Honoré De Balzac

 

Scene della vita privata

 

IL COLONNELLO CHABERT

 

 

 

 Alla Contessa Ida Di Bocarné nata Du Chasteler

 

- Uffa! Ancora quel pastranaccio!

Così esclamò un piccolo scrivano della categoria "galoppini", come si usa chiamarli negli studi d'avvocato, il quale stava sbocconcellando con molto appetito un pezzo di pane, da cui cavò a un tratto un po' di mollica per farne una pallottola che lanciò poi, con gesto scanzonato, attraverso la finestra alla quale si era appoggiato.

La pallottola, ben diretta, rimbalzò fin quasi all'altezza dei vetri dopo aver colpito il cappello d'uno sconosciuto, che stava attraversando il cortile d'una casa situata in via Vivienne, recapito dell'avvocato Derville.

- Basta! Simonino, smettetela con scherzi simili se non volete che vi scacci fuori della porta. Per quanto povero possa sembrarvi, un cliente è pur sempre un uomo, diamine! redarguì il capo scrivano, interrompendo di tirar le somme su di una parcella.

Il galoppino è per lo più un ragazzo tra i tredici e i quattordici anni, e tale era infatti l'età di Simonino, che sbriga il suo lavoro alle dipendenze d'un maturo scrivano, per il quale spiccia qualche faccenduola personale non esclusa quella delle missive amorose, oltre, beninteso, l'incarico normale di recapitare intimazioni presso gli uscieri e istanze al Palazzo di giustizia.

E' un tipo curioso, che sta tra il birichino di Parigi per le sue abitudini e il monello litigioso per destinazione.

Quasi sempre senza freno e pietà, egli è incorreggibile, improvvisatore di strofette, beffardo, avido e poltrone. Malgrado ciò, questi galoppini trovano facilmente la buona inquilina d'un quinto piano disposta ad accoglierli in casa, mercé il corrispettivo d'una parte del loro mensile, che non supera mai i trenta o quaranta franchi.

- Se costui è un uomo, perché anche voi lo avevate chiamato pastranaccio? - ribatté Simonino con il fare di uno scolaro presuntuoso che creda di cogliere in fallo il suo maestro.

E riprese ad addentare il pane e il formaggio, appoggiando la spalla sul montante della finestra, giacché egli riposava abitualmente in piedi, come i ronzini, con una gamba lievemente alzata e accostata all'altra poggiandola sulla punta della scarpa.

- Quale scherzo potremo giocare a quel mardocheo? disse sottovoce un altro scrivano, di nome Godeschal, interrompendo il corso d'un ragionamento che interessava un'istanza trascritta in minuta da un quarto scrivano e riprodotta in più copie da un paio di novizi venuti dalla provincia. Poi, improvvisando, continuò: - "...ma nella sua nobile e protettrice saggezza, Sua Maestà Luigi Diciottesimo... (eh, mi raccomando, il tutto in lettere maiuscole, signor Desroches che state minutando) nel momento stesso in cui riprendeva in pugno le redini del suo regno, comprese... (che diavolo avrà mai potuto comprendere quel grosso burlone?) tutta l'elevatezza della missione alla quale la divina Provvidenza l'aveva chiamato... (punto d'esclamazione e sei puntini; al Palazzaccio sono sufficientemente bigotti per lasciarceli passare) e il suo primo pensiero fu, come dimostra la data in calce specificata, di sanare i danni causati dagli orribili disastri dei nostri tempi rivoluzionari, restituendo ai suoi innumeri e fedeli sudditi (innumeri è parola che deve tornare particolarmente gradita al tribunale) ogni loro bene non alienato, sia incorporato nei beni demaniali come in quelli ordinari o straordinari della Corona, oppure in quelli dotali delle varie amministrazioni pubbliche, cosicché noi ci crediamo e siamo autorizzati a crederci idonei a sostenere che tale è lo spirito del famoso e lealissimo decreto promulgato nel"... - Un attimo - disse Godeschal ai tre scrivanelli - questa maledetta frase viene a ingolfarsi proprio alla fine della pagina. Ebbene- egli riprese dopo aver inumidito con la lingua il dorso dell'incartamento allo scopo di poter meglio voltare la spessa pagina di carta bollata - ebbene... se voi volete giocargli un brutto tiro, ditegli che il nostro padrone non può ricevere i clienti che tra le due e le tre del mattino; vedremo un po' se avrà il coraggio di farsi vedere, il vagabondo!

- E Godeschal ritornò alla fase interrotta: - "promulgato nel"...

Ci siete?

- Sì - risposero in coro i tre copisti.

Tutto procedeva di pari passo, l'istanza, la conversazione e la congiura.

- "Promulgato nel"... Ehi, papà Boucard, qual'è dunque questa data? bisogna pur mettere i puntini sugli i, sacripante! Ciò allunga il testo...

- "Sacripante"! - ripeté uno dei copisti, prima ancora che papà Boucard, il capo scrivano, avesse risposto.

- Per tutti i diavoli, avete scritto "sacripante"?- gridò Godeschal, tra l'indignato e lo scherzoso, fulminando uno dei due novizi.

- Sì, sì - disse Desroches, il quarto scrivanello, curvandosi sulla copia del suo vicino - egli ha proprio scritto: "bisogna mettere i puntini sugli i" e "sacripante" con un kappa.

Scoppiò una risata generale.

- Alla buon'ora, mio Huré, voi scambiate sacripante per un termine legale e poi mi venite a raccontare che siete di Mortagne! - esclamò Simonino.

- Su, cancellate con cura! - riprese il capo scrivano. Se il giudice incaricato di ricevere l'incartamento vedesse cose simili, direbbe che offendiamo la nostra nobile missione d'imbrattacarte!

Faremmo avere delle noie al nostro padrone. Non commettiamo più sciocchezze signor Huré! Un uomo di Normandia non può scrivere con negligenza un'istanza, il "presentat'arm" della legalità.

- "Promulgato nel... nel..."? - domandò Godeschal. Insomma, me lo volete dire, Boucard?

- Giugno 1814 - rispose il capo scrivano senza interrompere il suo lavoro.

In quel mentre bussarono alla porta, interrompendo così il corso della prolissa istanza. Cinque scrivanelli, sdentati, dagli occhi vivaci e maliziosi, dalla capigliatura spessa, alzarono il naso in direzione della porta, dopo di aver gridato in coro: - Entrate! - Boucard rimase invece mezzo sepolto in un mucchio di carte e di brogliacci, continuando a sommare cifre sulla parcella.

Lo studio si presentava come una grande stanza, con la classica stufa che è ornamento abituale di questa specie di tempio del litigio. I tubi attraversavano diagonalmente tutta la stanza per finire in un caminetto fuori uso, sul cui marmo si ammonticchiavano pezzi di pane, triangoli di formaggio di Brie, cotolette di maiale, bicchieri, bottiglie e, infine, la tazza di cioccolata di papà Boucard. L'odore di tutti quei commestibili si amalgamava alla perfezione con il puzzo della stufa, rinfocolata senza risparmio, e con l'indefinibile lezzo della cartaccia, sicché l'odore selvaggio d'una volpe non sarebbe stato neppure percettibile. Il pavimento era imbrattato di fanghiglia e di neve, portatevi dagli scrivani. Presso la finestra stava la scrivania mobile del capo e, addossato a questa, il tavolino del secondo scrivano, il quale, al momento, si occupava delle pratiche da inviare al Palazzo. Potevano essere le ore otto o le nove del mattino. Unico ornamento alle pareti della stanza quei grandi manifesti giallicci che annunciano sequestri giudiziari, vendite, aste, appalti perfezionati o in preparazione, insomma, tutti i titoli di gloria degli studi d'avvocato! Dietro la scrivania del capo, si drizzava un enorme casellario che riempiva tutta la parete con i vari scomparti ricolmi di cartelle dalle quali pendevano in numero inverosimile etichette e pezzi di spago rosso indicanti particolari incartamenti delle procedure in corso. Ai piani inferiori del casellario si affastellavano cartelle ingiallite dall'uso, bardate di carta bluastra su cui spiccavano i nomi dei clienti più importanti, i cui affari piuttosto grassi si stavano cucinando. Dai vetri sudici filtrava a stento la luce del giorno.

In verità, ben pochi sono gli studi parigini nei quali si possa lavorare in febbraio senza l'ausilio d'una lampada prima che scocchino le dieci, e ciò non può stupire in quanto lo stato miserando di quei locali è in relazione al fatto che tutti ci entrano, se ne vanno e nessun interesse personale giustifica una qualsiasi cura di cose che sembrano banali: né l'avvocato, né i clienti, né gli scrivani desiderano trovarsi in un ambiente decoroso dal momento che, per il primo, lo studio è un laboratorio, per i secondi un passaggio e per gli altri una classe. Il mobilio bisunto passa in eredità da un avvocato all'altro con uno scrupolo quasi religioso, per cui si possono....

ammirare tuttora, in taluni studi, delle casse per rifiuti, degli stampi fuori uso e dei sacchetti già appartenenti ai procuratori del CHLET, abbreviazione di CHATELET, giurisdizione che sostituiva, sotto il vecchio regime, l'attuale tribunale di prima istanza.

Questo studio semibuio e polveroso destava dunque, a ragione, una certa qual ripugnanza nei clienti e costituiva, con tutti gli altri dello stesso livello, uno dei più vergognosi aspetti della società parigina.

Se non esistessero le sacrestie dove le preghiere si soppesano e si vendono come droghe; se non esistessero i rivenduglioli i cui stracci hanno anche la funzione di rammentarci come finiscono le illusioni e i festeggiamenti; se simili ricettacoli del sentimento non esistessero, sarebbe indubbiamente lo studio dell'avvocato a mantenere un primato tra i botteghini della nostra società. Non molto diverso è lo spettacolo offerto dalle case da giuoco, dai tribunali, dalle lotterie e da taluni luoghi innominabili. Perché tutto ciò? E' probabile che, in quegli ambienti, il dramma che sconvolge la coscienza umana renda trascurabile, futile ogni elemento accessorio. Si potrebbe anche spiegare, in tal modo, l'abituale semplicità dei grandi pensatori e dei conquistatori ambiziosi.

- Dov'è il mio temperino?

- Io sto facendo colazione, non vedi?

- Va' a farti benedire... ecco, un'altra macchia sull'istanza!

- Sssst, amici...

Esclamazioni e domande esplosero contemporaneamente, nel momento stesso in cui il vecchio cliente chiudeva dietro di sé la porta, con un gesto di umiltà che tradiva l'intima sofferenza. Lo sconosciuto abbozzò un sorriso, cercò invano il più lieve segno di simpatia in quei ragazzi spietatamente indifferenti. I muscoli del suo viso di distesero subito. Assuefatto a tollerare e a giudicare il prossimo, egli si rivolse con molto garbo a uno dei galoppini, nella fiducia che gli rispondesse con altrettanta gentilezza.

- Prego, sapreste dirmi se l'avvocato riceve?

Per tutta risposta, il malizioso galoppino si batté ripetuti colpi sull'orecchio sinistro, come per significare: "Sono sordo".

- Che cosa desiderate, signore? - domandò Godeschal, mentre ingoiava un pezzo di pane che sarebbe bastato per caricare un cannoncino da quattro centimetri, brandiva il suo coltello e incrociava le gambe sì da portare un ginocchio all'altezza degli occhi!

- Io vengo per la quinta volta - rispose pazientemente il vecchio - e desidero essere ricevuto dal signor Derville.

- Per affari?

- Beninteso, ma non posso confidarmi ad altri.

- Il padrone dorme; se desiderate consultarlo per una questione importante, vi debbo dire che egli non lavora a fondo che di notte. Ma se si trattasse d'altro... noi potremmo benissimo...

Lo sconosciuto non batté ciglio. Guardò attorno di sé come un cane che si intrufoli in una cucina sconosciuta e tema di essere bastonato. Per loro natura, questi scrivanelli non temono gli imbroglioni; non ebbero quindi alcuna diffidenza verso l'uomo dal vecchio pastrano, lasciando che egli cercasse all'intorno una sedia per riposarsi. Era visibilmente affaticato. In genere, negli studi d'avvocato le sedie non abbondano. Il cliente da poco, stanco di aspettare in piedi, se ne va brontolando, ma non perde almeno il suo tempo, un tempo che, secondo l'espressione d'un vecchio procuratore, non può mai essere calcolato in parcella.

- Vi ho già detto - riprese il vecchio - che io non posso spiegare il mio caso che all'avvocato; aspetterò quindi che egli sia disponibile.

Boucard aveva terminato le sue somme. Sentì l'odore della cioccolata, abbandonò la sua sedia di vimini, mosse verso il caminetto, fissò il vecchio, sbirciò il pastrano e disegnò una indescrivibile smorfia. Forse pensava che, anche a spremerlo, da un cliente simile non si sarebbe cavato un centesimo. Si decise a intervenire alla spiccia pur di liberare lo studio da un pessimo acquisto.

- Badate, vi hanno detto la pura verità. L'avvocato non lavora che di notte. Se il vostro caso è grave, vi consiglio di ritornare verso l'una del mattino.

Il cliente fissò il capo scrivano come se non avesse capito e rimase immobile a lungo. Abituati a tutte le variazioni d'umore e di fisonomia come ai singolari effetti prodotti dall'indecisione o dalla meditazione che caratterizzano gli uomini destinati a finire in giudizio, gli scrivani continuarono a consumare la colazione con un rumore di mascelle che richiamava quello dei cavalli alla mangiatoia, e non badarono più al vecchio.

- Ebbene... tornerò stasera - riprese il vecchio dopo una lunga pausa dimostrando quell'ostinazione caratteristica dei disgraziati che vogliono pescare in fallo il proprio prossimo.

La sola protesta consentita alla miseria è di obbligare la giustizia e la beneficenza a mostrarsi ingiuste. Quando gli infelici possono provare che la società è nemica, si rifugiano più febbrilmente nel seno di Dio.

- E' davvero un terribile seccatore - disse Simonino senza attendere che il vecchio, uscendo, avesse richiusa la porta.

- Ha l'aspetto di un cadavere - commentò lo scrivano.

- E' un colonnello che reclama degli arretrati aggiunse il capo.

- No! è un portinaio - disse Godeschal.

- Scommettiamo che si tratta di un nobile? - gridò Boucard.

- Io scommetto che è stato portinaio. Soltanto loro hanno in guardaroba pastrani così vecchi, sdruciti, bisunti, come quello che ci è venuto dinanzi. Non avete osservato gli stivali scalcagnati e la cravatta che gli serviva da camicia? Egli ha dormito sotto i ponti, ve lo dico io...

- Potrebbe essere un nobile decaduto - osservò Desroches. - Sono cose che capitano.

- No - riprese Boucard tra le risate generali - io sostengo che è stato un birraio nel 1789 e colonnello sotto la repubblica.

- lo scommetto un ingresso a teatro per tutti, che non ha mai servito sotto le armi - disse Godeschal.

- Accettato - replicò Boucard.

- Signore... signore... - gridò il piccolo scrivano aprendo la finestra.

- Che cosa stai facendo, Simonino! - chiese Boucard.

- Gli chiedo se è stato colonnello o portinaio, lui almeno lo saprà!

Si udì una risata generale. Il vecchio stava già risalendo le scale.

- Che dirgli ora? - chiese Godeschal.

- Lasciatemi fare - rispose Boucard.

Il poveraccio rientrò timidamente, gli occhi a terra, forse per non tradire la fame che si risvegliava davanti alle cibarie degli scrivani.

- Volete, per favore, dirci il vostro nome affinché io possa comunicarlo all'avvocato e...

- Chabert.

- Il colonnello caduto a Eylau? - insinuò Huré che, essendo stato zitto fino a quel momento, non voleva esser da meno degli altri maliziosi chiacchieroni.

- Proprio lui, giovanotto - rispose il vecchio con austera semplicità. E se ne andò.

- Patatrac!

- Bocciato!

- Puff!

- Oh!

- Ah!

- Bum!

- Ah! un originale davvero!

- Trinn, la, la, trinn trinn.

- Battuto!

- Signor Desroches, voi andrete gratuitamente a teatro - disse Huré al quarto scrivano, battendogli un colpo sulla spalla con tanta forza da stordire un rinoceronte.

Fu come uno scroscio di risa, di esclamazioni, di grida; a descriverlo occorrerebbero tutte le voci onomatopeiche del vocabolario.

- A quale teatro si va?

- All'Opera - decise il caposcrivano.

- Anzitutto - ribatté Godeschal - non era stato prescelto alcun teatro. Se volete, vi posso condurre presso la signora Saqui.

- La signora Saqui non è certo uno spettacolo obiettò Desroches.

- Che cos'è dunque uno spettacolo? - riprese Godeschal. - Fissiamo bene il punto di partenza. Che cosa ho scommesso? Uno spettacolo.

E che cos'è uno spettacolo ? Una cosa che si può vedere...

- Di questo passo, voi ve la cavereste conducendoci a vedere l'acqua che scorre sotto il Ponte-Nuovo - interruppe Simonino.

- Che si può vedere a pagamento - corresse Godeschal continuando.

- Quante cose si possono vedere a pagamento e non costituiscono affatto uno spettacolo. La definizione è errata sentenziò Desroches.

- Ascoltatemi, dunque...

- Voi sragionate, mio caro - disse Boucard.

- Curtius, ad esempio, è uno spettacolo? - ribatté Godeschal.

- No - rispose il capo scrivano - è un museo delle cere.

- Io scommetto cento franchi contro uno - riprese Godeschal - sul fatto che la sala Curtius offre tutto ciò che può costituire uno spettacolo; qualche cosa da vedere, prezzi differenti secondo i posti...

- E "patati patatun"...

- Bada che uno schiaffo non te lo risparmia nessuno! - minacciò Godeschal. I giovani alzarono le spalle.

- A pensarci su bene, non è poi improbabile che quel vecchio scimmione si sia fatto beffe di noi - riprese Godeschal cambiando argomento. - Il colonnello Chabert è morto defunto; sua moglie è passata in seconde nozze con il conte Ferraud, consigliere di stato. La signora Ferraud è una nostra cliente...

- L'udienza è rinviata a domani - disse Boucard. Al lavoro!

Pappemolli, non concludete molto voi... Finiamo quest'istanza che dev'essere presentata prima dell'udienza della quarta sezione.

L'affare passa oggi stesso. A cavallo, signori!

- Se fosse veramente il colonnello Chabert, non avrebbe indirizzato la punta del piede al deretano di Simonino, quando questa canaglia si è finta sorda? - obbiettò Huré, persuaso che l'osservazione fosse molto più probante di quella del compagno.

- Dal momento che nulla è stato deciso - riprese Boucard - decidiamo di andare al Teatro dei Francesi, secondi posti, a vedere Talma in "Nerone". Simonino si accontenterà della platea.

Questa decisione troncò ogni incertezza e tutti, sull'esempio del capo, si sprofondarono nelle loro sedie.

- "Promulgato nel milleottocentoquattordici" (tutto in lettere) - dettò Godeschal. - Ci siete?

- Ci siamo - esclamarono in coro minutante e copisti.

Si udì il fruscio delle penne sulla carta bollata, come se cento maggiolini fossero rinchiusi in quelle gabbie di carta che sono una specialità degli scolari.

- "E noi confidiamo che i signori del tribunale"...- dettò l'improvvisatore. - Un momento! Devo rileggere il tutto, perché ho perso il filo della frase.

- Quarantasei... Eh, è un guaio che deve capitargli spesso!... e tre fanno quarantanove - borbottò Boucard.

- "Noi confidiamo - riprese Godeschal dopo aver riletto il testo - che i signori del tribunale non saranno meno magnanimi dell'augusto promulgatore del decreto e che essi rigetteranno le inconsistentipretesedell'amministrazionedella grande cancelleria della Legion d'onore adottando quei più larghi criteri della giurisprudenza che noi ci permettiamo di indicare"...

- Godeschal, posso offrirvi un bicchiere d'acqua? chiese il galoppino.

- Sempre scherzi, quel Simonino! Animo, sella il tuo cavallo a doppia suola, e a passo di danza porta questo pacchetto agli Invalidi.

- "Che... che noi ci permettiamo d'indicare" riprese Godeschal - aggiungete: "nell'interesse della... (maiuscolo!) viscontessa de Grandlieu".

- Viscontessa de Grandlieu contro Legion d'onore? e voi perdete il tempo in un affare "à forfait"? - urlò Boucard. Pezzo d'imbecille!

Mettete via quella minuta e quelle copie; mi serviranno per l'affare Navarreins contro gli Ospizi. E' tardi; butto giù due righe d'istanza, con tutti gli "atteso che"... e me ne andrò io stesso al Palazzo.

Scenette come questa faranno esclamare un giorno: buon tempo antico!

 

Verso l'una del mattino, il preteso colonnello Chabert bussò alla porta del signor Derville, avvocato presso il tribunale di prima istanza del dipartimento della Senna.

Il portinaio avvertì che l'avvocato non era ancora arrivato. Il vecchio obiettò di avere un appuntamento già fissato e salì allo studio del rinomato uomo di legge che, quantunque giovane, era ritenuto uno dei più brillanti avvocati. Dopo aver suonato alla porta dello studio, il sospettoso cliente fu alquanto sorpreso nel constatare che il capo scrivano stava collocando sulla tavola della sala da pranzo numerosi incartamenti relativi alle pratiche del giorno. Lo scrivano, con pari stupore, salutò il colonnello pregandolo di accomodarsi.

- Vi assicuro, signore, che avevo pensato a uno scherzo quando mi è stato detto che l'avvocato riceve all'una del mattino - disse il vecchio con un tantino di falsa gaiezza, la gaiezza d'un uomo rovinato che si sforzi di sorridere.

- Gli scrivani scherzavano e dicevano nel tempo stesso la verità - ammise il capo scrivano continuando il suo lavoro. - L'avvocato preferisce queste ore per esaminare le cause, studiare la procedura, la condotta da tenere e predisporre la difesa. La sua mente prodigiosa è più libera; il silenzio e la tranquillità sono nutrici di buone idee. Voi siete il terzo cliente che viene ricevuto a quest'ora di notte. Appena al suo tavolo, l'avvocato esamina le cause, legge tutto, trascorre quattro o cinque ore così; poi mi chiama e impartisce le sue direttive. Il mattino, tra le dieci e le due, ascolta i clienti; il resto della giornata è dedicato ai suoi appuntamenti privati. La sera, conduce vita mondana allo scopo di mantenere utili relazioni. Come vedete, non gli resta che la notte per approfondire le questioni, scovare negli arsenali del Codice quel che gli occorre e stilare piani di battaglia. Egli non vuole conoscere sconfitte; sente tutta la passione dell'arte. Non si occupa, come i suoi colleghi, di qualsiasi causa. Questa è la sua vita, singolarmente attiva, che gli procura anche dei profumati guadagni.

Nell'ascoltare queste spiegazioni, il vecchio non batté ciglio; il suo aspetto bizzarro si spogliò quasi d'ogni umanità per cui lo scrivano, dopo averlo squadrato dalla testa ai piedi, non si occupò più di lui.

Non erano passati che pochi istanti, quando Derville entrò nella stanza; vestiva l'abito da società. Il capo scrivano, dopo avergli aperto la porta, si era rimesso al suo lavoro. Il giovane avvocato fu alquanto sorpreso nel vedere, immerso nella semioscurità, il singolare cliente che lo stava aspettando. Il colonnello Chabert era immobile, proprio come quelle statue di cera della sala Curtius dove Godeschal avrebbe voluto condurre i suoi compagni.

Tale immobilità non avrebbe destato forse alcuno stupore se non si fosse riferita a un personaggio assolutamente fuori del comune. Il vecchio soldato era magro fino a sembrare disseccato. La fronte, nascosta di proposito sotto una parrucca piuttosto rada, accentuava l'aspetto misterioso del vecchio. I suoi occhi parevano ricoperti da un sottilissimo velo; sembravano di vecchia madreperla i cui riflessi bluastri vibrassero alla luce di una candela. Un viso pallido, livido, tagliente come la lama di un coltello, se fosse lecito usare questa similitudine volgare; il volto di un cadavere. Al collo, ben stretta, una cravatta sfilacciata di seta nera. L'ombra inghiottiva totalmente il corpo sicché, con un po' d'immaginazione, si sarebbe creduto a una testa disegnata nell'aria, o a un ritratto del Rembrandt senza cornice.

La tesa del cappello disegnava un solco d'ombra sul viso del vecchio. Effetto bizzarro, ancorché molto naturale, che determinava un netto contrasto con le bianche rughe, crudamente segnate, con l'aspetto atono di quel viso cadaverico. Una totale assenza di movimento muscolare, di calore nello sguardo richiamava a una melanconica follia, con i segni degradanti che caratterizzano l'idiozia; insomma, un non so che di lugubre che la parola stenta a esprimere. Ma un attento osservatore, e soprattutto un avvocato, avrebbero scoperto qualcosa di diverso in quell'uomo distrutto da un profondo dolore: il segno di una miseria spaventosa che aveva scavato quel viso come le gocce d'acqua riescono a scavare lentamente una lastra di marmo. Un medico, un autore, un magistrato avrebbero facilmente intuito tutta l'ampiezza del dramma che si celava in quella figura orribile e sublime, richiamante ai fantasiosi disegni che i pittori sogliono tracciare in calce alle loro pietre litografiche, distrattamente conversando con gli amici.

Nello scorgere l'avvocato, lo sconosciuto ebbe un sussulto, un tremito, lo stesso che coglie i poeti quando, nel pieno silenzio della notte, vengono distolti dai loro sogni da un rumore inatteso. Il vecchio si tolse il cappello e si alzò per salutare l'avvocato; il marocchino del cappello doveva essere talmente unto che la parrucca vi restò incollata, senza che il vecchio se ne accorgesse, mettendo a nudo un cranio orrendamente sfregiato da una cicatrice che partendo dall'occipite finiva obliquamente all'orecchio destro, formando per tutta la sua ampiezza una mostruosa sporgenza. L'incidente di quella malandata parrucca, che il poveraccio portava per nascondere la ferita, non mosse certamente al riso i due che gli stavano dinanzi, tanto orribile a vedersi era quel cranio sfregiato. Il primo impulso, a tale spettacolo, era di credere che attraverso la ferita ogni vigore d'intelligenza se ne fosse volato via.

- Anche se non si tratta del colonnello Chabert, costui deve essere stato certamente un fiero soldataccio - pensò Boucard.

- Con chi ho dunque l'onore di parlare? - chiese l'avvocato.

- Con il colonnello Chabert.

- Quale?

- Quello caduto a Eylau, - precisò il vecchio.

A questa inattesa risposta, l'avvocato e lo scrivano si scambiarono un'occhiata:

- Deve trattarsi d'un pazzo!

- Avvocato - riprese il colonnello - io gradirei parlarvi da solo a solo.

E' naturale per uomini di legge non lasciarsi mai cogliere alla sprovvista: sia per l'abitudine di ricevere un gran numero di persone, sia per quel tono di protezione che il mestiere stesso gli conferisce, sia per una naturale considerazione del proprio ministero, si trovano a loro agio in qualsiasi situazione, come lo sono i preti e i medici. Derville fece un segno a Boucard, e questi disparve.

- Vi devo dire, colonnello, che durante la giornata io non sono mai avaro del mio tempo; ma nelle ore della notte i minuti mi sono davvero preziosi. Vi prego, perciò, di essere breve, conciso.

Andiamo ai fatti senza divagare. Vi chiederò io stesso dei chiarimenti, se mi sembreranno necessari. Dite pure...

Dopo aver pregato lo strano cliente di prendere posto a suo agio, si pose al tavolo, dirimpetto e, disponendosi ad ascoltare la storia del fu colonnello, prese a sfogliare i suoi incartamenti.

- Saprete forse - disse il defunto - che io comandavo un reggimento di cavalleria a Eylau. Molto mi si deve per il successo della famosa carica condotta dal Murat, una carica che decise della vittoria. Disgraziatamente per me, la mia morte è ormai un fatto storico ricordato in tutti i suoi particolari nel volume "Vittorie e Conquiste". Noi spezzammo in due tronconi le tre linee russe che, essendosi ricomposte, ci obbligarono a riattraversarle, combattendo in direzione opposta. Mentre, dopo avere sbaragliato i Russi, facevamo ritorno verso il luogo dove stava l'Imperatore, presi contatto con un forte scaglione di cavalleria nemica. Mi scagliai contro la testa di quel reparto. Due ufficiali russi, veri giganti, mi attaccarono e uno di essi mi diede una sciabolata sulla testa fino a toccare il berrettino di seta nera che io portavo, spaccandomi il cranio. Caddi da cavallo. Murat si precipitò in mio soccorso e passò sul mio corpo, lui e i suoi soldati, millecinquecento uomini, scusate se è poco! La mia morte fu comunicata all'Imperatore che, colpito da perplessità... mi voleva un po' di bene, lui!... domandò se non ci fosse più speranza di poter salvare la vita a un uomo cui si doveva pur attribuire il merito di quell'attacco travolgente. Inviò infatti due chirurghi per cercare di me e condurmi all'ambulanza dicendo loro, forse un po' troppo alla buona: "Andate a vedere se per caso il mio buon Chabert ha ancora gli occhi aperti". Si capisce, aveva ben altro a cui pensare! Quei due maledetti, avendomi veduto sotto gli zoccoli di due reggimenti di cavalleria, non si degnarono neppure di tastarmi il polso e confermarono la mia morte. L'atto di decesso fu dunque steso in piena regola, secondo le norme in uso tra di noi militari.

Ascoltando un simile racconto, fatto con piena lucidità mentale e del tutto verosimile, ancorché non comune, il giovane avvocato aveva sospeso la lettura dei suoi incartamenti e, appoggiando il gomito sinistro sulla tavola e tenendo la testa fra le mani, fissò a lungo il colonnello.

- Sapete voi, colonnello - interruppe l'avvocato che io sono il legale della contessa Ferraud, vedova del colonnello Chabert?

- Mia moglie! Lo so. Per questo, dopo aver tentato cento volte, inutilmente, di esporre il mio caso ad altri avvocati, che, tutti, mi hanno creduto un pazzo, mi sono deciso di venire da voi. Delle mie disgrazie vi parlerò in seguito. Lasciatemi stabilire prima di tutto alcuni dati di fatto e come le cose devono essersi svolte; devono e non... si sono, perché talune circostanze, che solo il Padre eterno può conoscere, si presentano a me come ipotesi.

Dunque, riprendendo, è probabile che le ferite mi abbiano causato un'infezione tetanica e, di conseguenza una crisi del tutto analoga a quella forma di malattia che viene chiamata, se non mi sbaglio, catalessi. Se non fosse stato così, come spiegare che, secondo gli usi di guerra, io sia stato spogliato dei miei abiti e gettato nella fossa comune dai soldati incaricati di seppellire i morti? Devo qui aprire una parentesi circa un particolare di cui venni a conoscenza molto tempo dopo la mia morte.

Ho incontrato, nel 1814, a Stoccarda un vecchio maresciallo d'alloggio del mio reggimento. Quella brava persona, la sola che abbia voluto riconoscermi, e della quale vi parlerò ancora, mi spiegò il fenomeno della mia sopravvivenza, ricordando che il cavallo era stato colpito al fianco da una granata nello stesso momento in cui ero stato ferito. Cavallo e cavaliere erano stramazzati, come cadono i castelli di carte. Abbattendomi al suolo, a sinistra o a destra che fosse, il corpo del mio cavallo mi fece scudo, impedendo che io fossi calpestato dai cavalli e colpito dai proiettili. Allorché rinvenni, avvocato, mi trovavo in una posizione e dentro a un'atmosfera che non potrei descrivervi, parlassi fino a domani. Respiravo un'aria mefitica. Tentai inutilmente di muovermi; mancava il minimo spazio. Aprii gli occhi e non mi riuscì di vedere alcunché. La mancanza d'aria era ciò che più mi preoccupava e che mi fece comprendere in quale critica situazione mi trovassi. Se rimanevo in quella posizione e senz'aria ero bell'e spacciato. Questo pensiero m'impedì persino di sentire il dolore fisico acutissimo che mi aveva fatto tornare in me. Le mie orecchie ronzavano con violenza. Udii o credetti di udire dei lamenti che provenivano dal mucchio di cadaveri in cui mi trovavo sepolto. Il ricordo di quegli istanti è quanto mai tenebroso; i miei ricordi sono confusi, senza contare le sofferenze che ne seguirono e che hanno sconvolto il mio cervello; eppure, talvolta, nella notte, mi pare di riudire quei gemiti soffocati distintamente. Ma più orribile delle grida era il silenzio, un silenzio di cui non avevo mai avuto sensazione, il silenzio della tomba! Infine alzando le mie mani, tastando i cadaveri, scoprii un vuoto tra la mia testa e il carnaio che mi sovrastava. Ebbi dunque la sensazione di uno spazio e della sua ampiezza, uno spazio offertomi dal destino senza che se ne possa dire la ragione. Sembra che, nella furia o nella negligenza che si accompagnano a tal genere di lavoro, due cadaveri siano stati gettati sopra di me in modo tale da farmi volta, come avviene di due carte che i bambini appoggiano l'una all'altra per stabilire le fondamenta del loro castelluccio. Cercando di farmi luce alla svelta... non era il caso di poltrire... toccai fortunatamente, un braccio, un braccio che non apparteneva a nessuno, il braccio d'un Ercole! Un osso provvidenziale al quale devo la mia salvezza.

Senza di esso, sarei all'altro mondo. Con un accanimento di cui potete immaginare l'energia, mi adoperai per rimuovere i cadaveri e giungere allo strato di terra che certamente ci copriva, dico ci copriva, come se si fosse trattato di esseri viventi! Ho fatto del buon lavoro, non è vero?, se mi vedete qui. Io non so bene, neppure oggi, come sia stato capace di sfondare quella barriera di carne che mi separava dalla vita. Voi direte che disponevo di tre braccia! Già, quella leva di cui io mi servivo con abilità mi procurava uno spiraglio d'aria tra i cadaveri, un'aria da respirare con moderazione, vi assicuro. Infine, la luce, ma attraverso una coltre di neve. In quel momento mi accorsi del mio cranio fracassato. Per fortuna, il mio sangue, quello dei miei compagni o quello fuoruscito dalla stessa pelle sforacchiata del mio cavallo, che ne so?, coagulando aveva formato una specie d'impiastro. Malgrado la crosta che ne era risultata, io svenni quando il mio cranio fu a contatto con la neve. Quel po' di calore residuo aveva fatto fondere la neve attorno a me. Quando ripresi conoscenza, dalla stretta apertura nella quale mi trovavo, urlai a più non posso. Era appena l'alba e non avevo speranza d'essere udito. Qualche contadino era di già al lavoro? Cercai di drizzarmi un po' di più, puntando i piedi su quei cadaveri che avevano le reni più solide. Voi capite che non era il momento di biascicare un... rispettate il coraggio sfortunato! In breve, dopo aver conosciuto la disperazione, ma la parola rende bene tutta la rabbia di quel momento?, nel vedere, e per lungo tempo, i Tedeschi che se la svignavano per avere inteso una voce là dove non doveva trovarsi più anima viva, venni infine soccorso da una donna, non so se più coraggiosa o curiosa nell'avvicinarsi a una testa che sembrava spuntata dalla terra come un fungo. La donna chiese aiuto al marito, ed entrambi mi trasportarono nella loro misera abitazione. Sembra che io sia ricaduto in catalessi, uso questo termine per descrivervi meglio uno stato fisico del quale non posso rendermi conto, ma che risponde bene, anche per quello che ne dissero i miei protettori. Sei mesi tra la morte e la vita, senza articolar parola, o vaneggiando quando mi riusciva d'aprir bocca. Infine, i miei salvatori riuscirono a farmi ricoverare all'ospedale di Heilsberg. Voi comprenderete, avvocato, che io ero uscito dalla fossa nudo come un verme; di modo che, sei mesi dopo, ricordandomi un bel mattino che ero pur stato il colonnello Chabert e volendo che i miei guardiani mi trattassero con maggior rispetto, tutti i compagni della corsia scoppiarono in una risata.

Fortunatamente, il chirurgo, forse per amor proprio, avendo garantito la mia guarigione, si era molto interessato della mia malattia. Non appena potei parlargli con qualche nesso della mia esistenza trascorsa, quel brav'uomo, di nome Sparchmann, riuscì a far constatare, nelle forme giuridiche in vigore nell'esercito, il modo miracoloso con il quale mi ero salvato dalla fossa dei caduti, il giorno e l'ora in cui fui raccolto dalla mia benefattrice e da suo marito; il genere e la posizione delle ferite, unendo a ogni verbale una descrizione della mia persona.

Lo credereste? io non posseggo tali importantissimi documenti e neppure la copia della dichiarazione che io feci davanti a un notaio di Heilsberg allo scopo di stabilire la mia vera identità.

Dal giorno in cui, per avvenimenti di guerra, dovetti abbandonare quella città, ho sempre girovagato come un pezzente, mendicando il pane, facendomi trattare da pazzo ogni qualvolta accennavo alla mia avventura, e senza aver potuto né trovare né guadagnare un soldo che mi consentisse di procurarmi i documenti del tutto necessari per confermare le mie dichiarazioni e a restituirmi alla vita sociale. Spesso, per il rincrudirsi dei miei dolori mi toccava trascorrere mesi e mesi nelle piccole città dove si prodigavano cure ai Francesi malati, ma si rideva sul naso di un uomo che pretendeva di essere il colonnello Chabert redivivo. Per lungo tempo, quelle risa, quei dubbi mi resero furioso; una collera che mi danneggiò a tal punto da farmi internare come pazzo a Stoccarda. In verità, giudicatene voi stesso dopo il racconto che vi ho fatto delle mie peripezie, c'erano motivi sufficienti, senza alcun dubbio per mettere un uomo sotto catenaccio! Dopo i due anni di ricovero che fui costretto a sorbirmi, dopo aver udito mille volte i miei guardiani designarmi: "Ecco un povero diavolo che crede di essere il colonnello Chabert!" ad altre persone che rispondevano invariabilmente: "Oh, il pover'uomo!", io dovetti persuadermi dell'impossibilità di uscire una buona volta da quell'avventura e divenni triste, rassegnato, tranquillo, rinunciando al mio vero nome pur di uscire da quella prigione e rivedere la Francia. Oh, rivedere Parigi! era un sogno delirante che io non...

Senza ultimare la frase, il colonnello Chabert si lasciò trascinare dal vortice dei pensieri in un profondo fantasticare.

Derville non fiatò.

- Un bel giorno - riprese poi il cliente - un giorno di primavera, mi venne consegnata la chiave... dell'aria libera e dieci talleri con il pretesto che ormai io potevo parlare di ogni cosa sensatamente e che non insistevo più nel credermi Chabert. Se devo confessarlo, a quell'epoca e anche ora, secondo l'umore, il mio nome vero mi ripugna. Vorrei essere un altro. Il sentimento dei miei diritti mi schianta. Almeno se la mia ferita m'avesse cancellato del tutto il ricordo della vita trascorsa, sarei stato e sarei felice! avrei ripreso servizio sotto un nome qualsiasi e, chi lo può dire?, sarei forse salito al grado di maresciallo di campo in Austria o in Russia.

- Caro signore, voi scombussolate tutte le mie idee- obbiettò l'avvocato. - Per favore, fermiamoci un attimo...

- Voi siete l'unica persona che mi abbia ascoltato pazientemente- disse con un velo di melanconia il povero colonnello. - Non ho trovato un solo avvocato che abbia voluto anticiparmi dieci napoleoni per procurarmi in Germania i documenti indispensabili per imbastire una causa...

- Un processo? - chiese l'avvocato quasi dimenticando, colpito com'era dal racconto di tante miserie, in quale dolorosa situazione si trovasse ora il suo cliente.

- La contessa Ferraud non è forse la mia legittima moglie? Non possiede forse una rendita di trentamila franchi, che sono miei, lei che non vuol cacciare un centesimo per me? Quando io pongo questi quesiti a degli avvocati, a degli uomini di buon senso; quando io, mendicante, mi propongo d'intentare causa a una contessa e a un conte; quando io, defunto, mi scaglio contro un atto di morte, un atto di nozze o di nascita, essi mi congedano secondo il temperamento di ciascuno, ora con la fredda gentilezza che vi anima nel trovarvi alle prese con un disgraziato, ora con la rudezza che vi è abituale quando ritenete di aver a che fare con intriganti o con dementi. Sono stato sepolto sotto i cadaveri; ora sono sepolto sotto i viventi!, sotto la carta bollata, sotto gli avvenimenti che mi vogliono defunto a ogni costo!

- Continuate, continuate - disse l'avvocato - ve ne prego...

- Ve ne prego! - esclamò il disgraziato afferrando le mani di Derville - ecco un'espressione di gentilezza che io non ho più udito da allora...

Il colonnello scoppiò in lacrime. La riconoscenza gli impediva di continuare. L'indefinibile e penetrante eloquenza dello sguardo, del gesto, del silenzio stesso commosse l'avvocato, lo persuase della buona causa.

- Ascoltatemi - disse - io ho vinto stasera trecento franchi al gioco; posso ben impiegarne la metà per rendere felice un uomo.

Inizierò subito le pratiche necessarie per procurarvi i documenti di cui mi avete parlato; nell'attesa, vi corrisponderò cento soldi al giorno. Se voi siete veramente il colonnello Chabert perdonerete facilmente a un giovane avvocato che deve farsi strada la pochezza del suo prestito. Continuate...

Il preteso colonnello rimase un attimo sorpreso, immobile; la sua estrema indigenza aveva senza dubbio distrutto in lui ogni fede nel prossimo. Se egli rimaneva così attaccato al suo nome illustre di militare, alla sua fortuna, alla vita insomma, ciò rispondeva probabilmente a un sentimento confuso, radicato in ogni cuore, quel sentimento al quale dobbiamo le ricerche degli alchimisti, la passione della gloria, le scoperte dell'astronomia e della fisica, tutto ciò che spinge l'uomo a elevarsi, moltiplicando la sua statura morale attraverso le idee e i fatti. L'ego, nel suo pensiero, diventava un oggetto del tutto secondario, allo stesso modo che, per un giocatore, la vanità di un successo e l'emozione d'una vincita contano assai di più che non la posta stessa. Le parole del giovane avvocato ebbero quindi un effetto miracoloso su quel disgraziato, ripudiato per ben dieci anni dalla moglie, dalla giustizia e dalla società. Pensate! ricevere dalle mani di un avvocato dieci monete d'oro che tutti e in tutti i modi gli altri gli avevano rifiutato per tanti anni! Il colonnello, in quel momento, poteva essere paragonato a una certa signora che, afflitta dalla febbre per quindici anni, non appena fu guarita del suo male credette di essere stata colpita da una malattia diversa.

Ci sono felicità alle quali non si crede più: quando arrivano è come se scoppiasse un fulmine; vi consumano. Allo stesso modo, la riconoscenza di quel disgraziato era così viva da non trovar modo di esternarsi. Quel contegno sarebbe apparso freddezza a un osservatore superficiale, non a Derville che vi intuì il segno superiore della probità. Un imbroglione avrebbe trovato cento espressioni di ringraziamento.

- Dove eravamo rimasti? - chiese il colonnello con l'ingenuità di un bimbo o di un soldato, confermando che, nel nostro Paese soprattutto, il bimbo si nasconde spesso nell'ambito del soldato ed il soldato quasi sempre nell'animo del bimbo.

- A Stoccarda. Quando usciste di prigione - rispose l'avvocato.

- Conoscete mia moglie?

- Sì - confermò Derville abbassando gli occhi.

- Come la giudicate?

- Molto bella, sempre...

Il vecchio commentò con un semplice cenno del capo e sembrò macerarsi in una segreta sofferenza con quella rassegnazione ampia e solenne propria degli uomini che hanno superato le prove del sangue e del fuoco sui campi di battaglia.

Egli riprese il suo dire quasi con gaiezza, con la gioia di chi torna a respirare liberamente, perché gli pareva di risuscitare una seconda volta, di veder fondersi una coltre nevosa più spessa di quella che gli aveva quasi congelato il cranio, di godere di una più fresca libertà dopo una seconda prigionia.

- Se in gioventù - disse - fossi stato un moscardino, tante disgrazie non mi sarebbero piombate addosso. Le donne credono a coloro che condiscono tutte le loro frasi con la parola amore.

Allora filano come il vento, si fanno in quattro, si affannano, giurano, mettono tutto a soqquadro per l'essere amato. Come avrei potuto destare interesse in una donna? Con la mia faccia da funerale, sbrindellato, sembravo un Esquimese e non un Francese, io che nel 1799 ero considerato uno dei più brillanti cavalieri!

io, Chabert, conte dell'Impero! Infine, nello stesso giorno in cui ero stato cacciato sul lastrico come un cane, incontrai quel maresciallo d'alloggio di cui vi ho già parlato. Si chiamava Boutin. Tutti e due, insieme, costituivamo la più bella coppia di ronzini che si sia mai vista in piazza. Io lo scorsi al pubblico passeggio, lo riconobbi; egli non riuscì a indovinare chi fossi.

Entrammo insieme in un caffè. Allorché gli rivelai il mio nome, la sua bocca non riuscì a contenere le risa e parve un mortaio che scoppi. Quel riso mi causò uno dei più cocenti dolori della mia vita. Mi rivelò senza inganni quanto io fossi mutato. Dunque, non ero neppure riconoscibile da uno dei più cari e riconoscenti amici che avessi. Gli avevo salvato la vita, un giorno, ma ciò costituiva un debito per me. Vi dirò come. Eravamo a Ravenna, in Italia. La casa dove Boutin mi salvò da una pugnalata non era delle migliori. A quell'epoca non avevo il grado di colonnello; ero un semplice cavaliere come lui. Per buona fortuna, i particolari di quel fattaccio erano noti soltanto a noi due; quando glieli rammentai ogni suo dubbio svanì. Gli raccontai in seguito tutti i fatti della mia bizzarra esistenza. Quantunque i miei occhi e la mia voce fossero irriconoscibili, e io gli apparissi bianco come un albino, come egli mi disse, pure finì, dopo le mille domande alle quali risposi vittoriosamente, per ritrovare nel mendicante il suo antico colonnello. Mi raccontò allora le sue avventure davvero straordinarie come le mie; era tornato dalle frontiere della Cina, dove era penetrato dopo esser fuggito dalla Siberia. Mi svelò il disastro della campagna di Russia e la prima abdicazione di Napoleone. Notizie che mi causarono tanto male! Eravamo entrambi dei curiosi rottami, che abbiano vagato sull'intero globo, come fa l'Oceano che li sospinge da una riva a quella opposta sotto l'infuriare della tempesta.

Avevamo percorso l'Egitto, la Siria, la Spagna, la Russia, l'Olanda, la Germania, l'Italia, la Dalmazia, l'Inghilterra, la Cina, la Tartaria, la Siberia; mancano solo le Indie e l'America!

In breve, Boutin che si trovava più in gambe di me si offrì di andare a Parigi per segnalare a mia moglie lo stato miserando in cui mi trovavo. Scrissi una lettera alla signora Chabert con i più minuti particolari della vicenda. La quarta, la quarta lettera, avvocato! Se avessi avuto qualche parente cui rivolgermi, tutto questo non mi sarebbe capitato; ma, devo confessarlo, io sono un trovatello, un soldato che ha per solo patrimonio il suo coraggio, per famiglia il mondo, la Francia come patria, e il Buon Dio come protettore. Mi sbaglio: un padre l'ho avuto anch'io, l'Imperatore.

Ah, se fosse ancora al suo posto, l'adorato, e vedesse il "suo Chabert" in queste condizioni, nulla tratterrebbe la sua collera.

Il "suo Chabert", com'egli mi chiamava! Che volete? Il nostro sole è tramontato; ora siamo tutti infreddoliti. Poteva anche darsi che gli avvenimenti politici fossero una delle cause del silenzio di mia moglie. Boutin partì. Egli era un uomo felice, in compagnia dei suoi due orsi ammaestrati che gli procuravano di che campare.

Io non potei accompagnarlo; i miei acciacchi non mi consentivano lunghi tragitti; piansi quando ci separammo, dopo che lo ebbi seguito, lui e i suoi orsi, più a lungo che mi fu possibile. A Carlsruhe, terribili dolori al capo mi obbligarono per sei settimane sulla paglia, in un alberguccio! Ma non finirei più, avvocato, se dovessi raccontarvi tutte le peripezie della vita di mendicante. Le sofferenze morali, che sono mille volte più gravi di quelle fisiche, non muovono a pietà; forse perché sono nascoste. Mi ricordo di aver pianto sulla porta di un albergo di Strasburgo, nel quale un giorno lontano ebbi a organizzare una festa; non vi ottenni un solo pezzo di pane! Avendo stabilito con Boutin l'itinerario che avrei dovuto seguire, mi trascinai da un ufficio postale all'altro per vedere semmai mi fosse pervenuta qualche notizia e del denaro. Giunsi a Parigi, senza aver nulla ricevuto. Ne ho dovuta ingoiare della disperazione! A volte pensavo: "Boutin sarà morto". In realtà, egli era trapassato a Waterloo. Seppi della sua morte più tardi, per puro caso. La sua missione presso mia moglie fu certamente infruttuosa. Entrai in Parigi mentre vi affluivano i Cosacchi. Strazio su strazio.

Vedendo i Russi a Parigi, dimenticavo persino di essere scalzo e senza un soldo. I miei vestiti erano a brandelli. La vigilia ero stato costretto a pernottare all'addiaccio, nel bosco di Claye. La frescura della notte mi causò la recrudescenza di non so quale malattia, tanto che, dopo aver attraversato il quartiere Saint- Martin, caddi svenuto davanti alla bottega d'un negoziante di ferramenta. Mi risvegliai in un letto dell'Albergo dei poveri. Vi trascorsi un mese abbastanza bene, poi dovetti andarmene; ero sempre senza un quattrino, ma in discreta salute e sul magnifico selciato di Parigi. Con quanta gioia e con quale gagliardia mi diressi alla via du Mont Blanc dove, nel mio palazzo, doveva alloggiare la mia consorte! Bah! la strada aveva cambiato nome:

via Chaussée-d'Antin. Del mio palazzo nessuna traccia: venduto, demolito. Alcuni speculatori avevano costruito alcune case nel mio parco. All'oscuro del nuovo matrimonio di mia moglie, non riuscii ad avere notizie di lei. Mi recai allora da un vecchio avvocato al quale, in passato, affidavo abitualmente i miei interessi. Il brav'uomo era morto, dopo aver ceduto la clientela a un giovane avvocato. Fu questi che mi comunicò, con mio sommo stupore, esser stata a suo tempo aperta la mia successione, liquidata; mia moglie aveva contratto nuove nozze da cui erano nati due figli. Quando gli ebbi detto che ero il colonnello Chabert, scoppiò in una risata così franca, che io non ebbi il coraggio di riaprire bocca.

La mia detenzione a Stoccarda mi fece pensare al pericolo di essere rinchiuso in manicomio, a Charenton, e alla necessità di agire con molta prudenza. Ora, però, che conoscevo l'indirizzo di mia moglie, credetti di presentarmi a lei, il cuore gonfio di speranza. Volete saperlo?- continuò il colonnello con un moto di incontenibile sdegno presentandomi sotto finto nome non fui ricevuto, e, la seconda volta, sotto il mio vero nome fui addirittura scacciato. Per rivedere la contessa, allorché rientrava da un ballo o da uno spettacolo, io ero capace di passare delle notti intere, come fossi incollato alla sua porta.

Cacciavo lo sguardo nella vettura che passava davanti ai miei occhi con la rapidità d'un fulmine e appena appena mi riusciva di distinguere la donna che era mia moglie, senza esserlo più. Oh! da quel giorno io non vissi che per vendicarmi - gridò Chabert con voce sorda, levandosi in piedi improvvisamente e fissando Derville. - Lei sa che io sono vivo; ha ricevuto, dopo il mio ritorno, ben due lettere scritte di mio pugno. Non mi ama più. Io non so se l'amo ancora o se la detesto; ora la desidero, ora la maledico. Mi deve la sua fortuna e la sua felicità, non si è degnata d'inviarmi il più tenue aiuto. In certi momenti, non so che cosa farei...

Dopo questo sfogo, il vecchio soldato si accasciò sulla sedia e rimase immobile. Derville lo guardò a lungo, senza fiatare.

- E' un affare molto serio - mormorò poi, quasi macchinalmente. - Pur ammettendo l'autenticità dei documenti che si trovano a Heilsberg, non è affatto sicuro il nostro successo. Il processo si trascinerà davanti a tre tribunali. Bisogna riflettere a mente serena su questo caso, del tutto eccezionale.

- Se dovessi soccombere - ribatté il colonnello con fierezza - saprò come si deve morire, ma in compagnia di qualcuno... parola di Chabert!

Il vecchio si era come trasformato, sembrando ora un uomo pieno di energia, i cui occhi fiammeggiassero di desiderio e di vendetta.

- Forse bisognerà trovare un accomodamento...

- Transigere? - ribatté pronto Chabert. - Ma sono dunque morto o vivo?

- Calmatevi - riprese l'avvocato - voi seguirete i miei consigli, lo spero. La vostra causa è anche la mia. Voi constaterete quale interessamento io ponga in questa faccenda, senza precedenti negli annali giudiziari. Nel frattempo, vi consegnerò due righe per il mio notaio, che vi rimetterà, dietro ricevuta, cinquanta franchi ogni decade. Sarebbe inopportuno che gli aiuti vi fossero consegnati qui. Un colonnello Chabert non deve dipendere da alcuno. Anticiperò le somme a titolo di prestito, Voi possedete di che garantirlo; siete ricco.

A quest'ultima manifestazione di delicatezza, il vecchio non poté trattenere una lacrima. Derville si alzò bruscamente, quasi a nascondere un'emozione inammissibile per un avvocato; si ritirò per un attimo nel suo studio personale e, rientrando nella stanza, consegnò una lettera aperta al conte Chabert. Afferratala, il povero vecchio, sentì sotto le sue dita lo spessore di due monete d'oro.

- Elencatemi i documenti, indicatemi il nome della città, dello Stato - disse l'avvocato.

Il colonnello acconsentì, verificando con cura l'ortografia dei nomi di località; poi, tenendo il cappello in una mano, fissando in volto Derville, tese l'altra mano, una mano callosa, e disse con semplicità:

- Vi assicuro che, dopo l'Imperatore, a nessun'altra persona io dovrò tanta riconoscenza. Voi siete un uomo di coraggio!

L'avvocato strinse calorosamente la mano del vecchio e facendosi lume con una lucerna, lo accompagnò fin sulle scale.

- Boucard - confidò Derville al suo capo scrivano mi è stata raccontata una vicenda che mi costerà forse venticinque luigi. Se sarò stato truffato, non rimpiangerò il mio denaro perché avrò conosciuto il più abile commediante di questo secolo!

Giunto in strada, sotto un lampione, il colonnello estrasse dalla busta le due monete da venti franchi ciascuna e le contemplò a lungo. Da nove anni, non gli era più capitato di toccare dell'oro.

- Toh! potrò finalmente fumare un sigaro!

 

Erano trascorsi tre mesi da quel singolare colloquio notturno tra Chabert e Derville, quando il notaio incaricato di pagare il "mezzo stipendio" fissato dall'avvocato per il suo eccezionale cliente venne a conferire per una questione molto grave, non dimenticando, come premessa, di chiedere la restituzione di seicento franchi già consegnati al vecchio militare.

- Ti diverti, dunque, a stipendiare la vecchia guardia? - disse in tono scherzoso il notaio, di nome Crottat, un giovane che aveva da poco rilevato lo studio in cui aveva fatto il suo tirocinio di scrivano, dopo che il cedente si era reso irreperibile a seguito di un clamoroso fallimento .

- Hai fatto bene a ricordarmi quell'affare... La filantropia non supererà in ogni modo i venticinque luigi; temo fin d'ora che il mio patriottismo mi abbia giocato un brutto scherzo.

Nel terminare la frase, Derville fu colpito nel vedere, tra i molti plichi che Boucard gli aveva collocato sulla scrivania, una lettera che a giudicare dai bolli oblunghi, quadrati, triangolari, rossi, blu doveva aver viaggiato con le poste prussiane, austriache, bavaresi e francesi.

- Ecco, ecco - disse Derville faceto - qui sta il finale della commedia; vedremo finalmente se siamo stati gabbati.

Aprì la lettera, ma non poté capirne il testo, che era scritto in tedesco. Affacciandosi alla porta del suo studio, tese il documento a Boucard.

- Traducetemi alla svelta questa lettera.

In effetti, il notaio di Berlino al quale si era indirizzato Derville rendeva noto che i documenti richiestigli sarebbero stati spediti entro pochi giorni. Ogni cosa, egli assicurava, era in perfetta regola, legalizzata, in modo da poter essere prodotta in giudizio. Inoltre, gli comunicava che quasi tutti i testimoni citati nei vari atti erano in vita a Prussich-Eylau, mentre la donna che aveva salvato la vita a Chabert dimorava ancora in un quartiere di Heilsberg.

- L'affare diventa serio - esclamò Derville, non appena Boucard gli ebbe tradotto il testo, nella sua sostanza. Ma senti un po', mio caro Crottat, tu mi devi aiutare con qualche dato che si deve trovare nel tuo studio. Non è forse vero che quel brigante di Roguin...

- Diciamo piuttosto lo sfortunato Roguin, l'infelice Roguin - corresse il notaio sarcasticamente.

- Non è forse lui, l'infelice che ha alleggerito di ottocento mila franchi i suoi clienti e ridotto alla miseria molte famiglie, ad aver provveduto alla successione Chabert? Mi pare di averlo appresso attraverso il nostro incartamento relativo ai Ferraud.

- Certamente - rispose Crottat: - in qualità di scrivano io ho copiato e studiato attentamente gli atti di quella successione.

Rosa Chapotel, sposa e vedova di Giacinto, di cognome Chabert, conte dell'impero, grande ufficiale della Legion d'onore; i due si erano sposati senza contratto, in piena comunità di beni. Se ben ricordo, il patrimonio residuo era di seicentomila franchi. Prima del suo matrimonio, il conte Chabert aveva, per testamento, disposto che un quarto della sua fortuna andasse, alla sua morte, agli Ospizi di Parigi; al demanio sarebbe toccato l'altro quarto.

Dopo la licitazione, la vendita e la divisione dei beni, durante le quali gli avvocati s'ingrassarono parecchio, quel mostro che governava allora la Francia restituì con decreto alla vedova del colonnello quanto sarebbe toccato al fisco!

- A tanto ammonterebbe, dunque la fortuna del conte Chabert?

- Precisamente! - rispose Crottat. - Voi, avvocati, l'azzeccate quasi sempre, anche se vi si accusa di patrocinare con assoluta indifferenza il pro e il contro...

Il conte Chabert, stando all'indirizzo che aveva dato nel firmare la prima ricevuta consegnata al notaio, abitava nel quartiere di Saint-Marceau, via du Petit Banquier, presso un vecchio maresciallo d'alloggio, di nome Vergniaud, divenuto poi commerciante in generi alimentari.

Derville, giunto in quel quartiere, fu obbligato a scendere di carrozza e ad andarsene a piedi alla ricerca del suo cliente, poiché il fiaccheraio rifiutò d'inoltrarsi in viuzze prive di selciato e solcate da carreggiate così profonde da spaccare le ruote. Guardando a destra e a sinistra, l'avvocato finì per scorgere, proprio in quella parte della via che converge sul viale, tra due muri costruiti di fango e calcinacci, due pilastri in ciottolato, slabbrati dal passaggio dei carri, quantunque i bordi fossero difesi da tavole di legno. I pilastri reggevano una traversa incappucciata di tegole, sulla quale si potevano leggere, dipinte in rosso, queste parole: "Vergniaud, alimentazione". Sulla destra, dipinte in bianco, delle uova e una mucca. La porta era spalancata, e così doveva certamente rimanere giorno e notte. In fondo al cortile, assai vasto, si ergeva, proprio di contro alla porta, una di quelle catapecchie, così comuni alla periferia di Parigi, che non meritano il nome di case e che non possono essere paragonate neppure alle più modeste abitazioni di campagna, di cui condividono forse la miseria, ma non la poesia. Nella distesa dei campi, anche le capanne conservano una loro particolare grazia conferita dalla purezza dell'atmosfera, dal verde dei campi, dall'insieme delle forme e delle cose: colline, viottoli tortuosi, vigne, siepi di cespugli, muschio sui pagliai, utensili campestri; a Parigi, invece, la miseria non può trovare grandezza che nell'orrido.

Ancorché costruita di recente, la catapecchia era già in rovina.

Nessuno dei materiali impiegati aveva ricevuto la sua logica destinazione, provenendo essi dalle demolizioni che si operano giornalmente in Parigi. Su di una imposta costruita con le tavole di un'insegna, Derville lesse: "Alla casa delle novità". Le finestre erano dei tipi più svariati e come disposte a caso. Il pianterreno, che appariva come la parte abitabile dell'edificio, rialzato da un lato era mezzo interrato dall'altro, per un monticolo che vi si addossava. Davanti alla casa una larga pozza, un letamaio nel quale si scaricavano non solo le acque... del cielo, ma anche quelle domestiche. Il muro a cui si appoggiava quella fragile costruzione in apparenza assai più robusto degli altri era, per così dire, abbellito da una serie di capannucce con graticolato, dietro il quale dei conigli, dei veri conigli, prolificavano abbondantemente. Sulla destra della porta carraia c'era la stalla, con il pagliaio sovrastante; essa comunicava con la casa attraverso un locale destinato alla lavorazione del latte.

A sinistra, la parte del cortile riservata agli animali domestici, una scuderia e un porcile di tavolacci mal connessi e malamente coperto di giunchi. Come in tutti i luoghi in cui si preparano i vari ingredienti destinati a placare ogni giorno la fame di una grande città come Parigi, là dove Derville aveva affondato i suoi piedi, si scoprivano le tracce di un va e vieni precipitoso, legato a un tirannico orario. I grandi recipienti di latta destinati al trasporto del latte e quelli, più piccoli, riservati alla panna, con i loro tappi di straccio, erano gettati confusamente davanti al locale di cui vi abbiamo parlato. Gli strofinacci sbrindellati di cui ci si serviva per una sommaria pulizia erano stesi al sole su corde sostenute da picchetti. Un pacifico ronzino, della razza che appartiene soltanto ai lattai, si era allontanato di qualche passo dalla sua carretta e se ne stava tranquillo davanti alla porta sprangata della stalla. Una capra brucava i pampini di una vite esile e polverosa che s'inerpicava sul muro gialliccio e sconnesso della casa. Un gatto s'era accovacciato presso i recipienti della panna e ne leccava i bordi. Le galline, disturbate dall'arrivo di Derville, fuggirono in gruppo; il cane da guardia abbaiò.

A custodia della casa non erano rimasti che tre ragazzi. Il primo arrampicatosi sul colmo di un carico di fieno ancora verde, lanciava dei sassi nelle aperture dei camini della casa adiacente, sperando di farli cadere in qualche marmitta. Un altro spingeva a tutta forza un porcello sul piano di una carretta, stanghe all'aria; il terzo, aggrappato a una stanga, faceva da contrappeso, attendendo che l'operazione fosse a buon punto per far da leva!

Alla domanda di Derville, se abitasse in quella casa il signor Chabert, nessuno dei tre aprì bocca, accontentandosi di sbirciare lo sconosciuto con la più intelligente stupidità (se fosse possibile accoppiare questi due termini). Derville ritornò alla carica senza risultato. Spazientito, indirizzò ai tre monelli una serie di quei piacevoli "moccoli" che gli adulti sono talvolta autorizzati a profferire. Soltanto allora i tre proruppero in una sghignazzata. Derville uscì dai gangheri.

Il colonnello Chabert, che aveva inteso tutto ciò, se ne uscì da una stanzetta ricavata presso la latteria, flemmaticamente, con quella tipica flemma propria dei militari di professione. Teneva in bocca una pipa ben "grumata" (termine tecnico dei fumatori), una modestissima pipa di terra cotta, chiamata volgarmente "infernetto". Alzando la visiera di un berretto inverosimilmente bisunto, scorse Derville e si precipitò verso di lui attraversando la concimaia, mentre gridava ai monelli:

- Silenzio! Ai vostri posti! - I tre zittirono, confermando così l'autorità di cui godeva il vecchio militare. Perché mai non mi avete avvertito? - disse a Derville. - Piano, tenetevi lungo il muro della vaccheria, il fondo è migliore consigliò in seguito al suo benefattore che, non volendo finire nella concimaia, non sapeva davvero dove posare i piedi.

- Qui dovrebbe abitare l'uomo che decise della vittoria di Eylau... - mormorò Derville, dopo aver abbracciato con lo sguardo tutto l'insieme di quell'immondo spettacolo.

Alla meglio, Derville riuscì a raggiungere la porta dove Chabert s'era affacciato. Questi fu molto spiacente di doverlo ricevere nella stanza in cui dormiva e che disponeva di una sola sedia. Il letto consisteva in mezza balla di paglia, che la proprietaria di casa aveva coperto con vecchie stoffe, d'ignota provenienza, abitualmente impiegate dalle lattaie per rendere soffici i sedili delle loro carrette. Il pavimento era di terra battuta. I muri, verdastri di salnitro e fessurati, trasudavano umidità da ogni parte, sicché si era dovuto difendere con una stuoia la parete alla quale si addossava il giaciglio del colonnello. Il famoso pastrano pendeva a un chiodo; in un angolo, due paia di scalcagnati stivali. Nessuna traccia di biancheria. Su di un tavolino tarlato, i "Bollettini della Grande Armata", editi da Plancher; la lettura preferita da Chabert che, in quell'ambiente di estrema miseria, mostrava attraverso il suo sguardo, una olimpica serenità. E' certo che l'incontro con Derville aveva mutato il suo volto, tanto che l'avvocato vi scorse il riflesso dell'ottimismo, di una luce accesa dalla speranza.

- La mia pipa vi disturba, avvocato? - chiese Chabert offrendo l'unica spagliatissima sedia.

- Mi pare, colonnello, che il vostro... domicilio lasci terribilmente a desiderare!

Una frase, questa, che non era soltanto frutto di spirito critico, caratteristico negli avvocati, ma anche di quella cocente esperienza che essi accumulano, fin dall'inizio della loro carriera, come testimoni di tante spaventose miserie!

- Ecco un uomo - pensò Derville - che avrà sicuramente scialacquato il mio denaro per soddisfare le tre virtù teologali del soldato di mestiere: il gioco, il vino e le donne!

- Avete ragione, avvocato, qui non si nuota nel lusso. E' un bivacco ingentilito dall'amicizia ma... - il soldato s'interruppe fissando profondamente l'uomo di legge non facendo male a una mosca e non inimicandomi alcuno, ci dormo sonni tranquilli.

Derville si rese conto che sarebbe stato molto indelicato chiedergli come avesse impiegato il denaro prestato, tuttavia non poté fare a meno di osservare:

- Non capisco perché non abbiate voluto restare a Parigi, dove avreste potuto vivere altrettanto modestamente, ma con qualche comodità di più.

- Le brave persone che mi ospitano sono le stesse che mi hanno raccolto e nutrito gratis per tutto un anno! Non avrei potuto lasciarle proprio quando nelle mie tasche piovevano i primi quattrini! Aggiungo che il padre di quei tre marmocchi è un "egiziano"...

- Un egiziano?

- E' un nostro modo di dire... un reduce della spedizione in Egitto alla quale ho partecipato anch'io. Quelli che vi hanno salvato la pelle sono come fratelli; non solo, ma Vergniaud era del mio reggimento e ci siamo scambievolmente aiutati, dividendo nel deserto la nostra razione d'acqua. E poi, avvocato, io non ho ancora finito la mia opera di maestro di scuola; insegno a quei tre monelli...

- Comunque, il vostro camerata avrebbe potuto alloggiarvi un po' meglio.

- Bah! i suoi figli dormono come me sulla paglia; lui e sua moglie non dispongono di un letto più soffice; sono molto poveri, come potete constatare. Ma se un giorno o l'altro dovessi ricuperare i miei averi... Mah! Non parliamone!

- Riceverò probabilmente domani i vostri documenti da Heilsberg.

La donna che vi ha salvato vive ancora!

- Maledizione al danaro! e a chi non ne ha... gridò il colonnello gettando in terra la pipa.

Una pipa ben grumata è un tesoro per i fumatori; ma quel gesto di dispetto, generato da un impulso di generosità esemplare, era tuttavia così naturale, che qualsiasi fumatore e la regìa stessa gli avrebbero perdonato un simile reato di leso-tabacco. E forse gli angeli avrebbero raccattato i cocci.

- Colonnello, la vostra causa è molto complicata disse l'avvocato uscendo dalla camera per fare quattro passi al sole, lungo il muro della casa.

- Eppure, a me sembra molto semplice. Mi hanno creduto morto.

Eccomi qua. Ridatemi moglie e quattrini; ridatemi il grado di generale al quale ho pieno diritto, poiché ho servito con quello di colonnello nella guardia imperiale, la vigilia della battaglia di Eylau.

- Le cose non si svolgono così facilmente nel mondo giudiziario- obiettò Derville. - Ascoltatemi. Voi siete il conte Chabert, d'accordo. Ma si tratta di dimostrarlo in giudizio, davanti a persone che hanno tutto l'interesse a negare la vostra identità.

Conseguenza: una causa. Dieci o dodici settimane soltanto per i preliminari. Di contraddittorio in discussione, andremo fino alla corte suprema; processi uno dopo l'altro, tutti costosi, lunghi, per quanto zelo io possa dimostrare. I vostri avversari richiederanno delle indagini che noi non potremo in alcun modo rifiutare e per le quali si renderà necessaria una commissione rogatoria in Prussia. Ma supponiamo per un momento che tutto vada per il meglio e che la giustizia decida con prontezza sulla vostra identità di colonnello Chabert. Sappiamo noi che ne sarà dell'altra questione delicatissima: la involontaria bigamia della contessa Ferraud? In questo vostro caso, la questione di diritto non può essere risolta dal Codice, bensì dalla coscienza, come capita ogni qualvolta i giudici si trovano alle prese con i casi più strani della vita. Dal vostro matrimonio non è nato alcun figlio, mentre il conte Ferraud ne ha due; orbene, i giudici potrebbero benissimo dichiarare nullo quel matrimonio che è stato senza effetti, a vantaggio del secondo i cui legami sono più forti, tanto più che non si può mettere in dubbio la buona fede dei contraenti. Quale sarebbe la vostra posizione morale, infine, se alla vostra età e nelle condizioni in cui vi verreste inevitabilmente a trovare vi toccasse di convivere con una donna che non vi ama più? Avrete contro di voi la contessa vostra moglie e un marito, due persone che sono in grado di esercitare pressioni sui tribunali. Comunque, sulla durata della causa non illudiamoci.

Avrete tutto il tempo d'invecchiare, tra le più amare delusioni!

- E la mia sostanza?

- Credete che sia ingente?

- Non godevo forse di una rendita annua di trentamila franchi?

- Mio buon colonnello, voi avete destinato, nel 1799, per testamento un quarto dei vostri beni agli Ospizi di carità.

- Verissimo.

- Quindi, stabilito il vostro decesso, si è compilato un inventario e si è proceduto a una liquidazione per poter prelevare quel quarto. Non vi pare? Vostra moglie non ha avuto molti scrupoli nell'imbrogliare i poveri. Non c'è ombra di dubbio che sarà riuscita a sottrarre a ogni inventario il denaro contante, i gioielli, oppure avrà dichiarato una parte soltanto dell'argenteria; il mobilio sarà stato valutato a un terzo del suo valore reale, sia per favorire vostra moglie, sia per ridurre i diritti fiscali, e sia per la responsabilità personale dei commissari periti; un inventario fatto in tal modo ha fissato la vostra fortuna in seicentomila franchi. La vedova doveva venire in possesso della metà. Tutto è stato venduto e riacquistato da lei, di tutto essa ha tratto vantaggio; cosicché ai poveri sono toccati, in tutto e per tutto, settantacinquemila franchi.

Dobbiamo ricordare ancora che pure il fisco era interessato in qualità di erede; dal momento che voi non avete fatto alcuna menzione di vostra moglie nel testamento, l'Imperatore ha restituito alla vedova, per decreto, la quota parte toccante al fisco. Allo stato attuale, a quanto si eleva la vostra fortuna? A trecentomila franchi in tutto, salvo le spese.

- E voi chiamate giustizia tutto questo?

- Proprio così.

- Esemplare davvero!

- Non è altrimenti, mio povero amico. Vi persuadete che la soluzione è meno facile di quanto lo pensavate? La contessa Ferraud potrebbe anche sostenere il diritto di conservare per sé quanto l'Imperatore ebbe a restituirle.

- Dal momento che non è vedova, il decreto di donazione è nullo...

- D'accordo. Ma tutto è opinabile. Ascoltatemi. In questa situazione, io ritengo che una transazione sarebbe per entrambi quanto si può sperare di meglio. E a voi toccherebbe una sostanza, in definitiva, assai maggiore di quella alla quale avreste diritto.

- Insomma, dovrei vendere mia moglie...

- Con una rendita di ventiquattromila franchi, nelle condizioni in cui vi trovate, non vi sarà difficile trovare una compagna che vi si addica e che, soprattutto, vi renda felice. Ho deciso di vedere oggi stesso la contessa Ferraud; voglio sondare il terreno; ma ho ritenuto mio dovere di parlarvene prima...

- Verrò con voi...

- No, no, colonnello. In questo stato, no. Il vostro... processo sarebbe perduto senz'altro!

- Ma potrò poi sicuramente vincerlo?

- Credo di sì. Dovete riflettere, caro colonnello Chabert, su di un altro punto. Io non sono ricco, e le mie prestazioni non potranno essere subito soddisfatte. Se i tribunali vi assegneranno una provvisionale, cioè un anticipo sulla somma totale, voi potrete riscuoterla soltanto dopo le constatazioni legali circa la vostra identità di conte Chabert, grande ufficiale della Legion d'onore...

- Oh, bella, non ci pensavo più; sono grande ufficiale della Legion d'onore - commentò ingenuamente il colonnello.

- Fino a quel momento - riprese Derville bisognerà pur agire, pagare degli avvocati, iniziare e concludere atti, far muovere degli uscieri, e, in più, vivere. Solo per le istanze d'impianto occorreranno, all'incirca, dodici o quindicimila franchi. Io non dispongo di tale somma, schiacciato come sono dal peso di interessi che devo corrispondere a chi mi ha anticipato il denaro occorrente all'inizio di una carriera. E voi, dove troverete le somme che sono necessarie?

Grosse lacrime sgorgarono dagli occhi stanchi del povero soldato solcando le sue gote raggrinzite. Davanti a tante difficoltà, come avere coraggio? La società e la giustizia costituivano per lui un incubo.

- Andrò presso la colonna di piazza Vendome e griderò a tutti:

"Sono il colonnello Chabert, Chabert che ha sfondato il quadrato dei Russi a Eylau!". Quel bronzo mi riconoscerà, ne sono sicuro...

- E gli altri vi rinchiuderanno a Charenton.

A quel nome tanto esecrato, l'esaltazione del militare si placò.

- Ma non si potrebbe tentare presso il Ministero della guerra?

- Oh, gli uffici! Nessuno vi impedisce di metterci piede, ma munito di regolare atto che dichiari nullo e non avvenuto il vostro decesso. I burocrati sono oggi i peggiori nemici dei vecchi quadri dell'Impero!

Il colonnello non fiatò; rimase immobile, guardò attorno di sé senza più vedere, oppresso da un disperato dolore. La giustizia militare è più agile, schietta, rapida; decide alla turca, ma giudica quasi sempre con equità; e questa giustizia era la sola che Chabert conoscesse. Ora, accorgendosi di esser in un dedalo di difficoltà dalle quali non era facile cosa l'uscirne, considerando le spese da sopportare per destreggiarsi in esso, si sentì come mortalmente colpito in quella che è la più grande forza dell'uomo, la volontà. Gli sembrò impossibile una vita trascorsa in litigi; meglio, cento volte meglio campare in povertà, mendicando, oppure tentare l'ingaggio come cavaliere, semmai qualche reggimento potesse ancora accoglierlo.

Le sofferenze fisiche e morali avevano ormai consunto il suo potere di resistenza. Era malato di un male che la medicina non classifica, di un male che non ha un focolaio, una sede particolare, diffuso e vagante come certe affezioni nervose, un male che dovrebbe essere chiamato: lo "spleen" della disperazione.

Per quanto grave fosse, la guarigione era ancora possibile e dipendeva da una favorevole conclusione di quella triste vicenda.

Per distruggere totalmente la forte fibra del vecchio sarebbe bastato un nuovo ostacolo, un fatto imprevisto; la sua resistenza già così indebolita avrebbe lasciato libero campo al manifestarsi di quelle esitazioni, di quelle incoerenze che i fisiologhi riscontrano negli esseri debilitati dal dolore.

Il profondo abbattimento nel quale era caduto il vecchio fece esclamare a Derville: - Su, su, coraggio; la soluzione non potrà che essere favorevole. Desidero tuttavia che mi diciate sinceramente se vi fidate in tutto e per tutto di me e se accetterete senza discutere quanto starò per fare nel vostro interesse.

- Mi rimetto a voi...

- Sta bene, ma lo dite con voce di uno che sia trascinato al patibolo.

- Non sarò forse privato del mio stato, del mio nome? E' tollerabile questo?

- Io vedo le cose in un modo diverso. Noi potremo tentare un componimento amichevole, ottenere un giudizio che annulli l'atto di morte e quello di matrimonio in modo che voi riacquistiate in pieno i vostri diritti. Voi potreste anche ottenere, con l'aiuto dello stesso Ferraud, di essere reintegrato nei quadri dell'esercito e di riscuotere una pensione.

- E così sia! io mi fido completamente di voi.

- Mi rilascerete una procura, s'intende. Coraggio e arrivederci.

Se vi mancasse del danaro, sono a vostra disposizione.

Chabert strinse con calore la mano dell'avvocato e rimase addossato al muro, senza la forza di accompagnare il suo protettore, se non con lo sguardo riconoscente. Come avviene di tutti quelli che non hanno molta dimestichezza con il giure, egli era affranto per tutte le difficoltà che veniva incontrando.

Durante il colloquio, Chabert aveva notato, oltre i pilastri della porta carraia, la presenza di un uomo che sembrava aspettasse la partenza di Derville per avvicinarglisi. Si trattava di un vecchio, in giacchetta bleu, con un grembiule bianco a pieghe del tipo comune ai trattori e con un berretto di lontra. Il suo viso incavato e rugoso mostrava sul bruno della pelle quel rossore caratteristico di chi compie estenuanti lavori all'aria aperta.

- Scusate il mio ardire - disse fermando Derville con un braccio - ma mi sono convinto, solo al vedervi, che voi siete un amico del nostro generale.

- E come può interessarvi? chi siete? - ribatté l'avvocato.

- Sono Vergniaud, Luigi Vergniaud. Ho da scambiare con voi due sole parole.

- Ah, siete voi che avete offerto a Chabert quel magnifico alloggio?

- -Vogliate credermi, gli ho ceduto la stanza migliore. Gli avrei dato la mia, sicuro, la mia, se avessi potuto disporre di un'altra; avrei magari dormito nella stalla. Ci pensate... un uomo che ha sofferto quanto lui, che insegna a leggere ai miei fringuelli, un generale, un egiziano, il primo tenente che io ho avuto sotto le armi! La sua stanza è la migliore fra tutte. Ho diviso con lui tutto quello che ho; certo, non è molto, del pane, del latte, delle uova. Bah! alla guerra come alla guerra. Cuore alla mano. Tuttavia egli ci ha fatto dei torti...

- Lui?

- Sicuro, proprio lui... dei torti. Mi sono sobbarcato al peso di questo commercio; è al disopra delle mie forze. Lui mastica amaro e mi governa il cavallo! Mi oppongo... "Mio generale, voi siete matto!". "Oh", mi risponde, "debbo vivere a ufo?". E' un pezzo che ho imparato come si liscia il pelo a un coniglio. Io mi ero messo d'accordo con un certo Grados per un prestito sulla mia vaccheria.... ma lo conoscete questo Grados...?

- Mio buon uomo, io non ho molto tempo per starvi ad ascoltare. Ma non mi avete spiegato quali siano i torti del colonnello...

- Torti, come è vero che mi chiamo Luigi Vergniaud e com'è anche vero che mia moglie ne ha pianto. E' venuto a sapere dai nostri vicini che non abbiamo il becco d'un quattrino per pagare i debiti. Che ha fatto? Quel soldataccio ha utilizzato tutto quanto voi gli passate e ha pagato lui. Una prodezza... E non immaginavamo neppure, mia moglie e io, che in quel modo s'era ridotto a non avere un pizzico di tabacco; e non se ne lamentava.

Ma ora, caschi il mondo, ogni mattina trova i suoi sigari.

Venderei tutto per procurarglieli. Questi sono i suoi torti. Ecco, ho saputo che siete un uomo di gran cuore, non potreste prestarmi un centinaio di scudi garantiti sullo stabilimento, in modo da potergli acquistare degli abiti, da mettere in ordine la sua stanza? Egli ha creduto di sdebitarsi e, in definitiva, ci ha indebitati... e contrariati. Non doveva farlo, lui, un amico!

Parola di galantuomo, com'è vero che mi chiamo Luigi Vergniaud, andrei a ingaggiarmi piuttosto di non fare onore ai miei impegni...

Derville squadrò il vecchio, poi arretrando di qualche passo girò lo sguardo all'intorno: casa, cortile, concimaia, stalla, conigli, marmocchi...

- E' fin troppo evidente che l'onestà non si accompagna sempre alla ricchezza - commentò.

Poi, rivolto a Vergniaud: - Sta bene, avrete i cento scudi e qualche cosa di più. Ma non sarò io a darveli; il colonnello è abbastanza ricco per potervi aiutare e io non voglio privarlo di questa giusta soddisfazione.

- E lo potrà far presto?

- Certamente.

- Sia ringraziato il cielo! Mia moglie ne sarà felice, e come!

Il viso abbronzato di Vergniaud si illuminò di gioia.

- Ora dobbiamo filare dritti dal nostro avversario- pensò Derville rimontando in carrozza. - Non scoprire il proprio gioco, indovinare quello dell'avversario e fare il colpo maestro.

Intimorirla? No, è una donna. E poi, di che s'intimoriscono oggi le donne? Esse non temono che...

Studiò attentamente la situazione della contessa, con quel procedimento mentale proprio dei grandi uomini politici che, nel concepire i loro piani, cercano di penetrare nei più riposti segreti della politica avversaria.

Gli avvocati, sotto un certo punto di vista, possono essere considerati come uomini di Stato incaricati di trattare gli affari privati.

A questo punto, è necessario un breve cenno sui rapporti esistenti tra il conte Ferraud e sua moglie per mettere in luce la geniale abilità dell'avvocato.

Il conte Ferraud era figlio d'un antico consigliere parlamentare a Parigi. Emigrato sotto il Terrore, aveva salvato la testa e perduto le sostanze. Tornato in patria sotto il Consolato, si mantenne fedele a Luigi Diciottesimo, alla cui corte era vissuto suo padre. Apparteneva quindi a quei gruppi del quartiere Saint- Germainche resistettero orgogliosamente alle seduzioni napoleoniche.

Il giovane conte era molto stimato - in quel tempo era semplicemente il signor Ferraud - tanto da attrarre l'attenzione di Napoleone, il quale, come ognuno sa, era altrettanto fiero di poter conquistare l'aristocrazia quanto di redigere un bollettino di vittoria. Venne promessa al conte la restituzione dei beni, la reintegrazione dei titoli nobiliari, gli si fece balenare la prospettiva di un ministero, di un posto al senato. L'imperatore fallì il suo scopo. Ferraud, all'epoca della morte del conte Chabert, era un giovane signore sui ventisei anni, privo di fortuna, piacente nell'aspetto, intraprendente; una gloria, insomma, del quartiere Saint-Germain. La contessa di Chabert, dal canto suo, aveva così ben manipolato la successione alla morte del marito che dopo soli diciotto mesi di vedovanza, la sua rendita era salita a quarantamila franchi circa. Il suo matrimonio con il giovane conte non destò alcuno scalpore nell'ambiente del quartiere Saint-Germain, in quanto rispondeva felicemente alle idee dominanti in materia. Napoleone restituì alla Chabert la parte di eredità che era toccata al fisco e ancora una volta il suo disegno andò a vuoto.

La signora Ferraud non vedeva soltanto nel marito l'uomo che si ama, ma anche uno strumento per entrare in quella società molto disdegnosa che, pur non godendo più dell'antico prestigio, era pur sempre dominante presso la corte imperiale. Ogni vanità e ogni stimolo passionale erano in ugual misura soddisfatti. La signora Ferraud stava per diventare, sotto ogni rapporto, una "donna di conto". Quando nel clan del quartiere Saint-Germain si seppe che il matrimonio non significava diserzione, i salotti accolsero la sposa del giovane conte. Venne la Restaurazione. La fortuna politica del Ferraud non fu rapida. Egli si rendeva conto della particolare situazione in cui si trovava il Sovrano e attese accortamente che l'"abisso delle rivoluzioni fosse colmato", una frase, pronunciata dal Re, che suscitò tanti sarcasmi da parte dei liberali e che aveva un recondito significato politico. A ogni buon conto l'istanza di cui abbiamo citato una lunga frase clericaleggiante all'inizio di questo nostro racconto aveva procurato al Ferraud la restituzione di due boschi e di un fondo il cui valore si era molto accresciuto durante il sequestro. Al momento attuale, quantunque egli fosse Consigliere di Stato e Direttore generale, poteva considerare la sua posizione come un promettente inizio di fortuna politica. Assillato da un'ambizione sfrenata, si era messo al fianco un avvocato dissestato, di nome Delbecq, uomo di abilità diabolica che conosceva a meraviglia tutti i sotterfugi litigiosi, affidandogli la cura dei suoi affari privati. Il furbo leguleio, conscio della sua posizione privilegiata, ostentava una onestà disinteressata, sperando di sfruttare un giorno o l'altro la sua nuova posizione presso il conte, i cui beni erano oggetto delle sue cure! La sua condotta mascherava così bene i suoi veri propositi che ogni sfavorevole giudizio sul suo passato sarebbe apparso calunnia. Con il fiuto e la scaltrezza che costituiscono in diversa misura le armi di tutte le donne, la Contessa aveva intuito la vera natura del suo amministratore e sapeva trattarlo con arte così sottile da cavarne, come primo risultato, un ragguardevole accrescimento della sua fortuna personale. Era riuscita, infatti, a convincere Delbecq sulla sua autorità coniugale a tal punto da assicurargli un posto di presidente di tribunale di prima istanza in una delle maggiori città di Francia se avesse accudito con zelo ai suoi interessi. La promessa di una carica inamovibile, la conseguente possibilità di un buon matrimonio e la probabilità di conquistare, con più elevate funzioni, anche uno scanno di deputato, tutte queste prospettive fecero di Delbecq l'anima dannata della Contessa. Cominciò con lo sfruttare tutte le favorevoli congiunture della Borsa e il rialzo dei beni fondiari che si verificò a Parigi durante i primi tre anni della Restaurazione.

Egli riuscì in tal modo a triplicare il capitale della sua protettrice, un compito che gli era stato in tutti i modi facilitato dalla nobildonna stessa. Gli emolumenti spettanti al marito erano da lei utilizzati per le spese domestiche, e le proprie rendite regolarmente capitalizzate. Delbecq si prestava a tali forme di avarizia senza tuttavia spiegarsene la ragione; uomini come lui non ficcano il naso se non nelle cose dalle quali sanno di trarre un utile. D'altra parte, quella sete di ricchezza era comune a tante parigine e poteva sembrare indispensabile per sostenere le ambizioni del conte; tanta avidità era forse una conseguenza dello stesso attaccamento per il conte, del quale era più che mai innamorata.

La contessa teneva celati i suoi propositi nel più profondo del cuore. Segreti che avevano per lei il valore della vita e della morte. In essi sta il filo di questo racconto.

Sull'inizio del 1818, la Restaurazione sembrò del tutto consolidata; le nuove dottrine politiche, accettate dagli spiriti eletti, lasciavano presagire un'era di prosperità per la Francia.

La società parigina mutò volto. La contessa Ferraud aveva contratto un nuovo matrimonio che riassumeva felicemente l'amore, la ricchezza e l'ambizione. Giovane e piacente, la Ferraud viveva la vita di corte, come un'aristocratica di primo piano. La sua ricchezza personale unita a quella di un marito, che vantava l'amicizia del Re e pareva destinato alla carica di ministro, le consentiva di brillare nell'aristocratico splendore di quell'ambiente. Ma il suo trionfo di donna fu, a un tratto, offuscato da una gravissima crisi morale. Ci sono aspetti del sentimento che le donne intuiscono per quanto grande sia l'abilità degli uomini nel tenerli nascosti. Poco tempo era trascorso dal ritorno del Re, che il conte Ferraud prese a nutrire una segreta perplessità sulla convenienza del matrimonio da lui contratto.

Infatti, la vedova del colonnello Chabert non gli aveva procurato alcuna nuova influente amicizia; si trovava isolato, senza appoggi per proseguire in una carriera difficile, irta di scogli e seminata di pericoli. Inoltre, giudicata spassionatamente, la consorte rivelava talune gravi lacune nella propria educazione, sì da non poterlo assecondare nel raggiungimento dei suoi scopi.

Una frase, casualmente sfuggita commentando il matrimonio del Talleyrand, allarmò la contessa, facendole comprendere con tutta chiarezza che se il suo matrimonio non fosse stato consumato, non lo sarebbe mai più. Nessuna donna perdonerebbe una tale riserva mentale; essa è già spiegazione di ogni ingiuria, di ogni delitto, può essere la separazione che si profila. Si aggiunga al dolore per così profonda ferita al suo amor proprio, il timore di dover affrontare il suo primo marito. Lo sapeva vivo; l'aveva scacciato; non ne aveva più avuto notizie e si era consolata credendolo caduto a Waterloo, tra le aquile imperiali, al fianco del suo amico Boutin. Meditò tuttavia di rinsaldare i vincoli con il conte servendosi della seduzione di una ricchezza stragrande, tale da rendere comunque indissolubile il matrimonio, anche nella dannata ipotesi di un ritorno di Chabert. E il ritorno era avvenuto, ma senza quelle avvisaglie di lotta che lei tanto temeva. Forse le sue migliori alleate erano state le sofferenze, la malattia del vecchio marito. Probabilmente era impazzito, e Charenton avrebbe potuto accoglierlo, in tal caso. La contessa non partecipò i suoi timori a nessuno, né a Delbecq né alla polizia, per tema di dover accettare i consigli altrui o di precipitare la catastrofe. Quante donne, a Parigi, celano nel proprio intimo, come la contessa, un pervertimento morale o camminano abitualmente sull'orlo di un precipizio; eppure, riescono ugualmente, il cuore pietrificato, a godersi la vita.

- Nella vita del conte Ferraud ci sono aspetti che mi lasciano perplesso - pensava Derville a conclusione della sua lunga meditazione, nel momento stesso in cui la carrozza si arrestava in via de Varenne, davanti al palazzo dei Ferraud. Come mai il conte, così ricco prediletto del Re, non è ancora tra i Pari di Francia?

E' pur vero che seguendo un'accorta linea politica il Re potrebbe andar cauto nelle nomine per accrescere l'importanza dell'istituzione... questa è anche l'opinione della signora de Grandlieu. E poi, il figlio di un consigliere parlamentare non è certo un Crillon o un Rohan. Egli non può entrare nel consesso che per la porta di servizio. Potrebbe facilitare la cosa la rottura del matrimonio; con regale soddisfazione, il titolo di pari potrebbe essergli ceduto da uno di quei vecchi senatori senza discendenza maschile. Questo è un buon argomento per la contessa - concluse Derville inoltrandosi sullo scalone del palazzo.

L'avvocato aveva toccato, per semplice intuizione, il motivo più segreto dell'angoscia che opprimeva la contessa. Egli venne ricevuto in una lussuosa sala da pranzo, dove la contessa stava facendo colazione, divertendosi un mondo con una scimmietta trattenuta da una catena a un ritto su cui erano innestate alcune bacchette di metallo. La contessa portava una deliziosa veste da camera; con i suoi riccioli appena rannodati, sfuggenti dalla cuffia, aveva l'aspetto quanto mai vivace; giovanile, sorridente... Sulla tavola brillavano l'argenteria, le posate in vermeil, gli oggetti in madreperla e, tutto intorno, si ammiravano piante esotiche in grandi vasi di porcellana.

Nell'osservare lo spettacolo offerto dalla consorte del colonnello Chabert, ricchi abiti, lusso ovunque, sensazione di ottima posizione sociale, mentre il disgraziato colonnello viveva presso un modesto commerciante e in promiscuità con le bestie, l'avvocato non poté fare a meno di commentare: - La morale di tutta questa faccenda è che una donna di questo stampo non vorrà ad alcun costo riconoscere per marito, che dico?, neppure per vecchio amante un vecchio intabarrato nel più sudicio pastrano, con una parrucca di gramigna e con gli stivali bucati... - Constatazioni non prive di uno pizzico di filosofia e di sarcasmo, naturali del resto in un uomo abituato a esplorare il fondo delle cose, anche in quei casi, così frequenti nella società parigina, in cui le famiglie sanno custodire ogni segreto della loro esistenza.

- Buon giorno, signor Derville - disse distrattamente la contessa mentre porgeva del caffè alla scimmietta.

- Contessa - ribatté l'avvocato non celando il suo disappunto per l'eccessiva familiarità di quel "buon giorno" io sono venuto a visitarvi per una questione molto grave...

- Oh, sono spiacentissima, il conte è già uscito...

- Ma io sono lieto della sua assenza, dal momento che non mi sembrerebbe molto opportuno farlo assistere al nostro colloquio.

D'altra parte, lo stesso Delbecq mi ha assicurato che trattate voi stessa i vostri affari, senza disturbare il conte...

- In questo caso, farò venire Delbecq.

- Non occorre, per quanto apprezzi l'abilità del vostro intendente. Un solo fatto basterà per richiamarvi alla realtà. Il conte Chabert è vivo.

- Ed è con simili buffonate che voi vorreste richiamarmi alla realtà? - commentò la contessa, scoppiando in una risata.

Una risata di corto respiro, troncata dal freddo sguardo dell'avvocato che pareva volesse metter a nudo l'anima della donna.

- Ignorate certamente - egli riprese in tono pacato grave - la portata dei pericoli cui andate incontro. Tralascio di farvi notare la perfetta autenticità dei documenti, nonché le incontestabili prove che testimoniano l'esistenza del conte Chabert. Voi sapete, d'altro canto, che io non sono abituato a occuparmi di cause senza sicuro fondamento. Ogni vostra opposizione alla nostra istanza per la cancellazione dell'atto di decesso sarà rigettata; perduta in tal modo la causa di prima istanza, risolta in nostro favore la questione base, tutto il resto verrà da sé.

- Non afferro bene lo scopo di queste vostre affermazioni...

- Diamine! esse non riguardano né il colonnello né voi... E neppure si ricollegano alla possibilità di presentare brillanti memoriali su taluni fatti alquanto strani e di trarre profitto da certe lettere che voi avete ricevuto dal primo marito nel periodo antecedente al vostro secondo matrimonio.

- Questo è falso! - proruppe la contessa con la violenza verbale caratteristica delle donne che si atteggiano a dominatrici. - Io non ho mai ricevuto lettere dal conte Chabert; se qualcuno si fa passare per tale, egli non può essere che un intrigante, un malfattore dimesso dal carcere, per esempio un Cogniard. Mi passano i brividi nella schiena solo a pensarci. Siamo seri: può risuscitare il colonnello? Bonaparte mi ha presentato le sue condoglianze tramite un aiutante di campo. Riscuoto una pensione di tremila franchi, votata dalle Camere in favore della vedova. Ho avuto dunque ragione mille volte, di scacciare i falsi Chabert, come scaccerò tutti quelli che dovessero ancora presentarsi a me.

- Siamo fortunatamente soli, contessa, e possiamo in tutta libertà mentire a noi stessi - replicò freddamente l'avvocato, tutto intento a rinfocolare la collera della contessa nella speranza di coglierla in fallo; una manovra molto comune agli avvocati, sempre padroni dei loro nervi anche quando i loro avversari trascendono.

Meditando di farla cadere in un tranello - a noi due, adesso - egli riprese subito, vivacemente. - Esiste la prova irrefutabile che vi è stata consegnata una lettera contenente dei valori...

- Quanto ai valori lo escludo recisamente!

- Ma non escludete la lettera, contessa - rettificò sorridendo Derville. - Ecco la prima contraddizione alla prima mossa di un avvocato... e vi illudete di poter lottare con la giustizia...

La contessa arrossì, impallidì, si nascose il viso tra le mani. Ma subito riprendendosi, con il sangue freddo delle donne del suo stampo:

- Dal momento che voi siete l'avvocato di fiducia del preteso Chabert, abbiate la bontà di dirmi...

- Debbo interrompervi; io sono l'avvocato di entrambi e non ho la minima intenzione di rinunciare a una cliente così preziosa, quale voi siete. Lasciatemi concludere...

- Vi ascolto - rispose la contessa affettando molta cortesia.

- Le vostre sostanze provengono dal conte Chabert, lo stesso che avete ripudiato. La vostra fortuna materiale è assai cospicua e voi lo costringete a mendicare. E' molto facile l'eloquenza di un avvocato quando la verità sgorga dai fatti stessi. In questo caso, c'è di che sollevare contro di voi tutta l'opinione pubblica.

- Insomma - ribatté impazientita la contessa, che mal sopportava il tormento di quel colloquio - anche ammessa l'esistenza del vostro Chabert, i tribunali non potranno annullare il mio secondo matrimonio dal quale sono nati due figli; si tratterà tutt'al più di tacitare il Chabert con duecentoventicinquemila franchi.

- Nessuno può prevedere quale potrà essere il parere dei tribunali sulla questione sentimentale. Da una parte, una madre e i suoi due figli; ma dall'altra un uomo schiantato dalla sventura; invecchiato innanzi tempo per causa vostra, per la vostra condotta. Come potrà Chabert rifarsi una casa? Potrà il tribunale violare la legge? Il primo matrimonio vale per un diritto di priorità. Devo aggiungere che se voi sarete messa in cattiva luce, vi toccherà di affrontare un avversario ben più formidabile... E questo è il pericolo che io vorrei scongiurare.

- Un altro avversario? E chi, dunque?

- Il conte Ferraud.

- Il conte Ferraud mi è troppo devoto... e nutre molto rispetto per la madre dei suoi figli...

- Non contate su simili debolezze, contessa, e credete a noi che siamo così allenati a esplorare i veri sentimenti... Allo stato attuale delle cose, il conte non ha alcuna intenzione di far annullare il matrimonio; sono convinto che vi ama profondamente; ma se qualcuno gli confermasse che l'annullamento è possibile e che la sua consorte potrebbe essere tradotta come colpevole in cospetto dell'opinione pubblica...

- Mi difenderebbe!

- Non lo credo.

- Perché mai dovrebbe abbandonarmi?

- Per l'occasione che gli si presenta di sposare la figlia di un Pari di Francia, il cui titolo gli verrebbe trasmesso per decreto reale.

La contessa impallidì. Derville ritenne di aver partita vinta.

- In definitiva - riprese l'avvocato - il conte sarebbe altresì alleggerito d'ogni scrupolo, trattandosi di un Chabert, soldato glorioso, generale, conte, grande ufficiale della Legion d'onore; se un uomo di tanta levatura reclama i suoi diritti coniugali...

- Basta, basta, ve ne prego! Voi sarete il mio unico avvocato. Che cosa devo fare?

- Transigere.

- Mi ama ancora?

- Vi offenderei se dicessi il contrario.

Sensibile a queste parole, la contessa drizzò il capo, mostrando un viso illuminato da una segreta speranza; forse intuiva di poter speculare sulla tenerezza del primo marito per conservare a sé il secondo!

Nell'accomiatarsi, Derville, aggiunse:

- Sono a vostra disposizione; fatemi sapere se dobbiamo dar corso agli atti o se preferite venire da me per gettare le basi di una transazione.

 

Erano trascorsi otto giorni dai due colloqui di Derville, quando, in un luminoso mattino di giugno, da due quartieri opposti della città convennero i due antichi sposi nello studio dell'avvocato:

miracolosa coincidenza! Le anticipazioni fatte con larghezza a Chabert gli avevano consentito di vestire abiti degni della sua posizione sociale. Il preteso defunto si fece dignitosamente trasportare in carrozza. Parrucca nuova adatta alla sua fisionomia; abito bleu, una candida camicia, e sul panciotto la rosetta scarlatta dei grandi ufficiali della Legion d'onore. Con il benessere, egli aveva ritrovato tutta l'eleganza marziale di un tempo. Fiero il portamento; il volto grave e misterioso dissimulava la felicità e il fiorire di nuove speranze; egli appariva ringiovanito, pieno, per dirla con un termine caro agli artisti. Poteva rassomigliare ancora allo Chabert del pastranaccio quanto un soldino rassomiglia a una moneta da quaranta franchi nuova fiammante. Vedendolo, il passante avrebbe facilmente riconosciuto in lui uno di quei gloriosi reduci della Grande Armata, uno di quegli eroi che sono il simbolo della nostra gloria nazionale e ne riflettono, come un diamante, tutti i fulgori.

Questi vecchi soldati sono eloquenti come un quadro o un libro.

Giunto davanti alla casa di Derville, il colonnello saltò di carrozza con l'agilità di un giovane cavaliere. Subito dopo, si profilò nella strada l'aristocratico attacco della contessa. Essa portava una mantiglia foderata di rosa che armonizzava stupendamente con il suo corpo, dissimulandone e ravvivandone al tempo stesso le forme; il tutto di una semplicità calcolata con gusto, sì da valorizzare appieno la snellezza della persona.

Se i due clienti si presentavano così ringiovaniti, lo studio dell'avvocato era pur sempre quello che vi abbiamo descritto.

Simonino alle prese con la colazione, appoggiato alla finestra aperta, con il naso all'insù, verso quel po' di cielo che si poteva scorgere tra i quattro corpi della vecchia casa.

- Chi vuole scommettere con me un ingresso al teatro che il colonnello Chabert è... generale e gran cordone?

- Il nostro padrone è un vero mago - commentò Godeschal.

- Quale scherzo potremmo ancora giocargli? - chiese Desroches.

- Di questo si incaricherà la contessa Ferraud borbottò Boucard.

- Di questo passo, essa sarà obbligata ad appartenere a due uomini - osservò Godeschal.

- Eccola! - avvertì Simonino.

In quell'istante entrò Chabert.

- L'avvocato?

- E' nello studio - rispose Simonino.

- Ah, non siete più sordo, ragazzaccio - osservò il colonnello afferrandolo per il ganascino, tra lo spasso degli scrivanelli ancor tutti ammirati per quel singolare personaggio degno di tanta considerazione e rispetto.

La contessa entrò nello studio quando il colonnello era già stato introdotto da Derville.

- Che ne pensate, Boucard?... sarà una scenetta davvero singolare!

Ecco una donna che ha il diritto di trascorrere i giorni pari presso il conte Ferraud e quelli dispari dal conte Chabert.

- I dispari degli anni bisestili... - corresse Godeschal.

- Tacete una buona volta - disse Boucard con severità - io non mi sono mai trovato in uno studio dove si prendano in giro i clienti come avviene qui...

Derville aveva precauzionalmente confinato il colonnello nella camera da letto prima che la contessa entrasse nel suo studio.

- Non sapendo se la presenza del vostro primo marito vi potesse tornare gradita, ho preferito tenervi separati. Tuttavia, se lo desiderate...

- Vi sono grata di quanto avete fatto.

- Ho preparato una minuta di transazione, le cui clausole possono essere immediatamente discusse da entrambi. Io mi farò interprete delle obiezioni di ciascuno.

- Vediamo l'atto - esclamò con impazienza la contessa.

Derville ne iniziò la lettura: "Tra il signor Giacinto, detto Chabert, conte, maresciallo di campo e grande ufficiale della Legion d'onore, abitante a Parigi, via du Petit-Banquier, da una parte, e la signora Rosa Chapotel, moglie del soprannominato Chabert, nata"...

- Tralasciate tutti i preamboli - interruppe la contessa - veniamo al sodo.

- I preamboli spiegano succintamente la posizione giuridica di entrambi. In seguito, con l'articolo primo, voi riconoscete in presenza di tre testimoni, cioè di due notai e del commerciante presso il quale abita vostro marito, tutti vincolati al segreto, voi riconoscete, come dicevo, che l'individuo designato negli atti allegati in copia, e di cui gli originali fanno parte di un atto di notorietà redatto dal notaio Crottat di vostra fiducia, è in effetti il conte Chabert, vostro primo coniuge. Con l'articolo due, il conte Chabert, valutando in pieno il vostro interesse personale, s'impegna di non far valere i suoi diritti se non nei casi previsti dalla transazione stessa. E questi non sono che quelli relativi alla non esecuzione delle clausole di questa convenzione privata. Dal canto suo, il conte Chabert s'impegna di promuovere, d'accordo con voi, un giudizio d'annullamento del suo decesso così come del suo matrimonio.

- Tutto ciò è contrario ai miei interessi - ribatté la contessa - io non voglio assolutamente esser coinvolta in processi. E voi ne comprendete il perché.

- Con l'articolo terzo - continuò imperturbabile l'avvocato - voi vi impegnate di costituire in favore del signor Giacinto, conte Chabert, una rendita vitalizia di ventiquattromila franchi, registrata nel gran libro del Debito pubblico, il cui capitale tornerà in vostre mani alla morte del conte.

- Lo credo.

- Che cosa volete fare, allora?

- Troppo caro, avvocato!

- Credete forse di potervela cavare a miglior mercato?

- Io voglio, cioè, non voglio processi; voglio piuttosto...

- Che lui passi per defunto - interruppe vivacemente Derville.

- Se ritenete necessario il salasso annuo di ventiquattromila franchi, faremo causa.

- Sì, sì, faremo causa - gridò sordamente il colonnello aprendo d'improvviso la porta e piantandosi dinnanzi alla consorte, una mano infilata nel taglio del panciotto e l'altra tesa come per giuramento. Un gesto di energia terribile, mosso dal ricordo di tutte le sventure sopportate.

- E' lui - disse tra di sé la contessa.

- Ah, troppo caro il salasso? - riprese il vecchio soldato. - Vi ho dato un milione di franchi, all'incirca, e voi mercanteggiate la mia disgrazia. Ebbene, io voglio tutto, voi e le vostre sostanze. Esiste una comunità di beni; il matrimonio è ancora valido...

- Ma questo signore non è il colonnello Chabert gridò la contessa simulando il più grande stupore.

- Già... avete bisogno di qualche prova, non è vero? - obbiettò ironicamente Chabert. - Ebbene, ricordo di avervi... conosciuta in un luogo piuttosto equivoco, nei paraggi del Palais-Royal...

Colpo rude; vedendola impallidire, il vecchio soldato immaginò la sofferenza atroce di quella donna che egli aveva pur tanto amata e tacque. Ma uno sguardo vibrante di odio lo colpì sì da indurlo a continuare: - Voi eravate ospite della...

- Non è possibile, avvocato, che io possa rimanere in questa stanza... Non ci sono certo venuta per ascoltare infamie simili.

Si alzò e uscì, invano seguita da Derville. La contessa aveva preso letteralmente il volo. Rientrando, l'avvocato vide il colonnello che misurava a grandi passi la stanza, colto da un accesso di furore.

- In quel tempo si conquistavano le donne dove era più comodo; il mio torto è di averla scelta male, il mio torto è di essermi fidato delle apparenze. Essa è sorda a ogni sentimento.

- Non avevo forse ragione nel consigliarvi di non farvi vedere?

Comunque, nessun dubbio ormai sulla vostra identità. Quando vi siete presentato, la contessa non ha potuto trattenere un movimento originato da un'amara certezza. Ma la vostra causa è ormai pregiudicata; vostra moglie è convinta di poter negare la vostra identità.

- L'ucciderò!

- Assurdità! Sareste imprigionato e ghigliottinato, ecco tutto.

Senza pensare che potreste anche fallire il colpo! Quando ci si propone di uccidere la propria moglie, ciò sarebbe imperdonabile... Lasciate fare a me, lasciate che trovi rimedio alle vostre debolezze, fanciullone! Andate pure, ma state attento!

Vostra moglie è capace di tutto e potrebbe cogliervi in trappola, farvi rinchiudere a Charenton. Nel frattempo, io le notificherò gli atti; sarete così al coperto di ogni sorpresa spiacevole.

Il colonnello balbettò delle scuse, promise di seguire i consigli del suo benefattore e se ne andò.

Mentre scendeva le scale con lentezza, assorto in cupi pensieri, ferito profondamente da quanto era accaduto poco prima, mettendo piede sull'ultimo pianerottolo si sentì sfiorare da una figura femminile: la contessa!

- Venite con me, conte - disse, e, con gesto affettuoso che ricordava l'intimità d'un tempo, lo prese sottobraccio.

La sorpresa di quel gesto, l'accento della voce ridiventato così dolce bastarono per spegnere nel colonnello ogni collera; egli si lasciò condurre fino alla carrozza.

- Salite, dunque - riprese la contessa, non appena il domestico ebbe abbassato la pedana.

Chabert si trovò così, d'improvviso, seduto a fianco di sua moglie.

- Dove desidera andare, la signora contessa? domandò il cocchiere.

- A Groslay.

Velocemente, attraversarono tutta Parigi.

- Chabert! - mormorò la contessa rivelando nel tremito della voce una di quelle emozioni che proviamo raramente nella vita e che sconvolgono tutto il nostro essere. Cuore, nervi, muscoli, fisionomia, l'anima e il corpo, tutto, anche le più riposte fibre vibrano. La vita sembra abbandonarci, assumere forme nuove, colpire come un contagio, condensarsi in uno sguardo, in una sfumatura della voce, in un gesto soggiogando ogni volontà. Il vecchio soldato non poté sottrarsi al fascino di quel richiamo, di quell'unica e prima e ineffabile parola che lei aveva pronunciato:

Chabert!

Si compendiavano in essa, a un tempo, il rimprovero, la preghiera, il perdono, la speranza, il dolore; una parola che valeva un interrogativo e poteva sembrare una risposta, tutto riassumendo.

Per far vibrare in essa così intensamente il sentimento e imprimerle tanta efficacia espressiva sarebbe occorsa l'abilità di una commediante. La verità non si completa mai in una semplice espressione, non si svela mai con interezza pur lasciando indovinare le sue radici segrete. Il colonnello si rammaricò d'ogni sua diffidenza, d'ogni richiesta, della collera che lo aveva sconvolto e abbassò lo sguardo per nascondere il turbamento.

- Chabert - continuò la contessa - vi avevo riconosciuto...

- Rosina, le vostre parole sono il migliore dei balsami; mi fanno scordare le mie sventure.

Sulle mani della donna, che egli stringeva con tenerezza quasi paterna, caddero due grosse lacrime.

- Dovevate comprendere che mi riusciva intollerabile di presentarmi a un estraneo sotto una luce così sfavorevole. Se devo arrossire per quanto è avvenuto, chiedo di rifugiarmi nell'intimità. Sono segreti che devono rimanere sepolti in noi stessi. Vi prego di comprendermi, di giustificare un'apparente indifferenza per le sventure di un Chabert che io dovevo considerare fuori della mia vita. Ho ricevuto le vostre lettere - continuò la contessa osservando sul volto del marito un'espressione di stupore - le ho ricevute, ma tredici mesi dopo la battaglia di Eylau, aperte, sudice, quasi illeggibili e sospettai, avendo ricevuto il consenso dell'Imperatore per il nuovo matrimonio, che qualche intrigante volesse farsi gioco di me. Dovevo impedire che il conte Ferraud venisse a conoscere l'accaduto, non turbare la quiete della famiglia... ho preso perciò tutte le mie precauzioni contro i falsi Chabert! Potevo fare altrimenti, dite?

- No, non lo potevi; sono io lo sciocco, l'idiota, una bestia che non ha saputo valutare le conseguenze di una situazione così anormale.

La carrozza era giunta alla barriera della Chapelle.

- Dove siamo diretti?

- Alla campagna, nei miei possedimenti di Croslay, nella vallata di Montmorency. Là potremo riflettere con tranquillità sulle decisioni da prendere. Conosco i miei doveri. Se vi appartengo in linea di diritto, io non sono più vostra nella realtà dei fatti.

Dobbiamo diventare la favola di tutta la città?, potete ammetterlo? Non diamo in pasto al pubblico una situazione che ha del ridicolo e difendiamo la nostra dignità. Voi mi amate - proseguì dolcemente con una voce che tradiva la commozione - ma non sono stata io forse autorizzata a contrarre dei nuovi legami?

Non mi resta che porre tutta la fiducia nella vostra bontà d'animo, che ho tanto apprezzato un tempo. Dovrei pentirmi nel ritenervi il solo arbitro del mio destino? Siate dunque giudice e parte; mi affido alla grande nobiltà del vostro carattere. Siate indulgente per i miei errori involontari. Io non posso nascondervi che amo il conte Ferraud, che ho creduto fosse mio diritto di poterlo amare. Non arrossisco di quest'amore, né di questa confessione; potrebbe offendervi forse, mai disonorarvi. Non posso nascondervi la verità. Allorché il destino volle che io rimanessi vedova, non ero ancora madre.

Il colonnello invitò con un gesto a troncare quella confessione; rimasero a lungo silenziosi. Due bimbi erano spiritualmente presenti.

- Rosina...

- Chabert...

- E' un grave torto dei defunti quello di risuscitare!

- No, no, non dite questo! Non ritenetemi un'ingrata. La verità è che voi trovate ora una donna amata e una madre in quella che avete lasciato sposa. Non posso, non debbo amarvi più, ma ciò non tocca la riconoscenza a cui avete diritto e l'affetto che potrò dimostrarvi ancora, come una figlia.

- Rosina - rispose il vecchio con dolcezza - ogni rancore è spento. Bisogna dimenticare - aggiunse quasi sorridendo, con una tenerezza che è sempre specchio di nobiltà d'animo. - Non sarò così indelicato da pretendere che voi simuliate un attaccamento che non esiste più.

Una espressione così viva di riconoscenza illuminò il viso della contessa, che il povero Chabert avrebbe voluto sprofondare di nuovo nella fossa di Eylau. Ci sono uomini capaci di ogni sacrificio, i quali trovano la più alta ricompensa nella felicità che hanno saputo procurare alle persone amate.

- Amico mio, riprenderemo a parlare di questa difficile situazione con spirito più calmo - disse la contessa.

C'era un'impossibilità quasi fisica d'insistere su temi tanto delicati. Riuscirono a sviare il loro discorso, benché ricadessero a volte fatalmente, nell'argomento scottante ora con riferimenti, ora con allusioni; i ricordi del loro comune passato s'intrecciarono, fu come un viaggio delizioso attraverso gli episodi lontani della loro vita e gli splendori dell'Impero. Una indefinibile soavità coloriva, per merito di lei, ogni rievocazione, assumendo talvolta un tono di melanconia che non disdiceva alla grave realtà della situazione presente. Riviveva un passato d'amore, senza che potesse più risvegliarsi il desiderio.

La maturità consumata della donna favoriva il tentativo di persuadere Chabert ad accontentarsi ormai delle gioie che sono riservate a un padre. Egli era vissuto con una principessa dell'Impero e ritrovava ora una contessa della Restaurazione.

Seguendo un scorciatoia, i due giunsero in un grande parco situato nella piccola valle che separa le alture di Margency dal grazioso villaggio di Croslay. La contessa possedeva colà una deliziosa villetta, cui nulla mancava - e il colonnello lo notò entrandovi - per rendere piacevole il soggiorno.

Il dolore è una specie di talismano che ha il potere di accentuare i nostri sentimenti primordiali: accresce la diffidenza e la cattiveria in alcuni, rinverdisce la bontà negli uomini di gran cuore. La sventura aveva reso il colonnello ancor più sensibile di quanto non lo fosse stato un tempo; ora poteva percepire fin nelle sfumature la segreta sofferenza di una donna.

Quantunque egli fosse alieno da ogni manifestazione di diffidenza, non poté tuttavia fare a meno di chiederle:

- Eravate proprio sicura di riuscire a condurmi fin qui?

- Sicurissima, solo che io avessi potuto ritrovare, nel mio avversario, il vero conte Chabert.

Essa pose in quelle parole un accento di verità così persuasivo, che il vecchio ne fu disarmato, provando una vera umiliazione per aver dubitato di lei.

Trascorsero tre giorni in una intimità che la contessa seppe rendere serena. Sembrava che s'ingegnasse veramente per attutire, cancellare ogni penoso ricordo, che cercasse con ogni dolcezza di ottenere il perdono per le colpe involontariamente commesse; pur attraverso una velata tristezza si compiaceva di quegli atteggiamenti che più tornavano graditi al conte. Ciascuno di noi è più sensibile a certi modi di comportarsi che non ad altri, a certe seduzioni del sentimento o dello spirito alle quali sapremmo difficilmente resistere. Essa desiderava interessarlo alla propria vita, voleva intenerirlo per poterne dominare la coscienza e disporre completamente della sua volontà. Decisa a tutto pur di raggiungere i suoi fini, rimaneva tuttavia molto incerta sulla via da seguire. Il conte doveva comunque scomparire dal suo ambiente sociale.

La sera del terzo giorno, la contessa fu assalita dal dubbio di non riuscire nei suoi piani; ne fu molto inquieta; per trovare un po' di calma si rifugiò nella sua camera, abbandonandosi su di una sedia davanti alla piccola scrivania. Il suo volto si trasformò in un baleno, come il volto di un'attrice che, rientrando nel camerino dopo la recita di un quinto atto denso di drammaticità, si senta sfibrata e appaia del tutto diversa da quella che gli spettatori hanno applaudita.

Ultimò in tutta fretta una lettera indirizzata a Delbecq, nella quale chiedeva di intervenire, in suo nome, presso Derville allo scopo di prendere visione degli atti Chabert, farne copia, recapitandoli al più presto a Croslay. Aveva appena terminato di scrivere che un rumore di passi l'avvertì della presenza del colonnello. Questi, impensierito per la lunga assenza, era venuto a cercarla.

- Povera me! - disse ad alta voce - vorrei finirla... la mia vita diventa insopportabile.

- Che accade, che avete? - chiese premuroso il vecchio.

- Nulla, nulla.

La contessa si alzò, abbandonò il colonnello, discese in gran fretta e, senza testimoni indiscreti, ordinò alla cameriera di partire immediatamente alla volta di Parigi, per recapitare a Delbecq la lettera pronta, lettera che doveva esserle restituita dopo che l'intendente ne avesse preso visione. Poi uscì nel parco sedendosi su di una panca bene in vista, dimodoché il colonnello la potesse facilmente scorgere e raggiungere. Infatti egli, che la stava cercando, le fu subito vicino.

- Rosina, spiegatevi...

Essa non rispose. La calma solenne di quella sera di giugno, piena di segrete armonie, la purezza dell'atmosfera, il silenzio profondo rendevano soave il momento. Qualche voce di bimbo in lontananza aggiungeva una nota melodiosa alla incantevole bellezza del luogo.

- Non volete rispondermi?

- Mio marito... - qui s'arrestò, come confusa, arrossì un poco e chiese: - Come dovrei esprimermi parlando del conte Ferraud?

- Marito, s'intende, mia piccola creatura, non è forse il padre dei tuoi figli? - obiettò il colonnello mettendo a nudo la sua infinita bontà.

- Mi chiedo ogni momento che cosa potrei rispondergli se lui, sapendo che sono qui in compagnia di uno sconosciuto, mi chiedesse perché ci sono venuta... Ascoltatemi una buona volta - continuò con artificiosa nobiltà di accento io sono rassegnata a tutto; decidete voi del mio destino...

- Adorata... io sono deciso a sacrificarmi completamente per la vostra felicità... - così dicendo le afferrò le mani, tremando.

- Non è possibile! Voi dovreste rinunciare a voi stesso e in una forma legale - rispose in fretta, convulsamente la donna.

- Non è forse sufficiente la mia parola?

Quell'aggettivo "legale" gli suonava assai ingrato, tanto da risvegliare qualche involontaria diffidenza. Mentre fissava intensamente la contessa, si accorse del suo rossore, la vide abbassare gli occhi; temette di non poter trattenere un gesto di disprezzo. Dal canto suo, la donna ebbe la sensazione d'aver ecceduto, offendendo la sensibilità, la probità di un carattere di cui le era ben nota la generosa semplicità.

Nubi passeggere sul loro volto. Un avvenimento inatteso riportò il sereno: le grida di un bimbo.

- Giulio, non tormentare la sorellina - gridò la contessa.

- Sono qui, i vostri figlioli?

- E' la verità; ma essi non debbono importunarvi.

Chabert si commosse, apprezzò il tatto squisito della compagna e si curvò a baciarle la mano. - Lasciateli venire... ve ne prego!

Una bimba era comparsa, pronta ad accusare il fratellino.

- Mamma...

- Mamma...

- E' stato lui che...

- Non è vero, è lei che...

Quattro mani si tesero; le voci si confondevano. Quale inatteso e delizioso spettacolo!

- Povere creature..., - esclamò tra le lacrime la contessa. - Dovrò separarmi da loro; a chi verranno assegnate? Voglio che restino con me; un cuore di madre non può essere oggetto di spartizione...

- Siete forse voi che fate piangere la mia mamma? chiese incollerito il piccolo Giulio.

- Zitto, Giulio - ordinò severamente la madre.

I due bimbi non si mossero, non fiatarono, osservando con inesprimibile curiosità lo sconosciuto.

- Se dovrò separarmi dal conte, mi siano lasciate le mie creature.

Solo così potrò rassegnarmi... rassegnarmi a tutto.

- Ho capito - interruppe il colonnello concludendo un pensiero lungamente maturato - il mio posto è sottoterra. Me lo sono detto più volte.

- Ma non potrò rassegnarmi a un tale sacrificio, capite? Se ci sono uomini capaci di offrire la propria vita per salvare l'onore della donna amata, lo possono fare una sola volta. Voi mi offrireste la vostra vita ogni giorno! No, no, non è possibile.

Non si tratta soltanto della vostra esistenza fisica. Voi non potete sottoscrivere di essere un falso Chabert, un impostore; voi non potete sacrificare il vostro onore di uomo, perpetuare una menzogna. La devozione non lo giustificherebbe. Datemi ragione.

No, non è possibile. Se io non fossi madre, a quest'ora mi sarei già rifugiata con voi nel più lontano luogo del mondo.

- Non potrei vivere qui, nella vostra casa, come un vecchio parente? Sono inservibile come i cannoni fuori uso; mi basta un po' di tabacco e il "Costituzionale".

La contessa pianse a lungo. Nel duello di sentimenti generosi che i due avevano acceso, doveva uscirne vittorioso il soldato.

Rivedendo, una sera, la madre presso i suoi bimbi, fu intenerito dalla grazia di un quadro che l'ombra e il silenzio rendevano quanto mai suggestivo e prese la risoluzione di compiere tutto il necessario per assicurare per sempre la felicità di quella famiglia: tornare ad essere il defunto e non preoccuparsi più dell'autenticità dei suoi documenti.

- Dovete agire secondo il vostro intimo convincimento - osservò la contessa - io vi dichiaro esplicitamente che non eserciterò alcuna pressione. Questo è il mio dovere.

Delbecq era alla villa da più giorni e, seguendo le istruzioni della contessa, si era accattivato la fiducia del vecchio soldato.

L'indomani erano entrambi in viaggio per Saint-Leu-Taverny, dove Delbecq aveva fatto redigere da un notaio un atto concepito in termini tali che il colonnello, non appena ne prese visione, se ne uscì concitatamente dallo studio.

- Fulmini di Giove! Mi volete far passare da idiota, da falsario...

- Pensateci, non sottoscrivete subito - gli sussurrò Delbecq - al vostro posto, io cercherei di strappare trentamila franchi di rendita; la contessa li mollerà...

Dal luminoso volto di quell'onestuomo, che era Chabert, partì un'occhiata che avrebbe fulminato il brigante; indignato, se ne andò contrastato da opposti sentimenti. Era di volta in volta sospettoso, ribelle, rassegnato. Passando da un muro sbrecciato, ritornò nel parco di Croslay e a passi lenti, meditando, cercò rifugio in un piccolo chiosco dal quale si poteva vedere la strada di Saint-Leu, con il suo fondo di terra argillosa.

La contessa stava nello stesso chiosco e non si era accorta del suo sopraggiungere; era così assorta nei suoi pensieri circa la missione Delbecq che non prestò attenzione al fruscìo di passi. E neppure il vecchio soldato ebbe la sensazione della sua presenza.

- Ebbene, signor Delbecq, è cosa fatta? - chiese ansiosa la contessa all'intendente che le era apparso, tutto solo, dietro la siepe di un fosso di chiusura.

- Niente di fatto. Non so neppure dove sia finito il nostro uomo.

Il vecchio cavallo si è impennato.

- Poiché l'abbiamo nelle nostre mani, bisognerà dunque farlo rinchiudere a Charenton...

Il colonnello, con una giovanile e sorprendente agilità, spiccò un salto per varcare il fosso, comparve dinanzi all'intendente e gli appioppò un paio di schiaffi così sonori da non avere precedenti nella vita professionale del procuratore.

- Devi aggiungere che i vecchi cavalli sono anche impetuosi - gli gridò in faccia.

Frenata la collera, il colonnello sentì che gli mancavano le forze per ripetere il salto. La verità era ormai netta. Le parole della contessa e del suo intendente non lasciavano dubbi sul complotto di cui sarebbe stato la vittima.

Le cure prodigategli erano l'esca dell'infame tranello. L'idea del tranello era come un veleno sottile che riacutizzava ogni dolore fisico e morale. Ritornò al chiosco a passi lenti, attraverso il parco, palesando il suo abbattimento. Nessuna pace, nessuna tregua per lui. Bisognava dunque, senza perdere un attimo, iniziare una guerra odiosa contro quella donna; come aveva previsto Derville, adattarsi a seguire la via dei processi, nutrirsi di fiele, bere al calice dell'amarezza. Ma, pensiero lancinante, dove trovare i mezzi per muovere le pedine necessarie? Tanto era il disgusto della vita che se avesse avuto in tasca una rivoltella si sarebbe fatto saltare le cervella. Poi, ricadde nell'incertezza, in quell'incertezza che, fin dal giorno dell'incontro con Derville nell'abitazione del suo amico, lo aveva così profondamente mutato nel carattere.

Giunto che fu davanti al chiosco, volle salire fino al piccolo osservatorio da dove, attraverso le ampie vetrate si potevano ammirare gli aspetti più pittoreschi della vallata; là, vi trovò la contessa che stava contemplando il panorama con una tranquillità, con una calma impenetrabile che lasciavano presagire, in una donna di quello stampo, la capacità di estreme decisioni. Si tergeva di quando in quando gli occhi, come se avesse pianto a lungo e, distrattamente, cincischiava il lungo nastro rosa della cintura. Tuttavia non poté far a meno di trasalire, quando le comparve dinanzi il suo vero benefattore, le braccia conserte, il viso pallidissimo, la fronte severa.

- Io non vi maledico, signora; vi disprezzo - disse dopo averla a lungo fissata determinando in lei un visibile turbamento. - Ora posso ringraziare il destino che ci ha separati. Non mi anima alcun desiderio di vendetta; non vi amo più, ecco tutto. Non pretendo alcunché da voi. Vivete pure tranquilla; vi do la mia parola d'onore che vale assai più di tutti gli scarabocchi dei notai parigini, io non rivendicherò il nome che ho pur reso illustre, in qualche modo. Io non sono più che un povero diavolo di nome Giacinto, desideroso di un semplice cantuccio al sole.

Addio...

La contessa cadde ai suoi piedi, tentò di afferrargli le mani, trattenerlo, ma egli la respinse con sdegno.

- Non toccatemi!

Quando essa, dal rumore dei passi che si allontanavano, ebbe la sicurezza di essere finalmente sola, si riprese e con la perspicacia che si accompagna a una consumata scelleratezza e a un feroce egoismo, sperò di poter vivere finalmente in pace, garantita com'era dalla parola d'onore e dallo sdegno del vecchio soldato.

Chabert disparve effettivamente. Il suo amico commerciante, travolto da un fallimento, era diventato fiaccheraio. Non escludiamo che lo stesso colonnello non abbia esercitato una simile professione. E neppure che egli, come una pietra che cada nell'abisso di sbalzo in sbalzo, non si sia adattato a uno di quei tanti miserabili mestieri che disonorano le strade di Parigi.

Erano trascorsi sei mesi dagli avvenimenti che abbiamo descritto, quando Derville, il quale non aveva più avuto notizie né di Chabert né della contessa Ferraud ed era persuaso che tra i due fosse intervenuta una transazione stipulata, per volere della contessa, da qualche altro, fece i suoi conti: somme anticipate a Chabert, spese varie, inviando poi la parcella alla contessa con preghiera di reclamarne il pagamento da Chabert, di cui certamente conosceva il domicilio.

L'indomani stesso, l'intendente del conte Ferraud, di recente nominato presidente di tribunale di prima istanza in un'importante città, rispondeva a Derville in questi termini poco piacevoli:

"Egregio Signore, La contessa Ferraud m'incarica di significarvi che il vostro cliente aveva sfacciatamente abusato della vostra fiducia e che l'individuo il quale pretendeva di essere il conte Chabert ha pienamente riconosciuto d'essersi falsamente appropriato di tale generalità.

Vi preghiamo di gradire", eccetera eccetera.

- Quanti sciocchi ti tocca d'incontrare nella vita.... che hanno a torto ricevuto il battesimo..., - esclamò Derville. - Siate umano, dimostratevi generoso, filantropo, e vi farete infinocchiare, caro avvocato. Ecco un magnifico affare che mi costa due bei biglietti da mille.

Qualche tempo dopo, mentre Derville era alla ricerca di un collega difensore presso la polizia correzionale, il caso lo condusse alla sesta sezione nel momento stesso in cui il presidente condannava a due mesi di prigione un certo Giacinto per vagabondaggio, e ordinava che lo stesso fosse, in seguito, rinchiuso nell'ospizio di mendicità di Saint-Denis. Sentenza che, seguendo la giurisprudenza dei prefetti di polizia, equivaleva a una detenzione perpetua.

Udendo quel nome, Derville squadrò il delinquente seduto al banco degli accusati tra due gendarmi e riconobbe il falso colonnello Chabert. Il vecchio soldato era calmo, immobile, quasi assente.

Malgrado i cenci e l'atroce miseria impressa sul suo viso, egli conservava tutta la sua nobile fierezza. L'espressione di stoicismo del suo sguardo non avrebbe dovuto ingannare il magistrato, ma quando si cade sotto il peso della giustizia, non si è più che oggetti di diritto, soggetti di un fatto, come si diventa dei numeri per i calcoli della statistica. Quando il vecchio soldato fu ricondotto in cancelleria, in attesa che si provvedesse a tradurlo altrove, con il gruppo di vagabondi che stava in giudizio, Derville, valendosi della sua prerogativa di avvocato, si introdusse nella cancelleria ed ebbe agio di osservare il pittoresco gruppo di mendicanti, nel quale stava Chabert.

L'anticamera della cancelleria presentava uno di quegli spettacoli miserandi che i legislatori, i filantropi, i pittori, gli scrittori dovrebbero vedere e studiare. Come tutti gli altri "laboratori" della giustizia umana, quell'anticamera era oscura e maleodorante, con il solo ornamento di un pancone annerito dall'uso, e con il continuo viavai di tanti sciagurati che vi rappresentano tutte le miserie sociali, non una esclusa. Un poeta direbbe che la luce si rifiuterebbe d'entrare in una così sordida cloaca di tutti i mali. In ogni posto disponibile, sta un rappresentante del reato, consumato o da consumare; non c'è angolo che non nasconda qualcuno degli sciagurati che, colpiti una prima volta con mano leggera, non abbiano ricominciato su quella via del male che mostra al suo termine la ghigliottina o il suicidio.

Quelli che cadono nel fango della vita, sono, per così dire, proiettati su queste mura giallicce, tra le quali un sincero filantropo potrebbe trovare con facilità la giustificazione dei numerosi suicidi che sono oggetto di ipocrite recriminazioni da parte degli scrittori, incapaci di compiere alcunché per prevenirli. Un'orrenda giustificazione è scritta su queste mura, quasi a prefazione dei drammi che hanno il loro scioglimento nelle camere mortuarie o nel museo di place de Grève!

Il colonnello Chabert aveva trovato posto tra quegli uomini dal viso rude, vestiti di ogni foggia che si addica alla più nera miseria, a tratti silenziosi, a volte loquaci, mentre tre gendarmi di guardia ne moderavano la voce richiamandoli con ripetuti e brevi tocchi della sciabola sul pavimento.

- Mi riconoscete? - chiese Derville.

- -Certamente - rispose Chabert alzandosi.

- Se siete un uomo onesto - continuò a bassa voce Derville - come avete potuto trascurare i vostri debiti?

Il vecchio soldato arrossì, come può arrossire una giovane che sia redarguita dalla madre per un legame clandestino.

- Che mi dite? La contessa Ferraud non vi ha saldato il conto? - esclamò ad alta voce.

- Saldato? Mi ha scritto che voi siete un furfante...

Il vecchio alzò gli occhi al cielo, in un movimento che rivelava lo sdegno, voleva significare una maledizione, e pareva invocare testimonianza per tanta infamia ancora una volta commessa in suo danno.

- Avvocato - disse con voce che la stessa disperazione aveva moderato - ottenetemi dai gendarmi il permesso di entrare in cancelleria e io vi rilascerò una delega per riscuotere... Vedrete che essa non si opporrà.

Derville ottenne infatti dal brigadiere di poter condurre Giacinto nella cancelleria, dove il vecchio scrisse alcune righe per la contessa Ferraud.

- Fategliele pervenire e sarete pagato di ogni vostro avere, spese e onorari. Credetemi... se non vi ho testimoniato tutta la riconoscenza che vi debbo per la vostra assistenza, io la serbo intatta, grande, qui, qui, nel mio cuore! Ma che possono fare i disgraziati come me? Voler bene... ecco tutto!

- Come mai non siete riuscito a farvi assegnare una rendita?

- Oh, non parlate di queste cose. Non potete immaginare a che punto io sia indifferente a quei beni che tanto assillano la maggioranza degli uomini. Sono stato colpito da una malattia strana, il disgusto per l'umanità. Quando penso che Napoleone è confinato a Sant'Elena, nulla più m'interessa. Non posso più vestire l'uniforme di soldato, ecco la mia più grande sciagura. E poi - continuò con ingenuità infantile - non è meglio godere della ricchezza interiore piuttosto che quella che si appiccica agli abiti? Non temo il disprezzo altrui, io, Chabert...

Si accasciò sul pancone; Derville se ne andò.

Tornato al suo studio, l'avvocato inviò immediatamente Godeschal presso la contessa, che, non appena ebbe preso conoscenza del testo della lettera, provvide senz'altro al pagamento della parcella.

 

Siamo nel 1840. Verso la fine del giugno, Godeschal, diventato avvocato egli stesso, accompagnava Derville, di cui aveva assunto la successione dello studio, verso Ris. Raggiunta la strada che si diparte per Bicêtre, notarono seduto su di un paracarro uno di quei vecchioni, canuti e distrutti, che paiono detenere il bastone da maresciallo della mendicità. Il vecchio era stato ricoverato a Bicêtre come le vecchie mendicanti sono ricoverate alla Salpêtrière. Il vecchio, uno dei mille disgraziati alloggiati nell'"ospizio per i vecchi", se ne stava tranquillamente accoccolato sul paracarro, come abbiamo già detto, e pareva concentrasse tutta la sua intelligenza nella semplice operazione di mantenere steso al sole il fazzoletto, forse allo scopo di far scomparire certe macchie di tabacco senza dover ricorrere al bucato. Fisonomia interessante, abiti di panno rossiccio, il panno di quell'orribile divisa che è fornita dall'ospizio.

- Guardate, Derville, guardate quel vecchio. Non rassomiglia a quel grottesco campione di soldato che ci è piombato un giorno dalla Germania? E campa, e sembra felice costui...

Derville inforcò gli occhiali, squadrò il poveraccio e non poté trattenere un movimento di viva sorpresa.

- Questo vecchio, mio caro è tutto un poema o per dirla con i romantici è un'intera tragedia. L'hai rivista qualche volta la contessa Ferraud?

- Sì; una donna spiritosa, piacevole, ma forse un po' bigotta.

- Questo pensionato di Bicêtre è il suo legittimo consorte, Chabert, il vecchio colonnello; sarà stata lei a farlo ricoverare.

Se egli vive all'ospizio anziché in un palazzo è per avere ricordato alla vezzosa contessa Ferraud di essersi concessa, come si prende una vettura in piazza. Io non dimentico più la ferocia dello sguardo di quella donna. Una tigre!

Godeschal, incuriosito, volle conoscerne le vicende. E' la storia che abbiamo raccontato.

Due giorni dopo, ritornando a Parigi, i due amici si arrestarono all'altezza di Bicêtre e Derville propose di far visita a Chabert.

A mezza strada, s'incontrarono con il vecchio, seduto su di un tronco abbattuto di recente, tutto intento a tracciare con un bastone dei segni sulla sabbia. Osservandolo attentamente ci si accorgeva che il vecchio doveva aver fatto colazione fuori dell'ospizio.

- Buon giorno, colonnello Chabert - gli disse Derville.

- Niente Chabert! niente Chabert! mi chiamo Giacinto, signori. Non sono più un uomo, sono il numero 164, settima camerata - rispose il vecchio con l'ansia timorosa di un bambino. - Voi contemplate un condannato a morte! Mah! non è sposato e quindi è felice lo stesso!

- Pover'uomo - chiese Godeschal - accettereste qualche soldo per il vostro tabacco?

Con la naturalezza di un birichino di Parigi, il colonnello tese avidamente le mani verso i due sconosciuti; ne ebbe venti franchi da ciascuno; li ringraziò in modo alquanto goffo, dicendo: "Bravi soldatacci!". E simulò un "presentat'arm", poi un "puntat'arm" gridando: "Fuoco con i due pezzi! Viva Napoleone!". Con il bastone descrisse nell'aria fantastici arabeschi.

- Dev'essere la ferita al capo che lo ha conciato così - commentò Derville.

- Vi sbagliate, signori - intervenne un altro vecchio, ospite anch'esso a Bicêtre. Ci sono dei giorni in cui non è prudente stuzzicarlo. E' furbo, filosofo, ricco d'immaginazione. Ma oggi, che volete, deve aver fatto il suo lunedì... E' all'ospizio dal 1820. E' accaduto, un giorno, che un ufficiale prussiano sceso di calesse alla salita per Villejuif passasse di qua. Io stavo con Giacinto sull'orlo della strada. L'ufficiale era in compagnia di un Russo, o di altro animale della stessa specie, con il quale stava conversando, allorché il Prussiano vedendo il mio compagno, forse per scherzo, uscì con questa frase: "Ecco uno che deve aver combattuto a Rossbach!". Sapete che cosa ha risposto Giacinto?

"Ero troppo giovane allora per trovarmi a Rossbach, ma non sono stato troppo vecchio per non essere poi presente a Jena". Il Prussiano filò via, senza ribattere.

- Quale destino - commentò Derville. - Ragazzo, è uscito dall'ospizio dei trovatelli; vecchio, viene a morire nell'ospizio dei mendicanti, dopo avere, nel lungo intervallo, aiutato Napoleone a conquistare l'Egitto e l'Europa. Sapete voi, amico mio - riprese Derville dopo lunga pausa - che esistono al mondo tre tipi di uomini, il prete, il medico e il magistrato i quali non possono nutrire molta stima per il prossimo? Forse per questo, vestono di nero: portano il lutto di tutte le virtù, di tutte le illusioni infrante. Ma il più sventurato è l'avvocato. Quando ci si rivolge al sacerdote è perché ci comanda il pentimento, il rimorso, la fede che riscalda ed eleva il sentimento; il sacerdote trova nella sua missione una gioia intima: egli purifica, assolve, riconcilia. Ma non è così per gli avvocati; davanti a noi si rinnovano le stesse colpe e nulla può prevenirle o purificarle. I nostri studi sono delle fogne senza possibilità di profilassi.

Quante infamie ho visto durante la mia lunga carriera! Ho assistito alla morte di un vecchio in un granaio dove era stato abbandonato dalle due figlie a cui aveva lasciato quarantamila franchi di rendita! Ho visto bruciare dei testamenti, delle madri spogliare d'ogni bene i loro figli, dei mariti rubare alle mogli, delle donne uccidere il marito sfruttando il sentimento e i sensi per renderlo folle o imbelle e godersi in pace la vita con un amante. Io ho visto delle madri che hanno favorito ogni vizio nel figlio di primo letto per sopprimerlo lentamente, a vantaggio di un altro, figlio dell'adulterio. Ma come posso elencarvi, descrivervi ciò che mi è toccato vedere... Ci sono troppi delitti contro i quali la giustizia è impotente. I romanzieri, con le loro trame, sono sempre al disotto della orribile realtà. Conoscerete tutto ciò, amico mio... Per quanto mi riguarda scelgo la vita di campagna, accanto a mia moglie. Provo un disgusto per la vita di città, per Parigi.

E Godeschal rispose: - Quante di queste miserie sono già capitate sotto i miei occhi!

 

Parigi, febbraio-marzo 1832