William Shakespeare
ENRICO QUARTO
(Parte Prima)
PERSONAGGI
RE ENRICO QUARTO
ENRICO, principe di Galles; GIOVANNI DI LANCASTER: figli del Re
RALPH NEVILLE, conte di Westmoreland
SIR GUALTIERO BLUNT
TOMMASO PERCY, conte di Worcester
ENRICO PERCY, Conte di Northumberland
ENRICO PERCY, che viene detto HOTSPUR, suo figlio
EDMONDO MORTIMER, conte di March
SCROOP, arcivescovo di York
ARCHIBALDO, conte di Douglas
OWEN GLENDOWER
SIR RICCARDO VERNON
SIR GIOVANNI FALSTAFF
SIR MICHELE, amico dell'arcivescovo di York
POINS
GADSHILL
PETO
BARDOLFO
LADY PERCY, moglie di Hotspur e sorella di Mortimer
MONNA FAPRESTO, ostessa della taverna della Testa di Cinghiale a Eastcheap
Signori, Ufficiali, lo Sceriffo, un Oste, un Ciambellano, Garzoni, Vetturali, Viaggiatori e Servi
La scena è in Inghilterra e in Galles
ATTO PRIMO
ENRICO: Scossi come siamo, pallidi d'inquietudine, troviamo un momento di tregua affinché la pace spaventata riprenda respiro e parli con rotti accenti delle nuove zuffe che dobbiamo cominciare su spiagge lontane. L'assetata bocca di questa terra non tingerà più le sue labbra col sangue dei propri figli; la guerra non ne scaverà più i campi per farne trincee, né calpesterà i suoi fiori con i ferrati zoccoli degli ostili corsieri. Quegli occhi avversi che, simili a meteore di un cielo tempestoso, d'un nascimento tutti e nutriti della stessa sostanza, s'incontrarono pur ora nell'urto fraterno e nel furioso corpo a corpo delle stragi civili, ora marceranno tutti uniti in belle schiere, per lo stesso cammino, né più amici, parenti e congiunti si troveranno di fronte. La lama della guerra, come un pugnale mal chiuso nella guaina, non ferirà più il suo padrone.
Perciò, amici, fino al sepolcro di Cristo - di cui siamo ora i soldati e sotto la cui croce benedetta siamo arrolati e impegnati a combattere - noi condurremo immantinente un esercito d'Inglesi, le cui braccia furono plasmate nel seno delle madri per cacciare i pagani dalle terre sante sulle cui distese si posarono quei piedi divini che, or sono quattordici secoli, furono confitti, per la nostra salute, sull'amara croce. Ma questo nostro proposito data già da dodici mesi; è dunque inutile dire che noi vogliamo andare: non è per questo che ci siamo ora qui radunati. Sentiamo dunque da voi, gentile cugino Westmoreland, che cosa decise ieri sera il nostro consiglio per affrettare questa impresa che tanto ci sta a cuore.
WESTMORELAND: Mio sovrano, l'urgenza di questa spedizione si discusse con ardore e proprio ieri notte si affidarono i vari comandi, quando, a scompigliare tutto, giunse un messo dal Galles carico di gravi notizie, la peggiore delle quali era che il nobile Mortimer conducendo gli uomini dello Ererefordshire a battaglia contro l'impetuoso e selvaggio Glendower, era caduto nelle rozze mani di quel gallese; mille dei suoi furono massacrati e i loro corpi così brutalmente oltraggiati dalle donne gallesi e tanto vergognosamente mutilati, che non se ne può riferire o parlare senza molta vergogna.
ENRICO: Sembra dunque che la notizia di questo combattimento abbia troncata la discussione dell'impresa di Terra Santa.
WESTMORELAND: Questa insieme ad altre notizie, mio grazioso signore; poiché notizie ancor più sfavorevoli e sgradite vennero dal nord, ed eccone il tenore: il giorno della Santa Croce, il prode Hotspur, il giovane Enrico Percy, e il valoroso Archibaldo, quello scozzese di sì provato coraggio, s'incontrarono a Holmedon ove passarono un'ora di tristezza e di sangue, come dal rombo delle loro artiglierie e dall'apparente probabilità si propalò la notizia; poiché colui che ce la portò era salito a cavallo proprio nel fervore e nel rigoglio della mischia e incerta ancora pendeva la vittoria.
ENRICO: Ecco qui un amico caro, fedele e zelante, sir Gualtiero Blunt, che, appena sceso da cavallo, tinto d'ogni varietà di suolo tra Holmedon e questa nostra dimora, ci porta notizie favorevoli e gradite. Il conte di Douglas è sconfitto; diecimila audaci scozzesi e ventidue cavalieri accatastati nel loro sangue ha visti sir Gualtiero sui piani di Holmedon; Hotspur ha fatto prigioniero Mordake conte di Fife, figlio maggiore del vinto Douglas, e i conti di Athol, di Murray, di Angus e Menteith. Non è questa un'onorevole spoglia, una ricca preda, eh, cugino?
WESTMORELAND: E' davvero vittoria di cui un principe può andare orgoglioso.
ENRICO: Ecco, dicendo questo tu mi rendi triste, e mi fai commettere peccato d'invidia verso lord Northumberland, padre di un giovane sì ricco di virtù, tema delle lodi di ogni uomo d'onore, la più diritta e rigogliosa pianta d'un bosco, il favorito e l'orgoglio della dolce Fortuna, mentre io, che contemplo la sua gloria, vedo la dissolutezza e il disonore macchiare la fronte del mio giovane Enrico. Oh, si potesse provare che qualche fata nottivaga ha cambiato i nostri bambini nelle culle ove essi giacevano, e chiamato il mio Percy e il suo Plantageneto! Io avrei allora il suo Enrico ed egli il mio. Ma non pensiamo più a lui. Che dite, cugino, dell'orgoglio di questo giovane Percy? I prigionieri da lui fatti in questo scontro li tiene per conto suo e mi manda a dire che io non avrò che Mordake, conte di Fife.
WESTMORELAND: Questi sono gl'insegnamenti di suo zio, c'è sotto Worcester, a voi avverso in tutti i modi, il quale gli fa rizzare le penne e alzare la cresta della giovinezza contro Vostra Maestà.
ENRICO: L'ho mandato a chiamare perché mi risponda di questo. Intanto per queste ragioni bisogna che trascuriamo per ora i nostri santi disegni su Gerusalemme. Cugino, mercoledì prossimo terremo consiglio a Windsor; informatene i pari, ma voi tornate in fretta presso di noi perché c'è assai più da dire e da fare ch'io non possa spiegare adesso con lo sdegno che mi agita.
WESTMORELAND: Così farò, mio sovrano.
(Escono)
SCENA SECONDA - Londra. Un appartamento del Principe
(Entrano il PRINCIPE ENRICO e FALSTAFF)
FALSTAFF: Di' su, Rigo, ragazzo mio, di' su; a che punto siamo del giorno?
PRINCIPE: Tu hai lo spirito così balordo pel gran bere vecchio vin di Spagna e sbottonarti dopo cena e dormire sulle panche al pomeriggio, che hai dimenticato di domandare ciò che veramente vuoi sapere. Che diavolo hai tu a che fare con l'ora del giorno? A meno che le ore fossero coppe di vin di Spagna, i minuti capponi e gli orologi lingue di ruffiane, i quadranti insegne di bordelli e lo stesso almo sole una bella e calda ragazza in taffettà color fiamma, io non vedo ragione perché tu debba sprecar fiato a domandare l'ora del giorno.
FALSTAFF: Bene davvero, Rigo; ora sì che mi ravvisi, poiché, noi che prendiamo le borse, andiamo secondo la luna e le sette stelle e non secondo Febo, "quel sì bello ed errante cavaliere". E ti prego, mio caro birichino, quando tu sarai re... così Dio salvi tua Grazia...
Maestà, dovrei dire, perché di grazia non ne avrai nessuna...
PRINCIPE: Che! nessuna?
FALSTAFF: No, in fede mia; neanche quella che serve da prologo a un uovo col burro.
PRINCIPE: E allora? avanti, al sodo, al sodo!
FALSTAFF: Per la Vergine, dunque, caro birichino, quando tu sarai re, non permettere che noi, i cavalieri della notte, si sia chiamati rubacuori del giorno. Fa' che siamo le guardie forestali di Diana, i gentiluomini dell'ombra, i favoriti della luna, e che la gente dica che noi siamo uomini di buon governo, essendo governati, come il mare, dalla nostra nobile e casta signora, la luna, sotto la cui faccia noi... rubiamo.
PRINCIPE: Tu dici bene e il ragionamento torna bene; poiché la fortuna di noialtri, che siamo gli uomini della luna, ha il suo flusso e riflusso come il mare, essendo governata, come il mare, dalla luna. Ed eccone la prova: una borsa d'oro strappata via risolutissimamente la notte di lunedì e dissolutissimamente spesa il martedì mattina:
pretesa al bercio di: "Metti giù!" e spesa al grido di: "Porta qua!"; ora in magra bassa come il piede della scala, ora in piena alta come la cima della forca.
FALSTAFF: Perdio! Tu dici il vero, ragazzo. E non è la mia ostessa della taverna una dolcissima fanciulla?
PRINCIPE: Come il miele d'Ibla, mio vecchio pataffione. E non è una casacca di pelle di bufalo un dolcissimo vestito, un vestito dicon... fino?
FALSTAFF: Come sarebbe a dire, mattacchione? Ricominci co' tuoi frizzi e i tuoi equivoci? Che diamine c'entro io con una casacca di pelle di bufalo?
PRINCIPE: E che canchero c'entro io con l'ostessa?
FALSTAFF: Be', tu l'hai chiamata a fare i conti assai più di una volta.
PRINCIPE: Ho mai chiamato te a sborsare la tua parte?
FALSTAFF: No, rendo onore al merito; lì tu hai sborsato sempre tutto.
PRINCIPE: Lì e altrove, fin dove è arrivato il mio conio; e dove non è arrivato, ho usato del mio credito.
FALSTAFF: Sì, e tanto l'hai usato che se non apparisse che tu sei l'erede apparente... Ma dimmi, dolce birichino, si rizzeranno ancora forche in Inghilterra quando tu sarai re? E l'ardire sarà sempre, come ora, frustrato dal morso arrugginito di quella vecchia befana di mamma Legge? Quando sarai re non appiccare un ladro.
PRINCIPE: No, l'appiccherai tu.
FALSTAFF: Io? Magnifica! Perdio, sarò un bel giudice.
PRINCIPE: Giudichi già a rovescio: voglio dire che toccherà a te d'appiccare i ladri; diverrai così un eccellente boia.
FALSTAFF: Bene, Righetto, bene, e fino a un certo segno questo mestiere mi garberebbe, quanto quello di stare a fare anticamera a corte, te lo assicuro.
PRINCIPE: Per ottener che effetti?
FALSTAFF: Già, per ottenere effetti di vestiario, dei quali il boia non ha difetto in guardaroba. Sanguediddio, mi sento malinconico come un vecchio gatto o un orso strapazzato.
PRINCIPE: O un vecchio leone, o il liuto d'un amante.
FALSTAFF: Sì, o il basso d'una cornamusa della contea di Lincoln.
PRINCIPE: Che diresti se ti chiamassi melanconico come una lepre o il pantano di Moor-ditch?
FALSTAFF: Tu tiri fuori i più disgustosi paragoni e sei davvero il più metaforico, il più briccone e... il più dolce dei principini. Ma, Righetto, ti prego; non mi infastidire più con queste vanità. Volesse Iddio che tu ed io sapessimo dove comprare una provvista di buon nome.
Un vecchio lord del Consiglio mi ha redarguito l'altro giorno nella strada per cagione vostra, messere, ma non gli ho dato retta: eppure parlava molto saggiamente, ma non gli ho porto attenzione: eppure parlava saggiamente, e per di più in piazza.
PRINCIPE: Hai fatto bene: perché la saggezza fa sentire la sua voce per le piazze, e niuno vi porge attenzione.
FALSTAFF: Oh, tu fai un uso sacrilego dei testi, e saresti capace di corrompere un santo. Tu mi hai fatto molto male, Rigo, che Dio ti perdoni per questo. Prima di conoscerti, Rigo, io non sapevo nulla di nulla ed ora sono, se devo dir la verità, poco meglio di uno dei malvagi. Bisogna che io abbandoni questa vita, e l'abbandonerò; per Iddio, se non lo faccio, sono un furfante. Non voglio dannarmi neanche per tutti i figli di re della Cristianità.
PRINCIPE: Dove prenderemo una borsa domani, Gianni?
FALSTAFF: Pel sangue di Dio, dove tu vuoi, ragazzo mio. Io sarò dei vostri. Se non lo fossi, chiamatemi furfante e schernitemi.
PRINCIPE: Vedo in te un gran miglioramento di vita: dal pregare al predare.
(Entra POINS a qualche distanza)
FALSTAFF: Vedi, Rigo, è la mia vocazione, e un uomo non fa peccato a lavorare secondo la sua vocazione. Poins! Ora sapremo se Gadshill ha teso qualche rete. Oh, se gli uomini si dovessero salvare soltanto per loro merito, qual buco nell'inferno sarebbe abbastanza ardente per lui? Egli è il più arcipotente briccone che mai gridasse "alto là" a un galantuomo.
PRINCIPE: Buon giorno, Edoardo.
POINS: Buon giorno, Rigo. Che dice messer Rimorso? Che dice sir Giovanni Contrito... di zucchero con vino di Spagna? Cosa avete combinato tu e il diavolo riguardo alla tua anima che gli vendesti l'ultimo Venerdì Santo per una coppa di Madera e una coscia di cappone freddo?
PRINCIPE: Sir Giovanni mantiene la sua parola, il diavolo avrà ciò che fu pattuito. Poiché eoli non ha mai fatto finora mentire un proverbio, "darà al diavolo ciò che gli spetta".
POINS: Allora tu sarai dannato per aver tenuto parola al diavolo.
PRINCIPE: Altrimenti sarebbe stato dannato per aver messo in mezzo il diavolo.
POINS: Ma, ragazzi miei, ragazzi miei, domattina alle quattro, a Gadshill. Ci saranno dei pellegrini che vanno a Canterbury con ricche offerte, e dei mercanti che cavalcano verso Londra con le borse rotonde; io ho maschere per tutti; voi avete i cavalli per voi.
Gadshill dorme stanotte a Rochester e io ho ordinato una cena per domani sera a Eastcheap: potremo fare il colpo sicuri come se dormissimo nei nostri letti. Se volete andare io riempirò le vostre borse di corone; se non volete, restate a casa e fatevi impiccare.
FALSTAFF: Ascoltate, Doardo, se resto a casa e non vo, vi manderò a far impiccare per esserci andati.
POINS: Davvero, pappagorgia?
FALSTAFF: Rigo, sarai dei nostri?
PRINCIPE: Chi? Io rubare! Io un ladro! Io no, in fede mia.
FALSTAFF: Non c'è onestà, né virilità, né buona solidarietà in te, né sei reale di sangue se non osi andar per le spicciole per dieci scellini.
PRINCIPE: Bene dunque, per una volta in vita mia commetterò una follia.
FALSTAFF: Ecco, ben detto.
PRINCIPE: Ma no, avvenga che può, resterò a casa FALSTAFF: Per Iddio, io sarò dunque un traditore quando tu sarai re.
PRINCIPE: Non me ne importa.
POINS: Sir Giovanni, ti prego, lasciami solo col principe; gli dirò tali ragioni per quest'avventura, ch'egli verrà.
FALSTAFF: Che Dio dunque dia a te lo spirito di persuasione e a lui gli orecchi dell'avvantaggiamento, affinché ciò che tu dici commuova e ciò ch'egli ode possa esser creduto, onde il principe legittimo diventi, per divertimento, un falso ladro, poiché queste povere scappatelle, tutte quelle che i nostri tempi ci lascian fare, han bisogno di protezione. Addio: mi troverete a Eastcheap.
PRINCIPE: Addio, seconda primavera! Addio estate di San Martino!
(Falstaff esce)
POINS: Ora, mio buon principe, dolce come il miele, cavalcate con noi domani: ho da fare uno scherzo e da solo non mi riesce di farlo.
Falstaff, Bardolfo, Peto e Gadshill deruberanno quegli uomini ai quali noi abbiamo già teso la trappola; voi ed io non ci troveremo sul luogo, ma quando essi avranno il bottino, se voi ed io non lo ruberemo loro, tagliatemi questa testa dalle spalle.
PRINCIPE: Ma come faremo a separarci da loro sul partire?
POINS:. Ecco, noi partiremo prima o dopo di loro e daremo ad essi un appuntamento al quale dipende da noi di mancare; allora essi si avventureranno soli all'impresa e appena l'avranno compiuta noi piomberemo loro addosso.
PRINCIPE: Già, ma è probabile che essi conoscano che siam noi dai nostri cavalli, dagli abiti e dagli altri fornimenti.
POINS: Ma che! I nostri cavalli non li vedranno; li legherò nel bosco e dopo che li avremo lasciati cambieremo le maschere; e signorino, ho certe cappe di bucherame fatte apposta per mascherare i nostri abiti a loro ben conosciuti.
PRINCIPE: Già, ma dubito non siano troppo forti per noi.
POINS: Ecco, due di loro li conosco per i più genuini codardi che mai voltassero il dorso, e quanto al terzo, s'egli si batte più che non ne veda ragione, rinunzio per sempre al mestiere delle armi. Il bello di questo scherzo saranno le incommensurabili bugie che questo stesso grasso briccone ci racconterà quando c'incontreremo a cena: come si sia battuto contro trenta almeno, quali parate, quali colpi, quali rischi abbia dovuto sostenere, e nella confutazione delle sue menzogne starà il divertimento.
PRINCIPE: Benissimo, verrò con te: provvedi tutte le cose necessarie e vienmi a trovare domani sera a Eastcheap; io cenerò là. Addio.
POINS: Addio, mio signore.
(Esce)
PRINCIPE: Vi conosco tutti, e pel momento voglio assecondare lo sfrenato umore del vostro ozio. In questo imiterò il sole, che permette alle nubi basse e malefiche di velare la sua bellezza al mondo affinché, quando gli piacerà di esser di nuovo lui medesimo, essendosi fatto desiderare, possa venir ammirato ancor più, quando romperà attraverso le impure e brutte masse di vapori, che parevano soffocarlo. Se tutto l'anno fosse di giorni festivi, divertirsi sarebbe noioso quanto lavorare, ma quando essi vengono di rado, capitano desiderati, ché nulla piace più delle cose rare. Così quand'io mi leverò di dosso questa vita di scapestrato e pagherò il debito che mai avevo promesso di pagare, e manterrò più di quello che non promisi, di altrettanto sorpasserò l'aspettazione della gente, e, come un brillante metallo sopra un terreno bruno, la mia conversione, scintillando sui miei falli trascorsi, sembrerà più meritevole e attirerà più sguardi del merito, che non ha alcuno specchietto che lo faccia risaltare. Io trasgredirò, per farmi della trasgressione un'arte, e quando la gente meno vi pensa, riparerò il tempo perduto.
SCENA TERZA - Londra. Una stanza del Palazzo
(Entrano ENRICO QUARTO, NORTHUMBERLAND, WORCESTER, HOTSPUR, SIR GUALTIERO BLUNT ed altri)
ENRICO: Il mio sangue è stato troppo freddo e calmo, incapace di fremere a questi affronti: e voi ve ne siete accorti, e quindi calpestate la mia pazienza: ma siate certi che d'ora innanzi sarò piuttosto il regale me stesso, possente e formidabile, che non quale mi vorrebbe il mio temperamento, che è stato tranquillo come l'olio, molle come tenere piume, e per questo ha perduto quel titolo al rispetto, che un'anima altera non porta mai che ad un'altr'anima altera.
WORCESTER: La nostra casa, mio sovrano, non merita che le si usi contro la verga della potenza; di quella stessa potenza che le nostre mani hanno aiutato a rendere così imponente.
NORTHUMBERLAND: Signore...
ENRICO: Worcester, vattene, ch'io vedo nel tuo occhio la minaccia e la disobbedienza. Oh messere, il vostro contegno è troppo audace ed imperioso e la maestà di re non poté mai finora tollerare l'irato baluardo della fronte di un suddito. Voi avete ampio permesso di lasciarci; se ci occorrerà la vostra opera e il vostro consiglio, vi faremo chiamare. (Worcester esce. A Northumberland) Stavate per parlare?
NORTHUMBERLAND: Si, mio buon signore. Quei prigionieri domandati in nome di Vostra Altezza e che furon presi da Arrigo Percy, qui presente, a Holmedon, non vennero, com'egli assicura, negati in modo sì reciso come è stato riferito a Vostra Maestà. L'invidia, o l'errore, son dunque colpevoli di questo fallo e non mio figlio.
HOTSPUR: Mio sovrano, io non negai affatto i prigionieri, ma ricordo che, finita la battaglia, mentre arso dal furore e dalla estrema fatica, ansante e sfinito me ne stavo appoggiato sulla spada, venne lì un certo pari, tutto lindo, leggiadramente vestito, fresco come uno sposo, col mento raso di recente che pareva un campo di stoppie dopo la mietitura; era profumato come un mercante di mode, e teneva tra il pollice e l'indice una scatoletta di aromi, che di quando in quando avvicinava al naso e poi la ritirava; del che il naso, adirato, quando ve l'avvicinava ancora, soffiava; e non faceva che sorridere e ciarlare, e mentre i soldati passavano da presso portando i morti, egli li chiamava manigoldi ignoranti, maleducati, a portare a quel modo un cadavere sconcio e brutto, tra il vento e la sua nobiltà. In termini fioriti e da signora m'interpellò e tra l'altro mi chiese i miei prigionieri in nome di Vostra Maestà. Io allora, tutto dolorante per le ferite che s'eran freddate, seccato da questo pappagallo, per la pena e l'impazienza gli risposi distrattamente, non ricordo che...
che li avrebbe e non li avrebbe; ché mi veniva la smania a vederlo scintillante di eleganze e sì soavemente profumato, ciarlare come una dama d'onore, di cannoni e di tamburi e di ferite - che Dio gli perdoni! - e dirmi che il rimedio più sovrano del mondo per una conclusione interna era lo spermaceti, e ch'era gran peccato, proprio così, che si scavasse lo scellerato salnitro dalle viscere della terra innocente per distruggere così vilmente tanti bei giovani gagliardi; e che se non fosse stato per quei vili cannoni, lui stesso si sarebbe fatto soldato. A queste sue ciarle futili e sconnesse, io risposi, mio signore, vagamente come già vi dissi; e vi supplico affinché il suo rapporto non sia accettato come accusa e s'interponga tra la mia devozione e la Vostra Maestà.
BLUNT: Tenuto conto delle circostanze, mio buon signore, qualunque cosa Arrigo Percy abbia detto allora a un simile individuo e in simile luogo e momento, con tutto il resto che vi è stato riferito, può ragionevolmente esser lasciato cadere, e mai più sorgere a suo danno ed essergli ritorto contro come accusa, quello che egli ha detto allora, purché lo disdica ora.
ENRICO: Sì, ma intanto egli rifiuta i prigionieri a meno che noi, a nostre spese, non riscattiamo subito suo cognato, quello sciocco di Mortimer, che, sull'anima mia, ha deliberatamente tradito la vita di coloro che condusse a battaglia contro quel gran mago, quel dannato di Glendower, la cui figlia, a quanto si dice, ha di recente sposato il conte di March. Dovremo dunque vuotare i nostri scrigni per ricondurre a casa un traditore? Dovremo pagare il tradimento? E venire a patti con dei codardi, che si son perduti e condannati da sé? No, che muoia di fame sulle sterili montagne; ché mai terrò in conto d'amico quell'uomo, la cui lingua mi chiederà di spendere un soldo per ricondurre a casa il ribelle Mortimer.
HOTSPUR: Il ribelle Mortimer! Egli mai non passò al nemico, mio sovrano, che per le vicende della guerra. A provare tale verità non occorre che una voce per tutte quelle ferite, quelle ferite spalancate, ch'egli ricevette da valoroso quando sulla sponda cannosa della dolce Severn, passò quasi un'ora in singolar tenzone a corpo a corpo a gareggiar d'audacia col gran Glendower. Tre volte ripreser lena, e tre volte di mutuo accordo bevvero le acque della Severn veloce che, spaventata dai loro sguardi sanguinosi, corse piena di timore tra le tremanti canne a nascondere il capo ricciuto nella cava sponda, tinta del sangue di quei valorosi combattenti. L'astuzia sfrontata e corrotta non colorò mai le sue macchinazioni di sì mortali ferite, né il nobile Mortimer avrebbe potuto riceverne tante e sì volentieri: non sia dunque calunniato con l'accusa di ribelle.
ENRICO: Tu menti su di lui, Percy, menti su di lui! Egli non ha mai tenuto testa a Glendower. Ti assicuro che avrebbe piuttosto osato affrontare il diavolo da solo, che aver per avversario Owen Glendower.
Non hai vergogna? Ma, messere, che d'ora innanzi non vi senta più parlare di Mortimer. Mandatemi i vostri prigionieri con la maggiore speditezza, o avrete da me un messaggio che v'increscerà. Monsignore di Northumberland, vi autorizziamo a partire con vostro figlio.
Mandateci i vostri prigionieri o ne sentirete delle belle.
(Escono Enrico Quarto, Blunt e il Seguito)
HOTSPUR: E se il diavolo venisse ruggendo a chiedermeli, io non li manderei. Voglio raggiungerlo sul momento e dirglielo: voglio sollevarmi il cuore foss'anche a rischio della testa.
NORTHUMBERLAND: Che! Ebbro di collera? Fermatevi, aspettate un momento: ecco, viene vostro zio.
(Rientra WORCESTER)
HOTSPUR: Parlare di Mortimer! Perdio! ne parlerò e che la mia anima non trovi misericordia, s'io non faccio causa comune con lui. Sì, per lui vuoterò tutte queste vene e verserò il mio sangue prezioso goccia a goccia nella polvere, ma solleverò il calpestato Mortimer tanto alto nell'aria quanto questo re sconoscente, questo ingrato e cancheroso Bolingbroke.
NORTHUMBERLAND (a Worcester): Fratello, il re ha fatto diventar pazzo vostro nipote.
WORCESTER: Chi ha provocato quest'eccitazione dopo che io ero partito?
HOTSPUR: Egli vuole, nientemeno, tutti i miei prigionieri, e quand'io ho insistito di nuovo pel riscatto del fratello di mia moglie, la sua guancia si è fatta pallida e mi ha guardato con occhio micidiale, tremando al solo nome di Mortimer.
WORCESTER: Non posso biasimarlo: non fu questi proclamato dal morto Riccardo il più prossimo parente?
NORTHUMBERLAND: Così fu, udii io stesso la proclamazione: e fu allora che l'infelice re - Dio ci perdoni la parte che avemmo nelle sue sventure - partì per la spedizione d'Irlanda da dove, impedito, ritornò per esser deposto e poco dopo assassinato.
WORCESTER: E per la sua morte noi viviamo, nell'ampia bocca del mondo, calunniati e vilipesi.
HOTSPUR: Ma, piano, vi prego: proclamò allora re Riccardo mio fratello Edmondo Mortimer erede alla corona?
NORTHUMBERLAND: Così fece; io stesso lo udii.
HOTSPUR: Non posso allora biasimare il re suo cugino, per aver desiderato ch'egli morisse di fame sulle sterili montagne. Ma è possibile che voi, che metteste la corona sul capo di quest'uomo ingrato, e che per causa sua portate l'odiosa macchia di una complicità assassina, è mai possibile che sopportiate un mondo di maledizioni per far da suoi agenti, da vili mandatari, da capestro, da scala o anche da boia? Oh, perdonatemi, se io scendo sì in basso per mostrarvi in quale rango e condizione vi trovate sotto questo astuto re. Patirete voi che si dica, oh vergogna! ai nostri giovani e si racconti nelle cronache future, che uomini della vostra nobiltà e potenza s'impegnarono entrambi per una causa ingiusta - come voi due avete fatto, che Dio vi perdoni - abbattendo Riccardo, bella rosa graziosa, per piantare questo spino, questa rosa canina di Bolingbroke? E si dirà a vostra maggior vergogna che voi siete scherniti, messi in disparte, scrollati via da colui pel quale patiste queste vergogne? No, v'è ancor tempo perché possiate redimere il vostro onore offuscato e ritornare nella buona opinione del mondo.
Vendicatevi del beffardo e sdegnoso disprezzo di questo re superbo, che studia notte e dì per ricambiare i debiti che ha con voi fin col sanguinoso pagamento della vostra morte. Io dico, dunque...
WORCESTER: Pace, cugino, non dite altro. Vi aprirò ora un segreto libro, e alle vostre menti scontente, pronte alle più audaci concezioni, leggerò cose profonde e pericolose, piene di rischio, e di spirito sì avventuroso quanto ne occorre a traversare un alto mugghiante torrente sull'incerto sostegno dell'asta di una lancia.
HOTSPUR: Se ci si cade dentro, buona notte! O affondare o nuotare.
Venga pure il pericolo da oriente a occidente; l'onore gli andrà incontro da nord a sud e verranno alle prese. Oh, il sangue bolle di più a dar la caccia a un leone che a levare una lepre.
NORTHUMBERLAND: La visione di una grande impresa lo spinge oltre i limiti della moderazione.
HOTSPUR: Pel cielo! Mi sembrerebbe un salto da nulla quello di strappare il fulgido onore alla luna dal viso pallido, o di tuffarsi nel profondo del mare, là dove lo scandaglio non poté mai toccar terra, e tirar su per le chiome l'onore annegato, se quegli che lo salvasse di là potesse portar, senza rivali tutta la sua gloria. Ma finiamola con queste meschine compartecipazioni!
WORCESTER: Egli immagina un mondo di fantasmi ma non la forma di ciò che dovrebbe perseguire. Buon cugino, datemi ascolto per un momento.
HOTSPUR: Vi domando perdono.
WORCESTER: Quegli stessi nobili scozzesi che sono vostri prigionieri...
HOTSPUR: Li terrò tutti. Per Iddio! Egli non avrà uno solo di quegli scozzesi. No, dovesse uno scozzese salvargli l'anima, egli non l'avrà.
Li terrò, lo giuro per questa mano.
WORCESTER: Voi divagate e non volete dare ascolto alle mie proposte:
quei prigionieri li riterrete.
HOTSPUR: Già, li riterrò, questo è chiaro. Egli ha detto che non voleva riscattare Mortimer; ha proibito alla mia lingua di parlare di Mortimer, ma io lo coglierò quando dorme e gli griderò all'orecchio:
"Mortimer!". Anzi, farò insegnare a uno storno a non dir altro che "Mortimer" e glielo darò affinché la sua collera sia sempre in movimento.
WORCESTER: Ascoltate, cugino, una parola.
HOTSPUR: Io rinunzio qui solamente a ogni altra occupazione se non quella di irritare e tormentare questo Bolingbroke; e quanto a quello spadaccino del principe di Galles, se non pensassi che suo padre non lo ama e che sarebbe contento gli accadesse qualche disgrazia, lo farei avvelenare con un bicchiere di birra.
WORCESTER: Addio nipote; vi riparlerò quando sarete meglio disposto a starmi a sentire.
NORTHUMBERLAND: Ma che sciocco impaziente sei, invelenito come se una vespa ti avesse punto, da prorompere in questo umore donnesco legando il tuo orecchio a non altra lingua che la tua?
HOTSPUR: Ecco, vedete, io son frustato e flagellato con verghe, sferzato con ortiche, punto da formiconi, quando sento parlare di quel vile politicastro di Bolingbroke. Al tempo di Riccardo... come si chiama quel luogo? che gli venga il cànchero... è nella contea di Gloucester; è dove dimorava quel pazzo del duca suo zio, suo zio York; dove io per la prima volta resi omaggio a questo re dei sorrisi, a questo Bolingbroke, perdio! quando voi e lui tornaste da Ravenspurgh.
NORTHUMBERLAND: Al castello di Berkeley.
HOTSPUR: Appunto. Ah! quante inzuccherate cortesie non mi prodigò allora quel cane strisciante! Vedete: "quando la sua fortuna pargoletta sarebbe divenuta adulta", e "gentile Arrigo Percy", e "cortese cugino"; che il diavolo si porti simili impostori!... Dio mi perdoni; buono zio, dite quel che avete a dire, ch'io ho finito.
WORCESTER: No, se non avete finito, seguitate pure: noi staremo qui ad aspettare i vostri comodi.
HOTSPUR: Ho finito in verità.
WORCESTER: Allora torniamo ancora una volta ai vostri prigionieri scozzesi. Liberateli subito senza riscatto e fate del figlio di Douglas il vostro unico agente per radunare truppe in Scozia, le quali, per varie ragioni che vi farò sapere per iscritto, saranno facilmente accordate, siatene sicuro. (A Northumberland) Voi, mio signore, mentre vostro figlio è così occupato in Scozia, vi insinuerete segretamente nel cuore di quel nobile prelato, il nostro bene amato arcivescovo.
HOTSPUR: Di York, non è vero?
WORCESTER: Appunto. Egli è crucciato ancora per la morte di suo fratello lord Scroop a Bristol. Non dico questo come supposizione di ciò che penso potrebbe essere, ma di cosa che so è già stata ruminata, tramata e sistemata, e che attende soltanto di poter vedere il volto dell'occasione che la favorisce.
HOTSPUR: L'ho subodorato, e per l'anima mia, tutto andrà bene.
NORTHUMBERLAND: Tu lasci sempre andare i cani prima che la selvaggina sia levata.
HOTSPUR: Perbacco! Non può che essere un eccellente progetto; e poi le forze di Scozia e di York... si uniranno a Mortimer, eh?
WORCESTER: Così avverrà.
HOTSPUR: In fede mia, è stato ottimamente combinato.
WORCESTER: Né lieve è il motivo che ci spinge in tutta fretta a salvare i nostri capi capeggiando un esercito; ché, per quanto ci comportassimo con prudenza, il re si considererà sempre come nostro debitore e penserà che noi ci crediamo mal pagati finché egli non trovi il momento di saldare il conto con usura. E vedete com'egli comincia già a straniarci dalle sue buone grazie.
HOTSPUR: Proprio così, proprio così; ci vendicheremo di lui.
WORCESTER: Cugino, addio: non andate più oltre in questo affare di quello ch'io v'indicherò per lettera. Quando il tempo sarà maturo, il che avverrà presto, andrò segretamente da Glendower e da lord Mortimer e là farò in modo che voi e Douglas. e insieme le nostre forze, ci incontreremo felicemente portando nelle nostre braccia vigorose le nostre fortune che oggi invece teniamo con tanta incertezza.
NORTHUMBERLAND: Addio, buon fratello: confido che riusciremo.
HOTSPUR: Zio, addio. Oh, sian brevi le ore finché giunga l'istante in cui il tumulto dei campi di battaglia, il fragore dei colpi e i gemiti faccian eco plaudendo al nostro spasso!
(Escono)
ATTO SECONDO
PRIMO VETTURALE: Olà, eh! Se non sono le quattro del mattino, vuo' essere impiccato! Il carro di Boote è sopra al camino nuovo e il nostro cavallo non è ancora caricato. Olà, stalliere!
STALLIERE (di dentro): Vengo, vengo.
PRIMO VETTURALE: Ti prego, Maso, batti la sella di Codimozzo, metti dei fiocchi di lana nella punta; la povera bestia è scorticata sul garrese oltre ogni misura.
(Entra un altro Vetturale)
SECONDO VETTURALE: Qui i piselli e le fave sono fradici come un cane; questo è il mezzo più spiccio per far venire i vermi ai poveri cavalli. Questa casa è tutta sottosopra dacché è morto lo stalliere Berto.
PRIMO VETTURALE: Povero diavolo! Non ebbe più un momento d'allegria dacché il prezzo dell'avena aumentò; fu la sua morte
SECONDO VETTURALE: Credo che, quanto a pulci, questa sia la più lurida casa su tutta la strada di Londra. Sono punzecchiato come una tinca.
PRIMO VETTURALE: Come una tinca? Per la messa! Non c'è mai stato re nella cristianità che sia stato morso meglio di me, dacché ha cantato il gallo.
SECONDO VETTURALE: Ecco qua, non ci danno mai un pitale e allora noi pisciamo nel camino, e l'orina genera pulci come un ghiozzo.
PRIMO VETTURALE: Olà, stalliere! Vieni qua! E che tu possa essere impiccato! Vieni qua!
SECONDO VETTURALE: Ho un prosciutto e due radiche di zenzero che devo consegnare a Charing Cross.
PRIMO VETTURALE: Corpo di Dio! I tacchini nel mio paniere son proprio morti di fame. Olà, stalliere! Che ti colga la peste! Non hai mai occhi in testa? Non ci senti? Se romperti la zucca non è una buona azione come bere un bicchiere, sono proprio un briccone. Vieni, possa tu morire impiccato! Non c'è coscienza in te?
(Entra GADSHILL)
GADSHILL: Buon giorno, vetturali. Che ore sono?
PRIMO VETTURALE: Credo sian le due.
GADSHILL: Ti prego, prestami la tua lanterna per vedere il mio castrato nella stalla.
PRIMO VETTURALE: No, piano, vi prego: so in verità una gherminella che ne val due di queste.
GADSHILL: Ti prego, prestami la tua.
SECONDO VETTURALE: Sì, proprio, e quando? me lo sai dire? prestami la tua lanterna, fa lui... per la Madonna! Prima ti voglio vedere impiccato.
GADSHILL: O sor vetturale! A che ora pensi d'arrivare a Londra?
SECONDO VETTURALE: Abbastanza in tempo per andare a letto al lume di candela, te lo garantisco. Vieni, vicino Mugs, chiameremo i signori:
essi voglion viaggiare in compagnia perché hanno gran bagaglio.
(Escono i Vetturali)
GADSHILL: Olà, eh! cameriere!
CAMERIERE (di dentro): Pronto! disse il borsaiolo.
GADSHILL: Che torna a dire: pronto, disse il cameriere: poiché tanto poco tu differisci dal borsaiolo, quanto chi dirige da chi lavora. Sei tu che tendi la rete.
(Entra il Cameriere)
CAMERIERE: Buon giorno, padron Gadshill. Va bene quello che vi dissi ieri sera: c'è un piccolo proprietario della campagna di Kent che ha portato seco trecento marchi d'oro. Sentii che lo diceva a uno della brigata ieri sera a cena, a una specie di ufficiale del tesoro; che ha pure grande abbondanza di bagagli, Dio sa cosa. Sono già alzati e chiedono uova e burro; se ne andranno tra poco GADSHILL: Compare, se non s'incontrano coi valletti di San Nicola, ti darò questa testa.
CAMERIERE: No, non la voglio; ti prego, tienla pel boia, perché so che adori San Nicola con tanta devozione quanta può averne un uomo senza fede.
GADSHILL: Che mi parli tu di boia? Se io sono appiccato, faremo un grasso paio sulle forche, perché se sono appiccato io, il vecchio sir Giovanni lo sarà come me e tu sai ch'egli non è davvero rifinito. Va' là! Ci son degli altri troiani che tu non sogneresti neppure, i quali, per spasso, son contenti di fare onore alla nostra professione, e se si volesse veder troppo a fondo nelle nostre faccende, metterebbero tutto a posto per amor del loro buon nome. Io non sono associato con miserabili girovaghi, con grassatori da quattro soldi armati di pertica, né con quei pazzi e paonazzi mustacchiati tracannatori di cervogia, ma con la nobiltà e con la serenità, con borgomastri e pezzi grossi, gente che sa l'affar suo e che è più pronta a colpire che a parlare, e a parlare più presto che a bere, e a bere più presto che a pregare: eppure, sanguediddio, io mentisco, poiché essi pregano continuamente il loro santo, la borsa del pubblico, o piuttosto non la pregano, ma la depredano; ché vi cavalcan sopra per lungo e per largo e sene fanno borzacchini.
CAMERIERE: Che! Fanno borzacchini con la borsa del pubblico? E resisterà essa all'acqua per una brutta strada?
GADSHILL: Eccome! La giustizia l'ha ingrassata. Noi rubiamo come se fossimo dentro una botte di ferro, perfettamente sicuri; abbiamo la ricetta dei semi di felci... camminiamo invisibili.
CAMERIERE: In fede mia, credo che dobbiate piuttosto ringraziare la notte che il seme delle felci, se camminate invisibili.
GADSHILL: Dammi la mano: tu avrai parte del nostro acquisto, quant'è vero che sono un uomo onesto.
CAMERIERE: Dammela piuttosto in quanto sei un farabutto ladro.
GADSHILL: Va' là! "homo" è un nome comune a tutti gli uomini. Di' allo stalliere di portar fuori dalla stalla il mio castrato. Addio, sozzo ribaldo.
(Escono)
POINS: Venite, nascondiamoci, nascondiamoci: ho portato via il cavallo di Falstaff ed egli si logora come il velluto gommato.
PRINCIPE: Tienti nascosto.
(Entra FALSTAFF)
FALSTAFF: Poins! Poins! ti possano impiccare! Poins!
PRINCIPE (avanzando): Silenzio, birbante dagli arnioni lardosi! Cosa vai sbraitando?
FALSTAFF: Dov'e Poins, Rigo?
PRINCIPE: E' andato su in cima al colle: andrò a cercarlo.
(Fa finta di cercare Poins)
FALSTAFF: Io son maledetto perché rubo in compagnia di quel ladro. Il briccone ha portato via il mio cavallo e lo ha legato non so dove. Se devo camminare ancora quattro piedi precisi, misurati con la squadra, non avrò più fiato. Ecco, non dubito di morire d'una bella morte, dopo tutto, se sfuggo alla forca per aver ucciso quel furfante. Son vent'anni che tutte le ore giuro di abbandonare la sua compagnia, eppure eccomi qui ammaliato dalla compagnia di questo furfante Se il briccone non mi ha dato qualche pozione per farsi amare da me vuo' essere impiccato. Non può essere diversamente: io ho bevuto qualche pozione. Poins! Rigo!
Che la peste vi colga tutti e due! Bardolfo! Peto! Voglio morir di fame se faccio un passo di più per rubare. Se diventare un galantuomo e piantare questi furfanti non è un'azione buona quanto bere un bicchier di vino, io mi riconosco per il più gran mariolo che abbia mai masticato con un dente. Otto metri di terreno malpari fan per me come settanta miglia a piedi, e quei birbanti dal cuore di pietra lo sanno bene. Accidenti a tutto! Quando i ladri non sanno essere fedeli l'uno all'altro! (Fischiano) Che vi prenda la peste a tutti! Datemi il mio cavallo, furfanti, e che v'impicchino!
PRINCIPE (venendo avanti): Silenzio, pancione! Sdraiati giù, metti l'orecchio a terra, e ascolta se senti il passo di viaggiatori.
FALSTAFF: Avete delle leve per rialzarmi quando sarò giù? Pel sangue d'Iddio, non porterò più la mia carne così lontana a piedi, per tutto il denaro che è nelle casse di tuo padre. Che canchero vi piglia di uccellarmi così?
PRINCIPE: Tu menti; tu non sei uccellato; sei scavalcato.
FALSTAFF: Ti prego, buon principe Righetto, aiutami a ritrovare il mio cavallo, buon figlio di re!
PRINCIPE: Ma va' via, briccone! Sono forse il tuo stalliere?
FALSTAFF: Va', appiccati con le tue giarrettiere di erede presuntivo!
Se son preso, vi farò la spia. Se non farò fare delle ballate su tutti voi, cantate su arie da trivio, vuo' che un bicchier di vin di Spagna mi sia di veleno. Quando uno scherzo è così spinto, e a piedi per di più, io lo detesto.
(Entra GADSHILL, con BARDOLFO e PETO)
GADSHILL: Fermo là!
FALSTAFF: Così faccio mio malgrado.
POINS:. Oh! ecco il nostro palo; conosco la sua voce.
BARDOLFO: Che notizie?
GADSHILL: Imbacuccatevi, imbacuccatevi, mettetevi le maschere: c'e denaro del re che scende dalla collina; va alle casse del re.
FALSTAFF: Menti, furfante, va alla taverna del re.
GADSHILL: Ce n'è abbastanza per tutti.
FALSTAFF: Già, di forche.
PRINCIPE: Messeri, voi quattro li affronterete nello stretto sentiero, Edoardo Poins ed io andremo più in giù; se sfuggono al vostro attacco s'imbatteranno in noi.
PETO: Quanti sono?
GADSHILL: Circa otto o dieci.
FALSTAFF: Perdio! Non ruberanno essi a noi?
PRINCIPE: Che! Sareste un codardo, ser Giovanni Pancia?
FALSTAFF: In verità, non sono Giovanni di Gand, vostro nonno, ma però non sono un codardo, Rigo.
PRINCIPE: Bene, lo vedremo alla prova.
POINS: Compare Gianni, il tuo cavallo è dietro la siepe; quando ne avrai bisogno lo troverai là. Addio e tieni fermo.
FALSTAFF: Oh, poterlo picchiare, dovessi essere appiccato.
PRINCIPE (a parte a Poins): Ned, dove sono i nostri travestimenti?
POINS:. Qui vicino: seguitemi.
(Escono il Principe e Poins)
FALSTAFF: Ora, padroni miei, buona fortuna dico io, e ognuno badi alle sue faccende.
(Entrano i Viaggiatori)
PRIMO VIAGGIATORE: Vieni, compare; il ragazzo condurrà i nostri cavalli giù dalla collina e noi ce n'andremo un po' a piedi per sgranchirci le gambe.
PRIMO LADRO: Fermi!
I VIAGGIATORI: Gesù ci benedica!
FALSTAFF: Colpite! Accoppateli, tagliategli il collo a questi birbanti! Ah! vermi figli di bagasce! Bricconi ingrassati a prosciutto! Costoro ci odiano, noialtri giovani; accoppateli!
Tosateli!
I VIAGGIATORI: Oh! Siamo rovinati per sempre, noi e tutto quello che possediamo.
FALSTAFF: Appiccatevi! Bricconi panciuti! Siete rovinati? No, grassi marrani, magari aveste qui tutti i vostri tesori! Avanti, coticoni!
Avanti! E che, furfanti! I giovani devono pur campare. Voi siete grandi giurati, non è vero? Vi faremo giurar noi, in fede mia.
(Esce Falstaff eccetera, spingendo avanti i Viaggiatori)
(Rientrano il PRINCIPE ENRICO e POINS travestiti)
PRINCIPE: I ladri hanno legato i galantuomini. Se tu ed io potessimo ora derubare i ladri e andarcene allegramente a Londra, sarebbe argomento di conversazione per una settimana, di risate per un mese, e ce ne ricorderemmo sempre come di un bello scherzo.
POINS: State nascosto: li sento venire.
(Rientrano i Ladri)
FALSTAFF: Venite, padroni miei, dividiamo, e poi a cavallo prima che venga giorno. Se il principe e Poins non sono due codardi matricolati, non c'è giustizia al mondo: non c'è più valore in quel Poins che in un'anatra selvatica.
PRINCIPE: Fuori il denaro!
POINS: Bricconi!
(Mentre stanno dividendo, il Principe e Poins saltano loro addosso.
Scappano tutti, e Falstaff, dopo aver scambiato un colpo o due, fugge anche lui abbandonando il bottino)
PRINCIPE: Preso con molta facilità. Ora saltiamo allegramente a cavallo; i ladri sono dispersi e così presi da paura che non osano incontrarsi l'un l'altro; ognuno prende il compagno per un ufficiale.
Andiamo, buon Edoardo. Falstaff suda a morte e ingrassa la terra sterile mentre cammina. Se non mi facesse ridere lo compiangerei.
POINS: Come ruggiva il furfante!
(Escono)
HOTSPUR: "Ma, per parte mia, mio signore, potrei esser ben contento di trovarmi là, considerata l'affezione che porto alla vostra casa". Egli sarebbe contento... e perché dunque non lo è? Per l'affezione che porta alla nostra casa: in questo mostra ch'egli ama di più il suo granaio che la nostra casa. Leggiamo ancora: "L'impresa che avete cominciata è pericolosa..."; ecco, questo è certo: è pericoloso prendere un'infreddatura, dormire, bere; ma ti dirò, signor mio sciocco, da quel cespo d'ortica, il pericolo, noi cogliamo quel fiore, la sicurezza. "L'impresa che avete incominciata è pericolosa; gli amici di cui parlate sono incerti; il momento stesso è male scelto, e tutta la vostra trama troppo leggera per controbilanciare sì forte opposizione". Così la pensate voi? Così la pensate? Io vi ripeto che siete uno scempio e vile marrano, e che mentite. Che scervellato è costui! Per Iddio! La nostra trama è buona, quant'altra che sia stata mai ordita, i nostri amici fedeli e costanti: buona trama, buoni amici e pieni di fiducia; eccellente trama, ottimi amici. Che furfante dall'anima di ghiaccio è costui! Ecco, monsignore di York approva la trama e il piano generale dell'azione. Pel sangue d'Iddio, se avessi qui quel briccone gli spaccherei il cervello col ventaglio della sua dama! Non ci siamo mio padre mio zio, io stesso? Monsignor Edmondo Mortimer, monsignore di York e Owen Glendower? Non ci sono inoltre i Douglas? Non ho io le loro lettere che promettono di venirmi incontro in armi il nove del mese venturo? E alcuni di loro non sono già in marcia? Che canaglia di un pagano è dunque costui? Che pezzo d'infedele! Ah! vedrete adesso che nella sincerità della sua paura e freddezza di cuore correrà dal re e gli svelerà tutti i nostri movimenti. Oh! vorrei potermi dividere in due e darmi degli schiaffi per aver invitato un simile vaso di latte scremato a sì onorevole impresa! Lo possano impiccare! Dica pur tutto al re; noi siamo preparati. Io partirò appunto questa notte.
(Entra LADY PERCY)
Caterina, debbo lasciarvi tra due ore.
LADY PERCY: O mio buon signore, perché ve ne state così solo? Per quale offesa sono io da quindici giorni bandita dal letto del mio Enrico? Dimmi, dolce signore, cos'è che ti toglie l'appetito, l'allegria e il tuo sonno dorato? Perché chini gli occhi in terra e trasalisci sì di sovente quando sei seduto solo? Perché le tue guance han perduto la freschezza del colorito e perché abbandoni i miei tesori e i miei diritti di sposa alla cupa meditazione e alla maledetta melanconia? Nei tuoi sogni leggeri io ho vegliato presso di te e ti ho udito mormorare racconti di ferree guerre, dir parole di incitamento al tuo saltante corsiero, gridare "coraggio! al campo!". E tu hai parlato di sortite, di ritirate, di trincee, di tende, di palizzate, di difese, di parapetti, di basilischi, di cannoni, di colubrine, di prigionieri riscattati, di soldati uccisi e di tutte le vicende di un'impetuosa battaglia. Lo spirito dentro di te è stato così in guerra, e ti ha talmente agitato nel sonno, che stille di sudore sono apparse sulla tua fronte, come bolle su di un torrente commosso di fresco; e sul tuo volto sono apparsi strani movimenti, quali si vedono in uomini che trattengono il respiro per qualche grande improvvisa ingiunzione. Oh, che presagi son questi? Qualche grave affare deve avere il mio signore per le mani ed io debbo saperlo, o egli non mi ama.
HOTSPUR: Olà, eh!
(Entra un Servo)
Gilliams è andato col pacchetto?
SERVO: Sì, monsignore, un'ora fa.
HOTSPUR: Butler è andato a prendere quei cavalli dallo sceriffo?
SERVO: Ne ha portato uno, mio signore, un momento fa.
HOTSPUR: Quale cavallo? Un roano mozzorecchio, non è vero?
SERVO: Sì, mio signore.
HOTSPUR: Quel roano sarà il mio trono. Ecco, lo monterò subito: Oh, Espérance! Ordinate a Butler di portarlo fuori nel parco.
(Esce il Servo)
LADY PERCY: Ma, ascoltatemi, mio signore.
HOTSPUR: Cosa dici, madonna?
LADY PERCY: Che cosa vi porta lontano da me?
HOTSPUR: Ma! Il mio cavallo, amor mio, il mio cavallo.
LADY PERCY: Via, finitela, folle babbuino! Una donnola non ha tanta irrequietezza quanta ne agita voi. Ma, in fede mia, io voglio sapere, voglio sapere il vostro affare, Arrigo, lo voglio conoscere. Temo che mio fratello Mortimer si agiti per il suo titolo e vi abbia mandato a chiamare per aiutarlo nella sua impresa. Ma se voi andate...
HOTSPUR: ...fin là a piedi, mi stancherò, amor mio.
LADY PERCY: Andiamo, andiamo, parrocchetto, rispondetemi subito alla domanda che ho fatta. In fede mia, ti torcerò il dito mignolo, Arrigo, se tu non mi dici il vero.
HOTSPUR: Via, via, baloccona! amore? io non ti amo, io non ti voglio bene, Caterina: questo non è un mondo da giocar coi fantoccini e tornear con le labbra. Bisogna avere i nasi sanguinanti e gli scudi fessi e farli circolare. Dio mio, il mio cavallo! Che dici, Caterina?
Che vuoi da me?
LADY PERCY: Voi non mi amate? Non mi amate davvero? Va bene, non mi amate dunque; se non mi amate, io non amerò più me stessa. Voi non mi amate? Su, ditemi se parlate per ischerzo o no?
HOTSPUR: Vieni, vuoi vedermi salire a cavallo? E, quando sarò montato, giurerò che ti amo infinitamente. Ma ascoltatemi, Caterina, è necessario che d'ora innanzi non mi domandiate più dove vado, né per qual motivo. Vado dove devo andare, e, per concludere stasera vi debbo lasciare, gentile Caterina. So che siete saggia, ma pure non più saggia della moglie di Arrigo Percy; siete costante, ma pure siete donna; per segretezza nessuna signora è più chiusa di voi: poiché io credo bene che tu non dirai quello che tu ignori, e fino a questo punto io mi fiderò di te, gentile Caterina.
LADY PERCY: Come! Fino a questo punto?
HOTSPUR: Non un pollice più in là. Ma ascoltatemi, Caterina: dove vado io, verrete anche voi; io partirò oggi, voi domani. Siete contenta di questo, Caterina?
LADY PERCY: Devo esserlo per forza.
(Escono)
PRINCIPE: Edoardo, ti prego, esci fuori da quella stanza appiccicosa e aiutami a ridere un poco.
POINS: Dove sei stato, Rigo?
PRINCIPE: Con tre o quattro indòtti, fra tre o quattro ventine di botti. Ho toccato la corda più bassa dell'umiltà. Sor tale, io son fratello giurato di un terzetto di tavernai e posso chiamarli coi loro nomi di battesimo, come Maso, Riccardo e Cecco. Essi giurano già sulla loro salute eterna che, sebbene io sia soltanto principe di Galles, pure sono il re della cortesia; e mi dicono chiaramente che non sono uno zanni superbo come Falstaff, ma un corinzio, un giovanotto di temperamento ardente, un buon ragazzo - perdio! mi chiamano così - e quando sarò re d'Inghilterra comanderò tutti i buoni ragazzi di Eastcheap. Bere molto essi lo chiamano tingere in scarlatto, e se voi nel bagnarvi la gola prendete fiato, essi gridano "Hem!" e vi dicono di tirar giù d'un colpo. Per concludere, ho fatto tanti progressi in un quarto d'ora che posso bere per tutta la vita con qualunque calderaio, parlando il suo proprio gergo. Ti dirò, Edoardo, che tu hai perduto molto onore per non essere stato con me in questa azione. Ma, dolce Edoardo, per raddolcire il qual nome di Edoardo io ti do questi due soldi di zucchero che mi mise or ora tra le mani un sottotavernaio, uno che non parlò mai altro inglese in vita sua che "otto scellini e sei denari" e "siete il benvenuto", con quest'aggiunta squillante, "subito, subito, signore! Segnate una pinta di moscato per la Mezzaluna" e così via. Ma, Edoardo, per far passare il tempo finché Falstaff non venga, ti prego, appostati in qualche stanza qui accanto, mentr'io domanderò al mio garzoncello per qual motivo mi ha dato lo zucchero, e tu non smetter mai di chiamare "Cecco!" affinché egli non possa farmi altro racconto che "subito".
Fatti da parte e io ti mostrerò come si fa.
POINS: Cecco!
(Esce Poins)
PRINCIPE: A meraviglia.
POINS: Cecco!
(Entra CECCO)
CECCO: Subito, subito, messere. Guarda se occorre niente nella stanza della Melagrana, Dolfo.
PRINCIPE: Vieni qui, Cecco.
CECCO: Mio signore?
PRINCIPE: Quanto tempo hai da servire, Cecco?
CECCO: In fede mia, cinque anni e altrettanto da...
POINS (di dentro): Cecco!
CECCO: Subito, subito, messere.
PRINCIPE: Cinque anni! Per la Madonna! Una lunga ferma per far risonare le stoviglie di peltro. Ma, Cecco, oserai esser così valoroso da fare il codardo col tuo impegno e mostrargli un bel paio di tacchi e fuggir via da lui?
CECCO: O Dio, messere, io giurerei su tutti i libri d'Inghilterra ch'io avrei cuore...
POINS (di dentro): Cecco!
CECCO: Subito, subito, signore.
PRINCIPE: Quanti anni hai, Cecco?
CECCO: Lasciate che veda... verso il prossimo San Michele avrò...
POINS (di dentro): Cecco!
CECCO: Subito, messere. Vi prego, mio signore, aspettate un momento.
PRINCIPE: Sì, ma ascoltate, Cecco: per lo zucchero che tu mi hai dato, erano due soldi, non è vero?
CECCO: O Dio, vorrei che fossero stati quattro!
PRINCIPE: Ti darò per esso mille sterline; domandamele quando vuoi e tu le avrai.
POINS (di dentro): Cecco!
CECCO: Subito, subito.
PRINCIPE: Subito Cecco? No, Cecco: ma domani, Cecco; oppure, Cecco, giovedì, oppure, in verità, Cecco quando tu vuoi. Ma, Cecco...
CECCO: Mio signore?
PRINCIPE: Vuoi tu derubare questa giubba di cuoio coi bottoni di cristallo, questa testa rapata, quest'anello d'agata, queste calze cenerognole con giarrettiera di sala, questa lingua melata e borsa spagnola...
CECCO: O Dio, messere, cosa volete dire?
PRINCIPE: Ebbene dunque, il vostro moscato scuro è la vostra sola bevanda; poiché, vedete, Cecco, il vostro farsetto di tela bianca diventa sudicio. In Barbaria, messere, non può costar tanto.
CECCO: Cosa, messere?
POINS (di dentro): Cecco!
PRINCIPE: Vattene, briccone! Non senti che ti chiamano?
(Tutti e due lo chiamano: Cecco resta imbarazzato e non sa da che parte andare)
(Entra l'Oste)
OSTE: Che! Te ne stai lì fermo mentre tutti ti chiamano? Attendi agli ospiti là dentro. (Esce Cecco) Mio signore, il vecchio sir Giovanni con un'altra mezza dozzina è alla porta: li devo fare entrare?
PRINCIPE: Lasciali lì un momento e poi apri la porta.
(Esce l'Oste) Poins!
(Rientra Poins)
POINS: Subito, subito, messere.
PRINCIPE: Compare Falstaff e gli altri ladri sono alla porta: staremo allegri?
POINS: Allegri come grilli, ragazzo mio. Ma dite su: che sugo ci avete cavato da questo scherzo fatto al garzone? Sentiamo, a che v'è servito?
PRINCIPE: Ora ho addosso tutti i ghiribizzi che sono stati ghiribizzi dagli antichi giorni del buon padre Adamo fino alla giovinezza di questa presente mezzanotte. Che ore sono, Cecco?
CECCO (di dentro): Subito, subito, messere.
PRINCIPE: Ma che questo ragazzo debba aver sempre meno parole di un pappagallo, eppur esser figlio di donna! Tutta la sua industria sta nell'andar su e giù per le scale, tutta la sua eloquenza nel dire la cifra di un conto. Io non la penso ancora come Percy, l'Hotspur del nord; quegli che mi uccide sei o sette dozzine di scozzesi a colazione, si lava le mani e dice alla moglie: "Accidenti a questa vita tranquilla! ho bisogno di lavorare". "O mio dolce Arrigo - dice lei - quanti ne hai uccisi quest'oggi?". "Dài da bere al mio cavallo roano", dice lui; e risponde: "Circa quattordici", e un'ora dopo:
"Un'inezia, un'inezia". Ti prego, fa' entrare Falstaff: io farò la parte di Percy e quel dannato maiale farà dama Mortimer sua moglie.
"Trinca!" dice l'ubriaco. Fa' entrare Buzzo, fa' entrare Sego.
(Entrano FALSTAFF, GADSHILL, BARDOLFO e PETO seguiti da CECCO con vino)
POINS:. Benvenuto, Gianni, dove sei stato?
FALSTAFF: Peste a tutti i codardi, dico io, e di quella buona pure!
Per la Madonna e amen! Dammi un bicchiere di vin di Spagna, garzone.
Piuttosto che condurre a lungo questa vita, voglio far calze, rammendarle e anche farci il piede. Peste a tutti i codardi! Dammi un bicchiere di vin di Spagna, briccone. Non c'è dunque più coraggio a questo mondo?
(Beve)
PRINCIPE: Hai veduto mai Febo baciare un panino di burro? Quella creatura di cuor tenero, che si liquefaceva alla dolce dichiarazione del sole? Se tu l'hai veduto, guarda allora quella mantèca.
FALSTAFF: Briccone che sei, c'è anche della calce in questo vin di Spagna: in un briccone non si può trovare che della furfanteria: pure un codardo è peggiore di un bicchiere di vin di Spagna con dentro della calce. Un briccone codardo. Va' per la tua strada, vecchio Gianni, muori quando vuoi, se la forza virile, la vera forza virile non è cosa dimenticata sulla faccia della terra, io sono allora un'aringa senza latte. Non vi sono tre galantuomini in Inghilterra che non siano ancora stati impiccati e un di loro è grasso e sta invecchiando. Dio ci aiuti intanto! Un brutto mondo, dico io. Vorrei essere un tessitore; potrei cantar salmi o qualunque altra cosa. Peste a tutti i codardi, non mi stanco di ripetere.
PRINCIPE: Ebbene, dunque, sacco di lana? Cosa vai brontolando?
FALSTAFF: Un figlio di re! Se non ti batto fuori dal tuo regno con una spada di legno e caccio tutti i tuoi sudditi innanzi a te come un gregge di oche selvatiche, non vuo' più portare peli sul viso. Voi, principe di Galles!
PRINCIPE: Ma insomma, pallone figlio di una bagascia, che è successo?
FALSTAFF: Non siete voi un codardo? Rispondete a questo; e anche Poins là.
POINS: Pel sangue di Dio! Pancione, se mi chiamate codardo, pel Signore, ti pugnalerò.
FALSTAFF: Io chiamarti codardo! Ti voglio veder dannato prima di chiamarti codardo; ma darei mille sterline se potessi correre veloce come te. Avete le spalle abbastanza diritte e non v'importa se vi vedono il dorso. E chiamate questo spalleggiare i vostri amici? Il canchero a codesto spalleggiare! Datemi gente che mi sappia star di fronte. Dammi un bicchiere di vin di Spagna: sono un briccone se oggi ho bevuto.
PRINCIPE: O furfante! Le sue labbra non sono ancora asciutte dell'ultimo sorso.
FALSTAFF: Non importa nulla. (Beve) Peste a tutti i codardi, dico ancora.
PRINCIPE: Che c'è?
FALSTAFF: Che c'è? C'è che quattro di noi qui hanno preso mille sterline questa mattina.
PRINCIPE: Dove sono, Gianni? Dove sono?
FALSTAFF: Dove sono? Portate via ci sono state! Cento addosso a noi poveri quattro.
PRINCIPE: Che! Cento, amico mio?
FALSTAFF: Sono un birbante se non ho incrociato la spada con una dozzina di loro per due ore di seguito. L'ho scampata per miracolo. Ho avuto otto puntate attraverso il mio giustacuore, quattro attraverso le brache, il mio brocchiere è stato passato da parte a parte, la mia spada intaccata come una sega: "ecce signum"! Non combattei mai meglio dacché son uomo: tutto è stato inutile. Peste a tutti i codardi! Che parlino: se dicono più o meno della verità, sono dei furfanti e figli delle tenebre.
PRINCIPE: Parlate, messeri; com'è andata?
GADSHILL: Noi quattro piombammo addosso a circa una dozzina...
FALSTAFF: Sedici almeno, signor mio.
GADSHILL: E li legammo.
PETO: No no, non furono legati.
FALSTAFF: Briccone! Furon tutti quanti legati, tutti, o io sono un giudeo, un ebreo giudeo.
GADSHILL: Mentre stavamo dividendo, un sette o otto uomini freschi ci piombarono addosso.
FALSTAFF: E slegarono gli altri, e poi ne vennero ancora.
PRINCIPE: E tre! Avete combattuto contro tutti?
FALSTAFF: Tutti? Non so cosa vogliate dir con tutti, ma se io non ho combattuto con cinquanta di loro, sono un mazzo di radici. Se non ce n'erano cinquantadue o cinquantatré sul povero vecchio Gianni, non sono allora una creatura a due gambe.
PRINCIPE: Pregate Iddio di non averne ucciso qualcuno.
FALSTAFF: Che! Oramai le preghiere non giovan più! Ne ho cucinati due; son sicuro di averne serviti due, due bricconi in abito di bucherame.
Io ti dico il vero, Rigo; se ti dico una bugia; sputami in faccia, chiamami rozza. Tu conosci la mia vecchia messa in guardia.... io stavo così e tenevo la punta a questo modo: quattro bricconi in bucherame mi piombarono addosso.
PRINCIPE: Come! Quattro? Tu hai detto or ora soltanto due.
FALSTAFF: Quattro, Rigo; ti ho detto quattro.
POINS: Sì sì, ha detto quattro.
FALSTAFF: Questi quattro venivano di fronte e puntarono con gran vigore contro di me. Io non mi scomposi per questo, ma presi le loro sette punte sul mio scudo, così.
PRINCIPE: Sette? Ma se or ora non ce n'eran che quattro?
FALSTAFF: In bucherame!
POINS: Sì, quattro in abiti di bucherame.
FALSTAFF: Sette per quest'elsa! o io sono uno scellerato.
PRINCIPE (a Poins): Ti prego, lascialo dire; tra poco ce ne saranno di più.
FALSTAFF: Mi stai a sentire, Rigo?
PRINCIPE: Sì, e sono anche tutto orecchi Gianni.
FALSTAFF: Fai bene poiché questo val la pena di essere ascoltato.
Questi nove in bucherame, dei quali ti parlavo...
PRINCIPE: Bene, già due di più.
FALSTAFF: Essendosi spezzate le loro punte...
POINS: Giù caddero le loro brache.
FALSTAFF: Cominciarono a cedermi terreno, ma io li incalzai da presso, li attaccai a corpo a corpo, e rapido come il pensiero, sette degli undici ne servii.
PRINCIPE: O mostruoso! Undici uomini in bucherame scaturiti fuori da due!
FALSTAFF: Ma, come volle il diavolo, tre malnati bricconi vestiti di verde di Kendal mi vennero dietro e si buttarono su di me... perché era così buio, Rigo, che tu non avresti potuto veder la tua mano.
PRINCIPE: Queste menzogne son simili al padre che le genera: grosse come montagne, evidenti, palpabili. Ma come, trippone dal cervello di creta, sciocco zuccone, figlio di puttana, svergognato, barile di sego bisunto...
FALSTAFF: Che! Sei pazzo? Sei pazzo? La verità non è verità?
PRINCIPE: Ma come hai potuto conoscere questi vestiti di verde di Kendal se era così buio che tu non potevi veder la tua mano? Andiamo, dicci la tua ragione: cosa rispondi a questo?
POINS: Andiamo, fuori la vostra ragione, Gianni! la vostra ragione!
FALSTAFF: Che! per forza? Sanguediddio; fossi alla corda o su tutti i cavalletti del mondo non ve la direi per forza. Darvi un grano di ragione per forza! Se codesti grani fossero abbondanti come le more, non darei a nessun uomo una ragione per forza, io.
PRINCIPE: Non voglio più a lungo esser colpevole di questo peccato.
Questo florido codardo, questo pigialetto, questo ammazzacavalli, questa enorme montagna di carne...
FALSTAFF: Va' là, tisichello, pelle d'anguilla, lingua di bue disseccata, nerbo di toro, stoccafisso - oh, datemi fiato per dir tutto quello che ti somiglia! - auna da sartore, fodero di spada, turcasso, tu, vile stocco incantato...
PRINCIPE: Benone! Piglia fiato e poi ricomincia. Quando ti sarai stancato di questi volgari paragoni, lascia che ti dica soltanto queste due parole.
POINS: Sta' attento, Gianni.
PRINCIPE: Noi due vedemmo voi quattro piombare su altri quattro, legarli e impadronirvi del loro denaro. Sta' ora a sentire, come un racconto assai semplice ti tapperà la bocca. Allora noi due piombammo su voialtri quattro e in un battibaleno vi spaventammo facendovi abbandonare il bottino che teniamo con noi, sissignore, e che possiamo mostrarvi qui in questa casa. E voi, Falstaff, portaste via la vostra trippa assai alla svelta, con sì agil destrezza, e mugliavate chiedendo misericordia, e continuavate a correre e a mugliare come non ho mai sentito fare a un torello. Manigoldo che non sei altro, intaccare la tua spada come hai fatto e poi contare che fu nel combattimento! Che gherminella, che invenzione, quale scappatoia potrai ora tirar fuori per sottrarti a questa evidente e manifesta vergogna?
POINS: Via! sentiamo, Gianni, che gherminella inventerai?
FALSTAFF: Per Iddio! Io vi riconobbi come colui che vi ha fatti. Ecco qua, ascoltatemi, padroni miei. Toccava a me uccidere l'erede apparente? Dovevo io volgermi contro il principe legittimo? Tu sai bene ch'io sono valoroso come Ercole, ma badate all'istinto; il leone non toccherà mai il vero principe. L'istinto è una gran cosa; ecco, io sono stato codardo per istinto. Non ne avrò che migliore opinione di te e di me finché vivrò; di me, come leone coraggioso, di te, come vero principe. Ma, per Iddio! ragazzi, io son lieto che voi abbiate il denaro. Ostessa, chiudete le porte: vegliate stanotte, pregherete domani. Galanti cavalieri, giovani, ragazzi, cuori d'oro, a voi tutti i titoli della cordiale amicizia! Che! non staremo allegri?
Improvviseremo una commedia?
PRINCIPE: Accetto, e l'argomento sarà... la tua fuga.
FALSTAFF: Oh! Non parlar più di questo, Rigo, se mi vuoi bene!
(Entra l'Ostessa)
OSTESSA: O Gesù, monsignore il principe...
PRINCIPE: Che c'è, madonna ostessa? Che mi dici?
OSTESSA: Per la Vergine! signor mio, c'è alla porta un nobile uomo della corte che vorrebbe parlar con voi. Dice che viene da parte di vostro padre.
PRINCIPE: Dagli quello che gli manca per diventare un reale uomo e rimandalo da mia madre.
FALSTAFF: Che sorta d'uomo è?
OSTESSA: Un vecchio.
FALSTAFF: Cosa fa la gravità fuor dal letto a mezzanotte? Gli darò la sua risposta?
PRINCIPE: Fallo, ti prego, Gianni.
FALSTAFF: In fede mia, gli farò far fagotto alla svelta.
(Esce)
PRINCIPE: Ora a voi, messeri: per la Madonna! vi siete battuti bene!
voi Peto, e voi pure Bardolfo! Anche voialtri siete leoni che fuggite via per istinto; non volete toccare il vero principe, eh no, vergogna!
BARDOLFO: In fede mia! Io son fuggito quando ho visto fuggir gli altri.
PRINCIPE: In fede mia! Ditemi, sul serio, com'è successo che la spada di Falstaff è così intaccata?
PETO: Ecco, l'ha intaccata lui con il suo pugnale e ha detto che avrebbe, a forza di giuramenti, cacciato la verità fuori dall'Inghilterra se non vi avesse fatto credere che ciò era avvenuto combattendo, e ha persuaso noi pure a fare altrettanto.
BARDOLFO: Sì, e a fregarci i nasi col ranuncolo delle passere per farli sanguinare, a imbrattarci gli abiti e giurare ch'era sangue di galantuomini. Io ho fatto quel che non facevo da sette anni: ho arrossito ascoltando i suoi mostruosi inganni.
PRINCIPE: O briccone! Tu rubasti un bicchiere di vin di Spagna diciotto anni fa e fosti colto in flagrante e, d'allora in poi, hai sempre avuto dei rossori estemporanei. Tu avevi fuoco e spada al tuo fianco eppure sei fuggito: quale istinto ti spinse a farlo?
BARDOLFO (mostrando il viso): Signor mio, vedete queste meteore?
Osservate questi fuochi?
PRINCIPE: Li vedo.
BARDOLFO: Cosa pensate che ciò significhi?
PRINCIPE: Fegato caldo e borsa fredda.
BARDOLFO: Collera, mio signore, se giustamente compresa.
PRINCIPE: No, se preso giustamente, capestro.
(Rientra FALSTAFF)
Ecco che viene il magro Gianni, ecco che viene osso scarnito. Ebbene, mia dolce creatura imbottita di vento? Quanto tempo è, Gianni, dacché ti sei veduto il ginocchio?
FALSTAFF: Il mio ginocchio? Quando avevo press'a poco i tuoi anni, Rigo, avevo la vita più sottile d'un artiglio d'aquila; sarei potuto passare attraverso l'anello di un anziano. Al diavolo i sospiri e i dispiaceri! Fan gonfiare un uomo come una vescica. Ci son brutte notizie in giro: c'è stato qui sir Giovanni Bracy da parte di vostro padre; in mattinata dovete andare alla corte. Quel pazzo del nord, Percy, e quello del Galles che bastonò Amaimon e fece cornuto Lucifero e fece giurare al diavolo sulla croce di un'alabarda gallese d'essere suo fedele vassallo... cànchero! come si chiama?
POINS: Oh! Glendower.
FALSTAFF: Owen, Owen, proprio lui, e suo genero Mortimer e il vecchio Northumberland e quel vivacissimo scozzese tra tutti gli scozzesi, Douglas, che corre a cavallo su una collina a perpendicolo...
PRINCIPE: Quello che cavalca a gran carriera e con la pistola uccide un passero che vola.
FALSTAFF: Avete colpito giusto.
PRINCIPE: Ma lui non colpì mai il passero.
FALSTAFF: Ma quella granbestia ha del coraggio; non sa darsela a gambe.
PRINCIPE: E allora, granbestia che sei, perché lo lodi per esser così destro a correre?
FALSTAFF: A cavallo, allocco che sei! Ma a piedi non si sposta d'un passo.
PRINCIPE: Sì, Gianni, per istinto.
FALSTAFF: Siam d'accordo, per istinto. Dunque c'è anche lui, e un certo Mordake, e mille altri berretti azzurri. Worcester è partito di nascosto questa notte; la barba di tuo padre è diventata bianca a queste notizie: e ora si può acquistar terreni a buon mercato come dello sgombro andato a male.
PRINCIPE: Allora è probabile, se viene un giugno caldo e queste zuffe civili continuano, che noi compreremo musi di tinca come si comprano le bullette; tanto al cento.
FALSTAFF: Per la messa! Ragazzo, tu dici il vero; è probabile che avremo un buon traffico in quel genere. Ma dimmi, Rigo, non hai tu una terribile paura? Nella tua condizione di erede apparente poteva il mondo sceglierti tre nemici come quel demonio di Douglas, quello spiritato di Percy, e quel diavolo di Glendower? Non hai una terribile paura? Non ti si ghiaccia il sangue solo a pensarci?
PRINCIPE: Neppure per ombra; in fede mia, mi manca un po' del tuo istinto.
FALSTAFF: Be', tu sarai tremendamente sgridato domani quando vai da tuo padre; se mi vuoi bene, preparati a rispondergli.
PRINCIPE: Tu fa' la parte di mio padre, e interrogami sui particolari della mia vita.
FALSTAFF: Devo farlo? Acconsento! Questa sedia sarà il mio trono, questo pugnale il mio scettro, e questo cuscino la mia corona.
PRINCIPE: Il tuo trono è preso per un trespolo, il tuo scettro d'oro per un pugnale di latta, e la tua preziosa e ricca corona per una misera corona di calvizie!
FALSTAFF: Ebbene, se il fuoco della grazia non si è in te completamente spento, tu ora ti sentirai commosso. Dammi un bicchiere di vin di Spagna, ché i miei occhi diventino rossi, onde si possa credere che io ho pianto perché devo parlare appassionatamente e lo farò nel tono del re Cambise.
PRINCIPE: Ecco qui la mia riverenza.
FALSTAFF: Ed ecco qui il mio discorso. Fate ala, nobili signori.
OSTESSA: O Gesù! Questo è davvero un divertimento!
FALSTAFF: Dolce regina, omai più non piangete; vano è questo di pianti stillicidio.
OSTESSA: Oh, il padre! Come sta contegnoso!
FALSTAFF: Per Dio, signori, la regina afflitta via conducete, ché le cateratte degli occhi suoi l'onde del pianto occlude.
OSTESSA: O Gesù! Egli recita proprio come uno di quegli scalzacani di commedianti ch'io ho veduto.
FALSTAFF: Pace! mio buon quartino: pace! buon cicchetto. Rigo, non solo mi meraviglia dove tu passi il tuo tempo, ma anche con chi ti accompagni; poiché sebbene la camomilla più è calpestata e più cresce rigogliosa, pure la gioventù, più è sciupata, più presto si consuma.
Che tu sia mio figlio, io ho in parte la parola di tua madre, in parte la mia opinione, ma soprattutto me ne assicura un certo vezzo perverso del tuo occhio e un certo lascivo penzolare del labbro inferiore. Se dunque tu mi sei figlio, ecco qui il punto difficile: perché, essendomi figlio, sei tu così segnato a dito? L'almo figlio del cielo diverrà un discolo e si ciberà di more? Cosa neanche da domandarsi. Il figlio del re d'Inghilterra diverrà un ladro e ruberà le borse? E' una domanda che uno può fare. Vi è una cosa, Arrigo, di cui tu hai spesso sentito parlare e che è conosciuta a molti della nostra terra col nome di pece. Questa pece, come ci riferiscono antichi scrittori, insudicia assai; così fa la compagnia che tu frequenti, poiché, Arrigo, ora non ti parlo tra i fumi del vino, ma tra le lacrime; non con gioia, ma con noia; non con le parole soltanto ma anche con le querele... Eppure c'è un uomo virtuoso, ch'io ho spesso osservato in tua compagnia, ma non ne conosco il nome.
PRINCIPE: Che sorta d'uomo è, piaccia a Vostra Maestà?
FALSTAFF: Un bell'uomo aitante, in fede mia, e corpulento, dall'aspetto gioviale, dall'occhio simpatico e di portamento nobilissimo; penso che la sua età sia di circa cinquant'anni o, per Nostra Donna, tenda alla sessantina, e, ora che mi sovvengo, si chiama Falstaff. Se quell'uomo fosse dato alla dissolutezza, m'ingannerebbe di molto, ché, Arrigo, nei suoi sguardi io vedo la virtù. Se dunque l'albero si può conoscere dal frutto come il frutto dall'albero, allora io dico perentoriamente che c'è virtù in quel Falstaff. Sta' con lui, bandisci gli altri. E dimmi ora, vassalletto che non sei altro, dimmi, dove sei stato questo mese?
PRINCIPE: Parli tu come un re? Via! mettiti al mio posto e io farò la parte di mio padre.
FALSTAFF: Mi deponi? Se tu lo saprai fare soltanto con la meta della serietà e maestà mia, tanto nelle parole che nel contenuto, voglio essere appeso per le calcagna come un coniglietto di latte o un leprotto nella bottega d'un pollaiolo.
PRINCIPE: Ebbene, eccomi qui seduto.
FALSTAFF: Ed io son qui in piedi. Giudicate, padroni miei.
PRINCIPE: Dunque, Arrigo, da dove venite?
FALSTAFF: Mio nobile signore, da Eastcheap.
PRINCIPE: Le lagnanze che odo sul conto tuo sono gravi.
FALSTAFF: Pel sangue di Dio, mio signore! sono false. Ora vi sollazzerò io nella parte di principino. in fede mia!
PRINCIPE: Tu bestemmi, perverso ragazzo? D'ora innanzi non alzar più gli occhi su di me. Tu sei violentemente trasportato lontano dalla grazia divina: c'è un diavolo che ti sta ai panni sotto le sembianze di un vecchio uomo grasso: una botte d'uomo è il tuo compagno. Perché ti associ con quella cassa di umori, quel moggio di bestialità, quel gonfio fagotto d'idropisia quell'enorme otre di vin di Spagna, quella valigia zeppa di budella, quel bove arrostito di Manningtree, dal ventre infarcito, con quel venerando vizio, quella grigia iniquità, quel padre ruffiano, quell'annosa vanità? A che cosa è egli buono se non a gustare il vin di Spagna e a berlo? In che cosa è accurato e pulito, se non a trinciare un cappone e a mangiarlo? In che cosa è abile, se non nell'astuzia? In che cosa è astuto, se non nelle bricconate? In che cosa è briccone, se non in tutte le cose? In che cosa è valent'uomo, se non in niente?
FALSTAFF: Vorrei che Vostra Grazia mi facesse comprender meglio. A chi accenna Vostra Grazia?
PRINCIPE: A quel briccone abominevole traviatore della gioventù, Falstaff, quel vecchio Satana dalla barba bianca.
FALSTAFF: Mio signore, io conosco quell'uomo.
PRINCIPE: So che lo conosci.
FALSTAFF: Ma dire che io conosca in lui più di male che in me stesso, sarebbe dir di più di quello che è a mia conoscenza. Ch'egli sia vecchio - tanto più è peccato! - ne fan fede i suoi capelli bianchi; ma ch'egli sia - con tutto il rispetto per vostra reverenza - un puttaniere, io assolutamente lo nego. Se il vin di Spagna e lo zucchero sono una colpa, che Dio aiuti i malvagi! Se esser vecchio e arzillo è peccato, allora più d'un vecchio compagnone di mia conoscenza sarà dannato; se per esser grassi s'ha da essere odiati, allora le vacche magre del Faraone dovranno essere amate. No, mio buon signore, bandisci Peto, bandisci Bardolfo, bandisci Poins, ma quanto al dolce Gianni Falstaff, al gentile Gianni Falstaff, al fedele Gianni Falstaff, al prode Gianni Falstaff, e tanto più prode in quanto è il vecchio Gianni Falstaff, non lo bandire dalla compagnia del tuo Arrigo, non lo bandire dalla compagnia del tuo Arrigo. Bandire il paffuto Gianni, sarebbe bandire il mondo intero.
PRINCIPE: Lo bandisco, lo voglio!
(Si ode picchiare. Escono l'Ostessa, Cecco e Bardolfo)
(Rientra BARDOLFO correndo)
BARDOLFO: Oh, signor mio! signor mio! Lo sceriffo, con un'enorme ronda, è alla porta. FALSTAFF: Vattene, mariolo che sei! finiamo la farsa. Io ho molto da dire in favore di quel Falstaff.
(Rientra l'Ostessa)
OSTESSA: O Gesù! Signor mio! signor mio!...
PRINCIPE: Olà! Olà! Il diavolo cavalca su di un archetto di violino.
Che c'è?
OSTESSA: Lo sceriffo con tutta la ronda è alla porta: son venuti a perquisire la casa. Li devo fare entrare?
FALSTAFF: Mi stai a sentire, Rigo? Non chiamar mai patacca una moneta d'oro genuino: oro è la tua costituzione essenziale, senza parerlo.
PRINCIPE: E tu un codardo naturale senza istinto.
FALSTAFF: Io nego la premessa maggiore: se volete negare l'ingresso allo sceriffo, bene, se no fatelo entrare. Se io non farò sulla carretta bella figura come chiunque altro, al diavolo tutta la mia educazione! Spero che non ci vorrà più tempo a strozzar me col capestro che un altro!
PRINCIPE: Va', nasconditi dietro l'arazzo: gli altri vadano di sopra.
Ora, padroni miei, faccia franca e buona coscienza.
FALSTAFF: Le ho avute tutt'e due; ma la loro data è spirata e perciò mi nasconderò.
(Escono tutti meno il Principe e Peto)
PRINCIPE: Fate entrare lo sceriffo.
(Entra lo Sceriffo con un Vetturale)
Ebbene, maestro sceriffo, cosa volete da me?
SCERIFFO: Innanzi tutto, vi domando perdono, mio signore. Grida di popolo han seguìto certe persone fin dentro questa casa.
PRINCIPE: Che sorta d'uomini?
SCERIFFO: Uno di loro è ben conosciuto, mio grazioso signore, un omone grasso.
VETTURALE: Grasso come il burro.
PRINCIPE: Quest'uomo, ve lo assicuro non è qui perché l'ho or ora io stesso incaricato d'una commissione e, t'impegno la mia parola, sceriffo, che domani, all'ora di pranzo, lo manderò, perché risponda a te o a qualunque altro di qualunque cosa sarà accusato. E ora permettetemi che vi preghi di lasciar la casa.
SCERIFFO: Così farò, mio signore. Vi sono due galantuomini che in questa aggressione han perduto trecento marchi.
PRINCIPE: Può darsi: s'egli ha derubato questi uomini, ne sarà responsabile; e con ciò arrivederci.
SCERIFFO: Buona notte, mio nobile signore.
PRINCIPE: Penso che sia quasi buon giorno, non è così?
SCERIFFO: Invero, signor mio, credo che siano le due.
(Escono lo Sceriffo e il Vetturale)
PRINCIPE: Questo mariolo bisunto è conosciuto come la cattedrale di San Paolo. Va', fallo uscir fuori.
PETO: Falstaff! E' profondamente addormentato dietro l'arazzo e stronfia come un cavallo.
PRINCIPE: Ascolta con che fatica trae il respiro. Frugagli nelle tasche, (Peto fruga) Che hai trovato?
PETO: Nient'altro che carte, mio signore.
PRINCIPE: Vediamo che cosa sono; leggile.
PETO (legge): "Item" un cappone 2 scellini 2 denari; "item" salsa 4 denari; "item" vin di Spagna 2 galloni, 5 scellini 8 denari; "item" acciughe e vin di Spagna dopo cena, 2 scellini 6 denari; "item" pane, l soldo.
PRINCIPE: O enormità! Soltanto un soldo di pane per tutta quella quantità di vin di Spagna! Conserva gli altri fogli, ché li leggeremo a nostro agio, e lascialo dormir là fino a giorno. Nella mattinata andrò alla corte. Dobbiam andare tutti alla guerra e tu avrai un posto onorevole. Procurerò a quel grasso mariolo un comando nella fanteria e so che una marcia di duecento metri sarà la sua morte. Il denaro sarà restituito con gl'interessi. Vieni da me a buon'ora domattina; e con ciò buon giorno Peto.
PETO: Buon giorno, mio buon signore.
(Escono)
ATTO TERZO
MORTIMER: Queste promesse son belle, i partigiani sicuri, e il nostro inizio pieno di buone speranze.
HOTSPUR: Lord Mortimer e voi, cugino Glendower, volete sedervi? E voi pure, zio Worcester. Cànchero! Ho dimenticato la carta.
GLENDOWER: No, eccola qui. Sedete, cugino Percy, sedete, buon cugino Hotspur; ogni volta che Lancaster parla di voi con questo nome la sua guancia divien pallida e, mandando un sospiro, vi vorrebbe in paradiso.
HOTSPUR: E voi all'inferno tutte le volte che sente parlare di Owen Glendower.
GLENDOWER: Non posso biasimarlo: alla mia natività la fronte del cielo era piena di fantasmi di fuoco e di fiaccole ardenti, e quand'io nacqui la fabbrica e le vaste fondamenta della terra tremarono come un codardo.
HOTSPUR: Questo sarebbe avvenuto lo stesso se in quel momento avesse partorito la gatta di vostra madre e voi non foste mai nato.
GLENDOWER: Dico che la terra tremò quand'io nacqui.
HOTSPUR: Ed io dico che la terra non era del mio sentimento, se voi supponete che tremasse perché vi temeva.
GLENDOWER: I cieli eran tutti in fiamme e la terra tremò.
HOTSPUR: Oh, allora la terra tremò vedendo i cieli in fiamme e non per il timore della vostra nascita. La natura inferma scoppia sovente in strane eruzioni: spesso la terra gestante è trafitta e tormentata da una specie di colica, causata da un vento impetuoso imprigionato nel suo ventre, che sforzandosi di uscir fuori scuote la vecchia avola terra e fa crollare i campanili e le torri muscose. Alla vostra nascita la nostra nonna terra, avendo questo malanno, tremò per il dolore.
GLENDOWER: Cugino, non da molti uomini io sopporto simili contraddizioni. Permettetemi di dirvi, ancora una volta, che alla mia nascita la fronte del cielo era piena di fantasmi di fuoco; le capre scesero correndo dalle montagne, gli armenti spaurivano i campi coi loro strani clamori. Questi segni mi distinsero come uomo straordinario e tutti gli eventi della mia vita mostrano ch'io non sono nella lista degli uomini volgari. Dove vive colui - circondato dal mare che sferza le spiagge dell'Inghilterra, della Scozia e del Galles - che possa chiamarmi discepolo o che mi sia stato maestro?
Portami fuori uno, tra i figli di donna, che possa seguirmi negli ardui sentieri dell'arte o gareggiar con me nei profondi esperimenti della magia.
HOTSPUR: Credo non ci sia nessun uomo che parli meglio il gallese. Me ne vo a pranzo.
MORTIMER: Pace, cugino Percy, lo farete infuriare.
GLENDOWER: Io posso evocare gli spiriti dal vasto abisso.
HOTSPUR: Lo posso fare anch'io, e ogni uomo lo può fare. Ma verranno poi quando li chiamate?
GLENDOWER: Ma io posso insegnarti, cugino, a comandare al diavolo.
HOTSPUR: E io posso insegnarti, cugino, a svergognare il diavolo dicendo la verità: dite la verità e svergognate il diavolo. Se tu hai il potere di evocarlo, portalo qui e io ti giuro che avrei potere di farlo fuggire svergognato, Oh, finché vivete, dite la verità, e svergognate il diavolo!
MORTIMER: Andiamo! Andiamo! Non più di queste inutili chiacchiere.
GLENDOWER: Tre volte Enrico Bolingbroke ha voluto tener testa alla mia potenza, e tre volte dalle sponde del Wye e della Severn dal letto di sabbia, lo rimandai a casa desolato e con la schiena sferzata dalle intemperie.
HOTSPUR: A casa senza suole e per di più col tempo cattivo! Come sfuggì alle febbri, in nome del diavolo?
GLENDOWER: Venite, ecco qui la carta. S'han da dividere i nostri diritti secondo la nostra triplice convenzione?
MORTIMER: Sì, l'arcidiacono ha diviso tutto in tre circoscrizioni molto eguali. L'Inghilterra dal Trent alla Severn, fin qui, al sud e all'est, è assegnata come mia parte. Tutta la parte occidentale, il Galles, al di là della sponda della Severn, e tutte le fertili terre entro quei confini, a Owen Glendower; e a voi, caro cugino, quello che resta a nord, al di là del Trent. I nostri contratti tripartiti sono stati stesi, e appena sigillati reciprocamente - un affare che si può compiere questa notte - cugino Percy, voi ed io, col mio buon signore di Worcester, partiremo domani, per incontrarci con vostro padre e l'armata scozzese a Shrewsbury, come rimanemmo d'accordo. Mio padre Glendower non è ancor pronto, né avremo bisogno del suo aiuto per queste due settimane. Intanto potrete radunare i vostri valvassori, gli amici, e i gentiluomini dei dintorni.
GLENDOWER: Mi basterà un tempo ancor più breve per raggiungervi, o pari; e io condurrò le vostre signore, dalle quali dovete ora fuggire senza prender congedo, o si verserà un mondo di lacrime per la separazione di voi dalle vostre spose.
HOTSPUR: Mi sembra che la mia parte, dal nord di Burton a qui, non eguagli in quantità una delle vostre: vedete come questo fiume mi viene a serpeggiare qui e taglia fuori dal meglio di tutta la mia terra un'immensa mezzaluna, un enorme canìone. Farò arginare la corrente in questo punto, e qui l'onda linda e argentea del Trent scorrerà in un nuovo letto, pari e liscia: non serpeggerà più con curve sì profonde per rubarmi una così ricca bassura.
GLENDOWER: Non serpeggerà? Lo farà, deve farlo: vedete che lo fa già.
MORTIMER: Osservate però com'esso continua il suo corso, e mi si piega con eguale acquisto sull'altra parte, tagliando via tanto della sponda opposta, quanta dall'altra parte ne porta via a voi.
WORCESTER: Sì, ma con un po' di spesa, si può tagliarlo qui, e dal lato nord guadagnare questa punta di terra; allora scorrerà dritto e eguale.
HOTSPUR: Voglio così; si farà con poca spesa.
GLENDOWER: Non voglio che si cambi nulla.
HOTSPUR: Non volete?
GLENDOWER: No, e voi non lo farete.
HOTSPUR: Chi mi dirà di no?
GLENDOWER: Ve lo dirò io.
HOTSPUR: Ch'io non v'intenda allora: ditemelo in gallese.
GLENDOWER: So parlare inglese, signore, bene quanto voi, perché fui educato alla corte inglese, dove, ancor giovane, composi con molta grazia per l'arpa più di una canzone inglese dando alla lingua un proficuo ornamento: virtù che in voi non si vide mai.
HOTSPUR: No, per la Vergine! E me ne rallegro di cuore! Vorrei esser piuttosto un gatto e gridar miao, che uno di quei tali trafficanti di ballate in versi. Vorrei piuttosto sentir tornir un candeliere d'ottone o cigolare un'arida ruota sul suo asse, che ciò non mi farebbe affatto allegare i denti quanto questa leziosa poesia: è come l'andatura forzata d'un ronzino che si trascina a fatica.
GLENDOWER: Andiamo, si farà deviare il corso del Trent.
HOTSPUR: Non me ne importa! Darei via tre volte altrettanta terra a qualunque amico che lo meritasse, ma se s'ha a mercanteggiare, ascoltatemi bene, io cavillerò per la nona parte di un capello. I contratti son stati stesi? s'ha da andar via?
GLENDOWER: La luna brilla serena; potete partir di notte. Affretterò lo scrivano e al tempo stesso avvertirò le vostre mogli della vostra partenza da qui. Temo che mia figlia impazzisca, tanto ama follemente il suo Mortimer.
(Esce)
MORTIMER: Ih! cugino Percy, come contrariate mio padre!
HOTSPUR: Non ne posso fare a meno: talora mi fa venir la stizza a raccontarmi della talpa e della formica, del fantastico Merlino e delle sue profezie, e di un drago, e di un pesce senza pinne, e di un grifone dalle ali tarpate, e di un corvo in muda, di un leone accovacciato e di un gatto rampante, e una tal quantità di tantafere, da farmi perdere la fede. Sentite questa: l'altra sera mi tenne almeno per nove ore a contare i vari nomi dei diavoli che eran suoi valletti.
Io gridavo, "uhm" e "bene, seguitate pure" ma non ascoltavo una parola. Oh, è uggioso come un cavallo che zoppica, o una moglie che grida e tempesta, peggio di una casa piena di fumo. Vorrei vivere piuttosto di formaggio e d'aglio in un mulino a vento, lontano, che nutrirmi di ghiottonerie e sentir le sue chiacchiere nella più bella villa della cristianità.
MORTIMER: In fede mia è un degno gentiluomo, oltremodo colto, versato in strani misteri, valoroso come un leone e meravigliosamente affabile, generoso come le miniere dell'India. Debbo dirvelo, cugino?
Egli ha un gran rispetto per il vostro carattere e giunge a frenare la propria naturale inclinazione allorché contrariate il suo umore; proprio così: vi garantisco che nessun uomo al mondo avrebbe potuto provocarlo come avete fatto voi, senza aver sentito sapor di pericolo e di rabbuffo; ma non provatevi spesso, ve ne scongiuro
WORCESTER: In fede mia, mio signore, la vostra ostinatezza è da biasimarsi. Da quando siete venuto qui avete fatto abbastanza per fargli perder la pazienza. Dovete assolutamente imparare, signor mio, a correggervi di questo vizio che, sebbene talvolta mostri grandezza, coraggio, fuoco - e questa è la maggior grazia che vi conferisce - pure sovente mostra un'aspra collera, difetto di educazione, mancanza di freno, orgoglio, superbia, presunzione, disdegno; e la più piccola di tali imperfezioni, se s'attacca a un gentiluomo, gli fa perdere i cuori degli uomini e lascia una macchia sulle altre belle qualità togliendo lode ad esse.
HOTSPUR: Benissimo, eccomi a scuola! Che le buone maniere vi portino fortuna! Ecco le nostre mogli che vengono; congediamoci da loro.
(Rientra GLENDOWER con LADY MORTIMER e LADY PERCY)
MORTIMER: Questa è la mortal contrarietà che mi fa infuriare; mia moglie non sa parlare inglese, né io gallese.
GLENDOWER: Mia figlia piange, essa non vuol dividersi da voi, vuol esser anche lei soldato e andare alla guerra.
MORTIMER: Buon padre, ditele che lei e mia zia Percy ci seguiranno ben presto sotto la vostra guida.
(Glendower le parla in gallese, ella risponde nella stessa lingua)
GLENDOWER: Ella si dispera per questo: è una sgualdrinella stizzosa e ostinata che non intende persuasione.
(Ella parla a Mortimer in gallese)
MORTIMER: Capisco i tuoi sguardi: io conosco a perfezione quel dolce gallese che tu versi da questi gonfi cieli e, se non fosse per la vergogna, ti risponderei con lo stesso linguaggio (Ella parla ancora in gallese) Capisco i tuoi baci e tu i miei; è una conversazione che "si sente": ma non starò mai in ozio, amor mio, finché non abbia appreso la tua favella. La tua lingua rende il gallese dolce quanto canzoni scritte in alto stile, cantate da una vaga regina in un'estiva pergola, mentre s'accompagna alle più melodiose modulazioni del suo liuto.
GLENDOWER: Se ora v'intenerite, essa diverrà folle.
(Essa parla ancora in gallese)
MORTIMER: Io sono l'ignoranza stessa di questa lingua.
GLENDOWER: Ella vi prega di sdraiarvi su questi molli giunchi e di posare il vostro gentile capo sul suo grembo, mentr'ella vi canterà la canzone che più vi piace e sulle vostre palpebre incoronerà sovrano il dio del sonno incantando il vostro sangue con delizioso sopore, e vi sarà tal differenza tra la veglia e il sonno quale tra il giorno e la notte nell'ora prima che i corsieri del carro celeste comincino il loro viaggio dorato nell'oriente.
MORTIMER: Mi siederò e l'udrò cantare con tutto il cuore. Frattanto credo che il nostro contratto sarà steso.
GLENDOWER: Fate così. I musici che devon sonare per voi si librano nell'aria a mille leghe di qui, ma verranno qui immantinente. Sedetevi e ascoltate.
HOTSPUR: Vieni. Caterina, tu sai adagiarti con ogni grazia! Vieni, presto, presto, ch'io possa posare la mia testa sul tuo grembo.
LADY PERCY: Andate dunque, cervel d'oca!
(Musica)
HOTSPUR: Ora mi accorgo che il diavolo comprende il gallese, e non c'è da stupirsi se è così pieno di ghiribizzi! Per Nostra Donna, è un buon musico!
LADY PERCY: Allora dovreste essere un musico perfetto poiché anche voi siete tutto governato dai ghiribizzi! State tranquillo, mariolo che siete, e udite la dama che canta in gallese.
HOTSPUR: Preferirei udire Dama, la mia cagna, abbaiare in irlandese.
LADY PERCY: Vuoi che ti rompa la testa?
HOTSPUR: No.
LADY PERCY: Allora sta' zitto!
HOTSPUR: Neanche; quello è un difetto delle donne.
LADY PERCY: Allora che Dio ti aiuti!
HOTSPUR: A entrar nel letto della signora gallese.
LADY PERCY: Ma che dici?
HOTSPUR: Silenzio, ella canta.
(Lady Mortimer canta una canzone gallese)
HOTSPUR: Andiamo, Caterina, adesso voglio che mi cantiate anche la vostra canzone.
LADY PERCY: Io no, in verità.
HOTSPUR: Non voi, in verità! Cuor mio! Voi giurate come la moglie di un confettiere. "Non voi in verità" e "com'è vero che son viva", e "che Dio mi corregga" e "vero come la luce del giorno" e tu dai dei pegni di sì legger zendado pei tuoi giuramenti, che par proprio tu non sia mai andata di là da Finsbury. Giurami, Caterina, da quella dama che sei, un buon giuramento che riempia la bocca, e lascia "in verità" e altre simili protestazioni di panpepato, agli abiti dalle risvolte di velluto e ai borghesi ripicchiati. Andiamo, canta.
LADY PERCY: Non voglio cantare.
HOTSPUR: Eppur è il miglior mezzo per divenir sarto o ammaestratore di pettirossi. Se i contratti sono stesi, tra due ore sarò partito, e voi venite quando volete.
(Esce)
GLENDOWER: Andiamo, andiamo, lord Mortimer ! Siete tanto lento a muovervi quanto il focoso lord Percy arde di andare. A quest'ora il contratto è fatto; non avremo che a suggellarlo e poi salteremo subito a cavallo.
MORTIMER: Di tutto cuore.
(Escono)
SCENA SECONDA - Londra. Il Palazzo
(Entrano ENRICO QUARTO, il PRINCIPE ENRICO, ed altri)
ENRICO: Signori, lasciateci soli. Il principe di Galles ed io dobbiamo conferire privatamente, ma state vicini, ché tra poco avremo bisogno di voi. (Escono i Pari) Io non so se Iddio, per qualche cattivo servigio da me fatto, ha voluto, con segreta condanna, far nascere dal mio sangue un castigo e un flagello per me, ma tu mi fai credere, col tuo genere di vita, d'essere stato designato soltanto per esser l'ardente vendetta, e la verga celeste che deve punire le mie trasgressioni. Dimmi, come potrebbero altrimenti desideri così scomposti e bassi, gesta così povere, meschine, vili, miserabili, piaceri così sterili, una società così grossolana come quella a cui tu ti sei unito e innestato, accompagnarsi alla nobiltà del tuo sangue e stare all'altezza del tuo cuore di principe?
PRINCIPE: Piacesse A Vostra Maestà ch'io potessi scagionarmi da tutte quante le colpe così incontrastabilmente come son sicuro di lavarmi da molte di quelle che mi vengono apposte. Pur lasciate che vi chieda tale indulgenza, per la confutazione di molte fole inventate da quei sorridenti accattagrazie e vili trafficanti di notizie, ai quali spesso l'orecchio della grandezza deve per forza porgere ascolto, ch'io possa trovar perdono, col mio vero pentimento, di alcuni veri errori in cui la mia giovinezza si è smarrita colpevolmente e sregolatamente.
ENRICO: Dio ti perdoni! Pur lascia, Arrigo, ch'io mi stupisca delle tue inclinazioni, che batton ala in modo così disforme dal volo di tutti i tuoi avi. Per la tua brutalità hai perduto il tuo seggio al consiglio che è stato preso da tuo fratello minore; ai cuori di tutta la corte e dei principi del mio sangue sei quasi un estraneo; tutta l'attesa e la speranza della tua giovinezza è distrutta, e ogni uomo nell'intimo della sua anima profeticamente predice la tua caduta. Se io fossi stato così prodigo della mia presenza rendendomi ordinario agli occhi degli uomini, abbandonandomi stantio e a vil prezzo a volgari compagnie, l'opinione pubblica, che mi aiutò a conquistare la corona, si sarebbe sempre mantenuta leale al suo possessore e mi avrebbe lasciato all'oscuro esilio, poveruomo di nessun conto e senza prosperità alcuna. Mostrandomi di rado, non potevo uscire senza che la mia comparsa destasse meraviglia come apparizione di cometa; gli uomini dicevano ai loro figli: "E' lui"; altri dicevano: "Dov'è? qual è Bolingbroke?", e io allora involavo al cielo tutta la sua grazia e mi vestivo di tale umiltà da strappare l'obbedienza dai cuori degli uomini, echeggianti applausi e saluti dalle lor bocche, anche in presenza del re coronato. Così mantenni alla mia persona freschezza e novità, e la mia presenza non era mai veduta che, come manto pontificale, non destasse meraviglia; e così la mia comparsa, rara ma sontuosa, era una vera festa e, per esser rara, assumeva solennità. Il frivolo re andava saltellando di qua e di là con scapati buffoni e capi ameni avventati che, come fascinotti, brillavano per un istante e tosto s'estinguevano; scardassò la sua dignità, associò la sua regale persona con saltimbanchi, lasciò che il suo gran nome fosse profanato dai loro scherni e, a danno della sua reputazione, si fece eco delle risa provocate da monelli burloni, tollerando le puntate d'ogni imberbe vanesio metaforico; si familiarizzò coi trivii, s'infeudò alla popolarità al punto che gli occhi di tutti, saziandosi di lui ogni giorno, furon presto satolli di quel miele, e cominciarono a provar disgusto per quella dolcezza della quale poco più di un poco è di gran lunga troppo. Avvenne così, che quando aveva occasione di farsi vedere, come il cuculo in giugno, era udito ma non apprezzato, era guardato ma con occhi sì stanchi e indifferenti per l'abitudine, da non presentare quegli sguardi meravigliati che si fissano sul sole della regalità quando risplende raramente a occhi ammiranti. Lo guardavano invece con occhio assopito e abbassando le palpebre gli dormivano in faccia, prendendo quell'aspetto che gli uomini rannuvolati assumono coi loro nemici, sentendosi sazi, satolli e pieni della sua presenza. E tu, Arrigo, segui la stessa via, poiché hai perduto il tuo privilegio di principe avvilendoti con volgare compagnia. Non v'è occhio che non sia stanco della tua presenza troppo consueta, se non il mio, che ha sempre desiderato di vederti di più e che ora fa ciò che non vorrei facesse: si rende cieco di folle tenerezza.
PRINCIPE: D'ora innanzi, mio tre volte grazioso signore, sarò più me stesso.
ENRICO: Per tutto il mondo, quale tu sei oggi, tale era Riccardo quand'io tornando di Francia posi piede a Ravenspurgh, e quale io ero allora, tale è oggi Percy. Ora io affermo pel mio scettro, e anche sull'anima mia, ch'egli ha più degno titolo al governo che non te, ombra di successore! Egli senza nessun diritto, o parvenza di diritto, riempie di soldatesche le campagne del regno, affronta le armate zanne del leone e, pur non essendo più di te in debito cogli anni, guida vecchi pari e venerandi vescovi a sanguinose battaglie e a strapazzanti zuffe. Quali imperituri onori non ha ottenuto contro il famoso Douglas, cui le celebri gesta, le ardite incursioni e il gran nome nelle armi valsero il posto più eminente tra tutti i soldati e il supremo titolo militare per tutti i regni che riconoscono Gesù! Tre volte Hotspur, questo Marte in fasce, questo bambino guerriero, ha sconfitto il gran Douglas nelle sue imprese. Una volta lo fece prigioniero e lo rimise in libertà, facendosene un amico per ingrossar la voce dell'audace sfida e scuoter la pace e la sicurezza del nostro trono. E che pensi di questo? Percy, Northumberland, Sua Grazia l'arcivescovo di York, Douglas e Mortimer fan capitoli d'alleanza contro di noi e sono in armi. Ma perché mai do a te simili notizie?
Perché, Arrigo, parlo a te dei miei nemici, a te che sei il più vicino e più caro del miei nemici? Non mi meraviglierei che tu per servile paura, bassa inclinazione, e sotto l'impulso del malumore combattessi contro di me al soldo di Percy seguendolo alle calcagna come un cane, umiliandoti ad ogni suo cipiglio e mostrando così fin a qual punto tu sia degenerato.
PRINCIPE: Non lo pensare neppure, questo non avverrà! E Dio perdoni a coloro che stornarono sì lungi da me la buona opinione di Vostra Maestà! Io mi redimerò di tutto questo sul capo di Percy, e al tramontare di un giorno glorioso oserò dirvi che son vostro figlio, presentandomi a voi con le vesti insanguinate e il volto coperto di una maschera di sangue che, una volta lavato, porterà via con sé ogni mia vergogna passata. E ciò avverrà il giorno, in qualunque tempo spunti, che quel figlio dell'onore e della gloria, quel valoroso Hotspur, quel cavaliere da tutti lodato, e il vostro Enrico a cui nessuno pensa, s'incontreranno. Quanto agli onori che posano sul suo cimiero, volesse il cielo che fossero moltitudini e che le vergogne fossero raddoppiate sul mio capo! Tempo verrà quando io forzerò questo figlio del nord a cambiare tutte le gloriose sue imprese con le ignominie della mia vita. Percy, mio buon signore, non è che un mio agente, che fa incetta per me di gesta gloriose; ed io gliene farò rendere così stretto conto, che dovrà cedermi ogni sua gloria, fin il più piccolo onore che si siano acquistato i suoi anni, o gli strapperò il conto dal cuore. Questo io qui prometto, nel nome di Dio, e se potrò compierlo col suo aiuto, supplico Vostra Maestà di sanare le inveterate ferite della mia dissolutezza: se no la fine della vita distrugga ogni legame. Io vuo' morire centomila morti prima d'infrangere la più piccola parte di questo voto.
ENRICO: E per esso muoiano centomila ribelli! In questa guerra tu avrai comando e la sovrana fiducia.
(Entra BLUNT)
Che c'è, buon Blunt? I tuoi sguardi son pieni di fretta.
BLUNT: E lo è pure l'affare di cui vengo a parlarvi. Lord Mortimer di Scozia ha mandato a dire che Douglas e i ribelli inglesi si sono incontrati a Shrewsbury l'undici di questo mese. Se tutte le parti han tenuto le loro promesse, saranno un oste assai potente e temibile, qual mai insidiò uno Stato.
ENRICO: Il conte di Westmoreland è partito quest'oggi e con lui mio figlio, monsignor Giovanni di Lancaster, poiché questa informazione è di cinque giorni or sono. Mercoledì prossimo partirete voi, Arrigo, e giovedì marceremo noi in persona. Il luogo di convegno è Bridgenorth e voi, Arrigo, marcerete attraverso la contea di Gloucester. Così calcolando tutto quello che ci rimane da fare, fra circa dodici giorni le nostre forze tutte si aduneranno a Bridgenorth. Abbiamo per le mani un gran da fare. Partiamo: mentre gli uomini s'indugiano, l'opportunità s'impingua.
(Escono)
SCENA TERZA - Eastcheap. La taverna della Testa di Cinghiale
(Entrano FALSTAFF e BARDOLFO)
FALSTAFF: Bardolfo, non son io miseramente deperito dopo quest'ultima azione? Non sono scemato? Non m'assottiglio? Ecco, la pelle mi casca da dosso come la cioppa d'una vecchia matrona; sono avvizzito come una vecchia mela renetta. Ebbene, mi pentirò e alla svelta, mentre ho ancora un po' di floridezza: tra poco sarò così rifinito che non avrò più la forza di pentirmi. Se non ho dimenticato di che è fatto l'interno di una chiesa, sono un grano di pepe, un cavallo di birraio.
L'interno di una chiesa! La compagnia, la scellerata compagnia è stata la mia rovina!
BARDOLFO: Sir Giovanni, siete così agitato che non potrete vivere a lungo.
FALSTAFF: Ma, proprio così! Andiamo, cantami una canzone da bordello; fammi stare allegro. Io ero inclinato alla virtù come dev'esserlo un gentiluomo, ero abbastanza virtuoso; bestemmiavo poco, non giocavo ai dadi più di sette volte per settimana, non andavo al bordello più di una volta ogni quarto... d'ora, restituivo il denaro che prendevo in prestito... tre o quattro volte ciò m'accadde; vivevo bene e con buona misura, e ora vivo senza alcun ordine, oltre ogni misura.
BARDOLFO: Sfido! Siete così grasso, sir Giovanni, che per forza dovete essere oltre ogni misura, oltre ogni ragionevole misura, sir Giovanni.
FALSTAFF: Correggi il tuo viso e io correggerò la mia vita. Tu sei la nostra nave ammiraglia, tu porti la lanterna a poppa vale a dire il tuo naso - tu sei il Cavaliere della Lampada Ardente.
BARDOLFO: In verità, sir Giovanni, la mia faccia non vi fa alcun male.
FALSTAFF: No, giurerei che ne faccio anzi tanto buon uso quanto molti uomini di un teschietto di morto o di un "memento mori". Io non vedo mai il tuo viso senza pensare al fuoco dell'inferno o al ricco epulone che viveva ravvolto nella porpora, poiché eccolo là nelle sue vesti, che arde, arde. Se tu fossi in qualche modo dato alla virtù, io giurerei per il tuo volto, e il mio giuramento sarebbe: "Per questo fuoco che è l'Angelo di Dio". Ma tu sei un gran depravato e se non fosse, in verità, per la luce del tuo volto saresti il sole della piena oscurità. Quando tu corresti su, a Gadshill, nella notte, per acchiappare il mio cavallo, s'io non pensai che tu eri un "ignis fatuus" o una palla di fuoco greco, il denaro non è più buono a comprar nulla. Oh, tu sei una perpetua fiaccolata, un perenne falò di gioia! Tu mi hai fatto risparmiare mille marchi in lampioni e torce, andando in giro con te di notte di taverna in taverna; ma il vin di Spagna che tu mi hai bevuto mi avrebbe fatto comprare dei lumi a uguale buon mercato dal più caro candelaio d'Europa. Ho mantenuto di fuoco quella salamandra che tu sei, per trentadue anni, che Iddio me ne ricompensi!
BARDOLFO: Pel sangue d'Iddio! Vorrei bene che la mia faccia fosse nella vostra pancia!
FALSTAFF: Dio ce ne liberi! Sarei sicuro di avere il bruciore di stomaco.
(Entra l'Ostessa)
E così, dama Partelotta, la gallina, avete trovato chi mi ha vuotato le tasche?
OSTESSA: Ma sir Giovanni! Che pensate mai, sir Giovanni? Pensate forse che io tenga dei ladri in casa mia? Ho cercato, ho domandato, e mio marito pure, uomo per uomo, ragazzo per ragazzo, servo per servo.
Prima d'ora in casa mia non s'è mai perduta la decima parte di un capello.
FALSTAFF: Voi mentite, ostessa; Bardolfo fu tosato e perse molti peli, e io giuro che mi furono vuotate le saccocce. Andate, siete una donna, andate.
OSTESSA: Chi, io? No, io ti sfido: per la luce d'Iddio, io non sono stata mai chiamata così in casa mia prima d'ora.
FALSTAFF: Va' là! Vi conosco abbastanza bene.
OSTESSA: No, sir Giovanni; voi non mi conoscete, sir Giovanni. Io vi conosco, sir Giovanni: mi dovete del denaro, sir Giovanni, e ora attaccate briga per non darmelo. Vi comprai una dozzina di camicie per il vostro dorso.
FALSTAFF: Tela di Daoulas, telaccia di Daoulas; le ho regalate a mogli di fornai che n'hanno fatto degli stacci.
OSTESSA: Ora, com'è vero che sono una donna onesta, era tela d'Olanda da otto scellini al braccio. Inoltre, sir Giovanni, dovete del denaro qui per il vostro vitto, i vostri cicchetti e denaro prestato, ventiquattro sterline.
FALSTAFF: Egli ne ha avuto la sua parte; paghi lui.
OSTESSA: Lui? Ohimè! Egli è povero: non ha nulla.
FALSTAFF: Come! Povero? Mirate il suo viso: cosa chiamate voi ricco?
Battan moneta del suo naso e delle sue guance: io non pagherò un centesimo. Che! Mi prendete per un giovincello? Non sarò io libero di fare il mio comodo nella mia locanda, senza aver le tasche svaligiate?
Ho perduto un anello-sigillo di mio nonno che valeva quaranta marchi.
OSTESSA: O Gesù! Ho sentito il principe che gli diceva, non so quante volte, che quell'anello era di rame.
FALSTAFF: Come! Il principe è un mariolo, un sicofante, pel sangue d'Iddio! Se fosse qui e parlasse a quel modo, lo bastonerei come un cane.
(Entrano il PRINCIPE ENRICO e PETO marciando: FALSTAFF va loro incontro sonando il piffero col suo bastone)
Che c'è di nuovo, ragazzo? Il vento soffia davvero da quella parte?
Dobbiam tutti marciare?
BARDOLFO: Sì, due per due, alla moda di Newgate.
OSTESSA: Signor mio, vi prego, ascoltatemi.
PRINCIPE: Che ci dici, Monna Fapresto? Come sta tuo marito? Gli voglio bene, è un uomo onesto.
OSTESSA: Mio buon signore, ascoltatemi.
FALSTAFF: Ti prego, lasciala andare e stammi a sentire.
PRINCIPE: Che dici, Gianni?
FALSTAFF: L'altra notte mi addormentai qui dietro quest'arazzo, e mi svaligiarono le tasche: questa casa è diventata un bordello; svaligiano le tasche.
PRINCIPE: Che hai perduto, Gianni?
FALSTAFF: Mi crederai tu, Rigo? Tre o quattro cambiali da quaranta sterline l'una e un anello-sigillo di mio nonno.
PRINCIPE: Una bagattella; roba da un otto denari.
OSTESSA: E' quel che gli ho detto io, mio signore; e gli dicevo che l'avevo inteso dire da Vostra Grazia e, signor mio, egli parla di voi molto villanamente, da quell'uomo sboccato che è, e ha detto che vi avrebbe bastonato.
PRINCIPE: Che! Così diceva?
OSTESSA: Se non è vero, non c'è più in me né fede, né verità, né sesso femminile.
FALSTAFF: Non c'è più fede in te che in una prugna cotta, né più verità in te che in una volpe stanata, e, quanto alla femminezza, la pulzella Marianna, paragonata a te, potrebbe essere la moglie del deputato rionale. Va', cosa che sei, va'!
OSTESSA: Dite su, che cosa, che cosa?
FALSTAFF: Che cosa? Ma, una cosa di cui ringraziare Dio.
OSTESSA: Io non sono una cosa di cui ringraziare Dio; imparalo! Sono la moglie di un galantuomo e, con tutto il rispetto per il tuo cavalierato, tu sei un furfante a chiamarmi così.
FALSTAFF: Con tutto il rispetto per il sesso di donna, tu sei una bestia a dire diversamente OSTESSA: Di' su, che bestia sono, furfante?
FALSTAFF: Che bestia? Ma, una lontra.
PRINCIPE: Una lontra, sir Giovanni! Perché una lontra?
FALSTAFF: Ecco, essa non è né carne né pesce; un uomo non sa come prenderla.
OSTESSA: Tu sei ingiusto a dir così: tu o ogni altro uomo sa come prendermi, furfante che sei!
PRINCIPE: Dici il vero, ostessa, ed egli ti calunnia grossolanamente.
OSTESSA: E lo stesso fa di voi, signor mio. L'altro giorno disse che gli dovevate mille sterline.
PRINCIPE: Galantuomo, ti devo mille sterline?
FALSTAFF: Mille sterline, Rigo? Un milione! Il tuo amore vale un milione; tu mi devi il tuo amore.
OSTESSA: Anzi, mio signore, vi ha chiamato mariolo e ha detto che vi avrebbe bastonato.
FALSTAFF: Ho detto questo, Bardolfo?
BARDOLFO: Davvero, signor Giovanni, avete detto proprio così.
FALSTAFF: Sì... se egli diceva che il mio anello era di rame.
PRINCIPE: Dico che è di rame: oserai mantenere la tua parola adesso?
FALSTAFF: Rigo, tu sai che se tu non fossi che un uomo io l'oserei, ma siccome tu sei principe, io ti temo come temo il ruggito di un leoncino.
PRINCIPE: E perché non come il leone?
FALSTAFF: Il re solo deve esser temuto come il leone. Pensi tu che io ti tema come temo tuo padre? Ma che! Se così fosse, prego Iddio che la mia cintura scoppi!
PRINCIPE: Oh, se scoppiasse, come ti cadrebbero le budella fino ai ginocchi ! Ma, sor tale, non c'è posto per la fede, la verità, l'onestà in questo tuo petto; è tutto pieno di budella e di diaframma.
Accusare una donna onesta di averti svaligiato le tasche! Ma figlio di mala femmina, spudorato, gran bestia bavosa; se nelle tue tasche c'era altro che conti d'osteria, appunti di bordelli e un misero soldo di zucchero candito per darti un po' di fiato; se la tua tasca era ricca di altro che di questi vituperi, sono uno scellerato. E tuttavia voi sostenete il contrario e non volete mettervi in tasca il torto che avete. Non ti vergogni?
FALSTAFF: Mi stai a sentire, Rigo? Tu sai che Adamo nello stato d'innocenza cadde, e cosa dovrebbe fare il povero Gianni Falstaff in questi tempi d'immoralità? Tu vedi che io ho più carne d'ogni altro uomo e perciò più fragilità. Confessate dunque di aver svaligiato le mie tasche?
PRINCIPE: Pare che sia così, dalla tua storia.
FALSTAFF: Ostessa, ti perdono; va', prepara la colazione, ama tuo marito, bada ai tuoi servi, tratta bene i tuoi ospiti; tu mi troverai trattabile a ogni onesta ragione: vedi che son pacificato. Ma dunque?
Via, ti prego, vattene. (Esce l'Ostessa) Ora, Rigo, alle notizie della corte. Quanto al furto, giovanotto... com'è stata accomodata la faccenda?
PRINCIPE: O mio dolce manzo, io devo esser sempre il tuo buon angelo; il denaro è restituito.
FALSTAFF: Oh! Non mi piacciono queste restituzioni, è un doppio lavoro.
PRINCIPE: Io e mio padre siam tornati buoni amici e posso fare quel che voglio.
FALSTAFF: Per prima cosa rubami il tesoro regio e fallo subito, senza neanche lavarti le mani.
BARDOLFO: Fatelo, signor mio.
PRINCIPE: Ti ho procurato, Gianni, un comando nella fanteria.
FALSTAFF: Avrei preferito che fosse di cavalleria. Dove troverò uno che sappia rubar bene? Oh! Cosa non darei per trovare un bel ladro di ventidue anni o giù di lì! Son tremendamente a nudo di tutto. Ad ogni modo sia ringraziato Iddio per questi ribelli: non molestano altro che la gente per bene, io li approvo e li lodo.
PRINCIPE: Bardolfo!
BARDOLFO: Signor mio!
PRINCIPE: Va' a portare questa lettera a monsignor Giovanni di Lancaster, a mio fratello Giovanni, questa a monsignore di Westmoreland. (Esce Bardolfo) Andiamo, Peto, a cavallo! A cavallo !
Ché tu ed io dobbiamo cavalcare trenta miglia prima di pranzo. (Esce Peto) Vienmi ad incontrare alle due del pomeriggio al Temple Hall, Gianni; là saprai del tuo comando e riceverai denaro e gli ordini per la fornitura dei tuoi. Il paese è in fiamme, Percy è in alto e loro o noi dobbiamo umiliarci.
(Esce)
FALSTAFF: Preziose parole! Mondo magnifico! Ostessa, la mia colazione; andiamo! O che bella cosa se questa taverna fosse il mio tamburo!
(Esce)
ATTO QUARTO
HOTSPUR: Ben detto, mio nobile scozzese! Se dir la verità in questo bel secolo non fosse creduto adulazione, Douglas avrebbe tali doti che nessun altro soldato de' nostri giorni sarebbe tanto celebrato per tutto il mondo. Per Iddio! Io non so adulare, e sdegno le lingue dei piaggiatori, ma nessun uomo ha posto più onorevole di voi nell'affetto del mio cuore. Andiamo, prendetemi sulla parola, provatemi, signor mio.
DOUGLAS: Tu sei il re dell'onore: non vive sulla terra uomo, che, per quanto potente, io non osi affrontare.
HOTSPUR: Fatelo e tutto andrà bene...
(Entra un Messo con lettere)
Che lettere hai tu costà? Non posso che ringraziarvi.
MESSO: Queste lettere vengono da vostro padre...
HOTSPUR: Lettere da lui! Perché non viene egli stesso?
MESSO: Non può venire, signor mio; è gravemente malato.
HOTSPUR: Per le piaghe di Cristo! Come ha egli tempo d'esser malato in un tal frangente? Chi conduce le sue forze? Sotto qual comando marciano?
MESSO: Le sue lettere, mio signore, non io, dichiarano le sue intenzioni.
WORCESTER: Dimmi, ti prego, sta egli in letto?
MESSO: V'era, signor mio, quattro giorni prima ch'io partissi e, quando lo lasciai, i suoi medici temevano molto per la sua vita.
WORCESTER: Avrei voluto che i tempi fossero stati sani prima che la malattia venisse a visitarlo. Mai la sua salute fu di maggior valore d'adesso.
HOTSPUR: Malato adesso! Cader giù adesso! Questa malattia avvelena lo stesso sangue vitale della nostra impresa, e si propaga anche qui, fin nel nostro campo. Egli mi scrive qui che una malattia interna... che i suoi amici non si poterono radunare sì presto per mezzo di un deputato, ch'egli non ha ritenuto conveniente d'affidare un incarico così pericoloso e delicato ad altr'anima che vi portasse meno interesse della sua. Nondimeno ci dà l'audace consiglio di marciare con le nostre piccole forze per vedere come la fortuna sia disposta verso di noi poiché, com'ei scrive, non c'è da indietreggiare, ora che il re è certamente informato di tutti i nostri progetti. Che ne dite?
WORCESTER: La malattia di vostro padre è una vera mutilazione per noi.
HOTSPUR: Pericolosa ferita, proprio un membro tagliato via. Eppure, in fede mia, non è così; la sua perdita ora sembra maggiore di quello che non sarà in realtà. Sarebbe forse prudente porre su di un sol tiro di dadi l'intero tesoro di tutte le nostre forze? Porre una posta così ricca al sottil rischio di un'ora incerta? Non sarebbe bene? in questo modo scopriremmo il fondo e l'anima delle nostre speranze, l'orlo stesso, il limite estremo di tutte le nostre fortune.
DOUGLAS: Così ci accadrebbe infatti; ora invece ci resta ancora una dolce aspettativa d'eredità, e possiamo arditamente spendere, forti della speranza di quello che ci deve ancora venire. In questo vive un conforto di riscossa.
HOTSPUR: Un rifugio, un asilo dove fuggire, se il diavolo e la sventura guardano minacciosi la nostra vergine impresa.
WORCESTER: Eppure, vorrei che vostro padre fosse stato qui! La qualità e il pelo della nostra impresa mal sopportano divisione: alcuni che non conoscono la ragione della sua assenza penseranno che la prudenza, la lealtà al re, la pura e semplice disapprovazione della nostra condotta, abbian tenuto il conte lontano di qui; e pensate come un simile timore possa volger il corso di una esitante fazione e far nascere dubbi sulla bontà della nostra causa, ché ben sapete come noi, che azzardiamo, dobbiamo tenerci lontani da un giudizio troppo severo e chiudere ogni pertugio, ogni feritoia, per dove possa scrutarci l'occhio della ragione. Quest'assenza di vostro padre tira da parte una tenda che scopre all'ignaro un certo timore, che prima non aveva neppur sognato.
HOTSPUR: Voi andate troppo oltre. Io piuttosto argomenterei così della sua assenza: essa dà lustro, opinione più alta, maggior audacia alla nostra grande impresa, che se il conte fosse qui; poiché la gente dovrà pensare che se noi, senza il suo aiuto, possiamo riunire forze tali da investire un regno, con l'appoggio suo potremmo rovesciarlo addirittura. Finora tutto va bene, tutte le nostre membra sono ancor sane.
DOUGLAS: Quanto il cuore può desiderarlo la paura non è parola che s'oda pronunziare in Scozia.
(Entra SIR RICCARDO VERNON)
HOTSPUR: Mio cugino Vernon! Benvenuto, per l'anima mia!
VERNON: Pregate Iddio che le mie notizie meritino il benvenuto, signore. Westmoreland, forte di settemila uomini, marcia a questa volta: con lui è il principe Giovanni.
HOTSPUR: Niente di male. Che altro c'è?
VERNON: Ho appreso inoltre che il re in persona s'è mosso, o intende di venir qui rapidamente con forte e potente esercito.
HOTSPUR: Anche lui sarà ben accolto. Dov'è suo figlio, quel pazzerello del principe di Galles dal piè leggero, e i suoi camerati che spinsero da parte il mondo, ordinandogli di girare a sua posta?
VERNON: Tutti equipaggiati, tutti in armi, tutti piumati come struzzi che fendono il vento con l'ali, rifocillati come aquile che escono dal bagno, scintillanti come immagini in vesti dorate, pieni di vita come il mese di maggio, e sfolgoranti come il sole di luglio, procaci come capretti, impetuosi come torelli. Ho visto il giovane Enrico, con la visiera abbassata, i cosciali alle gambe, tutt'armato splendidamente, sollevarsi da terra come l'alato Mercurio e balzare in sella con tanta destrezza, quale angelo caduto dalle nubi per montare e maneggiar un ardente Pegaso, e incantare il mondo con la sua nobile maestria di cavaliere.
HOTSPUR: Basta, non dir altro. Queste lodi accendon la febbre più che il sole di marzo. Vengano pure; essi giungono come vittime adorne pel sacrificio, che offriremo ancor calde e sanguinanti all'occhiardente vergine della fumante guerra. Marte, coperto della sua maglia di ferro, siederà sul suo altare, immerso nel sangue fino agli orecchi.
Sono tutto in fiamme, sentendo che questa ricca preda è così vicina e non nostra ancora. Via, lasciatemi provare il mio cavallo che deve portarmi come fulmine contro il petto del principe di Galles.
S'incontrerà un Enrico con un Enrico, destriero con focoso destriero, per non più separarsi, finché l'un dei due non cadrà cadavere. Oh, se Glendower fosse venuto!
VERNON: Ci sono altre notizie. Appresi a Worcester, mentre cavalcavo a questa volta, ch'egli non potrà radunare le sue forze prima di due settimane.
DOUGLAS: E' la peggior notizia ch'io abbia sinora udito.
VERNON: Sì, in fede mia, essa ha un suono che gela.
HOTSPUR: A quanto potrà ammontare l'intero esercito del re?
VERNON: A trentamila.
HOTSPUR: Siano pure quarantamila! Senza mio padre e Glendower le nostre forze potranno bastare per la grande giornata. Andiamo, passiamole rapidamente in rassegna; il giorno del giudizio è vicino:
se dobbiamo tutti morire, moriamo allegramente.
DOUGLAS: Non parlar di morire: io non temo la morte, o la mano della morte, per questa mezza annata.
(Escono)
SCENA SECONDA - Una strada pubblica presso Coventry
(Entrano FALSTAFF e BARDOLFO)
FALSTAFF: Bardolfo, vattene intanto a Coventry: riempimi una bottiglia di vin di Spagna; i nostri soldati traverseranno la città; noi saremo a Sutton Co'fil' stasera.
BARDOLFO: Volete darmi un po' di denaro, capitano?
FALSTAFF: Mettilo fuori tu, mettilo fuori tu.
BARDOLFO: Questa bottiglia fa un angelo.
FALSTAFF: E se fa un angelo prendilo per le tue fatiche, e se ne fa venti, prendili tutti quanti, io rispondo della bontà del conio. Di' al mio luogotenente Peto d'incontrarmi in fondo alla città.
BARDOLFO: Così farò, capitano. Arrivederci.
(Esce)
FALSTAFF: Se non mi vergogno dei miei sudditi voglio essere una triglia marinata. Ho abusato della leva del re in un modo dannato. Ho preso, in cambio di centocinquanta soldati, trecento e tante sterline.
Non fo leva che tra facoltosi possidenti, figli di agricoltori benestanti: vo’ in cerca di giovani fidanzati, quelli i cui bandi eran stati fatti due volte; una provvista di comodoni che avrebbe più caro sentir la voce del diavolo che un tamburo; gente che teme lo sparo di un archibugio peggio di un uccello colpito o di un'anatra selvatica ferita. Non ho arruolato che mangiatori di crostini imburrati, con nella pancia dei cuori non più grossi di una testa di spillo, che hanno comprato la dispensa dal servizio. Ora tutto il mio esercito non si compone che d'alfieri, caporali, luogotenenti, sottufficiali:
miserabili, laceri come Lazzaro che si vede sulle tele dipinte, quando i cani del ricco Epulone gli leccavano le piaghe; tutta gente che, per dire il vero, non furon mai soldati: servitori disonesti licenziati, figli cadetti di fratelli cadetti, garzoni d'osteria scappati, stallieri disoccupati, cancheri d'un mondo tranquillo e d'una lunga pace, dieci volte più vergognosamente stracciati d'una vetusta bandiera. Per riempire i posti di quelli che hanno comprato i loro congedi ho messo insieme una tale accozzaglia, che pensereste ch'io abbia centocinquanta laceri figli prodighi appena tornati dal badare i porci e dal nutrirsi di avanzi e di ghiande. Un burlone, che m'incontrò per la strada, mi disse che avevo alleggerito tutte le forche e arruolato cadaveri. Nessun occhio ha mai visto simili spauracchi. Non marcerò attraverso Coventry con loro, questo è chiaro.
C'è di più; i marioli marciano con le gambe larghe come se avessero i ferri ai piedi, ché in verità ne ho cavata la maggior parte di prigione. Non c'è che una camicia e mezzo in tutta la mia compagnia, e la mezza camicia è fatta di due tovaglioli uniti insieme e gettati sulle spalle, come una cotta d'araldo senza maniche, e la camicia, per dir la verità fu rubata al mio oste a Sant'Albano, o al locandiere dal naso rosso di Daventry. Ma questo non importa, troveranno abbastanza biancheria su tutte le siepi.
(Entrano il PRINCIPE ENRICO e WESTMORELAND)
PRINCIPE: Ebbene, pallone d'un Gianni? Come va, materasso?
FALSTAFF: Che! Rigo! Come va, pazzerello? Che diavolo fai tu nella contea di Warwick? Mio buon signore di Westmoreland, vi domando perdono, pensavo che Vostro Onore fosse già a Shrewsbury.
WESTMORELAND: In verità, sir Giovanni, è da un bel pezzo che io dovrei esserci, e voi pure; ma le mie forze vi son già. Il re, ve lo assicuro, conta su tutti noi: dobbiamo partire tutti stasera.
FALSTAFF: Che! Non dubitate di me, io son vigile come un gatto a rubar crema.
PRINCIPE: Credo davvero a rubar crema, ché il tuo furto ti ha fatto già diventar burro. Ma dimmi, Gianni, di chi sono quegli individui che ci seguono?
FALSTAFF: Miei, Rigo, miei.
PRINCIPE: Non ho mai visto più miserabili straccioni.
FALSTAFF: Che! Che! Buoni abbastanza per farsi infilare; carne da cannone, carne da cannone; riempiranno una fossa al pari dei migliori.
Va' là, amico, uomini mortali, uomini mortali.
WESTMORELAND: Sì, sir Giovanni ma mi sembra che siano poveri e magri oltre misura, troppo sbrindelloni.
FALSTAFF: In fede mia! Quanto alla loro povertà non so dove l'abbiano presa; quanto alla magrezza io non l'ho loro insegnata di certo.
PRINCIPE: No, lo giurerei, a meno che non chiamate magrezza aver tre dita di lardo sulle costole. Ma sbrigatevi, galantuomo! Percy è già sul campo.
(Esce)
FALSTAFF: Che! Il re è già accampato?
WESTMORELAND: Sì, sir Giovanni, temo che indugiamo troppo.
FALSTAFF: Benissimo, la fine di una battaglia e il principio di un banchetto son proprio quel che ci vuole per un pigro combattente e un convitato affamato.
(Escono)
HOTSPUR: Ci batteremo con lui stanotte.
WORCESTER: Ciò non può essere.
DOUGLAS: Allora gli date vantaggio.
VERNON: Neppur per ombra.
HOTSPUR: Perché dite questo? Non attende egli rinforzi?
VERNON: E noi pure.
HOTSPUR: I suoi son certi, i nostri son dubbi.
WORCESTER: Buon cugino, lasciatevi consigliare: non vi muovete stanotte.
VERNON: Non vi muovete, mio signore.
DOUGLAS: Voi non mi consigliate bene. Dite così per paura e per freddezza di cuore.
VERNON: Non mi calunniate, Douglas; sulla mia vita! - e oso sostenere ciò che dico con la mia vita - se un beninteso onore mi spinge innanzi, io mi consiglio sì poco con la debole paura, quanto voi, mio signore, o ogni altro scozzese che oggi vive. Vedremo domani, alla battaglia, chi di noi ha paura.
DOUGLAS: Sì, o stanotte.
VERNON: Acconsento.
HOTSPUR: Stanotte, io dico.
VERNON: Andiamo, andiamo, ciò non può essere. Assai mi meraviglio, che uomini esperti al comando come siete voi, non prevediate quali ostacoli trattengono la nostra spedizione: parte della cavalleria di mio cugino Vernon non è ancora giunta; i cavalieri di vostro zio Worcester non sono arrivati che oggi, e il loro ardore e il loro slancio sono addormentati, il loro coraggio domato e smussato dalla dura fatica: non v'è un solo cavaliere che non sia la metà della metà di sé.
HOTSPUR: Nelle stesse condizioni, in generale è la cavalleria del nemico, spossata dal viaggio e infiacchita, mentre la maggior parte dei nostri sono completamente riposati.
WORCESTER: Le truppe del re sono assai più numerose delle nostre; per amor di Dio, cugino, attendete finché tutti siano giunti.
(Una tromba annuncia un parlamentare. Entra SIR GUALTIERO BLUNT)
BLUNT: Vengo con graziose offerte da parte del re, se mi concedete rispettoso ascolto.
HOTSPUR: Benvenuto, sir Gualtiero Blunt, e volesse Iddio che foste de' nostri! Alcuni tra noi vi amano molto e invidiano i vostri grandi meriti e la bella fama, poiché non siete della nostra parte, ma ci state contro come nemico.
BLUNT: E Dio mi guardi di non esserlo sempre, fintantoché, fuor d'ogni limite e dovere di lealtà, voi state contro la sacra maestà. Ma veniamo al mio messaggio. Il re mi ha mandato per conoscere la natura delle vostre lagnanze, e per qual motivo voi sollevate, dal seno della pace civile, questa temeraria ostilità, insegnando al suo regno sottomesso un'audacia crudele. Se il re ha, in qualche modo, obliato i vostri servigi che confessa esser molteplici, egli v'invita a dire le vostre lagnanze, e, in gran fretta, i vostri desideri saranno appagati con usura e avrete perdono assoluto per voi e per tutti coloro, a istigazione vostra, così traviati.
HOTSPUR: Gentile è il re, e noi ben sappiamo che il re conosce in qual momento giova promettere e in quale mantenere. Mio padre, mio zio ed io gli demmo la corona che porta. Quando, con la sola forza di sì e no ventisei seguaci, disprezzato nell'opinione del mondo, misero e umiliato, povero proscritto di cui nessuno si curava, tornò nascostamente in patria, mio padre lo accolse da amico sulla spiaggia, e udendolo giurare e far voto dinanzi a Dio, con lacrime d'innocenza e proteste di fedeltà, ch'egli non tornava che per essere duca di Lancaster, reclamare le sue terre e chiedere il suo perdono, mio padre, mosso dalla bontà del suo cuore e dalla pietà, gli giurò aiuto e glielo diede anche. Allorché i pari e i baroni del regno videro che Northumberland propendeva per lui, grandi e piccoli vennero a lui col cappello in mano e, piegando il ginocchio, gli mossero incontro nelle borgate, nelle città, nei villaggi, lo attesero sui ponti gli fecero ala, gli offersero doni, gli giurarono fedeltà, gli diedero i loro eredi come paggi, seguirono i suoi passi in auree moltitudini. Poco dopo costui - come avviene quando la grandezza conosce se stessa - mi sale un po' più in alto che non avesse promesso a mio padre, allorché povero gli scorreva il sangue, sulla desolata spiaggia di Ravenspurgh; e ora eccolo in verità che s'incarica di riformare certi editti ed alcuni severi decreti che troppo opprimono il popolo; grida contro gli abusi, sembra che pianga sulle sventure della sua patria, e con questo sembiante, con questa maschera di giustizia, si conquista i cuori di tutti quelli ai quali aveva gettato l'amo. Andò anche più oltre: fece tagliar la testa a tutti i favoriti, che il re assente aveva lasciati qui come suoi deputati, mentr'egli attendeva in persona alla guerra d'Irlanda.
BLUNT: Tacete, non son venuto a udir questo.
HOTSPUR: Veniamo dunque al punto. Poco tempo dopo egli depose il re; subito dopo gli tolse la vita; senza por tempo in mezzo oppresse lo Stato di tasse; a peggiorare le cose, lasciò che il suo parente March - che se ciascuno fosse al suo proprio posto sarebbe suo re legittimo - fosse trattenuto come ostaggio nel Galles, per restarvi prigioniero senza riscatto; umiliò me nelle mie fortunate vittorie, cercò di farmi cadere nell'insidia per mezzo dello spionaggio; cacciò con improperi mio zio dal consiglio; rabbiosamente congedò mio padre dalla corte; infranse giuramento su giuramento, commise abusi su abusi e, in conclusione, ci spinse a cercar salvezza in questo esercito e, altresì, a esaminar un po' più da vicino il suo titolo, che noi troviamo di linea troppo indiretta perché possa a lungo continuare.
BLUNT: Devo portare questa risposta al re?
HOTSPUR: Non questa, sir Gualtiero: ci ritireremo un momento per consultarci. Andate dal re; che ci dia qualche pegno di sicuro ritorno e, al mattino presto, mio zio gli porterà le nostre proposte. E con questo, addio.
BLUNT: Mi auguro che accetterete il suo perdono e la sua amicizia.
HOTSPUR: Può darsi che li accetteremo.
BLUNT: Prego Dio che sia così!
(Escono)
ARCIVESCOVO: Affrettatevi, buon sir Michele, portate questa lettera suggellata, con fretta alata, al lord maresciallo; questa a mio cugino Scroop, e tutte le altre alle persone cui sono indirizzate. Se sapeste di quale importanza sono, vi sbrighereste davvero!
MICHELE: Mio buon signore, indovino il loro contenuto.
ARCIVESCOVO: E' probabile che lo indoviniate. Domani, buon sir Michele, è il giorno in cui le sorti di diecimila uomini devono esser messe alla prova, poiché, messere, da quanto mi si fa veracemente intendere, il re s'incontra a Shrewsbury con lord Arrigo, con forze potenti che ha raccolto rapidamente, e io temo, sir Michele, che, parte a causa della malattia di Northumberland, le cui forze erano le più considerevoli, e parte a causa dell'assenza di Owen Glendower ch'era pure un vigoroso nerbo su cui contavano, e che ora, dissuaso dalle predizioni, non è venuto, le forze di Percy sian troppo deboli per dare immediata battaglia al re.
MICHELE: Ma, mio buon signore, non dovete temere, c'è Douglas e lord Mortimer.
ARCIVESCOVO: No, Mortimer non c'è.
MICHELE: Ma c'è Mordake, Vernon, lord Arrigo Percy, e c'è monsignor di Worcester, e una schiera di valorosi guerrieri, di nobili gentiluomini.
ARCIVESCOVO: Così è, ma il re ha radunato il fior delle truppe di tutto il paese: il principe di Galles, lord Giovanni di Lancaster, il nobile Westmoreland, il battagliero Blunt, e molti altri soci e uomini onorevoli di gran fama ed autorità nelle armi.
MICHELE: Non dubitate, signor mio, troveranno degni avversari.
ARCIVESCOVO: Lo spero anch'io, pure giova temere, e onde prevenire il peggio, affrettatevi, sir Michele, ché se lord Percy non ha fortuna, prima che il re congedi le sue truppe si propone di farci visita, avendo avuto notizia della nostra cospirazione, e non è che prudenza di rafforzarci contro di lui; affrettatevi dunque. Debbo andare a scrivere ancora ad altri amici, ed ora addio, sir Michele.
(Escono)
ATTO QUINTO
ENRICO: Come sanguigno il sole comincia a spuntare su quella boscosa collina! Il giorno sembra impallidire al suo aspetto alterato.
PRINCIPE: Il vento meridionale annunzia come araldo i suoi propositi, e sibilando cavernoso tra le foglie predice una giornata di tempesta e d'uragano.
ENRICO: Sia allora d'un sentire con chi perde, poiché nulla può sembrare brutto a coloro che vincono.
(Suona una tromba. Entrano WORCESTER e VERNON)
Ebbene, monsignore di Worcester! Non va bene che voi ed io ci si debba incontrare nei termini in cui c'incontriamo. Voi avete tradito la nostra fiducia e ci avete costretti a spogliarci delle nostre comode vesti di pace per comprimere le nostre vecchie membra coll'inurbano acciaio; questo non va bene, signor mio, questo non va bene. Che rispondete? Volete sciogliere questo rozzo nodo di una guerra aborrita da tutti, e muovervi ancora nell'orbita di quell'obbedienza, in cui brillavate di splendore sì puro e naturale, rinunziando a essere una meteora di vapori, un prodigio di terrore e un presagio di sventure scatenate per i tempi che han da nascere?
WORCESTER: Ascoltatemi, mio sovrano. Quanto a me, potrei esser ben contento di passare il margine estremo della mia vita in ore tranquille, ché, vi assicuro, io non ho cercato questo giorno di discordia.
ENRICO: Voi non lo avete cercato! Com'è dunque venuto?
FALSTAFF: La ribellione si trovava sul suo cammino, egli la trovò.
PRINCIPE: Silenzio, gracchio, silenzio!
WORCESTER: Piacque a Vostra Maestà distogliere da me e da tutta la nostra casa gli sguardi del vostro favore; eppure debbo ricordarvi, mio signore, che noi fummo i primi e i più cari dei vostri amici. Per voi io ruppi il bastone del mio comando al tempo di Riccardo, e viaggiai giorno e notte per venirvi incontro e baciarvi la mano, allorché non eravate ancora per posizione e per stima né potente né fortunato come me. Fui io stesso, e furono mio fratello e suo figlio, che vi riconducemmo in patria sfidando arditamente tutti i pericoli di quell'ora. Voi ci giuraste, e il giuramento lo faceste a Doncaster, che non avevate alcuna intenzione avversa allo Stato e che avreste reclamato soltanto i diritti allora maturati: il dominio di Gand, il ducato di Lancaster. Noi giurammo di aiutarvi in questo. Ma in breve la fortuna vi piovve a profusione sul capo e foste inondato da un diluvio di grandezza, in parte a causa del nostro aiuto, in parte per l'assenza del re, e altresì per le colpe di un frivolo regno, per le sofferenze che pareva voi aveste sopportate, e per i venti contrari che trattennero sì a lungo il re nelle sue sfortunate guerre d'Irlanda, che tutti in Inghilterra lo credettero morto. Da questo cumulo di eventi favorevoli coglieste occasione per farvi vivamente pregare di afferrare nelle vostre mani il governo del paese.
Dimenticaste allora il giuramento fatto a noi a Doncaster, e, nutrito da noi, ci trattaste come quel crudele pulcino, il giovane cuculo, tratta il passero: v'impossessaste del nostro nido, e col nostro nutrimento cresceste a tal mole, che neanche il nostro amore osò avvicinarsi al vostro sguardo per tema di essere divorato; e per salvarci, fummo costretti a fuggire con agile ala lontano dal vostro sguardo e riunire le nostre presenti forze; per cui vi stiamo di fronte per quelle stesse ragioni che voi medesimo vi siete levate contro colla vostra ingrata condotta, i minacciosi sguardi e la violazione di tutti gl'impegni e giuramenti che ci faceste nei primi tempi della vostra impresa.
ENRICO: Queste cose le avete infatti enumerate e proclamate alle croci dei mercati, le avete lette nelle chiese alfin di ornare il manto della ribellione di qualche bel colore che riesca gradito agli occhi di quei volubili voltacasacca e poveri scontenti, che stanno a bocca aperta e si fregano le mani ascoltando le notizie di qualche tumultuosa innovazione. Non mai la ribellione mancò di simili tinte d'acquerello per dipingere la sua causa, né di canaglia furibonda, affamata per un po' di turbolenta ruina e disordine.
PRINCIPE: Più d'un'anima, nei nostri due eserciti, pagherà caramente questo incontro, se mai essi verranno alle mani. Dite a vostro nipote che il principe di Galles si unisce al mondo intiero in lode di Enrico Percy. Per tutte le mie più care speranze, non mettendo in suo conto la presente impresa, io non credo viva gentiluomo più prode, più attivamente valoroso o più valorosamente giovanile, più baldo e più audace di lui, che adorni questo nostro tempo con le sue nobili gesta.
Quanto a me, e lo dico a mia vergogna, ho negletto i doveri della cavalleria e, a quel che mi si dice, tale è l'opinione ch'egli ha di me. Pure dichiaro innanzi alla maestà di mio padre che sarei lieto, nonostante il vantaggio del suo gran nome e della sua fama, di tentare la fortuna con lui in singolar tenzone onde risparmiar sangue alle due parti.
ENRICO: E noi, principe di Galles, ti permetteremmo dl correre tale ventura, ad onta degli infiniti motivi che ci si opporrebbero. No, buon Worcester, no, noi amiamo molto il nostro popolo; amiamo anche quelli che sono stati persuasi a seguire il partito di vostro nipote, e, se accetteranno l'offerta del nostro perdono tanto lui che loro, e voi stesso e tutti quanti, sarete ancora miei amici, com'io di voi.
Andate a riferir questo a vostro nipote e portatemi risposta delle sue intenzioni. Ma s'egli non vuol cedere, il rimprovero e la terribile punizione sono ai nostri comandi e compiranno il loro ufficio. Ed ora andate; non vogliamo ora essere disturbati da altra risposta: facciamo una bella offerta; accettatela saggiamente.
(Escono Worcester e Vernon)
PRINCIPE: Non sarà accettata, sull'anima mia! Douglas e Hotspur uniti affronterebbero fiduciosi tutto il mondo in armi.
ENRICO: Per questo ogni condottiero vada al suo posto, ché appena avremo la loro risposta li attaccheremo; e Dio ci aiuti come la nostra causa è giusta!
(Escono tutti eccetto il Principe e Falstaff)
FALSTAFF: Rigo, se durante la battaglia mi vedi a terra e mi ripari col tuo corpo, bene, è un servizio d'amico.
PRINCIPE: Non v'è che un colosso che potrebbe renderti tale servizio.
Di' le tue preghiere, e addio.
FALSTAFF: Vorrei che fosse ora di andare a letto, Rigo, e che tutto andasse bene.
PRINCIPE: Tu sei debitore a Dio di un trapasso.
(Esce)
FALSTAFF: Debitore non sono ancora, e mi rincrescerebbe di pagarlo prima del suo giorno. Che bisogno ho io di correre incontro a chi non mi cerca? Ebbene, non importa, l'onore mi tira innanzi. Ma, e se poi l'onore mi toglie di mezzo mentre io muovo all'attacco? E allora? Può l'onore rimettermi al posto una gamba? No. O un braccio? No. Togliere il dolore di una ferita? No. L'onore non s'intende dunque di chirurgia? No. Che cosa è l'onore? Una parola. Che cosa c'è in questa parola onore? Che cos'è quest'onore? Aria. Bell'acquisto! Chi lo possiede? Quegli che morì mercoledì. Lo sente? No. E' dunque una cosa inafferrabile? Sì, per i morti. Ma non potrà vivere con i vivi? No.
Perché? La calunnia non lo soffrirà. E allora io non ne voglio punto:
l'onore non è che un mero stemma da mortorio, e così finisce il mio catechismo.
(Esce)
WORCESTER: Oh, no, sir Riccardo, mio nipote non deve sapere le offerte generose e liberali del re.
VERNON: Sarebbe meglio che le conoscesse.
WORCESTER: In questo caso siamo rovinati. Non è possibile, non può essere che il re tenga la sua promessa di amarci; ci sospetterà sempre e troverà occasione di punire quest'offesa col pretesto di altre colpe. Per tutta la nostra vita, il sospetto fisserà su di noi i suoi mille occhi, ché del tradimento non ci si può fidare più che della volpe, la quale, per quanto addomesticata, carezzata e tenuta chiusa, conserverà sempre qualche tratto della selvatichezza della sua razza.
Per triste o allegro che sia il nostro aspetto, i nostri sguardi saranno male interpretati e saremo nutriti come i buoi nella stalla, tanto più accarezzati quanto più vicini a morte. Si potrà forse dimenticare la trasgressione di mio nipote, ha la scusa della giovinezza e del sangue ardente, il privilegio del nome che ha adottato: Hotspur lo scervellato, che si lascia governare da un impulso. Tutte le sue colpe gravano sul capo mio e di suo padre, noi l'adescammo, e da noi si lasciò corrompere. Noi, causa di tutto, pagheremo per tutti. Perciò, buon cugino, non sappia Arrigo in alcun caso l'offerta del re.
VERNON: Riferite ciò che volete; io non farò che confermare. Ecco vostro nipote.
(Entrano HOTSPUR e DOUGLAS)
HOTSPUR: Mio zio è tornato. Mettete in libertà monsignore di Westmoreland. Che nuove, zio?
WORCESTER: Il re vi darà battaglia tra poco.
DOUGLAS: Fategli portare la sfida da monsignore di Westmoreland.
HOTSPUR: Lord Douglas, andate voi stesso a dirglielo.
DOUGLAS: Ci andrò, perdio, e molto volentieri.
(Esce)
WORCESTER: Non v'è alcun segno di clemenza nel re.
HOTSPUR: Gliela chiedeste forse? Dio ne guardi!
WORCESTER: Gli parlai dolcemente delle nostre lagnanze, dei giuramenti da lui rotti, ed egli cercò di rimediarvi negando con un nuovo spergiuro di aver mai mancato a un giuramento: e ci chiama ribelli, traditori, e vuol punirci di questo nome odioso colle sdegnose sue armi.
(Rientra DOUGLAS)
DOUGLAS: All'armi! Gentiluomini, all'armi! ho lanciato un'audace sfida al viso di re Enrico, e la portò Westmoreland, ch'era qui ostaggio.
Ciò non può mancare di farlo muovere rapidamente all'attacco.
WORCESTER: Il principe di Galles si fece avanti in presenza del re e sfidò voi, nipote, a singolare combattimento.
HOTSPUR: Oh, volesse il cielo che la contesa riposasse sulle nostre due teste, e che nessuno, eccetto io e Arrigo Monmouth, fosse oggi a corto di respiro! Dite, dite, in che modo mi ha sfidato? Lo ha fatto con disprezzo?
VERNON: No, sull'anima mia! Non ho udito mai in vita mia lanciare sfida con maggior modestia, a meno che non fosse un fratello a provocare un fratello ai nobili esercizi e alle prove delle armi. Egli vi rese tutti gli omaggi che ad uomo possono rendersi; ornò le vostre lodi di eloquenza principesca, parlo dei vostri meriti come una cronaca, innalzandovi anche al di sopra della sua lode, e disprezzando questa come troppo debole per apprezzarvi e, cosa degna davvero di principe, fece di sé una menzione piena di rossore, rimproverandosi la vagabonda giovinezza con tanta grazia, come se in quell'istante egli si fosse reso padrone dell'arte dell'insegnare e dell'imparare. E qui si fermò, ma lasciate ch'io dichiari al mondo che s'egli sopravvive all'avverso fato di questa giornata, l'Inghilterra non avrà mai posseduto speranza sì bella, tanto male apprezzata per le sue stravaganze.
HOTSPUR: Io credo, cugino, che tu sia invaghito delle sue follie. Non ho sentito mai ricordare in un principe più sfrenata licenza; ma sia quello che vuole, prima di sera lo stringerò sì forte tra le mie braccia di soldato, ch'egli si rannicchierà sotto la mia carezza!
All'armi, all'armi! Presto, e voi compagni, soldati, amici, considerate quello che avete da fare da voi stessi meglio che non possa accendervi il sangue con persuasiva parola io che non ho il dono dell'eloquenza.
(Entra un Messo)
MESSO: Mio signore ecco lettere per voi.
HOTSPUR: Non posso leggerle adesso. O signori, il tempo della vita è breve; ma trascorrere miseramente questo breve tratto di tempo sarebbe ancora troppo lungo quand'anche la vita, galoppando sullo stilo d'una meridiana, finisse il suo viaggio in un'ora. Se viviamo, viviamo per calpestare dei re; se moriamo, bella è la morte, quando dei principi muoiono con noi. Quanto alle nostre coscienze, sante son l'armi impugnate per una giusta causa.
(Entra un altro Messo)
MESSO: Mio signore, preparatevi, il re avanza rapidamente.
HOTSPUR: Lo ringrazio se mi taglia le parole, ch'io non fo professione di parlatore. Vi dico soltanto questo: ogni uomo faccia del suo meglio. E ora traggo una spada per tingerne la lama del miglior sangue che incontrerò nelle vicende di questo periglioso giorno. Ora, "Espérance"! Percy! E avanti! Sonate tutti potenti strumenti di guerra e a quella musica abbracciamoci tutti, poiché scommetto il cielo contro la terra, che alcuni tra noi non si renderanno mai più una seconda volta simile cortesia.
(Suonano le trombe. Si abbracciano ed escono)
BLUNT: Qual è il tuo nome, tu che nella battaglia mi attraversi sempre il cammino? Quale onore cerchi sul mio capo?
DOUGLAS: Sappi allora che il mio nome è Douglas, e che ti seguo così nella battaglia perché alcuni mi dicono che tu sei un re.
BLUNT: Ti dicono il vero.
DOUGLAS: Il signore di Stafford ha pagata cara oggi la sua somiglianza con te, poiché questa spada ha messo fine ai suoi giorni invece che ai tuoi, re Enrico; lo stesso farò di te, se non ti arrendi mio prigioniero.
BLUNT: Non nacqui di quelli che si arrendono, o superbo scozzese, e tu troverai un re che vendicherà la morte di lord Stafford.
(Combattono e Blunt è ucciso) (Entra HOTSPUR)
HOTSPUR: O Douglas! Se tu avessi combattuto così a Holmedon, non avrei mai trionfato di alcuno scozzese.
DOUGLAS: Tutto è finito, la vittoria è completa: qui giace il re senza vita.
HOTSPUR: Dove?
DOUGLAS: Qui.
HOTSPUR: Questo, Douglas? No; conosco benissimo questo volto; era un prode cavaliere di nome Blunt, equipaggiato in tutto come il re.
DOUGLAS: Un pazzo accompagni la tua anima dovunque essa vada! Troppo caro hai pagato un titolo d'accatto. Perché mi hai detto che eri il re?
HOTSPUR: Ve ne son parecchi che combattono nella cotta d'arme del re.
DOUGLAS: E allora, per la mia spada! io ucciderò tutte le sue cotte, truciderò tutto il suo guardaroba, pezzo per pezzo, finché non m'incontrerò col re.
HOTSPUR: Su, andiamo! I nostri soldati sono in procinto di vincere la giornata.
(Escono)
(Allarme. Entra FALSTAFF, solo)
FALSTAFF: Quantunque a Londra potessi sfuggire al pagamento del mio scotto, temo di rimaner scottato dalle fucilate qui, qui non si fanno tacche che sulla zucca. Piano! Chi siete? Sir Gualtiero Blunt! L'avete avuto l'onore, non è mica vanità questa! Io son caldo come il piombo liquefatto e altrettanto pesante. Dio tenga il piombo lontano da me!
Non mi occorre altro peso che quello delle mie viscere. Ho condotto i miei straccioni dove son stati cucinati! Di trecentocinquanta non ne rimangono tre in vita, e così conci, che dovranno domandare l'elemosina, per il resto della loro vita, alle porte della città. Ma chi vien qui?
(Entra il PRINCIPE ENRICO)
PRINCIPE: Che! Te ne stai qui oziando? Prestami la tua spada. Molti nobili, la cui morte non è vendicata, giacciono irrigiditi e freddi sotto le zampe dei cavalli dell'insolente nemico: ti prego, dammi la tua spada.
FALSTAFF: O Rigo, ti prego, lasciami prender fiato un momento. Quel turco di papa Gregorio non compì mai tali gesta con le armi quali ne ho compiute io quest'oggi. Ho spacciato Percy, l'ho messo al sicuro.
PRINCIPE: C'è davvero ai sicuro! E' vivo e fresco per ucciderti. Ti prego, dammi la tua spada.
FALSTAFF: No, per Iddio! Rigo, se Percy è vivo, tu non avrai la mia spada, ma prendi la mia pistola, se vuoi.
PRINCIPE: Dammela. Che! E' nella fonda?
FALSTAFF: Sì, Rigo, è calda, è calda; ce n'è dentro da riempire di fumi una città.
(Il Principe tira fuori dalla fonda una bottiglia di vin di Spagna)
PRINCIPE: Come! E' questo il momento di scherzare e folleggiare?
(Gliela getta ed esce)
FALSTAFF: Bene, se Percy è vivo è un uomo perso. Se egli viene sulla mia strada, bene; ma se non ci viene, e io capito nella sua di mia volontà, che faccia pur di me una bistecca. A me non piace un onore che fa far delle smorfie come quello di sir Gualtiero. Datemi la vita, e se la posso conservare, bene, se no l'onore viene senza ch'io lo cerchi, e tutto è finito.
(Esce)
SCENA QUARTA - Un altra parte del campo
(Allarme. Scorrerie. Entrano ENRICO QUARTO, il PRINCIPE ENRICO, GIOVANNI DI LANCASTER e il CONTE DI WESTMORELAND)
ENRICO: Ti prego, Enrico, ritirati; tu perdi troppo sangue; lord Giovanni di Lancaster, andate con lui.
LANCASTER: Io no, mio signore, finché non perda anch'io sangue.
PRINCIPE: Supplico Vostra Maestà di venire avanti sul fronte della battaglia, per timore che la vostra assenza non sgomenti i vostri amici.
ENRICO: Così farò. Monsignore di Westmoreland, conducetelo alla sua tenda.
WESTMORELAND: Venite, signor mio, vi condurrò alla vostra tenda.
PRINCIPE: Condurmi, mio signore? Non mi occorre il vostro aiuto. Non voglia Iddio che una leggera scalfittura faccia ritirare il principe di Galles da un campo di battaglia come questo, ove tanta nobiltà giace bagnata nel sangue e calpestata, e le armi dei ribelli trionfano nelle stragi!
LANCASTER: Ci siamo riposati anche troppo. Venite, cugino Westmoreland; il nostro dovere ci chiama da questa parte: venite per amor di Dio.
(Escono Giovanni di Lancaster e Westmoreland)
PRINCIPE: Per Iddio! Tu mi hai ingannato, Lancaster! Non ti credevo signore di tanto ardire; prima ti amavo come mio fratello, Giovanni; ma ora ti tengo caro come l'anima mia.
ENRICO: L'ho visto tener lord Percy a rispetto con resistenza più vigorosa ch'io non m'aspettassi in sì giovane guerriero.
PRINCIPE: Oh, questo ragazzo ha del coraggio da vendere a tutti noi!
(Esce. Allarme. Entra DOUGLAS)
DOUGLAS: Un altro re! Crescono come le teste dell'Idra. Io sono Douglas, fatale a tutti quelli che portano indosso i tuoi colori. Chi sei tu, che contraffai la persona di un re?
ENRICO: Il re stesso, o Douglas, e molto addolorato che tu abbia incontrato tante sue ombre, e non il vero re. Ho due figli che cercano Percy e te per il campo: ma ora che mi sono fortunatamente imbattuto in te, ti metterò alla prova. Difenditi.
DOUGLAS: Temo tu sia un'altra contraffazione, eppure, in verità, ti comporti da re. Ma chiunque tu sia, son certo che sarai mio: ed ecco come ti conquisto.
(Combattono e mentre Enrico Quarto è in pericolo rientra il PRINCIPE ENRICO)
PRINCIPE: Alza il capo, vile scozzese, o è probabile tu non lo sollevi mai più! Gli spiriti del valoroso Shirley, di Stafford, di Blunt sono nelle mie armi: è il principe di Galles che ti minaccia ed ei mai non promette se non intende pagare. (Combattono: Douglas fugge) State lieto mio signore: come sta Vostra Grazia? Sir Nicola Gawsey ha mandato per soccorsi, e così pure Clifton; andrò subito da Clifton.
ENRICO: Aspetta, riprendi fiato un momento. Tu hai riacquistata tutta la perduta stima e mi hai dimostrato che tu fai qualche conto della mia vita col bell'aiuto che mi hai portato.
PRINCIPE: O Dio! Troppo mi hanno oltraggiato coloro che han detto che io anelavo la vostra morte. Se così fosse, avrei potuto lasciar che continuasse a trionfar su di voi l'insolente mano di Douglas, che vi avrebbe spacciato più rapidamente di tutte le velenose pozioni del mondo, risparmiando a vostro figlio la fatica del tradimento.
ENRICO: Corri da Clifton: io andrò da sir Nicola Gawsey.
(Esce)
(Entra HOTSPUR)
HOTSPUR: S'io non m'inganno, tu sei Arrigo Monmouth.
PRINCIPE: Tu parli come se io volessi negare il mio nome.
HOTSPUR: Il mio nome è Arrigo Percy.
PRINCIPE: Vedo dunque un valoroso ribelle di questo nome. Io sono il principe di Galles. Non pensare, Percy, di dividere più a lungo alcuna gloria con me: due stelle non possono muoversi nella medesima sfera, né l'Inghilterra può sopportare il doppio regno di Arrigo Percy e del principe di Galles.
HOTSPUR: Né ciò avverrà, Arrigo; ché l'ora è venuta che deve por fine a uno di noi due. Volesse Iddio che la tua fama nelle armi fosse ora grande come la mia!
PRINCIPE: L'accrescerò avanti di lasciarti, e mieterò gli onori che fioriscono sul tuo cimiero, per farne una ghirlanda al mio capo.
HOTSPUR: Non posso tollerare più a lungo le tue scempiaggini.
(Combattono)
(Entra FALSTAFF)
FALSTAFF: Ben detto, Rigo! Dagli, Rigo! Ma non troverete qui un giuoco da ragazzi, ve lo assicuro.
(Rientra DOUGLAS; combatte con FALSTAFF che si lascia cadere come morto. DOUGLAS esce. HOTSPUR è ferito e cade)
HOTSPUR: O Arrigo, tu mi hai derubato della mia giovinezza! Io sopporto meglio la perdita di questa fragile esistenza, che non quella degli orgogliosi titoli che hai conquistati su di me; i miei pensieri ne son feriti più che la mia carne per la tua spada, ma il pensiero è lo schiavo della vita e la vita è lo zimbello del tempo, e il tempo che abbraccia nella sua rassegna tutto il mondo, deve anch'esso aver fine. Oh, potrei far profezie, ma la terrea e fredda mano della morte posa sulla mia lingua: no, Percy, tu sei polvere, cibo per...
(Muore)
PRINCIPE: Per i vermi, valoroso Percy. Addio, gran cuore! Mal tessuta ambizione, come ti sei ritirata! Quando questo corpo racchiudeva un'anima, un regno era troppo angusto confine per lui; ora due passi della più vile terra gli sono spazio sufficiente! Questa terra che ti sostiene morto non sostiene vivo un gentiluomo intrepido come te. Se tu fossi ancora sensibile alle lodi non mostrerei per te tanta affettuosa premura. Che i miei colori coprano il tuo viso deturpato e, pur da parte tua, io mi ringrazierò per averti reso questo bell'omaggio d'affetto. Addio, porta con te in cielo le tue lodi ! La tua ignominia dorma con te nella tomba e non sia ricordata nel tuo epitaffio! (Scorge Falstaff a terra) Che! Vecchia conoscenza! Non ha potuto tutta questa carne conservare un poco di vita? Povero Gianni, addio! Avrei perduto più volentieri un uomo migliore di te. Oh, mi peserebbe molto la tua mancanza se io fossi ora vago di follie! La morte non ha colpito oggi una più grassa preda, sebbene ne abbia colpite molte più predilette di te in questa sanguinosa mischia. Fra poco tornerò a farti sventrare, intanto giaci nel tuo sangue accanto al nobile Percy.
(Esce)
FALSTAFF (alzandosi): Sventrare! Se tu mi sventri oggi, ti darò il permesso di salarmi e, domani, anche di mangiarmi. Pel sangue d'Iddio!
Era tempo di contraffare il morto o quel bollente truculento scozzese mi avrebbe pagato lo scotto e sistemato per sempre. Contraffare? Io mento; io non ho contraffatto nulla; morire è contraffare, perché quegli che non ha la vita di un uomo è la contraffazione di un uomo; ma far finta di esser morto, quando con questo mezzo uno riesce a vivere, non è già essere una contraffazione ma proprio la reale perfetta immagine della vita. La miglior parte del valore è la prudenza, e con questa miglior parte io ho salvato la mia vita.
Perdio! Ho paura di questa polveriera di Percy, quantunque sia morto.
E se anche lui simulasse la morte e si alzasse? In fede mia, temo che di noi due egli si dimostrerebbe il contraffattore più gagliardo.
Perciò lo metterò al sicuro, e poi giurerò di averlo ucciso. E perché non potrebbe egli alzarsi come ho fatto io? Nulla può denunciarmi, se non gli occhi, e nessuno mi vede: perciò, compare, (pugnalandolo) con una nuova ferita nella coscia, vieni con me.
(Prende Hotspur sulle spalle)
(Rientrano il PRINCIPE ENRICO e GIOVANNI DI LANCASTER)
PRINCIPE: Vieni, fratello Giovanni, tu hai valorosamente insanguinato la tua vergine spada.
LANCASTER: Ma piano! Chi abbiamo noi qui? Non mi avete detto che questo grassone era morto?
PRINCIPE: Così vi ho detto; l'ho veduto morto, senza respiro e sanguinante sul terreno. Sei tu vivo? O è uno scherzo che la fantasia fa ai nostri occhi? Ti prego, parla; non ci fideremo dei nostri occhi senza la testimonianza delle nostre orecchie. Tu non sei ciò che sembri.
FALSTAFF: No, questo è certo; non sono un uomo doppio, ma se non sono Gianni Falstaff sono allora uno zanni. Ecco qui Percy; (gettando per terra il corpo) se vostro padre vuol farmi onore, bene; se no, che uccida lui stesso un altro Percy. Io mi aspetto di essere fatto conte o duca, ve lo assicuro.
PRINCIPE: Ma se io stesso ho ucciso Percy e ho visto te morto!
FALSTAFF: Tu l'hai ucciso? Signore! Signore! Come questo mondo è vòlto alla menzogna! Riconosco con voi ch'io ero per terra e senza fiato, e lui pure; ma ci siamo alzati tutti e due allo stesso istante e abbiamo combattuto una lunga ora all'orologio di Shrewsbury. Se mi si vuol credere, bene, se no, quelli che dovrebbero ricompensare il valore, portino questo peccato sulla loro testa. Giuro sulla mia vita ch'io gli ho fatto questa ferita nella coscia; se costui fosse vivo e lo negasse, per le piaghe di Cristo! gli farei mangiare un pezzo della mia spada.
LANCASTER: Questo è il più strano racconto che io abbia mai sentito!
PRINCIPE: E lui il più strano individuo, fratello Giovanni. Andiamo, porta nobilmente sulle spalle il tuo fardello e per parte mia, se una menzogna ti può giovare, la dorerò delle più belle parole ch'io sappia trovare. (Si sente suonare la ritirata) La tromba suona la ritirata; la vittoria è nostra. Vieni, fratello, andiamo al punto più alto del campo per vedere quali dei nostri amici son vivi e quali morti.
(Escono i Principi Enrico e Lancaster)
FALSTAFF: Seguirò, come dicono, per mercede. Chi mi ricompensa, Dio lo ricompensi! Se io divento grande, diminuirò, perché mi purgherò e lascerò il vin di Spagna, e vivrò sobriamente come si conviene a un nobile.
(Esce, portando via il cadavere)
SCENA QUINTA - Un'altra parte del campo
(Suono di trombe. Entrano ENRICO QUARTO, il PRINCIPE ENRICO, GIOVANNI DI LANCASTER, il CONTE DI WESTMORELAND e altri, con WORCESTER e VERNON prigionieri)
ENRICO: Così la ribellione trovò sempre il suo castigo. Perfido Worcester, non avevamo noi mandato a tutti grazia, perdono e parole affettuose? E tu non riferisti le nostre offerte in modo contrario?
Non tradisti la fiducia del tuo parente? Tre cavalieri oggi uccisi nelle nostre file, un nobile conte e molti altri ancora sarebbero vivi a quest'ora, se tu, da cristiano, avessi lealmente portato tra i nostri eserciti un leale messaggio.
WORCESTER: Sono stato costretto a far quello che ho fatto per mia sicurezza; ed ora mi sottometto con pazienza a quel destino che mi cade sul capo, e a cui non posso sfuggire.
ENRICO: Conducete a morte Worcester e anche Vernon; per gli altri colpevoli aspetteremo. (Escono Worcester e Vernon scortati) Come va la battaglia?
PRINCIPE: Il nobile scozzese, lord Douglas, quando ha visto sfuggirgli la fortuna della giornata, morto il nobile Percy, e tutti i suoi uomini presi dal panico, è fuggito col resto e, cadendo da una collina, si è fracassato talmente, che gl'inseguitori l'han preso.
Douglas è nella mia tenda e supplico Vostra Grazia ch'io possa disporre di lui.
ENRICO: Di tutto cuore.
PRINCIPE: Allora, fratello Giovanni da Lancaster, toccherà a voi questo onorevole atto di generosità: andate da Douglas e lasciatelo libero di fare quello che più gli piace, senza riscatto alcuno. Il suo valore, che i nostri cimieri oggi hanno provato, ci ha insegnato a pregiare simili atti di gran coraggio anche nel cuore dei nostri avversari.
LANCASTER: Son riconoscente a Vostra Grazia di questa grande cortesia che andrò a conferire immediatamente.
ENRICO: Ecco allora quel che rimane da fare: dividiamo il nostro esercito: voi, mio figlio Giovanni, e voi, cugino Westmoreland vi dirigerete su York con la più solerte rapidità per scontrarvi con Northumberland e il prelato Scroop, che, a quanto si dice, sono in gran faccende per armarsi. Io e voi, figlio Enrico, marceremo alla volta del Galles per combattere Glendower e il conte di March. La ribellione avrà perduto ogni suo impero in questa terra quando avrà avuto un'altra sconfitta come questa e, poiché questa guerra è così ben cominciata, non ci fermiamo finché non sia riconquistato tutto ciò che è nostro.
(Escono)