William Shakespeare

 

LA BISBETICA DOMATA

 

 

 

PERSONAGGI DEL PROLOGO

 

Un Signore

CRISTOFORO SLY, calderaio

Un'Ostessa, un Paggio, Cacciatori e Servi

 

PERSONAGGI DELLA COMMEDIA

 

BATTISTA, ricco gentiluomo di Padova

VINCENZO, vecchio gentiluomo pisano

LUCENZIO, figlio di Vincenzo, innamorato di Bianca

PETRUCCIO, gentiluomo di Verona, corteggiatore di Caterina

GREMIO, ORTENSIO: Corteggiatori di Bianca

TRANIO, BIONDELLO: domestici di Lucenzio

GRUMIO, CURTIS: domestici di Petruccio

Un pedante

CATERINA, la bisbetica, BIANCA: figlie di Battista

Una Vedova

Un Sarto, un Merciaio; Domestici di Battista e di Petruccio

Scena: A Padova e nella casa di campagna di Petruccio

 

 

 

PROLOGO

 

SCENA PRIMA - Davanti a un'osteria, su una landa

(Entrano l'Ostessa e SLY)

 

SLY: Vi pettinerò a dovere, in fede mia.

OSTESSA: Un paio di ceppi per voi, malandrino!

SLY: Voi siete una sgualdrina, gli Sly non sono affatto dei malandrini. Consultate le cronache: noi siamo venuti in Inghilterra con Riccardo il Conquistatore. Quindi, "paucas pallabris", lasciate che il mondo vada e chiudete il becco!

OSTESSA: E non volete pagarmi i bicchieri che m'avete rotti?

SLY: No, neanche un quattrino. Va', va' Gerolamo ', va' a scaldarti nella tua fredda cuccia.

OSTESSA: So che mi resta a fare: andar a chiamare il caporale.

SLY: Caporale o pettorale o generale, gli risponderò io a fil di legge, e non mi smoverò d'un'unghia. Venga pure, con tutte le cerimonie. (Si addormenta)

 

(Squillo di corni. Entra un Signore che torna dalla caccia, col suo Seguito)

 

SIGNORE: Capoccia, ti raccomando, bada bene ai miei cani: la Vispa, poveretta, gronda bava; e accoppia Grumolo con la bracca dalla voce grossa. E non hai tu visto, ragazzo, come Argento lavorava bene all'angolo della siepe, quasi a traccia perduta? Non vorrei perdere quel cane per venti sterline.

PRIMO CACCIATORE: Oh, per questo, Campanaro è bravo quanto lui, padron mio. Abbaiava quando s'era perduta ogni traccia, e due volte quest'oggi ha rintracciato il più debole odore. Credetemi, per me è il cane migliore.

SIGNORE: Tu sei matto. Se Eco fosse svelto quanto lui, stimerei che varrebbe dodici cani come Campanaro. Ma tu da' loro un buon pasto, e abbi cura di tutti. Domani intendo cacciare ancora.

PRIMO CACCIATORE: Sta bene, padrone.

SIGNORE: Ma che c'è qui? Un ubriaco? Guarda un po' se respira.

SECONDO CACCIATORE: Respira, padrone. Se non fosse scaldato dalla birra, direi che s'è scelto un letto ben freddo per dormirci così di gusto.

SIGNORE: Mostruosa bestia! Se ne sta lì come un porco. Tetra morte, come turpe e repellente è la tua immagine! Signori, voglio fare uno scherzo a questo briacone. E che ne direste se lo portassimo a letto ravvolto in lini di bucato, con anelli alle dita e al fianco una tavola riccamente imbandita e superbi domestici pronti al suo risveglio? non si dimenticherebbe questo pezzente di essere lui?

PRIMO CACCIATORE: Credo, padrone, che gli resterebbe altro.

SECONDO CACCIATORE: Gli farà un ben strano effetto svegliandosi.

SIGNORE: Come di sogno lusinghiero o di vana illusione. Bene, allora pigliatelo su e conducete la burla per benino. Adagio, portatelo nella mia camera più bella e ornatela di tutti i miei quadri lascivi; profumate la sua testa disgustosa con tepida acqua nanfa e bruciate legno odoroso per fargli più soave la dimora; poi apprestatemi, per quando si sveglia, musiche che spandano intorno un dolce celestiale concerto. E se accenna a parlare, accorrete subito e con profonde riverenze ditegli: "Che cosa comanda, Vostro Onore?". E uno di voi gli porga un bacile d'argento colmo d'acqua di rose e cosparso di fiori, un altro gli rechi la mesciroba, e un terzo un asciugamano damascato, e gli chieda: "Vuol aver la cortesia Vostro Onore di rinfrescarsi le mani?". Uno lì pronto con ricco abito gli domandi come vuol vestire:

altri gli parli dei suoi cani e del suo cavallo e gli faccia sapere che la sua dama è addolorata oltremodo per la sua infermità e lo convinca d'aver avuto un attacco di follia: e s'egli protesta dicendo qualcosa, rispondetegli che sogna, ch'egli non è che un gran signore.

Questo fate, amici miei, e fatelo con naturalezza. Sarà uno scherzo assai piacevole se saprete trattarlo con discrezione.

PRIMO CACCIATORE: Padrone, vi prometto che sapremo far la nostra parte come si conviene, in modo che grazie al nostro verace zelo egli non potrà non credere di essere quello che noi vogliamo fargli credere che sia.

SIGNORE: Prendetelo su con garbo e portatelo a letto; e ciascuno al suo compito quando si sveglia. (Alcuni portano fuori Sly. Squilli di trombe) Giovanotto, va' un po' a vedere che tromba è che suona. (Il Domestico esce) Penso che sia qualche gentiluomo che si trova in viaggio e intende passar qui la notte.

 

(Rientra il Domestico)

 

Ebbene? Chi è?

DOMESTICO: Se piace a Vostro Onore, son commedianti che offrono i lor servigi a Vossignoria.

SIGNORE: Dite loro di farsi avanti.

 

(Entrano i Commedianti)

 

Benvenuti, compari !

COMMEDIANTI: Ringraziamo Vostro Onore.

SIGNORE: Volete passar la notte qui da me?

PRIMO COMMEDIANTE: Così piaccia a Vossignoria di accettare i nostri servigi.

SIGNORE: Di tutto cuore. Questo giovinotto qui, ricordo benissimo, recitò una volta la parte del ragazzo maggiore di un fattore. E facevate così bene la corte alla vostra gentildonna! Ho scordato il vostro nome; ma certamente quella parte vi si adattava a pennello e recitaste a meraviglia.

PRIMO COMMEDIANTE: Penso che Vostr'Onore alluda alla parte di Soto.

SIGNORE: E' vero: la facesti in modo eccellente. Bene, siete capitati qui al momento giusto. Ho proprio per le mani uno scherzo in cui la vostra perizia può essermi di grande aiuto. C'è un signore che vi vorrebbe sentir recitare stasera; sennonché io sono assai in dubbio circa la vostra moderazione; temo che, notando il suo strano contegno - poiché Sua Signoria non ha mai sentito una commedia - voi non prorompiate in qualche eccesso di gaiezza e così non l'abbiate a offendere. Poiché, v'avverto, messeri, che se voi vi mettete a sorridere, egli finirà con l'andar in bestia.

PRIMO COMMEDIANTE: Non temete, o mio signore, sapremo contenerci, foss'egli il più ridicolo buffone del mondo.

SIGNORE: Su, giovanotto, mena costoro alla dispensa e accogli ciascun d'essi come si deve: non lasciar loro mancare nulla di quanto offre la casa. (Esce un Domestico coi Commedianti) E tu, giovanotto, va da Meo, mio paggio, e fallo vestire da capo a piedi come una signora, e fatto questo, conducilo in camera dell'ubriaco chiamandolo "Signora" e facendogli atti d'ubbidienza. Digli pure, a nome mio, che se vuol avere la mia gratitudine sappia comportarsi su questa faccenda in quel modo onorevole che egli ha visto tenere a nobili dame verso i loro mariti. E tali ossequi renda all'ubriaco, con molte parolette sommesse e profonde riverenze, chiedendogli: "Che comanda Vostro Onore? in che può la vostra donna, la vostra umile moglie mostrarvi tutta la sua devozione e farvi palese il suo amore?". E poi con gentili amplessi, con desiosi baci chinando il capo sul suo petto, lo inondi di lacrime, quasi sopraffatta dalla gioia di vedere il suo nobil signore tornato in senno, dopo che per sett'anni s'era creduto soltanto un povero e repellente straccione. E se il ragazzo non possiede il dono femminile di versare un torrente di lacrime dietro ordinazione, una cipolla potrà benissimo servire al caso: ne potrà recar una ravvolta in una pezzuola con la quale potrà, anche a controvoglia, provocar acqua all'occhio. E vedi di sbrigar la cosa il più svelto possibile. Più tardi ti darò altre istruzioni. (Esce un Domestico) Son certo che il ragazzo assumerà tutta la grazia, la voce, il portamento e il gesto di una dama. Son impaziente di udirgli chiamar marito l'ubriaco, e vedere come i miei uomini tratterran le risa nel rendere omaggio a questo tonto di bifolco. Io entrerò a dirigerli: e forse la mia presenza varrà a contenere i loro umori troppo allegri, che altrimenti rischierebber di dare nell'eccesso.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Camera da letto in casa del Signore

(Entra in alto SLY con Domestici: alcuni con sontuose vesti, altri con bacile, mesciroba e altri accessori; e il Signore)

 

SLY: Per Cristo, datemi un bicchiere di birra leggera.

PRIMO DOMESTICO: Desidera Vossignoria una tazza di vin di Spagna?

SECONDO DOMESTICO: Desidera Vostr'Onore assaggiare queste conserve?

TERZO DOMESTICO: Che abito desidera indossare oggi Vostr'Onore?

SLY: Io sono Cristoforo Sly e non chiamatemi "Onore" né "Signoria".

Non ho mai bevuto vin di Spagna in vita mia e se volete darmi delle conserve datemi conserve di bue. E non chiedetemi che abito ho da mettermi perché io non posseggo più giustacuori di quante abbia schiene, né più calze che gambe, ne più scarpe che piedi; anzi talvolta ho più piedi che scarpe o tali scarpe che le dita dei piedi fan capolino dalla tomaia.

SIGNORE: Che il cielo faccia cessare quest'ubbia in Vostro Onore!

Perdio, che un così potente signore, di tal prosapia, con tanti beni e così altamente stimato sia imbevuto di sì ignobile spirito!

SLY: E che, volete farmi impazzire? Non sono io forse Cristoforo Sly, il figlio del vecchio Sly di Burton-heath, per nascita merciaiolo ambulante, per educazione fabbricante di scardassi, esibitore d'orsi per trasmutazione e al presente calderaio di mestiere? Domandatene a Marianna Hacket, la grassa ostessa di Wincot, se non mi conoscete, e se non vi dirà ch'io le devo quattordici denari per un conto di pura e semplice birra, contatemi pel più bugiardo poltrone di tutta la cristianità. Eh, via, non son mica ammattito! Ecco.

TERZO DOMESTICO: Ah! ecco quello che fa tanta pena a vostra moglie!

SECONDO DOMESTICO: Ah ! ecco quello che abbatte tanto i vostri servi!

SIGNORE: Ed è per questo che i vostri parenti fuggono la vostra casa come cacciati da tale strana pazzia. O nobile signore, ricordati della tua nascita, richiama a te dal bando i tuoi antichi pensieri e bandisci da te questi abietti e vili sogni. Guarda come i tuoi servi ti stanno intorno, pronto ciascuno al tuo cenno, per compiere il suo ufficio. Vuoi tu udir musica? Ascolta! (Musica) Apollo stesso suona e venti usignoli in gabbia cantano. O vuoi tu dormire? Noi ti porteremo su un divano più molle e più soffice del letto voluttuoso che un giorno adornarono apposta per Semiramide. Se vuoi passeggiare, ti giuncheremo il suolo. O vuoi tu cavalcare? Si barderanno i tuoi cavalli con finimenti tempestati d'oro e di perle. O ti diletti di falconeria? Avrai falconi che sapranno inalzarsi al di sopra dell'allodola mattutina. O cacciare vuoi? i tuoi segugi faranno echeggiare la volta celeste e strapperanno stridenti echi dalla cava terra.

PRIMO DOMESTICO: Di' che vuoi cacciare a cavallo e i tuoi veltri saranno rapidi al pari dei cervi di gran lena, anzi fin più veloci dei caprioli.

SECONDO DOMESTICO: Ami invece la pittura? in un istante noi ti andremo a prendere Adone dipinto presso un corrente ruscello e Citerea tutta nascosta tra i carici che paion muoversi e lascivire al suo fiato, proprio come gli ondeggianti carici scherzano col vento.

SIGNORE: Ti farem vedere Io, quand'era ancor vergine, e come fu sedotta e sorpresa, dipinta al vivo proprio come avvenne il fatto.

TERZO DOMESTICO: O Dafne errante per una spinosa selva, che si graffia le gambe, sì che si giurerebbe di vedergliele sanguinate, e lacrime e sangue son dipinte con tant'arie che il triste Apollo piangerebbe a quella vista.

SIGNORE: Un signore tu sei, null'altro che un signore; una donna possiedi di gran lunga più bella di ogni altra in questa età degenerata.

PRIMO DOMESTICO: E finché le lacrime che ha sparse per te, come flutto invidioso non erano cadute dal suo bel viso, essa era la più leggiadra creatura del mondo: e ancor adesso non è inferiore ad alcuna.

SLY: Sono io un signore? e ho io una tal donna? O invece io sogno ed ho sognato fino ad ora? Io non dormo: io vedo, io sento, io parlo:

dolci effluvi odoro, e molli cose io tocco. Per la mia vita, un signore davvero io sono e non un calderaio, non Cristoforo Sly. Bene, recate la nostra donna qui in nostra presenza: e, di nuovo, un boccale di birra leggera.

SECONDO DOMESTICO: E non gradirebbe Vostra Grandezza lavarsi le mani?

Oh qual gioia proviamo noi nel vedervi tornato in senno! Oh che una volta ancora sappiate di essere quel che veramente siete! Son quindici anni che voi vivete in un sogno, dal quale, se talvolta vi destavate, era come se continuaste a dormire.

SLY: Quindici anni? In fede mia un bel pisolino! Ma non ho mai parlato in tutto questo tempo?

PRIMO DOMESTICO: Oh sì, mio signore, ma solo parole vacue, poiché pur stando a giacere in questa bella camera, sempre dicevate che v'avevan messo alla porta e vi scagliavate contro l'ostessa dicendo che volevate trascinarla in tribunale perché vi serviva boccali di terraglia e non quattrini bollati: e a tratti chiamavate Cecilia Hacket.

SLY: Già, la ragazza della taverna.

TERZO DOMESTICO: Bene, signore, in realtà voi non conoscete né la taverna né codesta ragazza, né nessuno di quegli uomini di cui parlavate, come Stefano Sly o il vecchio Giovanni Naps di Grecia o Pietro Turph o Enrico Pimpernell o venti altri simiglianti nomi: gente che non è mai esistita e che nessuno ha mai visto.

SLY: Or sia lodato Iddio per la mia bella guarigione!

TUTTI: Amen.

SLY: E grazie a te. Tu non ci avrai perduto.

 

(Entra il Paggio vestito da donna e seguito da Domestici)

 

PAGGIO: Come sta il mio nobile signore?

SLY: Bene, diamine! Ché qui si sta d'incanto. Dov'è mia moglie?

PAGGIO: Eccola, nobil signore. Che desideri da lei?

SLY: Siete voi dunque la mia donna? e non mi chiamate marito? I miei domestici mi chiamano "signore", ma per voi sono il vostro uomo.

PAGGIO: Mio marito e mio signore, mio signore e mio marito. Io sono la vostra moglie devotissima.

SLY: Lo so bene. E come devo chiamarla?

SIGNORE: Signora.

SLY: Alice signora o Giovanna signora?

SIGNORE: "Signora" e niente più. Così usano i nobili chiamar le loro mogli.

SLY: Signora moglie, questa gente dice che ho sognato, che ho dormito per quindici anni e più.

PAGGIO: Già, e a me sembrano trenta, ché in tutto questo tempo sono stata bandita dal vostro letto.

SLY: E' un bel po'. Servi, lasciateci soli io e lei. Signora, spogliatevi e venite a letto.

PAGGIO: O tre volte nobil signore, lasciate ch'io vi supplichi di concedermi licenza per una o due notti ancora: o, almeno, fino a sole calato. I vostri medici hanno espressamente raccomandato ch'io debba astenermi ancora dal vostro letto, per timore che voi abbiate a ricadere nel vostro male. Spero che questo motivo mi valga di diritta scusa.

SLY: Già, tanto ritta che a malapena posso aspettar tanto. Ma mi seccherebbe ricadere nei miei sogni; perciò aspetterò a dispetto della carne e del sangue.

 

(Entra un Domestico)

 

DOMESTICO: I comici di Vostra Signoria, udendo la vostra guarigione, son qui venuti per recitarvi una commedia piacevole. E vedendo i vostri medici quant'amarezza abbia congelato il vostro sangue e come malinconia sia nutrice di follia, reputarono cosa profittevole che voi udiate una commedia e inchiniate l'animo vostro a quella gioia e allegrezza che scacciano mille mali e prolungano la vita.

SLY: Diamine, lo voglio bene: fateli pur recitare. Una commedia non è mica un saltarello natalizio o un gioco di saltimbanchi?

PAGGIO: No, mio buon signore: è roba più fine.

SLY: Che? Roba da mangiare?

PAGGIO: No, è una specie di storia.

SLY: Bene, bene, vogliam vederla. Vieni, signora moglie. Siedi al mio fianco e lascia che il mondo vada. Giammai noi saremo più giovani.

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Padova. Una piazza pubblica

(Entrano LUCENZIO e TRANIO, suo valletto)

 

LUCENZIO: Tranio, dacché per il gran desio che avevo di visitare la bella Padova, culla delle arti, son giunto nella fertile Lombardia, ridente giardino della grande Italia, e con licenza e affetto del padre mio, son munito del suo consenso e della tua buona compagnia, o mio servo fedele e a tutta prova, qui sostiamo per iniziare felicemente un corso di discipline e d'ingegnosi studi. Pisa rinomata pei suoi gravi cittadini m'ha dato i natali e padre mi fu Vincenzo della famiglia dei Bentivoglio, mercante di gran traffico per tutto il mondo. Il figlio di Vincenzo, allevato in Firenze, deve colmare le speranze su di lui concepite e ornare la sua buona sorte di virtuosi fatti. E perciò, buon Tranio, studiando io qui, praticherò la virtù e quella parte della filosofia la quale tratta della felicità che appunto con la virtù si acquista. Dimmi che ne pensi tu, poiché io ho lasciato Pisa e son venuto a Padova come colui che lascia una bassa palude per tuffarsi in acque profonde e vuol spegnere a sazietà la sua sete.

TRANIO: Perdonatemi, mio gentil padrone, io condivido in tutto il vostro sentimento: felice che continuiate la vostra risoluzione di suggere il nettare della dolce filosofia. Soltanto, caro padrone, mentre noi ammiriamo questa virtù e questa disciplina morale, vi prego, non siamo poi tanto stoici e neanche stolidi e così ossequienti ai precetti di Aristotile che Ovidio venga da noi bandito e rinnegato.

Usate la logica con i vostri conoscenti e praticate la retorica nella vostra ordinaria conversazione: fate musica e poesia per ricrearvi:

alla matematica e alla metafisica dateci sotto fin che ne regga lo stomaco; ma credete, non è alcun profitto ove non è diletto. In breve signore, studiate quel che più vi piace.

LUCENZIO: Molte grazie, Tranio, ottimamente tu mi consigli. E se tu, Biondello, fossi già approdato, noi potremmo già fin d'ora metterci in assetto e prendere un alloggio adatto per accogliere amici quali il nostro soggiorno in Padova vorrà offrirci. Ma, un momento. Che gente è questa?

TRANIO: Padrone, sarà qualche manifestazione per salutare il nostro arrivo.

 

(Entrano BATTISTA, CATERINA, BIANCA, GREMIO e ORTENSIO. LUCENZIO e TRANIO in disparte)

 

BATTISTA: Signori, non m'importunate più oltre: voi sapete ciò che ho fermamente deciso: di non concedere, cioè, la mano della mia figlia minore prima che abbia trovato marito per la maggiore. E poiché io vi conosco bene e vi voglio bene, se uno di voi due ama Caterina, gli do licenza di far l'asino con lei a suo piacere.

GREMIO (a parte): Condurla sull'asino, dica piuttosto. Essa è troppo aspra per me. Qua, qua, Ortensio, volete voi una moglie?

CATERINA: Vi prego, signore, volete rendermi lo zimbello di tutti questi compagnoni?

ORTENSIO: Compagnoni, ragazza mia? Che intendete dire? Niente compagni per voi, se non diventate di una pasta più gentile e arrendevole.

CATERINA: In fede, messere, non occorre che abbiate paura: quest'idea io so bene che non le è entrata neanche nella contraccassa del cervello; ma se lo fosse, non dubitate, sarebbe sua premura pettinarvi la cocuzza con uno sgabello a tre gambe e sgorbiarvi la faccia e trattarvi da scemo.

ORTENSIO: Da simili diavole Dio ci scampi!

GREMIO: E anche me, buon Dio!

TRANIO: Zitto, padrone: abbiam trovato un bello spasso. Questa pulzella o è pazza da legare o è straordinariamente riottosa.

LUCENZIO: Ma nel silenzio dell'altra vedo il soave contegno e la riservatezza d'una vergine. Tranio, silenzio!

TRANIO: Bravo, padrone, ben detto. Zitti e buci! E guardate a vostro piacere.

BATTISTA: Per confermare, signori, quanto ho detto, tu, Bianca, rientra in casa. Non ti spiaccia, mia buona Bianca, ché non ti amo meno per questo, ragazza mia.

CATERINA: Che cara coccolona! Meglio sarebbe ficcarle un dito in un occhio, ché così saprebbe subito perché piange.

BIANCA: Sorella, accontentatevi del mio scontento. Mi sottometto umilmente, signor padre, al vostro volere. I miei libri e i miei strumenti mi faran compagnia, per guardarli e sonarli da sola.

LUCENZIO: Ascolta, Tranio! Non ti par udir Minerva in persona?

ORTENSIO: Signor Battista, perché questo strano modo? Sono spiacente che tutta la nostra buona intenzione abbia procurata una pena a Bianca.

GREMIO: Perché la volete chiuder in gabbia, signor Battista, a cagione di questa diavola, e farle portar la pena della sua linguaccia?

BATTISTA: Signori, poche discussioni: ho deciso. Tu, Bianca, rientra.

(Bianca ubbidisce) E poiché so ch'ella prende gran diletto nella musica, negli strumenti e nella poesia, terrò in casa degli insegnanti che siano atti ad ammaestrare la sua giovinezza. Se voi, Ortensio, e voi, signor Gremio, ne conoscete qualcuno, mandatemeli; poiché ad uomini di talento io sarò sempre cortese, e liberale voglio essere nell'impartire una buona educazione alle mie figliuole. E così addio.

Caterina voi potete restare: ho qualcosa da dire a Bianca.

 

(Esce)

 

CATERINA: Ebbene, spero ch'io pure potrò andarmene, no? Non mi vorranno fissare le ore come se, putacaso, io non sapessi ciò che ho da prendere o da lasciare, eh?

 

(Esce)

 

GREMIO: Potete andare dalla versiera! Le vostre doti sono così amabili che non c'è nessuno che vi trattenga. Ortensio, il loro amore non è così grande che noi non possiamo, soffiando insieme sulle nostre dita, farlo stare a stecchetto. La nostra torta non è cotta né da una parte né dall'altra. Arrivederci. E tuttavia per l'amore ch'io porto alla mite Bianca, se riuscirò in qualche modo a scoprire un uomo adatto per insegnarle ciò di cui ella si compiace, lo presenterò volentieri a suo padre.

ORTENSIO: E io pure, signor Gremio. Ma una parola, di grazia. Ancorché la natura della nostra contesa non abbia ancora comportato trattative fra noi, sappiate ora, dopo matura riflessione, che affinché noi possiamo ancora avere accesso alla nostra bella, ed essere felici rivali nell'amore di Bianca, importa ad ambedue sforzarci di riuscir soprattutto in una cosa.

GREMIO: Quale, di grazia?

ORTENSIO: Diamine, messere, procurare un marito alla sorella.

GREMIO: Un marito? un diavolo!

ORTENSIO: Un marito, vi dico.

GREMIO: E io dico un diavolo. Ma credi tu, Ortensio, che sebbene suo padre sia assai ricco, si trovi uno che sia così sciocco da sposarsi quell'inferno?

ORTENSIO: Basta, Gremio! Ancorché sorpassi la nostra pazienza di sopportare i suoi alti strepiti, bene, caro, ci sono certi bravuomini al mondo, a poterli scovare, disposti a prendersela in casa con tutti i suoi difetti, e con un bel gruzzolo.

GREMIO: Non saprei. Però io preferirei di pigliarmi la sua dote con la condizione di esser frustato ogni mattina alla croce del mercato.

ORTENSIO: In fede, come tu dici, c'è poco da scegliere fra mele marce.

Ma venite via; dacché questo intoppo matrimoniale ci rende amici, manteniamo quest'amicizia fino a che, essendo noi riusciti a trovar un marito per la figliola maggiore di Battista, avremo messa pure la minore in condizione di maritarsi; e allora veniamo da capo a tenzone.

Dolce Bianca! Felice l'uomo che ti sarà compagno! Colui ch'è più svelto alla corsa vince l'agnello. Che ne dite, signor Gremio?

GREMIO: Son d'accordo. Quanto volentieri darei il miglior cavallo di Padova a colui che riuscisse a corteggiarla fino in fondo, a sposarla, a menarla a letto, e a sbarazzare di lei la casa, perché si decidesse a mettersi all'opera! Andiamo!

 

(Escono Gremio e Ortensio)

 

TRANIO: Ditemi, messere, di grazia, è egli possibile che l'amore riesca così d'un subito a impadronirsi di un uomo?

LUCENZIO: Oh, Tranio, finché non l'ho provato io stesso non l'avrei creduto né possibile né probabile; ma vedi un po', mentr'io stavo oziosamente a guardare ho risentito nell'ozio l'effetto d'amore; e ora, in tutta semplicità, mi confesso a te, che mi sei caro e segreto come fu Anna per la regina di Cartagine: Tranio, io avvampo, io languisco, io muoio, se non arrivo a conquistare questa modesta fanciulla. Consigliami tu, Tranio, giacché lo puoi: assistimi tu, Tranio, poiché so che lo vuoi.

TRANIO: Signore, non è tempo questo da farvi rimbrotti; l'affetto non lo si scaccia dal cuore coi sermoni. Se amore v'ha toccato non rimane da fare che questo: "Redime te captum quam queas minimo.

LUCENZIO: Te ne ringrazio, ragazzo mio. Continua. Quanto mi dici mi soddisfa. E anche il resto mi conforterà perché i tuoi consigli son buoni.

TRANIO: Mio signore, voi avete contemplato così intentamente la ragazza che forse non avete osservata la cosa più importante.

LUCENZIO: Oh sì, io ho visto una soave bellezza splenderle in viso, quale ebbe la figlia d'Agenore, che ridusse il potente Giove ad umiliarsi alla sua mano, quand'egli coi suoi ginocchi baciò la sponda cretese.

TRANIO: E non avete visto altro? non avete osservato come sua sorella s'è messa a strillar forte e a far un baccano quale orecchie umane potrebbero appena tollerare?

LUCENZIO: Tranio, io ho visto le sue coralline labbra muoversi e col suo respiro ella profumava l'aria: sacra e soave era ogni cosa ch'io ho veduto in lei.

TRANIO: Via, è tempo ch'io lo riscuota dalla sua estasi. Su, vi prego, messere, svegliatevi! Se amate la ragazza, mettetevi tutto, spirito e pensiero, a conquistarla. Le cose stanno così. La sorella maggiore è tale un'indiavolata bisbetica che fintantoché suo padre non si sia liberato di lei, il vostro amore, padrone, dovrà viver come zitella in casa. Per questo egli l'ha rinserrata in gabbia affinché non sia infestata dai corteggiatori.

LUCENZIO: Ah, Tranio, che padre crudele! Ma non hai tu notato ch'egli s'adopra a procurarle abili maestri per istruirla?

TRANIO: Sì, certo, diamine! Ed ora il nostro piano è bell'e pronto.

LUCENZIO: Ce l'ho in testa, Tranio.

TRANIO: Signore, giurerei che i nostri due piani combaciano e si fondono in un solo.

LUCENZIO: Dimmi il tuo, prima.

TRANIO: Voi sarete il maestro che s'incaricherà di dar lezione alla ragazza. Ecco il vostro piano.

LUCENZIO: Sì, e si potrà eseguire?

TRANIO: Non è possibile, perché chi sosterrà la vostra parte e sarà qui in Padova il figlio di Vincenzo? Chi terrà casa, s'applicherà agli studi, accoglierà i suoi amici, farà visita ai suoi concittadini, e li conviterà?

LUCENZIO: Basta. Chetati, perché ho trovato una soluzione. Noi, qui, non siamo stati ancora veduti in alcuna casa, né alcuno può distinguere dai nostri volti il padrone dal servo. Allora segue così:

Tu farai da padrone, Tranio; al posto mio, terrai casa, e avrai posizione sociale e servi, come avrei io. E io figurerò esser qualcun altro: qualche fiorentino o napoletano o pisano di minor conto. Così ho pensato di fare e così farò. Spogliati subito, Tranio, e prendi il mio cappello e il mio manto di colore. Quando Biondello verrà, egli ti farà da servitore. Prima, però, vo' indurlo a non fiatar sillaba.

TRANIO: Così dovrete fare. In breve, signore, se così vi fa piacere, è mio obbligo di esservi obbediente, poiché appunto di questo m'incaricò vostro padre alla nostra partenza: "Servi a dovere il mio figliuolo", egli mi disse. Ancorché, io penso, fosse in un altro senso che l'intendeva. Son contento di essere Lucenzio pel mio grande affetto verso Lucenzio.

LUCENZIO: Siilo, Tranio; poiché Lucenzio ama. E ch'io mi faccia schiavo per conquistar la fanciulla la cui subitanea apparizione ha soggiogato il mio occhio ferito. Ecco il briccone.

 

(Entra BIONDELLO)

 

Mariolo, dove siete stato?

BIONDELLO: Dove sono stato? Piuttosto voi dove siete? Padrone, il mio compagno Tranio v'ha rubato i vestiti. O voi avete rubati i suoi? O tutti e due ve li siete rubati? Di grazia, che novità son queste?

LUCENZIO: Accostatevi, mariolo. Non è tempo di celie e perciò conformate al tempo le vostre maniere. Qui il vostro compagno Tranio, per salvarmi la vita, indossa i miei abiti e prende il mio aspetto, e io, per la mia salvezza, ho indossato i suoi, poiché appena sbarcato qui ho ucciso un uomo in una rissa e temo d'essere scoperto. Voi servitelo come si conviene, ve l'ordino, mentre io fuggirò di qui per salvarmi la vita. M'intendete?

BIONDELLO: Io, signore? Neanche una parola.

LUCENZIO: E non fiatate neanche il nome di Tranio! Tranio s'è cambiato in Lucenzio.

BIONDELLO: Buon pro per lui. Lo fossi anch'io!

TRANIO: E anch'io, davvero, ci starei, ragazzo, per poter conseguire poi l'altro desiderio che Lucenzio riuscisse a sposare la più giovane figlia di Battista. Ma voi, mariolo, non per me ma pel vostro padrone abbiate cura di condurvi con discrezione con ogni genere di compagnie.

Quando son solo sono Tranio, ma in tutte le altre occasioni sono il vostro padrone Lucenzio.

LUCENZIO: Andiamo, Tranio. Non resta che una cosa che tu dovrai eseguire: prender posto tra questi corteggiatori. E se me ne chiedi il perché, ti basti sapere che ho motivi eccellenti e di gran peso.

 

(Escono)
(Parlano gli Attori del Prologo)

 

PRIMO DOMESTICO: Signore, v'appisolate: non state attento alla commedia.

SLY: Ma sì, per Sant'Anna, che sto attento. Una bella roba davvero.

C'è dell'altro ancora?

PAGGIO: Mio signore, è appena incominciata.

SLY: E' veramente un bel lavoro, signora moglie. Vorrei fosse finito.

 

(Siedono e stanno attenti)

 

 

 

SCENA SECONDA - Padova. Davanti alla casa di Ortensio

(Entra PETRUCCIO e il suo servo GRUMIO)

 

PETRUCCIO: Verona, per alcun tempo prendo congedo da te per rivedere i miei amici in Padova, ma fra essi il più caro e fidato di tutti, Ortensio. Questa, se non m'inganno, è la sua casa. Ehi, Grumio, su, picchia.

GRUMIO: Picchiare, padrone? E chi debbo picchiare? Qualcuno ha forse viliappeso Vossignoria?

PETRUCCIO: Briccone, ti dico, picchiami forte.

GRUMIO: Picchiar voi, padrone, qui? E perché, padrone? Che cosa son io, padrone, ch'io debba picchiarvi?

PETRUCCIO: Scemo, ti dico di picchiarmi a questa porta. E bussami bene o busserò io sulla tua cocuzza di furfante.

GRUMIO: Il mio signore ha voglia di leticare. Io dovrei picchiarvi pel primo, e poi... so chi avrebbe la peggio io.

PETRUCCIO: Vi rifiutate? Bene, canaglia, se non volete picchiare, io vi sonerò. Voglio star a vedere come cantate e battete la solfa.

 

(Gli tira le orecchie)

 

GRUMIO: Aiuto, padroni! Aiuto! Il mio padrone è ammattito!

PETRUCCIO: E allora picchiate quando ve l'ordino, brutto villanzone!

 

(Entra ORTENSIO)

 

ORTENSIO: Oh diamine, che succede? Il mio vecchio amico Grumio e il mio buon amico Petruccio? Come va a Verona?

PETRUCCIO: Signor Ortensio, venite a dirimer la contesa? Con tutto il cuore, ben trovato, posso dire.

ORTENSIO: Ben venuto alla nostra casa, molto onorato signor mio Petruccio. Su, alzati Grumio, che vogliamo far la pace.

GRUMIO: Già, poco importa quel che va borbottando in latino. Guardate, signore, se questa non è per me una legittima ragione per lasciar il suo servizio, egli m'ha ordinato di picchiarlo e di bussarlo ben bene; ora, dite un po', s'addice a un servo di trattare così il suo padrone quand'egli ha, ch'io sappia, trentadue anni e un zinzino di più? Fosse piaciuto a Dio l'avessi picchiato fin da principio, allora Grumio non avrebbe avuto la peggio.

PETRUCCIO: Insensato manigoldo! Buon Ortensio, io avevo ordinato a questa canaglia di picchiar al tuo uscio e non c'è stato verso di farglielo fare.

GRUMIO: Picchiar all'uscio? O cielo! Ma non avete voi detto chiaramente queste parole: "Briccone, picchiami qui, bussami qui, picchiami bene, picchiami forte?". E adesso mi venite fuori con questo "picchiar all'uscio?".

PETRUCCIO: Andatevene mariolo, o chiudete il becco; ve lo consiglio.

ORTENSIO: Abbiate pazienza, Petruccio, io sto garante per Grumio.

Ebbene, questa è una triste occorrenza fra voi e lui, il vostro vecchio fedele e amabile servo Grumio. Ma ditemi adesso, amico caro, qual buon vento vi ha portato qui a Padova dall'antica Verona?

PETRUCCIO: Il vento che disperde i giovani pel mondo in cerca di fortuna, lontano da casa, dove ben poca esperienza si fa. Ma in breve, signor Ortensio, le cose stan così. Mio padre Antonio è morto e io mi son cacciato in questo labirinto per potermi sposar felicemente e riuscir nella vita il meglio ch'io possa. Ho danaro nella mia borsa e beni a casa mia e così mi son messo in giro a vedere un po' il mondo.

ORTENSIO: Petruccio, posso io parlarti in tutta schiettezza e proporti di sposare una gazza salvatica e sgradevole? Tu mi sarai grato ben poco per questo mio consiglio, eppure ti posso dire che questa ragazza sarà ricca, ricca assai. Ma tu mi sei troppo amico e io non te la vo' proporre.

PETRUCCIO: Signor Ortensio, tra amici come noi poche parole bastano; e perciò se tu conosci una giovine ricca abbastanza per esser moglie di Petruccio (l'oro essendo il bordone della mia danza amorosa), anche s'ella fosse brutta come l'innamorata di Florenzio o vecchia come la Sibilla o trista e stizzosa come la Santippe di Socrate, o peggio, essa non mi conturba, o almeno non disturba il filo del mio affetto, foss'anche iraconda come l'Adriatico infuriato. Son venuto per sposarmi riccamente a Padova, e riccamente vuol dir felicemente, a Padova.

GRUMIO: Neh, vedete, padrone, lui vi dice chiaro quali sono le sue intenzioni; ebbene, dategli denaro bastante e sposatelo con una bambola o con una figurina da puntale, o con una vecchia befana che non abbia neppure un sol dente in bocca, anche se avesse malanni addosso quanti cinquantadue cavalli: che tutto andrà bene, se vi son quattrini.

ORTENSIO: Petruccio, dacché siamo entrati in argomento, voglio continuare ciò che ho cominciato per ischerzo. Io posso, Petruccio, procurarti una sposa ch'è ricca abbastanza e giovine e leggiadra e bene allevata come si addice a gentildonna. Il suo solo difetto (e, in verità, è abbastanza grave) si è che essa è un'intollerabile peste, e bisbetica e caparbia oltre ogni misura. Ecco, s'io fossi in ben peggiori condizioni di quel che sono, non la sposerei neanche per una miniera d'oro.

PETRUCCIO: Piano, Ortensio. Tu non conosci il potere dell'oro. Dimmi il nome di suo padre e mi basterà. Io l'abborderò, strillasse ella così forte come il tuono quando scoppiano le nubi d'autunno.

ORTENSIO: Suo padre è Battista Minola, un affabile e cortese gentiluomo, e il nome di lei è Caterina Minola, ben nota in Padova per la sua lingua stizzosa.

PETRUCCIO: Conosco il padre, ancorché non conosca lei, ed egli conosceva bene il mio defunto padre. Non dormirò, Ortensio, finché non l'abbia vista. E perciò scusatemi la mia baldanza se vi pianto a questo primo incontro, a meno che non vogliate accompagnarmi voi stesso da lei.

GRUMIO: Vi prego, signore, lasciatelo andare intanto che gli dura quest'estro. Parola d'onore che se essa lo conoscesse come io lo conosco, saprebbe che gli schiamazzi han poca presa su di lui. Essa lo può chiamare furfante per una mezza dozzina di volte, che non gl'importerebbe nulla: ma una volta che cominci lui, inveirà nella sua 'rottorica'. Volete che ve lo dica, signore? per poco che lei gli tenga testa, lui le gitterà in viso una figura e la sfigurerà talmente che a lei non resteran più occhi da vedere che a un gatto. Voi non lo conoscete, signore!

ORTENSIO: Attendi, Petruccio, ch'io debbo venire con te, poiché sotto la custodia di Battista sta il mio tesoro. Egli ha in suo potere il gioiello della mia vita, la sua figliuola più giovine, la bella Bianca ch'egli tien lungi da me e dagli altri corteggiatori, miei rivali in amore. Supponendo che sia impossibile, pei difetti che ho esposto dianzi, che Caterina abbia mai a esser chiesta in moglie, Battista ha stabilito che niuno debba aver accesso a Bianca, prima che quella peste di Caterina abbia trovato marito.

GRUMIO: Quella peste di Caterina! Ecco il nomignolo peggiore per una ragazza!

ORTENSIO: Ora il mio amico Petruccio dovrà farmi una grazia:

presentarmi, travestito in abiti gravi, al vecchio Battista, quale maestro bene addottrinato in musica, per dar lezione a Bianca, sicché, grazie a tal travestimento, almeno io possa aver modo ed agio di corteggiarla e, insospettato, parlarle da solo a sola.

GRUMIO: E codesta non è una marioleria! Guardate un po' come, per gabbare i vecchi, i giovani se la intendono!

 

(Entrano GREMIO e LUCENZIO, travestiti)

 

Padrone, padrone, guardatevi un po' intorno: chi sono quei due là?

ORTENSIO: Zitto, Grumio, è il mio rivale in amore. Petruccio, appartiamoci un istante.

GRUMIO: Un giovine ammodo e un innamorato.

GREMIO: Oh, molto bene. Ho letto attentamente la nota. Ascoltatemi, messere, voglio che siano ben rilegati, e tutti sian libri d'amore, ve lo raccomando a ogni costo. E vedete di non farle altra lettura. Mi comprendete? Oltre la liberalità del signor Battista, v'aggiungerò una mia larghezza. Ripigliate pure la vostra nota, e che siano ben profumati i libri, poiché più squisita del profumo stesso è colei a cui son destinati. Che cosa le leggerete?

LUCENZIO: Qualunque cosa io le legga, perorerò la vostra causa come quella del mio patrono, rassicuratevi, e così fermamente come foste voi al posto mio. Già, e forse con parole più efficaci delle vostre, a meno che non siate un sapiente, signor mio.

GREMIO: Oh, questa dottrina che gran cosa è!

GRUMIO: O questo merlo, che somaro è!

PETRUCCIO: Silenzio, briccone!

ORTENSIO: Grumio, zitto! Signor Gremio, Dio vi salvi.

GREMIO: Ben incontrato signor Ortensio. Sapete dove vado? Da Battista Minola a cui ho promesso di cercare con ogni cura un maestro per la sua bella Bianca. Fortuna che son capitato bene su questo giovine il quale per dottrina e contegno è proprio quel che le ci vuole. E' assai versato in poesia e negli altri libri, tutti libri buoni, ve lo garantisco.

ORTENSIO: Molto bene, e io ho incontrato un signore che m'ha promesso di trovarmene un altro, un eccellente musico, per istruire la nostra bella: così non resterò punto indietro nel mio ossequio alla bella Bianca che adoro.

GREMIO: Che io adoro! E lo proverò coi fatti.

GRUMIO: Glielo proverà con la borsa.

ORTENSIO: Gremio, non è questo il momento di sbandierare il nostro amore. Ascoltatemi ora, e se voi m'avete parlato schietto io vi darò una notizia ch'è ugualmente buona per entrambi. Ecco qua un signore che ho incontrato a caso e che, piacendogli la mia offerta, intraprenderà di corteggiare Caterina, la peste, anzi addirittura di sposarla se la dote gli piace.

GREMIO: Detto e fatto: a maraviglia. Ortensio, gli avete rivelati i suoi difetti?

PETRUCCIO: So bene ch'è una bisbetica esosa e litigiosa. Se questo è tutto, signori, non ci vedo alcun danno.

GREMIO: No? davvero, amico? Di che paese siete?

PETRUCCIO: Sono di Verona, son figlio del vecchio Antonio. Morto mio padre, vive per me la mia fortuna: e mi auguro di campare lunghi giorni felici.

GREMIO: Oh messere, un tal campare con una tal compagnia sarebbe parecchio strano! Ma se ve ne basta lo stomaco, in nome di Dio, buttatevici: io vi starò al fianco per assistervi in ogni cosa. Ma davvero voi volete corteggiare quella gattaccia forastica?

PETRUCCIO: Com'è vero che vo' vivere!

GRUMIO: E le farà la corte? Sì, se no la impicco io!

PETRUCCIO: Ma per cosa sarei io qua venuto se non con questo intento?

Credete che un po' di strepito possa spaventar le mie orecchie? Non ho al tempo mio udito leoni ruggire? non ho io udito il mare enfiato dal vento grugnire simile a furente cinghiale schiumante di collera? Non ho udito grandi cannoni in campo e le bombarde celesti tonare in cielo? Non ho io udito in battaglie ordinate fragorosi allarmi, nitrire di destrieri, e squillare di trombe? E voi mi parlate di una lingua di donna, che colpisce le orecchie men che non faccia una castagna nel focolare d'un fattore. Via, via! spaventate i ragazzi col babau.

GRUMIO: Poiché egli non ne ha paura.

GREMIO: Ortensio, ascoltate. Suppongo che questo gentiluomo sia arrivato a proposito per il suo vantaggio e pel nostro.

ORTENSIO: Io gli ho promesso che noi due metteremo tanto per uno per le spese, quali esse siano, del suo corteggiare.

GREMIO: E così voglio io, purché egli conquisti la sua mano.

GRUMIO: Così fossi sicuro di un buon pranzo!

 

(Entrano TRANIO, splendidamente vestito e BIONDELLO)

 

TRANIO: Dio vi salvi, signori. Posso ardire di chiedervi, in grazia, qual è la via più corta alla casa del signor Battista Minola?

BIONDELLO: Quello che ha due belle figlie? E' lui che intendete?

TRANIO: Appunto lui, Biondello.

GREMIO: Ascoltate, messere: non intendete mica anche lei?

TRANIO: Forse lui e lei, messere. Che ci trovereste da ridire?

PETRUCCIO: Non però quella che grida sempre, messere, vi prego.

TRANIO: Non amo le ragazze che gridano messere. Biondello, andiamo.

LUCENZIO: Ben cominciato, Tranio.

ORTENSIO: Messere, una parola prima che ve ne andiate... Siete voi un pretendente alla mano della fanciulla di cui parlate, sì o no?

TRANIO: E se lo fossi, signore, che male vi sarebbe?

GREMIO: Nessuno, se senz'altro filate via di qua.

TRANIO: Ma scusate, messere, le strade non son libere per me quanto per voi?

GREMIO: Ma non è libera la ragazza.

TRANIO: E perché mai, di grazia?

GREMIO: Per questa ragione, se volete saperla, ch'essa è l'innamorata prescelta dal signor Gremio.

ORTENSIO: Che essa è l'eletta del signor Ortensio.

TRANIO: Piano, signori miei! Se siete gentiluomini, usatemi questa cortesia, ascoltatemi con pazienza. Battista è un nobile gentiluomo a cui mio padre non è del tutto sconosciuto; e fosse sua figlia più bella di quello che è, potrebbe avere ancor più corteggiatori, e me tra essi. La bella figlia di Leda ebbe mille innamorati, la bella Bianca può dunque ben averne uno di più, e l'avrà. Lucenzio sarà uno di loro, venisse anche Paride, nella speranza di riuscir lui solo.

GREMIO: E che vuol questo signore, chiuderci la bocca a tutti?

LUCENZIO: Messere, dategli briglia; so che egli si dimostrerà ronzino PETRUCCIO: Ortensio, a che pro tutte queste chiacchiere?

ORTENSIO: Messere, scusate se oso chiedervi: l'avete voi mai veduta questa figlia di Battista?

TRANIO: No, signore. Ho udito dire ch'egli n'ha due, l'una famosa per la sua lingua pestifera quanto l'altra per la sua leggiadra modestia.

PETRUCCIO: Messere, messere, la prima a me! Lasciatela in disparte.

GREMIO: Già, lasciate questa fatica al valoroso Ercole, e superi le dodici d'Alcide!

PETRUCCIO: Messere, intendete bene ciò che vi dico. La più giovine figliuola, per la quale spasimate, suo padre la tien lontana da tutti i corteggiatori, e non vuol prometterla ad alcuno, fino a che la più anziana non si sia maritata. Allora la più giovane è libera, e non prima.

TRANIO: Se così è, messere, voi siete l'uomo che ci deve giovare a tutti, me compreso. Che se voi rompete il ghiaccio e compite questa impresa di prendervi la maggiore e lasciar così libera per noi la seconda, colui che arriverà a conquistare costei non sarà così tristo da esservi ingrato.

ORTENSIO: Ben detto e ben pensato. E poiché voi intendete d'esser tra i corteggiatori, dovete, come noi, ricompensare questo gentiluomo a cui tutti dobbiamo riconoscenza.

TRANIO: Non resterò addietro, messere. In segno di che piacciavi di passare insieme con me questo pomeriggio, e vuotare i bicchieri alla salute della nostra bella, e far come gli avvocati avversari che battagliano accanitamente, ma mangiano e bevono da buoni amici.

GRUMIO e BIONDELLO: Eccellente proposta! E allora, amici andiamo.

ORTENSIO: L'idea è buona davvero, e sia così! Petruccio, io sarò il vostro anfitrione.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA - Padova. Una stanza in casa di Battista

(Entrano CATERINA e BIANCA)

 

BIANCA: Buona sorella, non fatemi torto, né fate torto a voi stessa a trattarmi da serva e da schiava, cosa ch'io disdegno. Ma scioglietemi le mani, che quest'altri ornamenti vo' strapparmeli via da me: anzi tutti i miei vestiti mi torrò, sino alla sottana, e farò tutto quello che mi ordinerete di fare, tanto bene io so qual sia il mio dovere verso i miei maggiori.

CATERINA: Ditemi, ve l'impongo, quale vi piace più fra i vostri corteggiatori. E badate di non mentire.

BIANCA: Credetemi, sorella, fra tutti gli uomini viventi non ho mai incontrato quel volto singolare che più d'ogni altro potesse invaghirmi.

CATERINA: Mocciosetta, tu menti. Non è forse Ortensio?

BIANCA: Se è Ortensio che vi piace, sorella vi giuro che intercederò io stessa per voi perché l'abbiate ad avere.

CATERINA: O forse aspirate piuttosto alla ricchezza: volete sposare Gremio che vi faccia far buona vita.

BIANCA: E' dunque per lui che siete gelosa di me? Allora scherzate, ed ora ben m'accorgo che non avete fatto che scherzare con me sino ad ora. Vi prego, sorella Càtera, slegatemi le mani.

CATERINA: Se questo è uno scherzo, allora anche il resto lo era. (La percuote)

 

(Entra BATTISTA)

 

BATTISTA: Ebbene? Che succede adesso, signorina? Perché tanta insolenza? Bianca, allontanati. Povera bambina, piange! Vai, vai a ripigliare il tuo ago e non immischiarti più con costei. Vergogna tu, rozza del diavolo, perché la vai maltrattando così, che non t'ha mai fatto nulla di male? Quando mai t'ha contrariata con una parola amara?

CATERINA: E' col silenzio ch'essa si fa gioco di me, e vo' vendicarmi.

 

(Rincorre Bianca)

 

BATTISTA: E che? proprio sotto i miei occhi? Bianca, rientra.

 

(Bianca esce)

 

CATERINA: Ah, voi non mi potete soffrire? Lo vedo, lo vedo bene ch'è lei il vostro tesoro, che a lei toccherà un marito, mentre io danzerò a piedi nudi il giorno delle sue nozze, e che per l'amor che le portate dovrò menar scimmie in inferno. Non ditemi altro: mi metterò a sedere a piangere finché troverò modo di vendicarmi.

BATTISTA: Vi fu mai uomo tribolato quanto me? Ma chi viene?

 

(Entrano GREMIO, LUCENZIO, in abito dimesso, PETRUCCIO con ORTENSIO travestito da musico; e TRANIO con BIONDELLO recante un liuto e dei libri)

 

GREMIO: Buon dì, vicino Battista.

BATTISTA: Buon dì, vicino Gremio. Dio vi salvi, signori!

PETRUCCIO: E pure voi, caro messere. Dite un po', non avete voi una figlia chiamata Caterina, bella e virtuosa?

BATTISTA: Ho una figlia, messere, di nome Caterina.

GREMIO: Troppo alla svelta filate; procedete con ordine.

PETRUCCIO: Mi fate torto, signor Gremio: lasciatemi fare. Io sono un gentiluomo di Verona, signor Battista, che avendo udito parlare della sua beltà e del suo spirito, della sua affabilità e della sua ritrosa modestia, delle sue mirabili qualità e della dolcezza del suo carattere, mi fo ardito di mostrarmi ospite intruso della vostra casa per accertarmi coi miei occhi di tante lodi che ho sì spesso udito di lei. E come preambolo alla mia introduzione, vi presento un mio uomo (presenta Ortensio) versato in musica e nelle matematiche, per istruire perfettamente vostra figlia in quelle scienze le quali so ch'ella non ignora. Accettate i suoi servigi o mi farete un torto. Il suo nome è Licio ed è nato a Mantova.

BATTISTA: Voi siete il benvenuto, messere ed anche costui, in grazia vostra. Ma, per quanto riguarda mia figlia Caterina, non è affare per voi, e me ne duole.

PETRUCCIO: Vedo che non intendete separarvi da lei, oppure che la mia persona non piace.

BATTISTA: Non mi fraintendete. Io parlo come penso. Di qual paese siete voi, messere? Come vi posso chiamare?

PETRUCCIO: Io mi chiamo Petruccio e sono figlio di Antonio, uomo ben noto in tutta Italia .

BATTISTA: Lo conosco bene, e siete il benvenuto in grazia sua.

GREMIO: Perdonate Petruccio, ora che voi avete detta la vostra, lasciate che parliamo anche noi, poveri sollecitatori. Vi cacciate avanti un po' troppo voi . Adesso, largo!

PETRUCCIO: Scusate, signor Gremio, vorrei introdurre l'argomento.

GREMIO: Non dubito, messere, ma voi maledirete il vostro corteggiamento. (A Battista) Vicino, io son certo che questo è un dono molto accetto. E per esprimervi una uguale cortesia, io, che vi sono più obbligato di ogni altro, vi fo grazioso presente di questo giovine studioso (mostrando Lucenzio) il quale avendo per lungo tempo studiato a Reims, è esperto in greco, latino ed altre lingue, quanto lo è l'altro in musica e nelle matematiche. Si chiama Cambio e vi prego di accettare i suoi servigi.

BATTISTA: Mille grazie, signor Gremio, e il benvenuto a voi, buon Cambio. Ma... (a Tranio) voi, gentile signore, mi sembra che voi abbiate l'aria d'un forestiero. Posso ardir di conoscere la ragione della vostra visita?

TRANIO: Perdonate, messere, arditezza è la mia che, forestiero in questa città, qui mi faccio aspirante alla mano di vostra figlia, la bella e virtuosa Bianca. Non m'è ignota la vostra ferma risoluzione di accasar prima la sorella maggiore. Ma io non chiedo altra libertà che questa, che una volta che abbiate conosciuto il mio casato, possa io pure esser accolto fra i corteggiatori di vostra figlia e avere al par di loro libero accesso e favore: per concorrere all'educazione delle vostre figlie, io qui vi offro un semplice strumento e questo piccolo pacco di libri greci e latini. Se voi li accettate, allora il loro pregio sarà grande.

BATTISTA: Lucenzio è il vostro nome? Di dove siete, vi prego?

TRANIO: Di Pisa, signore: figlio di Vincenzo BATTISTA: Oh, è uomo di gran conto in Pisa: lo conosco di fama. Siate dunque assai il benvenuto, messere. Voi prendete il vostro liuto e voi il vostro pacco di libri. Vedrete subito le vostre allieve. Ohé, là dentro!

 

(Entra un Servo)

 

Giovanotto, conduci questi signori presso le mie figliuole, e di' ad ambedue che sono i loro professori, raccomanda loro di trattarli bene.

 

(Esce il Servo con Lucenzio e Ortensio, segue Biondello)

 

E noi andremo a passeggiare un poco in giardino, poi ceneremo. Mi siete oltremodo graditi, e vi prego tutti di considerarvi tali

PETRUCCIO: Signor Battista, l'affare mio richiede una certa sollecitudine, poiché tutti i giorni io non posso venire a far la corte alla vostra figliuola. Voi avete conosciuto bene mio padre e me in lui: egli mi ha lasciato solo erede di tutte le sue terre e dei suoi beni, ch'io ho piuttosto avvantaggiato che sminuito. Ebbene, ditemi, se ottengo l'amore di vostra figlia, sposandola, che dote mi porterà?

BATTISTA: Dopo la mia morte la metà delle mie terre e in contanti ventimila corone.

PETRUCCIO: Bene, e in contraccambio di tal dote, se accadrà ch'ella mi sopravviva, assicuro alla sua vedovanza il possesso di ogni e qualsiasi mia terra e affittanza. Mettiamo dunque in carta i vari punti del contratto affinché le convenzioni siano poi osservate da ambo le parti.

BATTISTA: Certamente, ma quando abbiate ottenuto il primo punto, e cioè, l'amore di Caterina: perché questo è tutto.

PETRUCCIO: Bah, questo è niente: poiché vi dico, padre, ch'io sarò perentorio quant'ella è orgogliosa: e quando due rabbiosi fuochi s'incontrano insieme essi consumano la cosa che alimenta la loro furia: e anche se un picciol fuoco si fa grosso con poco di vento, pure le raffiche impetuose spengono fuoco e tutto. Così farò io con lei, ed ella mi cederà. Poiché son maschio e non fo mica la corte come un ragazzo.

BATTISTA: Bene, possa tu corteggiarla, e abbi felice esito! Ma sii armato a ricevere qualche mala parola.

PETRUCCIO: Sicuro, a tutta prova; come le montagne pei venti, che non si scuotono che se soffiano incessantemente.

 

(Rientra ORTENSIO con la testa rotta)

 

BATTISTA: Che hai, che hai, amico mio? Perché così pallido in viso?

ORTENSIO: E' paura, ve lo garantisco, se son pallido.

BATTISTA: Ebbene, mia figlia potrà essere buona musicista?

ORTENSIO: Credo che farebbe meglio un buon soldato. Il ferro può resisterci con lei, ma i liuti no davvero.

BATTISTA: Allora tu non puoi farla rotta allo studio del liuto.

ORTENSIO: Eh, no, certo: poiché lei ha rotto il liuto su di me. Avevo appena finito di dirle che sbagliava i tasti e le stavo piegando la mano per apprenderle il tocco, quando in un accesso d'impazienza indiavolata: "Tasti, li chiamate? - ha gridato. Mi fanno uscir dai gangheri!"; e detto questo mi ha dato del liuto sulla testa sì che il mio cranio ha attraversato lo strumento. Per un istante io son rimasto rimminchionito, guardando fuori dal liuto come fossi alla gogna, mentre lei mi andava chiamando musico della malora, strimpellatore da strapazzo; con venti altri di tali epiteti insolenti come avesse studiato apposta per maltrattarmi così.

PETRUCCIO: Poffar del mondo! ma è una ragazza in gamba. Mi sento d'amarla dieci volte di più. Che voglia mi prende di andare a cianciare un po' con lei!

BATTISTA: Ebbene, venite con me e non siate così abbacchiato.

Riprendete la lezione con la mia minore: essa è capace d'apprendere ed è riconoscente del bene che le si fa. Signor Petruccio, volete venir con noi o debbo mandarvi qui la mia Càtera?

PETRUCCIO: Vi prego, mandatela, l'attenderò qui. (Escono Battista, Gremio, Tranio e Ortensio) Appena sarà qui le voglio fare una corte spietata. E se essa m'insulta io le dichiarerò che canta dolcemente come un usignolo: se aggrotta il viso le dirò che è limpida come la rosa mattutina novellamente lavata dalla rugiada, se sta muta e non vorrà proferir parola loderò la sua loquacità e le dirò che possiede un'eloquenza avvincente: se mi comanderà di far fagotto, io la ringrazierò come se m'avesse pregato di starle vicino per una settimana: se rifiuta di sposarmi la supplicherò di fissarmi il giorno del bando e delle nozze. Ma eccola! E ora, Petruccio, a te.

 

(Entra CATERINA)

 

Buon giorno, Càtera, poiché questo è il tuo nome, a quanto ho udito.

CATERINA: Ben avete udito, ma siete alquanto duro d'orecchio. Mi chiamano Caterina quelli che parlano di me.

PETRUCCIO: In fede mia, mentite: perché vi chiamano semplicemente Càtera, la vezzosa Càtera, e qualche volta Càtera la peste; ma Càtera, la più bella Càtera di tutta la cristianità, Càtera di Castel Càtera, la mia buona pasta di mandorle Càtera, poiché mandorle son tutte le catere, Càtera, dunque, apprendi questo da me, Càtera consolazione mia: avendo io udito lodare la tua dolcezza in tutte le città e celebrare le tue virtù e proclamare la tua bellezza, non tuttavia così altamente come si meritano, io stesso sono stato mosso a corteggiarti per farti mia moglie.

CATERINA: Mosso! Alla buon'ora! Che quello che vi ci ha mosso vi rimuova. Ho ben visto subito che eravate un bel mobile, voi.

PETRUCCIO: E che sarebbe un mobile?

CATERINA: Un trespolo.

PETRUCCIO: Ben detto. Vieni dunque a sedere sopra di me.

CATERINA: I somari son fatti per portare; e così voi.

PETRUCCIO: Le donne son fatte per portare; e così voi.

CATERINA: Se volete dir me, non sono una rozza come voi.

PETRUCCIO: Oh, mia buona Càtera, io non ti voglio caricare, poiché sapendoti troppo giovine e leggera...

CATERINA: Troppo leggera infatti perché uno zoticone come voi mi abbia a pigliare; ma del resto il mio peso non mi fa fallo.

PETRUCCIO: Fa fallo... farfalla!

CATERINA: Voi non prendete che farfalloni!

PETRUCCIO: O tortorella tarda di penna, vi prenderà dunque un farfallone?

CATERINA: Già, la prenderà per una tortora, come lei prenderà lui per un farfallone.

PETRUCCIO: Via, via, vespina; in fede mia, siete troppo stizzosa.

CATERINA: Se son vespa, attento al mio pungiglione!

PETRUCCIO: Eh, conosco il rimedio: strapparlo fuori.

CATERINA: Già, se lo scemo sapesse dove si trova.

PETRUCCIO: E chi non sa dove la vespa ha il pungiglione? Nella coda.

CATERINA: No, nella lingua.

PETRUCCIO: Nella lingua di chi?

CATERINA: Nella vostra, se volete farmi coda. E così addio!

PETRUCCIO: E che? con la mia lingua sotto la vostra coda? No, venite via, mia buona Càtera, sono un gentiluomo io...

CATERINA: Voglio un po' provarti.

 

(Lo batte)

 

PETRUCCIO: Se mi battete ancora, giuro che vi schiaffeggio.

CATERINA: E così non stareste più in sull'arme. Se mi schiaffeggiate non siete più un gentiluomo e se non siete un gentiluomo allora niente più arme.

PETRUCCIO: Sei un consultore araldico, Càtera? O mettimi nei tuoi libri!

CATERINA: E che avete per cimiero? Una cresta di gallo?

PETRUCCIO: Un gallo colla cresta abbassata se Càtera sarà la mia gallina.

CATERINA: Non siete gallo per me: crocidate troppo come un cappone.

PETRUCCIO: Venite via, Càtera, non dovete esser così acida!

CATERINA: Sempre son così quando vedo una mela vizza.

PETRUCCIO: Ma qui non c'è mele vizze, e perciò non esser così acida.

CATERINA: Ce n'è, ce n'è.

PETRUCCIO: Allora mostratemela.

CATERINA: Lo farei se avessi uno specchio.

PETRUCCIO: Intendi dir forse il mio viso?

CATERINA: Mica male per un simil garzoncello.

PETRUCCIO: Via, per San Giorgio, son troppo giovane per voi.

CATERINA: Eppur siete vizzo.

PETRUCCIO: Sono le gravi cure.

CATERINA: Poco me ne curo.

PETRUCCIO: Via, ascoltatemi, Càtera, in verità non ve la svignerete così.

CATERINA: Lasciatemi! S'io m'indugio, vi faccio imbestialire.

PETRUCCIO: Ma null'affatto. Vi trovo invece così gentile io. M'era stato detto ch'eravate aspra, ritrosa e sorniona, ma son tutte fandonie! Tu sei invece piacevole, allegra e più che cortese, lenta nel parlare ma dolce come un fiore a primavera. Non sai accigliarti, non sai guardare bieco, non ti mordi le labbra come fanno le ragazze irascibili, né ti compiaci di contraddire discorrendo. Ma sai intrattenere i tuoi corteggiatori molto garbatamente, con gentili discorsi, e soavi e affabili. Perché dice la gente che Càtera è zoppa?

Mondo calunniatore! Càtera è slanciata e sottile come vetta di nocciolo, bruna di tinta come la nocciola e più dolce della mandorla.

O fammiti vedere a camminare. Ma no che non zoppichi!

CATERINA: Va', stupido, comanda chi è alla tua paga.

PETRUCCIO: Ha Diana mai adornato tanto un boschetto quanto Càtera questa camera colla sua regale andatura? E sii tu Diana e Diana Cìtera. E allora Càtera sia casta e Diana lascivetta.

CATERINA: E dove li hai appresi questi bei discorsi?

PETRUCCIO: Estemporanei. Mi vengon dal mio materno ingegno.

CATERINA: Che madre ingegnosa! Ché quanto al figlio, Dio sa se egli ne avrebbe!

PETRUCCIO: Non sono forse io saggio?

CATERINA: Già, state caldo!

PETRUCCIO: Diamine, è quel che voglio, cara Caterina, ma nel tuo letto. E perciò, bando alle chiacchiere, questo in poche parole vi vo' dire: vostro padre ha consentito che voi siate mia moglie; la vostra dote è già fissata; e, lo vogliate o non lo vogliate, io vi sposo.

Ebbene, Càtera, io sono il marito che fa per voi: e per questa luce con cui vedo la tua bellezza, la tua bellezza la quale fa sì che tanto mi piaci, tu non devi sposare altro uomo che me; perché io son nato per domarvi, Càtera, e trasformarvi di gatta selvatica in una Càtera mansueta come le altre gatte domestiche. Ma ecco vostro padre. Non rifiutatemi; debbo aver Caterina per mia sposa e l'avrò.

 

(Rientrano BATTISTA, GREMIO e TRANIO)

 

BATTISTA: Ebbene, signor Petruccio, come ve la sbrigate con mia figlia?

PETRUCCIO: E come, se non bene? se non bene? Era impossibile che io non ne venissi capo.

BATTISTA: Eh, Caterina, figlia mia, perché di cattivo umore?

CATERINA: E mi chiamate vostra figlia? In verità mi avete dimostrato un bell'affetto paterno a volermi sposare con un mezzo lunatico; un miserabile scervellato, un fantoccio di bestemmiatore che a furia di moccoli si crede di farla franca.

PETRUCCIO: Padre, le cose stan così: voi e tutti coloro che han parlato di lei, avete preso abbaglio. Se Caterina è una peste, lo è per politica, perché di natura non è affatto bizzosa ma mansueta come colomba; essa non è rabbiosa, ma pacata come il mattino. Per pazienza si dimostra una seconda Griselda, ed è Lucrezia romana per castità. In conclusione andiamo d'accordo così bene che domenica prossima sarà il giorno delle nostre nozze.

CATERINA: Piuttosto ti vedrò impiccato, domenica.

GREMIO: Sentite, Petruccio, dice che piuttosto vi vorrebbe vedere impiccato.

TRANIO: E' questo dunque il vostro successo? Eh! allora buonanotte alle nostre speranze!

PETRUCCIO: Un po' di pazienza, signori, io l'ho scelta per me. Se io e lei andiam d'accordo a voi che fa? Tra me e lei s'è deciso, mentre eravamo soli, ch'ella continui ad essere intrattabile in compagnia. Ma io vi dico che è da non credere quanto ella mi ami. O la gentilissima Càtera! Mi si appendeva al collo, e baci sopra baci accumulava così di furia, facendomi giuramenti su giuramenti, che in un amen mi ha ridotto schiavo del suo amore. Oh, novellini che siete! E' meraviglioso vedere, allorché l'uomo e la donna sono soli, come un povero diavolo possa riuscire a domare la più bisbetica delle bisbetiche! Dammi la mano, Càtera: andrò a Venezia a comprare il corredo per il giorno delle nozze. Padre mio, ordinate il banchetto, invitate gli ospiti. Sono sicuro che la mia Caterina sarà splendida.

BATTISTA: Io non so cosa dire: ma datemi le vostre mani. E Dio ti dia ogni bene Petruccio. L'affare è concluso.

GREMIO e TRANIO: Amen, diciamo noi; faremo da testimoni.

PETRUCCIO: Padre, e moglie, e voi signori, addio. Vado a Venezia perché domenica fa presto ad arrivare. Noi avremo anelli, gioielli e ogni sorta di belle cose. Dammi un bacio, Caterina, che domenica saremo sposi.

 

(Petruccio e Caterina escono in direzioni opposte)

 

GREMIO: Ci fu mai matrimonio acciarpato così alla svelta?

BATTISTA: In verità, signori, io faccio qui la parte del mercante e mi avventuro pazzamente in una partita disperata.

TRANIO: Era mercanzia che si guastava presso di voi: essa vi porterà guadagno o andrà perduta in mare.

BATTISTA: Il guadagno che io cerco è una cheta unione.

GREMIO: Nessun dubbio ch'egli l'ha fatta alla chetichella. Ma ora, Battista, veniamo alla vostra figlia minore. Il giorno pel quale abbiamo tanto sospirato è giunto. Io sono il vostro vicino e fui il primo a corteggiarla.

TRANIO: Io sono uno che adora Bianca più che parola umana possa esprimere o il vostro pensiero indovinare.

GREMIO: Giovincello, tu non puoi amarla così bene come l'amo io.

TRANIO: Barbagrigia, il tuo è amore frigido.

GREMIO: Ma il tuo è amore che frigge. Va' là, scimunito, è l'età che nutrisce.

TRANIO: Ma è la giovinezza che fiorisce agli occhi delle ragazze.

BATTISTA: Via, calmatevi, signori, io vo' comporre questa disputa.

Sono i fatti che debbono vincere il premio. E quello di voi due che potrà assicurare alla mia figliuola la dote più grossa avrà l'amore della mia Bianca. Su, signor Gremio, quanto potreste darle?

GREMIO: Anzitutto, come voi sapete, la mia casa in città è riccamente fornita di vasellame d'argento e d'oro, di bacili e di mescirobe per lavare le sue mani delicate; i miei parati sono tutti tappezzerie di Tiro. In forzieri d'avorio io tengo stipati i miei scudi e in cassoni di cipresso le mie trapunte di Arras, costosi abiti, cortine e baldacchini, eletti lini, cuscini turchi tempestati di perle, frange d'oro filato di Venezia, peltri e rami ed ogni cosa che appartiene alla casa e al suo governo. Oltre ciò posseggo nella mia fattoria cento mucche da latte, sei ventine di grassi buoi nelle mie stalle, e tutto il resto in conformità. Io sono avanti negli anni, debbo confessarlo, e se dovessi morire domani, tutto questo sarà di lei se, mentre io vivo, ella vorrà essere mia soltanto.

TRANIO: Quel "soltanto" cade a proposito. Messere, e adesso ascoltate me. Io sono erede di mio padre e suo figlio unico: se io posso avere vostra figlia in moglie, io le lascerò dentro le mura della ricca Pisa tre o quattro case belle come qualsiasi di quelle che il vecchio signor Gremio ha in Padova; e inoltre duemila ducati all'anno di terra fruttifera, e tutto per sua sopraddote. Eh, signor Gremio, non vi ho io beccato?

GREMIO: Duemila ducati di terra all'anno! le mie terre in tutto non ammontano a tanto: ma essa le avrà: e oltre a questo un vascello che ora si trova nel porto di Marsiglia. Ebbene, non vi ho io soffocato col mio vascello?

TRANIO: Tutti sanno che mio padre non possiede meno di tre grandi vascelli, e che possiede inoltre due galeazze e dodici galere ben calafatate. Tutto questo io le potrò dare, e due volte tanto di qualunque altra offerta tu faccia.

GREMIO: Eh, no, io ho offerto tutto e non ho altro; essa non può avere più di quanto posseggo. Ma se io vi piaccio, Battista, avrà me e il mio.

TRANIO: Allora la ragazza è mia a esclusione di ogni altro, secondo la vostra solenne promessa. Gremio è sbancato.

BATTISTA: Debbo convenire che la vostra offerta è la migliore. Vostro padre le faccia garanzia e mia figlia sarà tutta vostra. Altrimenti, voi mi dovete scusare, se moriste prima di lui, dove è la sua dote?

TRANIO: Ma questo è un cavillo. Lui è vecchio ed io son giovane.

GREMIO: E non possono i giovani morire quanto i vecchi?

BATTISTA: Bene signori, io decido così. Voi sapete che domenica prossima mia figlia Caterina andrà a nozze; ora, se voi otterrete questa garanzia, la domenica successiva Bianca sarà vostra sposa; se no, del Signor Gremio. E così io prendo congedo, ringraziandovi ambedue.

GREMIO: Addio, buon vicino. (Battista esce) Ora non ho timore di te, giovincello scapato. Tuo padre sarebbe uno sciocco a darti tutto, e in età avanzata a mettere i piedi sotto la tua tavola. Questa è una baia:

una vecchia volpe italiana non è così accomodante, ragazzo mio!

 

(Esce)

 

TRANIO: Canchero della tua vizza pellaccia di furbacchione! Ma io gli ho tenuto testa con una carta grossa. E' mia intenzione di giovare al mio signore, e non vedo la ragione che il supposto Lucenzio non possa avere per padre un supposto Vincenzo. E sarà una meraviglia, che mentre son di solito i padri che generano i figli, in questa faccenda amorosa, se mi riesce la gherminella, avremo un figlio che genera il padre.

 

(Esce)

 

 

 

ATTO TERZO

SCENA PRIMA - Padova. La casa di Battista

(Entrano LUCENZIO, ORTENSIO e BIANCA)

 

LUCENZIO: Violinista, fermatevi: vi fate troppo ardito. Dimenticate così presto l'accoglienza che vi ha fatto sua sorella Caterina?

ORTENSIO: Ma, litigioso pedante, questa è la patrona della celeste armonia: Perciò lasciatemi aver la precedenza: quando avremo speso un'ora nella musica, avrete altrettanto tempo per la vostra lezione.

LUCENZIO: Prepostero somaro, che non hai studiato abbastanza da comprendere la ragione per cui la musica fu creata! Non fu forse per ristorare lo spirito dell'uomo dopo i suoi studi o le sue cure giornaliere? Permettete quindi che io le insegni filosofia: e quando io poso, servitele la vostra musica.

ORTENSIO: Mariolo, non tollererò queste tue insolenti parole.

BIANCA: Via, signori miei, non mi fate il doppio torto di contendere per cosa che è in mia facoltà di scegliere. Non sono un scolaretto di quelli che si sculacciano a scuola. Non sono legata ad orari, né a tempi fissi, ma voglio prendere le mie lezioni come più mi piace. E, per troncare ogni discussione, (a Lucenzio) sediamoci qua. Voi (a Ortensio) prendete il vostro liuto e sonate, nel frattempo. La sua lezione sarà finita prima che voi abbiate accordato.

LUCENZIO: Come dire... mai. Accordate lo strumento.

BIANCA: Dove eravamo rimasti?

LUCENZIO: Qui, signorina.

"Hic ibat Simois; hic est Sigeia tellus; Hic steterat Priami regia celsa senis".

BIANCA: Traducete.

LUCENZIO: "Hic ibat", come vi ho detto dianzi - "Simois", io sono Lucenzio, - "hic est", figlio di Vincenzo di Pisa, "Sigeia tellus", travestito così per ottenere il vostro amore, "Hic steterat", e quel Lucenzio che viene a corteggiarvi, "Priami", è il mio domestico Tranio, - "regia", vestito dei miei abiti, "celsa senis", per ingannare il vecchio Pantalone.

ORTENSIO: Signorina, il mio strumento è accordato.

BIANCA: Fatemi sentire. (Ortensio suona) Oibò, il cantino stona.

LUCENZIO: Sputa nel buco, amico, e accorda di nuovo.

BIANCA: E adesso lasciatemi provare se io riesco a tradurre. "Hic ibat Simois", io non vi conosco, - "hic est Sigeia tellus", non vi credo, - "hic steterat Priami", state attento che lui non ci senta, - "regia", non presumete troppo, - "celsa senis", non disperate.

ORTENSIO: Signorina, lo strumento è di nuovo intonato.

LUCENZIO: Tranne il basso.

ORTENSIO: Il basso è giusto: è quel basso furfante che stona. (In disparte) Come focoso e intraprendente è il nostro pedante! Perdio, ma quel briccone sta corteggiando il mio amore. "Pedascule", ti terrò meglio d'occhio d'ora innanzi.

BIANCA: Col tempo io potrò credervi, ma per ora diffido.

LUCENZIO: Non diffidate, perché, certo, Eacide era Ajace, ed ebbe questo nome dal suo avo.

BIANCA: Io debbo credere al mio maestro, altrimenti vi giuro che starei ancora a discutere su questo dubbio. Ma basta di ciò. Adesso, Licio, a voi. Miei buoni maestri, vi prego, non abbiatevela a male se ho voluto così scherzare con ambedue.

ORTENSIO: Voi potete andare a passeggiare e lasciarmi libero nel frattempo. Non insegno musica in tre parti.

LUCENZIO: Così puntiglioso il signore? Sta bene, aspetterò. (A parte) E aprirò l'occhio pure: poiché, se non sbaglio, il nostro bravo musico sta innamorandosi.

ORTENSIO: Signorina, avanti che voi tocchiate lo strumento, io debbo cominciare coi rudimenti dell'arte, per apprendervi il sistema del mio diteggiare: debbo insegnarvi la solfa in una maniera più breve, piacevole, energica ed efficace di quanto sia mai stato usato da altri maestri nella mia arte: ed eccolo qua questo sistema, scritto ed esposto in modo acconcio.

BIANCA: Ma la solfa io già l'ho appresa da lungo tempo.

ORTENSIO: Tuttavia leggete la solfa di Ortensio.

BIANCA (legge): "'Do', io sono il principio d'ogni accordo, 'Re', per dirvi d'Ortensio il grande amore; 'Mi', Bianca, d'esser vostro sposo è ingordo, 'Fa', ch'egli v'ama con tutto il suo cuore, 'Sol', ho due note ad una chiave sola, 'La si', non mi spacciar, deh, mi consola!".

E voi chiamate questa una solfa? Che, che, non mi piace affatto, preferisco la vecchia maniera, e non son così ingenua da cambiare le vecchie regole con le nuove bizzarrie.

(Entra un Servo)

 

SERVO: Padrona, vostro padre vi prega di lasciare i libri, e di aiutare ad adornare la camera di vostra sorella; come sapete domani è il giorno delle sue nozze.

BIANCA: Arrivederci, miei buoni maestri. Debbo andare.

 

(Escono Bianca ed il Servo)

 

LUCENZIO: In verità, signora, non ho più motivo di restare.

 

(Esce)

 

ORTENSIO: Ma io ho motivo di spiare questo pedante: mi par che abbia aspetto d'uomo innamorato. E tuttavia, Bianca, se hai pensieri così poco elevati da gettare il tuo sguardo errante su ogni logoro, ti prenda chi ti voglia. Se una volta trovo che ti disvii, Ortensio farà patta con te cercandosene un'altra.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - Padova. Davanti alla casa di Battista

(Entrano BATTISTA, GREMIO, TRANIO, CATERINA, BIANCA, LUCENZIO, ed altri, e Famigli)

 

BATTISTA (a Tranio): Signor Lucenzio, è questo il giorno che Caterina e Petruccio han da sposarsi, e non abbiamo notizie di nostro genero!

Che s'ha da dire? Che brutto scherzo sarebbe mancasse il fidanzato, mentre il prete attende per celebrare il rito! Che ne pensate, Lucenzio, di questo nostro scorno?

CATERINA: Lo scorno è tutto mio. Io debbo esser costretta, perdio, a dar la mia mano, e contro mia voglia, a uno zoticaccio scervellato e pieno di ubbie che fa la corte di furia e vuol sposarsi con tutto suo comodo. Ve l'avevo detto io, che quello era un pazzo da legare, che sotto maniere spicciole nascondeva scherzi di cattivo genere. E per acquistarsi la fama di uomo faceto, egli farà la corte a mille, fisserà il giorno delle nozze, farà invitare amici, farà pubblicare i bandi, ma senza intenzione di sposarsi mai. E ora la gente segnerà a dito la povera Caterina e dirà: "Ecco là la moglie del pazzo Petruccio, se pur garberà a costui di venire a sposarsela!" TRANIO: Calmatevi, buona Caterina, e anche voi, signor Battista. In fede mia, qualunque sia il contrattempo che gl'impedisce di serbar la parola data, Petruccio non ha che buone intenzioni: e se le sue maniere soro sbrigative, io so che è oltremodo saggio, e se è di natura faceta, è pur giovine onesto.

CATERINA: Con tutto questo, che Caterina non l'avesse mai veduto!

 

(Esce piangendo, seguita da Bianca e da altri)

 

BATTISTA: Va' pure, figliuola: io non ti posso rimproverare ora se piangi; perché un'offesa simile irriterebbe anche una santa. A maggior ragione una bisbetica del tuo umore impaziente.

 

(Entra BIONDELLO)

 

BIONDELLO: Padrone, padrone, nuove, vecchie nuove, e tali come voi non ne udiste giammai!

BATTISTA: Nuove e vecchie nello stesso tempo, e come mai?

BIONDELLO: Ebbene, non l'è nuova udir che Petruccio arriva?

BATTISTA: E' arrivato?

BIONDELLO: Ma no, signore.

BATTISTA: E allora?

BIONDELLO: Sta arrivando.

BATTISTA: E quando sarà qui?

BIONDELLO: Quando lui sarà dove io sono e vi vedrà là dove voi siete.

TRANIO: Ma di', e quanto alle tue vecchie nuove?

BIONDELLO: Ebbene, Petruccio arriva con un cappello nuovo e un vecchio giustacuore, un paio di vecchie brache che sono già state rivoltate tre volte, un paio di scarpe che han servito da ripostiglio pei moccoletti, una con fibbia e l'altra con legacci; una vecchia spada arrugginita tirata fuori dall'arsenale della città, con l'impugnatura spezzata, col fodero senza cappa; con due puntali delle stringhe rotti; il suo cavallo sfiancato ha una vecchia sella tarmata e degli sproni scompagnati; per di più, ha il cimurro e la morva; soffre del lampasco, è infetto del mal del verme, pieno di galle, spacciato dallo spavento, striato dall'itterizia, gonfio di vivole incurabili, malconcio dal capogatto, divorato dal vermocane, lussato nel deretano e slogato di schiena; si taglia con le zampe davanti, ha un morso a cui manca una guida, una cavezza in pelle di montone che a furia di tendersi per trattenerlo dall'inciampicare, s'è rotta sovente e si regge a forza di nodi; un sottopancia che è stato rappezzato sei volte e una groppiera da donna, in velluto, con due lettere del nome formate da bullette, e rabberciata qua e là con dello spago.

BATTISTA: E chi lo accompagna?

BIONDELLO: Oh, messere, il suo palafreniere bardato proprio come il cavallo, con una calza di filo su una cianca e sull'altra un panno da gamba di rozza lana, con giarrettiere fatte di cimosa rossa e turchina. Porta un vecchio cappello con cento ghiribizzi infilati a mo' di pennacchio. Un mostro, un vero mostro nell'abito, e non un paggio da cristiano o un lacchè da gentiluomo.

TRANIO: Sarà qualche fantasia balzana che l'avrà inuzzolito così.

Eppure spesso egli va in vile arnese.

BATTISTA: In qualunque modo egli venga, sono contento che arrivi.

BIONDELLO: Ma, messere, egli non arriva.

BATTISTA: Ma non hai detto che arriva?

BIONDELLO: Chi? Petruccio?

BATTISTA: Sì, Petruccio.

BIONDELLO: No messere, ho detto che è il suo cavallo che arriva, con lui sopra.

BATTISTA: Ma è tutt'uno.

BIONDELLO: No, per San Giacometto, Un quattrin ci scommetto, Che un uomo e un ginnetto Fan più di un uomo solo.

Eppur molti non sono.

 

(Entrano PETRUCCIO e GRUMIO)

 

PETRUCCIO: Ebbene, dove sono questi galanti? Chi è in casa?

BATTISTA: Siate il benvenuto, messere PETRUCCIO: E tuttavia bene non vengo.

BATTISTA: Non zoppicate mica.

TRANIO: Non siete in così bell'arnese come avrei desiderato.

PETRUCCIO: Era meglio che io venissi così di gran prescia. Ma dov'è Càtera? Dov'è la mia amabile sposa? Come state, padre mio? Signori mi sembrate accigliati. E che ha questa bella compagnia da fissarmi così come se vedesse qualche statua ben strana o qualche cometa o qualche straordinario prodigio?

BATTISTA: Via, messere, voi sapete che oggi è il giorno delle vostre nozze. E dapprincipio eravamo mesti temendo che voi non veniste, ma adesso lo siamo ancor più vedendovi comparire così sprovveduto. Su, su, toglietevi quest'abito che fa torto alla vostra condizione ed è come un pugno nell'occhio in questa nostra festa solenne.

TRANIO: E diteci un po' qual grave motivo vi ha trattenuto così a lungo lontano da vostra moglie, e vi conduce qui così trasfigurato?

PETRUCCIO: E' uggioso il dirvelo e spiacevole l'udirlo. Vi basti sapere che son venuto per mantener la mia parola, ancorché in certi punti abbia dovuto discostarmene un po'; cosa di cui con maggior agio vi chiederò scusa, in modo che ne avrete soddisfazione. Ma dov'è Càtera? Troppo a lungo sono stato lontano da lei. Il mattino volge al fine ed è tempo di recarci in chiesa.

TRANIO: Non comparite davanti alla vostra sposa in questo costume indecente. Andate in camera mia e indossate abiti miei.

PETRUCCIO: No, no, credetemi, in questo modo voglio farle visita.

BATTISTA: Ma così, credetemi, non potete sposarla.

PETRUCCIO: Ma sì, proprio così. Perciò basta con le parole. E' me ch'ella sposa infine, e non i miei vestiti E sarebbe meglio per lei, e ancor più per me, se io potessi riparare quello che essa consumerà in me, così facilmente come posso mutare queste povere vesti. Ma che sciocco starmene qui a cianciare con voi quando dovrei recarmi a dare il buon giorno alla mia sposa e suggellar codesto nome con un amoroso bacio!

 

(Escono Petruccio e Grumio)

 

TRANIO: Deve aver qualche intento con quel suo pazzo costume. Ma lo persuaderemo, s'è possibile, di mettersene uno meglio prima che si rechi in chiesa.

BATTISTA: E io gli tengo dietro per veder come va a finire.

 

(Escono Battista, Gremio e Famigli)

 

TRANIO: All'amore di lei conviene che noi aggiungiamo il consenso di suo padre: al qual fine, come ho già detto a Vostra Signoria, debbo scovare un uomo - e qualunque sia non importa, che lo imbeccheremo per bene - il quale figuri essere Vincenzo di Pisa e che qui in Padova possa rendersi garante presso Battista per una somma ancora più grande di quella che io gli ho promessa. Così voi potrete tranquillamente goder della vostra speranza e sposare l'amabile Bianca col consenso paterno.

LUCENZIO: Se non fosse che il maestro mio collega sorveglia così strettamente i passi di Bianca, sarebbe bene, mi pare, far di soppiatto il nostro matrimonio. Una volta fatto, il mondo intero dica pure di no, ch'io a dispetto di tutto il mondo mi terrò il mio bene.

TRANIO: Codesto intendiamo di considerarlo con agio, aspettando di cogliere il momento opportuno in questa faccenda. Noi sapremo gabbare Gremio, il barbagrigia, Minola, il vigilante genitore, e Licio, il fine musico innamorato: e tutto per amor del mio padrone Lucenzio.

 

(Rientra GREMIO)

 

Venite dalla chiesa, signor Gremio?

GREMIO: E con tanto piacere quanto mai non ebbi a tornar dalla scuola.

TRANIO: E il marito ritorna con la sposa?

GREMIO: Il marito, dite? il marrano, piuttosto, un marrano scorbutico e tale lo troverà la ragazza.

TRANIO: Ancor più peste di lei? Ma è impossibile!

GREMIO: Davvero, è un diavolo, un diavolo, un vero demonio.

TRANIO: Ma essa pure è una diavola, una diavola, una versiera.

GREMIO: Macché, essa è un agnello, una colomba, una grulla a petto di lui. Ma se vi dico, messer Lucenzio: quando il prete gli ha chiesto se voleva che Caterina diventasse sua moglie, "Eh sicuro, giurammio!" ha fatto lui: e si è messo a sagramentare sì forte che il prete sbigottito ha lasciato cadere il libro e quando si è chinato per raccattarlo, questo farnetico di sposino gli ha mollato uno schiaffone tale che prete e libro e libro e prete sono andati tutti a gambe all'aria. "E ora li raccatti chi ha voglia!" ha detto lui.

TRANIO: La donzella che ha detto quando l'altro s'è alzato?

GREMIO: Tremava a verga a verga. E lui a pestar i piedi e sagramentare come se il curato intendesse di raggirarlo. Infine, compiute alquante cerimonie, ha domandato del vino e si è messo a gridare: "Alla salute!" come se fosse stato a bordo di una nave, a far brindisi ai compagni dopo una tempesta. Quindi ha tracannato il moscatello e ne ha gittato il fondime in viso al sagrestano, e senza alcun altro motivo che la sua barba era magra e stenta e sembrava domandargli le briciole mentr'egli beveva. Poi, fatto questo, ha afferrato la sposa pel collo e l'ha baciata sulle labbra con un tale sonorissimo baciozzo che, nello staccarsi, tutta la chiesa ne ha echeggiato. E vedendo tutto ciò io sono uscito di chiesa pien di vergogna e dietro di me so che sta arrivando tutta la comitiva. Matrimonio sì pazzo non s'è visto mai.

Udite, udite, i menestrelli che suonano. (Musica)

 

(Entrano PETRUCCIO, CATERINA, BIANCA, BATTISTA, ORTENSIO, GRUMIO e la Comitiva degl'invitati)

 

PETRUCCIO: Signori ed amici, vi ringrazio per le pene che vi date. So che avete in animo di cenare con me oggi, e che avete ammannito gran quantità di roba pel banchetto di nozze. Ma ecco ch'io debbo partirmene di furia da qui e intendo perciò congedarmi da voi.

BATTISTA: Ma è egli possibile che dobbiate partire stasera?

PETRUCCIO: Debbo partire oggi, prima di notte. Non ve ne stupite. Se sapeste le faccende che ho, sareste voi a supplicarmi d'andarmene anziché restare. Cosicché io ringrazio tutta questa bella compagnia che ha assistito alla mia unione con la più paziente, dolce e virtuosa sposa. Cenate con mio suo suocero e bevete alla mia salute, poiché debbo partirmene: e addio a tutti quanti.

TRANIO: Vi supplichiamo di rimanere fin dopo pranzo.

PETRUCCIO: Non posso.

GREMIO: Lasciate che vi supplichi io.

PETRUCCIO: Non posso.

CATERINA: Lasciate che vi supplichi io.

PETRUCCIO: Acconsento.

CATERINA: A restare?

PETRUCCIO: Dico che acconsento a che mi supplichiate di restare. Ma restare non posso, per quanto mi supplichiate.

CATERINA: Via, restate se mi volete bene.

PETRUCCIO: Grumio, il mio cavallo!

GRUMIO: Sì, signore, i cavalli son pronti: la biada ha mangiato i cavalli.

CATERINA: Ebbene, fa' ciò che vuoi, io non partirò oggi, e neanche domani, né fin quando mi piacerà di partire. La porta è aperta, signore, e la strada è là. Ebbene, mettetevi in cammino intanto che i calzari sono ancora nuovi. Quanto a me, partirò quando n'avrò voglia.

Bel villano davvero vi date a divedere se fin dalle prime la pigliate così alla brava.

PETRUCCIO: Eh, Càtera, calmati; ti prego, non t'adirare.

CATERINA: Sì, invece voglio adirarmi: che ci hai a che fare tu? Padre, sta' tranquillo egli resterà finché voglio io.

GREMIO: Eh, signore, adesso la faccenda si riscalda.

CATERINA: Ed ora, signori, avanti, al banchetto nuziale! Capisco anch'io che una donna si fa prendere in giro se le manca l'animo di resistere.

PETRUCCIO: Essi andranno avanti al tuo comando Càtera. E voi obbedite alla sposa, voi che l'accompagnate. Andate a banchetto, fate baldoria, gozzovigliate, trincate a piena gola alla sua verginità, siate allegri e matti, o andate a farvi benedire! Quanto alla mia buona Càtera essa deve venir via con me. Via, non fate quel viso scuro, non pestate i piedi, non guardate a stracciasacco, non vi spazientite: di ciò ch'è mio voglio essere padrone io. Essa è il mio bene, le mie masserizie; essa è la mia casa, le mie suppellettili, il mio campo, il mio fienile, il mio cavallo, il mio bue, il mio somaro, il mio tutto.

Eccola lì, e la tocchi chi ha fegato. Agirò contro il più baldanzoso che ardisse sbarrarmi la strada, qui in Padova. Grumio snuda la spada!

Siam circondati da ladri. Se sei un uomo, difendi la tua padrona! E tu, mia dolce bimba, non temere, non ti toccheranno, Caterina: io ti farò da scudo fossero anche un milione!

 
(Escono Petruccio, Caterina e Grumio)

 

BATTISTA: Eh, lasciatela andare quella coppia di paciocconi!

GREMIO: Se non fosser iti così in fretta sarei morto dal riso.

TRANIO: Fra tutte le coppie più pazze codesta non ha l'eguale.

LUCENZIO: Signora, che ne pensate di vostra sorella?

BIANCA: Ch'è pazza da legare e s'è legata a un pazzo.

GREMIO: Giurerei per lui, che Petruccio s'è Caterinizzato.

BATTISTA: Amici e vicini, se lo sposo e la sposa ci mancano, per colmare i loro posti a tavola, voi sapete che il festino non mancherà di manicaretti. Lucenzio, voi occuperete il posto del marito e Bianca occupi quello di sua sorella.

TRANIO: L'amabile Bianca si proverà a far la parte della sposa?

BATTISTA: Sicuro, Lucenzio. Andiamo, signori, venite.

 
(Escono)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - Casa di campagna di Petruccio

(Entra GRUMIO)

 

GRUMIO: Alla malora, alla malora tutte le rozze stracche, tutti i padroni matti, tutte le strade sconquassate. Ci fu mai uomo così tartassato, ci fu mai uomo così impillaccherato, ci fu mai uomo così sfinito dalla fatica? Son stato mandato innanzi per accendere il fuoco, ed essi stan venendo per scaldarsi. Ebbene, s'io non fossi un pentolino subito in bollore, le mie proprie labbra mi s'agghiaccerebbero sui denti, la mia lingua al palato, il mio cuore nella pancia, prima ch'io trovassi del fuoco per sgelarmi. Ma a furia di soffiare sul fuoco mi scalderò bene: poiché, vista la temperatura, qui si buscherebbe un raffreddore anche uno più alto di me. Ehi, Curtis!

 

(Entra CURTIS)

 

CURTIS: Chi mi chiama con voce così freddolosa?

GRUMIO: Un pezzo di ghiaccio. Che se tu ne dubitassi potresti scivolarmi giù dalla spalla al tallone senza più rincorsa che dal mio capo al mio collo. Fuoco, buon Curtis.

CURTIS: Arrivano, dunque, il mio padrone e sua moglie, Grumio?

GRUMIO: Ma sì, ma sì, Curtis: e perciò fuoco, fuoco! e non gittarvi acqua.

CURTIS: Lei è davvero quella testa calda che tutti dicono?

GRUMIO: Era, mio buon Curtis, prima di questa gelata, ma tu sai che l'inverno doma l'uomo, la donna e la bestia, dal momento che ha domato il mio antico padrone e la mia nuova padrona, e me stesso, compare Curtis.

CURTIS: Va' là, fantoccio di tre pollici! Io non son bestia.

GRUMIO: Di tre pollici, io? Ebbene, il tuo corno è alto un piede, e io, per lo meno, quanto lui. Insomma vuoi far fuoco o debbo lagnarmi di te alla nostra padrona, le cui mani, adesso che man mano si avvicina, non andran fredde nel darti una risciacquata per la tua lentezza a far caldo?

CURTIS: Ti prego, buon Grumio, dimmi un po' come va il mondo.

GRUMIO: Gelidamente invero, Curtis, in tutte le altre funzioni tranne che nella tua. E perciò, fuoco! Fa' il tuo dovere e avrai quel che ti è dovuto, poiché i miei padroni son quasi morti gelati.

CURTIS: Ecco pronto il fuoco, e perciò, buon Grumio, fuori le nuove.

GRUMIO: Allora "Checco, povero Checco!" e altrettante di tal genere quante ne vorrai.

CURTIS: Ehilà! uom pieno di buscherate!

GRUMIO: Bene, perciò fuoco, ché mi son buscato un gran raffreddore. E dov'è il cuoco? è pronta la cena? è assettata la casa? giuncati i pavimenti? scopati i ragnateli? i domestici nei loro fustagni nuovi e calze bianche e tutti i famigli nei loro abiti da nozze? Son le nostre suocere nette di dentro e le nostre nuore nette di fuori? stesi i tappeti, e ogni cosa è in ordine?

CURTIS: Tutto è in ordine, e perciò, ti prego, fuori le nuove.

GRUMIO: Sappi dapprima che il mio cavallo è stanco: il mio padrone e la mia padrona han perso le staffe.

CURTIS: Come?

GRUMIO: Cadendo giù di sella, dentro il fango. E' tutt'una storia.

CURTIS: Raccontatemela, mio buon Grumio.

GRUMIO: Prestami orecchio.

CURTIS: Ecco qua.

GRUMIO: Ecco là.

 

(Gli dà uno schiaffo)

 

CURTIS: Ma quest'è sentirla, non ascoltarla!

GRUMIO: E perciò è detta una storia sensata. Questo ceffone aveva per solo scopo di bussare alle tue orecchie per domandar udienza. E comincio: "In primis", noi discendevamo per una collina fangosa e cavalcava il mio padrone dietro la mia padrona...

CURTIS: Tutti e due su un cavallo?

GRUMIO: E a te che importa?

CURTIS: Non a me, al cavallo.

GRUMIO: E allora racconta tu. Ma se tu non m'avessi interrotto, avresti saputo come il cavallo della padrona è caduto e lei è rimasta sotto; avresti saputo in che razza di pantano, come lei s'è insudiciata da capo a piedi, come lui l'ha piantata là col cavallo addosso e come ha picchiato me perché il cavallo di lei aveva inciampato, e come lei ha sfangato pel pantano per strapparmi dalle sue mani, e come lui bestemmiava, e come lei pregava, lei che non aveva mai pregato prima, e come io gridavo e come i cavalli sono scappati e come la briglia di lei si è spezzata e com'io ho perso la groppiera, con molte cose degne di memoria che ora finiranno nell'oblìo mentre tu ritornerai nella tua fossa con tutta la tua ignoranza.

CURTIS: Dal tuo racconto parrebbe che lui sia più peste di lei.

GRUMIO: Ma certo, e tu e anche i più arroganti di tutti voi ve ne accorgerete bene, quando sarà tornato a casa. Ma perché ti parlo di questo? Chiamami Nataniele, Giuseppe, Nicola, Filippo, Gualtiero, Pandolce, e tutti gli altri. E che abbiano i capelli ben ravviati, le loro giubbe turchine ben spazzolate, le giarrettiere decenti, e facciano la riverenza piegando la gamba sinistra, e che non presumano di toccare un sol pelo della coda del cavallo del mio padrone prima di essersi baciate le mani. Son tutti pronti?

CURTIS: Lo sono.

GRUMIO: Falli venire.

CURTIS: Olà, voi, udite? Dovete venir incontro al mio padrone per far buon viso alla mia signora.

GRUMIO: Bene, ella ha pur un viso suo.

CURTIS: E chi non lo sa?

GRUMIO: Tu, a quanto pare, che chiami la gente per farle buon viso.

CURTIS: Io li chiamo perché le prestino omaggio.

GRUMIO: Oh, ma lei non vien mica per domandar loro in prestito qualcosa!

 

(Entrano quattro o cinque Domestici)

 

NATANIELE: Ben arrivato, Grumio!

FILIPPO: Alla buon'ora, Grumio!

GIUSEPPE: Ebbene, Grumio?

NICOLA: Compare Grumio!

NATANIELE Ebbene, vecchione?

GRUMIO: Salute a te... E come va? Oh eccoti te! E tu, compare?... E questo basta pei saluti. Dite, amici belli, è tutto pronto? tutto pulito?

NATANIELE: Ogni cosa è pronta. Il padrone è qua che viene?

GRUMIO: Arriva, arriva: dev'essere già disceso da cavallo: e perciò non siate... Silenzio, per le stimmate! Sento la sua voce.

 

(Entrano PETRUCCIO e CATERINA)

 

PETRUCCIO: Dove sono questi furfanti? Che? nessuno alla porta per tenermi la staffa e prendermi il cavallo? Dov'è Nataniele e Gregorio e Filippo?

SERVI: Qui, qui, signore, qui, signore!

PETRUCCIO: Qui, signore, qui, signore, qui, signore, qui, signore!

Teste di legno, tangheri! E che? nessuno viene ad incontrarmi? Nessun rispetto? Nessun omaggio? Dov'è quel manigoldo scimunito che mandai innanzi?

GRUMIO: Qui, padrone, scimunito come sempre.

PETRUCCIO: Tu, rozzo, bifolco! tu, figlio d'una bagascia, bestia da macina! Non t'avevo io ordinato di venirmi incontro nel parco, e portare con te questa ciurmaglia?

GRUMIO: La giubba di Nataniele, messere non era finita del tutto, e le scarpette dl Gabriele erano scucite nel tallone; non s'è trovata la fuliggine da colorire il cappello di Pietro, e lo stocco di Gualtiero non voleva uscire dal fodero. Di pronti non c'erano che Adamo, Rodolfo e Gregorio: gli altri della compagnia eran logori, frusti e cenciosi.

Eppure tali quali sono, eccoli qui che vi son venuti incontro.

PETRUCCIO: Ma, birbanti, e andate a prendere il pranzo. (I Domestici escono) (Cantando) Dov'è la vita che menavo un tempo... Dove son quei... Siedi, Càtera, e siate la benvenuta qui. Uff, uff, uff, uff!

(Rientrano i Servi con la cena) Finalmente! Be' adesso, cara e dolce Càtera, state su allegra! Toglietemi i calzari, birbe! Ebbene manigoldi? (Canta)

C'era un frate cappuccino Che mentre andava pel suo cammino...

Via, birbante, che mi storci il piede. To' acchiappa questo, e vedi di cavar meglio l'altro. (Lo batte) Su, su, allegra, Càtera. Ehi, un po' di acqua qui! Dov'è Troilo, il mio cane spagnolo? Qua, te, canaglia, va' a dire a mio cugino Ferdinando che venga qua. E' uno, Càtera, che voi avete da baciare, a farne la conoscenza. Dove son le mie pianelle?

Posso avere un po' d'acqua? (Entra un Servo con dell'acqua) Qua, Càtera, lavatevi, e salute a voi di tutto cuore. Ma tu, figlio d'una bagascia, me la lasci cadere?

 

(Colpisce il Servo che ha lasciato cadere la mesciroba)

 

CATERINA: Abbiate pazienza, vi prego, non l'ha fatto apposta.

PETRUCCIO: Figlio di cagna, testa di scarafaggio, orecchione! Qua, Càtera, sedete. Lo so che avete grande appetito. Il "benedicite" volete dirlo voi, dolce Càtera, o devo dirlo io? Che è questo?

Montone?

PRIMO DOMESTICO: Sì.

PETRUCCIO: Chi lo ha portato?

PIETRO: Io.

PETRUCCIO: E' bruciato: e così è tutto il resto. Che razza di cani! E dov'è quel furfante del cuoco? E come ardite voi, bricconi, di portarmi di questa roba dalla dispensa? e servirmela, che non mi piace? Su, su, ripigliatela, i piatti, le tazze e tutto! (Getta via le vivande e il resto pel palcoscenico) Balordi, zucconi, marrani screanzati! Che borbottate? Adesso ve la do io!

CATERINA: Vi prego, marito, non v'inquietate in questo modo. La carne era buona se vi foste accontentato.

PETRUCCIO: Ti dico, Càtera, ch'era secca bruciata: e a me è espressamente proibito toccarne di simile, perché genera la collera e produce la rabbia, e poiché ambedue siamo di natura collerica, meglio sarebbe che digiunassimo piuttosto che assaggiar di quella carne stracotta. Abbi pazienza, domani avremo di meglio, ma per stasera digiuniamo in compagnia. Vieni, ti vo' portare nella tua camera nuziale. (Escono)

 

(Rientrano i Servi da varie parti)

 

NATANIELE: Pietro, hai mai visto una cosa simile?

PIETRO: Egli l'ammazza con il suo stesso umore.

 

(Rientra CURTIS)

 

GRUMIO: Dov'è?

CURTIS: In camera di lei che le fa una predica sulla continenza e inveisce e bestemmia e tempesta, tanto che la poveretta non sa come contenersi, né come guardare o parlare, e resta là seduta come una svegliata di soprassalto da un sonno!... Via! Via! Eccolo che viene...

 

(Escono)

(Rientra PETRUCCIO)

 

PETRUCCIO: Ho così iniziato con politica il mio regno e spero di condurlo a buon fine. La mia falcona è affamata ed ha il ventre vuoto vuoto; e fino a che essa non divenga maniera, non dev'essere impinzata, poiché allora non baderebbe più al suo logoro. Ma ho altri mezzi per ammansire questa selvaggia, per far che torni e conosca il richiamo del suo strozziere: tenerla desta, cioè, come si tengon desti quei falchi che svolazzano e batton l'ali e non vogliono mai ubbidire.

Cibo non ne ha mangiato e non ne mangia per oggi. La notte scorsa non ha chiuso occhio e anche stanotte non dormirà. Ché, come pel cibo, troverò qualche magagna immaginaria nel modo in cui è fatto il letto:

gitterò di qua il guanciale, di là il capezzale e butterò all'aria la coltre e le lenzuola: e in mezzo a tanto parapiglia sosterrò che tutto questo proviene dalla rispettosa sollecitudine che ho per lei. In conclusione dovrà starsene sveglia tutta notte, e se fa tanto di appisolarsi, io mi metterò a inveire e a sbraitare, e la terrò desta col fracasso. E' questo il modo per uccidere una moglie con la dolcezza; e così piegherò il suo strambo o ostinato umore. Che se poi c'è qualcuno che saprebbe meglio domare una bisbetica, me lo faccia sapere, che mi farà una carità

 

 

 

SCENA SECONDA - Padova. Davanti alla casa di Battista

(Entrano TRANIO ed ORTENSIO)

 

TRANIO: E' possibile, Licio, amico mio, che la signora Bianca non pensi a nessun altro che a Lucenzio? V'assicuro, signore, ch'ella assai m'incoraggia.

ORTENSIO: Messere, per confermarvi quanto v'ho detto, state un po' in disparte e notate com'egli le fa lezione.

 

(Entrano BIANCA e LUCENZIO)

 

LUCENZIO: E così, signora, avete tratto qualche profitto da quanto avete letto?

BIANCA: Prima ditemi: che cosa leggete voi, signor maestro?

LUCENZIO: Leggo quello che professo: l'Arte d'amare.

BIANCA: E possiate voi, signore, essere maestro in tal'arte.

LUCENZIO: Finché voi, fanciulla cara, sarete maestra del mio cuore.

ORTENSIO: Camminano lesti, perdio! Ebbene, che ne dite, di grazia, voi che non esitavate a giurare che la vostra padrona Bianca non amava nessuno al mondo così ardentemente come Lucenzio?

TRANIO: O dispettoso amore! Sesso incostante! Ti dico, Licio, la cosa è strabiliante.

ORTENSIO: Ebbene, basta con l'inganno. Io non sono Licio, né sono musico qual sembro, ma uno che spregia vivere in questi panni d'accatto per una fanciulla come lei che lascia un gentiluomo per farsi un idolo di un tal minchione. Sappiate, signore, che il mio nome è Ortensio.

TRANIO: Signor Ortensio, ho udito sovente del vostro grande affetto per Bianca, ma dacché i miei occhi sono stati testimoni della sua incostanza, voglio con voi, se siete contento, ripudiare Bianca e il suo amore per sempre.

ORTENSIO: Guardate come si baciano ed accarezzano! Signor Lucenzio, eccovi la mia mano: qui fermamente fo voto di non mai più corteggiare questa fanciulla, ma di ripudiarla come indegna di tutti i passati omaggi che io le ho follemente tributati.

TRANIO: E io fo qui lo stesso voto senza infingimenti, di non sposarla mai, anche se ella me ne pregasse. Vergogna a lei ! Guardate che indegne moine gli sta facendo!

ORTENSIO: Che l'universo intero, tranne lui, la rinneghi. Quanto a me, per esser più sicuro di mantenere il mio giuramento, voglio sposare prima di tre giorni una ricca vedova che mi ha amato quanto io ho amato questa fiera e sdegnosa caparbia. E così addio, signor Lucenzio; gentilezza e non bella apparenza di donna avrà il mio amore. Prendo congedo da voi, risoluto a mantenere quel che ho giurato.

 

(Esce)

 

TRANIO: Signora Bianca, Dio vi benedica con tutte le grazie che possono toccare ad un amante felice. Eh, vi ho colto sul fatto, gentile donzella; anch'io come Ortensio ripudio il vostro amore.

BIANCA: Tranio, voi scherzate: davvero che ambedue mi avete rinnegata?

TRANIO: Signora sì.

LUCENZIO: E allora eccoci sbarazzati di Licio.

TRANIO: In fede mia egli avrà ora una vedova gagliarda che corteggerà e si sposerà in un giorno.

BIANCA: Buon pro per lui.

TRANIO: Eh, già, e riuscirà a domarla.

BIANCA: Così dice, Tranio.

TRANIO: Parola, egli è andato a scuola di addomesticamento.

BIANCA: Scuola di addomesticamento! O, che c'è un posto simile?

TRANIO: Ma sicuro, signora, e Petruccio ne è il maestro. Lui insegna trucchi matricolati per domare una bisbetica e affascinare la sua lingua ciarliera.

 

(Entra BIONDELLO)

 

BIONDELLO: Oh, padrone, padrone, io sono stato tanto tempo in vedetta, che sono stracco morto! Ma alla fine ho adocchiato uno di quei galantuomini della vecchia stampa che scendeva dal colle e che farà al caso nostro.

TRANIO: Chi è costui, Biondello?

BIONDELLO: Padrone, un mercante o un pedante non saprei dire. Ma d'abito grave, all'andatura e al contegno ha tutta l'aria d'un padre.

LUCENZIO: E che ne facciamo, Tranio?

TRANIO: Per poco ch'egli sia credulo, e beva quanto gli dico, io gli farò assumere di buon grado la parte di Vincenzo, e così potrà offrire a Battista Minola la garanzia richiesta, come se fosse il vero Vincenzo. Portate dentro il vostro amore e poi lasciatemi solo.

 

(Escono Lucenzio e Bianca. Entra un Pedante)

 

PEDANTE: Dio vi salvi, messere!

TRANIO: E voi pure messere. Siete il benvenuto. Proseguite il viaggio, oppure siete giunto alla mèta?

PEDANTE: Signore, alla mèta per una settimana o due, ma poi continuerò il mio cammino fino a Roma, indi a Tripoli, se Dio mi darà vita.

TRANIO: Di che paese siete?

PEDANTE: Di Mantova.

TRANIO: Di Mantova, messere? Canchero! Dio non voglia! E siete venuto a Padova senza temere per la vostra vita?

PEDANTE: Per la mia vita, signore? ma perché mai? Ciò mi sembra strano.

TRANIO: C'è la pena di morte per ogni mantovano che venga a Padova. E non sapete il perché? I vostri vascelli sono sotto sequestro a Venezia e il doge, a cagione di una sua privata contesa col vostro duca, ha bandito e proclamato quest'ordine. E' strano; non fosse che voi siete qui da poco, avreste potuto sentir fare questa proclamazione attorno.

PEDANTE: Ahimè, signore! Peggior guaio per me non si potrebbe dare perché io ho lettere di cambio di Firenze che debbo scontare qui.

TRANIO: Ebbene, signor mio, per usarvi cortesia, questo intendo di fare, e questo io vi consiglio... Ma prima, ditemi, siete mai stato a Pisa?

PEDANTE: Ma certo, signore, l'ho visitata tante volte; Pisa rinomata per i suoi gravi cittadini.

TRANIO: E tra essi conoscete certo Vincenzo?

PEDANTE: Non lo conosco, ma ne ho udito parlare: è un mercante oltremodo facoltoso.

TRANIO: E' mio padre, signore: e se debbo dire il vero, all'aspetto quasi vi assomiglia.

BIONDELLO (a parte): Tanto quanto una mela a un'ostrica: son proprio tutt'uno.

TRANIO: Per salvarvi la vita in questa grave occorrenza, io vi farò dunque un favore per amor suo, e non crediate che sia la peggiore delle vostre fortune questa, di assomigliare al signor Vincenzo. Voi assumerete qui il suo nome e il suo credito, e sarete amichevolmente alloggiato in casa mia. Ma badate di far la parte quanto meglio potete! E' inteso, signor mio? E così resterete da me finché non abbiate terminati i vostri affari in città. Se questa è cosa che vi fa piacere, signore, aggraditela.

PEDANTE: Certo che l'aggradisco, messere, e vi avrò sempre per il protettore della mia vita e della mia libertà.

TRANIO: Allora venite con me per mandar la cosa ad effetto. A proposito, ho da dirvi che mio padre è atteso qui di giorno in giorno per dare garanzia di una dote nel contratto di nozze tra me e una figlia qui di Battista. Ma di tutte queste circostanze vi metterò a parte. Venite con me che vi vestirò come vi si conviene.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Una stanza nella casa di Petruccio

(Entrano CATERINA e GRUMIO)

 

GRUMIO: Eh no, no, veramente: sulla mia vita non oso!

CATERINA: Più egli mi fa soffrire e più dà fuori il suo dispetto. E che? m'ha egli sposata per affamarmi? Quando gli accattoni vengono all'uscio di mio padre, si dà loro subito l'elemosina, se la chiedono:

altrimenti trovano carità altrove. Ma io che non ho mai appreso a supplicare, e non ho avuto mai bisogno di supplicare, sono morta di fame ed ho il capogiro per l'insonnia. Egli mi tien desta con le bestemmie, e mi nutre coi berci. E quel che mi fa stizza più di tutte queste privazioni è che egli fa questo sotto nome di perfetto amore.

Come se a mangiare e a dormire arrischiassi una grande malattia od anche una morte istantanea. Ti prego, va' a prendermi un po' di cibo, non importa che cosa sia, purché non sia malsano.

GRUMIO: Che direste di un piede di vitello?

CATERINA: Molto buono! Ti prego di farmene avere.

GRUMIO: Temo che sia una vivanda troppo collerica. Che direste di una trippa ben grassa e arrostita a puntino?

CATERINA: Molto mi piace; buon Grumio, va' a prendermela.

GRUMIO: Ma, non so, temo che anche questo sia cibo collerico. Che ne direste invece di un pezzo di manzo con senape?

CATERINA: E' un piatto che io adoro.

GRUMIO: Eh, la senape è un po' troppo riscaldativa.

CATERINA: Bene, allora il manzo senza la senape.

GRUMIO: No, questo non lo farò: avrete la senape; altrimenti non avrete manzo da Grumio.

CATERINA: Allora o tutte e due, o una sola cosa, o qualunque cosa tu voglia.

GRUMIO: E sia senape, allora, senza il manzo.

CATERINA (picchiandolo): Vattene, vattene furfante perfido e beffardo, che vorresti darmi da mangiare i nomi delle vivande! Malanno a te e a tutta la combriccola di voi che trionfate della mia sfortuna. Vattene, scompari, ti dico!

 

(Entrano PETRUCCIO e ORTENSIO con vivande)

 

PETRUCCIO: Come sta la mia Càtera? Perché, dolcezza, così mogia?

ORTENSIO: Signora, come vi sentite?

CATERINA: In fede mia, abbattuta quanto è possibile.

PETRUCCIO: Sta' su allegra, guardami gaiamente. Ecco qua, amore. Tu vedi quanta cura io mi prenda di te: t'ho ammannito io stesso il cibo, e te lo porto. Sono sicuro, dolce Càtera, che questa gentilezza merita un ringraziamento. Che? non una parola? Ma allora non ti piace: e tutto il daffare che mi son dato non ha giovato a niente. Qua, porta via questo piatto.

CATERINA: Oh, vi prego, lasciatelo.

PETRUCCIO: Anche per il più umile servigio si dice "grazie". E così voglio sia per il mio prima che voi tocchiate il cibo.

CATERINA: Vi ringrazio, signore.

ORTENSIO: Signor Petruccio, eh via, siete da biasimare. Su, madonna Càtera, io vi terrò compagnia.

PETRUCCIO (a parte): Mangia tutto, Ortensio se mi vuoi bene. Buon pro faccia al tuo cuore gentile! Càtera mangia alla svelta; tra poco, ben mio dolce di zucchero, ritorneremo alla casa di tuo padre per sfoggiarla alla pari dei più grandi, con vesti e cappelli di seta e anelli d'oro, e collaretti e manichetti e faldigie e ammanniccoli; e sciarpe e ventagli e doppia muta di fronzoli, braccialetti d'ambra e collane, e simili cianciafruscole. Bene, hai tu pranzato? Il sarto attende il piacer tuo per addobbarti il corpo dei suoi fruscianti tesori.

 

(Entra il Sarto)

 

Venite qua, sarto, fateci vedere codesti ornamenti, spiegate la gonna.

 

(Entra il Merciaio)

 

Che nuove ci portate brav'uomo?

MERCIAIO: Ecco il cappello che Vostro Onore mi ha ordinato.

PETRUCCIO: Ma via, questo è stato modellato su una scodella. Una scodella di velluto! Oibò, oibò! ma è turpe e sconcio! Sembra una conchiglia, un guscio di noce, una sfogliatella, una cianciafruscola, un balocco, una cuma da bimbo. Via, via questa roba. Qua fatemene vedere di più grandi.

CATERINA: Ma io non ne voglio di più grandi: questo è di moda e le gentildonne portano cappelli come questo.

PETRUCCIO: Quando sarai gentile ne avrai uno anche te. E fino allora no.

ORTENSIO (a parte): Non tanto presto, allora!

CATERINA: Eh signore, spero che mi sarà concesso di parlare, e parlare io voglio! Non son più ragazza né bambina. Gente meglio di voi m'ha lasciata dir la mia e se voi non potete permettermelo, turatevi le orecchie. La mia lingua vuol gridare la rabbia del mio cuore, se no il cuore scoppierà a tenervela celata. Piuttosto che ciò avvenga, voglio esser libera all'estremo di dire tutto quel che mi piace.

PETRUCCIO: Brava, tu dici il vero, è un ignobile cappello, una crostata, un gingillo, una torta di seta: ti amo tanto a vedere che non ti piace.

CATERINA: Che tu mi ami o no, quel cappello mi piace. Quello voglio o nessun altro.

 

(Esce il Merciaio)

 

PETRUCCIO: La tua veste? Ah, sì, è vero. Qua, sarto, faccela vedere.

Mercé, buon Dio, che razza di carnevalata è mai questa? E questa che sarebbe? una manica? Ma è un cannoncino. Che? su e giù, frappata come una torta di mele? E spacchi e spicchi e frastagli e buchi e sdruci, come un bruciaprofumi nella bottega di un barbiere. Sarto, in nome del diavolo, come chiami tu codesto?

ORTENSIO (a parte): Temo che non le toccherà né cappello né veste.

SARTO: Ma voi mi ordinaste di farla bene, con ogni cura, conforme alla moda e al gusto del giorno.

PETRUCCIO: Eh, sì, diamine! Ma se ben vi ricordate, non v'ho mica ordinato di sciuparla alla moda. Filate a casa, saltando rigagnolo su rigagnolo, ché me come avventore potete saltarmi d'or innanzi. Non vo' niente di tutto questo. Via di qua. E fatene ciò che volete.

CATERINA: Ma io non ho mai veduta veste di miglior foggia, più galante, più gustosa, più commendevole: sembra che voi vogliate far di me un fantoccio.

PETRUCCIO: Già, proprio così: lui vuol far di te un fantoccio.

SARTO: Ella dice che è Vostra Signoria a voler far di lei un fantoccio.

PETRUCCIO: O mostruosa impudenza! Tu menti ,tu filo, ditale, metro trequarti, mezzometro, quarto, decimetro, tu pulce, lèndine, tu grillo d'inverno! Un gomitolo di refe che viene ad insultarmi a casa mia!

Via, via, straccio, taglio, scampolo: o ti misuro le costole col tuo metro, per farti riflettere a chiacchierare tutto il resto della vita!

Te lo ripeto, io, hai guastata la sua veste.

SARTO: Vostra Signoria si sbaglia: la veste è fatta secondo le prescrizioni che il mio padrone aveva ricevute. Fu Grumio a ordinarci come si doveva fare.

GRUMIO: Io gli ho data la stoffa e non gli ordini.

SARTO: Ma come volevate che fosse fatta?

GRUMIO: Diamine messere, con ago e filo.

SARTO: Ma ci avete ben chiesto che fosse tagliata.

GRUMIO: Tu hai fatto parecchie giunte.

SARTO: Sì, è vero.

GRUMIO: Bene, non giuntate ora me. Hai misurati molti uomini: non misurarti ora con me. Io non voglio essere né giuntato né misurato. Ti dico che al tuo padrone ordinai di ritagliar la veste ma non di tagliarla a pezzi. Ergo, tu menti.

SARTO: Ebbene, ecco qui in testimonio la nota della foggia.

PETRUCCIO: Leggila.

GRUMIO: La nota mente per la gola se lui sostiene che io ho detto così.

SARTO (legge): "In primis", una veste sciolta".

GRUMIO: Padrone, se io ho mai detto una "veste sciolta", cucimi nella sua sottana, e battimi a morte con un rocchetto di fil bruno. Dissi soltanto una veste.

PETRUCCIO: Continua.

SARTO (legge): "Con un piccolo bavero rotondo...".

GRUMIO: Confesso il bavero.

SARTO: "Una manica a sgonfio".

GRUMIO: Confesso un paio di maniche.

SARTO: "Le maniche elegantemente frappate".

PETRUCCIO: Ed è qui la bricconata.

GRUMIO: Errore del biglietto, messere, errore del biglietto. Io ordinai che le maniche fossero tagliate poi ricucite. E questo te lo proverò, foss'anche il tuo mignolo armato di ditale.

SARTO: Quello ch'io dico è la verità, e ben te la farei comprendere, se tu fossi in luogo dove io vorrei.

GRUMIO: Son pronto: prendi l'appunto, dammi il tuo metro e non mi risparmiare.

ORTENSIO: Eh, buon Dio, Grumio, ma allora le armi non sono eguali.

PETRUCCIO: In ogni caso, messere, la veste non fa per me.

GRUMIO: Giusto, signore, infatti è per la mia padrona.

PETRUCCIO: Portala via, che potrà servire pel tuo padrone.

GRUMIO: No, furfante, per la tua vita. Portarti via la veste della mia padrona perché il tuo padrone ne abbia a far ciò che vuole!

PETRUCCIO: Ebbene, che idea è questa, Grumio?

GRUMIO: Un'idea che va più in là di quanto immaginate. Ch'egli si riprenda la veste della mia signora perché possa servire al suo padrone! Oibò, oibò!

PETRUCCIO (a parte): Ortensio, ditegli che lo faremo pagare. Porta via, vattene e non fiatare!

ORTENSIO (a parte): Sarto, domani ti pagherò per tuo lavoro e non avertela a male per le sue brusche parole. Vattene, ti dico. E raccomandami al tuo padrone.

 

(Esce il Sarto)

 

PETRUCCIO: Mia Càtera, vieni via: ci recheremo da tuo padre, pur in questo semplice ed onesto abbigliamento. Le nostre vesti son povere, ma le nostre borse sono in gamba. E' lo spirito che fa ricco il corpo, e come il sole dardeggia attraverso le più nere nubi, l'onore spunta sotto le vesti più meschine. E' forse la ghiandaia più preziosa dell'allodola perché ha penne più belle? E mettiamo noi la serpe al di sopra dell'anguilla perché ci rallegra l'occhio con la sua pelle variopinta? No, mia Càtera, né sei tu men bella per questo tuo povero arnese e queste tue umili vesti. Se tu pensi che questa sia vergogna, ebbene, danne la colpa a me e intanto sta' allegra: noi partiremo subito di qui per far festa e darci spasso nella casa di tuo padre.

Va' a chiamare i miei uomini e andiamo difilato da lui: che portino i nostri cavalli al termine del viottolone. Andremo fin là a piedi, lì monteremo in sella. Vediamo, penso che ora son le sette circa, sicché possiam benissimo esser là per l'ora di pranzo.

CATERINA: Oso assicurarvi, signore, che son quasi le due, e che sarà ora di cena prima che arriviamo colà.

PETRUCCIO: Saran le sette prima che io monti a cavallo. Ma guardate un po', qualunque cosa io dica o faccia o pensi di fare, sempre mi contraddite! Signori, lasciate stare. Oggi non partirò; avanti ch'io parta sarà l'ora ch'io voglio che sia.

ORTENSIO: Bene, e così questo bravaccio vorrà comandare al sole.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Padova. Davanti alla casa di Battista

(Entrano TRANIO e il Pedante travestito da Vincenzo)

 

TRANIO: Ecco la casa, signore. Volete che chiami ?

PEDANTE: Eh, certo, beninteso. S'io non m'inganno, il signor Battista può ben ricordarsi di me: circa vent'anni fa, a Genova, noi abbiamo alloggiato insieme al "Pegaso".

TRANIO: Benone. Ad ogni modo, comportatevi con l'austerità che si addice a un padre.

PEDANTE: Ve lo prometto.

 

(Entra BIONDELLO)

 

Ma ecco il vostro servo. Sarebbe bene ammaestrarlo nella cosa.

TRANIO: Non temete per lui. Biondellaccio, attento dunque a fare il vostro dovere, immaginatevi che questo sia il vero Vincenzo.

BIONDELLO: Oh, non temete per me.

TRANIO: Hai tu fatta l'imbasciata a Battista?

BIONDELLO: Gli ho riferito che vostro padre era a Venezia e che voi lo attendevate a Padova in giornata.

TRANIO: Sei un galantuomo; tieni da bere. Ed ecco Battista. Prendete un'aria per la quale, messere.

 

(Entrano BATTISTA e LUCENZIO)

 

Signor Battista, il benvenuto a voi! (Al Pedante) Ecco, signore, il gentiluomo di cui v'ho parlato. Ed ora siatemi buon padre e concedetemi Bianca in cambio dei miei beni.

PEDANTE: Eh, adagio, figlio mio! Scusatemi, signore, essendo io venuto a Padova a raccogliere certi crediti, mio figlio Lucenzio mi ha riferito d'un grave affare d'amore con la vostra figliuola, sicché, attese le ottime referenze che ho avute di voi, atteso l'amore ch'egli porta a vostra figlia, e lei a lui: per non farlo attendere troppo oltre, da buon padre, io vi dichiaro che son contento abbia a fidanzarsi: e se la cosa piace a voi quanto a me, previo qualche accordo, mi troverete pronto e parimenti disposto a consentire ch'ella gli sia concessa. Io ho sentito parlar tanto bene di voi, signor Battista, che non sto a sottilizzare con voi.

BATTISTA: Signore, perdonatemi quanto son per dirvi. La vostra franchezza e la vostra concisione mi piacciono oltremodo. E' vero, a meno ch'essi sappiano simulare profondamente il loro affetto, che vostro figlio Lucenzio è innamorato della mia figliuola, ed essa di lui. E perciò, basta che diciate che lo tratterete da buon padre e che passerete alla mia figliuola una sopraddote sufficiente, il matrimonio è concluso e tutto va per il meglio. Vostro figlio sposerà la mia figliuola col mio consenso.

TRANIO: Grazie, signore. Dove vi par meglio, dunque, che noi ci rechiamo per firmare l'atto di fidanzamento e pigliare tal sicurtà che tenga con l'accordo d'ambe le parti?

BATTISTA: Non in casa mia, Lucenzio, perché voi sapete che anche i muri hanno orecchi ed io ho molti servi: oltreché il vecchio Gremio se ne sta sempre ad origliare, e potremmo esser disturbati.

TRANIO: Allora a casa mia se non vi spiace. Là è alloggiato mio padre e là stasera potremo condurre a termine la faccenda privatamente e appuntino. Mandate questo vostro servo a prendere la vostra figliuola, il mio paggio andrà subito in cerca del notaio. Il guaio è questo, che preso così alla sprovvista, rischierete di aver un ben gramo e misero convito.

BATTISTA: La proposta mi va. Correte a casa, Cambio, e dite a Bianca che si prepari sull'istante. E, se volete, raccontatele pure ciò ch'è avvenuto, che, cioè, il padre di Lucenzio è giunto a Padova e ch'ella probabilmente sposerà Lucenzio.

BIONDELLO: Prego di tutto cuore gli dèi che così avvenga.

TRANIO: Non scherzare con gli dèi, e fila! (Esce Biondello) Posso farvi strada, signor Battista? Siate il benvenuto! Rischierete, è vero, di non aver che un piatto solo, ma venite, messere, ci rifaremo poi a Pisa.

BATTISTA: Vi seguo. (Escono Tranio, il Pedante e Battista)

 

(Rientra BIONDELLO)

 

BIONDELLO (a Lucenzio che sta andandosene): Cambio!

LUCENZIO: Che hai da dirmi, Biondello?

BIONDELLO: Avete visto il mio padrone ammiccare e sorridervi?

LUCENZIO: Ebbene, Biondello?

BIONDELLO: Ebbene, niente; ma egli m'ha lasciato qui indietro per esporvi il significato o la morale dei suoi segni e dei suoi gesti.

LUCENZIO: Fuori la morale, ti prego.

BIONDELLO: Ecco qua. Battista è a posto, ora che ha discorso col padre mentito d'un figlio mentitore.

LUCENZIO: E dopo?

BIONDELLO: Siete voi che dovete condurre sua figlia a cena.

LUCENZIO: E poi?

BIONDELLO: Il vecchio prete della chiesa di San Luca è a vostra disposizione, a tutte l'ore.

LUCENZIO: E che significa tutto questo?

BIONDELLO: Non so altro che questo: nel frattempo ch'essi sono intenti a scambiarsi false garanzie, voi garantitevi della ragazza "cum privilegio ad imprimendum solum". Correte alla chiesa, prendete il prete, il chierico e qualche testimonio abbastanza onesto. Se non è questo a cui voi mirate, non ho altro da dirvi: ma date un addio a Bianca, e buonanotte ai suonatori.

LUCENZIO: Ascoltatemi, Biondello.

BIONDELLO: No, non ho tempo. Conosco una ragazza che si sposò in un pomeriggio recandosi in giardino a coglier del prezzemolo per il ripieno d'un coniglio, e così potrete fare voi, messere, e con ciò, addio messere. Il mio padrone m'ha ordinato di recarmi a San Luca ad avvertire il curato che si tenga pronto per quando giungerete voi con la vostra appendice.

 

(Esce)

 

LUCENZIO: Lo posso e lo voglio se lei è contenta. Ma lei sarà lieta, perché dunque debbo esitare? Accada quel che si voglia, mi sbrigherò presto con lei. L'andrà male per Cambio se tornerà senza di lei.

 

 

 

SCENA QUINTA - Una strada pubblica

(Entrano PETRUCCIO, CATERINA, ORTENSIO e Servi)

 

PETRUCCIO: Avanti dunque, in nome di Dio; ancora una volta, da nostro padre. Buon Dio, come è splendente e serena la luna!

CATERINA: La luna? Ma è il sole. Non è mica chiaro di luna questo.

PETRUCCIO: E io dico che è la luna che splende così.

CATERINA: E io so ch'è il sole che splende così.

PETRUCCIO: Orbene, pel figlio di mia madre che sarei poi io, sarà la luna o una stella o quel che mi piace, prima che io faccia un altro passo verso la casa di vostro padre. Suvvia, si riconducano indietro i cavalli. Sempre contraddetto e contraddetto, nient'altro che contraddetto.

ORTENSIO: Dite come vuole lui altrimenti non ci moviamo più.

CATERINA: Poiché siam giunti fin qui, avanti, vi prego, e sia luna o sole o ciò che più vi piace che sia. E se vi piace chiamarlo un moccolo, d'ora innanzi fo voto che tale sarà per me.

PETRUCCIO: Io dico che è la luna.

CATERINA: Ma sì, è la luna.

PETRUCCIO: No, tu menti: è il sole benedetto.

CATERINA: Allora, Dio sia benedetto, è il sole benedetto. Ma sole non sarà se voi asserite che non è e la luna cambia al pari del vostro umore. Sarà ciò che più vi piacerà di chiamarlo; e tale sarà per Caterina.

ORTENSIO: Tira innanzi, Petruccio, la battaglia è vinta.

PETRUCCIO: Bene, avanti, avanti ! Così ha da correr la boccia e non contrastare disgraziatamente all'inclinazione. Ma piano, vien gente.

 

(Entra VINCENZO)

 

(A Vincenzo) Buongiorno, gentile fanciulla! Dove siete diretta? Dimmi, mia dolce Caterina, e dimmi il vero, hai tu mai veduta una gentildonna più fresca di questa? Tal guerra di bianchi e rossi sulle sue guance!

E quali astri tempestano il cielo con tanta beltà, come quel par d'occhi s'addicono a quel volto divino? Graziosa adorabil fanciulla, ancora una volta il buongiorno a te. Mia dolce Càtera, abbracciala in omaggio a questa sua bellezza.

ORTENSIO: Lo farà ammattire a trasformarlo in donna.

CATERINA: Giovine vergine in boccio, bella fresca soave, dove sei tu avviata? E dov'è la tua dimora? Beati i genitori d'una bimba così bella, e più felice l'uomo a cui le favorevoli stelle destinano te come graziosa compagna di letto!

PETRUCCIO: Ma che dici, Càtera? Spero che non sarai mica pazza. Ma questo è uomo vecchio, grinzoso, sfiorito, vizzo, e non una fanciulla, come dici.

CATERINA: Oh perdonatemi, vecchio padre, l'errore dei miei occhi, che sono stati talmente abbarbagliati dal sole che ogni cosa che guardo sembra verde. Ma ora lo vedo bene che sei un venerabil vegliardo. Oh perdono, ti prego, pel mio stolto errore.

PETRUCCIO: Perdonatela, buon nonnino, e insieme dicci dove vai: se percorri il nostro stesso cammino, avremo gran piacere della tua compagnia.

VINCENZO: Mio bel signore e voi, mia gaia dama, che m'avete tanto fatto strabiliare col vostro strano incontro, io mi chiamo Vincenzo e abito in Pisa: e son diretto a Padova per trovare un mio figliuolo che da gran tempo non vedo.

PETRUCCIO: E come si chiama?

VINCENZO: Lucenzio, gentil messere.

PETRUCCIO: Ma che fortunato incontro! e più fortunato ancora per tuo figlio. Ed ora la legge quanto il rispetto per la tua età veneranda mi autorizzano a chiamarti mio amato padre. La sorella di mia moglie, questa gentildonna qui, e vostro figlio oggi sono sposati. Non meravigliarti, né affliggerti. Essa è ragazza stimata, ha ricca dote ed è di nascita onorevole e per le sue qualità degna di andare sposa a qualsiasi nobile gentiluomo. Ch'io abbracci il vecchio Vincenzo, poi mettiamoci in cammino per andare a trovare il tuo bravo figliuolo che sarà assai lieto del tuo arrivo.

VINCENZO: Ma è la verità? oppure vi piglia piacere, da viaggiatori allegri, di far uno scherzo alla gente che incontrate?

ORTENSIO: Ti assicuro, brav'uomo, è la verità.

PETRUCCIO: Suvvia in cammino e vedrai se non ho detto il vero. Ti ha reso sospettoso la nostra gaiezza dapprincipio.

 
(Escono tutti tranne Ortensio)

 

ORTENSIO: Bene, bene, Petruccio, questo mi dà spirito. A me la mia vedova! E se essa mi si mostrerà restia, tu hai insegnato a Ortensio a esser caparbio.

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Padova. Davanti alla casa di Lucenzio

(GREMIO solo. Entrano dal fondo BIONDELLO, LUCENZIO e BIANCA)

 

BIONDINO: Fate presto e con discrezione, messere, ché il curato è pronto.

LUCENZIO: Volo, Biondello. Ma adesso lasciaci, ché a casa si potrebbe aver bisogno di te.

BIONDELLO: Non ancora, in fede mia: vorrò veder la chiesa chiudersi dietro di voi poi tornerò dal mio padrone più svelto che potrò.

 

(Escono Lucenzio, Bianca e Biondello)

 

GREMIO: Strano che Cambio non sia giunto ancora.

 

(Entrano PETRUCCIO, CATERINA, VINCENZO, GRUMIO e Famigli)

 

PETRUCCIO: Ecco la porta, signore: questa è la casa di Lucenzio.

Quella di mio padre è più oltre, verso il mercato: è la ch'io debbo andare, e qui vi lascio, signore.

VINCENZO: Voi non dovete farlo prima che abbiate bevuto un bicchiere in compagnia. Credo che potrò farvi bene accogliere qui, e, con ogni probabilità, ci sarà qualche rinfresco.

 

(Picchia alla porta)

 

GREMIO: Sono in faccende là dentro: meglio bussiate più forte.

 

(Il Pedante appare alla finestra)

 

PEDANTE: Chi è che picchia come volesse sfondare la porta?

VINCENZO: Il signor Lucenzio è costà dentro, messere?

PEDANTE: Sì, c'è, ma non vuol parlare con nessuno.

VINCENZO: Anche se uno gli porta cento o duecento sterline per farlo star allegro?

PEDANTE: Tenetevi pure le vostre cento sterline: non gli occorrerà nulla finché vivrò io.

PETRUCCIO: Non ve lo dicevo io che vostro figlio era molto amato a Padova? Ascoltatemi, signore, per tagliar corto a ogni preambolo, vi prego di dire al signor Lucenzio che suo padre è giunto da Pisa, ed è qui alla porta e vuole parlargli.

PEDANTE: Tu menti. Suo padre è giunto da Padova ed è qui che guarda dalla finestra.

VINCENZO: Sei tu suo padre?

PEDANTE: Già, messere: così dice sua madre, se posso crederle.

PETRUCCIO (a Vincenzo): Ehi, ehi, signor mio, è una bricconata bell'e buona usurpare il nome di un altro.

PEDANTE: Impadronitevi di questo furfante! Sotto le mie spoglie sospetto che voglia truffare qualcuno in questa città.

 

(Rientra BIONDELLO)

 

BIONDELLO: Li ho veduti in chiesa insieme. Che Iddio li meni a buon porto. Ma chi è qui? Il mio vecchio padrone Vincenzo! Siam rovinati, annichiliti!

VINCENZO (scorgendo Biondello): Venite qua, pendaglio da forca.

BIONDELLO: Spero di poter fare il comodo mio, signore.

VINCENZO: Venite qua, canaglia. Che mi avreste dimenticato?

BIONDELLO: Dimenticato? Ma no, signore. Non potrei dimenticarvi dal momento che non v'ho visto mai prima in tutta la mia vita VINCENZO: Come, ribaldo matricolato, non hai mai visto Vincenzo, il padre del tuo padrone?

BIONDELLO: Chi? il mio venerabile vecchio padrone? ma sì, diamine:

vedilo lassù che guarda fuori dalla finestra.

VINCENZO: Ah, così? (Picchia Biondello)

BIONDELLO: Aiuto, aiuto, aiuto! C'è un pazzo che vuole assassinarmi!

PEDANTE: Aiuto, figliuolo! Aiuto, signor Battista!

 

(Rientra)

 

PETRUCCIO: Ti prego, Càtera, stiamocene in disparte e osserviamo la fine di questa baruffa.

 

(Si ritraggono. Dalla porta in basso il Pedante rientra in scena seguito da TRANIO, BATTISTA e Servi)

 

TRANIO: E chi siete voi, messere, che vi permettete di battere il mio servo?

VINCENZO: Chi son io, messere? Piuttosto, chi siete voi, messere? O dèi immortali! O bel pezzo di furfante! Un giustacuore di seta! Brache di velluto! Cappa scarlatta! Un cappello a pandizucchero! Oh, io son rovinato! rovinato! Mentre io faccio il buon massaio a casa mia, mio figlio e il mio servo mi dilapidano tutto all'Università.

TRANIO: Come? che vi piglia?

BATTISTA: E' forse un lunatico quell'uomo?

TRANIO: Voi ci sembrate all'abito un vecchio e assennato gentiluomo, ma le vostre parole vi danno a divedere per un mentecatto. Ebbene, signor mio, che vi riguarda se porto indosso perle e oro? Ringrazio il mio buon padre che sono in grado di poterlo fare.

VINCENZO: Tuo padre? O ribaldo! Tuo padre è velaio a Bergamo.

BATTISTA: Vi sbagliate, signore, vi sbagliate. Di grazia, come credete che si chiami costui?

VINCENZO: Come si chiama? Come se io non sapessi il suo nome. L'ho allevato io stesso fin dall'età di tre anni e il suo nome è Tranio.

PEDANTE: Ah, basta, basta, somaro di tre cotte! Il suo nome è Lucenzio ed è mio figliuolo unico, ed erede delle terre che possiedo io, il signor Vincenzo!

VINCENZO: Lucenzio! Oh, egli ha ucciso il suo padrone! Impadronitevi di lui, ve l'ordino in nome del Doge. Oh, figlio mio, figlio mio!

Dimmi tu, briccone, dov'è mio figlio Lucenzio?

TRANIO: Chiamate un birro.

 

(Entra uno con un Birro)

 

Conducete questo pazzo marrano in prigione. Battista, padre mio, vogliate badare a che appaia dinanzi alla corte.

VINCENZO: Condurmi in prigione?

GREMIO: Fermati, uffiziale, non dev'essere condotto in prigione.

BATTISTA: Non interloquite, signor Gremio. Io vi dico che in prigione ci andrà.

GREMIO: State attento, signor Battista, di non lasciarvi turlupinare in questa faccenda. Giurerei che costui è il vero signor Vincenzo.

PEDANTE: Giuralo, se osi.

GREMIO: Giurarlo? No, non oso.

TRANIO: Allora faresti meglio a dire ch'io non sono Lucenzio.

GREMIO: Sì, io so che sei il signor Lucenzio.

BATTISTA: Via questo vecchio barbogio. Lo si cacci in prigione.

VINCENZO: Ecco come si possono malmenare e insultare gli stranieri!

Mostro di furfanteria!

 

(Rientra BIONDELLO con LUCENZIO e BIANCA)

BIONDELLO: Oh, noi siamo rovinati! E, guardate, eccolo là.

Rinnegatelo, giurate di non conoscerlo, o siam tutti bell'e fritti.

LUCENZIO: Perdono, caro padre. (S'inginocchia)

VINCENZO: Vivo il mio caro figlio?

 

(Biondello, Tranio e il Pedante se la battono)

 

BIANCA: Perdono, diletto padre.

BATTISTA: In che m'hai tu offeso? Dov'è Lucenzio?

LUCENZIO: Lucenzio son io: il figlio vero del vero Vincenzo, che ha fatto mia tua figlia sposandola, mentre falsi suppositi ti gittavan la polvere negli occhi.

GREMIO: Complotto manifesto per ingannarci tutti quanti.

VINCENZO: Dov'è questo furfante dannato di Tranio che ha osato giuntarmi e oltraggiarmi così ?

BATTISTA: Ma allora, dite un po', costui non è il mio Cambio?

BIANCA: Cambio s'è cambiato in Lucenzio.

LUCENZIO: E' l'amore che ha operato codesti miracoli. Per l'amore di Bianca io mutai il mio stato con quello di Tranio mentre lui in città assumeva il mio aspetto. E felicemente sono arrivato alfine nel desiato porto della mia beatitudine. Ciò che Tranio ha fatto, sono io che l'ho spinto a farlo. E perciò, dolce padre, perdona a lui per amor mio.

VINCENZO: Voglio tagliar via il naso a quella canaglia che voleva mandarmi in galera.

BATTISTA: Ma ascoltate, signore, voi avete sposato mia figlia senza aver chiesto il mio consenso?

VINCENZO: Non temete, Battista, vi daremo soddisfazione, andate, ma adesso voglio entrar là dentro per vendicarmi di questa scelleraggine.

 

(Esce)

 

BATTISTA: Ed io per arrivare in fondo a questa bricconeria. (Esce)

LUCENZIO: Non impallidire, Bianca, tuo padre non ti terrà il broncio.

 

(Escono Bianca e Lucenzio)

 

GREMIO: Il mio pasticcio non è arrivato a cottura: ma io entrerò con gli altri. Perduta ogni speranza, non mi rimane che il mio posto al festino.

 

(Esce)

 

CATERINA: E noi seguiamoli, marito, per veder la fine di questa baruffa.

PETRUCCIO: Prima baciami, mia Càtera, poi andiamo.

CATERINA: Come, nel mezzo della strada?

PETRUCCIO: E che, ti vergogni forse di me?

CATERINA: No, di te, Dio non voglia. Ma di darti un bacio.

PETRUCCIO: Bene, ritorniamo a casa. (A Grumio) Su, giovanotto, andiamocene.

CATERINA: Ma no: un bacio te lo voglio dare; via, restiamo, ti prego, amor mio.

PETRUCCIO: Non è un incanto? Vieni, mia dolce Càtera! Meglio una volta che mai, perché non è mai troppo tardi.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Padova. Nella casa di Lucenzio

(Entrano BATTISTA, VINCENZO, GREMIO, il Pedante, LUCENZIO, BIANCA, PETRUCCIO, CATERINA, ORTENSIO, la Vedova, TRANIO, BIONDELLO e GRUMIO; TRANIO e i Domestici portano un rinfresco)

 

LUCENZIO: Finalmente, dopo un bel po', le nostre note stridenti s'accordano e il tempo è giunto in cui, cessata la furia della guerra, possiamo ridercene dei mali scampati e dei pericoli trascorsi. Mia bella Bianca, da' il benvenuto a mio padre mentre con eguale gentilezza io accolgo il tuo. Fratello Petruccio, sorella Caterina, e tu, Ortensio, con la tua amabil vedova, siate benvenuti nella mia casa e fate del vostro meglio per godere il rinfresco. Questa mia piccola cena serve per dare il contentino al vostro stomaco dopo il nostro grande ed eccellente banchetto. Vi prego, a tavola! che stavolta ci sediamo tanto per chiacchierare che per mangiare.

PETRUCCIO: E sempre sedere e sedere, e mangiare e mangiare.

BATTISTA: E' Padova che offre queste cortesie, figlio mio.

PETRUCCIO: Padova non offre che ciò ch'è cortese.

ORTENSIO: Vorrei che per noi due questo fosse vero.

PETRUCCIO: Sulla mia vita, Ortensio dice questo perché paventa la sua vedova.

VEDOVA: E allora non vi fidate mai di me, se mi spavento.

PETRUCCIO: Siete assai sensata, ma non avete inteso il senso della mia frase. Intendo dire che Ortensio ha spavento di voi.

VEDOVA: Chi ha il capogiro crede che sia la terra che gira.

PETRUCCIO: Molto ben rigirato!

CATERINA: Signora, che intendete dire con questo?

VEDOVA: Così egli mi ha fatto concepire.

PETRUCCIO: Concepisce per me?. Come piace questo a Ortensio?

ORTENSIO: La vedova intende dire che così ella concepisce la sua idea.

PETRUCCIO: Molto ben rimediato. E per questo dategli un bacio, buona vedova.

CATERINA: "Chi ha il capogiro crede che sia la terra che gira". Vi prego, che volevate dire con questo?

VEDOVA: Vostro marito, tormentato da una bisbetica, misura sul suo affanno il dolore del mio. Ed ora voi sapete il mio avviso.

CATERINA: Un avviso assai inviso.

VEDOVA: Eh, già, o perché ve lo spiattello in viso.

CATERINA: Ed io credo di nessun avviso.

PETRUCCIO: Addosso, Càtera!

ORTENSIO: Sotto, la vedova!

PETRUCCIO: Scommetto cento scudi che Càtera la mette colle spalle a terra.

ORTENSIO: Oh, codesto è ufficio mio!

PETRUCCIO: Parola d'ufficiale. Alla tua salute ragazzo. (Beve alla salute d'Ortensio)

BATTISTA: Come garbano a Gremio questi giovani spiritosi?

GREMIO: Ma davvero che si tengon testa assai bene.

BIANCA: Testa e coda. Uno che fosse di spirito direbbe che la vostra testa e coda non sia che testa e corna.

VINCENZO: Ah, ah, signora sposina, la cosa v'ha dunque svegliata?

BIANCA: Oh, si, ma non spaventata, perciò mi addormento di nuovo.

PETRUCCIO: No, no, non lo farete: dal momento che siete in ballo, su, vi tirerò una o due frecciate.

BIANCA: Son io la vostra selvaggina? Allora cambio di frasca. E voi corretemi dietro mentre tendete l'arco. Siete i benvenuti!

 

(Escono Bianca, Caterina e la Vedova)

 

PETRUCCIO: Mi ha prevenuto. Eh, signor Tranio, ecco la selvaggina che avete preso di mira senza poterla colpire. Perciò un brindisi a tutti quelli che mirano e sgarrano.

TRANIO: O signore, Lucenzio mi ha sguinzagliato come uno dei suoi segugi: che corre per conto suo, ma acchiappa per conto del padrone.

PETRUCCIO: Bella similitudine spiccia, ancorché un po' canina.

TRANIO: Buon per voi, signore, che avete cacciato per conto vostro. Si dice che la vostra damma vi tenga a bada.

BATTISTA: Eh, Petruccio, Tranio vi ha colpito stavolta.

LUCENZIO: Ti ringrazio, buon Tranio, per questa buona puntata.

ORTENSIO: Confessate, confessate, non v'ha egli colpito costì?

PETRUCCIO: Mi ha appena sgramiato, lo confesso. E poiché la frecciata è rimbalzata via da me, scommetto dieci contro uno che v'ha storpiati di netto, voialtri due.

BATTISTA: Con tutta serietà, Petruccio, figlio mio, penso che t'è toccata la peggior bisbetica del mondo.

PETRUCCIO: Ebbene, affermo di no. E per dimostrarvelo, che ciascuno di noi faccia venir qui la sua propria sposa: colui la cui moglie è più ubbidiente e verrà tostoché l'abbia chiamata, vincerà la scommessa che noi proporremo.

ORTENSIO: Contento. Qual è la posta?

LUCENZIO: Venti corone.

PETRUCCIO: Venti corone. Tante ne giocherei pel mio cane e il mio falcone, ma venti volte tante ne rischierei per mia moglie.

LUCENZIO: Allora facciamo cento.

ORTENSIO: D'accordo.

PETRUCCIO: E' inteso. Affare fatto.

ORTENSIO: E chi comincia?

LUCENZIO: Io. Va', Biondello, e prega la mia signora di venire qua da me.

BIONDELLO: Vado. (Esce)

BATTISTA: Figliuolo, scommetto a mezzo con voi che Bianca viene.

LUCENZIO: Non fo a mezzo con nessuno. Tutta la posta a me.

(Rientra BIONDELLO) Ebbene? che succede?

BIONDELLO: Signore, la mia padrona ci manda a dire che è occupata e non può venire.

PETRUCCIO: Come! è occupata e non può venire! Ma è questa una risposta?

GREMIO: Certo, e assai gentile anche. E pregate Dio, signore, che la vostra non ve ne mandi una peggio.

PETRUCCIO: Meglio, spero.

ORTENSIO: Sor Biondello, andate a supplicar mia moglie di venir qua sull'istante.

 

(Biondello esce)

 

PETRUCCIO: Oh, oh, supplicarla! In questo caso non potrà far meno di venire.

ORTENSIO: Suppongo, signore, che per quanto facciate, la vostra non si lascerà supplicare.

 

(Rientra BIONDELLO)

 

Ebbene, dov'è mia moglie?

BIONDELLO: Dice che voi state combinando qualche scherzo allegro: non vuol venire e vi chiede di andar voi da lei.

PETRUCCIO: Di male in peggio! Non vuol venire! O risposta ignobile, intollerabile, da non potersi sopportare! Sor Grumio, andate dalla vostra padrona e ditele che le ordino di venire qua.

 

(Esce Grumio)

 

ORTENSIO: So già la sua risposta.

PETRUCCIO: E quale?

ORTENSIO: Che non verrà.

PETRUCCIO: Se così è tanto peggio per me: e buona notte.

BATTISTA: Oh, per la Santavergine, ecco Caterina che arriva!

 

(Rientra CATERINA)

CATERINA: Che cosa desiderate, o mio signore, che mi avete mandata a chiamare?

PETRUCCIO: Dov'è vostra sorella? che fa la sposa di Ortensio?

CATERINA: Esse stanno in salotto a chiacchierare davanti al fuoco.

PETRUCCIO: Vai e conducile qua: e nel caso ch'esse si rifiutino, rimandale qui a nerbate dai loro mariti. Va', ti dico e menale qua sull'istante.

 

(Esce Caterina)

 

LUCENZIO: Se si parla di miracoli, questo n'è proprio uno.

ORTENSIO: Eh sì, e vorrei sapere cosa presagisce.

PETRUCCIO: Poffare! Pace promette, e amore e vita tranquilla, una legge temuta, una giusta autorità e, in breve, perché non ogni cosa dolce e felice?

BATTISTA: Ogni fortuna a te, buon Petruccio! Hai vinto la scommessa, e io vo' aggiungere a quanto han perduto essi ventimila corone: un'altra dote per un'altra figlia, dappoiché essa è ben mutata da quel che era prima.

PETRUCCIO: No, no. Voglio vincer la posta in un miglior modo ancora e mostrarvi altri segni della sua sommissione, della sua ubbidienza e delle sue nuove virtù. Guardate com'ella se ne viene menando con sé le riottose mogli, quasi prigioniere della sua femminile eloquenza.

 

(Rientra CATERINA con BIANCA e la Vedova)

 

Caterina, quel cappello vi sta male. Buttate via quella cianciafruscola, e pestatela sotto i piedi.

VEDOVA: Non darmi mai, signore, cagione di sospiri, fintantoché io non sia ridotta a tal sciocco partito.

BIANCA: Ih, come la chiamate voi codesta stolta ubbidienza?

LUCENZIO: Vorrei che la vostra fosse altrettanto stolta. La saggezza della tua ubbidienza, bella Bianca, m'è costata un cento corone, dall'ora di cena a questa parte.

BIANCA: E più stolto te a scommettere sulla mia ubbidienza.

PETRUCCIO: Caterina, ti ordino di dire a queste due caparbie quale rispetto esse debbano ai loro signori e mariti.

VEDOVA: Via, via, ci state canzonando. Noi non vogliamo lezioni.

PETRUCCIO: Avanti, dico, e comincia proprio da lei.

VEDOVA: Non lo farà.

PETRUCCIO: E io dico che lo farà. E da lei per prima.

CATERINA: Vergogna! Spiana quel tuo brutto e terribile cipiglio e non avventare occhiate di scherno dagli occhi, a ferire il tuo signore, il tuo re e governatore: questo sciupa la tua beltà come una gelata morde i prati, e distrugge il tuo buon nome come un ventaccio che strappa i bel germogli, e non è affatto cosa decente e graziosa. Una donna incollerita è come una fonte intorbidita, fangosa, sconcia, viscida, priva d'ogni bellezza, la quale, così essendo, niuno è, per quanto arso e assetato sia, che si degni di attingervi o di toccarne pur una goccia. Tuo marito è il tuo signore, la tua vita, il tuo custode, il tuo capo, il tuo sovrano: è uno che si prende cura di te e che per mantenerti sottopone il suo corpo a penoso lavoro, sia in mare che in terra, a vegliar la notte fra le tempeste e il giorno in mezzo al gelo, mentre tu riposi in casa al caldo, tranquilla e sicura, e non esige da te altro tributo se non amore, dolci sguardi, schietta obbedienza: troppo piccolo compenso per un debito così grande.

L'obbedienza che un suddito deve al suo re, la donna deve a suo marito; e quand'ella è caparbia, stizzosa, imbronciata, aspra e non obbediente agli onesti voleri di lui, che cos'è essa se non una ribelle infame e litigiosa, una sciagurata traditrice del suo signore che l'adora? Mi vergogno che le donne siano così sciocche da offrir guerra mentre dovrebbero chieder la pace in ginocchio, che vogliano legiferare, dominare, soverchiare, quando son nate a servire, ad amare e a ubbidire. E perché sarebbero i nostri corpi molli e fragili e lisci, inadatti a faticate e penare pel mondo se non perché il nostro tenero stato e i nostri cuori debbono armonizzare col nostro aspetto esteriore? Via, via, poveri vermi insolenti e incapaci! L'anima mia è stata superba un tempo come la vostra, il mio cuore così altero, e forse ancor più la mia ragione, per ribattere parola con parola, cipiglio con cipiglio; ma ora lo comprendo che le nostre lance non sono che pagliucole, la nostra forza è altrettanto fragile, la nostra debolezza estrema, e meno di tutto siamo quello che pretendiamo d'esser di più. Abbassate la vostra prosopopea, poiché vano è il vostro sforzo, e ponete le mani sotto i piedi di vostro marito. E in segno di questa sottomissione, se a lui piace, la mia mano è già pronta al suo cenno.

PETRUCCIO: Perbacco! questa è una ragazza! Vien qua, Càtera, baciami.

LUCENZIO: Bene, cammina per la tua strada, compare, avrai l'ultima parola.

VINCENZO: Bello a udirsi, quando i ragazzi son docili.

LUCENZIO: Ma brutto a udirsi, quando le donne son perfide.

PETRUCCIO: Vieni, Càtera, andiamo a letto. Noi tre siamo sposati; ma voi due siete spacciati. (A Lucenzio) Son io che ho vinto la scommessa ancorché voi abbiate colpito nel bianco. E così, ora che son vincitore, vi auguro la buona notte!

 

(Escono Petruccio e Caterina)

 

ORTENSIO: Va' per la tua strada. Hai saputo domare un'indiavolata bisbetica.

LUCENZIO: Ed è meraviglia, con vostra licenza, come ella si sia lasciata domare così.

 

(Escono)