William Shakespeare

 

LA NOTTE DELL'EPIFANIA

 

 

 

PERSONAGGI

 

ORSINO, duca d'Illiria

SEBASTIANO, fratello di Viola

ANTONIO, capitano di mare, amico di Sebastiano

Un Capitano di mare, amico di Viola

VALENTINO, CURIO: gentiluomini al seguito del Duca

SIR TOBIA RUTTI, zio di Olivia

SIR ANDREA GOTAFLOSCIA

MALVOLIO, maggiordomo di Olivia

FABIANO; FESTE, buffone: servi di Olivia

OLIVIA

VIOLA

MARIA, ancella di Olivia

Signori, Preti, Marinai, Guardie, Musicanti ed altri del Seguito

 

 

Scena: Una città dell'Illiria, e la costa vicina ad essa

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Una stanza nel Palazzo del Duca

(Entrano il DUCA, CURIO ed altri Signori; i Musicanti suonano)

 

DUCA: Se la musica è il nutrimento dell'amore, continuate a sonare; datemene l'eccesso così che, abusandone, il mio desiderio ne ammali e muoia. (Ai Musicanti) Ancora una volta quella melodia! Aveva una cadenza languida. Oh, essa giungeva al mio orecchio come la dolce brezza che spira su una sponda di violette, rubandone il profumo e diffondendolo attorno. Basta, cessate; adesso non è più soave come prima... Oh spirito dell'amore, come sei vivo ed àlacre! Sebbene la tua immensità sia simile a quella del mare, pure nulla può penetrarvi, qualunque ne sia la forza e l'eccellenza, senza subire una diminuzione e un deprezzamento in un solo minuto! L'amore è così pieno di forme mutevoli da esser lui solo fantasia suprema.

CURIO: Volete andare a caccia, mio signore?

DUCA: Di che cosa, Curio?

CURIO: Del cervo.

DUCA: Sì, del cervo d'amore, il cuore, la parte più nobile di me stesso. Oh, quando i miei occhi videro Olivia per la prima volta, mi sembrò che ella purificasse l'aria da una pestilenza! Fu in quell'istante che mi cambiai in un cervo, e i miei desideri, come feroci e crudeli veltri, da allora mi perseguitano sempre.

 

(Entra VALENTINO)

 

Ebbene, che notizie di lei?

VALENTINO: Con licenza del mio signore, non riuscii a farmi ricevere, ma vi reco questa risposta che mi fu trasmessa dalla sua ancella:

il cielo stesso, finché non siano trascorsi sette anni, non vedrà il suo volto scoperto. Come una monaca ella camminerà velata cospargendo ogni giorno la sua stanza di salse lacrime: e tutto ciò per conservare l'amore di un fratello morto, amore che ella vorrebbe mantenere vivo e tenace nella sua triste memoria.

DUCA: Oh, colei che possiede un cuore di così delicata struttura da pagare un tal debito d'amore a chi le fu solo fratello, come dunque amerà quando la preziosa freccia dorata di Cupido avrà ucciso il gregge di tutti gli altri affetti che vivono in lei; quando il suo fegato, il suo cervello e il suo cuore, questi troni sovrani, saranno tutti occupati e nelle sue dolci perfezioni s'insedierà un re assoluto! (A Gentiluomini del seguito) Precedetemi alle dolci aiuole fiorite; i pensieri d'amore s'adagiano mollemente allorquando li protegge un baldacchino di fronde!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - La riva del mare

(Entrano VIOLA, un Capitano e dei Marinai)

 

VIOLA: Che paese è questo, amici?

CAPITANO: E' l'Illiria, signora.

VIOLA: E che dovrei farci in Illiria? Mio fratello è nell'Eliso. O forse non è annegato: che ne pensate, marinai?

CAPITANO: E' per un caso che voi stessa vi siete salvata.

VIOLA: Oh mio povero fratello!... Può darsi che anch'egli si sia salvato per caso.

CAPITANO: E' vero, signora: e, per consolarvi con una probabilità, siate sicura che dopo che la nostra nave si fu schiantata, mentre voi e quei pochi che si salvarono con voi eravate aggrappati al nostro battello alla deriva, vidi vostro fratello, pieno di previdenza nel pericolo, legarsi - poiché il coraggio e la speranza gli suggerivano un tale espediente - ad un grosso albero che galleggiava sul mare e quindi, come Arione sulla groppa del delfino, lo vidi tener testa alle onde fin tanto che lo potei scorgere.

VIOLA: Eccoti dell'oro per avermi detto questo. La mia propria salvezza lascia intravvedere alla mia speranza un salvataggio consimile per lui; ed a ciò mi autorizza il tuo discorso. Conosci questo paese?

CAPITANO: Sì, e bene, signora; poiché nacqui e fui allevato in un luogo che non dista più di tre ore da questo stesso.

VIOLA: Chi governa qui?

CAPITANO: Un duca! altrettanto nobile per natura che per nome.

VIOLA: Come si chiama?

CAPITANO: Orsino.

VIOLA: Orsino! L'ho udito nominare da mio padre, egli era celibe allora.

CAPITANO: E lo è anche adesso, o lo era fino a pochissimo tempo fa; infatti me ne sono andato via di qua or'è soltanto un mese, ed allora appunto si cominciava a mormorare - sapete bene che i piccoli voglion sempre chiacchierare di quel che fanno i grandi- che egli cercava di ottenere l'amore della bella Olivia.

VIOLA: E chi è costei?

CAPITANO: Una virtuosa fanciulla, figlia di un conte che morì circa un anno fa, lasciandola sotto la protezione di suo figlio, il fratello di lei, che è morto anch'egli da poco: ed è, come si dice, per il grandissimo amore che gli portava che ella ha abiurato la compagnia e la vista degli uomini.

VIOLA: Oh, potessi servire quella signora e non rivelare al mondo quale sia il mio rango finché non avessi maturato il mio disegno!

CAPITANO: Sarebbe difficile riuscirvi, poiché ella non vuole accettare alcuna proposta, nemmeno quella del duca.

VIOLA: Il tuo modo di comportarti è nobile, capitano; e benché sovente la natura recinga il vizio di un bel muro, tuttavia voglio credere che tu abbia un'anima in armonia col tuo aspetto nobile ed aperto. Ti prego, ed io te ne ripagherò largamente, di nascondere chi io sia e di essermi di aiuto a trovare il travestimento che meglio si adatta alla forma del mio intento. Voglio servire quel duca: tu mi presenterai a lui come un eunuco. Può darsi che la tua non sia fatica perduta, poiché so cantare e potrei esprimermi a lui con melodie diverse, il che mi farà riconoscere come degnissima di servirlo. Per quanto d'altro potrà accadere mi rimetterò al tempo; tu conforma soltanto il tuo silenzio alla mia destrezza.

CAPITANO: Siate dunque il suo eunuco, come io sarò il vostro muto. I miei occhi cessino di vedere allorquando la mia lingua ciarlerà.

VIOLA: Ti ringrazio: conducimi.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - La casa di Olivia

(Entrano SIR TOBIA RUTTI e MARIA)

 

TOBIA: Che diamine ha mia nipote per prendersi tanto a cuore la morte di suo fratello? Certamente l'afflizione è nemica della vita.

MARIA: In fede mia, sir Tobia, dovreste rincasar più presto la sera; vostra cugina, la mia signora, muove forte eccezione alle vostre ore illecite.

TOBIA: Ebbene, si eccettuino pure da parte sua le cose precedentemente eccettuate'.

MARIA: Sì, ma voi dovreste acconciarvi a rimanere nei modesti confini dell'ordine.

TOBIA: Acconciarmi! Non potrò acconciarmi più elegantemente di quel ch'io non faccia. Questo abito è abbastanza buono per quando bevo, ed anche queste scarpe; se poi non lo sono, vadano pure ad impiccarsi coi loro stessi lacci!

MARIA: Questo cioncare e bere vi rovinerà: ho udito la mia signora parlarne ieri, ed anche di uno sciocco cavaliere che avete condotto qui una sera perché le facesse la corte.

TOBIA: Chi? Sir Andrea Gotafloscia?

MARIA: Sì, lui.

TOBIA: E' un uomo valente quant'altri mai ve ne sono in Illiria.

MARIA: E che c'entra questo?

TOBIA: Eh, ha tremila ducati all'anno!

MARIA: Sì, ma rimarrà solamente un anno con tutti quei ducati: è un completo imbecille ed uno scialacquatore.

TOBIA: Vergogna, dire una cosa simile! Egli suona la viola da gamba, parla tre o quattro lingue parola per parola, senza libro, e possiede tutti i bei doni della natura.

MARIA: Li possiede davvero, e sono doni di semplicità naturale, poiché oltre ad essere un imbecille, è un grande attaccabrighe, e se non avesse il dono della vigliaccheria per temperare il gusto che prova nei litigi, i saggi pensano che egli ben presto riceverebbe una tomba in dono.

TOBIA: Giuro su questa mano che coloro che ne parlano in tal maniera sono dei ribaldi e dei sottrattori. Chi sono costoro?

MARIA: Quelli stessi che aggiungono, per soprammercato, che ogni sera egli si ubriaca in vostra compagnia...

TOBIA: ...brindando però alla salute di mia nipote. Berrò alla sua salute fin quando vi sarà un passaggio nella mia gola e bevanda in Illiria; colui che si rifiuterà di bere alla salute di mia nipote finché il cervello non gli giri come una trottola parrocchiale è un codardo e un poltrone. Suvvia, ragazza! Castigliano vulgo! poiché ecco avanzarsi sir Andrea Gotafloscia.

 

(Entra SIR ANDREA GOTAFLOSCIA)

 

ANDREA: Sir Tobia Rutti! Come va, Sir Tobia Rutti!

TOBIA: Soave sir Andrea!

ANDREA: Dio vi benedica, bella bricconcella.

MARIA: E voi pure, signore.

TOBIA: Accosta, sir Andrea, accosta.

ANDREA: Che cos'è?

TOBIA: La dama di compagnia di mia nipote.

ANDREA: Buona signora Accosta, desidero fare più ampia conoscenza con voi.

MARIA: Mi chiamo Maria, signore.

ANDREA: Buona signora Maria Accosta...

TOBIA: Siete in errore, cavaliere: "accosta" significa "affrontala", "abbordala", "corteggiala", "attaccala"!

ANDREA: In fede mia, non vorrei avere a che fare con lei in tal compagnia. E' questo il significato di "accosta"?

MARIA: Addio signori.

TOBIA: Se la lasci andar via così, sir Andrea, che tu non possa mai più sguainare la spada.

ANDREA: Se ve ne andate via così, signora, possa io non sguainare mai più la mia spada. Bella signora, credete di aver in mano due sciocchi?

MARIA: Signore, non vi tengo per mano.

ANDREA: Perdiana, mi dovete tenere: ed eccovi la mia mano.

 

(Le porge la mano che Maria stringe)

 

MARIA: Ebbene signore, "il pensiero è libero": vi prego, conducete la vostra mano alla bottiglieria e fatela bere.

ANDREA: E perché, cuor mio? che significa la vostra metafora?

MARIA: Significa che la vostra mano è asciutta, signore.

ANDREA: Eh, lo credo bene: non sono tanto asino da non sapermi conservare le mani asciutte. Ma che razza di scherzo è il vostro?

MARIA: Uno scherzo asciutto, signore.

ANDREA: Ne avete molti di simili?

MARIA: Sì, signore, li ho sulla punta delle dita: diamine, ora che vi lascio andar la mano, non ne ho più.

 

(Esce)

 

TOBIA: Ah, cavaliere ti ci vuole un bicchiere di vino delle Canarie:

quando mai ti ho veduto sconfitto così?

ANDREA: Mai in vita vostra, credo, a meno che non mi abbiate visto atterrato dal vino delle Canarie. Mi sembra talvolta di non aver più intelligenza di un cristiano o di un uomo qualunque; ma sono un gran mangiatore di manzo e penso che sia proprio questo a danneggiare la mia intelligenza.

TOBIA: Senza dubbio.

ANDREA: Se ne fossi certo, rinnegherei il manzo. Domani monterò a cavallo e me ne tornerò a casa, sir Tobia.

TOBIA: "Pourquoi", mio caro cavaliere?

ANDREA: Che significa "pourquoi"? "Fatelo" o "non fatelo"? Vorrei aver dedicato alle lingue quel tempo che ho concesso alla scherma, alla danza, ed ai combattimenti degli orsi Oh, avessi io pigliato pratica nelle arti!

TOBIA: Che capigliatura magnifica avresti posseduto allora!

ANDREA: Come? Credete che ciò mi avrebbe giovato alla chioma?

TOBIA: Senza dubbio; vedi bene infatti che essa non è ricciuta di natura.

ANDREA: Ma mi sta abbastanza bene, non è vero?

TOBIA: A maraviglia: pende come il lino da una conocchia, e spero di vedere una massaia prenderti tra le gambe e filarla.

ANDREA: In fede mia, domani me ne andrò a casa, sir Tobia: vostra nipote non vuol lasciarsi vedere; ed anche se lo consente, vi sono quattro probabilità contro una che ella non vorrà saperne di me; il conte stesso che abita qui vicino le fa la corte.

TOBIA: Ella non vuol saperne del conte; non vuole sposarsi con uno che le sia superiore per rango, o beni, o anni, o intelligenza; glie l'ho sentito giurare. Via, via, finché c'è vita c'è speranza, amico!

ANDREA: Rimarrò ancora un mese. Sono un tipo che ha le più singolari disposizioni del mondo; mi diletto moltissimo di mascherate e festini, talvolta.

TOBIA: Ti intendi di queste bagattelle, cavaliere?

ANDREA: Come qualsiasi uomo in Illiria chiunque egli sia, purché non appartenga al numero dei miei superiori; pure non mi azzarderei a competere con un vecchio.

TOBIA: Qual è la tua bravura in una gagliarda, cavaliere?

ANDREA: In fede mia so trinciare una capriola.

TOBIA: Ed io so trinciare il montone.

ANDREA: E credo di saper fare lo scambietto rovesciato altrettanto bene quanto chiunque altro in Illiria.

TOBIA: Perché simili qualità son tenute nascoste? Perché tali doti rimangono celate da una cortina? Corrono dunque pericolo di impolverarsi, come il ritratto della signora Mall? Perché non te ne vai in chiesa ballando una gagliarda e non te ne ritorni al passo di una corrente? Il mio modo stesso di camminare dovrebbe essere una giga; e persino orinando ballerei su un ritmo di cinque tempi. Che cosa pretendi? E' forse questo un mondo in cui sia lecito nascondere i propri meriti? Pensavo, a giudicare dalla eccellente struttura delle tue gambe, che esse si fossero formate sotto la costellazione di una gagliarda.

ANDREA: Sì, le mie gambe sono forti, e fanno una discreta figura in un paio di calze color fiamma. Dobbiamo improvvisare un po' di baldoria?

TOBIA: E che altro dovremmo fare? Non siamo forse nati sotto la costellazione del Toro?

ANDREA: Il Toro! Esercita il suo influsso sui fianchi e sul cuore.

TOBIA: No, signore, sulle gambe e sulle cosce. Lascia che io ti veda fare lo scambietto; ah, più alto! Ah, ah, meraviglioso!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Il Palazzo del Duca

(Entrano VALENTINO e VIOLA travestita da uomo)

 

VALENTINO: Se il duca continua in questi favori verso di noi, Cesario, probabilmente farete molta strada: egli vi conosce solamente da tre giorni, e già non siete più un estraneo.

VIOLA: Temete o il suo capriccio o la mia intelligenza, se mettete in dubbio la continuazione del suo amore; è dunque incostante, signore, nei suoi favori?

VALENTINO: No, credetemi.

VIOLA: Vi ringrazio. Ecco che viene il conte.

 

(Entrano il DUCA, CURIO e il Seguito)

 

DUCA: Olà, chi ha veduto Cesario?

VIOLA: Ai vostri ordini, mio signore; eccomi.

DUCA (al Seguito): Allontanatevi un momento. (A Viola) Cesario, tu sai tutto; io ti ho disserrato il libro dei miei pensieri segreti. Quindi, buon giovane, volgi i tuoi passi verso di lei e non lasciarti vietare l'entrata; rimani alla sua porta e di' alla sua gente che il tuo piede vi rimarrà radicato finché tu non abbia ottenuto udienza.

VIOLA: Di certo, mio nobile signore, se ella è abbandonata al dolore, come si dice, non mi riceverà mai.

DUCA: Fai chiasso e varca tutti i limiti dell'urbanità piuttosto che ritornare senza profitto.

VIOLA: E ammettendo che riesca a parlare, mio signore, come debbo regolarmi?

DUCA: Oh, allora svelale la passione del mio amore e sorprendila parlandole della mia profonda devozione: sei proprio la persona che ci vuole per rappresentarle i miei dolori. Ella li ascolterà più benignamente dalla tua giovinezza che da un ambasciatore di più grave aspetto.

VIOLA: Non credo, mio signore.

DUCA: Caro ragazzo, credimelo; poiché chiunque affermasse che tu sei già un uomo mentirebbe ai tuoi anni felici. Le labbra di Diana non sono più tenere e vermiglie delle tue; la tua piccola voce è come quella di una fanciulla, squillante e pura, e se tu dovessi recitare faresti una parte di donna. So che la tua costellazione è propizia a questa faccenda. (Al seguito che sta in disparte) Quattro o cinque di voi lo seguano; tutti, se volete; poiché, per conto mio, sto meglio quando non sono in compagnia. (A Viola) Se riesci nell'impresa, vivrai liberamente quanto il tuo signore, e potrai chiamar tua la sua fortuna.

VIOLA: Farò del mio meglio per corteggiare la vostra amata. (A parte) Pure, che lotta penosa! Chiunque io corteggi, sono io che vorrei esser sua moglie.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - La casa di Olivia

(Entrano MARIA e il Buffone)

 

MARIA: Suvvia, o mi dici dove sei stato, oppure non aprirò le labbra per giustificarti nemmeno quanto basti a farci passare un crino: la mia signora ti farà impiccare per la tua assenza.

BUFFONE: Mi faccia pure impiccare: colui che è bene impiccato in questo mondo non ha più da temere i colori.

MARIA: Spiegati.

BUFFONE: Non vedrà più nulla di temibile.

MARIA: Una risposta magra come la quaresima: io potrei spiegarti dove nacque l'espressione "non temo i colori".

BUFFONE: E dove, buona signora Maria?

MARIA: In guerra; e questo potrete arditamente affermarlo tra le vostre buffonate.

BUFFONE: Bene; che Iddio conceda la saggezza a coloro che ne sono provvisti, e quelli che sono sciocchi usino i loro talenti.

MARIA: Eppure sarete impiccato per esservi assentato per tanto tempo; ed essere scacciato di casa non sarebbe per voi lo stesso che venire impiccato?

BUFFONE: Molte buone impiccagioni salvano da un cattivo matrimonio: e in quanto ad essere scacciato, ci penserà l'estate ad aiutarmi a campare.

MARIA: Siete risoluto, dunque?

BUFFONE: No, nemmeno; ma sono risoluto su due punti.

MARIA: Già, due puntali! In maniera che se uno cede l'altro tenga fermo, poiché se tutti e due si rompono, le vostre brache cadono.

BUFFONE: Bene, in fede mia, benissimo! Suvvia, va' per la tua strada:

se sir Tobia smettesse di bere tu saresti il più savio pezzo di carne d'Eva che vi sia in Illiria.

MARIA: Silenzio, briccone, basta di ciò. Ecco che viene la mia signora: fareste meglio a scusarvi saggiamente.

 

(Esce)

 

BUFFONE: Senno, se tale è la tua volontà, mettimi in buona disposizione a dir buffonate! Quegli spiritosi che credono di possederti spessissimo non sono che degli sciocchi; ed io, che sono sicuro di non averti, posso passare per un saggio. Che dice infatti Quinapalus? "Meglio uno sciocco di spirito che un saggio sciocco".

 

(Entra OLIVIA con MALVOLIO)

 

Dio ti benedica, signora!

OLIVIA: Conducete via l'imbecille!

BUFFONE: Non avete udito, compagni? Conducete via la signora.

OLIVIA: Orsù, siete un buffone senza sugo; ne ho abbastanza di voi:

inoltre state diventando licenzioso.

BUFFONE: Due difetti, madonna, che il bere e i buoni consigli guariranno; date infatti da bere al buffone e il buffone non sarà più senza sugo; dite all'uomo licenzioso di correggersi e se egli si emenderà non sarà più licenzioso: se invece non riuscirà nel suo intento, c'è il rattoppatore per rappezzarlo. Ogni cosa emendata non è che rattoppata: la virtù che trasgredisce non è che rattoppata di vizio, e il peccato che si corregge non è che rattoppato di virtù. Se questo semplice sillogismo vi soddisfa, bene; se non vi soddisfa, che farci? Com'è vero che non c'è di veramente cornuto che la sventura, così la bellezza è un fiore. La signora ha ordinato di condur via l'imbecille: e quindi, ripeto, conducetela via.

OLIVIA: Messere, ho ordinato di condurre via voi.

BUFFONE: Un malinteso al massimo grado! Signora, "cucullus non facit monacum", il che equivarrebbe a sostenere che non ho l'abito d'arlecchino in testa. Buona madonna, datemi licenza di dimostrarvi che siete un imbecille.

OLIVIA: Ci riuscirete?

BUFFONE: Destramente, buona madonna.

OLIVIA: Fate la vostra prova.

BUFFONE: Prima bisogna che vi catechizzi, madonna: mio buon topolino di virtù, rispondetemi .

OLIVIA: Bene, signore, per mancanza di altro passatempo, mi sottoporrò alla vostra prova.

BUFFONE: Buona madonna, perché ti affliggi?

OLIVIA: Buon pazzo, per la morte di mio fratello.

BUFFONE: Penso che la sua anima sia all'inferno, madonna.

OLIVIA: So che la sua anima è in cielo, buffone.

BUFFONE: Siete ben sciocca allora, madonna, se vi affliggete perché l'anima di vostro fratello è in cielo. Conducete via l'imbecille, signori.

OLIVIA: Che ne pensate di questo buffone, Malvolio? Non si corregge dunque?

MALVOLIO: Sì, e continuerà a correggersi in tal maniera finché le angosce della morte non lo scoteranno. L'infermità che fa deperire i saggi, migliora sempre gli sciocchi.

BUFFONE: Dio vi mandi, signore, una pronta infermità per lo sviluppo della vostra stupidaggine! Sir Tobia è pronto a giurare che non sono una volpe; ma non impegnerebbe la sua parola neanche per due soldi se dovesse affermare che non siete uno scemo.

OLIVIA: Che avete da replicare a questo, Malvolio?

MALVOLIO: Mi maraviglio che la Signoria Vostra si diverta tanto con questo insipido furfante: l'altro giorno vidi un buffone qualunque, che non ha più cervello di una pietra, ridurlo al silenzio.

Guardatelo, è già tutto sconcertato; a meno che non vi mettiate a ridere e non gli diate una buona occasione, è imbavagliato. Sul mio onore, mi sembra che le persone di buon senso che si entusiasmano tanto per questa genìa di buffoni artificiali siano esse stesse al livello dei tirapiedi dei buffoni.

OLIVIA: Oh, avete la malattia dell'amor proprio, Malvolio, e il gusto di un appetito rovinato. Quando si è generosi, innocenti e di temperamento magnanimo si devono considerare quadrella quelle che voi stimate palle da cannone. Non vi è maldicenza in un buffone patentato, anche se egli non faccia altro che dire ingiurie; né vi è ingiuria da parte di un uomo di pretesa discrezione che non sappia far altro che censurare.

BUFFONE: E adesso Mercurio ti doni l'arte di mentire, poiché hai parlato bene dei buffoni!

 

(Rientra MARIA)

 

MARIA: Signora, c'è alla porta un giovane gentiluomo che desidera molto di parlarvi.

OLIVIA: Da parte del conte Orsino, non è vero?

MARIA: Non so, signora: è un bel giovanotto, e bene accompagnato.

OLIVIA: Chi della mia gente lo trattiene?

MARIA: Sir Tobia, signora, il vostro parente.

OLIVIA: Allontanatelo, vi prego; egli parla da insensato: che vergogna! (Esce Maria) Andate voi, Malvolio; se si tratta di un messaggio da parte del conte, dite che sono malata o che non mi trovo in casa; raccontategli quel che volete per congedarlo. (Esce Malvolio) Ora, vedete, signore, come le vostre buffonate invecchiano e quanto dispiacciono alla gente.

BUFFONE: Hai parlato in nostro favore, madonna, come se il tuo figlio maggiore fosse un buffone; che Giove gli rimpinzi il cranio di cervello! Poiché - ed eccolo che viene - uno dei tuoi parenti ha la "pia mater" debolissima.

 

(Entra SIR TOBIA)

 

OLIVIA: Sull'onor mio, è mezzo ubriaco. Chi c'è alla porta, cugino?

TOBIA: Un gentiluomo.

OLIVIA: Un gentiluomo! Che gentiluomo?

TOBIA: C'è un gentiluomo... (Dà segno di flatulenza) Maledette le aringhe marinate! (Al buffone) Ebbene, scemo?

BUFFONE: Buon sir Tobia!

OLIVIA: Cugino, cugino, come mai siete caduto così di buon'ora in codesta prostrazione?

TOBIA: Prostituzione! La sfido, io, la prostituzione!. C'è uno alla porta.

OLIVIA: Già, e chi è?

TOBIA: Sia pure anche il diavolo, se vuole, io non me ne curo:

prestatemi fede, dico. Bene, poco importa.

 

(Esce)

 

OLIVIA: A cosa somiglia un ubriaco, buffone?

BUFFONE: A un annegato, a uno sciocco e ad un matto: un sorso più del necessario lo rende scemo, un secondo lo fa impazzire ed un terzo lo annega.

OLIVIA: Va' a cercare il magistrato, e che faccia un'inchiesta su mio cugino: poiché questi è nel terzo stadio dell'ubriachezza, è annegato; va', e veglia su di lui.

BUFFONE: E' soltanto pazzo per il momento, madonna, ed il buffone veglierà sul matto.

 

(Esce)

(Rientra MALVOLIO)

 

MALVOLIO: Signora, quel giovanotto giura che parlerà con voi. Gli ho detto che eravate malata, ed egli sostiene che già lo sapeva, e quindi viene per parlarvi. Gli ho detto che dormivate: sembra che egli avesse un'antiveggenza anche di questo, e quindi viene per parlarvi. Che cosa bisogna dirgli, signora? Egli è corazzato contro ogni rifiuto.

OLIVIA: Ditegli che non parlerà con me.

MALVOLIO: Gli è stato già detto; ed egli sostiene che rimarrà alla vostra porta come il palo che si erge davanti alla casa di uno sceriffo, e che farà magari da sostegno ad una panchina, a meno che non riesca a parlarvi.

OLIVIA: Che specie d'uomo è?

MALVOLIO: Diamine, della specie umana.

OLIVIA: Che maniera d'uomo?

MALVOLIO: Oh, di pessime maniere; si ostina a volervi parlare, vi piaccia o non vi piaccia.

OLIVIA: Qual è il suo aspetto e la sua età?

MALVOLIO: Non è ancora vecchio abbastanza per essere un uomo, né abbastanza giovane per essere un ragazzo; è come un baccello prima di contenere i piselli, o una mela acerba prima di esser completamente matura; sta come nell'acqua al volger della marca, tra la fanciullezza e la virilità. Ha buonissimo aspetto e parla con molta impertinenza; si direbbe che egli abbia ancora sulle labbra il latte materno.

OLIVIA: Lasciatelo avvicinare e fate venir qui la mia gentildonna.

MALVOLIO: Signora, la mia padrona vi chiama.

 

(Esce)
(Rientra MARIA)

 

OLIVIA: Datemi il mio velo; su, abbassatemelo sul volto. Ascolteremo ancora una volta l'ambasceria di Orsino.

 

(Entra VIOLA col Seguito)

 

VIOLA: Qual è l'onorevole padrona di questa casa?

OLIVIA: Parlate a me, risponderò per lei. Che volete?

VIOLA: Radiosissima, squisitissima ed assolutamente impareggiabile bellezza... vi prego, ditemi se sono innanzi alla padrona di questa casa, poiché non l'ho mai veduta. Mi dispiacerebbe gettar via il mio discorso, poiché oltre ad essere molto ben composto mi sono dato un gran da fare per impararlo a mente. Amabili bellezze, non lasciate che io subisca un affronto; sono molto sensibile, anche al più leggero sgarbo.

OLIVIA: Di dove venite, signore?

VIOLA: Non saprei dirvi gran che oltre alla parte che ho studiato, e la vostra domanda non rientra nella mia missione. Amabile signora, datemi congrua assicurazione, se siete voi la padrona di casa, che io possa procedere nel mio discorso.

OLIVIA: Siete un commediante?

VIOLA: No, anima profondamente sagace: eppure giuro per le zanne stesse della malizia, che non sono quello che sembro. Siete voi la padrona di casa?

OLIVIA: Se non commetto un'usurpazione verso me stessa, lo sono.

VIOLA: Di certo, se lo siete, commettete un'usurpazione verso voi stessa, poiché quel che vi appartiene affinché lo concediate non vi appartiene per conservarlo. Ma questo esula dal mio incarico; voglio continuare il mio discorso in vostra lode e quindi mostrarvi il cuore del mio messaggio.

OLIVIA: Venite a ciò che esso contiene d'importante: vi dispenso dall'elogio.

VIOLA: Ahimè, ho fatto tanta fatica a studiarlo, ed è poetico.

OLIVIA: E' tanto più probabile allora che sia falso. Vi prego, tenetevelo per voi. Ho udito che siete stato impertinente alla mia porta, ed ho permesso che vi avvicinaste piuttosto per curiosità di voi che per ascoltarvi. Se non siete completamente matto, andatevene; se siete ragionevole, siate breve; non è per me questa una fase lunare durante la quale io possa partecipare a un dialogo così sconclusionato.

MARIA: Volete spiegar le vele, signore? Questa è la strada.

VIOLA: No, mio buon mozzo; bisogna ch'io resti qui ancora un poco lasciandomi andare alla deriva. (A Olivia indicandole Maria) Intenerite un poco il vostro gigante, cara signora.

OLIVIA: Ditemi il vostro scopo.

VIOLA: Io sono un messaggero...

OLIVIA: Certamente avete qualcosa di orribile da dirmi se il cortese principio ne è così timido. Spiegate il vostro ufficio.

VIOLA: Esso riguarda solamente il vostro orecchio. Non vi porto né dichiarazione di guerra né richiesta di omaggio; reco in mano l'olivo e le mie parole sono altrettanto pacifiche quanto sensate.

OLIVIA: Eppure avete cominciato rozzamente. Chi siete? Che desiderate?

VIOLA: La rudezza che è apparsa in me l'ho imparata dal trattamento che ho ricevuto. Chi io sia e quel ch'io desideri, è un greto come la verginità, che è cosa sacra per le vostre orecchie ma profanazione per quelle di ogni altro.

OLIVIA (A Maria e al Seguito): Lasciateci soli: vogliamo ascoltare questa cosa sacra. (Escono Maria e il Seguito) E adesso, signore, qual è il vostro testo?

VIOLA: Soavissima signora...

OLIVIA: Dottrina consolante e su cui molto ci sarebbe da dire. Dov'è il vostro testo?

VIOLA: Nel petto di Orsino.

OLIVIA: Nel suo petto? In che capitolo del suo petto?

VIOLA: Per rispondervi metodicamente, nel primo capitolo del suo cuore.

OLIVIA: Oh, l'ho letto, ed è un'eresia. Non avete altro da dirmi?

VIOLA: Buona signora, lasciatevi vedere in viso.

OLIVIA: Avete forse incarico da parte del vostro signore di negoziare col mio volto? Adesso siete lontano dal vostro testo, ma tireremo le tendina e vi mostreremo il quadro. Guardate, signore, ecco come sono attualmente: non è ben fatto?

 

(Si toglie il velo)

 

VIOLA: Mirabilmente, se è Dio che ha fatto tutto.

OLIVIA: E' di colore duraturo, signore, e resisterà al vento ed alla tempesta.

VIOLA: Bellezza fusa magnificamente, in cui il rosso e il bianco furono distesi dalla stessa amabile e sapiente mano della natura.

Signora, voi sarete la più crudele delle donne viventi se vorrete condurre tutte queste grazie alla tomba senza lasciarne una copia al mondo.

OLIVIA: Oh, signore, non sarò così dura di cuore, distribuirò molte schede della mia bellezza; essa sarà inventariata, ed ogni sua singola parte e articolo elencato nel mio testamento, così: paragrafo uno, due labbra abbastanza rosse; paragrafo due, un paio d'occhi grigi con relative palpebre; paragrafo tre, un collo, un mento, e così via.

Siete stato inviato qui per far le mie lodi?

VIOLA: Vedo che cosa siete: siete troppo superba. Ma, foste anche il diavolo, siete bella. Il mio signore e padrone vi ama ed un tale amore dovrebbe essere compensato anche se foste incoronata bellezza senza pari!

OLIVIA: Come mi ama?

VIOLA: Con adorazione, con copiose lacrime, con gemiti echeggianti d'amore, con sospiri di fuoco.

OLIVIA: Il vostro signore conosce il mio pensiero. Non posso amarlo, e pure lo stimo virtuoso, so che è nobile, di grandi mezzi, di giovinezza fresca e immacolata, di buona reputazione, per fama liberale, colto e valente e, per le proporzioni e le forme dategli dalla natura, una graziosa persona. Pure non posso amarlo, ed egli avrebbe dovuto rassegnarsi a tale risposta già da lungo tempo.

VIOLA: Se vi amassi colla fiamma del mio padrone, con la stessa sofferenza e con una vita che è come un morire, non troverei alcun senso nel vostro rifiuto; non lo comprenderei.

OLIVIA: Ebbene, cosa fareste allora?

VIOLA: Mi costruirei una capanna di salice alla vostra porta e invocherei l'anima mia chiusa nella vostra casa; scriverei leali canti d'amore respinto e li canterei ben forte pur nel cuor della notte; getterei il vostro nome alle colline echeggianti costringendo la loquace pettegola dell'aria a gridare: "Olivia!". Oh, non avreste potuto aver pace tra i due elementi, l'aria e la terra, se prima non aveste provato pietà per me.

OLIVIA: Voi potreste far molto. Qual è la vostra nascita?

VIOLA: Al di sopra delle mie fortune, ma nonostante ciò la mia situazione è buona: sono gentiluomo.

OLIVIA: Tornate dal vostro signore: non posso amarlo. Ditegli che non mandi altri messaggi, a meno che, forse, non torniate voi stesso qui da me per riferirmi come prende il mio rifiuto. Addio, vi ringrazio per il vostro zelo: (dandole del danaro) spendete questo per me.

VIOLA (respingendo la mano di Olivia): Non sono un messaggero prezzolato, signora; tenetevi la vostra borsa; è al mio padrone, non a me che dovreste una ricompensa. Amore trasformi in pietra il cuore di colui che amerete e possa il vostro ardore, come quello del mio padrone, esser posto in dispregio! Addio, bella crudele.

 

(Esce)

 

OLIVIA: "Qual è la vostra nascita?". "Al disopra delle mie fortune, ma nonostante ciò la mia situazione è buona: sono gentiluomo". Potrei giurare che lo sei, il tuo linguaggio, il tuo volto, le tue membra, le azioni e lo spirito ti danno un quintuplo blasone... Ma non così in fretta: piano piano! Peccato che il padrone non sia il servo. Suvvia!

Si può dunque così presto essere attaccati dal male? Mi pare di sentire le perfezioni di questo giovane infiltrarsi in me attraverso ai miei occhi con un impercettibile ed inavvertito movimento. Ebbene, sia pure. Ehi, Malvolio!

 

(Rientra MALVOLIO)

 

MALVOLIO: Eccomi ai vostri ordini, signora.

OLIVIA: Corri dietro a quell'impertinente messaggero, l'uomo del conte; ha lasciato quest'anello, mio malgrado, e tu digli che non ne voglio sapere. Raccomandagli di non lusingare il suo signore e di non sostenerlo con delle speranze, io non son per lui. Se quel giovane vorrà venir qui domani, gliene esporrò le ragioni, sbrigati, Malvolio.

MALVOLIO: Va bene, signora.

 

(Esce)

 

OLIVIA: Non so cosa faccio, e temo di accorgermi che i miei occhi hanno troppo lusingato la mia mente. Destino, mostra la tua forza; noi non ci apparteniamo. Ciò che è decretato dev'essere, e così sia.

 

(Esce)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - La riva del mare

(Entrano ANTONIO e SEBASTIANO)

 

ANTONIO: Non volete fermarvi ancora? E non volete permettere che io venga con voi?

SEBASTIANO: No, con vostra licenza. Le mie stelle brillano tetramente su di me; la malignità del mio fato potrebbe forse avere una cattiva influenza sul vostro, e quindi vi scongiuro di lasciare che io sopporti da solo le mie sciagure. Sarebbe una brutta ricompensa per il vostro amore permettere che qualcuna di esse venisse a cadere su voi.

ANTONIO: Fatemi almeno sapere dove siete diretto.

SEBASTIANO: No, in fede mia, signore: il viaggio che ho prestabilito è puro vagabondaggio. Ma scorgo in voi un tratto così squisito di delicatezza che certo non cercherete di strapparmi quello che voglio tenermi in cuore: e maggiormente questo mi obbliga alla cortesia di farmi conoscere da voi. Dovete dunque sapere, Antonio, che il mio nome è Sebastiano, che io mutai in Roderigo. Mio padre era quel Sebastiano di Messalina di cui so che avete sentito parlare. Egli lasciò al mondo me ed una sorella, nati entrambi nella stessa ora: avesse voluto il cielo che fossimo anche morti nel medesimo istante! Ma voi, signore, avete modificato la situazione, poiché circa un'ora prima che mi salvaste dai frangenti del mare mia sorella annegò.

ANTONIO: Ahimè, che giorno!

SEBASTIANO: Una donna, signore, che, per quanto considerata a me somigliantissima, era da molti stimata bella e benché io non possa completamente aderire a questa eccessiva ammirazione, pure posso azzardarmi ad asserire che ella possedeva un'anima che la stessa invidia non avrebbe potuto chiamare altro che bella. Ella è ormai annegata nell'acqua marina, signore, ma penso che dovrò annegare il suo ricordo in un'acqua ancora più amara.

ANTONIO: Perdonate, signore, il misero trattamento che ho potuto offrirvi.

SEBASTIANO: O buon Antonio, perdonatemi il disagio che vi ho dato.

ANTONIO: Se non volete uccidermi in cambio del mio affetto, lasciate che io sia il vostro servo.

SEBASTIANO: Se non volete disfare quel che avete fatto, ossia uccidere colui che avete salvato, non insistete. Addio in fretta: il mio cuore è pieno di tenerezza e sono ancora così vicino al carattere di mia madre che alla minima occasione i miei occhi sono pronti a tradirmi.

Mi dirigo alla corte del conte Orsino: addio.

 

(Esce)

 

ANTONIO: Che il favore di tutti gli dèi ti accompagni! Ho molti nemici alla corte di Orsino, altrimenti tra breve ti avrei raggiunto laggiù.

Ma accada quel che può, io ti adoro talmente che il pericolo mi parrà un divertimento, e andrò lo stesso.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una strada

(Entra VIOLA, e MALVOLIO che la segue)

 

MALVOLIO: Non eravate un momento fa con la contessa Olivia?

VIOLA: Proprio un momento fa; camminando di passo moderato ho avuto il tempo di arrivare appena qui.

MALVOLIO: Ella vi restituisce questo anello, signore: avreste potuto risparmiarmi tale fatica portandolo via da voi stesso. Ella aggiunge inoltre che dovreste dare al vostro signore la più disperata certezza che ella non vuol saperne di lui, ed ancora un'altra cosa aggiunge, cioè che non dovete più permettervi di immischiarvi negli affari del vostro signore, a meno che non veniate a riferire come egli abbia preso le cose. Prendetelo, signore.

 

(Fa per dare l'anello a Viola)

 

VIOLA: Ella ha accettato l'anello da me: non lo voglio.

MALVOLIO: Suvvia, signore, voi glielo avete gettato con impertinenza ed è suo volere che vi sia così restituito. Se vale la pena inchinarsi per raccoglierlo, ecco là sotto i vostri occhi; e se no, appartenga pure a chi lo troverà.

 

(Esce)

 

VIOLA: Non le ho lasciato alcun anello: che intende questa signora? Il destino non voglia che la mia apparenza l'abbia affascinata! Ella mi ha guardata ben bene; in verità mi ha guardata tanto che mi parve che i suoi occhi avessero perduto ogni rapporto con la sua lingua, poiché parlava a scatti e sconnessanente. Ella mi ama, di certo; l'astuzia della sua passione mi invita per mezzo di questo scortese messaggero.

Non vuol saperne dell'anello del mio signore! Ma egli non gliene mandò alcuno. Sono io il suo uomo e se è così, com'è certamente, povera signora, farebbe meglio ad amare un sogno! O travestimento, vedo che sei una perversità di cui l'abile Nemico sa far buon uso. Come riesce facile agli ingannatori di bell'aspetto imprimere i loro sembianti nei cuori di cera delle donne! Ahimè, è la nostra fragilità che ne ha colpa, non noi, poiché quali siamo state fatte, tali noi siamo. Come si metteranno le cose? Il mio padrone l'ama teneramente, ed io, povero mostro, sono altrettanto innamorata di lui, ed ella, ingannandosi, sembra andar pazza per me. Come andrà a finire? Come uomo, la mia situazione è disperata per guadagnarmi l'amore del mio padrone; come donna, ahimè!, quanti inutili sospiri innalzerà la povera Olivia! O tempo, sei tu che devi districare questa vicenda, non io; per me è un nodo troppo difficile a sciogliere!

 

(Esce)

 

 

 

SCENA TERZA - La casa di Olivia

(Entrano SIR TOBIA e SIR ANDREA)

 

TOBIA: Avvicinati, sir Andrea. Non essere ancora a letto dopo la mezzanotte vuol dire esser levati per tempo; e "diluculo surgere", sai bene...

ANDREA: No, in fede mia, non lo so; ma so che star levato fino a tardi è star levato fino a tardi.

TOBIA: Una conclusione falsa che mi ripugna come una mezzina vuota.

Esser levato dopo la mezzanotte e andare a coricarsi allora, è coricarsi di buon mattino; così che andare a letto dopo la mezzanotte è andare a letto per tempo. Forse che la nostra vita non è composta di quattro elementi?

ANDREA: In fede mia, così si dice, ma io credo piuttosto che essa consista di mangiare e bere.

TOBIA: Tu sei un dotto; dunque mangiamo e beviamo. Marianna, dico! Un boccale di vino!

 

(Entra il Buffone)

 

ANDREA: Ecco il buffone, in fede mia.

BUFFONE: Ebbene, cuori miei, non avete mai veduto il ritratto di "noi tre"?

TOBIA: Benvenuto, somaro. E adesso cantiamo un ritornello.

ANDREA: Sulla mia parola, il buffone ha una voce eccellente.

Rinuncerei a quaranta scellini per avere una gamba così bella e una voce così dolce al canto come quella del buffone. In verità, ieri sera fosti di una buffoneria deliziosa, allorché parlasti di Pigrogomitus, e dei Vapii che attraversano l'equatore di Queubus: ottimo, in fede mia. Ti mandai sei soldi per la tua bella: li hai ricevuti?

BUFFONE: Ho insaccocciato la tua grattificazione; poiché il naso di Malvolio non è un manico di frusta, la mia donna ha le mani bianche e "I Mirmidoni" non è una volgare birreria.

ANDREA: Eccellente! Ebbene, dopo tutto, questa è la tua migliore buffoneria. E adesso, una canzone.

TOBIA: Suvvia, ecco sei soldi per voi; sentiamo una canzone.

ANDREA: Ed ecco un testone anche da me; quando un cavaliere dà...

BUFFONE: Volete una canzone d'amore o una canzone di buona vita?

TOBIA: Una canzone d'amore, una canzone d'amore.

ANDREA: Sì, sì: a me non interessa la vita buona.

BUFFONE (canta):

O bella mia, dove andate errando?

Oh, udite, il vostro fedel v'è accanto, che sa cantar forte e adagio.

Non vagate oltre, mio dolce cuore, cessano i giri al convegno d'amore, ciò sa il figliuol d'uom saggio.

ANDREA: Eccellentemente bene, in fede mia TOBIA: Bene, bene.

BUFFONE (canta):

L'amor cos'è? Nel futuro è fiso?

La gioia d'oggi vuol d'oggi il riso; di quel ch'è atteso non s'è sicuri.

A che mai giova se s'aspetta?

Vien dunque a baciarmi, o tanto diletta; gioventù non è stoffa che duri.

ANDREA: Una voce melliflua, come è vero che sono onorato cavaliere.

TOBIA: Un'aria contagiosa.

ANDREA: Molto soave e contagiosa, in fede mia.

TOBIA: A giudicarlo col naso, è un dolce contagio. Ma dobbiamo bere tanto da far ballare il cielo? Dobbiamo svegliare la civetta con un ritornello capace di strappar tre anime ad un tessitore? Vogliamo farlo?

ANDREA: Se mi amate, facciamolo: ho il fiuto d'un cane per le canzoni a coda.

BUFFONE: Per la madonna, signore, ci sono cani che van con la coda tra le gambe.

ANDREA: Certamente. Cantiamo il ritornello: "Oh briccone".

BUFFONE: "Fa' silenzio, briccone", cavaliere? Sarò costretto allora a chiamarti briccone, cavaliere.

ANDREA: Non sarà la prima volta che avrò costretto qualcuno a chiamarmi briccone. Comincia, buffone: il ritornello principia così:

"Fa' silenzio".

BUFFONE: Non potrò mai cominciare, se fo silenzio.

ANDREA: Bene, in fede mia. Suvvia, comincia. (Cantano un ritornello)

 

(Entra MARIA)

 

MARIA: Che putiferio fate mai qua! Se la mia signora non ha chiamato a sé il suo maggiordomo Malvolio e non gli ha comandato di buttarvi fuor dalla porta, non fidatevi più di me.

TOBIA: La signora è un'abitante del Catai, noi siamo uomini politici, Malvolio è un babau e "Noi siamo tre allegri compari"! Non sono forse suo consanguineo? Non sono del suo sangue? Oibò, signora!... (Canta) C'era un uomo in Babilonia, mia signora, o mia signora!

BUFFONE: Che io sia maledetto se il cavaliere non è in un'ammirevole vena di buffoneria.

ANDREA: Sì, ci riesce abbastanza bene quando è disposto, e così anch'io; egli ci mette più grazia, ma io maggior naturalezza.

TOBIA (canta):

Oh! il giorno dodicesimo del mese di dicembre...

MARIA: Per amor di Dio, silenzio!

 

(Entra MALVOLIO)

 

MALVOLIO: Padroni miei, siete ammattiti? O che siete dunque? Non avete né giudizio, né educazione, né decenza per mettervi a vociare come calderai a quest'ora della notte? Tenete la casa della mia signora in conto di una bettola, che urlate i vostri ritornelli da ciabattini senza alcuna mitigazione o rimorso di voce? Non avete alcun rispetto del luogo, delle persone o dell'ora?

TOBIA: Siamo andati a tempo, signore, nei nostri ritornelli. Andate a farvi impiccare!

MALVOLIO: Sir Tobia, debbo essere schietto con voi. La mia signora mi ha incaricato di dirvi che, per quanto ella vi ospiti come suo parente, non ha alcuna parentela coi vostri bagordi. Se vi riesce di separarvi dalla vostra cattiva condotta siete il benvenuto in questa casa, in caso contrario, se vi piacesse prender congedo da lei, ella è dispostissima a dirvi addio.

TOBIA (canta):

Addio, cuor mio poiché debbo partir...

MARIA: Da bravo, buon Sir Tobia.

BUFFONE (canta):

Dicon gli occhi: La vita è per finir...

MALVOLIO: Ma è mai possibile?

TOBIA (canta):

Ma io non morrò mai.

BUFFONE: Sir Tobia, in questo mentite.

MALVOLIO: Ciò vi fa molto onore.

TOBIA (canta):

Devo dirgli: Partite?

BUFFONE (canta):

E poi se glielo dite?

TOBIA (canta):

Devo dirgli: Partite? e senza risparmiarlo?

BUFFONE (canta):

Oh no, no no, voi non osate farlo.

TOBIA (al Buffone): Siete fuor di tono, signore: mentite. (A Malvolio) Sei forse qualcosa di più che un maestro di casa? Pensi forse, perché sei virtuoso, che non vi saranno più né focacce né birra?

BUFFONE: Sì, per sant'Anna, e per di più lo zenzero ci scotterà la bocca.

TOBIA: Sei nel vero. (A Malvolio) Andate, signore, e lustratevi la catena di maggiordomo con le briciole del pane. (A Maria) Un boccale di vino, Maria.

MALVOLIO: Signora Maria, se tenete in qualche considerazione il favore della mia padrona, non dovete prestarvi ad incoraggiare questa condotta ineducata. Ella ne sarà informata, lo giuro su questa mano.

 

(Esce)

 

MARIA: Andate a scuotervi le orecchie!

ANDREA: Sarebbe cosa altrettanto lodevole quanto bere quando si ha fame, sfidarlo a duello sul terreno e quindi mancare alla promessa e farsi beffe di lui.

TOBIA: Sfidalo, cavaliere, ed io ti scriverò il cartello; oppure gli riferirò la tua indignazione a voce.

MARIA: Caro sir Tobia, siate paziente, per questa notte; da quando il giovane del conte è stato oggi colla mia signora, ella è assai agitata. In quanto al signor Malvolio, affidatelo a me; se non mi fo giuoco di lui fino a farlo passare in proverbio e non lo trasformo in un generale oggetto di divertimento, pensate pure che non ho intelligenza sufficiente per sdraiarmi sul mio letto. Son sicura che ci riuscirò.

TOBIA: Di', di'; raccontaci qualcosa di lui.

MARIA: Perbacco, signore, talora egli è una sorta di puritano.

ANDREA: Oh, se ne fossi certo, lo batterei come un cane!

TOBIA: Come, soltanto perché è un puritano? E qual è la tua squisita ragione, caro cavaliere?

ANDREA: Non ho alcuna squisita ragione, ma tuttavia una ragione abbastanza buona.

MARIA: E' un diavolo di puritano o, se è qualcosa di coerente, egli non è altro che un adulatore; un asino pieno d'affettazione che s'impara a mente, senza libro, il contegno da tenere, e lo impartisce a grandi bracciate, persuasissimo di se stesso e così zeppo, egli pensa, di eccellenti qualità da far sì che base della sua fede sia diventata la sicurezza che quanti lo vedono lo amano. Appunto su questo vizio che è in lui la mia vendetta troverà un'eccellente occasione per mettersi all'opera.

TOBIA: Cosa intendi fare?

MARIA: Lascerò cadere sul suo cammino delle oscure epistole d'amore in cui per il colore della barba, per la forma delle gambe, per il modo di camminare, per l'espressione degli occhi, della fronte, della fisionomia, egli si riconoscerà molto propriamente raffigurato. So scrivere in modo molto somigliante a quello della mia signora, vostra nipote; in uno scritto non ricordo più a proposito di che, si possono a malapena distinguere le nostre calligrafie l'una dall'altra.

TOBIA: Eccellente! Subodoro uno stratagemma.

ANDREA: Anch'io ce l'ho nel naso.

TOBIA: Egli crederà, dalle lettere che lascerai cadere, che esse provengano da mia nipote e che ella sia innamorata di lui.

MARIA: Il mio progetto è, infatti, un vallo di codesto colore.

ANDREA: E il vostro cavallo adesso farebbe di lui un asino.

MARIA: Un asino, senza dubbio.

ANDREA: Oh, sarà maraviglioso!

MARIA: Un sollazzo da re, ve lo garantisco; so che la mia medicina gli farà effetto. Voi due vi farò appostare, insieme al buffone che farà da terzo, nel luogo dove egli dovrà trovare la lettera; fate attenzione al suo modo d'interpretarla. Per stanotte, a letto, e sognate dell'avventura. Addio.

 

(Esce)

 

TOBIA: Buona notte, Pentesilea.

ANDREA: In parola mia, è una brava ragazza TOBIA: E' un segugio di razza, che mi adora; che ne dite?

ANDREA: Anch'io una volta ero adorato.

TOBIA: Andiamo a letto cavaliere. Dovresti mandare a prendere dell'altro danaro.

ANDREA: Se non riesco ad ottenere vostra nipote, mi trovo in un brutto guaio.

TOBIA: Manda a prender danaro, cavaliere; se alla fine non la ottieni, chiamami ronzino.

ANDREA: Se non lo faccio, non fidatevi più di me, prendetela come volete.

TOBIA: Via, via, voglio andare a far riscaldare un po' di vino, è troppo tardi per andare a letto adesso. Andiamo, cavaliere, andiamo, cavaliere.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Il Palazzo del Duca

(Entrano il DUCA, VIOLA, CURIO ed altri)

 

DUCA: Datemi musica. Oh, buon giorno, amici. E adesso, buon Cesario, cantaci solo quel frammento di canzone, quella vecchia e antica canzone che udimmo la notte scorsa: mi parve che consolasse molto il mio dolore, più di tutte le arie leggere e le frasi musicali artificiose di questi vivaci e vertiginosi tempi. Suvvia, una sola strofa.

CURIO: Con licenza di vostra signoria, colui che dovrebbe cantarla non è qui.

DUCA: E chi avrebbe dovuto?

CURIO: Feste, il buffone, signor mio, un pazzo di cui il padre di madonna Olivia molto si dilettava. E' per casa.

DUCA: Cercalo e frattanto sonate l'aria. (Esce Curio. Musica) (A Viola) Vieni qua, fanciullo. Se mai ti accadrà di amare, ricordati di me nelle dolci angosce dell'amore, poiché tutti i veri amanti sono simili a me, incostanti e volubili in ogni loro impulso all'infuori che nella perenne immagine della creatura amata. Che ti pare di quest'aria?

VIOLA: Essa risveglia un'eco nella sede stessa ove troneggia l'amore.

DUCA: Tu parli magistralmente. Per la mia vita, per quanto tu sia giovane, il tuo occhio deve essersi già posato sopra un volto amato:

non è vero, ragazzo?

VIOLA: Un poco, con vostra licenza.

DUCA: Che tipo di donna è?

VIOLA: Del vostro aspetto.

DUCA: Allora non vale quanto te. E quanti anni ha, in fede?

VIOLA: Circa l'età vostra, mio signore.

DUCA: Troppo vecchia, per il cielo. Che la donna si prenda sempre uno più vecchio di lei, in tal modo sarà adatta per lui, in tal modo dominerà costantemente nel cuore di suo marito. Poiché, fanciullo, per quanto noi ci vantiamo, le nostre fantasie sono più mobili e malferme, più smaniose, instabili, più presto smarrite ed esauste, di quelle delle donne.

VIOLA: Lo credo per fermo, mio signore.

DUCA: E allora che la tua amata sia più giovane di te, o diversamente il tuo sentimento per lei non potrà reggere alla tensione. Le donne infatti sono come le rose, il cui bel fiore si sfoglia nel momento stesso in cui si schiude.

VIOLA: Esse sono proprio così, ahimè, proprio così; muoiono, allorquando raggiungono la perfezione!

 

(Rientra CURIO col Buffone)

 

DUCA: Oh, amico, suvvia, la canzone che udimmo la notte scorsa.

Ascoltala bene, Cesario, essa è antica e semplice; le filatrici e le tessitrici lavorando al sole e le spensierate fanciulle che tessono il loro filo con la spola sogliono cantarla. E' veramente ingenua e scherza coll'innocenza dell'amore, come negli antichi tempi.

BUFFONE: Siete pronto, signore?

DUCA: Sì; ti prego, canta. (Musica)

 

CANZONE

BUFFONE: Prendi me, prendi me, o Fato, e nel mesto cipresso io sia confitto, vola via, vola via, o fiato; una bella crudele m'ha trafitto.

Il mio sudario guarnito di tasso chi lo prepara?

Sì fido amante mai sì tristo passo fece alla bara.

Non un fior, non un fior squisito si sparga sopra la mia nera fossa:

non addio, non addio d'amico dove saran gittate le mie ossa:

per risparmiar mille e mille sospiri mi pongan dove niun fido amante mai gli occhi non giri che pietà muove.

DUCA (al Buffone dandogli del danaro): Prendi per il tuo disturbo.

BUFFONE: Nessun disturbo, signore; io prendo piacere a cantare, signore.

DUCA: Vuo' pagare il tuo piacere, allora.

BUFFONE: In verità, signore, anche il piacere dovrà esser pagato, una volta o l'altra.

DUCA: E ora dammi licenza che io ti lasci.

BUFFONE: Ebbene, che il dio della malinconia ti protegga; e che il sarto ti faccia un giustacuore di taffettà cangiante poiché la tua anima è un vero opale. Vorrei che gli uomini di tale costanza si imbarcassero, così che ogni cosa potesse essere oggetto dei loro affari e la loro meta fosse dovunque. Questo è infatti il vero mezzo per fare un buon viaggio per nulla. Addio.

 

(Esce)

 

DUCA: Tutti gli altri si allontanino. (Curio e il Seguito si ritirano) Ancora una volta, Cesario, rècati da quella sovrana crudeltà: dille che il mio amore, più nobile del mondo, non tiene in alcun pregio una dovizia di terre fangose. I beni che la fortuna le ha accordati, dille che io li stimo così negligentemente quanto la fortuna stessa; ma è quel miracolo, quella regina delle gemme di cui la natura l'ha ornata che attrae la mia anima.

VIOLA: Ma se ella non può amarvi, signore?

DUCA: Non accetterò una tale risposta.

VIOLA: Ma in verità, è necessario. Supponete che una donna, e forse ce ne sarà una, provi per amor vostro un dolore nel cuore simile a quello che sentite per Olivia; voi non potete amarla, e glielo dite: ebbene, non bisogna forse che ella accetti una tale risposta?

DUCA: Non vi è seno di donna che possa sopportare il palpito di una passione così violenta come quella che amore mi ha messo in cuore; non v'è cuore di donna così grande da contenere tanto; nessuno ha capacità sufficienti. Ahimè, il loro amore può chiamarsi appetito - non commovimento del fegato, ma del palato- che è soggetto a sazietà, a repulsione e a disgusto; ma il mio è famelico come il mare e può digerire altrettanto. Non far paragoni tra l'amore che una donna può portarmi e quello che io sento per Olivia.

VIOLA: Sì, ma io so...

DUCA: Cos'è che sai?

VIOLA: ...troppo bene quale amore le donne possono provare per gli uomini; in fede mia, esse sono altrettanto schiette di cuore quanto noi. Mio padre aveva una figlia che amava un uomo nello stesso modo come io, chi sa, se fossi una donna, forse amerei Vostra Signoria.

DUCA: E qual è la sua storia?

VIOLA: Una storia fatta di nulla. Ella non confessò mai il suo amore, ma lasciò che il suo segreto, come un verme nel bocciolo, si nutrisse delle sue rosee gote. Ella si consumava nel pensiero e con livida malinconia se ne stava come la statua della Rassegnazione sopra un monumento funebre, sorridendo al dolore. Non era quello un vero amore?

Noi uomini possiamo parlare di più, giurare di più, ma in realtà le nostre manifestazioni esteriori sorpassano la nostra volontà. Infatti siamo molto prodighi di giuramenti, ma poco d'amore.

DUCA: Tua sorella morì del suo amore, fanciullo mio?

VIOLA: Io sono tutta la famiglia di mio padre, tutte le figlie e anche tutti i fratelli; eppure non so. Signore, debbo andare da quella dama?

DUCA: Sì, questo è l'importante. Affrettati a recarti da lei; consegnale questo gioiello, e dille che il mio amore non può né lasciare il suo posto né sopportare un rifiuto.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Il giardino di Olivia

(Entrano SIR TOBIA, SIR ANDREA e FABIANO)

 

TOBIA: Vieni da questa parte, signor Fabiano.

FABIANO: Sì, vengo. Se trascuro una briciola di questo divertimento, voglio esser bollito a morte nella malinconia.

TOBIA: Non saresti contento di vedere quello spilorcio, quel ribaldo, quella sanguisuga, esemplarmente scorbacchiato?

FABIANO: Ne sarei esultante, amico. Sapete, egli mi ha tolto il favore della mia signora in occasione d'un combattimento d'orsi che si è svolto quaggiù.

TOBIA: Per farlo arrabbiare, avremo un altro orso, e ci faremo beffe di lui fino a farlo diventar livido. Non è vero, sir Andrea?

ANDREA: Se non lo facciamo, tanto peggio per noi.

TOBIA: Ecco la bricconcella.

 

(Entra MARIA)

 

Ebbene, mia ragazza d'oro?...

MARIA: Nascondetevi tutti e tre nel cespuglio di bosso: Malvolio se ne viene giù per questo viale. E' una mezz'ora che se ne sta là al sole studiando begli atteggiamenti dalla sua ombra! Osservatelo, per amor del ridicolo, poiché so che questa lettera farà di lui un'idiota contemplativo. Nascondetevi, in nome della burla! E tu resta là; (getta in terra una lettera) ecco infatti avanzarsi la trota che bisognerà prendere facendole il solletico.

 

(Esce)

(Entra MALVOLIO)

 

MALVOLIO: ...Non è che un caso; tutto è caso. Maria una volta mi disse che ella aveva dell'affetto per me, ed io stesso l'ho udita spingersi ad affermare che, se amasse, amerebbe uno del mio tipo. Inoltre mi tratta con un rispetto molto più marcato di quello che non usi con chiunque altro dei suoi dipendenti. Che debbo pensarne?

TOBIA (a parte): Che canaglia presuntuosa!

FABIANO (a parte): Oh, silenzio! La contemplazione lo trasforma in un tacchino impareggiabile; come è tronfio sotto le sue piume irte!

ANDREA (a parte): Per il cielo, come picchierei volentieri quella canaglia!

TOBIA (a parte): Silenzio, dico.

MALVOLIO: ...Essere il conte Malvolio!

TOBIA (a parte): Ah, canaglia!

ANDREA (a parte): Prendiamolo a pistolettate, a pistolettate!

TOBIA (a parte): Silenzio, silenzio!

MALVOLIO: ...Vi è un esempio d'un fatto simile; madama Stracci sposò il gentiluomo addetto al guardaroba.

ANDREA (a parte): Accidenti a quel Jezebel!

FABIANO (a parte): Oh, silenzio! adesso è profondamente immerso nelle sue meditazioni. Guardate come l'immaginazione lo gonfia.

MALVOLIO: ...Sposato a lei già da tre mesi, seduto sotto il mio baldacchino...

TOBIA (a parte): Oh, avere una balestra e colpirlo in un occhio!

MALVOLIO: ...Chiamando i miei ufficiali intorno a me, vestito della mia zimarra di velluto a fogliami; venendomene dal letticciolo sul quale ho lasciato Olivia addormentata...

TOBIA (a parte): Fuoco e zolfo!

FABIANO (a parte): Oh silenzio, silenzio!

MALVOLIO: ...E quindi assumere un'aria altera e, dopo aver rivolto un grave sguardo in giro, che faccia loro comprendere che conosco la mia posizione come vorrei che conoscessero la loro, chieder di mio parente Tobia...

TOBIA (a parte): Ceppi e catene!

FABIANO (a parte): Oh silenzio, silenzio, silenzio! Attenti, attenti!

MALVOLIO: ...Sette dei miei dipendenti, con uno slancio obbediente, si recano a cercarlo; nell'attesa io aggrotto le sopracciglia, o magari do corda all'orologio, o mi trastullo col mio... con qualche ricco gioiello. Tobia si avvicina... mi fa una riverenza...

TOBIA (a parte): E questo gaglioffo deve continuare a vivere?

FABIANO (a parte): Anche se il nostro silenzio dovesse esserci strappato con le carra, ancora una volta, silenzio!

MALVOLIO: ...Io stendo la mano verso di lui in questo modo, temperando il mio sorriso familiare con un austero sguardo autoritario...

TOBIA (a parte): E allora Tobia non ti dà un manrovescio sulle labbra?

MALVOLIO: ...dicendo: "Cugino Tobia, dato che la mia fortuna mi ha affidato vostra nipote, accordatemi la prerogativa di parlare...".

TOBIA (a parte): Come, come?

MALVOLIO: ..."Dovete correggervi della vostra ubriachezza".

TOBIA (a parte): Va' via, rognoso!

FABIANO (a parte): Suvvia, pazienza, oppure fiaccheremo il nerbo del nostro complotto.

MALVOLIO: ..."E poi, voi sprecate il tesoro del vostro tempo con un cretino d'un cavaliere...".

ANDREA (a parte): Questo son io, ve lo garantisco.

MALVOLIO: ..."Un certo sir Andrea...".

ANDREA (a parte): Lo sapevo che ero io, perché molti mi chiamano cretino.

MALVOLIO: Che roba è questa?

 

(Raccoglie la lettera)

 

FABIANO (a parte): Adesso il merlo è vicino alla trappola.

TOBIA (a parte): Oh, silenzio, e che il genio delle burle gli suggerisca di leggere ad alta voce.

MALVOLIO: Per la mia vita, questa è la calligrafia della mia signora, proprio così fa la f, la i, la c, la a, ed è così che ella fa le sue p maiuscole. Senza discussione, è la sua scrittura.

ANDREA (a parte): La f, la i, la c, la a; e perché mai?

MALVOLIO (legge): "All'ignoto adorato questa lettera, e i miei auguri di felicità"; proprio le sue frasi! Col vostro permesso, ceralacca. Ma piano! E il sigillo è la sua Lucrezia, colla quale ella è solita sigillare; è proprio la mia signora. A chi può essere indirizzata?

FABIANO (a parte): Eccolo preso in trappola, col fegato e tutto il resto.

MALVOLIO (legge): "Giove sa che io amo; ma l'amor mio chi è?

Oh, labbra, non movetevi; niuno saperlo de'".

"Niuno saperlo de'". Cosa vien dopo? Il metro cambia! "Niuno saperlo de'". E se questi fossi tu, Malvolio?

TOBIA (a parte): Perdiana, va' a farti impiccare, marmotta.

MALVOLIO: (legge):

"Là dove adoro, comandar poss'io; ma, pugnal di Lucrezia; m'ha ferito senza sangue il silenzio al cuore mio:

M, O, A, I governa la mia vita".

FABIANO (a parte): Un enigma pretenziosamente ingarbugliato.

TOBIA (a parte): E' una ragazza straordinaria, vi dico.

MALVOLIO: "M, O, A, I governa la mia vita". Sì, ma prima vediamo un po', vediamo un po', vediamo un po'.

FABIANO (a parte): Che piatto di veleno gli ha ammannito!

TOBIA (a parte): E con che slancio il gheppio vi si getta sopra!

MALVOLIO: "Là dove adoro, comandar poss'io". Eh sì, ella potrebbe comandarmi, poiché la servo ed è la mia padrona: ebbene, questo è evidente ad ogni comune intelligenza. Non c'è difficoltà in questo, e la finale... che cosa dovrebbe significare quella disposizione alfabetica? Se potessi adattarla a qualcosa che mi si riferisce... M O, A, I...

TOBIA (a parte): O, I... spiegalo un po'; adesso è su una falsa traccia.

FABIANO (a parte): Fido nondimeno abbaierà cercandola, benché la traccia sia acre come quella di una volpe.

MALVOLIO: M... Malvolio; M... diamine, così comincia il mio nome.

FABIANO (a parte): Non l'avevo detto che ne avrebbe cavato un senso?

E' un cane ottimo per ritrovare una pista perduta.

MALVOLIO: M... Ma non c'è accordo in quanto segue; la supposizione non regge a un esame. Dopo dovrebbe esserci un'A e invece c'è una O.

FABIANO (a parte): E spero che finirà con un "Oh!".

TOBIA (a parte): Sì, oppure lo bastonerò e gli farò gridare "Oh!" io stesso.

MALVOLIO: E dietro agli altri viene un'I schietta e senza nocchio.

FABIANO (a parte): Eh, se aveste un occhio di dietro potreste vedere più diffamazioni alle vostre calcagna che buone fortune, innanzi a voi.

MALVOLIO: M, O, A, I; questo indovinello non è facile a spiegarsi quanto l'altro. Eppure, spremendo un poco il senso, esso potrebbe riferirsi a me poiché ognuna di queste lettere si ritrova nel mio nome. Piano! Ecco che segue della prosa. (Legge) "Se questa cadrà nelle tue mani, rifletti. Per la mia costellazione sono al di sopra di te, ma non lasciarti spaventare dalla grandezza. Alcuni nascono grandi, altri pervengono alla grandezza, e ad altri ancora essa viene imposta. Il tuo destino ti tende la mano, lascia che il tuo sangue e il tuo spirito la stringano e, per abituarti a quello che potresti diventare, getta la tua umile spoglia e rinnovellati. Sii ostile con un parente rude coi servi; la tua lingua blateri ragioni di Stato, assumi un'aria di eccentricità: così ti consiglia colei che sospira per te. Ricordati di chi ha lodato le tue calze gialle, augurandosi di vederti sempre colle giarrettiere incrociate; ricordati, ti ripeto.

Avanti, sei ormai giunto in porto, se lo desideri; se no, rimani pure un semplice maggiordomo, un eguale dei servi indegno di sfiorare la dita della Fortuna. Addio. Colei che desidererebbe servirti invece di essere servita. La fortunata infelice".

La luce del giorno in aperta campagna non potrebbe rivelare di più: è chiaro. Sarò superbo, leggerò autori che parlano di politica, schernirò sir Tobia, mi libererò di tutti i conoscenti triviali, e sarò per filo e per segno quale mi si desidera. Non mi faccio illusioni, non mi lascio turlupinare dall'immaginazione, poiché tutte le ragioni mi incoraggiano a credere che la mia signora mi ama. Ella lodò ultimamente le mie calze gialle, ed elogiò le mie gambe per le loro giarrettiere incrociate, in ciò ella si palesa al mio amore e con una sorta d'ingiunzione mi invita a seguire queste abitudini di suo gradimento. Ringrazio le mie stelle, sono felice! Voglio essere riservato e orgoglioso, colle calze gialle e le giarrettiere incrociate e questo colla rapidità del lampo. Lode a Giove e alle mie stelle! Ma c'è anche un poscritto. (Legge) "E' impossibile che tu non riconosca chi io sia. Se non respingi il mio amore, lascialo apparire nel tuo sorriso; il sorriso ti si addice molto, e quindi in mia presenza sorridi sempre, caro amor mio, te ne prego". Giove, ti ringrazio. Sorriderò, farò qualunque cosa che tu mi chieda di fare.

 

(Esce)

 

FABIANO: Non darei la mia parte di questa burla per una pensione di mille sterline pagabili dallo Scià di Persia.

TOBIA: Mi sentirei di sposar quella ragazza solo per aver saputo organizzare questo complotto...

ANDREA: Anch'io.

TOBIA: E non chiederei altra dote all'infuori di uno scherzo del medesimo genere.

ANDREA: Nemmeno io le chiederei altro.

FABIANO: Ecco venire la mia nobile accalappiatrice di gonzi.

 

(Rientra MARIA)

 

TOBIA: Vuoi mettermi il piede sul collo?

ANDREA: Oppure sul mio?

TOBIA: Vuoi che giuochi la mia libertà a tavola reale e diventi il tuo schiavo?

ANDREA: O che lo diventi io, sulla mia parola?

TOBIA: Diamine, l'hai immerso in una tale chimerica fantasia che quando l'immagine di quella lo abbandonerà, egli dovrà impazzirne.

MARIA: Suvvia, dite la verità, il trucco agisce su di lui?

TOBIA: Come l'acquavite su una levatrice.

MARIA: Allora se desiderate vedere i frutti della burla osservate il suo primo comparire davanti alla mia signora. Egli si recherà da lei in calze gialle, ed è questo un colore che ella aborrisce, e colle giarrettiere incrociate, una moda che ella detesta, ed egli le sorriderà, il che adesso mal si adatta alle disposizioni di spirito in cui ella si trova, data la malinconia a cui è in preda; di modo che tutto ciò non potrà mancare di attirargli qualche bella lavata di capo. Se volete veder questo, seguitemi.

TOBIA: Fino alle porte del Tartaro, eccellentissimo demonio d'intelligenza!

ANDREA: Vengo anch'io.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA - Il giardino di Olivia

(Entrano VIOLA e il Buffone con un tamburello)

 

VIOLA: Dio ti guardi, amico, te e la tua musica; vivi alle spalle del tuo tamburello?

BUFFONE: No, signore, vivo alle spalle della chiesa.

VIOLA: Sei un ecclesiastico?

BUFFONE: Niente di ciò signore: vivo proprio alle spalle della chiesa, poiché vivo in casa mia e la mia casa è a ridosso della chiesa.

VIOLA: Nello stesso medo potresti dire che il re si corica accanto a una mendicante, se una mendicante dimora presso a lui; o che la chiesa si sostiene col tuo tamburello, se il tuo tamburello sta posato vicino alla chiesa.

BUFFONE: L'avete detto, signore. Che epoca è mai questa! Una frase è solamente un guanto di capretto per un bello spirito: come si fa presto a mettere il rovescio dal dritto!

VIOLA: Sì, è cosa certa che quanti si trastullano sottilmente colle parole, possono facilmente corromperle.

BUFFONE: E perciò vorrei che mia sorella non avesse nome, signore.

VIOLA: E perché amico?

BUFFONE: Perché il suo nome è una parola, signore, e a trastullarsi con quella parola potrebbe perderla. Ma in verità le parole sono delle vere canaglie da quando certe cospirazioni le hanno disonorate.

VIOLA: La tua ragione, amico?

BUFFONE: In fede mia, signore, non posso darvene alcuna senza usare delle parole, e le parole sono diventate così false che mi ripugna usarle per ragionare.

VIOLA: Garantisco che sei un allegro compare e che non ti curi di nulla.

BUFFONE: Non è vero, signore, di qualcosa mi curo anch'io; ma in coscienza, signore, non mi curo di voi. Se questo è non curarsi di nulla. signore, vorrei che ciò vi rendesse invisibile.

VIOLA: Non sei il buffone di madonna Olivia?

BUFFONE: No davvero, signore; madonna Olivia non ha follia indosso e non si terrà un pazzo attorno fin quando non sarà maritata; e i pazzi somigliano tanto ai mariti quanto le salacche alle aringhe. I mariti sono pesci più grossi, ed io non sono il suo pazzo ma il suo corruttore di parole.

VIOLA: Ti ho visto ultimamente dal conte Orsino.

BUFFONE: La pazzia, signore, se ne va a spasso attorno al mondo come il sole, e splende dovunque. Sarei tuttavia dispiacente, signore, se la follia fosse in compagnia del vostro padrone altrettanto sovente quanto lo è colla mia padrona Mi sembra di aver visto laggiù la Saggezza Vostra!

VIOLA: Ah, se mi prendi in giro non ne vorrò più sapere di te. Tieni, eccoti per le tue spese.

BUFFONE: Che Giove, nella sua prossima consegna di peli, ti mandi una barba!

VIOLA: In fede mia ti confesso che ne desidero una ardentemente; (a parte) benché non vorrei che mi spuntasse sul mento. E' in casa la tua padrona?

BUFFONE (mostrando la moneta): Se me ne aveste dato un paio, non si sarebbero moltiplicate, signore?

VIOLA: Sì, se fossero state tenute assieme, e fatte fruttare.

BUFFONE: Farei la parte del signor Pandaro di Frigia, signore, per condurre una Cressida a questo Troilo.

VIOLA: Vi comprendo, signore; sapete mendicar bene.

BUFFONE: L'affare, credo, non è molto buono, signore; mendicare soltanto una mendicante! Cressida era una mendicante. La mia padrona è in casa, signore. Spiegherò loro donde venite; chi siate e cosa vogliate è fuori del mio ambito. Potrei dire del mio "elemento", ma la parola è troppo usata.

 

(Esce)

 

VIOLA: L'amico è savio abbastanza per fare il matto, e, per farlo bene, ci vuole una sorta d'intelligenza. Egli deve studiare l'umore di quelli che prende in giro, la qualità delle persone e il tempo e, come il falco selvaggio, gettarsi su ogni piuma che gli cada sotto gli occhi. Questo è un mestiere altrettanto faticoso quanto l'arte di chi fa il saggio; poiché la follia che egli mostra saggiamente risponde allo scopo, mentre i saggi, una volta ammattiti, perdono completamente la ragione.

 

(Entrano SIR TOBIA e SIR ANDREA)

 

TOBIA (a Viola): Salute, galantuomo.

VIOLA: E a voi pure signore.

ANDREA: "Dieu vous garde, monsieur".

VIOLA: "Et vous aussi; vôtre serviteur".

ANDREA: Spero, signore, che lo siate davvero, come io sono il vostro.

TOBIA: Volete inoltrarvi nella casa? Mia nipote desidera che entriate, se è con lei che avete da trattare.

VIOLA: Mi dirigo verso vostra nipote, signore; voglio dire che essa è il limite del mio viaggio.

TOBIA: Provate le gambe, signore, e mettetele in movimento.

VIOLA: Le mie gambe, signore, mi sostengono meglio di quanto io non sostenga di capire ciò che intendete dire raccomandandomi di provare le gambe.

TOBIA: Intendo dire che andiate, signore, e che entriate.

VIOLA: Vi risponderò in modo andante, entrando... ma siamo stati prevenuti.

 

(Entrano OLIVIA e MARIA)

 

Eccellentissima e compita signora, che il cielo faccia piovere i suoi aromati su voi.

ANDREA: Quel giovane è un cortigiano eccezionale; ha detto: "Piovere i suoi aromati...". Bene!

VIOLA: Il mio incarico, signora, non ha voce che per il vostro orecchio apparecchiato e condiscendente.

ANDREA: "Aromati", "apparecchiato" e "condiscendente". Voglio prender nota di questi tre vocaboli.

OLIVIA: Si chiuda la porta del giardino e lasciatemi dare udienza.

 

(Escono Sir Tobia, Sir Andrea e Maria) Datemi la mano, signore

 

VIOLA: I miei doveri, signora, e i miei umilissimi servigi.

OLIVIA: Come vi chiamate?

VIOLA: Cesario è il nome del vostro servo, bella principessa.

OLIVIA: Mio servo, signore? Il mondo non è stato mai felice da quando la bassa adulazione fu chiamata complimento Voi siete servo del conte Orsino, giovane!

VIOLA: Ed egli è il vostro, e quindi anche il suo deve essere servo vostro; il servo del vostro servo è il vostro servo, signora.

OLIVIA: In quanto a lui, non ci penso nemmeno; per quello che si riferisce ai suoi pensieri, vorrei che fossero privi di sostanza piuttosto che pieni di me.

VIOLA: Signora, vengo a stimolare i vostri cortesi pensieri in suo favore.

OLIVIA: Oh, di grazia, vi prego; vi ho detto di non parlarmi mai più di lui. Ma se voi intraprendete a sostenere un'altra causa preferirei ascoltare le vostre sollecitazioni che non l'armonia delle sfere.

VIOLA: Cara signora...

OLIVIA: Permettete, vi supplico. Ho inviato sulle vostre tracce, dopo l'ultimo incantesimo che compiste qua, un anello, e così ho ingannato me stessa, il mio servo, e, temo, anche voi. Devo essermi esposta al vostro giudizio sfavorevole per avervi costretto ad accettare con vergognosa astuzia, una cosa che sapevate non appartenervi. Che avete potuto pensare? Non avete attaccato il mio onore al palo scatenando contro di esso tutti i pensieri sguinzagliati che può concepire un cuore spietato? Per un uomo della vostra comprensione, ho già rivelato abbastanza. Un velo, non un petto, copre il mio cuore. E ora lasciate che io ascolti le vostre parole.

VIOLA: Vi compiango.

OLIVIA: E' un gradino verso l'amore.

VIOLA: No, nemmeno un passo, poiché è comune esperienza che molto sovente commiseriamo i nostri nemici.

OLIVIA: Ebbene, allora mi pare sia tempo di tornare a sorridere. O mondo, come sono pronti i poveri ad essere orgogliosi! Se si deve cadere in preda di qualcuno, quanto è preferibile esser vittima del leone piuttosto che del lupo! (Un orologio suona) L'orologio mi rimprovera per il tempo che perdo. Non abbiate paura, buon giovane, non vi voglio; eppure quando il vostro intelletto e la vostra giovinezza saranno giunti a maturazione, vostra moglie avrà la probabilità di prendersi un bell'uomo. Ecco la vostra strada che volge a ponente.

VIOLA: E allora andiamocene a ponente! Che la grazia e il buon umore si mettano al seguito di Vostra Signoria! Avete nulla, signora, da comunicare per mio mezzo al mio padrone?

OLIVIA: Fermati. Ti prego, dimmi cosa pensi di me.

VIOLA: Che pensate di non essere quel che siete.

OLIVIA: Se penso così, penso la stessa cosa di voi.

VIOLA: Allora pensate giustamente: io non sono quel che sono.

OLIVIA: Foste voi ciò che vorrei che foste!

VIOLA: Sarebbe forse meglio, signora, di quel che sono? Ne sarei lieto, perché adesso sono il vostro zimbello.

OLIVIA: Oh, come il disdegno sembra bello nel disprezzo e nell'ira delle sue labbra! Una colpa delittuosa non si tradisce più rapidamente dell'amore che vorrebbe celarsi: la notte dell'amore è il meriggio.

Cesario, per le rose della primavera, per la verginità, l'onore, la verità e per quanto esiste, io ti amo tanto che, a dispetto di tutto il tuo orgoglio, né l'intelligenza, né il ragionamento possono nascondere la mia passione. Non estorcere pretesti da quanto t'ho detto adducendo che, se io stessa imploro il tuo amore, tu, quindi, non hai alcuna ragione di fare altrettanto. Ma piuttosto concatena ragione a ragione e pensa che l'amore implorato è bello, ma più bello ancora è l'amore che si dona spontaneamente.

VIOLA: Giuro per la mia innocenza e per la mia giovinezza di avere un cuore, un'anima e una fede che nessuna donna possiede, e che mai nessuna ne sarà padrona all'infuori di me soltanto. E così addio, buona signora: mai più verrò a piangere davanti a voi le lacrime del mio padrone.

OLIVIA: Ciò non di meno ritorna; forse potrai indurre quel cuore che adesso lo aborrisce ad amare il suo amore.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - La casa di Olivia

(Entrano SIR TOBIA, SIR ANDREA e FABIANO)

 

ANDREA: No, davvero, non rimarrò neanche un minuto di più.

TOBIA: La tua ragione, caro velenoso, dicci la tua ragione!

FABIANO: Bisogna assolutamente che diciate la vostra ragione, sir Andrea.

ANDREA: Per il cielo, ho visto vostra nipote fare maggiori favori al servo del conte che non ne abbia mai fatti a me; l'ho visto in giardino.

TOBIA: Ed ella ti vedeva durante quel tempo, vecchio mio? Dimmi questo.

ANDREA: Così chiaramente come vi vedo io adesso.

FABIANO: Questa era una grande prova di amore da parte di lei verso di voi.

ANDREA: Per il cielo, volete prendervi gioco di me?

FABIANO: Proverò la legittimità di quanto affermo sotto il giuramento del giudizio e della ragione TOBIA: Ed essi furono grandi giurati prima ancora che Noè fosse un marinaio.

FABIANO: Ella mostrò il suo favore al giovane in vostra presenza soltanto per esasperarvi, per risvegliare quel ghiro del vostro valore, per mettervi il fuoco in petto e lo zolfo nel fegato. E' allora che avreste dovuto accostarla, e con qualche bella arguzia, nuova di zecca, avreste dovuto fare ammutolire di colpo quel giovane.

Ecco quel che si attendeva da voi, ma l'attesa fu delusa; avete lasciato che il tempo cancellasse la doppia doratura di questa occasione, e adesso state navigando a tramontana della stima della mia signora. Laggiù resterete sospeso come un ghiacciolo alla barba di un olandese, a meno che non riscattiate il vostro errore con qualche lodevole saggio di valore o di politica.

ANDREA: Se il saggio si dovrà fare, sarà un atto di valore, perché odio la politica. Mi piacerebbe tanto poco essere un uomo politico quanto essere un brownista.

TOBIA: Ebbene, allora fabbricati la tua fortuna sulla base del valore.

Sfida il giovane del conte a duello, e feriscilo in undici punti; mia nipote ne terrà conto. E stai sicuro che non vi è al mondo mezzano di maggior autorità nel raccomandare un uomo a una donna che una reputazione di valore.

FABIANO: Non c'è altra via che questa, sir Andrea.

ANDREA: Uno di voi due si incaricherà di portargli la mia sfida?

TOBIA: Va', e scrivila con mano marziale, e sii aggressivo e breve.

Non importa che tu sia intelligente, purché tu sia eloquente e pieno d'immaginazione. Rimproveralo con la licenza di espressioni permessa dalle parole scritte; se gli darai del tu due o tre volte non sarà mal fatto. Dagli tante smentite quante ne può contenere il tuo foglio di carta, anche se il foglio fosse grande abbastanza da farci entrare il letto di Ware in Inghilterra, va' all'opera! Fa' sì che nel tuo inchiostro vi sia fiele a sufficienza, anche se tu debba scrivere con una penna d'oca: non fa nulla, all'opera!

ANDREA: E dove vi troverò?

TOBIA: Ti verremo a cercare al cubicolo: va'.

 

(Sir Andrea esce)

 

FABIANO: E' un ometto che vi è caro, sir Tobia.

TOBIA: Sono io che sono stato caro per lui, ragazzo; circa duemila sterline o giù di lì.

FABIANO: Avremo da lui una lettera speciale; ma voi non la consegnerete mica?

TOBIA: Non fidatevi più di me, allora; con ogni mezzo spingerò il giovane a dare una risposta. Credo che ne bovi, né funi potrebbero trascinarli a incontrarsi. In quanto ad Andrea se lo si sezionasse e voi trovaste nel suo fegato tanto sangue quanto basta ad appesantire la zampa di una pulce, mi impegnerei a mangiare il resto del pezzo anatomico.

FABIANO: Ed il suo antagonista, il giovane, non porta in volto grandi sintomi di ferocia.

 

(Entra MARIA)

 

TOBIA: Guarda ecco che viene il più piccolo scricciolo della nidiata.

MARIA: Se vi piace l'allegria e volete ridere fino a sentirvi dolere i fianchi, seguitemi. Quel balordo di Malvolio è diventato un pagano, un vero rinnegato; poiché non c'è cristiano desideroso di salvarsi l'anima seguendo la vera fede il quale sia mai disposto a credere a degli atti così incredibili di stupidaggine. Egli ha le calze gialle.

TOBIA: E le giarrettiere incrociate?

MARIA: In modo abominevole, come un pedante che faccia scuola in chiesa. L'ho pedinato come se fossi il suo assassino: obbedisce punto per punto alla lettera che ho lasciato cadere per ingannarlo. Il sorriso gli scava sul volto più linee di quante non ve ne siano nella nuova carta geografica coll'aggiunta delle Indie: non si è mai visto nulla di simile. Mi trattengo a fatica da tirargli dietro qualcosa.

Sono sicura che la mia signora lo batterà; in tal caso egli si metterà a sorridere e lo considererà un gran favore.

TOBIA: Suvvia, conducici, conducici dov'è.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Una strada

(Entrano SEBASTIANO e ANTONIO)

 

SEBASTIANO: Non avrei voluto scomodarvi a bella posta, ma dato che vi fate un piacere delle vostre pene, non vi sgriderò più.

ANTONIO: Non ho potuto rimanere addietro a voi; il mio desiderio, più tagliente dell'acciaio affilato, mi spronava innanzi, e non era solamente vaghezza di vedervi, benché essa fosse forte abbastanza da poter indurre ad un viaggio anche più lungo, ma ansia di ciò che avrebbe potuto capitarvi per via, essendo voi inesperto di queste località che, per uno straniero senza guida e senza amici, sovente si rivelano aspre ed inospitali. Il mio premuroso affetto, reso ancor più premuroso da questi motivi di apprensione mi ha spinto al vostro inseguimento.

SEBASTIANO: Mio gentile Antonio, non posso darvi altra risposta che:

grazie, e grazie, e sempre grazie; poiché spesso i buoni servigi sono ripagati con questa moneta fuori corso. Ma, se le mie ricchezze fossero solide quanto la mia coscienza, trovereste miglior ricompensa.

Che fare? Dobbiamo andarcene a visitare i monumenti di questa città?

ANTONIO: Domani, signore: prima è meglio che andiate a visitare il vostro alloggio.

SEBASTIANO: Non sono stanco, e c'è ancora molto, prima di notte. Vi prego, soddisfacciamo i nostri occhi coi monumenti e le cose famose che danno rinomanza a questa città.

ANTONIO: Vogliate allora scusarmi; non posso aggirarmi per queste strade senza pericolo. Una volta, in un combattimento navale contro le galere del conte, resi qualche servigio; servigio, anzi, di una tale importanza che, se fossi catturato qui, me ne sarebbe mostrata poca gratitudine.

SEBASTIANO: Probabilmente avete ucciso un gran numero dei suoi.

ANTONIO: La mia colpa non è di natura cosi sanguinosa, per quanto le circostanze del tempo e del combattimento avrebbero potuto benissimo dar luogo ad una sanguinosa contesa. Da allora a tutto si sarebbe potuto rimediare restituendo quello che avevamo tolto, e questo fu fatto dalla maggior parte dei cittadini a vantaggio del loro stesso commercio. Io solo mi rifiutai, e quindi, se fossi sorpreso in questo luogo, la pagherei cara.

SEBASTIANO: Non andate in giro troppo apertamente.

ANTONIO: E' una cosa che non so fare. Tenete signore, ecco la mia borsa. E' meglio andare ad alloggiare nei sobborghi situati a mezzogiorno, all'"Elefante"; ordinerò il nostro pranzo, mentre voi ingannate il tempo nutrendo la vostra sapienza colla visita della città. Mi troverete laggiù.

SEBASTIANO: Perché mi date la vostra borsa?

ANTONIO: Forse il vostro sguardo si poserà su qualche gingillo che avreste desiderio di acquistare e la vostra provvista credo che non sia bastevole per delle spese superflue, signore.

SEBASTIANO: Sarò allora il custode della vostra borsa e vi lascerò per un'ora.

ANTONIO: All'"Elefante".

SEBASTIANO: Me ne ricorderò.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Il giardino di Olivia

(Entrano OLIVIA e MARIA)

 

OLIVIA (a parte): L'ho mandato a chiamare; dice che verrà. Come lo festeggerò? cosa gli potrò dare? Poiché la giovinezza ama piuttosto lasciarsi comprare che donarsi o concedersi in prestito. Ma parlo troppo forte. (A Maria) Dov'è Malvolio? Egli è serio e contegnoso, ed è un servo molto adatto alla mia situazione: dov'è Malvolio?

MARIA: Viene, signora; ma in una guisa assai strana. Certamente è invasato, signora.

OLIVIA: Ebbene, che c'è? forse che vaneggia?

MARIA: No, signora, egli non fa altro che sorridere; Vostra Signoria farebbe bene a tenersi qualche guardia vicina, se egli viene, poiché sicuramente l'amico non ha il cervello a posto.

OLIVIA: Va' e fallo venir qui. (Maria esce) Sono pazza quanto lui, se pazzia triste e pazzia allegra sono la medesima cosa.

 

(Rientra MARIA con MALVOLIO)

 

Ebbene, Malvolio?

MALVOLIO: Cara signora, oh, oh!

OLIVIA: Sorridi? Ti ho mandato a chiamare per un affare grave.

MALVOLIO: Grave, signora? So esser grave. Mi causano un certo intoppo nel sangue, queste giarrettiere incrociate: ma che farci? Purché ciò vada a genio ad una certa persona, posso dire esattamente come il sonetto: "Piacere ad una è piacere a tutte!".

OLIVIA: Ebbene, come va amico? Che cos'hai?

MALVOLIO: Non c'è nero nella mia anima anche se vi è del giallo sulle mie gambe. E' arrivata tra le sue mani, ed i comandi saranno eseguiti.

Credo che siamo in grado di riconoscere la bella scrittura romana.

OLIVIA: Te ne vuoi andare a letto, Malvolio?

MALVOLIO: A letto? Sì, amor mio, e ti verrò a trovare.

OLIVIA: Che Dio ti assista, perché sorridi a quel modo e ti baci così sovente la mano?

MARIA: Come vi sentite, Malvolio?

MALVOLIO: Rispondere a voi! Sì, vi risponderò, poiché gli usignoli talvolta rispondono alle gazze.

MARIA: Perché apparite davanti alla mia signora con questa ridicola impertinenza?

MALVOLIO: "Non lasciarti spaventare dalla grandezza". Era scritto ben chiaro.

OLIVIA: Che vuoi dire con questo, Malvolio?

MALVOLIO: "Alcuni nascono grandi...".

OLIVIA: Eh?

MALVOLIO: "Altri pervengono alla grandezza...".

OLIVIA: Che dici?

MALVOLIO: "E ad alcuni essa viene imposta".

OLIVIA: Che il cielo ti guarisca!

MALVOLIO: "Ricordati di chi ha lodato le tue calze gialle...".

OLIVIA: Le tue calze gialle?

MALVOLIO: "Augurandosi di vederti colle giarrettiere incrociate".

OLIVIA: Colle giarrettiere incrociate?

MALVOLIO: "Avanti, sei ormai giunto in porto, se lo desideri...".

OLIVIA: Sono arrivata in porto?

MALVOLIO: "Se no rimani per sempre un servo".

OLIVIA: Eh, ma questa è pazzia canicolare!

 

(Entra un Servo)

 

SERVO: Signora, il giovane gentiluomo del conte Orsino è tornato; a gran fatica sono riuscito a ricondurlo addietro. Egli attende il piacere della Signoria Vostra.

OLIVIA: Vengo da lui. (Il Servo esce) Buona Maria, provvedi a che l'amico sia sorvegliato. Dov'è mio cugino Tobia? Qualcuno dei miei dipendenti si prenda una cura particolare di lui; non vorrei per la metà della mia dote che gli accadesse disgrazia.

 

(Escono Olivia e Maria)

 

MALVOLIO: Oh, oh! Mi venite vicino adesso, eh? Un personaggio dell'importanza di sir Tobia per prendersi cura di me! Ciò è in perfetto accordo colla lettera, essa lo manda qui a bella posta perché io abbia occasione di mostrarmi sgarbato con lui, come mi incita a fare nella sua lettera. "Getta la tua umile spoglia ella dice - sii ostile con un parente, rude coi servi; la tua lingua blateri ragioni di Stato; assumi un'aria di eccentricità". E in relazione a questi consigli, mi specifica la maniera che debbo usare: faccia grave, portamento solenne, parola lenta, al modo di qualche distinto signore, e così via. L'ho invescata: ma è opera di Giove, e Giove mi faccia riconoscente! Quando un momento fa se n'è andata: "Provvedi a che l'amico sia sorvegliato", ha detto: ..."amico"... non Malvolio, non secondo il mio grado, ma "amico". Diamine, tutto combina assieme così che non una dramma di scrupolo, non lo scrupolo di uno scrupolo, non un ostacolo, nessuna circostanza incredibile o infida... Che si può dire? Nulla di possibile può frapporsi tra me stesso e il pieno compimento delle mie speranze. Bene, Giove, e non io, è l'artefice di tutto questo, ed è lui che dev'essere ringraziato.

 

(Rientra MARIA, con SIR TOBIA e FABIANO)

 

TOBIA: Da che parte è, in nome di ciò che è santo? Anche se tutti i diavoli dell'inferno mi condannassero in un breve spazio, e la legione medesima dei demoni si fosse impadronita di lui, gli vorrei parlare lo stesso.

FABIANO: Eccolo, eccolo. Come va, signore? Come va, amico?

MALVOLIO: Allontanatevi io vi congedo; lasciatemi godere la mia solitudine. Allontanatevi.

MARIA: Olà, come il diavolo parla cavernosamente in lui! Non ve l'avevo detto? Sir Tobia, la mia signora vi prega di prendervi cura di lui.

MALVOLIO: Ah, ah, davvero?

TOBIA: Via, via! silenzio, silenzio! Bisogna agire dolcemente con lui; lasciatemi solo. Come state, Malvolio? Come va? Ebbene, amico, sfidate il diavolo! Considerate che egli è un nemico dell'umanità.

MALVOLIO: Sapete cosa dite?

MARIA: Vedete un po' come se la prende a cuore quando sparlate del diavolo! Dio non voglia che egli sia stregato!

FABIANO: Portate la sua orina alla fattucchiera.

MARIA: Perdiana, sarà fatto domattina, se sarò ancora viva! La mia signora non vorrebbe perderlo per una cifra maggiore di quanto io possa dire.

MALVOLIO: Ebbene, padrona!...

MARIA: Oh, signore!

TOBIA: Ti prego, stai zitta, questa non è la maniera, non vedete che lo turbate? Lasciatemi solo con lui.

FABIANO: Non vi è altro metodo all'infuori della dolcezza; dolcemente, dolcemente; il diavolo è rozzo, e non ama di esser trattato rozzamente.

TOBIA: Ebbene come andiamo, cocco bello? Come stai, colombella?

MALVOLIO: Signore!

TOBIA: Sì, cocchino, vieni con me. Ebbene, non si conviene alla tua gravità giocare a nocino con Satana; che vada a farsi impiccare, quel sudicio carbonaio!

MARIA: Fategli recitare le sue preghiere, buon sir Tobia; fatelo pregare.

MALVOLIO: Le mie preghiere, sfacciatella?

MARIA: No, ve lo garantisco io che non vuol sentir parlare di devozione!

MALVOLIO: Andate a farvi impiccare tutti quanti! Siete degli esseri oziosi e superficiali, ed io non appartengo al vostro mondo, ne saprete di più a suo tempo.

 

(Esce)

 

TOBIA: E mai possibile?

FABIANO: Se un fatto simile si recitasse oggi su un palcoscenico, potrei condannarlo come una fantasia inverosimile.

TOBIA: La nostra beffa si è impadronita completamente della sua anima, amico.

MARIA: Suvvia, seguiamolo adesso, per timore che la beffa non svapori e non si guasti.

FABIANO: Diamine, lo faremo diventar pazzo, davvero!

MARIA: La casa ci guadagnerà in tranquillità.

TOBIA: Venite, lo metteremo in una stanza buia, dopo averlo legato.

Mia nipote è già persuasa che egli è matto; possiamo tirare avanti lo scherzo per nostro divertimento e sua penitenza, finché il nostro stesso svago, stanco da perdere il fiato, non ci spinga ad aver pietà di lui. Allora porteremo la beffa alla sbarra e ti incoroneremo ricercatrice ed esaminatrice dei matti. Ma guardate, guardate!

 

(Entra SIR ANDREA)

 

FABIANO: Nuovi divertimenti per un mattino di maggio!

ANDREA: Ecco la sfida, leggetela; vi garantisco che c'è aceto e sale dentro.

FABIANO: E' così piccante?

ANDREA: Sì, glielo posso garantire: non avete che da leggerla.

TOBIA: Date qua. (Legge): "Giovane, chiunque tu sia, non sei che un essere spregevole".

FABIANO: Bene, bravo!

TOBIA (legge): "Non sorprenderti, non meravigliarti, nella tua mente domandandoti perché io ti chiami così, poiché non te ne paleserò la ragione".

FABIANO: Una buona osservazione, che vi mette al riparo dai colpi della legge.

TOBIA (legge): "Tu vieni da madonna Olivia, ed in mia presenza ella ti tratta gentilmente: ma menti per la gola, poiché questa non è la causa che mi spinge a sfidarti".

FABIANO: Molto breve e straordinariamente in... sensato.

TOBIA (legge): "Ti farò la posta al tuo ritorno, e, se vorrà il caso che tu mi uccida..." FABIANO: Bene.

TOBIA (legge): "...tu mi ammazzerai come una canaglia e un ribaldo".

FABIANO: Vi mantenete sempre dalla parte della legge, bene.

TOBIA (legge): "Addio, e Dio abbia misericordia di una delle nostre anime! Egli potrebbe aver pietà della mia, ma ho migliori speranze e quindi sta' in guardia. Il tuo amico, a seconda di come lo tratterai, ed il tuo nemico giurato, Andrea Gotafloscia". Se questa lettera non lo smuove, neanche le sue gambe ci riusciranno. Gliela consegnerò.

MARIA: Potete avere un'ottima occasione per farlo. Adesso egli è in conversazione con la mia signora, e tra poco se ne andrà.

TOBIA: Va', sir Andrea; imboscali all'angolo del giardino come uno sbirro. Non appena lo vedrai sfodera la spada e, mentre la sfoderi, impreca orribilmente, poiché spesso accade che una terribile imprecazione, lanciata con voce roboante, dà del coraggio un'idea più alta di quello che esso si sarebbe acquistata per mezzo di una dimostrazione pratica. Via!

ANDREA: Ah, in quanto a imprecazioni lasciate fare a me.

 

(Esce)

 

TOBIA: E adesso io non consegnerò questa lettera, poiché la condotta del giovane gentiluomo lo rivela di buona intelligenza ed educazione; l'ufficio che compie tra il suo signore e mia nipote non conferma meno di ciò, e quindi questa lettera, così straordinariamente insulsa, non susciterà alcun terrore nel giovane. Egli capirà che essa viene da uno scemo. Ma, signore, io comunicherò la sua sfida a viva voce; attribuirò a Gotafloscia una notevole fama di valore, e indurrò il gentiluomo- poiché so che la sua giovinezza ci crederà facilmente - a formarsi una formidabile idea della sua rabbia, della sua abilità, della sua fama e del suo impeto. Ciò li spaventerà entrambi a tal punto che si uccideranno a vicenda con gli sguardi come basilischi.

 

(Rientra OLIVIA con VIOLA)

 

FABIANO: Eccolo che viene con vostra nipote. Lasciamoli soli fino al momento in cui egli prenderà congedo, e quindi seguiamolo immediatamente.

TOBIA: Nel frattempo voglio meditare qualche orrendo messaggio per la sfida.

 

(Escono Sir Tobia, Fabiano e Maria)

 

OLIVIA: Ho detto già troppo a un cuore di pietra, ed ho troppo imprudentemente esposto il mio amore. Vi è qualcosa in me che rimprovera il mio errore, ma è uno sbaglio così possentemente testardo che sfida il rimprovero.

VIOLA: Il dolore del mio padrone procede con gli stessi sintomi che si riscontrano nella vostra passione.

OLIVIA: Ecco, portate questo gioiello per me: è il mio ritratto, non lo rifiutate. Esso non ha una lingua per rimproverarvi; vi scongiuro di tornare domani. Che cosa mi chiederete che io vi possa negare e che l'onore sollecitato possa concedere senza esserne danneggiato?

VIOLA:. Null'altro che questo: il vostro sincero amore per il mio padrone.

OLIVIA: E come onorevolmente potrei concedergli quello che ho dato a voi?

VIOLA: Vi assolverò.

OLIVIA: Ebbene, tornate domani; addio. Un demonio simile a te potrebbe trascinare la mia anima all'inferno. (Esce)

 

(Rientrano SIR TOBIA e FABIANO)

 

TOBIA: Gentiluomo che Dio ti salvi.

VIOLA: E voi pure signore.

TOBIA: Affidati a quella difesa che hai. Di qual natura siano i torti che tu gli hai fatti, non so, ma il tuo appostatore, pieno di sdegno, sanguinario come un cacciatore, ti aspetta in fondo al giardino.

Sguaina la tua spada e sii svelto a prepararti, poiché il tuo assalitore è pronto, abile e spietato.

VIOLA: Vi sbagliate, signore, sono sicuro che nessuno è in lite con me; la mia memoria è assolutamente libera e netta da qualsiasi immagine di ingiuria fatta a chicchessia.

TOBIA: Vedrete che le cose stanno diversamente, ve lo assicuro; e quindi, se tenete la vostra vita in qualche conto, state in guardia.

Poiché il vostro avversario ha in sé quello di cui la giovinezza, la forza, l'abilità e l'ira possono fornire un uomo.

VIOLA: Vi prego, signore, chi è costui?

TOBIA: E' uno che fu armato cavaliere con una spada senza intaccature, non sul campo di battaglia, ma sul tappeto; ma è un vero diavolo in una zuffa privata. Ha fatto già divorziare tre anime dai loro corpi e la sua irritazione in questo momento è così implacabile da non poter essere soddisfatta altrimenti che con le angosce della morte e il sepolcro! "Allo sbaraglio" è il suo motto; o darle o prenderle.

VIOLA: Tornerò di nuovo in casa e chiederò una scorta alla signora.

Non sono uno spadaccino. Ho sentito parlare di una sorta d'uomini che provocano gli altri a bella posta per mettere alla prova il loro valore; probabilmente si tratta di un uomo con una bizzarria del genere.

TOBIA: No, signore, la sua indignazione deriva da un'offesa più che pertinente, e quindi andate a rendergliene soddisfazione. Voi non tornerete a casa a meno che non azzardiate con me quella prova che potreste altrettanto sicuramente arrischiare con lui. Perciò, o andate innanzi, o snudate la spada; poiché è certo che dovrete battervi oppure rinunciare a portare un ferro al fianco.

VIOLA: Ciò è altrettanto incivile quanto strano. Vi supplico, fatemi il cortese servizio di chiedere al cavaliere quale sia la mia offesa verso di lui; è certo qualcosa che deriva dalla mia trascuratezza e non dalla mia volontà.

TOBIA: Va bene. Signor Fabiano, rimanete presso a questo gentiluomo fino al mio ritorno.

 

(Esce)

 

VIOLA: Vi prego, signore, sapete qualcosa di questa faccenda?

FABIANO: So che il cavaliere è furibondo contro di voi, tanto da essere disposto a giungere ad una decisione mortale; ma non so altro in proposito.

VIOLA: Vi scongiuro, e che razza d'uomo è?

FABIANO: A giudicarlo dall'esteriore, nulla che faccia supporre quella straordinaria promessa che riscontrerete pienamente mantenuta allorquando ne metterete il valore alla prova. Egl'i è veramente, signore, il più abile, feroce e fatale avversario che possiate trovare in qualsiasi parte dell'Illiria. Volete che gli andiamo incontro? Vi rappacificherò con lui, se mi riuscirà.

VIOLA: Ve ne sarò molto grato. Son uno che preferisce accompagnarsi con messer prete che non con messer cavaliere, e non m'importa che si venga a conoscere il mio temperamento.

 

(Escono)

(Rientra SIR TOBIA con SIR ANDREA)

 

TOBIA: Diamine, amico, è un vero diavolo; non ho mai visto un simile virago. Ho fatto un assalto con lui, colla spada nel fodero, ed egli mi ha tirato una stoccata con un attacco così terribile che non c'era modo di pararla; e sulla risposta vi colpisce con la stessa sicurezza con cui i vostri piedi toccano la terra su cui camminiamo. Si dice che sia stato il maestro di scherma dello Scià.

ANDREA: Canchero, non voglio averci a che fare.

TOBIA: Sì, ma per il momento egli non ha nessuna intenzione di calmarsi; Fabiano lo trattiene laggiù a gran fatica.

ANDREA: Maledizione, se avessi immaginato che egli era così valoroso e abile nella scherma, l'avrei visto andarsi a dannar l'anima prima di averlo sfidato. Se lascerà cader la questione, gli regalerò il mio cavallo, il grigio Bucefalo.

TOBIA: Gli farò la proposta. Voi rimanete qui e cercate di darvi un contegno dignitoso; tutto finirà senza perdizione d'anime. (A parte) Perdiana, saprò guidare il tuo cavallo con la stessa facilità con cui so guidar te.

 

(Rientrano FABIANO e VIOLA)

 

(A Fabiano a parte) Dispongo del suo cavallo per comporre la lite; l'ho persuaso che quel giovane è un diavolo.

FABIANO (a Sir Tobia a parte): E questi si è formato un concetto altrettanto terribile di lui; è ansante e pallido come se avesse un orso alle calcagna.

TOBIA (a Viola): Non c'è rimedio, signore; vuole combattere con voi per l'onore del suo giuramento. Beninteso, egli ha ripensato meglio alla lite, e trova adesso che non vale quasi la pena di parlarne; quindi sfoderate la spada per aiutarlo a sostenere il suo impegno; egli assicura che non vi farà alcun male.

VIOLA (a parte): Che Dio mi protegga! Una piccolezza mi indurrebbe a svelar loro quanto mi manca per essere un uomo.

FABIANO (a Viola): Indietreggiate, se lo vedete furioso.

TOBIA (a Sir Andrea, a parte): Suvvia, sir Andrea, non c'è rimedio; quel gentiluomo vuole, per il suo onore, fare un assalto con voi Egli non può farne a meno, secondo la legge del duello, ma mi ha promesso, da gentiluomo e soldato, di non farvi alcun male. Orsù, avanti!

ANDREA: Dio voglia che egli mantenga la sua promessa!

VIOLA: Vi assicuro che è contro la mia volontà. (Sfoderano le spade)

 

(Entra ANTONIO)

 

ANTONIO (a Sir Andrea): Ringuainate la vostra spada. Se questo giovane gentiluomo vi ha recato ingiuria, prendo su di me la sua colpa; se siete voi che lo offendete, io vi sfido per lui.

TOBIA: Voi, signore! Ebbene, e chi siete?

ANTONIO: Sono uno, signore, che per amor suo oserebbe fare ancor più di quanto lo avete udito vantarsi a voi di voler fare.

TOBIA: Bene, se vi incaricate delle liti altrui, sono qui per voi.

 

(Sfoderano le spade)

(Entrano due Guardie)

 

FABIANO: Oh, buon sir Tobia, fermo! Ecco le guardie.

TOBIA: Sarò da voi tra un momento.

VIOLA: Vi prego, signore, ringuainate la spada, per favore.

ANDREA: Diamine, volentieri, signore; e in quanto a quello che vi ho promesso, sarò di parola. Vi porterà comodamente ed è dolce di morso.

PRIMA GUARDIA (indicando Antonio): Ecco il nostro uomo, compi il tuo ufficio.

SECONDA GUARDIA: Antonio, io ti arresto a richiesta del conte Orsino.

ANTONIO: Voi mi scambiate per un altro, signore.

PRIMA GUARDIA: No, signore, affatto; riconosco bene il vostro viso, benché adesso non abbiate un berretto da marinaio in testa.

Conducetelo via, egli sa che lo conosco bene.

ANTONIO: Devo obbedire. (A Viola) Questo mi accade per essere andato in cerca di voi, ma non c'è rimedio, e renderò i miei conti. Cosa farete, ora che la necessità mi costringe a ridomandarvi la mia borsa?

Sono molto più in pena pensando a quello che non posso fare per voi che per quanto mi capita. Rimanete interdetto, ma fatevi cuore!

SECONDA GUARDIA: Suvvia, signore, andiamo!

ANTONIO: Debbo ridomandarvi parte di quel danaro.

VIOLA: Che danaro, signore? Per la nobile cortesia che mi avete mostrata qui e, in parte, spinto a ciò dai vostri presenti guai, voglio prestarvi qualcosa del mio magro e umile gruzzolo. Il mio avere non è grande. Dividerò con voi quanto ho con me adesso tenete, ecco la metà della mia cassaforte.

ANTONIO: Mi volete rinnegare adesso? E' mai possibile che i miei meriti presso di voi siano privi di forza persuasiva? Non mettete a dura prova la mia sventura, per timore che essa non mi faccia uscir fuori di me tanto da rinfacciarvi tutte le cortesie che vi ho fatto.

VIOLA: Non me ne ricordo alcuna e non vi conosco né di voce né di aspetto. Odio l'ingratitudine dell'uomo più della bugiarda vanità, dell'ubriachezza ciarliera o di qualunque macchia viziosa la cui profonda corruzione abiti il nostro debole sangue.

ANTONIO: Oh, cielo!

SECONDA GUARDIA: Suvvia, signore, vi prego, andiamo.

ANTONIO: Lasciatemi dire una parola. Questo giovane che qui vedete io lo strappai via quando era già inghiottito mezzo dalle mascelle della morte. Con quale santità di affetto non lo assistei! E fui devoto alla sua immagine, che mi sembrò promettere la virtù più degna di venerazione.

PRIMA GUARDIA: E cosa ce ne importa? Il tempo passa, andiamo!

ANTONIO: Ma oh, che idolo vile si dimostra questo dio! O Sebastiano, tu hai coperto di vergogna la tua nobile fisionomia. In natura non v'è altra bruttezza che quella dell'anima. Nessuno, se non chi è snaturato, può esser chiamato deforme; la virtù è bellezza, ma il bel male è come uno stipo vuoto, sovraccarico di ornamenti per opera del diavolo.

PRIMA GUARDIA: Quest'uomo impazzisce, conducetelo via! Via, via, messere.

ANTONIO: Menatemi via.

 

(Esce colle Guardie)

 

VIOLA (a parte): Mi sembra che le sue parole sgorghino da tale commozione come se egli credesse in ciò che dice, ma io no. Mostrati vera, oh, mostrati vera, fantasia, che io, caro fratello, possa essere stata scambiata per te!

TOBIA: Venite qua, cavaliere, venite qua Fabiano; bisbiglieremo assieme un paio o due di sentenze savissime.

VIOLA (a parte): Ha nominato Sebastiano ed io so che mio fratello continua a vivere in me che ne sono l'immagine. Proprio così erano i lineamenti di mio fratello, ed egli andava in giro sempre vestito in questo modo, con gli stessi colori e gli stessi ornamenti, poiché io lo imito. Oh, se è cosi, le tempeste sono misericordiose e le onde salate dolci e amabili!

 

(Esce)

 

TOBIA: Un ragazzo sleale e vile, più codardo di una lepre. La sua slealtà si rivela nell'abbandono e nel rinnegamento di un amico nel bisogno e, in quanto alla sua codardia, chiedetene a Fabiano.

FABIANO: Un codardo, un devotissimo codardo, uno che ha il culto della codardia ANDREA: Perbacco, gli voglio correr dietro di nuovo, e picchiarlo.

TOBIA: Sì, dagliele sode, ma non sguainare la spada.

ANDREA: Se non lo faccio....

FABIANO: Andiamo a veder quel che succede.

TOBIA: Scommetterei qualunque somma che non accadrà nulla nemmeno adesso.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - Davanti alla casa di Olivia

(Entrano SEBASTIANO e il Buffone)

 

BUFFONE: Volete farmi credere che io non sono stato inviato a cercarvi?

SEBASTIANO: Andiamo, andiamo, tu sei matto; sbarazzami della tua presenza.

BUFFONE: Avete ben sostenuto la vostra parte, in fede mia! No, non vi conosco, e neanche sono stato inviato a voi dalla mia signora, per dirvi di venire a parlare con lei; il vostro nome non è signor Cesario e questo non è il mio naso. Niente di quello che è, è.

SEBASTIANO: Ti prego, sciorina altrove la tua follia: tu non mi conosci.

BUFFONE: Sciorinare la mia follia! Ha udito questa frase da qualche grand'uomo e adesso l'applica ad un buffone. Sciorinare la mia follia!

Temo che, dopo tutto, questo gran villanzon d'un mondo non si vada riempiendo di affettazione! Ti prego, adesso, discingiti della tua stranezza e dimmi cosa debbo sciorinare alla mia signora, debbo sciorinarle che vieni?

SEBASTIANO: Ti prego, sciocco zuzzerellone, lasciami. Ecco del danaro per te: se rimarrete ancora, vi darò un pagamento peggiore.

BUFFONE: Per la mia fede, hai la mano generosa! Questi saggi che regalano danaro ai pazzi, si formano una buona reputazione... a un prezzo equivalente alla rendita annuale di quattordici anni.

 

(Entrano SIR ANDREA, SIR TOBIA e FABIANO)

 

ANDREA: Ebbene, signore, vi ho dunque nuovamente trovato? Ecco per voi.

 

(Batte Sebastiano)

 

SEBASTIANO (batte Sir Andrea): Ebbene, ecco per te; piglia su... e pigliati anche questa!... Sono tutti matti qui?

TOBIA: Fermo, signore, o vi scaravento la spada sulla casa.

BUFFONE: Questo voglio andarlo a dire difilato alla mia signora; non vorrei essere nei panni di uno di voi neanche per due soldi.

 

(Esce)

 

TOBIA (a Sebastiano, tenendolo fermo): Via, signore, fermatevi.

ANDREA: No, lasciatelo; me la rifarò con lui in un'altra maniera.

Voglio sporgere querela contro di lui per vie di fatto, se vi sono leggi in Illiria, benché io l'abbia battuto per primo, il che poco importa.

SEBASTIANO (a Sir Tobia): Via le mani!

TOBIA: Suvvia, messere, non vi lascerò andare. (A Sir Andrea) Avanti, mio giovane soldato, ringuainate la vostra spada; l'avete sverginata, ora, suvvia!

SEBASTIANO: Mi libererò di te! (Si svincola da Sir Tobia e sguaina la spada) Che vorresti adesso? Se osi provocarmi ancora, sfodera la spada!

TOBIA: Come, come? Ebbene, bisogna proprio che vi cavi una o due once di quel vostro sangue impertinente. (Sguaina la spada)

 

(Entra OLIVIA)

 

OLIVIA: Fermo, Tobia. Per la tua vita, ti ordino di fermarti!

TOBIA: Signora!

OLIVIA: Sarà dunque sempre così? Sciagurato villano, fatto per le montagne e le barbare caverne, dove non furono mai predicate le buone maniere! Lungi dalla mia vista! Non offenderti, caro Cesario. Vattene, tanghero! (Escono Sir Tobia, Sir Andrea e Fabiano) (A Sebastiano) Ti prego, gentile amico, lascia che la tua nobile ragione, e non la tua ira, ti sia di guida in questo maleducato e ingiusto attentato alla tua quiete. Vieni con me in casa mia, e sentirai quante insulse mariolerie ha messo insieme quella canaglia; allora potrai sorridere di questa. Non devi rifiutarti di venire, non negarmelo. Gli venga il malanno, per aver fatto tremare il mio povero cuore in te!

SEBASTIANO: Che senso c'è in tutto questo? In che direzione scorre la corrente? O sono matto oppure è un sogno. Che l'illusione continui a tenere immersi i miei sensi nel Lete; se è per sognare così, possa io continuare dormire.

OLIVIA: Suvvia, vieni, ti prego; potessi tu lasciarti guidare da me!

SEBASTIANO: Signora, volentieri.

OLIVIA: Oh, dillo, e così sia.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - La casa di Olivia

(Entrano MARIA e il Buffone)

 

MARIA: Suvvia, te ne prego, mettiti questa tonaca e questa barba.

Fagli credere di essere ser Topazio, il curato; sbrigati. Frattanto vado a chiamare sir Tobia.

BUFFONE: Bene, me la metterò, e mi travestirò così, foss'io il primo che mai si travestì con una tonaca simile! Non sono abbastanza corpulento per riempir bene tale funzione, né sufficientemente magro da passare per un buon studioso. Ma esser considerato un uomo onesto ed un buon massaio vale altrettanto quanto essere un uomo pensoso e un gran dotto. Ecco che entrano gli alleati.

 

(Entrano SIR TOBIA e MARIA)

 

TOBIA: Che Giove ti benedica, signor curato.

BUFFONE: "Bonos dies", sir Tobia, poiché, come disse molto giudiziosamente il vecchio eremita di Praga, che non aveva mai veduto né penna né inchiostro, alla nipote del re Gorboduc: "Ciò che è, è", così io, essendo il signor curato, sono il signor curato. Infatti cosa è mai "ciò" se non "ciò", ed "è" se non "è"?

TOBIA (indicando la stanza dov'è chiuso Malvolio): Andate da lui, ser Topazio.

BUFFONE: Olà, ohé, dico! La pace sia in questa prigione.

TOBIA: Questo mariolo imita alla perfezione, è un bravo mariolo.

MALVOLIO (di dentro): Chi mi chiama?

BUFFONE: Ser Topazio il curato, che viene visitare Malvolio il lunatico.

MALVOLIO: Ser Topazio, ser Topazio, buon ser Topazio, recatevi dalla mia signora.

BUFFONE: Fuori, iperbolico demonio! Come tormenti quest'uomo! Non sai parlar d'altro che di donne?

TOBIA: Ben detto, signor curato.

MALVOLIO: Ser Topazio, mai uomo ricevette un tal torto. Buon ser Topazio, non crediate che io sia matto; mi hanno chiuso qua dentro in una spaventosa oscurità.

BUFFONE: Vergogna, Satana disonesto! Io ti chiamo coi termini più moderati, poiché sono una di quelle persone dabbene che trattano con cortesia persino il diavolo. Dici che quella stanza è buia?

MALVOLIO: Come l'inferno, ser Topazio.

BUFFONE: Diamine, ha delle finestre a poggiolo, trasparenti come barricate, e i finestroni verso mezzogiorno-tramontana sono luminosi come l'ebano e ciò nonostante ti lamenti della mancanza di luce?

MALVOLIO: Io non sono matto, ser Topazio; vi dico che questa stanza è buia.

BUFFONE: Pazzo, sei in errore; io dico che non vi è altra oscurità all'infuori dell'ignoranza nella quale tu sei avvolto più che gli Egiziani nelle loro tenebre.

MALVOLIO: Dico che questa stanza è oscura come l'ignoranza, anche se l'ignoranza dovesse esser buia al pari dell'inferno, e dico, che non vi fu mai uomo così indegnamente trattato. Non sono più pazzo di quanto lo siate voi; fatene la prova sottoponendomi ad una qualsiasi discussione ragionevole.

BUFFONE: Qual è l'opinione di Pitagora intorno agli uccelli selvatici?

MALVOLIO: Che l'anima della nostra nonna potrebbe trovarsi in un uccello.

BUFFONE: Che cosa pensi di questa opinione?

MALVOLIO: Ho un nobile concetto dell'anima e non approvo affatto la sua opinione.

BUFFONE: Addio. Resta sempre nelle tenebre! Ti riconoscerò la tua assennatezza solo allorquando sosterrai l'opinione di Pitagora, e quando avrai timore di uccidere una beccaccia per paura di spodestare l'anima di tuo nonna. Addio.

MALVOLIO: Ser Topazio! Ser Topazio!

TOBIA: Mio squisitissimo ser Topazio!

BUFFONE: Eh, io so nuotare in tutte le acque.

MARIA: Avresti potuto far questo anche senza barba e senza tonaca; egli non ti può vedere.

TOBIA: Parlagli colla tua voce naturale, e dammi notizia di come lo trovi; vorrei che fossimo completamente liberati da questa marioleria.

Se egli potesse esser rimesso in libertà senza inconvenienti, vorrei che lo fosse; poiché adesso sono talmente in urto con mia nipote da non poter prolungare impunemente tale divertimento fino alla sua conclusione. Vieni di qui a un poco nella mia camera.

 

(Escono Sir Tobia e Maria)

 

BUFFONE (canta):

Ehi, Berto, allegro Berto la tua bella come sta?

MALVOLIO: Buffone...

BUFFONE (canta):

La mia bella è crudele in verità.

MALVOLIO: Buffone...

BUFFONE (canta):

Ohimè, perché è mai così?

MALVOLIO: Buffone, dico...

BUFFONE (canta): Ella ama un altro...

Ma chi mi chiama, eh?

MALVOLIO: Buon Buffone, se mai tu voglia farti un merito presso di me, procurami una candela, penna, inchiostro e carta; com'è vero che sono un gentiluomo, te ne sarò grato per tutta la vita.

BUFFONE: Signor Malvolio!

MALVOLIO: Sì, buon buffone.

BUFFONE: Ahimè, signore, com'è che avete perso i vostri cinque spiriti?

MALVOLIO: Buffone, non vi fu mai uomo così enormemente oltraggiato; sono tanto in senno, buffone, quanto lo sei tu.

BUFFONE: Altrettanto? Allora siete matto per davvero, se non siete più in senno di un buffone.

MALVOLIO: Han fatto di me uno zimbello, mi tengono al buio, mi inviano dei preti, degli asini, e mi fanno passar per matto, a forza di spudoratezze.

BUFFONE: Badate a quel che dite, il prete è qui. Malvolio, Malvolio, che il cielo ti renda la ragione! Cerca di dormire e lascia il tuo vano cicaleccio.

MALVOLIO: Ser Topazio...

BUFFONE (simulando un colloquio tra se stesso e Ser Topazio): "Non scambiare parole con lui, buon amico" "Chi io, signore? No di certo, signore. Che Dio sia con voi, buon ser Topazio". "Mi raccomando, eh, amen". "Va bene, signore, va bene".

MALVOLIO: Buffone, buffone, buffone, dico...

BUFFONE: Suvvia, signore, siate paziente. Che dite, signore? Mi sgridano perché parlo con voi.

MALVOLIO: Buon buffone, procurami luce e un po' di carta; ti dico che sono altrettanto in senno quanto chiunque altro in Illiria.

BUFFONE: Magari lo foste, messere!

MALVOLIO: Ti assicuro che lo sono. Buon buffone, inchiostro, carta e luce, e reca quello che scriverò alla mia signora. Non avrai mai fatto miglior guadagno a portare una lettera.

BUFFONE: Mi presterò a tanto. Ma, ditemi la verità, è proprio vero che non siete matto? O fate finta di non esserlo?

MALVOLIO: Credimi, non lo sono; ti dico la verità BUFFONE: Ebbene, non crederò più a un pazzo finché non ne vedrò il cervello. Vado a cercarvi luce, carta e inchiostro.

MALVOLIO: Buffone, ti ricompenserò al massimo grado; ti prego, vai.

BUFFONE (canta):

Signor, me ne vo, e torno fra un po', sarò da voi in un attimo; in men d'un lampo torno pel vostro scampo, come quel Vizio in maschera che con la spatola nella sua collera gridava al diavolo come un lunatico:

l'ugne, ah ah, tagliati!

Addio, compare diavolo!

 

 

 

SCENA TERZA - Il giardino di Olivia

(Entra SEBASTIANO)

 

SEBASTIANO: Ecco l'aria, ecco il sole radioso; questa perla che ella mi ha dato, la sento e la vedo, e benché sia prodigio quello che mi circonda pure non è follia. Dov'è dunque Antonio? Non mi è riuscito di trovarlo all'"Elefante"; eppure c'è stato e là ricevetti l'informazione che egli si era dato a percorrere la città per trovarmi. I suoi consigli adesso mi sarebbero riusciti preziosi poiché, per quanto la mia anima bene argomenti coi miei sensi che questo può essere un errore, ma non una follia, tuttavia questo incidente e questo diluvio di buona fortuna oltrepassa di tanto ogni esempio, ogni ragionamento, che io mi sento tentato a non credere ai miei occhi, e ad oppormi alla ragione che mi persuade di tutto fuori che io sia pazzo, o che lo sia quella signora. Poiché se lo fosse, non potrebbe governare la casa, comandare ai suoi sottoposti, accogliere e sbrigare gli affari con quella calma, con quella saggezza e fermezza che noto in lei. V'è in ciò qualcosa d'ingannevole; ma ecco la signora.

 

(Entra OLIVIA con un Prete)

 

OLIVIA: Non biasimate questa mia fretta. Se le vostre intenzioni sono oneste, venite adesso con me e con questo santo uomo nella cappella qui vicina; la, in sua presenza, e sotto quel tetto consacrato, garantitemi la piena assicurazione della vostra fede, così che la mia anima troppo gelosa e sospettosa possa vivere in pace. Egli terrà la cosa segreta finché non vi piaccia di renderla pubblica, ed allora ne faremo una celebrazione degna dei miei natali. Che mi rispondete?

SEBASTIANO: Seguirò questo sant'uomo e verrò con voi; avendovi giurato fedeltà vi sarò sempre fedele.

OLIVIA: Allora mostrateci la via, buon padre; e che il cielo sfavilli per volgere un benigno sguardo su questo mio atto.

(Escono)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Davanti alla casa di Olivia

(Entrano il Buffone e FABIANO)

 

FABIANO: E adesso, se mi ami, lasciami vedere la sua lettera.

BUFFONE: Buon signor Fabiano, accordatemi un'altra richiesta.

FABIANO: Qualunque cosa.

BUFFONE: Non chiedetemi di veder questa lettera.

FABIANO: Sarebbe come regalare un cane e poi, in compenso, ridomandare il cane.

 

(Entrano il DUCA, VIOLA, CURIO e Signori)

 

DUCA: Appartenete a madonna Olivia, amici?

BUFFONE: Sì, signore, siamo una parte dei suoi finimenti.

DUCA: Ti conosco bene; come va, mio buon amico?

BUFFONE: In verità, signore, va meglio per merito dei miei nemici e peggio per merito dei miei amici.

DUCA: Proprio al contrario: meglio per merito dei tuoi amici.

BUFFONE: No, signore, peggio.

DUCA: E com'è possibile?

BUFFONE: Perdiana, signore, essi mi lodano e quindi mi fanno apparire un asino; ora invece i miei nemici mi dicono chiaro e tondo che sono un asino, di modo che per mezzo dei miei nemici progredisco nella conoscenza di me stesso, mentre invece sono ingannato dai miei amici.

Se dunque, in fatto di sillogismi come in fatto di baci, quattro negazioni equivalgono a due affermazioni, ebbene è giusto affermare che mi trovo peggio per merito dei miei amici e meglio per quello dei miei nemici.

DUCA: Eccellente, perbacco!

BUFFONE: In fede mia, no, signore, benché vi piaccia di essere uno dei miei amici.

DUCA: Non ti troverai peggio per causa mia, eccoti dell'oro.

BUFFONE: Se non fosse un invito alla duplicità, signore, vi pregherei di ripetere.

DUCA: Oh, mi date un cattivo consiglio.

BUFFONE: Per questa volta, signore, mettetevi in tasca il vostro onore, e lasciate che la vostra carne e il vostro sangue obbediscano.

DUCA: Va bene, peccherò fino alla doppiezza, eccoti un'altra borsa.

BUFFONE: "Primo, secundo, tertio" è un bel giuoco. C'è un vecchio proverbio che dice: "il terzo paga per tutti". Il "triplex", signore, è un ottimo ritmo di danza; le campane della chiesa di San Benedetto, signore, potrebbero ricordarvelo: uno, due, tre.

DUCA: Non riuscirete a cavarmi altro danaro questa volta; se volete informare la vostra signora che sono qui per parlarle e vorrete condurla con voi, ciò potrà forse ridestare la mia munificenza.

BUFFONE: Perdiana, signore, fate la ninna-nanna alla vostra munificenza finché io non torni. Vado, signore, ma non vorrei che pensaste che il mio desiderio di possedere sia peccato di cupidigia.

Pertanto, come voi dite, signore, lasciate che la vostra munificenza faccia un sonnellino. Penserò io a risvegliarla tra poco.

 

(Esce)

 

VIOLA: Ecco l'uomo, signore, che è venuto in mio aiuto.

 

(Entrano ANTONIO e le Guardie)

 

DUCA: Mi ricordo bene quel suo volto; pure, quando lo vidi l'ultima volta, era tutto imbrattato e nero come vulcano per il fumo della battaglia. Egli era capitano di una nave da nulla, priva di alcun valore per la sua stazza e pel fondo che pescava; pure con tale nave egli dette un arrembaggio così tremendo al più nobile bastimento della nostra flotta che l'invidia stessa e la voce della sconfitta gridavano: "Gloria e onore a lui!". (Alle Guardie) Di che si tratta?

PRIMA GUARDIA: Orsino, questi è quell'Antonio che rapì la Fenice ed il suo carico da Candia, colui che salì all'arrembaggio della Tigre allorquando Tito, il vostro giovane nipote, vi perse una gamba. Qui in queste strade, incurante della reputazione che si era acquistato e della situazione in cui si trovava, lo abbiamo arrestato in una zuffa privata.

VIOLA: Mi ha reso dei servigi, signore, sguainando la spada per difendermi, ma in ultimo mi ha tenuto uno strano discorso; non saprei su che cosa, ma certo era un ragionamento da matti.

DUCA: Pirata esimio! Ladrone di mare! Quale sciocca audacia ti ha condotto in balìa di coloro che ti sei resi nemici in circostanze così tristemente sanguinose?

ANTONIO: Orsino, nobile signore, concedete che io mi sbarazzi di questi nomi che mi date; Antonio fino ad ora non fu mai né un ladrone né un pirata benché egli sia, lo confesso, nemico di Orsino per motivi plausibili. Un sortilegio mi ha condotto qui: quell'ingrato ragazzo che sta al vostro fianco io strappai dalla bocca irata e spumante del rude mare. Egli era ormai un relitto senza speranza; gli resi la vita e ad essa aggiunsi il mio affetto, senza alcuna restrizione o riserva, tutto rivolto a lui. Per lui mi esposi, unicamente per amor suo, ai pericoli di questa città nemica, e sguainai la spada per difenderlo quando era assalito. Fu in quella occasione che mi arrestarono, e allora la sua vile dissimulazione, non intendendo affatto di condividere il pericolo con me, gli insegnò a rinnegare impudentemente la mia conoscenza; così che in un batter d'occhio egli divenne come un estraneo che mi avesse perso di vista da vent'anni. Rifiutò di restituirmi la mia borsa che avevo messa a sua disposizione nemmeno mezz'ora prima.

VIOLA: Com'è mai possibile?

DUCA: Quando è arrivato in questa città?

ANTONIO: Oggi, signor mio, e da tre mesi in qua, senza alcun intervallo, senza un minuto d'interruzione, siamo vissuti assieme notte e giorno.

 

(Entra OLIVIA col Seguito)

 

DUCA: Ecco la contessa: adesso il cielo cammina sulla terra! (Ad Antonio) In quanto a te amico... amico, le tue parole sono pura follia. Questo giovane (additando Viola) è al mio servizio da tre mesi; ma ne parleremo tra breve. (Alle Guardie) Conducetelo in disparte.

OLIVIA: Che desidera il signor mio, all'infuori di quanto egli non può ottenere, in cui Olivia possa servirlo? (A Viola) Cesario, voi non mantenete le vostre promesse.

VIOLA: Signora!

DUCA: Graziosa Olivia...

OLIVIA: Che dite, Cesario? Mio buon signore!

VIOLA: Il mio signore vorrebbe parlare; il mio dovere mi impone il silenzio.

OLIVIA: Se è una canzone sull'antico motivo, signor mio, essa è così stucchevole e sgradita al mio orecchio come il latrar d'un cane dopo la musica.

DUCA: Sempre così crudele?

OLIVIA: Sempre così costante, signore.

DUCA: Come, fino alla perversità? Donna scortese, ai cui ingrati e nefasti altari l'anima mia ha sospirato i voti più sinceri che mai la devozione abbia offerto! Che debbo fare?

OLIVIA: Ciò che piacerà al mio signore, purché sia cosa degna di lui.

DUCA: Perché, se ne avessi il coraggio, non dovrei io uccidere ciò che amo, come il ladrone egiziano in punto di morte? Gelosia selvaggia, che talvolta ha in sé della nobiltà. Ma udite questo: poiché non tenete in nessun conto la mia fede, e siccome credo di conoscere lo strumento che mi toglie a forza dal vero posto che mi spetterebbe nel vostro favore, continuate pure a vivere, tiranna dal cuor di marmo. Ma quel vostro favorito, che so amato da voi e che, lo giuro per il cielo, mi è assai caro, voglio strapparlo da quello sguardo crudele dove troneggia sovrano a mortificazione del suo signore. (A Viola) Vieni con me, fanciullo, i miei pensieri sono maturi per fare il male; sacrificherò l'agnello che amo per affliggere quella colomba dal cuore di cervo.

VIOLA: Ed io ben lieto, prontissimo e volenteroso per poter rendervi la pace vorrei morire mille morti.

OLIVIA: Dove va Cesario?

VIOLA: Con colui che amo più di questi miei occhi, più della mia vita, più assai di quanto potrò mai amare una moglie. Se mentisco, voi testimoni celesti punite la mia vita per aver macchiato il mio amore.

OLIVIA: Ahimè, uomo abominevole, come sono stata tradita!

VIOLA: E chi vi tradisce? Chi vi fa torto?

OLIVIA: Hai dunque obliato te stesso? E' dunque trascorso tanto tempo?

(Ad uno del Seguito) Chiamate il santo sacerdote.

DUCA (a Viola): Vieni.

OLIVIA: Dove, mio signore? Cesario, marito mio, rimani.

DUCA: Marito?

OLIVIA: Sì, marito; lo può forse negare?

DUCA (a Viola): Suo marito, messere?

VIOLA: No, mio signore, non lo sono.

OLIVIA: Ahimè, è la bassezza della paura che ti induce a soffocare la tua identità. Non temere, Cesario, raccogli la tua fortuna; sii quello che sai di essere e allora sarai altrettanto grande quanto colui che temi.

 

(Entra il Prete)

 

Oh, benvenuto, padre! padre, ti ingiungo, per la riverenza che ispiri, di svelare adesso - sebbene poco fa intendessimo mantenere oscuro quello che il caso manifesta ora prima della sua maturità - ciò che sai essere avvenuto ultimamente tra questo giovane e me.

PRETE: Un contratto d'amore eterno, confermato dalla mutua stretta delle vostre mani, attestato dal santo ravvicinamento delle vostre labbra, rafforzato dallo scambio dei vostri anelli; e tutte le cerimonie di questo patto furono sigillate dal mio ministero, sotto la mia testimonianza. Il mio orologio mi dice che da quel momento ho fatto soltanto due ore di cammino verso la mia tomba.

DUCA (a Viola): Ah, volpacchiotto ipocrita! Che sarai, quando il tempo ti avrà resi grigi i capelli? O forse la tua scaltrezza aumenterà così rapidamente che il tuo stesso sgambetto ti gitterà a terra? Addio, prendila, ma rivolgi i tuoi passi verso un luogo dove in avvenire tu ed io non ci possiamo più incontrare.

VIOLA: Mio signore, vi assicuro...

OLIVIA: Oh, non giurare! Conserva un poco d'onore, per quanto grande sia la tua paura.

 

(Entra SIR ANDREA)

 

ANDREA: Per l'amor di Dio, un chirurgo! Mandatene immediatamente uno da Sir Tobia.

OLIVIA: Che c'è?

ANDREA: Mi ha rotto la testa ed ha insanguinato anche la capoccia di sir Tobia. Per amor di Dio, aiuto! Per essere a casa darei più di quaranta sterline.

OLIVIA: Chi ha fatto ciò, sir Andrea?

ANDREA: Il gentiluomo del conte, un certo Cesario; lo avevamo preso per un codardo, ma invece è proprio il diavolo incardinato.

DUCA: Il mio gentiluomo Cesario?

ANDREA: Corpo di Bacco, eccolo là! Mi avete rotto la testa per nulla; in quanto a ciò che ho fatto io, vi fui istigato da sir Tobia.

VIOLA: Perché parlate a me? Io non vi ho mai fatto del male. Avete sguainato la spada contro di me senza alcuna ragione; pure vi parlai cortesemente e non vi feci male.

ANDREA: Se una capoccia insanguinata è un male, mi avete fatto del male; credo che per voi una capoccia insanguinata non significhi nulla.

 

(Entrano SIR TOBIA e il Buffone)

 

Ecco sir Tobia che viene zoppicando, ne sentirete delle altre. Se non fosse stato avvinazzato vi avrebbe fatto il solletico in un altro modo.

DUCA (a Sir Tobia): Ebbene, signore, come va?

TOBIA: Non è nulla; mi ha ferito, ecco tutto! (Al Buffone) Scemo, hai visto il chirurgo Dick, citrullo?

BUFFONE: Oh, è ubriaco già da un'ora, sir Tobia; i suoi occhi erano già annebbiati alle otto di mattina.

TOBIA: Allora è un briccone, un passamezzo e una pavana; non posso soffrire un briccone ubriaco.

OLIVIA: Conducetelo via! Chi li ha conciati a quel modo?

ANDREA: Vi assisterò, sir Tobia, perché ci faremo medicare assieme.

TOBIA: Mi assisterete? Testa d'asino, minchione, impostore, faccia allampanata, bagojano!

OLIVIA: Portatelo a letto, e abbiate cura della sua ferita.

 

(Escono il Buffone, Fabiano, Sir Tobia e Sir Andrea

(Entra SEBASTIANO)

 

SEBASTIANO: Sono spiacente, signora, di aver ferito il vostro parente; ma anche se egli mi fosse stato fratello di sangue, non avrei potuto far di meno per prudenza e sicurezza. Voi mi guardate in modo strano e da questo mi avvedo che ciò vi ha offeso: perdonatemi, mia cara in nome di quei voti che ci scambiammo solo poco tempo fa.

DUCA: Lo stesso volto, la stessa voce, le stesse vesti e due persone; un inganno prospettico della natura che è e non è.

SEBASTIANO: Antonio, o mio caro Antonio! Come mi hanno tormentato e torturato le ore trascorse da quando ti ho perduto!

ANTONIO: Siete voi, Sebastiano?

SEBASTIANO: E ne dubiti Antonio?

ANTONIO: E come avete potuto dividervi? Una mela spaccata in due, non ha le metà più gemelle di queste due creature. Quale dei due è Sebastiano?

OLIVIA: Stupefacente!

SEBASTIANO (guardando Viola): Sono io laggiù? Non ho mai avuto un fratello, ne può esservi nella mia natura il dono divino di essere qui e altrove. Avevo una sorella che le onde cieche e i marosi hanno divorata. (A Viola) Per pietà, quale parentela avete con me? Di che paese siete? Come vi chiamate? Qual è la vostra famiglia?

VIOLA: Sono di Messalina, e mio padre era Sebastiano. Anche mio fratello era Sebastiano, e proprio così vestito egli discese nella sua tomba d'acqua; se gli spiriti possono assumere forma e costume, siete apparso per spaventarci.

SEBASTIANO: Sono realmente uno spirito, ma grossolanamente rivestito di quella forma corporea che ricevetti dal grembo materno. Se foste stato donna, come tutto il resto concorda a farvi credere, lascerei scorrere le mie lagrime sulle vostre guance dicendovi: "Tre volte benvenuta, o Viola annegata!" VIOLA: Mio padre aveva un neo sulla fronte.

SEBASTIANO: Anche il mio.

VIOLA: E morì nel giorno stesso in cui Viola contava tredici anni dalla sua nascita.

SEBASTIANO: Oh, quel ricordo è vivo nell'anima mia! Egli scomparve infatti dalla scena mortale nel giorno in cui mia sorella compì i tredici anni.

VIOLA: Anche se null'altro all'infuori di quest'abito maschile usurpato ci impedisce di essere entrambi felici, non abbracciatemi finché ogni circostanza di luogo, di tempo, di fortuna, non concordi di dimostrare che sono Viola; e per confermarvelo vi condurrò da un capitano di questa città presso il quale sono rimasti i miei abiti femminili. Col suo cortese aiuto io fui salvata per servire questo nobile conte e da allora tutti gli avvenimenti della mia vita si sono svolti tra questa signora e questo signore.

SEBASTIANO (a Olivia): Ne consegue, signora, che siete caduta in errore, ma la natura in ciò ha seguito la sua china. Avreste voluto fidanzarvi con una vergine e, per la mia vita!, non rimarrete delusa, poiché siete fidanzata insieme ad un uomo e a una vergine.

DUCA (a Olivia): Non rimanete perplessa; il suo sangue è veramente nobile. Se le cose stanno così, poiché l'inganno prospettico sembra verità, avrò parte in questo felicissimo naufragio. (A Viola) Fanciullo, mi hai detto mille volte che non ameresti mai una donna al pari di me.

VIOLA: E tutto quello che ho detto posso giurarlo ancora, e tutti i miei giuramenti mantenerli così fedelmente nell'anima come la sfera celeste contiene in sé quel fuoco solare che distingue il giorno dalla notte.

DUCA: Dammi la mano e lascia ch'io ti veda nelle tue vesti femminili.

VIOLA: Il capitano che mi condusse per primo a terra ha i miei vestiti di fanciulla, per un processo egli è adesso in prigione, dietro querela di Malvolio, un gentiluomo del seguito di madonna.

OLIVIA: Egli lo farà liberare: conducetemi Malvolio. Ma ahimè, adesso che mi ricordo, dicono che quel povero gentiluomo sia completamente pazzo.

 

(Rientra il Buffone con una lettera, e FABIANO)

 

L'intensità stessa del mio delirio aveva completamente scacciato dalla mia memoria il suo. (Al Buffone) Come sta Malvolio, messere?

BUFFONE: In verità, signora, tiene Belzebù a distanza per quanto possa farlo un uomo nel suo caso. Vi ha scritto una lettera; avrei dovuto darvela stamane, ma siccome le lettere di un pazzo non sono vangeli, così poco importa quando vengono consegnate.

OLIVIA: Aprila e leggila.

BUFFONE: Attendetevi dunque di rimanere assolutamente edificata, dal momento che il buffone comunica il messaggio d'un pazzo! (legge con voce stentorea) "In nome di Dio, madonna...".

OLIVIA: Ebbene sei matto?

BUFFONE: No, signora, io non faccio altro che leggere la roba d'un matto; se la Signoria Vostra desidera che io faccia le cose come vanno fatte, dovrete lasciare che io dia alla mia lettura l'intonazione giusta.

OLIVIA: Ti prego, leggi in modo ragionevole.

BUFFONE: E' proprio quello che sto facendo, madonna; per leggerlo in modo ragionevole bisogna leggerlo così; e quindi ascoltate, mia principessa, e prestatemi orecchio.

OLIVIA (a Fabiano): Leggetela voi, messere.

FABIANO (legge): "In nome di Dio, voi mi fate torto madonna, e il mondo lo saprà. Benché mi abbiate confinato nelle tenebre e affidata la mia custodia a quel briaco di vostro zio, ciò nonostante godo il pieno possesso della ragione quanto Vossignoria. Ho nelle mie mani la vostra stessa lettera che mi persuase a prendere l'aspetto che assunsi, e per mezzo di quella non ho alcun dubbio che o mi renderò pienamente giustizia oppure procurerò a voi una gran vergogna. Pensate di me quel che credete. Trascuro un poco il rispetto che devo e parlo sotto l'assillo dell'offesa che mi è stata fatta. Lo strapazzatissimo Malvolio".

OLIVIA: Ha scritto questo?

BUFFONE: Sì, signora.

DUCA: Ciò non sa molto di pazzia.

OLIVIA: Fatelo liberare, Fabiano, e conducetelo qua. (Esce Fabiano) (Al Duca) Signor mio, vi piaccia, ripensando a quanto è accaduto, di considerarmi sorella così come mi avreste considerata moglie; il medesimo giorno coronerà l'alleanza delle nostre famiglie, se vi piace, qui in casa mia ed a mie spese.

DUCA: Signora, sono prontissimo ad accettare la vostra offerta. (A Viola) Il vostro padrone vi congeda, ma per i servigi che gli avete resi, così incompatibili colla natura del vostro sesso, così grandemente al di sotto della vostra educazione delicata e tenera, e poiché mi avete chiamato padrone per tanto tempo, eccovi la mia mano.

Da questo momento sarete la padrona del vostro padrone.

OLIVIA: E sorella mia: voi lo siete.

 

(Rientra FABIANO con MALVOLIO)

 

DUCA: E' questo il pazzo?

OLIVIA: Sì, mio signore, proprio lui. Ebbene, Malvolio?

MALVOLIO: Signora, mi avete fatto torto, un torto grandissimo.

OLIVIA: Io, Malvolio? No.

MALVOLIO: Signora, è la verità. Vi prego, leggete questa lettera; non potete negarmi che è la vostra scrittura. Scrivete altrimenti, se lo potete, o con diversa calligrafia o con diverso stile, oppure affermate che questo non è il vostro sigillo o la vostra composizione:

non potete sostenere nulla di simile. Bene, ammettetelo dunque e ditemi in tutta la riservatezza del vostro onore per qual ragione mi avete dati segni così chiari di vostro favore, perché mi avete detto di venire da voi sorridente e colle giarrettiere incrociate, perché mi avete consigliato di mettermi le calze gialle e di squadrare dall'alto in basso sir Tobia e i subalterni. E poi, quando eseguii il vostro comando con obbediente speranza, perché avete lasciato che fossi imprigionato, rinchiuso in una stanza buia, visitato dal prete, e che diventassi il più grosso gonzo e babbeo che mai fosse mistificato?

Ditemi, perché?

OLIVIA: Ahimè, Malvolio, questa non è la mia scrittura; benché, lo confesso, le rassomigli moltissimo; ma, senza dubbio, è la calligrafia di Maria. E, adesso che ci penso, fu proprio lei a dirmi che eri ammattito: e poi entrasti tu, tutto sorridente, in quella guisa che ti era prescritta nella lettera. Ti prego calmati; è stata una beffa delle più maliziose contro di te, ma quando ne conosceremo il motivo e gli autori, sarai insieme querelante e giudice della tua stessa causa.

FABIANO: Buona signora, ascoltate le mie parole, e non lasciate che alcuna lite o disputa ulteriore venga a turbare le condizioni del momento presente, di cui mi sento meravigliato. Sperando che ciò non accada confesserò molto francamente che io e Tobia abbiamo immaginato questo complotto contro Malvolio a causa di certi atti rozzi e scortesi che avevamo da rimproverargli. Maria scrisse la lettera per la pressante insistenza di sir Tobia ed in compenso egli l'ha sposata.

Per quanto maligno sia stato lo scherzo che ne è seguito, esso può suscitare piuttosto il riso che la vendetta, se si pesano equamente i torti che ci sono stati da entrambe le parti.

OLIVIA (a Malvolio): Ahimè, povero sciocco, come ti hanno burlato!

BUFFONE: Diamine, "alcuni nascono grandi, altri pervengono alla grandezza, e ad altri ancora essa viene imposta". Rappresentavo una parte, signora, in quell'interludio; parte di un certo ser Topazio, signore, ma poco importa. "Perdio, pazzo, io non sono matto!". Ve ne ricordate? "Signora, perché vi divertite di un così insipido furfante?

Se smettete di sorridere è imbavagliato"... E così il carosello del tempo porta le sue vendette.

 

(Esce)

 

MALVOLIO: Mi vendicherò di tutta la vostra combriccola.

OLIVIA: E' stato burlato spietatamente.

DUCA: Seguitelo e inducetelo a far pace. Egli non ci ha detto ancor detto nulla del capitano; quando anche questo sarà noto e allorché il momento prezioso sia giunto, le nostre care anime si uniranno solennemente. Frattanto, cara sorella, non ci allontaneremo di qui.

Cesario, venite, poiché rimarrete tale fino a che sarete un uomo; ma quando apparirete sotto altre vesti sarete l'amata di Orsino e la regina del suo amore.

 

(Escono tutti fuorché il Buffone)

 

BUFFONE (canta):

Quand'ero un piccol piccolo fanciullo ehi, oh! il vento e la pioggia:

ogni birichinata era un trastullo, che la pioggia cade ogni dì.

Ma quando diventai un uomo fatto, ehi, oh! il vento e la pioggia:

a un birbo, a un ladro l'uscio in faccia sbattono, ché la pioggia cade ogni dì.

Ma quando giunsi a età di menar moglie, ehi, oh! il vento e la pioggia:

col millantar non mi cavai le voglie, che la pioggia cade ogni dì.

Ma quando andar dovetti tra le coltri, ehi, oh! il vento e la pioggia:

pigliavo belle sbornie in mezzo agli otri, ché la pioggia cade ogni dì.

Il mondo è cominciato da un bel tratto, ehi, oh! il vento e la pioggia:

ma poco importa, è al fine anche quest'atto e vedrem di piacervi ciascun dì.