fredda e rigida; mentre ora dovreste essere com'era vostra madre quando fu concepita la leggiadra vostra persona.
DIANA: Essa era onesta allora.
BELTRAMO: Così dovreste essere anche voi.
DIANA: No, mia madre non fece che il suo dovere: quel dovere che voi, mio signore, dovete a vostra moglie.
BELTRAMO: Basta di ciò. Non opporti alle mie preghiere; lei fui costretto a sposarla, ma te io amo solo per la dolce costrizione dell'amore; e a te voglio render per sempre tutti gli omaggi d'un servo.
DIANA: Oh! Voi ci servite fin che noi serviamo a voi; ma quando vi siete prese le nostre rose, non ci lasciate altro che le spine che ci pungono e ridete della nostra nudità.
BELTRAMO: Ma io ti ho giurato!
DIANA: Non i molti giuramenti fanno la verità, ma un semplice unico voto sinceramente giurato. Non si giura per una cosa che non è sacra, ma s'invoca la testimonianza dell'Altissimo. Ditemi, vi prego, se vi giurassi, per i grandi attributi di Dio, di amarvi teneramente, e poi vi amassi commettendo un peccato, credereste voi ai miei giuramenti?
Non v'è senso, giurare per Colui che si protesta di amare, che io trasgredirò contro di lui. Perciò i vostri giuramenti sono parole, povere parole, patti senza sigillo, almeno a mia opinione.
BELTRAMO: Cambiate la vostra opinione, cambiatela. Non siate così santamente crudele: l'amore è sacro e la mia rettitudine non conobbe mai le arti delle quali voi accusate gli uomini... Non rimaner più tanto lontana, ma concediti ai miei desideri che si struggono e che potranno così guarire. Di' che sei mia, e il mio amore durerà sempre come è cominciato.
DIANA: Lo so, voi uomini ci investite con la vostra forza, fin che noi perdiamo il governo di noi stesse. Datemi quell'anello.
BELTRAMO: Ve lo presterò, cara, ma non posso cederlo a nessuno.
DIANA: Non volete darmelo, mio signore?
BELTRAMO: E' un pegno d'onore che appartiene alla nostra casa, trasmessomi in eredità da molti padri; il perderlo sarebbe il più grande obbrobrio che potrebbe capitarmi al mondo.
DIANA: Il mio onore è come quell'anello; la mia castità è il gioiello della nostra casa, trasmessami in eredità da molti padri, e perderla sarebbe il più grande obbrobrio che potrebbe capitarmi al mondo.
Vedete, è la vostra saggezza che fa entrare in campo l'onore come mio campione, contro il vostro inutile assalto.
BELTRAMO: Ecco, prendi l'anello. La mia casa, il mio onore, la mia stessa vita è tua; mi lascio comandare da te.
DIANA: Giunta la mezzanotte, batterete alla finestra della mia stanza.
Io farò in modo che mia madre non oda. Quando avrete conquistato il mio letto ancora vergine, ve lo impongo in nome della vostra lealtà, vi rimarrete soltanto un'ora, senza mai rivolgermi la parola: ho ragioni molto forti, che conoscerete quando vi verrà restituito quest'anello. Nel vostro dito, questa notte, io metterò un altro anello, che, qualunque cosa accada, farà dinanzi al futuro testimonianza delle nostre passate azioni. Addio, fino all'ora fissata, e allora non mancate. Voi avete guadagnato in me una moglie, sebbene così non mi resti altro da sperare.
BELTRAMO: Nel corteggiarti, mi son conquistato un cielo quaggiù in terra.
DIANA: Possiate vivere lungamente, per ringraziare il cielo e me.
(Beltramo esce)
Così potrete fare, alla fine. Mia madre m'aveva detto appuntino come mi avrebbe corteggiato; come se ella gli fosse stata dentro il cuore.
Mia madre dice che tutti gli uomini fanno gli stessi giuramenti; ha giurato di sposarmi quando sua moglie sarà morta; giacerò dunque con lui quando sarò sepolta. Poiché i Francesi sono solenni ingannatori, li sposi chi vuole; io vivrò e morrò vergine. Soltanto con questo stratagemma penso che non sia peccato imbrogliare uno che vorrebbe vincere in modo illecito.
(Esce)
SCENA TERZA - L'accampamento fiorentino
(Entrano i due Signori francesi e due o tre Soldati)
PRIMO SIGNORE: Non gli avete dunque consegnato la lettera di sua madre?
SECONDO SIGNORE: Gliel'ho consegnata un'ora fa. Doveva contenere qualcosa che l'ha colpito nel vivo, perché, nel leggerla, si è mutato talmente da sembrare quasi un altro uomo.
PRIMO SIGNORE: S'è tirato addosso, e giustamente, molto biasimo, ripudiando una sposa tanto buona, una signora tanto soave.
SECONDO SIGNORE: Soprattutto è incorso nell'eterna disgrazia del re, che aveva intonato la sua gentilezza fino a cantargli auguri di felicità. Vi voglio dire una cosa, che dovete però tenere celata in voi stesso.
PRIMO SIGNORE: Appena l'avrete detta sarà come morta, ed io ne sarò il sepolcro.
SECONDO SIGNORE: E' riuscito a corrompere, qui a Firenze, una fanciulla, una gentildonna a tutti conosciuta per la sua modestia, e questa notte egli sazierà le sue voglie distruggendo l'onore di lei.
Le ha dato il suo anello di famiglia, e ritiene d'aver fatto la sua fortuna con questa immonda transazione.
PRIMO SIGNORE: Oh! Voglia Iddio porre un freno alla nostra libidine!
Che cosa siamo noi, lasciati a noi stessi?
SECONDO SIGNORE: Siamo traditori di noi stessi. E, come accade di solito in tutti i tradimenti, gli autori, come sappiamo, tradiscono se stessi e in ultimo giungono alla loro sciagurata fine; così lui, che in quest'azione cospira contro la sua nobiltà, si travolge nella sua stessa corrente.
PRIMO SIGNORE: Che sia forse la nostra condanna, il farci banditori dei nostri scopi illeciti? Stasera dunque non avremo la sua compagnia?
SECONDO SIGNORE: L'avremo solo dopo mezzanotte; perché gli vien consentita non più d'un'ora.
PRIMO SIGNORE: Manca poco. Sarei veramente contento di farlo assistere alla dissezione del suo compagno, perché possa così prender lui stesso la misura del suo giudizio dov'egli ha incastonato così squisitamente questa perla falsa.
SECONDO SIGNORE: Non ci occuperemo di lui prima della sua venuta; la presenza del conte sarà una bella frustata per l'altro.
PRIMO SIGNORE: Intanto, che cosa si dice della guerra?
SECONDO SIGNORE: Pare che si vogliano iniziare trattative di pace.
PRIMO SIGNORE: Anzi, vi posso assicurare che si parla di pace già conclusa.
SECONDO SIGNORE: Che farà allora il conte di Rossiglione? Ritornerà in Francia o si recherà altrove?
PRIMO SIGNORE: M'accorgo, da questa vostra domanda, che voi non siete completamente a parte dei suoi intimi pensieri.
SECONDO SIGNORE: Dio non lo permetta, messere, perché altrimenti dovrei essere complice del suo atto.
PRIMO SIGNORE: Messere, sua moglie fuggì di casa circa due mesi fa, col pretesto di andare in pellegrinaggio a San Giacomo Maggiore; compiuto il suo santo voto con la più profonda devozione, mentre si trovava colà, la sua tenera natura divenne preda del suo dolore, e, alla fine, mutò in gemito l'ultimo respiro. Ora ella canta in cielo.
SECONDO SIGNORE: Ma tutto ciò come s'è venuto a sapere?
PRIMO SIGNORE: Prima di tutto dalle sue lettere, che testimoniano della verità del racconto fino al momento della morte; la sua morte poi, che ella stessa non poteva annunciare, venne fedelmente confermata dal rettore del luogo.
SECONDO SIGNORE: E il conte sa tutto questo?
PRIMO SIGNORE: Conosce i minimi particolari, punto per punto, che confermano pienamente la verità delle notizie.
SECONDO SIGNORE: Quello che più mi dispiace è che ne sarà contento.
PRIMO SIGNORE: A che punto, talvolta, ci sono di conforto le nostre stesse disgrazie!
SECONDO SIGNORE: E a che punto, altre volte, anneghiamo in lagrime le nostre fortune! Se grande è la fama che il suo valore si è meritato qui, non sarà minore la vergogna che lo attende in patria.
PRIMO SIGNORE: La trama della nostra vita è intessuta di fili commisti, buoni e cattivi; le nostre virtù andrebbero troppo superbe se non fossero sferzate dai nostri vizi, e i delitti ci condurrebbero alla disperazione, se non venissero consolati dalle nostre virtù.
(Entra un Servo)
Ebbene, dov'è il vostro padrone?
SERVO: Ha incontrato nella strada il duca, dal quale ha preso solennemente congedo, messere. Sua Signoria partirà domattina per la Francia. Il duca gli ha consegnato lettere commendatizie per il re.
SECONDO SIGNORE: Gli saranno giusto sufficienti, quand'anche contenessero lodi esagerate.
PRIMO SIGNORE: Non potranno essere troppo dolci per l'amarezza del re (Entra BELTRAMO)
Ecco Sua Signoria. Ebbene, mio signore, la mezzanotte è già passata.
BELTRAMO: Ho dovuto sbrigare stasera sedici affari, per ciascuno dei quali ci sarebbe voluto un mese di tempo. Ecco un sommario di quanto ho fatto; ho preso congedo dal duca, e salutato coloro che gli son più vicini, ho seppellito una moglie, ho pianto per essa, ho scritto alla mia signora madre che mi appresto a ritornare, ho fatto preparare i miei fornimenti di viaggio, e, oltre a queste faccende più grosse, ho accudito ad altre cose più delicate; l'ultima è stata la più importante, ma non l'ho ancora terminata.
SECONDO SIGNORE: Se si tratta di una cosa difficile, e se dovete partire questa mattina, Vostra Signoria avrà fretta.
BELTRAMO: Dico che la cosa non è terminata perché temo di averne notizia anche dopo... Ma a quando il dialogo tra lo Scimunito e il Soldato? Su, portate qui quel falso campione, che mi ha imbrogliato come un oracolo ambiguo.
SECONDO SIGNORE: Si porti qui.
(Escono alcuni Soldati)
Ha passato la notte in ceppi, povero eroico furfante.
BELTRAMO: Non importa, le sue calcagna se li sono meritati, hanno usurpato troppo lungamente gli speroni. Come s'è portato?
SECONDO SIGNORE: L'ho già detto a Vostra Signoria: sono stati i ceppi che lo hanno portato. Ma per rispondervi come voi l'intendete, vi dirò che piange come una ragazza che abbia rovesciato il latte. Credendolo un frate, ha fatto a Morgan la sua confessione, incominciando dai suoi primi ricordi fino a quest'ultimo disastro dei ceppi. Cosa credete che abbia confessato?
BELTRAMO: Niente che riguarda me, penso?
SECONDO SIGNORE: La sua confessione l'abbiamo scritta, e gliela leggeremo in faccia. Se Vostra Signoria c'entra, e mi pare che c'entri, dovrà avere la pazienza di ascoltare.
(I Soldati portano in scena PAROLLES)
BELTRAMO: Canchero a lui! Bendato! Non potrà dire nulla di me.
PRIMO SIGNORE: Zitti! zitti! Ecco Moscacieca! "Portotartarossa".
PRIMO SOLDATO: Vi si vuol mettere alla tortura. Che cosa siete disposto a dire senza la tortura?
PAROLLES: Confesserò tutto quello che so, senza che mi si costringa.
Potrete macinarmi come carne da polpette, che non ne direi di più.
PRIMO SOLDATO: "Bosko chimurcho".
PRIMO SIGNORE: "Boblibindo chicurmurco".
PRIMO SOLDATO: Siete misericordioso, generale... Il nostro generale vi ordina di rispondere alle domande che vi farò seguendo una lista.
PAROLLES: Risponderò con verità, come spero di vivere.
PRIMO SOLDATO (legge): "Prima di tutto gli si chieda a quanto ammontano le forze di cavalleria del duca". Che avete da rispondere qui?
PAROLLES: Cinque o sei mila cavalli, ma molto malandati e inservibili; le truppe sono sparpagliate qua e là e i comandanti sono dei poveri diavoli. Questo sulla mia reputazione e sul mio credito, e quanto è vero che spero di vivere.
PRIMO SOLDATO: Devo scrivere la vostra risposta in questi termini?
PAROLLES: Fatelo. Sono pronto a ricevere l'Ostia consacrata, come voi la volete e quella che voi volete.
BELTRAMO (a parte): Per lui è tutt'uno! Un ribaldo senza speranza di redenzione!
PRIMO SIGNORE (a parte): Vi sbagliate, mio signore; questi è il signor Parolles, il gagliardo guerriero - sono sue parole - che teneva tutta l'arte della guerra nel nodo della sciarpa e tutta la pratica nel puntale del fodero del suo stocco.
SECONDO SIGNORE (a parte): Non mi fiderò mai più di nessuno perché tiene la spada pulita, né crederò che alcuno sia in possesso di tutte le virtù solo perché porta la divisa impeccabilmente.
PRIMO SOLDATO: Ecco bell'e scritto.
PAROLLES: Cinque o sei mila cavalli, ho detto... ma voglio essere preciso: press'a poco, scrivete, perché voglio dire tutta la verità.
PRIMO SIGNORE (a parte): In ciò è molto vicino alla verità.
BELTRAMO (a parte, al Primo Signore): Ma per il modo col quale la rivela gliene sono tutt'altro che grato.
PAROLLES: E scrivete poveri diavoli, vi prego.
PRIMO SOLDATO: Be', questo è scritto.
PAROLLES: Tante umili grazie, messere; la verità è la verità... quei diavolacci sono stupendamente poveri.
PRIMO SOLDATO (legge): "Chiedetegli le forze di fanteria". Che avete da dire?
PAROLLES: In verità, signore, voglio dire la verità, come se dovessi morire in questo istante. Vediamo: Spurio centocinquanta, Sebastiano altrettanti, Corambo anche, Jaques egualmente, Guiltiano, Cosmo, Ludovico e Grazzi, duecentocinquanta ciascuno; la mia compagnia, Cristoforo, Valmondo Benci, duecentocinquanta ciascuno; tutto il ruolo, dunque, tra inabili e abili, per la mia vita non arriva all'effettivo di quindicimila, dei quali una metà non ha neppure il coraggio di scuotersi la neve dalla mantellina, per tema di dover cadere a pezzi loro stessi.
BELTRAMO (a parte, al Primo Signore): Ma che cosa gli dobbiamo fare?
PRIMO SIGNORE (a parte, a Beltramo): Nulla, fuorché ringraziarlo. (Al Primo Soldato) Fategli alcune domande sul mio conto, e chiedetegli in che stima son tenuto dal duca.
PRIMO SOLDATO: Be', anche questo è scritto. (Legge) "Poi gli domanderete se nell'accampamento vi è un certo capitano Dumain, un francese; che cosa pensa il duca di lui, qual è il suo valore, la sua onestà e la sua esperienza in guerra, e se crede possibile indurlo a rivoltarsi corrompendolo con un buon gruzzolo di monete d'oro". Su ciò, che avete da dire? Cosa ne sapete?
PAROLLES: Vi prego, lasciatemi rispondere partitamente a ciascuna domanda. Ripetetele ad una ad una.
PRIMO SOLDATO: Conoscete questo capitano Dumain?
PAROLLES: Sì, lo conosco. Era garzone presso un ciabattino di Parigi e ne fu cacciato a frustate per aver impregnato una idiota mantenuta dal Comune - una povera scema - muta, che non poteva dirgli di no.
(Dumain gli s'avvicina per batterlo)
BELTRAMO (a parte, al Primo Signore): No, vi prego, trattenetevi; per quanto io sia certo che il suo cervello è già condannato sotto la prima tegola che cadrà.
PRIMO SOLDATO: Bene. E questo capitano si trova al campo del duca di Firenze?
PAROLLES: Per quanto ne so, vi si trova, e feccioso.
PRIMO SIGNORE (a parte, a Beltramo): No, non guardatemi così, presto sentiremo anche di Vostra Signoria.
INTERPRETE: In che stima lo tiene il duca?
PAROLLES: Il duca sa unicamente che è uno dei miei ufficiali, di ben scarso valore, e l'altro giorno mi scrisse di espellerlo dalla compagnia. Credo di aver la sua lettera in tasca.
PRIMO SOLDATO: Bene. La cercheremo.
PAROLLES: Ma, a ripensarci, non so, o è lì, o è rimasta nella mia tenda, in una filza, insieme a molte altre lettere del duca:
PRIMO SOLDATO: Eccola. C'è una carta. Devo leggerla?
PAROLLES: Non so se sia quella la lettera.
BELTRAMO (a parte, al Primo Signore): Il nostro interprete è abile.
PRIMO SIGNORE (a Beltramo): Abilissimo...
PRIMO SOLDATO (Legge): "Diana, il conte è vuoto, pieno solo di oro...".
PAROLLES: No, questa non è la lettera del duca, messere è un consiglio a un'onesta fanciulla di Firenze, di nome Diana, perché non si fidi degli allettamenti di un certo conte di Rossiglione, un ragazzo sciocco e vano, ma con tutto ciò pien di foia. Vi prego, messere, rimettetemela in tasca.
PRIMO SOLDATO: No, prima voglio leggerla, se mi permettete.
PAROLLES: Per me, avevo la più retta delle intenzioni, ve l'assicuro, nei riguardi della fanciulla, poiché so che il giovane conte è un ragazzo pericoloso e lascivo, una vera balena per le vergini, che si divora tutti i pesciolini che incontra.
BELTRAMO (a parte): Maledetto furfante di tre cotte!
PRIMO SOLDATO (legge): "Se giura, fagli cavar l'oro, e prendilo, piantato il chiodo, mai non paga il debito; patto ben fatto è metà dell'introito, quindi, fatelo ben; paghi in anticipo.
E', Diana, un soldato, vedi, a dirtelo; va' con un uomo, ma un garzon sol bacialo; fa' di ciò conto, il conte, io so, è uno stupido, che paga innanzi, ma non quando ha un obbligo.
Tuo, come nel tuo orecchio egli dichiarasi, Parolles".
BELTRAMO (a parte): Sarà fatto passare per le bacchette tra tutto l'esercito con quei versi in fronte.
SECONDO SIGNORE (a Beltramo): Questo è il vostro devoto amico, messere, il plurilinguista, l'armipotente soldato.
BELTRAMO: Prima sapevo sopportare qualsiasi cosa, tranne i gatti, costui è ora un gatto per me.
PRIMO SOLDATO: Da quel che capisco dalle occhiate del generale, probabilmente, messere, saremo obbligati ad impiccarvi.
PAROLLES: Lasciatemi in vita, signore, ad ogni costo. Non che io abbia paura della morte, ma dopo tanti peccati che ho commesso, vorrei pentirmi, vita natural durante. Lasciatemi vivere, signore, in una segreta, in ceppi, dove vorrete cacciarmi, purché viva.
PRIMO SOLDATO: Vedremo che cosa si dovrà fare, purché voi diciate tutto senza nulla nascondere. Per tornare dunque a questo capitano Dumain, avete già risposto per quello che riguarda il suo valore e la stima che ne ha il duca. Ora che avete da dire sulla sua onestà?
PAROLLES: E' un tale, signore, che ruberebbe un uovo perfino in un convento. Per stupri e rapimenti è il gemello di Nesso. Si fa un vanto di non mantenere i giuramenti, e nel romperli è più forte di Ercole.
Mentisce, signore, con tal volubilità, da farvi sembrar la verità una sciocca. La sua migliore virtù è l'ubriachezza perché s'ubriaca come un maiale. Nel sonno è innocuo, si può dire, eccetto che alle lenzuola, ma tutti sanno le sue abitudini e perciò si fa dormire sulla paglia. Poco più mi resta da dire sulla sua onestà, signore, ha tutto ciò che un uomo onesto non dovrebbe avere, e di quel che un uomo onesto dovrebbe avere non ha nulla.
PRIMO SIGNORE (a parte): Incomincio, per questo, a volergli bene.
BELTRAMO (a parte): Per questa descrizione della tua onestà? Per parte mia la peste se lo becchi! E' sempre più gatto.
PRIMO SOLDATO: Che cosa avete da dire sulle sue capacità militari?
PAROLLES: In verità, signore, batteva il tamburo alla testa dei commedianti inglesi; non voglio fargli torto, e della sua bravura militare so unicamente che in Inghilterra gli fu concesso l'onore di essere ufficiale in un luogo chiamato Mile-End, dove insegnava a mettersi in fila per due. Vorrei dimostrargli tutto l'onore possibile, ma non son certo di poterlo fare.
PRIMO SIGNORE (a parte): Egli ha talmente oltrepassato i limiti della ribalderia che questa rarità lo riscatta.
BELTRAMO (a parte): Canchero che gli venga! per me è sempre un gatto.
PRIMO SOLDATO: Le sue qualità sono d'un prezzo tanto vile, che non è necessario chiedervi se con l'oro si potrebbe corromperlo a tradire.
PAROLLES: Signore, per un quarto di scudo sarebbe disposto a vendere la salute sua e quella dei suoi discendenti in possesso pieno e assoluto, franco d'ogni gravezza in perpetuo.
PRIMO SOLDATO: E suo fratello che cos'è, l'altro capitano Dumain?
SECONDO SIGNORE (a parte): Perché gli chiede di me?
PRIMO SOLDATO: Che tipo è dunque?
PAROLLES: Un corbaccio dello stesso nido. Non è della statura del primo, per bontà, ma ben più grande nella cattiveria. In vigliaccheria supera suo fratello, benché suo fratello sia ritenuto uno dei più perfetti vigliacchi. Nel fuggire, è più veloce di qualsiasi lacchè; quando si deve attaccare, invece, gli viene il granchio.
PRIMO SOLDATO: Se vi si lascia la vita, siete pronto a tradire i Fiorentini?
PAROLLES: Sicuro, ed anche il capitano della loro cavalleria, il conte di Rossiglione.
PRIMO SOLDATO: Ne voglio dire una parolina al generale e sentire la sua decisione.
PAROLLES (a parte): Che non mi si parli più di tamburi! Che la peste se li porti via tutti i tamburi! Mi son messo in questo ginepraio per far credere che ero un prode, e per infinocchiare quel ragazzaccio libertino del conte. Ma chi avrebbe potuto pensare a un'imboscata, e proprio nel posto dove sono stato preso?
PRIMO SOLDATO: Non c'è rimedio, messere; dovete morire. Il generale dice che voi, dopo aver tradito ignominiosamente i segreti del vostro esercito, e dopo aver dato vergognosi ragguagli di uomini che erano tenuti in grande stima, non potete rendere nessun onesto servizio al mondo: perciò dovete morire. Avanti, boia, tagliategli la testa.
PAROLLES: Mio Dio, signore, lasciatemi vivere, almeno lasciatemi vedere la mia morte!
PRIMO SOLDATO: Sì, questo vi è concesso: e potete anche salutare tutti i vostri amici. (Gli toglie la benda) Si, guardatevi intorno.
Conoscete nessuno qui?
BELTRAMO: Buon giorno, nobile capitano.
SECONDO SIGNORE: Dio vi benedica, capitano Parolles.
PRIMO SIGNORE: Dio vi salvi, nobile capitano.
SECONDO SIGNORE: Capitano, debbo recare i vostri saluti al signor Lafeu? Parto per la Francia.
PRIMO SIGNORE: Buon capitano, volete darmi una copia del sonetto che avete scritto a Diana, nell'interesse del conte di Rossiglione? Se non fossi un gran vile vi obbligherei a darmelo. Ma state bene.
(Beltramo e i Signori se ne vanno)
PRIMO SOLDATO: Siete disfatto, capitano, disfatto da capo a piedi, tranne nella vostra sciarpa, che ha ancora un nodo.
PAROLLES: Chi è colui che non resta annientato con un tradimento?
PRIMO SOLDATO: Se poteste trovare un paese dove vi fossero solo donne che hanno subìto un'onta come la vostra, potreste essere il capostipite d'una nazione di svergognati. Statemi bene. Me ne vado in Francia, dove si parlerà di voi.
(Escono i soldati)
PAROLLES: Eppure sento in me una certa gratitudine: se il mio cuore fosse grande scoppierebbe per questo... Capitano non sarò più, ma voglio mangiare e bere e dormire placidamente quant'altro capitano mai; vivrò né più né meno che per quel che sono. Chi si conosce spaccone abbia paura; perché verrà il momento che ogni spaccone sarà ritrovato un asino. Arrugginisci, o spada! Raffreddatevi, rossori! E vivi, Parolles, in maggior sicurezza nella vergogna! Sei stato beffato, prospera nella beffa! V'è posto e vi sono risorse per ogni uomo vivente. Ed io troverò quello e queste.
(Esce)
SCENA QUARTA - Firenze. Una camera nella casa della Vedova
(Entrano ELENA, la Vedova e DIANA)
ELENA: Perché possiate veder bene che io non vi ho fatto torto, uno dei più grandi sovrani del mondo cristiano mi sarà mallevadore. Prima di raggiungere tutti i miei scopi mi sarà necessario inginocchiarmi davanti al suo trono. Una volta gli feci un favore, da lui vivamente desiderato, prezioso quasi al pari della vita, e tale da far spuntare fuori la gratitudine fin dal seno di selce del Tartaro, a ringraziare.
So di certo che Sua Maestà si trova a Marsiglia, e per codesta città abbiamo un buon mezzo di trasporto. Occorre pure che sappiate che io son ritenuta morta. L'esercito è sciolto, e mio marito si affretta verso casa sua, dove, con l'aiuto di Dio e col permesso del mio buon signore, il re, noi arriveremo prima di colui che dovrà riceverci.
VEDOVA: Gentile signora, non avete mai avuto una serva alla quale la vostra faccenda stesse più a cuore.
ELENA: E neppure voi, signora, avete mai avuto un'amica che più si sia data cura di ricompensare il vostro affetto con maggiore sincerità. Il cielo ha senza dubbio creato me per essere la dote di vostra figlia, come ha destinato lei ad essere la causa che mi aiutasse ad avvicinarmi a mio marito. Sono ben strani gli uomini, che possono far sì dolce uso di ciò che essi odiano quando la lasciva fiducia dei loro ingannati pensieri contamina la tenebrosa notte! La lussuria si trastulla con quel che aborre, pigliandolo per qualcosa che è invece lontano. Ma di ciò più tardi... Voi, Diana, dovrete seguire i miei poveri ordini, e soffrire per me ancora un poco.
DIANA: Vi seguirò a costo di perdere la vita e l'onore. Sono tutta vostra, pronta a soffrire, se tale è la vostra volontà.
ELENA: Ancora un poco, vi prego... Ma, son certa il tempo riporterà l'estate, e le rose di macchia avranno anche fiori, non soltanto spine, e saranno soffici come sono pungenti... Dobbiamo partire, la carrozza è pronta e il tempo urge. "Tutto è bene quel che finisce bene" e sempre il fine corona l'opera: la strada sarà difficile, ma la fine gloriosa.
(Escono)
SCENA QUINTA - Rossiglione. Una sala nel Palazzo della Contessa
(Entrano la CONTESSA, LAFEU e il Buffone)
LAFEU: No, no, vostro figlio venne sviato da un gaglioffo vestito di taffettà co' dinderli d'orpello, il cui ribaldo zafferano avrebbe fatto diventare del suo colore i giovani di pasta cruda di un'intera nazione; altrimenti vostra nuora sarebbe ancora in vita; e vostro figlio sarebbe qui a casa, ad un ufficio che il re gli avrebbe assegnato, migliore di quello che gli ha dato quel pecchione dalla coda rossa al quale alludo.
CONTESSA: Non l'avessi mai conosciuto! Fu lui la causa della morte della più virtuosa gentildonna che la natura abbia mai avuto lode d'aver creato. Se fosse stata carne della mia carne, se mi fosse costata i più dolorosi gemiti di madre, non avrei potuto sentire per lei un amore più radicato.
LAFEU: Era veramente virtuosa, era una signora veramente virtuosa. Si potran cogliere mille specie d'insalata, prima d'imbattersi ancora in un'erba tanto dolce.
BUFFONE: In verità, messere, ella era la persa gentile dell'insalata, anzi, "la pura verginella e sacra ruta".
LAFEU: Ma codeste sono erbe da giardino, furfante, erbe da mazzolino.
BUFFONE: Io non sono il grande Nabuccodonosor, signore, e non m'intendo molto di erbe.
LAFEU: Ma dunque, dimmi, tu ti vanti di essere un furfante o uno sciocco?
BUFFONE: Uno sciocco, messere, al servizio di una donna, e un furfante al servizio di un uomo.
LAFEU: Cioè?
BUFFONE: Quanto a un uomo, lo defrauderei della sua moglie, e farei il suo servizio.
LAFEU: In questo modo, saresti davvero un furfante al suo servizio.
BUFFONE: E darei alla moglie la capocchia del mio bastone, messere, per servirla.
LAFEU: Ti do ragione, tu sei insieme furfante e sciocco.
BUFFONE: Al vostro servizio.
LAFEU: No, no, no.
BUFFONE: Ma, messere, se non posso servir voi, posso servire un principe grande quanto voi.
LAFEU: E chi mai? Un francese?
BUFFONE: In fede mia, messere, il nome è inglese, ma la sua fisionomia è più accesa in Francia che in Inghilterra.
LAFEU: Chi è questo principe?
BUFFONE: Il Principe Nero, signore, alias il Principe dell'oscurità, alias il diavolo.
LAFEU: Ecco, tieni la mia borsa. Non te la dono per subornarti dal padrone del quale parli, continua pure a servirlo.
BUFFONE: Io sono una creatura dei boschi, messere, e sempre ho amato un gran fuoco; il padrone di cui parlo mantiene un bel fuoco, che dura sempre. Ma, in verità, egli è il principe del mondo, lasciate che la sua nobiltà rimanga nella sua corte. Preferisco la casa con la porta stretta, troppo piccola, mi pare, perché il fasto vi possa entrare; vi potranno entrare quei pochi che si umiliano, ma la maggior parte sentirà troppo freddo, sarà troppo delicata, e si incamminerà per la strada fiorita che conduce alla porta larga e al gran fuoco.
LAFEU: Vattene per la tua strada, comincio a stancarmi di te, e te lo dico subito, perché non vorrei litigare. Va' per la tua strada, e fa' in modo che i miei cavalli siano ben governati, e senza gherminelle.
BUFFONE: Farò loro, se mai, gherminelle rozze, alle quali le rozze hanno diritto per legge di natura.
LAFEU: E' una infelice ed arguta canaglia.
CONTESSA: Proprio così. Il mio defunto marito ci si divertiva un mondo con lui. Se rimane qui è per volontà di lui, ed egli se ne fa una patente per le sue sfacciataggini: in verità egli non conosce freni e corre dove vuole.
LAFEU: Io gli voglio bene. Non v'è alcun male... Desideravo poi dirvi, giacché ho udito che la buona signora è morta, e che il signor vostro figlio sta tornando a casa, che ho pregato il re di voler parlare in favore di mia figlia. Fu essa che, quand'eran tutte e due piccini, Sua Maestà aveva benignamente proposta per prima. Sua Maestà mi ha promesso di farlo e non v'è modo migliore perché possa così cessare il rancore che nutre verso vostro figlio. Che ne pensa Vostra Signoria?
CONTESSA: Ne son molto contenta, mio signore, e mi auguro che la cosa possa farsi felicemente.
LAFEU: Sua Maestà sta venendo in poste da Marsiglia, così aitante come quando aveva trent'anni. Arriverà domani, a meno che io non sia stato ingannato da uno che in tal genere d'informazioni m'ha raramente detto il falso.
CONTESSA: Son ben contenta di poterlo vedere prima di morire. Ho ricevuto una lettera da mio figlio, che mi annuncia che sarà qui stanotte. Vorrei pregare Vostra Signoria di restare con me sino al nostro incontro.
LAFEU: Stavo pensando in qual modo potervi essere ammesso senza essere indiscreto.
CONTESSA: Basterà che facciate uso dei vostri nobili privilegi.
LAFEU: Signora, li ho usati troppo, ma, grazie a Dio, essi valgono ancora.
(Rientra il Buffone)
BUFFONE: O signora, c'è di là il mio signore, vostro figlio, con un cerotto di velluto sulla faccia, se ci sia o no sotto una ferita, lo sa il velluto, ma è proprio una bella toppa di velluto, la sua guancia sinistra è di due peli e mezzo, ma la destra è nuda.
LAFEU: Una ferita nobilmente ricevuta, o una nobile ferita, è una buona livrea di gloria: e senza dubbio la sua sarà di codeste.
BUFFONE: Ma vi riduce la faccia come una braciola.
LAFEU: Andiamo, vi prego, a riveder vostro figlio. Ho un gran desiderio di parlare con questo nobile giovin soldato.
BUFFONE: Veramente ve ne sono una dozzina, con squisiti, leggiadri cappelli e con gentilissime piume, che piegano il capo e salutano tutta la gente (Escono)
SCENA PRIMA - Una strada di Marsiglia
(Entrano ELENA, la Vedova e DIANA, con due Servi)
ELENA: Questo correr le poste senza posa giorno e notte deve aver stremato le vostre forze, ma non possiamo farne a meno. Ma siccome per aiutare me non avete fatta distinzione fra il giorno e la notte, e avete stancato le vostre membra delicate, il mio debito verso di voi, siatene certe, ha radici talmente profonde che nulla al mondo lo potrà strappare.
(Entra un Gentiluomo)
Ecco qua una occasione davvero fortunata. Quest'uomo, se vorrà usare della sua autorità, potrà informare Sua Maestà del mio arrivo. Dio vi salvi, messere.
GENTILUOMO: E salvi anche voi.
ELENA: Messere, io vi ho visto altre volte alla corte di Francia.
GENTILUOMO: Qualche volta vi sono stato.
ELENA: Son certa, messere, che voi non sarete decaduto dalla vostra reputazione di bontà, e, stimolata da circostanze sfortunate che ci obbligano a trascurare le buone maniere, io vorrei usare della vostra gentilezza, e ve ne sarò grata per sempre.
GENTILUOMO: Quali sono i vostri desideri?
ELENA: Che vogliate, vi prego, presentare quest'umile richiesta al re, e che mi aiutiate, con tutto il vostro potere, ad essere ammessa alla sua presenza.
GENTILUOMO: Ma il re non è qui.
ELENA: Non è qui?
GENTILUOMO: No, davvero. E' partito la notte scorsa, con maggior fretta del solito.
VEDOVA: O signore! Tutte le nostre fatiche sono state inutili!
ELENA: "Tutto è bene quel che finisce bene", anche se il tempo sembra tanto contrario ed i mezzi inadeguati... Ditemi, vi prego, dov'è andato?
GENTILUOMO: Mi dicono a Rossiglione, dove anch'io son diretto.
ELENA: Vi prego, messere, poiché voi forse vedrete il re prima di me, consegnate questo foglio nelle sue graziose mani. Per il vostro incomodo, credo non ne avrete biasimo, ma gratitudine. Io vi seguirò con la maggior fretta che i nostri mezzi ci permetteranno.
GENTILUOMO: Farò per voi ciò che volete.
ELENA: Ed io vi saprò ben ringraziare, qualunque cosa avvenga. E' necessario rimontare a cavallo. Su, su, facciamo i preparativi.
(Escono)
SCENA SECONDA - Nel cortile del Castello di Rossiglione
(Entrano PAROLLES e il Buffone)
PAROLLES: Buon mastro Lavache, date questa lettera a monsignor Lafeu.
Prima, messere, quando avevo dimestichezza con abiti più freschi, voi mi conoscevate meglio. Ma ora, messere, sono coperto di fango dalla rabbia della fortuna, e puzzo piuttosto fieramente del suo fiero rancore.
BUFFONE: In verità, il rancore della fortuna dev'essere ben sporco, se puzza tanto fieramente quanto dici. Da oggi non mangerò più il pesce fritto dalla fortuna. Ti prego, lasciami respirare l'aria fresca.
PAROLLES: No, no, non è necessario che vi turiate il naso, messere; parlavo solo per metafora.
BUFFONE: In fede mia, messere, se la vostra metafora puzza, mi tapperò bene il naso; e me lo tapperò anche per la metafora di qualsiasi altro uomo. Ti prego, vattene più lontano.
PAROLLES: Messere, vogliate consegnare per me questo foglio.
BUFFONE: Puah! Stammi lontano, ti prego: consegnare ad un gentiluomo un foglio della seggetta della fortuna! Ecco che viene lui stesso in persona.
(Entra LAFEU)
Qui c'è uno che fa marameo alla fortuna, messere, un gatto della fortuna - ma non un gatto muschiato - che è caduto nella sporca piscina della sua disgrazia e ci si è inzaccherato tutto come lui confessa. Vi prego, signore, usate del tincone come meglio potete, perché ha tutta l'aria di un povero, decaduto, abbietto, scimunito manigoldo. Con questi consolanti paragoni intendo dimostrargli la mia simpatia per la sua disgrazia, e lo raccomando a Vostra Signoria.
(Esce)
PAROLLES: Mio signore, sono un uomo che la fortuna ha crudelmente graffiato.
LAFEU: E cosa volete che faccia io? E' troppo tardi, ora, per tagliarle le unghie. Che birbonata avete giocata alla fortuna che v'ha graffiato in tal modo? Essa, una signora tanto buona, che non permette che i birboni prosperino a lungo sotto di lei! Eccovi un quarto di scudo. Che il giudice conciliatore vi riconcili con la fortuna: io ho altro da fare.
PAROLLES: Prego Vostra Signoria di voler ascoltare una sola parola.
LAFEU: Voi volete ancora soltanto un soldo: eccolo qui, risparmiate la parola.
PAROLLES: Il mio nome, o mio buon signore, è Parolles.
LAFEU: Allora voi volete più di una parola. Per le stimmate! Datemi la mano... Come sta il vostro tamburo?
PAROLLES: O mio buon signore, voi foste il primo a conoscermi per quello che ero.
LAFEU: Io? Davvero? E fui il primo anche a perderti.
PAROLLES: Sta a voi, mio signore, a rimettermi un po' in grazia, giacché foste voi a farmene uscire.
LAFEU: Via, via birbone! Tu vorresti mettermi sulle spalle l'ufficio di Dio e quello del diavolo insieme? L'uno ti fa entrare in grazia, e l'altro uscirne. (Suono di trombe) Sta arrivando il re; lo comprendo da questo suono. Mariuolo, chiedete di me più tardi. Ho parlato di voi proprio ieri sera: benché siate uno sciocco e un birbone, mangerete anche voi. Su, venite.
PAROLLES: Sia lode a Dio per voi.
(Escono)
RE: In lei abbiamo perduto un gioiello, e la stima di noi s'è fatta perciò molto più scarsa. Vostro figlio, com'ebbro di follia, non ha avuto lume da apprezzarla come meritava.
CONTESSA: Ormai è passata, mio sovrano, ed io imploro Vostra Maestà a volerla considerare come una ribellione naturale, commessa nella vampa della gioventù, quando l'olio e il fuoco, troppo impetuosi per la forza della ragione, la soverchiano e non cessano di bruciare.
RE: Mia onorata signora, benché le mie vendette avessero la mira ben aggiustata contro di lui ed attendessero il momento di colpirlo, gli ho perdonato e ho dimenticato tutto.
LAFEU: Bisogna che dica - ma prima ne domando perdono - che il giovane signore ha offeso gravemente il suo re, la sua madre e la sua sposa; ma il più gran torto l'ha fatto a se stesso. Ha perduto una moglie la cui bellezza faceva stupire gli occhi più esperti, le cui parole si cattivavano le orecchie di tutti, ed alla cui rara perfezione si professavano umili servi perfino i cuori che disprezzavano il servizio dell'amore.
RE: La lode di ciò che s'è perduto rende più doloroso il ricordo.
Orsù, si chiami qui. Siamo riconciliati, e il primo incontro dissiperà ogni desiderio di vendetta. Egli non deve chiederci perdono; la ragione della sua grande offesa è morta, e noi vogliamo seppellirne le irritanti memorie più profondamente della stessa dimenticanza. Si avanzi come estraneo, non come offensore. Ditegli che tale è la nostra volontà.
GENTILUOMO: Sarà fatto, mio signore.
(Esce)
RE: Di vostra figlia che dice? Gliene avete parlato?
LAFEU: Tutto se ne rimette all'Altezza Vostra.
RE: Allora avremo uno sposalizio. M'hanno inviato una lettera che esalta la sua fama.
(Entra BELTRAMO)
LAFEU: Il successo gli conferisce.
RE: Oggi sono una giornata instabile, e forse vedrai in me il sole e la grandine insieme; ma le nubi squarciate lasciano passare i raggi più luminosi. Avvicinati, il tempo è di nuovo bello.
BELTRAMO: Amato sovrano, perdonatemi i miei falli di cui mi sento profondamente pentito.
RE: Tutto è rimediato. Non più neppure una parola del tempo ormai trascorso. Prendiamo il presente per i capelli della fronte. Siamo vecchi, e il silenzioso e impercettibile piede del tempo si avvicina furtivamente ai nostri decreti più veloci prima che ci sia dato di metterli in pratica. Ricordate la figlia di questo signore?
BELTRAMO: La ricordo con ammirazione, mio signore. Avevo fissato su di lei la mia scelta, prima che il cuore osasse far della mia lingua un araldo troppo ardimentoso. Colà fermata l'impressione del mio occhio, il dispregio mi prestò il suo specchio deformante, che distorse i lineamenti d'ogni altro volto, sdegnò un bel colore, o me lo rappresentò accattato, allargò o contrasse tutte le proporzioni, riducendole a turpissime sembianze. Così avvenne che colei che tutti lodavano, e che io stesso, da quando la perdetti, cominciai ad amare, divenne, per il mio occhio, la polvere che l'offese.
RE: Buona scusa. Il fatto che l'amasti riduce di qualche punto il tuo gran debito: ma l'amore che viene troppo tardi, come un pietoso perdono recato troppo lentamente, si volge in amarezza contro colui che lo manda, e grida: "Buono era quel che non è più". Le nostre avventate colpe stimano un nulla le cose grandi che possediamo senza conoscere, fin che non le vediam seppellite. Spesse volte i nostri rancori, ingiusti contro di noi, ci distruggono gli amici, per piangere poi sulle loro ceneri: svegliandosi, l'amor nostro piange su quello che è stato fatto, mentre lo svergognato odio dorme tutto il pomeriggio. Sia questa la campana a morte della dolce Elena; ora dimenticala. E da' un pegno del tuo amore per la bella Maddalena. I più importanti consensi sono già stati dati, e noi ci fermeremo qui a vedere il secondo sposalizio del nostro vedovo.
CONTESSA: O cielo, beneditelo più del primo! Altrimenti, prima che essi s'incontrino, cessa in me, natura!
LAFEU: Figlio mio, in cui deve essere assorbito il nome della mia casa, date una prova del vostro affetto che, infiammando con le sue scintille l'animo di mia figlia, la faccia venir qui in fretta...
(Beltramo gli dà un anello) Per la mia vecchia barba, per ogni suo singolo pelo, Elena, che è morta, era una dolce creatura. L'ultima volta che mi congedai da lei a corte, le vidi in dito un anello simile a questo.
BELTRAMO: Ma quest'anello non è suo.
RE: Vi prego, lasciatemelo vedere: il mio occhio ne è stato attratto più volte, mentre parlavo... Quest'anello era mio, e quando lo diedi a Elena le promisi che per questo pegno l'avrei aiutata qualora le sue fortune avessero avuto bisogno d'aiuto. Con quale astuzia riusciste a toglierle ciò che le avrebbe recato i più grandi servigi?
BELTRAMO: Mio grazioso sovrano, per quanto vi piaccia crederlo, quest'anello non fu mai suo.
CONTESSA: Figlio, per la mia vita, io stessa ho veduto che ella lo portava e lo stimava come la vita sua.
LAFEU: Io pure sono sicuro d'averglielo visto portare.
BELTRAMO: Vi sbagliate, mio signore: ella non lo vide mai. Mi venne lanciato da una finestra a Firenze, ravvolto in una carta, sulla quale era scritto il nome di colei che l'aveva gettato. Era una persona nobile, che mi credeva libero, ma dopo che le ebbi esposto il mio stato e detto ben chiaro che non potevo risponderle con quell'onoratezza con la quale ella si era offerta, si ritirò convinta, benché a malincuore, e non volle più riprendere l'anello.
RE: Lo stesso Pluto, che conosce l'elisir di vita e la moltiplicante pietra filosofale, non ha del mistero della natura conoscenza maggiore di quanta io non abbia di quest'anello. Chiunque sia che ve lo abbia dato, esso fu mio e di Elena. Come è certo che conoscete voi stesso, confessate che era suo, e dite con quale rude violenza riusciste ad ottenerlo da lei. Non se lo sarebbe mai staccato dal dito, dichiarò chiamando a testimoni i santi, se non per darlo a voi nel talamo - dove voi non foste mai - oppure per mandarlo a noi nei momenti di gran distretta.
BELTRAMO: Ella non lo vide mai.
RE: Com'è vero che amo l'onor mio, tu dici il falso e mi induci a temere cose che più volentieri non vorrei pensare. Se dovesse dimostrarsi che tu sei stato così inumano, no, non potrà essere...
Eppure, non so... Tu l'odiavi, l'odiavi mortalmente, ed ella è morta, e nulla più della vista di questo anello potrebbe indurmi a crederlo, a meno che non le avessi chiuso io stesso gli occhi. Portatelo via.
(Le Guardie prendono Beltramo) In qualunque modo finisca la cosa, le prove già acquisite non potranno davvero biasimare come vani i miei timori, poiché vano è stato anzi di non aver temuto abbastanza.
Portatelo via. La cosa sarà investigata più addentro.
BELTRAMO: Se riuscirete a provare che questo anello fu suo vi sarà ugualmente facile provare che io giacqui con lei a Firenze, dove ella non fu mai.
(Le Guardie lo portano via)
RE: Sinistri pensieri m'avvolgono la mente.
(Entra un Gentiluomo)
GENTILUOMO: Grazioso sovrano, non so se mi merito biasimo o lode. Devo presentarvi la petizione di una Fiorentina. Ella stessa aveva tentato di farlo quattro o cinque volte, ma ogni volta voi eravate già partito. ho accettato di farlo io, vinto a ciò dalla bella grazia e dalle parole della povera supplice, che ora, io so, è qui che attende.
Il suo viso dimostra chiaramente l'importanza di quanto chiede, e nei dolci cenni che mi diede a viva voce, affermò che la cosa riguardava voi, Altezza, e lei.
RE (legge): "Dopo molte proteste di volermi sposare alla morte di sua moglie, egli, arrossisco nel dirlo, riuscì a sedurmi. Ora il conte di Rossiglione è vedovo, i suoi voti mi spettan di diritto, e io gli ho pagato l'onor mio. E' partito segretamente da Firenze senza dirmi addio ed io ora lo seguo nella sua patria per ottener giustizia.
Datemela, o re! essa risiede in voi. Altrimenti un seduttore prospera, e una povera fanciulla è minata. Diana Cappelletti".
LAFEU: Andrò piuttosto a comprarmi un genero alla fiera, ma di questo voglio sbarazzarmi. Non voglio più saperne di lui.
RE: Il cielo, con questa rivelazione, dimostra di volerti bene, Lafeu.
Fate venire queste supplicanti. (Il Gentiluomo esce) Andate e portate qui subito il conte. (Alcuni Servi escono) Signora, temo che la vita di Elena le sia stata proditoriamente rapita.
CONTESSA: Sia fatta giustizia dei colpevoli!
(Le Guardie tornano con BELTRAMO)
RE: Dal momento che le mogli vi sembrano mostri, e che le fuggite appena avete giurato loro protezione coniugale, mi stupisco, signore, che voi desideriate ancora sposarvi.
(Il Gentiluomo torna con la Vedova e con DIANA)
Chi è quella donna?
DIANA: Sono, mio signore, una misera Fiorentina, una discendente degli antichi Cappelletti. So che v'è nota la mia supplica, e perciò sapete di quanta compassione io sia degna.
VEDOVA: Io sono sua madre, signore; la mia età e il mio onore soffrono ambedue per l'accusa che vi presentiamo, e ambedue finiranno se non vi porrete rimedio.
RE: Avvicinatevi, conte. Conoscete queste donne?
BELTRAMO: Mio signore, non posso e non voglio negare di conoscerle...
Portano altre accuse contro di me?
DIANA: Perché guardate vostra moglie in modo così strano?
BELTRAMO: Mio signore, costei non è mia moglie.
DIANA: Se vi sposerete darete ad altri questa mano, che è mia; darete ad altri i voti del cielo, che sono miei; darete ad altri me, che tutti sanno appartengo a me stessa; perché io sono, per giuramento, una cosa sola con voi, e colei che sposa voi deve sposare me: o tutt'e due o nessuno.
LAFEU: Troppo scarsa è la vostra onoratezza per mia figlia; voi non potete essere un marito degno di lei.
BELTRAMO: Mio signore, costei è una creatura stolta e allo sbaraglio, con la quale m'è capitato talvolta di ridere. Vostra Altezza abbia un concetto più alto del mio onore, e non pensi che io sia pronto a buttarlo così in basso.
RE: Signore, i miei pensieri non vi sono certamente amici; a meno che non ve li facciate tali con le vostre azioni. Date del vostro onore prove migliori di quelle che si trovano ora nel mio pensiero.
DIANA: Mio buon signore, chiedetegli, sotto giuramento, se non è vero che mi tolse la verginità.
RE: Che cos'hai da rispondere?
BELTRAMO: Essa è sfacciata, mio signore, ed era una delle solite sgualdrine che frequentano gli accampamenti.
DIANA: Egli mi oltraggia, mio signore. Se fossi stata come lui dice, avrebbe potuto comprarmi a un prezzo volgare. Non credetegli. Oh!
Guardate quest'anello, senza pari per magnificenza e per grande valore; eppure lo diede ad una delle sgualdrine che frequentano il campo, se io sono una di queste.
CONTESSA: Egli arrossisce. E' proprio quell'anello, quella gemma che veniva lasciata per testamento al successore e che fu posseduta e portata da sei antenati. Costei è veramente sua moglie; l'anello vale mille prove.
RE: Se non erro, avete detto d'aver visto qui a corte uno che potrebbe attestarlo.
DIANA: Sì, l'ho detto, ma mi vergogno di usare uno strumento così cattivo. Si chiama Parolles.
LAFEU: L'ho visto oggi quell'uomo, se è veramente un uomo.
RE: Cercatelo e portatelo qui.
(Esce un Servo)
BELTRAMO: Che c'entra lui? Si sa che è il più traditore di tutti i ribaldi, macchiato e depravato da tutte le colpe del mondo; la sua natura ha la nausea al solo dire una verità. Dovrò io forse essere questo o quest'altro secondo quanto dirà quest'uomo, pronto ad affermare qualsiasi cosa?
RE: Ma questa donna possiede quel vostro anello.
BELTRAMO: Sì, lo possiede. Ella mi piacque, è vero, e io l'avvicinai alla folle maniera dei giovani; ella seppe tenermi a bada, e mi adescò facendo impazzire il mio desiderio con i suoi rifiuti - poiché tutto ciò che si oppone all'amore è un incentivo che l'accresce - e infine, unendo la sua triviale bellezza ad un'immensa astuzia, riuscì a farmi sottostare alle sue condizioni. S'impadronì dell'anello ed io ottenni ciò che qualsiasi inferiore a me avrebbe potuto comperare al solito prezzo di mercato.
DIANA: Debbo aver pazienza. Voi che avete cacciato via una donna nobilissima quale fu la vostra prima moglie, potete giustamente licenziarmi così. Ma, vi prego - dacché voi mancate di virtù, io consento a perdere un marito - mandate a prendere il vostro anello: io lo ridarò al suo proprietario e voi mi ridarete il mio.
BELTRAMO: Non l'ho più.
RE: Che anello era il vostro, di grazia?
DIANA: Molto simile a quello che voi portate in dito, signore.
RE: Conoscete dunque quest'anello? Poco fa era suo.
DIANA: Glielo diedi io, mentre giacevo con lui.
RE: Dunque non è vero che glielo gettaste dalla finestra?
DIANA: Io ho detto la verità.
(Ritorna un servo con PAROLLES)
BELTRAMO: Mio signore, confesso che l'anello apparteneva a lei.
RE: Voi v'inalberate malamente, ogni piuma vi fa trasalire... E' quello l'uomo di cui parlavate?
DIANA: Sì, mio signore.
RE: Ditemi, voi, ma ditemi la verità, ve lo comando, e non abbiate paura di cadere in disgrazia del vostro padrone, perché io stesso vi difenderò se agirete con giustizia. Che cosa sapete voi di lui e di questa donna qui?
PAROLLES: Piaccia a Vostra Maestà, il mio padrone s'è sempre condotto da gentiluomo onorevole; le scappatelle che ha fatto sono quelle che fanno tutti i gentiluomini.
RE: Andiamo, via, non uscite di strada; ha amato questa donna?
PAROLLES: In fede mia, signore, sì, l'ha amata; ma come?
RE: Come? E' questo che domando.
PAROLLES: L'ha amata, signore, come un gentiluomo ama una donna.
RE: Cioè?
PAROLLES: L'ha amata, signore, e non l'ha amata.
RE: Come tu sei un furfante e non sei un furfante. Che tipo equivoco è costui!
PAROLLES: Io sono un povero diavolo al servizio di Vostra Maestà.
LAFEU: Costui è un buon tamburino, signore, ma un pessimo oratore.
DIANA: Sapete che egli mi ha promesso di sposarmi ?
PAROLLES: In verità, io so più di quanto non voglia dire.
RE: Non vuoi dunque dire tutto ciò che sai?
PAROLLES: Sì, piaccia a Vostra Maestà... Come ho detto, io sono stato intermediario fra loro due, ma inoltre, egli l'amava, anzi era pazzo, e parlava di Satana, e del Limbo, e delle Furie, o che so io; allora godevo talmente della loro confidenza, che sapevo del loro giacere insieme, e di altre proposte come della sua promessa di sposarla, ed altre cose che mi attirerebbero malevolenza se le rivelassi, ragione per cui non voglio parlare di ciò che so.
RE: Hai già detto tutto, a meno che tu non possa aggiungere che sono sposati. Tu sei un testimonio troppo sottile, perciò fatti in là...
Voi dunque affermate che quest'anello era vostro?
DIANA: Sì, mio buon signore.
RE: Dove lo compraste? O chi ve lo diede?
DIANA: Nessuno me lo diede e neppure lo comprai.
RE: Chi ve lo prestò?
DIANA: Non mi fu neanche prestato.
RE: Dove lo trovaste allora?
DIANA: Non lo trovai.
RE: Se non divenne vostro in nessuna di queste maniere, come poteste darlo a lui?
DIANA: Io non glielo diedi mai.
LAFEU: Mio signore, questa donna è un guanto comodo, esce ed entra che è un piacere.
RE: Quest'anello era mio ed io lo donai alla sua prima moglie.
DIANA: Per quel che ne so io, può essere stato vostro o di lei.
RE: Portatela via, costei non mi piace, chiudetela in prigione, e via anche lui. Se non mi dirai in che modo hai potuto avere quest'anello morrai prima che termini quest'ora.
DIANA: Non ve lo dirò mai.
RE: Portatela via.
DIANA: Vi darò malleveria, mio sovrano.
RE: Ormai non ti ritengo che una bassa prostituta.
DIANA: Per Giove, se mai conobbi uomo, questi siete voi.
RE: Perché allora hai continuato tutto il tempo ad accusare quest'altro?
DIANA: Perché è colpevole, e non è colpevole; egli sa che io non sono più vergine e sarebbe pronto a giurarlo; io però sono pronta a giurare d'essere vergine, e lui non lo sa. Gran re, per la mia vita, io non sono una sgualdrina; sono vergine, oppure sono la moglie di questo vecchio.
RE: Offende le nostre orecchie, portatela in prigione!
DIANA: Buona madre, andate a prendere il mallevadore... (La Vedova esce) Attendete, Regale Maestà, ho mandato a chiamare il gioielliere al quale l'anello appartiene, ed egli risponderà di me. Questo signore, poi, mi ha offeso, come lui sa benché non m'abbia mai fatto del male. Io qui gli fo quietanza. Egli sa d'aver violato il mio letto, ed in quel momento ha fatto madre la sua sposa; benché sia morta, ella sente il figlio balzarle in seno. Ecco il mio indovinello; la morta è viva. Ed ora guardate la spiegazione.
(La Vedova ritorna con ELENA)
RE: E' forse un esorcista che inganna il retto uso dei miei occhi? E' realtà ciò che vedo?
ELENA: No, mio buon signore, è solo l'ombra di una sposa che voi vedete, il nome, non la cosa.
BELTRAMO: L'uno e l'altra, l'uno e l'altra. Oh! perdono!
ELENA: Oh, mio buon signore, quando io assomigliavo a questa fanciulla, vi trovai mirabilmente gentile. Ecco il vostro anello e qui, guardate, c'è la vostra lettera, che dice: "Quando potrete levarmi dal dito quest'anello e quando avrete da me un figlio, eccetera". E' stato fatto. Volete essere mio ora che v'ho conquistato due volte?
BELTRAMO: Se essa, mio sovrano, potrà mostrarmi chiaramente che questo è vero, io l'amerò caramente per sempre, affettuosamente per sempre.
ELENA: Se ciò non appare evidente, se sarà dimostrato falso, mortale divorzio s'interponga fra me e voi. Oh! madre cara, vi rivedo ancora in vita?
LAFEU: I miei occhi sentono le cipolle e fra poco dovrò piangere. (A Parolles) Buon Mastro Tamburo, prestami il fazzoletto; così, grazie.
Accompagnami a casa, voglio divertirmi con te. Lascia stare i tuoi inchini, sono sgarbati.
RE: Fateci sapere, punto per punto, tutta la storia, e che la rivelazione di tutta la verità ci riempia di gioia... (A Diana) Se sei ancora un fiore fresco e non colto, scegli lo sposo, e io donerò la dote, perché mi sembra d'indovinare che con il tuo onesto aiuto hai saputo mantenere sposa una sposa, e te vergine. Di ciò che è avvenuto, dei piccoli casi e dei grandi, vorremo sapere tutto a nostro agio.
Finora tutto appare bello, e se termina così bene l'amaro passato, la dolcezza presente è più gradita.
(Suono di trombe)
Il re è un mendico, ora che il dramma è finito. Tutto termina bene, se ci sarà concesso di vedervi contenti, e vi ripagheremo sforzandoci di farvi lieti, ogni giorno meglio. A noi dunque la vostra indulgenza, a voi il nostro talento; prestateci le vostre gentili mani, e prendetevi i nostri cuori.
(Tutti escono)