Honoré de Balzac
FACINO CANE
Nota: le parole tra virgolette sono in italiano nel testo.
Abitavo allora in una stradina - probabilmente non la conoscete Via Lesdiguière, che parte da Via Sant'Antonio, di fronte a una fontana vicino alla piazza della Bastiglia, e sbocca in via della Ciliegiaia. L'amore della scienza m'aveva ridotto in una soffitta in cui la notte studiavo; il giorno lo passavo in una biblioteca vicina, quella di Monsieur. Vivevo frugalmente, sottomesso a tutte le condizioni della vita monastica, così necessaria a chi lavora.
Quando era bel tempo, mi concedevo una passeggiata sul corso Bourdon. Una sola passione mi distraeva dalle mie abitudini di studioso; ma non era anch'essa uno studio? osservavo i costumi del sobborgo, i suoi abitanti e i loro caratteri. Vestito alla peggio come un operaio, indifferente al decoro, non suscitavo diffidenze; potevo unirmi ai loro gruppi, assistere ai loro contratti, alle loro discussioni di dopo il lavoro. L'osservazione era già in me diventata intuitiva, penetrava nell'anima senza trascurare il corpo; o piuttosto coglieva così bene i particolari esteriori, che procedeva subito oltre; mi rendeva capace di vivere la vita dell'individuo su cui si esercitava, permettendomi di sostituirmi a lui come il dervish delle Mille e una Notte assumeva il corpo e l'anima delle persone su cui pronunciava certe parole.
Quando, tra le undici e mezzanotte, incontravo un operaio che tornava con la moglie dall'Ambigu-Comique, mi divertivo a seguirli dal corso del Ponte dei Cavoli fino al corso Beaumarchais.
Parlavano della commedia che avevano vista; da un discorso all'altro, arrivavano alle loro faccende; la madre tirava per la mano il figlio, senza dar retta ai suoi lamenti e alle sue domande; contavano il danaro che dovevano riscuotere il giorno dopo, lo spendevano in venti modi differenti. Ed erano allora particolari di vita domestica, lamentele sul prezzo troppo alto delle patate, o sulla lunghezza dell'inverno e il rincaro delle formelle, rimproveri energici sul debito col fornaio; e poi discussioni che via via s'inasprivano, e in cui ciascuno rivelava con espressioni pittoresche il suo carattere. Ascoltandoli, aderivo alla loro vita, mi sentivo quasi addosso i loro cenci, e camminavo coi piedi nelle loro scarpe rotte; i loro desideri, i loro bisogni, tutto passava in me, e io in loro. Un sogno ad occhi aperti. Me la prendevo anch'io coi capi-officina tirannici, o coi cattivi clienti che li facevano andare e venire senza pagarli.
Dimenticare le mie abitudini, diventare per mezzo dell'esaltazione delle facoltà morali un altro personaggio, e poter ripetere il gioco a volontà, era la mia distrazione. A che cosa devo tale dono? E' una seconda vista? o una di quelle qualità il cui abuso potrebbe portare alla demenza? Non ho mai ricercato le cause di tale facoltà: la posseggo e me ne servo, ecco tutto. Vi dirò soltanto, che fin d'allora avevo decomposto gli elementi della massa eterogenea che si chiama popolo, che l'avevo analizzata in modo da poterne valutare i pregi e i difetti. Sapevo già di quale utilità sarebbe potuto essere quel sobborgo, vero vivaio di rivoluzioni, che contiene eroi, inventori, uomini ricchi di scienza pratica, bricconi, scellerati, virtù e vizi, tutti compressi dalla miseria, soffocati dalla necessità, annegati nel vino, logorati dai liquori. Non potreste immaginare quante avventure sciupate, quanti drammi dimenticati in quella città dolente. Quante cose orribili e quante belle! L'immaginazione non raggiungerà mai il vero che vi si nasconde e che nessuno può andare a scoprire; bisogna scendere troppo in basso per trovare le ammirevoli scene tragiche o comiche che sono i capolavori del caso. Non so come non ho ancora raccontato la storia che sto per dirvi, uno di quei racconti curiosi rimasti nel sacco da cui la memoria li tira fuori a capriccio, come numeri d'una lotteria: ne ho molti altri, egualmente strani, che restano ancora in fondo al sacco; ma verrà la loro volta, siatene certi.
Un giorno la mia donna di servizio, moglie d'un operaio, venne a pregarmi d'onorare della mia presenza le nozze d'una sua sorella.
Per darvi un'idea di quel che potevano essere quelle nozze, vi dirò che davo quaranta soldi al mese a quella povera creatura, che veniva tutte le mattine a rifarmi il letto, spolverarmi i vestiti, spazzare la camera, pulirmi le scarpe, e prepararmi la colazione; andava poi per tutto il resto della giornata a girare la manovella d'una macchina, e con questo duro mestiere guadagnava dieci soldi al giorno. Suo marito, ebanista, guadagnava quattro franchi. Ma, siccome avevano tre figli, potevano appena mangiare decentemente un pezzo di pane Non ho mai trovato probità più solida di quella di quell'uomo e di quella donna. Quando ebbi cambiato quartiere, per cinque anni, mamma Vaillant è venuta a farmi gli auguri per la mia festa portandomi dei fiori e delle arance, lei che non aveva mai dieci soldi d'avanzo. Non ho mai potuto darle più di dieci franchi, spesso presi in prestito per la circostanza. Questo può spiegare la mia promessa di andare al matrimonio: contavo di farmi un posticino nella gioia di quella povera gente.
Il pranzo, il ballo, tutto si svolse presso un vinaio di via Charenton al primo piano, in uno stanzone illuminato da lumi con riflettori di latta, tappezzato fino all'altezza delle tavole da una sudicia carta da parato, e lungo i cui muri correvano panche di legno. In quello stanzone, ottanta persone in abito festivo, con mazzi di fiori e nastri, tutte animate dallo spirito della Courtille, con la faccia infuocata, ballavano come se il mondo stesse per finire. Gli sposi si baciavano con soddisfazione di tutti, e si udivano degli eh! eh! degli ah! ah! faceti ma in realtà meno indecenti delle timide occhiate di certe giovinette bene educate. Tutta quella gente esprimeva una contentezza brutale che aveva qualcosa di comunicativo.
Ma né le fisionomie delle persone, né le nozze, né niente di quel mondo si riferisce alla mia storia. Tenete solo presente la bizzarria dell'ambiente. Figuratevi bene la bottega ignobile e dipinta in rosso, sentite l'odore del vino, ascoltate gli urli di gioia, restate proprio in quel sobborgo, in mezzo a quegli operai, a quei vecchi, a quelle povere donne che per una notte s'abbandonavano al piacere!
L'orchestra era composta da tre ciechi del Ricovero; il primo suonava il violino, il secondo il clarinetto, e il terzo il piffero. Tutti e tre pagati in blocco, sette franchi per tutta la notte. Per quel prezzo non c'era certo da aspettarsi né Rossini né Beethoven, suonavano quel che volevano e quel che potevano; nessuno faceva loro dei rimproveri, squisita delicatezza! La loro musica assaliva così brutalmente il timpano, che, dopo aver dato un'occhiata alla compagnia, guardai quel terzetto di ciechi, e fui subito disposto all'indulgenza quando ebbi vista la loro uniforme.
Gli artisti erano nel vano d'una finestra: per distinguere le loro fisionomie, bisognava dunque trovarsi vicino a loro: non ci capitai subito, ma, quando mi avvicinai, non so perché, tutto fu detto, il ballo nuziale e la musica sparirono, la mia curiosità fu eccitata al più alto grado, perché la mia anima passò nel corpo del suonatore di clarinetto. Il violino e il piffero avevano tutti e due delle facce banali, la nota faccia del cieco, piena di tensione, attenta e grave; ma quella del clarinetto era uno di quei fenomeni che fanno fermare di colpo l'artista e il filosofo.
Figuratevi la maschera in gesso di Dante, illuminata dalla luce rossastra della lampada Quinquet, e sormontata da una foresta di capelli d'un bianco argenteo. L'espressione amara e dolorosa di quella magnifica testa era resa più solenne dalla cecità, perché quegli occhi morti vivevano per il pensiero; ne usciva come una luce ardente, prodotta da un desiderio unico, incessante, energicamente inciso sopra una fronte convessa attraversata da rughe simili a filari di pietre d'un vecchio muro. Quel vecchio soffiava a caso nel suo strumento, senza fare la minima attenzione alla misura o alla musica, le sue dita s'alzavano e s'abbassavano, agitavano i vecchi tasti per un'abitudine macchinale; non si preoccupava affatto di far quel che in stile d'orchestra si chiama una "papera", quelli che ballavano non se ne accorgevano e neppure i due accoliti del mio Italiano; perché volevo che fosse un Italiano, ed era un Italiano. C'era qualche cosa di grande e di dispotico in quell'Omero che racchiudeva in sé un'Odissea condannata all'oblio. Una grandezza così reale che riusciva a trionfare dell'abiezione, un dispotismo così vivace che dominava la povertà. Nessuna delle passioni violente che conducono l'uomo al bene come al male, facendone un forzato o un eroe, mancava a quella testa dal taglio nobile, lividamente italiana, ombreggiata da sopracciglia grigiastre che proiettavano la loro ombra su cavità profonde in cui si tremava di veder riapparire la luce del pensiero, come si teme di veder balzare dalla bocca d'una caverna un brigante con torcia e pugnale. C'era un leone in quella prigione di carne, un leone la cui rabbia s'era inutilmente esaurita contro le sbarre di ferro. L'incendio della disperazione s'era spento nelle sue proprie ceneri, la lava s'era raffreddata; ma i solchi, lo sconvolgimento, un po' di fumo attestavano ancora la violenza dell'eruzione, lo sterminio del fuoco. Tali idee, destate in me dall'aspetto di quell'uomo, erano così calde nel mio animo quanto fredde sul suo volto.
Tra una contraddanza e l'altra, il violino e il piffero, seriamente occupati del loro bicchiere e della loro bottiglia, sospendevano il loro strumento al bottone della loro redingote rossastra, allungavano la mano sopra un tavolinetto collocato nel vano della finestra che era la loro cantina, e offrivano sempre all'Italiano un bicchiere pieno che egli non poteva prendere da sé, perché il tavolino si trovava dietro la sua sedia; ogni volta, il clarinetto ringraziava con un cenno amichevole della testa. I loro movimenti avevano quella precisione che meraviglia sempre nei ciechi del Ricovero, e che farebbe credere che vedono. Mi avvicinai ai tre ciechi per ascoltare quel che dicevano; ma, quando fui loro vicino, mi studiarono, senza dubbio non riconobbero in me un operaio, e se ne stettero zitti.
- Di dove siete, voi che suonate il clarinetto?
- Di Venezia - rispose il cieco con un leggero accento italiano - Siete nato cieco, o siete cieco per...
- Per disgrazia - rispose con vivacità - una maledetta gotta serena.
- Venezia è una bella città, ho sempre avuto desiderio di andarci.
La fisionomia del vecchio s'animò, le sue rughe s'agitarono, era violentemente commosso.
- Se vi accompagnassi io, non perdereste il vostro tempo.
- Non gli parlate di Venezia - mi disse il violino - o il doge comincerà i suoi soliti discorsi; senza dire che ha già due bottiglie in corpo, il principe!
- Su, avanti, papà Papera - disse il piffero.
Tutti e tre si misero a suonare; ma, nel tempo che misero a eseguire le quattro contraddanze, il veneziano mi fiutava, indovinava il grande interesse che sentivo per lui. La sua fisionomia perse la sua fredda espressione di tristezza; non so quale speranza rallegrò i suoi lineamenti, s'insinuò come una fiamma azzurra tra le sue rughe; sorrise, s'asciugò la fronte, quella fronte audace e sublime; insomma divenne allegro come un uomo che sale in groppa alla sua chimera.
- Quanti anni avete? - gli chiesi.
- Ottantadue!
- Da quanto tempo siete cieco?
- Da cinquant'anni fra poco - rispose con un accento che diceva che il suo rimpianto non riguardava soltanto la perdita della vista, ma qualche grande potenza di cui sarebbe stato spogliato.
- Perché vi chiamano il doge? - gli chiesi.
- Ah! uno scherzo - mi disse - sono patrizio veneziano e potevo esser doge come un altro.
- Ma come vi chiamate?
- Qui - mi disse - papà Canet. Il mio nome non l'hanno mai potuto scrivere altrimenti sui registri; ma in italiano "Marco Facino Cane, principe di Varese".
- Come? Discendete dal famoso condottiero Facino Cane le cui conquiste sono passate ai duchi di Milano?
- "E' vero" - mi disse. - In quel tempo, per non essere ammazzato dai Visconti, il figlio di Cane si rifugiò a Venezia e si fece inscrivere nel libro d'oro. Ma ora non c'è più né Cane né libro. - E fece un gesto spaventevole di patriottismo spento e di disgusto per le cose umane.
- Ma, se eravate senatore a Venezia, dovevate esser ricco; come avete potuto ridurvi così?
A questa domanda, alzò la testa verso di me, come per contemplarmi, con una mossa davvero tragica, e mi rispose: - Le disgrazie!
Non pensava più a bere, rifiutò con un gesto il bicchiere di vino che in quel momento gli porgeva il vecchio piffero, poi abbassò la testa. Tutto questo era fatto per eccitare ancor più la mia curiosità. Durante la contraddanza che quelle tre macchine suonavano, contemplai il vecchio nobile veneziano coi sentimenti che divorano un uomo di vent'anni. Vedevo Venezia e l'Adriatico, la vedevo in rovine su quel volto distrutto. Passeggiavo in quella città così cara ai suoi abitanti, andavo da Rialto al Canal Grande, dalla riva degli Schiavoni al Lido, tornavo alla sua cattedrale, così originalmente sublime, guardavo le finestre della Ca' d'Oro, ciascuna con ornamenti diversi, contemplavo i vecchi palazzi così ricchi di marmi, insomma tutte le meraviglie con le quali l'uomo istruito simpatizza tanto più in quanto se le colorisce a suo piacere, e non spoetizza i suoi sogni con la realtà. Risalivo il corso della vita di quel rampollo del più grande dei condottieri, cercandovi le tracce delle sue sventure e le cause di quella profonda degradazione fisica e morale, che rendeva ancora più belle le scintille di grandezza e di nobiltà rianimate in quel momento. Pensavamo senza dubbio le stesse cose; credo che la cecità rende le comunicazioni intellettuali molto più rapide, perché impedisce all'attenzione di disperdersi sugli oggetti esterni. La prova della nostra simpatia non si fece aspettare. Facino Cane smise di suonare, si alzò, venne a me e mi disse un: - Andiamo fuori! - che produsse su di me l'effetto d'una scossa elettrica. Gli diedi il braccio e ce ne andammo.
Quando fummo in strada, mi disse: - Volete portarmi a Venezia, guidarmi in essa, volete aver fiducia in me? sarete più ricco delle dieci case più ricche di Amsterdam o di Londra, più ricco dei Rotschild, insomma ricco come nelle Mille e una Notte.
Pensai che quell'uomo fosse pazzo; ma c'era nella sua voce una forza a cui obbedii. Mi lasciai condurre ed egli si avviò verso i fossati della Bastiglia come se avesse avuto degli occhi. Sedette sopra una pietra in un posto molto solitario dove fu dopo costruito il ponte per mezzo del quale il canale San Martino comunica con la Senna. Mi posi sopra un'altra pietra innanzi a quel vecchio i cui capelli bianchi brillarono come fili d'argento alla luce della luna. Il silenzio appena turbato dal brontolio tempestoso dei corsi che giungeva fino a noi, la purezza della notte, tutto contribuiva a rendere veramente fantastica quella scena.
- Voi parlate a un giovane di milioni, e credete che esiterebbe a soffrire mille mali per raccoglierli! Non vi burlate di me?
- Che io possa morire senza confessione - mi disse con violenza se ciò che sto per dirvi non è vero. Ho avuto anch'io vent'anni come voi li avete in questo momento, ero ricco, ero bello, ero nobile, ho cominciato con la prima delle pazzie, con l'amore. Ho amato come non si ama più, fino a mettermi in un cassone a rischio d'esservi pugnalato senza aver ricevuto altro che la promessa d'un bacio. Morire per LEI mi sembrava tutta una vita. Nel 1760 m'innamorai d'una Vendramini, una giovane di diciott'anni, maritata a un Sagredo, uno dei più ricchi senatori, che aveva trent'anni ed era pazzo della moglie. La mia innamorata e io eravamo innocenti come due cherubini, quando lo sposo ci sorprese a parlare d'amore; ero senz'armi, lui non mi colse, gli saltai addosso, lo strangolai con le mie mani torcendogli il collo come a un pollo. Volli partire con Bianca, essa non volle seguirmi. Ecco le donne! Me ne andai solo, fui condannato, i miei beni furono sequestrati a favore dei miei eredi; ma avevo portato con me i miei diamanti, cinque quadri del Tiziano arrotolati, e tutto il mio oro. Andai a Milano, dove non fui disturbato: la mia faccenda non era di Stato.
- Una piccola osservazione prima di andare avanti - disse dopo una pausa. - Che le fantasie d'una donna influiscano o no sul bambino mentre è incinta o quando lo concepisce, certo è che mia madre ebbe una passione per l'oro durante la sua gravidanza. Io ho per l'oro una monomania la cui soddisfazione è così necessaria alla mia vita, che in tutte le situazioni in cui mi sono trovato, non sono mai stato senza oro su di me; maneggio continuamente oro; da giovane portavo gioielli e avevo sempre su di me due o trecento ducati.
Dicendo queste parole, trasse di tasca due ducati e me li fece vedere.
- Io sento l'oro. Benché cieco, mi fermo davanti alle botteghe dei gioiellieri. Questa passione m'ha rovinato, perché sono diventato giocatore per giocare oro. Non baravo al gioco, fui truffato, mi rovinai. Quando non ebbi più nulla, fui preso dal bisogno di vedere Bianca: tornai segretamente a Venezia, la ritrovai, fui felice per sei mesi, nascosto in casa sua, nutrito da lei. Pensavo con delizia di finir così la mia vita. Essa era ricercata dal Provveditore; costui capì di avere un rivale: ci spiò, ci sorprese a letto, il vigliacco! Pensate se la nostra lotta fu accanita: non lo uccisi, lo ferii gravemente. Quest'avventura distrusse la mia felicità. Da quel giorno non ho più ritrovato Bianca. Ho goduto grandi piaceri, sono vissuto alla corte di Luigi Quindicesimo tra le donne più celebri; in nessun luogo ho trovato le qualità, le grazie, l'amore della mia cara veneziana. Il Provveditore aveva i suoi servi, li chiamò, il palazzo fu circondato, invaso; mi difesi per poter morire sotto gli occhi di Bianca che m'aiutava a uccidere il Provveditore. Un tempo quella donna non aveva voluto fuggire con me; ma, dopo sei mesi di felicità, voleva morire della mia morte, e ricevette parecchi colpi. Preso in un gran mantello che mi gettarono addosso, vi fui avvolto, portato in una gondola e trasportato in una segreta dei pozzi. Avevo ventidue anni, stringevo così forte il mozzicone della mia spada che per togliermelo avrebbero dovuto tagliarmi il polso. Per un caso strano o piuttosto ispirato da un'idea di precauzione, nascosi quel pezzo di ferro in un angolo, come se potesse servirmi. Fui curato. Nessuna delle mie ferite era mortale. A ventidue anni si guarisce di tutto. Dovevo morire decapitato, finsi d'essere malato per guadagnare tempo. Credevo di essere in una segreta vicina al canale, il mio progetto era di evadere forando il muro e attraversando a nuoto il canale, a rischio d'annegare. Ecco i ragionamenti su cui fondavo le mie speranze. Ogni volta che il carceriere mi portava da mangiare, potevo leggere delle indicazioni scritte sui muri: lato del palazzo, lato del canale, lato del sotterraneo, e finii per scorgere un piano del cui senso non mi curavo, ma che poteva spiegarsi con lo stato attuale del palazzo ducale che non è ancora terminato. Con la genialità che viene dal desiderio di recuperare la libertà, riuscii a decifrare, tastando con la punta delle dita la superficie d'una pietra, una iscrizione araba con cui l'autore di quel lavoro avvertiva i suoi successori di avere staccato due pietre dell'ultimo filare, e scavato undici piedi di sotterraneo. Per continuare la sua opera, si doveva spargere sul suolo stesso della segreta le particelle di pietra e di calcina prodotte dal lavoro di scavo. Se anche i guardiani o gli inquisitori non si fossero creduti sicuri per la costruzione dell'edificio che esigeva solo una sorveglianza esterna, la disposizione dei pozzi, a cui si giunge scendendo alcuni gradini, permetteva di rialzarne gradualmente il suolo senza che i guardiani se ne accorgessero. Quell'immenso lavoro era stato superfluo almeno per colui che lo aveva intrapreso, perché il fatto d'esser rimasto incompiuto annunciava la morte dello sconosciuto. Perché il suo sacrificio non andasse per sempre perduto, occorreva che un prigioniero conoscesse l'arabo; ma io avevo studiato le lingue orientali nel convento degli Armeni. Una frase scritta dietro la pietra diceva il destino di quel disgraziato, morto vittima delle sue immense ricchezze, che Venezia aveva desiderato e di cui s'era impadronita. Mi ci volle un mese per arrivare a un risultato. Mentre lavoravo, e nei momenti in cui la stanchezza m'annientava, sentivo il suono dell'oro, vedevo innanzi a me l'oro, ero abbagliato dai diamanti!
Oh! aspettate. Una notte, il mio acciaio spuntato incontrò il legno. Aguzzai il mio pezzo di spada, e feci un foro in quel legno. Per poter lavorare, strisciavo sul ventre come una serpe, mi mettevo nudo per far come le talpe, mettendo innanzi le mani e facendomi della pietra stessa un punto d'appoggio. Due giorni prima di quello in cui dovevo comparire davanti ai giudici, durante la notte, volli tentare un ultimo sforzo; forai il legno, e il mio ferro non trovò più resistenza oltre di esso. Figuratevi la mia sorpresa quando applicai gli occhi sul foro! Ero nello zoccolo d'un sotterraneo in cui una debole luce mi permetteva di scorgere un mucchio d'oro. Il doge e uno dei Dieci erano in quel sotterraneo, sentivo le loro voci; i loro discorsi mi fecero capire che quello era il tesoro segreto della Repubblica, i doni dei dogi, e le riserve del bottino chiamato il danaro di Venezia, e preso sul prodotto delle spedizioni. Ero salvo! Quando venne il carceriere, gli proposi di favorire la mia fuga e di fuggire con me portando con noi tutto quello che avremmo potuto prendere. Non c'era da esitare, accettò. Una nave faceva vela per il Levante, furono prese tutte le precauzioni, Bianca favorì le misure che dettai al mio complice. Per non dar sospetti, Bianca doveva raggiungerci a Smirne. In una notte il foro venne ingrandito, e noi scendemmo nel tesoro segreto di Venezia. Che notte! Ho visto quattro botti piene d'oro. Nella stanza precedente, l'argento era egualmente ammassato in due mucchi che lasciavano in mezzo un passaggio per attraversare la stanza in cui le monete disposte a scarpa lungo i muri arrivavano a cinque piedi di altezza. Credetti che il carceriere diventasse pazzo; cantava, saltava, rideva, ballava nell'oro; lo minacciai di strangolarlo se perdeva tempo o se faceva rumore. Nella sua gioia, non vide sulle prime la tavola su cui erano i diamanti. Mi gettai su di essi abbastanza abilmente per riempirne la mia giacca da marinaio e le tasche dei calzoni.
Dio mio! non ne presi nemmeno la terza parte. Sotto la tavola c'era oro in verghe. Persuasi il mio compagno di riempire d'oro quanti sacchi avremmo potuto portar via, facendogli osservare che era il solo modo di non venire scoperti all'estero. Le perle, i gioielli, i diamanti ci avrebbero fatto riconoscere, gli dissi. Ma quale che fosse la nostra avidità, non potemmo prendere che duemila libbre d'oro, che resero necessari sei viaggi attraverso la prigione fino alla gondola. La sentinella alla porta sull'acqua era stata guadagnata con un sacco di dieci libbre d'oro. Quanto ai due gondolieri, essi credevano di servire la Repubblica. Appena giorno, partimmo. Quando fummo in alto mare, e che mi ricordai della notte; quando mi ricordai le sensazioni che avevo provato, e rividi l'immenso tesoro dove, secondo i miei calcoli, lasciavo trenta milioni in argento e venti milioni in oro, parecchi milioni in diamanti, perle e rubini, fui preso da una specie di pazzia.
Ebbi la febbre dell'oro. Ci facemmo sbarcare a Smirne, e c'imbarcammo subito per la Francia. Mentre salivamo sul bastimento francese, Dio mi fece la grazia di sbarazzarmi del mio complice.
In quel momento non pensavo a tutta l'importanza di quell'errore del caso, di cui invece mi rallegrai molto. Eravamo così interamente prostrati che eravamo rimasti inebetiti, senza dirci niente, aspettando d'essere al sicuro per godere a nostro bell'agio. Non c'è da stupire se il cervello girò a quel briccone.
Vedrete come Dio ha punito me. Non mi sentii tranquillo se non quando ebbi venduto a Londra e ad Amsterdam i due terzi dei diamanti, e investita la mia polvere d'oro in valori commerciali.
Per cinque anni, mi nascosi a Madrid; poi, nel 1770, venni a Parigi con un nome spagnolo, e vi condussi la vita più brillante.
Bianca era morta. In mezzo alle mie voluttà, quando godevo d'una fortuna di sei milioni, fui colpito dalla cecità. Non dubito affatto che questa infermità non sia il risultato del mio soggiorno nella segreta, dei miei lavori nella pietra, se tuttavia la facoltà di veder l'oro non portava con sé un abuso della potenza visiva che mi predestinava a perdere la vista. In quel momento, amavo una donna a cui volevo legare il mio destino; le avevo detto il segreto del mio nome, essa apparteneva a una famiglia potente, speravo tutto dal favore che m'accordava Luigi Quindicesimo; avevo messo la mia fiducia in quella donna, che era amica di madame du Barry; essa mi consigliò di consultare un famoso oculista di Londra: ma, dopo qualche mese che eravamo in quella città, vi fui abbandonato da quella donna in Hyde-Park, mi aveva spogliato della mia fortuna senza lasciarmi nessuna risorsa; perché, costretto a nascondere il mio nome, che m'avrebbe esposto alla vendetta di Venezia, non potevo invocare l'assistenza di nessuno, avevo paura di Venezia. La mia infermità venne sfruttata dalle spie che quella donna mi aveva messo intorno. Vi risparmio avventure degne di Gil Blas. Sopravvenne la vostra Rivoluzione.
Fui costretto a entrare nel Ricovero, dove quella donna mi fece ammettere dopo avermi tenuto due anni a Bicêtre come pazzo; non ho potuto mai ucciderla, non ci vedevo, ed ero troppo povero per comprare un sicario. Se, prima di perdere Benedetto Carpi, il mio carceriere, lo avessi interrogato sulla situazione della mia segreta, avrei potuto ritrovare il tesoro e tornare a Venezia quando la Repubblica fu annientata da Napoleone. Pure, nonostante la mia cecità, andiamo a Venezia! Ritroverò la porta della mia prigione, vedrò l'oro attraverso i muri, lo sentirò sotto le acque dov'è nascosto, perché gli avvenimenti che hanno abbattuto la potenza di Venezia sono tali che il segreto di quel tesoro ha dovuto morire con Vendramin, il fratello di Bianca, un doge che, io lo speravo, mi avrebbe riconciliato coi Dieci. Ho inviato note al primo console, ho proposto un trattato all'imperatore d'Austria, tutti m'hanno trattato da pazzo! Venite, partiamo per Venezia, chiederemo l'elemosina per via, torneremo milionari; ricompreremo i miei beni, e voi sarete mio erede, sarete principe di Varese.
Sconvolto da quella confidenza, che nella mia immaginazione prendeva le proporzioni d'un poema, all'aspetto di quella testa bianca, e innanzi all'acqua nera dei fossati della Bastiglia, acqua stagnante come quella dei canali di Venezia, non risposi.
Facino Cane credette senza dubbio che lo giudicavo come gli altri, con pietà sdegnosa; ebbe un gesto che espresse tutta la filosofia della disperazione. Quel racconto lo aveva riportato forse ai suoi giorni felici a Venezia: prese il clarinetto e suonò malinconicamente una canzone veneziana, una barcarola per la quale ritrovò il suo talento d'un tempo, il suo talento di patrizio innamorato. Fu qualcosa come il SUPER FLUMINA BABYLONIS. Gli occhi mi si empirono di lacrime. Se qualche viandante attardato venne a passare lungo il corso Bourdon, si fermò senza dubbio per ascoltare l'ultima preghiera del bandito, l'ultimo rimpianto d'un nome perduto, a cui si univa il ricordo di Bianca. Ma l'oro riprese subito il vantaggio, e la fatale passione spense quel barlume di giovinezza.
- Il tesoro - mi disse - lo vedo sempre, quando son desto e quando sogno; vi passeggio in mezzo, i diamanti scintillano, non sono tanto cieco quanto credete: l'oro e i diamanti illuminano la mia notte, la notte dell'ultimo Facino Cane, perché il mio titolo passa ai Memmi. Dio mio! la punizione dell'omicida è cominciata presto! Ave Maria...
Recitò delle preghiere che non sentii.
- Andremo a Venezia - esclamai quando si alzò.
- Ho dunque trovato un uomo - esclamò, col volto in fiamme.
Lo ricondussi dandogli il braccio; mi strinse la mano alla porta del Ricovero, nel momento in cui qualcuno delle nozze tornava gridando a squarciagola.
- Partiremo domani? - disse il vecchio.
- Appena avremo un po' di danaro.
- Ma possiamo andare a piedi, io chiederò l'elemosina... Sono robusto e uno si sente giovane quando vede innanzi a sé dell'oro.
Facino Cane morì durante l'inverno dopo aver languito per due mesi. Il pover'uomo aveva una bronchite cronica.
Parigi, marzo 1836