François-Marie Arouet de Voltaire



CANDIDO

OVVERO
L'OTTIMISMO

 

 

 

 





CAPITOLO PRIMO


COME CANDIDO FU ALLEVATO IN UN BEL CASTELLO E COME NE VENNE CACCIATO


C'era in Vestfalia, nel castello del signor barone di Thunder-ten- tronckh, un giovane al quale la natura aveva conferito i più miti costumi. Il suo aspetto ne rivelava l'anima. Possedeva un giudizio abbastanza retto, unito a una grande semplicità; per ciò, credo, lo chiamavano Candido. I vecchi domestici del castello sospettavano fosse figlio della sorella del signor barone e di un onesto e buon gentiluomo dei pressi che madamigella non volle mai come marito perché non aveva potuto provare che settantun quarti: il resto del suo albero genealogico era stato distrutto dalle ingiurie del tempo.


Il barone era uno dei più potenti signori della Vestfalia, perché il suo castello aveva una porta e delle finestre. Il salone era ornato d'arazzi. Tutti i cani dei suoi cortili, all'occorrenza, potevano formare una muta; i palafrenieri gli facevano da bracchieri, il vicario del villaggio da cappellano. Tutti lo chiamavano monsignore, e ridevano quando raccontava storielle.


La signora baronessa, che pesava circa trecentocinquanta libbre, era grazie a ciò assai considerata, e faceva gli onori di casa con una dignità che la rendeva ancora più rispettabile. La figlia Cunegonda, diciassettenne, aveva un bel colorito, era fresca, grassottella, appetitosa. Il figlio del barone pareva in tutto degno del padre. Il precettore Pangloss era l'oracolo della casa, e il piccolo Candido ne ascoltava le lezioni con tutta la buona fede della sua età e del suo carattere.


Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmoscemologia. Dimostrava in maniera mirabile che non esiste effetto senza causa, e che, in questo che è il migliore dei mondi possibili, il castello del signor barone era il più bello dei castelli, e la signora baronessa la migliore delle baronesse possibili.


"E' dimostrato" diceva, "che le cose non possono essere altrimenti:

giacché tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per il miglior fine. Notate che i nasi sono stati fatti per portare occhiali; infatti abbiamo gli occhiali. Le gambe sono visibilmente istituite per essere calzate, e noi abbiamo le brache. Le pietre sono state formate per essere tagliate e farne dei castelli; infatti monsignore ha un bellissimo castello: il massimo barone della provincia dev'essere il meglio alloggiato; e poiché i maiali sono fatti per essere mangiati, noi mangiamo maiale tutto l'anno. Perciò, quanti hanno asserito che tutto va bene hanno detto una sciocchezza: bisognava dire che tutto va per il meglio".


Candido ascoltava attentamente, e innocentemente credeva: perché trovava madamigella Cunegonda estremamente bella, anche se non si prese mai la libertà di dirglielo. Concludeva che, dopo la felicità di essere nato barone di Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità era d'essere madamigella Cunegonda; il terzo di vederla tutti i giorni, e il quarto di ascoltare mastro Pangloss, il massimo filosofo della provincia, e quindi di tutta la terra.


Un giorno Cunegonda, passeggiando nei pressi del castello, nel boschetto che chiamavano parco, vide tra i cespugli il dottor Pangloss che impartiva una lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua madre, una brunetta assai graziosa e docilissima. Poiché madamigella Cunegonda aveva grande disposizione per le scienze, osservò senza fiatare le esperienze reiterate di cui fu testimone; vide con chiarezza la ragion sufficiente del dottore, gli effetti e le cause, e se ne tornò indietro tutta agitata, tutta pensosa, piena del desiderio di essere istruita, pensando che lei poteva ben essere la ragion sufficiente del giovane Candido, il quale poteva essere la sua.


Ritornando al castello incontrò Candido, e arrossì; anche Candido arrossì; lei gli disse buongiorno con voce rotta, e Candido le parlò senza sapere quel che dicesse. L'indomani, dopo il pranzo, alzatisi da tavola, Cunegonda e Candido si trovarono dietro un paravento; Cunegonda lasciò cadere il fazzoletto, Candido lo raccolse; lei gli prese innocentemente la mano, il giovane baciò innocentemente la mano della giovinetta con una vivacità, una sensibilità, una grazia tutta particolare; le bocche si incontrarono, gli occhi s'accesero, le ginocchia tremarono, le mani si smarrirono. Il signor barone di Thunder-ten-tronckh passò vicino al paravento, e, vedendo quella causa e quell'effetto, cacciò Candido dal castello a gran calci nel sedere.


Cunegonda svenne: appena rinvenuta fu presa a schiaffi dalla signora baronessa, e tutto fu costernazione nel più bello e piacevole dei castelli possibili.




CAPITOLO SECONDO


CIO' CHE CANDIDO DIVENTO' TRA I BULGARI


Cacciato dal paradiso terrestre, Candido camminò a lungo senza sapere dove, piangendo, alzando gli occhi al cielo, volgendoli spesso verso il più bello dei castelli, che racchiudeva la più bella delle baronessine, si coricò senza cenare in mezzo ai campi, tra due solchi; la neve cadeva a larghe falde. L'indomani Candido, tutto intirizzito, si trascinò verso la città vicina, Valdberghoff-trarbk-dikdorff, senza un soldo in tasca, mezzo morto di fame e di stanchezza. Tristemente si fermò sulla porta di un'osteria. Due uomini vestiti d'azzurro lo notarono.


"Camerata", disse uno, "ecco un giovanotto ben piantato, e che ha la statura richiesta".


Si diressero verso Candido e lo invitarono molto civilmente a pranzare.


"Lorsignori mi fanno un grande onore", disse Candido con incantevole modestia, "ma non ho di che pagare la mia parte".


"Ah! signore", gli disse uno dei due azzurri, "le persone col vostro fisico e coi vostri meriti non pagano mai niente: non siete forse alto cinque piedi e cinque pollici?" "Sì, signori, è la mia statura", disse Candido con un inchino.


"Ah! signore, mettetevi a tavola; non soltanto vi offriremo il pranzo, ma non permetteremo mai che un uomo come voi resti senza denaro; gli uomini non sono fatti che per soccorrersi l'un l'altro".


"Avete ragione", disse Candido, "è ciò che il signor Pangloss mi ha sempre detto, e vedo bene che tutto va per il meglio".


I due lo pregano di accettare qualche scudo; lui li prende e vuol firmare una ricevuta; quelli non ne vogliono sapere, si mettono a tavola.


"Non amate forse teneramente...?" "Oh! sì", rispose Candido, "amo teneramente madamigella Cunegonda".


"No", disse uno di quei signori, "vi chiediamo se non amate teneramente il re dei Bulgari?" "Niente affatto" disse Candido, "non l'ho mai visto".


"Come! è il più incantevole dei re; dobbiamo bere alla sua salute".


"Oh! ben volentieri, signori".


E beve.


"Non occorre altro", gli dicono, "voi siete l'appoggio, il sostegno, il difensore, l'eroe dei Bulgari; la vostra fortuna è fatta e la vostra gloria assicurata".


Seduta stante gli mettono i ferri ai piedi, e lo conducono al reggimento. Lo fanno girare a destra, a sinistra, alzar la bacchetta, rimettere la bacchetta, puntare il fucile, raddoppiare il passo, e gli danno trenta bastonate; il giorno dopo esegue l'esercizio un po' meno male, e ne riceve solo venti; l'indomani ancora non gliene danno che dieci, e i suoi camerati lo considerano un prodigio.


Candido, stupefatto, non capiva ancora molto bene che cosa fosse un eroe. Un bel giorno di primavera decise d'andarsene a passeggiare.


Camminava diritto davanti a sé, convinto che fosse un privilegio della specie umana, come di quella animale, di servirsi a piacere delle proprie gambe. Non aveva fatto due leghe che altri quattro eroi di sei piedi lo raggiungono, lo legano lo conducono in prigione. A termini di legge gli venne chiesto se preferiva essere fustigato trentasei volte dall'intero esercito o ricevere dodici palle di piombo tutte insieme nel cervello. Ebbe un bel dire che le volontà sono libere, e che non voleva né l'una cosa né l'altra. Bisognò scegliere: optò, in virtù del dono di Dio che si chiama "libertà", di farsi bastonare trentasei volte; sopportò due passate. Il reggimento era composto di duemila uomini: la qual cosa gli comportò quattromila vergate che, dalla nuca al sedere, gli misero a nudo muscoli e nervi. Si stava per procedere alla terza passata, quando Candido, non potendone più, supplicò che avessero la bontà di spaccargli la testa: gli concessero questo favore; gli bendano gli occhi, lo mettono in ginocchio. In quel momento passa il re dei Bulgari; s'informa del delitto del paziente, e siccome quel re era un gran genio, capì, da quanto gli dissero di Candido, che era un giovane metafisico ignorantissimo delle cose di questo mondo, e gli accordò la grazia con una clemenza che sarà lodata in tutti i giornali e per tutti i secoli. Un bravo chirurgo guarì Candido in tre settimane con gli emollienti insegnati da Dioscoride.


Già la pelle cominciava a ricrescergli, e poteva camminare, quando il re dei Bulgari diede battaglia al re degli Avari.




CAPITOLO TERZO


COME CANDIDO FUGGI' DAI BULGARI E COSA DIVENTO'


Niente era così bello, così spedito, così splendente, così ben ordinato come i due eserciti. Le trombe, i pifferi, gli oboi, i tamburi, i cannoni formavano un'armonia quale non si udì mai neppure all'inferno. Prima i cannoni rovesciarono a terra circa seimila uomini per parte; poi la moschetteria tolse dal migliore dei mondi da nove a diecimila furfanti che ne infettavano la superficie. Anche la baionetta fu la ragion sufficiente della morte di qualche migliaio di uomini. Il totale poteva aggirarsi sulle trentamila anime. Candido, che tremava al pari di un filosofo, si nascose come meglio poté durante questo eroico macello.


Finalmente, mentre i due re facevano cantare dei "Te Deum", ciascuno, nel proprio accampamento, decise d'andarsene da un'altra parte a ragionare sugli effetti e le cause. Passò sopra mucchi di morti e morenti, e raggiunse dapprima un villaggio vicino; era ridotto in cenere. Si trattava di un villaggio avaro che i Bulgari avevano incendiato, secondo le leggi del diritto pubblico. Qui vecchi crivellati di colpi guardavano morire le loro mogli sgozzate, che stringevano i bambini alle mammelle sanguinanti; là ragazze sventrate, dopo avere saziato i naturali bisogni di qualche eroe, esalavano l'ultimo respiro; altre, semibruciate, gridavano implorando di finirle. Cervelli erano sparsi per terra, accanto a braccia e gambe tagliate.


Candido fuggì al più presto in un altro villaggio: apparteneva ai Bulgari, e gli eroi Avari l'avevano trattato allo stesso modo.


Candido, sempre camminando sopra membra palpitanti, o attraverso rovine, uscì finalmente dal teatro della guerra, portando qualche piccola provvista nella bisaccia, e senza mai dimenticare i begli occhi di madamigella Cunegonda.


Le provviste gli vennero meno quando fu in Olanda; ma avendo sentito dire che in quel paese tutti erano ricchi, e cristiani, non dubitò che lo avrebbero trattato bene come nel castello del signor barone, prima d'esserne scacciato per i begli occhi di madamigella Cunegonda.


Chiese l'elemosina a parecchi gravi personaggi, i quali gli risposero tutti che, se avesse continuato a fare quel mestiere, lo avrebbero rinchiuso in una casa di correzione per insegnargli a vivere.


Si rivolse poi a un uomo che aveva parlato da solo per un'ora intera sulla carità davanti a una grande assemblea. L'oratore, guardandolo di traverso, gli disse:

"Che cosa venite a fare qui? Venite per la buona causa?" "Non c'è effetto senza causa", rispose modestamente Candido, "tutto è necessariamente concatenato e disposto per il meglio. Bisognava che fossi cacciato dal castello di madamigella Cunegonda, che fossi passato per le verghe, e bisogna che domandi il pane finché non sia in grado di guadagnarmelo; tutto ciò non poteva essere altrimenti".


"Amico mio", gli disse l'oratore, "credete voi che il papa sia l'Anticristo?" "Non l'avevo ancora sentito dire", rispose Candido, "ma che lo sia o no, io non ho pane".


"Non meritate di mangiarne", disse l'altro, "andatevene, farabutto; andate miserabile, lungi dalla mia vista".


La moglie dell'oratore, affacciatasi alla finestra, vedendo un uomo che dubitava che il papa fosse l'Anticristo, gli rovesciò in testa un vaso pieno di... O cielo! a quali eccessi può condurre lo zelo religioso nelle signore!

Un uomo che non era battezzato, un buon anabattista, di nome Giacomo, vide la maniera crudele e ignominiosa in cui veniva trattato un suo fratello, un bipede implume con un'anima; lo condusse a casa sua, lo ripulì, gli diede del pane e della birra, gli regalò due fiorini, e volle persino insegnargli a lavorare nelle sue manifatture le stoffe persiane che si fabbricano in Olanda. Candido, quasi prosternandosi davanti a lui, esclamava:

"Il mio maestro Pangloss me l'aveva detto che tutto va per il meglio in questo mondo, perché io sono infinitamente più commosso della vostra estrema generosità che non della durezza di quel signore dal mantello nero e della signora sua sposa".


L'indomani, mentre passeggiava, incontrò un mendicante tutto coperto di pustole, con gli occhi spenti, la punta del naso corrosa, la bocca distorta, i denti neri, la voce gutturale; era tormentato da una tosse violenta, e a ogni accesso sputava un dente.




CAPITOLO QUARTO


COME CANDIDO INCONTRO' IL SUO VECCHIO MAESTRO DI FILOSOFIA, IL DOTTOR PANGLOSS, E CIO' CHE AVVENNE


Candido, mosso più dalla compassione che dall'orrore, diede all'orribile mendicante i due fiorini ricevuti dal buon anabattista Giacomo. Il fantasma lo guardò fissamente, versò qualche lacrima, e gli saltò al collo. Candido, sgomento, indietreggiò.


"Ahimè!" disse il miserabile all'altro miserabile, "non riconosci più il tuo caro Pangloss?" "Che sento? Voi, mio caro maestro! Voi, in quest'orribile stato! Quale sventura vi ha dunque colpito? Perché non vi trovate nel più bello dei castelli? Che ne è di madamigella Cunegonda, la perla delle fanciulle, il capolavoro della natura?" "Non ne posso più", disse Pangloss.


Subito Candido lo condusse nella stalla dell'anabattista, dove gli fece mangiare un po' di pane; e quando Pangloss si fu rifocillato:

"Ebbene!" gli disse, "e Cunegonda?" "E' morta", rispose l'altro.


A questa parola Candido svenne; l'amico lo fece tornare in sé con un po' di cattivo aceto trovato per caso nella stalla. Candido riapre gli occhi.


"Cunegonda è morta! Ah! migliore dei mondi, dove sei? Ma di quale malattia è morta? Non sarà per avermi visto cacciare dal cancello del suo signor padre a forza di calci?" "No", disse Pangloss, "è stata sventrata da alcuni soldati bulgari dopo esser stata violata quanto si può esserlo; il signor barone, che voleva difenderla, ha avuto la testa sfondata; la signora baronessa è stata tagliata a pezzi; il mio povero pupillo, trattato esattamente come sua sorella; quanto al castello, non ne è rimasta pietra su pietra, non un fienile, non una pecora, non un'anatra, non un albero; ma siamo stati ben vendicati, perché gli Avari hanno fatto altrettanto in una baronia vicina, che apparteneva a un signore bulgaro".


A tale discorso Candido svenne una seconda volta; ma, tornato in sé, e detto tutto ciò che doveva dire, si informò della causa e dell'effetto, e della ragion sufficiente che avevano ridotto Pangloss in uno stato così pietoso.


"Ahimè!" disse l'altro, "è l'amore: l'amore, il consolatore del genere umano, il conservatore dell'universo, l'anima di tutti gli esseri sensibili, il tenero amore".


"Ahimè", disse Candido, "l'ho conosciuto, quest'amore, questo sovrano dei cuori, quest'anima della nostra anima, non mi ha fruttato che un bacio e venti calci nel sedere. Come mai una così bella causa ha potuto produrre in voi un così abominevole effetto?" Pangloss rispose in questi termini:

"Mio caro Candido! tu hai conosciuto Pasquetta, la graziosa cameriera della nostra augusta baronessa, nelle sue braccia ho gustato le delizie del paradiso, che hanno prodotto i tormenti d'inferno da cui mi vedi divorato; ne era impestata, forse ne è morta. Pasquetta doveva questo regalo a un dottissimo frate francescano, che era risalito alla fonte, perché l'aveva avuto da una vecchia contessa, che l'aveva ricevuto da un capitano di cavalleria, che lo doveva a una marchesa, che l'aveva avuto da un paggio, che l'aveva ricevuto da un gesuita, il quale, da novizio, I'aveva avuto direttamente da un compagno di Cristoforo Colombo. Quanto a me, non lo darò a nessuno, perché muoio".


"O Pangloss!" esclamò Candido, "ecco una strana genealogia! il capostipite non ne è forse il diavolo?" "Niente affatto", replicò il grand'uomo, "era una cosa indispensabile, nel migliore dei mondi, un ingrediente necessario: perché se Colombo non avesse preso in un'isola dell'America questa malattia che avvelena la sorgente della generazione, che spesso anzi impedisce la generazione stessa, e che, evidentemente, si oppone al grande fine della natura, non avremmo né cioccolata né cocciniglia; bisogna poi osservare che nel nostro continente, fino a oggi, questa malattia è tipicamente nostra, come la controversia. Turchi, Indiani, Persiani, Cinesi, Siamesi, Giapponesi, non la conoscono ancora: ma c'è ragion sufficiente che debbano conoscerla a loro volta fra qualche secolo.


Nel frattempo ha fatto meravigliosi progressi fra noi, e soprattutto in quei grandi eserciti composti di onesti mercenari beneducati che decidono del destino degli Stati; si può affermare che, quando trentamila uomini combattono in battaglia campale contro eserciti di egual numero, ci siano circa ventimila impestati per parte".


"Una cosa mirabile", disse Candido, "ma bisogna guarirvi".


"E come posso?" disse Pangloss. "Non ho un soldo, amico mio, e in tutta l'estensione del globo non si può avere né un salasso, né un clistere senza pagarlo, o senza qualcuno che paghi per noi".


Quest'ultimo ragionamento fece prendere a Candido una decisione; andò a gettarsi ai piedi del suo anabattista Giacomo, e gli dipinse in maniera così commovente lo stato in cui l'amico era ridotto che il buonuomo non esitò a raccogliere il dottor Pangloss; lo fece guarire a proprie spese. Pangloss, durante la cura, non perse che un occhio e un orecchio. Scriveva bene, e conosceva perfettamente l'aritmetica.


L'anabattista Giacomo ne fece il proprio contabile. In capo a due mesi, trovandosi nella necessità d'andare a Lisbona per ragioni di commercio, condusse con sé sulla nave i due filosofi. Pangloss gli spiegò come tutto fosse disposto per il meglio. Giacomo non era di quest'opinione.


"Bisogna bene", diceva, "che gli uomini abbiano corrotto un po' la natura, poiché non sono nati lupi, e lo sono diventati. Dio non ha dato loro né cannoni da ventiquattro, né baionette; e loro si sono fabbricati cannoni e baionette per distruggersi. Potrei aggiungere le bancarotte, e la giustizia che si impadronisce dei beni dei bancarottieri per defraudare i creditori".


"Tutto questo era indispensabile", replicava il dottore guercio, "e i mali particolari compongono il bene generale; di modo che più ci sono disgrazie particolari e più tutto va bene".


Mentre così ragionava, l'aria si oscurò, i venti soffiarono dai quattro angoli della terra, e il vascello fu assalito dalla più orribile tempesta, proprio in vista del porto di Lisbona.




CAPITOLO QUINTO


TEMPESTA, NAUFRAGIO, TERREMOTO, E CIO' CHE AVVENNE DEL DOTTOR PANGLOSS, DI CANDIDO, E DELL'ANABATTISTA GIACOMO


Una metà dei passeggeri, indeboliti, stremati dalle inimmaginabili angosce che il rullio di un vascello provoca nei nervi e in tutti gli umori del corpo agitati in senso contrario, non avevano neppure la forza di preoccuparsi del pericolo. L'altra metà gridava e pregava; le vele erano strappate, gli alberi spezzati, il vascello squarciato.


Lavorava chi poteva, nessuno capiva niente, nessuno comandava.


L'anabattista aiutava un poco alla manovra; stava sulla tolda; un marinaio infuriato lo colpisce duramente e lo stende sul ponte, ma il contraccolpo gli procurò una scossa così violenta che cadde fuori bordo a testa in giù. Rimase sospeso e agganciato all'albero spezzato.


Il buon Giacomo corre in suo soccorso, l'aiuta a risalire, e per lo sforzo compiuto è precipitato in mare sotto gli occhi del marinaio che lo lascia perire senza nemmeno degnarsi di guardarlo. Candido si avvicina, vede il suo benefattore che riappare un momento, e che viene inghiottito per sempre. Vuole gettarsi pure lui in mare: il filosofo Pangloss glielo impedisce, dimostrandogli che la rada di Lisbona era stata appositamente formata perché l'anabattista ci annegasse. Mentre glielo dimostrava "a priori", il vascello si spacca; tutto perisce salvo Pangloss, Candido e quel brutale marinaio che aveva fatto annegare il virtuoso anabattista: il farabutto nuotò felicemente fino a riva, dove Pangloss e Candido giunsero sopra una tavola.


Quando si furono un po' ripresi, s'incamminarono verso Lisbona; avevano ancora qualche soldo con cui speravano di salvarsi dalla fame dopo essere scampati alla tempesta.


Hanno appena messo il piede in città, piangendo la morte del loro benefattore, quando la terra comincia a tremare sotto di loro, il mare si innalza ribollendo nel porto, e spezza i vascelli ancorati. Turbini di fiamme e di cenere coprono le strade e le pubbliche piazze; le case crollano, i tetti si rovesciano sulle fondamenta, e le fondamenta si dissolvono; trentamila abitanti d'ogni sesso ed età sono schiacciati sotto le macerie. Il marinaio diceva fischiando e bestemmiando:

"Ci sarà qualcosa da guadagnare qui".


"Quale può essere la ragion sufficiente di questo fenomeno?" diceva Pangloss.


"Ecco l'ultimo giorno del mondo!" esclamava Candido.


Il marinaio corre subito in mezzo alle macerie, affronta la morte per trovare del denaro, ne trova, se ne impadronisce, si ubriaca, e, dopo avere smaltito la sbornia, compra i favori della prima ragazza di buona volontà che gli capita d'incontrare sulle rovine delle case distrutte, in mezzo a morti e moribondi. Pangloss frattanto lo tirava per la manica.


"Amico mio", gli diceva, "così non va, voi venite meno alla ragione universale, scegliete male il momento".


"Testa e sangue", rispose l'altro, "sono marinaio e sono nato a Batavia; ho calpestato quattro volte il crocefisso in quattro viaggi al Giappone; avete trovato proprio l'uomo giusto per la vostra ragione universale!" Alcune schegge di pietra avevano ferito Candido, che stava steso sulla strada, coperto di macerie. Diceva a Pangloss:

"Ahimè! procuratemi un po' d'olio e di vino; muoio".


"Questo terremoto non è cosa nuova", rispose Pangloss, "la città di Lima provò le stesse scosse in America, l'anno scorso; stesse cause, stessi effetti; certamente c'è un striscia di zolfo sotto terra, che va da Lima a Lisbona".


"Niente di più probabile", disse Candido, "ma, per Dio, un po' d'olio e di vino".


"Come probabile?" replicò il filosofo, "Io sostengo che la cosa è dimostrata".


Candido perse conoscenza, e Pangloss gli portò un po' d'acqua da una fontana vicina.


L'indomani, con qualche cibaria trovata strisciando attraverso le macerie, recuperarono un poco le forze. Poi si diedero da fare come gli altri per soccorrere gli abitanti scampati alla morte. Alcuni cittadini, da loro soccorsi, gli offrirono il miglior pasto che fosse possibile in un simile disastro: è ben vero che il pasto fu triste; i convitati innaffiavano il pane con le lacrime, ma Pangloss li consolò, assicurandoli che le cose non potevano andare altrimenti.


"Perché" diceva, "tutto ciò è quanto c'è di meglio; perché se c'è un vulcano a Lisbona, non poteva essere altrove, perché è impossibile che le cose non siano dove sono, perché tutto è bene".


Un ometto nero, familiare dell'Inquisizione, che si trovava al suo fianco, prese educatamente la parola e gli disse:

"Si direbbe che il signore non crede al peccato originale; perché se tutto va per il meglio, non c'è dunque stata né caduta né castigo".


"Chiedo umilissimamente scusa a Vostra Eccellenza", rispose Pangloss ancora più educatamente, "ma la caduta dell'uomo e la maledizione rientravano necessariamente nel migliore dei mondi possibili".


"Il signore dunque non crede alla libertà?" disse il familiare.


"Vostra Eccellenza mi scuserà;" disse Pangloss, "la libertà può coesistere con la necessità assoluta: poiché era necessario che noi fossimo liberi; poiché insomma la volontà determinata..".


Pangloss era a metà della frase, quando il familiare fece un cenno col capo al suo staffiere che gli mesceva vino di Porto o di Oporto.




CAPITOLO SESTO


COME SI FECE UN BELL'AUTODAFE' PER SCONGIURARE I TERREMOTI E COME CANDIDO VENNE FUSTIGATO


Dopo il terremoto che aveva distrutto i tre quarti di Lisbona, i saggi del paese non avevano trovato, per prevenire una rovina totale, mezzo più efficace che offrire al popolo un bell'autodafé; l'università di Coimbra aveva stabilito che lo spettacolo di alcune persone bruciate a fuoco lento e con grande pompa è un segreto infallibile per impedire alla terra di tremare.


Avevano perciò preso un biscaglino convinto di aver sposato la propria madrina, e due portoghesi che, per mangiare un pollo, gli avevano tolto il grasso; dopo pranzo vennero e legarono il dottor Pangloss e il suo discepolo Candido, l'uno per aver parlato, e l'altro per avere ascoltato con aria d'approvazione: furono condotti separatamente in due appartamenti d'estrema freschezza, dove non si era mai infastiditi dal sole: otto giorni dopo li rivestirono ambedue di un "sanbenito" e gli ornarono la testa di mitre di carta: la mitra e il sanbenito di Candido portavano dipinte fiamme rovesciate e diavoli senza coda né grinfie: ma i diavoli di Pangloss avevano grinfie e code, e le fiamme erano diritte. Così vestiti sfilarono in processione, e ascoltarono un sermone molto patetico, seguito da una bella musica in falso bordone.


Candido fu battuto in cadenza, mentre cantavano; il biscaglino e i due uomini che non avevano voluto mangiare il lardo furono bruciati, e Pangloss impiccato, benché l'usanza non fosse tale. Lo stesso giorno la terra tremò di nuovo con un fracasso orribile.


Candido, spaventato, sconvolto, smarrito, tutto sanguinante, tutto palpitante, diceva fra sé:

"Se questo è il migliore dei mondi possibili, cosa saranno mai gli altri? Passi che mi abbiano frustato, lo sono stato anche coi Bulgari; ma, o mio caro Pangloss, massimo dei filosofi! bisognava che vi vedessi impiccare, senza sapere perché! O mio caro anabattista! O migliore degli uomini, bisognava che foste annegato nel porto! O madamigella Cunegonda, perla delle fanciulle! bisognava che vi squarciassero il ventre!" Tornò indietro, reggendosi appena, sermoneggiato, frustato, assolto e benedetto, quando una vecchia gli si accostò e gli disse:

"Figliolo, fatevi coraggio e seguitemi".




CAPITOLO SETTIMO


COME UNA VECCHIA SI PRESE CURA DI CANDIDO E COME CANDIDO RITROVO' CIO' CHE AMAVA


Candido non si fece coraggio, ma seguì la vecchia in una casupola: la vecchia gli diede un vasetto di pomata perché se la spalmasse, e gli lasciò da mangiare e da bere; gli mostrò un lettuccio abbastanza pulito; e accanto al letto un abito.


"Mangiate, bevete, dormite", gli disse, "e che Nostra Signora di Atocha e monsignor Sant'Antonio da Padova e monsignor San Giacomo di Compostella vi proteggano! Io tornerò domani".


Candido, ancora stupito di quanto aveva visto e sofferto e ancor più della carità della vecchia, le volle baciare la mano.


"Non è a me che dovete baciare la mano", disse la vecchia, "tornerò domani. Spalmatevi la pomata, mangiate e dormite".


Candido, malgrado tante sventure, mangiò e dormì. L'indomani la vecchia gli porta la colazione, gli esamina la schiena, lo unge lei stessa con un'altra pomata; poi gli porta il pranzo; la sera ritorna, e gli porta la cena. Il giorno dopo compie le stesse cerimonie.


"Chi siete?" le domandava sempre Candido, "chi vi ispira tanta bontà?

Come posso ringraziarvi?" La buona donna non rispondeva mai niente; verso sera tornò, senza portare la cena.


"Venite con me", gli disse, "e non parlate".


Lo prende a braccetto e cammina con lui nella campagna per un quarto di miglio circa: arrivano a una casa isolata, circondata da giardini e canali. La vecchia bussa a una porticina, che si apre; per una scala segreta conduce Candido in una saletta dorata, lo fa sedere su di un canapé ricoperto di broccato, richiude la porta, e se ne va. A Candido pareva di sognare, tutta la sua vita gli appariva come un sogno funesto, e il momento presente un piacevole sogno.


La vecchia ricomparve subito; sosteneva a fatica una donna tremante, di statura maestosa, sfolgorante di gemme, e coperta d'un velo.


"Togliete il velo" disse a Candido la vecchia.


Il giovane si avvicina; alza il velo con mano timida. Che momento! che sorpresa! gli sembra di vedere madamigella Cunegonda; la vedeva infatti, era lei in persona. Gli vengono meno le forze, non riesce a parlare, le cade ai piedi. Cunegonda cade sul canapé. La vecchia li inonda di acque spiritose; riprendono i sensi, si parlano; dapprima sono parole smozzicate, domande e risposte che s'incrociano, sospiri, lacrime, gridi. La vecchia gli raccomanda di far meno rumore, e li lascia soli.


"Come! siete voi", le dice Candido, "siete viva! vi ritrovo in Portogallo! Dunque non vi hanno violata? Non vi hanno squarciato il ventre, come mi aveva detto il filosofo Pangloss".


"Oh! sì", disse la bella Cunegonda, "ma non sempre si muore per questi due accidenti".


"Ma vostro padre e vostra madre sono stati uccisi?" "Purtroppo" disse Cunegonda piangendo.


"E vostro fratello?" "Ammazzato anche lui".


"E come mai vi trovate in Portogallo? come avete saputo che c'ero anch'io, e per quale strana avventura mi avete fatto condurre in questa casa?" "Vi dirò tutto", rispose la dama, "ma prima bisogna che mi raccontiate quel che vi è successo dopo il bacio innocente che m'avete dato, e i calci che avete ricevuto".


Candido le obbedì con profondo rispetto; e benché fosse confuso, benché avesse la voce fioca e tremante, benché la schiena gli facesse ancora un po' male, le raccontò nella maniera più ingenua quanto aveva sopportato dal momento della loro separazione. Cunegonda alzò gli occhi al cielo: sparse lacrime sulla morte del buon anabattista e di Pangloss; dopo di che parlò in questi termini a Candido, che non perdeva una parola e la mangiava con gli occhi.




CAPITOLO OTTAVO


STORIA DI CUNEGONDA


"Ero a letto e dormivo profondamente, quando al cielo piacque di mandare i Bulgari nel nostro bel castello di Thunder-ten-tronckh; essi sgozzarono mio padre e mio fratello, e tagliarono a pezzi mia madre.


Un bulgaro enorme, alto sei piedi, vedendo che a tale spettacolo avevo perso conoscenza, cominciò a violarmi; il che mi fece rinvenire, ripresi i sensi, gridai, mi dibattei, morsi, graffiai, volli cavare gli occhi a quel bulgaro mastodontico, non sapendo che quanto accadeva nel castello di mio padre era cosa usuale: quel bruto mi diede una coltellata nel fianco sinistro di cui porto ancora il segno".


"Ahimè! spero di vederla" disse l'ingenuo Candido.


"La vedrete", disse Cunegonda, "ma andiamo avanti".


"Andate avanti" disse Candido.


Cunegonda riprese il filo della sua storia:

"Un capitano bulgaro entrò, vide me tutta sanguinante e il soldato che non si scomodava. Si irritò moltissimo del poco rispetto che gli dimostrava quel bruto, e lo uccise sopra il mio corpo. Poi mi fece medicare, e mi condusse come prigioniera di guerra nel suo quartiere.


Io gli lavavo le poche camicie che aveva, e cucinavo: devo ammettere che mi trovava molto graziosa, e non posso negare che fosse ben fatto, e che avesse una pelle bianca e morbida; per il resto, poco spirito, poca filosofia: si vedeva bene che non era stato educato dal dottor Pangloss. In capo a tre mesi, ridotto al verde e sazio di me, mi vendette a un ebreo di nome don Issachar, che trafficava in Olanda e in Portogallo, e a cui piacevano sfrenatamente le donne. L'ebreo si affezionò moltissimo alla mia persona, ma non poté trionfarne; gli resistetti meglio che al soldato bulgaro: una donna onesta può essere violata una volta, ma la sua virtù ne esce rafforzata. L'ebreo, per ammansirmi, mi condusse in questa casa di campagna. Fino ad allora avevo creduto che non ci fosse niente di così bello come il castello di Thunder-ten-tronckh; mi sono dovuta ricredere.


Un giorno il grande inquisitore mi vide alla messa; mi adocchiò a lungo, e mi fece dire che doveva parlarmi di affari segreti. Fui condotta al suo palazzo, gli rivelai la mia nascita; mi fece osservare quanto fosse al di sotto del mio rango l'appartenere a un israelita.


Da parte sua proposero a don Issachar di cedermi a monsignore. Don Issachar, che è banchiere di corte e uomo di credito, non ne volle sapere. L'inquisitore lo minacciò di un autodafé. Alla fine l'ebreo, intimorito, concluse un accordo secondo il quale la casa e io saremmo appartenuti in comune a tutti e due; che l'ebreo avrebbe avuto per sé il lunedì, il mercoledì, e il sabato, mentre all'inquisitore sarebbero toccati gli altri giorni della settimana. L'accordo sussiste da sei mesi: non senza liti, perché spesso è incerto se la notte fra il sabato e la domenica appartenga alla vecchia o alla nuova legge.


Quanto a me, finora, ho resistito a tutti e due; ed è per questo, credo, che sono stata sempre amata.


Finalmente, per scongiurare il flagello dei terremoti, e per intimidire don Issachar, piacque a monsignor l'inquisitore di celebrare un autodafé. Mi onorò di un invito. Ebbi un posto di favore, tra la messa e l'esecuzione vennero serviti dei rinfreschi alle dame.


In verità rimasi inorridita nel veder bruciare i due giudei e l'onesto biscaglino che aveva sposato la sua madrina; ma quale fu la mia sorpresa, lo spavento, il terrore, quando vidi, in sanbenito e sotto una mitra, una figura che rassomigliava a quella di Pangloss! Mi fregai gli occhi, guardai attentamente, lo vidi impiccare; caddi svenuta. Avevo appena ripreso i sensi quando vi vidi spogliato nudo; fu il colmo dell'orrore, della costernazione, del dolore, della disperazione. Sinceramente, vi dirò che la vostra pelle è ancor più bianca, e di un incarnato più perfetto, di quella del mio capitano dei Bulgari. Tale vista raddoppiò i sentimenti che mi opprimevano, che mi divoravano. Gridai, volli urlare: «Fermatevi, barbari!». Ma mi mancò la voce, e le mie grida sarebbero state inutili. Quando vi ebbero ben frustato: «Come può essere», mi dicevo, «che l'amabile Candido e il saggio Pangloss si trovino a Lisbona, l'uno per ricevere cento frustate, e l'altro per essere impiccato su ordine di monsignor l'inquisitore, di cui sono la favorita?». Pangloss mi ha dunque crudelmente ingannata quando mi diceva che tutto va per il meglio?" Sconvolta, disperata, ora fuori di me, ora sul punto di morire sfinita, avevo la testa piena del massacro di mio padre, di mia madre, di mio fratello, dell'insolenza di quel rozzo soldato bulgaro, della coltellata che mi diede, della mia schiavitù, del mio mestiere di cuoca, del mio capitano bulgaro, di quell'orribile don Issachar, dell'abominevole inquisitore, dell'impiccagione del dottor Pangloss, del solenne miserere in falso bordone durante il quale vi frustavano, e soprattutto del bacio che vi avevo dato dietro un paravento, il giorno in cui vi ho visto per l'ultima volta. Lodai Dio che vi riconduceva a me attraverso tante prove. Raccomandai alla vecchia di aver cura di voi, e di condurvi qui appena possibile. Ha eseguito benissimo l'incarico; ho così gustato l'inesprimibile piacere di rivedervi, di ascoltarvi, di parlarvi. Dovete avere una fame tremenda, io ho un grande appetito; cominciamo a mangiare".


Eccoli che si mettono a tavola, dopo cena si risiedono sul bel canapé di cui s'è già detto; stavano appunto seduti, quando arrivò don Issachar, uno dei padroni di casa. Era sabato. Veniva a godere dei suoi diritti, e a esternare il suo tenero amore.




CAPITOLO NONO


QUEL CHE AVVENNE DI CUNEGONDA, DI CANDIDO, DEL GRANDE INQUISITORE E DI UN EBREO


Questo Issachar era l'ebreo più collerico che si fosse mai visto in Israele dalla cattività di Babilonia in poi.


"Come!" disse, "cagna d'una galilea, non è abbastanza il signor inquisitore? Devo fare a mezzo anche con questo farabutto?" Così dicendo cava un lungo pugnale che portava sempre con sé, e, convinto che l'avversario fosse disarmato, si getta su Candido; ma il nostro buon vestfaliano aveva avuto dalla vecchia, insieme all'abito nuovo, anche una bella spada. Sebbene di costumi molto miti, sguaina la spada e stende l'israelita morto stecchito sul pavimento, ai piedi della bella Cunegonda.


"Vergine santa!" esclama lei, "che sarà di noi? Un uomo ucciso in casa mia! se arriva la giustizia siamo perduti".


"Se Pangloss non fosse stato impiccato", disse Candido, "ci darebbe un buon consiglio in questo frangente, poiché era un grande filosofo. In sua mancanza consultiamo la vecchia".


La vecchia era assai prudente, e cominciava a dire la sua opinione, quando un'altra porticina si aprì. Era l'una del mattino, l'inizio della domenica. Questo giorno apparteneva al signor inquisitore. Il quale entra e vede il fustigato Candido con la spada in mano, un morto steso a terra, Cunegonda smarrita, e la vecchia che dà consigli.


Ecco quanto avvenne nell'animo di Candido, e come ragionò: "Se questo sant'uomo chiama aiuto, sicuramente mi farà bruciare, e altrettanto potrebbe fare di Cunegonda; mi ha fatto fustigare senza pietà; è mio rivale; sto già ammazzando; non è il caso d'esitare". Questo ragionamento fu rapido e chiaro. Senza dare all'inquisitore il tempo di riaversi dalla sorpresa, lo trapassa da parte a parte, e lo getta di fianco all'ebreo.


"Eccone un altro;" disse Cunegonda, "non c'è più salvezza; siamo scomunicati, la nostra ultima ora è venuta. Come avete fatto, voi che eravate di natura così mite, ad ammazzare in due minuti un ebreo e un prelato?" "Mia cara ragazza", rispose Candido, "quando si è innamorati, gelosi, e frustati dall'Inquisizione, non ci si riconosce più".


La vecchia allora prese la parola e disse:

"Ci sono tre cavalli andalusi in scuderia, con selle e briglie: che il bravo Candido li prepari; la signora possiede pistole e diamanti; saltiamo in fretta a cavallo, benché io non possa appoggiarmi che su una chiappa sola, e andiamo a Cadice; c'è un tempo bellissimo, ed è un gran piacere viaggiare col fresco della notte".


Subito Candido sella i tre cavalli. Cunegonda, la vecchia e lui fanno trenta miglia tutto d'un fiato. Mentre si allontanano la "Santa Hermandad" entra in casa, monsignore viene seppellito in una bella chiesa e don Issachar viene buttato nell'immondezzaio.


Candido, Cunegonda e la vecchia si trovavano già nella cittadina di Avacena, in mezzo alle montagne della Sierra Morena, e in un'osteria così parlavano.




CAPITOLO DECIMO


IN CHE DISTRETTE CANDIDO, CUNEGONDA E LA VECCHIA ARRIVANO A CADICE, E DEL LORO IMBARCO


"Chi dunque ha potuto rubarmi pistole e diamanti?" diceva piangendo Cunegonda, "di che vivremo? come faremo? dove trovare inquisitori ed ebrei che me ne diano degli altri?" "Ahimè!" disse la vecchia, "sospetto molto un reverendo padre francescano che ieri ha passato la notte nel nostro stesso albergo a Badajoz; Dio mi guardi dal formulare giudizi temerari! ma è entrato due volte nella nostra camera ed è partito molto prima di noi".


"Ahimè!" disse Candido, "il buon Pangloss mi aveva spesso dimostrato che i beni della terra sono comuni a tutti gli uomini, che ciascuno vi ha ugual diritto. Questo frate avrebbe dovuto, seguendo tali principi, lasciarci quanto serviva per concludere il nostro viaggio. Non vi resta dunque più niente, mia bella Cunegonda?" "Neanche un «maravedis»".


"Che fare?" disse Candido.


"Vendiamo uno dei cavalli;" disse la vecchia, "io salirò in groppa dietro madamigella, benché non possa stare che su una chiappa sola, e arriveremo a Cadice".


C'era nello stesso albergo un priore dei benedettini che acquistò il cavallo a buon mercato. Candido, Cunegonda e la vecchia passarono per Lucerna, Chillas e Lebrixa, e finalmente arrivarono a Cadice, dove stavano allestendo una flotta e radunando truppe per ridurre alla ragione i reverendi padri gesuiti del Paraguay, accusati d'avere spinto alla rivolta una delle loro orde contro il re di Spagna e del Portogallo, presso la città di San Sacramento. Candido, avendo prestato servizio sotto i Bulgari, eseguì l'esercizio bulgaresco davanti al generale del piccolo esercito con tanta grazia, sveltezza, abilità, fierezza e agilità, che gli affidarono il comando di una compagnia di fanti. Eccolo capitano; s'imbarca con madamigella Cunegonda, la vecchia, due servi, e due cavalli andalusi che erano appartenuti a monsignore il grande inquisitore.


Durante tutta la traversata ragionarono molto sulla filosofia del povero Pangloss.


"Andiamo in un altro mondo", diceva Candido, "è certamente in quello che tutto va bene. Perché bisogna ammettere che si potrebbe piangere un po' su quanto accade nel nostro, in fisica e in morale".


"Vi amo con tutto il cuore", diceva Cunegonda, "ma il mio animo è ancora tutto sgomento per ciò che ho visto e sofferto".


"Tutto andrà bene;" replicava Candido, "il mare di questo nuovo mondo è già migliore dei mari della nostra Europa; è più calmo, e i venti sono più costanti. E' certamente il nuovo mondo il migliore degli universi possibili".


"Dio lo voglia!" diceva Cunegonda, "ma sono stata così orribilmente infelice nel mio che il cuore mi si è quasi chiuso alla speranza".


"Vi lagnate;" disse loro la vecchia, "ahimè! voi non avete provato sventure simili alle mie!" Cunegonda quasi scoppiò a ridere, e trovò che la donna era molto spiritosa se pretendeva di essere più infelice di lei.


"Ahimè!" le disse, "mia cara, a meno che voi non siate stata violata da due bulgari, che non abbiate ricevuto due coltellate nel ventre, che non vi abbiano demolito due castelli, che non vi abbiano sgozzato davanti agli occhi due padri e due madri, e che non abbiate visto due vostri amanti frustati in un autodafé, non vedo come possiate credere di superarmi; aggiungete che sono nata baronessa con settantadue quarti, e che sono stata cuoca".


"Madamigella", rispose la vecchia, "voi non sapete quale è la mia nascita; e se vi mostrassi il sedere, non parlereste come fate:

sospendereste il giudizio".


Questo discorso fece nascere una grande curiosità nell'animo di Cunegonda e di Candido. La vecchia parlò in questi termini.




CAPITOLO UNDICESIMO


STORIA DELLA VECCHIA


Non sempre ho avuto gli occhi scerpellini e orlati di scarlatto; non sempre il naso mi ha toccato il mento, e non sempre sono stata serva.


Sono figlia di papa Urbano Decimo (1)e della principessa di Palestrina. Fino a quattordici anni fui allevata in un palazzo a cui tutti i castelli dei vostri baroni tedeschi non avrebbero fatto da scuderia; e una delle mie vesti valeva più di tutte le magnificenze della Vestfalia. Crescevo in bellezza, grazia e talenti, in mezzo a piaceri, omaggi e speranze. Già ispiravo amore; il mio seno si sviluppava; e che seno! bianco, sodo, modellato come quello della Venere dei Medici; e che occhi! che palpebre! che sopracciglia nere!

che fiamme splendevano nelle mie pupille: offuscavano lo scintillio delle stelle, come mi dicevano i poeti del quartiere. Le donne che mi vestivano e mi spogliavano cadevano in estasi guardandomi davanti e dietro; e tutti gli uomini avrebbero voluto essere al loro posto.


Mi fidanzarono a un principe sovrano di Massa Carrara. Che principe!

bello come me, pieno di dolcezza e di fascino, di spirito brillante e ardente d'amore. Lo amavo come si ama per la prima volta, con idolatria, con furore. Le nozze furono preparate con pompa e magnificenza inaudite: continue feste, caroselli, opere buffe; e tutta l'Italia fece per me dei sonetti di cui neanche uno passabile. Stavo per toccare il momento della mia felicità, quando una vecchia marchesa che era stata amante del mio principe, lo invitò a casa sua a prendere la cioccolata. Morì in meno di due ore, in preda a spaventose convulsioni. Ma questa non è che una bagatella. Mia madre, disperata, ma molto meno afflitta di me, volle strapparmi per qualche tempo a un soggiorno così funesto. Possedeva una bellissima terra nei pressi di Gaeta. Ci imbarcammo su una galera del paese, dorata come l'altare di San Pietro a Roma. Ed ecco che un corsaro di Salè piomba su di noi e ci assale; i nostri soldati si difesero come quelli del papa: si inginocchiarono tutti gettando le armi e chiedendo al corsaro un'assoluzione in "articulo mortis".


Immediatamente li spogliarono nudi come scimmie, e pure mia madre, e le damigelle d'onore, e anche me. E' ammirevole la diligenza con cui quei signori spogliano la gente. Ma ciò che mi sorprese maggiormente fu che ci misero a tutti un dito in un posto dove noi donne, di solito, non ci lasciamo mettere che delle cannule. Questa cerimonia mi pareva molto strana: ecco come si giudicano le cose quando non si è mai usciti dal proprio paese. Ben presto seppi che i pirati volevano assicurarsi che non vi avessimo nascosto dentro qualche diamante: è un'usanza stabilita da tempo immemorabile tra le nazioni civili che corrono i mari: ho saputo che i devotissimi cavalieri di Malta non se ne dimenticano mai quando catturano turchi e turche; è una legge del diritto delle genti, alla quale non si è mai derogato.


Non vi dico quanto sia duro, per una giovane principessa, essere condotta schiava in Marocco con sua madre. Potete ben immaginare tutto quello che dovemmo sopportare sul vascello corsaro. Mia madre era ancora molto bella; le nostre damigelle d'onore, le stesse cameriste, avevano più fascino di quanto se ne potesse trovare in tutta l'Africa.


Quanto a me, ero un incanto, ero la bellezza, la grazia stessa, ed ero pulzella. Non lo rimasi a lungo: quel fiore che avevo serbato per il bel principe di Massa Carrara, mi fu rapito dal capitano corsaro: un negro abominevole che credeva, oltre tutto, di farmi un onore. Certo bisognava che la signora principessa di Palestrina e io fossimo ben robuste per resistere a quanto ci toccò sopportare fino al nostro arrivo in Marocco. Ma sorvoliamo; son cose tanto comuni che non vale la pena di parlarne.


Quando giungemmo, il Marocco nuotava nel sangue. I cinquanta figli dell'imperatore Mulei-Ismael avevano ciascuno un proprio partito: ciò che provocava, in effetti, cinquanta guerre civili, di negri contro negri, di negri contro mori, di mori contro mori, di mulatti contro mulatti: era un carnaio continuo per tutta l'estensione dell'impero.


Appena sbarcate, dei negri di una fazione avversa a quella del mio corsaro comparvero per strappargli il bottino. Noi eravamo, dopo l'oro e i diamanti, quanto c'era di più prezioso. Fui testimone di un combattimento come non se ne vedono nei vostri climi d'Europa. I popoli settentrionali non hanno il sangue abbastanza ardente. Non hanno la passione per le donne al grado in cui è comune in Africa.


Sembra che i vostri europei abbiano del latte nelle vene; ma è vetriolo, fuoco, che scorre in quello degli abitanti del monte Atlante e dei paesi vicini. Combatterono col furore dei leoni, delle tigri e dei serpenti del luogo, per sapere a chi saremmo toccate. Un moro afferrò mia madre per il braccio destro, il luogotenente del mio capitano la trattenne per il sinistro; un soldato moro la prese per una gamba, uno dei nostri pirati la teneva per l'altra. In un momento le nostre donzelle si trovarono quasi tutte stirate in tal modo da quattro soldati. Il mio capitano mi teneva nascosta dietro di sé. La scimitarra in pugno ammazzava chiunque si opponesse alla sua rabbia.


Infine vidi tutte le nostre italiane, e mia madre, lacerate, fatte a pezzi, massacrate, da quei mostri che se le disputavano. I prigionieri nostri compagni, quelli che li avevano catturati, soldati, marinai, negri, mori, bianchi, mulatti, e anche il mio capitano, tutti furono uccisi, e io rimasi lì, moribonda, sopra un cumulo di morti. Scene simili si verificavano, com'è noto, per l'estensione di trecento leghe, senza che si trascurassero le cinque preghiere quotidiane prescritte da Maometto.


Mi liberai a fatica dall'ammasso di cadaveri insanguinati, e mi trascinai sotto un grande arancio, in riva a un ruscello vicino; là caddi per lo spavento, la stanchezza, l'orrore, la disperazione e la fame. Subito dopo, i miei sensi oppressi si abbandonarono a un sonno che somigliava più allo svenimento che al riposo. Ero in questo stato di debolezza e di insensibilità, tra la vita e la morte, quando mi sentii opprimere da qualcosa che si agitava sul mio corpo; aprii gli occhi, e vidi un uomo bianco, di bell'aspetto, che sospirava e diceva fra i denti: "O che sciagura d'essere senza c...!"




NOTE

1)Notate l'estrema discrezione dell'autore, non c'è mai stato finora alcun papa chiamato Urbano Decimo; teme di attribuire una bastarda a un papa conosciuto. Che circospezione! che coscienza delicata! (Nota di Voltaire, pubblicata per la prima volta nel 1829).




CAPITOLO DODICESIMO


SEGUITO DELLE DISGRAZIE DELLA VECCHIA


Stupefatta e felice di udire la lingua della mia patria, e non meno sorpresa delle parole proferite da quell'uomo, gli risposi che c'erano sventure ben maggiori di quelle di cui si lamentava. In breve lo informai degli orrori che avevo patito, e ricaddi svenuta. Lui mi portò in una casa vicina, mi fece mettere a letto, mi diede da mangiare, mi servì, mi consolò, mi carezzò, mi disse che non aveva mai visto niente di più bello di me, e che non aveva mai rimpianto tanto ciò che nessuno poteva rendergli.


"Sono nato a Napoli", mi disse, "dove ogni anno capponano due o tremila bambini; alcuni muoiono, gli altri acquistano una voce più bella di quella delle donne, altri vanno a governare qualche stato. Mi fecero quell'operazione con grande successo, e sono stato musico nella cappella della signora principessa di Palestrina". "Di mia madre!" esclamai, "Di vostra madre!" esclamò lui piangendo, "come! sareste forse la principessina che ho allevato fino a sei anni, e che già prometteva d'essere bella quanto siete voi?" "Sono proprio io; mia madre è a quattrocento passi da qui, tagliata in quattro sotto un mucchio di morti..." Gli raccontai quanto m'era capitato; anche lui mi raccontò le sue avventure, e mi informò di come fosse stato inviato presso il re del Marocco da una potenza cristiana per concludere un trattato in base al quale gli avrebbero fornito polvere da sparo, cannoni e vascelli per aiutarlo a sterminare il commercio degli altri cristiani. "La mia missione è compiuta" disse quell'onesto eunuco, "vado a Ceuta per imbarcarmi, e vi riconduco in Italia. «Ma che sciagura d'essere senza c...!»" Lo ringraziai con lacrime di tenerezza; e lui, invece di portarmi in Italia, mi condusse ad Algeri, e mi vendette al dey di quella provincia. Gli ero appena stata venduta quando la peste, che ha fatto il giro dell'Africa, dell'Asia e dell'Europa, scoppiò furiosamente ad Algeri. Voi avete visto dei terremoti; ma, madamigella, non avete mai avuto la peste?

"Mai" rispose la baronessa.


"Se l'aveste avuta", riprese la vecchia, "converreste che è ben peggio di un terremoto. E' molto comune in Africa; io ne fui colpita.


Immaginate quale situazione per la figlia di un papa, in età di quindici anni, che in tre mesi aveva sperimentato la povertà, la schiavitù, era stata violata quasi tutti i giorni, aveva visto tagliare in quattro sua madre, aveva sopportato la fame e la guerra, e moriva di peste ad Algeri. Tuttavia non morii, ma il mio eunuco e il dey, e quasi tutto il serraglio di Algeri perirono.


Quando le prime devastazioni di quella spaventosa pestilenza si furono attenuate, le schiave del dey vennero vendute. Un mercante mi comprò e mi condusse a Tunisi; mi vendette a un altro mercante, che mi rivendette a Tripoli; da Tripoli fui rivenduta ad Alessandria, da Alessandria a Smirne, da Smirne a Costantinopoli. Appartenni infine a un aga dei giannizzeri, che ricevette ben presto l'ordine di andare a difendere Azov contro i Russi che l'assediavano.


L'aga, che era un uomo assai galante, condusse con sé l'intero serraglio, e ci alloggiò in un piccolo forte sulla Palude Meotide, custodito da due eunuchi negri e da venti soldati. Uccisero un numero straordinario di Russi, che però ci resero pan per focaccia. Azov fu messa a ferro e fuoco; non perdonarono né al sesso né all'età; non rimase che il nostro piccolo forte: i nemici vollero prenderci per fame. I venti giannizzeri avevano giurato di non arrendersi mai.


Ridotti agli estremi della fame, furono costretti a mangiare i due eunuchi, per timore di violare il giuramento. Dopo qualche giorno decisero di mangíare le donne.


C'era fra noi un imano molto pio e compassionevole, che fece loro un bel discorso con cui li persuase a non ammazzarci affatto. "Tagliate", disse, "solo una chiappa a ognuna di queste signore; farete un ottimo pranzo; se sarà necessario ripetere, fra qualche giorno ne avrete altrettanto; il cielo vi sarà grato di un'azione così caritatevole, e vi verrà in aiuto".


Era molto eloquente; li persuase. Ci fecero l'orrenda operazione.


L'imano ci applicò quel balsamo che si usa mettere ai bambini prima di circonciderli. Eravamo tutte in punto di morte.


I giannizzeri avevano appena terminato il pranzo da noi fornito, quando arrivano i Russi su delle barche a fondo piatto: neanche un giannizzero si salvò. I Russi non fecero alcuna attenzione allo stato in cui eravamo. Dappertutto ci sono chirurghi francesi; uno di loro, che era molto abile, ci curò; ci guarì e per tutta la vita mi ricorderò che, quando le mie piaghe furono completamente rimarginate, mi fece delle proposte. Infine disse a tutte di consolarci; ci assicurò che una cosa simile era accaduta in parecchi assedi, e che era la legge della guerra.


Appena le mie compagne furono in grado di camminare, le condussero a Mosca. Toccai in sorte a un boiardo che fece di me la sua giardiniera, e che mi dava venti frustate al giorno; ma quando dopo due anni, questo signore venne arrotato insieme a una trentina di boiardi per qualche intrigo di corte, approfittai dell'occasione: fuggii; attraversai tutta la Russia; per lungo tempo fui serva in una taverna di Riga, poi a Rostock, a Vismar, a Lipsia, a Cassel, a Utrecht, a Leida, all'Aja, a Rotterdam; sono invecchiata nella miseria e nell'obbrobrio, con solo mezzo sedere, ricordandomi sempre di essere figlia di un papa; volli uccidermi cento volte, ma amavo ancora la vita. Questa ridicola debolezza è forse una delle nostre inclinazioni più funeste: c'è qualcosa di più sciocco del voler portare continuamente un fardello che vorremmo sempre gettare a terra? di avere orrore della propria esistenza e di tenersi aggrappati alla propria esistenza? insomma di accarezzare il serpente che ci divora, finché ci abbia mangiato il cuore?

Nei paesi che la sorte mi ha fatto percorrere, e nelle taverne in cui ho servito, ho visto un numero straordinario di persone che detestavano la propria esistenza; ma non ne vidi che dodici porre fine volontariamente alla propria miseria: tre negri, quattro inglesi, quattro ginevrini, e un professore tedesco di nome Robeck. Ho finito per essere serva in casa dell'ebreo Issachar che mi ha messo accanto a voi, mia bella damigella; ho preso a cuore la vostra sorte, e mi sono occupata più delle vostre avventure che delle mie. Non vi avrei neanche mai parlato delle mie disgrazie se non mi aveste stuzzicata un po', e se non fosse usanza, sulle navi, raccontare qualche storia per scacciare la noia. Insomma, madamigella, sono esperta, conosco il mondo; concedetevi un divertimento, invitate tutti i passeggeri a raccontarvi la loro storia, e se ne trovate uno solo che non abbia maledetto spesso la propria vita, che non si sia detto spesso di essere il più infelice degli uomini, gettatemi pure in mare a testa in giù.




CAPITOLO TREDICESIMO


COME CANDIDO FU COSTRETTO A SEPARARSI DALLA BELLA CUNEGONDA E DALLA VECCHIA


La bella Cunegonda, quando ebbe ascoltato la storia della vecchia, le usò tutte le gentilezze dovute a una persona del suo rango e del suo merito. Accettò la proposta; invitò tutti i passeggeri, uno dopo l'altro, a raccontarle le proprie avventure. Candido e lei confessarono che la vecchia aveva ragione.


"E' un gran peccato", diceva Candido, "che il saggio Pangloss sia stato impiccato, contro l'usanza, in un autodafé; ci direbbe cose mirabili sul male fisico e sul male morale che coprono la terra e il mare, e io mi sentirei abbastanza forte da osare fargli qualche rispettosa obiezione".


Mentre ognuno raccontava la propria storia, il vascello proseguiva la rotta. Approdarono a Buenos Aires. Cunegonda, il capitano Candido e la vecchia si recarono dal governatore don Fernando d'Ibaraa, y Figueora, y Mascarenes, y Lampurdos, y Suza. Questo signore aveva l'alterigia che s'addice a un uomo che porta tanti nomi. Parlava alla gente col più nobile disdegno, tenendo il naso così alto, alzando così implacabilmente la voce, assumendo un tono così imponente, affettando un'andatura così altera che tutti quelli che lo salutavano erano tentati di picchiarlo. Amava follemente le donne. Cunegonda gli parve quanto aveva mai visto di più bello. La prima cosa che fece fu di chiedere se non fosse la moglie del capitano. Il tono con cui fece la domanda allarmò Candido: il quale non osò dirgli che era sua moglie, perché in realtà non lo era; non osava dire che era sua sorella, perché anche questo era falso; e benché tale menzogna ufficiosa fosse stata molto di moda presso gli antichi, e potesse tornare utile ai moderni, la sua anima era troppo pura per tradire la verità.


"Madamigella Cunegonda", disse, "mi deve far l'onore di sposarmi, e noi supplichiamo Vostra Eccellenza che si degni di concludere le nozze".


Don Fernando d'Ibaraa, y Figueora, y Mascarenes, y Lampurdos, y Suza, arricciandosi i baffi, sorrise amaramente, e ordinò al capitano Candido di andare a passare in rivista la sua compagnia. Candido ubbidì; il governatore rimase con madamigella Cunegonda. Le dichiarò la sua passione, le protestò che l'indomani l'avrebbe sposata davanti alla Chiesa, o ad altri, come più le sarebbe piaciuto. Cunegonda gli chiese un quarto d'ora per riflettere, per consultare la vecchia e per prendere una decisione.


La vecchia disse a Cunegonda:

"Madamigella, voi avete settantadue quarti e nemmeno un soldo; non dipende che da voi di diventare la moglie del più gran signore dell'America meridionale, il quale ha dei bellissimi baffi; dovete essere proprio voi a piccarvi di una fedeltà a tutta prova? Siete stata violata dai Bulgari; un ebreo e un inquisitore hanno goduto le vostre buone grazie: le sventure danno dei diritti. Confesso che, se fossi al vostro posto, non mi farei alcuno scrupolo di sposare il signor governatore, e di fare la fortuna del capitano Candido".


Mentre la vecchia parlava con tutta l'accortezza dell'età e dell'esperienza, videro entrare nel porto un piccolo vascello, trasportava un alcade e degli alguazil; ed ecco cos'era successo.


La vecchia aveva proprio colto nel segno sospettando che fosse stato un frate dalla manica largaa rubare il denaro e i gioielli di Cunegonda nella città di Badajoz, allorché fuggiva in fretta e furia con Candido. Il frate volle vendere qualche pietra a un gioielliere.


Il mercante le riconobbe per quelle del grande inquisitore. Il francescano, prima d'essere impiccato, confessò di averle rubate:

indicò le persone e la strada che avevano preso. La fuga di Cunegonda e di Candido era già nota. Li seguirono a Cadice: senza perdere tempo, spedirono un vascello per catturarli. La nave era già nel porto di Buenos Aires. Si sparse la voce che un alcade stava per sbarcare, e che inseguiva gli assassini di monsignor il grande inquisitore. La vecchia prudente vide subito quel che c'era da fare:

"Non potete fuggire", disse a Cunegonda, "e non avete nulla da temere:

non siete stata voi a uccidere monsignore, e del resto il governatore, che vi ama, non permetterà che vi maltrattino; restate qui".


Corse immediatamente da Candido:

"Fuggite", gli disse, "o entro un'ora vi bruceranno".


Non c'era un minuto da perdere; ma come separarsi da Cunegonda e dove rifugiarsi?




CAPITOLO QUATTORDICESIMO


COME CANDIDO E CACAMBO' FINIRONO ACCOLTI DAI GESUITI DEL PARAGUAY


Candido aveva portato con sé da Cadice un servo come se ne trovano tanti sulle coste spagnole e nelle colonie. Era un quarto di spagnolo, nato da un meticcio del Tucuman; era stato chierichetto, sacrestano, marinaio, monaco, fattore, soldato, lacchè. Si chiamava Cacambò, e amava molto il suo padrone, perché era un gran buon uomo. Sellò in gran fretta i due cavalli andalusi.


"Andiamo, padrone, seguiamo il consiglio della vecchia; partiamo e corriamo senza voltarci indietro".


Candido pianse:

"O mia cara Cunegonda! devo abbandonarti proprio mentre il signor governatore sta per sposarti! Cunegonda, portata qui da così lontano, che sarà di te?" "Sarà quel che sarà;" disse Cacambò, "le donne si cavano sempre d'impiccio; Dio provvederà; corriamo".


"Dove mi porti? dove andiamo? che faremo senza Cunegonda?" diceva Candido.


"Per San Giacomo di Compostella", disse Cacambò, "venivate per far la guerra ai Gesuiti; andiamo a farla per loro: conosco le strade, vi porterò nel loro regno, saranno incantati di avere un capitano che sa fare l'esercizio alla bulgara; farete una fortuna prodigiosa: quando non si ricava alcun utile in un mondo lo si trova in un altro. E' piacevolissimo vedere e fare cose nuove".


"Dunque sei già stato nel Paraguay?" disse Candido.


"Eh sì!" rispose Cacambò, "sono stato sorvegliante nel collegio dell'Assunzione, e conosco il governatorato de Los Padres come conosco le strade di Cadice. E' una cosa mirabile. Il regno si estende già per più di trecento leghe di diametro; è diviso in trenta province. Los Padres hanno tutto, i popoli niente: è il capolavoro della ragione e della giustizia. Per me, non vedo niente di così divino come Los Padres, che qui fanno la guerra al re di Spagna e al re del Portogallo, mentre in Europa li confessano; che qui ammazzano gli spagnoli, e a Madrid li mandano in cielo: la cosa m'incanta; andiamo avanti: sarete il più felice degli uomini. Che piacere per i Padri quando sapranno che è arrivato un capitano che conosce l'esercizio alla bulgara!" Quando giunsero alla prima dogana, Cacambò disse alla guardia avanzata che un capitano chiedeva di parlare a monsignor comandante. Andarono ad avvertire la gran guardia. Un ufficiale paraguaiano corse ai piedi del comandante per comunicargli la notizia. Candido e Cacambò furono anzitutto disarmati, e i loro due cavalli andalusi requisiti. I due stranieri sono introdotti fra due file di soldati; il comandante stava in fondo, col nicchio in testa, la tonaca rialzata, la spada al fianco, la picca in mano. Fa un segno; subito ventiquattro soldati circondano i due nuovi venuti. Un sergente dice loro che devono attendere, che il comandante non può parlargli, che il reverendo padre provinciale non permette a nessun spagnolo di aprire bocca, se non in sua presenza, e di rimanere più di tre ore nel paese.


"E dov'è il reverendo padre provinciale?" disse Cacambò.


"E' alla parata dopo aver detto messa", rispose il sergente, "e non potrete baciare i suoi speroni che fra tre ore".


"Ma", disse Cacambò, "il signor capitano, che sta morendo di fame come me, non è spagnolo, è tedesco; non potremmo far colazione mentre aspettiamo Sua Reverenza?" Il sergente andò subito a riferire tale discorso al comandante.


"Dio sia lodato!" disse quel signore, "se è tedesco gli posso parlare; portatelo nel mio frascato".


Subito condussero Candido in un chiosco di verzura, ornato da bellissime colonne di marmo verde e oro, e di graticolati che rinchiudevano pappagalli, colibrì, uccelli mosca, faraone, e tutti gli uccelli più rari. Un'eccellente colazione era preparata in stoviglie d'oro; e mentre i paraguaiani mangiavano del mais dentro scodelle di legno, in aperta campagna e in pieno sole, il reverendo padre comandante entrò nel chiosco.


Era un bellissimo giovane, dal viso pieno, piuttosto bianco di colorito acceso, le sopracciglia alte, l'occhio vivo, l'orecchio rosso, le labbra vermiglie, l'aspetto fiero, ma di una fierezza che non era quella di uno spagnolo né di un gesuita. Candido e Cacambò riebbero le armi che gli avevano tolto, e anche i due cavalli andalusi, ai quali Cacambò diede dell'avena accanto al chiosco, tenendoli sempre d'occhio, per timore di qualche sorpresa.


Candido baciò anzitutto il lembo della tonaca del comandante, poi si misero a tavola.


"Dunque siete tedesco?" gli disse il gesuita in quella lingua.


"Sì, reverendo padre", disse Candido.


L'uno e l'altro, pronunciando tali parole, si guardavano con meraviglia e con un'emozione che non riuscivano a dominare.


"E di quale regione della Germania?" disse il gesuita.


"Della sporca provincia di Vestfalia;" disse Candido, "sono nato nel castello di Thunder-ten-tronckh".


"O cielo! è mai possibile!" esclamò il comandante.


"Che miracolo!" esclamò Candido.


"Sareste dunque voi?" disse il comandante.


"Non è possibile", disse Candido.


Cadono tutti e due riversi, si abbracciano, versano torrenti di lacrime.


"Come, siete dunque voi, reverendo padre? voi, il fratello della bella Cunegonda! voi, che foste ammazzato dai Bulgari! voi, il figlio di monsignor barone! voi, gesuita in Paraguay! Bisogna ammettere che questo mondo è una ben strana cosa! O Pangloss! Pangloss! quanto saresti felice se non ti avessero impiccato!" Il comandante ordinò agli schiavi negri e ai paraguaiani che versavano da bere in calici di cristallo di rocca di ritirarsi. Ringraziò mille volte Iddio e Sant'Ignazio; stringeva Candido fra le braccia; i loro volti erano inondati di lacrime.


"Sareste ancora più stupito, più commosso, più fuori di voi", disse Candido, "se vi dicessi che madamigella Cunegonda, vostra sorella, che credevate sventrata, è in buona salute".


"Dove?" "Qui vicino, presso il signor governatore di Buenos Aires; e io venivo per farvi guerra".


Ogni parola pronunciata durante quella lunga conversazione accumulava prodigi su prodigi. Tutta l'anima loro gli volava sulla lingua, stava in ascolto nelle loro orecchie e gli scintillava negli occhi. Siccome erano tedeschi, rimasero a tavola a lungo, aspettando il reverendo padre provinciale; e il comandante così parlò al suo caro Candido.




CAPITOLO QUINDICESIMO


COME CANDIDO AMMAZZO' IL FRATELLO DELLA SUA CARA CUNEGONDA


"Per tutta la vita non dimenticherò il giorno orribile in cui vidi uccidere mio padre e mia madre, e violare mia sorella. Quando i Bulgari se ne furono andati, non si trovò più la mia adorabile sorella. Misero mio padre, mia madre e me su una carretta, insieme a due serve e a tre ragazzini sgozzati, per portarci a seppellire nella cappella dei gesuiti, a due leghe dal castello dei miei padri. Un gesuita ci asperse con acqua benedetta; era terribilmente salata; qualche goccia mi entrò negli occhi: il padre si accorse che la mia palpebra si muoveva un po': mi pose la mano sul cuore, e lo sentì battere; fui soccorso, in capo a tre settimane mi rimisi completamente. Tu sai, caro Candido, che ero molto bello; lo divenni ancor più, perciò il reverendo padre Croust, superiore della casa, mi prese teneramente a cuore: mi diede l'abito di novizio; qualche tempo dopo fui inviato a Roma. Il padre generale aveva bisogno di raccogliere giovani gesuiti tedeschi. I sovrani del Paraguay accolgono il meno possibile gesuiti spagnoli; preferiscono gli stranieri, che credono di poter dominare meglio. Il reverendo padre generale mi giudicò adatto per venire a lavorare in questa vigna. Partimmo insieme, un polacco, un tirolese, e io. Appena giunto, ebbi l'onore del suddiaconato e di una luogotenenza; oggi sono colonnello e prete.


Facciamo una vigorosa accoglienza alle truppe del re di Spagna; vi garantisco che saranno scomunicate e battute. La Provvidenza vi manda qui per assecondarci. Ma è proprio vero che la mia cara sorella Cunegonda si trova qui vicino, dal governatore di Buenos Aires?" Candido gli giurò che niente era più vero. Le lacrime ripresero a scorrere.


Il barone non si stancava d'abbracciare Candido; lo chiamava fratello, salvatore.


"Ah!" gli disse, "caro Candido, forse potremo entrare insieme vittoriosi nella città, e riprendere mia sorella Cunegonda".


"E' tutto quello che spero", disse Candido, "perché contavo di sposarla, e lo spero ancora".


"Voi, insolente!" rispose il barone, "voi avreste l'impudenza di sposare mia sorella, che ha settantadue quarti! Mi sembrate ben sfrontato per azzardarvi a parlarmi di un progetto così temerario!" Candido, pietrificato da un simile discorso, gli rispose:

"Reverendo padre, tutti i quarti del mondo non contano niente, ho strappato vostra sorella dalle braccia di un ebreo e di un inquisitore; mi deve parecchio, e mi vuole sposare. Mastro Pangloss mi ha sempre detto che gli uomini sono uguali; e certamente la sposerò".


"E' quello che vedremo, mascalzone!" disse il gesuita barone di Thunder-ten-tronckh; e così dicendo gli menò una gran piattonata di spada in faccia. Candido immediatamente sguaina la sua e l'immerge fino all'elsa nel ventre del barone gesuita; ma nel ritirarla tutta fumante, si mise a piangere:

"Ahimè! Dio mio" disse, "ho ucciso il mio antico padrone, il mio amico, mio cognato; sono l'uomo più mite del mondo, e ho già ammazzato tre uomini; e dei tre, due sono preti".


Cacambò, che stava in guardia alla porta del chiosco, accorse.


"Non ci resta che vendere cara la pelle", gli disse il padrone, "fra poco verranno qui di sicuro; bisogna morire con le armi in mano".


Cacambò, che ne aveva viste ben altre, non perse la testa; sfilò la tonaca da gesuita dal corpo del barone e la mise indosso a Candido, gli diede il nicchio del morto, e lo fece salire a cavallo. Tutto questo in un batter d'occhio.


"Galoppiamo, padrone; tutti vi prenderanno per un gesuita che va a portare ordini; prima che si mettano a inseguirci avremo passato la frontiera".


Già volava dicendo queste parole, e gridava in spagnolo: "Largo, largo al reverendo padre colonnello!"




CAPITOLO SEDICESIMO


COSA CAPITO' AI DUE VIAGGIATORI CON DUE RAGAZZE, DUE SCIMMIE, E I SELVAGGI CHIAMATI ORECCHIONI


Candido e il servo avevano già varcato la frontiera, e nell'accampamento nessuno ancora sapeva della morte del gesuita tedesco. L'accorto Cacambò aveva provveduto a riempire la valigia di pane, cioccolata, prosciutto, frutta e qualche misura di vino. Si inoltrarono coi loro cavalli andalusi in un paese sconosciuto dove non scoprirono alcuna strada. Finalmente una bella prateria percorsa da ruscelli si aprì davanti a loro. I nostri viaggiatori fanno pascolare le cavalcature. Cacambò propone al padrone di mangiare, e gliene dà l'esempio.


"Come vuoi che mangi prosciutto", gli diceva Candido, "quando ho ucciso il figlio del signor barone e mi vedo ormai condannato a non rivedere più la bella Cunegonda? A che mi serve prolungare i miei miserevoli giorni, dal momento che devo trascinarli lontano da lei nel rimorso e nella disperazione? E che dirà «Il Giornale di Trévoux?»" Così parlando non tralasciò di mangiare. Il sole tramontava. I due sperduti udirono alcuni gridi leggeri che parevano di donne. Non sapevano se questi gemiti erano di dolore o di gioia ma si alzarono di scatto, con l'inquietudine e l'ansia che ogni cosa ispira in un paese sconosciuto. Quelle grida venivano da due ragazze completamente nude che correvano leggere al margine della prateria, inseguite da due scimmie che mordevano loro le natiche. Candido ne fu impietosito; aveva imparato a tirare presso i Bulgari, e avrebbe colpito una nocciola in un cespuglio senza toccar foglia. Prende il fucile spagnolo a due colpi, spara, e uccide le due scimmie.


"Dio sia lodato! mio caro Cacambò! ho liberato da un gran pericolo quelle due povere creature: se ho commesso peccato uccidendo un inquisitore e un gesuita, l'ho riparato salvando la vita a due ragazze. Son forse due damigelle di buona famiglia, e questa avventura può procurarci grandissimi vantaggi nel paese".


Stava per proseguire, ma gli si paralizzò la lingua quando vide le due ragazze abbracciare teneramente le scimmie, sciogliersi in lacrime sui loro corpi, riempire l'aria coi gridi più dolorosi.


"Non m'aspettavo una tale bontà d'animo", disse Candido a Cacambò, che gli ribatté:

"Avete fatto un bel lavoro, padrone, avete ucciso gli amanti di quelle due ragazze".


"I loro amanti! è mai possibile? Ti prendi gioco di me, Cacambò; come posso crederti?" "Mio caro padrone", riprese Cacambò, "voi vi meravigliate sempre di tutto; perché stupirvi che in qualche paese ci siano delle scimmie che godono delle buone grazie delle signore? Sono quarti di uomo, come io sono un quarto di spagnolo".


"Ahimè!" riprese Candido, "mi ricordo di aver sentito dire da mastro Pangloss che altre volte erano capitati simili casi, e che tali incroci avevano prodotto egipani, fauni, satiri; che parecchi grandi personaggi dell'antichità ne avevano visti; ma credevo che fossero favole".


"Ora sarete convinto", disse Cacambò, "che si tratta di verità, e potete vedere che uso ne fanno le persone che non hanno ricevuto una certa educazione; non vorrei che quelle signore ci facessero qualche brutto scherzo".


Questi solidi ragionamenti spinsero Candido a lasciare la prateria, e a inoltrarsi in un bosco, dove si mise a cenare insieme a Cacambò.


Tutti e due, dopo aver maledetto l'inquisitore del Portogallo, il governatore di Buenos Aires e il barone, si addormentarono sul muschio. Al risveglio, sentirono di non potersi muovere; il fatto è che durante la notte gli Orecchioni, abitanti del paese, ai quali le due dame li avevano denunciati, li avevano strettamente legati con delle corde fatte di scorza d'albero. Erano circondati da una cinquantina di Orecchioni completamente nudi, armati di frecce, di mazze e d'asce di pietra; gli uni facevano bollire una gran caldaia, gli altri preparavano degli spiedi, e tutti quanti gridavano: "E' un gesuita! è un gesuita! saremo vendicati, e faremo un ottimo pranzo; mangiamo gesuita, mangiamo gesuita!". "Ve l'avevo detto, mio caro padrone", esclamò tristemente Cacambò, "che quelle due ragazze ci avrebbero giocato un brutto tiro".


Candido, scorgendo la caldaia e gli spiedi, esclamò:

"Certamente saremo arrostiti o bolliti. Ah! che direbbe mastro Pangloss, se vedesse com'è fatta la pura natura? Tutto è bene; e sia, ma devo dire che è ben crudele aver perduto madamigella Cunegonda ed essere messo allo spiedo dagli Orecchioni".


Cacambò non perdeva mai la testa.


"Non disperate;" disse al desolato Candido, "capisco un po' il gergo di questi popoli; proverò a parlargli".


"Non mancare", disse Candido, "di fargli osservare l'inumanità spaventosa di cuocere degli uomini, e come sia poco cristiano".


"Signori", disse Cacambò, "voi dunque contate di mangiare un gesuita oggi? Molto bene; non c'è niente di più giusto che trattare in questo modo i propri nemici. In effetti il diritto naturale ci insegna a uccidere il prossimo, ed è così che si agisce in tutto il mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è perché possiamo fare un buon pranzo altrove; ma voi non avete le nostre risorse: certo è meglio mangiare i propri nemici che lasciare ai corvi e alle cornacchie i frutti della propria vittoria. Ma, signori, voi non vorreste mangiare i vostri amici. Voi credete di mettere un gesuita allo spiedo, ed è invece il vostro difensore, il nemico dei vostri nemici che state per arrostire. Quanto a me, sono nato nella vostra regione; il signore che vedete è il mio padrone, e ben lungi dall'essere gesuita, ne ha appena ucciso uno e ne porta le spoglie; ecco la ragione del vostro errore. Per accertarvi di quanto dico, prendete la sua sottana, portatela alla prima dogana del regno dei Padres; informatevi se il mio padrone non ha ucciso un ufficiale gesuita. Non ci metterete molto; potrete sempre mangiarci, se scoprite che vi ho mentito. Ma se vi ho detto la verità, voi conoscete troppo bene i principi del diritto pubblico, i costumi e le leggi, per non farci grazia".


Gli Orecchioni trovarono tale discorso molto ragionevole; inviarono due notabili perché si recassero in fretta a informarsi della verità; i due delegati assolsero il loro compito da persone di spirito, e presto ritornarono portando buone notizie. Gli Orecchioni slegarono i due prigionieri, gli fecero ogni sorta di cortesia, gli offrirono ragazze e rinfreschi, e li condussero fino ai confini del loro stato, gridando allegramente: "Non è un gesuita, non è un gesuita!" Candido non cessava di ammirare il motivo della sua liberazione.


"Che popolo!" diceva, "che uomini! che costumi! se non avessi avuto la fortuna di trapassare con un colpo di spada il fratello di madamigella Cunegonda, sarei stato mangiato senza scampo. Ma, dopo tutto, la pura natura è buona, poiché questa gente, invece di mangiarmi, mi ha usato mille cortesie non appena ha saputo che non ero gesuita".




CAPITOLO DICIASSETTESIMO


ARRIVO DI CANDIDO E DEL SUO SERVO NEL PAESE D'ELDORADO, E QUELLO CHE VIDERO


Quando furono ai confini degli Orecchioni:

"Vedete", disse Cacambò a Candido, "che quest'emisfero non è meglio dell'altro; datemi retta, torniamo in Europa per la via più breve".


"Come tornarci", disse Candido, "e dove andare? Se vado nel mio paese, i Bulgari e gli Avari sgozzano tutti; se torno in Portogallo, mi bruciano; se restiamo qui, rischiamo a ogni momento di finire allo spiedo. Ma come decidersi a lasciare la parte del mondo abitata da madamigella Cunegonda?" "Dirigiamoci verso la Caienna", disse Cacambò, "ci troveremo dei Francesi: quelli vanno dappertutto; ci potranno aiutare. Forse Dio avrà pietà di noi".


Non era facile raggiungere la Caienna; sapevano pressappoco da che parte camminare, ma montagne, fiumi, precipizi, briganti, selvaggi, costituivano ovunque dei tremendi ostacoli. I cavalli morirono di fatica; le provviste si esaurirono; per un intero mese si cibarono solo di frutti selvatici, e finalmente giunsero a un fiumicello costeggiato di palme da cocco, che restituirono loro vita e speranze.


Cacambò, che dava sempre consigli buoni quanto quelli della vecchia, disse a Candido:

"Non ne possiamo più, abbiamo camminato abbastanza; vedo una barca vuota sulla riva, riempiamola di noci di cocco, buttiamoci dentro, e lasciamoci trasportare dalla corrente, un fiume conduce sempre in qualche luogo abitato. Se non troviamo cose gradevoli, troveremo almeno cose nuove".


"Andiamo", disse Candido, "raccomandiamoci alla Provvidenza".


Remarono per qualche lega tra rive ora fiorite, ora aride, ora piane, ora scoscese. Il fiume si andava sempre più slargando; poi si perdeva sotto una volta di rocce spaventose che si innalzavano fino al cielo.


Sotto quella volta i due viaggiatori ebbero l'ardire d'abbandonarsi ai flutti. Il fiume, strozzato in quel punto, li trascinò con rapidità e fragore terribili. In capo a ventiquattr'ore rividero la luce; ma la barca si fracassò contro gli scogli; dovettero trascinarsi di roccia in roccia per un'intera lega; infine scoprirono un orizzonte immenso, orlato di montagne inaccessibili. Il paese era coltivato per il piacere come per il bisogno; dovunque l'utile era anche dilettevole.


Le strade erano coperte, o piuttosto ornate, di vetture di forma e materia brillante che portavano uomini e donne di singolare bellezza, ed erano trascinate da grosse pecore rosse che superavano in velocità i più bei cavalli d'Andalusia, di Tetuan e di Mequinez.


"Eppure", disse Candido, "ecco un paese che è meglio della Vestfalia".


Mise piede a terra con Cacambò presso il primo villaggio che incontrarono.


All'entrata del borgo alcuni bambini coperti di broccati d'oro tutti laceri giocavano a piastrella. I nostri due uomini dell'altro mondo si divertirono a guardarli: le piastrelle erano piuttosto larghe e tonde, gialle, rosse e verdi, e gettavano un bagliore singolare. I viaggiatori, incuriositi, ne raccattarono qualcuna; era oro, erano smeraldi e rubini, il più piccolo dei quali avrebbe costituito il massimo ornamento del trono del Mogol.


"Certamente", disse Cacambò, "questi bambini sono i figli del re del paese che giocano a piastrella".


In quel momento comparve il maestro del villaggio per farli rientrare a scuola.


"Ecco", disse Candido, "il precettore della famiglia reale".


I piccoli pezzenti abbandonarono subito i loro giochi, lasciando a terra le piastrelle e tutto quanto era servito per i loro divertimenti. Candido le raccoglie, corre dal precettore, gliele presenta umilmente, facendogli capire a gesti che le loro altezze reali avevano dimenticato l'oro e le gemme. Il maestro del villaggio, sorridendo, le gettò a terra, osservò un momento la faccia di Candido con grande stupore, e continuò la sua strada.


I viaggiatori non tralasciarono di raccogliere l'oro, i rubini e gli smeraldi.


"Dove siamo?" esclamò Candido, "bisogna che i figli del re di questo paese siano davvero ben educati, visto che gli insegnano a disprezzare l'oro e le gemme".


Cacambò era sorpreso quanto Candido. Si avvicinarono poi alla prima casa del villaggio, che era costruita come un palazzo europeo. Una gran folla si ammassava alla porta, e ancor più dentro l'edificio; si udiva una musica gradevolissima, e si sentiva un delizioso odore di cucina. Cacambò si accostò alla porta, udì che parlavano peruviano: la sua lingua materna; tutti sanno infatti che Cacambò era nato nel Tucuman, in un villaggio dove non si parlava altra lingua.


"Vi farò da interprete;" disse a Candido, "entriamo, è una locanda".


Subito due ragazzi e due ragazze, vestiti di tessuti d'oro, i capelli annodati con nastri, li invitano a mettersi a tavola. Vengon loro servite quattro minestre, ciascuna con contorno di quattro pappagalli, un condor lessato che pesava duecento libbre, due scimmie arrosto dal sapore eccellente, trecento colibrì in un piatto, e seicento uccelli mosca in un altro; intingoli squisiti e dolci deliziosi; il tutto in piatti di una specie di cristallo di rocca. I giovani e le ragazze della locanda mescevano vari liquori tratti dalla canna da zucchero.


I convitati erano per lo più mercanti e vetturali, tutti estremamente educati, che fecero qualche domanda a Cacambò con la massima discrezione e risposero alle sue in maniera soddisfacente.


Quando il pranzo fu terminato, Cacambò credette, come Candido, di pagare il conto gettando sulla tavola due di quei larghi ciottoli d'oro che aveva raccolto; l'oste e l'ostessa scoppiarono a ridere, e si tennero a lungo la pancia. Finalmente si ricomposero:

"Signori", disse l'oste, "vediamo che siete stranieri; non siamo abituati a vederne. Scusateci se ci siamo messi a ridere quando ci avete offerto in pagamento i sassi della strada. Certamente non avete denaro del paese, ma non è necessario averne per mangiare qui. Tutte le locande istituite per la comodità dei commerci sono pagate dal governo. Qui avete mangiato male, perché siamo in un villaggio povero; ma altrove sarete accolti secondo il vostro merito".


Cacambò riferiva a Candido tutti i discorsi dell'oste, e Candido li ascoltava con la stessa ammirazione e lo stesso sbalordimento con cui Cacambò li traduceva.


"Che paese è mai questo", si dicevano l'un l'altro, "sconosciuto al resto del mondo, e dove la natura è di una specie così diversa dalla nostra? Probabilmente è il paese dove tutto va bene: perché bisogna assolutamente che ve ne sia uno. Checché ne dicesse mastro Pangloss, mi sono spesso accorto che tutto andava male in Vestfalia".




CAPITOLO DICIOTTESIMO


QUEL CHE VIDERO NEL PAESE DI ELDORADO


Cacambò espresse all'oste tutta la sua curiosità; l'oste gli disse:

"Io sono molto ignorante, e me ne trovo bene; ma qui abbiamo un vecchio che un tempo viveva a corte ed è l'uomo più sapiente del regno, e il più affabile".


Subito conduce Cacambò dal vecchio. Candido era diventato un personaggio secondario: accompagnava il suo servo. Entrarono in una casa molto semplice, poiché la porta era solo d'argento, e i rivestimenti delle stanze erano d'oro, ma lavorati con tale gusto che le più ricche decorazioni non li potevano offuscare. L'anticamera in verità non era incrostata che di rubini e smeraldi; ma l'ordine in cui tutto era disposto suppliva a questa estrema semplicità.


Il vecchio ricevette i due stranieri su un sofà imbottito di piume di colibrì, e offrì loro dei liquori in vasi di diamante; dopo di che diede soddisfazione alla loro curiosità in questi termini:

"Io ho centosettantadue anni, e ho appreso dal mio defunto padre, scudiere del re, le stupefacenti rivoluzioni del Perù, delle quali era stato testimone. Il regno in cui viviamo è l'antica patria degli Incas, che molto imprudentemente ne uscirono per andare a sottomettere una parte del mondo, e che furono infine distrutti dagli spagnoli. I principi della loro famiglia che restarono nel paese furono più saggi; ordinarono, col consenso della nazione, che nessun abitante uscisse mai dal nostro piccolo regno; per ciò abbiamo conservato la nostra innocenza e la nostra felicità. Gli spagnoli hanno avuto confuse notizie del nostro paese; lo hanno chiamato «El Dorado»; e un inglese chiamato il cavaliere Raleigh ci si è persino avvicinato circa cento anni fa; ma, poiché siamo circondati da rocce inaccessibili e precipizi, siamo sempre stati, fino a ora, al riparo dalle rapacità delle nazioni europee, le quali nutrono una smania inconcepibile per le pietre e il fango della nostra terra, e che, per averne, ci ucciderebbero tutti fino all'ultimo".


La conversazione fu lunga; discussero sulla forma di governo, i costumi, le donne, gli spettacoli pubblici, le arti. Alla fine Candido, che aveva sempre avuto il gusto della metafisica, fece chiedere da Cacambò se nel paese c'era una religione.


Il vecchio arrossì un po'.


"Come!" disse, "potete dubitarne? Ci prendete forse per degli ingrati?" Cacambò chiese umilmente quale fosse la religione d'Eldorado. Il vecchio arrossì di nuovo:

"Possono forse esserci due religioni?" disse. "Abbiamo, io credo, la religione di tutti, adoriamo Dio dal mattino alla sera".


"Non adorate che un solo Dio?" disse Cacambò, che faceva sempre da interprete ai dubbi di Candido.


"Evidentemente", disse il vecchio, "dato che non ce ne sono né due, né tre, né quattro. Devo confessarvi che le persone del vostro mondo fanno delle domande ben strane".


Candido non si stancava di interrogare il buon vecchio; volle sapere come si pregava Dio nell'Eldorado.


"Non lo preghiamo affatto", disse il buono e rispettabile saggio, "non abbiamo niente da chiedergli, ci ha dato tutto ciò di cui abbiamo bisogno; lo ringraziamo incessantemente".


Candido ebbe voglia di vedere dei preti; fece chiedere dove fossero.


Il buon vecchio sorrise.


"Amici miei", disse, "noi siamo tutti preti; il re e tutti i capifamiglia cantano, ogni mattina, solenni inni di ringraziamento, e cinque o seimila musici li accompagnano".


"Come! Non avete monaci che insegnano, disputano, governano, intrigano e fanno bruciare la gente che non è del loro parere?" "Dovremmo essere pazzi;" disse il vecchio, "qui siamo tutti dello stesso parere, e non capiamo cosa volete dire con i vostri monaci".


Candido, nell'udire questi discorsi, andava in estasi, e diceva fra sé: "Tutto ciò è ben diverso dalla Vestfalia e dal castello del signor barone; se il nostro amico Pangloss avesse visto Eldorado, non avrebbe più detto che il castello di Thunder-ten-tronckh era quanto c'è di meglio sulla terra; è certo che bisogna viaggiare".


Dopo questa lunga conversazione, il buon vecchio fece attaccare sei pecore a una carrozza, e incaricò dodici suoi domestici di condurre a corte i due viaggiatori.


"Scusatemi", disse loro, "se l'età mi priva dell'onore di accompagnarvi. Il re vi riceverà in maniera tale che ne sarete contenti, e certo scuserete le usanze del paese, se ce n'è qualcuna che vi dispiace".


Candido e Cacambò salgono in carrozza; le sei pecore volavano, e in meno di quattro ore giunsero al palazzo del re, situato a un'estremità della capitale. Il portale era alto duecentoventi piedi, e largo cento; è impossibile dire di che materia fosse fatto. Da questo si può capire la prodigiosa superiorità che doveva avere su quei ciottoli e quella sabbia che noi chiamiamo oro e gemme.


Venti belle ragazze della guardia ricevettero Candido e Cacambò, appena smontarono dalla carrozza; li condussero ai bagni, li vestirono con abiti tessuti con peluria di colibrì dopo di che i grandi ufficiali e le grandi ufficialesse della corona li condussero nell'appartamento di Sua Maestà, in mezzo a due file formate da mille musici ciascuna, secondo l'uso ordinario. Quando si avvicinarono alla sala del trono, Cacambò chiese a un grande ufficiale come bisognava comportarsi per salutare Sua Maestà; se ci si gettava in ginocchio o ventre a terra; se si mettevano le mani in testa o sul sedere; se si leccava la polvere della sala; insomma qual era il cerimoniale.


"L'uso", disse il grande ufficiale, "è di abbracciare il re e di baciarlo sulle guance".


Candido e Cacambò saltarono al collo di Sua Maestà, che li ricevette con tutto il garbo immaginabile e li invitò gentilmente a cena.


Nell'attesa, li condussero a vedere la città, gli edifici pubblici che si innalzavano fino alle nubi, i mercati adorni di mille colonne, le fontane d'acqua pura, le fontane d'acqua di rose, quelle che riversavano continuamente liquori di canna da zucchero nelle grandi piazze lastricate d'una specie di pietra preziosa da cui si spandeva un odore simile a quello del garofano e della cannella. Candido chiese che gli mostrassero la corte di giustizia o il parlamento; gli dissero che non ce n'erano, e che non si litigava mai. S'informò se ci fossero delle prigioni, gli risposero di no. Ciò che maggiormente lo stupì, e che più gli fece piacere, fu il palazzo delle scienze, in cui vide una galleria di duemila passi, tutta piena di strumenti di matematica e di fisica.


Dopo aver percorso in tutto il pomeriggio circa la millesima parte della città, li condussero dal re. Candido sedette a tavola fra Sua Maestà, il servo Cacambò e parecchie dame. Non si mangiò mai così bene, e mai nessuno dimostrò tanto spirito a cena quanto Sua Maestà.


Cacambò spiegava a Candido le battute del re, e benché tradotte, sembravano sempre divertenti. Delle tante cose che stupivano Candido, quella non era la meno sorprendente.


Trascorsero un mese in quel luogo ospitale. Candido non cessava di dire a Cacambò:

"Ancora una volta, amico mio, è ben vero che il castello in cui sono nato non vale il paese in cui ci troviamo, ma insomma madamigella Cunegonda non è qui, e certamente tu avrai qualche amante in Europa.


Se restiamo qui, saremo come tutti gli altri; mentre se torniamo nel nostro mondo, anche con solo dodici pecore cariche di sassi d'Eldorado, saremo più ricchi di tutti i re messi assieme, non dovremo più temere nessun inquisitore, e potremo facilmente riprenderci madamigella Cunegonda".


Il discorso andò a genio a Cacambò; piace talmente correre il mondo, farsi valere presso i suoi, fare mostra di ciò che si è visto durante i viaggi, che i due felici decisero di non esserlo più, e di congedarsi da Sua Maestà.


"Fate una sciocchezza", gli disse il re, "so bene che il mio paese è poca cosa; ma quando si sta discretamente in qualche posto, bisogna restarci. Certo non ho il diritto di trattenere degli stranieri; sarebbe una tirannia completamente estranea ai nostri costumi e alle nostre leggi; tutti gli uomini sono liberi; partite quando volete, ma l'uscita è difficilissima. E' impossibile risalire il fiume sul quale siete arrivati per miracolo, e che scorre sotto volte di rocce. Le montagne che circondano il mio regno sono alte diecimila piedi, e ripide come muraglie: in larghezza si stendono ciascuna per più di dieci leghe; non si può scenderne che attraverso precipizi. Tuttavia, visto che volete assolutamente partire, darò ordine ai sovrintendenti alle macchine di fabbricarne una che possa trasportarvi comodamente.


Quando vi avranno portati sull'altro versante delle montagne, nessuno vi potrà accompagnare perché i miei sudditi hanno fatto voto di non uscire mai dalla loro cinta, e sono troppo saggi per venir meno a questa promessa. Per il resto, chiedetemi quanto vi piacerà".


"Non domandiamo a Vostra Maestà", disse Cacambò, "che qualche pecora carica di viveri, di ciottoli e di fango del paese.


Il re sorrise.


"Io non capisco" disse, "che gusto ci trova la vostra gente d'Europa nel nostro fango giallo; ma portatevene via quanto vi pare, e buon pro vi faccia".


Diede immediatamente ordine ai suoi ingegneri di fabbricare una macchina per issare quei due straordinari uomini fuori del regno.


Tremila buoni fisici ci lavorarono; in capo a quindici giorni fu pronta, e non costò più di venti milioni di lire sterline, valuta del paese. Fecero salire Candido e Cacambò sulla macchina; c'erano due grandi pecore rosse sellate e imbrigliate che dovevano servire loro da cavalcatura una volta varcate le montagne, venti pecore da basto cariche di viveri, trenta che portavano i doni più curiosi che il paese potesse offrire, e cinquanta cariche d'oro, di gemme e diamanti.


Il re abbracciò affettuosamente i due vagabondi.


La loro partenza fu uno spettacolo veramente bello, e anche il modo ingegnoso con cui furono issati, loro e le pecore, in cima alle montagne. I fisici si congedarono dopo averli portati al sicuro, e Candido non ebbe più altro desiderio né altro scopo che di andare a presentare le sue pecore a madamigella Cunegonda.


"Abbiamo abbastanza", disse, "da pagare il governatore di Buenos Aires, se è possibile mettere un prezzo a madamigella Cunegonda.


Dirigiamoci verso la Caienna, imbarchiamoci e poi vedremo quale regno comperare".




CAPITOLO DICIANNOVESIMO


QUEL CHE CAPITO' LORO A SURINAM E IN CHE MODO CANDIDO CONOBBE MARTINO


La prima giornata dei nostri due viaggiatori fu abbastanza piacevole.


Essi erano animati dall'idea di possedere più tesori di quanti l'Asia, l'Europa e l'Africa potessero raccogliere. Candido, esaltato, scrisse il nome di Cunegonda sugli alberi. Il secondo giorno due pecore affondarono nelle paludi e vi furono inghiottite coi loro tesori; altre due morirono di fatica qualche giorno dopo; sette o otto perirono di fame in un deserto; altre caddero, in capo a qualche giorno, nei precipizi. Infine, dopo cento giorni di marcia, non rimasero loro che due pecore. Candido disse a Cacambò:

"Amico mio, vedi come le ricchezze di questo mondo sono periture; non c'è niente di stabile salvo la virtù e la felicità di rivedere madamigella Cunegonda".


"Lo ammetto", disse Cacambò, "ma ci restano ancora due pecore con tesori più grandi di quanti il re di Spagna potrà mai avere; e laggiù vedo una città che immagino essere Surinam, appartenente agli Olandesi. Siamo al termine delle nostre pene e all'inizio della nostra felicità".


Avvicinandosi alla città, incontrarono un negro steso per terra, con indosso solo la metà del suo vestito, cioè un paio di calzoni di tela azzurra. Al pover'uomo mancavano la gamba sinistra e la mano destra.


"Mio Dio!" gli disse Candido in olandese, "che fai qui, amico mio, nell'orribile stato in cui ti vedo?" "Aspetto il mio padrone, il signor Vanderdendur, il famoso negoziante", rispose il negro.


"E stato il signor Vanderdendur a ridurti così?" "Sì, signore", disse il negro, "questo è l'uso. Ci danno un paio di calzoni come abbigliamento due volte l'anno. Quando lavoriamo negli zuccherifici, e la macina ci afferra un dito, ci tagliano la mano; quando vogliamo fuggire ci tagliano una gamba: io mi sono trovato in questi due casi. E' a questo prezzo che mangiate lo zucchero in Europa. Eppure, quando mia madre mi vendette per dieci scudi patagoni sulla costa di Guinea, mi disse: «Figlio caro, benedici i nostri feticci, adorali sempre e ti faranno vivere felice; hai l'onore d'essere schiavo dei nostri signori bianchi, e con ciò fai la fortuna di tuo padre e di tua madre». Ahimè! non so se ho fatto la loro fortuna, ma loro non hanno fatto certo la mia. I cani, le scimmie e i pappagalli sono mille volte meno infelici di noi; i feticci olandesi che mi hanno convertito mi dicono ogni domenica che siamo tutti figli di Adamo, bianchi e neri. Non sono genealogista; ma se quei predicatori dicono il vero, siamo tutti cugini, figli di fratelli.


Ora, voi ammettete che non si possono trattare i parenti in modo più orribile".


"O Pangloss!" esclamò Candido, "tu non avevi previsto questo abominio; ora basta, bisognerà che alla fine io rinunci al tuo ottimismo".


"Che cos'è l'ottimismo?" diceva Cacambò.


"Ahimè!" disse Candido, "è la smania di sostenere che tutto va bene anche quando si sta male"; e versava lacrime guardando il negro. Così piangendo entrò in Surinam.


Per prima cosa si informarono se non ci fosse nel porto qualche vascello da inviare a Buenos Aires. Colui al quale si rivolsero era appunto un capitano spagnolo che si offrì di fare un onesto contratto e diede loro appuntamento in un'osteria. Candido e il fedele Cacambò ci andarono ad aspettarlo con le loro due pecore.


Candido, che aveva il cuore in bocca, raccontò allo spagnolo tutte le sue avventure e gli confessò di voler rapire madamigella Cunegonda.


"Mi guarderò bene dal portarvi a Buenos Aires" disse il capitano, "sarei impiccato, e anche voi; la bella Cunegonda è l'amante favorita di monsignore".


Folgorato, Candido pianse a lungo; infine tirò in disparte Cacambò.


"Caro amico", gli disse, "ecco quel che devi fare. Ciascuno di noi ha in tasca cinque o sei milioni di diamanti; tu sei più abile di me; va a prendere madamigella Cunegonda a Buenos Aires. Se il governatore fa qualche difficoltà, dagli un milione, se non cede, dagliene due; tu non hai ammazzato nessun inquisitore, di te si fideranno. Noleggerò un altro vascello, e andrò ad aspettarvi a Venezia: è un paese libero, dove non c'è da temere né i Bulgari né gli Avari, né gli Ebrei, né gli inquisitori".


Cacambo approvò la saggia decisione. Era disperato di separarsi da un buon padrone divenuto suo amico intimo; ma il piacere di essergli utile prevalse sul dolore di doverlo lasciare. Si abbracciarono in lacrime: Candido gli raccomandò di non dimenticare la buona vecchia.


Cacambò partì il giorno stesso: era un gran buon uomo, quel Cacambò.


Candido rimase un po' a Surinam, aspettando che qualche altro capitano volesse condurlo in Italia, lui e le due pecore che gli restavano.


Prese due domestici, e acquistò il necessario per un lungo viaggio; finalmente il signor Vanderdendur, padrone di un grosso vascello, gli si presentò.


"Quanto volete", gli chiese Candido, "per portarmi direttamente a Venezia, io, i miei servi, i miei bagagli e queste due pecore?" Il capitano chiese diecimila piastre; Candido non esitò.


"Oh! oh!" disse fra sé l'astuto Vanderdendur, "questo straniero paga diecimila piastre senza batter ciglio! dev'essere ben ricco". Poi, tornando un momento dopo, gli comunicò che non poteva partire a meno di ventimila piastre.


"Ebbene le avrete!" disse Candido.


"Caspita", si disse piano il mercante, "per quest'uomo pagare ventimila o diecimila piastre è la stessa cosa".


Ritornò ancora, e disse che non poteva portarlo a Venezia per meno di trentamila piastre.


"Ne avrete trentamila", disse Candido.


"Oh! oh!" si disse ancora il mercante olandese, "trentamila piastre non sono niente per quest'uomo; certamente le due pecore portano dei tesori immensi; non insistiamo oltre; facciamoci pagare le trentamila piastre, poi vedremo".


Candido vendette due diamanti, il più piccolo dei quali valeva più di tutto il denaro chiesto dal capitano. Lo pagò anticipatamente. Le due pecore furono imbarcate. Candido veniva dietro, su una barchetta, per raggiungere la nave nella rada; il capitano coglie l'occasione, leva le ancore, salpa; il vento gli è favorevole. Candido, smarrito e stupefatto, lo perde ben presto di vista.


"Ahimè!" grida, "ecco un tiro degno del vecchio mondo".


Torna a riva, immerso nel dolore: perché, a conti fatti, aveva perso quanto bastava a far la fortuna di venti sovrani.


Si reca dal giudice olandese, e, turbato com'era, batte rudemente alla porta, entra, espone il suo caso a voce un po' più alta di quanto convenisse.


Il giudice cominciò col fargli pagare diecimila piastre per il baccano che aveva fatto; poi lo ascoltò pazientemente, gli promise d'esaminare il caso non appena il mercante fosse ritornato, e si fece pagare altre diecimila piastre per le spese di udienza.


Un tale comportamento gettò Candido al fondo della disperazione; in verità aveva sopportato sciagure mille volte più dolorose, ma il sangue freddo del giudice e quello del capitano che l'aveva derubato, gli accesero la bile e lo precipitarono nella più nera malinconia. La cattiveria degli uomini si presentava al suo spirito in tutta la sua bruttezza; non nutriva che idee tristi. Finalmente, non avendo più pecore cariche di diamanti da imbarcare, e dato che un vascello francese era in procinto di salpare per Bordeaux, affittò una cabina a giusto prezzo e fece sapere in città che avrebbe pagato il viaggio, il vitto e duemila piastre a un galantuomo che fosse l'individuo più disgustato della propria condizione e il più infelice della provincia.


Si presentò una tale folla di aspiranti che una flotta intera non avrebbe potuto contenerli. Candido, volendo prendere in considerazione i più degni di nota, scelse una ventina di persone che gli sembravano abbastanza socievoli, e che erano tutte convinte di meritare la preferenza. Le raccolse nell'osteria dov'era alloggiato, e offrì loro la cena, a patto che ciascuno giurasse di raccontare fedelmente la propria storia e promettendo di scegliere chi gli sarebbe sembrato, a giusta ragione, più degno di compassione e scontento del proprio stato. Agli altri avrebbe dato una gratifica.


La seduta durò fino alle quattro del mattino. Candido, ascoltando tutte le loro avventure, si ricordava di quanto gli aveva detto la vecchia mentre andavano a Buenos Aires, e della scommessa da lei proposta: che non c'era nessuno sul vascello a cui non fossero capitate grandissime disgrazie. A ogni avventura raccontata, pensava a Pangloss.


"Quel Pangloss", diceva, "sarebbe assai imbarazzato a dimostrare il suo sistema. Vorrei che fosse qui. Certo, se tutto va bene, è in Eldorado, non qui e nel resto del mondo".


Finalmente si decise per un povero erudito che aveva lavorato dieci anni per i librai di Amsterdam. Giudicò che non ci fosse mestiere al mondo di cui si dovesse essere più disgustati. Questo erudito, che del resto era un buon uomo, era stato derubato dalla moglie, picchiato dal figlio e abbandonato dalla figlia, che si era fatta rapire da un portoghese. Aveva appena perso un piccolo impiego che gli dava da vivere, e i predicanti di Surinam lo perseguitavano perché lo prendevano per un sociniano.


Bisogna ammettere che gli altri erano per lo meno infelici quanto lui; ma Candido sperava che l'erudito gli avrebbe alleviato la noia del viaggio. Tutti gli altri aspiranti trovarono che Candido commetteva un'ingiustizia; ma lui li calmò dando loro cento piastre ciascuno.




CAPITOLO VENTESIMO


QUEL CHE CAPITO' IN MARE A CANDIDO E MARTINO


Il vecchio erudito, che si chiamava Martino, si imbarcò dunque per Bordeaux con Candido. L'uno e l'altro avevano molto visto e sofferto; e quand'anche il vascello avesse dovuto veleggiare da Surinam al Giappone passando per il Capo di Buona Speranza, avrebbero avuto materia per discutere durante tutto il viaggio circa il male fisico e quello morale.


Tuttavia Candido aveva un grande vantaggio su Martino, perché sperava sempre di rivedere madamigella Cunegonda, mentre Martino non aveva niente da sperare; inoltre possedeva oro e diamanti; e benché avesse perduto cento grosse pecore rosse cariche dei più grandi tesori della terra, benché gli pesasse sempre sul cuore la furfanteria del capitano olandese, pure, quando pensava a ciò che gli rimaneva in tasca, e quando parlava di Cunegonda, soprattutto dopo aver mangiato, allora propendeva per il sistema di Pangloss.


"Ma voi, signor Martino", disse all'erudito, "che ne pensate di tutto questo? Qual è la vostra idea sul male morale e su quello fisico?" "Signore", rispose Martino, "i miei preti mi hanno accusato d'essere sociniano; ma la verità è che sono manicheo".


"Voi vi burlate di me", disse Candido, "non ci sono più manichei nel mondo".


"Ci sono io;" disse Martino, "non so che farci, ma non posso pensare diversamente".


"Dovete avere il diavolo in corpo", disse Candido.


"Si immischia talmente nelle cose del mondo", disse Martino, "che potrebbe ben essere nel mio corpo, come in qualsiasi altra parte, ma vi confesso che, gettando uno sguardo su questo globo, o per dir meglio su questo globulo, penso che Dio lo abbia abbandonato in potere di qualche essere malefico; sempre escludendo Eldorado. Non ho mai visto città che non volesse la rovina della città vicina, famiglia che non desiderasse lo sterminio di un'altra famiglia. Dovunque i deboli esecrano i potenti davanti ai quali strisciano, e i potenti li trattano come greggi di cui si vende lana e carne. Un milione di assassini irreggimentati, correndo da un capo all'altro dell'Europa, esercitano disciplinatamente l'omicidio e il brigantaggio per guadagnarsi il pane, perché non trovano mestiere più onesto; e nelle città che sembrano godere della pace, e in cui fioriscono le arti, gli uomini sono divorati da invidia, crucci e inquietudini maggiori delle calamità che affliggono una città assediata. I dispiaceri segreti sono ancora più crudeli delle miserie pubbliche. In una parola, ne ho viste e passate tante, che sono manicheo".


"C'è tuttavia del buono", replicava Candido.


"Può darsi", diceva Martino, "ma io non lo vedo".


Nel mezzo di tale disputa, si udì rimbombare un cannone. Il fragore raddoppiava di momento in momento. Ciascuno prende il cannocchiale. Si vedono due vascelli che combattevano alla distanza di circa tre miglia; il vento li condusse ambedue così vicino al vascello francese che si ebbe il piacere di assistere al combattimento con tutto comodo.


Finalmente uno dei vascelli scaricò sull'altro una bordata così bassa e precisa che lo fece colare a picco. Candido e Martino scorsero distintamente un migliaio di uomini sulla tolda della nave che affondava; alzavano tutti le mani al cielo e gettavano grida spaventose: in un momento tutto fu inghiottito.


"Ebbene", disse Martino, "ecco come gli uomini si trattano a vicenda!" "E' vero", disse Candido, "c'è qualcosa di diabolico in tutto questo".


Così parlando, scorsero un non so che di rosso che nuotava presso il vascello. Calarono una scialuppa per vedere cosa poteva essere: era una delle sue pecore. Candido fu più contento di ritrovare quella pecora di quanto non si fosse afflitto per averne perse cento cariche di grossi diamanti d'Eldorado.


Il capitano francese si accorse ben presto che il capitano del vascello affondatore era spagnolo, e che quello del vascello sommerso era un pirata olandese: lo stesso che aveva derubato Candido. Le immense ricchezze di cui quello scellerato si era impadronito furono sepolte con lui in fondo al mare; non se ne salvò che una pecora.


"Vedete", disse Candido a Martino, "che il delitto talvolta è punito; quel farabutto di capitano olandese ha avuto la sorte che meritava".


"Sì", disse Martino, "ma era necessario che perissero pure i passeggeri che si trovavano sul vascello? Dio ha punito quel farabutto, il diavolo ha annegato gli altri".


Intanto il vascello francese e quello spagnolo continuavano la loro rotta, e Candido continuò le sue conversazioni con Martino. Discussero quindici giorni filati, e dopo quindici giorni si trovarono al punto di partenza. Ma insomma parlavano, si comunicavano delle idee, si consolavano. Candido carezzava la sua pecora.


"Poiché ti ho ritrovato", disse, "potrò ben trovare anche Cunegonda".




CAPITOLO VENTUNESIMO


CANDIDO E MARTINO SI AVVICINANO ALLE COSTE DELLA FRANCIA E RAGIONANO


Finalmente apparvero le coste della Francia.


"Siete mai stato in Francia, signor Martino?" disse Candido.


"Sì", disse Martino, "ne ho percorso parecchie province. In alcune la metà degli abitanti è pazza, in altre sono troppo furbi, in altre sono comunemente abbastanza miti e sciocchi, in altre ancora fanno gli spiritosi; in tutte l'occupazione principale è l'amore, la seconda sparlare, e la terza dire stupidaggini".


"Ma, signor Martino, avete visto Parigi?" "Sì, l'ho vista: è un insieme di tutto ciò che ho detto; è un caos, una calca dove ognuno cerca il piacere, e quasi nessuno lo trova, almeno a quanto mi è sembrato. Ci sono rimasto poco quando arrivai, fui derubato di tutto quello che avevo da alcuni borsaioli alla fiera di San Germano; io stesso venni scambiato per un ladro, e rimasi otto giorni in prigione; dopo di che feci il correttore di bozze per guadagnare tanto da tornare in Olanda. Conobbi la canaglia scrivente, la canaglia intrigante e quella convulsionaria. Dicono che c'è della gente molto educata in quella città: lo voglio credere".


"Quanto a me, non ho alcun desiderio di vedere la Francia" disse Candido, "capirete facilmente che quando si è passato un mese in Eldorado, non ci si cura più di vedere altro, sulla terra, che madamigella Cunegonda: vado ad aspettarla a Venezia; traverseremo la Francia per andare in Italia; volete accompagnarmi?" "Molto volentieri;" disse Martino, "dicono che Venezia non sia buona che per i nobili veneziani, ma che, tuttavia, vi accolgono assai bene gli stranieri con molti soldi: io non ne ho, voi ne avete; vi seguirò ovunque".


"A proposito", disse Candido, "pensate che la terra sia stata originariamente un mare, come si afferma in quel grosso libro del capitano?" "Non lo credo affatto", disse Martino, "come non credo a tutte le fantasie che ci spacciano da qualche tempo".


"Ma per quale scopo, dunque, questo mondo è stato fatto?" disse Candido.


"Per farci andare in bestia", rispose Martino.


"Non vi stupite", continuò Candido, "dell'amore che quelle due ragazze del paese degli Orecchioni portavano a quelle due scimmie?" "Niente affatto", disse Martino, "non vedo cosa abbia di strano quella passione; ho visto tante cose straordinarie che non c'è più nulla di straordinario".


"Credete", disse Candido, "che gli uomini si siano sempre massacrati a vicenda come fanno oggi? che siano sempre stati bugiardi, subdoli, perfidi, ingrati, briganti, deboli, incostanti, vigliacchi, invidiosi, golosi, ubriaconi, avari, ambiziosi, sanguinari, calunniatori, dissoluti, fanatici, ipocriti e sciocchi?" "Credete", disse Martino, "che gli sparvieri abbiano sempre mangiato i piccioni quando ne trovavano?" "Sì, certo", disse Candido.


"Ebbene!" disse Martino, "se gli sparvieri hanno sempre avuto lo stesso carattere, perché mai volete che gli uomini abbiano cambiato il loro?" "Oh", disse Candido, "c'è una bella differenza, poiché il libero arbitrio..." Così ragionando, giunsero a Bordeaux.




CAPITOLO VENTIDUESIMO


QUEL CHE SUCCESSE IN FRANCIA A CANDIDO E MARTINO


Candido non si trattenne a Bordeaux che il tempo necessario per vendere qualche sasso del Dorado, e per noleggiare una buona carrozza a due posti, perché non poteva più fare a meno del suo filosofo Martino; fu solo molto dispiaciuto di doversi separare dalla pecora, che lasciò all'Accademia delle Scienze di Bordeaux, la quale propose come tema per il premio dell'anno di scoprire perché mai la lana di quella pecora era rossa; il premio fu aggiudicato a un dotto del Nord il quale dimostrò per A, più B, meno C diviso per Z che la pecora doveva essere rossa e morire di vaiolo.


Frattanto tutti i viaggiatori incontrati da Candido nelle locande lungo la strada gli dicevano: "Andiamo a Parigi". Quella smania generale gli fece nascere, alla fine, il desiderio di vedere la capitale; il che non costituiva una gran deviazione dal cammino per Venezia.


Entrò in città dal sobborgo Saint-Marceau e credette di trovarsi nel più sordido villaggio della Vestfalia.


Si era appena sistemato in albergo, quando fu colpito da una leggera malattia, causata dalla fatica. Poiché portava al dito un enorme diamante, e dato che avevano scorto tra i suoi bagagli una cassetta straordinariamente pesante, presto ebbe attorno a sé due medici che non aveva fatto chiamare, alcuni amici intimi che non lo abbandonarono un momento, e due devote che gli facevano scaldare il brodo. Martino diceva:

"Mi ricordo d'essere stato malato anch'io a Parigi, nel mio primo viaggio; ero poverissimo: così non ebbi né amici, né devoti, né medici, e guarii".


Frattanto, a forza di medicine e di salassi, la malattia di Candido si aggravò. Un prete del quartiere venne a domandargli con dolcezza una cambiale al portatore per l'altro mondo: Candido non ne volle sapere.


Gli assicurarono che era una nuova moda; Candido rispose che non era un uomo alla moda. Martino volle gettare il prete dalla finestra.


Questi giurò che non avrebbe concesso la sepoltura a Candido. Martino giurò che avrebbe seppellito lui, se continuava a importunarli. La disputa si arroventò: Martino afferrò il prete per le spalle, e lo cacciò rudemente; la qual cosa provocò un grande scandalo, di cui fu redatto un verbale.


Candido guarì, e durante la convalescenza ebbe ottima compagnia a cena nell'albergo. Si giocava forte. Candido era molto stupito che non gli venissero mai degli assi; Martino non se ne stupì affatto.


Fra coloro che facevano gli onori della città, c'era un abatino del Périgord, una di quelle persone premurose, sempre all'erta, sempre servizievoli, sfrontate, carezzevoli, accomodanti, che spiano gli stranieri al loro passaggio, raccontano loro gli scandali della città, e propongono piaceri a ogni costo. Costui portò dapprima Candido e Martino a teatro. Davano una nuova tragedia. Candido si trovò seduto presso alcuni sapientoni. Questo non gli impedì di piangere a certe scene recitate alla perfezione. Uno dei sapientoni che gli stavano accanto gli disse durante un intervallo:

"Avete un gran torto a piangere: quell'attrice è pessima; l'attore che recita con lei è peggio ancora; il lavoro è ancor peggio degli attori; l'autore non sa una parola d'arabo, e tuttavia la scena è in Arabia; inoltre, è un uomo che non crede alle idee innate, domani vi porterò venti opuscoli contro di lui".


"Signore, quanti lavori teatrali avete in Francia?" chiese Candido all'abate che rispose:

"Cinque o seimila".


"Molti" disse Candido, "e quanti buoni?" "Quindici o sedici", replicò l'altro.


"Molti", disse Martino.


Candido fu assai soddisfatto di un'attrice che faceva la parte della regina Elisabetta, in una tragedia piuttosto scipita che si recita ogni tanto.


"Quell'attrice", disse a Martino, "mi piace molto; assomiglia un po' a madamigella Cunegonda; mi piacerebbe salutarla".


L'abate perigordino si offrì di presentarlo. Candido, educato in Germania, domandò quale era l'etichetta, e come si trattavano in Francia le regine d'Inghilterra.


"Bisogna distinguere" disse l'abate, "in provincia, le si porta all'osteria; a Parigi, le rispettano quando sono belle, e le gettano nell'immondezzaio quando sono morte".


"Delle regine nell'immondezzaio!" disse Candido.


"E' vero;" disse Martino, "il signor abate ha ragione: ero a Parigi quando la signorina Monima passò, come si dice, da questa vita all'altra; le rifiutarono quelli che qui chiamano «gli onori della sepoltura», cioè di marcire con tutti i pezzenti del quartiere in un sudicio cimitero; fu sepolta tutta sola in un angolo della via di Borgogna; il che dovette addolorarla straordinariamente, perché era di nobilissimi sentimenti".


"Che scortesia", disse Candido.


"Che volete?" disse Martino. "Qui la gente è fatta così. Immaginate tutte le contraddizioni, tutte le incoerenze possibili; le troverete nel governo, nei tribunali, nelle chiese, negli spettacoli di questa ridicola nazione".


"E' vero che a Parigi si ride sempre?" "Sì" disse l'abate "ma ridono verde: ci si lamenta di tutto con grandi scoppi di risa; anzi vi si compiono ridendo le azioni più detestabili".


"Chi è" disse Candido, "quel grosso maiale che mi diceva così male della tragedia che mi ha fatto tanto piangere, e degli attori che mi sono tanto piaciuti?" "E' un malvivente" rispose l'abate, "che si guadagna la vita dicendo male di tutti i lavori teatrali e di tutti i libri; odia chiunque ha successo, come gli eunuchi odiano chi gode; è uno di quei serpenti letterari che si nutrono di fango e di veleno; è un libellista".


"Cosa intendete per libellista?" disse Candido.


"E'" disse l'abate, "uno scribacchino, un Fréron".


Così Martino, Candido e l'abate del Périgord ragionavano sulla scala, mentre guardavano la gente sfilare all'uscita del teatro.


"Benché abbia una gran fretta di rivedere madamigella Cunegonda", disse Candido, "vorrei cenare con madamigella Clairon, mi è sembrata ammirevole".


L'abate non era uomo da accostarsi a madamigella Clairon, che riceveva solo gente perbene.


"Questa sera è impegnata" disse, "ma avrò l'onore di condurvi da una signora di qualità, dove conoscerete Parigi come se ci foste stato quattro anni".


Candido, che era curioso per natura, si lasciò condurre in casa della dama, che abitava in fondo al quartiere Saint-Honoré. Stavano giocando a faraone; dodici tristi giocatori tenevano in mano ciascuno un libretto di carte, orecchiuto registro delle loro sfortune. Regnava un profondo silenzio, il pallore era sui volti dei giocatori, l'inquietudine su quello del banchiere; e la padrona di casa, seduta accanto all'implacabile banchiere, notava con occhi di lince tutti i paroli, tutti i sette volantiche i giocatori segnavano con un'orecchia sulle carte; lei faceva togliere l'orecchia con una prontezza severa ma cortese, e non si mostrava adirata per paura di perdere i clienti. La signora si faceva chiamare marchesa di Parolignac. Sua figlia, una ragazza di quindici anni, stava fra i giocatori, e segnalava con una strizzatina d'occhio le furfanterie di quei poveretti che cercavano di rimediare alle crudeltà della sorte.


L'abate del Périgord, Candido e Martino entrarono; nessuno si alzò, né li salutò, né li guardò; tutti erano profondamente assorti nelle loro carte.


"La signora baronessa di Thunder-ten-tronckh era più cortese" disse Candido.


L'abate frattanto parlò all'orecchio della marchesa, che si alzò a metà, onorò Candido di un sorriso grazioso e Martino di un cenno assai nobile del capo; fece portare una sedia e un gioco di carte a Candido, che perse cinquantamila franchi in due giri: dopo di che cenarono allegramente. Tutti si stupirono che Candido non fosse turbato per la perdita; i lacchè dicevano fra loro, nel loro linguaggio di lacchè:

"Dev'essere qualche milord inglese".


La cena fu come la maggior parte delle cene a Parigi: dapprima silenzio, poi un frastuono di parole indistinguibili, poi delle spiritosaggini per la maggior parte insipide, false notizie, cattivi ragionamenti, un po' di politica, e molta maldicenza, si parlò persino dei libri nuovi.


"Avete visto" disse l'abate perigordino, "il romanzo del signor Gauchat, dottore in teologia?" "Sì", rispose uno dei convitati, "ma non sono riuscito a finirlo.


Abbiamo una valanga di libri impertinenti; ma tutti insieme non raggiungono l'impertinenza di Gauchat, dottore in teologia. Sono così nauseato da questa inondazione di libri detestabili che mi sono messo a puntare al faraone".


"E la «Miscellanea» dell'arcidiacono T..., che ne dite?" domandò l'abate.


"Ah!" disse la signora di Parolignac, "che noia mortale! come vi dice con aria sussiegosa quel che tutti sanno! come discute pesantemente quel che non merita nemmeno una leggera annotazione! come si appropria senza alcuno spirito dello spirito altrui! come sciupa quel che saccheggia! come mi disgusta! ma non mi disgusterà più; m'è bastato aver letto qualche pagina dell'arcidiacono".


C'era a tavola un uomo dotto e di gusto che confermò le osservazioni della marchesa. Si parlò poi di tragedie; la dama chiese perché ci fossero delle tragedie che ogni tanto venivano rappresentate, e che erano illeggibili. L'uomo di gusto spiegò assai bene come un lavoro teatrale poteva avere qualche interesse, senza possedere alcun merito; dimostrò in poche parole che non era sufficiente introdurre una o due situazioni che si possono trovare in tutti i romanzi, e che seducono sempre gli spettatori, ma che bisogna essere nuovi senza essere bizzarri, spesso sublimi e sempre naturali; conoscere il cuore umano e farlo parlare: essere poeti senza che mai nessun personaggio dell'opera sembri poeta; conoscere perfettamente la propria lingua, parlarla con proprietà, con continua armonia, senza che mai la rima pregiudichi il senso.


"Chiunque non osserva tutte queste regole" aggiunse, "può fare una o due tragedie applaudite a teatro, ma non sarà mai annoverato tra i buoni scrittori; ci sono pochissime tragedie buone; alcune non sono che idilli ben dialogati e rimati; altre, ragionamenti politici che fanno dormire, o amplificazioni repellenti; altre, sogni di energumeni in stile barbaro, discorsi interrotti, lunghe apostrofi agli dei, poiché non si sa parlare agli uomini, massime false, ampollosi luoghi comuni".


Candido ascoltò con attenzione questo discorso, e concepì grande stima per il parlatore; e poiché la marchesa s'era curata di farlo sedere accanto a sé, si chinò verso l'orecchio di lei e le chiese chi fosse quell'uomo che parlava tanto bene.


"E' un uomo dotto", disse la dama, "che non gioca e che l'abate mi porta qualche volta a cena: conosce perfettamente tragedie e libri, ha scritto una tragedia fischiata e un libro di cui, fuori dalla bottega del suo libraio, non si è mai visto che un esemplare a me dedicato".


"Che grand'uomo!" disse Candido, "è un altro Pangloss".


Allora, volgendosi verso di lui, gli disse:

"Signore, certamente voi pensate che tutto va per il meglio nel mondo fisico e in quello morale, e che nulla poteva essere altrimenti".


"Io, signore", gli rispose il dotto, "non penso niente di tutto ciò:

io trovo che tutto va per traverso qui da noi, che nessuno sa qual è il suo rango, né il suo ufficio, né quello che fa, né quel che deve fare, e che, ad eccezione della cena, che è abbastanza lieta e dove, apparentemente, regna una certa unione, tutto il resto del tempo passa in dispute impertinenti: giansenisti contro molinisti, gente di toga contro gente di chiesa, letterati contro letterati, cortigiani contro cortigiani, finanzieri contro il popolo, mogli contro mariti, parenti contro parenti; è un'eterna guerra".


Candido gli replicò:

"Ho visto di peggio, ma un saggio, che poi ebbe la sfortuna d'essere impiccato, m'insegnò che tutto ciò va a meraviglia: non sono che ombre in un bel quadro".


"Il vostro impiccato si burlava della gente" disse Martino, "le vostre ombre sono delle orribili macchie". "Sono gli uomini a far le macchie", disse Candido, "e non possono farne a meno".


"Dunque non è colpa loro" disse Martino.


La maggior parte dei puntatori, che non capiva niente di tali discorsi, beveva; e Martino ragionò col dotto, e Candido raccontò una parte delle sue avventure alla padrona di casa.


Dopo cena, la marchesa condusse Candido in una stanzetta, e lo fece sedere su di un canapé.


"Ebbene!" gli disse, "amate sempre perdutamente madamigella Cunegonda di Thunder-ten-tronckh?" "Sì, signora" rispose Candido.


La marchesa ribatté con un tenero sorriso:

"Mi rispondete come un giovane di Vestfalia; un francese mi avrebbe detto: «E' vero, signora, che ho amato madamigella Cunegonda: ma, vedendovi, temo di non amarla più»".


"Ahimè! signora", disse Candido, "risponderò come vorrete".


"La vostra passione per lei" disse la marchesa, "è cominciata col raccoglierle il fazzoletto; voglio che raccogliate la mia giarrettiera".


"Con tutto il cuore" disse Candido; e la raccolse.


"Ma io voglio che me la rimettiate", disse la dama; e Candido gliela rimise.


"Vedete", disse la dama, "voi siete straniero, qualche volta faccio languire quindici giorni i miei amanti di Parigi, ma a voi mi arrendo fin dalla prima notte, perché bisogna far gli onori del proprio paese a un giovanotto della Vestfalia".


La bella, avendo scorto due enormi diamanti alle mani del giovane straniero, li lodò con aria così convinta che dalle dita di Candido passarono a quelle della marchesa.


Candido, rientrando all'albergo coll'abate perigordino, sentì qualche rimorso d'essere stato infedele a madamigella Cunegonda; il signor abate partecipò al suo dolore; non gli toccava che una piccola percentuale delle cinquantamila lire che Candido aveva perso al gioco e del valore dei due diamanti mezzo regalati e mezzo estorti. Il suo disegno era di approfittare quanto più poteva dei vantaggi che la conoscenza di Candido poteva procurargli. Gli parlò molto di Cunegonda, e Candido gli disse che certamente avrebbe chiesto scusa alla sua bella di questa infedeltà, quando fosse giunto a Venezia.


Il perigordino raddoppiava gentilezze e attenzioni, e s'interessava teneramente di quanto Candido diceva, di quanto faceva, di quanto voleva fare.


"Dunque, signore", gli disse, "avete un appuntamento a Venezia?" "Sì, signor abate", disse Candido, "bisogna assolutamente che ci vada per trovare madamigella Cunegonda".


Allora, trascinato dal piacere di parlare di colei che amava, narrò, com'era solito, una parte delle sue avventure con l'illustre vestfaliana.


"Sono certo", disse l'abate, "che madamigella Cunegonda ha molto spirito e scrive delle lettere incantevoli".


"Non ne ho mai ricevute"; disse Candido, "figuratevi che, cacciato dal castello per amor suo, non potei scriverle, che poco dopo venni a sapere che era morta, che in seguito la ritrovai, che la persi di nuovo, e che le ho mandato, a duemilacinquecento leghe da qui, un messaggio di cui attendo la risposta".


L'abate ascoltava attentamente, e sembrava un po' assorto. Tosto prese congedo dai due stranieri, dopo averli teneramente abbracciati.


L'indomani Candido appena desto, ricevette una lettera così concepita:

"Signore e mio carissimo amante, da otto giorni sono malata in questa città; ho saputo che ci siete anche voi. Volerei nelle vostre braccia, se potessi muovermi. Ho saputo del vostro passaggio a Bordeaux, dove ho lasciato il fedele Cacambò e la vecchia, che mi raggiungeranno presto. Il governatore di Buenos Aires si è preso tutto, ma mi resta il vostro cuore. Venite; la vostra presenza mi renderà la vita o mi farà morire di piacere".


Questa lettera incantevole, insperata, riempì Candido di una gioia inesprimibile, e la malattia della sua cara Cunegonda lo colmò di dolore. Diviso tra questi due sentimenti, prende oro e diamanti, e si fa condurre con Martino all'albergo in cui alloggiava madamigella Cunegonda. Entra tremando di emozione, il cuore gli palpita, la voce gli si spezza; vuole aprire le tendine del letto; vuol fare portare un lume.


"Guardatevene bene;" gli dice la cameriera, "la luce l'uccide" e subito richiude la tenda.


"Mia cara Cunegonda", disse Candido piangendo, "come state? se non potete guardarmi, parlatemi almeno".


"Non può parlare", dice la cameriera.


La dama allora cava dal letto una mano paffuta che Candido bagna a lungo di lacrime, e che riempie poi di diamanti, lasciando anche un sacco pieno d'oro sulla poltrona. Nel mezzo di tali trasporti, arriva un ufficiale di polizia seguito dall'abate perigordino e da un drappello di guardie.


"Sono questi" disse, "i due stranieri sospetti?" Subito li fa arrestare e dà ordini ai suoi bravi di trascinarli in prigione.


"Non è così che trattano i viaggiatori nel Dorado" disse Candido.


"Io sono più manicheo che mai" disse Martino.


"Ma, signore, dove ci portate?" disse Candido.


"Nel fondo di una prigione" disse l'ufficiale.


Martino, riacquistato il suo sangue freddo, giudicò che la falsa Cunegonda era una malandrina, l'abate perigordino un farabutto che si era subito approfittato dell'ingenuità di Candido, e l'ufficiale un altro mascalzone da cui ci si poteva facilmente liberare.


Piuttosto che affrontare le procedure della giustizia, Candido, illuminato dal consiglio di Martino, e d'altronde sempre impaziente di rivedere la vera Cunegonda, offre all'ufficiale tre piccoli diamanti di circa tremila pistole l'uno.


"Ah, signore", gli dice l'uomo dal bastone d'avorio, "aveste anche commesso tutti i delitti immaginabili, voi siete l'uomo più onesto del mondo. Tre diamanti! di tremila pistole ciascuno! Signore! mi farei uccidere per voi, anziché condurvi in prigione. Qui si arrestano tutti gli stranieri, ma lasciate fare a me; ho un fratello a Dieppe, in Normandia; vi porterò da lui, e se avete qualche diamante da regalargli, avrà cura di voi come di me stesso".


"E perché arrestano gli stranieri?" disse Candido.


L'abate perigordino prese allora la parola:

"Perché un pezzente del paese d'Atrebazia ha sentito dire delle sciocchezze: è la sola ragione che gli ha fatto commettere un parricidio, non come quello del maggio 1610, ma come quello del dicembre 1594, e simile a tanti altri commessi in altri anni e in altri mesi da altri pezzenti che avevano sentito dire delle sciocchezze".


L'ufficiale spiegò allora di che si trattava.


"Ah! che mostri!" esclamò Candido, "come! simili orrori in un popolo che balla e canta! Come uscire al più presto da questo paese in cui le scimmie molestano le tigri? Ho visto degli orsi nel mio paese, solo nel Dorado ho visto degli uomini. In nome di Dio signor ufficiale, portatemi a Venezia, dove devo attendere madamigella Cunegonda".


"Non posso portarvi che in bassa Normandia" disse il bargello.


Subito fa togliere loro i ferri, dice che s'è sbagliato, manda via le guardie e porta Candido e Martino a Dieppe, dove li lascia nelle mani del fratello. C'era un piccolo vascello olandese nel porto. Il normanno, che grazie ad altri tre diamanti era diventato il più servizievole degli uomini, imbarca Candido e i suoi sul vascello che stava salpando per Portsmouth, in Inghilterra. Non era la strada per Venezia; ma Candido credeva di essere fuggito dall'inferno; e faceva conto di riprendere la strada alla prima occasione.




CAPITOLO VENTITREESIMO


CANDIDO E MARTINO VANNO SULLE COSTE INGLESI E CIO' CHE VEDONO


"Ah! Pangloss! Pangloss! Ah, Martino! Martino! Ah! mia cara Cunegonda!

cos'è mai questo mondo?" diceva Candido sul vascello olandese.


"Una cosa davvero pazza e abominevole" rispondeva Martino.


"Conoscete l'Inghilterra? La gente là è matta come in Francia?" "E' un'altra specie di follia" disse Martino. "Voi sapete che queste due nazioni sono in guerra fra loro per qualche iugero di neve vicino al Canada e che per questa guerra spendono molto più di quanto valga il Canada intero. Ma dirvi con esattezza se c'è più gente da legare in un paese o nell'altro, è una cosa che i miei deboli lumi non mi consentono; io so soltanto che, in generale, la gente che andiamo a vedere è a trabiliare".


Così discorrendo approdarono a Portsmouth; una moltitudine di gente occupava la riva, e guardava attentamente un uomo piuttosto grosso che stava in ginocchio, con gli occhi bendati, sulla tolda di un vascello della flotta; quattro soldati, proprio di fronte a lui, gli scaricarono ciascuno tre palle nel cranio con la maggior tranquillità di questo mondo; e tutta l'assemblea si allontanò estremamente soddisfatta.


"Cos'è dunque tutto questo?" disse Candido, "e quale demonio esercita dovunque il suo dominio?" "E' un ammiraglio" gli risposero.


"E perché uccidere un ammiraglio?" "Perché" gli dissero, "non ha fatto ammazzare abbastanza gente, ha dato battaglia a un ammiraglio francese, e hanno trovato che non gli era andato abbastanza vicino".


"Ma",disse Candido,"l'ammiraglio francese era lontano dall'ammiraglio inglese quanto questo da quello!" "Incontestabile", gli replicarono, "ma in questo paese è buona cosa ammazzare di tanto in tanto un ammiraglio per incoraggiare gli altri".


Candido fu così stordito e offeso da ciò che vedeva e sentiva, che non volle nemmeno mettere piede a terra; fece un contratto col capitano olandese (a rischio di farsi derubare come da quello di Surinam) perché lo portasse senza indugio a Venezia.


Il capitano fu pronto in capo a due giorni. Costeggiarono la Francia; passarono in vista di Lisbona, e Candido fremette. Varcato lo stretto, entrarono nel Mediterraneo; finalmente approdarono a Venezia.


"Dio sia lodato!" disse Candido abbracciando Martino. "Qui rivedrò la bella Cunegonda. Mi fido di Cacambò come di me stesso. Tutto è bene, tutto va bene, tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili..."




CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO


DI PASQUETTA E DI FRA GAROFALO


Appena sbarcato, fece cercare Cacambò in tutte le bettole, in tutti i caffè, presso tutte le ragazze allegre, e non lo trovò. Lo mandò a cercare tutti i giorni in ogni vascello e in ogni barca: nessuna notizia di Cacambò.


"Come!" diceva a Martino, "ho avuto tempo di passare da Surinam a Bordeaux, di andare da Bordeaux a Parigi, da Parigi a Dieppe, da Dieppe a Portsmouth, di costeggiare il Portogallo e la Spagna, di attraversare tutto il Mediterraneo, di passare qualche mese a Venezia, e la bella Cunegonda non è venuta! In sua vece non ho incontrato che una baldracca e un abate perigordino! Senza dubbio Cunegonda è morta; non mi resta che morire. Ah! quant'era meglio restare nel paradiso d'Eldorado anziché tornare in questa maledetta Europa. Come avevate ragione, mio caro Martino! ogni cosa non è che illusione e calamità".


Cadde in una nera malinconia, e non prese alcuna parte all'opera "alla moda" (1), né agli altri divertimenti del carnevale; nessuna donna lo tentò minimamente. Martino gli disse:

"Siete davvero ingenuo, in verità, a immaginare che un servo meticcio con cinque o sei milioni in tasca vada in capo al mondo a cercare la vostra bella e la conduca a Venezia. La prenderà per sé, se la trova.


Se non la trova, ne piglierà un'altra: vi consiglio di dimenticare il vostro servo Cacambò e la vostra bella Cunegonda".


Martino non era consolante. La malinconia di Candido aumentò, e Martino non cessava di dimostrargli che c'è poca virtù e poca felicità sulla terra; tranne forse che in Eldorado, dove nessuno poteva andare.


Mentre discutevano questo importante argomento e aspettavano Cunegonda, Candido scorse in piazza San Marco un giovane teatino che teneva sotto braccio una ragazza. Il teatino era fresco, grassoccio e vigoroso; aveva occhi brillanti, un'aria baldanzosa, un fare altezzoso, un'andatura fiera. La ragazza era molto carina e cantava; guardava amorosamente il suo teatino e ogni tanto gli pizzicava le guance paffute.


"Ammetterete almeno", disse Candido a Martino, "che quei due sono felici. In tutta la terra abitabile, salvo che in Eldorado, non ho trovato finora che degli sventurati; ma quella ragazza e quel teatino, scommetto che sono creature felicissime".


"E io scommetto di no" disse Martino.


"Non c'è che da invitarli a pranzo", disse Candido, "e vedrete se mi sbaglio".


Subito, li avvicina, porge a loro i suoi complimenti, e li invita all'albergo a mangiare maccheroni, pernici di Lombardia, uova di storione, e a bere vino di Montepulciano, di Cipro, di Samo e Lacrima Christi. La ragazza arrossì, il teatino accettò l'invito, e la ragazza lo seguì guardando Candido con occhi sorpresi e confusi che qualche lacrima offuscò. Appena entrata nella camera di Candido, gli disse:

"Come! il signor Candido non riconosce più Pasquetta!" A queste parole Candido, che fino allora non l'aveva considerata con attenzione perché pensava solo a Cunegonda, le disse:

"Ahimè! mia povera ragazza, siete dunque voi che avete ridotto il dottor Pangloss nello stato in cui l'ho visto?" "Ahimè, signore, sono proprio io; vedo che siete informato di tutto.


Ho saputo delle terribili sciagure capitate alla casa della signora baronessa e della bella Cunegonda. Vi giuro che la mia sorte non è stata meno triste. Ero molto ingenua, quando mi avete visto. Un frate francescano, che era mio confessore, mi sedusse facilmente: le conseguenze furono spaventose; fui costretta a uscire dal castello qualche tempo dopo che il signor barone vi ebbe cacciato a calci nel sedere. Se un celebre medico non si fosse impietosito di me, sarei morta.


Per riconoscenza, divenni per qualche tempo l'amante di quel medico.


Sua moglie, che era ferocemente gelosa, mi picchiava tutti i giorni senza pietà; una vera furia.


Il medico era l'uomo più brutto del mondo, e io la più infelice di tutte le creature, picchiata com'ero continuamente per un uomo che non amavo. Voi sapete, signore, com'è pericoloso per una donna bisbetica essere moglie di un medico. Costui, esasperato dal comportamento della moglie, per guarirla da un leggero raffreddore, un giorno le diede una medicina così efficace che quella morì nel giro di due ore in preda a orribili convulsioni. I parenti della signora gli intentarono un processo; lui scappò, e io fui messa in prigione. La mia innocenza non mi avrebbe salvata se non fossi stata abbastanza graziosa. Il giudice mi liberò, a patto di succedere al medico. Ben presto fui soppiantata da una rivale, scacciata senza ricompensa e costretta a continuare questo mestiere atroce che sembra così piacevole a voi uomini e che per noi non è che un abisso di miseria. Venni a esercitarlo qui a Venezia. Ah! signore, se voi poteste immaginare cosa significa dover accarezzare indifferentemente un vecchio mercante, un avvocato, un monaco, un gondoliere, un abate; essere esposta a tutti gli insulti, a tutte le angherie; essere spesso ridotta a chiedere in prestito una sottana per andare a farsela togliere da un uomo disgustoso; essere derubata da uno di quel che si è guadagnato con l'altro; essere taglieggiata dagli ufficiali di giustizia, e non avere altra prospettiva che una vecchiaia spaventosa, un ospedale e un letamaio, concludereste che io sono una delle più infelici creature del mondo".


Così Pasquetta, in un salottino, apriva il suo cuore al buon Candido, in presenza di Martino che diceva:

"Vedete che ho già vinto metà della scommessa".


Fra Garofalo era rimasto in sala da pranzo, e beveva un goccio in attesa del pranzo.


"Ma", disse Candido a Pasquetta, "avevate un'aria così allegra, così contenta, quando vi ho incontrata; cantavate, carezzavate il teatino con una compiacenza così naturale; mi siete sembrata tanto felice quanto pretendete di essere sventurata".


"Ah! signore", rispose Pasquetta, "ecco un'altra miseria del mestiere.


Proprio ieri sono stata derubata e picchiata da un ufficiale, e oggi devo sembrare di buon umore per piacere a un monaco".


Candido non volle sapere altro; ammise che Martino aveva ragione. Si misero a tavola con Pasquetta e il teatino; il pasto fu abbastanza divertente, e verso la fine parlarono con una certa confidenza.


"Padre", disse Candido al frate, "mi sembra che godiate di un destino che tutti devono invidiare; il fiore della salute brilla sul vostro viso, il vostro aspetto rivela felicità; avete una graziosissima ragazza per trastullarvi, e sembrate contentissimo della vostra condizione di teatino".


"In fede mia, signore", disse fra Garofalo, "vorrei che tutti i teatini sprofondassero in mare. Ho avuto cento volte la tentazione di dar fuoco al convento e di andare a farmi turco. A quindici anni i miei genitori mi costrinsero a indossare questa odiosa sottana per accrescere la fortuna di un fratello maggiore; che Dio lo confonda! La gelosia, la discordia, la rabbia abitano il convento. E' vero che ho pronunciato alcune cattive prediche che m'hanno fruttato qualche soldo, di cui il priore mi ruba la metà: il resto mi serve a mantenere delle ragazze; ma quando la sera torno in convento, mi viene voglia di rompermi la testa contro i muri; e tutti i miei confratelli sono nella mia stessa situazione".


Voltandosi verso Candido con la solita impassibilità, Martino gli disse:

"Ebbene! non ho vinto tutta la scommessa?" Candido diede duemila piastre a Pasquetta e mille a fra Garofalo.


"Vi assicuro", disse, "che con questo saranno felici".


"Non lo credo affatto;" disse Martino, "con queste piastre li renderete forse ancora più infelici".


"Sarà quel che sarà;" disse Candido, "ma una cosa mi consola: vedo che spesso si ritrovano le persone che non si sarebbe mai creduto di trovare; può darsi che avendo ritrovato la mia pecora e Pasquetta, riveda pure Cunegonda".


"Vi auguro" disse Martino, "che un giorno faccia la vostra felicità; ma è cosa di cui dubito parecchio".


"Siete ben duro" disse Candido.


"Il fatto è che ho vissuto" disse Martino.


"Ma guardate quei gondolieri"; disse Candido, "non cantano forse ininterrottamente?" "Voi non li vedete nella loro vita domestica, con le loro mogli e i loro marmocchi" disse Martino. "Il doge ha i suoi crucci, i gondolieri i loro. E' vero che, tutto sommato, la sorte di un gondoliere è preferibile a quella di un doge; ma credo che la differenza sia così scarsa che non vale la pena di discuterne".


"Si parla molto" disse Candido, "del senatore Pococurante, che abita in un bel palazzo sul Brenta, e che accoglie abbastanza bene gli stranieri. E' un uomo che non ha mai avuto dispiaceri, a quanto dicono".


"Mi piacerebbe vedere un individuo così raro" disse Martino.


Candido fece subito chiedere al signor Pococurante il permesso di andarlo a trovare l'indomani.




NOTE

1) [in italiano nel testo]




CAPITOLO VENTICINQUESIMO


VISITA AL SIGNOR POCOCURANTE, NOBILE VENEZIANO


Candido e Martino andarono in gondola sul Brenta, e giunsero al palazzo del nobile Pococurante. I giardini erano ben disegnati e ornati di belle statue di marmo; il palazzo di bella architettura. Il padrone di casa, uomo sulla sessantina, ricchissimo, ricevette molto cortesemente i due curiosi, ma senza agitarsi troppo: il che sconcertò Candido e non dispiacque a Martino.


Dapprima due ragazze graziose e decorosamente vestite servirono della cioccolata che avevano fatto montare molto bene. Candido non poté fare a meno di lodare la loro bellezza, il loro garbo e la loro abilità.


"Sono delle discrete creature"; disse il senator Pococurante, "qualche volta le faccio entrare nel mio letto perché sono proprio stanco delle dame di città, delle loro civetterie, delle loro dispute, dei loro malumori, delle loro meschinità, del loro orgoglio, delle loro stupidaggini e dei sonetti che bisogna comporre o far comporre per loro; ma, dopo tutto, queste due ragazze cominciano proprio ad annoiarmi".


Candido, dopo colazione, passeggiando in una lunga galleria, fu meravigliato della bellezza dei quadri. Domandò di quale maestro fossero i primi due.


"Di Raffaello"; disse il senatore, "li acquistai per vanità a un prezzo molto alto, alcuni anni fa; dicono che è quanto c'è di più bello in Italia, ma a me non piacciono affatto: il colore è molto cupo, le figure non sono abbastanza plastiche e mancano di rilievo; i drappeggi non assomigliano per niente a una stoffa: insomma, checché se ne dica, io non ci trovo una vera imitazione della natura. Un quadro mi piacerà solo quando crederò di vederci la natura stessa: e di questo genere non ce ne sono. Ho molti quadri, ma non li guardo più".


Pococurante, aspettando il pranzo, si fece dare un concerto. Candido trovò la musica deliziosa.


"Questo rumore" disse Pococurante, "può divertire per mezz'ora; ma se dura più a lungo, stanca tutti, benché nessuno osi confessarlo. La musica oggi non è più che l'arte di eseguire cose difficili, e ciò che è soltanto difficile alla lunga non piace.


Forse preferirei l'opera, se non avessero trovato il modo di farne un mostro che mi ripugna. Vada chi vuole a vedere delle brutte tragedie in musica le cui scene non sono fatte che per introdurre molto a sproposito due o tre canzoni ridicole che valorizzano l'ugola di un'attrice: cada in estasi chi vuole o chi può vedendo un castrato gorgheggiare la parte di Cesare o di Catone e passeggiare con aria goffa sulla scena; quanto a me, ho rinunciato da tempo a queste miserie che oggi fanno la gloria dell'Italia, e che i sovrani pagano così care".


Candido discusse un po', ma con discrezione. Martino fu completamente d'accordo col senatore.


Si misero a tavola e, dopo un ottimo pranzo, entrarono nella biblioteca. Candido, vedendo un Omero stupendamente rilegato, lodò l'illustrissimo per il suo buon gusto.


"Ecco un libro" disse, "che faceva la delizia del grande Pangloss, il miglior filosofo di Germania".


"Non fa certo la mia"; disse freddamente Pococurante, "un tempo mi fecero credere che provavo piacere a leggerlo; ma questa continua ripetizione di combattimenti che si somigliano tutti, questi dei che agiscono sempre per non far nulla di decisivo, questa Elena che è la causa della guerra e che è a malapena un'attrice del dramma; questa Troia assediata e non conquistata: tutto questo mi annoia a morte. Ho chiesto qualche volta a dei dotti se si annoiavano quanto me a questa lettura: tutte le persone sincere mi hanno confessato che il libro gli cascava di mano, ma che comunque bisognava averlo in biblioteca, come un monumento dell'antichità, e come quelle medaglie arrugginite che non si possono vendere".


"Vostra Eccellenza pensa così anche di Virgilio?" disse Candido.


"Ammetto" disse Pococurante, "che il secondo, il quarto e il sesto libro dell'«Eneide» sono eccellenti; ma quanto al suo pio Enea, al forte Cloante, al fido Acate, al piccolo Ascanio, all'imbecille re Latino, alla borghese Amata, all'insipida Lavinia, non credo che ci sia niente di più freddo e sgradevole. Preferisco il Tasso e le storie da dormire in piedi dell'Ariosto".


"Posso chiedervi, signore", disse Candido, "se non provate un gran piacere a leggere Orazio?" "Ci sono delle massime" disse Pococurante, "da cui un uomo di mondo può trarre profitto, e che, inserite in versi vigorosi, si imprimono più facilmente nella memoria; ma io mi curo molto poco del suo viaggio a Brindisi, della sua descrizione di un cattivo pranzo, e degli alterchi da facchini tra non so qual Pupilus, le cui parole, dice, «erano piene di marcia», e un altro le cui parole, invece, «erano d'aceto». Ho letto con estremo disgusto alcuni suoi versi contro certe vecchie e certe streghe; e non vedo quale merito ci possa essere nel dire all'amico Mecenate che, se sarà da lui annoverato fra i poeti lirici, toccherà gli astri con la fronte sublime. Gli sciocchi ammirano tutto in un autore stimato. Io non leggo che per me stesso; e amo solo quello che fa al caso mio".


Candido, che era stato educato a non giudicare mai nulla di testa propria, fu stupito di quanto ascoltava, e Martino trovò il modo di pensare di Pococurante abbastanza ragionevole.


"Oh! ecco un Cicerone"; disse Candido, "questo grand'uomo almeno, penso che non tralascerete mai di leggerlo".


"Non lo leggo mai" rispose il veneziano. "Cosa m'importa che abbia difeso Rabirio e Cluenzio? Ne ho abbastanza dei processi che devo giudicare io; avrei gradito maggiormente le sue opere filosofiche; ma quando ho visto che dubitava di tutto, ho concluso che ne sapevo quanto lui, e che non avevo bisogno di nessuno per essere ignorante".


"Ah! ecco ventiquattro volumi di pubblicazioni di un'accademia di scienze", esclamò Martino, "forse qui c'è del buono".


"Ce ne sarebbe" disse Pococurante, "se uno solo degli autori di questo guazzabuglio avesse almeno inventato l'arte di fare gli spilli; ma in tutti questi libri non ci sono che vani sistemi, e nemmeno una cosa utile".


"Quante opere di teatro!" disse Candido, "in italiano, spagnolo, francese!" "Sì", disse il senatore, "e neanche tre dozzine valide. Quanto a queste raccolte di prediche, che tutte insieme non valgono una pagina di Seneca, e tutti questi grossi volumi di teologia, potete ben immaginare che non li apro mai, né io né altri".


Martino scorse dei palchetti pieni di libri inglesi.


"Credo", disse, "che un repubblicano debba compiacersi della maggior parte di queste opere scritte così liberamente".


"Sì", rispose Pococurante, "è bello scrivere ciò che si pensa: è un privilegio dell'uomo. In tutta Italia non si scrive che quel che non si pensa; quelli che abitano la patria dei Cesari e degli Antonini non osano avere un'idea senza il permesso di un frate giacobino. Sarei contento della libertà che ispira i geni inglesi se la passione e lo spirito di parte non rovinassero tutto ciò che questa preziosa libertà ha di pregevole".


Candido, scorgendo un Milton, gli domandò se non considerava quell'autore un grand'uomo.


"Chi?" disse Pococurante, "questo barbaro che fa un lungo commento al primo capitolo del «Genesi» in dieci libri di duri versi? questo grossolano imitatore dei Greci, che sfigura la creazione e che, mentre Mosè rappresenta l'Essere eterno che crea il mondo con la parola, fa prendere al Messia un gran compasso nell'armadio del cielo per tracciare la sua opera? Io stimare colui che ha sciupato l'inferno e il diavolo del Tasso; che maschera Lucifero ora da rospo ora da pigmeo; che gli fa ricantare cento volte gli stessi discorsi; che lo fa discutere di teologia; che, imitando in tono serio l'invenzione comica delle armi da fuoco dell'Ariosto, fa sparare il cannone in cielo dai diavoli? Né io né nessun altro in Italia ha potuto compiacersi di tutte queste tristi stravaganze. Il matrimonio del peccato e della morte, il serpente che il peccato partorisce, fanno vomitare ogni uomo che abbia un gusto un po' delicato; e la sua lunga descrizione di un ospedale non è buona che per un becchino. Questo poema oscuro, bizzarro e disgustoso, fu disprezzato al suo nascere; oggi io lo tratto come fu trattato in patria dai contemporanei. Del resto, dico quello che penso, e mi curo assai poco che gli altri la pensino come me".


Candido era afflitto da tali discorsi; rispettava Omero e amava un poco Milton.


"Ahimè!" disse piano a Martino, "temo proprio che quest'uomo nutra un sovrano disprezzo per i nostri poeti tedeschi".


"Non ci sarebbe un gran male in questo" disse Martino.


"Oh! che uomo superiore!" diceva ancora Candido fra i denti, "che grande genio questo Pococurante! niente riesce a piacergli".


Dopo aver passato in rassegna tutti i libri, scesero in giardino.


Candido ne lodò tutte le bellezze.


"Non conosco niente di così cattivo gusto"; disse il padrone, "non sono che fronzoli, ma domani ne farò piantare uno di disegno più nobile".


Quando i due curiosi ebbero preso congedo da Sua Eccellenza:

"Ebbene", disse Candido a Martino, "ammetterete che quello è l'uomo più felice del mondo, perché è al di sopra di tutto quanto possiede".


"Ma non vedete" disse Martino, "che ne è disgustato? Platone ha detto, molto tempo fa, che gli stomaci migliori non sono quelli che rigettano tutti i cibi".


"Ma", disse Candido, "non si prova forse piacere a criticare tutto, a scorgere dei difetti dove gli altri credono di vedere delle bellezze?" "Cioè", riprese Martino, "è un piacere non provar piacere?" "Ebbene!" disse Candido, "non ci sarò dunque che io di felice quando potrò rivedere madamigella Cunegonda".


"E' sempre bene sperare" disse Martino.


Frattanto i giorni e le settimane scorrevano; Cacambò non ritornava, e Candido era così oppresso dal dolore che non fece attenzione al fatto che Pasquetta e fra Garofalo non erano venuti nemmeno a ringraziarlo.




CAPITOLO VENTISEIESIMO


DI UNA CENA CHE CANDIDO E MARTINO FECERO CON SEI STRANIERI, E CHI ERANO COSTORO


Una sera Candido, insieme a Martino, stava per mettersi a tavola con gli stranieri alloggiati nel medesimo albergo, quando un uomo dal viso color fuliggine gli si accostò da dietro e, prendendolo per le braccia, gli disse:

"Tenetevi pronto a partire, mi raccomando".


Si volta, e vede Cacambò. Non c'era che la vista di Cunegonda che potesse stupirlo e allietarlo maggiormente. Fu sul punto d'impazzire di gioia. Abbraccia il caro amico.


"Certamente Cunegonda è qui. Dov'è? Portami da lei, che io muoia di gioia con lei".


"Cunegonda non è qui", disse Cacambò, "è a Costantinopoli".


"Cielo! a Costantinopoli! ma fosse anche in Cina, volo; partiamo".


"Partiremo dopo cena"; rispose Cacambò, "non posso dirvi di più; sono schiavo, il mio padrone mi aspetta; bisogna che vada a servirlo a tavola: non fate parola; cenate e tenetevi pronto".


Candido, diviso tra gioia e dolore, felice di avere rivisto il suo fedele agente, stupito di vederlo schiavo, tutto preso dall'idea di ritrovare la sua bella, col cuore agitato, lo spirito sconvolto, si mise a tavola con Martino, che guardava con occhio freddo tutti questi fatti, e coi sei stranieri venuti a passare il carnevale a Venezia.


Cacambò, che versava da bere a uno di questi stranieri, si chinò all'orecchio del padrone, verso la fine della cena, e gli disse:

"Sire, Vostra Maestà può partire quando vuole: il vascello è pronto".


Dette queste parole, uscì. I convitati, stupiti, si guardavano senza pronunciar parola, allorché un altro domestico, avvicinandosi al suo padrone, gli disse:

"Sire, la carrozza di Vostra Maestà è a Padova, e la barca è pronta".


Il padrone fece un cenno, e il servitore se ne andò.


Tutti i convitati si guardarono di nuovo, e il comune stupore raddoppiò. Un terzo servo, avvicinandosi anche lui a un terzo straniero, gli disse:

"Sire, ascoltatemi, Vostra Maestà non deve restare qui più a lungo:

vado a preparare ogni cosa" e subito sparì.


Candido e Martino non dubitarono più che fosse una mascherata del carnevale. Un quarto domestico disse al quarto padrone:

"Vostra Maestà partirà quando crede" e uscì come gli altri. Il quinto servo disse altrettanto al quinto padrone. Ma il sesto parlò diversamente al sesto padrone straniero, che sedeva accanto a Candido, gli disse:

"In fede mia, sire, non vogliono più far credito né a Vostra Maestà né a me, e potrebbero benissimo schiaffarci dentro questa notte tutti e due; io me ne vado per i fatti miei, addio".


Scomparsi tutti i domestici, i sei stranieri, Candido e Martino rimasero in un profondo silenzio. Finalmente Candido lo ruppe:

"Signori", disse, "ecco uno scherzo singolare. Perché mai siete tutti re? Quanto a me, confesso che né io né Martino lo siamo".


Il padrone di Cacambò prese allora gravemente la parola, disse in italiano:

"Non scherzo affatto: mi chiamo Achmet Terzo; sono stato gran sultano per parecchi anni; detronizzai mio fratello; mio nipote mi ha spodestato; hanno tagliato la testa ai miei visir; termino i miei giorni nel vecchio serraglio; mio nipote, il gran sultano Mahmud, mi permette di viaggiare qualche volta, per ragioni di salute, e sono venuto a passare il carnevale a Venezia".


Un giovane che stava accanto ad Achmet parlò dopo di lui, e disse:

"Mi chiamo Ivan; sono stato imperatore di tutte le Russie; mi hanno detronizzato fin dalla culla; sono stato allevato in prigione; a volte ho il permesso di viaggiare, accompagnato da guardiani; e sono venuto a passare il carnevale a Venezia".


Il terzo disse:

"Sono Carlo Edoardo, re d'Inghilterra; mio padre mi ha trasmesso i suoi diritti al regno; ho combattuto per sostenerli; hanno strappato il cuore a ottocento miei seguaci, e glielo hanno sbattuto sulla faccia; sono stato messo in prigione; vado a Roma per far visita al re mio padre, deposto come me e mio nonno, e sono venuto a passare il carnevale a Venezia".


Allora il quarto prese la parola e disse:

"Sono il re dei Polacchi; l'esito della guerra mi ha privato dei miei stati ereditari; mio padre ha conosciuto gli stessi rovesci di fortuna; mi rassegno ai voleri della Provvidenza come il sultano Achmet, l'imperatore Ivan e il re Carlo Edoardo, ai quali Iddio conceda lunga vita, e sono venuto a passare il carnevale a Venezia".


Il quinto disse:

"Anch'io sono re dei Polacchi; ho perso due volte il mio regno; ma la Provvidenza mi ha dato un altro stato dove ho fatto più bene di quanto tutti i re dei Sarmati messi assieme non abbiano mai fatto sulle rive della Vistola. Anch'io mi rassegno al volere della Provvidenza; e sono venuto a passare il carnevale a Venezia".


Toccava al sesto re di parlare.


"Signori", disse, "io non sono un gran signore come voi; ma in fin dei conti sono stato re anch'io; sono Teodoro; mi hanno eletto re di Corsica; mi chiamavano Vostra Maestà; e adesso mi dicono a stento Signore; ho battuto moneta, e non possiedo un soldo; ho avuto due segretari di stato, e adesso ho appena un servo, mi sono visto su di un trono e sono stato lungo tempo in prigione, a Londra, steso sulla paglia; temo proprio che mi tratteranno allo stesso modo anche qui, benché sia venuto, come le Maestà Vostre, a passare il carnevale a Venezia".


Gli altri cinque re ascoltarono quel discorso con nobile compassione.


Ciascuno di loro diede venti zecchini a re Teodoro perché si comprasse abiti e camicie; Candido gli fece dono di un diamante di mille zecchini.


"Chi è dunque", dicevano i cinque re, "questo semplice privato che può dare cento volte più di noi, e che lo dà?" Mentre si alzavano da tavola, giunsero nello stesso albergo quattro Altezze Serenissime che avevano perduto anch'esse i loro stati in guerra, e che venivano a passare il carnevale a Venezia. Ma Candido non prestò minimamente attenzione ai nuovi venuti. Non pensava ad altro che ad andare a trovare la sua Cunegonda a Costantinopoli.




CAPITOLO VENTISETTESIMO


VIAGGIO DI CANDIDO A COSTANTINOPOLI


Il fedele Cacambò aveva già ottenuto dal capitano turco che doveva ricondurre Achmet a Costantinopoli che prendesse a bordo Candido e Martino. Tutti e due s'imbarcarono dopo essersi prosternati davanti a Sua miserabile Altezza. Strada facendo Candido diceva a Martino:

"Ecco tuttavia che abbiamo cenato con sei re detronizzati! e fra questi re ce n'è uno a cui ho fatto l'elemosina. Forse ci sono molti altri principi ancora più sfortunati. Quanto a me, io non ho perso che cento pecore, e volo nelle braccia di Cunegonda. Mio caro Martino, ancora una volta Pangloss aveva ragione, tutto è bene".


"Ve lo auguro" disse Martino.


"Ma" disse Candido, "è un'avventura ben poco verosimile quella che abbiamo avuto a Venezia. Non si è mai visto né sentito dire che sei re spodestati cenassero insieme all'osteria".


"Non è certo più straordinario della maggior parte delle cose che ci sono capitate" disse Martino. "E' cosa molto comune che dei re siano detronizzati; e quanto all'onore che abbiamo avuto di cenare insieme a loro è una bagatella che non merita la nostra attenzione".


Appena Candido fu a bordo del vascello, saltò al collo del suo vecchio servo, il suo amico Cacambò.


"Ebbene!" gli disse, "cosa fa Cunegonda? E' sempre un miracolo di bellezza? Mi ama sempre? Come sta? Certamente le hai comperato un palazzo a Costantinopoli".


"Caro padrone", rispose Cacambò. "Cunegonda lava scodelle in riva alla Propontide, in casa di un principe che ne ha poche; è schiava di un ex sovrano chiamato Ragotski, a cui il Gran Turco passa tre scudi al giorno nel suo rifugio; ma il fatto più triste è che ha perduto la sua bellezza, ed è diventata orribilmente brutta".


"Ah! bella o brutta", disse Candido, "sono un uomo onesto, e il mio dovere è di amarla sempre. Ma come può essersi ridotta in uno stato così abbietto coi cinque o sei milioni che le avevi portato?" "Be'", disse Cacambò, "non ho forse dovuto dare due milioni al signor don Fernando d'Ibaraa, y Figueroa, y Mascarenes, y Lampurdos, y Suza, governatore di Buenos Aires, perché mi concedesse di riprendere madamigella Cunegonda? E un pirata non ci ha bravamente spogliati di tutto il resto? Questo pirata non ci ha poi condotti al capo Matapan, a Milo, a Nicaria, a Samo, a Petra, ai Dardanelli, a Marmora, a Scutari? Cunegonda e la vecchia servono in casa del principe di cui vi ho detto, e io, io sono schiavo del sultano detronizzato".


"Che spaventosa catena di calamità!" disse Candido. "Ma, dopo tutto, ho ancora qualche diamante; riuscirò facilmente a liberare Cunegonda.


E' un gran peccato che sia diventata così brutta".


Poi, volgendosi a Martino:

"Chi pensate" disse, "che sia più degno di compassione: il sultano Achmet, l'imperatore Ivan, il re Carlo Edoardo, o io?" "Non ne so niente;" disse Martino, "dovrei essere nei vostri cuori per saperlo".


"Ah!" disse Candido, "se Pangloss fosse qui lo saprebbe, e ce lo direbbe".


"Non so" disse Martino, "con quale bilancia il vostro Pangloss avrebbe potuto pesare le sfortune degli uomini e valutare i loro dolori. Tutto ciò che posso supporre è che al mondo ci sono milioni di uomini più degni di compassione del re Carlo Edoardo, dell'imperatore Ivan e del sultano Achmet".


"Può anche darsi" disse Candido.


In pochi giorni giunsero sul canale del Mar Nero. Candido cominciò col riscattare Cacambò a caro prezzo; poi senza perdere tempo, si precipitò coi compagni in una galera, per andare sulle rive della Propontide a cercare Cunegonda, per brutta che fosse.


Nella ciurma c'erano due forzati che remavano molto male, e ai quali il capitano levantino applicava di tanto in tanto delle nerbate sulle spalle nude; Candido, per un moto istintivo, li guardò più attentamente degli altri galeotti, e si avvicinò a loro pietosamente.


Alcuni tratti dei loro volti sfigurati gli parve che avessero una certa somiglianza con Pangloss e con quell'infelice gesuita, il barone, il fratello di madamigella Cunegonda. Questa impressione lo commosse e lo attristò. Li considerò con maggior attenzione.


"In verità", disse a Cacambò, "se non avessi visto impiccare mastro Pangloss, e se non avessi avuto la disgrazia di uccidere il barone, crederei che sono loro che remano su questa galera".


Al nome del barone e di Pangloss i due forzati gettarono un grande urlo, rimasero immobili sul banco e lasciarono cadere i remi. Il capitano levantino accorse e le nerbate raddoppiarono.


"Fermo! fermo! signore;" esclamò Candido, "vi darò tutto il denaro che volete".


"Come! è Candido!" diceva uno dei forzati.


"Come! è Candido!" diceva l'altro.


"Sogno o son desto?" disse Candido, "sono su questa galera? Quello è il signor barone che ho ucciso? Questo è mastro Pangloss che ho visto impiccare?" "Siamo noi, siamo noi" rispondevano i due.


"Come! è quello il gran filosofo?" diceva Martino.


"Ehi! signor capitano levantino", disse Candido "quanto volete per il riscatto del signore di Thunder-ten-tronckh, uno dei primi baroni dell'impero, e del signor Pangloss, il più profondo metafisico di Germania?" "Cane di un cristiano", rispose il capitano levantino, "poiché questi due cani di forzati cristiani sono dei baroni e dei metafisici, ciò che è senza dubbio una grande dignità nel loro paese, mi darai cinquantamila zecchini".


"Li avrete, signore; riportatemi come un lampo a Costantinopoli, e sarete pagato all'istante. Ma no, portatemi da madamigella Cunegonda".


Alle prime parole di Candido, il capitano levantino aveva già voltato la prua verso la città, e faceva remare più in fretta di quanto un uccello volasse.


Candido abbracciò cento volte il barone e Pangloss. "E come mai non vi ho ammazzato, mio caro barone? e caro Pangloss, come mai siete ancora in vita dopo esser stato impiccato? e perché siete tutti e due su una galera turca?" "E' proprio vero che la mia cara sorella si trova in questo paese?" diceva il barone.


"Sì" rispondeva Cacambò.


"Dunque rivedo il mio caro Candido!" esclamava Pangloss.


Candido presentò loro Martino e Cacambò. Si abbracciavano tutti; parlavano tutti insieme. La galera vola. Già erano in porto. Mandarono a chiamare un ebreo, a cui Candido vendette per cinquantamila zecchini un diamante del valore di centomila e che gli giurò per Abramo di non potergliene dare di più. Pagò immediatamente il riscatto del barone e di Pangloss. Questi si gettò ai piedi del suo liberatore e li bagnò di lacrime; l'altro lo ringraziò con un cenno del capo, e gli promise di rendergli il denaro alla prima occasione.


"Ma è proprio possibile che mia sorella sia in Turchia?" diceva.


"Niente di più possibile", disse Cacambò, "poiché lava i piatti in casa di un principe di Transilvania".


Fecero venire due ebrei: Candido vendette altri diamanti, e tutti ripartirono su un'altra galera per andare a liberare Cunegonda.




CAPITOLO VENTOTTESIMO


QUEL CHE CAPITO' A CANDIDO, A CUNEGONDA, A PANGLOSS, A MARTINO ECCETERA


"Domando ancora perdono", disse Candido al barone, "perdono, reverendo padre, di avervi trapassato il corpo con un gran colpo di spada".


"Non parliamone più"; disse il barone, "sono stato un po' troppo vivace, lo ammetto; ma siccome volete sapere per quale caso mi avete ritrovato su una galera, vi dirò che quando il fratello farmacista del collegio mi ebbe guarito dalla mia ferita, fui assalito e rapito da una fazione spagnola; mi misero in prigione a Buenos Aires, proprio mentre mia sorella se ne andava. Chiesi di ritornare a Roma dal padre generale. Mi assegnarono l'incarico d'elemosiniere a Costantinopoli, presso il signor ambasciatore di Francia. Non erano passati otto giorni dalla mia entrata in servizio che, verso sera, m'imbattei in un giovane icoglan assai ben fatto. Faceva molto caldo: il giovane volle fare un bagno; approfittai dell'occasione per farlo anch'io. Non sapevo che fosse un delitto capitale per un cristiano essere trovato nudo con un giovane musulmano. Un cadì mi fece dare cento bastonate sotto la pianta dei piedi, e mi condannò alle galere. Non credo che sia mai stata commessa una più orribile ingiustizia. Ma vorrei proprio sapere perché mia sorella si trova nella cucina di un sovrano di Transilvania rifugiato presso i Turchi".


"Ma voi, caro Pangloss", disse Candido, "com'è possibile che vi riveda?" "E' vero", disse Pangloss, "che mi hai visto impiccare; dovevo naturalmente essere bruciato: ma tu ricordi che piovve a dirotto quando stavano per cuocermi: il temporale fu così violento che rinunciarono ad accendere il fuoco, mi impiccarono, perché non si poté fare di meglio: un chirurgo acquistò il mio corpo; mi portò a casa e mi sezionò. Dapprima mi fece un'incisione cruciale dall'ombelico alla clavicola. Non si poteva impiccare peggio di quanto avevano fatto con me. L'esecutore delle alte opere della santa Inquisizione, che era suddiacono, bruciava la gente a meraviglia, ma non era abituato a impiccare: la corda era bagnata e non poté scorrere bene, si annodò; insomma respiravo ancora; l'incisione cruciale mi fece cacciare un tale urlo che il chirurgo cadde riverso; e, credendo di sezionare il diavolo, se ne scappò via mezzo morto di paura e cadde dalla scala. A quel fracasso sua moglie accorse da una stanza vicina: mi vide steso sulla tavola con la mia incisione cruciale; si spaventò ancor più di suo marito, scappò, e gli cadde addosso. Quando si furono un po' rimessi udii la chirurga che diceva al chirurgo:

"Mio caro, cosa ti è venuto in mente di sezionare un eretico? Non sai che il diavolo rimane sempre nel corpo di questa gente? Vado subito a cercare un prete per esorcizzarlo".


A quelle parole fremetti; raccolsi le poche forze che mi restavano e gridai: "Abbiate pietà di me!" Finalmente il chirurgo portoghese si fece coraggio: mi ricucì la pelle; anche sua moglie si prese cura di me; in capo a quindici giorni fui di nuovo in piedi. Il barbiere mi trovò una sistemazione, e divenni lacchè di un cavaliere di Malta che andava a Venezia; siccome il mio padrone non aveva di che pagare, entrai al servizio di un mercante veneziano, e lo seguii a Costantinopoli.


Un giorno mi venne il ghiribizzo di entrare in una moschea; non c'era che un vecchio imano e una giovane devota molto graziosa che diceva i suoi paternoster, aveva il seno completamente nudo, e fra le mammelle un bel mazzo di tulipani, di rose, di anemoni, di ranuncoli, di giacinti e d'orecchie d'orso; lasciò cadere il mazzo; io lo raccolsi e glielo rimisi a posto con rispettosissima premura. Ci impiegai così tanto ad accomodarglielo che l'imano si infuriò, e, vedendo che ero cristiano, chiamò aiuto. Mi portarono dal cadì, che mi fece dare cento piattonate sulla pianta dei piedi, e mi spedì sulle galere. Fui incatenato proprio nella stessa galera e al medesimo banco del barone.


In quella galera c'erano quattro giovani di Marsiglia, cinque preti napoletani, e due monaci di Corfù, i quali ci dissero che fatti simili capitavano tutti i giorni. Il signor barone pretendeva di aver subito un'ingiustizia più grande della mia; io sostenevo che è molto più lecito rimettere un mazzo di fiori sul seno di una donna che fare il bagno nudo con un icoglan. Discutevamo in continuazione, e ci davano venti nerbate al giorno, allorché il concatenamento degli avvenimenti di quest'universo ti ha condotto nella nostra galera, e ci hai riscattato".


"Ebbene! mio caro Pangloss", gli disse Candido, "quando vi hanno impiccato, sezionato, pestato di santa ragione e avete remato sulle galere, pensavate sempre che tutto andava per il meglio?" "Sono sempre della mia prima idea", rispose Pangloss, "perché in fin dei conti io sono filosofo: non è conveniente che mi disdica, giacché Leibniz non può avere torto, e l'armonia prestabilita è la più bella cosa del mondo, così come il pieno e la materia sottile".




CAPITOLO VENTINOVESIMO


COME CANDIDO RITROVO' CUNEGONDA E LA VECCHIA


Mentre Candido, il barone, Pangloss, Martino e Cacambò raccontavano le loro avventure, mentre ragionavano sugli avvenimenti contingenti o non contingenti di quest'universo, mentre disputavano sugli effetti e le cause, sul male morale e su quello fisico, sulla libertà e sulla necessità, sulle consolazioni che si possono provare stando sulle galere turche, approdarono sulle rive della Propontide, presso la casa del principe di Transilvania. I primi oggetti che si presentarono furono Cunegonda e la vecchia, che stendevano tovaglioli sulle corde per farli asciugare.


A tale vista il barone impallidì. Il tenero amante Candido, vedendo la sua bella Cunegonda con la pelle scura, gli occhi scerpellini, il seno rinsecchito, le braccia rosse e coperte di scaglie, indietreggiò di tre passi, inorridito, poi avanzò per correttezza. Lei abbracciò Candido e suo fratello; abbracciarono la vecchia: Candido le riscattò tutt'e due.


C'era una piccola fattoria nelle vicinanze; la vecchia propose a Candido di sistemarsi là, in attesa che tutta la compagnia non trovasse una sistemazione migliore. Cunegonda non sapeva di essere diventata brutta, nessuno l'aveva avvertita: ricordò a Candido le sue promesse con un tono così perentorio che il buon Candido non osò rifiutare. Comunicò dunque al barone che stava per sposare sua sorella.


"Non tollererò mai" disse il barone, "una tale bassezza da parte sua, e una tale insolenza da parte vostra; questa infamia non mi sarà mai rimproverata: i figli di mia sorella non potranno entrare nei capitoli di Germania. No, mia sorella non sposerà che un barone dell'Impero".


Cunegonda si gettò ai suoi piedi e li bagnò di lacrime; il barone fu inflessibile.


"Pazzo che non siete altro", gli disse Candido, "vi ho strappato alle galere, ho pagato il vostro riscatto, ho pagato quello di vostra sorella; lei stava qui a lavare scodelle, è brutta, io sono così buono da farne mia moglie, e voi avete ancora la pretesa di opporvi! Vi ammazzerei di nuovo se cedessi alla mia collera".


"Potete ammazzarmi un'altra volta", disse il barone, "ma, finché sono vivo, non sposerete mia sorella".




CAPITOLO TRENTESIMO


CONCLUSIONE


In fondo al cuore Candido non aveva alcuna voglia di sposare Cunegonda; ma l'estrema impertinenza del barone lo spingeva a concludere il matrimonio, e Cunegonda insisteva in modo così pressante che non poteva disdirsi. Consultò Pangloss, Martino e il fedele Cacambò. Pangloss redasse un bel memoriale in cui dimostrava che il barone non aveva alcun diritto sulla sorella, e che lei poteva, secondo tutte le leggi dell'Impero, sposare Candido della mano sinistra. Martino concluse che bisognava buttare il barone in mare, Cacambò propose di riconsegnarlo al capitano levantino e rimetterlo sulle galere, dopo di che l'avrebbero spedito a Roma dal padre generale col primo vascello. L'idea parve eccellente; la vecchia l'approvò; non dissero niente alla sorella; con un po' di denaro la cosa fu condotta a buon fine, e così ebbero il piacere d'ingannare un gesuita e di punire l'orgoglio di un barone tedesco.


Sarebbe naturale immaginare che dopo tante avventure Candido, sposata la sua bella e vivendo col filosofo Pangloss, col filosofo Martino, coll'accorto Cacambò e con la vecchia, avendo inoltre portato tanti diamanti dalla patria degli antichi Incas, conducesse la vita più piacevole del mondo; ma fu imbrogliato a tal punto dagli ebrei che gli rimase solo la piccola fattoria; sua moglie, che si faceva ogni giorno più brutta, divenne bisbetica e insopportabile; la vecchia era inferma, e d'umore anche più cattivo di quello di Cunegonda. Cacambò, che lavorava il giardino e andava a Costantinopoli a vendere legumi, era sovraccarico di lavoro e malediceva il suo destino. Pangloss si disperava di non brillare in qualche università di Germania. Quanto a Martino, era fermamente convinto che si sta ugualmente male dappertutto; prendeva le cose con pazienza. Candido, Martino e Pangloss discutevano a volte di metafisica e di morale. Si vedevano spesso passare sotto le finestre della fattoria barche cariche di effendì, di pascià, di cadì, che erano condotti in esilio a Lemno, a Mitilene, a Erzerum: si vedevano venire altri cadì, altri pascià, altri effendì, che prendevano il posto degli espulsi, e che erano espulsi a loro volta. Si vedevano passare teste accuratamente impagliate da presentare alla Sublime Porta. Tali spettacoli moltiplicavano le dissertazioni; e quando non si discuteva la noia era così intollerabile che la vecchia un giorno osò dire:

"Vorrei sapere cos'è peggio, se essere violato cento volte dai pirati negri, se avere una chiappa tagliata, se passare sotto le verghe dei Bulgari, se essere frustato o impiccato in un autodafè, se essere sezionato, se remare su una galera, se provare insomma tutte le sventure attraverso cui siamo passati, oppure stare qui a far niente".


"E' un gran problema" disse Candido.


Questo discorso fece nascere nuove riflessioni, e Martino concluse che l'uomo è nato per vivere nelle convulsioni dell'inquietudine o nel letargo della noia. Candido non era d'accordo, ma non affermava nulla.


Pangloss ammetteva di aver sempre sofferto orribilmente; ma avendo sostenuto una volta che tutto andava a meraviglia, lo sosteneva ancora, senza crederci affatto.


Una cosa finì col confermare Martino nei suoi detestabili principi, facendo dubitare più che mai Candido e mettendo Pangloss nell'imbarazzo. Un giorno videro approdare alla fattoria Pasquetta e fra Garofalo, che versavano nella più totale miseria. Si erano mangiati in gran fretta le lore tremila piastre, si erano lasciati, s'erano riconciliati, si erano bisticciati, erano stati messi in prigione, erano fuggiti e, finalmente, fra Garofalo si era fatto turco. Pasquetta continuava il suo mestiere dovunque, e non guadagnava più nulla.


"L'avevo ben previsto" disse Martino a Candido, "che i vostri doni sarebbero stati ben presto dissipati e non li avrebbero resi che più miserabili. Avete seminato milioni di piastre, voi e Cacambò, e non siete più felici di fra Garofalo e Pasquetta".


"Ah! ah!" disse Pangloss a Pasquetta, "il cielo ti conduce dunque fra noi, mia povera ragazza! Sai che mi sei costata la punta del naso, un occhio e un'orecchio? Come sei ridotta! eh! cos'è mai questo mondo!" Questo fatto li spinse a filosofare più che mai.


Nelle vicinanze c'era un derviscio che passava per il miglior filosofo di Turchia; andarono a consultarlo; Pangloss prese la parola e gli disse:

"Maestro, veniamo a pregarvi di dirci perché un animale così strano come l'uomo è stato creato".


"Di che t'impicci?" gli disse il derviscio, "forse che ti riguarda?" "Ma, reverendo padre", disse Candido, "è orribile il male che c'è sulla terra".


"Che importa", disse il derviscio, "che ci sia del male o del bene?

Quando Sua Altezza manda un vascello in Egitto, si preoccupa forse che i topi della stiva si trovino a loro agio o no?" "Che bisogna fare dunque?" disse Pangloss.


"Tacere" disse il derviscio.


"Speravo" disse Pangloss, "di ragionare un po' con voi degli effetti e delle cause, del migliore dei mondi possibili, dell'origine del male, della natura dell'anima e dell'armonia prestabilita".


A queste parole il derviscio gli chiuse la porta in faccia.


Durante la conversazione si sparse la notizia che avevano strangolato due visir del banco e il muftì e che parecchi dei loro amici erano stati impalati. Quella catastrofe fece dovunque un gran rumore, per qualche ora. Pangloss, Candido e Martino, ritornando alla piccola fattoria, incontrarono un buon vecchio che si godeva il fresco sulla porta di casa sotto un pergolato di aranci. Pangloss, che era tanto curioso quanto ragionatore, gli chiese come si chiamava il muftì che avevano strangolato.


"Non ne so niente" rispose il buon uomo, "e non ho mai saputo il nome di nessun muftì e di nessun visir. Ignoro completamente il fatto di cui parlate; immagino che, in generale, quelli che s'immischiano negli affari pubblici a volte periscano miseramente, e che se lo meritino; ma io non m'informo mai di quel che fanno a Costantinopoli; mi contento di mandarci a vendere i frutti del giardino che coltivo".


Detto ciò, fece entrare gli stranieri in casa e i suoi figli, due giovani e due fanciulle, presentarono loro diverse qualità di sorbetti preparati con le loro stesse mani, del caimac punteggiato di scorze di cedro candito, arance, limoni, melangole, ananassi, pistacchi e caffè di Moca non mescolato col cattivo caffè di Batavia e delle isole. Dopo di che le due figlie del buon musulmano profumarono le barbe di Candido, di Pangloss e di Martino.


"Dovete avere" disse Candido al turco, "una vasta e magnifica terra".


"Non ho che venti iugeri"; disse il turco, "li coltivo coi miei figli; il lavoro ci tiene lontani tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno".


Tornando alla fattoria, Candido rifletté profondamente sul discorso del turco. Disse a Pangloss e a Martino:

"Mi pare che quel buon vecchio si sia costruito un destino di gran lunga preferibile a quello dei sei re coi quali abbiamo avuto l'onore di cenare".


"Le grandezze" disse Pangloss, "sono assai pericolose, secondo che riferiscono tutti i filosofi: perché insomma Eglon, re dei Moabiti, fu assassinato da Aod; Assalonne fu appeso per i capelli e trafitto da tre lance; il re Nadab, figlio di Geroboamo, fu ucciso da Baasa; il re Ela da Zambri; Ocozia da Jeu; Atalia da Gioad; i re Joachim, Joacaz e Sedecia furono schiavi. Sapete come perirono Creso, Astiage, Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale, Giugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Otone, Vitellio, Domiziano, Riccardo Secondo d'Inghilterra, Edoardo Secondo, Enrico Sesto, Riccardo Terzo, Maria Stuarda, Carlo Primo, i tre Enrichi di Francia, l'imperatore Enrico Quarto. Sapete..." "So anche" disse Candido, "che dobbiamo coltivare il nostro giardino".


"Hai ragione" disse Pangloss, "perché quando l'uomo fu posto nel giardino dell'Eden, ci fu posto «ut operaretur eum», perché lo lavorasse; il che dimostra che l'uomo non è nato per il riposo.


"Lavoriamo senza ragionare"; disse Martino, "è il solo modo di rendere la vita sopportabile".


Tutta la piccola compagnia approvò questo lodevole disegno; ciascuno si mise a esercitare i propri talenti. Il piccolo pezzo di terra fruttò molto. Cunegonda, in verità, era proprio brutta; ma divenne un'ottima cuoca; Pasquetta ricamò; la vecchia si occupò della biancheria. Persino fra Garofalo si rese utile, fu un ottimo falegname e divenne addirittura onesto; e Pangloss, qualche volta, diceva a Candido:

"Tutti gli avvenimenti sono concatenati, nel migliore dei mondi possibili: perché insomma, se non t'avessero cacciato da un bel castello a gran calci nel sedere per amore di madamigella Cunegonda, se non fossi caduto nelle mani dell'Inquisizione, se non avessi corso l'America a piedi, se non avessi dato un bel colpo di spada al barone, se non avessi perduto tutte le tue pecore del buon paese d'Eldorado, non saresti qui a mangiare cedri canditi e pistacchi".


"Ben detto", rispose Candido, "ma dobbiamo coltivare il nostro giardino".