Denis Diderot


IL NIPOTE DI RAMEAU





Che faccia bello o brutto tempo, è mia abitudine andare, verso le cinque di sera, a passeggio nei giardini del Palazzo reale: sono colui che si vede sempre solo, pensoso, sulla panca d'Argenson. Mi intrattengo con me stesso di politica, di amore, di cose d'arte o di filosofia; abbandono lo spirito alle più libere divagazioni; lo lascio padrone di seguire la prima idea saggia o folle che si presenti, allo stesso modo che si vedono, nel viale di Foy, i nostri giovanotti dissoluti seguire i passi di una cortigiana dall'aria svagata, dal viso ridente, l'occhio vivace, il naso all'insù, lasciar questa per un'altra, attaccandole tutte senza impegnarsi con nessuna. I miei pensieri sono le mie donnine equivoche.


Se il tempo è troppo freddo o troppo piovoso, mi rifugio al caffè della Reggenza: là dentro mi diverto a veder giocare agli scacchi; è da Rey che si affrontano il profondo Légal, l'acuto Philidor, il solido Mayot; che si vedono le mosse più sorprendenti e si ascoltano i discorsi più assurdi; perché se si può essere un uomo d'ingegno e un grande giocatore di scacchi come Légal, si può anche essere un grande giocatore di scacchi e uno stupido come Foubert e Mayot.


Un pomeriggio mi trovavo là, tutto intento a guardare, parlando poco e ascoltando il meno possibile, quando mi si avvicinò uno dei personaggi più bizzarri di questo paese al quale Iddio non ne ha fatti mancare. E' un insieme di nobiltà d'animo e di bassezza, di buon senso e di follia: le nozioni di ciò che è onesto e di ciò che è disonesto devono essere assai stranamente mescolate nella sua testa, perché egli mostra senza ostentazione quel tanto di buone qualità che la natura gli ha dato, e le cattive senza pudore. Inoltre, è dotato di una costituzione robusta, di un calore di immaginazione singolare, e di una forza di polmoni poco comune. Se vi capiterà di incontrarlo, vi metterete le dita nelle orecchie, o fuggirete, a meno che la sua originalità non vi trattenga. Dio, che terribili polmoni! Nulla è più dissimile da lui di lui stesso. Talvolta è magro e scavato come un malato all'ultimo stato di consunzione: gli si potrebbero contare i denti attraverso le guance, si direbbe che abbia passato molti giorni senza mangiare, o che esca dalla Trappa. Il mese dopo, è grasso e ben pasciuto come se non si fosse mai alzato dalla tavola di un finanziere, o fosse stato rinchiuso in un convento di Bernardini.


Oggi con la camicia sporca, i pantaloni strappati, tutto lacero, semiscalzo, se ne va a testa bassa, sfugge, e si sarebbe tentati di chiamarlo per dargli l'elemosina. Domani, incipriato, ben calzato, elegante, cammina a testa alta, si fa notare, e lo scambiereste quasi per un galantuomo. Vive alla giornata, triste o lieto secondo le circostanze. Il suo primo pensiero, quando si alza al mattino, è di sapere dove andrà a pranzare; dopo pranzo si domanda dove farà la cena. Anche la notte ha il suo problema: egli allora raggiunge a piedi una piccola soffitta dove abita, a meno che la padrona, stanca di aspettare il fitto, non si sia fatta restituire la chiave; oppure si caccia in una taverna dei sobborghi e là aspetta il giorno davanti a un pezzo di pane e a un boccale di birra. Quando non ha nemmeno sei soldi in tasca, il che talvolta gli accade, ricorre a qualche vetturino suo amico, o al cocchiere di un gran signore, che gli dà un letto sulla paglia, accanto ai cavalli: al mattino ha ancora parte del suo materasso nei capelli. Se la stagione è mite, passeggia tutta la notte su e giù per il Corso o per i Campi Elisi. Ricompare col giorno in città, vestito dalla vigilia per l'indomani, e talora dall'indomani per il resto della settimana. Io non ho stima di siffatti originali; altri entrano con loro in rapporti di familiarità e perfino di amicizia; ma quanto a me, fermano la mia attenzione una volta all'anno, quando li incontro, perché il loro carattere si stacca da quello degli altri, ed essi rompono la noiosa uniformità che la nostra educazione, le nostre convenienze sociali, le nostre abitudini hanno introdotto. Se ne capita uno in qualche compagnia, è come un granello di lievito che fermenta e che restituisce a ciascuno una parte della sua individualità naturale. Scuote, agita, fa approvare o biasimare, fa uscire la verità, fa riconoscere le persone perbene, smaschera i furfanti:

allora l'uomo di buon senso ascolta e giudica la gente.


Conoscevo costui da gran tempo. Frequentava una casa della quale il suo talento gli aveva aperto la porta. Vi era una figlia unica, e al padre e alla madre egli giurava che l'avrebbe sposata. Essi alzavano le spalle, gli ridevano sul naso, gli dicevano che era matto, eppure io vidi il giorno in cui la cosa avvenne davvero. Mi chiedeva in prestito qualche scudo, e io glielo davo. Si era introdotto, non so come, in alcune case di gente perbene, ove aveva il suo posto a tavola, a condizione che non parlasse senza prima averne il permesso. Taceva, dunque, e mangiava furiosamente; era magnifico a vedersi in questi frangenti. Se gli veniva desiderio di rompere il patto, e apriva la bocca, alla prima parola tutti gli invitati esclamavano: "Rameau!". Allora la collera scintillava nei suoi occhi ed egli si rimetteva a mangiare più rabbiosamente. Eravate curiosi di conoscere il nome dell'uomo, e ora lo conoscete. E' il nipote di quel celebre musicista che ci ha liberati dal canto di chiesa del Lulli che noi salmodiavamo da più di cento anni, che nei suoi scritti ha esposto tante visioni inintelligibili e verità apocalittiche sulla teoria della musica, di cui né lui né nessuno ha mai capito nulla, e del quale ancora restano un certo numero di opere che contengono armonie, spunti di canto, idee scucite, fracasso, voli, trionfi, lance, glorie, sussurri, vittorie da restar senza fiato, arie di danza che rimarranno eterne. Egli ha sepolto il maestro fiorentino ma poi a sua volta sarà sepolto dai virtuosi italiani, cosa che presagiva, e che lo rendeva malinconico, nervoso, triste, insocievole; perché nessuno ha tanto cattivo umore, neppure una bella donna che si sveglia con un foruncolo sul naso, quanto un autore che minaccia di sopravvivere alla sua fama, testimoni Marivaux e Crébillon figlio.



(Mi si avvicina...). Ah! ah! eccovi, signor filosofo! Che fate qui, in questo mucchio di fannulloni? Anche voi perdete il tempo a far muovere pezzetti di legno? (Così si dice con disprezzo del gioco della dama o degli scacchi.)



IO: No; ma quando non ho nulla di meglio da fare, mi diverto a guardare un attimo quelli che li sanno far muovere bene.


LUI: In questo caso, vi divertite di rado; ad eccezione di Légal e di Philidor, gli altri non se ne intendono affatto.


IO: E il signor di Bissy, allora?


LUI: Questi è, come giocatore di scacchi, quel che la signorina Clairon è come attrice: ambedue sanno di quei giochi tutto ciò che se ne può imparare.


IO: Siete difficile, e vedo che non fate grazia che agli uomini sublimi.


LUI: Sì, quando si tratta del gioco degli scacchi, della dama, di poesia, di eloquenza, di musica. A che serve la mediocrità, in cose di questo genere?


IO: A poco, ne convengo. Ma sta di fatto che un buon numero di gente vi si deve applicare perché venga fuori l'uomo di genio: il quale è uno, nella moltitudine. Ma lasciamo da parte questo discorso. E' un'eternità che non vi vedo. Non penso affatto a voi, quando non vi vedo; ma mi fa sempre piacere rivedervi. Che avete fatto?


LUI: Quello che voi, io e tutti gli altri fanno: del bene, del male e nulla. E poi ho avuto fame, e ho mangiato quando se ne è presentata l'occasione; dopo aver mangiato ho avuto sete, e talvolta ho bevuto. Intanto mi cresceva la barba, e quando era diventata lunga la facevo radere.


IO: Avete fatto male. E' la sola cosa che vi manca per essere un saggio.


LUI: E' vero. Ho la fronte spaziosa e solcata, l'occhio ardente, il naso pronunziato, le gote larghe, le sopracciglia nere e folte, la bocca ben tagliata, il labbro sporgente e il volto quadro. Se questo vasto mento fosse coperto da una lunga barba, sapete che ciò figurerebbe assai bene in bronzo o in marmo?


IO: Accanto a un Cesare, a un Marco Aurelio, a un Socrate?


LUI: No. Mi troverei meglio tra Diogene e Frine: sono sfrontato come il primo e frequento volentieri le altre.


IO: State sempre bene?


LUI: Di solito sì, ma quest'oggi non troppo.


IO: Come? vi vedo un ventre da Sileno e un viso...


LUI: Un viso che si scambierebbe per il suo opposto. Il fatto è che il malumore che fa dimagrire il mio caro zio ingrassa apparentemente il suo caro nipote.


IO: A proposito dello zio, lo vedete talvolta?


LUI: Sì, passare per strada.


IO: Non vi fa del bene, forse?


LUI: Se ne fa a qualcuno è senza accorgersene. E' un filosofo, nel suo genere: non pensa che a sé, e il resto dell'universo non esiste, per lui. Sua figlia e sua moglie possono morire quando vorranno: purché le campane della parrocchia che suoneranno per loro continuino a risuonare la dodicesima e la diciassettesima, sarà tutto bene. E' una fortuna, per lui, ed è ciò che io apprezzo soprattutto, nelle persone di genio: non sono buoni che a una cosa; oltre quella, nulla. Non sanno ciò che significa essere cittadini, padri, madri, fratelli, parenti, amici. Sia detto tra di noi, occorre somigliar loro punto per punto, ma non desiderare che il seme se ne diffonda: occorrono uomini; ma uomini di genio, no, in fede mia, non ne occorrono affatto. Sono essi che mutano la faccia del mondo; e nelle più piccole cose la stupidità è così comune e possente che non la si può riformare senza gran fracasso.


Una parte di quel che essi hanno ideato si realizza, un'altra resta come stava; donde due evangeli e un abito da Arlecchino. La saggezza del monaco di Rabelais è la vera saggezza fatta per la tranquillità sua e per quella degli altri: fare il proprio dovere alla meno peggio, dire sempre bene del signor priore, e lasciare il mondo a sua fantasia. Va bene, poiché la maggioranza ne è contenta. Se io conoscessi la storia, vi dimostrerei che il male quaggiù è venuto sempre per colpa di qualche uomo di genio; ma io non conosco la storia, perché non so nulla di nulla: il diavolo mi porti se ho mai imparato nulla e se, per non aver mai imparato nulla, me ne trovo peggio. Un giorno ero alla tavola di un ministro del re di Francia, uomo pieno di spirito; ebbene, egli ci dimostrò, chiaro come uno e uno fanno due, che nulla era più utile ai popoli della menzogna, nulla più nocivo della verità. Non ricordo bene come lo dimostrasse, ma ne risultava con evidenza che le persone di genio sono odiose, e che se un bambino, nascendo, portasse sulla fronte i segni di questo dono pericoloso della natura, lo si dovrebbe soffocare o gettare in un canile.


IO: Eppure questi personaggi, così nemici del genio, pretendono tutti di averne.


LUI: Credo che lo pensino dentro di sé, ma non che oserebbero confessarlo.


IO: Per modestia, di certo. Voi, dunque, avete concepito un terribile odio contro il genio?


LUI: Un odio irriducibile.


IO: Eppure ricordo un tempo in cui eravate disperato di essere soltanto un uomo comune. Non sarete mai felice, se il pro e il contro vi dispiacciono in egual misura: bisognerebbe scegliere un partito e attenervisi. Pur convenendo con voi che i geni siano di solito singolari, e che, come dice il proverbio, non vi siano uomini grandi senza un granello di follia, non perciò ci ricrederemo: sempre si disprezzeranno i secoli che non hanno prodotto genii, sempre questi faranno la gloria dei popoli cui appartennero, presto o tardi si erigeranno loro statue, saranno considerati benefattori dell'umanità. E, senza offendere il sublime ministro che mi avete citato, giudico che, se la menzogna può essere utile per un momento, alla lunga è necessariamente nociva, mentre la verità, al contrario, anche se talvolta nuoce sul momento, col tempo risulterà certo utile. Donde sarei tentato di concludere che l'uomo di genio il quale denuncia un errore generale, o accredita una grande verità, è sempre un essere degno della nostra venerazione. Può capitare che egli sia vittima del pregiudizio e delle leggi; ma vi sono due specie di leggi, le prime di una equità e universalità assolute, le altre bizzarre, che devono la loro sanzione solo all'accecamento o alla necessità delle circostanze. Queste ultime coprono di un'ignominia solo passeggera il colpevole che le infrange; ignominia che il tempo riverserà invece sui giudici e sulle nazioni, perché vi resti in eterno. Chi è oggi disonorato: Socrate o il magistrato che gli fece bere la cicuta?


LUI: Che bel vantaggio! Questo ha forse impedito che lo condannassero? che lo mettessero a morte? che fosse un cittadino turbolento? Per disprezzo di una cattiva legge non ha incoraggiato i pazzi al disprezzo delle buone? Non è stato un individuo troppo audace e bizzarro? Or ora non eravate lontano da una dichiarazione poco favorevole agli uomini di genio.


IO: Ascoltate, mio caro. Una società non dovrebbe avere cattive leggi; e se possedesse solo leggi buone non si troverebbe mai nell'occasione di perseguitare un uomo di genio. Non ho affatto detto che il genio sia indissolubilmente legato alla malvagità, o che la malvagità lo sia al genio: uno sciocco sarà più spesso disposto al male che non un uomo d'ingegno. Ma quand'anche un uomo di genio fosse duro, spinoso, insopportabile, quand'anche fosse un malvagio, quale conclusione ne trarreste?


LUI: Che è un uomo da annegare.


IO: Piano, mio caro. Certo, non intendo prendere come esempio vostro zio, che è uomo duro, brutale, è privo di umanità, è avaro, è un cattivo padre, un cattivo sposo, un cattivo zio; ma non è riconosciuto che sia un uomo di genio, che abbia fatto molto progredire la sua arte, e che si parlerà ancora delle sue opere tra dieci anni. Ma Racine? Era un uomo di genio, certo, e non passava per essere un gran brav'uomo. Ma Voltaire?


LUI: Non mi incalzate, perché io sono conseguente.


IO: Cosa preferireste? Che fosse stato un brav'uomo da identificarsi col suo banco come Briasson, o col suo metro come Barbier, che regalasse regolarmente ogni anno un figlio legittimo a sua moglie, buon marito, buon padre, buon zio... buon vicino, onesto commerciante, ma nulla di più, o che fosse furbo, traditore, ambizioso, invidioso, cattivo ma autore di "Andromaca", di "Britannico", di "Ifigenia" di "Fedra", di "Atalia"?


LUI: Per lui, a mio avviso, sarebbe stato forse meglio appartenere a quella prima razza di uomini.


IO: Questo è infinitamente più vero di quel che voi non immaginiate.


LUI: Oh! Eccovi, voialtri! Se noi diciamo qualcosa di giusto, è per caso, come fossimo pazzi o ispirati: non ci siete che voi, a intendervene. Ebbene, signor filosofo, anch'io me ne intendo, e me ne intendo proprio quanto voi.


IO: Vediamo: ebbene, perché per lui?


LUI: Perché tutte le cose belle che ha fatto non gli hanno reso ventimila franchi, mentre se fosse stato un buon mercante di seta di via San Dionigi o Sant'Onorato, un buon droghiere all'ingrosso, un farmacista rinomato, avrebbe accumulato un'immensa fortuna e con essa avrebbe potuto goder piaceri di ogni sorta; avrebbe dato di tanto in tanto del danaro a un povero diavolo di buffone come me, che l'avrebbe fatto ridere e gli avrebbe procurato all'occasione una bella ragazza, tale da sollevarlo dalla noia dell'eterna coabitazione con la moglie; avremmo fatto eccellenti pranzi in casa sua, giocato somme rilevanti, bevuto eccellenti vini, eccellenti liquori, eccellente caffè, fatto gite in campagna. Vedete dunque che me ne intendevo. Voi ridete. Ma lasciatemelo dire: sarebbe stato meglio, per i suoi conoscenti.


IO: Purché non avesse impiegato in modo disonesto le ricchezze da lui acquisite con un commercio legittimo, purché avesse allontanato dalla sua casa tutti quei giocatori, quei parassiti, quegli insipidi adulatori, quei fannulloni, quell'inutile gente perversa, e avesse fatto ammazzare a colpi di bastone, dai suoi garzoni di bottega, l'uomo servizievole che allevia con la varietà i mariti dal disgusto della consueta coabitazione con le proprie mogli.


LUI: Ammazzare! signore, ammazzare! Non si ammazza nessuno in una città ben guardata dalla polizia: è una condizione onesta, e molte persone, anche titolate, la seguono. E come diavolo dunque volete che si impieghi il proprio danaro, se non per avere una buona tavola, buona compagnia, buoni vini, belle donne, i piaceri più svariati, divertimenti di tutte le specie? Preferirei essere un pezzente, piuttosto che possedere una gran fortuna senza alcuno di questi godimenti. Ma ritorniamo a Racine. Quell'uomo è stato buono soltanto per degli sconosciuti e per un'epoca nella quale non viveva più.


IO: D'accordo. Ma valutate il male e il bene. Di qua a mille anni farà versare lacrime, formerà l'ammirazione degli uomini di tutti i paesi della terra, ispirerà umanità, pietà, tenerezza; ci si domanderà chi era, di quale paese, e lo si invidierà alla Francia.


Ha fatto soffrire alcuni esseri che non sono più, ai quali non portiamo quasi nessun interesse; ma ora non abbiamo più nulla da temere, né dai suoi vizi né dai suoi difetti. Senza dubbio sarebbe stato meglio che avesse ricevuto dalla natura le virtù di un galantuomo coi talenti di un grand'uomo: è un albero che ha fatto seccare alcuni alberi piantati nelle sue vicinanze, che ha soffocato le piante che crescevano ai suoi piedi; ma ha innalzato la sua cima fino alle nuvole, i suoi rami si sono protesi lontano, ha offerto la sua ombra a coloro che venivano, che vengono e che verranno a riposarsi attorno al suo tronco maestoso; ha prodotto frutti di un gusto squisito che si rinnovano senza fine. Sarebbe, sì, da augurarsi che Voltaire avesse avuto la dolcezza di Duclos, l'ingenuità dell'abate Trublet, la dirittura dell'abate d'Olivet; ma poiché ciò non può essere, consideriamo la cosa dal lato veramente interessante, dimentichiamo per un istante il punto che noi occupiamo nello spazio e nel tempo, allarghiamo il nostro sguardo ai secoli a venire, alle regioni più remote e ai popoli che sorgeranno. Pensiamo al bene della nostra specie: se non siamo abbastanza generosi, perdoniamo almeno alla natura di essere stata più saggia di noi. Se gettiamo acqua fredda sulla testa di Greuze, spegnerete forse il suo talento, assieme alla vanità; se renderete Voltaire meno sensibile alla critica, non saprà più scendere nell'animo di Merope: non vi commuoverà più.


LUI: Ma se la natura fosse altrettanto possente che saggia, perché non li ha resi così buoni come grandi?


IO: E non vi accorgete che con questo modo di ragionare voi rovesciate l'ordine generale, e che se tutto quaggiù fosse eccellente, non vi sarebbe più nulla di eccellente?


LUI: Avete ragione. Il punto importante è che voi e io esistiamo, e che siamo voi e io: tutto il resto vada come può. Il miglior ordine delle cose è a mio avviso quello nel quale io dovevo essere; e abbasso il più perfetto ordine dei mondi, se io non ne faccio parte. Preferisco essere, ed essere un ragionatore impertinente, che non essere.


IO: Non vi è nessuno che non la pensi come voi, e che pure non faccia il processo all'ordine esistente delle cose, senza accorgersi che così rinunzia alla sua stessa esistenza.


LUI: E' vero.


IO: Accettiamo dunque le cose come sono. Vediamo quel che ci costano e quel che ci rendono, e lasciamo stare il tutto, che noi non conosciamo abbastanza per poterlo lodare o biasimare, e che forse non è né bene né male, ma solo necessità, come ritiene molta gente di buon senso.


LUI: Non capisco molto di quel che mi andate dicendo: sembra trattarsi di filosofia, e vi avverto che non mi ci immischio.


Tutto quello che so è che vorrei essere un altro uomo, sia pure un uomo di genio o un grand'uomo. Sì, devo convenirne, c'è qualcosa che me lo dice; ogni volta che li ho sentiti lodare, quell'elogio mi ha segretamente irritato: sono invidioso. Quando vengo a conoscenza di qualche episodio della loro vita privata che li diminuisce, ascolto con piacere: questo mi avvicina a loro, sopporto meglio la mia mediocrità; mi dico: certo tu non hai scritto il "Maometto", ma neppure l'elogio di Maupeou. Sono stato e sono sempre afflitto dalla mia mediocrità. Sì, sì, sono mediocre e me ne dispiace. Non ho mai ascoltato l'ouverture delle "Indie galanti", o inteso cantare "Profondi abissi del Tenaro" e "Notte, eterna notte", senza dire a me stesso con dolore: ecco ciò che tu non farai mai. Ero dunque invidioso di mio zio, e se dopo la sua morte si fosse trovato tra le sue carte qualche bel pezzo per clavicembalo, non avrei esitato nella scelta fra il restare me stesso o esser lui.


IO: Se è solo questo che vi tormenta, non ne vale troppo la pena.


LUI: Non è nulla. Sono momenti che passano.


(Poi si rimetteva a cantare l'ouverture dalle "Indie galanti" e l'aria "Profondi abissi", e proseguiva:) Quel qualcosa che è là e mi parla, mi dice: Rameau, tu vorresti aver composto quei due pezzi; se tu li avessi composti, ne comporresti altri due; e quando ne avessi raccolto un certo numero, ti eseguirebbero e ti canterebbero dappertutto. Tu potresti camminare a testa alta; la tua coscienza ti renderebbe testimonianza del tuo proprio merito, la gente ti segnerebbe a dito. Si direbbe: "E' lui che ha composto quelle graziose gavotte" (e cantava le gavotte; poi, con l'aria di un uomo commosso che naviga nella felicità e ne ha gli occhi umidi, aggiungeva, fregandosi le mani:) Avresti una buona casa (ne misurava l'ampiezza con le braccia), un buon letto (vi si distendeva mollemente), buoni vini (che assaggiava facendo schioccare la lingua contro il palato), carrozza e cavalli (sollevava il piede per montarvi), belle donne (alle quali accarezzava già il seno, contemplandole voluttuosamente), cento bricconi ti verrebbero a incensare ogni giorno (credeva già di vederseli attorno: Palissot, Poinsinet, Fréron padre e figlio, La Porte; li ascoltava, si pavoneggiava, li approvava, sorrideva, li trattava con alterigia, o con disprezzo, li scacciava, li richiamava; poi continuava:) E così ti direbbero al mattino che sei un grand'uomo, alla sera saresti convinto che sei un grand'uomo, e il grand'uomo Rameau si addormenterebbe al dolce mormorio dell'elogio che risuonerebbe al suo orecchio; e anche nel sonno avrebbe l'aria soddisfatta; il suo petto si dilaterebbe, si solleverebbe, si abbasserebbe a suo agio; russerebbe come un grand'uomo...


(E, parlando così, si lasciava andare mollemente su una panchina; chiudeva gli occhi e imitava il sonno felice che si apriva alla sua immaginazione. Dopo aver gustato qualche istante la dolcezza di questo riposo, si svegliava, si stirava, sbadigliava, si stropicciava gli occhi, e cercava ancora intorno a sé i suoi insipidi adulatori).


IO: Voi dunque credete che l'uomo felice riposi?


LUI: Se lo credo! Io, povero disgraziato, quando la sera sono tornato nella mia soffitta, e mi sono ficcato dentro al mio giaciglio, me ne sto tutto rattrappito sotto le coltri, ho il petto stretto, e il mio respiro affannoso è una sorta di debole lamento che si ode appena; mentre un finanziere fa rimbombare il suo appartamento e rintronare tutto il vicinato. Ma ciò che oggi mi affligge non è il russare e il dormire meschinamente, come un miserabile.


IO: Tuttavia è triste.


LUI: Quel che mi è accaduto è molto più triste.


IO: Di che si tratta?


LUI: Voi mi avete sempre dimostrato un qualche interesse, perché io sono un buon diavolo, che disprezzate nel fondo, ma che vi diverte.


IO: E' vero.


LUI: Ora vi dirò, allora.


(Prima di cominciare emette un profondo sospiro e porta le mani alla fronte; poi riprende la sua aria tranquilla e mi dice:) Voi sapete che sono un ignorante, uno stupido, un pazzo, un impertinente, uno scansafatiche, quel che i nostri Borgognoni chiamano un furfante di quattro cotte, uno scroccone, un crapulone...


IO: Che panegirico!


LUI: E' vero punto per punto; non v'è da togliere una parola, non vi è luogo a contestazione. Nessuno mi conosce meglio di me, e io non dico neppure tutto.


IO: Non voglio dispiacervi, e sarò d'accordo in ogni cosa.


LUI: Ebbene, vivevo con certa gente che mi aveva preso a benvolere proprio perché ero dotato in modo alquanto eccezionale di tutte queste qualità.


IO: E' proprio strano! Finora avevo creduto che siffatte qualità si nascondessero o si perdonassero a se stessi, e si disprezzassero negli altri.


LUI: Nascondersele! Ed è possibile? State sicuro che quando Palissot è solo e riflette su se stesso, si dice ben altro ancora:


siate sicuro che soli, lui e il suo collega si confessano francamente di non essere altro che due insigni bricconi.


Disprezzarle negli altri! Le persone di cui vi parlavo erano più giuste, e il mio carattere andava loro a genio; ero come un gallo che si lascia ingrassare: mi si festeggiava, e se mancavo un istante mi si rimpiangeva; ero il loro piccolo Rameau, il loro grazioso Rameau, il loro Rameau pazzo, impertinente, ignorante, pigro, goloso, buffone, bestione. Ognuno di questi epiteti mi valeva un sorriso, una carezza, un colpetto sulla spalla, uno schiaffetto, una pedata, a tavola un boccone prelibato che mi si gettava sul piatto; fuori tavola una libertà che io mi prendevo senza conseguenze; poiché io sono un uomo al quale non si da peso.


Si fa di me, con me, davanti a me, tutto ciò che si vuole, senza che io mi formalizzi. E che regalucci piovevano!... E ho perduto tutto per aver avuto buon senso una volta, una sola volta nella mia vita. Ah! se mi capitasse ancora!


IO: Di che si trattava?


LUI: Di una stupidità senza pari, incomprensibile, imperdonabile.


IO: Quale?


LUI: Rameau, Rameau, non ti avevano preso a benvolere proprio per quel tuo modo di essere? Che sciocchezza, aver avuto un po' di gusto, un po' di spirito, un po' di raziocinio. Rameau, amico mio, questo ti insegnerà a restare quale Dio ti fece, e quale i tuoi protettori ti volevano. Così, ti hanno preso per le spalle, ti hanno condotto alla porta e ti hanno detto: "Briccone, togliti dai piedi, e non ricomparire più. Costui vuol avere buon senso e ragione! Via! Sono qualità che già noi possediamo in sovrabbondanza". E così te ne sei andato mordendoti le dita; ma è la tua lingua maledetta che avresti dovuto morderti prima: per non averlo capito in tempo, eccoti sul lastrico, senza un soldo, senza sapere dove battere la testa. Eri nutrito di buoni bocconi, e ti nutrirai di rifiuti; ben alloggiato, e sarai fin troppo fortunato se ti ridaranno la tua soffitta; dormivi in un buon letto, e ti aspetta la paglia tra il cocchiere del signor Soubise e l'amico di Robbé. Invece del sonno dolce e tranquillo che godevi, ascolterai da un orecchio i nitriti e il calpestio dei cavalli, dall'altro il rumore mille volte più insopportabile di versi secchi, duri e barbari. Disgraziato, malcapitato, sconsigliato, posseduto da un milione di diavoli!


IO: Ma non ci sarebbe modo di rappacificarsi? La colpa che avete commesso è così imperdonabile? Al vostro posto andrei a ritrovare quella gente: voi siete loro più necessario di quel che crediate.


LUI: Oh! sono sicuro che, ora che non mi hanno più a disposizione per farli ridere, si annoiano come cani.


IO: Tornerei a cercarli; non lascerei loro il tempo di fare a meno di me, di volgersi a qualche divertimento onesto: perché chi sa quel che può capitare.


LUI: Non è ciò che io temo; né d'altronde capiterà.


IO: Per quanto voi siate sublime, un altro può prendere il vostro posto.


LUI: E' difficile.


IO: D'accordo. Tuttavia andrei con questo viso sfatto, con questi occhi smarriti, questo colletto in disordine, questi capelli scarmigliati, nello stato veramente tragico in cui voi siete. Mi getterei ai piedi della divinità; batterei la fronte a terra e, senza alzarmi, le direi con voce bassa e singhiozzante: "Perdono, signora, perdono! sono un indegno, un infame. Fu un attimo disgraziato; voi sapete che non sono normalmente soggetto ad avere buon senso, ma vi prometto che non ne avrò più, in vita mia".


(Il divertente è che, mentre io gli facevo questo discorso, egli ne eseguiva la pantomima. Si era prosternato, aveva incollato il viso a terra, sembrava tenesse tra le mani la punta di una pantofola, piangendo, singhiozzando e dicendo: "Sì, mia piccola regina, sì, lo prometto, non ne avrò più per tutta la vita, per tutta la vita..." Poi si alzò bruscamente ed in tono serio e riflessivo soggiunse:) Sì, avete ragione: credo che sia la miglior cosa. Essa è buona; il signor Vieillard dice che è così buona! Io, io sono abbastanza convinto che lo è. Ma tuttavia, andarsi ad umiliare dinanzi a una scimmia, gridar misericordia ai piedi di una miserabile istrioncella che i fischi della platea non cessano di perseguitare! Io, Rameau, figlio del signor Rameau farmacista di Digione, di un uomo dabbene che non ha mai piegato il ginocchio dinanzi a nessuno. Io, Rameau, nipote di colui che vien chiamato il grande Rameau, che si vede passeggiare diritto e con le braccia levate nei giardini del Palazzo reale, da quando Carmontelle l'ha raffigurato in un suo disegno curvo e con le mani sotto le falde dell'abito! Io, che ho composto pezzi per clavicembalo, che nessuno suona, ma che saranno forse i soli che passeranno ai posteri che li suoneranno; io, proprio io dovrei andare... Ebbene, signore, non può essere. (E mettendo la mano destra sul petto, continuava:) Sento qua dentro qualcosa che si rivolta e mi dice:


Rameau, tu non farai nulla. Dev'essere una dignità propria alla natura umana, che nulla può soffocare, e che si risveglia senza ragione; perché vi sono altri giorni in cui non mi costerebbe nulla esser vile tanto quanto si può esserlo; in quei giorni, per un quattrino, bacerei persino il sedere della Hus.


IO: Eh, amico mio: essa è bianca, graziosa, giovane, dolce, grassoccia: e sarebbe un atto di umiltà al quale uno anche più delicato di voi potrebbe facilmente abbassarsi, talvolta.


LUI: Intendiamoci: vi è un modo di baciare il sedere in senso proprio, e un altro in senso figurato. Domandatelo a quel grassone di Bergier che bacia il sedere della signora de la Marque in senso proprio e in senso figurato; e, in verità, entrambi i sensi mi spiacerebbero ugualmente, in quel caso.


IO: Se l'espediente che vi suggerisco non vi conviene, abbiate il coraggio di restare un pezzente.


LUI: E' duro essere un pezzente quando vi sono tanti ricchi imbecilli alle cui spalle si può vivere. E poi c'è il disprezzo di se stessi, che è insopportabile.


IO: E' un sentimento che conoscete?


LUI: Se lo conosco! Quante volte mi sono detto: Come, Rameau, vi sono diecimila ottime tavole a Parigi, ognuna di quindici o venti posti, e tra questi posti non ce n'è neppure uno per te? Vi sono borse gonfie d'oro che traboccano a destra e a sinistra, e non ne cade neppure una moneta per te! Mille buffoncelli senza talento, senza merito; mille creature mediocri, senza fascino; mille piatti intriganti da nulla sono ben vestiti, e tu andresti tutto nudo? E saresti imbecille fino a questo punto? Non sai mentire, imprecare, spergiurare, promettere, mantenere o mancar di parola come gli altri? Non sai metterti a quattro zampe come gli altri? Non sai favorire l'intrigo della signora, e portare la missiva galante del signore, come gli altri? Non sai, come gli altri, incoraggiare quel giovane a parlare alla signorina, e persuadere la signorina ad ascoltarlo? Far intendere alla figlia di uno di questi nostri onesti borghesi che non è abbastanza ben vestita, che un bel paio di orecchini, un po' di rossetto, qualche pizzo, un abito alla polacca le starebbero in modo incantevole? che quei piedini non sono fatti per camminare nella strada? che vi è un bel signore, giovane e ricco, che ha un abito pieno di galloni d'oro, un superbo equipaggio, sei enormi lacchè, il quale l'ha vista passare, la trova affascinante, e da quel giorno non beve e non mangia, non dorme più e ne morrà? "Ma il mio papà?". "Buona, buona! Il vostro papà al principio se ne dispiacerà un poco.". "E la mamma che mi raccomanda tanto di essere una brava ragazza, che mi dice che in questo mondo non c'è che l'onore?". "Discorsi stantii che non significano nulla.". "E il mio confessore?". "Non andrete più a trovarlo; o, se persisterete nel capriccio di andargli a raccontare i vostri divertimenti, vi costerà qualche libbra di zucchero e di caffè.". "Ma è un uomo severo che mi ha rifiutato l'assoluzione per la canzone: ' Vieni nella mia cella '.". "Perché non avevate nulla da dargli in cambio. Ma quando gli apparirete tutta vestita di trine...". "Sarò vestita di trine?".


"Senza dubbio, e di ogni sorta... e avrete begli orecchini di diamante...". "Avrò orecchini di diamanti?". "Sì.". "Come quelli della marchesa che ogni tanto viene a comperare guanti nella nostra bottega?". "Precisamente. E avrete una bella carrozza con cavalli pomellati di grigio e bianco, due enormi lacchè, un negretto e davanti il battistrada, rossetto, nei, lo strascico da portare...". "Al ballo?". "Al ballo, all'opera, alla commedia...".


Già il cuore le trasale di gioia. Tu giocherelli con un foglio tra le dita. "Cos'è questo?". "Nulla.". "Mi sembra di sì.". "E' un biglietto.". "E per chi?". "Per voi, se foste un po' curiosa.".


"Curiosa, lo sono molto. Vediamo...". Legge... "Un incontro... non è possibile, questo non è possibile.". "Nell'andare a messa.". "La mamma mi accompagna sempre... ma se egli venisse qui la mattina presto, mi alzo per prima e sono al banco mentre gli altri dormono ancora...". Egli viene, piace; un bel giorno, all'imbrunire, la piccola sparisce, e mi pagano i miei duemila scudi... Come, tu possiedi questo talento e manchi di pane? Non ti vergogni, sciagurato? Mi venivano alla mente un mucchio di farabutti che non mi arrivavano alla caviglia e che erano stracarichi di ricchezze.


Io ero vestito di baracane ed essi erano ricoperti di velluto, si appoggiavano su una canna col pomo d'oro a becco di corvo, e avevano al dito anelli incisi con l'effigie di Aristotele o di Platone. Eppure, cos'erano? La maggior parte erano musicisti da strapazzo; oggi sono delle specie di signori. Allora mi sentivo pieno di coraggio, l'animo elevato, lo spirito duttile e penetrante. Ma quello stato d'animo felice evidentemente non durava, poiché non sono riuscito sinora a fare un po' di strada...


Sia quel che sia, è questo il testo dei miei frequenti soliloqui: parafrasateli pure a vostra fantasia, ma concludetene che io conosco cosa sia il disprezzo di se stessi, cioè quel tormento della coscienza che nasce dall'inutilità dei doni che il cielo ci ha elargito; ed è il più crudele di tutti. Sarebbe quasi preferibile che l'uomo non fosse mai nato.


(Io l'ascoltavo, e a misura che egli rifaceva la scena del ruffiano e della giovinetta che questi abbindolava, con l'anima agitata da due opposti moti, non sapevo se abbandonarmi al desiderio di ridere o al trasporto dell'indignazione. Soffrivo.


Venti volte uno scoppio di risa non permise alla mia collera di esplodere; venti volte la collera che mi saliva dal fondo del cuore sfociò in uno scoppio di risa. Ero confuso di tanta sagacia e di tanta bassezza; di idee così giuste e alternativamente così false; di una perversità così totale di sentimenti, di una turpitudine così completa, e di una franchezza così poco comune.


Egli si accorse del conflitto che si svolgeva in me, e mi domandò:) Cosa avete?


IO: Nulla.


LUI: Mi sembrate turbato.


IO: Lo sono.


LUI: Ma insomma, che mi consigliate?


IO: Di mutare propositi. Ah, infelice, in quale stato di abiezione siete nato o caduto!


LUI: Ne convengo. Ma tuttavia, il mio stato non vi deve commuovere troppo: la mia intenzione, confidandomi con voi, non era di affliggervi. Ho fatto qualche risparmio tra quella gente: pensate che non avevo bisogno di nulla, assolutamente di nulla, e che mi accordavano un tanto per i miei minuti piaceri.


(Allora ricominciò a battersi la fronte con un pugno, a mordersi le labbra e a volgere al soffitto gli occhi smarriti, continuando a dire:) Ma è cosa finita, ormai: ho messo qualcosa da parte, il tempo è passato, ed è sempre tanto di guadagnato.


IO: Voi volete dire di perduto.


LUI: No, no, di accumulato. Ci si arricchisce ad ogni istante: un giorno di meno da vivere o uno scudo di più, è tutt'uno. Il punto importante è di andare comodamente, liberamente, gradevolmente, copiosamente, tutte le sere al gabinetto: O STERCUS PRETIOSUM!


Ecco il grande risultato della vita in ogni condizione. All'ultimo istante, tutti saranno egualmente ricchi: Samuel Bernard che a forza di furti, di rapine, di bancherotte, lascia ventisette milioni di oro, e Rameau che non lascerà nulla, Rameau al quale la carità offrirà il sacco nel quale l'avvolgeranno. Il morto non ascolta suonare le campane; invano cento preti si sgolano per lui, invano egli è preceduto e seguito da una lunga fila di torce ardenti: la sua anima non cammina a fianco al maestro di cerimonie. Marcire sotto un marmo, o marcire sotto la terra, è sempre marcire. Avere accanto alla bara i fanciulli in rosso o i fanciulli in blu, o non aver nessuno, che fa? E poi vedete questo polso: era rigido come un diavolo; queste dieci dita erano altrettanti stecchi infissi in un metacarpo di legno e questi tendini erano come vecchie corde, più secche, più rigide e meno flessibili di quelle tese sulla ruota di un tornitore. Ma ve le ho tanto tormentate, tanto spezzate, tanto rotte... Tu non vuoi andare, ed io, perdio! dico che andrai; e così sarà.


(E così dicendo, con la mano destra si era preso le dita e il polso della mano sinistra, e li rovesciava in su e in giù; l'estremità delle dita toccava il braccio, le giunture scricchiolavano; temevo che le ossa si slogassero).


IO: State attento (gli dissi), vi storpiate.


LUI: Non temete: sono allenate; da dieci anni gliene ho date in ben altra maniera. Ne hanno prese tante, che alla fine si sono abituate, e hanno imparato a poggiarsi sui tasti e a volteggiare sulle corde. Così ora la cosa procede bene.


(Al tempo stesso si mette nella posa di un suonatore di violino; canticchia un allegro di Locatelli; il braccio destro imita il movimento dell'archetto, la mano sinistra e le dita sembrano percorrere la lunghezza del manico; se stona si ferma, aggiusta la corda, la pizzica con l'unghia per assicurarsi che sia a posto, riprende il pezzo dove l'ha lasciato, batte la misura col piede, dimena la testa, i piedi, le mani, le braccia, il corpo; e, come avrete visto talvolta al Concerto spirituale, Ferrari o Chabrian o qualche altro virtuoso, nelle medesime convulsioni, offrirmi l'immagine dello stesso supplizio e causarmi quasi la stessa pena.


Infatti non è forse una cosa penosa vedere il tormento in colui che è intento a rappresentarmi il piacere? Tirate tra quest'uomo e me un sipario che me lo nasconda, se per me esso rappresenta un paziente sottoposto alla tortura. In mezzo alle sue agitazioni ed ai suoi gridi, se si presentava una nota sostenuta, uno di quei luoghi armoniosi in cui l'archetto si muove lentamente su più corde a un tempo, il suo viso prendeva un'aria estatica, la voce si addolciva, egli si ascoltava rapito. E' certo che gli accordi risuonavano nelle orecchie sue come nelle mie. Poi, rimettendo lo strumento sotto il braccio sinistro con la stessa mano con cui lo teneva, e lasciando cadere la mano destra con l'archetto:) Ebbene (mi diceva), che ne pensate?


IO: Meraviglioso.


LUI: Mi pare che vada: risuona su per giù come gli altri. (E subito si rattrappiva come un musicista che si mette al clavicembalo.) IO: Vi chiedo grazia per voi e per me.


LUI: No, no, poiché siete qui, mi dovete ascoltare. Non so che farmene di un plauso accordato senza sapere perché. Mi loderete con un tono più sicuro, e questo mi procurerà qualche scolaro.


IO: Ho così poche conoscenze: vi affaticherete in pura perdita.


LUI: Non mi affatico mai, io.


(Quando mi accorsi che era inutile aver pietà di lui per il fatto che la suonata sul violino lo aveva immerso in un lago di sudore, presi il partito di lasciarlo fare. Eccolo dunque seduto al clavicembalo, con le gambe piegate, la testa volta al soffitto dove si sarebbe detto che vedesse le note di uno spartito, cantare, preludiare, eseguire un pezzo dell'Alberti o del Galluppi, non so quale dei due. La sua voce andava come il vento, e le dita volteggiavano sui tasti, ora lasciando gli acuti per i bassi, ora abbandonando l'accompagnamento per tornare agli acuti.


Le passioni gli si susseguivano sul viso. Vi si distingueva la tenerezza, la collera, il piacere, il dolore; si sentivano i piano e i forte, e sono sicuro che qualcuno più abile di me avrebbe riconosciuto il pezzo del movimento, dal carattere, dalle espressioni, e da qualche brano di canto che gli sfuggiva ad intervalli. Ma la cosa bizzarra, è che di tanto in tanto andava a tentoni, si riprendeva come avesse sbagliato, e si arrabbiava di non aver più il pezzo tra le dita.) Vedete bene (disse raddrizzandosi e asciugandosi le gocce di sudore che gli scendevano lungo le gote), che anche noi sappiamo collocare un tritono o una quinta eccedente, e che il concatenamento delle dominanti ci è familiare. Questi passaggi enarmonici per cui il caro zio ha fatto tanto rumore, non sono poi una cosa così terribile: noi riusciamo a cavarcela.


IO: Vi siete dato molta pena per mostrarmi di essere assai abile; ma io ero uomo da credervi in parola.


LUI: Assai abile? Oh, no! Quanto al mio mestiere, lo conosco in modo approssimativo, ed è più di quel che occorra; perché, in questo paese si è forse costretti a sapere quel che si finge di sapere?


IO: Non più che sapere quel che si insegna.


LUI: E' giusto, perdio! è molto giusto. Signor filosofo, mettetevi una mano sulla coscienza, parlate schietto: vi è stato un tempo nel quale voi non eravate così ben messo come ora?


IO: Non lo sono ancora abbastanza.


LUI: Ma non andreste più al giardino del Lussemburgo, d'estate...


Vi ricordate?


IO: Lasciamo andare; sì, me ne ricordo.


LUI: In soprabito di velluto grigio...


IO: Sì, sì.


LUI: Consunto da un lato, con la manica strappata e le calze di lana nere, rattoppate dietro col filo bianco.


IO: Eh, sì, sì, proprio come dite.


LUI: Che facevate allora nel viale dei Sospiri?


IO: Una figura assai triste.


LUI: Uscendo di là, camminavate a lungo.


IO: Proprio così.


LUI: Davate lezioni di matematica.


IO: Senza saperne una parola: a questo volevate arrivare?


LUI: Precisamente.


IO: Imparavo insegnando agli altri, e ho fatto parecchi buoni scolari.


LUI: E' possibile; ma la musica non è come l'algebra e la geometria. Oggi che siete un uomo autorevole...


IO: Non così autorevole.


LUI: Che avete dei risparmi.


IO: Molto pochi.


LUI: Prendete insegnanti per vostra figlia.


IO: Non ancora. Sua madre si occupa della sua educazione; perché bisogna aver la pace in famiglia.


LUI: La pace in famiglia? Perdio! La si ha soltanto se si è il servo o il padrone, e bisogna essere il padrone. Io ho avuto una moglie: Dio voglia accogliere la sua anima! Ma quando le capitava talvolta di ribellarsi, io prendevo un'attitudine minacciosa, facevo tuoni e fulmini, e dicevo come Dio: "Sia fatta luce", e la luce era fatta. Così nello spazio di quattro anni si contano sulle punte delle dita le volte in cui uno di noi abbia alzato la voce.


Che età ha vostra figlia?


IO: Questo non c'entra.


LUI: Che età ha?


IO: E che diavolo! Lasciamo mia figlia e la sua età, e torniamo agli insegnanti che dovrà avere.


LUI: Perdio! non conosco nulla di più testardo di un filosofo. Vi supplico umilmente, non si potrebbe sapere dal signor filosofo quale età approssimativamente può avere sua figlia?


IO: Supponete che abbia otto anni.


LUI: Otto anni! Dovrebbe avere le dita sul pianoforte già da quattro anni.


IO: Ma forse io non mi curo troppo di far entrare nel programma della sua educazione uno studio che impegna così a lungo e che serve a così poco.


LUI: E che cosa le insegnerete, allora?


IO: A ragionar bene, se posso; cosa assai poco comune tra gli uomini, e ancor più rara tra le donne.


LUI: Ma lasciatela sragionare quanto vorrà, purché sia graziosa, divertente e civetta.


IO: Poiché la natura è stata abbastanza ingrata verso di lei, conferendole un organismo delicato ed un'anima sensibile, ed esponendola alle stesse pene della vita come se essa avesse un organismo forte e un cuore di bronzo, le insegnerò, se ci riesco, a sopportarle con coraggio.


LUI: Ma lasciatela piangere, soffrire, fare la smorfiosa, avere i nervi come le altre, purché sia graziosa, divertente e civetta.


Che! niente danza?


IO: Non più di quel che occorre per fare una riverenza, avere un contegno decoroso, presentarsi bene e saper camminare.


LUI: Niente canto?


IO: Non più di quel che occorre per avere una buona pronuncia.


LUI: Niente musica?


IO: Se ci fosse un buon maestro di armonia, gliel'affiderei volentieri due ore al giorno per uno o due anni: non di più.


LUI: E al posto delle cose essenziali che sopprimete...


IO: Metto la grammatica, la mitologia, la storia, la geografia, un po' di disegno e molta morale.


LUI: Come mi sarebbe facile provarvi l'inutilità di tutte queste conoscenze in un mondo come il nostro; che dico, l'inutilità!


forse il pericolo! Ma per il momento mi limiterò ad una domanda:


non avrà bisogno di uno o due maestri?


IO: Senza dubbio.


LUI: Ah! Eccoci di nuovo. E voi sperate che questi maestri sappiano la grammatica, la mitologia, la storia, la geografia, la morale di cui daranno lezione? Illusioni, mio caro, illusioni! Se avessero di queste cose tale conoscenza da poterle insegnare, non le insegnerebbero.


IO: E perché?


LUI: Perché avrebbero passato l'intera vita a studiarle. Bisogna essere profondi nell'arte e nella scienza, per ben possederne gli elementi. Le opere classiche non possono essere fatte bene se non da coloro che sono invecchiati nel lavoro: il mezzo e la fine schiariscono le tenebre del principio. Domandate al vostro amico, il signor D'Alembert, il corifeo della scienza matematica, se sarebbe così bravo da esporne i primi elementi. Solo dopo trenta o quaranta anni di esercizio mio zio ha intravisto le prime luci della teoria musicale.


IO: O pazzo, arcipazzo (esclamai), come si può che nella tua testa bacata si trovino idee così giuste mischiate con tante idee stravaganti?


LUI: Chi diavolo lo sa? Il caso ve le getta, e vi restano. Vero è che quando non si sa tutto, non si sa bene niente; si ignora dove una cosa va, donde un'altra viene, dove l'una e l'altra vanno collocate, quale deve venir prima, quale è meglio che venga dopo.


Si può insegnare senza metodo? E il metodo donde nasce? Vedete, caro filosofo, ho in mente che la fisica sarà sempre una povera scienza, una goccia d'acqua attinta con la punta di un ago nel vasto oceano, un granello staccato dalla catena delle Alpi. E le ragioni dei fenomeni? In verità, tanto varrebbe ignorare tutto, che saper così poco e così male, e mi trovavo proprio a questo punto quando mi feci maestro di accompagnamento e di composizione.


A che pensate?


IO: Penso che tutto quello che avete detto è più appariscente che solido. Ma lasciamo andare. Dicevate di aver insegnato accompagnamento e composizione.


LUI: Sì.


IO: E non ne sapevate proprio nulla?


LUI: No, davvero; per questo c'era gente peggiore di me: coloro che credevano di saper qualcosa. Almeno io non rovinavo né l'intelletto né le mani dei bambini. Passando da me a un buon maestro, siccome non avevano imparato nulla, non avevano almeno nulla da disimparare, ed era sempre altrettanto denaro e tempo guadagnati.


IO: Come facevate?


LUI: Come fanno tutti. Arrivavo, mi gettavo su una sedia. "Che tempo cattivo, com'è faticosa la strada!". Parlavo di qualche novità: "La signorina Lemierre doveva fare una parte di vestale nell'opera nuova, ma è incinta per la seconda volta; non si sa chi la sostituirà. La signorina Arnoud ha lasciato il suo contino; si dice che sia in trattative con Bertin. Il contino ha trovato intanto la formula della porcellana del signor di Montamy.


Nell'ultimo concerto dei dilettanti c'era un'italiana che ha cantato come un angelo. Che magnifico corpo ha quel Préville, bisogna vederlo nel "Mercurio galante", l'episodio dell'enigma è fantastico! Quella povera Dumesnil non sa più né quel che dice né quel che fa. Andiamo, signorina, prendete il libro.". Mentre la signorina cerca senza alcuna fretta il libro che ha smarrito, mentre si chiama una cameriera e la si sgrida, io continuo: "La Clairon è veramente incomprensibile. Si parla di un matrimonio assai piccante: quello della signorina... come la chiamate? quella ragazzina che egli manteneva, dalla quale ha avuto due o tre bambini, e che era stata mantenuta da tanti altri.". "Andiamo, Rameau, non è possibile; dite cose senza senso.". "No, non sragiono minimamente: si dice addirittura che la cosa è già fatta.


Corre voce che Voltaire sia morto; tanto meglio.". "E perché tanto meglio?". "Forse ci vuol preparare qualche bello scherzo; ha l'abitudine di morire quindici giorni in anticipo.". Che ancora?


Raccontavo qualche storiella che avevo raccolto nelle case dove ero stato, perché noi siamo tutti grandi diffonditori di notizie.


Facevo il pazzo, mi ascoltavano, ridevano, esclamavano: "E' sempre divertentissimo!". Intanto, il libro della signorina veniva finalmente trovato sotto una poltrona, dove era stato trascinato, morsicato, strappato da un cucciolo o da un gattino. Ella si sedeva al clavicembalo; incominciava a farvi rumore da sola, poi mi avvicinavo io, dopo aver fatto alla madre un cenno di approvazione. La madre: "Non va male; ci vorrebbe solo un po' di volontà, ma è questa che manca. Si preferisce perdere il tempo a chiacchierare, a far dispetti, a correre e non so che altro. Non siete ancora uscito e già il libro è chiuso, e viene riaperto solo al vostro ritorno. Voi, poi, che non la sgridate mai...". Intanto, poiché si doveva pur fare qualcosa, le mettevo le mani in una posizione diversa, mi arrabbiavo, esclamavo: "Sol, sol, sol, signorina, è un sol!". La madre: "Signorina, non avete orecchio?


Io che non sono al clavicembalo, e che non vedo il libro, sento che ci vuole un sol. Non so come il signore sopporti con tanta pazienza tutte le pene che gli causate. Non ricordate nulla di quel che vi dice, non progredite neanche un tantino...". Allora io diminuivo un po' i colpi, e dicevo scuotendo la testa:


"Perdonatemi, signora, perdonatemi. Potrebbe andar meglio, se la signorina volesse, se studiasse un po'; ma non c'è poi tanto male.". La madre: "Al vostro posto, la terrei un anno sullo stesso pezzo." "Oh, quanto a questo, non glielo farò lasciare se non avrà superato tutte le difficoltà; ma non ci vorrà tanto tempo come la signorina crede.". La madre: "Signor Rameau, voi la lusingate; siete troppo buono. Ecco la sola cosa della lezione che ella terrà a mente e che all'occasione saprà ripetermi.". L'ora passava, la mia scolara mi presentava il compenso con un gesto grazioso del braccio e la riverenza che aveva appreso dal maestro di danza. Lo mettevo in tasca, mentre la madre diceva: "Molto bene, signorina; se Javillier fosse qui, vi applaudirebbe.". Chiacchieravo ancora un attimo per educazione; poi sparivo. Ed ecco, vi ho descritto qual era allora una lezione di accompagnamento.


IO: E oggi, la cosa è diversa?


LUI: Lo credo bene, perdio! Arrivo, ho l'aria seria, mi affretto a deporre il manicottto. Apro il clavicembalo, provo la tastiera. Ho sempre fretta; se mi fanno aspettare un momento grido come se mi rubassero uno scudo. Tra un'ora devo essere in quel dato posto, tra due ore devo trovarmi presso la tale duchessa. Sono atteso a cena da una bella marchesa e, uscendo di là, c'è un concerto del barone di Bagge in via nuova dei Petits-Champs.


IO: E invece non siete atteso in nessun luogo?


LUI: Proprio così.


IO: E perché adoperate tutte queste piccole, vili astuzie?


LUI: Vili? E perché, di grazia? Sono di prammatica, nella mia condizione: non mi avvilisco affatto, se faccio quel che fanno tutti. Non sono stato io a inventarle, e sarei incauto e bizzarro se non me ne servissi. Veramente, so benissimo che, se volessimo applicare a questo alcuni principii generali di non so quale morale che tutti hanno sulle labbra e che nessuno segue, apparirà nero quel che è bianco, e bianco quel che è nero. Ma, signor filosofo, vi è una coscienza generale come vi è una grammatica generale, e poi vi sono eccezioni in ogni lingua, che voialtri dotti chiamate, credo... aiutatemi...


IO: Idiotismi.


LUI: Proprio così. Ebbene, ogni condizione sociale ha le sue eccezioni alla coscienza generale, e a queste darei volentieri il nome di idiotismi di mestiere.


IO: Capisco. Fontenelle parla bene, scrive bene, quantunque il suo stile brulichi di idiotismi francesi.


LUI: E il sovrano, il ministro, il finanziere, il magistrato, il militare, il commerciante, il banchiere, l'artigiano, il maestro di canto, il maestro di danza sono gente del tutto onesta, quantunque la loro condotta si allontani in molti punti dalla coscienza generale e sia piena di idiotismi morali. Più un'istituzione è antica, più fioriscono gli idiotismi; più i tempi sono infelici, più gli idiotismi si moltiplicano. Il mestiere vale quanto l'uomo che lo esercita, e viceversa l'uomo vale quanto il suo mestiere. Perciò si fa valere il proprio mestiere più che si può.


IO: Quel che capisco chiaramente in tutto questo groviglio è che vi sono pochi mestieri esercitati onestamente, ovvero poche persone oneste nel loro mestiere.


LUI: Bravo! non ce ne sono affatto; ma in cambio vi sono pochi bricconi fuori dalla loro bottega; e tutto andrebbe abbastanza bene senza un certo numero di individui che si dicono assidui, puntuali, rigorosi esecutori del proprio dovere, ligi, o, che fa lo stesso, continuamente presenti nella propria bottega, dediti al loro mestiere dalla mattina alla sera, e nient'altro che a questo.


Motivo per il quale sono essi i soli che diventano ricchi e vengono stimati.


IO: A forza di idiotismi.


LUI: Proprio così! Vedo che mi avete capito. Or dunque un idiotismo comune a quasi tutte le condizioni - poiché ve ne sono di comuni a tutti i paesi e a tutti i tempi, così come vi sono idiozie comuni - un idiotismo comune è quello di procurarsi il maggior numero di clienti possibile e di credere che il più abile sia chi ne ha di più. Ecco due eccezioni alla coscienza generale alle quali bisogna piegarsi. E' una specie di credito. Non è nulla in sé, ma ha valore per la pubblica opinione. Si è detto che "una buona rinomanza valeva più di una cintura dorata", tuttavia chi ha una buona rinomanza non ha nessuna cintura dorata, e vedo che oggi colui che ha una cintura dorata non manca mai di rinomanza.


Occorre, per quanto è possibile, possedere le due cose insieme; questo è il mio intento quando mi faccio valere per ciò che voi qualificate coi termini di astuzie vili, di indegne e piccole furberie. Dò lezione, e la dò bene, ecco la regola generale.


Faccio vedere che devo dare lezioni per un numero di ore maggiore di quanto ne contenga un'intera giornata, ed ecco l'idiotismo.


IO: E la lezione, la fate bene?


LUI: Sì, non tanto male, in modo passabile. Il basso fondamentale del caro mio zio ha semplificato molto le cose. In altri tempi, rubavo il denaro del mio allievo, sì, lo rubavo, è certo; oggi me lo guadagno almeno come gli altri.


IO: E lo rubavate senza rimorsi?


LUI: Oh, senza rimorsi! Si dice che "se un ladro ne deruba un altro, il diavolo se la ride". I genitori dei miei allievi erano di una esorbitante ricchezza, Dio sa come procurata: erano persone di corte, finanzieri, grossi commercianti, banchieri, uomini d'affari. Io li aiutavo a restituire, io e un mucchio di altre persone che essi impiegavano come me. Nella natura, tutte le specie si divorano tra loro; e tutte le condizioni si divorano tra loro nella società: noi facciamo giustizia gli uni degli altri, senza che la legge possa intervenirvi. Un tempo era la Deschamps, ora è la Guimard a vendicare il principe ai danni del finanziere; e la venditrice di mode, il gioielliere, il tappezziere, la venditrice di biancheria, lo scroccone, la cameriera, il cuoco, il sellaio vendicano il finanziere ai danni della Deschamps. In mezzo a tutto questo, solo l'imbecille e l'ozioso vengono danneggiati senza aver vessato nessuno, ed è giusto che sia così. Donde vedete che quelle eccezioni alla coscienza generale, o quegli idiotismi morali di cui si fa tanto rumore sotto la denominazione di "Profitti illeciti" non sono nulla, e tutto sommato solo il colpo d'occhio non deve sbagliare.


IO: Ammiro il vostro.


LUI: E poi la miseria. La voce della coscienza e dell'onore è assai debole quando le budella reclamano. Basta che, se mai diventerò ricco, restituisca anch'io, e sono ben deciso a farlo in tutte le maniere possibili: con la tavola, col gioco, col vino, con le donne.


IO: Ma temo che voi non diventerete mai ricco.


LUI: Ne ho anch'io il sospetto.


IO: Ma, se capitasse, cosa fareste?


LUI: Farei come tutti i pezzenti arricchiti: sarei il più insolente briccone che si sia mai visto. Allora mi ricorderei tutto quello che ho sofferto, e ricambierei tutte le angherie che ho subito. Mi piace comandare, e comanderò. Mi piace esser lodato, e lo sarò. Avrò al mio soldo tutti i parassiti di Vilmorien, e dirò loro tutto quello che hanno detto a me: "Suvvia, bricconi, fatemi divertire!"; e mi faranno divertire; "Parlatemi male della gente perbene", e la diffameranno, se ve ne sarà ancora; e poi avremo belle ragazze, ci daremo del tu quando saremo ubriachi; ci inebrieremo, ci racconteremo storielle, avremo ogni sorta di difetti e di vizi. Sarà delizioso. Dimostreremo che Voltaire è privo di genio, che Buffon, sempre agghindato e issato sui trampoli, non è che un declamatore ampolloso; che Montesqieu è soltanto un bello spirito; relegheremo D'Alembert nelle sue matematiche; meneremo botte a tutti i piccoli Catoni come voi che ci disprezzeranno per invidia, nei quali la modestia serve a coprire l'orgoglio, e la sobrietà è la legge del bisogno. E la musica? Sì che ne faremo, allora!


IO: Al degno uso che farete della ricchezza, vedo quanto sia gran peccato la vostra povertà. Voi vivreste in un modo davvero onorevole per la specie umana, davvero utile per i vostri concittadini, davvero glorioso per voi.


LUI: Ma io credo che mi prendete in giro. Signor filosofo, voi non sapete di chi vi fate beffa, non sospettate che in questo momento io rappresento la parte più importante della città e della corte.


I nostri ricconi di tutte le condizioni sociali possono essersi detti o no le cose che io vi ho confidato, ma il fatto è che la vita che io condurrei al loro posto è esattamente la loro. Ecco a che punto siete, voialtri: credete che la felicità sia adatta a tutti. Che strano modo di vedere! La vostra felicità presuppone uno spirito romanzesco che noi non abbiamo, un'anima singolare, un gusto particolare. Voi decorate questa bizzarria col nome di virtù, la chiamate filosofia; ma la virtù, la filosofia, sono forse fatte per tutti? Ne ha chi può. Immaginate un universo saggio e filosofico: e convenite che sarebbe enormemente triste.


Invece, viva la filosofia, viva la saggezza di Salomone: bere buon vino, ingozzarsi di cibi delicati, darsi da fare con belle ragazze, riposare in letti morbidi. Tolto questo, il resto non è che vanità.


IO: Come! E difendere la patria?


LUI: Vanità! Non vi è più patria: da un polo all'altro non vedo che tiranni e schiavi.


IO: Aiutare gli amici?


LUI: Vanità! Esistono gli amici? E se ne avessimo, perché farne degli ingrati? Riflettete, e vedrete che l'ingratitudine è quasi sempre tutto quanto si raccoglie dai servizi resi. La riconoscenza è un peso, e ogni peso è fatto per essere scrollato via.


IO: Esercitare una funzione sociale e adempierne i doveri?


LUI: Vanità! Che importa avere o no una funzione sociale, quando si è già ricchi, dato che la si esercita solo per diventarlo?


Adempiere i propri doveri, a che porterebbe? Alla gelosia, al disordine, alla persecuzione. Così si progredisce, forse? Fare il mestiere del cortigiano, perdio! frequentare i potenti, studiarne i gusti, prestarsi alle loro fantasie, servire i loro vizi, approvare le loro ingiustizie: ecco il segreto.


IO: Attendere all'educazione dei propri figli?


LUI: Vanità! E' compito dei precettori.


IO: Ma se questi precettori, compenetrati dei vostri principi, trascurano i loro doveri, chi ne sarà punito?


LUI: Non io di certo, ma forse un giorno il marito di mia figlia o la moglie di mio figlio.


IO: E se l'uno e l'altra precipitano nella sregolatezza, nel vizio?


LUI: E' cosa che si confà alla propria condizione.


IO: Se perdono l'onore?


LUI: Qualunque cosa si faccia, quando si è ricchi non si può mai essere disonorati.


IO: Se si rovinano?


LUI: Tanto peggio per loro.


IO: Vedo che come vi dispensate dal sorvegliare la condotta di vostra moglie, dei vostri figli, dei vostri domestici, v'è rischio che trascuriate anche i vostri affari.


LUI: Perdonate, ma talvolta è difficile trovare danaro, ed è prudente pensarvi per tempo.


IO: Non vi occuperete di vostra moglie?


LUI: No, affatto. La miglior condotta che si possa seguire verso la nostra cara metà, ritengo sia di lasciarle fare quel che le conviene. Non credete che la società sarebbe davvero divertente se ognuno stesse al suo posto?


IO: Perché no? La sera non è mai così bella per me come quando sono contento di come ho passato la mattina.


LUI: Anche per me.


IO: Quel che rende così difficile agli uomini di società la scelta dei divertimenti è il loro ozio profondo.


LUI: Non lo crediate: si agitano molto.


IO: Non stancandosi mai, non si riposano mai.


LUI: Non lo crediate: sono sempre affaticati.


IO: Il piacere è sempre per loro un'occupazione, non una necessità.


LUI: Tanto meglio: la necessità è sempre sofferenza.


IO: Logorano tutto. La loro anima si inebetisce, la noia la invade. Colui che togliesse loro la vita, in mezzo all'abbondanza che li opprime, renderebbe loro un servigio. Essi conoscono della felicità solo la parte più effimera. Io non disprezzo i piaceri dei sensi: ho anch'io un palato, che si compiace dei cibi delicati o dei vini deliziosi; ho cuore e occhi, e mi piace contemplare una donna graziosa, mi piace sentire sotto la mano la soda rotondità del suo seno, premere con le mie le sue labbra, attingere la voluttà nei suoi sguardi e spasimare tra le sue braccia. Talora non mi dispiace una partita di piacere, anche un po' tumultuosa, con gli amici. Tuttavia non vi nasconderò che mi è ancora infinitamente più dolce l'aver soccorso l'infelice, l'aver risolto un affare spinoso, dato un consiglio salutare, fatto una lettura piacevole, una passeggiata con un uomo o con una donna cari al mio cuore, occupato alcune ore nell'educazione dei miei figli, scritto qualcosa di buono, adempiuto ai doveri del mio ufficio, detto a colei che amo cose tenere e dolci che mi attirano le sue braccia intorno al collo. Vi è poi un'azione che vorrei aver compiuta in cambio di tutto ciò che possiedo. Il "Maometto" è un'opera sublime, eppure io preferirei aver riabilitato la memoria di Calas. Un mio conoscente si era rifugiato a Cartagena; era un cadetto in un paese in cui il costume trasferisce tutto il patrimonio ai primogeniti. Là viene a sapere che il suo fratello primogenito, un ragazzo viziato, dopo aver spogliato il padre e la madre, troppo indulgenti, di tutto quello che possedevano, li aveva scacciati dal loro castello, e che i poveri vecchi languivano in povertà in una piccola città di provincia. Che fa allora questo cadetto, il quale, trattato duramente dai genitori, era andato a cercar fortuna lontano? Manda loro soccorsi; sistema rapidamente i suoi affari; ritorna ricco, riconduce suo padre e sua madre nella loro dimora, dà marito alle sorelle. Ah! mio caro Rameau, quest'uomo considerava quel periodo come il più felice della sua vita. Me ne parlava con le lacrime agli occhi; ed io, mentre vi faccio questo racconto, sento che il cuore mi trema dalla gioia, e il piacere mi impedisce di parlare.


LUI: Siete proprio degli esseri singolari!


IO: E voi siete da compatire, se non riuscite a immaginare che ci si possa elevare al di sopra del proprio destino, e che è impossibile esser infelici all'ombra di due belle azioni come queste.


LUI: Ecco una sorta di felicità con la quale farò fatica a familiarizzarmi, perché la si incontra di rado. Ma, secondo il vostro modo di valutare le cose, si dovrebbe dunque essere onesti?


IO: Per essere felici? Certo.


LUI: Tuttavia io vedo un'infinità di persone oneste che non sono felici, e un'infinità di persone che sono felici senza essere oneste.


IO: Pare a voi così.


LUI: E non è forse a causa di un istante di sincerità e di buon senso che non so dove andare a cena stasera?


IO: Eh, no! E' piuttosto perché non ne avete avuto sempre, perché non avete capito per tempo che la necessità più urgente era di provvedere a crearvi risorse indipendenti da asservimenti.


LUI: Indipendente o no, la posizione che mi sono fatta è almeno la più comoda.


IO: E la meno sicura e la meno onesta.


LUI: Ma la più conforme al mio carattere di fannullone, di sciocco, di libertino.


IO: D'accordo.


LUI: E visto che posso fare la mia felicità a mezzo di vizi che mi sono naturali, che ho acquistato senza lavoro, che conservo senza sforzo, che quadrano coi costumi della mia nazione, che vanno a genio ai miei protettori e sono consoni alle loro piccole esigenze individuali, mentre le mie eventuali virtù li metterebbero in imbarazzo, sarebbero una costante accusa, converrete che sarei pazzo a torturarmi come un'anima dannata per evirarmi e farmi diverso da quel che sono; per darmi un carattere estraneo al mio, qualità molto stimabili, ne convengo per non discutere, ma che mi costerebbe molto acquistare e praticare, e che non mi porterebbero a nulla, forse a peggio che nulla, data la costante ironia dei ricchi presso i quali i poveri come me devono cercare la loro sussistenza. Si loda la virtù, ma la si odia, la si fugge: essa raggela, e in questo mondo bisogna avere i piedi caldi. E poi, mi metterebbe immancabilmente di cattivo umore; perché, infatti, sarebbe così facile trovare tra i devoti tanta gente dura, puntigliosa, insocievole? Accade perché si sono imposti un compito innaturale; soffrono, e quando si soffre si fanno soffrire anche gli altri. Non ci sarebbe alcun vantaggio, né per me né per i miei protettori; io devo mostrarmi gaio, duttile, gradevole, comico, stravagante. La virtù si fa rispettare, e il rispetto è scomodo; la virtù si fa ammirare, e l'ammirazione non è divertente. Io ho a che fare con persone che si annoiano, e ho il dovere di farle ridere. Ora, ciò che fa ridere è il ridicolo, è la pazzia: perciò debbo essere ridicolo e pazzo; e qualora la natura non mi avesse fatto tale, la cosa più sbrigativa sarebbe di apparirlo.


Fortunatamente, non ho bisogno di essere ipocrita; se ne trovano già tanti di ogni colore, senza contare quelli che lo sono con se stessi. Quel cavaliere de La Morlière, che si calca il cappello sull'orecchio, che porta la testa per aria, che guarda il passante al di sopra della spalla, che si fa battere una lunga spada sulla coscia, che ha un insulto sempre pronto per chi non la porta, che sembra rivolgere una sfida al primo venuto, che fa? Tutto quello che può per persuadersi di essere un coraggioso; ma è un vile.


Dategli un pugno proprio sulla punta del naso, e lo incasserà con dolcezza. Volete fargli abbassare il tono? Alzate il vostro.


Mostrategli il bastone, affibbiategli un calcio fra le natiche:


tutto stupito di scoprirsi vile, vi domanderà come lo avete scoperto, da chi lo avete appreso. Lui stesso lo ignorava un attimo prima; la lunga finzione lo aveva suggestionato: aveva tanto scimmiottato il coraggio, che credeva di averne davvero.


E quella donna che si mortifica, che visita le prigioni, che assiste a tutte le riunioni di carità, che cammina con gli occhi bassi, che non ardirebbe guardare in faccia un uomo; sempre in guardia contro la seduzione dei sensi; malgrado tutto questo, può far sì che il suo cuore non bruci, che non le sfuggano sospiri, che il suo temperamento non prenda fuoco, che i desideri non l'ossessionino, e che la sua immaginazione non le rappresenti, notte e giorno, le scene del "Portiere dei Certosini" e le oscenità dell'Aretino? Che cosa diviene, allora? Che ne pensa la sua cameriera quando si alza in camicia e vola al soccorso della padrona in deliquio? Giustina, tornate a coricarvi; la vostra padrona non chiama voi, nel suo delirio.


E l'amico Rameau, se si mettesse un giorno a mostrare disprezzo per la fortuna, le donne, la buona tavola, l'ozio, a fare il Catone, che cosa diverrebbe? Un ipocrita. Rameau deve restare quello che è: un furfante felice in compagnia di furfanti ricchi, e non un fanfarone della virtù o anche un uomo virtuoso, che rosicchia una crosta di pane, solo, o in compagnia di pezzenti...


Per tagliar corto, io non sono per nulla d'accordo con la vostra felicità, né con quella di alcuni altri visionari come voi.


IO: Vedo, mio caro, che voi ignorate cosa sia, e che non siete neppure fatto per apprenderlo.


LUI: Tanto meglio, perdio! Tanto meglio! Il saperlo mi farebbe crepar di fame, di noia e forse di rimorso.


IO: Da quel che dite, il solo consiglio che ho da darvi è di rientrare al più presto nella casa dalla quale vi siete imprudentemente fatto cacciare.


LUI: E di far ciò che voi non disapprovate in senso proprio, e che a me ripugna un po' in senso figurato.


IO: E' la mia opinione.


LUI: Al di fuori di questa metafora; che mi dispiace in questo istante, e che mi dispiacerà in un altro.


IO: Che stranezza!


LUI: Non vi è nulla di strano. Voglio essere abietto, ma voglio esserlo senza costrizione. Voglio ben discendere dalla mia dignità... Voi ridete?


IO: Sì, la vostra dignità mi suscita il riso.


LUI: Ognuno ha la sua. Voglio volentieri dimenticare la mia, ma per mia scelta, non per ordine di un altro. Occorre proprio che mi si dica: "Striscia!", e che io sia costretto a strisciare? E' l'andatura del verme, la mia: tanto io che lui l'assumiamo, se ci lasciano in pace, ma ci raddrizziamo appena ci pestano la coda. Mi hanno pestato la coda, e io mi raddrizzerò. Inoltre, non avete idea di che gabbia di matti si trattasse. Immaginate un personaggio malinconico e tetro, distrutto dai nervi, avvolto in due o tre vesti da camera, che dispiace a se stesso, e al quale tutto dispiace, che si riesce a far sorridere appena, storcendo l'anima e il corpo in cento modi diversi, che considera con freddezza le smorfie divertenti del mio viso e quelle ancor più spiritose del mio ingegno; perché, sia detto tra noi, quel padre Noël, quell'antipatico benedettino così famoso per le sue smorfie, malgrado i successi a corte, senza vantarmi, non è in confronto a me che un pulcinella di legno. Ho un bel tormentarmi nello sforzo di attingere le maggiori sommità della follia: non c'è niente da fare. Riderà? Non riderà? Ecco quel che sono costretto a chiedermi nel mezzo alle contorsioni; e voi potete giudicare quanto questa incertezza sia dannosa al talento. Quell'ipocondriaco, con la testa ficcata dentro un berretto da notte che gli copre gli occhi, ha l'aria di un idolo immobile, al quale fosse stato attaccato un filo che dal mento calasse giù sotto la poltrona. Si aspetta che il filo venga tirato, e il filo non viene tirato affatto, o, se capita che la mascella si schiuda, è per articolare una parola desolante, una parola che vi informa che voi non siete neppure stato visto, e che tutte le vostre smorfie sono sprecate. E questa parola è una risposta alla domanda che gli avrete fatto quattro giorni prima; pronunciata questa parola, il muscolo della mascella si distende e la mascella si richiude...


(Poi si mise a contraffare l'uomo di cui parlava. Si era seduto su una seggiola, con la testa immobile, il cappello calato fino alle palpebre, gli occhi semichiusi, le braccia penzoloni, muovendo la mascella come un automa, e dicendo: "Sì, avete ragione, signorina.


Occorre un po' di finezza".) E' quel che sentenzia, quel che sentenzia sempre, e senza appello, la sera, la mattina, alla toeletta, a pranzo, al caffè, al gioco, a teatro, a cena, a letto, e, Dio mi perdoni, credo anche nelle braccia della propria amante. Non sono in grado di ascoltare queste ultime sentenze, ma sono diabolicamente stanco delle altre.


Triste, oscuro e categorico come il destino, tale è il nostro padrone.


Di fronte, ecco, una schifiltosa che si dà grandi arie, alla quale potremmo anche dire che è graziosa, perché lo è ancora, quantunque abbia qua e là sul viso qualche ruga, e si approssimi alla mole della signora Bouvillon. Mi piacciono le carni quando sono belle; ma il troppo è troppo, e il movimento è così essenziale alla materia! Item, essa è più cattiva, più fiera, e più sciocca di un'oca. Item, vuol essere spiritosa. Item, bisogna convincerla che crediamo che lei lo sia come nessuno al mondo. Item, non sa niente, ma anche lei sentenzia. Item, bisogna applaudire ai suoi giudizi coi piedi e con le mani, saltare di gioia, fremere di ammirazione: "Com'è bello, delicato, ben detto, visto con acutezza, sentito in modo personale! Dove mai le donne imparano tutto ciò? Senza studio, con la sola forza dell'istinto, con la sola luce naturale: è prodigioso! E poi veniteci a dire che l'esperienza, lo studio, la riflessione, l'educazione aiutano in qualcosa!". E altre simili sciocchezze, condite di lacrime di gioia. Curvarsi dieci volte al giorno, un ginocchio piegato in avanti, le braccia protese verso la dea; cercarle la volontà negli occhi, pendere dalle sue labbra, attendere i suoi ordini e lanciarsi come un lampo. Chi può assoggettarsi a una simile parte?


Solo un miserabile che trova per tal mezzo, due o tre volte alla settimana, come calmarsi i crampi dello stomaco. E che pensare degli altri i quali, come Palissot, Fréron, i Poinsinet, Baculard, hanno qualche soldo, e le cui bassezze non possono venir giustificate col brontolio di uno stomaco che soffre?


IO: Non vi avrei mai creduto così difficile!


LUI: Non lo sono. All'inizio vedevo fare gli altri, e facevo come loro, e anche un po' meglio, perché sono più apertamente spudorato, miglior commediante, più affamato, fornito di migliori polmoni. Probabilmente discendo in linea retta dal famoso Stentore...


(E, per darmi una giusta idea della potenza di questo suo organo, si mise a tossire con una violenza tale da far tremare i vetri del caffè, e fermare per un istante l'attenzione dei giocatori di scacchi.) IO: Ma a che serve questo talento?


LUI: Non l'indovinate?


IO: No; sono un po' limitato.


LUI: Immaginate iniziata la discussione e incerta la vittoria: io mi alzo e, tuonando come Giove, dico: "E' proprio come la signorina sostiene. Questo si chiama giudicare! Ci si provino i nostri belli ingegni. L'espressione è geniale!". Ma non bisogna sempre approvare allo stesso modo; si sarebbe monotoni, si avrebbe un'aria ingannatrice, si risulterebbe insipidi; e ci si salva da tale pericolo solo con un po' di giudizio, di inventiva; occorre saper preparare e disporre quei toni alti e perentori, afferrare il momento e l'occasione. Quando, per esempio, vi è una scissione nei sentimenti, quando la discussione è giunta al suo estremo grado di violenza, quando non ci si capisce più, e tutti parlano contemporaneamente, allora bisogna mettersi da parte, nell'angolo dell'appartamento più lontano dal campo di battaglia, far precedere l'esplosione da un lungo silenzio, e piombare di un subito come una grossa bomba in mezzo ai contendenti. Nessuno possiede come me quest'arte. Ma dov'io sono sorprendente è nel talento opposto: ho toni tenui che accompagno con un sorriso, con un'infinita varietà di gesti di consenso; entrano in gioco il naso, la bocca, la fronte, gli occhi, ho un'elasticità nelle reni, un modo di deformare la spina dorsale, di alzare od abbassare le spalle, di stendere le dita, di inclinare la testa, di chiudere gli occhi e di esser stupito, come se avessi udito discendere dal cielo una voce angelica e divina. E' quello che lusinga. Non so se voi afferriate bene tutta l'energia di quest'ultimo atteggiamento:


non l'ho inventato io, ma nessuno mi ha superato nella sua esecuzione. Guardate, guardate.


IO: Avete ragione, è unico.


LUI: Credete che vi sia cervello di donna un po' vanesia che resista a ciò?


IO: No, bisogna convenire che avete portato a vette insuperabili il talento di alimentare l'altrui follia e di avvilirsi.


LUI: Avranno un bel da fare, tutti quanti sono, non ci arriveranno mai. Il migliore di loro, Palissot, per esempio, non sarà mai altro che un discreto apprendista. Ma se da principio quest'arte diverte, e se si prova qualche piacere a rider tra sé e sé della bestialità di coloro che siamo riusciti a inebriare, alla lunga non c'è più gusto; e poi, dopo un certo numero di scoperte, si è costretti a ripetersi. Lo spirito e l'arte hanno dei limiti: non vi è che un solo Dio o qualche raro genio per i quali la carriera progredisca a misura che essi avanzano. Bouret è forse uno di loro: egli ha tratti che sembrano perfino a me, sì, a me, veramente sublimi. Il cagnolino, il "Libro della felicità", le fiaccole sulla strada di Versailles, sono tra le cose che mi confondono e mi umiliano; e che provocano in me disgusto del mestiere.


IO: Che intendete dire con questa storia del cagnolino?


LUI: Ma da dove venite? Ignorate davvero come quell'uomo davvero eccezionale riuscì a staccare da sé il proprio cagnolino e farlo affezionare al guardasigilli, al quale piaceva?


IO: Lo ignoro, confesso.


LUI: Tanto meglio. E' una delle storie più belle che si possano immaginare: tutta l'Europa se n'è stupita; ha destato l'invidia di ciascun cortigiano, nessuno escluso. Vediamo, voi che non mancate di sagacia, come avreste agito al suo posto. Sappiate che Bouret era amato dal suo cane; sappiate che l'abito bizzarro del ministro spaventava l'animaletto, e che v'erano solo otto giorni di tempo per vincere le difficoltà. Bisogna conoscere tutti i dati del problema, per apprezzare il merito della soluzione. Ebbene?


IO: Ebbene, vi devo confessare che in questo campo sarei imbarazzato dalla cosa più semplice.


LUI: Ascoltate (mi dice, dandomi un colpetto sulla spalla, poiché ha gesti molto familiari), ascoltate e ammirate. Si fa fare una maschera che assomiglia al guardasigilli; prende in prestito da un cameriere la sua ampia zimarra; si copre il viso con la maschera, indossa la zimarra, chiama il suo cane, lo accarezza, gli da una ciambella. Poi, tutt'a un tratto, mutando abbigliamento, non è più il guardasigilli, è Bouret che chiama il suo cane e lo frusta. In meno di due o tre giorni di questo esercizio ininterrotto dalla mattina alla sera, il cane impara a fuggire da Bouret nelle vesti di finanziere, e a correre da Bouret guardasigilli. Ma io sono troppo buono: voi siete un profano che non merita di venir informato dei miracoli che si operano accanto a voi.


IO: Malgrado ciò, vi prego, ditemi: e il libro, e le fiaccole?


LUI: No, no. Rivolgetevi ai marciapiedi, che vi racconteranno tutti questi fatti; ed approfittate invece delle circostanze che ci hanno fatto incontrare, per apprendere cose che io solo conosco.


IO: Avete ragione.


LUI: Prendere in prestito l'abito e la parrucca, avevo dimenticato la parrucca, del guardasigilli! Farsi una maschera che gli rassomigliasse! La maschera soprattutto mi fa andare in estasi!


Perciò quell'uomo gode della più alta considerazione, perciò possiede milioni. Vi sono cavalieri di San Luigi che non hanno pane: perché correre, allora, dietro una croce a rischio di farsi ammazzare, e non volgersi verso una condizione senza rischio, a cui non manca mai una ricompensa? Ecco quel che si chiama andare verso la grandezza. Questi modelli sono scoraggianti; si ha pietà di se stessi, e ci si rattrista. La maschera! La maschera! Darei una delle mie dita per aver escogitato la maschera.


IO: Ma con questo entusiasmo per le cose belle e col fertile genio che possedete, non avete inventato nulla?


LUI: Perdonate; ad esempio, la posizione ammirativa della schiena, di cui vi ho parlato, la considero come mia invenzione, quantunque forse possa essermi contestata da qualche invidioso. Certo, sarà stata adoperata anche prima, ma chi ha avvertito quanto fosse comoda per ridere alle spalle dell'insolente al quale si mostra la propria ammirazione? Ho più di cento modi di intraprendere la seduzione di una giovinetta, anche in presenza della madre, senza che questa se ne accorga o anzi rendendola complice. Appena entrai nella carriera, sdegnai tutti i modi banali di far scivolare un biglietto amoroso; ho dieci modi di farmelo strappare, invece, e tra questi oso vantarmi che ce ne sono di nuovi. Posseggo soprattutto il talento di incoraggiare un giovane timido; ne ho fatto riuscire alcuni che non avevano né spirito né bella presenza. Se ciò fosse messo per iscritto, credo che mi si riconoscerebbe un po' di genio.


IO: Vi farebbe un grande onore?


LUI: Non ne ho alcun dubbio.


IO: Al vostro posto, metterei su carta questi fatti. Sarebbe peccato che andassero perduti.


LUI: E' vero, ma voi non immaginate quanto poco caso io faccia del metodo e dei precetti. Chi ha bisogno d'un manuale non andrà mai lontano; i geni leggono poco, frequentano molta gente, e si formano da sé. Vedete: Cesare, Turenne, Vauban, la marchesa di Tencin, suo fratello il cardinale, il segretario di costui, l'abate Troublet. E Bouret? Chi ha dato lezione a Bouret? Nessuno.


Solo la natura forma questi uomini rari. Credete forse che la storia del cane e della maschera sia scritta da qualche parte?


IO: Ma nelle vostre ore perdute, quando l'angoscia del vostro stomaco vuoto o la fatica del vostro stomaco troppo pieno allontanano il sonno...


LUI: Ci penserò. Val meglio scrivere di cose grandi che eseguire le piccole. Allora l'anima si eleva, l'immaginazione si riscalda, si infiamma e si allarga, mentre essa si restringe a seguire la piccola Hus e a stupirsi con lei degli applausi che questo sciocco pubblico si ostina a prodigare a quella Dangeville tanto poco spontanea, che recita in modo così piatto, che cammina quasi piegata in due sulla scena, che ha l'affettazione di guardare negli occhi l'interlocutore e di recitare senza mai alzare gli occhi, che scambia le sue stesse smorfie per raffinatezze, il proprio trotterellare per grazia; e a quell'enfatica Clairon, che è più magra, più truccata, più studiata, più rifatta di ogni dire.


Quella stupida platea la applaude fino all'inverosimile, e non si accorge che noi siamo una matassa di piaceri: è vero che la matassa ingrossa un poco, ma cosa importa? Né si accorge che noi abbiamo la più bella pelle, i più begli occhi, il più grazioso labbro, poco ventre davvero e un passo che non è leggero, ma che non è neppure goffo come si dice. Quanto al sentimento, in compenso non c'è nessuna che ne abbia più di noi.


IO: Parlate con ironia o sul serio?


LUI: Il male è che quel diavolo di sentimento è tutto al di dentro e non ne traspira nessuna luce al di fuori. Ma io che vi parlo so bene che ne ha. Se non proprio sentimento, qualcosa che gli somiglia. Bisogna vedere, quando siamo di cattivo umore, come trattiamo i valletti, come schiaffeggiamo le cameriere, come facciamo filare a pedate le "parti casuali", per poco che manchino al rispetto che ci è dovuto. E' un piccolo demonio, vi dico, pieno pieno di sentimento e di dignità... Coraggio, voi non vi raccapezzate, nevvero?


IO: Confesso che non riesco a capire se parlate in buona o cattiva fede. Io sono un brav'uomo; abbiate la bontà di trattarmi con maggior lealtà e di lasciar da parte la vostra arte.


LUI: Ecco quanto scodelliamo alla piccola Hus della Dangeville e della Clairon, con l'aggiunta qua e là di qualche parola che ve ne avverta. Ammetto che mi prendiate per un disonesto, ma non per uno stupido; e non potrebbe esserci che uno stupido o un uomo perduto d'amore capace di dire sul serio tante impertinenze.


IO: Come ci si risolve a dirle?


LUI: Non avviene tutto a un tratto: ci si arriva poco a poco.


"Ingenii largitur venter".


IO: Bisogna essere spinti da una fame crudele.


LUI: E' possibile. Tuttavia, per eccessive che vi possano sembrare, credete che coloro ai quali si indirizzano sono più abituati ad intenderle che noi ad arrischiarle.


IO: E v'è qualcuno che abbia il coraggio di essere della vostra opinione?


LUI: Che volete dire con "qualcuno"? Tutta intera la società sente e parla così.


IO: Ma allora, quando non siete dei grandi farabutti dovete essere degli sciocchi colossali...


LUI: Sciocchi, nelle nostre file? Vi giuro che di sciocco c'è solo chi ci fa tante feste per lasciarsi ingannare.


IO: Ma come ci si lascia ingannare in un modo così grossolano?


Perché infine la superiorità del talento della Dangeville e della Clairon è cosa indiscutibile.


LUI: Si manda giù a pieni sorsi la menzogna che ci lusinga, mentre si beve a goccia a goccia una verità che ci è amara. E poi noi abbiamo l'aria così compenetrata, così vera!


IO: Bisogna tuttavia che abbiate peccato una volta contro i princìpi dell'arte, e che vi siano sfuggite per disattenzione alcune di quelle verità amare che feriscono, perché a dispetto della parte miserabile, abietta, vile, che voi fate, credo che in fondo abbiate un'anima delicata.


LUI: Io? Per nulla. Che il diavolo mi porti se in fondo so quel che sono. In genere, ho lo spirito rotondo come una palla e il carattere schietto come un giunco. Mai falso, per poco che abbia interesse ad esser sincero; mai sincero, per poco che abbia interesse ad essere falso. Dico le cose così come mi vengono:


sensate, tanto meglio; impertinenti, non ci si fa caso. Faccio pieno uso del mio parlar franco. In vita mia non ho mai riflettuto né prima, né durante, né dopo aver parlato. Così non offendo nessuno.


IO: Tuttavia vi è capitato con le brave persone presso le quali vivevate e che avevano per voi tanta bontà.


LUI: Che volete? E' una disgrazia, un cattivo momento come ne capitano nella vita. Non v'è felicità che duri; stavo troppo bene, non poteva continuare. Noi siamo, come voi sapete, la compagnia più numerosa e più scelta. E' una scuola di umanesimo, il rinnovarsi dell'antica ospitalità. Tutti i poeti che cadono, noi li risolleviamo: abbiamo raccolto Palissot dopo la sua "Zara", Bret, dopo "Il falso generoso", tutti i musicisti zittiti, tutti gli autori che non si leggono, tutte le attrici fischiate, tutti gli attori caduti, un mucchio di poveri vergognosi, di piatti parassiti alla testa dei quali ho l'onore di essere, capo coraggioso di una timida truppa. Sono io che li esorto a mangiare la prima volta che arrivano; sono io che chiedo da bere per loro.


Tengono così poco posto! Qualche giovane pieno di stracci, che non sa dove sbattere la testa, ma di bella presenza, altri scellerati che accarezzano il padrone e l'addormentano allo scopo di spigolare dopo di lui sulla padrona. Noi sembriamo gai, ma in fondo abbiamo tutti cattivo carattere e grande appetito. I lupi non sono più affamati, le tigri non sono più crudeli di noi:


divoriamo come lupi quando la terra è stata a lungo coperta di neve; dilaniamo come tigri tutto ciò che ha successo. Talvolta le comitive di Bertin, Montsauge e Vilmorien si riuniscono; allora si scatena veramente un gran frastuono nel serraglio. Non si videro mai messe insieme tante bestie tristi, difficili, nocive e corrucciate. Non si odono che i nomi di Buffon, di Duclos, di Montesqieu, di Rousseau, di Voltaire, di D'Alembert, di Diderot; e Dio sa di quali epiteti sono accompagnati! Chi non è sciocco come noi non è considerato un uomo intelligente. Là è stato concepito il piano della commedia dei "Filosofi"; e la scena del venditore ambulante sono io che l'ho fornita, prendendola dalla "Teologia in conocchia". Voi non siete risparmiato più di un altro.


IO: Tanto meglio! Forse mi si fa più onore di quanto io non meriti. Sarei umiliato se coloro che dicono male di tante abili e brave persone si mettessero a dir bene di me.


LUI: Noi siamo in molti e bisogna che ognuno ci paghi il suo scotto: dopo il sacrificio degli animali più grandi immoliamo gli altri.


IO: Insultare la scienza e la virtù, per vivere: è un pane che costa un po' caro!


LUI: Ve l'ho già detto: siamo inoffensivi. Ingiuriamo tutti e non affliggiamo nessuno. Talvolta sono con noi il pesante abate d'Olivet, il grosso abate Le Blanc e l'ipocrita Batteux. Il grosso abate è cattivo solo prima di pranzo; appena preso il caffè, si getta su una poltrona, coi piedi appoggiati alla lastra del camino, e si addormenta come un vecchio pappagallo sul suo trespolo. Se lo strepito diventa violento, sbadiglia, tende le braccia, si frega gli occhi, e dice: "Ebbene, che c'è? che c'è?".


"Si tratta di sapere se Piron abbia più spirito di Voltaire.".


"Intendiamoci: parlate di spirito, non di buon gusto? Perché in fatto di gusto il vostro Piron non ne ha neppure l'ombra.".


"Neppure l'ombra?". "No.". Ed eccoci imbarcati in una dissertazione sul gusto. Allora il padrone fa cenno con la mano che lo si ascolti; perché si picca soprattutto di avere buon gusto. "Il gusto", dice, "il gusto... è una cosa...". Parola mia, non ricordo che cosa diceva che fosse, e non lo sapeva neppure lui!


Viene talora l'amico Robbé. Ci fa dono dei suoi racconti cinici, dei miracoli dei convulsionari di cui è stato testimone oculare, e di alcuni canti del suo poema su un soggetto che conosce a fondo.


Aborro i suoi versi, ma mi piace sentirglieli recitare: ha l'aria di un invasato. Tutti esclamano intorno a lui: "Ecco quel che si chiama un poeta!". Detto tra noi, quella poesia non è che un frastuono di ogni sorta di rumori confusi, il balbettio barbaro degli abitanti della torre di Babele.


Viene anche uno stupido che ha l'aria piatta e bestiale, ma che possiede tanto spirito quanto ne può avere un demonio, ed è più malizioso di una vecchia scimmia. E' uno di quei volti che attirano la presa in giro e l'ironia, che Iddio creò per la punizione di coloro che giudicano dall'apparenza, e ai quali lo specchio avrebbe dovuto insegnare che è ugualmente facile essere un uomo di spirito e aver l'aria di uno stupido, che nascondere la stupidità sotto una fisionomia brillante. E' una vigliaccheria assai comune immolare un brav'uomo al divertimento degli altri; e non si manca mai di rivolgersi a costui. E' una trappola che tendiamo ai nuovi arrivati, e non ho trovato quasi nessuno che non ci sia cascato.


(Ero sorpreso talora dalla giustezza delle osservazioni di questo pazzo sugli uomini e i caratteri, e glielo dichiarai.) La ragione è (mi rispose), che si trae partito dalla cattiva compagnia come dal libertinaggio. Si è compensati della perdita della propria innocenza con quella dei propri pregiudizi. Nella società dei cattivi, dove il vizio si mostra senza maschera, si impara a conoscerli. E poi ho letto un poco.


IO: Cosa avete letto?


LUI: Ho letto, e leggo e rileggo continuamente, Teofrasto, La Bruyère e Molière.


IO: Sono libri eccellenti.


LUI: Sono assai migliori di quel che si pensi: ma chi sa leggerli?


IO: Tutti, ciascuno secondo la misura del proprio spirito.


LUI: Quasi nessuno. Sapete dirmi che cosa vi si cerca?


IO: Il divertimento e l'istruzione.


LUI: Ma quale istruzione? Perché là sta il punto.


IO: La conoscenza dei propri doveri, l'amore per la virtù, l'odio del vizio.


LUI: Io vi imparo tutto quel che si deve fare e tutto quel che non si deve dire. Così, quando leggo "L'avaro", mi dico: Sii avaro, se vuoi, ma guardati dal parlare come un avaro. Quando leggo "Il Tartufo", mi dico: Sii ipocrita, se vuoi, ma non parlare come un ipocrita. Conserva i vizi che ti sono utili, ma non avere né il tono né le apparenze dell'uomo vizioso, che ti renderebbero ridicolo. Per garantirsi da questo tono e da queste apparenze, bisogna conoscerli: ora, quegli scrittori li hanno mirabilmente raffigurati. Io sono io e resto quel che sono, ma agisco e parlo come si conviene. Non sono di quelli che disprezzano i moralisti.


Vi è molto da imparare, soprattutto da coloro che hanno messo in atto la loro morale. Il vizio ferisce gli uomini solo ad intervalli; i caratteri apparenti del vizio li feriscono dalla mattina alla sera. Forse varrebbe meglio essere un insolente, che averne l'apparenza; un carattere insolente insulta solo di tratto in tratto; un aspetto insolente insulta sempre. Del resto, non andate a immaginare che io sia il solo lettore della mia specie:


non ho in questo altro merito che quello di aver fatto per sistema, per giustezza di spirito, per un modo di vedere ragionevole e vero, ciò che la maggior parte fa per istinto.


Perciò le loro letture non li rendono migliori di me, ed essi restano ridicoli senza volerlo, mentre io lo sono solo quando lo voglio, lasciandoli allora di gran lunga dietro di me: perché la stessa arte che mi insegna a salvarmi dal ridicolo in alcune occasioni, mi insegna a prenderlo con superiorità in altre. Mi ricordo allora tutto quello che gli altri hanno detto, tutto quello che ho letto, e vi aggiungo tutto ciò che vien fuori dalla mia natura, che è in questo genere di una fecondità sorprendente.


IO: Avete fatto bene a rivelarmi questi misteri, altrimenti vi avrei creduto in contraddizione.


LUI: Non lo sono, perché per una volta in cui bisogna evitare il ridicolo, ve ne sono, per fortuna, cento altre in cui bisogne attirarselo. Non v'è miglior ruolo presso i grandi che quello di gran buffone. Per molto tempo vi è stato il buffone titolare del re: mai vi è stato il saggio titolare del re. Io sono il buffone di Bertin e di molti altri, forse in questo momento il vostro; o voi forse il mio. Chi è saggio non deve avere un buffone. Perciò chi ha un buffone non è saggio; se non è saggio, è un buffone, e forse il buffone del suo buffone, fosse anche il re. Del resto, ricordatevi che in una materia così mutevole come i costumi non vi è nulla di assolutamente, di essenzialmente, di generalmente vero o falso, se non che bisogna essere ciò che l'interesse vuole che si sia: buoni o cattivi, saggi o buffoni, decorosi o ridicoli, onesti o viziosi. Se per caso la virtù avesse condotto alla fortuna, o sarei stato virtuoso o avrei simulato la virtù come gli altri. Mi hanno voluto ridicolo, e lo sono diventato: vizioso lo sono per natura. E quando dico vizioso, è per parlare il vostro linguaggio; perché se veniamo a una spiegazione, potrebbe darsi che voi chiamate vizio quel che io chiamo virtù, e virtù quel che io chiamo vizio.


Vengono da noi anche gli autori dell'"Opéra-Comique", i loro attori e le loro attrici, e più spesso i loro impresari: Corby, Moette, tutte persone di risorse e di un merito superiore!


E dimenticavo i grandi critici letterari: quelli dell'"Avant- coureur", delle "Petites-affiches, dell'"Annata letteraria", dell'"Osservatore letterario", del "Censore settimanale", insomma tutta la cricca dei giornalisti.


IO: L'"Annata letteraria"? L'"Osservatore letterario"? E' possibile? Si detestano.


LUI: E' vero, ma tutti i pezzenti si riconciliano di fronte alla scodella. Questo maledetto "Osservatore letterario"! Che il diavolo se lo porti, lui e i suoi fogli! Quel cane di pretonzolo, avaro, puzzolente e usuraio, è la causa del mio disastro. Apparve sul nostro orizzonte ieri per la prima volta; arrivò all'ora che ci snida tutti dalle nostre tane, all'ora del pranzo. Quando fa cattivo tempo, beato fra di noi chi ha una moneta da ventiquattro soldi in tasca per la carrozza! C'è stato chi si è fatto beffe del confratello giunto al mattino infangato fino alla schiena e inzuppato fino alle ossa, e che poi è stato rincasato la sera nello stesso stato. Ce n'è stato uno, non so più chi, il quale, alcuni mesi or sono, ebbe un violento bisticcio col savoiardo che faceva da portiere. Avevano tra loro un debito di danaro: il creditore voleva che il debitore lo liquidasse, e costui non aveva mezzi.


Si serve, si fanno gli onori di tavola all'abate, lo si mette a capotavola. Entro. Lo scorgo. "Come, abate", gli dico, "presiedete voi? Per oggi, va bene. Ma domani discenderete di un posto, se non vi dispiace, dopodomani di un altro, e così di posto in posto, sia a destra che a sinistra, finché dal posto che prima di voi occupai anch'io una volta, e dopo di me Fréron, e dopo Fréron Dorat, e dopo Dorat Palissot, voi diverrete stazionario accanto a me povero diavolo come voi, CHE SIEDO SEMPRE COME UN MAESTOSO CAZZO FRA DUE COGLIONI".


L'abate, che è un buon diavolo e che prende tutto bene, si mise a ridere. La signorina, compenetrata dalla verità della mia osservazione e dalla giustezza del mio paragone, si mise a ridere:


tutti coloro che sedevano a destra e a sinistra dell'abate, e che egli aveva diminuito d'importanza, si misero a ridere; tutti risero, eccetto il padrone di casa, che si offende, e mi tiene un discorso che non avrebbe significato nulla se fossimo stati soli:


"Rameau, siete un impertinente.". "Lo so, e voi mi avete ricevuto proprio per questo.". "Un briccone.". "Non più di un altro.". "Un pezzente.". "E sarei qui se non lo fossi?". "Vi farò scacciare.".


"Dopo pranzo me ne andrò da me.". "Ve lo consiglio.".


Si pranzò, non persi un boccone. Dopo aver mangiato bene, bevuto copiosamente, perché dopo tutto non ci sarebbe stata nessuna differenza, messer Gaster è un personaggio contro il quale non ci sarebbe stata nessuna differenza, messer Gaster è un personaggio contro il quale non ho mostrato mai risentimento, presi la decisione e mi disposi ad andarmene. Avevo dato la mia parola in presenza di tanta gente, e bisognava mantenerla. Stetti un tempo interminabile a girare per l'appartamento, cercando il bastone e il cappello dove non c'erano, sperando sempre che il padrone profondesse un nuovo torrente di ingiurie, nel qual caso qualcuno si sarebbe interposto, e avremmo finito per riconciliarci dopo esserci tanto offesi. Giravo, giravo, perché non avevo nessun malanimo, ma il padrone, lui, più fosco e più nero dell'Apollo omerico quando lancia i suoi strali sull'armata dei greci, col berretto più del solito calcato in testa, camminava in lungo e in largo, col pugno sotto il mento. La signorina si avvicina a me:


"Ma, signorina, che c'è di straordinario? Oggi sono stato diverso dal solito?". "Voglio che se ne vada.". "Me ne andrò. Ma non gli ho punto mancato di rispetto.". "Perdonatemi, si invita il signor abate e...". "E' lui che ha mancato verso se stesso invitando l'abate, ricevendo me e tanti altri farabutti come me.". "Andiamo, mio piccolo Rameau, bisogna chieder scusa al signor abate.". "Non so che farmene del suo perdono...". "Andiamo, andiamo, tutto si accomoderà...".


Mi riprendono per mano, mi trascinano verso la poltrona dell'abate; tendo le braccia, contemplo l'abate con una sorta di ammirazione, perché chi mai ha chiesto scusa all'abate? "Abate", gli dico, "abate, tutto ciò è assai ridicolo, non è vero?...". E poi mi metto a ridere, e l'abate con me. Eccomi dunque scusato da quel lato, ma dovevo abbordare l'altro, e quel che dovevo dirgli era un altro paio di maniche. Non so più bene come girai le mie scuse: "Signore, ecco questo pazzo...". "E' troppo tempo che mi fa soffrire; non voglio più sentirne parlare.". "E' arrabbiato...".


"Sì, sono molto arrabbiato.". "Questo non capiterà più...". "Che il primo mascalzone...".


Non so se egli fosse in uno di quei giorni di malumore nei quali la signorina teme di avvicinarlo e non osa toccarlo se non coi guanti di velluto, o se intese male quel che io dicevo, o se io mi espressi male: certo fu peggio di prima. Che diavolo! non mi conosce? non sa che io sono come i bambini, che in certe circostanze non possono trattenersi, e se la lasciano scappare? E poi io credo, Dio mi perdoni, che non avrei un attimo di tregua.


Anche un fantoccio di acciaio si rovinerebbe a tirargli la cordicella dalla mattina alla sera. Io devo far passare loro la noia, è il patto: ma qualche volta devo divertirmi anch'io. In mezzo a questo imbroglio, mi passò per la testa un pensiero funesto, un pensiero che mi riempì di alterigia, un pensiero che mi ispirò fierezza e insolenza: che non si poteva fare a meno di me, che io ero un uomo indispensabile!


IO: Sì, credo che siete loro molto utile, ma essi lo sono ancora di più per voi. Voi non trovereste, anche se lo voleste, un'altra casa così buona, ma essi per un buffone che viene loro a mancare, ne troveranno cento.


LUI: Cento buffoni come me! Signor filosofo, non sono poi così comuni. Sì, solo qualche banale buffone. Si è di gusto più difficile in materia di idiozie che in fatto di talento o di virtù. Sono un uomo raro, nel mio genere, molto raro. Adesso che non sono più con loro, cosa fanno? Si annoiano come cani. Io sono un sacco di impertinenze che non ha fondo: trovavo a ogni istante una spiritosaggine che li faceva ridere fino alle lacrime; ero per loro come un intero manicomio.


IO: E da parte vostra avevate tavola, letto, abito, soprabito, pantaloni, scarpe e dieci franchi al mese.


LUI: Questo è il lato buono, la parte attiva: ma voi non dite una parola dei pesi. Innanzitutto, se si sentiva parlare di un nuovo lavoro teatrale, dovevo andar frugando tutte le soffitte di Parigi, qualunque tempo facesse, finché non ne avessi trovato l'autore. Dovevo procurarmi l'opera da leggere, e insinuare abilmente che una parte avrebbe potuto essere rappresentata in modo eccellente da una mia conoscenza. "E da chi, per favore?".


"Da chi? Bella domanda! Ma dalla grazia in persona, dalla gentilezza, dalla raffinatezza.". "Voi volete dire dalla signorina Dangeville? La conoscete, davvero la conoscete?". "Sì, un poco; ma non si tratta di lei.". "E di chi?". La nominavo a bassa voce.


"Lei!". "Sì, lei", ripetevo un po' vergognoso, perché talvolta sento un certo pudore; e a questo nome ripetuto bisognava vedere come la fisionomia del poeta s'allungava, e a volte come mi si rideva sul naso. Comunque, lo accettasse egli di buon grado o no, dovevo condurlo a pranzo; ed egli, che temeva di impegnarsi, recalcitrava, ringraziava. Bisognava vedere come venivo trattato quando non riuscivo nelle trattative: ero un imbecille, uno stupido, un balordo, un buono a nulla; non valevo il bicchier d'acqua che mi si dava da bere. Ma avveniva assai peggio quando si recitava, poiché bisognava muoversi intrepidamente, in mezzo ai fischi di un pubblico che sa giudicare, checché se ne dica, far intendere i miei battimani isolati, attirare su di me gli sguardi, talvolta stornare i fischi dall'attrice su di me, e sentirmi sussurrare accanto: "E' uno dei valletti travestiti di colui che va a letto con l'attrice. Starà finalmente zitto, quell'impostore?...". La gente ignora quel che può indurre a ciò; si crede sia un'inezia, mentre è un motivo che giustifica tutto.


IO: Fin l'infrazione delle leggi civili.


LUI: Ma mi riconoscevano, infine, e dicevano: "Oh! è Rameau!". La mia unica risorsa era di gettare a caso qualche parola ironica, che salvasse dal ridicolo il mio applauso solitario, che si interpretasse a controsenso. Convenite che ci vuole un forte interesse per sfidare in tal modo il pubblico, e che ognuna di queste faticacce valeva più di un misero scudo.


IO: Perché non vi facevate dare man forte?


LUI: Succedeva anche questo, e io vi speculavo un po' sopra. Prima di recarmi al luogo del supplizio, occorreva ricordarsi a memoria i passaggi brillanti ai quali bisognava dar rilievo. Se me ne dimenticavo, o mi sbagliavo, avevo la tremarella al mio ritorno; avveniva un baccano di cui non potete aver l'idea. E poi, a casa, una muta di cani a cui badare; è vero che mi sono stupidamente assunto io stesso questo compito; al quale si aggiungeva la sovrintendenza dei gatti. Ero troppo felice se "Micou" mi favoriva una zampata, che mi lacerava la manica o la mano. "Criquette" va soggetta alla colica; sono io che le massaggio il ventre. Un tempo, la signorina aveva "i vapori": oggi si chiamano "i nervi".


E non parlo di altri leggeri malesseri di cui non ci si vergogna in mia presenza. Per questo, pazienza: non ho mai avuto la pretesa di metter soggezione. Ho letto, non so dove, che un principe detto il grande, restava talora appoggiato allo schienale della sedia di comodo della sua amica. Si agisce con disinvoltura con i propri familiari, e io in quei tempi lo ero più di tutti. Io sono l'apostolo della familiarità e del metter le persone a loro agio.


Ne davo io stesso l'esempio, senza che si formalizzassero: non avevo che a lasciarmi andare al mio naturale. Vi ho abbozzato finora il ritratto del padrone: ma la signorina comincia ad aver peso: bisogna sentire le belle storie che raccontano su di lei.


IO: Voi non siete di quelli?


LUI: Perché no?


IO: Perché è perlomeno indecente mettere in ridicolo i propri benefattori.


LUI: Ma non è ancor peggio farsi forte dei propri benefici per avvilire coloro che si proteggono?


IO: Ma se il protetto non fosse vile per se stesso, nulla darebbe al protettore questa autorità.


LUI: Ma se le persone non fossero ridicole per se stesse, non se ne parlerebbe in quel modo. E poi, è colpa mia se, quando si sono incanaglite, le si tradisce e le si prende in giro? Chi si risolve a vivere con gente come noi, se ha un minimo di buon senso, deve aspettarsi un sacco di brutture. Forse che chi ci assume non ci conosce come quelle anime interessate, vili e perfide che siamo?


Se ci conosce, tutto va bene: vi è il tacito patto che ci si farà del bene, e che presto o tardi noi restituiremo il male per il bene che che ci sarà stato fatto. Questo patto non sussiste, forse, fra l'uomo e la sua scimmia, o il suo pappagallo? Le Brun getta alte strida che Palissot, suo convitato e amico, abbia scritto contro di lui. Ma Palissot ha dovuto fare quei versi, e Le Brun ha torto. Poinsinet getta alte strida perché Palissot ha attribuito a lui i versi che aveva fatto contro Le Brun. Ma Palissot ha dovuto attribuire a Poinsinet i versi che aveva fatto contro Le Brun, e Poinsinet ha torto. Il piccolo abate Rey getta alte strida pel fatto che il suo amico Palissot gli ha portato via l'amica alla quale l'aveva presentato lui stesso: il fatto è che egli non doveva introdurre un Palissot in casa della sua amica, a meno che non fosse deciso a perderla. Palissot ha fatto il suo dovere, e l'abate Rey ha torto. Il libraio David getta alte strida perché il suo socio Palissot è andato o avrebbe voluto andare a letto con sua moglie; la moglie del libraio David getta alte strida perché Palissot ha fatto credere a chiunque l'ha voluto che egli era andato a letto con lei. Ma che Palissot sia o no andato a letto con la moglie del libraio è cosa difficile da stabilirsi, perché la donna ha dovuto negare la verità e Palissot ha potuto lasciar credere ciò che non era. Sia quel che sia, Palissot ha fatto la sua parte, e David e sua moglie hanno torto. Helvetius getti pure alte strida perché Palissot lo rappresenta sulle scene come un uomo malvagio, proprio lui che gli deve ancora del denaro avuto in prestito per farsi curare la sua cattiva salute, per nutrirsi e vestirsi. Ma non poteva egli aspettarsi un altro modo d'agire da parte di un uomo macchiato da ogni sorta di infamie, che per passatempo ha fatto abiurare la religione al proprio amico, che si impadronisce dei beni dei suoi soci, che non ha fede né legge né sentimento, che corre dietro alla fortuna "per fas et nefas", che conta i suoi giorni dalle scellerataggini commesse, e che ha fatto comparire se stesso sulla scena come uno dei più pericolosi bricconi, impudenza di cui non credo che vi sia un solo esempio nel passato, né che ve ne sarà neanche uno nel futuro? No.


Dunque, non è Palissot, ma Helvetius, quello che ha torto. Se si conduce un giovane provinciale al giardino zoologico di Versailles, e a costui per stupidaggine salti in testa di passar la mano attraverso le sbarre della gabbia della tigre o della pantera, e se il giovane lascia il braccio nella gola della belva feroce, di chi è il torto? Tutto ciò è scritto nel tacito patto.


Tanto peggio per colui che lo ignora o lo dimentica. Con questo patto sacro e universale quanti io giustificherei che vengono accusati di malvagità, da chi dovrebbe invece accusar se stesso di scempiaggine! Sì, grossa contessa, siete voi che avete torto, quando vi circondate di persone che, nel vostro ambiente, vengono chiamate gentaglia, e questa gentaglia vi fa villanie, ve ne fa fare, e vi espone al risentimento delle persone perbene. Le persone perbene fanno quel che devono fare; allo stesso modo le disoneste: il torto da parte vostra è di riceverle. Se Bertinhus vivesse dolcemente, tranquillamente con la sua amica; se, per l'onestà del loro carattere, si fossero fatti delle conoscenze oneste; se avessero radunato intorno a sé uomini di talento, persone note nella società per le loro virtù; se avessero riservato a una piccola compagnia, scelta ed illuminata, le ore di distrazione rubate alla dolcezza dello stare insieme, dell'amarsi, del dirselo nel silenzio della solitudine; credete pure che non si sarebbe parlato di loro né bene né male. Che è dunque capitato loro? Quel che si meritavano. Sono stati puniti della loro imprudenza, e da tempo immemorabile la provvidenza aveva designato noi perché facessimo giustizia dei Bertin dei nostri tempi; così come designerà esseri simili a noi, tra i nostri nipoti, per far giustizia dei Montsauges e dei Bertin futuri. Ma mentre noi eseguiamo i suoi giusti decreti contro la stupidità, voi che ci dipingete tali quali siamo, eseguite i suoi giusti decreti contro di noi. Che penserete di noi, se pretendessimo, con i nostri costumi vergognosi, di godere della considerazione pubblica? Che saremmo degli insensati. E coloro che si aspettano azioni oneste da parte di persone nate viziose e di carattere vile e basso, sono forse saggi? In questo mondo ogni cosa ha il suo prezzo. Vi sono due procuratori generali, uno alla vostra porta, che punisce i delitti contro la società; l'altro è la natura, la quale conosce tutti i vizi che sfuggono alle leggi. Se vi abbandonate alla dissolutezza con le donne, diverrete idropico; se siete un crapulone, diverrete tisico; se aprite la vostra porta ai mascalzoni, e vivete con loro, sarete tradito, schernito, disprezzato. La cosa più sbrigativa è rassegnarsi all'equità di quei giudizi e dire a se stessi: "E' ben fatto"; scuotere la testa ed emendarsi, o restare quel che si è, ma alle condizioni sopraddette.


IO: Avete ragione.


LUI: Del resto, io non invento neppure una delle storielle diffamatorie; mi attengo alla parte di divulgatore. Raccontano che alcuni giorni or sono, verso le cinque del mattino, si sia sentito un fracasso del diavolo; tutti i campanelli erano in moto, si sentivano le grida soffocate, interrotte e sorde di un uomo che soffoca: "Aiuto, aiuto, soffoco, muoio!". Le grida partivano dall'appartamento del padrone. Arriviamo, lo soccorriamo. La nostra grossa signorina, che aveva perduto la testa, che non era più in sé, che non ci vedeva più, come capita in quegli istanti, continuava ad accelerare il suo movimento, si sollevava sulle mani, e dalla maggior altezza possibile lasciava ricadere sulle parti casuali un peso di due o trecento libbre, animato da tutta la rapidità che dà il furore del piacere. Si fece molta fatica a liberarlo. Che diavolo di voglia ha un piccolo martello a porsi sotto una pesante incudine?


IO: Siete un porcaccione. Parliamo d'altro. Da quando ci siamo messi a parlare, ho una domanda sulle labbra.


LUI: Perché l'avete taciuta così a lungo?


IO: Perché ho temuto che fosse indiscreta.


LUI: Dopo quel che vi ho rivelato ora, non so quale segreto io possa avere con voi.


IO: Voi non avete dubbi sul giudizio che porto al vostro carattere, no?


LUI: Nessuno. Sono ai vostri occhi un essere molto abietto, spregevole, e lo sono talvolta anche ai miei, ma di rado. Mi felicito dei miei vizi più spesso di quanto li biasimi; voi siete più costante nel vostro disprezzo.


IO: E' vero; ma perché mostrarmi tutta la vostra turpitudine?


LUI: Per cominciare, voi ne conoscevate una buona parte, e io vedevo che c'era più da guadagnare che da perdere nel confessarvi il resto.


IO: Come, per favore?


LUI: Se è importante esser sublimi in qualche campo, lo è soprattutto nel male. Si sputa su un piccolo mascalzoncello, ma non si può non avere una sorta di considerazione per un grande criminale. Il suo coraggio vi stupisce; la sua atrocità vi fa fremere. In tutto si apprezza l'unità del carattere.


IO: Ma questa stimabile unità del carattere, voi non la possedete ancora. Vi trovo a tratti vacillante nei vostri princìpi. E' cosa incerta se la vostra cattiveria derivi dalla natura o dallo studio, e se lo studio vi abbia portato poi così lontano.


LUI: Ne convengo; ma ho fatto del mio meglio. Non ho avuto la modestia di riconoscere che vi sono esseri più perfetti di me? Non vi ho parlato con la più profonda ammirazione di Bouret? Bouret è per me l'uomo più straordinario del mondo.


IO: Ma immediatamente dopo Bouret venite voi, non è così?


LUI: No.


IO: Palissot?


LUI: Palissot, ma non soltanto Palissot.


IO: E chi può esser degno di dividere con lui il secondo posto?


LUI: Il rinnegato di Avignone.


IO: Non ho mai sentito parlare di questo rinnegato di Avignone, ma dev'essere un uomo straordinario.


LUI: Lo è, infatti.


IO: Mi ha sempre interessato la storia dei grandi personaggi.


LUI: Lo credo bene. Costui viveva presso uno di quei buoni e onesti discendenti di Abramo, promessi al padre dei credenti in numero uguale al numero delle stelle.


IO: Presso un ebreo?


LUI: Presso un ebreo. Ne aveva dapprima ottenuto la commiserazione, poi la benevolenza, infine la più completa fiducia. Perché ecco quel che succede sempre: noi teniamo in tal conto i nostri benefici, che di rado nascondiamo il nostro intimo a colui che abbiamo colmato di bontà. Come pretendere che non vi siano ingrati, quando noi stessi esponiamo un uomo alla tentazione di esserlo impunemente? E' una giusta riflessione, ma che il nostro ebreo non fece. Confidò dunque un giorno al rinnegato che non poteva, in coscienza, mangiare carne di maiale. Vedrete ora tutto il vantaggio che uno spirito fertile seppe trarre da quella confessione. Passarono alcuni mesi durante i quali il nostro rinnegato raddoppiò di affettuosità. Quando ritenne che l'ebreo fosse ben commosso e irretito, e che le sue premure l'avessero convinto di non avere un migliore amico in tutte le tribù d'Israele... Ammirate la circospezione di quest'uomo! Non si affretta, lascia maturare la pera prima di scuotere il ramo: un eccessivo ardore poteva far fallire il suo progetto. La grandezza di carattere risulta effettivamente dall'equilibrio naturale di molte qualità opposte.


IO: Lasciate da parte le riflessioni e continuate il racconto.


LUI: Non è possibile. Vi sono giorni nei quali io ho bisogno di riflettere: è una malattia che deve compiere il suo ciclo. A che punto ero?


IO: All'intimità ormai ben stabilita tra l'ebreo e il rinnegato.


LUI: Dunque la pera era matura... Ma voi non mi ascoltate: a che pensate?


IO: Penso all'ineguaglianza del vostro tono: talora alto, talora basso.


LUI: Il tono dell'uomo vizioso può essere unico?... Dunque, egli capita una sera presso il suo buon amico, con l'aria spaventata, la voce spezzata, il viso pallido come la morte, tremando in tutte le membra. "Che avete?". "Siamo perduti.". "Perduti, e come?".


"Perduti, vi dico, perduti senza scampo!". "Spigatevi!". "Un attimo, lasciate che io mi rimetta dallo spavento...". "Andiamo, rimettetevi", gli dice l'ebreo, invece di dirgli: "Sei un briccone patentato; non so quello che tu vieni a dirmi, ma sei un briccone patentato e fai la commedia del terrore".


IO: E perché avrebbe dovuto parlargli così?


LUI: Perché colui era falso e aveva oltrepassato i limiti. Per me questo è chiaro, e vi prego di non interrompermi oltre. "Siamo perduti, perduti senza scampo!". Non sentite l'affettazione di quel "perduti" ripetuto due volte? "Un traditore ci ha denunciati alla santa Inquisizione, voi come ebreo, io come rinnegato, come un infame rinnegato!". Vedete come il traditore non arrossisce di servirsi delle espressioni più odiose. Occorre maggior coraggio che non si creda, per chiamarsi col proprio nome. Voi non sapete quanta fatica ci voglia per giungere a quel punto.


IO: No, certo. Ma quell'infame rinnegato?...


LUI: Era tutto falso, ma di una falsità molto abile. L'ebreo si spaventa, si strappa la barba, si rotola a terra, vede già gli sbirri alla porta. Si vede già indosso il sanbenito pronto, il suo autodafé. "Amico mio, mio tenero amico, mio unico amico, quale partito prendere?" "Quale partito? Farsi vedere in pubblico, simulare la massima tranquillità, comportarsi come al solito. La procedura di questo tribunale è segreta, ma lenta; bisogna approfittare dei suoi rinvii, per vender tutto. Noleggerò, o farò noleggiare un battello per mezzo di un terzo; sì, per mezzo di un terzo, sarà meglio. Vi depositeremo la vostra fortuna, perché soprattutto alla vostra fortuna mirano; e ce ne andremo, voi ed io, a cercare sotto un altro cielo la libertà di servire il nostro Dio, e di seguire in piena sicurezza la legge di Abramo e della nostra coscienza. Il punto importante, nelle circostanze pericolose in cui ci troviamo, è di non commettere imprudenze".


Detto e fatto. Il bastimento è preso a nolo, e provvisto di viveri e di marinai; la fortuna dell'ebreo è a bordo. L'indomani, all'alba, salperanno. Possono intanto cenare allegramente, dormire al sicuro: l'indomani sfuggiranno ai loro persecutori. Durante la notte il rinnegato si alza, spoglia l'ebreo del portafogli, della borsa e dei gioielli, si reca a bordo, ed eccolo partito. E voi credete che tutto finisca qua? Ebbene, non ci siete. Quando mi raccontarono questa storia, io indovinai subito ciò che vi ho taciuto per mettere alla prova la vostra sagacia. Avete fatto bene ad essere un onest'uomo, non sareste stato che un mediocre briccone. Fino a questo punto il rinnegato è solo uno spregevole briccone, al quale nessuno vorrebbe somigliare. Il sublime della sua malvagità è d'essere stato egli stesso il delatore del suo buon amico israelita, sul quale la santa Inquisizione mise le mani al suo risveglio, e ne fece, qualche giorno dopo, un bel rogo di gioia. Fu così che il rinnegato divenne tranquillo possessore della fortuna di questo discendente maledetto di coloro che hanno crocefisso Nostro Signore.


IO: Non so quale delle due cose mi fa più orrore, se la scelleratezza del rinnegato, o il tono col quale ne parlate.


LUI: Ecco quel che vi dicevo: l'atrocità dell'azione vi porta oltre il disprezzo, e questa è la ragione della mia sincerità. Ho voluto che voi conosceste fino a qual punto io eccellessi nella mia arte, strapparvi il riconoscimento che io ero perlomeno originale nel mio essere abietto, pormi nella vostra mente sulla linea dei grandi delinquenti, ed esclamare poi: "Vivat Mascarillus, furbum Imperator!". Su, allegro, signor filosofo, su, in coro: "Vivat Mascarillus, furbum Imperator!".


(Ed ecco si mise a cantare un canto fugato davvero straordinario.


Talora la melodia era grave e piena di maestà, talora leggera e folleggiante; un istante egli imitava il basso, un altro le note acute; mi indicava col braccio e col collo allungati il luogo delle tenute, ed eseguiva, componeva a se stesso un canto trionfale, che rivelava com'egli si intendesse più di buona musica che di buoni costumi.


Non sapevo se dovessi restare o fuggire, ridere o indignarmi. Mi attenni al proposito di volgere la conversazione su qualche soggetto che mi scacciasse dall'animo l'orrore di cui era colmo.


Cominciavo a sopportare con fastidio la presenza di un uomo che dissertava di un'azione orribile, di un esecrabile delitto, come un conoscitore di pittura o di poesia esamina le bellezze di un'opera d'arte, o come uno storico o un moralista rilevano e fanno risaltare le circostanze di un'azione eroica. Divenni cupo mio malgrado. Se ne accorse, e mi disse:) LUI: Che avete? Vi sentite male?


IO: Un poco, ma passerà.


LUI: Avete l'aria preoccupata di un uomo tormentato da qualche brutta idea.


IO: E' così.


(Dopo un attimo di silenzio da parte sua e mia, durante il quale egli passeggiava fischiettando e cantando, per ricondurlo alla sua arte, io gli chiesi:) Che fate attualmente?


LUI: Nulla.


IO: E' una cosa molto faticosa.


LUI: Ero già abbastanza bestia. Sono stato ad ascoltare la musica del Duni e dei nostri giovani compositori, e lo sono diventato del tutto.


IO: E' un genere che approvate?


LUI: Senza dubbio.


IO: Trovate che questi nuovi canti sono belli?


LUI: Se lo trovo, perdio! Come sono declamati! Che verità! Che espressione!


IO: Ogni arte d'imitazione ha un modello nella natura. Qual è il modello di un musicista quando compone un canto?


LUI: Perché non prendere la cosa più dall'alto? Cos'è un canto?


IO: Vi confesserò che questa domanda è superiore alle mie forze.


Ecco come siamo fatti: non abbiamo altro nella memoria che parole, che noi crediamo di capire, grazie all'uso frequente e all'applicazione anche giusta che ne facciamo; ma nello spirito, che nozioni vaghe! Quando pronunzio la parola canto, non ho nozioni più chiare di voi e della maggior parte dei vostri simili allorché parlate di reputazione, biasimo, onore, vizio, virtù, pudore, decenza, vergogna, ridicolo.


LUI: Il canto è un'imitazione, mediante suoni, di una scala, inventata dall'arte o ispirata dalla natura, come più vi piace, dei rumori fisici o degli accenti della passione espressi per mezzo della voce o degli strumenti. E voi vedete che, mutando quello che c'è da mutare, la definizione si adatterebbe esattamente alla pittura, all'eloquenza, alla scultura e alla poesia. Ora, per venire alla vostra domanda, qual è il modello del musicista o del canto? La declamazione, se il modello è vivo e pensante; il rumore se il modello è inanimato. Bisogna considerare la declamazione come una linea, e il canto come un'altra linea che serpeggia sulla prima. Più la declamazione, base del canto, sarà forte e vera, più il canto che vi si conforma l'interromperà in un maggior numero di punti, più il canto sarà vero e bello. I nostri giovani musicisti lo hanno capito assai bene. Quando si sente: "Io sono un povero diavolo", sembra di riconoscere il lamento di un avaro; se egli non cantasse, parlerebbe sullo stesso tono alla terra, allorché gli affida il proprio oro e le dice: "O terra, ricevi il mio tesoro". E quella giovanetta, che sente palpitare il suo cuore, che arrossisce, che si turba e supplica la sua signora di lasciarla partire, si esprimerebbe diversamente? Vi sono in queste opere i più diversi caratteri, una varietà infinita di declamazioni; ed è sublime, ve lo dico io. Ascoltate, ascoltate il pezzo in cui il giovane che si sente morire esclama: "Il mio cuore se ne va". Ascoltate il canto, ascoltate la sinfonia, e mi direte dopo quale differenza vi sia tra le reali espressioni di un moribondo e il movimento di questo canto; vedrete se la linea melodica non coincida con quella della declamazione. Non vi parlo del tempo, che è ancora una delle condizioni del canto; mi limito all'espressione. E non vi è nulla di più evidente di questa definizione che ho letto in qualche posto: "Musices seminarium accentus", l'accento è il vivaio della melodia. Giudicate da ciò di quale difficoltà e di quale importanza sia il saper bene congegnare dei recitativi. Da ogni bel motivo si può trarre un bel recitativo, e da ogni bel recitativo un artista abile può trarre un motivo. Non voglio asserire che ogni buon attore possa essere anche un buon cantante, ma mi sorprenderebbe che un buon cantante non fosse un buon attore. E credete a tutto ciò che vi ho detto, perché corrisponde al vero.


IO: Non domanderei di meglio che credervi, se non ne fossi impedito da una piccola difficoltà.


LUI: E quale?


IO: Che se questa musica è sublime, quella del divino Lulli, di Campra, di Destouches, di Mouret e anche, sia detto fra noi, quella del caro zio sarà al confronto un po' piatta.


LUI (avvicinatosi al mio orecchio, mi rispose:) Non vorrei essere udito da nessuno, perché qui vi sono molti che mi conoscono. Fatto sta che lo è. Non che io mi dia pensiero del "caro zio". Ha un cuore di pietra: potrebbe vedermi tirare un palmo di lingua, e non mi darebbe un bicchier d'acqua. Ma ha un bel da fare con l'ottava e con la settima: "hon, hon; hin, hin; tu, tu, tu, turelututù", con un fracasso del diavolo: coloro che cominciano ad intendersene, e che non scambiano più i rumori per musica non vi si adatteranno mai. Bisognerebbe proibire con un decreto della polizia, a qualsiasi persona, di qualsiasi condizione o qualità, di far cantare lo "Stabat" di Pergolesi. Questo "Stabat" bisognava farlo bruciare per mano del carnefice. Parola mia, questi maledetti "buffi", con le loro "Serve padrone", col loro "Tracollo", ce ne hanno dati di calci nel sedere! In altri tempi, un "Tancredi", una "Issé", un'"Europa galante", le "Indie" e il "Castore", i "Talenti lirici" reggevano quattro, cinque, sei mesi; non si vedeva la fine delle rappresentazioni di un'"Armida".


Mentre queste vi crollano una sull'altra come castelli di carta. E perciò Rebel e Francoeur gettano fuoco e fiamme: dicono che tutto è perduto, che sono rovinati, e che se si tollera ancora a lungo questa canaglia di cantanti da fiera, la musica nazionale se ne va al diavolo, e all'Accademia reale del vicolo cieco non resta che chiuder bottega. E vi è non poco di vero. I vecchi parrucconi che vanno al teatro da trenta o quarant'anni tutti i venerdì, invece di divertirsi come nel passato, oggi si annoiano e sbadigliano senza saper perché; se lo chiedono, ma non sanno trovare una risposta. Perché non si rivolgono a me? La predizione del Duni si compierà; e da come si mettono le cose, tra quattro o cinque anni, a cominciare dal "Pittore innamorato del proprio modello", non vi sarà più da cavare un ragno dal buco, nel celebre vicolo. Voglio morire se sbaglio! Che brave persone! Hanno rinunziato alle loro sinfonie per eseguire le sinfonie italiane; hanno creduto di far l'orecchio a queste, senza pregiudizio della loro musica vocale, come se la sinfonia non fosse, rispetto al canto, tranne un po' di libertà concessa dall'estensione dello strumento e dalla mobilità delle dita, quel che è il canto rispetto alla declamazione; come se il violino non fosse la scimmia del cantante, che un bel giorno, quando il difficile prenderà il posto del bello, diventerà a sua volta la scimmia del violino. Colui che per primo eseguì Locatelli fu l'apostolo della nuova musica... Raccontatelo ad altri! Ci riabitueremo all'imitazione degli accenti della passione o dei fenomeni della natura, mediante il canto e la voce, o mediante gli strumenti (altri mezzi di espressione la musica non possiede), e noi conserveremo intatto il gusto per i voli, le lance, le glorie, i trionfi, le vittorie? "Va' a vedere se giungono, Gianni...". Hanno immaginato di poter piangere e ridere a scene di tragedia o di commedia musicate, che portassero ai loro orecchi gli accenti del furore, dell'odio, della gelosia, i veri lamenti dell'amore, le ironie, gli scherzi del teatro italiano o francese, e di rimanere tuttavia ammiratori di Ragonda e di Platea. Ecco la mia risposta: "Tararà, pompon!". Hanno immaginato di poter provare continuamente con quale facilità, con quale flessibilità, quale mollezza, l'armonia, la prosodia, le ellissi, le inversioni della lingua italiana si prestassero all'arte, al movimento, all'espressione, ai giri del canto e al valore ritmico dei suoni, e di poter continuare ad ignorare quanto la loro lingua sia rigida, sorda, pesante, pedantesca e monotona. Eh, sì, sì: si sono persuasi che dopo aver mescolato le loro lacrime ai pianti di una madre che si dispera per la morte del figlio, dopo aver rabbrividito per il volere di un tiranno che ordina un delitto, non si sarebbero annoiati del loro mondo di fate, della loro insipida mitologia, dei loro minuscoli, zuccherosi madrigali che non rivelano meno il cattivo gusto del poeta che la miseria della musica che se ne accontenta. Che brave persone! Ma questo non è e non può essere. Il vero, il buono, il bello hanno dei diritti. Si cerca di contestarli, ma poi si finisce per ammirarli. Ciò che non porta questo suggello, si ammira per un certo tempo, ma poi si finisce per sbadigliare. Sbadigliate dunque, signori, sbadigliate a vostro piacimento, non siate imbarazzati! L'impero della natura e di quella trinità contro la quale le porte dell'inferno non prevarranno mai, si stabilisce gradualmente: il vero, che è il padre generatore del figlio, che è il buono, dal quale procede il bello cioè lo spirito santo. Il dio straniero si pone umilmente sull'altare a lato dell'idolo nazionale; a poco a poco vi si afferma; un bel giorno dà una gomitata al vicino, e patatrac, ecco l'idolo caduto. In questo modo, dicono, i gesuiti hanno diffuso il cristianesimo in Cina e nelle Indie. E i giansenisti hanno un bel dire, ma questo metodo politico che marcia dritto allo scopo, senza rumore, senza effusione di sangue, senza martiri, senza torcere un capello a nessuno, mi sembra il migliore.


IO: Vi è una certa ragione in quel che avete detto.


LUI: Ragione, vero? Tanto meglio. Voglio che il diavolo mi porti, se ci ho messo qualche intenzione. Io sono come i musicisti del "vicolo cieco" quando comparve mio zio. Se parlo giustamente, ebbene, è perché un garzone di carbonaio parlerà sempre meglio, quanto al proprio mestiere, di un'intera accademia e di tutti i Duhamel del mondo.


(E poi eccolo che si mette a passeggiare accennando alcune delle arie dell'"Isola dei pazzi", del "Pittore innamorato del proprio modello", del "Maniscalco", della "Litigante". E di tratto in tratto, alzando le mani e gli occhi al cielo, esclamava:) Se è bello? Perdio! se è bello! Come può, uno che abbia orecchie per sentire, porre una domanda simile? (Cominciava a commuoversi e a cantare a bassa voce e alzava il tono a misura che l'emozione saliva. Seguirono poi i gesti, le smorfie del viso e le contorsioni del corpo, ed io mi dissi: "Bene, ora perde la testa e prepara qualche nuova scena". In effetti, egli attaccava con uno scoppio di voce:) "Io sono un povero diavolo... Monsignore, monsignore, lasciatemi partire..."; "O terra ricevi il mio tesoro, conserva bene il mio tesoro... Anima mia, anima mia, mia vita!"; "O terra!..."; "Eccolo, il mio amico!..."; "Aspettare e non venire..."; "A Serpina penserete..."; "Sempre in contrasti con te si sta".


(Riuniva e mescolava insieme una trentina di arie italiane e francesi, tragiche, comiche, di tutti i generi. Ora con voce profonda di basso scendeva sin nell'inferno, ora rovinandosi la gola e contraffacendo il falsetto, straziava gli acuti imitando il passo, il portamento, i gesti dei diversi personaggi che cantavano; a gara furioso, placato, imperioso, malizioso. Qui si tratta di una fanciulla in lacrime, ed egli ne rende tutta la mimica; là è un prete, un re, un tiranno, e minaccia, comanda, si adira; è uno schiavo, e obbedisce. Si calma, si dispera, si lamenta, ride; e non stona mai, non sbaglia mai il tempo, non falsa mai il senso delle parole né il carattere dell'aria.


Tutti i giocatori avevano lasciato le scacchiere e si erano riuniti intorno a lui. Le finestre del caffè si erano gremite, al di fuori, di passanti fermati dal frastuono. Scoppiavano risate da far cadere il soffitto. Ma egli non vedeva niente: continuava, preso da un'esaltazione, da un entusiasmo così vicino alla follia, che si era in dubbio se si sarebbe riavuto, oppure occorresse gettarlo in una carrozza e condurlo direttamente al manicomio, cantando un pezzo delle lamentazioni di Jommelli. Egli ripeteva con una precisione, una naturalezza e un calore incredibili i passi più belli di ogni pezzo; quel bel recitativo obbligato ove il profeta dipinge la desolazione di Gerusalemme, egli lo innaffiò con un torrente di lacrime che poi scorsero anche dagli occhi dei presenti. Vi era tutto: la delicatezza del canto, la forza dell'espressione e il dolore. Insisteva sui passi ove il musicista si era particolarmente dimostrato un grande maestro. Se lasciava la parte del canto, era per prendere quella degli strumenti, che poi d'un tratto abbandonava per ritornare al canto, riallacciando l'una all'altra, in modo da mantenere il legame e l'unità del tutto. Si impadroniva delle nostre anime e le teneva sospese nella situazione più strana che io abbia mai sperimentato... Lo ammiravo? Sì, lo ammiravo! Ero preso da commozione? Sì, lo ero; ma una pennellata di ridicolo era fusa in questi sentimenti, e li snaturava.


Ma anche a voi sarebbero sfuggiti scoppi di risa per il modo in cui egli contraffaceva i diversi strumenti. Con gote tumide e gonfie, rendeva il corno e i contrabbassi, prendeva un suono squillante e nasale per l'oboe; per gli strumenti a corda, cercava suoni che maggiormente si avvicinavano, precipitando giù la voce con un'incredibile rapidità; soffiava, tubava imitando i vari flauti; gridava, cantava, si dimenava come un forsennato; faceva da solo la parte dei danzatori e delle danzatrici, dei cantanti e delle cantanti, di un'intera orchestra, di un intero teatro, dividendosi in venti parti diverse, correndo, fermandosi con l'aria di un energumeno, facendo scintillare gli occhi, riempiendosi di bava la bocca.


Faceva un caldo da morire e il sudore che gli scorreva lungo le rughe della fronte e lungo le guance gli si mescolava alla polvere dei capelli, rigando e solcando la parte superiore dell'abito. Che cosa non gli vidi fare? Piangeva, gridava, sospirava; guardava ora intenerito, ora tranquillo, ora furioso; era una donna che sviene dal dolore; era un infelice che si abbandona a tutta la sua disperazione; un tempio che si innalza; uccelli che tacciono al sole che tramonta; acque mormoranti in un luogo fresco e solitario, o scorrenti in un torrente dall'alto delle montagne; una tempesta, un uragano, il lamento di coloro che stanno per morire, misto ai sibili del vento e al fracasso dei tuoni. Era la notte con le sue tenebre; era l'ombra e il silenzio, perché anche il silenzio si raffigura coi suoni. La sua testa era completamente smarrita.


Morto di stanchezza, come chi esca da un sonno profondo o da un lungo piacere, restò immobile come istupidito, attonito. Volgeva intorno a sé gli sguardi come un uomo smarrito che tenti di riconoscere il luogo nel quale si trova; aspettava che le forze gli ritornassero, si asciugava macchinalmente il viso. Simile a colui che, al proprio risveglio, si veda circondato il letto da un gran numero di persone, conservando un completo oblio o una profonda ignoranza di quel che ha fatto, esclamò nel primo istante:) Ebbene, signori, che c'è? Donde vengono queste risa e questa sorpresa? Che c'è? (Poi soggiunse:) Ecco quel che si dice musica e musicista! Tuttavia, signori, non bisogna disprezzare alcuni pezzi di Lulli. Sfido chiunque a musicar meglio di lui la scena: "Ah, attenderò!...", senza mutar le parole. Né bisogna disprezzare alcuni pezzi di Campra, le arie per violino di mio zio, le sue gavotte, le sue entrate di soldati, di sacerdoti, di sacrificatori... "Pallide fiaccole, notte più orribile delle tenebre... Dio del Tartaro, Dio dell'oblio!".


(E qui gonfiava la voce, sosteneva i suoni; i vicini si affacciavano alle finestre, noi ci mettevamo le dita nelle orecchie. Soggiungeva:) Qui occorrono veri polmoni, un grande organo, un enorme volume d'aria. Ma tra poco, addio... Non sanno ancora quel che si deve mettere in musica, né di conseguenza quel che conviene a un musicista. La poesia lirica deve ancora nascere; ma ci arriveremo. A forza di ascoltare Pergolesi, il sassone, Terradellas, Traetta e gli altri, a furia di leggere Metastasio, bisognerà pure che ci arrivino.


IO: E che? Quinault, la Motte, Fontanelle non hanno capito nulla?


LUI: Nulla, del nuovo stile. In tutti i loro incantevoli poemi non vi sono sei versi di seguito che si possano mettere in musica.


Sono frasi ingegnose, madrigali leggeri, teneri e delicati; ma, per sapere quanto tutto ciò sia privo di risorse per la nostra arte, che è la più violenta di tutte, non esclusa quella di Demostene, fatevi recitare quei pezzi: come vi appariranno freddi, languidi, monotoni! Non vi è nulla, in essi, che possa servire da modello al canto: mi piacerebbe altrettanto dover mettere in musica le "Massime" di La Rochefoucauld o i "Pensieri" di Pascal.


Solo il grido animale della passione può dettarci la linea che fa per noi. Occorre che le espressioni si incalzino; che la frase sia breve; che il senso sia come rotto, sospeso; che il musicista possa disporre del tutto e nello stesso tempo ciascuna delle sue parti, omettere una parola o ripeterla, aggiungervene un'altra che gli occorra, voltarla e rivoltarla come un polpo, senza tuttavia distruggerla. Tutto ciò rende la poesia lirica francese molto più difficile da mettere in musica delle lingue dotate di inversioni, le quali presentano spontaneamente quei vantaggi: "Barbaro, crudel, pianta il tuo pugnale nel mio seno. Eccomi pronta a ricevere il colpo fatale. Colpisci. Osa... Ah! languisco, muoio...


Un fuoco segreto mi si accende nei sensi... Crudele amore, che vuoi da me? Lasciami la dolce pace di cui godetti... Rendimi la ragione...". Occorre che le passioni siano forti, e la tenerezza del musicista e del poeta lirico sia estrema. L'aria corrisponde quasi sempre al momento della perorazione: occorrono, quindi, esclamazioni, interiezioni, sospensioni, interruzioni, affermazioni, negazioni; e noi chiamiamo, invochiamo, gridiamo, gemiamo, lacrimiamo, ridiamo con franchezza. Niente spirito, niente epigrammi, niente pensieri leggiadri: tutte cose troppo lontane dalla natura schietta. E non crediate che la recitazione degli attori di teatro e la loro declamazione possano servirci da modello. Niente affatto! A noi occorre una recitazione più energica, meno manierata, più vera. I discorsi semplici, le comuni voci della passione, ci sono tanto più necessari quanto più la lingua sarà monotona, avrà minor accento: questo sarà favorito dal grido animalesco e da quello dell'uomo in preda alla passione.


(Mentre mi parlava così, la folla che ci circondava, non capendo niente, o prendendo meno interesse a quel che lui diceva, si era ritirata, perché in generale il fanciullo come l'uomo, e l'uomo come il fanciullo, ama più divertirsi che istruirsi. Ognuno era di nuovo tornato al suo gioco, e noi eravamo rimasti soli nel nostro angolo. Seduto su una panchetta, con la testa appoggiata contro il muro, le braccia penzoloni, gli occhi semichiusi, mi disse:) Non so cos'ho: quando sono venuto qui, mi sentivo fresco e leggero, come se avessi fatto dieci leghe. La stanchezza mi ha colto all'improvviso.


IO: Volete ristorarvi?


LUI: Volentieri. Mi sento la voce roca, mi mancano le forze e il petto mi duole. Mi capita quasi ogni giorno, non so perché.


IO: Che desiderate?


LUI: Quel che preferite. Non sono difficile. La povertà mi ha insegnato ad accontentarmi di tutto.


(Ci servono birra e limonata; egli ne riempie un grosso bicchiere che svuota due o tre volte di seguito. Poi, come un uomo che si rianima, tossisce fortemente, si dimena, riprende).


LUI: Ma a vostro avviso, signor filosofo, non è una cosa strana e bizzarra che uno straniero, un italiano, un Duni, venga ad insegnarci come dare l'accento alla nostra stessa musica, ad assoggettare il nostro canto a tutti i movimenti, a tutti i tempi, a tutti gli intervalli, a tutte le declamazioni, senza intaccare la prosodia? Eppure, non era la quadratura del circolo! Chiunque avesse dato ascolto a un pezzente che gli chiedeva l'elemosina nella strada, a un uomo nel trasporto della collera, a una donna gelosa furiosa, a un amante disperato, a un adulatore, sì, a un adulatore che raddolcisce il tono strascinando le sillabe con voce melliflua; chiunque, in una parola, avesse dato ascolto a una qualche passione, non importa quale, purché meritasse per la sua energia di servire da modello al musicista, avrebbe dovuto accorgersi di due cose: una, che le sillabe lunghe o brevi non hanno alcuna durata fissa, e neppure rapporti fissi tra le loro durate; e che la passione dispone della prosodia come le pare, che si permette i massimi intervalli, e che colui che esclama nel pieno del dolore: "Ah, l'infelice che sono!" innalza la sillaba di esclamazione al tono più elevato e più acuto, e fa calare le altre ai toni più gravi e più bassi, un'ottava sotto e anche più, dando a ogni suono la quantità adatta al giro della melodia, senza che l'orecchio ne sia offeso, senza che né la sillaba lunga né la sillaba breve abbiano conservato la lunghezza o la brevità abituali nel corso normale. Quanto cammino abbiamo fatto dal tempo in cui citavamo la parentesi dell'"Armida": "Il vincitore di Rinaldo (se mai qualcuno possa esserlo)", o l'"Obbediamo senza titubare" delle "Indie galanti", quali prodigi di declamazione musicale! Ora, tali prodigi mi fanno scuotere le spalle per la compassione. Se l'arte continua ad avanzare in questo modo, non so dove andrà a finire. Aspettando, beviamo un sorso.


(Ne bevve due, tre, senza sapere quel che faceva. Stanco, sfinito com'era, si sarebbe annegato senza accorgersene, se io non avessi allontanato la bottiglia, che toccava per distrazione. Allora gli chiesi:) Come accade che con un gusto così fine, con una così grande sensibilità per le bellezze dell'arte musicale, siate così cieco alle bassezze morali, così insensibile al fascino della virtù?


LUI: Evidentemente, per esse vi è un senso che io non possiedo, una fibra rallentata che si ha un bel po' pizzicare: non vibra; o forse è perché ho sempre vissuto con buoni musicisti e con pessima gente, ragion per cui l'orecchio si è raffinato, mentre il cuore s'è fatto sempre più sordo. E poi, è anche una questione di sangue. Il sangue di mio padre e quello di mio zio sono lo stesso sangue; il mio è quello di mio padre: la molecola paterna era dura e ottusa, e a questa mia molecola prima si è assimilato tutto il resto.


IO: Volete bene a vostro figlio?


LUI: Se voglio bene a quel piccolo selvaggio? Ne sono pazzo.


IO: E non cercherete sul serio di arrestare in lui l'effetto della maledetta molecola paterna?


LUI: Sarebbe, credo, un lavoro inutile. Se è destinato a diventare un uomo onesto, io non lo danneggerò. Ma se la molecola vuole che egli sia un mascalzone come suo padre, tutte le fatiche per renderlo un uomo onesto gli sarebbero solo molto nocive:


l'educazione non farebbe che opporsi ogni momento alla tendenza della molecola, ed egli sarebbe attirato da due forze contrarie e camminerebbe tutto di traverso nel cammino della vita, come accade a un'infinità di persone, ugualmente goffe nel bene e nel male.


Sono coloro che noi chiamiamo "dei disgraziati", che è il più temibile di tutti gli epiteti, perché indica la mediocrità e l'estremo grado di disprezzo: un grande malvivente è un grande malvivente, ma non è affatto un disgraziato. Prima che la molecola paterna riprendesse il sopravvento e lo conducesse alla perfetta abiezione nella quale mi trovo io, gli occorrerebbe un tempo infinito, e perderebbe gli anni più belli. Perciò per ora non faccio nulla: lo lascio crescere, lo esamino. E' già goloso, falso, ladruncolo, pigro, mentitore: temo proprio che non tradirà la sua razza.


IO: E vorreste pure che fosse un musicista perché non manchi nulla alla somiglianza?


LUI: Un musicista! un musicista! Talvolta lo guardo digrignando i denti, e dico: "Se mai tu dovessi sapere una nota, credo che ti torcerei il collo".


IO: E perché mai, se non vi dispiace?


LUI: Perché non porta a nulla.


IO: Anzi, apre tutte le porte.


LUI: Sì, quando si eccelle; ma come si può garantire che il proprio figlio eccellerà? C'è da scommettere diecimila contro uno che non sarà altro che un miserabile raschiatore di corde come me.


Sapete che sarebbe più facile trovare un bambino capace di governare un regno, di essere un gran re, piuttosto che un grande violinista?


IO: Mi sembra che, presso un popolo privo di costumi, perduto nei disordini e nel lusso, le capacità divertenti, anche se mediocri, siano proprio quelle che facciano progredire rapidamente un uomo nel cammino della fortuna. Io che vi parlo, ho ascoltato la seguente conversazione tra un protettore e un protetto. Questi era stato indirizzato al primo come a un uomo cortese, che avrebbe potuto essergli utile: "Signore, cosa conoscete?". "Conosco abbastanza bene le matematiche.". "E allora, insegnate le matematiche. Dopo esservi infangato per dieci o dodici anni sulle strade di Parigi, vi sarete certo fatto tre o quattrocento lire di rendita.". "Ho studiato legge e conosco il diritto.". "Se Puffendorf e Grozio ritornassero al mondo, morirebbero di fame a un angolo di strada.". "Conosco assai bene la storia e la geografia.". "Se vi fossero genitori che avessero a cuore l'educazione dei loro figli, la vostra fortuna sarebbe fatta; ma non ve ne sono.". "Sono un musicista abbastanza bravo.". "E perché non me l'avete detto subito? Ecco: per mostrarvi il vantaggio che si può ricavare da quest'ultima conoscenza, vi dirò che ho una figlia. Le darete lezione tutti i giorni, dalle sette e mezzo alle nove di sera, e vi pagherò venticinque luigi all'anno. Farete colazione, pranzerete e cenerete con noi. Il resto della giornata sarà vostro, e ne disporrete come vorrete.".


LUI: E cos'è divenuto quest'uomo?


IO: Se fosse stato saggio, avrebbe fatto fortuna, la sola cosa alla quale pare che voi miriate.


LUI: Senza dubbio. Oro, oro. L'oro è tutto; e il resto, senza oro, è nulla. Così, invece di riempirgli la testa di belle massime che egli dovrebbe poi dimenticare sotto pena di non esser altro che un pezzente, quando posseggo un luigi, il che non mi capita spesso, mi pianto davanti a lui. Estraggo dalla tasca il luigi, glielo mostro con ammirazione, alzo gli occhi al cielo, bacio il luigi in sua presenza; e, per fargli ancor meglio intendere l'importanza della sacra moneta, balbetto, gli indico col dito tutto quel che si può acquistare: un bel vestito, un bel berretto, un buon biscotto. Poi rimetto in tasca il luigi, cammino con fierezza, mi batto la mano sul taschino, e gli faccio capire così che la sicurezza che egli vede in me nasce dal luigi che si trova là dentro.


IO: Niente di meglio. Ma se capitasse che, compenetrato fino in fondo dal valore del luigi, un giorno...


LUI: Ho capito. Bisogna chiuder gli occhi, su quel punto. Non v'è principio morale che non abbia qualche inconveniente. Alla peggio, si passa un brutto quarto d'ora, e tutto è finito.


IO: Malgrado queste vedute così sagge e coraggiose, persisto a credere che sarebbe bene fare di vostro figlio un musicista. Non conosco altro mezzo di avvicinare più rapidamente i grandi, servire i loro vizi, mettere a profitto i propri.


LUI: E' vero; ma ho un progetto per un successo più pronto e più sicuro. Ah! se si trattasse di una bambina! Ma non si può far mai quel che si vuole, e bisogna prendere quel che viene, trarne il partito migliore, e perciò non dare stupidamente un'educazione spartana a un ragazzo destinato a vivere a Parigi, come fa la maggior parte dei padri, che se avessero mirato alla sventura dei loro figli non potrebbero fare nulla di peggio. Se si tratta di una cattiva educazione, è colpa dei costumi della mia nazione, non mia colpa: ne risponderà chi potrà. Io voglio che mio figlio sia felice o, quel che è lo stesso, onorato, ricco e potente. Conosco un pochino le vie più facili per raggiungere questo scopo, e glielo insegnerò per tempo. Se voialtri saggi mi biasimate, la moltitudine e il successo mi assolveranno. Sarà ricco, ve lo dico io. E, se lo diverrà, non gli mancherà nulla, neppure la vostra stima e il vostro rispetto.


IO: Qui potreste ingannarvi.


LUI: Oppure ne farà a meno, come tanti altri.


(Vi erano nel suo discorso molte delle cose che si pensano e che guidano la nostra condotta, ma che non si dicono. Ecco, in verità, la differenza più marcata tra il mio interlocutore e la maggior parte della gente che ci circonda. Confessava apertamente i vizi che aveva lui e che hanno gli altri, ma non era ipocrita. Non era né più né meno abominevole di loro: era soltanto più franco, e più conseguente; profondo, talora, nella sua depravazione. Tremavo pensando a quel che sarebbe diventato suo figlio sotto un simile maestro. E' certo che, seguendo linee di educazione così ricalcate sui nostri costumi, sarebbe andato assai lontano, a meno che non si fosse prematuramente fermato in cammino.)

LUI: Oh! non temete nulla (mi disse). Il punto importante, il punto difficile al quale soprattutto un buon padre deve attenersi, non è di dare al proprio figlio vizi che lo arricchiscano, attitudini ridicole che lo rendano prezioso ai grandi - cosa che tutti fanno, se non sistematicamente come me, almeno con l'esempio e qualche insegnamento - ma di indicargli la giusta misura, l'arte di evitare la vergogna, il disonore e le leggi. Vi sono dissonanze, nell'armonia sociale, che bisogna saper piazzare, preparare e salvare. Nulla è così piatto quanto un susseguirsi di accordi perfetti: ci vuol qualcosa di stimolante che separi il fascio luminoso e ne disperda i raggi.


IO: Molto bene. Con questo paragone mi portate nuovamente dalla morale alla musica, dalla quale mi ero allontanato mio malgrado. E ve ne ringrazio, perché non vi nasconderò che mi piacete più come musicista che come moralista.


LUI: Tuttavia in fatto di musica mi trovo in sottordine, in fatto di morale sono superiore.


IO: Ne dubito; ma quando ciò fosse, io sono un brav'uomo, e i vostri principi non sono i miei.


LUI: Tanto peggio per voi! Ah, se avessi il vostro talento!


IO: Lasciamo da parte il mio talento, e torniamo al vostro.


LUI: Se sapessi esprimermi come voi! Ma ho un linguaggio così ibrido e confuso: metà da uomo di mondo e letterato, metà gergo da mercato.


IO: Io parlo male: so soltanto dire la verità, e la verità non piace sempre, come sapete.


LUI: Ma io non ambisco di possedere il vostro talento per dire la verità: al contrario, per dire bene una menzogna. Se sapessi scrivere, mettere insieme un libro, girare con grazia un'epistola dedicatoria, far inebriare del suo merito uno stupido, insinuarmi presso le donne!


IO: Ma tutto questo lo sapete fare assai meglio di me. Non sarei neppure degno di essere vostro scolaro.


LUI: Quanti grandi qualità perdute, di cui ignorate il valore!


IO: Raccolgo tutto quel che vi metto.


LUI: Se così fosse, non portereste questo abito grossolano, questa giacca modesta, queste calze di lana, queste scarpe grosse e questa parrucca vecchia!


IO: D'accordo. Dev'essere proprio un malaccorto, chi fa di tutto per diventare ricco e non ci riesce. Ma vi sono persone come me che non considerano la ricchezza come la cosa più preziosa del mondo: persone bizzarre.


LUI: Molto bizzarre. Non si nasce mai con questo strano modo di ragionare, che non si trova in natura: lo si acquista.


IO: Non si trova nella natura dell'uomo?


LUI: Proprio così. Tutto ciò che vive, senza eccezioni, cerca il proprio benessere alle spese di colui al quale apparterrà; e sono sicuro che se io lasciassi crescere il mio piccolo selvaggio senza parlargli di nulla, egli vorrebbe essere riccamente vestito, splendidamente nutrito, benvoluto dagli uomini, amato dalle donne, e riunire per sé tutte le felicità della vita.


IO: Se il piccolo selvaggio fosse abbandonato a se stesso, se conservasse tutta la sua imbecillità, e allo scarso raziocinio di un bambino in culla unisse la violenza delle passioni di un uomo di trent'anni, torcerebbe il collo a suo padre e andrebbe a letto con sua madre.


LUI: Ciò prova la necessità di una buona educazione; e chi vuol contestarlo? Ma cos'è una buona educazione, se non quella che conduce a ogni sorta di piaceri senza rischio e senza inconvenienti?


IO: Manca poco che io non sia della vostra opinione; ma guardiamoci dall'approfondire e chiarire meglio il discorso.


LUI: Perché?


IO: Perché temo che noi siamo d'accordo solo in apparenza e che, una volta entrati nella discussione sui pericoli e gli inconvenienti da evitare, non ci intendiamo più.


LUI: E che importa?


IO: Lasciamo stare, vi dico. Quel che io so in questa materia, non ve lo potrei insegnare; e voi mi potete istruire più facilmente di quel che io ignoro e che voi conoscete in fatto di musica. Caro Rameau, parliamo di musica, e ditemi com'è accaduto che con la vostra facilità di sentire, di ricordare e di rendere i più bei pezzi dei grandi maestri, con l'entusiasmo che vi ispirano e che voi trasmettete agli altri, non abbiate fatto nulla che abbia valore.


(Invece di rispondermi, si mise a scuotere la testa; poi, alzando il dito al cielo, soggiunse:) L'astro! l'astro! Quando la natura fece Leo, Vinci, Pergolesi, Duni, sorrise; assunse un'aria imponente e grave quando formò il caro zio Rameau, che sarà stato chiamato per una decina d'anni il grande Rameau, ma del quale ben presto non si parlerà più. Ma quando mise insieme alla peggio suo nipote, fece una smorfia, e poi un'altra smorfia, ed ancora una smorfia.


(Dicendo queste parole faceva col viso ogni sorta di smorfie:


esprimeva il disprezzo, lo sdegno, l'ironia; sembrava che plasmasse tra le dita un pezzo di pasta, e sorridesse delle forme ridicole che vi imprimeva. Ciò fatto, gettò lontano da sé il bizzarro immaginario idoletto, e disse:) Così mi fece la natura, e mi gettò accanto ad altri idoletti: gli uni con un grosso ventre rattrappito, col collo corto, gli occhi grossi e sporgenti, apoplettici; altri col collo storto; altri secchi, con l'occhio vivace e il naso a uncino. Tutti presero a scoppiar dal ridere, vedendomi, e io a mettermi i due pugni sui fianchi, e a scoppiar dal ridere vedendo loro; perché gli sciocchi e i matti si divertono l'un l'altro, e si cercano, si attraggono.


Se, arrivando in questo mondo, non avessi trovato già pronto il proverbio che dice che "il denaro degli stupidi è il patrimonio delle persone di ingegno", sarei stato io ad inventarlo. Sentii che la natura aveva messo la legittima che mi spettava nella borsa di quegli idoletti, e inventai mille modi per riprendermela.


IO: Conosco questi modi, me ne avete parlato, e li ho ammirati molto. Ma, fra le tante risorse, perché non aver tentato quella di produrre una buona opera?


LUI: Questo discorso è simile a quello che fece un uomo di mondo all'abate Le Blanc... L'abate diceva: "La marchesa di Pompadour mi prende per mano, mi conduce fin sulla soglia dell'Accademia, e là ritira la sua mano. Io cado e mi rompo tutt'e due le gambe...".


L'uomo di mondo gli rispose: "Ebbene, abate, bisogna rialzarsi e sfondare la porta con una testata". L'abate replicò: "E' proprio ciò che ho tentato; e sapete cosa ne ho ricavato? Un bernoccolo sulla fronte".


(Dopo aver raccontato questa storiella, il mio compagno si mise a camminare a testa bassa, l'aria pensosa e abbattuta; sospirava, piangeva, si desolava, alzava le mani e gli occhi, si batteva col pugno in testa fino a rompersi la fronte o le dita, e continuava:) Mi sembra tuttavia che vi sia qualcosa, qua dentro; ma ho un bel colpire e scuotere, non ne vien fuori niente. (Poi ricominciava a scuotere la testa, e a picchiarsi con maggior foga la fronte, e diceva:) O non c'è nessuno, o non vogliono rispondermi.


(Un attimo dopo, assumeva un'aria fiera, rialzava la testa, si poneva la mano destra sul cuore, camminava e diceva:) Sento, sì, sento.


(Si fingeva irritato, indignato, intenerito, imperioso, supplice, improvvisava discorsi pieni di collera, di commiserazione, di odio, di amore; abbozzava le caratteristiche delle passioni con una finezza e una verità sorprendenti. Poi soggiungeva:) Credo che sia proprio così. Ecco: viene! Vedete cosa vuol dire trovare un ostetrico che sappia irritare, precipitare i dolori e far uscire il bambino. Quando sono solo, prendo la penna con l'idea di scrivere, mi rosicchio le unghie, mi logoro la fronte.


Ma, buonasera, servitore, il dio è assente. M'ero convinto di avere un certo genio, ma alla fine del rigo leggo che sono uno stupido, uno stupido, uno stupido. E come sarebbe possibile sentire, elevarsi, pensare, rappresentare con forza, frequentando una razza di gente come quella che occorre vedere, per vivere; in mezzo ai discorsi che si fanno e a quelli che si ascoltano, a pettegolezzi di questo tipo: "Oggi, la passeggiata pei viali era incantevole. Avete udito la savoiarda? Recita stupendamente. Il signor tale aveva la più bella pariglia di cavalli grigio- pomellati che si possa immaginare. La bella signora talaltra comincia a sfiorire. A quarantacinque anni si può mai portare una tale pettinatura? Quella ragazza, quella tizia, è coperta di diamanti che non le costano un bel niente.". "Volete dire che le costano caro?". "Ma no.". "Dove l'avete vista?". "Al "Figlio di Arlecchino perduto e ritrovato". La scena della disperazione è stata recitata come non lo era mai stata. Il pulcinella della fiera ha una bella voce, ma nessuna finezza, niente anima. La signora tal dei tali ha messo al mondo due gemelli: ciascun padre potrà avere il suo.". E credete che tutto ciò, detto e sentito ogni giorno, possa riscaldare e condurre a grandi imprese?


IO: No. Sarebbe meglio rinchiudersi nella propria soffitta, bere acqua pura, mangiare pane secco, e mettersi alla ricerca di se stessi.


LUI: Forse; ma non ne ho il coraggio. E poi, sacrificare la propria felicità a un successo incerto! E il nome che porto, inoltre? Rameau! Chiamarsi Rameau è una cosa imbarazzante. Il talento non è come la nobiltà, che si trasmette, e il cui fulgore si accresce, nel passare dal nonno al padre, dal padre al figlio, dal figlio al nipote, senza che per questo l'antenato trasmetta un qualunque merito al suo discendente. Il vecchio tronco si ramifica in una enorme progenie di sciocchi, e che ne importa? Ma lo stesso non accade per il talento. Se si vuole appena ottenere la fama del proprio padre, bisogna valere più di lui, bisogna aver ereditato la sua stessa fibra. Ora, quella fibra a me è mancata, ma il polso si è sciolto, l'archetto si muove, e la pentola bolle. Se c'è gloria c'è la zuppa.


IO: Al vostro posto non me lo farei dire due volte: tenterei.


LUI: E credete che non abbia tentato? Non avevo neppure quindici anni, quando mi dissi per la prima volta: Cos'hai, Rameau? Tu sogni, e che sogni? Che vorresti aver fatto o fare qualcosa che suscitasse l'ammirazione dell'universo. Eh, sì, non c'è che da soffiare e muover le dita: è una cosa semplicissima. In età più avanzata, mi sono ripetuto gli stessi propositi della mia infanzia, e anche oggi me li ripeto ancora; ma resto sempre intorno alla statua di Memnone.


IO: Che intendete dire con la statua di Memnone?


LUI: E' chiaro, mi pare. Intorno alla statua di Memnone v'era un'infinità di altre statue, ugualmente illuminate dai raggi del sole, ma la sua era la sola che risuonasse. Voltaire è un poeta, e chi altro ancora? Voltaire. E il terzo? Voltaire. E il quarto?


Voltaire. Musicisti sono Rinaldo di Capua, Hasse, Pergolesi, Alberti, Tartini, Locatelli, Terradellas, mio zio, e quel minuscolo Duni, che non ha una fisionomia rilevante, ma che, perdio! possiede sentimento, canto ed espressione! Il resto, intorno a questo piccolo numero di Memnoni, sono altrettante paia d'orecchie infilate sulla punta di un bastone; e perciò siamo dei pezzenti, e a tal punto pezzenti, che sembra una benedizione. Ah, signor filosofo, la miseria è una cosa terribile! La vedo rannicchiata, con la bocca spalancata, pronta a ricevere qualche goccia dell'acqua gelata che scorre dalle botti delle Danaidi. Non so se essa aguzzi lo spirito del filosofo, ma certo raffredda diabolicamente la testa del poeta. Non si canta bene sotto questa botte. E ancora troppo felice chi può permettersi il riparo! Io mi ci ero messo, e non ho saputo restarvi; e già una volta avevo commesso questa sciocchezza. Ho viaggiato in Boemia, in Germania, in Svizzera, in Olanda, nelle Fiandre, fino a casa del diavolo.


IO: Sempre sotto la botte bucata?


LUI: Sempre sotto la botte. Si trattava di un ebreo opulento e dissipatore che amava la musica e le mie follie. Facevo della musica alla meno peggio, e facevo il buffone: non mi mancava nulla. L'ebreo era un uomo che conosceva la sua legge, e l'osservava con la rigidezza di una sbarra, talora con l'amico, sempre con lo straniero. Gli capitò una brutta faccenda, che vi devo raccontare perché è divertente.


C'era a Utrecht un'incantevole cortigiana: egli fu tentato da questa cristiana, e le spedì un messaggero con una cambiale abbastanza forte. La bizzarra creatura respinse la sua offerta.


L'ebreo ne fu disperato, ma il messaggero gli disse: "Perché affliggervi così? Volete andare a letto con una bella ragazza?


Nulla di più facile, finanche con una più bella di quella che desideravate. E' mia moglie, e ve la cederò allo stesso prezzo".


Fatto e detto. Il messaggero si tenne la cambiale, e l'ebreo andò a letto con sua moglie. Arriva la scadenza della cambiale: l'ebreo la lascia scadere e la dichiara falsa. Processo. L'ebreo pensava:


"Quest'uomo non oserà dire mai a qual titolo egli possegga la cambiale, e io non lo pagherò.". All'udienza, interpella il messaggero: "Da chi avete ricevuto questa cambiale?". "Da voi.".


"Per danaro che mi avete prestato?". "No.". "Per fornitura di mercanzie?". "No.". "Per servizi resi?". "No, ma non si tratta di questo: ne sono in possesso, voi l'avete firmata e la pagherete.".


"Io non l'ho firmata.". "Sono dunque un falsario?". "Voi o un'altro di cui siete l'agente.". "Io sono un vile, ma voi siete un briccone. Credetemi, non mi spingete agli estremi: dirò tutto, mi disonorerò, ma vi perderò...". L'ebreo non tenne conto della minaccia, e il messaggero rivelò tutta la faccenda all'udienza successiva. Furono entrambi biasimati; e l'ebreo condannato a pagare la cambiale, il cui valore fu devoluto ad opere di beneficenza. Allora mi separai da lui; e tornai qui.


Che fare? Perché si trattava di morir di fame o di fare qualcosa.


Mi passarono per la testa ogni sorta di progetti. Un giorno, decidevo di partire l'indomani per entrare in una compagnia di provincia, ugualmente adatto o inadatto al teatro o alla musica.


L'indomani pensavo di farmi dipingere uno di quei quadri che si attaccano a un bastone e si piantano a un incrocio di strade, dove avrei gridato a squarciagola: "Ecco la città dove è nato; eccolo che prende congedo dal padre farmacista; ecco che arriva nella capitale, alla ricerca della dimora di suo zio; eccolo alle ginocchia dello zio, che lo scaccia; eccolo con un ebreo, eccetera, eccetera".


Il giorno seguente, mi alzavo ben risoluto ad associarmi ai cantanti di strada; non sarebbe stata la cosa peggiore da farsi:


saremmo andati a suonare sotto le finestre del caro zio, che sarebbe scoppiato di rabbia. Ma presi un'altra decisione.


(A questo punto si fermò, passando successivamente dall'atteggiamento di un uomo che tiene in mano un violino e preme le corde, a quello di un povero diavolo estenuato dalla fatica, al quale manchino le forze, a cui tremino le gambe, là là per spirare se non gli si getta un pezzo di pane. Manifestava il suo estremo bisogno indicando col dito la bocca semiaperta; poi soggiunse:) Questo gesto è chiaro: ci gettavano sempre qualcosa da mangiare.


Ce lo disputavamo in tre o quattro affamati, quanti eravamo. E poi pensate a cose grandi, fate cose belle, in mezzo a una simile indigenza!


IO: Certo, riesce difficile.


LUI: Di caduta in caduta, ero arrivato a quel punto, e ci stavo come un galletto che si fa ingrassare. Ne sono uscito. Ma bisognerà di nuovo raschiare le corde del violino e tornare al gesto del dito sulla bocca aperta. In questo mondo non vi è nulla di stabile: oggi sulla cima, domani al basso della ruota.


Maledette circostanze sono quelle che ci guidano; e guidano male.


(Bevve un ultimo sorso rimasto in fondo alla bottiglia, e disse, rivolgendosi al suo vicino:) Signore, per carità, una presina. Vedo che avete una bella tabacchiera. Non siete un musicista, per caso?... "No.". Tanto meglio per voi; perché i musicisti sono poveri diavoli da compiangere. La sorte ha voluto che io lo fossi, invece, mentre forse a Montmartre, in un mulino, c'è un mugnaio, che non ascolterà mai altro che il rumore della ruota, e che avrebbe trovato i canti più belli! Al mulino, al mulino, Rameau! Là è il tuo posto.


IO: A qualunque cosa l'uomo si dedichi, la natura ve lo aveva già predestinato.


LUI: E prende strani granchi. Per me, da questa altezza dove tutto si confonde, non distinguo con chiarezza l'uomo che monda l'albero con le cesoie o il bruco che rode la foglia. Essi mi appaiono entrambi come due insetti diversi, intenti ciascuno al proprio dovere. Arrampicatevi sull'epiciclo di Mercurio, e di là, se vi aggrada - così come fece Rèaumur, dividendo la classe delle mosche in sarte, misuratrici, falciatrici - , distinguete pure la classe degli uomini in falegnami, carpentieri, messaggeri, danzatori, cantanti: è affar vostro, io non mi ci immischio. Sono in questo mondo e vi resto. Ma se è nella natura aver fame - ritorno al dilemma della fame che mi è sempre presente - , trovo che non rientra nell'ordine non aver sempre di che mangiare. Che razza di economia! Vi sono uomini che rigurgitano di tutto, mentre altri, che sono forniti di uno stomaco imperioso quanto il loro, non hanno nulla da mettere sotto i denti. E il peggio è la posizione sforzata in cui ci tiene il bisogno. L'uomo bisognoso non cammina come tutti gli altri: salta, si arrampica, si torce, si trascina,; passa la vita a prendere ed eseguire un'intera serie di posizioni.


IO: Che sono le posizioni?


LUI: Andate a domandarlo a Noverre. Il mondo ne offre molte di più di quante la sua arte non ne sappia imitare.


IO: Ed ecco anche voi, per servirmi della vostra espressione, o di quella di Montaigne, "piantato sull'epiciclo di Mercurio" a considerare le diverse pantomime della specie umana.


LUI: No, no, vi dico. Sono troppo pesante per sollevarmi così in alto. Lascio alle gru di soggiornare nelle nebbie: io vado terra terra. Mi guardo intorno e assumo le mie posizioni, o mi diverto delle posizioni che vedo assumere agli altri. Sono un mimo eccellente, come potrete giudicare.


(Poi si mette a sorridere, a contraffare l'uomo che ammira, l'uomo che supplica, l'uomo che acconsente; ha il piede destro in avanti, il sinistro all'indietro, lo sguardo come fisso su altri occhi, la bocca semiaperta, le braccia dirette verso qualche oggetto; attende un ordine, lo riceve, parte come un razzo, ritorna, l'ordine è eseguito, ne rende conto; è attento a tutto; raccoglie oggetti che cadono, mette un cuscino o uno sgabello sotto invisibili piedi; regge un vassoio, avvicina una sedia, apre una porta; chiude una finestra, tira le tendine; osserva il padrone e la padrona; è immobile, le braccia penzoloni, le gambe parallele; ascolta, cerca di leggere nei volti, e soggiunge:) Ecco la mia pantomima, che è suppergiù quella stessa degli adulatori, dei cortigiani, dei servi e dei pezzenti.


(Le follie di quest'uomo i racconti dell'abate Galiani, le stravaganze di Rabelais, mi hanno talvolta fatto meditare profondamente. Sono tre magazzini nei quali mi sono fornito di maschere ridicole che metto sul viso dei personaggi più seri; e vedo Pantalone in un prelato, un satiro in un presidente, un porco in un cenobita, uno struzzo in un ministro, un'oca in un primo consigliere.) Ma, secondo il vostro modo di pensare (Dissi io al mio compagno), vi sono molti pezzenti a questo mondo, poiché non c'è nessuno che non faccia un qualche passo di questa vostra danza.


LUI: Avete ragione. In tutto il regno vi è un solo uomo che cammina, il sovrano; tutti gli altri si mettono in posizione.


IO: Il sovrano? Vi sarebbe da dire ancora qualcosa. Credete proprio che non si trovi ogni tanto, accanto a lui, un piedino, una treccia, un nasino che gli facciano fare un po' di pantomima?


Chiunque ha bisogno di un altro è un povero, e assume una posizione. Il re si mette in posizione davanti alla sua amante e a Dio; esegue anch'egli un passo di pantomima. Il ministro esegue il passo di cortigiano, di adulatore, di valletto o di pezzente dinanzi al re. La folla degli ambiziosi esegue tutte quante le vostre posizioni, in cento maniere più vili le une delle altre, dinanzi al ministro. Il prete di grado elevato, in collare e mantello lungo, fa lo stesso almeno una volta alla settimana davanti al depositario del foglio dei benefici. A mio parere, quel che voi chiamate la pantomima dei pezzenti è il gran ballo di tutta la terra. Ognuno ha la propria Hus e il proprio Bertin.


LUI: Questa è una consolazione.


(Ma mentre io parlavo, egli contraffaceva in un modo da far morire dal ridere le posizioni dei personaggi che io nominavo. Ad esempio, per l'abate, teneva il cappello sotto il braccio e il breviario nella mano sinistra, sollevava con la destra la coda del mantello, e veniva avanti con la testa un po' inclinata sulla spalla, con gli occhi bassi, imitando in modo così perfetto l'ipocrita, che credetti vedere l'autore delle "Refutazioni" dinanzi al vescovo d'Orlèans. Per gli adulatori, per gli ambiziosi, si metteva col ventre a terra: era proprio Bouret nell'ufficio del controllo generale.) IO: E' tutto eseguito in modo perfetto (gli dissi), ma esiste tuttavia un essere dispensato da far pantomime. Il filosofo, che non possiede nulla e non domanda nulla.


LUI: E dove si trova un simile animale? Se non ha nulla, soffre; se non sollecita nulla, non otterrà nulla, e soffrirà sempre.


IO: No. Diogene se la rideva dei bisogni.


LUI: Ma bisogna pur essere vestiti.


IO: Egli se ne andava nudo.


LUI: Talvolta faceva freddo, ad Atene.


IO: Meno di qui.


LUI: Si doveva pur mangiare.


IO: Senza dubbio.


LUI: Alle spese di chi?


IO: Della natura. A chi si rivolge il selvaggio? Alla terra, agli animali, ai pesci, agli alberi, alle erbe, alle radici, ai ruscelli.


LUI: Pessima tavola.


IO: Ma grande.


LUI: Mal servita.


IO: Tuttavia è quella che saccheggiamo per rifornire le nostre.


LUI: Ma voi converrete che l'abilità dei nostri cuochi, pasticceri, rosticceri, trattori, confettieri, vi aggiunge qualcosa di suo. Con la dieta austera del vostro Diogene, non doveva certo avere organi molto esigenti.


IO: Vi sbagliate. L'abito del cinico era, una volta, il nostro abito monastico, con la stessa virtù. I cinici erano i carmelitani e i francescani di Atene.


LUI: Bene, ma allora anche Diogene ha danzato la pantomima: se non dinanzi a Pericle, certo dinanzi a Leide o a Frine.


IO: Vi sbagliate ancora. Gli altri comperavano assai caro la cortigiana che si dava a lui per piacere.


LUI: Ma se capitava che la cortigiana fosse occupata e il cinico avesse fretta?


IO: Rientrava nella sua botte e faceva a meno di lei.


LUI: E mi consigliereste di imitarlo?


IO: Ch'io possa morire se questo non sarebbe meglio che strisciare, avvilirsi o prostituirsi.


LUI: Ma a me occorrono un buon letto, una buona tavola, un abito caldo d'inverno e fresco d'estate, riposo, danaro e molte altre cose che preferisco dovere alla benevolenza, piuttosto che acquistarle col lavoro.


IO: E' che siete un fannullone, un ingordo, un vile, un'anima di fango.


LUI: Credo di avervelo già ammesso.


IO: Le cose della vita bisogna senza dubbio pagarle, ma voi ignorate quanto vi costi il sacrificio che fate per ottenerle.


Danzate, avete danzato e continuerete a danzare sempre la vile pantomima.


LUI: E' vero; ma mi è costato troppo, e ora non mi costa più niente. Perciò farei male ad assumere una differente andatura, la quale mi affaticherebbe, e non potrei conservarla. Ma mi accorgo, da quel che voi mi dite, che la mia povera mogliettina era una specie di filosofo: aveva un coraggio da leoni. Talvolta ci mancava il pane ed eravamo senza un soldo; avevamo venduto quasi tutti i nostri stracci. Io m'ero gettato ai piedi del nostro letto, e là mi sforzavo di pensare chi potesse prestarmi uno scudo senza che poi dovessi renderlo. Ella, gaia come un uccellino, si metteva al clavicembalo, cantava e si accompagnava: aveva un'ugola d'usignolo, e mi dispiace che non l'abbiate mai sentita. Quando partecipavo a qualche concerto, la portavo con me, e cammin facendo le dicevo: "Su, signora, fatevi ammirare; spiegate l'intero vostro talento e tutte le vostre grazie: rapite, travolgete". Giungevamo; ella cantava, rapiva, travolgeva. Ahimè!


l'ho perduta, povera piccola! A parte il suo talento, aveva una bocchina in cui sarebbe entrato a malapena un dito mignolo; i denti, un filo di perle; occhi, piedi, pelle, guance, seni, gambe di cerbiatta, cosce e natiche degne di esser modellate. Avrebbe conquistato prima o poi, perlomeno il ministro delle finanze. Dio, che modo di muoversi, che fianchi! Ah, Dio, che fianchi!


(Ed eccolo che si mette a imitare l'andatura di sua moglie.


Camminava a passettini, alzava la testa, agitava il ventaglio, dimenava i fianchi; era la caricatura più divertente e ridicola delle nostre graziose civette. Poi, riprendendo il filo del discorso, continuava:) La portavo a passeggio dappertutto, alle Tuileries, al Palazzo reale, sui grandi viali. Era impossibile che restasse a me. Quando traversava la strada al mattino, coi capelli sciolti e semisvestita, vi sareste fermato a guardarla e l'avreste potuta abbracciare con quattro dita senza stringerla. Coloro che la seguivano, che la guardavano trotterellare con quei suoi piedini, e misuravano quei fianchi larghi di cui le gonne leggere disegnavano le forme, affrettavano il passo; essa li lasciava arrivare, poi volgeva rapidamente su di loro i suoi occhioni neri e brillanti e li immobilizzava addirittura: poiché il dritto della medaglia era pari al rovescio.


Ma, ahimè! l'ho perduta, e tutte le mie speranze di fortuna sono svanite con lei. L'avevo presa solo per questo, le avevo confidato i miei progetti; ed essa era troppo sagace per non comprenderne la sicurezza, aveva troppo giudizio per non approvarli.


(Ed ecco che singhiozza e piange, e dice:) No, no, non me ne consolerò mai. Dopo di allora ho messo collare e zucchetto.


IO: Per il dolore?


LUI: Diciamo così. Ma in realtà per avere sicuramente una scodella in testa... Ma guardate un po' l'ora, perché devo andare all'"Opéra".


IO: Cosa danno?


LUI: Un'opera di Dauvergne. Vi sono parecchie cose belle nella sua musica: peccato che non sia stato il primo a dirle. Tra i morti, c'è sempre qualcosa che angustia i vivi. Ma che volete farci?


"Quisque suos NON patimur manes".


Ma sono le cinque e mezzo. Sento la campana che suona i vespri dell'abate di Canaye ed i miei. Addio, signor filosofo. Non è vero che sono sempre lo stesso?


IO: Ahimè, sì, disgraziatamente.


LUI: Che io possa aver questa disgrazia ancora per una quarantina d'anni. Riderà bene chi riderà ultimo.