Victor Hugo


L'ULTIMO GIORNO DI

UN CONDANNATO






INTRODUZIONE


Victor Hugo nacque il 26 febbraio 1802 a Besançon. Suo padre, Leopold- Sigisberg Hugo, generale dell'esercito napoleonico, seguì in Italia e in Spagna Giuseppe Bonaparte, e i figli e la moglie, Sofia Trebuchet, gli furono accanto nei suoi spostamenti. La Restaurazione pose fine a questo vagabondare.

Dal 1815 al 1818, Victor visse a Parigi nel convitto Cordier dove il padre avrebbe voluto preparasse gli esami per essere ammesso all'Ecole Polytechnique. Egli uscì invece dall'Istituto ben convinto di dedicarsi alla letteratura e nel 1819 fondò con il fratello Abel "Le Conservateur Littéraire". Nel 1822 i suoi primi scritti di intonazione monarchica e cattolica "Odes et poesies diverses", gli fruttarono dal re Luigi Diciottesimo una pensione di 1000 franchi che fu accresciuta nel 1823 per la pubblicazione di "Han d'Island". Lo stesso anno sposò Adele Foucher. Da questo matrimonio nacquero cinque figli.

Sono di questi anni i suoi primi contatti con i circoli romantici parigini, primo fra tutti quello di Jacques Nodier alla Biblioteca dell'Arsenal, è del 1827 il "Cromwell", il dramma la cui prefazione è considerata giustamente il manifesto delle nuove teorie romantiche.

Delle tre unità aristoteliche egli mantiene la sola unità di azione che considera unica condizione necessaria per un'opera drammatica, proclama la necessità di riportare l'arte alla verità, parla di imitazione della natura, di introduzione della storia nel dramma, di verso espressivo, vario, pieghevole.

Nel 1830, poiché il "Cromwell" era un dramma di troppo vasta mole per essere rappresentato, sulla base delle teorie esposte, portò sulle scene l'"Hernani". Fu la battaglia decisiva e Victor Hugo fu riconosciuto capo della nuova scuola romantica. Gli scritti si susseguirono allora numerosi: opere drammatiche ("Marion Delorme" 1831; "Le Roi s'amuse" 1832; "Lucrece Borgia", "Maria Tudor", "Ruy Blas", 1838; un romanzo ("Nôtre Dame de Paris"), 4 volumi di versi ("Les feuilles d'automne" 1831; "Le chats du Crepuscule" 1835; "Les Voix Interieures" 1837; "Les Rayon et les ombres" 1840), e nel 1841 divenne membro dell'Accademia Francese.

Due avvenimenti interruppero nel 1843 per un decennio la sua attività letteraria: la morte di sua figlia Léopoldine e l'insuccesso del dramma "Les Burgraves", che determinò la sua rinuncia al teatro.

Nel 1845 venne nominato da Luigi Filippo Pari di Francia, nel 1848 deputato all'Assemblea Costituente, dove fu uno dei più fieri avversari del presidente Luigi Bonaparte. Ma il colpo di stato del 1851 segnò per lui l'inizio dell'esilio, di quell'esilio che doveva durare fino al 4 settembre 1870. Furono letterariamente anni molto fecondi: nel 1853 pubblicò "Les chatiments", aspra satira contro Napoleone, nel 1856 "Les contemplations", nel 1859 la prima serie della "Légende des Siecles" (il seguito uscirà nel 1877 e nel 1883), nel 1862 "I Miserabili".

Rientrò a Parigi dopo il crollo del Secondo Impero, entrò nel Senato nel 1876 e morì il 22 maggio 1884. Le sue esequie furono un'apoteosi; la sua salma fu lasciata per una notte sotto l'Arco di Trionfo dei Campi Elisi e vegliata da dodici poeti.




Bicêtre



1.


Condannato a morte!

Sono cinque settimane che io vivo con questo pensiero: sempre solo con esso, sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso!

Un tempo, poiché mi sembra siano passati anni e non settimane, io ero un uomo come tutti gli altri: ogni giorno, ogni ora, ogni minuto aveva le sue fantasie: e il mio spirito, giovane e ricco, si divertiva a snodarmele davanti l'una dopo l'altra senza alcun ordine o regola ricamando di arabeschi infiniti il tessuto di questa misera vita.

Erano ragazze, splendide cappe d'arcivescovo, vinte battaglie e teatri illuminati e sonori; e ragazze ancora e solitarie passeggiate, di notte, sotto le larghe braccia dei castagni... Era sempre festa nella mia immaginazione: potevo sempre pensare a quel che volevo, ero libero!

Ora, invece, sono carcerato.

Il mio corpo è in catene in una cella e l'anima è prigioniera d'una idea: un'orribile, atroce, implacabile idea: non ho più che un pensiero, che una convinzione, che una certezza: condannato a morte!

Qualsiasi cosa io faccia questo pensiero infernale è sempre lì, solo e geloso ai miei fianchi come uno spettro di piombo che mi toglie ogni distrazione, con gli occhi sempre fissi nei miei, sempre pronto a scuotermi con le sue mani di ghiaccio non appena voglia girare la testa od abbassare le palpebre. Si insinua in tutte le maniere là dove cerca di fuggirlo il mio spirito, si mischia come un orribile ritornello a tutte le parole che mi rivolgono, mi assedia quando sono sveglio, spia il mio sonno agitato e infine come un orribile coltello mi appare nei sogni. Allora mi sveglio di colpo, e balzando a sedere spaventato da tale visione esclamo: «Ah, non era che un sogno!».

Ebbene, prima ancora che i miei occhi pesanti abbian potuto aprirsi abbastanza per contemplare questo spaventoso pensiero scritto nell'orribile realtà che mi circonda, sul viscido e trasudante pavimento della cella, nel pallido lume della lucerna, nella tela grossolana dei vestiti, sulla tetra figura del soldato di guardia la cui giberna luccica al di là dello spioncino, mi sembra che una voce mi abbia mormorato all'orecchio: «Condannato a morte!».




2.


Fu una bella mattina d'agosto

Erano tre giorni che il mio processo era iniziato: tre giorni che il mio nome e il mio delitto richiamavano ogni mattino un nugolo di spettatori che venivano a calare sui banchi delle udienze come corvi intorno a un cadavere, tre giorni che tutta quella fantasmagoria di giudici, di testimoni, di avvocati, di procuratori del re mi passava e ripassava davanti, alle volte grottesca e alle volte spaventosa, e sempre ad ogni modo cupa e terribile. Durante le due prime notti, piene di inquietudini e di terrori, non avevo potuto dormire; la terza, alla fine, dormii di noia e fatica. A mezzanotte, infatti, lasciati i giurati riuniti per deliberare, mi avevano riportato sulla paglia della prigione e immediatamente ero piombato in un profondissimo sonno d'oblio: dopo molti e molti giorni erano quelle le prime ore di riposo.

Quando mi vennero a svegliare ero ancora nel più profondo del sonno.

Questa volta non bastarono davvero né i passi pesanti e le suole chiodate del secondino né il tintinnio del suo mazzo di chiavi né il rauco cigolìo del catenaccio: per farmi uscire dal letargo in cui ero caduto ci volle la sua voce rude al mio orecchio e la sua mano pesante sul mio braccio: «Alzatevi, su!».

Mi alzai intontito e mi misi a sedere sul letto.

In quel momento, dalla stretta ed alta finestra della celia vidi sul soffitto del corridoio vicino, solo cielo che mi fu dato intravedere, quel riflesso dorato in cui degli occhi abituati alle tenebre di una prigione sanno così bene riconoscere il sole.

Io amo il sole.

«E' una bella giornata», dissi al secondino. Egli restò un momento senza rispondermi, come se non sapesse se valesse la pena di spendere una parola; poi con qualche sforzo mormorò bruscamente: «Può darsi».

Restai immobile, coi sensi non ancora ben svegli, la bocca sorridente, l'occhio fisso su quel dolce riverbero che chiazzava il soffitto.

«Ecco una bella giornata» ripetei.

«Sì, mi rispose quello, bisogna andare».

Queste poche parole, come l'ostacolo che interrompe il volo di 'un insetto, mi rigettarono violentemente nella realtà: improvvisamente rividi, come nel chiarore di un lampo, la cupa sala del tribunale, il tavolo a ferro di cavallo dei giudici, i tre ordini di testimoni dalle facce un poco ebeti, i due gendarmi ai capi del mio banco, l'agitarsi delle toghe nere, il formicolare delle teste della folla, in fondo, nell'ombra, e il loro arrestarsi su di me, lo sguardo fisso di quei dodici giurati che avevano vegliato mentre io dormivo...

Mi alzai: mi battevano i denti e mi tremavano le mani; e al primo passo che feci traballai come un facchino troppo carico.

Tuttavia seguii il carceriere.

I due gendarmi mi aspettavano sulla soglia della cella: rimessemi le manette ne chiusero con cura la piccola complicata serratura mentre io li lasciavo fare.

Nell'attraversare un cortile interno l'aria viva del mattino mi rianimò. Alzai la testa: il cielo era azzurro, e i raggi del sole, rotti dai lunghi camini, disegnavano delle grandi zone di luce sulla cima dei tristi ed alti muri della prigione: era bello davvero.

Salimmo per una scala a chiocciola; percorremmo un corridoio, poi un altro, poi ancora un terzo; alla fine si aprì una piccola porta e una aria calda e piena di brusio mi investì in viso: era il soffio della folla nella sala del processo.

Entrai.

Alla mia vista ci fu un rumore di armi e di voci e si spostarono rumorosamente le panche. Le ringhiere di legno scricchiolarono; e mentre attraversavo la lunga sala tra due file di pubblico a stento trattenuto dai soldati, mi sembrò di essere come il centro al quale si attaccassero i fili che facevano muovere tutte quelle facce curiose e protese. Proprio in quel momento mi accorsi di essere senza ferri; ma non riuscii più a ricordarmi né dove né quando me li avessero tolti.

Poi si fece un grande silenzio: ero giunto al mio posto. Nel momento in cui il tumulto cessò tra la folla, cessò anche nelle mie idee: e di colpo compresi chiaramente ciò che non avevo fatto che intravvedere confusamente fino ad allora: che il momento decisivo, cioè, era arrivato, e che io ero là per ascoltare la mia sentenza.

Non so come, ma quest'idea non mi fece terrore. Le finestre erano aperte, e l'aria e il brusio della città arrivavano liberamente da fuori; la sala era chiara come per un giorno di nozze e gli allegri raggi del sole tracciavano qua e là la figura luminosa delle finestre, ora allungata sul pavimento, ora stesa sui tavoli, ora rotta nell'angolo del muro. I giudici, in fondo alla sala, avevano l'aria soddisfatta: per la gioia, probabilmente, di aver quasi finito. Il viso del presidente, dolcemente rischiarato dal riflesso di un vetro, aveva qualcosa di calmo e di buono; e un giovane assessore, gualcendo il collarino, discorreva quasi allegramente con una graziosa signora in cappellino rosa che se ne stava dietro di lui.

Solo i giurati sembravano pallidi e abbattuti: ma era, come sembrava, per la fatica di aver vegliato tutta la notte: qualcuno infatti sbadigliava, e niente faceva sospettare in loro degli uomini che stessero per pronunciare una sentenza di morte: nell'aspetto di quei buoni borghesi io non leggevo che una gran voglia di dormire.

Di fronte a me una finestra era completamente spalancata: sentivo ridere delle fioraie sulla strada; e sul davanzale, un piccolo fiore giallo tutto pieno di sole giocava con il vento in una crepa. Come avrebbe mai potuto nascere un'idea sinistra in mezzo a immagini tanto piacevoli?

Inondato di aria e di sole non mi fu possibile pensare ad altro che alla libertà: la speranza mi brillava nel cuore come il giorno all'intorno e, tranquillo, aspettavo la sentenza come si aspettano la liberazione e la vita.

Nel frattempo, atteso già da un poco, era giunto il mio avvocato.

Preso alfine il suo posto si piegò verso di me con un sorriso.

- Io spero - mi disse.

- Non è vero?! - risposi allegro e sorridendo anch'io.

- Sì- riprese - non so ancora niente della loro motivazione ma certo hanno dovuto escludere la premeditazione; e allora non saranno, di sicuro, che i lavori forzati.

- Ma cosa dite mai?! - replicai indignato - piuttosto cento volte la morte!

Sì, la morte!

E del resto, mi ripeteva una voce da dentro, cosa rischio a dire questo? Si è mai pronunciata sentenza di morte se non a mezzanotte, al lume delle torce, in una sala tetra e nera durante una fredda e piovosa notte d'inverno? Nel mese di agosto, alle otto del mattino, con una così bella giornata e questi buoni giurati, suvvia, è impossibile! E i miei occhi tornavano a fissarsi sul piccolo fiore giallo che tremava al sole.

D'improvviso il presidente, che non aspettava che l'avvocato, mi invitò ad alzarmi. I soldati presentarono le armi e come per una scossa elettrica tutta l'assemblea fu in piedi nello stesso istante.

Una figura scialba e insignificante sistemata in un tavolo al di sotto del tribunale (il segretario, io penso) prese allora la parola e lesse il verdetto che i giurati avevano pronunciato durante la mia assenza.

Un sudore freddo uscì da ogni parte del mio corpo e mi dovetti appoggiare al muro per non cadere.

- Avvocato- chiese il presidente- avete qualcosa da dire sull'applicazione della pena?

Io, avrei avuto tutto da dire, io; ma non mi venne niente, e la lingua mi rimase incollata al palato.

Si alzò allora il mio difensore.

Capii che cercava di attenuare la dichiarazione della giuria e di far sostituire alla pena richiesta quell'altra che io ero così indignato di vedergli sperare.

Bisogna che l'indignazione fosse ben forte per farsi strada attraverso le mille emozioni che si contendevano la mia attenzione: volli infatti ripetere ad alta voce quel che gli avevo già detto: - Piuttosto la morte!- ma mi mancò il fiato; e non potei far altro che fermarlo bruscamente per il braccio gridando con forza convulsa: - No!- Il procuratore generale ribatté all'avvocato, e io lo ascoltai con soddisfazione insensata; e poi i giudici uscirono, poi rientrarono, e il presidente mi lesse la sentenza.

- Condannato a morte, disse la folla; e mentre mi portavano fuori, tutta quella gente si rovesciò sui miei passi con il fragore di un edificio che crolla.

Camminavo ebbro e intontito: dentro di me era avvenuta una rivoluzione: fino alla condanna a morte mi ero sentito respirare, palpitare, vivere in mezzo a tutti gli altri, ora invece distinguevo chiaramente come un abisso tra me e il mondo. Niente mi appariva più sotto lo stesso aspetto di prima. Quelle ampie e luminose finestre, quel bel sole, quel cielo sereno, quel fiore grazioso, tutto era pallido e bianco come un sudario; e quegli uomini, quelle donne, quei bambini che si accalcavano al mio passaggio mi sembravano fantasmi.

In fondo alla scala mi aspettava una nera e sudicia vettura. Al momento di salirvi guardai per caso nella piazza: - Un condannato a morte! - gridavano i passanti correndo verso la vettura; e attraverso la nube, che mi sembrava essersi frapposta tra me e le cose, distinsi due ragazze che mi seguivano con gli occhi avidi: - Bene, disse la più giovane battendo le mani, sarà tra sei settimane.




3.


Condannato a morte!

Ebbene, perché no? Gli "uomini", mi ricordo di aver letto in non so più che libro dove non c'era che quello di buono, "gli uomini sono tutti dei condannati a morte con delle dilazioni indefinite". Che c'è dunque di così cambiato nella mia situazione?

Dal momento in cui è stata pronunciata la mia condanna quanta gente è morta che si preparava a una lunga vita! Quanti mi hanno preceduto, che, giovani, liberi e sani contavano di andare a vedere rotolare la mia testa, il tale giorno, in «place de Grève!» Quanti forse mi precederanno di quelli che ora camminano e respirano all'aperto ed entrano ed escono quando vogliono!

E poi, che cosa ha mai, dunque, di così desiderabile la vita per me?

La giornata piena di tristezza e il pane nero della prigione, la razione di brodaglia sorbita nella tinozza dei galeotti, l'essere strapazzato, io, che ho avuto una educazione raffinata, l'essere svillaneggiato da secondini e guardia-ciurma, non vedere essere umano che mi creda degno di una parola, trasalire senza posa per quel che ho fatto, e quel che mi faranno: ecco qua, più o meno, i soli beni che il boia mi possa ormai togliere.

Ah! ma non importa: è orribile ugualmente!




4.


La vettura nera mi trasportò qui, in questa odiosa «Bicêtre»

Visto da lontano l'edificio ha qualcosa di maestoso: si stende all'orizzonte, davanti a una collina, e, da distante, conserva ancora un po' del suo antico splendore, un'aria da castello reale. Ma a mano a mano che ci si avvicina al palazzo diventa sempre più una catapecchia: i muri in rovina feriscono la vista, e un non so che di squallido e laido ne deturpa tanto la facciata regale che si direbbe che i muri siano rosi come da una lebbra; niente più imposte né vetri, ma robuste inferriate a cui si aggrappa qualche pallida e macilenta figura di un galeotto o di un pazzo. E' la vita vista da vicino.




5.


Appena arrivato, delle mani di ferro si impadronirono di me. Si moltiplicarono le precauzioni:

niente coltello e niente forchetta per mangiare; e la camicia di forza, una specie di sacco di telacanapa, imprigionò le mie braccia: si rispondeva infatti della mia vita. Avevo ricorso in cassazione e si poteva avere sulle spalle questa noiosa faccenda per sei o sette settimane: l'importante era dunque di conservarmi sano e salvo per la «place de Grève».

I primi giorni mi trattarono con una dolcezza che mi riusciva terribile: gli sguardi di un carceriere, si voglia o no, puzzano sempre di cadavere. Per fortuna, però, dopo solo poco tempo l'abitudine riprese il sopravvento, e mi confusero con gli altri prigionieri in una comune brutalità senza più usarmi quelle insolite e così diverse cortesie che continuamente rimettevano il boia davanti ai miei occhi. Né questo, del resto, fu il solo miglioramento: la mia giovinezza, la mia docilità, le cure del cappellano della prigione e soprattutto qualche parola in latino rivolta al carceriere senza che quello ne abbia mai capito niente, mi aprirono ben presto la passeggiata con gli altri detenuti una volta alla settimana e fecero sparire la camicia in cui ero immobilizzato. Infine, dopo molte esitazioni, mi diedero persino della carta da scrivere, l'inchiostro, una penna e una lucerna.

E ancora, tutte le domeniche, dopo la Messa, mi si lascia nel cortile durante la ricreazione, dove, per forza, discorro con i detenuti. Sono buona gente, poveretti.

Mi raccontano le loro «carovane»: cose da far rabbrividire, se non sapessi che si vantano; e mi insegnano a parlare in gergo, a «batter l'incudine», come dicono. E' tutta una lingua fiorita sulla lingua normale, come una specie di nauseante escrescenza, come un bubbone.

Qualche volta però c'è in essa anche un'energia singolare, un che di orribilmente pittoresco: «c'è del vino sul solco» (del sangue sul cammino), essi dicono, oppure «sposare la vedova» (essere impiccato), come se la corda della forca fosse vedova di tutti gli impiccati. La testa di un ladro, poi, ha due nomi: «la Sorbona» quando medita, studia ed elabora il «colpo»; il «ceppo» quando il boia la taglia.

Altre volte si tratta di spirito di farsa: «un fazzoletto di vimini» è il paniere del cenciaiolo, «la bugiarda» è la lingua; ma soprattutto, sempre, in ogni momento sono parole bizzarre, misteriose, sordide e laide, nate chissà dove: il «taule» (il boia), la «cone» (la morte), il «cartello» (la piazza delle esecuzioni): un linguaggio da rospi che ti avvolge come una ragnatela. Quando si sente parlare questa lingua, si ha l'impressione di qualcosa di sporco e di lurido, di un mucchio di stracci che si vorrebbe togliere di mezzo al più presto possibile.

Ma almeno questi uomini mi compiangono. E sono i soli. I carcerieri, i secondini, i guardiani discorrono e ridono; e parlano di me, davanti a me, come di una cosa.




6.


Mi son detto: dal momento che ho la possibilità di scrivere, perché non farlo? Già! ma che scrivere, poi? Chiuso tra quattro mura di pietra nude e fredde, senza libertà di movimento, senza orizzonte per i miei occhi, tutto il giorno occupato, per unica distrazione, a seguire macchinalmente il lentissimo corso del riquadro biancastro che lo spioncino della porta disegna sul viscido muro di fronte, sempre solo con un'unica idea, con l'idea del delitto e della pena, dell'assassinio e della morte, potrei forse avere qualcosa da dire, io, che non ho più niente da fare in questo mondo? E che troverei in questo cervello inaridito e vuoto che valga la pena di essere scritto?

E perché no, poi? Se tutto, intorno a me, è monotono e senza colore, non ho forse, dentro, una tempesta, una lotta, una tragedia? Questa idea fissa che mi possiede non mi si presenta forse ad ogni ora, in ogni istante, sotto un nuovo aspetto, sempre più odiosa e spietata a mano a mano che si avvicina il mio ultimo istante? Perché mai tenterò di dire a me stesso tutto ciò che io provo di violento e di strano nella disperata situazione in cui sono? Certo la materia è abbondante e, per breve che sia ormai la mia vita, ci sarà bene con le angosce, i terrori e le torture che ancora la devono certo riempire, di che usare questa penna e svuotare questo calamaio! Del resto il solo mezzo per soffrire meno è proprio osservare le proprie angosce; e il dipingerle, dunque, in qualche modo mi distrarrà. E poi, quello che scriverò potrebbe anche non essere inutile, forse. Questo diario delle mie sofferenze, redatto ora per ora, minuto per minuto, supplizio per supplizio, se avrò la forza di condurlo fino al momento in cui mi sarà «fisicamente» impossibile continuare, questa storia, necessariamente interrotta ma il più possibilmente completa delle mie sensazioni, non potrà forse contenere un grande e profondo insegnamento?

Non ci sarà dunque in questo processo verbale di un pensiero in agonia, in questa progressione sempre crescente di dolori, in questa specie di autopsia intellettuale di un condannato a morte, più di una lezione per coloro che tranquillamente condannano? Forse questa lettura renderà loro la mano meno facile quando si tratterà di gettare qualche altra volta una testa che pensa, la testa di un uomo, su quella che loro chiamano la bilancia della giustizia? Possibile che non abbiano mai pensato, i disgraziati, alla lenta successione di torture che nasconde la formula spiccia di una condanna a morte? Non si siano mai fermati a riflettere, anche solo per un istante, intorno all'idea acutamente dolorosa che nella testa che loro tagliano c'è un'intelligenza: un'intelligenza che aveva contato sulla vita, un'anima che non si è affatto preparata a morire ? No. Loro non vedono in tutto questo che la caduta a piombo di un coltello a mezza luna e pensano di certo che il condannato non ha niente davanti a sé, niente dietro di sé.

Questi fogli li disinganneranno: pubblicati forse un giorno, fermeranno infine la loro attenzione per qualche istante sulle sofferenze dello spirito: poiché infatti sono queste che loro non sospettano, né immaginano affatto. Loro godono, trionfanti di poter uccidere senza quasi far male; come se proprio di questo si trattasse!

Cos'è mai, infatti, il dolore fisico paragonato a quello morale?

Oh, l'orrore e la pietà delle leggi fatte in un simile modo! Ma verrà il giorno in cui... e forse queste memorie, ultime confidenti di un miserabile, vi avranno contribuito.

A meno che, dopo la mia morte, il vento non giochi nel cortile con questi pezzi di carta imbrattati di fango o che essi abbiano a marcire sotto la pioggia incollati sui vetri rotti di qualche finestra di un carceriere.




7.


Che quello che qui scrivo possa un giorno essere utile ad altri, o possa fermare il giudice sul punto di giudicare, o salvare dei disgraziati, innocenti o colpevoli, dall'agonia alla quale io sono condannato, in fondo, che mi interessa?

Quando la mia testa sarà stata tagliata che m'importa, suvvia, che non se ne taglino altre? Posso io dunque aver pensato davvero a simili follie? Abbattere il patibolo dopo esservi salito! Bel guadagno ne ricaverei!

Ah, il sole, la primavera, i prati pieni di fiori, gli uccelli che si svegliano al mattino, le nuvole, gli alberi, la natura, la libertà, la vita, tutto questo non è più per me! Ah, sono io che mi devo salvare, sono io!

E' mai possibile che ciò non si possa, che io debba morire domani, oggi stesso magari, che le cose stiano proprio ineluttabilmente così?

Mio Dio che terribile idea; da spaccarsi la testa contro il muro della prigione.




8.


Vediamo, dunque, cosa mi resta.

Tre giorni di dilazione dopo la condanna per il ricorso in cassazione.

Otto giorni d'oblio negli uffici della corte d'Assise, dopo di che, le «pratiche», come essi dicono, sono inviate al ministro.

Quindici giorni di attesa presso il ministro che non sa nemmeno che esistono, ma che tuttavia si suppone le trasmetta, dopo attento esame, alla Corte di cassazione.

Là, classificazione, numerazione,registrazione;poiché la ghigliottina è affollata, si sa, ed ognuno deve passare quando è il suo turno.

Quindici giorni per vigilare che non abbia un trattamento di privilegio!

Infine la corte si riunisce, in genere al giovedì: rigetta venti ricorsi in massa e rinvia il tutto al ministro; questi la rinvia al procuratore generale, il procuratore generale al boia. Tre giorni. La mattina del quarto, il sostituto del procuratore generale si dice, mettendosi la cravatta:

- Bisogna pure che questo affare finisca!...

Allora se il vice cancelliere non ha qualche pranzo da amici che lo tenga impegnato, l'ordine di esecuzione è abbozzato, redatto, messo in bella copia e spedito; e l'indomani mattina all'alba nella «place de Grève» si sente martellare un carpentiere e agli incroci urlare a piena voce i banditori arrochiti. In tutto sei settimane: la ragazzina aveva ragione. Ora, ecco sono almeno cinque settimane, forse sei (non ho il coraggio di contare) che mi trovo in quest'orribile posto, e mi sembra che tre giorni fa fosse giovedì.




9.


Devo fare testamento.

Ma a che pro? Io sono condannato alle spese: e tutto quello che possiedo basterà appena appena: la ghigliottina è infatti molto cara, a quel che sembra.

Lascio dunque una madre, una moglie e una figlia.

Una bimbetta di tre anni, dolce, rosea e delicata, con due grandi occhi neri e dei lunghi capelli castani: quando la vidi l'ultima volta aveva due anni e un mese.

E così, dopo la mia morte, tre donne senza figlio, senza marito, senza padre: tre orfane di specie diversa, tre vedove per colpa della legge.

Ammetto benissimo che io sia stato giustamente punito: ma queste innocenti che hanno mai fatto? Perché mai vengono disonorate e mandate tranquillamente in rovina? Perché vuole così la giustizia? Del resto non è per la mia povera vecchia mamma che mi preoccupo: ha settantaquattro anni e certo morirà di crepacuore. O se riuscirà ancora a vivere un po', purché abbia fino alla fine un poco di cenere calda dentro il suo scaldino, non dirà mai niente.

Né più mi preoccupa mia moglie che, malaticcia e debole com'è sempre stata, sicuramente anche lei morrà.

A meno che non impazzisca. Si dice che questo faccia vivere; ma l'intelligenza, almeno, non soffre: dorme; e in fin dei conti è come se fosse morta.

Ma mia figlia, la mia bimba, la mia povera piccola Maria, che a quest'ora ride e gioca e canta e non pensa a niente, è lei, è lei che mi fa male.




10.


Ecco dunque qui la mia cella.

Otto piedi quadrati. Quattro muri di pietra viva che si appoggiano ad angolo retto su un pavimento sopraelevato di un gradino rispetto al corridoio esterno.

A destra della porta, entrando, una specie di nicchia che forma una parodia di alcova. Ci si butta una bracciata di paglia e si pensa che il prigioniero possa dormirvi e riposare, vestito com'è, estate e inverno, di un paio di calzoni di tela e di una casacca di traliccio.

Sopra la testa, al posto del cielo, una nera volta ogiva, è così che si chiama, da cui le ragnatele pendono come se fossero stracci.

Per il resto né finestra né spiragli: solo una porta tutta coperta di ferro, al centro della quale, c'è una piccolissima apertura difesa da una inferriata che il carceriere, di notte, può chiudere.

Di fuori un corridoio piuttosto lungo, rischiarato e aerato da strette feritoie ricavate nell'alto del muro e diviso come tanti scompartimenti comunicanti tra loro per mezzo di bassissime porte:

ognuno di questi scompartimenti serve, per così dire, da anticamera a una cella come la mia. E' in queste celle che si mettono i forzati condannati alla segregazione per indisciplina, ma le tre prime sono riservate ai condannati a morte poiché essendo più vicine al corpo di guardia, sono più comode per i secondini.

Queste celle sono tutto quello che resta dell'antico castello di Bicêtre, costruito nel quindicesimo secolo dal cardinale di Winchester, lo stesso che fece bruciare Giovanna d'Arco. Così almeno ho sentito dire da alcuni «curiosi» che sono venuti a vedermi l'altro giorno nella mia tana, e che mi guardavano da lontano come una bestia da serraglio. Il secondino ci ha guadagnato cento soldi.

Mi dimenticavo di dire, poi, che alla porta c'è una sentinella, notte e giorno, e che i miei occhi non possono alzarsi verso lo spioncino senza incontrare i suoi sempre fissi, sbarrati su di me. E l'aria e la luce del giorno si possono appena immaginare in questa botte di pietra.




11.


Poiché il giorno ancora non appare, che fare della notte? Mi è venuta un'idea: mi sono alzato ed ho portato in giro la mia lampada sui quattro muri della cella: sono tutti coperti di frasi, di disegni, di figure bizzarre, di nomi che si accavallano l'uno sull'altro: a carbone, a matita, col gesso, lettere nere, bianche, grigie, spesso profonde incisioni nel sasso, e qua e là, a volte, dei caratteri rossastri che si direbbero scritti col sangue. Certo se non avessi ben altro cui pensare sarebbe interessante davvero questo strano libro che si sfoglia ai miei occhi, pagina per pagina, su ogni pietra della prigione. Mi piacerebbe ricomporre in un tutto questi frammenti di pensiero sparsi sulla muraglia, e ritrovare un uomo sotto ogni nome e ridonare senso e vita a queste iscrizioni mutilate e smembrate, a queste parole troncate, corpi senza testa, come quelli che le hanno scritte. Sopra il mio letto ci sono due cuori fiammeggianti, trapassati da una freccia, e sotto: «Amore per tutta la vita». Il disgraziato, per la verità, non prendeva un impegno troppo lungo.

Di fianco una specie di cappello a tre punte con una piccola figura disegnata sotto grossolanamente e le parole: «Viva l'imperatore!».

Ancora due cuori fiammeggianti e questa iscrizione, strana in una prigione: «Io amo e adoro Mathieu Dauvin. Jacques».

Sul muro di fronte si legge questo nome: «Papavoine»; e il P maiuscolo è tutto arabescato e abbellito con cura.

Il ritornello di una canzone oscena.

Un cappello frigio inciso profondamente nella pietra e queste parole sotto: «Bories - La Repubblica»: era uno dei quattro sottufficiali della Rochelle. Povero giovane! Quanto sono odiose le cosiddette necessità politiche! Per una idea, per un sogno, per un'astrazione, questa orribile realtà che si chiama ghigliottina! Ed io che mi lamento, io, miserabile, che ho commesso un vero delitto, che ho versato del sangue!

Ma non continuerò nella mia ricerca: ecco che ho visto, disegnato in bianco, nell'angolo di un muro un'immagine spaventosa, la figura del palco che, a quest'ora, può darsi si rizzi proprio per me.

Per poco la lampada non mi è caduta di mano.




12.


Sono corso precipitosamente a sedermi sulla paglia con la testa tra le ginocchia. Poi, svanita poco per volta la mia paura di bimbo, mi ha ripreso una strana curiosità di continuare la lettura del muro.

Vicino al nome di Papavoine ho strappato un'enorme ragnatela tesa nell'angolo e sono apparsi quattro o cinque nomi perfettamente leggibili insieme ad alcuni altri di cui non resta che una lievissima traccia: «Dautun, 1815. Poulain, 1818. Jean Martin, 1821. Castaing, 1823.».

Ho letto questi nomi e mi sono venuti in mente lugubri ricordi:

Dautun, quello che aveva tagliato a pezzi il fratello e che di notte andava in giro per Parigi gettando la testa in una fontana e il tronco in una fogna; Poulain, quello che aveva assassinato sua moglie; Jean Martin, colui che sparò un colpo di pistola a suo padre mentre il povero vecchio stava aprendo una finestra; Castaing, il medico che aveva avvelenato l'amico e che, curandolo durante l'ultima malattia che gli aveva procurato, invece di medicine gli somministrava di nuovo veleno; e Papavoine, l'orribile pazzo che uccideva i bambini a colpi di coltello in testa!

Ecco, mi dicevo, e un brivido di febbre mi correva per la schiena, ecco gli ospiti che mi hanno preceduto in questa cella. E' qua, sullo stesso pavimento su cui sono io, che quei sanguinari assassini hanno pensato i loro ultimi pensieri; è intorno a questi muri, in questo stretto quadrato che si sono aggirati come belve inferocite.

E come si sono succeduti a brevi intervalli: si direbbe quasi che la cella non si vuoti mai ed abbian lasciato il posto caldo. A me lo hanno lasciato. E anch'io andrò a raggiungerli al cimitero di Clamart dove l'erba cresce così bene!

Io non sono né visionario né superstizioso; ed è anche probabile che queste idee mi dessero un po' di febbre; ad ogni modo, il fatto è che mentre ero preso da queste immaginazioni tutt'a un tratto mi sembrò che questi terribili nomi fossero scritti con il fuoco sul nero del muro; un tintinnio sempre più precipitoso mi risuonò nelle orecchie, un bagliore rosso mi riempì gli occhi... e mi sembrò che la prigione fosse piena di uomini, strani uomini che portavano la loro testa con la sinistra, e la portavano per la bocca poiché non aveva capelli.

Tutti, tranne il parricida, mi mostravano il pugno.

Con orrore chiusi gli occhi; e tutta la scena allora mi parve ancora più chiara.

Sogno, visione o realtà, sarei impazzito se una brusca impressione non mi avesse risvegliato in tempo. Stavo quasi per cadere riverso quando sentii strisciare sui miei piedi nudi un ventre freddo e dei piedi vellutati: era il ragno che avevo disturbato e che fuggiva.

Questo mi ha risvegliato dall'incubo.

Gli spaventosi spettri! Ma no, era una nebbia, una immaginazione del mio cervello vuoto ed esaltato; chimere alla Macbeth! I morti sono morti; questi sopra tutto.

Essi son ben incatenati nella tomba, e quella non è una prigione da cui si possa evadere!

Ma come può allora essere che io abbia avuto così tanta paura? La porta del sepolcro non si apre dal di dentro!




13.


Alcuni giorni fa ho visto una cosa disgustosa. Era appena giorno, e la prigione era piena di rumori. Si sentivano aprire e chiudere le pesanti porte, stridere i chiavistelli e le catene di ferro, tintinnare i mazzi di chiavi appesi alla cintura dei secondini, e tremare le scale dall'alto in basso sotto il peso di passi precipitosi e voci che si chiamavano da un capo all'altro dei lunghi corridoi.

I miei vicini di cella, i forzati in segregazione, erano più allegri del solito. Tutta Bicêtre pareva ridere, cantare, correre, danzare.

Io, solo muto in tutto quel fracasso, solo immobile in quel tumulto, attento e stupito, ascoltavo.

Passò un secondino. Mi azzardai a chiamarlo e a chiedergli se in prigione era festa.

- In un certo senso, sì! - mi rispose. - E' oggi, infatti, che si ferrano i forzati che devono partire per Tolone: se volete vedere avrete da divertirvi.

Per la verità uno spettacolo, per odioso che fosse, era una vera fortuna per un recluso solitario: e accettai il divertimento.

Prese le solite precauzioni per assicurarsi di me, il guardiano mi portò in un'altra piccolissima cella completamente vuota e con una finestra chiusa da sbarre: ma una vera finestra, ad ogni modo, ad altezza d'uomo, e attraverso cui, realmente, si poteva vedere il cielo.

- Ecco - mi disse - da qui vedrete e sentirete e sarete solo nella vostra stanza come il re nel suo palco.

Poi uscì e chiuse su di me serrature, catenacci e chiavistelli.

La finestra dava su di un ampio cortile ai lati del quale si alzava come una muraglia un grande edificio a sei piani in pietra viva.

Niente di più squallido, di più nudo, di più miserabile che la vista di quella quadruplice facciata forata da una moltitudine di inferriate alle quali si tenevano incollati dal basso in alto una folla di visi pallidi e magri, schiacciati gli uni sopra gli altri come le pietre di un muro e tutti incorniciati, per così dire, nei riquadri delle sbarre di ferro. Erano i prigionieri, gli spettatori della cerimonia che aspettavano di diventare attori a loro volta, e sembravano anime in pena agli spiragli del purgatorio che danno sull'inferno.

Tutti guardavano in silenzio il cortile ancora vuoto e aspettavano; qua e là, tra le figure pallide e dolenti brillavano degli occhi vivi e pungenti, come di fuoco.

Il quadrato delle prigioni che formano il cortile non si chiude su se stesso: uno dei quattro bracci dell'edificio, infatti, è interrotto nel centro e non si riattacca al successivo che tramite un cancello che si apre su di un secondo cortile più piccolo del primo e come quello recintato da muri nerastri. Tutt'intorno al cortile principale, addossati al muro, corrono dei sedili di pietra e nel mezzo si innalza un palo di ferro ricurvo destinato a sostenere una lanterna.

Suonò mezzogiorno. Un grande portone nascosto da una rientranza si aprì di colpo, e con un sordo rumore di ferraglie entrò pesantemente un carretto scortato da alcuni soldati sporchi ed unti, in divisa blu con spalline rosse e bandoliere gialle: la ciurma e le catene.

Nello stesso istante come se quel rumore avesse risvegliato tutti i rumori della prigione, gli spettatori delle finestre, fino ad allora silenziosi ed immobili, scoppiarono in grida di gioia, in canzoni e in minacce miste a scrosci di risa strazianti. Su ogni viso c'era una smorfia: i pugni protesi fuori dalle sbarre, tutti urlanti a piena voce, tutti con gli occhi iniettati di sangue. Sembravano demoni.

Gli aguzzini, tra i quali si potevano distinguere, per i vestiti borghesi e la loro paura, alcuni curiosi venuti da Parigi, si misero intanto tranquillamente al loro lavoro: uno di essi salì sul carro e cominciò a lanciare ai compagni le catene, i collari da viaggio e i pacchi di pantaloni di tela; poi si divisero tra loro le varie incombenze; gli uni andarono a stendere in un angolo del cortile le lunghe catene che chiamavano nel loro gergo gli spaghi; gli altri spiegarono sull'acciottolato i taffetas, le camicie e i pantaloni, mentre i più abili andavano esaminando a uno a uno, sotto l'occhio del loro capitano, un vecchio basso e atticciato, i collari di ferro che provavano infine facendoli tintinnare sui sassi. Il tutto tra le acclamazioni ironiche dei prigionieri, la cui voce non era dominata che dalle risate sguaiate dei forzati per i quali si facevano tutti quei preparativi e che si vedevano, in fondo, alle finestre della vecchia prigione che dà sul cortile più piccolo.

Quando infine si terminò, un signore tutto ricamato d'argento che chiamavano signor ispettore diede un ordine al direttore della prigione; e un attimo dopo due o tre porte basse vomitarono quasi contemporaneamente, in un turbine impetuoso, un nugolo di uomini laidi, urlanti e cenciosi: i forzati.

A quella vista, raddoppiamento di gioia alle finestre. E alcuni di loro, i grandi nomi del bagno, furono addirittura salutati da acclamazioni e applausi che loro ricevevano con una specie di fiera modestia.

La maggior parte dei forzati aveva una specie di cappelli intrecciati dalle loro stesse mani con la paglia della cella, sempre in una forma strana, affinché, nei paesi dove si sarebbe passati, il cappello facesse notare la testa: e quelli erano ancor più applauditi. Uno, soprattutto, suscitò particolari manifestazioni di entusiasmo: un giovanotto di diciassette anni con un viso di ragazza che usciva allora dalla cella dove era stato segregato per otto giorni; del suo materasso di paglia si era fatto un vestito che lo copriva dalla testa ai piedi ed entrò nel cortile facendo la ruota su se stesso con l'agilità di un serpente. Era un saltimbanco condannato per furto, e al suo apparire ci fu uno scoppio di applausi e di grida di gioia. La società aveva un bell'essere là, rappresentata dalle guardie e dai curiosi spaventati: il delitto le sghignazzava in faccia, e di quell'orribile castigo ne faceva una festa di famiglia.

Intanto, a mano a mano che i forzati arrivavano, venivano spinti, tra due file di guardia-ciurma, nel cortiletto con la cancellata per la visita medica. Era là che tutti quanti facevano un ultimo disperato tentativo per evitare il viaggio allegando qualche misera scusa: gli occhi malati, la gamba sozza, la mano mutilata o che altro so io; quasi sempre, però erano trovati buoni per il bagno ed allora, in pochi momenti, si rassegnavano tranquillamente, dimenticando in un minuto la pretesa infermità di tutta la vita.

Dopo un po' il cancello del piccolo cortile si aprì, un guardiano fece l'appello in ordine alfabetico e tutti i forzati ad uno ad uno uscirono e si andarono a mettere in piedi in un angolo del cortile vicino ad un compagno assegnato dal caso della lettera iniziale: così, di colpo, ognuno si vide realmente ridotto da solo con se stesso, ognuno con la propria catena per sé, fianco a fianco con uno sconosciuto; poiché, se per caso qualcuno aveva un amico, la catena lo separava.

Quando ne furono usciti una trentina il cancello fu rinchiuso di nuovo; un guardiano li allineò con il suo bastone, gettò davanti a ognuno una camicia e dei pantaloni di tela grossolana, fece un segno, e tutti cominciarono a svestirsi.

Proprio in quel momento un nuovo accidente inatteso venne a mutare l'umiliazione in tortura. Fino ad allora, infatti, il tempo era stato abbastanza buono, e il vento d'ottobre benché raffreddasse l'aria, di tanto in tanto apriva qua e là nelle brume grigiastre del cielo qualche spiraglio, da cui cadeva un raggio di sole. Ma non appena i forzati si furono spogliati dei loro cenci, nel momento in cui si offrivano nudi e in piedi alla vista sospettosa dei secondini e agli sguardi dei curiosi che giravano loro intorno per esaminare le spalle, il cielo si oscurò, e sulle loro teste scoperte, sulle povere membra nude, sui loro miseri stracci sparsi sull'acciottolato, improvviso, a torrenti, scrosciò un freddo acquazzone autunnale.

In un batter d'occhio, mentre i curiosi di Parigi correvano a ripararsi sotto le tettoie delle porte, lo spiazzo fu vuoto di tutti coloro che non erano guardiani e galeotti.

Intanto la pioggia cadeva a fiotti e non si vedevano più, nel cortile, che i forzati nudi e grondanti sul selciato sommerso. Un cupo silenzio era seguito alle loro rumorose bravate: tremavano e battevano i denti, le loro gambe magre e i ginocchi si urtavano insieme; e faceva una tale pena veder mettere sulle loro membra illividite quelle camicie inzuppate, quelle vesti, quei pantaloni gocciolanti di pioggia ché la nudità sarebbe sembrata addirittura migliore.

Uno solo, un vecchio, aveva conservata qualche allegria e andava gridando, mentre si asciugava con la camicia bagnata, che quello non era nel programma. Poi cominciò a ridere mostrando i pugni.

Quand'ebbero indossati gli abiti da viaggio, li portarono in squadre di venti o trenta nell'altro angolo dello spiazzo dove c'erano i cordoni allungati per terra.

Sono, questi cordoni, delle lunghe e robuste catene interrotte trasversalmente ogni due piedi da un'altra catena più corta alle cui estremità è attaccato un collare quadrato che si apre per mezzo di una cerniera applicata ad uno degli angoli e che, per tutto il viaggio, si chiude nell'angolo opposto con un bullone di ferro ribadito sul collo del galeotto. Quando sono stesi sembrano delle grandi lische di pesce.

I secondini fecero dunque sedere i forzati nel fango, sull'acciottolato bagnato, e si misero a provare loro i collari; poi due fabbri della ciurma, armati di piccoli incudini, con grandi colpi di mazza glieli ribatterono a freddo. E' un momento terribile, in cui anche i più arditi impallidiscono: ogni colpo di martello, infatti, vibrato sull'incudine appoggiata alle loro schiene fa rimbalzare il mento e un minimo movimento all'indietro farebbe loro saltare il cranio come un guscio di noce.

Dopo quest'operazione diventarono taciturni; non si sentiva più che il tintinnare delle catene e, ogni tanto, un grido e il colpo sordo del bastone del guardia-ciurma sulle membra dei recalcitranti; qualcuno, allora, piangeva, ma i vecchi tremavano e si mordevano le labbra. Io li guardavo e avevo terrore di tutti quei profili sinistri nelle loro cornici di ferro.

E così, pensavo, dopo la visita del medico la visita dei secondini; dopo la visita dei secondini, la ferratura. Tre atti per questo spettacolo orribile...

A un tratto riapparve un raggio di sole: e sembrò che il fuoco entrasse in tutti quei cervelli. I forzati si rialzarono immediatamente come in un moto convulso; i cinque cordoni si presero per mano e in un momento formarono un gran cerchio intorno al palo della lanterna. Cantavano una canzone del bagno, una romanza in gergo, su di un'aria ora triste e ora allegra e furiosa; ogni tanto si sentivano delle grida acute e degli scoppi di risa stridule e ansanti mischiarsi a misteriose parole; poi delle acclamazioni furibonde; e le catene che si urtavano fra loro in cadenza facevano da orchestra a quel canto più rauco del loro rumore.

A un certo punto portarono in mezzo allo spiazzo una grande tinozza dove galleggiavano non so che erbe in una specie di liquido sudicio e fumante e i guardia-ciurma, rotta la danza dei forzati a colpi di bastone, ve li portarono e li fecero mangiare.

Terminato, e gettato per terra i resti della broda e del pane nero, ricominciarono a ballare e cantare: il giorno della ferratura e la notte seguente, infatti, è loro concessa questa libertà.

Io, intanto, me ne stavo a guardare questo strano spettacolo con una curiosità così avida, così ansiosa ed attenta, che mi ero completamente dimenticato di me stesso, e una profonda pietà mi commoveva fin nelle più intime fibre e piangevo quando li sentivo ridere in quella maniera.

All'improvviso, attraverso la fantasticheria in cui ero caduto, vidi il girotondo urlante fermarsi di colpo e ammutolire; poi tutti gli occhi si girarono verso la finestra dov'ero io. - Il condannato! il condannato! - gridarono tutti mostrandomi a dito; e le esplosioni di gioia raddoppiarono ancora.

Restai agghiacciato.

Io non so in che modo mi avessero mai conosciuto.

- Buongiorno! Buona sera! mi gridavano sghignazzando atrocemente, e uno dei più giovani, faccia livida e tirata, condannato a vita ai lavori forzati mi guardò con aria d'invidia dicendo: - Fortunato!

Sarà "tosato"! Addio camerata!

Io non so dire quello che provai! Effettivamente ero loro camerata, la Grève è sorella di Tolone; anzi, ero addirittura più in basso di loro, ed erano essi che mi facevano onore. Fremevo.

Ma già, loro camerata! E di lì a qualche giorno avrei anche potuto essere, io, uno spettacolo per loro.

Ero rimasto alla finestra immobile, rattrappito, paralizzato; ma quando vidi quei cinque cordoni avanzare e rotolare verso di me con delle parole di un'infernale cordialità; quando, sentii il tumultuoso fracasso delle loro catene, dei loro clamori, dei loro passi ai piedi del muro, mi sembrò che quel nugolo di demoni stesse per scalare la mia miserabile cella e, tirato fuori un gran grido, mi lanciai sulla porta con tutta la violenza di cui ero capace. Ma non c'era modo di fuggire: i catenacci erano tirati dal di fuori. Picchiai e gridai con rabbia. Poi mi sembrò di sentire ancora più da vicino le spaventose voci dei forzati. Credetti di vedere già le loro teste odiose apparire ai bordi della finestra, gettai un altro grido d'angoscia e caddi svenuto




14.


Quando rinvenni era notte. Ero disteso su di un giaciglio e una lanterna che vacillava al soffitto mi fece intravedere altri giacigli allineati ai due lati del mio. Capii che mi avevano portato in infermeria.

Rimasi sveglio per qualche minuto, ma senza pensieri e senza ricordi, immerso nella gioia di essere in un letto. In altri tempi, quel letto d'ospedale e di prigione mi avrebbe certamente fatto indietreggiare per il disgusto e la pietà, ma ora non ero più lo stesso uomo: le lenzuola erano ruvide e grigie, è vero, la coperta leggera e bucata; e attraverso il materasso si sentiva il pagliericcio; ma che importa! le mie membra potevano sgranchirsi come volevano tra quelle lenzuola grigie; sotto quella coperta, per leggera che fosse, sentivo sparire a poco a poco quell'orribile freddo dentro al midollo delle ossa al quale mi ero abituato! E mi riaddormentai.

Era appena l'alba quando mi svegliò un gran fracasso che veniva da fuori; il mio letto era vicino alla finestra e mi alzai a sedere per vedere che cosa fosse.

La finestra dava sul cortile più grande di Bicêtre; era pieno di gente. Due file di veterani, a fatica, tenevano sgombro nel mezzo un passaggio che lo attraversava da un capo all'altro. Tra queste due siepi di soldati marciavano lentamente, sobbalzando a ogni sasso, cinque lunghi carri carichi d'uomini: erano i forzati che partivano.

I carri erano scoperti, e ogni cordone ne occupava uno. I forzati erano seduti ai due lati, addossati gli uni agli altri, separati dalla catena comune che si snodava nel senso della lunghezza e sull'estremità della quale, in piedi, con il fucile spianato, teneva il piede una guardia. Si sentivano tintinnare i loro ferri e, ad ogni scossa della vettura, si vedevano sobbalzare le teste e ballare le gambe penzoloni.

Una pioggia fine e penetrante rendeva freddissima l'aria e incollava loro sulle ginocchia i pantaloni di tela da grigi diventati neri. Le loro lunghe barbe, i corti capelli, gocciolavano; i loro visi erano lividi; li si vedeva rabbrividire e i loro denti battevano dall'ira e dal freddo. Per il resto, non un movimento era possibile. Una volta attaccati a quella catena non si è più che una particella di quel tutto odioso che si chiama il cordone e che si muove come un unico uomo. L'intelligenza deve abdicare, il collare del bagno la condanna a morte; e l'animale stesso non deve più avere bisogni o desideri che ad ore fisse.

Così, immobili, la maggior parte mezzi nudi, teste scoperte e piedi penzoloni, essi cominciavano il loro viaggio di venticinque giorni, vestiti con gli stessi vestiti sia per il sole a piombo di luglio, sia per le fredde piogge di novembre come se si volesse incaricare anche il cielo di fare la sua parte di boia.

Tra la folla ed i carri, intanto, si era intavolato non so quale orribile dialogo: ingiurie da una parte, bravate dall'altra, imprecazioni da tutt'e due; ma, a un segnale del capitano vidi piovere a caso nei carri colpi di bastone sulle spalle o sulle teste, e tutto ritornò subito in quella specie di calma esteriore che chiamano "ordine". Ma gli occhi erano pieni di vendetta e i pugni di quei miserabili si stringevano sulle ginocchia.

I cinque carri, scortati da gendarmi a cavallo e da guardie a piedi sparirono infine sotto l'alto portone a volta di Bicêtre seguiti da un sesto nel quale traballavano alla rinfusa le pentole, le gavette di rame e le catene di ricambio.

Qualche guardia-ciurma che si era attardata in cantina uscì di corsa per raggiungere la sua squadra. La folla si allontanò. E tutto lo spettacolo svanì come una fantasmagoria. Si sentì diminuire a poco a poco nell'aria il sordo rumore delle ruote e degli zoccoli dei cavalli sulla via acciottolata di Fontainebleau, gli schiocchi di frusta, il tintinnio delle catene e le urla della gente che augurava disgrazie al viaggio dei galeotti; poi più niente.

E quello per loro non era che l'inizio!

Cosa mi diceva dunque l'avvocato? L'ergastolo! Ah, ma sì, piuttosto il palco che il bagno, piuttosto il nulla che l'inferno, piuttosto dare la mia testa al coltello di Guillottin che al collare della ciurma!

L'ergastolo, mio Dio!




15.


Sfortunatamente non ero malato. Il giorno dopo dovetti uscire dall'infermeria e mi ringhiottì la cella. Non ammalato! Effettivamente sono giovane, sano e forte. Il sangue circola liberamente nelle mie vene, tutte le mie membra obbediscono ad ogni mio capriccio, sono robusto di corpo e di spirito, fatto per una lunga vita: sì, tutto questo è vero; e tuttavia ho una malattia mortale, una malattia fatta dalle mani degli uomini.

Da quando sono uscito dall'infermeria mi ha preso un'idea pungente, una idea da rendermi folle, che avrei forse potuto fuggire se qualcuno mi avesse un po' favorito. Quei medici, quelle suore di carità sembravano avere interesse per me: morire così giovane e di una simile morte! Si sarebbe detto che mi compiangessero tanto si affollavano intorno al mio letto. Bah! curiosità! E poi, questa gente che guarisce, ti guarisce sì da una febbre, ma non certo da una sentenza di morte.

E sarebbe loro tuttavia così facile! Una porta aperta! Che cosa mai costerebbe loro?

Mah! Più nessuna speranza, ormai! Il mio ricorso sarà respinto, poiché tutto è in regola: i testimoni hanno ben testimoniato, i difensori hanno ben difeso, i giudici hanno ben giudicato. Io non ci sono più, a meno che... No, pazzie! Più nessuna speranza! Il ricorso è una corda che vi tiene sospesi sopra l'abisso e che si sente scricchiolare ad ogni momento finché si spezza. E' come se il coltello della ghigliottina impiegasse sei settimane a cadere.

E se io avessi la grazia? Avere la grazia! E da chi? e perché? e come?

E' impossibile che mi si faccia la grazia. I precedenti come dicono loro.

Non mi restano più che tre passi da fare: Bicêtre, la Conciergerie, la Grève.




16.


Durante le poche ore passate all'infermeria mi ero seduto vicino ad una finestra, al sole finalmente riapparso, o meglio, a prendere del sole tutto quello che mi lasciavano le sbarre dell'inferriata.

Me ne stavo là, con la testa pensante tra le mani che la reggevano a stento, i gomiti sulle ginocchia e i piedi sui pioli della sedia, poiché lo scoramento mi fa incurvare e ripiegare su me stesso come se non avessi più ossa nelle membra né muscoli nella carne.

L'odore di chiuso della prigione mi soffocava più che mai e, con ancora nelle orecchie tutto quel fracasso delle catene dei galeotti, sentivo una grande stanchezza. Mi sembrava che il buon Dio avrebbe ben dovuto aver pietà di me ed inviarmi almeno un piccolo uccello a cantare un po' con me, là in faccia sul bordo del tetto.

Non so se sia stato il buon Dio che mi ha esaudito, ma, quasi in quello stesso istante, sentii levarsi sotto la finestra una voce: non quella di un uccello, ma molto di meglio: la voce pura, fresca, vellutata di una fanciulla di quindici anni. Alzai la testa come di soprassalto ascoltando avidamente la canzone che cantava. Era un'aria lenta e malinconica, una specie di nenia triste e lamentosa. Ecco:

In via del Maglio è stato Che sono stato preso Ahimè, Da tre brutti sbirri, Ahimè poveretto,


Non so dire quanto fu amaro il mio disappunto. La voce continuò:

Che mi hanno morsicato, Poveretto me.

Che mi hanno morsicato, Ahimè.

M'hanno messe le manette, Ahimè poveretto, e il Ruffiano è arrivato, Poveretto me.

Nella strada trovo un ladro Ahimè poveretto.

C'era un ladro del quartiere Poveretto me.

Era un ladro del quartiere.

Ahimè.

- Vai a dire alla mia donna Ahimè poveretto, Che m'hanno messo sotto chiave Poveretto me.

La mia donna tutta in rabbia Ahimè poveretto M'ha gridato:

Cos'hai dunque combinato?

Poveretto me.

Cos'hai dunque combinato?

Ahimè.

- Ho cavato sangue a un uomo Ahimè poveretto, E i denari gli ho pigliato, Poveretto me.

I denari e l'orologio Ahimè poveretto.

E le fibbie delle scarpe.

Poveretto me.

La mia donna va a Versailles Ahimè poveretto.

Ed ai piedi del Gran Re, Poveretto me.

Una supplica depone Ahimè poveretto Perch'io sia liberato.

Poveretto me.

Perch'io sia liberato, Ahimè.

Ah! se infine uscirò fuori, Ahimè poveretto, Farò bella la mia donna, Poveretto me.

Le farò portare dei nastri Ahimè poveretto E scarpine tutte d'oro, Ahimè.

Ma il Gran Re che monta in bestia, Disse: - Pel berretto mio, Poveretto me.

Gli farò ballare un ballo Ahimè poveretto Senza ch'abbia a toccar terra Poveretto me.

Non ne sentii e non avrei potuto sentirne di più. Il senso a metà compreso e a metà nascosto di quell'orribile lamento, quella lotta del bandito con le guardie, quel quadro che incontra e che manda alla sua donna quello spaventoso messaggio: "ho cavato sangue a un uomo e m'hanno messo sotto chiave"; quella donna che corre a Versailles con una supplica, e quel "Gran Re" che s'indigna e minaccia il colpevole di fargli fare un "ballo senza ch'abbia a toccar terra..."; e tutto questo cantato sull'aria più dolce e dalla più dolce voce che abbia mai ascoltato l'orecchio di un uomo!...

Sono rimasto ferito, agghiacciato, disfatto. Era una cosa ripugnante che tutte quelle mostruose parole uscissero da una così fresca bocca di rosa: era come la bava di una lumaca su di un fiore.

Io non saprei dire quello che provavo: ero ferito e accarezzato nello stesso tempo: il gergo della caverna e della galera, questo linguaggio insanguinato e grottesco, questo lurido dialetto unito a una voce di fanciulla, grazioso passaggio dalla voce di bimba alla voce di donna!

Tutte quelle sporche e deformi parole, cantate e ritmate, armoniose!

Ah! che cosa infame è la prigione! c'è un veleno che rovina ogni cosa:

tutto diventa laido, perfino la canzone di una fanciulla di quindici anni! Vi potete trovare un uccello, ha il fango sulle ali, vi cogliete un fiore grazioso, l'aspirate: puzza.




17.


Oh! se evadessi, come correrei per i campi!

No, non bisognerebbe correre: attira l'attenzione e mette sospetto. Al contrario, camminare lentamente, a testa alta, cantando. Cercare di avere qualche pastrano bleu a righe rosse che andrebbe così bene, dal momento che tutti gli ortolani dei dintorni lo portano così. Dalle parti di Arcueil conosco una forra vicino a uno stagno dove, quand'ero in collegio, andavo con i miei compagni a pescare le rane tutti i giovedì. E' là che mi potrei nascondere fino a sera. Scesa la notte, riprenderei la mia corsa. Andrei a Vincennes. No, il fiume me lo impedirebbe. Andrei ad Arpajon. Sarebbe stato meglio prendere dalla parte di Saint-Germain, ed andare a Le Havre, ed imbarcarmi per l'Inghilterra. Non importa! Arrivo a Longjumeau. Passa un gendarme; mi chiede la carta d'identità... sono perduto!

Ah! disgraziato sognatore, rompi dunque prima di tutto il muro spesso tre piedi che ti imprigiona! La morte! La morte!

Quando io penso che, ancora bambinello, sono venuto qui a Bicêtre, a vederne i profondissimi pozzi ed i folli.




18.


Mentre scrivevo queste cose la lucerna è andata impallidendo, si è fatto giorno, e l'orologio della chiesa ha suonato le sei.

Che cosa vuol dire tutto questo? Il secondino di guardia è entrato nella mia cella, si è tolto il cappello, mi ha salutato, si è scusato di disturbarmi, e mi ha chiesto, addolcendo come meglio poteva la voce, cosa desiderassi mangiare...

Un brivido mi è corso lungo la schiena: che sia per quest'oggi?




19.


E' per quest'oggi.

Il direttore della prigione in persona è appena venuto a farmi visita.

Mi ha chiesto in cosa mi potesse essere utile, ha espresso la speranza che io non abbia avuto a lamentarmi di lui o dei suoi inferiori, si è informato con interesse della mia salute e di come avessi passato la notte; e lasciandomi, mi ha chiamato, "signore"!

E' per quest'oggi!




20.


Non crede, questo carceriere, che io abbia a lamentarmi di lui e dei suoi secondini. E ha ragione. Avrei torto, infatti, a lamentarmi; loro hanno fatto il loro mestiere: mi hanno ben custodito; e all'arrivo e alla partenza sono stati gentili; non devo dunque essere contento?

Questo buon carceriere, con il suo sorriso benigno, le sue parole carezzevoli, il suo occhio che lusinga e che spia, con le sue grosse e larghe mani, è la prigione incarnata, è Bicêtre fatto uomo. Tutto è prigione intorno a me: ritrovo la prigione sotto tutte le forme, sotto forma umana come sotto forma di sbarre e catenacci. Questo muro è la prigione in pietra; questa porta è la prigione in legno; questi secondini sono la prigione in carne ed ossa! La prigione è una specie di essere orribile, completo, indivisibile, mezzo edificio e mezzo uomo. E io sono sua preda: essa mi cova e mi nasconde nelle sue pieghe, mi rinserra tra i suoi muri di granito, mi incatena dietro le sue serrature di ferro e mi sorveglia con gli occhi dei suoi secondini.

Ah! miserabile! Che cosa sto per diventare? Che cosa vogliono fare di me?




21.


Sono calmo, finalmente. Tutto è finito, completamente finito; e sono uscito dall'orribile ansia in cui mi aveva gettato la visita del direttore: poiché, lo confesso, speravo ancora. Ora, grazie a Dio, non spero più.

Ecco come sono andate le cose.

Nel momento in cui suonavano le sei e mezzo - no, le sette meno un quarto - la porta della cella si è aperta di nuovo; ed è entrato un vecchio con la testa tutta bianca, vestito con un lungo soprabito scuro.

Era un prete; non però il cappellano della prigione.

Egli si è seduto di fronte a me con un sorriso benevolo; poi ha scosso la testa e alzato gli occhi al cielo, cioè, alla volta della cella. Io capii.

- Figlio mio - mi disse - siete preparato?

- Preparato, no - risposi - ma sono pronto.

Poi mi si confuse la vista, un sudore freddo mi uscì da tutte le membra, mi sentii gonfiare le tempie; le orecchie si riempirono di un ronzio confuso.

Intanto che vacillavo sulla sedia come assopito, il buon vecchio parlava. Almeno, così mi è parso, e mi sembra anche di ricordarmi di aver visto muoversi le sue labbra, agitarsi le sue mani e, ogni tanto, brillare i suoi occhi.

All'improvviso la porta si è aperta una seconda volta strappandoci di colpo con il rumore dei chiavistelli, me al mio stupore, lui ai suoi discorsi, e una specie di signore in abito nero, accompagnato dal direttore della prigione, si è presentato salutandomi profondamente.

Aveva, sul viso, qualcosa della tristezza ufficiale degli impiegati delle pompe funebri e teneva nelle mani un rotolo di carta.

- Signore, mi disse con un sorriso di cortesia, io sono l'usciere della corte reale di Parigi. Ho l'onore di recarvi un messaggio da parte del signor procuratore generale.

La prima scossa era passata; e mi aveva ripreso tutta la mia presenza di spirito.

- E' il signor procuratore generale che ha chiesto così insistentemente la mia testa, gli risposi, è dunque un grande onore che lui ora mi scriva! Spero, ad ogni modo, che la mia morte gli abbia a fare molto piacere, poiché davvero mi sarebbe duro pensare che lui l'abbia chiesta con tanto ardore mentre, in fondo, gli è indifferente.

Gli ho detto così, e poi ho ripreso con voce ferma:

- Orsù, signore, leggete!

Egli allora si è messo a leggermi un lungo testo, cantando alla fine di ogni riga ed esitando a metà di ogni parola; era il rigetto del mio ricorso.

- La sentenza sarà eseguita quest'oggi in «place de Grève»- ha aggiunto quando ha finito, senza alzare gli occhi dalla sua carta piena di timbri. - Partiremo alle sette e mezzo precise per la Conciergerie. Mio caro signore, avrete l'estrema bontà di seguirmi?

Da qualche minuto io non lo ascoltavo più. Il direttore parlava con il prete; lui aveva l'occhio fisso alla sua carta; guardai la porta che era rimasta socchiusa... - Ah! Miserabili! quattro gendarmi nel corridoio!

L'usciere ha ripetuto la sua domanda, guardandomi questa volta.

- Quando vorrete, gli ho risposto. A vostra disposizione!

Egli mi ha salutato dicendomi:

- Avrò l'onore di venirvi a cercare tra una mezz'ora.

Allora mi hanno lasciato solo.

Un mezzo per fuggire, mio Dio! un mezzo qualsiasi! Bisogna che io evada! Bisogna! Immediatamente. Dalle porte, dalle finestre, dal tetto! Quand'anche dovessi lasciare dei brandelli di carne attaccati alle travi.

Maledizione! Ci vorrebbero dei mesi per forare questo muro con degli arnesi adatti, e io non ho né un chiodo né un'ora.




Dalla Conciergerie



22.


Eccomi dunque "trasferito", come dice il processo verbale.

Ma il viaggio vale la pena di essere raccontato.

Suonavano le sette e mezzo quando l'usciere si è presentato di nuovo sulla soglia della mia cella. - Signore, mi ha detto, vi aspetto.

Ahimè! non era solo. Mi sono alzato e ho fatto un passo: mi è sembrato che non ne avrei potuto fare un altro, tanto avevo la testa pesante e deboli le gambe. Tuttavia mi sono rimesso e ho continuato con un portamento abbastanza sicuro. Prima di uscire dalla stanza le ho dato un ultimo sguardo. L'amavo la mia cella. Poi l'ho lasciata vuota e aperta; e questo le dava un aspetto assai singolare.

Del resto non lo sarà per lungo tempo: per questa sera si aspetta qualcuno, dicevano i secondini, un condannato che la corte d'Assise sta preparando a quest'ora.

All'angolo del corridoio ci ha raggiunto il cappellano.

All'uscita della prigione il direttore mi ha preso affettuosamente le mani e ha rinforzato la mia scorta di altre quattro guardie. Davanti alla porta dell'infermeria un vecchio moribondo mi ha gridato: - Arrivederci!

Poi siamo arrivati in cortile. Ho respirato a pieni polmoni l'aria fresca, ma per poco: una vettura con i cavalli già pronti aspettava nel primo cortile; la stessa vettura che mi aveva portato; una specie di lungo "cabriolet" diviso in due da una grata trasversale di così fitti fili di ferro da sembrare fatta a maglia. Le due parti hanno ciascuna una porta, una davanti, l'altra di dietro. Il tutto così sudicio, così nero, così polveroso che il carro funebre dei morti, al confronto, è una carrozza di gala.

Prima di seppellirmi in quella tomba a due ruote ho lanciato uno di quegli sguardi disperati davanti ai quali sembra che debbano crollare anche i muri. Il cortile, una specie di piccola piazza alberata, era ancora più pieno di gente che per i forzati. Già, la folla!

Come il giorno della partenza dei "cordoni" cadeva una pioggia autunnale, una pioggia fine e gelida che cade ancora adesso mentre scrivo, che cadrà certamente tutto il giorno, che durerà più di me.

Le strade erano impraticabili, il cortile pieno d'acqua e di fango, e vedendo quella folla in tutta quella poltiglia ne ebbi un po' piacere.

Siamo saliti: l'usciere e un gendarme nello scompartimento davanti; il prete, io e un gendarme di dietro; altri quattro gendarmi intorno alla vettura. Così, senza il cocchiere, otto uomini per uno solo.

Mentre salivo, una vecchia con gli occhi grigi diceva: - Questo mi piace ancora di più della catena. - Capii: è uno spettacolo che si abbraccia più facilmente con un solo colpo d'occhio, non c'è che un uomo, e su quest'unico uomo tanta miseria quanta su tutti i forzati messi insieme; è meno diluito; è un liquore concentrato e ben più gustoso.

Uno spettacolo così bello e così comodo! Niente che distragga l'attenzione.

La vettura si è mossa. Passando sotto la volta del portone ha fatto un sordo rumore, poi è uscita nel viale, e i pesanti battenti di Bicêtre si sono chiusi dietro di essa. Io mi sentivo trasportare quasi stordito, come un uomo caduto in letargo che non può gridare né muoversi e che si sente sotterrare; e vagamente, lontano, al di là di una nebbia, ascoltavo i sonagli attaccati ai cavalli tinnire in maniera cadenzata come se singhiozzassero, sferragliare le ruote sul selciato o suonare la tromba cambiando via, il galoppo sonoro dei gendarmi intorno al carriaggio, gli schiocchi di frusta del postiglione. E mi sembrava tutto ciò, come un vento impetuoso che mi rapisse. Attraverso la grata di uno spioncino aperto davanti a me, i miei occhi si erano fissati meccanicamente sull'iscrizione disegnata a grandi lettere sul portone di Bicêtre: «Ricovero di Vecchiaia». Toh, mi dicevo, sembra ci sia della gente che invecchia dentro là. E, come si fa nel dormiveglia, rigiravo in tutti i sensi quell'idea nella mia mente intorpidita dal dolore. All'improvviso, il carriaggio, passando dal viale nella strada provinciale, ha cambiato la visuale del finestrino. Le torri di Nôtre-Dame sono venute a inquadrarvisi, azzurrine e mezzo nascoste nella nebbia di Parigi. Subito è cambiato anche il punto di vista della mia mente. Ero diventato una macchina come la vettura; all'idea di Bicêtre è seguita l'idea di Nôtre-Dame.

Quelli che saranno sulla torre dove c'è la bandiera vedranno bene, mi sono detto sorridendo scioccamente.

Credo sia stato proprio in quel momento che il prete ha ripreso a parlarmi. Io l'ho lasciato dire pazientemente: avevo già nelle orecchie il rumore delle ruote, lo scalpitìo dei cavalli, lo schiocco del postiglione; non era che un rumore di più.

Ascoltavo in silenzio quel fluire di parole monotone che assopivano i miei pensieri come il mormorio di una fontana e che mi passavano davanti, sempre diverse e sempre le stesse, come gli olmi della strada, quando la voce breve e sgraziata dell'usciere seduto davanti è venuta a scuotermi improvvisamente.

- Ebbene! signor abate - diceva con un tono quasi allegro niente di nuovo?

Era verso il prete che egli si rivolgeva dicendo così. Il cappellano, che mi guardava senza interruzione e che era assordato dalla carrozza non ha risposto.

- Accidenti - ha risposto l'usciere alzando la voce per farsi sentire al di sopra del rumore delle ruote - maledetta vettura! Maledetta davvero!

Poi ha continuato: - Senza dubbio, sono le scosse; non ci si sente.

Che cosa dunque volevo dire? Ditemi, per piacere, cosa volevo dire, signor abate? Ah! sapete la grande notizia di Parigi, quest'oggi?

Sono trasalito come se parlasse di me.

- No- ha detto il prete, che finalmente aveva sentito - non ho avuto il tempo di leggere i giornali, questa mattina. La vedrò questa sera. Quando sono occupato tutto il giorno come oggi, raccomando al portinaio di conservarmi i giornali, e li leggo quando torno.

- Bah! - ha ripreso l'usciere - è impossibile che non la conosciate.

La notizia di Parigi! La notizia di questa mattina!

Allora ho preso la parola: - Credo di saperla io.

L'usciere m'ha guardato.

- Voi! veramente!? E in tal caso, che ne dite ?

- Siete curioso! - gli ho detto.

- Perché, signore? - ha replicato l'usciere. - Ognuno ha la sua opinione politica, e io vi stimo troppo per credere che voi non abbiate la vostra. Per quello che mi riguarda, io sono senz'altro del parere di ristabilire la guardia nazionale; ero sergente della mia compagnia e, vi assicuro era una cosa molto piacevole.

L'ho interrotto.

- Io non credevo che si trattasse di questo.

- E di che cosa dunque? Voi dicevate di sapere la notizia...

- Ma io parlavo di un'altra, di cui pure si occupa oggi Parigi.

L'imbecille non ha compreso; la sua curiosità si è risvegliata.

- Un'altra notizia? Dove diavolo avete potuto sentire delle notizie ?

E quale, di grazia, caro signore? Voi sapete di cosa si tratti, signor abate? Siete più al corrente di me? Di grazia, raccontatemi la faccenda. Di cosa si tratta? Vedete, a me piacciono le notizie; le racconto al signor presidente e lui si diverte.

E mille altre storie; si girava alternativamente verso il prete e verso di me e io non rispondevo che alzando le spalle.

- Ebbene! - mi ha detto alla fine - a cosa dunque pensate?

- Penso, gli ho risposto, che questa sera non penserò più.

- Ah! è questo! - ha replicato - andiamo, siete troppo triste!

Il signor Castaing discorreva piacevolmente.

E poi dopo un silenzio:

- Io ho condotto il signor Papavoine: aveva il suo berretto di lontra e fumava il suo sigaro. Quanto ai giovanotti de la Rochelle, non parlavano che tra di loro. Ma parlavano.

Ha fatto ancora una pausa ed ha continuato.

- Dei pazzi! degli entusiasti; avevano l'aria di disprezzare tutti quanti. Ma per quel che vi riguarda, veramente, vi trovo troppo preoccupato, giovanotto.

- Giovanotto! - gli ho detto - sono più vecchio io di voi; ogni quarto d'ora che passa mi invecchia di un anno.

Lui si è girato, mi ha guardato qualche minuto con inebetito stupore, poi si è messo a sghignazzare sconciamente.

- Andiamo, voi volete ridere, più vecchio di me! Potrei essere vostro nonno!

- Non voglio ridere affatto - gli ho risposto gravemente.

Lui allora ha aperto la tabacchiera.

- Prendete, caro signore, non offendetevi, una presa di tabacco e non serbatemi rancore.

- Non abbiate paura: non avrò molto tempo per essere in collera con voi.

In quel momento la tabacchiera che mi tendeva era vicino alla grata che ci separava; un sobbalzo della vettura ve l'ha fatta urtare violentemente, ed essa è caduta, completamente aperta, sui piedi del gendarme.

- Maledetta grata! - ha esclamato l'usciere.

Poi si è girato verso di me.

- Ebbene! non sono sfortunato? Ecco che ho perduto tutto il tabacco!

- Eh! Io perdo più di voi - gli ho risposto sorridendo.

Egli ha cercato di raccogliere il tabacco, borbottando tra i denti:

- Più di me! Si fa presto a dirlo. Niente tabacco fino a Parigi! E' terribile.

Il cappellano, allora, gli ha detto qualche parola per consolarlo, e io non so se fossi preoccupato, ma certo mi è sembrato che fosse il seguito dell'esortazione di cui io avevo avuto il principio. A poco a poco la conversazione si è intavolata tra il prete e l'usciere; li ho lasciati parlare per conto loro e mi sono messo a pensare per conto mio.

Nell'avvicinarmi alle porte ero sempre preoccupato, senza dubbio, ma mi è parso che Parigi risuonasse più rumorosa del solito.

La vettura si è fermata un attimo davanti al dazio e gli agenti l'hanno ispezionata. Se si fosse trattato di un montone o di un bue da portare al macello si sarebbe dovuto dare loro una borsa d'argento; ma una testa d'uomo non paga balzelli. E siamo passati.

Superato il viale, la carrozza si è infilata al gran trotto in quelle vecchie vie tortuose del quartiere Saint-Marceau e del centro che serpeggiano e si tagliano tra loro come le infinite gallerie di un formicaio; sul selciato di quelle vie strette il rotolìo è diventato così rapido e fragoroso che non sentivo più niente dei rumori che venivano dal di fuori. Quando gettavo gli occhi attraverso la piccola inferriata, mi sembrava che la folla dei passanti si fermasse per guardare la vettura e che dei branchi di ragazzi le corressero dietro; e mi è sembrato anche di vedere ogni tanto, qua e là agli incroci, un uomo o una vecchia cenciosi, a volte tutti e due insieme, con in mano un mazzo di fogli stampati che i passanti si disputavano aprendo la bocca come per un grande urlo.

Suonavano le otto e mezzo all'orologio del Tribunale quando siamo arrivati nel cortile della "Conciergerie". La vista di quel grande scalone, di quelle guardie sinistre mi ha agghiacciato.

Quando la vettura si è fermata ho creduto che stessero per fermarsi anche i battiti del mio cuore.

Ho raccolto le mie forze; la porta si è aperta con la rapidità del lampo, sono saltato giù dalla prigione semovente e mi sono frettolosamente infilato sotto la volta tra due file di soldati. Sul passaggio si era già formata una folla.




23.


Finché ho camminato per i corridoi pubblici del Palazzo di Giustizia mi sono quasi sentito libero e a mio agio; ma ogni mia risolutezza mi ha lasciato quando mi hanno aperto davanti delle basse porte, delle scale segrete, dei passaggi interni, dei lunghi corridoi sordi e senz'aria dove non entrano che quelli che condannano o quelli che sono condannati.

L'usciere mi accompagnava sempre; il prete, invece, mi aveva lasciato per tornare di lì a due ore.

Alla fine mi hanno portato nello studio del direttore, nelle cui mani l'usciere mi ha consegnato. Un cambio di guardia.

Il direttore l'ha pregato di aspettare un istante dicendogli che doveva consegnargli della selvaggina perché la portasse a Bicêtre col ritorno del carriaggio. Senza dubbio il condannato di oggi, quello che deve dormire questa sera sul mucchio di paglia che io non ho avuto tempo di usare.

- Molto bene - ha detto l'usciere al direttore - aspetto senz'altro un momento, così faremo i due processi verbali contemporaneamente; la cosa si mette bene.

Mentre si aspettava, mi hanno messo in un piccolo locale vicino a quello del direttore. Là, ben chiuso, sono stato lasciato solo.

Non so a che cosa pensassi, né da quanto tempo fossi lì, quando un improvviso e violento scoppio di risa mi ha scosso dal mio fantasticare. Ho alzato gli occhi trasalendo. Non ero più solo nella cella: c'era un uomo con me, un uomo di una cinquantina d'anni, di media statura; rugoso, curvo e quasi tutto grigio; atticciato, con uno sguardo torbido negli occhi grigi e un riso amaro sul volto; sporco, sbrindellato, mezzo nudo, disgustoso al solo vederlo.

Sembrava che la porta si fosse aperta, lo avesse vomitato, e si fosse rinchiusa senza che io mi fossi accorto di niente.

Se la morte potesse venire così!

Ci siamo guardati fissamente per qualche secondo, l'uomo ed io; lui prolungando il suo riso che sembrava un rantolo; io mezzo meravigliato e mezzo atterrito.

Alla fine gli ho chiesto:

- Chi siete?

- Amena domanda! - egli ha risposto. - Un "friauche".

- Un "friauche"! che significa ciò?

Questa questione ha raddoppiata la sua allegria.

- Ciò vuol dire - gridò in mezzo a uno scoppio di risa - che tra sei settimane il «taule» giocherà al «paniere» con la mia «Sorbona» come farà tra sei ore col tuo «ceppo». Ah! Ah! sembra che tu capisca, ora!

Effettivamente ero pallido, e i capelli mi si rizzavano in testa. Era l'altro condannato, il condannato del giorno, quello che aspettavano a Bicêtre, il mio erede.

Egli ha continuato:

- Che vuoi? Eccoti la mia storia.

Io sono figlio di un brav'uomo ed è una gran disgrazia che un giorno Charlot (1) si sia preso la briga di mettergli la cravatta. Era quando regnava ancora la forca, per grazia di Dio. A sei anni non avevo più né padre né madre; d'estate facevo la ruota nella polvere, ai bordi della strada, per la qual cosa mi buttavano un soldo dalle portiere della corriera postale; d'inverno, invece, andavo a piedi nudi nel fango soffiandomi sulle dita tutte rosse; e attraverso i calzoni mi si vedevano le natiche. A nove anni, ho cominciato a servirmi dei miei cucchiai (2) e, ogni tanto, vuotavo una tasca o rubavo un mantello; a dieci anni ero un borsaiolo. Poi ho fatto delle conoscenze; a diciassette anni ero un ladro e svaligiavo una bottega o facevo una trottola (3) falsa. Mi presero. Avevo l'età, e mi mandarono a remare nella piccola Marina (4). Il bagno, si sa, è duro: dormire su di un tavolaccio, bere solo acqua chiara, mangiare del pane nero, trascinare una stupida palla di ferro che non serve a niente; dei colpi di bastone e dei colpi di sole. Con un simile trattamento in poco tempo si è belli e tosati, e io che avevo bei capelli castani! Non importa... ho fatto il mio tempo. Quindici anni, passano anche loro.

Avevo trentadue anni. Un bel mattino mi diedero un foglio di via e sessantasei franchi che mi ero guadagnato nei miei quindici anni di galera, lavorando sedici ore al giorno, trenta giorni per mese, e dodici per anno. Niente di irreparabile; volevo essere un uomo onesto con i miei sessantasei franchi, ed avevo sentimenti più belli sotto i miei stracci di quanti ve ne siano sotto una veste d'abate.

Ma che i demoni abbiano la carta d'identità! Essa era gialla, e c'era scritto sopra: "forzato liberato". Bisognava mostrarla ovunque andassi e presentarla ogni otto giorni al sindaco del villaggio dove mi avevano costretto ad abitare.

La bella raccomandazione! Un galeotto! Facevo paura, e si mettevano in salvo i bambinetti, e si sprangavano le porte. Nessuno voleva darmi da lavorare. Così mangiai i miei sessantasei franchi; poi bisognava pur vivere, mi si chiusero le porte. Offrii la mia giornata per quindici soldi, per dieci soldi, per cinque soldi. Niente. Che fare? Un giorno avevo fame. Diedi una gomitata al carretto del panettiere; presi un pane e il panettiere prese me; non mangiai il pane ed ebbi l'ergastolo a vita, con tre lettere di fuoco sulle spalle. Te le faccio vedere, se vuoi.

Eccomi dunque, "di ritorno recidivo". Mi riportarono a Tolone; ma questa volta con i berretti verdi. Dovevo evadere. Per questo, non avevo che da bucare tre muri e segare due catene; e non avevo che un chiodo. Evasi. Spararono il cannone d'allarme; perché, noi altri, siamo i principi e i re, vestiti in divisa, e si spara il cannone quando ce ne andiamo. Ad ogni modo la loro polvere non servì proprio a niente. Questa volta niente carta gialla ma niente denaro, anche. Dopo un po' trovai dei vecchi compagni che avevano scontato la pena o tagliato la corda. Il loro capo mi propose di essere dei loro facendo l'assassino sulle grandi strade. Accettai e mi misi ad uccidere per vivere. Alle volte era una diligenza, altre volte una corriera postale, altre ancora un mercante di buoi a cavallo. Si prendeva il denaro, si lasciava andare libera la bestia o la vettura e si seppelliva l'uomo sotto un albero badando bene che non spuntassero i piedi; e poi si ballava sulla fossa perché la terra non apparisse mossa di fresco. E sono diventato vecchio così, vivendo alla macchia, dormendo all'aperto, inseguito da un bosco all'altro, ma libero, almeno, e padrone di me stesso. Tutto però ha un termine, e una bella notte i "mercanti di lacci" (5) ci hanno preso per il colletto. I miei compagni si sono salvati; ma io, il più vecchio, sono rimasto sotto le grinfie di quei gatti con il cappello gallonato. Mi hanno portato qui.

Avevo già fatto i gradini della scala tranne uno. Aver rubato un fazzoletto o ucciso un uomo, per me era ormai la stessa cosa; c'era ancora da applicarmi una recidiva. Non c'era altro che passare dal boia. Il mio processo è stato molto breve. Parola d'onore, incominciavo a diventare vecchio e a non essere più buono a niente.

Mio padre ha "sposato la vedova" (6), io mi ritiro nell'abbazia di Monte dei Lamenti (7). Ecco tutto, amico mio.

Ero rimasto attonito ad ascoltarlo. Lui si è messo di nuovo a ridere più fragorosamente ancora di prima ed ha voluto prendermi la mano.

Sono indietreggiato con orrore.

- Oh! l'amico! - mi ha detto - non hai l'aria coraggiosa! cerca di non fare il vigliacco davanti alla carlina (8). Vedi, c'è da passare un brutto momento sulla piazza, ma è così presto passato! Vorrei essere là io per farti vedere il capitombolo. Per mille dei! Quasi quasi ho voglia di non ricorrere, se mi tagliano oggi stesso con te.

Lo stesso prete ci servirà tutti e due; per me non ha importanza anche prendere i tuoi avanzi. Vedi che sono un bravo ragazzo. Heh! Dimmi, lo vuoi? da amico!

Ed ha fatto ancora un passo per venirmi vicino.

- Signore - gli ho detto respingendolo - vi ringrazio.

Nuovi scoppi di risa alla mia risposta.

- Ah! ah! Signore: è un marchese! Un marchese!

L'ho interrotto:

- Senti amico, ho bisogno di raccogliermi un po'; lasciami stare. - La gravità delle mie parole lo ha reso pensieroso di colpo: ha scosso la testa grigia e quasi calva e poi, grattandosi il petto villoso che appariva nudo sotto la camicia aperta, ha mormorato tra i denti:

- Già, capisco; effettivamente il prete aiuta!

Poi, dopo qualche istante di silenzio:

- Guardate - mi ha detto quasi timidamente - voi siete un marchese e è una gran bella cosa; ma avete una magnifica giacca che non vi servirà più a gran che! Il palco se la prenderà. Datela a me, che la venderò per comperare del tabacco.

Mi sono tolto la giacca e gliel'ho data: si è messo a battere le mani con gioia infantile. Poi, vedendo che ero in camicia e che battevo i denti:

- Voi avete freddo, signore, mettetevi questo; piove, e vi bagnerete tutto; e poi, bisogna stare decorosamente sulla carretta.

Così dicendo si è tolto il maglione di lana grigia e me l'ha dato in mano. Io lo lasciavo fare; stavo appoggiato al muro e non saprei nemmeno dire che razza d'impressione mi facesse quell'uomo. Si era messo ad esaminare la giacca che gli avevo regalato e ad ogni momento mandava un grido di gioia.

- Le tasche sono completamente nuove! Il colletto non è usato per niente! Ne ricaverò almeno quindici franchi. Che fortuna! Tabacco per tutt'e sei le settimane!

Si è riaperta la porta. Venivano a cercarci entrambi: me, per portarmi nella camera dove i condannati aspettano il momento; lui, per portarlo a Bicêtre. Ridendo si è messo in mezzo al picchetto che doveva portarlo via, e diceva ai gendarmi:

- Ah! badate! Non vi sbagliate! Il signore e io abbiamo cambiato giacca, ma non prendetemi al suo posto. Diavolo! non mi piacerebbe proprio, specie ora che ho modo di avere del tabacco!




24.


Questo vecchio scellerato! Mi ha preso la giacca (poiché io non gliel'ho certo regalata) e mi ha lasciato questo straccio, il suo maglione infame. Chissà che aria avrò preso! Non gli ho certo lasciato prendere la mia giacca per indifferenza o bontà; no, ma perché era più forte di me. Se gliela avessi rifiutata mi avrebbe picchiato con i suoi grossi pugni.

Ma sì, bontà! Ero pieno dei peggiori sentimenti. Avrei voluto poterlo strozzare con le mie mani, vecchio ladro! Poterlo pestare sotto i piedi! Mi sento il cuore pieno di collera e rabbia. Credo che mi sia scoppiata la vescichetta della bile.

La morte rende perversi.




25.


Mi hanno portato in una piccola cella dove non ci sono che i quattro muri e, non c'è bisogno di dirlo, molte sbarre alle finestre e molti chiavistelli alla porta.

Ho chiesto un tavolo, una sedia e l'occorrente per scrivere. Mi hanno portato ogni cosa. Ho chiesto un letto. Il secondino mi ha guardato con uno sguardo stupito che sembrava dire: E per fare che? Tuttavia hanno sistemato una branda in un angolo; ma, nello stesso tempo un gendarme è venuto ad installarsi in quella che essi chiamavano "la mia stanza".

Hanno forse paura che mi strangoli con il materasso?

26) Sono le dieci.

O mia piccola bambina! Ancora sei ore e sarò morto! Sarò qualcosa di immondo che si trascinerà su di un freddo tavolo anatomico, una testa che taglieranno da una parte, un tronco che sezioneranno dall'altra; e poi, di tutto quello che resterà, riempiranno una bara e ogni cosa finirà a Clamart (9).

Ecco cosa stanno per fare di tuo padre questi uomini di cui nessuno mi odia, che tutti piangono e che tutti potrebbero salvare. Essi stanno per uccidermi. Capisci questa cosa, Maria? Uccidermi a sangue freddo, con una cerimonia, per il bene pubblico! Ah, gran Dio!

Povera piccola! Tuo padre che ti amava tanto, tuo padre che baciava il tuo piccolo collo bianco e profumato, che continuamente ti passava le mani sui riccioli come su di una seta, che stringeva il tuo visuccio tondo tra le mani, che ti faceva saltare sulle ginocchia e la sera univa le tue piccole mani per pregare Dio!

Chi ti farà tutto questo, ora? Chi ti amerà? Tutti i bambini della tua età avranno un papà tranne te. Come farai, figlia mia, a dimenticarti di capodanno, delle strenne, dei bei regali, dei dolci e dei baci?

Come farai, povera orfana, a dimenticare di bere e di mangiare?

Oh! se quei giurati l'avessero vista, almeno, la mia piccola Maria!

Avrebbero capito che non bisogna uccidere il papà di una bimba di tre anni.

E quando sarà grande, se pure ci riesce, che cosa diventerà? Suo padre sarà uno dei ricordi del popolo di Parigi. Arrossirà di me e del mio nome; sarà disprezzata, respinta, abietta per colpa mia, di me che l'amo con tutta la tenerezza del cuore. O mia piccola Maria amata!

Davvero tu avrai vergogna ed orrore di me ? Miserabile, che delitto ho commesso e che delitto faccio commettere alla società! Oh! davvero è sicuro che io morirò prima della fine del giorno? Davvero si tratta di me?

Questo vociare confuso che sento di fuori, questa moltitudine di gente allegra che s'affretta già per le strade, quei gendarmi che si preparano nelle caserme, quel prete vestito di nero, quell'uomo dalle mani rosse, sono per me! Sono io che vado a morire! Io, lo stesso che è qua, che vive, che si muove, che respira, che è seduto a questo tavolo, il quale assomiglia a qualsiasi altro tavolo e potrebbe ben anche essere altrove; io, infine, questo io che tocco e che sento, e il cui vestito fa questa piega!




27.


Se almeno sapessi com'è fatta quella cosa, e in che maniera si muore là sotto! Ma è orribile, io non lo so.

Il nome stesso della cosa è spaventoso, e non capisco proprio come l'abbia potuto scrivere e pronunciare fino ad ora.

La combinazione di quelle dodici lettere, il loro aspetto, la loro fisionomia è ben fatta per suggerire un'idea spaventosa, e il maledetto medico che ha inventato la cosa aveva davvero un nome predestinato.

L'immagine che ci attacco, a quell'odiosa parola, è vaga e indeterminata, e tanto più sinistra, perciò. Ogni sillaba è come un pezzo della macchina, e io ne costruisco e demolisco senza posa la mostruosa intelaiatura dentro la mente. Io non oso fare una domanda su tale argomento, ma è orribile non sapere cos'è, né come si prende.

Sembra ci sia una specie di piano inclinato e che vi stendano sul ventre... Ah! i miei capelli diventeranno bianchi prima che mi cada la testa!




28.


Una volta, però, l'ho intravista. Un giorno passavo per la piazza di Grève, in carrozza, verso le undici del mattino. All'improvviso la vettura si fermò.

C'era folla nella piazza. Misi la testa allo sportello. La plebaglia ingombrava l'ampio spazio e il Lungo Senna e donne, uomini e ragazzi erano in piedi sul parapetto. Al di sopra delle teste si vedeva una specie di palco di legno rosso che tre uomini stavano drizzando.

Un condannato doveva essere giustiziato proprio quel giorno e si impiantava la Macchina.

Io girai la testa prima ancora di aver visto. A fianco della carrozza, c'era una donna che diceva a un bambino:

- Guarda! la lama non scivola bene: stanno spalmando la scanalatura con la cera di una candela.

E' là probabilmente, che loro sono ora. Le undici sono appena suonate:

certamente spalmano la scanalatura.

Ah! questa volta, disgraziato, non potrò girare la testa.




29.


Oh, la grazia! la grazia! può darsi che me la facciano, la grazia.

Il re, non è mica in collera, con me. Che si cerchi il mio avvocato!

Presto, l'avvocato! Ma sì, preferisco i lavori forzati. Cinque anni di galera; diciamolo pure: vent'anni, o per sempre, con il ferro rosso, anche. Ma la grazia della vita.

Un forzato, infine, cammina ancora, va e viene, vede il sole.




30.


Il prete è tornato.

Ha i capelli bianchi, l'aria molto dolce e una figura che incute rispetto: effettivamente è un uomo eccellente e amorevole. Questa mattina l'ho visto vuotare il suo portafoglio nelle mani dei prigionieri. Ma come mai, dunque, la sua voce non mi commuove? Come mai egli non mi ha ancora detto niente che mi abbia preso per l'intelligenza e per il cuore? Questa mattina ero fuori di me; ho appena sentito quello che mi ha detto. Tuttavia le sue parole mi sono sembrate inutili, e sono rimasto indifferente: esse sono scivolate via come questa fredda pioggia su questo gelido vetro.

Tuttavia quando poco fa è ritornato la sua vista mi ha fatto bene. Tra tutti questi uomini è, per me, l'unico che sia ancora uomo. E mi ha preso una sete ardente di buone e consolanti parole.

Ci siamo seduti, lui sulla sedia, io sul letto. Mi ha detto:

- Figlio mio... - mi si è aperto il cuore.

Poi ha continuato:

- Figlio mio, credete in Dio?

- Sì, padre mio - gli ho risposto.

- Credete nella Santa Chiesa Cattolica Apostolica e Romana?

- Ben volentieri - gli ho detto.

- Figlio mio - ha ripreso - voi avete l'aria di dubitare.

Allora si è messo a parlare. Ha parlato a lungo; ha detto molte parole; poi, quando ha creduto di aver finito, si è alzato e mi 'ha guardato per la prima volta dopo l'inizio del suo discorso, chiedendomi: - E allora?

Vi assicuro che lo avevo ascoltato con avidità, all'inizio, poi con attenzione, poi con ossequio.

Mi sono alzato anch'io.

- Reverendo - gli ho detto - mi lasci solo, la prego.

Lui m'ha chiesto:

- Quando dovrò ritornare?

- Glielo farò sapere.

Allora è uscito, senza collera, ma scuotendo la testa: forse mormorando una preghiera. Forse pensava che io ero un empio.

No, per quanto in basso che io sia caduto non sono un empio, e Dio mi è testimonio che io credo in lui. Ma cosa mi ha detto questo vecchio?

Niente di sentito, niente di commosso, niente di sofferto, niente che venisse dal suo cuore al mio, niente che fosse suo per me. E poi, aveva l'aria di recitare una lezione già recitata venti volte, di ripassare un tema un po' dimenticato a furia di essere saputo.

E come avrebbe potuto essere altrimenti? Questo prete è il cappellano titolare della prigione, il suo compito è di consolare ed esortare, e di questo egli vive. I forzati, i condannati sono l'oggetto della sua eloquenza: li confessa e li assiste perché questo è il suo lavoro. E' invecchiato portando a morire gli uomini. Da molto tempo è abituato a quello che fa rabbrividire gli altri; i suoi capelli ormai bianchi non si rizzano più; il bagno e il palco sono cosa di tutti i giorni per lui. E' disincantato. Probabilmente ha il suo libriccino: questa pagina gli ergastolani, quest'altra pagina i condannati a morte. La vigilia lo si avverte che ci sarà qualcuno da consolare l'indomani alla tale ora: egli chiede di che cosa si tratta: galeotto o condannato a morte? Rilegge la pagina adatta e poi viene. In questo modo succede che quelli che vanno a Tolone e quelli che vanno a la Grève sono un luogo comune per lui, e che lui è un luogo comune per loro.

Oh! che mi si vada dunque a cercare, al posto di quello, qualche giovane coadiutore, qualche vecchio curato, a caso, nella prima parrocchia che capita; che lo si prenda dal suo cantuccio vicino al fuoco mentre legge il breviario e non si aspetta niente, e gli si dica: - C'è un uomo che sta per essere ucciso, e bisogna che siate voi a consolarlo. Bisogna che voi siate là quando gli legheranno le mani e gli taglieranno i capelli, che voi saliate sulla sua carretta con il vostro crocifisso per nascondergli il boia, che siate sballottato con lui dal selciato fino a la Grève; che attraversiate con lui l'orribile folla assetata di sangue, che lo abbracciate ai piedi del palco, e restiate là fino a che la testa sia da una parte e il corpo dall'altra.

Allora, che me lo portino, tutto palpitante, tutto rabbrividente dalla testa ai piedi; che io mi getti tra le sue braccia, alle sue ginocchia; e lui piangerà, e noi piangeremo, e lui sarà commosso ed io sarò consolato, il mio cuore si scioglierà nel suo, e lui prenderà la mia anima ed io il suo Dio.

Ma questo buon vecchio, cos'è per me? Cosa sono per lui? Un individuo della specie sfortunata, un'ombra come lui ne ha ormai viste tante, un'unità da aggiungere alla cifra delle esecuzioni.

Forse può anche essere che abbia avuto torto a respingerlo così! è lui che è buono e io che sono malvagio. Ahimè! non è colpa mia. E' il mio alito di condannato che guasta e ammorba ogni cosa.

Mi hanno appena portato la colazione: hanno creduto che ne dovessi avere bisogno; una cosa delicata e fine: un pollo novello, mi sembra, e altro ancora. Ebbene! Ho cercato di mangiare; ma alla prima boccata mi è caduta ogni cosa di bocca tanto mi è parsa fetida e amara.




31.


Poco fa è entrato un signore con un cappello in testa che mi ha appena guardato, poi ha aperto un metro e si è messo a misurare dal basso in alto le pietre del muro parlando a voce alta, ora per dire:

- E' così - e ora: Non è così.

Ho chiesto al gendarme chi fosse. Sembra che sia una specie di geometra addetto alla prigione.

Alla fine si è svegliata la sua curiosità sul mio conto; ha scambiato qualche parola con il carceriere che lo accompagnava, poi ha fissato per un momento gli occhi su di me, ha scosso la testa con aria indifferente e si è rimesso a parlare a voce alta e a prendere misure.

Finito il suo lavoro mi si è avvicinato dicendomi con la sua voce squillante:

- Caro amico mio, tra sei mesi questa prigione sarà molto più bella.

- E il suo tono sembrava aggiungere:- Peccato che voi non ne godrete. - E quasi sorrideva.

Il mio gendarme, vecchio soldato incallito, si è incaricato della risposta.

- Signore - gli ha detto - non si grida in questo modo nella camera di un morto.

L'architetto se n'è andato. E io ero là come una delle tante pietre che misurava.




32.


E poi mi è capitata una faccenda ridicola.

Sono venuti a prendere il mio buon vecchio gendarme al quale, ingrato egoista che sono, non ho nemmeno stretto la mano. Un altro gli ha dato il cambio: un uomo con la fronte bassa e due occhi da bue.

Io, del resto, non avevo fatto nessuna attenzione alla cosa: seduto davanti al tavolo, giravo la schiena alla porta e cercavo di rinfrescarmi un po' la fronte con la mano mentre i pensieri mi agitavano la mente.

Un colpo leggero, battutomi sulla spalla, mi ha fatto girare la testa.

Era il nuovo gendarme, con cui ero solo.

Ed ecco come ha cominciato a parlarmi:

- Criminale, avete del buon cuore?

- No! - gli ho detto.

La bruschezza della mia risposta sembrò sconcertarlo. Tuttavia ha ripreso esitando:

- Non si è cattivi per il piacere di esserlo.

- Perché no? - gli ho replicato. - Se non avete che questo da dirmi lasciatemi in pace.

- Scusate, signor criminale - ha risposto - due parole soltanto.

Ecco. Se voi poteste fare la fortuna di un pover'uomo e non vi costasse niente, non la fareste?

Ho alzato le spalle.

- Siete diventato matto? Scegliete un bel vaso per bervi la felicità!

Io fare la fortuna di qualcuno!

Egli ha abbassato la voce e ha preso un'aria misteriosa che non si addiceva affatto alla sua figura idiota.

- Sì, criminale, proprio felicità, proprio fortuna. Tutto questo mi potrà venire da voi. Ecco qua come. Io sono un povero gendarme, il servizio è pesante, la paga leggera; il cavallo è a mio carico, ed è la mia rovina. Ora, io per controbilanciare gioco al lotto: bisogna ben industriarsi in qualche modo. Fino ad ora, per guadagnare, non mi sono mancati che i numeri buoni; ne cerco dappertutto di sicuri, ma casco sempre solo vicino. Punto sul 76 ed esce il 77. Ho un bel curarli, non escono mai...

Ancora un po' di pazienza, vi prego, e ho finito. Ora, ecco una bella occasione per me. Sembra, scusate, criminale, che voi moriate oggi. E' certo che i morti che si fanno perire come voi vedono i numeri prima.

Promettetemi, dunque, di venire domani sera, a voi cosa costa? a darmi tre numeri, tre numeri buoni. Eh? Io non ho paura degli spiriti, state tranquillo. Ecco il mio indirizzo: Caserma Popincourt, scala A, in fondo al corridoio. Mi riconoscerete bene, no? Venite pure anche stasera se per voi è più comodo.

Non mi sarei degnato di rispondere, a quell'imbecille, se una folle speranza non mi avesse attraversata la mente. Nella posizione disperata in cui sono si crede, in certi momenti, di poter rompere una catena con un capello.

- Ascolta - gli ho detto, facendo la commedia come può farla uno che sta per morire - effettivamente io posso renderti più ricco del re, farti guadagnare milioni e milioni; a una condizione, però. Egli apriva gli occhi imbambolati.

- Quale? quale? Tutto quel che volete, mio criminale.

- Al posto di tre numeri te ne prometto quattro. Cambia i tuoi vestiti con i miei.

- Se non è che questo! - ha esclamato slacciandosi i primi bottoni dell'uniforme.

Io mi ero alzato dalla sedia e osservavo tutti i suoi movimenti con il cuore in tumulto. Vedevo già aprirsi le porte davanti alla divisa di gendarme, e la piazza, e la strada, e il Palazzo di Giustizia dietro di me!

Ma egli si è girato con aria indecisa.

- Ah! ma non sarà mica per uscire di qui?

Ho capito che era tutto perduto. Tuttavia ho fatto un ultimo tentativo, inutile e insensato - Sì, è così - gli ho detto - ma la tua fortuna è fatta...

Mi ha interrotto:

- Ah no! Ma già! e i miei numeri!? Perché siano buoni bisogna che voi siate morto.

Mi sono seduto di nuovo, muto e più disperato, per tutta la speranza che avevo avuto.




33.


Ho chiuso gli occhi e ho cercato di dimenticare il presente nel passato. Mentre penso, i ricordi della mia infanzia e della mia giovinezza mi ritornano a uno a uno, dolci, calmi, ridenti, come delle isole di fiori su questo gorgo di pensieri neri e confusi che mi tempestano in testa.

Mi rivedo bambino, scolaro fresco e pieno di risa, mentre gioco, corro e rido con i miei fratelli nel grande viale alberato di quel giardino selvaggio dove sono passati i miei primi anni, vecchio chiostro monacale che domina la fosca cima della Val-de-Grâce. E poi, quattro anni più tardi, eccomi ancora là, sempre ragazzo, ma già sognatore appassionato.

Nel giardino solitaria c'è una giovinetta: la piccola spagnola, dai grandi occhi e i folti capelli, dalla pelle bruna e dorata, le labbra rosse e le guance rosse, l'andalusa quattordicenne, Pepa.

Le nostre mamme ci hanno detto di andare a correre insieme: noi siamo venuti a passeggiare. Ci è stato detto di giocare, e noi discorriamo, ragazzi della medesima età, ma non uguali. Ancora un anno fa, tuttavia correvamo e litigavamo insieme. Io contendevo a Pepita la più bella mela del frutteto o la picchiavo per un nido di uccelli, lei piangeva; io dicevo: Ti sta bene! e tutt'e due andavamo a piangere insieme dalle nostre mamme che a voce alta ci davano torto e di nascosto ragione.

Ora lei si appoggia al mio braccio, e io sono tutto fiero e silenzioso; camminiamo lentamente, parlando sottovoce. Lei lascia cadere il fazzoletto; io glielo raccolgo. Le nostre mani, toccandosi, tremano.

Lei mi parla dei piccoli uccelli, della stella che si vede là in basso, del tramonto vermiglio dietro alle piante o delle sue amiche d'albergo, del suo vestito e dei suoi nastri. Diciamo cose innocenti; e tutti e due arrossiamo. La bimbetta si è fatta signorina. Quella sera - era una sera d'estate - eravamo sotto i castagni, in fondo al giardino. Dopo uno di quei lunghi silenzi che riempivano le nostre passeggiate, lei lasciò di colpo il mio braccio e mi disse: Corriamo!

La vedo ancora, tutta in nero per il lutto di sua nonna. Le era passata per la testa una idea di bimba, Pepa era tornata Pepita, e mi aveva detto: Corriamo! Si mise a corrermi avanti, con la sua figura sottile; io la inseguii, lei fuggiva; e l'aria della corsa le sollevava a tratti la pellegrina nera sulle spalle.

La raggiunsi vicino alla fontana in rovina.

- Sedetevi qui- mi disse. - E' ancora giorno chiaro, leggiamo qualcosa. Avete un libro?

Avevo con me il secondo volume dei viaggi di Spallanzani. Aprii a caso e mi avvicinai a lei: lei appoggiò la sua spalla alla mia e ci mettemmo a leggere sottovoce, ognuno dalla propria parte, la stessa pagina. Prima di girare il foglio, lei era sempre obbligata ad aspettare. La mia mente andava più adagio della sua.

- Avete finito? - mi diceva; e avevo appena iniziato. Restammo così l'una accanto all'altro, seduti a leggere, a guardarci negli occhi!

- Oh ! mamma, mamma - disse lei rientrando - sapessi quanto abbiamo corso!

Io rimasi in silenzio.

- Non dici niente - mi disse la mamma hai l'aria di essere triste.

E avevo il paradiso nel cuore.

E' una sera, quella, che ricorderò per tutta la vita.

Tutta la vita!




34.


Sono appena suonate le ore; non so quali, poiché non sento bene il martello dell'orologio. Mi pare, infatti, di avere nelle orecchie come il rumore di un organo: sono i miei ultimi pensieri che mormorano.

In questo momento supremo in cui mi raccolgo nei miei ricordi ritrovo in essi con orrore il mio delitto; e vorrei pentirmi ancora di più.

Avevo più rimorsi, infatti, prima della condanna; poi, non mi sembra ci sia più stato posto che per i pensieri di morte. Pur tuttavia io vorrei ben maggiormente pentirmi.

Quand'ho pensato un minuto a quello che è successo nella mia vita e ritorno al colpo d'ascia che deve terminarla tra breve, io rabbrividisco tutto come per una nuovissima cosa. La mia bella infanzia! la mia bella giovinezza! Stoffa dorata dall'estremità insanguinata! Tra il passato e il presente c'è un fiume di sangue, il sangue mio e dell'altro. Se un giorno si leggerà la mia storia, dopo tanti anni innocenti e felici, non si vorrà credere a quest'anno esecrabile, che si apre con un delitto e si chiude con un supplizio:

sarà troppo mostruosamente strano. Eppure, non ero un perverso! Oh, morire tra poche ore e pensare che un anno fa, nello stesso giorno, ero libero e innocente, che facevo le mie passeggiate d'autunno, che vagavo sotto gli alberi con i piedi affondati tra le foglie!




35.


In questo stesso momento ci sono, vicinissimi a me, in queste case che fanno cerchio intorno al Palazzo e alla Grève e in tutta Parigi, degli uomini che vanno e vengono, discorrono e ridono, leggono il giornale, pensano ai loro affari; dei mercanti che vendono; delle ragazze che preparano i loro vestiti da ballo per questa sera; delle madri che giocano con i loro bambini!




36.


Mi ricordo che un giorno, quando ero bambino, andai a vedere il campanone di Nôtre-Dame. Ero già stordito per aver salito l'oscura scala a chiocciola, per aver percorso la debole loggia che unisce le due torri, per aver avuto Parigi sotto i piedi, quando entrai nel castello di pietra e di legno dove pende il campanone con il suo battaglio, che peserà un migliaio di libbre.

Avanzavo tremando sulle tavole sconnesse, guardando da lontano questa campana così famosa tra i ragazzi e il popolo di Parigi e notando, non senza paura, che i tetti coperti di ardesia che circondavano il campanile con i loro piani inclinati erano al livello dei miei piedi.

Ogni tanto tra gli interstizi vedevo, come a volo d'uccello, la piazza di Parvis-Nôtre-Dame ed i passanti come formiche.

All'improvviso l'enorme campana suonò, una vibrazione profonda scosse l'aria e fece oscillare la grossa torre, il tavolo sobbalzò sulle travi.

Per poco il rumore non mi fece cadere; vacillai, come stessi perdendo l'equilibrio e fossi sul punto di scivolare sui ripidi tettucci d'ardesia e, per il terrore, mi gettai sulle assi stringendole strette con le braccia: senza voce e senza fiato, con quel terribile scampanìo nelle orecchie e quel precipizio sotto gli occhi, quella piazza lontana dove si incrociavano tanti passanti tranquilli e invidiati.

Ebbene! mi sembra di essere ancora sulla torre del campanone. E' una specie di stordimento e di vertigine: c'è come un rombo di campana che scuote la cavità della mia testa, e intorno a me non vedo più quella vita piana e tranquilla che ho abbandonata e dove gli altri uomini camminano ancora, se non da lontano e attraverso i crepacci di un abisso.




37.


Il palazzo municipale è un edificio sinistro.

Con il suo tetto acuto e ripido, la sua guglia bizzarra e il grande orologio bianco, le sue mille finestre, le sue scale consumate dai passi, e i due archi a destra e sinistra, è là, insieme a La Grève:

fosco, lugubre, la facciata tutta corrosa dalla vecchiezza; è così nero, che è nero anche il sole.

I giorni dell'esecuzione esso vomita gendarmi da tutte le porte e fissa il condannato da tutte le sue finestre.

E la sera, l'orologio, che ha segnato l'ora, rimane luminoso sulla tenebrosa facciata.




38.


E' l'una e un quarto.

Ecco cosa provo in questo momento: un violento mal di testa. La schiena fredda, la fronte in fiamme. Ogni volta che mi alzo o mi piego mi sembra che ci sia un liquido che ondeggia nella mia testa e che mi fa battere il cervello contro le pareti del cranio.

Ho dei trasalimenti improvvisi e, ogni tanto, la penna mi cade dalle mani come per una scossa elettrica.

Gli occhi mi bruciano come se fossi nel fumo.

E ho male alle giunture.

Ancora due ore e quarantacinque minuti e sarò guarito.




39.


Loro mi dicono che non è niente, che non si soffre, che è una fine dolce, che la morte in questo modo è completamente semplificata.

Eh! Cos'è dunque quest'agonia di sei settimane e questo rantolo di tutto un giorno? Cosa sono le angosce di questa giornata irreparabile, che scorre così lentamente e così veloce? Che cos'è allora questa scala di torture che termina sul palco?

Forse che non sono uguali le convulsioni, sia che il sangue si esaurisca goccia a goccia, sia che l'intelligenza si spenga pensiero a pensiero?

E poi: non si soffre; ne sono ben sicuri? Chi l'ha detto loro? Si racconta che mai una testa tagliata si sia sollevata sanguinante al bordo del cesto e abbia gridato al popolo: Non fa per niente male?

Ci sono dei morti alla loro maniera che sono venuti a ringraziarli e a dir loro: - E' un bella invenzione; tenetevela cara; il meccanismo è ottimo?...

Forse Robespierre? Forse Luigi Sedicesimo?... No, niente! meno di un minuto, meno di un secondo, e la cosa è fatta. Non si sono mai messi soltanto con il pensiero, al posto di quello che è là, nel momento in cui il pesante coltello che cade morde la carne, rompe i nervi, stritola le vertebre?... Macché! un mezzo secondo! Il dolore è sparito... orrore!




40.


E' strano come io pensi continuamente al re. Ho un bel fare, un bel scuotere la testa, nell'orecchio ho una cosa che sempre mi dice:

- In questa stessa città, a questa stessa ora, e non lontano da qui, in un altro palazzo, c'è un uomo unico come te, con questa sola differenza che lui è tanto in alto quanto tu in basso. La sua vita intera, minuto per minuto, non è che gloria, grandezza, delizie ed ebbrezza. Tutto, intorno a lui, è amore, rispetto, venerazione. Le voci più alte parlandogli diventano sommesse, e le fronti più fiere si inchinano. Egli non ha che seta ed oro sotto gli occhi. A quest'ora, tiene qualche consiglio dei ministri dove tutti sono del suo parere; oppure pensa alla caccia di domani, al ballo di questa sera, sicuro che la festa arriverà all'ora fissata, e lasciando agli altri la cura dei suoi piaceri. Ebbene! quest'uomo è di carne e ossa come te! E perché immediatamente crollasse l'orribile palco, perché tutto ti fosse reso, vita, libertà, fortuna, famiglia, basterebbe che scrivesse con questa penna le sette parole del suo nome in fondo a un pezzo di carta, o che semplicemente, la sua carrozza incontrasse la tua carretta! E luii è buono, e non chiederebbe forse niente di meglio, e non sa niente!




41.


Ebbene, dunque! Abbiamo coraggio con la morte, prendiamo quest'orribile idea a due mani e guardiamola in faccia. Chiediamole cosa sia, cerchiamo di sapere cosa vuole da noi, giriamola da tutte le parti, scrutiamo l'enigma: guardiamo, orsù, nella tomba.

Mi sembra che, quando i miei occhi saranno chiusi, vedrò una grande luce e degli abissi di luce in cui il mio spirito rotolerà senza fine.

Mi sembra che il cielo sarà luminoso per se stesso, che le stelle diventeranno delle macchie oscure e che, al posto di essere come per gli occhi dei vivi, delle pagliuzze d'oro su un velluto nero, sembrano dei punti neri su un velluto d'oro.

Oppure, me disgraziato, non ci sarà che uno spaventevole gorgo, profondo, le cui pareti saranno tappezzate di tenebre e dove io cadrò continuamente, circondato da larve sbucanti dall'ombra.

Oppure, svegliandomi dopo il colpo mi troverò forse su qualche superficie umida e liscia, mentre striscio nell'oscurità girandomi su me stesso come una testa che rotola. E ci sarà un gran vento che spingerà, e altre teste che rotoleranno, mi sbatteranno qua e là. E ci saranno mari e ruscelli di un liquido tiepido e sconosciuto; e sarà tutto nero.

Quando i miei occhi, nella loro rotazione, saranno rivolti verso l'alto, non vedranno che un cielo oscuro che grava su di loro e lontano lontano, in fondo, dei grandi archi di fumo più neri delle tenebre. E nella notte volteggeranno delle piccole fiammelle rosse che, avvicinandosi, diventeranno uccelli di fuoco. E sarà così per tutta l'eternità.

E può anche darsi che in certe nere notti di inverno i morti della Grève si riuniscano sulla piazza che è loro. Sarà una folla pallida e insanguinata, e io non vi mancherò. Non ci sarà luna e si parlerà a voce bassa. Il palazzo municipale sarà là, con la sua faccia butterata, il suo tetto frastagliato e il suo orologio che è stato per noi senza pietà. Sulla piazza ci sarà una ghigliottina dell'inferno dove un demonio ucciderà un boia: alle quattro del mattino. E, a nostra volta, faremo folla intorno.

E' probabile che sarà così. Ma se quei morti ritornano, sotto che forma ritornano? Cosa conservano del loro corpo incompleto o mutilato?

Che cosa scelgono, essi? E' il tronco o la testa che è spettro?

Ohimè! Cosa fa mai la morte alla nostra anima? Che natura le lascia?

Che cosa le toglie e le dona? Dove la manda? Qualche volta le presta degli occhi di carne per guardare sulla terra, e piangere?

Ah! un prete! un prete che sappia tutte queste cose! Voglio un prete, e un crocifisso da baciare. Un prete, mio Dio!




42.


L'ho pregato di lasciarmi dormire, e mi sono gettato sul letto.

In realtà, avevo un fiotto di sangue nella testa che mi ha fatto dormire. Il mio ultimo sonno di questa specie.

Ho fatto un sogno.

Ho sognato che era notte e che ero nel mio studio con due o tre amici non so più quali.

Mia moglie era a letto nella camera accanto e dormiva con la bambina.

Parlavamo sottovoce, i miei amici e io, e quello che dicevamo ci atterriva.

All'improvviso mi sembrò di sentire un rumore in qualche parte dell'appartamento: un rumore debole, strano, indeterminato.

I miei amici avevano sentito come me. Ascoltammo: era come una serratura che si apriva sordamente, come un chiavistello che si facesse scorrere a poco a poco.

C'era qualcosa che ci agghiacciava: avevamo paura. Pensammo potessero essere dei ladri che si erano introdotti in casa a quell'ora così tarda di notte.

Decidemmo di andare a vedere; mi alzai e presi la bugia. Gli amici mi seguivano a uno a uno.

Attraversammo la vicina camera da letto. Mia moglie dormiva con la bambina.

Arrivammo nel salone. Niente. I ritratti erano immobili nelle loro cornici d'oro sulla tappezzeria rossa. Mi sembrò che la porta del salone alla sala da pranzo non fosse a posto come sempre.

Entrammo nella sala da pranzo; ne facemmo il giro. Io camminavo per primo: la porta sulla scala era chiusa bene; le finestre, anche.

Arrivati vicino alla stufa, vidi che l'armadio era aperto e il battente tirato verso l'angolo del muro come per nasconderlo.

Questo mi sorprese. Pensammo ci fosse qualcuno nascosto dietro la porta e feci per chiudere: resistette. Stupefatto, tirai più forte, ed essa, bruscamente, cedette scoprendoci una vecchietta, con le mani penzoloni, gli occhi chiusi, immobile, in piedi incollata nell'angolo del muro.

C'era qualcosa di orribile, in tutto questo, e a pensarci mi si rizzarono ancora i capelli.

- Cosa fate qui? - chiesi alla vecchia.

Lei non rispose.

Le domandai: - Chi siete?

Non rispose, non si mosse e rimase ad occhi chiusi.

Gli amici, allora, mi dissero:

- E' certamente la complice di quelli che sono entrati con cattive intenzioni. Sentendoci venire sono scappati; lei non avrà potuto fuggire e si è nascosta qui.

L'ho interrogata di nuovo: è rimasta senza voce, senza vita, senza sguardo.

Uno di noi le ha dato uno spintone: è caduta.

E' caduta tutta d'un pezzo, come un pezzo di legno, come una cosa morta.

L'abbiamo mossa con il piede, poi due di noi l'hanno alzata e appoggiata di nuovo al muro; non ha dato nessun segno di vita. Le abbiamo gridato nell'orecchio: è rimasta muta come se fosse sorda.

Cominciavamo a perdere la pazienza; e nel nostro terrore c'era ormai anche la collera.

Uno mi ha detto: - Mettetele la bugia sotto il mento.

Le ho accostato la fiamma. Allora ha aperto un occhio a metà, un occhio vuoto, fosco, spaventoso e senza sguardo.

Ho tolto la fiamma e le ho detto:

- Ah! finalmente! risponderai, vecchia strega? Chi sei?

L'occhio si è chiuso come da solo.

- Ah! ma è troppo - hanno detto gli altri.- Ancora la bugia!

ancora! bisognerà bene che parli.

Ho rimesso il lume sotto il mento della vecchia.

Allora, lei ha aperto lentamente i due occhi, ci ha guardati tutti uno dopo l'altro, poi, chinandosi bruscamente, con un gelido soffio ha spento la bugia. Nel medesimo istante, nelle tenebre, ho sentito penetrare tre denti acutissimi nella mia mano.

Mi sono svegliato, tremante e bagnato di sudore freddo.

Il buon cappellano era seduto ai piedi del letto, e leggeva delle preghiere.

- Ho dormito molto tempo? - gli ho chiesto.

- Figlio mio - mi ha risposto - avete dormito un'ora. Vi hanno portato vostra figlia. E' nella camera vicina che vi aspetta; non ho voluto che vi svegliassero.

- Ah! - ho gridato - mia figlia, portatemi mia figlia!




43.


E' fresca, è rosea, ha dei grandi occhi, oh, com'è bella! Le hanno poi messo un vestitino che le va così bene!

L'ho sollevata tra le mie braccia, l'ho fatta sedere sulle ginocchia, l'ho baciata sui capelli. Intanto, lei, mi guardava con aria stupita:

carezzata, abbracciata, divorata da baci, lasciava fare, ma gettando ogni tanto uno sguardo inquieto alla balia che piangeva in un angolo.

- Maria!- le ho detto - mia piccola Maria! - e l'ho stretta violentemente al petto gonfio di pianto. Lei ha lanciato un piccolo grido.

- Oh, signore, mi fate male - mi ha detto.

Signore? E' ormai un anno che non mi vede, povera bambina, e mi ha dimenticato, viso, voce e accento; e poi, chi mai mi riconoscerebbe con questa barba, questi abiti e questo pallore? E che? sarei già dunque scomparso da questa memoria, la sola in cui avrei voluto vivere ancora?! Non sono già dunque più padre? Condannato a non sentire più questa parola, questa parola della lingua dei bimbi, così dolce che non può restare in quella degli uomini: papà!

Sentirla una volta da questa bocca, una volta sola ecco tutto quello che avrei chiesto in cambio di quarant'anni di vita che mi si prendono.

- Ascolta, Maria - le ho detto stringendo le sue piccole mani nelle mie - davvero non mi conosci?

Lei mi ha guardato con i suoi begli occhi, e ha risposto: - Oh, no, per davvero!

- Guarda bene - le ho ripetuto. - Ma come tu non sai chi sia?

- Sì - ha detto. - Un signore.

Ah! non amare ardentemente che un unico essere al mondo, amarlo con tutto il proprio amore, e averlo davanti a sé, che vi vede e vi guarda, vi parla e risponde, e non vi riconosce! Non desiderate di esser consolato che da lui, mentre lui solo, non sappia che ne avete bisogno perché andate a morire!

- Maria - ho ripreso - tu hai un papà?

- Sì, signore - ha detto la bimba.

- Oh, e dov'è allora?

Lei ha alzato i suoi grandi occhi stupiti.

- Ah! voi dunque non lo sapete? E' morto.

Poi ha strillato; per poco, infatti, non l'avevo lasciata cadere.

- Morto! - dicevo. - Maria! ma sai che cosa vuol dire, morto?

- Sì, signore - ha risposto. - Vuol dire che è nella terra e nel cielo.

E ha continuato da sola: - Io prego il buon Dio per lui mattino e sera sulle ginocchia della mamma.

L'ho baciata sulla fronte.

- Maria, dimmi la tua preghiera.

- Non posso, signore. Una preghiera non si può dirla durante il giorno. Venite a casa mia stasera e ve la dirò.

Era abbastanza. E l'ho interrotta: - Maria, io, sono il tuo papà.

- Ah! - mi ha detto.

Ho aggiunto: - Vuoi che sia io il tuo papà? La bimba s'è girata.

- No, mio papà era molto più bello.

L'ho coperta di baci e di lacrime. Lei ha cercato di liberarsi dalle mie braccia, gridando: - Mi fate male con la vostra barba.

Allora, me la sono rimessa sulle ginocchia covandola con gli occhi e ho preso a interrogarla.

- Maria, sai leggere?

- Sì - ha risposto. - So leggere benissimo. Me lo ha insegnato la mamma.

- Vediamo, allora, leggi un po' - le ho detto indicandole un foglio che teneva accartocciato in una delle sue manine.

Ha scosso la testa.

- Eh! Non so leggere che le favole!

- Ma su, prova lo stesso. Su, leggi.

Lei ha spiegato il foglio e si è messa a compitare con il suo dito: - "S, e, n, sen, t, e, n, senten, Sentenza..." Gliel'ho strappato di mano. Era la mia sentenza di morte, che mi leggeva.

Non ci sono parole per dire quello che provavo. La mia violenza l'aveva spaventata, quasi quasi piangeva. All'improvviso mi ha detto:

- Restituitemi il mio foglio! E' mio, e lo voglio per giocare.

L'ho riconsegnata alla balia.

- Portatela via.

E sono caduto sulla sedia, mesto, cupo, e disperato. Ora loro dovrebbero venire; non mi importa più di niente; l'ultima fibra del mio cuore è spezzata.

Sono buono per quello che stanno per fare.




44.


Tutto sommato il prete è buono e anche il gendarme. Credo che quand'ho loro detto che mi avevano portato mia figlia abbiano versato qualche lacrima.

E' fatto. Ora bisogna che mi roda in me stesso, e che pensi fermamente al boia, alla carretta, ai gendarmi, alla folla sul ponte, alla folla sul viale, alla folla alle finestre, e a quello che ci sarà espressamente per me su quella lugubre piazza di Grève che potrebbe essere selciata di tutte le teste che ha visto cadere.

Credo di avere ancora un'ora per abituarmi a tutto questo.




45.


E tutta quella gente riderà, batterà le mani, applaudirà. E tra quegli uomini liberi e conosciuti ai poliziotti che corrono pieni di gioia a un'esecuzione, in quella marea di teste che coprirà la piazza, ci sarà più di una testa predestinata, che, presto o tardi, seguirà la mia nel cesto rosso. Più d'uno che viene per me verrà per sé. Per questi esseri fatali c'è, su un certo punto della piazza di Grève un luogo fatale, un centro d'attrazione, una trappola. Essi vi girano intorno finché non vi restano presi.




46.


La mia piccola Maria! L'hanno riportata a giocare: osserva la folla dalla portiera della carrozza e non pensa già più a questo signore.

Forse avrò ancora il tempo per scrivere qualche pagina per lei, poiché un giorno la possa leggere e tra quindici anni, piangere per oggi.

Sì, bisogna che sappia da me la mia storia e perché il nome che le lascio gronda di sangue.




LA MIA STORIA



47.


Nota dell'editore

I fogli che a questi si dovrebbero riattaccare, non si sono ancora potuti trovare. Forse, come quelli che seguono sembrano indicare, il condannato non ha avuto il tempo di scriverli. Quando questo pensiero gli è venuto era tardi.




Da una stanza del palazzo municipale



48.


Dal palazzo municipale!... E così ci sono arrivato! L'esecrabile viaggio è fatto. La piazza è là, e, sotto la finestra, c'è l'orribile folla che abbaia, e mi aspetta, e ride.

Ho avuto un bel rodermi, un bel rabbrividire, il cuore mi è mancato.

Quando ho visto al di sopra delle teste quei due bracci rossi con il loro triangolo nero in cima, rizzati tra le due lanterne della piazza, il cuore mi è mancato; e ho chiesto di poter fare un'ultima dichiarazione. Mi hanno messo qui e sono andati a cercare qualche procuratore del re. Io aspetto: è tutto tempo guadagnato.

Ecco dunque:

Suonavano le tre quando sono venuti ad avvertirmi che era ora. Ho tremato: come se da sei ore, da sei settimane, da sei mesi avessi sempre pensato a tutt'altra cosa. Mi ha fatto l'effetto di qualcosa d'improvviso e inatteso.

Mi hanno fatto attraversare i loro corridoi e discendere le loro scale e mi 'hanno spinto al di là di due battenti a pian terreno in una sala sudicia e angusta, e a malapena rischiarata da un giorno di pioggia e di nebbia. Nel mezzo c'era una sedia: mi hanno detto di sedermi e io mi sono seduto.

Vicino alla porta e lungo i muri c'era in piedi qualche persona oltre al prete e ai gendarmi; e c'erano anche tre altri uomini.

Il primo, il più grande e vecchio, grasso e con la faccia rossa, portava la redingote e un tricorno sformato. Era lui.

Era il boia, il servitore della ghigliottina. Gli altri erano i suoi servitori, per lui.

Appena seduto, gli altri due mi si sono avvicinati, da dietro, come gatti; poi, all'improvviso ho sentito un freddo d'acciaio nei miei capelli e le forbici hanno cominciato a stridermi nelle orecchie.

I capelli, tagliati come veniva, cadevano a ciocche sulle mie spalle, e l'uomo dal tricorno li spazzava via dolcemente con la sua grossa mano.

Intorno si parlava a bassa voce.

C'era un gran rumore, fuori: come un fremito che ondeggiasse nell'aria. All'inizio ho creduto che fosse il fiume; ma, dopo alcuni scoppi di risa ho capito che era la folla.

Un giovanotto che scriveva a matita su un notes vicino alla finestra ha domandato a uno dei carcerieri come si chiamava quello che si stava facendo.

- La toilette del condannato - ha risposto quello.

Ho capito che domani, sul giornale, ci sarà anche quello.

Improvvisamente uno dei servitori mi ha tolto il maglione e l'altro mi ha afferrato le mani penzoloni, me le ha rigirate dietro la schiena ed ho sentito i nodi di una corda girare lentamente intorno ai miei pugni vicini. Contemporaneamente, l'altro mi scioglieva la cravatta.

La camicia di batista, solo lembo che mi restava di quello che ero stato altre volte, l'ha fatto esitare un momento; poi si è messo a tagliarne via il collo.

A questa orribile precauzione, alla sensazione dell'acciaio che mi sfiorava il collo mi sono tremate le braccia, mi sono lasciato scappare un lamento soffocato. La mano dell'esecutore è trasalita.

- Signore - mi ha detto - scusate! Vi ho forse fatto male?

Questi boia sono degli uomini molto gentili.

La folla, di fuori, urlava più forte.

L'omaccione dalla faccia bitorzoluta mi ha offerto da respirare un fazzoletto imbevuto di aceto.

- Grazie - gli ho detto con la voce più alta che potevo - è inutile, sto benissimo.

Allora uno di loro si è abbassato e mi ha legato i piedi con una corda fine e lenta che mi permetteva di muovere dei piccoli passi e che ha poi attaccata a quella delle mani.

Poi l'omaccione mi ha gettato sulla schiena la veste e me ne sono annodate le maniche sotto il mento. Quello che c'era da fare era stato fatto Allora il prete si è avvicinato con il suo crocifisso.

- Andiamo, figlio mio - mi ha detto.

I boia mi hanno preso sotto le ascelle, mi sono alzato, ho camminato.

I miei passi erano molli e ondeggianti come se avessi avuto due ginocchia per gamba.

In quel momento la porta esterna si è aperta, spalancata: un clamore furioso e l'aria fredda e la luce bianca hanno fatto irruzione fino a me nell'ombra.

Dal fondo della cella, bruscamente, ho visto contemporaneamente, attraverso la pioggia, le mille teste urlanti della gente ammucchiata e che si urtava sulla scalinata del Palazzo; a destra, a pianterreno, una schiera di gendarmi a cavallo dei cui la porta bassa non mi lasciava vedere che gli zoccoli e il petto; di fronte, un drappello di soldati in tenuta da campagna; a sinistra la parte posteriore di una carretta alla quale era appoggiata una scala. Orribile quadro ben incorniciato nella porta di una prigione.

Era per quel momento temuto che io avevo conservato il mio coraggio:

ho fatto tre passi e sono comparso sulla soglia.

- Eccolo! Eccolo! - ha gridato la folla. - Esce! Finalmente! E quelli che mi erano vicino battevano le mani. Per quanto si ami un re gli si farebbe meno festa.

Era una carretta delle solite, con un cavallo tisico, e un carrettiere con una veste bleu a disegni rossi come quella degli ortolani dei dintorni di Bicêtre.

L'omaccione con il cappello a tricorno è salito per primo.

- Buongiorno, signor Sansone! - gridavano alcuni ragazzi arrampicati a delle inferriate.

Un servitore l'ha seguito.

- Bravo Mardì! - hanno gridato di nuovo i ragazzi.

Entrambi si sono seduti sul sedile davanti.

Ora toccava a me: sono salito con un portamento abbastanza sicuro.

- Va bene, però! - ha gridato una donna vicino ai gendarmi!

Quell'atroce elogio mi ha dato coraggio. Intanto il prete è venuto a mettermisi vicino. Mi avevano fatto prendere posto sul sedile di dietro, con la schiena rivolta al cavallo, e questa estrema attenzione mi ha fatto fremere.

Ci mettono dell'umanità, là dentro!

Ho voluto guardarmi in giro: gendarmi davanti e gendarmi dietro; e poi folla, folla, folla: un mare di teste infinito su tutta la piazza.

Un picchetto di gendarmeria a cavallo mi aspettava al cancello del Palazzo Municipale. L'ufficiale ha dato un ordine: la carretta e il suo seguito si sono mossi come spinti in avanti dall'urlìo della folla. Abbiamo passato il cancello. Nel momento in cui la carretta si è diretta verso il Ponte del Cambio, la piazza è scoppiata in un grido dai tetti alla strada e i ponti e i viali hanno risposto facendo tremare la terra. E' là che il picchetto che aspettava si è riunito alla scorta.

- Giù i cappelli! giù i cappelli! - gridavano mille voci insieme.

Come per il re.

Allora ho riso orribilmente anch'io e ho detto: - Loro i cappelli, io la testa.

Si andava al passo.

Era giorno di mercato; il viale dei fiori profumava tutto e i mercanti lasciavano i loro cestini per venirmi a vedere.

Di fronte, un po' oltre la torre quadrata che forma l'angolo del Palazzo di giustizia, ci sono delle osterie, e tutte le loro finestre erano piene di spettatori felici dei loro bei posti, soprattutto di donne: per gli osti doveva essere un'ottima giornata.

Si affittavano tavole, sedie, palchi, carretti, ogni cosa; e dei mercanti di sangue umano gridavano a squarciagola: - Chi vuole dei posti?

Allora mi ha preso una terribile collera contro quella folla e mi è venuto voglia di gridare: Chi vuole il mio?

Intanto la carretta avanzava: a ogni passo che faceva, la folla le si rovesciava dietro e la vedevo, con gli occhi sbarrati, andare a fermarsi di nuovo più lontano su un altro punto del mio passaggio.

Entrando sul Ponte del Cambio ho gettato per caso gli occhi alla mia destra: lo sguardo mi si è fermato sull'altro viale, al di sopra delle case, su una torre nera, isolata, piena di sculture, in cima alla quale scorgevo due mostri di pietra seduti di profilo. Non so perché ho chiesto al prete che torre fosse.

- Saint-Jacques-la-Boucherie - ha risposto il boia.

Non so come accadesse: nella nebbia, e malgrado la pioggia fine e insistente che rigava l'aria come una rete di fili di ragno, niente di quello che mi passava vicino mi è potuto sfuggire; e ogni particolare mi portava la sua tortura.

Verso la metà di questo Ponte del Cambio, così largo e così ingombro che ci camminavano a malapena, l'orrore mi ha preso violentemente; e ho avuto terrore di venir meno. Estrema vanità.

Allora mi sono chiuso in me stesso per essere cieco e per essere sordo a ogni cosa, tranne che al prete del quale sentivo appena le parole interrotte dai rumori.

Ho preso il crocifisso e l'ho baciato.

- Abbiate pietà di me- ho detto - o mio Dio! - E ho cercato d'inabissarmi in questo pensiero.

Ma ogni scossa della dura carretta mi riscuoteva.

Poi, all'improvviso ho sentito un gran freddo: la pioggia aveva attraversato i miei vestiti, e mi bagnava la pelle della testa attraverso i corti capelli tagliati.

- Tremate di freddo, figlio mio? - mi ha chiesto il prete.

- Sì - ho risposto.

Ahimè! non solo di freddo.

In fondo al ponte, delle donne, mi hanno compianto di essere così giovane.

Avevamo preso il viale fatale. Cominciavo a non vedere e a non capire più niente: tutte quelle voci, tutte quelle teste alle finestre, alle porte, alle inferriate delle botteghe, ai bracci delle lanterne; quegli spettatori avidi e crudeli; quella folla in cui tutti mi conoscevano e dove io non conoscevo nessuno; quella strada lastricata e murata di visi umani... Era vuoto, stupido, insensato: il peso di tanti sguardi puntati su di voi è qualcosa di terribile e d'insopportabile.

Vacillavo sul sedile inebetito.

Nel tumulto che mi fasciava non distinguevo più le grida di pietà dalle grida di gioia, le risa dai pianti, le voci dai rumori: era un unico immenso rombo che mi risuonava in testa.

I miei occhi leggevano meccanicamente le insegne delle botteghe.

A un certo punto mi prese la strana curiosità di girare la testa e di guardare verso cosa avanzassi: era un'ultima bravata dell'intelligenza, ma il corpo non volle, e la nuca mi restò paralizzata e come già morta.

Intravidi solo, a sinistra, al di là del fiume, la torre di Nôtre- Dame, che, vista di là, nasconde l'altra. Era quella dove c'è la bandiera. C'era molta gente, e che doveva veder bene.

E la carretta andava, andava, e le botteghe passavano, e le insegne si succedevano, scritte, dipinte, dorate, e il popolaccio rideva e pestava i piedi nel fango e io mi lasciavo andare, come ai loro sogni quelli che dormono.

All'improvviso la serie di botteghe che occupava i miei occhi si è troncata all'angolo di una piazza: la voce della folla è diventata più vasta, più acuta, più gioiosa ancora, la carretta si è fermata bruscamente e per poco non mi ha fatto cadere con la faccia sul pianale. Il prete mi ha sostenuto. - Coraggio!- ha mormorato.

Allora hanno portato una scala dietro la carretta; lui mi ha dato il braccio e sono sceso; poi ho fatto un passo, poi mi sono girato per farne un altro e non ho potuto: fra i due lampioni del viale avevo visto un'orribile cosa.

Oh! era la realtà!

Mi sono fermato come se vacillassi già sotto il colpo.

- Ho da fare un'ultima dichiarazione - ho gridato debolmente.

Mi hanno fatto salire qui.

Ho chiesto che mi lasciassero scrivere le ultime volontà; mi hanno slegato le mani, ma la corda è qui, sempre pronta, e il resto è di sotto.




49.


E' arrivato una specie di giudice o commissario o magistrato che sia. Gli ho chiesto la grazia a mani giunte e trascinandomi sulle ginocchia; e lui mi ha risposto, con un sorriso fatale, se era tutto là quello che avevo da dirgli.

- La grazia! la grazia! - ho ripetuto - o, per pietà, ancora cinque minuti!

Chissà? Potrebbe anche arrivare! E' così orribile alla mia età, morire in questo modo! Di grazie che arrivano all'ultimo momento se ne sono viste spesso. E a chi si farà la grazia, signore, se non a me?

Quell'esecrabile boia! Si è avvicinato al giudice per dirgli che l'esecuzione andava fatta a una certa ora, che questa ora si avvicinava, che lui era il responsabile, e che, del resto, pioveva, e quella faccenda rischiava di arrugginirsi.

- Per pietà! un momento per attendere la mia grazia! o io mi difendo!

io mordo!

Il giudice e il boia sono usciti. Sono solo. Solo con due gendarmi. Oh quel maledetto popolaccio con le sue grida di iena! Chissà se non gli scapperò? Se non sarò salvato? e la grazia!... impossibile che non mi si faccia la grazia!...

Ah! i miserabili! Mi sembra che salgano le scale...

LE QUATTRO