Honoré de Balzac



PAPA' GORIOT

 

 

 

 

 

La signora Vauquer, nata de Conflans, è una vecchia donna che, da quarant'anni, conduce a Parigi una pensione familiare situata in via Neuve-Sainte-Geneviève, tra il quartiere latino e il sobborgo Saint-Marceau. La pensione, conosciuta sotto il nome di Casa Vauquer, accoglie senza distinzione uomini e donne, giovani e vecchi, senza che la maldicenza abbia mai potuto fare appunti alla moralità di questa rispettabile casa. Ma è pur vero che da trent'anni non ci si era mai veduta una persona giovane, e, se un giovane vi dimora, è perché la sua famiglia deve corrispondergli un ben magro mensile. Tuttavia, nel 1819, epoca in cui questo dramma ha inizio, vi si trovava una povera ragazza. Per quanto la parola dramma sia caduta in discredito per il modo abusivo e ingiusto col quale è stata prodigata in questi tempi di penosa letteratura, qui è necessario adoperarla; questa storia non è drammatica nel vero senso della parola, ma, al termine dell'opera, qualche lacrima potrà esser versata "intra muros" ed "extra". Sarà capita fuori di Parigi? E' permesso dubitarne. I particolari di questa vicenda piena d'osservazioni e di colori locali possono essere apprezzati solo fra le alture di Montmartre e quelle di Montrouge, in quella famosa valle di ruderi fatiscenti e di ruscelli neri di melma; valle colma di sofferenze reali, di gioie spesso false, e così tremendamente agitate, che occorre non so che cosa di eccessivo per produrvi una sensazione di qualche durata.

Tuttavia, ci si incontrano qua e là dolori che l'accumularsi dei vizi e delle virtù rende grandi e solenni; di fronte a essi, gli egoismi, gli interessi si arrestano e si fanno pietosi; ma l'impressione che ne ricevono è come un frutto saporoso presto divorato. Il carro della civiltà, simile a quello dell'idolo di Jaggernat, obbligato a rallentare di ben poco la corsa da un cuore meno degli altri facile a lasciarsi stritolare e a cui ostacoli la ruota, lo ha presto infranto e continua la sua marcia gloriosa.

Così farete voi, voi che tenete questo libro in una mano bianca, voi che ve ne state sprofondato in una morbida poltrona dicendovi:

Forse questo mi divertirà. Dopo aver letto le segrete infelicità di papà Goriot, pranzerete con appetito, imputando la vostra insensibilità all'autore, tacciandolo d'esagerazione, accusandolo di aver fatto della letteratura. Ah!, sappiatelo: questo dramma non è né una invenzione né un romanzo. "All-is-true", è così vero, che ognuno può riconoscerne gli elementi presso di sé, forse nel suo stesso cuore.

La casa in cui viene esercitata la pensione familiare è della signora Vauquer. E' situata nel tratto basso della via Neuve- Sainte-Geneviève, nel punto in cui il piano stradale digrada verso la via dell'Arbalète con un pendio così brusco e aspro, che i cavalli la salgono o la scendono di rado. Tal circostanza è favorevole al silenzio che regna in queste strade strette fra la cupola di Val-de-Grace e quella del Panthéon, due monumenti che fanno mutare le condizioni dell'atmosfera gettandovi toni gialli, tutto oscurando con le tinte severe proiettate dalle loro cupole.

Là, il selciato è arido, i rigagnoli non hanno né melma né acqua, l'erba cresce lungo i muri. L'uomo più spensierato vi si rattrista come ogni altro passante, il rumore di una carrozza è un avvenimento, le case sono tetre, le mura fanno pensare a una prigione. Un Parigino smarrito vedrebbe là solo pensioni familiari o istituti, miseria e noia, vecchiaia che muore, allegra gioventù costretta a lavorare. Nessun quartiere di Parigi è, più di questo, orribile e, diciamolo pure, più sconosciuto. La via Neuve-Sainte- Geneviève, soprattutto, è come una cornice di bronzo, la sola che convenga a questo racconto, per preparare la comprensione del quale non saranno mai troppi i colori foschi e le idee gravi; proprio come, di gradino in gradino, la luce diminuisce e la voce della guida si fa cavernosa quando il viaggiatore discende nelle Catacombe. Paragone esatto! Chi deciderà che cosa è più orribile a vedersi: cuori inariditi, o crani vuoti ?

La facciata della pensione dà su di un giardinetto, in modo che la casa forma un angolo retto con la via Neuve-Sainte-Geneviève, donde la vedete secondo il senso della profondità. Lungo la facciata tra la casa e il giardino corre un acciottolato a cunetta, largo una tesa, dinanzi al quale c'è un viale cosparso di ghiaia, fiancheggiato da gerani, da oleandri e da melograni piantati entro grandi vasi di maiolica blu e bianca. Si entra in questo viale da una porta sormontata da una targa su cui è scritto: CASA VAUQUER e sotto: "Pensione familiare per uomini, donne e altri". Durante il giorno, un cancello di legno, munito di un campanello dal suono stridente, lascia vedere, al termine del breve selciato, sul muro opposto alla strada, un'arcata dipinta in color marmo verde da un artigiano del quartiere. Sotto la prospettiva simulata da tale pittore si leva una statua che raffigura l'Amore. Guardando la vernice screpolata che la ricopre, gli amatori di simboli ci scoprirebbero forse un mito dell'amore parigino, che viene curato a qualche passo da lì. Sotto lo zoccolo, la seguente epigrafe mezzo cancellata ricorda il tempo a cui risale questo oggetto ornamentale, testimone dell'entusiasmo suscitato da Voltaire rientrato a Parigi nel 1777:

Chiunque tu sia, ecco il tuo maestro.

Lo è, lo fù, lo sarà.

Al cader della notte il cancello è sostituito da una porta. Il giardinetto, largo quanto è lunga la facciata, rimane incassato tra il muro della strada e il muro divisorio della casa vicina, lungo la quale pende un manto d'edera che la nasconde interamente e richiama gli occhi dei passanti per il suo effetto, in Parigi, pittoresco. Ognuna delle sue mura è tappezzata di spalliere e di viti, i cui frutti gracili e polverosi sono l'oggetto dei timori annuali della signora Vauquer e delle sue conversazioni coi pensionanti. Lungo ogni muro corre uno stretto viale che conduce a un luogo ombroso di tigli, parola che la signora Vauquer, benché nata de Conflans, pronuncia ostinatamente "tiglie" malgrado i rilievi grammaticali dei suoi ospiti. Tra i due viali laterali c'è un campo di carciofi, fiancheggiato da alberi da frutto tagliati in forma di conocchia e orlato d'acetosella, lattuga o prezzemolo.

Sotto i tigli c'è una tavola rotonda dipinta in verde, e alcune sedie intorno. Li, durante le giornate canicolari, i commensali abbastanza ricchi da permettersi di prendere il caffè, vanno a gustarlo, sotto un caldo capace di far schiudere le uova. La facciata, alta tre piani e sormontata da soffitte, è costruita in pietra e tinteggiata in quel color giallo che conferisce un carattere ignobile a quasi tutte le case di Parigi. Le cinque finestre d'ogni piano hanno piccoli vetri e sono guarnite di persiane nessuna delle quali è a filo con le altre, di modo che tutte le loro linee stonano reciprocamente. La profondità della casa comporta due finestre che, al pianterreno, sono ornate d'inferriate a grata. Dietro l'edificio c'è un cortile largo circa venti piedi, dove vivono in buon accordo maiali, galline, conigli, e in fondo al quale sorge una tettoia per il deposito della legna.

Tra questa e la finestra della cucina sta sospesa la dispensa, e sotto scolano le acque grasse dell'acquaio. Sulla via Neuve- Sainte-Geneviève, il cortile ha una porta stretta da cui la cuoca getta le immondizie di casa, pulendo la sentina a forza d'acqua, per evitare una pestilenza.

Il pianterreno, naturalmente destinato all'esercizio della pensione familiare, si compone di un primo vano che prende luce dalle due finestre che danno sulla strada e in cui si entra per una porta-finestra. Questa sala comunica con quella da pranzo, separata dalla cucina dalla tromba di una scala i gradini della quale sono di legno e di mattonelle colorate e lustrate. Nulla è più triste di questa sala, ammobiliata con poltrone e seggiole foderate di stoffa di crine a righe alternativamente opache e lucide. Al centro c'è una tavola rotonda con un piano di marmo Sant'Anna decorata da uno di quei vassoi di porcellana bianca filettata d'oro mezzo cancellato, che oggi si trovano dappertutto.

La stanza, pavimentata piuttosto male, è rivestita di legno ad altezza d'uomo. Il resto delle pareti è tappezzato con una carta da parato sulla quale sono raffigurati i principali fatti di Telemaco e i cui classici personaggi sono colorati. Il pannello tra le finestre a grate presenta ai pensionati il quadro del festino offerto al figlio d'Ulisse da Calipso. Da quarant'anni tale pittura provoca i motteggi dei giovani pensionanti, i quali si ritengono superiori alla loro posizione dileggiando il pranzo cui le ristrettezze li condannano. Il camino in pietra, con focolare sempre pulito, dimostrazione che il fuoco vi si accende solo nelle grandi occasioni, ha per ornamento due vasi pieni di fiori artificiali, stinti e pigiati, e una pendola di marmo bluastro di pessimo gusto. In questa prima sala si respira un cattivo odore indefinibile, che potrebbe esser chiamato "odor di pensione". Odore di rinchiuso, di muffa, di rancido; mette freddo, è umido al naso, penetra negli abiti; ha il tanfo di una sala dove si è mangiato; puzza di servitù, di dispensa, di ospizio. Forse potrebbe essere descritto se si trovasse un procedimento per analizzare le quantità elementari e nauseabonde immessevi dalle atmosfere catarrali e "sui generis" di ciascun pensionante, giovane o vecchio. Eppure, malgrado tali orrende volgarità, se paragonaste questa sala a quella da pranzo, che le è attigua, trovereste la prima elegante e profumata come uno spogliatoio per signora. La sala da pranzo, dalla parete interamente rivestita di legno, fu tinta un tempo d'un colore oggi indistinto, che forma un fondo su cui l'unto ha impresso i suoi strati in modo da disegnarvi figure bizzarre. Ai muri, credenze appiccicose sulle quali sono disposte caraffe sbeccate, appannate, tondi di metallo marezzato, pile di piatti di spessa porcellana, orlati di blu, fabbricati a Tournai. In un angolo c'è una scatola a caselle numerate che serve a tenere riposte le salviette, sporche e macchiate di vino, di ciascun pensionante. Vi si trovano poi quei mobili indistruttibili, ovunque proscritti, ma messi là come i resti della civiltà agli Incurabili. Vi vedrete un barometro col cappuccino che esce fuori quando piove, incisioni esecrabili da togliere l'appetito incorniciate in legno nero verniciato a filetti d'oro, una pendola di madreperla incrostata di rame, una stufa verde, lucerne d'Argand dove la polvere si combina con l'olio, una lunga tavola coperta d'incerata unta quanto basta perché un allegro studente in medicina "esterno" ci scriva il proprio nome servendosi del dito come di uno stilo, sedie zoppe, miserevoli piccole stuoie di sparto che si disfa sempre e non finisce mai, poi scaldini dai buchi rotti, dalle cerniere sconnesse, dove il legno si carbonizza. Per spiegare quanto questa mobilia è vecchia, screpolata, tarlata, tremolante, logora, monca, orba, invalida, spirante, se ne dovrebbe fare una descrizione che ritarderebbe troppo l'interesse di questa storia e che i lettori che hanno fretta non perdonerebbero. Il pavimento, rosso, è pieno di avvallamenti prodotti dallo strofinio o dalle riverniciature.

Insomma, là regna la miseria senza poesia; una miseria economa, concentrata, consunta. Se non è ancora infangata, è per lo meno macchiata; se non ha né buchi né stracci, sta per andare in putrefazione.

Questa stanza è in tutto il suo splendore nel momento in cui, verso le sette del mattino, il gatto della signora Vauquer precede la sua padrona; salta sulle credenze, vi annusa il latte contenuto in varie tazze coperte dal piattino, e fa sentire il suo ronron mattinale. Subito dopo appare la vedova, agghindata con la sua cuffia di tulle sotto la quale pende un giro di capelli finti, in disordine; essa cammina trascinando le sue pantofole raggrinzite.

Il viso vecchiotto, grassottello, dal mezzo del quale esce un naso a becco di pappagallo, le piccole mani paffutelle, il personale grassoccio come un "topo di chiesa", il seno troppo pieno e ondeggiante, sono in armonia con la sala che trasuda l'infelicità, dove s'è rannicchiata la speculazione e di cui la signora Vauquer respira l'aria calda e fetida senza esserne disgustata. Il viso fresco come una prima gelata d'autunno, gli occhi pieni di rughe, l'espressione dei quali passa dal sorriso prescritto alle ballerine all'amaro cipiglio dell'esattore, insomma tutta la sua persona spiega la pensione come la pensione implica la sua persona. Il bagno penale non può non avere l'aguzzino, non potreste immaginarvi l'uno senza l'altro. La pinguedine pallida di questa piccola donna è il prodotto di questa vita, come il tifo è la conseguenza delle esalazioni d'un ospedale. La sua sottana di lana a maglia, più lunga della gonna ricavata da un abito vecchio e la cui imbottitura esce dalle fenditure della stoffa scucita, compendia il salotto, la sala da pranzo, il giardinetto, annuncia la cucina e fa presentire i pensionanti. Quando lei è là, lo spettacolo è completo. Di circa cinquant'anni, la signora Vauquer somiglia a TUTTE LE DONNE CHE HANNO SUBITO DISGRAZIE. Ha l'occhio vitreo, l'aria innocente di una mezzana che fa la difficile per farsi pagare di più, ma invece disposta a tutto per addolcire la sua sorte, a dar nelle mani della giustizia Giorgio o Pichegru, se Giorgio o Pichegru dovessero ancora essere arrestati. Tuttavia, è "in fondo una buona donna", dicono i pensionanti, che la ritengono una disgraziata, sentendola gemere e tossire come loro. Chi era stato il signor Vauquer? Lei non dava mai particolari sul defunto.

In che modo aveva perduto i suoi averi? Con le disgrazie, rispondeva. Si era mal comportato verso di lei, non le aveva lasciato che gli occhi per piangere, quella casa per vivere, e il diritto di non compatire nessuna sfortuna perché, diceva lei, aveva sofferto tutto quel che è possibile soffrire. Al sentir trotterellare la padrona, la grossa Silvia, la cuoca, si affrettava a servire la colazione ai pensionanti "interni".

Generalmente i pensionanti "esterni" si abbonavano solo al pranzo, che costava trenta franchi al mese. All'epoca in cui questa storia comincia, gli interni erano sette. Al primo piano si trovavano i due migliori appartamenti della casa. La signora Vauquer abitava quello più modesto, e l'altro era occupato dalla signora Couture, vedova di un ufficiale di commissariato della Repubblica francese.

Essa aveva con sé una giovinetta, Vittorina Taillefer, cui faceva da madre. La pensione delle due ammontava a milleottocento franchi. I due appartamenti del secondo piano erano occupati l'uno da un vecchio di nome Poiret, l'altro da un uomo di circa quarant'anni, che portava una parrucca nera, si tingeva i favoriti, diceva di essere stato un negoziante, e si chiamava signor Vautrin. Il terzo piano si componeva di quattro stanze, di cui due affittate, l'una a una vecchia zitella chiamata signorina Michonneau, l'altra a un antico fabbricante di vermicelli, di altre paste alimentari e di amido, che si faceva chiamare familiarmente papà Goriot. Le due altre stanze erano destinate agli uccelli di passo, a quegli sfortunati studenti i quali, come papà Goriot e la signorina Michonneau, potevano spendere soltanto quarantacinque franchi al mese per il vitto e l'alloggio; ma la signora Vauquer gradiva poco la loro presenza e li accettava solo quando non trovava di meglio; mangiavano troppo pane. In quel momento, l'una delle due stanze era occupata da un giovane venuto dai dintorni d'Angoulème a Parigi per compiere gli studi di legge, e la cui numerosa famiglia si sobbarcava alle più dure privazioni per mandargli milleduecento franchi l'anno. Eugenio de Rastignac, così egli si chiamava, era uno di quei giovani formati al lavoro dalla sfortuna, che si rendono conto delle speranze riposte in loro dai genitori, e che si preparano una buona sorte calcolando già l'importanza dei loro studi, e adattandoli in anticipo allo sviluppo futuro della società, al fine di essere i primi a sfruttarla. Senza le sue osservazioni originali e l'abilità con la quale seppe presentarsi nei salotti dl Parigi, questo racconto non sarebbe stato colorato coi toni esatti dovuti indubbiamente al suo spirito sagace e al suo desiderio di penetrare nei misteri di una situazione spaventevole accuratamente nascosta così da coloro che l'avevano creata come da chi la subiva Al di sopra del terzo piano c'erano un solaio per stendere la biancheria e due soffitte, ove dormivano un uomo di fatica, Cristoforo e la grossa Silvia, la cuoca. Oltre i sette pensionanti interni, la signora Vauquer aveva, in media ogni anno, otto studenti in legge o in medicina, e due o tre clienti dimoranti nel quartiere, tutti abbonati solamente al pranzo. La sala accoglieva a pranzo diciotto persone, e poteva contenerne una ventina; ma, la mattina, non vi si trovavano che sette ospiti, il cui insieme dava, durante la colazione, l'aspetto di un pasto in famiglia.

Ognuno scendeva in pantofole, si permetteva osservazioni confidenziali sul modo di vestire o sull'aria degli esterni, o sui fatti della sera precedente, esprimendosi con la confidenza propria dell'intimità. I sette pensionanti erano i beniamini della signora Vauquer, che distribuiva loro, con una precisione da astronomo, le premure e i riguardi, secondo la cifra della loro retta. Un identico motivo affliggeva questi esseri riuniti dal caso. I due locatari del secondo piano pagavano solo settantadue franchi al mese. Un prezzo così conveniente che non si può trovar altro che nel sobborgo Saint-Marceau, tra la Bourbe e la Salpêtrière, e al quale soltanto la signora Couture faceva eccezione, dice già che quei pensionanti dovevano essere sotto il peso di disgrazie più o meno evidenti. Perciò lo spettacolo desolante offerto dall'interno della casa si ripeteva negli abiti dei suoi frequentatori tutti egualmente frusti. Gli uomini portavano finanziere il cui colore era divenuto problematico, calzature di quelle che si gettano all'angolo dei paracarri nei quartieri eleganti; biancheria lisa, vestiti ai quali non era rimasta che l'anima. Le donne avevano abiti passati di moda, ritinti, stinti, vecchi merletti rammendati, guanti lucidi per l'uso, collarini avvampati e scialletti ragnati. Se tali erano gli abiti, quasi tutti mettevano in mostra corpi solidamente squadrati, costituzioni che avevano resistito alle tempeste della vita, facce fredde, dure, logore, come quelle degli scudi fuori corso. Le bocche appassite erano armate di denti avidi. Tali pensionanti facevano presentire drammi conclusi o in atto; non quei drammi rappresentati alla luce della ribalta, fra tele dipinte, ma drammi vivi e muti, drammi gelidi che agitavano e riscaldavano il cuore, drammi ininterrotti.

La vecchia signorina Michonneau aveva sui suoi occhi stanchi una sudicia visiera di taffetà verde, cerchiata con un filo d'ottone che avrebbe spaventato l'angelo della Pietà. Il suo scialle a frange magre e lacrimevoli sembrava coprisse uno scheletro, tanto le forme che ne trasparivano erano angolose. Quale acido aveva corroso le forme femminili di questa creatura? Eppure doveva essere stata graziosa e ben fatta. Era stato il vizio, il dolore, la cupidigia? Aveva troppo amato, era stata una rigattiera, o soltanto cortigiana? Espiava i trionfi di una giovinezza insolente, dinanzi alla quale s'erano avventati i piaceri, con una vecchiezza rifuggita dai passanti? Il suo sguardo bianco dava il freddo, il suo viso rattratto minacciava. Aveva il verso aspro d'una cicala che grida nel suo cespuglio all'approssimarsi dell'inverno. Diceva di aver preso cura d'un vecchio signore malato di catarro alla vescica e abbandonato dai figli che lo ritenevano povero. Il vecchio le aveva lasciato un legato di mille franchi di rendita vitalizia, periodicamente contestati dagli eredi, alle calunnie dei quali si trovava esposta. Sebbene il gioco delle passioni avesse devastato il suo viso, vi si trovavano ancora alcune tracce di una bianchezza e di una finezza di pelle le quali lasciavano supporre che il corpo conservasse qualche resto di bellezza.

Il signor Poiret era una specie di essere meccanico. Nel vederlo allungarsi come un'ombra grigia lungo un viale del Jardin des Plantes, la testa coperta da un berretto floscio, reggendo appena, in mano, il bastone dal pomo d'avorio, lasciando svolazzare le falde sciupate della finanziera che mal nascondeva i pantaloni quasi vuoti e le gambe ricoperte da calze blu che tremolavano come quelle d'un ebbro, mostrando il panciotto d'un bianco sporco e la gala di rozza mussolina spiegazzata che si univa imperfettamente alla cravatta attorcigliata intorno a un collo di tacchino, molti si domandavano se quell'ombra cinese appartenesse o no alla razza audace dei figli di Jafet sfarfalleggianti sul Boulevard Italien.

Quale lavoro aveva potuto rattrappirlo così? Quale passione aveva reso color del bistro la sua faccia bulbosa che, disegnata in caricatura, sarebbe sembrata fuori della realtà? Che cosa mai egli era stato? Ma, forse, era stato impiegato al ministero della giustizia, presso l'ufficio dove i carnefici mandano i conti delle loro spese, le fatture dei veli neri per i parricidi, della crusca per i cesti della ghigliottina, della funicella per le mannaie.

Forse era stato ricevitore alla porta d'un mattatoio, o vice- ispettore di sanità. Insomma, quest'uomo sembrava essere stato uno degli asini del nostro grande mulino sociale, uno di quei Ratons parigini che non conoscono neppure i loro Bertrands, uno di quei perni su cui avevano girato gli infortuni o le sozzure pubbliche, infine uno di quegli uomini dei quali diciamo, al vederli: "Eppure sono necessari anche loro". La Parigi elegante ignora queste facce pallide per le sofferenze morali o fisiche. Ma Parigi è un vero oceano. Gettateci uno scandaglio, non ne conoscerete mai la profondità. Percorretelo, descrivetelo; per quanta cura poniate nel percorrerlo, nel descriverlo, per quanto numerosi e interessati siano gli esploratori di questo mare, vi si troverà sempre un luogo vergine, un antro sconosciuto, fiori, perle, mostri, qualcosa d'inaudito, d'obliato dai palombari letterari. La casa Vauquer è una di queste mostruosità curiose.

Due figure vi formavano un contrasto sorprendente con il resto dei pensionanti e degli abbonati. Sebbene la signorina Vittorina Taillefer fosse di un pallore malsano simile a quello delle giovinette clorotiche, e armonizzasse con la sofferenza comune che costituiva lo sfondo del quadro per una tristezza abituale, per il contegno imbarazzato, per l'aspetto povero e gracile, tuttavia il suo viso non era vecchio, le sue movenze e la sua voce erano agili. Quella giovanile sventura somigliava a un arbusto dalle foglie ingiallite, da poco piantato in un terreno inadatto. La fisionomia rossastra, i capelli d'un biondo fulvo, la vita troppo sottile esprimevano quella grazia che i poeti moderni trovavano nelle statuine del medioevo. Gli occhi grigi e neri esprimevano una dolcezza e una rassegnazione cristiane. I vestiti semplici, di poco prezzo, rivelavano forme giovanili. Era graziosa per giustapposizione. Felice, sarebbe stata incantevole; la felicità è la poesia delle donne, come la toletta ne è il belletto. Se la gioia d'un ballo avesse riflesso le sue tinte rosee su quel pallido viso; se le dolcezze d'una vita elegante avessero riempito, avessero invermigliato quelle gote già lievemente scavate; se l'amore avesse rianimato quegli occhi tristi, Vittorina avrebbe potuto gareggiare con le più belle giovinette.

Le mancava ciò che crea una seconda volta la donna: le gale e i biglietti amorosi. La sua storia avrebbe fornito il soggetto di un libro. Il padre credeva di avere le sue buone ragioni per non riconoscerla, si rifiutava di tenerla con sé, le corrispondeva solo seicento franchi all'anno, e aveva alterato il proprio patrimonio per poterlo trasmettere interamente al figlio. Parente lontana della madre di Vittorina che era andata a morire di dispiacere presso di lei, la signora Couture aveva cura dell'orfana come di una sua figlia. Disgraziatamente, la vedova dell'ufficiale di commissariato della Repubblica possedeva soltanto l'assegno vedovile e la pensione; e poteva lasciare un giorno la povera ragazza senza esperienza e senza risorse di fortuna, in balìa del mondo. La buona donna conduceva Vittorina alla messa tutte le domeniche, a confessarsi ogni quindici giorni, per farne ad ogni modo una ragazza devota. E aveva ragione. I sentimenti religiosi aprivano un avvenire a questa figlia non riconosciuta che amava suo padre, che ogni anno s'incamminava verso di lui per recargli il perdono di sua madre; ma che ogni anno urtava contro la porta della casa paterna, inesorabilmente chiusa. Il fratello, suo unico mediatore, non era venuto a trovarla neppure una volta in quattro anni, e non le inviava alcun aiuto. Lei supplicava Iddio di aprire gli occhi a suo padre, d'intenerire il cuore del fratello, e pregava per loro senza incolparli. La signora Couture e la signora Vauquer non trovavano parole sufficienti nel dizionario delle ingiurie per qualificare un tal barbaro modo di procedere. Quando maledivano l'infame milionario, Vittorina pronunciava dolci parole, simili al canto del colombo ferito, il cui grido di dolore esprime ancor l'amore.

Eugenio de Rastignac aveva un viso tipicamente meridionale, carnagione bianca, capelli neri, occhi blu. Il suo garbo, i suoi modi, il suo contegno abituale denotavano il figlio di una famiglia nobile, in cui la prima educazione non aveva comportato che tradizioni di buon gusto. Se teneva da conto gli abiti, se normalmente finiva di consumare quelli dell'anno precedente, tuttavia poteva uscire qualche volta vestito come un giovane elegante. Di solito portava una vecchia finanziera, un brutto panciotto, la brutta cravatta nera, sciupata, male annodata di tutti gli studenti, un paio di pantaloni intonati col resto, e stivaletti risuolati.

Tra questi due personaggi e gli altri, Vautrin, l'uomo di quarant'anni, dai favoriti tinti, serviva di transizione. Era uno di quei tipi a proposito dei quali il popolo dice: Ecco un uomo in gamba! Aveva le spalle larghe, il busto ben sviluppato, i muscoli in mostra, le mani grosse, quadrate e fortemente marcate alle falangi da ciuffetti di peli folti e di un rosso acceso. La faccia, rigata da rughe premature, presentava segni di durezza che smentivano le maniere affabili e compiacenti. La sua voce baritonale, in armonia con la sua grossolana gaiezza, non dispiaceva. Era gentile e ridanciano. Se qualche serratura non andava, rapidamente la smontava, la raccomodava, la oliava, la limava e, dopo averla rimontata, diceva: "Questa mi conosce".

Egli, del resto, conosceva tutto: le navi, il mare, la Francia, l'estero, gli uomini, gli avvenimenti, le leggi, gli alberghi, e le prigioni. Se c'era qualcuno che si lamentava troppo, gli offriva subito i suoi servigi. Aveva prestato varie volte denaro alla signora Vauquer e a qualche altro pensionante, ma i debitori sarebbero morti piuttosto che non restituirglielo, tanto, malgrado la sua aria di bonuomo, incuteva timore per un certo sguardo profondo e risoluto. Il modo con cui sprizzava un getto di saliva annunciava un sangue freddo imperturbabile che non doveva farlo indietreggiare dinanzi a un delitto pur di uscire da una posizione difficile. Come quello di un giudice severo, il suo occhio sembrava andare in fondo a tutte le questioni, a tutte le coscienze, a tutti i sentimenti. Le sue abitudini consistevano nell'uscire dopo colazione, nel rientrare per il pranzo, nello star fuori tutta la sera e nel tornare verso la mezzanotte, con l'aiuto di una CHIAVE COMUNE affidatagli dalla signora Vauquer.

Lui solo godeva d'un tale favore. Ma era anche lui che meglio trattava la vedova, e la chiamava: mamma, prendendola per la VITA, adulazione poco apprezzata! La buona donna credeva che la cosa fosse ancora facile, mentre invece dipendeva solo da Vautrin, il quale aveva le braccia abbastanza lunghe per stringere quella pesante circonferenza. Un aspetto del suo carattere consisteva nel pagare generosamente quindici franchi al mese per il "gloria" che prendeva alla fine del pranzo. Persone meno superficiali di quanto non lo fossero quei giovani travolti dai turbini della vita parigina, o quei vecchi indifferenti a ciò che non li riguardasse direttamente, non si sarebbero fermate all'impressione dubbia che causava loro Vautrin. Egli sapeva o indovinava le cose di coloro che gli erano vicini, mentre nessuno poteva conoscere né i suoi pensieri né le sue occupazioni. Sebbene avesse posto la sua apparente bonomia, la sua costante compiacenza e la sua allegria come una barricata tra gli altri e lui, spesso lasciava trasparire la spaventevole profondità del suo carattere. Spesso una battuta degna di Giovenale, con la quale sembrava si compiacesse a beffare le leggi, a sferzare l'alta società, a convincerla della propria incongruenza, doveva far supporre che egli nutrisse un rancore verso la condizione sociale e che ci fosse in fondo alla sua vita un mistero accuratamente nascosto.

Attratta, forse inconsapevolmente, dalla forza dell'uno o dalla avvenenza dell'altro, la signorina Taillefer distribuiva i suoi sguardi furtivi, i suoi pensieri segreti, tra quel quadragenario e il giovane studente; ma nessuno dei due sembrava pensare a lei, quantunque da un giorno all'altro il caso avrebbe potuto mutare la sua situazione e farla diventare un ricco partito. Del resto nessuna di quelle persone si dava la pena di verificare se i guai addotti da una di esse fossero veri o falsi. Ognuno aveva per l'altro una indifferenza mista di diffidenza, risultante dalle rispettive situazioni. Si sapevano impotenti a consolare le loro pene, e tutti, nel raccontarsele, avevano vuotato la coppa del compatimento. Simili a vecchi coniugi, non avevano più niente da dirsi. Non restavano dunque tra loro che i rapporti di una vita meccanica, il gioco di un ingranaggio senza olio. Tutti dovevano tirar diritto per la via dinanzi a un cieco, ascoltare senza emozione il racconto di una disgrazia, e vedere nella morte la soluzione di un problema di miseria che li rendeva freddi di fronte alla più tremenda agonia. La più felice di queste anime desolate era la signora Vauquer, che troneggiava in quel libero ospizio. Per lei sola quel piccolo giardino, reso vasto come una steppa dal silenzio e dal freddo, dal secco e dall'umido, era un ridente boschetto. Per lei sola quella casa gialla e tetra, che sapeva di verderame come un banco di negozio, presentava qualche delizia. Quelle celle le appartenevano. Essa nutriva quei galeotti condannati a pene perpetue, esercitando su di essi una autorità rispettata. In quale altro posto quei poveri esseri avrebbero trovato, a Parigi, al prezzo cui lei li dava, alimenti sani, sufficienti, e un appartamento che essi erano padroni di far diventare, se non elegante o comodo, almeno pulito e salubre? Se lei si fosse permessa di commettere un'ingiustizia palese, la vittima l'avrebbe sopportata senza lamentarsene.

Un aggregato simile doveva presentare e presentava in piccolo gli elementi d'una società completa. Tra i diciotto commensali si trovava, come nei collegi, come dappertutto, una povera creatura abbandonata, una vittima su cui fioccavano gli scherzi. Al principio del secondo anno, questa figura divenne per Eugenio de Rastignac la più saliente fra tutte quelle in mezzo a cui era condannato a vivere ancora per due anni. Questo "Patirai" era l'antico vermicellaio, papà Goriot, sul quale un pittore, come lo storico, avrebbe fatto cadere tutta la luce del quadro. Per quale motivo questo sprezzo semiastioso, questa persecuzione mista di pietà, questa mancanza di rispetto verso la sfortuna avevano colpito il più anziano pensionante? Era stato forse lui a provocarli con alcune di quelle ridicolezze o di quelle bizzarrie che meno facilmente si perdonano dei vizi? Tali quesiti riguardano da vicino non poche ingiustizie sociali. Forse è proprio della natura umana il far sopportar tutto a chi tutto soffre per vera umiltà, per debolezza o per indifferenza. Non piace forse a tutti noi di provare la nostra forza a spese di qualcuno o di qualcosa?

L'essere più debole, il monello suona a tutte le porte quando gela, o si arrampica per scrivere il suo nome su d'un incontaminato monumento.

Papà Goriot, vecchio di sessantanove anni circa, si era ritirato presso la signora Vauquer nel 1813, dopo aver lasciato gli affari.

Aveva preso in un primo tempo l'appartamento occupato dalla signora Couture, e pagava allora milleduecento franchi di pensione; e, per lui, cinque luigi di più o di meno erano una bagattella. La signora Vauquer aveva rimesso a nuovo le tre camere dell'appartamento facendosi corrispondere un anticipo che servì a pagare, si dice, un cattivo mobilio composto di tende in "calicò" giallo, di poltrone in legno verniciato foderate di velluto d'Utrecht, alcune verniciature a colla e carte da parati rifiutate dalle osterie dei sobborghi. Forse la noncurante generosità nel lasciarsi gabbare dimostrata da papà Goriot, che a quell'epoca era rispettosamente chiamato signor Goriot, lo fece prendere per un imbecille, senza nessuna pratica degli affari. Goriot arrivò con un guardaroba ben fornito, il corredo magnifico del negoziante che non si priva di nulla ritirandosi dal commercio. La signora Vauquer aveva ammirato diciotto sue camicie di mezza tela d'Olanda, la cui finezza era tanto più notevole in quanto il vermicellaio portava sulla gala fissa due spille unite da una catenina, ognuna delle quali era montata con un grosso diamante.

Abitualmente vestito con un abito color blu chiaro, portava ogni giorno un panciotto di picchè bianco sotto il quale fluttuava il suo ventre a pera e prominente, che faceva ballonzare una pesante catena d'oro guarnita di ciondoli. La sua tabacchiera, anch'essa d'oro, conteneva un medaglione pieno di capelli che lo rendevano in apparenza colpevole di qualche fortunata avventura. Quando la sua ospite l'accusò di essere un "galentin", lasciò errare sulle labbra il gaio sorriso del borghese lusingato nel suo debole. I suoi "armaddi" (pronunciava questa parola al modo del popolo minuto) furono riempiti dall'abbondante sua argenteria di famiglia. Gli occhi della vedova si accesero quando l'aiutò compiacentemente a cavare fuori e e mettere a posto i ramaiuoli, i cucchiai da salsa, le posate, le oliere, le salsiere, numerosi piatti, i servizi in argento dorato da colazione, infine pezzi più o meno belli pesanti qualche libbra, e di cui egli non voleva disfarsi. Quei regali gli ricordavano le feste della sua vita domestica. "Questo", disse alla signora Vauquer tenendo un piatto e una piccola tazza il cui coperchio rappresentava due tortorelle che si beccavano, "è il primo regalo fattomi da mia moglie nell'anniversario del nostro matrimonio. Povera donna! Lo aveva acquistato con le sue economie quand'era ancora ragazza. Vedete, signora: preferirei dover grattare la terra con le mie unghie piuttosto che separarmene. Grazie a Dio potrò prendere in questa tazza il caffè tutte le mattine durante il resto dei miei giorni.

Non sono da compiangere; ho di che vivere agiatamente per molto tempo". E poi la signora Vauquer aveva visto, col suo occhio di gazza, alcuni titoli del debito pubblico che, approssimativamente addizionati, potevano assicurare all'ottimo Goriot una rendita di circa otto o diecimila franchi. Da quel giorno, la signora Vauquer, nata de Conflans, che aveva allora quarantotto anni effettivi ma non ne accettava che trentanove, cominciò a nutrire qualche idea. Sebbene il lacrimatoio degli occhi di Goriot fosse rivoltato, gonfio, pendente, il che lo obbligava ad asciugarseli di frequente, essa lo trovò di aspetto piacente e perbene. Del resto i suoi polpacci carnosi, prominenti, pronosticavano, quanto il suo lungo naso robusto, qualità morali cui la vedova sembrava tenesse e confermate dalla faccia lunare e ingenuamente sciocca del bonuomo. Doveva essere un animale solidamente costruito, capace di dissipare tutto il suo spirito in sentimento. I suoi capelli ad ala di piccione, che il barbiere del Politecnico gli incipriava tutte le mattine, disegnavano cinque punte sulla sua bassa fronte e decoravano bene il suo viso. Quantunque un poco grossolano, era così azzimato, prendeva così signorilmente il tabacco, lo aspirava da uomo così sicuro di avere sempre la tabacchiera piena di macubino, che il giorno in cui il signor Goriot prese stanza presso di lei, la signora Vauquer si coricò quella sera crogiolandosi come una pernice nel lardello, al fuoco del desiderio che la colse di abbandonare il sudario di Vauquer per rinascere in Goriot. Maritarsi, vendere la pensione, andar sotto braccio a quel fior fiore di borghesia, diventare una signora distinta nel quartiere, raccogliervi la questua pei poveri, fare gite domenicali a Choisy, Soissy, Gentilly; andare a teatro come desiderava, in palco, senza attendere i biglietti di favore che taluno dei pensionanti le offriva nel mese di luglio; ella sognò tutto l'Eldorado delle modeste famiglie parigine. Non aveva confidato a nessuno di possedere quarantamila franchi messi da parte soldo per soldo. Certamente si riteneva, dal punto di vista della ricchezza, un partito conveniente. "Quanto al resto, valgo bene il bonuomo" disse rivoltandosi nel letto, come per dimostrare a se stessa delle grazie che la grossa Silvia trovava ogni mattino modellate a fondo. Da quel giorno, per circa tre mesi, la vedova Vauquer approfittò del barbiere del signor Goriot, e fece qualche spesa per la toletta, con la scusa che era necessario dare alla casa un certo decoro in armonia con le persone così rispettabili che la frequentavano. Si preoccupò molto di mutare i pensionanti, allegando la pretesa di non accettare ormai che persone distinte sotto ogni riguardo. Se si presentava un forestiero, gli vantava la preferenza che il signor Goriot, uno dei commercianti più in vista e più stimati di Parigi, le aveva accordato. Distribuì dei cartoncini, in cima ai quali si leggeva:

"Casa Vauquer". "Era, diceva lo stampato, una delle più antiche e più stimate pensioni borghesi del quartiere latino. Con una vista piacevolissima sulla vallata dei Gobelins (la si scorgeva dal terzo piano), e un GRAZIOSO giardino, all'estremità del quale CORREVA UN VIALE di tigli". Vi si parlava dell'aria buona e della tranquillità. Quel cartoncino le procurò la contessa de l'Ambermesnil, una donna di trentasei anni, che attendeva la fine della liquidazione e la corresponsione d'una pensione spettantele quale vedova di un generale morto "sui" campi di battaglia. La signora Vauquer curò la tavola, fece accendere il fuoco nelle sale per circa sei mesi, e mantenne così bene le promesse dell'avviso, da rimetterci del suo. Perciò la contessa diceva alla signora Vauquer, chiamandola "cara amica", che le avrebbe procurato la baronessa de Vaumerland e la vedova del colonnello conte Picquoiseau, due amiche le quali attendevano la scadenza del loro impegno in una pensione situata al Marais, più cara della casa Vauquer. Le due signore avrebbero goduto di una sistemazione economica molto buona non appena gli Uffici del ministero della Guerra avessero perfezionato le relative pratiche. "Ma", lei diceva, "gli Uffici non la finiscono mai!". Le due vedove salivano insieme dopo il pranzo nella camera della signora Vauquer e vi facevano quattro chiacchiere sorseggiando rosolio di ribes e sgranocchiando dolciumi riservati alla bocca della padrona di casa. La signora de l'Ambermesnil approvò le mire dell'albergatrice su Goriot, mire eccellenti che lei, del resto aveva indovinato fin dal primo giorno; lo trovava un uomo perfetto.

- Ah!, mia cara signora, è un uomo sano come il mio occhio - le diceva la vedova - un uomo ottimamente conservato, e che può dare ancora molte soddisfazioni a una donna.

La contessa fece generosamente alcune osservazioni alla signora Vauquer sul suo modo di vestirsi, non in armonia con le sue pretese. - Bisogna che vi mettiate sul piede di guerra - le disse.

Dopo molti calcoli, le due vedove si recarono insieme al Palais- Royal, ove acquistarono, alle Galeries de Bois, un cappello con piume e una cuffia. La contessa trascinò l'amica al magazzino della Petite-Jeannette, dove scelsero un vestito e una sciarpa.

Quando queste munizioni furono adoperate e la vedova fu sotto le armi, rassomigliò in modo perfetto alla insegna del "Boeuf à la mode" ("Bue alla moda"). Tuttavia, si trovò così mutata in meglio da credersi in obbligo verso la contessa e, quantunque poco generosa la pregò di accettare un cappello da venti franchi. Per la verità, intendeva poi chiederle il favore di sondare Goriot e di metterla in valore agli occhi di lui. La signora d'Ambermesnil si prestò assai amichevolmente a tale manovra, e circuì il vecchio vermicellaio col quale riuscì ad avere un colloquio; ma, dopo averlo trovato pudibondo, per non dire refrattario, ai tentativi che le suggerì il personale desiderio dl sedurlo per proprio conto, uscì nauseata dalla sua grossolanità.

- Angelo mio - disse alla cara amica - da quell'uomo lì non caverete fuori un bel nulla! E' ridicolmente diffidente, è uno spilorcio, una bestia, uno stupido, e non vi procurerà che dispiaceri.

Tra il signor Goriot e la signora de l'Ambermesnil avvennero cose tali, che la contessa non volle neanche più trovarsi con lui.

L'indomani lei se ne andò, dimenticando di pagare sei mesi di pensione e lasciando un vestito smesso valutato cinque franchi.

Per quante accurate ricerche la signora Vauquer facesse, non poté avere nessuna informazione in Parigi sulla contessa de l'Ambermesnil. Essa parlava spesso di quella deplorevole faccenda, pentendosi della sua troppa fiducia, sebbene fosse più diffidente d'una gatta; ma rassomigliava a tante persone che diffidano del loro prossimo e si danno in balia del primo venuto. Fatto morale bizzarro, ma vero, la cui radice si trova facilmente nel cuore umano. Forse certuni non hanno più nulla da sperare dalle persone con le quali vivono; dopo aver mostrato loro il vuoto della propria anima, si sentono segretamente giudicati da esse con una severità meritata; ma, provando un invincibile bisogno di adulazione, che a essi manca, o divorati dal desiderio di avere l'apparenza di possedere qualità che non hanno, sperano di sorprendere la stima o il cuore degli estranei, a rischio di perdere un giorno questo o quella. Infine, esistono individui nati mercenari che non fanno mai del bene ai loro amici o conoscenti, perché vi sarebbero obbligati, mentre, rendendo un servizio a sconosciuti, ne riscuotono un guadagno d'amor proprio; più la cerchia degli affetti è vicina a loro, e meno amano; più si estende, e più essi sono servizievoli. La signora Vauquer partecipava senza dubbio di queste due nature, essenzialmente meschine, false, esecrabili.

- Se c'ero io - le diceva allora Vautrin - questo guaio non vi sarebbe capitato! Vi avrei garbatamente smascherato quell'imbrogliona. Le conosco bene, quelle "mascherine".

Come tutte le menti limitate, la signora Vauquer aveva l'abitudine di non uscire dalla cerchia dei fatti e di non giudicarne le cause. Soleva scaricare sugli altri i propri errori. Dopo aver subìto quella perdita, essa considerò l'onesto vermicellaio come la causa del suo infortunio e cominciò da allora, diceva, a disilludersi sul conto di lui. Quando ebbe riconosciuto l'inutilità dei suoi adescamenti e delle sue spese di rappresentanza, non tardò a indovinarne la ragione. Si accorse che il suo pensionante aveva già, secondo il suo modo di esprimersi, i propri giretti. Infine ebbe la dimostrazione che la sua speranza così vagamente accarezzata era fondata su di una base chimerica, e che non avrebbe mai cavato fuori un bel niente da quell'uomo lì, secondo la frase energica della contessa, che sembrava intendersene. Naturalmente, nell'avversione andò più lontano di quanto non era andata nell'amicizia. Il suo odio non fu dettato in ragione del suo amore, ma dalle speranze ingannate. Se il cuore umano trova riposo salendo le alture dell'affetto, sosta di rado lungo la rapida china dei sentimenti ispirati dall'odio. Ma, essendo il signor Goriot suo pensionante, la vedova fu costretta a reprimere le esplosioni dell'amor proprio ferito, a soffocare i sospiri causatile da quel disinganno, e a ringoiare i desideri di vendetta come un frate perseguitato dal proprio priore. Gli spiriti meschini soddisfano i loro sentimenti, buoni o cattivi che siano, con continue meschinità. La vedova usò la sua malizia di donna nell'inventare sorde persecuzioni contro la propria vittima.

Cominciò con l'abolire il superfluo introdotto nella pensione.

"Niente più cetrioli, niente più acciughe, tutta roba per dar nell'occhio!", disse a Silvia la mattina in cui decise di ritornare al vecchio programma. Il signor Goriot era un uomo frugale, e in lui la parsimonia, necessaria a quanti fanno da sé la propria fortuna, aveva degenerato in abitudine. Minestra, lesso e un piatto di legumi erano stati e dovevano essere sempre il suo pranzo preferito. Fu perciò difficile alla signora Vauquer tormentare in questo lato il pensionante, non potendone in nulla mortificare i gusti. Delusa di aver incontrato un uomo inattaccabile, cominciò a screditarlo, e fece condividere la propria avversione per Goriot da parte degli altri pensionanti i quali, per divertirsi, si prestarono alle sue vendette. Verso la fine del primo anno la vedova era giunta a un tal grado di sospetto, da chiedersi come mai il commerciante, che disponeva dalle sette alle ottomila lire di rendita, che possedeva un'argenteria superba e gioielli d'una bellezza pari a quelli di una mantenuta, continuasse a star da lei, pagandole una pensione così modica in proporzione ai suoi mezzi. Durante la più gran parte di quel primo anno Goriot aveva spesso pranzato fuori una o due volte alla settimana; poi, insensibilmente, era arrivato a mangiar fuori solo due volte al mese. Le piccole distrazioni galanti di messer Goriot stavano troppo in relazione con gli interessi della signora Vauquer perché questa non fosse scontenta dell'esattezza progressiva con cui il suo pensionante prendeva i pasti presso di lei. Quel cambiamento fu attribuito tanto a una lenta diminuzione di fortuna quanto al desiderio di far dispetto alla ospite. Una delle più detestabili abitudini di questi spiriti lillipuziani consiste nell'attribuire agli altri le loro piccinerie. Disgraziatamente, al termine del secondo anno, il signor Goriot giustificò le chiacchiere di cui era l'oggetto chiedendo alla signora Vauquer di passare al secondo piano e di ridurgli la retta a novecento franchi. Ebbe bisogno d'una così stretta economia, da non permettersi più di accendere il fuoco durante l'inverno. La vedova Vauquer pretese di esser pagata in anticipo; il signor Goriot acconsentì e da quel giorno lei lo chiamò papà Goriot. Ognuno cercò allora d'indovinare le cause di quella decadenza. Indagine difficile. Come aveva detto la falsa contessa, papà Goriot era un sornione, un taciturno. Secondo la logica delle persone senza sale in zucca, tutte indiscrete perché non sanno cosa dire, chi non parla delle proprie cose deve combinarne delle brutte. Quel commerciante, prima così per bene, divenne un briccone; quel damerino, una vecchia canaglia. Ora, a parere di Vautrin, che andò a quell'epoca ad abitare in casa Vauquer, papa Goriot era uno che frequentava la borsa e che, secondo un modo di dire alquanto energico del gergo finanziario, "scroccava" sulla Rendita dopo essersi rovinato. Ora, era uno di quei piccoli giocatori che azzardano e guadagnano tutte le sere dieci franchi al gioco. Ora, si faceva di lui una spia al servizio dell'alta polizia; ma Vautrin sosteneva che non era abbastanza furbo per "essere dei loro". Papà Goriot era poi anche un avaro che prestava danaro a ingorda usura, uno che puntava sempre sullo stesso numero aumentando di volta in volta la posta. Se ne faceva tutto quel che il vizio, l'infamia, l'impotenza generano di più misterioso. Tuttavia, per quanto ignobili fossero il suo modo di agire o i suoi vizi, l'avversione che egli ispirava non arrivava al punto da farlo mettere alla porta: dopo tutto pagava la sua pensione. E poi: era utile, e ognuno sfogava su di lui il proprio buon umore o il proprio malumore con scherzi o sfuriate. Il parere che sembrava più attendibile, e che fu generalmente adottato, era quello espresso dalla signora Vauquer. A sentir lei, quell'uomo così ben conservato, sano come il suo occhio, e dal quale si potevano ancora avere molte soddisfazioni, era un libertino dai gusti strani. Ecco su quali fatti la vedova Vauquer fondava le sue calunnie. Qualche mese dopo la fuga della disastrosa contessa che era riuscita a vivere per sei mesi alle sue spalle, una mattina, prima di alzarsi, sentì lungo la scala il fruscio di un abito di seta e il passettino d'una donna giovane e lieve filare verso la camera di Goriot, la cui porta s'era intelligentemente aperta.

Subito dopo la grossa Silvia corse a riferire alla padrona che una ragazza, troppo bella per essere onesta; "acconciata come una dea", dagli stivaletti di prunella senz'ombra di fango, era scivolata come un'anguilla dalla strada fino alla cucina e le aveva domandato dove fosse l'appartamento del signor Goriot. La signora Vauquer e la sua cuoca si misero a spiare e colsero molte parole teneramente pronunciate durante la visita, che durò qualche tempo. Quando il signor Goriot uscì insieme alla "sua signora", la grossa Silvia afferrò subito la sporta, e finse di andare al mercato per seguire la coppia degli innamorati.

-Signora - disse alla padrona tornando a casa - il signor Goriot deve essere proprio ricco sfondato per tenerle su quel piede.

Figuratevi che all'angolo dell'Estrapade c'era una superba carrozza sulla quale LEI è salita.

Durante il pranzo la signora Vauquer andò a tirare una tenda per impedire che Goriot fosse disturbato dal sole, un raggio del quale gli offendeva gli occhi.

- Siete amato dalle belle, signor Goriot, il sole vi cerca! disse alludendo alla visita che aveva ricevuto. Càspita, avete buon gusto, era proprio carina.

- Era mia figlia - egli rispose con una specie d'orgoglio nel quale i pensionanti vollero trovare la vanità d'un vecchio che vuol salvare le apparenze.

Un mese dopo quella visita, il signor Goriot ne ricevette un'altra. Sua figlia, che, la prima volta, era andata in toletta da mattina, giunse nel pomeriggio vestita come per andare in società. I pensionanti, intenti a chiacchierare in sala, videro una graziosa bionda, dalla vita sottile, carina, e assai troppo distinta per essere la figlia d'un papà Goriot.

- E due! -. fece la grossa Silvia, che non la riconobbe.

Qualche giorno dopo, un'altra ragazza, alta e ben fatta, bruna, dai capelli neri e dall'occhio vivace, chiese del signor Goriot.

- E tre! - disse Silvia.

Questa seconda ragazza, che per la prima volta era anch'essa andata a trovare suo padre di mattina, tornò, qualche giorno dopo, di sera, in toletta da ballo e in carrozza.

- E quattro! - fecero la signora Vauquer e la grossa Silvia, le quali non riconobbero in quella gran dama alcuna traccia della ragazza vestita semplicemente la mattina in cui fece la prima visita.

Goriot pagava ancora milleduecento franchi di retta. La signora Vauquer trovò del tutto naturale che un uomo ricco avesse quattro o cinque amanti, e lo giudicò anche assai furbo nel farle passare per figlie sue. Non si scandalizzò affatto che le facesse venire in casa Vauquer. Soltanto, poiché queste visite le spiegavano l'indifferenza del pensionante nei suoi riguardi, si permise, al principio del secondo anno, di chiamarlo "vecchio mandrillo". Poi, quando questi calò ai novecento franchi, gli chiese con molta insolenza che cosa intendesse fare della sua casa, vedendo discendere una di quelle signore. Papà Goriot le rispose che quella signora era la sua figlia maggiore.

- Ma quante ne avete di figlie: trentasei ? - fece in tono aspro la signora Vauquer.

- Non ne ho che due - replicò il pensionante con la dolcezza d'un uomo andato in rovina e reso docile dalla miseria.

Verso la fine del terzo anno, papà Goriot ridusse ancora le spese, passando al terzo piano e mettendosi a quarantacinque franchi al mese di pensione. Abolì il tabacco, licenziò il barbiere e non s'incipriò più. Quando papà Goriot comparve la prima volta senza essere incipriato, la sua ospite si lasciò sfuggire un'esclamazione di sorpresa vedendo il colore dei suoi capelli:

essi erano d'un grigio sporco e verdastro. Il suo viso, che segreti dolori avevano insensibilmente reso più triste di giorno in giorno, appariva il più desolato di tutti quelli che guarnivano la tavola. Non vi fu allora più alcun dubbio. Papà Goriot era un vecchio libertino, i cui occhi erano stati preservati dal malefico effetto dei rimedi necessari alle sue malattie soltanto per l'abilità di un medico. Il colore disgustoso dei capelli derivava dagli stravizi e dalle droghe prese per continuare a praticarli.

Lo stato fisico e morale del bonuomo dava ragione a quelle ciarle.

Quando il suo corredo fu logoro, comprò calicò da quattordici soldi la canna per sostituire la sua bella biancheria. I diamanti, la tabacchiera d'oro, la catena, i gioielli scomparvero a uno a uno. Non portava più il vestito blu chiaro, tutto il suo ricco abbigliamento, e indossava, estate e inverno, una finanziera di grosso panno marrone, un panciotto di pelo di capra, e pantaloni grigi di fustagno. Diventò sempre più magro; i suoi polpacci divennero flaccidi; il viso paffuto del borghese soddisfatto si riempì di rughe, la fronte si corrugò, la mascella venne fuori.

Durante il quarto anno della sua dimora in via Neuve-Sainte- Geneviève non era più riconoscibile. Il buon vermicellaio di sessantadue anni, che non ne dimostrava neppure quaranta, il grasso e grosso borghese dalla faccia fresca e serena, il cui spiritoso modo di fare rallegrava i passanti, che aveva qualcosa di giovanile quando sorrideva, pareva adesso un settuagenario ebete, vacillante e scialbo. I suoi occhi blu tanto vivaci assunsero toni scuri e grigio-ferro, erano impalliditi, non lacrimavano più, e il loro orlo rosso sembrava piangere sangue. Ad alcuni faceva orrore, ad altri, pietà. Dei giovani studenti in Medicina, avendo notato l'abbassamento del suo labbro inferiore e misurato il vertice del suo angolo facciale, dopo avere a lungo strapazzato il bonuomo senza cavarne fuori nulla, lo dichiararono affetto da cretinismo. Una sera, dopo il pranzo, avendogli la signora Vauquer detto in tono canzonatorio: "E allora!: com'è che le vostre figliuole non vengono più a trovarvi?", mettendo così in dubbio la sua paternità, papà Goriot trasalì come se l'ospite lo avesse punto con un ferro.

- Vengono qualche volta - rispose con una voce emozionata.

- Ah! Ah!, le vedete ancora qualche volta! esclamarono gli studenti. - Bravo il papà Goriot!

Ma il vecchio non sentì i frizzi che la sua riposta aveva procurato, era ricaduto in uno stato di meditazione preso, da coloro che l'osservavano superficialmente, per un torpore senile.

Se lo avessero ben conosciuto, forse si sarebbero vivamente interessati al problema che presentava il suo stato fisico e morale, ma nulla era più difficile. Quantunque sarebbe stato facile sapere se Goriot aveva fatto realmente il vermicellaio e qual era l'ammontare della sua ricchezza, le persone anziane, la cui curiosità si destò sul suo conto, non uscivano mai dal quartiere e vivevano attaccate alla pensione come le ostriche allo scoglio. Quanto alle altre persone, gli allettamenti particolari della vita parigina facevano loro dimenticare, uscendo dalla via Neuve-Sainte-Geneviève, il povero vecchio che prendevano in giro.

Per mentalità ristrette e giovani spensierati la cruda miseria di papà Goriot e il suo atteggiamento di stupido erano incompatibili con una fortuna e una capacità quali che siano. Quanto alle donne che egli chiamava sue figlie, ognuno condivideva l'opinione della signora Vauquer, la quale diceva, con la logica severa conferita dall'abitudine di far tutte le supposizioni possibili alle vecchie che passano la sera chiacchierando: "Se papà Goriot avesse figlie così ricche come sembravano esserlo tutte quelle signore che sono venute a trovarlo, non abiterebbe da me, al terzo piano, a quarantacinque franchi al mese, e non andrebbe vestito come un pezzente". Nulla poteva smentire queste induzioni. Perciò, verso la fine del mese di novembre del 1819, epoca nella quale scoppiò questo dramma, ognuno nella pensione aveva idee ben definite sul povero vecchio. Egli non aveva mai avuto né figlie né moglie; l'abuso dei piaceri ne aveva fatto un lumacone, un mollusco antropomorfo da classificare fra i "Berrettiferi", come diceva un impiegato al Museo, uno dei clienti della tavola della pensione a prezzo fisso; al confronto di Goriot, Poiret era un'aquila, un gentleman; Poiret parlava, ragionava, rispondeva. A dire il vero, non diceva niente, parlando ragionando o rispondendo, giacché era solito ripetere in altra forma quel che dicevano gli altri, ma prendeva parte alla conversazione, era un essere vivo, pareva sensibile, mentre papà Goriot, aggiungeva l'impiegato al Museo, era sempre allo zero di Réaumur.

Eugenio de Rastignac era ritornato in quello stato d'animo che devono aver conosciuto i giovani d'ingegno superiore, o coloro cui una situazione difficile conferisce momentaneamente le qualità degli uomini d'eccezione. Durante il suo primo anno di permanenza in Parigi, il poco studio richiesto per superare i primi esami presso la Facoltà lo aveva lasciato libero di godere le delizie appariscenti della Parigi mondana. Uno studente non dispone di molto tempo se vuol conoscere il repertorio d'ogni teatro, studiare le uscite del labirinto parigino, sapere gli usi, imparare la lingua e abituarsi ai piaceri particolari della capitale; frugare negli angoli buoni e cattivi, seguire i Corsi che lo divertono, inventariare le ricchezze dei musei. Uno studente si appassiona di sciocchezze che gli sembrano grandiose.

Ha il suo grand'uomo, un professore del Collège de France, pagato per essere all'altezza del suo uditorio. Rialza la cravatta, assume atteggiamenti fatali verso la dama delle prime gallerie dell'Opéra-Comique. Attraverso queste successive iniziazioni si spoglia della sua scorza, allarga l'orizzonte della sua vita e finisce per conoscere la sovrapposizione degli strati umani che compongono la società. Se ha cominciato con l'ammirare gli equipaggi che sfilano sotto un bel sole lungo gli Champs-Elysées, giunge ben presto a invidiarli. Eugenio aveva già fatto questo noviziato a sua propria insaputa, quando partì per le vacanze, dopo aver conseguito la licenza per l'ammissione al corso di Lettere e Diritto. Le illusioni dell'infanzia, le idee di provincia erano scomparse. L'intelligenza modificata e l'ambizione esaltata gli fecero vedere chiaro nell'ambiente del maniero paterno, in seno alla famiglia. Il padre, la madre, i due fratelli, le due sorelle, e una zia la cui ricchezza consisteva in pensioni vitalizie, vivevano sulla piccola terra di Rastignac.

Questo possesso, che rendeva circa tremila franchi, era sottoposto all'incertezza che governa il prodotto tipicamente industriale della vigna e, tuttavia bisognava far uscire ogni anno milleduecento franchi per lui. La vista di tale costante ristrettezza che gli veniva generosamente nascosta; il paragone che fu costretto a fare tra le sorelle, che gli erano parse tanto belle quando era un fanciullo, e le donne di Parigi, nelle quali aveva trovato il tipo d'una bellezza a lungo vagheggiata; l'avvenire incerto della numerosa famiglia che fondava le speranze su di lui; la parsimoniosa cura con cui vide conservare i più modesti prodotti; il vino di famiglia fatto con le vinacce; insomma, una quantità di circostanze che è inutile elencare qui, decuplicarono i suoi desideri di "parvenu" e gli acuirono la brama di distinguersi. Come accade alle anime grandi, egli non volle essere debitore che del proprio merito. Ma il suo temperamento era eminentemente meridionale: quando si trattava di passare all'azione, le sue determinazioni subivano quelle esitazioni che hanno i giovani allorché si trovano in alto mare, senza sapere né dove dirigere le loro forze, né sotto quale angolo far gonfiare le loro vele. Se, da principio, volle gettarsi a corpo morto nel lavoro, sedotto subito dopo dalla necessità di cercarsi delle relazioni, capì quanto influsso hanno le donne nella vita sociale, e decise di lanciarsi senz'altro nella società, per conquistarvi delle protettrici: e potevano esse mancare a un giovane ardente e spiritoso, il cui spirito e il cui ardore erano sostenuti dal tratto elegante e da una specie di bellezza nervosa, alla quale le donne cedono volentieri? Tali idee lo presero in mezzo ai campi, durante le passeggiate che faceva allegramente con le sorelle, le quali lo trovarono assai cambiato. La zia, la signora de Marcillac, che un tempo era stata ammessa a Corte, vi aveva conosciuto la più alta aristocrazia. D'un tratto il giovane ambizioso trovò, nei ricordi coi quali la zia lo aveva tanto spesso cullato, gli elementi di molte conquiste sociali, importanti per lo meno quanto quelle che andava conoscendo alla Scuola di Diritto; la interrogò sui rapporti di parentela che potevano ancora essere riannodati. Dopo avere scosso i rami dell'albero genealogico, la vecchia donna ritenne che, di tutte le persone che avrebbero potuto essere utili al nipote tra la razza egoista dei parenti ricchi, la signora viscontessa de Beauséant sarebbe stata la meno recalcitrante. Ella scrisse alla giovane donna una lettera nel vecchio stile, e la consegnò a Eugenio, dicendogli che, se gli fosse riuscito di spuntarla con la viscontessa, questa gli avrebbe fatto ritrovare gli altri parenti.

Qualche giorno dopo il suo arrivo, Rastignac inviò la lettera della zia alla signora de Beauséant. La viscontessa rispose con l'invito a un ballo per il giorno dopo.

Tale era la situazione generale della pensione borghese alla fine del mese di novembre del 1819. Qualche giorno più tardi Eugenio, dopo essere andato al ballo della signora de Beauséant, rientrò verso le due di notte. Per riguadagnare il tempo perduto, il coraggioso studente s'era ripromesso, mentre ballava, di lavorare fino al mattino. Avrebbe per la prima volta vegliato in quel silenzioso quartiere, sotto il fascino d'una falsa energia tratta dal vedere gli splendori del mondo. Non aveva pranzato in casa Vauquer. I pensionanti poterono quindi credere che sarebbe ritornato dal ballo l'indomani mattina, essendo qualche volta rientrato dalle feste del Prado o dai balli dell'Odéon, con le calze di seta imbrattate di fango e gli scarpini malconci. Prima di mettere i catenacci alla porta, Cristoforo l'aveva aperta per dare una guardata sulla strada; Rastignac sopraggiunse e poté salire alla sua camera senza far rumore, seguito da Cristoforo che ne faceva molto. Eugenio si spogliò, calzò le pantofole, indossò una brutta finanziera, accese il fuoco di mattonelle di carbone, e si dispose rapidamente allo studio, di guisa che Cristoforo coprì ancora col rumore dei suoi scarponi i preparativi poco rumorosi del giovanotto. Eugenio rimase pensoso qualche istante prima d'immergersi nei tomi di Diritto. Aveva or ora trovato nella signora viscontessa de Beauséant una delle regine della moda parigina, la casa della quale era considerata la più piacevole del faubourg Saint-Germain. Essa era, del resto, e per il suo nome e per la sua fortuna, una delle sommità del mondo aristocratico.

Grazie alla zia de Marcillac, il povero studente era stato bene accolto in quella casa, senza sapere l'importanza del favore ricevuto. Essere ammesso in quei salotti dorati equivaleva a un brevetto di alta nobiltà. Con l'apparire in quella società, più impenetrabile d'ogni altra, egli aveva acquistato il diritto d'essere ricevuto dappertutto. Abbagliato da quella rumorosa riunione, scambiata appena qualche parola con la viscontessa, Eugenio s'era accontentato di individuare, tra la folla delle divinità parigine che si affollavano in quell'eletto ricevimento, una di quelle donne che un giovane deve a prima vista adorare. La contessa Anastasia de Restaud, alta e ben formata, passava per avere una delle più belle figure di Parigi. Immaginate grandi occhi neri, una mano stupenda, un piedino ben modellato, movimenti vivacissimi, una donna che il marchese de Ronquerolles chiamava:

un purosangue. La finezza della nervatura non le toglieva alcuna attrattiva; aveva forme piene e rotonde, senza con questo essere accusata della sia pur lieve grassezza. "Puro sangue, donna di razza": queste locuzioni cominciavano a sostituire gli angeli del cielo, le figure ossianiche, tutta la vecchia mitologia amorosa condannata dal dandismo. Ma, per Rastignac, la signora Anastasia de Restaud rappresentò la donna desiderabile. Si era assicurato due giri nella lista dei cavalieri scritta sul ventaglio, e le aveva potuto parlare durante la prima contraddanza.

- E ora, dove potrò incontrarvi ancora, signora? le aveva chiesto bruscamente con quella audacia appassionata che piace tanto alle donne. - Mah! - lei rispose - al Bois, ai "Bouffons", a casa mia, dove volete. - E l'avventuroso meridionale s'era affrettato a entrare in confidenza con quella deliziosa contessa, quanto un giovane può entrare in confidenza con una donna durante una contraddanza e un valzer. Presentandosi come cugino della signora de Beauséant, fu invitato da quella donna che egli ritenne una gran dama, e fu ammesso in casa sua. Quando gli rivolse l'ultimo sorriso, Rastignac stimò doverosa la sua visita. Egli aveva avuto la fortuna d'incontrare un uomo che non aveva dileggiato la sua ignoranza, difetto mortale in mezzo agli illustri impertinenti dell'epoca: i Maulincourt, i Ronquerolles, i Maximes de Trailles, i de Marsay, gli Adjuda-Pinto, i Vandenésse, che si trovavano là, nella gloria della loro fatuità e mescolati alle donne più eleganti: lady Brandon, la duchessa de Langeais, la contessa de Kargarouet, la signora de Sérizy, la duchessa di Carigliano, la contessa Ferraud, la signora de Lanty, la marchesa d'Aiglemont, la signora Firmiani, la marchesa de Listomère e la marchesa d'Espard, la duchessa de Maufrigneuse e i Grandlieu. Fortunatamente, dunque, l'ingenuo studente s'era imbattuto nel marchese de Montriveau, l'amante della duchessa de Langeais, un generale semplice come un fanciullo, da cui seppe che la contessa de Restaud abitava in via Helder. Essere giovane, aver sete di mondo, aver fame d'una donna, e vedersi schiudere due case! Mettere il piede nel faubourg Saint- Germain, in casa della viscontessa de Beauséant, il ginocchio nella Chaussée-d'Antin, in casa della contessa de Restaud!

Immergersi con uno sguardo nella fuga dei salotti di Parigi, e ritenersi un così bel giovane da trovarvi aiuto e protezione in un cuore di donna! Sentirsi tanto ambizioso da dare un superbo calcio alla corda tesa sulla quale bisogna camminare, con la sicurezza del funambulo che non cadrà, e aver trovato in una donna incantevole il miglior bilanciere! Con questi pensieri e dinanzi a questa donna che si ergeva sublime vicino a un fuoco di mattonelle di carbone, tra il Codice e la miseria, chi non avrebbe, come Eugenio, scandagliato l'avvenire con una riflessione, chi non l'avrebbe arredato di successi ? La sua immaginazione anticipava così vivacemente le gioie future, che credeva di trovarsi già accanto alla signora de Restaud, quando un sospiro simile a un "han" di San Giuseppe turbò il silenzio della notte, risuonò nel cuore del giovane in modo da fargli credere si trattasse del rantolo d'un moribondo. Aprì pian piano l'uscio e, quando fu nel corridoio, scorse una linea di luce tracciata sotto quello di papà Goriot. Eugenio pensò che il suo vicino fosse stato colto da un'indisposizione, avvicinò l'occhio alla serratura, guardò nella camera, e vide il vecchio intento a un lavoro che gli sembrò troppo criminale per non credersi in dovere di rendere un servigio alla società osservando bene quel che stava macchinando nottetempo il sedicente vermicellaio. Papà Goriot doveva aver fissato all'asse di una tavola rovesciata un piatto e una specie di zuppiera d'argento dorato e avvolgeva una specie di corda attorno a questi oggetti riccamente lavorati stringendoli con una tale forza, da torcerli per convertirli verosimilmente in lingotti.

"Càspita! che uomo!", si disse Rastignac nel vedere le braccia nerborute del vecchio che, con l'aiuto di quella corda, deformava in silenzio il metallo come una pasta. "Che sia un ladro o un ricettatore che, per esercitare più al sicuro il suo commercio, si finga sciocco, debole, e viva come un povero?", si chiese Eugenio rialzandosi un momento. Lo studente tornò a porre l'occhio alla serratura. Papà Goriot, sciolta la corda, prese la massa d'argento, la pose sulla tavola dopo avervi steso sopra il tappeto e su questo rotolò il metallo per ridurlo a una sbarra: operazione che eseguì con una facilità meravigliosa. "E' dunque forte come lo era Augusto, re di Polonia?", si domandò Eugenio, quando la sbarra prese presso a poco la forma rotonda. Papà Goriot guardò il suo lavoro con aria triste, lacrime gli uscirono dagli occhi, spense il mòccolo alla luce del quale aveva attorto quell'argento dorato, ed Eugenio lo sentì andare a letto sospirando. "E' pazzo", pensò lo studente.

- Povera figlia mia ! - disse ad alta voce papà Goriot.

A questa parola, Rastignac stimò prudente tacere su quanto era accaduto e non condannare avventatamente il vicino. Stava per rientrare nella propria camera, quando sentì a un tratto un rumore difficile a definirsi e che doveva essere causato da uomini in pantofole, i quali salivano la scala. Eugenio tese l'orecchio e riconobbe effettivamente la respirazione alternata di due uomini.

Senza aver avvertito né il cigolio dell'uscio né il passo degli uomini, scorse a un tratto una debole luce al secondo piano, nella camera del signor Vautrin. - Quanti misteri in una pensione familiare! - disse fra sé e sé. Scese qualche gradino, si mise ad ascoltare, e il suono dell'oro colpì il suo orecchio. La luce fu subito spenta, le due respirazioni si fecero sentire nuovamente senza che l'uscio avesse cigolato. Poi, man mano che i due uomini scendevano, il rumore andò affievolendosi.

- Chi va là? - gridò la signora Vauquer, aprendo la finestra della sua camera.

- Sono io che torno, mamma Vauquer - disse Vautrin con la sua grossa voce.

"Strano! Cristoforo aveva pur messo i catenacci", pensò Eugenio rientrando nella propria camera. "Bisogna stare svegli per sapere bene quel che accade intorno, a Parigi". Divagato per tali piccoli fatti dalla propria meditazione ambiziosamente amorosa, si mise a studiare. Distratto dai sospetti sortigli sul conto di papà Goriot, più distratto ancora dall'immagine della signora de Restaud, che di momento in momento appariva dinanzi a lui come la messaggera d'un brillante avvenire, finì per andarsene a letto e per dormire saporitamente. Su dieci notti promesse allo studio, i ragazzi ne dedicano sette al sonno. Bisogna aver più di vent'anni per vegliare.

L'indomani mattina c'era a Parigi una di quelle nebbie che l'avvolgono e l'oscurano in modo tale, che anche le persone più precise s'ingannano sul tempo. Si manca agli appuntamenti d'affari. Ognuno crede siano le otto, quando suona mezzogiorno.

Erano le nove e mezza, e la signora Vauquer non si era ancora levata. Cristoforo e la grossa Silvia, anche loro in ritardo, prendevano tranquillamente il caffè, preparato con i veli del latte destinato ai pensionanti e che Silvia faceva bollire a lungo, affinché la signora Vauquer non si accorgesse di questa decima illegalmente percepita.

- Silvia - disse Cristoforo inzuppando il primo crostino - il signor Vautrin, che dopo tutto è un brav'uomo, anche questa notte ha ricevuto due persone. Se la signora domandasse, non bisogna dirle nulla.

- Vi ha dato qualche cosa?

- Mi ha dato cento soldi come mesata; un modo per dire: acqua in bocca.

- Tolto lui e la signora Couture, che non sono taccagni, gli altri vorrebbero toglierci con la mano sinistra quel che ci danno con la destra il primo dell'anno - disse Silvia.

- Per quel che ci danno ! - fece Cristoforo appena una moneta, e da cento soldi. E' da due anni che papà Goriot si pulisce le scarpe da sé. Quello spilorcio di Poiret fa a meno del lustro e piuttosto se lo berrebbe che darlo alle sue ciabatte. Quanto poi a quel povero diavolo dello studente, mi dà quaranta soldi. Quaranta soldi non valgono neppure le spazzole, e per giunta si vende pure gli abiti vecchi. Che baracca! Però! fece Silvia bevendo a piccoli sorsi il caffè - il nostro servizio è il migliore del quartiere:

qui si sta bene Ma, a proposito del grosso papà Vautrin, Cristoforo, vi hanno detto qualche cosa?

- Sì. Ho incontrato giorni fa un signore per strada che mi ha detto: - Abita da voi un signore grosso, coi favoriti tinti? Io gli ho risposto: - No, signore, non se li tinge mica. Un allegrone come lui ha ben altro da fare. L'ho riferito al signor Vautrin, e lui mi ha risposto: - Hai fatto bene, ragazzo mio! Rispondi sempre così. Non c'è di peggio che far conoscere le nostre debolezze. Per questo tante volte vanno a monte i matrimoni.

- E a me, al mercato, hanno cercato d'infinocchiarmi per farmi dire se lo vedevo quando si cambia la camicia. Bell'affare! Ma, oh! - disse interrompendosi - ecco che stanno suonando le dieci meno un quarto a Val-de-Grace, e non si sente nessuno.

- Ma se sono usciti tutti! La signora Couture e la ragazza sono andate a mangiare alle otto il buon Dio a Saint-Etienne. Papà Goriot è uscito con un pacco. Lo studente non tornerà che alle dieci, dopo la lezione. Li ho visti uscire mentre pulivo le scale, e papà Goriot m'ha pure urtato col suo pacco, duro come il ferro.

Che diavolo mai farà quel bonuomo? Gli altri lo prendono in giro, ma tutto sommato è un brav'uomo, e vale più di tutti loro. E' piuttosto tirchio, ma le signore da cui vado qualche volta per lui m'allungano mance vistose, e sono proprio ben messe!

- Quelle che lui chiama figlie sue, eh? Saranno una dozzina.

- Io sono stato soltanto da due, le stesse che sono venute qui.

- Ecco che si sente la signora; e comincerà subito a strillare; bisogna che vada. Badate al latte, Cristoforo, per via del gatto.

Silvia salì dalla padrona.

- Ma come, Silvia: sono già le dieci meno un quarto, e mi avete lasciato dormire fino adesso come una marmotta? Una cosa simile non mi era mai capitata.

- E' colpa della nebbia, si taglia col coltello.

- Ma la colazione?

- Mah!, i pensionanti dovevano avere proprio il diavolo in corpo; sono cascati tutti dal letto e sono già fuori.

- Parla bene, Silvia - soggiunse la signora Vauquer- si dice cader da letto.

- Signora mia, dirò come volete voi. Ma tant'è che voi potete far colazione alle dieci. La Michonnette e il Poireau non si sono mossi. Non ci sono che loro in casa, e dormono come quei due sassi che sono.

- Ma Silvia, tu li metti tutt'e due insieme; come se...

- Come se, che? - riprese Silvia lasciandosi sfuggire una grossa e stupida risata. - Insieme fanno il paio.

- E' curioso, Silvia: come mai il signor Vautrin stanotte è potuto rientrare dopo che Cristoforo aveva messo i catenacci?

- Proprio al contrario, signora. E' lui che ha sentito il signor Vautrin, ed è sceso per aprirgli la porta. E così avete creduto...

- Dammi il copribusto e va a preparare la colazione. Fa' quel che è rimasto del montone, con le patate, e servi pere cotte, di quelle che costano due centesimi l'una.

Pochi istanti dopo, la signora Vauquer discese proprio nel momento in cui il gatto aveva rovesciato con un colpo di zampetta il piattino che copriva una tazza di latte, e lo stava leccando in tutta fretta.

- Mistigrì! - gridò. Il gatto scappò, poi tornò per strofinarsi alle sue gambe. - Sì, sì, fa il vigliacco, sfacciatello! le disse.

- Silvia! Silvia!

- Che c'è, signora?

- Guardate un po' cosa ha bevuto il gatto?

- La colpa è di quella bestia di Cristoforo, glielo avevo detto di coprirlo. Dov'è andato? Ma non vi date pensiero, signora; facciamo conto che quella era la colazione di papà Goriot.

L'allungherò con l'acqua, e lui non se ne accorgerà neppure. Non bada a niente, neanche a quel che mangia.

- Ma dove diamine è andato, il nostro caffettiere? - disse la signora Vauquer mettendo a posto i piatti.

- E chi lo sa? Quello traffica come cinquecento diavoli.

- Ho dormito troppo - disse la signora Vauquer.

- Ma così la signora è fresca come una rosa...

In quella il campanello si fece sentire, e Vautrin entrò in sala cantando col suo vocione:

A lungo ho corso il mondo E ovunque mi hanno visto...

- Oh! Oh!, buon giorno, mamma Vauquer - disse scorgendo l'ospite, che galantemente prese tra le sue braccia.

- Andiamo, smettetela.

- Chiamatemi impertinente! - riprese. - Andiamo, ditelo. Lo volete dunque dire? Andiamo, vi aiuterò a mettere i piatti. Ah!, io son gentile, non è vero?

Corteggiar la bruna e la bionda, Amare, sospirar...

- Ho visto poco fa una cosa singolare.

...alla ventura.

- Cosa? - domandò la vedova.

- Papà Goriot alle otto e mezza stava in via Dauphine, dall'orefice che compra argenteria e guarnizioni di metallo. Gli ha venduto per una discreta somma un oggetto di argento dorato, molto bene attorcigliato per uno che non è del mestiere - Ma davvero ?

- Sicuro. Tornavo dall'aver accompagnato un amico in procinto di partire con le Messaggerie reali; e ho atteso per vedere quel che papà Goriot faceva: una cosa comica. E' risalito per questo quartiere passando per la via dei Grès, ed è entrato in casa d'un noto usuraio che si chiama Gobseck, un autentico tipaccio, capace di giocare a domino con le ossa di suo padre; un giudeo, un arabo, un greco, uno zingaro, un uomo che sarebbe difficile derubare, perché i suoi scudi li tiene in banca.

- Ma che diamine fa questo papà Goriot?

- Non fa, disfa - rispose Vautrin. - E' uno stupido, così imbecille, da rovinarsi innamorandosi delle ragazze che...

- Eccolo - disse Silvia.

- Cristoforo! - gridò papà Goriot - accompagnami su.

Cristoforo seguì papà Goriot e ridiscese subito dopo.

- Dove vai? - chiese mammà Vauquer al suo domestico.

- Vado a fare una commissione per il signor Goriot.

- E questo, cos'è - disse Vautrin strappando dalle mani di Cristoforo una lettera sulla quale lesse: "Alla Signora contessa Anastasia de Restaud". - E dove la porti?

- In via dell'Helder. Ho l'ordine di non consegnarla che alla signora contessa.

- Che c'è dentro? - domandò Vautrin, mettendo la lettera contro luce - un biglietto di banca? No. - Apri un poco la busta. - Una cambiale all'ordine - esclamò. - Càspita! E' galante, quel vecchio rimbambito. Va', furbacchione - disse coprendo con la sua larga mano il capo di Cristoforo, che fece girare su se stesso come un dado - rimedierai una buona mancia. La tavola era stata intanto apparecchiata.

Silvia faceva bollire il latte. La signora Vauquer accendeva la stufa aiutata da Vautrin che canterellava sempre:

A lungo ho corso il mondo E ovunque mi hanno visto..

Quando tutto fu pronto, la signora Couture e la signorina Taillefer rincasarono.

- Da dove venite, così di buon mattino, mia bella signora? disse la signora Vauquer alla signora Couture.

- Siamo state a far le nostre devozioni a Saint-Etienne-du-Mont; non dobbiamo andare oggi dal signor Taillefer? Povera piccola, trema come una foglia - riprese la signora Couture sedendosi dinanzi alla stufa, alla cui bocca presentò le sue scarpe, che si misero a fumare.

- Scaldatevi, Vittorina - disse la signora Vauquer.

- E' bene, signorina, pregare il buon Dio d'intenerire il cuore di vostro padre - disse Vautrin, avvicinando una sedia all'orfana. Ma questo non basta. Ci vorrebbe un amico che s'incaricasse di dire il fatto suo a quel brutto tipo, a quel selvaggio che si dice abbia tre milioni e non vi dà un soldo di dote. Una bella ragazza, oggi, ha bisogno di dote.

- Povera figliuola - disse la signora Vauquer. Ma, tesoro mio, quel mostro di vostro padre se ne tira addosso, di maledizioni, quante ne vuole!

A queste parole gli occhi di Vittorina s'inumidirono di lacrime e la vedova non proseguì, a un cenno che le fece la signora Couture - Basterebbe che lo vedessimo, basterebbe che gli potessi parlare e dargli l'ultima lettera di sua moglie riprese a dire la vedova dell'ufficiale di Commissariato. - Non mi sono azzardata a mandargliela per posta, riconoscerebbe la mia calligrafia...

- "O donne innocenti, disgraziate e perseguitate" esclamò Vautrin interrompendo - siete dunque a questo punto? Di qui a qualche giorno, penserò io alle vostre cose, e vedrete che tutto andrà bene.

-Oh!, signore - disse Vittorina, dando uno sguardo umido e insieme ardente a Vautrin, che non se ne commosse - se conoscete un mezzo per arrivare a mio padre, ditegli che il suo affetto e l'onore di mia madre mi sono più preziosi di tutte le ricchezze del mondo. Se riuscirete a ottenere che egli mitighi la sua ostinazione, pregherò il buon Dio per voi. Siate sicuro d'una riconoscenza...

- "A lungo ho corso il mondo" - cantò Vautrin con voce ironica. In quel momento Goriot, la signorina Michonneau, Poiret discesero, attratti forse dall'odore della salsa che Silvia stava facendo per cucinare gli avanzi del montone.

Quando i sette commensali si misero a tavola augurandosi il buon giorno, suonarono le dieci e si sentì dalla strada il passo dello studente.

- Ah!, bene, signor Eugenio - disse Silvia - oggi farete allora colazione con tutti gli altri.

Lo studente salutò i pensionanti e si mise a sedere accanto a papà Goriot.

- Mi è capitata una strana avventura - disse servendosi una abbondante porzione di montone e tagliandosi un pezzo di pane che la signora Vauquer misurava sempre con l'occhio.

- Un'avventura! - fece Poiret.

- Ebbene, perché ve ne meravigliereste, vecchio parruccone? disse Vautrin a Poiret. - Il signore è proprio fatto per averle.

La signorina Taillefer fece scivolare timidamente uno sguardo sul giovane studente.

- Raccontateci la vostra avventura - disse la signora Vauquer.

- Ieri mi trovavo al ballo della signora viscontessa de Beauséant, una mia cugina che ha una magnifica casa, con stanze tappezzate di seta, e che ci ha offerto insomma una festa superba, dove mi sono divertito come un re...

- Attìno - disse Vautrin interrompendolo di netto.

- Signore - riprese vivacemente Eugenio - che volete dire con questo?

- Dico "attìno", perché i reattini si divertono molto più dei re.

-E' vero: io preferirei essere quest'uccellino senza pensieri, piuttosto che un re, in quanto.. - fece Poiret, l'"idemista".

- Breve - riprese lo studente tagliandogli la parola - ballo con una delle più belle donne della festa, una contessa incantevole, la più deliziosa creatura che abbia mai visto. Aveva fiori di pesco tra i capelli, sul fianco il più bel mazzolino di fiori naturali profumatissimi; ma, via!, avreste dovuto vederla, è impossibile descrivere una donna nell'animazione della danza.

Ebbene!, stamane ho incontrato la divina contessa, verso le nove, a piedi, in via dei Grès. Oh!, il cuore mi ha dato un balzo, credevo...

- Che lei venisse qui - disse Vautrin, lanciando uno sguardo profondo allo studente. - Andava certamente da papà Gobseck, un usuraio. Se frugate nei cuori delle donne, a Parigi, vi troverete l'usuraio prima dell'amante. La vostra contessa si chiama Anastasia de Restaud, e abita in via dell'Helder. - A questo nome lo studente guardò fisso Vautrin. Papà Goriot sollevò di scatto la testa, gettò sui due interlocutori uno sguardo luminoso e pieno d'inquietudine, che sorprese i pensionanti.

- Cristoforo arriverà troppo tardi, e lei ci sarà andata - si disse fra sé e sé dolorosamente Goriot.

- Ho indovinato - disse Vautrin curvandosi all'orecchio della signora Vauquer.

Goriot mangiava macchinalmente senza sapere quel che mangiava. Non era mai apparso così stupido e più assorto come in quel momento.

- Chi diavolo, signor Vautrin, ha potuto dirvi il suo nome?

domandò Eugenio.

- Ah, ah!, ecco - rispose Vautrin. - Papà Goriot lo sapeva bene, lui ! E perché non dovrei saperlo io?

- Il signor Goriot? - esclamò lo studente.

- Ah, dunque! - disse il povero vecchio. - Era proprio tanto bella, ieri?

- Chi?

- La signora de Restaud.

- Guardate il vecchio pezzente - disse la signora Vauquer a Vautrin - come gli si accendono gli occhi.

- Che la mantenga lui? - disse sottovoce la signorina Michonneau allo studente.

- Oh!, sì, era straordinariamente bella - riprese Eugenio, che papà Goriot intanto guardava avidamente. - Se la signora de Beauséant non fosse stata lì, la mia divina contessa sarebbe stata la regina del ballo; i giovani non ammiravano che lei, io ero il dodicesimo iscritto nella sua lista, lei ballava tutte le contraddanze. Le altre signore morivano d'invidia. Se c'è stata ieri una creatura felice, quella era lei. E' proprio giusto dire che non c'è nulla di più bello che fregata a vela, cavallo al galoppo e donna che balla.

- Ieri all'apogeo della fortuna, da una duchessa disse Vautrin;- stamane in fondo alla scala, da un usuraio: ecco le Parigine. Se i loro mariti non possono mantenerle nel lusso sfrenato, si vendono.

Se non sanno vendersi, sventrerebbero la madre per cercarvi di che brillare. Ne fanno di tutti i colori. Lo sappiamo, lo sappiamo!

Il viso di papà Goriot, che s'era acceso come il sole di una bella giornata ascoltando lo studente, divenne cupo alla crudele osservazione di Vautrin.

- Ma dunque - disse la signora Vauquer - qual è la vostra avventura? Le avete parlato? Le avete chiesto se voleva imparare il Diritto?

- Lei non mi ha visto - rispose Eugenio. - Ma incontrare una delle più graziose donne di Parigi in via dei Grès, alle nove, una donna rientrata dal ballo alle due del mattino, non è singolare? Solo a Parigi si hanno queste avventure.

- Però, ce ne sono di più strane ancora - esclamò Vautrin.

LasignorinaTaillefer aveva appena ascoltato questa conversazione, tanto era preoccupata per il tentativo cui si accingeva. La signora Couture le fece segno di alzarsi perché si andasse a vestire. Quando le due uscirono, papà Goriot le imitò.

- Ebbene, avete visto? - disse la signora Vauquer a Vautrin e agli altri pensionanti. - E' chiaro che s'è rovinato per quelle donne.

- Non potrò mai credere - esclamò lo studente - che la bella contessa de Restaud sia di papà Goriot.

- Ma - gli disse Vautrin interrompendolo - noi non ci teniamo affatto a farvelo credere. Siete ancora troppo giovane per conoscere bene Parigi; vedrete più in là che ci s'incontrano quelli che noi chiamiamo: "sottanieri"... (A queste parole, la signorina Michonneau guardò Vautrin con un'aria d'intelligenza).

L'avreste detto un cavallo da parata che sente il suono della tromba. Ah!, ah! - fece Vautrin interrompendosi per gettarle uno sguardo profondo - non abbiamo avuto anche noi le nostre passioncelle? (La vecchia zitella abbassò gli occhi, come una suora che veda delle statue). Ebbene, - egli riprese quei tipi sposano un'idea, e non la mollano. Essi non hanno sete che d'una certa acqua presa a una certa fontana, e spesso stagnante; per poterla bere, venderebbero pure le loro mogli, i loro figli, venderebbero l'anima al diavolo. Per alcuni, la fontana è il gioco, la borsa, una collezione di quadri o d'insetti, la musica; per altri, è una donna che sa cucinar loro qualche ghiottoneria. A questi potreste offrire tutte le donne della terra, essi se ne infischiano, vogliono solo quella che soddisfa le loro passioni.

Spesso questa donna non li ama affatto, li maltratta, vende loro molto care poche briciole di appagamento; ebbene, questi capi ameni non si stancano, e porterebbero l'ultima coperta al Monte di Pietà per dar loro l'ultimo scudo. Papà Goriot è uno di questi. La contessa lo sfrutta perché lui è discreto, ed ecco il bel mondo!

Il pover'uomo non pensa che a lei. Fuori della sua passione, voi lo vedete, è un bestione. Mettetelo su tale terreno, il suo viso scintilla come un diamante. Non è difficile indovinare il suo segreto. Egli ha portato stamattina a far fondere l'argento dorato, e l'ho visto entrare da papà Gobseck in via dei Grès.

Seguitemi bene! Tornando, ha mandato dalla contessa quello scemo di Cristoforo, che ci ha fatto vedere l'indirizzo della lettera in cui era contenuta una cambiale all'ordine. E' chiaro che, se la contessa andava anche lei dal vecchio usuraio, la cosa doveva essere urgente. Papà Goriot ha galantemente pagato per lei. Non è necessario faticare molto per vederci chiaro. Ciò vi prova, mio giovane studente, che mentre la vostra contessa rideva, ballava, faceva la smorfiosa, lasciava dondolare i suoi fiori di pesco, e stringeva la veste, era sulle spine, come si dice, pensando alle cambiali protestate, o a quelle dell'amante.

- Mi fate venire una voglia matta di sapere la verità. Andrò domani dalla signora de Restaud - esclamò Eugenio.

- Sì - disse Poiret - bisogna andare domani dalla signora de Restaud.

- Ci troverete forse il bonuomo Goriot, a riscuotere il premio delle sue galanterie.

- Ma - disse Eugenio con un'aria di disgusto - la vostra Parigi è dunque proprio un pantano.

- E un curioso pantano - riprese Vautrin. - Chi ci s'infanga in vettura è una persona per bene, chi ci s'infanga a piedi è un briccone. Se vi tocca portar via a qualcuno una cosa qualsiasi, siete messo alla berlina sulla piazza del Palazzo di Giustizia come una curiosità. Rubate un milione, e siete mostrato a dito nei salotti come un esempio di virtù. Voi pagate trenta milioni alla Gendarmeria e alla Giustizia per tenere in piedi questa morale.

Che bella cosa!

- Come - esclamò la signora Vauquer - papà Goriot avrebbe dato a fondere il suo servizio da colazione d'argento dorato?

- Sul coperchio c'erano due tortorelle? - domando Eugenio.

- Proprio così.

- Ci teneva tanto! Piangeva, quando ha contorto la tazza e il piattino. L'ho visto per caso - disse Eugenio.

- Ci teneva come alla sua vita - aggiunse la vedova.

- Vedete quanto il bonuomo è innamorato - esclamò Vautrin. Quella donna sa ben lusingarlo.

Lo studente risalì in camera. Vautrin uscì. Pochi istanti dopo, la signora Couture e Vittorina montarono in una vettura da piazza, che Silvia era andata a cercare per loro. Poiret offrì il braccio alla signorina Michonneau e tutti e due andarono a passeggio al Jardin des Plantes, approfittando delle due belle ore della giornata.

- E allora, eccoli là quasi sposati - disse la grossa Silvia.

Escono oggi insieme per la prima volta. Sono tutti e due così secchi che, se si urtano, sprizzeranno faville come un acciarino.

- Attenzione allo scialle della signorina Michonneau - disse ridendo la signora Vauquer - prenderà come un'esca.

Alle quattro del pomeriggio, Goriot, quando rientrò, vide, alla luce di due lampade fumose, Vittorina con gli occhi rossi. La signora Vauquer ascoltava il racconto della visita infruttuosa fatta al signor Taillefer nella mattinata. Annoiato di ricevere sua figlia e quella vecchia donna, Taillefer le aveva lasciate giungere fino a lui per spiegarsi con loro.

- Mia cara signora - diceva la signora Couture alla signora Vauquer - pensate che non ha neppure fatto sedere Vittorina, che è rimasta sempre in piedi. A me ha poi detto, senza andare in collera, con la massima freddezza, di risparmiarci il disturbo di andare da lui; che la signorina, senza chiamarla sua figlia, danneggiava se stessa importunandolo così (una volta all'anno, il mostro !); che, avendo sposato senza dote la madre di Vittorina, lei non aveva nulla da pretendere; insomma, le cose più dure, da far sciogliere in lacrime la povera piccola. Lei s'è gettata allora ai piedi del padre, e gli ha detto coraggiosamente che insisteva tanto solo per sua madre, e che gli avrebbe obbedito, senza far commenti; ma che lo supplicava di leggere il testamento della povera morta. Lei ha preso la lettera e gliela ha presentata, con le più belle e più sentite espressioni: non so dove le è andate a trovare, Dio gliele dettava, perché la povera figliuola era così bene ispirata che io, ascoltandola, piangevo come un vitello. Sapete che cosa faceva intanto quell'orrendo uomo? Si tagliava le unghie; poi, ha preso la lettera che la povera signora Taillefer aveva bagnato con le sue lacrime, e l'ha gettata al fuoco dicendo: "Va bene!". Ha fatto il gesto di risollevare la figlia, che gli stava prendendo le mani per baciarle, ma le ha ritirate. Non è una scelleratezza? Quello scioccone del figlio è entrato, e non ha neppure salutato la sorella .

- Ma questi sono proprio due mostri! - disse papà Goriot.

- E poi - soggiunse la signora Couture senza raccogliere l'esclamazione del bonuomo - padre e figlio se ne sono andati salutandomi e pregandomi di scusarli, perché avevano affari urgenti. Ecco com'è andata la nostra visita. Ma almeno ha veduto sua figlia. Non capisco come possa non riconoscerla: gli somiglia come una goccia d'acqua.

I pensionanti, interni ed esterni, arrivarono gli uni dopo gli altri augurandosi scambievolmente il buon giorno e dicendosi quei nonnulla che esprimono, presso certi ceti parigini, uno spirito lèpido in cui la stoltizia è l'ingrediente principale, e il cui merito consiste particolarmente nel gesto che li accompagna o nel modo di pronunciarli. Questa specie di gergo varia continuamente.

La facezia che ne è il principio non ha mai più di un mese di vita. Un avvenimento politico, un processo in corte d'Assise, una canzonetta, i frizzi di un attore, tutto serve ad alimentare questo gioco dello spirito, che consiste soprattutto a considerare le idee e le parole come volani e a rimandarsele con le racchette.

La recente invenzione del Diorama, che portava l'illusione dell'ottica a un grado più alto dei Panorami, aveva introdotto in alcuni studi di pittori la facezia di parlare in "rama", una specie di morbo che un giovane artista, frequentatore della pensione Vauquer, vi aveva inoculato.

- Ebbene, signor Poiret - disse l'impiegato al Museo - come va la vostra "saluterama"? - Poi, senza aspettare la risposta: Signore voi siete addolorate - disse alla signora Couture e a Vittorina.

- Andiamo a "mangere" - esclamò Orazio Bianchon, uno studente di medicina, amico di Rastignac; - il mio stomaco è sceso "usque ad talones"..

- Fa un famoso "frettorama"! - disse Vautrin. Scansatevi dunque, papà Goriot! Che diamine! ll vostro piede prende tutta la bocca della stufa.

- Illustre signor Vautrin - disse Bianchon - perché dite "frettorama"? C'è uno sbaglio, si dice "freddorama".

- No - disse l'impiegato al Museo - secondo la regola si deve dire "frettorama": ho fretto ai piedi.

- Ah! Ah!

- Ecco sua eccellenza il marchese di Rastignac, dottore in dirittorovescio - esclamò Bianchon afferrando Eugenio per il collo e stringendolo in modo da quasi soffocarlo. - Ohé!, voi altri, ohé! - La signorina Michonneau entrò pian piano, salutò i commensali senza far parola, e andò a sedersi vicino alle tre donne.

- Quella mi fa battere sempre i denti, quella vecchia cornacchia- disse a bassa voce Bianchon a Vautrin indicandogli la signorina Michonneau. - Io che sto studiando il sistema di Gall, riscontro in lei le bozze di Giuda.

- Signore, l'avete conosciuta?

- E chi non la conosce? Parola mia d'onore, quella vecchia zitella pallida mi fa l'effetto di quei lunghi vermi che finiscono per consumare una trave.

- Ecco quel che è, giovanotto - disse il quadragenario lisciandosi i favoriti.

E rosa, ella ha vissuto quanto vivon le rose, Quanto un mattino.

- Ah! ah!, ecco una famosa "zupporama" - disse Poiret vedendo Cristoforo che entrava portando rispettosamente la zuppa.

- Vogliate perdonarmi, signore - disse la signora Vauquer - ma non è che una zuppa di cavoli.

I giovanotti scoppiarono a ridere.

- Toccato, Poiret!

- Poirrette toccato!

- Segnate due punti alla signora Vauquer - disse Vautrin.

- Ma avete visto che nebbia, stamattina? - disse l'impiegato.

- Era - disse Bianchon - una nebbia frenetica, mai vista, una nebbia lugubre, malinconica, verde, bolsa, una nebbia Goriot.

- "Goriorama" - disse il pittore - perché non ci si vedeva più in là di un palmo.

- Hé!, milord Gaoriotte, "loro star parlando di vui".

Seduto all'infimo posto della tavola, vicino alla porta attraverso la quale passava il domestico, papà Goriot sollevò la testa odorando, per una vecchia abitudine commerciale che talvolta ricompariva, un pezzo di pane che stava sotto la sua salvietta.

- Ebbene ! - gli gridò aspramente la signora Vauquer, con una voce che dominò il rumore dei cucchiai, delle scodelle e delle voci - non è forse buono quel pane?

- Al contrario, signora - le rispose - è fatto con la farina di Etampes, di prima qualità.

- Come lo capite? - gli domandò Eugenio.

- Dalla bianchezza, dal gusto.

- Dal gusto del naso, visto che l'odorate - disse la signora Vauquer. - State diventando così economo, che finirete per trovare il modo di nutrirvi fiutando l'aria della cucina.

- Prendete allora un brevetto d'invenzione esclamò l'impiegato al Musco - e farete una bella fortuna.

- Ma no, lui fa così per persuadersi di essere stato vermicellaio - disse il pittore.

- Il vostro naso, è dunque una storta - chiese l'impiegato al Museo.

- Stor-cosa? - fece Bianchon.

- Stor-tura.

- Stor-piamento.

- Stor-ione.

- Stor-nello.

- Stor-mo.

- Stor-dito.

- Stor-iella.

- Stor-norama.

Queste otto risposte partirono da tutte le parti della sala con la rapidità d'un fuoco di fila, e fecero tanto più ridere in quanto il povero papà Goriot guardava i commensali con un'aria ingenua, come un uomo che cerca di capire una lingua straniera.

- Stor? - domandò a Vautrin - che gli stava vicino.

- Stor-ta ai piedi, vecchio mio! - rispose Vautrin incalcandogli il cappello con una pacca sulla testa da farglielo scendere fino agli occhi. Il povero vecchio, stupefatto da quel brusco colpo rimase, per un momento, immobile. Cristoforo portò via la scodella del bonuomo, credendo avesse finito la minestra; in modo che, quando Goriot, dopo essersi rialzato il cappello, riprese il cucchiaio, lo batté sulla tavola. Tutti i commensali scoppiarono dal ridere.

- Signore - disse il vecchio - voi siete un impertinente, e se vi permettete di darmi un'altra volta simili incalcate...

- Ebbene!, e allora?, papà - disse Vautrin interrompendolo.

- Ebbene!, voi la pagherete cara un giorno o l'altro...

- All'inferno, non è vero? - disse il pittore - in quell'angoletto nero dove si mettono i bambini cattivi!

- Ma, signorina - disse Vautrin a Vittorina - voi non mangiate nulla. Il babbo si è mostrato recalcitrante?

- Un orrore - fece la signora Couture.

- Bisogna ricondurlo alla ragione - disse Vautrin.

- Però - disse Rastignac, che era assai vicino a Bianchon - la signorina potrebbe intentare un processo per gli alimenti, perché non mangia affatto. Eh!, eh!, guardate come papà Goriot sta osservando la signorina Vittorina.

Il vecchio non badava a mangiare per contemplare la povera ragazza, dal cui volto traspariva un dolore vero, il dolore della figlia non riconosciuta che ama suo padre.

- Mio caro - disse Eugenio a bassa voce - ci siamo ingannati sul conto di papà Goriot. Non è né un imbecille, né un uomo senza nervi. Applicagli il sistema Gall e dimmi poi quel che ne pensi.

Gli ho visto questa notte contorcere un piatto d'argento dorato come fosse stato di cera, e in questo momento l'espressione del suo viso indica sentimenti fuori dell'ordinario. La sua vita è così misteriosa che mi sembra valga la pena d'essere studiata. Sì, Bianchon, tu hai un bel ridere, ma io non scherzo.

- Quest'uomo è un caso clinico - disse Bianchon - d'accordo, se accetta, lo anatomizzo.

- No, palpagli la testa.

- Ah!, bravo, la sua stoltizia può esser contagiosa!

L'indomani Rastignac si vestì in modo assai elegante e si recò, verso le tre del pomeriggio, dalla signora de Restaud, abbandonandosi lungo la strada a quelle speranze storditamente folli, che fanno la vita dei giovani così bella d'emozioni; essi non calcolano allora né gli ostacoli né i pericoli, vedono sempre il successo, poetizzano la loro esistenza col solo gioco dell'immaginazione, e divengono infelici o tristi per il fallimento di progetti animati solo dai loro desideri sfrenati; se costoro non fossero ignari e timidi, il mondo sociale sarebbe impossibile. Eugenio camminava usando mille precauzioni per non infangarsi, ma camminava pensando a quel che avrebbe detto alla signora de Restaud; faceva provviste di spirito, inventava le risposte di una conversazione immaginaria, preparava le sue battute argute, le sue frasi alla Talleyrand, supponendo piccole circostanze favorevoli alla dichiarazione d'amore su cui fondava il proprio avvenire. Lo studente, tuttavia, s'infangò, dovette farsi pulire gli stivaletti e spazzolare i pantaloni al Palais- Royal. "Se fossi ricco", disse fra sé e sé cambiando una moneta da cento soldi che aveva portato per qualche imprevisto, sarei andato in carrozza, e avrei potuto pensare con agio ai casi miei!".

Finalmente giunse in via di Helder e chiese della contessa de Restaud. Con la rabbia fredda di un uomo sicuro di trionfare un giorno, subì l'occhiata sprezzante di coloro che lo avevano visto attraversare il cortile a piedi, senza aver sentito il rumore d'una carrozza alla porta. Quell'occhiata fu per lui tanto più penosa in quanto s'era reso conto della sua inferiorità entrando nel cortile, ove scalpitava un bel cavallo riccamente attaccato a uno di quei carrozzini sgargianti, ostentazioni del lusso di una vita dissipata e sottintesi dell'abitudine a tutte le felicità parigine. Si mise di cattivo umore. I cassetti aperti nel suo cervello, che contava di trovare pieni di spirito, si chiusero; diventò stupido. Aspettando la risposta della contessa, alla quale un domestico annunciava i nomi dei visitatori, Eugenio si appoggiò su di un piede solo dinanzi a una finestra dell'anticamera, appoggiò il gomito sulla maniglia della finestra, e guardò macchinalmente nella corte. Il tempo non gli passava mai, e già se ne sarebbe andato via, se non avesse avuto quella tenacia meridionale che fa prodigi quando segue la linea retta.

- Signore - disse il domestico - la signora è ora nel suo salottino privato, molto occupata, e non mi ha neppure risposto; ma, se il signore vuol passare in salotto, c'è già qualcuno. - Pur ammirando lo spaventevole potere di questa gente che, con una sola parola, accusa o giudica i propri padroni, Rastignac aprì la porta da cui era uscito il domestico certamente apposta per far credere a tali domestici che egli conosceva bene i padroni di casa; ma sbucò sventatamente in una stanza dove si trovavano lumi, credenze, un apparecchio per riscaldare gli asciugamani del bagno, e che conduceva a un corridoio oscuro e a una scala segreta. Le risa soffocate che udì nell'anticamera portarono al colmo la sua confusione.

- Signore, il salotto è da questa parte - gli disse il domestico con quel falso rispetto che sembra uno scherno di più.

Eugenio tornò sui suoi passi con una tale precipitazione, che urtò contro una vasca da bagno, ma resse fortemente nella mano il cappello in modo da impedire che gli ci cadesse dentro. In quel momento un uscio si aprì in fondo al lungo corridoio illuminato da una piccola lampada, e Rastignac sentì nello stesso tempo la voce della signora Restaud, quella di Papà Goriot e il suono di un bacio. Rientrò nella sala da pranzo, la traversò, seguì il domestico e rientrò nel primo salotto, dove rimase fermo dinanzi alla finestra, accorgendosi solo allora che dava nel cortile. Egli voleva vedere se quel papà Goriot era realmente il suo papà Goriot. Il cuore gli batteva in modo strano, si rammentava delle spaventose riflessioni di Vautrin. Il domestico attendeva Eugenio alla porta del salotto, ma da questo uscì a un tratto un elegante giovane che disse con impazienza: - Me ne vado, Maurizio. Direte alla signora contessa che l'ho attesa per più di mezz'ora. - Questo impertinente, il quale senza dubbio aveva diritto di esserlo, canticchiò qualche gorgheggio all'italiana dirigendosi verso la finestra dov'era Eugenio, sia per vedere la faccia dello studente, sia per guardare in cortile.

- Ma il signor conte farebbe meglio ad aspettare ancora un istante, la signora ha finito - disse Maurizio ritornando in anticamera.

In quel momento, papà Goriot sbucava vicino al portone dall'uscita della scaletta. Il bonuomo tendeva l'ombrello e si accingeva ad aprirlo, senza vedere che il portone era stato aperto per far passare un giovane decorato, che guidava un tilbury. Papà Goriot ebbe appena il tempo di trarsi indietro per non essere schiacciato. La seta dell'ombrello aveva spaventato il cavallo, che fece un leggero scarto verso la gradinata. Il giovane voltò la testa incollerito, guardò papà Goriot, e gli fece, prima che uscisse, un saluto che mostrava la considerazione obbligata che si concede agli usurai di cui si ha bisogno, o quel rispetto necessario che esige un uomo bacato, di cui più tardi si arrossisce. Papà Goriot rispose con un piccolo saluto amichevole, pieno di bonomia. Tutto ciò accadde con la rapidità d'un baleno.

Troppo assorto per accorgersi che non era solo, Eugenio sentì a un tratto la voce della contessa.

- Ah!, Massimo, voi ora ve ne andavate - disse con un tono di rimprovero a cui s'univa un po' di stizza.

La contessa non aveva fatto attenzione all'arrivo del tilbury.

Rastignac si volse di scatto e vide la contessa in una civettuola vestaglia di cascemir bianco, a nastri rosa, pettinata con una certa negligenza, come lo sono le parigine al mattino; era profumata, aveva senza dubbio fatto il bagno, e la sua bellezza, per così dire ammorbidita, sembrava più voluttuosa; i suoi occhi erano umidi. L'occhio dei giovani sa vedere tutto; il loro animo si unisce alle irradiazioni della donna come una pianta aspira nell'aria le sostanze che le sono necessarie; Eugenio sentì la freschezza delle mani di quella donna senza aver bisogno di toccarle. Egli vedeva, attraverso il cascemir, i toni rosa del busto che la vestaglia, leggermente dischiusa, lasciava a momenti scoperto, e sul quale il suo sguardo si stendeva. L'espediente delle stecche non occorreva alla contessa, bastava la sola cintura a marcarle la flessuosa vita, il suo collo invitava all'amore, i suoi piedi eran graziosi nelle pantofoline. Quando Massimo prese quella mano per baciarla, solo allora Eugenio si accorse di lui e la contessa, di Eugenio.

- Ah!, siete voi, signor de Rastignac, sono lieta di vedervi disse con un tono al quale sanno ubbidire le persone di spirito. Massimo guardava alternativamente Eugenio e la contessa in modo assai significativo per fare andare via l'intruso.

- Suvvia, mia cara, spero che metterai questo stupidello alla porta!

Questa frase era la traduzione chiara e intelligibile degli sguardi del giovane impertinentemente fiero, che la contessa aveva chiamato Massimo, e del quale lei consultava il viso, con quell'intento sottomesso che rivela tutti i segreti di una donna senza che essa se ne accorga. Rastignac provò un odio violento per quel giovane. Innanzi tutto i bei capelli biondi e ben pettinati di Massimo gli fecero capire quanto i suoi fossero orribili. Poi Massimo aveva stivaletti fini e puliti, mentre i suoi, malgrado l'attenzione che aveva messo nel camminare, erano ricoperti d'un leggero strato di fango. Infine Massimo indossava un soprabito che gli stringeva elegantemente i fianchi e lo faceva somigliare a una graziosa donna, mentre Eugenio portava, alle due e mezza, un abito nero. L'accorto figlio della Charente sentì la superiorità che l'abbigliamento conferiva a quel dandy, sottile e alto, dall'occhio chiaro, dal colorito pallido, un di quegli uomini capaci di mandare in rovina degli orfani. Senza attendere la risposta d'Eugenio, la signora de Restaud corse come a volo spiegato nell'altro salotto, facendo svolazzare i lembi della vestaglia che s'avvolgevano e si dispiegavano, in modo da darle l'apparenza d'una farfalla; e Massimo la seguì. Eugenio, su tutte le furie, seguì Massimo e la contessa. I tre personaggi si trovarono perciò di fronte all'altezza del caminetto, in mezzo al salotto principale. Lo studente sapeva bene che avrebbe dato impaccio all'odioso Massimo; ma, a rischio di spiacere alla signora de Restaud, volle dare impaccio al dandy. A un tratto, rammentandosi di aver visto il giovanotto al ballo della signora de Beauséant, comprese quel che rappresentasse Massimo per la signora de Restaud; e, con quell'audacia giovanile che fa commettere grandi sciocchezze od ottenere grandi successi, si disse: "Ecco il mio rivale, voglio trionfare su di lui".

Imprudente!, ignorava che il conte Massimo de Trailles era solito farsi insultare, per poter poi tirare per primo e uccidere l'avversario. Eugenio era un provetto cacciatore, ma non aveva ancora abbattuto venti fantocci su ventidue in un tiro a segno. Il giovane conte si gettò in una poltrona vicino al fuoco, prese le molle, e smosse i tizzoni con una mossa così violenta, così scontenta, che il bel volto d'Anastasia espresse una subitanea afflizione. La giovane donna si volse verso Eugenio e gli diede uno di quegli sguardi freddamente interrogativi che dicono tanto chiaro: "Perché non ve ne andate?", da far subito pronunciare alle persone bene educate di quelle frasi che bisognerebbe chiamare:

frasi d'uscita.

Eugenio assunse un'aria garbata e disse:

- Signora, avevo urgenza di vedervi per...

S'interruppe senza aggiungere altro. Un uscio s'aprì. Il signore del tilbury apparve, senza cappello, non salutò la contessa, guardò preoccupato Eugenio, e stese la mano a Massimo, dicendogli:

"Buon giorno", con un'espressione fraterna che sorprese singolarmente Eugenio. I giovani di provincia non sanno quanto sia dolce la vita a tre.

- Il signor de Restaud - disse la contessa allo studente, presentandogli suo marito.

Eugenio s'inchinò profondamente.

- Signore - lei disse continuando e presentando Eugenio al conte de Restaud - il signor de Rastignac, parente della signora viscontessa de Beauséant dalla parte dei Marcillac, e che ho avuto il piacere d'incontrare all'ultimo suo ballo.

"Parente della signora viscontessa de Beauséant dalla parte dei Marcillac"! Queste parole, che la contessa pronunciò quasi enfaticamente per quella specie d'orgoglio che prova una padrona di casa nel dimostrare che da lei vengono solo persone distinte, ebbero un effetto magico; il conte perdette il suo tono freddamente cerimonioso e salutò lo studente.

- Molto lieto - disse - signore, di poter fare la vostra conoscenza.

Lo stesso Massimo de Trailles diede a Eugenio uno sguardo inquieto e smise subito la sua aria impertinente. Questo colpo di bacchetta magica, dovuto al potente intervento di un nome, aprì trenta caselle nel cervello del Meridionale, e gli fece ritornare lo spirito che s'era preparato. Una subitanea luce gli fece vedere chiaro nell'atmosfera dell'alta società parigina, ancora tenebrosa per lui. La casa Vauquer, papà Goriot, erano in quel momento ben lungi dal suo pensiero.

- Credevo la famiglia dei Marcillac estinta! - disse il conte de Restaud a Eugenio.

- Sì, signore - questi rispose. - Il mio prozio, il cavaliere de Rastignac, sposò l'erede della famiglia de Marcillac. Egli ebbe una sola figlia, che sposò il maresciallo de Clarimbault, avo materno della signora de Beauséant. Noi siamo il ramo cadetto, ramo tanto più povero in quanto il mio prozio, vice-ammiraglio, ha tutto per perduto al servizio del re. Il governo rivoluzionario non ha voluto ammettere i nostri crediti alla liquidazione della compagnia delle Indie.

- Il vostro signor prozio non era forse il comandante del "Vengeur" prima del 1789?

- Precisamente.

- Allora egli deve aver conosciuto mio nonno, che comandava il "Warwick".

Massimo alzò lievemente le spalle guardando la signora de Restaud, come per dirle: "Se si mette a parlare di marina con quello lì, siamo perduti". Anastasia capì lo sguardo del signor de Trailles.

Con quella ammirevole presenza di spirito che hanno le donne sorrise dicendo: - Venite con me, Massimo, ho qualcosa da chiedervi. Signori, vi lasceremo navigar di conserva sul "Warwick" e sul "Vengeur".

Si alzò e fece un segno d'ironico tradimento a Massimo, che insieme a lei prese la strada del salottino. Non appena la coppia "morganatica", graziosa espressione tedesca che non ha equivalente in francese, raggiunse la porta, il conte interruppe la conversazione con Eugenio.

- Anastasia!, ma restate qui, mia cara - esclamò con malumore- sapete bene che...

- Torno, torno - disse lei interrompendolo - solo un momento per dire a Massimo una cosa di cui voglio incaricarlo.

Tornò subito. Come tutte le donne che, obbligate a rispettare il carattere del marito per poter fare il loro comodo, sanno fin dove possono arrivare per non perdere una fiducia preziosa, e che a tale scopo non lo urtano nelle piccole cose della vita, la contessa aveva capito dalle inflessioni della voce del conte che non era prudente trattenersi nel salottino. Questi contrattempi erano dovuti alla presenza di Eugenio. Perciò la contessa indicò lo studente con un'aria e un gesto pieni di dispetto a Massimo, il quale disse molto epigrammaticamente al conte, a sua moglie e a Eugenio:

- Sentite, voi avete da parlare d'affari, non voglio disturbarvi; arrivederci. - E uscì precipitosamente.

- Ma restate, Massimo! - gridò il conte.

- Venite a pranzo da noi - disse la contessa che, lasciando ancora una volta Eugenio e il conte, seguì Massimo nel primo salotto, ove rimasero insieme quel tanto da credere che nel frattempo il signor de Restaud avrebbe liquidato Eugenio.

Rastignac li sentiva ora scoppiar dal ridere, ora parlare, ora tacere; ma il malizioso studente faceva intanto lo spiritoso col signor de Restaud, lo adulava o lo imbarcava in discussioni, per rivedere la contessa e sapere quali erano le sue relazioni con papà Goriot. Quella donna, evidentemente innamorata di Massimo, quella donna, padrona di suo marito, legata segretamente al vecchio vermicellaio, gli sembrava tutto un mistero. Egli voleva penetrare in tale mistero, sperando così di poter regnare da sovrano su quella donna così squisitamente Parigina.

- Anastasia - disse il conte, chiamando di nuovo sua moglie.

- Mio povero Massimo - disse lei al giovanotto - bisogna rassegnarsi. A questa sera... - Spero, Nasia - le disse all'orecchio - che darete l'ordine di non far più entrare quel ragazzotto i cui occhi si accendevano come carboni quando la vostra vestaglia s'apriva. Sarebbe capace di farvi delle dichiarazioni d'amore, vi comprometterebbe, e mi costringerebbe a ucciderlo.

- Siete pazzo, Massimo? - disse lei. - Questi studentelli non sono forse, al contrario, eccellenti parafulmini? Troverò il modo, tuttavia, di farlo prendere in uggia da Restaud.

Massimo scoppiò dal ridere e uscì, seguito dalla contessa, che si affacciò alla finestra per vederlo salire in carrozza, e far scalpitare il cavallo agitando la frusta. Tornò solo quando il portone fu richiuso.

- Ma sai, mia cara - le disse il conte quando rientrò - il fondo dove risiede la famiglia del signore non è lontano da Verteuil, sulla Charente. Il prozio del signore e mio nonno si conoscevano.

- Felice di trovarmi fra conoscenti - disse la contessa distratta.

- Più di quanto non lo crediate - disse a bassa voce Eugenio.

- Come! - fece ella vivamente.

- Ma - riprese lo studente - ho visto or ora uscire da casa vostra un signore col quale sono porta a porta, nella stessa pensione:

papà Goriot.

A questo nome adorno della parola padre il conte che stava attizzando il fuoco, gettò le molle nel fuoco, come se gli avessero scottato le mani, e si alzò.

- Signore, avreste potuto anche dire: il signor Goriot - esclamò.

La contessa dapprima impallidì, vedendo lo scatto del marito, poi arrossì, e rimase evidentemente imbarazzata; poi, rispose con voce che volle render naturale, e con un'aria falsamente disinvolta:

- E' impossibile conoscere persona cui noi si voglia più bene...- S'interruppe, guardò il pianoforte, come se si destasse in lei qualche capriccio, e disse: - Vi piace la musica, signore?

- Molto - rispose Eugenio, divenuto rosso e mortificato dalla idea confusa di aver commesso una grossa sciocchezza.

- Cantate? - domandò lei andando verso il pianoforte, di cui toccò vivacemente tutti i tasti dal do più basso al fa più alto. Rrrrah !

- No, signora.

Il conte de Restaud camminava intanto in lungo e in largo.

- Peccato, vi siete privato di un gran mezzo di successo.

- "Ca-a-ro, ca-a-a-ro, ca-a-a-a-ro, non dubitar" cantò la contessa.

Pronunciando il nome di papà Goriot, Eugenio aveva dato un colpo di bacchetta magica, ma con un risultato contrario a quello che avevano ottenuto le parole: parente della signora de Beauséant.

Egli si trovava nella situazione di un uomo introdotto a titolo di favore in casa di un collezionista di curiosità, e che, urtando per inavvertenza in un armadio pieno di statuine, faccia cadere tre o quattro teste male incollate. Avrebbe voluto sprofondarsi in un abisso. L'espressione del volto della signora de Restaud era sgarbata, fredda, e i suoi occhi divenuti indifferenti sfuggivano quelli dello sfortunato studente.

- Signora - egli disse - voi avete da parlare col signor de Restaud, vogliate gradire i miei omaggi, e permettermi...

- Quando verrete - fece precipitosamente la contessa fermando Eugenio con un gesto - fareste sempre al signor de Restaud e a me il più grande piacere.

Eugenio s'inchinò profondamente alla coppia e uscì, seguito dal signor de Restaud il quale, nonostante le insistenze dell'ospite perché non si disturbasse, lo accompagnò fino all'anticamera.

- Ogni volta che il signore si presenterà alla porta - disse il conte a Maurizio - né la signora né io ci saremo mai per lui.

Quando Eugenio mise il piede sulla gradinata, si accorse che pioveva. "Insomma, si disse, sono venuto qui a commettere una balordaggine di cui ignoro la causa e le conseguenze, per di più ci rimetterò l'abito e il cappello. Farei meglio a restarmene nel mio cantuccio a sgobbare sul Diritto, a non pensare ad altro che a diventare un severo magistrato. Posso io andare in società se, per destreggiarsi convenientemente, occorrono un mucchio di carrozzini, stivaletti verniciati, attrezzi indispensabili, catene d'oro, guanti di daino che costano sei franchi, da calzare la mattina, e guanti gialli tutte le sere? Oh, vecchio buffo d'un papà Goriot!".

Quando si trovò sotto il portone, il cocchiere d'una vettura da nolo, che tornava certamente dall'aver accompagnato una coppia di sposi e che non chiedeva di meglio che rubare al padrone qualche corsa di contrabbando, fece segno a Eugenio, vedendolo senza ombrello, in abito nero, panciotto bianco, guanti gialli e stivaletti lucidi. Eugenio era in preda a una di quelle rabbie sorde che spingono un giovane ad affondarsi sempre più nell'abisso in cui è caduto, quasi sperando di trovarvi una fortunata via di scampo. Acconsentì con un movimento della testa all'offerta del cocchiere, e salì nella vettura ove alcuni bocciuoli di fiori d'arancio e alcuni fili argentati attestavano che c'erano stati degli sposi.

- Dove va il signore? - chiese il cocchiere, che s'era già tolto i guanti bianchi.

- Diamine! - si disse Eugenio - dato che mi sono gettato allo sbaraglio, che almeno mi serva a qualche cosa!

- Andiamo al palazzo de Beauséant - aggiunse ad alta voce.

- Quale? - domandò il cocchiere.

Parola sublime, che confuse Eugenio. Questo novello uomo elegante non sapeva che esistevano due palazzi de Beauséant, ignorava quanto era ricco in fatto di parenti, che non si curavano di lui.

- Il visconte de Beauséant, in via...

- Di Grenelle - disse il cocchiere scuotendo la testa e interrompendolo. - Ma c'è anche il palazzo del conte e del marchese de Beauséant, in via Saint-Dominique - egli aggiunse, rialzando il predellino.

- Lo so bene - rispose Eugenio con un tono secco. - Oggi tutti mi prendono dunque in giro! - si disse gettando il cappello sui cuscini del sedile anteriore. - Questa è una scappata che mi costerà quanto il riscatto d'un re. Ma almeno farò una visita alla mia sedicente cugina in piena forma aristocratica. Papà Goriot mi costa già per lo meno dieci franchi, il vecchio scellerato! In fede mia!, voglio raccontare la mia avventura alla signora de Beauséant, e forse la farò ridere. Lei saprà certamente il mistero dei legami criminosi tra quel vecchio topo senza coda e quella bella donna. E' meglio piacere a mia cugina che andare a battere contro quella donna immorale, che mi fa l'impressione sia molto costosa. Se il solo nome della bella viscontessa è già tanto potente, di quale importanza non sarà la sua persona? Miriamo in alto. Quando si punta a qualcosa che è in cielo, non bisogna forse mirare a Dio? - Queste parole rappresentavano la formula breve di mille e un pensieri tra i quali egli ondeggiava. Riebbe un poco di calma e di fiducia vedendo cadere la pioggia. Disse fra sé e sé che, se buttava due delle preziose monete da cento soldi che gli rimanevano, esse sarebbero state convenientemente impiegate nella conservazione dell'abito, degli stivaletti e del cappello. Non fu senza una punta di ilarità che udì il cocchiere gridare: "La porta, per favore!". Un guardaportone in uniforme rosso-oro fece stridere sui cardini il portone del palazzo, e Rastignac vide con una dolce soddisfazione la sua vettura passare sotto l'androne, fare il giro del cortile e fermarsi sotto la pensilina della gradinata. Il cocchiere, dal pesante pastrano blu bordato di rosso, corse ad abbassare il predellino. Scendendo dalla vettura, Eugenio sentì delle risa rattenute che provenivano dal peristilio.

Tre o quattro domestici s'erano già fatti beffe di quell'equipaggio da sposi popolari. Le loro risa illuminarono lo studente proprio nel momento in cui confrontò quella vettura con uno dei più eleganti "coupés" di Parigi, attaccato a due vivaci cavalli che portavano rose agli orecchi, che mordevano il freno e che un cocchiere incipriato, elegante nella sua cravatta, teneva in briglia come se fossero in procinto di prender la mano. Alla Chaussée-d'Antin nel cortile del palazzo della signora de Restaud aveva trovato il fine carrozzino del ventiseienne. Nel faubourg Saint-Germain stazionava in lusso di un gran signore, un equipaggio che a pagarlo non sarebbero bastati trentamila franchi.

"Chi c'è dunque?", si domandò Eugenio cominciando a capire con qualche ritardo che a Parigi poche dovevano essere le donne non occupate, e che la conquista di una di queste regine doveva costare più del sangue. "Diamine! Anche mia cugina avrà certamente il suo Massimo".

Salì la gradinata con la morte nell'anima. Al suo apparire la porta a vetri s'aprì; i domestici erano seri come asini sotto la striglia. La festa da ballo cui aveva preso parte s'era svolta nei grandi appartamenti da ricevimento, situati al pianterreno del palazzo de Beauséant. Non avendo avuto il tempo, tra l'invito e il ballo, di far visita alla cugina, non era ancora mai penetrato negli appartamenti della signora de Beauséant; egli stava dunque per vedere per la prima volta le meraviglie di quell'eleganza personale, che rivela l'anima e le abitudini d'una donna di classe: studio tanto più curioso in quanto il salotto della signora de Restaud gli offriva un termine di paragone. La viscontessa lo avrebbe ricevuto alle quattro e mezza. Cinque minuti prima, non avrebbe potuto vedere sua cugina. Eugenio, che ignorava affatto queste varie etichette parigine, fu condotto attraverso uno scalone di marmo bianco, adorno di fiori, dalla ringhiera dorata, dalla guida rossa, presso la signora de Beauséant, della quale non conosceva la biografia verbale, una cioè di quelle tante mutevoli storie che si raccontano tutte le sere da un orecchio all'altro nei salotti di Parigi.

La viscontessa aveva da tre anni una relazione con uno dei più famosi e più ricchi signori portoghesi: il marchese d'Adjuda- Pinto. Era una di quelle relazioni innocenti, così ricche d'attrattive per le persone in tal modo legate, da non poter sopportare un terzo incomodo. Perciò lo stesso visconte de Beauséant aveva dato il buon esempio al pubblico, rispettando, per amore o per forza, tale unione morganatica Le persone che, nei primi giorni di questa amicizia, andarono a trovare la viscontessa alle due, vi trovarono il marchese d'Adjuda-Pinto. La signora de Beauséant, incapace di rifiutarsi di ricevere - il che non sarebbe stato affatto conveniente - riceveva gli ospiti con tanta freddezza e contemplava con tanta attenzione la cornice del salotto, che ognuno capiva quanto l'annoiasse. Quando si seppe in Parigi che si dava noia alla signora de Beauséant andandola a trovare tra le due e le quattro, essa poté godere la più completa solitudine. Andava ai "Bouffons" o all'Opéra in compagnia del signor de Beauséant e del signor d'Adjuda-Pinto; ma, da uomo di mondo, il signor de Beauséant, dopo averveli accompagnati, lasciava sempre soli la moglie e il Portoghese. Il signor d'Adjuda doveva sposarsi. Doveva sposare una signorina de Rochefide. In tutta l'alta società una sola persona ignorava questo matrimonio, e la persona era la signora de Beauséant. Alcune sue amiche gliene avevano, sì, parlato, ma vagamente, lei ne aveva riso, ritenendo che gli amici volessero turbare una felicità invidiata. Tuttavia le pubblicazioni stavano per esser fatte. Sebbene fosse venuto per partecipare il proprio matrimonio alla viscontessa, il bel Portoghese non aveva ancora osato fargliene parola. Perché nulla senza dubbio è più difficile che dar notizia a una donna di un simile ultimatum. Certi uomini si trovano più a loro agio sul terreno, di fronte a un uomo che attenta al loro cuore con una spada, che non dinanzi a una donna la quale, dopo avere spacciato le proprie elegie per due ore, sviene e chiede i sali. In quel momento, dunque, il signor d'Adjuda-Pinto era sulle spine, e voleva uscire, pensando che la signora de Beauséant avrebbe saputo la notizia; le avrebbe scritto, e sarebbe stato più comodo trattare il galante assassinio per corrispondenza che non a viva voce. Quando il domestico della viscontessa annunciò il signor Eugenio de Rastignac, questi fece trasalir di gioia il marchese d'Adjuda-Pinto. Sappiatelo bene: donna innamorata è ancor più ingegnosa a crearsi dei dubbi di quanto non sia abile a variare il piacere. Quando è sul punto d'essere abbandonata, indovina più facilmente il significato d'un gesto di quanto il destriero di Virgilio non annusi i lontani corpuscoli messaggeri d'amore.

Perciò siate certi che la signora de Beauséant colse quel trasalimento involontario quasi impercettibile, ma candidamente spaventevole. Eugenio non sapeva che non ci si deve mai presentare a chicchessia in Parigi senza essersi fatto prima raccontare dagli amici di casa la storia del marito, della moglie o dei figli, per non commettere nessuna di quelle balordaggini a proposito delle quali si dice pittorescamente in Polonia: "Attaccate i buoi al carro vostro"! certo per evitare il malpasso in cui vi impantanereste. Se questi infortuni della conversazione non hanno ancora un nome in Francia, è perché sono considerati indubbiamente impossibili, data l'enorme pubblicità che godono le maldicenze.

Dopo essersi impantanato dalla signora de Restaud, che non gli aveva lasciato neppure il tempo di attaccare i buoi al suo carro, solo Eugenio poteva essere capace di ricominciare il proprio mestiere di bovaro presentandosi in casa della signora de Beauséant. Ma, se aveva orribilmente infastidito la signora de Restaud e il signor de Trailles, ora invece toglieva dall'imbarazzo il signor d'Adjuda. Addio - stava dicendo il Portoghese affrettandosi a raggiungere l'uscio, quando Eugenio entrò in un salottino civettuolo, grigio e rosa, dove il lusso sembrava soltanto eleganza.

- Ma questa sera - disse la signora de Beauséant volgendo la testa e dando uno sguardo al marchese - non si va ai "Bouffons"?

- Non posso - gli rispose afferrando la maniglia dell'uscio.

La signora de Beauséant si alzò, lo richiamò vicino a sé, senza porre la minima attenzione a Eugenio, il quale, in piedi, stordito dagli scintillii d'una ricchezza meravigliosa, credeva adesso alla realtà dei racconti arabi, e non sapeva dove cacciarsi, trovandosi in presenza di quella donna senza esser notato da lei. La viscontessa aveva alzato l'indice della sua mano destra, e con una graziosa mossa indicava al marchese un posto dinanzi a lei. Ci fu in quel gesto un così violento dispotismo di passione, che il marchese lasciò la maniglia dell'uscio e tornò indietro. Eugenio lo guardò con una punta d'invidia.

"Ecco", si disse, "l'uomo del coupé! Ma dunque è proprio necessario avere cavalli focosi, livree e oro a profusione per ottenere lo sguardo d'una Parigina?". Il demone del lusso lo morse al cuore, la febbre del guadagno lo prese, la sete dell'oro gli inaridì la gola. Egli non disponeva che di centotrenta franchi a trimestre. Il padre, la madre, i fratelli, le sorelle, la zia non spendevano, tutti insieme, duecento franchi al mese. Tale rapido confronto tra la sua situazione attuale, e la meta cui bisognava arrivare, contribuirono a sbalordirlo.

- Perché - domandò la viscontessa ridendo - voi non potete venire agli "Italiens"?

- Affari. Pranzo dall'ambasciatore d'Inghilterra.

- Ma poi lo lascerete.

Quando un uomo inganna, è invincibilmente costretto ad accumulare bugie su bugie. Il signor d'Adjuda disse allora ridendo:

- Lo esigete?

- Sì, certo.

- Ecco quel che volevo farmi dire - rispose, dando uno di quegli sguardi maliziosi che avrebbero rassicurato tutt'altra donna.

Prese la mano della viscontessa, la baciò e uscì.

Eugenio si passò la mano sui capelli, e si torse per salutare, credendo che la signora de Beauséant ora avrebbe pensato a lui; ma a un tratto essa si slancia, si precipita in galleria, corre alla finestra e guarda il signor d'Adjuda che sale in carrozza: tende l'orecchio all'ordine, e sente che il portiere ripete al cocchiere: "Dal signor de Rochefide". Queste parole, e il modo col quale d'Adjuda si tuffò nella carrozza furono il lampo e la folgore per quella donna, che rientrò in preda a mortali apprensioni. Le più orribili catastrofi non sono che questo nel gran mondo. La viscontessa tornò nella camera da letto, si sedette a un tavolo, e prese un elegante foglio di carta.

"Dato che", scrisse, "voi pranzate dai Rochefide, e non all'ambasciata inglese, mi dovete una spiegazione; vi attendo".

Dopo aver raddrizzato qualche lettera, sfigurata dal tremolio convulso della mano, appose un C che voleva dire: Clara de Bourgogne, e suonò.

- Giacomo - disse al domestico che accorse - andate alle sette e mezza dal signor de Rochefide, e lì domandate del marchese d'Adjuda. Se il signor marchese è lì, fategli pervenire questo biglietto senza chiedere risposta; se non c'è, tornate e riportatemi la lettera.

- C'è qualcuno che attende la signora viscontessa in salotto.

- Ah! è vero - disse lei spingendo la porta.

Eugenio cominciava a trovarsi a disagio; finalmente la viscontessa gli disse con un tono da emozionarlo fin nel profondo del cuore:

- Scusatemi, signore, dovevo scrivere una parola, ma ora sono tutta per voi. - Lei non sapeva quel che si dicesse, giacché ecco quello che invece pensava: "Ah!, vuole sposare la signorina de Rochefide. Ma è forse libero? Questa sera il matrimonio andrà in fumo, o io... Ma domani non se ne parlerà già più".

- Cugina,.. - rispose Eugenio.

- Eh? - fece la viscontessa, gettandogli uno sguardo la cui impertinenza agghiacciò lo studente.

Eugenio comprese il valore di quella esclamazione. Da tre ore aveva imparato tante cose, che s'era messo sul chi va là.

- Signora - egli riprese a dire arrossendo. Esitò, poi disse continuando: - Perdonate; ho tanto bisogno di protezione, che un briciolo di parentela non avrebbe guastato nulla.

La signora de Beauséant sorrise, ma tristemente; essa sentiva già la sfortuna brontolare nella sua atmosfera.

- Se sapeste in che situazione si trova la mia famiglia - egli disse continuando - forse sareste lieta di far la parte di una di quelle fate favolose che si compiacevano di eliminare gli ostacoli attorno ai loro figliocci.

- Ebbene!, cugino - disse ridendo - in che cosa posso esservi utile?

- Ma come volete che lo sappia? Essere legato a voi da un legame di parentela che si perde nell'ombra è già una grande fortuna per me. Voi mi avete turbato, e io non so più cosa volevo dirvi. Siete la sola persona che conosco a Parigi. Ah!, ecco, volevo consultarvi pregandovi di accogliermi come un povero fanciullo che vuol attaccarsi alla vostra sottana, e che saprebbe morire per voi.

- Voi uccidereste qualcuno per me?

- Ne ucciderei due! - fece Eugenio.

- Ragazzo !, sì, siete un ragazzo - lei disse reprimendo qualche lacrima; - voi sareste capace di amare sinceramente, voi!

- Oh! - egli fece scuotendo la testa.

La viscontessa s'interessò vivamente allo studente per quella risposta da ambizioso. Il meridionale era alle sue prime armi. Tra il salottino azzurro della signora de Restaud e il salotto rosa della signora de Beauséant, aveva fatto tre anni di quel "Diritto parigino" di cui non si parla mai, sebbene costituisca un'alta giurisprudenza sociale che, ben espressa e ben praticata, conduce a tutto.

- Ah!, ci sono - - disse Eugenio. - Avevo notato la signora de Restaud al vostro ballo, e stamane mi sono recato da lei.

- Le avrete procurato un bel fastidio - disse sorridendo la signora de Beauséant.

- Eh?, sì, sono un ignorante e mi farò tanti nemici, se non mi accorderete la vostra protezione. Credo sarà difficile trovare a Parigi una donna giovane, bella, ricca, elegante, che non sia occupata, e a me ne occorre una che m'insegni ciò che voi donne sapete così bene spiegare: la vita. Troverò ovunque un signor de Trailles. Sono venuto perciò da voi per chiedervi la soluzione di un enigma, e per pregarvi di dirmi di quale natura sia la sciocchezza che io ho commesso. Ho parlato di un padre...

- La signora duchessa de Langeais - disse Giacomo tagliando la parola allo studente, che fece il gesto di un uomo violentemente contrariato.

- Se volete avere successo nella vita - disse la viscontessa d bassa voce - prima di tutto non dimostrate così palesemente i vostri sentimenti. Eh!, buon giorno, mia cara-riprese alzandosi, andando incontro alla duchessa e stringendole le mani, con l'effusione carezzevole che avrebbe potuto dimostrare a una sorella e alla quale la duchessa rispose con le più graziose moine.

"Ecco due buone amiche", pensò Rastignac. "Avrò d'ora in poi due protettrici; le due donne devono avere gli stessi affetti, e anche questa s'interesserà di me".

- A che debbo il piacere di vederti, mia cara Antonietta? disse la signora de Beauséant.

- Ma, ho visto il signor d'Adjuda-Pinto entrare in casa del signor de Rochefide, e allora ho pensato che vi avrei trovata sola.

La signora de Beauséant non si morse le labbra, non arrossì, il suo sguardo non mutò, la sua fronte parve schiarirsi mentre la duchessa pronunciava quelle fatali parole.

- Se avessi saputo che eravate occupata... - aggiunse la duchessa volgendosi verso Eugenio.

- Il signore è il signor Eugenio de Rastignac, uno dei miei cugini - disse la viscontessa. - Avete notizie del generale Montriveau ?- ella fece. - Sérizy, m'ha detto ieri che non lo si vedeva più; è stato forse da voi, oggi?

La duchessa, che si diceva fosse stata abbandonata dal signor de Montriveau, per il quale nutriva una folle passione, sentì nel cuore la punta di quella domanda, e arrossì rispondendo:

- Era all'Eliseo.

- In servizio - disse la signora de Beauséant.

- Clara, voi sapete certamente - riprese la duchessa gettando fiotti di malignità dagli occhi - che domani si faranno le pubblicazioni di matrimonio del signor d'Adjuda-Pinto e della signorina Rochefide!

Il colpo era troppo forte: la viscontessa impallidì e rispose ridendo:

- Una delle tante chiacchiere con le quali si divertono gli sciocchi. Quale ragione avrebbe il signor d'Adjuda di portare fra i Rochefide uno dei più bei nomi del Portogallo? La nobiltà dei Rochefide è di ieri.

- Ma si dice che Berta avrà duecentomila lire di rendita.

- Il signor d'Adjuda è troppo ricco per fare questi calcoli.

- Ma, mia cara, la signorina de Rochefide è incantevole.

- Ah!

- E poi, oggi pranza da loro, i patti sono conclusi. Mi meraviglia molto che non ne sappiate nulla.

- Qual'è dunque la sciocchezza che avete commesso, signore-disse la signora de Beauséant. - Questo povero ragazzo si trova così da poco lanciato nel mondo, che nulla comprende, mia cara Antonietta, di quanto diciamo. Siate buona con lui, rimandiamo a domani la nostra conversazione. Domani, vedete, tutto sarà certamente ufficiale, e voi potrete essere ufficiosa a colpo sicuro.

La duchessa rivolse a Eugenio uno di quegli sguardi impertinenti che avvolgono un uomo da cima a piedi, lo schiacciano e lo riducono a zero.

- Signora, io, senza saperlo, ho immerso un pugnale nel cuore della signora de Restaud. Senza saperlo, ecco il mio errore - disse lo studente abbastanza ben servito dalla sua intelligenza e che aveva compreso i mordenti epigrammi nascosti sotto le frasi affettuose di quelle due donne. - Voi continuate a trattare, temendole forse, le persone consapevoli del male che vi fanno, mentre chi ferisce ignorando la profondità della ferita arrecata è considerato uno sciocco, un incauto che non sa approfittar di nulla, e tutti lo disprezzano.

La signora de Beauséant lanciò sullo studente uno di quegli sguardi struggenti nei quali le grandi anime sanno mettere riconoscenza e, insieme, dignità. Quello sguardo fu come un balsamo che curò la piaga fatta al cuore dello studente dall'occhiata da ufficiale-stimatore con la quale la duchessa lo aveva valutato.

- Figuratevi - disse Eugenio continuando - che io m'ero già venuto conquistando la simpatia del conte de Restaud; giacché - aggiunse rivolgendosi alla duchessa con un'aria umile e al tempo stesso maliziosa - devo dirvi, signora, che io non sono ancora che un povero diavolo di studente, tanto solo, tanto povero...

- Non dite questo, signor de Rastignac. Noi donne non vogliamo mai quello che gli altri non vogliono.

- Oh! - fece Eugenio - io non ho che ventidue anni, e bisogna sopportare le contrarietà della propria età. Del resto, io mi sto confessando; ed è impossibile inginocchiarsi a un più prezioso confessionale: vi si commettono i peccati di cui si è accusati poi nell'altro.

La duchessa assunse un tono freddo a un tal discorso irreligioso, di cui condannò il cattivo gusto dicendo alla viscontessa:

- Il signore viene...

La signora de Beauséant rise di cuore di suo cugino e della duchessa.

- Viene solo adesso, mia cara, e cerca una istitutrice che gli insegni il buon gusto.

- Signora duchessa - riprese Eugenio - non è forse naturale di volersi iniziare ai segreti di quel che ci ammalia? "Andiamo", disse a se stesso, "sono certo che sto dicendo loro frasi da parrucchiere".

- Ma la signora de Restaud è, credo, l'allieva del signor de Trailles - disse la duchessa.

- Non ne sapevo nulla, signora - riprese a dire lo studente. - E così io mi sono messo storditamente tra loro due. Insomma, m'ero già alquanto affiatato col marito, mi vedevo sopportato dalla moglie, quando mi è venuto in mente di dir loro che conoscevo un uomo che avevo visto proprio allora uscire da una scala segreta, e che aveva, in fondo a un corridoio, baciato la contessa.

- Chi era? - domandarono le due donne.

- Un vecchio che vive con due luigi al mese, in fondo al faubourg Saint-Marceau, come me, studente povero; un vero disgraziato che tutti burlano e che chiamiamo papà Goriot.

- Ma, bambino che siete - esclamò la viscontessa - la signora de Restaud nasce Goriot.

- La figlia di un vermicellaio - riprese la duchessa - una donnetta che si è fatta presentare a corte contemporaneamente alla figlia d'un pasticciere. Ve ne ricordate, Clara? Il re si mise a ridere, e disse in latino un motto spiritoso sulla farina.

Persone..., come disse?, persone...

- "Ejusdem farinae"- disse Eugenio.

- Proprio così - disse la duchessa.

- Ah!, è suo padre - riprese lo studente facendo un gesto d'orrore.

- Ma sì; il bonuomo aveva due figlie, di cui va pazzo, sebbene l'una e l'altra l'abbiano quasi rinnegato.

- La seconda - domandò la viscontessa guardando la signora de Langeais - non è maritata a un banchiere, che ha un cognome tedesco, un barone de Nucingen? Non si chiama Delfina? Non è una bionda che ha un palco di fianco all'Opéra, e frequenta anche i "Bouffons", e ride forte per farsi notare?

La duchessa sorrise dicendo:

- Ma, mia cara, io proprio vi ammiro. Perché vi occupate tanto di quella gente ? Bisognava proprio essere innamorato pazzo, come lo era Restaud, per infarinarsi con la signorina Anastasia. Oh!, non ci farà davvero un buon affare ! Lei è nelle mani del signor de Trailles, e lui la manderà alla rovina.

- Hanno rinnegato il loro padre! - ripeteva Eugenio.

- Ebbene, sì, il loro padre, un padre - riprese a dire la viscontessa - un buon padre che ha dato loro tutto; si dice abbia dato a ciascuna cinque o seicentomila franchi per renderle felici maritandole bene; ed egli s'è riservato da otto a diecimila franchi di rendita per sé, credendo che le figlie gli sarebbero rimaste figlie, e che si sarebbe creato presso di loro due esistenze, due case dove sarebbe stato adorato, vezzeggiato. E invece in due anni i generi l'hanno bandito dal loro ambiente come l'ultimo dei miserabili... - Qualche lacrima sgorgò dagli occhi di Eugenio: egli era stato di recente ristorato dalle pure e sante emozioni della famiglia; era ancora sotto il fascino delle convinzioni giovanili; ed era quella la sua prima giornata nel campo di battaglia della civiltà parigina. Le vere emozioni si comunicano così facilmente, che per qualche minuto i tre si guardarono in silenzio.

- Eh! mio Dio - disse la signora de Langeais - sì, ciò sembra orribile, eppure lo vediamo tutti i giorni. Non c'è una ragione in tutto questo? Ditemi, cara, avete mai pensato che cos'è un genero?

Un genero è un uomo per il quale noi alleveremo, voi od io, una cara creaturina, cui saremo attaccate da mille legami, che rappresenterà per diciassette anni la gioia della famiglia, che ne sarà l'anima candida, direbbe Lamartine, e ne diverrà la peste.

Quando quest'uomo ce l'avrà presa, comincerà con l'afferrare il suo amore come un'ascia, per tagliare nel cuore e nel vivo di quell'angelo tutti i sentimenti per i quali era attaccata alla sua famiglia. Ieri, la nostra figlia era tutta per noi, e noi eravamo tutto per lei; domani diventerà la nostra nemica. Non vediamo questa tragedia compiersi tutti i giorni? Qui, la nuora si comporta con estrema impertinenza verso il suocero, che ha sacrificato tutto per suo figlio. Là, un genero mette la suocera alla porta. Sento chiedere che cosa ci sia di drammatico oggi nella società! Ma il dramma del genero è spaventoso, senza poi contare i nostri matrimoni, diventati qualcosa di assai stupido.

Mi rendo perfettamente conto di ciò che è accaduto al vecchio vermicellaio. Credo di ricordarmi che questo Foriot...

- Goriot, signora.

- Sì, questo Moriot fu presidente di una sezione durante la rivoluzione, ebbe parte nel segreto della famosa carestia, e cominciò la sua fortuna col vendere a quei tempi la farina ad un prezzo dieci volte superiore a quello che gli costava. Ne ha avuta quanta ne ha voluta. L'amministratore di mia nonna gliene ha venduta per somme enormi. Questo Goriot faceva senza dubbio a mezzo, come tutta quella gente, col Comitato di Salute Pubblica.

L'amministratore, ricordo, diceva a mia nonna che poteva rimanere con tutta tranquillità a Grandvilliers, perché il suo grano costituiva una eccellente tessera civica. Ebbene, questo Loriot, che vendeva grano ai tagliatori di teste, non ha avuto che una passione. Adora, dicono, le figlie. Ha fatto appollaiare la maggiore nella casa de Restaud, e ha innestato l'altra al barone de Nucingen, un ricco banchiere che fa il monarchico.

Comprenderete bene come, sotto l'impero, i due generi non si siano troppo scandalizzati di avere quel vecchio Novantatré presso di loro: la cosa poteva ancora andare con Bonaparte. Ma quando sono tornati i Borboni, il bonuomo ha dato fastidio al signor de Restaud, e ancor più al banchiere. Le figlie, che forse amavano ancora il padre, hanno voluto salvare capra e cavoli, il padre e il marito; e hanno adottato il sistema di ricevere il Toriot quando in casa non c'è nessuno; e hanno giustificato la cosa con pretesti affettuosi: "Papà, venite, staremo meglio perché saremo soli!" eccetera. Io, mia cara, credo che i sentimenti sinceri abbiano occhi e intelligenza: il cuore di quel povero Novantatré deve aver sanguinato. Ha capito che le figlie si vergognavano di lui; che se esse amavano i loro mariti, egli nuoceva ai suoi generi. Bisognava dunque sacrificarsi. E si è sacrificato, perché è un padre: si è messo al bando da se stesso. Vedendo le figlie contente, ha compreso d'aver fatto bene. Il padre e le figlie sono stati complici di questo piccolo delitto. E' una cosa che accade dappertutto. Questo papà Doriot non sarebbe stato forse come una macchia di morchia nel salotto delle figlie? Ci si sarebbe trovato a disagio, ci si sarebbe annoiato. Quel che è accaduto a questo padre può capitare alla più bella donna con l'uomo che amerà di più: se lei lo annoia col suo amore, lui se ne va, e commette qualsiasi vigliaccheria pur di sfuggirla. Tutti i sentimenti sono così. Il nostro cuore è un tesoro, vuotatelo di colpo, siete rovinati. Noi non perdoniamo a un sentimento d'essersi manifestato nella sua interezza più di quanto non perdoniamo a un uomo di non possedere un soldo di suo. Quel padre aveva dato tutto. Aveva dato, per venti anni, le sue viscere, il suo amore; aveva dato tutta la sua fortuna in un giorno. Spremuto bene il limone, le figlie hanno gettato la buccia all'angolo della strada.

- Il mondo è infame - disse la viscontessa sfilacciando il suo scialle e senza alzare gli occhi, poiché era stata toccata nel vivo dalle parole che la signora de Langeais aveva pronunciato proprio per lei, narrando questa storia.

- Infame?, no - riprese a dire la duchessa - va per il verso suo, ecco tutto. Se ve ne parlo così, è per dimostrarvi che non mi faccio ingannare dal mondo. La penso come voi - disse premendo la propria mano su quella della viscontessa. - Il mondo è un pantano, cerchiamo di rimaner sulle alture. Si levò, baciò sulla fronte la signora de Beauséant dicendole: - Siete proprio bella, in questo momento, mia cara. Avete i più bei colori che abbia mai visto. - Poi uscì dopo aver lievemente chinato la testa nel guardare il cugino.

- Papà Goriot è sublime! - disse Eugenio rammentandosi di averlo visto torcere nella notte il servizio d'argento dorato. La signora de Beauséant non sentì, era pensierosa. Trascorse qualche minuto di silenzio, e il povero studente, per una specie di timido stupore, non osava né andarsene, né rimanere, né parlare.

- Il mondo è infame e cattivo - disse poi la viscontessa. - Non appena ci capita una disgrazia, si trova subito un amico pronto a venircela a dire, e a trafiggerci il cuore con un pugnale facendocene ammirare l'impugnatura. E già il sarcasmo, già le ironie! Ah!, ma io mi difenderò.. Erse la testa da gran dama qual era, e baleni partirono dagli occhi suoi fieri. - Ah! - fece quindi vedendo Eugenio - siete ancora lì!

- Ancora - egli disse sommessamente.

- Ebbene, signor de Rastignac, trattate questo mondo come merita.

Volete arrivare?, io vi aiuterò. Misurerete quanto è profonda la corruzione femminile, misurerete l'ampiezza della miserabile vanità degli uomini. Quantunque abbia già letto bene in questo libro del mondo, c'erano pagine che ancora non conoscevo. Ora so tutto. Più freddamente calcolerete, più andrete avanti. Colpite senza pietà, e sarete temuto. Considerate uomini e donne come cavalli di posta, e lasciateli crepare a ogni cambio: arriverete così all'àpice delle vostre ambizioni. E, date retta a me: non diverrete mai niente, in questa società, se non avrete una donna che s'interesserà di voi. Deve essere giovane, ricca, elegante. Ma se nutrite un sentimento sincero, tenetelo nascosto come un tesoro; non lasciatelo mai scorgere, altrimenti sarete perduto.

Non sareste più il carnefice, ma diverrete la vittima. Se dovesse capitarvi di amare, mantenete gelosamente il vostro segreto!

Svelatelo solo quando avrete ben saputo a chi aprirete il vostro cuore. Per preservare in anticipo questo amore che non esiste ancora, imparate a diffidare di questo mondo. Ascoltatemi, Michele...(Essa sbagliava ingenuamente il nome senza accorgersene). Esiste qualcosa di più spaventoso ancora dell'abbandono del padre da parte delle sue due figlie, che lo vorrebbero morto: ed è la rivalità delle due sorelle tra loro.

Restaud è un aristocratico, sua moglie è stata ammessa e presentata a corte; ma sua sorella, la sua ricca sorella, la bella signora Delfina de Nucingen, moglie d'un uomo denaroso, muore dal dispiacere; la gelosia la divora, è distante le mille miglia dalla sorella; sua sorella non è più sua sorella; e due donne si rinnegano fra loro come rinnegano il loro padre. Perciò, la signora de Nucingen leccherebbe tutto il fango che c'è tra la via Saint-Lazare e la via de Grenelle pur di entrare nel mio salotto.

Ha creduto che de Marsay le avrebbe fatto raggiungere lo scopo, e si è resa la schiava di de Marsay, annoia de Marsay. De Marsay si cura ben poco di lei. Se me la farete conoscere, diverrete il suo beniamino, vi adorerà. Dopo, amatela, se volete, altrimenti servitevi di lei. Io potrò vederla una o due volte, in occasione d'un mio ricevimento, quando ci sarà molta gente: ma non la riceverò mai di mattina. La saluterò soltanto, e questo basterà.

Voi vi siete chiusa la porta della contessa per aver pronunciato il nome di suo padre, Goriot. Sì, mio caro, se andrete venti volte dalla signora de Restaud, venti volte vi diranno che non è in casa. E' stato dato l'ordine di non farvi più entrare. Ebbene!, papà Goriot v'introduca in casa della signora Delfina de Nucingen.

La bella signora de Nucingen sarà per voi un'insegna. Siete l'uomo prescelto da lei; e le donne andranno pazze per voi. Le sue rivali, le sue amiche, le sue migliori amiche, vorranno togliervi a lei. Ci sono donne che desiderano l'uomo già scelto da un'altra, come ci sono povere borghesi che, mettendosi cappelli simili ai nostri, sperano con questo di acquisire i nostri modi. Avrete successo. A Parigi il successo è tutto, è la chiave del potere. Se le donne trovano in voi spirito, talento, gli uomini lo crederanno, purché non li disinganniate. Voi potrete allora osar tutto e andare dovunque. Saprete allora che cosa è il mondo:

un'accolta di ingannati e di bricconi. Cercate di non essere né tra gli uni né tra gli altri. Vi dò il mio nome come un filo d'Arianna per entrare in questo labirinto. Non lo compremettete - disse, curvando il collo e dando uno sguardo da regina allo studente - restituitemelo bianco. E adesso lasciatemi. Noi donne, abbiamo anche noi da combattere le nostre battaglie.

- Non vi occorre un uomo volenteroso per andare ad appiccare il fuoco a una miccia? - chiese Eugenio interrompendola.

- E allora? - disse lei.

Egli si batté sul cuore, sorrise al sorriso della cugina e uscì.

Erano le cinque. Eugenio aveva appetito, e temette di non fare in tempo ad arrivare per l'ora di pranzo. Un tal timore gli fece provare il piacere d'essere condotto rapidamente attraverso Parigi. Questo piacere puramente macchinale gli permise di abbandonarsi interamente ai suoi pensieri, che lo assalivano.

Quando un giovane della sua età è fatto segno allo sprezzo va in collera, si infuria, minaccia col pugno l'intera società, vuol vendicarsi e non è sicuro neppure di se stesso. Rastignac in quel momento era oppresso da queste parole: "Vi siete chiusa la porta della contessa". Eppure ci andrò, disse fra sé e sé, e se la signora de Beauséant ha ragione, se c'è l'ordine di non farmi passare... io... Ia signora de Restaud mi troverà in tutti i salotti dove va. Imparerò a tirare di scherma, a tirar di pistola, e le ucciderò il suo Massimo! E i denari?, gli gridava la coscienza, dove li troverai? A un tratto la ricchezza messa in mostra nella casa della contessa brillò dinanzi ai suoi occhi.

Aveva veduto là il lusso di cui una signorina Goriot doveva essere innamorata: mobili dorati, oggetti di valore posti in evidenza, il lusso non intelligente dell'arricchito, lo sperpero della mantenuta. Questa affascinante immagine, fu subito schiacciata dalla grandiosità del palazzo de Beauséant. La sua immaginazione, trasposta nelle alte regioni della società parigina, gli ispirò mille cattivi pensieri, allargandogli la mente e la coscienza.

Vide il mondo com'è: le leggi e la morale impotente dei ricchi, e vide nella fortuna la "ultima ratio mundi". "Vautrin ha ragione, la fortuna è la virtù!" si disse.

Giunto in via Neuve-Sainte-Geneviève, salì rapidamente in camera sua, scese per dare dieci franchi al cocchiere, ed entrò in quella sala da pranzo nauseabonda ove scorse, come bestie alla mangiatoia, i diciotto commensali in atto di pascersi. Lo spettacolo di quelle miserie e l'aspetto della sala gli riuscirono orribili. Il passaggio era troppo brusco, il contrasto troppo completo per non sviluppare oltre misura in lui il sentimento dell'ambizione. Da un lato, le fresche e incantevoli immagini dell'ambiente sociale più elegante, figure giovani, vive, inquadrate nelle meraviglie dell'arte e del lusso, teste appassionate, piene di poesia; dall'altro lato sinistri quadri orlati di fango, e facce dove le passioni non avevan lasciato che le loro corde e il loro meccanismo. Gli insegnamenti che la collera di una donna abbandonata aveva strappato alla signora de Beauséant, le sue capziose profferte gli tornarono alla memoria, e la miseria le commentò.

Rastignac risolse di aprire due trincee parallele per giungere alla fortuna, di basarsi sulla scienza e sull'amore, d'essere un sapiente dottore e un uomo alla moda. Era ancora molto ragazzo!

Queste due linee sono due asintoti che non possono mai incontrarsi.

- Siete molto cupo, signor marchese - gli disse Vautrin, dandogli uno di quegli sguardi coi quali quell'uomo sembrava iniziarsi ai misteri più segreti del cuore.

- Io non sono disposto a sopportare gli scherzi di chi mi chiama:

signor marchese - egli rispose. - Qui, per essere veramente marchesi, bisogna avere centomila franchi di rendita, e quando si vive in Casa Vauquer, non si è precisamente il favorito della Fortuna.

Vautrin guardò Rastignac con un'aria paterna e sprezzante, come se avesse detto: Marmocchio!, di te farei un solo boccone! Poi rispose: - Siete di cattivo umore, forse perché non vi è andata bene con la bella contessa de Restaud.

- Mi ha chiuso la sua porta per averle detto che suo padre mangiava alla nostra tavola - esclamò Rastignac.

Tutti i convitati si guardarono tra loro. Papà Goriot abbassò gli occhi, e si volse per asciugarseli.

- Mi avete mandato un po' di tabacco nell'occhio - disse al vicino.

- Chi molesterà papà Goriot dovrà d'ora in poi fare i conti con me - rispose Eugenio, guardando il vicino del vecchio vermicellaio - egli vale più di tutti noi. Non parlo delle signore - aggiunse volgendosi verso la signorina Taillefer.

Questa frase fu un epilogo; Eugenio l'aveva pronunciata con un'aria che impose il silenzio ai commensali. Solo Vautrin gli disse motteggiando:

- Per prendere papà Goriot sotto la vostra protezione e diventare il suo gerente responsabile, bisogna saper tenere bene una spada in mano e tirar bene di pistola.

- E così farò - disse Eugenio.

- Avete dunque iniziato le ostilità oggi?

- Forse - rispose Rastignac. - Ma io non rendo conto dei fatti miei a nessuno, dato che non cerco d'indovinare quelli che gli altri fanno la notte.

Vautrin guardò Rastignac di traverso.

- Ragazzo mio, quando non si vuol essere ingannati dal gioco delle marionette, bisogna entrare senz'altro nella baracca, e non contentarsi di guardare attraverso i buchi della tenda. E basta con le chiacchiere - aggiunse vedendo Eugenio prossimo alla stizza. - Avremo fra noi una breve conversazione quando vorrete.

Il pranzo divenne cupo e freddo. Papà Goriot, assorto nel profondo dolore causatogli dalla frase dello studente, non comprese che le disposizioni degli animi erano cambiate a suo riguardo, e che un giovane in grado d'imporre un basta alla persecuzione aveva preso le sue difese:

- Il signor Goriot - disse la signora Vauquer a bassa voce - sarebbe dunque il padre d'una contessa?

- E d'una baronessa - replicò Rastignac.

- Non può far altro - disse Bianchon a Rastignac: - gli ho misurato la testa: non ha che una bozza, quella della paternità, sarà un "Padre Eterno".

Eugenio era troppo imbronciato perché la facezia di Bianchon potesse farlo ridere. Egli voleva approfittare dei consigli della signora de Beauséant, e si domandava dove e come si sarebbe procurato il denaro. Divenne pensieroso alla visione delle savane del mondo che passavano dinanzi ai suoi occhi deserte e spopolate; e tutti lo lasciarono solo nella sala da pranzo, quando il pranzo ebbe termine.

- Avete dunque visto mia figlia? - gli chiese Goriot commosso.

Destato dalla sua meditazione dal bonuomo, Eugenio gli prese la mano, e guardandolo con una specie d'intenerimento:- Voi siete un bravo e degno uomo - gli rispose. - Parleremo delle vostre figlie più tardi. - Si alzò senza voler ascoltare papà Goriot, si ritirò nella propria camera e scrisse alla madre questa lettera:

"Mia cara madre, vedi se non hai una terza mammella da spremere per me. Mi trovo in una situazione tale, da far presto fortuna. Ho bisogno di milleduecento franchi, e mi occorrono a ogni costo. Non dire nulla di ciò a mio padre; egli forse vi si opporrebbe, e, se non avessi questo denaro, cadrei in preda a una disperazione che mi indurrebbe a bruciarmi le cervella. Ti spiegherò le ragioni della mia richiesta non appena ti vedrò, giacché dovrei scriverti dei volumi per farti comprendere la condizione nella quale mi trovo. Non ho giocato, mia buona madre, non ho debiti; ma se tieni a conservarmi la vita che m'hai dato, devi trovarmi questa somma.

In breve, frequento la casa della viscontessa de Beauséant, che mi ha preso sotto la sua protezione. Devo andare in società, e non ho un soldo per procurarmi un paio di guanti puliti. Potrei mangiare soltanto pane, non bere che acqua, e, se occorre, digiunare; ma non posso fare a meno degli utensili coi quali in questo paese si zappa la vigna. Si tratta di fare la mia strada o di restare nel fango. So tutte le speranze che voi riponete in me, e voglio realizzarle prontamente. Mia buona madre, vendi qualcuno dei tuoi vecchi gioielli, e presto te ne darò in cambio degli altri.

Conosco abbastanza la situazione della nostra famiglia per saper apprezzare simili sacrifici, e devi credere che io non ti domando di farli invano, altrimenti sarei un mostro. Devi vedere nella mia preghiera soltanto il grido d'una imperiosa necessità. Il nostro avvenire è tutto in questo aiuto, col quale devo aprire la campagna; poiché questa vita di Parigi è un combattimento continuo. Se, per completare la somma, non c'è altra risorsa che quella di vendere i merletti di mia zia, dille che gliene manderò di più belli", eccetera.

Scrisse a ciascuna delle sorelle chiedendo le loro economie, e, per strappargliele senza che parlassero in famiglia del sacrificio che non avrebbero mancato di fare per lui con piacere, seppe commuovere la loro sensibilità toccando le corde dell'onore, così ben tese e così risuonanti nei giovani cuori. Quando ebbe scritto queste lettere, provò, tuttavia, una trepidazione involontaria; palpitava, trasaliva. Il giovane ambizioso conosceva la nobiltà immacolata di quelle anime sepolte nella solitudine, sapeva quali pene avrebbe causato alle sue due sorelle e anche quali sarebbero state le loro gioie, con quale piacere si sarebbero intrattenute a parlare segretamente del loro adorato fratello, in fondo alla vigna. La sua coscienza si levò, luminosa, e gliele fece apparire mentre contavano in segreto il loro piccolo tesoro: egli le vide mentre usavano la furberia delle giovinette per mandargli in incognito quel denaro, commettendo un primo inganno per essere sublimi. "Il cuore d'una sorella è un diamante di purezza, un abisso di tenerezza!" egli si disse. Si vergognava d'avere scritto. Come sarebbero stati efficaci i loro voti, quanto puro sarebbe stato lo slancio delle loro anime verso il cielo! Con quale piacere si sarebbero sacrificate! Quale dolore avrebbe provato sua madre, se non fosse riuscita a inviare l'intera somma!

Quei bei sentimenti, quegli enormi sacrifici gli sarebbero serviti di scalino per arrivare a Delfina de Nucingen. Alcune lacrime, ultimi grani d'incenso bruciati sul sacro altare della famiglia, gli uscirono dagli occhi. Si mise a camminare in preda a un'agitazione piena di disperazione. Papà Goriot, vedendolo in quello stato dall'uscio della propria camera rimasto socchiuso, entrò e gli disse:

- Che cosa avete, signore?

- Ah, mio buon vicino, io sono ancora figlio e fratello, come voi siete padre. Avete ragione di temere per la contessa Anastasia; essa è nelle mani di un certo signor Massimo de Trailles, che la manderà alla rovina.

Papà Goriot si ritirò balbettando alcune parole di cui Eugenio non afferrò il senso. L'indomani, Rastignac andò a portare le sue lettere alla posta. Esitò fino all'ultimo istante, ma poi le lasciò cadere nella cassetta dicendo: Riuscirò!; la parola del giocatore, del grande condottiero, parola fatalista che manda in rovina più uomini di quanti ne salvi. Qualche giorno dopo, Eugenio andò dalla signora de Restaud, ma non fu ricevuto. Tre volte vi tornò, tre volte ancora trovò la porta chiusa, quantunque si presentasse in ore in cui il conte Massimo de Trailles non vi si trovava. La viscontessa aveva avuto ragione. Lo studente non studiò più. Si presentava alla lezione per rispondere all'appello e, dopo aver attestato la sua presenza, se ne andava. Aveva fatto il ragionamento che fa la maggior parte degli studenti. Si sarebbe riservato di studiare al momento di passare gli esami; aveva deciso di cumulare l'iscrizione del secondo e del terzo anno, e poi di studiare il Diritto seriamente e tutto insieme all'ultimo momento. In questo modo aveva quindici mesi per navigare a suo agio nell'oceano di Parigi, per dedicarsi alla tratta delle donne o per pescarvi la sua fortuna. Durante quella settimana, vide due volte la signora de Beauséant, dalla quale andava solo quando usciva la vettura del marchese d'Adjuda. Per qualche giorno ancora l'illustre donna, la più poetica figura del faubourg Saint- Germain, rimase vittoriosa, e fece sospendere il matrimonio della signorina de Rochefide col marchese d'Adjuda-Pinto. Ma quegli ultimi giorni, che la paura di perdere la propria felicità rese più ardenti di tutti, dovevano far precipitare la catastrofe. Il marchese d'Adjuda, d'accordo coi Rochefide, aveva considerato il dissenso e la riconciliazione come una circostanza favorevole, essi speravano che la signora de Beauséant si sarebbe abituata all'idea di quel matrimonio e avrebbe finito per sacrificare le sue mattine a un avvenire previsto nella vita degli uomini.

Malgrado le più sante promesse rinnovate ogni giorno, il signor D'Adjuda recitava dunque la commedia, e la viscontessa gradiva di essere ingannata. - Invece di saltare nobilmente dalla finestra, ruzzolava per le scale - diceva la duchessa de Langeais, la sua migliore amica. Tuttavia, quelle ultime luci brillarono abbastanza a lungo perché la viscontessa rimanesse a Parigi e aiutasse il suo giovane parente, per il quale nutriva una specie di affetto superstizioso. Eugenio s'era dimostrato con lei pieno di devozione e di sensibilità in una circostanza in cui le donne non vedono né pietà né consolazione sincera in nessuno sguardo. Se allora un uomo dice loro dolci parole, le dice per interesse.

Desiderando conoscere perfettamente il suo scacchiere prima di tentare l'abbordaggio della casa de Nucingen, Rastignac volle mettersi al corrente della vita anteriore di papà Goriot, e raccolse notizie sicure, il cui riassunto è questo.

Giovanni-Gioacchino Goriot era, prima della rivoluzione, un semplice operaio vermicellaio, abile, parsimonioso e tanto intraprendente da acquistare il fondo del suo padrone che il caso volle vittima dei primi moti del 1789. Aveva preso stanza in via de la Jussienne, nei pressi della Halle-aux-Blés, e aveva avuto il grossolano buon senso di accettare la presidenza della sua sezione, per far difendere il proprio commercio dai personaggi più influenti di quella pericolosa epoca. Tale saggezza era stata l'origine della sua fortuna che cominciò durante la carestia, falsa o vera, in seguito alla quale il grano raggiunse a Parigi un prezzo enorme. Il popolo si ammazzava dinanzi alla porta dei fornai, mentre alcuni andavano a cercare senza chiasso le paste alimentari dai droghieri. Durante quell'anno il cittadino Goriot mise insieme un capitale che più tardi gli servì a esercitare il suo commercio, con tutta la superiorità che dà a chi la possiede una forte disponibilità di denaro. Gli capitò quel che accade a tutti gli uomini la cui capacità è solo relativa. La sua mediocrità lo salvò. Del resto, poiché la sua fortuna fu conosciuta quando non era più un pericolo esser ricchi, non provocò l'invidia di nessuno. Il commercio del grano sembrava aver assorbito tutta la sua intelligenza. Se si trattava di grani, di farine, di granaglie, di riconoscere le loro qualità, le provenienze, di curare la loro conservazione, di prevederne il corso del prezzo, di profetare l'abbondanza o la penuria dei raccolti, di procurarsi i cereali a buon mercato, di approvvigionarsene in Sicilia, in Ucraina, Goriot non aveva l'uguale. A vederlo trattare i suoi affari, discutere delle leggi sull'esportazione, sull'importazione dei grani, studiarne lo spirito, coglierne i difetti, lo si sarebbe ritenuto capace d'essere un ministro. Paziente, attivo, energico, costante, sollecito nelle spedizioni della merce, aveva un occhio d'aquila, preveniva tutto, prevedeva tutto, sapeva tutto, nascondeva tutto; diplomatico per concepire, soldato per marciare. Fuori della sua specialità, della sua semplice e oscura bottega, sulla soglia della quale rimaneva nelle ore d'ozio, le spalle appoggiate allo stipite, tornava a essere l'operaio stupido e grossolano, l'uomo che si addormentava durante uno spettacolo a teatro, uno di quei Dolibans parigini, forti solo in stupidaggini. Queste nature si rassomigliano quasi tutte. Nel cuore di quasi tutte troverete un sentimento sublime. Due sentimenti esclusivi avevano riempito il cuore del vermicellaio, ne avevano assorbito l'umore, come il commercio del grano assorbiva tutta la sua intelligenza. La moglie, figlia unica di un ricco fattore della Brie, fu per lui oggetto d'una ammirazione religiosa, d'un amore sconfinato. Goriot aveva ammirato in lei una natura fragile e forte, semplice e graziosa, che contrastava profondamente con la sua. Se c'è un sentimento innato nel cuore dell'uomo, non è esso l'orgoglio della protezione esercitata ogni momento a favore di un essere debole?

Aggiungeteci l'amore, quella riconoscenza viva di tutte le anime schiette per il fondamento dei loro piaceri, e comprenderete una quantità di bizzarrie morali. Dopo sette anni di felicità senza nubi, Goriot, disgraziatamente per lui, perdette sua moglie:

questa cominciava a dominarlo, fuori della sfera dei sentimenti.

Forse sarebbe riuscita a coltivare quella natura inerte, forse sarebbe riuscita a seminarvi l'intelligenza delle cose del mondo e della vita. In tale situazione, il sentimento della paternità si sviluppò in Goriot fino alla irragionevolezza. Egli riversò il suo affetto, tradito dalla morte, sulle due figlie, che, da principio, soddisfecero appieno tutti i suoi sentimenti. Per quanto brillanti fossero le proposte fattegli da negozianti o da fattori desiderosi di dargli le loro figlie, volle rimanere vedovo. Il suocero, il solo uomo per il quale aveva avuto simpatia, pretendeva di sapere con certezza che Goriot aveva giurato di non commettere alcuna infedeltà verso la moglie, anche dopo morta. La gente della Halle, incapace di capire questa sublime follia, ci rideva su, e appioppò a Goriot qualche grottesco soprannome. Il primo che, bevendo il vino a coronamento d'un affare combinato, si permise di pronunciarlo, ebbe dal vermicellaio un pugno sulla spalla che lo stese a terra, facendogli battere la testa contro un paracarro della via Oblin. L'affetto sconsiderato, l'amore ombroso e delicato che Goriot nutriva per le figlie era così conosciuto, che un giorno uno dei suoi concorrenti, volendolo fare allontanare dal mercato per restare arbitro dei prezzi, gli disse che Delfina era stata investita da un carrozzino. Il vermicellaio, pallido e smorto, lasciò subito la Halle. Stette male parecchi giorni in seguito alla reazione dei sentimenti contrari provocata in lui da quella falsa notizia. Se non assestò questa volta il suo colpo mortale sulla spalla di quell'uomo, lo cacciò tuttavia dalla Halle e lo costrinse, in una circostanza critica, a dichiarare fallimento. L'educazione che diede alle due figlie fu, naturalmente, anch'essa irragionevole. Godendo di una rendita di più di sessantamila lire, e non spendendo che appena milleduecento franchi per sé, la felicità di Goriot stava tutta nel soddisfare i capricci delle figlie; i migliori insegnanti furono incaricati di dotarle di quelle capacità che denotano una buona educazione; ebbero una damigella di compagnia; fortunatamente per loro, fu una donna di spirito e di gusto; montavano a cavallo, avevano carrozza, vivevano come avrebbero vissuto le amanti d'un vecchio signore ricco; bastava che esprimessero i più costosi desideri per vedere il padre affrettarsi a soddisfarli; e non chiedeva che una carezza in cambio dei suoi doni. Goriot collocava le figlie nell'ordine degli angeli, e, necessariamente, al di sopra di sé, il pover'uomo! Amava perfino il male che quelle gli arrecavano.

Quando le figlie furono in età da marito, le lasciò libere di sceglierselo secondo i propri i gusti; ognuna avrebbe avuto in dote la metà della sostanza del padre. Corteggiata per la sua bellezza dal conte de Restaud, Anastasia aveva tendenze aristocratiche che la condussero a lasciare la casa paterna per lanciarsi nelle alte sfere sociali. Delfina amava il denaro; sposò Nucingen, banchiere d'origine tedesca che divenne barone del Sacro Impero. Goriot rimase vermicellaio. Le figlie e i generi si offesero presto di vedergli continuare quel commercio, sebbene questo fosse per lui tutta la sua vita. Dopo aver subìto per cinque anni le loro insistenze, acconsentì di ritirarsi a vivere coi prodotti dei suoi fondi e i guadagni procuratigli dall'azienda negli ultimi anni; un capitale che la signora Vauquer, presso la quale era andato a stabilirsi, aveva stimato fruttare dalle otto alle diecimila lire di rendita. Egli si ridusse in quella pensione per il dolore provato nel vedere le due figlie costrette dai loro mariti a rifiutare non solo di prenderlo con loro, ma anche di riceverlo alla luce del sole.

Questo era tutto quel che sapeva un certo signor Muret sul conto di papà Goriot, del quale aveva acquistato i fondi. Le supposizioni che Rastignac aveva sentito fare dalla duchessa de Langeais erano, così, confermate. E qui finisce l'esposizione di questa oscura, ma tremenda tragedia parigina.

Verso la fine di quella prima settimana del mese di dicembre, Rastignac ricevette due lettere: una di sua madre, un'altra della sorella maggiore. Quelle calligrafie così ben conosciute lo fecero al tempo stesso esultare di gioia e tremar di paura. Quei due fragili fogli di carta contenevano una sentenza di vita o di morte per le sue speranze. Se provava un po' di timore ricordando le ristrettezze dei suoi genitori, aveva tuttavia sperimentato troppo bene la loro predilezione per non temere di aver succhiato le loro ultime gocce di sangue. La lettera della madre era così concepita:

"Mio caro figliolo, t'invio quel che mi hai chiesto. Fai buon uso di questo denaro; non potrei, quand'anche si trattasse di salvarti la vita, trovare una seconda volta una somma così importante senza che tuo padre ne fosse informato: e ciò turberebbe l'armonia della nostra famiglia. Per procurartela, dovrebbe accendere ipoteche sulla nostra terra. Mi è impossibile dar giudizi di merito su progetti che non conosco: ma di che natura dunque essi sono, per farti temere di confidarmeli? Una spiegazione non richiedeva poi dei volumi, a noi madri basta una parola, ed essa mi avrebbe risparmiato le angosce dell'incertezza. Non potrei nasconderti l'impressione dolorosa che mi ha causato la tua lettera. Mio caro figlio, qual è dunque il sentimento che ti ha costretto a gettare nel mio cuore un tale timore? Devi avere molto sofferto, scrivendomi, perché ho molto sofferto leggendoti. Quale carriera vuoi dunque abbracciare? La tua vita, la tua felicità sarebbero forse destinate a farti comparire quel che non sei, a frequentare un ambiente dove non sapresti andare senza fare spese che non puoi sostenere, senza perdere un tempo prezioso per i tuoi studi? Mio buon Eugenio, credi al cuore di tua madre: le vie tortuose non conducono a niente di grande. La pazienza e la rassegnazione debbono essere le virtù dei giovani che si trovano nella tua posizione. Non ti rimprovero, non vorrei aggiungere al nostro invio alcuna amarezza. Le mie parole sono quelle di una madre fiduciosa quanto previdente. Se tu sai quali sono i tuoi obblighi, io so, da parte mia, come il tuo cuore sia puro, come le tue intenzioni siano ottime. E perciò posso dirti senza tema: Va', mio diletto, cammina! Tremo perché sono madre; ma ogni tuo passo sarà teneramente accompagnato dai nostri voti e dalle nostre benedizioni. Sii prudente, caro figliolo. Devi essere saggio come un uomo maturo, il destino di cinque persone a te care è posto nella tua ragionevolezza. Sì, tutte le nostre fortune sono in te, come la tua felicità è la nostra. Noi tutti preghiamo Dio di secondarti nelle tue imprese. Tua zia Marcillac è stata, in questa circostanza, d'una bontà inaudita: è arrivata perfino a comprendere quel che mi dicevi a proposito dei tuoi guanti. Ma lei ha un debole per il primogenito, diceva scherzosamente. Eugenio mio, sii affezionato molto a tua zia; ti dirò quel che ha fatto per te solo quando le cose ti saranno andate bene, altrimenti il suo denaro ti brucerebbe le dita. Voi ragazzi non sapete quanto sia doloroso sacrificare cari ricordi. Ma che cosa non si sacrificherebbe per voi? La zia m'incarica di dirti che ti bacia in fronte e che vorrebbe comunicarti con questo bacio la forza d'essere spesso felice. La buona ed eccellente donna ti avrebbe scritto se non avesse la gotta alle dita. Tuo padre sta bene. Il raccolto del 1819 oltrepassa le nostre speranze. Addio, figlio caro, non ti dirò nulla delle sorelle: Laura ti ha scritto. Lascio a lei il piacere di chiacchierare sui piccoli fatti di casa.

Voglia il cielo che tu riesca! Oh, sì, riesci, Eugenio mio, tu mi hai fatto conoscere un dolore troppo forte perché io possa sopportarlo una seconda volta. Ho saputo che cosa vuol dire essere poveri quando ho desiderato la ricchezza per poterla donare a mio figlio. E ora, addio. Non lasciarci senza notizie e abbi il bacio che t'invia tua madre".

Quando Eugenio ebbe terminato di leggere questa lettera, era in lacrime; pensava a papà Goriot che aveva contorto il suo argento dorato e l'aveva venduto per poter pagare la cambiale della figlia. "Tua madre ha contorto i suoi gioielli!", egli diceva fra sé e sé. "Tua zia ha certamente pianto nel vendere uno dei suoi ricordi! Con quale diritto malediresti tu Anastasia? Tu non fai che imitare, per l'egoismo del tuo avvenire, ciò che lei ha fatto per il suo amante! Chi vale di più: lei o te?". Lo studente si sentì le viscere róse da un senso di calore intollerabile. Voleva rinunciare alla società, non voleva prendere quel denaro. Provò quei nobili e bei rimorsi segreti il cui merito raramente è apprezzato dagli uomini quando giudicano i loro simili, ma che fanno spesso assolvere dagli angeli del cielo il criminale condannato dai giuristi della terra. Rastignac aprì la lettera della sorella, le cui espressioni innocentemente graziose gli rinfrancarono il cuore.

"La lettera è arrivata assai a proposito, caro fratello. Agata e io volevamo spendere il nostro denaro in tanti modi diversi, che non sapevamo più a quale acquisto deciderci. Hai fatto come il domestico del re di Spagna, quando rovesciò gli orologi del padrone: ci hai messe d'accordo! Veramente, eravamo sempre in contrasto intorno a quello dei nostri desideri al quale avremmo dato la preferenza, e non avevamo indovinato, mio buon Eugenio, l'impiego che li avrebbe compresi tutti. Agata ha saltato dalla gioia. Insomma, siamo state come due pazze per tutta la giornata, a "tali insegne" (stile della zia) che mammà ci diceva con la sua aria severa: Ma che diamine avete, signorine? Se ci avessero sgridato un pochino, ne saremmo state, credo, ancor più contente.

Una donna deve provare molto piacere nel soffrire per colui che ama! Io sola ero distratta e triste pur in mezzo alla mia gioia.

Sarò senza dubbio una cattiva moglie, sono troppo spendereccia. Mi ero comprata due cinte, un punteruolo tanto carino per far gli occhielli ai miei busti, e altre sciocchezze, e così avevo meno denaro della grossa Agata, che è parsimoniosa e ammucchia gli scudi come una gazza. Lei aveva duecento franchi! Io, mio povero amico, ho soltanto cinquanta scudi. Sono dunque ben punita, e vorrei buttare la cinta nel pozzo, tanto mi sarà sempre penoso portarla. Ti ho derubato. Agata è stata proprio carina. Mi ha detto: "Mandiamogli trecentocinquanta franchi fra tutte e due!".

Ma non posso trattenermi dal raccontarti come le cose sono andate.

Sai come abbiamo fatto per obbedire ai tuoi ordini? Abbiamo preso il nostro glorioso denaro, siamo andate tutte e due a passeggio e, una volta arrivate alla strada maestra, siamo corse a Ruffec e abbiamo consegnato la somma al signor Grimbert, gerente delle Messaggerie reali! Eravamo, al ritorno, leggere come rondini.

"Sarà il piacere che ci rende così?" , mi ha detto Agata. Ci siamo dette mille cose che però non vi ripeterò, signor Parigino, in quanto si parlava troppo di voi. Oh!, caro fratello, ti vogliamo tanto bene: ecco detto tutto in due parole. Quanto al segreto, piccole volpi come noi due, secondo la zia, sono capaci di tutto:

anche di tener acqua in bocca... Mamma è andata in gran mistero ad Angouleme con la zia, e tutte e due hanno mantenuto il silenzio sull'alta politica del loro viaggio, che ha avuto luogo dopo lunghe conferenze dalle quali tanto noi che il signor barone siamo stati tenuti lontani. Grandi congetture occupano gli spiriti dello Stato di Rastignac. L'abito di mussolina con fiori a traforo che le infanti stanno ricamando per sua maestà la regina procede nel più profondo segreto. Sono rimaste da fare soltanto due parti. E' stato deciso che non si costruirà più il muro dalla parte di Verteuil e invece ci si metterà una siepe. Il popolino ci perderà in frutta e spalliere, ma in compenso i forestieri ci guadagneranno una bella vista. Se l'erede presunto avesse bisogno di fazzoletti, è avvertito che la signora vedova de Marcillac, frugando nei suoi scrigni e nei suoi bauli, conosciuti sotto i nomi di Pompei e di Ercolano, ha scoperto una pezza di bella tela d'Olanda, che non ricordava di avere; le principesse Agata e Laura pongono agli ordini dell'erede il loro filo, il loro ago, e mani sempre un poco troppo rosse. I due principi cadetti don Enrico e don Gabriele hanno conservato la funesta abitudine d'impinzarsi di mosto cotto, di far inquietare le sorelle, di non voler imparare nulla, di divertirsi a dar la caccia ai nidi, di far chiasso e di tagliare, contro le leggi dello Stato, rami di vinco per farne frustini. Il nunzio del papa, volgarmente chiamato signor curato, minaccia di scomunicarli se continueranno a trascurare i santi canoni della grammatica per i bellicosi cannoni di sambuco. Addio, caro fratello, mai lettera ha recato, più di questa, tanti voti formulati per la tua felicità, né tanto soddisfatto amore. Chissà quante cose avrai da raccontarci al tuo ritorno! E dovrai dire tutto a me, che sono la maggiore. La zia ci ha lasciato capire che tu riscuoti dei successi in società.

"Si parla di una dama e si tace sul resto".

Tra noi ci s'intende! Dillo pure francamente, Eugenio, se invece dei fazzoletti preferisci che ti facciamo delle camicie.

Rispondimi presto in proposito. Se ti occorresse presto qualche bella camicia ben cucita saremo felici di metterci subito al lavoro; e se ci fossero a Parigi fatture che non conoscessimo, mandaci un modello, specialmente per i polsini. Addio, addio! Ti bacio in fronte sul lato sinistro, sulla tempia di mia esclusiva proprietà. Lascio l'altra pagina per Agata, che m'ha promesso di non leggere nulla di quel che ti ho scritto. Ma, per essere più sicura, rimarrò vicino a lei mentre ti scriverà. Tua sorella che ti ama.

Laura de Rastignac".

"Oh!, sì", disse fra sé e sé Eugenio, "la fortuna a ogni costo.

Dei tesori non compenserebbero questo sacrificio. Vorrei apportare loro tutte le felicità insieme. Millecinquecento franchi!", aggiunse dopo una pausa. "Ogni moneta dovrà colpire nel segno!

Laura ha ragione. Perdinci!, ho soltanto camicie di tela ordinaria. Per la felicità di un altro, una giovinetta diventa furba quanto un ladro. Innocente per sé e previdente per me, è come l'angelo del cielo che perdona gli errori della terra senza comprenderli".

Il mondo era suo! Già il suo sarto era stato da lui chiamato, saggiato, conquistato. Vedendo il signor de Trailles, Rastignac aveva valutato l'importanza dei sarti nella vita dei giovani.

Ahimè!, non ci sono mezzi termini: un sarto è o un nemico mortale, o un amico procuratoci dal conto pagato. Quello di Eugenio era un uomo consapevole della paternità della sua industria, e si considerava come un anello di congiunzione tra il presente e l'avvenire dei giovani. Perciò Rastignac, riconoscente, fece la fortuna di quest'uomo con una di quelle battute per le quali più tardi divenne celebre. "Un suo paio di pantaloni ha fatto concludere matrimoni da ventimila lire di rendita".

Millecinquecento franchi e abiti a piacere! In quel momento il povero Meridionale non ebbe più dubbi, e scese a far colazione con quell'aria indefinibile che conferisce a un giovane il possesso d'una somma qualsiasi. Quando il denaro scivola entro la tasca d'uno studente, si erge contro di lui una colonna immaginaria su cui egli si appoggia. Cammina più spedito, sente di avere un punto d'appoggio per la sua leva, ha lo sguardo ampio, diretto, ha i movimenti agili; il giorno prima, umile e timido, si lascerebbe picchiare; l'indomani picchierebbe anche un primo ministro. Si producono in lui fenomeni inauditi: vuole tutto e può tutto, desidera a casaccio, è gaio, generoso, espansivo. Insomma, l'uccello dianzi implume, ora vola ad ali spiegate. Lo studente squattrinato addenta una briciola di piacere come un cane ruba un osso superando mille pericoli, lo stritola, ne succhia il midollo, e ancora corre; ma il giovane che fa tintinnare nel taschino poche fuggevoli monete d'oro pregusta i propri godimenti, li particolarizza, se ne compiace, si dondola nel cielo, non sa più cosa significhi la parola: "miseria". Parigi è tutta sua. Età in cui tutto è lucente, tutto scintilla e fiammeggia! Età di forza gioiosa di cui nessuno approfitta, né l'uomo né la donna ! Età di debiti e di vivi timori che centuplicano ogni piacere! Chi non ha frequentato la riva sinistra della Senna, tra la via Saint-Jacques e la via dei Saints-Pères, non sa nulla della vita umana!

"Ah!, se le donne parigine sapessero!", si diceva Rastignac divorando le pere cotte a un soldo l'una, fatte servire dalla signora Vauquer, "verrebbero a farsi amare qui". In quel momento un fattorino delle Messaggerie reali si presentò nella sala da pranzo, dopo aver suonato al cancello. Chiese del signor Eugenio de Rastignac, cui porse due sacchetti da ritirare, e un registro da firmare. Rastignac fu allora sferzato come da un colpo di frusta, dallo sguardo profondo lanciatogli da Vautrin.

- Ora potrete di che pagare le lezioni di scherma e gli esercizi di tiro - gli disse quell'uomo.

- Sono arrivate le caravelle - gli disse la signora Vauquer guardando i sacchetti.

La signorina Michonneau temeva di fermare lo sguardo sul denaro, nella tema di palesare la sua bramosia.

- Avete una madre molto buona - disse la signora Couture.

- Il signore deve avere una madre molto buona - ripeté Poiret.

- Sì, la mamma s'è svenata - disse Vautrin. - Potrete ora farne di tutti i colori, andare in società, pescarvi doti, e ballare con le contesse che hanno guarnizioni di fior di pesco tra i capelli. Ma date retta a me, giovanotto, frequentate il tiro a segno.

Vautrin fece il gesto di un uomo che mira al suo avversario.

Rastignac voleva dare la mancia al fattorino, ma non si trovò nulla in tasca. Vautrin frugò nella sua, e gettò venti soldi all'uomo.

- Avete buon credito - riprese guardando lo studente.

Rastignac dovette ringraziarlo sebbene, dopo le parole aspramente scambiatesi il giorno in cui era tornato dalla sua visita alla signora de Beauséant,quell'uomo glifossedivenuto insopportabile. Durante quegli otto giorni Eugenio e Vautrin erano rimasti silenziosi uno di fronte all'altro, e si osservavano scambievolmente. Lo studente si chiedeva invano il perché. Senza dubbio le idee si proiettano in ragione diretta della forza con cui vengono concepite, e vanno a colpire là dove il cervello le invia, per una legge matematica paragonabile a quella che guida i proiettili quando escono dal mortaio. Gli effetti sono diversi. Ci sono nature deboli, nelle quali le idee si conficcano e le devastano, ma ci sono anche nature fortemente protette, crani dai bastioni di bronzo su cui le volontà degli altri si appiattiscono e cadono come palle dinanzi a una muraglia; ci sono poi ancora nature flosce e bambagiose nelle quali le idee altrui vengono a morire come pallottole che si attutiscono nella terra molle delle ridotte. Rastignac aveva una di quelle teste piene di polvere che saltano in aria al minimo urto. Era troppo vivacemente giovane per non offrire il bersaglio a tali idee, per non subire il contagio di tali sentimenti, di cui tanti bizzarri fenomeni ci colpiscono a nostra insaputa. La sua visione morale aveva la gittata lucida dei suoi occhi di lince. Ognuno dei suoi doppi sensi aveva quella lunghezza misteriosa, quella flessibilità d'andata e ritorno che ci sorprende nelle persone superiori, spadaccini abili nel trovare il punto debole di tutte le corazze. Da un mese, per altro, s'erano sviluppati in Eugenio tanti pregi quanti difetti. I difetti gli erano stati imposti dalla società mondana e dal proposito di realizzare i suoi sempre crescenti desideri. Tra i pregi c'era quella vivacità meridionale che fa tirar diritto lungo le difficoltà per risolverle, e che non consente a un uomo d'oltre Loira di indugiare in una incertezza qualsiasi; pregio che la gente del Nord considera un difetto: secondo essa, se fu l'origine della fortuna di Murat, fu anche la causa della sua morte.

Bisognerebbe concludere che, quando un meridionale riesce ad accoppiare la furberia del Nord all'audacia dell'oltre Loira, egli è completo e rimane re di Svezia. Rastignac non poteva dunque restare a lungo sotto il fuoco delle batterie di Vautrin senza sapere se quest'uomo era un amico o un nemico.

Di momento in momento gli sembrava che quel singolare personaggio penetrasse sempre più nel segreto delle sue passioni, e gli leggesse nel cuore, mentre in colui tutto rimaneva così ben nascosto, da sembrare dotato della profondità immobile d'una sfinge che sa, vede tutto, e non dice nulla. Sentendosi le tasche piene, si ribellò.

- Fatemi il favore di attendere - disse a Vautrin che s'era alzato per uscire, dopo aver assaporato gli ultimi sorsi di caffè.

- Perché? - rispose il quarantenne calzandosi il cappello a larghe tese e prendendo un bastone di ferro col quale faceva spesso mulinelli da uomo che non avrebbe temuto d'essere assalito da quattro malfattori.

- Voglio pagare il mio debito - riprese Rastignac, sciogliendo rapidamente un sacchetto e contando centoquaranta franchi alla signora Vauquer. - Conti chiari amici cari - disse alla vedova.

Siamo pari fino a San Silvestro. Cambiatemi, per favore, questi cento soldi.

- Amici cari conti chiari - ripeté Poiret guardando Vautrin.

- Ecco i venti soldi - disse Rastignac tendendo una moneta alla sfinge in parrucca. Si direbbe che avete paura di dovermi qualcosa! - esclamò Vautrin ficcando uno sguardo divinatorio nell'animo del giovane, cui fece uno di quei sorrisi beffardi e alla Diogene per i quali Eugenio era stato mille volte sul punto di litigare.

- Ma..., sì - rispose lo studente, che teneva i due sacchetti in mano e s'era alzato per salire in camera sua.

Vautrin usciva dalla porta che dava nel salotto, e lo studente si disponeva ad andarsene per la porta che conduceva sul pianerottolo.

- Ma lo sapete, signor marchese de Rastignacorama, che quel che mi dite non è perfettamente gentile? - disse allora Vautrin, sbattendo la porta del salotto e andando verso lo studente, che lo guardò freddamente.

Rastignac chiuse la porta della sala da pranzo, conducendo con sé Vautrin, ai piedi della scala, nel vano che separava la sala da pranzo dalla cucina, dov'era una porta che dava nel giardino, sormontata da una grande finestra guarnita di sbarre di ferro. Là, lo studente disse dinanzi a Silvia che sbucò dalla cucina:

- Signor Vautrin, io non sono marchese, e non mi chiamo Rastignacorama.

- Adesso si battono - disse la signorina Michonneau con aria indifferente.

- Si battono - ripeté Poiret.

- Ma no - rispose la signora Vauquer, accarezzando la sua pila di scudi.

- Ma non vedete che se ne vanno sotto i tigli? - esclamò la signorina Vittorina, levandosi per guardare nel giardino. - Quel povero giovane, però, ha ragione.

- Andiamocene su, mia cara piccola - disse la signora Couture sono affari che non ci riguardano.

Quando la signora Couture e Vittorina si alzarono, incontrarono sulla porta, la grossa Silvia che sbarrò loro il passo.

- Che cosa succede? - chiese. - Il signor Vautrin ha detto al signor Eugenio: "Spieghiamoci!". Poi, l'ha preso per un braccio, ed eccoli là che camminano tra i nostri carciofi.

In quel momento Vautrin apparve.

- Signora Vauquer - disse sorridendo - non abbiate timore di nulla, vado a provare le mie pistole sotto i tigli.

- Oh, signore - fece Vittorina congiungendo le mani - perché volete uccidere il signor Eugenio?

Vautrin fece due passi indietro e guardò Vittorina.

- Ecco un'altra storia - egli esclamò con una voce beffarda che fece arrossire la povera ragazza. - E' tanto grazioso, non è vero?, quel giovanotto - egli riprese. - Mi fate venire un'idea.

Farò la felicità di voi due, mia bella figliola.

La signora Couture aveva preso la sua pupilla per un braccio e l'aveva portata via, dicendole all'orecchio:

- Ma Vittorina, stamattina siete proprio incredibile!

- Non voglio che si tirino di pistola in casa mia - disse la signora Vauquer. - Così mi spaventate tutto il vicinato e farete accorrere la polizia.

- Andiamo, calma, mammà Vauquer - rispose Vautrin. - Là, là, va bene, andremo al tiro. - Raggiunse Rastignac e, presolo confidenzialmente sotto braccio, gli disse: - Quando vi avessi provato che a trentacinque passi metto cinque volte di seguito la mia pallottola in un asso di picche, non per questo vi perdereste di coraggio. Avete l'aria d'essere alquanto rabbiosetto e vi fareste ammazzare come un imbecille.

- Voi indietreggiate - disse Eugenio.

- Non mi provocate - rispose Vautrin. - Non fa freddo, questa mattina, andiamo a sederci laggiù - aggiunse indicando le sedie verniciate di verde. - Là nessuno ci sentirà. Ho da parlarvi.

Siete un bravo ragazzo e non vi voglio male. Vi voglio bene, parola di Tromp... (per mille fulmini!) parola di Vautrin. Per quale ragione vi voglio bene, ve lo spiegherò. Intanto sappiate che vi conosco come se vi avessi fatto io, e ve lo proverò.

Appoggiate lì i vostri sacchetti - riprese, indicandogli la tavola rotonda.

Rastignac posò il denaro sulla tavola e si sedette in preda a una curiosità acuita in lui al più alto grado dal subitaneo cambiamento verificatosi nei modi di quell'uomo, il quale, dopo aver parlato di ucciderlo, si atteggiava a suo protettore.

- Voi vorreste sapere chi sono, quel che ho fatto, o quel che faccio - riprese Vautrin. - Siete troppo curioso, figliolo mio.

Suvvia, un po' di calma. Ne sentirete ben altre! Ho avuto molte disgrazie. Prima statemi a sentire, e poi replicherete. Ecco la mia vita passata, in tre parole. Chi sono? Vautrin. Che faccio?

Quel che mi pare. Andiamo avanti. Volete conoscere il mio carattere? Sono buono con chi mi fa del bene o con chi ha un cuore che parla al mio. A loro è permesso tutto: possono prendermi a calci negli stinchi senza che io dica loro: "Bada!". Ma, perdio!

sono cattivo come il diavolo con chi mi molesta o non mi va a genio. Ed è bene sappiate che l'uccidere un uomo mi preoccupa tanto così! - disse sputando. - Cerco tuttavia di ucciderlo bene e quando è assolutamente necessario. Sono quel che voi chiamate un artista. Ho letto le "Memorie" di Benvenuto Cellini, così come mi vedete, e per di più in italiano! Ho imparato da quell'uomo, un uomo risoluto, a imitare la Provvidenza, che ci fa morire a casaccio, e ad amare il bello ovunque esso si trovi. Non è, del resto giocare una bella partita il trovarsi solo contro tutti e aver fortuna? Ho ben riflettuto alla costituzione attuale del vostro disordine sociale. Ragazzo mio, il duello è un gioco da bambini, una sciocchezza. Quando di due uomini vivi uno deve scomparire, bisogna essere degli imbecilli per rimettersi al caso.

Il duello! Testa o croce!, ecco tutto. Io metto cinque pallottole di seguito in un asso di picche, in modo che ogni nuova pallottola ricalchi la precedente, e a trentacinque passi per di più! Quando si è dotati di questa piccola capacità, ci si può ritener certi di buttare giù il proprio avversario. Ebbene!, ho tirato su di un uomo a venti passi e non l'ho colpito. Quel birbone non aveva mai maneggiato una pistola in vita sua. Guardate! - disse lo straordinario uomo sbottonandosi il panciotto e mettendo in mostra il petto villoso come la schiena di un orso, ma il cui pelo fulvo incuteva una specie di disgusto misto a spavento - lo sbarbatello mi ha bruciacchiato il pelo - aggiunse mettendo il dito di Rastignac su di un forellino che aveva in petto.

- Ma allora ero un ragazzo, avevo la vostra età: ventun anni.

Credevo ancora in qualcosa, all'amore d'una donna: un mucchio di sciocchezze in cui state per impelagarvi. Ci saremmo battuti, non è vero? Avreste potuto uccidermi. Supponete di avermi steso a terra; dove sareste voi? Bisognerebbe fuggire, andare in Svizzera, mangiarsi i soldi di papà, che non ne ha molti. Io voglio lumeggiarvi la posizione in cui siete; ma lo farò con la superiorità di un uomo che, dopo aver esaminato le cose di questo basso mondo, ha visto che le soluzioni da adottare sono due: o una stupida obbedienza, o la ribellione. Io non obbedisco a niente, è chiaro? Sapete che cosa vi occorre, con l'andazzo da voi preso? Un milione, e alla svelta; senza il quale, con la vostra testolina, potete pure andare bighellonando fra le reti di Saint-Cloud per vedere se esiste un Essere Supremo. Il milione ve lo darò io. - Fece una pausa guardando Eugenio. - Ah, ah!, ora fate un miglior viso a papà Vautrin! Sentendo queste mie parole, mi siete sembrato simile a una ragazza cui si dica: "A questa sera!", e che fa toletta gongolando come un gatto quando beve il latte. Alla buon'ora. Suvvia! A noi! Ed ecco il vostro conto, giovanotto.

Abbiamo laggiù papà, mamma, prozia, due sorelle (diciotto e diciassette anni), due fratellini (quindici e dieci anni): questo è il ruolino dell'equipaggio. La zia educa le sorelle. Il curato dà lezione di latino ai fratelli. La famiglia mangia più castagne lesse che pane bianco, papà tiene da conto i suoi pantaloni, mamma ha appena un vestito per l'inverno e uno per l'estate, le sorelle fanno alla meglio. So tutto, conosco il Mezzogiorno. Le cose devono andar così in casa vostra, se vi mandano milleduecento franchi all'anno, e dato che la vostra terrina non rende che tremila franchi. Abbiamo una cuoca e un domestico, bisogna conservare il decoro, papà è barone. Quanto a noi, siamo ambiziosi; abbiamo per parenti i Beauséant e andiamo a piedi, vogliamo la ricchezza e non abbiamo un soldo, mangiamo la sbobba di mamma Vauquer e ci piacciono i bei pranzi del faubourg Saint- Germain, dormiamo su di un giaciglio e vorremmo avere un palazzo.

Non biasimo i vostri desideri. Avere dell'ambizione, cuoricino mio, non è da tutti. Chiedete alle donne quali uomini preferiscono: gli ambiziosi. Gli ambiziosi hanno le reni più resistenti, il sangue più ricco di ferro, il cuore più caldo, degli altri uomini. E la donna è così felice e così bella nelle ore in cui è forte, che preferisce a tutti gli uomini quello che ha una forza enorme, a costo d'essere spezzata da lui. Sto facendo l'inventario dei vostri desideri per farvi una domanda. La domanda è questa. Abbiamo una fame da lupi, i nostri dentini sono aguzzi:

come faremo a riempire la pentola? Prima di tutto dobbiamo mangiare il codice; non è divertente, e non serve a nulla!, ma è necessario mangiarlo. Sia pur così. Ci facciamo avvocato per diventare presidente d'una corte d'assise, e condannare ai lavori forzati poveri diavoli migliori di noi, con un: L. F. sulla spalla, per assicurare ai ricchi sonni tranquilli. Non è divertente, e poi è cosa lunga. Prima, due anni di attesa a Parigi, passandoli a guardare, ma senza toccare, le chicche di cui siamo ghiotti. E' noioso desiderare sempre e non soddisfarsi mai.

Se foste pallido e della natura dei molluschi non avreste nulla da temere, ma abbiamo il sangue febbrile dei leoni e un appetito, da far venti sciocchezze al giorno. Ma voi soccomberete a un simile supplizio, il più orribile che si sia immaginato nell'inferno del buon Dio. Ammettiamo che siate giudizioso, che beviate latte e scriviate elegie; bisognerà cominciare, generoso come siete, dopo tante noie e privazioni da far diventare arrabbiato un cane, col diventare sostituto di qualche briccone, in una misera cittadina dove il governo vi darà mille franchi di stipendio, come si butta il pancotto al cane del macellaio. Abbaia appresso ai ladri, difende i ricchi, fa ghigliottinare la gente di fegato. Molto obbligato! Se non avrete qualcuno che vi protegge, ammuffirete nel vostro tribunale di provincia. Verso i trent'anni sarete giudice a milleduecento franchi l'anno, se nel frattempo non avrete gettato la toga alle ortiche. Quando avrete raggiunto la quarantina, sposerete la figlia di qualche mugnaio, ricco di circa seimila lire di rendita. Grazie! Se avrete protezioni, sarete procuratore del re a trent'anni, con mille scudi di stipendio, e sposerete la figlia del Sindaco. Se commetterete qualcuna di quelle piccole bassezze politiche, come ad esempio quella di leggere su di un bollettino Villèle invece di Manuel (c'è la rima e perciò la coscienza è a posto), sarete, a quarant'anni, procuratore generale, e potrete anche diventare deputato. Tenete conto, mio caro ragazzo, che intanto avremo fatto qualche strappo alla nostra coscienza, avremo avuto vent'anni di fastidi, di miserie nascoste, e che le nostre sorelle saranno rimaste zitelle. Ho inoltre l'onore di farvi osservare che in Francia i procuratori generali sono in tutto venti, mentre ad aspirare a quel grado siete in ventimila, fra cui ci sono dei tipi capaci anche di vendersi la famiglia pur di salire un gradino. Se questo mestiere non è di vostro gradimento, vediamo qualche altra cosa. Il barone di Rastignac vuol fare l'avvocato? Oh, che bella cosa! Bisogna patire dieci anni, spendere mille franchi al mese, avere una biblioteca, uno studio, andare in società, baciare la toga di un avvocato anziano per avere qualche causa, e spazzare il palazzo di giustizia con la lingua. Se un tale mestiere vi conducesse in porto, non direi di no; ma trovatemi a Parigi cinque avvocati che, a cinquant'anni, guadagnino più di cinquemila franchi all'anno!

Ah, no!, piuttosto che avvilirmi così, preferirei fare il corsaro.

D'altra parte: dove trovare gli scudi? Tutto ciò non è allegro.

Abbiamo una soluzione nella dote d'una donna. Volete sposarvi?

Sarà come mettervi una pietra al collo; e poi, se vi ammoglierete per ragioni d'interesse, dove vanno a finire il nostro senso dell'onore, la nostra nobiltà? Tanto varrebbe cominciare fin da oggi con la vostra ribellione alle convenzioni umane. Non sarebbe nulla raggomitolarsi come un serpente dinanzi a una donna, leccare i piedi della madre, far bassezze tali da disgustare una scrofa, puah !, se almeno trovaste la felicità. Ma, invece, sarete sfortunato come le pietre delle fogne, con in più una moglie sposata per quei motivi. Ma allora è meglio lottare con gli uomini che con la propria moglie. Ecco il crocicchio della vita, giovanotto: scegliete. Voi avete già scelto: siete andato dal nostro cugino Beauséant, e vi avete fiutato il lusso. Siete andato dalla signora de Restaud, la figlia di papà Goriot, e vi avete fiutato la parigina. Quel giorno, siete ritornato qui con una parola scritta in fronte, e che io ho saputo ben leggere:

ARRIVARE!, arrivare a ogni costo. Bravo!, mi sono detto, ecco un uomo audace, che mi va a genio. Vi è occorso denaro. Dove prenderlo? Avete salassato le sorelle. Tutti i fratelli "scroccano" più o meno dalle sorelle. I vostri millecinquecento franchi strappati, Dio sa come !, a un paese dove ci sono più castagne che monete da cento soldi, partiranno come soldati che vanno a far bottino. E dopo, che farete? Lavorerete? Il lavoro, inteso come lo intendete in questo momento, procura, in vecchiaia, un alloggio in casa di mamma Vauquer ai giovani tipo Poiret. Una rapida fortuna è il problema che si pongono in questo istante cinquantamila giovani che si trovano tutti nella vostra situazione. Voi rappresentate una sola unità di quel numero. Da ciò potrete immaginare gli sforzi che dovrete compiere e l'accanimento della lotta. Dovrete sbranarvi reciprocamente come ragni entro un vaso, dato che non ci sono cinquantamila buoni posti. Sapete come qui ci si fa strada? Col lampo del genio o con l'accortezza della corruzione. Bisogna penetrare in questa massa d'uomini come una palla di cannone, o infiltrarvisi come la peste.

L'onestà non serve a nulla. Ci si piega sotto il potere del genio, lo si odia; si cerca di calunniarlo, perché esso prende ma non dà; ma ci si piega a lui, se persiste; in una parola, lo si adora in ginocchio quando non lo si è potuto seppellire sotto il fango. Di corruzione ce n'è tanta, il talento è raro. Perciò, la corruzione è l'arma della mediocrità che abbonda, e voi ne sentirete ovunque la punta. Vedrete donne i cui mariti hanno in tutto seimila franchi di stipendio, e che ne spendono più di diecimila per la loro toletta. Vedrete impiegati a milleduecento franchi acquistare terre. Vedrete donne prostituirsi per andare nella carrozza del figlio d'un pari di Francia, che può correre a Longchamp sulla pista principale. Avete visto quel povero babbeo di papà Goriot costretto a pagare la cambiale firmata da sua figlia, il cui marito ha cinquantamila lire di rendita. Vi sfido a far due passi in Parigi senza imbattervi in intrighi infernali. Scommetterei la mia testa contro un piede di questa insalata che incapperete in un vespaio presso la prima donna che vi piacerà, anche se ricca, bella e giovane. Hanno tutte a che fare con le leggi, in guerra coi mariti per qualunque cosa. Non la finirei più se dovessi spiegarvi i mercimoni che fanno per gli amanti, per le mode, per i figli, per la casa o per la loro vanità; raramente per la virtù, siatene certo. E così, l'uomo onesto è il nemico comune. Ma cosa credete che sia l'uomo onesto? A Parigi, l'uomo onesto è colui che tace, e si rifiuta di condividere un tal sistema di vita. Non vi parlo di quei poveri iloti che ovunque sgobbano senza esser mai ricompensati del loro lavoro, e che io chiamo la confraternita delle ciabatte del buon Dio. Certo, là è la virtù in tutto il fiore della sua sciocchezza, ma là è anche la miseria. Vedo da qui la smorfia di questa brava gente, se Iddio ci giocasse il brutto tiro di assentarsi al momento del giudizio universale. Se dunque volete far presto fortuna, bisogna essere già ricco o sembrarlo.

Per arricchire, si tratta qui di giocare grossi colpi; se no, il gioco è da spilorcio, e... servitor vostro! Se nelle cento carriere che potete intraprendere, s'incontrano dieci uomini che riescono rapidamente, il pubblico li chiama ladri. Traete le vostre conclusioni. Ecco la vita così com'è. Non è più bella della cucina, puzza quanto questa e bisogna imbrattarsi le mani se si vuol mangiare bene; sappiate tuttavia lavarvi bene la faccia; qui è tutta la morale dell'epoca nostra.

Se vi parlo così del mondo, esso me ne ha dato il diritto, lo conosco bene. Credete che lo biasimi? Per niente. E' stato sempre così. I moralisti non lo cambieranno mai. L'uomo è imperfetto. E', talvolta, più o meno ipocrita, e gli ingenui dicono allora che egli è o non è morigerato. Non accuso i ricchi in favore del popolo: l'uomo è lo stesso in alto, in basso, al centro. Per ogni milione di questo alto bestiame si trovano dieci persone risolute che si mettono al di sopra di tutto, anche alle leggi, io sono di queste. Se voi siete un uomo superiore, marciate diritto e a testa alta. Ma dovrete lottare contro l'invidia, la calunnia, la mediocrità, contro tutti! Napoleone ha avuto un ministro della guerra che si chiamava Aubry, e che per poco non lo spediva in colonia. Misurate bene le vostre possibilità. Guardate se potrete alzarvi ogni mattino con una volontà più forte di quella che avevate il giorno prima. In tali congiunture, vi farò una proposta che nessuno rifiuterebbe. Ascoltatemi bene. Io, vedete, ho un'idea. La mia idea è di andare a vivere la vita patriarcale in un grande possedimento, di centomila jugeri, per esempio, negli Stati Uniti, nel Sud. Voglio farvi il colonizzatore, avere sotto di me schiavi, guadagnare qualche milioncino vendendo i miei buoi, il mio tabacco, la mia legna, vivendo come un sovrano, facendo quel che voglio, conducendo un'esistenza che non si concepisce qui, dove ci si rannicchia in una tana di gesso. Io sono un grande poeta. Le mie poesie, io non le scrivo; esse consistono in azioni e in sentimenti. Posseggo, in questo momento, cinquantamila franchi, coi quali potrei comprare appena quaranta negri. Ho bisogno di duecentomila franchi, perché voglio duecento negri, al fine di soddisfare il mio gusto per la vita patriarcale. I negri, vedete, sono dei bambini venuti al mondo or ora, di cui si fa ciò che si vuole, senza che un ficcanaso di procuratore del re venga a chiedervene conto. Con un tal capitale nero, in capo a dieci anni possiederò tre o quattro milioni. Se riesco, nessuno mi domanderà:

Chi sei? Io sarò il signor Quattro Milioni, cittadino degli Stati Uniti. Avrò cinquant'anni, non sarò ancora marcio, mi divertirò a mio modo. In due parole: se vi procuro una dote di un milione, mi darete duecentomila franchi? E' il venti per cento di commissione; eh!; troppo? Vi farete amare dalla vostra mogliettina. Una volta ammogliato, vi mostrerete preoccupato, pentito, triste per quindici giorni. Una notte, dopo qualche sdolcinatura, confesserete a vostra moglie, fra due baci, di aver duecentomila franchi di debito, dicendole: "Amor mio!". Questa commedia viene recitata tutti i giorni dai giovani più distinti. Una giovane non rifiuta mai il suo denaro a chi le prende il cuore. Credete forse di rimetterci? No. Troverete la maniera di riguadagnare i duecentomila franchi in un qualche affare. Col vostro denaro e con la vostra intelligenza, metterete insieme una fortuna tanto considerevole quanto potete desiderarla. Ergo, avrete fatto, in soli sei mesi, la vostra felicità, quella di un'amabile donna e quella del vostro papà Vautrin, senza contare quella della vostra famiglia che d'inverno si soffia sulle dita per mancanza di legna.

Non vi meravigliate né di ciò che vi propongo né di ciò che vi chiedo ! Su sessanta bei matrimoni celebrati a Parigi, ce ne sono quarantasette che danno luogo a simili mercanteggiamenti. La camera dei Notari ha costretto il signor...

- Che cosa devo fare? - chiese avidamente Rastignac interrompendo Vautrin.

- Quasi nulla - questi rispose lasciandosi sfuggire un moto di gioia, simile alla sorda espressione d'un pescatore che senta esservi un pesce all'estremità della lenza. - Ascoltatemi bene! Il cuore d'una povera figlia sfortunata e miserevole è la spugna più avida di riempirsi d'amore, una spugna secca che si dilata non appena vi cada dentro una gocciola di sentimento. Fare la corte a una giovane sola, sconfortata e povera, senza che essa supponga la ricchezza che un giorno le dovrà arrivare!, caspita!, è come avere buon gioco, come conoscere i numeri del lotto, come giocare in borsa sulla rendita avendo prima avuto le opportune notizie. In tal modo costruite su palafitte un matrimonio indistruttibile. Se a questa ragazza piovono milioni, lei ve li getterà ai piedi, come se fossero sassi. "Prendi, amor mio! Prendi Adolfo! Alfredo!

Prendi, Eugenio", dirà, se Adolfo Alfredo Eugenio hanno avuto il buon senso di sacrificarsi per lei. Intendo per sacrificarsi vendere un abito vecchio per andare a mangiare insieme al Cadran- Bleu i crostini coi funghi; da lì, la sera, all'Ambigu-Comique, impegnare l'orologio al Monte di Pietà per regalarle uno scialle.

E non vi parlo poi degli scarabocchi d'amore, né di quelle sciocchezzuole cui tengono tanto le donne, come, ad esempio, di spargere gocce d'acqua sulla carta da lettere a mo' di lagrime quando si è lontani da loro; ma mi sembra che già conosciate perfettamente il gergo del cuore Parigi, vedete, è come una foresta del Nuovo Mondo, nella quale si muovono venti tribù selvagge, gli Illinois, gli Uroni, i quali vivono con quanto prodotto dalle differenti classi sociali; voi siete un cacciatore di milioni. Per prenderli usate trappole, vischio, richiami. Ci sono vari modi di cacciare. Alcuni vanno a caccia della dote, altri della liquidazione; alcuni pescano coscienze; altri vendono i loro associati con mani e piedi legati. Chi torna col carniere ben pieno è salutato, festeggiato, ricevuto nella buona società.

Rendiamo giustizia a questo suolo ospitale, voi avete da fare con la città più compiacente del mondo. Se le fiere aristocrazie di tutte le altre capitali d'Europa si rifiutano di ammettere nei loro ranghi un milionario scellerato, Parigi gli tende le braccia, accorre alle sue feste, accetta i suoi pranzi e trinca con la sua infamia.

- Ma dove trovarla, la ragazza? - disse Eugenio.

- Ma se l'avete davanti a voi!

- Chi, la signorina Vittorina?

- Già, proprio lei!

- Eh, come?

- Lei vi ama già, la vostra piccola baronessa de Rastignac!

- Ma se non ha un soldo! - riprese Eugenio meravigliato.

- Ah!, qui vi volevo. Ancora due parole - disse Vautrin - e tutto sarà chiarito. Il papà Taillefer è un vecchio briccone, e si dice abbia assassinato un suo amico durante la rivoluzione. E' uno di quegli uomini arditi, indipendenti nelle loro opinioni. E' un banchiere, principale socio della ditta Federico Taillefer e compagni. Ha un figlio unico, cui vuol lasciare tutta la sua sostanza, a detrimento di Vittorina. Io non posso approvare simili ingiustizie. Sono come Don Chisciotte, mi piace prendere la difesa del debole contro il forte. Se la volontà di Dio fosse di riprendersi il figlio, Taillefer riprenderebbe con sé la figlia; egli vorrebbe un erede qualsiasi, sciocchezza suggerita dalla stessa umana natura, e d'altra parte non può più avere figli, lo so. Vittorina è dolce e bellina, e farà presto a conquistare suo padre. Lo farà girare su se stesso come una trottola, con lo spago del sentimento! Sarà troppo sensibile al vostro amore per dimenticarvi; e voi la sposerete. Io m'incarico di assumere la parte della Provvidenza, farò volere il buon Dio. Ho un amico, per il quale a suo tempo mi sono molto prestato, un colonnello dell'armata della Loira, da poco passato nella guardia reale. Egli segue i miei consigli, ed è divenuto ultra-realista: non è uno di quegli imbecilli che tengono alle loro opinioni. Se vi posso dare un altro consiglio, mio caro, è di non tenere né alle vostre opinioni né alle vostre parole. Quando ve le chiederanno, vendetele. Un uomo che si vanta di non mutar mai opinione è un uomo che s'impone di camminare sempre in linea retta, un ingenuo che crede all'infallibilità. Non ci sono principi, ci sono soltanto accadimenti; non ci sono leggi, ci sono soltanto circostanze: l'uomo superiore sposa gli accadimenti e le circostanze per dirigerli. Se ci fossero principi e leggi stabili, i popoli non li cambierebbero come noi la camicia. L'uomo non ha il dovere d'essere più saggio di tutta una nazione. L'uomo che ha reso il minor numero di servigi alla Francia è un feticcio venerato per aver sempre visto rosso; è buono tutt'al più per esser messo al Conservatorio, fra le macchine, con l'etichetta: La Fayette. Invece il principe [Talleyrand] contro cui tutti scagliarono una pietra, e che disprezza abbastanza l'umanità da sputarle in viso tanti giuramenti quanti ne chiede, ha impedito lo smembramento della Francia al congresso di Vienna: gli si dovrebbero offrire corone, gli si getta addosso fango. Oh!, so bene come vanno le cose, io! E posseggo i segreti di molta gente.

Basta. Avrò un'opinione incrollabile il giorno in cui avrò trovato tre teste d'accordo sull'uso d'un principio, e attenderò a lungo!

Non si trovano in tribunale tre giudici che interpretino in modo eguale un articolo di legge. Ma torno al mio uomo. Rimetterebbe Gesù Cristo in croce, se glielo chiedessi. Basterà una sola parola del suo papà Vautrin perché egli cerchi di attaccar lite con quel briccone che non manda neppure cento soldi alla sua povera sorella, e... - A questo punto Vautrin si alzò, si mise in guardia, fece la mossa d'un maestro di scherma quando porta la gamba destra in avanti e lascia al suo posto il piede sinistro. - E, all'ombra - egli aggiunse.

- Orrore! - disse Eugenio. - Voi volete scherzare, signor Vautrin?

- Là, là, calma - riprese quell'uomo. - Non fate il bambino:

tuttavia, se vi diverte, corrucciatevi, adiratevi! Dite pure che sono un infame, uno scellerato, un briccone, un bandito, ma non chiamatemi né imbroglione né spia! Andiamo, su, sparate la vostra bordata! Vi perdono, è così naturale alla vostra età! Anch'io sono stato così. Soltanto, riflettete. Un giorno o l'altro potrete far di peggio. Andrete a fare il galletto da qualche bella donna, e vi farete dare dei soldi. Ci avete pensato? - chiese Vautrin; - giacché come riuscirete, se non trarrete profitto dal vostro amore? La virtù, mio caro studente, è inscindibile: o è o non è.

Si dice che basta far penitenza dei propri peccati. Un altro bel sistema, in virtù del quale si è assolti da un delitto con un atto di contrizione! Sedurre una donna per arrivare a porvi su un certo piuolo della scala sociale, mettere zizzania tra i figli di una famiglia, insomma tutte le infamie che si commettono sotto la cappa di un camino o altrimenti a scopo di piacere o per interesse personale, credete voi che siano atti di fede, di speranza e di carità? Perché due mesi di prigione al dandy che, in una notte, toglie a un ragazzo la metà della sua fortuna, e perché la galera al povero diavolo che ruba un biglietto da mille franchi, con le circostanze aggravanti? Ecco quello che sono le vostre leggi. Non c'è un articolo che non arrivi all'assurdo. L'uomo in guanti e in parole gialli ha commesso assassini in cui non si versa sangue, ma se ne dà; l'assassino ha aperto una porta con un grimaldello:

entrambe son cose notturne! Tra quel che vi propongo e quel che farete un giorno, non c'è che il sangue in meno. Voi credete in qualcosa di stabile in quel mondo? Ma disprezzate gli uomini, e cercate le maglie per dove si può passare attraverso la rete del Codice. Il segreto delle grandi fortune senza ragioni apparenti sta in un delitto, dimenticato perché pulitamente compiuto.

- Basta, signore, non voglio sentir altro, mi fareste dubitare di me stesso. Ora il sentimento è tutta la mia scienza.

- Come volete, mio bel ragazzo. Vi credevo più forte - disse Vautrin - non vi dirò più nulla. Un'ultima parola, però. - E, guardando fisso lo studente: - Voi conoscete il mio segreto - gli disse.

- Un giovane che vi dice di no saprà presto dimenticarlo.

- Avete ben detto, ciò mi fa piacere. Un altro, vedrete, sarà meno scrupoloso. Ricordatevi di quanto voglio fare per voi. Vi dò quindici giorni. Prendere o lasciare.

"Che logica di ferro ha costui!", si disse Rastignac, vedendo Vautrin andarsene tranquillamente, col suo bastone sotto il braccio. "Egli mi ha detto crudelmente quel che la signora de Beauséant mi diceva salvando la forma. Costui mi lacerava il cuore con artigli d'acciaio. Perché voglio andare dalla signora de Nucingen? Egli ha indovinato le mie idee non appena le ho concepite. In due parole, questo brigante mi ha detto più cose sulla virtù di quante non me ne abbiano dette gli altri uomini e i libri. Se la virtù non ammette capitolazione, ho dunque derubato le mie sorelle?", disse gettando il sacchetto sul tavolo. Si sedette, e rimase lì assorto in una sbalordita meditazione.

"Restar fedele alla virtù, martirio sublime. Oh!, tutti credono alla virtù; ma chi è virtuoso? I popoli venerano la libertà come un idolo; ma dov'è sulla terra un popolo libero? La mia giovinezza è ancora azzurra come un cielo senza nuvole: voler essere grande o ricco, non significa risolversi a mentire, a piegarsi, ad abbassarsi, a raddrizzarsi, ad adulare, a dissimulare? Non è un consentire a diventare il servo di coloro che hanno mentito, che si sono piegati, abbassati? Prima d'esser loro complice, bisogna servirli. Ebbene, no. Io voglio lavorare nobilmente, santamente; voglio lavorare giorno e notte, dover la mia fortuna solo al mio lavoro. Sarà la più lenta delle fortune, ma ogni giorno la mia testa riposerà su di un guanciale senza un cattivo pensiero. Che cosa c'è di più bello del contemplare la propria vita e trovarla pura come un giglio? Io e la vita siamo come un giovane e la sua fidanzata. Vautrin mi ha fatto vedere quel che accade dopo dieci anni di matrimonio. Diavolo!, la mia testa si smarrisce. Non voglio pensare a nulla, il cuore è una buona guida".

Eugenio fu distolto dalla sua meditazione dalla voce della grossa Silvia, che gli annunciò il sarto, al quale si presentò tenendo in mano i due sacchetti pieni di denaro; e non si sentì contrariato da tale circostanza. Dopo essersi provato gli abiti da sera, indossò il nuovo vestito da mattino, che lo trasformava completamente:

"Ora valgo quanto il signor de Trailles", disse fra sé e sé.

"Finalmente, ho l'aria di un gentiluomo".

- Signore - disse papà Goriot entrando in camera di Eugenio - mi avete chiesto se conoscevo la casa dove va la signora de Nucingen?

- Sì.

- Ebbene, essa va lunedì prossimo al ballo del maresciallo Carigliano. Se potete andarci, mi direte poi se le due mie figlie si sono divertite, come erano vestite, tutto insomma.

- Come l'avete saputo, mio buon papà Goriot? domandò Eugenio facendolo sedere accanto al fuoco.

- Me lo ha detto la sua cameriera. So tutto quel che fanno da Teresa e da Costanza - riprese con aria allegra. Il vecchio sembrava un amante ancora abbastanza giovane per essere soddisfatto d'uno stratagemma che lo metta in comunicazione con la sua amante, senza che questa possa scoprirlo. - Voi le vedrete, voi! - disse esprimendo con ingenuità una dolorosa invidia.

- Non so - rispose Eugenio. - Andrò dalla signora de Beauséant per chiederle se può presentarmi alla marescialla.

Eugenio pensava con una specie di gioia interiore a mostrarsi alla viscontessa vestito come d'ora in avanti avrebbe usato vestirsi.

Quel che i moralisti definiscono gli abissi del cuore umano sono soltanto gli ingannevoli pensieri, gli involontari moti dell'interesse personale. Quelle peripezie, soggetto di tante declamazioni, quei cambiamenti repentini, sono calcoli fatti a profitto dei nostri godimenti. Vedendosi ben vestito, ben calzato, Rastignac dimenticò la virtuosa decisione. La giovinezza non osa guardarsi allo specchio della coscienza quando pende dalla parte dell'ingiustizia, mentre l'età matura vi si è specchiata; in ciò consiste tutta la differenza tra queste due fasi della vita. Da qualche giorno i due vicini, Eugenio e papà Goriot, erano divenuti buoni amici. La loro segreta amicizia dipendeva dalle ragioni psicologiche che avevano causato sentimenti contrari tra Vautrin e lo studente. L'ardito filosofo che vorrà constatare gli effetti dei nostri sentimenti nel mondo fisico, ritroverà senza dubbio più di una prova della loro effettiva materialità nei rapporti che essi creano tra noi e gli animali. Qual fisiognomo è più sollecito a indovinare un carattere, di quanto non lo sia un cane a sapere se uno sconosciuto gli vuol bene o no? Gli "atomi uncinati", espressione proverbiale di cui tutti si servono, sono uno di quei fatti che rimane nei linguaggi per smentire le sciocchezze filosofiche di cui si occupano coloro che si divertono a vagliare la scorza delle parole primitive. Quando siamo amati, lo sentiamo.

Il sentimento s'imprime in tutte le cose e attraversa lo spazio.

Una lettera è un'anima; è un'eco così fedele della voce che parla, da farla annoverare dagli spiriti delicati fra i più ricchi tesori dell'amore. Papà Goriot, che il sentimento irriflessivo elevava fino al sublime della natura canina, aveva annusato il compatimento, l'ammirativa bontà, le simpatie giovanili che s'erano commosse per lui nel cuore dello studente. Tuttavia, questa unione nascente non aveva ancora portato ad alcuna confidenza. Se Eugenio aveva manifestato il desiderio di vedere la signora de Nucingen, non contava certo sul vecchio per esser introdotto da lui in casa di lei, ma sperava che una qualsiasi indiscrezione avrebbe potuto essergli utile. Papà Goriot gli aveva parlato delle figlie solo a proposito di quel che si era permesso di dire davanti a tutti i pensionanti il giorno delle sue visite.

- Mio caro signore - gli aveva detto l'indomani - come mai avete potuto credere che la signora de Restaud si sia adirata con voi perché avete pronunciato il mio nome? Le mie due figlie mi vogliono tanto bene. Io sono un padre felice. Sono i due generi che si sono mal comportati verso di me. Io non ho voluto far soffrire quelle care creature per i miei dissensi con i loro mariti, e ho preferito vederle di nascosto. Tale mistero mi procura mille gioie che non possono comprendere gli altri padri i quali possono vedere le loro figlie quando vogliono. Io questo non lo posso fare, capite? Allora vado, quando è bel tempo ai Champs- Elisées, dopo aver domandato alle cameriere se le mie figlie escono. Le attendo al passaggio, il cuore mi batte quando le vetture giungono, le ammiro nella loro toletta, e loro mi gettano, passando, un sorrisetto che mi fa sembrar d'oro la natura, come se vi cadesse un raggio di qualche bel sole. Io rimango lì, perché devono ripassare. Le vedo di nuovo! L'aria gli ha fatto bene, sono rosee. Sento dire vicino a me: "Ecco una bella donna!". Questo mi rallegra il cuore. Non sono sangue mio? Voglio bene ai cavalli delle loro carrozze, vorrei essere il cagnolino che tengono sulle ginocchia. Vivo dei loro piaceri. Ognuno ha il proprio modo d'amare; il mio non fa male a nessuno, e allora perché la gente si occupa di me? sono felice a modo mio. E' forse contrario alla legge che io vada a vedere le mie figlie, la sera, quando escono di casa per andare al ballo? Che dolore, se arrivo troppo tardi e mi dicono: "la signora è già uscita". Una volta ho aspettato fino alle tre del mattino per veder Nasia, che non avevo veduto da due giorni. Per poco non scoppiavo dalla contentezza. Ve ne prego, non parlate di me se non per dire quanto le mie figlie siano buone.

Esse vorrebbero colmarmi d'ogni sorta di regali; glielo impedisco e dico loro: "Tenete per voi il vostro denaro. Che volete che io me ne faccia ? Non ho proprio bisogno di nulla". Giacché, mio caro signore, che sono io? Un misero cadavere; l'anima sta ovunque si trovino le mie figlie. Quando avrete visto la signora de Nucingen, mi direte quale delle due vi piace di più - disse il bonuomo dopo un momento di silenzio, vedendo che Eugenio si preparava a uscire per andare alle Tuileries in attesa dell'ora di presentarsi in casa de Beauséant.

Quella passeggiata fu fatale per lo studente. Alcune donne lo notarono. Era così bello, così giovane, e d'una eleganza così di buon gusto! Nel vedersi oggetto di un'attenzione quasi ammirativa, non pensò più né alle sorelle né alla zia che aveva saccheggiato, né alle sue virtuose repugnanze. Aveva visto passare al di sopra della sua testa quel demonio che è così facile scambiare per un angelo, quel Satana dalle ali screziate che semina rubini, che lancia le sue frecce d'oro contro i palazzi, imporpora le donne, riveste d'un vano splendore i troni, così semplici in origine:

aveva ascoltato il dio di quella vanità crepitante, il cui orpello ci sembra sia un simbolo della potenza. Le parole di Vautrin, per quanto ciniche, erano scese nel suo cuore, come nel ricordo d'una vergine s'imprime il profilo ignobile d'una rivenditrice d'abiti che le ha detto: "Oro e amore a josa!". Dopo aver bighellonato, verso le cinque Eugenio si presentò in casa della signora de Beauséant, e vi ricevette uno di quei colpi terribili di fronte ai quali i cuori giovani sono disarmati. Aveva fino allora trovato la contessa piena di quella urbanità garbata, di quella grazia melliflua, data dall'educazione aristocratica, e che non è completa se non viene dal cuore.

Quando entrò, la signora de Beauséant ebbe un gesto secco, e gli disse in tono reciso:

- Signor de Rastignac, mi è impossibile vedervi, almeno in questo momento!, ho da fare...

Per un osservatore, e Rastignac lo era diventato presto, quella frase, il gesto, lo sguardo, l'inflessione della voce, erano la storia del carattere e delle abitudini della casta. Scorse la mano di ferro sotto il guanto di velluto; la personalità, l'egoismo sotto le maniere; il legno sotto la vernice.

Sentì, insomma, l'"Io il Re", che comincia sotto i pennacchi del trono e finisce sotto il cimiero dell'ultimo gentiluomo. Eugenio s'era troppo facilmente lasciato andare nel credere, sulla parola della cugina, alla virtù della donna. Come tutti gli sventurati, aveva firmato in buona fede il patto delizioso che deve unire il benefattore e il beneficato, e il cui primo articolo consacra tra i magnanimi cuori una completa eguaglianza. La beneficenza, che unisce due esseri in uno solo, è una passione celeste, tanto incompresa, tanto rara quanto il vero amore. L'una e l'altro sono la prodigalità delle anime belle. Rastignac voleva riuscire a essere invitato al ballo della duchessa di Carigliano; e superò quella burrasca.

- Signora - disse con voce commossa - se non si trattasse d'una cosa importante, non sarei venuto a importunarvi; siate gentile permettetemi di vedervi più tardi, attenderò.

- Ebbene !, venite a pranzo da me - disse un po' confusa della durezza delle sue parole; giacché questa donna era davvero altrettanto buona che nobile.

Sebbene commosso da tale improvviso cambiamento, Eugenio si disse andandosene: "Abbassati, sopporta tutto. Che cosa non devono essere le altre, se, in un momento, la migliore delle donne dimentica le promesse della sua amicizia, ti lascia lì come una scarpa vecchia! Ognuno per sé, dunque. E' pur vero che la sua casa non è un negozio, e il torto è mio d'aver bisogno di lei. Bisogna, come dice Vautrin, diventare una palla di cannone". Le amare riflessioni dello studente furono presto dissipate dal piacere che si riprometteva pranzando dalla viscontessa.

Così, per una specie di fatalità, i minimi atti della sua vita cospiravano a spingerlo in quella strada ove, secondo le osservazioni della terribile sfinge di casa Vauquer, egli doveva, come su di un campo di battaglia, uccidere per non essere ucciso, ingannare per non essere ingannato; ove doveva lasciare alla barriera la sua coscienza, il suo cuore, mettersi una maschera, beffarsi, senza pietà, degli uomini, e come a Sparta, cogliere la fortuna senza esser visto, per meritare la corona. Quando tornò dalla viscontessa, la trovò piena di quella bontà graziosa di cui gli aveva sempre dato prova. Tutti e due si avviarono verso una sala da pranzo dove il visconte attendeva sua moglie, e in cui risplendeva quel lusso della tavola che sotto la Restaurazione fu spinto, come ognuno sa, al più alto grado. Il signor de Beauséant, simile a molte persone scettiche indifferenti e insensibili, non trovava ormai altro piacere che nella buona tavola; era, quanto a ghiottoneria, della scuola di Luigi Diciottesimo e del duca d'Escars. La sua tavola offriva dunque un doppio lusso: quello del contenente e quello del contenuto. Mai un simile spettacolo si era presentato agli occhi d'Eugenio, che pranzava per la prima volta in una di quelle case in cui le grandezze sociali sono ereditarie.

La moda aveva da poco soppresso le cene, con le quali terminavano un tempo i balli dell'Impero, e in cui i militari avevano bisogno di prender forza per prepararsi a tutti i combattimenti che li attendevano, all'interno e all'esterno. Eugenio aveva fino allora assistito solo a balli. La disinvoltura che lo distinse più tardi così eminentemente, e che già cominciava ad assumere, gli impedì di apparire scioccamente stupefatto. Ma, vedendo quell'argenteria cesellata e le mille ricercatezze d'una tavola sontuosa, ammirando per la prima volta un servizio di domestici eseguito silenziosamente, era difficile a un uomo d'ardente immaginazione non preferire quella vita sempre elegante alla vita di privazioni che al mattino di quello stesso giorno voleva accettare. Il suo pensiero lo riportò per un momento nella pensione borghese, e ne provò un così profondo orrore, che giurò di lasciarla nel prossimo mese di gennaio, sia per sistemarsi in un alloggio più pulito, sia per allontanarsi da Vautrin, di cui sentiva l'ampia mano sulla sua spalla.

Quando si pensa alle mille forme che assume a Parigi la corruzione, parlante o muta, un uomo di buon senso si domanda per quale aberrazione lo Stato vi istituisca scuole e vi riunisca i giovani, come mai le belle donne possono esservi rispettate, come mai l'oro messo in vetrina dai cambiavalute non s'invola magicamente dalle loro ciotole. Ma se si pensa che pochi sono i casi di delitti, anche di delitti commessi dai giovani, da quale rispetto non si deve essere presi per quei pazienti Tantali in combattimento con se stessi, e quasi sempre vincitori? Se fosse ben descritto nella sua lotta con Parigi, il povero studente offrirebbe uno dei soggetti più drammatici della nostra civilizzazione moderna. La signora de Beauséant guardava invano Eugenio per invitarlo a parlare; egli non volle dir nulla in presenza del Visconte.

- Mi accompagnate questa sera agli "Italiani"? - chiese la viscontessa al marito.

- Non potete dubitare con quale piacere vi ubbidirei - egli rispose con una galanteria ironica da cui lo studente rimase ingannato - ma devo vedere qualcuno alle "Varietés".

"La sua amante" essa pensò.

- Non avete d'Adjuda, questa sera? - domandò il visconte.

- No - rispose lei con stizza.

- E allora!, se vi occorre assolutamente un braccio, prendete quello del signor de Rastignac. - La viscontessa guardò Eugenio sorridendo.

- Sarà ben compromettente per voi - essa disse.

- "Il francese ama il pericolo perché vi trova la gloria", ha detto il signor de Chateaubriand - rispose Rastignac inchinandosi.

Più tardi egli fu condotto, vicino alla signora de Beauséant, in un veloce "coupé", al teatro alla moda, e credette a una fantasmagoria quando entrò in un palco di faccia e si vide preso di mira da tutti gli occhialini unitamente alla viscontessa, la cui toletta era deliziosa. Egli passava da un incanto all'altro.

- Avevate da parlarmi - gli disse la signora de Beauséant. - To!, guardate, ecco là la signora de Nucingen a tre palchi dal nostro.

Sua sorella e il signor de Trailles sono dall'altro lato.

Dicendo queste parole, la viscontessa guardava il palco dove doveva trovarsi la signorina de Rochefide, e, non vedendovi il signor d'Adjuda, il suo volto brillò in un modo straordinario.

- E' incantevole - disse Eugenio dopo aver guardato la signora de Nucingen.

- Ha le ciglia bianche.

- Sì, ma che graziosa vita sottile!

- Ha le mani grosse.

- Che begli occhi!

- Ha il viso lungo.

- Ma la forma lunga conferisce distinzione.

- E' una fortuna per lei averla almeno lì. Guardate come prende e come lascia l'occhialino! Il Goriot viene fuori da tutti i suoi gesti - disse la viscontessa con grande meraviglia di Eugenio.

Difatti, la signora de Beauséant guardava con l'occhialino la sala e non sembrava fare attenzione alla signora de Nucingen, della quale tuttavia non perdeva neppure un gesto. Il pubblico era squisitamente elegante. Delfina de Nucingen non era poco lusingata d'interessare in pieno il giovane, bello, elegante cugino della signora de Beauséant. Egli non guardava che lei.

- Se continuate a coprirla coi vostri sguardi, susciterete uno scandalo, signor de Rastignac. Non riuscirete a nulla, se vi scaglierete in questo modo contro le persone.

- Mia cara cugina - disse Eugenio - voi mi avete già ben protetto; se volete compiere l'opera, vi chiedo solo di rendermi un servigio chi vi darà poco disturbo e mi farà gran bene. Eccomi preso.

- Già?

- Sì.

- E di quella donna?

- Le mie pretese sarebbero forse ascoltate altrove? - egli disse dando uno sguardo penetrante alla cugina. - La signora duchessa di Carigliano è amica della signora duchessa de Berry - riprese dopo una pausa; - voi dovete vederla, abbiate la bontà di presentarmi a lei e di condurmi al ballo che darà lunedì. Lì incontrerò la signora de Nucingen, e vi ingaggerò la mia prima scaramuccia.

- Volentieri - lei rispose. - Se già avete dell'interesse per lei, i vostri affari di cuore vanno benissimo. Ecco là de Marsay nel palco della principessa Galathionne. La signora de Nucingen è alla tortura, è indispettita. Non c'è miglior momento per abbordare una donna, specie poi la moglie d'un banchiere. A queste donne della Chaussée-d'Antin piace la vendetta.

- Che cosa fareste voi in un caso simile?

- Io, soffrirei in silenzio.

In quel momento il marchese d'Adjuda si presentò nel palco della signora de Beauséant.

- Ho trascurato i miei affari pur di raggiungervi - disse - e ve lo dico affinché questo non sia un sacrificio.

Il raggiare del volto della viscontessa insegnò ad Eugenio a riconoscere le espressioni d'un vero amore e a non confonderle con le smorfie della civetteria parigina. Egli ammirò sua cugina, si fece silenzioso e cedette il suo posto al signor d'Adjuda, sospirando. "Che nobile, che sublime creatura, è una donna che ama così", disse fra sé e sé. "E quest'uomo la tradirebbe per una bambolina? Come è possibile tradirla?". Si sentì al cuore una rabbia infantile. Avrebbe voluto rotolarsi ai piedi della signora de Beauséant, desiderava il potere dei demoni per ghermirla e trarla al suo cuore, come un'aquila solleva dalla pianura e reca al suo nido una capretta bianca ancor lattante. Si sentiva umiliato di trovarsi entro quel grande Museo della bellezza senza il suo quadro, senza una amante sua. "Avere un'amante è una posizione quasi regale", diceva fra sé e sé, "è il segno della potenza!". E guardò la signora de Nucingen come un uomo insultato guarda il proprio avversario. La viscontessa si voltò verso di lui per fargli, per la sua discrezione, mille ringraziamenti con una sola strizzatina d'occhi. Il primo atto era finito.

- Conoscete voi abbastanza la signora de Nucingen, da poterle presentare il signor de Rastignac? - domandò al marchese d'Adjuda.

- Ma sarà felice di conoscere il signore - rispose il marchese. Il bel Portoghese si alzò e prese sottobraccio lo studente, che in un batter d'occhio si trovò in presenza della signora de Nucingen.

- Signora baronessa - disse il marchese - ho l'onore di presentarvi il cavalier Eugenio de Rastignac, cugino della viscontessa de Beauséant. Voi fate una così viva impressione su di lui, che ho voluto completare la sua felicità avvicinandolo al suo idolo.

Queste parole furono dette con un certo accento di scherzo, che ne faceva accettare il pensiero un po' crudo, ma che, opportunamente dissimulato, non dispiace mai a una donna. La signora de Nucingen sorrise, e offrì a Eugenio il posto di suo marito, uscito poco prima.

- Non oso proporvi di rimanere qui, signore - gli disse. - Quando si ha la fortuna d'esser vicino alla signora de Beauséant, ci si resta.

- Ma - le rispose a bassa voce Eugenio - credo, signora, che se voglio far cosa grata a mia cugina, dovrò rimanere accanto a voi.

Prima che giungesse il signor marchese, parlavamo di voi e della distinzione di tutta la vostra persona - aggiunse a voce alta.

Il signor d'Adjuda si ritirò.

- Ma davvero volete rimanere qui con me? Ci conosceremo, allora; la signora de Restaud mi aveva già fatto venire il più vivo desiderio di vedervi.

- Oh, quanta falsità! Ha dato l'ordine di non ricevermi.

- Come sarebbe a dire?

- Signora, troverò il coraggio di dirvene la ragione, ma chiedo tutta la vostra indulgenza confidandovi un simile segreto. Io sono il vicino del vostro signor padre. Non sapevo che la signora de Restaud fosse sua figlia. Ho commesso l'imprudenza di parlarne, molto innocentemente, e ho urtato vostra sorella e suo marito. Non potete immaginare quanto la signora duchessa de Langeais e mia cugina abbiano trovato questa apostasia filiale di cattivo gusto.

Ho raccontato loro la scena, e ne hanno riso alla follia. E' stato allora che, facendo un parallelo tra voi e vostra sorella, la signora de Beauséant mi ha parlato di voi nel migliore dei modi, e mi ha detto quanto voi siete buona col mio vicino, il signor Goriot. Come, del resto, potreste non amarlo? Vi adora così appassionatamente, che ne sono già geloso. Abbiamo parlato stamane di voi per due ore. Poi, entusiasmato di quel che vostro padre mi ha raccontato, questa sera, pranzando da mia cugina, le dicevo che voi non potevate essere tanto bella quanto eravate figlia affezionata. Volendo senza dubbio favorire una così calda ammirazione, la signora de Beauséant mi ha condotto qui, dicendomi con la sua grazia abituale che vi avrei incontrata.

- Come, signore - disse la moglie del banchiere - debbo già esservi riconoscente? Ancora un po', e diverremo vecchi amici.

- Benché l'amicizia debba essere in voi un sentimento poco comune - disse Rastignac - non vorrò mai essere vostro amico.

Queste sciocchezze stereotipate a uso dei debuttanti sembrano sempre affascinanti alle donne, e non sono meschine che lette a freddo. Il gesto, l'accento, lo sguardo d'un giovane conferiscono loro incalcolabili valori.

La signora de Nucingen trovò Rastignac molto interessante. Poi come tutte le donne, non potendo dir nulla a proposito di questioni così bruscamente poste come lo erano quelle dello studente, rispose ad altro.

- Sì, mia sorella ha torto di condursi nel modo in cui si conduce verso il mio povero padre, che davvero è stato per noi un dio. E' stato necessario che il signor de Nucingen mi ordinasse tassativamente di vedere mio padre soltanto la mattina, perché cedessi su questo punto. Ma ne sono stata a lungo addolorata. Ne ho pianto. Queste violenze venute dopo le brutalità nel matrimonio, sono state una delle ragioni che più turbarono la nostra unione. Io sono certo la donna di Parigi più felice agli occhi del mondo, la più infelice in realtà. Sentendomi parlare così, mi crederete pazza. Ma voi conoscete mio padre, e, a tale titolo, non potete essere per me un estraneo.

- Voi non avete mai incontrato alcuno - le disse Eugenio - che sia più di me animato dal desiderio di appartenervi. Che cosa cercate voi tutte? La felicità - riprese con una voce che penetrava nell'anima. - E allora!, se per una donna la felicità consiste nell'essere amata, adorata, nell'avere un amico cui poter confidare tutti i propri desideri, le fantasie, i dolori, le gioie, mostrarsi nella nudità della propria anima, coi graziosi difetti e le belle qualità, senza timore d'essere tradita, credetemi, un tal cuore devoto, sempre ardente, non può trovarsi che in un giovane, pieno d'illusioni, capace di morire a un solo vostro cenno, che ancora non sa nulla del mondo e nulla vuol sapere, perché per lui il mondo siete voi. Ma io, lo vedete, e ora riderete della mia ingenuità, io arrivo qui dal fondo di una provincia, nuovo a tutto, dopo aver conosciuto solo anime belle; e contavo di rimanere senza amore. M'è accaduto di vedere mia cugina, che mi ha messo troppo accanto al suo cuore; mi ha fatto indovinare i mille tesori della passione, io sono, come Cherubino, innamorato di tutte le donne, in attesa di potermi consacrare a una di loro. Vedendovi, quando sono entrato, mi sono sentito portare a voi come da una corrente. Avevo già pensato tanto a voi!

Ma non vi avevo mai sognato tanto bella come siete in realtà. La signora de Beauséant mi ha detto di non guardarvi tanto. Lei non sa quel che c'è di attraente a vedere le vostre deliziose labbra rosse, la vostra carnagione bianca, i vostri occhi dagli sguardi così dolci. Anch'io vi sto dicendo delle follie, ma lasciatemele dire!

Nulla piace più alle donne che il sentirsi indirizzare così dolci parole. La donna più rigorosamente devota le ascolta anche quando a esse non deve rispondere. Dopo aver così iniziato il suo dire, Rastignac snocciolò il suo rosario con voce resa bassa per civetteria; e la signora de Nucingen incoraggiava Eugenio con dei sorrisi, guardando di tanto in tanto de Marsay, che non lasciava il palco della principessa Galathionne. Rastignac rimase vicina alla signora de Nucingen fino al momento in cui il marito venne a prenderla per ricondurla a casa.

- Signora - le disse Eugenio - avrò il piacere d'incontrarvi al ballo della duchessa di Carigliano.

- Poiché la zignora fe ne preca - disse il barone, un grosso Alsaziano la cui figura tondeggiante indicava una pericolosa malizia - ziete ziguro t'esser pen ricefuto.

"I miei affari vanno bene, perché non si è inalberata sentendomi dire: Mi amerete? Ho messo il morso alla bestia, saltiamole in groppa e guidiamola", si disse Eugenio andando a salutare la signora de Beauséant, che si alzava e usciva con d'Adjuda. Il povero studente non sapeva che la baronessa era distratta e che attendeva da de Marsay una di quelle lettere decisive che straziano l'anima. Tutto contento del suo falso successo, Eugenio accompagnò la viscontessa fino al peristilio dove ognuno attende la propria carrozza.

- Vostro cugino non sembra più lui - disse il Portoghese, ridendo, alla viscontessa, quando Eugenio li ebbe lasciati. - Sta per far saltare il banco. E' svelto come un'anguilla, e penso che andrà lontano. Voi sola potevate accuratamente scegliergli una donna che si trova proprio nel momento in cui ha bisogno d'essere consolata.

- Ma - disse la signora de Beauséant - bisogna pur sapere se lei ama ancora colui che l'abbandona.

Lo studente tornò a piedi dal Teatro Italiano alla via Neuve- Sainte-Geneviève, facendo i più rosei progetti. Egli aveva ben notato l'attenzione con cui la signora de Restaud lo aveva guardato, sia quando si trovava nel palco della viscontessa, sia in quello della signora de Nucingen, e pensò che la porta della contessa non sarebbe più rimasta chiusa per lui. Così già quattro relazioni di prim'ordine, ivi compresa quella della marescialla cui contava di riuscire gradito, stavano per essergli acquisite nel cuore dell'alta società parigina. Senza troppo spiegarsene i modi, già prevedeva che, nel gioco complicato degli interessi di quel mondo, avrebbe dovuto attaccarsi a un ingranaggio per trovarsi nella parte superiore della macchina, e si sentiva la forza d'arrestarne la ruota. "Se la signora de Nucingen s'interessa di me le insegnerò a governare suo marito. Questo marito fa affari d'oro, potrà aiutarmi a mettere insieme in un colpo solo una fortuna". Non diceva questo a se stesso crudamente, ma era ancora abbastanza politico da stimare una situazione, apprezzarla e calcolarla; quelle idee fluttuavano all'orizzonte sotto forma di nuvole lievi, e, sebbene non avessero l'asprezza di quelle di Vautrin, se fossero state tuttavia provate al crogiuolo della coscienza non avrebbero dato nulla di molto puro. Gli uomini giungono, attraverso una sequela di transazioni di tal genere, alla morale rilassata che professa l'epoca attuale, ove s'incontrano più raramente che in ogni altro tempo quegli uomini tetragoni, quelle belle volontà che non si piegano mai al male, uomini ai quali la minima deviazione dalla linea retta sembra essere un delitto: magnifiche immagini della probità che ci hanno valso due capolavori: l'"Alceste" di Molière, e poi recentemente "Jenny Deans" e suo padre, nell'opera di Walter Scott. Forse l'opera opposta, la pittura delle tortuosità nelle quali un uomo di mondo, un ambizioso, fa rotolare la coscienza, cercando di costeggiare il male per arrivare allo scopo salvando le apparenze, non sarebbe né meno bella, né meno drammatica. Nel raggiungere la soglia della pensione, Rastignac s'era incapricciato della signora de Nucingen, gli era apparsa agile, fine come una rondinella.

L'inebbriante dolcezza dei suoi occhi, il tessuto delicato e serico della pelle sotto la quale aveva creduto veder scorrere il sangue, il suono incantevole della voce, i biondi capelli: tutto di lei ricordava; e forse il camminare, mettendo il sangue in movimento, aveva concorso a quella fascinazione. Lo studente bussò forte alla porta di papà Goriot.

- Vicino mio - disse - ho visto la signora Delfina.

- Dove?

- Agli "Italiani".

- Si divertiva? Ma entrate. - E il bonuomo, che s'era levato da letto in camicia, si ricoricò alla svelta. - Parlatemi dunque di lei - aggiunse.

Eugenio, che si trovava per la prima volta in camera di Goriot, non seppe padroneggiare un moto di stupore vedendo il bugigattolo dove viveva il padre dopo aver ammirato la toletta della figlia.

La finestra era senza tende; la carta da parati incollata sui muri se ne distaccava in più punti a causa dell'umidità, e si accartocciava scoprendo la calce ingiallita dal fuoco. Il bonuomo giaceva su di un lettuccio, non aveva che una leggera coperta e un copriletto imbottito, fatto con gli avanzi dei vecchi abiti della signora Vauquer. I vetri della finestra erano umidi e pieni di polvere. Incontro a essa, si vedeva uno di quei vecchi canterani in legno di rosa bombati, con le maniglie in rame foggiato a tralci decorati di foglie di fiori, e un vecchio mobile con una tavoletta di legno su cui era posta una brocca d'acqua nella sua catinella, e tutto l'occorrente per farsi la barba. In un angolo, le scarpe; accanto alla testata del letto, un comodino senza sportello e senza lastra di marmo; all'angolo del caminetto, dove non c'era traccia di fuoco, si trovava quella tavola quadrata, in legno di noce, il cui asse aveva servito a papà Goriot per sformare il servizio d'argento dorato. Un brutto scrittoio, sul quale era il cappello del bonuomo, una poltrona col sedile di paglia, sfondata, e due sedie completavano il miserevole mobilio.

La sommità del letto, attaccata al soffitto con un cencio, reggeva una strisciaccia di stoffa a quadrati rossi e bianchi. Il più povero commissionario doveva essere meno mal combinato nel suo granaio di quanto non lo fosse papà Goriot in casa della signora Vauquer. L'aspetto della camera metteva freddo e stringeva il cuore; sembrava il più triste alloggio d'una prigione. Per fortuna Goriot non vide l'espressione che si dipinse sul viso di Eugenio quando questi posò la candela sul comodino. Il bonuomo si volse dalla parte di lui, rimanendo coperto fino al mento.

- Dunque!, chi preferite: la signora de Restaud o la signora de Nucingen ?

- Preferisco la signora Delfina - rispose lo studente - perché lei vi vuol più bene.

A queste parole, dette con calore, il bonuomo tirò fuori il braccio dal letto e strinse la mano d'Eugenio.

- Grazie, grazie - rispose il vecchio commosso. - E, che vi ha detto di me?

Lo studente ripeté le parole della baronessa abbellendole, e il vecchio l'ascoltò come se avesse ascoltato la parola di Dio.

- Cara figliuola!, sì, sì, mi vuole tanto bene. Ma non credetela affatto in quanto vi ha detto d'Anastasia. Vedete, le due sorelle sono gelose l'una dell'altra; è una prova di più della loro tenerezza. La signora de Restaud mi vuole tanto bene anche lei. Lo so. Un padre è coi suoi figli come Dio è con noi; va fino in fondo ai cuori, e giudica le intenzioni. Sono tutte e due egualmente amorose. Oh!, se avessi avuto dei buoni generi, sarei stato troppo felice. Ma indubbiamente non c'è una felicità completa quaggiù. Se avessi vissuto con loro, al solo sentir le loro voci, saperle vicine, vederle andare e venire, come quando le avevo in casa mia, il cuore mi avrebbe fatto capriole. Erano eleganti?

- Sì - disse Eugenio. - Ma, signor Goriot, come mai, avendo due figlie così riccamente sistemate, potete restare ancora in un tugurio simile?

- In fede mia - rispose con aria di apparente noncuranza - a che mi servirebbe lo star meglio? Io non so d'altra parte spiegarmi queste cose; non so dire due parole di seguito. Tutto è qui - aggiunse battendosi sul cuore. - La mia vita, è interamente nelle mie due figlie. Se si divertono, se sono felici, ben vestite, se camminano su tappeti, che importa di quale stoffa io sia vestito, e quale sia il posto dove mi corico? Io non ho freddo se loro hanno caldo, io non mi annoio mai se loro ridono. Non ho dispiaceri all'infuori dei loro. Quando sarete padre, quando direte, sentendo cinguettare i vostri bambini: l'ho fatto io!, e sentirete le piccole creature appartenere a ogni goccia del vostro sangue, di cui sono state il fior fiore, perché è proprio così!, vi crederete aderente alla loro epidermide, vi crederete mosso voi stesso dai loro passi. La voce loro mi risponde ovunque. Un loro sguardo, se triste, mi ferma il sangue. Un giorno saprete che si è più felici della loro felicità che non della propria. Non posso spiegarvi questo; sono moti interni che diffondono il benessere dappertutto. Insomma, io vivo tre volte. Volete proprio che vi dica una cosa strana? Ebbene, quando sono diventato padre, ho compreso Iddio. Egli è intiero ovunque, perché la creatura è uscita da lui. Signore, io sono così con le mie figlie. Soltanto che io amo le mie figlie più che Iddio non ami il mondo, perché il mondo non è bello quanto Iddio, mentre le mie figlie son più belle di me. Esse sono così congiunte all'anima mia, che io ero sicuro che le avreste vedute questa sera. Mio Dio! A un uomo capace di rendere la mia piccola Delfina così felice come lo è una donna quando la si ama veramente bene, ma io gli lustrerei le scarpe, gli renderei qualsiasi servizio. Ho saputo dalla sua cameriera che quel piccolo signor de Marsay è un tristo uomo. M'è venuta la voglia di torcergli il collo. Come si fa a non amare un gioiello di donna, una voce d'usignolo, fatta che sembra un modello? Dove aveva gli occhi per sposare quel grosso ciocco d'Alsaziano? Ci sarebbero voluti per tutte e due dei bei giovani a modo. Insomma, hanno fatto a loro capriccio. - Papà Goriot era sublime. Mai Eugenio lo aveva visto così illuminato dal fuoco della sua passione paterna. Una cosa degna di nota è la potenza di infusione che hanno i sentimenti. Per quanto grossolana sia una creatura, quando essa esprime un affetto intenso e verace, esala un fluido particolare che modifica la fisionomia, anima il gesto, colorisce la voce. Spesso l'essere più sciocco raggiunge, sotto l'impeto della passione, la più grande eloquenza con l'idea, se non con le parole, e sembra muoversi entro una sfera luminosa. C'era, in quel momento, nella voce, nel gesto di quel bonuomo, la potenza comunicativa propria del grande attore. Del resto, i nostri nobili sentimenti non sono forse la poesia della volontà?

- Ebbene, non vi dispiacerà allora di sapere - gli disse Eugenio - che sta per romperla certamente con quel de Marsay. Questo bel tomo l'ha lasciata per unirsi alla principessa Galathionne. Quanto a me, vi dirò che questa sera mi sono innamorato della signora Delfina.

- Ah! - fece papà Goriot.

- Sì. E non le sono dispiaciuto. Abbiamo parlato d'amore per un'ora, e devo andarla a trovare dopodomani, sabato.

- Oh !, come vi vorrei bene, mio caro signore, se voi le piaceste.

Voi siete buono; e certo non la tormentereste mai. Se la tradiste, vi torcerei subito il collo. Una donna non può avere due amori, credetemi. Mio Dio!, ma io sto dicendo delle sciocchezze, signor Eugenio. Fa freddo qui, per voi. Mio Dio!, l'avete dunque sentita parlare? E, che vi ha detto per me?

"Nulla" disse fra sé e sé Eugenio. - Mi ha detto-rispose ad alta voce - che vi mandava un buon bacio filiale.

- Addio, vicino; dormite bene, fate bei sogni; i miei saranno fatti tutti di quella parola or ora da voi riferitami. Che Dio vi esaudisca in tutti i vostri desideri! Questa sera siete stato per me come un buon angelo: mi avete portato l'aria respirata da mia figlia.

"Pover uomo" si disse Eugenio andandosene a letto, "fa intenerire un cuore di pietra. Sua figlia ha pensato a lui quanto al Gran Turco".

Dopo quella conversazione, papà Goriot vide nel suo vicino un confidente insperato, un amico. Si erano stabiliti tra loro i soli rapporti coi quali il vecchio poteva legarsi a un altro uomo. Le passioni non fanno mai calcoli sbagliati. Papà Goriot già si vedeva un poco più vicino a sua figlia Delfina, meglio ricevuto da lei, se Eugenio fosse diventato caro alla baronessa. Del resto gli aveva palesato uno dei suoi dolori. La signora de Nucingen, alla quale mille volte al giorno augurava la felicità, non aveva conosciuto la dolcezza dell'amore. Certo, Eugenio era, per ripetere la sua maniera d'esprimersi, uno dei giovani più a modo che mai avesse conosciuto, e sembrava presentisse che le avrebbe procurato tutti i piaceri di cui era stata privata. Il bonuomo strinse dunque col suo vicino un'amicizia che andò crescendo, e senza la quale sarebbe stato impossibile conoscere la conclusione di questa storia.

L'indomani mattina, a colazione, l'ostentazione con cui papà Goriot guardava Eugenio, vicino al quale andò a sedersi, le parole che gli rivolse, e il cambiamento della sua fisionomia, normalmente simile a una maschera di gesso, meravigliarono i pensionanti. Vautrin che rivedeva lo studente per la prima volta dopo il loro colloquio, sembrava volesse leggergli nell'anima.

Ricordandosi del progetto di quell'uomo, Eugenio, che, prima di addormentarsi, aveva, durante la notte, misurato il vasto campo che s'apriva ai suoi sguardi, pensò per forza di cose alla dote della signorina Taillefer, e non poté fare a meno di guardare Vittorina, come il più virtuoso giovane può guardare una ricca ereditiera. Per caso, i loro sguardi s'incontrarono. La povera ragazza trovò Eugenio interessante nel suo vestito nuovo. Lo sguardo che si scambiarono fu abbastanza significativo perché Rastignac non dubitasse d'esser per lei l'oggetto di quei confusi desideri che provano tutte le giovinette e che esse riferiscono al primo essere seducente che incontrano. Una voce gli diceva:

Ottocentomila franchi! Ma, a un tratto, tornò a immergersi nei ricordi della sera prima, e pensò che la sua calcolata passione per la signora de Nucingen poteva essere l'antidoto dei suoi cattivi e involontari pensieri.

- Ieri, agli "Italiani", hanno dato il "Barbiere di Siviglia", di Rossini. Non ho mai sentito musica così deliziosa - egli disse. - Mio Dio!, è una felicità avere un palco agli "Italiani"!

Papà Goriot colse questa parola a volo, come il cane coglie un gesto del padrone.

- Voi uomini state come papi - disse la signora Vauquer - fate tutto quel che vi piace.

- Come siete ritornato a casa? - gli chiese Vautrin.

- A piedi - rispose Eugenio.

- A me - riprese il tentatore - non piacciono le cose a metà; a teatro vorrei andarci con la mia carrozza, nel palco mio, e tornarmene a casa comodamente. O tutto o niente!, ecco la mia divisa.

- Ed è quella buona - aggiunse la signora Vauquer.

- Voi andrete forse a trovare la signora de Nucingen - disse Eugenio a bassa voce a papà Goriot. - Lei vi riceverà senza dubbio a braccia aperte; e vorrà conoscere mille piccoli dettagli su di me. Ho saputo che farà di tutto per essere ricevuta da mia cugina, la signora viscontessa de Beauséant. Non dimenticatevi di dirle che l'amo troppo per non pensare a procurarle tale soddisfazione.

Rastignac se ne andò in fretta alla Scuola di diritto, cercava di rimanere il meno possibile in quella odiosa pensione. Bighellonò quasi tutta la giornata, in preda a quella esaltazione che hanno conosciuto i giovani pieni di troppe vive speranze. I ragionamenti di Vautrin lo stavano facendo riflettere sulla vita sociale, quando incontrò il suo amico Bianchon nel giardino del Lussemburgo.

- E perché quest'aria grave? - gli domandò lo studente in medicina, prendendolo sotto braccio per passeggiare insieme dinanzi al palazzo.

- Sono tormentato da brutte idee.

- Di qual genere? Ma delle idee si guarisce.

- E come?

- Soccombendovi.

- Tu ridi senza sapere di che si tratta. Hai letto Rousseau?

- Sì.

- Ti ricordi di quel punto in cui egli domandava al lettore ciò che farebbe nel caso in cui potesse arricchirsi uccidendo in Cina, con la sua sola volontà, un vecchio mandarino, senza muoversi da Parigi?

- Sì.

- Ebbene?

- Ma! io sono al trentatreesimo mandarino.

- Non scherzare. Andiamo, se ti venisse provato che la cosa è possibile, e che ti basterebbe un cenno della testa, lo faresti, tu?

- E' molto vecchio, il mandarino? Ma, oh!, giovane o vecchio paralitico o ben portante, in fede mia... Diamine!, ebbene, no!

- Tu sei un bravo ragazzo, Bianchon. Ma se amassi, al punto di sentirtene scombussolata l'anima, una donna, e le occorressero denari, molti denari per la sua toletta, per il suo equipaggio, insomma per tutti i suoi capricci?

- Ma tu mi togli la ragione, e poi pretendi che ragioni.

- Ebbene sì, Bianchon, io sono pazzo, guariscimi. Ho due sorelle che sono due angeli di bontà, di candore, e voglio che siano felici. Dove trovare duecentomila franchi per la loro dote di qui a cinque anni? Ci sono, come vedi, circostanze nella vita in cui bisogna rischiare molto e non sciupare la propria sorte per guadagnar soltanto soldi.

- Ma tu poni il problema che tutti devono risolvere all'ingresso nella vita, e vuoi tagliare il nodo gordiano con la spada. Per agire così, mio caro, bisogna essere Alessandro, se no si finisce in galera. Io mi accontento della piccola esistenza che mi creerò in provincia, dove succederò scioccamente a mio padre. Le buone disposizioni dell'uomo trovano soddisfazione nel più ristretto cerchio tanto completamente quanto in un'immensa circonferenza.

Napoleone non pranzava due volte al giorno, e non poteva avere più amanti di quante non ne abbia uno studente in medicina, interno ai Cappuccini. La nostra felicità, mio caro, starà sempre tra la pianta dei nostri piedi e il nostro occipite: e costi un milione l'anno o cento luigi, la percezione intrinseca della felicità è la stessa. Concludo per la vita del cinese.

- Grazie, tu mi hai fatto del bene, Bianchon. Saremo sempre buoni amici.

- Ma dimmi - riprese lo studente in medicina - uscendo dal corso di Cuvier, al Jardin des Plantes, ho scorto la Michonneau e Poiret conversare su di una panca con un signore, che ho visto durante i torbidi dell'anno scorso nei dintorni della Camera dei Deputati e che mi ha fatto l'impressione sia un agente della polizia travestito da onesto borghese che vive di rendita. Teniamo d'occhio quella coppia; poi ti dirò il perché. Ciao, vado a rispondere all'appello delle quattro.

Quando Eugenio tornò alla pensione, trovò papà Goriot che lo attendeva.

- Tò - disse il bonuomo - ecco una lettera sua. Ma che graziosa calligrafia, eh?

Eugenio dissuggellò la lettera, e lesse.

"Signore, mio padre mi ha detto che vi piace la musica italiana.

Sarò lieta se vorrete procurarmi il piacere di accettare un posto nel mio palco. Sabato avremo la Fodor e Pellegrini, e allora sono sicura che non rifiuterete il mio invito. Il signor de Nucingen si unisce a me per pregarvi di venire prima a pranzo da noi, senza alcuna cerimonia. Se accetterete, lo renderete lieto di non dover compiere la sua fatica coniugale accompagnandomi. Non rispondetemi, venite, e gradite i miei complimenti.

D. de N." - Mostratemela - disse il bonuomo a Eugenio, quando ebbe letto la lettera. - Ci andrete, non è vero? - aggiunse dopo aver odorato la carta. Che buon profumo! E pensare che le sue dita l'hanno toccata!

"Una donna non si butta così addosso a un uomo" pensava lo studente. "Vuole servirsi di me per riacciuffare de Marsay. Non c'è che il dispetto capace di far fare di queste cose".

- Ebbene - domandò papà Goriot - a che pensate, dunque?

Eugenio non conosceva il delirio della vanità da cui certe donne erano prese in quell'epoca, e non sapeva che, pur di aprirsi una porta nel faubourg Saint-Germain, la moglie d'un banchiere sarebbe stata capace di tutti i sacrifici.

A quell'epoca la moda cominciava a mettere al di sopra di tutte le donne coloro che erano ammesse nei salotti del faubourg Saint- Germain, dette le donne del Petit-Chateau, tra le quali la signora de Beauséant, la sua amica duchessa de Langeais e la duchessa de Maufrigneuse tenevano il primo posto. Solo Rastignac ignorava il furore da cui erano prese le signore della Chaussée d'Antin per entrare nella sfera superiore ove brillavano le costellazioni del loro sesso. Ma la sua diffidenza lo servì bene, gli diede la freddezza e il triste potere di porre condizioni anziché riceverne.

- Sì, ci andrò - egli rispose.

Così, la curiosità lo conduceva dalla signora de Nucingen, mentre, se questa donna lo avesse sdegnato, forse vi sarebbe stato condotto dalla passione. Tuttavia, non attese l'indomani e l'ora d'uscire di casa senza una specie d'impazienza. Per un giovane, c'è, nel suo primo intrigo, tanto interesse, forse, quanto se ne incontra in un primo amore. La certezza di riuscire genera mille felicità che gli uomini non confessano, e che costituiscono tutto il fascino di certe donne. Il desiderio nasce non meno dalla difficoltà che dalla facilità del successo. Tutte le passioni umane sono certamente eccitate o conservate dall'una o dall'altra di queste due cause che dividono l'impero dell'amore. Forse tale divisione è una conseguenza della grande questione dei temperamenti, che domina, checché se ne dica, la società. Se i malinconici hanno bisogno del tonico delle civetterie, forse i nervosi o sanguigni abbandonano la partita se la resistenza dura troppo. In altri termini, l'elegia è tanto essenzialmente linfatica per quanto bilioso è il ditirambo.

Facendo toletta, Eugenio gustò tutti quei piccoli piaceri di cui non osano parlare i giovani, per paura d'esserne presi in giro, ma che solleticano il loro amor proprio. Si acconciava la chioma pensando che lo sguardo d'una bella donna si sarebbe insinuato sotto i suoi boccoli neri. Si permise tante smorfie quante ne avrebbe fatte una giovinetta nell'agghindarsi per il ballo. Guardò con soddisfazione la sua linea snella, lisciando le pieghe del vestito. "E' certo" si disse, "che ce ne saranno altri fatti peggio!".

Poi scese, nel momento in cui tutti i frequentatori della pensione s'erano già messi a tavola, e ricevette allegramente l'urrà di sciocchezze che la sua eleganza suscitò. Un segno dei modi di fare particolari delle pensioni familiari è la meraviglia che vi produce una toletta assai curata. Nessuno può indossare un vestito nuovo senza che ognuno dica la sua.

- Kt, kt, kt, kt - fece Bianchon, facendo schioccare la lingua contro il palato, come per incitare un cavallo.

- Un insieme da duca e pari! - disse la signora Vauquer.

- Il signore va alla conquista? - fece osservare la signorina Michonneau.

- Chicchirichì! - esclamò il pittore.

- I miei complimenti alla signora vostra sposa - disse l'impiegato al Museo.

- Il signore ha una sposa? - domandò Poiret.

- Una sposa a scomparti, che va sull'acqua, colore garantito, prezzo tra le venticinque e le quaranta, disegno a quadri ultima moda, lavabile, si porta bene, metà filo, metà cotone e metà lana, guarisce il mal di denti e altre malattie approvate dall'Accademia di Medicina! ottima inoltre per i bambini!, ancora più indicata contro il mal di testa, le infiammazioni e altre malattie dell'esofago, degli occhi e delle orecchie - gridò Vautrin con la volubilità comica e l'accento d'un imbonitore. - Ma quanto, una simile meraviglia, mi direte voi, signori? Due soldi! No. Niente.

E' una rimanenza delle forniture fatte al Gran Mogol, e che tutti i sovrani d'Europa, compreso il grrrrrranduca di Baden, hanno voluto vedere! Entrate diritti avanti a voi!, e passate al botteghino. Musica, maestro! Brum, là, là, trin! là, là, bum, bum!

Signor clarinetto, stonate- egli riprese con una voce rauca - batterò sulle dita.

- Dio!, come è divertente quell'uomo - disse la signora Vauquer alla signora Couture - con lui non mi annoierei mai. - Fra le risa e i frizzi, di cui questo discorso comicamente declamato fu il segnale, Eugenio poté cogliere lo sguardo furtivo della signorina Taillefer, che si chinò verso la signora Couture per dirle qualche parola all'orecchio.

- E' arrivato il carrozzino - disse Silvia.

- Dove pranza? - domandò Bianchon.

- Dalla signora baronessa de Nucingen.

- La figlia del signor Goriot - fece lo studente.

A quel nome, gli sguardi conversero sul vecchio vermicellaio che contemplava Eugenio con una specie d'invidia.

Rastignac giunse in via Saint-Lazare dinanzi a una di quelle case snelle, a colonne sottili, dal portico stretto, che rappresentano a Parigi il "grazioso"; una vera casa di banchiere, colma di ricercatezze costose, di stucchi, di pianerottoli in mosaico.

Trovò la signora de Nucingen in un salottino affrescato all'italiana, la cui decorazione somigliava a quella dei caffè. La baronessa era triste. Gli sforzi che faceva per nascondere il suo dolore tanto più interessarono vivamente Eugenio, in quanto non c'era in essi nulla di falso. Aveva creduto di poter rendere gaia una donna con la sua presenza, e la trovava invece in preda allo sconforto. Questa delusione punse il suo amor proprio.

- Comprendo di aver ben poco diritto alla vostra confidenza, signora - disse dopo averla punzecchiata sul suo stato di preoccupazione - ma se vi dessi noia, conto sulla vostra franchezza, ditemelo sinceramente.

- Restate - essa rispose - rimarrei sola se ve ne andaste.

Nucingen pranza fuori, e non vorrei essere sola, ho bisogno di distrarmi.

- Ma che cosa avete?

- Sareste l'ultima persona a cui lo direi - esclamò.

- Voglio saperlo. Altrimenti dovrei credere che questo segreto mi riguarda in qualche modo.

- Forse ! Ma no - riprese lei - si tratta di beghe domestiche, da seppellire in fondo al cuore. Non ve lo dicevo forse ieri l'altro?

Io non sono affatto felice. Le catene d'oro sono le più pesanti.

Quando una donna dice a un uomo di essere infelice, se quest'uomo ha spirito, è elegante, e ha millecinquecento franchi di scioperataggine in tasca, deve pensare come Eugenio, e diventa fatuo.

- Che cosa potete voi desiderare? - gli disse. Siete bella, giovane, amata, ricca.

- Non parliamo di me - lei disse facendo un sinistro movimento con la testa. - Pranzeremo insieme, a quattr'occhi, e andremo a sentire la più deliziosa delle musiche. Vi piaccio? - riprese alzandosi e facendo vedere il suo abito in cascemir bianco a fiorami, della più ricca eleganza.

- Vorrei che foste tutta per me - disse Eugenio. - Siete deliziosa.

- Avreste una triste proprietà - rispose lei sorridendo con amarezza. - Nulla qui farebbe supporre l'infelicità, e tuttavia, malgrado queste apparenze, io sono disperata. I miei dispiaceri mi tolgono il sonno, finirò per diventare brutta.

- Oh, questo è impossibile - replicò lo studente. Ma io sono curioso di conoscere questi vostri dispiaceri, che un amore devoto farebbe scomparire.

- Ah!, se io ve li confidassi, voi mi sfuggireste - disse. - Voi ora mi amate solo per quella galanteria che è abituale negli uomini; ma se mi amaste davvero, cadreste in una disperazione tremenda. Come vedete, è meglio che taccia. Per favore - aggiunse - parliamo d'altro. Venite a vedere i miei appartamenti.

- No, restiamo qui - rispose Eugenio sedendosi su di un divano dinanzi al fuoco accanto alla signora de Nucingen, della quale prese la mano con disinvoltura.

Essa se la lasciò prendere e anzi la premette su quella del giovane con uno di quei movimenti di forza concentrata che tradiscono intense emozioni.

- Sentite - le disse Rastignac - se avete dei dispiaceri, dovete confidarmeli. Voglio provarvi che vi amo e che il mio amore non ha altra ragione che voi. O voi parlate, e mi dite le vostre pene, affinché io possa dissiparle, a costo d'uccidere sei uomini, o io me ne vado, per non tornare mai più.

- Ebbene! - essa esclamò, colta da un pensiero disperato che le fece battere con una mano la fronte - voglio mettervi immediatamente alla prova. "Sì", pensò, non c'è altro mezzo".

Suonò.

- La carrozza del signore è attaccata? - chiese al domestico.

- Sì, signora - La prendo io. A lui darete invece la mia, coi miei cavalli.

Servirete il pranzo alle sette.

- Andiamo, venite con me - disse poi a Eugenio, che credette di sognare nel trovarsi nel cupé del signor de Nucingen, a fianco di quella donna.

- Al Palais-Royal - ordinò al cocchiere - vicino al Théatre Français.

Strada facendo, essa apparve agitata, e si rifiutò di rispondere alle mille domande di Eugenio, il quale non sapeva cosa pensare di quella resistenza muta, compatta, ottusa.

"In un momento costei potrà sfuggirmi di mano" lui si diceva.

Quando la vettura si fermò, la baronessa guardò lo studente con un'aria che impose il silenzio alle sue folli parole; giacché egli era andato davvero fuori di sé.

- Mi volete molto bene? - gli disse.

- Sì - rispose nascondendo l'inquietudine che lo prendeva.

- Non penserete nulla di male sul mio conto, qualunque cosa io possa domandarvi?

- No.

- Siete disposto ad ubbidirmi?

- Ciecamente.

- Siete andato mai a giocare? - gli chiese con voce tremante.

- Mai.

- Ah!, respiro. Avrete allora fortuna. Ecco la mia borsa - aggiunse. - Prendetela, dunque!, ci sono dentro cento franchi, è tutto quel che possiede questa donna tanto felice. Salite in una casa da gioco, non so dove siano, ma so che ce ne sono al Palais- Royal. Rischiate i cento franchi a un gioco che si chiama "roulette" e perdete tutto, o portatemi qui seimila franchi. Vi dirò i miei dispiaceri al vostro ritorno.

- Che il diavolo mi porti se capisco qualcosa in quel che sto per fare, ma vi ubbidirò egualmente - egli disse con una gioia causata da questo pensiero: "Si compromette con me, e non potrà più rifiutarmi nulla".

Eugenio prende la graziosa borsa, corre al numero "nove", dopo essersi fatto indicare da un mercante d'abiti la più vicina casa da gioco. Vi sale, si lascia prendere il cappello; poi entra e domanda dov'è la "roulette". Fra lo stupore dei frequentatori, un domestico lo conduce dinanzi a una lunga tavola. Eugenio, seguito dagli sguardi di tutti gli spettatori, chiede senza rossore dove si deve mettere la posta.

- Se mettete un luigi su di uno solo di questi trentasei numeri, ed esce, incasserete trentasei luigi - gli disse un rispettabile vecchio dai capelli bianchi.

Eugenio gettò i cento franchi sulla cifra della sua età: ventuno.

Parte un grido di meraviglia senza che egli abbia avuto il tempo di ritornare sulla sua puntata. Aveva vinto senza saperlo.

- Prendetevi subito il vostro denaro - gli disse il vecchio signore - non si vince mica due volte con quel sistema.

Eugenio prende un rastrello che gli tende il vecchio signore, trae a sé tremilaseicento franchi e, sempre senza conoscere il gioco, li mette sul rosso. I presenti lo guardano con invidia, vedendo che continua a giocare. La ruota gira, egli vince ancora, e il banco gli paga altri tremilaseicento franchi.

- Avete vinto settemila duecento franchi - gli disse all'orecchio il vecchio signore - ora, se mi volete dar retta, andatevene, il rosso è già uscito otto volte. Se avete un po' di carità, sarete grato di questo buon consiglio alleviando la miseria d'un vecchio prefetto di Napoleone, che si trova all'estremo del bisogno. - Rastignac, stordito, si lascia prendere dieci luigi dall'uomo dai capelli bianchi, e scende coi suoi settemila franchi senza ancora aver capito nulla del gioco, ma stupefatto della sua fortuna.

- E allora! dove mi condurrete adesso? - le disse, mostrando i settemila franchi alla signora de Nucingen, quando lo sportello della carrozza fu richiuso. Delfina lo strinse con una stretta folle e l'abbracciò vivacemente, ma senza passione.

- Mi avete salvata! - Lacrime di gioia colarono copiose sulle sue gote. - Vi dirò tutto, amico mio. Voi sarete mio amico, non è vero? Voi mi vedete ricca, molto ricca; nulla mi manca, o almeno sembra non mancarmi nulla! Ebbene!, sappiate che il signor de Nucingen non mi lascia disporre d'un soldo; paga lui tutto l'andamento di casa, le mie carrozze, i miei palchi; mi corrisponde per la toletta una somma insufficiente; mi riduce, per calcolo, a una miseria segreta. Io sono troppo fiera per implorarlo. Non sarei l'ultima della creature se comprassi il suo denaro al prezzo cui vuol vendermelo? Come mai, io, con una dote di settemila franchi, mi sono lasciata spogliare? Per orgoglio, per indignazione. Siamo così giovani, così ingenue, quando cominciamo la vita coniugale! La parola con la quale bisognava chiedere il denaro a mio marito mi lacerava la bocca; e non osavo mai, consumavo il denaro delle mie economie e quello che mi dava il mio povero padre; poi ho cominciato a far debiti. Il matrimonio è stato per me la più orribile delle delusioni, non ve ne posso parlare; vi basti sapere che mi getterei dalla finestra se dovessi vivere con Nucingen senza che ognuno di noi due avesse il proprio appartamento separato. Quando è stato necessario dichiarargli i miei debiti di giovane signora per gioielli, capricci (il mio povero padre non ci negava mai nulla), è stato per me un martirio; ma ho trovato il coraggio di dirglielo. Non avevo forse un mio proprio patrimonio? Nucingen è andato su tutte le furie, mi ha detto che lo avrei mandato alla rovina e tante cose orribili!

Avrei preferito trovarmi cento piedi sotto terra. Avendo preso la mia dote, ha pagato, ma stabilendo da quel momento in poi per le mie spese personali un assegno cui mi sono dovuta rassegnare, pur di avere pace. Poi, ho voluto corrispondere all'amor proprio di qualcuno che voi conoscete - essa aggiunse. - Pur essendo stata ingannata da lui, sarei cattiva se non riconoscessi la nobiltà del suo carattere. Ma tuttavia egli mi ha abbandonata in modo indegno!

Non si dovrebbe mai abbandonare una donna alla quale si è buttato, in un momento di necessità, un pugno d'oro! La si dovrebbe amare sempre! Voi, anima bella di ventun anni, voi giovane e puro, voi mi domanderete come una donna possa accettare denaro da un uomo.

Mio Dio!, non è forse naturale di condividere tutto con l'essere cui dobbiamo la nostra felicità? Quando ci si è dati tutto, chi potrebbe far caso d'una particella di quel tutto? Il denaro diviene qualcosa solo quando il sentimento non c'è più. Non si è legati per tutta la vita? Chi di noi può prevedere una separazione quando si ritiene profondamente amato? Voi ci giurate un amore eterno: come è concepibile avere, allora, interessi distinti? Voi non sapete quel che ho sofferto oggi, quando Nucingen si è categoricamente rifiutato di darmi seimila franchi, lui che li passa tutti i mesi alla sua amante, una donna dell'Opéra! Avrei voluto uccidermi. Le idee più folli mi passavano per la testa. Ci sono stati momenti in cui invidiavo la sorte d'una domestica, d'una cameriera. Ricorrere a mio padre? Pazzia! Anastasia e io lo abbiamo dissanguato: il mio povero padre avrebbe venduto se stesso se potesse valere seimila franchi. Lo avrei fatto disperare inutilmente. Voi mi avete salvato dall'onta e dalla morte, ero ebbra di dolore. Ah!, signore, vi dovevo questa spiegazione: sono stata proprio irragionevole con voi. Quando vi siete allontanato, e vi ho perduto di vista, volevo fuggirmene a piedi... dove? Non so. Ecco, questa è la vita di metà delle donne di Parigi: lusso esteriore, e crucci crudeli dell'anima. Conosco delle povere creature anche più disgraziate di me. Ve ne sono perfino di quelle costrette a farsi fare dai fornitori conti falsi. Altre sono costrette a rubare ai mariti; alcuni credono che dei cascemir da cento luigi si diano per cinquecento franchi, altri che un cascemir da cinquecento franchi valga cento luigi. Si trovano povere donne che fanno digiunare i loro figli, e rubacchiano per potersi fare un vestito. Io non mi sono mai abbassata a tali odiosi inganni. Ecco la mia ultima angoscia. Se alcune mogli si vendono ai mariti per dominarli, io almeno sono libera! Potrei farmi coprire d'oro da Nucingen ma preferisco piangere con la testa appoggiata al cuore d'un uomo che possa stimare! Ah, questa sera il signor de Marsay non avrà il diritto di guardarmi come una donna che ha pagata. - E si nascose il volto fra le mani, per non mostrar le sue lacrime a Eugenio, che, invece, glielo scoprì, per contemplarlo. In quel momento lei era sublime. - Mescolare il denaro al sentimento: non è cosa orribile? Voi non potrete amarmi - aggiunse.

Questo miscuglio di nobili sentimenti, che fanno le donne così grandi, e di errori, che l'attuale situazione della società le forza a commettere, sconvolgeva Eugenio, il quale pronunciava parole dolci e consolanti ammirando quella bella donna, così ingenuamente imprudente nel suo grido di dolore.

- Non vi farete di questo un'arma contro di me? - essa chiese promettetemelo.

- Ah!, signora, ne sono incapace - egli rispose.

Essa gli porse la mano e la mise sul suo cuore con un gesto pieno di riconoscenza e di gentilezza.

- Grazie a voi, eccomi ritornata libera e lieta. Vivevo sotto l'impressione di una mano di ferro. Ora voglio vivere con semplicità, e non spendere nulla. E vi accontenterete di come sarò, amico mio, non è vero? Tenete questo - disse prendendo solo sei biglietti di banca. - In coscienza vi debbo mille scudi, poiché mi son considerata come se fossi in società con voi. - Eugenio si difese come una vergine. Ma avendogli la baronessa detto: Vi considero come un mio nemico se non siete mio complice, accettò il denaro. - Sarà una posta di riserva in caso di sfortuna - disse.

- Ecco la parola che temevo - essa esclamò impallidendo. - Se volete che io sia qualcosa per voi, giuratemi - aggiunse - di non tornare mai più a giocare. Mio Dio! Io corrompervi!, ne morirei di dolore.

Erano arrivati. Il contrasto tra quella miseria e quella opulenza stordiva lo studente, nelle cui orecchie le sinistre parole di Vautrin risuonarono.

- Mettetevi lì - disse la baronessa entrando nella sua camera e indicando un canapé vicino al fuoco - devo scrivere una lettera molto difficile! Consigliatemi voi.

- Non scrivete - le disse Eugenio - mettete i biglietti entro una busta, fate l'indirizzo e inviateli per mezzo della vostra cameriera.

- Ma voi siete un tesoro - essa disse. - Ah!, ecco, signore che cosa significa essere stato ben educato. Questo è del puro Beauséant - aggiunse sorridendo.

"E' incantevole", si disse Eugenio che s'infiammava sempre più. E guardò la camera, dove egli respirava la voluttuosa eleganza d'una ricca cortigiana.

- Vi piace? - domandò suonando per chiamare la cameriera.

- Teresa, portate questa lettera al signor de Marsay, e consegnatela a lui in persona. Se non ci fosse, riportatemi la lettera.

Teresa uscì dopo avere gettato un malizioso sguardo su di Eugenio.

Il pranzo era pronto. Rastignac diede il braccio alla signora de Nucingen, che lo condusse in una sala da pranzo deliziosa, dove trovò lo stesso lusso della tavola già ammirato in casa di sua cugina.

- Quando ci sarà rappresentazione agli "Italiani", voi verrete sempre a pranzo da me e poi mi accompagnerete.

- Mi abituerei volentieri a questa dolce vita, se essa dovesse durare; ma io sono un povero studente, che deve ancora costruirsi la propria fortuna.

- La farete - disse lei sorridendo. - Vedete? tutto s'accomoda: io non m'aspettavo d'esser così contenta.

E' proprio nella natura femminile provare l'impossibile col possibile e distruggere i fatti con presentimenti. Quando la signora de Nucingen e Rastignac entrarono nel palco ai "Bouffons", assunse un'aria di soddisfazione che la rendeva così bella, da provocare quelle piccole calunnie contro le quali le donne sono senza difesa, e che fanno spesso credere a immoralità inventate a bella posta. Quando si conosce Parigi, non si crede mai a quel che si dice, e non si dice mai nulla di quel che vi si fa. Eugenio prese la mano della baronessa, e tutti e due si parlarono con strette più o meno vive delle loro mani per comunicarsi le sensazioni prodotte dalla musica. Per essi quella serata fu inebriante. Uscirono insieme, e la signora de Nucingen volle accompagnare Eugenio fino al Pont-Neuf, rifiutandogli, lungo la strada, uno dei baci che gli aveva calorosamente prodigati al Palais-Royal. Eugenio le rimproverò quella incoerenza.

- Ma prima - rispose - era la riconoscenza per una devozione insperata, ora, sarebbe una promessa.

- E voi non me ne volete fare nessuna! Ingrata! - E si crucciò.

Facendo allora uno di quei gesti d'impazienza che deliziano un innamorato, gli dette da baciare la mano, che egli prese con una mala grazia di cui essa rimase rapita.

- A lunedì, al ballo - lei disse.

Andandosene a piedi, sotto un bel chiaro di luna, Eugenio piombò in serie riflessioni. Si sentiva nello stesso tempo felice e scontento; felice, d'una avventura il cui epilogo probabile gli faceva avere una delle più belle e più eleganti donne di Parigi, oggetto dei suoi desideri; scontento, di vedere sconvolti i suoi piani per raggiungere il successo; e fu allora che in lui ebbero concretezza i pensieri avuti in forma indecisa due giorni prima.

L'insuccesso ci fa sentire sempre il potere delle nostre pretese.

Più Eugenio godeva la vita parigina, meno voleva rimanere oscuro e povero. Spiegazzava il biglietto da mille franchi nella tasca, facendo mille ragionamenti capziosi per giustificarne il possesso.

Infine giunse in via Neuve-Sainte-Geneviève, e quando si trovò in cima alla scala, vide una luce. Papà Goriot aveva lasciato aperto l'uscio della sua camera e accesa la candela, affinché lo studente non dimenticasse di "raccontargli sua figlia", secondo il suo modo di esprimersi. Eugenio non gli nascose nulla.

- Ma - esclamò papà Goriot in un violento attacco di disperazione provocato dalla gelosia - costoro mi credono rovinato; ho ancora milletrecento franchi di rendita! Santo Dio! Ma perché la povera piccola non è venuta da me? Avrei venduto i miei titoli, avremmo lucrato sul capitale nominale, e con la rimanenza mi sarei costituito una rendita vitalizia. Perché non siete venuto a confidarmi il vostro imbarazzo, mio buon vicino? Come avete avuto il coraggio di andare a rischiare al gioco i suoi poveri cento franchi? C'è da sentirsi spezzare il cuore. Ecco di che cosa sono capaci i generi! Oh!, se li avessi tra le mani, li strozzerei.

Santo Dio! piangere... ma lei ha proprio pianto?

- Con la testa sul mio panciotto - precisò Eugenio.

- Oh !, datemelo - disse papà Goriot. - Come!, ci sono lì le lacrime di mia figlia, della mia cara Delfina, che non piangeva mai quand'era piccola! Oh!, ve ne comprerò un altro, non portatelo più, lasciatelo a me. Lei ha il diritto, secondo il contratto di nozze, di godere dei suoi beni. Ah!, andrò domani a consultare Derville, è un avvocato. E otterrò l'investimento del patrimonio di mia figlia. Conosco le leggi, sono un vecchio lupo e ritroverò i miei denti.

- To', papà, ecco mille franchi che lei ha voluto donarmi sul guadagno del gioco. Teneteglieli da parte, nel panciotto.

Goriot guardò Eugenio, gli tese la mano per stringer la sua, su cui lasciò cadere una lacrima.

- Voi avrete successo nella vita - gli disse il vecchio. - Dio è giusto, vedete? Conosco cos'è la probità, e posso assicurarvi che pochi sono gli uomini che vi somigliano. Volete allora essere anche voi un mio caro figlio? Ora, andatevene a letto: voi potete dormire, non siete ancora padre. Essa ha pianto, e vengo a saper questo, io, che me ne stavo là tranquillamente a mangiare come un imbecille mentre lei soffriva; io, io che venderei anche il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo per evitare una lacrima a tutte e due!

"In fede mia" si disse Eugenio coricandosi, "credo che sarò un uomo onesto per tutta la vita. Si prova soddisfazione nel seguire le ispirazioni della propria coscienza".

Solo, forse, coloro che credono in Dio fanno il bene in segreto ed Eugenio credeva in Dio. L'indomani, all'ora del ballo, Rastignac si recò in casa della signora de Beauséant, che lo condusse con sé per presentarlo alla duchessa di Carigliano. Fu accolto con ogni cortesia dalla marescialla, presso la quale ritrovò la signora de Nucingen. Delfina s'era agghindata nell'intento di piacere a tutti per meglio piacere ad Eugenio, dal quale attendeva impazientemente un'occhiata, credendo così di celare la propria impazienza. Per chi sa indovinare le emozioni d'una donna, un tal momento è pieno di delizie. Chi non si è spesso divertito a far attendere il proprio giudizio, a mascherare con civetteria il proprio piacere, a provocare confessioni nell'inquietudine che si è causata, a goder dei timori che verranno fugati con un sorriso? Durante il ballo, lo studente considerò tutto il valore della sua posizione, e si rese conto di avere un rango nella società per il fatto d'esser cugino della signora de Beauséant. L'aver conquistato la baronessa de Nucingen, che già gli si attribuiva come amante, lo metteva così in evidenza, che tutti i giovani gli lanciavano occhiate d'invidia; cogliendone qualcuna, gustò i primi piaceri della vanità. Passando da un salone all'altro, passando attraverso i gruppi degli invitati, sentì vantare la sua felicità. Le donne tutte predicevano i suoi successi. Delfina, temendo di perderlo, gli promise che non gli avrebbe quella sera rifiutato il bacio che si era tanto schermita d'accordargli due sere prima. Durante quel ballo, Rastignac si ebbe molte promesse. Fu presentato da sua cugina ad alcune signore che pretendevano tutte d'essere eleganti, e i cui salotti avevano fama d'essere piacevoli; egli si vide lanciato nella più alta e più bella società parigina. Quella serata ebbe dunque per lui il fascino d'un brillante debutto, e doveva ricordarsene fino ai giorni della vecchiaia, come una giovinetta si ricorda del ballo in cui riportò i primi trionfi.

L'indomani, quando, a colazione, raccontò i suoi successi a papà Goriot, dinanzi ai pensionanti, Vautrin si mise a sorridere diabolicamente.

- E voi credete forse - esclamò quel logico feroce - che un giovane alla moda possa abitare in via Neuve-Sainte-Geneviève, in casa Vauquer?, pensione infinitamente rispettabile sotto ogni riguardo, senza dubbio, ma niente affatto elegante. E' ben messa, buona per la sua abbondanza, è fiera d'essere il maniero temporaneo d'un Rastignac, ma, tutto sommato, si trova in via Neuve-Sainte-Geneviève, e non sa cosa sia il lusso, perché è puramente "patriarcalorama". Mio giovane amico - riprese Vautrin con un'aria paternamente ironica - se volete far bella figura a Parigi, vi ci vogliono tre cavalli e un tilbury per la mattina, un cupé per la sera: in tutto novemila franchi per le carrozze.

Sareste indegno del vostro destino se non spendeste che tremila franchi dal sarto, seicento dal profumiere, cento scudi dal calzolaio, cento dal cappellaio. Quanto alla lavandaia, essa vi costerà mille franchi. I giovani alla moda non possono fare a meno d'essere assai forti nell'articolo biancheria: non è forse quel che si osserva più di frequente in loro? L'amore e la chiesa richiedono bei lini sui loro altari. Siamo arrivati a quattordicimila. Non vi parlo di quel che perderete al gioco, in scommesse, in doni; è impossibile non calcolare almeno duemila franchi di spiccioli. Ho fatto quella vita, ne conosco le spese.

Aggiungete a queste prime necessità, trecento luigi per la pappa, mille franchi per la cuccia. Andiamo, ragazzo, o disponiamo dei nostri venticinquemila franchi l'anno, o cadiamo nel fango, ci facciamo ridere dietro, e il nostro avvenire, i nostri successi e le nostre amanti se ne vanno in fumo! Dimenticavo il domestico e il "grum"! I vostri biglietti galanti li farete forse recapitare da Cristoforo? E li scriverete sulla carta di cui ora vi servite?

Sarebbe come suicidarsi. Credete a un vecchio pieno di esperienza!

- egli riprese con un "rinforzando" nella sua voce di basso. - O ridursi in una virtuosa soffitta, e sposare il lavoro, o scegliere un'altra strada.

E Vautrin strizzò l'occhio ammiccando alla signorina Taillefer come a ricordare e a riassumere in quel suo sguardo i ragionamenti seducenti da lui seminati nel cuore dello studente, per corromperlo. Passarono vari giorni, durante i quali Rastignac condusse la vita più dissipata. Pranzava quasi tutti i giorni con la signora de Nucingen che accompagnava in società. Rientrava alle tre o alle quattro del mattino, si alzava a mezzogiorno per far toletta, se la giornata era bella andava a passeggio al Bosco con Delfina, sciupando il tempo senza saperne il valore, e immagazzinando tutte le esperienze, tutte le seduzioni del lusso con l'ardore da cui è preso l'impaziente calice della palma per i fecondanti pollini del suo imeneo. Giocava forte, perdeva o vinceva molto; e finì per abituarsi alla vita esuberante dei giovani parigini. Con le prime vincite aveva restituito millecinquecento franchi alla madre e alle sorelle, accompagnando il denaro con graziosi regali. Sebbene avesse preannunciato di voler lasciare la casa Vauquer, ci si trovava ancora negli ultimi giorni del mese di gennaio, e non sapeva come uscirne. I giovani sono sottoposti quasi tutti a una legge in apparenza inesplicabile, ma la cui ragione proviene dalla loro stessa giovinezza e da quella specie di furia con la quale si lanciano al piacere. Ricchi o poveri, non hanno mai denaro per le necessità della vita, mentre ne trovano sempre per i loro capricci. Prodighi in tutto ciò che si ottiene a credito, sono avari in tutto quel che si paga in contanti, e sembrano vendicarsi di ciò che non hanno, dissipando tutto quanto possono avere. Così, per porre nettamente la questione, uno studente tiene più al cappello che al vestito. L'enormità del guadagno fa del sarto essenzialmente un creditore, mentre la modicità del prezzo fa del cappellaio uno degli esseri più intrattabili fra coloro coi quali egli è costretto a contrattare. Se il giovane seduto in un palco a teatro presenta all'occhialino delle belle signore sorprendenti panciotti, è dubbio che egli porti i calzini: il venditore di oggetti di maglieria è un altro tarlo della sua borsa. Rastignac era in quella condizione. Sempre vuota per la signora Vauquer, sempre piena per le esigenze della vanità, la sua borsa contava rovesci e successi lunatici in disaccordo coi pagamenti più facili. Per poter lasciare la pensione fetida, ignobile, dove si umiliavano periodicamente le sue pretese, non era indispensabile pagare un mese alla padrona, e comprar la mobilia per il suo appartamento di dandy? Ma la cosa era sempre impossibile. Se, per procurarsi il denaro necessario al gioco, Rastignac ben sapeva acquistare dal gioielliere orologi e catene d'oro pagati a caro prezzo con le vincite, e che poi portava al Monte di Pietà, questo cupo e discreto amico della gioventù, egli si trovava d'altra parte senza risorse e senza audacia quando si trattava di pagare il vitto, l'alloggio, o di acquistare gli arnesi indispensabili per lo sfruttamento della vita elegante. Una necessità banale, debiti contratti per bisogni soddisfatti non gli inspiravano più alcuna idea geniale. Come la maggior parte di coloro che hanno conosciuto questa vita rischiosa, aspettava sempre l'ultimo momento per saldare crediti considerati sacri secondo i borghesi, come faceva Mirabeau, il quale pagava il conto del fornaio solo quando gli veniva presentato sotto la forma draconiana di una cambiale. A quell'epoca Rastignac aveva perduto, e s'era indebitato. Lo studente cominciava a capire che era impossibile continuare quell'esistenza senza avere fonti fisse di guadagno.

Ma, pur soffrendo sotto le pungenti percosse della sua situazione precaria, si sentiva incapace di rinunciare ai piaceri di quella vita e voleva continuarla ad ogni costo. I casi fortunati su cui aveva contato divenivano chimerici, mentre gli ostacoli reali s'ingrandivano. Iniziatosi ai segreti domestici del signore e della signora de Nucingen, si era accorto che, per convertire l'amore in strumento di fortuna, bisognava aver ingoiato ogni vergogna e rinunciato alle nobili idee che rappresentano l'assoluzione da tutti i peccati di gioventù. Tale vita esteriormente splendida, ma rósa da tutte le tenie del rimorso, e i cui fuggitivi piaceri erano caramente pagati con persistenti angosce, egli l'aveva ormai abbracciata, vi si rivoltolava facendosene, come il Distratto di La Bruyère, un letto nel fango del fossato; ma, come il Distratto, non insudiciandosi fino allora che il vestito.

- Abbiamo, allora, ucciso il mandarino? - gli chiese un giorno Bianchon, alzandosi da tavola.

- Non ancora - egli rispose - ma rantola.

Lo studente in medicina interpretò quella parola come uno scherzo, ma non lo era. Eugenio, che, per la prima volta da molto tempo, aveva pranzato nella pensione, s'era mostrato pensieroso durante il pasto. Invece di uscire, alla frutta, rimase in sala seduto vicino alla signorina Taillefer, cui dava di tanto in tanto occhiate espressive. Alcuni pensionanti erano ancora a tavola e mangiavano delle noci, altri camminavano per la stanza continuando discussioni iniziate. Come quasi tutte le sere, ognuno seguiva il proprio capriccio, secondo il grado d'interesse che poneva alla conversazione, o secondo la maggiore o minore pesantezza causatagli dalla digestione. D'inverno, raramente la sala da pranzo rimaneva vuota prima delle otto, momento in cui le quattro donne restavano sole e si vendicavano del silenzio che il sesso imponeva loro in mezzo a quel gruppo di maschi. Colpito dalla preoccupazione cui Eugenio era in preda, Vautrin rimase nella sala da pranzo, sebbene prima sembrasse aver fretta d'uscirne, e ci rimase in modo da non esser veduto da Eugenio, che lo credette uscito. Poi, invece d'accompagnare i pensionanti che andavano via per ultimi, si trattenne nascostamente nel salotto. Egli aveva letto nell'animo dello studente e attendeva di scorgere un sintomo decisivo. Rastignac si trovava infatti in una situazione di perplessità che molti giovani hanno dovuto conoscere. Innamorata o civetta, la signora de Nucingen aveva fatto passare Rastignac attraverso tutte le angosce d'una vera passione, usando con lui le risorse della diplomazia femminile consueta a Parigi. Dopo essersi compromessa in pubblico con lo stare sempre insieme al cugino della signora de Beauséant, esitava a conferirgli realmente i diritti di cui sembrava godere. Da un mese eccitava così bene i sensi di Eugenio, che aveva finito per colpirne il cuore. Se, nei primi momenti della relazione, lo studente aveva creduto di padroneggiare la situazione, la signora de Nucingen era poi divenuta la più forte, con l'aiuto di quella familiarità che commuoveva in Eugenio tutti i sentimenti, buoni o cattivi, di quei due o tre uomini che coesistono entro uno stesso giovane parigino.

Lo faceva per calcolo? No; le donne sono sempre sincere, anche nelle loro più grandi falsità, perché cedono a qualche sentimento naturale. Forse Delfina, dopo aver lasciato prendere subito tanto imperio su di lei da parte di quel giovane e avergli dimostrato anche troppo affetto, obbediva a un sentimento di dignità, che la faceva o ritornare sulle sue concessioni o compiacersi di sospenderle. E' così naturale, a una Parigina, nel momento stesso in cui la passione la trascina, di esitar nella caduta, di mettere alla prova il cuore di colui al quale sta per affidare il suo avvenire! Tutte le speranze della signora de Nucingen erano state tradite una prima volta, e la sua fedeltà verso il giovane egoista era stata misconosciuta. Essa aveva il diritto d'essere diffidente. Forse aveva notato nei modi d'Eugenio, che il rapido successo aveva reso fatuo, una specie di disistima causata dalle stranezze della loro situazione. Desiderava senza dubbio apparire imponente a un uomo di quell'età, ed essere considerata grande agli occhi suoi, dopo essere stata per tanto tempo considerata trascurabile agli occhi di colui dal quale era stata abbandonata.

Non voleva che Eugenio la credesse una facile conquista proprio perché egli sapeva che lei era stata di de Marsay. E poi, dopo aver subìto il degradante piacere d'un vero e proprio mostro qual è il giovane libertino, essa provava tanta dolcezza a percorrere le regioni fiorite dell'amore, che era un incanto per lei ammirarne tutti gli aspetti, ascoltarne a lungo i fremiti, e lasciarsi a lungo accarezzare da caste brezze. Il vero amore pagava per quello cattivo. Tale controsenso sarà purtroppo frequente, finché gli uomini non sapranno quanti fiori falciano nell'animo di una giovane donna i primi inganni. Quali che fossero le sue ragioni, Delfina si faceva gioco di Rastignac e si divertiva a farsi gioco di lui, certamente perché si sapeva amata ed era sicura di far cessare i crucci del suo amante secondo il proprio regale beneplacito di donna. Per rispetto a se stesso, Eugenio non voleva che il suo primo combattimento terminasse con una sconfitta, e persisteva nel suo inseguimento, come un cacciatore che vuole assolutamente uccidere una pernice la prima volta che va a caccia. Le sue ansietà, il suo amor proprio offeso, le sue disperazioni, simulate o sincere, lo avvincevano sempre più a quella donna.

Tutta Parigi gli attribuiva la signora de Nucingen, dalla quale non aveva ottenuto nulla più di quanto il primo giorno che l'aveva conosciuta. Non sapendo ancora che la civetteria d'una donna offre talvolta più benefici di quanto il suo amore non dia piaceri, cadeva in preda a sciocche ire. Se il periodo durante il quale una donna si nega all'amore offriva a Rastignac la ricchezza delle sue primizie, queste divenivano per lui tanto costose per quanto erano verdi, agroline e deliziose al gusto. Talvolta, trovandosi senza un soldo, senza avvenire, pensava, nonostante la voce della coscienza, alla fortuna che avrebbe potuto conseguire e di cui Vautrin gli aveva dimostrato la possibilità mediante un matrimonio con la signorina Taillefer. Egli attraversava allora un periodo in cui la sua miseria parlava così ad alta voce, che cedette quasi involontariamente alle male arti della terribile sfinge dagli sguardi della quale rimaneva spesso affascinato. Nel momento in cui Poiret e la signorina Michonneau risalivano nelle proprie camere, Rastignac credendo d'esser solo tra la signora Vauquer e la signora Couture, che sferrucchiava maniche di lana sonnecchiando vicino alla stufa, guardò la signorina Taillefer in un modo così tenero, da farle abbassare gli occhi.

- Avete qualche dispiacere, signor Eugenio? - gli chiese Vittorina dopo un istante di silenzio.

- E chi non li ha! - rispose Rastignac. - Se fossimo sicuri, noi giovani, d'essere amati, con una devozione che ci ricompensasse dei sacrifici che siamo sempre disposti a fare, non avremmo forse mai dispiaceri.

La signorina Taillefer gli diede, per tutta risposta, uno sguardo non equivoco.

- Voi, signorina, vi credete sicura del vostro cuore, oggi; ma potreste esser certa di non cambiare mai?

Un sorriso errò sulle labbra della povera giovinetta come un raggio sprizzato dal suo animo, e ne fece tanto risplendere il volto, che Eugenio ebbe timore d'aver provocato una così viva esplosione di sentimento.

- Come!, se domani foste ricca e felice, se una immensa ricchezza vi cadesse dal cielo, amereste ancora il giovane povero, piaciutovi nei giorni della sfortuna?

Lei fece un grazioso cenno con la testa.

- Un giovane molto infelice?

Nuovo cenno.

- Ma che sciocchezze state dicendo? - esclamò la signora Vauquer.

- Lasciateci stare - rispose Eugenio - noi ci comprendiamo.

- Vi sarebbe dunque una promessa di matrimonio tra il signor cavaliere Eugenio di Rastignac e la signorina Vittorina Taillefer?

- disse Vautrin con la sua grossa voce, mostrandosi all'improvviso all'uscio della sala da pranzo.

- Ah !, mi avete messo paura - dissero insieme la signora Couture e la signora Vauquer.

- Potrei scegliere di peggio - rispose ridendo Eugenio, al quale la voce di Vautrin causò la più crudele emozione che avesse mai provato.

- Basta con questi scherzi di cattivo gusto, signori! - disse la signora Couture. - Su, figliola, andiamocene in camera.

La signora Vauquer seguì le due pensionanti, per economizzare la candela e il fuoco, passando la serata in camera loro. Eugenio si trovò solo a faccia a faccia con Vautrin.

- Sapevo bene che ci sareste arrivato - gli disse quell'uomo conservando un imperturbabile sangue freddo. - Ma, ascoltate! Io sono delicato come chiunque altro, io. Non prendete decisioni in questo momento, voi non siete adesso del solito umore. Avete debiti, e io non voglio che sia la passione, la disperazione a farvi venire da me, ma la ragione. Forse avete bisogno di qualche migliaio di scudi. Eccoli, li volete?

Quel demonio cavò dalla tasca un portafoglio e ne trasse tre biglietti di banca che fece brillare agli occhi dello studente.

Eugenio si trovava nella più critica situazione. Doveva dare al marchese d'Adjuda e al conte de Trailles cento luigi perduti sulla parola. Non li aveva, e non osava andare a passare la serata in casa della signora de Restaud, dov'era atteso. Era una delle serate intime, durante le quali si sgranocchiano pasticcini, si beve il tè, ma si possono anche perdere seimila franchi al whist.

- Signore - gli disse Eugenio nascondendo a stento un tremito convulso - dopo quel che mi avete confidato, comprenderete che mi è impossibile avere con voi obbligazioni.

- Ebbene!, mi sarebbe dispiaciuto se aveste parlato altrimenti riprese il tentatore. - Voi siete un bel giovane, delicato, fiero come un leone e dolce come una fanciulla. Sareste una bella preda per il diavolo. Mi piace questo tipo di giovani. Ancora due o tre riflessioni d'alta politica, e poi vedrete il mondo come realmente è. Rappresentandovi qualche scenetta di virtù, l'uomo superiore può soddisfare tutti i propri capricci, fra i grandi applausi dei gonzi che siedono in platea. Fra pochi giorni sarete dei nostri.

Ah!, se voleste diventare mio allievo, vi farei arrivare a tutto.

Voi non formulereste un desiderio che non fosse all'istante esaudito, qualsiasi desiderio: onore, ricchezza, donne. Tutta la civiltà sarebbe per voi ridotta in ambrosia. Sareste il nostro fanciullo viziato, il nostro Beniamino, e ci faremmo massacrare tutti per farvi piacere. Qualsiasi ostacolo vi verrebbe spianato.

Se avete ancora qualche scrupolo, vuol dire che mi prendete per uno scellerato. Ebbene, un uomo probo quanto ancora voi credete di esserlo, il signor de Turenne, faceva, senza credersi compromesso, i suoi affarucci con dei briganti. Voi non volete avere obbligazioni con me, eh? Non importa - riprese Vautrin lasciandosi sfuggire un sorriso. - Prendete questi pezzi di carta, e scrivete qui sopra - disse cavando fuori una cambiale bollata - qui, di traverso: "Accettata per la somma di tremilacinquecento franchi pagabili in un anno". E metteteci la data! L'interesse è abbastanza forte per togliervi ogni scrupolo; potete chiamarmi un giudeo e considerarvi esente da ogni riconoscenza. Vi permetto di disprezzarmi ancor oggi, sicuro che poi mi vorrete bene. Troverete in me immensi abissi, quei vasti sentimenti concentrati che gli ingenui chiamano vizi; ma non mi troverete mai né vile né ingrato.

Insomma, io non sono né una pedina, né un alfiere, ma una torre, ragazzo mio.

- Ma che razza d'uomo siete voi mai? - esclamò Eugenio - siete stato creato proprio per tormentarmi !

- Ma no, io sono un brav'uomo che vuole infangarsi affinché voi siate al riparo dal fango del vostro avvenire. Vi chiederete forse perché mai tutta questa affezione per voi. Ebbene!, ve lo dirò pian piano un giorno o l'altro, all'orecchio. Vi ho dapprima turbato mostrandovi il carillon dell'ordine sociale e il funzionamento della macchina; ma il vostro turbamento passerà, come quello di un coscritto sul campo di battaglia, e vi abituerete all'idea di considerare gli uomini come soldati decisi a morire al servizio di coloro che si consacrano da se stessi re.

I tempi sono molto cambiati. Una volta si diceva a un bravo: "Ecco cento scudi, uccidimi il signor tale", e si andava tranquillamente a cena dopo aver fatto scomparire un uomo per un sì, per un no.

Oggi vi propongo di procurarvi una bella fortuna con un semplice cenno della testa che non vi compromette affatto, e voi esitate.

Il secolo è fiacco.

Eugenio firmò la tratta e la consegnò in cambio dei biglietti di banca.

- Ebbene!, andiamo, parliamo assennatamente - riprese Vautrin. Io voglio partire fra qualche mese per l'America, e andarvi a piantare il tabacco. Vi manderò i sigari dell'amicizia. Se diventerò ricco, vi aiuterò. Se non avrò figli (caso probabile, giacché non desidero ripiantarmi qui col mezzo di riproduzione del germoglio), ebbene!, vi lascerò in eredità la mia fortuna. Non si chiama questo essere l'amico di un uomo? E' perché vi voglio bene, io. Ho la passione di prodigarmi a favore degli altri. L'ho già fatto altre volte. Come vedete, ragazzo mio, io vivo in una sfera più elevata di quella degli altri uomini. Considero le azioni come mezzi, e non miro che allo scopo. Che cosa è un uomo per me?

Tanto! - disse, facendo schioccare l'unghia del pollice sotto uno dei denti. - Un uomo è tutto o nulla. E' meno che nulla se si chiama Poiret; lo si può schiacciare come una cimice, è piatto e dà cattivo odore. Ma un uomo è un dio quando vi somiglia; non è più una macchina ricoperta di pelle, ma un teatro ove si agitano i più bei sentimenti; e io non vivo che di sentimenti. Un sentimento non è forse il mondo in un pensiero?

Guardate papà Goriot: le sue due figlie sono per lui tutto l'universo, sono il filo col quale egli guida se stesso nel creato. Ebbene!, per me, che conosco a fondo la vita, non esiste che un solo sentimento reale: un'amicizia da uomo a uomo. Pietro e Jaffier, ecco la mia passione. So a memoria "Venezia Salvata".

Avete visto molti uomini, quando un camerata dice: "Andiamo a sotterrare un cadavere!", così coraggiosi da andarci senza pronunciar verbo, senza affliggerlo con la morale? Io sono stato capace di far questo. Non parlerei così, tuttavia, a chiunque. Ma voi, voi siete un uomo superiore, a voi si può dir tutto, voi sapete capire tutto. Voi non diguazzate a lungo nelle paludi ove vivono i mostriciattoli da cui siamo circondati qui. Ebbene eccolo detto. Voi sposerete. Affondiamo ciascuno la punta della nostra propria arma. La mia è di ferro e non cede mai, eh, eh!

Vautrin uscì senza voler ascoltare la risposta negativa dello studente, per lasciarlo a suo agio. Egli sembrava conoscere il segreto di quelle piccole resistenze, di quei combattimenti di cui gli uomini fanno mostra dinanzi a loro stessi, e che servono a giustificare azioni riprovevoli.

"Faccia come vuole, ma io non sposerò davvero la signorina Taillefer", disse Eugenio fra sé e sé.

Dopo aver subìto il malessere d'una febbre interiore che gli provocò l'idea di un patto concluso con quell'uomo di cui aveva orrore, ma che s'ingrandiva ai suoi occhi per il cinismo stesso delle idee e per l'audacia con cui attanagliava la società, Rastignac si vestì, ordinò una vettura, e si recò dalla signora de Restaud. Da qualche giorno, essa aveva raddoppiato le sue attenzioni per il giovane, del quale ogni passo era un progresso nel cuore del gran mondo, e il cui ascendente sembrava dover essere un giorno temibile. Egli pagò il suo debito a de Trailles e d'Adjuda, giocò al whist parte della notte, riguadagnò quel che aveva perduto. Superstizioso come la maggior parte degli uomini che debbono ancora fare la loro strada e che sono più o meno fatalisti, volle vedere nella sua fortuna come una riconoscenza del cielo per la propria perseveranza nel rimanere sulla retta via. L'indomani mattina, si affrettò a domandare a Vautrin se aveva ancora la cambiale. Alla risposta affermativa, gli restituì i tremila franchi con una soddisfazione alquanto naturale.

- Tutto va bene - gli disse Vautrin.

- Ma io non sono vostro complice - rispose Eugenio.

- Lo so, lo so - fece Vautrin interrompendolo. - Voi fate ancora delle bambinate. Vi fermate alle prime difficoltà.

Due giorni dopo, Poiret e la signorina Michonneau stavano seduti su di una panca al sole, in un viale solitario del Jardin des Plantes, e facevano conversazione con quel signore che ben a ragione sembrava sospetto allo studente in medicina.

- Signorina - diceva il signor Gondureau - non vedo donde nascono i vostri scrupoli. Sua Eccellenza monsignor il ministro della polizia generale del regno...

- Ah!, Sua Eccellenza monsignor il ministro della polizia generale del regno... - ripeté Poiret.

- Sì, Sua Eccellenza si occupa di questo affare disse Gondureau.

A chi non sembrerà inverosimile che Poiret, vecchio impiegato, uomo, senza dubbio, di virtù borghesi, sebbene privo d'idee, continuasse ad ascoltare il sedicente benestante della via Buffon, nel momento in cui questi pronunciava la parola: polizia, svelando così la fisionomia di un agente della via Jérusalem attraverso la sua maschera di onest'uomo? Eppure, nulla era più naturale. Ognuno comprenderà meglio a che specie particolare appartenesse Poiret, nella grande famiglia dei gonzi, dopo una considerazione già fatta da alcuni osservatori, ma finora non resa di pubblica ragione.

Esiste una popolazione pennuta, stretta dal bilancio domestico, tra il primo grado di latitudine che comporta gli stipendi di milleduecento franchi, una specie di Groenlandia amministrativa, e il terzo grado, nel quale cominciano gli stipendi un poco più caldi da tre a seimila franchi, regione temperata, dove si acclimata la gratificazione, dove essa fiorisce malgrado le difficoltà della coltura. Una delle caratteristiche che meglio mette allo scoperto la patologica ristrettezza di questi subalterni è una specie di rispetto involontario, meccanico, istintivo, per quel Gran Lama d'ogni ministero, conosciuto dall'impiegato da una firma illeggibile e sotto il titolo di "Sua Eccellenza monsignor ministro", cinque parole che equivalgono a "Il Bondo Cani del Califfo di Bagdad", e che, agli occhi di questo popolo appiattito, rappresenta un potere sacro, senza appello.

Come il papa per i cattolici, monsignore è amministrativamente infallibile agli occhi dell'impiegato; la luce che spande si comunica ai suoi atti, alle sue parole, a quelle dette in suo nome; egli copre tutto coi ricami dell'uniforme, e legalizza le azioni che ordina; il suo titolo di eccellenza, che attesta la purezza delle intenzioni e la santità dei voleri, serve come passaporto alle idee meno ammissibili. Quel che questi poveri diavoli non farebbero nel loro interesse, si affrettano a farlo non appena la parola "Sua Eccellenza" è stata pronunciata. Gli uffici praticano la loro obbedienza passiva, come l'esercito ha la sua: metodo che soffoca la coscienza, annichilisce un uomo e finisce, col tempo, per adattarlo come una vite o una madrevite alla macchina governativa. Perciò il signor Gondureau, che sembrava conoscere gli uomini, scorse subito in Poiret uno di questi sciocchi burocratici, e fece uscire il Deus ex machina, la parola talismanica di: Sua Eccellenza, nel momento in cui bisognava, scoprendo le batterie, confondere Poiret, che appariva ai suoi occhi quale il maschio della Michonneau, come la Michonneau gli sembrava la femmina di Poiret.

- Dal momento che Sua Eccellenza in persona, Sua Eccellenza monsignor il !.. Ah !, ma allora la cosa cambia aspetto - disse Poiret.

- Avete sentito quel che dice il signore, al giudizio del quale pare che vi rimettiate - riprese il falso benestante rivolgendosi alla signorina Michonneau. - Ebbene, Sua Eccellenza ha ormai la certezza assoluta che il preteso Vautrin, alloggiato presso la Casa Vauquer, è un forzato evaso dal bagno penale di Tolone, dove è conosciuto sotto il nome di Ingannalamorte.

- Ah ! Ingannalamorte! - disse Poiret - dev'essere molto fortunato, se si è meritato un soprannome simile.

- Ma certo - riprese l'agente. - Questo soprannome è dovuto alla fortuna che ha avuto di non perder la vita nelle imprese estremamente audaci da lui compiute. E' dunque un uomo pericoloso, come vedete! Egli ha qualità che lo rendono veramente straordinario. La stessa condanna gli ha procurato, nel suo ambiente, un grandissimo onore...

- E' allora un uomo d'onore? - chiese Poiret.

- A suo modo sì. Ha acconsentito ad accollarsi il debito di un altro, un falso commesso da un bellissimo giovane cui voleva molto bene, un giovane italiano, forte giocatore, entrato poi nel servizio militare, dove s'è per altro comportato ottimamente.

- Ma, se Sua Eccellenza il ministro della polizia è sicuro che il signor Vautrin sia Ingannalamorte, perché ha bisogno di me? - domandò la signorina Michonneau.

- Ah, già - fece Poiret - se infatti il ministro, come ci avete fatto l'onore di dire, ha una certezza qualsiasi...

- Certezza non è proprio la parola; ... si dubita, ecco tutto. Ora vi dirò come stanno le cose. Jacques Collin, soprannominato Ingannalamorte, gode tutta la fiducia dei tre bagni penali che lo hanno scelto quale agente e loro banchiere. Egli guadagna molto occupandosi di questo genere d'affari, che necessariamente richiede un uomo di "marca".

- Ah! ah!, capite il gioco di parola, signorina? - fece Poiret. Il signore lo chiama un uomo di "marca", perché è stato marcato.

- Il falso Vautrin - disse l'agente continuando - riceve i capitali dei signori forzati, li investe, li conserva e li tiene a disposizione di quelli che evadono, o delle loro famiglie, quando ne dispongono per testamento, o delle loro amanti, quando traggono assegni su di lui a favor loro.

- Delle loro amanti! Volete dire delle loro mogli - fece osservare Poiret.

- No, signore. Il forzato non ha generalmente che spose illegittime, che noi chiamiamo concubine.

- Ma allora vivono tutti in stato di concubinaggio?

- Conseguentemente.

- Ebbene - disse Poiret - ecco orrori che Monsignore non dovrebbe tollerare. Dato che avete l'onore di vedere Sua Eccellenza, spetta a voi, che mi sembrate avere idee filantropiche, illuminarlo sulla condotta immorale di questa gente, che offre un pessimo esempio al resto della società.

- Ma, signore, il governo non li manda mica là per offrire il modello di tutte le virtù.

- E' giusto. Tuttavia, signore, permettete...

- Ma lasciate parlare il signore, mio caro - disse la signorina Michonneau.

- Voi capite, signorina - riprese Gondureau. - Il governo può avere un grande interesse a mettere le mani su di una cassa illecita, che si dice ammonti a un totale assai maggiore:

Ingannalamorte incassa valori notevoli ricettando non solo le somme possedute da qualcuno dei suoi camerati, ma anche quelle che provengono dalla Società dei Diecimila...

- Diecimila ladri! - esclamò Poiret spaventato.

- No, la Società dei Diecimila è un'associazione di grandi ladri, di gente che lavora in grande stile e non si occupa di affari che quando ci sono diecimila franchi da guadagnare. Questa società si compone di tutto quel che c'è di più distinto tra coloro che vanno diritti in corte d'assise. Essi conoscono il Codice, e non rischiano mai la condanna a morte quando sono pizzicati. Collin è il loro uomo di fiducia, il loro consigliere. Con l'aiuto delle sue immense risorse, quest'uomo ha saputo crearsi una propria polizia e relazioni molto estese che avvolge in un mistero impenetrabile. Sebbene da un anno sia stato circondato di spie, non siamo ancora riusciti a veder chiaro nel suo gioco. La sua cassa e il suo talento servono costantemente dunque a pagare il vizio, a fornire fondi al delitto, e mantengono in piedi un esercito di cattivi soggetti che sono in perpetuo stato di guerra con la società. Acciuffare Ingannalamorte e impadronirsi della sua banca, sarà come tagliare il male alla radice. Quindi tale spedizione è divenuta un affare di Stato e di alta politica, che potrà onorare coloro che coopereranno alla sua riuscita. Voi stesso, signore, potreste essere riammesso nell'amministrazione, diventare segretario d'un commissario di polizia, funzioni queste che non vi impedirebbero affatto di percepire la pensione.

- Ma perché - disse la signorina Michonneau - Ingannalamorte non scappa con tutta la cassa?

- Oh! - fece l'agente - ovunque andasse, sarebbe seguìto da un uomo incaricato di ucciderlo, se frodasse il bagno penale. E poi una cassa non si porta via così facilmente come si rapisce una signorina di buona famiglia. Del resto, Collin è una persona incapace di compiere un gesto simile; si riterrebbe disonorato.

- Signore - disse Poiret - avete ragione, egli sarebbe senz'altro disonorato.

- Tutto questo, tuttavia, non ci dice ancora per quale ragione non andiate semplicemente a catturarlo - fece la signorina Michonneau.

- Ebbene!, signorina, io vi rispondo... Ma - le disse all'orecchio - impedite al vostro amico d'interrompermi, altrimenti non la finiremo più. Quel tipo deve essere molto fortunato se riesce a farsi ascoltare. Ingannalamorte, venendo qui, ha assunto l'aspetto d'una persona per bene, fa il buon borghese parigino, ha preso stanza in una pensione senza pretese; è fino, lui, e date retta a me, non lo si coglierà mai all'impensata. Dunque il signor Vautrin è un uomo considerato, che fa affari considerevoli.

"Naturalmente" disse fra sé e sé Poiret.

- Il ministro, se c'ingannassimo arrestando un autentico Vautrin, non vuol mettersi contro né i commercianti di Parigi né l'opinione pubblica. Il signor Prefetto di polizia ciurla nel manico, ha dei nemici. Se si commettesse un errore, coloro che aspirano al suo posto approfitterebbero dello scandalo e degli strilli dei liberali per farlo saltare. Si tratta qui di procedere come nel processo Cogniard, il falso conte di Sainte-Helène; se fosse stato un vero conte di Sainte-Helène, saremmo stati freschi! E perciò è necessario identificarlo bene.

- Sì, ma voi avete bisogno di una bella donna - disse con vivacità la signorina Michonneau.

- Ingannalamorte non si lascerebbe avvicinare da una donna replicò l'agente. - Vi rivelerò un segreto: egli non ama le donne.

- Ma non vedo allora a che cosa io possa servire per un simile accertamento, una supposizione che consentirei a fare per duemila franchi.

- Nulla di più facile - disse lo sconosciuto. - Vi darei una fialetta contenente una dose di liquore preparato per provocare un malessere, che non presenta tuttavia il minimo pericolo e simula una apoplessia. La droga può essere mescolata indifferentemente sia al vino che al caffè. Voi trasportate immediatamente il nostro uomo su di un letto, e lo spogliate per sorvegliare che non muoia.

Quando sarete rimasta sola con lui, gli darete un colpo sulla spalla, paf !, e vedrete ricomparire le lettere del suo marchio.

- Ma tutto ciò è molto facile - disse Poiret.

- Ebbene, acconsentite? - domandò Gondureau alla vecchia zitella.

- Ma, caro signore - rispose la signorina Michonneau - e se le lettere non ci fossero, avrei egualmente i duemila franchi?

- No.

- E, quanto sarà allora l'indennità?

- Cinquecento franchi - Fare una cosa simile per così poco? Il male è sempre quello nella coscienza; e io devo sedare la reazione della mia coscienza, signore.

- Posso assicurarvi - disse Poiret - che la signorina ha molta coscienza, oltre ad essere una amabilissima persona e molto intelligente.

- Ebbene! - riprese la signorina Michonneau - datemi tremila franchi se è Ingannalamorte, e nulla se non è lui.

- Sta bene - disse Gondureau - ma alla condizione che la faccenda sia sbrigata domani.

- Un momento, caro signore; ho bisogno di consultare prima il mio confessore.

- Furba! - fece l'agente alzandosi. - Allora, a domani. E se avete urgenza di parlarmi, venite al vicolo Sainte-Anne, in fondo alla corte della Sainte-Chapelle. C'è una porta sola sotto la volta.

Chiedete del signor Gondureau.

Bianchon, che tornava dalla lezione di Cuvier, rimase colpito dalla parola alquanto originale: Ingannalamorte, e udì lo "sta bene", del celebre capo della Polizia.

- Perché non vi decidete subito? Sarebbero trecento franchi di rendita - disse Poiret alla signorina Michonneau.

- Perché? - essa rispose. - Ma perché bisogna rifletterci. E se il signor Vautrin fosse proprio questo Ingannalamorte? In questo caso sarebbe forse più conveniente mettersi d'accordo con lui.

Tuttavia, chiedergli del denaro vorrebbe dire prevenirlo, e lui sarebbe capace di squagliarsela gratis. E allora sarebbe un detestabile puff.

- Ma ammesso che fosse prevenuto - riprese Poiret - quel signore non ci ha detto che era sorvegliato? Ma voi, voi allora perdereste tutto.

"Del resto" pensò la signorina Michonneau, "io non ho alcuna simpatia per quell'uomo! Non sa dirmi che cose spiacevoli".

- Ma - riprese Poiret - voi fareste di meglio. Come ha detto quel signore, che mi sembra persona molto ammodo, oltre a essere assai ben vestito, è un gesto di obbedienza alle leggi togliere dalla circolazione un criminale, per quanto virtuoso possa essere. Chi ha bevuto, berrà. Se gli venisse in mente di assassinarci a tutti?

Ma, che diavolo! Noi saremmo colpevoli di questi assassinii, senza contare che saremmo le prime vittime.

La preoccupazione non permetteva alla signorina Michonneau di ascoltare le frasi cadenti a una a una dalla bocca di Poiret, come le gocce d'acqua che cadono attraverso il rubinetto d'una fontana mal chiuso. Da quando quel vecchio aveva cominciato a snocciolare la serie delle sue frasi, senza che la signorina Michonneau lo interrompesse, continuava a parlare sempre, come una macchina caricata. Dopo aver attaccato un primo argomento, era portato dalle sue parentesi a trattarne altri del tutto opposti, senza aver concluso nulla. Giunti alla Casa Vauquer, s'era cacciato in una sequela di passaggi e di citazioni transitorie che lo avevano condotto a riferire la sua deposizione nel processo di messer Ragoulleau e di madama Morin, ove era comparso quale teste a discarico. Entrando, la sua compagna non mancò di scorgere Eugenio de Rastignac impegnato con la signorina Taillefer in un intimo colloquio il cui interesse era così palpitante, che la coppia non fece alcuna attenzione ai due vecchi pensionanti, che attraversarono la sala da pranzo.

- Doveva finire così - disse la signorina Michonneau a Poiret. Era da otto giorni che si facevano l'occhio di triglia.

- Già - egli rispose. - E perciò fu condannata.

- Chi?

- La signora Morin.

- Ma io vi sto parlando della signorina Vittorina! - disse la Michonneau entrando, distratta, nella camera di Poiret - e voi mi rispondete con la signora Morin. Chi è questa donna?

- E di che cosa sarebbe colpevole la signorina Vittorina? chiese Poiret.

- E' colpevole di amare il signor Eugenio de Rastignac, e va innanzi per questa strada senza sapere dove questa la condurrà, povera innocente!

Eugenio era stato, durante la mattinata, portato alla disperazione dalla signora de Nucingen. Nel foro interiore della sua coscienza s'era abbandonato completamente a Vautrin, senza voler approfondire né i motivi dell'amicizia che gli dimostrava quell'uomo straordinario, né le conseguenze d'una simile alleanza.

Sarebbe stato necessario un miracolo per trarlo dall'abisso nel quale aveva già messo il piede da un'ora, scambiando con la signorina Taillefer le più dolci promesse. Vittorina credeva di ascoltare la voce di un angelo, i cieli si schiudevano per lei, la Casa Vauquer si adornava di quei colori fantastici che i decoratori usano per i palazzi di teatro: amava, era amata, o almeno lo credeva! E quale donna non lo avrebbe creduto, come lei, vedendo Rastignac, ascoltandolo durante quell'ora sottratta a tutti gli Argo della casa? Dibattendosi contro la sua coscienza, sapendo di far male e volendo farlo, dicendosi che si sarebbe riscattato da quel peccato veniale con la felicità d'una donna, s'era abbellito della sua stessa disperazione e riluceva di tutti i fuochi infernali che aveva nel cuore. Fortunatamente per lui, il miracolo si compì: Vautrin entrò allegramente, e lesse nell'animo dei due giovani, che egli aveva sposati con le macchinazioni del suo genio infernale, ma di cui turbò subito la gioia cantando col suo vocione rauco:

La mia Fanchette è deliziosa Nella sua semplicità...

Vittorina scappò portando con sé tanta felicità quanto dolore aveva fino allora sofferto nella vita. Povera figliola! Una stretta di mano, la sua gota sfiorata dai capelli di Rastignac, una parola detta così vicino al suo orecchio da sentire il calore delle labbra dello studente, i suoi fianchi cinti da un braccio tremante, un bacio sul suo collo, furono il fidanzamento della sua passione, che l'avvicinarsi della grossa Silvia, minacciando d'entrare in quella radiosa sala da pranzo, rese più ardente, più vivo, più impegnativo delle più belle testimonianze d'affetto raccontate nelle più celebri storie d'amore. Questi "piccoli voti", secondo una graziosa espressione dei nostri antenati, sembravano crimini a una devota giovinetta che andava a confessarsi ogni quindici giorni! In quell'ora, essa aveva prodigato più tesori dell'anima di quanti, più tardi, ricca e felice, non ne avrebbe dati concedendosi tutta.

- L'affare è fatto - disse Vautrin ad Eugenio. - I nostri due dandy si sono picchiati. Tutto s'è svolto passabilmente. Questione di opinioni. Il nostro piccioncino ha insultato il mio falchetto.

A domani, nel ridotto di Clignancourt. Alle otto e mezza, la signorina Taillefer erediterà l'amore e la ricchezza di suo padre, mentre starà tranquillamente a inzuppare i suoi crostini di pane imburrato nel caffè. Non è buffa a raccontarsi? Quel piccolo Taillefer è molto forte alla spada, ed è pieno di fiducia come se avesse una scala reale in mano; ma sarà salassato da un colpo di mia invenzione, che consiste nel rialzare l'arma e nel colpire in fronte. Vi insegnerò questo colpo, perché è straordinariamente utile.

Rastignac ascoltava stupito, ed era incapace di rispondere. In quel momento giunsero papà Goriot, Bianchon e qualche altro pensionante.

- Ecco come io vi volevo - gli disse Vautrin. - Voi sapete quello che fate. Bene, mio aquilotto! Voi governerete gli uomini; siete forte, quadrato, coraggioso; avete la mia stima.

E volle prendergli la mano. Ma Rastignac ritirò presto la sua, e cadde su di una sedia, impallidendo; credeva di vedere un lago di sangue dinanzi a sé.

- Ah!, abbiamo ancora qualche fascia imbrattata di virtù - disse Vautrin a bassa voce. - Papà d'Oliban ha tre milioni, so a quanto ascende la sua fortuna. La dote vi renderà candido come un abito da sposa, e dinanzi agli stessi vostri occhi.

Rastignac non esitò più. Decise di andare ad avvertire in serata i signori Taillefer padre e figlio. In quel momento, avendolo Vautrin lasciato, papà Goriot gli disse all'orecchio:

- Siete triste, ragazzo mio!, vi rallegrerò io. Venite con me! E il vecchio vermicellaio accese lo stoppino a una lampada. Eugenio lo seguì, pieno di curiosità.

- Entriamo da voi - disse il bonuomo, che s'era fatto dare la chiave della camera dello studente da Silvia. Voi avete creduto questa mattina che lei non vi amasse, eh! - riprese a dire. - Lei vi ha mandato via, e voi ve ne siete andato crucciato, desolato.

Sciocchezze! Aspettava me. Capite? Dovevamo andare a finir di sistemare un gioiello d'appartamento, che andrete ad abitare di qui a tre giorni. Non mi scoprite. Lei vuol farvi una sorpresa, ma io non resisto a tenervi più a lungo nascosto il segreto.

Abiterete in via d'Artois, a due passi dalla via Saint-Lazare. Ci starete come un principe. Abbiamo preso per voi dei mobili come per una sposa. Abbiamo fatto molte cose da un mese a questa parte, senza dirvi nulla. Il mio avvocato si è messo all'opera, mia figlia avrà i suoi trentaseimila franchi all'anno, interesse della dote, e otterrò l'investimento di quegli ottocentomila franchi in redditizi beni al sole.

Eugenio taceva e camminava, con le braccia incrociate, in lungo e in largo, per la sua povera camera in disordine. Papà Goriot colse un momento in cui lo studente gli voltava le spalle, e pose sul caminetto una scatola in marocchino rosso, su cui era impresso in oro lo stemma di Rastignac.

- Mio caro figliolo - disse il povero bonuomo - mi sono cacciato in questa faccenda fino al collo. Ma, vedete, c'era in me molto egoismo, io sono interessato al vostro cambiamento di quartiere.

Non mi direte di no, eh?, se vi domando qualche cosa.

- Che volete?

- Al di sopra del vostro nuovo appartamento, al quinto piano, c'è una stanza annessa, ci potrò abitare, no? Invecchio sempre più, sto troppo lontano dalle mie figlie. Non vi disturberò. Soltanto, starò lì. Voi mi parlerete di lei tutte le sere. Questo non vi darà fastidio, è vero? Quando rientrerete, e io sarò a letto, vi sentirò, e mi dirò: E' stato fino a poco fa con la mia piccola Delfina. L'ha accompagnata al ballo, è felice per merito suo. Se fossi malato, sarebbe un balsamo al mio cuore sentirvi rientrare, muovere, uscire. Ci sarà tanto di mia figlia in voi! Non ci sarà da fare che un passo per trovarsi agli Champs-Elysées, dove loro passano tutti i giorni, le vedrò sempre, mentre ora qualche volta arrivo troppo tardi. E poi lei verrà da voi, forse, la sentirò, la vedrò nella sua vestaglia imbottita da mattina, trotterellare, facendo graziosamente le fusa come una gattina. Da un mese, è tornata come quand'era ragazza: gaia e brillante. La sua anima è in convalescenza, vi deve la felicità. Oh!, io farò per voi l'impossibile. Mi diceva poco fa, rientrando: "Papà, sono tanto felice!". Quando mi dicono rispettosamente "padre", mi gelano; ma quando mi chiamano: "papà", mi sembra di vederle ancora piccoline, e ravvivano tutti i miei ricordi. Mi sento anche di più loro padre. Ho l'illusione che non siano ancora di nessun altro! - Il bonuomo si asciugò gli occhi, piangeva - Era tanto che non avevo più sentito quelle parole, tanto che non mi aveva dato più il braccio! Oh!, sì, sono dieci anni che non cammino più a fianco d'una delle mie figliole. Com'è piacevole sfiorare il suo vestito, mettersi a passo con lei, condividere il suo calore. Insomma, questa mattina ho accompagnato Delfina dappertutto. Entravo con lei nei negozi. E l'ho riaccompagnata a casa. Oh!, tenetemi vicino a voi. Qualche volta potreste aver bisogno di chi ci faccia qualche servigio: io sarò lì pronto. Oh !, se quel grosso ciocco d'Alsaziano morisse, se la sua gotta fosse così spiritosa da salirgli allo stomaco, la mia povera figliola sarebbe felice! Voi diverreste mio genero, sareste agli occhi di tutti suo marito.

Oh!, lei è così infelice per non conoscere nulla dei piaceri del mondo, che le perdono qualsiasi cosa. Il buon Dio deve stare dalla parte dei padri che amano tanto i loro figli. Lei vi vuol troppo bene! - disse scuotendo la testa, dopo una pausa. - Camminando, mi parlava di voi: "E' vero, papà, che è una persona per bene e ha tanto buon cuore! Vi parla di me?". E me ne ha dette tante dalla via d'Artois fino al passaggio dei Panoramas, da farne volumi! E ha versato il suo cuore nel mio. Per tutta la mattina, non mi sentivo più vecchio, non pesavo un'oncia. Le ho detto che mi avevate dato il biglietto da mille franchi. Oh! la mia cara, ne è stata commossa fino alle lacrime. Ma che cosa avete là, sul caminetto? - chiese infine Goriot che moriva d'impazienza vedendo Rastignac immobile.

Eugenio, sbalordito, guardava il suo vicino come un ebete. Quel duello annunciatogli da Vautrin per l'indomani, contrastava così violentemente con le realizzazioni delle sue più care speranze, da fargli provare tutte le sensazioni dell'incubo. Si volse verso il caminetto, vi scorse la scatolina quadrata, l'aprì, e vi trovò dentro un foglio, sotto il quale si trovava un orologio Bréguet.

Sul foglio erano scritte queste parole:

"Voglio che pensiate a me tutte le ore, perché...

Delfina".

Quest'ultima parola doveva certamente alludere a qualche scena svoltasi fra loro. Eugenio ne rimase intenerito. Il suo stemma figurava internamente smaltato nell'oro della cassa dell'orologio.

Questo oggetto, da tanto tempo desiderato, lo stile, la catena, la chiavetta, i fregi, soddisfacevano tutti i suoi gusti. Papà Goriot era raggiante. Egli aveva senza dubbio promesso alla figlia di riferirle ogni minimo effetto della sorpresa che avrebbe prodotto in Eugenio il suo dono, dacché egli rientrava ormai come terzo in quelle giovanili emozioni e non sembrava esserne il meno felice.

Egli voleva già bene a Rastignac, e nei riflessi di sua figlia e in rapporto a se stesso.

- Andate a trovarla, questa sera! Vi aspetta. Quel grosso ciocco dell'Alsaziano cena con la sua ballerina. Ah! ah!, è rimasto come uno stupido, quando il mio avvocato gli ha detto il fatto suo. Non ha avuto il coraggio di dichiarare che ama mia figlia fino all'adorazione? Si provi a toccarla con un dito, e lo ammazzo.

L'idea di sapere la mia Delfina preda di... (e qui sospirò) mi farebbe commettere un delitto: ma il mio non sarebbe un omicidio, perché si tratta solo d'una testa di vitello sul corpo d'un maiale. Mi terrete con voi, non è vero?

- Sì, mio buon papà Goriot, sapete quanto vi voglio bene...

- Lo vedo, voi non vi vergognate di me, voi! Lasciate che vi abbracci - e strinse lo studente fra le braccia. - La renderete felice? Promettetemelo! Ci andrete questa sera, non è vero?

- Oh!, sì. Ma ora devo lasciarvi, per certi affari che non posso rimandare.

- Posso esservi utile in qualche cosa?

- In fede mia, sì! Mentre andrò dalla signora de Nucingen vorrei pregarvi di andare dal signor Taillefer padre, e chiedergli se può accordarmi un colloquio in serata, dovendo parlargli d'una faccenda di somma importanza.

- Ma allora è vero, giovanotto - domandò papà Goriot cambiando espressione - che voi fareste la corte a sua figlia, come dicono questi imbecilli qui sotto? Corpo di mille fulmini! Voi non sapete che cosa sia un pugno alla Goriot. E, se c'ingannaste, non sarebbe questione che d'un pugno. Oh!, questo non è possibile.

- Vi giuro che io amo una sola donna al mondo - rispose lo studente - e lo so solo da un momento fa.

- Ah!, che felicità! - fece papà Goriot.

- Ma - riprese lo studente - il figlio di Taillefer si batte domani, e ho sentito dire che verrà ucciso.

- E che cosa ve ne importa? - chiese Goriot.

- Ma bisogna dirgli che impedisca a suo figlio di recarsi...

esclamò Eugenio.

In quel momento fu interrotto dalla voce di Vautrin, che si fece sentire sulla soglia dell'uscio, cantando:

"O Riccardo, o mio re!

Il mondo ti abbandona".

Brum! brum! brum! brum! brum!

"A lungo ho corso il mondo, E mi si è visto..." Tra, la, la, la, ...

- Signori - gridò Cristoforo - la zuppa è servita, e tutti sono già a tavola.

- Cristoforo - disse Vautrin - va' a prendere una bottiglia del mio vino di Bordeaux.

- Vi piace, I'orologio? - domandò papà Goriot. Lei ha buon gusto, eh? - Vautrin, papà Goriot e Rastignac scesero insieme la scala e a tavola si trovarono, a causa del loro ritardo, vicini. Eugenio ostentò la più grande freddezza a Vautrin durante il pranzo, sebbene quell'uomo, così amabile agli occhi della signora Vauquer, non avesse mai sfoggiato tanto spirito. Fu scoppiettante di arguzie, e seppe trascinare tutti i commensali. Quella sua disinvoltura, quel suo sangue freddo costernavano Eugenio.

- Com'è che oggi vi va così buona? - gli chiese la signora Vauquer. - Siete allegro come un galletto!

- Sono sempre allegro io, quando ho concluso buoni affari.

- Affari? - domandò Eugenio.

- Ebbene, sì. Ho venduto una partita di merci che mi procurerà una discreta percentuale. Signorina Michonneau - aggiunse poi, accorgendosi che la vecchia zitella lo stava guardando - ho forse sul viso qualche tratto che non vi garba, da farmi "l'occhio americano"? Nel caso, ditemelo! E allora lo cambierò, per riuscirvi gradito.

- Poiret, non ci bisticceremo davvero per questo, no? - aggiunse ammiccando al vecchio impiegato.

- Perbacco!, voi dovreste posare per un Ercole Farnese - disse il giovane pittore a Vautrin.

- Giusto!, in fede mia, se la signorina Michonneau poserà da Venere del Père Lachaise - rispose Vautrin.

- E Poiret? - fece Bianchon.

- Oh!, Poiret poserà da Poiret. Sarà il dio dei giardini! - esclamò Vautrin. - Il suo nome deriva da pera...

- Cotta! - riprese Bianchon. - E allora vi troverete tra la pera e il formaggio.

- Ma basta con tutte queste sciocchezze - disse la signora Vauquer - e fareste meglio a offrirci il vostro vino di Bordeaux, di cui vedo una bottiglia che sta qui facendo atto di presenza; essa ci terrà in allegria, senza contare che fa bene allo "stommacco".

- Signori - fece Vautrin - la signora presidentessa ci richiama all'ordine. La signora Couture e la signorina Vittorina non si scandalizzeranno dei vostri discorsi scherzosi, ma rispettate l'innocenza di papà Goriot. Vi offro una piccola "bottigliorama" di vin di Bordeaux, che il nome di Laffitte rende doppiamente illustre: e ciò sia detto senza alcuna allusione politica. Forza, Cinese! - aggiunse guardando Cristoforo, che non si mosse. - Vieni qui, Cristoforo! Come, non senti fare il tuo nome? Cinese, porta i liquidi !

- Ecco, signore - disse Cristoforo presentandogli la bottiglia.

Dopo aver riempito il bicchiere d'Eugenio e quello di papà Goriot, se ne versò lentamente alcune gocce, le gustò, mentre i suoi due vicini bevevano; ma ad un tratto fece una boccaccia.

- Diamine!, sa di turacciolo. Prendi questo per te, Cristoforo, e vaccene a prendere dell'altro; a destra, sai... Siamo sedici, porta giù otto bottiglie.

- Visto che siete in vena di liberalità - disse il pittore - io offrirò le castagne.

- Oh! oh!

- Booououh!

- Prrr!

Ognuno lanciò esclamazioni, che partirono come razzi d'una girandola.

- Andiamo, mamma Vauquer, offritecene due di Champagne - le gridò Vautrin.

- Nientemeno! E perché non chiedermi addirittura tutta la casa?

Due di Champagne! Ma sapete che costano dodici franchi l'una? Io non li guadagno mica, io! Ma se il signor Eugenio vuol pagarle lui, io vi offro il rosolio di ribes.

- Eccola col suo ribes, che purga come la manna - disse lo studente in medicina a bassa voce.

- Vuoi star zitto, Bianchon? - esclamò Rastignac - io non posso sentir parlare di manna senza che lo stomaco... Ebbene sì, vada per lo Champagne, lo pago io aggiunse lo studente.

- Silvia - disse la signora Vauquer - serviteci i biscotti e i pasticcini.

- I vostri pasticcini sono troppo grandi - disse Vautrin - hanno la barba! Ma i biscotti, portateli.

In un momento il vino di Bordeaux circolò, i commensali si animarono, l'allegria raddoppiò. Furono risa sgangherate, tra le quali scoppiarono alcune imitazioni di diverse voci d'animali.

All'impiegato del Museo venne in mente di rifare il grido d'un venditore ambulante parigino che somigliava al miagolio d'un gatto in amore, e subito otto voci mugghiarono simultaneamente le frasi seguenti:

- Arrotinooo!

- ...Miglio per uccellini! - Caramelle, caramelle! - Piatti da accomodare! - Pesce fresco, pesce fresco! Battipanni! - Cenciaiuolo, roba vecchia! - Ciliege dolci!

La palma toccò a Bianchon per il timbro nasale con cui gridò:

- Ombrellaio! Ombrelli da accomodare!

In pochi istanti si generò un chiasso da far scoppiare la testa, una conversazione senza capo né coda, una vera e propria opera che Vautrin dirigeva come un direttore d'orchestra, sorvegliando Eugenio e papà Goriot, i quali apparivano già ubriachi. Con la schiena appoggiata alla sedia, ambedue assistevano a quella insolita confusione con un'aria grave, bevendo poco; entrambi erano preoccupati di quel che dovevano fare durante la serata, ma, tuttavia, non si sentivano la forza d'alzarsi. Vautrin, che seguiva i mutamenti della loro fisionomia guardandoli in tralice, colse il momento in cui i loro occhi vacillarono e sembrarono volersi chiudere, per chinarsi all'orecchio di Rastignac, e dirgli:

- Ragazzino mio, non siamo abbastanza furbi da farla a papà Vautrin, e lui vi vuole troppo bene per lasciarvi commettere qualche sciocchezza. Quando ho deciso di fare qualcosa, solo il buon Dio è così forte da sbarrarmi la strada. Ah!, sarebbe dunque nostra intenzione di andare ad avvertire papà Taillefer, e fare sbagli da scolaretto? Il forno è acceso, la farina è impastata, il pane è sulla pala; domani ne faremo saltare le miche sulla nostra testa mordendolo, e proprio adesso non vorremmo infornare?... No, no; tutto si cuocerà! Se abbiamo ancora qualche piccolo rimorso, la digestione lo porterà via. Mentre noi schiacceremo un sonnellino, il colonnello conte Franchessini aprirà a nostro favore la successione di Michele Taillefer con la punta della propria spada. Ereditando dal fratello, Vittorina avrà quindicimila piccoli franchi di rendita. Ho assunto già informazioni, e so che la successione della madre ammonta a più di trecentomila...

Eugenio sentiva queste parole senza poter rispondere: aveva la lingua incollata al palato, ed era sotto l'azione di una sonnolenza invincibile; vedeva la tavola e i volti dei commensali soltanto attraverso una nebbia luminosa. Presto il rumore si calmò, i pensionanti uscirono a uno a uno. Poi, quando non rimase più che la signora Vauquer, la signora Couture, la signorina Vittorina, Vautrin e papà Goriot, Rastignac vide, come in sogno, la signora Vauquer che prendeva le bottiglie per scolarne il fondo, in modo da riempirne qualcuna.

- Ah!, che pazzi, come sono giovani! - diceva la vedova.

Questa fu l'ultima frase che Eugenio poté capire.

- Solo il signor Vautrin è capace di far questi scherzi - disse Silvia. - Guardate lì Cristoforo, come russa!

- Addio, mammà - fece Vautrin. - Vado a teatro ad ammirare il signor Marty nel "Monte Selvaggio", un grande lavoro tratto dal "Solitario". Se volete, vi ci conduco insieme con le altre signore.

- Grazie - rispose la signora Couture.

- Come, vicina mia ! - esclamò la signora Vauquer - non volete ascoltare un lavoro teatrale ricavato dal "Solitario", l'opera di Atala de Chateaubriand, che ci piaceva tanto di leggere, così bella da farci piangere come tante Maddalene d'Elodia sotto "le tiglie" l'estate scorsa, un lavoro morale, insomma, che può istruire la vostra signorina?

- Non possiamo andare a teatro - rispose Vittorina.

- Eccoli, sono andati, questi due - disse Vautrin muovendo comicamente la testa di papà Goriot e quella d'Eugenio.

Appoggiando la testa dello studente sulla spalliera della sedia, per farlo dormire comodamente, lo baciò con calore sulla fronte e cantò:

Dormite, o dolci amori!

Per voi desto sarò.

- Temo si senta male - disse Vittorina.

- E allora rimanete a curarlo - rispose Vautrin. - Questo - le sussurrò all'orecchio - è il vostro dovere di sposa devota. Il giovane vi adora, e voi sarete la sua mogliettina, ve lo predico.

Insomma, - aggiunse ad alta voce - essi furono stimati in tutto il paese, vissero felici ed ebbero molti figliuoli. Ecco come finiscono tutti i romanzi d'amore. Andiamo, mammà - disse rivolgendosi alla signora Vauquer stringendola per la vita, - mettetevi il cappello, il bell'abito a fiorami, la sciarpa della contessa. Vado intanto a ordinare una carrozza. E uscì cantando:

Sole, sole, o divin sole, tu che le zucche fai maturar...

- Buon Dio! signora Couture, con quell'uomo vivrei felice anche sotto il letto! Guardate - fece poi voltandosi verso il vermicellaio - ecco papà Goriot andato anche lui. A questo vecchio canchero fosse mai venuto in mente una volta di portarmi in"gnisun" posto! Ma sta per cadere per terra, mio Dio! E' indecente però per un uomo d'età smarrire la ragione così. Mi direte che non si può perdere quel che non si ha. Silvia, portatelo in camera sua.

Silvia prese il bonuomo sotto il braccio, lo aiutò a camminare, e lo buttò, vestito com'era, attraverso il letto, come un sacco.

- Povero ragazzo - fece la signora Couture scostando i capelli di Eugenio che gli ricadevano sugli occhi, è come una giovinetta, non sa cosa sia uno stravizio.

- Ah, posso ben dirlo; da trentun anni che gestisco la pensione,- disse la signora Vauquer - mi sono passati parecchi giovanotti per le mani, come suol dirsi; ma non ne ho mai incontrato uno così perbene, così distinto come il signor Eugenio. Quant'è bello quando dorme! Appoggiategli la testa sulla vostra spalla, signora Couture. Però!, cade su quella della signorina Vittorina: c'è un dio per i ragazzi. Bastava poco perché non si rompesse la testa sul pomo della sedia. Fra tutti e due farebbero proprio una bella coppia.

- Ma volete dunque tacere, vicina mia? - esclamò la signora Couture - state dicendo certe cose...

- Ma! - fece la signora Vauquer - tanto non sente nulla. Vieni qui, Silvia, aiutami a vestirmi. Voglio mettermi il busto grande.

- Ah, sì!, il busto grande, dopo aver mangiato? - disse Silvia. - No, no, cercatevi qualcun altro per farvi stringere; non sarò davvero io il vostro assassino. Commettereste una imprudenza che potrebbe costarvi la vita.

- Non fa nulla, bisogna fare onore al signor Vautrin.

- Volete proprio tanto bene ai vostri eredi?

- Basta, Silvia, meno chiacchiere - fece la vedova uscendo.

- Alla sua età! - riprese la cuoca indicando la padrona a Vittorina.

La signora Couture e la sua pupilla, sulla cui spalla Eugenio dormiva, rimasero sole nella sala da pranzo. Il russare di Cristoforo risuonava nella casa silenziosa, e faceva risaltare il tranquillo sonno di Eugenio, che dormiva con infantile leggiadria.

Felice di potersi permettere uno di quegli atti di carità attraverso i quali si effondono tutti i sentimenti della donna e che le faceva sentire, senza commettere peccato, il cuore del giovane battere sul suo, Vittorina aveva nel volto qualcosa di maternamente protettivo, che la rendeva fiera. Tra i mille pensieri che si levavano dal suo cuore, essa avvertiva un tumultuoso moto di voluttà, eccitato dallo scambio d'un giovanile e puro calore.

- Povera cara figliuola! - disse la signora Couture, stringendole la mano. La vecchia signora ammirava quel candido e sofferente sembiante, sul quale era discesa l'aureola della felicità.

Vittorina somigliava a una di quelle ingenue pitture medievali in cui tutti i particolari sono negletti dall'artista, che si è riservato la magia di un pennello calmo e fiero per la figura, d'un tono giallo, ma dove il cielo pare riflettersi con le sue tinte d'oro.

- Eppure, mammà, non ha bevuto più di due bicchieri - fece Vittorina passando le dita fra i capelli d'Eugenio.

- Ma se fosse stato un dissoluto, figlia mia, avrebbe sopportato il vino come tutti gli altri. La sua ebbrezza è il suo miglior elogio.

Il rumore d'una vettura risuonò nella strada.

- Mammà - disse la ragazza - ecco il signor Vautrin. Prendete voi, vi prego, il signor Eugenio. Non vorrei esser vista così da quell'uomo; ha certe espressioni che sporcano l'anima, e certi sguardi che imbarazzano una donna come se le si levasse il vestito.

- No - rispose la signora Couture - tu ti sbagli! Il signor Vautrin è un brav'uomo, un po' sul genere del povero signor Couture, rude ma buono, un burbero benefico.

In quel momento Vautrin entrò piano piano, e contemplò il quadro formato da quei ragazzi, che la luce della lampada sembrava accarezzasse.

- Ebbene! - disse incrociando le braccia - ecco una di quelle scene che avrebbero ispirato qualche bella pagina al buon Bernardin de Saint-Pierre, l'autore di "Paul et Virginie". La giovinezza è una gran bella cosa, signora Couture. Povero ragazzo, dorme - aggiunse guardando Eugenio - il bene scende alcune volte nel sonno. Signora - riprese rivolgendosi alla vedova - quel che mi lega a questo giovane, quel che mi commuove, è il sapere la bellezza della sua anima in armonia con quella del suo viso.

Guardatelo: non vi sembra un cherubino poggiato sulla spalla d'un angelo? E' degno d'essere amato, quello lì. Se fossi donna, vorrei morire (no, non sono così stupido!) vivere, per lui. Ammirandoli così, signora - aggiunse a bassa voce e chinandosi all'orecchio della vedova - non posso fare a meno di pensare che Dio li ha creati per essere l'uno dell'altro. Le vie della Provvidenza sono ben nascoste, essa sonda le reni e il cuore - esclamò ad alta voce. - Nel vedervi uniti, ragazzi miei, uniti da una stessa purezza, da tutti i sentimenti umani, penso sia impossibile che voi siate mai separati in avvenire. Dio è giusto. Ma - disse alla ragazza - mi sembra di aver trovato in voi le linee della fortuna.

Datemi la mano, signorina Vittorina, io m'intendo di chiromanzia, e spesso ho detto la buona ventura. Andiamo, non abbiate paura.

Oh!, che cosa non vedo! In fede di onest'uomo, voi sarete fra breve una delle più ricche ereditiere parigine. Colmerete di felicità colui che vi ama. Vostro padre vi chiama vicino a sé. Vi mariterete a un titolato giovane, bello, che vi adora.

In quel momento i passi pesanti della leziosa vedova che scendeva interruppero le profezie di Vautrin.

- Ecco mammà Vauquerre bella come un astrrro, legata stretta come un salame. Non scoppiamo un pochettino? - le chiese mettendo la mano sulla parte superiore del busto; - le punte di petto stanno molto pigiate, mammà. Se durante la recita dovremo piangere, avverrà un'esplosione; ma io raccoglierò i pezzi con la cura d'un antiquario.

- Conosce il gergo della galanteria francese, costui! - fece la vedova chinandosi all'orecchio della signora Couture.

- Addio, figlioli - riprese Vautrin rivolgendosi ad Eugenio e a Vittorina. - Vi benedico - aggiunse imponendo le mani sul loro capo. - Date retta a me, signorina, gli auguri d'un galantuomo valgono pur qualcosa, devono portarvi fortuna, Dio li ascolta.

- Addio, mia cara amica - disse la signora Vauquer alla pensionante. - Credete - aggiunse a bassa voce - che il signor Vautrin possa avere qualche intenzione a mio riguardo?

- Eh!, eh!

- Ah, mia cara mammà - disse Vittorina sospirando e guardandosi le mani, quando le due donne rimasero sole. - Se quel buon signor Vautrin dicesse la verità !

- Ma basta una cosa sola per questo - rispose la vecchia signora - basta solo che quel mostro di tuo fratello cada da cavallo.

- Oh !, mammà.

- Mio Dio, forse è un peccato augurare il male al proprio nemico - riprese la vedova. - Ebbene, ne farò la penitenza. Ti assicuro che porterò volentieri dei fiori sulla sua tomba. Senza cuore!, egli non ha il coraggio di dire ciò che avrebbe detto sua madre, di cui detiene a tuo danno l'eredità a forza d'imbrogli. Mia cugina possedeva una bella fortuna. Per tua disgrazia, non s'è mai parlato del suo apporto dotale nel contratto.

- Non potrei godere la mia felicità, se dovesse costare la vita a qualcuno - rispose Vittorina. - E se, per essere felice, mio fratello dovesse mancare, preferirei restare sempre qui.

- Mio Dio, come dice quel buon signor Vautrin, che, lo hai sentito, è un uomo religioso - riprese la signora Couture - mi ha fatto piacere di sapere che egli non è incredulo come gli altri, che parlano di Dio con minor rispetto di quanto non ne abbia il diavolo. Ebbene, chi può sapere per quali strade alla Provvidenza piaccia condurci?

Aiutate da Silvia le due donne trasportarono Eugenio nella sua camera, lo coricarono sul letto, e la cuoca gli sbottonò il vestito per farlo star comodo. Prima di lasciare la stanza Vittorina, non appena la sua protettrice ebbe voltato le spalle, impresse un bacio sulla fronte d'Eugenio, con tutta la felicità che doveva causarle quel criminale gesto furtivo. Guardò la sua camera, raccolse, per così dire, in un solo pensiero le mille gioie di quella giornata, ne fece un quadro che rimase a contemplare a lungo, e s'addormentò come la più felice creatura di Parigi. La festicciola col favore della quale Vautrin aveva fatto bere a Eugenio e a papà Goriot vino narcotizzato, significò la sua rovina. Bianchon, mezzo ubriaco, dimenticò d'interrogare la signorina Michonneau a proposito di Ingannalamorte. Se avesse pronunciato questo nome, avrebbe sicuramente destato la prudenza di Vautrin, o, per chiamarlo col suo vero nome, di Jacques Collin, una celebrità della galera. E poi, il nomignolo di Venere del Père-Lachaise fece decidere la signorina Michonneau a consegnare nelle mani della forza il galeotto, proprio nel momento in cui, fidando nella generosità di Collin, stava pensando se non sarebbe stato meglio avvertirlo e farlo evadere durante la notte. E uscì, accompagnata da Poiret, per recarsi dal famoso capo della polizia, al vicolo Sainte-Anne, credendo di aver ancora a che fare con un alto funzionario chiamato Gondureau. Il direttore della polizia giudiziaria la ricevette cortesemente. Poi, dopo un colloquio in cui tutto fu precisato, la signorina Michonneau chiese il liquido con l'aiuto del quale avrebbe dovuto procedere alla verifica del marchio. Dal gesto di contentezza che fece il grand'uomo del vicolo Sainte-Anne nel cercare una fialetta nel cassetto dello scrittoio, la signorina Michonneau capì che in quella cattura si nascondeva qualcosa di più importante dell'arresto d'un semplice forzato. A furia di spremersi il cervello, essa suppose che la polizia sperasse, sulla scorta di certe rivelazioni fatte da alcuni galeotti traditori, di giungere in tempo per mettere le mani su considerevoli valori.

Quando ebbe espresso tali congetture a quella volpe, egli ebbe un sorriso, e volle stornare i sospetti della vecchia zitella.

- V'ingannate - le rispose. - Collin è la "sorbona" più pericolosa che mai si sia trovata nel reparto dei ladri. Ecco tutto. I bricconi lo sanno bene; egli è la loro bandiera, il loro sostegno, insomma il loro Bonaparte; e tutti gli vogliono bene. Questo bel tipo non ci lascerà mai la sua "ghirba" in piazza de Grève.

E poiché la signorina Michonneau non capiva, Gondureau le spiegò le due parole di gergo che aveva usato: "Sorbona" e "ghirba" sono due energiche espressioni del linguaggio dei ladri i quali, loro per primi, hanno sentito la necessità di considerare la testa umana sotto due aspetti. La "sorbona" è la testa dell'uomo vivo, il suo giudizio, il suo pensiero. La "ghirba" è una parola di spregio destinata a significare quanto poco valga la testa, quando essa è stata recisa.

- Collin ci prende in giro - egli disse. - Quando c'imbattiamo in uomini del genere, che sono come sbarre d'acciaio temprate all'inglese, abbiamo la risorsa di ucciderli se, all'atto dell'arresto, si attentano a fare la più piccola resistenza. Noi contiamo, appunto, su qualche via di fatto per uccidere Collin domattina. In questo modo si evitano il processo, le spese di custodia, il nutrimento, e si libera la società da un pericolo. Le procedure, le escussioni dei testimoni, il pagamento delle loro indennità, l'esecuzione, tutto quel che deve legalmente sbarazzarci da tali delinquenti, costano ben più dei mille scudi che riceverete. E poi, si fa economia di tempo. Assestando un bel colpo di baionetta nella pancia di Ingannalamorte, impediremo un centinalo di delitti ed eviteremo la corruttela di cinquanta pessimi soggetti, i quali si terranno prudentemente ai margini della correzionale. Ecco un'azione di polizia ben fatta. Secondo l'avviso dei veri filantropi, procedere così vuol dire prevenire i reati.

- Ma è anche servire il proprio Paese - disse Poiret.

- Ebbene! - replicò il capo - dite cose sensate, questa sera, voi.

Sì certo, noi serviamo il Paese. E la società è ingiusta nei nostri riguardi. Noi le rendiamo grandi servigi, tuttavia ignorati. Ma poi è proprio di un uomo superiore porsi al di sopra dei pregiudizi, è proprio di un cristiano sopportare i guai che il bene porta con sé, quando non è fatto secondo i sani principi.

Parigi è Parigi: questa parola spiega la mia vita. Ho l'onore di salutarvi, signorina. Mi troverò coi miei uomini domani al Giardino del Re. Mandate Cristoforo in via Buffon, dal signor Gondureau, nella casa dov'ero. Signore, servitor vostro. Caso mai vi rubassero qualcosa, servitevi pure di me per farvela ritrovare, sono a vostra disposizione.

- Ebbene! - disse Poiret alla signorina Michonneau - si trovano degli imbecilli che la sola parola polizia mette sotto sopra.

Questo signore è molto amabile, e quanto vi chiede è semplice come dire: buon giorno. - L'indomani doveva essere una delle giornate più straordinarie nella storia della Casa Vauquer. Fino allora, il fatto più saliente di quella vita tranquilla era stata l'apparizione meteorica della falsa contessa de l'Ambermesnil. Ma tutto doveva impallidire dinanzi alle peripezie di quella giornata campale, della quale si sarebbe parlato in eterno nelle conversazioni della signora Vauquer. Innanzi tutto Goriot ed Eugenio de Rastignac dormirono fino alle undici. La signora Vauquer, rientrata a mezzanotte dalla "Gaîté", rimase fino alle dieci e mezza a letto. Il prolungato sonno di Cristoforo, che aveva bevuto i fondi delle bottiglie offerte da Vautrin, causò qualche ritardo nel servizio della casa. Poiret e la signorina Michonneau non si lamentarono del ritardo subìto dalla colazione.

Quanto a Vittorina e alla signora Couture, esse dormirono sino a tardi. Vautrin uscì prima delle otto, e tornò proprio quando la colazione stava per essere servita. Nessuno perciò protestò quando, verso le undici e un quarto, Silvia e Cristoforo bussarono a tutti gli usci per dire che la colazione era pronta. Durante l'assenza di Silvia e del domestico, la signorina Michonneau scese per prima, versò il liquido nella tazza d'argento di Vautrin, dove la crema per il caffè si scaldava a bagno maria, a differenza di tutti gli altri commensali. La vecchia zitella aveva contato su questa particolarità della pensione per fare il suo colpo. Non fu senza qualche difficoltà che i sette pensionanti si trovarono riuniti. Nel momento in cui Eugenio, stirandosi le braccia, scendeva buon ultimo, un fattorino gli consegnò una lettera della signora de Nucingen. La lettera era così concepita:

"Io non ho falsa vanità, né sono in collera con voi, amico mio. Vi ho atteso fino alle due dopo mezzanotte. Attendere una persona amata! Chi ha conosciuto questo supplizio non lo impone a nessuno.

Vedo bene che voi amate per la prima volta. Che cosa mai è accaduto? Sono angustiata. Se non avessi timore di svelare i segreti del mio cuore, sarei venuta a vedere quel che vi capitava, piacevole o spiacevole che fosse. Ma uscire di casa a quell'ora, o a piedi o in carrozza, non avrebbe voluto dire screditarsi? Ho in questa circostanza provato il rammarico d'esser nata donna.

Rassicuratemi, ditemi perché non siete venuto, dopo quanto vi avrà detto mio padre. M'inquieterò, ma vi perdonerò. State poco bene?

Perché abitare così lontano da me? Una parola, per favore! A presto, non è vero? Una parola mi basterà, se siete occupato.

Ditemi solo: o corro da voi, o sto male... Ma se vi trovaste indisposto, mio padre sarebbe venuto a dirmelo! Che cosa dunque è accaduto?...".

- Già, che cosa è accaduto? - esclamò Eugenio, che si precipitò nella sala da pranzo, spiegazzando la lettera senza finire di leggerla. - Che ora è?

- Le undici e mezza - rispose Vautrin inzuccherando il suo caffè.

Il forzato evaso gettò su di Eugenio quello sguardo freddamente ammaliatore che certi uomini eminentemente magnetici hanno il dono di lanciare, e che, si dice, calma i pazzi furiosi nei manicomi.

Eugenio tremò in tutte le sue membra. Il rumore d'un "fiacre" si fece sentire dalla strada, e un domestico che indossava la livrea del signor Taillefer, subito riconosciuto dalla signora Couture, entrò precipitosamente con aria stravolta.

- Signorina - esclamò - il vostro signor padre vi desidera. E' accaduta una grave disgrazia. Il signor Federico s'è battuto al duello, ha ricevuto un colpo di spada in fronte, e i medici disperano di salvarlo; avrete appena il tempo di dirgli addio!, ha perduto conoscenza.

- Povero giovane! - esclamò Vautrin. - Come mai attaccar lite quando si hanno trenta buone mila lire di rendita? E' proprio vero che la gioventù non si sa regolare!

- Signore! - gli gridò Eugenio.

- Ebbene!, cosa, bambinone? - fece Vautrin terminando tranquillamente di bere il caffè, operazione che la signorina Michonneau seguiva troppo attentamente per commuoversi del fatto straordinario che tutti aveva lasciato sorpresi. - Non ci sono forse duelli tutte le mattine, a Parigi?

- Vengo con voi, Vittorina - disse la signora Couture.

E le due donne corsero via senza né scialle né cappello. Prima di uscire, Vittorina, con gli occhi pieni di lacrime, diede a Eugenio uno sguardo come per dirgli: "Non credevo che la nostra felicità dovesse costarmi tante lagrime!".

- Ma!, voi siete dunque profeta, signor Vautrin - chiese la signora Vauquer.

- Io sono ogni cosa - rispose Jacques Collin.

- E' strano davvero! - riprese la signora Vauquer, infilando una dopo l'altra frasi sconnesse sull'accaduto. - La morte ci coglie senza domandarci il permesso. I giovani se ne vanno spesso prima dei vecchi. Fortuna, noi donne, di non dover avere duelli; ma in cambio abbiamo malattie che gli uomini non hanno. Noi facciamo i figli, e il mal di madre dura parecchio! Che terno al lotto per Vittorina! Adesso suo padre sarà costretto a riconoscerla.

- Ecco fatto! - disse Vautrin guardando Eugenio - ieri la ragazza era senza un soldo, e stamane ricca a milioni.

- Dite su, signor Eugenio - esclamò la signora Vauquer - ci avete messo le mani al momento buono!

A questa uscita, papà Goriot guardò lo studente e gli vide nella mano la lettera spiegazzata.

- Non l'avete terminata!, che vuol dir questo?, sareste voi forse come tutti gli altri? - gli domandò.

- Signora, io non sposerò mai la signorina Vittorina - disse Eugenio rivolto alla signora Vauquer, con un senso d'orrore e di disgusto, che sorprese i presenti.

Papà Goriot prese la mano dello studente e gliela strinse. Avrebbe voluto baciargliela.

- Oh, oh! - fece Vautrin. - Gli italiani hanno un buon modo di dire: "col tempo"!

- Attendo la risposta - disse a Rastignac l'inviato della signora de Nucingen.

- Ditele che andrò da lei.

L'uomo uscì. Eugenio era in preda a un violento stato d'eccitazione che non gli consentiva d'esser prudente.

- Che fare? - diceva ad alta voce, parlando a se stesso. - Le prove non ci sono !

Vautrin sorrise. In quel momento la pozione assorbita dal suo stomaco cominciava ad avere effetto. Tuttavia il forzato era così robusto che si levò, guardò Eugenio, e gli disse con voce cupa:

- Giovanotto, la fortuna arriva dormendo. - E cadde stecchito.

- C'è dunque una giustizia divina - disse Eugenio.

- Mio Dio!, e che diamine ora gli prende a questo povero signor Vautrin ?

- Un colpo apoplettico! - gridò la signorina Michonneau.

- Silvia, corri, figlia mia, va subito a chiamare il medico - fece la vedova. - Ah! signor Rastignac, andate presto a cercare il signor Bianchon; Silvia potrebbe non trovare il nostro medico, il signor Grimpel.

Rastignac, felice di avere un pretesto per lasciare quella spaventosa caverna, uscì correndo.

- Cristoforo, su, corri dal farmacista a chiedergli qualcosa contro l'apoplessia. - Cristoforo uscì.

- Andiamo, papà Goriot, aiutateci a trasportarlo su, in camera sua.

Vautrin fu preso, portato su per la scala e messo sul letto.

- Io non vi servo a nulla, vado a vedere mia figlia - disse il signor Goriot.

- Vecchio egoista! - esclamò la signora Vauquer - va', ti auguro di morire come un cane.

- Ma andate a vedere se avete un po' d'etere - fece alla signora Vauquer la signorina Michonneau che, aiutata da Poiret, aveva svestito Vautrin.

La signora Vauquer scese in camera sua, lasciando la signorina Michonneau padrona del campo di battaglia.

- Presto, levategli la camicia e rivoltatelo! Siate dunque buono a qualche cosa ed evitatemi di vedere delle nudità - disse a Poiret.

- Ve ne state lì come Babà.

Rivoltato che fu Vautrin, la signorina Michonneau batté sulla spalla di Vautrin un forte colpo con la mano, e le due fatali lettere ricomparvero, in bianco, nel mezzo della macchia rossa.

- To', vi siete guadagnato presto il compenso di tremila franchi- esclamò Poiret, reggendo ritto Vautrin mentre la signorina Michonneau gli rimetteva la camicia.

- Auf!, quanto pesa - aggiunse stendendolo nuovamente sul letto.

- Statevi zitto. E se ci fosse una cassa? - disse con vivacità la vecchia zitella, i cui occhi sembravano forare i muri, tanta era l'avidità con la quale osservava ogni più piccolo mobile della camera. - Se si potesse aprire questo scrittoio con un qualche pretesto - riprese a dire.

- Non sarebbe forse cosa ben fatta - riprese Poiret.

- E perché? Il denaro rubato, essendo stato di tutti, non è più di nessuno. Ma è che ci manca il tempo - essa rispose. - Sento venire la Vauquer.

- Ecco l'etere - disse la signora Vauquer. - Ma davvero che oggi è proprio la giornata delle avventure. Dio !, quell'uomo non può essere malato, è bianco come un pollo.

- Come un pollo? - ripeté Poiret.

- Il cuore è regolare - disse la vedova ponendogli la mano sul cuore.

- Regolare? - fece Poiret meravigliato.

- Ottimo.

- Vi sembra? - domandò Poiret.

- Diamine!, pare che dorma. Silvia è andata a cercare un medico.

Guardate, signorina Michonneau, aspira l'etere. Ma!, sarà uno "spasso" (e voleva dire: uno spasmo). Il polso è buono. Lui è forte come un Turco. Vedete, signorina, che pelliccetta ha sullo stomaco ? Costui vivrà cent'anni! La sua parrucca non s'è neppure mossa. To, è incollata e ha i capelli finti, perché è di pelo rosso. Dicono che i rossi o sono ottimi o pessimi! E lui, allora, sarebbe buono?

- Per essere appeso - disse Poiret.

- Volete dire al collo d'una bella donna - esclamò vivamente la signorina Michonneau. - Andatevene, signor Poiret. Sta a noi curarvi, quando siete ammalati. E poi, per quel che siete buono a fare, potete pure andarvene a spasso - aggiunse. - Bastiamo la signora Vauquer e io a sorvegliare questo nostro caro signor Vautrin.

Poiret se ne andò pian piano e senza fiatare, come un cane cui il padrone ha dato un calcio. Rastignac era uscito per camminare, per prendere aria: soffocava. Quel delitto consumato ad ora stabilita, aveva cercato d'impedirlo, il giorno avanti. Che cosa era accaduto? Che cosa doveva fare? Tremava d'esserne il complice. Il sangue freddo di Vautrin anche adesso lo spaventava.

"Se ora Vautrin morisse senza più riprendere la parola?", si chiedeva Rastignac. Passava per i viali del Luxembourg come se fosse stato inseguito da una muta di cani, e gli sembrava di udirne i latrati.

- Di' - gli gridò Bianchon - hai il "Pilote"?

"Le Pilote" era un giornale radicale diretto dal signor Tissot, e che pubblicava per la provincia, qualche ora dopo i quotidiani del mattino, un'edizione che dava le notizie del giorno, in modo da farle arrivare nei dipartimenti ventiquattro ore prima degli altri giornali.

- E' riportato un fatto straordinario - disse lo studente medico dell'ospedale Cochin. - Taillefer figlio si è battuto in duello col conte de Franchessini della vecchia guardia, che gli ha infilato due pollici di ferro in fronte. E la piccola Vittorina è diventata uno dei più ricchi partiti di Parigi. Ma dimmi un po', ad averlo saputo? Che "trenta e quaranta" [gioco d'azzardo] è mai la morte! E' vero che Vittorina ti guardava con simpatia - Taci, Bianchon, quella non la sposerò mai. Io amo una donna deliziosa, io ne sono amato, io...

- Dici questo come se invano ti tormentassi per non essere infedele. Dimmi qual è la donna che valga il sacrificio della ricchezza del sire di Taillefer?

- Tutti i diavoli dunque mi vengono dietro? esclamò Rastignac.

- E dove mai ne avresti tu dietro? Sei forse pazzo? Dammi qui la mano - disse Bianchon - per sentirti il polso. Ma tu hai la febbre !

- Va da mamma Vauquer - gli fece Eugenio - quello scellerato di Vautrin è cascato come morto.

- Ah! - disse Bianchon, che lasciò Rastignac solo - tu mi confermi dei sospetti che andrò a controllare.

La lunga passeggiata dello studente in diritto fu solenne. Egli fece in certo modo il suo completo esame di coscienza. Vagabondò, esaminò, esitò, ma per lo meno la sua probità uscì, da quell'aspro e terribile colloquio con se stesso, provata come una sbarra di ferro che resiste a ogni colpo. Si rammentò delle confidenze fattegli da papà Goriot il giorno prima, dell'appartamento scelto per lui vicino a Delfina, in via d'Artois; riprese la lettera, la rilesse, la baciò. "Un tale amore è la mia àncora di salvezza", si disse. "Il cuore di questo povero vecchio ha ben sofferto. Egli non dice nulla dei suoi dolori, ma chi non li indovinerebbe?

Ebbene, io avrò cura di lui come d'un padre, gli procurerò mille gioie. Se mi vuol bene, lei verrà spesso da me a passare la giornata vicino a lui. Quella gran contessa de Restaud è una infame che farebbe di suo padre un portinaio. Cara la mia Delfina!, lei è più buona col brav'uomo, è degna d'essere amata.

Ah!, stasera sarò dunque felice!". Cavò fuori l'orologio, lo ammirò.

"Tutto mi è andato bene! Quando ci si ama per sempre, ci si può aiutare, posso accettare questo dono. E poi, io farò fortuna, e potrò ricambiare tutto, centuplicato. Nel mio legame non c'è né colpa, né nulla che possa far aggrottar le ciglia alla più severa virtù. Quante oneste persone non contraggono simili unioni? Noi due non inganniamo nessuno e solo la menzogna ci avvilirebbe.

Mentire non è come abdicare? Lei s'è da tempo ormai divisa da suo marito. Del resto, sarò io a dire a quell'Alsaziano di cedermi una moglie che gli è impossibile render felice".

La lotta interiore di Rastignac durò a lungo. Sebbene la vittoria dovesse arridere alla virtù giovanile, egli fu tuttavia ricondotto da una invincibile curiosità, verso le quattro e mezza, al cader della notte, verso la Casa Vauquer, che si riprometteva di lasciare per sempre. Egli voleva sapere se Vautrin era morto. Dopo aver avuto l'idea di somministrargli un emetico, Bianchon aveva fatto mandare al suo ospedale quanto Vautrin aveva rigettato, per farne l'analisi chimica. Notando l'insistenza della signorina Michonneau per fare buttar via tutto, i suoi dubbi si rafforzarono; del resto, Vautrin si ristabilì troppo presto perché Bianchon non supponesse un qualche complotto ordito contro il capo ameno della pensione. Quando Rastignac rientrò, Vautrin stava in piedi vicino alla stufa della sala da pranzo. Richiamati più presto del solito dalla notizia del duello di Taillefer figlio, i pensionanti, curiosi di conoscere i particolari del fatto e le conseguenze di esso sulla sorte di Vittorina, se ne stavano riuniti, ad eccezione di papà Goriot, e parlavano di quanto era accaduto. Quando Eugenio entrò, i suoi occhi incontrarono quelli dell'imperturbabile Vautrin, il cui sguardo penetrò così addentro nel suo cuore e vi rimescolò tanto fortemente alcune corde malefiche, da farlo rabbrividire.

- Ebbene, caro figliuolo - gli disse il forzato evaso - la "Camusa" avrà da fare a lungo prima di prendermi. A quel che dicono queste signore, ho superato vittoriosamente uno colpo apoplettico che avrebbe potuto uccidere un bue.

- Ah!, potete pur dire un toro - esclamò la vedova Vauquer.

- Vi dispiacerebbe forse di vedermi ancor vivo? - disse Vautrin all'orecchio di Rastignac, di cui credette d'indovinare il pensiero. - Sarebbe segno che siete un uomo diabolicamente forte!

- Ah, in fede mia ! - disse Bianchon - la signorina Michonneau parlava ieri l'altro d'un tale soprannominato Ingannalamorte; quel nome vi starebbe proprio bene.

Queste parole produssero su Vautrin l'effetto della folgore; egli impallidì e vacillò, il suo sguardo magnetico cadde come un raggio di sole sulla signorina Michonneau, cui quel getto di volontà spezzò le gambe. La vecchia zitella si lasciò scivolare su di una sedia. Poiret si fece avanti con vivacità e si mise tra lei e Vautrin, avendo capito che essa era in pericolo, tanto la faccia del forzato divenne ferocemente espressiva nel gettare la maschera bonaria sotto la quale si nascondeva la sua vera natura. Senza ancora comprendere nulla di quel dramma tutti i pensionanti rimasero attoniti. In quel momento, si udirono i passi di molti uomini, e il rumore di alcuni fucili che dei soldati battevano sul selciato della strada. Mentre Collin cercava macchinalmente una via d'uscita guardando le finestre e i muri, quattro uomini comparvero sulla soglia dell'uscio della sala. Il primo era il capo della polizia, gli altri tre erano ufficiali della polizia municipale - In nome della legge e del re - disse uno di questi, le cui parole furono coperte da un mormorio di stupore. Sùbito il silenzio regnò nella sala da pranzo, i pensionanti si separarono per lasciar passare i tre, che avevano tutti la mano entro la tasca di fianco, dov'era una pistola carica. Due gendarmi di scorta agli agenti sbarrarono la porta della sala; e altri due occuparono quella che dava sulla scala. Il passo e i fucili di molti soldati risuonarono sull'acciottolato che correva lungo la facciata della casa. Ogni speranza di fuga fu dunque tolta a Ingannalamorte, sul quale tutti gli sguardi conversero irresistibilmente.

Il capo della polizia andò diritto innanzi a lui e gli diede sulla testa un manrovescio così forte, da fargli saltar via la parrucca ridando alla testa di Collin tutto il suo orrore. In armonia col corpo, quella testa e quella faccia, incorniciata da quei capelli corti, rosso-mattone, che davano a esse uno spaventevole carattere di forza e insieme d'astuzia furono messe appropriatamente in luce, come se il fuoco dell'inferno le avesse rischiarate. Ognuno conobbe allora veramente chi era Vautrin, il suo passato, il suo presente, il suo avvenire, le sue teorie implacabili, la religione del suo arbitrio, la regalità che gli conferiva il cinismo dei suoi giudizi, delle sue azioni, e la forza di un complesso psicologico capace di tutto. Il sangue gli salì al viso, e i suoi occhi brillarono come quelli di un gatto selvatico. Balzò su se stesso con un movimento improntato a una ferocia tanto energica, ruggì tanto forte da strappar grida di terrore a tutti i pensionanti. A quel gesto di leone, e approfittando del clamore generale, gli agenti trassero le pistole. Collin capì il pericolo che correva vedendo rilucere il cane d'ogni arma, e diede subito la prova della maggior potenza umana. Orribile e pur maestoso spettacolo!, la sua fisionomia mostrò un fenomeno che non può esser paragonato se non a quello d'una caldaia piena di quel vapore fumoso capace di sollevare le montagne, che dissolve in un batter d'occhio una goccia d'acqua fredda. La goccia d'acqua che raffreddò la sua ira fu una riflessione rapida come un baleno.

Egli si mise a sorridere e guardò la sua parrucca.

- Oggi non sembri molto cortese - disse al capo della polizia. E tese le mani ai gendarmi, facendo loro un cenno con la testa.

Signori gendarmi, mettetemi le manette o le catenelle. Chiamo a testimoni i presenti che non faccio resistenza. - Un mormorio d'ammirazione, strappato dalla prontezza con cui la lava e il fuoco uscirono e rientrarono in quel vulcano umano, risuonò nella sala. - ... signor smargiasso - riprese a dire il forzato guardando il celebre direttore della polizia giudiziaria.

- Andiamo, spogliatevi - gli disse l'uomo del vicolo Sainte-Anne, con un'aria sprezzante.

- Ma come? - disse Collin - ci sono delle signore. Non nego nulla, e mi arrendo.

Tacque un istante, e guardò i presenti come un oratore che sta per dire cose sorprendenti.

- Scrivete, papà Lachapelle - disse poi rivolto a un vecchietto dai capelli bianchi, che s'era seduto all'estremità della tavola dopo aver cavato fuori da un portafogli il processo verbale dell'arresto. - Riconosco di essere Jacques Collin, detto Ingannalamorte, condannato a vent'anni di ferri, e vi proverò di non aver rubato il mio soprannome. Se avessi soltanto alzato la mano - disse ai pensionanti, - quelle tre spie là avrebbero fatto spargere tutto il mio sangue sul pavimento della casa di mammà Vauquer. Quelle birbe son sempre dietro a tendere trappole !

La signora Vauquer si sentì male all'udire tali parole.

- Mio Dio!, c'è da farne una malattia; e pensare che ieri ero con lui alla "Gaîté" - disse a Silvia.

- Un po' di filosofia, mammà - riprese Collin. - E' forse una disgrazia essere stata nel mio palco, ieri, alla "Gaîté"? - esclamò. - Credete d'esser migliore di noi? Noi abbiamo meno infamia sulla spalla che non ne avete voi nel cuore, membri flaccidi di una società cancrenosa: il migliore tra voi non reggerebbe al mio confronto. - I suoi occhi si fissarono su Rastignac, al quale rivolse un sorriso grazioso che contrastava singolarmente con la rude espressione del viso.- -Il nostro contrattino è sempre in essere, angelo mio, purché, s'intende, venga accettato! Non è così? - E cantò:

La mia Fanchette è deliziosa Nella sua semplicità.

- Non vi preoccupate - egli riprese - so fare le mie riscossioni.

Si ha troppa paura di me perché ci si provi a derubarmi!

Il bagno penale coi suoi costumi e il suo linguaggio, con i suoi bruschi passaggi dal faceto all'orrendo, la sua terrificante grandezza, la sua familiarità, la sua bassezza, fu ad un tratto rappresentato da quella frase e da quell'uomo, che non fu più un uomo, ma il tipo di tutta una classe degenerata, d'una categoria selvaggia e logica, brutale e scaltra. In un momento Collin divenne un poema infernale ove si trovarono raffigurati tutti i sentimenti umani, meno uno: il pentimento. Il suo sguardo era quello dell'arcangelo caduto, che vuole sempre far guerra.

Rastignac abbassò gli occhi accettando quella parentela delittuosa come una espiazione dei suoi cattivi pensieri.

- Chi mi ha tradito? - chiese Collin, muovendo il suo terribile sguardo sui presenti. E fermandolo sulla signorina Michonneau: Tu - le disse - vecchia cagna, sei tu che mi hai provocato un finto sturbo, arnese di polizia! Basterebbe che dicessi due parole per farti tagliare il collo in otto giorni. Ma ti perdono, perché sono cristiano. Del resto non sei tu che mi hai tradito. Chi allora?

Ah! ah!, state rovistando lassù, eh? - gridò sentendo gli ufficiali della forza pubblica che stavano aprendo gli armadi e sequestrando la sua roba. - Ma gli uccelli hanno preso il volo da ieri. E voi non ne saprete mai nulla. I miei libri di commercio sono qui - disse battendosi con una mano la fronte. Ora so chi mi ha tradito. Non può essere stato che quel mascalzone di Fil di Seta. Non è vero, padre accalappiatore? - chiese al capo della polizia. - Questo va troppo bene d'accordo col fatto di cercare i biglietti di banca lassù. Ma ormai non c'è più nulla, mia cara Miette ! Quanto a Fil di Seta, costui sarà soppresso entro quindici giorni, anche se lo faceste sorvegliare da tutta la vostra gendarmeria. Quanto le avete dato, a questa Michonnette? - domandò ai funzionari della polizia - qualche migliaio di scudi!

Io valevo di più, Ninon cariata, Pompadour stracciona, Venere da Père-Lachaise. Se mi avessi avvertito, avresti ricevuto seimila franchi. Ah!, non te lo credevi, vecchia ruffiana, eh?, altrimenti avrei avuto la preferenza. Sì, te li avrei dati volentieri, per evitare un viaggio che mi secca e mi fa perdere dei soldi - diceva mentre gli mettevano le manette. - Quella gente ci prenderà gusto a farmi perdere chissà quanto tempo per rintronarmi. Se mi mandassero subito al bagno penale, potrei tornare presto alle mie occupazioni, malgrado i nostri allocchi del quai des Orfèvres. Una volta laggiù, si faranno in quattro per far evadere il loro generale, questo buon Ingannalamorte! C'è forse uno solo di voi che abbia come ho io, più di diecimila fratelli pronti a far qualsiasi cosa per lui? - chiese con fierezza. - Qui c'è della bontà - aggiunse battendosi sul cuore - io non ho mai tradito nessuno. To', guardali, cagna - fece rivolgendosi alla vecchia zitella. - Di me hanno paura, costoro, ma tu fai voltar loro lo stomaco. Prenditi ora il tuo premio. - E tacque un istante, guardando i pensionanti. - Ma siete proprio così sciocchi voialtri? Non avete mai visto un forzato? Un forzato della tempra di Collin, qui presente, è un uomo meno vile degli altri, il quale protesta contro le profonde disillusioni che provoca il contratto sociale, come dice Jean-Jacques, di cui mi vanto d'essere allievo.

E poi, io sono solo contro il governo con tutta la sua impalcatura di tribunali, di gendarmi, di bilanci, e io l'intrappolo.

- Càspita - disse il pittore - ci sarebbe da fare un disegno stupendo.

- Di', aiutante di monsignore il boia, manovratore della "Vedova" (nome denso di tremenda poesia che i forzati danno alla ghigliottina) - aggiunse Vautrin rivolgendosi al capo della polizia - sii buono, dimmi se è stato Fil di Seta a tradirmi! Non vorrei che la pagasse per un altro, non sarebbe giusto.

In quel momento gli agenti, che avevano rovistato e inventariato ogni cosa nella sua camera, rientrarono e parlarono a bassa voce col capo della spedizione. Il processo verbale era stato chiuso.

- Signori - disse Collin rivolto ai pensionanti - stanno per portarmi via. Voi siete stati tutti molto buoni con me durante la mia permanenza qui, e ve ne sarò riconoscente. Accogliete il mio saluto. Mi permetterete di mandarvi un po' di fichi della Provenza. - Fece qualche passo, e si voltò per guardare Rastignac.

- Addio, Eugenio-disse con una voce dolce e triste, che contrastava singolarmente col tono brusco delle sue precedenti parole. - Se dovessi trovarti in difficoltà, ricordati che ti ho lasciato un amico affezionato. - Sebbene avesse le manette ai polsi, riuscì a mettersi in guardia, eseguì un attacco battendo il piede, da maestro di scherma, gridò: - Uno! Due! - e avanzò il piede destro. - In caso di pericolo, rivolgiti là. Puoi disporre dell'uomo e del suo denaro.

Il singolare personaggio pronunciò queste ultime parole con un tono alquanto buffonesco, in modo da poter essere compreso soltanto da Rastignac. Quando i gendarmi, i soldati e gli agenti di polizia ebbero lasciata la casa, Silvia, che era intenta a bagnare d'aceto le tempie della padrona, guardò i pensionanti stupiti.

- Eppure - disse - era un brav'uomo!

Questa frase ruppe l'incanto che i molteplici e vari sentimenti provocati da quella scena avevano prodotto in ciascuno dei presenti. In quell'istante, dopo essersi reciprocamente e tacitamente interrogati, videro tutti insieme la signorina Michonneau, gracile, secca e fredda come una mummia, accovacciata vicino alla stufa, gli occhi bassi, come se avesse temuto che l'ombra del paralume non fosse così forte da nascondere l'espressione dei suoi sguardi. La figura di quella donna, antipatica a tutti da vario tempo, venne subito compresa. Un mormorio che, per esser perfettamente all'unisono, manifestava un unanime senso di disgusto, risuonò sordamente. La signorina Michonneau lo sentì, e rimase immobile. Bianchon, per il primo, si chinò verso il vicino:

- Me ne vado, se quella donna continuerà a mangiare con noi disse a bassa voce.

In un batter d'occhio, ognuno, ad eccezione di Poiret, approvò quanto detto dallo studente in medicina, che, forte dell'adesione generale, si fece avanti al vecchio pensionante.

- Voi che siete così amico della signorina Michonneau - gli disse - parlatele e fatele comprendere che se ne deve andare all'istante.

- All'istante? - ripeté Poiret sorpreso.

Poi, andò vicino alla vecchia, e le disse qualche parola all'orecchio.

- Ma io ho pagato la retta, e ho diritto di stare qui come tutti gli altri - disse lanciando uno sguardo di vipera sui pensionanti.

- Se è per questo, ci quoteremo per restituirvene la somma - fece Rastignac.

- Il signore difende Collin - essa rispose dando allo studente uno sguardo velenoso e indagatore - e non è difficile sapere il perché!

A tale parola, Eugenio balzò come per scagliarsi contro la vecchia zitella e strozzarla. Quello sguardo, di cui comprese la perfidia, aveva gettato una orribile luce nella sua anima.

- Lasciatela, dunque - esclamarono i pensionanti.

Rastignac incrociò le braccia e tacque.

- Finiamola con questa signorina Giuda - disse il pittore, rivolgendosi alla signora Vauquer. - Signora, se non mettete alla porta la Michonneau, noi lasceremo tutti la vostra baracca, e diremo dappertutto che la frequentavano solo spie e forzati. In caso contrario, nessuno di noi farà parola di questo fatto che, in fin dei conti, potrebbe accadere anche nella migliore società, finché ai galeotti non verrà impresso un marchio in fronte e non verrà loro proibito di travestirsi da borghesi parigini, e di mostrarsi così sciocchi capi ameni come lo sono tutti.

A quel discorso, la signora Vauquer ritornò subito miracolosamente in salute, si alzò, incrociò le braccia, aprì i suoi occhi chiari e senza tracce di lacrime.

- Ma, signor mio, volete proprio la rovina della mia casa? Ecco che ora il signor Vautrin... Oh !, santo Dio - disse interrompendosi - non posso fare a meno di chiamarlo col suo nome di persona per bene! Ecco, - riprese - che ora mi si fa vuoto un appartamento, e volete pure che ne debba avere due di più da affittare in una stagione in cui tutti stanno a casa loro?

- Signori, prendiamo il cappello, e andiamo a mangiare a piazza della Sorbonne, da Flicoteaux - disse Bianchon. La signora Vauquer calcolò con un solo colpo d'occhio il partito più vantaggioso, e si precipitò dinanzi alla signorina Michonneau.

- Andiamo, bellezza mia, non vorrete mica la fine della mia pensione, no? Vedete a che punto mi fanno arrivare questi signori, risalite nella vostra camera, per questa sera.

- Niente affatto, niente affatto! - gridarono i pensionanti - noi esigiamo che se ne vada all'istante.

- Ma non ha ancora pranzato, la povera signorina - disse Poiret in tono supplichevole.

- Andrà a mangiare dove vuole - gridarono più voci.

- Alla porta, la spia !

- Alla porta, gli spioni!

- Signori - esclamò Poiret che si erse a un tratto all'altezza del coraggio dato dall'amore ai montoni - rispettate una donna!

- Le spie non hanno sesso - disse il pittore.

- Bel sessorama!

- Alla portorama!

- Signori, questo è indecente. Quando si manda via qualcuno, bisogna almeno salvare la forma. Noi abbiamo pagato, e restiamo- disse Poiret calcando il suo berretto e mettendosi a sedere vicino alla signorina Michonneau, che la signora Vauquer stava catechizzando.

- Cattivello - gli disse il pittore con aria comica - cattivello, andiamo!

- Insomma, se non ve ne andate voi, ce ne andiamo noi - disse Bianchon.

E i pensionanti mossero tutti insieme verso il salotto.

- Signorina, vedete? - esclamò la signora Vauquer - sono rovinata.

Non è più possibile che voi restiate, costoro finiranno per scendere ad atti di violenza.

La signorina Michonneau si alzò.

- Se ne andrà! Non se ne andrà! Se ne andrà. Non se ne andrà!

Queste parole dette alternativamente, e l'ostilità dei discorsi che si cominciavano a fare su di lei, costrinsero la signorina Michonneau ad andarsene, dopo alcuni accordi presi a bassa voce con la padrona.

- Andrò dalla signora Buneaud - disse, con aria minacciosa.

- Andate pure dove volete, signorina - fece la signora Vauquer, che trovò ingiuriosa la scelta d'una pensione che rivaleggiava con la sua, e che per conseguenza le era odiosa. - Andate dalla Buneaud, e avrete aceto per vino, cibi rifatti.

I pensionanti si disposero su due file, osservando il più profondo silenzio. Poiret guardò così teneramente la signorina Michonneau, si mostrò così ingenuamente indeciso se seguirla o restare, che i pensionanti, esultando poiché la signorina Michonneau se ne andava, si misero a ridere.

- Xi, xi, xi, Poiret - gli gridò il pittore. - Andiamo, oplà, op!

L'impiegato al Museo si mise a cantare comicamente le prime parole di una nota romanza:

Partendo per la Siria Il giovane e bel Dunoy...

- Andiamo, che morite d'invidia, "trahit sua quemque voluptas" - disse Bianchon.

- Ognuno segue la sua: libera traduzione di Virgilio - fece il ripetitore.

La signorina Michonneau fece il gesto di prendere il braccio di Poiret, guardandolo, e lui, non sapendo come resistere a quell'invito, accorse a darglielo. Scoppiarono applausi e ci fu un'esplosione di risa.

- Bravo, Poiret! - Questo vecchio Poiret! Apollo-Poiret! Marte- Poiret. - Che coraggio, questo Poiret!

In quel momento entrò un commissionario e consegnò una lettera alla signora Vauquer, che, dopo averla letta, cadde di peso su di una sedia.

- Non rimane altro che bruciare la mia casa, c'è caduto sopra un fulmine. Taillefer figlio è spirato alle tre. Sono stata proprio punita di aver augurato il bene a quelle due donne, a scapito di questo povero giovane. La signora Couture e Vittorina mi chiedono le loro cose, e vanno a stabilirsi presso il signor Taillefer.

Egli concede alla figlia di tenere con sé la vedova Couture come dama di compagnia. Quattro appartamenti vuoti, cinque pensionanti di meno. - Si sedette e sembrò stesse per piangere - La disgrazia è entrata oggi in casa mia! esclamò desolata.

Il rumore d'una vettura che si fermava risuonò a un tratto dalla strada.

- Qualche altro guaio - disse Silvia.

Ed ecco apparire Goriot con un viso luminoso e colorito di felicità, da far credere a una sua rigenerazione.

- Goriot in carrozza! - dissero i pensionanti - ma è proprio la fine del mondo.

Il bonuomo andò diritto da Eugenio, rimasto pensoso in un canto, e lo prese per il braccio:

- Andiamo - gli disse con aria allegra.

- Ma non sapete quel che è successo? - gli domandò Eugenio.

- Vautrin era un forzato, ed è stato arrestato poco fa; il figlio di Taillefer è morto.

- Ebbene, che ce ne importa? - rispose papà Goriot.- Io pranzo con mia figlia nel vostro appartamento, capite? Lei vi sta aspettando, venite!

Tirò così violentemente Rastignac per il braccio, da farlo camminare per forza, e parve rapirlo, come se si fosse trattato della sua amante.

- Mangiamo! - esclamò il pittore.

Ognuno prese allora la propria sedia e si mise a tavola.

- Ma insomma - disse la grossa Silvia - oggi tutto va male, l'umido di castrato con patate s'è attaccato! Be', lo mangerete bruciato lo stesso!

La signora Vauquer non ebbe il coraggio di dire una parola nel vedere solo dieci persone invece di diciotto intorno alla tavola; ma tutti cercarono di consolarla e di farla stare allegra.

Dapprima i clienti che prendevano solo i pasti alla pensione parlarono di Vautrin e degli avvenimenti della giornata, e seguirono l'andamento serpentino della conversazione mettendosi a discorrere di duelli, del bagno penale, della giustizia, delle leggi da rifare, delle carceri. Poi finirono col trovarsi ben lontani da Jacques Collin, da Vittorina e da suo fratello. Sebbene fossero soltanto dieci, gridarono per venti in modo da sembrare più numerosi del solito; e fu la sola differenza tra quel pranzo e quello del giorno prima. L'indifferenza abituale di tale mondo egoista che, l'indomani, doveva trovare negli eventi quotidiani di Parigi un'altra preda da divorare, riprese il sopravvento e la stessa signora Vauquer si lasciò calmare dalla speranza, che assunse in tale occasione la voce della grossa Silvia.

Quella giornata doveva essere fino alla sera una fantasmagoria per Eugenio, il quale, malgrado la forza del suo carattere e la bontà del suo animo, non sapeva come connettere le proprie idee, quando si trovò in carrozza a fianco di papà Goriot, i cui discorsi rivelavano una gioia inconsueta, e risuonavano al suo orecchio, dopo tante emozioni, come le parole che udiamo in sogno.

- Da questa mattina è finita. Pranziamo tutti e tre insieme, insieme!, capite? Erano quattro anni che non pranzavo più con la mia Delfina, la mia piccola Delfina. L'avrò con me per tutta una sera. Abbiamo preso possesso del vostro appartamento da questa mattina. Ho lavorato come un facchino, in maniche di camicia. Ho aiutato a portare i mobili. Ah! ah!, non avete mai veduto com'è graziosa a tavola, vedrete quante attenzioni avrà per me:

"Prendete, papà mangiate questo, sentite com'è buono". Ed è allora il momento che io non posso mangiare. Oh!, è tanto che non sono stato un po' tranquillo insieme a lei, come tra poco lo saremo!

- Ma - gli disse Eugenio - oggi il mondo s'è proprio capovolto?

- Capovolto - rispose papà Goriot. - Ma in nessuna epoca il mondo è andato così bene. Io non vedo che facce allegre per le strade, persone che si stringono la mano, persone felici come se andassero tutte a mangiare dalla loro figlia, a gustarvi un buon pranzetto ordinato da lei davanti a me al capo cuoco del Caffè degli Inglesi. Ma!, vicino a lei anche l'aloe sarebbe dolce come il miele.

- Mi pare di risorgere - disse Eugenio.

- Ma camminate!, vetturino - gridò papà Goriot aprendo il vetro davanti. - Andate più svelto, vi darò cento soldi di mancia se mi portate in dieci minuti dove vi ho detto. - Al sentir questa promessa il vetturino traversò Parigi con la rapidità d'un lampo.

- Non va, questo vetturino - diceva papà Goriot.

- Ma dove diamine mi portate? - gli chiese Rastignac.

- A casa vostra - rispose papà Goriot.

La vettura si fermò in via d'Artois. Il bonuomo scese per primo e buttò dieci franchi al vetturino con la prodigalità di chi, rimasto vedovo, nel parossismo della sua felicità non bada più a niente.

- Andiamo, saliamo - disse a Rastignac facendogli attraversare un cortile e conducendolo alla porta d'un appartamento al terzo piano, situato nella parte posteriore d'una casa nuova e di bella apparenza. Papà Goriot non ebbe bisogno di suonare. Teresa, la cameriera della signora de Nucingen, aprì la porta. Eugenio si trovò in un delizioso appartamento da scapolo, composto di un'anticamera, d'un salottino, d'una camera da letto e di uno studio, che davano su di un giardino. Nel salottino, il cui mobilio e arredamento potevano sostenere il confronto con quanto vi poteva essere di più carino, di più grazioso, egli scorse, alla luce delle candele, Delfina, che si alzò da un divano, vicino al fuoco, dispose un parafuoco sul caminetto, e gli disse con un tono di voce pieno di tenerezza:

- Vi si è dunque dovuto cercare, signore che non capite nulla.

Teresa uscì. Lo studente prese Delfina fra le braccia, la strinse vivamente e pianse di gioia. Quest'ultimo contrasto tra quel che vedeva e quel che or ora aveva veduto, in una giornata in cui tante emozioni avevano stancato il suo cuore e la sua testa, provocò in Rastignac un accesso di sensibilità nervosa.

- Lo sapevo bene che ti amava - disse piano papà Goriot a sua figlia, mentre Eugenio sfinito giaceva sul divano senza poter pronunciare una parola né rendersi ancora conto del modo in cui quest'ultimo colpo di bacchetta magica era stato dato.

- Ma venite a vedere - gli disse la signora de Nucingen prendendolo per mano e conducendolo in una camera i cui tappeti, i mobili e i minimi dettagli gli ricordarono, in più piccole proporzioni, quella di Delfina.

- Ci manca un letto - fece Rastignac.

-E' vero, signore - essa rispose arrossendo e stringendogli la mano.

Eugenio la guardò, e apprezzò il sentimento di pudore contenuto nel cuore d'una donna innamorata, ancor giovane.

- Voi siete una di quelle creature degne d'una adorazione senza fine - le disse all'orecchio. - Sì, oso dirvelo, visto che ci comprendiamo tanto bene: più vivo e sincero è l'amore, e più esso dev'essere velato, misterioso. Non sveliamo il nostro segreto a nessuno.

- Oh!, ma io non sarò qualcuno, non è vero? - disse papà Goriot, brontolando.

- Ma lo sapete bene che voi siete noi, voi...

- Ah!, ecco quel che volevo sentirmi dire. Non vi sarò d'imbarazzo, è vero? Andrò, verrò come uno spirito benigno che sta dovunque, e che si sa esser lì senza che nessuno lo veda. Vedi dunque, Delfinetta, Ninetta, Dedé, se avevo ragione di dirti: "C'è un grazioso appartamento in via d'Artois, arrediamolo per lui!". E tu non volevi. Ah!, sono io l'autore della tua gioia, come sono l'autore dei tuoi giorni. I padri debbono sempre dare, se vogliono essere felici. Dare sempre, è il vero modo per essere padre.

- Come? - domandò Eugenio.

- Sì, lei non voleva, aveva paura che si facessero chiacchiere sul suo conto, come se il mondo valesse la felicità!, ma tutte le donne sognano poi di fare quel che fa lei...

Papà Goriot parlava solo, mentre la signora de Nucingen aveva intanto condotto Rastignac nello studio, dove un bacio risuonò, sebbene dato pian piano. La stanza era in armonia con l'eleganza dell'appartamento, nel quale del resto non mancava proprio nulla.

- Abbiamo indovinato i vostri gusti? - essa chiese tornando nel salotto per mettersi a tavola.

- Sì - gli rispose - anche troppo bene. Ahimè!, tutto questo lusso, questi bei sogni realizzati, tutta la poesia d'una vita giovanile, elegante, questo io lo sento troppo per non meritarlo; ma non posso accettarlo da voi, e d'altra parte sono ancora troppo povero per...

- Ah! ah!, cominciate già a contrariarmi? - lei disse con un'arietta di scherzosa autorità, facendo una di quelle graziose smorfie come ne fanno le donne quando vogliono deridere uno scrupolo per meglio dissiparlo.

Eugenio aveva troppo solennemente in quel giorno fatto il suo esame di coscienza, e l'arresto di Vautrin, indicandogli la profondità dell'abisso in cui era stato per precipitare, aveva troppo bene corroborato i suoi nobili sentimenti e la sua delicatezza, per cedere a quella carezzevole confutazione dei suoi generosi propositi. Una profonda tristezza s'impadronì di lui.

- Come! - fece la signora de Nucingen - rifiutereste? Sapete che cosa vuol dire un simile rifiuto? Che dubitate del futuro, che non osate legarvi a me. Temete dunque di tradire il mio affetto? Se voi mi amate, se io vi... amo, perché indietreggiate di fronte a così lievi obbligazioni? Se sapeste qual piacere ho provato nell'occuparmi di tutto questo appartamento da scapolo, non esitereste, e mi domandereste perdono. Avevo a disposizione del denaro vostro, e l'ho bene impiegato: ecco tutto. Credete d'essere grande, e siete invece piccino. Voi valete ben di più... Ah! - aggiunse, cogliendo uno sguardo appassionato di Eugenio - e fate tante storie per delle sciocchezze. Se non mi volete bene, oh !, sì, allora non accettate. La mia sorte dipende da una parola.

Parlate! Ma papà, convincetelo voi - aggiunse rivolgendosi, dopo una pausa, a suo padre. - Crede forse lui che io sia meno sensibile riguardo al nostro onore?

Papà Goriot aveva il fermo sorriso d'un teriachi nell'osservare i due, nell'ascoltare quella gentile loro disputa.

- Bambino!, voi siete all'inizio della vita - essa riprese prendendo la mano di Eugenio, - trovate una barriera che per molti sarebbe insormontabile, una mano di donna ve l'apre, e voi indietreggiate? Ma voi riuscirete, farete una brillante fortuna, il successo è scritto sulla vostra bella fronte. E non potrete allora rendermi quel che oggi vi presto? In altri tempi le donne non davano forse ai loro cavalieri armature, spade, elmi, giachi, cavalli, affinché essi potessero andare a combattere in loro nome nei tornei? Ebbene, Eugenio, le cose che io vi offro sono le armi dell'epoca, gli strumenti necessari a chi vuol diventare qualcosa.

Bello, il solaio dove abitate, se somiglia alla camera di papà !... Ma insomma, vogliamo o no andare a pranzo? Volete proprio rattristarmi? Rispondete, dunque! - disse scuotendogli la mano. - Santo Iddio, papà, fatelo decidere, o me ne vado di qui e non lo rivedrò più.

- Adesso vi farò decidere - disse papà Goriot uscendo dall'estasi.

- Mio caro signor Eugenio, voi state per farvi prestare del denaro da alcuni ebrei, non è vero?

- E' proprio necessario - rispose.

- Bene!, allora è cosa fatta - riprese il bonuomo cavando fuori un brutto portafoglio di cuoio logorato. - Mi sono fatto ebreo, ho pagato io tutte le fatture: eccole qui. Voi non dovete un centesimo per tutto quel che si trova qui. Non è poi una grossa somma, si tratta tutt'al più di cinquemila franchi. E io ve li presto! A me non opporrete un rifiuto, non sono mica una donna io.

Mi farete una ricevuta su di un pezzo di carta e me li restituirete poi.

Qualche lacrima cadde contemporaneamente dagli occhi di Eugenio e di Delfina, che si guardarono con sorpresa. Rastignac tese la mano al bonuomo, e gliela strinse.

- Ebbene, cosa?, non siete forse miei figli? - disse Goriot.

- Ma, mio povero padre - fece la signora de Nucingen - come diamine avete fatto?

- Ah!, qui ti volevo. Quando ti ho fatto decidere a farlo abitare vicino a te, e ti ho visto comprare oggetti come per una sposa, mi sono detto: "Potrà trovarsi in qualche difficoltà!". L'avvocato ritiene che la causa da intentare contro tuo marito, per fargli restituire il tuo denaro, durerà più di sei mesi. Bene. Allora ho venduto i miei milletrecentocinquanta franchi di rendita; mi sono costituito, con quindicimila franchi, milleduecento franchi di vitalizio garantito da buone ipoteche, e ho pagato i vostri fornitori col resto della somma, figli miei. Ho lassù una camera da cinquanta scudi all'anno, posso vivere come un principe con quaranta soldi al giorno, e me ne avanzeranno. Non consumo nulla, di abiti non ho quasi bisogno. Sono quindici giorni che rido sotto i baffi, dicendomi: "Come saranno felici!". E non siete forse felici?

- Oh! papà, papà! - disse la signora de Nucingen, slanciandosi verso suo padre, che l'accolse sulle ginocchia. Essa lo coprì di baci, gli carezzò il viso coi suoi capelli biondi, e versò lacrime su quel vecchio viso sereno, luminoso. - Caro papà, voi siete davvero un padre! No, non esistono due padri come voi sotto il cielo. Eugenio vi voleva già da prima tanto bene: che sarà adesso?

- Ma figli miei - disse Goriot, che da dieci anni non sentiva battere il cuore di sua figlia sul suo - ma, Delfinetta, tu vuoi dunque proprio farmi morire dalla gioia! Il mio povero cuore si spezza. Andiamo, signor Eugenio, noi siamo pari e patta! - E il vecchio, intanto, stringeva la figlia in una stretta selvaggia e tanto delirante che questa disse:

- Ah!, ma così tu mi fai male!

- Ti faccio male! - egli fece impallidendo. E la guardò con un'aria sovrumana di dolore. Per ben ritrarre la fisionomia di questo Cristo della paternità, converrebbe cercare paragoni nelle immagini che i principi della tavolozza hanno creato per dipingere la passione sofferta per il bene del mondo dal Salvatore degli uomini. Papà Goriot baciò dolcemente la cintura che le sue dita avevano stretto troppo.

- No, no, non ti ho fatto del male, è vero? - egli riprese interrogandola con un sorriso; - sei tu che m'hai fatto male col tuo grido. La spesa da me sostenuta è stata più forte - fece poi all'orecchio della figlia, baciandoglielo con precauzione - ma bisogna prenderlo così altrimenti s'inquieterebbe. - Eugenio era rimasto come pietrificato dall'inesauribile amor paterno di quell'uomo, e lo osservava esprimendo quell'ingenua ammirazione che, nei giovani, è fede.

- Sarò degno di tutto questo! - egli esclamò.

- O mio Eugenio, è bello quel che avete ora detto. - E la signora de Nucingen baciò lo studente in fronte.

- Egli ha rifiutato per te la signorina Taillefer con tutti i suoi milioni - disse papà Goriot. - Eppure sì, vi amava, la piccola; e con la morte del fratello, eccola divenuta ricca quanto Creso.

- Oh!, perché dirlo? - esclamò Rastignac.

- Eugenio - gli disse Delfina all'orecchio - adesso ho un rimorso per questa sera. Ah!, ma io vi amerò tanto!, e sempre.

- Ecco la più bella giornata che passo dopo i vostri due matrimoni - esclamò papà Goriot. - Il buon Dio potrà farmi soffrire quanto vorrà, ma io potrò sempre dirmi: "Nel mese di febbraio di quell'anno sono stato, per un momento, più felice di quanto gli uomini possano esserlo durante tutta la loro vita". Guardami, Fifina! - disse alla figlia. - E' bella, non è vero? Ditemi dunque, avete trovato molte donne con un così bel colorito e con una fossetta così! No, è vero? Ebbene, sono io che ho fatto questo amore di donna. E ormai, resa felice da voi, diverrà mille volte meglio. Posso ora anche andare all'inferno, vicino mio - egli aggiunse - se vi occorre la mia parte di paradiso, ecco, ve la dono. Mangiamo, mangiamo - riprese, non sapendo neanche più quel che si dicesse - tutto è nostro.

- Povero il mio papà!

- Se sapessi, figlia mia - disse alzandosi e andando verso di lei, prendendole la testa e baciandola fra le trecce - se sapessi quanto puoi con poco rendermi felice!, vieni a trovarmi qualche volta, sarò lassù, non avrai che da fare un passo. Promettimelo, dì!

- Sì, padre caro.

- Dimmelo ancora.

- Sì, mio buon papà.

- Taci ora, altrimenti te lo farei ripetere cento volte, se dovessi dar retta a me stesso. Adesso mangiamo.

Tutta la serata trascorse in fanciullaggini, e papà Goriot non si mostrò il meno pazzo dei tre. Si chinava ai piedi della figlia per baciarglieli; la guardava a lungo negli occhi; strisciava la testa sul suo vestito; insomma, faceva follie come ne avrebbe fatte il più giovane e tenero amante.

- Vedete? - disse Delfina a Eugenio - quando papà è con noi, bisogna essere del tutto suoi. Qualche volta però sarà pur fastidioso.

Eugenio, che aveva già provato più volte qualche punta di gelosia, non poteva disapprovare quella parola, che racchiudeva il principio d'ogni ingratitudine.

- E l'appartamento, quando sarà pronto? - chiese Eugenio guardando attorno alla stanza. - Dovremo lasciarci, questa sera?

- Sì, ma domani verrete a pranzo da me - rispose lei con un'aria d'intesa. - Domani c'è recita al Teatro degli italiani.

- Io me ne andrò in platea - fece papà Goriot.

Era mezzanotte. La carrozza della signora de Nucingen attendeva.

Papà Goriot e lo studente tornarono alla pensione Vauquer, parlando di Delfina con un crescente entusiasmo, che produsse un curioso contrasto di espressione tra quelle due violente passioni.

Eugenio non poteva nascondersi che l'amore del padre, non intaccato da alcun interesse personale, schiacciava il suo per costanza e portata. L'idolo era sempre puro e bello per il padre, e la sua adorazione s'accresceva di tutto il passato, di tutto il futuro. Essi trovarono la signora Vauquer sola accanto alla stufa, tra Silvia e Cristoforo. La vecchia padrona stava lì, come Mario sulle rovine di Cartagine. Aspettava gli unici due pensionanti che le erano rimasti, lamentandosene con Silvia. Sebbene lord Byron abbia fatto esprimere al Tasso lamenti assai belli, questi sono tuttavia ben lontani da quelli che sfuggivano dalla bocca della signora Vauquer.

- Allora domattina non ci saranno da preparare che tre tazze di caffè, Silvia. Hé!, la mia casa deserta, c'è da sentirsi spezzare il cuore. Che cosa è ormai la vita, senza i miei pensionanti?

Nulla. Ecco qui la mia casa smobiliata dei suoi ospiti. La vita è rimasta nei mobili. Che cosa ho mai fatto, per meritarmi tanti disastri? Le provviste di fagioli e di patate sono state fatte per venti persone. La polizia in casa mia! Non mangeremo altro che patate! E dovrò licenziare Cristoforo! - Il Savoiardo, che stava dormendo, si destò di soprassalto e disse: - Signora!

- Povero ragazzo, è come un cane - fece Silvia.

- La stagione è morta, tutti si sono già sistemati. Da dove potranno venirmi dei pensionanti? C'è da perdere la testa. E quella strega della Michonneau che mi porta via anche Poiret! Che cosa gli faceva mai, per essersi quell'uomo attaccato a lei, che segue come un cagnolino?

- Eh!, diamine - fece Silvia crollando il capo - queste vecchie zitelle, le sanno loro tutte le malizie.

- E quel povero signor Vautrin, che secondo loro è un forzato? - riprese a dire la vedova. - Ebbene, Silvia, è più forte di me, non ci credo ancora. Un allegrone come lui, che spendeva in gloria quindici franchi al mese, e che pagava puntualmente!

- Ed era così generoso! - disse Cristoforo.

- Devono aver commesso un grosso errore - fece Silvia.

- Questo no, se ha confessato lui stesso! - continuò la signora Vauquer. - E dire che tutta questa roba è andata a succedere a casa mia, in un quartiere dove non passa mai neppure un gatto!

Parola di donna onesta, mi pare di sognare. Perché, senti, abbiamo visto capitare a Luigi Sedicesimo il suo guaio, abbiamo visto cadere l'Imperatore, l'abbiamo visto tornare e ricadere: tutto questo era pur nell'ordine delle cose possibili; ma imprevisti a danno delle pensioni familiari in genere, non ce ne sono; si può fare a meno del Re, ma mangiare bisogna sempre; e quando una signora per bene, nata de Conflans, dà da mangiare una ottima cucina, ma, a meno che non venga la fine del mondo... Ma è proprio così, questa è la fine del mondo.

- E pensare che la signorina Michonneau, che vi ha causato tutto questo disastro, riscuoterà, a quanto si dice, mille scudi di rendita - esclamò Silvia.

- Non me ne parlare, è una scellerata! - disse la signora Vauquer - E per di più è andata dalla Buneaud! Ma quella è capace di tutto, deve averne fatte d'ogni colore, quella ai suoi tempi deve aver anche ammazzato e rubato. Dovrebbe andarci lei, in galera, al posto di quel pover'uomo...

In quel momento Eugenio e papà Goriot suonarono il campanello.

- Ah, ecco i due miei fedeli - disse la vedova sospirando.

I due fedeli, che serbavano un assai tenue ricordo dei disastri capitati alla pensione, annunciarono senza tanti complimenti alla loro ospite che sarebbero andati a dimorare alla Chaussée-d'Antin.

- Ah!, Silvia - fece la vedova - ecco l'ultimo colpo. Mi avete dato il colpo di grazia, signori, questo mi ha preso allo "stommacco". Mi ci sento come una sbarra. Ecco una giornata che mi carica sulle spalle dieci anni di più. Diventerò pazza, parola d'onore. Che farne, dei fagioli? Ebbene?, se rimango sola qui, te ne andrai domani, Cristoforo. Addio, signori, buona notte.

- Ma che cosa ha? - domandò Eugenio a Silvia.

- Diamine! Se ne sono andati tutti, dopo quanto è accaduto. Questo le ha sconvolto la testa. Vado, sento che piange. Le farà bene sfogarsi un po'. Ecco la prima volta che si vuota gli occhi, da quando sono al suo servizio.

L'indomani, la signora Vauquer si era, secondo il suo modo di dire, "ragionata". Se parve afflitta, come colei che aveva perduto tutti i suoi pensionanti e la cui vita era stata sconvolta, conservava tuttavia il suo giudizio, e mostrò quale fosse il vero dolore, un dolore profondo, il dolore causato dagli interessi rovinati, dalle abitudini scomposte. Certo, lo sguardo che un innamorato dà, nel lasciarli, ai luoghi abitati dalla propria amante, non è più triste di quello dato dalla signora Vauquer alla tavola vuota. Eugenio la consolò dicendole che Bianchon, il cui servizio all'ospedale finiva tra qualche giorno, lo avrebbe senza dubbio rimpiazzato; che l'impiegato al Museo aveva spesso espresso il desiderio di occupare l'appartamento della signora Couture e che in pochi giorni essa si sarebbe rimessa su.

- Dio vi ascolti, mio caro signore!, ma purtroppo la disgrazia è entrata in questa casa. Non passeranno dieci giorni e ci verrà la morte, vedrete - gli disse dando un lugubre sguardo alla sala da pranzo. Chi prenderà?

- E' bene sloggiare - disse a bassa voce Eugenio a papà Goriot.

- Signora - disse Silvia accorrendo tutta turbata - sono tre giorni che non vedo Mistigrì.

- Bé, allora, se il mio gatto è morto, se ci ha lasciati, io... - La povera vedova non terminò la frase, congiunse le mani e si lasciò cadere lungo il dorso della sua poltrona, affranta da quel terribile presagio.

Verso mezzodì, ora in cui passavano i portalettere nel quartiere del Pantheon, Eugenio ricevette una lettera racchiusa in una elegante busta, sigillata con lo stemma di Beauséant. Conteneva un invito per il signor e la signora de Nucingen al grande ballo annunciato da un mese, e che doveva aver luogo in casa della viscontessa. A questo invito erano aggiunte poche parole per Eugenio:

"Ho pensato, signore, che v'incarichereste volentieri d'esser l'interprete dei miei sentimenti presso la signora de Nucingen; vi mando l'invito che mi avete richiesto e sarò lieta di conoscere la sorella della signora de Restaud. Conducetemi dunque questa bella signora, e fate in modo che ella non si prenda tutto il vostro affetto; voi me ne dovete molto, in cambio di quello che ho per voi.

Viscontessa de Beauséant".

"Ma", disse fra sé e sé Eugenio tornando a leggere il biglietto, "la signora de Beauséant mi dice abbastanza chiaramente che non vuol ricevere il barone de Nucingen". E corse da Delfina, felice di poterle procurare un piacere di cui egli avrebbe ricevuto senza dubbio il premio. La signora de Nucingen era al bagno. Rastignac attese nel salottino, in preda alle impazienze naturali in un giovane ardente e smanioso di possedere un'amante, da due anni oggetto dei suoi desideri. Sono emozioni che non si provano due volte quando si è giovani. La prima donna, realmente donna, cui un uomo si lega, cioè colei che gli si presenta nello splendore di tutto quell'insieme richiesto dalla società parigina, colei non ha mai una rivale. L'amore, a Parigi, non assomiglia per nulla agli altri amori. Né gli uomini né le donne vi si lasciano ingannare da apparenze pavesate di luoghi comuni, che ognuno mette in mostra per decenza sui propri affetti così detti disinteressati. Qui, una donna non deve soddisfare soltanto il cuore e i sensi, sa perfettamente di dover adempiere ben più grandi obblighi verso le mille vanità di cui si compone la vita. Qui, soprattutto l'amore è essenzialmente millantatore, scialacquatore, ciarlatano e fastoso.

Se tutte le donne della corte di Luigi Quattordicesimo hanno invidiato alla La Vallière l'impeto della passione di quel grande sovrano, tale da fargli dimenticare che i merletti dei suoi polsini costavano mille scudi ciascuno quando li strappò per facilitare al duca de Vermandois il suo ingresso alla scena del mondo, che cosa mai si può chiedere al resto dell'umanità? Siate giovani, ricchi e titolati, siate ancora di più, se potete; più grani d'incenso recherete ai piedi dell'idolo, più presto vi sarà propizio, sempre che abbiate un idolo. L'amore è una religione e il culto deve costar più caro che quello d'ogni altra religione; esso passa rapidamente, e passa come un monello che vuole lasciar traccia del suo passaggio con le devastazioni. Il lusso del sentimento è la poesia delle soffitte; senza tale ricchezza, che diverrebbe l'amore? Se vi sono eccezioni a queste regole draconiane del codice parigino, esse si possono trovare nella solitudine, presso quelle anime che non si sono lasciate trascinare dalle dottrine sociali, che vivono vicino a qualche sorgente d'acqua limpida, fuggevole, ma perenne, anime che, fedeli alle loro verdi ombre, liete di ascoltare il linguaggio dell'infinito scritto per esse in tutte le cose e ritrovato in loro stesse, attendono pazientemente le ali per compiangere coloro che rimarranno sulla terra. Ma Rastignac, come la maggior parte dei giovani i quali, in anticipo hanno assaporato il gusto del grandioso, voleva presentarsi completamente armato nella lizza del mondo; ne aveva contratto la febbre e sentiva forse di avere il potere di dominarlo, ma senza ancora conoscere né i mezzi né il fine di quella ambizione. Quando manca l'amore puro e sacro, che riempie una vita, questa sete del potere può diventare un nobile sentimento; basta abbandonare ogni interesse personale e proporsi come meta la grandezza del proprio paese. Ma lo studente non era ancora arrivato al punto in cui l'uomo può contemplare il corso della vita, e giudicarla. Fino allora non aveva nemmeno completamente scosso l'incanto delle fresche e soavi idee che avvolgono come un fogliame la giovinezza di chi è stato allevato in provincia. Egli aveva sempre esitato a passare il Rubicone parigino. Malgrado le sue ardenti curiosità, aveva sempre conservato dentro di sé qualche idea della vita felice che conduce il vero gentiluomo nel proprio feudo. Tuttavia i suoi ultimi scrupoli erano scomparsi il giorno avanti, quando s'era trovato in quell'appartamento messo su per lui. Nel godere dei vantaggi materiali dell'agiatezza, come godeva da tempo dei vantaggi morali offertigli dai suoi natali, s'era spogliato della sua pelle d'uomo di provincia, e si era dolcemente adattato in una posizione da cui scorgeva un bell'avvenire. Perciò, mentre attendeva Delfina mollemente seduto in quel grazioso salottino che stava divenendo un poco suo, si vedeva già tanto lontano dal Rastignac giunto l'anno prima a Parigi, che, sbirciando con un effetto d'ottica morale, egli si domandava se in quel momento rassomigliava a se stesso.

- La signora è in camera - venne a dirgli Teresa, ed egli trasalì.

Trovò Delfina distesa nel suo divano, vicina al fuoco, fresca, riposata. Nel vederla così adagiata sui flutti della mussola, non si poteva non paragonarla a quelle belle piante indiane il cui frutto si sviluppa nel fiore.

- Ebbene!, eccoci - essa disse con emozione.

- Indovinate un po' che cosa vi porto - fece Eugenio sedendosi vicino a lei e prendendole il braccio per baciarle la mano.

La signora de Nucingen ebbe un moto di gioia nel leggere l'invito.

Volse verso Eugenio i suoi occhi inumiditi, e gli gettò le braccia al collo per attrarlo a sé in un delirio di vanitosa soddisfazione.

- E' a voi (a te, gli disse all'orecchio; ma Teresa sta nel mio gabinetto da toletta, siamo prudenti !), è a voi che debbo questa felicità? Sì, oso chiamarla felicità. Ottenuto da voi, non è qualcosa di più che un trionfo d'amor proprio? Nessuno aveva voluto introdurmi in quell'ambiente. Forse voi mi giudicherete in questo momento piccina, frivola, leggera come una Parigina; ma pensate, amico mio, che io sono pronta a sacrificare tutto per voi e che, se desidero più ardentemente che mai di frequentare il faubourg Saint-Germain, è perché ci siete voi.

- Non credete - chiese Eugenio - che la signora de Beauséant abbia l'aria di dirci che non ha alcun desiderio di vedere al suo ballo il barone de Nucingen?

- Ma certo - rispose la baronessa restituendo la lettera a Eugenio. - Quelle donne lì hanno il genio dell'impertinenza. Ma non importa, ci andrò lo stesso. Ci sarà anche mia sorella, e so che si sta preparando una toletta deliziosa. Eugenio - riprese a dire a bassa voce - lei ci va per dissipare brutti sospetti. Voi non sapete quali voci corrono sul suo conto! Nucingen mi ha detto stamane che ieri se ne parlava al Circolo senza reticenze. Dove è più, mio Dio!, l'onore delle donne e delle famiglie? Mi sono sentita colpita, ferita io stessa nella mia povera sorella.

Secondo alcuni, il signor de Trailles avrebbe firmato cambiali per un ammontare di centomila franchi, quasi tutte scadute, e per le quali gli atti contro di lui sarebbero in corso. In tale congiuntura, mia sorella avrebbe venduto i suoi diamanti a un ebreo, quei bei diamanti che le avete visto portare, e che provengono dalla signora de Restaud madre. Insomma, da due giorni non si parla che di questo. Credo quindi che Anastasia abbia ordinato un abito di stoffa laminata e voglia richiamare su di sé tutti gli sguardi in casa de Beauséant, comparendovi in tutto il suo splendore e coi suoi diamanti. Ma io non voglio stare al disotto di lei. Ha sempre cercato di schiacciarmi, non è mai stata buona con me, che pure le facevo tanti favori e avevo sempre pronto del denaro per lei, quando le mancava. Ma non parliamo più della società, oggi voglio essere felice appieno.

Rastignac all'una del mattino si trovava ancora dalla signora de Nucingen che, dandogli l'addio degli amanti, quell'addio denso di gioie future, gli disse con una espressione di malinconia: - Sono tanto paurosa, tanto superstiziosa, chiamate pure questi miei presentimenti come volete, ma temo di dover pagare la mia felicità con qualche tremenda catastrofe.

- Bambina - disse Eugenio.

- Ah!, sono io la bambina stasera - essa disse ridendo.

Eugenio tornò alla pensione Vauquer deciso a lasciarla l'indomani; e perciò lungo la strada si abbandonò a quelle graziose fantasticherie proprie dei giovani quando hanno ancora sulle labbra il gusto della felicità.

- Ebbene? - chiese papà Goriot quando Rastignac gli passò davanti.

- Ebbene - rispose Eugenio - vi dirò tutto domani.

- Tutto, non è vero? - gridò il bonuomo. - Ora andatevene pure a letto. Cominceremo domani la nostra vita felice.

L'indomani, Goriot e Rastignac non attendevano che la buona volontà di un facchino per lasciare la pensione, quando verso mezzogiorno il rumore di una carrozza, che si fermava proprio dinanzi alla porta della casa Vauquer, risuonò nella via Neuve- Sainte-Geneviève. La signora de Nucingen scese dalla carrozza, e domandò se suo padre si trovava ancora in pensione. Rispostole di sì, salì svelta la scala.

Eugenio era nella sua camera, senza che il suo vicino lo sapesse.

A colazione lo aveva pregato di portar via la propria roba, dicendogli che si sarebbero ritrovati alle quattro in via d'Artois. Ma, mentre il bonuomo era andato a cercare i facchini, Eugenio, dopo aver rapidamente risposto all'appello della scuola, era rientrato senza che nessuno lo avesse visto, per saldare i conti con la signora Vauquer, non volendo lasciare quell'incarico a Goriot, che, nel suo fanatismo, avrebbe certamente pagato per lui. La padrona era uscita. Eugenio risalì in camera per vedere se non aveva dimenticato nulla e fu contento di aver avuto quell'idea perché trovò nel cassetto del suo tavolo l'accettazione in bianco da lui rilasciata a Vautrin, sbadatamente dimenticata lì dal giorno in cui l'aveva saldata. In mancanza del fuoco, stava per strapparla in minuti pezzi quando, riconoscendo la voce di Delfina, si studiò di non fare più alcun rumore, e si fermò per udirla, pensando che essa non doveva avere alcun segreto per lui.

Poi, fin dalle prime parole, trovò la conversazione tra padre e figlia troppo interessante per non ascoltarla.

- Ah!, papà mio - disse - quale fortuna che abbiate avuto l'idea di chiedere il rendiconto dei miei beni almeno prima che io non sia rovinata! Posso parlare?

- Sì, la casa è vuota - disse papà Goriot con voce alterata.

- Ma che cosa avete, babbo? - domandò la signora de Nucingen.

- Tu mi dài - rispose il vecchio - una mazzata sulla testa. Dio ti perdoni, figlia mia! Tu non sai quanto ti voglio bene; se lo avessi saputo, non mi avresti detto così bruscamente simili cose, specie se tutto ancora non è perduto. Ma che cosa è accaduto di così urgente da farti venire a cercarmi qui, se tra pochi istanti avremmo dovuto trovarci in via d'Artois?

- Eh!, papà mio, si è forse padroni di se stessi quando avviene una disgrazia? Mi sembra d'essere pazza! Il vostro avvocato ci ha fatto scoprire un po' più presto il guaio che certamente verrà fuori più tardi. La vostra consumata esperienza commerciale sta per diventarci necessaria, e io sono corsa a cercarvi come ci si attacca a un ramo quando si sta per annegare. Quando il signor Derville ha visto che Nucingen opponeva mille cavilli, gli ha minacciato di intentare una causa dicendogli che l'autorizzazione del presidente del tribunale si sarebbe presto ottenuta. Nucingen è allora venuto stamane da me e mi ha chiesto se io volevo proprio la sua rovina e la mia. Gli ho risposto che io non m'intendevo affatto di queste cose, che avevo dei beni, che era giusto ne avessi il possesso e che per tutto quel che si riferiva a tale questione si rivolgesse al mio avvocato, che io non sapevo nulla di nulla e che perciò mi trovavo nell'impossibilità di capire qualcosa in tutta questa faccenda. Non è così che mi avevate raccomandato di dirgli?

- Bene - rispose papà Goriot.

- Allora - riprese Delfina - egli mi ha messo al corrente dei suoi affari. Ha impegnato tutti i suoi capitali e i miei in speculazioni appena cominciate e per le quali ha dovuto anticipare forti somme. Se ora io l'obbligassi a restituirmi la dote, si troverebbe costretto a chiedere un concordato; mentre, se attendo un anno, s'impegna sul suo onore a rendermi un capitale doppio o triplo, impiegando il mio denaro in affari immobiliari, al termine dei quali sarò padrona di tutti i miei beni. Babbo mio, dicendomi questo era sincero, e mi ha spaventato. Mi ha chiesto scusa del suo modo d'agire, mi ha ridato completa libertà, mi ha permesso di fare quel che voglio, a condizione di lasciarlo interamente padrone di condurre gli affari servendosi del mio nome. E, per provarmi la sua buona fede, mi ha promesso di chiamare il signor Derville ogni volta che io lo voglia, affinché egli stesso possa giudicare se gli atti in virtù dei quali la mia firma è impegnata siano regolarmente redatti. Insomma, si è rimesso a me, mani e piedi legati. Chiede per due anni ancora l'amministrazione della casa, e mi ha supplicato di non spendere più di quanto mi dà. Mi ha dimostrato che tutto quel che poteva fare era di conservare le apparenze, che ha rotto la sua relazione con la ballerina, e che si sarebbe ridotto alla più segreta e inesorabile economia, per arrivare al compimento delle sue speculazioni senza alterare il suo credito. Io l'ho trattato malissimo, gli ho fatto vedere di non credere alle sue parole per fargli perdere la pazienza e saperne ancora di più: mi ha mostrato i suoi conti, e poi s'è messo a piangere. Non ho mai visto un uomo in quello stato. Aveva perduto la testa, diceva di volersi suicidare, delirava. Mi ha fatto proprio pena!

- E tu credi a queste frottole? - esclamò papà Goriot. E' un commediante! Ho avuto rapporti d'affari con molti tedeschi; costoro sono quasi tutti in buona fede, pieni di candore; ma quando, con la loro aria di franchezza e di bonomia, vogliono essere scaltri e imbroglioni, lo sono allora più di tutti gli altri. Tuo marito approfitta di te. Si sente stretto in un cerchio, e allora fa il morto, vuol rimanere più padrone sotto il tuo nome di quanto non lo sia sotto il suo. E approfitta di questa circostanza per mettersi al riparo dai rischi del suo commercio.

E' fino, lui, quanto perfido; è un pessimo arnese. No, no, io non me ne andrò al Père-Lachaise lasciando le mie figlie prive di tutto. Capisco ancora qualcosa in commercio. Egli, dice, ha impegnato le sue disponibilità in vari affari; ebbene!, i suoi interessi saranno rappresentati da valori, da ricevute, da contratti! Li negozi, e liquidi intanto la parte tua. Sceglieremo le migliori speculazioni, ne correremo i rischi, e avremo i titoli probativi intestati al nostro nome di Delfina Goriot, moglie separata, per quanto attiene ai beni, del barone de Nucingen. Ma ci prende proprio per imbecilli, costui? Crede forse che io possa sopportare per due giorni l'idea di lasciarti senza danaro, senza pane? Ma io non la sopporterei neppure un sol giorno, neppure una notte, neppure un'ora! Se questa idea fosse realtà, non sopravviverei. Come!, avrei dunque lavorato per quarant'anni, avrei portato sacchi sulle spalle, avrei sudato sette camicie, avrei sofferto privazioni tutta la mia vita, per voi, angeli miei, che mi rendevate qualsiasi lavoro, qualsiasi peso, leggero; e oggi la mia ricchezza, la mia vita se ne andrebbero in fumo? Sarebbe cosa da farmi morire di rabbia. Per quanto c'è di più sacro sulla terra e in cielo, metteremo tutto in chiaro, verificheremo la contabilità, la cassa, gli affari! Non dormirò, non mi coricherò, non mangerò finché non mi sarà provato che la tua dote è là, ancora tutta intera. Per fortuna, i tuoi beni sono separati dai suoi; avrai Derville come avvocato, un galantuomo, fortunatamente.

Dio buono!, tu dovrai avere il tuo buon milioncino, le tue cinquantamila lire di rendita, fino alla fine dei tuoi giorni, o facciamo una chiassata in tutta Parigi! Ah! Ah! E sarò capace di fare appello anche alle Camere, se i tribunali dovessero darci torto. Il solo pensiero di saperti tranquilla e felice quanto al denaro, alleviava tutti i miei mali e calmava i miei crucci. Il denaro è la vita. Col denaro si ottiene tutto. Che cosa dunque ci viene a contare, quel grosso ciocco dell'Alsaziano? Delfina, non concedere neppure un quarto di centesimo a quel bestione, che ti ha tenuto alla catena e ti ha reso infelice. Se ora ha bisogno di te, lo bastoneremo di santa ragione, e lo faremo rigar diritto.

Dio buono, ho la testa che mi va in fiamme, ho il cervello che mi brucia. La mia Delfina sul lastrico! Oh!, Fifina mia, tu! Perdio!, dove sono i miei guanti? Andiamo, usciamo, voglio andare a veder tutto: la contabilità, gli affari, la cassa, la corrispondenza, subito! Non mi calmerò se non quando mi sarà dimostrato che la tua dote non corre più rischi, e la vedrò coi miei occhi.

- Babbo mio caro!, siate prudente. Se metteste la benché minima velleità di vendetta in questa faccenda, e se faceste vedere intenzioni troppo ostili, io sarei perduta. Lui vi conosce, ha trovato del tutto naturale che, istigata da voi, mi preoccupassi della mia dote; ma, ve lo giuro, essa è nelle sue mani e vuole continuare a tenerla. Egli è capace di scappare con tutti i capitali, e di lasciarci così, lo scellerato! Sa bene che non sarò certo io a disonorare il nome che porto, facendogli causa. Egli è forte e insieme debole. Ho tutto ben considerato. Se lo spingiamo agli estremi, sono rovinata.

- Ma è allora un furfante?

- Eh!, sì, babbo - rispose gettandosi su di una sedia, piangendo.

- Non volevo dirvelo per risparmiarvi il rammarico di avermi fatto sposare un uomo di quella specie! Costumi privati e coscienza, l'animo e il corpo, tutto s'accorda in lui! E' spaventevole; io lo odio e lo disprezzo. Sì, io non posso più stimare il vile Nucingen, dopo tutto quel che mi ha detto. Un uomo capace di lanciarsi nelle speculazioni commerciali di cui mi ha parlato, dimostra di non avere la benché minima delicatezza, e i miei timori nascono da ciò che gli ho letto assai bene nell'animo. Egli mi ha nettamente proposto, lui, mio marito, la libertà; e sapete quel che significa questo? Significa che, in caso di rovina, io dovrei diventare un semplice strumento nelle sue mani e, insomma, servirgli da prestanome.

- Ma ci son ben le leggi!, c'è pure una piazza de Grève per generi di questa razza! - esclamò papà Goriot - ma lo ghigliottinerei io stesso, se non ci fosse il carnefice.

- No, papà mio, non ci sono leggi contro di lui. Sentite in due parole il suo discorso, sfrondato di tutte le circonlocuzioni in cui lo ha avvolto: "O tutto è perduto, e voi non avrete più neanche un centesimo, e sarete rovinata, giacché non saprei scegliere per complice altra persona che voi; o mi lascerete portare a buon fine i miei affari". Chiaro? Egli tiene ancora a me. La mia probità di donna gli dà garanzia; sa che io gli lascerò la sua fortuna e che mi contenterò della mia. E' un'associazione disonesta e ladresca cui debbo sottostare sotto pena di andare in rovina. Compra la mia coscienza e la paga, consentendomi di essere la donna d'Eugenio. "Io ti permetto di commettere dei falli, e tu lasciami commettere dei reati, mandando alla rovina della povera gente!". Non è abbastanza chiaro un simile discorso? Sapete quel che significa per lui far degli affari? Compra terreni a nome suo, e poi ci fa costruire case da prestanomi. Questi stipulano contratti per le costruzioni con gli appaltatori, li pagano con effetti a lunga scadenza e consentono a darne quietanza, lucrando un piccolo compenso, a mio marito, che diventa allora proprietario delle case, mentre i prestanomi si liberano dagli obblighi contratti verso gli appaltatori truffati, dichiarando fallimento.

Il nome della ditta de Nucingen è servito a dar la polvere negli occhi dei poveri costruttori. L'ho capito bene. E ho pure capito che, per dimostrare, all'occorrenza, la possibilità del pagamento di ingenti somme, ha inviato considerevoli valori ad Amsterdam, Londra, Napoli, Vienna. Come, allora, potremo costringerlo alla resa dei conti? - Eugenio udì il rumore pesante dei ginocchi di papà Goriot, che dovette cadere sul pavimento della camera.

- Mio Dio, che cosa ti ho fatto io? Mia figlia nelle mani di quel miserabile: egli esigerà tutto da lei, se lo vorrà! Perdono, figlia mia - gridò il vecchio.

- Sì, se ora mi trovo in un abisso, c'è forse un po' di colpa da parte vostra - disse Delfina. - Siamo così poco giudiziose, quando ci sposiamo. Conosciamo forse il mondo, gli affari, gli uomini, i costumi? Sono i genitori che dovrebbero pensare in vece nostra.

Babbo caro, non vi rimprovero nulla, perdonate le mie parole. In questo caso la colpa è tutta mia. No, non piangete, papà - disse baciandogli la fronte.

- Non piangere neppure tu, mia piccola Delfina. Dammi qui i tuoi occhi, lascia che te li asciughi coi miei baci. Ora rimetterò un po' d'ordine nella mia povera zucca, e cercherò di dipanare questo groviglio d'affari in cui tuo marito ti ha messo.

- No, lasciate fare a me; lo manovrerò io. Egli mi ama; ebbene mi servirò del prestigio che ho su di lui per indurlo a investire subito una parte dei miei capitali in qualche buona proprietà.

Forse riuscirò a fargli ricomprare, sotto il mio nome, i beni che aveva a Nucingen in Alsazia: lui ci tiene. Vorrei però che domani voi veniste a esaminare la sua contabilità, i suoi affari. Il signor Derville non s'intende affatto dl questioni commerciali. Ma no, non venite proprio domani. Non voglio guastarmi il sangue. Il ballo della signora de Beauséant avrà luogo dopo domani, e io voglio aver cura di me per essere bella riposata e far così onore al mio caro Eugenio! E ora andiamo a vedere la sua camera.

In quel momento una vettura si fermò nella via Neuve-Sainte- Geneviève, e si udì per la scala la voce della signora de Restaud che diceva a Silvia: - C'è mio padre?

Questa circostanza disimpegnò fortunatamente Eugenio, che già pensava di gettarsi sul letto, fingendo di dormire.

- Ah!, babbo, vi hanno parlato d'Anastasia? - chiese Delfina riconoscendo la voce della sorella. - Sembra che succedano strane cose nella sua famiglia.

- Che cosa? - domandò papà Goriot - ma è dunque proprio la mia fine? La mia povera testa non reggerà a una doppia sciagura.

- Buon giorno, papà - disse la contessa entrando. - Ah!, tu qui, Delfina?

La signora de Restaud parve imbarazzata di incontrare sua sorella.

- Buon giorno, Nasia - disse la baronessa. - Ti sembra strano trovarmi qui? Mio padre lo vedo tutti i giorni, io.

- Da quando?

- Se tu venissi, lo sapresti.

- Non beffeggiarmi, Delfina - fece la contessa con una voce lamentosa. - Sono tanto disgraziata, sono perduta, povero papà mio!, oh!, proprio perduta, questa volta!

- Cos'hai, Nasia? - esclamò papà Goriot. - Dicci tutto, figliola.

- Essa impallidì. - Delfina, su, soccorrila, sii buona con lei, ti vorrò bene anche di più, se possibile!

- Mia povera Nasia - disse la signora de Nucingen, facendo sedere la sorella - parla. Noi siamo le due sole persone che ti vorranno sempre tanto bene, da perdonarti tutto. Ricordati che gli affetti famigliari sono i più sicuri.

Le fece aspirare dei sali, e la contessa rinvenne.

- Ci lascerò la pelle - disse papà Goriot. - Andiamo - riprese attizzando il fuoco - avvicinatevi tutte e due. Ho freddo. Che hai, Nasia?, di' sù, presto, tu mi fai morire...

- Ebbene! - disse la povera donna - mio marito sa tutto. Babbo, vi ricordate di quella cambiale di Massimo, qualche tempo fa?

Ebbene! non era la prima. Ne avevo già pagate molte altre. Ai primi di gennaio, il signor de Trailles mi sembrava assai preoccupato. Non mi diceva nulla; ma è facile leggere nel cuore delle persone cui si vuol bene, basta un niente; e poi, ci sono dei presentimenti. Lui si mostrava più innamorato, più affettuoso che mai, e io ero sempre più felice. Povero Massimo!, dentro di sé, mi ha poi detto, mi dava intanto il suo ultimo addio; voleva farsi saltare le cervella. Allora l'ho tanto tormentato, tanto supplicato, sono rimasta due ore ai suoi ginocchi. Alla fine, mi ha confessato di avere centomila franchi di debiti. Oh!, papà, centomila franchi! Sono diventata pazza. Voi non li avevate, io non avevo più nulla...

- No - disse papà Goriot - io non avrei potuto procurarteli, a meno di andarli a rubare. Ma ci sarei andato, Nasia! E ci andrò.

A queste parole lugubremente dette, come il rantolo d'un moribondo, che indicavano l'agonia di un sentimento di paterno affetto ridotto all'impotenza, le due sorelle tacquero. Quale egoismo sarebbe rimasto insensibile a quel grido di disperazione che, simile a una pietra lanciata in un abisso, ne rivelava la profondità?

- Li ho trovati disponendo di quel che non mi apparteneva, babbo - disse la contessa scoppiando in lacrime.

Delfina si commosse e pianse, appoggiando la testa sul collo della sorella.

- Ma allora è tutto vero! - le disse.

Anastasia abbassò la testa, la signora de Nucingen la strinse tutta a sé, la baciò teneramente e, appoggiandola sul suo cuore: - Qui tu sarai sempre amata senza venir giudicata - le disse.

- Angeli miei - fece Goriot con voce fioca - per quale destino la vostra riconciliazione è dovuta a una sciagura?

- Per salvare la vita di Massimo, per salvare insomma tutta la mia felicità - riprese a dire la contessa incoraggiata dalle prove d'una tenerezza così calda e palpitante - ho portato a quell'usuraio che conoscete, una creatura infernale che nulla può intenerire, a quel signor Gobseck, i diamanti di famiglia cui tiene tanto il signor de Restaud, i suoi, i miei, tutto: e li ho venduti. Venduti!, capite? E così lui è stato salvato, ma io sono morta. Restaud ha saputo tutto.

- Da chi?, come? Io l'ammazzo! - gridò papà Goriot.

- Ieri, mi ha fatto chiamare nella sua camera. Ci sono andata...

"Anastasia, mi ha detto con una voce... (oh!, la sua voce m'è bastata, ho indovinato tutto), dove sono i vostri diamanti?". Li ho con me. "No", mi ha detto guardandomi, "stanno lì sul mio cassettone". E mi ha indicato lo scrigno, da lui coperto con un fazzoletto. "Sapete da dove provengono?" mi ha chiesto, e io sono caduta ai suoi ginocchi.., ho pianto, e gli ho domandato di quale morte avrebbe voluto vedermi morire.

- Tu gli hai detto tutto questo? - esclamò papà Goriot. - Per il santo nome di Dio, chi si proverà a far del male a voi due, finché sarò vivo, può star sicuro che lo brucerò a fuoco lento! Sì, lo farò a pezzetti come...

Papà Goriot tacque, le parole gli si spegnevano nella gola.

- Poi, mia cara, mi ha chiesto qualcosa di più difficile ancora della morte. Non faccia il cielo sentire mai a una donna quel che ho sentito io!

- L'ucciderò, quell'uomo - disse papà Goriot tranquillamente. - Ma lui non ha che una vita sola, e me ne deve due. Insomma, che cosa t'ha chiesto? - riprese, guardando Anastasia.

- Ebbene! - fece la contessa continuando, dopo una pausa - mi ha guardato in faccia e mi ha detto: "Anastasia, metterò tutto sotto silenzio, resteremo uniti, abbiamo dei figli. Non ucciderò il signor de Trailles, potrei fallire il colpo, e, nel disfarmene in altro modo, potrei anche cozzare contro la giustizia umana.

Ucciderlo nelle vostre braccia, sarebbe poi disonorare i figli.

Ma, per non veder morire né i vostri figli, né il loro padre, né me, vi pongo due condizioni. Rispondete: "Uno dei figli è mio?".

Gli ho risposto di sì. "Quale?", mi ha domandato. Ernesto, il nostro primogenito. "Bene, ha detto. E ora, giurate di obbedirmi ormai su di un solo punto". Ho giurato. "Voi firmerete la vendita dei vostri beni quando ve lo chiederò".

- Non firmare! - gridò papà Goriot. - Non firmare mai questo! Ah!, ah!, signor de Restaud, voi non sapete cosa sia rendere una donna felice, lei cerca il suo bene dov'esso è, e voi volete punirla della vostra sciocca impotenza?... Ma ci sono io, qui, alto là, dovrà fare i conti con me. Nasia, sta tranquilla. Ah, lui tiene al suo erede, eh? Bene; bene. M'impadronirò di suo figlio che, perdio!, è anche mio nipote. Potrò vederlo, questo marmocchio? Lo nasconderò nel mio villaggio natio, ne avrò cura io, sta tranquilla. Lo farò capitolare, quel mostro, dicendogli: "A noi due! Se vuoi riavere tuo figlio, restituisci a mia figlia la sua dote, e lascia che faccia il suo comodo".

- Padre!

- Sì, tuo padre! Ah!, io sono un vero padre. Che queste canaglie di gran signori non maltrattino le mie figlie. Perdio!, non so quel che mi sento nelle vene. Mi ci sento il sangue d'una tigre, e vorrei divorarli, quei due. O, figlie mie!, è questa la vostra vita? Ma questa è la mia morte. Che ne sarà di voi, quando io non ci sarò più? I padri dovrebbero vivere quanto i loro figli. Mio Dio, com'è mal combinato il tuo mondo! E sì che un figlio tu pure lo hai, secondo quel che ci è stato detto. Dovresti impedire di farci soffrire nei nostri figli. Angeli miei cari, come!, debbo dunque la vostra presenza solo ai vostri dolori? Non mi fate conoscere altro che le vostre lacrime? Ebbene sì, voi mi amate, lo vedo. Venite, venite a piangere qui! Il mio cuore è grande, e può ricevere tutto. Sì, voi potete pure trafiggerlo, ma i brani di esso saranno sempre tanti cuori di padre. Vorrei prendere su di me le vostre pene, soffrire per voi. Ah!, quando eravate piccoline, eravate tanto felici.

- Non abbiamo avuto che quel tempo, felice - disse Delfina. - Dov'è quell'epoca quando ci rotolavamo dall'alto dei sacchi nel granaio grande?

- Papà, non è tutto ancora, quel che vi ho detto - disse Anastasia, all'orecchio di Goriot, che ebbe uno scatto. - La vendita dei diamanti non ha reso centomila franchi. Si sta procedendo contro Massimo. Dobbiamo ancora pagare dodicimila franchi. Lui mi ha promesso di metter la testa a partito, di non giocare più. Al mondo non mi resta più che il suo amore, e io l'ho pagato troppo caro per non morire se lo perdessi. Gli ho sacrificato fortuna, onore, tranquillità, figli. Oh! fate che almeno Massimo sia libero, che non sia disonorato, che possa rimanere nella società, dove saprà farsi una posizione. Adesso egli non mi deve soltanto la felicità, abbiamo dei figli che rimarrebbero nella miseria! Tutto sarà perduto, se lo porteranno a Sainte-Pelagie.

- Io non li ho, Nasia. Più nulla, più nulla! E' la fine del mondo.

Oh! il mondo sta per crollare, è certo. Andatevene, salvatevi prima! Ah!, ho ancora le mie fibbie d'argento, sei posate, le prime possedute in vita mia. E poi, non ho altro che milleduecento franchi di rendita vitalizia...

- Che ne avete dunque fatto delle rendite di Stato ?

- Le ho vendute, riservandomi quel poco di rendita per vivere. Mi occorrevano dodicimila franchi per mettere su un appartamento a Delfina.

- Un appartamento per te, Delfina? - disse la signora de Restaud alla sorella.

- Oh, ciò non ha importanza! - riprese a dire papà Goriot - i dodicimila franchi sono già impegnati.

- Ho capito - fece la contessa. - E' per il signor de Rastignac Ah!, mia povera Delfina, non far questo. Guarda come sono ridotta, io.

- Mia cara, il signor de Rastignac è un giovane incapace di mandare in rovina la sua amante.

- Ti ringrazio, Delfina. Nella crisi che attraverso, m'aspettavo di meglio da te; ma già, tu non mi hai mai voluto bene.

- Ma no, lei ti vuol bene, Nasia - esclamò papà Goriot - me lo diceva proprio poco fa. Stavamo parlando di te, e mi diceva che tu sei bella, e che lei è soltanto graziosa!

- Lei! - ripeté la contessa - ma lei è d'una bellezza fredda.

- Quand'anche fosse - disse Delfina arrossendo - come ti sei comportata, tu, verso di me? Tu mi hai rinnegata, mi hai fatto chiudere le porte di tutte le case in cui desideravo esser ricevuta, insomma non ti sei mai lasciata sfuggire la minima occasione di farmi dispiacere. E poi, sono io forse venuta, come te, a sottrarre a questo povero papà, a mille franchi per volta, la sua ricchezza, riducendolo nello stato in cui ora si trova?

Ecco in cosa è consistita l'opera tua, sorella mia. Io, ho sempre voluto vedere mio padre quando ho potuto, non l'ho mai messo alla porta e non sono venuta poi a leccargli le mani al momento del bisogno. Non lo sapevo neppure che avesse speso quei dodicimila franchi per me. Io sono ordinata, io!, e tu lo sai. E poi, se papà mi ha fatto dei regali, non glieli ho mai chiesti.

- Tu eri più fortunata di me: il signor de Marsay era ricco, e tu ne sai qualche cosa. Sei stata sempre avara come l'oro. Addio, io non ho né sorella né...

- Taci, Nasia! - esclamò papà Goriot.

- Solo una sorella come te può ripetere quel che nessuno crede più; sei un mostro - le disse Delfina.

- Figliole mie, figliole mie, smettetela, o m'uccido qui davanti a voi.

- Nasia, ti perdono - disse la signora de Nucingen continuando - sei una sciagurata. Ma io sono migliore di te. Dirmi questo proprio nel momento in cui sarei stata capace di tutto per venirti in aiuto, anche di entrare in camera di mio marito, cosa che non farei né per me né per... Questo è degno di tutto il male che mi hai fatto da nove anni.

- Figliole mie, figliole mie, abbracciatevi! - disse il padre. - Voi siete due angeli.

- No, lasciatemi - gridò la contessa, che Goriot aveva presa per un braccio, e che s'era svincolata dall'abbraccio paterno. - Lei ha meno pietà di quanta non ne avrebbe mio marito. Eppure si direbbe sia l'immagine di tutte le virtù!

- Preferisco essere ritenuta debitrice del signor de Marsay, piuttosto di dover confessare che il signor de Trailles mi costa più di duecentomila franchi - rispose la signora de Nucingen.

- Delfina! - gridò la contessa facendo un passo verso di lei.

- Io ti sto dicendo la verità, mentre tu invece mi calunni - replicò freddamente la baronessa.

- Delfina, tu sei una...

Papà Goriot si slanciò, trattenne la contessa e le impedì di parlare, coprendole la bocca con la mano.

- Mio Dio!, babbo, ma che cosa avete toccato stamani? - gli domandò Anastasia.

- Ebbene, sì, ho torto - disse il povero padre asciugandosi le mani lungo i pantaloni. - Ma non sapevo che sareste venute qui, sto cambiando casa.

Era lieto d'essersi meritato un rimprovero che scaricava su di lui la collera della figlia.

- Ah! - riprese poi sedendosi - mi avete spezzato il cuore. Mi sento morire, figliole mie! La testa mi brucia dentro come se ci fosse il fuoco. Siate dunque buone, vogliatevi bene! Altrimenti mi farete morire. Delfina, Nasia, andiamo; avevate ragione e avevate torto tutte e due. Vediamo, Dedé - riprese a dire volgendo verso la baronessa i suoi occhi pieni di lacrime - le occorrono dodicimila franchi: cerchiamoli. Non vi guardate così. (E si mise in ginocchio dinanzi a Delfina). Chiedile perdono per far piacere a me - le disse all'orecchio - lei è la più infelice; non è così?

- Mia povera Nasia - disse Delfina spaventata dalla selvaggia e folle espressione che il dolore aveva fatto assumere al viso del padre - ho avuto torto, abbracciami...

- Ah !, mi versate un balsamo sul cuore - esclamò papà Goriot. - Ma dove trovare i dodicimila franchi? E se mi offrissi come surrogante?

- Ah!, papà mio! - dissero le due figlie facendoglisi attorno - no, no.

- Dio vi ricompenserà di questo pensiero, la nostra vita non basterebbe!, non è vero, Nasia? - riprese Delfina.

- E poi, povero babbo, sarebbe una goccia d'acqua - fece osservare la contessa.

- Ma non si può far nulla del proprio sangue? - gridò il vecchio esasperato. - Io mi dò tutto intero a chi ti salverà, Nasia!

Ucciderei un uomo per lui. Farò come Vautrin, andrò in galera!, io... - E si irrigidì, come se fosse stato fulminato. - Più niente! - disse strappandosi i capelli. - Se sapessi dove andare, per rubare; ma è difficile anche trovare il modo di rubare. E poi ci vorrebbe gente, ci vuol tempo per derubare la Banca. Ho capito, devo morire, non mi resta altro che morire. Sì, non sono più buono a nulla, non sono più padre!, no. Lei mi chiede aiuto, ha bisogno di me!, ed io, miserabile, non ho nulla da darle. Ah!, tu ti sei fatto dei vitalizi, vecchio scellerato, e avevi pur delle figlie!

Ma non le ami tu, dunque? Crepa, crepa, come quel cane che sei!

Sì, sto al disotto anche d'un cane, un cane non farebbe così. Oh!, la mia testa! bolle!

- Ma papà - gridarono le due donne che lo circondavano per impedirgli di darsi la testa al muro - siate dunque ragionevole!

Singhiozzava. Eugenio, spaventato, prese la cambiale da lui firmata a favore di Vautrin e il cui bollo comportava una somma anche maggiore; ne corresse la cifra, ne fece una cambiale regolare di dodicimila franchi all'ordine di Goriot, ed entrò.

- Ecco qui tutto il vostro denaro, signora - disse presentando la carta. - Dormivo, ma la vostra conversazione m'ha svegliato, e ho potuto così sapere quanto dovevo al signor Goriot. Eccone qui il titolo, che potrete scontare; io lo pagherò puntualmente.

La contessa, immobile, teneva in mano la carta.

- Delfina - disse, pallida e tremante di collera, di furore, di rabbia - ti perdonerei tutto, Dio me n'è testimonio, ma questo!

Come!, il signore era là? Tu allora lo sapevi. E sei stata così meschina da vendicarti, lasciandomi così svelargli i miei segreti, la mia vita, quella dei miei figli, la mia vergogna, il mio onore?

Va', non sei più nulla per me, ti odio io, ti farò tutto il male possibile, io... - La collera le mozzò la parola, la sua gola s'inaridì.

- Ma, è mio figlio, il nostro ragazzo, tuo fratello, il tuo salvatore - gridava papà Goriot. - Abbraccialo, Nasia! Guarda, l'abbraccio io - riprese, stringendo Eugenio con una specie di furore. - Oh!, figliolo mio, io sarò più che un padre per te, voglio esser per te una famiglia. Vorrei essere Dio, per mettere tutto l'universo ai tuoi piedi. Ma, bacialo, dunque, Nasia, questo non è un uomo ma un angelo, un vero angelo.

- Lasciate stare, babbo, è pazza in questo momento- disse Delfina.

- Pazza! Pazza!, e tu cosa sei? - fece la signora de Restaud.

- Figliole mie, io muoio se continuate così - gridò il vecchio cadendo sul letto come se colpito da un proiettile. - Esse mi uccidono!, - mormorò.

La contessa guardò Eugenio, che intanto era rimasto immobile, sbalordito dalla violenza di quella scena: - Signore - gli disse interrogandolo col gesto, con la voce e lo sguardo, senza fare attenzione al padre, il cui panciotto venne rapidamente sbottonato da Delfina.

- Signora, pagherò e tacerò - gli rispose senza attendere la domanda.

- Tu hai ucciso nostro padre, Nasia - disse Delfina, indicando il vecchio svenuto alla sorella, la quale fuggì.

- Le perdono volentieri - disse il bonuomo riaprendo gli occhi - la sua situazione è spaventosa e farebbe perdere la testa anche più solida. Consola Nasia, sii dolce con lei, promettilo al tuo povero padre che sta per morire - disse a Delfina premendole la mano.

- Ma che cosa avete? - essa chiese tutta spaventata.

- Nulla, nulla - rispose il padre - passerà. Ho qualcosa che mi stringe la fronte, una emicrania. Povera Nasia, che brutto avvenire!

In quel momento la contessa rientrò, si gettò alle ginocchia di suo padre: - Perdono! - gridò.

- Sta' su - disse papà Goriot - se mi dici così adesso mi fai anche più male.

- Signore - disse la contessa a Rastignac, con gli occhi bagnati di lacrime - il dolore mi ha reso ingiusta. Sarete davvero un fratello per me? - riprese tendendogli la mano.

- Nasia - le disse Delfina abbracciandola - mia piccola Nasia, dimentichiamo tutto.

- No - rispose - me ne ricorderò!

- Angeli miei - esclamò papà Goriot - voi mi togliete il velo che avevo sugli occhi, la vostra voce mi rianima. Abbracciatevi ancora una volta. Ebbene!, Nasia, questa cambiale ti metterà al sicuro?

- Lo spero. Ma ditemi, papà, volete metterci anche la vostra firma?

- Guarda che bestia sono io, a non averci pensato. Ma mi sono sentito male, Nasia, non volermene. Mandami presto a dire che sei fuori d'ogni imbarazzo. No, verrò io stesso. Ma no, non verrò, non posso più vedere tuo marito, lo ucciderei. Quanto poi ad alienare i tuoi beni, lo impedirò io. Va' presto, figlia mia, e fa' che Massimo metta la testa a posto.

Eugenio era stupefatto.

- Questa povera Anastasia è stata sempre violenta - disse la signora de Nucingen - ma ha buon cuore.

- S'è ravveduta per avere l'avallo - fece Eugenio all'orecchio di Delfina.

- Credete?

- Vorrei non crederlo. Diffidate di lei - aggiunse levando gli occhi al cielo, come per confidare a Dio pensieri che non osava esprimere.

- Sì, è stata sempre un po' commediante, e il mio povero padre si lascia abbindolare dalle sue smorfie.

- Come vi sentite, mio buon papà Goriot? - domandò Rastignac al vecchio.

- Ho voglia di dormire - rispose.

Eugenio aiutò Goriot a coricarsi. Poi, quando il bonuomo si fu addormentato tenendo la mano di Delfina, la figlia si ritirò.

- Ci vediamo questa sera agli "Italiens" - disse a Eugenio - e mi dirai tu come sta. Domani cambierete casa, signor mio. Vediamo un po' la vostra camera. Oh!, che orrore! - fece appena entrata. - Ma voi state anche peggio di mio padre. Eugenio, tu ti sei portato bene. Vi amerei anche di più se fosse possibile; ma, figliolo mio, se volete far fortuna, non bisogna mica buttare, come avete fatto, delle dozzine di migliaia di franchi dalla finestra. Il conte de Trailles è un giocatore. Mia sorella non vuole ammetterlo. Egli sarebbe andato a cercare i suoi dodicimila franchi là dove perde e guadagna monti d'oro.

Un gemito li fece ritornare in camera di Goriot, che trovarono apparentemente addormentato; ma quando i due amanti gli si avvicinarono, udirono queste parole: - Esse non sono felici! - O che dormisse o che fosse desto, l'accento di quella frase colpì così vivamente il cuore della figlia, che si avvicinò al giaciglio del padre, e lo baciò in fronte. Egli aprì gli occhi dicendo: - Sei tu, Delfina?

- Ebbene, come stai? - gli chiese.

- Bene - rispose. - Non ti preoccupare, adesso uscirò. Andate, andate pure, figli miei, e siate felici.

Eugenio accompagnò Delfina fino in casa sua; ma, preoccupato dello stato in cui aveva lasciato Goriot, non volle rimanere a pranzo da lei, e tornò alla pensione Vauquer. Ci trovò Goriot in piedi, e in procinto di mettersi a tavola. Bianchon s'era collocato in modo da poter bene esaminare il viso del vermicellaio. Quando gli vide prendere il pane e odorarlo per sentire con quale farina fosse stato fatto, lo studente, avendo notato in quel gesto una assenza totale di ciò che si potrebbe chiamare la coscienza dell'atto, fece un gesto sinistro.

- Mettiti vicino a me, signor interno di Cochin - disse Eugenio.

Bianchon ci si mise tanto più volentieri, in quanto così sarebbe stato più vicino al vecchio pensionante.

- Che cos'ha? - chiese Rastignac.

- A meno che mi sbagli, è spacciato! Deve essere accaduto qualcosa di straordinario in lui, mi pare sia sotto la minaccia d'una apoplessia sierosa imminente. Sebbene la parte inferiore del viso sia abbastanza calma, i tratti superiori si contraggono, suo malgrado, verso la fronte: guarda! E poi gli occhi si trovano in quello stato speciale che denota l'invasione del siero nel cervello. Non si direbbero pieni d'una polvere fina? Ma domattina ne saprò di più.

- Non c'è qualche rimedio?

- Nessuno. Forse si potrà ritardare la sua morte, se si troverà il modo di provocare una reazione verso le estremità, verso le gambe; ma se domani sera i sintomi non scompaiono, il pover'uomo è finito. Non sai mica da che fatto sia stato causato il male? Deve aver subìto un colpo violento, sotto il quale il suo morale avrà ceduto.

- Sì - disse Rastignac - ricordandosi bene che le due figlie avevano colpito senza tregua il cuore paterno.

"Almeno Delfina" diceva fra sé e sé Eugenio, "gli vuol bene a suo padre, lei!".

La sera, agli "Italiens", Rastignac usò qualche precauzione per non allarmare la signora de Nucingen.

- Non vi preoccupate - lei rispose alle prime parole di Eugenio - mio padre è forte. Ma, certo, questa mattina lo abbiamo un po' scosso. Le nostre fortune sono in pericolo: capite la portata di questa disgrazia? Io non vivrei, se il vostro affetto non mi rendesse insensibile a quel che prima avrei considerato angosce mortali. Non c'è ora che un solo timore, una sola disgrazia per me: perdere l'amore che mi ha fatto provare il piacere di vivere.

All'infuori di questo sentimento, tutto m'è indifferente, nulla al mondo m'interessa più. Voi siete tutto per me. Se provo la felicità d'esser ricca, è per piacervi di più. Io sono, a mia onta, più amante che figlia. Perché? Non lo so. Tutta la mia vita è in voi. Mio padre mi ha dato un cuore, ma voi l'avete fatto battere. Il mondo intero può biasimarmi, ma, che importa?, se voi, che non avete il diritto di rimproverarmi, mi assolvete dai delitti cui mi istiga un sentimento irresistibile? Mi crederete una figlia snaturata! Oh!, no, è impossibile non amare un padre così buono com'è il nostro. Ma potevo io forse impedire che egli non vedesse le conseguenze inevitabili dei nostri deplorevoli matrimoni? Perché non li ha impediti? Non doveva lui riflettere in vece nostra? Oggi, lo so, lui soffre quanto noi: ma che potevamo farci? Consolarlo? Non lo consoleremmo per nulla. La nostra rassegnazione lo addolorava più di quanto i nostri rimproveri e i nostri rammarichi potrebbero fargli del male. Ci sono situazioni, nella vita, in cui tutto è amarezza.

Eugenio rimase silenzioso, preso da tenerezza per l'effusione ingenua d'un sentimento sincero. Se le Parigine sono spesso false, ebbre di vanità, egoiste, civette, fredde, è però sicuro che quando amano veramente, sacrificano più sentimenti alle loro passioni che tutte le altre donne; e allora esse si fanno grandi per le loro stesse piccolezze, e diventano sublimi. E poi Eugenio era colpito dallo spirito profondo e così assennato che la donna dimostra nel giudicare i sentimenti più naturali, quando un affetto predominante la separa e la pone a distanza da essi. La signora de Nucingen si offese del silenzio mantenuto da Eugenio.

- Ma a che cosa pensate? - gli chiese.

- Ascolto ancora quel che mi avete detto. Avevo creduto fino ad ora di amarvi più di quanto voi non mi amiate.

Lei sorrise, e si difese dal piacere provato per mantenere la conversazione nei limiti imposti dalle convenienze. Non aveva mai udito le espressioni vibranti d'un amore giovane e sincero.

Qualche parola ancora, e non si sarebbe più contenuta.

- Eugenio - essa disse poi cambiando discorso - ma non sapete il fatto del giorno? Tutta Parigi andrà domani dalla signora de Beauséant. I Rochefide e il marchese d'Adjuda si son messi d'accordo di non divulgare la notizia; ma il re firmerà domani il contratto di matrimonio, e la vostra povera cugina ancora non sa nulla. Non potrà fare a meno di non dare il ricevimento, e il marchese non interverrà al ballo. Non si parla che di questo.

- E la gente ride d'una infamia, e ci fa la zuppa! Non sapete che la signora de Beauséant ne morirà?

- No - disse Delfina sorridendo - voi non conoscete quel tipo di donne là. Ma tutta Parigi andrà da lei, e ci sarò anch'io! E devo del resto a voi questo piacere.

- Ma - disse Rastignac - non sarà una di quelle tante ciarle assurde che si fanno correre per Parigi?

- Sapremo la verità domani.

Eugenio non rientrò alla pensione Vauquer. Non riuscì a prendere la decisione di non godere del suo nuovo appartamento. Se il giorno prima era stato costretto a lasciare Delfina all'una dopo mezzanotte, questa volta fu Delfina a lasciarlo verso le due, per tornare a casa sua. Egli dormì l'indomani fino a tardi, attese verso mezzodì la signora de Nucingen, che fece colazione con lui.

I giovani sono così avidi di questi vaghi piaceri che egli aveva già quasi dimenticato papà Goriot.

Fu per lui una prolungata gioia quella di abituarsi a ognuna delle eleganti cose che gli appartenevano. La signora de Nucingen era poi lì, a dare al tutto un maggior pregio. Tuttavia, verso le quattro, i due amanti si ricordarono di papà Goriot, pensando alla felicità che s'era ripromesso nell'andare ad abitare in quella casa. Eugenio fece osservare che era necessario trasportarvi subito il bonuomo, in previsione d'una sua malattia, e lasciò Delfina per correre alla pensione Vauquer. Né papà Goriot né Bianchon erano a tavola.

- Eh! - gli disse il pittore - papà Goriot sta male; Bianchon è su, vicino a lui. Il bonuomo ha visto una delle sue figlie, la contessa de "Restaurama". Poi, ha voluto uscire, e il suo male è peggiorato. La società sta per essere privata d'una delle sue belle figure.

Rastignac si slanciò su per le scale.

- Ehi!, signor Eugenio!

- Signor Eugenio, la signora vi chiama - gridò Silvia.

- Signore - gli disse la vedova - il signor Goriot e voi dovevate andar via il quindici febbraio. Sono tre giorni che il quindici è passato, siamo al diciotto; devo esser pagata di un mese vostro e di un mese suo; ma se mi garantite voi papà Goriot, la vostra parola mi basta.

- Perché, forse non vi fidate?

- Fidarsi! Se il bonuomo perdesse la conoscenza e morisse, le figlie non mi darebbero un centesimo, e tutti i suoi stracci non valgono dieci franchi. Ha portato via stamane le ultime sue posate. Non so poi perché. S'era vestito come un giovanotto. Dio mi perdoni, ma credo si sia messo il rossetto, m'è parso ringiovanito.

- Rispondo io di tutto - disse Eugenio rabbrividendo d'orrore e temendo una catastrofe.

Salì da papà Goriot. Il vecchio giaceva sul letto, e Bianchon gli era d'accanto.

- Buon giorno, papà - gli disse Eugenio.

Il bonuomo gli sorrise dolcemente, e rispose volgendo verso di lui due occhi vitrei: - Come sta, lei?

- Bene. E voi?

- Non c'è male.

- Non stancarlo - disse Bianchon portando Eugenio in un angolo della camera.

- Ebbene? - gli chiese Rastignac.

- Lo può salvare solo un miracolo. La congestione sierosa è avvenuta, sono intervenuto allora coi senapismi, fortunatamente li sente, gli fanno effetto.

- Lo si può trasportare?

- Impossibile. Bisogna lasciarlo lì, evitargli qualsiasi movimento e ogni emozione...

- Mio buon Bianchon - disse Eugenio - lo cureremo noi due.

- Ho già fatto venire il primario del mio ospedale.

- E che ha detto?

- Si pronuncerà domani sera. M'ha promesso di tornare non appena libero dai suoi impegni. Disgraziatamente questo originale ha commesso stamane una imprudenza su cui non vuol dare spiegazioni!

E' testardo come un mulo. Quando lo interrogo, fa finta di non capire, e dorme per non rispondermi; se invece ha gli occhi aperti, si lamenta. E' uscito prestissimo, è andato a piedi per Parigi, non si sa dove. Ha portato con sé tutto quel che ancora possedeva di valore, e deve essersi recato a far qualche benedetto traffico, superiore alle sue forze! Una delle figlie è venuta.

- La contessa? - domandò Eugenio. - Una alta, bruna, l'occhio vivace e ben tagliato, dai graziosi piedini, e dalla vita sottile?

- Sì.

- Lasciami un momento solo con lui - disse Rastignac. - Lo confesserò e vedrai che a me dirà tutto.

- Intanto io vado a pranzo. Cerca di non farlo agitare troppo, abbiamo ancora qualche speranza di salvarlo.

- Sta' tranquillo.

- Quanto si divertiranno domani - disse papà Goriot ad Eugenio, quando furono soli. - Andranno a un gran ballo.

- Ma che diamine avete fatto stamane, papà, per essere così sofferente stasera, da essere costretto a rimanere a letto?

- Nulla.

- Anastasia è venuta ? - domandò Rastignac.

- Sì - rispose papà Goriot.

- E allora? Non nascondetemi nulla. Che cos'altro vi ha chiesto ancora?

- Ah! - riprese, raccogliendo le forze per parlare - era così affranta, se sapeste, ragazzo mio, Nasia non ha più un soldo dopo l'affare dei diamanti. Aveva ordinato, per quel ballo, un abito di stoffa laminato che le deve stare come un gioiello. La sarta, un'infame, non ha voluto farle credito, e la cameriera ha versato lei mille franchi in acconto sulla toletta. Povera Nasia, ridotta a questo punto! La cosa mi ha straziato il cuore. La cameriera, vedendo che Restaud non si fida di Nasia, ha avuto paura di perdere il suo denaro e s'è messa d'accordo con la sarta per non consegnare l'abito se non quando le saranno restituiti i mille franchi. Il ballo è domani. L'abito è pronto. Nasia è disperata Ha voluto farsi prestare le mie posate per impegnarle. Suo marito vuole che lei vada al ballo per far vedere a tutta Parigi i diamanti che si dice abbia venduto. Può dire a quel mostro: "Devo dare mille franchi, pagateli?". No. Ho capito tutto questo, io.

Sua sorella Delfina interverrà con una toletta superba. Anastasia non deve essere al di sotto della sorella minore. E poi, è così in lacrime, quella povera figlia mia! Io sono rimasto così umiliato di non aver avuto dodicimila franchi ieri, che avrei dato il resto della mia miseranda vita per riscattare quel torto. Avete visto?

Avevo avuto la forza di sopportare tutto, ma il trovarmi senza denaro di fronte a quest'ultima occorrenza, mi ha spezzato il cuore. Oh! Oh!, ma ho detto né uno né due, mi sono rabberciato e azzimato; ho venduto per seicento franchi di posate e di fibbie, poi da papà Gobseck ho impegnato per un anno il mio titolo di rendita vitalizia contro quattrocento franchi versatimi una volta tanto. Beh, mangerò pane solo! Mi bastava quand'ero giovane, può bastarmi anche adesso. Ma almeno così potrà godersi una bella serata la mia Nasia. Sarà sgargiante. Ho il biglietto da mille franchi sotto il capezzale. Mi riscalda aver sotto la testa quel che farà piacere alla povera Nasia. E potrà mettere alla porta la sua cattiva Vittoria. S'è mai visto che i domestici non hanno fiducia nei loro padroni? Domani starò bene, Nasia verrà alle dieci. Non voglio che esse mi ritengano ammalato, altrimenti non andrebbero al ballo, rimarrebbero qui a curarmi. Nasia mi bacerà domani come se fossi suo figlio, le sue carezze mi guariranno. E poi, non avrei forse speso mille franchi dal farmacista?

Preferisco darli alla mia Panacea, alla mia Nasia. Almeno la consolerò della sua miseria. Questo mi sgrava del torto d'essermi fatto una rendita vitalizia. Lei è in fondo all'abisso, e io non ho più la forza di tirarla su. Oh! mi ridarò al commercio. Andrò a Odessa per comprarvi il grano. I grani, là, valgono tre volte meno di quel che costano i nostri. Se l'importazione dei cereali è vietata in natura, le brave persone che fanno le leggi non hanno però pensato a proibire quei prodotti in cui il grano è la base.

Eh! Eh!..., ci ho pensato io stamane! C'è da far bei colpi con gli amidi.

"E' pazzo" si disse Eugenio guardando il vecchio. "Su, riposatevi, ora, non parlate...".

Eugenio scese per il pranzo, quando tornò Bianchon. Poi tutti e due passarono la notte vegliando a turno il malato, l'uno studiando libri di medicina, l'altro scrivendo alla madre e alle sorelle. L'indomani, i sintomi presentati dal malato furono, secondo Bianchon, di buon augurio; ma richiesero continue cure di cui solo i due studenti erano capaci, e nel racconto dei quali è impossibile compromettere la pudibonda fraseologia dell'epoca. Le sanguisughe applicate sul corpo dimagrito del bonuomo furono accompagnate da cataplasmi, da bagni ai piedi e da altri espedienti clinici per i quali, del resto, occorrevano la forza e lo spirito di devozione dei due giovani. La signora de Restaud non venne; mandò a ritirare la somma da un fattorino.

- Credevo che sarebbe venuta lei stessa. Ma questo non è poi un male, si sarebbe preoccupata - disse il padre, sembrando lieto di tale circostanza.

Alle sette di sera, Teresa recapitò una lettera di Delfina.

"Che ne è di voi, amico mio? Appena amata, sarei già trascurata?

Mi avete dimostrato, nelle confidenze fatteci da cuore a cuore, un'anima troppo bella per non stimarvi come coloro che rimangono sempre fedeli valutando ogni sfumatura sentimentale. Voi stesso lo avete detto, ascoltando la preghiera di Mosè: "Quel che per gli uni è sempre la medesima nota, per gli altri è l'infinito della musica!". Ricordatevi che vi attendo questa sera per andare insieme al ballo della signora de Beauséant. Il contratto del signor d'Adjuda è stato firmato stamane a corte, e la povera viscontessa non lo ha saputo che alle due. Tutta Parigi andrà da lei, come il popolo gremisce la Grève quando ci deve essere una esecuzione. Non è orribile andare a vedere se quella donna nasconderà il suo dolore, se saprà morire bene? Io certo non ci andrei amico mio, se fossi già stata ricevuta altre volte in casa sua, ma lei certamente non riceverà più, e tutti i miei sforzi sarebbero allora inutili. La mia situazione è ben diversa da quella degli altri. E poi, io ci vado anche per voi. Vi aspetto.

Se voi non vi trovaste da me fra due ore, non so se vi perdonerei una simile fellonia".

Rastignac prese una penna, e rispose così:

"Sto attendendo un medico per sapere se vostro padre potrà vivere ancora. E' moribondo. Verrò a portarvi la sentenza, e temo sarà una sentenza di morte. Vedrete voi se sarà il caso d'intervenire al ballo. Mille tenerezze".

Il medico venne alle otto e mezza, e, senza esprimere un parere favorevole, non ritenne la morte imminente. Previde alternativamente miglioramenti e ricadute, da cui sarebbero dipesi la vita e lo stato mentale del bonuomo.

- Sarebbe meglio che morisse presto - fu l'ultima parola del medico.

Eugenio affidò papà Goriot alle cure di Bianchon e uscì per recare alla signora de Nucingen le dolorose notizie che, nella sua coscienza ancora imbevuta dei doveri famigliari, avrebbero dovuto sospendere ogni divertimento.

- Ditele che si diverta lo stesso - gli gridò papà Goriot che sembrava assopito, ma che si drizzò a sedere sul letto nel momento in cui Rastignac uscì.

Il giovane si presentò desolato a Delfina, e la trovò pettinata, calzata; non le rimaneva che indossare l'abito da ballo. Ma, come le pennellate con le quali i pittori finiscono i loro quadri, gli ultimi ritocchi richiedevano più tempo di quanto non ne erano necessari per il fondo stesso della tela.

- Come?, non siete in abito da sera? - gli chiese.

- Ma, signora, vostro padre...

- Ancora mio padre - esclamò interrompendolo. - Non sarete voi a insegnarmi i doveri verso mio padre. Conosco mio padre da lungo tempo. Non una parola, Eugenio. Non vi ascolterò se non quando vi sarete vestito da sera. Teresa ha già preparato tutto per voi; la carrozza è pronta, prendetela e tornate subito. Parleremo di mio padre andando al ballo. Bisogna uscire presto; se rimaniamo presi nella fila delle vetture, saremo fortunati se riusciremo ad entrare alle undici.

- Signora !

- Andate!, non una parola di più - disse andando di corsa verso il suo spogliatoio per prendervi una collana.

- Ma via, signor Eugenio, farete inquietare la signora - disse Teresa spingendo il giovane, spaventato da quell'elegante parricidio.

Andò a vestirsi, facendo le più tristi, le più scoraggianti riflessioni. Vedeva il mondo come un oceano di fango nel quale un uomo s'immergeva fino al collo se v'immergeva il piede.

- Vi si commettono solo delitti meschini, - si disse. - Vautrin è più grande.

Egli aveva visto le tre grandi manifestazioni della società:

l'Obbedienza, la Lotta e la Rivolta; la Famiglia, il Mondo e Vautrin. E non osava decidersi. L'Obbedienza era noiosa, la Rivolta impossibile e la Lotta incerta. Il pensiero lo ricondusse in seno alla sua famiglia. Si ricordò delle pure emozioni di quella vita tranquilla, si rammentò dei giorni trascorsi fra esseri da cui era amato. Conformandosi alle leggi naturali del focolare domestico, quelle care creature vi trovavano una felicità piena, durevole, senza angosce. Malgrado i suoi buoni pensieri, non si sentì il coraggio di andare a confessare la fede delle anime pure a Delfina, comandandole la Virtù in nome dell'Amore.

Già la sua nuova educazione aveva dato i suoi frutti. Amava già egoisticamente. La sua sensibilità gli aveva consentito di conoscere la natura del cuore di Delfina. Presentiva che costei sarebbe stata capace di calpestare il corpo del padre pur di andare al ballo, ed egli non aveva né la forza di rappresentare la parte d'un ragionatore, né il coraggio di dispiacerle, né la virtù di lasciarla. "Non mi perdonerebbe mai di aver avuto ragione contro di lei in questa circostanza", si disse. Poi commentò le parole dei medici, si cullò nell'illusione che papà Goriot non fosse poi così gravemente malato come credeva; insomma, accumulò ragionamenti capziosi per giustificare Delfina. Lei non sapeva bene lo stato in cui versava il padre. Il bonuomo stesso la avrebbe mandata al ballo, se fosse andata a trovarlo. Spesso la legge sociale, implacabile nella propria formula, condanna, laddove il delitto apparente è giustificato dagli innumerevoli modi di vedere introdotti in seno alle famiglie dalla differenza dei caratteri, dalla diversità degli interessi e delle situazioni.

Eugenio cercava d'ingannare se stesso, era pronto a sacrificare alla sua amante la propria coscienza. Da due giorni, tutto era mutato nella sua vita. La donna vi aveva gettato i suoi disordini, aveva fatto impallidire l'affetto familiare, aveva tutto confiscato a proprio profitto. Rastignac e Delfina s'erano incontrati nelle condizioni richieste per provare, l'uno per mezzo dell'altra, i più vivi godimenti. La loro passione, ben preparata, s'era ingrandita con quel che uccide le passioni: il godere.

Possedendo quella donna, Eugenio si accorse che fino allora l'aveva solo desiderata, l'amò solo all'indomani della felicità; l'amore non è forse che la riconoscenza per il piacere provato.

Infame o sublime, egli adorava quella donna per le voluttà che gli aveva portato in dote e per tutte quelle che ne aveva ricevuto.

Delfina amava Rastignac come Tantalo avrebbe amato l'angelo che gli avrebbe recato di che soddisfare la sua fame, o estinguere la sete della sua gola inaridita.

- Ebbene!, come sta mio padre? - gli domandò la signora de Nucingen quando egli fu di ritorno e in abito da sera.

- Malissimo - rispose - se volete darmi una prova del vostro affetto, corriamo a vederlo.

- Ebbene!, sì - lei disse - ma dopo il ballo. Mio buon Eugenio, sii cortese, non farmi la morale, vieni con me.

Uscirono. Eugenio rimase silenzioso per un tratto di strada.

- Che avete? - gli chiese.

- Sento il rantolo di vostro padre - egli rispose con accento di stizza. E prese a narrare con la calorosa eloquenza della gioventù la feroce azione cui la signora de Restaud era stata spinta dalla vanità, la crisi mortale che l'ultima dedizione paterna aveva provocato, e quel che sarebbe costato l'abito di stoffa laminata d'Anastasia. Delfina piangeva.

- Sarò brutta - essa pensò. Le sue lacrime si asciugarono. - Andrò ad assistere mio padre, non lascerò il suo capezzale - riprese a dire.

- Ah!, ecco come ti volevo - esclamò Rastignac. I fanali di cinque vetture rischiaravano gli accessi del palazzo de Beauséant. Da ogni lato della porta illuminata si pavoneggiava un gendarme. Il gran mondo affluiva in tal quantità, e ognuno poneva tanta sollecitudine nel recarsi a vedere quella gran dama al momento della sua caduta, che gli appartamenti al pianterreno del palazzo erano già pieni quando la signora de Nucingen e Rastignac fecero il loro ingresso. Da quando tutta la corte si precipitò in casa della Grande Demoiselle, cui Luigi Quattordicesimo aveva strappato l'amante, nessuna catastrofe d'amore fu più clamorosa di quella della signora de Beauséant. In quella circostanza, l'ultima figlia della quasi reale casa di Borgogna si dimostrò superiore alla propria sciagura, e dominò fino all'ultimo istante la società di cui aveva accettato le vanità solo per asservirle al trionfo della sua passione. Le più belle donne di Parigi animavano i saloni con le loro tolette e con i loro sorrisi, gli uomini più notevoli della corte, gli ambasciatori, i ministri, le personalità più illustri d'ogni ramo, fregiati di croci, di placche, di cordoni multicolori, si affollavano attorno alla viscontessa. L'orchestra faceva risuonare i motivi della sua musica sotto i soffitti dorati di quel palazzo, deserto per la sua regina. La signora de Beauséant era in piedi all'ingresso del primo salone per ricevere i suoi pretesi amici. Vestiva di bianco, senza alcun ornamento nei capelli, semplicemente intrecciati, sembrava calma e non ostentava né dolore, né fierezza, né falsa allegrezza. Nessuno poteva leggere nell'animo suo. L'avreste detta una Niobe di marmo. Il suo sorriso agli amici intimi fu qualche volta ironico; ma essa apparve a tutti presente a se stessa, e si mostrò così eguale a quella che era stata quando la felicità l'adornava dei suoi raggi, che i meno accorti l'ammirarono, come i giovani Romani applaudivano il gladiatore che sapeva sorridere morendo. Il mondo sembrava essersi agghindato per dare il suo addio ad una delle sue sovrane.

- Temevo che non veniste - essa disse a Rastignac.

- Signora - egli rispose con voce commossa interpretando la frase come un rimprovero - sono venuto per rimanere ultimo.

- Bene - essa disse prendendogli la mano. - Voi siete forse qui il solo di cui possa fidarmi. Amico mio, amate una donna cui possiate voler bene sempre. Non ne abbandonate mai nessuna.

Si mise a braccetto di Rastignac e lo condusse a un divano, nel salone dove si giocava.

- Andate - gli disse - dal marchese. Giacomo, il mio domestico, vi condurrà da lui e vi darà una lettera per lui. Gli chiedo la mia corrispondenza. Ve la consegnerà, spero, tutta quanta. Quando avrete le mie lettere, salite in camera mia. Mi avvertiranno. - Si alzò per andare incontro alla duchessa de Langeais, la sua migliore amica, anche lei sopraggiunta. Rastignac uscì, fece chiedere del marchese d'Adjuda al palazzo de Rochefide, dove doveva passare la serata, e dove infatti lo trovò. Il marchese lo condusse in casa propria, consegnò un cofanetto allo studente e gli disse:

- Ci sono tutte. - Sembrò poi voler parlare a Eugenio, sia per interrogarlo a proposito del ballo e della viscontessa, sia per confessargli d'essere già forse pentito del suo matrimonio, come di fatto più tardi lo fu; ma un lampo d'orgoglio brillò nei suoi occhi, ed ebbe il deplorevole coraggio di mantenere il silenzio sui suoi più nobili sentimenti. - Non ditele nulla di me, mio caro Eugenio. - Strinse la mano di Rastignac con un gesto affettuoso, sommamente triste, e gli fece cenno di uscire. Eugenio tornò al palazzo de Beauséant, e fu introdotto nella camera della viscontessa, dove notò i preparativi d'una partenza. Si sedette vicino al fuoco, guardò ancora la cassettina di cedro, e cadde in una profonda malinconia. Per lui, la signora de Beauséant assumeva le proporzioni d'una dea dell'lliade.

- Ah!, amico mio - disse la viscontessa entrando, e appoggiando la mano sulla spalla di Rastignac.

Egli vide sua cugina in lacrime, gli occhi al cielo, una mano tremante, l'altra sollevata. Essa prese a un tratto il cofanetto, lo mise sul fuoco e lo guardò mentre bruciava.

- Ballano! Sono venuti tutti puntualmente, mentre la morte verrà tardi. Zitto!, amico mio - disse ponendo un dito sulla bocca di Rastignac, che stava per parlare. - Non vedrò mai più né Parigi né la società. Alle cinque del mattino partirò, per andarmi a seppellire in fondo alla Normandia. Dalle tre del pomeriggio sono stata costretta a fare i miei preparativi, a firmare dei documenti, a esaminare degli affari; non potevo mandare nessuno da... - S'interruppe. - Sicuramente lo si sarebbe trovato da... - E s'interruppe ancora, affranta dal dolore. In quei momenti tutto è sofferenza, e certe parole non si possono pronunciare. - Ma - riprese a dire - contavo questa sera su di voi per quest'ultimo favore. Vorrei darvi un pegno della mia amicizia. Penserò spesso a voi che mi siete sembrato buono e nobile, giovane e candido in mezzo a questo mondo, dove tali qualità sono tanto rare. Spero penserete qualche volta a me. Tenete - disse volgendo lo sguardo intorno a sé - ecco il cofanetto dove mettevo i miei guanti. Ogni volta che li ho presi da qui prima di andare a un ballo o al teatro mi sentivo bella perché ero felice, e lo toccavo solo per lasciarci qualche leggiadro pensiero, c'è molto di me, lì dentro, c'è tutta una signora de Beauséant che non esiste più.

Accettatelo. Penserò io a farvelo portare in casa vostra, in via d'Artois. La signora de Nucingen è assai bella questa sera, amatela. Se non ci vedremo più, amico mi, siate certo che augurerò tanto bene a voi che siete stato così buono con me. Ora scendiamo, non voglio far credere che piango. Ho l'eternità dinanzi a me, vi rimarrò sola, e nessuno mi chiederà conto delle mie lacrime.

Ancora uno sguardo a questa camera. - Si fermò. Poi, dopo essersi per un istante coperti gli occhi con la mano, li asciugò, li bagnò con acqua fresca, e si mise sotto al braccio dello studente.

Andiamo! - disse.

Rastignac non aveva ancora mai provato un'emozione così violenta come quella procuratagli dal contatto con quel dolore così nobilmente represso.

Rientrando nei saloni, Eugenio ne fece il giro con la signora de Beauséant, ultima e delicata cortesia di quella gentil dama.

Vide poi subito le due sorelle, la signora de Restaud e la signora de Nucingen. La contessa era magnifica con tutti i suoi diamanti in mostra, e dovevano certo scottarle in quanto era quella l'ultima volta che li avrebbe portati. Per quanto potenti fossero il suo orgoglio e il suo amore, non riusciva a sostenere gli sguardi di suo marito. Quello spettacolo non era tale da rendere i pensieri di Rastignac meno tristi. Se aveva rivisto Vautrin nel colonnello italiano, egli rivide allora, sotto i diamanti delle due sorelle, il misero lettuccio sul quale giaceva papà Goriot. La viscontessa ingannata dal suo atteggiamento malinconico ritrasse da lui il braccio.

- Oh!, non voglio davvero privarvi di un piacere - essa disse.

Eugenio fu subito chiamato da Delfina, felice dell'effetto da lei prodotto e fiera di porre ai piedi dello studente gli omaggi che raccoglieva in quel mondo, dove sperava di essere accolta.

- Come trovate Nasia? - gli chiese.

- Ha scontato - rispose Rastignac - anche la morte di suo padre.

Verso le quattro del mattino, la folla dei salotti cominciava a diradare. La musica non s'udì più. La duchessa de Langeais e Rastignac si trovarono soli nel salotto grande. La viscontessa, credendo di dover incontrare solo lo studente, vi entrò dopo aver detto addio al signor de Beauséant, che andò a coricarsi ripetendole:

- Avete torto, mia cara, d'andarvi a ritirare in provincia alla vostra età! Ma restate con noi!

Vedendo la duchessa, la signora de Beauséant non poté trattenere un gesto di sorpresa.

- Ho indovinato, Clara - disse la signora de Langeais. - Voi partite per non ritornare più; ma voi non partirete senza prima avermi ascoltata, e senza prima esserci capite. - E, presa l'amica a braccetto, la condusse nel salotto vicino, e là, guardandola con le lacrime agli occhi, la strinse fra le braccia e la baciò sulle gote. - Non voglio lasciarvi freddamente, mia cara, sarebbe per me un rimorso troppo forte. Voi potete contare su di me come su voi stessa. Siete stata grande questa sera, io mi sono sentita degna di voi, e voglio dimostrarvelo. Ho avuto dei torti verso di voi, non mi sono sempre condotta bene, perdonatemi, mia cara; disapprovo tutto quel che ha potuto offendervi, vorrei poter ritirare le mie parole. Uno stesso dolore ha unito le nostre anime, e io non so chi di noi due sarà la più infelice. Il signor de Montriveau non era qui, stasera, capite? Chi vi ha visto durante questo ballo, Clara, non vi dimenticherà più. Io tento un'ultima prova. Se andrà male, mi ritirerò in un convento. Dove andate, voi?

- In Normandia, a Courcelles, ad amare e a pregare fin quando a Dio piacerà ritirarmi da questo mondo.

- Venite qui, signor de Rastignac - disse la viscontessa con voce commossa, pensando che il giovane attendeva. Lo studente piegò il ginocchio, prese la mano della cugina e la baciò. - Antonietta, addio! - riprese a dire la signora de Beauséant - siate felice.

Quanto a voi, voi lo siete, voi siete giovane, potete credere a qualcosa - disse allo studente. - Nel partire da questo mondo, avrò avuto intorno a me, come alcuni morenti privilegiati, religiose e sincere emozioni!

Rastignac se ne andò verso le cinque, dopo aver veduto la signora de Beauséant nella sua berlina da viaggio, dopo aver avuto il suo ultimo addio bagnato di lacrime, lacrime che provavano come le persone più elevate non sono poste fuori della legge del cuore e non vivono senza dolori, come vorrebbero far credere al popolo taluni suoi cortigiani. Eugenio tornò a piedi alla pensione Vauquer, con un tempo umido e freddo. La sua formazione spirituale s'andava completando.

- Non riusciremo a salvare il povero papà Goriot - disse Bianchon a Rastignac, quando questi entrò nella camera del suo vicino.

- Amico mio - gli rispose Eugenio, dopo aver guardato il vecchio addormentato - va', segui il destino modesto in cui limiti le tue aspirazioni. Io mi trovo in un inferno, e devo restarci. Qualsiasi male ti si dica del mondo, credici! Non c'è Giovenale che possa dipingerne l'orrore, coperto d'oro e di pietre preziose.

L'indomani, Rastignac fu svegliato verso le due del pomeriggio da Bianchon che, costretto a dover uscire, lo pregò di assistere papà Goriot, il cui stato era molto peggiorato durante la mattinata.

- Il bonuomo non ha altri due giorni, non ha forse più neppure altre sei ore di vita - disse lo studente in medicina - ma tuttavia non possiamo cessare dal combattere il male. Bisognerà ora apprestargli cure più costose. Noi saremo i suoi infermieri, ma io non ho un soldo. Ho rivoltato le sue tasche, frugato nei suoi armadi: zero al quoziente. L'ho interrogato in un momento in cui aveva la testa a posto, e mi ha detto di non possedere neanche un centesimo. Tu, hai qualcosa ?

- Mi restano in tutto venti franchi - rispose Rastignac - andrò a giocarli, vincerò.

- E se perdi?

- Chiederò del denaro ai generi e alle figlie.

- E se loro non te lo daranno? - rispose Bianchon - La cosa più urgente in questo momento non è tanto di trovare il denaro, quanto di avvolgere il bonuomo in un senapismo bollente dai piedi a metà delle cosce. Se grida, ci sarà qualche speranza. Tu sai come si fa. E poi, ti aiuterà Cristoforo. Ora passerò dal farmacista per garantirgli l'ammontare di tutte le medicine che prenderemo da lui. E' un guaio che il pover'uomo non si possa trasportare al nostro ospedale, lì sarebbe stato meglio. Su, vieni, ti dirò quel che devi fare; e non lasciarlo finché io non sia ritornato.

I due giovani entrarono nella camera dove giaceva il vecchio.

Eugenio rimase spaventato del mutamento avvenuto in quel viso convulso, pallido e sfinito.

- Ebbene, papà? - gli disse chinandosi verso il giaciglio.

Goriot levò verso Eugenio i suoi occhi appannati e lo guardò assai attentamente, ma senza riconoscerlo. Lo studente non sostenne quello spettacolo, le lacrime gli inumidirono gli occhi.

- Bianchon, non ci vorrebbero le tendine alle finestre?

- No, il tempo che fa fuori non ha più effetto su di lui. Dio volesse che sentisse caldo o freddo. Ma comunque ci vuole del fuoco per far le tisane e preparare tante altre cose. Ti manderò un po' di fascine che ci serviranno finché non avremo la legna.

Tra ieri e questa notte, ho consumato la tua e tutte le formelle del pover'uomo. C'era tanta umidità; l'acqua stillava dai muri.

Sono riuscito a scaldare appena la camera. Cristoforo l'ha spazzata, era proprio una stalla. Vi ho bruciato del ginepro, tanto era il lezzo.

- Santo Dio - disse Rastignac - ma le sue figlie!

- Senti, se ti chiede da bere, gli darai questo - disse lo studente mostrando a Rastignac una grande tazza bianca. - Se si lamenta e il ventre gli diventasse caldo e duro, ti farai aiutare da Cristoforo per somministrargli... tu mi hai capito. Nel caso che si agitasse, che parlasse molto, se insomma cominciasse a vaneggiare, lascialo fare. Non sarà un cattivo segno. Ma manda subito Cristoforo all'Ospedale Cochin. Il nostro medico, un mio collega o io stesso, verremo ad applicargli delle ventose. Abbiamo avuto, stamane, mentre dormivi, un consulto con un allievo del dottor Gall, il primario dell'Hôtel-Dieu e il nostro. Questi sanitari ritengono di aver riscontrato curiosi sintomi e noi seguiremo il decorso della malattia per accertare alcuni aspetti scientifici molto importanti. Uno di loro pensa che se la pressione del siero si verificasse più su di un organo che su di un altro, essa potrebbe dar luogo a fatti singolari. Ascoltalo bene, se si mettesse a parlare, per vedere a qual genere d'idee si riferiscono i suoi discorsi, se sono effetto di memoria, di discernimento, di giudizio; se tratta di cose materiali o di sentimento; se calcola, se torna sul passato; insomma, sii in grado di farci un resoconto esatto. Se l'invasione sierosa dovesse avvenire tutta insieme, allora morirà in uno stato d'ebetudine, come è quello in cui si trova adesso. Tutto è assai curioso in questo genere di malattie! Se la bomba scoppiasse qui - fece Bianchon indicando l'occipite del malato, ci sono esempi di fenomeni strani: il cervello riacquista alcune sue facoltà, e la morte sopravviene più lentamente. Le sierosità possono abbandonare il cervello e prendere altre vie, e non se ne conosce il percorso che con l'autopsia. C'è agli Incurables un vecchio ebete al quale è capitato che il travaso ha preso la strada della colonna vertebrale; soffre orribilmente, ma vive.

- Si sono divertite? - chiese papà Goriot, che riconobbe Eugenio.

- Oh!, non pensa che alle figlie - disse Bianchon. - Mi ha ripetuto più di cento volte questa notte: "Stanno ballando. Lei ha il suo vestito". E le chiamava coi loro nomi. Mi faceva piangere, che il diavolo mi si porti se ti dico bugie!, con le sue intonazioni: "Delfina!, mia piccola Delfina!, Nasia!". Parola mia d'onore - disse lo studente in medicina - c'era da scoppiare in lacrime.

- Delfina - fece il vecchio - lei è là, non è vero? Lo sapevo bene. - E i suoi occhi riacquistarono un'attività folle per guardare i muri e l'uscio.

- Scendo per dire a Silvia che prepari i senapismi - esclamò Bianchon - questo è il momento buono. - Rastignac rimase solo vicino al vecchio, seduto ai piedi del suo letto, gli occhi fissi su quella testa, la cui vista incuteva terrore e ispirava dolore.

"La signora de Beauséant fugge, costui muore", si disse. "Le anime belle non possono restare a lungo in questo mondo. Come, infatti, i nobili sentimenti potrebbero amalgamarsi con una società meschina, gretta, superficiale?". Le immagini della festa cui aveva assistito si riaffacciarono alla sua memoria e contrastarono con lo spettacolo di quel letto di morte. Bianchon riapparve subito.

- Senti, Eugenio, ho veduto poco fa il primario, e sono tornato di corsa. Se si manifestassero sintomi di un ritorno alla ragione, se parla, coricalo su di un lungo senapismo, in modo da avvolgerlo nella sénape dalla nuca ai reni, e facci chiamare.

- Sei molto caro, Bianchon - disse Eugenio.

- Oh, si tratta d'un caso clinico! - replicò lo studente in medicina, con tutto l'ardore d'un neofita.

- Insomma - disse Eugenio - sarò dunque il solo ad assistere questo povero vecchio unicamente per affetto.

- Se mi avessi visto questa mattina, non diresti così - fece Bianchon, senza per altro offendersi della frase. - I medici, usi alla pratica, non vedono che la malattia; io vedo ancora il malato, mio caro ragazzo. - Se ne andò, lasciando Eugenio solo col vecchio e con la preoccupazione di una crisi, che non tardò a dichiararsi.

- Ah!, siete voi, mio caro figliolo - disse papà Goriot riconoscendo Eugenio.

- Vi sentite meglio? - domandò lo studente, prendendogli la mano.

- Sì, mi sentivo la testa stretta come in una morsa, ma ora se ne sta liberando. Avete visto le mie figliole? Verranno qui subito, accorreranno non appena mi sapranno malato, mi hanno assistito tanto amorosamente in via della Jussienne! Mio Dio!, vorrei che la mia camera fosse più pulita, per riceverle. Un giovanotto m'ha consumato tutto il carbone.

- Sento venire Cristoforo - gli disse Eugenio - che vi porta della legna mandatavi da quel giovanotto.

- Bene!, ma come si fa a pagare la legna? Io non ho un soldo, figliolo mio! Ho tutto donato, tutto. Sono ridotto a dover chiedere l'elemosina. Ma, almeno, l'abito laminato era bello?

(Ah!, mi sento male!). Grazie, Cristoforo, Dio vi ricompenserà, ragazzo mio; io non ho più nulla.

- A te e a Silvia vi ricompenserò bene io - disse Eugenio all'orecchio del ragazzo.

- Le mie figliole vi hanno detto che sarebbero venute, non è vero?, Cristoforo? Tornaci, ti regalo cento soldi. Digli che non mi sento bene, che vorrei abbracciarle, vederle ancora una volta prima di morire. Digli questo, ma senza spaventarle troppo. - Cristoforo uscì a un cenno di Rastignac.

- Stanno per arrivare - riprese a dire il vecchio. - Le conosco bene. Se muoio, che dolore darei a quella buona Delfina! E a Nasia, lo stesso. Non vorrei morire per non farle piangere.

Morire, mio buon Eugenio, vuol dire non vederle più. Là dove ce ne andiamo mi annoierò assai. Per un padre l'inferno è l'esser senza la compagnia dei figli, e io l'ho già provato da quando esse si sono sposate. Il mio paradiso era la via della Jussienne. Ma ditemi: se andassi in paradiso, potrei ritornare sulla terra in spirito intorno a loro? Ho sentito dire qualcosa di simile. Sarà vero? Mi pare di vederle in questo momento com'erano in via della Jussienne. Scendevano, la mattina. "Buon giorno, papà", mi dicevano. Le prendevo allora sulle mie ginocchia, gli facevo mille moine, mille scherzucci. E loro mi carezzavano con tanta grazia!

Facevamo colazione tutte le mattine insieme, pranzavamo, insomma ero padre, mi godevo le mie figliole. Quand'erano in via della Jussienne, non facevano tanti ragionamenti, non sapevano nulla del mondo, mi volevano bene. Mio Dio!, perché non sono rimaste sempre piccole? (Oh!, quanto soffro, la testa mi scoppia!) Ah!, ah!, perdonatemi, figliole mie, soffro terribilmente, e deve essere proprio un dolore forte assai, perché voi mi avete fatto diventare ben resistente al male. Mio Dio!, se avessi solo le loro mani nelle mie, non sentirei affatto il mio male. Credete che verranno?

Cristoforo è tanto stupido! Avrei dovuto andarci io stesso. Lui le vedrà, lui. Ma voi siete stato ieri al ballo. Ditemi, dunque, com'erano? Non sapevano nulla della mia malattia, è vero? Non avrebbero allora ballato, povere piccole! Oh!, non voglio più star male. Hanno ancora troppo bisogno di me. Le loro fortune sono compromesse. E di quali mariti sono in balìa! Fatemi guarire, fatemi guarire. (Oh!, quanto soffro! Ah! ah! ah!) Capite? Bisogna che guarisca, perché gli serve del denaro, e io so dove poterlo guadagnare. Andrò a fabbricare amido in aghi a Odessa. Sono furbo, io, e guadagnerò milioni. (Oh!, soffro troppo!). - Goriot tacque per un istante e parve fare ogni sforzo per riunire le sue forze al fine di sopportare il dolore.

- Se loro fossero qui, non mi lamenterei - disse. - E allora perché lamentarmi?

Un lieve assopimento sopravvenne, e durò a lungo. Cristoforo intanto tornò. Rastignac, credendo che papà Goriot dormisse, lasciò che il domestico gli riferisse ad alta voce l'esito della sua missione.

- Signore - questi disse - sono andato prima dalla contessa ma non le ho potuto parlare, perché aveva molto da fare con suo marito. E siccome insistevo, il signor de Restaud è venuto lui stesso e mi ha detto proprio così: "Se il signor Goriot muore, ebbene, è quanto di meglio può fare. Ho bisogno della signora de Restaud per portare a termine degli affari importanti, lei ci verrà quando tutto sarà finito". Pareva molto in collera, quel signore. Mentre stavo per uscire, la signora è entrata in anticamera da una porta che non avevo visto, e m'ha detto: "Cristoforo, dì a mio padre che io sto discutendo con mio marito, e che adesso non posso lasciarlo; si tratta della vita o della morte dei miei figli; ma, non appena avrò finito, verrò". Quanto alla signora baronessa, altra storia! Non l'ho vista, e non le ho potuto parlare. "Oh!", mi ha detto la cameriera, "la signora è tornata dal ballo alle cinque e un quarto, e ora dorme; se la sveglio prima di mezzogiorno, mi sgrida. Le dirò che suo padre peggiora, quando mi chiamerà. Per una brutta notizia c'è sempre tempo". Ho avuto un bel pregare! Ah!, sì, ho anche chiesto di parlare al signor barone, ma era uscito.

Nessuna delle figlie verrà! - esclamò Rastignac. - Adesso scrivo a tutte e due.

- Nessuna - disse il vecchio drizzandosi a sedere sul letto. - Devono pensare agli affari, dormono: esse non verranno. Lo sapevo.

Bisogna morire per sapere che cosa sono i figli. Ah!, amico mio, non prendete moglie, non fate figli! Gli date la vita, e loro vi danno la morte. Li fate entrare nel mondo, e loro ve ne discacciano. No, non verranno! So questo da dieci anni. Me lo dicevo qualche volta, ma non osavo crederlo. - Una lacrima spuntò in ciascuno dei suoi occhi, si fermò sull'orlo rosso, e non cadde.

- Ah!, se fossi ricco, se avessi conservato il mio patrimonio, se non glielo avessi donato, esse sarebbero qui, mi leccherebbero le guance coi loro baci! Abiterei in un palazzo, avrei belle stanze, domestici e fuoco per riscaldarmi; esse sarebbero tutte in lacrime, coi loro mariti e i loro figli. Avrei tutto questo. E invece, nulla! Il denaro procura tutto, anche le figlie. Oh!, il mio denaro, dov'è? Se avessi tesori da lasciare, esse mi assisterebbero, mi curerebbero; le sentirei, le vedrei. Ah!, mio caro figliolo, mio solo figliolo, preferisco l'abbandono in cui sono lasciato, e la mia miseria! Almeno, quando un poveretto è amato, è ben sicuro d'essere amato. Ma no!, vorrei essere ricco, perché allora le vedrei. In fede mia, chi sa? Esse hanno tutte e due un cuore di pietra. Gli volevo troppo bene perché ne potessero volere a me. Un padre deve essere sempre ricco, deve tenere i figli a freno come i cavalli di cui non c'è da fidarsi. E io che stavo sempre in ginocchio innanzi a loro! Le sciagurate! Questo è il degno coronamento d'un modo d'agire verso di me che dura da dieci anni. Se sapeste come avevano tutti i riguardi per me nei primi tempi del loro matrimonio! (Oh, sto soffrendo un crudele martirio!). Avevo dato a ognuna circa ottocentomila franchi; allora né loro, né i loro mariti potevano trattarmi male. Mi ricevevano: "Mio buon papà, di qui, mio caro padre, di là". Il coperto per me era sempre pronto in casa loro. Pranzavo coi loro mariti, che mi trattavano con considerazione. Poteva sembrare che io possedessi anche qualcos'altro. Perché questo? Perché non avevo mai parlato dei miei interessi. Un uomo che dà ottocentomila franchi alle proprie figlie era un uomo da tenersi da conto. E mi venivano usati tutti i riguardi, ma era solo per il mio denaro. Il mondo non è bello. L'ho visto io! Mi portavano in carrozza al teatro, e prendevo parte alle loro serate fin quando mi pareva.

Insomma, si vantavano d'essere figlie mie, e mi riconoscevano come padre loro. Non sono mica uno sciocco, andiamo! e nulla m'è sfuggito. Tutto è stato fatto con perfida astuzia, e ne ho il cuore trafitto, Lo vedevo bene che erano tutte finzioni, ma il male non aveva rimedio. In casa loro non stavo mica senza alcuna soggezione, come a tavola qui sotto. Non sapevo che dire. E quando qualcuno del loro ambiente mondano domandava all'orecchio dei miei generi: "Chi è quel signore lì?". "E' il padre con gli scudi, è ricco". "Ah!, caspita!", si diceva, e mi si guardava col rispetto dovuto agli scudi. E se qualche volta potevo essergli di disturbo, compensavo lautamente i miei difetti! D'altronde, chi è perfetto?

(la mia testa è una piaga!). Io sto soffrendo in questo momento quel che si deve soffrire per morire, mio caro signor Eugenio; eppure, questo è niente a paragone del dolore che mi diede il primo sguardo col quale Anastasia mi fece capire che avevo detto una sciocchezza, di cui si vergognò: quel suo sguardo mi aprì tutte le vene. Avrei voluto saper tante cose, ma quel che avevo intanto ben saputo era che ormai ero di troppo su questa terra.

L'indomani, andai da Delfina per consolarmi, ma pure lì commisi un'altra sciocchezza che la fece andare in collera. Ci diventai quasi pazzo. Passai otto giorni senza sapere quel che dovevo fare.

Non osai più andarle a trovare, per il timore dei loro rimproveri.

Ed eccomi messo alla porta dalle mie figlie. Oh, mio Dio!, tu che conosci le miserie, i patimenti da me sopportati, tu che hai contato le pugnalate da me ricevute durante tutto questo tempo che mi ha fatto diventare vecchio, mi ha cambiato, ucciso, incanutito:

perché mi fai soffrire anche adesso? Ho ben espiato il peccato d'amarle troppo. Esse si sono ben vendicate del mio affetto, mi hanno attanagliato come carnefici! Eppure, i padri sono così sciocchi! Le ho amate tanto, che ci sono ritornato come un giocatore al gioco. Le mie figlie erano il mio vizio; erano le mie padrone, insomma tutto. Se avevano tutte e due bisogno di qualche cosa, di qualche ornamento, le cameriere me lo dicevano, e io glielo regalavo per essere bene accolto! E mi hanno dato anche qualche lezioncina sul modo di comportarmi in società. Oh!, per darmele, non hanno aspettato il giorno dopo. Cominciavano a vergognarsi di me. Ecco che cosa vuol dire dare una buona educazione ai propri figli. Alla mia età non potevo mica andare a scuola. (Soffro orribilmente, mio Dio!, e i medici, chiamate i medici! Se mi aprissero la testa, soffrirei di meno). Ma le figlie, le mie figlie, Anastasia!, Delfina! Voglio vederle.

Mandate la gendarmeria a cercarle, la polizia! La giustizia è dalla parte mia, tutto è dalla parte mia, la natura, il codice civile. Io protesto. La patria perirà, se i padri sono calpestati.

Questo è chiaro. La società, il mondo si basano sulla paternità; tutto crolla se i figli non amano i loro padri. Oh!, vederle, sentirle, non importa quel che mi diranno, purché io senta la loro voce, questo calmerà i miei dolori, Delfina soprattutto. Ma ditegli, quando saranno qui, che non mi guardino, come fanno sempre, freddamente. Ah!, mio buon amico, signor Eugenio, voi non sapete cosa sia vedere l'oro dello sguardo cambiarsi tutto insieme in grigio piombo. Dal giorno in cui i loro occhi non hanno più raggiato su di me, è stato sempre inverno qui per me; non ho avuto più che dolori da ingoiare, e li ho ingoiati! Ho vissuto solo per essere umiliato, insultato. Le amo tanto, che mandavo giù tutti gli affronti coi quali mi vendevano una misera gioia per me vergognosa. Un padre che si deve nascondere per vedere le sue figlie! Gli ho dato la mia vita, e loro oggi non mi daranno neppure un'ora! Ho sete, ho fame, il cuore mi brucia, e loro non verranno ad alleviare la mia agonia, perché io muoio, lo sento. Ma non sanno dunque che cosa vuol dire calpestare il cadavere del loro padre? C'è un Dio nei cieli, e Lui ci vendica nostro malgrado, noi padri. Oh!, esse verranno! Venite, mie care, venite ancora a baciarmi, un ultimo bacio, il viatico di vostro padre, che pregherà Dio per voi, che Gli dirà che siete state brave figliole, che vi difenderà! Dopo tutto, siete innocenti. Sono innocenti, amico mio! Ditelo bene a tutti, e che non siano rimproverate per causa mia. La colpa è tutta mia, sono io che le ho abituate a calpestarmi. Mi faceva piacere. Questo non riguarda nessun altro, né la giustizia umana, né quella divina. Dio sarebbe ingiusto se le condannasse per causa mia. Non ho saputo regolarmi, ho avuto il torto di abdicare i miei diritti. Mi sarei umiliato per loro! Che volete! anche il miglior carattere, le migliori anime avrebbero ceduto alla corruzione di questa arrendevolezza paterna. Sono uno sciagurato, e la mia punizione è giusta. Io solo sono responsabile dei torti delle mie figlie, sono io che le ho guastate. Esse vogliono oggi il piacere, come volevano una volta le chicche. Gli ho sempre permesso di soddisfare ogni loro capriccio di giovinette. A quindici anni avevano già carrozza! Non hanno avuto mai una rémora. Io solo sono colpevole, ma colpevole per amore. La loro voce mi allargava il cuore. Le sento arrivare, vengono. Oh!, sì, verranno. La legge comanda che si vada a veder morire il padre, la legge sta dalla parte mia. E poi, questo non costerà che la spesa d'una corsa in vettura. La pagherò io.

Scrivetegli che ho da lasciargli dei milioni! Parola d'onore!

Andrò a fabbricare paste alimentari a Odessa. Conosco il modo. Col mio progetto c'è da guadagnar milioni. Nessuno ci ha pensato. E' merce che non si guasterà durante il trasporto, come il grano o la farina. Eh! eh!, l'amido? Saranno milioni! Non gli direte una bugia, ditegli che si tratta proprio di milioni, e, seppure venissero qui per il loro interesse, preferisco che m'ingannino, ma almeno le vedrò. Voglio le mie figlie! Le ho fatte io! Sono mie! - disse drizzandosi a sedere sul letto, mostrando a Eugenio la testa dai capelli bianchi sconvolti e che minacciava, con tutto quel che poteva esprimere minaccia.

- Andiamo - gli disse Eugenio - mettetevi giù, mio buon papà Goriot, adesso gli scrivo. Non appena Bianchon tornerà, andrò da loro, se non vengono.

- Se non vengono? - ripeté il vecchio singhiozzando. - Ma allora mi troveranno morto, morto in un accesso di rabbia, di rabbia! La rabbia mi prende! In questo momento, rivedo tutta la mia vita.

Sono stato ingannato! Non mi vogliono più bene, non m'hanno mai voluto bene!, questo è chiaro. Se non son venute, non verranno più. Più tarderanno, meno si decideranno a darmi questa gioia. Le conosco. Esse non hanno mai saputo capire i miei crucci, i miei dolori, i miei desideri, e tanto meno si renderanno conto della mia morte; esse non capiscono neppure il segreto della mia tenerezza. Sì, lo so, l'abitudine di strapparmi le viscere gli ha fatto svalutare tutto quel che facevo per loro. Se mi avessero chiesto di potermi cavar gli occhi, gli avrei detto:

"Cavatemeli!". Sono troppo stupido... Esse credono che tutti i padri siano come il loro. Bisogna sempre farsi rispettare. I loro figli mi vendicheranno. Ma è loro interesse venir qui. Avvertitele che, così, compromettono la loro agonia. Commettono tutti i delitti in uno solo. Ma andate dunque subito da loro, ditegli che il non venire è un parricidio! Ne hanno già commessi abbastanza, e non c'è bisogno di aggiungere anche questo; e gridate come faccio io: "Eh!, Nasia! Eh!, Delfina!, venite da vostro padre, che è stato così buono con voi, e che ora soffre tanto!". Niente, nessuno. Dovrò allora morire proprio come un cane? Ecco come sono ricompensato: con l'abbandono. Sono delle infami, delle scellerate; le abomino, le maledico; mi leverò la notte dalla tomba per rimaledirle, perché insomma, amici miei, ho forse torto?, esse si comportano molto male!, no? Ma che mi dico? Non mi avete detto che Delfina è là? E' la migliore delle due. Voi siete mio figlio, Eugenio, vogliatele bene, siate un padre per lei.

L'altra è tanto disgraziata. E i loro interessi? Ah!, mio Dio!, muoio, soffro un po' troppo. Tagliatemi la testa, lasciatemi soltanto il cuore.

- Cristoforo, andate a cercare Bianchon! - gridò Eugenio, spaventato dal tono che assumevano i gemiti e le grida del vecchio, e chiamatemi una vettura.

- Vado a cercare le vostre figlie, mio buon papà Goriot, ve le porterò qui.

- Con la forza! Con la forza! Chiedete le guardie, i soldati, tutto! - disse, volgendo verso Eugenio un ultimo sguardo in cui brillò il senno. - Dite al governo, al procuratore del re che mi siano condotte qui, lo voglio!

- Ma le avete maledette.

- Chi vi ha detto questo? - rispose il vecchio stupefatto. - Voi non sapete che le amo, che le adoro! Sono guarito, se le vedo...

Andate, mio buon vicino, mio caro figliolo, andate, voi siete tanto buono, voi; vorrei dimostrarvi la mia riconoscenza, ma non ho da darvi che la benedizione d'un moribondo. Ah!, vorrei almeno vedere Delfina, per dirle di disobbligarmi verso di voi. Se l'altra non può, portatemi qui quella. Ditele che non le vorrete più bene, se non vuol venire. Lei vi vuole tanto bene, che verrà.

Da bere! Le viscere mi bruciano! Mettetemi qualcosa sulla testa.

La mano delle mie figlie, questo mi salverebbe, lo sento... Mio Dio!, chi rifarà la loro dote, se me ne vado? Voglio andare a Odessa per loro, a Odessa, per fabbricarvi paste alimentari.

- Bevete questo - disse Eugenio sollevando il moribondo e prendendolo col suo braccio sinistro, mentre con l'altro teneva una tazza piena di tisana.

- Voi sì che dovete amare vostro padre e vostra madre - disse il vecchio stringendo con le mani già quasi perdute la mano di Eugenio. - Lo capite che sto per morire senza vederle, le mie figlie? Aver sempre sete e mai bere, ecco come ho vissuto per dieci anni... I miei due generi hanno ucciso le mie figlie. Sì, non ho più avuto figlie dopo che si sono sposate. Padri, dite al parlamento di fare una legge sul matrimonio! E non maritate mai le vostre figlie, se le amate. Il genero è uno scellerato che tutto corrompe in una figlia, insudicia tutto. Niente più matrimonio! E' quel che ci toglie le nostre figlie, e non le abbiamo più quando moriamo. Fate una legge sulla morte dei padri. Tutto questo è spaventoso! Vendetta! Sono i miei generi che gli impediscono di venire. Uccideteli! A morte Restaud, a morte l'Alsaziano, sono i miei assassini! La morte o le mie figlie! Ah!, è finita, muoio senza di loro! Loro! Nasia, Fifina, su, venite dunque!, vostro padre se ne va...

- Mio buon papà Goriot, calmatevi, andiamo, state tranquillo, non vi agitate.

- Non vederle, ecco l'agonia!

- Le vedrete.

- Davvero? - gridò il vecchio con aria smarrita. - Oh!, vederle!

Sto per vederle, sto per sentire la loro voce. Morirò contento.

Ebbene!, sì, non domando più di vivere, non ci tenevo più, le mie pene andavano crescendo. Ma vederle, toccare le loro vesti, ah!, niente altro che le loro vesti, è ben poco, ma che senta almeno qualcosa di loro! Fatemi prendere i loro capelli... pelli...

Cadde con la testa sul guanciale, come se avesse ricevuto un colpo di mazza. Le sue mani si agitarono sulla coperta, come per prendere i capelli delle figlie.

- Le benedico - disse in uno sforzo supremo... - benedico.

A un tratto si accasciò. In quel momento entrò Bianchon.

- Ho incontrato Cristoforo - disse - ora ti porta una vettura. - Poi guardò il malato, gli sollevò con forza le palpebre, e i due studenti videro l'occhio senza più vita, vitreo- Non si riprenderà - disse Bianchon - almeno non credo. - Gli prese il polso, lo palpò, mise la mano sul cuore del bonuomo.

- La macchina cammina ancora; ma nel caso suo è una disgrazia, sarebbe meglio che morisse subito!

- In fede mia, sì - disse Rastignac.

- Ma tu cos'hai? Sei pallido come la morte.

- Amico mio, ho sentito fino adesso i suoi gridi e i suoi lamenti.

Ma c'è un Dio! Oh, sì, c'è un Dio, e deve averci preparato un mondo migliore, altrimenti la nostra terra è un non senso. Se lo spettacolo non fosse stato così tragico, mi sarei sciolto in lacrime; ma ho il cuore e lo stomaco orribilmente stretti.

- Di' su, qui occorrono tante cose; dove trovare i soldi ?

Rastignac cavò di tasca l'orologio.

- Tieni, vallo a impegnare. Non voglio fermarmi per la strada perché temo di perdere anche un solo minuto, e poi attendo Cristoforo. Non ho un centesimo, bisognerà pagare il vetturino quando tornerò.

Rastignac si precipitò per le scale, e corse in via Helder, dalla signora de Restaud. Lungo la strada, la sua immaginazione, colpita dall'orrendo spettacolo cui aveva assistito, riscaldò la sua indignazione. Quando giunse in anticamera, e domandò della signora de Restaud, le risposero che non era possibile vederla.

- Ma - disse al domestico - vengo da parte di suo padre, che sta morendo.

- Signore, abbiamo ricevuto dal signor conte gli ordini più severi...

- Se c'è il signor de Restaud, ditegli in quali condizioni versa suo suocero, e avvertitelo che bisogna che io gli parli all'istante.

Eugenio attese a lungo.

"Forse in questo momento sta morendo", pensava. Il domestico l'introdusse nel primo salotto, dove il signor de Restaud ricevette lo studente in piedi, senza farlo sedere, dinanzi a un caminetto senza fuoco.

- Signor conte - gli disse Rastignac - vostro suocero sta spirando in questo momento in un tugurio infame, senza neppure un soldo per procurarsi un po' di legna; egli è proprio in fin di vita, e chiede di rivedere sua figlia.

- Signore - gli rispose freddamente il conte de Restaud, - avrete avuto modo di accorgervi che io nutro una ben scarsa affezione per il signor Goriot. Egli ha guastato il carattere della signora de Restaud, è stato la disgrazia della mia vita, vedo in lui il nemico della mia tranquillità. Che muoia, che viva, la cosa mi è del tutto indifferente. Ecco quali sono i miei sentimenti a suo riguardo. Il mondo potrà biasimarmi, ma io non mi curo della sua opinione. Ora ho cose assai più importanti da concludere che non quella d'occuparmi di quel che penseranno di me degli sciocchi o degli indifferenti. Quanto alla signora de Restaud, non è in grado di uscire. E poi, non voglio che lasci la casa. Dite a suo padre che, non appena avrà adempiuto i suoi doveri verso me e verso suo figlio, andrà a vederlo. Se vuol bene a suo padre, potrà essere libera tra qualche istante...

- Signor conte, non spetta a me giudicare la vostra condotta; voi siete il padrone di vostra moglie; ma io posso contare sulla vostra lealtà, e allora promettetemi solo di dirle che non ha più un giorno di vita, e che l'ha già maledetta non vedendola al suo capezzale!

- Diteglielo voi stesso - rispose il signore de Restaud, colpito dal sentimento d'indignazione che l'accento di Eugenio tradiva.

Rastignac entrò, accompagnato dal conte, nel salotto dove la contessa stava abitualmente; la trovò in lacrime, sprofondata in una poltrona, disperata. Gli fece pietà. Prima di guardare Rastignac, rivolse a suo marito timidi sguardi che dimostravano una prostrazione completa delle sue forze, schiacciate da una tirannia morale e fisica. Il conte scosse la testa, ed essa si credette allora incoraggiata a parlare.

- Signore, ho già sentito tutto. Dite a mio padre che, se conoscesse la situazione in cui mi trovo, mi perdonerebbe. Non prevedevo anche questo supplizio, esso è al di sopra delle mie forze, ma resisterò fino all'ultimo - disse rivolta a suo marito.

- Sono madre. Dite a mio padre che sono irreprensibile verso di lui, nonostante le apparenze - esclamò con disperazione, rivolta allo studente.

Eugenio salutò i due, intuendo l'orribile crisi che quella donna attraversava, e se ne andò stupefatto. Il tono del signor de Restaud gli aveva dimostrato l'inutilità del suo passo, e capì che Anastasia non era più libera. Corse allora dalla signora de Nucingen, e la trovò ancora a letto.

- Sto male, mio buon amico - gli disse. - Ho preso freddo nell'uscir dal ballo, ho paura di avere una polmonite, e sto aspettando il medico...

- Anche se foste in punto di morte - le disse Eugenio interrompendola - vi dovete trascinare fino a vostro padre.

V'invoca! Se poteste udire il più debole dei suoi gridi, non vi sentireste più alcun male.

- Eugenio, mio padre non è forse tanto malato come voi dite, ma io sarei disperata se dovessi sembrarvi colpevole, e farò quanto vorrete. Lui, lo so, morirebbe di crepacuore se la mia malattia divenisse mortale per essere io uscita di casa. Ebbene, verrò non appena il medico mi avrà visitata. Ah! perché non avete più l'orologio?- domandò non vedendo più la catena. Eugenio arrossì. - Eugenio!, Eugenio, se voi l'aveste già venduto, o perduto... oh!, questo sarebbe molto brutto. - Lo studente si chinò verso il letto di Delfina, e le disse all'orecchio:

- Volete saper la verità? Ebbene, sappiatela! Vostro padre non ha di che comprarsi il sudario nel quale sarà avvolto stasera. Il vostro orologio è stato impegnato, non avevo più un soldo.

Delfina saltò d'un sùbito fuori del letto, corse allo scrittoio, ne trasse la borsa e la tese a Rastignac. Poi suonò, e gridò:

- Ci vengo, ci vengo, Eugenio. Lasciatemi vestire; ma sarò un mostro! Arriverò prima di voi! Teresa - gridò alla sua cameriera - dite al signor de Nucingen che salga subito, devo parlargli.

Eugenio, felice di poter annunciare al morente la presenza d'una delle sue figlie, arrivò quasi lieto in via Neuve-Sainte- Geneviève. Frugò nella borsa per poter pagare subito il vetturino.

La borsa della giovane signora, così ricca, così elegante, conteneva sessantasei franchi. Giunto in cima alla scala, trovò che il chirurgo dell'ospedale stava operando papà Goriot, sostenuto da Bianchon e sotto la sorveglianza del medico. Gli applicavano delle ventose alla schiena, ultimo rimedio della scienza, rimedio inutile.

- Li sentite? - domandava il medico.

Papà Goriot, intravisto lo studente, rispose: - Vengono, non è vero? - Può cavarsela - disse il chirurgo - parla.

- Sì - rispose Eugenio - Delfina mi segue.

- Oh! - fece Bianchon - parlava delle figlie, e le invoca come un uomo sul palo, a quanto si dice, dopo l'acqua...

- Basta - disse il medico al chirurgo - non c'è più nulla da fare, non lo salveremo.

Bianchon e il chirurgo rimisero il morente disteso sul suo infetto giaciglio.

- Bisognerebbe però cambiargli la biancheria - disse il medico. - Sebbene non ci sia alcuna speranza, si deve rispettare in lui la natura umana. Tornerò, Bianchon - disse allo studente. - Se si lamentasse ancora, applicategli dell'oppio sul diaframma.

Il chirurgo e il medico uscirono.

- Andiamo, Eugenio, coraggio, figlio! - disse Bianchon a Rastignac quando furono soli, - bisogna mettergli una camicia pulita e cambiare la biancheria. Va' a dire a Silvia che porti su le lenzuola e che ci venga ad aiutare.

Eugenio scese e trovò la signora Vauquer occupata ad apparecchiare la tavola insieme a Silvia. Alle prime parole che le rivolse Rastignac, la vedova gli si avvicinò, assumendo l'aria agrodolce d'una commerciante sospettosa che non voglia né perdere il suo denaro, né urtare il cliente.

- Caro signor Eugenio - essa rispose - lo sapete bene quanto me, papà Goriot non ha più un soldo. Dare le lenzuola a un uomo che sta per morire, significa perderle, tanto più che se ne dovrà sacrificare una come sudario. Per cui, voi mi dovete già centoquarantaquattro franchi; mettete quaranta franchi di lenzuola, e qualche altra piccola cosa, la candela che vi darà Silvia: tutto questo fa almeno duecento franchi, che una povera vedova come me non si può permettere il lusso di perdere. Eh!, insomma, siate giusto, signor Eugenio; ho perduto già abbastanza in questi cinque giorni, da quando la jettatura ha preso stanza in casa mia. Avrei pagato io dieci scudi perché quel bonuomo se ne fosse già andato i giorni scorsi, come avevate detto. Il suo stato fa una brutta impressione sui pensionanti. Se si trattasse d'una lieve indisposizione lo farei portare all'ospedale. Infine, mettetevi al mio posto. La mia pensione prima di tutto; essa è la vita, per me.

Eugenio risalì rapidamente da papà Goriot.

- Bianchon, e il denaro dell'orologio?

- E' sul tavolo, ne restano trecentosessanta e pochi altri franchi. Con quanto mi hanno dato ho pagato tutto quel che dovevamo. La ricevuta del Monte di Pietà sta sotto il denaro.

- Prendete, signora - disse Rastignac dopo aver sceso a precipizio la scala in preda a un senso d'orrore - saldate i conti. Il signor Goriot non rimarrà a lungo in casa vostra, e neppure io...

- Sì, uscirà coi piedi in avanti, il povero bonuomo - essa disse contandosi duecento franchi con un'aria metà lieta e metà malinconica.

- Facciamo presto - disse Rastignac.

- Silvia, dategli le lenzuola e andate sopra, ad aiutare questi signori.

- Non vi dimenticherete di Silvia - disse la signora Vauquer all'orecchio di Eugenio - ha fatto due nottate.

Non appena Eugenio ebbe voltato le spalle, la vecchia corse dalla cuoca:

- Prendi le lenzuola rivoltate, numero sette. Saranno sempre abbastanza buone per un morto - le disse all'orecchio.

Eugenio, che aveva già salito qualche gradino della scala, non sentì le parole della vecchia padrona.

- Su - gli disse Bianchon - cambiamogli la camicia. Tienilo ritto.

Eugenio si pose a capo del letto e sorresse il moribondo, cui Bianchon tolse la camicia; il bonuomo fece un gesto come per conservare qualcosa sul suo petto, ed emise grida lamentose e inarticolate, come gli animali quando hanno da esprimere un grande dolore.

- Oh!, oh! - disse Bianchon - vuole una catenina di capelli e un medaglione che gli abbiamo levato poco fa, per applicargli i cauteri. Pover'uomo. Bisogna ridargliela. Sta sul caminetto.

Eugenio andò a prendere una catenina di capelli intrecciati biondo cenere, senza dubbio quelli della signora Goriot. In una faccia del medaglione lesse: Anastasia; nell'altra: Delfina. Immagine del suo cuore che riposava sempre sul suo cuore. I boccoli contenuti nel medaglione erano talmente fini, che dovevano essere stati presi durante la prima infanzia delle due figlie. Quando il medaglione toccò il suo petto, il vecchio fece un "han!" prolungato, che significava una soddisfazione, ma pur spaventosa a vedersi. Era una delle ultime manifestazioni della sua sensibilità, che sembrava ritrarsi verso quel centro sconosciuto da cui partono e a cui s'indirizzano le nostre simpatie. Il suo viso convulso assunse un aspetto di gioia malata. I due studenti, colpiti da quel tremendo scoppio di una forza di sentimento che sopravviveva al pensiero, piansero calde lacrime sul morente, che gettò un grido di piacere acuto.

- Nasia! Fifina! - disse.

- Vive ancora - fece Bianchon.

- E a che gli serve? - disse Silvia.

- A soffrire - rispose Rastignac.

Dopo aver fatto al suo camerata un segno per indicargli d'imitarlo, Bianchon si mise in ginocchio per poter passare le sue braccia sotto le gambe del malato, mentre Rastignac faceva altrettanto dall'altra parte del letto, per poter passare le sue mani sotto la schiena. Silvia era lì, pronta a levare le lenzuola non appena il moribondo fosse stato sollevato, per rimpiazzarle con quelle da lei portate. Ingannato senza dubbio dalle lacrime, Goriot usò le ultime sue forze per stendere le mani, incontrò d'ambo i lati del letto le teste degli studenti, le prese con violenza per i capelli, e si udì debolmente: "Ah!, miei angeli!".

Due parole, due mormorii accentuati dall'anima, che su quelle parole s'involò.

- Pover'uomo - disse Silvia intenerita da quella esclamazione, ove s'era espresso un sentimento supremo che la più orribile e la più involontaria delle menzogne aveva esaltato un'ultima volta.

L'ultimo sospiro di quel padre doveva essere un sospiro di gioia.

Quel sospiro fu l'espressione di tutta la sua vita: s'ingannava ancora! Papà Goriot fu pietosamente riadagiato sul suo giaciglio.

A partire da quel momento, la sua fisionomia conservò la dolorosa impronta del combattimento impegnato tra la morte e la vita in un organismo che non aveva più quella specie di coscienza cerebrale da cui risultano i sentimenti di piacere e di dolore per l'essere umano. Ma era soltanto questione di tempo; poi, sarebbe sopravvenuto il disfacimento.

- Resterà così qualche ora, e morirà senza che ce ne accorgiamo, non rantolerà neppure. Il cervello deve ormai essere completamente invaso dal siero.

In quel momento si sentì un passo di giovane donna ansimante.

- Arriva troppo tardi - disse Rastignac.

Non era Delfina, era Teresa, la sua cameriera - Signor Eugenio - disse - è scoppiata una scenata violenta tra il signore e la signora, a proposito del denaro chiesto dalla mia povera signora per suo padre. E' svenuta, è accorso il medico, ha dovuto farle un salasso, e lei gridava: "Mio padre muore, voglio rivedere il mio papà!". Grida, credete, da spezzare il cuore.

- Basta, Teresa. Anche se venisse, adesso sarebbe inutile, papà Goriot ha perduto conoscenza.

- Povero signore, ma allora è molto grave! - disse Teresa.

- Se non avete più bisogno di me, vado a pensare al pranzo, sono già le quattro e mezza - disse Silvia, che poco mancò non si scontrasse in cima alla scala con la signora de Restaud.

Fu un'apparizione grave e terribile, quella della contessa. Essa guardò il letto del morto, mal rischiarato da una sola candela, e pianse quando vide la maschera di suo padre, sulla quale palpitavano ancora gli ultimi sussulti della vita. Bianchon si ritirò, per discrezione.

- Non sono arrivata in tempo - disse la contessa a Rastignac.

Lo studente fece con la testa un cenno affermativo, pieno di tristezza.

La signora de Restaud prese la mano di suo padre, la baciò.

- Perdonatemi, padre mio! Dicevate che la mia voce vi avrebbe richiamato dalla tomba; ebbene! tornate un momento alla vita per benedire vostra figlia, pentita. Ascoltatemi. Tutto ciò è spaventoso!, la vostra benedizione è la sola che io possa ormai ricevere su questa terra. Tutti mi odiano, voi solo mi amate.

Anche i miei figli mi odieranno. Portatemi con voi, vi amerò, vi assisterò. Non mi sente più, divento pazza. - Cadde in ginocchio, e contemplò quel resto umano con una espressione di delirio. - Nulla più manca alla mia sciagura - disse guardando Eugenio. - Il signor de Trailles è partito, lasciando debiti enormi, e ho saputo che mi tradiva. Mio marito non mi perdonerà mai, e l'ho lasciato padrone dei miei averi. Ho perduto tutte le mie illusioni. Ahimè!

per chi ho tradito il solo cuore (indicò suo padre) da cui ero adorata! L'ho rinnegato, l'ho respinto, gli ho dato mille dispiaceri, infame che sono!

- Egli lo sapeva - disse Rastignac.

In quel momento papà Goriot schiuse gli occhi, ma per effetto d'una convulsione. Il gesto che rivelava la speranza della contessa non fu meno orrendo a vedersi che l'occhio del morente.

- Mi sentirà? - esclamò la contessa. - No - essa si rispose, sedendosi vicino al letto.

Avendo la signora de Restaud espresso il desiderio di vegliare suo padre, Eugenio scese per prendere un po' di cibo. I pensionanti erano già riuniti.

- Ebbene - gli domandò il pittore - pare che su staremo per avere un piccolo mortorama, è vero?

- Carlo - gli rispose Eugenio - mi sembra sarebbe più opportuno che scherzaste su qualche argomento meno lugubre.

- Allora qui non si potrà più ridere? - riprese a dire il pittore.

- Cosa c'è di male, se Bianchon dice che il bonuomo ha perduto conoscenza?

- E poi - disse l'impiegato al Museo - lui morirà come ha vissuto.

- Mio padre è morto - gridò la contessa.

A questo grido terribile, Silvia, Rastignac e Bianchon salirono e trovarono la signora de Restaud svenuta. Dopo averla fatta rinvenire, la trasportarono nella carrozza che l'attendeva.

Eugenio l'affidò alle cure di Teresa, ordinandole di condurla in casa della signora de Nucingen.

- Oh!, è proprio morto - disse Bianchon scendendo.

- Andiamo, signori, a tavola - disse la signora Vauquer - la zuppa si fredda.

I due studenti si misero vicini.

- Che si deve fare adesso? - domandò Eugenio a Bianchon.

- Gli ho già chiuso gli occhi, e l'ho composto. Quando il medico comunale avrà constatato il decesso che adesso andremo a denunciare, lo si cucirà entro un lenzuolo e lo si sotterrerà. Che ne sarà di lui?

- Non odorerà più il pane così - disse un pensionante imitando la smorfia del bonuomo.

- Sacramento!, signori - disse il ripetitore - lasciate stare papà Goriot, e non ce ne fate fare un'indigestione; è da un'ora che ci è stato servito in tutte le salse! Uno dei privilegi della brava città di Parigi è quello di poter nascere, vivere, morire senza che nessuno ci faccia attenzione. Approfittiamo perciò dei vantaggi della civiltà. Oggi sono morte sessanta persone; vi volete proprio impietosire delle ecatombi parigine? Se papà Goriot è crepato, tanto meglio per lui! Se lo adoravate, andate a vegliarlo, e a noi lasciateci mangiare in pace.

- Oh!, sì - disse la vedova - meglio per lui che sia morto! Pare che il pover'uomo abbia avuto parecchi dispiaceri, durante la sua vita.

Questa fu la sola orazione funebre di un essere che, per Eugenio, rappresentava la Paternità. I quindici pensionanti si misero a parlare come il solito. Quando Eugenio e Bianchon ebbero finito di mangiare, il rumore delle forchette e dei cucchiai, le risa della conversazione, le diverse espressioni di quelle facce ingorde e indifferenti, la loro noncuranza, tutto, insomma, li ghiacciò d'orrore. Uscirono per andare a chiamare un prete che vegliasse e pregasse durante la notte vicino al morto. Fu loro necessario limitare gli estremi doveri da compiere verso il bonuomo entro la piccola somma di cui potevano disporre. Verso le nove di sera, la salma fu collocata su di una brandina, tra due candele, in quella camera nuda, e un prete venne a sedersi accanto a essa. Prima di coricarsi Rastignac, dopo aver chiesto informazioni al prete sul prezzo del servizio funebre e su quello del trasporto, scrisse due righe al barone de Nucingen e al conte de Restaud, pregandoli d'inviare loro incaricati per provvedere a tutte le spese della sepoltura. Mandò loro Cristoforo, poi si coricò e s'addormentò affranto dalla stanchezza. L'indomani mattina Bianchon e Rastignac dovettero recarsi essi stessi a denunciare il decesso, che verso mezzodì fu constatato. Due ore dopo nessuno dei due generi aveva inviato il denaro, nessuno s'era presentato a loro nome, e Rastignac aveva già dovuto pagare gli onorari del prete. E poiché Silvia aveva domandato dieci franchi per cucire il bonuomo nel lenzuolo e disporlo nella cassa, Eugenio e Bianchon calcolarono che, se i parenti del morto non avessero sopperito ad alcuna spesa, essi sarebbero appena riusciti a provvedervi. E allora lo studente in medicina prese lui stesso l'incarico di porre il cadavere in una cassa da povero, che fece venire dall'ospedale, dove poté pagarla al minor prezzo.

- Fa' uno scherzo a quei bei tipi là - disse a Eugenio. - Vai ad acquistare un'area, per cinque anni, al Père-Lachaise, e ordina un servizio di terza classe in chiesa e alle pompe funebri. Se i generi e le figlie si rifiuteranno di rimborsarti, tu farai incidere sulla tomba queste parole: "Qui giace il signor Goriot padre della contessa de Restaud e della baronessa de Nucingen sepolto a spese di due studenti".

Eugenio seguì il consiglio dell'amico solo dopo essere stato inutilmente dal signore e dalla signora de Nucingen e dal signore e dalla signora de Restaud. Non poté varcare la soglia. I portieri avevano ricevuto ordini rigorosi:

- Il signore e la signora - dissero - non ricevono nessuno, è morto il padre, e sono immersi nel più vivo dolore.

Eugenio aveva ormai sufficiente esperienza del mondo parigino per sapere che non doveva insistere. Si sentì una strana stretta al cuore quando si vide nell'impossibilità di giungere fino a Delfina.

"Vendete un gioiello", le scrisse dalla guardiola del portiere, "ma che vostro padre sia almeno portato decentemente alla sua ultima dimora".

Sigillò il biglietto e pregò il portiere del barone di consegnarlo a Teresa per la signora; ma il portiere lo consegnò invece al barone de Nucingen, che lo gettò nel fuoco. Dopo aver fatto tutti i suoi passi Eugenio tornò verso le tre alla pensione, e non poté trattenere una lacrima quando vide, alla porta di servizio, la cassa coperta appena da un drappo nero, disposta su due sedie, presso quella strada deserta. Un brutto aspersorio, che nessuno aveva ancora toccato, era immerso in una piluccia di rame argentato piena d'acqua benedetta. La porta non era stata neppure parata a lutto. Era la morte dei poveri, che non ha fasto, né seguito, né amici, né parenti. Bianchon, costretto a rimanere in ospedale, aveva scritto due righe a Rastignac per fargli sapere quanto aveva combinato con la chiesa. Lo studente gli comunicava che una messa costava troppo, che bisognava contentarsi del servizio, più economico, della sola benedizione, e che aveva mandato Cristoforo, con un biglietto, alle pompe funebri. Nel momento in cui Eugenio finiva di leggere gli scarabocchi di Bianchon, vide tra le mani della signora Vauquer il medaglione cerchiato d'oro che conteneva i capelli delle due figlie.

- Come avete osato prendere quell'oggetto? - le chiese.

- Diamine, si doveva forse sotterrarlo con quello? - rispose Silvia: - è d'oro.

- Certo! - riprese Eugenio, indignato - che almeno porti con sé la sola cosa che possa rappresentare le sue due figlie.

Quando giunse il carro funebre, Eugenio fece riportare su la cassa, la schiodò e pose religiosamente sul petto del bonuomo una immagine che si riferiva a un tempo in cui Delfina e Anastasia erano giovani, vergini e pure, e "non facevan tanti ragionamenti", com'egli aveva detto nei suoi gridi di agonizzante. Solo Rastignac e Cristoforo, con due becchini, accompagnarono il carro che portava il pover'uomo a Saint-Etienne-du Mont, chiesa poco distante dalla via Neuve-Sainte-Geneviève. Giunti lì, la cassa fu portata in una piccola cappella bassa e oscura, nella quale lo studente cercò invano le due figlie di papà Goriot o i loro mariti.

Era solo con Cristoforo, che si credette in dovere di rendere gli estremi servigi a un uomo che gli aveva fatto guadagnare qualche buona mancia!

In attesa dei due preti, del chierico e del sagrestano, Rastignac strinse la mano di Cristoforo, senza poter pronunciare una parola.

- Sì, signor Eugenio - disse Cristoforo - era un bravo e onest'uomo, che non alzava mai la voce, che non faceva danno a nessuno e non ha mai fatto del male.

I due preti, il chierico e il sagrestano entrarono e diedero tutto quel che si può per settanta franchi in un'epoca in cui la religione non è così ricca da pregare gratis. Il clero cantò un salmo, il "Libera", il "De profundis". La funzione durò venti minuti.

Fuori non c'era che una sola vettura delle pompe funebri per il prete e il chierico, i quali acconsentirono a ospitare Eugenio e Cristoforo.

- Appresso non viene nessuno - disse il prete; - potremo andare più svelti per non fare tardi; son già le cinque e mezza.

Ma nel momento in cui la salma fu introdotta nel carro funebre, due carrozze blasonate, ma vuote, quella del conte de Restaud e quella del barone de Nucingen, apparvero e seguirono il convoglio fino al Père-Lachaise.

Alle sei la salma di papà Goriot fu calata nella fossa, attorno alla quale si trovavano domestici delle sue figlie, che scomparvero col clero non appena fu recitata la breve preghiera dovuta al bonuomo per il denaro all'uopo versato dallo studente.

Quando i due affossatori ebbero gettato poche palate di terra sulla cassa, per nasconderla, si rialzarono e uno d'essi, rivolgendosi a Rastignac, gli chiese la mancia. Eugenio si frugò nella tasca e, non avendovi trovato nulla, fu costretto a farsi prestare venti soldi da Cristoforo. Questo particolare, di poca importanza in se stesso, provocò in Eugenio un senso d'orrenda tristezza. La giornata volgeva al tramonto, un umido crepuscolo eccitava i suoi nervi; guardò la tomba e vi inumò l'ultima lacrima della sua gioventù, quella lacrima strappata dalle tante emozioni d'un cuore puro, una di quelle lacrime che, dalla terra in cui cadono, risalgono fino al cielo. Incrociò le braccia, contemplò le nubi. Vedendolo in quell'atteggiamento, Cristoforo pensò bene di lasciarlo.

Rastignac, rimasto solo, fece qualche passo verso la parte alta del cimitero, e vide Parigi tortuosamente distesa lungo le due rive della Senna, ove cominciavano ad accendersi i lumi.

I suoi occhi si fissarono quasi avidamente tra la colonna della piazza Vendome e la cupola degli Invalidi, là, dove viveva quel bel mondo nel quale aveva voluto penetrare. Egli gettò su quell'alveare ronzante uno sguardo che sembrava assorbirne in anticipo il miele, e pronunciò queste parole grandiose:

- E ora, a noi due!

E come primo atto di sfida lanciato alla società, Rastignac andò a pranzo dalla signora de Nucingen.

 

 

Saché, settembre 1834