Antoine-François Prévost
MANON LESCAUT
AVVERTIMENTO DELL'AUTORE DELLE MEMORIE DI UN UOMO DI QUALITA'
Sebbene potessi far rientrare nelle mie Memorie le avventure del cavaliere des Grieux, mi è sembrato che, in mancanza di un legame stretto, il lettore avrebbe trovato maggior soddisfazione nel leggerle separatamente. Un racconto così lungo avrebbe interrotto per troppo tempo il filo della mia storia. Lungi da me l'idea d'essere, in questa opera, uno scrittore esatto; tuttavia non ignoro che una narrazione deve talvolta essere alleggerita di una quantità di circostanze che la renderebbero pesante e impacciata. E' il precetto di Orazio:
"Ut jam nunc dicat jam debentia dici Pleraque differat ac praesens in tempus omittat".
Non è neppure necessario un parere tanto autorevole per provare una verità tanto semplice, poiché il buon senso è la prima fonte di questo genere di regole.
Se il pubblico ha trovato qualcosa di gradevole, e di interessante nella storia della mia vita, gli oso promettere che non sarà insoddisfatto di questa aggiunta. Nel comportamento del signor des Grieux vedrà un esempio terribile della forza delle passioni. Il mio compito è di descrivere un giovane sconsiderato che rifiuta d'essere felice per precipitarsi di sua spontanea volontà in tremende sventure; che, possedendo tutte le qualità di cui si compone il merito più fulgente, preferisce, per sua libera scelta, una vita oscura ed errabonda a tutti i vantaggi della ricchezza e della natura; che prevede le sue disgrazie ma non fa niente per evitarle; che le sente e ne è affranto, ma rifiuta i rimedi che continuamente gli si presentano, e che, a qualsiasi istante, potrebbero mettervi fine; un carattere, insomma, ambiguo, un miscuglio di virtù e di vizi, un perpetuo contrasto di buoni sentimenti e di cattive azioni. Ecco lo sfondo del quadro che presenterò ai miei lettori. Le persone di buon senso non considereranno un'opera di questo genere come un divertimento inutile. Oltre al piacere di una lettura gradevole, ci troveranno pochi avvenimenti che non possano servire a migliorare i costumi e, a mio parere, si rende al pubblico un grande servizio, se lo si istruisce divertendolo.
Riflettendo sui precetti della morale, ci si stupisce nel vederli insieme lodati e trascurati, e ci si chiede la ragione di questa bizzarria del cuore umano, che gli fa apprezzare idee di bene e di perfezione, dalle quali nella pratica si allontana continuamente. Per esempio, se persone di una certa sensibilità ed educazione esaminassero qual è il soggetto più comune delle loro conversazioni, o anche delle loro fantasticherie solitarie, noterebbero facilmente che quasi sempre vertono su qualche considerazione morale. I momenti più dolci della vita sono quelli che si passano soli o con un amico, intrattenendosi a cuore aperto sulle attrattive della virtù, sulle dolcezze dell'amicizia, sui mezzi per raggiungere la felicità, sulle debolezze della natura che ce ne allontanano, e sui rimedi che le possono guarire. Orazio e Boileau ritengono che l'intrattenersi in questo modo costituisce uno degli aspetti più belli che servono a comporre l'immagine di una vita felice. Come può dunque accadere che poi si ricada tanto facilmente da così alte speculazioni e ci si ritrovi tanto presto al livello dei comuni mortali? Mi sbaglierò, o la ragione che sto per darne potrà spiegare questa contraddizione delle nostre idee e della nostra condotta: poiché tutti i precetti della morale non sono che principi vaghi e generali, è molto difficile applicarli in maniera specifica ai comportamenti e alle azioni particolari. Facciamo un esempio. Le anime ben nate sentono che la dolcezza e l'umanità sono virtù amabili e tendono a praticarle; ma quando se ne presenta l'occasione restano sovente come in sospeso. E' veramente quella l'occasione? Come si fa a sapere in qual misura sono da praticare? Non ci si sbaglierà sull'oggetto? Cento difficoltà ci bloccano. Si teme di farsi gabbare volendo essere generosi e liberali, di passare per deboli facendosi vedere troppo teneri o troppo sensibili: in poche parole, di eccedere o di non adempiere abbastanza a quei doveri che sono racchiusi in maniera troppo oscura nei concetti generali di umanità e di dolcezza. In una tale incertezza, solo l'esperienza e l'esempio possono determinare in maniera ragionevole l'inclinazione del cuore. Ma l'esperienza non è un lusso che chiunque si possa concedere: essa dipende dalle diverse situazioni in cui la sorte ci ha posti. Resta dunque soltanto l'esempio che nell'esercizio della virtù può servire da regola a una quantità di persone. Opere come questa possono essere di grande utilità appunto per lettori di questo genere, per lo meno quando sono scritte da una persona d'onore e di buon senso. Ogni fatto che vi è riferito è un grado in più di luce, un ammaestramento che supplisce l'esperienza; ogni avventura è un modello al quale ci si può adeguare; basta solo adattarlo alle circostanze in cui ci si trova. L'opera nel suo complesso è un trattato di morale trasformata piacevolmente in azione.
Forse un lettore severo si adombrerà vedendomi riprendere la penna alla mia età, per scrivere casi di fortuna e d'amore: ma se la riflessione che ho fatto è giusta, essa mi giustifica; se è falsa, il mio errore sarà la mia scusa.
PRIMA PARTE
Devo far risalire il lettore a quel tempo della mia vita in cui incontrai per la prima volta il cavaliere des Grieux. Fu circa sei mesi prima della mia partenza per la Spagna. Sebbene uscissi raramente dalla mia solitudine, per compiacere mia figlia intraprendevo a volte diversi viaggetti, che abbreviavo per quanto possibile. Un giorno tornavo da Rouen dove mi aveva pregato di andare a sollecitare una pratica pendente al Parlamento di Normandia riguardo la successione di certe terre che le spettavano da parte del mio nonno materno.
Rimessomi in cammino per Evreux dove dormii la prima notte, arrivai l'indomani all'ora di cena a Pacy che ne dista cinque o sei leghe.
Entrando in paese fui sorpreso nel vedere tutti gli abitanti in fermento. Uscivano precipitosamente dalle loro case per correre a frotte verso la porta di una misera locanda dinanzi alla quale sostavano due carrette coperte. Dai cavalli ancora attaccati e visibilmente fumanti di fatica e di caldo, si deduceva che erano arrivate da poco. Mi fermai un momento per sapere la ragione di quel trambusto, ma non riuscii a cavare un gran che da quella calca di curiosi che non prestava alcuna attenzione alle mie domande e continuava ad avvicinarsi alla locanda tra le spinte e la confusione.
Quando infine comparve sulla soglia una guardia cinta da una bandoliera e con un moschetto in spalla, le feci segno con la mano di venire verso di me, e la pregai di spiegarmi la ragione di quel tumulto.
"Non è niente, signore" mi disse, "sono solo una dozzina di prostitute che io e i miei compagni conduciamo fino a Le Havre-de-Grâce, dove le faremo imbarcare per l'America. Ce ne sono alcune belline e questo forse eccita la curiosità di questi bravi contadini".
Dopo tale spiegazione me ne sarei andato, se non m'avessero trattenuto le esclamazioni di una vecchia che usciva dalla locanda giungendo le mani e gridando che era una cosa da barbari, una cosa che faceva orrore e compassione.
"Di che si tratta?" le domandai.
"Ah, signore, entrate" rispose, "e guardate se non è uno spettacolo che spezza il cuore!".
Spinto dalla curiosità, scesi dal cavallo che consegnai al mio servitore. Entrai a fatica facendomi strada tra la folla, e vidi infatti uno spettacolo piuttosto commovente. Tra le dodici ragazze incatenate sei per sei alla vita, ce n'era una dall'aspetto e dal viso così poco conformi alla sua condizione, che in qualunque altra circostanza l'avrei scambiata per una giovane di alto rango. La sua tristezza e la sporcizia delle sue vesti non riuscivano a imbruttirla ed essa mi ispirò rispetto e pietà. Per quanto la catena glielo permetteva, cercava di girarsi per sottrarre il viso agli occhi degli spettatori. Lo sforzo per celarsi era così naturale, che pareva nascere da un sentimento di pudore. Giacché le sei guardie che accompagnavano quel gruppo sciagurato erano anch'esse nella stanza, presi il loro capo in disparte e gli domandai qualche spiegazione sulla sorte di quella bella fanciulla. Quello che mi poté dire fu assai vago.
"L'abbiamo tirata fuori dall'Hôpital", mi disse, "per ordine del Luogotenente generale di polizia. Non c'è ragione di credere che ci sia stata rinchiusa per le sue buone azioni. L'ho interrogata diverse volte per strada, ma si ostina a non rispondere. Tuttavia, anche se non ho ricevuto l'ordine di trattarla meglio delle altre, ho sempre qualche riguardo per lei, perché mi sembra che valga più delle sue compagne. Ecco un giovanotto" soggiunse l'uomo, "che potrebbe informarvi su di lei meglio di me. L'ha seguita da Parigi senza smettere quasi mai di piangere. Certo non può essere che suo fratello o il suo amante".
Mi girai verso l'angolo della stanza dove il giovanotto era seduto.
Sembrava immerso in profondi pensieri. Non ho mai visto una più viva immagine del dolore. Era vestito con grande semplicità, ma si riconosce al primo sguardo una persona istruita e di nobili natali. Mi avvicinai a lui. Si alzò; e io colsi nei suoi occhi, nel suo aspetto e in ogni gesto un'aria così nobile e distinta che spontaneamente mi sentii spinto a volergli bene. "Non vorrei disturbarvi" gli dissi sedendomi accanto a lui, "ma volete soddisfare la mia curiosità di conoscere quella bella creatura, che non mi sembra nata per la triste condizione in cui la vedo?" Mi rispose civilmente che non poteva farmi sapere chi lei fosse senza farmi sapere chi fosse lui stesso, e che aveva seri motivi per conservare l'incognito.
"Posso dirvi però, e questi miserabili lo sanno bene", proseguì indicando le guardie, "che l'amo di una passione tanto violenta da essere il più infelice degli uomini. A Parigi ho tentato di tutto per ottenere la sua libertà. Preghiere, astuzia, forza: tutto è stato inutile. Ho preso la decisione di seguirla, dovesse pure andare in capo al mondo. Mi imbarcherò con lei, andrò in America. Ma la cosa più disumana è che quei vili furfanti" aggiunse parlando delle guardie, "non vogliono più permettermi di andarle vicino. La mia intenzione era di assalirli di sorpresa a poche leghe da Parigi, e a questo fine mi ero procurato quattro compagni che mi avevano promesso il loro aiuto in cambio di una somma ingente. Quei traditori mi hanno lasciato solo al momento di passare ai fatti e sono scappati col mio denaro.
L'impossibilità di riuscire con la forza, mi ha fatto arrendere.
Offrendo una ricompensa, ho proposto alle guardie di permettermi almeno di seguirli. Il desiderio di guadagno li ha fatti acconsentire.
Hanno voluto essere pagati ogni volta che mi hanno concesso la libertà di parlare alla mia amante. In poco tempo la mia borsa si è vuotata, e ora che sono senza un soldo, hanno la crudeltà di respingermi brutalmente ogni volta che faccio un passo verso di lei. Solo un momento fa, per aver osato avvicinarmi malgrado le loro minacce, hanno avuto l'insolenza di colpirmi con la punta del fucile. Per soddisfare la loro avidità e poter continuare la strada almeno a piedi, sono obbligato a vendere qui un ronzino sul quale ho cavalcato finora".
Sebbene avesse l'aria di fare questo racconto con una certa tranquillità, nel finirlo versò qualche lacrima. La sua storia mi parve delle più straordinarie e commoventi.
"Non vi spingo" gli dissi, "a rivelarmi i vostri segreti, ma se posso esservi di qualche aiuto, vi propongo volentieri i miei servigi".
"Ahimè!" riprese. "Non vedo alcun barlume di speranza: devo sottostare a tutta la crudeltà del mio destino. Andrò in America. Laggiù, almeno, sarò libero con colei che amo. Ho scritto a uno dei miei amici che mi farà avere qualche aiuto all'Havre de Grâce. Il mio solo problema è di arrivare fin là, e di procurare a quella povera creatura - parlando guardava tristemente la sua amante - un po' di sollievo lungo il cammino".
"Ebbene" gli dissi, "porrò fine io alle vostre pene. Ecco qui un po' di denaro che vi prego d'accettare. Mi dispiace non potervi aiutare altrimenti".
Gli diedi quattro luigi d'oro, senza che le guardie se ne accorgessero, poiché pensavo che se avessero saputo di quella somma, avrebbero aumentato il prezzo dei loro servigi. Mi venne pure l'idea di trattare con essi perché concedessero al giovane amante la libertà di parlare continuamente alla sua amica fino all'Havre. Feci segno al capo di avvicinarsi e gli feci la proposta. Malgrado la sua sfrontatezza, sembrò vergognarsi.
"Signore", rispose con aria imbarazzata, "non è che noi rifiutassimo di lasciarlo parlare con quella ragazza, ma vorrebbe stare di continuo vicino a lei, e questo ci disturba. E' giusto perciò che ci paghi per il fastidio che ci dà".
"Vediamo un po'", gli dissi, "quanto vorreste per non provare questo fastidio?".
Ebbe l'audacia di chiedermi due luigi. Glieli diedi immediatamente.
"Ma state attenti" aggiunsi, "a non combinare qualche altra bricconata, perché lascerò il mio indirizzo a questo giovanotto affinché me ne tenga informato, e siate certi che potrò farvi punire".
Il tutto mi costò sei luigi d'oro, ma il garbo e la viva riconoscenza con cui il giovane sconosciuto mi ringraziò finirono col persuadermi che era un uomo dabbene e che meritava la mia generosità. Prima d'uscire dissi qualche parola alla sua amante. Essa mi rispose con tale dolce modestia e con tanta grazia, che nell'andarmene non potei fare a meno di fare mille riflessioni sul carattere incomprensibile delle donne.
Tornato alla mia solitudine, non potei avere nessuna notizia sul seguito di quella storia. Passarono circa due anni che me la fecero dimenticare completamente, finché il caso non mi offrì di nuovo l'occasione di conoscerne a fondo tutte le circostanze.
Giungevo da Londra a Calais col mio amico, il marchese di... Prendemmo alloggio, se ben ricordo, al Lion d'or dove alcuni impegni ci costrinsero a passare l'intera giornata e la notte seguente. Nel pomeriggio, mentre camminavo per le vie della città, mi parve di scorgere quello stesso giovanotto che avevo incontrato a Pacy. Era molto male in arnese, e parecchio più pallido di quando l'avevo incontrato la prima volta. Portava sul braccio una vecchia sacca, poiché era appena arrivato in città. Lo riconobbi tuttavia immediatamente per quella sua fisionomia troppo bella per non essere facilmente riconoscibile .
"Bisogna che avviciniamo quel giovane", dissi al marchese.
Quando mi ebbe a sua volta riconosciuto, la sua gioia fu più viva di quanto non si possa esprimere.
"Ah, signore!" esclamò baciandomi la mano, "posso ancora una volta dimostrarvi la mia eterna riconoscenza".
Gli domandai da dove venisse. Mi rispose che arrivava per mare dall'Havre-de-Grâce, dov'era arrivato poco prima dall'America.
"Non mi sembrate in floride condizioni economiche", gli dissi. "Andate al Lion d'or dove ho preso alloggio. Vi raggiungerò fra poco".
Ci tornai infatti poco dopo, impaziente di sapere i particolari della sua sventurata storia e le circostanze del suo viaggio in America. Fui pieno di premure per lui e diedi ordine in albergo che non gli lasciassero mancare nulla. Non attese le mie sollecitazioni per raccontarmi la storia della sua vita.
"Signore", mi disse quando fu nella mia stanza, "vi comportate con me così nobilmente che se avessi per voi qualche segreto me ne vorrei come di una bassa ingratitudine. Non solo vi voglio far conoscere le mie sventure e i miei dolori, ma pure le mie sregolatezze e le mie debolezze più vergognose. Sono certo che pur condannandomi, non potrete fare a meno di compiangermi".
A questo punto devo avvertire il lettore che scrissi la sua storia subito dopo averla ascoltata, e quindi si può essere certi che nulla è più fedele e più esatto del mio racconto. Fedele, dico, fin nel riferire le riflessioni e i sentimenti che il giovane esprimeva con il più gran garbo del mondo.
Ecco dunque il suo racconto, cui non aggiungerò niente che lui stesso non mi abbia detto.
Avevo diciassette anni e terminavo gli studi di filosofia ad Amiens dove mi avevano mandato i miei genitori, i quali appartengono a una delle migliori famiglie di P... Conducevo una vita così saggia e morigerata che i miei maestri mi proponevano come esempio agli altri collegiali. Non che facessi sforzi straordinari per meritare questo apprezzamento, ma per natura sono di temperamento dolce e tranquillo:
mi dedicavo agli studi per inclinazione, e veniva considerata virtù la mia naturale avversione per il vizio. La mia nascita, la riuscita negli studi e alcune buone qualità naturali mi avevano fatto conoscere e stimare da tutte le persone perbene della città. Nelle mie prove pubbliche riscossi un'approvazione così generale che il vescovo, il quale vi assisteva, mi propose di intraprendere la carriera ecclesiastica nella quale, diceva, mi sarei certamente distinto più che nell'Ordine di Malta al quale mi destinavano i miei genitori. Già mi facevano portare la croce con il nome di cavaliere des Grieux. Col sopraggiungere delle vacanze, mi accingevo a tornare da mio padre che mi aveva promesso di mandarmi presto all'Accademia. La sola cosa che mi dispiacesse nel lasciare Amiens era separarmi da un amico al quale mi aveva sempre legato un tenero affetto. Aveva qualche anno più di me ed eravamo stati educati insieme, ma date le modestissime condizioni della sua famiglia era costretto a prendere gli ordini. Restava perciò ad Amiens dopo la mia partenza per fare gli studi che convengono a questo stato. Aveva mille buone qualità. Nel seguito della mia storia ne conoscerete le migliori, in particolar modo lo zelo e la generosità nell'amicizia che superano i più celebri esempi dell'antichità. Se avessi seguito allora i suoi consigli, sarei sempre stato buono e felice; se avessi almeno approfittato del suo aiuto nel precipizio in cui mi hanno trascinato le mie passioni, avrei salvato qualcosa dal naufragio della mia fortuna e della mia reputazione. Ma delle sue premure egli non ha colto altro frutto che il dispiacere di vederle vane e, a volte, duramente ricompensate da un ingrato che se ne sentiva offeso e che le considerava fastidiose.
Avevo fissato il momento della mia partenza da Amiens. Ahimè! Perché non lo fissai un giorno prima! Avrei portato da mio padre tutta la mia innocenza. La vigilia del giorno in cui pensavo di lasciare la città, mentre passeggiavo col mio amico, che si chiamava Tiberge, vedemmo arrivare la diligenza d'Arras e la seguimmo fino all'albergo dove fanno sosta le vetture. Non avevamo altre ragioni per farlo oltre alla curiosità. Ne discesero alcune donne che subito si ritirarono. Ne rimase solo una, giovanissima, che si fermò sola nel cortile, mentre un uomo d'età avanzata, che sembrava servirle da guida, si affaccendava per farle tirar fuori dai panieri la sua roba. Mi parve così carina che io, che non avevo mai pensato alla differenza dei sessi, né forse avevo mai guardato una ragazza con un po' d'attenzione, io, dico, di cui tutti ammiravano la saggezza e il ritegno, mi trovai di colpo acceso d'amore fino all'esaltazione. Per natura avevo il difetto d'esser timido e di lasciarmi sconcertare facilmente, ma in quel momento, ben lungi dal farmi trattenere da quella debolezza, mi avvicinai verso la padrona del mio cuore. Sebbene fosse ancor più giovane di me, accolse i garbati complimenti che le feci, senza dimostrare imbarazzo. Le chiesi che cosa la portasse ad Amiens, e se ci conoscesse qualcuno. Mi rispose con semplicità che c'era stata mandata dai suoi genitori per farsi monaca. Appena insinuatosi nel mio cuore, l'amore mi rendeva così lucido da farmi considerare quel progetto come un colpo mortale per i miei desideri.
Le parlai in un modo che le fece capire ciò che sentivo, poiché era molto più esperta di me.
La mandavano in convento contro la sua volontà e probabilmente per mettere un freno alla sua inclinazione al piacere, che si era già manifestata ed è poi stata la causa di tutte le sue sventure e delle mie. Lottai contro le crudeli intenzioni dei suoi genitori con tutte le ragioni che il mio amore nascente e la mia eloquenza scolastica furono in grado di suggerirmi. Lei non manifestò né severità, né sdegno. Dopo un momento di silenzio, mi disse che prevedeva fin troppo bene che sarebbe stata infelice, ma che questa era evidentemente la volontà del cielo, dato che non le lasciava alcun mezzo per evitarla.
La dolcezza del suo sguardo, una deliziosa aria di tristezza nel pronunciare quelle parole, o meglio l'influsso del mio destino che mi trascinava alla rovina, non mi permisero di esitare un istante sulla risposta. Le assicurai che se voleva fare assegnamento sul mio onore e sulla tenerezza infinita che già mi ispirava, avrei dedicato la mia vita a liberarla dalla tirannia dei suoi genitori e a renderla felice.
Ripensandoci, mi sono chiesto mille volte con stupore da dove mi venisse tanto ardire e tanta facilità nell'esprimermi, ma l'amore non sarebbe considerato una divinità, se non operasse comunemente dei miracoli. Aggiunsi mille cose convincenti. La mia bella sconosciuta sapeva bene che alla mia età non si inganna; mi confessò che se intravedevo la possibilità di renderla libera, si sarebbe considerata nei miei confronti debitrice di qualcosa di più caro della vita. Le risposi che ero pronto a intraprendere qualunque cosa, ma poiché non ero abbastanza esperto per immaginare su due piedi i mezzi per servirla, mi attenni a questa assicurazione generica che non poteva esserci di grande aiuto. Nel frattempo il suo vecchio Argo era venuto a raggiungerci e le mie speranze sarebbero svanite se la sua presenza di spirito non avesse sopperito alla pochezza del mio. All'arrivo della guida mi stupii che mi facesse passare per suo cugino e, senza apparire affatto imbarazzata, mi dicesse che avendo avuto la fortuna di incontrarmi ad Amiens, rimandava all'indomani la sua entrata in convento per avere il piacere di cenare con me. Entrai perfettamente nel gioco. Le proposi di prendere alloggio in una locanda, il cui padrone, stabilitosi ad Amiens dopo essere stato a lungo cocchiere di mio padre, era completamente a mia disposizione. Fui io stesso ad accompagnarcela, mentre il vecchio accompagnatore aveva l'aria di borbottare qualcosa e il mio amico Tiberge, che non capiva niente di quella scena, mi seguiva senza aprir bocca. Egli non aveva sentito la nostra conversazione perché passeggiava per il cortile mentre io parlavo d'amore alla mia bella amica. Temendo la sua ponderatezza, mi sbarazzai di lui pregandolo di incaricarsi di una commissione. In questo modo, giunto all'albergo, ebbi il piacere di intrattenermi da solo con la regina del mio cuore. Mi accorsi ben presto di essere meno bambino di quanto credessi. Il mio cuore si aprì a mille sentimenti di piacere, di cui non avevo mai avuto idea. Un dolce calore mi si diffuse per le vene. Ero in uno stato d'esaltazione che per un po' mi fece mancare la voce e che riusciva a esprimersi solo attraverso gli occhi. Madamigella Manon Lescaut, come mi disse di chiamarsi, parve molto soddisfatta dell'effetto delle sue grazie. Credetti di capire che non era meno emozionata di me. Mi confessò che mi trovava simpatico e che sarebbe stata felice di dovermi la sua libertà. Volle sapere chi fossi e questo fece aumentare il suo affetto per me; era di origini modeste e si sentì lusingata di aver fatto la conquista di un ragazzo come me. Parlammo insieme del modo per riuscire a unirci. Dopo aver ben riflettuto, non trovammo altra via che la fuga. Bisognava eludere la vigilanza dell'accompagnatore che era uomo da non sottovalutare, anche se era soltanto un domestico. Decidemmo che avrei fatto preparare una carrozza di posta durante la notte e che sarei venuto alla locanda di buon mattino, prima che egli si svegliasse.
Saremmo fuggiti in segreto per andare direttamente a Parigi dove, appena arrivati, ci saremmo sposati. Io avevo circa cinquanta scudi frutto delle mie piccole economie, lei ne aveva circa il doppio. Come fanciulli senza esperienza ci immaginavamo che questa somma non sarebbe mai finita e facemmo uguale assegnamento sul successo dei nostri altri progetti.
Dopo aver cenato con più piacere di quanto mai ne avessi provato prima, me ne andai per mettere in esecuzione il nostro progetto. Il che fu facile in quanto, avendo avuto l'intenzione di tornare da mio padre l'indomani, il mio scarso bagaglio era già pronto. Non ebbi perciò nessuna difficoltà a far trasportare il mio baule e a fissare una carrozza per le cinque del mattino, ora in cui le porte della città dovevano essere aperte. Ma incontrai un ostacolo che non avevo previsto, e che per poco non mandò all'aria il mio progetto.
Tiberge, sebbene avesse solo tre anni più di me, era un ragazzo assai maturo e si comportava in maniera molto giudiziosa. Nutriva per me un immenso affetto. La vista di una fanciulla bella come madamigella Manon, la mia premura nell'accompagnarla e la sollecitudine con cui mi ero sbarazzato di lui, gli fecero nascere qualche sospetto sul mio amore. Non aveva osato tornare all'albergo dove m'aveva lasciato per timore che il suo ritorno mi offendesse, ma era andato ad aspettarmi a casa dove lo trovai al mio arrivo, nonostante fossero le dieci di sera. La sua presenza mi contrariò e si accorse subito dell'imbarazzo in cui mi metteva.
"Sono certo", mi disse con franchezza, "che state meditando un progetto che volete nascondermi. Lo capisco dalla vostra faccia".
Gli risposi con una certa ruvidezza che non ero obbligato a rendergli conto di tutti i miei progetti.
"No", riprese, "ma mi avete sempre trattato da amico e questo è un titolo che presume un po' di fiducia e di sincerità".
Insisté tanto e così a lungo perché gli svelassi il mio segreto che, non avendogli mai nascosto nulla, gli confidai tutta la mia passione.
Egli accolse la mia confidenza con un'evidente scontentezza che mi fece fremere. Mi pentii soprattutto dell'imprudenza con cui gli avevo svelato il progetto della mia fuga. Mi disse che mi era troppo amico per non opporcisi con tutti i mezzi in suo potere. Prima di tutto mi avrebbe fatto presente tutto ciò che secondo lui poteva distogliermi dal mio progetto. Se poi io non fossi tornato sopra quella mia disgraziata decisione, avrebbe avvertito certe persone in grado di farlo. A tal proposito mi fece una predica che durò più di un quarto d'ora e concluse rinnovando la minaccia di denunciarmi, se non gli davo la mia parola d'onore di comportarmi con più ragionevolezza e buon senso. Ero disperato per essermi tradito in maniera così poco opportuna. Tuttavia, poiché da due o tre ore l'amore mi aveva aperto gli occhi in modo straordinario, notai che non gli avevo svelato che intendevo realizzare il mio progetto l'indomani, e presi la decisione di ingannarlo ricorrendo a un equivoco.
"Tiberge", gli dissi, "finora vi ho creduto un amico, e ho voluto mettervi alla prova con la mia confidenza. E' vero che amo, non vi ho ingannato, ma, per quanto concerne la fuga, non è un'impresa da organizzare alla leggera. Venite a prendermi domani alle nove, vi farò vedere, se sarà possibile, la mia amante, e giudicherete voi se merita questo passo".
Mi lasciò solo dopo mille proteste d'amicizia. Passai la notte a mettere in ordine le mie cose e recatomi allo spuntar del giorno alla locanda di madamigella Manon, la trovai che m'aspettava. Era affacciata alla finestra che dava sulla strada, e avendomi scorto, venne ad aprirmi di persona. Uscimmo senza far rumore. La liberai del suo bagaglio che era costituito dai suoi soli abiti. La carrozza era pronta a partire e ci allontanammo immediatamente dalla città.
Riferirò in seguito che cosa fece Tiberge quando si rese conto che l'avevo ingannato. Non per questo il suo zelo diminuì di ardore.
Vedrete anzi a quali eccessi lo spinse e quante lacrime dovrei versare pensando a come è stato ricompensato.
Affrettammo talmente il viaggio che arrivammo a Saint-Denis prima di notte. Avevo corso a cavallo accanto alla carrozza, il che non ci aveva permesso di parlare se non quando si cambiavano i cavalli, ma quando ci vedemmo così vicini a Parigi, cioè quasi al sicuro, prendemmo un po' di tempo per ristorarci dato che non avevamo mangiato niente dalla nostra partenza da Amiens.
Per quanto grande fosse la mia passione per Manon, lei mi seppe convincere che la sua per me non era meno grande. Nelle nostre effusioni eravamo così poco riservati, che non avevamo la pazienza di aspettare di essere soli. I locandieri e i postiglioni ci guardavano ammirati e notai che erano stupiti nel vedere due giovani della nostra età che sembravano amarsi alla follia. I nostri progetti di matrimonio furono dimenticati a Saint-Denis; frodammo i diritti della Chiesa e ci ritrovammo sposati senza nemmeno esserci stati a pensare. Certo, con la mia natura affettuosa e costante, sarei stato felice per tutta la vita, se Manon mi fosse stata fedele. Più la conoscevo, più scoprivo in lei qualità nuove e attraenti. Intelligenza, cuore, dolcezza e bellezza formavano una catena così forte e deliziosa che avrei trovato tutta la mia felicità nel non liberarmene mai. Terribile cambiamento!
Quello che fa la mia disperazione, avrebbe potuto fare la mia felicità. Mi ritrovo a essere il più infelice di tutti gli uomini proprio per quella costanza da cui dovevo attendermi la più dolce delle sorti e le più perfette ricompense dell'amore.
Pigliammo un appartamento ammobiliato a Parigi. Si trovava nella via V... e per mia disgrazia accanto alla casa del signor di B... celebre appaltatore delle imposte. Trascorsero tre settimane durante le quali ero stato così assorbito dalla mia passione che non avevo pensato molto alla mia famiglia e al dolore inflitto a mio padre con la mia assenza. Tuttavia, poiché non c'era ombra di dissolutezza nel mio comportamento e pure Manon era piena di riserbo, la tranquillità della nostra vita contribuì a farmi ricordare il mio dovere. Decisi di riconciliarmi, se possibile, con mio padre. La mia amante aveva tante attrattive che ero sicuro gli sarebbe piaciuta, se avessi trovato il modo di fargli conoscere la sua assennatezza e i suoi meriti: in poche parole mi illusi di ottenere da lui il permesso di sposarla, poiché ormai non speravo più di poterlo fare senza il suo consenso. Comunicai il mio progetto a Manon e le feci capire che oltre ai motivi dell'amore e del dovere, anche quello della necessità aveva la sua parte, dato che le nostre risorse erano seriamente intaccate e io cominciavo a ricredermi sul fatto che fossero inesauribili. Manon accolse con freddezza la mia proposta. Tuttavia, poiché le sue obiezioni erano dettate soltanto dal suo affetto e dal timore di perdermi, nel caso che mio padre non avesse approvato il nostro progetto dopo aver conosciuto il luogo del nostro rifugio, non sospettai minimamente il colpo terribile che stava per essermi inferto. All'obiezione della necessità, rispose che ci restava di che vivere per qualche settimana, e che in seguito avrebbe cercato un aiuto nell'affetto di certi parenti ai quali avrebbe scritto in provincia. Addolcì il suo rifiuto con carezze tenere e appassionate e io, che vivevo soltanto per lei e non diffidavo minimamente del suo cuore, approvai tutte le sue risposte e tutte le sue decisioni. Le avevo lasciato disporre della nostra borsa e delle nostre spese quotidiane. Poco tempo dopo mi accorsi che la nostra tavola era più ricca e che si era comprata dei vestiti molto costosi. Sapendo che dovevano rimanerci appena dodici o quindici doppie, le espressi il mio stupore per questo apparente aumento della nostra sostanza. Ridendo mi pregò di non preoccuparmi.
"Non vi avevo promesso", mi disse, "di trovare qualche risorsa?" L'amavo con troppo candore per allarmarmi facilmente.
Un giorno che ero uscito nel pomeriggio avvertendola che sarei rimasto fuori più a lungo del solito, fui stupito che al mio ritorno mi facessero aspettare due o tre minuti davanti alla porta. Avevamo al nostro servizio una domestica che aveva all'incirca la nostra età.
Quando venne ad aprirmi, le chiesi perché avesse tardato tanto. Mi rispose con imbarazzo che non aveva udito bussare. Avevo bussato una volta sola.
"Ma se non avete udito", le dissi, "perché allora siete venuta ad aprirmi?".
La domanda la sconcertò a tal punto che non avendo abbastanza presenza di spirito per rispondervi, si mise a piangere assicurandomi che non era colpa sua e che la signora le aveva proibito di aprire la porta finché il signor di B.. . non fosse uscito dall'altra scala che dava sul salotto. Rimasi così turbato che mi mancò la forza di entrare nell'appartamento. Decisi di scendere col pretesto di una commissione, e ordinai alla ragazzetta di dire alla sua padrona che sarei tornato subito, ma di non farle sapere che mi aveva parlato del signor di B...
La mia costernazione fu talmente grande che scendendo le scale versai qualche lacrima, senza ancora sapere da quale sentimento sgorgasse.
Entrai nel primo caffè, e sedutomi a un tavolo, mi presi la testa fra le mani per poter pensare a ciò che accadeva nel mio cuore. Non osavo ricordare ciò che avevo udito poco prima. Volevo considerarlo come frutto dell'immaginazione e due o tre volte fui sul punto di tornare a casa, come se non ci avessi fatto caso. Mi sembrava talmente impossibile che Manon potesse tradirmi, che sospettandola temevo di offenderla. Io l'adoravo: questo era certo. Non le avevo dato più prove d'amore di quante ne avessi ricevute da lei; perché avrei dovuto accusarla di essere meno sincera e meno costante di me? Quale ragione avrebbe avuto d'ingannarmi? Soltanto tre ore prima mi aveva colmato delle sue carezze e aveva accolto le mie piena di slancio.
"No, no", ripresi, "non è possibile che Manon mi tradisca. Non ignora che io vivo solo per lei. Sa fin troppo bene che l'adoro. Non è questo un motivo per odiarmi".
Ciò nonostante non sapevo come spiegarmi la visita e l'uscita furtiva del signor di B... Ricordavo pure le piccole spese di Manon, che mi sembravano eccessive per i nostri mezzi attuali. Tutto questo lasciava subodorare la generosità di un nuovo amante. E la fiducia che aveva manifestato in quegli aiuti economici di cui non sapevo niente! Mi era difficile interpretare tutti questi misteri nel modo favorevole che il mio cuore avrebbe desiderato. D'altro lato, da quando eravamo a Parigi, non l'avevo mai persa di vista. Commissioni, passeggiate, svaghi, eravamo sempre stati l'uno accanto all'altra; mio Dio! Un istante di separazione ci avrebbe sicuramente addolorati troppo.
Dovevamo dirci continuamente che ci amavamo, sennò saremmo morti d'inquietudine. Non riuscivo perciò a immaginare un solo momento in cui Manon avesse potuto occuparsi d'altri che me. Alla fine credetti di aver trovato la chiave di quell'enigma. Il signor di B. .., dicevo tra me, è un uomo che tratta grossi affari e ha molte relazioni; i parenti di Manon si saranno serviti di lui per farle avere un po' di denaro. Forse gliene ha già dato e oggi è venuto a portargliene dell'altro. Si è divertita a nascondermelo per farmi una gradita sorpresa. Forse me ne avrebbe parlato se fossi entrato come al solito, invece di venire qui a tormentarmi. O almeno non me lo nasconderà, quando sarò io a parlargliene.
Quest'idea mi convinse a tal punto che ebbe il potere di attenuare notevolmente la mia tristezza. Ritornai immediatamente a casa. Come al solito abbracciai teneramente Manon e lei mi accolse benissimo. Fui tentato dapprima di svelarle le mie supposizioni, che consideravo più che mai fondate. Mi trattenni nella speranza che mi prevenisse, raccontandomi tutto quello che era capitato.
Venne servita la cena. Mi misi a tavola con aria molto allegra, ma, al chiarore della candela posta in mezzo a noi, mi sembrò di scorgere una certa tristezza sul volto e negli occhi della mia cara amante. Questo pensiero rattristò anche me. Notai che i suoi sguardi si posavano su di me in un modo diverso dal solito. Non riuscivo a capire se fosse per amore o per compassione, anche se mi sembrava un sentimento dolce e languido. La guardavo con la stessa sua intensità e forse era altrettanto difficile per lei giudicare dai miei sguardi il mio stato d'animo. Non pensavamo né a parlare né a mangiare. Alla fine vidi scendere le lacrime dai suoi begli occhi: perfide lacrime!
"Ah, mio Dio!" esclamai, "voi piangete, mia cara Manon. Siete tanto addolorata da piangere, e non mi dite una sola parola delle vostre pene".
Non mi rispose che con qualche sospiro che aumentò la mia inquietudine. Mi alzai tremante. La scongiurai con tutta l'insistenza dell'amore perché mi rivelasse la ragione del suo pianto. Piansi anch'io, asciugando le sue lacrime; ero più morto che vivo. Un barbaro si sarebbe commosso davanti alle mie manifestazioni di dolore e di timore. Mentre ero tutto preso da lei, sentii il rumore di molte persone che salivano le scale. Bussarono piano alla porta. Manon mi dette un bacio e strappandosi alle mie braccia, entrò rapidamente nel salottino di cui si chiuse la porta alle spalle. Mi immaginai che, essendo un po' in disordine, volesse nascondersi agli occhi degli estranei che avevano bussato.
Andai ad aprire di persona. Avevo appena aperto che mi vidi afferrare da tre uomini, nei quali riconobbi i servitori di mio padre. Non mi trattarono brutalmente, ma due di loro mi presero per le braccia, mentre il terzo mi frugò nelle tasche da cui tirò fuori un coltellino, l'unica arma che avessi su di me. Mi chiesero scusa della necessità in cui si trovavano di mancarmi di rispetto; mi dissero che agivano su ordine di mio padre e che mio fratello maggiore mi aspettava giù in una carrozza. Ero così turbato che mi lasciai portare via senza resistere e senza rispondere. Mio fratello mi stava in effetti aspettando. Mi misero nella carrozza accanto a lui e il cocchiere, che aveva ricevuto i suoi ordini, ci condusse a gran trotto fino a Saint- Denis. Mio fratello mi abbracciò teneramente, ma non aprì bocca, di modo che io ebbi tutto il tempo per pensare alla mia disavventura.
In un primo momento tutto mi sembrò così oscuro che non era possibile fare la minima congettura. Ero stato tradito crudelmente. Ma da chi?
Il primo a venirmi in mente fu Tiberge. "Traditore!" dicevo, "la pagherai con la vita, se i miei sospetti sono fondati".
Ma poi riflettei che non sapeva dove abitavo e che di conseguenza non potevano averlo saputo da lui. Accusare Manon: il mio cuore non avrebbe mai osato. Quella profonda tristezza che sembrava accasciarla, le lacrime, il tenero bacio che m'aveva dato mentre se ne andava, mi apparivano come un enigma, ma mi sentivo indotto a spiegarli come un presentimento della nostra comune sventura e, mentre mi disperavo per quell'incidente che mi strappava da lei, ero tanto credulo da immaginarmi che lei fosse da compiangere ancor più di me. La mia meditazione mi indusse a concludere che qualche persona di mia conoscenza mi aveva scoperto per le vie di Parigi e aveva avvertito mio padre. Tale pensiero mi consolò. Contavo di cavarmela con qualche rimprovero o con qualche punizione che mi avrebbe inflitto l'autorità paterna. Decisi di sopportarli con pazienza e di promettere tutto quello che si fosse preteso da me, perché mi fosse più facile tornare rapidamente a Parigi e andare a restituire la vita e la gioia alla mia cara Manon.
Arrivammo presto a Saint-Denis. Sorpreso dal mio silenzio, mio fratello s'immaginò che fosse effetto del timore. Si mise quindi a confortarmi assicurandomi che non avevo niente da temere dalla severità di mio padre, purché fossi disposto a rientrare senza recalcitrare sulla via del dovere e a meritare l'affetto che nutriva per me. Mi fece passare la notte a Saint-Denis, con la precauzione di far dormire i tre servitori nella mia camera. Mi addolorò profondamente ritrovarmi nella stessa locanda in cui mi ero fermato con Manon nel viaggio da Amiens a Parigi. Il padrone e i domestici mi riconobbero e subito indovinarono come stessero realmente le cose.
Sentii il padrone che diceva:
"Ah, è quel bel ragazzo che un mese fa era passato di qui con una bella signorina della quale era tanto innamorato. Com'era graziosa!
Come si accarezzavano, poveri ragazzi! Perbacco, peccato che li abbiano separati".
Io facevo finta di non sentire e mi facevo vedere il meno possibile.
A Saint-Denis mio fratello aveva un calesse a due posti sul quale partimmo di prima mattina e arrivammo a casa l'indomani. Egli s'incontrò con mio padre prima di me per predisporlo favorevolmente nei miei confronti, e gli fece sapere con quanta docilità mi fossi lasciato portare via, sicché venni accolto meno duramente di quanto non avessi previsto. Mio padre si limitò a farmi qualche generico rimprovero per la colpa commessa assentandomi senza il suo permesso.
Quanto alla mia amica, mi disse che avevo ben meritato quello che mi era successo essendomi fidato di una sconosciuta. Aggiunse che si era fatta un'idea migliore della mia prudenza, ma che tuttavia sperava che quella piccola disavventura mi avrebbe reso più giudizioso. Io presi quelle parole solo nel senso che si accordava con le mie idee.
Ringraziai mio padre perché aveva la bontà di perdonarmi e gli promisi di tenere una condotta più sottomessa e meno disordinata. In fondo al cuore trionfavo, dato che dal modo in cui si mettevano le cose, non dubitavo che sarei riuscito a scappare di casa anche prima che finisse la notte.
Ci mettemmo a tavola per cenare; mi lanciarono qualche frizzo per la mia conquista di Amiens e per la mia fuga con quell'amante fedele.
Incassai senza avermene a male. Ero perfino lieto che mi fosse consentito parlare di ciò che mi occupava di continuo la mente. Ma qualche parola buttata lì da mio padre mi fece tendere l'orecchio con la massima attenzione. Parlò di perfidia e di favore interessato reso dal signor di B... Sentendogli pronunciare quel nome, rimasi perplesso e lo pregai umilmente di spiegarsi meglio. Egli si volse verso mio fratello per chiedergli se non mi avesse raccontato tutta la storia.
Mio fratello gli rispose che durante il viaggio gli ero parso così tranquillo che non aveva creduto necessario quel rimedio per guarirmi dalla mia follia. Osservai che mio padre era in forse se terminare la sua spiegazione. Lo supplicai con tanta insistenza che mi accontentò, o meglio mi assassinò crudelmente col più orribile di tutti i racconti.
Prima di tutto mi domandò se ero sempre stato così ingenuo da credere che la mia amica mi amasse. Gli risposi arditamente di esserne così certo che nulla avrebbe potuto farmene dubitare.
E sullo stesso tono derise in mille modi quella che chiamava la mia dabbenaggine e la mia credulità. Alla fine, visto che io restavo in silenzio, proseguì dicendo che, stando al calcolo che poteva fare del tempo, da quando ero partito da Amiens Manon mi aveva amato per circa dodici giorni, poiché, soggiunse:
"Ah! ah! ah!" esclamò lui ridendo sonoramente, "questa è davvero eccellente. Sei un gran credulone e mi piace che tu nutra di questi sentimenti. E' un gran peccato, mio povero cavaliere, farti entrare nell'Ordine di Malta, dato che hai tanta attitudine a diventare un marito comodo e paziente.
Io so che sei partito da Amiens il 28 del mese scorso; siamo al 29 di questo mese. Sono undici giorni che il signor di B... mi ha scritto.
Suppongo che gliene siano voluti otto per stringere una stretta amicizia con la tua amante; cosicché, se si tolgono diciotto giorni dai trentuno che ci sono tra il 28 di un mese e il 29 del successivo, ne restano dodici: poco più, poco meno".
E a questo punto ricominciarono gli scoppi di risa. Io ascoltavo con il cuore così stretto che temevo di non poter resistere fino alla fine di quella triste commedia.
"Sappi dunque", riprese mio padre, "poiché lo ignori, che il signor di B... ha conquistato il cuore della tua principessa, dato che è chiaro che si fa beffe di me quando pretende di persuadermi che se te l'ha tolta è per zelo disinteressato nei miei confronti. Proprio da un uomo come lui, che tra l'altro non mi conosce, c'è da aspettarsi sentimenti così nobili! Ha saputo da lei che sei mio figlio e, per liberarsi dal fastidio della tua presenza, mi ha informato del luogo dove abitavi, del disordine della tua vita, facendomi capire che ci volevano le maniere forti per impadronirsi di te. Si è offerto di facilitarmi i mezzi per prenderti in trappola e, infatti, è grazie alle sue istruzioni e a quelle della tua amica, che tuo fratello ha trovato il momento per coglierti alla sprovvista. Ora rallegrati della durata del tuo trionfo. Tu sai vincere molto rapidamente, cavaliere, ma non sai conservare le tue conquiste".
Non ebbi la forza di sostenere più a lungo un discorso del quale ogni parola mi trafiggeva il cuore. Mi alzai da tavola e non avevo ancora fatto quattro passi per uscire dalla sala che caddi sul pavimento privo di sensi. Mi rianimarono soccorrendomi prontamente. Aprii gli occhi per versare un fiume di lacrime e la bocca per proferire i più tristi lamenti, e i più commoventi. Mio padre, che mi ha sempre amato teneramente si adoperò con tutto il suo affetto per consolarmi. Io l'ascoltavo, ma non lo sentivo. Mi gettai alle sue ginocchia, lo scongiurai a mani giunte di lasciarmi tornare a Parigi per pugnalare B...
"No", dicevo, "non ha conquistato il cuore di Manon, le ha fatto violenza, l'ha sedotta con un sortilegio o con un veleno, l'ha costretta brutalmente. Manon mi ama, lo so bene! L'avrà minacciata col pugnale in mano per costringerla ad abbandonarmi. Che cosa non avrà fatto per rapirmi un'amante così adorabile! Oh, Dio! Dio! E' mai possibile che Manon mi abbia tradito o che abbia cessato di amarmi?" Poiché dicevo continuamente di voler tornare subito a Parigi e mi alzavo ogni minuto per farlo, mio padre si rese conto che, nello stato d'agitazione in cui mi trovavo, nulla avrebbe potuto trattenermi. Mi condusse in una camera ai piani superiori dove mi lasciò con due domestici affinché mi guardassero a vista. Ero completamente fuori di me. Avrei dato mille vite per essere a Parigi soltanto un quarto d'ora. Capii che, avendo manifestato con tanta chiarezza le mie intenzioni, non mi avrebbero lasciato uscire facilmente dalla camera.
Misurai con gli occhi l'altezza delle finestre. Non vedendo nessuna possibilità di uscire da quella camera, mi rivolsi con fare suadente ai due domestici. Con mille giuramenti mi impegnai a fare un giorno la loro fortuna, se avessero consentito la mia fuga. Insistei, li blandii, li minacciai, ma fu un altro tentativo inutile. Allora persi ogni speranza. Decisi di morire, e mi buttai sul letto col proposito di non lasciarlo finché avessi vita. Passai la notte e l'indomani in quelle condizioni. Rifiutai il cibo che mi portarono il giorno dopo.
Mio padre venne a trovarmi nel pomeriggio e fu tanto buono da lenire il mio dolore con le più dolci consolazioni. Mi ordinò in maniera così risoluta di mangiare qualcosa, che ubbidii per rispetto ai suoi ordini.
Trascorsero alcuni giorni durante i quali non mangiai nulla se non alla sua presenza e per ubbidienza. Egli continuava ad addurmi tutti gli argomenti che potevano riportarmi alla ragione e ispirarmi disprezzo per l'infedele Manon. Certo non la stimavo più; come avrei potuto stimare la più volubile e la più perfida di tutte le creature?
Ma in fondo al mio cuore c'era sempre la sua immagine scolpita, i tratti incantevoli del suo viso. Lo sentivo bene.
"Posso morire", dicevo, "anzi dovrei, dopo tanta vergogna e tanto dolore, ma anche se soffrissi mille morti non potrei dimenticare l'ingrata Manon".
Mio padre si meravigliava nel vedermi sempre così profondamente prostrato. Conosceva i miei principi d'onore e, convinto che il tradimento mi dovesse ispirare disprezzo per Manon, s'immaginò che la mia costanza non nascesse tanto da quella particolare passione, quanto da un'inclinazione più generale per le donne. Questa idea gli si radicò talmente in testa che, ubbidendo soltanto al suo tenero affetto, un giorno venne a parlarmene apertamente.
"Cavaliere", mi disse, "finora avevo avuto l'intenzione di farti portare la Croce di Malta; ma a quel che vedo le tue inclinazioni sono ben diverse. Ti piacciono le belle donne: sono del parere di cercartene una di tuo gusto. E ora naturalmente dimmi cosa ne pensi".
Gli risposi che non facevo più distinzione fra le donne e che, dopo la sventura che mi era capitata, le detestavo tutte allo stesso modo.
"Te ne cercherò una", riprese mio padre sorridendo, "che somiglierà a Manon e che sarà più fedele".
"Ah, se volete essere buono con me", gli dissi, "è lei che dovete ridarmi. Potete essere sicuro, mio caro padre, che non mi ha tradito, non è capace di una tale bassezza. Quel perfido B... ci ha ingannati, voi, lei e me... Se sapeste com'è tenera e sincera, se la conosceste, anche voi l'amereste".
"Siete un bambino", replicò mio padre. "Come potete essere cieco a questo punto, dopo quello che vi ho raccontato di lei? E' stata proprio lei a consegnarvi a vostro fratello. Dovreste dimenticarne perfino il nome, e profittare, se siete ragionevole, della mia indulgenza per voi".
M'accorgevo fin troppo bene che aveva ragione. Era forse un impulso involontario che mi faceva prendere le difese della mia infedele?
"Ahimè!" ripresi dopo un momento di silenzio, "è fin troppo vero che sono la vittima sciagurata della più nera perfidia. Sì!" continuai, versando lacrime di rabbia, "è chiaro che sono soltanto un bambino.
Era proprio facile ingannare il mio candore, ma io so quel che devo fare per vendicarmi".
Mio padre volle sapere quale fosse il mio piano.
"Andrò a Parigi", gli dissi, "appiccherò il fuoco alla casa di B... e lo brucerò vivo con la perfida Manon".
Il mio furore fece ridere mio padre e servì soltanto a farmi sorvegliare più strettamente nella mia prigione. Ci trascorsi sei mesi interi e durante il primo mese le mie disposizioni d'animo non cambiarono molto. Tutti i miei sentimenti erano un perpetuo alternarsi di odio e d'amore, di speranza o di disperazione, a seconda dell'aspetto sotto il quale Manon si presentava alla mia mente. Ora non vedevo in lei che la più amabile di tutte le fanciulle e languivo dal desiderio di rivederla; ora me la rappresentavo come un'amante perfida e vile, e facevo mille giuramenti di cercarla soltanto per punirla.
Mi diedero dei libri che servirono a far ritrovare alla mia anima un po' di tranquillità. Rilessi tutti i miei autori. Allargai le mie conoscenze e mi appassionai allo studio. Vedrete di quale utilità mi fu in seguito. Grazie all'amore che mi illuminava, mi apparvero chiari numerosi passi di Orazio e di Virgilio che prima mi erano sembrati oscuri. Scrissi un commento sul quarto libro dell'Eneide che è destinato a vedere la luce, e mi lusingo che il pubblico ne sarà soddisfatto.
"Ahimè!" dicevo mentre lo componevo, "alla fedele Didone ci sarebbe voluto un cuore come il mio".
Un giorno Tiberge venne a trovarmi nella mia prigione. Mi sorprese lo slancio con cui mi abbracciò. Del suo affetto non avevo ancora avuto prove che avrebbero potuto farmelo considerare diversamente da una semplice amicizia di collegio, come quelle che nascono tra ragazzi più o meno della stessa età. Lo trovai così cambiato e così maturo dopo quei cinque o sei mesi in cui non l'avevo visto, che il suo volto e il tono dei suoi discorsi mi incussero un certo rispetto. Mi parlò da consigliere assennato, più che da compagno di scuola. Deplorò l'errore in cui ero caduto. Si rallegrò della guarigione che credeva a buon punto e mi incitò a trarre profitto da quell'errore di gioventù per aprire gli occhi sulla vanità dei piaceri.
Io lo guardavo con stupore, e lui se ne accorse.
"Mio caro cavaliere", mi disse, "non vi dico niente che non sia assolutamente vero e di cui non mi sia convinto dopo maturo esame. La mia inclinazione al piacere era pari alla vostra, ma il Cielo mi aveva fatto amare pure la virtù. Mi sono servito della ragione per mettere a confronto i frutti dell'uno e dell'altra e non mi ci è voluto tanto per scoprirne le differenze. L'aiuto del Cielo è venuto a sostegno delle mie riflessioni. Ho concepito per il mondo un disprezzo senza eguali. Sapreste indovinare che cosa mi trattiene", aggiunse, "e che cosa mi impedisce di rifugiarmi nella solitudine? Soltanto la tenera amicizia che nutro per voi. Conosco il valore del vostro cuore e della vostra mente: non c'è niente di cui non potreste essere capace. Il veleno del piacere vi ha fatto allontanare dalla retta via. Che perdita per la virtù! La vostra fuga da Amiens mi ha suscitato tanto dolore, che da allora non ho assaporato un solo momento di tranquillità. Giudicatelo voi stesso da ciò che mi ha fatto fare".
Mi raccontò che, dopo essersi accorto che l'avevo ingannato e che ero partito con la mia amante, era salito a cavallo per seguirmi, ma non gli era stato possibile raggiungermi, poiché io avevo quattro o cinque ore di vantaggio su di lui. Ciò nonostante era giunto a Saint-Denis una mezz'ora dopo la mia partenza e, sicuro com'era che mi sarei fermato a Parigi, ci aveva trascorso sei settimane a cercarmi inutilmente; andava ovunque avesse una probabilità di incontrarmi e, infine, un giorno, aveva riconosciuto la mia amante alla Comédie. Era lì, vestita in maniera tanto sfarzosa, che si era immaginato dovesse quella fortuna a un nuovo amante. Aveva seguito la sua carrozza fino a casa dove aveva saputo da un domestico che era mantenuta dalla generosità del signor di B...
"Non mi fermai. Tornai l'indomani per sapere da lei stessa che cosa ne era stato di voi. Quando mi sentì parlare di voi, mi lasciò bruscamente, e così fui costretto a tornare in provincia senza ulteriori chiarimenti. E fu qui che venni a sapere della vostra avventura e della profonda desolazione di cui è stata la causa. Non sono venuto a trovarvi prima di avere la certezza che foste più tranquillo".
"Allora avete visto Manon?" gli risposi sospirando. "Ahimè, siete più felice di me, che sono condannato a non rivederla mai più".
Mi rimproverò per quel sospiro che rivelava la persistenza dei miei sentimenti per lei. Lusingò così abilmente la bontà del mio carattere e le mie inclinazioni, che fin da quella prima visita fece nascere in me un forte desiderio di rinunciare come lui a tutti i piaceri del mondo per abbracciare la carriera ecclesiastica.
L'idea mi piacque talmente che, quando mi ritrovai solo, non mi occupai d'altro. Mi ricordai i discorsi del vescovo d'Amiens, che mi aveva dato lo stesso consiglio, e i lieti presagi formulati per me, se mi fossi deciso a fare quella scelta. A quelle considerazioni si aggiunse il mio sentimento religioso.
"Condurrò una vita semplice e cristiana", dicevo, "mi occuperò dello studio e della religione, che non mi consentiranno di pensare ai pericolosi piaceri dell'amore. Disprezzerò ciò che ammirano i comuni mortali, e, poiché so bene che il mio cuore desidererà soltanto ciò che stima, le mie inquietudini non saranno più numerose dei miei desideri".
Progettai in anticipo un programma di vita tranquilla e solitaria. Ne facevano parte una casa isolata con un boschetto e un ruscello d'acqua pura in fondo al giardino; una biblioteca composta di libri scelti; pochi amici virtuosi e assennati, una tavola decorosa, ma frugale e parca. Ci aggiungevo un rapporto epistolare con un amico che avrebbe abitato a Parigi e m'avrebbe tenuto al corrente delle notizie del mondo, non tanto per soddisfare la mia curiosità quanto per divertirmi del folle agitarsi degli uomini.
"Non sarò forse felice?" aggiungevo. "Tutte le mie aspirazioni non sarebbero soddisfatte?" Certo, questo progetto assecondava perfettamente le mie aspirazioni, ma, alla fine di un piano così pieno di buon senso, sentivo che il mio cuore aspettava ancora qualcosa, e che, per non aver niente da desiderare nella più piacevole solitudine, bisognava starci con Manon.
Intanto Tiberge continuava a venire spesso a trovarmi, sempre per quello scopo che mi aveva suggerito e io colsi l'occasione per parlarne con mio padre. Egli mi dichiarò che era sua intenzione lasciare i suoi figli liberi nella scelta del loro stato e che, comunque avessi voluto disporre di me, egli si riservava solo il diritto di aiutarmi con i suoi consigli. Me ne diede alcuni pieni di buon senso, che non miravamo tanto a farmi desistere dal mio progetto quanto dal farmelo abbracciare con cognizione di causa. Si avvicinava intanto l'inizio del nuovo anno scolastico.
Mi misi d'accordo con Tiberge per entrare insieme al seminario di Saint-Sulpice, lui per terminare gli studi di teologia, io per iniziarli. I suoi meriti ben noti al vescovo della diocesi gli valsero da parte di quel prelato un beneficio considerevole prima della nostra partenza.
Mio padre, che mi credeva completamente guarito della mia passione, non fece nessuna difficoltà a lasciarmi partire. Arrivammo a Parigi.
L'abito ecclesiastico prese il posto della Croce di Malta e il nome di abate des Grieux quello di cavaliere.
Mi dedicai allo studio con tanto zelo che feci progressi straordinari in pochi mesi. Ci passavo una parte della notte e non perdevo un solo minuto della giornata. La mia reputazione si fece tale che tutti già si rallegravano per le cariche che avrei ottenuto di sicuro e, senza averlo sollecitato, il mio nome fu iscritto sul foglio dei benefici.
Non per questo trascuravo le pratiche religiose, anzi le adempivo tutte con fervore. Tiberge era soddisfatto di ciò che considerava opera sua, e parecchie volte l'ho visto piangere, rallegrandosi di quella che chiamava la mia conversione. Che le conversioni umane siano soggette a cambiamento non mi ha mai stupito: una passione le fa nascere, un'altra le può distruggere. Ma quando penso alla santità di quelle che mi avevano condotto a Saint-Sulpice e alla gioia interiore che nel metterle in pratica il Cielo mi faceva provare, sono atterrito dalla facilità con cui ho potuto venirvi meno. Se è vero che la forza dell'aiuto celeste è in ogni momento pari a quella delle passioni, mi si spieghi allora per quale funesto influsso ci si trovi di colpo trascinati lontano dal proprio dovere, senza essere capaci della minima resistenza e senza provare il minimo rimorso. Io mi credevo completamente liberato dalle debolezze dell'amore. Mi pareva che avrei preferito la lettura di una pagina di Sant'Agostino, o un quarto d'ora di meditazione cristiana, a tutti i piaceri dei sensi, ivi compresi quelli che Manon avrebbe potuto offrirmi: e ciò nonostante un attimo sciagurato mi fece ripiombare nel precipizio, e la mia caduta fu tanto più irreparabile in quanto, ritrovandomi di colpo nello stesso abisso da cui ero uscito, i nuovi disordini in cui caddi mi trascinarono ben più in basso.
Avevo trascorso circa un anno a Parigi senza chiedere notizie di Manon. All'inizio, vincere me stesso mi era costato molto, ma i consigli sempre presenti di Tiberge e le sue stesse riflessioni mi avevano aiutato a conseguire quella vittoria. Gli ultimi mesi erano trascorsi così tranquillamente che credevo d'essere sul punto di dimenticare per sempre quell'incantevole e perfida creatura. Giunse il tempo in cui, dovendo sostenere una prova pubblica nella scuola di teologia, feci pregare diverse persone ragguardevoli perché mi onorassero della loro presenza. Il mio nome si diffuse così in tutti i quartieri di Parigi. Arrivò fino all'orecchio della mia infedele.
Essa, sentendolo preceduto dal titolo di abate, non lo riconobbe con certezza, ma un residuo di curiosità, oppure qualche pentimento per avermi tradito (non sono mai riuscito a individuare quale dei due sentimenti) suscitò il suo interesse. Venne alla Sorbona con alcune altre dame, assistette alla mia prova, e certo non le fu difficile riconoscermi.
Io non ebbi il minimo sentore di quella visita. E' noto che ci sono in questi luoghi dei salottini particolari per le signore, dove stanno nascoste dietro una grata. Tornai a Saint-Sulpice, coperto di gloria e carico di lodi. Erano le sei di sera. Poco dopo il mio ritorno, vennero ad avvertirmi che una signora chiedeva di vedermi. Andai immediatamente in parlatorio. Mio Dio! Che apparizione sorprendente!
Ci trovai Manon. Era lei, ma più brillante e affascinante di quanto non l'avessi mai vista. Aveva allora diciotto anni. Le sue grazie superavano tutto quello che si può descrivere. Aveva un aspetto così fine, così dolce, così attraente! L'aspetto stesso dell'amore. Tutta la sua figura mi parve un incanto.
Nel vederla rimasi interdetto e, non potendo indovinare quale fosse lo scopo della sua visita, aspettavo tremante, con gli occhi bassi, che si spiegasse. Per un po' il suo imbarazzo fu uguale al mio. Ma, vedendo che continuavo a tacere, si mise la mano davanti agli occhi per nascondere qualche lacrima. Con voce timida mi disse che capiva di aver meritato il mio odio con la sua infedeltà, ma che, se avevo davvero provato amore per lei, c'era stata da parte mia molta insensibilità nel lasciare passare due anni senza mai preoccuparmi della sua sorte e che ne dimostravo ancora, continuando a tacere mentre lei mi stava di fronte in quello stato. E' impossibile descrivere il subbuglio del mio animo nel sentirla parlare.
Si sedette. Io restai in piedi, girato a metà, senza osare guardarla direttamente. Più volte cominciai a risponderle, ma non ebbi la forza di continuare. Alla fine feci uno sforzo per esclamare dolorosamente:
"Perfida Manon! ah! perfida! perfida!" Piangendo calde lacrime, mi ripeté che non pretendeva di giustificare la sua perfidia.
"Che pretendete allora?" esclamai ancora.
"Pretendo di morire", rispose, "se non mi ridate il vostro cuore, senza il quale vivere mi è impossibile".
"Chiedimi allora la vita, infedele!" ripresi versando a mia volta lacrime che mi sforzavo invano di trattenere. "Chiedimi la vita che è l'unica cosa che mi resta da sacrificarti, giacché il mio cuore non ha mai cessato di appartenerti".
Avevo appena finito queste ultime parole, che lei si alzò impetuosamente per venire ad abbracciarmi. Mi colmò di mille carezze appassionate. Mi chiamò con tutti i nomi che inventa l'amore per esprimere la più viva tenerezza. Io rispondevo come intorpidito. Quale cambiamento, davvero, dal tranquillo stato d'animo di un momento prima ai tumultuosi sentimenti che sentivo nascere! Ne ero spaventato.
Rabbrividivo come accade quando ci si trova di notte in una campagna deserta: si ha l'impressione di essere trasportati in un nuovo ordine di cose. Si è colti da un orrore segreto, dal quale ci si riprende dopo avere a lungo scrutato i dintorni.
Ci sedemmo l'uno vicino all'altra. Presi le sue mani fra le mie.
"Ah, Manon!" le dissi guardandola con occhi tristi, "non m'aspettavo il nero tradimento col quale avete ripagato il mio amore. Era ben facile per voi ingannare un cuore del quale eravate la sovrana assoluta e che riponeva la sua felicità nel piacervi e nell'ubbidirvi.
Ditemi ora se ne avete trovato un altro tenero e sottomesso come il mio. No, no, la natura non ne ha creato un altro della stessa tempra.
Ditemi almeno se qualche volta l'avete rimpianto. Che assegnamento posso fare io su questo ritorno di bontà che oggi vi riconduce a me per consolarlo? Vedo fin troppo bene che siete più incantevole che mai, ma, in nome di tutte le pene che ho sofferto per voi, mia bella Manon, ditemi se sarete più fedele".
Mi rispose cose tanto commoventi sul suo pentimento e s'impegnò a essermi fedele con tante promesse e tanti giuramenti, che è impossibile dire come mi intenerì.
"Cara Manon!" le dissi con un miscuglio profano di espressioni amorose e teologiche. "Tu sei troppo adorabile per una creatura e il mio cuore è rapito da un'ebbrezza vittoriosa. Tutto quello che si dice della libertà a Saint-Sulpice è una chimera. Per te perderò la mia fortuna, la mia reputazione, lo prevedo. Leggo il mio destino nei tuoi begli occhi, ma di quali perdite non sarei consolato dal tuo amore? I favori della fortuna mi lasciano indifferente, la gloria mi sembra fumo, tutti i miei progetti di vita ecclesiastica erano folli fantasie, ogni bene diverso da quello che spero con te è un bene spregevole, poiché non resisterebbe neppure un momento nel mio cuore davanti a uno solo dei tuoi sguardi". Promettendole un perdono generale delle sue colpe, volli peraltro sapere in che modo si era lasciata sedurre da B... Mi raccontò che nel vederla alla finestra si era innamorato di lei, che le aveva fatto una dichiarazione da appaltatore generale, dicendole in una lettera che il pagamento sarebbe stato proporzionale ai favori ricevuti. Dapprima lei aveva capitolato senz'altro scopo che quello di estorcergli una somma ragguardevole che potesse servire a farci vivere comodamente, ma poi l'aveva abbagliata con promesse così munifiche che a poco a poco si era lasciata vincere. Io però dovevo giudicare i suoi rimorsi dal dolore di cui mi aveva lasciato scorgere i segni la sera della nostra separazione. Nonostante il lusso nel quale l'aveva fatta vivere, non era mai stata felice con lui, non solo perché non trovava in lui - mi disse - la delicatezza dei miei sentimenti e il garbo dei miei modi, ma perché anche in mezzo ai piaceri che lui continuamente le procurava, essa portava in fondo al cuore il ricordo del mio amore e il rimorso della sua infedeltà.
Mi parlò di Tiberge e della grande vergogna che le aveva procurato la sua visita.
"Una pugnalata al cuore", aggiunse, "mi avrebbe rimescolato di meno il sangue. Gli voltai le spalle non potendo sopportare la sua presenza".
Continuò a raccontarmi come aveva saputo del mio soggiorno a Parigi, del cambiamento del mio stato, delle mie prove alla Sorbona. Mi assicurò che durante la discussione era stata terribilmente agitata, che aveva fatto fatica non solo a trattenere le lacrime, ma pure i gemiti e le grida che più di una volta erano stati sul punto di erompere. Infine mi disse che era uscita per ultima per nascondere il suo turbamento e che, seguendo solo lo slancio del cuore e il suo desiderio impetuoso, era venuta direttamente al Seminario con l'intenzione di morirci, se non m'avesse trovato disposto a perdonarla.
Dove trovare un barbaro che un pentimento così vivo e fremente non avrebbe commosso! Quanto a me confesso che per Manon avrei sacrificato tutti i vescovadi della Cristianità. Le chiesi come pensava di sistemare i nostri affari. Mi disse che bisognava uscire immediatamente dal Seminario e rimandare ogni decisione a quando fossimo in luogo più sicuro. Accettai tutte le sue volontà senza replicare. Essa salì nella sua carrozza per andare ad aspettarmi all'angolo della strada. Io sgattaiolai via un minuto dopo senza che il portinaio mi vedesse. Salii con lei in carrozza. Passammo dal rigattiere dove ripresi galloni e spada. Manon provvide alle spese, perché io ero senza un soldo e, nel timore che trovassi qualche ostacolo nell'uscire da Saint-Sulpice, non aveva voluto che tornassi neppure per un minuto in camera mia a prendere il denaro. D'altronde il mio peculio era molto modesto mentre, grazie alla liberalità di B..., lei era abbastanza ricca da poter disprezzare simili piccolezze.
Mentre eravamo ancora dal rigattiere, discutemmo sulla scelta da farsi. Per far ancor più valere ai miei occhi il fatto che mi sacrificava B..., decise di rompere definitivamente ogni rapporto con lui.
"Voglio lasciargli i mobili", mi disse, "sono suoi, ma porterò via, com'è giusto, i gioielli e circa sessantamila franchi che in due anni sono riuscita a ottenere da lui. Non gli ho concesso nessun diritto su di me", aggiunse, "perciò possiamo restare senza paura a Parigi e prendere una casa comoda dove vivremo felici insieme".
Le feci presente che se non c'era pericolo per lei, ce n'era molto per me, che prima o poi sarei stato certamente riconosciuto e continuamente esposto all'infelicità che già m'era toccata. Manon mi fece capire che le sarebbe dispiaciuto lasciare Parigi. Avevo una tale paura di addolorarla che ero pronto a sfidare qualunque rischio pur di compiacerla. Trovammo tuttavia un ragionevole accomodamento affittando una casa in un qualche villaggio nei dintorni di Parigi, da dove ci sarebbe stato facile andare in città, quando il piacere o il bisogno l'avessero richiesto. Scegliemmo Chaillot che non è lontano. Manon andò subito a casa, mentre io andai ad aspettarla alla porta secondaria del giardino delle Tuileries.
Tornò un'ora dopo in una carrozza da nolo con una ragazza che era al suo servizio e alcuni bauli che contenevano i suoi abiti e tutto ciò che possedeva di prezioso.
Non ci volle molto per arrivare a Chaillot. La prima notte prendemmo alloggio in una locanda, in modo da avere il tempo di cercare una casa o per lo meno un appartamento comodo. Subito, il giorno dopo, ne trovammo uno di nostro gradimento.
La mia felicità mi sembrò allora assicurata in modo irrevocabile.
Manon era la dolcezza, la compiacenza in persona. Aveva per me attenzioni tanto delicate che mi credetti largamente ripagato di tutti i dolori sofferti. Con quel po' d'esperienza che ci eravamo fatti, ragionammo sulla solidità del nostro patrimonio. I sessantamila franchi, che costituivano il grosso delle nostre ricchezze, non erano una somma che potesse durare per l'intero corso di una lunga vita.
D'altronde non eravamo disposti a ridurre troppo le nostre spese. La parsimonia non era la principale virtù di Manon e neppure la mia. Le proposi perciò questo piano:
"Con sessantamila franchi", le dissi, "ci possiamo mantenere per dieci anni. Se continuiamo a vivere a Chaillot, mille scudi all'anno ci basteranno per condurre una vita decorosa, ma semplice. Avremo delle spese solo per mantenere una carrozza e per gli spettacoli e i divertimenti di Parigi. Sapremo regolarci. A voi piace l'opera; ci andremo due volte alla settimana. Quanto al gioco ci limiteremo in modo che le nostre perdite non superino mai le due doppie. E' impossibile che in dieci anni non succeda niente di nuovo, mio padre è anziano, può morire. Erediterò qualcosa e non avremo più niente da temere".
Quel programma non sarebbe stato più folle di tutti quelli escogitati in vita mia, se fossimo stati abbastanza giudiziosi da attenerci a esso con costanza. Ma le nostre buone risoluzioni non durarono più di un mese. La passione di Manon era il divertimento; la mia, era lei. A ogni istante spuntavano nuove occasioni per spendere e, invece di rammaricarmi per le somme profuse, fui il primo a procurarle tutto quello che pensavo le facesse piacere. Anche la casa di Chaillot cominciava a pesarle. L'inverno si avvicinava, tutti tornavano in città, la campagna si faceva deserta. Mi propose di riprendere una casa a Parigi; io non acconsentii, ma per accontentarla almeno in parte, le dissi che potevamo affittare un appartamento ammobiliato per passarci la notte quando ci fosse capitato di lasciare troppo tardi la compagnia con la quale ci riunivamo più volte alla settimana. Infatti il pretesto che adduceva per abbandonare Chaillot era la scomodità di dover tornare a casa tardi. E così ci ritrovammo con due alloggi, uno in città e l'altro in campagna. Il cambiamento dissestò le nostre finanze, dando origine a due incidenti che provocarono la nostra rovina.
Manon aveva un fratello che era guardia del corpo. Disgraziatamente abitava a Parigi nella nostra stessa strada. Riconobbe la sorella vedendola alla finestra. Immediatamente accorse da noi. Era un uomo brutale e senza princìpi d'onore. Entrò nella nostra camera bestemmiando orribilmente e poiché conosceva in parte le avventure della sorella, la subissò di ingiurie e di rimproveri. Io ero uscito un momento prima, il che fu certamente una fortuna per lui o per me, che non ero per nulla disposto a tollerare un affronto. Tornai a casa dopo che se n'era già andato. Dalla tristezza di Manon dedussi che era accaduto qualcosa di insolito. Mi raccontò la scenata subita e le minacce brutali del fratello. Fu tale la mia collera che sarei corso immediatamente a vendicarla, se le sue lacrime non mi avessero trattenuto.
Mentre parlavamo di questo incidente, la guardia del corpo rientrò nella camera dove eravamo, senza farsi annunciare. Non l'avrei accolto tanto garbatamente se l'avessi conosciuto; ma dopo averci salutato con aria sorridente, ebbe il tempo di dire a Manon che veniva a chiederle scusa per il suo accesso di collera. Aveva creduto che conducesse una vita sregolata e questa idea aveva scatenato la sua ira. Ma poi s'era informato su chi fossi da uno dei nostri domestici e aveva saputo sul mio conto cose tanto lusinghiere che desiderava vivere in buoni rapporti con noi.
Anche se era abbastanza strano e disdicevole che avesse chiesto simili informazioni a un mio servitore, accolsi con cortesia il suo complimento pensando di far piacere a Manon che sembrava contenta di vederlo disposto alla riconciliazione. Lo invitammo a cena. In poco tempo familiarizzò con noi a tal punto che avendoci sentito parlare del nostro ritorno a Chaillot, ci volle assolutamente tenere compagnia. Dovemmo fargli posto nella nostra carrozza.
Fu una vera presa di possesso, perché si abituò a vederci con tanto piacere, che ben presto la nostra casa fu la sua e si può dire che diventò padrone di tutto quello che ci apparteneva. Mi chiamava suo fratello e, col pretesto della confidenza fraterna, cominciò a invitare tutti i suoi amici nella casa di Chaillot, facendoli mangiare a nostre spese. Sempre a nostre spese, si fece fare vestiti magnifici e ci costrinse a pagare tutti i suoi debiti. Io chiusi gli occhi su questa tirannia per non dispiacere a Manon. Feci perfino finta di non accorgermi che ogni tanto le estorceva somme ragguardevoli. E' vero che era un gran giocatore e che aveva l'onestà di restituirgliene una parte quando la fortuna lo favoriva, ma il nostro patrimonio era troppo modesto per sopperire a lungo a spese così smodate. Stavo per provocare una spiegazione con lui per liberarmi da quella seccatura, quando un funesto avvenimento me ne risparmiò il fastidio per procurarcene un altro che ci rovinò irreparabilmente.
Un giorno eravamo rimasti a dormire a Parigi, come ci capitava molto spesso. La mattina, la domestica, che in questi casi rimaneva a Chaillot, venne ad avvertirmi che durante la notte la casa aveva preso fuoco e che era stato molto difficile spegnerlo. Le chiesi se i nostri mobili erano stati danneggiati e mi rispose che non aveva potuto assicurarsene per la gran confusione creata dalla folla di gente accorsa in aiuto.
Tremai per i nostri soldi che erano rinchiusi in una cassetta. Corsi a Chaillot: vana premura, la cassetta era già scomparsa. Mi resi conto allora che si può amare il denaro senza essere avari. Quella perdita mi addolorò a tal punto che credetti di perdere la ragione. Di colpo capii a quali altre disgrazie ero esposto.
L'indigenza era il male minore. Conoscevo Manon; per esperienza sapevo fin troppo bene che se mi era fedele e affezionata nella buona sorte, non bisognava contare su di lei nella miseria. Amava troppo l'abbondanza e i piaceri per sacrificarmeli.
"La perderò!" esclamai. "Infelice cavaliere! perderai ancora tutto ciò che ami".
Questo pensiero mi sconvolse talmente che per qualche istante fui in dubbio se non fosse meglio porre fine ai miei mali con la morte. Ciò nonostante mi rimase abbastanza presenza di spirito da considerare prima se non mi restasse una via d'uscita. Il Cielo mi ispirò un'idea che placò la mia disperazione.
Pensai che non sarebbe stato impossibile nascondere la nostra perdita a Manon e che, ingegnandomi, o aiutato dalla fortuna, avrei potuto mantenerla con decoro senza farle sentire le privazioni.
"Ho fatto il conto", dicevo per consolarmi, "che i nostri sessantamila scudi ci sarebbero bastati per dieci anni; supponiamo che i dieci anni siano passati e che nella mia famiglia non sia sopravvenuto nessuno dei cambiamenti sperati. Quale soluzione adotterei? Non lo so esattamente, ma chi mi impedisce di fare oggi quello che farei domani?
Quante persone vivono a Parigi, che non hanno né la mia intelligenza, né le mie doti naturali, e tuttavia devono il sostentamento alle loro capacità, grandi o piccole che siano? La Provvidenza", aggiungevo riflettendo sulle diverse condizioni della vita, "non ha disposto le cose con grande saggezza? La maggior parte dei grandi e dei ricchi sono degli imbecilli: questo è chiaro per chi conosca un po' il mondo.
Nella qual cosa c'è una giustizia ammirevole. Se avessero insieme intelligenza e ricchezza, sarebbero troppo fortunati, e il resto degli uomini troppo miserabili. Le qualità del corpo e dell'anima sono accordate a questi ultimi, come mezzi per tirarsi fuori dalla miseria e dalla povertà. C'è chi partecipa della ricchezza dei grandi e li imbroglia servendo i loro piaceri: altri si mettono al servizio della loro istruzione cercando di farne persone colte e civili. A onor del vero è raro che ci riescano, ma non è questo lo scopo della saggezza divina: essi ricavano anche in questo caso un utile dalle loro cure, vivendo alle spalle di quelli che educano; e, comunque la si voglia considerare, la stupidità dei ricchi e dei potenti è un'ottima fonte di guadagno per la gente modesta".
Tali pensieri mi tranquillizzarono un po' il cuore e la mente. Decisi di andare in primo luogo a consultare il signor Lescaut, fratello di Manon. Egli conosceva perfettamente Parigi e non mi erano mancate le occasioni per capire che le sue entrate più sicure non gli venivano né dal suo patrimonio, né dalla paga del re. Mi restavano appena venti doppie che per caso m'ero ritrovato in tasca. Gli feci vedere la mia borsa, spiegandogli la mia disgrazia e i miei timori, e gli domandai se per me non ci fosse un'alternativa tra il morire di fame e lo spaccarmi la testa dalla disperazione. Mi rispose che spaccarsi la testa era il rimedio degli sciocchi. Quanto a morire di fame, c'era tanta gente intelligente che si riduceva a quel partito, quando non voleva ricorrere alle proprie capacità. Spettava a me decidere di che cosa fossi capace; lui mi assicurava aiuto e consigli in ogni mia iniziativa.
"Tutto questo è molto vago, signor Lescaut", gli dissi, "le mie necessità richiederebbero un aiuto più immediato. Che cosa volete che dica a Manon?".
"A proposito di Manon", riprese, "di che cosa vi preoccupate? Non c'è sempre modo con lei di metter fine alle vostre preoccupazioni quando lo desiderate? Una ragazza come lei ci dovrebbe mantenere tutti: voi, se stessa e me".
Non mi diede il modo di rispondergli come quell'impertinenza meritava, continuando a dirmi che mi assicurava prima di sera mille scudi da dividere fra noi, se avessi seguito il suo consiglio. Lui conosceva un signore così liberale in materia di piaceri, che certamente avrebbe speso senza esitare mille scudi per passare una notte con una fanciulla come Manon. Lo interruppi.
"Avevo un'opinione migliore di voi", risposi, "mi ero immaginato che l'amicizia che mi avete accordato fosse dettata da un sentimento per vostra sorella ben diverso da quello che manifestate ora".
Mi confessò con impudenza che non aveva mai pensato diversamente e che non si sarebbe riconciliato con sua sorella, la quale aveva violato una volta per tutte le leggi dell'onore, sia pure per l'uomo da lui più stimato, se non nella speranza di trarre profitto dalla sua condotta scostumata.
Fu facile capire che fino a quel momento eravamo stati il suo zimbello. Malgrado il turbamento che quelle parole avevano suscitato in me, per il bisogno che avevo del suo aiuto, fui costretto a rispondere ridendo che sarei ricorso al suo consiglio solo in ultima istanza e lo pregai di suggerirmi qualche altra soluzione. Mi propose di approfittare della mia giovinezza, dell'aspetto attraente che la natura mi aveva concesso, per stringere relazione con qualche signora vecchia e generosa. Non trovai di mio gradimento neppure quel progetto che mi avrebbe reso infedele a Manon. Gli parlai del gioco come del mezzo più facile e che meglio conveniva alla mia situazione. Mi disse che il gioco, per la verità, poteva essere una soluzione, ma che bisognava precisare: cominciare a giocare semplicemente, con le normali probabilità di vincere, era il vero modo per rovinarmi completamente; pretendere di far ricorso da solo, senza alcun sostegno, ai mezzi usati da un uomo abile per correggere la fortuna, era un mestiere troppo pericoloso; c'era una terza via, quella dell'associazione, ma temeva che per la mia giovinezza i soci mi giudicassero privo delle qualità necessarie per far parte della loro lega. Mi promise peraltro di intervenire a mio favore e, cosa che non mi sarei aspettata da lui, si offrì di darmi un po' di denaro nel caso in cui ne avessi avuto bisogno. La sola grazia che gli chiesi per il momento fu di non dire niente a Manon della perdita che avevo subito e dell'argomento della nostra conversazione.
Uscii di casa sua ancor meno soddisfatto di quando vi ero entrato. Mi pentii persino di avergli confidato il mio segreto. Avrei ottenuto lo stesso aiuto anche senza aprirmi con lui e il mio terrore era che venisse meno alla promessa di non rivelare nulla a Manon. Con i sentimenti che aveva manifestato, c'era anche motivo di temere che progettasse di trarre profitto da lei portandomela via, o quanto meno consigliandola di lasciarmi per legarsi a un amante più ricco e più fortunato. Mi abbandonai a mille riflessioni il cui solo risultato fu quello di tormentarmi e di rinnovare la disperazione del mattino. Mi venne più volte l'idea di scrivere a mio padre fingendo un'altra conversione per ottenere da lui un po' di denaro, ma subito mi ricordai che, nonostante la sua bontà, per la mia prima colpa mi aveva tenuto rinchiuso sei mesi in una stretta prigione; ero sicuro che dopo uno scandalo come quello che doveva aver sollevato la mia fuga da Saint-Sulpice, mi avrebbe trattato anche più severamente. Alla fine, da quel groviglio di idee, ne spuntò una che di colpo mi rimise l'animo in pace e che mi stupii di non aver avuto prima. Ricorrere al mio amico Tiberge! In lui ero sicuro di ritrovare sempre la stessa premura e la stessa amicizia. Niente è più bello, né fa più onore alla virtù, della fiducia con la quale ci si rivolge alle persone la cui probità ci è ben nota. Si sa che non si corrono rischi. Anche se non sono sempre in grado di aiutarci, si è certi che ne avremo almeno bontà e compassione. Il cuore che si chiude con tanta cura agli altri uomini, alla loro presenza si apre con naturalezza come un fiore sboccia alla luce del sole, da cui non si aspetta che un dolce e benefico raggio.
Mi sembrò che essermi ricordato così a proposito di Tiberge fosse un effetto della protezione del Cielo, e decisi di fare in modo di incontrarlo prima di sera. Tornai immediatamente a casa per scrivergli due righe e fissargli un luogo adatto al nostro incontro. Allo stato attuale delle cose gli dissi che il favore più grande che mi poteva fare era di mantenere il silenzio e la discrezione. La gioia e la speranza di vederlo cancellarono le tracce dell'affanno che Manon avrebbe sicuramente scorto sul mio viso. Le parlai dell'incidente di Chaillot come di una sciocchezza che non doveva allarmarla e, poiché Parigi era il posto al mondo in cui preferiva stare, non le dispiacque sentirmi dire che era opportuno restarci fin quando a Chaillot non fossero stati riparati i leggeri danni dell'incendio. Un'ora dopo ricevetti la risposta di Tiberge che mi prometteva di venire all'appuntamento. Vi corsi impaziente. Mi vergognavo un po' di comparire davanti a un amico, la cui sola presenza avrebbe costituito un rimprovero per le mie sregolatezze, ma mi diedero coraggio la consapevolezza della sua bontà e il pensiero di Manon.
L'avevo pregato di trovarsi nel giardino del Palais-Royal. Era arrivato prima di me e appena mi vide venne ad abbracciarmi. Mi tenne stretto a lungo fra le braccia e mi sentii il viso bagnato dalle sue lacrime. Gli dissi che ero molto confuso nel presentarmi a lui, e come fossi cosciente della mia viva ingratitudine. In primo luogo lo scongiuravo di dirmi se mi era ancora concesso di considerarlo un amico, dopo aver così giustamente meritato di perdere la sua stima e il suo affetto. Con spontaneo calore mi disse che per nulla al mondo avrebbe rinunciato al titolo d'amico; le mie stesse disgrazie e, se glielo lasciavo dire, i miei errori e le mie sregolatezze, avevano raddoppiato la sua tenerezza per me. Ma il suo affetto non era dissociato da quel vivissimo dolore che si prova per una persona cara quando è sull'orlo della rovina e non la si può aiutare.
Ci sedemmo su una panchina.
"Ahimè", gli dissi con un sospiro che nasceva dal profondo del cuore, "la vostra compassione, mio caro Tiberge, dev'essere immensa, se mi assicurate che è uguale alle mie pene. Mi vergogno a lasciarvele vedere, perché confesso che non posso vantarmi della causa; ma l'effetto è tanto triste che non c'è bisogno di volermi bene come voi per esserne commossi".
Mi chiese in segno d'amicizia di raccontargli senza reticenze quel che mi era successo dopo che me n'ero andato da Saint-Sulpice. Lo accontentai e, invece d'alterare in qualche parte la verità, o diminuire le mie colpe per renderle più scusabili, gli parlai della mia passione con tutta la forza che m'ispirava. Gliela descrissi come uno di quei colpi particolari del destino che si accanisce a rovinare un disgraziato e contro cui la virtù non può difendersi proprio come la saggezza non è stata capace di prevederli.
Gli dipinsi vivacemente le mie inquietudini, i miei timori, la disperazione in cui mi dibattevo due ore prima di vederlo e quella in cui sarei ricaduto se i miei amici mi avessero abbandonato così spietatamente come mi aveva abbandonato la fortuna: insomma, tanto commossi il buon Tiberge che la sua compassione non fu meno forte delle mie pene.
Non si stancava di abbracciarmi e di esortarmi ad aver coraggio e consolarmi; ma poiché continuava a pensare che mi dovessi separare da Manon, gli feci intendere chiaramente che per me la più grande delle disgrazie era proprio quella separazione e che ero disposto a sopportare non soltanto la miseria più nera, ma pure la morte più terribile, prima di accettare un rimedio più insopportabile di tutti i miei mali insieme.
"Allora spiegatemi", mi disse, "che genere d'aiuto posso darvi se recalcitrate davanti a tutte le mie proposte?" Non osavo dirgli che era del suo denaro che avevo bisogno. Ciò nonostante alla fine capì e rimase per un momento incerto con l'aria di chi esiti.
"Non crediate", riprese subito, "che io stia qui a esitare perché la mia amicizia e la mia sollecitudine per voi si sono raffreddate, ma a quale alternativa mi costringete se devo rifiutarvi il solo aiuto che volete accettare oppure venir meno ai miei doveri accordandovelo? Non significa condividere i vostri disordini, se vi aiuto a perseverarci?
Tuttavia", proseguì dopo una breve riflessione, "suppongo che lo stato terribile, in cui vi getta la miseria, non vi lasci sufficiente libertà per scegliere la soluzione migliore; ci vuole tranquillità d'animo per apprezzare la saggezza e la verità. Troverò il modo di farvi avere un po' di denaro. Ma permettetemi, mio caro cavaliere", aggiunse mentre mi abbracciava, "di mettervi una sola condizione:
ditemi dove abitate e accettate almeno che tenti di ricondurvi alla virtù. So che la amate e che da lei vi tiene lontano solo la violenza della vostra passione".
Gli accordai sinceramente tutto ciò che desiderava e lo pregai di compiangere la perfida sorte che non mi faceva profittare dei consigli di un amico tanto virtuoso.
Mi condusse immediatamente da un banchiere di sua conoscenza, che mi anticipò sulla sua firma cento doppie in denaro contante. Ho già detto che non era ricco. Il suo beneficio era di mille franchi, ma, poiché quello era il primo anno che ne disponeva, non aveva ancora potuto riscuoterne nemmeno una parte: mi faceva perciò un anticipo sulle sue rendite future.
Misurai appieno la sua generosità. Ne fui commosso al punto di deplorare l'accecamento di un amore fatale che mi faceva violare ogni dovere. Per qualche momento, la virtù ebbe tanta forza da insorgere nel mio cuore contro la mia passione e, almeno in quell'istante di luce, intravidi la vergogna e l'indegnità delle mie catene. Ma la lotta fu lieve e durò poco. La vista di Manon mi avrebbe fatto precipitare dal cielo e, ritrovandomi accanto a lei, mi stupii d'aver potuto per un istante considerare vergognoso un sentimento così giustificato per un oggetto tanto incantevole.
Manon era una creatura dal carattere non comune. Mai fanciulla fu meno attaccata di lei al denaro e ciò nonostante non poteva stare un momento in pace nel timore che le venisse a mancare. Aveva bisogno di piaceri e di svaghi. Non avrebbe mai voluto toccare un soldo, se ci si fosse potuti divertire senza spendere. Non chiedeva nemmeno a quanto ammontassero le nostre sostanze, purché potesse passare piacevolmente le giornate. Non era né troppo dedita al gioco, né portata ad amare le spese sontuose, di modo che accontentarla era facile, se ogni giorno si inventavano svaghi di suo gradimento; ma il divertimento le era talmente necessario, che, quando le mancava, non si poteva fare nessun assegnamento sul suo umore e sulle sue disposizioni d'animo. Sebbene mi amasse teneramente e ammettesse volentieri che ero il solo a farle apprezzare fino in fondo le dolcezze dell'amore, ero quasi certo che il suo amore non avrebbe resistito a certi timori. Mediocremente ricco, mi avrebbe preferito a tutta la terra, ma non mettevo in dubbio che mi avrebbe abbandonato per qualche nuovo B..., quando non mi fosse rimasto da offrirle altro che la mia costanza e la mia fedeltà.
Decisi quindi di limitare le mie spese personali tanto da esser sempre in grado di provvedere alle sue, e di privarmi di mille cose necessarie piuttosto che ridurle sia pure il superfluo. La carrozza mi spaventava più di tutto il resto, perché non vedevo come avrei potuto mantenere cavalli e cocchiere. Confidai la mia preoccupazione al signor Lescaut. Non gli avevo nascosto di aver avuto cento doppie da un amico. Mi ripeté che se volevo tentare la fortuna al gioco, non disperava di farmi ammettere dietro sua raccomandazione in quella Lega di Cavalieri d'Industria, sacrificando di buona grazia un centinaio di franchi per rabbonire i soci.
Per quanto mi ripugnasse barare, mi lasciai trascinare dalla necessità.
Il signor Lescaut mi presentò quella sera stessa come un suo parente; disse che tanto più ero disposto a riuscire in quanto avevo bisogno dei più grandi favori della fortuna. Peraltro, per far sapere che la mia miseria non era quella di un uomo di bassa condizione, disse che avevo intenzione di offrir loro la cena. L'invito fu accettato e la cena che offrii fu sontuosa. Si intrattennero a lungo sul mio aspetto gradevole e sulle mie buone disposizioni. Assicurarono che da me si poteva sperare molto perché, grazie alla mia faccia di galantuomo, nessuno avrebbe sospettato i miei imbrogli. Alla fine ringraziarono il signor Lescaut d'aver procurato all'Ordine un novizio con i miei meriti e incaricarono uno dei cavalieri di darmi per qualche giorno le istruzioni necessarie. Il principale teatro delle mie imprese doveva essere l'Hôtel de Transylvanie, dove c'era un tavolo di faraone in una sala e diversi altri giochi di carte e di dadi nella galleria. Quella casa da gioco era a profitto del Principe di R... che a quel tempo risiedeva a Clagny, e la maggior parte dei suoi ufficiali faceva parte del nostro gruppo. Dovrò dirlo per la mia vergogna? In poco tempo, trassi gran profitto dalle lezioni del mio maestro. Diventai soprattutto abilissimo nel cambiare le carte, nel togliere dal gioco quelle che non mi servivano e, grazie anche ai miei lunghi polsini, baravo con sufficiente disinvoltura da ingannare i più esperti e rovinare senza dare troppo nell'occhio molti onesti giocatori.
Per questa straordinaria destrezza, la mia fortuna progredì così in fretta che in poche settimane mi ritrovai somme considerevoli, oltre a quelle che spartivo lealmente con i miei soci. Allora non ebbi più paura di raccontare a Manon la nostra perdita di Chaillot e, per consolarla della triste notizia che le davo, affittai una casa ammobiliata dove andammo ad abitare sotto il segno dell'opulenza e della tranquillità.
Durante quel periodo, Tiberge aveva continuato a farmi spesso visita.
Le sue prediche non finivano mai. Ricominciava senza posa a farmi presenti i torti che facevo alla mia coscienza, al mio onore e al mio avvenire. Io accoglievo amichevolmente i suoi consigli e, anche se non ero affatto disposto a seguirli, gli ero grato del suo zelo, perché sapevo cosa lo ispirava. A volte lo canzonavo gentilmente anche davanti a Manon e lo esortavo a non avere più scrupoli della maggior parte dei vescovi e degli altri preti che sanno conciliare benissimo un'amante con un beneficio.
"Guardate", gli dicevo mostrandogli gli occhi della mia amica, "e ditemi se ci sono errori che una causa così bella non giustifichi".
Egli prendeva pazienza e la mantenne anche piuttosto a lungo. Ma quando vide che le mie ricchezze crescevano e che, non solo gli avevo restituito le sue cento doppie, ma che, dopo aver affittato una nuova casa e migliorato il mio tenore di vita, mi immergevo sempre più nei piaceri, mutò completamente atteggiamento. Deplorò la mia pervicacia, mi minacciò dei castighi celesti e mi predisse una parte delle disgrazie che accaddero puntualmente poco tempo dopo.
"E' impossibile", mi disse, "che le ricchezze con le quali alimentate i vostri disordini vi siano venute da onesti guadagni. Ve le siete procacciate ingiustamente, e allo stesso modo vi saranno tolte. La più tremenda punizione di Dio sarebbe quella di farvele godere tranquillamente. Tutti i miei consigli", aggiunse, "sono stati inutili, ed è fin troppo evidente che fra poco vi risulteranno fastidiosi. Addio, amico debole e ingrato. Possano i vostri criminali piaceri svanire come un'ombra! Possano la vostra fortuna e il vostro denaro dissiparsi senza scampo, e possiate rimanere solo e nudo per toccare con mano la vanità dei beni che vi hanno inebriato! Allora mi ritroverete disposto ad amarvi e a servirvi, ma oggi io spezzo ogni legame con voi e detesto la vita che conducete".
Fu in camera mia, davanti a Manon, che mi fece questa predica apostolica. Si alzò per andarsene. Lo volli trattenere, ma Manon mi fermò dicendo che era un pazzo e bisognava lasciarlo uscire .
Il suo discorso tuttavia mi fece un certo effetto. Sottolineo così le diverse occasioni in cui il mio cuore si sentì di nuovo spinto al bene, perché devo a questo ricordo una parte della mia forza nelle circostanze più sventurate della mia vita. Le carezze di Manon dissiparono in un momento il dispiacere che quella scena mi aveva causato.
Continuammo a condurre una vita fatta tutta di piacere e d'amore.
L'accrescersi della ricchezza raddoppiò il nostro affetto. Venere, e la Fortuna, non avevano schiavi più felici e più innamorati. Mio Dio!
Perché chiamare il mondo una valle di lacrime, se ci si possono godere tali piaceri! Ma, ahimè! Il loro difetto è di passare troppo presto.
Quale altra felicità ci si potrebbe proporre, se la loro natura fosse di durare sempre? I nostri subirono la norma, e cioè di durare poco e di essere seguiti da rimpianti amari. Al gioco avevo vinto somme tanto ragguardevoli che pensavo di investire una parte del mio denaro. I miei domestici non ignoravano i miei successi, specialmente il mio cameriere e la ragazza al servizio di Manon, davanti ai quali parlavamo senza reticenze. La ragazza era graziosa e il mio cameriere ne era innamorato. Avevano a che fare con padroni giovani e indulgenti, e pensarono di poterli ingannare facilmente. Fecero il loro piano e disgraziatamente per noi lo attuarono talmente bene da ridurci in uno stato dal quale non è più stato possibile sollevarci.
Una sera, dopo aver cenato dal signor Lescaut, tornammo a casa all'incirca verso mezzanotte. Chiamammo entrambi i nostri camerieri, ma non comparvero né l'una né l'altro. Ci dissero che non li avevano visti a casa dalle otto e che erano usciti dopo aver fatto portar via alcune casse ubbidendo agli ordini che, dicevano, io avevo dato.
Presentii una parte della verità, ma tutti i miei sospetti furono superati da ciò che vidi entrando in camera. La serratura del mio stipo era stata forzata e il mio denaro era stato portato via, e così tutti gli abiti. Mentre riflettevo da solo su questa disgrazia, Manon mi venne a dire tutta spaventata che nelle sue stanze avevano fatto la stessa razzia.
Il colpo mi parve tanto crudele che solo con un terribile sforzo della ragione riuscii a non abbandonarmi ai pianti e ai lamenti. Il timore di comunicare la mia disperazione a Manon mi fece ostentare un viso tranquillo. Le dissi scherzando che mi sarei rifatto con qualche gonzo all'Hôtel de Transylvanie. Tuttavia mi parve così sconvolta dalla nostra disgrazia che la sua tristezza riuscì a deprimermi molto di più di quanto la mia finta gioia non l'avesse sollevata.
"Siamo perduti", mi disse con le lacrime agli occhi. Invano mi sforzai di consolarla con le mie carezze. Le mie stesse lacrime tradivano la mia disperazione e l'angoscia. E in realtà la nostra rovina era totale: non ci restava nemmeno una camicia.
Decisi di mandare a cercare immediatamente il signor Lescaut, che mi consigliò di andare immediatamente dal luogotenente di polizia e dal gran prevosto di Parigi.
Ci andai. Ma fu soltanto per mia maggior sventura, perché non solo quel passo, e gli altri che feci fare ai due ufficiali di giustizia, non ebbero alcun risultato, ma diedi anche a Lescaut il tempo di parlare con sua sorella e di suggerirle in mia assenza un'orribile decisione. Le parlò del signor di G... M.... un vecchio libertino che pagava profumatamente i piaceri, e le fece balenare tanti vantaggi a mettersi con lui, che sconvolta com'era dalla nostra disgrazia, accettò tutto quello che lui consigliava.
Quel bel contratto fu stipulato prima del mio ritorno e l'attuazione fu rimandata al giorno dopo, quando Lescaut avesse avvertito il signor di G... M... Lo trovai ad aspettarmi a casa; Manon invece si era ritirata nelle sue stanze dopo aver dato ordine a un domestico di dirmi che, avendo bisogno di un po' di riposo, mi pregava di lasciarla sola per quella notte.
Lescaut mi lasciò dopo avermi offerto qualche doppia che accettai.
Erano quasi le quattro quando andai a letto e, avendo riflettuto a lungo sul come rifarmi un patrimonio, mi addormentai così tardi che potei svegliarmi solo verso le undici o mezzogiorno. Mi alzai prontamente per andare a informarmi dello stato di Manon. Mi dissero che era uscita un'ora prima con suo fratello, il quale era venuto a prenderla con una carrozza da noleggio. Sebbene una tale passeggiata con Lescaut mi sembrasse misteriosa, mi sforzai di allontanare i sospetti. Lasciai passare qualche ora dedicandomi alla lettura. Alla fine, incapace di continuare a controllare la mia inquietudine, cominciai a misurare a gran passi le nostre stanze. Nella camera di Manon scorsi sulla tavola una lettera sigillata. Era indirizzata a me e la scrittura era di suo pugno. L'aprii rabbrividendo mortalmente.
Diceva così:
"Ti giuro, mio caro cavaliere, che sei l'idolo del mio cuore e non ci sei che tu al mondo che io possa amare come ti amo; ma non vedi, anima mia, che nello stato in cui siamo ridotti la fedeltà è una virtù ben sciocca? Credi che si riesca a essere davvero teneri quando manca il pane? La fame potrebbe indurmi a qualche errore fatale: un giorno, convinta di sospirare d'amore, esalerei l'ultimo respiro. Ti adoro, credimi, ma per un po' di tempo lascia che mi occupi io della nostra fortuna. Guai a chi cadrà nelle mie reti! Io lavoro per rendere il mio cavaliere ricco e felice. Mio fratello ti darà notizie della tua Manon e ti dirà che ha pianto per doverti lasciare".
Dopo questa lettura rimasi in uno stato difficile a descrivere, perché ancor oggi ignoro quali sentimenti mi sconvolgessero. Fu una di quelle situazioni uniche nel loro genere e che non assomigliano a nessun'altra; è impossibile spiegarle agli altri perché non ne hanno idea. A fatica si chiariscono a se stessi, poiché essendo le sole della loro specie, non si ricollegano a niente nella memoria e non si possono confrontare a nessun sentimento già noto. Comunque, qualunque fosse la loro natura, è certo che c'entravano dolore, sdegno, gelosia e vergogna. Felice me se non ci fosse entrato, in misura ancor più grande, l'amore!
"Mi ama! Voglio crederlo", esclamai. "Ma non dovrebbe essere un mostro per odiarmi? Quali diritti si possono avere su un cuore che io non abbia sul suo? Che cosa mi resta da fare per lei, dopo tutto quello che le ho sacrificato? Eppure mi abbandona, e l'ingrata si crede al riparo dai miei rimproveri dicendo che continua ad amarmi! Ha paura della fame; santo Iddio! Che volgarità di sentimenti e come ricambia male la mia delicatezza. Non ne ho avuto paura, io che mi espongo così volentieri per lei rinunciando alla mia fortuna e alle dolcezze della casa paterna; io che mi sono ridotto allo stretto indispensabile per accontentare le sue fantasie e i suoi capricci. Mi adora, dice! Se tu mi adorassi, ingrata, so bene a chi avresti chiesto consiglio; almeno non mi avresti abbandonato senza dirmi addio. A me si deve chiedere quali pene crudeli si provino separandosi da quello che si adora.
Bisognerebbe essere fuori di senno per esporvisi volontariamente!" I miei lamenti furono interrotti da una visita che non mi aspettavo.
Quella di Lescaut.
"Furfante!" gli dissi mettendo mano alla spada. "Dov'è Manon? Che cosa ne hai fatto?" Il gesto lo spaventò. Mi rispose che se era così che lo ricevevo, quando lui veniva a darmi spiegazioni sul più grosso favore che mi avesse mai fatto, se ne sarebbe andato e non avrebbe mai più messo piede in casa mia. Corsi alla porta della camera e la chiusi con cura.
"Non credere di potermi gabbare ancora una volta e di ingannarmi con delle frottole", dissi voltandomi. "O mi fai ritrovare Manon, o ci rimetterai la pelle".
"Eh, come v'infiammate!" replicò. "Vengo proprio per questa ragione.
Per annunciarvi una felicità alla quale non pensate e per la quale riconoscerete forse di essermi debitore".
Volli che si spiegasse immediatamente.
Mi raccontò che Manon non potendo sopportare lo spettro della miseria e soprattutto l'idea di dover cambiare di colpo il nostro tenore di vita, l'aveva pregato di farle conoscere il signor di G... M... che aveva fama di essere un uomo generoso. Si guardò bene dal dirmi che era stato su suo consiglio e che prima di condurcela le aveva spianato la strada.
"L'ho accompagnata stamattina", proseguì, "e quell'uomo dabbene è rimasto talmente incantato dalle sue grazie, che subito l'ha invitata a tenergli compagnia nella sua casa di campagna, dov'è andato a trascorrere qualche giorno. Io", soggiunse Lescaut, "che ho capito immediatamente quale vantaggio potesse rappresentare per voi, gli ho fatto abilmente intendere che Manon aveva subito grosse perdite e ho solleticato talmente la sua generosità che ha cominciato col regalarle duecento pistole. Gli ho detto che per il momento poteva bastare, ma che in futuro mia sorella avrebbe dovuto sostenere molte spese, poiché doveva mantenere un giovane fratello che era rimasto a nostro carico dopo la morte dei nostri genitori, e se la credeva degna della sua stima, non l'avrebbe fatta soffrire a causa di quel povero ragazzo che considerava come la metà di se stessa. Questo racconto l'ha commosso, e si è impegnato ad affittare una casa comoda per voi e Manon, giacché il povero fratellino da compiangere siete proprio voi. Ha promesso di ammobiliarla decorosamente e di darvi ogni mese quattrocento brave lireche, se non erro,alla fine dell'anno faranno quattromilaottocento lire. Prima di partire per la campagna ha dato ordine al suo intendente di cercare una casa e di tenerla pronta per il suo ritorno. Rivedrete allora Manon che mi ha incaricato di abbracciarvi mille volte da parte sua e di assicurarvi che vi ama più che mai".
Mi sedetti riflettendo sulla bizzarria del mio destino. Ero agitato da sentimenti contraddittori e di conseguenza in uno stato di incertezza così indefinita, che restai a lungo senza rispondere alle innumerevoli domande che Lescaut mi faceva l'una dietro l'altra. Fu a quel punto che la virtù e l'onore mi fecero sentire le spine del rimorso e che volsi lo sguardo sospirando verso Amiens, verso la casa di mio padre, verso Saint-Sulpice e verso tutti i luoghi in cui ero vissuto nell'innocenza. Quale immenso spazio mi separava da quello stato felice! Non lo vedevo più che da lontano, come un'ombra che ancora attirava i miei rimpianti e i miei desideri, ma che era troppo debole per stimolare i miei sforzi.
Per quale fatalità, mi dicevo, sono diventato così colpevole? L'amore è una passione innocente, come ha fatto a mutarsi per me in una fonte di miserie e di dissolutezze? Chi mi impediva di vivere tranquillo e virtuoso con Manon? Perché non la sposai prima di ottenere che fosse mia? Mio padre, che mi amava così teneramente, non vi avrebbe consentito, se lo avessi sollecitato con oneste richieste? Ah, le avrebbe voluto bene pure lui come a una figlia diletta, ben degna di essere la moglie di suo figlio; io sarei felice con l'amore di Manon, con l'affetto di mio padre, con la stima della gente onesta, con i beni della fortuna, e la tranquillità della virtù. Funesto destino!
Quale infame parte mi vengono a proporre? Come potrei dividere... Ma si può tergiversare, se Manon ha deciso così e se, rifiutandomi, la perdo?
"Signor Lescaut", esclamai chiudendo gli occhi come per allontanare pensieri così dolorosi, "se la vostra intenzione era di essermi utile, ve ne ringrazio. Forse avreste potuto scegliere una via più onesta, ma è cosa fatta, vero? Non pensiamo ad altro che ad approfittare delle vostre premure e ad attuare il vostro piano".
Lescaut, messo in imbarazzo dalla mia collera e poi dal mio silenzio, fu felicissimo di vedermi prendere una decisione ben diversa da quella che per un momento aveva temuto. Era tutt'altro che coraggioso, e ne ebbi in seguito prove ancor più convincenti.
"Sì, sì", si affrettò a rispondermi, "è un ottimo servizio che vi ho reso, e vedrete che ne trarrete maggior vantaggio di quello che pensate".
Ci accordammo per prevenire i sospetti che potevano nascere nel signor di G... M... vedendomi più alto, e forse più vecchio di quanto s'immaginava. Non trovammo altra soluzione che assumere dinnanzi a lui un'aria sempliciotta e provinciale, e fargli credere che avevo intenzione di entrare nella carriera ecclesiastica, ragion per cui ogni giorno mi recavo in collegio. Decidemmo pure che, la prima volta in cui fossi stato ammesso in sua presenza, mi sarei vestito molto dimessamente.
Tornò in città cinque o sei giorni dopo. Lui stesso condusse Manon nella casa che il suo intendente si era dato premura di tener pronta.
Manon fece subito avvertire suo fratello e quando questi mi ebbe annunciato il suo ritorno, ci recammo entrambi da Manon. Il vecchio amante era già uscito.
Nonostante la rassegnazione con cui mi ero assoggettato alla sua volontà, nel rivederla il mio cuore si sentì ribellare. Le sembrai triste e malinconico. La felicità di ritrovarla non riusciva a vincere del tutto il dolore per la sua infedeltà. Lei invece sembrava fuori di sé dalla gioia di rivedermi. Mi rimproverò la mia freddezza, al che io non potei trattenermi dal chiamarla perfida e infedele, accompagnando le mie parole con altrettanti sospiri.
Dapprima lei si fece gioco della mia ingenuità, ma, quando vide che continuavo a fissarla tristemente e con quale dolore sopportavo un cambiamento tanto contrario al mio carattere e ai miei desideri, si ritirò sola nel suo salotto. Poco dopo la seguii e la trovai in lacrime. Le chiesi perché piangesse.
"E' facile capirlo", mi disse. "Come vuoi che io possa vivere, se il vedermi riesce soltanto a irritarti e a rattristarti? Da un'ora che sei qui non mi hai fatto una sola carezza, e hai accolto le mie con la degnazione del Gran Sultano nel Serraglio".
"Ascoltatemi, Manon", le risposi abbracciandola, "non posso nascondervi che il mio cuore è mortalmente ferito. Non parlo dell'ansia in cui mi ha gettato la vostra fuga imprevista, né della crudeltà che avete dimostrato abbandonandomi senza una parola di conforto dopo aver passato la notte in un letto che non era il mio.
L'incanto della vostra presenza mi farebbe dimenticare ben altro. Ma credete che io possa pensare senza sospiri e senza lacrime", e così dicendo già piangevo, "alla triste e sciagurata vita che volete farmi condurre in questa casa? Lasciamo stare la mia nascita e il mio onore:
sono ragioni troppo fragili per opporsi a un amore come il mio. Ma non immaginate come questo stesso amore soffra nel vedersi così mal ripagato, per non dire trattato così crudelmente da un'amante dura e ingrata?" Essa mi interruppe.
"Ascoltatemi cavaliere; è inutile tormentarmi con rimproveri che mi trafiggono il cuore quando vengono da voi. Vedo quello che vi ferisce.
Avevo sperato che accettaste il piano che avevo fatto per risollevare la nostra fortuna e, se avevo cominciato ad attuarlo senza la vostra partecipazione, era per riguardo alla vostra delicatezza; ma poiché non l'approvate, ci rinuncio".
Soggiunse che mi chiedeva solo un po' di pazienza per il resto della giornata: aveva già avuto duecento pistole dal suo vecchio amante e per quella sera le aveva promesso una bella collana di perle con altri gioielli, e inoltre la metà della pensione annua che le aveva assegnato.
"Lasciatemi soltanto il tempo di ricevere questi regali", mi disse.
"Vi giuro che non avrà avuto la soddisfazione di passare con me una sola notte, perché finora sono riuscita a rimandarlo al nostro ritorno in città. E' vero che mi ha baciato le mani più di un milione di volte. E' giusto che paghi questo piacere, e cinque o seimila franchi non saranno troppi, proporzionando il prezzo alle sue ricchezze e alla sua età".
La sua decisione mi fece molto più piacere della speranza di cinquemila franchi. Ebbi modo di rendermi conto che ogni sentimento d'onore non era scomparso dal mio cuore, giacché era così contento di potersi sottrarre all'infamia. Ma io ero nato per le brevi gioie e i lunghi dolori. La sorte non mi salvò da un precipizio che per farmi cadere in un altro. Dopo che con mille carezze ebbi dimostrato a Manon quanto fossi felice del suo cambiamento, le dissi che bisognava metterne al corrente il signor Lescaut, perché potessimo concertare sulle misure da prendere. Questi dapprima dissentì, ma i quattro o cinquemila franchi in contanti finirono col fargli accettare le mie ragioni. Venne dunque deciso che ci saremmo ritrovati tutti a cena col signor di G... M..., e questo per due ragioni: per concederci il piacere di una scena divertente facendomi passare per uno studentello, fratello minore di Manon, e anche per impedire a quel vecchio libertino di far troppo valere con la mia amante i diritti che credeva di aver acquistato pagando così generosamente in anticipo. Lescaut e io ci saremmo ritirati quando lui fosse salito nella camera dove contava di passare la notte, e Manon, invece di seguirlo ci promise che sarebbe uscita e che sarebbe venuta a passarla con me. Lescaut si incaricò di far trovare una carrozza alla porta con assoluta puntualità.
Giunse l'ora della cena, e il signor di G... M... non si fece aspettare a lungo. Lescaut era con sua sorella nella sala. Come primo complimento il vecchio offrì alla sua bella una collana, dei braccialetti e degli orecchini di perle che valevano almeno cento doppie. Poi le contò in bei luigi d'oro la somma di duemilaquattrocento franchi che rappresentavano la metà della pensione. Egli condì il suo regalo con una quantità di sdolcinature nello stile della vecchia corte. Manon non poté rifiutargli qualche bacio: erano altrettanti diritti che si guadagnava sul denaro che le rimetteva fra le mani. Io ero alla porta e tendevo l'orecchio, in attesa che Lescaut mi avvertisse di entrare.
Venne a prendermi per mano, quando Manon ebbe riposto il denaro e i gioielli e, guidandomi verso il signor di G... M..., mi ordinò di fargli la riverenza. Mi inchinai profondamente due o tre volte.
"Scusate, signore", gli disse Lescaut, "è un ragazzo molto inesperto.
E' lontano, come vedete, dal conoscere i modi parigini, ma con un po' di pratica si farà. Avrete l'onore di vedere spesso qui il signore", soggiunse rivolgendosi a me, "cercate di profittare di un così buon modello".
Il vecchio amante sembrò lieto di vedermi. Mi diede due o tre colpetti sulla guancia, dicendomi che ero un bel ragazzo, ma che dovevo stare in guardia a Parigi dove i giovani si lasciano facilmente andare alla dissolutezza. Lescaut gli assicurò che per natura io ero talmente giudizioso che parlavo solo di farmi prete e che il mio solo divertimento consisteva nell'addobbare altarini.
"Trovo che somiglia a Manon", riprese il vecchio sollevandomi il mento con la mano.
Con un'aria da babbeo risposi:
"Signore, si può dire che siamo una stessa carne e io amo mia sorella Manon come un altro me stesso".
"Lo sentite?" disse a Lescaut, "non manca di spirito. Peccato che questo ragazzo non abbia pratica di mondo!" "Oh, signore!" risposi, "a casa mia, ho visto molta gente nelle chiese, e credo che a Parigi ne troverò di più sciocca di me".
"Ma è davvero notevole", soggiunse, "per un giovane di provincia".
Durante la cena, tutta la nostra conversazione fu più o meno su questo tono. Manon, che era d'umore faceto, fu più volte sul punto di rovinare tutto scoppiando a ridere. Mentre si cenava, trovai il modo di raccontare al vecchio la sua storia e la triste sorte che lo minacciava. Durante il mio racconto, Lescaut e Manon tremavano, specialmente quando facevo il suo ritratto al naturale, ma l'amor proprio gli impedì di riconoscervisi, e lo conclusi con tanta abilità che fu lui il primo a trovarlo molto ridicolo. Vedrete che non senza ragione mi sono dilungato su questa scena farsesca. Giunta infine l'ora di ritirarsi, egli si mise a parlare d'amore e d'impazienza.
Lescaut e io ce ne andammo. Fu condotto alla sua camera, mentre Manon, uscitane con un pretesto, venne a raggiungerci alla porta. La carrozza che ci aspettava tre o quattro case più in là, avanzò per farci salire. In un batter d'occhio ci allontanammo dal quartiere.
Anche se la nostra azione era una vera bricconata, non era la più ingiusta che credessi di dovermi rimproverare. Provavo molti più scrupoli riguardo al denaro vinto al gioco. Tuttavia non potemmo godere del denaro procuratoci in questa maniera più che di quell'altro, e il Cielo volle che la colpa più lieve fosse punita nel modo più severo. Non ci volle molto al signor di G... M... per accorgersi che era stato abbindolato. Non so se fin dalla prima sera si sia dato da fare per scoprirci, ma certo ebbe abbastanza credito per non dover fare a lungo ricerche inutili, mentre noi fummo abbastanza imprudenti per contare sulla vastità di Parigi e sulla distanza tra il nostro quartiere e il suo. Non soltanto venne a sapere dove abitavamo, e quale fosse la nostra situazione attuale, ma anche chi fossi, la vita che avevo condotto a Parigi, la vecchia relazione di Manon con B..., il modo in cui l'aveva raggirato. In una parola, tutte le vicende scandalose della nostra storia. A questo punto prese la decisione di farci arrestare, e di trattarci più da famigerati libertini che da delinquenti. Eravamo ancora a letto quando un ufficiale di polizia entrò nella nostra camera con una mezza dozzina di guardie.
Si impadronirono per primo del nostro denaro o meglio di quello del signor di G... M... e, dopo averci fatto alzare bruscamente, ci condussero alla porta, dove trovammo due carrozze. In una di queste Manon venne portata via senza spiegazioni e io condotto nell'altra a Saint-Lazare. Bisogna aver vissuto simili sventure per capire quale disperazione possono causare. Le nostre guardie furono tanto crudeli da non permettermi di abbracciare Manon, né di dirle una sola parola.
Per molto tempo non seppi che cosa ne era stato di lei. Probabilmente fu una fortuna per me non averlo saputo subito, perché una così tremenda catastrofe mi avrebbe fatto perdere il senno e forse la vita.
La mia sventurata amica fu dunque portata via sotto i miei occhi e condotta in una prigione che non oso neppure nominare. Che destino per una creatura adorabile che avrebbe occupato il più gran trono della terra, se tutti gli uomini avessero avuto i miei occhi, e il mio cuore! Non vi fu trattata crudelmente, ma venne rinchiusa in una cella angusta, sola, e condannata a compiere ogni giorno una certa quantità di lavoro, condizione necessaria per ottenere un po' di cibo nauseabondo. Venni a sapere questo triste particolare solo molto tempo dopo, quando io stesso ebbi scontato molti mesi di una dura e tediosa penitenza. Le guardie non mi avevano detto in che luogo avevano ordine di condurmi: fu soltanto alla porta di Saint-Lazare che conobbi perciò il mio destino. In quel momento avrei preferito la morte alla condizione in cui credetti di precipitare. Avevo su quel carcere idee terrificanti. La mia paura aumentò quando le guardie all'ingresso mi frugarono le tasche una seconda volta per assicurarsi che non mi rimanessero né armi né altri mezzi di difesa. Preavvisato del mio arrivo, immediatamente comparve il Superiore. Mi salutò con molta dolcezza.
"Padre", gli dissi, "non voglio maltrattamenti. Preferirei morire mille volte piuttosto che sopportarne uno".
"No, no, signore", rispose, "vi comporterete bene e saremo contenti l'uno dell'altro".
Mi pregò di salire in una camera ai piani più alti. Lo seguii senza opporre resistenza. Le guardie ci accompagnarono fino alla porta e il Superiore, che era entrato con me, fece loro segno di ritirarsi.
"Sono dunque vostro prigioniero", gli dissi. "Ebbene padre che intendete fare di me?".
Mi disse che era lieto di sentirmi parlare in tono così ragionevole; il suo dovere consisteva nell'ispirarmi amore per la virtù e per la religione, e il mio di mettere a profitto le sue esortazioni e i suoi consigli. Se soltanto io avessi voluto corrispondere alle sue premure per me, nella mia solitudine non avrei trovato che gioia e soddisfazione.
"Ah, gioia!" dissi io. "Voi non sapete, padre, quale sia l'unica cosa che possa darmene".
"Lo so", rispose, "ma spero che la vostra inclinazione cambierà".
Dalla sua risposta capii che era al corrente delle mie avventure e forse del mio nome. Lo pregai di darmi qualche chiarimento ed egli mi rispose con franchezza che lo avevano informato di tutto.
Questo fu il più duro di tutti i miei castighi. Versai un fiume di lacrime, manifestando i segni della disperazione. Non potevo consolarmi di un'umiliazione che avrebbe fatto di me la favola di tutti i miei conoscenti e la vergogna della mia famiglia. Trascorsi così otto giorni nel più profondo abbattimento, senza essere in grado di intendere o di occuparmi d'altro che non fosse la mia vergogna. Il ricordo stesso di Manon non aggiungeva niente al mio dolore. O almeno ci entrava solo come un sentimento che aveva preceduto la mia nuova pena, e la passione dominante del mio animo era la vergogna e la confusione. Poche persone conoscono la forza di questi moti particolari del cuore. La maggior parte non è sensibile che a cinque o a sei passioni nel cui arco si svolge la loro vita e a cui si riducono tutte le loro inquietudini. Togliete loro l'amore e l'odio, il piacere e il dolore, la speranza e il timore, e non sentiranno più niente. Ma le persone di un certo carattere possono essere turbate in mille modi diversi; sembra che possiedano più di cinque sensi e che possano recepire idee e sensazioni che oltrepassano i limiti ordinari della natura. E poiché esse hanno la consapevolezza di questa grandezza d'animo che le innalza al di sopra dell'uomo comune, non c'è cosa di cui siano più gelose. Per questo non sopportano il disprezzo e il ridicolo, e la vergogna le sconvolge in maniera violenta.
Questo era il mio triste privilegio a Saint-Lazare. La mia tristezza parve così eccessiva al padre superiore che, temendone le conseguenze, si credette in dovere di trattarmi con molta dolcezza e indulgenza.
Veniva a trovarmi due o tre volte al giorno. Spesso mi prendeva con sé per fare un giro in giardino e mi prodigava esortazioni e consigli salutari. Io li accettavo docilmente e gli testimoniavo perfino una certa riconoscenza. Lui ne traeva la speranza della mia conversione.
"La vostra natura è così dolce e mite", mi disse un giorno, "che non riesco a capire le sregolatezze di cui vi accusano. Mi stupiscono due cose: la prima, come abbiate potuto con tante buone qualità abbandonarvi agli eccessi di una vita dissipata, e l'altra, che ancora più mi meraviglia, è come accogliate tanto volentieri i miei consigli e le mie raccomandazioni dopo aver vissuto per tanti anni in maniera riprovevole. Se è pentimento, voi siete un esempio eccelso della misericordia del Cielo; se è bontà naturale, voi possedete almeno un eccellente fondo di rettitudine morale che mi fa sperare di non dovervi trattenere qui a lungo per ricondurvi a una vita onesta e morigerata".
Fui molto felice di sentirgli esprimere una tale opinione di me.
Decisi di rinforzarla con una condotta di cui fosse pienamente soddisfatto, convinto che fosse il mezzo più sicuro per abbreviare la mia prigionia. Gli chiesi dei libri. Libero di scegliere quelli che volevo leggere, suscitai la sua sorpresa scegliendo alcuni autori seri e cristiani. Feci finta di dedicarmi allo studio con tutto l'impegno e in ogni circostanza; gli fornii prove del cambiamento che desiderava.
Ma si trattava di un cambiamento solo esteriore. Lo devo confessare a mia vergogna: a Saint-Lazare recitai un personaggio di ipocrita.
Invece di studiare, quando ero solo non facevo altro che piangere sulla mia sorte. Maledicevo la mia prigione e la tirannia di chi mi ci teneva. E mi ero appena ripreso dall'abbattimento in cui mi aveva gettato la confusione che ricaddi nei tormenti dell'amore. L'assenza di Manon, l'incertezza sulla sua sorte, il timore di non rivederla mai più erano l'unico oggetto delle mie tristi meditazioni. Me la immaginavo tra le braccia del signor di G... M..., perché era la prima cosa che m'era venuta in mente e lungi dal supporre che l'avessero trattata come me, ero convinto che egli mi aveva fatto rinchiudere per possederla più tranquillamente. Passavo così giorni e notti tanto lunghi da sembrare eterni. Non avevo altra speranza che il buon successo della mia ipocrisia. Osservavo con attenzione il volto e i discorsi del padre superiore, per cercare di capire cosa pensasse di me, e facevo di tutto per piacergli, come all'arbitro del mio destino.
Mi fu facile constatare che ero pienamente nelle sue grazie e non dubitai affatto della sua disponibilità a farmi un favore.
Un giorno trovai il coraggio di chiedergli se la mia liberazione dipendesse da lui. Mi disse che non rientrava nei suoi poteri, ma sperava che grazie alla sua testimonianza il signor di G... M..., dietro richiesta del quale il luogotenente di polizia mi aveva fatto imprigionare, avrebbe acconsentito a restituirmi la libertà.
"Posso lusingarmi", gli dissi con dolcezza, "che i due mesi di prigione che ho già scontato, gli sembreranno una punizione sufficiente?".
Mi promise di parlargliene, se questo era il mio desiderio. Lo pregai caldamente di rendermi un così grande servizio. Due giorni dopo mi informò che il signor di G... M... era stato così colpito dal bene che si diceva di me, che non solo sembrava avesse l'intenzione di farmi riavere la libertà, ma aveva pure manifestato un gran desiderio di conoscermi meglio e si riprometteva di venire a farmi visita in prigione. Sebbene la sua presenza non potesse farmi alcun piacere, la considerai come un primo passo verso la libertà.
Venne in effetti a Saint-Lazare. Trovai che aveva un'aria più seria e meno stupida che in casa di Manon. Mi tenne discorsi di buon senso parlandomi della mia cattiva condotta e, probabilmente per giustificare i suoi stessi disordini, aggiunse che era lecito alla debolezza umana procurarsi certi piaceri che la natura reclama, ma che la bricconeria e i sotterfugi disonesti meritavano di essere puniti.
Stetti ad ascoltarlo con un'aria sottomessa della quale mi parve soddisfatto. Non mi offesi nemmeno quando lanciò qualche frizzo sulla mia parentela con Lescaut e Manon e sugli altarini che supponeva avessi addobbato in gran quantità a Saint-Lazare, visto che questa pia occupazione mi divertiva tanto. Purtroppo per lui e per me gli sfuggì di dire che certamente Manon ne avrebbe costruito di altrettanto belli all'Hôpital. Anche se quel nome mi faceva rabbrividire, riuscii ancora a pregarlo con dolcezza di spiegarsi.
"Eh sì", riprese, "sono due mesi che impara a esser savia all'Hôpital e mi auguro che ne abbia profittato quanto voi a Saint-Lazare".
La prospettiva d'una prigione eterna, o quella della stessa morte, non sarebbero bastate a dominare il furore che mi colse a quella spaventosa notizia. Mi scagliai su di lui con una rabbia così furibonda che persi metà della mia forza. Me ne rimase comunque abbastanza per buttarlo a terra e afferrarlo alla gola. Lo avrei strangolato, se il rumore della caduta e i gemiti che riusciva faticosamente a emettere, non avessero richiamato nella mia camera il padre superiore e vari altri religiosi. Me lo strapparono dalle mani.
Io stesso ero completamente esausto e mi mancava il respiro.
"Oh Dio!" esclamai sospirando, "giustizia del Cielo! dovrò ancora vivere dopo una simile infamia?".
Tentai ancora di scagliarmi su quel carnefice che mi aveva assassinato. Mi fermarono. La mia disperazione, le mie grida e le mie lacrime superavano ogni immaginazione. Feci tali stravaganze che ignorandone la causa tutti i presenti si guardavano l'un l'altro spaventati e sorpresi. Il signor di G... M... si riaggiustava intanto la parrucca e la cravatta e, indispettito per i maltrattamenti subiti, dava ordine al padre superiore di tenermi chiuso ancora più strettamente e di infliggermi tutte le punizioni in uso a Saint- Lazare.
"No, signore", gli disse il padre superiore, "non vi faremo ricorso con una persona della nascita del signor cavaliere. E d'altronde è così mite e educato, che non riesco a credere che sia arrivato a questi eccessi senza delle buone ragioni".
La risposta finì di sconcertare il signor di G... M... che uscì dicendo che avrebbe fatto ridurre all'ubbidienza il padre superiore, me, e tutti quelli che avessero osato resistergli.
Dopo aver ordinato ai religiosi di accompagnarlo, il padre superiore rimase solo con me. Mi scongiurò di spiegargli senza indugio quale fosse la causa del mio furore.
"Oh, padre!" gli dissi continuando a piangere come un bambino, "immaginatevi la più orribile crudeltà, la più odiosa di tutte le barbarie; ecco quanto l'indegno G... M... ha avuto la viltà di commettere. Oh! mi ha trafitto il cuore, mi ha ferito a morte. Voglio raccontarvi tutto", aggiunsi tra i singhiozzi, "voi siete buono, avrete pietà di me".
Gli raccontai sommariamente la lunga e invincibile passione che avevo per Manon, le floride condizioni del nostro patrimonio prima che i nostri domestici ci avessero derubato, le profferte di G... M... alla mia amica, la conclusione del loro contratto e il modo in cui era stato rotto.
A onor del vero gli presentai le cose nella luce a noi più favorevole.
"Ecco", continuai, "da dove scaturisce tutto lo zelo del signor di G... M... per la mia conversione. Era abbastanza potente da farmi rinchiudere qui per puro spirito di vendetta. Io gli perdono, ma ahimè, padre, non è tutto! Ha fatto rapire in maniera crudele la parte più cara di me stesso; vergognosamente l'ha fatta rinchiudere all'Hôpital e ha avuto l'impudenza di venirmelo ad annunciare oggi di persona. All'Hôpital, padre! O cielo, la mia adorabile amica, la regina del mio cuore all'Hôpital, come la più infame delle creature!
Dove troverò la forza necessaria per sopportare un tale terribile dolore senza morire!".
Vedendo come soffrivo, il buon padre si mise a consolarmi. Mi disse che non era a conoscenza della mia versione dei fatti: aveva saputo, a dire il vero, che io vivevo una vita sregolata, ma si era immaginato che l'interesse del signor di G... M... fosse dettato da un certo legame di stima e d'amicizia con la mia famiglia; gliene aveva parlato infatti in tal senso. Ciò che io gli avevo detto cambiava non poco le cose, ed era sicuro che il resoconto fedele che aveva intenzione di farne al luogotenente generale di polizia, avrebbe contribuito a rendermi la libertà. Mi domandò poi perché non avessi pensato a scrivere alla mia famiglia, visto che non aveva responsabilità nella mia prigionia. A tale obiezione risposi adducendo il dolore che avevo temuto di dare a mio padre e la vergogna che ne avrei provato. Alla fine mi promise di andare seduta stante dal luogotenente di polizia, non foss'altro, soggiunse, che per prevenire qualcosa di peggio da parte del signor di G... M... che è uscito di qui molto mal disposto e che può diventare temibile per la considerazione di cui gode.
Aspettai il ritorno del padre con l'ansia di uno sventurato che è giunto al momento della sentenza. Immaginare Manon all'Hôpital era per me una tortura indicibile. A parte l'infamia del luogo, non sapevo in che modo ci venisse trattata, e il ricordo di alcuni particolari uditi a proposito di quella casa d'orrore, rinnovava a ogni istante il mio furore. Ero talmente deciso ad aiutarla a qualunque costo e con qualunque mezzo, che avrei appiccato il fuoco a Saint-Lazare, se non avessi potuto uscirne diversamente. Riflettei perciò sulle vie da seguire nel caso in cui il luogotenente di polizia avesse continuato a tenermi rinchiuso mio malgrado. Aguzzai l'ingegno in mille modi, contemplai ogni possibilità, ma non trovai niente che potesse garantirmi un'evasione sicura, e temetti di essere sorvegliato ancora più strettamente, se avessi fatto un tentativo sfortunato. Mi ricordai il nome di alcuni amici sul cui aiuto potevo sperare, ma in che modo metterli al corrente della mia situazione? Mi sembrò infine d'avere architettato un piano così astuto da avere la probabilità di riuscire, ma ne rimandai l'organizzazione fino al ritorno del padre, qualora l'inutilità del suo tentativo lo avesse reso necessario. Non tardò a tornare, ma sul suo viso non scorsi i segni di gioia che accompagnano una buona notizia.
"Ho parlato", mi disse, "al luogotenente di polizia, ma gli ho parlato troppo tardi. Il signor di G... M... è andato da lui uscendo di qui e l'ha prevenuto contro di voi in modo tale che stava già per mandarmi ordini più severi per la vostra prigionia. Tuttavia quando gli ho raccontato come stanno realmente le cose, m'è sembrato che si addolcisse notevolmente e, dopo aver un po' riso dell'incontinenza del vecchio signor di G... M..., mi ha detto che bisognava lasciarvi qui ancora sei mesi per dargli soddisfazione, tanto più, ha detto, che questo soggiorno non vi sarà inutile. Mi ha raccomandato di trattarvi urbanamente, e vi assicuro che non avrete da lamentarvi dei miei modi".
La spiegazione del buon padre superiore fu abbastanza lunga da darmi il tempo di fare una prudente riflessione. Mi resi conto che se avessi dimostrato un'eccessiva impazienza di ritrovare la libertà, i miei piani rischiavano di andare a monte. Perciò gli affermai che, costretto a restare, era una dolce consolazione per me la stima che mi dimostrava. Poi, senza affettazione, lo pregai di concedermi una grazia di nessuna importanza per gli altri, ma di grande aiuto per la mia tranquillità; si trattava di far dire a un mio amico, un santo prete che stava a Saint-Sulpice, che io ero a Saint-Lazare e di permettermi di ricevere qualche volta la sua visita. Questo favore mi fu concesso senza esitare.
L'amico era Tiberge; non che sperassi da lui l'aiuto necessario per la mia libertà, ma volevo servirmene come di uno strumento indiretto e inconsapevole. In poche parole, ecco il mio progetto. Volevo scrivere a Lescaut e incaricare lui e i nostri amici comuni di liberarmi. La prima difficoltà consisteva nel fargli giungere la mia lettera, e questo doveva essere il compito di Tiberge. Tuttavia, poiché sapeva che era il fratello della mia amante, temevo che avesse qualche difficoltà ad accettare questo incarico. Il mio piano era di chiudere la lettera a Lescaut in un'altra lettera che avrei indirizzato a un galantuomo di mia conoscenza, pregandolo di farla giungere rapidamente a destinazione. Inoltre, poiché era necessario che vedessi Lescaut per accordarmi con lui circa le misure da prendere, volevo dirgli che venisse a Saint-Lazare e che chiedesse di vedermi fingendo di essere mio fratello maggiore giunto apposta a Parigi per sapere che cosa mi era successo. Con lui avrei poi deciso quali mezzi ci fossero sembrati più rapidi e sicuri. Subito il giorno dopo, il padre superiore fece avvertire Tiberge che desideravo parlare con lui. Quell'amico fedele non mi aveva perso di vista completamente e non era all'oscuro della mia avventura; sapeva che ero a Saint-Lazare e forse non gli era dispiaciuta la mia disgrazia che sperava servisse a ricondurmi sulla via del dovere. Accorse immediatamente nella mia stanza.
Il nostro incontro fu molto cordiale. Volle sapere quali fossero le mie intenzioni: gli aprii il cuore senza riserve, tacendogli peraltro il mio progetto di fuga.
"Mio caro amico" gli dissi, "non è ai vostri occhi che voglio sembrare quello che non sono. Se avete creduto di trovare qui un amico ragionevole e moderato nei suoi desideri, un libertino che i castighi del Cielo hanno ravveduto, insomma un cuore libero dall'amore, dimentico delle grazie di Manon, avete pensato troppo bene di me. Voi mi rivedete tale e quale mi lasciaste quattro mesi fa, sempre innamorato e sempre infelice per quest'amore fatale in cui non mi stanco di cercare la felicità".
Mi rispose che quella mia confessione mi rendeva indegno di scusa. Si vedevano molti peccatori inebriati dalla falsa felicità del vizio fino al punto di preferirlo apertamente alla virtù, ma loro almeno si aggrappavano a un'immagine della felicità, lasciandosi ingannare dall'apparenza. Io invece, riconoscendo che l'oggetto della mia passione riusciva soltanto a rendermi colpevole e infelice, continuavo a precipitare volontariamente nella sventura e nella colpa, e questa era una contraddizione tra idee e comportamento che non faceva onore alla mia intelligenza.
"Tiberge!" replicai, "com'è facile la vittoria quando niente si oppone alle vostre armi! Lasciatemi ragionare a mia volta. Potete pretendere che ciò che voi chiamate la felicità della virtù sia esente da dolori, da traversie e da inquietudini? Come chiamereste voi la prigione, le croci, i supplizi, le torture dei tiranni? Direste forse come i mistici che quello che tormenta il corpo è una felicità per l'anima?
Non osereste dirlo, è un paradosso insostenibile. Questa felicità, che tanto esaltate, è dunque mescolata a mille pene, o, più esattamente, non è che un tessuto di mali, tramite i quali si tende alla felicità.
Ora, se la forza dell'immaginazione fa trovare il piacere in questi stessi mali, perché possono condurre alla meta felice in cui si spera, perché tacciate come contraddittoria e insensata nella mia condotta una tendenza del tutto simile? Amo Manon; e tendo, attraverso mille dolori, a vivere felice e tranquillo accanto a lei. La via che devo percorrere è tormentosa, ma la speranza di arrivare alla meta mi fa provare dolcezza perfino fra i tormenti; e mi ritengo fin troppo ben ripagato da un solo momento passato accanto a lei di tutti i dolori sofferti per ottenerlo. Mi sembra che i nostri argomenti si equivalgano; se c'è una differenza, è ancora a mio vantaggio, perché la felicità che bramo è vicina, mentre l'altra è lontana; la mia felicità è della stessa natura dei miei dolori, cioè sensibile e concreta, mentre l'altra è di una natura sconosciuta, affermata solamente dalla fede".
Tiberge sembrò spaventato da questo ragionamento. Indietreggiò di due passi dicendomi con aria molto seria che, non soltanto quello che dicevo era un'offesa per il buon senso, ma che era anche uno sciagurato sofisma, empio e sacrilego; perché, soggiunse, "paragonare il termine delle vostre pene con quello proposto dalla religione è un'idea delle più immorali e mostruose".
"Confesso", replicai, "che non è un'idea moralmente difendibile, ma badate bene che non su di essa poggia il mio ragionamento. Io intendevo soltanto spiegare ciò che voi considerate come una contraddizione nella perseveranza di un amore infelice e credo di avervi dimostrato che, se di contraddizione si tratta, nemmeno voi vi ci sottrarreste. Solo in questo senso ho parlato di cose equivalenti e continuo a sostenere che lo sono. Mi rispondete che il fine della virtù è infinitamente superiore a quello dell'amore? E chi non ne conviene? Ma si tratta di questo? Non si tratta della forza che l'una e l'altro posseggono per far sopportare i dolori? Giudichiamo dagli effetti. Quanti disertori della severa virtù non si contano? Ben pochi invece dell'amore. Mi risponderete che se nell'esercizio del bene ci sono delle sofferenze, esse non sono immancabili e necessarie; che non ci sono più né tiranni né croci e che si vede una gran quantità di persone virtuose condurre una vita dolce e tranquilla? E allora io vi dirò che ci sono amori quieti e fortunati e aggiungerò ancora una cosa tutta a mio vantaggio: anche se spesso ingannevole, l'amore almeno non promette che soddisfazioni e gioie, mentre la religione ci condanna a una vita triste e mortificante. Non vi inquietate!", soggiunsi vedendolo pronto a risentirsi. "La sola conclusione alla quale voglio arrivare, è che non c'è metodo peggiore per disgustare un cuore dall'amore che denigrargliene le dolcezze e promettergli una maggior felicità nell'esercizio della virtù. Dato il modo in cui siamo fatti, non c'è dubbio che la nostra felicità consiste nel piacere. Sfido chiunque a farsene un'altra idea: ora, il cuore non ha bisogno di interrogarsi a lungo per sentire che di tutti i piaceri, i più dolci sono quelli dell'amore. Quando gli si dice che ne troverà altrove di più seducenti, esso s'accorge subito che lo si inganna, e questo inganno lo induce a diffidare delle promesse più salde. Predicatori che volete ricondurmi alla virtù, ditemi che essa è assolutamente indispensabile, ma non nascondetemi che è severa e dolorosa. Mostrate chiaramente che le delizie dell'amore sono passeggere, che sono proibite, che saranno seguite da pene eterne e, cosa che su di me farà ancora più impressione, che più sono dolci e allettanti più il Cielo sarà generoso nel ricompensare il sacrificio che gliene faremo, ma ammettete che, per cuori come i nostri, esse sono sulla terra la nostra più perfetta felicità".
La fine del mio discorso ridiede a Tiberge il buonumore. Convenne che nei miei pensieri c'era una certa dose di ragionevolezza. Mi rivolse una sola obiezione chiedendomi perché non ero almeno coerente con i miei principi e non sacrificavo il mio amore alla speranza di quel premio di cui mi facevo un'idea così alta.
"Caro amico", gli risposi, "è in questo che riconosco la mia miseria e la mia debolezza, ahimè, sì! è mio dovere agire secondo i miei ragionamenti, ma l'azione è forse in mio potere? Di quale aiuto avrei bisogno per dimenticare le grazie di Manon?".
"Dio mi perdoni", riprese Tiberge, "credo proprio di trovarmi di fronte a un altro giansenista".
"Non so che cosa io sia", replicai, "e neppure vedo chiaramente che cosa dovrei essere, ma sto sperimentando fin troppo bene la verità delle loro teorie".
Questa conversazione servì se non altro a rinnovare la pietà del mio amico. Si accorse che nei miei disordini c'era più debolezza che malvagità. La sua amicizia fu perciò più disposta in seguito a darmi quegli aiuti senza i quali sarei sicuramente morto di fame. Ciò nonostante non gli rivelai nulla del mio progetto di fuga da Saint- Lazare. Lo pregai soltanto di incaricarsi della mia lettera. L'avevo preparata prima del suo arrivo e non mi mancarono i pretesti per giustificare la necessità di scriverla. La recapitò fedelmente all'indirizzo voluto e Lescaut ricevette la sua prima di sera.
L'indomani mi venne a trovare e riuscì fortunatamente a farsi passare per mio fratello. Grande fu la mia gioia quando lo vidi in camera mia.
Chiusi con cura la porta.
"Non perdiamo un solo istante", gli dissi, "datemi prima di tutto notizie di Manon, e poi consigliatemi sul miglior modo di spezzare le mie catene".
Mi assicurò che non aveva visto sua sorella dal giorno prima della mia incarcerazione e che era riuscito a sapere che cosa ci fosse accaduto solo dopo molte ricerche affannose. Due o tre volte si era presentato all'Hôpital, ma non gli avevano permesso di parlarle.
"Maledetto G... M...!" esclamai, "me la pagherai cara!".
"Quanto alla vostra liberazione", proseguì Lescaut, "è un'impresa meno facile di quanto crediate. Ieri, con due miei amici, ho passato la sera a studiare tutte le parti esterne di questo edificio e ho concluso che è ben difficile tirarvi fuori di qui, perché le vostre finestre danno su un cortile circondato da fabbricati, come dicevate nella vostra lettera. Per di più siete al terzo piano e qui non possiamo introdurre né corde, né scale. Dall'esterno dunque mi pare che non ci sia niente da fare; bisognerebbe inventare qualche espediente all'interno".
"No", risposi, "ho studiato ogni cosa, soprattutto da quando la mia prigionia è un po' meno severa per l'indulgenza del padre superiore.
La porta della mia camera non viene più chiusa a chiave, sono libero di passeggiare per i corridoi dei religiosi, ma tutte le scale sono bloccate da porte massicce che restano accuratamente chiuse notte e giorno, di modo che è impossibile che io possa evadere facendo assegnamento sulla sola destrezza. Aspettate", ripresi dopo aver riflettuto un po' su un'idea che mi parve eccellente, "potreste portarmi una pistola?".
"Facilmente", mi disse Lescaut, "ma volete uccidere qualcuno?".
Gli assicurai che l'intenzione di uccidere era così lontana dai miei pensieri che poteva portarmi tranquillamente la pistola scarica.
"Portatela domani", soggiunsi, "e mi raccomando, trovatevi domani sera stessa, alle undici, con due o tre amici davanti al portone. Spero di potervi raggiungere".
Invano insisté per sapere qualcosa di più. Gli dissi che un'impresa come quella che meditavo poteva sembrare ragionevole solo dopo esser riuscita. Lo pregai di abbreviare la sua visita perché gli fosse più facile potermi rivedere l'indomani. Gli riuscì senza difficoltà come la prima volta, aveva un'aria contegnosa, chiunque l'avrebbe preso per un galantuomo.
Quando mi trovai in possesso dello strumento della mia libertà, non ebbi quasi dubbi sul successo del mio piano. Era fantasioso e ardito, ma di che cosa non sarei stato capace con i motivi che mi spingevano?
Da quando mi era permesso uscire dalla mia camera e passeggiare per i corridoi, avevo notato che il portinaio portava ogni sera le chiavi di tutte le porte al padre superiore, dopo di che un profondo silenzio regnava nella casa, segno che tutti si erano ritirati. Attraverso un corridoio di comunicazione potevo andare senza ostacoli dalla mia stanza a quella del padre superiore. Avevo deciso di prendergli le chiavi, spaventandolo con la pistola se avesse fatto difficoltà a darmele, e poi di servirmene per raggiungere la strada. Aspettai con impazienza il momento. Il portinaio venne all'ora solita, e cioè un po' dopo le nove. Lasciai passare ancora un'ora per essere certo che tutti i religiosi e i domestici fossero addormentati. Alla fine mi avviai con l'arma e una candela accesa.
Prima bussai piano alla porta del padre per svegliarlo senza far rumore. Mi sentì al secondo colpo e, probabilmente immaginando che fosse qualche religioso che si sentiva male e aveva bisogno d'aiuto, si alzò per aprire. Ebbe peraltro la precauzione di chiedere attraverso la porta chi fosse e che cosa volesse da lui. Fui costretto a dirgli chi ero, ma simulando un tono lamentoso per fargli pensare che non stavo bene.
"Ah! siete voi, mio caro figliolo", mi disse aprendo la porta, "come mai qui a quest'ora?".
Entrai nella camera e dopo averlo tratto dalla parte opposta alla porta, gli dichiarai che non mi era possibile rimanere oltre a Saint- Lazare, che quella era l'ora migliore per uscire senza essere visto, che mi aspettavo acconsentisse per amicizia ad aprirmi le porte o a prestarmi le chiavi per aprirle lo stesso.
Il mio modo di parlare dovette sbalordirlo. Rimase a guardarmi per un momento senza rispondere. Dato che non avevo tempo da perdere, continuai dicendo che ero molto sensibile alla sua bontà, ma la libertà era il più caro di tutti i beni, soprattutto per me cui l'avevano tolta ingiustamente. Ero perciò deciso a riprendermela quella stessa notte a qualunque prezzo e, temendo che gli venisse voglia di alzare la voce per chiedere aiuto, gli feci vedere il persuasivo motivo di stare zitto che tenevo sotto il giustacuore.
"Una pistola!" mi disse. "Come figlio mio! Volete togliermi la vita per ricambiare le attenzioni che ho avuto per voi?".
"Dio non voglia!" gli risposi. "Siete troppo intelligente e ragionevole per costringermi a farlo; ma voglio essere libero, la mia decisione è presa e se il mio progetto fallisce per colpa vostra, per voi è finita senza scampo".
"Ma, mio caro figliolo", riprese pallido e spaventato, "che cosa vi ho fatto? per quale ragione volete la mia morte?".
"Eh, no", risposi impaziente, "non ho intenzione di uccidervi se volete vivere; apritemi la porta e sarò il vostro migliore amico".
Scorsi le chiavi che erano sulla tavola. Le presi e lo invitai a seguirmi, facendo il minor rumore possibile. Fu costretto a decidersi.
Via via che procedevamo e che apriva una porta, mi ripeteva con un sospiro:
"Ah figlio mio! Chi l'avrebbe mai creduto!".
E da parte mia a ogni istante ripetevo: "Niente rumore, padre".
Giungemmo infine a una sorta di cancellata che è di fronte al portone di strada. Io mi credevo di già al sicuro e stavo dietro al padre con la candela in una mano e la pistola nell'altra. Mentre era intento ad aprire, un domestico che dormiva in una cameretta vicina, sentendo il rumore di qualche chiavistello, si alzò e fece capolino dalla porta.
Probabilmente il buon padre lo credette in grado di fermarmi e, molto imprudentemente, gli ordinò di venirgli in aiuto. Era un robusto birbante che si scagliò contro di me senza esitare. Io non stetti lì a pensarci; lo colpii in pieno petto.
"Ecco di che cosa siete causa, padre", dissi con un certo furore al superiore. "Ma che questo non vi impedisca di finire", soggiunsi spingendolo verso l'ultima porta.
Non osò rifiutare di aprirla. Uscii felicemente e a pochi passi trovai Lescaut che mi aspettava con due amici come mi aveva promesso.
Ci allontanammo. Lescaut mi domandò se non era stato sparato un colpo di pistola.
"E' colpa vostra", gli dissi, "perché me l'avete portata carica?". Lo ringraziai tuttavia per quella precauzione senza la quale sarei rimasto probabilmente a Saint-Lazare per un pezzo. Andammo a passare la notte in un'osteria, dove mi rifeci un po' del pessimo trattamento subito da circa tre mesi. Ma non potevo abbandonarmi alla gioia: senza Manon soffrivo atrocemente.
"Bisogna liberarla", dissi ai miei tre amici. "Non sognavo la libertà che per questo. Aiutatemi con la vostra destrezza. Quanto a me, sono pronto a rimetterci la vita".
Lescaut, al quale non mancavano né ingegno né prudenza, mi fece presente che bisognava andare coi piedi di piombo, la mia evasione da Saint-Lazare e l'incidente capitatomi uscendo avrebbero di certo sollevato scalpore; il luogotenente di polizia mi avrebbe fatto cercare, e aveva il braccio lungo. Insomma, se non volevo espormi a qualcosa di peggio di Saint-Lazare, era opportuno stare rintanato e al riparo per qualche giorno, in modo da fare sbollire la prima ira dei miei nemici.
Era un consiglio ragionevole, ma per seguirlo avrei dovuto esserlo anch'io. Tutta quella lentezza e quella cautela non si addicevano alla mia passione. Accondiscesi soltanto a promettergli che avrei passato il giorno successivo a dormire. Mi chiuse in camera e ci rimasi fino a sera.
Dedicai una parte di quel tempo ad architettare piani e a immaginare espedienti per venire in aiuto di Manon. Ero assolutamente convinto che la sua prigione era ancora più impenetrabile di quanto non fosse stata la mia. Forza e violenza erano fuori questione. Ci voleva l'inganno, ma la dea stessa dell'invenzione non avrebbe saputo da che parte rifarsi. Non intravedendo vie d'uscita rimandai l'esame della situazione a quando avessi avuto qualche informazione sulla disposizione interna dell'Hôpital.
Non appena scese la notte, pregai Lescaut d'accompagnarmi. Attaccammo discorso con uno dei portinai che ci parve un brav'uomo. Finsi di essere un forestiero che aveva sentito parlare con ammirazione dell'Hôpital e dell'ordine che ci regnava. Lo interrogai sui minimi particolari, e di discorso in discorso arrivammo a parlare degli amministratori dei quali lo pregai di dirmi il nome e la condizione.
Le sue risposte sull'argomento mi fecero venire un'idea di cui subito mi rallegrai, e che non tardai a mettere in atto. Gli chiesi, ed era una cosa essenziale al mio piano, se quei signori avessero dei figli.
Mi rispose che non poteva dirmelo con certezza, ma del signor di T..., che era uno dei più importanti, sapeva che aveva un figlio in età di prendere moglie, che era venuto diverse volte insieme al padre all'Hôpital. Questa assicurazione mi bastava. Interruppi quasi subito il nostro colloquio, e tornando a casa misi a parte Lescaut dell'idea che m'era venuta.
"Immagino", gli dissi, "che il signor di T... figlio, che è ricco e di buona famiglia, sia incline ai piaceri, come la maggior parte dei giovani della sua età. Non sarà nemico delle donne, né tanto ridicolo da rifiutare i suoi servigi in una storia d'amore. Ho formulato il progetto di interessarlo alla libertà di Manon. Se è un gentiluomo e non è privo di sentimento, ci porterà il suo aiuto per solidarietà; se non è sensibile a questo argomento, farà almeno qualcosa per una fanciulla seducente, non foss'altro che nella speranza di godere dei suoi favori. Voglio vederlo", soggiunsi, "domani al più tardi. Questo progetto mi dà un tale sollievo che ne traggo lieti auspici".
Anche Lescaut convenne che la mia idea era fondata e che per questa via c'era qualcosa da sperare. La mia notte fu meno triste.
La mattina, mi vestii nel modo più elegante che mi consentisse il mio stato di indigenza e mi feci condurre da una carrozza a casa del signor di T... Questi fu stupito nel ricevere la visita di uno sconosciuto.
Il suo aspetto e i suoi modi garbati mi parvero di buon augurio. Gli parlai con molta franchezza e per infiammare i suoi sentimenti naturali, gli raccontai della mia passione e dei meriti di Manon, come di due cose assolutamente incomparabili se non fra loro.
Mi disse che, anche se non aveva mai visto Manon, aveva sentito parlare di lei, almeno se si trattava di quella che era stata l'amante del vecchio signor di G... M...
Non dubitavo che fosse al corrente della parte che avevo avuto in quell'avventura e, per accattivarmelo maggiormente, in tono di confidenza gli raccontai nei particolari tutto ciò che era capitato a Manon e a me.
"Come vedete, signore", continuai, "l'interesse della mia vita e quello del mio cuore sono ora nelle vostre mani. Mi sono entrambi ugualmente cari. Non ho alcun riserbo con voi, perché mi è nota la vostra generosità, e così come siamo vicini per età, spero che lo siamo pure nei gusti".
Parve molto sensibile a questo segno di fiducia e di candore. La sua risposta fu quella di un uomo d'esperienza e di sentimento, qualità che il mondo non sempre dà e che sovente fa perdere. Mi disse che riteneva la mia visita una delle sue buone fortune, che avrebbe considerato la mia amicizia come un acquisto dei più preziosi e che si sarebbe sforzato di meritarla con la sollecitudine dei suoi servigi.
Non mi promise di restituirmi Manon, perché - mi disse - non godeva che di un credito scarso e incerto; ma si impegnò a procurarmi la gioia di vederla e a fare tutto ciò che era in suo potere perché la riavessi fra le braccia. Fui più soddisfatto del fatto che confessasse le sue incertezze, che di una promessa senza riserve a esaudire tutti i miei desideri. Le sue proposte moderate mi parvero un segno di sincerità che apprezzai molto. Confidai molto nel suo intervento. La sola promessa di rivedere Manon mi avrebbe fatto fare qualunque cosa per lui. Il modo in cui gli manifestai qualcosa di ciò che sentivo, lo persuase altresì della mia buona indole. Ci abbracciammo teneramente e diventammo amici senz'altra ragione che la bontà dei nostri cuori e quella naturale inclinazione che porta un uomo sensibile e generoso ad amarne un altro che gli somigli. Egli spinse anche più lontano le manifestazioni della sua stima, perché ricordando tutta la mia storia e deducendone che, quale fresco evaso da Saint-Lazare, dovevo navigare in cattive acque, mi offrì la sua borsa pregandomi con insistenza affinché l'accettassi. Non l'accettai, ma gli dissi:
"E' troppo, caro signore. Se con tanta amicizia e con tanta bontà mi farete rivedere la mia cara Manon, vi sarò obbligato per tutta la vita. Se poi mi ridarete per sempre quella cara creatura, non mi sdebiterò mai abbastanza, nemmeno versando il mio sangue per voi".
Ci separammo solo dopo aver convenuto il tempo e il luogo in cui avremmo dovuto ritrovarci. Fu tanto compiacente da fissare l'appuntamento quello stesso pomeriggio.
Lo aspettai in un caffè dove venne a raggiungermi verso le quattro e ci avviammo insieme all'Hôpital. Mi tremavano le gambe mentre attraversavo i cortili.
"Potenza dell'amore!" dicevo. "Rivedrò dunque la diletta regina del mio cuore, l'oggetto di tante lacrime, di tante inquietudini! Cielo!
Lasciami vivere almeno per giungere fino a lei, e dopo disponi come vuoi della mia fortuna e dei miei giorni! Non ho più altra grazia da chiederti".
Il signor di T.., parlò ad alcuni guardiani della prigione, che si affrettarono a mettergli a disposizione tutto ciò che era in loro potere per accontentarlo. Si fece indicare il quartiere in cui Manon aveva la sua camera e lì ci condussero con un'enorme chiave che servì ad aprire la porta.
Al servitore che ci accompagnava e che era quello incaricato di servirla, chiesi come essa avesse trascorso il tempo in quel luogo. Ci disse che Manon era di una dolcezza angelica; mai gli aveva rivolto una parola dura e, nelle prime sei settimane dopo il suo arrivo, non aveva mai smesso di piangere. Da qualche tempo invece sembrava sopportare con maggior pazienza la sua disgrazia e cuciva sempre dal mattino alla sera, tranne qualche ora che consacrava alla lettura.
Gli domandai ancora se fosse stata trattata decentemente, e mi assicurò che almeno il necessario non le era mai mancato.
Ci avvicinammo alla porta. Il mio cuore batteva violentemente. Dissi al signor di T...:
"Entrate da solo e avvertitela della mia visita, perché temo che s'impressioni nel vedermi così all'improvviso".
Ci fu aperta la porta. Io rimasi nel corridoio, ma sentivo le loro parole. Le disse che era venuto a portarle un po' di conforto: era uno dei miei amici e s'interessava molto alla nostra sorte. Con molta premura Manon gli chiese se poteva dirle che cosa ne era stato di me.
Egli le promise di condurmi ai suoi piedi, innamorato e fedele secondo i suoi desideri.
"Quando?" riprese lei.
"Oggi stesso. Quel felice momento non tarderà: se lo desiderate, comparirà in questo istante".
Lei capì che ero alla porta. Entrai mentre ci si stava precipitando.
Ci abbracciammo effondendoci in quelle tenerezze che una lontananza di tre mesi fa trovare così deliziose a dei veri amanti. I nostri sospiri, le nostre esclamazioni spezzate, mille nomi d'amore ripetuti perdutamente dall'una e dall'altra parte, costituirono per un quarto d'ora una scena che commuoveva il signor di T... "Vi invidio", mi disse facendoci sedere, "non c'è destino glorioso al quale non preferirei un'amante tanto bella e appassionata".
"Anch'io", risposi, "disprezzerei tutti gli imperi del mondo, per assicurarmi la felicità di essere amato da lei".
Tutto il resto di un colloquio tanto desiderato non poteva non essere infinitamente tenero. La povera Manon mi raccontò le sue disavventure, io le dissi le mie. Piangemmo amaramente parlando della condizione in cui si trovava e di quella da cui ero appena venuto fuori.
Il signor di T... ci confortò con nuove promesse di adoperarsi con tutta l'anima per porre fine alle nostre miserie. Ci consigliò di non prolungare troppo questo primo incontro perché gli fosse più facile farcene ottenere altri. Gli fu molto difficile indurci ad apprezzare quel consiglio. Manon in particolare non poteva risolversi a lasciarmi andar via. Cento volte mi fece di nuovo sedere sulla sedia, trattenendomi per l'abito e per le mani.
"Ahimè!" diceva. "In che posto mi lasciate, chi mi assicura che vi rivedrò?".
Il signor di T... promise che sarebbe venuto spesso a trovarla con me.
"Quanto a questo posto", disse amabilmente, "non si deve più chiamare l'Hôpital: adesso è Versailles, da quando una persona che merita di regnare su tutti i cuori vi è rinchiusa".
Uscendo, diede una mancia all'uomo che era al suo servizio, per assicurare a Manon le sue premure. Il suo animo era meno basso e duro di quello dei suoi pari. Testimone del nostro incontro, quel tenero spettacolo lo aveva commosso. Un luigi d'oro che gli regalai finì di rendermelo devoto. Mentre scendevamo nei cortili mi prese in disparte:
"Signore", mi disse, "se volete prendermi al vostro servizio, o darmi un giusto compenso per risarcirmi della perdita del posto che occupo qui, credo che mi sarà facile liberare madamigella Manon".
Tesi l'orecchio alla proposta e sebbene non possedessi più nulla, gli feci delle promesse che oltrepassavano tutti i suoi desideri. Contavo che mi sarebbe sempre stato facile ricompensare un uomo di quella fatta.
"Rassicurati amico", gli dissi, "non c'è nulla che non farò per te e la tua fortuna è assicurata come la mia".
Volli sapere a quali mezzi intendeva ricorrere.
"Non farò altro", mi rispose, "che aprirle la porta della camera e condurvela fino a quella della strada dove voi dovrete essere pronto ad accoglierla".
Gli chiesi se non c'era il rischio che la riconoscessero mentre attraversava i corridoi e i cortili. Ammise che c'era un certo pericolo, ma mi disse che bisognava pur rischiare qualcosa.
Sebbene fossi felice di vederlo così risoluto, chiamai il signor di T... per comunicargli quel piano e la sola ragione che mi sembrava potesse renderne l'esito incerto. Le difficoltà gli sembrarono ancor più grandi che a me. Convenne che effettivamente Manon poteva fuggire in quel modo, ma aggiunse che se fosse stata riconosciuta e fermata durante la fuga, forse per lei era finita per sempre.
"Dovreste d'altra parte lasciare Parigi immediatamente, perché vi sarebbe praticamente impossibile sottrarvi alle ricerche. Sarebbero raddoppiate per entrambi. Un uomo da solo riesce a sfuggire facilmente, ma è quasi impossibile conservare l'incognito con una bella donna".
Per quanto fondato mi sembrasse il suo ragionamento, nel mio animo non riuscì ad avere la meglio sulla speranza così imminente di liberare Manon. Lo dissi al signor di T... e lo pregai di perdonare all'amore un po' d'imprudenza e di temerità.
Soggiunsi che avevo in effetti l'intenzione di lasciare Parigi per fermarmi, come già avevo fatto, in qualche villaggio vicino. Ci accordammo dunque col servitore per mettere in atto il suo piano l'indomani al più tardi e affinché avesse la maggior probabilità di successo, decidemmo di portare a Manon dei vestiti da uomo per facilitarne la fuga. Farli entrare non era facile, ma non mancai d'inventiva per escogitarne il modo. Pregai soltanto il signor di T...
di indossare il giorno dopo due giacche leggere, l'una sull'altra, mentre io mi incaricai di tutto il resto.
La mattina tornammo all'Hôpital. Io portavo con me della biancheria, delle calze, e altre cose per Manon, e sopra il farsetto un soprabito, che non lasciava vedere il rigonfio delle mie tasche.
Restammo nella camera solo un momento. Il signor di T... lasciò a Manon una delle due giacche, io le diedi il mio farsetto, poiché mi bastava il soprabito per uscire. Non mancava niente al suo abbigliamento, tranne i calzoni che sfortunatamente avevo dimenticato.
La dimenticanza di quell'indumento indispensabile ci avrebbe certamente fatto ridere, se non ci avesse cacciato in un guaio serio.
Ero disperato che una simile sciocchezza dovesse bloccarci. Finii col prendere la decisione di uscire io stesso senza calzoni. Diedi i miei a Manon. Il mio soprabito era lungo e con l'aiuto di qualche spillo mi misi in condizioni di passare la portasenza dar nell'occhio. Il resto della giornatami parve insopportabilmente lungo. Scesa infine la notte, ci recammo in carrozza un po' oltre il portone dell'Hôpital. Non ci volle molto prima che vedessimo comparire Manon con la sua guida. Lo sportello era spalancato e tutti e due salirono in un attimo. Accolsi tra le braccia la mia amante che tremava come una foglia. Il cocchiere mi chiese dove si doveva andare.
"In capo al mondo", gli dissi, "e conducimi da qualche parte dove possa non essere mai separato da Manon".
Questo slancio che non riuscii a padroneggiare, per poco non mi attirò un guaio serio. Il cocchiere notò le mie parole, e quando gli dissi il nome della strada dove volevamo andare, mi rispose che temeva di essere immischiato in una faccenda losca: che era chiaro che quel bel giovane, che si chiamava Manon, era una fanciulla che rapivo dall'Hôpital, e che non aveva nessuna intenzione di rovinarsi per amor mio.
Gli scrupoli di quel ribaldo non erano altro che la voglia di farsi pagare di più. Eravamo troppo vicini all'Hôpital per non rigar diritto.
"Taci", gli dissi, "c'è un luigi d'oro per te".
Dopo di che mi avrebbe aiutato a bruciare anche l'Hôpital. Arrivammo all'abitazione di Lescaut. Era tardi e il signor di T... ci lasciò cammin facendo con la promessa di ritrovarci l'indomani. Il domestico rimase con noi.
Tenevo Manon così stretta fra le braccia che nella carrozza occupavamo un solo posto. Lei piangeva di gioia e io sentivo le sue lacrime che mi bagnavano il viso. Ma quando si dovette scendere per entrare in casa di Lescaut, ebbi col cocchiere un altro diverbio che provocò funeste conseguenze. Mi pentii di avergli promesso un luigi, non soltanto perché era un dono eccessivo, ma per un'altra ragione ancor più valida e cioè l'impossibilità di pagarlo. Feci chiamare Lescaut che scese dalla sua camera per venire alla porta. Gli spiegai all'orecchio in quale imbarazzo mi trovavo. Era di umore nero e per nulla abituato ad avere riguardi per un fiaccheraio, mi rispose che stavo scherzando.
"Un luigi d'oro", soggiunse. "Venti bastonate a quel briccone!".
Ebbi un bel dirgli senza alzare la voce che ci avrebbe rovinato. Mi strappò il bastone di mano con l'aria di voler malmenare il cocchiere.
Costui, al quale era forse già capitato di cadere qualche volta nelle mani di una guardia del corpo o di un moschettiere, fuggì impaurito con la carrozza, gridando che l'avevo ingannato, ma che avrei sentito parlare di lui. Inutilmente gli ripetei di fermarsi. La sua fuga mi cagionò una profonda inquietudine. Ero certo che avrebbe avvertito il commissario.
"Voi mi rovinate", dissi a Lescaut. "In casa vostra non sarò al sicuro. Dobbiamo andare via all'istante".
Offrii il braccio a Manon per camminare e uscimmo immediatamente da quella strada pericolosa. Lescaut venne con noi. E' meraviglioso il modo in cui la Provvidenza guida gli eventi. Avevamo appena camminato cinque o sei minuti, quando un uomo di cui non scorsi la faccia, riconobbe Lescaut. Probabilmente lo stava cercando nei pressi di casa con lo sciagurato proposito che mise in atto.
"E' Lescaut", disse mentre gli sparava un colpo di pistola. "Stasera andrà a cena con gli angeli".
Subito dopo fuggì. Lescaut cadde senza più dare il minimo segno di vita. Sollecitai Manon a fuggire, dal momento che i nostri soccorsi erano inutili a un cadavere, e io temevo di essere arrestato dalla ronda che non poteva tardare a comparire. Con lei e il servitore infilai la prima via traversa. Manon era così smarrita che facevo fatica a sostenerla. Finalmente in fondo alla via scorsi una carrozza e la mandai a chiamare. Ci salimmo, ma quando il cocchiere mi chiese dove doveva portarci, non seppi cosa rispondere. Non avevo un rifugio sicuro, né un amico fedele al quale osassi rivolgermi. Non avevo denaro: nella mia borsa c'era poco più di una mezza pistola. Il terrore e la stanchezza avevano talmente abbattuto Manon che era accanto a me semisvenuta. Per di più continuavo a pensare all'assassinio di Lescaut e la paura della ronda non mi aveva ancora abbandonato: che fare? Per fortuna mi ricordai della locanda di Chaillot dove avevo passato qualche giorno con Manon quando eravamo andati ad abitare in quel villaggio. Non soltanto speravo di starci al sicuro, ma di poterci vivere per qualche tempo senza dover pagare subito .
"Portaci a Chaillot", dissi al cocchiere.
Si rifiutò di andarci a un'ora così tarda per meno di una doppia; altro motivo di imbarazzo. Alla fine ci accordammo per sei franchi.
Era tutto quello che mi restava nella borsa.
Per via consolavo Manon, ma in realtà avevo la disperazione in fondo al cuore. Mille volte mi sarei ammazzato, se non avessi tenuto fra le braccia l'unico bene che mi legava alla vita. Il solo pensiero mi ridava coraggio.
"Almeno ora è con me", dicevo, "mi ama, è mia; Tiberge ha un bel dire, questa non è una parvenza di felicità. Potrei vedere crollare l'universo senza battere ciglio. Perché? Perché non mi rimane affetto per niente e nessun altro".
Questo sentimento era sincero e tuttavia, mentre tanto poco m'importava dei beni del mondo, sentivo che avrei avuto bisogno di possederne almeno una piccola parte per disprezzare ancor più definitivamente tutto il resto. L'amore è più forte dell'abbondanza, più forte dei tesori e delle ricchezze, ma ha bisogno del loro aiuto, e non c'è nulla di più desolante per un amante sensibile che vedersi per questo ricondotto suo malgrado alla volgarità delle anime più basse.
Erano circa le undici quando arrivammo a Chaillot. All'albergo ci accolsero come persone di conoscenza. Non si stupirono nel vedere Manon vestita da uomo, perché a Parigi e nei dintorni si è abituati a vedere le donne travestite in mille modi. La feci servire con tutti i riguardi, come se avessi a disposizione molto denaro. Lei ignorava che ne ero a corto e io mi guardai bene dal dirglielo, deciso com'ero a tornare da solo a Parigi l'indomani per cercare qualche rimedio a quella scomoda malattia.
Mentre eravamo a cena, mi parve pallida e smagrita. All'Hôpital non me ne ero accorto, perché la camera in cui l'avevo vista non era delle meglio illuminate. Le chiesi se fosse ancora effetto dello spavento provato nel veder assassinare suo fratello. Mi assicurò che anche se scossa da quell'incidente, il suo pallore era dovuto a quei tre mesi passati senza di me.
"Allora mi ami infinitamente?" le chiesi.
"Mille volte più di quanto non possa dire".
"Non mi lascerai mai più?".
"Mai più", replicò, e confermò la sua promessa con tante carezze e tanti giuramenti, che mi parve proprio impossibile che potesse mai dimenticarli. Sono sempre stato convinto che fosse sincera, che ragione avrebbe avuto di fingere fino a quel punto? Ma era ancor più volubile, o meglio non era più niente, e nemmeno lei si riconosceva, quando aveva sotto gli occhi donne che vivevano nell'agiatezza trovandosi lei nella povertà e nel bisogno. Ero alla vigilia di averne un'altra prova, che ha superato tutte le altre e che fu causa della più strana avventura mai capitata a un uomo della mia nascita e delle mie condizioni.
Conoscendo tale suo carattere, il giorno dopo mi affrettai ad andare a Parigi. La morte di suo fratello e la necessità di biancheria e di abiti per lei e per me, erano ragioni sufficientemente valide per non aver bisogno di pretesti. Uscii dalla locanda dicendo a Manon e all'oste che andavo a prendere una carrozza da noleggio, ma era una spacconata. Ero costretto ad andare a piedi; camminai dunque di buon passo fino a Cours-la-Reine, dove avevo intenzione di fermarmi. Un momento di solitudine e di tranquillità era necessario per riordinare le idee e riflettere su quello che avrei fatto a Parigi.
Mi sedetti sull'erba. Mi immersi in un mare di ragionamenti e di riflessioni che finirono col ridursi a tre punti principali. Avevo bisogno di un aiuto immediato per una quantità infinita di necessità pressanti. Dovevo cercare una via che mi facesse almeno intravedere qualche speranza per il futuro, e, cosa non meno importante, dovevo prendere informazioni e misure per la sicurezza mia e di Manon. Dopo essermi lambiccato il cervello a far progetti e a immaginare combinazioni su questi tre punti, ritenni opportuno escludere gli ultimi due. Eravamo abbastanza al sicuro nella stanzetta di Chaillot e quanto alle necessità future, pensai che avrei sempre potuto pensarci quando avessi provveduto a quelle presenti.
Per il momento si trattava dunque di riempire la borsa. Il signor di T... mi aveva generosamente offerto la sua, ma mi ripugnava profondamente doverlo riportare sull'argomento. Che figura andare a raccontare la propria miseria a un estraneo e pregarlo di farci parte dei suoi beni! Solo un'anima vile può esserne capace, per quella sua bassezza che le impedisce di sentirne l'indegnità; oppure un vero cristiano che un eccesso di umiltà renda superiore a questa vergogna.
Io non ero né un vile né un buon cristiano, e avrei dato la metà del mio sangue per evitare quell'umiliazione.
"Tiberge", dicevo, "il buon Tiberge, mi rifiuterà quello che potrebbe darmi? No, sarà commosso dalla mia miseria, ma mi ucciderà con la sua morale. Dovrò subire i suoi rimproveri, le sue esortazioni, le sue minacce, mi farà pagare il suo aiuto talmente caro, che darei ancora una parte del mio sangue piuttosto che espormi a una scena spiacevole, che mi lascerà turbamento e rimorsi. Be'!" pensavo, "devo dunque rinunciare a ogni speranza, giacché non mi resta altra via. Piuttosto che scegliere queste due, verserei tutto il mio sangue, metà per l'una e metà per l'altra. Sì, tutto il mio sangue darei", soggiunsi dopo aver riflettuto un istante, "piuttosto che ridurmi a suppliche umilianti. Ma qui non si tratta del mio sangue! Si tratta della vita e del mantenimento di Manon, si tratta del suo amore e della sua fedeltà: che cosa posso mettere sull'altro piatto della bilancia?
Finora non ci ho messo niente. Per me Manon è la gloria, la felicità, la ricchezza. Ci sono certamente molte cose per ottenere o per evitare le quali darei la vita, ma stimare una cosa più della vita, non è una buona ragione per stimarla quanto Manon".
Dopo questo ragionamento, non mi ci volle molto a decidermi. Continuai la mia strada, risoluto ad andare in primo luogo da Tiberge, e poi dal signor di T...
Entrando a Parigi, presi una carrozza, anche se non avevo di che pagarla; contavo sull'aiuto che andavo a sollecitare. Mi feci condurre al Luxembourg, e di lì mandai ad avvertire Tiberge che lo stavo aspettando. Venne prontamente soddisfacendo la mia impazienza.
Senza perifrasi lo misi al corrente delle mie condizioni disperate. Mi chiese se le cento doppie che gli avevo restituito mi sarebbero bastate e, senza farmi la minima difficoltà, le andò a prendere immediatamente con quell'aria aperta e quel piacere di dare, noto soltanto all'amore e alla vera amicizia. Benché non avessi avuto il minimo dubbio sul successo della mia richiesta, rimasi stupito di averla ottenuta così a buon mercato, senza cioè che mi avesse rimproverato della mia impenitenza. Ma mi sbagliavo credendo di essermi salvato dai suoi rimproveri, perché quando ebbe finito di contarmi il denaro e io mi accingevo ad andarmene, mi pregò di fare con lui un giro per i viali: io non gli avevo parlato di Manon e lui ignorava che fosse in libertà. Non mi fece quindi la morale che sulla fuga temeraria da Saint-Lazare e sul suo timore di vedermi riprendere la solita vita dissipata, invece di profittare delle lezioni di saggezza che avevo ricevuto. Mi disse che era andato a farmi visita a Saint-Lazare il giorno dopo la mia evasione e che era rimasto colpito oltre ogni dire venendo a sapere in che modo ne ero uscito. Aveva avuto un incontro sull'argomento col superiore; il buon padre non si era ancora rimesso dallo spavento, ciò nonostante aveva avuto la generosità di nascondere al luogotenente di polizia le circostanze della mia evasione e aveva impedito che la morte del portinaio si venisse a sapere fuori di Saint-Lazare. Da quel lato non avevo quindi niente da temere, ma, se mi fosse rimasto un briciolo di buon senso, avrei profittato della piega favorevole che il Cielo dava alle mie vicende; dovevo cominciare con lo scrivere a mio padre e riconciliarmi con lui. Se per una volta tanto volevo seguire i suoi consigli, era del parere che lasciassi Parigi per tornare in seno alla mia famiglia.
Ascoltai il suo discorso sino alla fine. C'erano molte notizie di cui potevo essere soddisfatto. In primo luogo fui ben felice di non aver niente da temere da Saint-Lazare. Le strade di Parigi tornavano a essere per me terreno franco. In secondo luogo mi rallegrai che Tiberge non sospettasse affatto la liberazione di Manon e il suo ritorno con me. Notai anche che aveva evitato di parlarmi di lei, pensando probabilmente che mi stesse meno a cuore dato che sembravo così tranquillo per quello che la riguardava. Se non proprio di tornare in famiglia, decisi di scrivere a mio padre, come lui mi consigliava, e dichiarargli che ero disposto a riprendere la via del dovere e a ubbidire alla sua volontà.
La mia speranza era di indurlo a inviarmi del denaro, col pretesto di fare i miei studi all'Accademia, dato che mi sarebbe stato difficile convincerlo che volevo riprendere la carriera ecclesiastica. In fondo, quella mia promessa non era poi in contraddizione con i miei desideri, ero anzi lieto di dedicarmi a qualcosa di onesto e di ragionevole, per quanto potesse accordarsi col mio amore per Manon. Contavo di vivere con lei e di proseguire i miei studi al tempo stesso. Le due cose erano perfettamente compatibili. Fui così soddisfatto di tutte queste idee, che promisi a Tiberge di spedire quel giorno stesso una lettera a mio padre. Effettivamente, dopo averlo lasciato entrai in un ufficio di corrispondenza e scrissi in un tono così tenero e sottomesso, che ero sicurissimo di ottenere qualcosa dal cuore paterno.
Anche se ero in condizioni di prendere e di pagare una carrozza dopo aver lasciato Tiberge, fu per me un piacere camminare fieramente a piedi per andare dal signor di T... Mi dava gioia poter godere della mia libertà personale per la quale il mio amico mi aveva assicurato che non avevo più niente da temere. Mi venne però in mente che le sue assicurazioni non riguardavano che la faccenda di Saint-Lazare e che avevo sulle braccia pure la storia dell'Hôpital. Senza contare la morte di Lescaut, in cui ero coinvolto almeno come testimone. Nel ricordarmene, mi sgomentai talmente che mi ritrassi nel primo viale, da dove feci chiamare una carrozza. Andai direttamente dal signor di T... che rise del mio spavento. Anche a me parve comico quando mi informò che non avevo nulla da temere, né dall'Hôpital, né dalla morte di Lescaut. Mi disse che nel dubbio di poter essere sospettato di complicità nel rapimento di Manon, quella mattina era andato all'Hôpital chiedendo di vederla e facendo finta di ignorare ciò che era accaduto. Erano talmente lontani dall'idea di accusarci, lui o me, che si erano anzi affrettati a raccontargli quell'evasione come un fatto inspiegabile: si meravigliavano che una ragazza bella come Manon avesse acconsentito a fuggire con un domestico. Egli si era limitato a rispondere freddamente che non ne era stupito e che per la libertà si è disposti a tutto. Mi raccontò poi che dall'Hôpital era andato da Lescaut, nella speranza di trovarmi lì con la mia deliziosa amica. Il padrone di casa, che era un carrozzaio, gli aveva giurato che non aveva visto né lei, né me, ma comunque non c'era da stupirsi che non fossimo comparsi, se era per Lescaut che dovevamo venire; senza dubbio avevamo saputo che era stato ucciso più o meno nel momento di cui parlava il signor di T... E a questo proposito gli raccontò ciò che sapeva della causa e delle circostanze di quella morte; gli disse che circa due ore prima dell'incidente, una guardia del corpo amica di Lescaut era venuta a trovarlo e gli aveva proposto di giocare. Lescaut aveva vinto con una tale rapidità che l'altro si era ritrovato in un'ora con cento scudi in meno, vale a dire tutto il suo denaro.
Rimasto senza un soldo aveva pregato Lescaut di prestargli la metà della somma che aveva perso; era nato qualche contrasto sfociato in un litigio furioso; Lescaut aveva rifiutato di uscire per por mano alla spada e l'altro nell'uscire aveva giurato di spaccargli la testa, cosa che evidentemente aveva fatto la sera stessa.
Il signor di T... ebbe la cortesia di aggiungere che si era preoccupato molto per noi e seguitò a offrirci i suoi servigi. Non esitai un istante a comunicargli il luogo del nostro rifugio ed egli mi pregò di permettergli di venire a cena con noi.
Non mi restava più che da comprare biancheria e abiti per Manon, perciò gli dissi che potevamo partire subito se non gli fosse dispiaciuto fermarsi un istante con me da qualche negoziante.
Ignoro se pensò che gli facevo quella proposta a bella posta per provocare la sua generosità, oppure se fu per un suo moto spontaneo; comunque sia, accettò di partire immediatamente e mi condusse dai fornitori della sua casa; mi fece scegliere diverse stoffe di un prezzo più alto di quanto avessi previsto, e proibì assolutamente al negoziante di accettare un soldo da me. Aveva compiuto quella gentilezza con un tale garbo, che credetti di poterne approfittare senza vergogna. Prendemmo insieme la via di Chaillot, dove giunsi meno preoccupato di come ne ero partito.
Siccome il cavaliere des Grieux aveva impiegato più di un'ora per arrivare fino a questo punto del suo racconto, lo pregai di prendere un po' di riposo e di cenare con noi. Giudicando dalla nostra attenzione che lo avevamo ascoltato con piacere, ci assicurò che avremmo trovato qualcosa di ancor più interessante nel seguito della sua storia. Finita la cena, ricominciò a raccontare quel che segue.
SECONDA PARTE
La mia presenza e le cortesie del signor di T... dissiparono ogni residuo affanno in Manon.
"Dimentichiamo i nostri passati terrori, anima mia", le dissi arrivando, "e ricominciamo a vivere più felici che mai. Dopo tutto l'amore è un buon padrone. I dolori che il destino ci procura non supereranno mai i piaceri che ci elargisce".
La nostra cena fu una vera festa. Ero più fiero e orgoglioso con Manon e le mie cento doppie del più ricco finanziere di Parigi con il mucchio dei suoi tesori. La ricchezza va calcolata rapportandola ai mezzi che si possiedono per appagare i propri desideri. Non uno dei miei era rimasto inappagato;l'avvenire stesso non mi dava pensiero. Ero quasi sicuro che mio padre non avrebbe fatto difficoltà a darmi di che vivere decorosamente a Parigi,perché avevo vent'anni e perciò potevo esigere la mia parte dei beni materni. Non nascosi a Manon che le mie sostanze ammontavano a cento doppie. Bastavano per aspettare tranquillamente una miglior fortuna, che certamente non mi sarebbe mancata, sia per i miei diritti ereditari, sia per le risorse del gioco.
Così, durante le prime settimane, non pensai che a godere della mia condizione; il sentimento dell'onore e una residua cautela per via delle ricerche di polizia mi facevano rimandare di giorno in giorno il momento di riprendere i contatti con i soci dell'Hôtel de Transylvanie. Mi limitai perciò a giocare in alcune riunioni meno malfamate, in cui il favore della sorte mi risparmiò l'umiliazione di dover ricorrere alla frode. Andavo a trascorrere in città una parte del pomeriggio e tornavo a cenare a Chaillot, accompagnato assai spesso dal signor di T ., la cui amicizia per noi cresceva di giorno in giorno. Manon trovò il modo di non annoiarsi. Strinse rapporti con alcune giovani del vicinato, che la primavera aveva riportato a Chaillot. Le loro occupazioni erano costituite ora dalle passeggiate, ora da altri piccoli svaghi femminili... Qualche partita a carte, di cui avevano giudiziosamente stabilito la posta, provvedeva alle spese della carrozza. Andavano a respirare l'aria buona al Bois de Boulogne, e la sera, al mio ritorno, ritrovavo Manon più bella, più contenta, e più appassionata che mai.
Ciò nonostante si addensò qualche nuvola che sembrò minacciare l'edificio della mia felicità. Ma poi si dissipò del tutto e l'umore gaio di Manon ne rese lo scioglimento così comico che provo ancora una certa dolcezza in un ricordo che rievoca per me la sua tenerezza e la grazia del suo spirito.
Un giorno il domestico, che costituiva tutta la nostra servitù, mi prese in disparte per dirmi, molto imbarazzato, che aveva da confidarmi un segreto di grande importanza. Io lo incoraggiai a parlare liberamente. Tergiversò, ma poi mi fece capire che un signore straniero sembrava essersi innamorato di madamigella Manon. Sentii tutto il mio sangue rimescolarsi nelle vene.
"E lei ne è innamorata?" interruppi più bruscamente di quanto non richiedesse la prudenza per avere qualche lume. La mia impetuosità lo spaventò. Con aria inquieta mi rispose che il suo intuito non era andato così lontano, ma che, dopo aver osservato da diversi giorni che lo straniero veniva assiduamente al Bois de Boulogne, scendeva dalla carrozza, si inoltrava da solo nei viali laterali, con l'aria di cercare l'occasione per vedere o incontrare madamigella, gli era venuto in mente di far conoscenza con i suoi servitori, per sapere il nome del loro padrone. Aveva saputo che si trattava di un principe italiano e che anche loro sospettavano una qualche avventura galante.
Aggiunse tremando che non aveva potuto avere altre delucidazioni, perché il principe a quel punto era uscito dal Bois, gli si era avvicinato familiarmente e gli aveva chiesto come si chiamasse. Dopo di che, come se avesse indovinato che era al nostro servizio, lo aveva complimentato perché apparteneva alla più incantevole persona di questo mondo.
Aspettavo impaziente il seguito del racconto. Egli lo concluse con delle timide scuse che io attribuii soltanto alle mie imprudenti impennate. Invano lo sollecitai a continuare senza nascondere niente.
Mi assicurò fermamente che non sapeva nient'altro; quello che mi aveva raccontato era successo il giorno prima e da allora non aveva rivisto i servitori del principe. Io lo tranquillizzai non solo con degli elogi, ma offrendogli una buona ricompensa e, senza dargli a vedere la minima diffidenza nei confronti di Manon, gli raccomandai con un tono più tranquillo, di vegliare sul comportamento dello straniero.
Tuttavia il suo spavento nel parlarmi mi lasciò dubbi crudeli. Poteva averlo indotto a nascondermi una parte della verità. Ma, dopo aver riflettuto, le mie inquietudini si placarono fino a farmi rimpiangere quelle manifestazioni di debolezza. Se Manon era amata, non potevo fargliene una colpa. Con ogni probabilità lei ignorava la sua conquista. Che vita sarebbe stata la mia, se ero capace di aprire tanto facilmente il mio cuore alla gelosia? Tornai a Parigi il giorno dopo senza aver formulato altro progetto se non quello di accelerare l'accrescersi della mia fortuna giocando somme più forti per mettermi in grado di lasciare Chaillot al minimo motivo di inquietudine. La sera, non venni a sapere nulla che turbasse la mia pace. Lo straniero era ricomparso al Bois de Boulogne e, facendosi forte di quanto era successo il giorno prima per avvicinarsi al mio confidente, gli aveva parlato del suo amore, ma in termini tali che non lasciavano supporre nessuna intesa con Manon. Lo aveva interrogato su mille particolari e infine aveva tentato di attirarlo dalla sua parte con promesse allettanti. Poi, tirata fuori una lettera che teneva pronta, gli aveva offerto inutilmente alcuni luigi d'oro perché la consegnasse alla sua padrona.
Trascorsero due giorni senza altri incidenti. Il terzo fu più burrascoso. Tornando molto tardi dalla città, venni a sapere che Manon, durante la passeggiata, si era allontanata per qualche istante dalle sue compagne. Lo straniero che la seguiva a breve distanza, a un suo segno le si era avvicinato, e lei gli aveva dato una lettera che era stata accolta con vivi segni di gioia. Non aveva avuto il tempo di esprimerli se non baciando amorosamente lo scritto, perché Manon si era immediatamente dileguata. Ma per tutto il giorno essa aveva manifestato una gaiezza straordinaria e, da quando era rincasata, il buon umore non l'aveva più abbandonata.
Fremevo, naturalmente, a ciascuna di quelle parole.
"Sei proprio sicuro", dissi tristemente al mio domestico, "che gli occhi non ti abbiano ingannato?".
Chiamò il Cielo a testimone della sua buona fede. Non so a che cosa mi avrebbero condotto i tormenti del mio cuore, se Manon, che mi aveva sentito tornare, non mi fosse venuta incontro con aria impaziente, a dolersi del mio ritardo. Non aspettò la mia risposta per colmarmi di carezze e, quando si vide sola con me, mi rimproverò acerbamente per l'abitudine che avevo preso di tornare a casa tanto tardi. E poiché il mio silenzio la lasciava libera di continuare, mi disse che da tre settimane non avevo passato una sola giornata tutta con lei. Quelle assenze così prolungate le erano insostenibili e mi chiedeva almeno un giorno ogni tanto; l'indomani stesso voleva vedermi accanto a lei dalla mattina alla sera.
"Vi sarò, siatene certa", le risposi in tono brusco.
Manon non fece gran caso al mio risentimento e nello slancio della sua gioia, che mi parve in verità stranamente impetuosa, mi dipinse con molto brio il modo in cui aveva trascorso la giornata.
"Strana fanciulla!" dicevo a me stesso. "Che cosa devo aspettarmi da questo preludio?".
Mi tornò in mente l'avventura della nostra prima separazione. E tuttavia mi pareva di scorgere in fondo alla sua gioia e alle sue carezze un accento di verità che si accordava con le apparenze.
Non mi fu difficile attribuire la tristezza, della quale non riuscii a liberarmi durante la cena, a una perdita subita al gioco. Avevo considerato come un grandissimo vantaggio che fosse stata sua l'idea di non lasciare Chaillot il giorno dopo. Questo significava guadagnar tempo per decidere. La mia presenza allontanava ogni sorta di timore per l'indomani e se non avessi notato qualcosa che mi obbligasse a manifestare le mie scoperte, ero deciso a stabilirmi il giorno dopo in città, in un quartiere dove non avessi avuto nulla a che fare con i principi. Questa decisione mi fece passare una notte più tranquilla, ma non mi toglieva il dolore di dover tremare per una nuova infedeltà.
Quando mi svegliai, Manon mi dichiarò che il fatto di trascorrere la giornata nel nostro appartamento non era una buona ragione perché avessi un aspetto trascurato, perciò desiderava acconciarmi con le sue proprie mani i capelli. I miei erano bellissimi. Già diverse volte si era concessa quel divertimento, ma mai l'avevo vista dedicarcisi con tanta cura come quel giorno. Per farle piacere mi dovetti sedere davanti alla sua toeletta e assoggettarmi a tutti i tentativi in cui volle sbizzarrirsi per la mia acconciatura. Mentre era intenta alla sua opera, mi faceva spesso girare il viso verso di lei, e appoggiandomi le mani sulle spalle, mi contemplava con avidità curiosa. Poi, dopo aver espresso con un bacio o due la sua soddisfazione, mi faceva riprendere la posizione di prima per continuare l'opera.
Con queste scherzose occupazioni giungemmo all'ora di pranzo. Il gusto che ci aveva preso mi era sembrato così naturale e la sua allegria così sincera, che non potendo conciliare quelle manifestazioni tanto convincenti con il progetto di un nero tradimento, più volte fui tentato di aprirle il mio cuore e di scaricarmi di un fardello che cominciava a pesarmi. Ma a ogni istante speravo che fosse lei a confidarsi e ne assaporavo in anticipo un delizioso trionfo.
Entrammo nel suo salottino. Lei si mise a riaccomodarmi i capelli e la mia compiacenza mi faceva cedere a ogni sua volontà, quando vennero ad avvertirla che il principe di... desiderava vederla. Quel nome mi fece ribollire di furore.
"Che cosa!" esclamai respingendola. "Chi? Quale principe?".
Lei non rispose alle mie domande.
"Fatelo salire", disse freddamente al domestico, poi volgendosi verso di me: "Mio caro amante che adoro", riprese con voce ammaliante, "ti chiedo un attimo di compiacenza. Un attimo. Un attimo solo. Ti amerò mille volte di più. E te ne sarò grata per tutta la vita".
L'indignazione e la sorpresa mi legarono la lingua. Lei ripeteva le sue preghiere e io cercavo le parole per respingerle sdegnosamente.
Ma, sentendo aprire la porta dell'anticamera, con una mano afferrò i miei capelli sciolti sulle spalle, con l'altra il suo specchio da toeletta e facendo ricorso a tutta la sua forza mi trascinò in quello stato fino alla porta del salottino. L'aprì col ginocchio e offrì allo straniero, che tutto quel rumore sembrava aver immobilizzato in mezzo alla stanza, uno spettacolo che dovette stupirlo non poco. Vidi un uomo molto ben vestito, ma d'aspetto molto poco attraente. Seppure imbarazzato da quella scena, non mancò di fare un profondo inchino.
Manon non gli diede il tempo di aprir bocca. Gli presentò il suo specchio:
"Guardate, signore", gli disse, "guardatevi bene, e rendetemi giustizia. Mi chiedete amore. Ecco l'uomo che amo e che ho giurato di amare tutta la vita. Fate voi stesso il confronto. Se credete di potergli contendere il mio cuore, ditemi su quale fondamento, giacché vi dichiaro che, agli occhi della vostra umilissima serva, tutti i principi d'ltalia non valgono uno solo dei capelli che tengo fra le mani".
Durante quella folle arringa, che verosimilmente aveva già preparato, io facevo vani sforzi per liberarmi, e impietosito da quell'uomo di riguardo, mi sentivo spinto a riparare con le mie gentilezze quel lieve oltraggio. Ma le mie disposizioni d'animo cambiarono quando, ritrovata facilmente la sua presenza di spirito, egli rispose in modo che a me parve alquanto grossolano.
"Madamigella, madamigella", le disse con un sorriso forzato, "apro in effetti gli occhi e ci trovo molto meno novizia di quanto non mi fossi immaginato".
E uscì subito senza rivolgerle uno sguardo, aggiungendo con voce più bassa che le donne di Francia non valevano più di quelle italiane.
Niente, in quella circostanza, mi invitava a ispirargli un'opinione migliore del bel sesso. Manon lasciò andare i miei capelli, si gettò in una poltrona e fece risuonare la stanza dei suoi lunghi scoppi di risa. Non nascosi di essere commosso fin nel profondo del cuore da un sacrificio che potevo attribuire soltanto all'amore. Lo scherzo mi parve peraltro eccessivo, e le mossi qualche rimprovero. Manon mi raccontò che il mio rivale, dopo averla assediata per parecchi giorni al Bois de Boulogne e averle fatto capire i suoi sentimenti a forza di mimiche, aveva deciso di farle una dichiarazione in piena regola accompagnata da nome e titoli, in una lettera che le aveva fatto consegnare dal cocchiere che la conduceva a passeggio con le sue compagne. Le prometteva, al di là dei monti, una brillante fortuna e un'adorazione eterna. Era tornata a Chaillot decisa a raccontarmi quell'avventura ma poi pensando a come ci saremmo potuti divertire, non aveva saputo resistere alla sua fantasia. Con una risposta lusinghiera aveva concesso al principe la libertà di venire a trovarla a casa e poi si era concessa un ulteriore piacere facendomi entrare nel gioco senza aver suscitato in me il minimo sospetto. Non le dissi parola delle informazioni che mi erano pervenute da altra fonte, e l'ebbrezza dell'amore trionfante mi fece approvare tutto quanto.
Per tutta la vita ho notato che il Cielo ha sempre scelto per colpirmi con i suoi severi castighi i momenti in cui la mia fortuna sembrava più salda. Mi credevo così felice con l'amicizia del signor di T... e la tenerezza di Manon che nessuno avrebbe potuto farmi credere che dovevo temere qualche nuova disgrazia. Eppure se ne stava preparando una così terribile che mi ha ridotto nelle condizioni in cui mi avete visto quel giorno a Pacy, e, passo passo, mi sono trovato in situazioni tanto spaventose, che a stento crederete alla sincerità del mio racconto.
Un giorno che avevamo invitato il signor di T... a cena, sentimmo il rumore di una carrozza che si fermava davanti alla porta della locanda. La curiosità ci spinse a chiedere chi potesse essere arrivato tanto tardi. Ci dissero che era il giovane signor di G...M..., e cioè il figlio del nostro più crudele nemico, quel vecchio libertino che aveva mandato me a Saint-Lazare e Manon all'Hôpital. Il suo nome mi fece salire il sangue al viso.
"E' il Cielo che me lo manda", dissi al signor di T..., "per punirlo della vigliaccheria di suo padre. Non mi scapperà prima che abbiamo incrociato le nostre spade".
Il signor di T..., che lo conosceva e che era anche uno dei suoi migliori amici, si sforzò di farmi concepire altri sentimenti nei suoi confronti. Mi assicurò che era un giovane molto simpatico e così poco capace di aver preso parte all'azione di suo padre, che non avrei potuto vederlo un istante senza accordargli la mia stima e senza desiderare la sua. Dopo aver aggiunto mille cose lusinghiere per lui, mi pregò di permettergli di andare a invitarlo a sedersi alla nostra tavola, accontentandosi di ciò che rimaneva della cena. Prevenne l'obiezione del pericolo al quale si sarebbe esposta Manon se il figlio del nostro nemico avesse saputo dove abitava, assicurando sul suo onore che, quando ci avesse conosciuti, non avremmo avuto un difensore più zelante. Dopo tali affermazioni, non opposi più alcuna difficoltà. Il signor di T... ce lo presentò dopo avergli detto chi eravamo ed egli entrò con un modo di fare che effettivamente ci dispose a suo favore. Mi abbracciò. Ci sedemmo. Ammirò Manon, me, tutto quello che ci apparteneva e mangiò con un appetito che fece onore alla nostra cena. Quando fu sparecchiato, la conversazione si fece più seria. Ci parlò a occhi bassi degli eccessi di suo padre contro di noi. Ci fece le sue umili scuse.
"Taglio corto", ci disse, "per non rinnovare un ricordo che mi fa troppa vergogna".
Se le sue scuse erano sincere fin dall'inizio, lo diventarono assai di più in seguito, perché non aveva ancora trascorso neppure mezz'ora in conversazione con noi, che io mi accorsi dell'impressione che produceva su di lui il fascino di Manon. Vidi i suoi sguardi, le sue maniere farsi a poco a poco più teneri. Nei suoi discorsi tuttavia non si lasciò sfuggire niente ma, anche senza essere illuminato dalla gelosia, ero troppo esperto in amore per non distinguere ciò che sgorga da questa fonte. Ci tenne compagnia una parte della notte e non ci lasciò se non dopo essersi molto rallegrato di aver fatto la nostra conoscenza e averci pregato di lasciarlo venire qualche volta a rinnovare l'offerta dei suoi servigi. Partì che era già mattino con il signor di T... il quale salì nella sua carrozza.
Come ho detto, io non mi sentivo portato alla gelosia. Ero più che mai disposto a fidarmi dei giuramenti di Manon. Quell'incantevole creatura era così totalmente padrona della mia anima che non avevo per lei il minimo sentimento che non fosse di stima e d'amore. Lungi dal farle una colpa di essere piaciuta a G...M... ero felicissimo dell'effetto delle sue grazie e gioivo di essere amato da una fanciulla che tutti trovavano adorabile. Non ritenni nemmeno opportuno metterla al corrente dei sospetti che avevo nutrito su G...M... Per qualche giorno fummo occupati a far preparare i suoi abiti e a discutere se potevamo andare a teatro senza paura di essere riconosciuti. Il signor di T...
tornò a trovarci prima della fine della settimana: chiedemmo il suo parere. Egli vide bene che bisognava dire di sì per far piacere a Manon. Decidemmo quindi di andarci con lui quella sera stessa.
Il nostro progetto tuttavia non ebbe seguito, perché dopo avermi preso in disparte mi disse:
"Dall'ultima volta che vi ho visto, sono in un estremo imbarazzo e questo spiega la mia visita di oggi. G...M... ama la vostra amica, e me l'ha confidato. Io sono suo intimo amico e sono disposto a fargli qualunque favore, ma sono anche il vostro amico. Le sue intenzioni non mi sono sembrate oneste e le ho condannate. Tuttavia avrei mantenuto il segreto, se per piacere a Manon avesse intenzione di ricorrere alle vie ordinarie, ma sa molte cose del suo carattere. Ha saputo, non so da quale fonte, che le piacciono le comodità e il piacere e, poiché già dispone di un considerevole patrimonio, mi ha dichiarato che vuole prima tentarla con un regalo molto consistente e con l'offerta di diecimila lire di pensione. A condizioni eguali, avrei dovuto forzarmi molto di più per tradirlo, ma a vostro favore ha giocato il mio senso della giustizia oltre che l'amicizia, tanto più che essendo stato io stesso la causa imprudente della passione di G...M... introducendolo qui, sono obbligato a prevenire gli effetti del male che ho provocato".
Ringraziai il signor di T... di un servizio così importante; ricambiando pienamente la confidenza gli confessai che il carattere di Manon era esattamente come se lo immaginava G...M..., e cioè non poteva sopportare neanche il nome di povertà.
"Tuttavia", gli dissi, "quando si tratta di poco più o poco meno, non la credo capace di abbandonarmi per un altro. Io sono in grado di non farle mancare nulla e ho motivo di credere che la mia fortuna debba migliorare ogni giorno di più. Temo soltanto una cosa", soggiunsi, "e cioè che G. ..M. .. sapendo dove abitiamo, non ne approfitti per farci qualche brutto scherzo". Il signor di T... mi rassicurò che da quel lato non c'era di che preoccuparsi; G...M... era capace di una pazzia amorosa, ma non di una bassezza. Se fosse stato tanto vile da commetterne una, sarebbe stato il primo, lui che parlava, a punirlo, e a riparare in tal modo il male che aveva causato.
"Vi sono obbligato per questi sentimenti", ripresi, "ma il male sarebbe fatto e il rimedio molto incerto. Perciò la cosa più ragionevole è di prevenirlo, lasciando Chaillot e andando ad abitare da un'altra parte".
"Sì", riprese il signor di T..., "ma vi sarà difficile farlo con la necessaria sollecitudine, perché G...M... dev'essere qui a mezzogiorno. Me l'ha detto ieri ed è per questo che sono venuto così di buon'ora da voi per informarvi delle sue intenzioni. Può arrivare da un momento all'altro".
Quest'ultima circostanza cominciò a farmi considerare quella storia meno alla leggera. Dal momento che mi sembrava impossibile evitare la visita di G...M..., nonché impedire che aprisse il suo cuore a Manon, decisi di avvertirla delle intenzioni di quel nuovo rivale. Pensai che, sapendomi al corrente delle proposte che le avrebbe fatto, fra l'altro sotto i miei occhi, sarebbe stata abbastanza forte da respingerle. Manifestai il mio pensiero al signor di T... il quale mi rispose che la cosa era estremamente delicata.
"Lo ammetto", dissi, "ma tutte le ragioni che si possono avere per essere sicuri del cuore di un'amante, a me non mancano per contare sull'affetto della mia. C'è solo la larghezza delle offerte che potrebbe abbagliarla, e vi ho detto che non è avida. Ama le comodità ma ama pure me, e, nella mia situazione attuale, non posso credere che mi preferisca il figlio di un uomo che l'ha mandata all'Hôpital".
In poche parole, rimasi della mia idea e, presa in disparte Manon, le comunicai tutto quello che avevo saputo. Mi ringraziò della buona opinione che avevo di lei, e mi promise di accogliere le offerte di G...M... in un modo che gli avrebbe fatto passare la voglia di rinnovarle.
"No", le dissi, "non bisogna irritarlo con uno sgarbo. E' in grado di nuocerci. Ma tu, briccona", aggiunsi ridendo, "non dovresti avere difficoltà a sbarazzarti di un ammiratore antipatico o scomodo".
Rimase un istante pensierosa e poi continuò:
"Mi viene un'idea meravigliosa: sono fierissima della mia trovata.
G...M... è il figlio del nostro più crudele nemico; dobbiamo vendicarci del padre, non sul figlio, ma sulla borsa. Voglio stare a sentirlo, accettare i suoi regali, e farmi beffe di lui".
"E' un bel progetto", le dissi, "ma tu, bambina mia, dimentichi che per questa via siamo arrivati dritti dritti all'Hôpital".
Ebbi un bel dimostrarle il rischio di quell'impresa. Mi disse che si trattava soltanto di prendere bene tutte le nostre precauzioni ed ebbe una risposta per ogni obiezione. Datemi un amante che non assecondi ciecamente tutti i capricci di un'amica adorata, e ammetterò di aver avuto torto cedendo così facilmente alla mia. Così prendemmo la decisione di gabbare G...M... e, per uno strano scherzo della sorte fui io a essere gabbato.
Vedemmo comparire la sua carrozza verso le undici. Si scusò garbatamente della libertà che si prendeva di venire a cena con noi.
Non si stupì nel trovare il signor di T... che il giorno prima gli aveva promesso di venire anche lui e che aveva addotto alcuni affari per esimersi dal viaggiare nella stessa carrozza. Anche se ciascuno di noi occultava il tradimento nel cuore, ci sedemmo a tavola con aria di confidenza e d'amicizia. G...M... trovò facilmente l'occasione di dichiarare i suoi sentimenti a Manon; io non dovetti sembrargli di impiccio, perché mi allontanai apposta per qualche minuto. Al mio ritorno mi accorsi che non era stato scoraggiato da un eccesso di severità. Era del miglior umore del mondo e anch'io feci finta di esserlo, mentre dentro di sé lui rideva della mia dabbenaggine e io ridevo della sua. L'uno per l'altro fummo, per tutto il pomeriggio, uno spettacolo molto divertente. Prima che se ne andasse feci in modo che si intrattenesse un momento da solo con Manon, così che ebbe modo di rallegrarsi sia della mia compiacenza che del buon desinare.
Non appena fu salito in carrozza col signor di T..., Manon corse verso di me a braccia aperte e mi abbracciò scoppiando a ridere. Mi ripeté i suoi discorsi e le sue proposte senza cambiare una virgola. Si riducevano a questo: l'adorava. Voleva dividere con lei quarantamila lire di rendita di cui già disponeva, senza contare quello che gli sarebbe toccato dopo la morte del padre. Lei sarebbe stata la padrona del suo cuore e della sua borsa e, tanto per cominciare, era pronto a regalarle una carrozza, una casa ammobiliata, una cameriera, tre domestici e un cuoco.
"Ecco un figlio", dissi a Manon, "ben altrimenti generoso che il padre. Sinceramente", soggiunsi, "non vi tenta questa offerta?".
"Io?" rispose adattando al proprio pensiero due versi di Racine:
"Io! e tanta infamia voi sospettate in me?
Io! potrei soffrire quell'odioso amore Che sempre richiama l'Hôpital al mio cuore?".
"No", replicai seguitando la parodia:
"Non mi è facile pensar che l'Hôpital, signora, Sia per voi un pensiero che il mio rivale onora".
Ma una casa ammobiliata, una carrozza e tre servitori sono una seduzione veramente grande; l'amore non ne ha di altrettanto potenti.
Lei protestò che il suo cuore era mio per sempre e che solo il mio amore lo avrebbe ferito con le sue frecce. "Le promesse che mi ha fatto", mi disse, "sono un pungolo alla vendetta, più che uno strale d'amore". Le chiesi se aveva intenzione di accettare la carrozza e la casa e mi rispose che solo il suo denaro la interessava. La difficoltà consisteva nell'ottenere una cosa senza le altre. Decidemmo di aspettare l'intera spiegazione del progetto di G...M... in una lettera che aveva promesso di scriverle. Gliela portò infatti il giorno dopo un domestico senza livrea, che molto abilmente fece in modo di parlarle senza testimoni. Lei gli disse di aspettare la risposta e venne subito a portarmi la lettera. L'aprimmo insieme. Oltre alle solite espressioni di tenerezza, vi erano descritte in maniera particolareggiata tutte le promesse del mio rivale. Non badava a spese. Si impegnava a versarle diecimila lire quando avesse preso possesso della casa e a rimborsarle via via ogni spesa, in modo che avesse sempre l'intera somma in contanti a sua disposizione. Il giorno della sistemazione non doveva essere troppo lontano. Due giorni gli sarebbero bastati perché tutto fosse pronto per riceverla e le indicava il nome della strada, e la casa dove le prometteva di aspettarla il pomeriggio del secondo giorno, se avesse potuto sfuggire dalle mie mani. Era l'unico punto sul quale la supplicava di tranquillizzarlo, perché di tutto il resto sembrava sicuro. Aggiungeva che nel caso prevedesse qualche difficoltà per eclissarsi, avrebbe trovato il modo di facilitare la sua fuga.
G...M... era più furbo di suo padre. Voleva la preda prima di sborsare il denaro. Discutemmo su quello che Manon avrebbe dovuto fare. Tentai ancora di toglierle dalla testa quell'impresa, dipingendogliene tutti i pericoli. Ma lei si ostinò a voler andare sino in fondo.
Scrisse una breve risposta a G...M... per assicurargli che non le sarebbe stato difficile recarsi a Parigi il giorno indicato e che poteva aspettarla tranquillo. Poi stabilimmo che sarei partito immediatamente per andare ad affittare un nuovo appartamento in qualche villaggio dall'altra parte di Parigi e che avrei trasportato con me tutto il nostro bagaglio. Il pomeriggio del giorno dopo, che era quello dell'appuntamento, si sarebbe recata di buon'ora a Parigi e, dopo aver ricevuto i regali di G...M..., lo avrebbe supplicato di condurla alla Comédie. Avrebbe preso con sé tutto quello che poteva portare della somma e avrebbe incaricato del resto il mio domestico che voleva l'accompagnasse.
Era quello stesso che l'aveva liberata dall'Hôpital e che ci era molto affezionato. Io dovevo ritrovarmi con una carrozza all'inizio della via Saint-André-des-Arts, lasciarla lì verso le sette per spingermi al buio fino all'ingresso della Comédie. Manon mi promise di inventare un pretesto per uscire un istante dal palco, scendere e venire a raggiungermi; l'esecuzione del resto era facile. Avremmo raggiunto la carrozza in un attimo e saremmo usciti da Parigi dalla parte del sobborgo Saint-Antoine che era sulla strada della nostra nuova casa.
Per folle che fosse, il nostro piano ci parve abbastanza ben congegnato. Ma era una pazzia credere che, quand'anche fosse andato felicemente in porto, noi ci saremmo messi al riparo dalle conseguenze. Eppure ci esponemmo a quel rischio con la più temeraria fiducia. Manon partì con Marcel (così si chiamava il nostro domestico). Io la vidi andarsene con dolore. Abbracciandola le dissi:
"Manon, non m'ingannate; mi sarete fedele?".
Teneramente si dolse della mia scarsa fiducia e mi rinnovò tutti i suoi giuramenti.
Faceva conto d'arrivare a Parigi verso le tre. Io partii dopo di lei e andai a trascorrere penosamente il resto del pomeriggio al caffè Féré vicino al ponte Saint-Michel. Ci rimasi fino alle sei. Ne uscii allora per prendere una carrozza, che secondo il nostro piano appostai all'imbocco della via Saint-André-des-Arts; poi raggiunsi a piedi la porta della Comédie. Mi stupì non trovare Marcel che doveva essere lì ad aspettarmi. Pazientai per un'ora, confuso tra una folla di servitori e occupato a esaminare i passanti. Alla fine, suonate le sette senza che avessi scorto nulla che fosse in relazione con i nostri accordi, presi un biglietto di platea per andare a vedere se Manon e G...M... fossero nei palchi. Non c'erano né l'uno né l'altra.
Tornai alla porta dove passai ancora un quarto d'ora fremente di impazienza e di inquietudine. Non vedendo comparire nessuno, raggiunsi la carrozza senza riuscire a prendere nessuna decisione. Il cocchiere mi scorse e mi venne incontro per dirmi con aria di mistero che da un'ora una bella signorina mi aspettava nella carrozza; aveva chiesto di me descrivendomi in modo facilmente riconoscibile, e avendo saputo che dovevo tornare, aveva detto che avrebbe pazientato. Immaginai subito che fosse Manon. Mi avvicinai. Ma vidi un bel visino che non era il suo. Era una sconosciuta che subito mi chiese se aveva l'onore di parlare con il cavaliere des Grieux. Le dissi che quello era il mio nome.
"Ho una lettera da consegnarvi", riprese, "che vi dirà per quale ragione sono venuta e come mai ho il piacere di conoscere il vostro nome".
La pregai di darmi il tempo di leggerla in un'osteria vicina. Lei mi volle seguire e mi consigliò di chiedere un séparé.
"Da chi viene questa lettera?" le chiesi salendo. Mi rispose di leggere. Riconobbi la scrittura di Manon. Ecco press'a poco che cosa diceva: G...M... l'aveva accolta con una cortesia e una magnificenza al di là d'ogni immaginazione. L'aveva colmata di regali e le aveva fatto intravedere una vita da regina. Tuttavia mi assicurava che in quel nuovo splendore non mi dimenticava, ma rimandava a un altro giorno il piacere di vedermi, perché non era riuscita a convincere G...M... a condurla quella sera alla Comédie. Per consolarmi un po' della pena che, come prevedeva, quella notizia mi avrebbe causato, aveva trovato il modo di procurarmi una delle più belle ragazze di Parigi, che sarebbe stata latrice del suo biglietto. Firmato: la vostra fedele amante, Manon Lescaut.
C'era qualcosa di così crudele e di così insultante per me in quella lettera, che, dopo essere rimasto un istante sospeso tra la collera e il dolore, cercai di fare uno sforzo per dimenticare eternamente la mia ingrata e spergiura amica. Lanciai uno sguardo alla ragazza che era accanto a me. Era graziosissima e avrei voluto che lo fosse abbastanza per rendermi spergiuro e infedele a mia volta; ma non trovai in lei quegli occhi maliziosi e languidi, quel portamento divino, quell'incarnato creato dall'amore, quell'insieme insomma di inesauribili seduzioni che la natura aveva prodigato alla perfida Manon.
"No, no", le dissi, "l'ingrata che vi manda sapeva benissimo che vi faceva fare un passo inutile. Tornate da lei e ditele da parte mia che goda tranquillamente del suo misfatto e che ne goda, se può, senza rimorsi. Io l'abbandono per sempre e insieme rinuncio a tutte le donne, che non potrebbero essere mai adorabili come lei, ma che sono sicuramente altrettanto vili e sleali".
Fui allora sul punto di scendere e andarmene rinunciando ormai a Manon: la gelosia mortale che mi straziava il cuore si dissimulava dietro una tetra e cupa tranquillità, perciò mi credetti ormai prossimo alla guarigione non sentendo più nessuno di quei moti violenti del cuore che mi avevano sconvolto in situazioni analoghe. Ma ahimè! Ero lo zimbello dell'amore come credevo di esserlo di G...M... e di Manon.
La ragazza che mi aveva portato la lettera, vedendo che mi accingevo a scendere la scala, mi chiese che cosa volevo che riferisse al signor di G...M... e alla signora che era con lui. A quelle parole tornai in camera e con un cambiamento incredibile per quelli che non hanno mai provato passioni violente, passai di colpo dalla calma in cui credevo di essere a un terribile accesso di furore.
"Va'", le dissi, "riferisci al traditore G...M... e alla sua perfida amante la disperazione in cui mi ha gettato la tua maledetta lettera, ma avvertili che non rideranno a lungo e che li pugnalerò entrambi con le mie mani".
Mi gettai su una sedia. Il mio cappello cadde da un lato e il mio bastone dall'altro. Fiumi di lacrime amare cominciarono a scorrermi dagli occhi. L'accesso di rabbia che avevo provato si mutò in profondo dolore. Non feci più che piangere tra gemiti e sospiri.
"Avvicinati, bambina mia, avvicinati, visto che mandano te a consolarmi. Dimmi se conosci conforto contro la rabbia e la disperazione, contro la voglia di darsi la morte, dopo aver ucciso due malvagi che non meritano di vivere. Sì, avvicinati", continuai vedendo che faceva qualche passo timido e incerto verso di me. "Vieni ad asciugare le mie lacrime. Vieni a ridare la pace al mio cuore. Vieni a dirmi che mi ami, perché io mi abitui a esserlo da una che non sia la mia infedele. Sei carina, forse potrei amarti a mia volta".
Quella povera bambina che non arrivava ai sedici o diciassette anni, e che sembrava avesse più pudore delle sue consimili, era tutta sorpresa da una scena tanto strana. Tuttavia si avvicinò per farmi qualche carezza, ma io l'allontanai subito respingendola con le mani.
"Che vuoi da me?" le dissi. "Ah! tu sei una donna, appartieni anche tu a quel sesso che detesto, che non posso più sopportare. La dolcezza del tuo viso non è altro che la minaccia di qualche tradimento.
Vattene e lasciami qui solo".
Mi fece un inchino senza osar dire nulla e si voltò per uscire. Le gridai di fermarsi:
"Ma dimmi almeno", ripresi, "perché, come e con quale scopo sei stata mandata qui? Come hai scoperto il mio nome e il posto dove mi potevi trovare?".
Mi rispose che conosceva da lunga data il signor di G...M...; egli l'aveva mandata a prendere alle cinque; aveva seguito il domestico che era venuto ad avvertirla ed era andata in una grande casa dove l'aveva trovato intento a giocare a picchetto con una bella signora. Entrambi l'avevano incaricata di consegnarmi quella lettera, dopo averle spiegato che mi avrebbe trovato in una carrozza all'inizio della via Saint-André. Le chiesi se non le avessero detto altro e mi rispose arrossendo che le avevano lasciato sperare che io l'avrei tenuta per farmi compagnia.
"Ti hanno ingannato", le dissi, "mia povera ragazza. Ti hanno ingannato. Tu sei una donna, ti ci vuole un uomo, ma uno che sia ricco e felice e non è qui che lo potrai trovare. Torna, torna dal signor di G...M...; lui ha tutto quello che ci vuole per essere amato dalle belle donne, ha palazzi ammobiliati, pariglie da regalare. Quanto a me, che non ho che amore e fedeltà da offrire, le donne disprezzano la mia miseria e si fanno gioco della mia semplicità".
Aggiunsi mille altre cose, tristi o violente, secondo che le passioni che mi agitavano ora cedessero, ora prendessero il sopravvento.
Tuttavia, a forza di tormentarmi, i miei furori si placarono quanto bastava per permettermi di riflettere. Paragonai quest'ultima disgrazia ad altre dello stesso genere che avevo già subito, e non trovai che ci fossero più ragioni di disperare che nei casi precedenti. Conoscevo Manon: perché affliggermi tanto per una sventura che avrei già dovuto prevedere? Perché piuttosto non darmi da fare per trovarvi un rimedio? C'era ancora tempo. Per lo meno dovevo fare il possibile, se non volevo rimproverarmi di aver contribuito con la mia negligenza ad aumentare le mie pene. Mi misi perciò a esaminare tutti i mezzi che potevano ridare adito alla speranza.
Tentare di strapparla con la violenza alle mani di G...M... era una soluzione disperata che poteva solo perdermi, senza avere nessuna probabilità di successo; ma mi sembrava che se fossi riuscito a procurarmi un brevissimo incontro con lei sicuramente avrei riconquistato qualche vantaggio sul suo cuore. Ne conoscevo così bene tutte le fibre sensibili! Ero così sicuro di essere amato da lei!
Anche quella bizzarria di mandarmi una bella ragazza a consolarmi, avrei giurato che era stata una sua invenzione, risultato del suo amore e della sua compassione per le mie pene. Decisi di ricorrere a qualunque espediente per vederla. Fra tutti i mezzi che presi in esame uno dopo l'altro, mi attenni a questo: il signor di T... aveva cominciato a rendermi servizio con troppo affetto perché dubitassi della sua sincerità e della sua premura. Decisi quindi di andare da lui immediatamente e pregarlo di far chiamare G...M... col pretesto di un affare importante. Mi bastava mezz'ora per parlare a Manon. La mia intenzione era di farmi introdurre proprio nella camera di Manon, e pensai che sarebbe stato facile in assenza di G...M...
Reso più tranquillo da questa decisione, pagai generosamente la fanciulla che era ancora con me e, per dissuaderla dal tornare da quelli che me l'avevano mandata, mi feci dare il suo indirizzo lasciandole sperare che sarei andato a passare la notte con lei. Salii in carrozza e mi feci portare di gran corsa dal signor di T... Fui tanto fortunato da trovarlo in casa, nonostante i dubbi che mi avevano assalito cammin facendo. Lo misi subito al corrente delle mie pene e del favore che ero andato a chiedergli. Fu molto stupito nel sapere che G...M... aveva potuto sedurre Manon e, ignaro della parte da me sostenuta in questa disgrazia, mi offrì generosamente di riunire tutti i suoi amici e servirsi delle loro braccia e delle loro spade per liberare la mia amante.
Gli feci capire che un gesto così clamoroso poteva essere dannoso a Manon e a me.
"Serbiamo il nostro sangue", gli dissi, "per i casi estremi. Sto pensando a una via più pacifica, dalla quale spero lo stesso successo".
Si impegnò a fare tutto quello che gli avrei chiesto, senza eccezione.
Gli ripetei che doveva soltanto far avvertire il signor di G.. M...
che aveva da parlargli e trattenerlo fuori un'ora o due; dopo di che venne subito via con me per accontentarmi. Strada facendo discutemmo di quale espediente potesse servirsi per trattenerlo così a lungo.
Gli consigliai prima di tutto di scrivergli un semplice biglietto, datato da un caffè, col quale lo avrebbe pregato di recarsi subito da lui per un affare tanto importante che non poteva essere differito.
"Io", soggiunsi, "starò a sorvegliare il momento in cui esce e mi introdurrò facilmente in casa, dove mi conoscono soltanto Manon e Marcel, che è il mio cameriere. Quanto a voi, che nel frattempo sarete con G...M..., potrete dirgli che l'affare importante per cui desiderate parlargli è una necessità di denaro. Avete perso il vostro al gioco e avete giocato ancora di più sulla vostra parola, con la stessa sfortuna, gli ci vorrà un po' di tempo per condurvi alla sua cassaforte e a me basterà per realizzare il mio progetto".
Il signor di T... eseguì il nostro piano punto per punto. Lo lasciai in un caffè dove scrisse in fretta la lettera. Io andai a piazzarmi a qualche passo dalla casa di Manon; vidi arrivare il latore del biglietto e subito dopo G... M... uscì a piedi seguito da un domestico. Dopo avergli lasciato il tempo di allontanarsi dalla strada, mi avvicinai alla porta della mia infedele, e, nonostante tutta la mia collera, bussai con il rispetto che si ha per un tempio.
Per fortuna fu Marcel ad aprirmi. Gli feci cenno di tacere. Anche se non avevo nulla da temere dagli altri domestici, gli chiesi a bassa voce se poteva condurmi alla camera dov'era Manon, senza farmi scorgere. Mi disse che sarebbe stato facile salendo senza far rumore per la scala principale.
"Andiamo dunque svelti", gli dissi, "e cerca di impedire che qualcuno salga mentre sarò lì".
Senza ostacoli mi introdussi nell'appartamento. Manon era intenta a leggere e fu allora che ebbi l'occasione di ammirare il carattere di quella strana ragazza. Lungi dall'essere spaventata e dal sembrare intimidita nel vedermi, non manifestò che quei leggeri segni di sorpresa incontrollabili quando si vede una persona che si crede lontana.
"Ah, siete voi, amore mio", mi disse venendo ad abbracciarmi con la solita tenerezza, "buon Dio, come siete coraggioso! Chi vi avrebbe mai aspettato oggi in questo posto?".
Mi sciolsi dalle sue braccia e, lungi dal rispondere alle sue carezze, la respinsi sdegnosamente, facendo due o tre passi indietro per allontanarmi da lei. Quel movimento non mancò di sconcertarla. Rimase nella posizione in cui era, e mi lanciò un'occhiata cambiando colore.
In fondo ero tanto felice di rivederla, che con tanti giusti motivi di collera, avevo appena la forza di aprire la bocca per rimproverarla.
Eppure il mio cuore sanguinava per la crudele offesa che mi aveva fatto: me lo richiamai vivamente alla memoria per eccitare il mio sdegno, mentre cercavo di far brillare nei miei occhi un fuoco diverso da quello dell'amore. Poiché rimasi qualche momento silenzioso e lei notò la mia agitazione, la vidi tremare, forse per lo spavento.
Non potei sopportare quella vista.
"Ah, Manon", le dissi teneramente, "infedele e spergiura Manon, da dove comincerò a lamentarmi? Vi vedo pallida e tremante e sono ancora talmente sensibile alle vostre minime pene, che temo di addolorarvi troppo con i miei rimproveri. Ma no, Manon, ve lo assicuro, ho il cuore trafitto dal dolore del vostro tradimento. Sono colpi che non si infliggono a un amante se non si è deciso di ucciderlo. Questa è la terza volta, Manon, le ho contate bene, e non sono cose che si dimenticano. Sta a voi decidere in questo stesso momento che cosa scegliere, giacché il mio triste cuore non può più resistere a un trattamento così crudele. Sento che cede, che sta per schiantare dal dolore. Non ne posso più", soggiunsi sedendomi su una sedia, "a stento riesco a parlare e a stare in piedi".
Lei non mi rispose, ma quando fui seduto, si lasciò cadere alle mie ginocchia, vi appoggiò la testa, nascondendosi il viso fra le mani.
Sentii subito che le bagnava di lacrime. Dio! quali emozioni mi agitavano!
"Ah, Manon, Manon!" ripresi con un sospiro, "è ben tardi per offrirmi le vostre lacrime, quando siete stata voi la causa della mia morte.
Fingete una tristezza che non sareste capace di sentire. Il più grande dei vostri mali è certamente la mia presenza, che ha sempre disturbato i vostri piaceri. Aprite gli occhi, guardate chi sono; non si versano lacrime per un infelice che si è tradito, che si è abbandonato crudelmente".
Lei baciava le mie mani senza cambiar posizione.
"Incostante Manon", ripresi ancora, "fanciulla ingrata e senza fede, dove sono le vostre promesse e i vostri giuramenti? Amante mille volte volubile e crudele, che cosa hai fatto di quell'amore che ancor oggi mi giuravi? Giusto Cielo", soggiunsi, "è in questo modo che un'infedele si fa beffe di voi, dopo avervi preso a testimonio così solennemente? E' dunque lo spergiuro che viene premiato! La disperazione e l'abbandono sono per la costanza e la fedeltà".
Pensieri così amari accompagnavano queste mie parole, che mio malgrado mi sfuggì qualche lacrima. Manon se ne accorse dal cambiamento della mia voce. Ruppe infine il silenzio.
"Devo essere davvero molto colpevole", mi disse tristemente, "se ho potuto causarvi tanto dolore e affanno, ma il Cielo mi punisca se mai ho creduto di esserlo, o se ho avuto l'idea di diventarlo".
Quelle parole mi parvero così insensate e bugiarde, che non potei reprimere un vivo moto di collera.
"Orribile finzione!" esclamai. "Vedo più che mai che sei una perfida scellerata. Ora conosco la tua natura miserabile. Addio, vile creatura", continuai alzandomi, "preferisco mille volte la morte piuttosto che avere d'ora in poi il minimo rapporto con te. Che il Cielo mi punisca se mai ti degnerò di uno sguardo. Rimani con il tuo nuovo amante, amalo, odiami, rinuncia all'onore, al buon senso, me ne rido, non me ne importa niente".
Fu così spaventata da quel furore che era rimasta in ginocchio accanto alla sedia da cui mi ero alzato, mi guardava tremando, senza osar respirare. Feci ancora qualche passo verso la porta voltando la testa, con gli occhi fissi su di lei. Ma avrei dovuto perdere ogni sentimento di umanità per restare insensibile di fronte a tanta grazia. Ero ben lontano dal possedere quella forza spietata: passando di colpo all'estremo opposto, tornai verso di lei, o meglio mi precipitai senza riflettere. La presi tra le braccia. Le diedi mille teneri baci. Le chiesi perdono della mia ira. Ammisi che ero un bruto e che non meritavo la felicità di essere amato da una ragazza come lei. La feci sedere e, messomi a mia volta in ginocchio, la scongiurai di ascoltarmi stando in quella posizione.
E qui, tutto quello che un amante umile e appassionato può immaginare di più rispettoso e di più tenero, io lo racchiusi in poche parole nelle mie scuse. Le chiesi la grazia di dirmi che mi perdonava. Con le braccia mi cinse il collo dicendo che era lei ad aver bisogno della mia bontà per farmi dimenticare i dispiaceri che mi aveva dato; e cominciava a temere davvero che non avrei affatto apprezzato ciò che aveva da dirmi a sua giustificazione.
"Io?" interruppi subito. "Ah! io non vi chiedo nessuna giustificazione. Approvo tutto quello che avete fatto. Non sta a me esigere spiegazioni della vostra condotta. Troppo contento, troppo felice, se la mia cara Manon non mi priva della tenerezza del suo cuore! Ma", proseguii riflettendo sulla mia sorte, "o Manon onnipotente, voi che a vostro piacimento mi riempite di gioie e di dolori, dopo avervi placata con le mie umiliazioni e con le manifestazioni del mio pentimento, quando mi sarà concesso parlarvi della mia tristezza e delle mie pene? Potrò sapere che cosa ne sarà di me oggi e se firmerete senza remissione la mia morte passando la notte con il mio rivale?".
Rimase per un po' a riflettere sulla risposta.
"Cavaliere", mi disse assumendo di nuovo un'aria tranquilla, "se vi foste spiegato prima così chiaramente, avreste risparmiato a voi tutto quel turbamento e a me una scena molto spiacevole. Poiché la vostra pena nasce soltanto dalla vostra gelosia, io l'avrei guarita offrendo di seguirvi all'istante in capo al mondo. Ma mi sono immaginata che a causare il vostro dolore fosse stata la lettera che vi ho scritto sotto gli occhi del signor di G... M... e la ragazza che vi abbiamo mandato. Ho creduto che forse avevate interpretato la mia lettera come uno scherno e quella ragazza, immaginandovi che fosse venuta a trovarvi da parte mia, come la dichiarazione che avevo annunciato a voi per legarmi a G... M... E' stato questo pensiero a farmi piombare di colpo nella costernazione, perché per quanto innocente, pensandoci bene, trovavo che le apparenze non erano a mio favore. Tuttavia", seguitò, "voglio che mi giudichiate dopo che vi avrò spiegato come stanno davvero le cose".
Mi raccontò allora tutto quello che le era successo da quando aveva trovato G... M... che l'aspettava nella casa dove eravamo. L'aveva effettivamente accolta come la più grande principessa del mondo. Le aveva fatto vedere tutte le stanze, magnifiche per gusto e decoro. Le aveva dato diecimila lire in contanti nel suo salottino e aveva aggiunto qualche gioiello, tra cui la collana e i braccialetti di perle che già le aveva regalato suo padre. Poi l'aveva condotta in un salotto che non aveva ancora visto, dove l'aspettava una colazione squisita. L'aveva fatta servire dai nuovi domestici assunti per lei, con l'ordine di considerarla ormai come la loro padrona; infine le aveva fatto vedere la carrozza, i cavalli, e tutti gli altri suoi regali, dopo di che le aveva proposto una partita a carte in attesa della cena.
"Vi confesso", continuò, "che sono rimasta colpita da tanta magnificenza. Ho pensato che sarebbe stato peccato privarci di colpo di tanti beni, contentandomi di portar via diecimila franchi e i gioielli. Era una fortuna già fatta per voi e per me e avremmo potuto vivere piacevolmente a spese di G... M... Invece di proporgli il teatro, mi sono messa in testa di sondare la sua opinione su di voi, per rendermi conto di quali possibilità avremmo avuto di vederci, qualora avessi potuto mettere in pratica il mio sistema. Il suo carattere mi parve molto arrendevole. Mi ha chiesto che cosa pensavo di voi e se non avessi avuto qualche rimpianto nel lasciarvi. Gli ho detto che eravate pieno di premure e che vi eravate sempre comportato con me con tanta gentilezza che non era naturale che io potessi odiarvi. Ha ammesso che avevate dei meriti e che si era sentito spinto a desiderare la vostra amicizia. Ha voluto sapere come credevo che avreste preso la mia fuga, soprattutto quando foste venuto a sapere che ero tra le sue mani. Gli ho risposto che il nostro amore era di così vecchia data che aveva avuto il tempo di raffreddarsi un po'.
D'altro canto non eravate molto agiato e forse non avreste considerato la mia perdita come una gran disgrazia, perché vi avrebbe alleggerito di un impegno che vi doveva riuscire difficile da sostenere. Ho aggiunto che, convinta com'ero della moderazione delle vostre reazioni, vi avevo informato senza difficoltà della mia venuta a Parigi per sbrigare qualche commissione. Voi avevate accondisceso e anzi, essendo venuto con me, non mi eravate parso particolarmente preoccupato, quando vi avevo lasciato.
'Se credessi', mi ha detto G... M..., 'che fosse disposto a vivere in buoni rapporti come me, sarei il primo ad offrirgli i miei servigi e ad usargli cortesia'.
Gli ho assicurato che, per come vi conoscevo, ero sicura che avreste ben corrisposto alle sue gentilezze; soprattutto, gli ho chiesto se poteva aiutarvi negli affari che vanno molto male da quando avete rotto con la vostra famiglia.
Mi ha interrotta per assicurarmi che vi avrebbe reso tutti i servigi che dipendessero da lui. Se poi volevate imbarcarvi in un altro amore, vi avrebbe procurato una bella amica che aveva lasciato per legarsi a me.
Ho approvato la sua idea", soggiunse, "per fugare definitivamente ogni suo sospetto e, sempre più convinta del mio progetto, mi auguravo soltanto di poter trovare il modo di avvertirvi, per paura che vi allarmaste troppo non vedendomi all'appuntamento. Con questo scopo gli ho suggerito di mandarvi quella sera stessa la nuova amante, per avere un'occasione di scrivervi. Ero costretta a ricorrere a quell'astuzia, perché non potevo sperare che mi lasciasse libera un momento. Ha riso della mia proposta. Ha chiamato il suo domestico e, chiestogli se potesse rintracciare immediatamente la sua antica amante, l'ha mandato di qua e di là a cercarla. Pensava che lei dovesse venire a trovarvi a Chaillot, ma gli ho detto che quando ci eravamo separati, vi avevo promesso di raggiungervi alla Comédie, oppure se per una qualunque ragione non fossi potuta venire, voi mi avreste aspettato in una carrozza in fondo alla via Saint André. Era meglio perciò mandare lì la vostra nuova amante, se non altro per non lasciarvi tutta la notte a intirizzire. Gli ho pure detto che era opportuno scrivervi due righe per avvertirvi di questo scambio perché altrimenti non sareste riuscito a capire. Ha acconsentito, ma ho dovuto scrivere in sua presenza e mi sono ben guardata dallo spiegarmi troppo chiaramente nella lettera.
Ecco", soggiunse Manon, "come sono andate le cose. Non vi nascondo niente né della mia condotta, né dei miei piani. La ragazza è venuta, l'ho trovata carina e, certa com'ero che la mia assenza vi avrebbe addolorato, mi auguravo sinceramente che per qualche momento riuscisse a distrarvi, giacché la sola fedeltà che desidero da voi è quella del cuore. Sarei stata ben felice di potervi mandare Marcel, ma non sono riuscita a trovare un momento per dirgli ciò che volevo farvi sapere".
Concluse infine il suo racconto parlandomi dell'imbarazzo di G... M...
nel ricevere il biglietto del signor di T...
"Si è chiesto se doveva lasciarmi e mi ha assicurato che sarebbe tornato presto. E' per questo che sono preoccupata nel vedervi qui, e che il vostro arrivo mi ha sorpresa".
Ascoltai con molta pazienza quel discorso, che per me non mancava certamente di lati crudeli e mortificanti, giacché la sua intenzione di tradirmi era così chiara che non aveva nemmeno cercato di mascherarmela. Non poteva sperare che G... M... la lasciasse tutta la notte come una vestale: era quindi con lui che contava di passarla.
Che confessione per un amante! Riflettei tuttavia che in parte ero io la causa della sua colpa, perché prima le avevo parlato dei sentimenti di G... M... per lei e poi perché avevo avuto la debolezza di seguire ciecamente il piano temerario che mi aveva proposto. D'altra parte per una caratteristica particolare della mia natura, fui commosso dall'ingenuità del suo racconto e dal modo semplice e schietto con cui mi descriveva perfino le circostanze più offensive per me.
"Pecca senza malizia", dicevo in cuor mio. "E' leggera e imprudente, ma retta e sincera".
Aggiungete che l'amore bastava da solo a farmi chiudere gli occhi su tutte le sue colpe. Ero troppo soddisfatto dalla speranza di sottrarla quella sera stessa al mio rivale. Ciò nonostante le dissi:
"E la notte con chi contavate di passarla?".
La domanda che le rivolsi con tristezza la mise in imbarazzo. Non mi rispose che con dei ma e dei sì smozzicati. Il suo impaccio mi impietosì e, troncando quel discorso le dichiarai chiaro e tondo che mi aspettavo da lei che venisse via con me immediatamente.
"Se così volete", mi disse, "ma allora non approvate il mio progetto?".
"Ah!" ribattei, "non basta che approvi tutto quello che avete fatto finora?".
"Come? non porteremo via nemmeno i diecimila franchi? Me li ha regalati. Sono miei".
Le consigliai di lasciar perdere tutto e di non pensare ad altro che ad allontanarsi in fretta, poiché anche se ero con lei solo da una mezz'ora, temevo il ritorno di G... M... Ma lei mi pregò con tanta insistenza perché accettassi di non uscire a mani vuote, che mi credetti in dovere di accordarle qualcosa dopo aver ottenuto tanto da lei.
Mentre ci accingevamo ad andarcene, sentii bussare alla porta di strada. Ero sicurissimo che si trattasse di G... M... e, sconvolto da questo pensiero, dissi a Manon che se compariva era un uomo morto. In realtà la mia ira non era ancora sbollita e nel vederlo non mi sarei controllato. Marcel pose fine al mio affanno, portandomi un biglietto che gli avevano dato per me alla porta. Era del signor di T... il quale mi diceva che G... M... era andato a casa a prendergli il denaro e che approfittava della sua assenza per comunicarmi un pensiero molto ameno: gli sembrava che il modo più piacevole per vendicarmi del mio rivale fosse quello di mangiare la sua cena e di dormire quella stessa notte nel letto che sperava di occupare con la mia amante. La qual cosa gli sembrava abbastanza facile, se mi fossi potuto assicurare tre o quattro uomini tanto risoluti da fermarlo per strada e tanto fidati da sorvegliarlo a vista fino all'indomani. Quanto a lui, mi prometteva di distrarlo ancora per un'ora almeno con dei pretesti che teneva in serbo per il suo ritorno. Feci vedere quel biglietto a Manon e le raccontai il trucco di cui mi ero servito per introdurmi liberamente da lei. La mia trovata e quella del signor di T... le parvero magnifiche. Ne ridemmo a più non posso per qualche minuto, ma quando le parlai dell'ultimo progetto come di uno scherzo, con mia grande sorpresa lei insisté seriamente per propormelo come una cosa da farsi. Invano le chiesi dove voleva che trovassi così all'improvviso degli uomini che potessero fermare G...
M... e sorvegliarlo a vista. Mi rispose che bisognava almeno tentare, poiché il signor di T... ci garantiva ancora un'ora. Alle mie altre obiezioni rispose che facevo il tiranno e che non ero per nulla compiacente con lei.
Niente le pareva più bello di quel progetto.
"Avrete il suo posto a cena", mi ripeteva, "dormirete nelle sue lenzuola e, domani di buon mattino, gli rapirete amante e denaro.
Sarete ben vendicato del padre e del figlio".
Cedetti alle sue insistenze, malgrado il tumulto segreto del cuore che sembrava presagirmi una sciagurata catastrofe.
Uscii di casa con l'intenzione di chiedere a due o tre guardie del corpo che Lescaut mi aveva fatto conoscere, di incaricarsi del sequestro di G... M... Ne trovai uno solo in casa, ma era un uomo intraprendente che appena seppe di cosa si trattava, mi assicurò del buon esito dell'impresa. Mi chiese solamente dieci doppie per ricompensare tre soldati della Guardia, di cui si sarebbe servito mettendosi loro a capo. Lo pregai di non perdere tempo. In meno di un quarto d'ora li radunò. Io lo aspettavo a casa e quando fu di ritorno con i suoi compagni, lo accompagnai io stesso all'angolo di una strada da cui G... M... doveva per forza passare per tornare da Manon. Gli raccomandai di non maltrattarlo, ma di sorvegliarlo strettamente fino alle sette del mattino in modo che potessi essere sicuro che non sarebbe fuggito. Mi disse che si proponeva di portarlo in camera sua, di obbligarlo a spogliarsi e a mettersi nel suo letto; lui intanto avrebbe passato la notte a bere e a giocare coi suoi tre bravi. Restai con loro fino al momento in cui vidi comparire G... M... e allora mi allontanai di qualche passo verso un angolo buio per essere testimone di quella scena fuori del comune. La guardia del corpo lo affrontò pistola in pugno e gli spiegò con garbo che non voleva né la sua vita, né la sua borsa, ma che, se avesse opposto resistenza o se avesse lanciato il minimo grido, gli avrebbe fatto saltare le cervella.
Vedendolo spalleggiato da tre soldati, e intimorito probabilmente dalla pistola carica (sì: ma di stoppa!), G... M... non oppose resistenza. Lo vidi portar via come un agnello.
Tornai subito da Manon e, affinché i domestici non sospettassero di niente, le dissi entrando che non doveva aspettare il signor di G...
M... per cena. Era stato trattenuto fuori da affari imprevisti e mi aveva pregato di venire a presentarle le sue scuse e a cenare con lei, il che era per me un grandissimo favore, trattandosi di una così bella signora. Manon assecondò perfettamente il mio piano. Ci mettemmo a tavola, assumendo un'aria molto seria finché i domestici rimasero a servirci, ma dopo averli congedati passammo una delle serate più piacevoli della nostra vita. Diedi segretamente ordine a Marcel di cercare una carrozza e di fare in modo che si trovasse alla porta l'indomani mattina prima delle sei. Finsi di lasciare Manon verso mezzanotte, ma rientrato silenziosamente in casa con l'aiuto di Marcel, mi accinsi a occupare il letto di G... M... come avevo occupato il suo posto a tavola.
Nel frattempo il nostro cattivo genio lavorava alla nostra rovina.
Eravamo immersi nell'ebbrezza del piacere e avevamo una spada sospesa sul capo. Il filo che la reggeva stava per rompersi. Ma per capire meglio tutte le circostanze della nostra rovina, bisogna spiegarne la causa.
Quando era stato fermato dalla guardia del corpo, G... M... era seguito da un domestico. Atterrito dall'avventura del padrone, quel ragazzo tornò correndo sui suoi passi e la prima cosa che fece fu di avvertire il vecchio G... M... di quanto era successo. Una notizia così spiacevole doveva necessariamente allarmarlo. Si trattava del suo unico figlio ed egli era particolarmente volitivo per la sua età.
Volle sapere prima di tutto dal domestico ciò che suo figlio aveva fatto nel pomeriggio, se aveva avuto a che dire con qualcuno, se si era immischiato in qualche lite altrui, se si era recato in qualche casa sospetta. Questi, che credeva il padrone in estremo pericolo e che pensava di non dover risparmiare nulla per salvarlo, spiattellò tutto quello che sapeva del suo amore per Manon e delle spese sostenute per lei. Raccontò che aveva passato il pomeriggio in casa fin verso le nove, riferì la sua uscita e l'incidente sulla via del ritorno. Quanto bastò per far sospettare al vecchio che la disavventura di suo figlio fosse dovuta a una rivalità amorosa.
Sebbene fossero almeno le dieci e mezzo di sera, non esitò a recarsi subito dal luogotenente di polizia. Lo pregò di dare ordini speciali a tutte le pattuglie di ronda e, chiestane una per farsi accompagnare, corse di persona alla via dove suo figlio era stato fermato; ispezionò tutti i luoghi della città dove sperava di poterlo trovare, si fece infine condurre a casa della sua amante, dove supponeva che potesse essere tornato.
Stavo per andare a letto, quando arrivò. La porta della camera era chiusa e non sentii bussare a quella di strada. Entrò seguito dalle guardie e, dopo aver chiesto inutilmente che cosa ne fosse stato del figlio, gli venne voglia di vedere la sua amante per farsi dare qualche lume. Salì con l'intento di entrare nella stanza da letto, sempre accompagnato dalle due guardie. Noi ci accingevamo ad andare a letto. Aprì la porta. La sua vista ci gelò il sangue nelle vene.
"Mio Dio! E' il vecchio G... M...", dico a Manon, e balzo sulla mia spada. Sfortunatamente è impigliata nel cinturone. Le guardie, vedendo il mio gesto, si avvicinarono per strapparmela. Un uomo in camicia è senza resistenza. Mi levarono ogni mezzo di difesa.
Anche se turbato dallo spettacolo, G... M... non tardò a riconoscermi e ancora più facilmente ravvisò Manon.
"E' forse un'illusione?" ci disse con serietà, "o non vedo qui il cavaliere des Grieux e Manon Lescaut?".
Ero così furente di vergogna e di dolore che non gli risposi.
Per qualche momento parve rimuginare vari pensieri nella mente, poi, come se all'improvviso avessero fatto divampare la sua collera, esclamò rivolgendosi a me:
"Ah, sciagurato! Sono certo che hai ucciso mio figlio".
L'insulto mi punse sul vivo.
"Vecchio scellerato", gli risposi fieramente, "se avessi dovuto uccidere qualcuno della tua famiglia, avrei cominciato da te".
"Tenetelo forte", disse allora alle guardie, "deve dirmi che ne è di mio figlio; se non mi dice all'istante che cosa ne ha fatto, domani lo farò impiccare".
"Mi farai impiccare? Infame. I tuoi pari bisogna mandare alla forca.
Sappi che io sono di sangue più nobile e più puro del tuo. Sì", soggiunsi, "so che cos'è successo a tuo figlio, e, se mi esasperi ancor di più, lo farò strangolare prima di domani, e ti prometto la stessa sorte dopo di lui".
Fu imprudente confessargli che sapevo dove fosse il figlio, ma l'eccesso della collera mi fece commettere quell'errore. Chiamò immediatamente cinque o sei altre guardie che l'aspettavano alla porta e gli ordinò di arrestare tutti i domestici della casa.
"Ah, signor cavaliere!" riprese in tono beffardo, "sapete dov'è mio figlio e lo farete strangolare, dite voi? State tranquillo che non staremo con le mani in mano".
Mi resi subito conto dell'errore che avevo commesso. Si avvicinò a Manon che era seduta in lacrime sul letto e le fece qualche complimento sull'ascendente che aveva sul padre e sul figlio, e sul buon uso che ne sapeva fare. Quel vecchio mostro di incontinenza volle anche prendersi qualche libertà con lei.
"Guardati dal toccarla!" esclamai. "Nulla al mondo potrebbe salvarti dalle mie mani!" Uscì lasciando tre guardie nella camera, alle quali ordinò di farci rivestire alla svelta.
Non so quali fossero in quel momento le sue intenzioni nei nostri confronti. Forse avremmo ottenuto la libertà dicendogli dov'era il figlio. Mentre mi vestivo, meditavo se non fosse il miglior partito da prendere, ma, se questa era la sua disposizione d'animo quando era uscito dalla camera, quando vi tornò era ben cambiata. Era andato a interrogare i domestici di Manon che le guardie avevano arrestato. Non poté sapere niente da quelli che le aveva dato il figlio, ma quando seppe che Marcel era al nostro servizio già da prima, decise di farlo parlare spaventandolo con le minacce.
Marcel era un ragazzo fedele, ma semplice e rozzo. Il ricordo di quello che aveva fatto all'Hôpital per liberare Manon, unito al terrore che gli incuteva G... M..., fece tanta impressione sul suo animo sempliciotto, che immaginò che lo avrebbero condotto alla forca o sulla ruota. Promise di svelare tutto ciò di cui era venuto a conoscenza, se gli risparmiavano la vita. Con tutto ciò G... M... si convinse che nella nostra storia ci fosse qualcosa di più serio e di più criminale di quanto non avesse avuto motivo di sospettare fino a quel momento. Per la sua confessione, offrì a Marcel non soltanto la vita, ma anche delle ricompense.
Quello sventurato gli raccontò una parte del nostro piano, del quale non ci eravamo fatti scrupolo di parlare in sua presenza, dato che doveva entrarci per qualcosa. E' vero che ignorava completamente i cambiamenti che vi avevamo apportato a Parigi, ma, partendo da Chaillot, era stato messo al corrente dei nostri disegni e della parte che lui avrebbe dovuto sostenervi.
Dichiarò dunque che la nostra intenzione era di imbrogliare suo figlio, e che Manon doveva ricevere o aveva già ricevuto diecimila franchi, i quali, secondo il nostro progetto, non sarebbero mai ritornati nel patrimonio della famiglia di G... M...
Dopo tale scoperta, il vecchio furente risalì bruscamente in camera nostra. Passò senza dir parola nel salottino dove non gli fu difficile trovare il denaro e i gioielli. Tornò verso di noi col viso in fiamme e, additandoci ciò che gli piacque chiamare la nostra refurtiva, ci subissò di rimproveri oltraggiosi. Mise sotto gli occhi di Manon la collana di perle e il braccialetto:
"Li riconoscete?" disse con un sorriso ironico. "Non era la prima volta che li avevate visti. In fede mia, sono gli stessi. Erano di vostro gradimento, vero? Ne sono convinto. Poveri ragazzi!" soggiunse, "sono davvero carini tutti e due, ma sono un po' furfanti".
Il mio cuore scoppiava di rabbia a quelle parole insultanti. Per essere libero un momento avrei dato... mio Dio! Che cosa non avrei dato! Alla fine mi feci violenza per dirgli con una moderazione che era l'estrema raffinatezza della collera:
"Finiamola, signore, con questi motteggi insolenti; di che si tratta?
Che cosa intendete fare di noi?" "Si tratta, signor cavaliere, di andare diritti al Châtelet. E domani farà giorno: vedremo più chiaro nei nostri affari, e spero che alla fine mi farete la grazia di dirmi dov'è mio figlio".
Non ebbi bisogno di riflettere a lungo per capire che essere rinchiusi al Châtelet era una cosa estremamente grave. Ne previdi tremando tutti i pericoli. Malgrado tutta la mia fierezza, riconobbi che bisognava cedere sotto il peso del destino e blandire il mio nemico più crudele per ottenerne qualcosa con la sottomissione. Lo pregai cortesemente di ascoltarmi un momento.
"Mi giudico da solo, signore, confesso che la giovinezza mi ha fatto commettere gravi errori e voi ne siete stato troppo offeso perché non dobbiate lamentarvi. Ma se conoscete la forza dell'amore, se potete giudicare ciò che soffre un infelice giovane al quale si strappa tutto quello che ama, forse vi sembrerà perdonabile se ha cercato il piacere di una piccola vendetta o per lo meno mi crederete abbastanza punito dall'affronto che ora ho ricevuto. Non c'è bisogno di prigione, né di tortura, per costringermi a rivelarvi dov'è il vostro signor figlio.
E' al sicuro. Non avevo intenzione di fargli del male, né di offendere voi; sono pronto a indicarvi il luogo dove passa tranquillamente la notte, se mi fate la grazia di concedermi la libertà".
Quella vecchia tigre, lungi dall'essere commosso dalla mia preghiera, mi volse le spalle ridendo. Si lasciò soltanto sfuggire qualche parola per dirmi che conosceva il nostro piano da cima a fondo. Per quel che riguardava suo figlio, soggiunse brutalmente che si sarebbe ritrovato presto, dal momento che non l'avevo assassinato.
"Conducetelo al Petit Châtelet", disse alle guardie, "e state bene attenti che il cavaliere non vi scappi. E' un furbo che è già evaso da Saint-Lazare".
Uscì e mi lasciò in uno stato che vi lascio immaginare.
"Oh Cielo!" esclamai, "accetterò con sottomissione tutti i castighi che vengono da te, ma che uno sciagurato briccone abbia il potere di trattarmi con tale tirannia mi riduce alla più nera disperazione".
Le guardie ci pregarono di non farli aspettare più a lungo. Avevano una carrozza pronta alla porta. Tesi la mano a Manon per scendere.
"Venite, regina del mio cuore", le dissi, "venite e piegatevi alla crudeltà del vostro destino. Piacerà forse al Cielo renderci un giorno più felici".
Ce ne andammo nella stessa carrozza. Manon si rifugiò tra le mie braccia; da quando era arrivato G... M... non l'avevo sentita pronunciare parola, ma trovandosi sola con me, mi disse mille cose tenere rimproverandosi di essere la causa della mia sventura. Le assicurai che non mi sarei mai lamentato della mia sorte, finché lei mi avesse amato.
"Non sono io da compiangere", seguitai, "qualche mese di prigione non mi spaventa e preferirò sempre il Châtelet a Saint-Lazare. Ma per te si preoccupa il mio cuore: quale destino per una creatura così incantevole! Cielo! con quale rigore tratti la più perfetta delle tue opere! Perché non siamo nati entrambi con le qualità che si addicono alla nostra miseria? Abbiamo avuto in dono intelligenza, gusto, sensibilità. Ahimè! Che triste uso ne facciamo? Tante anime basse invece, ben meritevoli della nostra sorte, godono di tutti i favori della fortuna!".
Queste considerazioni mi trafiggevano di dolore, ma non erano niente in confronto a quelle che suscitava il pensiero dell'avvenire. Mi struggevo di paura per Manon. Era già stata all'Hôpital e, quand'anche ne fosse uscita dalla porta buona, sapevo che le ricadute in materia potevano avere conseguenze estremamente pericolose. Avrei voluto esprimerle le mie paure, ma temevo di causargliene troppe. Tremavo per lei senza osare avvertirla del pericolo e l'abbracciavo sospirando per assicurarla almeno del mio amore, che era quasi l'unico sentimento che osassi esprimere.
"Manon", le dissi, "parlate sinceramente. Mi amerete sempre?".
Mi rispose che i miei dubbi la rendevano davvero infelice.
"Ebbene, non ne dubito, e voglio sfidare tutti i vostri nemici con questa certezza. Ricorrerò alla mia famiglia per farmi uscire dal Châtelet e tutto il mio sangue sarà inutile se appena libero non vi tirerò fuori di lì".
Arrivammo alla prigione dove ci rinchiusero in luoghi separati. Questo colpo fu meno duro, perché l'avevo previsto. Raccomandai Manon al guardiano, dicendogli che ero una persona di un certo riguardo e promettendogli una cospicua ricompensa. Prima di lasciarla, baciai la mia povera amante. La scongiurai di non affliggersi troppo e di non temere niente finché ero vivo. Non mi mancava il denaro e gliene diedi una parte; con quello che mi restava pagai al guardiano anticipatamente un mese di lauta pensione per lei e per me. Il mio denaro fece un effetto eccellente: mi misero in una stanza decentemente ammobiliata e mi assicurarono che Manon ne aveva una simile.
Cercai subito il modo per affrettare la mia libertà. Era chiaro che nel mio caso non c'era niente di realmente criminoso e, anche supponendo che il piano del nostro furto fosse provato dalla deposizione di Marcel, sapevo benissimo che non si possono punire le semplici intenzioni. Decisi di scrivere senza indugio a mio padre, pregandolo di venire a Parigi di persona. Come ho già detto, mi vergognavo molto meno di essere al Châtelet che a Saint-Lazare.
D'altra parte, benché conservassi tutto il rispetto per l'autorità paterna, l'età e l'esperienza mi avevano reso molto meno timido. Così scrissi e non fecero difficoltà a lasciar uscire la mia lettera. Mi sarei potuto risparmiare quella fatica se avessi saputo che mio padre doveva arrivare a Parigi l'indomani.
Egli aveva ricevuto la lettera che gli avevo scritto otto giorni prima; se ne era rallegrato moltissimo, ma nonostante le speranze di conversione che avevo fatto nascere in lui, aveva creduto di non doversi limitare alle mie promesse. Aveva perciò deciso di venire a constatare con i suoi occhi il mio cambiamento e di regolarsi in base alla sincerità del mio pentimento. Arrivò il giorno dopo il mio arresto. Fece prima di tutto una visita a Tiberge al quale lo avevo pregato di indirizzare la sua risposta. Da lui non poté sapere né dove abitassi, né che cosa facessi. Seppe soltanto le mie avventure più salienti da quando ero fuggito da Saint-Lazare. Tiberge gli parlò con molto favore delle buone disposizioni che avevo dimostrato quando c'eravamo incontrati per l'ultima volta. Aggiunse che mi credeva completamente liberato da Manon, ma che lo stupiva non aver avuto mie notizie da otto giorni. Mio padre non era un ingenuo. Capì che nel silenzio di cui si lamentava c'era qualcosa che sfuggiva alla penetrazione di Tiberge e tanto fece per ritrovare le mie tracce, che due giorni dopo il suo arrivo venne a sapere che ero al Châtelet.
Prima della sua visita che ero ben lungi dall'aspettarmi, ricevetti quella del luogotenente di polizia o, per chiamare le cose col loro nome, subii un interrogatorio. Mi fece qualche rimprovero, ma senza asprezza, né scortesia. Con dolcezza mi disse che deplorava la mia cattiva condotta; non ero stato molto avveduto nel farmi un nemico come il signor di G... M...; in verità saltava agli occhi che nel mio caso c'era stata più imprudenza e leggerezza che malizia, nondimeno era la seconda volta che comparivo davanti al suo tribunale, mentre aveva sperato che due o tre mesi di lezione a Saint-Lazare mi avrebbero fatto rinsavire. Lieto di avere a che fare con un giudice ragionevole, gli parlai in modo così rispettoso e moderato che sembrò soddisfattissimo delle mie risposte. Mi disse che non dovevo lasciarmi troppo abbattere dal dolore e che era pronto ad aiutarmi, in nome della mia nascita e della mia giovinezza. Mi arrischiai a raccomandargli Manon e a fargli l'elogio della sua dolcezza, della sua indole. Mi rispose ridendo che non l'aveva ancora vista, ma che veniva descritta come una persona pericolosa. Questa parola eccitò talmente la mia tenerezza che gli dissi mille cose appassionate in difesa della mia povera amante e non potei fare a meno di versare qualche lacrima.
Ordinò che mi riconducessero nella mia stanza.
"Amore, amore!" esclamò quel serio magistrato vedendomi uscire, "non ti riconcilierai dunque mai con la saggezza?".
Stavo rimuginando tristi pensieri e riflettendo sulla conversazione che avevo avuto con il luogotenente di polizia, quando sentii aprire la porta della mia camera: era mio padre. Sebbene dovessi essere in parte preparato alla sua vista, dato che me l'aspettavo qualche giorno dopo, pure ne fui talmente scosso che se la terra mi si fosse aperta sotto i piedi, sarei sprofondato. Lo andai ad abbracciare con tutti i segni di una grande confusione. Si sedette senza che né lui, né io, avessimo aperto bocca.
Poiché rimanevo in piedi con gli occhi bassi e a capo scoperto:
"Sedetevi, signore", mi disse gravemente, "sedetevi. Grazie allo scandalo del vostro libertinaggio e delle vostre bricconerie, ho scoperto la vostra dimora. E' il vantaggio di un merito come il vostro quello di non poter rimanere nascosto. Vi siete avviato verso la fama per una via infallibile. Spero che la Grève ne sia ben presto la meta; avrete così la gloria di essere esposto all'ammirazione di tutti".
Non risposi. Ed egli proseguì: "E' ben sventurato quel padre che, dopo aver amato teneramente un figlio e non aver tralasciato nulla per farne un galantuomo, si ritrova alla fine con un furfante che lo disonora! Ci si consola di un rovescio della fortuna: il tempo lo cancella e il dolore si attenua. Ma dov'è il rimedio contro un male che cresce ogni giorno di più, come i disordini di un figlio degenere che ha perso ogni senso dell'onore! Tu non dici niente, disgraziato!" soggiunse. "Guardate quella finta umiltà, quell'aria di dolcezza ipocrita: chi non lo prenderebbe per l'uomo più onesto della sua stirpe?" Anche se costretto ad ammettere che meritavo una parte di quegli aspri rimbrotti, mi sembrarono tuttavia eccessivi. Pensai che mi fosse lecito spiegare sinceramente i miei pensieri. "Vi assicuro, signore, che l'umiltà con cui sto in vostra presenza non è affatto simulata; è il comportamento naturale di un figlio bennato che rispetta infinitamente suo padre, e soprattutto un padre in collera. Non pretendo di passare per l'uomo più morigerato della nostra stirpe; so di essere degno dei vostri rimproveri; ma vi scongiuro di mitigarli con un po' più di bontà e di non trattarmi come il più infame degli uomini. Non merito titoli così duri. E' stato l'amore, voi lo sapete, la causa di tutti i miei errori. Fatale passione! Ahimè! non ne conoscete voi la forza e può essere che il vostro sangue, che è la sorgente del mio, non abbia mai provato gli stessi ardori? L'amore mi ha reso troppo tenero, troppo appassionato, troppo fedele, e forse troppo condiscendente con i desideri di un'amante così incantevole:
ecco i miei delitti. Ne vedete forse uno che vi disonori? Vi prego, mio caro padre", soggiunsi teneramente, "un po' di pietà per un figlio che è sempre stato pieno di rispetto e d'affetto per voi, che non ha rinunciato, come voi pensate, all'onore e al dovere, e che è da compiangere mille volte più di quanto non possiate immaginare".
Piansi nel pronunciare queste parole.
Il cuore di un padre è il capolavoro della natura; essa vi regna, per così dire, con compiacenza, regolandone ogni meccanismo. Mio padre, che era anche un uomo intelligente e sensibile, fu commosso dal modo in cui avevo presentato le mie scuse e non fu padrone di nascondermi le sue mutate disposizioni d'animo.
"Vieni, mio povero cavaliere", mi disse, "vieni ad abbracciarmi. Mi fai pietà".
Lo abbracciai. Da come mi strinse mi resi conto di quello che avveniva nel suo cuore.
"Ma che faremo", riprese, "per tirarti fuori di qui? Spiegami, senza nascondermi niente, tutto quello che ti riguarda".
Siccome, dopotutto, nell'insieme della mia condotta non c'era niente che mi potesse disonorare senza rimedio, per lo meno confrontandola a quella dei giovani di una certa classe sociale, e mantenere un'amante nel nostro secolo non è ritenuta un'infamia, come non lo è quel po' di destrezza con cui ci si attira la fortuna al gioco, raccontai con tutta sincerità a mio padre i minimi particolari della vita che avevo condotto. A ogni colpa che confessavo avevo cura di aggiungere esempi celebri per minimizzare la vergogna.
"Vivo con un'amante", gli dicevo, "senza essere vincolato dai legami del matrimonio; il duca di... ne mantiene due agli occhi di tutta Parigi, il signor di F... ne ha una da dieci anni che ama con una fedeltà che non ha mai avuto per sua moglie. I due terzi delle persone in vista nel nostro paese si fanno un vanto di averne una. Qualche volta ho barato al gioco: il marchese di... e il conte di... non hanno altre fonti di guadagno; il principe di... e il duca di... sono i capi di una banda di cavalieri d'industria".
Quanto alle mie mire sulla borsa dei due G... M..., avrei potuto dimostrare altrettanto facilmente che non mi mancavano i modelli, ma mi restava ancora troppo senso dell'onore per non condannare me stesso insieme a tutti quelli che mi sarei potuto citare ad esempio; perciò pregai mio padre di perdonare questa debolezza alle due violente passioni che mi avevano sconvolto: la vendetta e l'amore. Mi domandò se gli potevo suggerire qualche mezzo rapido per ottenere la mia libertà, soprattutto in modo da poter evitare lo scandalo. Gli parlai della benevolenza che il luogotenente di polizia mi aveva dimostrato.
"Se troverete qualche difficoltà", gli dissi, "non potranno venire che da parte dei G... M...; perciò credo che sarebbe opportuno cercar di vederli".
Me lo promise. Non osai pregarlo di intercedere anche per Manon. Non fu mancanza di coraggio, ma il timore di suscitare il suo sdegno con la mia proposta, e di suggerirgli qualche idea funesta per Manon e per me. Mi sto ancora chiedendo se quel timore non sia stato la causa delle mie più grandi disgrazie, impedendomi di saggiare le intenzioni di mio padre e di fare ogni sforzo per ispirargli benevolenza nei confronti della mia infelice amica. Forse avrei suscitato ancora una volta la sua pietà. Lo avrei messo in guardia contro le impressioni che facilmente avrebbero prodotto su di lui le parole del vecchio G...
M... Come faccio a saperlo? Forse il mio avverso destino avrebbe reso vani tutti i miei sforzi, ma almeno della mia sventura non avrei oggi da accusare che quella e la crudeltà dei miei nemici.
Quando mi ebbe lasciato, mio padre andò a trovare il signor di G...
M... Lo trovò con il figlio, al quale la guardia del corpo aveva restituito la libertà promessa. Non ho mai saputo i particolari della loro conversazione, ma dai suoi tremendi effetti mi è stato fin troppo facile intuirli. Andarono insieme, intendo dire i due padri, dal luogotenente di polizia, al quale chiesero due grazie: la prima, di farmi uscire immediatamente dal Châtelet; l'altra, di tenere Manon in carcere per il resto dei suoi giorni, oppure di mandarla in America.
Proprio in quel tempo si cominciava a imbarcare una quantità di gentaglia per deportarla nella regione del Mississippi. Il luogotenente generale promise di far partire Manon col primo bastimento. Il signor di G... M... e mio padre vennero subito a portarmi insieme la notizia della mia libertà. Il signor di G... M...
ebbe qualche espressione diplomatica sui fatti trascorsi e, dopo essersi rallegrato con me per la fortuna di avere un padre simile, mi esortò a profittare per l'avvenire dei suoi insegnamenti e dei suoi esempi. Mio padre mi ingiunse di presentargli le sue scuse per la pretesa offesa fatta alla sua famiglia e di ringraziarlo per essersi adoperato insieme a lui per la mia libertà. Uscimmo insieme senza far menzione della mia amante. In loro presenza non osai nemmeno parlare di lei ai carcerieri.
Ahimè! Le mie tristi raccomandazioni sarebbero state del tutto inutili! L'ordine crudele era arrivato insieme a quello della mia liberazione. Un'ora dopo la sventurata ragazza fu trasferita all'Hôpital e messa insieme ad altre sciagurate condannate a subire la stessa sorte.
Mio padre mi aveva costretto a seguirlo nella casa dove aveva preso alloggio ed erano quasi le sei di sera quando trovai il momento buono per sottrarmi ai suoi occhi e tornare al Châtelet. Avevo soltanto l'intenzione di far ottenere a Manon qualche ristoro e di raccomandarla al custode, dato che non speravo mi fosse concesso di vederla. Fino a quel momento non avevo neanche avuto il tempo di riflettere sul modo di liberarla.
Chiesi di parlare al guardiano. Era stato soddisfatto della mia generosità e della mia gentilezza e i suoi sentimenti per me erano pieni di benevolenza. Mi parlò perciò della sorte di Manon come di una disgrazia di cui si rammaricava molto, per il dolore che poteva recarmi. Io non capii che cosa volesse dire e per qualche momento parlammo senza intenderci. Alla fine, accorgendosi che mi occorreva una spiegazione, mi riferì quello che vi ho già detto con orrore, lo stesso orrore che provo a ripetervela.
Non credo che nemmeno un'apoplessia violenta possa produrre un effetto più subitaneo e terribile. Caddi con una palpitazione di cuore così dolorosa che, nel momento in cui persi i sensi, mi credetti liberato dalla vita per sempre. Quando mi riebbi, mi era rimasto ancora qualcosa di quell'impressione. Volsi i miei sguardi su tutta la stanza e su di me, per convincermi che sventuratamente ero ancora un uomo vivo. Certo è che se mi fossi abbandonato all'istinto naturale che spinge l'uomo a liberarsi dal dolore, niente mi sarebbe sembrato più dolce della morte in quel momento di disperazione e di costernazione.
La stessa religione non poteva farmi prospettare niente di più insopportabile dopo la vita dei crudeli tormenti che mi straziavano.
Ciò nonostante, per un miracolo proprio dell'amore, recuperai ben presto quanto bastava di forze per ringraziare il Cielo di avermi fatto ritrovare i sensi e la ragione. La mia morte non sarebbe stata utile che a me; Manon aveva bisogno della mia vita per essere liberata, soccorsa, vendicata; giurai che a questa causa avrei dato tutto me stesso.
Il guardiano mi prestò tutta l'assistenza che mi sarei potuto aspettare dal mio migliore amico. Accolsi le sue premure con viva riconoscenza.
"Ahimè!" gli dissi, "i miei affanni dunque vi commuovono? Tutti mi abbandonano. Mio padre stesso è, non c'è dubbio, uno dei miei più crudeli persecutori, nessuno ha pietà di me. Voi solo, in questo ricettacolo di crudeltà e di barbarie, manifestate compassione per il più infelice di tutti gli uomini".
Mi consigliò di non farmi vedere per strada prima di essermi un po' ripreso dal mio turbamento.
"Non importa, non importa!" gli dissi uscendo. "Vi rivedrò prima di quanto pensiate. Preparatemi la più buia delle vostre celle; farò di tutto per meritarla".
In effetti le mie prime intenzioni arrivavano nientemeno che a disfarmi dei due G... M... e del luogotenente di polizia, per poi irrompere a mano armata all'Hôpital con tutti quelli che avrei potuto reclutare a sostegno della mia impresa. Perfino mio padre sarebbe stato a stento rispettato in una vendetta che mi sembrava così giusta; dato che il guardiano non m'aveva nascosto che lui e G... M... erano gli autori della mia rovina.
Ma quando ebbi fatto pochi passi per strada e l'aria mi ebbe un po' rinfrescato il sangue e gli umori, il mio furore lasciò il posto a sentimenti più ragionevoli. La morte dei nostri nemici sarebbe stata scarsamente utile a Manon, e sicuramente avrei rischiato di vedermi togliere ogni mezzo per aiutarla. E per di più avrei fatto ricorso a un vile assassinio! Che altra via si apriva alla mia vendetta?
Raccolsi tutte le forze e tutto il coraggio per dedicarmi in primo luogo alla liberazione di Manon; tutto il resto lo avrei fatto dopo che l'impresa fosse andata in porto. Mi restava poco denaro, eppure era la condizione necessaria per poter cominciare. Solo da tre persone avrei potuto aspettarne: il signor di T..., mio padre e Tiberge. Non c'erano molte probabilità di ottenere qualcosa dagli ultimi due, e mi vergognavo di stancare il primo con le mie richieste importune. Ma, in circostanze così disperate, non si guarda per il sottile.
Andai immediatamente al seminario di Saint-Sulpice, senza preoccuparmi d'essere riconosciuto. Feci chiamare Tiberge. Le sue prime parole mi fecero capire che non sapeva ancora niente delle mie ultime disavventure. Il che mi fece abbandonare la mia prima idea di intenerirlo con la compassione. Gli parlai genericamente del piacere che avevo provato nel rivedere mio padre e poi lo pregai di prestarmi un po' di denaro, col pretesto di pagare prima della mia partenza da Parigi alcuni debiti dei quali preferivo non si sapesse niente. Mi offrì subito la sua borsa e io presi cinquecento franchi dei seicento che ci trovai. Gli offrii una cambiale, ma era troppo generoso per accettare.
Da lì andai a casa del signor di T... e con lui non ebbi ritegno. Gli raccontai tutte le mie disgrazie e i miei affanni. Egli li conosceva già nei minimi particolari, essendosi preso la briga di seguire l'avventura del giovane G... M... Tuttavia mi ascoltò e mi compianse molto. Quando gli chiesi consiglio sul modo di liberare Manon, mi rispose tristemente che non intravedeva nessuna possibilità e che, a meno di un aiuto straordinario del Cielo, bisognava rinunciare alla speranza. Era passato apposta dall'Hôpital dopo che vi era stata rinchiusa e neppure lui aveva ottenuto il permesso di vederla. Gli ordini del luogotenente erano estremamente severi e, per colmo di sventura, il disgraziato gruppo al quale doveva unirsi era destinato a partire di lì a due giorni.
Alle sue parole fu tale la mia costernazione che avrebbe potuto parlare per un'ora senza che io pensassi a interromperlo. Continuò a dirmi che non era venuto al Châtelet perché gli fosse più facile aiutarmi facendo credere che non aveva nessun rapporto con me. Dal momento che ne ero uscito si era molto rammaricato di non sapere dove mi fossi rifugiato, e aveva desiderato vedermi quanto prima per darmi il solo consiglio che forse poteva farmi sperare un cambiamento nella sorte di Manon; ma era un consiglio pericoloso e mi pregava di non rivelare mai che ne era stato l'ispiratore.
Si trattava di scegliere alcuni bravi che avessero il coraggio di attaccare le guardie di Manon, quando fossero uscite da Parigi con lei. Non aspettò che gli parlassi delle mie ristrettezze:
"Ecco cento pistole", mi disse porgendomi una borsa, "che potranno servirvi. Me le renderete quando la fortuna avrà riassestato i vostri affari".
Aggiunse che se la cautela che doveva alla sua reputazione gli avesse permesso di partecipare personalmente alla liberazione della mia amante, mi avrebbe offerto il suo braccio e la sua spada.
Quell'immensa generosità mi commosse fino alle lacrime. Gli manifestai la mia riconoscenza con tutto il calore che la mia afflizione mi consentiva. Gli domandai se non c'era niente da sperare intercedendo presso il luogotenente di polizia. Mi disse che ci aveva pensato anche lui, ma che, a suo parere, c'erano poche probabilità, perché una grazia di quel genere non poteva essere chiesta senza motivo, e non vedeva bene quale motivo si potesse invocare per ottenere l'intercessione di una persona importante e autorevole; da quel lato c'era solo l'esile speranza di far cambiar parere al signor di G...
M... e a mio padre, convincendoli a pregare essi stessi il luogotenente di polizia di revocare la sentenza. Mi offrì di fare ogni sforzo per guadagnare il giovane G... M... alla mia causa, sebbene gli sembrasse più freddo con lui, per qualche sospetto che gli era nato sul suo conto a proposito di quella nostra storia; mi esortò a non tralasciare niente da parte mia per smuovere l'animo di mio padre.
Non era per me impresa di poco conto; non soltanto, intendo, per la naturale difficoltà che avrei trovato a convincerlo, ma per un'altra ragione che mi faceva perfino temere di avvicinarlo: me l'ero svignata da casa sua contro i suoi ordini, ed ero fermamente deciso a non tornarci da quando avevo saputo della triste sorte di Manon. A giusto titolo avevo paura che mi trattenesse con la forza e mi riportasse in provincia. Il mio fratello maggiore era già ricorso a questo metodo.
E' vero che ero più adulto, ma l'età è una debole ragione contro la forza. Trovai ad ogni modo una via che mi salvaguardava dal pericolo:
farlo chiamare in un luogo pubblico e annunciarmi a lui sotto un altro nome.
Mi decisi subito in questo senso. Il signor di T... andò da G... M... e io al Luxembourg, da dove mandai ad avvertire mio padre che un gentiluomo a lui devoto lo stava aspettando. Temevo che facesse qualche difficoltà a venire, perché cominciava a essere buio. Invece comparve poco dopo, seguito dal suo domestico. Lo pregai di incamminarsi per un vialetto, dove potessimo essere soli. Facemmo almeno cento passi senza parlare. Doveva ben immaginarsi che tutti quei preamboli nascondevano un progetto importante. Aspettava la mia arringa e io la stavo meditando. Alla fine mi decisi a parlare:
"Signore", gli dissi tremando, "voi siete un buon padre. Mi avete colmato di favori e mi avete perdonato un numero infinito di colpe. Il Cielo mi è testimone che ho per voi tutti i sentimenti del figlio più tenero e più rispettoso. Ma mi sembra che... la vostra severità...".
"Ebbene, la mia severità..." interruppe mio padre che certo trovava il mio discorso troppo lento per la sua impazienza.
"Ah, signore!" ripresi, "mi pare che la vostra severità sia stata eccessiva nel trattamento che avete inflitto all'infelice Manon. Voi vi siete fidato del signor di G... M... Il suo odio ve l'ha dipinta sotto le più fosche tinte. Vi siete fatto di lei un'idea orribile e invece è la più dolce e la più amabile creatura che sia mai esistita.
Fosse piaciuto al Cielo ispirarvi il desiderio di vederla per un istante! Sono sicuro che è incantevole, come sono sicuro che vi sarebbe parsa tale. Avreste preso le sue difese. Avreste avuto orrore dei biechi inganni di G... M... Avreste avuto compassione di lei e di me. Ahimè! Ne sono sicuro. Il vostro cuore non è insensibile, vi sareste lasciato intenerire".
Mi interruppe di nuovo, vedendo che parlavo con una tale foga che non mi sarei fermato tanto presto. Voleva sapere a che cosa mirassi con le mie parole così appassionate.
"Manon parte per sempre per l'America".
"No, no", mi disse in tono severo, "preferisco vederti senza vita piuttosto che senza giudizio e senza onore".
"Basta così", esclamai afferrandolo per un braccio, "toglietemela questa vita odiosa e insopportabile, perché nella disperazione in cui mi gettate, la morte sarà un favore per me. E' un dono degno della mano di un padre".
"Ti darei soltanto quello che meriti. Conosco molti padri che non avrebbero aspettato tanto per essere loro stessi i tuoi carnefici; ma la mia eccessiva bontà ti ha rovinato".
Mi buttai alle sue ginocchia, abbracciandole:
"Ah, se ve ne resta ancora, non siate insensibile alle mie lacrime.
Pensate che sono vostro figlio... Ahimè! Ricordatevi di mia madre.
L'amavate tanto! Avreste sopportato che qualcuno ve la strappasse dalle braccia? L'avreste difesa fino alla morte. Gli altri non hanno un cuore come voi? Come si può essere crudeli quando per una volta si è provato che cos'è la tenerezza e il dolore?".
"Non parlarmi più di tua madre", riprese con voce irritata, "questo ricordo riaccende la mia indignazione. I tuoi disordini la farebbero morire di dolore, se avesse vissuto abbastanza per vederli. Finiamola con questo colloquio", soggiunse, "mi infastidisce e non mi farà cambiar parere. Ti ordino di seguirmi".
Il tono secco e duro col quale mi intimò quest'ordine, mi fece capire fin troppo che il suo cuore era inflessibile. Mi allontanai di qualche passo, nel timore che gli venisse voglia di trattenermi con le sue proprie mani.
"Non accrescete la mia disperazione", gli dissi, "obbligandomi a disubbidirvi. Seguirvi è impossibile e non lo è di meno vivere dopo la durezza con cui mi trattate. Perciò addio in eterno. La mia morte, di cui avrete presto notizia", soggiunsi tristemente, "vi farà forse ritrovare per me sentimenti di padre".
E mentre mi voltavo per lasciarlo:
"Rifiuti dunque di seguirmi?" esclamò incollerito. "Va, corri alla tua perdita. Addio, figlio ingrato e ribelle".
"Addio", gli dissi nel mio furore, "addio, padre crudele e snaturato".
Uscii subito dal Luxembourg. Camminai per le strade come un pazzo fino alla casa del signor di T... E mentre camminavo alzavo gli occhi e le mani per invocare tutte le potenze celesti.
"Cielo!" dicevo, "saresti tu spietato come gli uomini? Solo da te posso aspettarmi un aiuto".
Il signor di T... non era ancora rincasato, ma lo aspettai solo pochi minuti. Le sue trattative non erano andate meglio delle mie. Me lo disse con aria abbattuta.
Il giovane G... M... anche se meno irritato di suo padre contro Manon e contro di me, non aveva voluto impegnarsi a intervenire in nostro favore. Rifiutava perché anche lui aveva paura di quel vecchio vendicativo, che si era già molto sdegnato con lui, rimproverandogli l'intenzione di avere rapporti con Manon.
Non mi restava più che il ricorso alla violenza, secondo i piani del signor di T... Tutte le mie speranze si ridussero a questo.
"Speranze molto incerte", gli dissi, "ma la più solida e la più consolante per me è di morire almeno nell'impresa".
Lo lasciai, pregandolo di sostenermi con i suoi voti, e non pensai ad altro che a procurarmi dei compagni ai quali potessi trasmettere una scintilla del mio coraggio e della mia risolutezza.
Il primo che mi venne in mente fu la stessa guardia del corpo di cui mi ero servito per sequestrare G... M... Avevo pure in mente di andare a passare la notte nella sua stanza, avendo avuto quel pomeriggio ben altri pensieri che quello di cercarmi un alloggio. Lo trovai solo e fu lieto di vedermi fuori dal Châtelet. Mi offrì affettuosamente i suoi servigi; gli spiegai che cosa poteva fare per me. Non gli mancava il buon senso per non rendersi conto di tutte le difficoltà, ma fu abbastanza generoso per tentare di sormontarle. Spendemmo una parte della notte a discutere del mio piano. Mi parlò dei tre soldati della guardia di cui si era servito l'ultima volta, come di tre coraggiosi pronti a ogni rischio; il signor di T... mi aveva informato del numero esatto delle guardie che dovevano scortare Manon: erano soltanto sei.
Cinque uomini arditi e risoluti dovevano bastare per spaventare quei miserabili, gente incapace di battersi con onore quando possono evitare il pericolo con un atto di viltà. Visto che non ero a corto di denaro, la guardia del corpo mi consigliò di non risparmiare nulla per il successo del nostro attacco.
"Ci occorrono dei cavalli", mi disse, "pistole, e un moschetto per ognuno di noi. Domani mi incaricherò io di questi preparativi. Ci vorranno anche tre abiti civili per i nostri soldati che non oserebbero comparire in un affare di questa natura con l'uniforme del reggimento".
Gli consegnai le cento pistole che avevo avuto dal signor di T... e l'indomani furono spese fino all'ultimo centesimo. I tre soldati passarono in rivista davanti a me. Li incoraggiai con grandi promesse e, per togliere loro diffidenza, regalai a ognuno di loro dieci doppie.
Venuto il giorno di passare all'azione ne mandai uno di buon mattino all'Hôpital per controllare con i propri occhi in che momento le guardie sarebbero partite con la loro preda. Sebbene avessi preso quella precauzione per un eccesso di inquietudine e di previdenza, si diede il caso che si rivelasse assolutamente necessaria. Io avevo fatto affidamento su alcune false informazioni che mi avevano dato sul loro itinerario e, persuaso che quello sciagurato convoglio dovesse essere imbarcato alla Rochelle, avrei aspettato invano sulla via di Orléans. Invece, dal rapporto del soldato della guardia seppi che prendeva la strada della Normandia, e che doveva partire per l'America da Le Havre-de-Grâce.
Ci recammo immediatamente alla porta Saint-Honoré, con l'avvertenza di camminare per vie diverse. Ci riunimmo presso le ultime case del sobborgo; i nostri cavalli erano freschi. Non tardammo a scoprire le sei guardie e le due miserande carrette che vedeste a Pacy, circa due anni fa.
Per poco quello spettacolo non mi tolse i sensi e le forze.
"O sorte", esclamai, "o sorte crudele, concedimi almeno qui la morte o la vittoria!".
Tenemmo consiglio un momento sul modo in cui avremmo attaccato. Le guardie erano a non più di quattrocento passi davanti a noi e potevamo tagliar loro la strada passando attraverso un campicello, intorno al quale girava la via maestra. La guardia del corpo fu del parere di adottare quella soluzione per prenderli di sorpresa piombando all'improvviso su di loro. Io approvai la sua idea e fui il primo a spronare il cavallo, ma la sorte aveva respinto inesorabilmente le mie preghiere.
Le guardie, vedendo cinque cavalieri correre verso di loro, non ebbero nessun dubbio che si trattasse di un attacco. Si misero in posizione di difesa, preparando le baionette e i fucili con aria molto risoluta.
Quella vista che animò ancor di più la guardia del corpo e me stesso, tolse invece di colpo ogni coraggio ai nostri tre vili compagni. Si fermarono come per intesa e, dopo essersi detti fra loro qualche parola che non sentii, voltarono i cavalli e a briglia sciolta ripresero il cammino di Parigi.
"Dio!" mi disse la guardia del corpo che sembrava sconvolta come me da quella infame diserzione, "che faremo adesso? Siamo rimasti in due".
Io avevo perso la voce per la rabbia e lo stupore. Mi fermai, incerto se la mia prima vendetta non dovesse rivolgersi all'inseguimento e al castigo di quei vili che mi abbandonavano. Li guardavo fuggire, poi lanciavo lo sguardo dalla parte opposta sulle guardie; se fosse stato possibile dividermi in due, mi sarei scagliato nello stesso momento sui due oggetti del mio furore. Li divoravo insieme. La guardia del corpo che dal movimento smarrito dei miei occhi, intuiva la mia incertezza, mi pregò di dar ascolto al suo consiglio.
"In due soltanto", mi disse, "sarebbe una follia attaccare sei uomini armati come noi e che hanno l'aria di aspettarci a pié fermo. Bisogna tornare a Parigi e cercar di scegliere meglio i nostri bravi. Le guardie non potranno fare grandi tappe con due pesanti carrette, le raggiungeremo domani senza fatica".
Riflettei un istante su quell'idea, ma poiché vedevo da ogni parte solo motivi di disperazione, presi una decisione veramente disperata:
ringraziare il mio compagno dei suoi servigi e invece di attaccare le guardie, andare umilmente a pregarle di accogliermi nel loro gruppo per accompagnare Manon fino a Le Havre-de-Grâce e poi passare con lei di là dal mare.
"Tutti mi perseguitano o mi tradiscono", dissi alla guardia del corpo, "non posso più fare assegnamento su nessuno. Non mi aspetto più niente dal destino, né dal soccorso degli uomini. Le mie sventure sono al colmo, non mi resta più che rassegnarmi. Chiudo così gli occhi a ogni speranza. Che il Cielo possa ricompensare la vostra generosità. Addio, voglio assecondare la mia cattiva sorte a compiere la mia rovina, gettandomi volontariamente fra le sue braccia".
Inutilmente si sforzò di indurmi a tornare a Parigi.
Lo pregai di lasciarmi seguire la mia risoluzione e di andarsene subito, affinché le guardie non continuassero a credere che intendevamo attaccarli.
Andai da solo verso di loro, con passo così lento e con espressione così desolata che il mio avvicinarsi non dovette sembrargli per nulla temibile. E tuttavia continuavano a stare in guardia.
"Rassicuratevi signori", dissi accostandoli, "non vi porto la guerra, vengo a chiedervi una grazia".
Li pregai di continuare la loro strada senza diffidenza e cammin facendo dissi quali favori mi aspettavo da loro. Si consultarono insieme sul modo in cui dovevano accogliere quella mia proposta. Il capo della banda prese la parola per gli altri. Mi rispose che gli ordini ricevuti per la vigilanza delle prigioniere erano estremamente rigorosi, ma che, tuttavia, poiché sembravo un uomo così per bene, li avrebbero osservati in maniera un po' più blanda. Io però dovevo ben capire che mi sarebbe costato qualcosa. Mi rimanevano circa quindici doppie e dissi sinceramente a quanto ammontavano le mie sostanze.
"Ebbene", disse la guardia, "ci comporteremo generosamente. Vi costerà soltanto uno scudo all'ora intrattenervi con quella delle nostre ragazze che vi piacerà di più: è il prezzo corrente a Parigi".
Io non avevo parlato di Manon in particolare, perché non intendevo che venissero a sapere della mia passione. Dapprima immaginarono che fosse un capriccio da ragazzo che mi spingeva a cercare un po' di passatempo con quelle creature, ma, quando credettero di capire che ero innamorato, aumentarono talmente la tariffa, che la mia borsa si trovava esaurita alla partenza da Nantes dove avevamo dormito la notte prima del giorno che arrivammo a Pacy.
Starò a dirvi quale fu il triste argomento delle mie conversazioni con Manon durante il viaggio o quale impressione mi fece la sua vista quando ebbi ottenuto dalle guardie la libertà di avvicinarmi alla sua carretta? Ah, le parole non rendono mai del tutto ciò che sente il cuore, ma immaginatevi la mia povera amica incatenata a mezza vita, seduta su poche manciate di paglia, la testa stancamente appoggiata su un bordo della carretta, il viso pallido e bagnato da un fiume di lacrime che si facevano strada attraverso le palpebre, anche se teneva sempre gli occhi chiusi. Non aveva avuto la curiosità di aprirli neppure quando aveva sentito il rumore che avevano fatto le guardie allorché temevano di essere attaccate. I suoi abiti erano sporchi e disordinati, le sue mani delicate esposte all'ingiuria dell'aria.
Insomma tutta la sua incantevole persona, quel viso capace di riportare l'universo all'idolatria, mostravano un disordine e un abbattimento indicibili.
Stetti un po' a contemplarla, cavalcando accanto alla carretta. Ero così poco presente a me stesso, che più volte fui sul punto di cadere rovinosamente. I miei sospiri, le mie frequenti esclamazioni richiamarono su di me il suo sguardo. Mi riconobbe e notai che il suo primo impulso fu di precipitarsi fuori dalla carretta per venire da me, ma trattenuta dalla catena ricadde nella posizione di prima.
Pregai le guardie di fermare un momento per compassione ed essi acconsentirono per avidità. Scesi da cavallo per sedermi accanto a lei.
Era così indebolita e languente che per un pezzo non riuscì a pronunciar parola né a muovere le mani. E intanto le bagnavo con le mie lacrime e, non potendo nemmeno io spiccicar parola, eravamo l'una e l'altro in una delle condizioni più strazianti di cui si sia mai avuto esempio. Non meno lo furono le nostre frasi, quando ritrovammo la capacità di parlare. Manon parlò poco; sembrava che la vergogna e il dolore le avessero alterato gli organi della voce: il suono era flebile e tremante. Mi ringraziò di non averla dimenticata e della gioia che le davo - disse sospirando - di vedermi almeno ancora una volta, e di darmi l' ultimo addio.
Ma quando le ebbi assicurato che niente era in grado di separarmi da lei e che ero disposto a seguirla in capo al mondo, per prendermi cura di lei, per servirla, per amarla e per legare indissolubilmente il mio miserando destino al suo, quella povera figliola si abbandonò a sentimenti così teneri e dolorosi, che la sua violenta emozione mi fece temere per la sua vita. Tutti i moti della sua anima sembravano concentrarsi negli occhi, che teneva fissi su di me. A volte apriva la bocca senza aver la forza di terminare le parole che cominciava.
Gliene sfuggiva tuttavia qualcuna. Erano segni di ammirazione per il mio amore, teneri lamenti per il suo eccesso, dubbi sulla possibilità di essere felice per avermi ispirato una passione così assoluta. Mi pregava perché rinunciassi all'idea di seguirla, e cercassi altrove una felicità degna di me. Con lei, diceva, non potevo più sperarla.
A dispetto del più crudele di tutti i destini, io trovavo la mia felicità nei suoi sguardi e nella certezza del suo affetto. Avevo, è vero, perso tutto ciò che il resto degli uomini apprezza, ma ero padrone del cuore di Manon, il solo bene che contasse per me. Vivere in Europa, vivere in America, che m'importava in che posto vivere se ero sicuro di esservi felice, vivendo con la mia amante? L'universo intero non è forse una patria per due amanti fedeli? Non trovano l'uno nell'altro padre, madre, famiglia, amici, ricchezza e felicità? Se c'era qualcosa che mi preoccupava era il timore di vedere Manon esposta alle ristrettezze dell'indigenza. Già mi immaginavo con lei in una regione incolta e abitata dai selvaggi.
"Sono sicurissimo", dicevo, "che non ce ne potrebbero essere di tanto crudeli come G... M... e mio padre. Almeno ci lasceranno vivere in pace. Se quello che se ne dice è vero, essi seguono le leggi di natura. Non conoscono i furori dell'avidità da cui è dominato G...
M..., né le fantasiose idee sull'onore che hanno fatto di mio padre un nemico. Non molesteranno due amanti che vedranno vivere con la loro stessa semplicità".
Da questo lato ero perciò tranquillo. Ma non mi facevo idee romanzesche per quello che riguardava i comuni bisogni della vita.
Troppo spesso avevo sperimentato che ci sono necessità insopportabili, specialmente per una fanciulla delicata, che è abituata a una vita comoda e agiata. Ero disperato di aver vuotato la mia borsa inutilmente e di sapere che il poco denaro che mi restava mi sarebbe stato sottratto da quei furfanti di guardie. Pensavo che, con una piccola somma, avrei potuto non solo sperare di difendermi per un po' di tempo dalla miseria in America, dove il denaro era raro, ma anche di mettere in piedi qualche attività in vista di una sistemazione duratura.
Queste considerazioni mi fecero venire l'idea di scrivere a Tiberge che avevo sempre trovato così pronto a offrirmi il sostegno dell'amicizia. Gli scrissi subito dalla prima città in cui passammo, senza dargli altro motivo che l'urgente bisogno in cui prevedevo di trovarmi a Le Havre dove gli confessavo di andare per accompagnare Manon. Gli chiedevo cento doppie.
"Fatemele avere a Le Havre", gli dicevo, "per mezzo del mastro di posta. Questa, credete pure, è l'ultima volta che abuso del vostro affetto. La mia infelice amante mi è tolta per sempre, non posso lasciarla partire senza offrirle qualche conforto che addolcisca la sua sorte e i miei mortali rimpianti".
Le guardie diventarono così intrattabili quando scoprirono la violenza della mia passione, che, a forza di raddoppiare il prezzo di ogni più piccolo favore, mi ridussero quasi senza un soldo. D'altro canto l'amore non mi permetteva di stare a lesinare. Dimentico di tutto, stavo da mattina a sera accanto a Manon e il tempo non mi veniva più misurato a ore, ma a giornate intere. Alla fine la mia borsa fu completamente vuota e mi trovai alla mercé dei capricci e della brutalità di quei sei miserabili che mi trattavano con un'alterigia insopportabile. Ne foste testimone a Pacy. Incontrarvi, fu un felice momento di respiro concessomi dal destino. La vostra pietà per i miei affanni bastò a suscitare una totale fiducia nel vostro cuore generoso. Il vostro aiuto generoso servì a farmi raggiungere Le Havre e le guardie rispettarono la loro promessa più di quanto non avessi sperato.
Arrivammo a Le Havre e andai subito alla posta. Tiberge non aveva ancora avuto il tempo di rispondermi. M'informai di preciso in che giorno potevo aspettare la lettera. C'era da attendere due giorni e, per uno strano caso del mio avverso destino, si diede il caso che la nostra nave dovesse partire proprio la mattina del giorno in cui aspettavo il corriere. Non so dirvi la mia disperazione.
"Come!" dicevo. "Perfino nella disgrazia io dovrò sempre distinguermi?".
Manon rispose:
"Ahimè! Vale proprio la pena tenere tanto a una vita così disgraziata?
Moriamo a Le Havre, mio caro cavaliere, finiamola una buona volta con le nostre miserie! Perché trascinarle in un paese sconosciuto, dove dovremo aspettarci chissà quali mali orribili, dal momento che ne hanno fatto per me un luogo di condanna? Moriamo", mi ripeté, "o almeno dammi la morte e vai a cercare un altro destino tra le braccia di un'amante più fortunata".
"No, no", le dissi, "per me, essere infelice con voi è un destino degno d'invidia".
Le sue parole mi fecero tremare. Pensai che i suoi mali l'avessero affranta e mi sforzai d'assumere un'aria più tranquilla per distoglierla da quei funesti pensieri di morte e di disperazione.
Decisi di comportarmi così anche in futuro, e in seguito ho sperimentato che nulla infonde più coraggio in una donna dell'intrepidezza dell'uomo che essa ama...
Non potendo aspettarmi nessun aiuto da Tiberge, vendetti il mio cavallo.
Il denaro che ne ricavai, con quello che ancora mi restava del vostro generoso regalo, mi fece raggiungere la modesta somma di diciassette doppie. Sette le destinai all'acquisto di alcune piccole cose necessarie a Manon, le altre dieci le serbai con cura, come base della nostra fortuna e delle nostre speranze in America.
Non mi fu difficile farmi accogliere sulla nave. Si cercavano ovunque giovani disposti a partire volontariamente per la colonia. Vitto e traversata erano gratis.
La posta per Parigi doveva partire l'indomani, lasciai dunque una lettera per Tiberge. Era commovente e certamente tale da intenerirlo fin nel profondo dell'anima, perché gli fece prendere una decisione che poteva nascere soltanto da un'immensa generosità e da un'infinita tenerezza per un amico sventurato.
Spiegammo le vele. Il vento ci fu sempre favorevole. Ottenni dal capitano un posto separato per Manon e per me. Egli ebbe la bontà di considerarci diversamente dal resto dei nostri miseri compagni di sventura. Fin dal primo giorno l'avevo preso da parte e, per ottenere da lui qualche riguardo, gli avevo raccontato una parte delle mie disgrazie.
Non credetti di rendermi colpevole di una menzogna vergognosa dicendogli che ero sposato a Manon. Fece finta di crederci e mi concesse la sua protezione: ne ricevemmo i segni per tutto il tempo della navigazione. Ebbe cura di farci mangiare decentemente e i riguardi che ebbe per noi servirono a farci rispettare dai nostri compagni di sventura. Io stavo continuamente attento a far sì che Manon non patisse il minimo disagio. Manon lo notava e questo, unito alla viva riconoscenza per tutto quello che io avevo affrontato per lei, la rendeva così tenera e appassionata, così attenta anch'essa ai miei più piccoli bisogni, che era, fra lei e me, una perpetua gara di affettuose attenzioni e d'amore. Io non rimpiangevo certo l'Europa.
Anzi, più ci avvicinavamo all'America, più mi sentivo leggero e tranquillo. Se avessi avuto la sicurezza di non mancare del minimo indispensabile per vivere, avrei ringraziato la fortuna di avere concluso in modo così favorevole le nostre disgrazie.
Dopo due mesi di navigazione ci accostammo infine alla desiderata riva. Il paese non ci offrì nulla di gradevole al primo sguardo:
campagne sterili e inabitate, dove si vedevano appena qualche canneto e pochi alberi disseccati dal vento. Nessuna traccia né di uomini né d'animali. Ma, presto, dopo che il capitano ebbe fatto sparare qualche colpo di cannone, cominciammo a scorgere una truppa di cittadini della Nouvelle Orléans, che si avvicinavano a noi con vivi segni di gioia.
Non avevamo visto la città, che resta nascosta, da quella parte, da una piccola altura. Fummo ricevuti come uomini arrivati dal Cielo:
quei poveri coloni si affollavano intorno a noi facendoci mille domande sulla Francia e sulle province in cui erano nati; ci abbracciavano come fratelli, come cari compagni che venivano a condividere la loro miseria e la loro solitudine. Ci incamminammo verso la città con loro; ma fummo sorpresi di scoprire, avvicinandoci, che quella che ci avevano vantato fino ad allora come una vera città non era che un gruppo di misere capanne, abitate da forse cinque o seicento persone. La casa del governatore ci parve un po' distinguersi per l'altezza e la posizione. Era difesa da terrapieni intorno ai quali correva un largo fossato.
Fummo subito presentati al governatore, che ebbe un lungo colloquio privato col capitano. Tornò poi verso di noi ed esaminò l'una dopo l'altra tutte le ragazze che erano arrivate col bastimento. Erano una trentina, poiché a Le Havre avevano trovato un altro gruppo che stava aspettando il nostro. Dopo averle scrutate a lungo, fece chiamare diversi giovanotti della città che intristivano in attesa di una moglie. Diede le più belle ai più importanti e il resto fu tirato a sorte. Non aveva ancora parlato a Manon, ma quando ebbe ordinato agli altri di ritirarsi, disse a lei e a me di restare.
"So dal capitano che siete sposati e che durante la traversata avete dimostrato di essere due persone intelligenti e di merito. Non voglio indagare sulle ragioni che sono state la causa della vostra disgrazia, ma se il vostro comportamento sarà buono come promette il vostro aspetto, farò di tutto per alleviare la vostra sorte e voi stessi contribuirete a rendermi meno tedioso questo luogo selvaggio e deserto".
Gli risposi nel modo che mi parve più atto a confermarlo nell'idea che aveva di noi. Diede alcuni ordini per farci avere un'abitazione in città e ci trattenne a cena con lui. Trovai che era molto garbato per essere un capo di sventurati esiliati. In pubblico non ci fece nessuna domanda sulle nostre vicissitudini. La conversazione fu generale e, nonostante la nostra tristezza, Manon e io ci sforzammo di contribuire a renderla piacevole.
La sera ci fece condurre all'abitazione che era stata preparata per noi. Ci trovammo in una capanna miserabile fatta di assi e di fango, che consisteva di due o tre stanze e di una soffitta al piano di sopra. Il governatore aveva fatto mettere due o tre sedie e alcuni mobili indispensabili. Manon parve spaventata alla vista di una dimora così squallida. Molto più che per sé, era per me che si affliggeva.
Quando fummo soli, si sedette e si mise a piangere amaramente. Cercai dapprima di consolarla, ma quando capii che commiserava solo me e che nelle nostre comuni sventure pensava soltanto a quello che io dovevo soffrire, simulai coraggio e allegria quel tanto che bastava per infonderne anche a lei.
"Di che cosa mi dovrei lamentare? Possiedo tutto ciò che desidero. Voi mi amate, vero? Quale altra felicità mi sono mai proposto? Affidiamo la nostra sorte al Cielo. Io non la trovo poi tanto disperata. Il governatore è un uomo civile, ci ha trattati con riguardo, non permetterà che ci manchi il necessario. La nostra capanna è povera e i nostri mobili grossolani, ma avrete notato che poche persone hanno l'aria d'avere case e mobili migliori dei nostri. E poi tu sei un'alchimista meravigliosa", aggiunsi abbracciandola, "trasformi tutto in oro".
"Sarete dunque l'uomo più ricco dell'universo", mi rispose, "perché se non vi fu mai amore come il vostro, è anche impossibile essere amato più teneramente di quanto lo siate da me. So quello che valgo," proseguì. "So bene di non avere mai meritato il sentimento straordinario che vi lega a me. Vi ho dato dolori che solo la vostra immensa bontà ha potuto perdonarmi. Sono stata leggera e volubile e, pur amandovi perdutamente come ho sempre fatto, non ero che un'ingrata. Ma voi non potete immaginare quanto sono cambiata. Le lacrime che mi avete visto così spesso versare da quando abbiamo lasciato la Francia, non le piangevo mai sulle mie sventure. Ho smesso di sentirle da quando voi avete cominciato a condividerle. Ho pianto solo di tenerezza e di compassione per voi. Non riesco a consolarmi di avervi addolorato anche un solo momento nella vita. Continuo a rimproverarmi le mie infedeltà e a commuovermi, stupita da tutto quello di cui l'amore vi ha reso capace per una disgraziata che non ne era degna, una disgraziata che con tutto il suo sangue", soggiunse piangendo a dirotto, "non vi ripagherebbe della metà delle pene che vi ha causato".
Le sue lacrime, le sue parole, e il tono con cui le pronunciò, fecero su di me un'impressione così straordinaria che mi sentii l'anima straziata.
"Bada! Bada, mia cara Manon, non sono abbastanza forte per sopportare così grandi dimostrazioni d'amore: non sono abituato a troppa gioia.
Dio!" esclamai, "non vi chiedo più niente. Sono sicuro del cuore di Manon; è proprio come l'ho desiderato per essere felice. Adesso non potrò più non esserlo. Ecco la mia felicità ben salda".
"Lo è", rispose, "se la fate dipendere da me, e anch'io so bene dove troverò sempre la mia".
Andai a dormire con questi bei pensieri, che mutarono la mia capanna in un palazzo degno del più gran re dell'universo. Dopo di che l'America mi parve un luogo di delizie.
"Bisogna venire alla Nouvelle Orléans", dicevo spesso a Manon, "quando si vogliono assaporare le vere dolcezze dell'amore. Qui ci si ama senza interesse, senza gelosia, senza incostanza. I nostri compatrioti vengono a cercarci l'oro e non si immaginano che noi ci abbiamo trovato tesori ben più preziosi".
Coltivammo con cura l'amicizia del governatore, il quale ebbe la bontà, qualche settimana dopo il nostro arrivo, di affidarmi un piccolo ufficio che si era reso vacante al forte.
Non era un posto di gran rilievo, ma lo accettai come un favore del Cielo. Mi metteva in grado di vivere senza essere a carico di nessuno.
Assunsi un domestico per me e una cameriera per Manon. Il nostro modesto stato migliorò. La morigeratezza di Manon non era da meno della mia.
Non ci lasciammo sfuggire l'occasione di renderci utili e di fare del bene ai nostri vicini. I nostri modi servizievoli e dolci ci attirarono la fiducia e l'affetto di tutta la colonia. La stima di cui in breve tempo godemmo, ci fece considerare come le persone più importanti della città dopo il governatore.
L'innocenza delle nostre occupazioni e la costante tranquillità della nostra vita, risvegliarono nel nostro animo sentimenti religiosi.
Manon non era mai stata una ragazza empia e nemmeno io ero uno di quei libertini incalliti che si vantano di unire l'incredulità alla depravazione dei costumi. L'amore e la giovinezza erano stati la causa di tutti i nostri disordini. L'esperienza cominciava a fare le veci dell'età e agì su di noi come agiscono gli anni.
Le nostre conversazioni,sempre riflessive, insensibilmente insinuarono in noi il desiderio di un amore onesto. Fui io il primo a proporre a Manon questo cambiamento, conoscendo i principi del suo animo. I suoi sentimenti erano schietti e spontanei, e questa qualità predispone sempre alla virtù. Le feci capire che alla nostra felicità mancava una cosa: che il Cielo l'approvasse.
"La nostra anima è troppo bella e il nostro cuore troppo retto per vivere di deliberato proposito nella colpa. Pazienza se ci siamo vissuti in Francia, dove non era possibile né cessare di amarci, né unirci in maniera legittima; ma in America, dove dipendiamo soltanto da noi stessi, dove non c'è più da tener conto delle arbitrarie leggi della classe sociale e della convenienza, dove ci credono già sposati, chi ci impedisce di esserlo veramente al più presto? Di santificare il nostro amore con le promesse benedette dalla religione? Per quel che mi riguarda", soggiungevo, "non vi offro niente di nuovo offrendovi il mio cuore e la mia mano, ma sono pronto a rinnovarvene il dono ai piedi dell'altare".
Mi parve che questo discorso la riempisse di gioia.
"Mi credereste", rispose, "se vi dico che ci ho pensato mille volte da quando siamo in America? Il timore di dispiacervi mi ha fatto tenere questo desiderio nel cuore. Non ho la presunzione di chiedervi che mi facciate vostra sposa".
"Ah, Manon!" replicai, "lo saresti ben presto di un re, se il Cielo mi avesse fatto nascere con una corona. Non perdiamo tempo. Non abbiamo più nessun ostacolo da temere. Già da oggi voglio parlarne al governatore e confessargli che finora l'abbiamo ingannato. Lasciamo che gli amanti volgari temano le catene indissolubili del matrimonio.
Non ne avrebbero tanta paura se, come lo siamo noi, fossero sicuri di portare sempre le catene dell'amore".
Dopo questa decisione, lasciai Manon al colmo della gioia.
Sono convinto che non c'è al mondo nessun uomo onesto che non avrebbe approvato le mie intenzioni nella situazione in cui mi trovavo, schiavo cioè di una passione fatale che non potevo vincere e combattuto da rimorsi che non dovevo soffocare. Ma ci sarà qualcuno che taccerà i miei lamenti di essere ingiusti se piango per la crudeltà del Cielo che rifiutò ciò che avevo concepito soltanto per compiacerlo? Ahimè, che dico, rifiutarlo? L'ha punito come un delitto.
Mi aveva sopportato con pazienza quando camminavo ciecamente sulla strada del vizio; i castighi più crudeli li aveva riservati per il giorno in cui avrei ripreso il cammino della virtù.
Ho paura che mi manchino le forze per terminare il racconto del più funesto avvenimento che sia mai accaduto.
Come avevo convenuto con Manon, andai dal governatore, per pregarlo di acconsentire alla cerimonia del nostro matrimonio. Mi sarei ben guardato dal parlarne a lui o a chiunque altro, se avessi avuto la certezza che il suo cappellano, che era allora il solo prete della città, mi avrebbe reso quel servizio senza metterne al corrente il governatore, ma poiché non osavo sperare che si impegnasse al silenzio, avevo preso la decisione di agire alla luce del sole.
Il governatore aveva un nipote, di nome Synnelet, che gli era profondamente caro. Era un uomo di trent'anni, coraggioso, ma impulsivo e violento. Non aveva moglie e fin dal nostro arrivo, era stato sensibile alla bellezza di Manon. Le innumerevoli occasioni di vederla che aveva avuto durante nove o dieci mesi, avevano talmente acceso la sua passione che si consumava in segreto per lei. Tuttavia, poiché come suo zio e tutta la città era persuaso che fossi realmente sposato, aveva dominato il suo amore fino al punto di non lasciarlo trasparire. Anzi, la sua premura verso di me si era manifestata in parecchie occasioni di rendermi qualche servizio.
Quando arrivai al forte, lo trovai con suo zio. Non c'era nessuna ragione che mi obbligasse a nascondergli le mie intenzioni e non ebbi perciò nessuna difficoltà a parlare in sua presenza.
Il governatore mi ascoltò con la sua solita bontà. Gli raccontai una parte della mia storia che ascoltò con piacere e quando lo pregai di assistere alla cerimonia che progettavo, fu tanto generoso da volersi assumere tutte le spese della festa. Me ne andai contentissimo.
Circa un'ora dopo vidi entrare il cappellano in casa mia. Immaginai che venisse a darmi qualche istruzione sulla cerimonia, ma dopo avermi salutato freddamente mi dichiarò in due parole che il signor governatore mi proibiva di pensarci perché aveva altre mire su Manon.
"Altre mire su Manon?" gli dissi con una stretta al cuore. "E quali mire, signor cappellano?".
Non ignoravo, mi rispose, che il signor governatore era il padrone e, poiché Manon era stata mandata dalla Francia per la colonia, egli poteva quindi disporne a piacimento. Non l'aveva fatto fino a quel momento perché la credeva sposata, ma avendo saputo proprio da me che non lo era, giudicava opportuno concederla al signor Synnelet che ne era innamorato.
Il mio risentimento fu più forte della prudenza. Intimai al cappellano di uscire da casa mia, giurando che il governatore, Synnelet e tutta la città non avrebbero osato toccare mia moglie, o la mia amante, comunque la volessero chiamare.
Misi subito Manon al corrente del funesto messaggio che avevo ricevuto. Ritenemmo che Synnelet avesse istigato suo zio dopo che io me ne ero andato e che questo fosse il risultato di un progetto meditato da tempo. Erano i più forti. Ci trovavamo alla Nouvelle Orléans come in mezzo al mare, vale a dire separati dal resto del mondo da spazi immensi. Dove fuggire? In un paese sconosciuto, deserto o abitato da bestie feroci, e da selvaggi altrettanto crudeli? Godevo della stima della città, ma non potevo sperare di commuovere la popolazione in mio favore fino al punto di aspettarmi un aiuto proporzionato al male. Ci sarebbe voluto del denaro. Io ero povero.
D'altronde il successo di un sollevamento popolare era incerto e se la fortuna ci fosse venuta meno, la nostra disgrazia si sarebbe fatta irrimediabile. Rimuginavo tutti questi pensieri in testa e ne comunicai una parte a Manon; poi ne formulavo altri senza stare a sentire la sua risposta. Prendevo una decisione, poi la lasciavo cadere per prenderne un'altra. Parlavo da solo e rispondevo ad alta voce ai miei pensieri. Alla fine ero in uno stato d'agitazione che non saprei a che cosa paragonare, perché non ce ne sono di eguali.
Manon mi guardava e dal mio turbamento misurava l'entità del pericolo.
Tremando più per me che per se stessa, quella tenera creatura non osava nemmeno aprire bocca per esprimermi la sua paura.
Dopo un'infinità di riflessioni, decisi di andare a trovare il governatore per tentare di commuoverlo parlandogli dell'onore, ricordandogli il mio rispetto e il suo affetto. Manon non voleva che uscissi.
"Ahimè, vi uccideranno!" mi diceva piangendo. "Non vi rivedrò che morto. Voglio morire prima di voi".
Riuscii con gran fatica a convincerla che dovevo a ogni costo uscire, mentre lei doveva restare a casa. Le promisi che mi avrebbe rivisto molto presto. Ignorava, e io con lei, che proprio su di lei stava per ricadere tutta la collera del Cielo e il furore dei nostri nemici.
Mi recai al forte. Il governatore era col suo cappellano. Per commuoverlo mi abbassai a umiliazioni che mi avrebbero fatto morire di vergogna per qualunque altra causa. Ricorsi a tutti gli argomenti che dovevano per forza impressionare un cuore che non sia quello di una tigre feroce e crudele.
Quell'uomo spietato oppose ai miei lamenti due sole risposte cento volte ripetute: Manon dipendeva da lui, aveva dato la parola a suo nipote. Deciso a controllarmi fino in fondo, mi limitai a dirgli che lo credevo troppo mio amico per volere la mia morte, che avrei preferito morire piuttosto che perdere Manon.
Uscendo, ero assolutamente convinto che non avevo niente da sperare da quel vecchio testardo, il quale si sarebbe dannato mille volte per il nipote. Ciò nonostante, rimasi dell'idea di non eccedere fino alla fine, deciso, se si fosse giunti agli estremi, a dare alla Nouvelle- Orléans uno degli spettacoli più cruenti e orribili che l'amore abbia mai offerto.
Tornai a casa rimuginando su questo progetto, quando la sorte che voleva affrettare la mia rovina mi fece incontrare Synnelet. Mi lesse negli occhi una parte dei miei pensieri. Ho detto che era coraggioso.
Venne verso di me e mi disse:
"Non mi cercavate? So che le mie intenzioni vi offendono, e ho già previsto che con voi si sarebbe arrivati alle armi. Andiamo a vedere chi sarà il più fortunato".
Gli risposi che aveva ragione e che solo la morte avrebbe potuto mettere fine alla nostra contesa. Ci allontanammo di un centinaio di passi dalla città. Le nostre spade si incrociarono, io lo ferii e lo disarmai quasi insieme. La rabbia lo rese così furioso che rifiutò di chiedermi la vita e di rinunciare a Manon. Io avevo forse il diritto di togliergli in una sola volta l'una e l'altra, ma sangue generoso non mente. Gli gettai la sua spada.
"Ricominciamo", gli dissi, "e ricordati che è senza quartiere".
Mi assalì con una furia indescrivibile. Devo confessare che non ero un grande spadaccino, dato che a Parigi avevo avuto solo tre mesi di scuola. L'amore guidava la mia spada. Synnelet mi trafisse il braccio da parte a parte, ma io colsi il momento e gli infersi un colpo così violento, che cadde immoto ai miei piedi.
Nonostante la gioia che dà la vittoria dopo una lotta all'ultimo sangue, riflettei immediatamente sulle conseguenze di quella morte.
Per me non c'erano né grazia, né rinvio del supplizio. Conoscendo bene la passione del governatore per il nipote, ero certo che la mia morte non sarebbe stata differita di un'ora, quando si fosse saputa la sua.
Per quanto incalzante, questo timore non era la fonte maggiore della mia inquietudine. Manon, l'interesse di Manon, il pericolo in cui incorreva, il rischio di perderla, mi turbavano fino a oscurarmi la vista e a impedirmi di riconoscere il luogo in cui mi trovavo.
Invidiai la sorte di Synnelet: una morte immediata mi sembrava il solo rimedio ai miei affanni. Tuttavia fu proprio quel pensiero a far sì che ritornassi in me e a rendermi capace di prendere una decisione.
"Come?" esclamai. "Io voglio morire per finirla con le mie pene? C'è qualcosa dunque che io tema più che perdere la mia diletta amica? Ah!
Soffriamo tutto quel che c'è da soffrire per soccorrerla e rimandiamo la morte a quando avremo patito inutilmente".
Mi rimisi in cammino verso la città. Entrai in casa dove trovai Manon mezza morta di spavento e di inquietudine. La mia presenza la rianimò.
Non potevo nasconderle e nemmeno minimizzare il terribile incidente che m'era accaduto. Cadde priva di sensi fra le mie braccia al racconto della morte di Synnelet e della mia ferita. Mi ci volle più di un quarto d'ora per farla riavere.
Io stesso ero mezzo morto. Non vedevo vie d'uscita né per la sua salvezza, né per la mia.
"Che faremo, Manon?" le dissi quando ebbe ripreso un po' di forza.
"Ahimè! Che faremo? Dovrò per forza allontanarmi. Volete rimanere in città? Sì, rimanete: potete ancora esservi felice; io me ne andrò lontano da voi a cercare la morte fra i selvaggi, fra gli artigli delle belve".
Pur così debole si alzò e mi prese per mano conducendomi verso la porta.
"Fuggiamo insieme", mi disse, "non perdiamo un istante. Possono aver trovato per caso il corpo di Synnelet, non avremmo il tempo per allontanarci dalla città".
"Mia cara Manon", risposi smarrito, "ditemi dunque dove possiamo andare. Vedete una qualche soluzione? Non sarebbe meglio che voi cercaste di vivere qui senza di me e che io consegnassi spontaneamente la mia testa al governatore?".
La mia proposta non fece che rinfocolare la sua smania di partire. Mi toccò seguirla. Ebbi ancora abbastanza presenza di spirito da prendere, prima di uscire, alcuni liquori che avevo in camera e tutte le provviste che potei far entrare nelle mie tasche. Dicemmo ai domestici che erano nella stanza accanto, che uscivamo per la nostra passeggiata serale come di consueto e ci allontanammo dalla città più in fretta di quanto non sembrasse consentirlo la fragilità di Manon.
Anche se ero stato così irrisoluto sul luogo dove ci saremmo rifugiati, nutrivo nondimeno due speranze senza le quali avrei preferito la morte all'incertezza di quello che poteva capitare a Manon. Nei dieci mesi trascorsi in America, mi ero fatto una sufficiente conoscenza del paese per non ignorare in che modo si ammansivano i selvaggi. Ci si poteva mettere nelle loro mani senza andare incontro a morte certa. Nelle diverse occasioni in cui li avevo visti, avevo perfino imparato qualche parola della loro lingua, e alcune delle loro usanze.
A parte questa triste risorsa, ne avevo un'altra: si trattava degli inglesi che come noi hanno un insediamento in quella parte del nuovo mondo. Ma ero terrorizzato dalla distanza: per arrivare fino a loro avevamo da attraversare sterili campagne che richiedevano, tanto erano vaste, diverse giornate di cammino, e qualche montagna così alta e scoscesa, che valicarla sembrava difficile agli uomini più rudi e più vigorosi. Tuttavia mi lusingavo di poter trarre partito da queste due possibilità: i selvaggi, che ci servissero da guida, e gli inglesi che ci accogliessero nelle loro abitazioni.
Camminammo fintanto che il coraggio di Manon poté sostenerla, vale a dire circa due leghe, giacché quella donna incomparabile rifiutò di fermarsi prima.
Alla fine, affranta dalla stanchezza, mi confessò che le era impossibile proseguire. Era già notte.
Ci sedemmo in mezzo a una vasta pianura, senza aver potuto trovare un albero sotto cui metterci al riparo.
Il suo primo pensiero fu di cambiare la fascia della mia ferita, che lei stessa aveva medicato prima della nostra fuga. Invano mi opposi ai suoi desideri. Avrei dato un altro terribile colpo al suo morale se le avessi rifiutato la soddisfazione di assicurarsi che stessi discretamente e fossi fuori pericolo prima di pensare a se stessa. Per un po' mi assoggettai ai suoi desideri. Accettai in silenzio, e quasi vergognandomi, le sue cure. Ma quando ebbe appagato la sua tenerezza, con quale ardore le dedicai la mia! Mi spogliai di tutti i miei abiti e li stesi tutti sotto di lei per farle trovare la terra meno dura.
Suo malgrado le feci accettare tutto quello che immaginavo potesse recarle qualche sollievo.
Scaldai le sue mani con i miei baci ardenti e col calore dei miei sospiri. Passai tutta la notte a vegliare accanto a lei e a pregare il Cielo di concederle un sonno dolce e tranquillo. Oh, mio Dio! Come erano ardenti e sincere le mie preghiere! E con quale inesorabile decreto avevate deciso di non esaudirle!
Perdonatemi se concludo con poche parole un racconto che mi uccide. Vi racconto una sventura che non ebbe mai eguali. Tutta la mia vita è destinata a piangerla, ma, per quanto mi sia impressa continuamente nella memoria, la mia anima se ne ritrae con orrore ogni volta che tento di parlarne.
Avevamo trascorso tranquillamente una parte della notte. Credevo che la mia dolce amica fosse addormentata e osavo appena respirare per timore di turbarne il sonno. Allo spuntar del giorno, toccandole le mani, mi accorsi che erano fredde e tremanti. Me le accostai al petto per riscaldarle. Nel sentire quel movimento, fece uno sforzo per afferrare le mie e mi disse con voce flebile che credeva giunta la sua ultima ora.
Dapprima pensai che fossero le solite parole che si dicono nei momenti dolorosi e risposi con le tenere espressioni di conforto che ispira l'amore. Ma i suoi sospiri frequenti il suo silenzio alle mie domande, la pressione delle sue mani che continuavano a stringere le mie, mi fecero capire che si avvicinava la fine dei suoi affanni.
Non chiedetemi di descrivervi i miei sentimenti, né di riferirvi le sue ultime parole. La persi. Nel momento stesso in cui spirava ricevetti ancora da lei dimostrazioni d'amore. Di quel fatale e drammatico istante non ho la forza di dirvi altro.
La mia anima non seguì la sua. Evidentemente il Cielo non ritenne che fossi punito abbastanza severamente. Ha voluto che trascinassi, da allora, una vita misera e spenta. E io spontaneamente rinuncio per sempre a condurne una più felice.
Due giorni e due notti restai con la bocca incollata al viso e alle mani della mia cara Manon. Volevo morire, ma all'inizio del terzo giorno pensai che quando fossi morto il suo corpo sarebbe rimasto preda delle fiere. Presi la decisione di sotterrarla e di aspettare la morte sulla sua fossa. Ero già così vicino alla fine per l'indebolimento provocato dal digiuno e dal dolore, che dovetti fare grandi sforzi per reggermi in piedi. Fui costretto a ricorrere ai liquori che avevo portato. Recuperai quel tanto di forze che bastavano per il triste compito che mi aspettava.
Non era difficile scavare la terra nel posto in cui ero. Era una pianura coperta di sabbia. Spezzai la spada perché mi servisse a scavare, ma più ancora mi furono utili le mani. Scavai una larga fossa e vi deposi l'idolo del mio cuore dopo averla avvolta accuratamente con tutti i miei abiti perché la sabbia non la toccasse. Ma prima la baciai mille volte con tutto l'ardore del più assoluto amore. Mi sedetti ancora accanto a lei. La contemplai a lungo. Non potevo risolvermi a colmare la fossa. Ma già le mie forze ricominciavano a declinare e temetti che mi venissero a mancare completamente prima di aver ultimato il mio compito. Seppellii allora per sempre nel seno della terra tutto ciò che la terra aveva portato di più perfetto e di più adorabile. Poi mi sdraiai sulla fossa col viso sulla sabbia e, chiudendo gli occhi con la volontà di non aprirli mai più, invocai l'aiuto del Cielo e attesi con impazienza la morte.
Difficilmente lo crederete, ma per tutto il tempo in cui svolsi quella lugubre incombenza, non una lacrima mi uscì dagli occhi, non un sospiro dalla bocca. La profonda costernazione in cui mi trovavo e la deliberata intenzione di morire avevano come raggelato ogni espressione di disperazione e di dolore. Ma non restai a lungo in quella posizione sulla fossa senza perdere quel che mi restava di conoscenza e di sentimento.
Dopo quello che avete sentito, la conclusione della mia storia ha così poca importanza che non vale la pena continuare ad annoiarvi. Il corpo di Synnelet era stato riportato in città e le sue ferite erano state esaminate con cura. Si vide così che, non solo non era morto, ma che non era stato neppure ferito gravemente. Raccontò a suo zio come si erano svolte le cose fra noi due e la sua generosità fece sì che lealmente rendesse noto qual era stato il mio comportamento. Mandarono subito a cercarmi e la mia assenza con quella di Manon fece nascere il sospetto che avessimo scelto di fuggire. Era troppo tardi per mandare qualcuno sulle nostre tracce, ma l'indomani e i giorni successivi passarono nella mia ricerca. Mi trovarono senza segni di vita sulla fossa di Manon e quelli che mi scoprirono in quello stato, vedendomi seminudo, con la ferita ancora sanguinante, credettero senza ombra di dubbio che fossi stato derubato e assassinato. Mi portarono in città e le scosse del tragitto mi fecero riprendere conoscenza. I miei sospiri e i gemiti quando aprii gli occhi e mi ritrovai fra i vivi, fecero capire che potevo ancora essere soccorso. Lo fui troppo bene. Con tutto questo, al mio arrivo, venni rinchiuso in un'angusta prigione; imbastirono il mio processo e, dato che Manon non compariva, mi accusarono di essermi sbarazzato di lei in un moto di rabbia e di gelosia. Raccontai sinceramente la mia straziante avventura e Synnelet, malgrado fosse sconvolto dal dolore, ebbe la generosità di implorare la mia grazia. La ottenne.
Io ero così debole che furono costretti a trasportarmi dalla prigione nel mio letto, dove rimasi per tre mesi gravemente malato. Il mio odio per la vita non scemava. Invocavo continuamente la morte e a lungo mi ostinai a rifiutare ogni medicina. Ma dopo avermi perseguitato con tanta severità, il Cielo aveva decretato che sciagure e castighi si risolvessero a mio favore. Mi illuminò con la sua grazia e mi ispirò il desiderio di tornare a lui per le vie della penitenza. La tranquillità cominciava a rifarsi strada a poco a poco nella mia anima. Questo cambiamento fu seguito poco dopo dalla guarigione. Mi dedicai completamente alle pratiche religiose e continuai a compiere il mio modesto lavoro in attesa delle navi di Francia che una volta all'anno arrivano in quella parte d'America.
Ero deciso a tornare in patria per riparare lo scandalo della mia condotta passata con una vita saggia e morigerata. Ebbi cura di far trasportare il corpo della mia diletta in un luogo decoroso. Fu poco dopo questa cerimonia che, passeggiando un giorno da solo sulla riva del mare, vidi approdare una nave che per ragioni commerciali giungeva alla Nouvelle Orléans. Mentre osservavo l'equipaggio che sbarcava, grande fu il mio stupore nel riconoscere fra quelli che si avviavano verso la città il mio amico Tiberge.
Quell'amico fedele mi riconobbe da lontano nonostante il cambiamento impresso dal dolore sul mio viso. Mi disse che l'unica ragione del suo viaggio era quella di vedermi e di indurmi a tornare in Francia. Aveva ricevuto la lettera che gli avevo scritto da Le Havre e ci era venuto di persona per farmi il favore che gli chiedevo. Vivissimo era stato il suo dolore nel sapere che ero partito e, se avesse trovato una nave pronta ad alzare le vele, si sarebbe imbarcato immediatamente. Per mesi l'aveva cercata in vari porti; infine ne aveva trovata una a Saint-Malo che andava alla Martinica; si era imbarcato nella speranza di trovare poi un facile passaggio per la Nouvelle Orléans. Ma la nave bretone era stata catturata durante la traversata da corsari spagnoli e portata in una delle loro isole. Era riuscito con un'astuzia a fuggire e dopo svariate peripezie aveva trovato l'occasione di quella nave che era appena arrivata, per giungere sano e salvo fino a me.
Non sapevo come manifestare la mia riconoscenza per un'amicizia così generosa e così fedele. Lo condussi nella mia casa; gli dissi di considerare tutto quello che possedevo come suo. Gli raccontai quello che mi era accaduto da quando avevo lasciato la Francia e, per dargli una gioia che non si aspettava, gli dichiarai che quei semi di virtù che un tempo aveva gettato nel mio cuore, cominciavano a produrre frutti di cui sarebbe stato contento. Mi assicurò che una così buona notizia lo ripagava pienamente di tutte le traversie del viaggio.
Abbiamo trascorso insieme qualche mese alla Nouvelle Orléans aspettando l'arrivo delle navi francesi. Infine ci siamo imbarcati e siamo approdati quindici giorni fa a Le Havre. All'arrivo, ho scritto alla mia famiglia. Dalla risposta di mio fratello maggiore, ho saputo la triste notizia della morte di mio padre, alla quale ho troppi motivi di temere d'aver contribuito. Poiché il vento per Calais era favorevole, mi sono subito imbarcato con l'intenzione di recarmi nei dintorni di questa città, presso un gentiluomo mio parente, dove mio fratello, a quanto scrive, mi aspetta.