Jerome K. Jerome

 

STORIE DI FANTASMI
PER IL DOPOCENA

 

 

 

 

 

PRELIMINARI

Era la Vigilia di Natale. Inizio così, perché questo è il modo corretto, ortodosso e rispettabile di cominciare, e io sono stato educato in modo corretto, ortodosso e rispettabile e mi è stato insegnato a fare sempre la cosa più corretta, ortodossa e rispettabile; e resto fedele all'abitudine.

Naturalmente, a titolo puramente informativo, non c'è nessun bisogno di nominare la data. Il lettore esperto sa che era la Vigilia di Natale, senza che io glielo dica. E' sempre la Vigilia di Natale, nelle storie di fantasmi.

La Vigilia di Natale è la gran nottata di gala dei fantasmi. La Vigilia di Natale, celebrano la loro festa annuale. La Vigilia di Natale, nel Paese dei fantasmi, tutti coloro che "sono" qualcuno (o, piuttosto, penso che, parlando di fantasmi, si dovrebbe dire tutti coloro che "sono" nessuno) escono per mostrarsi in pubblico, per vedere ed essere visti, per andarsene a spasso e far mostra ognuno del proprio sudario e lenzuolo funebre, per criticare l'abbigliamento e sogghignare ciascuno della cera dell'altro.

"La Parata della Vigilia di Natale", come credo la chiamino anche loro, è sicuramente una cerimonia preceduta da grandi preparativi e aspettata con ansia in tutto il Paese dei fantasmi, specialmente dal bel mondo, come i Baroni assassinati, le Contesse macchiate dal crimine dei Conti che arrivarono con il Conquistatore, assassinarono i loro parenti e morirono pazzi furiosi.

Si può esser certi che tutti studiano con impegno sordi lamenti e ghigni demoniaci. Le prove delle urla raccapriccianti e dei gesti che gelano fino al midollo iniziano, probabilmente, con settimane di anticipo. Si revisionano e si approntano per l'uso catene arrugginite e pugnali insanguinati, e si tirano giù i lenzuoli e i sudari accuratamente conservati dopo la cerimonia dell'anno precedente, si sbattono, si rammendano e si arieggiano.

Oh, che notte eccitante, la notte del ventiquattro dicembre, nel Paese dei fantasmi!

Forse avrete notato che i fantasmi non escono mai la notte di Natale.

Si immagina che la Vigilia di Natale sia già troppo per loro: non sono abituati a tanto movimento. E' certo che, passata la Vigilia di Natale, per circa una settimana i signori fantasmi si sentono la testa come un pallone e se ne vanno in giro promettendo solennemente a se stessi che, la prossima Vigilia, la smetteranno, mentre le signore spettri sono volubili e stizzose e pronte, se solo si rivolge loro la parola, a scoppiare in lacrime e a lasciare di corsa la stanza, senza nessun motivo apparente.

Credo che, occasionalmente, i fantasmi che non hanno una posizione da mantenere (semplici fantasmi borghesi) facciano qualche apparizione nella stagione morta: la Vigilia di Ognissanti e a San Giovanni, e qualcuno fa una capatina anche per un semplice avvenimento locale; per celebrare, per esempio, l'anniversario dell'impiccagione del nonno del tale o per profetizzare una sventura.

Adora profetizzare le sventure, il fantasma inglese medio. Mandatelo a predire guai a qualcuno, e è felice. Permettetegli di penetrare con la forza in una casa pacifica e mettere tutta la casa sottosopra, predicendo un funerale, preannunciando una bancarotta o alludendo a una prossima disgrazia, o a qualche altro terribile disastro del quale nessuno, nel pieno possesso delle proprie facoltà, vorrebbe sapere prima più di quando sia proprio indispensabile, e che sia completamente inutile conoscere in anticipo: ebbene, lui sentirà di unire dovere e piacere. Non se lo perdonerebbe mai, se qualcuno della sua famiglia avesse dei guai e lui non fosse stato lì, con un paio di mesi di anticipo, a giocare tiri mancini sul prato o a fare l'equilibrista sulla spalliera del letto.

E poi ci sono anche i fantasmi molto giovani, o molto coscienziosi, con un testamento perduto o un codicillo sconosciuto che gli pesa sulla coscienza, che appariranno frequentemente, per tutto l'anno; e pure il fantasma inquieto, e che è indignato perché è stato sepolto nella spazzatura o nel laghetto del paese, e non concede ai paesani una sola notte di quiete finché qualcuno non gli paga un funerale di prima classe.

Ma queste sono le eccezioni. Come ho detto, il fantasma medio ortodosso fa il suo giretto una volta l'anno. La Vigilia di Natale, e è soddisfatto.

Perché poi, di tutte le notti dell'anno, proprio la Vigilia di Natale, non sono mai riuscito a capirlo. E', immancabilmente, una delle notti più lugubri per starsene all'aperto: fredda, umida e fangosa. E poi, si sa benissimo che a Natale tutti ne hanno già abbastanza, dovendo sopportare una casa piena di parenti vivi, senza bisogno che ci si mettano anche i fantasmi di quelli morti a bighellonare in giro.

Ci dev'essere qualcosa di spettrale nell'aria di Natale, qualcosa in quell'atmosfera pesante, opprimente, che attira i fantasmi, come l'umidità delle piogge estive fa uscire le rane e lumache.

E non solo i fantasmi vanno sempre a passeggio la Vigilia di Natale, ma i vivi si riuniscono e ne parlano la Vigilia di Natale. Ogni volta che cinque o sei persone di lingua inglese si raccolgono intorno a un fuoco, la Vigilia di Natale, incominciano a raccontarsi storie di fantasmi. Non siamo soddisfatti, la Vigilia di Natale, se ognuno non racconta aneddoti, autentici, sugli spettri. E' una allegra stagione di feste, e a noi piace meditare su tombe, cadaveri, e assassini, e sangue.

Le nostre esperienze con i fantasmi si assomigliano molto, ma, naturalmente, non è colpa nostra: è colpa dei fantasmi, che non provano mai a fare uno spettacolo nuovo e si tengono ben stretta la loro vecchia parte infallibile. Il risultato è che, quando avete partecipato una volta a una festa, la Vigilia di Natale, e avete sentito sei persone raccontare le proprie avventure con i fantasmi, non avete più bisogno di ascoltare altre storie di fantasmi. Ascoltare ancora delle storie di fantasmi sarebbe noioso e ripetitivo come assistere due volte a una farsa o abbonarsi a due giornali umoristici.

C'è sempre il giovanotto che, una volta, ha passato il Natale in una casa di campagna e, la Vigilia di Natale, l'hanno messo a dormire nell'ala occidentale. Poi, a metà della notte, la porta della stanza si apre silenziosamente e qualcuno (generalmente, una signora in camicia da notte) entra lentamente e viene a sedersi sul letto. Il giovanotto pensa che si tratti di una delle ospiti o di qualche parente dei padroni di casa - anche se non ricorda di averla vista prima - che, non riuscendo a dormire, si sentiva sola e malinconica e è venuta nella sua stanza per fare due chiacchiere. Non ha nessun sospetto che sia un fantasma: è così ingenuo! Lei non parla, comunque, e, quando il giovane guarda di nuovo, se ne è andata!

La mattina dopo, il giovanotto racconta il fatto a colazione e chiede a ciascuna delle signore se era lei la sua visitatrice. Ma tutte gli assicurano di no e il padrone di casa, diventato mortalmente pallido, lo prega di non dir più nulla dell'accaduto, cosa che al giovanotto fa l'impressione di una ben strana e singolare richiesta.

Dopo colazione, il padrone di casa prende da parte il giovanotto e gli spiega che quello che ha visto era il fantasma di una signora che è stata uccisa proprio in quel letto, o che in quel letto ha ucciso qualcun' altro (la differenza è ridicola: potete diventare un fantasma uccidendo qualcun altro o facendovi uccidere, dipende dai gusti). Il fantasma dell'assassinato, forse, è più popolare, ma d'altra parte, se siete l'assassinato, potete spaventare meglio la gente, perché potete far vedere le ferite e lamentarvi.

Poi c'è l'ospite scettico: a proposito, è sempre "l'ospite" a finire coinvolto in simili avventure. Un fantasma non è mai molto entusiasta della sua famiglia: le sue apparizioni gli piace farle a quell'ospite che, la Vigilia di Natale, dopo aver ascoltato la storia di fantasmi del padrone di casa, ci ride su e dice di non credere per niente che esistano i fantasmi e che, con il permesso della compagnia, quella stessa notte dormirà nella camera infestata.

Tutti lo inviano a non essere avventato, ma lui insiste nella sua impresa temeraria e, a cuor leggero, sale con una candela in mano nella camera gialla (o di qualsiasi altro colore sia la camera infestata), augura a tutti la buonanotte e chiude la porta.

La mattina dopo, ha i capelli bianchi come la neve.

Non dice a nessuno ciò che ha visto: è troppo raccapricciante.

C'è anche l'ospite audace, che vede un fantasma, e sa che è un fantasma, e lo osserva, mentre entra nella stanza e scompare attraverso i pannelli che rivestono la parete; e poi, visto che il fantasma sembra non avere intenzione di tornare, e non avrebbe senso restare sveglio, se ne va a dormire.

Non dice a nessuno di aver visto il fantasma, per paura di spaventare gli altri (certa gente diventa così nervosa, a sentirne parlare!), ma decide di aspettare la notte successiva per vedere se lo spettro appare di nuovo.

Il fantasma riappare e, questa volta, lui si alza, si veste, si spazzola i capelli e lo segue, e così scopre un passaggio segreto che dalla camera da letto porta giù in cantina, un passaggio che, di certo, era utilizzato spesso, nei vecchi, barbari tempi antichi.

Dopo di lui viene il giovanotto che, a metà della notte, si è svegliato con una strana sensazione e ha trovato il ricco zio scapolo in piedi vicino al letto. Lo zio ricco ha sorriso di un sorriso misterioso e è svanito. Il giovanotto si è alzato subito e ha guardato l'orologio. Si era fermato alle quattro e mezzo, perché aveva dimenticato di caricarlo.

Il giorno dopo, ha preso informazioni e ha scoperto, fatto strano, che il ricco zio, di cui era l'unico nipote, solo due giorni prima aveva sposato una vedova con undici bambini, proprio a mezzanotte meno un quarto.

Il giovanotto non prova a spiegare l'evento straordinario. Si limita a proclamare la veridicità del suo racconto.

Poi, tanto per accennare a un altro caso, c'è il signore che sta tornando a casa, la sera tardi, dopo una cena tra massoni, e, notando una luce che proviene da un'abbazia in rovina, si avvicina cautamente e guarda dal buco della serratura. Vede il fantasma di una terziaria francescana che bacia il fantasma di un frate cappuccino, e ne è così indicibilmente sconvolto e terrorizzato che sviene immediatamente e lo scoprono là, la mattina dopo, mentre giace accasciato contro la porta, ancora ammutolito, con la fedele chiave di casa spasmodicamente stretta nella mano.

Tutte queste cose accadono la Vigilia di Natale e si raccontano la Vigilia di Natale. Raccontare storie di fantasmi in qualsiasi altra sera che non sia la sera del ventiquattro dicembre sarebbe impossibile nella società inglese, secondo le regole attualmente vigenti. Quindi, nel presentare le tristi, ma autentiche storie di fantasmi che seguono, mi rendo conto che è inutile informare lo studente di letteratura anglosassone che il giorno in cui furono raccontate e in cui accaddero gli episodi era la Vigilia di Natale.

Nonostante questo, lo faccio lo stesso.

 

 

 

COME ANDAMMO A FINIRE ALLE STORIE DI FANTASMI

Era la Vigilia di Natale! La Vigilia di Natale, da mio zio John; la Vigilia di Natale (ci sono troppe "Vigilie di Natale" in questo libro.

Me ne rendo conto anch'io. Sta incominciando a diventare monotono anche per me. Ma, per ora, non vedo come si possa evitarlo) al numero 47 di Laburnham Grove, Tooting! La Vigilia di Natale, nel salotto fiocamente illuminato (c'era uno sciopero del gas), dove la luce tremolante del fuoco proiettava strane ombre sulla carta da parati a colori vivaci mentre, fuori, la strada era spazzata dalla tormenta che infuriava senza pietà, e il vento, come uno spirito inquieto, soffiava ululando attraverso la piazza e, con un gemito lamentoso e tormentato, passava in un vortice oltre il negozio del lattaio.

Avevamo cenato, e ce ne stavamo seduti in circolo a chiacchierare e a fumare.

La cena era stata ottima, proprio ottima. Da questa riunione sono nati dei disaccordi, in famiglia. Sono state messe in giro delle voci, in famiglia, circa tutto l'accaduto, ma, più in particolare, circa la parte che io vi avrei avuto, e sono stati fatti dei commenti che non mi hanno poi troppo stupito, conoscendo i membri della nostra famiglia, ma che mi hanno molto addolorato. Quanto a zia Mary, non so quando mi andrà di rivederla. Pensavo che zia Mary mi conoscesse meglio.

Ma, anche se a me è stato fatto torto (molto torto, come spiegherò poi), questo non mi impedirà di essere giusto con gli altri, anche con quelli che hanno fatto insinuazioni maligne. Sarò giusto con i pasticci di vitello caldi di zia Mary e con le aragoste arrostite, seguite dalle torte di formaggio preparate secondo la sua ricetta personale e servite calde (non ha senso, secondo me, servire torte di formaggio fresche: si perde metà del sapore), il tutto mandato giù con la vecchia birra chiara speciale dello zio John, e riconoscerò che erano saporitissimi. Ho reso loro onore, quindi: la stessa zia Mary non potrebbe fare a meno di riconoscerlo.

Dopo cena, lo zio preparò del ponce al whisky. Anche a quest'ultimo feci onore: lo disse lo stesso zio John. Disse che era felice, nel vedere che mi piaceva.

La zia andò a letto, subito dopo cena, lasciando il curato del posto, il vecchio dottor Scrubbles, Mister Samuel Coombes, il nostro membro del Consiglio di contea, Teddy Biffles e me a far compagnia allo zio.

Concordammo che era ancora troppo presto per cedere al sonno, almeno per un po', così lo zio preparò un'altra coppa di ponce, e tutti, mi pare, gli facemmo onore; io, almeno, glielo feci senz'altro. E' la mia mania, il desiderare di essere giusto.

Restammo alzati per un bel po' e, più tardi, il dottore, tanto per cambiare, preparò del ponce al gin. A me il sapore non parve molto diverso, ma, comunque, tutto era buono e noi eravamo molto felici:

erano tutti così gentili!

Durante della serata, lo zio John ci raccontò una storia molto buffa.

Oh, "era" veramente buffa! Al momento, non ricordo di cosa parlasse, ma so che, allora, mi divertì tantissimo: penso di non aver mai riso tanto in vita mia. E' strano che non riesca a ricordare anche questa storia, perché ce la raccontò quattro volte. E fu solo colpa nostra se non ce la raccontò una quinta. Poi il dottore cantò una canzone molto intelligente, durante la quale imitò tutti gli animali della fattoria.

Fece un po' di confusione. Ragliò per il gallo "bantam" e fece chicchirichì per il maiale, ma noi sapevamo che le sue intenzioni erano buone.

Incominciai a raccontare un aneddoto interessantissimo, ma man mano che andavo avanti fui alquanto sorpreso di notare che nessuno mi porgeva la benché minima attenzione. All'inizio pensai che erano piuttosto maleducati, finché mi resi conto di avere sempre parlato tra me, invece che ad alta voce, e così, naturalmente, gli altri non sapevano per niente che stavo raccontando loro una storia e, probabilmente, si stavano scervellando per capire il significato della mia espressione animata e dei miei gesti eloquenti. Era un errore curiosissimo da commettere, per chiunque: a me, poi, non era mai capitato prima, che io sappia.

Più tardi, il curato giocò delle mani a carte. Ci chiese se avevamo mai assistito a un gioco chiamato "La mano delle tre carte". Disse che era un espediente mediante il quale uomini meschini e senza scrupoli, frequentatori di concorsi ippici e di simili posti di ritrovo, estorcevano, con l'inganno, denaro ai giovanotti sciocchi. Disse che era un trucco semplicissimo: tutto dipendeva dalla velocità della mano. Era la velocità della mano che ingannava l'occhio.

Disse che ci avrebbe fatto vedere la frode, così da metterci in guardia, per non farci imbrogliare, e andò a prendere il mazzo di carte dello zio dalla scatola da tè e, scelte tre carte dal mazzo, due carte basse e una figura, si sedette sul tappeto davanti al focolare e ci spiegò quanto stava per fare.

Disse: - Adesso prenderò in mano queste tre carte, così, e le lascerò vedere a tutti. Poi mi limiterò a posarle sul tappeto capovolte e vi chiederò di scegliere la figura. E voi crederete di sapere qual è. - E così fece. Il vecchio Mister Coombes, che è anche uno dei membri laici della nostra parrocchia, disse che era la carta di mezzo.

- Lei immagina di averla vista - disse il curato, sorridendo.

- Non "immagino" proprio niente - replicò Coombes. - Le dico che è la carta al centro. Scommetto mezzo dollaro con lei che è la carta al centro.

- Ecco, proprio come vi stavo spiegando- disse il curato, rivolgendosi a noi -: questo è il modo in cui i giovanotti sciocchi dei quali parlavo vengono adescati e perdono il loro denaro. Si convincono di sapere qual è la carta, immaginano di averla vista. Non afferrano l'idea che è stata la velocità della mano a ingannare l'occhio.

Disse di aver conosciuto giovanotti che erano andati a una gara di canottaggio, o a un incontro di cricket, con le tasche piene di sterline e, nel primo pomeriggio, erano tornati a casa rovinati, dopo aver perso tutto il loro denaro a questo gioco truccato.

Disse che avrebbe preso la mezza corona di Mister Coombes, perché questa sarebbe stata una lezione molto utile per Mister Coombes e, probabilmente, grazie a questo Mister Coombes avrebbe risparmiato il proprio denaro, in futuro, e disse che avrebbe donato i due scellini e sei pence al fondo comune.

- Non stia a preoccuparsi di questo- ribatté il vecchio Mister Coombes. - Basta che la mezza corona non la "tiri fuori", piuttosto, dal fondo comune.

Mise il denaro sulla carta di mezzo, e la girò.

Ed era proprio la regina, infatti!

Eravamo tutti molto sorpresi, specialmente il curato. Questi disse che, in effetti, qualche volta andava così, anche se... Che qualcuno, a volte, puntava sulla carta giusta, per puro caso.

Aggiunse che, comunque, questo era il peggior servizio che un uomo potesse rendere a se stesso, e peccato che non lo sapesse: infatti, quando uno puntava e vinceva incominciava a prendere gusto a questo cosiddetto passatempo e si lasciava convincere a rischiare ancora e poi ancora, finché doveva ritirarsi dalla competizione un uomo finito, rovinato.

Poi giocò un'altra mano. Mister Coombes disse che, questa volta, era la carta accanto alla cassetta del carbone e volle aumentare la posta di cinque scellini.

Noi ridemmo di lui e cercammo di convincerlo a lasciar perdere. Non volle sentire ragioni, comunque, e insistette a puntare forte.

Il curato disse che benissimo, allora: lui l'aveva avvertito, e questo era tutto quello che poteva fare. Se il signore (Mister Coombes) aveva deciso di fare la figura dello stupido, il signore (Mister Coombes) doveva farla.

Il curato disse che avrebbe preso i cinque scellini e avrebbe rimesso a posto le cose con il fondo comune.

Così Mister Coombes mise due mezze corone sulla carta vicino alla cassetta del carbone e la girò.

Ed era di nuovo la regina, infatti!

Dopo, lo zio John puntò una moneta da due scellini, e "anche lui" vinse.

E allora giocammo tutti, e tutti vincemmo. Cioè, tutti tranne il curato. Passò un pessimo quarto d'ora. Non ho mai conosciuto un uomo tanto sfortunato al gioco. Perse sempre.

Poi bevemmo dell'altro ponce, e, nel prepararlo, lo zio fece un errore buffissimo: non ci mise il whisky. Oh, che risate ci facemmo, alle sue spalle! E poi, per penitenza, gli facemmo raddoppiare la dose.

Oh, quanto ci divertimmo, quella sera!

E poi, in un modo o nell'altro, dobbiamo aver attaccato con i fantasmi, perché, subito dopo, tutto ciò che ricordo è che ci stavamo raccontando storie di fantasmi.

 

 

 

LA STORIA DI TEDDY BIFFLES

Teddy Biffles raccontò la prima storia. Gliela farò ripetere, ora, con le stesse parole.

(Non chiedetemi come mai ricordi le parole esatte: se le stenografai, al tempo del racconto, o se lui trascrisse la storia e mi passò il manoscritto, in seguito, perché lo pubblicassi in questo libro; non me lo chiedete perché anche se lo faceste non ve lo direi. E' un segreto del mestiere).

Biffles intitolò la sua storia: "Johnson ed Emily; o, Il fantasma fedele".

 

 

 

JOHNSON ED EMILY OVVERO "IL FANTASMA FEDELE"

(Storia di Teddy Biffles)

Ero poco più che un ragazzo, quando incontrai Johnson la prima volta, ero a casa per le vacanze di Natale e, poiché era la vigilia, avevo avuto il permesso di rimanere in piedi fino a tardi. Quando aprii la porta per entrare nella mia cameretta da letto, mi trovai a faccia a faccia con Johnson. Mi passò attraverso, e con un lungo, debole gemito dolente scomparve dalla finestra delle scale.

Lì per lì mi spaventai (ero solo uno scolaretto, a quel tempo, e non avevo mai visto un fantasma) e avevo un po' di paura ad andare a letto. Ripensandoci, però, mi ricordai che gli spiriti potevano fare del male solo ai peccatori, e così mi coricai, rimboccai le coperte e mi addormentai.

Al mattino dissi a mio padre quello che avevo visto.

- Oh, sì, era il vecchio Johnson - rispose. - Non devi averne paura:

vive qui. - E poi mi raccontò la storia del poveretto.

A quanto sembrava, Johnson, da vivo, quand'era giovane, aveva amato la figlia di un ex inquilino di casa nostra, una ragazza bellissima di nome Emily. Papà non sapeva il cognome.

Johnson era troppo povero per sposare la ragazza, così le diede il bacio d'addio, le disse che sarebbe tornato presto e partì per l'Australia, a cercar fortuna.

Ma l'Australia, allora, non era come diventò in seguito. I viaggiatori, in quel territorio selvaggio, erano pochi e rari e, anche quando se ne acchiappava uno, gli oggetti personali che gli si trovavano addosso avevano spesso un valore commerciale a malapena sufficiente a pagare le semplici spese funerarie che il caso richiedeva. E così Johnson impiegò quasi venti anni a fare fortuna.

Alla fine, comunque, egli portò a termine il compito che si era prefisso e quindi, dopo essere sfuggito con successo alla polizia, e aver lasciato la colonia senza macchia, ritornò in Inghilterra pieno di gioia e speranza, a reclamare la sua promessa sposa.

Arrivò alla casa, ma la trovò silenziosa e abbandonata. Tutto quello che i vicini seppero dirgli fu che, subito dopo la sua partenza, in una notte nebbiosa, tutta la famiglia era sparita senza farsi notare e che da allora nessuno li aveva più visti, né aveva sentito parlare di loro, anche se il padrone di casa e buona parte dei negozianti locali avevano fatto minuziose indagini.

Il povero Johnson, pazzo di dolore, cercò il suo amore perduto per mare e per terra, ma non lo trovò mai e, dopo anni di inutili tentativi, ritornò per finire la sua vita solitaria nella stessa casa dove, un tempo, nei giorni felici, lui e la sua amata Emily avevano passato tante ore beate.

Vi aveva vissuto completamente solo, vagando nelle stanze vuote, piangendo e invocando la sua Emily perché tornasse da lui, e, quando il povero vecchio era morto, il suo fantasma aveva continuato con la stessa storia.

Era lì, disse mio padre, quando aveva preso la casa, e perciò l'agente gli aveva fatto uno sconto di dieci sterline all'anno sull'affitto.

In seguito, non feci che imbattermi in Johnson, in giro a tutte le ore della notte, e, per la verità, era lo stesso per tutti noi.

All'inizio, gli giravamo intorno e ci facevamo da parte per lasciarlo passate, ma quando ci facemmo l'abitudine e sembrò che non ci fosse nessun bisogno di tante cerimonie, prendemmo a passargli direttamente attraverso. Non si poteva dire che ci stesse troppo in mezzo ai piedi.

E poi, era un vecchio fantasma gentile e innocuo, e a noi tutti dispiaceva moltissimo per lui e lo compativamo. In verità, per un po', fu il beniamino delle signore. La sua fedeltà le commuoveva tanto!

Con il passare del tempo, però, cominciò a diventare un po' seccante.

Vedete, trasudava tristezza: neppure un grammo di allegria, o di cordialità. Faceva pena, ma dava ai nervi. Se ne stava seduto sulla scale a piangere per ore e ore, e ogni volta che ci svegliavamo, di notte, sapevamo con certezza che l'avremmo sentito gingillarsi nei corridoi, entrare e uscire dalle diverse stanze, gemendo e sospirando, e così non riuscivamo a riaddormentarci molto facilmente. E, quando davamo una festa, veniva a sedersi fuori dalla porta del soggiorno e singhiozzava tutto il tempo. Non faceva del male a nessuno, no, ma faceva scendere su tutto un'ombra di tristezza.

- Oh, comincio a essere stufo di questo vecchio scemo - disse mio padre, una sera (papà sa essere molto brusco, quando è arrabbiato, come sapete), dopo che Johnson era stato più seccante del solito e aveva rovinato una bella partita di whist, standosene seduto sul camino a gemere, finché nessuno sapeva più quali erano le briscole e neppure che seme era stato calato. Dovremo sbarazzarci di lui, in un modo o nell'altro. Magari sapessi come fare!

- Beh- disse mia madre, - non metterai mai la parola "fine" con lui, stanne certo, finché non avrà trovato la tomba di Emily. E' quella che va cercando. Tu trova la tomba di Emily, mettigliela sotto il naso e la pianterà. E' l'unica cosa da fare, credi a quello che dico.

L'idea pareva ragionevole, ma l'ostacolo era che nessuno di noi sapeva dove fosse la tomba di Emily, più di quanto non lo sapesse lo stesso fantasma di Johnson. Il governatore suggerì di rifilare al poveretto la tomba di qualche altra Emily, ma, a quanto pareva, la sorte volle che non ci fosse nessuna Emily seppellita da quelle parti per miglia nei dintorni. Non mi è mai capitata una zona così totalmente sprovvista di defunte Emily.

Ci pensai su per un po', e poi azzardai anch'io una proposta.

- Non potremmo farne noi una falsa per quel vecchio?- indagai. - Pare un tipo ingenuo. Potrebbe cascarci. Comunque, potremmo almeno provare.

- Per Giove, faremo così - esclamò mio padre e la mattina dopo (c'erano con noi gli operai) sistemammo un piccolo tumulo, in fondo al frutteto, con su una lapide che portava la seguente iscrizione:

"Consacrato alla memoria di Emily. Le sue ultime parole furono: "Dite a Johnson che l'amo"".

- Questo dovrebbe attirarlo - rifletté papà, una volta finito il lavoro, mentre lo esaminava. - Almeno, lo spero proprio.

E funzionò!

Quella stessa notte, lo attirammo laggiù e... beh, ecco, è stata una delle scene più patetiche alle quali abbia mai assistito, il modo in cui Johnson si buttò su quella lapide e pianse. Papà e il vecchio Squibbins, il giardiniere, quando lo videro, piansero come bambini.

Da allora, Johnson non ci ha più dato nessun fastidio, in casa. Adesso passa tutte le notti a singhiozzare sulla tomba, e sembra perfettamente felice.

- E'ancora lì? - Oh, sì. Vi ci porterò e ve lo mostrerò, la prossima volta che venite a casa nostra: normalmente, il suo orario è dalle 10 di sera alle 4 del mattino; il sabato dalle 10 alle 2.

 

 

 

INTERMEZZO (Storia del dottore)

Mi fece piangere moltissimo, quella storia: il giovane Biffles la raccontò con tanto sentimento! Dopo, eravamo tutti un po' pensierosi e notai che perfino il vecchio dottore si asciugava una lacrima, di nascosto. Zio John, comunque, preparò un'altra coppa di ponce e, pian piano, ce ne facemmo una ragione.

Il dottore, in verità, dopo un po' diventò quasi allegro e ci racconto del fantasma di uno dei suoi pazienti.

Non posso presentarvi la sua storia. Magari potessi! Tutti dissero, poi, che era stata la migliore della serie, la più tremenda e raccapricciante, ma io non riuscii a trovarvi nessun senso. Pareva così incompleta!

L'inizio fu perfetto, e poi sembrò capitare qualcosa, ed ecco che era già alla fine. Non riesco a spiegarmi che cosa abbia fatto della parte centrale della storia.

So, comunque, che finì con qualcuno che trovava qualcosa e questo fece venire in mente a Mister Coombes una faccenda molto curiosa, capitata in un vecchio mulino che, una volta, suo cognato aveva preso in affitto.

Mister Coombes disse che ci avrebbe raccontato la storia e, prima che qualcuno potesse fermarlo, aveva cominciato.

Mister Coombes disse che il titolo della storia era: "Il mulino infestato; o, La casa in rovina."

 

 

IL MULINO INFESTATO OVVERO LA CASA IN ROVINA

(Storia di Mister Coombes)

Bene, tutti voi conoscete mio cognato, Mister Parkins (incominciò Mister Coombes, togliendosi di bocca la vecchia pipa d'argilla e mettendosela dietro l'orecchio: noi non conoscevamo suo cognato, ma dicemmo di sì per risparmiare tempo), e, naturalmente, sapete che una volta prese in affitto un vecchio mulino nel Surrey e andò ad abitarci.

Ora, dovete sapere che, anni prima, lo stesso mulino lo occupava un malvagio, vecchio avaro, che vi era morto lasciando (così si diceva) tutto il suo denaro nascosto da qualche parte, lì in casa. Come è naturale, tutti quelli che in seguito erano andati a vivere al mulino avevano tentato di trovare il tesoro, ma nessuno ci era mai riuscito e i sapientoni locali dicevano che nessuno ce l'avrebbe mai fatta, a meno che il fantasma del mugnaio avaro, un giorno, non avesse preso in simpatia uno degli affittuari e non gli avesse rivelato il segreto del nascondiglio.

Mio cognato non diede molta importanza alla storia, considerandola una sciocca leggenda, e, al contrario dei suoi predecessori, non fece nessun tentativo di trovare l'oro nascosto.

- A meno che gli affari non andassero allora molto diversamente da come vanno ora - disse mio cognato, - non vedo come un mugnaio, per quanto avaro sia stato, possa aver risparmiato qualcosa: in ogni caso, non abbastanza da meritare la fatica di cercarlo.

Eppure, non riusciva scacciare completamente l'idea di quel tesoro.

Una notte, andò a letto. In questo, non c'era niente di particolarmente straordinario, lo ammetto. Andava spesso a letto, la notte. Quel che fu veramente eccezionale, comunque, fu che, nel momento esatto in cui l'orologio della chiesa del paese suonò l'ultimo rintocco della mezzanotte, mio cognato si svegliò di soprassalto e si accorse che non riusciva assolutamente a riprendere sonno.

Joe (il suo nome di battesimo era Joe) si mise seduto sul letto e si guardò intorno.

Ai piedi del letto, qualcosa stava dritto e immobile, avvolto nell'ombra.

Si spostò alla luce della luna e mio cognato vide che era la figura di un vecchietto avvizzito, con calzoni al ginocchio e codino.

Immediatamente gli tornò in mente la storia del tesoro nascosto e del vecchio avaro.

"E' venuto a farmi vedere dov'è nascosto", pensò mio cognato, e decise che non avrebbe speso tutto il denaro per sé, ma ne avrebbe destinata una piccola parte a fare del bene agli altri.

L'apparizione si mosse verso la porta: mio cognato si mise i pantaloni e la seguì. Il fantasma scese in cucina, scivolò fino al focolare e vi si fermò davanti, sospirò e sparì.

La mattina dopo Joe aveva un paio di muratori in casa, e fece tirare fuori la stufa e buttare giù il camino, mentre lui stava lì dietro, con un sacco di patate per metterci l'oro.

Abbatterono mezzo muro, e non trovarono neppure una monetina da quattro penny. Mio cognato non sapeva cosa pensare.

La notte seguente, il vecchio apparve di nuovo e, di nuovo, fece strada in cucina. Questa volta, però, invece di andare al focolare, si fermò più al centro della stanza, e lì sospirò.

"Oh, adesso capisco quello che intende", si disse mio cognato, "è sotto il pavimento. Perché mai quel vecchio idiota è andato a fermarsi contro la stufa, così da farmi pensare che fosse su nel camino?".

Passarono la giornata successiva a scardinare il pavimento della cucina, ma l'unica cosa che trovarono fu una forchetta a tre denti, che aveva anche il manico rotto.

La terza notte, il fantasma, imperterrito, riapparve e, per la terza volta, si diresse in cucina. Arrivato lì, alzò lo sguardo al soffitto e sparì.

"Uhmm! Non sembra aver acquisito molto buon senso, lì dov'è andato", borbottò Joe mentre si affrettava di nuovo a letto; "poteva fare subito così, direi".

Comunque, pareva che adesso non ci fossero più dubbi su dove era il tesoro e per prima cosa, dopo colazione, incominciarono a demolire il soffitto. Lo buttarono giù completamente e scardinarono le assi della stanza di sopra. Scoprirono tanto denaro quanto vi aspettereste di trovarne in un boccale da un quarto vuoto.

La quarta notte, quando il fantasma, come al solito, apparve, mio cognato era così furioso che gli tirò gli stivali, e gli stivali passarono attraverso il corpo e ruppero uno specchio.

La quinta notte, quando Joe si svegliò, come gli succedeva sempre, ormai, a mezzanotte, il fantasma se ne stava lì in piedi, in atteggiamento avvilito, con un'aria infelicissima. Nei suoi grandi occhi tristi brillava uno sguardo supplichevole, che toccò il cuore di mio cognato.

"Dopotutto", pensò, "forse questo povero sciocco sta facendo del suo meglio. Forse ha davvero dimenticato dove l'ha messo, e sta cercando di ricordarsene. Gli darò un'altra possibilità".

Il fantasma sembrò felicissimo e grato, nel vedere che Joe si preparava a seguirlo; fece strada nel solaio, indicò il soffitto e svanì.

"Bene, spero proprio che stavolta ci abbia azzeccato", disse mio cognato e, il giorno dopo, si misero al lavoro per togliere di mezzo il tetto.

Impiegarono tre giorni a togliere completamente il tetto, e tutto quel che trovarono fu un nido d'uccelli; così, dopo averlo messo al sicuro, coprirono la casa con delle incerate, per tenerla all'asciutto.

Avrete pensato, magari, che questo avrebbe guarito il poveretto dal vizio di dare la caccia al tesoro. Ma non fu così.

Disse che doveva pur esserci sotto qualcosa, altrimenti il fantasma non avrebbe continuato a venire come faceva, e che, arrivato a questo punto, egli avrebbe continuato fino alla fine e avrebbe risolto il mistero, a qualsiasi costo.

Notte dopo notte, continuò ad alzarsi dal letto e a seguire quel vecchio spettro impostore in giro per la casa. Ogni notte, il vecchio indicava un posto diverso e ogni volta, il giorno dopo, mio cognato procedeva a fare a pezzi il mulino nel punto indicato, e a cercare il tesoro. Dopo tre settimane, nel mulino non c'era più una stanza abitabile. Tutti i muri erano stati abbattuti, tutti i pavimenti divelti, in ogni soffitto era stato fatto un buco. E poi, improvvisamente come erano cominciate, le visite del fantasma ebbero fine, e mio cognato fu lasciato in pace a ricostruire la casa con comodo.

- Che cosa ha indotto il vecchio simulacro a giocare un tiro così stupido a un povero contribuente con famiglia? - Ah, questo proprio non ve lo so spiegare.

Alcuni dissero che il fantasma del vecchio malvagio aveva fatto questo per punire mio cognato, perché all'inizio non aveva creduto in lui, mentre altri sostennero che l'apparizione era, probabilmente, quella di qualche idraulico o vetraio del posto, deceduto, al quale naturalmente interessava vedere una casa demolita e rovinata. Ma nessuno seppe niente di certo.

 

 

 

INTERMEZZO

Bevemmo dell'altro ponce, poi il curato ci raccontò una storia.

Non riuscii a trovare né capo né coda, nella storia del curato, quindi non posso riferirvela. Tutti noi non riuscimmo a trovare né capo né coda in quella storia. Era una storia abbastanza valida, per quanto riguardava il materiale. Sembrava ci fosse un ricchissimo intreccio, e avvenimenti sufficienti a scrivere una dozzina di romanzi. Non avevo mai sentito una storia che comprendesse tanti avvenimenti, né che avesse a che fare con tanti personaggi diversi.

Dovrei dire che ogni essere umano che il nostro curato avesse mai conosciuto, o incontrato, o di cui avesse sentito parlare, fu inserito in quella storia. Ce n'erano semplicemente a centinaia. Ogni cinque secondi, introduceva nella storia un mucchio di personaggi sfornati di fresco, accompagnati da una serie di avvenimenti nuovi di zecca.

Era una storia più o meno così:

- Beh, poi mio zio andò in giardino a prendere il fucile, ma, naturalmente, questo non era lì e Scroggins disse che non ci credeva.

- Non credeva a cosa? Chi è Scroggins?

- Scroggins! Oh, beh, era l'altro uomo, sapete... era sua moglie.

- "Cosa", era sua moglie?! E che c'entra "lei"?

- Beh, ve lo sto appunto dicendo. Fu lei a trovare il cappello. Era venuta su a Londra sua cugina; sua cugina era mia cognata, e l'altra nipote aveva sposato un uomo di nome Evans, ed Evans, dopo che tutto fu finito, aveva passato la scatola a Mister Jacobs, perché il padre di Jacobs aveva visto l'uomo, quando era vivo, e, quando fu morto, Joseph...

- Aspetti un momento. Lasci perdere Evans e la scatola; che ne è stato di suo zio e del fucile?

- Il fucile! Quale fucile?

- Come, il fucile, che suo zio teneva sempre in giardino, e che non era lì. Cosa ne fece? Ci uccise qualcuna di queste persone, questi Jacobs, ed Evans, e Scroggins, e Joseph? Perché, se l'ha fatto, ha fatto un buon lavoro, un lavoro utile, e a noi piacerebbe molto saperlo.

- No, oh no: come poteva? Era stato murato vivo, sapete, e quando Edoardo Quarto ne parlò all'abate, mia sorella disse che, nel suo attuale stato di salute, non poteva e non voleva, perché avrebbe messo in pericolo la vita del bambino. Così lo battezzarono Horatio, come il figlio di lei, che era stato ucciso a Waterloo, prima che egli nascesse e lo stesso Lord Napier disse...

- Senta un po', sa di che cosa sta parlando?- gli chiedemmo, a questo punto.

- No - disse, ma sapeva che era vero, parola per parola, perché sua zia l'aveva visto con i suoi occhi. Allora lo coprimmo con la tovaglia, e si addormentò.

E poi lo zio ci raccontò una storia.

Disse che la sua era una storia veramente successa.

 

 

 

IL FANTASMA DELLA CAMERA AZZURRA

(Storia di mio zio)

- Non voglio impaurirvi - iniziò mio zio, con tono di voce particolarmente solenne, per non dire che faceva gelare il sangue nelle vene - e, se preferite che non ne parli, non lo farò, ma il fatto è che proprio questa casa, dove siamo ora riuniti, è infestata.

- Non me lo dica! - esclamò Mister Coombes.

- Che mi dice a fare di non dirglielo, se l'ho appena detto? ribatté lo zio, un po' stizzosamente. - Che assurdità, dice! Vi dico che questa casa è infestata. Regolarmente, la Vigilia di Natale, la Camera azzurra (dallo zio, chiamavano "Camera azzurra" la stanza vicina a quella dei bambini, perché quasi tutto il servizio da toletta era di quella sfumatura) è infestata dal fantasma di un criminale, un uomo che una volta uccise con un pezzo di carbone uno di quei cantanti che, a Natale, vanno di casa in casa.

- Come fece? - chiese Mister Coombes, curioso, con impazienza. - Fu difficile?

- Non so come fece- replicò lo zio,- non mi spiegò il procedimento. Il cantante si era messo in posizione proprio dentro l'entrata principale, e stava cantando una ballata. Si presume che, quando aprì la bocca per il "si bemolle", il criminale abbia lanciato il pezzo di carbone da una delle finestre e questo si sia infilato nella gola del cantante e l'abbia soffocato.

- Bisogna essere un bravo tiratore, ma vale certamente la pena di provare - mormorò pensosamente Mister Coombes.

- Ma quello non fu il suo unico crimine, ahimè! - aggiunse lo zio. - Prima, aveva ucciso un solista di cornetta.

- No! - E' proprio un fatto vero? - esclamò Mister Coombes.

- Certo che è un fatto vero - rispose lo zio, irritato: almeno, per quanto si possa parlare di "fatti" in casi di questo tipo.

- Com'è pignolo, stasera. Le prove indiziarie erano schiaccianti. Il poveretto, il solista di cornetta, si trovava in questa zona da appena un mese. Il vecchio Mister Bishop, che allora gestiva il "Jolly Sand Boys", e dal quale ho saputo la storia, diceva di non aver mai visto un solista di cornetta più operoso e attivo. Il solista di cornetta conosceva solo due motivi, ma Mister Bishop diceva che quell'uomo non avrebbe potuto suonare con più di energia, né per più ore al giorno, se ne avesse conosciuti quaranta. I due motivi che suonava erano "Annie Laurie" e "Home, Sweet Home" e, per ciò che concerne l'esecuzione della prima melodia, Mister Bishop diceva che l'avrebbe capita anche un bambino.

- Questo musicista, questo povero artista senza amici, aveva l'abitudine di venire regolarmente a suonare in questa strada, proprio qui di fronte, due ore ogni sera. Una sera, fu visto entrare proprio in questa casa, evidentemente in risposta a un invito, "ma non fu mai visto uscirne!" - I cittadini provarono a offrire una ricompensa per il suo ritrovamento? - chiese Mister Coombes.

- Neanche mezzo penny - replicò lo zio.

- Un'altra estate - continuò lo zio, - venne qui una banda musicale tedesca, che voleva (così annunciarono, al loro arrivo) fermarsi fino all'autunno.

- Due giorni dopo il loro arrivo, tutta la compagnia, dei pezzi d'uomini così sani e vigorosi che faceva piacere guardarli, fu invitata a cena da questo criminale e, dopo aver passato a letto le ventiquattr'ore successive, lasciò la città: degli uomini finiti, gravemente ammalati di dispepsia. Il medico condotto, che li aveva assistiti, disse che, secondo lui, difficilmente anche uno solo di loro sarebbe stato in grado di suonare di nuovo un'aria.

- Lei... lei non conosce la ricetta, vero? - chiese Mister Coombes.

- Sfortunatamente no- replicò lo zio,- ma si disse che l'ingrediente principale fosse pasticcio di carne di maiale del buffet della stazione.

- Ho dimenticato gli altri crimini di quest'uomo - continuò lo zio, - prima li conoscevo tutti, ma la mia memoria non è più quella di una volta. Non penso, comunque, di fare torto alla sua memoria se affermo che non fu del tutto estraneo alla morte, e poi al seppellimento, di un signore che suonava l'arpa con le dita dei piedi; e che non aveva la coscienza pulita neppure circa la tomba solitaria di un forestiero sconosciuto, che venne una volta in questa zona, un contadinello italiano, che suonava l'organetto.

- Ogni anno, la Vigilia di Natale - disse lo zio in tono basso e solenne, rompendo lo strano silenzio sgomento che, come un'ombra, sembrava essersi lentamente infiltrato, furtivo, nella stanza, per poi avvolgerla completamente, - il fantasma di questo criminale infesta la Camera azzurra, proprio in questa casa. Là, da mezzanotte fino al canto del gallo, tra grida selvagge soffocate e gemiti e risate di scherno e il suono spettrale di orridi tonfi, sostiene una fiera lotta fantasma con gli spiriti del solista di cornetta e del cantante assassinato, aiutati, ogni tanto, dalle ombre della banda musicale tedesca, mentre il fantasma dell'arpista strangolato suona folli melodie spettrali, con le dita dei piedi fantasma, sullo spettro di un'arpa rotta.

Lo zio disse che la Camera azzurra era praticamente inutile, come camera da letto, la Vigilia di Natale.

- Ascoltate! - disse lo zio alzando una mano verso il soffitto, in segno di ammonimento, mentre noi trattenevamo il respiro e ascoltavamo. - Ascoltate! Credo che siano loro: "nella Camera azzurra!" Mi alzai, e dissi che io avrei dormito nella Camera azzurra. Prima di raccontarvi la mia storia, però, la storia di quel che capitò nella Camera azzurra, vorrei premettere... "una spiegazione personale".

 

 

 

UNA SPIEGAZIONE PERSONALE

Sono molto incerto se raccontarvi o no questa mia storia. Vedete, non è una storia come le altre che vi ho raccontato o, piuttosto, che Teddy Biffles, Mister Coombes e mio zio vi hanno raccontato: è una storia vera. Non è una storia raccontata da un tale, seduto vicino al fuoco, la Vigilia di Natale, mentre beve ponce al whisky: è una testimonianza di avvenimenti davvero successi.

Veramente, non è proprio una "storia", nel senso comune del termine: è una cronaca. Sento che è quasi fuori luogo, in un libro come questo.

E' più adatta a una biografia, o a un libro di storia inglese.

C'è un'altra cosa che mi rende difficile raccontarvi questa storia, e cioè, che è tutta su me stesso. Se vi racconto questa storia, dovrò continuamente parlare di me, e a noi autori moderni non piace per niente parlare di noi stessi. Se mai esiste un'aspirazione lodevole che abita sempre nell'animo di noi letterati della nuova scuola, questa è l'aspirazione a non apparire mai, anche se minimamente, egocentrici.

Io stesso, così mi dicono, con questo riserbo, questa riluttanza, questa reticenza per tutto quello che riguarda la mia personalità, arrivo quasi a passare il segno, e la gente si lamenta con me, per questo motivo. Vengono e mi dicono:

- Beh, allora, perché non parli un po' di te? E' di questo che vogliamo leggere. Dicci qualcosa di te.

Ma io ho sempre risposto: - No. - Non perché non trovi interessante il soggetto. Io stesso non riesco a immaginare un argomento che abbia più probabilità di dimostrarsi affascinante per il mondo intero, o, almeno, per la parte colta di esso. Ma non lo farò, per principio. Non è artistico, e è un cattivo esempio per i giovani. Altri scrittori (alcuni di loro) lo fanno, ma io non lo farò; non regolarmente.

In circostanze normali, quindi, non vi racconterei proprio questa storia. Direi a me stesso: "No! E' una bella storia, è una storia morale, è un genere di storia strana, bizzarra, affascinante, e al pubblico, lo so, piacerebbe conoscerla, e a me piacerebbe raccontargliela, ma è tutta su di me: su quello che ho detto, e quello che ho visto, e quello che ho fatto; e non posso farlo. La mia natura riservata, anti-egocentrica, non mi consentirà di parlare così di me stesso".

Ma le circostanze specifiche di questa storia non sono normali e ci sono dei motivi che, malgrado la mia modestia, mi spingono, piuttosto, a essere grato dell'occasione di raccontarla.

Come ho affermato all'inizio, sono nati dei disaccordi, in famiglia, su questa nostra festicciola, e a me in particolare, per la parte che avrei avuto negli avvenimenti che sono ora sul punto di riferire, è stato fatto molto torto.

Per rimettere nella giusta luce la mia reputazione, per dissipare le nubi della calunnia e dell'incomprensione che l'hanno oscurata, sento che la miglior cosa che io possa fare è offrire un resoconto lineare e dignitoso dei fatti puri e semplici, e lasciare che chi è imparziale giudichi da sé. La mia intenzione principale, lo confesso francamente, è riscattarmi da ingiuste calunnie. Con questo motivo che mi sprona (e credo sia un motivo giusto e onorevole), penso di poter superare la mia abituale ripugnanza a parlare di me stesso, e, quindi, posso raccontare... "La mia storia".

 

 

 

LA MIA STORIA

Non appena mio zio ebbe terminata la sua storia, come vi ho già detto, mi alzai e dissi che, quella stessa notte, IO avrei dormito nella Camera azzurra.

- Mai!- gridò lo zio, balzando in piedi. - Non correrai questo pericolo mortale. E poi, il letto non è rifatto.

- Il letto non ha importanza - replicai. - Ho vissuto in camere ammobiliate per scapoli e mi sono abituato a dormire su letti che non erano stati rifatti da anni. Non contrastarmi nella mia decisione.

Sono giovane, e è più di un mese che ho la coscienza pulita. Gli spiriti non mi faranno del male. Posso addirittura essere io a fare un po' di bene a loro, convincendoli a stare zitti e ad andarsene. E poi, mi piacerebbe assistere allo spettacolo.

Detto questo, mi sedetti di nuovo. (Come mai Mister Coombes fosse seduto sulla mia sedia, invece che dall'altra parte della camera, dove era stato per tutta la sera, e perché non si sia neppure sognato di farmi le sue scuse, quando mi sedetti proprio su di lui, e perché il giovane Biffles si sia spacciato per lo zio John e mi abbia indotto, con questa impressione errata, a stringergli la mano per quasi tre minuti e a dirgli che l'avevo sempre considerato come un padre, sono cose che, ancora oggi, non sono mai riuscito a spiegarmi del tutto).

Provarono di dissuadermi da quella che chiamavano la mia impresa temeraria, ma io fui irremovibile e rivendicai il mio privilegio: io ero l'"ospite". "L'ospite" dorme sempre nella camera infestata, la Vigilia di Natale: è di sua competenza.

Risposero che, se la mettevo su quel piano, naturalmente non avevano più niente da replicare; mi accesero una candela e mi accompagnarono di sopra, compatti.

Se era la coscienza di compiere una nobile azione a ubriacarmi, o se invece ero semplicemente animato da una vaga consapevolezza della mia rettitudine, non sta a me dirlo, ma, quella sera, salii di sopra con grande baldanza. Fu già tanto se mi fermai al pianerottolo, quando ci giunsi: sentivo che avrei voluto salire fin sul tetto. Con l'aiuto della ringhiera, però, frenai il mio slancio, augurai la buonanotte, entrai e chiusi la porta.

Le cose cominciarono ad andarmi male fin dall'inizio. La candela cadde dalla bugia prima ancora che avessi ritirato la mano dalla serratura.

Continuò a cadere dalla bugia e, ogni volta che la raccoglievo e la rimettevo a posto, cadeva di nuovo: non ho mai visto una candela tanto scivolosa. Alla fine, rinunciai a tentare di usare la bugia e tenni la candela in mano' ma, anche così, non stava dritta. Allora mi infuriai:

la buttai dalla finestra, mi svestii e andai a letto al buio. Non mi addormentai (non avevo per niente sonno): mi sdraiai supino, guardando il soffitto e vagando con il pensiero. Magari mi ricordassi qualcuna delle idee che mi vennero, mentre me ne stavo lì sdraiato: erano così divertenti! Ridevo da solo, tanto che il letto si mise a ballare.

Ero rimasto così sdraiato per circa mezz'ora, e avevo dimenticato completamente il fantasma, quando, lanciando per caso un'occhiata alla camera, notai, per la prima volta, uno spettro dall'aria particolarmente soddisfatta, seduto in poltrona vicino al fuoco, che fumava il fantasma di una lunga pipa d'argilla.

Come sarebbe successo quasi a chiunque, in casi simili, sul momento immaginai che stavo sicuramente sognando. Mi alzai a sedere e mi stropicciai gli occhi.

No! Era chiaramente un fantasma. Potevo vedere lo schienale della poltrona, attraverso il suo corpo. Guardò verso di me, esaminandomi, si tolse dalle labbra la pipa fantasma e fece un cenno con la testa.

Per me, la parte più sorprendente di tutta la faccenda fu che non mi sentivo per nulla turbato. Anzi, piuttosto, mi faceva piacere vederlo.

Era una compagnia.

Dissi: - Buonasera! E' stata una giornata fredda!

Rispose che, personalmente, non l'aveva notato, ma pensava che fosse vero.

Restammo in silenzio per qualche secondo, poi, cercando di essere diplomatico, dissi: - Se non sbaglio, ho l'onore di parlare con il fantasma del signore che ebbe quell'incidente con il cantante.

Sorrise, e disse che ero molto buono a ricordarlo. Un cantante non era molto di cui vantarsi, ma, comunque, tutto fa brodo.

Fui parecchio sconcertato da questa risposta. Mi ero aspettato un gemito di rimorso. Al contrario, il fantasma pareva piuttosto orgoglioso della cosa. Pensai che, visto che aveva preso così bene il mio accenno al cantante, forse non si sarebbe offeso se lo avessi interrogato sul suonatore di organetto. Quel povero ragazzo mi incuriosiva.

- E' vero - chiesi, - che c'era il suo zampino nella morte di quel contadinello italiano che, una volta, venne in città con un organetto che non suonava altro che arie scozzesi?

Si arrabbiò per davvero: - Il mio zampino! - esclamò, indignato. - Chi ha osato pretendere di avermi aiutato? Il giovanotto l'ho ucciso da solo. Nessuno mi ha aiutato. Da solo, l'ho fatto. Mi faccia vedere l'uomo che dice il contrario.

Lo calmai. Gli assicurai che, personalmente, non avevo mai dubitato che egli fosse l'unico, vero assassino e continuai chiedendogli cosa avesse fatto con il corpo del suonatore di cornetta che aveva ucciso.

Chiese: - A quale si riferisce?

- Oh, allora erano più d'uno? - mi informai.

Sorrise, e tossì leggermente. Disse che non voleva dare l'impressione di vantarsi, ma che, contando i tromboni, erano sette.

- Povero me! - replicai -. Deve aver avuto un gran daffare, tutto considerato.

Disse che, forse, non spettava a lui dirlo, ma, in realtà, pensava che ci fossero pochi fantasmi, almeno nell'ambito della comune società borghese, che potevano guardarsi indietro e affermare che la propria vita era stata di più comprovata utilità.

Tirò qualche boccata, in silenzio, per alcuni secondi, mentre io restavo a osservarlo. Che ricordassi, non avevo mai visto un fantasma che fumava la pipa, e la cosa suscitava il mio interesse.

Gli chiesi che tabacco usava e rispose. - Di regola, fantasma di Cavendish tagliato.

Spiegò che il fantasma di tutto il tabacco che un uomo aveva fumato, durante la vita, gli apparteneva, una volta morto. Disse che, personalmente, aveva fumato un bel po' di Cavendish tagliato, quand'era vivo; perciò, adesso, aveva una buona scorta di tabacco fantasma.

Osservai che quella era una cosa utile da sapere e decisi di fumare più tabacco che potevo, prima di morire.

Pensai che potevo anche cominciare subito, così gli dissi che gli avrei fatto compagnia con una pipatina, e lui fece: - Vai, vecchio!

- e io mi allungai, tirai fuori gli arnesi necessari dalla tasca della giacca e accesi.

E così facemmo amicizia e mi raccontò tutti i suoi crimini. Disse che, una volta, aveva vissuto porta a porta con una signorina che stava imparando a suonare la chitarra, mentre, di fronte, abitava un signore che si esercitava alla viola da gamba. E lui, con astuzia diabolica, aveva fatto conoscere questi due ingenui giovani e li aveva convinti a fuggire insieme, contro la volontà dei genitori, e a portare con loro gli strumenti musicali: quelli lo avevano fatto e, prima che fosse finita la luna di miele, "lei" gli aveva rotto la testa con la viola da gamba e "lui" aveva cercato di ficcarle in gola la chitarra e l'aveva storpiata per tutta la vita.

Il mio amico mi disse che aveva l'abitudine di attirare nell'atrio i venditori di focaccine, e poi di ingozzarli della loro stessa merce, finché, in quel modo, ne aveva azzittiti diciotto.

I giovanotti e le signorine che recitavano poesie lunghe e tristi alle riunioni serali e i giovanotti imberbi che se ne andavano a spasso per le strade, la sera tardi, suonando la fisarmonica, li avvelenava a gruppi di dieci, per risparmiare sulle spese, e gli oratori pubblici e i conferenzieri che predicavano la temperanza li chiudeva in sei in una stanzetta, con un bicchiere d'acqua e una cassetta delle elemosine per uno, e lasciava che, a furia di parlare, si facessero fuori a vicenda.

Faceva bene ascoltarlo.

Gli chiesi per quando aspettava gli altri fantasmi, i fantasmi del cantante e del suonatore di cornetta e della banda musicale tedesca, di cui aveva detto lo zio John. Sorrise e disse che non sarebbero più tornati, nessuno di loro.

Chiesi: - Come, non è vero allora che vi incontrate qui, ogni anno, la Vigilia di Natale, per una bella rissa?

Replicò che una volta era così. Per venticinque anni, la Vigilia di Natale, avevano lottato in quella stanza, ma non avrebbero più importunato né lui, né nessun altro. Uno per uno, li aveva sistemati, distrutti, resi assolutamente incapaci di infestare. Aveva spacciato l'ultimo fantasma della banda tedesca proprio quella sera, subito prima che salissi io, e aveva buttato quel che ne restava fuori dalla finestra, attraverso la fessura del telaio. Disse che non avrebbero mai più meritato il nome di fantasma.

- Suppongo che tu continuerai a venire, come al solito - dissi. - So che dispiacerebbe a tutti perderti.

- Oh, non lo so - replicò. - C'è poco o nulla che mi attragga, adesso. A meno che - aggiunse gentilmente, - non ci sia "tu". Verrò, se dormirai qui, la prossima Vigilia di Natale.

- Ti ho preso in simpatia- continuò,- tu non scappi via strillando, quando vedi un tizio, e non ti si drizzano i capelli sulla testa. Non hai idea - disse, - di quanto sia stufo di vedere gente con i capelli dritti in testa.

Disse che gli dava sui nervi.

Proprio allora, ci arrivò un leggero rumore dal cortile e lui sobbalzò diventando mortalmente nero.

- Tu stai male - esclamai balzando verso di lui, - dimmi che devo fare. Devo bere un po' di brandy, e dartene il fantasma?

Rimase in silenzio, ascoltando attentamente, per un attimo; poi esalò un sospiro di sollievo e l'ombra gli tornò sulle guance.

- Tutto a posto - mormorò, - avevo paura che fosse il gallo.

- Oh, ma è troppo presto - dissi. - Che diamine, siamo solo a metà della notte.

- Oh, questo non fa nessuna differenza, per quei maledetti gallinacci - replicò amaramente. - Canterebbero a metà della notte, o in qualsiasi altro momento; anzi, canterebbero prima, se sapessero di rovinare a un tizio la sua serata fuori. Io credo che lo facciano apposta.

Disse che un suo amico, il fantasma di un uomo che aveva ucciso un esattore dell'acqua, aveva l'abitudine di infestare una casa a Long Acre, dove avevano dei volatili nello scantinato e, tutte le volte che un poliziotto si avvicinava e illuminava il locale con la torcia, attraverso la grata, il vecchio gallo pensava che fosse il sole e incominciava a cantare come un matto, e allora, naturalmente, il povero fantasma doveva svanire e, quindi, tornava a casa prestissimo, certe volte anche all'una del mattino, imprecando tremendamente, perché era stato fuori solo un'ora.

Fui d'accordo sul fatto che la cosa sembrava molto sleale.

- Oh, è tutto organizzato in modo assurdo- continuò, piuttosto arrabbiato.- Non riesco a immaginare a cosa stesse pensando il nostro vecchio, quando ha deciso così. Come gli ho detto migliaia di volte, "Fissa un'ora precisa, e che tutti la rispettino: diciamo le quattro, d'estate; le sei, d'inverno. Così, uno saprebbe quello che sta facendo".

- Come fate, quando non c'è un gallo a portata di mano? - mi informai.

Stava di rispondere, quando, di nuovo, sobbalzò e tese l'orecchio.

Questa volta, sentii distintamente il gallo di Mister Bowles, dalla casa vicino, cantare due volte.

- Ecco - disse, alzandosi e allungando una mano a prendere il cappello, - questo è quello che dobbiamo sopportare. Ma che ora è?

Guardai l'orologio e mi accorsi che erano le tre e mezzo.

- Me l'aspettavo- borbottò.- Gli torcerò il collo, a quel maledetto uccello, se lo prendo.

E si preparò ad andarsene.

- Se puoi aspettare mezzo minuto - dissi, alzandomi dal letto, farò un pezzetto di strada con te.

- Sei molto buono- ribatté, arrestandosi,- ma mi pare una cattiveria trascinarti fuori.

- Per niente - replicai. - Mi farà piacere fare una passeggiata. Mi vestii alla meglio, presi l'ombrello, lui mi prese sottobraccio e uscimmo insieme.

Proprio al cancello incontrammo Jones, uno dei poliziotti locali.

- Buonanotte, Jones - dissi (mi sento sempre affabile, a Natale).

- Buonanotte, signore - rispose l'uomo, un po' sgarbatamente, pensai.

- Posso chiederle cosa sta facendo?

- Oh, è tutto a posto - risposi, agitando l'ombrello; - sto solo accompagnando un mio amico per un pezzo di strada.

- Quale amico? - chiese.

- Oh, ah, naturalmente - risi; - dimenticavo. Per lei, è invisibile.

E' il fantasma del signore che uccise il cantante. Arrivo giusto fino all'angolo con lui.

- Ah, non credo che io lo farei se fossi in lei, signore- disse Jones, severamente. - Se vuole accettare il mio consiglio, saluti qui il suo amico e torni dentro. Forse non si è reso conto che sta andando in giro con addosso soltanto una camicia da notte, un paio di stivali e un "gibus". Dove sono i suoi pantaloni?

I modi di quell'uomo non mi piacquero per niente. Dissi: - Jones! Non voglio farle rapporto, ma mi sembra che abbia bevuto. I miei pantaloni sono dove dovrebbero essere i pantaloni di ogni uomo: alle sue gambe.

Ricordo esattamente di averli messi.

- Bene, adesso non li ha - ribatté.

- Scusi - replicai, - le dico che li ho. Credo che dovrei saperlo.

- Lo credo anch'io - rispose, - ma, evidentemente, non è così.

Adesso lei viene dentro con me, e che non se ne parli più.

A questo punto, zio John si fece sulla porta, svegliato, immagino, dall'alterco e, nello stesso momento, zia Mary comparve alla finestra, in cuffia da notte.

Spiegai loro l'errore del poliziotto, cercando di non dar peso alla faccenda, per non mettere nei guai quel tizio, e mi girai verso il fantasma perché confermasse le mie parole.

Se n'era andato! Mi aveva lasciato senza una parola, senza neppure salutarmi!

Che se ne fosse andato in quel modo mi colpì come una scortesia così grande che scoppiai in lacrime e zio John mi riportò a casa.

Arrivato nella mia stanza, scoprii che Jones aveva ragione. Non avevo messo i pantaloni, dopotutto. Erano ancora appesi alla spalliera del letto. Immagino di averli dimenticati, nell'ansia di non far aspettare il fantasma.

Questi sono i fatti nudi e crudi e da questi, indubbiamente, a un animo retto e caritatevole sembrerà impossibile che possano essere nate delle calunnie.

Me ne nacquero.

Delle persone (dico "persone") hanno affermato di non riuscire a capire le semplici circostanze fin qui raccontate, se non alla luce di spiegazioni ingannevoli e offensive. Sono stato denigrato e calunniato da quelli della mia stessa carne e del mio stesso sangue.

Ma io non porto rancore. Semplicemente, come ho detto, faccio conoscere la mia versione, per riscattare la mia reputazione da sospetti insultanti.