Gustave Flaubert
DUE RACCONTI
Per mezzo secolo le borghesi di Pont-l'Evêque invidiarono alla signora Aubain la serva Felicita.
Per cento franchi all'anno cucinava, teneva dietro alla casa, cuciva, lavava, stirava, sapeva mettere le briglie a un cavallo, ingrassare il pollame, sbattere il burro; e rimase fedele alla padrona, che pure non era una persona amabile.
Aveva sposato un bel giovane squattrinato, morto all'inizio del 1809, lasciandole due bambini molto piccoli e una quantità di debiti. Vendette allora le sue proprietà, tranne il podere di Toucques e il podere di Geffosses, le cui rendite ammontavano a 5000 franchi al massimo, e lasciò la casa di Saint-Melaine per andare ad abitare in un'altra meno costosa, appartenuta ai suoi antenati e situata dietro il mercato.
Questa casa ricoperta d'ardesia si trovava tra un viottolo e una stradina che portava al fiume. Aveva all'interno dei dislivelli che facevano inciampare. Una anticamera stretta separava la cucina dalla "sala" dove la signora Aubain se ne stava tutto il giorno, seduta accanto alla vetrata in una poltrona di paglia. Contro il muro bianco si allineavano otto sedie di mogano. Sotto un barometro, un vecchio pianoforte reggeva una piramide di scatole e cartelle. Due "bergères" ricamate a piccolo punto erano poste ai lati del caminetto di marmo giallo in stile Luigi Quindicesimo. La pendola nel mezzo rappresentava un tempio di Vesta, e tutto l'appartamento sapeva un po' di muffa perché il pavimento era più in basso del giardino.
Al primo piano c'era anzitutto la camera della "Signora", molto grande, tappezzata con una carta a fiori pallidi e con il ritratto del "Signore" vestito da moscardino (1). Questa camera comunicava con un'altra più piccola, dove si vedevano due lettini da bambino, senza materasso. Poi veniva il salotto, sempre chiuso, e pieno di mobili coperti da teli. Seguiva un corridoio che portava ad uno studio; libri e scartoffie coprivano i ripiani di una libreria che da tre lati circondava una grande scrivania di legno nero. I due pannelli sparivano sotto disegni a penna, paesaggi a tempera e incisioni di Audran, ricordi di un tempo migliore e di un lusso ormai finito. Un abbaino al secondo piano dava luce alla camera di Felicita, affacciata sui prati.
Felicita si alzava all'alba, per non perdere la messa, e lavorava fino a sera senza sosta; poi, dopo cena, lavati i piatti e chiusa bene la porta, affondava il ciocco sotto la cenere e si addormentava davanti al focolare con il rosario in mano. Nessuno, nel mercanteggiare, mostrava più testardaggine di lei. Quanto alla pulizia, la lucentezza delle sue pentole faceva disperare delle altre serve. Economa, mangiava lentamente, e raccoglieva col dito le briciole del suo pane dalla tavola, un pane di dodici libbre, cotto apposta per lei e che durava venti giorni.
In qualsiasi stagione portava uno scialle da indiana, appuntato sulla schiena con una spilla, una cuffia che le nascondeva i capelli, calze grigie, una sottana rossa e sopra la camicetta un grembiule a pettorina, come le infermiere di ospedale.
Aveva il viso magro e la voce acuta. A venticinque anni ne dimostrava quaranta. Dopo i cinquanta non dimostrò più nessuna età; e sempre silenziosa, la figura dritta, il gesto misurato, sembrava una donna di legno che funzionasse meccanicamente.
Anche lei, come ogni altra, aveva avuto la sua storia d'amore. Suo padre, un muratore, si era ammazzato cadendo da una impalcatura.
Poi le morì la madre, le sorelle si dispersero, un fattore la prese con sé, e bambina com'era la mise a badare alle mucche nei campi. Sotto gli stracci tremava tutta, sdraiata bocconi beveva l'acqua delle pozze, per un nonnulla veniva picchiata e infine venne cacciata per un furto di trenta soldi che non aveva commesso. Passò a un altro podere, le furono affidati i lavori del cortile, e poiché era ben vista dai padroni, i compagni ne erano gelosi.
Una sera d'agosto (aveva allora diciotto anni) la trascinarono alla festa di Colleville. Ne fu subito stordita, confusa dal baccano dei suonatori, dalle luci sugli alberi, dai costumi multicolori, dalle trine, dalle croci d'oro, da quella folla che saltava tutta insieme. Se ne stava timidamente in disparte, quando un giovanotto dall'aspetto benestante e che fumava la pipa con i gomiti sul timone di un carro, le si avvicinò per invitarla a ballare. Le pagò del sidro, del caffè, un po' di schiacciata e un fazzoletto da collo. Poi, immaginando che lei se lo aspettasse, le offrì di riaccompagnarla. Sul bordo di un campo di avena la gettò brutalmente a terra. Lei ebbe paura e si mise a gridare. Lui si allontanò.
Un'altra sera, sulla strada di Beaumont, Felicita volle sorpassare un gran carro di fieno che procedeva lentamente, e nello sfiorarne le ruote riconobbe Teodoro.
Le si rivolse con aria tranquilla, dicendo che bisognava perdonare tutto perché era stata "colpa del bere".
Lei non seppe che rispondere e aveva voglia di scappare.
Subito lui si mise a parlare dei raccolti e dei notabili del comune, del perché suo padre aveva abbandonato Colleville per il podere degli Ecots, e così ora erano vicini. "Ah!" fece lei. Egli aggiunse che volevano ammogliarlo. Ma lui non aveva fretta e aspettava una donna di suo gradimento. Lei chinò la testa. Al che lui le chiese se non pensava al matrimonio. Lei replicò sorridendo che era brutto burlarsi degli altri. "Ma no, ve lo giuro!" e con il braccio sinistro le cinse la vita; lei camminava sorretta dalla sua stretta. Rallentarono. Il vento era tiepido, le stelle brillavano, l'enorme carico di fieno oscillava davanti a loro, e i quattro cavalli, strascicando il passo, alzavano polvere. Poi, senza comando, svoltarono a destra. Lui l'abbracciò un'altra volta. Lei scomparve nell'ombra.
La settimana dopo Teodoro ottenne da lei degli appuntamenti.
S'incontravano in fondo ai cortili, dietro un muro, sotto un albero isolato. Lei non era innocente come le signorine, gli animali l'avevano istruita; ma la ragione e l'istinto dell'onore le impedirono di cedere. Questa resistenza esasperò l'amore di Teodoro, così che per soddisfarlo (o forse senza malizia) le propose di sposarlo. Lei stentava a crederci. Lui fece grandi giuramenti.
Poco dopo le confessò una cosa spiacevole: i suoi genitori, alla chiamata alle armi dell'anno precedente, avevano pagato un uomo affinché lo sostituisse (l); ma da un giorno all'altro avrebbero potuto richiamarlo, e questo pensiero lo terrorizzava. Una simile vigliaccheria fu per Felicita una prova di affetto; il suo raddoppiò. Scappava di notte, e giunta all'appuntamento, Teodoro la torturava con le sue apprensioni e le sue richieste.
Le disse, infine, che sarebbe andato lui stesso alla Prefettura ad informarsi e che gliene avrebbe parlato la domenica successiva tra le undici e mezzanotte.
Giunto il momento, lei corse dall'innamorato.
Al suo posto trovò un suo amico. Le comunicò che non doveva più rivederlo. Per sfuggire alla coscrizione, Teodoro aveva sposato una donna anziana e ricchissima, la signora Lehoussais, di Toucques.
Fu una sofferenza tremenda. Si gettò a terra, gridò, invocò il buon Dio, e gemette tutta sola nei campi fino al sorgere del sole.
Poi tornò al podere e annunciò la sua intenzione di andarsene.
Alla fine del mese, avuto quello che le spettava, raccolse le sue poche cose in un fazzoletto e andò a Pont-l'Evêque.
Davanti alla locanda si rivolse a una borghese che portava un cappello di vedova e che era proprio in cerca di una cuoca. La ragazza non sapeva fare gran che, ma sembrava avere tanta buona volontà e così poche pretese che la signora Aubain finì col dire:
"Va bene, vi prendo!".
Un quarto d'ora dopo, Felicita era già sistemata in casa della signora. All'inizio visse in una specie di agitazione provocatale dal "genere di casa" e dal ricordo del "Signore" che aleggiava su tutto. Paolo e Virginia, l'uno di sette anni, l'altra appena di quattro, le sembravano fatti di un materiale prezioso; se li portava sulla schiena a cavalluccio, e la signora Aubain le proibì di baciarli ogni momento, cosa che la mortificò. Eppure si sentiva felice. La dolcezza dell'ambiente aveva dissolto la sua tristezza.
Tutti i giovedì, assidui amici di casa venivano per una partita di "boston". Felicita preparava in anticipo le carte e gli scaldini.
Arrivavano alle otto precise e si congedavano prima del tocco delle undici.
Ogni lunedì mattina, il rigattiere che abitava in fondo al viale stendeva per terra le sue cianfrusaglie di ferro. Poi la città si riempiva di un brusio di voci, alle quali si mescolavano nitriti di cavalli, belati di agnelli, grugniti di maiali e il rumore secco dei carretti nella strada. Verso mezzogiorno, all'ora di punta del mercato, si vedeva comparire sulla soglia un vecchio contadino di alta statura, il berretto all'indietro e il naso adunco. Era Robelin, il fattore di Geffosses. Poco dopo era la volta di Liébard, il fattore di Toucques, piccolo, paonazzo, obeso, in giubba grigia e gambali con speroni.
Tutti e due offrivano alla padrona galline e formaggi. Felicita immancabilmente sventava le loro astuzie; ed essi se ne andavano pieni di considerazione per lei.
Di tanto in tanto la signora Aubain riceveva la visita del marchese di Gremanville, un suo zio rovinato dai vizi che viveva a Falaise sull'ultimo lembo delle sue terre. Si presentava sempre all'ora di pranzo, con un orribile barboncino che imbrattava con le sue zampe tutti i mobili. Nonostante si sforzasse di sembrare un gentiluomo al punto da sollevare il cappello ogni volta che diceva: "Il mio defunto padre", l'abitudine aveva il sopravvento, si riempiva un bicchiere dopo l'altro e si lasciava sfuggire delle volgarità. Felicita lo spingeva fuori con garbo: "Per oggi basta, signor di Gremanville! Alla prossima volta!". E richiudeva la porta.
La apriva invece con piacere davanti al signor Bourais, un ex procuratore. La sua cravatta bianca e la calvizie, lo jabot della camicia, l'ampia redingote scura, il suo modo di fiutare il tabacco curvando il braccio, tutta la sua persona le procurava quel turbamento che ci prende alla vista di uomini straordinari.
Essendo l'amministratore delle proprietà della "Signora", si chiudeva con lei per ore e ore nello studio del "Signore". Temeva sempre di compromettersi, rispettava infinitamente la magistratura e aveva qualche pretesa in fatto di latino.
Per istruire i bambini in modo piacevole, regalò loro un libro di geografia illustrato. Vi erano raffigurate diverse immagini del mondo, antropofagi con piume sulla testa, una scimmia che rapiva una ragazza, beduini nel deserto, una balena arpionata, eccetera.
Paolo spiegò a Felicita le figure. E fu tutta la sua istruzione.
Quella dei bambini era affidata a Guyot, un povero diavolo impiegato al municipio, famoso per la bella scrittura, e che affilava il temperino sugli stivali.
Quando il tempo era bello, andavano di buon'ora al podere di Geffosses.
L'aia è in pendenza, la casa nel mezzo; e il mare, in lontananza, appare come una macchia grigia.
Felicita tirava fuori dalla sporta delle fette di carne fredda e facevano colazione in un appartamento attiguo al caseificio. Era tutto ciò che rimaneva di una villetta di campagna, ormai scomparsa. La carta da parati a brandelli tremava alle correnti d'aria. La signora Aubain chinava la fronte, oppressa dai ricordi; i bambini non osavano più parlare. "Su giocate!" diceva, e loro scappavano via.
Paolo saliva sul fienile, acchiappava uccelli, giocava a rimbalzello sullo stagno, o picchiava con un bastone sulle grosse botti che risuonavano come tamburi.
Virginia dava da mangiare ai conigli, si lanciava a cogliere i fiordalisi e la velocità delle gambe le scopriva i calzoncini ricamati.
Una sera d'autunno ritornarono attraverso i pascoli di erba alta.
La luna al primo quarto rischiarava una parte del cielo, e la nebbia stava sospesa come una sciarpa sulle sinuosità della Toucques. Alcuni buoi distesi sull'erba osservavano tranquillamente le quattro persone passare. Nel terzo pascolo alcuni si alzarono, poi si misero in cerchio davanti a loro. "Non temete!" disse Felicita; e, mormorando una specie di cantilena, accarezzò sul dorso quello che le era più vicino; esso si girò indietro, gli altri lo imitarono. Ma appena ebbero attraversato il pascolo seguente, si levò un terribile muggito. Era un toro, che la nebbia nascondeva. Avanzò verso le due donne. La signora Aubain cominciò a correre. "No! no! più adagio!". Affrettarono il passo, comunque, mentre sentivano alle loro spalle un respiro risonante che si avvicinava. Come martelli gli zoccoli battevano l'erba del prato; ora galoppava! Felicita si girò e si mise a strappare con le mani zolle di terra da gettargli negli occhi. Il toro abbassava il muso, scuoteva le corna e tremava di furore, muggendo orribilmente. La signora Aubain, sul limite del pascolo con i due bambini, cercava smarrita il modo di superare la scarpata.
Felicita indietreggiava sempre davanti al toro, e continuamente gli gettava zolle d'erba che lo accecavano, gridando: "Fate presto! Fate presto!".
La signora Aubain scese nel fossato, spinse Virginia, poi Paolo, cadde più volte nel tentativo di superare la sponda e a forza di coraggio vi riuscì.
Il toro aveva stretto Felicita contro uno steccato; la sua bava le schizzava sulla faccia, un secondo di più e l'avrebbe sventrata.
Fece in tempo a lasciarsi scivolare tra due sbarre, e la grossa bestia, sorpresa, si fermò.
Per molti anni questo avvenimento fu un argomento di conversazione a Pont-l'Evêque. Felicita non se ne inorgoglì, non sospettando neppure di aver fatto qualcosa di eroico.
Virginia la impegnava totalmente, perché quello spavento le procurò un disturbo nervoso, e Poupart, il medico, consigliò i bagni di mare a Trouville.
A quei tempi non erano frequentati. La signora Aubain si informò, consultò Bourais, fece i preparativi come per un lungo viaggio. I bagagli furono spediti, alla vigilia della partenza, con il carretto di Liébard. Egli arrivò il giorno dopo con due cavalli, uno dei quali aveva una sella da donna, con una spalliera di velluto, e sulla groppa dell'altro un mantello arrotolato faceva da sedile. La signora Aubain vi montò su, dietro di lui. Felicita prese con sé Virginia, e Paolo inforcò l'asino del signor Lechaptois, prestato a patto che di averne grande cura.
La strada era così brutta che gli otto chilometri richiesero due ore. I cavalli affondavano nel fango fino ai garretti, e per uscirne facevano movimenti bruschi con i fianchi; inciampavano nei solchi lasciati dai carri; a volte erano costretti a saltare. In certi punti la cavalla di Liébard si fermava improvvisamente. Egli aspettava pazientemente che riprendesse il cammino, e parlava delle persone le cui proprietà costeggiavano la strada, aggiungendo delle riflessioni morali alle loro storie. Così, nel centro di Toucques, mentre passavano sotto alcune finestre ornate di gerani, disse, con una alzata di spalle: "Eccone poi una, la signora Lehoussais, che invece di prendersi un giovane...".
Felicita non udì il seguito; i cavalli trottavano, l'asino galoppava; tutti infilarono un sentiero, una staccionata si aprì, comparvero due ragazzi; e la comitiva smontò davanti allo scolo del letamaio proprio sulla soglia di casa.
Alla vista della padrona, la vecchia Liébard si prodigò in manifestazioni di gioia. Le servì un pranzo in cui c'erano una lombata, trippa, sanguinaccio, pasticcio di pollo, sidro frizzante, una crostata di frutta cotta e prugne sotto spirito, accompagnando il tutto con molti complimenti alla signora che appariva in buona salute, alla signorina che si era fatta "splendida", al signorino Paolo straordinariamente "in forze", senza dimenticare i nonni defunti che i Liébard avevano conosciuto, essendo a servizio della famiglia da parecchie generazioni. La casa colonica aveva, come loro, un qualcosa di troppo antico. Le travi del soffitto erano tarlate, i muri anneriti dal fumo, i vetri grigi di polvere. Una scansia di quercia reggeva utensili di ogni tipo, brocche, piatti, scodelle di stagno, tagliole per lupi, gioghi per montoni; un clistere enorme fece ridere i bambini. Nelle tre aie non c'era un solo albero che non avesse dei funghi alla base o un ciuffo di vischio tra i rami. Il vento ne aveva abbattuti parecchi. Avevano germogliato nel tronco rimasto e tutti si piegavano sotto il peso dei frutti. I tetti di paglia di spessore diseguale, simili a velluto scuro, resistevano alle più violente burrasche. La rimessa però cadeva a pezzi; la signora Aubain disse che avrebbe provveduto e ordinò di sellare nuovamente le bestie.
Servì un'altra mezz'ora prima di arrivare a Trouville. La piccola carovana mise piede a terra per superare gli "Ecores"; era una scogliera a picco sulle barche; e dopo tre minuti, alla fine del molo, entravano nel cortile dell'"Agnello d'oro", da mamma David.
Virginia fin dai primi giorni si sentì meno debole, merito del cambiamento d'aria e dell'azione dei bagni. In mancanza di un costume, li faceva in camicia; e la domestica la rivestiva in un capanno di doganieri che serviva ai bagnanti.
Nel pomeriggio andavano con l'asino oltre le "Rocce Nere" dalla parte di Hennequeville. All'inizio il sentiero saliva tra terreni ondulati come il manto di un parco, poi arrivava ad una spianata, dove si alternavano pascoli e campi arati. Ai margini del sentiero, nel groviglio dei rovi, crescevano agrifogli; qua e là, un grande albero morto con i suoi rami disegnava zig zag nell'aria azzurra.
Spesso si riposavano su un prato, a sinistra Dauville, Le Havre a destra e di fronte il mare aperto. Il mare scintillava per il sole, liscio come uno specchio, e talmente calmo che appena se ne sentiva il mormorio; alcuni passeri nascosti pigolavano e l'immensa volta del cielo ricopriva ogni cosa. La signora Aubain, seduta, attendeva al suo lavoro di cucito; accanto a lei Virginia intrecciava giunchi; Felicita sarchiava fiori di lavanda; Paolo, che s'annoiava, voleva partire.
Altre volte, oltrepassata la Toucques in barca, cercavano conchiglie. La bassa marea lasciava affiorare ricci, asterie, meduse; e i bambini correvano per afferrare i fiocchi di schiuma che il vento portava via. Le onde stanche, cadendo sulla sabbia, si srotolavano lungo la spiaggia che si stendeva a perdita d'occhio, ma dalla parte di terra aveva come limite le dune che la separavano dal "Marais", un grande prato a forma d'ippodromo.
Quando tornavano da quella parte, Trouville, laggiù, sulle pendici della collina, diventava ad ogni passo più grande, e con tutte le sue case diseguali sembrava aprirsi in un allegro disordine.
Nei giorni in cui faceva troppo caldo, non uscivano dalla camera.
L'accecante chiarore di fuori disegnava strisce di luce tra le stecche delle persiane. Nessun rumore in paese. Giù, sul marciapiede, neppure un'anima. Questo silenzio diffuso accresceva la tranquillità delle cose. Lontano, i mazzuoli dei calafati tamponavano le carene, e una brezza pesante spargeva intorno l'odore del catrame.
Lo svago principale era il ritorno delle barche. Appena avevano superato i gravitelli cominciavano a manovrare. Le vele scendevano ai due terzi degli alberi; e col trinchetto gonfio come un pallone, avanzavano, scivolando nello sciabordio delle onde, fino in mezzo al porto dove di colpo veniva affondata l'ancora. Poi le barche ormeggiavano lungo la banchina. I marinai gettavano oltre la murata i pesci guizzanti; una fila di carretti li attendeva e le donne con le cuffie di cotone si precipitavano a prendere le ceste e ad abbracciare i loro uomini.
Una di queste, un giorno, si avvicinò a Felicita, che poco dopo rientrò in camera tutta contenta. Aveva ritrovato una delle sue sorelle; e Nastasia Barette, maritata Leroux, apparve, tenendo un poppante al seno, un altro bambino con la mano destra, e a sinistra un piccolo mozzo con i pugni sui fianchi e il berretto di traverso.
Passato un quarto d'ora, la signora Aubain la congedò.
Le si vedeva sempre nei pressi della cucina, o durante la passeggiata. Il marito non si faceva vedere.
Felicita si affezionò. Comprò loro una coperta, delle camicie, un fornello; era chiaro che la sfruttavano. Questa debolezza irritava la signora Aubain, che d'altronde non gradiva la familiarità del nipote che dava del tu a suo figlio; e siccome Virginia tossiva e la stagione peggiorava, fece ritorno a Pont-l'Evêque. Il signor Bourais la consigliò sulla scelta di un pensionato.
Quello di Caen passava per essere il migliore. Vi mandarono Paolo, che fece i suoi bravi saluti, contento di andare a vivere in una casa dove avrebbe avuto dei compagni.
La signora Aubain si rassegnò alla lontananza del figlio, dato che era indispensabile. Virginia ci pensò sempre meno. Felicita rimpiangeva il suo baccano. Ma venne a distrarla una occupazione; a cominciare da Natale accompagnò ogni giorno la bambina al catechismo.
Dopo aver fatto una genuflessione sulla soglia, avanzava sotto l'alta navata fra la doppia fila di sedie, apriva il banco della signora Aubain, si sedeva e volgeva attorno lo sguardo.
I maschi a destra, le femmine a sinistra, riempivano gli stalli del coro; il curato stava in piedi accanto al leggio; su una vetrata dell'abside lo Spirito Santo sovrastava la Vergine; un'altra vetrata la mostrava inginocchiata davanti a Gesù Bambino, e, dietro il tabernacolo, un gruppo ligneo rappresentava San Michele che atterra il drago.
Il prete cominciò con un riepilogo della Storia Sacra. Felicita credeva di vedere il paradiso, il diluvio, la torre di Babele, città in fiamme, interi popoli sterminati, idoli rovesciati; quell'incantamento impresse in lei il rispetto per l'Altissimo e la paura della sua ira. Infine pianse ascoltando la Passione.
Perché l'avevano crocifisso, lui che amava i bambini, sfamava le folle, guariva i ciechi e aveva voluto, per amore, nascere tra i poveri, sullo strame di una stalla? Le semine, le mietiture, i frantoi, tutte queste cose familiari di cui parla il Vangelo, facevano parte della sua vita. Il passaggio di Dio le aveva santificate; e lei amò gli agnelli più teneramente, per amore dell'Agnello; e le colombe, a causa dello Spirito Santo.
Faceva fatica ad immaginare il suo aspetto; perché non era solamente un uccello, ma anche fuoco, e a volte un alito. Forse è la sua luce che la notte aleggia ai margini delle paludi, il suo respiro che muove le nuvole, la sua voce che dona armonia alle campane; rimaneva in uno stato di adorazione, godendo del fresco dei muri e della tranquillità della chiesa.
Quanto ai dogmi, non ne capiva nulla, non cercò nemmeno di capire.
Il curato parlava, i bambini ripetevano e lei finiva con l'addormentarsi; si svegliava di colpo quando i bambini andandosene picchiavano gli zoccoli sul pavimento.
Fu così, a forza di sentirlo ripetere, che imparò il catechismo, perché la sua educazione religiosa era stata trascurata in gioventù; e da quel momento imitò tutte le pratiche di Virginia, digiunava con lei, si confessava con lei. Per il Corpus Domini fecero insieme un altarino.
La prima comunione la tormentava in anticipo. Si mise in ansia per le scarpe, per il rosario, per il libro, per i guanti. E con che tremore aiutò la madre a vestirla!
Durante tutta la messa provò un senso d'angoscia. Il signor Bourais le nascondeva un lato del coro; ma proprio davanti a lei la schiera delle fanciulle con le corone bianche sui veli abbassati era come un campo di neve; riconosceva da lontano la cara piccola dal collo più esile e dall'atteggiamento raccolto.
Suonò la campanella. Le teste si abbassarono, si fece silenzio.
All'esplodere dell'organo i cantori e la folla intonarono l'Agnus Dei; poi iniziò il corteo dei ragazzi; e, dopo di loro, si alzarono le bambine. Passo passo, le mani giunte, camminavano verso l'altare tutto illuminato, si inginocchiavano sul primo gradino, ricevevano l'ostia una dopo l'altra, e nello stesso ordine ritornavano ai loro inginocchiatoi. Quando fu la volta di Virginia, Felicita si sporse per vederla; e con l'immaginazione che dà l'autentica tenerezza, le sembrò di essere lei stessa quella bambina, il viso di lei diventava il suo, il suo abito la rivestiva, il suo cuore le batteva in petto; e al momento di aprire la bocca, chiudendo gli occhi, quasi svenne.
Il giorno dopo, di buon'ora, si presentò in sacrestia per ricevere la comunione dal curato. L'accolse con devozione, ma non provò la stessa delizia.
La signora Aubain voleva fare di sua figlia una persona dall'educazione completa; e, siccome Guyot non poteva insegnarle né l'inglese né la musica, decise di metterla in collegio dalle Orsoline di Honfleur.
La bambina non protestò. Felicita sospirava trovando la signora insensibile. Infine concluse che la padrona, forse, aveva ragione.
Queste cose superavano la sua competenza. Poi, un giorno, una vecchia carrozza si fermò davanti alla porta; ne discese una suora che chiese della signorina. Felicita caricò i bagagli sull'imperiale, fece molte raccomandazioni al cocchiere, mise nel baule sei vasetti di marmellata e una dozzina di pere, con un mazzolino di viole.
All'ultimo momento Virginia fu presa da un groppo di singhiozzi; abbracciò la madre che la baciò sulla fronte ripetendo: "Su!
coraggio! coraggio!". Il predellino fu rialzato, la carrozza partì.
Allora la signora Aubain ebbe un malore, e la sera tutti i suoi amici, la famiglia Lormeau, la signora Lechaptois, le immancabili signorine Rochefeuille, il signore di Houppeville e Bourais si presentarono per consolarla.
Il distacco dalla figlia le fu all'inizio molto doloroso. Ma tre volte alla settimana riceveva da lei una lettera, gli altri giorni le scriveva, passeggiava in giardino, leggeva un po', e così riempiva il vuoto delle ore.
Al mattino, Felicita, per abitudine, entrava nella stanza di Virginia e fissava le pareti. Le mancava molto non poterle più pettinare i capelli, allacciarle gli stivaletti, rimboccarle le coperte, e non vedere più continuamente la sua figurina, non tenerla più per mano quando uscivano insieme. Nella sua inoperosità provò a fare merletti. Ma le sue dita troppo pesanti rompevano i fili; non combinava più niente, aveva perso il sonno; era, come diceva lei, "minata".
Per "distrarsi" chiese il permesso di ricevere suo nipote Vittorio. Arrivava la domenica dopo la messa, le guance rosee, il petto nudo, odorando della campagna che aveva attraversato. Gli apparecchiava subito la tavola. Pranzavano l'uno di fronte all'altra; e mentre lei mangiava il meno possibile per risparmiare sulla spesa, rimpinzava lui così tanto che finiva per addormentarsi. Al primo rintocco del vespro lo svegliava, gli spazzolava i pantaloni, gli annodava la cravatta, e andava in chiesa, appoggiata al suo braccio con orgoglio materno.
I genitori lo incaricavano sempre di portare via qualcosa, o un pacchetto di zucchero, o un pezzo di sapone, o dell'acquavite, a volte persino dei soldi. Le dava i suoi abiti sdruciti da raccomodare; e lei accettava quell'incarico, felice di una occasione che lo avrebbe costretto a ritornare.
Nel mese d'agosto suo padre lo portò con sé al cabotaggio.
Era il periodo delle vacanze. L'arrivo dei bambini la consolò. Ma Paolo si stava facendo capriccioso, e Virginia non aveva più l'età da poterle dare del tu, e questo creava un imbarazzo, una barriera fra loro.
Vittorio andò in seguito a Morlaix, a Dunkerque e a Brighton, e al ritorno da ogni viaggio le portava un regalo. La prima volta, una scatola fatta di conchiglie; la seconda una tazza da caffè; la terza un grosso pupazzo di panpepato. Si stava facendo bello, era ben fatto, un cenno di baffi, occhi buoni e sinceri, e un berrettino di cuoio portato all'indietro come un timoniere. La divertiva raccontandole storie piene di termini marinareschi.
Un lunedì, 14 luglio 1819 (non dimenticò la data), Vittorio annunciò che era stato arruolato nel lungo corso, e che nella nottata del mercoledì con il battello di Honfleur avrebbe raggiunto la sua goletta che salpava per Le Havre. Sarebbe stato via forse due anni.
La prospettiva di una così lunga assenza rattristò Felicita; e per salutarlo ancora una volta, il mercoledì sera, dopo la cena della signora, infilò le galosce, e divorò le quattro leghe che separano Pont-l'Evêque da Honfleur.
Quando fu davanti al Calvario, invece di prendere a sinistra, prese a destra, si smarrì nei cantieri, ritornò sui suoi passi; le persone alle quali si rivolse le consigliarono di affrettarsi.
Fece il giro del bacino gremito di navi, urtò alcune gomene; poi il terreno si abbassò, alcune luci si incrociavano, e pensò di essere impazzita quando vide dei cavalli in cielo.
Sul bordo della banchina altri cavalli nitrivano, spaventati dal mare. Un paranco li sollevava, poi li calava in un battello dove i passeggeri si urtavano tra barili di sidro, ceste di formaggio e sacchi di grano; si sentivano chiocciare delle galline, il capitano bestemmiava; e un mozzo se ne stava appoggiato con i gomiti alla gru di capone, indifferente a tutto quello che succedeva. Felicita, che non l'aveva riconosciuto, gridava:
"Vittorio!"; lui alzò la testa; lei fece per gettarglisi incontro, ma di colpo la scaletta fu ritirata.
La nave accompagnata da donne che cantavano, uscì dal porto. La sua ossatura scricchiolava, le onde pesanti ne spazzavano la prua.
La vela aveva virato, e non si vedeva più nessuno, e sul mare inargentato dalla luna era come una macchia nera sempre più pallida; sprofondò, scomparve.
Felicita, passando vicino al Calvario, volle raccomandare a Dio ciò che aveva di più caro; e pregò a lungo, in piedi, il viso bagnato di pianto, gli occhi rivolti verso le nuvole. La città dormiva, qualche doganiere passeggiava; e l'acqua cadeva senza sosta dai fori della chiusa, con un rumore di torrente. Suonarono le due.
Il parlatoio non apriva prima di giorno. Sicuramente un ritardo avrebbe contrariato la signora; così, nonostante il desiderio di abbracciare l'altra creatura, se ne andò via. Le ragazze della locanda stavano svegliandosi mentre lei entrava a Pont-l'Evêque.
Quel povero figliolo per lunghi mesi sarebbe stato dunque sballottato sulle onde! I suoi precedenti viaggi non l'avevano spaventata. Dall'Inghilterra e dalla Bretagna, si ritorna; ma l'America, le Colonie, le Isole; quelle erano davvero perdute in una regione incerta, all'altro capo del mondo.
Da allora Felicita pensò soltanto a suo nipote. Nei giorni di sole, si tormentava per la sete; quando c'era un temporale temeva per lui il fulmine. Ascoltando il vento che brontolava nel camino e portava via le tegole d'ardesia, lo vedeva sbattuto da quella stessa tempesta, in cima all'albero spezzato, il corpo teso all'indietro, sotto una coltre di schiuma; oppure - ricordo del libro di geografia - era mangiato dai selvaggi, catturato dalle scimmie in un bosco, morente su una spiaggia deserta. Ma non parlava mai delle sue paure.
La signora Aubain ne aveva altre per sua figlia.
Le suorine la trovavano affettuosa, ma delicata. La minima emozione la prostrava. Dovette smettere con il pianoforte.
Sua madre esigeva dal convento una corrispondenza regolare. Una mattina che il postino non era passato, si spazientì; andava su e giù per la sala, dalla poltrona alla finestra. Era veramente strano! da quattro giorni senza notizie!
Perché si consolasse con quanto accadeva a lei, Felicita le disse:
"Signora, sono già sei mesi che io non ne ricevo!...".
"E da chi?...".
La serva rispose sommessamente:
"Ma... da mio nipote!".
"Ah! vostro nipote!". E, alzando le spalle, la signora Aubain riprese il suo andirivieni, come per dire: "Chi ci pensava?... E poi, che me ne importa, un mozzo, un pezzente, bella roba!...
mentre mia figlia... volete mettere!...".
Felicita, benché cresciuta ruvidamente, si indignò contro la signora, ma poi dimenticò.
Le sembrava naturale, trattandosi della piccola, perdere la testa.
I due ragazzi avevano la stessa importanza; un vincolo nel suo cuore li univa e i loro destini dovevano essere gli stessi.
Il farmacista le fece sapere che la nave di Vittorio era giunta all'Avana. Aveva letto la notizia su un giornale.
Per via dei sigari, lei immaginava l'Avana come un paese dove non si faceva altro che fumare, e Vittorio girava tra i negri in una nube di fumo. Si poteva "in caso di bisogno" ritornare per via di terra? Quanto era distante da Pont-l'Evêque? Per saperlo lo chiese al signor Bourais.
Egli andò a prendere l'atlante, poi cominciò a spiegare le longitudini; aveva un sorrisetto saccente davanti allo stupore di Felicita. Finalmente, con il porta-matita, indicò tra le frastagliature di una macchia ovale un punto nero, impercettibile, dicendo: "Ecco qui". Lei si china sulla carta; quel reticolo di linee colorate le stancava la vista e non le diceva niente.
Bourais la sollecitava a chiedergli cosa la rendeva così perplessa, e allora lei lo pregò di farle vedere la casa dove abitava Vittorio. Bourais alzò le braccia, starnutì e scoppiò in una grande risata; un tale candore lo metteva di buon umore.
Felicita non ne capiva il motivo, lei che forse si aspettava addirittura di vedere il ritratto del nipote, tanto era limitata la sua intelligenza.
Dopo quindici giorni Liébard, all'ora del mercato come al solito, entrò in cucina e le consegnò una lettera inviatale dal cognato.
Siccome nessuno dei due sapeva leggere, lei si rivolse alla padrona.
La signora Aubain, che stava contando le maglie di un lavoro ai ferri, lo mise da parte, aprì la lettera, trasalì e, con voce bassa e lo sguardo turbato:
"E' una disgrazia... che vi comunicano. Vostro nipote...".
Era morto. Non c'era scritto nient'altro.
Felicita cadde su una sedia, appoggiò il capo alla parete e chiuse le palpebre che di colpo diventarono rosee.
Poi, la fronte china, le mani penzoloni, l'occhio fisso, ripeteva a tratti:
"Povero figliolo! povero figliolo!".
Liébard la guardava sospirando. La signora Aubain tremava un po'.
Le suggerì di andare a trovare sua sorella a Trouville.
Felicita rispose, con un gesto, che non ne aveva bisogno.
Vi fu silenzio. Il buon Liébard pensò che fosse conveniente andarsene.
Allora lei disse:
"Non gliene importa mica, a loro!".
Il capo le ricadde; e meccanicamente alzava, di tanto in tanto, i lunghi ferri da calza sul tavolo da lavoro.
Nel cortile passarono delle donne con un mastello da cui sgocciolava la biancheria.
Scorgendole attraverso la vetrata, si ricordò del bucato; l'aveva fatto bollire il giorno prima, ora bisognava sciacquarlo; e uscì di casa.
Il suo asse e la sua tinozza erano sulla riva della Toucques.
Gettò sulla sponda un mucchio di camicie, si rimboccò le maniche, prese il battitoio; e i forti colpi si sentivano nei giardini accanto. I campi erano vuoti, il vento agitava il fiume, sul fondo lunghe erbe fluttuavano come chiome di cadaveri galleggianti nell'acqua. Tratteneva il dolore e fino a sera fu molto forte; ma, una volta in camera, vi dette libero sfogo, bocconi sul materasso, il viso nel cuscino e i pugni contro le tempie.
Molto più tardi, dallo stesso capitano di Vittorio, conobbe le circostanze della sua fine. Lo avevano salassato troppo all'ospedale, a causa della febbre gialla. Quattro medici insieme lo tenevano fermo. Era morto immediatamente, e il capo aveva detto:
"Bah! ancora un altro!".
I suoi genitori lo avevano sempre trattato barbaramente. Lei preferì non rivederli; loro non fecero nessun tentativo, per dimenticanza o per insensibilità da miserabili.
Virginia deperiva.
Difficoltà di respiro, tosse, una febbriciattola e delle venature agli zigomi rivelavano una malattia in profondità. Il signor Poupart aveva consigliato un soggiorno in Provenza. La signora Aubain fu d'accordo e avrebbe ripreso immediatamente la figlia in casa se non fosse stato per il clima di Pont-l'Evêque.
Prese accordi con un noleggiatore di carrozze, che ogni martedì la portava al convento. Nel giardino c'è una terrazza da cui si intravede la Senna. Virginia vi passeggiava appoggiandosi al suo braccio, sulle foglie cadute dei pampini. A volte il sole sbucando dalle nubi la costringeva ad abbassare le palpebre mentre guardava le vele lontane e l'intero orizzonte, dal castello di Tancarville fino ai fari di Le Havre. Poi si riposavano sotto il pergolato.
Sua madre si era procurata una botticella di ottimo vino di Malaga; e ridendo all'idea di ubriacarsi ne beveva due dita, non di più.
Le forze ritornarono. L'autunno passò dolcemente. Felicita rassicurava la signora Aubain. Ma una sera, al ritorno da una commissione nei dintorni, vide alla porta il calesse di Poupart; lui era in anticamera. La signora Aubain si annodava il cappello.
"Datemi lo scaldino, la borsa e i guanti, su, presto!".
Virginia aveva una congestione polmonare; forse era troppo tardi.
"Non ancora!" disse il medico; e tutti e due salirono in carrozza, sotto i fiocchi di neve che turbinavano. Stava per far buio. Era molto freddo.
Felicita si precipitò in chiesa ad accendere una candela. Poi corse dietro al calesse, e lo raggiunse dopo un'ora, vi saltò su agilmente da dietro, tenendosi ai cordoni, quando le venne un pensiero: "Il cortile non era chiuso! e se fossero entrati i ladri?". E scese.
Il giorno dopo, all'alba, si recò dal dottore. Egli era rientrato e ripartito per la campagna. Allora lei restò alla locanda, pensando che qualcuno le avrebbe portato una lettera. Infine, all'alba, prese la diligenza di Lisieux.
Il convento si trovava in fondo ad una stradina scoscesa. A metà strada udì dei suoni strani, una campana a morto. "E' per qualcun altro" pensò. Felicita batté forte il martello della porta.
Dopo parecchi minuti si sentì uno strascicare di ciabatte, la porta si dischiuse, e apparve una monaca.
La suora con aria compunta disse che "era appena spirata". In quel momento la campana di Saint-Léonard fece sentire di nuovo i suoi rintocchi.
Felicita raggiunse il secondo piano.
Dalla soglia della camera vide Virginia stesa supina, le mani giunte, la bocca aperta, il capo all'indietro sotto una croce nera inclinata verso di lei, fra tende immobili, meno pallide del suo viso. La signora Aubain stava ai piedi del letto e l'abbracciava, gemendo come se agonizzasse. La superiora era in piedi, a destra.
Tre candelieri sul cassettone gettavano riflessi rossi e la nebbia sbiancava i vetri. Alcune suore portarono via la signora Aubain.
Per due notti Felicita non lasciò la morta. Ripeteva le stesse preghiere, gettava acqua benedetta sulle lenzuola; tornava a sedere e la contemplava. Al termine della prima veglia notò che il viso era ingiallito, le labbra erano diventate cianotiche, il naso si era affilato, gli occhi si erano infossati. Glieli baciò più volte, e non si sarebbe gran che meravigliata se Virginia li avesse riaperti; per anime come la sua il soprannaturale era una cosa semplice. La lavò, la avvolse nel sudario, la depose nella bara, le mise una corona, le sciolse i capelli. Erano biondi e straordinariamente lunghi per la sua età. Felicita ne tagliò una grossa ciocca, se ne nascose una metà in seno, decisa a non separarsene mai.
Il corpo fu riportato a Pont-l'Evêque, secondo il desiderio della signora Aubain, che seguiva il feretro in una carrozza chiusa.
Dopo la messa, ci vollero ancora tre quarti d'ora per arrivare al cimitero. Paolo camminava davanti e singhiozzava. Il signor Bourais era dietro; seguivano i notabili, le donne avvolte in scialli neri, e Felicita. Pensava a suo nipote, e, non avendo potuto rendergli simili onoranze, la sua tristezza aumentò, come se lo avessero seppellito con l'altra.
La disperazione della signora Aubain fu infinita.
All'inizio si rivoltò contro Dio, trovando ingiusto che le avesse preso la figlia, lei, che non aveva mai fatto nulla di male e con l'anima così pura! Ma no! avrebbe dovuto portarla al Sud. Altri medici l'avrebbero salvata! Si accusava, voleva raggiungerla, gridava disperata nel sonno. Un sogno soprattutto la ossessionava.
Suo marito, vestito da marinaio, tornava da un lungo viaggio, e le diceva piangendo che aveva avuto l'ordine di portare con sé Virginia. Poi si consultavano per trovare da qualche parte un nascondiglio.
Una volta, rientrò dal giardino sconvolta. Poco prima (e indicava il luogo) le erano apparsi il padre e la figlia, l'uno accanto all'altra, e non facevano nulla, la osservavano.
Per molti mesi, rimase nella sua camera, inerte. Felicita la rimproverava con dolcezza; bisognava che si conservasse per suo figlio, e per l'altra, in ricordo "di lei".
"Lei?" ripeteva la signora Aubain, come se si svegliasse. "Ah!
sì!... sì!... Non la dimenticate voi!". Allusione al cimitero, che le era stato scrupolosamente vietato.
Felicita ci andava tutti i giorni.
Alle quattro precise passava lungo le case, saliva il pendio, apriva il cancello, e arrivava davanti alla tomba di Virginia. Era una piccola colonna di marmo rosa, con in basso una lapide, e intorno delle catene che recintavano un giardinetto. Le aiuole sparivano sotto una coltre di fiori. Felicita ne bagnava le foglie, cambiava la sabbia, si metteva in ginocchio per lavorare meglio la terra. Quando poté andarvi, la signora Aubain provò un sollievo, una specie di consolazione.
Poi gli anni passarono, tutti uguali e senza altri avvenimenti che il ripetersi delle feste maggiori: Pasqua, l'Assunzione, Ognissanti. Avvenimenti domestici scandivano i momenti di cui più tardi ci si sarebbe ricordati. Così, nel 1825 due operai imbiancarono l'anticamera; nel 1827 una parte del tetto, cadendo nel cortile, per poco non uccise un uomo. Nell'estate del 1828, toccò alla Signora offrire il pane benedetto; Bourais, nello stesso periodo, si assentò misteriosamente; e le vecchie conoscenze a poco a poco se ne andarono: Guyot, Liébard, la signora Lechaptois, Robelin, lo zio Gremanville, paralizzato da molto tempo.
Una notte, il conducente del postale portò a Pont-l'Evêque la notizia della Rivoluzione di Luglio. Pochi giorni dopo fu nominato un nuovo sottoprefetto: il barone di Larsonnière, ex console in America, e che aveva con sé, oltre la moglie, la cognata con tre signorine già grandicelle. Si potevano vedere in giardino, nei loro grembiuli ondeggianti; possedevano un negro e un pappagallo.
La signora Aubain ricevette una loro visita, che non mancò di ricambiare. Appena apparivano da lontano, Felicita correva ad avvisarla. Ma una sola cosa aveva il potere di scuoterla, le lettere di suo figlio. Egli non pensava a farsi una posizione, perso com'era nel mondo delle bettole. Lei gli pagava i debiti, ma lui ne faceva altri; e i sospiri della signora Aubain, mentre sferruzzava accanto alla finestra, giungevano a Felicita che girava l'arcolaio in cucina.
Passeggiavano insieme lungo il pergolato, e parlavano sempre di Virginia, chiedendosi se una certa cosa le sarebbe piaciuta, e cosa avrebbe detto in tal altra occasione.
Tutte le sue piccole cose occupavano un armadio a muro nella camera a due letti. La signora Aubain le guardava il meno possibile. Un giorno d'estate vi si rassegnò, e dall'armadio volarono fuori delle farfalle.
I suoi vestiti erano allineati sotto un piano su cui c'erano tre bambole, dei cerchietti, una cucinina, la catinella che aveva usato. Tirarono fuori anche le sottane, le calze, i fazzoletti, e li stesero sui due lettini prima di ripiegarli. Il sole illuminava quei poveri oggetti, ne mostrava le macchie e le pieghe prodotte dai movimenti del corpo. L'aria era calda e azzurra, un merlo cantava, tutto sembrava vivere in una dolcezza profonda.
Ritrovarono un cappellino di peluche dal pelo lungo, marrone; ma era tutto mangiato dalle tarme. Felicita lo chiese per sé. I loro occhi si incontrarono, si riempirono di lacrime; poi la padrona aprì le braccia, la serva vi si gettò, e si strinsero, dando sfogo al loro dolore in un bacio che le rendeva uguali.
Era la prima volta nella loro vita; la signora Aubain non era di natura espansiva. Felicita gliene fu riconoscente come per un favore, e da quel momento la amò con devozione animale e con venerazione religiosa.
La bontà del suo cuore aumentò.
Quando sentiva nella strada i tamburi di un reggimento in marcia, si metteva sulla porta con una brocca di sidro e offriva da bere ai soldati. Si prese cura dei malati di colera. Proteggeva i polacchi; e ve ne fu uno che voleva sposarla. Ma litigarono, perché un mattino, rientrando dall'Angelus, lo trovò che si era introdotto in cucina, e, preparatasi una salsetta, se la mangiava tranquillamente.
Dopo i polacchi, fu la volta di papà Colmiche, un vecchio che si diceva che avesse commesso delle atrocità nel '93. Viveva sulla riva del fiume, tra le rovine di un porcile. I monelli lo spiavano dalle fessure del muro, e gli tiravano sassi che cadevano sul suo giaciglio, dove se ne stava sdraiato squassato dal catarro, i capelli lunghissimi, gli occhi arrossati, e su un braccio una tumefazione più grossa della sua testa. Felicita gli procurò della biancheria, cercò di pulirgli quel buco in cui giaceva, sperava di sistemarlo nello stanzino del forno, senza infastidire la Signora.
Quando il bubbone scoppiò glielo medicò tutti i giorni; a volte gli portava un po' di focaccia, lo sistemava al sole su uno strato di paglia; e il povero vecchio, sbavando e tremando, la ringraziava con voce spenta, temeva che non tornasse più, tendeva le mani appena la vedeva allontanarsi. Morì; lei gli fece dire una messa per la pace della sua anima.
Quello stesso giorno le arrivò una grande felicità: all'ora di cena si presentò il negro della signora Larsonnière, con il pappagallo in gabbia, il trespolo, la catenella e il lucchetto. Un biglietto della baronessa comunicava alla signora Aubain che, essendo stato suo marito promosso ad una prefettura, partivano quella sera stessa; la pregava d'accettare quell'uccello, come ricordo e testimonianza della sua stima.
Quello già da tempo occupava la fantasia di Felicita, perché veniva dall'America, e quella parola le ricordava Vittorio, tanto che ne chiese notizie al negro. Una volta aveva persino detto:
"Quanto sarebbe felice la signora di averlo!".
Il negro aveva riferito la frase alla padrona, che non potendo portarselo appresso, se ne liberò in questo modo.
Si chiamava Lulù. Il corpo era verde, la punta delle ali rosa, la testa azzurra e il petto color oro.
Ma aveva la fastidiosa mania di mordere il trespolo, si strappava le penne, faceva sporco tutt'intorno, versava l'acqua della vaschetta. La signora Aubain, seccata, lo dette per sempre a Felicita.
Lei incominciò ad ammaestrarlo; presto ripeté: "Bel giovanotto!
Servo suo, signore! Ave Maria!". Era sistemato vicino alla porta, e molti si stupivano che non rispondesse al nome di Cocorito, dato che tutti i pappagalli si chiamano Cocorito. Lo paragonavano a un tacchino, gli davano della testa di legno, tutte pugnalate per Felicita! Curiosa ostinazione quella di Lulù, appena lo guardavano non parlava più!
Eppure gli piaceva la compagnia; infatti la domenica, quando le immancabili signorine Rochefeuille, il signor di Houppeville e i nuovi assidui: il farmacista Onfroy, il signor Varin e il capitano Mathieu giocavano a carte, lui sbatteva le ali contro i vetri, si dimenava con tale furia che era impossibile capirsi.
Sicuramente la faccia di Bourais doveva sembrargli molto buffa.
Appena lo vedeva, cominciava a ridere, a ridere con tutte le sue forze. Gli scoppi della sua voce rimbalzavano nel cortile, l'eco li ripeteva, i vicini correvano alle finestre, ridevano anche loro; e, per non essere visto dal pappagallo, il signor Bourais scivolava lungo il fiume, poi entrava dalla porta del giardino; e gli sguardi che lanciava all'uccello non erano certo teneri.
Lulù s'era preso uno scappellotto dal garzone del macellaio, essendosi permesso di ficcare la testa nella sua cesta, e da quel momento cercava sempre di beccarlo attraverso la camicia. Fabu minacciava di tirargli il collo, ma non era crudele, pur con i suoi tatuaggi sulle braccia e i grossi basettoni. Tutt'altro!
Aveva invece un debole per il pappagallo, tanto che, per allegria, voleva insegnargli delle bestemmie. Felicita, turbata da quei modi, lo mise in cucina. Gli fu tolta la catenella, ed esso girava per casa.
Quando scendeva le scale, appoggiava sui gradini la curva del becco, alzava la zampa destra, poi la sinistra; Felicita temeva che tale ginnastica finisse per stordirlo. Si ammalò, non poteva più parlare né mangiare. Sotto la lingua aveva un inspessimento come hanno a volte le galline. Lei lo guarì, strappandogli quella pellicola con le unghie. Il signor Paolo, un giorno, fece l'imprudenza di soffiargli sul muso il fumo d'un sigaro; un'altra volta che il signor Lormeau lo molestava con la punta dell'ombrello, Lulù ne afferrò il puntale; infine si smarrì.
Felicita l'aveva posato sull'erba perché si rinfrescasse; si assentò un minuto e quando tornò, niente pappagallo! Prima lo cercò nei cespugli in riva all'acqua e sui tetti, senza badare alla padrona che le gridava: "State attenta! siete matta!". Poi esplorò tutti i giardini di Pont-l'Evêque; fermava i passanti:
"Per caso, avete mica visto il mio pappagallo?". A quelli che non conoscevano il pappagallo, ne faceva la descrizione. D'un tratto, le sembrò di scorgere dietro i mulini, ai piedi della collina, una cosa verde che svolazzava. Ma in cima alla collina, nulla! Un merciaio ambulante affermò che l'aveva incontrato poco prima, a Saint-Melaine, nella bottega di mamma Simon. Lei vi si precipitò.
Non capivano che cosa volesse dire. Alla fine rientrò, sfinita, le ciabatte a pezzi, la morte nel cuore; e seduta sulla panca vicino alla Signora, raccontava tutti i suoi giri, quando un peso leggero le cadde sulla spalla, Lulù! Che diavolo aveva fatto? Magari se n'era andato a spasso nei dintorni!
Felicita faticò a riprendersi, o meglio non si riprese più.
In seguito ad un raffreddore, le venne mal di gola; e, dopo un po', mal d'orecchi. Tre anni dopo era sorda; e parlava ad alta voce, anche in chiesa. Anche se i suoi peccati avrebbero potuto senza disonore per lei, né pregiudizio per gli altri, diffondersi in tutti gli angoli della diocesi, il curato pensò che fosse più prudente ricevere la sua confessione solo in sacrestia.
Ronzii inesistenti finivano di stordirla del tutto. Spesso la padrona le ripeteva: "Mio Dio! come siete stupida!" e lei rispondeva: "Sì, Signora", dandosi da fare intorno.
Il piccolo cerchio delle sue idee si restrinse ancora, e il concerto delle campane, il muggito dei buoi smisero di esistere.
Tutti gli esseri agivano in un silenzio spettrale. Un solo rumore ormai le giungeva alle orecchie, la voce del pappagallo.
Quasi volesse distrarla, esso imitava il tic tac del girarrosto, il richiamo acuto del pescivendolo, la sega del falegname dirimpetto e, agli squilli del campanello, imitava la signora Aubain, "Felicita! la porta! la porta!".
Si parlavano, lui ripetendo a sazietà le tre frasi del suo repertorio, e lei rispondendogli con parole sconnesse, ma nelle quali il suo cuore si apriva. Nel suo isolamento, Lulù era quasi un figlio, un innamorato. Le si arrampicava sulle dita, le mordicchiava le labbra, si aggrappava al suo scialletto; e quando lei chinava la fronte scuotendo il capo come fanno le balie, le grandi ali della sua cuffia e quelle dell'uccello fremevano insieme.
Quando le nuvole si addensavano e il tuono brontolava, lui lanciava dei gridi, rammentando forse gli acquazzoni delle foreste natie. L'acqua scrosciante provocava il suo delirio; svolazzava smarrito, saliva fino al soffitto, rovesciava tutto, e infilata la finestra andava a sguazzare in giardino; poi rapido tornava a posarsi su uno degli alari, e, saltellando per asciugarsi le penne, mostrava ora la coda, ora il becco.
Una mattina del terribile inverno del 1837, in cui, a causa del freddo, lei l'aveva messo davanti al camino, lo trovò morto nella gabbia, la testa in giù e le unghie infilate tra le sbarrette. Lo aveva ucciso una congestione, ma era poi vero? Felicita pensò ad un avvelenamento con il prezzemolo, e, nonostante l'assenza di ogni prova, i suoi sospetti caddero su Fabu.
Pianse così tanto che la padrona le disse: "Suvvia! fatelo impagliare!".
Chiese consiglio al farmacista, che era stato sempre gentile col pappagallo.
Egli scrisse a Le Havre. Un tale Fellacher si incaricò della cosa.
Ma dato che la diligenza a volte smarriva i pacchi, decise di portarlo lei stessa fino a Honfleur.
I meli senza foglie scorrevano ai lati della strada. Il ghiaccio copriva i fossi. Alcuni cani abbaiavano intorno alle masserie; e con le mani sotto la mantellina, con i suoi zoccoli neri e il paniere, lei camminava in fretta, in mezzo alla strada.
Attraversò la foresta, sorpassò la località Haute-Chêne, raggiunse Saint-Gatien.
Dietro di lei, in una nuvola di polvere, trascinato dalla discesa, si precipitava come un turbine un postale al gran galoppo. Vedendo che quella donna non si spostava, il cocchiere si alzò oltre il mantice; anche il postiglione gridava, mentre i suoi quattro cavalli, che non riusciva a trattenere, acceleravano la corsa. I primi due la sfiorarono; con uno strattone delle redini, lui li gettò di lato poi alzò il braccio, furioso, e con la sua lunga frusta le vibrò tra la pancia e la testa un colpo così forte che cadde priva di sensi.
Quando riprese conoscenza, il suo primo gesto fu quello di aprire il paniere. Lulù, per fortuna, non si era fatto niente. Sentì un bruciore alla guancia destra; si toccò, le mani erano rosse. Il sangue colava.
Si sedette su un mucchio di pietre, premette il fazzoletto sulla guancia, poi mangiò un pezzo di pane, messo nel paniere per precauzione, e si consolava delle ferite guardando l'uccello.
Giunta in cima a Ecquemauville, vide le luci di Honfleur che brillavano nella notte come una miriade di stelle; il mare, lontano, si stendeva indistintamente. Allora le mancarono le forze; e la miseria della sua infanzia, la delusione del primo amore, la perdita del nipote, la morte di Virginia, come le onde di una marea, riaffiorarono tutte insieme, e, salendole alla gola, la soffocavano.
Volle poi parlare al capitano della nave; e, senza dire cosa spediva, gli fece delle raccomandazioni.
Fellacher tenne a lungo il pappagallo. Lo prometteva sempre per la settimana seguente; dopo sei mesi, annunciò l'invio d'una cassa; e la faccenda fu chiusa. C'era da chiedersi se Lulù sarebbe mai tornato. "Me l'avranno rubato!" pensava Felicita.
Finalmente arrivò, splendido, dritto su un ramo d'albero, avvitato su uno zoccolo di mogano, una zampa all'aria, il capo inclinato, una noce nel becco, che l'impagliatore, per amore della grandiosità, aveva dorata.
Lo chiuse in camera sua.
Quel luogo, in cui faceva entrare poche persone, aveva insieme l'aspetto di una cappella e di un bazar, tanto era zeppo di oggetti religiosi e delle cose più disparate.
Un grande armadio impediva di aprire bene la porta. Di fronte alla finestra a strapiombo sul giardino, una finestrella ovale guardava sul cortile; su un tavolo, accanto alla branda, c'erano una brocca, due pettini, e un pezzo di sapone azzurro in un piatto sbrecciato. Si notavano contro le pareti rosari, medagliette, diverse madonnine, una acquasantiera in noce di cocco; sul cassettone, coperto da una tovaglia come un altare, la scatola di conchiglie che le aveva regalato Vittorio; poi un innaffiatoio e una palla, dei quaderni di calligrafia, il libro di geografia illustrata, un paio di stivaletti, e al chiodo dello specchio, appeso per i nastri, il cappellino di peluche! Felicita spingeva a tal punto questo culto che conservava una delle redingote del Signore. Tutto il vecchiume di cui la signora Aubain voleva disfarsi, lei lo raccoglieva per la sua stanza. E così aveva dei fiori artificiali sul cassettone, e il ritratto del conte di Artois nel vano dell'abbaino.
Per mezzo di una mensolina, Lulù fu sistemato su una parte del camino che sporgeva nella stanza. Ogni mattina, svegliandosi, l'intravedeva nel chiarore dell'alba, e ricordava allora i giorni passati, le azioni più insignificanti fin nei minimi particolari, senza dolore, colma di tranquillità.
Non comunicando con nessuno, viveva in un torpore da sonnambula.
Le processioni del Corpus Domini la rianimavano. Andava dalle vicine a chiedere i candelieri e le stuoie per ornare l'altare che veniva preparato nella strada.
In chiesa contemplava sempre lo Spirito Santo, e notò che aveva qualcosa del pappagallo. La somiglianza le sembrò ancora più evidente su una stampa di Epinal, che rappresentava il battesimo di Nostro Signore. Con le sue ali di porpora e il corpo di smeraldo, era proprio il ritratto di Lulù.
Comprò la stampa e l'appese al posto del conte di Artois, in modo tale che, con un solo colpo d'occhio, li poteva vedere insieme.
Essi si associarono nella sua mente, il pappagallo si trovò santificato da quel rapporto con lo Spirito Santo, che ai suoi occhi diventava più vivo e intelligibile. Il Padre, per esprimersi, non poteva aver scelto una colomba, perché sono animali senza voce, ma piuttosto uno degli antenati di Lulù. E Felicita pregava guardando quell'immagine, ma di tanto in tanto si girava un po' verso l'uccello.
Desiderò entrare tra le figlie di Maria. La signora Aubain la dissuase.
Arrivò un avvenimento importante: il matrimonio di Paolo.
Dopo essere stato giovane di studio da un notaio, nel commercio, nelle dogane, alle imposte, e dopo essersi dato da fare per entrare nell'amministrazione forestale, a trentasei anni, di colpo, per ispirazione celeste, aveva scoperto la propria strada:
l'ufficio del registro! E vi mostrava così alte capacità che un ispettore gli aveva offerto la figlia, promettendogli la sua protezione.
Paolo, diventato una persona seria, la portò dalla madre.
La ragazza criticò le usanze di Pont-l'Evêque, fece l'altezzosa e offese Felicita. La signora Aubain, quando ripartì, ne fu sollevata.
La settimana dopo si seppe della morte del signor Bourais in bassa Bretagna, in una locanda. Le voci di un suicidio trovarono conferma; emersero dei dubbi sulla sua onestà. La signora Aubain controllò i suoi conti, e non tardò a scoprire la sequela delle sue nefandezze: sottrazione di arretrati, vendite fasulle di legna, false quietanze, eccetera. Per di più, aveva un figlio naturale, e "una relazione con una tale di Dozulé".
Queste infamie la addolorarono molto. Nel mese di marzo del 1853 fu colta da un dolore al petto; la lingua era opaca come fumo, le sanguisughe non calmarono l'affanno; e la sera del nono giorno morì, a settantadue anni giusti.
La credevano meno vecchia, per via dei capelli scuri che le incorniciavano il viso smorto, segnato dal vaiolo. Pochi amici la rimpiansero; i suoi modi alteri allontanavano.
Felicita la pianse, come non si piangono i padroni. Che la Signora fosse morta prima di lei, le confondeva le idee, le sembrava contrario all'ordine delle cose, inammissibile e mostruoso.
Dieci giorni dopo (il tempo di accorrere da Besançon) arrivarono gli eredi. La nuora frugò nei cassetti, scelse dei mobili, ne vendette altri, poi se ne tornarono al Registro.
La poltrona della Signora, il suo tavolino rotondo, il suo scaldino, le otto sedie, tutto era partito! Al posto delle stampe si vedevano dei quadrati gialli sulle pareti. Si erano portati via anche i due lettini con i materassi, e nell'armadio a muro non c'era più niente di tutte le cose di Virginia. Felicita risalì le scale, folle di tristezza.
Il giorno dopo c'era un cartello sulla porta; il farmacista le gridò nell'orecchio che la casa era in vendita.
Lei barcollò, e fu costretta a sedersi.
Ciò che più di tutto la rattristava era di dover lasciare la sua stanza, così confortevole per il povero Lulù. Abbracciandolo con uno sguardo angosciato, implorava lo Spirito Santo; e prese l'abitudine idolatra di pregare inginocchiata davanti al pappagallo. A volte il sole attraverso l'abbaino colpiva il suo occhio di vetro e ne faceva scaturire un gran raggio luminoso che la mandava in estasi.
Aveva una rendita di trecentottanta franchi, lasciatale dalla padrona. Il giardino le forniva gli ortaggi. Quanto agli abiti, aveva di che vestirsi fino alla fine dei suoi giorni, e risparmiava l'illuminazione coricandosi al crepuscolo.
Non usciva quasi più, per evitare la bottega del rigattiere dove erano esposti alcuni dei vecchi mobili di casa. Dopo quel malore trascinava una gamba; e siccome le sue forze diminuivano, mamma Simon, rovinatasi con la drogheria, andava tutte le mattine a spaccarle la legna e a pomparle l'acqua.
La vista le si indebolì. Le persiane non si aprivano più. Molti anni passarono. La casa non si affittava, né si vendeva.
Temendo che la mandassero via, Felicita non chiedeva nessuna riparazione. Le assicelle del tetto marcivano; per tutto un inverno il suo letto fu bagnato. Dopo Pasqua sputò sangue.
Allora mamma Simon chiamò un medico. Felicita volle sapere che cosa aveva. Ma, troppo sorda per sentire, le giunse una sola parola: "Polmonite". La conosceva, e rispose serenamente: "Ah!
come la Signora", trovando naturale seguire la padrona.
La festa dei tabernacoli si avvicinava.
Il primo era sempre ai piedi della collina, il secondo davanti alla posta, il terzo circa a metà strada. Ci furono rivalità a proposito di quest'ultimo; e le parrocchiane alla fine scelsero il cortile della signora Aubain.
L'affanno e la febbre aumentarono. Felicita si lamentava di non poter far nulla per il tabernacolo. Se almeno avesse potuto mettervi qualcosa! Allora pensò al pappagallo. Non era decoroso, obiettarono le vicine. Ma il curato diede il permesso; lei ne fu così felice che lo pregò di accettare in dono, dopo che fosse morta, Lulù, la sua sola ricchezza.
Dal martedì al sabato, vigilia del Corpus Domini, tossì più frequentemente. La sera il suo viso era contratto, le labbra le si incollavano alle gengive, comparve il vomito; e il giorno dopo, all'alba, sentendosi debolissima, fece chiamare un prete.
Tre brave donne le erano vicine durante l'estrema unzione. Disse che aveva bisogno di parlare a Fabu.
Arrivò con il vestito della domenica, a disagio in quella atmosfera lugubre.
"Perdonatemi" disse lei, facendo uno sforzo per allungare il braccio, "credevo che foste stato voi ad ucciderlo!".
Ma che razza di discorso era mai quello? Averlo sospettato di assassinio, un uomo come lui! Si indignava, e stava per fare una piazzata.
"Ma non vedete che non c'è più con la testa?".
Felicita di tanto in tanto parlava alle ombre. Le brave donne si allontanarono. La Simon mangiò qualcosa.
Poco più tardi prese Lulù, e avvicinandolo a Felicita:
"Su! ditegli addio!".
Anche se non era un cadavere, i vermi lo divoravano, un'ala era spezzata e la stoppa gli usciva dal ventre. Ma, ormai cieca, lei lo baciò in fronte, e lo teneva contro la guancia. La Simon lo riprese per metterlo nel tabernacolo.
I pascoli mandavano il profumo dell'estate; le mosche ronzavano; il sole faceva brillare il fiume, scaldava i tetti d'ardesia.
Mamma Simon, tornata nella stanza, si addormentava quietamente.
I rintocchi della campana la svegliarono; era l'uscita dai vespri.
Il delirio di Felicita cessò. Pensando alla processione, la vedeva come se l'avesse seguita.
Tutti i bambini delle scuole, i cantori e la banda camminavano sui marciapiedi, mentre al centro della strada avanzavano in testa il cerimoniere armato d'alabarda, lo scaccino con una grande croce, il sorvegliante dei ragazzi, la suora preoccupata per le sue bambine; tre delle più graziose, coi riccioli come angeli, gettavano in aria petali di rose; il diacono, a braccia aperte, dirigeva la musica; e due turiferari, ad ogni passo, si giravano verso il Santissimo Sacramento. Sotto un baldacchino di velluto rosso vivo, sostenuto da quattro fabbricieri, esso era portato dal curato nella sua bella pianeta. Una marea si accalcava dietro, tra gli addobbi bianchi che coprivano i muri delle case; e arrivarono ai piedi della collina.
Un sudore freddo bagnava le tempie di Felicita. La Simon l'asciugava con una pezza, dicendosi che un giorno sarebbe toccato anche a lei.
Il brusio della folla aumentò, per un momento fu fortissimo, si allontanò.
Una scarica a salve fece tremare i vetri. Erano i postiglioni che salutavano l'ostensorio. Felicita roteò gli occhi e disse, più forte che poté:
"Sta bene?", preoccupata per il pappagallo.
Ebbe inizio l'agonia. Un rantolo sempre più frequente le sollevava le costole. Fiotti di schiuma le uscivano dagli angoli della bocca, e tutto il suo corpo tremava.
Presto si sentirono i borbottii degli oficleidi, le limpide voci dei bambini, la voce profonda degli uomini. Di tanto in tanto tutto taceva, e il ticchettio dei passi, smorzato dai fiori, aveva il suono di un gregge sui prati.
Nel cortile comparve il clero. La Simon si arrampicò su una sedia per arrivare alla finestrella, e così dominava il tabernacolo.
Ghirlande verdi pendevano sull'altare, ornato da una balza a punto inglese. Al centro c'era una piccola teca con le reliquie, due piante d'arancio ai lati e, tutt'intorno, candelieri d'argento e vasi di porcellana, dai quali svettavano girasoli, gigli, peonie, digitali, mazzi d'ortensie. Quel grappolo di colori vivaci scendeva obliquamente, dalla tavola fino al tappeto, prolungandosi sul selciato; e cose preziose attiravano gli sguardi. Una zuccheriera di vermeil con una ghirlanda di viole; pendenti di pietre d'Alençon brillavano sul muschio; due paraventi cinesi mostravano i loro paesaggi. Lulù, nascosto sotto le rose, lasciava vedere solo la sua fronte azzurra, simile ad una lamina di lapislazzuli.
I fabbricieri, i cantori, i bambini si disposero ai tre lati del cortile. Il prete salì lentamente i gradini, e posò sul merletto il suo grande sole d'oro raggiante. Tutti s'inginocchiarono. Si fece un grande silenzio. I turiboli volteggiando nell'aria scorrevano nelle loro catenelle.
Un vapore azzurro salì nella stanza di Felicita. Lei tese le narici aspirandolo con mistica sensualità; poi chiuse gli occhi.
Le sue labbra sorridevano. I battiti del suo cuore rallentarono a uno a uno, ogni volta più incerti, più tenui, come si esaurisce una sorgente, come si disperde un'eco; e, quando esalò l'ultimo respiro, le sembrò di vedere, nei cieli dischiusi, un pappagallo gigantesco che aleggiava sulla sua testa.
Il padre e la madre di Giuliano abitavano in un castello in mezzo ai boschi, sul pendio di una collina.
Le quattro torri agli angoli avevano tetti a punta coperti di lamelle di piombo e la base delle mura poggiava su blocchi di roccia che cadevano a strapiombo fin giù nei fossati.
Il selciato del cortile era liscio come il pavimento di una chiesa. Lunghe grondaie, raffiguranti draghi con le fauci in giù, sputavano l'acqua piovana verso la cisterna; e sul davanzale delle finestre, ad ogni piano, in un vaso di argilla dipinta, spuntava un basilico o un eliotropio.
Una seconda cinta fatta di pali delimitava prima un frutteto, quindi un'aiuola dove i fiori si combinavano a formare delle cifre, poi un pergolato con delle nicchie per prendere il fresco, infine uno spiazzo per la pallamaglio che serviva al divertimento dei paggi. Dall'altro lato si trovavano il canile, le scuderie, il forno, il frantoio e i granai. Un pascolo di erba verde si stendeva tutt'attorno, chiuso a sua volta da una larga siepe di rovi.
Si viveva in pace da così lungo tempo che la saracinesca non si abbassava più; i fossati erano pieni d'acqua, le rondini facevano il nido tra le punte dei merli; l'arciere, che durante tutto il giorno passeggiava su e giù sulla cortina, appena il sole bruciava troppo rientrava nella garitta, e si addormentava come un frate.
All'interno, gli arredi di metallo brillavano dappertutto; nelle camere gli arazzi proteggevano dal freddo; e gli armadi erano stracolmi di biancheria, le botti di vino si ammonticchiavano nelle cantine, i forzieri di quercia scricchiolavano sotto il peso dei sacchi di monete.
Nella sala d'armi si vedevano, tra stendardi e teste di animali feroci, armi di ogni tempo e di tutte le nazioni, dalle fionde degli Amaleciti e i giavellotti dei Garamanti alle daghe dei Saraceni e alle cotte di ferro dei Normanni.
Lo spiedo grande della cucina poteva arrostire un bue; la cappella era sontuosa come l'oratorio d'un re. C'era anche, in un luogo appartato, un calidario alla romana; ma il buon signore non l'usava, considerandolo una abitudine da idolatri.
Sempre avvolto in una pelliccia di volpe, girava per la casa, rendeva giustizia ai vassalli, sedava le liti dei vicini. Durante l'inverno guardava i fiocchi di neve cadere, oppure si faceva leggere delle storie. Alle prime belle giornate, se ne andava sulla sua mula lungo piccoli sentieri, costeggiando le spighe ancora verdi e conversava con i villani, ai quali dava consigli.
Dopo molte avventure, aveva preso in moglie una damigella di alto lignaggio.
Era di pelle bianchissima, un po' altera e seria. I corni del copricapo sfioravano gli architravi delle porte; la coda del suo abito di panno strisciava a tre passi da lei. La sua vita domestica era regolata come all'interno di un monastero; ogni mattina assegnava il lavoro alle serve, sorvegliava le conserve e gli unguenti, filava alla conocchia o ricamava tovaglie d'altare.
A forza di pregare Dio, le arrivò un figlio.
Allora ci furono grandi festeggiamenti, e un banchetto che durò tre giorni e quattro notti alla luce delle fiaccole al suono delle arpe, su tappeti di frasche. Si mangiarono le spezie più rare, con polli grossi come montoni; per scherzo un nano saltò fuori da un timballo, e, non bastando più le coppe, poiché la folla aumentava sempre, furono costretti a bere negli olifanti e negli elmi.
La puerpera non assistette a quelle feste. Se ne stava nel suo letto, tranquillamente. Una sera si svegliò, e intravide, sotto un raggio di luna, un'ombra che si muoveva. Era un vecchio vestito di un saio di rozzo panno, con un rosario alla vita, una bisaccia sulla spalla, in tutto simile ad un eremita. Si avvicinò al suo capezzale e le disse, senza dischiudere le labbra:
"Rallegrati, o madre! tuo figlio sarà un santo!".
Lei stava per gridare; ma scivolando sul raggio di luna, egli s'innalzò lentamente nell'aria, poi scomparve. I canti del banchetto esplosero più forti. Lei udì le voci degli angeli; e il capo le ricadde sul guanciale, sovrastato da un osso di martire incorniciato da rubini.
Il giorno dopo tutti i servitori interrogati dichiararono di non aver visto nessun eremita. Sogno o realtà che fosse, doveva essere un messaggio del cielo; ma lei fece attenzione a non dire nulla, temendo che l'accusassero di superbia.
I convitati se ne andarono alle prime luci; e il padre di Giuliano si trovava fuori della porticina esterna, dove aveva appena accompagnato l'ultimo ospite, quando improvvisamente un mendicante si fece avanti nella nebbia. Era uno zingaro con la barba a treccioline, anelli d'argento alle braccia e le pupille fiammeggianti. Balbettò con aria ispirata queste parole sconnesse:
"Ah! Ah! tuo figlio!... molto sangue!... molta gloria!... sempre felice! la famiglia di un imperatore".
E chinandosi per raccogliere l'elemosina, si perse nell'erba, svanì. Il buon castellano guardò a destra e a sinistra, chiamò finché poté. Nessuno! Il vento fischiava, le brume del mattino si dileguavano.
Attribuì questa visione alla stanchezza della mente per aver dormito troppo poco. "Se ne parlo rideranno di me", si disse.
Tuttavia gli splendori destinati a suo figlio lo abbagliavano, anche se la promessa non era chiara ed egli dubitasse persino di averla sentita.
Gli sposi si nascosero i loro segreti. Ma tutti e due amavano il figlio di pari amore; e, rispettandolo come segnato da Dio, ebbero per lui infiniti riguardi. Il suo lettino era imbottito della piuma più fine; una lampada a forma di colomba vi ardeva sopra, continuamente; tre balie lo cullavano; e ben avvolto nelle fasce, la faccia rosea e gli occhi azzurri, con il suo mantello di broccato e la cuffia tempestata di perle, sembrava un Gesù Bambino. I denti gli spuntarono senza che piangesse una sola volta.
Quando ebbe sette anni, la madre gli insegnò a cantare. Per renderlo coraggioso, il padre lo mise in groppa a un grosso cavallo. Il bambino, contento, sorrideva, e così non tardò molto a conoscere tutto ciò che riguarda i destrieri.
Un vecchio monaco molto sapiente gli insegnò la Sacra Scrittura, la numerazione araba, le lettere latine, e a fare eleganti miniature su pergamena finissima. Lavoravano insieme in cima a una torretta, lontano dai rumori.
Finita la lezione scendevano in giardino, dove, andando passo passo, studiavano i fiori.
A volte si vedeva, in fondo alla valle, una fila di bestie da soma, condotte da un uomo a piedi, vestito all'orientale. Il castellano, che l'aveva riconosciuto come mercante, gli mandava incontro un domestico. Lo straniero, rinfrancato, deviava dal suo cammino; e, introdotto nel parlatoio, tirava fuori dai suoi bauli gioielli, aromi, oggetti strani dall'uso sconosciuto; alla fine il brav'uomo se ne andava, con un grosso guadagno, senza aver subito nessuna violenza. Altre volte, un gruppo di pellegrini bussavano alla porta. I loro abiti bagnati fumavano davanti al camino; poi, quando erano sazi, raccontavano i loro viaggi, le peripezie delle navi sul mare schiumoso, le marce a piedi nelle sabbie ardenti, la ferocia dei pagani, le grotte della Siria, il Presepio e il Sepolcro. Poi davano al giovane signore qualche conchiglia cucita alle loro vesti.
Spesso il castellano faceva festa con i suoi vecchi compagni d'armi. Mentre bevevano, rievocavano le battaglie, gli assalti alle fortezze in mezzo al fragore delle macchine da guerra e le portentose ferite. Giuliano, che li ascoltava, esplodeva in grida; e così il padre non dubitava che un giorno sarebbe diventato un conquistatore. Ma alla sera, all'uscita dall'Angelus, quando passava tra i poveri che piegavano la testa, metteva mano alla borsa con tanta modestia e tanta nobiltà nel portamento che la madre era sicura di vederlo, in un futuro, arcivescovo.
Il suo posto nella cappella era a fianco dei genitori; e per quanto lunghe fossero le funzioni, rimaneva genuflesso sul suo inginocchiatoio, il berretto in terra e le mani giunte.
Un giorno, durante la messa, vide, alzando la testa, un topolino bianco che usciva da un buco del muro. Trotterellò sul primo gradino dell'altare, e dopo due o tre giri a destra e a sinistra, fuggì dalla stessa parte. La domenica seguente, l'idea di poterlo rivedere lo turbò. Il topo ritornò; e ogni domenica lui lo aspettava, ne era infastidito; cominciò a odiarlo, e decise di ucciderlo.
Dopo aver chiuso la porta e sparso sui gradini le briciole di un dolce, si appostò davanti al buco con una bacchetta in mano.
Dopo un bel po' spuntò un muso rosa, e poi l'animaletto tutt'intero. Giuliano vibrò un colpo leggero, e rimase stupito davanti a quel corpicino immobile. Una goccia di sangue macchiava la pietra. Lo asciugò subito con la manica, gettò via il topo e non disse niente a nessuno.
Uccellini di ogni specie beccavano i semi nel giardino. Gli venne in mente di mettere dei piselli in una canna cava. Quando udiva cinguettare in un albero si avvicinava pian piano, poi alzava la canna, gonfiava le gote, e gli uccellini gli piovevano sulle spalle così numerosi che non poteva fare a meno di ridere, felice della sua astuzia.
Un mattino, mentre se ne tornava lungo il camminamento, vide sulla cima del bastione un grosso colombo che gonfiava il petto al sole.
Giuliano si fermò ad osservarlo; siccome il muro in quel punto era sbrecciato, si trovò in mano una scheggia. Roteò il braccio, e la pietra abbatté l'uccello che cadde di peso nel fossato.
Si precipitò dabbasso, graffiandosi fra i rovi, frugando dappertutto più svelto di un giovane cane. Il colombo, con le ali spezzate, palpitava ancora impigliato tra i rami di un ligustro.
Il persistere di quella vita irritò il ragazzo. Lo afferrò per strangolarlo; e le convulsioni dell'uccello gli facevano battere il cuore e lo riempivano di una voluttà selvaggia e impetuosa.
All'ultimo sussulto, si sentì mancare.
La sera, a cena, suo padre dichiarò che alla sua età si doveva imparare l'arte venatoria, e andò a cercare un vecchio quaderno che conteneva, in forma di domande e risposte, i punti essenziali della caccia. Un maestro spiegava all'allievo l'arte di addestrare i cani e di addomesticare i falconi, di tendere le trappole, come riconoscere il cervo dai suoi escrementi, la volpe dalle impronte, il lupo dai solchi lasciati sul terreno, il modo giusto di distinguere le loro tracce, come si scovano, dove si trovano di solito le loro tane, quali sono i venti più propizi, insieme all'elenco dei gridi e alle regole per la porzione di preda spettante ai cani.
Quando Giuliano fu in grado di ripetere a memoria tutte queste cose, suo padre gli mise insieme una muta.
Anzitutto vi si notavano ventiquattro levrieri barbareschi, più veloci delle gazzelle, ma facili alla collera, poi diciassette coppie di cani bretoni, picchiettati di bianco su fondo fulvo, saldi nel non mollare la preda, forti di petto e possenti urlatori. Per attaccare il cinghiale e per i suoi passaggi pericolosi, c'erano quaranta grifoni, pelosi come orsi. I mastini di Tartaria, alti quasi come asini, del colore del fuoco, con il dorso largo e il garretto dritto, erano riservati all'inseguimento degli uri. Il mantello nero degli spaniel luccicava come raso, l'uggiolio dei talbot risuonava come quello dei canterini ciechi.
In un cortile a parte latravano, scuotendo la catena e roteando le pupille, otto alani, bestie formidabili, che assaltano al ventre i cavalieri e non hanno paura dei leoni.
Tutti mangiavano pane di frumento, bevevano in abbeveratoi di pietra e avevano nomi squillanti.
La schiera dei falconi, forse, superava in quantità la muta; il buon signore, a forza di denaro, si era procurato terzuoli del Caucaso, sagri di Babilonia, girifalchi di Alemagna, e falchi pellegrini, catturati sulle scogliere, in riva ai mari freddi, in paesi lontani. Erano sistemati in un capannone coperto di stoppie, e attaccati, secondo la taglia, sulla gruccia; davanti avevano una zolla d'erba, dove di tanto in tanto venivano posati perché si sgranchissero. Furono costruiti sacchi, esche, trabocchetti, e ogni altro tipo di ordigni.
Spesso conducevano nella campagna i cani da penna, che subito si mettevano di punta. Allora i battitori, avanzando piano piano, stendevano con cautela sui loro corpi immobili una immensa rete.
Abbaiavano a un preciso comando; le quaglie s'alzavano in volo, e le dame dei dintorni invitate con i loro mariti, i figli, le cameriere, tutti vi si lanciavano sopra e le prendevano facilmente.
Altre volte, per stanare le lepri, battevano il tamburo; le volpi cadevano nelle fosse, oppure una tagliola, chiudendosi, imprigionava la zampa di un lupo.
Ma Giuliano disprezzò quei comodi espedienti, preferiva cacciare lontano dalla gente, con il cavallo e il falcone. Si trattava quasi sempre di un gran tartaretto di Scizia, bianco come la neve.
Il suo cappuccio di cuoio era sormontato da un pennacchio, sonagli d'oro tintinnavano alle sue zampe azzurre. Si teneva saldo sul braccio del padrone mentre il cavallo galoppava e i campi scorrevano via. Giuliano, sciogliendo i lacci, lo lasciava andare di colpo; la bestia ardita saliva nell'aria come una freccia e si vedevano due macchie ineguali volteggiare, congiungersi, poi sparire nell'azzurro. Il falco non tardava a scendere con un uccello dilaniato, posandosi sul guanto di ferro, con le ali frementi.
Così Giuliano ghermì al volo l'airone, il nibbio, la cornacchia e l'avvoltoio.
Suonando il corno, gli piaceva seguire i cani che correvano sul pendio delle colline, saltavano i ruscelli, risalivano verso il bosco; e quando il cervo cominciava a gemere sotto i morsi, si affrettava ad abbatterlo, poi si dilettava della furia dei mastini che divoravano i pezzi dell'animale sulla sua pelle fumante.
Nei giorni di nebbia si inoltrava nella palude per fare la posta alle oche selvatiche, alle lontre e ai germani.
Tre scudieri lo aspettavano, fin dall'alba, ai piedi della scalinata; e il vecchio frate, sporgendosi dal suo abbaino, aveva un bello sbracciarsi per richiamarlo. Giuliano non si girava.
Andava sotto il sole cocente, sotto la pioggia, con la tempesta, beveva l'acqua nel cavo della mano, mangiava, cavalcando, mele selvatiche, se era stanco si riposava sotto una quercia; e ritornava nel cuore della notte, coperto di sangue e di fango, con spini nei capelli, con addosso l'odore delle bestie feroci.
Diventò come loro. Quando la madre lo abbracciava, accoglieva con freddezza la sua stretta, sembrava assorto in meditazioni.
Uccise orsi a colpi di coltello, tori con l'ascia, cinghiali con lo spiedo; e una volta accadde perfino che non essendogli rimasto altro che un bastone, si difendesse con quello dai lupi che divoravano cadaveri ai piedi di una forca.
Un mattino d'inverno, partì prima di giorno, ben equipaggiato, con una balestra sulla spalla e la faretra piena di frecce appesa all'arcione della sella.
Il suo ginetto danese, seguito da due bassotti, trottando con passo regolare, faceva vibrare il terreno. Gocce di brina gelata gli si attaccavano al mantello; soffiava una violenta tramontana.
Una parte dell'orizzonte si schiarì, e nella luce livida del crepuscolo vide dei conigli saltellare sull'orlo delle loro tane.
I due bassotti subito si avventarono su di loro e furiosamente spezzavano loro la schiena, mordendoli all'impazzata.
Poco dopo entrò in un bosco; in cima a un ramo, un gallo cedrone intorpidito dal freddo dormiva con la testa sotto l'ala. Con un colpo di spada gli recise le zampe e continuò la sua strada senza raccoglierlo.
Tre ore dopo, si trovò sulla vetta di una montagna così alta che il cielo sembrava quasi nero. Davanti a lui, una roccia simile ad una muraglia scendeva a picco su un precipizio; e sulla cima dello strapiombo, due caproni selvatici fissavano l'abisso. Trovandosi senza frecce (perché il suo cavallo era rimasto indietro), pensò di scendere fino ad essi; piegato in due, a piedi nudi, raggiunse finalmente il primo caprone e gli affondò il pugnale sotto le costole. Il secondo, terrorizzato, saltò nel vuoto. Giuliano si lanciò per colpirlo, e, scivolando col piede destro, cadde sul cadavere dell'altro, la faccia sull'abisso e le braccia spalancate.
Ridiscese quella pianura, seguì i salici che costeggiavano un fiume. Delle gru che volavano bassissime gli passavano sulla testa. Giuliano le abbatteva con la frusta, e non ne mancò una.
Nel frattempo l'aria più tiepida aveva sciolto la brina, grandi vapori fluttuavano, e comparve il sole. Egli vide brillare in lontananza un lago gelato, che pareva di piombo. In mezzo al lago c'era una bestia che Giuliano non conosceva, un castoro dal muso nero. Nonostante la distanza, una freccia lo abbatté; e gli dispiacque di non poterne portar via la pelle.
Poi si inoltrò lungo un viale di grandi alberi, le cui cime formavano come un arco di trionfo all'entrata di una foresta. Un capriolo balzò fuori da una forra, un daino comparve ad un bivio, un tasso uscì da una buca, un pavone sull'erba dispiegò la coda; e quando li ebbe uccisi tutti comparvero altri caprioli, altri daini, altri tassi, altri pavoni, e merli, gazze, faine, volpi, ricci, linci, una miriade di bestie, ad ogni passo più numerose.
Gli giravano intorno, tremanti, con uno sguardo pieno di dolcezza e di implorazione. Ma Giuliano non smetteva di ucciderle, ora con la balestra, ora sguainando la spada, ora vibrando coltellate, e non pensava più a nulla, non aveva memoria di nulla. Stava cacciando in un paese senza nome, da un tempo indeterminato, per il solo fatto di esistere, e tutto si compiva con la facilità che si prova nei sogni. Uno spettacolo straordinario lo fece fermare.
Un branco di cervi riempiva un vallone che aveva la forma di un circo; stavano gli uni addosso agli altri, e si scaldavano col fiato che si vedeva fumare nella nebbia.
Per qualche minuto, la speranza di una simile carneficina gli mozzò il respiro dal piacere. Poi scese da cavallo, si rimboccò le maniche e cominciò a tirare.
Al sibilo della prima freccia, tutti i cervi insieme voltarono la testa, nel mucchio si aprirono dei vuoti, si alzarono dei gemiti, e un gran subbuglio agitò il branco.
La sponda del vallone era troppo alta perché potessero superarla.
Saltavano in quello stretto cercando scampo. Giuliano mirava, tirava. E le frecce cadevano come sferzate di pioggia nella tempesta. I cervi infuriati si urtavano, si impennavano, montavano gli uni sugli altri; e i loro corpi con le corna ramose aggrovigliate formavano una massa che, spostandosi, crollava.
Alla fine, distesi sulla sabbia, morirono con la bava alle narici, sventrati, e il palpito del loro ventre si affievoliva a poco a poco. Poi tutto fu immobile.
Stava per calare la notte; e dietro al bosco, negli spiragli tra i rami, il cielo era rosso come una coltre di sangue.
Giuliano si appoggiò ad un albero. Contemplava con gli occhi spalancati l'enormità di quel massacro, e non riusciva a capire come avesse potuto farlo.
Dall'altro lato del vallone, sul limitare del bosco, scorse un cervo, una cerva e il loro piccolo.
Il cervo, che era nero e di statura prodigiosa, aveva corna con sedici ramificazioni e una barba bianca. La cerva, bionda come le foglie morte, brucava l'erba; e il cerbiatto dal pelo maculato, senza intralciarle il passo, poppava alla mammella.
Ancora una volta la balestra sibilò. Il cerbiatto, subito, fu ucciso. Allora la madre, guardando il cielo, bramì con voce profonda, straziante, umana. Giuliano, esasperato, con un colpo in pieno petto l'abbatté.
Il grande cervo lo aveva visto, fece un balzo. Giuliano gli scagliò la sua ultima freccia. Essa lo raggiunse alla fronte, e vi rimase conficcata.
Il grande cervo non sembrò sentirla; scavalcando i cadaveri continuava ad avanzare, stava per piombargli addosso e sventrarlo; Giuliano indietreggiava preso da una paura indicibile. Il mirabile animale si fermò; e con gli occhi fiammeggianti, solenne come un patriarca e come un giustiziere, ripeté tre volte, mentre lontano rintoccava una campana:
"Che tu sia maledetto! maledetto! maledetto! Un giorno, mostro feroce, assassinerai tuo padre e tua madre!".
Piegò le ginocchia, chiuse lentamente gli occhi e morì.
Giuliano fu sbalordito, poi oppresso da una stanchezza improvvisa; e un disgusto, una tristezza immensa s'impadronirono di lui. Con la fronte tra le mani, pianse a lungo.
Il suo cavallo era perduto; i cani lo avevano abbandonato; la solitudine che lo circondava gli sembrò carica di minacce e di vaghi pericoli. Allora, spinto da un impulso di terrore, si mise a correre attraverso i campi; scelse a caso un sentiero, e si ritrovò quasi di colpo alla porta del castello.
Quella notte non dormì. Alla luce tremolante della lampada appesa rivedeva sempre il grande cervo nero. La sua predizione lo ossessionava; si rivoltava contro di essa. "No! no! no! non posso ucciderli!" poi pensava: "E se lo volessi invece?..." e aveva paura che il diavolo gliene ispirasse il desiderio.
Per tre mesi la madre angosciata pregò al suo capezzale, e il padre, gemendo, vagava senza riposo per i corridoi. Fece venire i più famosi medici speziali che gli prescrissero una quantità di farmaci. Il male di Giuliano, dicevano, era provocato da un vento funesto, o da un desiderio d'amore. Ma il giovane, a tutte le domande, scuoteva il capo.
Gli ritornarono le forze; e lo facevano passeggiare nel cortile, accompagnato dal vecchio frate e dal buon signore che lo sorreggevano ciascuno per un braccio.
Quando fu completamente ristabilito, si ostinò a non andare più a caccia.
Suo padre, volendo che ridiventasse allegro, gli regalò una grande spada saracena. Essa faceva parte di un'armatura posta in cima ad una colonna. Per raggiungerla ci volle una scala. Giuliano vi salì. La spada, troppo pesante, gli cadde di mano, e cadendo sfiorò il buon signore cosi da vicino che la sua palandrana ne fu tagliata; Giuliano pensò di avere ucciso suo padre, e svenne.
Da quel momento ebbe paura delle armi. La vista d'una lama sguainata lo faceva impallidire. Quella sua fragilità era una desolazione per la famiglia.
Alla fine il vecchio frate, in nome di Dio, dell'onore e degli avi, gli ordinò di riprendere le sue attività di gentiluomo.
Tutti i giorni, gli scudieri si divertivano al lancio del giavellotto. Ben presto Giuliano vi primeggiò. Lanciava il suo dritto nel collo delle bottiglie, spezzava i denti delle banderuole, colpiva i chiodi delle porte da una distanza di cento passi.
Una sera d'estate, nell'ora in cui la nebbia rende indistinte le cose, mentre era sotto la pergola del giardino, scorse nel fondo due ali bianche che svolazzavano all'altezza della siepe. Non dubitò che fosse una cicogna; e lanciò il giavellotto.
Si udì un grido lacerante.
Era sua madre, rimasta con i lunghi nastri del suo copricapo inchiodati alla parete.
Giuliano fuggì dal castello, e non ricomparve più.
Si arruolò in una banda di soldati di ventura che passavano.
Conobbe la fame, la sete, le febbri e i pidocchi. Si abituò al fracasso delle mischie, alla vista dei moribondi. Il vento gli scurì la pelle. Le sue membra si indurirono al contatto con le armi; e siccome era molto forte, coraggioso, temperante, accorto, ottenne senza fatica il comando di una compagnia.
All'inizio delle battaglie infondeva slancio ai suoi con un ampio gesto della spada. Con una corda a nodi, si arrampicava sui muri delle cittadelle, la notte, sballottato dall'uragano, mentre le fiammelle del fuoco greco gli si appiccicavano alla corazza, e la resina bollente e il piombo fuso colavano giù dai merli. Spesso il colpo di una pietra gli fracassò lo scudo. Ponti sovraccarichi di uomini crollarono sotto di lui. Facendo roteare la mazza ferrata, si sbarazzò di quattordici cavalieri. Affrontò, in campo chiuso, tutti quelli che lo sfidavano. Fu creduto morto più di venti volte.
Grazie al favore divino, la scampò sempre; perché lui proteggeva gli uomini di chiesa, gli orfani, le vedove, e soprattutto i vecchi. Quando ne vedeva uno camminargli davanti, gridava per vederlo in faccia, come se avesse avuto paura di ucciderlo per errore.
Schiavi in fuga, contadini in rivolta, bastardi senza beni, intrepidi di ogni sorta affluirono sotto la sua bandiera, e così si formò intorno a lui un esercito. L'esercito si ingrossò. Egli divenne famoso. Era cercato da tutti.
Soccorse, di volta in volta, il delfino di Francia, il re d'Inghilterra, i templari di Gerusalemme, il surena dei Parti, il negus d'Abissinia e l'imperatore di Calcutta. Combatté Scandinavi ricoperti di scaglie di pesce, Negri muniti di rondacce di cuoio di ippopotamo e che cavalcavano asini rossi. Indiani color oro che, al di sopra dei loro diademi, brandivano grandi sciabole, più lucenti di specchi. Vinse i Trogloditi e gli Antropofagi.
Attraversò regioni così torride che al calore del sole le capigliature prendevano fuoco come fiaccole, e altre così gelide che le braccia, staccandosi dal corpo, cadevano a terra; e paesi dove vi era tanta nebbia che si camminava attorniati da fantasmi.
Repubbliche in difficoltà lo consultarono. Nei colloqui con gli ambasciatori otteneva condizioni insperate. Se un monarca si comportava troppo male, egli arriva all'improvviso e gli faceva sentire le sue rimostranze. Affrancò popoli. Liberò regine rinchiuse nelle torri. Fu lui, e non altri, che schiacciò la serpe di Milano e il drago di Oberbirbach.
Ad un certo punto accadde che l'imperatore di Occitania, avendo trionfato sui Musulmani spagnoli, si fosse unito in concubinaggio con la sorella del califfo di Cordova; e ne ebbe una figlia che teneva con sé e aveva allevato cristianamente. Ma il califfo, fingendo di volersi convertire, andò a fargli visita accompagnato da una numerosa scorta, gli massacrò tutta la guarnigione e lo precipitò nella più profonda segreta, dove lo trattava duramente per estorcergli tesori.
Giuliano accorse in suo aiuto, distrusse l'esercito degli infedeli, assediò la città, uccise il califfo, gli mozzò la testa, e la buttò come una palla al di là dei bastioni. Liberò di prigione l'imperatore e lo ristabilì sul trono, in presenza di tutta la corte.
In premio di tale aiuto, l'imperatore gli offrì ceste colme di denaro; Giuliano lo rifiutò. Credendo che ne volesse di più, gli offrì i tre quarti delle sue ricchezze; nuovo rifiuto. Poi gli propose di dividere con lui il suo regno; Giuliano lo ringraziò; e l'imperatore piangeva di rabbia, non sapendo in che modo testimoniargli la sua riconoscenza, quando di colpo si batté la fronte, disse una parola all'orecchio di un cortigiano; le cortine di una tenda arabescata si aprirono e apparve una fanciulla.
I suoi grandi occhi neri brillavano come lumi dolcissimi. Un sorriso incantevole le schiudeva le labbra. I capelli inanellati le si impigliavano nelle gemme della veste semiaperta; e, sotto la trasparenza della tunica, si indovinava la giovinezza del suo corpo. Era molto graziosa, ben tornita e con la vita sottile.
Giuliano fu preso d'amore, tanto più che la sua esistenza era stata fino ad allora castissima.
E così prese in sposa la figlia dell'imperatore, ed ebbe un castello che lei aveva ereditato dalla madre. Terminata la cerimonia nuziale, essi se ne andarono, dopo infinite cortesie da entrambe le parti.
Era un palazzo di marmo bianco in stile moresco, costruito su un promontorio, in mezzo ad un bosco di aranci. Terrazze di fiori scendevano fin sulla riva di un golfo, dove conchiglie rosa crepitavano sotto i passi. Dietro al castello si apriva una foresta a forma di ventaglio. Il cielo era perennemente azzurro, e gli alberi si piegavano ora alla brezza del mare, ora al vento delle montagne che, lontane, chiudevano l'orizzonte.
Le stanze, pervase di crepuscolo, erano rischiarate dai preziosi rivestimenti dei muri. Alte colonnine, sottili come canne, sostenevano la volta delle cupole, decorate di rilievi che imitavano le stalattiti delle grotte.
C'erano zampilli d'acqua nelle sale, mosaici nei cortili, pareti traforate, mille squisitezze architettoniche, e ovunque un tale silenzio che si poteva udire il fruscio di un velo o l'eco di un sospiro.
Giuliano non faceva più guerre. Si riposava, circondato da un popolo pacifico; e ogni giorno una folla gli passava davanti, con inchini e baciamani secondo l'uso orientale.
Vestito di porpora, se ne stava appoggiato coi gomiti nel vano di una finestra, ricordando le sue cacce di un tempo; e avrebbe voluto inseguire nel deserto le gazzelle e gli struzzi, star nascosto tra i bambù a fare la posta ai leopardi, attraversare foreste piene di rinoceronti, raggiungere la vetta delle montagne più inaccessibili per osservare meglio le aquile, e combattere gli orsi bianchi sul mare ghiacciato.
A volte, in sogno, si vedeva come nostro padre Adamo al centro del Paradiso, tra tutti gli animali; stendendo il braccio li faceva morire; oppure, gli sfilavano davanti, a due a due, in ordine di grandezza, dagli elefanti e dai leoni fino alle anatre e agli ermellini, come il giorno in cui erano entrati nell'Arca di Noè.
All'ombra di una caverna scoccava su di essi infallibili giavellotti; ma altri se ne aggiungevano, senza fine; e si svegliava stralunato, con occhi feroci.
Alcuni prìncipi suoi amici lo invitarono a caccia. Egli rifiutò sempre, credendo con quella specie di penitenza di allontanare da sé la sua sventura; perché gli sembrava che dall'uccisione degli animali dipendesse il destino dei suoi genitori. Ma soffriva di non vederli, e questa mancanza gli diventava intollerabile.
Per distrarlo, sua moglie fece venire giocolieri e danzatrici.
Passeggiava con lui in campagna, su una portantina aperta; a volte, sdraiati sul bordo d'una barca, guardavano i pesci vagare nell'acqua, limpida come il cielo. Spesso lei gli gettava fiori sul viso; accoccolata ai suoi piedi, improvvisava melodie su una mandola a tre corde; poi, posandogli sulla spalla le mani giunte, diceva con voce timida: "Cosa mai vi rattrista, dolce signore?".
Egli non rispondeva, o scoppiava in singhiozzi; infine un giorno confessò la sua tremenda angoscia.
Lei lo contestò con un ragionamento molto lucido: suo padre e sua madre probabilmente erano morti; e se anche li avesse rivisti, per qual caso, per quale scopo, sarebbe giunto ad una simile infamia?
Quindi il suo timore non era giustificato, e doveva rimettersi a cacciare.
Giuliano l'ascoltava sorridendo, ma non si decideva a soddisfare il suo desiderio.
Una sera d'agosto erano nella loro stanza; lei si era appena coricata e lui si inginocchiava per recitare le preghiere, quando udì il guaito di una volpe, poi dei passi leggeri sotto la finestra; e gli sembrò di vedere delle forme d'animali. La tentazione era troppo forte.
Staccò la faretra.
Lei parve sorpresa.
"E' per obbedirti!" disse. "Al levar del sole sarò di ritorno".
Ma lei temeva un'avventura funesta.
Lui la rassicurò, poi uscì, stupito dall'incoerenza dell'umore della moglie.
Poco dopo, un paggio le annunziò che due sconosciuti, in assenza del signore, chiedevano della signora, immediatamente. Subito entrarono nella camera un vecchio e una vecchia, curvi, polverosi, vestiti di tela, appoggiandosi ognuno ad un bastone.
Si fecero animo e annunciarono di portare a Giuliano notizie dei suoi genitori.
Lei si chinò per ascoltarli.
Ma, dopo essersi scambiati uno sguardo d'intesa, le chiesero se egli li amava ancora, se qualche volta parlava di loro.
"Oh! sì!" fece lei.
Allora, essi esclamarono:
"Ebbene! siamo noi!". E si sedettero, perché erano molto stanchi e sfiniti dalla fatica. Niente garantiva alla giovane sposa che suo marito fosse loro figlio.
Ma essi ne diedero la prova descrivendo alcuni segni particolari che lui aveva sulla pelle.
Lei saltò giù dal letto, chiamò il suo paggio e fece servire loro una cena.
Nonostante avessero molta fame, non riuscivano quasi a mangiare; lei, in disparte, osservava il tremito delle loro mani ossute quando alzavano i bicchieri.
Fecero mille domande su Giuliano. Lei rispose a tutte, ma ebbe cura di tacere l'angoscia che li riguardava.
Erano partiti dal loro castello non vedendolo ritornare; ed erano in cammino da anni e anni, seguendo vaghe indicazioni, senza perdere la speranza. C'era voluto tanto denaro per il pedaggio dei fiumi e nelle locande, per i diritti dei prìncipi e per le richieste dei briganti, così il fondo della loro borsa era vuoto, e adesso mendicavano. Ma che importava, poiché presto avrebbero riabbracciato il loro figlio! E lodavano la sua fortuna di avere una moglie tanto graziosa, e non si stancavano di ammirarla e baciarla.
La ricchezza della casa li sbalordiva; e il vecchio, dopo avere esaminato i muri, chiese come mai vi si trovasse lo stemma dell'imperatore di Occitania.
Lei rispose:
"E mio padre!".
Allora egli trasalì, ricordando la profezia dello zingaro; e la vecchia pensava alle parole dell'Eremita. Senza dubbio, la magnificenza di suo figlio era solo l'alba degli splendori eterni; e tutti e due restavano sbalorditi, sotto la luce del candelabro che illuminava la tavola.
Dovevano essere stati molto belli in gioventù. La madre aveva ancora tutti i capelli, che divisi in due bande sottili, simili a falde di neve, le scendevano fin sotto le guance; e il padre, con la sua alta statura e la grande barba, sembrava una statua di chiesa.
La moglie di Giuliano li pregò di non aspettarlo. Lei stessa li fece stendere nel suo letto, poi chiuse la finestra; si addormentarono. Stava per far giorno, e dietro la vetrata gli uccellini cominciavano a cantare.
Giuliano aveva attraversato il parco; e camminava nella foresta con passo nervoso, godendo dell'erba soffice e dell'aria tiepida.
Le ombre degli alberi si allungavano sul muschio. La luna creava macchie bianche nelle radure, ed egli procedeva esitante, credendo di scorgere una pozza d'acqua o la superficie di stagni silenziosi confuse nel colore dell'erba. Tutto intorno era silenzio; e non scorgeva nessuno degli animali che, pochi istanti prima, vagavano intorno al suo castello.
Il bosco si infittì, l'oscurità divenne fonda. Folate di vento caldo passavano, cariche di odori snervanti. Egli affondava nei mucchi di foglie morte, e si appoggiò ad una quercia per riprendere fiato.
Ad un tratto, alle sue spalle scattò una massa cupa, un cinghiale.
Giuliano non ebbe il tempo di afferrare l'arco, e se ne lamentò come di una disgrazia. Poi, uscito dal bosco, vide un lupo che correva lungo una siepe.
Giuliano gli tirò una freccia. Il lupo si fermò, voltò la testa per guardarlo e riprese la corsa. Correva mantenendo sempre la stessa distanza, di tanto in tanto si fermava, e, appena era sotto mira, riprendeva la fuga.
In tal modo Giuliano attraversò una pianura sconfinata, poi dei monticelli di sabbia, e infine si trovò su un altopiano che dominava una larga parte del territorio. Pietre piatte erano disseminate tra tombe in rovina. Inciampava su ossa di morti; qua e là, croci divorate dai vermi si piegavano miseramente. Ma alcune forme si mossero nell'ombra vaga delle tombe; e ne balzarono fuori delle iene impaurite e ansimanti. Con un secco suono di unghie sulle lapidi, si mossero verso di lui e lo annusavano aprendo le fauci fino a scoprire le gengive. Egli sguainò la sciabola.
Fuggirono tutte insieme in ogni direzione, e continuando nella loro corsa zoppicante e precipitosa scomparvero lontano in una nube di polvere.
Un'ora dopo, incontrò in un burrone un toro furioso, con le corna basse, e che raspava la sabbia con lo zoccolo.
Giuliano gli ficcò la lancia sotto la gola. La lancia si spezzò, come se l'animale fosse stato di bronzo; chiuse gli occhi, aspettando la morte. Quando li riaprì, il toro era scomparso.
Allora la sua anima cedette per la vergogna. Un potere superiore distruggeva la sua forza; e, per tornarsene a casa, rientrò nella foresta.
Essa era tutta intricata di liane; ed egli le tagliava con la sciabola quando una faina gli scivolò improvvisamente tra le gambe, una pantera gli balzò al di sopra della spalla, un serpente si attorcigliò intorno a un frassino.
In mezzo al fogliame c'era una taccola mostruosa, che osservava Giuliano; e, sparse, apparvero tra i rami miriadi di scintille, come se il firmamento avesse fatto piovere nella foresta tutte le sue stelle. Erano occhi d'animali, di gatti selvatici, di scoiattoli, di gufi, di pappagalli, di scimmie.
Giuliano scoccò contro di loro le sue frecce; le frecce piumate si posavano sulle foglie come farfalle bianche. Gettò loro delle pietre; le pietre, senza colpire nulla, ricadevano a terra.
Maledisse se stesso, avrebbe voluto battersi, imprecò, soffocava di rabbia.
E tutti gli animali che aveva inseguito ricomparvero, stringendolo in un cerchio. Alcuni stavano seduti, altri dritti in tutta la loro altezza. E lui era in mezzo, gelato dalla paura, incapace del minimo movimento. Con uno sforzo supremo di volontà, fece un passo; quelli che stavano appollaiati sugli alberi aprirono le ali, quelli che calpestavano la terra mossero le membra; e tutti l'accompagnavano.
Le iene camminavano davanti a lui, il lupo e il cinghiale dietro.
Il toro, alla sua destra, dondolava il muso; e, alla sua sinistra, il serpente ondeggiava nell'erba, mentre la pantera, arcuando il dorso, avanzava a passo di velluto e a grandi falcate. Camminava il più adagio possibile, per non innervosirli, e vedeva uscire dal folto dei cespugli porcospini, volpi, vipere, sciacalli e orsi.
Giuliano si mise a correre; e anch'essi corsero. Il serpente sibilava, le bestie puzzolenti sbavavano. Il cinghiale gli sfregava i talloni con le zanne; il lupo, il palmo delle mani con i peli del muso. Le scimmie lo pizzicavano facendo smorfie; la faina si rotolava sui suoi piedi. Un orso, con una zampata, gli tolse il cappello; e la pantera, sdegnosamente, lasciò cadere una freccia che teneva nelle fauci.
Una certa ironia traspariva dal loro atteggiamento sornione.
Continuando ad osservarlo con la coda dell'occhio, pareva che meditassero un piano di vendetta. Assordato dal ronzio degli insetti, percosso dalle code degli uccelli, soffocato dal fiato delle belve, egli camminava con le braccia tese e gli occhi chiusi come un cieco, senza nemmeno avere la forza per gridare "pietà!".
Il canto del gallo risuonò nell'aria. Altri gli risposero; era giorno; ed egli riconobbe, al di là degli aranceti, la cima del suo palazzo.
Poi, sul ciglio di un campo, a tre passi di distanza, vide pernici rosse che svolazzavano tra le stoppie. Si sfibbiò il mantello e lo gettò su di esse come una rete. Quando lo sollevò, ne trovò solamente una, per di più morta da molto tempo, putrefatta.
Questa delusione lo esasperò più di tutte le altre. La sete di massacro lo riprendeva; in mancanza di bestie, avrebbe voluto sterminare uomini.
Salì le tre terrazze, sfondò la porta con un pugno; ma, ai piedi delle scale, il ricordo della cara sposa placò il suo cuore.
Certamente dormiva e l'avrebbe sorpresa.
Si sfilò i sandali, girò piano la maniglia, ed entrò.
I vetri legati in piombo oscuravano il chiarore dell'alba.
Giuliano inciampò in vesti che giacevano a terra; poco più in là urtò contro una tavola ancora piena di piatti. "Avrà mangiato" si disse; e avanzava verso il letto, perduto nelle tenebre in fondo alla stanza. Quando fu alla sponda, per baciare sua moglie si chinò sul guanciale dove le due teste riposavano una accanto all'altra. Allora ebbe sulle labbra la sensazione di una barba.
Indietreggiò, credendo d'impazzire; ma ritornò accanto al letto, e le sue dita, tastando, incontrarono dei capelli molto lunghi. Per convincersi del suo errore, passò ancora una volta la mano sul guanciale. Era proprio una barba, questa volta, e un uomo! un uomo coricato con sua moglie!
Sconvolto da una collera incontenibile, si avventò su di loro colpi di pugnale; e barcollava, schiumava, con urla da bestia selvaggia. Poi si fermò. I morti, trafitti al cuore, non si erano nemmeno mossi. Ascoltava attentamente i loro rantoli quasi uguali, e man mano che si affievolivano, un altro, lontano, li continuava.
Dapprima incerta, questa voce lamentosa, incessante, si avvicinava, si ingrossò, divenne atroce; ed egli riconobbe, terrorizzato, il bramito del grande cervo nero.
E mentre si voltava, gli sembrò di vedere nel vano della porta l'ombra della moglie, con un lume in mano. Il rumore della strage l'aveva fatta accorrere. Passò intorno lo sguardo, capì tutto e, fuggendo inorridita, lasciò cadere il lume.
Lui lo raccolse.
Suo padre e sua madre gli stavano davanti, distesi supini con uno squarcio nel petto; e i loro visi, di una maestosa dolcezza, sembravano custodire un segreto eterno. Schizzi e macchie di sangue si allargavano sulla loro pelle bianca, sulle lenzuola del letto, per terra, su un crocifisso d'avorio appeso nell'alcova. Il riflesso scarlatto dei vetri colpiti in quel momento dal sole, illuminava quelle chiazze rosse e ne gettava numerose altre nella stanza. Giuliano avanzò verso i due morti ripetendo a se stesso, volendo credere, che non era possibile, che si era ingannato, che vi sono talvolta somiglianze misteriose. Poi si chinò leggermente per osservare bene il vecchio da vicino; e scorse, tra le sue palpebre semichiuse, una pupilla spenta che lo bruciò come fuoco.
Infine si spostò dall'altro lato del letto, occupato dall'altro corpo, con i capelli bianchi che coprivano una parte del viso.
Giuliano passò le dita sotto i capelli, sollevò quella testa, e la osservava tenendola all'estremità del suo braccio irrigidito, mentre con l'altra mano si faceva luce col lume. Dal materasso, gocce stillavano ad una ad una sul pavimento.
Sul finire del giorno si presentò davanti alla moglie e, con voce che non era più la sua, le ingiunse innanzitutto di non rispondergli, di non avvicinarsi a lui, di non guardarlo nemmeno, e di eseguire, pena la dannazione, tutti i suoi ordini, che erano irrevocabili.
I funerali dovevano essere fatti secondo le istruzioni che egli aveva lasciato per iscritto, su un inginocchiatoio, nella camera dei morti. Le lasciava il suo palazzo, i suoi vassalli, tutti i suoi beni, senza nemmeno tenersi i vestiti che aveva indosso, né i sandali, che avrebbero trovato in cima alle scale.
Lei aveva obbedito alla volontà di Dio, dandogli l'occasione del delitto, e doveva pregare per la sua anima, perché lui ormai non esisteva più.
I morti furono sepolti fastosamente, nella chiesa d'un monastero a tre giornate dal castello. Un frate col cappuccio calato seguì il corteo, lontano da tutti gli altri, senza che nessuno osasse parlargli. Restò, durante la messa, disteso bocconi al centro del portale, con le braccia a croce, e la fronte nella polvere.
Dopo la sepoltura, fu visto prendere il cammino che portava alle montagne. Si voltò indietro più volte, e poi scomparve.
Se ne andò mendicando la vita per il mondo.
Tendeva la mano ai cavalieri lungo le strade, si inginocchiava davanti ai mietitori, o se ne stava immobile davanti al recinto dei cortili; e il suo viso era così triste che mai nessuno gli rifiutava l'elemosina.
Per spirito d'umiltà, raccontava la sua storia; allora tutti scappavano via, facendosi il segno della croce. Nei villaggi dove era già passato, appena lo riconoscevano chiudevano le porte, gli lanciavano minacce, gli tiravano sassi. I più caritatevoli posavano una scodella sul davanzale della finestra sotto la tettoia, poi la chiudevano per non vederlo.
Respinto ovunque, evitò gli uomini; e si nutrì di radici, di piante, di frutti buttati via e di molluschi che cercava lungo le spiagge.
A volte, alla svolta di un'erta, vedeva di sotto un ammasso di tetti, di guglie di pietra, ponti, torri, strade nere che si incrociavano, e dalle quali saliva fino a lui un brusio incessante.
Il bisogno di mescolarsi all'esistenza degli altri lo faceva scendere in paese. Ma l'espressione di quei visi da bruti, il frastuono dei mestieri, l'indifferenza dei discorsi gli gelava il cuore. Nei giorni di festa, quando il campanone delle cattedrali spandeva letizia fin dall'alba nel cuore della gente, guardava gli abitanti uscire dalle loro case, poi le danze nelle piazze, le fontane che davano birra ai crocicchi, le tende di damasco davanti alle dimore dei prìncipi, e caduta la sera, attraverso le vetrate dei pianterreni, le lunghe tavolate di famiglia in cui i vecchi tenevano i nipotini sulle ginocchia; allora i singhiozzi lo soffocavano, e se ne tornava verso la campagna.
Contemplava colmo di impeti d'amore i puledri nei pascoli, gli uccelli nei nidi, gli insetti sui fiori; ma al suo avvicinarsi tutti correvano via, si nascondevano impauriti e volavano più lontano.
Cercò le solitudini. Ma il vento portava al suo orecchio lamenti di agonia; le lacrime della rugiada cadendo per terra gli ricordavano altre gocce di un peso più greve. Il sole, tutte le sere, spandeva sangue sulle nuvole; e ogni notte, in sogno, il suo parricidio si ripeteva.
Si fece un cilicio con punte di ferro. Percorse in ginocchio tutte le colline che avevano una cappella sulla vetta. Ma l'implacabile pensiero oscurava lo splendore dei tabernacoli, lo torturava con le macerazioni della penitenza.
Non si ribellava contro Dio che gli aveva inflitto quell'atto, e tuttavia si disperava per averlo potuto commettere.
La sua stessa persona gli faceva un tale orrore che sperando di liberarsene la espose ad ogni pericolo. Salvò paralitici dagli incendi, bambini caduti nel fondo dei burroni. L'abisso lo rifiutava; le fiamme lo risparmiavano.
Il tempo non placò la sua sofferenza. Essa diventava intollerabile. Decise di morire.
E un giorno, mentre si trovava sull'orlo d'un pozzo, e vi si chinava sopra per misurare la profondità dell'acqua, gli apparve davanti un vecchio scarnito, con la barba bianca e un aspetto così pietoso che gli fu impossibile trattenere le lacrime. Anche l'altro piangeva. Senza riconoscere quell'immagine, Giuliano si ricordava confusamente un viso simile a quello. Gettò un grido; era suo padre; e non pensò più a uccidersi.
Così, portando il peso del suo ricordo, percorse molti paesi; e arrivò presso un fiume la cui traversata era pericolosa per la violenza della corrente, e perché sulle sponde c'era una grande distesa di melma. Da molto tempo nessuno osava più attraversarlo.
Una vecchia barca, affondata di poppa, drizzava la prua tra le canne. Giuliano esaminandola scoprì un paio di remi; e gli venne l'idea di mettere la sua esistenza al servizio degli altri.
Cominciò a costruire sulla riva una specie di argine che permettesse di scendere fino al canale; e si spezzava le unghie a smuovere le pietre enormi, se le appoggiava sulla pancia per trasportarle, scivolava nella melma, vi affondava; più volte rischiò di morire.
Poi riparò la barca con relitti di navi, e si fece una capanna con argilla e tronchi d'albero.
Il traghetto divenne noto, e i viaggiatori vi affluivano. Lo chiamavano dall'altra sponda, agitando delle bandiere; Giuliano rapido saltava nella barca. Era pesantissima; e la sovraccaricavano d'ogni sorta di bagagli e di pesi, senza contare le bestie da soma che, scalciando per la paura, aumentavano l'ingombro. Egli non chiedeva nulla per la sua fatica; alcuni gli davano gli avanzi del cibo che tiravano fuori dalle bisacce o i vestiti logori di cui si volevano disfare. I più rozzi urlavano bestemmie. Giuliano li rimproverava con dolcezza, essi rispondevano con ingiurie. Egli si accontentava di benedirli.
Un piccolo tavolo, uno sgabello, un letto di foglie secche e tre scodelle d'argilla erano tutto il suo mobilio. Due buchi nel muro servivano da finestre. Da un lato, si stendevano a perdita d'occhio pianure sterili interrotte qua e là da pallidi stagni; e di fronte a lui il grande fiume scorreva svolgendo i suoi flutti verdastri. In primavera, la terra umida aveva un odore di marcio.
Poi, un vento disordinato sollevava turbini di polvere. Entrava dappertutto, rendeva l'acqua torbida, scricchiolava fra i denti.
Dopo arrivavano nugoli di zanzare che ronzavano e mordevano incessantemente, giorno e notte. Infine, sopraggiungevano tremende gelate che davano alle cose la rigidità della pietra, e inducevano un folle bisogno di mangiare carne.
Passavano mesi senza che Giuliano vedesse qualcuno. Spesso chiudeva gli occhi, cercando con la memoria di tornare alla sua giovinezza; e appariva il cortile di un castello, con levrieri su una scalinata, valletti nella sala d'armi e, sotto un pergolato di pampini, un adolescente con i capelli biondi tra un vecchio coperto di pellicce e una dama dall'alto copricapo; ma di colpo, ecco apparire due cadaveri. Allora si gettava bocconi sul letto, e ripeteva piangendo:
"Ah! povero padre! povera madre! povera madre!".
E cadeva in un torpore in cui le visioni funeste continuavano.
Una notte, mentre dormiva, gli sembrò di sentire qualcuno che lo chiamava. Tese l'orecchio e distinse solo il mugghiare del flutti.
Ma la stessa voce ripeté:
"Giuliano!".
Veniva dall'altra sponda, cosa che gli parve straordinaria, data la larghezza del fiume.
Una terza volta la voce chiamò:
"Giuliano!".
E quella voce alta aveva l'intonazione d'una campana di chiesa.
Accesa la lanterna, uscì dalla capanna. Un uragano furioso riempiva la notte. Le tenebre erano profonde, squarciate qua e là dal biancore delle onde che salivano impetuose.
Dopo un minuto d'esitazione, Giuliano sciolse l'ormeggio. L'acqua si calmò immediatamente, la barca vi scivolò sopra e toccò l'altra sponda, dove un uomo aspettava.
Era avvolto in un telo a brandelli, la faccia simile a una maschera di gesso e gli occhi più rossi delle braci. Avvicinando a lui la lanterna, Giuliano si accorse che era coperto da una lebbra ributtante; tuttavia aveva nel suo atteggiamento una certa regale maestà.
Appena entrò nella barca, questa sprofondò straordinariamente sotto il suo peso; uno scossone la risollevò e Giuliano si mise a remare.
A ogni colpo di remo la risacca dei flutti le sollevava la prua.
L'acqua, più nera dell'inchiostro, correva con furia ai due lati dell'imbarcazione. Scavava abissi, si innalzava a picco, e la scialuppa vi era spinta sopra, e poi ributtata nei gorghi dove girava su se stessa, sballottata dal vento.
Giuliano piegava il corpo, stendeva le braccia e facendo forza sui piedi si rovesciava indietro torcendo il busto per prendere più spinta. La grandine gli frustava le mani, la pioggia gli scorreva per la schiena, la violenza del vento lo soffocava; si fermò.
Allora la barca fu trascinata alla deriva. Ma, consapevole che si trattava di una cosa importante, di un ordine a cui non si poteva disobbedire, riprese i remi; e il battito degli scalmi rompeva il fragore della tempesta.
La piccola lanterna ardeva davanti a lui. Gli uccelli, svolazzando, a tratti gliela nascondevano. Ma sempre scorgeva le pupille del lebbroso che si teneva dritto a poppa, immobile come una colonna.
E tutto questo durò a lungo, molto a lungo!
Quando furono giunti nella capanna, Giuliano chiuse la porta; e lo vide sedersi sullo sgabello. La specie di sudario che lo copriva gli era caduto sui fianchi; e le sue spalle, il suo petto, le sue braccia magre sparivano sotto croste squamose. Enormi rughe gli solcavano la fronte. Come uno scheletro, aveva un buco al posto del naso; e dalle labbra livide usciva un alito denso come nebbia, e fetido.
"Ho fame!".
Giuliano gli dette ciò che aveva, un pezzo di lardo vecchio e avanzi di pane nero.
Dopo che li ebbe divorati, la tavola, la scodella e il manico del coltello avevano le stesse chiazze che si vedevano sul suo corpo.
Poi disse: "Ho sete!".
Giuliano cercò la brocca; e mentre la prendeva, ne uscì un aroma che gli dilatò le narici e il cuore. Era vino; che sorpresa! ma il lebbroso allungò il braccio e vuotò tutta la brocca d'un fiato.
Poi disse: "Ho freddo!".
Giuliano accese con la candela un fascio di felci in mezzo alla capanna.
Il lebbroso si avvicinò per riscaldarsi, e, chinato sui talloni, tremava in tutte le membra, si affievoliva; i suoi occhi non brillavano più, le sue ulcere colavano e, con voce quasi spenta, mormorò: "Il tuo letto!".
Giuliano lo aiutò a trascinarvisi piano piano, e stese su di lui, per coprirlo, anche la tela della sua barca.
Il lebbroso gemeva. Gli angoli della bocca gli scoprivano i denti, un rantolo affannoso gli scuoteva il petto, e il suo ventre ad ogni inspirazione si incavava fino alle vertebre.
Poi chiuse gli occhi.
"Mi sento il ghiaccio nelle ossa! Vienimi vicino!".
E Giuliano, alzando la tela, si coricò sulle foglie secche, accanto a lui, fianco a fianco.
Il lebbroso girò il viso.
"Spogliati, lasciami ricevere il calore del tuo corpo!".
Giuliano si tolse le vesti; poi, nudo come alla nascita, si rimise sul giaciglio; e sentiva contro la coscia la pelle del lebbroso, più fredda di un serpente e ruvida come una lima.
Cercava di fargli coraggio; e l'altro rispondeva, ansimando:
"Ah! sto morendo!... Avvicinati, riscaldami! Non con le mani! no!
con tutto il tuo corpo".
Giuliano gli si distese sopra completamente, bocca contro bocca, petto su petto.
Allora il lebbroso lo strinse; e i suoi occhi di colpo presero il chiarore delle stelle; i suoi capelli si allungarono come raggi di sole; il soffio delle sue narici aveva il profumo delle rose; una nuvola d'incenso si alzò dal focolare, le onde cantavano. Intanto una profusione di delizie, una gioia sovrumana scendeva su Giuliano estatico inondando la sua anima; e colui le cui braccia lo stringevano sempre, diventava sempre più grande, fino a toccare con la testa e con i piedi i muri della capanna. Il tetto volò via, il firmamento si spalancava; e Giuliano salì verso gli spazi azzurri, col viso contro il viso di Nostro Signore Gesù che lo portava con sé in cielo.
Questa è la storia di san Giuliano Ospitaliere, come la si trova più o meno raccontata sulla vetrata di una chiesa, nel mio paese.