Jerome K. Jerome



TRE UOMINI IN BARCA

(per tacere del cane)

 

 

AVVERTENZA DELL'AUTORE

Il mondo è stato molto buono con questo libro.


Le edizioni inglesi, nelle varie forme, hanno superato complessivamente il milione e mezzo di copie vendute. Molti anni fa, a Chicago, un intraprendente stampatore pirata, ormai a riposo, mi garantì che negli Stati Uniti le vendite avevano superato il milione. Anche se, per esser stato pubblicato prima della Convenzione sui Diritti di Autore, tale divulgazione negli Stati Uniti non mi fruttò nessun beneficio materiale, la popolarità e la fama che essa mi ha fatto acquistare presso il pubblico americano rappresentano una ricompensa da non essere disprezzata. Il libro è stato tradotto credo, in tutte le lingue europee e anche in alcune asiatiche. Mi ha procurato molte migliaia di lettere, da giovani e da vecchi, da gente sana e da ammalati, da persone allegre e da persone tristi. Mi sono giunte da ogni parte del mondo, da uomini e da donne di tutti i paesi.


Anche se il libro avesse avuto per unico risultato l'arrivo di queste lettere, sarei lieto di averlo scritto. Posseggo ancora poche pagine annerite di un esemplare inviatomi da un giovane ufficiale coloniale. Venivano dallo zaino, trovato a Spion Kop, d'un suo compagno caduto. E basta con le testimonianze.


Rimarrebbero solo da spiegare i motivi che giustificano un successo così straordinario. Ma io non ne sono assolutamente capace. Ho scritto libri che mi sembravano più ingegnosi, libri che mi sembravano più ricchi di umorismo. E invece il pubblico persiste nel volermi ricordare come l'autore di "Tre uomini in barca (per tacere del cane)". Molti critici hanno opinato che la fortuna del libro presso il pubblico fosse dovuta alla sua pedestre semplicità, alla sua totale mancanza di umorismo; ma a questo punto si ha l'impressione che non sia questa la soluzione dell'indovinello. Un'opera priva di valore artistico può aver successo per un po' e presso un pubblico limitato; il successo non continua ad allargare il suo raggio per mezzo secolo. Io sono arrivato alla conclusione che, spiegatela come volete, posso vantarmi di aver scritto questo libro. Se l'ho veramente scritto.


Poiché, in verità, poco mi ricordo di averlo scritto. Ricordo solo che mi sentivo molto giovane e tremendamente contento di me stesso per ragioni che riguardano solo me. Si era d'estate, e Londra d'estate è tanto bella. Sotto la mia finestra si stendeva la città luminosa, velata di una nebbia dorata perché scrivevo in una stanza al di sopra dei comignoli; e di notte le luci splendevano sotto di me in modo che io calavo lo sguardo come in una caverna di gioielli di Aladino. Fu durante quei mesi estivi che scrissi questo libro; pareva l'unica cosa da fare.




PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE


La bellezza principale di questo libro non consiste tanto nel suo stile letterario e nella quantità e utilità delle notizie in esso contenute quanto nella sua semplice e sincera aderenza al vero. Le sue pagine sono il resoconto di fatti realmente accaduti. Vi è aggiunto solo un po' di colore; ed anche a tal riguardo non si è calcata la mano. George, Harris e Montmorency non sono astrazioni poetiche, ma esseri di carne e d'ossa specialmente George che pesava quasi ottanta chili. Altre opere potranno rivaleggiare con questa per profondità di pensiero e per la conoscenza dell'umana natura, altre ancora per originalità e per mole; ma, in quanto a veridicità disarmata e incurabile, nulla si è scoperto che la vinca. Questo, più di tutti gli altri suoi pregi, si ritiene renderà prezioso il volume agli occhi del lettore avveduto e aumenterà il valore della morale che il racconto impartisce.


Londra, agosto 1889




CAPITOLO 1


Tre invalidi - Le infermità di George e di Harris - Una vittima di centosette morbi fatali - Ricette utili - La cura per il mal di fegato nei bambini - Conveniamo che siamo esauriti dal lavoro e che necessitiamo di riposo - Una settimana in mare? - George suggerisce il fiume - Montmorency avanza un'obiezione - La prima proposta vince con una maggioranza di tre a uno.


Eravamo in quattro, George, William Samuel Harris, io, e Montmorency. Seduti nella mia stanza fumavamo e commentavamo come fossimo mal ridotti - ridotti male, si capisce, dal punto di vista medico, questo intendo dire.


Ci sentivamo tutti e quattro tristanzuoli e ciò ci innervosiva.


Harris diceva che di tanto in tanto sentiva tremendi attacchi di vertigini da non sapere più quel che faceva; e allora anche George disse che aveva attacchi di vertigini e non sapeva più quel che faceva. In quanto a me, si trattava del fegato in disordine.


Sapevo benissimo che si trattava del fegato in disordine perché avevo letto proprio allora un foglietto propagandistico di certe pillole per il fegato nel quale erano elencati tutti i vari sintomi per cui uno può affermare che il proprio fegato è in disordine. E io, quei sintomi, li avevo tutti.


Sarà una cosa straordinaria, ma io non ho mai letto un foglio di propaganda farmaceutica senza arrivare alla conclusione che soffro di quella particolare malattia, descritta dal volantino nella sua forma più virulenta. In ogni singolo caso la diagnosi sembra corrispondere esattamente a tutti i sintomi ch'io abbia mai avvertito. Ricordo che un giorno andai al Museo Britannico per leggere la cura di una lieve indisposizione di cui avevo cominciato a soffrire - febbre da fieno, mi pare. Presi giù il libro e lessi tutto quello ch'ero venuto a leggere; e poi, soprappensiero per un momento, sfogliai le pagine pigramente, e con indolenza mi misi a esaminare le malattie in generale.


Dimentico, ora, quale fu la prima infermità in cui mi ingolfai certo un flagello distruttore - e prima ancora che avessi dato un'occhiata alla metà dell'elenco dei "sintomi premonitori" c'era in me la certezza assoluta che, ovviamente, avevo quella malattia.


Rimasi per un momento agghiacciato dall'orrore, poi con l'indifferenza della disperazione, continuai a sfogliare le pagine. Arrivai alla febbre tifoidea - ne lessi i sintomi scoprii che avevo la febbre tifoidea, che dovevo portarmela addosso da mesi senza accorgermene - mi chiesi che altro ancora avessi; mi capitò sott'occhio il Ballo di San Vito - scoprii, come previsto, d'avere anche quello - e cominciando a interessarmi al mio caso decisi di scrutarmi fino in fondo e quindi ripresi la lettura in ordine alfabetico. Lessi: brividi di febbre intermittente, e seppi che ne soffrivo e che la crisi acuta sarebbe cominciata tra una quindicina di giorni. In quanto a Bright e alla sua malattia del rene, rimasi consolato scoprendo che l'avevo solo in una forma di sottospecie e che, quanto a lei, mi avrebbe fatto vivere per anni.


Il colera ce lo avevo e con gravi complicazioni; con la difterite sembrava che ci fossi nato. Mi sprofondai coscienziosamente in tutte e ventisei le lettere e arrivai alla conclusione che l'unica malattia da cui ero esente era il ginocchio della lavandaia.


Questa scoperta al primo momento mi lasciò piuttosto deluso, mi parve quasi un affronto. Perché mai non avevo il ginocchio della lavandaia? Perché questa invidiosa eccezione? Ma dopo un po', grazie a Dio, prevalsero sentimenti meno avidi. Ebbi così la possibilità di riflettere che avevo tutte le altre malattie conosciute dalla farmacologia e così mi sentii meno egoista e decisi di fare a meno del ginocchio della lavandaia. La gotta, sembrava che mi avesse ghermito nella forma più maligna senza che ne avessi coscienza; in quanto alle fermentazioni per zimosi evidentemente ne soffrivo dalla fanciullezza. Dopo la zimosi non c'erano altre malattie e così conclusi che non avevo altro.


Rimasi lì seduto a meditare. Pensai... che caso interessante devo essere io dal punto di vista clinico; che pacchia per una scuola!

Gli studenti, avendo me, non avevano più bisogno di fare il giro per gli ospedali. L'ospedale ero io; sarebbe bastato fare un giro intorno a me e poi potevano prendersi la laurea.


Pensai a quanto tempo ancora mi rimanesse da vivere. Tentai di esaminarmi. Mi tastai il polso. In principio non lo trovai, ma poi sembrò che cominciasse a battere tutto di un colpo. Tirai fuori l'orologio e contai. Andava a cento e quarantacinque pulsazioni al minuto. Cercai di sentirmi il cuore. Ma il mio cuore non lo trovai. Non batteva più. Ero sempre stato d'opinione che doveva esserci, e aver pulsato; quindi non mi potevo render conto di che cosa era accaduto. Mi palpai dappertutto sul davanti, da quella che io chiamo la mia vita fino alla testa, e un po' attorno da ciascun lato e un po' sulle spalle. Ma non riuscivo a sentire né udire nulla. Cercai di guardarmi la lingua. La cacciai fuori per quanto fu possibile, chiusi un occhio e cercai di esaminarla con l'altro. Non riuscivo a vedere che la punta e l'unica cosa che ci guadagnai fu di esser certo più di prima che avevo la scarlattina.


Quando ero entrato in quella sala di lettura ero un uomo sano e felice. Quando mi trascinai fuori di lì ero un decrepito relitto umano.


E mi recai dal mio medico. E' un vecchio amicone e tutte le volte che vado da lui perché credo di essere ammalato, egli mi tasta il polso, mi guarda la lingua, parla del tempo che fa, tutto ciò gratis; e pensai che, andandoci ora, gli avrei reso un bel servizio. Mi dicevo: "I medici hanno bisogno di pratica. Egli avrà me. Farà più pratica con il mio corpo che con quelli di mille e settecento di quegli ammalati comuni, trascurabili, che non hanno che una o due malattie ciascuno". Andai dritto dritto da lui, lo trovai in casa e lui disse:

- Be'! Che cos'hai?

Io dissi:

- Caro mio, non starò a rubare il tuo tempo con la narrazione di tutto quello che ho. La vita è breve e, probabilmente, prima che io finissi tu saresti già all'altro mondo. Ma ti dirò quello che non ho. Non ho il ginocchio della lavandaia. Perché proprio non abbia anche il ginocchio della lavandaia non lo capisco, ma il fatto è che non ce l'ho. Però, qualsiasi altra cosa, io ce l'ho.


E gli raccontai come ero arrivato a scoprire il vero.


Ed allora egli mi sbottonò e si mise ad osservarmi, mi afferrò il polso e mi colpì il petto mentre non me lo aspettavo - una cosa veramente da vigliacco, dico io - e subito dopo cominciò a darmi testate col viso per appoggiare l'orecchio al mio petto. Dopo di che si accomodò e scrisse una ricetta, la piegò e me la porse. Io me la misi in tasca e uscii.


Non la lessi. Andai dal primo farmacista e gliela diedi. Il buon uomo la lesse e me la porse indietro.


Disse che non poteva servirmi.


Io dissi:

- Ma non è un farmacista, lei?

Lui disse:

- Sono un farmacista. Se fossi una combinazione di una cooperativa di consumo con un albergo familiare potrei servirla. Ma il fatto di essere soltanto un farmacista me lo rende impossibile.


Lessi la ricetta: Diceva:


1 libbra di bistecca, con 1 bottiglia di birra, ogni 6 ore.


1 passeggiata di dieci miglia ogni mattina.


Andare a letto alle 11 in punto tutte le sere.


E non ti riempire la testa con cose che non capisci.


Seguii la prescrizione col risultato (felice risultato, per quanto mi riguarda) di aver salva la vita, che ancora continua.


Nella presente contingenza, per tornare alla propaganda per le pillole per il fegato, non c'era possibilità di sbagliarsi: i sintomi io li avevo e il principale era "un'allergia generale" per qualsiasi specie di lavoro.


Quanto io patisca di questo male, non vi è lingua che possa dirlo.


Ne sono vittima fino dall'infanzia. Da ragazzo, poi, la malattia non mi abbandonava neanche per una sola giornata. A casa non capivano, allora, che era colpa del fegato. La medicina era molto lontana dal progresso di ora, e i miei confondevano la malattia con la pigrizia.


- Si può sapere, scansafatiche che altro non sei, perché non ti muovi, non fai qualcosa per procacciarti da vivere? ma non sei capace? - E non sapevano, è chiaro, che ero ammalato.


E, invece di pillole, erano sganassoni. Eppure, per quanto possa sembrar strano, quegli sganassoni riuscivano a guarirmi, almeno per il momento. Imparai così che uno sganassone mi curava meglio il fegato e mi disponeva a filar dritto e a fare quello che mi dicevano di fare senza perder tempo, più di quanto non me lo curi oggi una scatola intera di pillole.


Ma lo sapete bene che spesso è così. Questi rimedi antiquati sono a volte più efficaci di tutte le specialità farmaceutiche.


Per un'altra mezz'ora ci descrivemmo l'un l'altro le nostre malattie. Io spiegai a George e a William Harris come mi sentivo alzandomi al mattino; William Harris ci descrisse quello che si sentiva quando andava a letto e George, ritto davanti al caminetto, si esibì in una pantomima incisiva e impressionante per illustrarci come passava la notte.


George è un malato immaginario, credete pure, non ha proprio niente.


In quel momento la signora Poppets picchiò alla porta e ci chiese se eravamo pronti per il pranzo. Ci scambiammo un triste sorriso l'un l'altro e convenimmo che forse era meglio tentare di mandar giù un boccone. Harris disse che qualche briciolina nello stomaco della gente spesso tiene in scacco la malattia. La signora Poppets portò il vassoio e noi ci accostammo al tavolo e sbocconcellammo una bistecchina con cipolle e un po' di torta al rabarbaro.


Dovevo esser davvero molto indebolito, allora, perché dopo poco meno di mezz'oretta, mi parve di non aver più nessuna voglia di cibi - caso insolito in me - e rifiutai il formaggio.


Assolto questo compito, riempimmo di nuovo i bicchieri, accendemmo le pipe e riprendemmo la conferenza sullo stato della nostra salute. Cosa fosse quello che effettivamente avevamo nessuno di noi era in grado di poterlo dire con certezza ma l'opinione generale era che, fosse quello che fosse, tutto era effetto dell'eccesso di lavoro.


- Noi abbiamo bisogno di riposo, - disse Harris.


- Riposo ed evasione, - disse George. - Lo sforzo che abbiamo imposto ai nostri nervi ha generato una depressione completa di tutto l'organismo. Evasione, affrancamento dal dover pensare...


ecco quello che ci ristabilirà l'equilibrio mentale.


George ha un cugino a carico, di professione eterno studente di medicina fuori corso, e perciò, nell'esprimere le cose il nostro amico ha un certo che del medico di casa.


Fui d'accordo con George e suggerii che scoprissimo qualche posticino all'antica, lontano dalla gazzarra delle folle e lì cercassimo di passare una settimana al sole, tra i sentieri assonnati - un cantuccio mezzo dimenticato, come se fosse stato nascosto dalle fate, fuori della portata del mondo fragoroso una specie di nido, appollaiato lassù, sulle scogliere del Tempo, dove il diciannovesimo secolo non avrebbe potuto far arrivare che un sussurro, un'eco lontana lontana delle sue onde tempestose.


Harris disse che secondo lui un posto simile sarebbe stato un disastro. Disse che aveva ben capito che razza di posto intendevo io; un posto dove tutti andavano a letto alle otto; dove non poteva avere il suo giornale al mattino né per amore né per forza e dove bisognava far dieci miglia per trovare il tabaccaio.


- No, - disse Harris.- Se vogliamo un po' di riposo e di evasione non c'è di meglio che un viaggio per mare.


Mi opposi al viaggio di mare con tutte le mie forze. Un viaggio di mare fa bene se può durare per un paio di mesi; una crociera di una settimana soltanto è una tragedia. Al lunedì tu parti con l'idea radicata nel cervello che vuoi divertirti. Accenni un disinvolto saluto agli amici sul molo, accendi la tua pipa più voluminosa e te ne vai a fare lo sbruffone in coperta, come se fossi un concentrato del Capitano Cook, di Francis Drake e di Cristoforo Colombo. Al martedì ti auguri di non esserti mai imbarcato. Al mercoledì, giovedì e venerdì preferiresti essere all'altro mondo. Al sabato riesci a mandar giù un po' di brodo magro, a star seduto in coperta e a rispondere con un sorrisino dolce e stanco alle persone gentili che vengono a chiederti se ora ti senti meglio. Alla domenica ricominci a passeggiare e a mangiare cibi normali. E al lunedì mattina tutto comincia a piacerti, ma tu, valigia e ombrello in mano, stai già presso il barcarizzo in attesa di sbarcare.


Ricordo che anche mio cognato, una volta, fece un viaggetto di mare per rimettersi in salute. Prese un biglietto di andata e ritorno Londra-Liverpool e quando arrivò a Liverpool si precipitò in cerca di chi gli ricomprasse il biglietto di ritorno.


Lo offrì per tutta la città facendo una riduzione tremenda, così mi dissero, e riuscì a cederlo per diciotto pence a un giovane dall'aspetto bilioso, al quale i medici avevano consigliato di andare al mare e fare del nuoto.


- Andare al mare! - gli disse mio cognato spingendogli affettuosamente in mano il biglietto. - Caspita, ne avrete tanto di mare che vi basterà per tutta la vita; e poi, in quanto agli esercizi fisici, ne farete di più rimanendovene seduto in coperta su quel bastimento che mettendovi a far capriole sulla spiaggia.


E mio cognato se ne ritornò in treno. Disse che per la sua salute la North-Western Railway era abbastanza.


Conobbi un altro tipo che fece una crociera di una settimana intorno alle coste dell'Inghilterra e, prima della partenza, il cameriere di bordo gli si avvicinò e gli chiese se voleva pagare i pasti volta per volta oppure aggiustarsi su di un pagamento anticipato per tutto il vitto.


Il cameriere di bordo gli consigliò quest'ultima forma di pagamento che veniva molto più a buon mercato. Disse che per tutta la settimana gli avrebbero fatto il prezzo di due sterline e cinque scellini. Disse che a prima colazione servivano pesce e carne alla griglia. Si mangiava poi all'una: quattro portate.


Pranzo alle sei: minestra, pesce, piatto di mezzo, pollo, insalata, dolce, formaggio e frutta. Alle dieci un leggero pasto per cena.


Il mio amico decise per l'affare del pagamento anticipato a due sterline e cinque scellini (è un buon mangiatore) e pagò.


Il pranzo dell'una arrivò appena fuori di Sheerness. Egli non sentiva quell'appetito che credeva di dover sentire e quindi si accontentò di un po' di lesso e di un piattino di fragole con panna. Durante il pomeriggio si sorprese a riflettere molto e ad un certo momento gli sembrò che da settimane e settimane non avesse fatto altro che mangiar carne lessa; poi, ad un altro momento, gli sembrò che da anni non si fosse nutrito che di fragole con la panna.


Né la carne lessa, né le fragole con la panna mostravano di essere a loro agio... erano piuttosto agitate.


Alle sei vennero ad avvisarlo che il pranzo era pronto. Questo annuncio non risvegliò nessun entusiasmo dentro di lui, però egli ponderò che bisognava scontare un poco delle due sterline e cinque scellini e aggrappandosi a cavi e cose varie scese abbasso. Giunto ai piedi della scala venne salutato da un odorino di cipolle e prosciutto mescolato con quello di pesce fritto e verdura; il cameriere col suo sorriso ipocrita si avvicinò e gli disse:

- Che cosa debbo portarvi, signore?

- Portarmi fuori di qui, - fu la risposta assieme a un lamento.


E quelli lo riportarono in coperta in fretta e furia, lo appoggiarono ben bene alla murata sottovento e lo lasciarono.


Trascorse i quattro giorni seguenti vivendo una vita semplice e morigerata a stecchetto, a base solo di galletta da marinaio, sottile (la galletta, non il marinaio), e acqua gassata; ma, arrivato al sabato, si sentì altezzoso e si permise un tè poco carico e un toast; al lunedì seguente s'ingozzò di brodo di gallina. Sbarcò il martedì e mentre la nave si staccava dalla banchina egli la seguì con lo sguardo pieno di rammarico.


- E via lei, - disse, - e via lei, con due sterline di viveri a bordo che mi appartengono e che non ho mangiato.


Disse che se gli avessero concesso un'altra giornata di tempo era certo che si sarebbe rifatto del suo.


Dunque io mi ero messo contro il viaggio di mare. Ma, come spiegai, non perché pensassi a me stesso, io non faccio mai storie. Era perché temevo per George e George diceva che sarebbe stato benissimo, e che gli sarebbe anzi piaciuto, ma che piuttosto doveva consigliare me e Harris a rinunciare perché era certo che tutti e due avremmo sofferto il mal di mare. Harris brontolò tra sé che restava sempre un fatto misterioso il sapere come fa la gente a prendersi il mal di mare sui bastimenti diceva che secondo lui lo fanno apposta, per darsi delle arie e diceva anche che molte volte aveva tentato di averlo, ma che non c'era mai riuscito.


Poi si mise a raccontare aneddoti, del come avesse attraversato la Manica con un mare tanto grosso che i passeggeri dovettero esser legati alle cuccette e non c'era a bordo anima viva, tranne lui e il capitano, che non avesse mal di mare. Altre volte erano lui e il secondo di bordo a non soffrire; insomma era sempre lui e un altro. E quando poi l'altro non c'era, c'era lui soltanto.


Certamente è curioso che mai nessuno abbia mal di mare - a terra.


In mare, invece, tu ti imbatti in un sacco di gente che se la passa male davvero, a volte il bastimento ne è pieno; eppure finora non ho mai visto un solo uomo, a terra, che nemmeno sapesse ciò che sia avere il mal di mare. Dove diamine si andranno a nascondere quando sono a terra le migliaia e migliaia di cattivi marinai che pullulano su di ogni nave, è un mistero.


Se ce ne fossero molti come un tale che vidi sul vaporetto di Yarmouth, potrei spiegare il presunto enigma facilmente. Fu appena fuori del molo di Southend, ricordo, e lui stava piegato attraverso un portellino in una posizione molto pericolosa. Mi avvicinai, ansioso di soccorrerlo.


- Dica! si tiri più indietro, - gli dissi scuotendolo per le spalle. - Lei va a finire in mare, così.


- Dio lo volesse! - fu tutta la risposta che ne ebbi; e dovetti abbandonarlo lì.


Passarono tre settimane ed un giorno lo rividi a Bath, nel bar di un albergo. Raccontava dei suoi viaggi e diceva quanto amasse il mare.


- Se sono buon marinaio! - ribatté rispondendo alla invidiosa domanda di un mite giovanotto; - una volta, però, mi sentii un po' strano, devo confessarlo. Fu al largo di Capo Horn. Il giorno dopo, la nave naufragò.


Dissi:

- Ma non era un po' indisposto presso il molo di Southend, un giorno, augurandosi d'essere gettato in mare?

- Il molo di Southend! - rispose lui con un'espressione perplessa.


- Sì, andavamo a Yarmouth, venerdì scorso fecero tre settimane.


- Oh! Ah! Sì!- rispose, illuminandosi. - Ora me ne ricordo. Che mal di testa quel pomeriggio! Tutta colpa di quei sottaceti, sa!

Erano i peggiori sottaceti che abbia mai trovato su di una nave che si rispetti. Lei ne aveva mangiati?

Io, per conto mio, ho scoperto un preventivo ottimo per non soffrire il mal di mare, dondolandomi. Ti pianti al centro del ponte e, a seconda del beccheggiare della nave, fai oscillare il tuo corpo in modo da rimanere sempre diritto. Quando la parte prodiera del vapore si innalza, tu ti abbassi in avanti fino a che il ponte non ti tocchi quasi il naso; e quando invece si innalza la parte poppiera tu ti inclini indietro. La cosa va bene per un'ora o due; naturalmente non si può oscillare per una settimana.


George disse:

- Il Tamigi. Risaliamo il Tamigi.


Disse che così avremmo goduto di aria fresca, di movimento e di quiete; la nostra mente (compresa quella di Harris per quel tantino che ne aveva) sarebbe stata occupata dal continuo cambiamento di panorama e il lavoro duro che avremmo dovuto fare ci avrebbe dato un ottimo appetito e ci avrebbe fatto dormire bene.


Harris disse che secondo lui George non doveva far nulla che tendesse a renderlo più dormiglione di quello che è; poteva essere pericoloso. Disse che non riusciva a spiegarsi bene come George avrebbe potuto dormire più di adesso visto che nella giornata vi sono soltanto ventiquattro ore, sia d'estate, sia d'inverno; ma se si fosse dovuto ammettere che poteva dormire di più, tanto valeva che fosse morto e così avrebbe anche risparmiato i soldi per vitto e alloggio.


Andava "per-fet-ta-men-te, fino al TE". Che cosa voglia dire questo TE, io non lo so (a meno che sia un "tè completo, con pane, burro e dolce "ad libitum", da mezzo scellino, ch'è a buon mercato se non si è pranzato). Sembra, ad ogni modo che vada per-fet-ta- men-te per tutti, cosa lodevolissima.


Andava per-fet-ta-men-te anche per me, e dicemmo entrambi, Harris ed io, che l'idea di George era buona e lo dicemmo con un tono che sembrava implicare che eravamo rimasti sorpresi che George si fosse dimostrato così sensato.


L'unico che non rimase colpito dall'idea fu Montmorency.


Montmorency non si è mai interessato di fiumi.


- Ottimo per voi, ragazzi, - disse lui; - a voi piace, ma a me no, che cosa avrei da fare io? Del panorama non me ne importa nulla, e, inoltre, io non fumo. Se dovessi vedere un topo voi non vi fermereste, e se dovessi addormentarmi, voi, con le vostre pazzie sulla barca, mi fareste cadere in acqua. Per me, se volete saperlo, questa è una cretineria enorme.


Tuttavia, eravamo tre contro uno, e la mozione fu approvata.




CAPITOLO 2


Discussione dei piani - I piaceri del campeggio nelle notti serene - Idem, nelle notti di pioggia - Si arriva al compromesso - Montmorency, sue prime impressioni - Timori che non fosse fatto per questo mondo, poi scartati in quanto infondati - Rinvio della seduta.


Carte geografiche alla mano ci mettemmo a discutere i nostri piani.


Fissammo la partenza per il sabato prossimo da Kingston. Io e Harris dovevamo andarci la mattina e risalire in barca fino a Chertsey, e George, che non poteva lasciare la città prima del pomeriggio (George va a dormire in una banca tutti i giorni dalle dieci alle quattro; al sabato, invece, lo svegliano alle due e lo sbattono fuori), ci avrebbe raggiunto lì.


Dovevamo campeggiare o dormire in locande?

Io e George eravamo per il campeggio. Dicemmo che sarebbe stato un vivere libero e primitivo che fa tanto patriarcale.


Lentamente, il ricordo dorato del sole tramontato svanisce dal cuore delle nuvole fredde e tristi. Gli uccelli, silenti come bimbi imbronciati, hanno cessato il loro canto e solo il grido lamentoso della pavoncella, e il gracchiare roco dell'edrone rompono la quiete reverente intorno allo specchio di acqua, su cui esala l'ultimo respiro il giorno morente.


Dalle boscaglie nebbiose, indistinte, sulle due rive, le ombre grigie, gli eserciti spettrali della notte, escono strisciando con silenzioso moto, con piedi invisibili, e passano sopra l'ondeggiante erba lacustre, attraversano i sospiranti giunchi; e la Notte, assisa sul suo tetro soglio, spiega le ali funeree sull'oscurato mondo e, dal suo palazzo fantastico illuminato dalle pallide stelle, regna in silenzio.


Allora noi guidiamo la barca in un posticino tranquillo, piantiamo la tenda, ci cuciniamo la cena frugale e ce la mangiamo. Poi si caricano e si accendono le grosse pipe, si scambiano chiacchiere a bassa voce; intanto, nelle pause dei nostri conversari, il fiume, giocando intorno alla barca, cicaleccia di antiche favole arcane, canta sottovoce l'antica nenia che ha cantato per tante migliaia di anni e che per tante migliaia di anni ancora canterà fino a che la sua voce non diverrà aspra e stanca - quel vecchio canto che noi, avendo imparato ad amarne il volto mutevole, essendoci così spesso annidati sul suo petto accogliente, crediamo di intendere, in qualche modo, anche se non saremmo capaci di ridire con le semplici parole la storia che ascoltiamo.


La luna ama anch'essa il fiume ai cui margini noi ci troviamo; e si china allora per baciarlo di un bacio fraterno e gli getta attorno le sue braccia d'argento in un tenero abbraccio; e noi vediamo scorrer l'acqua, cantando sempre, sussurrando sempre, verso l'incontro col suo re, il mare, e rimaniamo lì fino a che le nostre voci non si spengono nel silenzio, fino a che le pipe non sono consumate, fino a che noi, che pur sempre rimaniamo giovani comuni mortali perfettamente uguali ad ogni altro, non ci sentiamo stranamente saturi di pensiero, quasi tristi, quasi inteneriti e non abbiamo più voglia né interesse di parlare fino a che, con una risata, ci alziamo, battiamo la cenere dai bocciuoli delle pipe consumate, diciamo "buonanotte" e, cullati dal rumore dell'acqua che sciaborda e degli alberi che frusciano, ci addormentiamo sotto le stelle grandi ed immote e sogniamo che la terra è giovane ancora - giovane e tenera così come era prima che secoli e secoli di travagli e di tribolazioni incavassero il suo bel volto, prima che i peccati dei suoi figli e le loro follie le indurissero il cuore amoroso - tenera come era in quei giorni passati quando, mamma novella, essa nutriva noi, i suoi figli, stringendoci al suo seno florido - come era prima che la falsità di una civilizzazione imbellettata ci adescasse per strapparci dalle sue tenere braccia e la serpe velenosa dell'artificiosità ci avesse fatto vergognare dell'esistenza primitiva che vivevamo con lei nella semplice, maestosa dimora in cui l'umanità vide la luce tante migliaia di anni fa.


Harris disse:

- E se piove?

Impossibile suscitare commozione in Harris. Manca completamente di poesia, di folle anelito verso l'irraggiungibile. Mai gli accade di "piangere senza saper perché". Se gli occhi di Harris si riempiono di lagrime, state pur certi che è perché Harris sta mangiando le cipolle crude o ha messo troppa salsa inglese sulla cotoletta.


Se per caso, trovandovi di notte con Harris sulla spiaggia, gli diceste:

- Odi! non senti? Non senti il canto delle sirene che vien dal profondo delle acque ondeggianti? o forse sono gli spiriti dolenti che cantano trenodie ai cadaveri pallidi trattenuti dalle erbe marine?

Harris ti afferrerebbe per il braccio e direbbe:

- Va' la... lo so io cosa è; è che ti sei buscato un raffreddore.


Andiamo, vieni con me; conosco un posticino lì all'angolo dove potrai bere un goccio del migliore whisky che tu abbia mai assaggiato: vedrai che ti rimette in sesto in un attimo.


Harris conosce sempre un posticino lì all'angolo della strada dove puoi trovare qualcosa di extra in fatto di bere. Credo che se dovessi incontrarlo all'altro mondo (se ciò fosse possibile) egli mi verrebbe incontro per salutarmi dicendo:

- Che piacere che tu sia venuto, vecchio mio; ho scoperto uno splendido posticino lì all'angolo dove ti servono un nettare di prima classe.


Nella presente contingenza, e cioè per quanto riguarda il campeggio, la praticità del suo punto di vista in materia fu stimata come un'osservazione molto ragionevole. Il campeggio sotto la pioggia non è cosa divertente.


Viene la sera. Tu sei bagnato fino alle ossa, sul fondo della barca ci sono cinque centimetri d'acqua e ogni cosa è fradicia. Tu cerchi un posticino sulla riva che non sia una pozzanghera come gli altri posti che hai passato; sbarchi, trascini la tenda e, aiutato da un altro, ti metti a piantarla.


Quella è grondante e pesante e comincia a cader di qua e di là, ti viene addosso, ti si avvolge intorno alla testa e ti fa diventar matto. Intanto l'acqua vien giù che Dio la manda. Già col bel tempo non è facile drizzare una tenda; sotto la pioggia poi, quel compito diventa una fatica di Ercole. Hai l'impressione che il tuo compagno invece di aiutarti si stia divertendo a far lo sciocco, perché non appena sei riuscito a sistemare per bene il tuo lato ecco che lui dà un gran colpo dal suo e rovina tutto.


- Ehi! Ma che stai facendo? - gli gridi tu.


- Ma che stai facendo tu? - ribatte lui. - E molla una buona volta!

- Non tirare; non vedi che hai messo tutto al rovescio; pezzo di somaro! - urli tu.


- Nossignore, non è vero - urla lui di ritorno; - molla il tuo lato!

- Ma ti ho detto che hai sbagliato tutto! - muggisci tu con una gran voglia di saltargli addosso. Ed intanto lui dà uno strattone che svelle i paletti.


- Pezzo d'idiota! - lo senti brontolare, ed ecco che arriva una strappata selvaggia e tutto il tuo lato svolazza. Tu posi a terra il mazzuolo, giri e vai dal tuo amico per dirgli tutto quello che pensi sulla faccenda; allo stesso tempo ha girato anche lui nella stessa direzione per venire da te e spiegarti il suo punto di vista. Così vi rincorrete torno torno alla tenda mandandovi reciproci accidenti fino a che la tenda non diventa un mucchio di stracci per terra e voi rimanete a guardarvi l'un l'altro al di sopra delle sue rovine, poi entrambi, indignati, esclamate insieme:

- Ecco fatto! Te l'avevo detto!

Il terzo amico, che nel frattempo ha cercato di svuotare la barca facendosi correr l'acqua giù per le maniche e che perciò durante gli ultimi dieci minuti non ha fatto che imprecare fra sé, vuol sapere ora che significa tutta quella indiavolata gazzarra che state facendo e perché mai quella tenda della malora non è ancora su.


Finalmente, tira di qua, tira di là, la tenda è in piedi e si sbarca l'equipaggiamento. Sarebbe vano tentare di fare un fuoco di legna, perciò accendete il fornello a spirito e vi accucciate intorno ad esso.


A cena l'acqua piovana è l'ingrediente alimentare principale. E' per tre quarti acqua piovana il pane, ne sovrabbonda il polpettone, e in quanto alla marmellata, al burro, al sale e al caffè, si sono uniti ad essa in un'unica zuppa.


Dopo cena ti accorgi che il tabacco è umido e che non puoi fumare.


Fortunatamente ti sei portato una bottiglia di quella roba che, presa nella debita quantità, dà euforia e inebria; questo ti ridona abbastanza fiducia nella vita da indurti ad andartene a letto.


Ti addormenti, e sogni che un elefante, improvvisamente, si è seduto sul tuo petto, e che un vulcano ha eruttato e ti ha sprofondato nel fondo del mare con l'elefante che ti dorme sempre placidamente sul seno. Ti svegli e afferri l'idea che qualcosa di tremendo debba essere realmente accaduto. La prima impressione è che sia arrivata la fine del mondo; poi pensi che non può essere e che si deve trattare di ladri o di assassini o forse anche di un incendio. Tu esprimi quest'opinione nel modo che ti è familiare, ma soccorsi non ne arrivano e non hai altra sensazione se non quella che migliaia di persone ti prendano a calci e che stai asfissiando.


Ti sembra che vi sia qualche altro in pena. Senti il suo fioco lamento che viene da sotto il tuo letto. Deciso a vender cara la pelle, sia quello che sia, lotti freneticamente agitando braccia e gambe a destra e a sinistra, e urlando sempre a più non posso; finalmente qualcosa si apre e ti trovi con la testa all'aria fresca. A cinquanta centimetri da te vedi nell'ombra un furfante seminudo che sta certamente per ucciderti e già ti disponi a una lotta all'ultimo sangue contro di lui quando comincia a sembrarti che si tratti di Jim.


- Oh! sei tu, sei? - dice lui riconoscendoti nello stesso momento.


- Sì, - rispondi stropicciandoti gli occhi. - Che è successo?

- Credo che questa maledetta tenda sia caduta, - dice lui.


- Dov'è Bill?

Allora tutti e due vi mettete a gridare "Bill!" e il terreno sotto di voi vibra ed ondeggia, e dalle rovine ritorna quella voce sorda che avete udito prima.


- Toglietevi di sopra alla mia testa, una buona volta!

E Bill con sforzi enormi riesce a venir fuori, infangato, pesto come un povero relitto e magari arrabbiatissimo perché crede che gli abbiate fatto un brutto scherzo.


Al mattino seguente siete tutti e tre taciturni perché durante la notte vi siete presi un forte raffreddore; vi sentite anche molto litigiosi e durante tutta la colazione non fate che mandarvi rauchi e sussurrati accidenti a vicenda.


Fatte perciò le debite considerazioni, decidemmo che avremmo dormito fuori nelle belle nottate, e quando fosse piovuto o quando avessimo voluto cambiare, ce ne saremmo andati all'albergo, o alla locanda o all'osteria, come fanno tutte le persone rispettabili.


Montmorency salutò con molta soddisfazione questo compromesso. La solitudine romantica non lo entusiasma. Gli ci vuole il trambusto, ancor meglio se è un po' volgare. Montmorency, a guardarlo, sembra un angelo spedito sulla terra sotto le forme di un fox-terrier per qualche ragione insondabile alla conoscenza umana. C'è, in Montmorency, qualche cosa, un'espressione che, a quanto dicono, ha strappato le lagrime a vecchie e pie signore e a vecchi gentiluomini; qualche cosa che par che dica: Oh-che-razza-di-un- mondaccio-cane-è-questo-e-come-vorrei-far-qual cosa-per- migliorarlo-e-renderlo-più-nobile.


Quando venne per la prima volta a vivere a spese mie, ebbi subito la certezza che non avrei potuto tenermelo per molto tempo. Sedevo e lo guardavo, lui sedeva sul tappeto e guardava me. Ed io pensavo: "Oh! questo cane non vivrà. L'eleveranno ai cieli in un cocchio; ecco quello che succederà".


Però, dopo che ebbi risarcito i danni per circa una dozzina di galline che aveva sgozzato; dopo averlo trascinato via per la collottola, ringhiante e scalciante, da circa cento e quaranta zuffe per strada; dopo che una donna mi portò, da vedere, un gatto morto, dandomi dell'assassino; dopo di esser stato citato dall'uomo che abitava a due porte dalla mia perché lasciavo in libertà un cane feroce che lo aveva assediato nel suo sgabuzzino degli arnesi dal quale non aveva osato metter fuori il naso per due ore e più in una fredda notte; e dopo aver appreso che il giardiniere a mia insaputa si era guadagnato trenta scellini scommettendo su quanti topi lui avrebbe ucciso in un determinato tempo, cominciai a credere che forse, in fin dei conti, sarebbe rimasto sulla terra un poco più a lungo.


Per Montmorency la "gran vita" consiste nel ciondolare nei paraggi d'uno stallatico, radunare una banda di cani tra i più ribaldi della città e capeggiarli in giro per i peggiori quartieri a dar battaglia ad altri cani ribaldi; perciò, come ho già segnalato, egli diede la sua approvazione entusiastica all'idea degli alberghi, delle locande e delle osterie.


Così, sistemata con soddisfazione di tutti e quattro la questione del dormire e non essendoci altro su cui accordarci se non quello che dovevamo portarci appresso, cominciammo questa discussione; ma Harris disse che per una serata avevamo dissertato abbastanza e propose che uscissimo per distrarci un pochino: disse che aveva scoperto un posticino lì all'angolo della strada dove si poteva ottenere un goccio di irlandese degno di esser bevuto.


George disse che aveva sete (non ho mai notato che George non avesse sete) e siccome anche io avevo un certo presentimento che un po' di whisky, caldo, con una scorzetta di limone avrebbe fatto bene ai miei acciacchi, il dibattito venne aggiornato all'unanimità per la sera dopo; e i presenti si misero il cappello in testa e uscirono.




CAPITOLO 3


Accordi conclusivi - Metodo di Harris per fare un lavoro - Come l'anziano capo di casa appende un quadro - George fa un'osservazione logica - Delizioso il bagno mattutino - Predisposizioni per i casi di capovolgimento.


La sera dopo tornammo a riunirci per discutere i piani e metterci d'accordo. Harris disse:

- Ora, la prima cosa da fare è di stabilire quel che ci dobbiamo portare. Tu, J., prendi un pezzo di carta e scrivi, e tu, George, prendi il listino del droghiere e qualcuno mi dia un pezzo di matita perché la nota la faccio io.


Questo è Harris... sempre pronto ad accollarsi il peso di tutto per poi metterlo sulle spalle degli altri.


Mi fa ricordare sempre del mio povero zio Podger.


Mai visto un quarantotto come quello che succedeva per casa quando lo zio Podger metteva mano a un mestiere. Il corniciaio rimandava a casa un quadro e il quadro rimaneva nella sala da pranzo, appoggiato alla parete, in attesa di essere appeso; e la zia Podger continuava a chiedere che cosa bisognava fare; e lo zio Podger diceva:

- Non te ne incaricare, ci penso io. E voialtri, che nessuno si preoccupi, faccio tutto da me.


Si toglieva la giacca e cominciava col mandare la ragazza di servizio a comprare sei soldi di chiodi e quando quella era già uscita la faceva rincorrere da uno di noi ragazzini per dirle di che lunghezza dovevano essere; e così, a poco a poco, metteva in moto tutta la famiglia.


- Tu, Will, vai a prendermi il martello, - gridava, - e tu, Tom, portami la riga; mi occorrerà la scala a pioli e sarà meglio che mi portiate anche una seggiola di cucina. Tu, Jim, fai un salto dal signor Goggles e digli: "Papà le manda i suoi saluti e spera che la sua gamba vada meglio e la prega di imprestargli la livella". E tu, Maria, non te ne andare, mi occorrerà qualcuno che mi tenga il lume; e appena la ragazza torna dovrà uscire di nuovo per un po' di cordone da tappezziere; e... Tom! dove si è cacciato Tom? Vieni qui; avrò bisogno di te per farmi porgere il quadro.


Poi nell'alzare il quadro se lo lasciava scappare di mano; il quadro usciva dalla cornice e lui, nel tentativo di non far rompere il vetro, si tagliava e si metteva a correre per la stanza in cerca del fazzoletto.


Il fazzoletto non riusciva a trovarlo perché stava nella tasca della giacca e tutti quanti dovevamo smettere di cercare gli arnesi per correre alla scoperta della giacca mentre lui ci saltabeccava dietro.


- Ma è mai possibile che in tutta la casa non ci sia uno che sappia dove è la mia giacca? Mai visto in vita mia un'accozzaglia di scemi come voi, parola d'onore mai vista in vita mia. Siete in sei! e in sei non siete capaci di trovare una giacca che mi sono tolto non più tardi di cinque minuti fa! Bene... per tutti...


Poi si alzava e scopriva che stava seduto sulla giacca. E allora gridava:

- Potete smettere di cercare; me la sono trovata da me. Chiedere a voialtri di trovare una cosa è come chiederlo al gatto.


Poi, dopo avere impiegato mezz'ora a fasciarsi il dito, e avere comperato un altro vetro, e avere portato gli utensili, la scala, la sedia e la candela, ricominciava il lavoro, con tutta la famiglia, incluse la giovane domestica e la donna a ore, in semicerchio intorno a lui, pronta ai suoi ordini. Due dovevano reggere la scala, un terzo doveva aiutarlo a salire e sostenerlo lassù, un quarto gli doveva porgere il chiodo, un quinto il martello; lui tentava di puntare il chiodo alla parete e lo lasciava cadere.


- Corpo... - diceva allora, come offeso, - il chiodo è scappato!

E tutti noi dovevamo metterci in ginocchio alla pesca del chiodo mentre lui restava in piedi sulla sedia brontolando e chiedendo se per caso non avessimo l'intenzione di farlo rimanere là per tutta la serata.


Finalmente qualcuno trovava il chiodo, ma nel frattempo lui non sapeva più dov'era il martello.


- Dov'è il martello? Ma che ne ho fatto di questo benedetto martello? Santo Cielo! Possibile che tutti e sette ve ne stiate lì come allocchi e non sappiate che ne ho fatto del martello?

Gli trovavamo il martello, ma lui non trovava più il segno che aveva fatto sulla parete dove avrebbe dovuto piantare il chiodo e ciascuno di noi saliva a turno sulla sedia dietro di lui per cercare di scoprirlo. Succedeva che ognuno di noi vedesse il segno in un punto diverso e lui ci dava del cretino, a tutti, uno dopo l'altro, e ci faceva scendere. Allora prendeva la riga e ricominciava concludendo che il buco doveva esser fatto alla metà di trentun pollici e tre ottavi dall'angolo e perdeva la testa a fare il calcolo a mente.


Tutti ora ci sforzavamo a fare quel calcolo a memoria e arrivavamo a risultati diversi canzonandoci a vicenda. Succedeva che in tanto calcolare dimenticavamo il dato originale e lo zio Podger doveva riprendere le misure.


Questa volta però si serviva di uno spago e al momento critico, quando quel buon vecchio matto pendeva dalla sedia e tentava di arrivare a un punto che stava tre pollici più in alto di quanto egli potesse giungere, lo spago gli scivolava dalle dita e lui cadeva sul pianoforte battendo col capo e col corpo su tutti i tasti allo stesso tempo e producendo un effetto musicale veramente notevole.


E la zia Maria diceva che non avrebbe permesso che i bambini rimanessero lì a sentire un linguaggio simile. Finalmente lo zio Podger trovava il posto e vi appoggiava la punta del chiodo reggendolo con la mano sinistra mentre con la destra prendeva il martello. Alla prima martellata si schiacciava un dito ed emettendo un urlo lasciava cadere il martello sul piede di qualcuno di noi Zia Maria, tutta tenerezza, diceva che la prossima volta che lo zio Podger avrebbe dovuto conficcare un chiodo nella parete, sperava che glielo avesse fatto sapere in tempo affinché, mentre egli faceva quello, lei potesse combinare un viaggio di una settimana da sua madre.


- Oh! Voi donne fate un can-can per qualsiasi piccolezza!

rispondeva zio Podger riprendendo il controllo di se stesso. In fondo con questi lavoretti mi ci diverto.


Ed eccolo a fare un altro tentativo. Al secondo colpo il chiodo sprofondava nell'intonaco e mezzo martello spariva dietro di lui:

zio Podger per forza di inerzia sbatteva contro la parete acciaccandosi il naso.


E ricominciava la ricerca dello spago e della riga e si faceva un altro buco. Verso mezzanotte il quadro era appeso... di traverso e pericolante; alcuni metri della parete sembravano raschiati con un rastrello e tutti noi, ad eccezione dello zio Podger, eravamo stanchi morti, in uno stato miserevole.


- Ecco fatto, - diceva lui scendendo pesantemente dalla sedia sui calli della donna a ore e guardando con evidente orgoglio la strage compiuta. - C'è della gente che per una sciocchezza simile sarebbe stata capace di chiamare un operaio.


Harris, quando sarà cresciuto, sarà un uomo di questo genere; lo giurerei, e gliel'ho anche spiegato. Dissi che non potevo permettere che si accollasse tanto lavoro da solo. Gli dissi:

- No, tu prendi la carta, la matita e il listino, George prende nota e il lavoro lo faccio io.


Compilato un primo elenco, si dovette scartarlo. Palesemente, il corso superiore del Tamigi non sarebbe risultato navigabile per un natante di dimensioni sufficienti a contenere tutte le cose da noi annotate come indispensabili; perciò, stracciato l'elenco, restammo a guardarci in faccia!

George disse:

- Ragazzi, qui siamo su una strada completamente sbagliata. Non dobbiamo pensare alle cose di cui potremmo fare uso, ma solo a quelle di cui non potremmo far senza.


George, qualche volta, se ne viene fuori con delle uscite assai assennate. Non lo si crederebbe. Per conto mio, si tratta di saggezza bell'e buona, non solo rispetto al caso in questione, ma anche, in generale, riferendola al nostro viaggio su per il fiume della vita. Quanti, per questo viaggio, non sopraccaricano la barca, al punto di metterla sempre in pericolo di riempirsi d'acqua, con tutto un approvvigionamento di cose sciocche, che a loro sembrano indispensabili per viaggiare piacevolmente e comodamente, ma che in realtà sono solo cianfrusaglia inutile.


Come caricano il loro povero guscio di noce d'un mucchio, alto fino in testa d'albero, di bei vestiti e di grandi case, di servitorame superfluo e d'una schiera d'amici boriosi ai quali non importa un fico secco di loro, e dei quali a loro non importa neanche mezzo fico secco; di costosi divertimenti che non divertono nessuno e (cianfrusaglia più assurda e pesante di tutte) della paura di ciò che il prossimo potrà pensare, di lussi che stuccano, di piaceri che seccano, di vuota esibizione che, simile alla corona di ferro che si infliggeva un tempo ai criminali, fa sanguinare e vacillare la testa che la porta.


Cianfrusaglia, amico! Tutta cianfrusaglia! Buttala a fiume. Rende la barca così pesante, ai fini della voga, da farti quasi venir meno ai remi. La rende, ai fini del timone, così pericolosa e poco maneggevole, da non lasciarti mai un solo minuto libero da preoccupazione e ansia, da non concederti mai un minuto di pigra fantasticheria - né il tempo per incantarti a guardare le ombre che guizzano leggere sui bassifondi, gli sfolgoranti raggi del sole che appaiono e scompaiono tra increspature, né i grandi alberi della riva che guardano giù il proprio riflesso, o i boschi tutti verdi e dorati, o le ninfee bianche e gialle, e gli ondeggianti oscuri giunchi, o gli azzurri non-ti-scordar-di-me.


Getta la cianfrusaglia a fiume, amico! Fa' che la barca della tua vita sia leggera, carica solo del necessario. una casa accogliente e piaceri semplici, un amico o due, degni di questo nome, qualcuno che ti ami e qualcuno che tu ami, un gatto, un cane e un paio di pipe, abbastanza da mangiare, abbastanza per vestire, e un pochino più del sufficiente di roba da bere; perché la sete è una cosa pericolosa Vedrai che troverai più facile vogare nella tua barca ed essa non correrà tanto pericolo di rovesciarsi, e se poi si rovescia poco male; poche merci e buone, resistono all'acqua Avrai tempo per lavorare ma anche per pensare. Avrai tempo per abbeverarti della luce del sole, tempo per ascoltare le musiche eoliche che il vento di Dio suona sulle corde del cuore umano tutt'intorno a noi... avrai tempo per...


Oh! scusatemi, vi prego. Divagavo.


Affidammo l'elenco a George ed egli cominciò:

- Non prenderemo la tenda, - disse George; - porteremo un tendone per coprire la barca. E' molto più semplice e più comodo.


Ci parve una buona pensata ed accettammo la decisione. Non so se qualcuno di voi abbia mai visto la cosa cui mi riferisco. Ecco: si fissano dei cerchi di ferro sopra la barca e su di essi si stende un gran telone, assicurandolo di sotto tutto intorno da prora a poppa in modo che la barca si trasforma in una specie di casetta, molto intima, sebbene un po' soffocata; d'altra parte... tutto si paga, come disse quel tale cui morì la suocera quando gli presentarono le spese del funerale.


George disse che in tali condizioni potevamo portare una coperta ciascuno, una lampada, sapone, uno specchio e un pettine (per tutti), uno spazzolino da denti (per ciascuno), una bacinella, polvere dentifricia, l'occorrente per la barba (sembra un esercizio di traduzione dal francese, non vi pare?) e un paio di asciugamani grandi da bagno. Osservo che si portano sempre equipaggiamenti giganteschi se si va in un posto vicino all'acqua, ma poi, quando si è là, di bagni se ne fanno molto pochi.


Lo stesso succede quando si va al mare. Stando a Londra, io quando penso alla spiaggia mi propongo di alzarmi presto tutte le mattine e di far subito un tuffo prima di colazione e religiosamente preparo la valigia mettendoci un paio di calzoncini da bagno e un asciugamano. Porto sempre calzoncini da bagno rossi. Si addicono alla mia carnagione.


Ma quando arrivo al mare non mi sembra di aver bisogno di quel bagno di prima mattina nella stessa misura che mi sembrava quando ci pensavo in città.


Al contrario, sento che voglio rimanere a letto fino all'ultimo momento per poi scendere a colazione. Una volta o due la virtù trionfò ed io mi alzai alle sei e mezzo, mi vestii, presi i pantaloncini e gli asciugamani e cupo in volto mi precipitai. Ma non mi piacque affatto. Quando vado a fare il bagno di mattina presto sembra che qualcuno abbia ordinato specialmente per me un venticello tagliente dall'est, e sembra che qualcuno abbia raccolto tutti i ciottoli a triedro e li abbia messi a vertice in su, e che qualcuno abbia affilato la roccia e ne abbia coperto le punte con un po' di sabbia in modo che io non le possa vedere, e che qualcuno abbia preso il mare e lo abbia scacciato indietro di due miglia, in modo che io per raggiungerlo debba diguazzare, stringendomi nelle braccia e tremando di freddo, in quindici centimetri d'acqua. E una volta arrivato al mare lo trovo violento, oltraggioso addirittura.


Un'ondata gigantesca mi afferra e mi sbatte in posizione di seduto e con tutta la violenza possibile su di una roccia che sembra messa lì proprio per me. E, prima che io abbia potuto dire: - Oh!

Ahi! - e comprendere quello che è successo, l'ondata ritorna indietro e mi trascina in mezzo all'oceano. Comincio a scalciare tremendamente per tornare alla riva chiedendomi se rivedrò ancora la mia casa, i miei amici, e ricordo di non esser stato carino, come avrei dovuto, con la mia sorellina da ragazzo (cioè quando io ero un ragazzo). Ed ecco che proprio quando ho perduto tutte le speranze, l'ondata si ritira e mi lascia steso come una stella di mare sulla sabbia; mi alzo, guardo indietro e mi accorgo che ho nuotato per salvarmi la vita in cinquanta centimetri d'acqua.


Ritorno di corsa, mi vesto e mi trascino sino a casa dove devo far finta di essermi divertito un mondo.


Nel presente caso tutti parlavamo con la convinzione che ogni mattino avremmo fatto un lungo bagno. George disse che doveva esser un vero piacere svegliarsi nella barca all'aria fresca del mattino e tuffarsi nelle chiare acque. Harris disse che non c'è nulla come una nuotata prima di colazione per far venire l'appetito. George disse che se questi tuffi avessero fatto mangiar Harris più di quello che già mangiava, egli avrebbe preferito che Harris non facesse bagni affatto.


Disse che già così avremmo faticato a sufficienza per rimorchiare contro corrente le vettovaglie necessarie per Harris.


Feci però osservare a George che anche se avessimo dovuto spinger contro corrente qualche quintale in più di viveri per Harris, ciò sarebbe stato compensato dal piacere di averlo intorno fresco e soddisfatto; George finì per vedere la cosa con i miei occhi e ritirò il suo veto a che Harris facesse il bagno.


L'accordo finale fu di portare tre lenzuola da bagno in modo che nessuno dovesse aspettare l'altro.


In quanto ai vestiti George disse che due vestiti di flanella sarebbero stati sufficienti e che avremmo potuto lavarli da soli, nel fiume, se si sporcavano. Gli chiedemmo se avesse una certa pratica nel lavare vestiti di flanella nel fiume ed egli rispose che "no, non personalmente; ma conoscevo della gente che li aveva lavati, e la cosa era abbastanza facile". Io e Harris fummo così scemi da pensare che egli credesse a quel che stava dicendo e che tre rispettabili giovanotti, senza posizione, né influenza e senza nessuna pratica di lavanderia, potessero davvero lavare camicie e mutande nel Tamigi con un pezzo di sapone.


Avremmo appreso nei giorni seguenti, quando era troppo tardi, ormai, che George era un miserabile impostore e che non sapeva niente di niente in fatto di lavar panni. Se aveste visto quei poveri panni, dopo... ma... non anticipiamo, come dicono i romanzi gialli.


George ci convinse a portare poca biancheria e molte calze per il caso che dovessimo naufragare e volessimo metterci roba asciutta; e moltissimi fazzoletti, che servono per asciugare le cose; e un paio di stivaletti di cuoio; e le scarpette da bagno, anch'esse necessarie nel caso che la barca si dovesse capovolgere.




CAPITOLO 4


Il problema alimentare - Obiezioni contro il petrolio quale atmosfera - Pregi del formaggio come compagno di viaggio - Una donna sposata abbandona il tetto coniugale - Altre provviste per i casi di capovolgimento - Faccio le valigie - Malignità degli spazzolini da denti - George e Harris riempiono le ceste - Pessima condotta di Montmorency - Andiamo a letto per riposare.


Passammo al problema alimentare. George disse:

- Per cominciare, la prima colazione. - (George è un uomo pratico.) - Per la prima colazione ci vorrà una padella... (Harris disse ch'è indigesta; ma noi lo invitammo a non fare l'idiota, e George proseguì) - ...una teiera, un bricco, e un fornelletto a spirito.


- Niente petrolio, - disse George, con un'occhiata significativa; Harris ed io approvammo.


Ci eravamo portati un fornello a petrolio, una volta ma "mai più".


Per tutta quella settimana s'era vissuti come in una raffineria.


Trasudava. Non ho mai visto niente di simile al petrolio, per trasudare. Lo tenevamo a prua della barca e, di lì, trasudava fino al timone, impregnando la barca intera e, al passaggio, ogni cosa ch'essa conteneva, trasudava sul fiume, saturava il paesaggio, inquinava l'atmosfera. A volte soffiava un ponente al petrolio, altre volte un levante al petrolio, e talora una tramontana al petrolio o magari uno scirocco al petrolio; ma, che il vento venisse dalle nevi dell'Artide, o si fosse levato dalla desolazione sabbiosa del deserto, giungeva a noi carico della fragranza di petrolio E quel petrolio trasudava rovinando il tramonto; quanto ai raggi di luna puzzavano proprio di petrolio.


A Marlow, cercammo di allontanarcene. Lasciata la barca vicino al ponte, traversammo la città a piedi per sfuggirgli, ma ci seguiva.


Era piena di petrolio la città intera. Passammo attraverso il cimitero della chiesa, e pareva che avessero sepolto la gente nella nafta. La via principale era fetida di petrolio; ci meravigliammo che la gente potesse viverci. E percorremmo miglia e miglia sulla strada di Birmingham; ma fu inutile, la campagna era a mollo nel petrolio.


Al termine di quel viaggio ci riunimmo a mezzanotte in un campo solitario, sotto una quercia schiantata dalla folgore, e pronunciammo un voto tremendo (da tutta una settimana sacramentavamo a quel proposito nel solito modo borghese, ma quella fu una faccenda grossa) un voto tremendo, dicevo, giurando di non portare più petrolio in barca con noi eccetto, s'intende, in caso di malattia.


Perciò, nell'attuale circostanza, ci attenemmo all'alcool denaturato. Abbastanza esiziale anch'esso. Si mangia focaccia all'alcool denaturato, e pandolce all'alcool denaturato. Ma l'alcool denaturato è più sano del petrolio, se l'organismo deve assorbirlo in dosi massicce.


Come altri ingredienti della prima colazione George propose le uova e il lardo che sono facili da cucinarsi, la carne fredda, il tè, il pane e il burro, e la marmellata - ma niente formaggio.


Come il petrolio, è troppo invadente. Vuole l'intera barca per sé.


Si spande nella cesta e attacca il suo sapore a tutto il resto.


Non si capisce più se si mangia crostata di pesce, o salsicce viennesi, o fragole alla panna. Sembra tutto formaggio. Profuma troppo, il formaggio.


Ricordo che un amico comperò due forme di formaggio a Liverpool.


Erano due bellissimi pezzi di cacio tenero e maturo e con un odore della forza di cento cavalli vapore che garantisco si sentiva a tre miglia di distanza e che a duecento metri avrebbe fulminato un uomo. Mi trovavo anch'io a Liverpool e il mio amico mi disse che siccome lui non poteva lasciare la città prima di un paio di giorni, sarei stato molto gentile se glielo avessi portato io a Londra perché altrimenti si sarebbe guastato.


- Naturalmente, con piacere, - risposi io, - con piacere.


Andai a prendere i due formaggi e me li portai in una carrozza. Ma che carrozza! Era uno scatolone sgangherato trascinato da un bucefalo sonnambulo bolso e dinoccolato al quale il suo padrone, in un momento di entusiasmo, durante la conversazione, diede il nome di cavallo. Collocai i formaggi sul mantice della carrozza e partimmo arrancando in una maniera che avrebbe fatto credito al più lento compressore stradale a vapore che sia mai stato costruito, e tutto andò a un ritmo allegro come una campana a morto finché non girammo l'angolo della strada. Arrivati lì il vento portò una zaffata di formaggio al nostro bucefalo il quale ne fu risvegliato e con un nitrito di terrore si buttò alla velocità di tre miglia all'ora. Il vento tirava sempre nella sua direzione e prima che fossimo arrivati alla fine della strada, il destriero correva quasi a quattro miglia all'ora "seminando" per strada gli sciancati e le vecchie grasse.


Quando arrivammo alla stazione ci vollero due facchini, oltre al vetturino, per tenere il quadrupede e forse non ci sarebbero riusciti neppure così se qualcuno non avesse avuto la presenza di spirito di mettergli un fazzoletto sul naso e di bruciare della cartaccia per far fumo.


Feci il biglietto e percorsi orgogliosamente la banchina, con i miei formaggi, tra due ali di gente che faceva largo al mio passaggio. Il treno era affollato e dovetti entrare in uno scompartimento occupato già da sette persone. Un vecchio bilioso protestò ma io entrai ugualmente e, messi i formaggi sul portabagagli, mi sedetti nel posto vuoto sorridendo affabilmente e dissi che faceva molto caldo. Passò qualche minuto e subito il vecchio cominciò ad agitarsi e a dire:


- Troppa aria di chiuso, qua dentro.


- Opprimente davvero, - disse il viaggiatore seduto vicino a lui.


Cominciarono ad annusare tutti e due e alla terza annusata il profumo riempì i loro polmoni sicché si alzarono senza far motto e se ne uscirono. Si alzò subito anche una robusta donna dicendo quanto fosse indegno che una rispettabile signora sposata avesse da esser maltrattata a quel modo; raccolse il suo sacco da viaggio e otto pacchi e se ne andò. I quattro viaggiatori superstiti rimasero seduti per un certo tempo, fino a che un signore dall'aria solenne che ora stava solo in un angolo e che dall'abito e dall'aspetto generale sembrava appartenere alla corporazione degli impresari di pompe funebri, precisò che quell'odore gli faceva pensare al cadavere di un bambino; gli altri tre cercarono di uscire allo stesso tempo e si scontrarono sulla porta.


Io feci un sorriso di risposta al signore in nero e gli dissi che, a quanto pareva, avremmo avuto lo scompartimento tutto per noi; egli rise amabilmente e disse che c'è della gente che fa un sacco di storie per una cosetta da nulla. Ma anche lui, dopo che il treno si mise in moto, cominciò a fare una strana cera e perciò arrivati che fummo a Crewe lo invitai a bere un bicchierino.


Accettò e a forza di spintoni scendemmo al bar ove dovemmo gridare, pestare i piedi e agitare gli ombrelli perché una ragazza si avvicinasse e ci chiedesse che cosa volevamo.


- Lei che cosa prende? - dissi rivolgendomi al mio amico.


- Mezza corona di cognac, signorina, - rispose egli, rivolgendosi alla ragazza al banco. - Liscio, per favore.


E, avendolo bevuto, uscì in silenzio e salì in un altro scompartimento, cosa che mi parve meschina, da parte sua.


Da Crewe in poi, nonostante l'affollamento, ebbi lo scompartimento tutto per me. Quando ci fermavamo alla stazione, la gente, vedendo il mio scompartimento vuoto, si precipitava.


- Qui, Maria, vieni, qui c'è molto posto.


- Eccomi, Tom, entriamo qui, - gridavano. E arrivavano carichi di bagagli pesanti e lottando sulla porta per passare per primi. Uno apriva lo sportello, saliva sul predellino, vacillava e cadeva fra le braccia di quello che gli veniva dietro; salivano tutti, annusavano e scappavano per andarsi a pigiare in un altro scompartimento o magari pagavano la differenza e passavano in prima classe.


Scesi alla stazione di Euston e andai difilato a portare i due formaggi a casa del mio amico. Quando la signora entrò nella stanza annusò un poco e poi disse:

- Che cosa è? mi dica la verità, tutta la verità.


- Formaggi, - risposi. - Tom li ha comperati a Liverpool e mi ha chiesto il favore di portarglieli.


Aggiunsi che mi auguravo comprendesse che io ero perfettamente estraneo alla faccenda e lei disse che non ne dubitava affatto ma che Tom, al ritorno, l'avrebbe sentita.


Il mio amico fu trattenuto a Liverpool più a lungo di quanto avesse pensato e siccome dopo tre giorni non aveva ancora fatto ritorno a casa, la moglie venne da me.


- Che cosa le disse Tom circa quei formaggi? - mi chiese.


Risposi che egli mi aveva spiegato che dovevano essere tenuti in luogo umido e che nessuno li doveva toccare.


Lei disse:

- Oh! non c'è pericolo... nessuno li toccherà. Ma lui, li ha fiutati?

Credevo di sì e aggiunsi che avevo avuto l'impressione che a quei formaggi ci tenesse molto.


- Crede che andrebbe in collera, - chiese lei, - se regalassi una sterlina a qualcuno per farli portar via e interrarli?

Risposi che suo marito se la sarebbe presa per tutta la vita.


Allora lei ebbe un'idea e disse:

- Le dispiacerebbe di conservarglieli lei stesso? Glieli mando qui.


- Signora, - risposi io, - se fosse per me... a me l'odore del formaggio piace e il viaggio che feci con essi l'altro giorno da Liverpool lo ricorderò sempre come il bellissimo coronamento di una piacevole vacanza. Ma, a questo mondo, occorre tener presente anche gli altri. La donna sotto il cui tetto ho l'onore di abitare è una vedova, e, a quanto pare, è anche orfana. Essa ha la mania tremenda, direi eloquente, che tutti vogliano, come dice lei, abusare in casa sua. La presenza dei formaggi di vostro marito, la farebbe istintivamente pensare che io abuso e io non permetterò mai che si dica che io abuso di una vedova e per di più orfana.


- Benissimo, allora, - disse la moglie del mio amico alzandosi, - posso solo dire che me ne andrò all'albergo con i bambini e vi resterò fino a che quei formaggi non saranno stati mangiati. Mi rifiuto di vivere nella medesima casa con essi.


E mantenne la parola, affidando la casa alla donna a ore la quale, quando le chiesero se poteva sopportare quell'odore, rispose: - Quale odore? - e quando le fecero prendere i formaggi e glieli fecero annusare forte disse di sentire un lieve profumo di melone.


Era chiaro che quell'atmosfera non poteva nuocere alla donna e la lasciarono lì.


Il conto dell'albergo salì a quindici sterline e il mio amico, dopo aver fatto i calcoli, vide che quei formaggi gli erano venuti a costare otto scellini e mezzo alla libbra. Disse che gli piaceva mangiare ogni giorno un pezzettino di formaggio, ma che il prezzo di quello non se lo poteva permettere e perciò decise di sbarazzarsene. Li prese e li gettò nel canale; ma fu obbligato a ripescarli perché gli uomini delle chiatte protestarono. Dissero che quel puzzo li faceva svenire. Ed allora in una notte oscura prese le due forme e le andò a deporre nella camera mortuaria della parrocchia. Ma il custode li scoprì e sollevò una cagnara spaventosa. Disse che quello era stato un complotto per togliergli il pane dalla bocca risvegliando i cadaveri.


Alla fine, il mio amico se ne liberò portandoli in una città di mare ove li seppellì sulla spiaggia. Ciò procurò a quel luogo gran fama. I villeggianti dissero che non s'erano accorti, prima, dell'aria frizzante che c'era; e da allora, per molti anni, gli ammalati di petto vi affluirono in folla.


Ritenni perciò che George aveva ragione rifiutandosi di portare formaggio con noi.


- Non ci sarà l'ora del tè, - disse George (a questo punto Harris fece il viso lungo); - invece, alle sette faremo un bel pasto unico, forte e sostanzioso; tè, pranzo e cena tutto insieme.


Harris divenne più allegro. George propose crostata di frutta e carne, carne fredda, patate, frutta e legumi. Come bevande optammo per una magnifica miscela allappante di Harris che si mischiava con l'acqua e che egli chiamava limonata, poi molto tè e una bottiglia di whisky, per il caso, come diceva George, che dovessimo capovolgerci.


Ebbi l'impressione che George battesse un po' troppo sul tasto del capovolgimento. Mi pareva che non fosse quello lo stato d'animo più adatto per intraprendere quel viaggio.


Ma sono lieto che si sia portato il whisky.


Non portammo invece vino né birra. Sono un errore, risalendo il fiume. Ti danno sonnolenza e pesantezza. Un bicchiere la sera quando vai a zonzo in città va benissimo, ma non berne mai quando il sole ti batte in testa e devi lavorar duro.


Facemmo l'elenco delle cose che dovevamo portarci e prima che ci separassimo, quella sera, era diventato molto lungo. Il giorno dopo, venerdì, raccogliemmo tutto e alla sera ci riunimmo per fare i bagagli. Per il vestiario prendemmo un grosso valigione e per le vettovaglie e gli utensili di cucina un paio di ceste. Accostammo il tavolo contro la parete, ammucchiammo tutto in mezzo alla stanza e ci sedemmo attorno in ammirazione.


Dissi che i bagagli li avrei fatti io.


Confesso che sono un po' fiero della mia abilità nel fare i bagagli. E' una di quelle cose che sento di saper far meglio di chiunque altro nel mondo (a volte mi meraviglio con me stesso dell'enorme numero di cose che so fare meglio degli altri).


Comunicai a George e ad Harris questa realtà e dissi loro che era meglio lasciassero a me il lavoro dei bagagli. Essi accettarono il mio consiglio con una prontezza che direi impudente. George si sistemò sulla sedia a sdraio e accese la pipa; Harris appoggiò i piedi sul tavolo e si accese un sigaro.


Non corrispondeva certo alle mie intenzioni. Avevo pensato, naturalmente, di dirigere i lavori, facendo sgobbare George e Harris secondo le mie istruzioni e scostandoli ogni tanto con degli "Oh, tu!..." "Qua, lascia fare a me" "Ecco fatto, semplicissimo": in realtà insegnando, per così dire. Ora, questa loro maniera di interpretare la cosa mi irritò. Non c'è nulla che mi irriti tanto come vedermi intorno della gente che se ne sta comodamente seduta mentre lavoro.


Una volta mi capitò di abitare con un tizio che comportandosi così mi dava sui nervi in modo terribile. Si sdraiava sul sofà e mi guardava mentre io facevo mille cose per ore ed ore; e mi seguiva con gli occhi per tutta la stanza, dovunque andassi. Diceva che il vedermi così attivo a far confusione gli faceva un bene dell'anima; che gli faceva realmente credere che la vita non è un sogno ozioso da viversi a bocca aperta, sbadigliando, ma una nobile missione, piena di doveri e di lavoro duro. Diceva che spesso, ora, si chiedeva come avesse potuto tirare avanti prima di conoscermi, quando non aveva nessuno da stare a guardare intento al suo lavoro.


Io, invece, non sono affatto così. Io non riesco a starmene seduto e tranquillo se vedo un altro che sfacchina e lavora. Io sento subito il bisogno di alzarmi e mettermi a sopraintendere, girando per la stanza con le mani in tasca e dicendogli come deve fare. La mia congenita operosità è fatta così. Non c'è rimedio.


Ciò nonostante, non dissi una parola e cominciai a metter la roba dentro. Mi parve una faccenda più lunga di quanto immaginavo, ma finalmente chiusi la valigia, mi ci sedetti sopra e strinsi bene le cinghie.


- Non li metti dentro gli stivali? - disse Harris.


Mi guardai intorno e vidi che me n'ero dimenticato. Harris è sempre lo stesso! Lui, si capisce, non avrebbe potuto avvisarmi prima che avessi chiuso la valigia e l'avessi legata. E George se la rideva, una delle sue risate irritanti, stupide, ghignanti, sganascianti. Mi fanno infuriare.


Riaprii la valigia e vi posi dentro gli stivali e, proprio quando stavo stringendo le cinghie, mi spuntò un'idea tremenda. Lo spazzolino da denti. Lo avevo messo dentro o no lo spazzolino da denti in valigia.


Lo spazzolino da denti è una cosa che quando viaggio riesce a stregarmi e a rovinarmi l'esistenza. Arrivo persino a sognare di notte che non l'ho messo in valigia; e mi sveglio sudando freddo, salto dal letto e gli do la caccia. Perciò la mattina seguente lo chiudo in valigia prima di usarlo e allora sono obbligato a disfare tutto per ritrovarlo ed è sempre l'ultimo oggetto che riesco a tirar fuori; poi rifaccio la valigia e me lo dimentico, e quindi all'ultimo momento devo correre su a prenderlo al primo piano e me lo porto alla stazione avvolto nel fazzoletto del taschino.


Ora misi tutto sottosopra e, naturalmente, non lo trovai. Rovistai ogni cosa riducendo quella roba allo stesso aspetto che doveva avere il mondo quando non era ancora stato creato e su tutto regnava il caos. Inutile dire che quelli di Harris e di George li trovai diciotto volte di seguito, il mio, mai. Ricollocai tutto in valigia, una cosa per volta, tenendo ogni indumento sospeso per aria e scuotendolo. Finalmente uscì da una scarpa. E feci il bagaglio di nuovo.


Quand'ebbi finito ecco che George mi chiede se il sapone era dentro. Gli dissi che non me ne importava un accidente se il sapone fosse o non fosse dentro; strinsi la valigia di nuovo e la legai e subito mi ricordai che vi avevo lasciato dentro la borsa del tabacco e quindi dovevo riaprirla. Finalmente la chiusi definitivamente alle 10 e 05 e non ci rimase che preparare le ceste. Harris disse che siccome mancavano meno di dodici ore alla partenza era meglio che il resto lo facessero lui e George. Io accettai l'idea e mi sedetti; essi si dettero da fare.


Naturalmente volevano darmi una lezione e cominciarono allegramente. Io non feci alcun commento: aspettavo. Il giorno in cui George sarà impiccato, Harris avrà il primato mondiale dell'uomo meno adatto del mondo a fare valigie. Io guardavo le pile di piatti, di tazze, di casseruole di bottiglie, di boccali, di torte, di fornelli, di dolci e di pomodori e di eccetera e pensavo che non c'era poi molto da aspettare per farmi un sacco di risate.


Infatti fu così. Cominciarono col rompere una tazza Lo fecero come prima cosa. Tanto per mostrare che "ci sapevano fare", e attirare l'attenzione.


Poi Harris nel mettere a posto un barattolo di marmellata di fragole lo premette sopra un pomodoro che si schiacciò; dovettero recuperarlo col cucchiaino.


Adesso era il turno di George, ed egli calpestò il burro. Io non aprii bocca, ma mi avvicinai e mi sedetti sull'orlo della tavola, a guardarli. Questo li irritò più di qualsiasi cosa che avessi potuto dire. Me ne accorsi. Si innervosirono, si agitarono, e cominciarono a camminare sulla roba, e a mettersela alle spalle, per poi non trovarla quando ne avevano bisogno; e mettevano le crostate in fondo, posandovi su oggetti pesanti che le schiacciavano.


Rovesciarono sale su tutto, e quanto al burro!... In vita mia non ho mai visto due uomini riuscire a fare, con due etti di burro, più di quello che fecero loro. George lo staccò dalla sua pantofola; cercarono allora di metterlo nel bricco Non voleva entrarci, e quello che ERA entrato non voleva uscirne. Finalmente, grattando, lo estrassero, e lo posarono su una sedia, e Harris vi si sedette sopra, e il burro gli si appiccicò, ed essi lo andarono cercando per tutta la stanza.


- Giurerei di averlo posato su quella sedia, - diceva George, guardando con occhi sbarrati la sedia vuota. -T'ho visto io, neanche un minuto fa, - diceva Harris.


Poi ricominciarono a fare il giro della stanza, cercandolo; ritrovandosi al centro della stessa, rimasero a guardarsi in faccia l'un l'altro.


- La cosa più straordinaria di cui abbia mai sentito parlare, disse George.


- Un mistero! - disse Harris.


Poi George, avendo girato intorno a Harris ed essendogli arrivato alle spalle, lo vide.


- Ma guarda! Stava lì, intanto! - esclamò, sdegnato.


- Dove? - gridò Harris girando su se stesso.


- Ma sta' un po' fermo, una buona volta! - ruggì George, correndogli dietro.


E così, staccarono il burro e lo misero nella teiera.


Inutile dire che c'entrava anche Montmorency. E' l'ambizione della sua vita, quella di cacciarsi tra i piedi e farsi mandare degli accidenti. Se può cacciarsi in mezzo dov'è particolarmente indesiderato, costituire un vero flagello, fare infuriare la gente e farsi lanciar dietro oggetti vari, sente allora di non avere sprecato la giornata.


Fare inciampare qualcuno, inducendolo a imprecare al suo indirizzo per un'ora, costituisce il suo scopo, il suo impegno più alto; e, se ci riesce, assume una spocchia intollerabile.


Venne a sedersi sulle cose proprio quando bisognava metterle in valigia; e pareva afflitto dall'idea fissa che ogni volta che George e Harris allungavano la mano per prendere qualcosa, volessero il suo naso umido e freddo. Mise una zampa nella marmellata, buttò sossopra i cucchiaini, e, fingendo che i limoni fossero topi, entrò nella cesta e ne uccise tre prima che Harris lo potesse ripescare fuori con la padella.


Harris disse che io lo incoraggiavo. Io non lo incoraggiavo. Un cane come quello non ha bisogno d'incoraggiamenti. A fargli fare simili cose è la natura, il peccato originale innato in lui.


Si finì di fare le valigie a mezzanotte e cinquanta, e Harris, sedutosi sulla cesta grande, disse che sperava di non trovare niente di rotto. George disse che, se qualcosa s'era rotta, ERA rotta, e questa riflessione parve confortarlo. Disse anche che aveva voglia di andare a letto. Tutti avevamo voglia di andare a letto. Harris quella notte dormiva da noi, e salimmo al piano di sopra.


Tirammo a sorte i letti, e risultò che Harris avrebbe dormito con me. Disse:

- Preferisci il lato di dentro o di fuori, J.?

Dissi che preferivo, in genere, dormire DENTRO il letto. Harris disse ch'era vecchia.


George disse:


- Ragazzi, a che ora vi devo svegliare?


Harris disse:


- Alle sette.


Io dissi:


- No, alle sei, - perché volevo scrivere certe lettere.


In proposito Harris ed io litigammo per un po', ma infine appianammo la divergenza a metà strada e convenimmo per le sei e mezzo.


- Svegliaci alle sei e mezzo, George, - dicemmo. George non rispose, e avvicinandoci vedemmo che dormiva già da un po'; allora collocammo la vaschetta da bagno in modo che la mattina, alzandosi, vi cadesse dentro, e ci mettemmo a letto anche noi.




CAPITOLO 5


Ci sveglia la signora P. - Quel dormiglione di George - Il raggiro delle "previsioni del tempo" - I nostri bagagli - Malvagità del ragazzino - Provochiamo assembramenti - Partiamo grandiosamente in carrozza e arriviamo alla stazione di Waterloo - Santa innocenza degli impiegati delle ferrovie South Western in materia di cose terrene, quali sono i treni - Navighiam, navighiam, in barca andiam.


A svegliarmi, la mattina, fu la signora Poppets. Diceva:

- Lo sa, signore, che sono quasi le nove?

- Le cosa? - esclamai, alzandomi di scatto.


- Le nove, - rispose dal buco della serratura. - Ho pensato che stavate dormendo troppo.


Svegliai Harris, e glielo riferii. Disse:

- Ma tu, non volevi svegliarti alle sei?

- Infatti, - risposi; - perché non m'hai svegliato?

- E come potevo, se tu non m'hai svegliato? - ribatté. - Così ora non saremo sul fiume che a mezzogiorno passato. Mi meraviglio addirittura che tu ti prenda la briga di alzarti.


- Uhm! - rimbeccai, - buon per te, che lo faccio. Se non t'avessi svegliato, saresti rimasto coricato per quindici giorni.


E via di questo passo continuammo a mostrarci i denti a vicenda per alcuni minuti, ma c'interruppe un'insolente russata di George.


Ci rammentò, per la prima volta da quando ci avevano svegliati, la sua esistenza. Eccolo là, l'uomo che aveva chiesto a quale ora dovesse svegliarci: steso supino, a bocca spalancata e con le ginocchia rialzate. Non so perché, ve lo assicuro, ma la vista d'un altro, che se la dorme a letto quando io sono alzato, mi manda fuori dei gangheri. Mi sembra scandaloso veder sprecare le ore preziose della vita d'un uomo - gli istanti senza prezzo che mai più torneranno - in un semplice sonno animalesco.


Ecco lì George che, con la sua disgustosa indolenza, buttava via l'inestimabile dono del tempo lasciando che la sua preziosa vita, della quale avrebbe dovuto un giorno render conto minuto per minuto, gli sfuggisse senza esser vissuta. Invece di rimanere lì buttato su di un letto, immerso in un oblio che ottenebra l'anima, avrebbe potuto star a rimpinzarsi di uova e lardo, stuzzicare il cane, o amoreggiare con la serva.


Questa terribile constatazione allarmò Harris allo stesso momento che me e decidemmo di salvare George e questo nobile proponimento ci fece dimenticare che stavamo questionando. Gli saltammo addosso e gli portammo via le coperte; Harris gli assestò una ciabattata ed io gli feci un urlo in un orecchio. Si svegliò:

- Che diamine?... - brontolò mentre si sedeva sul letto.


- Alzati, testone! - gridò Harris, - sono le dieci meno un quarto.


- Cosa? - e saltò dal letto andando a finire direttamente nella bagnarola. - Chi è stato quel mascalzone chel'ha messa qui?

Gli rispondemmo che doveva esser proprio scemo per non aver visto la vaschetta.


Ultimammo la vestizione e quando arrivammo alle rifiniture ci ricordammo che avevamo chiuso nei bagagli gli spazzolini da denti, il pettine e la spazzola (decisamente il mio spazzolino da denti sarà la mia morte): dovemmo andar giù e pescare quegli arnesi nella valigia. Dopo che avemmo finito George venne fuori a pretendere il suo occorrente per la barba. Gli rispondemmo che per quella volta sarebbe uscito senza radersi perché non avremmo disfatto il bagaglio un'altra volta per fare un favore a lui, né ad altri più belli di lui.


Egli protestò:

- Ma non fate gli stupidi. Come potrei andare in ufficio in questo stato?

Infatti era un po' crudele per l'ufficio, ma chi se ne stropiccia delle sofferenze umane? L'ufficio si arrangiasse, come disse Harris con quel suo fare irrispettoso e volgare.


Scendemmo per la colazione e trovammo che Montmorency aveva invitato due altri cani per gli addii e questi stavano passando il tempo azzuffandosi sulla soglia della porta. Li calmammo con un ombrello e ci sedemmo dinanzi alle bistecche e alla carne fredda.


Harris sentenziò:


- Una buona colazione è quello che ci vuole. - Attaccò subito un paio di bistecche perché, disse, bisognava mangiarle calde, la carne fredda poteva aspettare.


George prese il giornale, e ci lesse le notizie di sinistri alle imbarcazioni, e le previsioni del tempo; queste ultime profetizzavano "pioggia, freddo, umido, con tendenza al bello" (quanto di più spaventevole ci possa essere nel tempo). "Temporali vari con scariche elettriche, vento dall'est, depressione sulla contea di Midland (Londra e Manica). Barometro in discesa." Io pensavo che tra tutte le stupide, irritanti cretinerie che ci affliggono, questa della "previsione del tempo" è forse la più perversa. Essa "prevede" esattamente quello che successe ieri o l'altro ieri e altrettanto esattamente l'opposto di quanto succederà oggi.


Ricordo che mi rovinai completamente le vacanze ad autunno inoltrato, appunto per avere tenuto conto delle previsioni del tempo del giornale locale. "Per oggi si prevedono forti piogge a carattere temporalesco", diceva al lunedì, e così noi rimandammo il pic-nic e rimanemmo chiusi in casa per tutta la giornata in attesa della pioggia. La gente passava davanti alla nostra porta e se ne andava fuori tutta allegra e felice su carrozze e carrozzini, il sole bruciava e non c'era una nuvola in cielo.


- Ah! Ah! - dicevamo noi guardando attraverso i vetri. Torneranno a casa inzuppati come spugne!

Ghignavamo, pensando alla doccia che si sarebbero buscata, e tornavamo ad attizzare il fuoco, a riprendere in mano i libri, a mettere in ordine i nostri esemplari di alghe marine e di conchiglie. Verso mezzogiorno col sole che penetrava nella stanza, il caldo divenne opprimente e cominciammo a chiederci quando sarebbero arrivati gli scrosci di pioggia.


- Vedrai! Cominceranno nel pomeriggio, stanne certo, - ci dicevamo l'un l'altro. - Poveretti quelli, come si bagneranno! Sarà uno spasso.


All'una la padrona di casa venne giù e ci chiese se non saremmo usciti, con quella bella giornata.


- No! No! - rispondemmo con un sorriso furbo, - noi non abbiamo nessuna voglia di bagnarci, sa!

Passò quasi tutto il pomeriggio e non si vide nessun segnale di pioggia ed allora cercammo di confortarci pensando che sarebbe caduta improvvisamente, tutta d'un colpo, proprio nel momento in cui i gitanti si trovavano sulla strada per far ritorno a casa e quindi lontani da ogni ricovero in modo che si sarebbero bagnati più che mai. Ma intanto non veniva giù neanche una goccia; la giornata passò e sopravvenne una notte incantevole.


Al mattino seguente leggemmo che il tempo sarebbe stato "caldobello - con tendenza alla stabilità - molto caldo"; e allora ci vestimmo di abiti leggeri ed uscimmo. Mezz'ora dopo che eravamo partiti cominciò a piovere forte, si levò un vento freddo e tutti e due durarono per l'intera giornata e noi ritornammo pieni di raffreddori e di reumatismi e ci dovemmo mettere a letto.


Il tempo è una cosa che supera completamente le mie capacità. Non ci capisco niente. E il barometro è inutile; ti trae in inganno come le previsioni del giornale.


Ve n'era uno appeso in un albergo di Oxford dove scesi la primavera scorsa. Al mio arrivo, segnava "tempo bello stabile".


Fuori, l'acqua veniva giù che Dio la mandava e così era stato per tutto il giorno. Io non ci capivo nulla. Detti un colpettino al barometro, che saltò e segnò "molto secco". Stava passando il facchino dell'albergo il quale si fermò e disse che secondo lui il barometro si riferiva a domani. Avanzai l'ipotesi che si riferisse a due settimane prima, ma il facchino disse che no, non lo credeva.


Al mattino seguente detti qualche altro colpettino e il barometro salì ancora mentre la pioggia scendeva sempre più violenta. Al mercoledì ritornai a battere e la lancetta passò dal "bello stabile", "molto secco", al "molto caldo" fino a che non poté più muoversi perché c'era un bottone d'arresto. Fece invero del suo meglio; ma lo strumento era stato costruito in modo che non poteva profetizzare bel tempo con maggiore entusiasmo senza rompersi. Era chiaro che avrebbe voluto proseguire, per pronosticare siccità, mancanza di acqua, colpi di sole, venti caldi del deserto, "et similia", ma il bottone di arresto glielo proibiva e quindi doveva contentarsi di indicare sempre quel banalissimo "molto secco".


Intanto la pioggia continuava a venir giù ininterrotta e il fiume, straripato, aveva allagato i quartieri bassi.


Il facchino disse che era certo che una volta o l'altra avremmo avuto una sequenza di tempo magnifico e lesse due versi scolpiti sulla custodia di quell'oracolo.


Lontana previsione, dura assai.


Predetta da vicino, azzecca mai.


Quell'estate il tempo bello non si vide. Immagino che quella macchina si riferisse alla primavera successiva.


Ci sono poi i barometri di stile moderno, quelli lunghi a tubo diritto. Non ne capisco né capo né coda. C'è un lato per le dieci del mattino di ieri e un lato per le dieci del mattino di oggi, ma ammetterete che non si può fare sempre una alzataccia per arrivare lì alle dieci del mattino. Questo barometro sale o scende a seconda di pioggia o bel tempo, di molto o poco vento, e ad un capo c'è scritto "Nly" e all'altro "Ely" (ma che cosa c'entra la piccola Elisa?), e se gli date una bottarella non vi indica nulla.


Inoltre occorre fare la correzione col livello del mare e la riduzione in gradi Fahrenheit; ma neanche questo basta perché si possa capire quello che il barometro dice.


Ma chi mai desidera farsi predire il tempo che farà? Non è cosa già abbastanza molesta quando arriva? Perché sobbarcarsi anche alla tortura di saperlo prima? Il profeta più gradito è il vecchietto che in qualche mattino nero di una giornata che si vorrebbe bella, scruta l'orizzonte col suo occhio esperto e ci dice:

- Niente paura, signori. Credo che schiarirà e sarà una bellissima giornata. Vedrà che schiarirà benissimo, signore.


- Se ne intende, - diciamo noi mentre gli diamo il buon giorno e partiamo, - è straordinario come sono esperti, questi vecchietti!

Per quest'uomo noi sentiamo affetto, un affetto che non diminuirà per colpa della circostanza che invece il tempo non schiarisce affatto, e per tutta la giornata piove in continuazione.


- Pazienza, - pensiamo, - ha fatto del suo meglio.


Invece per quello che ci ha profetizzato tempo cattivo nutriamo solo antipatia e pensieri vendicativi. Nel passare gli gridiamo allegramente:

- Crede che schiarisca?

- No, signori. Potrei sbagliarmi, ma credo che per oggi si manterrà così, - ci risponde scuotendo la testa.


- Pezzo di cretino! - borbottiamo, - che cosa ne sai tu, del tempo? - Se poi succede che aveva ragione torniamo indietro ancora più incolleriti con lui e con una vaga idea che ci sia stato un po' del suo zampino.


Quella mattina in particolare, però, era troppo bella, troppo piena di sole; non potevamo lasciarci turbare fuor di misura dalla raccapricciante lettura di George che diceva "barometro in discesa", "perturbazioni atmosferiche in movimento sull'Europa meridionale", "pressione in aumento". Perciò, visto che non riusciva a rattristarci e che stava solo sprecando il fiato, egli sgraffignò la sigaretta che m'ero arrotolata con tanta cura e se ne andò.


Harris e io, fatto fuori quel poco che aveva lasciato in tavola, trasportammo i bagagli sulla soglia e aspettammo che passasse una carrozza.


Così riunito, il bagaglio sembrava un bel po' di roba. C'erano la valigia grande e la borsa, le due ceste, il gran rotolo delle coperte, quattro o cinque pastrani e impermeabili, alcuni ombrelli, e inoltre un melone in un sacchetto per conto suo in quanto troppo ingombrante per entrare altrove, mezzo chilo d'uva in un altro sacchetto, un ombrellino giapponese di carta e una padella, che, troppo lunga per metterla in valigia, era stata involtata in carta da pacchi.


Sembrava proprio tanto; Harris ed io cominciammo a vergognarcene un poco, anche se non ne capisco il perché. Non si vedeva spuntare una carrozza, ma spuntarono i monelli di strada, ed evidentemente interessati dallo spettacolo si fermarono.


Il primo ad arrivare fu il fattorino di Biggs. Biggs è il nostro ortolano e il suo talento maggiore consiste nell'assoldare i fattorini più vagabondi e scostumati che la civiltà abbia sinora prodotti. Se nel campo dei ragazzi del vicinato vediamo allignare qualcosa di fuor del comune in quanto a cattiva creanza, sappiamo ch'è l'ultima scoperta di Biggs. M'hanno riferito che, all'epoca del grande delitto di Coram Street, la nostra via era giunta prontamente alla conclusione che il fattorino di Biggs (quello di allora) doveva esserne il principale responsabile, e se il giorno dopo il delitto, quando si presentò per ricevere le ordinazioni e fu sottoposto a martellante interrogatorio dall'inquilino del numero 19 (assistito da quello del numero 21 che per caso si trovava sulla porta), non fosse stato capace di presentare un alibi inoppugnabile, se la sarebbe vista brutta. Non so chi fosse a quell'epoca il fattorino di Biggs ma a giudicare da quelli che ho conosciuto dopo, io non avrei dato troppo peso all'alibi.


Stavo dunque dicendo che il fattorino di Biggs svoltò l'angolo della strada. Evidentemente nel momento in cui apparve aveva molta fretta; ma, vedendo me, Harris e il cane, e tutti quei bagagli, rallentò il passo e curiosò. Io ed Harris lo guardammo brutto, in un modo che avrebbe ferito l'orgoglio di un animo appena appena più sensibile; ma di regola i fattorini di Biggs non hanno sensibilità. Ebbe la sfacciataggine di fermarsi addirittura a meno di un metro da noi e di appoggiarsi al cancelletto; si trovò una pagliuzza da masticare e si mise a fissarci. Chiaro che era deciso a vedere che cosa succedeva.


Un momento dopo dall'altra parte della strada passò il fattorino del droghiere. Il fattorino di Biggs gli gridò:

- Ohè! il pianterreno del 42 sta sloggiando.


Il fattorino del droghiere attraversò la strada e si mise ad ammirarci dall'altro lato della porta. Poi arrivò il signorino del negozio di calzature e si collocò vicino al fattorino di Biggs; nel frattempo quella faccia di fiasco vuoto del garzone della latteria occupò un posto isolato sul marciapiede.


- Non c'è pericolo che muoiano di fame, ti pare? - disse il signorino del negozio di calzature.


- Be'! e che c'è di strano? - ribatté il lattaio - anche tu ti porteresti qualche cosina se dovessi attraversare l'Atlantico in barchetta.


- Ma loro non attraversano l'Atlantico, - rincarò il fattorino di Biggs: - vanno solo a tentare di scovare Stanley che si è perduto in Africa.


Intanto si era riunita intorno a noi una piccola folla di gente che si chiedeva l'un l'altro cosa fosse successo. Alcuni (i più giovani e i più sventati della folla) dicevano che era un matrimonio e additavano Harris come sposo; i più vecchi e quindi più riflessivi tra la turba erano dell'idea che si trattasse di un funerale e che, con tutta probabilità, il fratello del cadavere dovessi esser io.


Finalmente una carrozza libera girò l'angolo (nella nostra strada, in generale e quando non se ne ha bisogno le carrozze libere passano alla media di tre al minuto, restano là ferme e intralciano il traffico). Ci stivammo dentro con le nostre masserizie, scacciammo un paio di amici di Montmorency che evidentemente avevano giurato di non lasciarlo mai, e ci mettemmo in moto con la carrozza fra le acclamazioni. Il fattorino di Biggs ci tirò dietro una carota per augurio.


Arrivati alle undici alla stazione di Waterloo, chiedemmo da quale binario partisse il treno delle undici e cinque. Naturalmente nessuno lo sapeva; alla stazione di Waterloo nessuno sa mai da dove parta un treno o dove vada un treno in partenza e cose del genere. Il facchino che prese i nostri bagagli credeva che il treno partisse dal marciapiede numero due, ma un altro collega, col quale discutemmo il problema, aveva sentito dire che partiva dal numero uno. Il capostazione, d'altra parte, era convinto che il treno sarebbe partito dal marciapiede dei treni suburbani.


Per farla finita salimmo le scale e andammo a chiedere informazioni al dirigente del traffico il quale ci disse che proprio allora aveva incontrato uno che gli aveva detto di aver visto il nostro treno al marciapiede numero tre. Scendemmo e andammo al marciapiede numero tre, ma i ferrovieri che erano là opinarono che fosse l'espresso di Southampton oppure la diramazione di Windsor. Erano certi però, che non era il treno di Kingston pur non sapendo dire il perché della loro certezza.


Allora il nostro facchino disse che secondo lui doveva essere quello del marciapiede sopraelevato; disse che gli sembrava di conoscere quel treno. Andammo al marciapiede in sopraelevazione, vedemmo il macchinista e gli chiedemmo se andava a Kingston.


Rispose che, naturalmente, non era certo; ma era incline a pensare che ci andasse. Ad ogni modo, se non era il treno delle 11,05 per Kingston, diceva lui, era molto probabile che fosse quello delle 9,32 per Virginia Water oppure l'espresso delle 10 per l'isola di Wight, o per qualche luogo da quelle parti e lo avremmo saputo arrivandoci. Gli mettemmo mezza corona in mano e lo pregammo di essere quello delle 11,05 per Kingston.


- Nessuno su questa linea saprà mai che treno siete e dove andate, - gli dicemmo. - La strada la conoscete; filiamocela ed andiamo a Kingston.


- Be'! signori miei, io stesso non saprei... - rispose quel nobile macchinista. - Ma suppongo che qualche treno debba pur andarci a Kingston; ci andrò io. Grazie per la mezza corona.


E così andammo a Kingston con la ferrovia del South West!

Venimmo poi a sapere che il treno che ci aveva portati era in effetti il postale di Exeter e che alla stazione di Waterloo lo avevano cercato per ore e nessuno sapeva che ne fosse stato.


La barca era lì ad aspettarci, a Kingston, proprio sotto il ponte.


Ci dirigemmo ad essa, collocammo i bagagli tutto intorno e ci imbarcammo.


- Tutto a posto, signori? - disse l'uomo.


- Tutto bene! - rispondemmo; e così, Harris ai remi, io al timone, Montmorency, triste e con aria di profonda diffidenza, sulla prua, scattammo sulle acque che, per quindici giorni, sarebbero state la nostra dimora.




CAPITOLO 6


Kingston - Osservazioni istruttive sulla storia antica inglese - Osservazioni istruttive sul legno di quercia scolpito e sulla vita in generale - Il triste caso del giovane Stivvings - Ponderando sull'antichità - Dimentico che sono al timone - Risultato interessante - Il labirinto di Hampton Court - Harris fa da guida.


Era una radiosa mattinata, come in primavera, se volete, come nell'incipiente estate, quando il delicato splendore dell'erba e del fogliame si colora di un verde più intenso e la stagione assomiglia a una bella e trepidante fanciulla che si desta alla propria femminilità.


Le stradette piacevolmente bizzarre di Kingston, lì, nei punti in cui arrivavano al fiume e venivano incendiate dal sole, avevano un aspetto molto pittoresco; l'acqua scintillante su cui scendevano le chiatte, l'alzaia alberata, i villini civettuoli sull'altra riva, Harris, che in giacchetta sportiva rossa e arancione mandava accidenti ai remi, la lontana vista della vecchia e grigia magione dei Tudor, tutto contribuiva a formare un quadro soleggiato, luminoso e calmo, pieno di vita eppure tanto tranquillo che, nonostante fossimo di primo mattino, mi sentii come cullato in un sognante accesso di meditazione.


Pensavo a Kingston, ovvero a "Kyningestun" come lo chiamavano prima, ai tempi in cui vi si incoronavano i re sassoni. Fu qui che il grande Cesare attraversò il Tamigi e le legioni romane si accamparono su queste alture collinose. Cesare, come più tardi Elisabetta, sembra che sia stato dappertutto: solo che, a quanto pare, fu più morigerato della buona regina Bess: non frequentava le osterie.


Andava matta per le osterie, la Regina Vergine d'Inghilterra! Non sembra essercene una sola appena decente in un raggio di dieci miglia intorno a Londra, ch'ella non abbia notato o in cui, una volta o l'altra, non abbia fatto una capatina o dormito. Ora, ammesso per pura ipotesi che Harris cambiasse sistema di vita, e diventasse un grand'uomo virtuoso, e fosse nominato primo ministro, e morisse, mi chiedo se su tutte le osterie di cui è stato avventore metterebbero targhe che dicono: "Qui Harris bevve un bicchiere di birra", "In questo luogo Harris ha bevuto due whisky lisci nell'estate del 1888", "Da questo locale Harris è stato sbattuto fuori nel dicembre del 1886".


No, le targhe sarebbero troppe! Famose diverrebbero le osterie in cui non ha mai messo piede: "Unico locale nel sud di Londra in cui Harris non abbia mai bevuto niente" La gente accorrerebbe in folla a vedere quale potesse esserne il motivo.


Come deve avere odiato Kyningestun, il povero e irresoluto re Edwy! Non aveva retto ai festeggiamenti dell'incoronazione. Forse la testa di cinghiale farcita con le prugne cotte gli era risultata indigesta (lo risulterebbe per me, ne sono certo), ed egli era stufo dell'idromele e del vino; perciò se l'era svignata dalla rumorosa baldoria, con l'intenzione di rubare un'ora di silenzio e chiar di luna in compagnia della sua amata Elgiva.


Forse, dalla finestra, tenendosi per mano, i due stavano rimirando i calmi riflessi della luna sul fiume, mentre dalle sale lontane il baccano dell'orgia giungeva a intermittenza come un'eco fioca di frastuono e tumulto.


Ma ecco che nella stanza irrompono con la loro abituale rudezza il brutale Odo e san Dunstan, e scagliano insulti volgari alla regina dal dolce viso, e trascinano nuovamente il povero Edwy in mezzo al clamore della gozzoviglia di ubriachi.


Col passare degli anni, accompagnato dalla musica del fragore di battaglia, i re sassoni e le orge sassoni giacquero sepolti insieme, e la grandezza di Kingston svanì, per un certo tempo, tornando a rinascere quando Hampton Court divenne il palazzo dei Tudor e degli Stuart, e lungo le rive le chiatte reali sforzavano gli ormeggi, e i giovani gagliardi, in cappe sgargianti, scendevano con sicumera i gradini dell'imbarcatoio, a gridare:

"Ehi, là, traghetto! t'affretta, Dio grazia!".


Molte case, tutt'intorno, parlano chiaramente di quei giorni, quando Kingston era una residenza reale e vi abitavano nobili e cortigiani, vicino al loro re, e il lungo stradone fino al palazzo era rallegrato tutto il giorno dal tintinnio d'acciaio delle armi, dal caracollare dei palafreni, dalle sete e dai velluti fruscianti, dalla bellezza dei visi. Le magioni grandi e spaziose con le finestre a verone, dai vetri a piombo, con i loro camini enormi e i loro tetti ad abbaini dai tetti aguzzi, sembrano respirare tuttora l'atmosfera di quell'epoca di calzoncini e farsetti, di pettorine ricamate con perle e di giuramenti complicatissimi. Sorsero ai tempi "in cui gli uomini sapevano costruire". I loro mattoni rossi e duri hanno solo guadagnato in stabilità, col passare dei secoli, e le loro scale di quercia non scricchiolano e non gemono quando le scendi furtivo.


A proposito di scale di quercia, mi torna in mente che in una casa di Kingston ce n'è una stupenda, scolpita. Ora la casa è un negozio, sulla piazza del mercato, ma non c'è dubbio che allora era la magione di un grande personaggio. Un giorno, un mio amico che abita a Kingston vi entrò a comperare un cappello e, in un momento di distrazione, mise la mano in tasca e pagò a pronta cassa.


Il negoziante (che conosce il mio amico) rimase naturalmente un po' sbalordito, al primo istante; ma, ripresosi rapidamente, e ritenendo che occorra fare qualcosa per incoraggiare i gesti di quel genere, chiese al nostro eroe se non gli sarebbe piaciuto vedere della bella quercia scolpita. Il mio amico disse che l'avrebbe vista volentieri e il negoziante lo guidò subito attraverso il negozio e poi su, per la scala interna di casa. La balaustrata era un superbo capolavoro di intarsio a mano e tutta la parete lungo di essa era coperta da pannelli di legno di quercia con intagli che avrebbero onorato un palazzo reale.


Dalla scala passarono nel salotto che era un ambiente chiaro, grande, tappezzato di carta a fondo azzurro che aveva qualcosa di aggressivo e di gaio nello stesso tempo. Il mio amico, però, non vedendo in quella stanza nulla di straordinario si chiedeva perché mai lo avessero condotto lì. Il proprietario si avvicinò a una parete e batté. Si sentì rumore di legno.


- Quercia, tutta quercia intagliata fino al soffitto, esattamente uguale a quella che avete visto sulle scale, spiegò.


- Ma, signor mio! - esclamò il mio amico. - E' possibile che abbiate ricoperta la quercia intagliata con la carta da parati?


- Sicuro, - fu la risposta: - e mi è costato molto perché prima ho dovuto ricoprire tutto con un tavolato, ma ora la stanza è allegra. Prima era terribilmente triste Non potrei dire che biasimo quell'uomo incondizionatamente (chissà che sollievo per la sua coscienza!) Dal suo punto di vista, che poi sarebbe stato lo stesso della media dei padroni di casa, e che era quello di aver luce e vita il più possibile e non quello di un vecchio maniaco bottegaio di anticaglie, si può dargli una certa ragione. Il legno di quercia scolpito è bellissimo a vedersi e fa piacere averne un poco, ma come negare che a dover viverci dentro è deprimente, almeno per quelli che hanno gusti di tutt'altro genere? Sarebbe come abitare in una chiesa.


Quello però che rendeva triste il caso presente era che lui, che se ne stropicciava di questa intagliata, ne dovesse aver il salotto tappezzato mentre la gente che l'apprezza deve pagare enormemente per averla. Ma, a quanto pare, questa è la legge che governa il mondo, ciascuno di noi ha quello che non desidera e gli altri hanno invece tutto quello che lui desidererebbe avere.


Gli sposati hanno moglie e non mostrano di desiderarla; i giovani scapoli si lamentano perché non trovano moglie. I poveri che a stento riescono a vivere in due hanno otto gagliardi marmocchi mangiapane, mentre una coppia di vecchi ricconi non sa a chi lasciare i suoi soldi e muore senza figli.


E poi ci sono le ragazze con gli innamorati. Le ragazze che hanno gli innamorati non li vogliono. Dicono che starebbero meglio senza, che essi le annoiano e che non capiscono perché non se ne vanno a fare la corte alla signorina Smith e alla signorina Brown che sono attempatelle e insignificanti e che non hanno mai avuto un fidanzato. Esse no, non ne vogliono sapere di fidanzati, non pensano affatto a sposarsi.


Non è piacevole fermarsi su queste cose; si diventa malinconici.


Avevamo un compagno di scuola soprannominato Sandford e Merton. In realtà si chiamava Stivvings. Era il ragazzo più straordinario ch'io abbia mai incontrato. Si buscava rimproveri con i fiocchi per essere rimasto sveglio a letto, studiando il greco; quanto ai verbi irregolari francesi, non c'era proprio verso di staccarlo da essi. Aveva una quantità d'idee sinistre e contro natura, di volere essere il vanto dei suoi genitori e l'onore della scuola, e agognava di vincere premi, di crescere e diventare un uomo intelligente; insomma, nutriva ogni sorta di fisime di questa specie. Non ho mai conosciuto un essere più strano; ma innocuo, badate: come un neonato.


Ebbene, questo ragazzo soleva ammalarsi due volte la settimana e così non poteva andare a scuola. Non c'era nessun ragazzo capace di ammalarsi come Sandford e Merton. Se in un raggio di dieci miglia da lui c'era una qualsiasi malattia conosciuta, egli l'aveva, e nella forma più grave. Si prendeva la bronchite in pieno solleone, e a Natale la febbre del fieno. Era capace di aver le febbri reumatiche dopo sei mesi di siccità e se andava a spasso nella nebbia di novembre rientrava con un colpo di sole.


Siccome, poveretto, soffriva terribilmente di mal di denti, dopo averlo addormentato con i gas esilaranti glieli estrassero tutti e gli misero una dentiera: sopraggiunsero la nevralgia e il mal d orecchio.


Mai una volta che non avesse il raffreddore ad eccezione di quando si ammalò di scarlattina per nove settimane; i geloni li aveva in permanenza. Quando nel 1871 venne quella terribile minaccia del colera, tutto il nostro quartiere ne rimase immune. In tutta la parrocchia non si ebbe che un solo caso sospetto e quello fu il giovane Stivvings.


Quando era ammalato doveva starsene a letto e gli davano da mangiare galline, bistecche e uva coltivata in serra; ed egli se ne stava steso a singhiozzare perché non gli permettevano di fare le traduzioni latine e gli portavano via la grammatica tedesca.


Noialtri, invece, che avremmo dato dieci anni scolastici per ammalarci un giorno solo e che ce ne infischiavamo di offrire ai nostri genitori una ragione per inorgoglirsi di noi, non riuscivamo a prenderci neanche un miserabile torcicollo. Ci esponevamo alle correnti, macché, ci facevano bene, ci rinfrescavano; ingoiavamo porcherie affinché ci facessero ammalare, e invece ci facevano buon pro, e ci davano appetito. Non riuscivamo a trovare nulla che ci facesse ammalare fino a che non cominciavano le vacanze. Ma allora, immediatamente, all'ultimo giorno di scuola, eccoti il raffreddore, la tosse asinina, e ogni altra sorta di accidenti che duravano fino alla riapertura delle scuole quando, a dispetto di ogni manovra in contrario, guarivamo immediatamente e stavamo meglio di prima.


Ecco che cos'è la vita; e noi non siamo che erba da esser falciata, messa a seccare e gettata al forno.


Ritornando al legno di quercia scolpito, bisogna dire che i nostri bisavoli avessero una nozione molto esatta del bello e dell'artistico. Infatti tutti i tesori artistici odierni altro non sono che cose che erano comuni tre o quattrocento anni addietro e sono state esumate. Mi domando spesso se nei vecchi piatti fondi, nei boccali di birra, negli smoccolatoi che oggi tanto pregiamo, vi sia un'autentica, intrinseca bellezza, oppure se è soltanto l'aureola dell'antichità che li rende incantevoli ai nostri occhi.


Le vecchie maioliche che appendiamo come ornamento alle pareti, pochi secoli fa non erano che suppellettili usuali di ogni giorno e le statuine del roseo pastore e della gialla pastorella che ora esibiamo ai nostri amici perché facciano mostra di essere intenditori e si sbavino in elogi, non erano che semplici soprammobili posti sui caminetti e che le mamme del diciottesimo secolo usavano come succhiotti per acquietare i figlioli piangenti.


Avverrà lo stesso nel futuro? I tesori di alto valore dell'oggi, saranno sempre le bagattelle di ieri che costavano due soldi? Ci saranno in bella mostra file dei nostri comuni piatti a disegno cinese sui caminetti dei ricchi nell'anno duemila e dispari? Le tazze bianche con l'orlo dorato e, dentro, i bei fiori in oro (di specie sconosciuta) che le nostre donne di servizio ora rompono a cuor leggero saranno forse accuratamente riappiccicate e messe su di una mensola e spolverate personalmente e solamente dalla padrona di casa?

Nel mio appartamento ammobiliato v'è un cane di porcellana; è bianco, ha occhi scuri e il naso di un rosa delicato con puntini neri. Alza la testa con un senso di pena ed hanno avuto l'abilità di fargli un'espressione che raggiunge l'apice dell'imbecillità.


Francamente non mi piace. Se poi dovessi considerarlo dal punto di vista artistico mi ci irriterei. E' oggetto di sarcasmo da parte di amici senza riguardo, e persino la padrona di casa non l'ammira affatto e ne tollera la presenza solo perché è un regalo di sua zia.


Ma è più che probabile che fra duecento anni quel cane sarà riscavato in qualche posto, mutilato delle gambe e con la coda rotta e sarà venduto per esemplare rarissimo ed esposto sotto una campana di vetro. La gente gli girerà intorno e lo ammirerà e rimarrà colpita dalla straordinaria profondità del colore del naso e discuterà sul come doveva essere stato bello il pezzo di coda mancante.


Eppure noi, in quest'epoca, non vediamo la bellezza di quel cane.


Esso ci è troppo familiare. Succede lo stesso con il tramonto e le stelle; la loro soavità non ci conquista più perché ormai i nostri occhi si sono abituati a vederli. E così pure per il cane di porcellana. Nel 2288 la gente si estasierà per esso. La fabbricazione di questi cani sarà ormai un'arte scomparsa; i nostri discendenti si scervelleranno per indovinare come facemmo noi a modellarli, dirà che eravamo espertissimi e riferendosi a noi diranno con venerazione "quegli antichi, grandi artisti che fiorirono nel secolo diciannovesimo e produssero cani di maiolica come questo".


Il "saggio" che la figlia primogenita fece a scuola sarà citato come "tappezzeria dell'età Vittoriana",e avrà valore inestimabile. I boccali bianchi e azzurri delle locande sulle grandi strade, saranno ricercati, magari fessi e screpolati, e saranno venduti per il loro peso in oro, e i ricchi li useranno come coppe per i vini di marca; e i viaggiatori che verranno dal Giappone compreranno tutti i "regali di Ramsgate" e i "ricordi di Margate" sfuggiti alla distruzione per riportarseli a Jedo come antichità inglesi.


A questo punto Harris abbandonò di colpo i remi, si alzò dal banco di voga, si mise sulla schiena e sollevò i piedi in aria.


Montmorency ululò e fece una piroetta; la cesta che stava più in alto saltò e rovesciò ogni cosa.


Rimasi un po' sconcertato ma non perdetti la calma e con un tono sufficientemente cordiale dissi:

- Be'! che succede?

- Che succede! Por...


Adesso che ci ripenso non riferirò quello che uscì dalla bocca di Harris. Ammetto che meritavo di esser ripreso, ma niente può perdonare quella violenza di linguaggio, quella rudezza d'espressione specialmente in un uomo che è stato educato con ogni cura come io so che è stato educato Harris. Pensavo ad altro, ecco, e avevo dimenticato, come è facilmente comprensibile, che stavo al timone con la conseguenza che ci eravamo impigliati in un bel po' d'alzaia. Per il momento, era difficile distinguere noi dalla sponda del fiume sul lato del Middlese; ma dopo un po' ci riuscimmo e ce ne separammo.


Harris approfittò dell'incidente per dire che aveva vogato abbastanza e propose che cambiassimo mansione; sbarcai sulla riva, presi il cavo di rimorchio e alai la barca fin dopo Hampton Court.


Com'è bello il vecchio muro che in quel punto corre lungo la riva del fiume! Tutte le volte che ci passo sento che la sua vista mi fa un gran bene. E' liscio, ridente, cordiale quel vecchio muro, e che bel quadro sarebbe, con i licheni che si arrampicano qui e col muschio che cresce lì, una timida vite che si affaccia dalla sommità per spiare quel che succede in quel pezzetto di fiume affollato, e un po' più giù il ricamo dell'antica edera austera!

In ogni dieci metri di quel muro vi sono cinquanta ombre, e tanti colori, tante mezzetinte! Oh sapessi disegnare, sapessi dipingere, sono certo che farei un quadro magnifico di quel vecchio muro! Mi è capitato spesso di pensare di andarmene ad abitare a Hampton Court. E' così poetico, così quieto, è un posto così caro, così vecchio dove è possibile gironzolare al mattino presto prima che ci sia molta gente per le strade.


Ma se mi metto a decidere seriamente su questo trasloco, sento che in fondo non mi andrebbe. Di sera la vita vi sarebbe tetra, opprimente con quella lampada che disegna paurose ombre sulle pareti e con l'eco di passi lontani nei corridoi di pietra che ora si avvicinano ora svaniscono in distanza, e ogni cosa piomba in un mortale silenzio e solo resta il rumore del battito del proprio cuore.


Siamo creature nate per vivere nel sole, noi uomini e donne. Noi amiamo la luce e la vita. Ed ecco perché ci affolliamo in città e metropoli mentre la campagna diventa ogni anno più deserta. Nella luce del sole, di giorno, quando la natura tutt'intorno a noi palpita e si agita nel suo lavoro, noi godiamo ad andare per i liberi, verdi prati delle colline ed i boschi folti. Di notte, quando madre terra se n'è andata a letto e ci ha lasciati svegli, oh! allora il mondo ci sembra abbandonato, e ci spaventiamo come bimbi in una casa deserta. Ed allora ci fermiamo e singhiozziamo anelando le strade di città illuminate a gas, il suono di voci umane, e il palpito della vita cittadina sembra rispondere ai moti dell'animo nostro. Nella grande quiete, quando gli alberi scuri mormorano nel vento della notte cominciamo a sentirci disorientati. I fantasmi vanno in giro ed i loro sospiri silenti rattristano le nostre anime. Lasciate che ci affolliamo nelle grandi città e fateci accendere fuochi di gioia con milioni di becchi a gas e così canteremo e grideremo assieme e ci sentiremo coraggiosi.


Harris mi domandò se ero mai stato nel labirinto di Hampton Court.


Disse che lui ci andò una volta per indicare la strada ad altri.


Lui se l'era studiato su di una pianta, il labirinto, che era una cosa tanto semplice che sembrava perfino stupida, insomma non valeva neanche il modicissimo prezzo del biglietto d'entrata.


Harris disse che secondo lui quella pianta del labirinto doveva essere uno scherzo per i visitatori perché non rispondeva affatto alla verità e serviva solo a farli smarrire là dentro.


L'altro che lui accompagnava era un suo cugino venuto dalla campagna, e lui gli aveva così suggerito:

- Entriamo un momento tanto perché tu possa dire che lo hai visto, ma non c'è nulla di straordinario. Lo chiamano labirinto ma è un'esagerazione. Basta prendere sempre la prima svolta a destra; facciamo un giretto di una decina di minuti e poi usciamo ed andiamo a mangiare.


Poco dopo essere entrati, incontrarono un gruppo di persone che dissero di stare lì dentro da tre quarti d'ora e che volevano uscire perché ne avevano già abbastanza. Harris disse che se volevano potevano seguirlo, egli avrebbe fatto rapidamente il giro e sarebbero usciti. Quelli dissero che ciò era molto gentile da parte sua e si misero dietro e lo seguirono.


Durante il giro altra gente che cercava l'uscita si unì e continuarono la passeggiata fino a che non ebbero radunati tutti quelli che si trovavano nel labirinto. C'erano alcuni che avevano già rinunciato a tutte le speranze di riuscire ad evadere, di rivedere ancora amici e parenti, e che, vedendo Harris e il suo seguito ripresero coraggio e si accodarono al corteo mandandogli tante benedizioni.


Harris cominciò coll'introdursi a destra ma ebbe l'impressione che andando di lì la strada sarebbe stata molto lunga; il cugino disse che il labirinto gli sembrava grande.


- Sicuro, - disse Harris - è uno dei più grandi d'Europa.


- Dev'essere così, - rispose il cugino - perché abbiamo già fatto più di due miglia.


Lo stesso Harris cominciò a trovare la cosa piuttosto strana, ma continuò ad andare fino a che, ad un certo punto, videro per terra una ciambellina che il cugino giurò di aver già notato lì sette minuti prima. Harris disse: - Impossibile! - ma una donna che aveva un bambino con sé disse: - Verissimo - perché era stata lei stessa a toglierla al figliolo e a gettarla per terra prima che arrivasse Harris. Aggiunse che sarebbe stato meglio che non avesse mai incontrato Harris e palesò la sua impressione che lui fosse un imbroglione. Harris s'infuriò, mostrò la pianta e spiegò la sua teoria.


- Sta bene, - disse uno della brigata, - questa pianta potrebbe essere utilissima se lei sapesse in quale maledettissimo punto ci troviamo ora.


Harris non lo sapeva e concluse che la cosa migliore era di ritornare all'entrata e ricominciare. Una parte della gente non mostrava troppo entusiasmo a ricominciare ma, siccome per ricominciare occorreva ritornare all'entrata, tutti furono d'accordo e così fecero dietro-front mettendosi in fila dietro Harris che andava nella direzione opposta. Passarono circa dieci minuti e si ritrovarono di nuovo al centro.


Harris in un primo momento cercò di far credere che lo aveva fatto apposta; ma vedendo che la folla aveva un aspetto poco rassicurante decise di spiegare la cosa come un incidente.


Tuttavia, quell'incidente aveva fornito un punto cui riferirsi.


Ora sapevano dove si trovavano, quindi consultarono la pianta e la situazione apparve di una semplicità veramente straordinaria e quindi tutti si rimisero in marcia per la terza volta.


Dopo tre minuti rieccoli di nuovo al centro.


Ormai non avevano proprio altre direzioni in cui andare. Qualunque strada prendessero li riportava al centro e la cosa finì per diventare così monotona che alcuni non si muovevano ma rimanevano lì ad attendere che gli altri facessero la passeggiata attorno e ritornassero. Harris tirò fuori ancora una volta la pianta ma la sola vista di essa infuriava la turba che gli gridò in faccia che ci facesse i bigodini con quel pezzo di carta. Harris mi diceva che non era riuscito a sottrarsi all'impressione che, entro una certa misura, era diventato impopolare.


Finì che tutti si innervosirono e gridarono per chiamare il custode. L'uomo sentì, salì sulla scala esterna, e urlò le istruzioni. Ma tutte quelle teste erano ormai così confuse che non erano capaci di capire niente e quindi l'uomo disse che non si muovessero che egli sarebbe venuto subito. Era un custode nuovo, così volle il fato, ed era nuovo del mestiere. Venne, ma non riuscì a trovarli e si perdette anche lui. Essi ogni tanto lo vedevano correre al di là della siepe, lo aspettavano per cinque minuti e lui invece compariva allo stesso punto e chiedeva loro dove se ne fossero andati.


Dovettero attendere che uno dei vecchi custodi tornasse dal pranzo. Così uscirono.


Harris disse che, a quanto poteva giudicare, era un bellissimo labirinto e convenimmo che, nel viaggio di ritorno, avremmo tentato di mandarci dentro George.




CAPITOLO 7


Il fiume vestito a festa - Abbigliamento sul fiume - Buona occasione per gli uomini - Mancanza di gusto in Harris - La giacca sportiva di George - Una giornata con la signorina simile a un figurino di moda - La tomba della signora Thomas - L'uomo cui non piacciono sepolcri, bare e teschi - Harris furioso - Sue opinioni su George, sulle banche e sulla limonata - Suoi giochi d'equilibrismo.


Il fatto del labirinto Harris me l'ha raccontato mentre passavamo la chiusa di Moulsey. C'è voluto un certo tempo per passarla, perché è grande, ed eravamo l'unica imbarcazione. Ch'io ricordi, non avevo mai visto la chiusa di Moulsey con dentro una sola imbarcazione. Credo che questa chiusa, senza fare nemmeno eccezione per quella di Boulter, sia la più frequentata di tutto il fiume.


Certe volte mi sono fermato a osservarla, e non si vedeva nemmeno un po' d'acqua, ma solo un vivace guazzabuglio di giacche sportive colorate, allegri berrettini, cappellini sfacciati, ombrellini multicolori, e drappi setosi, mantelli, nastri svolazzanti, lindi abiti bianchi; guardando dentro la chiusa dall'alto della banchina, pareva di vedere una enorme scatola in cui fossero stati gettati alla rinfusa fiori d'ogni colore e sfumatura, formando un mucchio variegato come l'arcobaleno che copriva ogni angolo.


Di domenica, con tempo bello, presenta questo aspetto quasi tutta la giornata, mentre, su a monte e giù a valle, lunghe file di altre barche fanno la coda fuori delle porte della chiusa aspettando il loro turno; e ci sono imbarcazioni che si avvicinano e si allontanano, così che il fiume pieno di sole, dal palazzo fin su alla chiesa di Hampton, è punteggiato e tempestato di giallo, d'azzurro, d'arancione, di bianco, di rosso, di rosa. Tutti gli abitanti di Hampton e di Moulsey indossano abiti da canottaggio e vengono a bighellonare intorno alla chiusa, con i loro cani, e si fanno la corte, fumano, osservano le imbarcazioni; insomma, con tutti quei berrettini e quelle giacche degli uomini, quei graziosi vestiti colorati delle donne, con quei cani irrequieti, quel via vai di barche, quel passaggio piacevole, quell'acqua luccicante, si ha una delle viste più gioconde ch'io conosca nei pressi della nostra cara e tetra città di Londra.


Il fiume offre buone opportunità allo sfoggio dell'eleganza. Mette anche noi uomini, una volta tanto, in grado di mostrare un po' di buon gusto in fatto di colori e, se lo volete sapere, la mia opinione è che ce la caviamo con onore. A me piace aver sempre una pennellata di rosso nei miei abiti, rosso e nero. Vedete, i miei capelli sono una specie di marrone dorato, mica male, a quanto mi hanno detto, e quindi il contrasto col rosso scuro sta bene; credo inoltre che non stonino una cravatta blu chiaro, un paio di scarpe di cuoio di Russia e un fazzolettone di seta rossa alla cintura:

il fazzoletto sta molto meglio della cinghia.


Harris preferisce l'arancione o il giallo o una combinazione di essi, ma a me non pare che sia una buona scelta. La sua carnagione è troppo scura e col giallo stona. Il giallo non è il colore che gli si addice, questo è indiscutibile. Io gli consiglio di vestire a fondo blu facendo spiccare su di esso i particolari in bianco o in crema; ma siamo lì, la gente è tanto più cocciuta quanto meno gusto ha. Peccato perché Harris non farà mai bella figura e invece se usasse quei due colori non sarebbe tanto male, col cappello in testa.


George si è comperato per questo viaggio alcuni indumenti nuovi che mi danno alquanto fastidio. La giacca sportiva è pacchiana.


Non vorrei che George sapesse che la penso così, ma non c'è altra parola per definirla. Se l'era portata a casa giovedì sera e ce l'aveva mostrata. Gli abbiamo chiesto allora come si chiamava, secondo lui, quel colore, e ci ha risposto che non lo sapeva. Non riteneva che avesse nome. Il negoziante gli aveva detto ch'era un disegno orientale. Indossata la giacca, George ci ha chiesto che cosa ne pensassimo. Harris gli ha risposto dicendo che, se si trattava d un oggetto da appendere sopra un'aiuola di fiori all'inizio della primavera per spaventare i passeri, l'avrebbe rispettata; ma che, come capo di vestiario per un essere umano, salvo che per un negro di Margate, gli dava il voltastomaco.


George si è arrabbiato sul serio; ma, come ha detto Harris, se non voleva la sua opinione, perché gliela aveva chiesta?

In proposito, ciò che disturba Harris e me è il timore che richiamerà l'attenzione sulla nostra barca.


Anche le ragazze non stanno per niente male, in barca, se sono vestite in modo grazioso. A mio parere, non c'è nulla che doni quanto un abito di buon gusto per andare in barca. Ma non sarebbe male che le gentili signore capissero che un "abito per andare in barca" dovrebbe essere una tenuta da poter portare in barca, e non solo sotto una campana di vetro. Se in barca avete delle persone che pensano continuamente ai loro vestiti, molto più che al viaggio, vi rovinano completamente la gita. Per mia disgrazia, una volta andai a un pic-nic sul fiume con due signore di questo tipo.


Avemmo un bel da fare!

Erano tutt'e due molto ben vestite: con tanti merletti, e sete, e fiori, e nastri, e scarpette delicate, e guanti chiari. Ma era un abbigliamento da studio fotografico, non da picnic acquatico. Si trattava degli "abiti da canottaggio" di un figurino di moda francese. Era ridicolo andare in giro, con quegli abiti, in un luogo qualsiasi che fosse appena in vicinanza reale della terra, dell'aria e dell'acqua.


Cominciarono col dire che credevano che la barca non fosse pulita.


Spolverammo tutti i banchi, poi ci portammo garanti della loro pulizia, ma non ci credettero. Una di loro passò sul cuscino il mignolo inguantato, mostrò all'altra il risultato, e tutt'e due si sedettero, sospirando e con un'aria da primi martiri cristiani che cercassero di mettersi comodi sul rogo. Si sa che remando capita di far schizzare un po' di acqua ogni tanto; a sentire le ragazze sembrava che una goccia d'acqua segnasse la fine di quelle tolette e che la macchia fosse eternamente indelebile.


Ai remi di poppa c'ero io e facevo del mio meglio. Alla fine di ogni palata alzavo i remi sugli scalmi e aspettavo che l'acqua sgocciolasse dalle pale, poi li immergevo di nuovo scegliendo ogni volta un piccolo punto in cui l'acqua fosse tranquilla. (Il prodiere disse che non si stimava un vogatore tanto competente da poter vogare assieme a me e quindi, con mia licenza, se ne sarebbe rimasto, seduto, fermo, a studiare la mia palata. Disse che gli interessava molto). Ciononostante, e a dispetto di tutti i miei sforzi, non potevo evitare che qualche spruzzatina arrivasse su quei vestiti.


Le ragazze non si lamentavano, si erano strette l'una all'altra e avevano serrato le labbra; ogni volta che una goccia le toccava si contorcevano e rabbrividivano. Era ammirevole vedere come quelle due soffrivano e sopportavano in silenzio; ma alla fine non resistetti più. Io sono troppo sensibile. Cominciai a vogare strambamente e irregolarmente, schizzando sempre più acqua quanto più m'impegnavo di non farlo.


Poi rinunciai e dissi che avrei vogato a prua. Il mio compagno fu anche lui dell'avviso che così sarebbe andato meglio e cambiammo di posto. Le ragazze vedendomi andare emisero un sospiro di sollievo e per un momento parvero felici. Poverine! Avrebbero fatto meglio a sopportare me. L'uomo che avevano ora era un tipo ameno, di cuore allegro e testone, con una sensibilità uguale a quella che vi può essere in un cane di Terranova. Potete anche guardarlo minacciosamente per un'ora; lui non se ne accorge neanche e se se ne accorge non si scompone. Si mise a vogare con palate circolari, a colpi saettanti, che mandavano schiuma su tutta la barca come una fontana, obbligando tutto l'equipaggio a stare in piedi. Quando spruzzava più di un litro di acqua su quei vestiti, si faceva una bella risatina e diceva:

- Mi scusino tanto, sì! - ed offriva il fazzoletto per asciugare.


- Oh! non fa nulla! - rispondevano mormorando le povere figliole, e furtivamente si coprivano con coperte e mantelli e cercavano di ripararsi con il parasole di pizzo.


Quando venne l'ora di far merenda quelle poverette se la passarono male davvero. Tutti volevano che si sedessero sull'erba; l'erba era umida e i tre ceppi contro i quali le invitammo ad appoggiarsi evidentemente non erano stati spolverati da settimane e settimane.


Esse stesero i fazzoletti e vi si sedettero sopra rimanendo dritte e stecchite. Ci fu uno che servendo un piatto di carne con sugo inciampò in una radice e versò tutto. Gli schizzi non le raggiunsero, per fortuna, ma l'incidente le fece pensare a un nuovo pericolo e le sconvolse sì che non appena qualcuno si muoveva portando in mano qualcosa che poteva cadere e fare un disastro lo seguivano terrorizzate con lo sguardo fino a che non si fosse riseduto.


- Ora tocca a voi, ragazze! - disse il nostro amico, quello di prima, quando finimmo di mangiare; - andiamo, dovete lavare!

Non capirono subito il significato, ma quando afferrarono l'idea risposero che erano dolenti ma non sapevano rigovernare.


- Oh, nulla di grave. V'insegno io in un attimo! -gridò lui. E' divertentissimo! Voi piegate le ginocchia... voglio dire che vi accucciate sulla riva e risciacquate piatti e stoviglie nell'acqua del fiume.


La sorellina maggiore si scusò dicendo che i loro abiti non erano adatti a quel lavoro.


- Andrà benissimo; - disse lui molto divertito, - tiratevi su le gonne.


E glielo fece anche fare assicurandole che quella funzione rappresentava di per se stessa la metà del piacere in un pic-nic.


Esse ammisero che era una cosa interessante.


Ora che ci ripenso: quel ragazzo era poi così scemo come credevamo? o piuttosto lui... no, impossibile! la sua espressione era perfettamente ingenua, infantile.


Harris chiese di sbarcare a Hampton Church per andare a vedere la tomba della signora Thomas. Io gli domandai:

- Chi è la signora Thomas?

- E io che ne so? - rispose. - E' una signora cui hanno fatto una tomba curiosissima ed io la voglio vedere.


Mi opposi. Non so se ho fatto male, ma per conto mio non ho mai agognato di conoscere pietre sepolcrali. So benissimo che quando si va in un villaggio o in una città, è doveroso visitare i cimiteri e ammirare le tombe; ma io ho sempre privato me stesso di questo bel passatempo. Non so che divertimento ci possa essere nell'andare strisciando i piedi per chiese fredde e buie, dietro a vecchi asmatici che leggono epitaffi. Neanche la vista di un pezzo di ottone incastonato nel marmo riesce a darmi quella che si chiama la vera felicità.


Naturalmente l'aria imperturbabile che sono capace di assumere al cospetto di incisioni commoventi e la mia mancanza di entusiasmo per la storia delle famiglie del luogo offendono i rispettabili sagrestani, che si sentono anche lesi nei loro sentimenti dalla mia malcelata ansia di squagliarmela.


In un mattino radioso mi ero appoggiato al muretto basso di pietra che recingeva la piccola chiesa di un villaggio; fumavo e mi satollavo della profonda, poetica soavità dello scenario calmo e silente. La vecchia chiesa grigia con la sua edera a ciuffi ed il suo porticato di legno tagliato di sbieco, lo stretto vicolo bianco che veniva in curva dalla collina tra gli alti filari di olmi, le case dei contadini con i tetti di paglia che facevano capolino al di là della siepe ben potata, il fiume di argento a valle, e le colline boscose sull'altra riva...


Era un panorama affascinante, idilliaco, poetico che mi ispirò. Mi sentii buono e nobile; fui certo che non avrei mai più peccato, non sarei mai stato cattivo. Sarei venuto a vivere in questo posto, non avrei mai più fatto alcun male e avrei condotto una vita onesta, esemplare e, diventato vecchio, avrei messo i capelli d'argento eccetera eccetera.


In quel momento perdonai ai miei amici e parenti le loro malefatte e le loro diavolerie e li assolsi. Essi non seppero che li assolvevo. Continuarono la loro vita scapestrata incuranti di quanto io, da lontano, in quel tranquillo paesetto, facevo per loro: ma io lo facevo ugualmente e desideravo ardentemente che essi sapessero che lo facevo perché desideravo la loro felicità.


Stavo appunto immerso in questi miei pensieri generosi e commoventi, quando il mio sogno venne interrotto da una voce stridula che gridava:

- Eccomi, eccomi, signore. Vengo, vengo. Eccomi, non abbia fretta.


Guardai e vidi un vecchio con la testa pelata che zoppicando attraversava il cimitero e veniva verso di me. Aveva in mano un gran mazzo di chiavi che ad ogni passo si scontravano e tintinnavano.


Io gli feci un segno solenne e silenzioso di cambiar strada, ma lui continuò ad avanzare gridando come una cornacchia.


- Vengo, signore, vengo. Sono un po' zoppo, non ho più l'elasticità di una volta. Da questa parte, signore.


- Ma andatevene, vecchio imbecille, - dissi io.


- Son venuto il più presto possibile, signore, - rispose lui. La mia donna non vi ha visto che un minuto fa. Mi segua, signore.


- Andatevene, - ripetei; - lasciatemi in pace prima che salti il muro e vi accoppi.


Sembrò sorpreso.


- Ma non volete vedere le tombe? - domandò.


- No, - risposi. - Non voglio vedere niente. Voglio starmene qui, appoggiato a questo vecchio muro ronchioso. Andatevene e non mi importunate. Sono pieno da scoppiare di pensieri nobili e belli e voglio rimanere in questo stato perché esso è soave e buono. Non statemi intorno a farmi perdere la pazienza fugando i miei sentimenti migliori con queste stupidissime tombe. Andate a farvi sotterrare a buon prezzo e sarò lieto di pagare la metà della spesa.


Per un momento rimase sbalordito. Si strofinò gli occhi e mi guardò ben bene. Non si capacitava, perché io, all'apparenza, gli sembravo un essere umano. E disse:

- Voi non siete di queste parti? Non abitate qui?

- No, - dissi, - non ci abito. Se ci stessi IO non ci abitereste VOI.


- Sta bene, - disse lui; - siete qui per vedere le tombe, i sepolcri, la gente sotterrata, sapete, le bare...


- Siete un mentitore, - risposi io, arrabbiandomi. - Io non voglio veder tombe e specialmente le vostre tombe. Perché dovrei volerle vedere? Noi abbiamo le nostre tombe, di famiglia. Sicuro, mio zio Podger ha una tomba nel cimitero di Kensal Green che è l'orgoglio di tutto il paese; e l'ipogeo di mio nonno a Bow può contenere otto visitatori e la mia prozia Susanna ha una tomba di mattoni nel cimitero di Finchley con una pietra sepolcrale con sopra una specie di caffettiera in bassorilievo e intorno sei palle della miglior pietra bianca, che costò un occhio. Quando ho voglia di veder tombe vado là, in quei posti, a dissetarmi. Non ho bisogno di estranei. Ad ogni modo vi prometto che quando vi sotterreranno verrò a visitarvi. Ecco tutto.


Egli scoppiò in pianto. Disse che su di una delle tombe c'era un pezzo di pietra, proprio in cima, che alcuni dicevano fosse probabilmente parte dei resti di una figura di corpo e che su di un'altra c'erano incise parole che nessuno era stato capace di decifrare.


Rimasi ugualmente irremovibile ed egli con addoloratissimo accento disse:

- Sta bene; ma non volete vedere neanche la memorabile finestra?

Non volevo vedere neanche quella ed allora egli sparò la sua ultima cartuccia. Si avvicinò ed annunziò con voce roca:

- Laggiù nella cripta ho un paio di teschi, - disse. - Venite a vederli. Venite, venite a vedere quei teschi! Voi siete un giovanotto in vacanza e vi dovete divertire. Venite a vedere i teschi.


Non c'era altro da fare: mi voltai e fuggii mentre lui continuava a gridarmi dietro:

- Venite a vedere i teschi; tornate indietro!

Harris, che invece si sente benissimo tra tombe e bare ed epitaffi e iscrizioni monumentali, al pensiero di non vedere la tomba della signora Thomas si indispettì. Disse che lui fin dal primo momento che avevamo parlato del viaggio si era proposto di visitare la tomba della signora Thomas, anzi, che se non fosse stato per l'idea di veder la tomba della signora Thomas non sarebbe venuto con noi.


Gli rammentai che dovevamo incontrarci con George e che quindi dovevamo arrivare con la barca alle cinque a Shepperton. Allora cominciò a prendersela con George. Perché George se ne stava a bighellonare per tutta la giornata mentre noi dovevamo trascinare quello straccio di barca su e giù pel fiume per incontrare lui?

Perché non si era fatto dare il permesso alla banca e non era venuto con noi? Perché non veniva a lavorare anche lui? Al diavolo la banca.


- Non l'ho mai visto lavorare là dentro, - continuò Harris nessuna delle volte che ci sono andato. Se ne sta tutto il giorno seduto dietro un pezzo di vetro dandosi l'aria di far qualcosa. A che serve lui lì? a che servono codeste banche? Si prendono i tuoi soldi e poi, quando emetti un assegno te lo rimandano indietro tutto scarabocchiato con su "Senza fondi", "Rivolgersi al traente". E a che serve dunque la banca? Questo trucco me lo hanno fatto due volte la settimana scorsa. Non tollererò oltre e ritirerò i miei depositi. Intanto se lui fosse qui potremmo andare a vedere la tomba e poi... non credo affatto che sia alla banca.


Se la starà passando in qualche posto lasciando a noi tutta la fatica. Io sbarco e vado a bere.


Gli feci notare che ci trovavamo alcune miglia lontano da ogni osteria ed allora se la prese col fiume.


Quando Harris si mette in questo stato è meglio lasciarlo sfogare.


Poi si svuota da solo e si calma.


Gli rammentai che nella cesta avevamo la limonata concentrata e un gallone di acqua a prua e che bastava mischiarla per fare una bibita fresca e dissetante.


Apriti cielo! Si scagliò contro la limonata e simili sciroppate da asilo infantile, come li chiama lui, ginger, lampone eccetera eccetera. Disse che son cose che danno la dispepsia, rovinano lo stomaco e l'anima assieme e che son causa di metà dei delitti commessi in Inghilterra.


Disse che però doveva assolutamente bere qualcosa e, salito in piedi sul sedile, si sporse in avanti per prendere la bottiglia.


Questa era proprio in fondo alla cesta, e a quanto pare era difficile trovarla; perciò egli dovette chinarsi sempre più e poiché cercava di governare al tempo stesso, con la visuale a rovescio, sbagliò nel tirare il cordone della barra del timone e mandò l'imbarcazione a urtare nella sponda. Il colpo gli fece perdere l'equilibrio ed egli fece un bel tuffo dentro la cesta, dove rimase a testa in giù, agguantato ai bordi dell'imbarcazione come se ne andasse della vita e agitando le gambe in aria. Non osava muoversi per paura di cadere in acqua e dovette rimanere lì finché non lo afferrai per le gambe e non lo rimisi in sesto, il che lo fece infuriare più che mai.




CAPITOLO 8


Ricatto - Il metodo giusto da seguire - Grossolano egoismo dei proprietari sugli argini - Cartelli di "Transito proibito" - Harris non ha sentimenti di buon cristiano - Come Harris interpreta una canzonetta comica - Una riunione nell'alta società - Vergognosa condotta di giovanotti irresponsabili - Alcune informazioni utili - George si compra un banjo.


Ci fermammo sotto i salici presso Kempton Park e facemmo merenda.


E' un posticino grazioso; una radura coperta d'erba che si stende lungo la riva del fiume sotto i salici. Avevamo appena attaccato la terza portata - pane e marmellata - quando arrivò un signore in maniche di camicia e con la pipa in bocca il quale disse che voleva sapere da noi se ci risultava che lì era vietato il transito. Gli rispondemmo che non avevamo considerato la cosa al punto da poter trarre una conclusione definitiva ma che, ad ogni modo, se lui sulla sua parola di gentiluomo ci avesse assicurato che lì il transito era proibito, noi gli avremmo prestato fede senza esitare.


Egli ci fornì la richiesta assicurazione e noi lo ringraziammo; però egli non se ne andò, anzi pareva poco soddisfatto e rimaneva lì. Allora gli chiedemmo se desiderava sapere qualche altra cosa da noi ed Harris, che è sempre disposto alla socievolezza, gli offrì un po' di pane e marmellata.


Credo che appartenesse a qualche setta giurata all'astinenza dal pane e marmellata perché rifiutò con maniera brusca come offeso che lo avessimo tentato e aggiunse che aveva il dovere di mandarci via di lì.


Harris disse che se si trattava di un dovere doveva essere fatto e chiese a quell'uomo quale fosse la sua idea per ottemperare all'ordine. Harris è quello che si direbbe un bell'uomo di taglia numero uno circa, ed ha l'aspetto robusto e deciso. L'uomo lo misurò guardandolo dall'alto in basso e disse che sarebbe andato a consultarsi col suo padrone, poi sarebbe tornato indietro e ci avrebbe buttato a fiume tutti e due.


Naturalmente, non si fece più vedere e, altrettanto naturalmente, l'unica cosa che volesse era uno scellino. Esiste un certo numero di tipacci rivieraschi che si fanno un bell'introito, durante l'estate, bighellonando lungo gli argini e ricattando i citrulli che incontrano. Si dicono incaricati dal proprietario. Il metodo giusto da seguire consiste nel fornire il proprio nome ed indirizzo, lasciando che il proprietario, se c'entra veramente, vi citi e fornisca la prova dei danni che avete fatto alla loro terra sedendovi su una zolla di essa. Ma, in maggioranza, la gente è così indolente e paurosa che preferisce incoraggiare le sopraffazioni, cedendo, piuttosto che stroncarle esercitando un po' di fermezza.


Quando il biasimo va realmente ai proprietari, bisognerebbe denunciare la cosa pubblicamente. L'egoismo dei proprietari rivieraschi cresce di anno in anno. Se questa gente lo potesse, sbarrerebbe del tutto il Tamigi; e già lo fanno negli affluenti minori e nei bacini marginali. Piantano pali nel letto della corrente e stendono catene da una sponda all'altra e su di ogni albero inchiodano enormi avvisi di divieto di transito. La vista di quegli avvisi desta in me istinti selvaggi. Mi vien voglia di schiodarli e di batterli in testa a quello che ce li ha messi fino ad ammazzarlo; poi lo seppellirei e gli metterei il divieto di transito sopra come pietra sepolcrale.


Rivelai a Harris questi miei sentimenti ed egli mi disse che i suoi in proposito erano anche peggiori. Disse che non solo gli veniva voglia di ammazzare l'uomo che aveva avuto l'idea dell'avviso ma che avrebbe voluto trucidare tutta la sua famiglia, gli amici e i parenti e bruciargli la casa. A me sembrò un poco troppo e glielo dissi; ma Harris rispose: Affatto! Accoppali tutti ed io verrò a cantare una canzonetta allegra sui resti.


A sentire che a Harris era venuta tanta sete di sangue ci rimasi male. Non dobbiamo mai permettere che il nostro istinto di giustizia degeneri in pura vendetta. Mi ci volle un bel po' per riportare Harris a considerare la cosa con pensieri più cristiani, ma alla fine ci riuscii e lui mi promise che avrebbe risparmiato gli amici ed i parenti e che non sarebbe andato a cantare canzonette allegre sulle rovine.


Non potete comprendere il servizio che resi all'umanità perché non avete sentito mai Harris cantare canzonette allegre. Questa di saper cantare le canzonette allegre è una delle sue fissazioni, mentre la fissazione degli amici di Harris che lo hanno sentito cantare è che mai lo saprà fare e che non gli dovrebbero permettere di tentare.


Quando Harris è invitato a qualche ricevimento e lo pregano di cantare, risponde: - Sì, però io so cantare solo una canzonetta allegra, - e lo dice in modo che sottintende che quel suo canto è una cosa che voi dovete ascoltare una volta e poi morire.


- Oh! - dice la padrona di casa, - molto bene. Ne canti una, signor Harris. - E Harris si alza e si avvia al pianoforte, con la raggiante amabilità di un uomo generoso che sta regalando qualcosa a qualcuno.


- Signori, silenzio, per favore, - dice la padrona di casa voltandosi in giro. - Il signor Harris ci canterà una canzonetta allegra.


- Oh! bene, bene! - si sente mormorare e tutti accorrono, si cercano, nelle verande, per le scale e si affollano nel salotto; si siedono in giro ed anticipano le risatine. E Harris comincia.


Naturalmente nessuno pretende una gran voce per una canzonetta allegra. Né ci si attende la perfezione in quanto a dizione e vocalizzi e non si fa caso se un uomo a metà di una nota trova che è troppo alta e l'abbassa d'improvviso. Non importa se il cantante corre due battute più avanti dell'accompagnatore e a metà di una strofa si interrompe per discutere col pianista e poi riprende la strofa da capo. Ma le parole ci si aspetta di sentirle.


Non vi aspettereste che quel tipo non arrivi a ricordare altro che i primi tre versi della prima strofa e che continui a ripeterli fino a che non è il momento di cominciare col ritornello. Non vi aspettate che a metà di un verso quello si fermi, si faccia una bella risata e dica che è buffo ma che sia dannato se riesce a ricordare il resto e quindi cerca d'improvvisare, ma che poi se ne ricorda, proprio quando è arrivato ad un altro punto della canzone, e quindi si ferma per tornare indietro e senza avvisare salta di qua e di là. Certo che non ve lo aspettate; ebbene vi darò una piccola idea delle interpretazioni comiche di Harris e giudicherete da soli.


HARRIS (in piedi dinanzi al piano si rivolge al popolo in attesa):

E' una cosetta molto vecchia, dico. Credo che tutti la conoscano già, dico. Ma è l'unica cosa che so. E la "Canzone del Giudice", di quell'operetta... sapete, no, non intendo dire quella - voglio dire - mi capite non è vero? - quell'altra cosa dico. Poi tutti fate il coro, dico.


(Mormorii di sollievo ed ansietà di fare il coro. Brillante esecuzione dell'introduzione della "Canzone del Giudice" interpretata da un pianista nervoso. Arriva il momento in cui Harris deve attaccare. Harris non se ne accorge. Il pianista nervoso ricomincia l'introduzione e Harris comincia a cantare allo stesso tempo e butta fuori i primi due versi della "Canzone del Primo Lord". Il pianista nervoso cerca di continuare la sua introduzione, ma deve rinunciare e tenta di seguire Harris con l'accompagnamento della "Canzone del Giudice". Il poveretto vede che non vanno d'accordo, cerca di capire quello che sta facendo, e dove si trovi; la testa gli gira e smette di colpo.) HARRIS (incoraggiandolo cortesemente): Va benissimo così. Lei mi sta accompagnando molto bene, continui.


PIANISTA NERVOSO: Temo che ci sia un errore, da qualche parte. Che cosa sta cantando, lei?

HARRIS (pronto): Ma come! La "Canzone del Giudice". Non la sa?

UN AMICO DI HARRIS (dal fondo della sala): No, testone, stai cantando la "Canzone dell'Ammiraglio" (Lunga discussione fra Harris e l'amico di Harris in merito a ciò che Harris sta cantando in realtà. L'amico infine dice che non importa che cosa canti Harris purché vada avanti una buona volta e la canti, e Harris, covando palesemente il sentimento di avere patito un torto chiede al pianista di ricominciare. Al che, il pianista attacca l'introduzione della "Canzone dell'Ammiraglio" e Harris, cogliendo nella musica quella che gli pare un occasione propizia comincia.)

HARRIS: Quand'ero giovane e avevo la vocazione del Foro...


(Fragoroso scoppio di risa generale, che Harris interpreta come un complimento. Il pianista, sapendo di avere moglie e figli, abbandona l'impari lotta e si ritira; ne prende il posto uno d'animo più saldo.) Nuovo PIANISTA (allegramente): Su allora, vecchio mio, comincia tu che io ti seguo. Lasciamo perdere le introduzioni.


HARRIS (che a poco a poco ha cominciato a capire come stanno le cose - ridendo): Per bacco! Vogliate scusarmi Ma certo: ho confuso le due canzoni. E' stato Jenkins a farmi imbrogliare, dico. Su, avanti.


(Cantando; la sua voce sembra venire dalla cantina e fa pensare ai primi sordi boati che preannunciano un terremoto.)Quand'ero giovane m'ero impiegato da fattorino di studio d'un grande avvocato.


(A parte, al pianista): Troppo bassa l'intonazione, vecchio mio; riprendiamo da capo, se non ti dispiace.


(Canta nuovamente i due primi versi, questa volta in acuto falsetto. Movimento di sorpresa fra il pubblico. Una vecchia signora nervosa, presso il caminetto, si mette a piangere e dev'essere condotta fuori.) HARRIS (continuando):

Spazzavo le finestre tutto contento e...


No, no. Spazzavo il portone del gran casamento. E lustravo di lena il pavimento - no, in malora - oh, scusate! - che buffo che non mi venga in mente questo verso. E... E... - Oh, be'! Passiamo al ritornello, e coraggio, proviamo (canta):

Perdi-perdi-perdirindindina ora comando le navi della Regina.


Su tutti in coro. Ripetere i due ultimi versi, dico.


CORO GENERALE:

Perdi-perdi-perdirindindina ora comando le navi della Regina.


E non c'è modo che Harris si renda conto della figura da cretino che fa, e di come stia seccando una quantità di gente che non gli ha fatto alcun male. In buona fede, egli crede di averli dilettati, e dice che dopo cena canterà un'altra canzonetta comica.


Trovandomi a parlare di canzonette e di trattenimenti, mi torna in mente un caso piuttosto curioso al quale una volta fui presente, e che merita, io credo, di essere riportato in queste pagine perché getta molta luce sul lavoro mentale più riposto dell'umana natura.


Eravamo invitati ad un ricevimento di gente intellettuale e alla moda. Indossavamo i migliori vestiti, parlavamo un linguaggio ricercato ed eravamo allegrissimi, tutti, meno due giovanotti, due studenti rientrati appena dalla Germania; erano due tipi comuni che sembravano irrequieti e a disagio come se fossero infastiditi dal troppo monotono procedere della festa. La verità, invece, era che noi eravamo troppo intelligenti per loro. La nostra conversazione, spiritosa ma forbita, i nostri gusti raffinati erano fuori della loro portata. Non avrebbero dovuto venirci, non era il loro ambiente. Dopo, tutti ne convennero.


Eseguimmo "morceaux" di vecchi compositori tedeschi discutemmo di etica e di filosofia e facemmo la corte alle signore con graziosa dignità. C'era in giro molto umorismo, ma di alta classe.


Dopo cena, uno recitò una poesia francese e tutti dicemmo che era bellissima; poi una signora cantò una ballata spagnuola che fece piangere un paio di persone tanto era patetica.


Ed ecco che i due giovanotti si alzano e domandano se avevamo mai sentito Herr Slossenn Boschen (arrivato proprio allora, e ancora giù in sala da pranzo) cantare la sua straordinaria canzonetta comica tedesca.


Nessuno di noi ricordava di averlo mai sentito.


I giovanotti dissero che era la canzonetta più comica che sia mai stata scritta e che, se ci faceva piacere, avrebbero chiamato Herr Slossenn Boschen, che conoscevano benissimo, e lo avrebbero pregato di cantare. Dissero che era così comica la canzonetta che una volta, quando Herr Slossenn Boschen l'aveva cantata alla presenza del Kaiser, egli (il Kaiser) dovette esser portato via e messo a letto.


Dissero che nessuno era capace di cantarla come Herr Slossenn Boschen; durante tutta l'interpretazione egli si manteneva così serio che sembrava stesse recitando una tragedia, e questa era la cosa più comica. Dissero che la sua voce ed i suoi modi non davano mai l'idea che stesse cantando qualcosa di umoristico avrebbe rovinato tutto. Era appunto la sua espressione seria, quasi il suo pathos che rendeva la cosa tanto irresistibilmente umoristica.


Dicemmo che eravamo ansiosi di sentirla e che avevamo bisogno di farci una bella risata ed essi scesero in sala da pranzo per chiamare Herr Slossenn Boschen.


Questi sembrò felicissimo di cantare perché venne su immediatamente e senza dir neanche una parola si sedette al piano.


- Vedrete come vi divertirete, ve ne farete delle risate, mormoravano i due giovanotti nell'attraversare la sala per andarsi a piantare in atteggiamento compunto alle spalle del professore.


Herr Slossenn Boschen si accompagnava da solo. A dire il vero l'introduzione non preannunciava una canzone spiccatamente umoristica. Era un motivo, come dire, profondo, irreale... e che ci fece accapponar la pelle. Ci sussurrammo l'un l'altro che quello era il metodo tedesco e ci disponemmo a trovarlo divertente.


Io il tedesco non lo capisco; l'ho studiato a scuola ma due anni dopo ho dimenticato tutto e da allora sto molto meglio. Però non mi faceva piacere che i presenti si accorgessero della mia ignoranza e allora ebbi un'idea che mi sembrò ottima. Misi gli occhi addosso ai due studenti e seguii le loro reazioni. Quando essi sorridevano io sorridevo; quando sghignazzavano io sghignazzavo e ogni tanto aggiungevo anche qualche risatina di mia iniziativa proprio come se avessi scoperto un po' di comicità che era sfuggita agli altri e questo particolare mi parve ingegnosissimo da parte mia.


Mentre il canto proseguiva ebbi l'impressione che molti altri tenessero gli occhi addosso ai due giovanotti, esattamente come me. Anch'essi sorridevano quando i giovanotti sorridevano e sghignazzavano quando quelli sghignazzavano e siccome i due sorridevano e sghignazzavano e scoppiavano in fragorose risate quasi in continuazione, la cosa divenne veramente comica.


Eppure il professore tedesco non sembrava contento. Al principio, quando cominciammo a ridere, il suo viso espresse un'intensa sorpresa come se quelle risate fossero l'ultima cosa con cui si aspettava di essere onorato. Trovammo ciò molto naturale e dicemmo che la metà del divertimento consisteva appunto nella sua serietà.


Era certo che il minimo accenno da parte sua che avesse coscienza di quanto era buffo avrebbe rovinato tutto completamente. Siccome continuavamo a ridere, la sua sorpresa si trasformò in un espressione di disgusto e di indignazione e guardò con viso arcigno tutti, eccetto, s'intende, i due che gli stavano alle spalle e che non poteva vedere. Quello sguardo ci fece venire le convulsioni e ci dicemmo, l'un l'altro, che saremmo morti dalle risate. Il testo, dicevamo, è già abbastanza da solo a farci venire un attacco; ma aggiungerci poi la sua serietà istrionica era troppo.


All'ultima strofa superò se stesso. Girò attorno uno sguardo fiammeggiante di sì feroce concentrazione che, se non fossimo stati preavvisati che quello è il metodo del cantar comico tedesco, ci saremmo impauriti; ed egli inserì nella musica selvaggia una nota di tanto lamentoso strazio che, se non avessimo saputo che si trattava di una canzonetta umoristica, avremmo pianto.


Finì in un irresistibile urlo di risate. Tutti affermammo che era la canzonetta più comica che avessimo mai udito in vita nostra e dopo di aver assistito ad una cosa simile trovammo molto sciocca la credenza che i tedeschi non hanno il senso della comicità.


Chiedemmo al professore di tradurre la canzone in inglese in modo che anche le persone di media cultura potessero comprenderla ed apprezzarne la grande comicità.


Fu allora che Herr Slossenn Boschen non ne poté più e si tramutò in una belva. Ci stramaledì in tedesco (ed io ebbi l'occasione di giudicare che quella lingua è molto espressiva per tale uso), si mise a far salti, si batté i pugni l'uno contro l'altro e ci scagliò contro tutte le contumelie che sapeva in inglese. Disse che mai in vita sua aveva ricevuto un simile affronto.


Venne fuori che la canzone non era una canzone comica. Essa parlava di una giovanetta delle montagne dell'Hartz che aveva dato la sua vita per salvare l'anima dell'innamorato; lui moriva ed incontrava lo spirito di lei nell'aere e poi, all'ultima strofa lui rinnegava lo spirito di lei e se ne andava con un altro spirito; ora non sono sicuro dei dettagli, ma era qualcosa di molto triste, questo è certo. Il signor Boschen disse che l'aveva cantata una volta in presenza del Kaiser e lui (il Kaiser) aveva singhiozzato come un bambino. Lui (Herr Boschen) disse che tutti sapevano essere quello uno dei canti più tristi e più patetici della lingua tedesca.


Ci trovavamo in una situazione imbarazzante, molto imbarazzante, e non sapevamo che rispondere. Ci guardammo attorno per scoprire i due giovanotti che avevano combinato il trucco, ma essi, subito dopo la fine del canto, se l'erano squagliata immediatamente.


E il ricevimento finì così. Non ho mai visto un ricevimento finire in una maniera così fredda e con così poca cerimonia. Non ci scambiammo neanche la buona notte. Scendemmo le scale in fila, uno dopo l'altro, camminando silenziosamente e tenendoci nel lato in ombra. Chiedemmo cappelli e mantelli al servitore con un sussurro; ci aprimmo la porta da soli, scivolammo fuori e girammo l'angolo mogi mogi evitandoci l'un l'altro il più possibile.


Da quella volta non mi sono più interessato molto di canti germanici.


Arrivammo alla chiusa di Sunbury che erano le tre e mezzo. Il fiume in quel punto, prima che arriviate alle porte della chiusa, è di una bellezza deliziosa, e forma uno specchio d'acqua incantevole. Ma guai a volerlo rimontare a remi.


Una volta ci provai. Stavo io ai remi e domandai ai compagni al timone se credessero che ce la potessi fare; essi dissero di sì, che lo credevano e io mi misi a vogare duro. Quando dissero così ci trovavamo esattamente sotto il ponticello dei pedoni tra le due chiuse ed io mi curvai sui remi, mi curvai e vogai.


Vogavo meravigliosamente, mettendo in azione braccia, gambe e schiena in sincronizzazione con una palata ritmica. Erano palate forti, rapide, scattanti che si susseguivano in grande stile sì che i miei amici dissero che era un piacere vedermi. Dopo cinque minuti giudicai che dovevamo essere ben prossimi alle porte e guardai. Eravamo sotto il ponticello, esattamente allo stesso punto dove stavamo quando avevo cominciato e quei due idioti erano lì che soffocavano dalle risate. Avevo sfacchinato come un cane per tener la barca incollata sotto quel ponte! Ora, se capita, lascio ad altri la gioia di vogare contro corrente nel bacino.


Risalimmo, a remi, fino a Walton che, come cittadina lungo il fiume, è piuttosto grande. Come in tutte queste cittadine, solo un angoluccio minimo ne scende giù al fiume, così che, guardando dalla barca, si ha l'impressione che in tutto ci sia una mezza dozzina di case. Le uniche città poste tra Londra e Oxford delle quali potete veder qualcosa dal fiume sono Windsor e Abingdon.


Tutte le altre si nascondono dietro gli angoli e si affacciano al fiume per una stradetta soltanto. Dobbiamo esser grati a quella gente che ha tanto rispetto e che lascia le rive ai boschi, ai campi ed agli impianti idraulici.


Persino Reading, nonostante faccia del suo meglio per sciupare e sporcare il fiume il più possibile e renderlo odioso per quanto può, è tanto gentile da tenere abbastanza fuori di vista il suo brutto aspetto Anche Cesare, naturalmente, ebbe una sua base a Walton, doveva essere un accampamento o un trinceramento o qualcosa di simile.


Cesare era un vero uomo del fiume e quanto alla regina Elisabetta anche lei è stata a Walton. Ovunque andiate questa donna ve la trovate fra i piedi. Cromwell e Bradshaw (non la guida ma il capitano di re Carlo) vi soggiornarono anche loro. Messi insieme devono aver fatto una bella compagnia.


Nella chiesa di Walton c'è una specie di museruola di ferro che in tempi passati era usata per chiudere la bocca alle donne. Ora non ci provano più. Forse perché il ferro è diventato raro e niente altro sarebbe abbastanza resistente.


Nella chiesa vi sono anche tombe notevoli e io temetti che non sarei mai riuscito ad evitare che Harris si fermasse in contemplazione; ma sembrò non curarsene e continuò la strada. Al di là del ponte il fiume fa curve dopo curve. Ciò lo rende pittoresco ma dal punto di vista del dover rimorchiare e remare ti esaspera e provoca discussioni tra quello che sta al timone e quello che voga.


Poi si passa avanti al parco di Oatland sulla riva destra. Luogo antico e famoso. Enrico Ottavo lo rubò a qualcuno, non ricordo chi, e ci si installò. Nel parco c'è una grotta che si può vedere a pagamento e che, a quanto dicono, è bellissima; personalmente non ci trovo gran che. La defunta duchessa di York, che abitava a Oatland, andava matta per i cani e ne teneva una quantità enorme.


Si fece fare un cimitero speciale per sotterrarli quando morivano ed ora essi giacciono lì, una cinquantina, ed ognuno ha una lapide con un epitaffio scritto sopra.


In fondo mi pare che essi se lo meritino quanto lo merita un cristiano medio.


A Corway Stakes, la prima ansa del fiume a monte di Walton, fu combattuta una battaglia tra Cesare e Cassivelaunus. Cassivelaunus aveva predisposto il suo tranello sul fiume piantandovi dentro un'enormità di pali (e, certamente, ci aveva messo un avviso di divieto di transito) ma Cesare riuscì ad attraversare nonostante l'insidia. E' impossibile disfarsi di Cesare su questo fiume. Ci vorrebbe lui, ora, per risalire le chiuse.


Halliford e Shepperton nel punto in cui toccano il fiume sono due posti simpatici ma nessuno dei due luoghi presenta attrattive speciali. Nel cimitero di Shepperton c'è, però, una tomba con su una poesia e io temendo che Harris volesse andare a gironzolare lì intorno ero irrequieto. Lo vidi che mentre passavamo guardava il panorama con occhio nostalgico e allora, manovrando con destrezza, feci in modo da buttargli il cappello in acqua; egli nell'agitazione di ripescarlo e indignato con me dimenticò le sue amate tombe.


A Weybridge, il Wey (grazioso fiumicello, navigabile per piccole imbarcazioni fino a Guildford: uno di quelli che ho sempre divisato di esplorare senza farlo mai), dunque, a Weybridge, il Wey, il Bourne e il canale di Basingstoke sfociano assieme nel Tamigi. La chiusa è giusto di fronte al paese e la prima cosa che vedemmo quando arrivammo in vista dell'abitato fu la giacca sportiva di George su di una porta della chiusa; guardando meglio vedemmo che nella giacca c'era George.


Montmorency cominciò ad abbaiare furiosamente, io gridai e Harris ruggì; George agitò il cappello e rispose urlando. Il guardiano della chiusa accorse con un uncino credendo che qualcuno fosse caduto in acqua e vedendo che non era successo niente si arrabbiò.


George aveva in mano un pacco piuttosto strano avvolto in tela cerata. Era rotondo e appiattito ma da esso usciva una specie di manico molto lungo.


- Che cos'è?- domandò Harris - una padella?

- No, - rispose George con un lampo di luce strana e scintillante negli occhi, - si tratta dell'ultimo grido della moda; tutti lo portano quando vanno sul fiume. E' un banjo.


- Mai saputo che tu suonassi il banjo! - gridammo io e Harris in coro.


- Veramente no, - rispose George; - ma è facile, cosi mi han detto, e mi hanno dato il metodo per imparare.




CAPITOLO 9


George viene messo al lavoro - Istinti pravi delle alzaie - Condotta ingrata di un'imbarcazione - Rimorchianti e rimorchiati - Come servirsi degli innamorati - Strana scomparsa di un'anziana signora - Quanto maggiore la fretta, tanto minore la velocità - Farsi rimorchiare da ragazze: sensazione sollecitante - La chiusa scomparsa ovvero il fiume stregato - Musica - Salvi!

Facemmo lavorare George, ora che l'avevamo. Egli, naturalmente, non voleva, manco a dirlo. Aveva avuto una giornata dura nella City, così asserì. Harris, insensibile per natura, e poco incline alla pietà, disse:

- Ah! E adesso, tanto per cambiare, avrai una giornata dura sul fiume; il cambiamento giova a tutti. Fuori!

Egli in coscienza (pur trattandosi della coscienza di George) non poteva rifiutare, anche se in effetti propose che sarebbe stato meglio se fosse rimasto in barca a preparare il tè mentre Harris e io rimorchiavamo, perché il lavoro per preparare il tè era così laborioso e Harris e io avevamo l'aria stanca. A questo, tuttavia, ci limitammo a rispondere passandogli l'alzaia, ed egli la prese e sbarcò.


Un'alzaia ha sempre un che di strano e inspiegabile. Voi la cogliete con tutta la pazienza e la cura con cui pieghereste un paio di calzoni nuovi, e cinque minuti dopo, quando la riprendete in mano, non è che un terribile e disgustoso intrico.


Non ho alcuna intenzione di mostrarmi offensivo, ma sono fermamente convinto che se prendete una normale alzaia e la stendete diritta attraverso un campo, e poi girate la schiena per trenta secondi, quando vi girate di nuovo per guardarla trovate che si è messa in un vero e proprio mucchio nel centro del campo, e si è attorcigliata, si è annodata, ha perso le due cime ed è diventata tutta nodi scorsoi; e che ci vorrà una buona mezz'ora, seduti sull'erba e bestemmiando a tutt'andare, per districarla.


Tal è la mia opinione generica in merito alla alzaie. Beninteso, possono esistere lodevoli eccezioni; non dico che non ne esistono.


Possono esserci alzaie che fanno onore alla loro professione - cavi da rimorchio coscienziosi, rispettabili alzaie che non si mettono in mente d'essere ricami all'uncinetto, ne di cercare di lavorarsi a mo' di testiere per le poltrone. Dico che POSSONO esistere alzaie simili e sinceramente spero che ce ne siano. Ma io non ne ho incontrate.


Questa alzaia l'avevo ripresa a bordo io stesso poco prima che giungessimo alla chiusa. Non l'avrei neanche fatta toccare a Harris, che è trascurato. L'avevo abbisciata adagio e con cautela, l'avevo legata nel mezzo e piegata in due, e l'avevo posata con dolcezza sul fondo della barca. Harris l'aveva sollevata scientificamente per metterla nelle mani di George. Quest'ultimo l'aveva presa saldamente, tenendola discosta dal corpo, e aveva cominciato a scioglierla come se stesse togliendo le fasce a un neonato; tuttavia, prima che avesse srotolato una dozzina di metri, quell'affare somigliava più a uno zerbino mal fatto che a qualsiasi altra cosa.


Sempre la stessa storia. E con essa vanno di pari passo sempre storie dello stesso genere. L'uomo sull'argine, che cerca di districarla, crede che la colpa sia dell'uomo che l'ha arrotolata; e, sul fiume, quando un uomo pensa una cosa, la dice.


- Che cosa avevi cercato di farne? Una rete da pesca? Bel pasticcio, hai combinato; non potevi abbisciarla come si deve, pezzo d'idiota? - brontola quello di tanto in tanto, nel lottare selvaggiamente col cavo da ormeggio, stendendolo piatto sulla strada d'alzaia, e girando in tondo intorno ad esso nel tentativo di trovarne la cima.


Da parte sua, l'uomo che lo ha avvolto crede che la causa del pasticcio sia l'uomo che sta cercando di svolgerlo.


- Stava benissimo quando l'hai preso! - esclama indignato. Perché non pensi a quello che fai? E non vedi che non hai maniera? Va' là, che tu annoderesti anche un palo da forca, tu!

E i due si sentono così furibondi che con quel cavo si impiccherebbero volentieri a vicenda. Passano così dieci minuti e il primo uomo caccia un urlo, impazzisce e si mette a danzare sulla corda cercando di stirarla afferrando il primo pezzo che gli capita tra le mani e tirando da matto. Naturalmente cappi e nodi si stringono sempre di più. Allora il secondo uomo salta dalla barca e viene ad aiutare il primo e succede che l'uno ingarbuglia l'altro. Afferrano tutti e due lo stesso pezzo di corda e tirano in direzioni opposte disperandosi perché non capiscono dov'è che si è impigliato. Finalmente riescono a scioglierlo e voltandosi vedono che la barca scivola da sola verso la chiusa.


Sono stato personalmente testimonio di una cosa del genere. Era una mattina con un po' di tramontana e noi scendevamo il fiume; arrivati alla curva scorgemmo due uomini sulla sponda. Si guardavano l'un l'altro con un'espressione disperata quale non avevo mai vista e mai vedrò in esseri umani, ed entrambi tenevano in mano un lungo cavo che rimaneva tra loro. Era evidente che qualcosa doveva essere successo e quindi rallentammo e chiedemmo di che cosa si trattasse.


- La nostra barca è sparita! - risposero in tono indignato.


Eravamo appena scesi a terra per districare l'alzaia e, quando ci siamo guardati intorno, non c'era più!

I due sembravano offesi da quell'atto che evidentemente giudicavano un'azione ingrata e bassa da parte della barca.


Ritrovammo la vagabonda mezzo miglio più a valle, trattenuta dalla ramaglia, e la riportammo a quei due. Scommetterei che almeno per una settimana non han dato alla barca un'altra occasione per svignarsela, ma il quadro dei due uomini che andavano avanti e indietro sull'argine con un'alzaia in mano, cercando la barca, non lo dimenticherò mai.


A causa del rimorchio sul fiume si vedono tanti incidenti comici.


Uno dei più comuni è quando si scoprono due che rimorchiano camminando di buon passo e discutendo con animazione, mentre l'altro, rimasto nella barca, cento metri indietro, urla invano che si fermino e fa cenni disperati col remo. Qualcosa dev'esser andato male. Forse il timone è uscito dal suo posto, forse è scivolato fuori bordo il gancio d'accosto, forse il cappello gli è caduto in acqua e sta galleggiando, portato rapidamente a valle dalla corrente. Egli gentilmente e con calma, in principio, chiede a quei due che si fermino.


- Ehi! fermatevi un momento, per favore! - grida. - Mi è caduto il cappello in acqua!

E poi: - Ehi! Tom, Dick! ma non ci sentite? - e questa volta non sembra molto affabile.


E poi: - Ehi! Accidenti, pezzi di testoni idioti! Ehi! Fermatevi! Ehi!

Dopo di che si mette a saltellare nella barca cacciando urli fino a diventar rosso come un tacchino e maledizioni per quanto sa. I ragazzini si fermano sulla sponda e si mettono a far smorfie e poi lo prendono a sassate e lui non può sbarcare perché viene rimorchiato con la velocità di quattro miglia all'ora, e non può sbarcare.


Molti inconvenienti di questo genere sarebbero evitati se quelli che stanno rimorchiando si ricordassero che stanno rimorchiando e ogni tanto dessero una occhiatina per vedere dove è andato a finire l'uomo rimasto in barca. Meglio di tutti è far tirare ad una persona sola perché, quando sono in due, cominciano a chiacchierare e si distraggono; di per se stessa infatti la barca offre pochissima resistenza che non basta a far tener sempre presente ai rimorchianti quello che stanno facendo.


Più tardi, quella sera, si stava parlando di quest'argomento e George, per darci un esempio e illustrare a qual punto di distrazione possano giungere quelli che rimorchiano in due, ci raccontò un fatto molto curioso.


Stavano vogando, ci disse, lui e altri tre, una sera che risalivano da Maidenhead in una barca molto carica e pesante, quando, un po' a monte di Cookham, notarono un giovanotto e una ragazza, che camminavano lungo la strada di alzaia, immersi in una conversazione che evidentemente li interessava e li assorbiva molto. Portavano, in due, un gancio d'accosto al quale era data volta un'alzaia che trascinava dietro a loro con la cima nell'acqua. Non c'era, né nelle vicinanze né in vista, alcuna barca. Che ce ne dovesse essere stata una, attaccata a quell'alzaia, era certo; ma che cosa ne fosse stato, quale orrendo fato le fosse toccato, e avesse coinvolto quelli che vi si trovavano dentro, era sepolto nel mistero. Comunque, l'incidente, quale che fosse stato, non aveva in alcun modo turbato la signorina e quel giovane signore intenti a rimorchiare. Avevano il gancio d'accosto, avevano il cavo: che cos'altro occorreva?

George stava per dare la voce e risvegliarli; ma, in quel momento, gli venne in un lampo un'idea luminosa, e se ne astenne. Prese invece il proprio gancio, si protese, pescò la cima e la portò a bordo; le diedero volta all'albero dell'imbarcazione, affrancarono i remi e andarono a sedersi a poppa, dove accesero le pipe.


Così quel giovanotto e quella ragazza rimorchiarono quei quattro lazzaroni e una pesante barca, su fino a Marlow.


George disse di non aver mai visto tanta tristezza concentrata in un unico sguardo come quando, alla chiusa, la giovane coppia afferrò l'idea di aver rimorchiato, per le due ultime miglia, un'altra barca. Secondo George, non fosse stato per l'influsso frenante dovuto alla presenza della bella che aveva al fianco, il giovanotto avrebbe trasceso a un linguaggio violento.


La prima a riaversi dalla sorpresa fu la fanciulla, che, congiungendo le mani, disse, smarrita:

- Oh! Enrico, ma allora dov'è la zia?

- La ritrovarono poi la vecchia? - domandò Harris.


George rispose che non lo sapeva.


Di un altro esempio della pericolosa mancanza d'intesa tra i rimorchianti e i rimorchiati fummo testimoni io stesso e George vicino a Walton. Accadde nel punto in cui l'alzaia declina soavemente verso l'acqua. Noi eravamo accampati sulla riva opposta, osservando così, in generale. A poco a poco si vide una piccola imbarcazione rimorchiata a velocità formidabile da un robusto cavallo per il rimorchio delle chiatte, montato da un minuscolo ragazzino. Sdraiati nella barca qua e là, giacevano cinque individui in atteggiamento di riposo, ma quello che più sembrava stesse riposando era l'uomo al timone.


- Mi piacerebbe vedere che cosa succede se tira il cordone della barra sbagliato, - mormorò George mentre passavano. In quel preciso momento l'uomo sbagliò e la barca andò a sbattere contro la sponda col lacerante rumore di quarantadue lenzuola che si stracciano. Due uomini, un cesto e tre remi volarono immediatamente da sinistra e andarono ad atterrare sulla sponda, e un istante e mezzo dopo altri due uomini sbarcarono da dritta e andarono a finire seduti tra arpioni, vele, sacchi da viaggio e bottiglie. L'unico superstite fece ancora una quindicina di metri e poi andò giù di testa.


Tutto ciò parve alleggerire alquanto l'imbarcazione, che procedette con maggiore snellezza, mentre il ragazzino a cavallo urlava con tutta la voce e metteva la sua cavalcatura al galoppo.


I disgraziati si misero a sedere e si guardarono in faccia.


Dovettero passare alcuni secondi prima che comprendessero quello che era successo; e, quando lo compresero, cominciarono ad urlare verso il ragazzino perché si fermasse. Ma questo era troppo occupato col suo cavallo e non li udiva; li seguimmo con lo sguardo mentre gli correvano dietro, fino a che, per la distanza, non li perdemmo di vista.


Non potrei affermare che questo incidente mi rattristasse perché, in verità, io vorrei che tutti gli scemi che si fanno rimorchiare a quel modo, e sono moltissimi, incappassero negli stessi guai.


Oltre al rischio che corrono loro stessi, sono pericolosi per tutte le altre imbarcazioni che incontrano. Andare al passo con loro è impossibile; per loro è impossibile lasciar libero il passaggio come è impossibile agli altri di dare il passaggio a loro. Il loro cavo s'impiglierà nella vostra prua e vi farà capovolgere, oppure afferrerà al laccio qualcosa nella barca e, o lo butterà in acqua o vi spaccherà la faccia. L'unica cosa da farsi è di rimanere al proprio posto e di prepararsi a respingerli con la estremità di un albero.


Fra tutte le avventure che si possono sperimentare al rimorchio, la più impagabile è quella di esser tirati da signorine. E una sensazione che nessuno dovrebbe trascurare di provare. Ci vogliono tre ragazze al rimorchio; due alano l'alzaia e la terza corre intorno a loro facendosi un sacco di risate. Generalmente cominciano col legarsi da sole. Si fanno passar il cavo intorno alle gambe e quindi devono sedersi e sciogliersi l'una con l'altra; poi se lo attorcigliano intorno al collo e poco ci manca che si strangolino. Finalmente riescono a stenderlo e subito si mettono a correre tirando la barca ad andatura pericolosa.


Naturalmente, dopo cento metri rimangono senza fiato e si fermano di colpo; si siedono sull'erba e ridono mentre la vostra barca viene portata dalla corrente e si mette a girare su se stessa prima che vi rendiate conto di quello che succede o che possiate metter mano ai remi. Allora esse si alzano e rimangono sorprese:

- Guarda! - dicono. - La barca è andata a finire in mezzo alla corrente.


Si rimettono a tirare e per un po' va bene; poi, tutto ad un tratto succede che una di esse si vuole appuntare la sottana e quindi si fermano e la barca finisce contro la riva.


Voi saltate a terra e la respingete al largo urlando alle ragazze che non si fermino.


- Sì. Cosa c'è? - urlano verso di voi.


- Non vi fermate, - gridate voi.


- Non... che cosa?

- Non vi fermate... continuate, continuate!!

- Emilia, torna indietro e domanda che cosa vogliono, - dice una.


Ed Emilia torna indietro e vi chiede che cosa è successo.


- Cosa volete? - dice; - è successo qualcosa?

- No, - rispondete voi, - tutto bene, soltanto che dovete tirare sempre, non vi dovete fermare.


- E perché?

- Perché se voi vi fermate non possiamo governare la barca. Voi dovete mantenere l'abbrivo alla barca.


- Mantenere che cosa?

- L'abbrivo... dovete mantenere la barca in movimento.


- Sta bene. Glielo dirò. Stiamo lavorando bene?

- Molto bene; solo che non dovete fermarvi.


- Non è difficile, sapete? Credevo che fosse un lavoro duro.


- No, no, è facile abbastanza. Basta che non vi fermiate, questo è tutto.


- Capito. Datemi il mio scialle rosso; sta sotto il cuscino.


Trovate lo scialle e glielo porgete ma nel frattempo ne è venuta indietro un'altra che vuole anch'essa il suo scialle: sbagliano e prendono quello di Maria, e Maria, invece, non lo vuole, così lo riportano indietro e al suo posto chiedono un pettine tascabile.


Prima che ritornino al cavo ci vogliono venti minuti e poi alla prima voltata vedono una mucca e voi dovete sbarcare per allontanare la mucca dalla loro strada.


Quando al cavo vi sono le ragazze, nella barca non ci sono momenti di noia.


George finalmente mise in chiaro il cavo, cominciò ad alare e ci portò regolarmente fino a Penton Hook. Lì discutemmo l'importante problema del campeggio. Avevamo deciso che per quella notte avremmo dormito a bordo e avevamo l'alternativa di ormeggiarci semplicemente lì o proseguire più in su di Staines. Ci pareva troppo presto per chiuder bottega, perché il sole era ancora alto nel cielo e perciò decidemmo di fare una tirata fino a Runnymead, a tre miglia e mezzo da lì; è un tratto di fiume tranquillo e alberato, che offre un buon riparo.


Poco dopo, però, dovemmo pentirci di non esserci fermati a Penton Hook. Tre o quattro miglia contro corrente sono una sciocchezza di primo mattino, ma alla fine di una lunga giornata diventano una tremenda sfacchinata. Non si chiacchiera e non si ride più e ogni mezzo miglio che fate vi sembra due miglia. Non riuscite a persuadervi che siete soltanto dove siete e vi convincete che la carta topografica è sbagliata; poi, quando vi siete trascinati per un tragitto che vi sembra di dieci miglia almeno, e la chiusa non appare ancora, cominciate a temere davvero che qualcuno l'abbia rubata e se la sia portata via.


Ricordo una volta che sul corso superiore del fiume rimasi terribilmente sottosopra (sempre in senso figurato). Ero in gita con una signorina - cugina da parte di mia madre - e scendevamo verso Goring. Era piuttosto tardi e avevamo fretta di arrivare LEI, per lo meno, aveva fretta di arrivare. Alla chiusa di Benson erano le sei e mezzo. Cominciava a cadere il crepuscolo e lei cominciò ad agitarsi. Disse che doveva essere a casa per cena. Io le dissi che sentivo di desiderare d'esserci anch'io e tirai fuori la pianta topografica che avevo, per sapere esattamente quanta distanza c'era ancora. Vidi che mancava esattamente un miglio e mezzo per la prossima chiusa, Wallingford, e cinque miglia di lì a Cleeve.


- Bene! - dissi. - Prima delle sette attraverseremo la prossima chiusa e poi ce ne sarà ancora solo una. - Sedetti e presi a vogare di gran lena.


Subito dopo, passato il ponte le chiesi se vedesse la chiusa. Lei disse di no, disse che non vedeva nessuna chiusa e io dissi:- Oh!

- e continuai a remare. Passarono altri cinque minuti e domandai di guardare un'altra volta.


- No, - disse - non vedo traccia di chiuse.


- Senti, sei certa di riconoscere una chiusa se la vedi? - le chiesi con una certa esitazione perché non la volevo offendere.


Infatti la mia domanda non l'offese, però lei opinò che era meglio che guardassi io stesso; perciò deposi i remi e alzai lo sguardo.


Il fiume si stendeva dritto dinanzi a noi nella luce del crepuscolo per circa un miglio. Dello sbarramento neanche l'ombra.


- Non avremo mica sbagliato strada? - disse la mia compagna.


Non vedevo la possibilità di una cosa simile, per quanto, pensai, e dissi, potevamo essere capitati in qualche modo nella deviazione di sfogo della chiusa, che porta alla cascata.


Questa idea non la tranquillizzò affatto, anzi la ragazza cominciò a piangere. Disse che ci saremmo annegati tutti e due e che quello era un castigo per essere venuta in gita con me.


Mi parve che il castigo fosse esagerato, ma la cuginetta non era del parere e si augurava solo che se doveva accadere, accadesse al più presto.


Cercai di tranquillizzarla e di diminuire l'importanza di tutta quella storia. Le dissi che evidentemente non remavo con quella rapidità che credevo, ma che ora saremmo subito arrivati alla chiusa. E vogai per un altro miglio.


Poi cominciai a preoccuparmi anch'io. Consultai nuovamente la pianta topografica. Ecco la chiusa di Wallingford, chiaramente segnata, un miglio e mezzo a valle di quella di Benson. La carta geografica era buona e di fiducia; inoltre io stesso ricordavo la chiusa. C'ero passato già due volte. Dove ci trovavamo ora? Che cosa era successo? Cominciavo a credere che tutto doveva essere un sogno e che io fossi addormentato nel letto e che fra un minuto mi avrebbero svegliato e detto che erano già le dieci.


Domandai alla cuginetta se per caso pensasse che era un sogno e lei mi rispose che stava proprio per credere la stessa cosa; così tutte e due ci domandammo se era un sogno e, se lo era, chi di noi era l'essere reale che stava sognando e chi di noi era la visione di sogno? Problema interessantissimo.


Continuavo a vogare, però, e la chiusa continuava a non farsi vedere, e il fiume continuava a oscurarsi e a farsi misterioso sotto le ombre della notte che si avanzava. Tutte le cose sembravano diventare spettrali e paurose. Pensavo ai folletti, alle streghe, ai fuochi fatui e a quelle ragazze cattive che stanno sdraiate tutta la notte sulle rocce per allettare la gente e farla affogare nei gorghi e desideravo tanto di essere stato migliore nella vita e di sapere più preghiere a memoria. Mentre così riflettevo sentii il motivo benedetto della canzone "Egli l'ha preso", suonato (male) da un'armonica a bocca, e compresi che eravamo salvi.


Veramente io, in genere, non sono un ammiratore del suono dell'armonica; ma che musica soave parve a noi allora... molto, molto più soave della voce di Orfeo e del flauto di Apollo e di qualsiasi altra cosa del genere che potesse aver suonato. Una melodia celeste, nelle nostre condizioni mentali, sarebbe servita soltanto a tormentarci maggiormente. Una melodia che scende nel cuore, cantata come si deve, l'avremmo ascoltata come un richiamo degli spiriti e avremmo rinunciato ad ogni ulteriore speranza di salvarci. Ma quelle note d'armonica che arrivavano sporadicamente e con variazioni involontarie da uno strumento asmatico, erano invece qualcosa di specificamente umano e rassicurante.


Il dolce suono si avvicinava e ben presto l'imbarcazione da cui veniva si trovò al nostro fianco.


A bordo c'era una piccola brigata di Enrichi ed Enrichette che navigavano al chiaro di luna. (La luna non c'era ma non per colpa loro.) Mai visto gente più simpatica, più amabile in vita mia.


Detti la voce e chiesi se potevano indicarmi la via per la chiusa di Wallingford, spiegando che la cercavo da due ore.


- La chiusa di Wallingford? - risposero. - Dio vi benedica, signore. E' più di un anno che l'hanno tolta. Ora non ci sono più chiuse di Wallingford. Siete quasi a Cleeve, adesso. Oh! Bill!

senti un po'... c'è ancora gente che cerca la chiusa di Wallingford!...


Una cosa simile non mi era passata per la mente: avevo voglia di abbracciarli e di caricarli di benedizioni, ma la corrente era troppo forte e non me lo permetteva e dovetti contentarmi di lanciare tutte le parole della gratitudine.


Li ringraziammo mille volte e dicemmo che la notte era tanto bella e che auguravamo buon viaggio a tutti e credo che li invitassi a passare una settimana in casa mia. La cuginetta disse che mammina avrebbe avuto tanto piacere di conoscerli. Cantammo il coro dei "Soldati", dal Faust; e, in fin dei conti, arrivammo a casa in tempo per la cena.




CAPITOLO 10


La nostra prima notte - Sotto il tendone - Invocazione d'aiuto - Cocciutaggine dei bricchi per il tè; come vincerla - Cena - Come fare per sentirsi virtuosi - Cercasi isola deserta, comoda, bonificata; preferiti i paraggi del Pacifico meridionale - Avventura strana accaduta al padre di George - Una notte agitata.


Io ed Harris cominciammo a temere che anche la chiusa di Bell Weir fosse stata soppressa. George ci aveva rimorchiati oltre Staines e là gli avevamo dato il cambio, ma sembrava che stessimo trascinando un peso di cinquanta tonnellate per un tragitto di quaranta miglia. Passammo alle sette e mezzo; ci mettemmo tutti in barca e remammo accostati alla riva sinistra cercando un posticino per attraccare.


Al principio avevamo deciso di arrivare fino all'isola della Magna Charta che è un luogo dove il fiume serpeggia attraverso una valle vellutata e verde, in modo che avremmo potuto accamparci in riva ad una delle pittoresche insenature che si trovano in quelle ridenti coste. Però a quell'ora ci sembrò di non desiderare il pittoresco in misura approssimativamente uguale a quella con cui lo desideravamo al principio della giornata. Per quella notte eravamo inclini ad accontentarci di una spanna d'acqua magari tra una chiatta carica di carbone e un gasometro. Non sentivamo necessità di scenari; volevamo solo mangiare e metterci a dormire.


Ci spingemmo, però, fino al capo dell'isola - lo chiamano "Il capo dei pic-nic" - e sbarcammo in un cantuccio molto carino sotto un grande olmo alle cui radici, che venivano fuori dalla terra, potevamo dar volta gli ormeggi della barca.


Pensammo allora di essere sul punto di cenare (il tè delle cinque era stato abolito, per economia di tempo), ma George si oppose perché, disse, era meglio montare il tendone prima che facesse scuro, in modo da vedere quello che facevamo. Poi, disse, quando tutto fosse stato pronto, avremmo potuto mangiare senza pensieri.


Per sistemare il tendone ci volle tanto impazzimento quanto né io né gli altri avevamo immaginato. Astrattamente è una cosa semplice: si prendono i cinque archi di ferro, simili a giganteschi archetti da croquet, e si sistemano al di sopra della barca, poi si stende il tendone su di essi e si fissa in basso; affare di dieci minuti, così credevamo noi.


Avevamo sottovalutato l'impresa.


Prendemmo gli archi e cominciammo a sistemarne le estremità nelle apposite staffe. Quanto sia pericoloso questo lavoro è cosa che nessuno si figurerebbe ed ora, che ci ripenso dopo tanto tempo, la mia meraviglia è che ciascuno di noi sia ancora in vita per raccontare la storia. Prima di tutto questi archi non volevano in nessun modo entrare nelle staffe e quindi dovevamo saltar loro addosso, prenderli a calci e martellarli col gancio d'accosto; poi quando si erano incastrati si scopriva che non erano quelli esatti per quelle staffe e quindi bisognava tirarli fuori di nuovo.


Ma di venir fuori non ne volevano sapere, se non dopo che avevamo dato battaglia, in due, per cinque minuti, allora scattavano come molle e cercavano di scaraventarci in acqua e farci annegare. Al centro degli archi c'era una cerniera, e quando noi eravamo di spalle quelle cerniere ci pizzicavano in parti delicate del corpo; e mentre battagliavamo con una estremità dell'arco e ci sforzavamo a persuaderla a fare il suo dovere, l'altro lato ci veniva addosso vigliaccamente da tergo e ci colpiva in testa.


Finalmente li mettemmo a posto e non ci rimase che ricoprirli col tendone. George lo svolse e ne legò una cocca alla prua. Harris era piazzato al centro per riceverlo da George e passarlo a me che stavo pronto ad afferrarlo a poppa. Ma prima che il tendone mi arrivasse ne passò del tempo! George fece il suo lavoro benissimo, ma per Harris quella era una novità e quindi pasticciò tutto.


Non so come abbia fatto; egli stesso non se lo seppe spiegare, ma chissà mai con quali manovre egli, dopo dieci minuti di sforzi sovrumani, fu capace di avvolgercisi dentro completamente. Se lo era arrotolato così bene addosso che non riusciva a venirne fuori.


Naturalmente fece sforzi frenetici per riacquistare la libertà - questo diritto che ogni inglese ha per nascita - e agitandosi in tal modo (io lo seppi dopo) andò a cadere addosso a George e George mandandogli tutti gli accidenti, cominciò anche lui a battagliare e a sua volta rimase impigliato e avvoltolato.


Io non ebbi nozione di nulla per tutto il tempo che durò la lotta e francamente non capisco come fu. Mi avevano detto di stare là, ritto, ad aspettare che il tendone arrivasse e perciò io e Montmorency rimanemmo impalati ad aspettare.


E' vero che vedevamo che il tendone veniva agitato violentemente e veniva sbattuto di qua e di là con sufficiente energia, ma credevamo che quelle manovre facessero parte del metodo di montaggio e non intervenimmo.


Sentivamo altresì che da sotto quel fagotto ondeggiante usciva un parlare soffocato e, pensando che George e Harris trovassero il lavoro fastidioso, concludemmo che saremmo intervenuti non appena le cose si fossero semplificate un po' di più.


Aspettammo, ma le cose, invece, parevano complicarsi maggiormente; infine, vedemmo la testa di George che usciva contorcendosi dal groviglio e parlava.


Diceva:

- Vieni a darci una mano, muoviti, pappagallo! Cosa fai lì come una mummia? Non vedi che stiamo soffocando tutti e due, pezzo d'idiota?

Non ho mai potuto resistere a un appello di soccorso e quindi mi mossi e li districai. Era tempo, perché Harris era quasi cianotico.


Ci volle un'altra mezz'ora per mettere a posto il tendone; poi ripulimmo la barca e tirammo fuori il necessario per la cena.


Mettemmo l'acqua per il tè a bollire sulla prua e ce ne andammo a poppa con la decisione di non occuparci più del bricco e pensare alle altre cose necessarie.


Questo è l'unico sistema perché un bollitore serva al suo scopo sul fiume. Se si accorge che state aspettando con impazienza l'acqua bollente, non comincerà mai più a cantare. Il meglio da fare è di andarsene e cominciare a mangiare come se non voleste prendere il tè. Meglio non voltarsi nemmeno a guardarlo; vedrete che allora comincia subito a schizzar acqua bollente, matta per la voglia di diventare tè.


Quando poi vi capita di avere molta fretta potete fare anche meglio: vi mettete a parlare ad alta voce l'uno con l'altro dicendo che non volete il tè, che non lo prenderete. Vi avvicinate al bricco, in modo che possa sentire, e gridate: - Io il tè non lo prendo; e tu, George? - al che George urla: - No, il tè non mi piace, berremo invece una limonata... il tè è indigeribile. - State sicuri che il bricco mette a buttar fuori tanta acqua bollente che spegne il fornello.


Adottammo questo trucco innocuo e il risultato fu che, prima che tutto il resto fosse pronto, il tè già aspettava. Accendemmo la lanterna e ci accoccolammo per mangiare.


Ne avevamo proprio bisogno.


Durante trentacinque minuti per tutta la lunghezza e per tutta la larghezza della barca non si sentì una voce, ma solo tintinnio di posate e stoviglie e l'ininterrotto masticare di quattro paia di file di denti. Passati i trentacinque minuti Harris emise un "Ah!", si tolse la gamba sinistra da sotto il sedere ed al suo posto ci mise la destra.


Cinque minuti più tardi anche George emise un "Ah!" e buttò il piatto sulla riva; tre minuti dopo di ciò Montmorency dette il primo segno di soddisfazione da quando eravamo partiti: si sdraiò sul dorso e allungò le gambe; e allora io dissi "Ah!", buttai la testa all'indietro e la battei contro uno degli archi; ma non ci feci caso. Non mandai neanche un accidente.


Come ci si sente bene a stomaco pieno - come si è soddisfatti di se stessi e di tutto! Quelli che hanno potuto farne la prova mi dicono che è la coscienza tranquilla che ci rende felici e contenti; ma lo stomaco pieno ottiene egualmente lo scopo a minor prezzo e con maggiore facilità. Dopo un pasto sostanzioso e ben digerito ci si sente così generosi e altruisti, così pieni di nobili propositi, così buoni di cuore!

E' molto strana, questa dittatura sullo spirito umano da parte degli organi digerenti. A meno che lo stomaco non lo voglia, noi non possiamo lavorare, non possiamo pensare. E' lui che ci detta le nostre emozioni. Dopo le uova col lardo dice: - "Lavora". Dopo le bistecche e la birra dice: "Dormi!". Dopo una tazza di tè (due cucchiaini per tazza e non lo lasciate in infusione più di tre minuti), dice al cervello: "Ora scuotiti e mostra la tua capacità; sii eloquente, profondo, tenero; guarda la vita e la natura con occhio limpido; stendi le tue bianche ali di vibranti pensieri e vola, divino spirito, sopra la girevole palla del mondo sotto di te, vola ai lunghi sentieri delle stelle scintillanti fino alle soglie dell'eternità!".


Dopo le ciambelle calde lo stomaco dice "Sii ottuso e privo d'anima, tal quale una bestia dei campo - un animale senza senno, con occhi assenti, non accesi da nessun raggio di fantasia né di speranza, né di gioia, né di coraggio, né di vita". E dopo una sufficiente quantità di brandy, dice: "E ora, su, pazzo, ridi e ruzzola perché gli uomini tuoi simili possano ridere - vaneggia nella tua pazzia, sbavati emettendo parole insensate e mostra quanto è debole e stupido il pover'uomo il cui spirito e la cui volontà si sono annegati, uno a fianco dell'altra come due micini in un pollice di alcool".


Noi non siamo altro che i maggiori e più tristi schiavi del nostro corpo. Amici, amici, non correte dietro alla moralità ed alla rettitudine: sorvegliate sempre il vostro stomaco e alimentatelo con cura e con giudizio. Allora la virtù e la soddisfazione verranno a regnare nel vostro cuore senza nessuno sforzo da parte vostra; e sarete buoni cittadini, mariti amorosi, teneri padri e uomini nobili, pii.


Prima di cena Harris, George ed io eravamo tutti e tre di malumore, arcigni, petulanti; dopo cena rimanemmo seduti tranquilli, a sorriderci l'un l'altro, e sorridevamo anche al cane. Ci volevamo bene, volevamo bene a tutto l'universo. Harris nel muoversi pestò un callo a George. Se fosse successo prima di sera, George avrebbe espresso desideri e speranze tali, concernenti il destino di Harris in questa vita o nella futura, che avrebbero fatto tremare un uomo cosciente.


Invece, dato il momento, egli disse: - Alt! vecchio mio, attento al seminato.


E Harris, invece di osservare freddamente e con il più sgradevole dei toni che un disgraziato difficilmente potrebbe evitare di camminare su un pezzo dei piedi di George, anche a dieci metri di distanza da dove George sta seduto, e invece di affermare che George non dovrebbe mai entrare in una barca di media grandezza con due piedi di quella lunghezza, e di consigliarlo ad appenderli fuori bordo, come lui avrebbe fatto prima di cena, ora disse: - Oh! scusami tanto, vecchio mio, spero di non averti fatto male!

E George disse che niente affatto, era colpa sua; e disse che no, era colpa sua.


A sentirli era un amore!

Accendemmo le pipe, e restammo ad ammirare la notte tranquilla, e conversammo.


George si chiedeva perché non doveva essere sempre così. Lontani dal mondo, dai suoi peccati e dalle sue tentazioni menando una vita sobria, poetica e facendo del bene. Io dissi che avevo sempre pensato a queste cose e ci mettemmo a esaminare le possibilità di andarcene via, tutti e quattro, in qualche isola deserta e bene attrezzata, a portata di mano, e vivere lì, nella foresta.


Harris disse che il guaio delle isole deserte, a quanto gli avevan detto, era la loro umidità; ma George disse che ciò non corrisponde al vero quando le isole sono state dovutamente bonificate.


Ed allora ci mettemmo a parlare di bonifiche e a questo proposito George ci raccontò una cosa molto spassosa che successe una volta a suo padre. Disse che suo padre si trovava in viaggio insieme ad un amico nel Galles e una notte si fermarono in una piccola locanda dove c'erano altre persone alle quali essi si unirono per ingannare il tempo.


Passarono una bella serata e fecero tardi. Quando si decisero ad andarsene a letto (badate che questo successe al tempo in cui il padre di George era molto giovane) erano allegretti anzi che no.


Essi (il padre di George e l'amico del padre di George) dovevano dormire nella stessa stanza ma in due letti separati. Presero la candela e salirono la scala. Quando arrivarono nella stanza la candela batté contro la parete e si spense cosicché dovettero spogliarsi al buio e cercare il letto a tentoni. Invece di andare verso due letti diversi, come credevano di stare facendo, salirono tutti e due nello stesso senza accorgersene, uno si mise a capo del letto e l'altro, arrampicandosi dal lato opposto, si sdraiò con i piedi sul cuscino.


Vi fu un po' di silenzio poi il padre di George disse:

- Joe!

- Cosa c'è, Tom? - rispose la voce di Joe da piede del letto.


- Nel mio letto c'è un uomo, - disse il padre di George. - Ha messo i piedi sul mio cuscino.


- Ma è una cosa incredibile, Tom, - rispose l'altro; - vorrei morire se anche nel mio letto non c'è un uomo.


- E che vuoi fare? - chiese il padre di George.


- Be'! lo sbatto fuori, - rispose Joe.


- Anch'io, - disse con tono aggressivo il padre di George.


Vi fu una breve lotta seguita da due tonfi pesanti sul pavimento e poi una voce piuttosto lamentosa disse:

- Di', Tom!

- Com'è andata?

- Be'! l'uomo mio ha buttato fuori me.


- Anche il mio e questa locanda non mi pare sicura, che ne dici?

- Come si chiamava quella locanda? - domandò Harris.


"L'asino d'oro", - rispose George.- Perché?

- No, no, allora non è la stessa! - disse Harris.


- Che significa, non è la stessa?- ripiccò George.


- Dico che è strano... - mormorò Harris, - ma la stessa cosa precisa successe una volta a MIO padre in una locanda di campagna.


Lui la raccontava spesso e perciò credevo che fosse la stessa locanda.


Quella sera ce ne andammo a dormire alle dieci e siccome mi sentivo molto stanco pensai che avrei dormito bene; ma non fu così. Di solito io mi spoglio e metto il capo sul guanciale ed ecco che qualcuno dà un colpo alla porta e dice che sono le otto e mezzo del mattino; ma quella notte tutto sembrava essere contro di me; la novità di ogni cosa, la durezza della barca, la posizione raggomitolata (avevo i piedi sotto una panca e la testa sotto un'altra), il rumore dell'acqua che sciabordava intorno alla barca, il vento tra le foglie, tutto mi rendeva irrequieto e mi dava fastidio.


Il sonno venne e dormii per qualche ora, ma poi qualche pezzo della barca che sembrava esser nato quella notte - perché con tutta certezza quando partimmo non c'era e poi comparve cominciò a scavarmi nella spina dorsale. Per un poco ci dormii sopra sognando che avevo inghiottito una sterlina d'oro e mi stavano facendo un buco nella schiena per tentare di estrarla. La cosa mi sembrò scortesissima da parte di quelli che mi bucavano e io dissi che mi riconoscevo loro debitore del denaro e che l'avrei pagato a fine mese. Ma essi non ne vollero sapere e dissero che era molto meglio recuperarla ora, perché altrimenti si sarebbero accumulati gli interessi. Mi arrabbiai moltissimo con loro e dissi quello che si meritavano ed allora essi dettero un colpo col succhiello, così doloroso che mi svegliai.


Nella barca l'atmosfera era soffocante e la testa mi doleva; perciò pensai di alzarmi e di andare all'aria fresca della notte.


Mi misi i panni che mi vennero sottomano alcuni miei, e altri di George e di Harris - e strisciando sotto il tendone me ne scesi a terra.


La notte era meravigliosa. La luna era tramontata lasciando la terra tranquilla tutta sola sotto le stelle che pareva parlassero a questa loro sorella nella silente calma, mentre i suoi figli dormivano, narrandole misteri arcani con accenti troppo eccelsi, troppo profondi perché le infantili orecchie umane potessero percepirne il suono.


Queste strane stelle tanto fredde, tanto brillanti, ci incutono un timoroso rispetto. Siamo come bimbi i cui piedini si siano diretti per caso in un tempio, appena illuminato, di quel Dio che ci hanno insegnato a venerare, ma che non conosciamo e, in piedi, là dove la luce ondeggiante che cade dalla cupola sonora di echi, dà la misura del tempio, sperando e temendo, ci aspettiamo di veder aleggiare da un momento all'altro una sublime visione.


Ed essa, la notte, ci sembra prodiga di conforto e di energie. In sua presenza i nostri piccoli affanni si dileguano, come vergognandosi di se stessi. La giornata è stata così piena di tormenti e di preoccupazioni; i nostri cuori si sono saturati di cattiveria e di malintenzioni e il mondo ci è parso tanto crudele e tanto ostile. Ed ecco la Notte, che come una grande madre amorosa, appoggia la sua mano lieve sul nostro capo febbrile e alza i nostri visini bagnati di lagrime verso il suo viso; e ci sorride e, malgrado non parli, noi sappiamo quello che ci vuol dire e appoggiamo le nostre gote arrossate sul suo seno e la pena svanisce.


A volte la nostra pena è davvero profonda e reale, e di fronte ad essa rimaniamo silenziosi, perché la nostra pena non ha parole per esprimersi: solo un gemito. E il cuore della Notte si gonfia di pietà nei nostri confronti: non può alleviare la nostra sofferenza; ma ci prende la mano nella sua, e il piccolo mondo diventa piccolissimo e lontanissimo laggiù, sotto di noi, e portati dalle grandi e scure ali della Notte passiamo per un attimo dinanzi a una Presenza ancora più potente della sua, e nella luce meravigliosa di quella grande Presenza, la vita si mostra interamente spalancata, come un libro, dinanzi a noi, e apprendiamo che la Pena e il Dolore sono soltanto angeli di Dio.


Solo coloro che hanno portato la corona dolorosa possono alzare gli occhi su quella luce meravigliosa; e al ritorno non possono parlarne, né svelare il mistero che ora sanno.


C'era una volta una frotta di bei cavalieri che galoppavano attraverso uno strano paese e il loro cammino correva al bordo di una grande foresta dove i pruni annodati crescono spessi e gagliardi e stracciano le carni di quelli che si perdono là dentro. Le foglie degli alberi che si alzavano nella foresta erano spesse e carnose, sicché attraverso i rami non penetrava raggio di luce che potesse rischiarare quelle tenebre piene di tristezza.


E mentre i cavalieri passavano ai margini della foresta oscura, uno di essi si smarrì e si allontanò dai compagni e più non tornò; ed i compagni addolorati continuarono il viaggio senza di lui, piangendolo per morto.


Giunsero al castello incantato dove erano diretti e vi trascorsero giorni lieti. Una notte, mentre stavano seduti intorno ai ceppi che ardevano nel grande salone e si godevano in letizia la loro pace sorbendo coppe di filtri soavi, arrivò il compagno che si era sperduto e li salutò. Aveva gli abiti a brandelli come un mendico e le sue tenere carni mostravano gravi ferite, ma il viso brillava di una gioia radiosa, profonda.


Lo interrogarono chiedendogli che cosa gli fosse accaduto; e lui raccontò che si era smarrito nella foresta e aveva vagato giorni e notti fino a che, lacero e sanguinante, si era gettato per terra invocando la morte E allora, proprio quando stava per morire, ecco che dalle tenebre apparve un'incantevole fanciulla che lo prese per mano e lo guidò attraverso sentieri tortuosi, sconosciuti a ogni essere umano, fino a che sull'oscurità della foresta non discese una luce sì chiara che la luce del giorno al suo paragone era come un lumino a confronto del sole, e in quella luce meravigliosa il nostro sperduto cavaliere vide, come in sogno, una visione, e quella visione sembrava così magica che egli non sentì più i morsi delle ferite sanguinanti e rimase come un incantato la cui gioia è più profonda del mare di cui nessuno può dire la profondità.


La visione sparì e il cavaliere, inginocchiatosi sulla terra, ringraziò il magnanimo spirito che aveva fatto smarrire i suoi passi in quella triste foresta in modo che egli aveva potuto avere la visione che essa custodiva E il nome della foresta era Dolore; ma, della visione apparsa in essa al cavaliere, non ci è dato di narrare.




CAPITOLO 11


Una volta tanto George si alza presto - La vista dell'acqua fredda non piace né a George, né a Harris, né a Montmorency - Eroismo e decisione da parte di J. - George e la sua camicia; raccontino con la morale - Harris fa da cuoco - Retrospettive osservazioni storiche specialmente inserite ad uso scolastico.


Il mattino seguente mi svegliai alle sei e vidi che anche George era desto. Ci rigirammo tutti e due cercando di riaddormentarci ma non ci riuscimmo. Se ci fosse stata una ragione importante per non riaddormentarci, ci saremmo certamente ributtati giù dopo avere guardato l'orologio e avremmo dormito fino alle dieci. Siccome non c'era nessuna ragione al mondo per cui dovessimo essere pronti prima di due ore al minimo e siccome una levataccia così presto era un vero assurdo, ambedue, vittime della congenita malvagità delle cose in generale, sentimmo che il rimanere a letto per cinque minuti ancora sarebbe stato la morte certa.


George disse che una cosa simile, alquanto peggiore però, gli era accaduta circa diciotto mesi prima quando era in pensione da una certa signora Gippings. Una sera il suo orologio si guastò, fermandosi sulle otto e un quarto. Egli non se ne rese conto perché, per una cosa o per l'altra, aveva dimenticato di dargli la corda prima di coricarsi (cosa che gli accadeva molto di rado) e lo aveva appeso al disopra del guanciale senza guardarlo.


Questo successe d'inverno, molto vicino alla giornata più corta dell'anno: da una settimana c'era il nebbione e perciò il fatto che quando George al mattino si svegliò vi fosse un gran buio, non influì sulla sua nozione dell'ora. Allungò il braccio e prese l'orologio.


Erano le otto e un quarto.


- Santi numi del cielo, proteggetemi voi! - esclamò George; - ed io che dovevo essere in ufficio alle nove. Ma perché non mi hanno svegliato? Che vergogna! - Scaraventò l'orologio sul materasso e saltò dal letto, fece il bagno freddo, si vestì, si rasò con l'acqua gelata perché non c'era tempo per farla riscaldare e si precipitò dando un'altra occhiata all'orologio.


Fosse per la scossa ricevuta nell'esser buttato sul letto o fosse per altra ragione qualsiasi, che George non sapeva spiegare, il certo è che l'orologio si era messo a camminare e dalle otto e un quarto era passato a segnare venti minuti alle nove.


George l'agguantò e si buttò per le scale. Nella sala tutto era buio e silenzio; niente fuoco, niente colazione. George pensò che di tutto ciò la signora G. avrebbe dovuto vergognarsi, e si propose di dirle quello che si meritava quando fosse rientrato la sera. S'infilò cappotto e cappello afferrò l'ombrello e si avviò alla porta d'entrata. Non avevano ancora tolto neanche la spranga e George scagliò contro la signora G. l'anatema di pigra vecchiaccia oziosa e dopo aver giudicato molto riprovevole che la gente non si alzasse ad ora decente, rispettabile, che non togliesse la sbarra alla porta e non l'aprisse, partì in tutta fretta.


Fece di corsa i primi tre o quattrocento metri, dopo di che su di lui cominciò a gravare una sensazione strana e singolare, prodotta dalla circostanza che in giro si vedeva pochissima gente e che non c'era nessun negozio aperto Senza dubbio la mattinata era nebbiosissima e scurissima; ma sembrava incredibile che per questa ragione si dovessero esser fermate tutte le attività. E se lui all'ufficio ci doveva andare, perché mai gli altri se ne rimanevano a letto a causa della nebbia e del buio?

Arrivò finalmente a Holborn. Tutto chiuso: non un omnibus che passasse! Non si vedevano che tre uomini uno dei quali era un vigile; poi, un carretto di cavoli che andava al mercato e una sgangherata carrozza di affitto. George tirò fuori l'orologio e guardò l'ora; erano le nove meno cinque. Si fermò e contò i battiti del polso. Si abbassò e si toccò le gambe. Poi, tenendo l'orologio in mano, si avvicinò al vigile e gli chiese se sapesse l'ora.


- L'ora?- disse il vigile, guardando George dall'alto in basso con evidente aria di diffidenza.- Ecco, stia ad ascoltare la sentirà battere.


George si mise in ascolto e immediatamente un orologio del vicinato lo servì.


- Ma ha battuto tre colpi soltanto! - disse George indispettito quando l'orologio ebbe smesso.


- E quanti voleva che ne battesse? - rispose la guardia.


- Come quanti? Nove, - disse George mostrando il suo orologio.


- Ma dico, signore, in che parte del mondo vive lei? - disse severamente il custode dell'ordine pubblico.


George pensò un poco e fornì il suo indirizzo.


- Ah sì, eh! - rispose l'uomo. - Stia a sentire, se ne ritorni tranquillamente a casa con il suo orologio e non ne parliamo più.


E George tornò a casa meditando e salì di nuovo in camera.


Appena arrivato pensò di spogliarsi e di mettersi a letto ma riflettendo che poi avrebbe dovuto rivestirsi, rilavarsi e fare un altro bagno decise che sarebbe rimasto su e che avrebbe dormito sulla sedia a sdraio.


Ma non riuscì ad addormentarsi. Mai in vita sua si era sentito così sveglio; perciò accese il lume, tirò fuori la scacchiera e si fece una partita a scacchi da solo. Ma neanche questo lo rianimava, pareva anzi che lo intorpidisse e cercò di mettersi a leggere. Non riuscì ad interessarsi neanche alla lettura e allora si rimise il cappotto e decise di tornarsene sulla strada per compiere una passeggiata.


Tutto in giro era tetro e deserto e le guardie che incontrava lo guardavano con palese sospetto e gli gettavano addosso la luce delle loro lampade e lo seguirono anche. Questo gli fece un certo effetto e finì per sentirsi come se avesse commesso veramente qualcosa di male e cominciò a voltare nelle strade laterali e si nascose in un androne quando sentì dei passi cadenzati avvicinarsi.


Naturalmente questo suo comportamento insospettì di più i rappresentanti della legge che, avvicinatiglisi, lo trassero fuori dal nascondiglio e gli chiesero che cosa stesse facendo lì. Lui rispose: - Nulla! - Disse che era semplicemente uscito per fare una passeggiata (erano le quattro del mattino); ma quelli lo guardavano assolutamente increduli e andò a finire che due agenti in borghese lo riaccompagnarono a casa per vedere se abitava veramente dove aveva detto. Attesero che aprisse con la chiave e che entrasse e poi si andarono ad appostare dirimpetto, in osservazione.


Una volta rientrato pensò che, per passare il tempo, avrebbe potuto accendere il fuoco e prepararsi la colazione; ma si accorse che non era capace di fare nulla: qualunque cosa toccasse, fosse il secchio del carbone o un cucchiaino, gli cadeva di mano e lui vi cadeva sopra facendo un rumore indiavolato e sudando per la paura che la signora G. si svegliasse e, pensando che ci fossero dei ladri, aprisse la finestra gridando: - Polizia! - ed allora quei due là fuori sarebbero entrati, lo avrebbero ammanettato e portato al Commissariato.


Tutto ciò lo mise in uno stato di nervosismo morboso ed egli immaginò il processo, i suoi sforzi per spiegare le circostanze al giudice, vide che nessuno voleva credergli e che lo condannavano a venti anni di lavori forzati e che la mamma gli moriva di crepacuore. Perciò rinunciò all'idea di prepararsi la colazione, si strinse il pastrano addosso e si sedette tutto rannicchiato sulla sedia a sdraio fino a che, alle sette e mezzo, la signora G.


discese dalla sua camera George disse che da quel giorno in poi non si era più alzato presto: la lezione era stata dura.


Mentre George raccontava quest'avventura vissuta, eravamo rimasti seduti e avvolti nelle coperte. Quando finì mi misi al lavoro per svegliare Harris con un remo. Alla terza stoccata ce la feci; lui si voltò sull'altro lato, disse che si sarebbe alzato fra un minuto e che gli occorrevano gli stivaletti alti.


Lo mettemmo subito al corrente di dove si trovava, servendoci del rampone, si capisce, e lui saltò a sedere facendo sì che Montmorency, che dormiva il sonno del giusto proprio sopra il suo petto, volasse all'aria per tutta la lunghezza della barca.


Smontammo il tendone e tutti e quattro facemmo capolino al disopra del bordo verso il fiume aperto; vedemmo l'acqua e rabbrividimmo.


La nostra idea, la sera prima, si capisce, era stata quella di svegliarci presto al mattino, di scaraventare via le coperte, e, dopo avere smontato il tendone, saltare nel fiume emettendo un grido di gioia per goderci una nuotata deliziosa. Ora, al mattino eravamo arrivati, ma quell'idea ci sembrava meno allettatrice.


L'acqua aveva l'aria di essere umida e freddolina, il vento, poi, gelava.


- Forza, - disse Harris, - chi si tuffa per primo?

Non ci azzuffammo per la precedenza. George, per quanto lo riguardava, liquidò la faccenda rientrando nella barca per infilarsi le calze. Montmorency emise un ululato involontario come a dire che il solo pensiero gli pareva orribile e Harris disse che dopo il bagno sarebbe stato difficile arrampicarsi a bordo e perciò andò a prendersi i pantaloni.


In quanto a me, anche se i tuffi in acqua non sono la mia predilezione, mi dispiaceva mostrarmi vile. Pensavo, però, che vi potevano essere tronchi sommersi ed altra vegetazione. Venni allora ad una specie di compromesso e cioè di portarmi al margine del fiume e spruzzarmi d'acqua; presi un asciugamano e strisciai come un verme su di un tronco che scendeva in acqua.


Faceva un freddo dell'accidente. Il vento tagliava come una lama.


Francamente mi passò la voglia di buttarmi dell'acqua addosso.


Decisi di ritornare in barca e vestirmi, perciò mi rigirai, ma nel rigirarmi quello stupidissimo tronco cedette ed io e l'asciugamano insieme, giù, in acqua, con un tonfo tremendo. Quando ebbi nozione di quello che era successo già mi trovavo in mezzo alla corrente ed avevo inghiottito un gallone di acqua del Tamigi.


- Bene, perbacco! il vecchio J. si è tuffato!

Era Harris che gridava ed io lo sentivo mentre tornavo a galla.


- Non lo credevo capace di tanto, e tu?

- Come va? - gridò George.


- Un incanto! - risposi senza fiato. - Fate male a non tuffarvi anche voi. Mi sarebbe davvero dispiaciuto perdere questa occasione. Perché non venite anche voi? E' questione di un po' di volontà.


Ma non riuscii a persuaderli.


Quella mattina, mentre mi vestivo, avvenne un fatto piuttosto divertente. Quando rientrai nella barca avevo un gran freddo e nella fretta di mettermi la camicia, inavvertitamente la buttai in acqua. Divenni furioso specialmente perché George scoppiò a ridere. Non vedevo che cosa ci fosse da ridere e glielo dissi anche, ma questo servì solo a farlo ridere di più. Mai visto un uomo ridere tanto. Alla fine persi la pazienza e gli feci notare che pezzo di somaro idiota ed imbecille lui fosse; e lui ragliava sempre di più. E poi, mentre ripescavo la camicia, mi accorsi che non era affatto la mia camicia ma quella sua, di George, che avevo preso per sbaglio invece della mia ed allora la comicità della cosa cominciò a farsi palese e cominciai a ridere anch'io. E feci girare lo sguardo dalla camicia bagnata di George a George, crepando dalle risa, e mi divertivo e mi sganasciavo tanto che la camicia ricadde in acqua.


- Non la vuoi ripescare? - disse George fra il tumulto delle risate.


Per un momento non potei rispondere tanto stavo ridendo ma alla fine gridai:

- Non è la camicia mia, è la tua!

Mai visto in vita mia un viso tramutarsi da allegro in irato così subitamente.


- Cosa? - gridò saltando su. - Brutto pappagallo che non sei altro! Ma non potresti stare un po' più attento a quello che fai?

Perché non vai a vestirti sulla riva? Tu non sei il tipo per vivere in una barca, capito? non lo sei. Passami il gancio d'accosto.


Cercai di fargli comprendere tutto l'umorismo della cosa, ma egli non ci riusciva. George, a volte, in fatto di scherzi è tetragono.


Harris ci propose di mangiare uova strapazzate per colazione e disse che le avrebbe cucinate lui. Da quanto raccontava, si sarebbe detto che era un buon cuciniere e che le uova strapazzate le sapesse far bene. Spesso, nei pic-nic le aveva fatte, e anche a bordo di panfili. Insomma, a sentir lui era famoso per le uova strapazzate. Dalla sua conversazione capimmo che la gente, che aveva assaggiato una volta le sue uova strapazzate, dopo rifiutava ogni altro cibo e se non poteva averle languiva e ne moriva.


A sentirlo raccontare ci fece venire l'acquolina in bocca e gli affidammo il fornello, la padella ed il resto delle uova che non si erano schiacciate nel cesto imbrattando tutto, e lo pregammo di mettersi all'opera.


La rottura delle uova gli risultò un po' difficile, cioè non proprio la rottura fu difficile ma il metterle in padella una volta rotte, pur evitando che gli inondassero i pantaloni o che gli colassero per le maniche; ma alla fine riuscì a schiacciare nella padella una mezza dozzina di uova e accoccolatosi davanti al fornello le rimestò con la forchetta.


Per quanto io e George potevamo giudicare doveva essere un lavoro terribile. Tutte le volte che Harris prendeva in mano la padella si scottava, si metteva a saltellare intorno al fuoco versando tutto, schioccando le dita e maledicendo. In verità, ogni volta che io e George lo guardavamo, egli si dava l'aria di essere intento al suo lavoro pur facendo tutte quelle acrobazie e noi, al principio, credemmo che esse facessero parte integrante della ricetta culinaria.


Non avevamo idea di cosa fossero le uova strapazzate ed immaginammo che si trattasse di una pietanza di pellirosse o delle isole Sandwich che per essere cucinata aveva bisogno di speciali esorcismi. Ad un certo momento Montmorency si avvicinò cercando di annusare, ma il grasso schizzò scottandogli il naso sicché anche lui si mise a saltellare e a bestemmiare. Insomma era la funzione più ridicola che io avessi mai visto, tanto che quando finì ce ne rammaricammo.


In sostanza il risultato non fu quel successo che Harris aveva preannunziato, perché c'era rimasto ben poco da vedere. Nella padella erano state buttate sei uova e ora venne fuori, invece, un cucchiaino di roba bruciacchiata e di aspetto per niente appetitoso.


Harris disse che la colpa era della padella e che se invece avesse potuto disporre di una pesciaiola e di un fornello a gas, certamente il risultato sarebbe stato migliore e noi decidemmo di non ritentare quella pietanza se non con suppellettili adatte.


Finimmo di fare colazione che il sole si era fatto più caldo, il vento aveva smesso di soffiare e la mattinata era quanto di più piacevole si possa desiderare. Ben poco, che ci ricordasse di vivere nel diciannovesimo secolo, si offriva alla vista sicché, guardando il fiume illuminato dal sole mattutino, potevamo quasi sognare che i secoli tra noi e quella mattina del giugno del 1215, che rimarrà famosa per sempre, fossero svaniti e che noi, figli dei proprietari terrieri inglesi, vestiti di stoffe tessute con telai domestici e con lo spadino alla cinghia, fossimo lì in attesa di assistere alla stesura di quella grande pagina di storia, il cui alto significato sarebbe stato tradotto alle masse quattrocento e dispari anni dopo da un tale Oliviero Cromwell, che l'aveva studiato a fondo.


La giornata estiva è sfolgorante, piena di sole, soave e tranquilla. Ma c'è nell'aria un fremito di veniente agitazione. Re Giovanni ha pernottato a Duncroft Hall e per tutta la giornata precedente la cittadina di Staines ha echeggiato del clangore di gente armata e dello scalpitare di grandi cavalli sulle tozze pietre dell'acciottolato, degli ordini dei capitani, di orrende bestemmie, dei burberi motteggi degli arcieri e dei lancieri e della strana favella di armati stranieri.


Coperti di mantelli gaiamente colorati sono arrivate al galoppo pattuglie di scudieri, stanchi e polverosi per il lungo viaggio.


Per tutta la sera le case degli intimiditi cittadini hanno dovuto essere aperte in fretta per accogliere la soldataglia bruta che pretendeva il miglior letto e il miglior vitto, altrimenti guai alla casa e a quelli che vi abitavano dentro perché, in quei tempi burrascosi, la spada era tutto, giudice e tribunale, querelante ed esecutrice e, in pagamento di quello che prendeva, risparmiava quelli da cui aveva preso, quando le garbava.


Altre truppe baronali sono riunite intorno al fuoco di bivacco nella piazza del mercato trasformata in accampamento. I soldati mangiano e bevono, urlano chiassosi canti da ubriachi, giocano e litigano mentre la sera scende e presto sopravviene la notte. La luce dei falò disegna ombre oblique sulle loro armi ammonticchiate e sui loro torsi barocchi. Nei campi tutto intorno si vedono deboli sprazzi di luce di bivacchi più lontani: qui fanno mostra di sé i seguaci di qualche prepotente lord, lì i mercenari francesi di Giovanni si aggirano ai margini della città come lupi in agguato.


E così passa quella notte, con sentinelle in ogni strada oscura, con tremolanti fuochi di vedetta e poi su questa bella valle del vecchio Tamigi sorge il mattino della grande giornata che dovrà così fortemente incidere sul destino di epoche non ancora nate.


Fin dalle prime luci dell'alba grigia, nell'isola più a valle delle due, appena un po' più su di dove siamo noi ora, si è sentito un gran trambusto e il rumore di operai al lavoro. Il grande padiglione arrivato ieri sera viene montato e i carpentieri inchiodano file di sedili mentre i tappezzieri venuti da Londra lo decorano con stoffe colorate, con sete, con drappi d'oro e d'argento.


Ed ora... ecco! giù per la strada tortuosa che scende da Staines lungo la riva del fiume vengono, ridendo e chiacchierando con voci gutturali, una decina di robusti alabardieri - uomini del barone questi - che si fermano ad un centinaio di metri da noi, a monte, sull'altra riva, e, appoggiati alle armi, attendono.


Continua così, di ora in ora, la marcia di altri gruppi e bande di armati sulla strada. Gli elmi e le corazze riflettono i lunghi raggi ancora bassi del sole mattutino e fin dove può arrivare lo sguardo, il cammino appare zeppo di arcieri luccicanti e di caracollanti destrieri. Da un gruppo all'altro galoppano cavalieri urlanti; svolazzano pigramente le bandierine nella tepida brezza e ogni tanto si nota un più agitato movimento nei ranghi che si fanno da lato per dare il passo a qualche possente barone che, circondato dalla guardia e dagli scudieri, incede sul palafreno e va a prender posto alla testa dei suoi servi e vassalli.


La rustica popolazione di Staines, incuriosita, si è raccolta sul fianco della collina di Cooper, proprio dirimpetto; essi non sanno che voglia dire tutto quel trambusto e ciascuno dà una versione diversa del grande evento che son venuti a vedere; alcuni affermano che da questa intensa giornata il popolo trarrà grandi benefici, ma i vecchi scuotono la testa perché, di questi discorsi, ne hanno già sentiti tanti, da un pezzo.


Tutto il fiume, da Staines in giù, è punteggiato da piccole e grandi barche e da quei miseri galleggianti di vimini, ormai abbandonati, che solo qualche poverissimo ancora usa. Tutte le imbarcazioni sono state spinte a remi o sono state rimorchiate da vogatori arditi oltre le rapide, dove, negli anni a venire, sarà costruita la chiusa di Bell Weir e si addossano per quanto osano alle grandi chiatte coperte pronte per trasportare re Giovanni dove la fatidica Magna Charta attende di esser firmata.


E' mezzogiorno e noi e tutta la gente si aspetta pazientemente da molte ore quando si diffonde la voce che Giovanni è sfuggito di nuovo alla stretta dei baroni e che, con i mercenari al suo fianco, è scappato da Duncroft Hall, e presto metterà mano ad un lavoro ben diverso da quello di firmare carte per la libertà del suo popolo.


Ma non è così. Questa volta l'hanno afferrato con mano di ferro e lui si è contorto ed ha cercato di sgusciare invano. Lontano, nella strada, si è alzata una nuvola di polvere che aumenta e si avvicina; lo scalpitar degli zoccoli diviene più distinto e una brillante cavalcata di nobili e cavalieri sfarzosamente abbigliati si fa strada tra i gruppi densi degli uomini attenti. In testa, in coda ed ai lati, cavalcano gli armati dei baroni, e nel mezzo viene re Giovanni.


Egli arriva a cavallo fin dove le chiatte stanno in attesa e i baroni maggiori escono dai ranghi per andargli incontro. Il re saluta sorridendo, lusingato, con parole melate come se lo avessero invitato ad una festa in suo onore. Si alza per smontare e coglie lo sguardo dei propri mercenari francesi relegati in coda.


E' troppo tardi? Basterebbe una stoccata al cavaliere che senza sospetto sta al suo fianco, un grido alla truppa francese, una carica disperata contro le schiere impreparate che gli stanno dinanzi, e questi baroni ribelli potrebbero pentirsi di aver osato sventare i suoi piani. Anche a questo punto una mano audace avrebbe potuto cambiare le carte in tavola. Se ci fosse stato Riccardo! La coppa della libertà sarebbe stata strappata dalle labbra dell'Inghilterra e il gusto dell'emancipazione sarebbe stato assaporato solo cento anni dopo.


Ma di fronte ai visi seri dei combattenti inglesi il cuore di re Giovanni cede e il braccio di re Giovanni si abbassa sulle redini e lui smonta e prende posto sulla chiatta più vicina. I baroni lo seguono tenendo la mano sull'elsa della spada e si dà ordine di procedere.


Le chiatte adornate di drappi chiassosi lasciano lentamente la riva di Runnymede. Lentamente si fanno strada contro corrente fino a che, con un cupo brontolio, accostano la sponda di quest'isola che da oggi in poi prenderà il nome di Isola della Magna Charta.


Re Giovanni è sbarcato sulla riva e noi attendiamo silenziosi, senza fiato, fino a che un alto grido non fende l'aria ed allora apprendiamo che la grande pietra angolare del tempio della libertà inglese è stata solidamente posata.




CAPITOLO 12


Enrico Ottavo e Anna Bolena - Svantaggi della coabitazione con una coppia di innamorati - Dura prova per la nazione inglese - Ricerca notturna del pittoresco - Senza famiglia e senza casa - Harris si prepara a morire - Arriva un angelo - Effetto di una gioia improvvisa su Harris - Merenda - La mostarda è carissima - Spaventosa battaglia - Maidenhead - Tre pescatori - Maledetti.


Seduto sulla sponda, riandavo col pensiero a quella scena quando George saltò fuori a dire che lui stava aspettando che avessi finito di fare i miei comodacci nella speranza che poi avrei aiutato a rigovernare. E così, dai tempi gloriosi del passato, mi riportò al presente prosaico e a tutte le sue miserie e i suoi peccati. Scesi nella barca e pulii la padella con un pezzo di legno e un ciuffo d'erba e poi l'asciugai con la camicia umida di George.


Andammo fino all'isola della Magna Charta ed entrammo nel padiglione dov'è la pietra su cui si dice fosse stato firmato il grande documento; sul fatto che effettivamente sia stato firmato lì oppure, come affermano altri, sull'altra sponda, a Runnymede, io rinuncio a pronunciarmi. La mia opinione però è favorevole alla comune credenza dell'isola e se fossi stato io uno dei baroni di quel tempo, avrei insistito al massimo presso i miei colleghi per portare un tipo così sgusciante come re Giovanni sull'isola dove, senza dubbio, vi erano minori possibilità di sorprese e di tranelli.


Non lontano dalla punta dei Pic-nic, nel territorio di Ankerwyke House, vi sono le rovine di un vecchio convento e si dice che appunto in quei paraggi Enrico Ottavo si incontrasse con Anna Bolena. Egli si incontrava con lei anche nel castello di Hever, nel Kent e anche nei pressi di Saint Alban. A quei tempi il popolo inglese deve aver avuto grandi difficoltà per trovare un posto dove quei due giovani spensierati non s'incontrassero.


Vi è mai capitato di abitare in una casa dove c'è una coppia d'innamorati? E' una cosa estenuante. Vi vien voglia di andarvi a sedere nel salotto e vi avviate. Non appena aprite la porta sentite un rumore come se qualcuno si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa e, quando entrate, trovate Emilia che sta ripiegata sulla finestra intentissima a guardare dalla parte opposta della strada e il vostro amico Gianni Eduardo che all'altro estremo della stanza sta rapito nell'ammirazione di ritratti di parenti altrui.


- Oh! - dite voi arrestandovi sull'uscio, - non sapevo che ci fosse gente.


- Davvero? - dice Emilia con tono glaciale facendovi capire chiaramente che non vi crede.


Voi gironzolate un poco poi dite:

- E' molto scuro. Perché non accendiamo la lampada a gas?

Gianni Eduardo dice: - Oh! - lui non ci aveva fatto caso; ed Emilia dice che il papà non vuole che si accenda il gas nel pomeriggio.


Voi date un paio di notizie ed esprimete la vostra opinione circa la questione irlandese, ma essi non sembrano interessarsi di queste cose e tutte le loro osservazioni al riguardo sono: "Oh!" "Davvero?" "Proprio così?" "Sì" e "Non dica!". E dopo dieci minuti di una conversazione in questo stile voi infilate la porta e ve ne andate meravigliandovi che l'uscio sbatta immediatamente dietro di voi e si chiuda senza che l'abbiate toccato.


Un'ora e mezzo dopo vi sentite in vena di andarvi a fare una fumatina di pipa nella serra. Lì c'è una sola sedia e su di essa c'è seduta Emilia mentre Gianni Eduardo, se si deve aver fiducia nel linguaggio dei vestiti, evidentemente era stato seduto per terra. I due non parlano ma vi lanciano uno sguardo che dice tutto quello che può essere detto tra persone civili, e a voi non rimane che battere in ritirata e chiudervi la porta alle spalle.


Ormai non avete più il coraggio di azzardarvi a guardare in nessuna stanza e perciò quando vi siete stancati di andare su e giù per le scale vi riducete a tornare nella vostra camera da letto. Ben presto vi annoiate, è logico, ed allora vi mettete il cappello in testa e scendete in giardino. Ma, anche lì, mentre passeggiando nel vialetto passate dinanzi al tempietto di frasche, scorgete quei due cretinetti rintanati in un angolino; vi vedono e naturalmente si convincono che voi avete la malvagia ostinazione di seguirli dappertutto.


- Io domando perché mai nelle pensioni non destinino una stanza all'uso esclusivo degli innamorati, con l'obbligo di non invadere gli altri locali, - mormorai tra me, poi tornai in anticamera, presi l'ombrello e me ne uscii.


Qualcosa di molto simile dev'essere avvenuto quando quel ragazzaccio di Enrico Ottavo corteggiava la piccola Anna. La gente del Buchkinghamshire se li trovava improvvisamente fra i piedi nei paraggi di Windsor e di Wraysbur ed esclamava: "Oh! siete qui!".


Ed Enrico arrossiva e diceva: "Sì, ero appena arrivato per cercarvi un amico," e Anna soggiungeva: "Oh! lieta di vedervi! Che combinazione! Ho incontrato proprio adesso il signor Enrico Ottavo sul viottolo e siccome facevamo la stessa strada...".


Allora quella gente si allontanava dicendo tra sé: - Meglio tagliar la corda. Andiamocene a Kent.


Andavano a Kent e la prima cosa che vedevano a Kent, quando arrivavano, era Enrico ed Anna che giravano imbambolati presso il castello di Hever.


- Ma che razza di roba! - dicevano. - Via, via anche di qui. Ormai questo è insopportabile. Andiamocene a Saint Alban, quello per lo meno è un posticino tranquillo.


E arrivati a Saint Alban, eccoti la maledetta coppia che passeggia sotto le mura dell'Abbazia. E allora quella povera gente andava a fare il pirata fino al giorno del matrimonio.


Il tratto del fiume tra la punta dei Pic-nic e la chiusa di Old Windsor è molto attraente. Parallelamente alla sponda corre un viale ombroso punteggiato qua e là da eleganti villette e si arriva ad una locanda chiamata "Le campagne di Anseley", molto invitante, come del resto lo sono la maggior parte delle locande su pel fiume; è una locanda dove si può bere un buon bicchiere di birra. Così ci assicurò Harris e noi sappiamo che in materia si può credere alla parola di Harris. Edoardo il Confessore si costruì qui un palazzo e fu qui che il conte Godwin venne accusato dai giudici di allora di aver complottato per la morte del fratello del re. Il conte Godwin spezzò un pane e lo mostrò tenendolo fra le dita.


- Se sono colpevole, - disse il conte, - che mi strozzi mangiando questo pane!

Si mise il pane in bocca, l'inghiottì, si strozzò e morì.


Dopo Old Windsor il fiume diventa alquanto scialbo e non ritorna al suo aspetto interessante se non nelle vicinanze di Boveney. Io e George rimorchiammo fino oltre il Home Park che si stende lungo la riva destra dal ponte Albert al ponte Vittoria e, nel passare dinanzi a Datchet, George mi domandò se mi ricordavo ancora del nostro primo viaggio sul fiume e di quella volta che sbarcammo a Datchet alle dieci di sera morti di sonno e volevamo cercare un letto Gli risposi che me ne ricordavo benissimo ed infatti ce ne vorrà del tempo prima che me ne dimentichi.


Era il sabato precedente le ferie di ferragosto. Noi, gli stessi tre, eravamo stanchi e affamati, e arrivati a Datchet tirammo fuori la cesta, i due sacchi da viaggio, le coperte, i cappotti ed altre cosettine e partimmo per scovare una locanda. Passammo dinanzi a un grazioso alberghetto con il portico adorno di pini e di rampicanti, ma senza caprifoglio e io, chissà mai perché, mi ero fissato col caprifoglio, perciò dissi:

- Qui no! andiamo un po' più avanti e vediamo se ne troviamo uno con il caprifoglio.


Continuammo la strada ed arrivammo a un altro albergo. Anche questo era grazioso e aveva pure il caprifoglio tutt'intorno, ma alla porta d'entrata c'era appoggiato un uomo il cui aspetto non piacque a Harris. Disse che quello non aveva un viso cordiale e, inoltre, calzava un paio di brutti stivali; e continuammo la nostra ricerca. Facemmo un bel pezzo di cammino ma non trovammo altri alberghi; poi ci imbattemmo in un uomo e gli chiedemmo informazioni.


Lui disse:

- Ma voi li avete oltrepassati, gli alberghi. Fate dietro front e ritornate sui vostri passi: incontrerete "Il Cervo".


Noi dicemmo:

- Ci siamo stati ma non ci è piaciuto... non è ricoperto di caprifoglio.


- Be'! - disse lui, - proprio dirimpetto c'è "Il Castello". Avete chiesto lì?

Harris rispose che lì non ci volevamo andare, che non ci piaceva l'aspetto dell'uomo sulla porta, che Harris aborriva il colore dei suoi capelli e, inoltre, non gli piacevano i suoi stivali.


- Be'! allora non so proprio come ve la caverete, - disse il nostro informatore, - perché qui ci sono questi due alberghi soltanto.


- Nessun'altra locanda? - esclamò Harris.


- Nessuna, - rispose l'uomo.


- E allora come ci arrangiamo? - gridò Harris.


George interloquì e disse che io e Harris, se proprio ci faceva piacere, dovevamo farci costruire un albergo apposta per noi e farci costruire anche la gente da metterci dentro. Lui, intanto, sarebbe tornato al "Cervo".


Non c'è verso che i grandi ingegni riescano a realizzare i loro ideali e perciò io e Harris, di fronte alla vanità dei desideri terreni, emettemmo un sospiro di rassegnazione e seguimmo George.


Portammo tutte le nostre trappole al "Cervo" e le disponemmo per terra nella portineria.


L'oste arrivò e disse:

- Buona sera, signori.


- Oh, buona sera, - rispose George, - vorremmo tre letti, per favore.


- Spiacentissimo, signori, - disse lui, - ma non vi posso accontentare.


- Senta, - disse George, - basteranno due. Due di noi dormiranno in un letto, non è vero? - incalzò guardando me ed Harris.


Harris disse: - Oh, sì, - ed egli subito pensò che io e George avremmo dormito benissimo in un letto solo.


- Spiacentissimo, signori, - ripeté nuovamente l'oste, - vi assicuro che non c'è rimasto un letto vuoto in tutto l'albergo.


Credete, abbiamo già messo due o tre persone per letto.


Questa spiegazione ci fece rimanere un po' male, ma Harris, che è un viaggiatore consumato, subito dimostrò la sua competenza e con un tono mellifluo disse:

- Be', che fare? Ci vorrà pazienza e ci adatteremo. Ci dia pure un letto smontabile nella sala da bigliardo.


- Spiacentissimo, signori. Ci son già tre clienti che dormono sul bigliardo e due nel bar. Per questa notte mi è impossibile accomodarvi.


Raccogliemmo le nostre robe e ce ne andammo al "Castello". Era un posticino grazioso. Mi parve che mi piacesse più dell'altro e lo dissi; Harris approvò e disse che andava benissimo e che non eravamo obbligati a guardare l'uomo dai capelli rossi; lui, peraltro, non aveva colpa di avere i capelli rossi.


Harris parlò di questo con gentilezza e comprensione.


Al "Castello" non ci fecero neanche parlare. Sulla soglia, a mo' di saluto, la signora ci disse che noi eravamo la quattordicesima comitiva che aveva dovuto rimandare indietro in un'ora e mezzo. In quanto poi al nostro timido suggerimento di accomodarci sul bigliardo o nello scantinato del carbone, essa ne rise con commiserazione. Ogni cantuccio era stato invaso da tempo.


Le domandammo se conoscesse qualche posto in tutto il paese dove avremmo potuto trovare ricovero per quella notte.


- Be'! - disse lei, - se non avessimo fatto troppo caso (ma, badassimo bene, lei non la raccomandava) c'era una piccola birreria a mezzo miglio di lì, sulla strada di Eten.


Non ce lo facemmo dir due volte, agguantammo cesta, sacchi, pastrani e le coperte nonché tutti i pacchettini e partimmo di corsa. La distanza parve esser più vicina al miglio che al mezzo miglio ma alla fine arrivammo nel bar col fiatone.


Quella gente della birreria era molto rozza. Ci risero in faccia.


In tutta la casa non c'erano che tre letti e ci dormivano sette scapoli e due coppie di sposi. Per fortuna un cortese barcaiolo che si trovava per caso in quella bettola suggerì di tentare dal droghiere, la porta dopo il "Cervo", e così tornammo indietro.


Il droghiere era al completo, ma una vecchierella che si trovava nel negozio ci portò gentilmente con lei da una sua amica che eccezionalmente offriva camere a un quarto di miglia di distanza.


Quella vecchietta camminava molto piano e per arrivare alla casa della sua amica ci impiegammo venti minuti, però, mentre si strisciava, essa ci tenne alto il morale descrivendoci i vari dolori che aveva alla schiena.


Le camere della sua amica erano affittate. Di lì ci raccomandarono al numero 27. Il 27 era pieno e ci mandò al 32 e il 32 era pieno.


E allora ritornammo sulla strada principale dove Harris si sedette sulla cesta e disse che di lì non si sarebbe più mosso. Affermò che quello gli sembrava essere un luogo tranquillo e che gli sarebbe piaciuto morire in quel posto. Pregò me e George di dare un bacio a sua madre per lui e di dire a tutti i suoi parenti che inviava loro il suo perdono e che moriva felice.


In quel momento arrivò un angelo travestito da monello (e, in fede mia, non potrei trovare un travestimento più affascinante per un angelo) che portava una tazza di birra in una mano e nell'altra uno spago alla cui estremità c'era qualche cosa che lui faceva battere contro tutte le pietre piatte che incontrava e poi tirava su producendo un suono particolarmente fastidioso, che suggeriva sofferenza.


A quel messaggero celeste (come poi scoprimmo che egli era) domandammo se conoscesse una casa isolata i cui abitanti fossero pochi e deboli (da preferirsi vecchie signore e paralitici), che fossero suscettibili a spaventarsi facilmente, fino a cedere i loro letti a tre disperati; ovvero, se non proprio questo, se ci potesse indicare un posto dove ci fosse qualche vecchia fornace in disuso o qualcosa del genere. Egli non sapeva di nessun luogo del genere - per lo meno a disposizione - e disse che se andavamo con lui, sua madre aveva una stanza in più e potevamo passare la notte da lei.


Sotto la luce della luna gli saltammo al collo e lo sotterrammo di benedizioni e la scena sarebbe stata bellissima se il ragazzo non fosse rimasto impressionato dalle nostre effusioni fino al punto di non reggersi più in piedi e cadere al suolo trascinandoci tutti nel capitombolo. Harris fu talmente sopraffatto dalla gioia che svenne e dovette afferrare la tazza di birra del ragazzo e vuotarla a metà per riprendere conoscenza; poi si mise a correre e io e George dovemmo portare tutti i bagagli.


Quello dove abitava il ragazzino era un villino di quattro stanze e la sua mamma - anima benedetta - ci preparò una cena a base di lardo caldo, che noi consumammo interamente (cinque libbre) e di crostata, e due teiere piene di tè; poi ce ne andammo a dormire.


Nella stanza c'erano due letti; uno a rotelle largo ottanta centimetri nel quale dormimmo io e George, e per starci dentro dovemmo legarci con un lenzuolo; l'altro era il letto del ragazzino e Harris lo ebbe tutto per sé. Al mattino seguente lo trovammo con sessanta centimetri di gambe nude che uscivano dal fondo ed io e George ce ne servimmo per appendervi gli asciugamani mentre ci lavavamo.


Se avessimo dovuto ritornare un'altra volta a Datchet sapevamo di non dover avere molte pretese in fatto di alberghi.


Ma ritorniamo alla presente escursione. Non accadde nulla di straordinario e rimorchiammo normalmente la barca fino a un punto un po' a valle dell'isola di Monkey dove la legammo e facemmo merenda. Demmo l'assalto alla carne fredda e ci accorgemmo di esserci dimenticati di portare la mostarda. In tutta la mia vita vissuta fino a quel momento e da quel momento in poi non ricordo di aver mai desiderato la mostarda così spasmodicamente. In generale non faccio nessun tifo per la mostarda e la uso molto raramente, ma in quel momento, però, per averla avrei regalato tutto l'oro del mondo.


Non so quanto oro vi sia nell'universo, ma se uno mi avesse portato un cucchiaio di mostarda avrebbe potuto averlo tutto.


Quando desidero una cosa e non posso averla divento sconsideratamente spendaccione.


Anche Harris affermò che avrebbe dato tesori per un po' di mostarda; insomma chiunque si fosse presentato con una lattina di mostarda avrebbe fatto affaroni; sarebbe stato rifornito di oro per il resto della sua vita.


Oso dire, peraltro, che sia Harris che io dopo di aver avuto la mostarda avremmo certamente cercato di mandare a monte il contratto. In momenti di orgasmo uno arriva a fare offerte così stravaganti, ma poi, quando ci può ripensare, si accorge dell'assoluta sproporzione tra l'offerta e il valore dell'articolo richiesto. Una volta, scalando una montagna della Svizzera sentii dire ad un uomo che avrebbe dato tutto l'oro della terra per una tazza di birra; poi, quando arrivò al piccolo rifugio dove la poté ottenere, fece un vero pandemonio perché gli chiesero cinque franchi per una bottiglia. Disse che era un ricatto scandaloso e lo scrisse al Times.


La mancanza della mostarda gettò un'ombra di tristezza sulla barca. La vita stessa ci parve vuota e senza interesse.


Cominciammo a riandare al tempo della nostra fanciullezza e sospirammo. Per fortuna, quando attaccammo la crostata di mele ci sentimmo un po' più sollevati e quando poi George tirò fuori dal fondo del cesto una lattina di ananasso e la fece rotolare nel bel mezzo della barca, ricominciammo a credere che la vita, dopo tutto, valeva la pena di essere vissuta.


L'ananasso piace molto a tutti e tre noi. Guardammo l'etichetta sulla lattina e pensammo al succo. Ci scambiammo un sorriso ed Harris si preparò col cucchiaio.


Poi ci mettemmo a cercare l'apriscatole per aprire la latta.


Rivoltammo sottosopra tutto quello che c'era nel cesto e tutto quello che c'era nei bagagli. Alzammo il pagliolato dal fondo della barca. Portammo tutto in terra e lo scuotemmo. Ma l'oggetto non venne fuori.


Allora Harris tentò di aprire la lattina col suo temperino; ne ruppe la lama e si fece un brutto taglio; George tentò con un paio di forbici, le forbici gli saltarono di mano e poco mancò che non gli cavassero un occhio. Mentre loro si fasciavano le ferite io cercai di fare un buco in quell'accidente servendomi della punta aguzza del gancio d'accosto, ma quest'ultimo scivolò e mi sbatté tra la barca e la riva, in sessanta centimetri di acqua fangosa; la lattina, intatta, ruzzolò e ruppe una tazza da tè.


Naturalmente ci infuriammo tutti e tre, la portammo terra ed Harris andò in un campo a prendere una gran pietra appuntita; io ritornai nella barca e ne venni fuori con l'albero. George manteneva la latta, Harris, vi teneva contro la punta tagliente del sasso ed io alzai il palo in alto nell'aria, riunii tutte le mie forze e colpii.


Quel giorno George ebbe salva la vita grazie al suo cappello di paglia. Egli conserva ancora quella paglietta (cioè quanto ne rimase) e, nelle serate di inverno, quando si accendono le pipe e si raccontano passaggi drammatici dei pericoli passati, George la porta giù e la esibisce e l'emozionante racconto è nuovamente narrato con sempre un piccolo aumento di esagerazione.


Harris se la cavò con una ferita superficiale.


Dopo di che afferrai io stesso la lattina e la martellai col palo fino a non aver più né forze né animo; e fu la volta di Harris che la prese in mano per reggerla.


La battemmo fino a schiacciarla; poi la riducemmo quadra e così di seguito in tutte le sagome geometriche conosciute - ma non fummo capaci di farci un buco. Allora George si avventò su di essa e la ridusse ad una forma così strana, così soprannaturale, così paurosa nella sua ripugnanza che lui stesso si spaventò e gettò via il palo dell'albero. Poi ci sedemmo tutti e tre sul prato intorno alla latta e rimanemmo a fissarla.


Sulla parte superiore si era formato una specie di bozzo che aveva l'aspetto di una smorfia beffarda e che ci fece andar fuori dei gangheri, sicché Harris si scagliò sulla latta, la prese e la gettò lontano in mezzo al fiume e mentre essa affondava noi le gridammo dietro tutte le nostre maledizioni e tornammo subito alla barca per rimetterci a remare e fuggire da quel posto. Non ci fermammo più fino a Maidenhead.


Maidenhead è troppo alla moda per essere un luogo piacevole. E' il ritrovo dei gagà del fiume e delle loro amichette vestite sfarzosamente alla gran moda. E' la città degli alberghi vistosi, preferiti specialmente dai bellimbusti e dalle ballerinette. E' il forno maledetto che vomita quei demoni del fiume che sono le lance a vapore. L'aristocratico protagonista dei romanzi per signorine non può fare a meno di possedere il suo "angolino" a Maidenhead ed è lì che cena con l'eroina del romanzo in tre volumi.


Attraversammo Maidenhead alla svelta, poi rallentammo e percorremmo lentamente quel grande tratto oltre le chiuse di Boulter e di Cookham. I boschi di Clieveden vestivano ancora i loro delicati colori primaverili e si alzavano dai margini dell'acqua in lunga armoniosa combinazione di onde soffuse di verde malìa. Questo, forse, grazie alla sua ininterrotta dolcezza, è il tratto più soave del fiume e noi allontanammo la barca dalla sua profonda pace con vero rammarico.


Subito a valle di Cookham ci fermammo in un piccolo bacino laterale e prendemmo il tè; e quando finimmo di attraversare la chiusa era già sera. Si era levata una brezza rigida che soffiava a nostro favore - un vero miracolo; in generale quando si è sul fiume il vento è sempre decisamente contrario, non importa in che direzione andiate. E' contrario al mattino quando iniziate la giornata di viaggio, ed allora voi tirate e tirate a lungo pensando che al ritorno potrete veleggiare con enorme facilità.


Poi, dopo l'ora del tè, il vento gira e voi dovete tirare coi denti per rientrare.


Però, se avete completamente dimenticato di portare una vela, ecco che il vento rimane costantemente a vostro favore, sia all'andata che al ritorno. E' così!

Questo mondo non è che una dura prova e l'uomo è creato per soffrire, come le faville furono fatte per volare al cielo.


Quella sera però, evidentemente, ci era stato un errore che aveva messo il vento sulla nostra poppa invece che contro la prora. Noi non protestammo e spiegammo la vela in tutta fretta, prima che se ne accorgessero, e ci stendemmo nella barca assorti nei nostri pensieri mentre la vela si gonfiava, si agitava, brontolava contro l'albero maestro e la barca filava.


Io governavo.


Non conosco sensazione più emozionante dell'andare a vela. E' una cosa che s'avvicina al volo, più d'ogni altra che l'uomo sia riuscito a fare sinora, salvo che in sogno. Le ali del vento impetuoso sembrano sorreggervi e portarvi avanti, non si sa dove.


Non si è più il minuscolo pezzo di argilla, lento e appesantito, che striscia tortuosamente sulla terra; si fa parte della Natura!

Si ha il proprio cuore che batte contro il suo. Vi circondano le sue braccia magnifiche, innalzandovi fino al suo cuore! Il vostro spirito è all'unisono col suo; le vostre membra si fanno leggere!

Le voci dell'aria cantano per voi. La terra sembra lontanissima e piccola; e le nuvole così vicine sopra la vostra testa sono fraterne e ad esse stendete le braccia.


Il fiume era tutto per noi, tranne, in distanza, un sandaletto da pesca, che si scorgeva ormeggiato nel filone della corrente e sul quale stavano tre pescatori. Noi filavamo sfiorando l'acqua, lungo le rive boscose, e nessuno parlava.


Ed io governavo.


Nel giungere più vicini, si vide che i tre intenti a pescare avevano l'aspetto di tre vecchi dall'aria solenne. Sedevano nel sandaletto su tre seggiolini, concentrati nell'osservazione delle loro lenze. E il rosso tramonto gettava sulle acque una luce mistica, tingeva d'un colore di fuoco le alte piante del bosco e trasformava in uno splendore di oro i cumuli delle nubi. Era un'ora di profonda magia, di speranza estatica, di nostalgia. La piccola vela si stagliava sul cielo purpureo, il calar della sera si stendeva intorno a noi avviluppando il mondo in ombre iridate e, dietro a noi, avanzava furtiva la notte.


Eravamo come i cavalieri di un'antica leggenda, facenti vela attraverso un lago mistico per penetrare nel regno sconosciuto del crepuscolo fino al grande paese del tramonto.


Non penetrammo nel regno del crepuscolo; andammo a sbattere in quel sandaletto, nel quale tre vecchi stavano pescando. Al primo momento non ci accorgemmo di quello che era successo perché la vela ci nascondeva la vista ma, dalla specie di linguaggio che si innalzava nell'aere serotino, percepimmo che eravamo arrivati nelle vicinanze di esseri umani, e che questi erano indignati e per niente lieti della visita.


Harris ammainò la vela e così potemmo vedere quello che era successo. Avevamo scaraventato dalle sedie quei tre signori che ora formavano un ammasso nel fondo dell'imbarcazione e a fatica e penosamente si districavano, e si staccavano i pesci dalle vesti, e nel far tutto ciò mandavano le loro maledizioni, ma non con la solita maniera usuale di maledire, sebbene con espressioni diligentemente pensate, maledizioni comprensive che includevano tutta la nostra vita e arrivavano fino al lontano futuro; che associavano i nostri parenti, e si estendevano a tutti e a tutto ciò che avesse relazioni con noi - insomma accidenti buoni, sostanziosi.


Harris disse loro che invece avrebbero dovuto esserci grati perché avevamo procurato un po' di eccitazione, a loro che stavan lì fermi tutta la giornata, e disse anche che si sentiva sorpreso e mortificato a vedere uomini di quell'età perdere il controllo a quel modo. Ma non servì a nulla.


Dopo di ciò George disse che avrebbe governato lui. Disse che da una testa come la mia non ci si può aspettare che sappia dirigere una barca e che era preferibile fidarsi di un uomo qualunque al timone piuttosto che affogare. Così prese lui il timone e ci portò fino a Marlow.


A Marlow lasciammo la barca presso il ponte e ce ne andammo a pernottare alla locanda della "Corona".




CAPITOLO 13


Marlow - L'Abbazia di Bisham - I monaci di Medmenham - Montmorency decide di uccidere un gatto - Poi, dati gli eventi, decide di lasciarlo vivere - Vergognosa condotta di un fox-terrier nei magazzini della cooperativa - La nostra partenza da Marlow - Processione imponente - La lancia a vapore - Ricette utili per darle fastidio e procurarle difficoltà - Ci rifiutiamo di bere il fiume - Strana scomparsa di Harris e di un polpettone di carne.


Marlow è uno dei centri abitati più simpatici che io conosca sul fiume. Nell'insieme non è che sia troppo pittoresco, ma dà l'idea di una città attiva, piena di vita e vi si possono scoprire molti posti ed angolini. I sostegni del ponte diroccato sono ancora in piedi ed eccitano la fantasia e la fanno riandare indietro, ai tempi in cui il castello di Marlow aveva per padrone Algar il Sassone, prima che Guglielmo il Conquistatore se ne appropriasse per offrirlo alla regina Matilde e prima che passasse ai conti di Warwick o a quell'uomo di mondo che fu Lord Paget, consigliere di quattro sovrani successivi.


Nel caso che dopo aver vogato voleste fare una passeggiata, vi troverete nei dintorni una bella campagna, ma è il fiume che vi presenta uno dei suoi tratti migliori. Andando verso Cookham, dopo i prati e la foresta di Quarry c'è una vista molto attraente.


Cari, vecchi boschi di Quarry con i vostri erti e stretti sentieri, con i vostri vialetti tortuosi, come sembrate ancora adesso profumati dal ricordo di giorni solatii d'estate! come sono popolate di rimembranze di visi contenti le vostre fughe di alberi, come dalle vostre lussureggianti foglie scendono lentamente le voci del tempo che fu!

Da Marlow a Sonning il fiume si fa sempre più vago. Mezzo miglio dopo il ponte di Marlow sulla riva destra si vede la grande e vecchia Abbazia di Bisham, dove la pietra dei muri risuonò delle grida dei Templari, e che, una volta ospitò Anna di Clèves e un'altra la regina Elisabetta. L'abbazia abbonda di cimeli melodrammatici. V'è in essa una camera da letto tutta ricoperta di arazzi ed una stanza segreta ricavata nello spessore del più alto muro. Di notte vi si aggira ancora il fantasma di Lady Holy che percosse a morte il proprio figlioletto ed ora cerca di lavarsi le mani spettrali in una spettrale bacinella.


Qui riposa Warwick, "il facitore di re", incurante ormai di bazzecole quali i re e i regni di questa terra; e Salisbury, che si distinse in campo a Poitiers. Poco prima di raggiungere l'abbazia si trova, proprio sulla sponda del fiume, la chiesa di Bisham e se mai tombe valgano forse la pena d'essere visitate sono i sepolcri e i monumenti di questa chiesa. Appunto facendosi portare dalla sua imbarcazione lungo le rive di Bisham, Shelley, che allora abitava a Marlow (se ne vede ancora la casa, in West Street), compose "La rivolta dell'Islam".


Un po' più a monte c'è la chiusa di Hurley e ho pensato spesso che anche se ci rimanessi un mese non potrei osservare tutta la bellezza del panorama. Il villaggio di Hurley sta a pochi minuti di cammino dalla chiusa ed è un abitato vecchio quant'altri mai sul fiume, poiché risale, per dirla con la fraseologia di quei tempi oscuri, "ai tempi del re Sebert e del re Offa". Subito dopo la chiusa (sempre a monte) c'è il Campo dei Danesi, dove i Danesi una volta bivaccarono durante la loro marcia sul Gloucestershire, e ancora un poco più in su ci sono i resti dell'Abbazia di Medmenham, annidati in un soave gomito del fiume.


I famosi monaci di Medmenham, comunemente chiamati "il circolo del fuoco infernale", e dei quali faceva parte il famigerato Wilkes, costituivano una confraternita che aveva per motto "Fai quel che ti pare" e lo si legge ancora sui ruderi dell'arco d'ingresso.


Molti anni prima che fosse fondata quest'abbazia fittizia, con la sua congregazione di burloni irriverenti, sulla stessa area sorgeva un monastero di tipo più austero, con monaci d'un genere alquanto diverso dai buontemponi che ne avrebbero preso il seguito, un cinquecento anni dopo.


Erano cistercensi, i monaci dell'abbazia che ivi sorgeva nel tredicesimo secolo, e non indossavano altri indumenti che il ruvido saio del cappuccio, non mangiavano né carne, né pesce, né uova. Dormivano sulla paglia e a mezzanotte si alzavano per la messa. Trascorrevano il giorno nel lavoro manuale, nella lettura e nella preghiera, e su tutte le loro vite incombeva un silenzio di morte, perché non parlava nessuno.


Una confraternita tetra, che conduceva vita tetra in questo cantuccio delizioso, creato dal Signore così allegro! Strano che le voci della natura, tutt'intorno, il canto sommesso delle acque, i sussurri delle erbe del fiume, la musica del vento impetuoso, non insegnassero loro un significato della vita più vero di quello. Essi stavano lì tendendo l'orecchio in silenzio, quant'era lungo il giorno, nell'attesa di udire una voce celeste; ed essa, quant'era lungo il giorno, parlava invece di una miriade di suoni, senza che l'udissero.


Da Medmenham alla bella chiusa di Hambledon, il fiume scorre leggiadro, in pace, ma, subito dopo Graenlands, la residenza fluviale piuttosto scialba del mio editore (un vecchietto tranquillo e senza prosopopea, che si incontra spesso da queste parti durante i mesi estivi quando se ne va remando con stile sciolto e vigoroso, o mentre chiacchiera di buon umore con qualche vecchio guardiano della chiusa che attraversa) il Tamigi si fa piuttosto nudo e monotono fino a un bel pezzo a monte di Henley.


Il lunedì mattina a Marlow, ci alzammo abbastanza presto e prima di colazione andammo a fare un bagno: al ritorno Montmorency trovò modo di fare una gran figuraccia. L'unico argomento su cui Montmorency ed io abbiamo opinioni sostanzialmente diverse sono i gatti. Io amo i gatti, Montmorency no. Quando io vedo un gatto dico: "Povero micino!" e mi chino a fargli il solletico tra testa e collo; il gatto drizza la coda come un pezzo di rigido ferro battuto, inarca la schiena e si asciuga il naso contro i miei calzoni; tutto procede con tenerezza e pace. Quando Montmorency incontra un gatto la strada intera deve saperlo, e in dieci secondi, di parolacce se ne sprecano tante che, se usate con giudizio, potrebbero bastare per tutta la vita di una persona rispettabile.


Non biasimo il cane (in generale mi accontento di prenderlo a scapaccioni o a sassate), poiché comprendo che è la sua natura che lo fa agire così. I fox-terrier nascono con un peccato originale quattro volte maggiore di quello degli altri cani e per ottenere mutamenti tangibili nei loro istinti di autentici teppisti ci vorranno molti e molti anni di sforzi pazienti da parte di noi cristiani.


Ricordo che un giorno mi trovavo nell'atrio degli Haymarket Stores e tutt'intorno a me c'erano i cani che attendevano il ritorno dei padroni che stavano a far compere nell'interno. C'erano: un mastino, un paio di cani da pastore un San Bernardo, alcuni cani da caccia, un Terranova, un barbone francese con uno zazzerone sulla testa ma col corpo rognoso, un bulldog, alcuni animaletti fatti ad arco, quasi piccoli come topi, e una coppia di bastardi dello Yorkshire.


Tutti quei cani se ne stavano accovacciati, pazienti, buoni e pensierosi. In tutto l'atrio regnava una pace solenne. Il luogo era pervaso da un'atmosfera di calma e di rassegnazione, da una soave tristezza.


Ed ecco che entra una graziosa signorina conducendo un piccolo fox-terrier dall'aspetto più angelico che si possa immaginare e lo lascia lì assicurato col guinzaglio tra il bulldog e il can barbone. Egli si sedette sulle posteriori e per un minuto stette a guardarsi intorno. Poi fissò gli occhi al soffitto e a giudicare dall'espressione pensava a sua madre. Poi sbadigliò. Poi, in silenzio, solennemente e pieno di dignità, guardò gli altri cani.


Osservò il bulldog che stava alla sua destra e dormiva d'un placido sonno senza sogni. Poi osservò il barbone che gli stava alla sinistra dritto ed altero, poi, senza aver detto una parola di preavviso, senza che ci fosse stata l'ombra della provocazione, dette un morso alla gamba sinistra del barbone che gli stava vicino ed un guaito di dolore risonò attraverso la silente penombra della sala.


Il risultato di questa prima esperienza gli sembrò molto soddisfacente e quindi decise di continuare a movimentare l'ambiente con le sue diavolerie. Spiccò un salto al di sopra del barbone e assalì vigorosamente un cane da pastore il quale si svegliò e cominciò immediatamente una zuffa poderosa e rumorosa col barbone. Il fox-terrier se ne ritornò al suo posto ed azzannò l'orecchio del bulldog cercando di scagliarlo lontano: e il bulldog, animato da una strana imparzialità, si scagliò contro tutto quello che era alla sua portata, ivi incluso il portiere; questa manovra dette al fox-terrier l'opportunità di godersi tutto da solo ed indisturbato una zuffa con un Yorkshire ugualmente ben disposto alla battaglia.


A coloro che conoscono la natura canina non occorrerà dire che ormai, tutti i cani presenti si azzuffavano come se stessero difendendo le loro case ed i loro focolari. I cani grossi si azzuffavano l'un l'altro senza discriminazione e i cani piccolini se la vedevano tra di loro e nei momenti liberi mordevano le gambe dei cani grossi.


L'atrio era diventato un vero pandemonio, ed il fracasso era terrificante. Fuori in strada, la gente si andava affollando e si chiedeva se si trattasse di un'adunanza parrocchiale o se stessero assassinando qualcuno o che altro. Arrivarono degli uomini armati di bastoni e di corde per separare i cani e chiamarono la polizia.


In mezzo a tutta quell'ira di Dio ritornò la graziosa signorina e afferrò l'angelica bestiolina (questa sembrava ora un agnellino appena nato eppure aveva sistemato il barbone per un mese), se la mise in braccio, la baciò e le chiese se non l'avessero uccisa e che cosa le avevano fatto quei cagnacci brutti e sporchi; e il fox-terrier si annidò sul suo seno, la fìssò con uno sguardo che pareva dicesse: "Oh, come sono contento che tu sia ritornata per portarmi via da questa scena degradante".


La signorina affermò che la gente quando va a far la spesa non ha il diritto di portarsi dietro delle bestie feroci e metterle assieme con i cani di persone distinte, e che lei aveva proprio intenzione di querelare qualcuno.


I fox-terriers sono fatti così e quindi non posso biasimare Montmorency per le sue tendenze a perseguitare i gatti; ma quella mattina egli deve aver pensato che sarebbe stato meglio se avesse fatto tacere i suoi istinti.


Come stavo dicendo, noi tornavamo dal bagno e a metà della High Street, un gatto spuntò da una casa dinanzi a noi e cominciò a trotterellare per attraversare la strada.


Montmorency emise un grido di gioia - il grido del fiero combattente che vede arrivar a tiro il nemico, forse quella specie di grido che lanciò Cromwell quando vide che gli scozzesi scendevano dalla collina - e si lanciò dietro la preda.


La vittima era un gattone nero, maschio, grandissimo. Mai visto un gatto così grande né un gatto di più sinistro aspetto. Non aveva che mezza coda, un occhio solo ed un pezzo abbastanza notevole di naso. Era un animale lungo, nodoso e con l'aria tranquilla e sicura di sé.


Montmorency si scagliò verso quel povero gatto alla media di venti miglia all'ora; ma il gatto non si scompose, sembrava che non avesse afferrato l'idea che la sua vita era in pericolo. Continuò il suo trotto regolare fino a che l'assassino non gli arrivò a mezzo metro di distanza; poi si rigirò, si sedette in mezzo alla strada e guardò Montmorency con un'espressione di cortese interrogazione che voleva dire:

- Cercate me?

Montmorency non manca di coraggio ma nello sguardo di quel gatto c'era qualcosa che avrebbe gelato il cuore del cane più temerario.


Egli si fermò di colpo e rimase a fissare il gattone.


Nessuno dei due parlò ma la conversazione che si poté facilmente immaginare fu la seguente:


IL GATTO: In che vi posso servire?


MONTMORENCY: Oh, no ! Grazie... nulla.


IL GATTO: Oh, non fate cerimonie, se proprio cercate qualcosa, dite pure.


MONTMORENCY (retrocedendo per la High Street): Oh, nulla, nulla davvero... prego... non vi scomodate. Scusate il disturbo.


IL GATTO: Ma quale disturbo, sarebbe un piacere. Siete certo che non cercate nulla, ora?


MONTMORENCY (rinculando sempre): Proprio nulla, grazie, molto... molto gentile da parte vostra. Arrivederci.


IL GATTO: Buon giorno.


Poi il gatto si alzò e riprese la sua trottatina mentre Montmorency, adattando accuratamente quella che lui chiama la sua coda nella naturale scanalatura, tornò verso di noi e si mise alla retroguardia in atteggiamento abbastanza mortificato.


Ancora oggi, se voi dite la parola "gatto" Montmorency si raggomitola tutto e vi guarda con occhi imploranti che par che dicano: - Per favore... non ne parliamo.


Al pomeriggio andammo a fare le spese per rivettovagliare la barca per tre giorni. George disse che dovevamo comprare molta verdura e che la presenza di verdure nei pasti è indispensabile. Disse che le verdure sono facili da cucinare e che se ne sarebbe incaricato lui. Perciò ci fornimmo di dieci libbre di patate, di uno staio di piselli e di cavoli. Dall'albergo ci portammo un polpettone di carne, un paio di crostate di uva spina e una coscia di montone, e in altri posti diversi comprammo frutta, dolci, pane e burro, marmellata, uova, lardo e altra roba.


Ricordo la partenza da Marlow come uno dei maggiori successi di quella gita. Pur non essendo una ostentazione essa fu degna e impressionante. In tutti i negozi avevamo insistito perché la merce fosse subito mandata con noi. Niente da fare con quel:

"Sissignore, manderò subito, il fattorino arriverà prima di loro!" e poi succede che rimanete lì sulla riva ad aspettare come un cretino e dovete tornar due volte nel negozio e prendervi a male parole col padrone. Noi, invece, aspettavamo che il pacco fosse pronto e ci portavamo il fattorino con noi.


Facemmo acquisti in un bel po' di negozi adottando sempre lo stesso principio. La conseguenza fu che quando finimmo avevamo una bella collezione di fattorini che ci seguivano con pacchi e la nostra marcia finale dal centro della High Street al fiume dev'essere stato uno spettacolo imponente, di quelli che Marlow non vedeva da tempo.


L'ordine della processione era il seguente:

Montmorency che portava un bastone tra i denti.


Due bastardi, spregevoli amici di Montmorency.


George, carico di coperte e pastrani, fumando la pipa.


Harris, che cercava di camminare con disinvoltura nonostante portasse il sacco zeppo con una mano e una bottiglia di succo di limone con l'altra.


Fattorino dell'ortolano e quello del droghiere, con cesta.


Facchino dell'albergo, con paniere.


Fattorino del pasticciere, con paniere.


Fattorino del droghiere, con paniere.


Cane pelosissimo.


Fattorino del salumiere, con cesta.


Uomo di fatica, con valigia.


Amico inseparabile dell'uomo di fatica con le mani in tasca, e la pipa di coccio in bocca.


Io, in persona, con tre cappelli e un paio di scarpe in mano dandomi l'aria di niente.


Monelli e quattro cani randagi.


Quando arrivammo all'imbarcatoio il barcaiolo disse: - Un momento, signori... Ma voi avete una lancia a vapore oppure una casa galleggiante? - Quando gli dicemmo che il nostro era semplicemente uno schifo a due remi sembrò perplesso.


Quella mattina le lance a vapore ci dettero molto fastidio.


Eravamo alla vigilia della settimana sportiva di Henley e ne arrivarono su moltissime; alcune sole, altre rimorchiando case galleggianti. Per conto mio, io quelle lance le odio e credo che ogni rematore debba odiarle. Non mi accade mai di imbattermi in una lancia a vapore senza sentire la voglia di attirarla in un angolino deserto del fiume e lì, nel silenzio e nella solitudine, strozzarla.


In ogni lancia a vapore c'è una presuntuosità urtante che ha l'abilità di ridestare tutti gli istinti peggiori del mio essere e che mi fa pensare con nostalgia ai tempi passati quando si poteva andare in giro con accetta, arco e freccia e dire alla gente quello che si pensava di loro. Basta l'espressione che ha dipinto sul volto quel tale che se ne sta con le mani in tasca e col sigaro in bocca presso la poppa per giustificare la rottura delle buone relazioni; e il fischio imperioso che vi fanno per togliervi di mezzo, secondo me, garantisce l'assoluzione per "omicidio giustificato" da parte di qualsiasi giurì composto di fiumaroli.


E ne dovevano fare di fischi perché ci togliessimo dalla loro rotta! Se posso esprimermi così, senza sembrare uno spaccone, onestamente credo che quella settimana la nostra barchetta dette più fastidio e procurò maggior ritardo alle lance a vapore di tutte le altre imbarcazioni del fiume messe insieme.


- Lancia a vapore! - gridava uno dei nostri scorgendo il nemico a distanza; e in un attimo tutto era pronto per riceverlo. Io prendevo i cordoni della barra, Harris e George mi sedevano accanto dando tutti e tre le spalle alla lancia mentre la barca filava tranquilla sul filo della corrente. La lancia si avvicinava fischiando e noi proseguivamo tranquillamente. Dopo cento metri essa si metteva a fischiare come una matta e i passeggeri arrivavano sul ponte e si affacciavano per gridarci contro, ma noi non li sentivamo neanche! Harris ci stava raccontando un aneddoto circa sua madre e George ed io non volevamo perderne una parola per tutto l'oro del mondo.


E allora la lancia emetteva un fischio finale che quasi faceva scoppiar le caldaie ed era obbligata a invertire il motore e sbuffando vapore virava e andava a finire in secca; tutti quelli sulla riva gridavano anch'essi e tutte le altre barche di passaggio si univano fino a che il fiume non diventava una frenetica confusione per miglia a valle e a monte. E allora Harris si interrompeva sul più bello del racconto e, guardando con una certa sorpresa sul fiume, diceva a George:

- Guarda, George, Dio mi castighi se quella non è una lancia a vapore!

E George rispondeva:

- E' vero, sai! Mi era parso di sentire qualcosa!

E allora succedeva che diventavamo nervosi e confusi e non sapevamo come manovrare per portare la barca fuori dalla rotta e quelli della lancia si ammassavano intorno e ci davano istruzioni.


- Tira a destra, pezzo di idiota! indietro a sinistra. No, non tu - l'altro - lascia perdere i cordoni, una buona volta! - ora, ora, tutti e due insieme. - No, non così. Oh acc...!

E allora ammainavano un battello, venivano in nostro aiuto, e, dopo un quarto d'ora di sforzi, ci toglievano dalla loro strada in modo da poter continuare il viaggio. Noi li ringraziavamo e li pregavamo di rimorchiarci. Ma si rifiutavano sempre.


Un altro mezzo che escogitammo per dar fastidio alle lance a vapore fu quello di fingere di scambiarle per crociere di impiegati e di chiedere se appartenevano alla Ditta Cubit o all'archivio dei Templari di Bermondsey, e se potevano prestarci una padella.


Le vecchie signore non abituate al fiume hanno sempre un vero terrore delle lance a vapore. Ricordo che una volta andavo da Staines a Windsor - un tratto di fiume particolarmente frequentato da quei mostri meccanici - con una comitiva in cui c'erano tre vecchie signore. Fu una cosa davvero divertente. Non appena scorgevano un lancia a vapore pretendevano di esser sbarcate e si sedevano sulla sponda fino a che il mostro non fosse sparito dalla vista. Dissero che erano molto spiacenti ma che avevano il dovere verso le loro famiglie di non essere temerarie.


Arrivati alla chiusa di Hambledon ci accorgemmo che eravamo a corto di acqua e perciò prendemmo la brocca e andammo a chiederne un po' al custode.


L'oratore doveva esser George e lui, facendo un sorrisino smagliante, disse:

- Per favore potreste prestarci un po' d'acqua?

- Certamente, - rispose il vecchio, - ne prenda pure quanta ne vuole e lasci il resto.


- Grazie infinite! - mormorò George guardandosi intorno Dove...


dove la tenete?

- Sempre allo stesso posto, figliol mio, - fu la risposta cretina - esattamente alle sue spalle.


- Ma io non la vedo, - disse George girandosi.


- Come, ma dove ha gli occhi, lei? - chiese il vecchio mentre lo rigirava e gli mostrava il fiume lì sotto. - Non le pare che ce ne sia abbastanza perché lei la possa prendere, non è vero?

- Oh! - esclamò George comprendendo, - ma noi non possiamo berci il fiume, non le pare?

- Oh no! non tutto, ma un poco potete berne, - rispose il vecchio.


- E' quello che io sto facendo da quindici anni a questa parte.


George disse che quella cura non gli aveva conferito una cera tale da sembrare una buona propaganda della marca e disse che egli preferiva l'acqua di una pompa. Ce ne dettero in una villetta un po' più a monte. Oso dire che, a saperlo, anche quella era acqua di fiume. Ma non lo sapevamo e quindi servì benissimo. Lo stomaco non si rivolta se gli occhi non hanno veduto.


Durante quello stesso viaggio qualche giorno dopo usammo l'acqua del fiume, ma non fu un successo. Stavamo scendendo a valle e c'eravamo fermati in un ramo morto presso Windsor, per prendere il tè. La brocca dell'acqua era vuota e quindi una delle due: o far a meno del tè o servirci dell'acqua del fiume. Harris fu del parere di provare. Disse che, bollendo prima l'acqua, tutto sarebbe andato bene perché i microbi nocivi contenuti nel fiume sarebbero stati uccisi dalla bollitura. Riempimmo, dunque, il bricco con acqua del Tamigi e lo facemmo bollire stando molto attenti che bollisse veramente.


Preparammo il tè e ci stavamo sistemando per berlo quando George, che aveva la tazza già vicino alle labbra, si fermò ed esclamò:

- Cos'è quello?


- Quello cosa? - chiedemmo io ed Harris.


- Quello! - disse George guardando verso oriente.


Io ed Harris seguimmo il suo sguardo e vedemmo un cane che se ne veniva verso di noi sulla placida corrente. Era uno dei cani più tranquilli, più pacifici che io abbia mai visto. Mai conosciuto un cane che sembrasse più felice, più spensierato. Galleggiava dormendo sulla schiena e con le quattro zampe tese, dritte in su, per aria. Direi che era un cane di corporatura piena e con il petto ben gonfio. Esso si avvicinò alla barca sereno, calmo ed altero, e poi, arrivato alla ramaglia si fermò e si adagiò per la notte.


George disse che di tè non ne voleva e vuotò la tazza nel fiume.


Harris non aveva più sete e lo imitò. Io bevvi mezza tazza ma sarebbe stato meglio che non lo avessi fatto.


Domandai a George se, secondo lui, potevo essermi preso il tifo.


Lui disse: - Oh, no; - secondo lui avevo molte probabilità di scongiurarlo. Comunque, la certezza se me l'ero preso o no l'avrei avuta fra quindici giorni.


Rimontammo fino a Wargrave seguendo un ramo secondario. Si tratta di una piccola scorciatoia che parte dalla riva destra a circa mezzo miglio dalla chiusa di Marsk e che val la pena di esser percorsa perché, oltre ad accorciare la distanza di un mezzo miglio, è un tratto d'acqua pieno di ombre e di grazia.


Come tutte le altre, anche l'imboccatura di questo ridente tratto è piena di catene e di pali con su le tavolette di "Vietato" che minacciano ogni specie di torture, di galere e di morte a chi osa affondare un remo nell'acqua. Cominciò a meravigliarmi del perché qualcuno di questi zoticoni proprietari marginali non si elegge padrone dell'aria e non stabilisce la multa di quaranta scellini a chi la respira. Ma le catene e i pali sono facilmente sorpassabili con un po' di astuzia; in quanto alle tavolette con gli avvisi di divieto, se avete cinque minuti da perdere e non c'è nessuno che vi veda, potete schiodarne due o tre e sbatterle a fiume.


A metà di questo canale sbarcammo e facemmo merenda e fu durante questa merenda che io e George ricevemmo uno choc piuttosto duro.


Anche Harris ebbe uno choc, ma non credo che lo choc di Harris possa essere stato così duro come quello che provammo io e George in quella occasione.


Ecco, fu così: eravamo seduti in un prato a un cento metri dalla sponda del fiume e ci eravamo appena sistemati comodamente per nutrirci. Harris teneva il polpettone di carne tra le ginocchia mentre io e George lo stavamo guardando con i piatti pronti.


- Avete un cucchiaio? - disse Harris; - mi occorre un cucchiaio per servire la salsa.


La cesta era proprio dietro a noi ed io e George, insieme, ci voltammo per prenderne uno. Per fare questa operazione non impiegammo neanche cinque secondi; ma quando ci rivoltammo Harris e la carne erano spariti!

Ci trovavamo in aperta campagna. Per cento metri intorno non c'era né un albero né un pezzo di roccia. Non poteva essere caduto a fiume, perché noi ci trovavamo fra l'acqua e lui stesso e quindi avrebbe dovuto passare sopra di noi.


Io e George ci guardammo intorno e poi ci guardammo in faccia.


- Che sia stato rapito in cielo? - chiesi io.


- Non credo che si sarebbe portato anche il polpettone di carne,- disse George.


Era un'opinione ponderata e quindi scartammo la teoria celeste.


- Credo che la verità sia che c'è stato un terremoto, - disse George venendo al pratico.


E poi, con un certo accento di tristezza nella voce, aggiunse:

- Per lo meno non avesse avuto quel polpettone in mano per affettarlo!

Emettemmo un sospiro e girammo di nuovo lo sguardo al punto in cui Harris e la carne erano stati per l'ultima volta su questa terra, e lì, mentre il sangue ci si gelava nelle vene e i nostri capelli si rizzavano vedemmo la testa di Harris - nient'altro che la testa - dritta tra l'erba alta, col viso rosso nel quale si vedeva un'espressione di tremenda indignazione.


George si riebbe per primo:

- Parla! - gli gridò, - sei vivo o morto? e dov'è il resto di te stesso?

- Va' là, non fare il cretino! - disse la testa di Harris. - Lo so bene che l'avete fatto apposta.


- Cosa?

- Sicuro, mi avete fatto sedere lì, scherzi da scemi! To', prendi il polpettone.


E dal centro della terra, così ci sembrava, sorse il polpettone, molto malconcio; e dietro a quello s'arrampicò fuori Harris, infangato, pesto e bagnato Senza saperlo si era seduto sull'orlo di un fosso nascosto dall'erba alta e nel fare un piccolo movimento all'indietro ci era andato dentro col polpettone e tutto.


Disse che nella sua vita non era mai stato così sconvolto come quando si era accorto di star precipitando senza aver la minima idea di quello che era successo; gli era parso fosse venuta la fine del mondo.


Harris ancora oggi è convinto che tutto quello lo avessimo complottato io e George. E così, il sospetto ingiusto perseguita anche i più innocenti, perché, come dice il poeta: "Chi è indenne da calunnia?".


Chi, infatti?




CAPITOLO 14


Wargrave - Statuine di cera - Sonning - Montmorency diventa sarcastico - Battaglia fra Montmorency e il bricco - George studia il banjo - Di fronte allo scoraggiamento - Difficoltà della musica dilettantistica - S'impara a suonare la zampogna - Harris dopo cena si sente triste - Io e George andiamo a passeggio - Ritorniamo fradici e affamati - Scopriamo qualcosa di strano in Harris - Harris e i cigni, storia interessante - Harris passa una notte movimentata.


Dopo la merenda si mosse una brezza che ci fece superare agevolmente Wargrave e Shiplake. Nel sonnolento sole del pomeriggio estivo, Wargrave, annidata nel gomito del fiume vi offre, di passaggio, il suo panorama soave, una delle visioni che durano più a lungo sulla retina della memoria. A Wargrave la locanda "Giorgio e il drago" vanta un'insegna dipinta su un lato da Leslie, dell'Accademia Reale; e sull'altro da Hodgson, pittore locale. Leslie ha raffigurato il combattimento e Hodgson ha immaginato la scena del "dopo": Giorgio che, fatto il lavoro, si gode la sua brava pinta di birra.


Day, l'autore di Sandford and Merton visse e (cosa che va a lode ancor maggiore della località) fu ucciso a Wargrave. Nella chiesa vi è un ricordo marmoreo della signora Sarah Hill la quale lasciò l'eredità di una sterlina all'anno da essere divisa a Pasqua fra due ragazzi e due ragazze "che non abbiano mai disobbedito ai loro genitori, che non risultino aver mai bestemmiato o detto il falso, o rubato o rotto vetri di finestre". Immaginate un po'! dover rinunciare a tutta questa roba per cinque scellini all'anno! Non vale la pena.


Nel paese raccontano che una volta, tanti anni fa spuntò fuori un ragazzo che realmente non aveva fatto quelle cose (o almeno che non RISULTAVA averle mai fatte, ch'è il massimo che si possa chiedere), e così vinse la corona della gloria. Lo esposero per tre settimane in municipio sotto una campana di vetro.


Che ne sia stato del denaro, da allora, nessuno lo sa. Dicono che lo offrono sempre al vicino museo delle figure di cera.


Shiplake è un villaggetto grazioso ma dal fiume non lo si vede perché sta sulla collina. Nella chiesa di Shiplake fu celebrato il matrimonio di Tennyson.


Risalendo verso Sonning il fiume serpeggia dentro e fuori fra molte isolette ed è placidissimo, silenzioso e deserto. Poca gente passa lungo le rive eccetto qualche coppietta di contadinotti innamorati, verso sera. Dietro di noi sono rimaste Arry e Fitznoodle mentre l'orribile, sudicia Reading non è ancora vicina.


Questo è un tratto del fiume in cui si possono sognare i tempi passati, le forme ed i visi che furono, le cose che sarebbero potute accadere ma che, tanto peggio per loro, non accaddero.


A Sonning sbarcammo e andammo a fare una passeggiatina fino al villaggio. E' il cantuccio più incantevole di tutto il fiume e si direbbe più un villaggio da palcoscenico che uno autentico, fatto di calce e mattoni. Le case sono coperte di rose che ora, ai primi di giugno, sbocciano a ciuffi in tutto il loro squisito splendore.


Se doveste fermarvi a Sonning scegliete il "Toro", che sta dietro la chiesa. E' l'immagine esatta della vecchia locanda di campagna, e ha dinanzi un giardinetto verde, squadrato, dove gli anziani si radunano per bere la birra e per discutere della politica del villaggio; le camere sono basse, bizzarre, le finestre hanno inferriate, le scale sono scomode e i corridoi sono tortuosi.


Girovagammo nella dolce Sonning per un'ora, più o meno, e poi, siccome era tardi per spingerci al di là di Reading, decidemmo di ritornare su di una delle isolette di Shiplake e pernottarvi.


Preparammo tutto e ci accorgemmo che era ancora presto, e allora George disse che avendo molto tempo a disposizione, potevamo approfittare della splendida opportunità per preparare una cena speciale. Disse che ci avrebbe mostrato quanto si può fare sul fiume in fatto di cucina e propose di usare i legumi, i resti della carne fredda, nonché gli altri rimasugli per preparare uno stufato all'irlandese.


L'idea ci sembrò affascinante; George raccolse la legna e fece il fuoco mentre io e Harris ci mettemmo a sbucciare le patate. Non avrei mai creduto che quella funzione di sbucciare le patate fosse una simile impresa. La faccenda mi si rivelò come la cosa più colossale, nel suo genere, in cui mi fossi mai messo. Cominciammo allegramente, spavaldamente, si potrebbe dire, ma dopo aver sbucciato la prima patata tutta la nostra giocondità era finita.


Più sbucciavamo e più buccia sembrava che ci rimanesse e quando finimmo di togliere tutta la buccia e tutti i bitorzoli, della patata non c'era più nulla. Voglio dire, nulla di cui valga la pena di parlare. George sopravvenne, e osservò che la patata era ridotta alla grossezza di una nocciolina americana. Disse:

- No, così non va! State rovinando tutto, le dovete raschiare.


Ci mettemmo a raschiarle e fu un lavoro peggiore dello sbucciarle perché le patate hanno una forma così strana! e son tutte bozzi, bitorzoli e avvallamenti; andò a finire che facemmo sciopero.


Dicemmo che poi ci sarebbe occorso il resto della serata per raschiare noi stessi.


Io non ho mai conosciuto un mestiere capace di ridurre un uomo ad un letamaio come quello di raschiar le patate. Sembrava incredibile che le pelli di patata in cui io ed Harris stavamo sepolti e quasi soffocati provenissero da quattro tuberi soltanto.


Pensate un poco quanto si potrebbe fare con l'economia e la buona volontà.


George trovò assolutamente assurdo fare lo stufato con quattro patate sole e noi ne lavammo una mezza dozzina ancora e le mettemmo in pentola senza pelarle. Aggiungemmo un cavolo e circa due chili di piselli. George rimestò il tutto e poi disse che c'era ancora spazio nella pentola, perciò noi rovistammo a fondo nelle due ceste e aggiungemmo allo stufato tutti i pezzettini, i resti, e i rifiuti che vennero fuori.


C'erano rimasti ancora mezzo polpettone di carne di maiale, un po' di lardo lessato e freddo e infilammo tutto dentro. George scoprì inoltre una mezza lattina di salmone e vuotò anche il contenuto di quella nella pentola.


Disse che appunto in ciò consisteva la bellezza dello stufato irlandese: ci si libera di tutta la roba vecchia. Pescai ancora, e trovai due uova incrinate, e dentro anche quelle. George ci assicurò che così l'intingolo sarebbe venuto più denso.


Ora non mi ricordo tutti gli altri ingredienti ma vi posso assicurare che nulla fu sciupato; e verso la fine Montmorency, che era stato attentissimo a tutto il procedimento, si allontanò con un'aria molto seria e pensierosa e poi riapparve, qualche minuto dopo, con un topo di fogna morto in bocca che, evidentemente, voleva offrire come suo contributo al pranzo; se l'abbia fatto con intento sarcastico oppure obbedendo a un generico desiderio di collaborare, non saprei dirlo.


Non discutemmo la convenienza di metter dentro il topo; Harris era del parere che ci sarebbe stato benissimo, perché si sarebbe mischiato con le altre cose e le avrebbe migliorate. Ma George fece appello ai precedenti. Disse che non si ricordava che nello stufato all'irlandese c'entrassero anche i topi di fogna e che quindi preferiva andare sul sicuro, mantenendosi sulla vecchia e provata ricetta, senza introdurre novità.


Harris disse:

- Ma se non si provano le novità, come si può dire come sono? I tipi come te ritardano il progresso. Pensa un po', invece, a quelli che sperimentarono per primi le salsicce viennesi.


Lo stufato all'irlandese fu una vera cannonata e devo dire che mai avevo mangiato altro con egual piacere. Aveva in se qualcosa di fresco e di piccante. Si sa che il nostro palato si stanca della solita zuppa di tutti i giorni, e invece questo era un piatto di fragranza nuova e di un sapore che non ne ricordava nessun altro al mondo.


Inoltre, per dirla con George, esso era nutriente perché dentro ce ne stava, di roba buona! Forse le patate e i piselli avrebbero potuto essere un po' più morbidi, ma siccome avevamo tutti buone dentature la cosa non rivestiva nessuna importanza. In quanto all'intingolo, poi, era un poema; un po' troppo forte, se vogliamo, per gli stomaci delicati,ma innegabilmente nutrientissimo.


Il pranzo si concluse con tè e crostata di ciliege. Al momento di preparare il tè, Montmorency ingaggiò una lotta col bricco arrivando secondo, molto distaccato.


Egli, Montmorency, durante tutto il viaggio aveva dimostrato una gran curiosità per il bricco. Quando questo stava al fuoco, lui si sedeva e lo osservava con un'espressione interrogativa e ogni tanto con un ringhio tentava di farlo reagire. Quando il bricco cominciava a bofonchiare e ad emettere vapore, lui si sentiva sfidato e si disponeva al duello, ma quello era il preciso momento in cui spuntava sempre qualcuno e si portava via la preda prima che lui la potesse assalire.


Quel giorno Montmorency aveva deciso di agire in anticipo e al primo brontolio del bricco si alzò ringhiando e avanzò con attitudine minacciosa. Non era che un piccolo bricco ma pieno di coraggio: soffiò e sputò.


- Ah!, pezzo di...! - grugnì Montmorency mostrando i denti; - ora t'insegno io a sfidare un cane lavoratore e rispettabile, aspetta!

E si scagliò su quel povero, piccolo bricco e l'afferrò pel beccuccio.


Allora, nella quiete della sera, eruppe un guaito che gelava il sangue e Montmorency, saltato dalla barca, si fece una passeggiatina igienica di tre giri intorno all'isola alla media di cinquanta chilometri orari, fermandosi ogni tanto per infilare il naso in un po' di fango freddo.


Da quel giorno Montmorency ha per il bricco un certo rispetto misto di riverenza, di sospetto e di odio. Non appena lo vede guaisce ed indietreggia alla svelta mettendosi la coda tra le gambe e al momento in cui l'arnese viene messo sul fuoco lui salta immediatamente dalla barca e va a sedersi sulla sponda finché tutta la cerimonia del tè non è finita.


Dopo cena George tirò fuori il banjo per suonare, ma Harris si oppose: disse che aveva mal di testa e che non si sentiva abbastanza in forze per resistere a quella musica. George, invece, fu dell'avviso che la musica gli avrebbe fatto bene - disse che la musica spesso calma i nervi e toglie l'emicrania; e pizzicò due o tre note, tanto perché Harris si rendesse conto di quello che era.


Harris disse che preferiva l'emicrania.


Ancor oggi, George non ha imparato affatto a suonare il banjo. Ha dovuto affrontare troppi scoraggiamenti. Mentre viaggiavamo sul fiume, tentò, due o tre sere, di fare un po' di pratica; ma non ci riuscì mai. Il linguaggio di Harris era sempre tale da scoraggiare qualsiasi uomo e, inoltre, c'era Montmorency che durante l'intera esecuzione si accovacciava e continuava a guaire. Tutto ciò non permetteva lo studio.


- Ma insomma perché ulula così quando io suono? - esclamava George indignato prendendolo di mira con una scarpa.


- E tu perché suoni così mentre lui guaisce? - ribatteva Harris afferrando la scarpa a volo. - Lascialo in pace. Lui non può fare a meno di ululare. Ha l'orecchio musicale e la tua musica lo fa piangere.


E così George decise di rimandare lo studio del banjo al ritorno a casa. Ma neanche lì ebbe molta fortuna. La signora P. andava su e gli diceva che era molto dolente - a lei, personalmente piaceva sentirlo - ma l'inquilina al piano di sopra si trovava in uno stato delicatissimo e il dottore temeva che quel suono potesse nuocere al bambino.


Allora George tentò di uscire col banjo, di sera tardi, per esercitarsi girando intorno al palazzo. Ma gli abitanti lo denunziarono alla polizia e una notte una guardia si appostò e lo portò dentro. La sua infrazione era evidente e lo ammonirono di non far chiasso per sei mesi.


Dopo questo incidente parve perdersi di entusiasmo. Passati i sei mesi fece un paio di tentativi per riprendere lo studio; ma ebbe da combattere sempre con la stessa freddezza, con la stessa mancanza di comprensione da parte della gente, e, dopo un po', perse completamente la speranza, e mise sul giornale un annuncio economico di vendita dello strumento, a prezzo sacrificatissimo, "non servendo più all'attuale proprietario". Si mise, invece, a imparare i giochi di prestigio con le carte.


Lo studio di uno strumento musicale deve essere una cosa scoraggiante. Uno crede che la società, nel proprio interesse, debba fare tutto quello che può per facilitare ad un uomo l'apprendimento dell'arte di suonare uno strumento musicale. E invece non è così.


Conobbi una volta un giovanotto che studiava la zampogna e vi assicuro che se sapeste contro quante difficoltà dovette lottare vi meravigliereste. Credete, neanche dai componenti della propria famiglia ricevette quel che si potrebbe chiamare un incoraggiamento attivo. Suo padre ce l'ebbe a morte con quell'affare sin dal principio e ne parlava senza alcun riguardo.


Il mio amico, per esercitarsi, si alzava al mattino presto, ma dovette smettere a causa di sua sorella. Ella aveva una certa inclinazione mistica, e disse che pareva spaventoso cominciare così la giornata.


Visto ciò, cominciò a vegliare la notte e a suonare quando tutti erano andati a letto; ma anche questo non poté andare avanti perché gettava pessima fama sulla casa. La gente che si ritirava si fermava di fuori ad ascoltare e poi, al mattino seguente, spargeva la voce per tutta la città che in casa Jefferson la notte precedente era stato commesso un assassinio; e dicevano di aver udito gli urli della vittima e le maledizioni e le bestemmie degli assassini seguiti dall'implorazione di grazia e dall'ultimo rantolo del moribondo.


Si decisero quindi a farlo esercitare di giorno chiudendo tutte le porte e relegandolo nella cucinetta in fondo alla casa; ma, quando intonava i passaggi di maggior effetto, lo sentivano in salotto a dispetto di tutte le precauzioni, e la mamma si commoveva fino alle lagrime. Diceva che le ricordava il suo povero padre (che era stato inghiottito da un pescecane, poveretto, mentre faceva il bagno al largo della Nuova Guinea - però non sapeva spiegarsi quell'associazione d'idee).


Poi lo confinarono in una baracchetta fatta apposta per lui all'estremità del giardino, a trecento metri circa dalla casa, e quando voleva mettersi a studiare si portava lì il suo congegno. A volte arrivava in visita qualcuno che non sapeva nulla di quello studio e si dimenticavano di avvisarlo e quello se ne andava a fare una passeggiatina in giardino e improvvisamente, senza esservi preparato, si avvicinava e percepiva le stecche della zampogna senza capire che cosa stesse succedendo. Se si trattava di un cervello molto equilibrato, se la cavava con una crisi; ma se invece era uno di media intelligenza, generalmente andava al manicomio.


Confessiamolo pure, i primi passi di un affezionato della zampogna hanno in sé qualcosa di estenuante ed io me ne rendevo conto come se si trattasse di me stesso, quando ascoltavo il mio giovane amico. Ho l'impressione che la zampogna sia uno strumento che mette a dura prova lo studioso; prima di cominciare occorre che vi forniate di fiato per tutta la sonata. Questa, per lo meno, fu l'impressione che ebbi osservando Jefferson.


Egli cominciava egregiamente con una nota selvaggia, piena, come un grido di battaglia che vi entusiasma. Ma poi, a mano a mano che proseguiva, si andava affievolendo e l'ultima battuta si interrompeva generalmente a metà, con un borbottio ed un fischio.


Per suonare la zampogna ci vuole una salute di ferro.


Il mio giovane amico Jefferson imparò un solo pezzo per zampogna, ma a dire il vero non mi risulta che qualcuno si sia lamentato della esiguità del suo repertorio. Il pezzo era: "Arrivano i Campbell. Urrah! Urrah!"; così diceva lui malgrado che il padre fosse convinto che il titolo era: "Le campanule scozzesi".


Nessuno, insomma, era certo di quel che fosse ma tutti erano d'accordo che lo stile era scozzese. Ai forestieri si consentivano tre scommesse circa il titolo e la maggior parte di essi diceva ogni volta un titolo diverso.


Harris, dopo cena, diventò intrattabile.


Secondo me lo stufato lo aveva messo di cattivo umore; egli non è abituato alla gran vita, e perciò io e George lo lasciammo nella barca per andarcene a spasso per le vie di Hanley. Lui disse che avrebbe bevuto un whisky, si sarebbe fatto una pipata e poi avrebbe messo in ordine tutto per la notte. Al ritorno avremmo dovuto gridare e lui sarebbe venuto a prenderci dall'isola con la barca.


- Non ti addormentare, bellezza, - gli dicemmo nel partire.


- Non c'è pericolo fino a che avrò sullo stomaco questo stufato, - bofonchiò lui ricominciando a vogare per tornarsene all'isola.


Hanley si preparava per le regate e quindi era piena di gente.


Incontrammo diversi conoscenti e nella loro piacevole compagnia il tempo passò presto, di modo che quando cominciammo a rifare i sette chilometri di strada per tornare a casa - ormai la piccola imbarcazione la chiamavamo così - erano quasi le undici.


La notte era cupa, fredda e bagnata da una pioggia sottile, e mentre noi arrancavamo nel buio, tra i campi silenziosi, parlando a bassa voce, e chiedendoci se eravamo sulla via giusta, pensavamo alla cara, domestica barca con la sua luce brillante che appariva attraverso la trama del tendone; pensavamo a Harris, a Montmorency e al whisky, e avremmo voluto essere già lì.


Evocavamo il quadretto che noi stessi formavamo là dentro, stanchi e con un po' di appetito; pensavamo al fiume triste e agli alberi informi e sotto di essi, la nostra cara barca, una gigantesca lucciola luminosa, così comoda, così calda, così gaia. Ci vedevamo seduti a cena, sbocconcellando la carne fredda e passandoci l'un l'altro i pezzi di pane; ci pareva di sentire l'allegro tintinnio dei coltelli, le voci ridenti che riempivano tutto lo spazio e che attraversavano le aperture e si espandevano fuori nella notte. E allungammo il passo perché la visione si trasformasse in realtà.


Sentimmo finalmente sotto i piedi il sentiero dell'alzaia e ci parve d'essere felici anche perché prima di questo non eravamo proprio sicuri se stavamo andando verso il fiume o se ce ne stavamo allontanando e, quando siete stanchi e avete voglia di andarvene a letto, simili incertezze sono moleste. Attraversammo Shiplake mentre l'orologio batteva la mezzanotte meno un quarto.


George, con tono preoccupato, disse:

- Ricordi per caso quale delle isole era?

- No, - risposi cominciando a impressionarmi anch'io. - Non ricordo. Ma quante isole sono?

- Quattro soltanto, - rispose George. - Ma se lui è sveglio tutto andrà per il meglio.


- E se non è sveglio? - chiesi io. Ma poi allontanammo un simile pensiero.


Arrivati di fronte alla prima isola gridammo, ma non ottenemmo nessuna risposta; passammo alla seconda e gridammo di nuovo, ma il risultato fu identico.


Corremmo pieni di speranza alla terza e gridammo ancora. Nessuna risposta.


La cosa cominciava a diventare seria. La mezzanotte era già passata. Gli alberghi di Shiplake e di Hanley erano certamente pieni e noi non potevamo metterci in giro e andar battendo in piena notte alle porte delle ville e delle pensioni per chiedere se avevano camere libere. George propose di ritornare a Hanley e di aggredire una guardia e così avremmo avuto alloggio in gattabuia. Ma poi pensammo che poteva succedere anche che la guardia ci desse un sacco di legnate e rifiutasse di arrestarci.


Non potevamo passare tutta la notte ad azzuffarci con i poliziotti. Inoltre, poi, non volevamo correre il rischio di strafare e buscarci sei mesi.


Tentammo ancora, già in preda alla disperazione, di fronte a quella che ci sembrava essere la quarta isola, ma il successo non fu migliore. La pioggia ora cadeva fitta e con evidente determinazione a durare. Eravamo bagnati fino alle ossa, pieni di freddo ed avvilitissimi. Cominciavamo a non esser più certi se le isole fossero quattro soltanto, o più; non avremmo garantito affatto di esser vicini alle isole o di esser chissà dove, a un miglio di distanza dal punto ove ci saremmo dovuti trovare o, magari, sulla riva opposta del fiume; nel buio tutto sembrava così strano e diverso. Cominciammo a renderci conto della sofferenza dei Cappuccetti Rossi sperduti nel bosco.


Esattamente nell'istante in cui avevamo abbandonato ogni speranza... sissignori, so benissimo che questo è sempre il momento in cui succedono le cose nei romanzi e nei racconti, ma non so che farci. Quando cominciai a scrivere questo libro decisi di mantenermi rigidamente fedele alla verità in ogni cosa; e sarà così anche se per raggiungere lo scopo mi vedrò costretto a servirmi di frasi fritte e rifritte.


Avvenne esattamente nell'istante in cui avevamo abbandonato ogni speranza; perciò, devo dire così. Esattamente nell'istante in cui avevamo abbandonato ogni speranza, io improvvisamente scorsi, un po' più a valle di noi, una specie di strano fantastico luccicore tremolante fra gli alberi della sponda opposta. Per un momento pensai agli spiriti; quella luce era così misteriosa e incerta!

Subito dopo, però, come un lampo mi venne l'idea che quella fosse la nostra barca e mandai un urlo tale attraverso l'acqua da far tremare la notte dentro il suo letto.


Aspettammo senza fiatare per un minuto e poi - oh! divina musica nelle tenebre! - sentimmo il latrato di risposta di Montmorency.


Gridammo ancora tanto da svegliare i Sette Addormentati (dal canto mio, non sono mai riuscito a capire perché si debba far più rumore per svegliare sette persone che dormono di quanto ne basta per svegliarne una sola), e dopo un tempo che ci sembrò mezz'ora, ma che in realtà, a quanto io credo, fu di circa cinque minuti, vedemmo la barca illuminata che scivolava lentamente nell'oscurità e udimmo la voce assonnata di Harris che ci chiedeva dove fossimo.


Percepimmo che Harris si comportava in modo inspiegabilmente strano. C'era in lui qualcosa di più della comune stanchezza.


Spinse la barca contro un punto della sponda da dove era assolutamente impossibile saltarvi dentro e si riaddormentò subito.


Per risvegliarlo di nuovo e per richiamarlo alla realtà ci vollero un sacco di urli e di schiamazzi; alla fine ci riuscimmo e scendemmo regolarmente a bordo dove subito notammo che Harris aveva una espressione tristissima; dava l'idea di un uomo che avesse passato grossi guai. Gli domandammo che cosa fosse successo e lui rispose:

- Cigni!

A quanto sembrava c'eravamo ormeggiati vicino a un nido di cigni, e non appena io e George ci eravamo allontanati era tornata la femmina del cigno che si era messa a protestare contro l'invasione. Harris l'aveva scacciata ed essa era andata a chiamare il vecchio cigno suo marito. Harris raccontò che aveva sostenuto una vera battaglia con quei due cigni ma che alla fine il suo coraggio e la sua abilità avevano trionfato e li aveva sconfitti.


Mezz'ora dopo erano tornati con altri diciotto cigni! La disfida dovette esser terribile, almeno secondo la versione di Harris. I cigni avevan tentato di buttar lui e Montmorency fuori della barca per annegarli; lui si era difeso come un eroe per quattro ore, li aveva accoppati tutti ed essi erano scivolati con la corrente per andarsene a morire lontano.


- Quanti cigni hai detto che c'erano? - chiese George.


- Trentadue - rispose Harris quasi dormendo.


- Ma se proprio adesso hai detto diciotto! - disse George.


- Non è vero - grugnì Harris.- Ho detto dodici. Cosa credi, che non sappia contare?

Non riuscimmo mai ai sapere come realmente fosse andata questa storia dei cigni. Al mattino seguente interrogammo Harris in proposito ed egli disse: - Ma che cigni? - e parve convinto che ce li fossimo sognati io e George.


Che bellezza ritrovarsi ora comodamente nella barca dopo tanti stenti e tanta paura. Cenammo, io e George, mettendoci tutta l'anima, e dopo avremmo gradito molto un sorsetto; ma non ci fu possibile scovare il whisky. Tentammo di sapere da Harris cosa ne avesse fatto ma egli mostrò di non capire né cosa volesse dire la parola "whisky" né di che stessimo parlando. Montmorency ci guardava con l'aria di chi la sa lunga, ma non riferì nulla.


Quella notte dormii molto bene e avrei dormito ancora meglio senza quel benedetto Harris. Ricordo vagamente di esser stato svegliato da Harris perlomeno dodici volte durante la notte; andava vagolando per tutta la barca con una lanterna in cerca dei suoi panni. Sembra che abbia passato la notte intera ad arrabbiarsi per causa dei suoi panni.


Per ben due volte rigirò George e me, convinto che fossimo sdraiati sui suoi calzoni. La seconda volta George perdette la pazienza.


- Ma si può sapere che accidente ci devi fare a quest'ora con i calzoni? - gli chiese furente. - Finiscila, coricati e mettiti a dormire.


Svegliandomi di nuovo lo vidi tutto contrariato perché non trovava le calze e il mio ultimo ricordo è quello di esser rotolato su un fianco da Harris che brontolava qualcosa al riguardo del suo ombrello, che quella era una cosa incredibile, dove era andato a finire l'ombrello!




CAPITOLO 15


Lavori domestici - Il vecchio barcaiolo: quello che fa e quello che dice di aver fatto - Scetticismo della nuova generazione - Ricordi di altre gite in barca - Navigazione in zattera - George fa le cose con stile - Il vecchio barcaiolo e il suo metodo - Tanta calma, tanta pace - I principianti - Si spinge con la pertica - Un incidente increscioso - Soddisfazioni dell'amicizia - La mia prima esperienza di navigazione a vela - Possibili ragioni per cui non annegammo.


Il mattino seguente ci svegliammo tardi e accondiscendendo a un desiderio molto vivo di Harris, facemmo una colazione semplice, senza "manicaretti". Poi rigovernammo e mettemmo tutto a posto (si trattava del lavoro di tutti i giorni che cominciò a chiarirmi le idee circa una domanda che spesso mi sono posta, e cioè come fa a passare tutto il suo tempo una donna che deve badare a una sola casa), e verso le dieci partimmo per goderci quella che avevamo deciso dovesse essere una bella giornata di viaggio. Combinammo che, tanto per cambiare, avremmo vogato invece di rimorchiare, e Harris subito pensò che il miglior modo era che io e George vogassimo ed egli stesse al timone. Io non condivisi affatto la sua idea e dissi che secondo me Harris avrebbe dimostrato uno spirito più equo se avesse proposto se stesso e George ai remi per farmi respirare un po'. Mi pareva che in quel viaggio stessi facendo molto di più della mia parte di lavoro, e cominciavo a risentirmi.


Io ho sempre l'impressione di star facendo più lavoro di quanto debba. Credete, non è perché abbia antipatia per il lavoro; al contrario, il lavoro mi piace, mi affascina. Sono capace di starlo a guardare per ore e godo tanto a tenermelo vicino che l'idea di dovermene liberare quasi mi schianta il cuore.


Per me il lavoro non è mai troppo; ho quasi la passione di accumulare lavoro; il mio studio ne è ora così pieno che non c'è neanche più un centimetro di spazio per metterci altro lavoro.


Presto dovrò buttar giù una parete.


E, inoltre, sono attaccatissimo al mio lavoro. Una parte del lavoro che ho adesso sta con me da anni e anni e, credete, non c'è neanche l'impronta di un dito. Del mio lavoro sono orgoglioso, ogni tanto lo rimuovo e lo spolvero. Non esiste un uomo al mondo che mantenga il suo lavoro in miglior stato di conservazione.


Ma, nonostante la mia avidità di lavoro, sono onesto. Non ne chiedo più della parte che mi spetta.


Invece, me ne arriva senza che lo chieda - per lo meno così mi sembra - e ciò mi irrita.


George afferma che, secondo lui, io non mi debbo inquietare per questo. Dice che la mia convinzione che mi si dia sempre più lavoro di quanto me ne spetti, dipende dalla mia coscienza eccessivamente scrupolosa e che, in fondo poi, non ne ho neanche la metà di quanto ne dovrei avere. Ma sono convinto che dice così solo per consolarmi.


Mi sono accorto che quando si è in una barca ciascun componente dell'equipaggio ha l'idea fissa di esser lui a fare tutto. La convinzione di Harris era che solo lui lavorava e che io e George lo stavamo sfruttando. George, da parte sua, trovava ridicolo che Harris pensasse di aver fatto qualcosa d'altro all'infuori di sbafare e dormire e aveva la ferrea convinzione che era lui - George - ad aver fatto tutto il lavoro degno d'esser chiamato tale.


Affermava di non essersi mai trovato in giro con una coppia di oziosi scansafatiche come me e Harris.


Harris ci si divertiva un mondo.


- Magnifico, ecco il nostro vecchio George che parla di lavoro! - diceva ridendo; - dopo mezz'ora morirebbe! Hai mai visto George lavorare? - aggiunse guardando me.


Convenni con Harris che non lo avevo mai visto, e ne avevo avuto la conferma da quando era cominciato questo viaggio.


- Sicuro! ma quello che non capisco è come mai TU, PROPRIO TU possa giudicare, - ribatté George a Harris; - visto che Dio mi fulmini se non sei stato sempre addormentato. Hai mai visto Harris completamente sveglio, eccetto all'ora di mangiare? - chiese George rivolgendosi a me.


Per onor del vero dovetti dare ragione a George. Harris, fin dal principio e per quanto riguardava i lavori da fare, aveva reso ben poco.


- Sta bene, sia pure, però più di questo vecchio J. l'ho fatto senz'altro, - affermò Harris.


- Sfido io, e com'era possibile far meno di lui? - rispose George.


- Io credo che J. pensi di essere il passeggero, - continuò Harris.


E fu quella la loro gratitudine per averli portati fin lì, loro e la loro vecchia barcaccia sconquassata, da Kingston, e per aver diretto e organizzato ogni cosa, per essermi preoccupato di loro e per avere sfacchinato per loro. Ma il mondo è fatto così.


Accomodammo la difficoltà contingente decidendo che Harris e George avrebbero vogato fin oltre Reading e che di lì in avanti io avrei dato il rimorchio. Ora, il rimorchiare una barca pesante contro corrente non mi attrae più troppo; ma ci fu un tempo, molti anni fa, che strepitavo perché mi assegnassero quel lavoro; ora preferisco lasciare il piacere ai giovincelli.


Mi accorgo che per la maggior parte i vecchi fiumaroli si schermiscono anch'essi quando c'è da fare una tirata dura. Un vecchio barcaiolo lo si riconosce subito dal modo come si stende sui cuscini in fondo alla barca e incoraggia i vogatori, raccontando le gesta meravigliose di cui fu eroe nella stagione scorsa.


- E voi lo chiamate lavoro duro, codesto! - bofonchia lui tra gli sprezzanti sbuffi di fumo e quasi sferzando i novellini tutti sudati che si stanno macinando le ossa ai remi da un'ora e mezzo; - state a sentire: Jim Biffles, io e Jack, la stagione scorsa tirammo da Marlow a Goring in un solo pomeriggio, senza una fermata. Te ne ricordi, Jack?

Jack, che per conto suo si è fatto un bel letto a prua mettendo tutte le coperte e i vestiti che ha potuto radunare, e che se la dorme da due ore, al sentirsi chiamare si sveglia un pochino e ricorda che c'era una corrente straordinariamente contraria per tutta la tirata - e anche un ventaccio contrario.


- Sono state quasi quaranta miglia, mi pare, - aggiunse il primo barcaiolo afferrando un altro cuscino da mettersi sotto la testa.


- No, non esagerare, Tom, - mormora Jack con tono di riprovazione, - al massimo erano trentacinque.


E Jack e Tom, completamente esauriti dallo sforzo della conversazione si buttano giù per dormire ancora. E i due giovanotti semplicioni sembrano quasi orgogliosi di vogare per una coppia di vogatori eccezionali come Jack e Tom, e arrancano con rafforzata lena.


Io quando ero giovane ascoltavo questi racconti dei più vecchi, li assorbivo, li fagocitavo, ne digerivo ogni parola e poi chiedevo sempre che ne raccontassero degli altri; ma la nuova generazione non mostra di avere la stessa fede dei tempi passati. Una volta, durante l'ultima stagione io, George ed Harris prendemmo con noi un novellino e lo cibammo delle usuali narrazioni circa le cose magnifiche che avevamo già fatto sul fiume.


Gli ammannimmo tutte quelle di dominio pubblico - quelle bugie onorate dal tempo che negli anni passati hanno fatto legge sul fiume - e aggiungemmo settanta storie originali che ci eravamo inventate noi, includendo una avventura davvero quasi credibile fondata, fino a un certo punto, su fatti veri, che, con dovuta riduzione, erano davvero accaduti a un amico nostro - una storia che un bambino avrebbe potuto benissimo credere senza rimetterci molto.


E invece quel ragazzo si faceva beffe di tutto e ogni tanto pretendeva che ripetessimo il racconto e voleva scommettere dieci contro uno che non era vero.


Durante quella mattinata parlammo sempre di queste nostre esperienze fluviali e raccontammo di nuovo le storie dei nostri primi passi nell'arte del canottaggio. Il mio ricordo più lontano è di una volta che mettemmo cinque soldi ciascuno e ci avventurammo, su di una zattera stranamente costruita, sul lago di Regent Park e in conseguenza dovemmo andare ad asciugarci in casa del custode del parco.


Dopo di ciò, avendo preso un certo gusto all'acqua io andai con la zattera sui laghetti che si formavano nelle cave suburbane; è un esercizio più interessante e più affascinante di quanto si possa immaginare, specialmente poi quando vi trovate in mezzo alla pozza d'acqua e il proprietario del materiale con cui vi siete costruito il natante spunta improvvisamente sulla riva armato di un grosso manganello.


Alla vista di quel signore il vostro primo sentimento è che non vi sentite egualmente disposto alla compagnia e alla conversazione e che se poteste filarvela senza sembrar malaccorto lo fareste subito e di conseguenza il vostro obiettivo diventa quello di sbarcare dal lato opposto dell'acqua e squagliarvela silenziosamente e rapidamente avendo l'aria di non averlo neanche visto. Lui, al contrario, ha una voglia matta di prendervi per mano e di parlarvi.


Sembra che conosca vostro padre e che conosca voi stesso molto da vicino; ma tutto ciò non vi attrae verso di lui. Egli vi dice che vi insegnerà lui a costruire una zattera con le sue travi ma, siccome voi già sapete abbastanza bene come si fa, l'offerta, nonostante la buona intenzione, vi sembra superflua da parte sua, e voi non ve la sentite di metterlo in imbarazzo accettando.


La sua brama d'incontrarvi, però, rimane tetragona di fronte alla vostra freddezza, e la maniera energica con la quale guizza avanti e indietro intorno allo stagno, per trovarsi sul posto ad accogliervi quando sbarcate, è davvero lusinghiera.


Se si tratta di un tipo pingue e con poco fiato, voi alla fine riuscite a evitare l'incontro; ma se invece è un uomo giovanile e con le gambe lunghe l'intervista diventa inevitabile. Però la faccenda è breve, molto breve, perché la gran parte della conversazione la sostiene lui e voi vi limitate ad osservazioni espresse con esclamazioni monosillabiche e non appena potete svignarvela ve la svignate.


Dedicai tre mesi circa alla navigazione con zattere e, avendo raggiunto un grado di addestramento molto superiore al necessario per questo sport acquatico, decisi di iniziare la voga a remi vera e propria e perciò mi feci socio d'un circolo nautico del Lea.


L'uscire in barca sul fiume Lea, specialmente di sabato, al pomeriggio, vi rende subito espertissimi nel maneggio di un natante; non solo, ma si acquista anche una grande agilità nell'evitare di essere investito da qualche zoticone, o affondato dalle zattere; inoltre avete la possibilità di imparare il metodo più adatto e più elegante per buttarvi disteso sul fondo della barca in modo che i cavi delle alzaie, passando, non vi prendano al laccio per sbattervi nel fiume.


Il fiume Lea, però, non vi conferisce quello che si chiama stile.


Lo stile io lo acquistai solo quando arrivai a navigare sul Tamigi. Ora lo stile della mia vogata è ammiratissimo. Tutti lo trovano molto originale.


George fino all'età di sedici anni non si era mai avvicinato al fiume. Poi, lui e altri otto galantuomini suoi coetanei, un sabato, si recarono a Kew in fitta schiera con l'idea di noleggiare una barca per vogare fino a Richmond e ritorno; uno della comitiva, un giovanotto mezzo matto di nome Joskins, che era andato un paio di volte sulla barca della giostra, aveva detto che il canottaggio era divertentissimo. Arrivarono al posto di noleggio delle barche che la marea si stava già ritirando rapidamente e s'era levata una brezza violenta che soffiava sul fiume, ma tutto questo non li disanimò, e si accinsero a scegliere un'imbarcazione.


C'era una iole a otto remi alata in secco sul piano inclinato dello scalo, e fu quella che impressionò la loro fantasia, sicché la chiesero con molta insistenza. Il proprietario si era allontanato e aveva lasciato lì un suo figlioletto il quale cercò di smorzare il loro ardore per la iole e offri, invece, due o tre barche d'aspetto molto pacifico, di quelle per gite familiari; ma essi non ne vollero sapere, erano convinti che per far più bella figura ci voleva la iole a otto remi.


Il ragazzino la varò ed essi si scamiciarono e si prepararono a sedersi ai loro posti. Il ragazzino consigliò a George (il quale già a quei tempi era il più grosso di tutta la brigata) di mettersi al numero quattro... George si dichiarò felicissimo di essere il numero quattro e subito andò a prua e si sedette con le spalle alla poppa. Gli altri, poi, riuscirono finalmente a farlo sedere in posizione appropriata e si imbarcarono anch'essi.


Nominarono timoniere un ragazzo eccessivamente nervoso al quale Joskins impartì le regole principali per manovrare la barca.


Joskins si elesse capobarca, motu proprio. Agli altri disse che la cosa era molto semplice: bastava che obbedissero a lui.


Tutti annunziarono che erano pronti ed il ragazzino, dall'imbarcatoio, prese un gancio d'accosto e li scostò.


Ciò che accadde poi, George non è in grado di descriverlo nei particolari. Ha il confuso ricordo di avere ricevuto subito, al momento della partenza, una botta tremenda nelle parti molli della schiena, prodotta dal girone del remo del numero cinque e, allo stesso tempo, dell'impressione che il suo sedile gli sfuggisse di sotto per magia lasciandolo seduto sul pagliuolato. Notò anche la strana circostanza che il numero due, allo stesso momento, giaceva alle sue spalle in fondo alla barca, con le gambe all'aria, evidentemente in preda a una crisi di convulsioni.


Passarono sotto il ponte di Kew, traversati e alla velocità di otto miglia all'ora. Unico a vogare: Joskins. George, ricuperato il suo posto sul sedile, cercò di aiutarlo, ma, avendo messo il remo in acqua, questo, immediatamente e con sua intensa sorpresa, sparì sotto la barca e quasi se lo trascinò dietro.


E il timoniere gettò entrambi i cordoni della barra in acqua e scoppiò in lacrime.


Come siano tornati indietro, George non l'ha mai saputo; ma v'impiegarono quaranta minuti. Una fitta folla seguiva lo spettacolo dal ponte di Kew con molto interesse, e ognuno gridava consigli, dando istruzioni differenti. Tre volte riuscirono a riportare l'imbarcazione indietro, attraverso l'arcata del ponte, e tre volte furono riportati sotto a questa, e ogni volta che il timoniere alzando gli occhi vedeva il ponte sulla sua testa scoppiava in nuovi singhiozzi.


Dice George che quel pomeriggio non credeva davvero che gli sarebbe mai piaciuto realmente andare in barca.


Harris è più pratico di voga in mare che del lavoro sul fiume, e afferma che, come esercizio fisico, lo preferisce. Io no. Io ricordo d'essere uscito in una piccola imbarcazione, l'estate scorsa, a Eastbourne: anni fa facevo parecchia voga in mare e perciò pensavo che tutto sarebbe andato bene; ma scoprii di avere completamente dimenticato l'arte. Quando un remo era bene immerso nell'acqua, l'altro si agitava furiosamente in aria. Per agguantare l'acqua con entrambi contemporaneamente dovetti mettermi in piedi. La passeggiata a mare era affollata d'un pubblico nobile ed elegante, e io dovetti sfilare dinanzi a loro vogando in quel modo ridicolo. Presi terra a metà della spiaggia, e mi procacciai i servizi d'un vecchio barcaiolo per riportarmi indietro.


Mi piace osservare un vecchio barcaiolo mentre voga, specialmente poi se è uno noleggiato a ore. Il suo sistema ha qualcosa di solenne, di riposante. In lui non vedete nulla di quella fretta confusa, di quello sforzo veemente che avvelena ogni giorno di più la vita del diciannovesimo secolo. Egli non pensa neanche di affrettarsi per superare gli altri e se un'altra barca lo raggiunge, e lo lascia indietro, egli rimane indifferente; di fatti, lo sorpassarono tutti - tutti quelli che facevano la stessa strada. Credo che una cosa simile irriterebbe altri, ma la sublime severità del barcaiolo da noleggio, di fronte a questa dura prova, ammonisce contro l'ambizione e l'orgoglio.


La comune vogata, tanto per spingere avanti la barca, non è arte difficile da imparare; ma perché un uomo si senta sicuro di sé quando sfila davanti alle ragazze ci vuol molta pratica. Quello che imbarazza il principiante è il "tempo". - Ma sai che è buffo?

- dice lui, quando per la ventesima volta in cinque minuti libera il suo remo che continua a intrecciarsi col vostro; -quando sono solo, vogo magnificamente.


E' divertentissimo, infatti, vedere due novellini che tentano di vogare a tempo. Il prodiere trova che è impossibile andare a tempo col capo voga, perché il capo voga ha un così straordinario modo di vogare. Questo fa indignare fortemente il capo voga, il quale spiega che da dieci minuti non sta facendo altro che tentare di adattarsi alle limitate capacità del prodiere. Il prodiere diventa a sua volta insolente e dice al capo voga di non interessarsi di quello che fa lui e di pensare soltanto a vogare a tempo.


- Oppure devo prendere io il tuo posto e scandire il tempo? - aggiunge perfettamente convinto che così le cose andrebbero perfettamente a posto.


Se ne vanno sguazzando per un altro centinaio di metri, con risultato sempre più mortificante; ma poi, come un lampo di ispirazione, tutta la ragione dei loro guai si svela al capo voga.


- Adesso te lo dico io, che cos'è: è che tu ti sei preso i miei remi! - grida rivolto al prodiere: - dammeli qua.


- Adesso capisco, perciò mi meravigliavo di non farcela con questi, - risponde il prodiere, completamente sicuro e collaborando attivamente per fare il cambio. - Ora andremo benissimo.


E invece no non va neanche allora. Ora il capo voga, per vogare, deve allungare le braccia fino a staccarsele quasi dalle giunture mentre i remi del prodiere, a ogni momento lo colpiscono violentemente al petto. Allora rifanno il cambio concludendo che il barcaiolo ha dato loro due coppie di remi sbagliati e, prendendosela con l'assente a una voce, finiscono per ritrovare la loro amicizia e la simpatia reciproca.


George disse che per cambiare gli era venuta spesso l'idea di imparare a spingere con la pertica. Spingere con la pertica non è così facile come sembra. E' come per la voga. Si fa presto ad apprendere come si va innanzi e come ci si ferma, ma prima di farlo con dignità e senza farsi salire l'acqua sopra le maniche ci vuol molto esercizio.


Io conobbi un giovanotto che la prima volta che provò a spingere il sandalo con la pertica fu vittima di un accidente sgradevole.


Egli se la cavava molto bene e acquistò confidenza con la manovra fino a divenire imprudente tanto che andava da poppa a prua e da prua a poppa per manovrare la pertica con grazia spensierata che a vederlo era un piacere. Correva fino alla punta del sandalo, piantava la pertica e camminava verso l'altra estremità con la sicurezza di un vecchio praticone. Era grande, davvero.


E avrebbe continuato ad essere grande se, sfortunatamente, guardandosi intorno per godersi il panorama, non avesse fatto un passo, soltanto un passo di più del necessario e non fosse andato a finire fuori del sandalo. La pertica era saldamente infilata nel fondo, immobile, e lui vi rimase appeso mentre il sandalo se ne andava per conto suo.


La posizione in cui rimase non era molto distinta. Un monello che stava sulla sponda subito chiamò un compagno gridandogli: - Corri, c'è una scimmia vera aggrappata a un Palo.


Io non potevo correre in suo aiuto perché la scalogna volle che non ci fossimo portati una pertica di ricambio e quindi rimasi sul sandalo a guardarlo. La sua espressione, mentre la pertica si abbassava con lui pencolante, io non la dimenticherò mai: v'era in essa molta ponderazione.


Lo osservai mentre lentamente cadeva in acqua e lo vidi dimenarsi tutto bagnato e triste. Era così ridicolo che non potei fare a meno di ridere e non la smisi per un bel pezzo ma poi, improvvisamente compresi che in fondo c'era poco da ridere. Alla fine dei conti ero rimasto solo su di un sandalo, senza pertica, abbandonato alla mercé della corrente e, forse, correndo in direzione di una cascata.


Allora cominciai a sentirmi molto sdegnato verso il mio amico che era saltato fuori di bordo e se ne era andato a quel modo. Poteva lasciare la pertica, per lo meno.


Scivolai così sulla corrente per un quarto di miglio e poi vidi una chiatta da pesca ancorata in mezzo al fiume. Sopra c'erano due pescatori. Essi si accorsero che li avrei investiti e gridarono perché deviassi.


- Non posso! - dissi io.


- E perché non ci prova? - chiesero loro.


Arrivato più vicino spiegai la cosa ed essi mi afferrarono e mi imprestarono una pertica. A quaranta metri c'era la cascata e quindi fui molto contento che essi si fossero trovati lì.


La prima volta che vogai con la pertica fu in compagnia di altri tre amici i quali dovevano mostrarmi come si fa. Siccome non potevano partire tutti assieme io dissi che sarei andato giù per primo e avrei provveduto al noleggio di un sandalo, avrei bighellonato un po' ed avrei fatto un po' di pratica fino al loro arrivo.


Ma quel pomeriggio non mi fu possibile avere il sandalo, erano tutti occupati e non mi rimase da far altro che sedermi sulla sponda a guardare il fiume in attesa degli amici.


Mi ero seduto da poco quando la mia attenzione fu attratta da un uomo su un sandalo, che, e questa scoperta mi sorprese, portava una giacca e un berretto eguali ai miei. Evidentemente era un principiante e il suo modo di vogare era interessantissimo. Quando affondava la pertica non si sapeva mai che cosa sarebbe successo; era chiaro che non lo sapeva neanche lui. A volte spingeva verso monte e a volte verso valle, altre volte non faceva che rigirarsi intorno alla pertica. Ma quale che fosse il risultato delle sue spinte egli se ne mostrava sempre meravigliato ed irritato.


Tutta la gente che era lì intorno si fermava per osservarlo con la maggior curiosità e molti scommettevano fra loro su quello che sarebbe successo alla prossima puntata della pertica.


Nel frattempo erano arrivati i miei amici e si erano fermati a guardare dall'altra riva. Egli voltava le spalle in modo che essi videro solo la giacca e il berretto e immediatamente conclusero che ero io, il loro caro compagno, che si esercitava e le loro risate non conobbero limiti. Cominciarono a beffeggiarlo senza pietà.


Subito non afferrai l'errore e pensai: - Ma che volgarità da parte loro, fare così; e poi, con uno sconosciuto!

Però, prima che potessi gridare per rimproverarli, avevo compreso il qui pro quo e perciò mi nascosi dietro un albero.


Ma quanto si divertirono a prendere in giro quel ragazzo! Stettero lì per cinque buoni minuti a gridare improperi, a deriderlo, a scimmiottarlo e a fargli sberleffi. Lo ricoprirono di tutte le volgarità di ordinaria amministrazione e finite queste ne inventarono delle nuove per mortificarlo. Gli scaraventarono addosso tutte le parolacce di uso intimo fra noi e che quindi per lui dovevano essere assolutamente incomprensibili. Alla fine lui non sopportò più tanta beffa, si voltò ed essi videro il suo viso.


Sono lieto di assicurare che nei loro animi c'era ancora un resto di vergogna, perché li vidi rimanere come tre cretini. Gli dissero che lo avevano scambiato per un loro conoscente e che speravano di non essere giudicati capaci di insultare a quel modo una persona che non fosse un loro amico del cuore.


Certo, l'averlo scambiato per un amico scusava il loro comportamento.


Ricordo che Harris mi raccontò una sua avventura a Boulogne. Lui stava nuotando vicino a riva quando improvvisamente si sentì afferrare di dietro per la nuca e cacciare a forza sott'acqua. Lui si dibatté con tutte le forze ma quello che lo aveva agguantato doveva essere un vero Ercole e quindi tutta la sua reazione fu inutile. Arrivò al punto di dover smettere di lottare e pensò di rivolgere i suoi ultimi pensieri alle cose solenni, ma in quel momento l'avversario mollò.


Harris si rimise in piedi e si voltò per vedere chi era il suo quasi-assassino. Costui gli stava accanto e se la rideva a squarciagola ma nel momento in cui scorse la faccia di Harris che usciva dall'acqua, fece un passo indietro e rimase perplesso.


- Oh! - mi scusi tanto, - balbettò tutto confuso; - l'avevo scambiato per un mio amico.


Harris ringraziò Dio che quello non lo avesse scambiato per un suo parente, perché lo avrebbe affogato di certo.


Anche il veleggiare richiede esperienza e allenamento, invece io, da ragazzo, non la pensavo così. Credevo che fosse un senso naturale dell'uomo, come il rotolarsi per terra, o il tatto.


Conoscevo un altro ragazzo che aveva la stessa convinzione e perciò, in una giornata di vento, decidemmo di cimentarci in quello sport. Ci trovavamo a Yarmouth e optammo per un viaggetto sul fiume Yare. Affittammo una barca al posto vicino al ponte e partimmo.


- La giornata è piuttosto brutta, - ci avvisò l'uomo mentre staccavamo, - sarà meglio prendere una mano di terzaruolo, e fare orza alla banda quando scapolate la curva.


Gli rispondemmo che non avremmo dimenticato le sue istruzioni, lo salutammo con un lieto "buona giornata" chiedendoci internamente come si orzi alla banda e chi ce la dovesse dare, quella mano (di terzaruolo), nonché cosa farcene, una volta avutala.


Vogammo fino a portarci fuori di vista della città e poi sentimmo che era venuto il momento di iniziare le operazioni per fendere la grande distesa d'acqua che ci stava dinanzi approfittando del vento che vi soffiava sopra come un vero uragano.


Hector (mi pare che si chiamasse così) continuò a vogare mentre io svolgevo la vela. Era un faccenda complicata ma alla fine ci riuscii e subito si presentò il problema d'indovinare qual era il lato superiore.


Grazie a una specie d'istinto innato, noi, s'intende, finimmo col decidere che la parte di sotto era quella di sopra, e ci mettemmo al lavoro per disporla alla rovescia. Ma per montarla ci volle un tempo enorme indipendentemente da come doveva essere sistemata.


Certamente la vela aveva la convinzione che stessimo giocando ai funerali ed io ero il cadavere e lei era il sudario.


Quando poi comprese che non era questa la nostra idea mi batté in testa col boma e si rifiutò a ogni altro movimento.


- Bagnala, - disse Ettore, - mettila in acqua e bagnala.


Ettore disse che i marinai delle navi bagnano sempre le vele prima di issarle. La bagnai ma ciò servì solo a peggiorare le cose. Una vela asciutta che vi si avvinghia per le gambe e vi avvolge la testa non è una cosa piacevole, ma quando essa è bagnata la cosa diventa assai snervante.


Fra tutt'e due, però, finimmo con l'issarla. La issammo non proprio alla rovescia (sarebbe più giusto dire "di sghembo") e la legammo all'albero con la barbetta, che tagliammo apposta.


La barca non si capovolse, questa è una constatazione di fatto. Il perché non si capovolse io non lo posso spiegare. Spesso ci ho pensato da allora, ma non sono mai riuscito a darmi una spiegazione plausibile di quel fenomeno.


Forse quel risultato lo dovemmo al naturale spirito di contraddizione di tutte le cose di questo mondo. Credo che la barca, giudicando da quel che comprese dal nostro comportamento, si sia convinta che noi eravamo andati al largo per suicidarci di mattina presto e che abbia voluto contraddirci. Questa è l'unica ipotesi che io mi senta di fare.


Tenendoci agguantati alla frisata, riuscimmo giusto giusto a restare dentro l'imbarcazione, ma fu lavoro spossante. Hector disse che i pirati e altra gente di mare, durante le grosse tempeste, provvedono, generalmente, a legare il timone a qualche cosa, e rientrano il fiocco, e che anche noi dovevamo fare qualcosa del genere; io, per conto mio, preferivo lasciare che l'imbarcazione facesse di testa sua col vento.


Visto che il mio consiglio era di gran lunga più facile da seguirsi, finimmo per seguirlo e concentrammo tutti i nostri sforzi per rimaner abbracciati ai bordi e lasciar andare.


La barca volò sulla corrente per circa un miglio ad una velocità che io non ho più raggiunto facendo vela, e che, francamente, non desidero mai più raggiungere. Poi, a una curva, s'inchinò fino a mettere metà della vela in acqua; poi si raddrizzò da sola come per miracolo e si diresse a tutta corsa verso un bassofondo di fanghiglia molle.


Quel banco di fango fu la nostra salvezza. La barca lo arò e vi si incollò. Allora ci accorgemmo di essere ancora in grado di muoverci secondo i nostri desideri, invece di esser sbatacchiati qua e là come piselli in un tamburo; strisciammo fino a prua e ammainammo la vela tagliando i cavi.


Oramai eravamo andati a vela abbastanza. Non avevamo nessuna intenzione di strafare e di arrivare alla sazietà. Vela, l'avevamo fatta - sul serio, al completo, in abbondanza - e ora pensammo di andare a remi, tanto per cambiare un poco.


Afferrammo i remi e cercammo di staccare la barca dal fango; ma nello sforzo un remo si ruppe. Dopo di che, procedendo con molta attenzione, continuammo nel tentativo, ma di certo quello era un paio di remi fradici e anche il secondo si ruppe con facilità maggiore del primo, e rimanemmo abbandonati a noi stessi.


Il fango si estendeva per una cinquantina di metri dinanzi a noi; dietro c'era l'acqua. L'unica cosa da fare era sedersi e aspettare che qualcuno passasse.


La giornata non era di quelle che invitano i gitanti sul fiume e quindi prima che apparisse un'anima passarono tre ore. Era un vecchio pescatore il quale riuscì a salvarci con grande difficoltà e ci rimorchiò ignominiosamente fino al cantiere della imbarcazione.


Tutta la festa, tra la mancia all'uomo che ci aveva ricondotto alle nostre case, il risarcimento dei remi rotti e il noleggio per quattro ore e mezzo, ci costò un gran numero di stipendi settimanali di papà.


Ma facemmo un'esperienza e, come si dice, l'esperienza non si paga mai troppo cara.




CAPITOLO 16


Reading - Rimorchiati da una lancia a vapore - Condotta irritante delle piccole barche a remi - Come esse intralciano le lance a vapore - George e Harris fanno di nuovo gli scansafatiche - Una storia piuttosto comune - Streatley e Goring.


Alle undici venimmo in vista di Reading. Qui il fiume è sporco e opprimente. Nelle vicinanze di Reading non si indugia. La città stessa è un fumoso abitato antico che risale ai tempi duri di re Ethelred quando i danesi ancorarono le loro navi da guerra nel Kennet e partirono da Reading per saccheggiare tutto il territorio del Wessex, e fu qui che Ethelred e suo fratello Alfred li affrontarono e li sconfissero in una battaglia durante la quale Ethelred pregava e Alfred combatteva.


In seguito pare che Reading fosse diventato un posto conveniente per andarci a cercar rifugio quando a Londra cominciava a spirare aria di epidemia. Ogni volta che a Westminster sorgeva una minaccia pericolosa il Parlamento scappava a Reading e, nel 1625, la Legge seguì l'esempio e tutti i tribunali e le corti funzionarono a Reading. Credo che i londinesi fossero lieti di una lieve epidemia ogni tanto per liberarsi sia dei deputati sia degli avvocati.


Per tutta la durata della lotta parlamentare Reading fu presidiata dal conte di Essex e un quarto di secolo dopo il principe di Orange vi batté le truppe di re Giacomo.


Enrico Primo giace a Reading, sepolto nella badìa dei benedettini da lui stesso qui fondata e le cui rovine sono tuttora visibili, e in questa stessa badia il grande John di Gaunt andò sposo a Lady Blanche.


Alla chiusa di Reading ci incontrammo con una lancia a vapore appartenente ad alcuni miei amici ed essi ci rimorchiarono fino ad un miglio da Streatley. Esser rimorchiati da una lancia a vapore è una vera delizia; io lo preferisco all'andare a vapore. Però avremmo potuto godercela ancor di più se non fosse stato per una quantità di vilissime barche piccole che si mettevan continuamente sulla strada della nostra lancia e, dovendo evitare di investirle, eravamo costretti a fermare e a rallentare ogni minuto. La condotta di queste barche a remi che si mettono sempre fra i piedi delle lance a vapore sul fiume è veramente fastidiosa, occorrerebbe proprio fare qualcosa per porre fine a una tale indecenza.


E poi, il bello è che sono di una sfacciataggine incredibile.


Avete un bel fischiare fino a far quasi scoppiare le caldaie: non si scomodano per farvi strada. Se potessi fare a modo mio ne affonderei un paio ogni tanto, così imparerebbero.


Non appena si lascia Reading il fiume ritorna molto piacevole. Nei pressi di Tilehurst la sua bellezza è forse sciupata dalla ferrovia, ma dalla chiesa di Mapledurham a Streatley è radioso.


Poco a monte della chiesa di Mapledurham si passa Hardwick House dove Carlo Primo giocava a bocce. Credo che il sobborgo di Pangbourne con la sua originale locanda chiamata "Il cigno" debba essere non meno familiare agli "habitués" delle esposizioni d'arte che agli stessi abitanti del luogo.


La lancia dei miei amici ci mollò proprio sotto la "grotta" e allora Harris si mise in testa che toccava a me vogare. La pretesa mi parve estremamente irragionevole. Di mattina avevamo stabilito che io avrei tirato la barca fino a tre miglia dopo Reading.


Orbene, adesso eravamo a dieci miglia al di là di Reading! Si poteva dubitare che ora fosse di nuovo il loro turno?

Però non riuscii a far sì che George ed Harris vedessero la cosa nella giusta luce, e per non far storie presi i remi. Era già più di un minuto che vogavo quando George vide qualcosa di nero che galleggiava e remammo in quella direzione. Appena vicini George si abbassò e l'afferrò. Subito si trasse indietro cacciando un urlo e impallidendo.


Era il corpo di una donna, morta. Giaceva a fior di acqua e aveva il viso dolce e tranquillo. Non era un viso bello, sembrava prematuramente invecchiato, troppo sottile e stirato per esser bello; ma era un viso distinto, simpatico a dispetto dei segni del dolore e della povertà, e su di esso aleggiava ancora l'espressione di riposante pace che appare talvolta sul volto degli ammalati quando finalmente la sofferenza li abbandona.


Fortuna volle - visto che non avevamo nessuna voglia di dover ciondolare e perdere tempo negli uffici del "Coroner" - che alcuni uomini dalla sponda avessero visto il cadavere anch'essi e noi glielo consegnammo.


Dopo sapemmo la storia di quella donna. Sempre la stessa vecchia, vecchia e comune tragedia. Aveva amato ed era stata ingannata - o s'era ingannata da sola. Certo è che aveva peccato - anche fra di noi c'è qualcuno che pecca ogni tanto - e i suoi e gli amici, naturalmente sorpresi ed indignati, le avevano chiuso la porta in faccia.


Rimasta sola a combattere contro il mondo, con quella pietra al collo che era la sua onta, era caduta sempre più in basso. Per un certo tempo era riuscita a sostentare se stessa e il bambino con i dodici scellini alla settimana che dodici ore di sgobbo al giorno le procuravano, pagando sei scellini per il mantenimento del bambino, e, col resto, tenendo la propria anima attaccata al corpo.


Ma quest'operazione, con sei scellini, non riesce molto bene.


Anima e corpo, quando tra loro il vincolo è così labile, tendono a separarsi; e un giorno, immagino, il dolore e la tetra monotonia di tutto ciò le erano apparse davanti agli occhi con maggior chiarezza del solito, e quello spettro beffardo l'aveva spaventata. Aveva rivolto un ultimo appello agli amici; ma, contro il muro freddo della loro rispettabilità, la voce della reietta era rimasta inascoltata. Ed ella era andata a vedere il suo bambino, se l'era tenuto fra le braccia, l'aveva baciato in un modo stanco, apatico, senza tradire un'emozione particolare d'alcun genere, e l'aveva lasciato mettendogli in mano una scatola di cioccolatini da pochi centesimi che gli aveva comperata. Poi, con gli ultimi pochi scellini, aveva preso il biglietto e se n'era venuta a Goring.


Intorno ai tratti di fiumi fiancheggiati da boschi e da prati d'un verde vivace, intorno a Goring, si concentravano a quanto pare i pensieri più amari della sua esistenza; ma è stranezza delle donne quella di tenersi stretto il coltello che le trafigge e può anche darsi che, in mezzo alle afflizioni e alle amarezze si mescolassero ricordi radiosi di ore dolci, trascorse sopra quelle acque ombrose sulle quali i grandi alberi inclinano così in basso i loro rami.


Aveva vagato tra i boschi in bordo all'acqua tutto il giorno e poi, caduta la sera, mentre il crepuscolo grigio stendeva il suo manto d'ombra sulle acque, ella stese le braccia verso il fiume silenzioso che aveva conosciuto la sua gioia e il suo dolore. E il vecchio fiume l'aveva accolta nelle sue braccia affettuose, e aveva fatto tacere la sua pena.


Goring sulla sponda destra e Streatley sulla sinistra sono due posti egualmente incantevoli per un breve soggiorno. Il tratto a valle di Pangbourne invita a veleggiare col sole e a remare col plenilunio, e tutta la campagna intorno è piena di attrattive.


Quel giorno avevamo intenzione di spingerci fino a Wallingford, ma il dolce volto sorridente del fiume ci allettò e ci fece indugiare; lasciammo perciò la barca al ponte ed andammo a mangiare al "Toro" di Streatley con gran gioia e soddisfazione di Montmorency.


Dicono che le colline ai due lati del fiume una volta fossero unite e formassero una barriera dov'è oggi il Tamigi e che allora il fiume finisse in un grande lago sopra Goring. Non ho la necessaria competenza per contraddire o avallare questa dichiarazione; la registro soltanto.


Streatley è un paese antico che, come molti altri sul fiume, nacque al tempo dei britanni e dei sassoni. Goring non è un posto così grazioso da fermarcisi, come Streatley, quindi dovendo scegliere... però non è del tutto trascurabile e inoltre è prossimo alla ferrovia per il caso che vogliate filarvela senza pagare il conto dell'albergo.




CAPITOLO 17


Giorno di bucato - Pesca e pescatori - L'arte della lenza - Un coscienzioso pescatore con la mosca - La storia di un pesce.


Rimanemmo due giorni a Streatley e ci facemmo lavare i panni.


Prima avevamo tentato di lavarceli da noi, nel fiume, sotto la direzione di George. Ma era stato un disastro, anzi, a dire la verità, peggio di un disastro perché con i panni lavati da noi avevamo un aspetto peggiore di prima. Prima che li lavassimo essi erano sporchi, sporchissimi, è vero, ma si potevano indossare.


Dopo che li avevamo lavati... Be'! il fiume tra Reading ed Henley era diventato molto più pulito, dopo che avemmo lavati i nostri panni, di quanto non lo fosse stato prima, poiché tutta la sporcizia che conteneva tra Reading ed Henley noi la raccogliemmo nel lavare e la trasferimmo nei nostri panni.


La lavandaia di Streatley disse che per quel bucato si sentiva in dovere verso se stessa di farci pagare il triplo della tariffa.


Disse che non le era parso di lavare, ma che aveva avuto la sensazione di vangare.


Pagammo la nota senza fiatare.


I dintorni di Streatley e di Goring sono un grande centro di pesca. V'è la possibilità di pescarci magnificamente. In quel punto il fiume è ricco di lucci, di ghiozzi, e di anguille; potete accomodarvi a pescare per tutta la giornata.


Alcuni lo fanno ma non prendono mai niente. Non ho mai conosciuto un cristiano che abbia pescato qualcosa nel Tamigi, eccetto qualche invisibile pesciolino e gatti morti, ma ciò non ha niente a vedere con lo sport della pesca!

La locale guida del pescatore non accenna affatto al pescare qualcosa, si limita a dire che "il punto è un buon punto per pescare"; ed io, per quanto ho visto lì intorno, sono pronto ad appoggiare questa dichiarazione.


In tutto il mondo non c'è un altro posto in cui potete pescare di più o per un più lungo tempo. Alcuni pescatori vengono qui e pescano per una giornata, altri ci si fermano a pescare per un mese. Potete stabilirvi qui e pescare per anni, se vi pare, è sempre lo stesso.


La "Guida del pescatore nel Tamigi" afferma che in questo luogo si pescano il luccio e il pesce persico; ma qui la guida si sbaglia.


Forse il luccio e il pesce persico CI SONO da quelle parti. Anzi, ne ho la prova. Infatti, li potete vedere benissimo sul bassofondo, quando andate a spasso lungo gli argini; essi arrivano a spingersi a metà fuori dell'acqua con la bocca aperta in attesa del biscottino. Se poi fate un bagno lì vi si ammassano d'intorno, vi si mettono fra i piedi e vi fanno perdere la pazienza. Ma, "pescati" col pezzettino di verme e simile roba, non abboccano.


Io, personalmente, non sono un buon pescatore. Vi fu un momento in cui dedicai molto tempo a questo sport e stavo facendo progressi, credo; ma un vecchio pescatore mi disse che non sarei mai diventato un campione e mi consigliò di rinunciare. Disse che io ero un lanciatore ottimo e che sembrava che ci fossi molto portato, oltre a possedere la necessaria pigrizia costituzionale.


Tuttavia egli era certo che come pescatore non sarei mai riuscito a nulla. Per insufficienza di immaginazione.


Disse che avrei potuto dare buoni risultati come poeta, o come scrittore di romanzi brivido, o come reporter o roba del genere, ma che per farsi un nome come pescatore del Tamigi occorre fantasia più fertile, maggior capacità di invenzione di quanto sembrassi possederne io.


Molta gente crede che tutto quello che occorre per fare un buon pescatore sia la capacità di dire facilmente le bugie senza arrossire, ma questo è un errore. La bugia semplice è sfrontata e inutile; la più vile matricola sarebbe capace di farlo. Il pescatore sperimentato lo si riconosce, invece, nei dettagli circostanziali, nei tocchi di abbellimento e di veridicità, nell'espressione di persona scrupolosa, quasi pedante e veritiera.


Chiunque può dire: - Sentite, ieri sera presi quindici dozzine di pesci persico. - Oppure: - Lunedì scorso tirai a terra un ghiozzo di circa dieci chili che misurava novanta centimetri dalla testa alla coda.


Per questo genere di discorsi non occorre arte, non occorre ingegno. Tutto al più essi dimostrano temerarietà.


No, il pescatore finito si vergognerebbe di dire una bugia di questo genere. Il suo metodo è scientifico.


Egli entra tranquillamente con il cappello in testa, si sceglie la sedia più comoda, accende la pipa e comincia a mandar buffetti in silenzio. Lascia che i giovani si sfoghino a dir spacconate per un poco e poi, durante una momentanea pausa si toglie la pipa dalla bocca e mentre scuote la cenere dal bocciuolo dice:


- Be'! martedì sera feci una retata di quelle che forse è meglio non parlarne con nessuno.


- Oh! e perché? - gli si chiede.


- Perché sono certo che se lo dicessi nessuno mi crederebbe, - risponde pacatamente il vecchio senza nessun accenno di amarezza nella voce. Poi si mette a ricaricar la pipa e chiede all'oste di portargli tre dosi di whisky con ghiaccio.


Succede una pausa perché nessuno se la sente di contraddire il vecchio signore e perciò lui stesso deve continuare il discorso senza attendere incoraggiamenti.


- No, - dice soprappensiero; - io stesso non ci crederei se qualcuno me lo raccontasse, ma, invece, è un fatto. Ero rimasto lì tutto il pomeriggio e non avevo preso letteralmente nulla eccetto poche decine di lucci ed una ventina di carpe, ed ero sul punto di chiudere la pessima giornata quando sento tirar piuttosto violentemente la lenza. Pensai che si trattasse di un altro pesciolino e tirai. Accidenti! non riuscivo a far muovere la canna. Mi ci volle mezz'ora - mezz'ora, signori miei - per tirare a terra quel pesce e ad ogni momento pareva che la lenza si spezzasse. Finalmente lo afferrai! Immaginate un po' che cos'era?

Uno storione! uno storione di quasi venti chili! preso alla lenza, signori miei! Capisco, capisco la vostra sorpresa; per favore, oste, un altro triplo whisky.


E continua così dicendo che tutti quelli che lo videro si meravigliarono, quello che disse sua moglie quando arrivò a casa e quello che pensò Joe Buggles.


Una volta domandai al padrone di una locanda sul fiume se quei racconti dei pescatori dei dintorni non gli facessero voltar lo stomaco e lui rispose:

- Oh, no, ormai non più, signor mio. Al principio mi disgustavano un po', ma ormai io e mia moglie li ascoltiamo per giornate intere. Ci si abitua, sa, ci si abitua.


Conobbi un tizio che era sconosciutissimo e che quando cominciò la pesca con la mosca decise di non aumentare i suoi bottini di più del venticinque per cento.


- Quando prendo quaranta pesci, - diceva - dico che ne ho presi cinquanta e così via. Ma non mentirò mai più di così; perché a mentire si fa peccato.


Ma poi si accorse che il piano del venticinque per cento non andava. Infatti non era mai riuscito ad applicarlo. Il maggior numero di pesci che fosse mai riuscito a pescare era di due o tre e in questo caso non si può calcolare il venticinque per cento - perlomeno quando si tratta di pesci.


Visto questo aumentò la percentuale a trentatré-e-un-terzo, ma anche così si trovava in difficoltà quando ne pescava uno o due; occorreva semplificare il conto e decise di fare il doppio esatto.


Adottò questo nuovo calcolo, ma dopo un paio di mesi se ne stancò.


Quando diceva che aveva aumentato soltanto del doppio nessuno gli credeva e quindi neanche questo metodo gli fece acquistare molto credito e anzi la sua moderazione lo metteva in svantaggio tra gli altri pescatori. Se aveva preso tre pesci e diceva di averne presi sei ecco che un altro che ne aveva preso uno soltanto diceva di averne preso una dozzina e lo faceva ingelosire.


Dovette fare un altro compromesso con se medesimo, che sta rispettando ancora oggi religiosamente, e cioè di moltiplicare ogni pesce che pescava per dieci e di cominciare il conto con dieci. Per esempio, se non pescava neanche un pesce diceva di averne pescati dieci; - quel sistema non gli permetteva di pescare mai meno di dieci pesci - questa era la base su cui era fondato.


Poi, se per caso ne pescava veramente uno, lo chiamava venti e due pesci contavano per trenta, tre per cinquanta, e così via.


E' un sistema semplice ed elementare tanto in uso che negli ultimi tempi si sente dire che sia stato adottato dalla confraternita dei pescatori in generale. Infatti il Comitato dell'Associazione dei Pescatori del Tamigi ne raccomandò l'adozione circa due anni or sono, ma alcuni dei vecchi membri si opposero. Opinarono che era consigliabile mettere allo studio il progetto che il numero venisse raddoppiato e ogni pesce contasse per venti.


Se qualche volta, trovandovi sul fiume, avrete una serata senza occupazioni, vi consiglierei di entrare in una delle locande dei paesetti lungo la riva e sedervi nella sala di mescita. E' quasi certo che vi troverete qualcuno di quei vecchi pescatori consumati intenti a sorbire il loro ponce, pronti a raccontarvi tante storie di pesca in mezz'ora da darvi l'indigestione per un mese.


Io e George - non so cosa ne fosse stato di Harris, era uscito nel primo pomeriggio per andare a farsi la barba, poi era tornato ed aveva passato cinque minuti buoni per darsi il bianchetto sulle scarpe, ed era sparito e non si era più visto - dunque, io e George e il cane, vistici abbandonati la seconda sera, andammo a fare una passeggiata a Wallingford e rincasando facemmo una capatina in una locanduccia sull'argine, per riposarci e per qualche altro fine.


Entrammo nel bar e ci sedemmo. C'era solo un vecchio che fumava la pipa di gesso e, naturalmente, cominciammo a chiacchierare con lui.


Ci disse che oggi era stata una bella giornata e noi gli dicemmo che ieri era stata una bella giornata e poi ci dicemmo l'un l'altro che credevamo che domani sarebbe stata una bella giornata; George aggiunse che il raccolto pareva promettere molto bene.


Dopo di ciò fra una chiacchiera e l'altra venne fuori che noi eravamo forestieri e che saremmo ripartiti il giorno seguente.


La conversazione si interruppe e in quella pausa noi volgemmo gli occhi in giro per la sala. Il nostro sguardo si fermò su di una vecchia e polverosa custodia di vetro attaccata alla parete molto al di sopra del caminetto, nella quale c'era una trota. Quella trota mi lasciò quasi a bocca aperta; era un pesce enorme tanto che, a prima vista, lo avevo scambiato per un merluzzo.


- Ah! - disse il vecchio seguendo la direzione del mio sguardo. - Un bell'esemplare, non è vero?

- Assolutamente fuori dell'ordinario, - mormorai io, e George chiese al vecchio quanto, secondo lui, potesse pesare.


- Nove chili e due etti, - disse l'uomo alzandosi e andando a prendersi il soprabito. - Sissignori, - continuò, - il giorno tre del mese venturo faranno sedici anni giusti che la pescai. La presi proprio sotto il ponte e all'amo avevo messo un verme! Mi avevano detto che essa era nel fiume e io dissi che l'avrei presa io, e così feci. Ormai in questi paraggi non si vedono più molti pesci di questa grandezza, credo. Buonanotte, signori, buona notte.


Se ne uscì e ci lasciò soli.


Noi dopo quel racconto non riuscivamo più a staccare gli occhi dalla trota. Non c'è dubbio che fosse un pesce davvero eccezionale. Stavamo ancora incantati quando il facchino dell'albergo, che era appena rientrato nella locanda, si fece sulla porta della stanza con un boccale di birra in mano e si mise anche lui a fissare il pesce.


- Una trota di buon peso, quella, - disse George voltandosi verso di lui.


- Ah! lo potete ben dire, signori, - rispose l'uomo; e poi, dopo aver tracannato un sorso della sua birra, aggiunse: - Forse voi, signori, non c'eravate quando fu pescata?

- No, - gli dicemmo e gli rivelammo che eravamo forestieri di quei posti.


- Oh! - disse il facchino, - è vero, allora non potevate esserci.


Quella trota la pescai io cinque anni fa.


- Oh! ma allora fu lei a pescarla? - dissi io.


- Sissignore, - rispose quel bel tipo. - La presi proprio sotto la chiusa, - cioè dove c'era la chiusa allora - un venerdì dopo colazione; e la cosa più straordinaria è che la presi con una mosca. Stavo pescando lucci, figuratevi, mai più pensavo alle trote e quando vidi questo bestione all'estremità della lenza, vi assicuro che non so come non mi venne un colpo. Pensate, tredici chili! Buonanotte, signori, buona notte.


Cinque minuti dopo eccone un terzo che ci descrive come lui l'aveva catturata di mattina presto con un alicino e se ne va; poi arriva un tizio dall'aria scema e solenne, un uomo di mezza età e si siede presso la finestra.


Per un pezzo nessuno parla ma alla fine George gli si rivolge e dice:

- Scusi, sa, spero che vorrà perdonare la confidenza che noi - completamente forestieri dei dintorni - ci prendiamo, ma questo mio amico ed io stesso le saremmo molto grati se ci volesse dire chi ha pescato quella trota che sta lassù.


- Oh bella! Chi ve l'ha detto che fui io a pescare quella trota? - fu la stupita domanda con cui rispose.


Rispondemmo che non ce lo aveva detto nessuno ma che istintivamente, senza sapere né il perché né il per come, sentivamo che doveva esser stato lui a pescarla.


- Cosa formidabile, realmente formidabile, - rispose ridendo quella faccia da idiota: - poiché la verità è che avete perfettamente ragione. La catturai io. Ma è formidabile che voi l'abbiate indovinato; cosa davvero formidabile.


E cominciò anche lui la storia per dirci come avesse impiegato mezz'ora per tirarla su e come gli si fosse rotta la canna. Disse che l'aveva pesata scrupolosamente non appena arrivato a casa e che la bilancia si era abbassata a quattordici chili e mezzo.


Se ne andò anche lui a sua volta e dopo entrò il padrone. Gli dicemmo delle varie storie che avevamo sentito circa la sua trota ed egli ci si divertì un mondo, così tutti e tre ci facemmo un sacco di risate.


- Ma guarda un po'! Jim Bates e Joe Muggles e il signor James e il vecchio Billy Maunders che vengono a raccontare di averla pescata loro! Ah! Ah! Ah! Questa sì che è buona, - disse il buon vecchio ridendo di cuore. - Sissignori. Quelli son proprio i tipi che se l'avessero presa loro l'avrebbero data a me, l'avrebbero messa nel mio bar, se l'avessero presa loro.


E così ci raccontò la vera storia del pesce. Lo aveva pescato lui, lui stesso, anni fa, quando era ancora un ragazzino, ma non per effetto di perizia o di astuzia, solo per quella strana fortuna che sembra favorire sempre i ragazzi quando marinano la scuola e in un bel pomeriggio di sole se ne vanno a pescare sul fiume con un pezzo di spago legato ad un ramicello di albero.


Disse che portando a casa quella trota si era salvato da una bella bastonatura e che persino il suo maestro di scuola aveva detto che il pesce valeva la regola del tre semplice e tutti i compiti assieme.


In quel momento lo chiamarono e dovette uscire; George ed io rivolgemmo lo sguardo al pesce.


Non c'era dubbio, era una trota impressionante Più la guardavamo e più ci sentivamo attratti e sbalorditi.


George ne rimase così affascinato che salì sulla spalliera di una seggiola per guardarla meglio.


E successe che la sedia scivolò e George si afferrò con tutte le forze all'urna di vetro per non cadere, e quella strapiombò con uno schianto e George e la sedia vi si abbatterono sopra.


- Non avrai mica rovinato il pesce? - gridai io tutto allarmato accorrendo.


- Spero di no, - disse George alzandosi con cautela e guardandosi intorno.


Invece l'aveva rovinato. La trota era lì, rotta in mille frammenti - dico mille, ma forse erano novecento soltanto. Non li contai.


Ci sembrò strano che una trota imbalsamata fosse andata in pezzi a quel modo.


Ed infatti sarebbe stato strano ed inconcepibile se fosse stata una trota imbalsamata, ma non lo era.


Era una trota di gesso!




CAPITOLO 18


Chiuse - Io e George fotografati - Wallingford - Dorchester - Abingdon - Un uomo casalingo - Un buon posto per affogare - Un tratto d'acqua difficile - L'aria del fiume è avvilente.


Il mattino seguente di buon'ora partimmo da Streatley e vogammo fino a Culham dove dormimmo sotto il tendone in una lanca del fiume.


Tra Streatley e Wallingford il Tamigi non è eccessivamente interessante. Da Cleve in poi vi è un tratto di sei miglia e mezzo senza neanche una chiusa. Credo che sia il tratto ininterrotto più lungo a monte di Teddington, e il Club di canottaggio di Oxford lo usa per i suoi "otto con" di prova.


Ma per quanto utile ai vogatori possa essere questa assenza di chiuse, dal punto di vista del cercatore di svaghi è deplorevole.


Io sono innamorato delle chiuse. Esse rompono piacevolmente la monotonia del viaggio. E' tanto bello starsene seduti nella barca e sentirsi sollevati lentamente dalla fredda profondità degli sbarramenti su, verso nuovi ambienti e altri panorami; oppure sentirsi calare, come fuori del mondo, e attendere che i battenti oscuri scricchiolino e l'esile striscia della luce solare fra essi si vada ingrandendo fino a che il bel fiume sorridente vi si stende dinanzi, e voi spingete la vostra barchetta fuori dalla momentanea prigionia e ritornate di nuovo alle acque accoglienti.


Queste chiuse sono cantucci pittoreschi. Il vecchio e grosso custode della chiusa, oppure la sua gaia moglie, o la figliuola dagli occhi luminosi sono, diciamo piuttosto che ERANO, gente cordiale con cui potete chiacchierare durante la manovra. Vi si incontrano altre barche e si scambiano pettegolezzi fluviali.


Senza le chiuse il Tamigi non sarebbe quel luogo di incanti che è.


Parlando di chiuse mi ricordo di un accidente che per poco non fu fatale a me e a George a Hampton Court in una mattina d'estate.


Era una magnifica giornata. Lo sbarramento della chiusa era pieno e, come di solito avviene sul fiume, un fotografo ambulante voleva ritrarre tutti noi che ci trovavamo sull'acqua montante.


Al principio non mi accorsi di quello che stavano facendo e quindi rimasi molto sorpreso nel vedere George che in tutta fretta si stirava i pantaloni, si ravviava i capelli e si accomodava il berretto alla malandrina sulla nuca e poi, assumendo un'espressione mista di affabilità e di tristezza, posava in grazioso atteggiamento cercando di nascondere i piedi.


Al primo momento pensai che avesse scorto qualche ragazza conosciuta e guardai in giro per vedere chi fosse. Tutti, nella chiusa sembravano esser diventati di legno. Stavan seduti o ritti negli atteggiamenti più strambi e comici che io abbia mai visto disegnati sui ventagli giapponesi. Le ragazze sorridevano. Oh!

com'eran carine! E tutti i giovani aggrottavano le ciglia in nobile e contegnosa espressione.


Finalmente la verità mi illuminò e mi chiesi se avrei fatto in tempo anch'io a mettermi in posa. La nostra era la prima barchetta e pensai che sarebbe stato poco gentile da parte mia sciupare la fotografia.


Così mi misi subito di faccia e presi posizione a prua appoggiandomi al sostegno con noncurante grazia, un signorile atteggiamento di inerzia e di elasticità. Mi detti un'aggiustatina ai capelli in modo che un ricciolo mi cadesse sulla fronte e misi nella mia espressione un'aria di tenera tristezza assieme ad una punta di cinismo che, dicono, mi si addice.


Mentre stavamo lì in attesa del grande evento sentii una voce dietro a me che gridava:

- Ehi! attento al naso!

Non potei voltarmi per vedere cosa succedeva e a chi appartenesse il naso cui bisognava stare attenti. Detti una occhiata in tralice al naso di George ma vidi che era a posto, per lo meno nessuno dei suoi difetti era eliminabile per il momento.


Feci gli occhi strabici per guardare anche il mio naso, nulla.


- Attento al naso, lì, pezzo di somaro! - ricominciò più forte ancora la stessa voce.


Ed un'altra voce.


- Tirate via il naso, la capite o no? Voi, voi due col cane.


Né io né George osavamo muoverci. La mano del fotografo stringeva già il coperchietto dell'obiettivo e il ritratto stava per essere scattato da un momento all'altro. Ce l'avevano con noi quelli che gridavano? E che c'entravano i nostri nasi? Perché li dovevamo tirar via?

Ma ormai tutta la chiusa gridava ed una voce stentorea dietro di noi urlò:

- Attenti alla vostra barca, signori; dico a quello, sì, lei, col berretto rosso e nero. Se non fate presto il fotografo farà il ritratto dei vostri cadaveri!

Allora guardammo e vedemmo che il naso della nostra barchetta si era infilato sotto un battente della chiusa e vi rimaneva fisso in modo che l'acqua arrivava tutt'intorno e ci alzava da dietro. Solo un altro momento e ci saremmo capovolti. Ciascuno di noi, ratto come il pensiero, afferrò un remo ed un vigoroso colpo alla porta della chiusa liberò la barca e mandò noi due a cadere riversi sul fondo.


Io e George in quella fotografia non venimmo bene. Infatti, com'era da aspettarselo, la mala sorte aveva voluto che il fotografo mettesse in funzione la sua sciaguratissima macchina nel momento esatto in cui noi due eravamo caduti sul dorso ed avevamo sul viso un selvaggio interrogativo:

- Dove mi trovo? Che succede? - mentre quattro gambe si agitavano freneticamente nell'aria.


In quella fotografia i nostri piedi erano come l'articolo di fondo, dopo di che poc'altro si vedeva. Essi riempivano completamente il primo piano. Dietro di essi si scorgeva qualcosa delle altre barche e qualche pezzettino dello scenario circostante, ma tutto e tutti quelli nella chiusa al paragone dei nostri piedi sembravano così insignificanti e miserelli che la gente si vergognò di se stessa e rifiutò di comperare la fotografia.


Il proprietario di una lancia a vapore che ne aveva prenotato sei copie, vista la riuscita, sospese l'ordinazione e disse che però se le sarebbe prese se qualcuno fosse stato capace di mostrargli la sua lancia; ma nessuno ci riuscì: era completamente nascosta dal piede destro di George.


Quell'affare provocò una quantità di incidenti poco piacevoli. Il fotografo pretendeva che noi due, visto che occupavamo nove decimi della fotografia, ne comprassimo una dozzina di copie per ciascuno, ma noi ci rifiutammo. Dicemmo che non avevamo nulla in contrario ad esser fotografati per intero ma che avremmo preferito di esserlo in posizione verticale.


Wallingford sta a sei miglia a monte di Streatley ed è una città antichissima che fu un centro molto attivo nella fabbricazione della storia inglese. Al tempo dei britanni era un paese costruito col fango e quel popolo vi rimase finché le legioni romane non li scacciarono e non sostituirono i loro muri di terra cotta con possenti fabbricazioni di cui il tempo non è ancora riuscito a spazzar via la traccia, perché i muratori dell'antichità sapevano fabbricare molto bene.


Ma il tempo, pur essendosi fermato dinanzi alle mura romane, ben presto ridusse in polvere i romani stessi, e in quel posto, negli anni che seguirono, combatterono i sassoni selvaggi e i danesi giganteschi fino alla venuta dei normanni.


Al tempo della guerra parlamentare, Wallingford fu città fortificata e cintata e subì un assedio lungo e duro da parte di Fairfax. Alla fine cadde e le mura furono rase al suolo.


Da qui a Dorchester i dintorni del fiume diventano più collinosi, più mossi, più pittoreschi. Dorchester rimane a mezzo miglio dalla riva. Vi si può arrivare se si ha una barchetta molto piccola, risalendo un piccolo corso d'acqua, ma il miglior modo per andarci è quello di lasciare il fiume alla chiusa di Day e farsi una passeggiata attraverso i campi. Dorchester è un posticino tranquillo, delizioso ed antico; se ne sta annidato nel silenzio, nella quiete, in eterno dormiveglia.


Dorchester, come Wallingford, era già una città ai tempi dell'antica Bretagna; allora si chiamava Caer Doren, "La città sull'acqua". In epoca più recente i romani vi alzarono un grande accampamento e le fortificazioni che allora la circondavano ora sembrano collinette basse e piatte. Ai tempi dei sassoni fu capitale del Wessex. E' molto antica e fu molto forte e molto potente, una volta. Ora se ne sta in disparte, lontano dal mondo tumultuoso, a sonnecchiare e a sognare.


Nei pressi di Clifton Hampden, che è un graziosissimo villaggio all'antica, tranquillo e delicato, pieno di fiori, lo scorcio fluviale è bello ed opulento. Se dovete pernottare a Clifton il meglio da fare è di scendere al "Falciatore". Direi che è, senza eccezioni, la locanda più originale e più all'antica di tutto il fiume. Rimane alla destra del ponte, isolata dall'abitato. Gli androni bassi, il tetto di paglia e le finestre con inferriate le conferiscono un aspetto da libro di fate e nell'interno è ancora di più stile "c'era una volta".


Non sarebbe il luogo adatto per l'eroina di un romanzo moderno.


L'eroina di un romanzo moderno è sempre "divinamente alta", e sempre "si erge in tutta la sua statura". Nella locanda del "Falciatore" batterebbe la testa contro il soffitto ogni volta che si ergesse.


Quel posto non converrebbe neanche ad un ubriacone. Vi sono troppe sorprese che si presentano sotto forma di gradini imprevisti che scendono in una stanza o salgono in un'altra; e poi, l'andarsene in camera da letto, e trovare il proprio letto quando si è arrivati, sarebbero due operazioni assolutamente impossibili per lui.


Al mattino ci alzammo presto perché volevamo arrivare a Oxford nel pomeriggio. E' ammirevole come si possa alzarsi presto quando si campeggia. Non si ha quasi nessuna voglia dei "cinque minuti soli ancora" quando si sta sdraiati sul bordo di una barca, ravvolti in una coperta e con una valigia per guanciale, come invece succede quando si è in un bel letto di piume. Alle otto e mezzo avevamo già fatto colazione e stavamo innalzandoci nella chiusa di Clifton.


Da Clifton a Culham le sponde del fiume sono piatte, monotone e scialbe, ma una volta passata la chiusa di Culham - la più fredda e la più profonda delle chiuse del Tamigi - il panorama migliora.


Ad Abingdon il fiume corre parallelo alla strada. Abingdon è il tipico paesello di campagna dell'ultimo ordine: quieto, immutabilmente austero, pulito e mortalmente noioso. Tutto il suo orgoglio consiste nell'essere una cittadina antica, ma sembra improbabile che possa gareggiare in antichità con Wallingford e Dorchester. Una volta c'era una badìa famosa e su quello che è rimasto delle sue mura ora fabbricano la birra.


Da Abingdon a Nuneham Courtenay c'è un tratto di fiume molto simpatico. Il parco di Nuneham merita una visita. Ingresso libero al martedì ed al giovedì. Il palazzo contiene una bella collezione di quadri e di rarità e le aiuole di fiori sono molto graziose.


Il laghetto di Sandford, che sta proprio vicino alla chiusa, è un ottimo luogo per potervi affogare. La corrente subacquea è molto forte e se ci capitate dentro siete conciati per le feste. C'è una colonna che indica il posto dove sono già annegate due persone che stavano facendo il bagno e i gradini della base di questa colonna vengono normalmente usati come trampolino dai ragazzi che si tuffano per vedere se il posto è veramente pericoloso.


Ad un miglio da Oxford c'è la chiusa di Iffley che con il suo mulino è il soggetto favorito dei fiumaroli della Confraternita del Pennello. Ma dopo aver visto i quadri che quelli fanno, il panorama modello diventa piuttosto deludente. Poche cose di questo mondo, mi pare di aver notato, sono all'altezza delle loro riproduzioni pittoriche.


Superammo la chiusa di Iffley verso mezzogiorno e mezzo e poi, dopo aver messo ordine sulla barca e aver preparato tutto per andare a terra, ci mettemmo al lavoro per superare l'ultimo miglio.


Il tratto di Tamigi più difficile che io sappia è proprio quello tra Iffley ed Oxford. Per conoscerlo occorrerebbe esserci nati dentro. Ci sono stato un mondo di volte ma non sono mai riuscito a capirci un accidente. L'individuo che fosse capace di remare dritto da Iffley ad Oxford sarebbe anche il tipo capace di vivere sotto lo stesso tetto con la moglie, la suocera, la sorella maggiore e la vecchia serva che stava già in casa quando lui era ancora in fasce.


La corrente vi trascina prima contro la sponda destra, poi vi afferra e vi porta in mezzo, vi rigira per tre volte per riportarvi a monte e finisce sempre cercando di mandare a fracassare la barca contro una chiatta di collegiali in vacanza.


Naturalmente, a causa di ciò, mentre percorrevamo quel miglio, andammo a finire sulla rotta di altre barche ed altre vennero ad intralciare noi, il che fece volare una quantità di male parole.


Io non ne capisco il perché, ma sul fiume tutti sono tremendamente irascibili. Delle cosette da nulla che a terra non si noterebbero neppure vi fanno quasi impazzire di rabbia, se avvengono in acqua.


Quando Harris e George stando a terra si danno scambievolmente del cretino, io sorrido d'indulgenza; quando invece si comportano da testoni stupidi sul fiume io li apostrofo con un linguaggio da far gelare il sangue. Se un'altra barca si mette sulla mia strada io sento l'istinto di prendere un remo e far strage della gente che vi sta dentro.


Persone che a terra hanno il carattere più mite, una volta sul fiume diventano violente, sanguinarie. Una volta feci una piccola escursione in barca con una signorina. Naturalmente era una delle anime più soavi e gentili che si possa immaginare; sul fiume, a sentirla, era infernale:

- Oh! guarda quel bestione! - esclamava quando qualche disgraziato remava e veniva sulla rotta: - perché non pensa a guardare dove va?

Oppure: - Accidentaccio a quel vecchio e stupido straccio! - diceva tutta indignata se la vela non saliva bene. E l'afferrava e la scuoteva brutalmente.


Eppure, come stavo dicendo, quando era sulla sponda era un cuor d'oro e simpaticissima.


L'aria del fiume ha un effetto avvilente sui nostri nervi; è questo, credo, che fa litigare fra di loro i barcaioli e fa sì che essi usino un linguaggio che, senza dubbio, ripudiano nei momenti di calma.




CAPITOLO 19


Oxford - L'idea che Montmorency ha del paradiso - La barca da nolo sull'alto Tamigi, le sue bellezze e i suoi vantaggi - "L'orgoglio del Tamigi" - Cambiamento del tempo - Il fiume sotto differenti punti di vista - Una serata poco allegra - Anelando all'irraggiungibile - S'intrecciano liete conversazioni - George si produce col banjo - Una melodia funebre - Un'altra giornata di pioggia - Fuga - Una cenetta e un brindisi.


A Oxford passammo due giornate molto piacevoli. Nella città di Oxford abbondano i cani. Montmorency il primo giorno si azzuffò undici volte e quattordici il secondo; evidentemente si convinse di essere arrivato in paradiso.


Le persone costituzionalmente troppo deboli o costituzionalmente troppo pigre - sia quello che sia - hanno per abitudine di godersi la remata contro corrente prendendo a nolo una barca ad Oxford e discendendo a valle. Le persone energiche, però, preferiscono il viaggio contro corrente. C'è molta più soddisfazione a sgranchirsi le spalle e a lottare contro di essa e a conquistarsi il cammino; per lo meno quando, come nel mio caso, George ed Harris sono ai remi ed io sto al timone.


A coloro che scelgono Oxford come punto di partenza per la discesa, io vorrei dire: portate la barca vostra, a meno che, naturalmente, non possiate prendere quella di qualcun altro senza pericolo di esser scoperti.


Le barche che di regola si affittano sul Tamigi dopo Marlow sono ottime barche. Tengono bene l'acqua e se le trattate a modo raramente vanno in pezzi o affondano. In esse vi è posto abbastanza per sedersi e sono fornite di tutto il necessario - o quasi tutto - perché possiate remare e governare.


Ma non sono decorative. La barca che si può avere a nolo oltre Marlow non appartiene a quel tipo di barca con la quale potete brillare e darvi arie sul fiume. La barca d'affitto dell'alto Tamigi smorza immediatamente questi desideri innocenti nei suoi occupanti. E questa, forse, è la sua prerogativa principale, anzi, l'unica.


L'uomo che sta in una barca d'affitto è modesto e timido. Lui se ne va di lato, nell'ombra, sotto le piante e viaggia per lo più di mattina presto o a sera tardi, quando sul fiume non c'è troppa gente che lo guarda.


La persona della barca d'affitto dell'alto Tamigi quando vede qualche conoscente, corre a riva e si nasconde dietro un albero.


Durante una gita estiva facevo parte di una comitiva che prese una barca dell'alto Tamigi a nolo, per un viaggetto di pochi giorni.


Nessuno di noi aveva mai visto di quelle barche d'affitto e quando le vedemmo non ci si rese conto di cosa fossero.


Avevamo scritto per una barca, - uno schifo a quattro remi - e quando arrivammo con i bagagli avanti al nostro uomo, l'uomo disse:

- Bene, bene. Loro sono la comitiva che scrisse per uno schifo a quattro remi. Sta bene. Jim, porta "L'orgoglio del Tamigi".


Il ragazzino andò e cinque minuti dopo riapparve spingendo a fatica una specie di tronco d'albero antidiluviano che pareva fosse stato scavato allora da qualche parte e scavato anche senza farci molta attenzione perché ne era uscito con varie multiple.


Al primo sguardo che diedi a quell'oggetto mi venne l'idea che si trattasse di qualche rudere romano - rudere di che cosa non lo saprei dire, forse di un sarcofago.


I dintorni dell'alto Tamigi son pieni di ruderi romani e la mia supposizione mi parve molto probabile; ma uno dei nostri compagni, un tipo molto serio che è anche un po' geologo, commiserò la mia teoria del rudere romano e disse che anche un'intelligenza più che modesta (categoria questa in cui, a quanto pare, lui era dolente di non poter coscientemente includere la mia) avrebbe subito capito che l'oggetto esumato dal ragazzo era il fossile di una balena; egli ci espose varie prove attestanti che la balena doveva essere appartenuta all'era antecedente a quella del ghiaccio.


Per finirla con la discussione ci rivolgemmo al ragazzo dicendogli di non aver timore e di dire l'assoluta verità: era il fossile della balena pre-adamitica o uno dei primi sarcofaghi romani?

Il ragazzo disse che era "L'orgoglio del Tamigi".


Subito pensammo che la risposta era una graziosa spiritosaggine del ragazzo e qualcuno compensò la sua vivacità regalandogli qualche soldo; ma quando volle insistere un po' troppo con lo scherzo, secondo noi, ci adirammo contro di lui.


- Andiamo, giovanotto! - gli disse bruscamente il nostro capitano, - non stare a contar storie. Riporta a casa quella tinozza da bucato alla tua mamma e torna con una barca.


A questo punto arrivò il proprietario della barca in persona che assicurò, sulla sua parola di uomo del mestiere, che quella cosa era realmente un natante - era, infatti, la barca, lo schifo a quattro remi che egli aveva scelto per il nostro viaggio giù pel fiume.


Noi protestammo un bel po', almeno l'avesse imbiancata o incatramata - insomma avesse fatto qualcosa perché si distinguesse da un pezzo di relitto. Egli però, in questo, non vedeva nessuna mancanza da parte sua.


In verità sembrava quasi che le nostre osservazioni lo offendessero e disse che aveva scelto la barca migliore del suo magazzino e che aveva sperato in una maggior gratitudine.


Disse che quello, "L'orgoglio del Tamigi", così com'era adesso (o piuttosto così come si teneva ora senza sfasciarsi), per quel che ricordava lui, era in servizio da quarant'anni e nessuno mai prima di noi se ne era lamentato e quindi non vedeva ragione che dovessimo esser noi a cominciare.


Noi eravamo senza parola.


Cercammo di legare insieme la cosiddetta barca con qualche pezzo di corda e sui punti più in rovina incollammo della carta da parati che riuscimmo a trovare. Poi recitammo le nostre preghiere e c'imbarcammo.


Per l'affitto dei sei giorni rimanenti ci fecero pagare trentacinque scellini: e pensare che con quattro e mezzo avremmo potuto comprarci un affare simile in qualsiasi magazzino di legname per zattere lungo il fiume.


Al terzo giorno il tempo cambiò - oh! adesso sto parlando della presente escursione - e noi partimmo da Oxford pel viaggio di ritorno a casa, sotto una penetrante pioggerella.


Il fiume - con i raggi del sole che luccicano sulle piccole onde danzanti, che indorano i grigi tronchi delle rive, che scintillano attraverso il sentiero freddo e scuro scacciando le ombre dai fondali, che formano diamanti saltellanti sulle ruote dei mulini, che mandano baci ai gigli, che folleggiano con le bianche acque ribollenti, che inargentano i muri ed i ponti coperti di muschio, che animano ogni paesello rendendone gai i vicoli ed i prati, che s'intrecciano nei canneti, che sussurrano e ridono da ogni insenatura, che sfolgorano sulla vela, che rendono l'atmosfera dolce e radiosa - è un luminoso ruscelletto incantato.


Ma il fiume - freddo e stanco, con le gocce di pioggia che cadono incessantemente sulle acque scure e pigre, con il suo rumore simile al pianto sommesso di una donna chiusa in una stanza buia, mentre gli alberi neri e silenziosi, avvolti nel loro sudario di vapori, sembrano spettri ritti sulle sponde, spettri muti dallo sguardo offeso, come gli spettri del male, come gli spettri degli amici trascurati - non è che un corso d'acqua popolato da fantasmi attraverso la terra dei vari rimpianti.


La luce del sole è la linfa vitale della natura. Quando il sole se ne muore e lascia madre terra, essa ci guarda con occhi spenti, senz'anima. E allora ci prende la tristezza di esser con lei; essa sembra non conoscerci più, non interessarsi più a noi. E' una vedova che ha perduto l'amato marito e invano i figlioletti le toccano le mani, la guardano negli occhi: essa non sorride.


Remammo per tutta la giornata sotto la pioggia e, francamente, la cosa fu molto malinconica. Al principio ci volemmo convincere che ci piaceva. Dicemmo che era un cambiamento e che era bello vedere il fiume sotto i suoi diversi aspetti. Ci dicemmo che logicamente non potevamo aspettarci d'avere sempre il sole e neanche avremmo potuto pretenderlo. Ci dicemmo l'un l'altro che la natura è bella anche quando si scioglie in lagrime.


Io ed Harris durante le prime ore eravamo veramente entusiasti.


Cantammo una canzone di vita zigana nella quale si diceva che l'esistenza zingaresca è deliziosa; libera, sotto la tempesta e sotto il sole e contro ogni vento che possa soffiare! - e come se la gode quella pioggia lo zingaro e quale bene gli fa e come se la ride della gente che non si diverte come lui!

George, per conto suo, non si entusiasmò molto e mise mano all'ombrello.


Prima di colazione montammo il tendone e così lo tenemmo per tutto il pomeriggio lasciando solo un piccolo spazio scoperto a prua in modo che uno di noi potesse remare e vigilare. Facemmo così nove miglia e per quella sera ci spingemmo un po' oltre la chiusa di Day.


In coscienza non potrei dire che quella fu una serata allegra. La pioggia veniva giù tranquilla e persistente. Nella barca tutto, ormai, era umido ed appiccicoso.


La cena non fu una gran cosa. Il pasticcio di vitello freddo, quando non avete fame, vi stucca. Avrei desiderato una porzione di aringa novella ed una cotoletta. Harris farfugliò qualcosa circa le sogliole con la maionese e passò il resto del suo pasticcio a Montmorency il quale lo rifiutò e, evidentemente offeso, andò a sedersi tutto solo sull'altra estremità della barca.


George pretese che non parlassimo di quelle buone pietanze per lo meno fino a quando lui non avesse finito di mangiare il suo manzo lesso freddo senza mostarda.


Dopo cena ci mettemmo a fare una partitina a carte. Giocammo un'ora e mezzo e George vinse quattro soldi - George è sempre fortunato alle carte - ed io ed Harris perdemmo soltanto due soldi ciascuno.


Allora decidemmo di smettere di giocare d'azzardo; come ben disse Harris, il gioco, quando è interessato, genera idee malsane.


George invece voleva continuare ed offerse la rivincita, ma io ed Harris decidemmo di non sfidare ancora la sorte.


Dopo di che ci preparammo un ponce e rimanemmo seduti a chiacchierare. George ci raccontò di una persona di sua conoscenza che trovandosi sul fiume un paio di anni fa, aveva dormito in una barca umida, proprio durante una notte come questa, e si era preso le febbri reumatiche; non c'era stato nulla che lo potesse salvare e così era morto dieci giorni dopo tra atroci spasimi. George disse che quel tale era un giovanotto e, inoltre, era fidanzato.


Disse che quella fu una delle cose più tristi che egli avesse mai visto.


E questo ricordo fece venire in mente ad Harris il caso di un suo amico che era stato nei Volontari e che aveva dormito sotto una tenda durante una notte piovosa ad Aldeshot, durante una notte esattamente come questa, disse Harris; e quel tizio si era svegliato al mattino sciancato per tutta la vita. Harris disse che ci avrebbe presentati tutti e due noi a lui non appena di ritorno in città; disse che i nostri cuori, al vederlo, avrebbero sanguinato.


Tutto ciò, è ovvio, ci portò a discorsi molto spiacevoli sulla sciatica, sulle febbri, sui raffreddori, sulle malattie polmonari e sulle bronchiti; ed Harris fece notare quanto sarebbe stato grave se uno di noi si fosse ammalato di notte, mentre eravamo così lontani da un medico.


Parve che fosse spuntato in noi il desiderio di far qualcosa di più allegro che queste conversazioni ed io, in un momento di debolezza, proposi a George di mettere mano al banjo tentando di sonarci qualcosa di molto vivace.


Ad onore di George dirò che non si fece pregare. Non si tirò indietro dicendo che aveva dimenticato la musica per una causa o per l'altra. Ripescò subito lo strumento e cominciò la canzone "Due begli occhi neri".


Fino a quella sera "Due begli occhi neri" per me era stata una canzone piuttosto banale e quindi la vena di tristezza che George ne seppe trarre mi lasciò un po' sorpreso.


Io e Harris, mentre quelle note funeree incalzavano, fummo presi dal desiderio di gettarci l'uno nelle braccia dell'altro e di piangere; ma grazie a molto sforzo riuscimmo a frenare le lagrime ed ascoltammo in silenzio quella melodia struggente e spasmodica.


Al momento del ritornello facemmo perfino un sforzo disperato per sembrare allegri. Riempimmo di nuovo i bicchieri e accompagnammo il coro; Harris con voce tremante per la commozione interiore ed io e George rimanendo indietro di poche parole soltanto:

Due begli occhi neri Oh! quale incanto!

Solo per dire ad un uomo, ti sbagli Due...


A questo punto crollammo. Il pathos indicibile che George fu capace di mettere in quel "Due", dato lo stato di avvilimento in cui ci trovavamo, non lo potemmo sopportare. Harris singhiozzava come un bambino e il cane guaiva tanto che io temetti che il cuore o la gola gli sarebbero scoppiati di sicuro.


George voleva sonarne un'altra strofa. Disse che se avessimo imparato meglio il motivo avremmo potuto mettere più "abbandono" nel canto che, forse, non sarebbe sembrato così triste. Ma i sentimenti della maggioranza si opposero all'esperimento.


Siccome non c'era più niente da fare ce ne andammo a letto, cioè ci spogliammo e ci dimenammo per tre o quattro ore sulle tavole del fondo della barca. Dopo di che facemmo tutto il possibile per appisolarci di tanto in tanto e alle cinque del mattino ci alzammo e facemmo colazione.


La seconda giornata fu esattamente uguale alla prima. La pioggia continuò a cadere e noi ce ne stemmo avviliti negli impermeabili sotto il tendone, mentre la barca scivolava giù per il fiume trascinata dalla corrente.


Uno di noi tre - ora non ricordo chi, ma mi pare io stesso - durante la mattinata fece qualche tentativo per rianimarci esumando la vecchia canzone zingaresca dei figli della natura che si divertono sotto la pioggia - ma la cosa non riuscì. Quel:

Me ne impippo della pioggia!

era così dolorosamente esatto come espressione dei sentimenti di ciascuno di noi... che mi parve inutile cantarlo.


Noi, però, eravamo concordi su di un punto e cioè che avremmo portato a termine l'escursione a qualunque costo. Eravamo partiti per passare quindici giorni di svago sul fiume e avremmo dovuto goderci tutti e quindici i giorni di svago. Dovessimo anche rimetterci la pelle! ciò che sarebbe stata una cosa molto triste per gli amici e parenti, ma non c'era altro da fare. Sentivamo che abbandonare a causa del tempo avrebbe costituito un precedente molto disastroso nel clima in cui viviamo.


- Non ci mancano che due giorni, - disse Harris, - e noi siamo giovani e forti. Ce la caveremo benissimo, siatene certi.


Verso le quattro del pomeriggio cominciammo la discussione sul come ci saremmo sistemati per la notte. Ci trovavamo un po' più a valle di Goring e decidemmo pertanto di proseguire fino a Pangbourne per pernottarvi.


- Un'altra bella serata! - brontolò George.


Rimanemmo a pensare al programma. Saremmo arrivati a Pangbourne verso le cinque. Avremmo finito di cenare, mettiamo, alle sei e mezzo. Dopo di che avremmo potuto farci una passeggiatina sotto la pioggia fino all'ora di andare a dormire oppure avremmo potuto sederci in un bar in penombra e leggere l'almanacco.


- Be'! - disse Harris arrischiandosi a mettere la testa per un momento fuori dal tendone e dando uno sguardo al cielo. - Credo che al teatro Alhambra staremmo un po' allegri.


- Con una cenetta al... (Un formidabile ristorantino fuori mano nei pressi di..., dove a buon prezzo, per tre scellini e mezzo, vi serviranno un pranzetto o una cenetta alla francese, i migliori che io conosca, con un'ottima bottiglia di Beaume; ma non sono tanto idiota da dire dov'è. Nota dell'Autore) dopo la rappresentazione, - aggiunsi io quasi senza volerlo.


- Sì; è un vero peccato che abbiamo deciso di rimanere incollati a questa barca, - rispose Harris. Tali parole furono seguite da un lungo silenzio.


Poi George, gettando uno sguardo pieno di odio sulla barca, disse:

- Se non avessimo deciso di andare incontro a morte certa in questa vecchia barca, varrebbe la pena che io mi ricordassi di un treno che parte da Pangbourne subito dopo le cinque, ne son certo, e che ci porterebbe in città quasi in tempo per una bistecca, dopo di che potremmo anche andare al posto che dici tu.


Nessuno rispose. Ci guardavamo l'un l'altro e ciascuno vedeva le proprie intenzioni ed i propri pensieri dolorosi riflessi sui visi degli altri. Sempre in silenzio tirammo fuori il valigione e lo esaminammo. Osservammo il fiume a monte ed a valle, neanche un'anima viva si vedeva!

Venti minuti più tardi tre figure umane, seguite da un cane bianco per la vergogna, uscivano furtive dalla rimessa di barche dell'albergo "Cigno" e si avviavano verso la stazione ferroviaria abbigliate nei seguenti abiti né puliti né sfarzosi: scarpe nere di cuoio, sporche; vestiti di flanella da canottieri, sporchissimi; capelli scuri a cencio, sgualcitissimi; impermeabile molle di pioggia, ombrello.


Avevamo mentito al barcaiolo di Pangbourne perché non avevamo avuto la faccia di dirgli che stavamo scappando per la pioggia.


Avevamo abbandonato la barca con tutto quello che c'era dentro in sua custodia, dicendo che ce la tenesse pronta per le nove del mattino seguente. Se, dicemmo, se fosse dovuto accadere qualche imprevisto che ci avesse impedito di tornare, gli avremmo scritto.


Alle sette arrivammo a Paddington e ci facemmo portare in carrozza direttamente al ristorantino di cui ho parlato prima, dove gustammo un pasto leggero; lasciammo Montmorency e pregammo di prepararci il pranzo per le dieci e mezzo. Poi riprendemmo la strada per piazza Leicester.


All'Alhambra attirammo molta attenzione. Quando ci presentammo alla cassa ci dissero con cattive maniere che lo spettacolo era cominciato da mezz'ora e che ad ogni modo dovevamo entrare dalla porta di via Castle.


Non senza qualche difficoltà riuscimmo a far capire a quell'uomo che noi non eravamo i "rinomati contorsionisti mondiali delle montagne dell'Himalaia", così ci prese i soldi e ci lasciò passare. Nell'interno del teatro il successo fu ancora maggiore. I nostri visi abbronzati e gli abiti pittoreschi erano seguiti con sguardi di ammirazione. Eravamo l'attrazione di tutti gli occhi.


Fu un momento in cui ci sentimmo davvero orgogliosi.


Subito dopo il primo balletto ce ne andammo e corremmo al ristorante dove la cena già pronta ci attendeva.


Devo confessare che quella cena mi deliziò. Avevamo vissuto per dieci giorni, più o meno, a carne fredda, torte, pane e marmellata. La dieta era stata semplice e nutriente, ma in essa non vi era nulla di solleticante e invece l'odore del vino di Borgogna e il profumo delle salse francesi e la vista dei tovaglioli puliti e degli "sfilatini" di pane batterono alla porta del nostro interno come ospiti graditi.


Mangiammo e bevemmo in silenzio per un certo tempo fino a che non venne il momento in cui invece di esser seduti col torso eretto tenendo saldamente in mano forchetta e coltello, ci appoggiammo alla sedia e continuammo a mangiare lentamente, senza troppe cerimonie, poi allargammo le gambe sotto il tavolo, lasciammo cadere senza badarci i tovaglioli, lasciammo riposare i bicchieri sul tavolo alla distanza di un braccio e trovammo modo di esaminare con maggior senso artistico il soffitto affumicato e ci sentimmo buoni, pensierosi e generosi.


E allora Harris, che sedeva presso la finestra, scostò le cortine e guardò. La strada bagnata e scura luccicava, la scarsa luce delle lampade vacillava e la pioggia cadeva nelle pozzanghere e scendeva dalle grondaie nei rivoli lungo il marciapiede. Pochi passanti inzuppati transitavano alla svelta, curvi sotto gli ombrelli gocciolanti e le donne si tenevano su le sottane.


- Be'! - disse Harris allungando la mano verso il suo bicchiere, - è stato un bel viaggio e il mio cuore ne è grato al vecchio padre Tamigi, ma credo che abbiamo fatto bene a salutarlo al momento giusto. Alla salute di tre uomini fuori della barca!

E Montmorency, che ritto sulle gambe posteriori, davanti alla finestra, sbirciava fuori nella notte, fece una breve abbaiata unendosi decisamente al brindisi.