William Shakespeare
CIMBELINO
PERSONAGGI
CIMBELINO, re di Britannia
CLOTEN, figlio di primo letto della Regina
POSTUMO LEONATO, gentiluomo, marito di Imogene
BELARIO, signore esiliato, in incognito sotto il nome di Morgan
GUIDERIO, ARVIRAGO: figli di Cimbelino in incognito sotto i nomi di POLIDORO e CADWAL, supposti figli di MORGAN
FILARIO, amico di Postumo; JACHIMO, amico di Filario: italiani
CAIO LUCIO, generale delle forze romane
PISANIO, servo di Postumo
CORNELIO, medico
Un Capitano romano
Due Capitani britanni
Un Francese, amico di Filario
Due Baroni della corte di Cimbelino
Due Signori della corte di Cimbelino
Due Carcerieri
LA REGINA, moglie di Cimbelino
IMOGENE, figlia di Cimbelino e della sua prima moglie
ELENA, dama di compagnia di Imogene
Signori, Dame, Senatori romani, Tribuni, un Indovino, un Olandese, uno Spagnuolo, Musici, Ufficiali, Capitani, Soldati, Messi, altri del Seguito. Apparizioni
Scena: Britannia, Roma
ATTO PRIMO
PRIMO GENTILUOMO: Non incontrerete nessuno che non sia accigliato. Le nostre passioni non sono più ubbidienti ai cieli che i nostri cortigiani all'aspetto del re.
SECONDO GENTILUOMO: Ma per qual ragione?
PRIMO GENTILUOMO: Sua figlia, e l'erede del suo regno, quella che egli destinava all'unico figlio di sua moglie - una vedova che ha sposato da poco - si è data a un povero ma degno gentiluomo. Lo ha sposato:
suo marito è bandito, lei imprigionata, tutto nelle apparenze è tristezza; ma il re, lo credo ferito nel profondo del cuore.
SECONDO GENTILUOMO: Soltanto il re?
PRIMO GENTILUOMO: Anche quello che l'ha perduta; e così la regina, che molto desiderava questa unione. Ma non v'è alcuno dei cortigiani, pur se essi atteggiano il loro volto secondo l'aspetto del re, che non sia lieto in cuor suo di quello che gli fa far viso da funerale.
SECONDO GENTILUOMO: E perché?
PRIMO GENTILUOMO: Colui che ha perduto la principessa è un essere troppo cattivo per parlarne male; e quello che la possiede - voglio dire che l'ha sposata, ahimè pover'uomo, e perciò è stato bandito - è tale creatura che a cercare in tutte le regioni della terra uno come lui, mancherebbe sempre qualche cosa a chi gli si volesse paragonare.
Non credo che un così bell'aspetto e tanti doni interiori adornino un altro uomo.
SECONDO GENTILUOMO: Lo vantate assai.
PRIMO GENTILUOMO: Lo lodo, messere, entro i limiti del suo merito; piuttosto che accrescere diminuisco l'elogio che gli è dovuto.
SECONDO GENTILUOMO: Come si chiama? Di che famiglia è?
PRIMO GENTILUOMO: Non posso scavare fino alla sua radice. Suo padre si chiamava Sicilio, e unì il suo valore a Cassibelano contro i Romani; ma ebbe i suoi titoli da Tenanzio, che servì con gloria e ammirato successo. Così si guadagnò il soprannome di Leonato; ed ebbe, prima del gentiluomo del quale parliamo, altri due figli che morirono con la spada in pugno nelle guerre di quel tempo. Di questo il padre, già vecchio e desideroso di discendenza, ebbe tal dolore che ne morì, la sua gentile sposa, incinta del gentiluomo del quale parliamo, morì quando egli nacque. Il re prende il piccino sotto la sua protezione, lo chiama Postumo Leonato, lo fa educare e lo tiene come paggio. Lo fa educare in ogni scienza adatta alla sua età: egli la fece sua come noi facciamo dell'aria, non appena gli era data; e fin dalla sua primavera dette raccolto. Visse a corte, rara cosa, molto lodato e molto amato, modello ai più giovani, era per i più maturi uno specchio al quale azzimarsi; e, per i più gravi, un ragazzo che guidava i vecchioni. In quanto alla sua sposa per la quale oggi è bandito, il suo stesso merito dice quanto stimasse lui e la sua virtù: lo ha scelto, e questo dice chiaramente che uomo egli sia.
SECONDO GENTILUOMO: Io lo onoro proprio per quello che mi dite. Ma, vi prego, il re ha soltanto questa figlia?
PRIMO GENTILUOMO: Soltanto questa figlia. Ebbe due figli - se questo è degno della vostra attenzione, ascoltatemi - e il maggiore aveva tre anni e l'altro era ancora in fasce quando furono rapiti alla nutrice.
Fino ad ora nessun indizio che riveli dove possano essere.
SECONDO GENTILUOMO: Quanto tempo è passato?
PRIMO GENTILUOMO: Circa vent'anni.
SECONDO GENTILUOMO: Che i figli d'un re siano rapiti così! così mal custoditi! e le ricerche così lente che non si siano potuti rintracciare!
PRIMO GENTILUOMO: Per quanto strano, o per ridicola che sembri la negligenza, è la verità, signore.
SECONDO GENTILUOMO: Vi credo.
PRIMO GENTILUOMO: Dobbiamo andare. Ecco che vengono il gentiluomo, la regina e la principessa.
(Escono)
(Entrano la REGINA, LEONATO e IMOGENE)
REGINA: No, figlia mia, siatene certa, non troverete in me l'ostilità che secondo la calunnia si suol rimproverare alle matrigne. Siete mia prigioniera, ma la custode vi darà le chiavi che chiudono la vostra prigione. In quanto a voi, Postumo, appena potrò calmare la collera del re, sarò proprio io il vostro avvocato. Ma in verità, il fuoco dell'ira è ancora in lui, e sarebbe bene vi inchinaste alla sentenza con la sopportazione che la vostra saggezza vi consiglierà.
LEONATO: Se piace a Vostra Altezza, partirò oggi di qui.
REGINA: Voi sapete il pericolo. Io farò un giro per ii giardino, compiangendo le angosce di un amore vietato, sebbene il re abbia ordinato che non vi parliate.
(Esce)
IMOGENE: O falsa gentilezza! Come sa bene questa tiranna carezzare mentre ferisce! Diletto sposo, temo un poco la collera di mio padre; ma, senza venir meno al mio santo dovere, non quello che la sua ira può farmi. Voi dovete partire, e io dovrò a ogni istante sopportare lo sguardo fiero di occhi irati, senz'altro conforto alla mia vita se non nel pensiero che c'è al mondo questo gioiello che potrò rivedere.
LEONATO: Mia regina, mia amante! Oh mia signora, non piangere più, o sarò sospettato di maggior tenerezza che non convenga a un uomo.
Resterò il più fedele sposo che mai abbia giurato fede. Starò in Roma, presso un certo Filario che fu amico di mio padre, e che io conosco soltanto per lettera. Scrivimi là, mia regina, e berrò con gli occhi le parole che manderai, anche se l'inchiostro fosse fatto di fiele.
(Rientra la REGINA)
REGINA: Siate brevi, vi prego. Se il re venisse, non so quanto potrebbe adirarsi con me. (A parte) Voglio persuaderlo a passare di qui. Non gli faccio un male che egli non me ne compensi come di un benefizio, per restarmi amico; egli paga care le mie offese.
(Esce)
LEONATO: Dovesse il nostro congedo durare quanto la vita che ci resta, l'amarezza della separazione non farebbe che crescere. Addio!
IMOGENE: No, rimanete un poco. Se montaste a cavallo soltanto per una breve passeggiata, questo addio sarebbe troppo meschino. Ecco, guardate, amore, questo diamante era di mia madre: prendetelo, cuor mio, ma serbatelo finché non sposerete un'altra, quando Imogene sarà morta.
LEONATO: Come un'altra? O dèi clementi, datemi solo questa che mi appartiene, e inaridite i miei abbracci ad un'altra coi legami della morte! (Mettendosi l'anello) Rimani, rimani qui finché i miei sensi ti possano tenere. E, mia bella, mia dolce, come con vostra gran perdita ho scambiato la mia povera persona con la vostra, così anche nelle inezie io ci guadagno. Portate questo per amor mio, sono le manette d'amore che metto alla più bella prigioniera.
(Le infila un braccialetto)
IMOGENE: Oh dèi! Quando ci rivedremo?
LEONATO: Ahimè, il re!
(Entra CIMBELINO con Baroni)
CIMBELINO: Vattene, vilissima creatura! via dal mio sguardo! Se dopo quest'ordine ingombrerai ancora la corte con la tua indegna presenza, morrai. Via! Sei veleno al mio sangue.
LEONATO: Gli dèi vi proteggano e benedicano i buoni che rimangono a corte! Vado.
(Esce)
MOGENE: Non può esservi nella morte spasimo più acuto di questo.
CIMBELINO: Oh creatura sleale, che dovresti darmi una nuova giovinezza, e accumuli gli anni su di me!
IMOGENE: Vi supplico, signore, non vi fate del male con questa agitazione. Io sono insensibile alla vostra ira; un sentimento più raro vince ogni angoscia e ogni timore.
CIMBELINO: Oltre la salute? l'obbedienza?
IMOGENE: Oltre la speranza, e in disperazione; e così, oltre la salute dell'anima.
CIMBELINO: Avresti potuto sposare l'unico figlio della mia regina!
IMOGENE: Oh beata, che non potei! Ho scelto un'aquila e sono sfuggita a un nibbio.
CIMBELINO: Hai scelto un mendicante; avresti fatto del mio trono un seggio di ignominia.
IMOGENE: No, anzi ne ho accresciuto lo splendore.
CIMBELINO: Oh vile creatura!
IMOGENE: Signore, è colpa vostra se ho amato Postumo: lo avete fatto crescere compagno dei miei giuochi; ed è uomo degno di qualunque donna: mi sorpassa in valore di quasi tutta la somma che gli costo.
CIMBELINO: Come? sei pazza!
IMOGENE: Quasi signore, il cielo mi guarisca! Ah, perché non sono la figlia di un bifolco, e il mio Leonato il figlio del pastore nostro vicino!
CIMBELINO: Insensata!
(Rientra la REGINA)
Erano di nuovo insieme; non avete agito secondo i nostri ordini.
Uscite con lei, e sia rinchiusa.
REGINA: Imploro la vostra pazienza. Taci, cara figlia, taci! Mio sovrano, lasciateci sole; e cercatevi conforto nel vostro miglior consiglio.
CIMBELINO: No, languisca d'una goccia di sangue al giorno; e quando sarà vecchia, muoia di questa sua follia!
(Escono Cimbelino e i Baroni)
REGINA: Via! dovete cedere.
(Entra PISANIO)
Ecco il vostro servo. Ebbene, messere, quali notizie?
PISANIO: Mia Signora, vostro figlio ha sguainato la spada contro il mio padrone.
REGINA: Ah! Non è avvenuto nessun male, spero?
PISANIO: Sarebbe avvenuto, se il mio padrone non avesse giocato più che combattuto, e non gli fosse mancato l'aiuto dell'ira. Furono separati da gentiluomini che erano presenti.
REGINA: Ne sono molto lieta.
IMOGENE: Vostro figlio è amico di mio padre, e prende le sue parti.
Sguainar la spada contro un esiliato! Oh ardito cavaliere! Vorrei fossero in Africa, l'uno contro l'altro, e io accanto a loro con un ago, per poter pungere quello che indietreggiasse. Perché avete lasciato il vostro padrone?
PISANIO: Per suo ordine. Non ha voluto permettere che lo accompagnassi fino al porto; e mi ha lasciato questo scritto con gli ordini di quello che dovrò fare quando vi piacerà servirvi di me.
REGINA: Costui vi è stato sempre servo fedele e giurerei sul mio onore che tale rimarrà.
PISANIO: Ringrazio umilmente Vostra Altezza.
REGINA: Vi prego, passeggiamo un poco.
IMOGENE: Fra circa mezz'ora vi prego di venire a parlare con me.
Dovete almeno vedere il mio signore imbarcarsi. Lasciatemi fino ad allora.
(Escono)
SCENA SECONDA - Britannia. Una piazza pubblica
(Entra CLOTEN con due Baroni)
PRIMO BARONE: Messere, vi consiglierei di mutar la camicia. La violenza dell'azione vi ha fatto fumare come un olocausto; dove aria esce, aria entra; e non ce n'è qui intorno di così salubre come quella che voi esalate.
CLOTEN: Se la mia camicia fosse insanguinata, allora la cambierei.
L'ho ferito?
SECONDO BARONE (a parte): No, in fede mia; neppure la sua pazienza.
PRIMO BARONE: Ferito! Il suo corpo è una carcassa fatta d'aria, se non è ferito; è una strada maestra per l'acciaro, se non è ferito.
SECONDO BARONE (a parte): Il suo acciaro era pieno di debiti; è scappato dall'altra parte della città.
CLOTEN: Quel gaglioffo non voleva farmi fronte.
SECONDO BARONE (a parte): No, ma fuggiva sempre in avanti, verso la vostra faccia.
PRIMO BARONE: Farvi fronte! Avete abbastanza terre del vostro; ma quello aumentava i vostri averi col cedervi terreno.
SECONDO BARONE (a parte): Tanti pollici quanti avete oceani. Buffoni!
CLOTEN: Vorrei che non si fossero messi di mezzo.
SECONDO BARONE (a parte): Anch'io, finché non aveste misurato che pezzo d'imbecille eravate lungo disteso in terra.
CLOTEN: E che debba amare quell'uomo e rifiutare me!
SECONDO BARONE (a parte): Se fare una buona scelta è peccato, è dannata.
PRIMO BARONE: Messere, ve l'ho sempre detto, la sua bellezza non è pari al suo cervello. Ha un bell'aspetto, ma ho veduto pochi riflessi della sua intelligenza.
SECONDO BARONE (a parte): Non splende sopra gli sciocchi, per paura che il riflesso la ferisca.
CLOTEN: Venite, tornerò in camera mia. Almeno ci fosse stata qualche ferita!
SECONDO BARONE (a parte): Non è il mio desiderio; a meno che non fosse caduto un somaro, che non sarebbe gran male.
CLOTEN: Venite con noi?
PRIMO BARONE: Accompagnerò Vostra Signoria.
CLOTEN: Allora andiamo insieme.
SECONDO BARONE: Sì, mio signore.
(Escono)
SCENA TERZA - Una stanza nel Palazzo di Cimbelino
(Entrano IMOGENE e PISANIO)
IMOGENE: Vorrei tu ti spingessi fino alle rive del porto e domandassi a ogni vela; se scrive e non ricevo è come andasse perduto un rescritto di grazia. Quali sono le ultime parole che ti ha dette?
PISANIO: Diceva: "Mia regina, mia regina!".
IMOGENE: E poi sventolava il fazzoletto?
PISANIO: E lo baciava, signora.
IMOGENE: Insensibile lino, in questo più felice di me! E questo è tutto?
PISANIO: No, signora. Fin che ha potuto fare che lo distinguessi dagli altri con l'occhio o con l'orecchio, restò sul ponte, e agitava senza posa un guanto, il cappello o il fazzoletto, secondo che i moti e gl'impulsi del suo cuore sapevano meglio esprimere, quanto lenta era a far vela la sua anima, quanto veloce la sua nave.
IMOGENE: Non dovevi lasciarlo con gli occhi finché non fosse apparso piccolo come un corvo, o anche più piccolo.
PISANIO: Così ho fatto, signora.
IMOGENE: Avrei spezzato i nervi dei miei occhi, li avrei schiantati solo per guardarlo finché, diminuito dalla distanza, non fosse divenuto sottile come un ago; anzi, lo avrei seguito fino a che, da minuscolo come un moscerino, non fosse scomparso in aria: e allora avrei distolto gli occhi per piangere. Ma, buon Pisanio, quando avremo sue notizie?
PISANIO: Siate certa, signora, appena gli sia possibile.
IMOGENE: Non ho potuto salutarlo, e avevo tante cose gentili da dirgli. Prima che gli potessi dire come penserò a lui in certe ore, e con questi e questi pensieri; prima che potessi fargli giurare che le donne d'Italia non gli faranno tradire il mio amore né la sua fede?
prima che gli raccomandassi di unire le sue alle mie preghiere alle sei del mattino, a mezzogiorno e a mezzanotte, perché allora sono in cielo per lui; o prima che gli potessi dare il bacio dell'addio fra due parole magiche: è venuto mio padre, e come il tirannico vento del nord ha fatto cadere questi germogli sul crescere.
(Entra una Dama)
DAMA: La regina, signora, desidera la compagnia di Vostra Altezza.
IMOGENE: Eseguite gli ordini che vi ho dati. Vado dalla regina PISANIO: Sì, signora.
(Escono)
SCENA QUARTA - Roma. In casa di Filario
(Entrano FILARIO, JACHIMO, un Francese, un Olandese e uno Spagnuolo)
JACHIMO: Credetemi, messere, l'ho veduto in Britannia: la sua rinomanza era allora sul crescere e in attesa di provare quel merito che col tempo gli ha dato fama; ma allora io avrei potuto guardarlo senza l'aiuto dello stupore, anche se l'elenco delle sue virtù gli fosse stato in uno specchietto a lato, e io avessi potuto leggervi ogni articolo.
FILARIO: Voi parlate di lui quando era meno ricco che non sia ora di dentro e fuori.
FRANCESE: L'ho veduto in Francia. C'eran da noi moltissimi che potevano guardare il sole con occhi fermi quanto lui.
JACHIMO: Questo aver sposato la figlia del re, per cui deve essere stimato piuttosto dal valore di lei che dal proprio, lo fa vantare, non ne dubito, assai più che non meriti.
FRANCESE: E poi il suo esilio.
JACHIMO: Sì, e il calore di quelli che piangono questa dolorosa separazione militando sotto le bandiere di lei, esalta lui meravigliosamente; non fosse altro per fortificare il giudizio di lei, che altrimenti una piccola batteria basterebbe a demolire, per aver preso un mendicante senza la minima qualità. Ma come mai viene a stare con voi? Come si è insinuato nella vostra conoscenza?
FILARIO: Suo padre e io fummo soldati insieme, e gli fui più volte debitore della vita stessa. Ecco che viene il Britanno: accoglietelo fra voi come si conviene, con gentiluomini del vostro senno, a uno straniero della sua qualità.
(Entra LEONATO)
Vi prego tutti, fate miglior conoscenza con questo gentiluomo, che vi raccomando come mio nobile amico. Quanto sia degno, preferisco appaia in seguito, piuttosto che dirvi di lui in sua presenza.
FRANCESE: Messere, noi due ci siamo conosciuti a Orléans.
LEONATO: Da allora vi son rimasto debitore per cortesie che vi dovrò sempre pagare, eppure pagare ancora.
FRANCESE: Messere, voi date troppo valore al mio povero servigio: fui lieto di riconciliarvi col mio concittadino; sarebbe stato peccato se vi foste incontrati con le intenzioni così ostili che avevate entrambi, per cosa di natura tanto insignificante e da poco.
LEONATO: Perdonatemi, messere. Io ero allora un giovane viaggiatore, e evitavo di approvare quello che udivo piuttosto di lasciarmi guidare in ogni azione dall'altrui esperienza; ma, secondo il mio senno più maturo - se non v'è offesa nel dire che è maturo - le mie ragioni non erano così da poco.
FRANCESE: In fede mia sì, lo erano troppo per chiamarne arbitre le spade; e da parte di due dei quali, con tutta probabilità, uno avrebbe spacciato l'altro, o sarebbero caduti entrambi.
JACHIMO: Possiamo chiedere, senza indiscrezione, quale fosse la contesa?
FRANCESE: Ma certo, credo; era una pubblica discussione, che può indubbiamente essere raccontata. Era molto simile alla disputa che avemmo ieri sera, nella quale ognuno di noi lodava le belle del suo paese. Allora questo gentiluomo affermava - e metteva il suo sangue a garanzia - che la sua dama era più bella, più virtuosa, più saggia, più casta, più costante e meno facile da conquistare di qualunque delle più rare dame di Francia.
JACHIMO: O quella dama non è più in vita o adesso l'opinione di questo gentiluomo è cambiata.
LEONATO: Ella conserva sempre la sua virtù, e io il mio pensiero.
JACHIMO: Non dovreste metterla tanto al di sopra delle nostre d'Italia.
LEONATO: Se fossi tanto provocato come lo fui in Francia, non ritratterei nulla; per quanto mi professi suo adoratore, e non suo amante.
JACHIMO: Tanto bella e tanto buona - facendo un paragone come fra eguali - è troppo bello e troppo buono per qualsiasi donna di Britannia. Se vince le altre che ho vedute, come quel vostro diamante vince in splendore molti di quelli che ho mirati, non potrei fare a meno di credere che non ne sorpassi parecchie; ma io non ho mai veduto il più prezioso diamante che ci sia, né voi la donna LEONATO: L'ho lodata secondo la stima che ne faccio; e così faccio di questa pietra.
JACHIMO: Quanto la stimate?
LEONATO: Più d'ogni tesoro al mondo.
JACHIMO: O la vostra dama senza pari è morta o è vinta in valore da un gingillo.
LEONATO: Vi sbagliate: l'uno può essere venduto o donato; se vi fosse ricchezza bastante per l'acquisto, o merito per il dono; l'altra non è cosa da vendere, ed è soltanto un dono degli dèi.
JACHIMO: Che gli dèi vi hanno dato?
LEONATO: Che, con la loro grazia, saprò conservare.
JACHIMO: Potete dirla vostra di nome; ma, voi lo sapete, uccelli forestieri si posano sugli stagni vicini. Anche il vostro anello vi può essere rubato: sicché, dei vostri due tesori inestimabili, uno è fragile, l'altro è accidentale. Un ladro astuto, o un altrettanto perfetto cavaliere, potrebbero tentare di appropriarsi l'uno e l'altro.
LEONATO: La vostra Italia non ha un cavaliere tanto perfetto da vincere l'onore della mia donna, se la chiamate fragile pensando che lo conservi o lo perda. Io non dubito affatto che siate ben provvisti di ladri; eppure non temo per il mio anello.
FILARIO: Basta così, signori LEONATO: Di tutto cuore, messere. Questo degno signore, e io lo ringrazio, non mi tratta come uno straniero; siamo subito in confidenza.
JACHIMO: Con una conversazione che durasse cinque volte questa, saprei vincere la vostra bella amante e farla cedere fino a concedersi solo che potessi conoscerla e avere l'occasione amica.
LEONATO: No, no.
JACHIMO: Oserei impegnare metà della mia fortuna contro il vostro anello, che a mio avviso vale un po' meno. Ma faccio la scommessa piuttosto contro la vostra fiducia che contro la sua reputazione; e anche, perché non vi sia ragione di offesa, dico che tenterei la prova contro ogni donna di questo mondo.
LEONATO: Sbagliate assai nella vostra troppo ardita convinzione; e non dubito che non dobbiate sopportare quello che meritate per la vostra prova.
JACHIMO: Vale a dire?
LEONATO: Una ripulsa; benché la vostra prova, come voi la chiamate, meriti qualche cosa di più: una punizione.
FILARIO: Signori, basta con questi discorsi; son venuti troppo all'improvviso. Lasciateli morire come sono nati e, vi prego, fate migliore conoscenza.
JACHIMO: Vorrei aver impegnato la fortuna mia e del mio vicino a conferma di quello che ho detto.
LEONATO: E qual è la donna che vorreste attaccare?
JACHIMO: La vostra, la cui costanza voi credete tanto sicura.
Scommetto diecimila ducati contro il vostro anello che, se mi raccomandate alla corte dove è la vostra signora senza maggior vantaggio che l'opportunità di due colloqui, le porterò via quell'onore che immaginate sia tanto ben custodito.
LEONATO: Scommetterò dell'oro contro il vostro oro; il mio anello tengo caro quanto il dito: sono una cosa sola.
JACHIMO: Siete un amante, e perciò prudente. Se compraste carne di donna a un milione la dramma, non potreste preservarla dal corrompersi; ma vedo che avete della religione, poiché temete.
LEONATO: Questo non è che un vezzo della vostra lingua; ma spero che abbiate più seria natura.
JACHIMO: Son padrone dei miei discorsi e sono pronto a tentare quanto ho detto lo giuro.
LEONATO: Davvero? Metterò in pegno il mio diamante fino al vostro ritorno. Che sia steso un patto fra di noi. La mia signora sorpassa in bontà la grossolanità dei vostri indegni pensieri. Vi sfido alla prova. Ecco il mio anello.
FILARIO: Non voglio si faccia questa scommessa.
JACHIMO: Per gli dèi, è cosa fatta. Se non vi porto prova bastante di aver goduto la più cara parte del corpo della vostra bella i miei diecimila ducati sono vostri, e anche il diamante. Se ritorno lasciandole quell'onore nel quale credete, ella che è il vostro gioiello, questo vostro gioiello e il mio oro, sono vostri. Purché mi diate una raccomandazione che mi permetta di vederla liberamente.
LEONATO: Accetto queste condizioni. Fissiamo gli articoli fra di noi.
Soltanto, dovreste rispondermi di questo: se fate il vostro tentativo con lei e poi mi fate sapere che avete vinto, io non sono più vostro nemico, poiché ella non è degna della nostra disputa; se rimarrà non sedotta, e voi non mi dimostrerete il contrario, della vostra oltraggiosa opinione e dell'attacco alla sua virtù mi risponderete con la spada.
JACHIMO: Qua la mano. E' detta. Faremo redigere queste cose da un uomo di legge, e partirò subito per la Britannia, per paura che il patto prenda freddo e ne muoia. Vado a prendere l'oro e a far registrare le nostre due scommesse.
LEONATO: E' convenuto.
(Escono Leonato e Jachimo)
FRANCESE: Terranno la scommessa, credete?
FILARIO: Il signor Jachimo non si tirerà indietro. Seguiamoli, vi prego.
(Escono)
SCENA QUINTA - Britannia. Una stanza nel Palazzo di Cimbelino
(Entrano la REGINA, Dame e CORNELIO)
REGINA: Mentre la rugiada è ancora sulla terra, raccogliete quei fiori; fate presto. Chi ne ha la nota?
PRIMA DAMA: Io, signora.
REGINA: Andate.
(Escono le Dame) Ora, maestro dottore, portaste quelle droghe?
CORNELIO: Piaccia a Vostra Altezza, sì, eccole, signora. (Le dà una scatoletta) Ma imploro Vostra Grazia, sia detto senza offesa... la mia coscienza mi impone di domandarvi perché mi avete ordinato queste velenosissime miscele, che sono causa di morte per languore, e benché lente sono mortali.
REGINA: Mi stupisce, dottore, che tu mi faccia una simile domanda. Non sono da lungo tempo tua discepola? Non m'hai insegnato a fare i profumi? a distillare? a conservare? sì, così che anche il nostro gran re spesso mi sollecita per i miei preparati? Poiché ho tanto imparato, non è giusto - a meno che tu non mi creda diabolica - che accresca la mia scienza con altri esperimenti? Voglio provare la potenza di queste tue miscele su creature che non giudicheremmo valer la spesa della forca, ma su nessuna che sia umana, per provare la loro forza e usare gli antidoti al loro effetto, e così conoscerne le varie virtù e l'efficacia.
CORNELIO: Queste pratiche non faranno che indurire il cuore di Vostra Altezza, e inoltre l'osservare tali effetti vi riuscirà insieme pericoloso e infettivo.
REGINA: Oh, sta' tranquillo.
(Entra PISANIO)
(A parte) Ecco che viene un furfante adulatore. Farò su di lui la prima prova. Sta per il suo padrone ed è nemico di mio figlio. Ebbene, Pisanio! Dottore, i vostri servigi sono terminati per questa volta; potete andare.
CORNELIO (a parte): Io vi sospetto, signora; ma voi non farete alcun male.
REGINA (a Pisanio): Ascolta, una parola.
CORNELIO (a parte): Costei non mi piace. Crede di avere degli strani lenti veleni, ma conosco il suo animo, e non confiderei alla sua perfidia miscele di così infernale natura. Quelle che ha, daranno gravezza e stupore ai sensi per un poco; e forse, da principio, le proverà su gatti e cani, per salir poi più in alto; ma non c'è pericolo nell'apparenza di morte che esse danno, se non quello di rinchiudere gli spirti per un poco e farli poi rivivere più freschi.
Sarà ingannata dall'effetto più falso; e io sarò più onesto per averla così ingannata.
REGINA: Non ho più bisogno dei tuoi servigi dottore, finché non ti faccia chiamare.
CORNELIO: Prendo umilmente congedo.
(Esce)
REGINA: Dici che piange ancora? Non credi che col tempo si calmerà, e lascerà entrare la ragione dove ora regna la follia? All'opera. Quando mi verrai a dire che ama mio figlio, in quell'istante ti dirò che sei grande quanto il tuo padrone, anzi più grande, perché le sue fortune sono tutte mute e la sua fama boccheggia; non può tornare, né rimanere dov'è. Mutar dimora è per lui cambiare una miseria con un'altra, e ogni giorno che viene, viene a distruggere in lui il lavoro di un giorno. Che cosa speri appoggiandoti a uno che vacilla, che non può essere rialzato e non ha neppure amici che lo possano sostenere? (La Regina lascia cadere la scatoletta. Pisanio la raccoglie) Tu non sai cosa sia quello che raccogli. Prendila per le tue fatiche, è una cosa che ho fatta io stessa e che ha salvato cinque volte il re dalla morte. Non conosco cordiale migliore. No, prendilo, ti prego, è un pegno dei favori che voglio farti. Di' alla tua padrona quale sia la sua situazione, fallo come se venisse da te. Pensa al vantaggio del cambio, e pensa che conservi la tua padrona e per di più hai mio figlio che si occuperà di te. Persuaderò il re a farti avanzare in ogni maniera secondo il tuo desiderio, e io stessa, io soprattutto, che ti ho messo sulla via di acquistar benemerenza, mi impegno a ricompensarti riccamente. Chiama le mie donne, pensa alle mie parole.
(Esce Pisanio) Uno scaltro e fedele furfante, impossibile a smuovere; agente del suo padrone, e quello che le ricorda di conservar la fede al marito. Gli ho data una cosa che, se la prende, la priverà di messaggeri per il suo amore. E che poi lei stessa, se non vorrà piegare la sua volontà, potrà essere sicura di assaggiare.
(Rientra PISANIO con le Dame)
Sì, sì, ben fatto, ben fatto. Portate nella mia stanza le violette, e le auricole e le primule. Addio, Pisanio; pensa alle mie parole.
(Escono la Regina e le Dame)
PISANIO: Ci penserò, ma quando mi trovassi infedele al mio padrone, mi strozzerei con le mie stesse mani. E' tutto quello che farò per voi.
(Esce)
SCENA SESTA - Britannia. Un'altra stanza nel Palazzo
(Entra IMOGENE, sola)
IMOGENE: Un padre crudele e una matrigna perfida! Uno sciocco che fa la corte a una dama sposata, che ha il marito in esilio! Oh, che marito! La corona suprema del mio dolore! E queste afflizioni che si rinnovano! Fossi stata rapita dai ladri come i miei due fratelli, oh me felice! Ma il desiderio, quanto più è alto, tanto più è misero.
Felice chi, per quanto povero, può appagare i suoi onesti desideri, e così dar sapore alla sua felicità. Chi sarà mai costui? Ahimè!
(Entrano PISANIO e JACHIMO)
PISANIO: Signora, un nobile gentiluomo di Roma viene con lettere del mio padrone.
JACHIMO: Cambiate colore, signora? Il degno Leonato sta bene e saluta teneramente Vostra Altezza.
(Le dà una lettera)
IMOGENE: Grazie, buon signore. Vi do di gran cuore il benvenuto.
JACHIMO (a parte): Tutto quello che si vede di lei è splendido! Se è fornita di un animo altrettanto raro, è unica, è la fenice d'Arabia, e io ho perduta la scommessa. Ardire, siimi amico! Audacia, armami da capo a piedi! o, come il Parto, combatterò fuggendo; o, piuttosto, fuggirò addirittura
IMOGENE (legge): "E' uno dei più nobili gentiluomini, e con le sue cortesie mi ha molto obbligato. Fatene il debito caso secondoché voi stimate il vostro fedele Leonato". Vi leggo questo soltanto, ma nel più profondo del cuore sono commossa dal resto, che lo colma di riconoscenza. Siete il benvenuto, degno signore, più che non vi dicano le mie parole; e ve lo proverò in tutto quello che potrò fare.
JACHIMO: Grazie, bellissima signora. Che, son forse pazzi gli uomini?
Hanno avuto da natura gli occhi per vedere la volta celeste e i ricchi tesori della terra e del mare; per distinguere i globi di fuoco di lassù dalle pietre uguali sulle innumeri spiagge; e non possiamo, con organi tanto perfetti, scegliere fra il bello e il brutto?
IMOGENE: Che cosa cagiona la vostra meraviglia?
JACHIMO: Non possono essere gli occhi, perché scimmie e bertucce, poste fra due simili femmine, squittirebbero verso l'una e sprezzerebbero l'altra con smorfie; né può essere il giudizio, perché anche degli idioti, in questa alternativa di bellezza, sarebbero saviamente espliciti; né il desiderio: la laidezza, messa al paragone di sì perfetta beltà, farebbe vomitare l'appetito a vuoto, invece di tentarlo a soddisfarsi.
IMOGENE: Che cosa dite mai?
JACHIMO: Il desiderio satollo, quella brama saziata ma non soddisfatta, quella botte che si vuota a misura che si riempie, prima divora l'agnello, e poi ricerca la sozzura.
IMOGENE: Messer mio caro, perché questi trasporti? Non state bene?
JACHIMO: Grazie, signora, sto bene. (A Pisanio) Vi prego, messere, di dire al mio servo di restare dove l'ho lasciato. E' straniero, e stordito.
PISANIO: Volevo andare a dargli il benvenuto, messere.
(Esce)
IMOGENE: Come sta il mio signore? La sua salute, ditemi, vi prego.
JACHIMO: Buona, signora.
IMOGENE: E' di buon umore? Spero di sì.
JACHIMO: Fin troppo allegro; nessuno straniero v'è da noi più lieto e più gioviale: lo chiamano il Britanno gaudente.
IMOGENE: Quando era qui, era incline alla tristezza, e spesso non ne sapeva il perché.
JACHIMO: Non l'ho mai veduto triste. C'è là un Francese, suo compagno, un "monsieur" di gran lignaggio, che, pare, ama molto una giovane gallica, nella sua patria. Sforna gran sospiri a tutto andare, mentre l'allegro Britanno - il vostro signore, dico - ride a pieni polmoni e grida: "Oh come non tenersi le costole a vedere un uomo, che sa per tradizione, racconto, o per propria esperienza quello che è una donna, sì, quello che essa deve essere, voglia o non voglia, vederlo languire nelle sue ore libere per la schiavitù a cui è impegnato?".
IMOGENE: Così parla il mio signore?
JACHIMO: Certo, signora, e ridendo fino alle lacrime. E' uno spettacolo esser lì a sentirlo beffare il Francese. Ma lo sa il cielo, certi uomini meritan parecchio biasimo.
IMOGENE: Non lui, spero.
JACHIMO: Non lui; eppure la munificenza del cielo verso di lui potrebbe essere usata con maggior gratitudine: in lui quella munificenza è abbondante; in voi, che considero sua, sorpassa ogni dono. Mentre sono costretto ad ammirare, sono anche costretto a compiangere.
IMOGENE: E chi compiangete, messere?
JACHIMO: Due creature, e con tutto il cuore.
IMOGENE: E io sono una di queste, messere? Guardatemi: che dolore vedete in me che meriti la vostra pietà?
JACHIMO: Infelice! Dovrò fuggire il sole radioso, e consolarmi con un lucignolo in una prigione?
IMOGENE: Ve ne prego, messere, rispondete con maggior chiarezza alle mie domande. Perché mi compiangete?
JACHIMO: Perché, stavo per dirvi, altre godono il vostro... Ma spetta agli dèi farne vendetta, non a me di parlarne.
IMOGENE: Pare che sappiate qualche cosa di me, o che concerne me. Vi prego, poiché il dubbio che le cose vadan male fa soffrire spesso più della sicurezza; perché o la certezza è senza rimedio, o dall'averla a tempo può nascere il rimedio; rivelatemi quello che al tempo stesso insinuate e trattenete.
JACHIMO: Se avessi questa guancia per bagnarvi le mie labbra; questa mano il cui tocco, il cui solo tocco dovrebbe obbligare l'animo di chi lo sente a un giuramento di fedeltà; questo oggetto che tien prigioniero il fiero moto dei miei occhi e lo concentra in sé solo, e dovessi - e meriterei allora di esser dannato - biascicare labbra pubbliche come i gradini che salgono al Campidoglio, stringere, con le mie, mani incallite, come dal lavoro, da strette menzognere di tutte le ore, occhieggiare infine occhi vili e smorti come la luce fumosa alimentata dal fetido sego: sarebbe giusto che tutti i mali dell'inferno insieme mi punissero di simile tradimento.
IMOGENE: Il mio signore, temo, ha dimenticato la Britannia.
JACHIMO: E se stesso. Non è spontaneamente che mi induco a dirvi la miseria di questo mutamento, ma sono le vostre grazie che evocano alla mia lingua questa rivelazione dal fondo più muto della mia coscienza.
IMOGENE: Non ditemi più nulla.
JACHIMO: Cara anima, la vostra causa colpisce il mio cuore con una pietà che mi fa male! Una donna tanto bella, che unita a un impero raddoppierebbe la potenza del maggiore dei re, esser divisa con sgualdrine comprate proprio con l'assegno largito dai vostri forzieri!
con avventuriere infette che per dell'oro arrischiano tutte le infermità che la corruzione può dare alla natura! esseri immondi che ben potrebbero avvelenare lo stesso veleno! Vendicatevi; o colei che vi ha portata non fu regina, e voi mentite alla vostra illustre origine.
IMOGENE: Vendicarmi! E come potrei vendicarmi? Se questo è vero- poiché il mio cuore non deve lasciarsi ingannare alla svelta dalle mie orecchie: - se quel che dite è vero, come potrei vendicarmi?
JACHIMO: Dovrebbe costringere me a vivere fra gelide lenzuola come le sacerdotesse di Diana, mentre lui inforca volubili baldracche a vostro dispetto e a spese della vostra borsa? Vendicatevi. Io mi consacro al vostro dolce piacere, ché son più degno di quel disertore del vostro letto, e sarò fedele al vostro amore, sempre segreto e sicuro.
IMOGENE: A me, Pisanio!
JACHIMO: Lasciate che offra alle vostre labbra la mia devozione.
IMOGENE: Via di qui! Condanno le mie orecchie per averti ascoltato così a lungo. Se tu fossi onesto, la virtù ti avrebbe fatto parlare, e non il fine strano e vile che ti proponi. Tu oltraggi un gentiluomo lontano dal ritratto che ne fai quanto tu dall'onore, e vieni qui a tentare una donna che disprezza egualmente te e il demonio. A me Pisanio! Il re mio padre sarà messo a conoscenza del tuo assalto. Se trova giusto che uno straniero insolente venga a trafficare alla sua corte come in un bordello di Roma e ci mostri il suo animo bestiale, allora ha una corte della quale si cura ben poco e una figlia per la quale non ha nessun rispetto. A me, Pisanio!
JACHIMO: Oh felice Leonato! Posso dirlo: la stima che la sua sposa ha di te merita la tua fiducia. Come la tua rara virtù merita la sicura stima dl lei. Vivete a lungo felici! voi, moglie del più degno uomo che mai sia stato il vanto di un paese, e voi sua sposa, solo adatta al più degno. Perdonatemi. Ho parlato così per sapere se la vostra fedeltà avesse radici profonde; ora, vi dipingerò di nuovo il vostro sposo, e quale è veramente: il più leale, e un così virtuoso incantatore che attrae la gente a frequentarlo; metà del cuore di tutti gli uomini è suo.
IMOGENE: Fate ammenda.
JACHIMO: Sta fra gli uomini come un dio disceso e gli dà risalto un onore che lo fa parer più che mortale. Non serbatemi rancore, potente principessa, se ho osato mettervi alla prova con un falso racconto, che ha servito a confermare la vostra grande saggezza, che sapete incapace di errore, nella scelta di uno sposo così raro. L'amore che gli porto mi costrinse a vagliarvi, ma gli dèi vi hanno fatta diversa da ogni altra, senza mondiglia. Vi prego, perdonatemi.
IMOGENE: Va bene, messere; disponete del mio potere alla corte.
JACHIMO: Vi ringrazio umilmente. Quasi dimenticavo di pregare Vostra Grazia di un piccolo favore, eppure importante, poiché concerne il vostro sposo; io e altri nobili amici siamo associati in questo affare.
IMOGENE: Dite, di che cosa si tratta?
JACHIMO: Una dozzina di noi romani e il vostro sposo - la miglior penna della nostra ala - abbiamo messa insieme una somma per comperare un dono all'imperatore; e io, incaricato dagli altri, l'ho scelto in Francia: vasellame di raro disegno e gioielli di forme ricche e squisite e di gran valore. Poiché sono straniero, sono un po' ansioso di saperli in sicuro deposito. Vorreste prenderli sotto la vostra protezione?
IMOGENE: Volentieri. E prendo impegno sul mio onore della loro sicurezza. Poiché il mio sposo vi ha interesse, li terrò nella mia stanza.
JACHIMO: Sono in un baule, custodito dai miei uomini. Mi permetterò di mandarvelo, solo per stanotte. Devo essere a bordo domani.
IMOGENE: Oh no, no.
JACHIMO: Sì, ve ne supplico, o dovrò mancare alla mia parola, ritardando il ritorno. Ho passato il mare dalla Gallia solo col proposito e per la promessa di vedere Vostra Grazia.
IMOGENE: Vi son grata per la vostra bontà, ma non partite domani!
JACHIMO: Devo andare, signora, e perciò, se volete salutare per iscritto il vostro sposo, vi supplico di farlo questa notte. Ho già passato il tempo prefisso, ed è cosa importante per l'offerta del nostro dono.
IMOGENE: Scriverò. Mandatemi il baule, sarà ben custodito e vi sarà reso fedelmente. Siete il benvenuto.
(Escono)
ATTO SECONDO
CLOTEN: C'è stato mai un uomo così sfortunato! quando per un caso toccavo il pallino, m'hanno sbocciato via! Ci avevo scommesso cento sterline e viene uno scemo d'un figlio di puttana a rimproverarmi di bestemmiare, come se avessi preso le mie bestemmie a prestito da lui e non le potessi spendere come mi pare.
PRIMO BARONE: E che cosa ci ha guadagnato? Gli avete rotto la zucca con la vostra palla.
SECONDO BARONE (a parte): Se non avesse avuto più senno di chi gliel'ha rotta, sarebbe venuto fuori tutto.
CLOTEN: Quando un gentiluomo ha voglia di bestemmiare, non tocca ai presenti spuntargli le bestemmie, eh?
SECONDO BARONE: No, mio signore. (A parte) Né mozzar loro le orecchie.
CLOTEN: Cane d'un figlio di puttana! Io dargli soddisfazione? Oh, fosse stato uno del mio sito!
SECONDO BARONE (a parte): Per puzzar di scemo.
CLOTEN: Non c'è niente al mondo che mi dia più fastidio. Canchero!
Vorrei non esser nobile come sono; non osano combattere con me perché la regina è mia madre. Qualsiasi gaglioffo può far delle spanciate di risse, e io devo andar su e giù come un gallo che non trova competitori.
SECONDO BARONE (a parte): Sei gallo e cappone insieme, e di gallo non hai che la voce e la cresta.
CLOTEN: Che cosa dici?
SECONDO BARONE: Non è degno di Vostra Signoria misurarsi con tutti i cialtroni a cui reca offesa.
CLOTEN: No, lo so, ma è giusto che io possa offendere i miei inferiori.
SECONDO BARONE: Sì, non è giusto che per Vostra Signoria.
CLOTEN: E' quel che dico.
PRIMO BARONE: Avete sentito di uno straniero che è giunto a corte stanotte?
CLOTEN: Uno straniero! e io non ne so niente!
SECONDO BARONE (a parte): Anche lui è un tipo strano e non lo sa.
PRIMO BARONE: E' venuto un Italiano, e si crede sia un amico di Leonato.
CLOTEN: Leonato! Un furfante bandito, e questo ha da esserne un altro, chiunque sia. Chi vi ha detto di questo straniero?
PRIMO BARONE: Uno dei paggi di Vostra Signoria.
CLOTEN: E' degno di me andarlo a vedere? Non sarebbe un fallo l'andarci?
SECONDO BARONE: Voi non potete fallare, signore.
CLOTEN: Credo anch'io che non sia facile.
SECONDO BARONE (a parte): Siete uno scemo garantito; perciò i vostri dirizzoni, essendo scemi, non possono fare un fallo.
CLOTEN: Andiamo, andrò a vedere questo Italiano. Quello che ho perduto oggi alle bocce, lo voglio vincere a lui stasera. Andiamo via.
SECONDO BARONE: Sono agli ordini di Vostra Signoria. (Escono Cloten e il Primo Barone) Che una diavolessa astuta come sua madre abbia potuto mettere al mondo questo somaro! Una donna che dà punti a tutti col suo cervello, e questo suo figlio che non si ricorda che venti meno due fa diciotto. Ahimè, povera principessa, divina Imogene, quanto sopporti, fra un padre governato dalla tua matrigna, una madre che inventa nuovi complotti a tutte le ore, un pretendente più odioso dello stesso turpe esilio del tuo sposo, più odioso dell'orribile atto di divorzio ai quale ti vorrebbe costringere! Il cielo tenga salde le mura del tuo caro onore e mantenga incrollabile il tempio della tua bell'anima, perché tu possa vivere per godere dello sposo esiliato e di questo gran paese.
(Esce)
SCENA SECONDA - La stanza di Imogene
(Un baule in un angolo. IMOGENE a letto, che legge. Una Dama le fa compagnia)
IMOGENE: Chi è là? Sei tu, Elena?
DAMA: Con vostra grazia, signora
IMOGENE: Che ora è?
DAMA: Quasi mezzanotte, signora.
IMOGENE: Ho letto per tre ore, dunque ho gli occhi stanchi. Piega la pagina dove sono rimasta, e va' a letto. Non portar via la candela, lasciala accesa. E se ti puoi svegliare verso le quattro, chiamami, ti prego. Son proprio presa dal sonno. (Esce la Dama) O dèi, mi affido alla vostra protezione! Guardatemi dalle streghe e dalle tentazioni della notte, ve ne supplico!
(Dorme. Jachimo esce dal baule)
JACHIMO: I grilli cantano, e i sensi dell'uomo affaticato si ristorano col riposo. Così il nostro Tarquinio calpestò i giunchi con piede leggero, prima di destare la casta bellezza che violò. Citerea, come adorni il tuo letto! Fresco giglio, più bianco delle lenzuola! Oh, potessi toccarti! Un bacio, un solo bacio! Rubini senza uguali, come devon baciare soavemente! E' il suo respiro che profuma così la stanza; la fiamma della candela si piega verso di lei e vorrebbe spiare sotto le sue palpebre per vedere le racchiuse luci, ora coperte da quelle cortine bianche e azzurre, venate del medesimo turchino del cielo. Ma il mio disegno è osservare la stanza, e scriverò ogni cosa: queste e queste pitture, ecco la finestra, questi gli ornamenti del letto, gli arazzi, le figure come? così e così; e il soggetto delle storie. Ah, ma qualche particolare fisico del suo corpo sarà testimonio migliore di diecimila più meschini arredi per arricchire il mio inventario. Oh sonno, tu scimmia della morte, sii greve su di lei!
E sia ella insensibile come una tua sepolcrale, così distesa in una cappella! Vieni, vieni... (Le toglie il braccialetto) Lento quanto il nodo gordiano fu tenace. E' mio, e per la disperazione di suo marito sarà testimonianza esteriore tanto forte quanto la consapevolezza lo è per l'interno. Sul suo seno sinistro, un neo con cinque macchie, come le gocce color cremisi nel fondo di un'auricola: ecco una prova più forte di quelle che mai legge poté dare. Questo segreto lo costringerà a credere che ho forzata la serratura e preso il tesoro del suo onore.
Basta. E a che scopo? Perché dovrei scrivere questo, che è ribadito, avvitato nella mia memoria! Ha letto fino a tardi la storia di Tereo; qui la pagina è segnata, dove Filomena cedette. Ho quel che basta. Di nuovo nel baule, e chiudiamo la molla. Presto, presto, draghi notturni, venga l'aurora a nudare l'occhio del corvo! Vivo in paura; sebbene questo sia un angelo del cielo, qui è l'inferno. (L'orologio suona) Uno, due,. tre. E tempo, è tempo!
(Va nel baule. La scena si chiude)
SCENA TERZA - L'anticamera contigua all'appartamento di Imogene
(Entrano CLOTEN e Baroni)
PRIMO BARONE: Vostra Signoria è l'uomo più paziente del mondo quando perde, il più freddo che giocando abbia mai voltato un asso.
CLOTEN: Chiunque diverrebbe freddo, perdendo.
PRIMO BARONE: Ma non tutti pazienti, secondo il nobile carattere di Vostra Signoria. E siete ardentissimo e impetuoso quando vincete.
CLOTEN: Vincere fa diventar coraggioso chiunque. Se potessi avere questa sciocca di Imogene, avrei oro abbastanza. E' quasi giorno, non è vero?
I BARONI: Giorno, mio signore.
CLOTEN: Vorrei che questa musica venisse: mi han consigliato di darle musica tutte le mattine. Dicono che penetri.
(Entrano dei Musici)
Venite; accordate; se potete penetrarla coi vostri pizzicati, bene; e proveremo anche con la lingua. Se niente servirà, la lasceremo stare ma non mi darò mai per vinto. Primo una cosa di molto eccellente ingegnosità, e poi una meravigliosa aria soave con parole mirabilmente ricche. E poi, lasciamola riflettere.
CANZONE
Odi? Canta l'allodola alla porta del cielo, e Febo già si leva:
bevera i suoi cavalli alle sorgive che in fondo ai fiori nascono.
Già gli occhi d'oro incerti comincian le calendole ad aprire.
Con ogni cosa bella lévati, dolce mia signora, lévati!
CLOTEN: E adesso andatevene. Se questa penetrerà, apprezzerò meglio la vostra musica. Altrimenti, vuol dire che c'è un difetto nelle sue orecchie, che né crine di cavallo, né minugia di vitello, né, per giunta, la voce dell'eunuco sgranellato, potranno mai guarire.
(Escono i Musici)
SECONDO BARONE: Ecco che viene il re.
CLOTEN: Sono contento di aver fatto così tardi, perché per questa ragione sono in piedi così di buon'ora. Non potrà che approvare paternamente questo mio servizio.
(Entrano CIMBELINO e la REGINA)
Buon giorno alla Maestà Vostra e alla mia graziosa madre.
CIMBELINO: Aspettate alla porta della nostra austera figliuola? E non viene fuori?
CLOTEN: L'ho assalita con la musica, ma non si degna di farvi attenzione.
CIMBELINO: L'esilio del suo favorito è troppo recente: non lo ha ancora dimenticato. Ci vuole qualche tempo ancora per cancellare il segno del suo ricordo, e allora sarà vostra.
REGINA: Dovete molto al re, che non perde occasione di farvi valere presso sua figlia. Mettetevi a farle una corte in piena regola, sappiate cogliere l'occasione favorevole; i suoi dinieghi accrescano le vostre premure; cercate di parere ispirato dal cuore negli omaggi che le fate, obbediente in tutto, meno quando i suoi ordini saranno per congedarvi, e a questi siate insensibile.
CLOTEN: Insensato! No.
(Entra un Messaggero)
MESSAGGERO: Permettete, sire. Ambasciatori da Roma, e fra essi è Caio Lucio.
CIMBELINO: Un degno uomo, sebbene ora venga con minacciose intenzioni, ma non per sua colpa. Dobbiamo riceverlo con tutti gli onori dovuti a colui che lo manda; e, quanto a lui, per le bontà che ebbe in passato verso di noi, accoglierlo con riguardo. Caro figlio, quando avrete dato il buon giorno alla vostra signora, venite a raggiungere la regina e me. Avremo bisogno di servirci di voi con questo Romano.
Andiamo, mia regina.
(Escono tutti meno Cloten)
CLOTEN: Se è levata, le voglio parlare; altrimenti, stia ancora a letto e sogni. Olà, permettete. (Bussa) So che le sue donne sono con lei, e se ungessi le mani di una di esse? E' l'oro che apre le porte sovente, sì, e corrompe anche le guardacaccia di Diana, così che portano i cervi all'agguato del bracconiere; ed è l'oro che fa uccidere l'onest’uomo e salva il ladro, anzi a volte fa impiccare il ladro e anche l'onest'uomo: che mai non può fare e disfare? D'una delle sue donne voglio fare il mio avvocato, perché ancora non capisco bene il caso. (Bussa) Con vostra licenza.
(Entra una Dama)
DAMA: Chi è che bussa?
CLOTEN: Un gentiluomo.
DAMA: Niente di più?
CLOTEN: Sì, e figlio di gentildonna.
DAMA: Questo è più di quanto non possano giustamente vantare alcuni che pagano il sarto caro quanto voi. Che cosa desidera Vostra Signoria?
CLOTEN: La persona della vostra signora. E' pronta?
DAMA: Sì, per stare in camera sua.
CLOTEN: Ecco dell'oro per voi; vendetemi la vostra buona reputazione.
DAMA: Come! il mio buon nome? o che io debba riferir di voi quel che reputo buono? La principessa!
(Esce la Dama)
(Entra IMOGENE)
CLOTEN: Buon giorno, bellissima. Sorella, la vostra dolce mano.
IMOGENE: Buon giorno, signore. Voi vi date troppa pena per non acquistare che guai. I ringraziamenti che vi do, è dirvi che sono povera di ringraziamenti, e che non ne ho da donare.
CLOTEN: Eppure vi giuro che vi amo.
IMOGENE: Se lo diceste soltanto, mi farebbe lo stesso effetto; ma se poi giurate, il vostro premio è sempre sentirvi dire che non me ne importa.
CLOTEN: Questa non è una risposta.
IMOGENE: Se non doveste dire che tacendo acconsento, non parlerei. Vi prego, risparmiatemi: sull'onor mio, mostrerò altrettanta scortesia alle vostre migliori gentilezze. Un uomo del vostro gran senno dovrebbe imparare, dopo tante lezioni, a ritirarsi.
CLOTEN: Lasciarvi alla vostra follia sarebbe un peccato che non commetterò.
IMOGENE: Gli scemi non sono pazzi.
CLOTEN: Mi chiamate scemo?
IMOGENE: Sì, perché sono pazza. State quieto e io non sarò più pazza e guariremo entrambi. Mi spiace assai, signore, che mi obblighiate a dimenticare il contegno di una donna parlandovi così. Sappiate, una volta per tutte, questo che io, che conosco il mio cuore, vi dichiaro adesso con tutta la mia sincerità: non mi curo di voi. E la carità stessa mi manca a tal punto, e me ne accuso, che vi odio; e vorrei piuttosto l'aveste sentito, senza che mi costringeste a vantarmene.
CLOTEN: Peccate contro l'obbedienza che dovete a vostro padre. Poiché il contratto che pretendete aver fatto con quel vile sciagurato, allevato per elemosina e nutrito d'avanzi, delle briciole della corte, non è un contratto, assolutamente. E benché possa essere permesso a gente volgare - e chi più volgare di lui? di unire le loro vite che non producono se non marmocchi e miseria con un legame fatto a loro immagine, questa libertà vi è preclusa dalle esigenze d'una corona. E non dovete macchiarne il prezioso splendore con uno schiavo vile, un miserabile nato a portare livrea, un lacchè, un dispensiere, e neppure di prim'ordine.
IMOGENE: Sacrilego! Fossi tu figlio di Giove senza aver altre doti che quelle che hai, sarebbe per te onore sufficiente, e perfino da farti invidiare, se, tenuto conto del valore dei vostri meriti, tu fossi nominato tirapiedi del boia del suo regno. E saresti odiato per sì altolocata posizione.
CLOTEN: Che le nebbie del sud lo marciscano!
IMOGENE: Non gli può accadere maggior sventura che di essere nominato da te. La sua veste più misera, se appena ha toccato il suo corpo, è assai più cara a me di tutti i capelli del tuo capo, anche se tutti diventassero uomini come te. A me, Pisanio!
(Entra PISANIO)
CLOTEN: "La sua veste". Che il diavolo...
IMOGENE: Vai subito da Dorotea, la mia fantesca...
CLOTEN: "La sua veste"!
IMOGENE: Questo scemo mi fa impazzire, mi spaventa e mi esaspera. Va', di' alla mia donna di ricercare un gioiello che per caso ha lasciato il mio braccio. Era del tuo padrone. Che io sia maledetta se vorrei perderlo per le rendite del più gran re d'Europa. Mi pare di averlo visto stamane, e sono certa che era ieri sera al mio braccio, l'ho baciato. Spero non sia andato a raccontare a mio marito che bacio altri che lui.
PISANIO: Non sarà perduto.
IMOGENE: Lo spero. Va' a cercarlo.
(Esce Pisanio)
CLOTEN: Voi mi avete ingiuriato. "La sua veste più misera"!
IMOGENE: Così ho detto, signore. Se volete farmi un processo, chiamate dei testimoni.
CLOTEN: Ne informerò vostro padre.
IMOGENE: E anche vostra madre. E' la mia protettrice e non penserà, spero, che maggior male di me. Così vi lascio, signore, al massimo del vostro scontento.
(Esce)
CLOTEN: Mi vendicherò. "La sua veste più misera"! Bene.
(Esce)
SCENA QUARTA - Roma. In casa di Filario
(Entrano LEONATO e FILARIO)
LEONATO: Non temete, signore. Vorrei essere tanto sicuro di vincere il re, come sono certo che non le sarà tolto il suo onore.
FILARIO: E che mezzi potrete tentare col re?
LEONATO: Nessuno; se non attendere che il tempo muti, tremare ora che è inverno e desiderare che vengano giorni più caldi. Conto soltanto su queste timide speranze per ripagare le vostre bontà: se quelle mi abbandonano, dovrò morire vostro debitore d'assai.
FILARIO: La vostra bontà e la vostra compagnia mi ripagano ad usura di quanto posso fare. Ormai il vostro re deve aver avuto notizie del grande Augusto. Caio Lucio adempirà compiutamente la sua missione; e credo che il re concederà il tributo e manderà gli arretrati, piuttosto che guardare in faccia i nostri Romani, il cui ricordo è ancor vivo nel loro dolore.
LEONATO: Io credo, benché non sia uomo di Stato e non sia probabile lo diventi, che questo finirà in una guerra; e sentirete dire che le legioni che sono ora in Gallia sono sbarcate nella nostra intrepida Britannia, prima di aver notizia che un solo denaro del tributo sia stato pagato. I nostri concittadini sono uomini più allenati di quando Giulio Cesare sorrideva della loro inesperienza, pur trovando il loro coraggio degno del suo accigliarsi. La loro disciplina, ora unita al coraggio, mostrerà a chi li metta alla prova che son gente capace di progredire nel mondo.
FILARIO: Ecco Jachimo!
(Entra JACHIMO)
LEONATO: I cervi più veloci vi han trasportato in poste sulla terra, e i venti di tutti gli angoli dell'orizzonte hanno baciato le vostre vele per far spedito il vostro vascello.
FILARIO: Benvenuto, messere.
LEONATO: Spero sia la brevità della risposta che vi fu data a farvi ritornare così velocemente.
JACHIMO: La vostra signora è una delle più belle che io abbia vedute.
LEONATO: E anche la migliore, o la sua bellezza potrebbe mettersi alla finestra per adescare i cuori ingannatori e ingannarli a sua volta.
JACHIMO: Ecco lettere per voi.
LEONATO: Con buone nuove, spero.
JACHIMO: E' assai probabile FILARIO: Caio Lucio era alla corte britanna quando c'eravate?
JACHIMO: V'era aspettato, ma non giunto.
LEONATO: Finora tutto va bene. Questa pietra brilla come un tempo? O è forse troppo opaca perché ve ne adorniate?
JACHIMO: Se l'avessi perduta, avrei perduto il suo valore in oro.
Farei un viaggio due volte più lontano per godere un'altra notte dl tanto dolce brevità quanto quella che fu mia in Britannia; perché l'anello è vinto.
LEONATO: La pietra è troppo dura per cedere così.
JACHIMO: Affatto, poiché la vostra sposa è tanto facile.
LEONATO: Signore, non voltate la vostra perdita in scherzo. Spero sappiate che non dobbiamo restare amici.
JACHIMO: Mio buon messere, lo dobbiamo, se state al patto. Se non riportassi a casa la conoscenza della vostra signora, lo concedo, potremmo spingere la discussione più oltre. Ma io qui vi dichiaro di aver vinto il suo onore insieme al vostro anello, e senza aver fatto torto né a voi né a lei, avendo agito secondo il volere d'entrambi.
LEONATO: Se potete provare di averla goduta nel suo letto, la mia mano e il mio anello sono vostri. Altrimenti, l'infame opinione che avete avuta della sua pura virtù vince la mia spada e perde la vostra, o le lascia entrambe senza padrone, per chi le troverà.
JACHIMO: Messere, i particolari, essendo così vicini alla verità com'io saprò darveli, debbono indurvi a credere; e sono pronto a confermarne la forza col giuramento. Ma non dubito che me ne dispenserete, quando troverete di non averne bisogno.
LEONATO: Continuate.
JACHIMO: Prima, la sua stanza da letto; dove, lo confesso, non ho dormito; ma dichiaro che v'ebbi cosa che valeva ben la pena di star sveglio. Era parata di tappezzerie di seta e argento: la storia dell'altera Cleopatra quando incontrò il suo Romano; e il Cidno gonfio oltre le rive per la ressa delle navi o per orgoglio: un lavoro così stupendamente eseguito e tanto ricco che l'opera e la materia si contendevano il primato. Ero meravigliato potesse esser fatto in modo tanto raro e perfetto, perché la vita stessa v'era...
LEONATO: Questo è vero, e avreste potuto sentirlo raccontare qui, da me o da qualcun altro.
JACHIMO: Altri particolari giustificheranno la mia effettiva conoscenza.
LEONATO: Così debbono, o danneggiare il vostro onore.
JACHIMO: Il camino è a mezzogiorno della stanza, e la cappa rappresenta la casta Diana al bagno. Non ho mai veduto figure più parlanti. Lo scultore era come un'altra natura, ma senza parole, e ha sorpassata la natura meno che nel moto e nel respiro.
LEONATO: Anche questa è una cosa che avreste potuto raccogliere da qualche descrizione, poiché molto se ne parla.
JACHIMO: Il soffitto della stanza è adorno di cherubini d'oro; gli alari, che dimenticavo, erano due Cupidi d'argento bendati, ritti su d'un piede e appoggiati con grazia alle loro torce.
LEONATO: E questo è il suo onore! Ammettiamo che abbiate visto tutto questo, e sia data lode alla vostra memoria; ma la descrizione di quello che vi è nella sua camera non basta per farvi vincere la scommessa che avete fatta.
JACHIMO: Allora, se lo potete, (gli mostra il braccialetto) impallidite. Sol che mi si dia licenza di dar aria a questo gioiello:
guardate! E ora lo ripongo. Lo devo sposare con quel vostro diamante; li serberò tutti e due.
LEONATO: Giove! Lasciatemelo osservare ancora. E' proprio quello che le ho lasciato?
JACHIMO: Quello, messere, e ne ringrazio lei. Se lo tolse dal braccio:
la vedo ancora. Il gesto leggiadro vinse il valore del suo dono, e insieme lo fece più prezioso; me lo diede e disse che un tempo l'ebbe caro.
LEONATO: Forse lo staccò per mandarlo a me.
JACHIMO: Così vi scrive, non è vero?
LEONATO: Oh, no, no, no! E' vero. Prendete anche questo. (Gli da l'anello) E' un basilisco per i miei occhi e m'uccide se lo guardo. Si dica dunque che non è virtù dove è bellezza, verità dove è apparenza, e amore dove è un altro uomo. I giuramenti delle donne non le leghino a coloro cui sono fatti più di quanto esse non siano legate all'onor loro, che non è niente. Oh falsa oltre misura!
FILARIO: Siate paziente, signore, e riprendete il vostro anello: non è ancor vinto. E' possibile che l'abbia smarrito; o chi sa che una sua donna, essendo stata corrotta, non glielo abbia rubato?
LEONATO: Verissimo; e così spero egli l'abbia ottenuto. Ridatemi il mio anello. Datemi qualche particolare del suo corpo più convincente di questo; perché questo fu rubato.
JACHIMO: Per Giove, io l'ho avuto dal suo braccio.
LEONATO: Sentite, giura; lo giura per Giove. E' vero, sì, tenete l'anello, è vero, sono certo che non l'avrebbe perduto. Le sue serventi sono tutte giurate e oneste: indotte a rubarlo! e da uno straniero! No, egli l'ha goduta; ecco qui il segno del suo disonore; a questo prezzo ha pagato il nome di puttana. Prendi, ecco la tua ricompensa, e che tutti i diavoli dell'inferno si dividano fra voi!
FILARIO: Messere, state calmo. Questa non è prova forte abbastanza per essere creduta da uno ben persuaso di...
LEONATO: Non ne parlate più. Egli l'ha uccellata.
JACHIMO: Se cercate altre prove, sotto il suo seno, che merita bene d'essere stretto, c'è un segno, giustamente orgoglioso di un sito così delicato. Per la mia vita, l'ho baciato, e mi diede immediato appetito di cibarmi di nuovo, benché fossi sazio. Ricordate quella macchia su di lei?
LEONATO: Sì, e conferma un'altra macchia, tale da riempire l'inferno, fosse pure essa sola.
JACHIMO: Volete sentire di più?
LEONATO: Risparmiatemi la vostra aritmetica; non contate le volte: una è come un milione!
JACHIMO: Giuro...
LEONATO: Non giurate. Se giurate di non averlo fatto, mentite. E io ti ucciderò se neghi d'avermi fatto becco.
JACHIMO: Non negherò nulla.
LEONATO: Oh potessi averla qui per farla a brani! Andrò, e lo farò, a corte, davanti a suo padre. Farò qualche cosa...
(Esce)
FILARIO: La pazienza non lo governa più. Avete vinto. Seguiamolo e sviamo l'ira che ha ora contro se stesso.
JACHIMO: Di tutto cuore.
(Escono)
SCENA QUINTA - Un'altra stanza in casa di Filario
(Entra LEONATO)
LEONATO: Non c'è dunque modo per gli uomini di nascere senza che le donne facciano metà dell'opera? Siamo tutti bastardi; e quel venerabilissimo uomo che chiamavo mio padre era non so dove quando fui stampato. Un falsario coi suoi strumenti mi ha contraffatto: eppure mia madre sembrava la Diana dei suoi tempi, come mia moglie sembra il paragone di questi. O vendetta, vendetta! Essa mi impediva i miei piaceri legittimi e mi pregava spesso di astinenza; e lo faceva con tanto roseo pudore - la sua dolce vista avrebbe ben potuto riscaldare il vecchio Saturno che io la credevo casta come la neve non tocca dal sole. Oh, tutti i diavoli! Questo livido Jachimo, in un'ora, non è vero? o meno al primo incontro? forse non parlò nemmeno, e come un cinghiale impinzato di ghiande, un cinghiale di Germania, ha gridato "Oh!", e l'ha avuta sotto. Non trovò altro ostacolo se non quello che lui s'aspettava e ch'ella doveva guardare da ogni assalto. Potessi scoprire in me quel che mi viene di donna! Perché nell'uomo non v'è impulso che tenda al vizio che, lo affermo, non venga dalla donna. Sua la menzogna che, notatelo, vien dalla donna, sua la lusinga, suo l'inganno; la lussuria e i pensieri immondi son suoi, suoi sua la vendetta. Le ambizioni, la cupidigia, le mutevoli vanità, il disprezzo, le voglie bizzarre, le calunnie, l'incostanza, e tutte le colpe che hanno nome, anzi, che l'inferno conosce, sì, son sue tutte o in parte. No, è giusto, tutte, poiché esse persino nel vizio non sono costanti, che sempre mutano un vizio, vecchio appena di un minuto, per un altro meno vecchio di neppure la metà. Voglio scrivere contro di esse, detestarle, maledirle. Ma vi è maggiore sottigliezza in un vero odio: nel pregare che possano aver quel che desiderano. Gli stessi demoni non le saprebbero meglio tormentare.
(Esce)
ATTO TERZO
CIMBELINO: Ora dite, che vuol da noi Cesare Augusto?
LUCIO: Quando Giulio Cesare - il cui ricordo, vivo tuttora negli occhi degli uomini, per le orecchie e per le lingue sarà eterno tema e racconto - fu qui in Britannia e la conquistò, tuo zio Cassibelano, famoso per le lodi di Cesare e non meno per le sue gesta che le meritavano, promise a Roma per sé e per i suoi successori un tributo annuo di tremila sterline, che negli ultimi tempi non hai offerto.
REGINA: E, per uccidere ogni meraviglia, non lo sarà mai, CLOTEN: Ci saranno molti Cesari, prima di un altro Giulio. La Britannia è un mondo per sé sola, e non vogliamo pagar niente per portare il nostro naso.
REGINA: La possibilità che avevano allora di prendere a noi, la abbiamo ora noi di riprendere. Ricordate, sire mio sovrano, i re vostri antenati, e insieme la formidabilità naturale della vostra isola, che sta come un parco di Nettuno irto e difeso da rocce inaccessibili e acque ruggenti; con sabbie che non sosterranno le navi dei vostri nemici ma le risucchieranno fino alla cima dell'albero maestro. Cesare fece qui una specie di conquista, ma non è qui che s'è vantato: "Venni, vidi, e vinsi". Con vergogna, la prima che mai gli toccasse, fu respinto lontano dalle nostre coste, due volte sconfitto; e i suoi vascelli poveri ignari gingilli! - sui nostri terribili mari si muovevano come gusci d'uovo sulle onde e altrettanto facilmente s'infransero contro i nostri scogli. Per il che, in segno di gioia, il famoso Cassibelano che fu una volta sul punto - oh meretrice Fortuna!
- di battere la spada di Cesare, fece che la città di Lud splendesse di fuochi d'allegrezza, e che i Britanni si gonfiassero di coraggio.
CLOTEN: Suvvia, non ci son più tributi da pagare. Il nostro regno è più forte che non fosse a quel tempo; e, come ho detto, non ci sono più Cesari come quello: altri possono avere il naso ricurvo, ma nessuno il braccio così dritto.
CIMBELINO: Figlio, lasciate finire vostra madre.
CLOTEN: Abbiamo ancora molti tra noi che possono abbrancar forte come Cassibelano; non dico di essere uno di loro, ma ho anch'io una mano.
Perché un tributo? Perché dovremmo pagare un tributo? Se Cesare può nasconderci il sole con una coperta, o mettersi in tasca la luna, gli pagheremo tributo per la luce; altrimenti, signore, non più tributo, ve ne prego.
CIMBELINO: Dovete sapere che fino a quando gli oltraggiosi Romani ci estorsero questo tributo, eravamo liberi. L'ambizione di Cesare, che si gonfiò tanto da allargar quasi i banchi del mondo, contro ogni ragione ci impose questo giogo; e scuoterlo è il dovere di un popolo bellicoso, quale noi stimiamo di essere.
CLOTEN e BARONI: E così siamo.
CIMBELINO: Dite dunque a Cesare che nostro avo fu quel Mulmuzio che dettò le nostre leggi, il cui uso la spada di Cesare ha troppo mutilato. Ristabilirle e metterle in vigore con le forze in nostro potere sarà la nostra bella impresa, anche se Roma sarà per questo irata. Mulmuzio fece le nostre leggi; fu colui che per primo in Britannia cinse la sua fronte con una corona d'oro e si chiamò re.
LUCIO: Mi duole, Cimbelino, di dover dichiarare Cesare Augusto Cesare, il quale ha più re suoi servi che tu non abbia ufficiali nella tua casa - tuo nemico. Sappi dunque questo da me: in nome di Cesare proclamo guerra e rovina contro te. Preparati a una furia irresistibile. Dopo questa sfida, ti ringrazio per me.
CIMBELINO: Sii il benvenuto, Caio. Il tuo Cesare mi ha fatto cavaliere e ho trascorso molta della mia gioventù sotto di lui; e da lui ricevetti onore, che volendomi egli oggi riprendere con la forza, io debbo difendere a oltranza. Ho sicure informazioni che i Pannoni e i Dalmati sono ora in armi per la loro libertà: e il non leggere questo precedente mostrerebbe i Britanni freddi: tali non li troverà Cesare.
LUCIO: Parlino gli eventi.
CLOTEN: Sua Maestà vi dà il benvenuto. Passate in festa con noi un giorno, o due, o più. Se ci verrete a trovar poi con altro intento, ci troverete nella nostra cintura d'acqua salata. Se ce ne caccerete, sarà vostra; se cadrete nell'avventura, i nostri corvi mangeranno meglio a vostre spese; e questa è la conclusione.
LUCIO: Sia pure, signore.
CIMBELINO: Io so il volere del vostro padrone, egli il mio. Quanto al resto: Benvenuto!
(Escono)
SCENA SECONDA - Un altra stanza nel Palazzo
(Entra PISANIO con una lettera)
PISANIO: Come! d'adulterio? E perché non mi scrivete chi è il mostro che l'accusa? Leonato! O padrone! Quale strana infezione è caduta nel tuo orecchio! Quale perfido Italiano, dalla lingua avvelenata come la mano, ha prevalso sulla tua troppo facile credulità? Infedele! No:
essa è punita per la sua fedeltà, e sopporta più da dea che da donna gli assalti che vincerebbero più d'una virtù. Oh padrone! il tuo animo è ora al di sotto del suo quanto lo era la tua fortuna. Come! Io dovrei ucciderla? Per l'amore e la fedeltà e i giuramenti che ho messo ai tuoi ordini? Io, lei? il suo sangue? Se questo è ben servire, non voglio esser contato fra i servitori. Che cosa sembro, da essere creduto così privo di umanità quanto questo delitto vorrebbe? (Legge) "Fallo. La lettera che le ho mandata te ne darà l'occasione per suo stesso comando". Oh foglio dannato! Nero come l'inchiostro che è su di te! Insensibile quisquilia, puoi esser complice di questo atto e restare così vergine d'aspetto? Eccola, viene. Io non so nulla di quanto mi è comandato.
(Entra IMOGENE)
IMOGENE: Ebbene, Pisanio?
PISANIO: Padrona, ecco una lettera del mio signore.
IMOGENE: Chi? Il tuo signore? Il mio signore Leonato! Sapiente davvero sarebbe l'astronomo che conoscesse le stelle come io la sua scrittura:
l'avvenire gli sarebbe aperto. Buoni dèi, fate che il contenuto sappia d'amore, della salute del mio sposo, della sua contentezza (ma non perché siamo separati, anzi, che questo lo addolori: vi sono sofferenze salutari e questa è una di esse poiché corrobora l'amore):
della sua contentezza in tutto fuor che in questo! Col tuo permesso, buona cera; e voi, api, siate benedette, che fate questi suggelli del segreto! Gli amanti e gli uomini legati da pericolose obbligazioni non fanno gli stessi voti: voi mandate in prigione i debitori, ma siete fermaglio alle tavolette del giovane Cupido. Delle buone notizie, numi! (Legge) "La giustizia e l'ira di vostro padre, dovesse egli sorprendermi nei suoi domini, non potranno essermi tanto crudeli che voi, o carissima fra le creature, non possiate rianimarmi col vostro sguardo. Sappiate che sono in Cambria. a Milford-Haven. Seguite in questa circostanza quello che l'amore vi suggerirà. Vi augura ogni felicità colui che rimane fedele ai suoi giuramenti, e il vostro, che vi ama sempre di più, Postumo Leonato". Oh, avere un cavallo alato!
Odi, Pisanio? E' a Milford-Haven; leggi e dimmi quanto è lontano di qui. Se chi ha faccende da poco può andarvi faticando in una settimana, perché non potrò io volarvi in un giorno? Allora, fedele Pisanio, che spasimi quanto me di vedere il tuo padrone... che spasimi... ma non voglio eccedere... non quanto me, eppure spasimi, ma più debolmente; oh, non come me, perché il mio desiderio è di là del di là, dimmi e parla presto - un consigliere d'amore deve riempire i fori dell'udito fino a soffocarne il senso - quanto è lontano questo Milford benedetto. Intanto dimmi come il Galles possa essere tanto felice da possedere un tal porto; ma prima di tutto, come fuggire di qui? E il vuoto che faremo nel tempo, dal nostro andar via di qui al ritorno, come scusarlo? Ma prima, come partire di qui? Perché la scusa dovrebbe nascere prima che ne sia generato il bisogno? Parleremo di questo più tardi. Dimmi, ti prego, quante ventine di miglia potremo fare a cavallo da un'ora all'altra?
PISANIO: Una ventina fra un sole e l'altro, signora, è abbastanza per voi, e fin troppo.
IMOGENE: Come, amico, uno che cavalcasse verso il supplizio non potrebbe andar tanto lento. Ho sentito parlare di scommesse sul cavalcare, dove i cavalli erano più veloci della sabbia che scorre al servizio dell'orologio. Ma queste sono inezie. Va', di' alla mia ancella di fingersi malata, e di dire che va a casa da suo padre. E procurami subito un abito da viaggio, non più ricco di quello che converrebbe alla massaia di un proprietario di terre.
PISANIO: Signora, fareste meglio a riflettere.
IMOGENE: Vedo davanti a me, uomo; qui, là, e dietro a me tutto è in una nebbia che non posso penetrare. Via, ti prego, fa' come ti comando. Non v'è altro da dire: non v'è altra strada possibile se non quella di Milford.
(Escono)
SCENA TERZA - Galles. Un paese montuoso. Una caverna
(Entrano BELARIO, GUIDERIO e ARVIRAGO)
BELARIO: Una bella giornata, non da starsene in casa, se ha il tetto basso come la nostra. Curvatevi, ragazzi: questa porta vi insegna ad adorare il cielo e vi fa inchinare al santo ufficio mattutino. Le porte dei monarchi hanno un arco tanto alto che i giganti possono uscirne orgogliosamente senza togliersi gli empi turbanti, senza dare il buon giorno al sole. Salve, bel cielo! Noi abbiamo casa nella roccia, ma non ti trattiamo così duramente come fanno uomini più alteri.
GUIDERIO: Salve, cielo!
ARVIRAGO: Salve cielo!
BELARIO: Ora ai vostri diporti montanari. Salite su quella collina laggiù! le vostre gambe son giovani, io camminerò per questi ripiani.
Quando dall'alto mi vedrete piccolo come un corvo, considerate che è il luogo che rimpicciolisce, oppure mette in valore. E potrete allora riflettere ai racconti che vi ho fatti, delle corti, dei principi, delle astuzie della guerra, dove un servigio non è un servigio perché è stato reso, ma perché fu ammesso tale. Così considerando possiamo trarre profitto da tutte le cose che vediamo; e spesso, per nostro conforto, troveremo che lo scarabeo chiuso nella sua scaglia è meglio protetto dell'aquila dalle grandi ali. Oh, c'è più nobiltà in questa vita che nel fare inchini per avere ripulse, più ricchezza che nel non far nulla dopo essersi venduto, più fierezza che nel far frusciare sete non pagate: taluni sono riveriti da colui che li fa eleganti eppure non salda il loro debito nel suo registro; non è vita che valga la nostra.
GUIDERIO: Voi parlate per vostra esperienza; noi, poveri implumi, non abbiamo mal volato fuor di vista del nido, né sappiamo quale aria vi sia lontano da casa. Forse questa vita è migliore, se la vita tranquilla è la migliore; più dolce per voi, che ne avete conosciuta una più dura, e ben conveniente alla vostra rigida età. Ma per noi è una cella d'ignoranza, un viaggio fatto da letto, la prigione di un debitore che non osa passarne la soglia.
ARVIRAGO: Di che mai potremo parlare, quando saremo vecchi come voi? quando sentiremo la pioggia e il vento battere il fosco dicembre, di che cosa ragioneremo per trascorrere le gelide ore, chiusi in questa nostra diaccia caverna? Noi non abbiamo veduto nulla, siamo come le bestie: astuti come la volpe alla preda, bellicosi come il lupo per quello che mangiamo, il nostro valore è nel dar la caccia a quello che fugge; della nostra gabbia facciamo una cantoria, come l'uccello prigioniero, e cantiamo liberamente la nostra schiavitù.
BELARIO: Come parlate! Se almeno conosceste le usure della città, e le sentiste per averne fatto esperienza; gli artifici della corte, dalla quale è tanto difficile andarsene quanto restare, dove salire alla cima è certa caduta, o così sdrucciolevole che la paura è penosa quanto la caduta; il mestiere della guerra è una fatica che pare vada soltanto in cerca del pericolo in nome della fama e degli onori, che muore nella ricerca, e ha un epitaffio calunnioso altrettanto di frequente che una menzione di onorevole atto; anzi, molte volte è punita per aver fatto il bene e, quel che è peggio, dove inchinarsi alla rampogna. Oh ragazzi, il mondo può leggere questa storia in me.
Il mio corpo è segnato dalle spade romane, e un tempo la mia fama era fra le più illustri. Cimbelino mi amava; e se si parlava di soldati, il mio nome non era lontano. Ero allora come un albero i cui rami piegavano sotto i frutti; ma in una notte una tempesta o un furto, chiamatelo come volete, fece cedere il mio maturo peso e perfino le foglie e mi lasciò nudo alle intemperie.
GUIDERIO: Favore incerto!
BELARIO: Io non avevo colpa, come spesso vi ho detto, se non che due furfanti, i cui falsi giuramenti prevalsero sul mio onore integro, giurarono a Cimbelino che ero in lega coi Romani; così seguì il mio esilio; e per questi venti anni questa roccia e queste terre sono stati il mio mondo, dove son vissuto in onesta libertà e ho pagato al cielo più debiti pii che in tutta la parte precedente del mio tempo.
Ma su, ai monti! Questo non è linguaggio da cacciatori. Chi colpirà la prima selvaggina sarà il signore della festa; gli altri due lo serviranno; e non avremo paura del veleno che sta a servizio in luoghi di più grande apparenza. Vi ritroverò nelle valli. (Escono Guiderio e Arvirago) Come è difficile soffocare le scintille della natura! questi ragazzi non sospettano nemmeno di essere i figli del re, né Cimbelino sogna che essi siano vivi. Credono di esser miei, e per quanto cresciuti così, umilmente nella caverna ove devon curvarsi, i loro pensieri toccano il tetto dei palazzi e la natura li ispira, nelle cose semplici e volgari, ad agire come principi, al di sopra del costume degli altri. Ecco Polidoro, l'erede di Cimbelino e della Britannia, che il re suo padre chiamò Guiderio: o Giove! quando siedo sul mio sgabello a tre piedi e racconto le imprese guerresche che ho compiute, la sua anima vola nella mia storia. Se io dico: "Così cadde il mio nemico e così gli posi il piede sul collo", subito il sangue principesco affluisce alle sue guance, egli suda, tende i suoi giovani muscoli e si mette in una posa che rifà le mie parole. Il fratello più giovane, Cadwal, una volta Arvirago, con uguale atteggiamento vibra vita nel mio discorso, e, ancor più, mostra il suo pensiero. Senti, la selvaggina è levata! O Cimbelino, il cielo e la mia coscienza sanno che mi esiliasti ingiustamente; perciò rapii questi bambini di tre e due anni, pensando di privarti di successione, come tu mi spogliasti delle mie terre. Eurifile, tu fosti la loro nutrice; essi ti credettero la loro madre, e ogni giorno onorano la tua tomba. Credono me, Belario, che son chiamato Morgan, il loro padre naturale. La selvaggina è levata.
(Esce)
SCENA QUARTA - Campagna presso Milford-Haven
(Entrano PISANIO e IMOGENE)
IMOGENE: Mi hai detto, quando scendemmo da cavallo, che il luogo era vicino. L'impazienza che ebbe mia madre di vedermi la prima volta, non fu tanta quanta la mia adesso. Pisanio, amico, dove è Postumo? Che cosa pensi, che ti fa guardare così fisso? Perché rompe quel sospiro dal tuo profondo? Se si dipingesse uno come te, sarebbe interpretato come l'immagine d'un tormento inesprimibile. Prendi un'espressione meno paurosa prima che la pazzia vinca la mia ferma ragione. Che cosa c'è? Perché mi porgi quella carta con uno sguardo senza pietà? Se son notizie d'estate, annunciale con un sorriso; se sono d'inverno, non devi che conservare la tua espressione. La scrittura di mio marito!
L'Italia dai maledetti veleni l'avrà vinto d'ingegno, ed egli è in un grave momento. Parla, uomo, la tua lingua può scemare un colpo che alla lettura potrebbe anche essermi mortale.
PISANIO: Vi prego, leggete; e mi troverete, disgraziato che sono, l'essere più maltrattato dalla Fortuna.
IMOGENE (legge): "La tua padrona, Pisanio, ha fatto la sgualdrina nel mio letto; ne ho testimonianze che sanguinano in me. Non parlo per deboli congetture, ma per prova forte come il mio dolore, certa come la vendetta che aspetto. Questa parte, Pisanio, devi fare per me, se la tua fedeltà non è stata contaminata dalla sua colpa. Le tue stesse mani le tolgano la vita: te ne darò l'occasione a Milford-Haven, dove la condurrà la mia lettera. Se colà temi di colpire e non mi dai la certezza che la cosa è fatta, sei il mezzano del suo disonore, e sleale a me quanto lei".
PISANIO: Che bisogno ho di snudare la spada? Quel foglio le ha già tagliato la gola. No, è la calunnia, che ha il taglio più affilato di quello della spada, e la lingua più velenosa di tutti i serpenti del Nilo; il cui fiato prende i venti per corsieri e propaga la menzogna in tutti gli angoli del mondo. Re, regine, uomini di Stato, vergini, matrone, perfino i segreti della tomba penetra questa viperina calunnia. Ebbene, signora?
IMOGENE: Infedele al suo letto! Che cos'è essere infedele? Giacervi vegliando e pensando a lui? Piangere d'ora in ora? Se il sonno s'impone alla natura, romperlo con un sogno che mi spaventa per lui, e svegliarmi al mio proprio grido? Questo è tradire il suo letto? Questo?
PISANIO: Ahimè, buona signora!
IMOGENE: Io infedele! Mi sia testimone la tua coscienza, Jachimo; quando lo accusasti d'incontinenza mi apparisti un furfante, ora il tuo aspetto mi appare abbastanza onesto. Qualche svergognata italiana, che ebbe per madre la sua tintura, lo ha sedotto; e io poveretta sono stantìa, una veste fuori moda; e, perché sono troppo ricca per appendermi al muro, debbo essere sdrucita; a pezzi! Oh, i giuramenti degli uomini sono i traditori delle donne! Le migliori apparenze, per questo tuo tradimento, o sposo, sembreranno perfide ipocrisie: non naturali dove crescono, ma portate come un'esca per le donne.
PISANIO: Buona signora, ascoltatemi.
IMOGENE: Uomini fedeli e onesti, quando parlano come il traditore Enea, furono ai suoi tempi creduti traditori; e il pianto di Sinone calunniò molte lacrime sante e tolse pietà a molte vere afflizioni.
Così tu, Postumo, coprirai col tuo fermento tutti gli uomini onesti; i leali e i prodi saranno creduti falsi e spergiuri per questa tua grande colpa. Orsù, amico, sii onesto, fa' quello che ti comanda il tuo padrone. Quando lo vedrai, sii almeno testimone della mia obbedienza. Guarda, io stessa snudo la spada: prendila e colpisci l'asilo innocente del mio amore, il mio cuore. Non temere, è vuoto di tutto fuorché di dolore; il tuo padrone non v'è, lui che ne era veramente il tesoro. Fa' quello che ti comanda, colpisci. Potrai essere valoroso in una causa migliore, ma ora sembri un codardo.
PISANIO: Via da me, arma villana! Tu non dannerai la mia mano.
IMOGENE: Ma io devo morire; e, se non è per tua mano, non sei servo al tuo padrone. Contro l'uccisione di sé v'è un divieto talmente divino che fa vile la mia debole mano. Ecco, qui è il mio cuore (qualche cosa v'è sopra; aspetta, aspetta, non voglio difesa), obbediente come il fodero. Che cosa c'è? Gli scritti del leale Leonato, divenuti eresie?
Via, via, corruttori della mia fede: non farete più da pettorina al mio cuore. Così possono i poveri sciocchi credere a falsi maestri; ma se quelli che son traditi soffrono in modo crudele il tradimento, al traditore spetta dolore più grande. E tu, Postumo, che hai sollevata contro il re mio padre la mia disobbedienza, e mi hai fatto disprezzare gli omaggi di principi miei eguali, ti accorgerai più tardi che non era un atto comune, ma un raro impulso: e mi addoloro a pensare come, quando il tuo appetito sarà smussato da quella della quale oggi ti sazii, ti ripugnerà la memoria di me. Ti prego, fa' presto: l'agnello implora il beccaio; dov'è il tuo coltello? Sei troppo lento al comando del tuo padrone, quando anch'io lo desidero.
PISANIO: Oh graziosa signora, da quando ho ricevuto l'ordine di eseguire questo delitto, non ho chiuso occhio.
IMOGENE: Eseguisci, e poi va' a letto.
PISANIO: Piuttosto mi renderò cieco a forza di vegliare.
IMOGENE: Allora, perché hai accettato? Perché mi hai ingannata per tante miglia con un pretesto? perché questo luogo? il mio atto e il tuo? la fatica dei nostri cavalli? il tempo che ti è opportuno? la corte, dove non penso di tornare, turbata dalla mia assenza? Perché sei andato tanto lontano, per allentar l'arco quando sei alle poste e la cerbiatta designata è davanti a te?
PISANIO: Solo per guadagnar tempo e liberarmi d'una sì trista impresa; per questo ho immaginato un espediente. Buona signora, uditemi con pazienza.
IMOGENE: Dimmi fino a stancare la tua lingua, prosegui. Mi son sentita chiamare sgualdrina e il mio orecchio, così colpito a tradimento, non può ricevere ferita più grande, né sonda per scrutarla. Ma prosegui.
PISANIO: Ebbene, signora, ho pensato che non sareste tornata indietro.
IMOGENE: Secondo ogni apparenza, poiché mi conducevi qui per uccidermi.
PISANIO: No, neppur questo. Ma se sono stato tanto savio quanto onesto, allora il mio disegno riuscirà a buon fine. Non può essere che il mio padrone non sia stato ingannato; qualche furfante, sì, e singolare nell'arte sua, vi ha fatto a tutti e due questa maledetta offesa.
IMOGENE: Qualche cortigiana romana.
PISANIO: No, sulla mia vita. Farò soltanto sapere che siete morta, e gli manderò un segno sanguinoso, perché mi è comandato di far così. La vostra assenza dalla corte ne sarà conferma.
IMOGENE: Ma, buon amico, che farò io intanto? Dove abiterò? Come vivrò? E che conforto avrò nella mia vita, quando sarò morta al mio sposo?
PISANIO: Se volete tornare a corte...
IMOGENE: Non più corte, non più padre, non più contese con quel brutale, per nulla nobile, ma semplice nulla di Cloten. Quel Cloten del quale temevo le assiduità come un assedio.
PISANIO: Se non volete tornare a corte, allora non dovete restare in Britannia.
IMOGENE: Dove allora? Il sole brilla soltanto per la Britannia? Il giorno, la notte son soltanto in Britannia? Nel volume dei mondo la nostra Britannia sembra come una parte, ma fuori di esso; in un grande stagno, un nido di cigno. Pensa, ti prego, che ci sono esseri viventi fuori della Britannia.
PISANIO: Sono molto lieto che pensiate a un altro luogo.
L'ambasciatore Lucio, il Romano, verrà domani a Milford-Haven. Ora, se poteste farvi un animo oscuro come la vostra sorte, e soltanto dissimulare quello che, mostrandosi qual è, non può essere che pericolo per voi, camminereste per una via piacevole e piena di promesse. Sì, fors'anche vicina alla residenza di Postumo, almeno vicina tanto che, se pure le sue azioni non vi saranno visibili, la fama dirà ora per ora esattamente al vostro orecchio ogni suo movimento.
IMOGENE: Oh, aver questo mezzo! Anche se con pericolo del mio pudore, purché non sia mortale, mi avventurerei!
PISANIO: Ebbene, questo è il punto; dovete dimenticare di essere una donna, mutare il comando in obbedienza, la paura e la timidezza - queste ancelle di tutte le donne, o, più veramente, la stessa leggiadra essenza della donna - in un coraggio birichino, pronto alla beffa, lesto a rispondere, impertinente e litigioso come la donnola.
Anzi, dovete dimenticare il raro tesoro delle vostre guance ed esporlo - o crudeltà! ma ahimè, non c'è rimedio! - all'avido contatto di Titano che dà a tutti i suoi baci; e dimenticare i vostri minuziosi e graziosi ornamenti, coi quali facevate gelosa la grande Giunone.
IMOGENE: Orsù, sii breve: vedo il tuo scopo e son già quasi un uomo.
PISANIO: Prima, prendetene l'aspetto. Prevedendo questo ho già pronti, nella mia sacca. giustacuore, cappello, brache, e tutto quello che occorre con essi. Voi dovreste, col loro aiuto, e imitando meglio che potrete un giovane della vostra età, presentarvi al nobile Lucio, chiedergli servizio, dirgli le vostre abilita e questo capirà, se in quella sua testa ha orecchio per la musica. Senza dubbio vi accoglierà con gioia, perché è uomo d'onore e rivestito di molte virtù. Per i vostri mezzi fuori di casa, avete me, ricco; e non mancherò di rifornirvi né al principio, né in seguito.
IMOGENE: Tu sei l'unico conforto col quale gli dèi mi sostentino. Va', te ne prego. Ci sono altre cose da considerare, ma faremo di volta in volta quello che il tempo vorrà. A questa impresa io milito come un soldato, e la sosterrò con un coraggio da principe. Va', ti prego.
PISANIO: Bene, signora. Dobbiamo darci un frettoloso addio, perché, se mancassi, mi si potrebbe sospettare di avervi fatto fuggire dalla morte. Mia nobile signora, ecco una scatola: l'ebbi dalla regina; quello che contiene è prezioso. Se soffrite il mare, se avete delle nausee in terra, una goccia di questo manderà via ogni male. Cercate un po' d'ombra e assumete la vostra virilità. Possano gli dèi guidarvi al meglio!
IMOGENE: Amen, ti ringrazio!
(Escono da parti diverse)
SCENA QUINTA - Una stanza nel Palazzo di Cimbelino
(Entrano CIMBELINO, la REGINA, CLOTEN, LUCIO e Baroni)
CIMBELINO: Vi lascio qui e vi dico addio.
LUCIO: Grazie, regale signore. Il mio imperatore ha scritto: devo partire di qui, e molto mi dispiace di dovervi rapportare nemico del mio padrone.
CIMBELINO: I nostri sudditi, signore, non tollerano il suo giuoco; e in quanto a noi, mostrare meno sovranità di loro, apparirebbe indegno d'un re.
LUCIO: Con ciò, sire, vi domando una scorta per terra fino a Milford- Haven. Signora, auguro ogni gioia a Vostra Grazia, e a voi!
CIMBELINO: Miei signori, a voi è assegnato questo ufficio. Non dimenticate nulla degli onori che gli sono dovuti. Così, addio, nobile Lucio.
LUCIO: La vostra mano, mio signore.
CLOTEN: Ricevetela in amicizia; ma da ora in poi la porto come vostra nemica.
LUCIO: Signore, l'evento deve ancora fare il nome del vincitore.
Addio.
CIMBELINO: Non lasciate il degno Lucio, miei buoni signori, finché non abbia passato la Severn. Sii felice!
(Escono Lucio e i Baroni)
REGINA: Se ne va accigliato; ma è un onore per noi avergliene data la causa.
CLOTEN: Tutto è per il meglio; così sono esauditi i voti dei vostri valorosi Britanni.
CIMBELINO: Lucio ha già scritto all'imperatore quello che accade qui.
Perciò bisogna che i nostri carri e i nostri cavalieri siano pronti in tempo. Le forze che ha già in Gallia saranno presto adunate e di là muoverà guerra contro la Britannia.
REGINA: E' un'impresa che non consente di dormire, ma bisogna condurla rapidamente e con forza.
CIMBELINO: La nostra previsione che sarebbe stato così, ci ha fatto predisporre. Ma, mia dolce regina, dov'è nostra figlia? Non è apparsa davanti al Romano, e non ha fatto oggi il suo dovere con noi. Ci sembra fatta di malvolere più che di obbedienza, lo abbiamo notato.
Chiamatela davanti a noi, ché siamo fin troppo deboli nella nostra tolleranza.
(Esce un Gentiluomo)
REGINA: Regale signore, da quando Postumo è in esilio la sua vita è stata molto ritirata. La cura, mio signore, è il tempo che deve farla.
Supplico Vostra Maestà di trattenersi da parole dure con lei: è una dama così sensibile ai rimproveri che le parole son colpi, e i colpi sono morte per lei.
(Rientra il Gentiluomo)
CIMBELINO: Dov'è, messere? Come può giustificare la sua noncuranza?
GENTILUOMO: Permettete, sire, le sue stanze sono tutte chiuse, e nessuno dà risposta per quanto rumore si faccia.
REGINA: Mio signore, l'ultima volta che sono stata a visitarla, mi pregò di scusarla se stava rinchiusa; costretta a questo dalla sua infermità, doveva trascurare quell'omaggio che giornalmente era suo obbligo di farvi. Questo desiderò che vi dicessi, ma i doveri della nostra gran corte mi hanno fatta biasimevole per la mia memoria.
CIMBELINO: Le sue porte chiuse? Non s'è vista di recente? Voglia il cielo che quello che temo non sia vero!
(Esce)
REGINA: Figlio mio, vi prego, seguite il re.
CLOTEN: Quel suo uomo, Pisanio, il suo vecchio servitore, non lo vedo da due giorni.
REGINA: Andate, seguitelo. (Esce Cloten) Pisanio, tu che sei così devoto a Postumo! Egli ha un mio veleno e magari la sua assenza venisse dall'averlo inghiottito, poiché lo crede preziosissima cosa.
Ma lei, dove è andata? Forse è stata presa dalla disperazione; o il suo fervente amore le ha fatto metter l'ali ed è volata al suo adorato Postumo. E' andata alla morte o al disonore; e i miei fini possono far buon uso dell'una come dell'altro. Se è caduta, dispongo io della corona britanna.
(Rientra CLOTEN)
Ebbene, figlio mio?
CLOTEN: Certamente è fuggita. Andate a calmare il re. E fuori di sé, nessuno osa andargli vicino.
REGINA (a parte): Tanto meglio. Possa questa notte privarlo del giorno che viene.
(Esce)
CLOTEN: Io l'amo e l'odio, perché è bella e regale e possiede ogni cortesia più squisita in maggior grado di qualsiasi dama, di tutte le dame, di tutte le donne. Di ognuna ella ha il meglio e, di tutte formata, val più di tutte: per questo l'amo. Ma sdegnandomi e gettando i suoi favori al vile Postumo scredita il suo giudizio e soffoca ogni sua rara dote: e per questo concluderò con l'odiarla anzi, col vendicarmi di lei. Perché, quando gli sciocchi...
(Entra PISANIO)
Chi è? Come, state complottando, galantuomo? Venite qui, vile mezzano!
Gaglioffo, dov'è la tua signora? In una parola, o altrimenti ti mando dritto ai demoni.
PISANIO: Oh, mio buon signore!
CLOTEN: Dov'è la tua signora? o, per Giove... non ripeterò la domanda.
Inscrutabile briccone, avrò questo segreto del tuo cuore o ti aprirò il cuore per trovarlo. E' con Postumo? quel cumulo di bassezze dal quale non si può cavare un'oncia di valore?
PISANIO: Ahimè, mio signore, come può ella essere con lui? Quando si è notata la sua assenza? Egli è a Roma.
CLOTEN: Dov'è lei, messere? Vieni più vicino, non esitare più, dimmi tutto. Che cos'è accaduto di lei?
PISANIO: Oh mio degnissimo signore...
CLOTEN: Degnissimo gaglioffo! Rivelami dov'è la tua padrona subito, con la prima parola... Basta col "degno signore; parla o il tuo silenzio è sull'istante la tua condanna e la tua morte.
PISANIO: Allora, signore, questo foglio è la storia di quello che so riguardo alla sua fuga.
(Gli dà una lettera)
CLOTEN: Fa' vedere. La cercherò fin sul trono di Augusto.
PISANIO (a parte): O questo, o perire. E' lontana abbastanza. E quello che apprenderà da questa gli potrà far fare un viaggio, non metter lei in pericolo.
CLOTEN: Uhm!
PISANIO (a parte): Scriverò al mio signore che è morta. Oh Imogene, possa tu sicura viaggiare e sicura ritornare.
CLOTEN: Ehi, tu, questa lettera dice la verità?
PISANIO: Signore, così credo.
CLOTEN: E' la scrittura di Postumo, la conosco. Tu canaglia, se invece di essere un gaglioffo volessi servirmi fedelmente, incaricandoti con seria applicazione di fare ogni cosa in cui avrò occasione d'usarti, vale a dire compiere immediatamente e fedelmente tutte le cattive azioni che ti comanderò, ti considererei uomo onesto, e non ti mancherebbe né la mia fortuna per tuo conforto, né il mio voto per farti strada.
PISANIO: Bene, mio buon signore.
CLOTEN: Mi vuoi servire? Poiché sei rimasto attaccato pazientemente e costantemente alla magra fortuna di quello straccione di Postumo, non potrai, secondo la natura della gratitudine, essere che un diligente seguace per me. Vuoi servirmi?
PISANIO: Sì, signore.
CLOTEN: Dammi la mano. Ecco la mia borsa. Hai in tuo possesso qualche vestito del tuo antico padrone?
PISANIO: Ho in casa, mio signore, lo stesso abito che indossava il giorno che si congedò dalla mia signora e padrona.
CLOTEN: Il primo servizio che mi fai: porta qui quell'abito. Sia questo il tuo primo servizio. Va'.
PISANIO: Obbedisco, mio signore.
(Esce)
CLOTEN: Ci incontreremo a Milford-Haven! Ho dimenticato di domandargli una cosa; me ne ricorderò fra poco. E' là, infame Postumo, che ti ucciderò. Vorrei che quegli abiti fossero arrivati. Ella disse una volta - l'amarezza ancora mi rigurgita dal cuore - che aveva più in considerazione lo stesso vestito di Postumo che la mia persona nobile per nascita, con tutto l'ornamento delle mie qualità. Con quell'abito indosso la voglio violare. Prima ucciderò lui, sotto i suoi occhi; allora vedrà il mio valore, che sarà un tormento al suo disprezzo.
Quando lui sarà a terra, finito il mio discorso d'insulto sul suo cadavere e quando la mia lussuria sarà sazia - questo, come ho detto, farò, per tormentarla, con le vesti che ella tanto lodava - a corte a pugni, a casa a calci, la riporterò. Mi ha disprezzato allegramente, e io sarò allegro nella mia vendetta.
(Rientra PISANIO, con i vestiti)
Sono questi i vestiti?
PISANIO: Sì, mio nobile signore.
CLOTEN: Quanto è che è partita per Milford-Haven?
PISANIO: Può appena esserci arrivata.
CLOTEN: Porta questo costume nella mia stanza; questa è la seconda cosa che ti ho comandata. La terza è, che tu devi essere muto volontario sul mio disegno. Sol che tu sia zelante, un giusto avanzamento ti verrà incontro. La mia vendetta è ora a Milford. Vorrei aver l'ali per seguirla! Vieni, sii fedele.
(Esce)
PISANIO: Tu mi comandi la mia perdita, perché essere fedele a te vorrebbe dire esser traditore, e tale non sarò mai, verso il più leale degli uomini. Vai a Milford, ma non ci troverai quella che insegui.
Piovete, piovete su di lei, benedizioni celesti! La fretta di questo insensato sia ostacolata dalla lentezza; la fatica sia la sua ricompensa!
(Esce)
SCENA SESTA - Galles. Davanti alla caverna di Belario
(Entra IMOGENE, vestita da ragazzo)
IMOGENE: Vedo che la vita di un uomo è penosa. Mi sono stancata, e per due notti di seguito ho fatto della terra il mio letto. Sarei malata, se la mia risoluzione non mi fosse cura. Milford, quando Pisanio ti mostrava dalla cima del monte, eri a portata della mia vista. O Giove!
mi pare che gli asili fuggano i disgraziati; quelli, voglio dire, in cui dovrebbero trovare conforto. Due mendicanti mi dissero che non potevo smarrire il cammino. Mentiranno i poveri che hanno le loro afflizioni e sanno che sono una punizione o una prova? Sì, non c'è da meravigliarsi, quando anche i ricchi di rado dicono il vero: mentire nell'abbondanza è più colpevole che mentire per bisogno; e la menzogna è peggiore nei re che nei mendichi. Mio dolce signore, tu sei uno di quei perfidi. Ora che penso a te, la fame è passata; eppure or ora stavo per svenire dal bisogno di cibo. Ma che cosa è questo? Ecco un sentiero che vi conduce: è un selvaggio abituro. Sarà meglio io non chiami; non oso chiamare, eppure la fame, prima di abbattere del tutto la natura, la fa valente. L'abbondanza e la pace generano i codardi la miseria è sempre madre dell'ardimento. Oh, chi è là? Se è un essere civile, parli; se è selvaggio, prenda o presti. Oh! Nessuna risposta?
Allora entrerò. E' meglio che snudi la spada, e se il mio nemico ha tanto timore di una spada quanto me, oserà appena guardarla. Oh cielo, dammi un nemico così!
(Scompare nella caverna)
(Entrano BELARIO, GUIDERIO e ARVIRAGO)
BELARIO: Voi, Polidoro, vi siete mostrato il miglior cacciatore e siete il signore della festa. Cadwal e io saremo il cuoco e il servo:
è il nostro patto. Il sudore dell'operosità seccherebbe e morrebbe, se non fosse il fine a cui s'affaccenda. Venite, il nostro appetito farà saporoso quello che è casalingo: la stanchezza può russare sopra la selce, mentre la pigrizia inquieta trova duro il guanciale di piume.
Ora, la pace sia qui, povera casa che ti custodisci da sola.
GUIDERIO: Sono stanco morto.
ARVIRAGO: Son debole di fatica, ma forte d'appetito.
GUIDERIO: C'è della carne fredda nella caverna; ce ne pasceremo, mentre quello che abbiamo ucciso si cuoce.
BELARIO: Fermi, non entrate. (Guardando nella caverna) Se non mangiasse le nostre provviste, crederei fosse un'apparizione.
GUIDERIO: Che cosa c'è, signore?
BELARIO: Per Giove, un angelo! o una meraviglia terrestre! Guardate:
la divinità non ha più anni d'un ragazzo.
(Rientra IMOGENE)
IMOGENE: Buoni padroni, non fatemi male: prima di entrare qui, ho chiamato, e pensavo mendicare o comprare quello che ho preso. In verità, non ho rubato nulla, né l'avrei fatto anche se avessi trovato l'oro sparso per terra. Ecco denaro per il mio cibo: lo avrei lasciato sulla tavola non appena finito il mio pasto; e sarei partito, pregando per chi mi aveva provvisto.
GUIDERIO: Denaro, giovane?
ARVIRAGO: Piuttosto tutto l'oro e l'argento si trasformino in fango! E non valgono di più se non per quelli che adorano idoli immondi.
IMOGENE: Vedo che siete in collera. Sappiate se mi ucciderete per questa colpa, che sarei morto se non l'avessi commessa.
BELARIO: Dove andate?
IMOGENE: A Milford-Haven.
BELARIO: Qual è il vostro nome?
IMOGENE: Fedele, signore. Ho un parente che parte per l'Italia e s'imbarca a Milford. Mentre andavo da lui, quasi sfinito dalla fame, ho commesso questa colpa.
BELARIO: Vi prego, bel giovane, non prendeteci per villani, e non misurate le nostre buone anime da questo selvaggio luogo in cui viviamo. Ben trovato! E' quasi notte. Avrete pasto migliore prima di partire, e vi ringrazieremo di essere rimasto e di mangiarlo. Ragazzi, dategli il benvenuto.
GUIDERIO: Giovane, se foste una donna, vi farei una corte assidua per essere il vostro onesto sposo; quello che vi prometto, sarei pronto a pagare.
ARVIRAGO: Mi consolerò che è un uomo: lo amerò come un fratello: e il benvenuto che gli darei dopo una lunga assenza lo do a voi. Benvenuto tra noi: state allegro che capitate in mezzo ad amici.
IMOGENE: Fra amici, se fratelli! (A parte) Fosse così, fossero i figli di mio padre! Il mio valore sarebbe allora meno grande, e così più uguale di peso al tuo, Postumo!
BELARIO: Si strugge per qualche dolore.
GUIDERIO: Come vorrei sollevarlo!
ARVIRAGO: Anch'io: qualunque sia, a qualsiasi prezzo e con qualsiasi pericolo! O dèi!
BELARIO: Ascoltate, ragazzi.
(Parla a bassa voce)
IMOGENE: Uomini grandi, che avessero una corte non più vasta di questa caverna, che si servissero da sé, e avessero la virtù suggellata dalla loro coscienza - non curando il tributo delle mutevoli moltitudini, dono da nulla - non potrebbero valer di più di questi fratelli.
Perdonatemi, dèi! Vorrei mutar sesso per essere loro compagno, poiché Leonato è infedele.
BELARIO: Così deve essere. Ragazzi, prepariamo la nostra selvaggina.
Bel giovane, entrate. A digiuno, greve è discorrere. Dopo aver cenato, ti domanderemo con discrezione la tua storia, fin dove vorrai dircela.
GUIDERIO: Andate avanti vi prego.
ARVIRAGO: La notte al gufo e il mattino all'allodola sono meno benvenute.
IMOGENE: Grazie, signore.
ARVIRAGO: Vi prego, andate avanti.
(Escono)
SCENA SETTIMA - Roma. Una pubblica piazza
(Entrano due Senatori e Tribuni)
PRIMO SENATORE: Ecco il tenore del rescritto imperiale: "Poiché i plebei sono ora in azione contro i Pannoni e i Dalmati, e le legioni ora in Gallia sono d'assai troppo deboli per sostenere la guerra contro gli insorti Britanni, incitiamo i patrizi a questa impresa.
Crea Lucio proconsole: e a voi tribuni per questa leva immediata, delega i suoi poteri assoluti". Viva Cesare!
PRIMO TRIBUNO: E' Lucio il generale delle forze?
SECONDO SENATORE: Sì.
PRIMO TRIBUNO: E sta ora in Gallia?
PRIMO SENATORE: Con quelle legioni delle quali ho parlato, e che le vostre leve debbono rinforzare. I termini del vostro incarico vi fissano il numero degli uomini e il tempo della loro partenza.
I TRIBUNI: Faremo il nostro dovere.
(Escono)
ATTO QUARTO
CLOTEN: Sono vicino al luogo dove dovrebbero incontrarsi, se Pisanio mi ha dato indicazioni esatte. Come i suoi vestiti mi vanno a pennello! Perché la sua padrona, che fu fatta dallo stesso che creò il sarto non mi dovrebbe andare a pennello anche lei? Tanto più che, con rispetto parlando, si dice che la donna è come il pennello, si muove a seconda del vento. Costì devo mettermi all'opera. Oso dirlo a me stesso - perché non è vanagloria per un uomo discorrere con lo specchio nella sua stanza - voglio dire, le linee del mio corpo sono ben disegnate quanto quelle del suo; non meno giovane, sono più forte; non al di sotto di lui in fortuna, più favorito dalle circostanze, maggiore di lui per nascita, capace quanto lui nelle imprese di ogni genere e più notevole nei combattimenti singoli: eppure quella insensata l'ama a mio dispetto. Che cosa è la vita mortale! Postumo, la tua testa, che si alza adesso sulle tue spalle, cadrà entro quest'ora; la tua signora violata, i tuoi abiti stracciati a pezzi davanti alla tua faccia: e, fatto tutto questo, a calci a casa da suo padre; che forse potrà essere un po' adirato per il mio trattamento così brusco; ma mia madre, che ha ogni potere sul suo cattivo umore, volgerà ogni cosa a mia lode. Il mio cavallo è ben legato; fuori, spada, e a un'opera crudele! Fortuna mettili nelle mie mani! Questo è proprio ii luogo descrittomi del loro appuntamento e quel compare non osa certo ingannarmi
SCENA SECONDA - Davanti alla caverna di Belario
(Entrano dalla caverna BELARIO, GUIDERIO, ARVIRAGO e IMOGENE)
BELARIO (a Imogene): Non state bene: rimanete qui nella caverna:
torneremo a voi dopo la caccia.
ARVIRAGO (a Imogene): Fratello, resta qui. Non siamo fratelli?
IMOGENE: Così uomo e uomo dovrebbero esserlo; ma argilla differisce da argilla in dignità, sebbene la loro polvere sia uguale. Sto molto male.
GUIDERIO: Andate voi a caccia; io resterò con lui.
IMOGENE: Non sono così malato; eppure non sto bene; ma non sono uno di quei bellimbusti cittadineschi che si credono morti prima d'essere malati. Così, vi prego, lasciatemi; attendete alle vostre occupazioni giornaliere: interrompere le abitudini, è interrompere ogni cosa. Sto male, ma il vostro stare vicini a me non può guarirmi; la compagnia non è conforto a chi non è socievole. Non ho un gran male, se ne posso ragionare. Vi prego, lasciatemi qui senza timore. Non posso sottrarre niente, se non me stesso; e lasciatemi morire, il furto è così piccolo.
GUIDERIO: Ti voglio bene, l'ho detto; qualunque sia la quantità, il peso è quello del bene che voglio a mio padre.
BELARIO: Che cosa? come! come!
ARVIRAGO: Se è peccato dir così, signore, mi aggiogo alla colpa del mio buon fratello. Non so perché io ami questo giovane; e vi ho sentito dire che la ragione dell'amore è senza ragione: con la bara alla porta, se mi domandassero chi deve morire, direi, "mio padre, non questo giovane".
BELARIO (a parte) O nobile carattere! O dignità di natura! Grandezza di razza! I codardi son padri dei codardi e i vili generano i vili: la natura ha farina e crusca, cose spregevoli e cose graziose. Io non sono il loro padre, ma chi può essere questo che compie il miracolo di farsi amare più di me? (Forte) E' la nona ora del mattino.
ARVIRAGO: Addio, fratello.
IMOGENE: Vi auguro buona caccia.
ARVIRAGO: A voi, salute. Signore, ai vostri ordini.
IMOGENE (a parte): Queste son buone creature. Oh dèi, quali menzogne ho udite! I nostri cortigiani dicono che tutto è selvaggio, fuor che a corte. Oh esperienza, tu smentisci la fama! I mari sovrani generano mostri; i poveri tributari, i fiumi, danno invece alla nostra tavola pesci squisiti. Sto ancora male; mi sento affranta. Pisanio, ora proverò la tua medicina.
GUIDERIO: Non ho potuto muoverlo a parlare. Ha detto di essere nobile, ma disgraziato; ingiustamente colpito eppure giusto.
ARVIRAGO: Così ha risposto a me; eppure, ha detto, più tardi potrò saperne di più.
BELARIO: A caccia, a caccia! Vi lasciamo per ora; entrate e riposate.
ARVIRAGO: Non staremo fuori a lungo.
BELARIO: Cercate di non essere malato, perché dovete essere la nostra massaia.
IMOGENE: Ammalato o sano, vi son legato.
BELARIO: E lo sarete sempre. (Imogene scompare nella caverna) Questo giovane, per quanto disgraziato, mostra di aver avuto buoni antenati.
ARVIRAGO: Come canta angelicamente!
GUIDERIO: E la sua squisita cucina! Ha tagliato le nostre radici in forma di lettere e condito i nostri brodi come se Giunone fosse malata, e lui il suo infermiere.
ARVIRAGO: Nobilmente sposa un sorriso con un sospiro, come se il sospiro fosse quel che era dal dispiacere di non essere un sorriso; e il sorriso irridesse il sospiro, di volere volar via da un tempio così divino per mescolarsi ai venti che i marinai insultano.
GUIDERIO: Ho notato che la pena e la pazienza, tutt'e due abbarbicate in lui, intrecciano le loro radici.
ARVIRAGO: Cresci, pazienza! E che la pena, fetido sambuco, districhi la sua radice languente dalla tua florida vita!
BELARIO: Il mattino è alto. Andiamo! Chi è là?
(Entra CLOTEN)
CLOTEN: Non posso trovare quei fuggitivi; quel gaglioffo mi ha ingannato. Sono sfinito.
BELARIO: "Quei fuggitivi"! Non parla di noi? Mi pare di riconoscerlo; è Cloten, il figlio della regina. Temo un'imboscata. Non l'ho veduto per tutti questi anni, eppure so che è lui. Siamo tenuti per fuorilegge. Andiamo!
GUIDERIO: E' solo: voi e mio fratello cercate se ha dei compagni qui vicini. Vi prego, andate; lasciatemi solo con lui.
(Escono Belario e Arvirago)
CLOTEN: Piano! Chi siete che mi fuggite così? Dei gaglioffi di montanari? Ne ho sentito parlare. Che marrano sei tu?
GUIDERIO: Non ho mai fatto cosa più da marrano che rispondere a un "marrano" senza picchiare.
CLOTEN: Sei un brigante, un senza legge, un furfante. Arrenditi, ladro.
GUIDERIO: A chi? A te? Chi sei tu? Non ho un braccio grande quanto il tuo? Un cuore altrettanto grande? Le tue parole, lo concedo, sono più grandi, perché io non porto il mio pugnale in bocca. Dimmi, chi sei, che io debba arrendermi a te?
CLOTEN: Tu vile gaglioffo, non mi conosci dagli abiti?
GUIDERIO: No, furfante, né il tuo sarto, che è tuo nonno, ha fatto quegli abiti, che a quanto pare fanno te.
CLOTEN: Emerito ribaldo, non li ha fatti il mio sarto.
GUIDERIO: Vattene dunque, e ringrazia l'uomo che te li ha dati. Sei proprio uno sciocco, e non c'è gusto a picchiarti.
CLOTEN: Ladro insolente, odi soltanto il mio nome e trema.
GUIDERIO: Qual è il tuo nome?
CLOTEN: Cloten, o furfante.
GUIDERIO: Cloten, o due volte furfante, sarà il tuo nome, ma non riesco a tremare. Fosse Rospo, o Vipera, o Ragno, mi commuoverebbe più facilmente.
CLOTEN: Perché tu abbia più paura, anzi per tua suprema confusione, sappi che sono il figlio della regina.
GUIDERIO: Mi dispiace; il tuo aspetto non è degno della tua nascita.
CLOTEN: Non hai paura?
GUIDERIO: Quelli che rispetto, temo: i saggi; degli sciocchi rido, non li temo.
CLOTEN: Muori dunque ammazzato. Quando ti avrò ucciso di mia propria mano, inseguirò quelli che son fuggiti di qui adesso, e attaccherò le vostre teste alle porte della città dl Lud. Arrenditi, rozzo montanaro.
(Escono combattendo)
(Rientrano BELARIO e ARVIRAGO)
BELARIO: Nessuno qui intorno?
ARVIRAGO: Nessuno al mondo. Vi siete certamente sbagliato su di lui.
BELARIO: Non posso dire; è tanto che non l'ho veduto, ma il tempo non ha in nulla mutato i tratti che il suo volto aveva allora; gli sbalzi nella sua voce, e quegli scoppi di parole, erano come i suoi. Ho la certezza che era proprio Cloten.
ARVIRAGO: Qui li abbiamo lasciati. Auguro a mio fratello di averla avuta buona con lui; dite che è tanto feroce.
BELARIO: Non essendo ancora maturo, voglio dire come uomo, ignorava i ruggenti terrori: in un'età in cui il difetto di giudizio è spesso causa di paura. Ma ecco tuo fratello.
(Rientra GUIDERIO; con la testa di Cloten)
GUIDERIO: Questo Cloten era uno sciocco, una borsa vuota, non v'era denaro in essa. Ercole stesso non avrebbe potuto fargli schizzar fuori il cervello, perché non ne aveva. Eppure, se non avessi fatto questo, lo sciocco avrebbe portato la mia testa come io porto la sua.
BELARIO: Che cosa hai fatto?
GUIDERIO: So benissimo quello che ho fatto: ho tagliato la testa a un certo Cloten, figlio della regina, a quel che diceva. Mi ha chiamato traditore, montanaro; e ha giurato che con la sua sola mano ci avrebbe vinti e avrebbe tolte le nostre teste da dove, grazie agli dèi, fioriscono, per attaccarle alle porte della città di Lud.
BELARIO: Siamo tutti perduti.
GUIDERIO: Perché, degno padre? che cosa abbiamo da perdere se non quello che giurava di toglierci, la vita? La legge non ci protegge:
perché allora dovremmo esser tanto delicati da lasciare che un pezzo di carne arrogante ci minacci, faccia lui solo da giudice e da carnefice, perché noi temiamo la legge? Chi avete visto intorno?
BELARIO: Non abbiamo visto un'anima viva, ma la semplice ragione dice che deve avere qualcuno con sé. Per quanto il suo umore non fosse se non mutamento, sì, e questo da una cosa cattiva a una peggiore, né frenesia, ne assoluta pazzia potrebbero esser giunte all'eccesso di condurlo qui da solo. Benché forse si dica a corte che gente la quale come noi sta qui in una caverna e caccia qui, è fuorilegge, e un giorno potrebbe rafforzarsi; e sentendo questo - è nella sua natura - forse egli s'è irato, e ha giurato di venire a prenderci: pure non è probabile che sia venuto solo: né egli è tanto ardito, né gli altri lo avrebbero permesso. Perciò temiamo con giusta ragione se temiamo che questo corpo abbia una coda, più pericolosa della testa.
ARVIRAGO: Avvenga quello che vorranno gli dèi; comunque, mio fratello ha fatto bene.
BELARIO: Non avevo voglia di cacciare, oggi. La malattia del giovane Fedele mi ha fatto parere ben lunga la via.
GUIDERIO: Con la sua stessa spada, che agitava contro alla mia gola, gli ho tagliato la testa. La getterò nel torrente dietro alla nostra roccia; e vada al mare, e dica ai pesci che è Cloten, figlio della regina. Questo è quello che m'importa.
(Esce)
BELARIO: Temo sarà vendicato. Oh Polidoro; tu non avessi fatto questo!
Per quanto il valore bene ti si addica.
ARVIRAGO: Vorrei averlo fatto io, e che la vendetta colpisse me solo.
Polidoro, io ti amo fraternamente, eppure t'invidio molto per avermi rubata questa impresa. Vorrei che tutte le vendette che forza umana può affrontare venissero fin qui a cercarci e a chiederci conto.
BELARIO: Orbene, è cosa fatta. Oggi non cacceremo più, né cercheremo pericolo dove non c'è profitto. Ti prego, alla nostra grotta; tu e Fedele sarete i cuochi. Io aspetterò finché torni l'impetuoso Polidoro, e lo porterò a pranzo fra poco.
ARVIRAGO: Povero Fedele malato! Andrò volentieri da lui. Per rendergli i suoi colori dissanguerei una parrocchia di simili Cloten e mi loderei della mia carità.
(Esce)
BELARIO: Oh tu dea, tu divina Natura, come ti riveli in questi due regali fanciulli! Sono dolci come gli zefiri che soffiano sotto la violetta senza agitarne il capo profumato; eppure, non appena il loro sangue regale si scalda, sono violenti come il vento più impetuoso, che prende per la cima il pino dei monti e lo fa piegare verso la valle. E' meraviglioso che un invisibile istinto li formi a regalità non appresa, a onore non insegnato, a urbanità in altri non veduta, a valore che cresce in essi selvaggio, ma dà messe come se fosse stato seminato. Eppure mi turba quello che la presenza di Cloten qui può presagire a noi, o quello che la sua morte ci apporterà.
(Rientra GUIDERIO)
GUIDERIO: Dov'è mio fratello? Ho mandato la zucca di Cloten giù per la corrente, ambasciatrice a sua madre; finché non torni, il suo corpo è in ostaggio.
(Musica solenne)
BELARIO: Il mio sapiente istrumento! Ascolta, Polidoro: suona! Ma che ragione ha Cadwal di farlo suonare? Ascolta!
GUIDERIO: E' in casa?
BELARIO: E' andato via di qui or ora.
GUIDERIO: Che cosa vuol dire? Dalla morte della mia carissima madre non ha più risuonato. Tutte le cose solenni dovrebbero rispondere a eventi solenni. Quale sarà la ragione? Le gioie senza motivo e i lamenti per cose da poco, sono allegrie da scimmie e dolori da fanciulli. Cadwal è impazzito?
BELARIO: Guarda, viene e porta nelle sue braccia la ragione terribile di quello per cui lo rimproveriamo.
(Rientra ARVIRAGO portando IMOGENE, come morta nelle sue braccia)
ARVIRAGO: Morto è l'uccellino che ci era tanto caro. Avrei voluto balzare da sedici anni a sessanta e cambiare la mia agile età con le grucce, piuttosto di aver veduto questo.
GUIDERIO: Oh dolcissimo, bellissimo giglio! Mio fratello ti porta assai meno bene di come eri quando fiorivi sul tuo stelo.
BELARIO: Oh malinconia! chi mai poté sondare il tuo fondo, toccare il fango, mostrare la riva dove la tua inerte navicella potesse più facilmente trovar rifugio? Oh creatura benedetta! Giove sa qual uomo saresti potuto divenire; ma io so che sei morto, incomparabile fanciullo, di malinconia. Come l'avete trovato?
ARVIRAGO: Irrigidito, come vedete; così sorridente, come se avesse sentito ridendo una mosca sfiorare il suo sonno, e non il dardo della morte; colla guancia destra posata su un cuscino.
GUIDERIO: Dove?
ARVIRAGO: In terra, con le braccia così incrociate: ho creduto dormisse, e mi son tolto dai piedi le scarpe ferrate, la cui rudezza aveva un'eco troppo sonora ai miei passi.
GUIDERIO: Infatti, è soltanto addormentato. Se è morto, farà della sua fossa un letto; le fate visiteranno la sua tomba; e i vermi non verranno a te.
ARVIRAGO: Con i fiori più belli, fin che duri l'estate e io viva qui, Fedele, profumerò la tua triste tomba. Non ti mancherà il fiore che è simile al tuo volto, la pallida primula; né la campanula azzurrina come le tue vene; no, né i petali della rosa canina, che senza calunniarla, non era più profumata del tuo alito. O il pettirosso, col suo becco misericorde - oh becco, che farai vergognosi quegli eredi arricchiti che lasciano il loro padre sepolto senza un monumento - ti porterebbe tutto questo; sì, e anche, quando non ci saranno più fiori, una pelliccia di musco per proteggere d'inverno la tua salma.
GUIDERIO: Basta, ti prego, e non scherzare con parole femminili su cose tanto gravi. Andiamo a seppellirlo, e non tardiamo con il nostro sgomento quello che è ora il nostro debito. Alla tomba!
ARVIRAGO: Dite, dove lo seppelliremo?
GUIDERIO: Presso la buona Eurifile, nostra madre.
ARVIRAGO: Così sia. E, Polidoro, benché ora le nostre voci abbiano il tono virile, accompagnamolo cantando alla fossa, come già per nostra madre; usiamo le stesse note e le stesse parole, solo che "Eurifile" dovrà essere "Fedele".
GUIDERIO: Cadwal, non posso cantare; piangerò e dirò con te le parole; perché le note di dolore stonate sono peggiori che templi e preti menzogneri.
ARVIRAGO: Allora le diremo.
BELARIO: I grandi dolori, vedo, curano i minori, perché Cloten è del tutto dimenticato. Era figlio di regina, ragazzi, e per quanto venisse come nostro nemico, ricordate che ne fu ripagato. Per quanto umili e potenti, corrompendosi insieme, facciano una sola polvere, la reverenza, quell'angelo del mondo, fa distinzione di posto fra piccoli e grandi. Il nostro nemico era principe, e benché gli abbiate tolta la vita come a nostro nemico, seppellitelo tuttavia come un principe.
GUIDERIO: Vi prego, portatelo qui. Il corpo di Tersite vale quello di Ajace, quando entrambi sono senza vita.
ARVIRAGO: Mentre andrete a prenderlo, diremo il nostro canto.
Incomincia, fratello.
(Esce Belario)
GUIDERIO: No, Cadwal, dobbiamo rivolgere la sua testa verso oriente; mio padre ha una ragione per questo.
ARVIRAGO: E' vero.
GUIDERIO: Vieni dunque, e rimuoviamolo.
ARVIRAGO: Così. Incomincia.
CANZONE
GUIDERIO: Non temer vampa di sole né se furia d'inverno fiede, il suo compito più non duole, tu sei a casa ed hai mercede.
Spazzacamini o giovani d'oro, deve ciascuno divenir cenere.
ARVIRAGO: Non temer l'ira del grande, né di dèspota superbia, non curar vesti o vivande; per te canna è come quercia.
Scettro, scienza, medicina, tutto dee seguir questo, divenir cenere.
GUIDERIO: Non del lampo avrai paura
ARVIRAGO: folgor non ti dà spavento;
GUIDERIO: né calunnia, aspra censura;
ARVIRAGO: finita è gioia e lamento.
A DUE: Tutti gli amanti, i giovani tutti devon seguirti, divenir cenere.
GUIDERIO: Né stregone ti prenda, ARVIRAGO: né magia ti sorprenda, GUIDERIO: né insepolto ti offenda; ARVIRAGO: nessun male ti attenda.
A DUE: Abbi un quieto riposo, e un sepolcro famoso.
(Rientra BELARIO col corpo di Cloten)
GUIDERIO: Abbiamo finito le esequie. Venite mettiamolo giù.
BELARIO: Ecco pochi fiori; ma, sulla mezzanotte, degli altri. Le erbe coperte dalla fredda rugiada notturna sono le più adatte a coprire le tombe. Sopra la terra foste come fiori, e ora siete appassiti; così anche saranno queste erbette che spargiamo su di voi. Ora venite, ritiriamoci e inginocchiamoci. La terra che li ha dati li riprende; i loro piaceri sono passati, e così le loro pene.
(Escono Belario, Guiderio e Arvirago)
IMOGENE (risvegliandosi): Sì, signore, a Milford-Haven; qual è la via?
Grazie. Vicino a quel cespuglio laggiù? Per favore, qual è la distanza? Misericordia! possono essere ancora sei miglia? Ho camminato tutta la notte; in fede mia, voglio stendermi in terra e dormire. Ma piano, che non ci sia compagno di letto. O dèi, e dee! (Vede il corpo di Cloten) Questi fiori sono come i piaceri del mondo; quest'uomo sanguinoso il suo dolore. Spero di sognare, perché a questo modo mi pareva di essere massaia dl una caverna, e cuoca di oneste creature, ma non è cosi. Ero soltanto una saetta fatta di nulla, lanciata verso il nulla, che il cervello fa coi suoi vapori; i nostri stessi occhi sono a volte come i nostri giudizi: ciechi. In verità, tremo ancora di paura, ma se v'è ancora in cielo una stilla di pietà piccola come l'occhio d'uno scricciolo, o temuti iddii, datemene una parte! Il sogno è ancora qui; anche quando mi sveglio, è fuori di me come dentro di me; non immaginato, sentito. Un uomo senza il capo! I vestiti di Postumo! Riconosco la forma della sua gamba, questa è la sua mano; il suo piede da Mercurio, la sua coscia da Marte, i muscoli da Ercole, ma la sua faccia da Giove... Si assassina in cielo? Come? Non c'è più...
Pisanio, tutte le maledizioni che Ecuba in delirio lanciò ai Greci, unite alle mie, siano scagliate su di te! Tu hai cospirato con Cloten, quel dèmone perverso; hai qui scannato il mio sposo. Scrivere e leggere sia d'ora in poi tradimento! Il maledetto Pisanio con le sue lettere false... dannato Pisanio... al più bel vascello del mondo ha troncato l'albero maestro! O Postumo, ahimè! dov'è il tuo capo? dov'è?
Ahi, dov'è? Pisanio poteva ben colpirti al cuore e lasciarti il capo.
Come può essere questo, Pisanio? Sono stati lui e Cloten; la loro scelleraggine e cupidigia han causato questa calamità. Oh, è chiaro, è chiaro! La droga che mi diede, che diceva preziosa e un cordiale per me, non l'ho trovata micidiale ai miei sensi? Questa è una piena conferma: è opera di Pisanio e di Cloten. Oh, da' colore alle mie pallide guance col tuo sangue, che possiamo apparire più orrendi a quelli che per caso ci troveranno. Oh mio signore, mio signore!
(Si getta sul corpo)
(Entrano LUCIO, un Capitano e altri Ufficiali e un Indovino)
CAPITANO: Inoltre, le legioni di stanza in Gallia, secondo il vostro ordine, hanno passato il mare e vi aspettano qui a Milford-Haven con le vostre navi: sono pronte all'azione.
LUCIO: Ma che notizie da Roma?
CAPITANO: Il Senato ha fatto le leve dei cittadini e dei gentiluomini d'Italia, spiriti ardenti che promettono nobile servizio. Vengono sotto il comando del valoroso Jachimo, fratello dei principe di Siena.
LUCIO: Quando li aspettate?
CAPITANO: Col primo vento favorevole.
LUCIO: Questo ardore ci dà buone speranze. Ordinate la rivista delle forze presenti; dite ai capitani di provvedere. Ebbene, signore, che cosa avete sognato di recente sull'esito di questa guerra?
INDOVINO: La scorsa notte gli dèi stessi mi hanno mostrato una visione. Avevo digiunato e pregato perché mi illuminassero. Cosi: ho visto l'uccello di Giove, l'aquila romana, volare dall'umido mezzogiorno a questa parte dell'occidente e qui svanire nei raggi del sole: il che presagisce, a meno che i miei peccati non ingannino la mia divinazione, il successo all'oste romana.
LUCIO: Sogna spesso cosi, e mai il falso. Fermi, oh! che tronco è questo, senza il suo capo? La rovina mostra che un tempo era un degno edificio. Come! un paggio! o morto, o che dorme su di lui? Ma morto piuttosto, perché la natura aborrisce dividere il letto con i defunti, o dormire sui morti. Vediamo il volto del ragazzo.
CAPITANO: E' vivo, mio signore.
LUCIO: Allora ci dirà di questo corpo. Giovane, informaci delle tue avventure, poiché sembra che implorino di essere domandate. Chi è questo di cui ti fai sanguinoso guanciale? O chi fu colui che alterò questa bella immagine da come la nobile natura l'aveva fatta? Che interesse hai in questa triste rovina? Come accadde? Chi è? Chi sei tu?
IMOGENE: Io non sono niente; o se no, esser niente sarebbe meglio.
Questi fu il mio padrone, un molto valoroso e buon Britanno che qui giace ucciso da montanari. Ahimè, non ci sono altri padroni come lui.
Posso errare da oriente a occidente, supplicare servizio, trovarne molti e tutti buoni, servire fedelmente, mai non troverò un simile padrone.
LUCIO: Ahimè, buon giovane! Tu non commuovi meno con i tuoi lamenti che il tuo padrone sanguinante. Dimmi il suo nome, buon amico.
IMOGENE: Riccardo du Champ. (A parte) Se mento, e nel farlo non faccio male, benché gli dèi mi odano, spero mi perdoneranno. Come dite signore?
LUCIO: Il tuo nome?
IMOGENE: Fedele, signore.
LUCIO: Tu provi veramente di esserlo. Il tuo nome ben si addice alla tua fedeltà, la tua fedeltà al tuo nome. Vuoi tentar la tua sorte con me? Non dico che avrai un così buon padrone; ma, sii certo, non sarai meno amato. Lettere dell'imperatore romano mandate con un console a me, non ti otterrebbero un avanzamento più rapido di quello che avrai per tuo merito. Vieni meco.
IMOGENE: Vi seguirò, signore. Ma prima, piaccia agli dèi, voglio nascondere il mio padrone dalle mosche tanto profondo quanto queste povere vanghe possono scavare. E quando avrò ricoperto la sua tomba di foglie selvatiche e d'erbe, e detto su di essa cento preghiere, più che potrò, per due volte, con pianti e sospiri, lasciando il suo servizio, seguirò voi, se vorrete prendermi.
LUCIO: Sì, buon giovane, e ti sarò piuttosto padre che padrone. Amici, il ragazzo ci ha insegnato virili doveri. Cerchiamo la zolla più gentile fiorita di margherite e facciamogli una fossa con le nostre picche e le nostre partigiane. Su, sollevatelo. Ragazzo, ci è raccomandato da te, e avrà la sepoltura che posson dare i soldati.
Coraggio, asciugati gli occhi. Vi son cadute che sono il mezzo per farci rialzare più felici.
(Escono)
SCENA TERZA - Una stanza nel Palazzo di Cimbelino
(Entrano CIMBELINO, Baroni, PISANIO, e Gentiluomini del seguito)
CIMBELINO: Ritornate, e ditemi come ella sta. (Esce un Gentiluomo) Una febbre causata dall'assenza di suo figlio, un delirio che mette la sua vita in pericolo. Cielo, come in un sol punto mi colpisci profondamente! Imogene, la mia più grande consolazione, partita; la mia regina su un letto senza speranza e in un momento che terribili guerre mi minacciano; suo figlio, così necessario in questo momento, partito. Sono colpito oltre ogni speranza di conforto. Quanto a te, compare, che certo devi sapere della sua partenza e fai così l'ignorante, ti strapperemo le parole con una crudele tortura.
PISANIO: Sire, la mia vita è vostra, e umilmente la metto in vostro potere. Ma in quanto alla mia padrona, io non so dove sia, perché sia partita, né quando si proponga di ritornare. Supplico Vostra Altezza di tenermi per suo servitore leale.
PRIMO BARONE: Mio buon sovrano, il giorno in cui ella disparve, egli era qui. Oso farmi garante che dice il vero e che adempirà fedelmente tutti i suoi doveri di suddito. In quanto a Cloten, non manca diligenza nel ricercarlo, e sarà senza dubbio ritrovato.
CIMBELINO: Il momento è difficile. (A Pisanio) Vi lasceremo libero per ora; ma i nostri sospetti su di voi rimangono.
PRIMO BARONE: Con licenza di Vostra Maestà, le legioni romane, tutte raccolte dalla Gallia, sono sbarcate sulle vostre coste, con un rinforzo di gentiluomini romani, inviati dal Senato.
CIMBELINO: Ora ci vorrebbero i consigli di mio figlio e della regina!
Sono sopraffatto dagli eventi.
PRIMO BARONE: Mio buon sovrano, le forze che avete pronte possono affrontare non meno di queste che voi udite. Altre ne vengano: siete pronto anche a queste. Non manca che mettere in moto quelle forze che sono impazienti di marciare.
CIMBELINO: Vi ringrazio. Ritiriamoci, e facciamo fronte al tempo che ci viene incontro. Noi non temiamo che quello che viene dall'Italia ci molesti, ma ci affliggono le disgrazie di qui. Andiamo!
(Escono tutti fuorché Pisanio)
PISANIO: Non ho avuto lettera dal mio padrone dopo che gli scrissi come Imogene fosse stata uccisa: è strano. Né ho avuto notizie dalla mia signora, che promise di darmene spesso; e neppure so quello che è accaduto a Cloten; sicché resto perplesso in ogni cosa. Il cielo dovrà ancora agire. Quando sono menzognero, sono onesto; non essendo fedele, son fedele. La guerra presente mostrerà che amo il mio paese, e anche il re dovrà accorgersene, o vi cadrò. Gli altri dubbi, sarà il tempo a chiarirli: la fortuna conduce in porto più di una nave senza pilota.
(Esce)
SCENA QUARTA - Galles. Davanti alla caverna di Belario
(Entrano BELARIO, GUIDERIO e ARVIRAGO)
GUIDERIO: Il rumore è tutto intorno a noi.
BELARIO: Allontaniamocene.
ARVIRAGO: E qual piacere troviamo nella vita, signore, da sottrarla all'azione e all'avventura?
GUIDERIO: Sì, che speranza abbiamo nel nasconderci? In questo modo, i Romani dovranno ucciderci come Britanni: o tenerci come barbari e innaturali ribelli finché si potranno servire di noi, e poi ucciderci.
BELARIO: Figli, andremo più in alto sulle montagne per essere sicuri.
E' impossibile unirci al partito del re. La recente morte di Cloten, poiché non siamo conosciuti, né arruolati nelle bande, può costringerci a render conto di dove abbiamo vissuto; e strapparci quello che abbiamo fatto, e la risposta sarebbe per noi morte, prolungata dalla tortura.
GUIDERIO: Questo, signore, è un dubbio per niente degno di voi in questo tempo; e non ci soddisfa.
ARVIRAGO: Non è probabile che quando sentiranno nitrire i cavalli dei Romani, vedranno il fuoco dei loro accampamenti, avranno gli occhi e le orecchie insieme occupati da cose tanto importanti, vogliano perdere il loro tempo a far caso di noi, a sapere di dove siamo.
BELARIO: Oh, io sono conosciuto da molti dell'esercito; e molti anni, per quanto allora Cloten fosse giovane, avete visto, non lo cancellarono dal mio ricordo. E inoltre, il re non ha meritato né i miei servigi né il vostro amore; voi che nel mio esilio vi trovate a mancare di educazione, condannati a questa vita dura, anzi senza speranza di avere le grazie promesse a voi dalla culla per essere sempre soltanto quelli che s'abbronzano nella calda estate e gli schiavi tremanti dell'inverno.
GUIDERIO: Meglio cessare di vivere che vivere così. Vi prego, signore, andiamo all'esercito: io e mio fratello non siamo conosciuti; voi siete così fuori del loro pensiero e tanto mutato dagli anni che non potete essere sospettato.
ARVIRAGO: Per questo sole che splende, io vi andrò. Qual vergogna per me non aver mai visto un uomo morire! Altro sangue non ho visto se non quello delle lepri paurose, delle capre in calore e della selvaggina!
Non ho mai cavalcato un cavallo, se non quello che solo conobbe per cavaliere me, che mai portai sperone o ferro ai miei talloni! Mi vergogno di guardare il santo sole, di godere i suoi raggi benedetti, restando così a lungo un povero sconosciuto.
GUIDERIO: Per il cielo, andrò. Se mi benedirete, signore, e mi darete il permesso, avrò miglior cura di me; ma se non volete, il rischio della mia disobbedienza ricada su di me, per mano dei Romani!
ARVIRAGO: Così dico anch'io. Amen.
BELARIO: Io non ho ragione, poiché voi fate tanto poco conto della vostra vita, di aver maggior cura della mia in rovina. Son dei vostri, ragazzi! Se la sorte vorrà che moriate nelle guerre del vostro paese, quello è anche il mio letto, ragazzi, e in esso giacerò. Avanti, avanti. (A parte) Il tempo par lungo; il loro sangue è umiliato fin che non sgorghi, e mostri che sono nati principi.
(Escono)
ATTO QUINTO
LEONATO: Sì, lino insanguinato, ti conserverò poiché fui io a volere che tu prendessi questo colore. Voi mariti, se ognuno di voi seguisse questa via, quanti dovrebbero uccidere spose assai migliori di loro per aver deviato un poco appena! Oh Pisanio! Ogni buon servo non eseguisce tutti gli ordini; non ha obbligo se non per quelli giusti.
Oh dèi, se aveste preso vendetta delle mie colpe, non sarei vissuto per istigare a questa; così avreste salvato la nobile Imogene al pentimento, e percosso me miserabile, più degno della vostra vendetta.
Ma ahimè, voi strappate alcuni di qui per piccole colpe, per amor loro, perché non cadano più; ad alcuni permettete di aggiungere delitti a delitti sempre peggiori, e fate che ne abbiano terrore, per loro profitto. Ma Imogene è cosa vostra: sia fatta la vostra miglior volontà, e fatemi la grazia di rendermi ubbidiente! Son portato qui, fra i nobili d'Italia e a combattere contro il regno della mia donna.
E' abbastanza, Britannia, che io abbia uccisa la tua signora, pace! Io non ti darò ferita. Dunque, buoni dèi, udite con pazienza la mia risoluzione: mi spoglierò di queste vesti italiane, e mi vestirò da contadino britanno; così combatterò contro la parte con la quale sono venuto; così morirò per te, Imogene, che fai della mia vita, a ogni respiro, una morte. E così, ignoto, non rimpianto né odiato, mi consacrerò a sfidare il pericolo. Voglio che gli uomini riconoscano in me più valore che i miei vestiti non ne dimostrino. Dèi, mettete in me la forza dei Leonati! A svergognare i modi del mondo, voglio incominciare l'usanza: meno di fuori, e più di dentro.
(Esce)
SCENA SECONDA - Campo di battaglia tra l'accampamento britanno e il romano
(Entrano, da un lato, LUCIO, JACHIMO, IMOGENE e l'Esercito romano; dall'altro, l'Esercito britanno. POSTUMO LEONATO segue, vestito da povero soldato. Avanzano e escono. Poi entrano combattendo JACHIMO e LEONATO, che insegue e disarma JACHIMO, e poi lo abbandona)
JACHIMO: Il peso del delitto nel mio petto mi toglie il valore. Ho calunniato una signora, la principessa di questo paese, e l'aria che vi spira per vendetta mi fiacca; o avrebbe potuto questo villano, vero schiavo della natura, superarmi nel mio stesso mestiere? La cavalleria e gli onori, portati come io li porto, non son che titoli di derisione. Se quella tua nobiltà, o Britannia, avanza tanto questo villano come egli sorpassa i nostri signori, il divario è che noi siamo appena uomini, e voi siete dèi.
(Esce) (La battaglia continua; i Britanni fuggono; CIMBELINO è preso. Poi entrano, a liberarlo BELARIO, GUIDERIO e ARVIRAGO)
BELARIO: Fermi, fermi! Abbiamo il vantaggio del terreno; la gola è guardata. Niente ci può sconfiggere, se non la viltà della nostra paura.
GUIDERIO e ARVIRAGO: Fermi, fermi, e combattete!
(Rientra LEONATO e aiuta i Britanni; liberano CIMBELINO e escono. Poi rientrano LUCIO, JACHIMO e IMOGENE)
LUCIO: Lascia l'esercito, ragazzo, e salvati; perché gli amici uccidono gli amici, e il disordine è tale come se la guerra fosse bendata.
JACHIMO: Sono le loro truppe fresche.
LUCIO: Ecco una giornata stranamente mutata; o rinnoviamo in tempo l'attacco, o fuggiamo.
(Escono)
SCENA TERZA - Un'altra parte del campo di battaglia
(Entrano LEONATO e un Barone britanno)
BARONE: Vieni dal luogo dove hanno fatto resistenza?
LEONATO: Sì, ma voi, a quanto pare, venite dai fuggiaschi .
BARONE: Sì.
LEONATO: Non siete da biasimare, signore, perché tutto era perso se il cielo non avesse combattuto: il re stesso privato delle sue ali, l'esercito rotto, non si vedeva che il dorso dei Britanni, tutti in fuga per una stretta gola. Il nemico, pieno di coraggio, con la lingua fuori dal gran massacrare, aveva più lavoro che braccia per compierlo; colpiva questi mortalmente, altri feriva appena, altri cadevano soltanto per paura: così che lo stretto passaggio era sbarrato da morti colpiti alle spalle, e da codardi che vivevano per morire con più lunga vergogna.
BARONE: Dov'era questa gola?
LEONATO: Vicina al campo di battaglia, infossata e chiusa da spalti erbosi, tale da dar vantaggio a un vecchio soldato, un onest'uomo, ve lo garantisco, che ha meritato di essere mantenuto tanti anni quanti hanno reso bianca la sua barba, poiché ha fatto questo per il suo paese. Attraverso la gola, egli, con due adolescenti - ragazzi più adatti a correre al giuoco delle barriere che a compiere un simile massacro; coi volti adatti alle maschere, o meglio più freschi di quelli che per protezione o pudore si coprono così - tennero duro al passo, e gridavano a quelli che fuggivano: "I nostri cervi britanni muoiono fuggendo, non i nostri uomini! Alle tenebre voleranno le anime di quelli che indietreggiano. Fermi: o noi saremo Romani, e daremo morte da bestie a voi che da bestie cercate di sfuggirla e potreste salvarvi solo voltandovi e guardando fieramente; fermi, fermi!".
Questi tre, tremila per ardire, e altrettanti per l'azione, perché tre che combattono sono falange, se tutti gli altri non fanno nulla ,con questa parola: "Fermi, fermi!", favoriti dal luogo, e più ancora dal prestigio del loro coraggio che avrebbe potuto mutare una conocchia in una lancia e indorar volti pallidi, risvegliarono in parte il senso d'onore, in parte il coraggio; così che alcuni che soltanto l'esempio aveva mutato in vili - oh, peccato, in guerra, da dannarsi in chi primo comincia! - ricominciarono a essere quelli che erano stati e a mostrare i denti come leoni davanti alle picche dei cacciatori. Allora cominciò negli assalitori un arresto, una ritirata, e presto 1a rotta, una fitta confusione; e subito fuggono come polli per la via sulla quale calavano come aquile, rifanno da schiavi i passi che avevano fatto da vincitori. E ora i nostri vili - come i rimasugli nelle dure traversate - diventano il sostentamento in tempo di carestia. Poiché trovano aperta la porta dietro i cuori indifesi, oh cielo, come feriscono! Alcuni i già morti, altri i morenti, alcuni i loro amici trascinati dalla prima ondata: dieci cacciati da uno sono ora quelli che ne scannano venti; quelli che erano pronti a morire senza resistere son diventati il terrore mortale del campo di battaglia.
BARONE: E' stato uno strano caso: una stretta gola, un vecchio e due ragazzi!
LEONATO: No, non vi stupite. Voi siete fatto per meravigliarvi delle cose che udite più che per compierne alcuna. Volete far delle rime su questo e comporre una pasquinata? Eccone una:
Due giovani, un vecchione rimbambito, un sentiero, al Britanno vittoria, al Roman morte diero.
BARONE: Oh, non vi adirate, messere.
LEONATO: Ma no: perché? Di colui che il nemico affrontare non osa io sarò amico; presto, se fa quello che è nato a fare, anche la mia amicizia ha da evitare Mi fate far delle rime.
BARONE: Addio, siete adirato.
(Esce)
LEONATO: Scappa ancora? Questo è un barone? O misera nobiltà! Essere sul campo e domandare "quali novelle?" a me! Quanti oggi avrebbero dato l'onore per salvare la loro carcassa! Han voltato il tallone per questo, eppure son morti lo stesso! Io, reso magato dai miei mali, non potevo trovare la morte dove la sentivo gemere, né sentirla dove colpiva. E' strano che essendo un brutto mostro si nasconda nelle fresche coppe, nei letti morbidi, nelle dolci parole; o che vi trovi più ministri che tra noi, che snudiamo i suoi coltelli nella guerra.
Bene, la troverò. Poiché ora favorisce i Britanni, non sarò più Britanno e tornerò di nuovo alla parte con la quale sono venuto. Non combatterò più, e mi abbandonerò al più vile marrano che mi tocchi una volta la spalla. Grande è la strage qui fatta dai Romani; grande sarà la vendetta che devono prendersi i Britanni. Per me, il mio riscatto è la morte. Da una parte o dall'altra vengo a esalare il mio respiro, poiché non lo voglio più conservare qui né riportarlo indietro, ma la voglio finire in qualche modo, per Imogene.
(Entrano due Capitani britanni e Soldati)
PRIMO CAPITANO: Sia lode al gran Giove! Lucio è preso. Si dice che il vecchio e i suoi figli fossero angeli.
SECONDO CAPITANO: Ce n'era un quarto, vestito da contadino, che andò con essi incontro al nemico.
PRIMO CAPITANO: Così si dice; ma nessuno di essi si può trovare. Fermo! Chi è là?
LEONATO: Un Romano, che non sarebbe qui esausto se altri lo avessero secondato.
SECONDO CAPITANO: Prendetelo; è un cane! Non una gamba romana tornerà a raccontare quali corvi li hanno beccati qui. Si vanta dei suoi servigi come se fosse un personaggio importante. Portatelo dal re.
(Entrano CIMBELINO, BELARIO, GUIDERIO, ARVIRAGO, PISANIO e Prigionieri romani. I Capitani presentano LEONATO a CIMBELINO che lo consegna a un Carceriere; poi escono tutti)
SCENA QUARTA - Una prigione britanna
(Entrano LEONATO e due Carcerieri)
PRIMO CARCERIERE: Adesso che siete nelle pastoie non vi ruberanno.
Brucate, se trovate pastura.
SECONDO CARCERIERE: Sì, ovvero appetito.
(Escono i Carcerieri)
LEONATO: Sii benvenuta, schiavitù, poiché credo, sei la via verso la libertà! Eppure sto meglio di un malato di gotta, poiché egli vorrebbe piuttosto lamentarsi così in perpetuo che essere liberato da quel medico infallibile, la morte, che è la chiave per aprire questi ceppi.
Coscienza mia, tu sei nei ferri più che le mie caviglie e i miei polsi. Voi, buoni iddii, datemi l'ordigno del pentimento per aprire questi serrami; e allora, libero per sempre! Basta che io sia pentito?
Così i fanciulli placano il loro padre temporale; gli dèi sono più ricchi di misericordia. Se debbo pentirmi, non posso farlo meglio che nelle manette, più desiderate che imposte; se debbo espiare per ottenere la mia libertà non esigete da me minor sacrificio che tutto me stesso. So che siete più clementi che non i vili uomini, che dai loro debitori falliti prendono un terzo, un sesto, un decimo, e li lasciano di nuovo prosperare con quello che rimetton loro. Io non desidero questo: per la cara vita di Imogene, prendete la mia; e, benché non valga tanto, è pure una vita; voi la coniaste. Fra uomo e uomo non vengon pesate tutte le monete; anche se sono leggere, prendono il prezzo dall'effigie: così voi dovreste far con la mia, che porta la vostra. E così, potenze celesti, se accettate questo pagamento, prendete questa vita, e annullate questi miei freddi vincoli. O Imogene! voglio parlarti in silenzio.
(S'addormenta)
(Musica solenne. Entra, come in un'apparizione, SICILIO LEONATO, padre di Postumo, vecchio vestito da guerriero, conducendo per mano una vecchia matrona, sua moglie e madre di Postumo, con musica. Dopo altra musica, seguono i due giovani LEONATI, fratelli di Postumo, con le ferite per le quali morirono in guerra. Circondano Postumo, mentre giace addormentato)
SICILIO: Non sfogar più, signore del tuono, sulle mosche mortali il tuo sdegno.
Rissa con Marte, grida con Giuno che i tuoi adultèri all'ire sue fa segno.
Altro che bene ha fatto il misero mio figlio, di cui non vidi la figura?
Morii mentr'egli ancora entro il grembo attendeva la legge di natura; suo padre allora - ché padre ti dicono degli orfani le genti - esser dovevi, e fargli schermo a quanti ci affliggono tormenti.
MADRE: Lucina non mi diè il suo aiuto, ma mi prese ne' miei dolori; da me reciso, Postumo venne in lacrime tra i suoi persecutori, oggetto di pietà!
SICILIO: Madre natura a immagine degli avi nobil stampo gli diede, che il mondo lo lodò siccome degno del gran Sicilio erede.
PRIMO FRATELLO: Quando maturo fu all'età virile, chi dirsi a lui maggiore poteva in tutta la Britannia?
Qual frutto era migliore agli occhi d'Imogene, la più atta a pregiarne il valore?
MADRE: Perché le nozze gli furon dileggio, ché n'ebbe esilio, e de' Leonati venne espulso dal seggio, e strappato alla sua diletta, la dolce Imogene?
SICILIO: Perché soffriste che Jachimo, vile d'Italia insetto, il suo più nobil cuore e il cervello macchiasse di van sospetto, e ch'egli fosse la beffa e lo scherno di quell'essere abietto?
SECONDO FRATELLO: Perciò da più calme sedi venimmo noi fratelli, e i genitori, che pugnando pel nostro paese siam caduti da prodi, la fedeltà, e i diritti di Tenanzio serbando con puri cuori.
PRIMO FRATELLO: Con eguale ardimento anche Postumo per Cimbelino ha pugnato.
Perché allor, re dei numi, Giove, hai sì a lungo tardato il premio dovuto al suo merito, ma l'hai in dolor mutato?
SICILIO: Apri la cristallina finestra; guarda; perché pur vuoi affligger de' tuoi possenti oltraggi una stirpe d'eroi?
MADRE: Poiché, Giove, nostro figlio è buono, liberalo dai tormenti suoi.
SICILIO: Guarda dal marmoreo palazzo; soccorri; o noi, povere ombre, urleremo contro il tuo nume, al sinedrio degli altri dèi supremo.
SECONDO FRATELLO: Soccorri, Giove, o il tuo giudizio Farem d'effetto scemo.
(GIOVE scende con tuoni e lampi, su un'aquila. Lancia una folgore. Gli Spiriti cadono in ginocchio)
GIOVE: Non più, misere larve delle basse regioni, turbate il nostro orecchio. Silenzio! Come osate accusare il Tonante, che con folgori e tuoni dal cielo sottomette le terre ribellate?
Povere ombre d'Eliso, via di qui; abbiate pace sopra le vostre aiuole che sono sempre in fiore; non v'angustin più i casi a cui l'uomo soggiace; ché non son vostra cura, ma del vostro Signore.
Chi più amo, castigo, per fare che il mio dono più atteso, più sia grato. Orsù, statevi quieti.
Vostro figlio umiliato sollevo al nostro trono:
finiscon le sue prove, tornano i giorni lieti.
Regnò sulla sua culla la stella del Tonante; nel suo tempio fu sposo. Levatevi e svanite.
Di madonna Imogene sarà sposo ed amante, più felice per tante sofferenze patite.
Mettetegli sul cuore questo scritto che segna tutte le sue fortune. E voi, non più frastuono per dir l'impazienza vostra, o la mia si sdegna.
Aquila, sali ormai al cristallin mio trono.
(Sale)
SICILIO: Venne col tuono; il fiato suo celeste di solfo aveva odor; l'aquila santa calò, quasi a ghermirci; più de' nostri beati campi è dolce la sua ascesa; l'ali eterne l'uccel regale mondasi e aguzza il rostro, come quando è lieto il suo dio.
TUTTI: Giove, grazie ti sian rese.
SICILIO: Si chiude il suol marmoreo. Al suo raggiante tetto Egli torna. Il suo favor cercando obbediamo all'augusto suo comando.
(Gli Spiriti svaniscono)
LEONATO (svegliandosi): O sonno, sei stato un avo e hai generato a me un padre e hai creato una madre e due fratelli; ma, o derisione, sono fuggiti ! Se ne sono andati di qui appena nati, e così sono sveglio.
Gli infelici che sono sottomessi al favore dei grandi, sognano come me, si risvegliano, e non trovano nulla. Ma ahimè, mi smarrisco. Molti nemmeno sognano di trovarli, né lo meritano, eppure sono colmi di favori; così io, che ho avuto questa sorte dorata, e non so perché.
Quali fate abitano questo luogo? Un libro? Oh raro libro! Non essere come nel nostro bizzarro mondo una veste più nobile di quello che ricopri; il tuo aspetto, per essere ben diverso dai nostri cortigiani, mantenga quello che promette. (Legge) "Quando un leoncello, ignoto a se stesso, troverà senza cercarlo un dolce soffio d'aria che lo abbraccerà; e quando i rami di un cedro maestoso, tagliati e morti da molti anni, rivivranno per unirsi al vecchio tronco e di nuovo germoglieranno; allora finiranno le miserie di Postumo, la Britannia sarà felice e fiorirà in pace e abbondanza". E' ancora un sogno, o sono cose come quelle che i pazzi proferiscono e non ragionano: o l'una cosa e l'altra, oppure niente. O un discorso dissennato, o un discorso che il nostro senno non può sciogliere. Qualunque cosa sia, I'opera della mia vita gli assomiglia, e lo conserverò, non fosse che per la somiglianza.
(Rientra il Primo Carceriere)
PRIMO CARCERIERE: Suvvia, signore, siete pronto a morire?
LEONATO: Piuttosto troppo cotto; pronto da lungo tempo.
PRIMO CARCERIERE: Si tratta della forca, signore; se siete pronto per quella, siete cotto a punto.
LEONATO: Così, se riuscirò un buon pasto per gli spettatori, il piatto varrà il suo scotto.
PRIMO CARCERIERE: Un conto caro per voi, messere. Ma il conforto è che non dovrete far più pagamenti, temere più conti di taverna, che sono spesso la tristezza del partire, così come procurarono allegria:
entrate debole per bisogno di cibo, ve ne andate barcollando per aver bevuto troppo; dolente per aver troppo pagato, e dolente di aver troppo ricevuto. La borsa e il cervello son vuoti tutti e due; il cervello è più peso per essere stato troppo leggero, la borsa troppo leggera per essere stata vuotata del suo peso. Oh, sarete libero adesso da questa contraddizione. Oh, la carità di un soldo di corda!
Vi libera di mille debiti in un batter d'occhio, non avete altro dare e avere che con lei, vi sbarazzerete del passato, del presente e dell'avvenire: il vostro collo, signore, è penna, registro, e gettoni; e segue la quietanza.
LEONATO: Son più contento io di morire, che tu di vivere.
PRIMO CARCERIERE: Davvero, messere, chi dorme non sente il mal di denti. Ma un uomo che dovesse dormire il vostro sonno, col boia che lo aiuta a mettersi a letto, credo vorrebbe mutar posto coll'aiutante; perché vedete, signore, non sapete che strada state per prendere.
LEONATO: Sì che lo so, compare.
PRIMO CARCERIERE: Allora per voi la morte ha gli occhi in capo; non l'ho mai veduta dipinta così. Dovete esser guidato da uno che pretende di saperlo, o pretendete di sapere quello che son sicuro non sapete, o azzardate una verifica a vostro pericolo. E come finirà il viaggio, credo non tornerete mai a raccontarlo a nessuno.
LEONATO: Ti dico, compare, a nessuno mancan gli occhi per dirigersi nella via che sto per fare, meno a quelli che li chiudono e non se ne vogliono servire.
PRIMO CARCERIERE: Che enorme scherzo è questo, che un uomo abbia il miglior uso degli occhi per vedere la via della cecità! Sono sicuro che la forca è la via del chiuder gli occhi.
(Entra un Messaggero)
MESSAGGERO: Togliete via le sue manette; portate il vostro prigioniero dal re.
LEONATO: Tu porti buone nuove; son chiamato per essere liberato.
PRIMO CARCERIERE: Allora sarò impiccato io.
LEONATO: Allora sarai più libero che da carceriere; per i morti non ci sono catenacci.
(Escono Leonato e il Messaggero)
PRIMO CARCERIERE: A meno di trovare un uomo Che voglia sposare la forca e generare giovani gibetti, non ho mai visto uno così bramoso.
Eppure, in fede mia, per quanto costui sia romano, ci sono dei più veri furfanti che desiderano vivere e ce ne sono che muoiono contro voglia: sarei anch'io così, se fossi uno di loro. Vorrei che tutti la pensassimo in un modo, e in modo giusto; oh, sarebbe la rovina dei carcerieri e delle forche! Parlo contro il mio interesse presente; ma quel che desidero mi darebbe un posto migliore.
(Esce)
SCENA QUINTA - La tenda di Cimbelino
(Entrano CIMBELINO, BELARIO, GUIDERIO, ARVIRAGO, PISANIO, Baroni, Ufficiali e il Seguito)
CIMBELINO: State al mio fianco, voi che gli dèi hanno fatto salvatori del mio trono. Quale tristezza per il mio cuore che il povero soldato che combatté così nobilmente e i cui stracci fecero vergognare le armature dorate, il cui petto ignudo marciava innanzi agli scudi impenetrabili, non si possa trovare. Sarà felice chi lo ritroverà, se la nostra grazia lo può far tale.
BELARIO: Non ho visto mai così nobile furia in creatura tanto misera; imprese tanto valorose in uno che non prometteva se non povertà e avvilimento.
CIMBELINO: Ci sono notizie di lui?
PISANIO: E' stato cercato in mezzo ai morti e ai vivi: nessuna traccia di lui.
CIMBELINO: Con mio dolore sono l'erede della sua ricompensa, (a Belario, Guiderio e Arvirago) che aggiungerò a quella di voi, fegato, cuore e cervello della Britannia: per i quali, lo riconosco, essa vive ancora. Ora è tempo di domandare di dove siete. Dite.
BELARIO: Sire, siamo nati in Cambria, e gentiluomini; vantare di più non sarebbe né giusto né modesto, a meno che io non aggiunga che siamo onesti.
CIMBELINO: Piegate le ginocchia. Rialzatevi, miei cavalieri di battaglia. Vi creo compagni della nostra persona e vi darò dignità conformi al vostro stato.
(Entrano CORNELIO e Dame) C'è dell'ansia su questi volti. Perché salutate così tristi la nostra vittoria? Sembrate romani, e non della corte di Britannia.
CORNELIO: Salve, gran re! Ad amareggiare la vostra gioia, debbo dirvi che la regina è morta.
CIMBELINO: A chi peggio converrebbe questo messaggio che a un medico?
Ma rifletto che se la vita può essere prolungata dalla medicina, la morte coglierà anche il medico. Come è finita?
CORNELIO: Con orrore è morta furiosa come fu in vita. Crudele verso il mondo, è finita crudelissima verso di sé. Vi riferirò quello che ha confessato, col vostro beneplacito; queste sue donne mi smentiranno se sbaglio. Esse, con le guance bagnate, erano presenti quando finì.
CIMBELINO: Parla, ti prego.
CORNELIO: Prima confessò di non avervi mai amato. Soltanto portava amore alla vostra grandezza, non a voi; sposò la vostra regalità, moglie del vostro seggio, aborriva la vostra persona.
CIMBELINO: Ella sola seppe questo; e, se non lo avesse detto morendo, mi rifiuterei di credere alle sue labbra che lo rivelarono. Continua.
CORNELIO: Vostra figlia, che fingeva di amare così profondamente, confessò che era uno scorpione ai suoi occhi. Se la sua fuga non glielo avesse impedito, le avrebbe tolto la vita col veleno.
CIMBELINO: Oh raffinatissimo demonio! Chi può leggere una donna? Vi è altro?
CORNELIO: Dell'altro, sire, e peggiore. Confessò di avere per voi un minerale mortifero che, preso, doveva minuto per minuto nutrirsi della vostra vita e lentamente consumarvi a poco a poco. Frattanto si proponeva con veglie, pianti, cure e baci, di dominarvi con le sue finte, e col tempo, quando foste ben disposto dal suo inganno, di insinuare suo figlio per l'adozione della corona. Ma, fallita nel suo disegno per la strana assenza di lui, fu presa da una disperazione senza vergogna, scoperse, a dispetto del cielo e degli uomini, i suoi propositi; sentì che i mali covati non avessero effetto, e così morì disperando.
CIMBELINO: Voi, donne, avete udito tutto questo?
PRIMA DAMA: Sì, così piaccia a Vostra Altezza.
CIMBELINO: Non furono in colpa i miei occhi, perché era bella; le mie orecchie, che udirono le sue adulazioni; né il mio cuore, che la credeva simile al suo aspetto. Sarebbe stato colpevole diffidare di lei; eppure, oh figlia mia! tu puoi ben dire che la follia era in me, e attestarla con le tue sofferenze. Il cielo ripari ogni cosa!
(Entrano LUCIO, JACHIMO, l'Indovino e altri Prigionieri romani con Guardie; dietro ad essi, LEONATO e IMOGENE)
Tu non vieni, ora, Caio, per tributo; i Britanni l'hanno soppresso, sebbene con la perdita di molti animosi. I loro parenti mi hanno chiesto che le buone anime siano placate col sacrificio di voi, loro prigionieri, e noi l'abbiamo concesso. Così, pensate alla vostra sorte.
LUCIO: Considerate, sire, le fortune della guerra. La giornata fu vostra per caso; se avessimo vinto noi, non avremmo, a sangue freddo, minacciato con la spada i nostri prigionieri. Ma poiché gli dèi vogliono che sia cosi, che null'altro fuor delle nostre vite possa essere considerato riscatto, sia. Basta a un Romano saper soffrire con cuore romano. Augusto vive, e provvederà: ecco tutto, per quanto mi tocca. Questa cosa sola implorerò: il mio paggio è nato britanno, lasciate che sia riscattato. Mai padrone ha avuto un paggio tanto gentile, devoto, diligente, attento ai suoi bisogni, fedele, svelto, premuroso. Il suo merito si unisca alla mia richiesta, che oso sperare Vostra Altezza non sappia rifiutare. Egli non ha fatto male a nessun Britanno, benché abbia servito un Romano. Salvatelo, sire, e non risparmiare altro sangue.
CIMBELINO: L'ho sicuramente veduto: il suo volto mi è familiare.
Ragazzo, il tuo aspetto ha vinto il mio favore, e mi appartieni. Non so perché, né che cosa, mi fa dire: "Vivi, ragazzo". Non ringraziare il tuo padrone; vivi e chiedi a Cimbelino la grazia che vorrai; se si conviene alla mia munificenza e al tuo stato, l'accorderò. Sì, anche se tu domandassi un prigioniero, il più nobile preso.
IMOGENE: Ringrazio umilmente Vostra Altezza.
LUCIO: Non ti ho detto di domandare la mia vita, buon ragazzo, eppure so che lo farai.
IMOGENE: No, no, ahimè, altre cure mi occupano. Vedo una cosa amara a me come la morte. La vostra vita, buon padrone, deve sbrigarsela da sé.
LUCIO: Il ragazzo mi disprezza, mi abbandona, mi sdegna. Presto muoiono le gioie di coloro che le fondano sulla fedeltà di giovinette o di giovani. Perché sta così perplesso?
CIMBELINO: Che cosa vuoi, ragazzo? Ti amo sempre di più; rifletti sempre di più a ciò che è meglio domandare. Conosci quello che guardi? Parla, vuoi che egli viva? E' tuo parente? Tuo amico?
IMOGENE: E' un Romano; non più parente a me che io a Vostra Altezza; e io, essendo nato vostro vassallo, vi sono un po' più prossimo.
CIMBELINO: Perché lo guardi così?
IMOGENE: Ve lo dirò, sire, in segreto, se vi piacerà darmi ascolto.
CIMBELINO: Sì, con tutto il cuore, e ti darò la mia migliore attenzione. Qual è il tuo nome?
IMOGENE: Fedele, sire.
CIMBELINO: Sei il mio buon giovane paggio: sarò il tuo padrone. Vieni con me, parla liberamente.
(Cimbelino e Imogene parlano a parte)
BELARIO: Quel ragazzo non è resuscitato?
ARVIRAGO: Un granello di sabbia non somiglia di più a un altro: quel dolce roseo ragazzo che morì, e fu Fedele! Che ne pensate?
GUIDERIO: Lo stesso morto che rivive.
BELARIO: Zitti, zitti! Vediamo. Egli non ci guarda, aspettiamo. Vi sono creature che si somigliano. Se fosse lui, sono certo che ci avrebbe parlato.
GUIDERIO: Ma lo vedemmo morto.
BELARIO: Tacete, vediamo il seguito.
PISANIO (a parte): E' la mia padrona. Poiché ella è viva, lasciamo correre il tempo al meglio e al peggio.
(CIMBELINO e IMOGENE s'avanzano)
CIMBELINO: Vieni, mettiti al nostro fianco e fa' la tua domanda ad alta voce. (A Jachimo) Venite avanti, messere; rispondete a questo ragazzo, e fatelo con franchezza; o, per la nostra grandezza, e per la sua grazia che è il nostro onore, amara tortura vaglierà la verità della menzogna. Avanti, parlagli.
IMOGENE: La grazia che domando è che questo signore voglia dire da chi ebbe questo anello.
LEONATO (a parte): Che importa a lui?
CIMBELINO: Dite, quel diamante che avete al dito, come divenne vostro?
JACHIMO: Mi tortureresti perché io non dicessi quello che, detto, sarebbe tortura per te.
CIMBELINO: Come, per me?
JACHIMO: Sono contento d'essere costretto a svelare quello che mi tormenta nascondere. Ebbi questo anello con una ribalderia: era un gioiello di Leonato che tu bandisti e che era, di questo tu soffrirai più di me, il gentiluomo più nobile che mai sia vissuto fra cielo e terra. Vuoi udir di più, mio signore?
CIMBELINO: Tutto ciò che si riferisce a questo.
JACHIMO: Quel paragone di virtù, tua figlia, per la quale il mio cuore gocciola sangue e che il mio animo colpevole trema nel ricordare...
Scusami. Mi sento mancare.
CIMBELINO: Mia figlia! Che cosa dici di lei? Riprendi forza.
Preferirei tu vivessi quanto vorrà la natura, piuttosto che tu morissi prima che io senta di più. Sforzati, uomo parla.
JACHIMO: Un tempo... infausto fu l'orologio che suonò l'ora!... fu a Roma... maledetta la casa dove!... Fu a una festa... Oh! fossero state avvelenate le vivande, o almeno quelle che mi portai alla bocca!... Il buon Postumo... che dovrei dire? era troppo buono per essere dove erano uomini perversi; ed era il migliore di tutti, fra i più rari dei buoni... seduto tristemente ci ascoltava lodare le nostre amanti italiane per una bellezza che rendeva sterile l'eccelso vanto del miglior parlatore. Le loro fattezze digradavano il tempio di Venere o la eretta Minerva, atteggiamenti che sorpassano l'effimera natura. La loro indole era un emporio di tutte le qualità per cui l'uomo ama la donna. Inoltre, quell'esca matrimoniale, la beltà che colpisce gli occhi...
CIMBELINO: Sono sul fuoco; vieni al fatto.
JACHIMO: Ci arriverò anche troppo presto; a meno che tu non abbia fretta di soffrire. Questo Postumo, proprio da nobile signore innamorato, e che aveva un'amante regale, prese la palla al balzo; e, senza disprezzare quelle che lodavamo, in questo era calmo come la virtù, incominciò a farci il ritratto della sua signora; il quale, fatto dalla sua lingua, e con l'animo che v'aggiunse, o le nostre millanterie vantavano sguattere di cucina, o la sua descrizione ci dimostrava sciocchi che non sanno parlare.
CIMBELINO: Orsù, orsù, al fatto.
JACHIMO: La castità di vostra figlia... eccomi al fatto. Ne parlò come se Diana avesse sogni ardenti ed essa sola fosse fredda. A questo io, miserabile, misi in dubbio la sua lode, e scommisi con lui monete d'oro contro questo, che egli portava allora al suo dito onorato, di riuscire a raggiungere, con la mia corte, il suo posto nel suo letto, vincendo questo anello coll'adulterio di lei ed il mio. Egli, da vero cavaliere, non meno sicuro ch'ella gli era fedele di quanto veramente la trovai, mette per posta questo anello, e l'avrebbe fatto anche se fosse stato un carbonchio delle ruote di Febo, e avrebbe potuto farlo con altrettanta sicurezza se avesse avuto il valore di tutto il carro.
Volai in Britannia per questo disegno: bene, sire, potete ricordare di avermi visto a corte, dove appresi dalla vostra casta figlia la grande differenza fra l'amore e la lussuria. Così si spense la mia speranza ma non il desiderio: e il mio cervello italiano cominciò a operare in modo assai vile sopra il vostro britanno più tardo, ottimo per il mio vantaggio. E, in breve, la mia insidia riuscì così bene, che ritornai con prove simulate bastanti a render folle il nobile Leonato, col ferire la sua fiducia nella fama di lei, con questi e questi segni; particolari che erano conferme, sugli arazzi della sua stanza, sulle pitture, e su questo braccialetto - oh, con che astuzia l'ebbi! - e perfino su alcuni particolari segreti della sua persona, così ch'egli non poté non credere infranto del tutto il vincolo della castità, e che io avessi vinta la posta. Allora... mi pare di vederlo adesso...
LEONATO (facendosi avanti): Sì e lo vedi, demonio d'un italiano!
Ahimè, troppo credulo sciocco, emerito assassino, ladro; a me qualunque cosa spetti a tutti gli infami del passato, del presente e dell'avvenire! Oh, datemi una corda, o un coltello, o un veleno; datemi un integro giudice! Tu, re, fa' cercare ingegnosi torturatori: sono io che miglioro tutte le cose aborrite della terra, perché sono peggiore di loro. Io sono Postumo, che uccise tua figlia; da vile io mento, che la feci uccidere da uno meno infame di me, da un sacrilego ladro. Ella era il tempio della Virtù; sì, e la virtù stessa. Sputate, lanciatemi pietre, buttate del fango su di me, incitate i cani della strada a latrarmi contro. Ogni ribaldo si chiami Postumo Leonato, e la scelleratezza sia meno di quel che non era! O Imogene! Mia regina, mia vita, mia sposa! O Imogene, Imogene, Imogene!
IMOGENE: Calmatevi, mio signore; ascoltate, ascoltate...
LEONATO: Dovrà farsi giuoco di questo? Paggio insolente, ecco il posto che ti spetta.
(La colpisce. Ella cade)
PISANIO: Oh, signori, soccorrete la mia e la vostra padrona! O mio signore, Postumo! Non avete ucciso Imogene fino a questo momento.
Aiuto, aiuto! Mia venerata signora!
CIMBELINO: Il mondo gira intorno a me?
LEONATO: Donde mi vengono queste vertigini?
PISANIO: Svegliatevi mia signora!
CIMBELINO: Se è cosi, gli dèi vogliono colpirmi mortalmente con una gioia mortale.
PISANIO: Come sta la mia padrona?
IMOGENE: Vattene dalla mia vista: tu mi hai dato il veleno. Via di qui, uomo pericoloso. Non respirare dove sono dei principi.
CIMBELINO: La voce di Imogene!
PISANIO: Signora, gli dèi scaglino su di me saette di zolfo se non credevo quella scatola che vi detti cosa preziosa. L'ebbi dalla regina.
CIMBELINO: Ancora del nuovo?
IMOGENE: Mi ha avvelenata.
CORNELIO: Oh dèi! Dimenticai una cosa che la regina confessò, che ti proverà onesto: "Se Pisanio ha - disse - dato alla sua padrona quella miscela che gli diedi come un cordiale, è stata servita come io servirei un topo".
CIMBELINO: Che vuol dir questo, Cornelio?
CORNELIO: La regina, sire, molto spesso m'importunava perché le componessi dei veleni, sempre col pretesto di soddisfare il suo sapere, uccidendo soltanto creature vili, come gatti e cani senza valore. Io, temendo che i suoi propositi non fossero più pericolosi, composi per lei una certa sostanza che, presa, sospendesse l'immediato potere di vita; ma in breve tutte le facoltà della natura avrebbero ripreso le loro funzioni abituali. Ne avete presa?
IMOGENE: Lo credo, poiché rimasi morta.
BELARIO: Ragazzi miei, qui fu il nostro errore.
GUIDERIO: Questo è certamente Fedele.
IMOGENE: Perché avete respinta la donna che avete sposata? Immaginate che stiamo lottando, e ora di nuovo buttatemi giù.
(Lo abbraccia)
LEONATO: Sospenditi qui, anima mia, come un frutto, fin che l'albero muoia!
CIMBELINO: Ebbene, carne mia, mia figlia! Mi fai passare per sciocco in questa scena? Perché non mi parli?
IMOGENE: La vostra benedizione, sire.
(Si inginocchia)
BELARIO (a Guiderio e Arvirago): Avete amato quel giovane, e non vi so biasimare. C'era ben motivo.
CIMBELINO: Le mie lagrime cadendo siano acqua santa su di te! Imogene, tua madre è morta.
IMOGENE: Me ne rattristo, mio signore.
CIMBELINO: Oh, era perversa; e si deve a lei se ci incontriamo qui in modo così strano. Ma suo figlio è partito, e non sappiamo per dove, né come.
PISANIO: Mio signore, ora che la paura è lontana da me, dirò la verità. Il principe Cloten, all'assentarsi della mia padrona, venne da me con la spada snudata, con la schiuma alla bocca, e giurando che se non gli rivelavo quale via avesse presa, era per me la morte immediata. Avevo allora per caso una falsa lettera del mio padrone in tasca, e questa lo diresse a cercare lei sulle montagne presso Milford, per dove partì forsennato, con gli abiti del mio padrone che mi aveva costretto a dargli, con infame disegno e con giuramento di violare l'onore della mia signora. Quello che accadde di lui dopo, non so.
GUIDERIO: Lasciate che finisca la storia; laggiù, io l'ho ucciso.
CIMBELINO: Ah, che gli dèi ci salvino! Non vorrei che i tuoi buoni servigi mi strappassero dalle labbra una dura sentenza. Ti prego, coraggioso giovane, rispondimi che non è vero.
GUIDERIO: Quello che ho detto, ho fatto.
CIMBELINO: Era un principe.
GUIDERIO: Un principe assai incivile: gli oltraggi che mi fece non erano certo da principe, poiché mi provocò con un linguaggio che mi indurrebbe ad affrontare il mare, se potesse ruggire così contro di me. Gli tagliai la testa, e sono molto lieto che lui non sia qui a dire altrettanto della mia.
CIMBELINO: Sono dolente per te: ti sei condannato con la tua lingua, e devi subire la nostra legge. Sei un uomo morto.
IMOGENE: Quell'uomo senza testa, lo credetti il mio sposo.
CIMBELINO: Legate il colpevole, e toglietelo dalla nostra presenza.
BELARIO: Fermati, sire. Quest'uomo val più dell'uomo che uccise, è di stirpe buona quanto la tua, e ha reso a te più servigi di quanti mai procurarono cicatrici a una schiera di Cloten. (Alle Guardie) Lasciategli le braccia, non sono nate per le ritorte.
CIMBELINO: Come, vecchio soldato, vuoi cancellare i meriti per i quali ancora non fosti pagato, e provare la nostra collera? Come, di stirpe buona quanto la nostra?
ARVIRAGO: In questo è andato troppo oltre.
CIMBELINO: E tu morrai per questo.
BELARIO: Morremo tutti e tre. Ma proverò che due di noi sono nobili come gli ho detto. Figli miei, debbo rivelare una cosa pericolosa per me, ma forse buona per voi.
ARVIRAGO: Il vostro pericolo è il nostro.
GUIDERIO: E il nostro bene il suo.
BELARIO: Eccoti, dunque, col tuo permesso: tu avevi, gran re, un suddito che era chiamato Belario.
CIMBELINO: Che vuoi dire di lui? E' un traditore bandito.
BELARIO: E' lui che ha assunto quest'annoso aspetto; un bandito, è vero, ma non so perché un traditore.
CIMBELINO: Portatelo via di qui; il mondo intero non lo potrebbe salvare.
BELARIO: Non tanto calore; prima pagami per aver allevato i tuoi figli, e che tutto sia confiscato, non appena lo avrò ricevuto.
CIMBELINO: L'allevamento dei miei figli?
BELARIO: Son troppo brusco e ardito. Eccomi in ginocchio. Prima di alzarmi, voglio ottener l'avanzamento dei miei figli; poi, non risparmiate il vecchio padre. Potente signore, questi due giovani gentiluomini che mi chiamano padre e credono d'essere i miei figli, non sono affatto miei, sono discesi dai vostri lombi, mio signore, e sangue da voi generato.
CIMBELINO: Come discesi da me?
BELARIO: Come voi da vostro padre. Io, il vecchio Morgan, sono quel Belario che un tempo voi bandiste. Il vostro volere fu tutta la mia colpa, la mia punizione stessa e tutto il mio tradimento: quello che soffersi è tutto il male che ho fatto. Questi nobili principi - poiché tali e così sono - per questi vent'anni ho educati; le arti che sanno sono quelle che potei insegnar loro: la mia educazione, sire, era quale Vostra Altezza conosce. La loro nutrice, Eurifile, che sposai per il ratto, rapì questi fanciulli dopo che fui bandito: io la mossi a farlo, io che avevo avuto prima la punizione per quello che feci allora. La mia lealtà punita mi eccitò al tradimento; la loro perdita così cara, più era sentita da voi, più rispondeva al mio fine di rapirli. Ma, grazioso signore, i vostri figli sono ancora qui, e io devo perdere due dei più dolci compagni del mondo. La benedizione del cielo che ci copre piova come rugiada sulle loro teste! poiché son degni di intarsiare di stelle il cielo.
CIMBELINO: Tu piangi e parli. Il servigio che voi tre avete reso è più incredibile di quanto racconti. Io perdetti i miei figli: se sono questi, non so come desiderare una coppia di figli più degni.
BELARIO: Aspettate ancora. Questo gentiluomo, che io chiamo Polidoro, o degnissimo principe, è il vostro vero Guiderio. Questo gentiluomo, il mio Cadwal, Arvirago, il vostro più giovane figlio e principe.
Egli, sire, era avvolto in un molto adorno mantello lavorato dalle mani della regina sua madre; e questo, per maggior prova, posso facilmente mostrare.
CIMBELINO: Guiderio aveva sul collo una voglia, una stella sanguigna.
Era un segno curioso.
BELARIO: E' lui, che ha sempre su di sé quel segno naturale; fu il fine della saggia natura nel donarglielo che fosse ora suo testimone.
CIMBELINO: Oh, sono io allora come una madre alla quale nascono tre figli? Mai madre fu tanto felice del suo parto. Prego che siate benedetti, sicché dopo così strano allontanamento dalle vostre sfere, ora vi possiate regnare! O Imogene, con questo tu perdi un regno.
IMOGENE: No, mio signore, con questo guadagno due mondi. O dolci fratelli, così ci siamo ritrovati? Oh, non negate d'ora in poi che io sono quella che dice più vere parole: voi mi chiamavate fratello quando ero soltanto vostra sorella; io, voi fratelli, e lo eravate davvero.
CIMBELINO: Vi siete già incontrati?
ARVIRAGO: Sì, mio buon signore.
GUIDERIO: Al primo incontro ci amammo, e continuammo finché non lo credemmo morto.
CORNELIO: Per aver inghiottito la droga della regina.
CIMBELINO: Oh raro istinto! Quando saprò dunque ogni cosa? Questo rapido riassunto si ramifica in circostanze tali da ripagare un attento esame. Dove? come viveste? Quando siete entrata al servizio del nostro prigioniero romano? Come foste separata dai vostri fratelli? Come li incontraste la prima volta? Perché fuggiste dalla corte? e dove? Questo, e i motivi che indussero voi tre alla battaglia, con non so quante altre cose, dovrei chiedervi, e tutti gli altri casi accessori, da fortuna a fortuna; ma né il tempo né il luogo sono adatti ai nostri lunghi interrogatori. Guardate, Postumo s'è ancorato a Imogene; e lei, come un lampo inoffensivo, lancia i suoi occhi su di lui, sui suoi fratelli, su di me, suo signore, e colpisce ogni oggetto con una gioia il cui contraccambio è separatamente in tutti. Lasciamo questo luogo e profumiamo il tempio coi nostri sacrifici. (A Belario) Tu sei mio fratello, e come tale sempre ti terremo.
IMOGENE: E voi anche siete mio padre, e mi soccorreste perché vedessi questa graziosa stagione.
CIMBELINO: Tutti siamo colmi di gioia, salvo questi in catene. Siano felici anch'essi e gustino la nostra gioia.
IMOGENE: Mio buon padrone, voglio servirvi ancora.
LUCIO: Siate felice!
CIMBELINO: Il soldato perduto, che combatté così valorosamente, starebbe bene in questo luogo, e sarebbe degno oggetto della riconoscenza di un re.
LEONATO: Sono io, sire, il soldato che s'accompagnò a questi tre in povero aspetto; era una veste adatta al disegno che seguivo allora.
Che ero io, ditelo, Jachimo. Vi tenevo giù, e avrei potuto finirvi.
JACHIMO: (inginocchiandosi): Sono giù ancora, ma adesso la mia greve coscienza piega le mie ginocchia, come allora la vostra forza.
Prendete questa vita, vi scongiuro, che vi debbo tante volte, ma prima il vostro anello. Ed ecco il braccialetto della più fedele principessa che mai abbia giurato fede.
LEONATO: Non inginocchiatevi a me. Il potere che ho su di voi è di risparmiarvi; la mia vendetta verso di voi, di perdonarvi. Vivete, e agite meglio con gli altri.
CIMBELINO: Nobile sentenza! Impareremo la liberalità da nostro genero.
Perdono è la parola per tutti.
ARVIRAGO: Voi ci avete aiutati, signore, come se voleste davvero essere nostro fratello. Siamo felici che lo siate.
LEONATO: Sono il vostro servo, principi. Mio buon signore di Roma, chiamate qui il vostro indovino. Mentre dormivo, mi parve che il grande Giove m'apparisse sull'aquila, con altre spettrali apparizioni dei miei parenti. Quando mi svegliai, trovai questo foglio sul mio petto, e il suo contenuto è così lontano da ogni senso nella sua difficoltà, che non lo so interpretare. Che ci mostri la sua abilità nello spiegarlo.
LUCIO: Filàrmono!
INDOVINO: Eccomi, mio buon signore.
LUCIO: Leggi, e spiega il significato.
INDOVINO (legge): "Quando un leoncello, ignoto a se stesso, troverà senza cercarlo un dolce soffio d'aria che lo abbraccerà; e quando i rami d'un cedro maestoso, tagliati e morti da molti anni, rivivranno per unirsi al vecchio tronco e di nuovo germoglieranno, allora finiranno le miserie di Postumo, la Britannia sarà felice e fiorirà in pace e abbondanza". Tu, Leonato, sei il leoncello, la propria e conveniente costruzione del tuo nome, essere "Leo natus" significa questo. (A Cimbelino) "Il dolce soffio d'aria", la tua virtuosa figlia, noi lo chiamiamo "mollis aer"; e da "mollis aer" noi facciamo "mulier": la quale "mulier", io interpreto, è questa fedelissima sposa. Anche adesso, rispondendo alla lettera dell'oracolo, ella, ignota a voi non cercata, vi abbracciò con questa dolcissima aria.
CIMBELINO: Questo ha del verosimile.
INDOVINO: Il cedro maestoso, regale Cimbelino, impersonate; e i rami tagliati additano i tuoi figli: che rapiti da Belario, per molti anni creduti morti, ora rivivono riuniti al cedro maestoso, la cui discendenza promette alla Britannia pace e abbondanza.
CIMBELINO: Bene. Incominceremo la mia pace. E, Caio Lucio, sebbene vincitori, ci sottomettiamo a Cesare e all'Impero romano, promettendo di pagare il consueto tributo, da cui ci aveva dissuasi la nostra perfida regina, sulla quale i cieli, a giustizia di lei e dei suoi, hanno fatto cadere la loro greve mano.
INDOVINO: Le dita delle potenze di lassù intonino l'armonia di questa pace. La visione che svelai a Lucio prima dell'urto di questa battaglia non ancora fredda, in questo istante è in pieno avverata, perché l'aquila romana, levandosi alta sull'ali dal mezzogiorno all'occidente, s'impiccoliva e così dileguava nei raggi del sole.
Questo era presagio che la nostra aquila augusta, l'imperiale Cesare, di nuovo avrebbe stretto alleanza col radioso Cimbelino, che splende qui in occidente.
CIMBELINO: Lodiamo gli dèi; e i nostri fumi salgano in spirali alle loro narici dai nostri altari benedetti. Annunciamo questa pace a tutti i nostri sudditi. Poniamoci in via. Sventolino insieme amiche un'insegna romana e una britanna. Marciamo così attraverso la città di Lud: e nel tempio del grande Giove ratificheremo la nostra pace, la suggelleremo con feste. Andiamo! Mai vi fu guerra che finisse, prima ancora che le mani sanguinose fossero levate, con una simile pace.
(Escono)