EMILE ZOLA



J'ACCUSE

 

 

Il caso Dreyfus




PER GLI EBREI


Pubblicato su "Le Figaro" del 16 maggio 1896 e raccolto in "Nouvelle Campagne".


Da qualche anno, seguo la campagna che si tenta di montare in Francia contro gli ebrei con un senso crescente di sorpresa e di disgusto. Mi ha tutta l'aria di una mostruosità, voglio dire di una cosa completamente al di là del buon senso, della verità e della giustizia, di una cosa stupida e cieca che potrebbe farci arretrare di secoli, di una cosa, insomma, che potrebbe sfociare nel peggiore degli abomini, una persecuzione religiosa, che insanguinerebbe tutte le patrie.


E lo voglio dire.


Per cominciare, quale processo viene istruito contro gli ebrei, che cosa gli si rimprovera?

Certuni, perfino tra i miei amici, dicono di non poterli soffrire, di non poter dar loro la mano senza provare un brivido di ripugnanza. E' l'orrore fisico, la repulsione tra razza e razza, del bianco per il giallo, del rosso per il nero. Non mi chiedo se, in questa ripugnanza, non entri l'antica collera del cristiano verso il giudeo che ha crocefisso il suo Dio, tutto un atavismo secolare di disprezzo e di vendetta. Insomma, l'orrore fisico è una buona ragione, anzi la sola, giacché non si sa che cosa rispondere a chi ti dice: "Li esecro perché li esecro, perché alla sola vista del loro naso vado fuori di me, perché la mia carne si ribella, nel sentirli diversi e contrari".


Ma, in verità, questa ostilità tra razza e razza non è una ragione sufficiente. Ritorniamo alle caverne, allora, ricominciamo la barbara guerra tra specie e specie, divoriamoci, per il solo fatto di non lanciare lo stesso richiamo o di essere di pelo diverso. Lo sforzo delle civiltà è proprio quello di cancellare questo bisogno selvaggio di gettarsi sul proprio simile quando non è del tutto simile. Nel corso dei secoli, la storia dei popoli non è altro che una lezione di tolleranza reciproca, tant'è vero che il sogno finale sarà di ricondurli tutti alla fratellanza universale, di sommergerli di una comune tenerezza, perché tutti, per quanto è possibile, siano salvi dal comune dolore. E, ai nostri giorni, odiarsi e azzannarsi, solo perché qualcuno non ha il cranio costruito proprio nello stesso modo, rischia di essere la più mostruosa delle follie.


Vengo al processo serio, che è soprattutto d'ordine sociale. E ne riassumo la requisitoria, la indico a grandi linee. Gli ebrei sono accusati di essere una nazione nella nazione, di condurre in disparte una vita di casta religiosa e di essere dunque, al di sopra delle frontiere, una sorta di setta internazionale, senza una vera patria capace un giorno, qualora trionfasse, di mettere le mani sul mondo. Gli ebrei si sposano tra loro, conservano strettissimi legami di famiglia; in mezzo alla moderna rilassatezza, si sostengono e si incoraggiano; mostrano, nel loro isolamento, una straordinaria forza di resistenza e di lenta conquista. Ma, soprattutto, sono pratici e avveduti per natura, si portano nel sangue un bisogno di lucro, un amore per il denaro, un così prodigioso senso degli affari che, in meno di cento anni, hanno accumulato nelle loro mani fortune enormi, e che sembrano assicurare loro la regalità, in un'epoca in cui il denaro è re.


Ed è vero, verissimo. Però, una volta constatato il fatto, occorre spiegarlo. Ciò che bisognerebbe aggiungere è che gli ebrei, così come sono oggi, sono opera nostra, l'opera dei nostri milleottocento anni di imbecille persecuzione. Li abbiamo rinchiusi entro quartieri infami, come lebbrosi, e ci meravigliamo che abbiano vissuto appartati, conservando tutte le loro tradizioni, stringendo i legami familiari, vivendo da vinti in casa dei vincitori. Li abbiamo schiaffeggiati, ingiuriati, colmati di ingiustizie e di violenze; niente di strano perciò se in fondo al cuore, magari inconsapevolmente, hanno conservato la speranza di una lontana rivincita, la volontà di resistere, di tirare avanti e di vincere. Soprattutto, abbiamo sdegnosamente lasciato nelle loro mani il dominio del denaro, che noi disprezzavamo, facendone socialmente dei trafficanti e degli usurai, e dunque perché meravigliarsi se, quando il regime della forza bruta ha lasciato il posto a quello dell'intelligenza e del lavoro, li abbiamo trovati padroni di capitali, la mente agile, esercitata da secoli di ereditarietà, pronti per l'impero?

Ed ecco che oggi, atterriti davanti a questa opera di accecamento, spaventati nel constatare ciò che la fede settaria del medioevo ha saputo fare degli ebrei, non sappiamo immaginare niente di meglio che tornare all'anno mille, riprendere le persecuzioni, ricominciare a predicare la guerra santa affinché gli ebrei siano braccati, spogliati, risospinti nel ghetto, con la rabbia nell'anima, trattati da vinti in mezzo ai vincitori.


Davvero intelligenti, parola mia! E che bella concezione sociale!

Ma via! Siamo più di duecento milioni di cattolici, gli ebrei sì e no sono cinque milioni, eppure tremiamo, chiamiamo le guardie, ci mettiamo a schiamazzare di terrore come se orde di predoni si fossero abbattute sul paese. Coraggiosi, molto coraggiosi!

Eppure le condizioni della lotta sembrano accettabili. Non potremmo, nel campo degli affari, cercare di essere altrettanto accorti e altrettanto forti? Durante il mese in cui ho frequentato la Borsa per tentare di capirci qualcosa, un banchiere cattolico mi diceva, riguardo agli ebrei: "Eh, caro signore, sono più forti di noi, avranno sempre partita vinta". Se fosse vero, sarebbe veramente umiliante. Ma perché dovrebbe essere vero? Avranno predisposizione, d'accordo, ma pure se fosse? Il lavoro e l'intelligenza possono tutto. Ne conosco, di cristiani, che sono ebrei della più bell'acqua. Il campo è libero, e se gli ebrei hanno avuto secoli a disposizione per imparare ad amare e a guadagnare il denaro, a noi non resta che seguirli su questa via, vedere di acquisire le loro qualità, di batterli con le loro stesse armi. Ma sì, mio Dio! smetterla di ingiuriarli inutilmente, e conquistare la superiorità per vincerli. Non c è niente di più semplice e, in fondo, è la legge della vita.


Pensate alla loro soddisfazione orgogliosa, di fronte al nostro grido di sconforto! Non essere che un'infima minoranza e scatenare un simile spiegamento di guerra! Ogni mattina gli scagliate i vostri fulmini, suonate disperatamente l'adunata come se la città corresse il pericolo di venire presa d'assalto! A sentirvi, bisognerebbe ristabilire il ghetto, avremmo di nuovo la via degli ebrei, da sbarrare ogni sera con le catene. Sarebbe veramente piacevole questa quarantena, nelle nostre città libere e aperte.


Io non mi meraviglio che non si commuovano e che continuino a trionfare sui nostri mercati finanziari, poiché l'ingiuria è la freccia leggendaria che torna indietro per trafiggere l'occhio del cattivo arciere. Continuate, continuate a perseguitarli, se volete che continuino a vincere!

La persecuzione: ma davvero siamo ancora a questo? Ci crogioliamo ancora in questa bella fantasia, che perseguitando qualcuno lo si sopprima? Via, è proprio il contrario, se una causa s'è ingrandita è perché è stata arrossata dal sangue dei martiri. Se ci sono ancora degli ebrei, la colpa è nostra. Sarebbero scomparsi, si sarebbero fusi, se non li avessimo costretti a difendersi, a raggrupparsi, a intestardirsi nella loro razza. E ancora oggi, la loro potenza più reale viene da noi, che esagerandola la rendiamo importante. Si finisce per crearlo, un pericolo, gridando ogni mattina che esiste. A forza di mostrare al popolo uno spauracchio, si crea il mostro reale. Non parliamone più. Il giorno in cui l'ebreo sarà un uomo come noi, sarà nostro fratello.


Quanto alla tattica indicata, è assolutamente opposta. Spalancare le braccia, realizzare socialmente l'uguaglianza riconosciuta dal codice. Abbracciare gli ebrei, per assorbirli e confonderli con noi. Arricchirci delle loro qualità, poiché ne hanno. Far cessare la guerra delle razze mescolando le razze. Incoraggiare i matrimoni, affidare ai figli la cura di riconciliare i padri. Solo così si fa opera d'unità, opera umana e liberatrice.


L'antisemitismo, nei paesi dove ha un'importanza reale, non è altro che l'arma di un partito politico o il risultato di una grave situazione economica.


Ma in Francia, dove non è vero, come si vorrebbe farci credere, che gli ebrei siano i padroni assoluti del potere e del denaro, l'antisemitismo resta una cosa campata in aria, senza radice alcuna nel popolo. Per creare una parvenza di movimento, che in fondo è soltanto uno schiamazzo, c'è voluto il fanatismo di alcuni cervelli fumosi, in cui si agita un losco cattolicesimo settario che, per un abuso di letteratura, perseguita perfino nei Rothschild i discendenti di quel Giuda che ha tradito e crocefisso il suo Dio. E aggiungo che il bisogno di fare chiasso, la smania di farsi leggere e di conquistare una notorietà clamorosa, sicuramente non sono stati estranei a questa accensione e a questo pubblico discorrere di roghi, le cui fiamme sono per fortuna soltanto decorative.


E che smacco penoso! Mesi e mesi di ingiurie, di delazioni, ebrei denunciati ogni giorno come ladri e assassini, cristiani stessi tacciati di essere ebrei al fine di poterli colpire, l'intero mondo ebraico braccato, insultato, condannato! E, al costrutto, null'altro che baccano, parole grosse, sfoggio di basse passioni, ma non un atto, non un assembramento, non una testa rotta né un vetro fracassato! Il nostro popolo francese dev'essere proprio un popolo buono saggio, onesto, per non ascoltare questi appelli quotidiani alla guerra civile, per conservare la ragione in mezzo a queste istigazioni abominevoli, a questa quotidiana richiesta del sangue di un ebreo! Non è più con un prete che il giornale fa colazione ogni mattina, ma con un ebreo, il più grasso, il più florido che si possa trovare. Un pasto mediocre quanto l'altro, e per lo meno altrettanto sciocco. E che cosa resta di tutto ciò?

Soltanto la bassezza dello sforzo compiuto, il più folle e il più esecrabile che si possa compiere. Anche il più inutile, a Dio piacendo, poiché i passanti non si voltano neppure, per la strada, trattando gli energumeni alla stregua di cani in chiesa, e per di più rognosi.


La cosa straordinaria è che costoro ostentano la pretesa di fare opera indispensabile e giusta. Quanto li compiango, poveri diavoli, se sono in buona fede! E' un documento spaventoso, quello che lasceranno di se stessi: un cumulo di errori, di menzogne, di invidia furibonda, di follia senza limiti, che essi ammassano giorno per giorno. Quando un critico vorrà calarsi in questo pantano, indietreggerà inorridito nel constatare che alla base c'è solo fanatismo religioso e squilibrio dell'intelletto. E verranno messi alla berlina della storia come altrettanti malfattori sociali, i cui crimini sono abortiti proprio in grazia dello stato di ottenebramento in cui sono stati commessi.


Perché la cosa che non finisce mai di stupirmi è che un simile ritorno di fanatismo, un tale tentativo di guerra religiosa si sia potuto produrre nella nostra epoca, nella nostra grande Parigi, tra il nostro bravo popolo. E per di più in questi nostri tempi di democrazia, di tolleranza universale, mentre si manifesta ovunque un immenso movimento verso l'uguaglianza, la fraternità e la giustizia! C'è, in noi, la tendenza a distruggere le frontiere, a sognare le comunità dei popoli, a riunire le religioni a congresso perché i sacerdoti di tutti i culti si abbraccino, a sentirci fratelli nel dolore, a volerci salvare tutti dalla miseria di vivere con l'elevare un unico altare alla pietà umana! E c'è un pugno di pazzi, di imbecilli, o di furbi, che ogni mattina ci gridano: "Uccidiamo gli ebrei, divoriamo gli ebrei, massacriamo, sterminiamo, ritorniamo ai roghi, alle persecuzioni care ai dragoni di Luigi Quattordicesimo!". Veramente ben scelto, il momento! Non potrebbe esserci nulla di più idiota, se non ci fosse niente di più abominevole.


Che ci sia, tra le mani di qualche ebreo, un doloroso accaparramento della ricchezza, è un fatto innegabile. Ma lo stesso accaparramento esiste presso alcuni cattolici e alcuni protestanti. Sfruttare le rivolte popolari col metterle al servizio di un fanatismo religioso, gettare soprattutto l'ebreo in pasto alle rivendicazioni dei diseredati, con il pretesto di gettarci il riccone, è un socialismo ipocrita e menzognero, che bisogna denunciare, marchiare d'infamia. Se un giorno la legge del lavoro verrà formulata in nome della verità e della felicità, potrà ricreare l'umanità intera; e poco importerà che uno sia ebreo o cristiano, poiché i conti da rendere saranno gli stessi, e gli stessi saranno i nuovi diritti e i nuovi doveri.


Ah! questa unità umana, alla quale dobbiamo tutti insieme sforzarci di credere, se vogliamo avere il coraggio di vivere e se, nella lotta, vogliamo conservare qualche speranza! E un grido ancora incerto, ma che a poco a poco si libera, si gonfia, sale da tutti i popoli affamati di verità, di giustizia e di pace.


Disarmiamo i nostri odi, amiamoci nelle nostre città, amiamoci al di sopra delle frontiere, lavoriamo a fondere le razze in un'unica famiglia, finalmente felice! Ammettiamo pure che occorrano i millenni, ma confidiamo almeno nella realizzazione finale dell'amore, per cominciare se non altro ad amarci, oggi, quel tanto che la miseria dei tempi attuali ce lo permetterà. E lasciamo i pazzi, lasciamo i cattivi tornare alla barbarie e alle caverne, quelli che credono di poter fare giustizia a coltellate.


Che Gesù dica ai suoi fedeli esasperati che egli ha perdonato agli ebrei, e che gli ebrei sono uomini!




SCHEURER-KESTNER


Articolo pubblicato su "Le Figaro" il 25 novembre 1897.


Quale dramma straziante, e quali splendidi personaggi! Di fronte a documenti di una bellezza così tragica che la vita ci mette davanti, il mio cuore di romanziere freme di appassionata ammirazione. Non so intravedere una psicologia più nobile.


Non è mia intenzione parlare del caso. Se talune circostanze mi hanno permesso di studiarlo e di farmene un'opinione formale, non dimentico che un'inchiesta è in corso, che la giustizia se ne sta occupando e che per onestà è giusto attendere, senza contribuire all'ammasso di pettegolezzi volti a ostruire un caso così chiaro e così semplice.


Ma i personaggi, da questo momento, appartengono a me, che sono soltanto un passante con gli occhi aperti sulla vita. E se il condannato di tre anni or sono, se l'accusato d'oggi per me rimangono sacri fino a che la giustizia non avrà completato la sua opera, il terzo grande personaggio del dramma, l'accusatore, non avrà certo a soffrire se parlerò di lui con onestà e con coraggio.


Ecco che cosa ho visto di Scheurer-Kestner, ecco che cosa penso e che cosa affermo.


Forse un giorno, se le circostanze lo permetteranno, parlerò degli altri due.


Una vita cristallina, la più nitida, la più diritta. Non una tara, mai la più piccola debolezza. Una medesima opinione, costantemente seguita, senza ambizione militante, sfociata in un'altra posizione politica dovuta unicamente alla simpatia rispettosa dei suoi pari.


E non un sognatore, né un utopista. Un industriale, che ha vissuto chiuso nel suo laboratorio, dedito a ricerche particolari, senza contare la preoccupazione quotidiana di una grande ditta commerciale da mandare avanti.


E, aggiungo, una situazione patrimoniale invidiabile. Tutte le ricchezze, tutti gli onori, tutte le gioie, il coronamento di una bella vita interamente dedicata al lavoro e alla lealtà. Più un solo desiderio da esprimere, ossia quello di finire in modo degno, in questa felicità e nella stima generale.


Eccolo, l'uomo. Lo conoscono tutti, non vedo chi mi potrebbe smentire. Ed è proprio l'uomo attorno al quale si sta per svolgere uno dei drammi più tragici e più appassionati. Un giorno, un dubbio si affaccia nel suo spirito, poiché è un dubbio che è nell'aria e che ha già rubato varie coscienze. Un tribunale militare ha condannato, per alto tradimento, un capitano che, chissà, forse è innocente. Il castigo è stato tremendo, la degradazione pubblica, l'internamento in un luogo lontano, l'esecrazione di tutto un popolo che si accanisce, infierendo sull'infelice già a terra. E, qualora fosse innocente, gran Dio!

che brivido di pietà, che orrore agghiacciante! al pensiero che non ci sarebbe riparazione possibile.


Nello spirito del signor Scheurer-Kestner, è nato il dubbio. Da quel momento, come ha spiegato lui stesso, inizia il tormento, rinasce l'ossessione man mano che le cose gli giungono all'orecchio. E' un'intelligenza solida e logica quella che, a poco a poco, finisce per essere conquistata dal bisogno insaziabile della verità. Non c'è nulla di più alto, di più nobile e il travaglio che quest'uomo ha vissuto è uno spettacolo straordinario ed entusiasmante, per me, portato come sono dal mio mestiere a scrutare nelle coscienze. Il dibattito sulla verità e in nome della giustizia, non esiste lotta più eroica.


In breve, alla fine Scheurer-Kestner giunge alla certezza. La verità la conosce, ora deve fare giustizia. E' un momento pauroso e posso immaginare cosa debba essere stato per lui quel momento d'angoscia. Non gli erano certo ignote le tempeste che stava per sollevare, ma la verità e la giustizia sono sovrane, poiché esse soltanto assicurano la grandezza delle nazioni. Può accadere che interessi politici le oscurino per qualche istante, ma un popolo che non basi su di esse la sua unica ragione d'essere sarebbe, oggi, un popolo condannato.


Fare luce sulla verità, certo; ma potremmo avere l'ambizione di farcene un vanto. Alcuni la vendono, altri vogliono almeno trarre vantaggio dall'averla detta.


Il progetto di Scheurer-Kestner era di restare nell'ombra, pur compiendo la sua opera. Aveva deciso di dire al governo: "Le cose stanno così. Intervenite, abbiate voi stessi il merito d'essere giusti, riparando a un errore. Chi fa giustizia, trionfa sempre".


Circostanze delle quali non voglio parlare fecero sì che non venisse ascoltato.


Da quel momento in poi, ebbe inizio la sua ascesa al calvario, un'ascesa che dura da settimane. Si era sparsa la voce che egli fosse in possesso della verità, e chi detiene la verità, senza gridarla ai quattro venti, che altro può essere se non un nemico pubblico? Stoicamente, per quindici giorni interminabili, egli rimase fedele alla parola data di tacere, sempre nella speranza di non doversi ridurre a prendere il posto di quelli che avrebbero dovuto agire. E sappiamo bene quale marea d'invettive e di minacce si sia abbattuta su di lui durante questi quindici giorni; un vero torrente di accuse immonde, di fronte al quale è rimasto impassibile, a testa alta. Perché taceva? Perché non mostrava il suo incartamento a chiunque lo volesse vedere? Perché non faceva come gli altri che riempivano i giornali delle loro confidenze?

Quanto, ah, quanto è stato grande e saggio! Taceva, perfino al di là della promessa fatta, proprio perché si sentiva responsabile nei confronti della verità. Questa povera verità, nuda e tremebonda, schernita da tutti e che tutti sembravano avere interesse a soffocare, lui pensava soltanto a proteggerla contro l'ira e le passioni altrui. Aveva giurato a se stesso che non l'avrebbero fatta sparire e intendeva scegliere il momento e i mezzi adatti per assicurarle il trionfo. Che può mai esserci di più naturale, di più lodevole? Per me non esiste niente di più sovranamente bello del silenzio di Scheurer-Kestner, dopo tre settimane di ingiurie e di sospetti da parte di un intero popolo fuori di sé. Ispiratevi a lui, romanzieri! In lui sì avreste un eroe!

I più benevoli hanno avanzato dubbi sul suo stato di salute mentale. Non era per caso un vegliardo indebolito, caduto nell'infantilismo senile, uno di quegli spiriti che il rimbambimento incipiente rende inclini alla credulità? Gli altri, i pazzi e i delinquenti, l'hanno accusato senza tante cerimonie d'essersi lasciato "comprare". Semplicissimo: gli ebrei hanno sborsato un milione per acquistare tanta incoscienza. E non si è levata una risata immensa, come risposta a tanta stupidità!

Scheurer-Kestner, è là, con la sua vita cristallina. Fate un confronto tra lui e gli altri, quelli che lo accusano e lo insultano, e giudicate. Bisogna scegliere tra questo e quelli.


Trovatela, la ragione che lo farebbe agire, al di fuori del suo bisogno così nobile di verità e di giustizia. Coperto d'ingiurie, l'animo lacerato, sentendo vacillare il suo prestigio sotto di sé, ma pronto a sacrificare tutto pur di portare a buon esito il suo eroico compito, egli tace, aspetta. Fino a che punto si può essere grandi!

L'ho detto, del caso in sé non mi voglio occupare. Tuttavia, è bene che io lo ripeta: è il più semplice, il più trasparente del mondo, per chi voglia prenderlo per quello che è.


Un errore giudiziario, eventualità deplorevole, sì, ma sempre possibile. Sbagliano i magistrati, possono sbagliare i militari.


Cosa ha a che fare, questo, con l'onore dell'esercito? L'unico bel gesto, qualora sia stato commesso un errore, è di porvi riparo: e la colpa nascerebbe nel momento in cui qualcuno si intestardisse a non voler ammettere di essersi sbagliato, nemmeno di fronte a prove decisive. Non ci sono altre difficoltà, in fondo. Andrà tutto bene, purché si sia decisi a riconoscere di aver potuto commettere un errore e di avere esitato, in seguito, a convenirne, perché era imbarazzante. Quelli che sanno, mi capiranno.


Quanto al temere complicazioni diplomatiche, è uno spauracchio per gli allocchi. Nessuna delle potenze vicine ha niente a che spartire con il caso e converrà dirlo forte. Ci troviamo soltanto di fronte a un'opinione pubblica esasperata, sovraffaticata da una campagna che è tra le più odiose. La stampa è una forza necessaria; sono convinto che nel complesso faccia più bene che male. Ma certi giornali, quelli che gettano lo scompiglio, quelli che seminano il panico, che vivono di scandali per triplicare le vendite, non sono certo meno colpevoli. L'antisemitismo idiota ha gettato il seme di questa demenza. La delazione è dappertutto, nemmeno i più puri e più coraggiosi osano fare il loro dovere per il timore di venire infangati.


E così, eccoci in questo orribile caos, nel quale tutti i sentimenti sono falsati, in cui non è possibile volere la giustizia senza venire trattati da rimbambiti o da venduti. Le menzogne mettono radici, le storie più assurde vengono riportate con sussiego dai giornali seri, l'intera nazione sembra in preda alla follia, quando un po' di buon senso rimetterebbe subito a posto le cose. Oh, come sarà semplice, torno a dirlo, il giorno in cui quelli che sono alla guida oseranno, nonostante la folla aizzata, comportarsi da galantuomini!

Immagino che nel silenzio altero di Scheurer-Kestner, ci sia anche il desiderio di aspettare che ciascuno faccia il suo esame di coscienza prima di agire. Quando ha parlato del suo dovere che, perfino sulle rovine del suo prestigio, della sua felicità e dei suoi beni, gli ordinava, dopo averla conosciuta, di servire la verità, quest'uomo ha detto una frase ammirevole: "Non avrei potuto vivere". Ebbene, ecco che cosa devono dirsi tutte le persone oneste immischiate in questa storia: che non potranno più vivere, se non faranno giustizia.


E, qualora ragioni politiche volessero che la giustizia venisse ritardata, si tratterebbe di una notizia falsa che servirebbe soltanto a rinviare l'epilogo inevitabile,aggravandolo ulteriormente.


La verità è in cammino e niente la potrà fermare.




IL SINDACATO


Articolo Pubblicato su "Le Figaro" il primo dicembre 1897.


Contavo di scrivere per questo giornale tutta una serie di articoli sul caso Dreyfus, un'intera campagna, via via che gli avvenimenti si fossero svolti. Per caso, durante una passeggiata, ne avevo incontrato il direttore, Fernand de Rodays. Ci eravamo messi a discorrere, accalorandoci, proprio in mezzo ai passanti, e da lì era nata bruscamente la mia decisione di offrirgli degli articoli, avendolo sentito d'accordo con me. Mi trovavo così impegnato, quasi senza volerlo. Aggiungo, tuttavia, che prima o poi ne avrei parlato, poiché tacere mi era impossibile. Non dimentichiamo con quale vigore "Le Figaro" cominciò e soprattutto finì per sposare la causa.


Il concetto è noto. Ed è di una bassezza e di una stupidità semplicistica, degne di quelli che l'hanno immaginato.


Il capitano Dreyfus viene condannato da un tribunale militare per alto tradimento. Da quel momento, diventa il traditore, non più un uomo ma un'astrazione, colui che incarna l'idea della patria sgozzata, venduta al nemico vincitore. Non è soltanto il tradimento presente e futuro, rappresenta pure il tradimento passato, poiché a lui si ascrive l'antica sconfitta, nell'ostinata convinzione che solo il tradimento abbia potuto far sì che fossimo battuti.


Ecco l'anima nera, il personaggio abominevole, la vergogna dell'esercito, il bandito che vende i fratelli proprio come Giuda ha venduto il suo Dio. E, trattandosi di un ebreo, è semplicissimo: gli ebrei che sono ricchi e potenti e senza patria, del resto, lavoreranno sott'acqua, con i loro milioni, per toglierlo dai guai; compreranno le coscienze e tesseranno attorno alla Francia un complotto esecrabile pur di ottenere la riabilitazione del colpevole, pronti a sostituirgli un innocente.


La famiglia del condannato, anch'essa ebrea, naturalmente, entra nell'affare. Affare sì, poiché è a peso d'oro che si tenterà di disonorare la giustizia, di imporre la menzogna, di sporcare un popolo con la più impudente delle campagne. Il tutto per salvare un ebreo dall'infamia e sostituirlo con un cristiano.


Insomma, si crea quasi un consorzio finanziario. Vale a dire che alcuni banchieri si riuniscono, mettono dei fondi in comune, sfruttano la credulità pubblica. Da qualche parte, c'è una cassa che paga per tutto il fango smosso. C'è una vasta impresa tenebrosa, uomini mascherati, forti somme consegnate di notte, sotto i ponti, a degli sconosciuti, ci sono grandi personaggi da corrompere, pagandone a prezzi folli l'antica onestà.


E a poco a poco questo sindacato si allarga, finisce per essere un'organizzazione potente, nell'ombra, tutta una spudorata cospirazione per glorificare il traditore e per annegare la Francia sotto una marea d'ignominia.


Esaminiamolo, questo sindacato.


Gli ebrei si sono arricchiti, e sono loro a pagare l'onore dei complici, profumatamente. Mio Dio, chissà quanto avranno già speso! Ma, se sono arrivati appena a una decina di milioni, capisco benissimo che li abbiamo sacrificati. Siamo di fronte a cittadini francesi, nostri uguali e nostri fratelli, che l'antisemitismo imbecille trascina quotidianamente nel fango. Si è tentato di schiacciarli per mezzo del capitano Dreyfus; del crimine di uno di loro, si è cercato di fare il crimine di un'intera razza. Tutti traditori, tutti venduti, tutti da condannare. E volete che questi non protestino furiosamente, non cerchino di discolparsi, di restituire colpo su colpo in questa guerra di sterminio della quale sono oggetto? Va da sé, naturalmente, che si augurino con tutto il cuore di vedere risplendere l'innocenza del loro correligionario; e se la riabilitazione appare loro possibile, chissà con quanto ardore si staranno impegnando per ottenerla.


Ciò che mi lascia perplesso è che, se esiste uno sportello dove si va a riscuotere, non ci sia nel sindacato qualche autentico briccone. Vediamo un po', voi li conoscete bene: come si spiega che il tale, o il tal altro, o il tal altro ancora, non lo siano?

E' incredibile, ma tutta la gente che si dice gli ebrei abbiano comprato gode di una solida reputazione di probità. C'è forse un fondo di civetteria? Forse, gli ebrei vogliono soltanto merce rara, essendo disposti a pagarla? Io, però, dubito molto di questo sportello, anche se sarei prontissimo a giustificare gli ebrei qualora, portati all'esasperazione, si difendessero con i loro milioni. In un massacro, ognuno si serve di quello che ha. E parlo di loro con la massima tranquillità perché non li amo e non li odio. Non ho amici ebrei particolarmente vicini al mio cuore. Per me sono uomini, e tanto basta.


Ma, per la famiglia del capitano Dreyfus, è ben diverso, e qui se qualcuno non comprendesse, non s'inchinasse, sarebbe un cuore davvero arido. Sia ben chiaro! tutto il suo oro, tutto il suo sangue, la famiglia ha il diritto e il dovere di offrirlo, se crede innocente il suo rampollo. Quella è una soglia sacra che nessuno ha il diritto di insozzare. In quella casa che piange, dove c'è una moglie, dei fratelli, dei genitori in lutto, è d'obbligo entrare con il cappello in mano; e soltanto gli zotici si permettono di parlare ad alta voce e mostrarsi insolenti. Il fratello del traditore! è l'insulto che si getta in faccia a quel fratello. Sotto quale morale, sotto quale Dio viviamo, mi chiedo, perché ciò sia possibile, perché la colpa di uno dei componenti venga rimproverata a tutta la famiglia? Non c'è niente di più vile, di più indegno della nostra cultura e della nostra generosità. I giornali che ingiuriano il fratello del capitano Dreyfus, solo perché ha fatto il suo dovere, sono un'onta per la stampa francese.


E chi mai doveva parlare, se non lui? E' compito suo. Quando la sua voce si è levata a chiedere giustizia, nessuno più aveva il diritto di intervenire, si sono fatti tutti da parte. Lui solo aveva la veste per sollevare la spinosa questione di un possibile errore giudiziario, della verità su cui far luce, una verità lampante. Hanno un bell'accumulare ingiurie, nessuno potrà oscurare il concetto che la difesa dell'assente l'hanno in mano quelli del suo sangue, che hanno conservato la speranza e la fede.


E la prova morale più forte in favore dell'innocenza del condannato è proprio la convinzione incrollabile di un'intera e onorata famiglia, di una probità e di un patriottismo senza macchia.


Poi, dopo gli ebrei fondatori, dopo la famiglia che ne è a capo, vengono i semplici membri del sindacato, quelli che si sono fatti comprare. Due tra i più anziani sono Bernard Lazare e il comandante Forzinetti. In seguito, sono venuti Scheurer-Kestner e Monod. Ultimamente, si è scoperto il colonnello Picquart, senza contare Leblois. E spero bene, dopo il mio primo articolo, di far parte pure io della banda. Del resto, appartiene al sindacato, viene tacciato d'essere un malfattore e d'essere stato pagato, chiunque, ossessionato dall'agghiacciante brivido di un possibile errore giudiziario, si permetta di volere che sia fatta la verità, in nome della giustizia.


Ma siete stati voi a volerlo, a crearlo, questo sindacato. Voi tutti che contribuite a questo spaventoso caos, voi falsi patrioti, antisemiti sbraitanti, semplici sfruttatori della pubblica sconfitta.


La prova non è forse completa, di una luminosità solare? Se ci fosse stato un sindacato, ci sarebbe stata un'intesa; e dov'è l'intesa? E' semplicemente nato in alcune coscienze, all'indomani della condanna, un senso di malessere, un dubbio, di fronte all'infelice che grida a tutti la sua innocenza. La crisi terribile, la pubblica follia alla quale assistiamo, è sicuramente partita da lì, dal lieve brivido rimasto negli animi. Ed è il comandante Forzinetti l'uomo di quel brivido che tanti altri hanno provato, quello che ce ne ha fatto un racconto così cocente.


Poi, c'è Bernard Lazare. Preso dal dubbio, egli lavora a far luce.


La sua inchiesta solitaria si svolge però in mezzo a tenebre che gli è impossibile diradare. Pubblica un opuscolo, ne fa uscire un secondo alla vigilia delle sue rivelazioni di oggi; e la prova che egli lavorava da solo, che non era in relazione con nessun altro membro del sindacato, è che non ha saputo, non ha potuto dire niente della verità vera. Un sindacato proprio strano, i cui membri si ignorano!

C'è poi Scheurer-Kestner, a sua volta torturato dal bisogno di verità e di giustizia, e che cerca, tenta di arrivare a una certezza, senza sapere niente dell'inchiesta ufficiale ufficiale, dico - che contemporaneamente veniva svolta dal colonnello Picquart, messo sulla buona strada dalle sue stesse funzioni presso il ministero della Guerra. C'è voluto un caso, un incontro, come si saprà in seguito, perché i due uomini che non si conoscevano, che lavoravano ognuno per conto proprio alla stessa opera, finissero all'ultimo momento per raggiungersi e procedere fianco a fianco.


La storia del sindacato è tutta qui: uomini di buona volontà, di verità e di equità, partiti dai quattro punti cardinali, senza conoscersi e lavorando a leghe di distanza, ma incamminati tutti verso uno stesso fine, procedendo in silenzio, esplorando il terreno e convergendo tutti un bel mattino verso lo stesso punto d'arrivo. Com'era inevitabile, si sono trovati tutti e presi per mano a quel crocevia della verità, a quel fatale appuntamento della giustizia.


Come vedete siete voi che, ora, li riunite, li costringete a serrare i ranghi per dedicarsi a un medesimo sforzo sano e onesto, questi uomini che voi coprite d'insulti, che accusate del più nero complotto, quando miravano unicamente a un'opera di suprema riparazione.


Dieci, venti giornali, ai quali si mescolano le passioni e gli interessi più diversi, una stampa ignobile che non posso leggere senza che mi si spezzi il cuore per lo sdegno, non ha cessato, come dicevo, di convincere il pubblico che un sindacato di ebrei fosse impegnato nel più esecrabile dei complotti, acquistando le coscienze a peso d'oro. Lo scopo era in un primo momento quello di salvare il traditore e sostituirlo con un innocente; poi, quello di disonorare l'esercito, di vendere la Francia come nel 1870.


Sorvolo sui romanzeschi particolari della tenebrosa macchinazione.


E questa opinione, lo riconosco, è diventata quella della grande maggioranza del pubblico. Quante persone ingenue mi hanno avvicinato in questi otto giorni, per dirmi con aria stupefatta:

"Come! Dite che Scheurer-Kestner non è un bandito? e vi mettete pure voi con quella gentaglia? Ma non lo sapete che hanno venduto la Francia?". Il cuore mi si stringe per l'angoscia, perché so bene che una simile perversione dell'opinione pubblica rende molto facile imbrogliare le carte. E il peggio è che i coraggiosi sono rari, quando c'è da andare controcorrente. Quanti ti mormorano all'orecchio di essere convinti dell'innocenza del capitano Dreyfus, ma che non se la sentono di assumere un atteggiamento pericoloso, nella mischia!

Dietro l'opinione pubblica, sulla quale contano naturalmente di potersi appoggiare, ci sono gli uffici del ministero della Guerra.


Non voglio parlarne, oggi, perché ancora spero che giustizia sarà fatta. Ma chi non si rende conto che siamo di fronte alla cattiva volontà più cocciuta? Non si vuole riconoscere di aver commesso degli errori e, vorrei dire, delle colpe. Ci si ostina a coprire i personaggi compromessi e si è pronti a tutto, pur di evitare il tremendo repulisti. E la cosa è talmente grave, che quegli stessi che hanno in mano la verità, dai quali si esige furiosamente che la dicano, esitano ancora, aspettano a gridarla pubblicamente, nella speranza che essa si imponga da sé e che venga loro risparmiato il dolore di doverla dire.


Ma è pur sempre una verità quella che, da oggi, io vorrei diffondere in tutta la Francia. Ossia che si è sul punto di farle commettere, a lei che è la giusta, la generosa, un autentico crimine. Non è più la Francia, dunque, perché si possa ingannarla a tal punto, aizzarla contro un infelice che, da tre anni, espia, in condizioni atroci, un crimine che non ha commesso? Sì, esiste laggiù, in un'isola sperduta, sotto un sole spietato, un essere che è stato separato dai suoi simili. E non solo il mare lo isola, ma undici guardiani lo circondano notte e giorno come una muraglia vivente. Undici uomini sono stati immobilizzati per sorvegliarne uno solo. Mai assassino, mai pazzo furioso è stato murato in modo così totale. E l'eterno silenzio e la lenta agonia sotto l'esecrazione di una nazione intera! Osereste dire, ora, che quest'uomo non è colpevole?

Ebbene, è proprio quello che affermiamo, noialtri, gli appartenenti al sindacato. E lo diciamo alla Francia e ci auguriamo che prima o poi ci ascolti poiché sempre essa si infervora per le cause giuste e belle. Le diciamo che noi vogliamo l'onore dell'esercito, la grandezza della nazione. E' stato commesso un errore giudiziario e, finché non sarà riparato, la Francia soffrirà, malaticcia, come per un cancro segreto che corrode a poco a poco le armi. E se, per farla ritornare sana, è necessario ricorrere al bisturi, si faccia!

Un sindacato per agire sull'opinione pubblica, per guarirla dalla demenza in cui l'ha gettata certa stampa ignobile, per riportarla alla sua fierezza, alla sua secolare generosità. Un sindacato per ripetere ogni mattina che le nostre relazioni diplomatiche non sono in gioco, che l'onore dell'esercito non è affatto in causa, che solo alcune individualità possono essere compromesse. Un sindacato per dimostrare che qualsiasi errore giudiziario è riparabile, e che perseverare in un errore del genere, con il pretesto che un consiglio di guerra non può sbagliarsi, è la più mostruosa delle ostinazioni, la più spaventosa delle infallibilità. Un sindacato per condurre una campagna fino a che verità sia detta, fino a che giustizia sia resa, al di là di tutti gli ostacoli, quand'anche occorressero ancora anni di lotta.


Di questo sindacato, sì! faccio parte anch'io e spero tanto che voglia farne parte tutta la brava gente di Francia!




PROCESSO VERBALE


Articolo pubblicato su "Le Figaro" il 5 dicembre 1897.


E' il terzo e ultimo articolo che mi fu permesso di dare a "Le Figaro". Ebbi perfino qualche difficoltà a farlo passare e, come si vedrà, ritenni saggio congedarmi in esso dal pubblico, intuendo che mi sarei trovato nell'impossibilità di continuare la mia campagna, che tanto turbava i lettori abituali del giornale.


Riconosco perfettamente, a un giornale, la necessità di fare i conti con le abitudini e le passioni della sua clientela. Perciò, ogni volta che ho subito questo genere di battuta d'arresto, me la sono presa soltanto con me stesso, per essermi sbagliato sul terreno e sulle condizioni di lotta. Le Figaro si è dimostrato ciò nondimeno coraggioso nell'accettare questi tre articoli, e io lo ringrazio.


Ah! quale spettacolo, dopo tre settimane, e quali tragici, indimenticabili giorni abbiamo attraversato! Non ne ricordo altri che abbiano suscitato in me tanta umanità, tanta angoscia e tanta generosa collera. Esasperato, ho vissuto nell'odio della stupidità e della malafede, a tal punto assetato di verità e di giustizia da riuscire a comprendere i grandi moti dell'anima che possono portare un placido borghese al martirio.


In verità, si è trattato di uno spettacolo inaudito, che per brutalità, per sfrontatezza, per ammissioni ignobili andava al di là di tutto quello che di più istintivo e di più vile abbia mai confessato la bestia umana. Un simile esempio di follia e di perversione da parte di una folla è raro ed è sicuramente per questo che, oltre a ribellarmi come uomo, mi sono tanto appassionato come romanziere, come drammaturgo, sconvolto dall'entusiasmo di fronte a un caso di così tremenda bellezza.


Oggi, ecco, la storia entra nella fase regolare e logica, quella che abbiamo desiderato, che abbiamo incessantemente chiesto. Un tribunale militare è all'opera, il nuovo processo ha come scopo la verità, e noi ne siamo convinti. Non abbiamo mai voluto altro. Non resta, ora, che tacere e aspettare, perché non siamo noi a doverla dire, la verità, è il Consiglio di guerra che la deve accertare, renderla lampante. E non ci sarà un nostro nuovo intervento, a meno che essa non ne esca incompleta ed è un'ipotesi del tutto inammissibile.


Ma, essendo terminata la prima fase, vero caos in piena tenebra, vero scandalo in cui tante coscienze sporche si sono messe a nudo, dev'esserne redatto il processo verbale, bisogna trarne le conclusioni. Perché, nella profonda tristezza delle constatazioni che s'impongono, c'è l'ammaestramento virile, il ferro rovente con cui si cauterizzano le piaghe. Riflettiamoci: l'orrendo spettacolo che abbiamo appena dato a noi stessi deve guarirci.


Per cominciare, la stampa.


Abbiamo visto la stampa scadente in fregola, intenta a battere moneta con le curiosità malsane, a guastare la folla per vendere le denigrazioni dei suoi scribacchini, che non trovano più compratori da quando la nazione è calma, sana e forte. Sono soprattutto i facinorosi della sera, i giornali di tolleranza che adescano i passanti con i loro titoli a caratteri cubitali, promettendo dissolutezza. Facevano il loro commercio abituale, ma con un'impudenza significativa.


Abbiamo visto, un gradino più su, i giornali popolari, i giornali da un soldo, quelli che si rivolgono alla massa e che formano l'opinione dei più, rinfocolare passioni atroci, condurre furiosamente una campagna di settari, uccidendo nel nostro caro popolo di Francia ogni generosità, ogni desiderio di verità e di giustizia. Voglio credere alla loro buona fede. Ma quale tristezza, questi cervelli di polemisti invecchiati, di agitatori dementi, di patrioti meschini che, diventati conduttori di uomini, commettono il più nero dei crimini, quello di ottenebrarne la coscienza pubblica e di fuorviare un intero popolo! Quest'impresa è tanto più esecrabile quando è condotta, come in certi giornali, con una bassezza di mezzi, un'abitudine alla menzogna, alla diffamazione e alla delazione che rimarranno l'onta più grande della nostra epoca.


Infine, abbiamo visto la grande stampa, la stampa detta seria e onesta, assistere a tutto questo con un'impassibilità, direi quasi una serenità stupefacente. Questi giornali onesti si sono accontentati di registrare tutto con cura scrupolosa, la verità come l'errore. Hanno lasciato che il fiume avvelenato scorresse, senza omettere un solo abominio. Sì, certo, questa è imparzialità.


Però, a stento qua e là una timida valutazione, e non una sola voce alta e nobile, non una, capite? che si sia alzata da questa stampa onesta, per schierarsi dalla parte dell'umanità, dell'equità oltraggiata!

E abbiamo visto soprattutto - poiché in mezzo a tanti orrori è sufficiente scegliere il più ripugnante - abbiamo visto la stampa, quella ignobile, continuare a difendere un ufficiale francese che aveva insultato l'esercito e sputato sulla nazione. Non basta!

Abbiamo visto giornali che lo scusavano, altri che gli infliggevano il loro biasimo, sì, ma con qualche riserva. Ma come!

non c'è stato un grido unanime di rivolta e di esecrazione! Che cos'è mai accaduto perché un crimine che in un altro momento avrebbe sollevato la coscienza pubblica in un bisogno furente di immediata repressione, abbia potuto trovare delle circostanze attenuanti in quegli stessi giornali tanto suscettibili in tema di fellonia e di tradimento?

L'abbiamo visto, ripeto. E ignoro cosa abbia prodotto un sintomo come questo sugli altri spettatori, visto che nessuno parla, nessuno s'indigna. So che, per quanto mi riguarda, mi ha fatto rabbrividire, poiché rivela con inaspettata violenza la malattia di cui soffriamo. La stampa ignobile ha divorato la nazione e un accesso di quella perversione, di quella corruzione in cui essa l'ha gettata, ha finito per mettere l'ulcera completamente a nudo.


L'antisemitismo, ora.


E' il vero colpevole. Ho già detto come questa campagna barbara, che ci riporta indietro di secoli, offenda il mio bisogno di fraternità, la mia passione per la tolleranza e l'emancipazione umana. Ritornare alle guerre di religione, ricominciare le persecuzioni religiose, volere lo sterminio tra le razze, sono cose di un'assurdità tale, nel nostro secolo di affrancamento, che un simile tentativo mi sembra soprattutto imbecille. Non poteva nascere che da un cervello fumoso e squilibrato di credente, che da una grande vanità di scrittore rimasto a lungo sconosciuto e desideroso di recitare una parte a tutti i costi, sia pure odiosa.


E non voglio ancora credere che un movimento del genere possa davvero prendere un'importanza decisiva in Francia, in questo paese di libero esame, di bontà fraterna e di limpida ragione.


Eppure, assistiamo a misfatti terribili, devo confessare che il male è gravissimo. Il veleno è nel popolo, anche se il popolo non è tutto avvelenato. Dobbiamo all'antisemitismo la pericolosa virulenza che gli scandali di Panama hanno preso qui da noi. E questo penoso caso Dreyfus è tutta opera sua: esso soltanto ha reso possibile l'errore giudiziario, esso soltanto sconvolge oggi la folla, impedisce che quell'errore venga tranquillamente e nobilmente riconosciuto, per la nostra integrità e il nostro buon nome. Non c'era niente di più semplice e di più naturale del fare luce sulla verità, appena sorti i primi seri dubbi; come si può non capire che, perché si sia arrivati alla pazzia furiosa in cui ci troviamo, è giocoforza che ci sia un veleno nascosto che ci fa delirare tutti?

Questo veleno è l'odio feroce contro gli ebrei che ogni mattina, da anni, viene versato al popolo. Sono una banda, quelli che fanno questo mestiere di avvelenatori, e il bello è che lo fanno in nome della morale, in nome di Cristo, atteggiandosi a vendicatori e a giustizieri. E chi ci dice che sul Consiglio di guerra non abbia agito l'ambiente stesso in cui esso deliberava?

Un ebreo traditore che vende il suo paese, la cosa va da sé. E se anche non si trova alcuna ragione umana che spieghi il crimine, se anche l'imputato è ricco, savio, lavoratore, senza passioni e con una vita impeccabile, non basta forse il fatto che sia ebreo?

Oggi, da quando cioè chiediamo che si faccia luce, l'atteggiamento dell'antisemitismo è ancora più violento, più tracotante. E' il suo processo, quello che si sta per istruire, e che schiaffo sarebbe per gli antisemiti qualora l'innocenza di un ebreo trionfasse! Un ebreo innocente. Possibile? Crolla tutta un'impalcatura di bugie, subentra l'aria pura, la buona fede, l'equità, ed è la rovina per una setta che agisce sulla folla degli ingenui solamente in forza dei suoi eccessi ingiuriosi e dell'impudenza delle sue calunnie.


Ed ecco cos'altro abbiamo visto: il furore di questi malfattori pubblici al solo pensiero che si possa fare un po' di luce. E inoltre, ahimè, abbiamo visto lo smarrimento della folla che costoro hanno pervertito, e tutta questa opinione pubblica sconvolta, tutto questo caro popolo di umili e di semplici, che oggi si scaglia contro gli ebrei e che domani farebbe una rivoluzione per liberare il capitano Dreyfus, se qualche onest'uomo lo infiammasse del fuoco sacro della giustizia.


Infine, gli spettatori, gli attori, voi e io, noi tutti.


Quale confusione, quale pantano accresciuto di continuo! Abbiamo visto infervorarsi di giorno in giorno la mischia delle passioni e degli interessi, e poi storie insulse, pettegolezzi vergognosi, smentite di inaudita impudenza, il semplice buon senso venire preso a schiaffi ogni mattina, il vizio acclamato, la virtù zittita, insomma l'agonia di tutto quello che costituisce l'onore e la gioia di vivere. Si è finito per odiarlo, tutto questo, certo! Ma chi aveva voluto questo stato di cose, chi lo trascinava per le lunghe? I nostri capi, quelli che, avvertiti da più di un anno, non osavano far niente. Inutile supplicarli, inutile preconizzare loro, fase per fase, la tremenda tempesta che si stava addensando. L'inchiesta l'avevano fatta; l'incartamento l'avevano tra le mani. Ma fino all'ultima ora, nonostante le suppliche, si sono intestarditi nella loro inerzia, piuttosto che prendere in mano la situazione, per limitarla, a rischio di sacrificare subito le individualità compromesse. Il fiume di fango è straripato, com'era stato loro predetto, ed è colpa loro.


Abbiamo visto energumeni trionfare con l'esigere la verità da quelli che dicevano di saperla, quando questi non potevano dirla finché c'era in corso un'inchiesta. La verità è stata detta al generale incaricato dell'inchiesta, e a lui soltanto è affidata la missione di farla conoscere. La verità sarà inoltre detta al giudice istruttore, e lui soltanto ha la veste per ascoltarla e per basare su di essa il suo atto di giustizia. La verità! che concezione ne avete, in un'avventura come questa, che scuote tutta un'organizzazione decrepita, per credere che sia un oggetto semplice e maneggevole, da tenere nel cavo della mano e da mettere quando si vuole in mano ad altri, come se fosse un sasso o una mela? La prova, ah sì, la prova che si pretendeva, immediata, come i bambini pretendono che si mostri loro il vento che passa. Siate pazienti e la vedrete splendere, la verità; ma occorrerà in ogni caso un po' d'intelligenza e di probità morale.


Abbiamo visto sfruttare vilmente il patriottismo, agitare lo spettro dello straniero in una questione d'onore che riguarda unicamente la famiglia francese. I peggiori rivoluzionari hanno gridato che si insultavano l'esercito e i suoi capi, quando, com'è giusto, si chiede solo di non metterli troppo in alto, fuori della portata di chiunque. E, di fronte ai caporioni, di fronte a qualche giornale che aizzava l'opinione pubblica, ha regnato il terrore. Non un esponente delle nostre assemblee ha avuto un grido da onest'uomo, tutti sono rimasti muti, esitanti, prigionieri dei loro gruppi, tutti hanno avuto paura dell'opinione pubblica, sicuramente preoccupati, in previsione delle prossime elezioni. Né un moderato, né un radicale, né un socialista, nessuno di quelli che dovrebbero tutelare le pubbliche libertà, si è ancora alzato a parlare secondo coscienza. Come volete che il paese sappia orientarsi nella tormenta, se quegli stessi che si dicono sue guide tacciono per meschina tattica di politicanti oppure per il timore di compromettere la loro situazione personale?

E lo spettacolo è stato così penoso, così crudele, così duro per la nostra fierezza, che intorno a me sento ripetere: "La Francia è proprio malata perché abbia potuto prodursi una simile crisi di aberrazione pubblica". No! è soltanto sviata, fuori di sé del suo cuore e della sua indole. Le si parli il linguaggio dell'umanità e della giustizia e si ritroverà intera, nella sua generosità leggendaria.


Il primo atto è terminato, sull'orrendo caso è calato il sipario.


Auguriamoci che lo spettacolo di domani ci consoli e ci ridia coraggio.


Ho detto che la verità era in cammino e che niente l'avrebbe fermata. Un primo passo è fatto, un altro si farà, poi un altro, poi il passo decisivo. E' matematico.


Per il momento, in attesa della decisione del Consiglio di guerra, la mia parte è terminata; ed è mio ardente desiderio che, fatta la verità, resa giustizia, io non debba più lottare né per l'una né per l'altra.




LETTERA ALLA GIOVENTU'


Pubblicata in un opuscolo messo in vendita il 14 dicembre 1897.


Poiché nessun giornale, in quel momento, sembrava disposto ad accettare i miei articoli e poiché desideravo essere assolutamente libero, concepii il progetto di continuare la mia campagna per mezzo d'una serie di opuscoli. In un primo momento avevo pensato di pubblicarli regolarmente, a giorni fissi, uno alla settimana.


Poi, preferii rimanere padrone delle date di pubblicazione, in modo da scegliere le mie ore e da intervenire sugli argomenti soltanto nei giorni in cui l'avrei giudicato utile.


Dove andate, giovani, dove andate, bande di studenti che correte per le strade, manifestando in nome delle vostre collere e dei vostri entusiasmi, provando il bisogno imperioso di levare pubblicamente il grido delle vostre coscienze indignate?

Andate a protestare contro qualche abuso di potere, qualcuno ha offeso il bisogno di verità e di equità che ancora arde nelle vostre anime nuove, ignare dei compromessi politici e delle quotidiane viltà della vita?

Andate a raddrizzare un torto sociale, a mettere la protesta della vostra gioventù vibrante sulla bilancia infida dove così falsamente si pesano la sorte dei fortunati e quella dei diseredati di questo mondo?

Andate a fischiare per affermare la tolleranza, l'indipendenza della razza umana, qualche settario dell'intelligenza, dal cervello ristretto, che avrà tentato di ricondurre i vostri spiriti liberati all'antico errore, proclamando la bancarotta della scienza?

Andate a gridare, sotto la finestra di qualche personaggio sfuggente e ipocrita, la vostra fede invincibile nell'avvenire, in quel secolo venturo che portate con voi e che deve realizzare la pace del mondo, in nome della giustizia e dell'amore?

"No, no! andiamo a protestare contro un uomo, un vegliardo che, dopo una lunga vita di lavoro e di lealtà, ha creduto di poter impunemente sostenere una causa generosa, di volere che si facesse luce e che un errore venisse riparato per l'onore stesso della patria francese!".


Ah, quando pure io ero giovane, l'ho visto, il quartiere latino, fremere tutto delle accese passioni della gioventù: l'amore della libertà, l'odio verso la forza bruta che schiaccia i cervelli e comprime le anime. L'ho visto, sotto l'Impero, fare la sua coraggiosa opera di opposizione, perfino ingiusta a volte, ma sempre per eccesso di libera emancipazione umana. Fischiava gli autori graditi alle Tuileries, malmenava i professori il cui insegnamento gli sembrava sospetto, si levava contro chiunque si mostrasse a favore delle tenebre e della tirannia. Vi bruciava il sacro fuoco della bella follia dei vent'anni, quando tutte le speranze sono delle realtà e il domani appariva come il trionfo certo della Città perfetta.


E se risalissimo più indietro, in questa storia delle nobili passioni che hanno sollevato la gioventù delle scuole, la vedremmo sempre indignarsi sotto l'ingiustizia, fremere e levarsi per gli umili, gli abbandonati, i perseguitati, contro i feroci e i potenti. Essa ha manifestato in favore dei popoli oppressi, si è dichiarata per la Polonia, per la Grecia, ha preso le difese di tutti quelli che soffrivano, che agonizzavano sotto la brutalità di una folla o di un despota. Quando si diceva che il quartiere latino si accendeva, si poteva star certi che, dietro, c'era qualche vampata di giustizia giovanile, incurante delle precauzioni, che reagiva con entusiasmo ai dettami del cuore. E quanta spontaneità, allora! era come se un fiume in piena straripasse per le strade.


So bene che anche oggi il pretesto è la patria minacciata, la Francia consegnata al nemico vincitore da una banda di traditori.


Soltanto, mi chiedo, dove troveremo la chiara intuizione delle cose, la sensazione istintiva di ciò che è vero, di ciò che è giusto, se non in queste anime nuove, in questi giovani che nascono alla vita politica, dei quali niente dovrebbe ancora oscurare la ragione diritta e sana? Che gli uomini politici, corrotti da anni di intrighi, o i giornalisti, squilibrati da tutti i compromessi del mestiere, possano accettare le menzogne più impudenti, far finta di non vedere cose che sono di una chiarezza abbagliante, è un fatto che si spiega, che si capisce.


Ma la gioventù, via! dev'essere già molto incancrenita perché la sua purezza, il suo naturale candore, non si riconoscano a colpo d'occhio in mezzo a errori inaccettabili e non abbiano ogni diritto a quanto è evidente, limpido, di una luminosità onesta, da pieno giorno!

Non c'è storia più semplice di così. Un ufficiale è stato condannato e nessuno si sogna di sospettare della buona fede dei giudici. L'hanno colpito secondo la loro coscienza, su prove che hanno ritenuto certe. Poi, succede un giorno che qualcuno, anzi più d'uno, abbia dei dubbi e che dal dubbio giunga poi alla convinzione che una delle prove, la più importante, o almeno la sola sulla quale i giudici si sono pubblicamente basati, è stata erroneamente attribuita al condannato e che il documento è sicuramente di mano di un altro. E lo dice, e quest'altro viene denunciato dal fratello del condannato, che aveva il preciso dovere di agire così; ed ecco che, per forza di cose, ha inizio un nuovo processo, processo che, se ci sarà condanna, dovrà condurre alla revisione del primo. C'è forse qualcosa di non perfettamente chiaro, giusto e ragionevole? Dov'è la macchinazione, dov'è il nero complotto per salvare un traditore? Che ci sia un traditore, nessuno lo nega; si vuole soltanto che a espiare il crimine sia un colpevole, non un innocente. Lo avrete ugualmente, il vostro traditore, si tratta soltanto di darvene uno autentico.


Un po' di buon senso non dovrebbe essere più che sufficiente? A quale movente obbedirebbero mai quelli che perseguono la revisione del processo Dreyfus? Lasciamo da parte l'antisemitismo imbecille, la cui feroce monomania ci vede un complotto ebreo, l'oro ebreo che si sforza di sostituire un cristiano a un ebreo nell'infame prigione. E' una teoria che non sta in piedi, le inverosimiglianze e le impossibilità crollano le une sulle altre, non basterebbe tutto l'oro della terra a comprare certe coscienze. E bisogna per forza arrivare alla realtà che è poi l'espansione naturale, lenta, invincibile di qualsiasi errore giudiziario. La storia è tutta lì.


Un errore giudiziario è una forza in movimento: uomini di coscienza sono conquistati, sono assillati, si dedicano in modo sempre più ostinato, rischiano la loro fortuna e la loro vita affinché giustizia sia fatta. E non c'è altra spiegazione possibile di quanto accade oggi, il resto non è altro che fanatismi politici e religiosi abominevoli, che torrente straripato di calunnie e d'ingiurie.


Ma quale giustificazione avrebbe mai la gioventù se le sue idee di umanità e di giustizia venissero a esserne oscurate foss'anche per un istante? Nella seduta del 4 dicembre, una Camera francese s'è coperta di onta, votando un ordine del giorno per "stigmatizzare i caporioni dell'odiosa campagna che turba la coscienza pubblica".


Lo dico francamente, per l'avvenire che mi leggerà, spero: un voto simile è indegno del nostro generoso paese e resterà come una macchia incancellabile. "I caporioni" sono gli uomini di coscienza e di coraggio che, certi di un errore giudiziario, l'hanno denunciato perché ci si ponesse riparo nella patriottica convinzione che una grande nazione, nella quale un innocente agonizzasse tra le torture, sarebbe una nazione condannata. "La campagna odiosa", è il grido di verità, è il grido di giustizia che quegli uomini levano, è l'ostinazione che essi mettono nel volere che la Francia, di fronte ai popoli che la osservano, resti la Francia che ha creato la libertà e che creerà la giustizia. E la Camera, tutti potete vederlo, ha certamente commesso un crimine, poiché ecco che ha corrotto perfino la gioventù delle nostre scuole, poiché ecco che questa, ingannata, sviata, sguinzagliata per le nostre vie, manifesta, come non si era finora mai visto, contro quanto di più fiero, di più coraggioso, di più divino c'è nell'animo umano!

Dopo la seduta del Senato, il 7, si è parlato di crollo a proposito di Scheurer-Kestner. Ah sì, che crollo nel suo cuore, nel suo animo! Mi immagino la sua angoscia, il suo tormento, nel vedersi franare intorno tutto quello che ha amato della nostra Repubblica, tutto quello che per essa ha contribuito a conquistare nella nobile battaglia della sua vita; la libertà, prima di tutto, poi le maschie virtù della lealtà, della franchezza e del coraggio civico. E' uno degli ultimi della sua generazione di forti. Sotto l'Impero, ha saputo che cos'è un popolo sottomesso all'autorità di un singolo, un popolo divorato dalla febbre e dall'impazienza mentre, la bocca brutalmente imbavagliata, vede negare ogni giustizia. Col cuore sanguinante ha assistito alle nostre disfatte, ne ha saputo le cause, tutte dovute all'accecamento, all'imbecillità dispotica. In seguito, ha fatto parte di quelli che hanno lavorato nel modo più saggio e più ardente a sollevare il paese dalle pastoie, a restituirgli il suo rango in Europa.


Data dai tempi eroici della nostra Francia repubblicana e potrebbe credere, immagino, di aver fatto opera buona e solida: il dispotismo cacciato per sempre, la libertà conquistata e intendo soprattutto quella libertà umana che permette a ogni circostanza di affermare il suo dovere, tra la tolleranza delle opinioni altrui.


Ebbene sì, tutte le conquiste sono state possibili, ma ancora una volta è crollato tutto. Attorno a lui, dentro di lui, ha solo e unicamente rovine. Essere stato in preda al bisogno di verità è un crimine. Avere voluto la giustizia è un crimine. L'orrendo dispotismo è ritornato, sulle bocche è calato di nuovo il più duro dei bagagli. Non è lo stivale di un Cesare a schiacciare la coscienza pubblica, è un'intera Camera a condannare chi brucia della passione del giusto. Proibito parlare! I pugni colpiscono le labbra di chi tenta di difendere la verità, si aizzano le folle perché riducano gli isolati al silenzio. Mai un'oppressione altrettanto mostruosa era stata organizzata e utilizzata contro la libera discussione. E l'obbrobrioso terrore regna, i più coraggiosi diventano codardi, nessuno più osa dire quello che pensa per la paura di essere denunciato come venduto e traditore.


Quei pochi giornali ancora onesti sono supini di fronte ai loro lettori, resi ormai folli da troppe sciocchezze sentite. E mai un popolo, ne sono convinto, ha attraversato un'ora più agitata, più torbida, più angosciosa per la sua ragione e per la sua dignità.


Allora è vero, tutto un passato grande e leale ha dovuto crollare per Scheurer-Kestner. Se egli crede ancora alla bontà e all'equità degli uomini, dev'essere di un ottimismo ben solido. Per tre settimane lo hanno trascinato nel fango solamente per avere compromesso l'onore e la serenità della sua vecchiaia con la pretesa di voler essere giusto. Non c'è tortura più dolorosa, per un galantuomo, del dover soffrire il martirio della propria onestà. Si uccide in quest'uomo la fede nel domani, gli si avvelena lo spirito; e, se egli muore, dice: "E' finita, non c'è più niente, tutto quello che ho fatto di buono se ne va con me, la virtù è solo una parola vuota, il mondo è nero e desolato!".


E, per schiaffeggiare il patriottismo, siamo andati a scegliere quest'uomo che, nelle nostre Camere, è l'ultimo rappresentante dell'Alsazia-Lorena! Lui un venduto, un traditore, uno che insulta l'esercito, quando il suo nome sarebbe dovuto bastare a rassicurare le inquietudini più diffidenti! E' chiaro che egli ha avuto l'ingenuità di credere che la sua qualità di alsaziano, la sua fama di patriota ardente costituissero la garanzia stessa della sua buona fede, nell'assumere la delicata parte del giustiziere. Se si occupava lui del caso, non era come dire che una conclusione rapida gli sembrava necessaria all'onore dell'esercito, all'onore della patria? Lasciate che si trascini ancora per settimane, procurate di soffocare la verità, di rifiutarvi alla giustizia e vedrete se non avrete fatto ridere l'Europa intera, se non avrete messo la Francia all'ultimo posto tra le nazioni!

No, no! gli stupidi fanatismi politici e religiosi non vogliono assolutamente capire e la gioventù delle nostre scuole offre al mondo lo spettacolo di andare a fischiare un uomo come Scheurer- Kestner, il traditore, il venduto, quello che insulta l'esercito e che compromette la patria!

So bene che i pochi giovani che manifestano non rappresentano tutta la gioventù e che un centinaio di chiassosi per strada fanno più rumore di diecimila lavoratori, chiusi in casa a studiare. Ma cento chiassoni sono già troppi, ed è un sintomo doloroso che un movimento del genere, per limitato che sia, si possa produrre, in un'ora come questa, nel quartiere latino!

Dei giovani antisemiti, è mai possibile che esistano? E' possibile che ci siano cervelli nuovi, anime nuove, già squilibrate da questo veleno idiota? Che tristezza, che inquietudine per il ventesimo secolo che sta per schiudersi! A cent'anni dalla dichiarazione dei diritti dell'uomo, cent'anni dopo l'atto supremo di tolleranza e di emancipazione, ecco che si ritorna alle guerre di religione, al più odioso e al più stupido dei fanatismi! E possiamo ancora capirlo da parte di certi individui che interpretano la loro parte, che hanno un atteggiamento da conservare e un'ambizione vorace da soddisfare. Ma nei giovani, in quelli che nascono e premono per il fiorire di tutti i diritti e di tutte le libertà, di cui avevamo sognato di veder risplendere il prossimo secolo! Sono loro gli artefici che aspettavamo, ed ecco che già si dichiarano antisemiti, vale a dire che daranno inizio al secolo massacrando tutti gli ebrei, perché sono concittadini di un'altra razza e di un'altra fede! Un inizio del genere come appannaggio per la Città dei nostri sogni, la Città dell'uguaglianza e della fratellanza! Se davvero la gioventù ci si riconoscesse, ci sarebbe da singhiozzare, da negare qualsiasi speranza e qualsiasi felicità umana.


O gioventù, gioventù! pensa, te ne supplico, alla grande impresa che ti attende. Sei tu la futura operaia, tu getterai le fondamenta di questo secolo imminente che, ne abbiamo la fede profonda, risolverà i problemi di verità e di equità posti dal secolo ormai agli sgoccioli. Noi, i vecchi, gli anziani, ti lasciamo l'imponente cumulo della nostra inchiesta; molte contraddizioni e punti oscuri, probabilmente, ma senza alcun dubbio lo sforzo più appassionato che mai secolo abbia fatto verso la luce, i documenti più onesti e più solidi, le fondamenta stesse di quel vasto edificio della scienza che tu dovrai continuare a costruire per il tuo onore e la tua felicità. E ti chiediamo soltanto d'essere ancora più generosa, più libera di spirito, di superarci nell'amore per la vita vissuta in modo normale, nello sforzo tutto dedito al lavoro, questa fecondità degli uomini e della terra che saprà bene, alla fine, far germogliare la traboccante messe di gioia sotto il sole splendente. E ti cederemo fraternamente il posto, felici di sparire e di riposarci della nostra parte di impresa compiuta, nel placido sonno della morte, e sapremo che tu ci continui e che realizzi i nostri sogni.


Gioventù, gioventù! ricordati delle sofferenze che i tuoi padri hanno sopportato, delle terribili battaglie che hanno dovuto vincere, per conquistare la libertà di cui tu in questo momento gioisci. Se ti senti indipendente, se puoi andare e venire come ti aggrada, dire sulla stampa tutto quello che pensi, avere un'opinione ed esprimerla pubblicamente, è perché i padri hanno offerto la loro intelligenza e il loro sangue. Tu non sei nata sotto la tirannia, tu ignori che cosa voglia dire svegliarsi ogni mattina con lo stivale di un padrone sul petto, tu non ti sei battuta per sfuggire alla sciabola del dittatore, ai falsi pesi del cattivo giudice. Ringrazia i tuoi padri e non commettere il crimine di acclamare la menzogna, di fare una campagna insieme alla forza bruta, all'intolleranza dei fanatici e alla voracità degli ambiziosi. Tutto questo porta alla dittatura.


Gioventù, gioventù! sii sempre dalla parte della giustizia. Se mai il concetto di giustizia si oscurasse in te, andresti incontro a tutti i pericoli. E non ti parlo della giustizia dei nostri Codici, che è soltanto la garanzia dei legami sociali. Bisogna rispettarla, certo; ma è una nozione più alta, la giustizia, quella che pone come principio che il giudizio degli uomini è sempre fallibile e che ammette la possibile innocenza di un condannato senza per questo recare offesa ai giudici. Non c'è forse, in questo, un'avventura fatta per risvegliare la tua accesa passione per il diritto? Chi si leverà per esigere che giustizia sia fatta se non tu, che non fai parte delle nostre lotte d'interessi e di persone, che ancora non sei né impegnata né compromessa in alcun affare losco, che puoi parlare chiaro, in tutta purezza e in tutta buona fede?

Gioventù, gioventù! sii umana, sii generosa. Se anche noi ci sbagliamo, sii con noi, quando diciamo che un innocente subisce una pena terribile e che il nostro cuore in rivolta si spezza per l'angoscia. Basta ammettere per un solo istante il possibile errore, di fronte a un castigo a questo punto smisurato, perché il petto si serri e le lacrime sgorghino agli occhi. Certo, gli aguzzini rimangono insensibili, ma tu, tu, che piangi ancora, che ancora non hai fatto esperienze di tutte le miserie, di tutte le pietà! Com'è che, se da qualche parte c'è un martire che soccombe vittima dell'odio, non ti abbandoni al sogno cavalleresco di difenderlo e di liberarlo? Chi, se non tu, potrà mai tentare la sublime avventura, lanciarsi in una causa generosa e superba, tenere testa a un popolo, in nome della giustizia ideale? E non ti vergogni che ad appassionarsi, ad assumersi oggi la tua impresa di generosa follia, siano degli anziani, dei vecchi?

Dove andate, giovani, dove andate, studenti che battete le strade manifestando, gettando nel bel mezzo delle nostre discordie il coraggio e la speranza dei vostri vent'anni?

"Andiamo verso l'umanità, verso la verità, verso la giustizia!".




LETTERA ALLA FRANCIA


Pubblicata in un opuscolo messo in vendita il 6 gennaio 1898.


Era il secondo della serie e contavo sul fatto che la serie sarebbe stata lunga. Mi trovavo benissimo con questo tipo di pubblicazione che impegnava me soltanto, lasciandomi tutta la libertà e tutta la responsabilità. Inoltre, non ero più costretto entro le dimensioni ridotte di un articolo di giornale, il che mi dava la possibilità di dilungarmi. Gli avvenimenti erano in cammino e io li aspettavo, risoluto da quel momento a dire tutto, a lottare fino alla fine perché la verità risplendesse e venisse fatta giustizia.


Nei giorni orribili di disordine morale che attraversiamo, nel momento in cui la coscienza pubblica sembrerebbe oscurarsi, è a te che mi rivolgo, Francia, alla nazione, alla patria!

Ogni mattina, leggendo sui giornali quello che tu sembri pensare di questo deplorevole caso Dreyfus, il mio stupore aumenta, la mia ragione più che mai si ribella. Ma sei proprio tu, Francia, a lasciarti convincere dalle menzogne più palesi, a metterti con la turba dei malfattori contro pochi galantuomini, a lasciarti sconvolgere dal pretesto idiota che si voglia insultare il tuo esercito e si complotti di venderti al nemico, quando, all'opposto, è desiderio dei tuoi figli più saggi e più leali che tu rimanga, agli occhi dell'Europa attenta, la nazione dell'onore, la nazione dell'umanità, della verità e della giustizia?

Ed è vero, la grande massa lo crede, soprattutto quella dei modesti e degli umili, la popolazione delle città, quasi tutta la provincia e tutte le campagne, quella considerevole maggioranza che accetta l'opinione dei giornali e quella dei vicini, che non ha né il modo di documentarsi, né quello di riflettere. Che cos'è mai successo, Francia, e come ha potuto il tuo popolo, il tuo popolo di buon cuore e di buon senso, farsi cogliere da questa ferocia della paura, da queste tenebre dell'intolleranza? Al tuo popolo dicono che un uomo forse innocente è in preda alla peggiore delle torture, che ci sono prove materiali e morali per cui s'impone la revisione del processo ed esso rifiuta violentemente la luce, si schiera dietro i settari e i banditi, dietro quelli che hanno interesse a lasciare a terra il cadavere, questo popolo che, soltanto poco tempo fa, avrebbe demolito ancora una volta la Bastiglia, pur di farne uscire un prigioniero!

Che angoscia e che tristezza, Francia, nell'animo di chi ti ama, di chi vuole il tuo onore e la tua grandezza! Mi chino angustiato sul mare cupo e sconvolto di questo tuo popolo, mi chiedo dove siano le cause della tempesta che minaccia di distruggere il meglio della tua gloria. Non c'è niente di più mortalmente grave, e io vi leggo sintomi inquietanti. E oserò dire tutto, poiché nella mia vita non ho avuto che una sola passione, la verità, e qui non faccio che continuare la mia opera.


Ti rendi conto che il pericolo è proprio in queste tenebre ostinate dell'opinione pubblica? Cento giornali ripetono quotidianamente che l'opinione pubblica non vuole che Dreyfus sia innocente, che la sua colpevolezza è necessaria alla salute della patria. E sai fino a che punto saresti colpevole se, in alto loco, si autorizzasse un sofisma del genere per soffocare la verità?

Sarà la Francia ad averlo voluto, sarai tu ad avere preteso il crimine, e che grande responsabilità ogni giorno! Ecco perché in quest'ora grave, Francia, quelli dei tuoi figli che ti amano e ti onorano hanno un solo dovere ardente: il dovere di agire con forza sull'opinione pubblica, di illuminarla, di ricondurla, di trarla dall'errore in cui la spingono cieche passioni. E non c'è impresa più utile, più santa.


Ah, sì! con tutta la mia forza io parlerò loro, agli oscuri, agli umili, a quanti vengono avvelenati e fatti delirare. E' la sola missione in cui m'impegno, griderò loro dov'è veramente l'anima della patria, la sua energia invincibile e il suo sicuro trionfo.


Esaminiamo la situazione. E' stato fatto un altro passo, il comandante Esterhazy è stato deferito a un tribunale militare.


Come ho detto fin dal primo giorno, la verità è in cammino e niente potrà fermarla. Nonostante le cattive volontà, ogni passo avanti sarà fatto, matematicamente, a tempo giusto. La verità ha in sé una potenza che travolge tutti gli ostacoli. E quando le si sbarra il cammino e si riesce a tenerla più o meno a lungo sotterrata, vi si ammassa, prende una tale violenza di esplosione che, il giorno in cui esplode, fa saltare tutto. Tentate, questa volta, di murarla per qualche mese ancora sotto le menzogne o un procedimento a porte chiuse e poi vedrete se non vi state preparando, per più tardi, un disastro dei più clamorosi. Però, man mano che la verità avanza, le bugie si accumulano per negare il suo cammino. Niente di più significativo. Quando il generale de Pellieux, incaricato dell'inchiesta preliminare, depositò il suo rapporto, che concludeva ammettendo la possibile colpevolezza del comandante Esterhazy, la stampa ignobile inventò che, unicamente per volontà di quest'ultimo, il generale Saussier, pur esitando, convinto com'era della sua innocenza, si adattò, per fargli piacere, a deferirlo alla giustizia militare. Oggi è ancora meglio: i giornali raccontano che, poiché tre esperti avevano nuovamente riconosciuto il "bordereau" come opera certa di Dreyfus, il comandante Ravary, nella sua inchiesta giudiziaria, era approdato di necessità a un non luogo a procedere, e che, se il comandante Esterhazy sarebbe finito davanti a un tribunale militare, era perché aveva forzato di nuovo la mano al generale Saussier, esigendo se non altro dei giudici.


Questo è di una comicità irresistibile e di una idiozia totale! Ve lo figurate quest'accusato che dirige il caso, dettando gli arresti? Ve lo figurate un uomo riconosciuto innocente, dopo ben due inchieste, e per il quale ci si prende la briga non indifferente di riunire un tribunale al solo fine di recitare una commedia decorativa,una sorta d'apoteosi giudiziaria?

Equivarrebbe né più né meno a farsi beffe della giustizia, dal momento che si afferma che il proscioglimento è certo, perché la giustizia non è fatta per giudicare gli innocenti e occorre per lo meno che il giudizio non venga redatto dietro le quinte, prima ancora che si apra il dibattimento. Visto che il comandante Esterhazy è deferito a un tribunale militare, auguriamoci, per il nostro onore nazionale, che sia una cosa seria e non una semplice messinscena, destinata a divertire gli allocchi. Mia povera Francia, a tal punto ti credono stupida da raccontarti storie come queste che non stanno né in cielo né in terra?

E, ad ogni modo, non tutto è menzogna nelle informazioni che la stampa ignobile pubblica e che dovrebbero bastare ad aprirti gli occhi. Da parte mia, mi rifiuto formalmente di credere ai tre esperti che non avrebbero riconosciuto, a colpo d'occhio, l'assoluta identità tra la grafia del comandante Esterhazy e quella del "bordereau", Prendete il primo bambino che passa per strada, fatelo salire, mostrategli i due fogli e vi risponderà:

"E' lo stesso signore che ha scritto queste due pagine". Non c'è bisogno di esperti, può stabilirlo chiunque, la rassomiglianza di certe parole salta agli occhi. Ed è talmente vero, che il comandante ha ammesso questa incredibile rassomiglianza e, per spiegarla, asserisce che siano state ricalcate diverse sue lettere, tutta una storia di una complicazione laboriosa, d'altronde assolutamente puerile, di cui la stampa si è occupata per settimane. E vengono a raccontarci di essersi rivolti a tre esperti per dichiarare di nuovo che il "bordereau" è proprio di pugno di Dreyfus! Ah no, è troppo! tanta sfrontatezza sta diventando goffaggine, le persone oneste finiranno per irritarsi, spero!

Certi giornali arrivano al punto di dire che quel "bordereau" sarà messo da parte, che in tribunale non se ne discuterà neppure. Di che cosa si discuterà, di grazia, e perché il tribunale si riunirà in seduta? Il nodo del caso è tutto lì: se Dreyfus è stato condannato per un documento scritto da un altro e che basta a far condannare questo altro, la revisione s'impone con logica irresistibile, poiché non ci possono essere due colpevoli condannati per lo stesso crimine. Démange l'ha ripetuto formalmente, soltanto quel "bordereau" gli è stato presentato, Dreyfus è stato legalmente condannato unicamente in base a quel "bordereau" e, pur ammettendo che, in disprezzo di ogni legalità, esistano documenti tenuti segreti, cosa che personalmente non riesco a credere, chi oserebbe opporsi alla revisione qualora venisse dimostrato che il "bordereau", la sola prova conosciuta, ammessa, è di mano di un altro? Ed ecco perché vengono accumulate tante menzogne attorno al "bordereau", che in conclusione è il nocciolo dell'intero caso.


Ecco dunque un primo punto da sottolineare: l'opinione pubblica è fatta in gran parte di queste menzogne, di queste storie incredibili e stupide che la stampa divulga ogni mattina. L'ora della responsabilità verrà, e bisognerà regolare i conti con questa stampa ignobile, che ci disonora agli occhi del mondo intero. Alcuni giornali svolgono la loro solita attività, non hanno mai diffuso altro che melma. Ma, tra questi, che stupore, che tristezza nel trovare, per esempio, un giornale letterario come "L'Echo de Paris", così spesso all'avanguardia delle idee, e che, nel caso Dreyfus, si assume una parte così incresciosa! Le note, di una violenza, di un partito preso scandaloso, non sono firmate. Si dice che siano ispirate da quegli stessi che hanno avuto la disastrosa balordaggine di far condannare Dreyfus. Il signor Valentin Simond dubita forse che esse ricoprano il suo giornale di obbrobrio? E c'è un altro giornale il cui atteggiamento dovrebbe destare l'indignazione di tutta la gente onesta, e mi riferisco a "Le Petit Journal". Che i giornalacci che tirano qualche migliaio di copie urlino e mentiscano per far aumentare la tiratura, si può anche capire, e in fondo il danno è piuttosto limitato. Ma che "Le Petit Journal", che tira più di un milione di copie, che si rivolge agli umili, che penetra dappertutto, semini l'errore, svii l'opinione pubblica, è veramente di una gravità eccezionale. Quando si ha una simile cura d'anime, quando si è il pastore di tutto il popolo, si dev'essere di una probità intellettuale scrupolosa, pena il macchiarsi di un crimine civico.


Ed ecco, Francia, che cosa trovo prima di tutto nella demenza della quale sei preda: le menzogne della stampa, il regime di storie insulse, di basse ingiurie, di perversioni morali al quale essa ti sottopone ogni mattina. Come potresti mai volere la verità e la giustizia, se c'è chi avvelena fino a questo punto tutte le tue virtù leggendarie, la limpidezza della tua intelligenza e la solidità della tua ragione?

Ma ci sono fatti ancora più gravi, tutto un insieme di sintomi che, nella crisi che attraversi, sono oggetto di una lezione terrificante, per quelli che sanno vedere e giudicare. Il caso Dreyfus è solo un incidente deplorevole. La testimonianza terribile è il modo in cui tu ti comporti in quest'avventura. Uno ha l'aria sana e, d'improvviso, appaiono piccole macchie sulla pelle: in lui c'è la morte. Tutto uno stato di avvelenamento politico e sociale si è reso manifesto sul tuo volto.


Perché hai lasciato gridare, e hai finito per gridare tu stessa, che il tuo esercito veniva insultato quando, al contrario, ardenti patrioti volevano soltanto la sua dignità e il suo onore? Il tuo esercito? ma, oggi, sei tu tutta intera; non si tratta di questo o quel capo, di questo o quel corpo di ufficiali, di questa o quella gerarchia gallonata; sono tutti i tuoi figli pronti a difendere il suolo francese. Fai l'esame di coscienza: era davvero il tuo esercito che volevi difendere, anche se nessuno lo aggrediva? non era piuttosto l'uniforme che sentivi il bisogno improvviso di acclamare? Per conto mio, nella rumorosa ovazione fatta ai capi che si diceva fossero stati insultati, vedo un risveglio, senza dubbio inconsapevole, del boulangismo latente da cui sei tuttora colpita. In fondo, non hai ancora il sangue repubblicano, i pennacchi che passano ti fanno battere il cuore, non può venire un re senza che tu te ne innamori. Il tuo esercito, ebbene, sì! a quello non pensi mai! E' il generale che vuoi nel tuo letto. E quanto è lontano il caso Dreyfus! Mentre il generale Billot si faceva acclamare alla Camera, vedevo l'ombra della spada disegnarsi sul muro. Francia, se non stai attenta, ti aspetta la dittatura.


E sai cos'altro ti aspetta, Francia? Ti aspetta il dominio della Chiesa. Ritornerai al passato, a quel passato d'intolleranza e di teocrazia che i più illustri tra i tuoi figli hanno combattuto, hanno creduto di uccidere, donando la loro intelligenza e il loro sangue. Oggi, la tattica dell'antisemitismo è molto semplice.


Invano il cattolicesimo si sforzava di agire sulla popolazione, creava circoli di operai, moltiplicava i pellegrinaggi, tentava di riconquistarla, di ricondurla ai piedi degli altari. Era una cosa definitiva, le chiese restavano deserte, la gente non ci credeva più. Ed ecco che alcune circostanze hanno permesso di ispirare al popolo la rabbia antisemitica, lo si avvelena con questo fanatismo, lo si lancia per le strade a gridare: "Abbasso gli ebrei! a morte gli ebrei! ". Quale trionfo, se fosse possibile scatenare una guerra religiosa! Certo, il Popolo continua a non credere più; ma, ricominciare con l'intolleranza del medioevo, bruciare gli ebrei sulla pubblica piazza, non è forse l'inizio del credo religioso? Ecco, dunque, che il veleno è stato trovato; e, una volta riusciti a fare del popolo di Francia un fanatico e un carnefice, una volta riusciti a strappargli dal cuore la sua generosità, il suo amore per i diritti dell'uomo, così duramente conquistati, Dio farà sicuramente il resto.


C'è chi ha l'audacia di negare la reazione clericale. Ma è dappertutto, esplode nella politica, nelle arti, nella stampa, per le strade! Oggi perseguitiamo gli ebrei, domani sarà la volta dei protestanti; e la campagna è già cominciata. La Repubblica è invasa da reazionari d'ogni genere, che l'adorano di un amore repentino e terribile, che l'abbracciano per soffocarla. Da ogni lato, si sente dire che l'idea di libertà ha fatto bancarotta. E, appena si è presentato il caso Dreyfus, questo odio crescente della libertà ci ha trovato un'occasione straordinaria, le passioni hanno cominciato a divampare, perfino negli indifferenti.


Non capite che, se si sono scagliati su Scheurer-Kestner con tanto furore, è perché appartiene a una generazione che ha creduto nella libertà, che ha voluto la libertà? Oggi, si usa alzare le spalle, farsene beffe: vecchi barbogi, uomini d'altri tempi. La sua sconfitta consumerebbe la rovina della Repubblica, di quelli che sono morti, di quelli che si è tentato di seppellire nella melma.


Hanno abbattuto il potere militare, sono usciti dalla Chiesa, ed ecco perché quel gran galantuomo di Scheurer-Kestner è oggi un bandito. Bisogna annegarlo nella vergogna, perché la Repubblica stessa venga insozzata e spazzata via.


Poi, ecco che, d'altro lato, questo caso Dreyfus mostra in piena luce l'ambigua pastetta del parlamentarismo, il che lo disonora e lo ucciderà. Il caso, per sua sfortuna capita alla fine di una legislatura, quando restano solo tre o quattro mesi per sofisticare la legislatura successiva. Il governo al potere vuole naturalmente arrivare alle elezioni, e con altrettanta energia i deputati vogliono farsi rieleggere. Allora, piuttosto che allentare la presa sui portafogli, piuttosto che compromettere le probabilità d'essere rieletti, sono tutti risoluti ad arrivare agli estremi. Neanche il naufrago si tiene così disperatamente attaccato alla tavola della sua salvezza. Ed è tutto lì, tutto si spiega: da una parte, l'atteggiamento inusitato del governo a proposito del caso Dreyfus, il suo silenzio, il suo imbarazzo, la cattiva azione che esso commette nel lasciare agonizzare il paese sotto l'impostura, mentre era stato incaricato di accertare direttamente la verità; dall'altra, il disinteresse così poco valoroso dei deputati che asseriscono di non saperne niente, che hanno una sola paura, quella di compromettere la loro rielezione, alienandosi il popolo che credono antisemita. Lo si sente dire ovunque: "Ah! se fossero state fatte le elezioni, vedreste il governo e il Parlamento regolare la questione Dreyfus in ventiquattr'ore!". Ed ecco che cosa la vile pastetta del parlamentarismo riesce a fare di un grande popolo!

Francia, di questo, dunque, è fatta tuttora la tua opinione, del bisogno del bastone, della reazione clericale che ti riporta indietro di parecchi secoli, dell'ambizione vorace di quelli che ti governano, che ti mangiano e che non vogliono alzarsi da tavola!

Te ne scongiuro, Francia, sii di nuovo la grande Francia, ritorna in te, ritrova te stessa.


Due avventure nefaste sono entrambe opera dell'antisemitismo:

Panama e il caso Dreyfus. Ricordiamoci con quali delazioni, con quali pettegolezzi abominevoli, con quali pubblicazioni di documenti falsi o rubati, la stampa ignobile ha fatto di Panama un'ulcera orrenda che ha corroso e debilitato il paese per anni.


Era riuscita a sconvolgere la pubblica opinione; l'intera nazione pervertita, ubriaca di veleno, vedeva rosso, esigeva spiegazioni, chiedeva l'esecuzione in massa del Parlamento perché era marcio.


Ah! se Arton tornasse, se parlasse! E' tornato, ha parlato e tutte le menzogne della stampa ignobile sono crollate, a un punto tale che l'opinione pubblica, bruscamente ribaltata, non ha più voluto sospettare di nessuno e ha preteso l'assoluzione in massa.


Certo, sono ben convinto che non tutte le coscienze fossero proprio candide, poiché sarà accaduto, in quel caso, quello che accade in tutti i Parlamenti del mondo quando imprese gigantesche comportano spostamenti di milioni. Ma alla fine l'opinione pubblica era presa dalla nausea dell'ignobile: troppa gente era stata insozzata, troppa gliene era stata denunciata e ora provava il bisogno di un bagno nell'aria pura, di credere all'innocenza di tutti.


Ebbene! lo predico, sarà così anche per il caso Dreyfus, l'altro crimine sociale dell'antisemitismo. Di nuovo la stampa ignobile satura l'opinione pubblica di troppe menzogne e di troppe infamie.


Eccede nel volere che gli onesti siano dei furfanti e che i furfanti siano gente onesta. Diffonde troppe storie imbecilli, alle quali i bambini stessi finiscono per non credere più. Si attira troppe smentite, va troppo contro il buon senso e contro la semplice probità. E' fatale, un bel mattino, l'opinione pubblica finirà per ribellarsi, avrà un brusco conato di vomito, per essere stata troppo nutrita di fango. E, come per Panama, la vedrete, per il caso Dreyfus, far valere tutto il suo peso, volere che non ci siano più traditori, esigere la verità e la giustizia, in un'esplosione di generosità sovrana. L'antisemitismo sarà così condannato in base alle sue opere, le due mortali avventure in cui il paese ha perso in dignità e in salute.


Ecco perché, Francia, ti supplico di tornare in te, di ritrovare te stessa, senza aspettare oltre. Dirti la verità non è possibile, poiché la giustizia sta facendo il suo regolare corso ed è nostro dovere credere che sia decisa ad accertarla. La parola spetta unicamente ai giudici, il dovere di parlare si imporrebbe solo nel caso in cui non l'accertassero fino in fondo. Ma questa verità non è così semplice, un errore dapprima, poi tutte le colpe per nasconderlo, tu proprio non la sospetti? I fatti hanno parlato talmente chiaro, ogni fase dell'inchiesta è stata una confessione:

il comandante Esterhazy coperto da protezioni inspiegabili, il colonnello Picquart trattato da colpevole, colmato di oltraggi, i ministri che giocavano con le parole, i giornali ufficiali che mentivano violentemente, l'istruttoria preliminare condotta a tentoni, di una lentezza esasperante. Non ti pare che in tutto questo ci sia puzza di bruciato, lezzo di cadavere e che debbano proprio esserci molte cose da nascondere, perché ci si lasci difendere così apertamente da tutta la teppaglia di Parigi, quando ci sono galantuomini che pretendono sia fatta luce, a prezzo della loro tranquillità?

Francia, svegliati, pensa alla tua gloria. Com'è possibile che la tua borghesia liberale, che il tuo popolo emancipato, non vedano, in questa crisi, a quale aberrazione vengono spinti? Non posso crederli complici, allora sono creduloni, perché non si rendono conto di quello che c'è dietro: da una parte la dittatura militare, dall'altra la reazione clericale. E' questo che vuoi, Francia, la messa in pericolo di tutto ciò che hai pagato così a caro prezzo, la tolleranza religiosa, la giustizia uguale per tutti, la solidarietà fraterna di tutti i cittadini? E' sufficiente che ci siano dei dubbi sulla colpevolezza di Dreyfus e che tu lo abbandoni alla sua tortura, perché la tua gloriosa conquista del diritto e della libertà sia compromessa per sempre.


Come! rimarremo un pugno d'uomini appena a dire queste cose, di tutti i tuoi figli onesti, di tutti gli spiriti liberi, di tutti i grandi cuori che hanno fondato la Repubblica e che dovrebbero tremare, vedendola in pericolo, nessuno sil leverà per unirsi a noi!

E' a loro, Francia, che io faccio appello. Che si raggruppino, che scrivano, che parlino! Che lavorino con noi a illuminare l'opinione pubblica, gli oscuri, gli umili, quelli che vengono avvelenati e indotti a delirare! L'anima della patria, la sua energia, il suo trionfo sono unicamente nell'equità e nella generosità.


La mia sola inquietudine è che luce non venga fatta fino in fondo e subito. Dopo un'istruttoria segreta, una sentenza a porte chiuse non metterebbe fine a niente. Soltanto allora il caso comincerebbe, perché bisognerebbe ben parlare, visto che tacere equivarrebbe a rendersi complici. Che pazzia illudersi che si possa impedire alla storia di venire scritta! Sarà scritta, questa storia, e non c'è responsabilità, per scarsa che sia, che non verrà pagata.


E sarà così per la tua gloria finale, Francia, perché in fondo io non ho timori, io so che si avrà un bell'attentare alla tua ragione e alla tua integrità, tu sei malgrado tutto l'avvenire, tu avrai sempre dei risvegli trionfanti di verità e di giustizia!




"J'ACCUSE"


LETTERA A FÉLIX FAURE, PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA


Pubblicata su "L'Aurore" il 13 gennaio 1898.


Ciò che nessuno sa è che, dapprima, venne stampata in un opuscolo, come le due lettere precedenti. Al momento di mettere in vendita l'opuscolo, mi venne l'idea di dare alla mia lettera una pubblicità più vasta, più risonante, pubblicandola su un giornale.


"L'Aurore" aveva già preso partito, con un'indipendenza, un coraggio ammirevoli, e naturalmente mi rivolsi a loro. Da quel giorno, quel quotidiano è diventato per me il rifugio, la tribuna di libertà e di verità dalla quale ho potuto dire tutto. Conservo verso il direttore, Ernest Vaugham, una grande riconoscenza. Dopo la vendita de "L'Aurore" in ben trecentomila copie, e i procedimenti giudiziari che seguirono, l'opuscolo rimase addirittura in magazzino. D'altra parte, all'indomani dell'atto che avevo deciso e compiuto, mi sembrò doveroso serbare il silenzio, nell'attesa del mio processo e delle conseguenze che ne speravo.


Mi permette, Signor presidente, nella mia gratitudine per la benevola accoglienza che Lei un giorno mi ha riservato, di darmi pensiero della Sua gloria e di dirle che la Sua stella, finora così luminosa, è minacciata da una macchia assolutamente vergognosa e incancellabile?

Lei è uscito sano e salvo dalle vili calunnie, ha conquistato i cuori. E' apparso raggiante nell'apoteosi di questa festa patriottica che l'alleanza russa è stata per la Francia, e ora si prepara a presiedere al trionfo solenne della nostra Esposizione universale che coronerà il nostro grande secolo di lavoro, di verità e di libertà. Ma quale macchia di fango sul Suo nome - starei per dire sul Suo regno - rappresenta questo abominevole caso Dreyfus! Un tribunale militare ha appena osato, in seguito a un ordine, assolvere un Esterhazy, schiaffo supremo a qualsiasi verità, a qualsiasi giustizia. E' finita, la Francia ha sul volto questa sozzura, la storia scriverà che proprio sotto la sua presidenza è stato possibile commettere un crimine del genere.


Poiché essi hanno osato, oserò anch'io. La verità io la dirò, perché ho promesso di dirla, se la giustizia, dopo regolare processo, non l'avesse acclarata, piena e intera. E' mio dovere parlare, non intendo rendermi complice. Le mie notti sarebbero ossessionate dallo spettro dell'innocente che espia laggiù, con la tortura più orribile, un crimine che non ha commesso.


E' a Lei, Signor presidente, che io la griderò questa verità e con tutta la forza della mia ribellione di galantuomo. Per il Suo onore, sono convinto che Lei la ignori. E a chi potrei mai denunciare la turba malefica dei veri colpevoli se non a Lei, primo magistrato del paese?

Prima di tutto, la verità sul processo e sulla condanna di Dreyfus.


Un individuo nefasto ha diretto tutto, ha fatto tutto, ed è il tenente colonnello du Paty de Clam, allora semplice comandante. Il caso Dreyfus è lui; un caso che sarà possibile comprendere soltanto dopo che un'inchiesta leale avrà stabilito con esattezza le azioni e le responsabilità di costui. Appare come un animo quanto mai fumoso, quanto mai complicato, con l'ossessione degli intrighi romanzeschi, che si compiace dei mezzi cari al romanzo d'appendice, i documenti rubati, le lettere anonime, gli appuntamenti in luoghi appartati, donne misteriose che riferiscono, di notte, prove schiaccianti. E' lui quello che ebbe l'idea di dettare il "bordereau" a Dreyfus; è lui quello che sognava di chiuderlo dentro una stanza completamente rivestita di vetri per osservarlo; è lui quello che il comandante Forzinetti ci rappresenta armato di una lanterna cieca, deciso a farsi introdurre nella cella dell'accusato immerso nel sonno, per proiettargli sul viso un brusco fiotto di luce e smascherare così il suo crimine, nella confusione del risveglio. E non occorre che io dica tutto, chi vuole cerchi, e troverà. Mi limito a dichiarare che il comandante du Paty de Clam, incaricato di istruire il caso Dreyfus come ufficiale giudiziario, è, in ordine di date e di responsabilità, il primo colpevole del tremendo errore giudiziario che è stato commesso.


Il "bordereau" era già da qualche tempo nelle mani del colonnello Sandherr, direttore dell'ufficio informazioni, in seguito morto di paralisi. Avvenivano "fughe", sparivano carte, come ne spariscono ancora oggi; e l'autore del "bordereau" era ricercato, quando a poco a poco nacque l'idea, a priori, il concetto che quell'autore altri non potesse essere che un ufficiale dello Stato maggiore e per di più di artiglieria: doppio errore manifesto, che mostra con quale superficialità era stato studiato quel "bordereau", poiché un esame ragionato dimostra che doveva invece trattarsi di un ufficiale di fanteria.


Si cercava dunque in casa, si esaminavano le grafie, era un po' un affare di famiglia, un traditore da smascherare dentro gli uffici stessi, per espellerlo. Ed ecco, senza ripercorrere qui per intero una storia in parte già nota, che non appena un primo sospetto cade su Dreyfus, entra in scena il comandante du Paty de Clam. Da quel momento, è lui che inventa Dreyfus, il caso diventa il suo caso, egli si dice sicuro di confondere il traditore, di indurlo a rendere piena confessione. C'è pure il ministro della Guerra, generale Mercier, la cui intelligenza sembra mediocre; c'è il capo dello Stato maggiore, generale de Boisdeffre, che sembra abbia ceduto al suo fanatismo clericale, e il vicecapo dello Stato maggiore, generale Gonse, la cui coscienza si è adattata facilmente a una quantità di cose. Ma, in sostanza, da principio c'è soltanto il comandante du Paty de Clam, che li manovra tutti, li ipnotizza, visto che si occupa anche di spiritismo, di occultismo, e conversa con gli spiriti. Sembrerebbero inconcepibili le esperienze alle quali ha sottoposto il malcapitato Dreyfus, i tranelli in cui ha cercato di farlo cadere, le inchieste folli, le fantasie mostruose, frutto di una demenza straziante.


Ah! questa prima fase è un incubo, per chi ne conosce veramente i dettagli! Il comandante du Paty de Clam arresta Dreyfus, lo mette in cella di rigore. Corre a casa della signora Dreyfus, la terrorizza, le dice che, se lei parla, suo marito è perduto. Nel frattempo, l'infelice si strappava i capelli, urlava la sua innocenza. E l'istruttoria è stata condotta così, come in una cronaca del quindicesimo secolo, nel più assoluto mistero, con la complicazione di truci espedienti, il tutto basato su un'unica accusa infantile, quel ridicolo "bordereau", che non era soltanto un volgare tradimento, ma era anche una frode di impudenza inaudita, perché i famosi segreti venduti erano tutti, o quasi, privi di valore. Se insisto, è perché è qui il nocciolo dal quale uscirà in seguito il vero crimine, lo spaventoso rifiuto di giustizia di cui la Francia è malata. Vorrei far toccare con mano come si è potuto produrre l'errore giudiziario, come sia nato dalle macchinazioni del comandante du Paty de Clam, come il generale Mercier, i generali de Boisdeffre e Gonse abbiano potuto lasciarsi invischiare, abbiano potuto impegnare un po' alla volta la loro responsabilità in questo errore che, in seguito, hanno ritenuto loro dovere imporre come verità sacrosanta, una verità da non mettere neppure in discussione. All'inizio, quindi, da parte loro c'è stata soltanto incuria e mancanza d'intelligenza. Tutt'al più, si ha l'impressione che abbiano ceduto al fanatismo religioso dell'ambiente e ai pregiudizi dello spirito di corpo. Hanno lasciato commettere una bestialità.


Ma ecco Dreyfus dinnanzi al tribunale militare. Si esige nel modo più assoluto che l'udienza sia a porte chiuse. Neppure se un traditore avesse aperto le frontiere al nemico, per condurre l'imperatore tedesco fino a Notre Dame, si sarebbero prese misure di silenzio e di mistero così rigorose. La nazione è allibita per lo stupore; sente voci di fatti terribili, di tradimenti mostruosi, tali da indignare la storia; e, naturalmente, s'inchina. Non c'è castigo che le sembri abbastanza severo, applaude alla degradazione pubblica, approva che il colpevole resti sulla sua rupe d'infamia, divorato dai rimorsi. Sono vere le cose indicibili, pericolose, capaci di mettere in fiamme l'Europa, che è stato necessario seppellire con cura dietro quelle porte chiuse? Macché! dietro quelle porte, c'era soltanto la fantasia romanzesca e demente del comandante du Paty de Clam. Tanta messinscena al solo fine di nascondere un assurdo romanzo d'appendice. Per assicurarsene, basta leggere con attenzione l'atto d'accusa, letto davanti al tribunale militare.


Ah! l'inconsistenza di quell'atto d'accusa! Che si sia potuto condannare qualcuno in base a un atto come quello, è un autentico prodigio d'iniquità. Sfido la gente onesta a leggerlo senza fremere d'indignazione e senza levare un grido di rivolta al pensiero dell'espiazione smisurata, laggiù all'isola del Diavolo.


Dreyfus conosce diverse lingue, delitto; in casa sua non si sono trovate delle carte compromettenti, delitto; si reca talvolta nel suo paese d'origine, delitto; è laborioso, si preoccupa di sapere tutto, delitto; non si scompone, delitto; si scompone, delitto. E le ingenuità di redazione, le asserzioni formali campate in aria!

Avevamo sentito parlare di quattordici capi d'accusa: stringi stringi, ne troviamo uno solo, quello del "bordereau"; e veniamo addirittura a sapere che gli esperti non erano d'accordo, che uno di loro, Gobert, è stato strapazzato militarmente per essersi permesso di non concludere nel senso desiderato. Si è anche parlato di ventitré ufficiali che avevano contribuito a schiacciare Dreyfus con la loro testimonianza. Non conosciamo ancora i loro interrogatori, ma è certo che non tutti l'avevano accusato; e non va dimenticato, inoltre, che appartenevano tutti agli uffici del ministero della Guerra. Un processo di famiglia, insomma, svoltosi tra quattro mura, ed è bene tenerlo presente; lo Stato maggiore ha voluto il processo, ha giudicato e ha appena finito di giudicare per la seconda volta.


Come dicevo, non rimane che il "bordereau", su cui gli esperti non si sono trovati d'accordo. Si dice che, in camera di consiglio, i giudici intendessero assolvere, naturalmente. E, di conseguenza, è più che comprensibile l'ostinazione disperata con la quale, per giustificare la condanna, si afferma oggi l'esistenza di un documento segreto, schiacciante, il documento che non è possibile mostrare, che legittima tutto, davanti al quale dobbiamo inchinarci, il buon Dio invisibile e inconoscibile. Io lo nego, questo documento, lo nego con tutte le mie forze! Un ridicolo pezzo di carta, sì, dove forse si parla di donnicciole, e in cui si accenna a un certo D. diventato troppo esigente: qualche marito, scommetto, che accampava pretese perché la moglie non gli veniva pagata a sufficienza. Ma un documento interessante ai fini della difesa nazionale, che sarebbe impossibile produrre senza che all'indomani venisse dichiarata la guerra, no, no! è una menzogna!

E una menzogna tanto più odiosa e cinica in quanto costoro mentono impunemente senza che sia possibile accusarli di falso.


Ammutinando la Francia, si nascondono dietro il suo legittimo turbamento, sconvolgono i cuori e pervertono gli spiriti pur di chiudere le bocche. Non esiste crimine civico peggiore di questo.


Ecco, Signor presidente, i fatti che spiegano come si sia potuto commettere un errore giudiziario; e le prove morali, le condizioni patrimoniali di Dreyfus, l'assenza di moventi, il suo continuo grido d'innocenza non fanno che mostrarcelo come una vittima della straordinaria fantasia del comandante du Paty de Clam, dell'ambiente clericale in cui questi si muove, della caccia agli "sporchi ebrei" che disonora la nostra epoca.


E veniamo al caso Esterhazy. Sono passati tre anni e molte coscienze continuano a essere profondamente turbate, si tormentano, cercano, finiscono per convincersi dell'innocenza di Dreyfus.


Non farò la storia dei dubbi, poi della convinzione del senatore Scheurer-Kestner. Ma, mentre dal canto suo egli indagava, nello Stato maggiore stesso accadevano fatti gravi. Il colonnello Sandherr era morto, e a capo dell'ufficio informazioni gli era succeduto il tenente colonnello Picquart. E a questo titolo, ossia nell'esercizio delle sue funzioni, quest'ultimo si trovò un giorno tra le mani una lettera-telegramma, indirizzata al comandante Esterhazy da parte di un agente di una potenza straniera. Era suo preciso dovere aprire un'inchiesta. Quel che è certo è che egli non ha mai agito in contrasto con la volontà dei suoi superiori.


Di conseguenza, sottopose i suoi aspetti ai suoi diretti superiori gerarchici, il generale Gonse, poi il generale de Boisdeffre, infine il generale Billot che, nel frattempo, era succeduto al generale Mercier come ministro della Guerra. Il famoso dossier Picquart, di cui si è tanto parlato, altro non era, in sostanza, che il dossier Billot, vale a dire l'incartamento preparato da un subordinato per il suo ministro, incartamento che deve esistere tuttora al ministero della Guerra. Le ricerche durano dal maggio al settembre 1896 e, particolare che va proclamato a gran voce, il generale Gonse era convinto della colpevolezza di Esterhazy, così come i generali de Boisdeffre e Billot non mettevano affatto in dubbio che il "bordereau" fosse di pugno di Esterhazy. L'inchiesta del tenente colonnello Picquart era approdata a questa constatazione certa. L'ansia, tuttavia, era grande, poiché la condanna di Esterhazy traeva con sé inevitabilmente la revisione del processo Dreyfus; e questo, lo Stato maggiore voleva evitarlo a qualunque costo.


Dev'essersi trattato di un momento psicologico pieno d'angoscia.


Tenga presente che il generale Billot non era minimamente compromesso, era giunto da poco, poteva fare piena luce. Non osò, sicuramente per paura dell'opinione pubblica, altrettanto sicuramente per paura di doverle dare in pasto l'intero Stato maggiore, il generale di Boisdeffre, il generale Gonse, per non parlare dei subalterni. Poi, tra la sua coscienza e ciò che riteneva essere l'interesse militare, si creò un conflitto, che sarà durato un minuto al massimo. Trascorso quel minuto, ahimè!

era già troppo tardi. Billot si era ormai impegnato, era compromesso. E, da allora, la sua responsabilità non ha fatto altro che aumentare, egli ha preso a suo carico i crimini altrui, è colpevole quanto gli altri, anzi è più colpevole, perché è stato padrone di far giustizia, e non ha fatto niente. Se ne rende conto? E' un anno, ormai, che il generale Billot, che i generali de Boisdeffre e Gonse sanno che Dreyfus è innocente e hanno serbato per sé questa spaventosa realtà! E costoro dormono, e hanno mogli e figli che amano!

Il tenente colonnello Picquart aveva compiuto il suo dovere di galantuomo. Egli insisteva presso i suoi superiori, in nome della giustizia. Li supplicava, perfino, facendo notare quanto i loro indugi fossero impolitici, di fronte alla terribile tempesta che si addensava via via, che non poteva non scoppiare, una volta che la verità fosse venuta a galla. Lo stesso linguaggio, in seguito, lo usò il senatore Scheurer-Kestner nei confronti del generale Billot, scongiurandolo in nome del patriottismo di prendere le redini del caso, di non permettere che si aggravasse al punto da trasformarsi in un pubblico disastro. No! il crimine era stato commesso, lo Stato maggiore non poteva più confessarlo. E il tenente colonnello Picquart venne mandato in missione, allontanato sempre di più, fino in Tunisia dove, un giorno, vollero addirittura onorare il suo coraggio affidandogli una missione che sicuramente l'avrebbe condotto al massacro, nei paraggi in cui ha trovato la morte il marchese de Morès. Non era in disgrazia; il generale Gonse era in cordiale corrispondenza con lui. Solo che ci sono segreti di cui non conviene essere a conoscenza.


A Parigi, la verità si faceva strada, irresistibile, e sappiamo bene in che modo la tempesta attesa scoppiò. Mathieu Dreyfus denunciava il comandante Esterhazy come vero autore del "bordereau" e, contemporaneamente, il senatore Scheurer-Kestner consegnava nelle mani del guardasigilli una domanda di revisione del processo. Ed è qui che appare in scena il comandante Esterhazy. Alcune testimonianze ce lo mostrano dapprima sconvolto, pronto al suicidio o alla fuga. Poi, di punto in bianco, gioca d'audacia, sbalordisce Parigi con la violenza del suo atteggiamento. In realtà qualcuno gli era venuto in soccorso, aveva ricevuto una lettera anonima che lo avvertiva degli intrighi dei suoi amici, una dama misteriosa si era addirittura presa il disturbo, nottetempo, di consegnargli un documento sottratto allo Stato maggiore, un documento che lo avrebbe salvato. E non posso fare a meno di ritrovare in tutto questo il tenente colonnello du Paty de Clam, poiché riconosco gli espedienti della sua fertile immaginazione. La sua opera, la colpevolezza di Dreyfus, era in pericolo e senza dubbio avrà voluto difendere la propria opera. La revisione del processo? Ma significava il crollo del romanzo d'appendice così grottesco e tragico, la cui conclusione abominevole si svolge all'isola del Diavolo! E lui certo non poteva permetterlo. Da quel momento, il duello ha per protagonisti il tenente colonnello Picquart e il tenente colonnello du Paty de Clam, l'uno a viso scoperto, l'altro mascherato. Prossimamente, li ritroveremo entrambi davanti alla giustizia civile. In realtà, è sempre lo Stato maggiore quello che si difende, che non può confessare il suo delitto, di un abominio che cresce di ora in ora.


Qualcuno si è chiesto, con stupore, quali siano i protettori del comandante Esterhazy. Prima di tutto, nell'ombra, c'è il tenente colonnello du Paty de Clam che ha macchinato e diretto tutto. Che ci sia la sua mano, lo rivelano i mezzi bizzarri. Poi, c'è il generale de Boisdeffre, c'è il generale Gonse, c'è lo stesso generale Billot, che sono assolutamente obbligati a far assolvere il comandante, poiché non possono permettere che venga riconosciuta l'innocenza di Dreyfus senza che il ministero della Guerra venga sommerso dal pubblico biasimo. E il bel risultato di questa situazione che ha del prodigioso è che il galantuomo, là in mezzo, l'unico che abbia fatto il suo dovere, finisce per essere la vittima, quello che dev'essere schernito e punito. O giustizia, quanta desolante disperazione ci stringe il cuore! Si arriva al punto di asserire che è lui il falsario, che quel documento- telegramma l'ha fabbricato lui, per perdere Esterhazy. Ma perché, gran Dio! a che scopo? Dateci un motivo. Forse pure lui sarebbe stato pagato dagli ebrei? Il lato più divertente è che si tratta, per l'appunto, di un antisemita. Sì! assistiamo a questo spettacolo infame e cioè che si proclama l'innocenza di individui carichi di debiti e di reati, mentre si colpisce l'onore stesso, ossia un uomo dalla vita integerrima! Quando una società arriva a tanto, cade in decomposizione.


Ecco, Signor presidente, questo è il caso Esterhazy: un colpevole da dichiarare innocente a tutti i costi. Da ben due mesi, possiamo seguire ora per ora la bella impresa. Abbrevio, perché questo è soltanto il riassunto, per sommi capi, di una storia le cui pagine roventi verranno scritte un giorno per esteso. E abbiamo visto prima il generale de Pellieux, poi il comandante Ravary, condurre un'inchiesta scellerata da cui i mascalzoni escono trasfigurati e la gente onesta infangata. Infine, è stato convocato il tribunale militare.


Come si poteva sperare che un tribunale militare disfacesse ciò che un tribunale militare aveva fatto?

Non accenno neanche alle scelte sempre possibili dei giudici. Il concetto superiore di disciplina, che quei soldati hanno nel sangue, non è già sufficiente in sé a infirmare il loro potere d'equità? Chi dice disciplina, dice obbedienza. Quando il ministro della Guerra, il capo supremo, ha stabilito pubblicamente, tra le acclamazioni della rappresentanza nazionale, l'autorità del giudizio dato, vuole che un consiglio di guerra gli dia una smentita formale? E' gerarchicamente impossibile. Il generale Billot con la sua dichiarazione ha suggestionato i giudici ed essi hanno giudicato così come si va all'attacco, senza ragionare.


L'opinione preconcetta che essi hanno portato sui loro scranni, è stata evidentemente: "Dreyfus è stato condannato per alto tradimento da un tribunale militare, ragion per cui è colpevole; e noi, tribunale militare, non possiamo certo dichiararlo innocente; ora, sappiamo bene che riconoscere la colpevolezza di Esterhazy equivarrebbe a proclamare l'innocenza di Dreyfus". Niente li poteva smuovere da quell'atteggiamento.


Hanno emesso una sentenza iniqua, che peserà per sempre sui nostri tribunali militari, che d'ora in poi vizierà tutte le loro sentenze come sospette. Il primo tribunale militare potrebbe anche avere peccato di poca intelligenza, il secondo è per forza di cose criminale. La sua scusa, lo ripeto, è che aveva parlato il capo supremo, dichiarando che il giudizio già espresso era inattaccabile, santo al di sopra degli uomini, ragion per cui chi era al di sotto non poteva sostenere il contrario. Ci parlano dell'onore dell'esercito, vogliono che lo amiamo, che lo rispettiamo. Ah sì, certo, l'esercito che insorgerebbe alla prima minaccia, quello che difenderebbe la terra francese, rappresenta il popolo tutto, e per esso non possiamo che avere tenerezza e rispetto. Ma non si tratta dell'esercito, di cui, nel nostro bisogno di giustizia, vogliamo per l'appunto la dignità. Si tratta del potere militare, il padrone che domani, forse, ci sarà dato. E baciare devotamente il pugno di ferro del potere militare, del dio, questo no!

Del resto, l'ho dimostrato: il caso Dreyfus era il caso degli uffici del ministero della Guerra, di un ufficiale dello Stato maggiore denunciato dai suoi colleghi dello Stato maggiore e condannato sotto la pressione dei capi dello Stato maggiore. Lo ripeto ancora, egli non può tornare innocente senza che l'intero Stato maggiore sia colpevole. Così quegli uffici, con tutti i mezzi immaginabili, con le campagne di stampa, le comunicazioni, l'ascendente personale, hanno coperto Esterhazy solo e unicamente per perdere una seconda volta Dreyfus. Che repulisti dovrebbe fare il governo repubblicano in questo covo di gesuiti, come lo stesso generale Billot li definisce! Dov'è il ministero veramente forte e di un saggio patriottismo che oserà fare piazza pulita e rinnovare tutto? Quanta gente conosco che, al pensiero di una possibile guerra, trema d'angoscia sapendo in che mani è la difesa nazionale! e che nido di bassi intrighi, di pettegolezzi e di dilapidazioni è diventato quel dannato manicomio nel quale si decidono le sorti della patria! C'è da tremare al pensiero della luce orribile che vi ha appena gettato il caso Dreyfus, vero sacrificio umano di un infelice, di uno "sporco ebreo"! Ah! che cosa non si agitava là dentro di demenza e di idiozia, di fantasie assurde, di pratiche di bassa polizia, di comportamenti da inquisizione, da tirannide, e tutto perché pochi gallonati potessero mettersi sotto gli stivali la nazione, cacciandole in gola la sua invocazione di verità e di giustizia col pretesto menzognero e sacrilego della ragion di stato!

Ed è un delitto anche l'essersi appoggiati alla stampa ignobile, l'essersi lasciati difendere da tutta la teppaglia di Parigi, per cui eccola che trionfa insolentemente, la teppaglia, di fronte alla disfatta del diritto e della semplice probità. E' un delitto aver accusato di turbare la Francia quelli che la vogliono generosa, alla testa delle nazioni libere e giuste, quando gli accusatori stessi ordinavano l'impudente complotto di imporre l'errore davanti al mondo intero. E' un delitto fuorviare l'opinione pubblica, utilizzarla per un'impresa di morte, quest'opinione pubblica, dopo averla pervertita al punto di farla delirare. E' un delitto avvelenare gli oscuri e gli umili, esasperare le passioni di reazione e d'intolleranza barricandosi dietro l'odioso antisemitismo, di cui la grande Francia liberale dei diritti dell'uomo morirà, se non ne è ancora guarita. E' un delitto sfruttare il patriottismo ai fini dell'odio, è un delitto, infine, fare del potere militare il dio moderno, quando tutta la scienza umana è al lavoro per il progresso della verità e della giustizia.


Questa verità, questa giustizia che abbiamo voluto con tanta passione, che angoscia vederle schiaffeggiare così, più misconosciute e oscurate che mai! Immagino il crollo che ci sarà stato nell'animo di Scheurer-Kestner, e sono certo che egli finirà per provare un rimorso, quello di non aver agito in modo rivoluzionario, il giorno dell'interpellanza al Senato, lanciando l'intero pacchetto per fare piazza pulita. Ha voluto agire da quel gran galantuomo che è stato in tutta la sua leale vita, si è illuso che la verità bastasse a se stessa, dato soprattutto che a lui appariva chiara come la luce del giorno. A che scopo turbare gli animi, se da un momento all'altro avrebbero visto splendere il sole? Ed è proprio per questa fiduciosa serenità che ora viene così crudelmente punito. Lo stesso si dica del tenente colonnello Picquart, il quale, per alto senso di dignità, non ha voluto pubblicare le lettere del generale Gonse. E questi scrupoli tanto più l'onorano in quanto, mentre lui si manteneva rispettoso della disciplina, i suoi superiori lo facevano coprire di fango, istruivano essi stessi il suo processo nel modo più inaspettato e più oltraggioso. Ci sono due vittime, due brave persone, due cuori semplici, che hanno lasciato fare a Dio intanto che il diavolo era all'opera. E nel caso del tenente colonnello Picquart si è assistito addirittura a questa cosa ignobile: che un tribunale francese, dopo avere permesso al giudice relatore di incriminare pubblicamente un testimone e di gettare su di lui tutte le colpe, ha poi proceduto a porte chiuse quando questo testimone è stato chiamato a spiegarsi e a difendersi. Io dico che questo è un delitto in più e che questo delitto solleverà la coscienza universale. Decisamente, i tribunali militari hanno un concetto singolare della giustizia.


Questa è dunque la pura verità, Signor presidente, ed è spaventosa, e rimarrà una macchia per la sua presidenza. Sono convinto che Lei non ha alcun potere in questa faccenda, che è prigioniero della Costituzione nonché del suo entourage. Ciò nondimeno Lei ha un dovere d'uomo, al quale pensare, e da adempiere. D'altronde, non creda che io disperi minimamente del trionfo. Lo ripeto con certezza più veemente: la verità è in cammino e niente potrà fermarla. Il caso comincia soltanto oggi, poiché oggi soltanto le posizioni sono nette: da una parte, i colpevoli i quali non vogliono che si faccia luce; dall' altra i giustizieri i quali daranno la vita perché luce sia fatta. Del resto, l'ho detto, e lo ripeto: quando la verità viene rinchiusa sotto terra, ci si ammassa, acquista una forza d'esplosione tale che, quando scoppia, tutto salta in aria. Poi vedremo se non è vero che si sono create le premesse di un'esplosione che, quando avverrà, sarà totale.


Ma questa lettera è lunga, Signor presidente, ed è tempo di concludere.


Accuso il tenente colonnello du Paty de Clam di essere stato l'artefice diabolico dell'errore giudiziario, incoscientemente, voglio sperare, e di avere in seguito difeso la sua opera nefasta, per ben tre anni, ricorrendo alle macchinazioni più bizzarre e più colpevoli.


Accuso il generale Mercier di essersi reso complice, non fosse che per debolezza di spirito, di una delle peggiori iniquità del secolo.


Accuso il generale Billot di aver avuto tra le mani le prove certe dell'innocenza di Dreyfus e di averle soffocate, di essersi reso colpevole del delitto di lesa umanità e di lesa giustizia, a fini politici e per salvare lo Stato maggiore.


Accuso il generale de Boisdeffre e il generale Gonse di essersi resi complici dello stesso delitto, l'uno sicuramente per fanatismo clericale, l'altro forse per quello spirito di corpo che fa degli uffici del ministero della Guerra l'arca santa, inattaccabile.


Accuso il generale de Pellieux e il comandante Ravary di aver condotto un'inchiesta scellerata, intendo, con questo, dominata dalla parzialità più mostruosa, di cui, nel rapporto del secondo, abbiamo un monumento imperituro di ingenua audacia.


Accuso i tre esperti calligrafi, i signori Belhomme, Varinard e Couard, di aver fatto rapporti menzogneri e fraudolenti, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da malattie della vista e del giudizio.


Accuso gli uffici del ministero della Guerra di aver condotto sulla stampa, e in particolare su "L'Eclair" e "L'Echo de Paris", una campagna abominevole, per fuorviare l'opinione pubblica e nascondere la propria colpa.


Accuso infine il primo tribunale militare di aver violato il diritto, condannando un accusato in base a un documento rimasto segreto, e accuso il secondo tribunale militare di avere coperto, in obbedienza agli ordini, questa illegalità, commettendo a sua volta il delitto giuridico di assolvere scientemente un colpevole.


Nel muovere queste accuse, non ignoro affatto di incorrere negli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce i reati di diffamazione. E vi incorro per mia precisa volontà.


Quanto alle persone che accuso, non le conosco, non le ho mai viste, non ho contro di loro né rancore né odio. Per me sono soltanto delle identità, degli spiriti di malvagità sociale. E l'atto che qui io compio altro non è che un mezzo rivoluzionario per affrettare l'esplosione della verità e della giustizia.


Sono mosso da un'unica passione, che si faccia luce, in nome dell'umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità.


La mia infiammata protesta è soltanto il grido della mia anima.


Osino pure, perciò, tradurmi in Corre d'assise, e che l'inchiesta si svolga sotto gli occhi di tutti!

Aspetto, Voglia gradire, Signor presidente, l'espressione del mio profondo rispetto.




DICHIARAZIONE AI GIURATI


Pubblicata su "L'Aurore" il 22 febbraio 1898.


L'avevo letta la vigilia, il 21 febbraio, davanti alla giuria che mi doveva condannare. Il 13 gennaio, cioè il giorno stesso in cui venne pubblicata la mia Lettera, la Camera, con 312 voti contro 122, aveva deciso di procedere contro di me. Il 18, il generale Billot, ministro della Guerra, aveva sporto querela nelle mani del ministro della Giustizia. Il 20 ricevetti la citazione, che di tutta la mia Lettera rilevava soltanto una quindicina di righe. Il 7 febbraio si aprì il dibattimento che occupò quindici udienze, fino al 23, giorno in cui fui condannato a un anno di prigione e a tremila franchi di ammenda. Faccio presente che, dal canto loro, i tre esperti, Belhomme, Varinard e Couard, mi intentarono, il 21 gennaio, un processo per diffamazione.


Signori giurati, alla Camera, nella seduta del 22 gennaio, il presidente del Consiglio dei ministri, Méline, ha dichiarato, tra gli applausi frenetici della sua compiacente maggioranza, che aveva fiducia nei dodici cittadini nelle mani dei quali rimetteva la difesa dell'esercito. Parlava di voi, signori. E, come già il generale Billot aveva dettato la sentenza al tribunale militare, incaricato di assolvere il comandante Esterhazy, col dare a ufficiali subordinati, dall'alto della sua tribuna, la consegna militare dell'indiscutibile rispetto del giudicato, così Méline ha voluto darvi l'ordine di condannarmi in nome del rispetto dell'esercito, che egli mi accusa d'avere oltraggiato. Denuncio alla coscienza delle persone oneste questa pressione dei pubblici poteri sulla giustizia del paese. Siamo di fronte a un costume politico abominevole che disonora una nazione libera.


Vedremo, signori, se obbedirete. Ma non è affatto vero che io sia qui, davanti a voi, per volontà del presidente Méline. Se egli ha ceduto alla necessità di perseguirmi, lo ha fatto con suo gran turbamento, nel terrore del nuovo passo che la verità in cammino avrebbe compiuto. Questo lo sanno tutti. Se sono davanti a voi, e perché io l'ho voluto. Io solo ho deciso che l'oscura, la mostruosa questione venisse affidata alla vostra giurisdizione, e sono stato io che, di mia iniziativa, ho scelto voi, l'emanazione più alta e più diretta della giustizia francese, affinché la Francia sappia tutto e si pronunci. Il mio atto non ha avuto altro scopo e la mia persona non conta; ne ho fatto il sacrificio, soddisfatto unicamente di aver messo nelle vostre mani non soltanto l'onore dell'esercito, ma l'onore in pericolo di tutta la nazione.


Dovreste perdonarmi, dunque, se nelle vostre coscienze non è ancora stata fatta piena luce. Non dipenderebbe da me. Sembrerebbe che io faccia un sogno, nel volervi portare tutte le prove, nello stimarvi i soli degni, i soli competenti. Hanno cominciato a togliervi con la sinistra quello che fingevano di darvi con la destra. Ostentavano di accettare la vostra giurisdizione, ma se alcuni confidavano in voi per vendicare i membri di un tribunale militare, altri ufficiali restavano intangibili, superiori alla vostra stessa giustizia. Capisca chi può. E' l'assurdità dell'ipocrisia e l'evidenza lampante che ne scaturisce è che si è dubitato del vostro buon senso, che non si è osato correre il pericolo di lasciarci dire tutto e di lasciarvi giudicare tutto.


Asseriscono di aver voluto limitare lo scandalo; e cosa ne pensate, di questo scandalo, del mio atto che consisteva nel mettervi al corrente del caso, nel volere che fosse il popolo, incarnato in voi, a fungere da giudice? Asseriscono inoltre che non potevano accettare una revisione mascherata, confessando in tal modo di non avere, in fondo, che un solo timore, quello del vostro controllo sovrano. La legge, in voi, trova la sua rappresentazione totale; ed è la legge del popolo eletto quella che ho desiderato, che rispetto profondamente, da buon cittadino, non già la procedura ambigua, grazie alla quale hanno sperato di beffare voi per primi. Eccomi scusato, signori, d'avervi distolto dalle vostre occupazioni, senza avere avuto il potere di inondarvi di quella luce totale che io sognavo. Che si facesse luce, completamente, non ho avuto che questo desiderio. E questo dibattimento ve l'ha appena dimostrato: abbiamo dovuto lottare, passo passo, contro una volontà di tenebre incredibilmente tenace.


Abbiamo dovuto lottare per afferrare qualche brandello di verità, hanno discusso su tutto, ci hanno rifiutato tutto, hanno terrorizzato i nostri testimoni, nella speranza d'impedirci di dare la prova. Ed è solo per voi che ci siamo battuti, perché questa prova vi venisse sottoposta intera, affinché poteste pronunciarvi senza rimorsi, nella vostra coscienza. Sono certo, perciò, che terrete conto dei nostri sforzi e che, d'altronde, si è potuto fare luce a sufficienza. Avete ascoltato i testimoni, ora ascolterete il mio difensore, il quale vi dirà la storia vera, quella storia che fa perdere la testa a tutti e che nessuno conosce. Ed eccomi tranquillo, ora la verità è in voi: e agirà.


Il presidente Méline, dicevo, ha creduto di dettarvi la sentenza, affidandovi l'onore dell'esercito. Ed è in nome di questo onore dell'esercito che, a mia volta, io mi appello alla vostra giustizia. Do al presidente Méline la più formale smentita, io non ho mai oltraggiato l'esercito. Ho espresso, al contrario, il mio affetto, il mio rispetto per la nazione in armi, per i nostri cari soldati di Francia, che insorgerebbero alla prima minaccia, che difenderebbero il suolo francese. Ed è altrettanto falso che io abbia attaccato i capi, i generali che li condurrebbero alla vittoria. Se qualcuno negli ambienti del ministero della Guerra ha compromesso anche l'esercito con il suo modo d'agire, dirlo equivarrebbe forse a insultare l'esercito nel suo insieme? O non è piuttosto fare opera di buon cittadino svincolarlo da qualsiasi compromesso, gettare il grido d'allarme affinché gli errori che, soli, ci hanno indotto a batterci, non si ripetano e non ci conducano a nuove sconfitte? Del resto io non mi difendo, lascio alla storia la cura di giudicare il mio atto, che era necessario.


Ma affermo che lo si disonora, l'esercito, quando si permette che i gendarmi abbraccino il comandante Esterhazy dopo le lettere abominevoli che egli ha scritto. Affermo che questo valoroso esercito viene insultato ogni giorno dai banditi che, con il pretesto di difenderlo, lo insozzano della loro vile complicità, trascinando nel fango tutto quello che la Francia conta ancora di buono e di grande. Affermo che sono loro a disonorarlo, questo grande esercito nazionale, quando mescolano il grido di: "Viva l'esercito!" a quello di: "A morte gli ebrei!". E hanno gridato:

"Viva Esterhazy!". Gran Dio! il popolo di San Luigi, di Bayard, di Condé e di Hoche, il popolo che conta cento gigantesche vittorie, il popolo delle grandi guerre della repubblica e dell'Impero, il popolo la cui forza, grazia e generosità hanno abbagliato l'universo, che grida: "Viva Esterhazy!". E' un'onta da cui può lavarci soltanto il nostro sforzo di verità e di giustizia.


Conoscete la leggenda che si è creata. Dreyfus è stato condannato in modo giusto e legale da sette ufficiali infallibili, che non è permesso neppure sospettare d'errore senza offendere l'intero esercito. Espia con una tortura vendicatrice il suo orribile misfatto. E, poiché è ebreo, ecco che si crea un sindacato ebreo, un sindacato internazionale di senza patria, che dispongono di milioni a centinaia, con lo scopo di salvare il traditore a prezzo delle trame più impudenti. Da quel momento, questo sindacato non ha fatto che accumulare crimini, comprando le coscienze, gettando la Francia in preda a un'agitazione omicida, deciso a venderla al nemico, a mettere a fuoco l'Europa con una guerra generale piuttosto che rinunciare al suo spaventoso disegno. Ecco qua, è semplicissimo, perfino infantile e imbecille, come potete vedere.


Ma è di questo pane avvelenato che la stampa ignobile nutre il nostro povero popolo da mesi e mesi. E non c'è da meravigliarsi, se assistiamo a una crisi disastrosa, perché quando si insiste così nel seminare l'idiozia e la menzogna, è giocoforza raccogliere demenza.


Certo, signori, non vi farò l'affronto di credere che vi siate attenuti, finora, a queste favole per bambini. Vi conosco, so chi siete. Siete il cuore e la ragione di Parigi, della mia grande Parigi, dove sono nato, che amo di un affetto senza fine, che studio e canto da quasi quarant'anni. E so anche, in questo momento, quello che state pensando; poiché, prima di venirmi a sedere qui, come accusato, sono stato seduto là, sul banco che occupate voi. Il banco dove voi rappresentate l'opinione media, dove procurate d'impersonare, tutti insieme, la saggezza e la giustizia. Tra poco, il mio pensiero vi seguirà nella sala delle vostre deliberazioni, e sono convinto che il vostro sforzo sarà quello di salvaguardare il vostri interessi di cittadini che sono, per forza di cose, secondo voi, gli interessi di tutta la nazione.


Potrete sbagliarvi, ma vi sbaglierete nella convinzione di assicurare, assicurando il vostro bene, il bene di tutti.


Vi vedo nelle vostre famiglie, la sera, alla luce della lampada; vi sento discorrere con i vostri amici, vi accompagno nelle vostre officine, nei vostri negozi. Siete tutti lavoratori, commercianti gli uni, industriali gli altri, alcuni di voi esercitano libere professioni. E la vostra preoccupazione più che legittima è lo stato deplorevole in cui sono caduti gli affari. Ovunque la crisi attuale minaccia di diventare un disastro, gli incassi diminuiscono, le transazioni si fanno via via più difficili.


Ragion per cui il pensiero che avete portato in quest'aula, il pensiero che leggo sui vostri volti, è che se ne ha abbastanza, che è ora di finirla. Non siete arrivati a dire, come molti: "Che importa che un innocente sia all'isola del Diavolo? L'interesse di un singolo merita forse che venga turbata in questo modo una grande nazione?". Vi dite tuttavia che la nostra agitazione, di noi affamati di verità e di giustizia, viene pagata troppo a caro prezzo con tutto il male che ci si accusa di fare. E, se mi condannerete, signori, saranno solo questi i motivi alla base del vostro verdetto: il desiderio di calmare i vostri cari, il bisogno che gli affari riprendano, la convinzione che, colpendo me, metterete un freno a una campagna di rivendicazione nociva agli interessi della Francia.


Ebbene! signori, vi sbagliereste nel modo più assoluto. Vogliate farmi l'onore di credere che io qui non difendo la mia libertà.


Colpendomi, non fareste altro che ingigantirmi. Chi soffre per la verità e la giustizia diventa augusto e sacro. Guardatemi, signori: ho l'aria di un venduto, di un mentitore e di un traditore? Per quale motivo agirei, allora? Dietro di me non ho né ambizione politica né fanatismo di settario. Sono un libero scrittore, che ha dedicato la vita al lavoro, che domani rientrerà nei ranghi e riprenderà il lavoro interrotto. E quanto sono idioti quelli che mi danno dell'italiano, a me, nato da madre francese, allevato da nonni della Beauce, contadini di quella terra generosa, a me che ho perduto il padre a sette anni, che sono andato in Italia soltanto quando ne avevo cinquantaquattro, per documentare un libro. Il che non m'impedisce d'essere fiero che mio padre fosse di Venezia, la splendida città la cui antica gloria canta in tutti gli annali. E, quand'anche io non fossi francese, i quaranta volumi in lingua francese che ho seminato in milioni di esemplari nel mondo intero basterebbero, credo, a fare di me un francese, utile alla gloria della Francia!

Perciò, non mi difendo. Ma quale errore sarebbe il vostro, qualora foste convinti che, colpendo me, ristabilireste l'ordine nel nostro infelice paese! Non lo capite, ora, che il male di cui la nazione muore è proprio l'oscurità in cui ci si ostina a lasciarla, è l'equivoco in cui agonizza? Le colpe dei governanti si aggiungono alle colpe, una menzogna ne rende necessaria un'altra, sicché l'ammasso diventa spaventoso. E' stato commesso un errore giudiziario, e da quel momento, per nasconderlo, è stato necessario commettere ogni giorno un nuovo attentato al buon senso e all'equità. La condanna di un innocente ha portato con sé l'assoluzione di un colpevole; ed ecco che vi viene chiesto di condannarmi a mia volta, per avere gridato la mia angoscia nel vedere la patria su questo terrificante cammino. Condannatemi, dunque! ma sarà un errore di più, aggiunto agli altri, un errore di cui in seguito porterete il peso nella storia. E la mia condanna, lungi dal riportare la pace che desiderate, che tutti noi desideriamo, altro non sarà che un nuovo seme di passione e di disordine. Vi avverto, la misura è colma, non fatela traboccare.


Possibile che non vi rendiate esattamente conto della crisi tremenda che il paese attraversa? dicono che siamo noi gli autori dello scandalo, che sono gli amanti della verità e della giustizia a fuorviare la nazione, a spingerla alla sommossa. In verità, significa farsi beffe del mondo intero. Forse che il generale Billot, tanto per fare un nome, non è stato avvertito da ben diciotto mesi? Forse che il colonnello Picquart non ha insistito perché egli si occupasse della revisione, se voleva evitare che la tempesta scoppiasse e sconvolgesse tutto? Forse che il senatore Scheurer-Kestner non l'ha supplicato, con le lacrime agli occhi, di pensare alla Francia, di risparmiare una simile catastrofe? No, no! il nostro desiderio è stato di facilitare le cose, di attutirle, e, se il paese ora soffre, la colpa è del potere, il quale, desideroso di coprire i colpevoli e spinto da interessi politici, ha rifiutato tutto, sperando d'essere abbastanza forte per impedire che si facesse luce. Da quel giorno, ha manovrato sempre nell'ombra, in favore delle tenebre, ed è lui, lui solo, il responsabile del disperato turbamento che affligge le coscienze.


Il caso Dreyfus, ah! signori miei, è diventato ben piccola cosa nell'ora che viviamo, è ormai un fatto remoto e lontano, di fronte ai terrificanti problemi che ha sollevato. Qui non si tratta più del caso Dreyfus, si tratta di sapere se la Francia è ancora la Francia dei diritti dell'uomo, quella che ha donato la libertà al mondo e che doveva dargli giustizia. Siamo ancora il popolo più nobile, il più fraterno, il più generoso? Conserveremo, in Europa, la nostra fama di equità e di umanità? Allora, non sono queste tutte le conquiste che avevamo fatto, e che vengono rimesse in discussione? Aprite gli occhi e comprendetelo: per essere in preda a una simile confusione, bisogna che l'anima francese sia sconvolta fino nelle sue pieghe più profonde, di fronte a un terribile pericolo. Perché un popolo sia sconvolto in questo modo, è chiaro che la sua stessa vita morale è in pericolo. L'ora è di una gravità eccezionale, è in gioco la salvezza della nazione.


E quando avrete compreso questo, signori, avrete coscienza che il rimedio possibile è uno solo: dire la verità, rendere giustizia.


Tutto ciò che ritarderà la luce, tutto ciò che aggiungerà tenebre a tenebre, servirà solo a prolungare e ad aggravare la crisi. Il compito dei buoni cittadini, di quelli che sentono il bisogno imperioso di farla finita, è di esigere piena chiarezza. Siamo già in molti a pensarlo. Gli uomini di lettere, di filosofia e di scienza si levano da ogni dove, in nome dell'intelligenza e della ragione. E non vi parlo dell'estero, del brivido che si è propagato all'Europa tutta. Eppure, lo straniero non è sinonimo di nemico. Non parliamo dei popoli che possono essere domani nostri avversari. Ma la grande Russia, nostra alleata, ma la piccola e generosa Olanda, ma tutti i popoli amici del Nord, ma le terre di lingua francese, come la Svizzera e il Belgio, perché mai avrebbero il cuore grosso, traboccante di sofferenza fraterna?

Sognate forse una Francia isolata dal mondo? Volete che nessuno, quando passerete la frontiera, sorrida più alla vostra leggendaria buona fama di equità e d'umanità?

Ahimè, signori! come tanti altri, forse anche voi aspettate l'avvenimento imprevisto, la prova dell'innocenza di Dreyfus, che dovrebbe scendere dal cielo come la folgore. La verità non procede affatto così, di norma, vuole ricerca, vuole comprensione. La prova! sappiamo bene dove potremmo trovarla. Ma lo pensiamo soltanto nel segreto delle nostre anime, e la nostra angoscia patriottica è che ci si sia esposti a ricevere un giorno lo schiaffo di questa prova, dopo avere impegnato l'onore dell'esercito in una menzogna. Voglio inoltre dichiarare nettamente che, se abbiamo notificato come testimoni alcuni membri delle ambasciate, la nostra volontà formale era all'inizio di non citarli qui. Si è sorriso della nostra audacia. Non credo che ne abbiano sorriso al ministero degli Affari esteri, dove sicuramente hanno capito. Abbiamo semplicemente voluto dire, a quelli che sanno tutta la verità, che anche noi la sappiamo. Quella verità corre per le ambasciate, domani sarà conosciuta da tutti. E, per il momento, ci è impossibile andarla a cercare là dove si trova, protetta da formalità invalicabili. Il governo non ignora niente, il governo che è convinto, come noi, dell'innocenza di Dreyfus, potrà, quando lo vorrà e senza rischio, trovare i testimoni che finalmente faranno luce.


Dreyfus è innocente, lo giuro. Mi gioco la vita, mi gioco l'onore.


In quest'ora solenne, davanti a questo tribunale che rappresenta la giustizia umana, davanti a voi, signori giurati, che siete l'emanazione stessa della nazione, davanti a tutta la Francia, davanti al mondo intero, io giuro che Dreyfus è innocente. E, per i miei quarant'anni di lavoro, per l'autorità che questa fatica può avermi dato, giuro che Dreyfus è innocente. E, per tutto quello che ho conquistato, per il nome che mi sono fatto, per le mie opere che hanno contribuito all'espansione delle lettere francesi, giuro che Dreyfus è innocente, che tutto questo crolli, che le mie opere periscano, se Dreyfus non è innocente! E' innocente.


Tutto sembra essere contro di me, le due Camere, il potere civile, il potere militare, i giornali a grande tiratura, l'opinione pubblica che essi hanno avvelenata. E per me non ho che l'idea, un ideale di verità e di giustizia. Eppure sono tranquillissimo, vincerò.


Non ho voluto che il mio paese restasse nella menzogna e nell'ingiustizia. Qui, mi si può colpire. Un giorno, la Francia mi ringrazierà di aver contribuito a salvare il suo onore.




LETTERA A BRISSON, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI


Pubblicata su "L'Aurore" il 16 luglio 1898.


Si erano succeduti molti avvenimenti, che riassumerò rapidamente.


Il 2 aprile, la Corte di cassazione, presso la quale mi ero appellato, cassò la sentenza della Corte d'assise, dichiarando che era il tribunale militare, e non il ministero della Guerra, che doveva citarmi in giudizio. Il tribunale militare, riunitosi l'8, decise di perseguirmi, ed espresse inoltre l'auspicio che venissi radiato dai quadri della Legion d'onore. La nuova citazione, spiccata a suo nome, rilevava tre righe appena della mia Lettera.


Il 23 maggio, quindi, il processo ritornò davanti alla Corte d'assise di Versailles. Ma poiché il mio difensore, avvocato Labori, aveva sollevato eccezione di competenza, ed essendosi la Corte dichiarata competente, pervenimmo in cassazione, e il dibattimento si fermò. Infine, poiché il 16 giugno la Corte di cassazione aveva respinto il nostro ricorso, il 18 luglio dovemmo ricomparire davanti alla Corte d'assise di Versailles. D'altro canto, il 15 giugno il governo Méline era caduto, e gli era appena succeduto, il 28, il governo Brisson. - Il 9 luglio, i tre esperti, Belhomme, Varinard e Couard avevano ottenuto contro di me una condanna a due mesi di carcere, con la condizionale, a duemila franchi di ammenda e a cinquemila franchi di danni per ogni esperto.


Signor Brisson, Lei incarna la virtù repubblicana, Lei è l'alto simbolo dell'onestà civica. E, bruscamente, è precipitato nella mostruosa faccenda. Eccola spodestato dalla Sua sovranità morale, ridotto soltanto a un uomo fallibile e compromesso.


Che crisi paurosa e che infinita tristezza, per i pensatori solitari e silenziosi come me, che si accontentano di guardare e di ascoltare! Da quando appartengo alla giustizia del mio paese, mi sono fatto un dovere di tenermi in disparte da qualsiasi polemica; e se oggi cedo al bisogno imperioso di scriverle questa lettera, è perché ci sono momenti in cui le anime gridano da se stesse la loro angoscia. Ma nel mio silenzio, che dura da sei mesi, nel silenzio di altre coscienze, che sento fremere, quanta patriottica angoscia, quale agonia, nel vedere i migliori della nostra infelice Francia, tante persone intelligenti e oneste, insomma, chiudere un occhio su tutti i compromessi, abbandonare il loro onore di cittadini al vento di follia che soffia! E c'è da piangere, da chiedersi quale ecatombe di vittime importanti richiederà ancora la menzogna, prima che la verità si erga sul paese decimato, privato di quelli che noi riteniamo essere la sua probità e la sua forza.


Ogni mattina, da sei mesi, sento aumentare la mia sorpresa e il mio dolore. Non voglio nominare nessuno, ma li evoco, tutti quelli che amavo, che ammiravo, nei quali avevo riposto le mie speranze per la grandezza della Francia. Ce n'è nel Suo governo, signor Brisson, ce n'è nelle Camere, nelle lettere e nelle arti, in tutte le condizioni sociali. Ed è il mio eterno grido: come mai questo, come mai quello, come mai quell'altro non sono con noi, per l'umanità, per la verità, per la giustizia? Eppure sembravano d'intelligenza equilibrata, li credevo retti di cuore. C'è da perdere la ragione. Tanto più che, quando qualcuno tenta di spiegarmi la loro condotta con la necessità di certe astuzie politiche, capisco ancor meno. Poiché è più che certo, per chiunque abbia buon senso e sappia riflettere a freddo, che questi astuti corrono spensieratamente verso la loro perdita imminente, inevitabile, irreparabile.


La credevo troppo accorto, signor Brisson, per non essere convinto, come me, che nessun governo potrà mai durare finché il caso Dreyfus non sarà legalmente liquidato. C'è qualcosa di marcio, in Francia, la vita normale riprenderà solo quando si sarà fatta opera di risanamento. E aggiungo che il governo che opererà la revisione sarà il grande governo, il governo salvatore, quello che s'imporrà e che durerà. Lei si è perciò suicidato, fin dal primo giorno, nel ritenere forse di poter fondare il Suo potere solidamente e per lungo tempo. E il peggio è che, prossimamente, quando cadrà, avrà perso nell'avventura il Suo onore politico; perché io penso soltanto a Lei, non mi occupo dei Suoi subordinati, il ministro della Guerra e il ministro della Giustizia, di cui Lei è il capo responsabile.


Spettacolo lacrimevole, la fine di una virtù, il fallimento di un uomo in cui la Repubblica aveva riposto la sua illusione, convinta che uno come lui non avrebbe mai tradito la causa della giustizia, ma che, diventato il padrone, lascia assassinare la giustizia sotto i suoi occhi! Lei ha appena tradito l'ideale. E sarà punito, poiché tutto si paga.


Vediamo, signor Brisson, che specie di ridicola commedia d'inchiesta Lei ha autorizzato? Avevamo potuto credere che il famoso dossier sarebbe stato portato in Consiglio dei ministri, e che là vi sareste messi tutti a esaminarlo, addizionando le intelligenze, chiarendovi l'un l'altro le idee, discutendo i documenti così come dovevano essere discussi, scientificamente. E invece no, appare ben chiaro dal risultato che non c'è stato alcun controllo, che sicuramente non si è stabilita alcuna discussione seria, che il tutto si è risolto in una ricerca febbrile, nel dossier, non già della verità, ma dei soli documenti che potevano meglio combattere la verità, facendo colpo sui poveri di spirito.


E' nota, questa maniera di studiare un incartamento per estrarne quello che può, bene o male, avvalorare una convinzione ostinatamente preconcetta. Non si tratta di una certezza discussa e approvata, ma soltanto della testardaggine di un individuo, il quale agisce in tali condizioni di stato d'animo personale, di ambiente e di entourage, che la sua deposizione, storicamente, non ha alcun valore.


E guardi, inoltre, che risultato pietoso! Ma come! Non ha trovato altro? E, se non porta altro, con il desiderio furibondo che ha di vincere, è vero allora che non c'è altro, che il sacco è stato vuotato fino in fondo? Ma poi li conosciamo, i suoi tre documenti; conosciamo, soprattutto, quello che è stato prodotto in Corte d'assise, ed è proprio il falso più impudente, più grossolano, cui degli ingenui possono prestar fede. Quando penso che un generale è venuto a leggere seriamente ai giurati questa monumentale mistificazione, che è stato possibile trovare un ministro della Guerra per rileggerla ai deputati, e dei deputati per farla affiggere in tutti i comuni di Francia, rimango come un idiota.


Sono convinto che mai qualcosa di più sciocco lascerà una traccia nella storia. E mi chiedo sinceramente a quale stato di aberrazione il fanatismo possa ridurre alcuni individui, certo non più stupidi di altri, perché essi accordino il minimo credito a un documento che sembra essere la scommessa di un falsario, in procinto di beffare tutto e tutti.


Lei penserà, con ragione, che non intendo discutere gli altri due documenti. Siamo stanchi di farlo, di dimostrare che in nessun caso potrebbero adattarsi a Dreyfus. E, del resto, la necessità della revisione permane assoluta, dal momento che non sono stati notificati né all'accusato né alla difesa. L'illegalità è quanto meno formale; la Corte di cassazione deve annullare la sentenza del tribunale militare. Ma queste cose le conosce meglio di me, signor Brisson, ed è proprio questo che mi stupisce. Sapendole, come ha potuto ascoltare senza fremere le affermazioni appassionate del suo ministro della Guerra? Quale dramma, in quel momento, si è svolto nella sua coscienza? Crede, Lei, che la politica venga prima di tutto, che Le sia permesso di mentire, per assicurare al paese la salvezza che, secondo Lei, il Suo governo gli porta? Crederla così poco intelligente da conservare l'ombra di un dubbio sull'innocenza di Dreyfus mi sarebbe penoso; ma, d'altro canto, ammettere sia pure per un istante che Lei sacrifichi la verità nel concetto che la menzogna sia necessaria al bene della Francia, mi sembrerebbe ancor più ingiurioso. Ah, quanto vorrei leggere in Lei, e come dev'essere interessante per uno psicologo quello che passa per la Sua mente!

Quello che posso assicurarle, è che Lei rende il nostro governo profondamente ridicolo. Mi hanno raccontato che, giovedì, la tribuna diplomatica è rimasta deserta. Lo credo bene. Non un diplomatico sarebbe riuscito a rimanere serio, alla lettura dei famosi tre documenti. E non s'illuda che la nostra nemica, la Germania, sia la sola a divertirsi. La nostra grande alleata, la Russia, bene al corrente del caso, ben informata e assolutamente convinta dell'innocenza di Dreyfus, dovrebbe proprio renderci il servigio di dirle che cosa pensi di noi l'Europa. Forse l'ascolterebbe, quella, l'amica sovrana. Ne parli, ne parli con il suo ministro degli Affari esteri.


Che Le dica, inoltre, di quale nuova gloria faranno risplendere all'estero il buon nome della Francia gli inusitati procedimenti giudiziari contro il tenente colonnello Picquart. Un giusto Le chiede rispettosamente di far luce, e Lei gli risponde intentandogli un processo su una vecchia accusa di cui il recente dibattimento in Corte d'assise ha dimostrato l'insulsaggine. Tu mi dai fastidio, io ti sopprimo. La cosa è di una comicità spaventosa, e credo proprio che non ci sia nella storia un esempio più insolente di iniquità ipocrita.


Ma, se i tre documenti si prestano soltanto alle risate, che mi dice, signor Brisson, delle pretese confessioni di Dreyfus fornite all'eloquenza politica francese, offerte da uno dei suoi ministri come la base incrollabile della sua convinzione? Neppure qui la sua onestà protesta con un grido di furiosa rivolta? Non l'ha avvertito, l'abominio di un modo di procedere che farà insorgere la coscienza universale?

Le confessioni di Dreyfus, gran Dio! Lei ignora, dunque, tutta quella tragica storia? Non conosce il vero racconto di quella detenzione, di quella degradazione? E le lettere di Dreyfus, allora, non le ha lette? Sono ammirevoli. Non conosco pagine più nobili, più eloquenti. E' il sublime nel dolore, e in avvenire quando le nostre opere, di noi scrittori, saranno forse affondate nell'oblio, quelle lettere resteranno come un monumento imperituro; poiché sono il singhiozzo stesso, tutta la sofferenza umana. L'uomo che le ha scritte non può essere un colpevole. Le legga, signor Brisson, le legga una sera insieme ai suoi, presso il focolare domestico. Si ritroverà inondato di lacrime.


E hanno il coraggio di venirci a parlare delle confessioni di Dreyfus, di quell'infelice che non ha mai cessato di urlare la sua innocenza! Si sfogliano i ricordi esitanti di individui che si sono contraddetti venti volte, si apportano fogli di carnet senza alcuna autenticità, lettere che altre lettere smentisco, no! Da ogni parte vengono offerte testimonianze contraddittorie, ma ci si rifiuta di ascoltarle. E niente di legale, intendiamoci, non c'è un verbale di processo firmato dal colpevole; soltanto pettegolezzi, voci, ragion per cui quelle asserite confessioni sono il nulla stesso, qualcosa di inesistente, che nessun tribunale accoglierebbe.


E dunque, se è più che evidente che sarebbe impossibile, queste pretese confessioni, farle accettare alle persone ragionevoli, di una certa cultura, perché metterle in piena luce, perché sfoggiarle con tanta risonanza? Ah! ecco l'astuzia orrenda, lo spaventoso calcolo di gettare questa disinvolta convinzione al popolino, ai poveri di spirito. Una volta che abbiano letto i vostri manifesti, vero?, sperare che tutti gli umili delle campagne e delle città siano con voi. Di chi è affamato di verità e di giustizia, diranno: "Ma che cosa vogliono darci a bere, quei tali, con il loro Dreyfus, se invece il traditore ha confessato tutto!". E, secondo voi, sarà finita così, la mostruosa iniquità sarà consumata.


Sappia, signor Brisson, che una manovra del genere è disgustosa.


Sfido qualsiasi galantuomo a non rimanerne sconvolto, a non tremare di collera e d'indignazione. Laggiù, nella tortura più iniqua, una tortura tutta particolare, illegale come il giudizio che l'ha inflitta, c'è un infelice che ha sempre gridato la sua innocenza. E gli si fa tranquillamente confessare il crimine che non ha mai commesso, ci si serve di queste pretese confessioni per murarlo nella sua cella in maniera più solida. Ma è vivo, può ancora risponderle, fortunatamente per Lei, perché il giorno in cui sarà morto, il crimine da Lei commesso diventerà irreparabile; e, se vive, può interrogarlo, ottenere una volta di più il grido della sua innocenza. No! è così semplice dire che ha confessato tutto, convincerne il popolo, intanto che l'infelice getta al vento del mare il suo perpetuo lamento, il suo infinito clamore di verità e di giustizia. Non ho mai sentito niente di più vile e di più spregevole.


Ed eccoLa con la stampa ignobile. Al suo seguito, e nello stesso modo. Lei avvelena la nazione di menzogne. Attacca sui muri dei falsi e delle favole insulse, come per aggravare a piacere la disastrosa crisi morale che attraversiamo. Ah, povero popolo di Francia, che bell'educazione civica ti viene data, a te che oggi avresti tanto bisogno, per la tua salvezza di domani, di un'aspra lezione di verità!

E per finire, signor Brisson, visto che stiamo conversando tra noi, tranquillamente, ritengo doveroso avvertirla che aspetto, con viva curiosità, il modo in cui Lei lunedì prossimo, a Versailles, mostrerà di concepire la libertà individuale e il rispetto della giustizia.


Non può certo ignorare i fatti che si sono svolti a Parigi, prima e dopo ciascuna delle quindici udienze del primo processo, e di nuovo a Versailles, al tempo dell'unica udienza del secondo. In quei giorni, la Francia, la nostra grande e generosa Francia, ha dato al mondo civile lo spettacolo esecrabile di un pugno di banditi che ingiuriavano e minacciavano di morte un uomo, un accusato che si recava liberamente davanti alla giustizia del suo paese. Che cosa ne pensa, signor Brisson, la Sua onestà, la Sua virtù repubblicana, il Suo culto dei diritti dell'uomo e del cittadino? Non è d'accordo con me che soltanto i cannibali hanno usanze analoghe e che siamo caduti nel disprezzo e nel disgusto dell'universo?

Dirò di più, qualora si trattasse della nazione fuorviata, d'una folla che si eccita e si scaglia in buona fede, la scusa del fanatismo, sia pure criminale, sarebbe sufficiente. Ma, poiché oggi Lei è ministro degli Interni, parli, parli di queste cose con il dottor Charles Blanc, Suo prefetto di polizia, che è un uomo d'intelligenza vivace e di perfetta urbanità. Lui è informatissimo, naturalmente. Le spiegherà dove e come venivano reclutate le bande, quale compenso veniva versato ai singoli individui,quale sostegno disinteressato e appassionato apportavano gli ambienti clericali, quanti erano i banditi e quanti i settari, e infine quanti allocchi avrebbero potuto alla lunga unirsi ai provocatori e rendere il gioco pericolosissimo. A questo punto, mi auguro, non avrà più dubbi sull'organizzazione del disordine, si sarà convinto che, per gli organizzatori, si trattava d'ingannare la Francia, d'ingannare il mondo, di far loro credere che tutta Parigi insorgeva contro di me, e di avvelenare così l'opinione pubblica, e di operare sulla giustizia la più infame delle pressioni.


Ma non è tutto qui ciò che il dottor Charles Blanc potrà riferire a Lei, che è il suo capo. Le spiegherà come la polizia fosse costretta a salvarci ogni sera, quando qualche arresto, qualche comunicazione giudiziaria fin dal primo giorno avrebbe immediatamente riportato l'ordine. Certo, non mi lamento affatto della polizia, che è stata molto sollecita nel dedicarsi alla mia persona. Solo che, al di sopra della persona del prefetto, sembrava esservi un desiderio superiore che le cose si svolgessero in un certo modo. Erano permesse tutte le ingiurie, tutte le minacce, anche le più vili e le più immonde: non veniva mai arrestato nessuno. Era tollerato perfino che i manifestanti si potessero avvicinare quanto bastava perché un certo pericolo ci fosse. E la polizia non interveniva, non mi salvava, se non nel momento stesso in cui le cose minacciavano di mettersi male. Era fatto con molta arte: l'effetto desiderato, in alto loco, era evidentemente di far credere al mondo che, ogni sera, occorreva una battaglia per sottrarmi alla ingiusta indignazione del popolo di Parigi.


Ebbene, signor Brisson, io mi domando con curiosità quale piano d'azione Lei abbia intenzione di definire con il dottor Charles Blanc. In questo, Lei, è padrone assoluto, nessuno dei suoi ministri in sottordine potrà intervenire poiché, al di là della sua carica di presidente del consiglio, Lei è anche ministro dell'Interno e risponde della tranquillità delle strade. Sapremo, allora, in quali condizioni Lei ritiene che un accusato debba recarsi davanti alla giustizia, e se è permesso ingiuriarlo e minacciarlo, e se uno spettacolo di tale barbarie non sia un disonore supremo per la Francia. Sono ben convinto che mai, i miei amici e io, ci siamo trovati seriamente in pericolo. Ma, non ha importanza! poiché conviene sempre prevedere tutto, dichiaro fin da ora, signor Brisson, che se ci assassinano, lunedì, l'assassino sarà Lei.


E per finire, lasci che io mi meravigli del fatto che siete tutti omuncoli.


A rigore, capisco che non ci sia, tra voi, un altero e appassionato innamorato dell'idea, che offra la sua vita e i suoi beni per la sola gioia d'essere un giusto, pronto a rientrare nei ranghi dopo che la verità avrà vinto. Ma di ambiziosi ce ne sono, tuttavia, tutti voi siete in fondo soltanto degli ambiziosi. Come mai, allora, dalla massa, non emerge almeno un ambizioso di intelligenza vivace e d'audacia e di forza, uno di quegli ambiziosi di grande levatura, dal colpo d'occhio nitido, dalla mano pronta, capace di individuare quale sia la parte da recitare, e di recitarla validamente?

Vediamo un po', quanti, tra voi, ambiscono alla presidenza della Repubblica? Tutti, vero? Vi guardate l'un l'altro di sottecchi, siete tutti convinti di gestire i vostri affari in maniera superiore, questo per prudenza, quello per popolarità, quell'altro per austerità. E mi fate ridere, perché nemmeno un di voi ha l'aria di rendersi conto che, fra tre anni, l'uomo politico che entrerà all'Eliseo sarà quello che avrà restaurato, da noi, il culto della verità e della giustizia, procedendo alla revisione del caso Dreyfus.


Credetemi, i poeti sono un po' veggenti. Di qui a tre anni la Francia non sarà più la Francia, la Francia sarà morta, oppure avremo alla presidenza il capo politico, il ministro giusto e saggio che avrà pacificato la nazione. E, castigo meritato dei calcoli meschini e spregevoli, dei fanatismi ciechi e privi d'intelligenza, tutti quelli che avranno preso partito contro il diritto oppresso e l'umanità oltraggiata saranno a terra, sotto l'esecrazione pubblica e con il loro sogno a brandelli.


Perciò, ogni volta che vedo uno di voi cedere al vento della pazzia, sporcarsi con il caso Dreyfus, forse con la sciocca convinzione di lavorare al proprio innalzamento, mi dico: "Eccone un altro che non diventerà presidente della Repubblica!" Voglia gradire, signor Brisson, i sensi della mia profonda considerazione.




GIUSTIZIA


Articolo pubblicato su "L'Aurore" il 5 giugno 1899.


Erano dunque passati dieci mesi tra l'articolo precedente e questo. Il 18 luglio 1898, davanti alla Corte d'assise di Versailles, essendo andato a vuoto il mezzo di procedura tentato dall'avvocato Labori per far rinviare la causa, eravamo stati sconfitti: e la Corte mi aveva di nuovo condannato a un anno di prigione e a tremila franchi d'ammenda. La sera stessa, partii per Londra, affinché la sentenza, non potendo essermi notificata, non diventasse esecutiva. - Riassumo i fatti principali di questo lungo lasso di tempo. Il 31 agosto 1898, il colonnello Henry, dopo aver confessato la sua colpa, si suicida a Mont Valérien. Il 26 settembre, alla Corte di cassazione viene sottoposta la domanda di revisione. Il 29 ottobre, dichiara la domanda accettabile nella sua forma e dice che si procederà a un'inchiesta supplementare. Il 31, il governo Dupuy sostituisce il governo Brisson. Il 16 febbraio 1899 muore il presidente Félix Faure, e il 18 febbraio il presidente Emile Loubet prende il suo posto. Il primo marzo viene votata alle Camere la legge di incompetenza a procedere. Infine, avendo la Corte di cassazione, in data 3 giugno, cassato la sentenza del 1894 il 5 giugno - la mattina stessa in cui appariva questo articolo - rientravo in Francia. D'altro canto, il 10 agosto 1898, la Corte d'appello, confermando la sentenza resa alla richiesta dei tre esperti, Belhomme, Varinard e Couard, mi condannava in contumacia a un mese di prigione, senza la condizionale, a mille franchi d'ammenda, e a diecimila franchi di danni-interessi a ogni esperto.


Questi, durante la mia assenza, venivano a fare il sequestro in casa mia il 23 e il 29 settembre e l'asta aveva luogo il 10 ottobre. Veniva venduto un tavolo per trentaduemila franchi, totale delle somme richieste. Il 26 luglio, il Consiglio dell'ordine della Legion d'onore si era creduto in dovere di sospendermi dal mio grado di ufficiale.


Da quasi undici mesi, ho lasciato la Francia. Per undici mesi, mi sono imposto l'esilio più totale, il ritiro più ignorato, il più assoluto silenzio. Ero come il morto volontario, disteso nella sua tomba segreta in attesa della verità e della giustizia. E, oggi, poiché la verità ha vinto, e la giustizia finalmente regna, rinasco, rientro e riprendo il mio posto sul suolo francese.


Nella mia vita, il 18 luglio 1898 resterà la data d'incubo, quella in cui ho pianto tutte le mie lacrime. E' stato quel 18 luglio che, cedendo a necessità tattiche, ascoltando i fratelli d'arme che conducevano con me la stessa battaglia per l'onore della Francia, ho dovuto strapparmi a tutto ciò che amavo, a tutte le mie abitudini di cuore e di spirito. E, dopo tanti giorni passati a subire minacce e a sentirmi coprire d'ingiurie, quella brusca partenza è stata senza dubbio il sacrificio più crudele che mi sia stato imposto, la mia suprema immolazione alla causa. Le anime vili e sciocche che hanno pensato, che hanno ripetuto che fuggivo il carcere, hanno dato prova di una disonestà pari alla loro mancanza di intelligenza.


Il carcere, gran Dio! ma non ho mai chiesto altro che il carcere, io! ma sono ancora pronto a subirlo, se è necessario! Per accusarmi di fuggirlo, bisogna avere dimenticato tutta questa storia, il processo che io ho voluto, con l'unico desiderio che fosse il campo in cui sarebbe spuntata la messe di verità, e il completo sacrificio che avevo fatto del mio riposo, della mia libertà, con l'offrirmi in olocausto, con l'accettare in anticipo la mia rovina, purché la giustizia trionfasse. Non è di un'evidenza sfolgorante, oggi, che la nostra lunga campagna, per i miei consulenti, per i miei amici e per me, è stata una lotta disinteressata affinché dai fatti venisse a galla tutta la luce possibile? Se abbiamo voluto prendere tempo, se abbiamo opposto procedura a procedura, è perché avevamo cura della verità, come si ha cura d'anime, è perché non volevamo lasciare spegnere, tra le nostre mani, la debole luce che aumentava di giorno in giorno. Era come la piccola lampada sacra, che viene portata con un gran vento e che bisogna difendere contro le ire della folla, sconvolta dalle menzogne. Seguivamo un'unica tattica, restare padroni del nostro caso, prolungarlo per quanto ci era possibile, affinché provocasse gli avvenimenti, trarne insomma quelle prove decisive che ci eravamo ripromessi. E non abbiamo mai pensato a noi, ma abbiamo agito solo e unicamente per il trionfo del diritto, pronti a pagare con la nostra libertà e con la nostra vita.


Non bisogna dimenticare la situazione che mi era stata creata a Versailles. Di soffocamento senza parole. E io non volevo essere soffocato in quel modo, non mi conveniva affatto che mi si giustiziasse durante l'assenza del Parlamento, nel pieno del fanatismo della piazza. Era nostra volontà aspettare l'ottobre, nella speranza che la verità muovesse ulteriori passi, che la giustizia riuscisse a imporsi. D'altra parte, non va neppure dimenticato tutto il lavoro in sordina che si faceva d'ora in ora, tutto quello che potevamo aspettarci dalle istruttorie aperte contro il comandante Esterhazy e contro il colonnello Picquart.


L'uno e l'altro erano in prigione, noi non ignoravamo che dalle inchieste aperte, se fossero state condotte lealmente, sarebbero spuntate per forza di cose luci vive; e, pur senza prevedere la confessione e poi il suicidio del colonnello Henry, contavamo sull'avvenimento inevitabile che, da un giorno all'altro, doveva esplodere, illuminando tutta la mostruosa faccenda del suo vero e sinistro chiarore. Stando così le cose, non si spiega forse il nostro desiderio di prendere tempo? non avevamo forse ragione di usare tutti i mezzi legali per scegliere la nostra ora, al meglio degli interessi della giustizia? temporeggiare non significava forse vincere, in una rotta che era tra le più dolorose e le più sante? A qualsiasi prezzo, conveniva aspettare, poiché tutto ciò che sapevamo, tutto ciò che speravamo, ci permetteva di dare appuntamento per l'autunno alla vittoria. Torno a ripetere, noialtri non contavamo, si trattava solo e soltanto di salvare un innocente, di evitare alla patria il più spaventoso disastro morale di cui avesse mai corso il pericolo. E quelle ragioni avevano una forza tale che io partii, rassegnato, annunciando il mio ritorno per l'ottobre, con la certezza di essere così un buon artefice delle cause e di assicurarne il trionfo.


Ma quello che oggi non dico, quello che dirò un giorno, fu lo strazio, l'amarezza di quel sacrificio. Si dimentica che non sono né un polemista, né un uomo politico che tragga beneficio dalle risse. Sono un libero scrittore che in vita sua ha avuto un'unica passione, la verità, e che per essa si è battuto su tutti i campi di battaglia. Da quasi quarant'anni servo il mio paese con la penna, con tutto il mio coraggio, con tutta la mia capacità di lavoro e di buona fede. E vi giuro che si prova un dolore spaventoso nell'andarsene da solo, in una notte cupa, nel veder scomparire in lontananza le luci di Francia, quando si sa di aver voluto soltanto il suo onore, la sua grandezza di giustiziera tra i popoli. Io! Io che l'ho già cantata in più di quaranta opere!

Io, che della mia vita ho fatto un lungo sforzo per portare il suo nome ai quattro angoli del mondo! Andarmene così, io fuggire in quel modo, con quella muta di miserabili e di pazzi galoppante alle mie calcagna, a perseguitarmi con minacce e oltraggi! Sono ore atroci, quelle, da cui l'anima esce temperata, ormai invulnerabile alle fosse inique. E dopo, durante i lunghi mesi d'esilio che si sono succeduti, c'è chi possa immaginare la tortura d'essere soppresso dal mondo dei vivi, nell'attesa quotidiana di un risveglio della giustizia che ogni giorno ritarda? Non auguro al peggiore dei miei nemici la sofferenza che, per undici mesi, mi ha causato ogni mattina la lettura dei dispacci dalla Francia che, in quella terra straniera, assumevano un'eco agghiacciante di follia e di disastro. Solo chi si è portato dentro quel tormento durante ore lunghe e solitarie, chi ha rivissuto da lontano, e sempre solo, la crisi in cui sprofondava la patria, può sapere che cosa sia l'esilio, nelle condizioni tragiche in cui l'ho conosciuto fino a ieri. E quelli che pensano che io sia partito per fuggire la prigione, e per darmi sicuramente alla bella vita all'estero con l'oro ebreo, sono anime tristi che m'ispirano un po' di disgusto e tanta pietà.


Dovevo ritornare in ottobre. Avevamo deciso di temporeggiare fino alla riapertura delle Camere, contando appunto sull'avvenimento imprevisto che, per noi che eravamo al corrente delle cose, era l'avvenimento certo. Ed ecco che quell'avvenimento imprevisto non aspettò l'ottobre, esplose fin dalla fine di agosto, con la confessione e il suicidio del colonnello Henry.


Fin dall'indomani, avrei voluto rientrare. Per me, la revisione s'imponeva, l'innocenza di Dreyfus sarebbe stata immediatamente riconosciuta. Del resto, non avevo mai chiesto altro che la revisione, la mia parte doveva per forza di cose finire nel momento in cui fosse riunita la Corte di cassazione, ed ero pronto a rientrare nell'ombra. Quanto al mio processo, ai miei occhi non era più che una pura formalità, poiché il documento prodotto dal generali de Pellieux, Gonse e Boisdeffre, e in base al quale la giuria mi aveva condannato, era un falso il cui autore aveva appena cercato scampo nella morte. E mi preparavo quindi al ritorno, quando i miei amici di Parigi, i miei legali, tutti quelli che erano rimasti nella battaglia, mi scrissero lettere piene d'inquietudine. La situazione era sempre grave. Lungi dall'essere decisa, la revisione sembrava ancora incerta. Brisson, il capo di gabinetto, urtava contro ostacoli che nascevano a ogni pie' sospinto, tradito da tutti, non disponendo egli stesso di un singolo commissario di polizia. Così il mio ritorno, nel bel mezzo delle passioni surriscaldate, era visto come un pretesto per nuove violenze, un pericolo per la causa, un imbarazzo di più per il ministero, che già aveva un compito così difficile. E io, desideroso di non complicare la situazione, mi dovetti inchinare, acconsentii a pazientare ancora.


Quando finalmente la Sezione penale si riunì, intendevo rientrare.


Le ripeto, non avevo mai chiesto altro che la revisione, consideravo terminata la mia parte, dal momento che il caso veniva portato davanti alla giurisdizione suprema, istituita dalla legge.


Ma mi arrivarono nuove lettere, per supplicarmi d'aspettare, di non precipitare le cose. La situazione, che a me sembrava così semplice, era al contrario, mi spiegavano, piena di oscurità e di pericolo. Il mio nome, la mia personalità non potevano essere che una torcia, torcia che avrebbe riappiccato l'incendio. Per questa ragione i miei amici, i miei legali, facevano appello ai miei sentimenti di buon cittadino, parlandomi della necessità di pacificazione, dicendomi che dovevo aspettare l'immancabile ripensamento dell'opinione pubblica, per evitare di precipitare di nuovo il nostro povero paese in un'agitazione nefasta. Il caso era sulla buona strada, ma non ancora risolto; quale sarebbe stato il mio rimpianto se un senso d'impazienza, da parte mia, avesse ritardato il trionfo della verità? E io m'inchinai ancora una volta, restai nel tormento della mia solitudine e del mio silenzio.


Quando la Sezione penale, accogliendo la domanda di revisione, decise di aprire un'inchiesta, volevo rientrare. Stavolta, lo confesso, cominciavo a perdermi d'animo,capivo che quell'inchiesta sarebbe durata lunghi mesi e presentivo l'angoscia continua in cui mi avrebbe costretto a vivere. E poi, non erano state chiarite le cose in modo più che sufficiente? il rapporto del consigliere Bard, la requisitoria del procuratore generale Manau, l'arringa dell'avvocato Mornard non avevano stabilito a sufficienza la verità, perché potessi ritornare a testa alta?

Tutte le accuse che avevo mosso nella mia Lettera al presidente della Repubblica avevano trovato conferma. Avevo esaurito il mio compito, non mi restava che rientrare nei ranghi. E fu per me un grande dispiacere, e un indignato senso di ribellione, da principio, trovare nei miei amici la stessa opposizione al mio ritorno. Erano sempre in piena battaglia, mi scrivevano che non potevo giudicare la situazione come loro, che sarebbe stato un pericoloso errore lasciar ricominciare il mio processo parallelamente all'inchiesta della Sezione penale. Il nuovo governo, ostile alla revisione, avrebbe forse trovato in quel processo la diversione voluta, l'occasione cercata di nuovi disordini. In ogni caso, la Corte aveva bisogno di assoluta pace, avrei agito male creandole l'imbarazzo di un'agitazione popolare, che certamente sarebbe stata sfruttata contro di noi. Ho lottato, ho perfino pensato di piombare a Parigi, una bella sera, a dispetto di tutti quei consigli, senza avvertire nessuno. Soltanto la saggezza mi ha fatto desistere e mi sono di nuovo rassegnato a lunghi mesi di tortura.


Ecco perché, per quasi undici mesi, non sono tornato. Tenendomi in disparte, non ho fatto che agire, come il giorno in cui mi sono fatto avanti, da soldato della verità e della giustizia. Sono stato soltanto il buon cittadino che si sacrifica fino all'esilio, fino alla sparizione totale, che acconsente a non esistere più, pur di pacificare il paese e pur di non infiammare inutilmente il dibattimento sul mostruoso caso. E devo anche dire che, nella certezza della vittoria, consideravo il mio processo come la risorsa suprema, come la piccola lampada sacra con cui avremmo riportato chiarore qualora le forze malvagie si fossero apprestate a spegnere il sole. La mia abnegazione, l'ho spinta fino al silenzio completo. Ho voluto non solo essere un morto, ma un morto che non parla. Passata la frontiera, ho saputo zittirmi. Bisogna parlare soltanto quando si è presenti, per assumersi la responsabilità di quello che si dice. Nessuno mi ha sentito, nessuno mi ha visto. Lo ripeto, ero in una tomba, in un ritiro inviolabile che nessuno straniero è riuscito a scoprire. Quei pochi giornalisti che hanno lasciato intendere di avermi avvicinato, mentivano. Non ho ricevuto nessuno, ho vissuto in un deserto, ignorato da tutti. E mi chiedo che cosa il mio paese, così duro con me, mi rimproveri, dopo che, per rendergli la pace, soffro da undici mesi una messa al bando volontaria, nella dignità e nel patriottismo del mio silenzio.


Ed è finita, e ritorno, perché la verità è lampante, perché giustizia è resa. Desidero rientrare in silenzio, nella serenità della vittoria, senza che il mio ritorno possa dare origine al minimo disordine, alla minima agitazione di piazza. Sarebbe indegno di me che mi si potesse confondere per un istante con i vili sfruttatori delle manifestazioni popolari. Proprio come ho saputo tacere all'estero, saprò riprendere il mio posto al focolare nazionale da buon cittadino tranquillo, che, senza disturbare nessuno, intende ricominciare, con discrezione il suo lavoro abituale, senza che ci si occupi ulteriormente di lui.


Ora che l'opera buona è compiuta, non voglio né applausi né ricompense, anche se qualcuno ritiene che io abbia potuto esserne uno degli artefici utili. Non ho avuto alcun merito, la causa era talmente bella, talmente umana! E' la verità che ha vinto, né poteva andare diversamente. Fin dal primo istante, ne ho avuto la certezza, sono andato a colpo sicuro, il che diminuisce il mio coraggio. Era tutto molto semplice. Voglio assolutamente che si dica di me, come unico omaggio, che non sono stato né un idiota né un malvagio. Del resto, ho già la mia ricompensa, quella di pensare all'innocente che avrò contribuito a estrarre dalla tomba in cui, vivo, agonizzava da quattro anni. Ah! confesso che all'idea del suo ritorno, al pensiero di vederlo libero, di stringergli le mani, mi sento straordinariamente turbato e commosso, tanto che gli occhi mi si riempiono di lacrime di gioia.


Quel momento basterà a ripagarmi di tutti i miei guai. I miei amici e io avremo compiuto una buona azione di cui i cuori generosi di Francia ci serberanno un po' di gratitudine. E cosa volete di più, una famiglia che mi amerà, una moglie e dei figli che ci benediranno, un uomo che ci sarà debitore di avere incarnato in lui il trionfo del diritto e della solidarietà umana!

Tuttavia, anche se per me la lotta materiale è finita, se non desidero trarre dalla vittoria alcun guadagno, né mandato politico, né posto, né onori, se la mia sola ambizione è di continuare a battermi per la verità con la penna, finché la mia mano ce la farà a reggerla, vorrei però far notare, prima di passare ad altre lotte, qual è stata la mia prudenza, la mia moderazione nella battaglia. Qualcuno ricorda gli abominevoli clamori che suscitò la mia Lettera al presidente della Repubblica?

Ero uno che insultava l'esercito, un venduto, un senza patria.


Diversi letterati amici miei, costernati, spaventati, si traevano in disparte, mi abbandonavano, tale era l'orrore per il mio crimine. Sono stati scritti degli articoli, che oggi graveranno del loro peso la coscienza dei firmatari. Infine, mai scrittore brutale, pazzo, malato d'orgoglio, aveva indirizzato a un capo di Stato una lettera più volgare, più menzognera, più criminale.


Quasi me ne vergogno un po', lo confesso, mi vergogno della sua discrezione, del suo opportunismo, direi quasi della sua vigliaccheria. Infatti, poiché mi confesso, posso anche riconoscere che avevo attenuato molto le cose, che ne avevo perfino passate sotto silenzio molte di quelle che oggi sono note, assodate, e delle quali preferivo anche dubitare, tanto mi sembravano mostruose e irragionevoli. Sì, sospettavo già di Henry, ma senza prove, tanto che ritenni saggio non chiamarlo neppure in causa. Indovinavo diverse cose, mi erano arrivate all'orecchio alcune confidenze così terribili che non mi sentivo in diritto di rischiarle, pensando alle loro spaventose conseguenze. Ed ecco che sono state rivelate, che sono diventate la verità banale d'oggi!

Ecco che la mia povera lettera non calza più, ci appare del tutto infantile, una semplice birichinata, un'invenzione di timido romanziere, a paragone della superba e feroce realtà!

Ripeto che non ho né il desiderio né il bisogno di trionfare. Ciò nonostante, devo pur constatare che gli avvenimenti hanno dato la prova, ora, di tutte le mie accuse. Non ce n'è uno, tra quelli da me accusati, di cui, alla luce abbagliante dell'inchiesta, non sia stata dimostrata la colpevolezza. Quel che io ho annunciato, che ho previsto, ci sta davanti, lampante. E la cosa di cui sono pacatamente fiero è che la mia lettera era senza violenza, indignata, ma degna di me: non contiene neppure un'ingiuria, non una parola eccessiva, niente, salvo il dolore dignitoso di un cittadino che chiede giustizia al capo dello stato. Così è stata l'eterna storia delle mie opere, non ho mai potuto scrivere un libro, una pagina, senza venire coperto di menzogne e d'ingiurie, salvo poi essere costretti, l'indomani, a darmi ragione.


Di conseguenza, ho l'animo sereno, senza collera né rancore. Se dovessi ascoltare soltanto la debolezza del mio cuore, d'accordo con lo sdegno della mia intelligenza, sarei perfino per il perdono generale, lascerei i malfattori sotto il solo castigo dell'eterno biasimo pubblico. Ma ci sono, credo, sanzioni penali necessarie, e l'argomento decisivo è che, se non viene dato qualche esempio temibile, se la giustizia non colpisce i maggiori colpevoli, il popolino non crederà mai all'immensità del crimine. E' necessario allestire una gogna perché la folla, finalmente, capisca. Lascio perciò che la nemesi compia la sua opera vendicatrice, io non l'aiuterò. E, nella mia indulgenza di poeta, pienamente soddisfatto dell'ideale, serbo una sola ribellione disperata, ed è il pensiero angoscioso che il colonnello Picquart sia ancora dietro le sbarre. Non è passato giorno senza che, dal mio esilio, il mio dolore fraterno non abbia raggiunto lui, chiuso nella sua prigione. Il fatto che si sia potuto condannare Picquart, che da quasi un anno lo si tenga in galera come un malfattore, che si sia voluto prolungare la sua tortura con una commedia giudiziaria assolutamente infame, è mostruoso al punto da far perdere la ragione. La macchia rimarrà, incancellabile, su tutti quelli che sono rimasti coinvolti in questa iniquità suprema. E, se domani Picquart non sarà libero, sarà l'intera Francia a non riscattarsi mai più dall'inspiegabile follia di aver abbandonato nelle mani criminali di aguzzini, di mentitori, di falsari, il più nobile, il più eroico e il più glorioso dei suoi figli.


Soltanto allora l'opera sarà completa. E non sarà una messe d'odio, quella che abbiamo seminato, bensì una messe di bontà, di equità, di infinita speranza. Occorre aspettare che germogli. Oggi ancora non possiamo prevederne la ricchezza. Tutti i partiti politici hanno smarrito la ragione, il paese si è diviso in due campi: da un lato, le forze reazionarie del passato; dall'altro, gli spiriti analitici, di verità e di dirittura, in marcia verso l'avvenire. Questi sono i soli posti di combattimento logici, dobbiamo conservarli per le conquiste di domani. All'opera, dunque, con la penna, con la parola, con l'azione! all'opera di progresso e di liberazione! Sarà il conseguimento del fine dell'89, la rivoluzione pacifica delle intelligenze e dei cuori, la democrazia solidale, liberata dalle forze negative, fondata finalmente sulla legge del lavoro, che permetterà l'equa distribuzione delle ricchezze. Da quel momento, la Francia libera, la Francia giustiziera, annunciatrice della società equa del secolo prossimo, si ritroverà sovrana tra le nazioni. Non ci sarà impero tanto bardato di ferro da rimanere incrollabile, dopo che essa avrà donato al mondo la giustizia, come già gli ha donato la libertà. E' la sola funzione storica che sogno di attribuirle, e sarà un fulgore di gloria come essa ancora non ha conosciuto.


Sono a casa. Il procuratore generale può, dunque, quando lo riterrà opportuno, farmi notificare la sentenza della Corte d'assise di Versailles, che mi ha condannato, in contumacia, a un anno di prigione e a tremila franchi d'ammenda. E ci ritroveremo davanti ai giurati.


Facendomi citare in giudizio, miravo unicamente alla verità e alla giustizia. Oggi, le abbiamo. Il mio processo non ha più scopo, e non m'interessa più. La giustizia dovrà semplicemente dire se sussista reato nel volere la verità.




IL QUINTO ATTO


Articolo pubblicato su "L'aurore" il 12 settembre 1899.


Avevo fatto opposizione alla sentenza della Corte d'assise di Versailles nonché al giudizio della Corte d'appello di Parigi, per gli esperti, emessi tutt'e due in contumacia, ed ero in attesa. Né del resto la giustizia aveva fretta, poiché desiderava conoscere il risultato del nuovo processo Dreyfus, a Rennes. Il governo Dupuy, caduto il 12 giugno '89, era stato sostituito il 22 giugno dal governo Waldeck-Rousseau. Lo sbarco di Dreyfus in Francia avvenne il primo luglio, durante una notte di tempesta; l'8 agosto ebbe inizio il nuovo processo e il 9 settembre un tribunale militare lo condannò per la seconda volta. Questo articolo lo scrissi l'indomani.


Sono in preda allo sgomento. E non è più la collera, l'indignazione vendicatrice, il bisogno di denunciare a gran voce il crimine, di pretenderne il castigo in nome della verità e della giustizia; è lo spavento, il sacro terrore di chi vede realizzarsi l'impossibile, i fiumi risalire verso le sorgenti, la terra capovolgersi sotto il sole. E quello che io grido, è lo sconforto della nostra generosa e nobile Francia, è la paura dell'abisso in cui essa rotola.


C'eravamo illusi che il processo di Rennes fosse il quinto atto dell'orribile tragedia che viviamo da quasi due anni. Tutte le pericolose peripezie sembravano ormai esaurite, credevamo di andare verso una conclusione di pacificazione e di concordia. Dopo la dolorosa battaglia, la vittoria del diritto si rendeva inevitabile, il dramma doveva concludersi a lieto fine con il classico trionfo dell'innocente. Ed ecco che ci siamo sbagliati, e che si annuncia una nuova peripezia, la più inaspettata, la più spaventosa di tutte, che torna a rendere cupo il dramma, che lo prolunga e lo proietta verso una fine ignota, davanti a cui la nostra ragione si turba e vacilla.


Decisamente, il processo di Rennes è soltanto il quarto atto. E il quinto, gran Dio, come sarà? di quali dolori, di quali nuove sofferenze potrà mai essere fatto, verso quale espiazione suprema spingerà la nazione? Perché, vero? è più che certo che l'innocente non può venire condannato due volte e che una conclusione del genere spegnerebbe il sole e solleverebbe i popoli!

Ah! quel quarto atto, quel processo di Rennes, in quale agonia morale l'ho vissuto, dal fondo della completa solitudine in cui mi ero rifugiato, per sparire dalla scena da buon cittadino, desideroso di non essere più un'occasione di fanatismo e di disordine! Con quale stringimento di cuore aspettavo le notizie, le lettere, i giornali, e quali ribellioni, quali patimenti nel leggerli! Le giornate di quello splendido mese d'agosto ne diventavano cupe, e mai ho avvertito l'ombra e il freddo di una soglia così orrenda sotto cieli tanto smaglianti.


Certo, in due anni, di sofferenze non me ne sono mancate. Ho sentito le folle inseguirmi, gridando a morte, ho visto passare ai miei piedi un immondo torrente di oltraggi e di minacce, ho conosciuto per ben undici mesi le disperazioni dell'esilio. E inoltre ci sono stati i miei due processi, spettacoli lacrimevoli di viltà e d'iniquità. Ma cosa sono i miei processi in confronto a quello di Rennes? degli idilli, fresche scene in cui fiorisce la speranza. Abbiamo assistito a tante mostruosità, i procedimenti giudiziari contro il colonnello Picquart, l'inchiesta sulla Sezione penale, la legge di incompetenza a procedere che ne è conseguita. Solo che, ormai tutto ciò è puerilità e nient'altro, l'inevitabile progressione ha seguito il suo corso, il processo di Rennes si espande alla sommità, enorme, come l'orrendo fiore di tutti i letami ammassati.


In esso avremo visto l'insieme più incredibile di attentati contro la verità e contro la giustizia. Una banda di testimoni dirigeva il dibattimento, si concertava ogni sera sui loschi agguati dell'indomani, avanzava richieste, a forza di menzogne, al posto del pubblico ministero, terrorizzava e insultava i suoi contraddittori, s'imponeva per l'insolenza dei galloni e dei pennacchi. Un tribunale, in preda a questa invasione di capi, soffriva visibilmente di vederli in veste di criminali, obbediva a una mentalità tutta speciale, mentalità che occorrerebbe contrastare a lungo per poter giudicare i giudici. Un pubblico ministero grottesco, allargava i confini dell'imbecillità, lasciando agli storici di domani una requisitoria la cui inconsistenza stupida e omicida causerà un eterno stupore, di una crudeltà talmente senile e cocciuta da apparire incosciente, nata da un animale umano non ancora classificato. Una difesa che da principio si tenta di assassinare, poi che si mette a tacere ogni volta che si rende imbarazzante, alla quale si rifiuta di lasciar apportare la prova decisiva quand'essa reclama i soli testimoni che hanno.


E questo abominio si è perpetuato per un mese di fronte all'innocente, quel povero Dreyfus, il cui compassionevole relitto umano farebbe piangere i sassi, e i suoi antichi compagni sono venuti a dargli un ennesimo calcio, e i suoi antichi capi sono venuti a schiacciarlo con i loro gradi, pur di salvare se stessi dal bagno, senza che ci sia stato un grido di pietà, un fremito di generosità, in quelle anime vili. Ed è stata la nostra dolce Francia a dare al mondo questo spettacolo.


Quando verrà pubblicato "in extenso" il resoconto del processo di Rennes, non esisterà monumento più esecrabile dell'infamia umana.


Esso va al di là di qualunque cosa, mai documento più scellerato sarà stato finora fornito alla storia. L'ignoranza, l'idiozia, la follia, la crudeltà, la menzogna, il crimine, vi vengono ostentati con un'impudenza tale che le generazioni di domani ne arrossiranno di vergogna. In esso ci sono confessioni della nostra bassezza di cui fremerà l'umanità intera. Ed è proprio da qui che nasce il mio sgomento; poiché, perché un processo come quello si sia potuto svolgere in una nazione, perché una nazione offra al mondo civile un simile saggio del suo stato morale e intellettuale, bisogna che essa attraversi una crisi spaventosa. E' la morte imminente, forse? e quale bagno di bontà, di purezza, di equità potrà mai salvarci dalla melma avvelenata in cui agonizziamo?

Come scrivevo nella mia lettera al presidente della Repubblica dopo la scandalosa assoluzione di Esterhazy, è impossibile che un tribunale militare disfi ciò che un tribunale militare ha fatto.


E' contrario alla disciplina. E la sentenza del tribunale militare di Rennes, nel suo imbarazzo gesuitico, questa sentenza che non ha il coraggio di dire sì o no, è la prova lampante che la giustizia militare è impotente a mostrarsi giusta poiché non è libera, poiché si rifiuta all'evidenza, al punto da condannare di nuovo un innocente piuttosto che mettere in dubbio la propria infallibilità. Ci è apparsa unicamente come un'arma d'esecuzione, in mano ai capi. D'ora in avanti, altro non saprebbe essere che una giustizia sbrigativa, da tempo di guerra. In tempo di pace deve sparire, dal momento che è incapace di equità, di semplice logica e di buon senso. Si è condannata da sé.


Ma ci rendiamo conto della situazione atroce che ci viene imposta, tra le nazioni civili? Un primo tribunale militare, ingannatosi nella sua ignoranza delle leggi, nella sua inettitudine nel giudicare, condanna un innocente. Un secondo tribunale militare, che a sua volta è stato forse tratto in errore dal più impudente complotto di menzogne e di inganni, assolve un colpevole. Un terzo tribunale militare, dopo che è stata fatta luce, dopo che la più alta magistratura del paese ha deciso di lasciargli la gloria di riparare all'errore, osa negare la luce del sole e condanna di nuovo l'innocente. E' l'irreparabile, è stato commesso il delitto supremo. Gesù era stato condannato una sola volta. Ma crolli pure tutto, e che la Francia sia in preda alle fazioni, che la patria in fiamme sprofondi tra le macerie, che l'esercito stesso ci rimetta il suo onore, piuttosto che confessare che dei compagni si sono sbagliati e che dei capi hanno mostrato di essere dei bugiardi e dei falsari! L'idea sarà crocefissa, il potere militare deve restare re.


Ed eccoci qua, davanti all'Europa, davanti al mondo, in questa bella situazione. Il mondo intero è convinto dell'innocenza di Dreyfus. Se un dubbio fosse rimasto presso qualche popolo lontano, l'esplosione accecante del processo di Rennes avrebbe ottenuto l'effetto di dissiparlo. Tutte le corti delle grandi potenze nostre vicine sono informate, conoscono i documenti, hanno la prova dell'indegnità di tre o quattro dei nostri generali nonché delle paralisi della nostra giustizia militare. La nostra Sedan morale è perduta, cento volte più disastrosa dell'altra, quella dove si è soltanto versato del sangue. E, lo ripeto, ciò che mi sgomenta è che questa disfatta del nostro onore sembra irreparabile, perché come fare per cassare le sentenze di tre tribunali militari? dove troveremo l'eroismo di confessare la colpa, per poter andare di nuovo a fronte alta? Dov'è il governo di coraggio e di salute pubblica, dove sono le Camere che comprenderanno, che agiranno, prima dell'inevitabile sfacelo finale?

Il peggio è che siamo arrivati ormai a una scadenza gloriosa. La Francia ha voluto festeggiare il suo secolo di lavoro, di scienza, di lotte per la libertà, la verità e la giustizia. Non c'è mai stato secolo dallo sforzo più nobile, come in seguito vedremo. E la Francia ha dato appuntamento presso di sé a tutti i popoli, per glorificare la sua vittoria, la libertà conquistata, la verità e la giustizia promesse alla terra. Di qui a qualche mese, i popoli arriveranno, ma quello che troveranno sarà l'innocente condannato due volte, la verità soffocata, la giustizia assassinata. Siamo caduti nel loro disprezzo, ed essi verranno a gozzovigliare in casa nostra, berranno il nostro vino, abbracceranno le nostre serve, come si usa fare nell'infima stamberga dove è consentito incanaglire. E' mai possibile, possiamo mai accettare che la nostra Esposizione sia il luogo malfamato e disprezzato dove il mondo intero vorrà darsi ai bagordi? No, no! ci serve immediatamente il quinto atto della mostruosa tragedia, quand'anche dovessimo lasciarci ancora un po' della nostra carne.


Ci serve il nostro onore, prima di accogliere i popoli in una Francia guarita e rigenerata.


Quel quinto atto mi ossessiona, non faccio che pensarci, lo cerco, lo immagino. Nessuno si è accorto che questo caso Dreyfus, questo gigantesco dramma che agita l'universo, sembra messo in scena da qualche drammaturgo sublime, desideroso di farne un capolavoro incomparabile? Ne ricordo le straordinarie peripezie che hanno turbato tutte le anime. A ogni nuovo atto, la passione è aumentata, l'orrore è esploso più intenso. In questa opera vivente, è il destino l'autore geniale, che da qualche parte sospinge i personaggi, determina i fatti, sotto la tempesta che egli stesso scatena. E vuole sicuramente che il capolavoro sia completo, e ci si prepara chissà quale sovrumano quinto atto che rifarà la Francia gloriosa, alla testa delle nazioni. Perché, siatene convinti, è lui che ha voluto il crimine supremo, l'innocente condannato una seconda volta. Bisognava che il crimine venisse commesso per la grandezza tragica, per la bellezza sovrana, per l'espiazione, forse, che consentirà l'apoteosi. E, a questo punto, visto che è stato toccato il fondo dell'orrore, aspetto il quinto atto che metterà fine al dramma, liberandoci, ridonandoci una nuova integrità e una nuova giovinezza.


Il mio sgomento, oggi, lo dirò con franchezza. E' sempre stato, come ho lasciato intendere a più riprese, che la verità, la prova decisiva, schiacciante, ci venga dalla Germania. Non è più tempo di serbare il silenzio su questo pericolo mortale. Troppi elementi s'impongono, conviene contemplare coraggiosamente il caso in cui fosse proprio la Germania a portarci, come un fulmine a ciel sereno, il quinto atto.


Ecco la mia confessione. Prima del mio processo, nel corso del gennaio 1898, io seppi nel modo più certo che Esterhazy era "il traditore" che aveva fornito a Schwartzkoppen un considerevole numero di documenti, che molti di quei documenti erano di suo pugno, e che la collezione completa si trovava a Berlino, al ministero della Guerra. Io non faccio il patriota di mestiere, ma confesso che le certezze che mi vennero date mi sconvolsero; e da quel momento, la mia angoscia di buon francese non è mai cessata, ho vissuto nel terrore che la Germania, forse nostra amica di domani, ci schiaffeggiasse con le prove che sono in suo possesso.


Ma come! il tribunale del 1894 condanna Dreyfus innocente, il tribunale militare del 1898 proscioglie Esterhazy colpevole, e la nostra nemica detiene le prove del doppio errore della nostra giustizia militare, e tranquillamente la Francia si ostina in quell'errore, accetta l'agghiacciante pericolo dal quale è minacciata! Dicono che la Germania non può servirsi di documenti ottenuti per mezzo dello spionaggio. Che cosa ne sappiamo? Se domani scoppiasse la guerra, non comincerebbe forse col disonorare il nostro esercito di fronte all'Europa, pubblicando i documenti, mostrando l'abominevole iniquità in cui certi capi si sono intestarditi? E' tollerabile un pensiero del genere, potrà la Francia godere di un istante di riposo, fin tanto che saprà in mano allo straniero le prove del suo disonore? Io, lo dico sinceramente, non riuscivo più a chiudere occhio.


Allora, con Labori, ho deciso di citare come testimoni gli addetti militari stranieri, sapendo benissimo che non li avremmo fatti venire alla sbarra, ma volendo far capire al governo che sapevamo la verità, nella speranza che agisse. Hanno fatto orecchie da mercante, facendo poi dello spirito, lasciando l'arma in mano alla Germania. E le cose sono rimaste com'erano fino al processo di Rennes. Appena rientrato in Francia, sono corso da Labori, ho insistito disperatamente perché venissero fatti passi presso il ministero, per fargli presente la terrificante situazione, per domandargli se non intendesse intervenire affinché, grazie alla sua mediazione, ci venissero dati i documenti. Certo, la questione era di una delicatezza unica, inoltre c'era quel povero Dreyfus che bisognava salvare, ragion per cui bisognava essere pronti a tutte le concessioni, per timore di irritare l'opinione pubblica sconvolta. D'altronde, se il consiglio di guerra assolveva Dreyfus, sottraeva di conserva qualsiasi virus nocivo ai documenti, spezzava tra le mani della Germania l'arma di cui si sarebbe potuta servire. Dreyfus prosciolto voleva dire l'errore riconosciuto, riparato. L'onore ridiventava salvo.


E il mio tormento patriottico è ricominciato, più intollerabile, appena ho sentito che un tribunale militare stava per aggravare il pericolo, condannando di nuovo l'innocente, l'uomo del quale la pubblicazione dei documenti di Berlino griderà un giorno l'innocenza. Ecco perché non ho cessato d'agire, supplicando Labori di reclamare i documenti, di citare a testimonianza Schwartzkoppen, il solo che possa fare piena luce. E il giorno in cui Labori, quell'eroe colpito da una palla sul campo di battaglia, ha approfittato di un'occasione che gli offrivano gli accusatori, col chiamare alla sbarra uno straniero indegno, il giorno in cui si è alzato per chiedere che si ascoltasse l'uomo che, con una sola parola, poteva porre fine al caso, ha adempiuto fino in fondo al suo dovere, è stato la voce eroica che nulla potrà far tacere, la cui richiesta sopravvive al processo e deve fatalmente, al momento opportuno, ricominciarlo per chiuderlo con la sola soluzione possibile, l'assoluzione dell'innocente. La richiesta dei documenti è fatta, sfido a che quei documenti non siano prodotti. Vedete in quale accresciuto, intollerabile pericolo, ci ha messo il presidente del tribunale di Rennes, facendo uso del suo potere discrezionale per impedire che i documenti venissero resi noti. Niente di più brutale, mai porta è stata chiusa più volontariamente alla verità. "Non vogliamo che ci venga data la prova, perché vogliamo condannare". E un terzo tribunale militare si è aggiunto agli altri due, nell'errore cieco, per cui la smentita venuta dalla Germania colpirebbe ora tre sentenze inique. Non è demenza pura, questa, non c'è da urlare di ribellione e d'inquietudine?

Il governo che è stato tradito dai suoi agenti, che ha avuto la debolezza di lasciare che bambinoni dalla mentalità ottusa giocassero con fiammiferi e coltelli, il governo che ha dimenticato che governare è prevenire, deve assolutamente affrettarsi ad agire se non vuole abbandonare al capriccio della Germania il quinto atto, la conclusione che tutta la Francia dovrebbe temere. E' lui, il governo, che ha il compito di recitare questo quinto atto al più presto, per impedire che ci venga dall'estero. Il governo può procurarsi i documenti, la diplomazia ha risolto difficoltà ben più grandi. Il giorno in cui saprà chiedere i documenti numerati del "bordereau", li otterrà. E questo sarà il fatto nuovo, che renderà necessaria una seconda revisione davanti alla Corte di cassazione, istruita stavolta, mi auguro, e in grado di cassare senza alcun rinvio, nella pienezza della sua magistratura sovrana.


Ma, semmai il governo dovesse di nuovo tirarsi indietro, i difensori della verità e della giustizia faranno quanto è necessario. Non uno di noi diserterà il suo posto. La prova, la prova invincibile, prima o poi finiremo per averla.


Il 23 novembre, saremo a Versailles. Il mio processo ricomincerà, visto che si vuole farlo ricominciare in tutta la sua ampiezza. Se giustizia ancora non è stata fatta, daremo un nuovo contributo per farla. Il mio caro, valoroso Labori, il cui onore è andato via via aumentando, pronuncerà perciò a Versailles l'arringa che non ha potuto pronunciare a Rennes; è semplicissimo, niente andrà perduto. Dal canto mio, non lo farò certo tacere. Non dovrà far altro che dire la verità; senza temere di nuocermi, poiché sono pronto a pagarla con la mia libertà e col mio sangue.


Davanti alla Corte d'assise della Senna, ho giurato l'innocenza di Dreyfus. La giuro davanti al mondo intero, che ora la grida con me. E torno a ripetere, la verità è in cammino, niente potrà fermarla. A Rennes, ha appena compiuto un passo da gigante. Mi resta soltanto il terrore di vederla piombare a saccheggiare la patria, come un fulmine a ciel sereno scagliato dalla nemesi vendicatrice, se non ci affrettiamo a farla risplendere noi stessi, sotto il nostro vivido sole di Francia.




LETTERA ALLA SIGNORA DREYFUS


Pubblicata su "L'Aurore" il 29 settembre 1899.


La scrissi dopo che il presidente Lubet, il 19 settembre, ebbe firmato la grazia di Alfred Dreyfus e, dopo che l'innocente, condannato due volte, fu restituito ai suoi cari. Ero deciso a conservare il silenzio fino a che il mio processo non fosse tornato davanti alla Corte d'assise di Versailles; e là soltanto avrei parlato. Ma si trattava di circostanze in cui non potevo restare muto.


Signora, le rendono l'innocente, il martire. Alla sposa, al figlio, alla figlia, vengono resi il marito e il padre, e il mio primo pensiero va verso la famiglia finalmente riunita, consolata, felice. Quale che sia tuttora il mio lutto di cittadino, nonostante il dolore indignato, la ribellione in cui continuano ad angosciarsi le anime giuste, vivo con lei questo momento meraviglioso, bagnato di lagrime benefiche, il momento in cui lei ha stretto tra le braccia il morto risuscitato, uscito vivo e libero dalla tomba. E, malgrado tutto, questo giorno è un gran giorno di vittoria e di festa.


Mi immagino la prima sera, alla luce della lampada, nell'intimità familiare, quando le porte sono chiuse e tutti gli abomini sulla piazza si spengono sulla soglia di casa. Ecco i due bambini, il padre è tornato da lontano, dal viaggio così lungo, così oscuro.


Lo baciano, aspettano il suo racconto, più tardi. E che pace fiduciosa, che speranza di un avvenire riparatore, mentre la madre si dà amorevolmente d'attorno, avendo ancora, dopo tanto eroismo, un compito eroico da compiere, quello di ricostruire con le sue cure e con la sua tenerezza la salute del crocefisso, del povero essere che le hanno restituito. C'è tanta dolcezza nel chiuso della casa, una bontà infinita soffonde da ogni parte la stanza intima in cui la famiglia sorride, e noi siamo là nell'ombra, muti, ricompensati, tutti noi che abbiamo voluto questo, che lottiamo da tanti mesi per questo momento di felicità.


Quanto a me, lo confesso, in principio la mia è stata soltanto un'opera di solidarietà umana, di pietà e d'amore. Un innocente soffriva il più orrendo dei supplizi, io non ho visto altro, ho dato inizio a una campagna unicamente per liberarlo dei suoi mali.


Dal momento in cui mi venne provata la sua innocenza, ci fu in me una tormentosa ossessione, il pensiero di tutto quello che l'infelice aveva sofferto, di tutto quello che ancora doveva soffrire nel carcere murato dove agonizzava, sotto la fatalità mostruosa di cui non poteva nemmeno sciogliere l'enigma. Quale tempesta dentro di lui, che attesa divorante, da ricominciare a ogni nuova aurora! E non ho più vissuto, e il mio coraggio è stato il coraggio della pietà, e il mio unico fine è stato di mettere fine alla tortura, di sollevare la pietra affinché il giustiziato ritornasse alla luce del giorno, fosse restituito ai suoi, che gli avrebbero medicato le piaghe.


Una questione di sentimento, come dicono i politici, con una leggera alzata di spalle. Buon Dio, sì! Soltanto il mio cuore era impegnato, andavo in soccorso di un uomo in preda allo sconforto, fosse egli ebreo, cattolico o maomettano. Credevo allora a un semplice errore giudiziario, ignoravo l'enormità del crimine che teneva quell'uomo incatenato, annientato in fondo alla fossa scellerata dove altri spiavano la sua agonia. Non provavo perciò nessuna collera contro i colpevoli, ancora sconosciuti. Semplice scrittore, strappato dalla compassione alla consueta fatica, non perseguivo alcun fine politico, non lavoravo per alcun partito. Il mio personale partito, da quell'inizio della campagna, era unicamente l'umanità da servire.


Quello che subito dopo capii, fu la difficoltà terribile della nostra impresa. Man mano che la battaglia si svolgeva, si estendeva, sentivo che la liberazione dell'innocente richiedeva sforzi sovrumani. Tutti i poteri sociali erano in lega contro di noi, e non avevamo altro, dalla nostra, che la forza della verità.


Dovevamo compiere un miracolo, per risuscitare il seppellito.


Quante volte, durante quei due anni crudeli, ho disperato di riaverlo, di restituirlo alla famiglia! Era laggiù, nella sua tomba, e avevamo un bel metterci in cento, in mille, in ventimila, la pietra era così pesante di iniquità ammassate, che temevo di vedere le nostre braccia indebolirsi, prima dello sforzo supremo.


Mai, mai più! Forse un giorno, tra molto tempo, avremmo imposto la verità, avremmo ottenuto la giustizia. Ma lui, l'infelice, sarebbe morto, la sua sposa, i suoi figli, giammai avrebbero potuto dargli il bacio trionfante del ritorno.


Oggi, signora, ecco che abbiamo compiuto il miracolo. Due anni di lotte gigantesche hanno realizzato l'impossibile, il nostro sogno si è avverato, poiché il giustiziato è sceso dalla sua croce, poiché l'innocente è libero, poiché suo marito le è stato reso.


Non soffrirà più, perciò la sofferenza dei nostri cuori è finita, l'immagine intollerabile cessa di turbare i nostri sonni. Ed è per questo, lo ripeto, che oggi è giorno di grande festa, di grande vittoria. Con discrezione, tutti i nostri cuori comunicano col suo, non c'è moglie, non c'è madre che non abbia sentito il cuore intenerirsi, pensando a questa prima serata d'intimità, alla luce della lampada, tra la commozione affettuosa del mondo intero, dalla cui comprensione lei è attorniata.


Indubbiamente, signora, questa grazia è amara. E' mai possibile imporre, dopo tante torture fisiche, una simile tortura morale? E che ribellione, nel dirsi che si ottiene per pietà quel che dovrebbe dipendere soltanto dalla giustizia!

Il peggio è che tutto sembra essere stato concertato per approdare a quest'ultima iniquità. Questo hanno voluto i giudici: tornare a colpire l'innocente per salvare i colpevoli, pronti a rifugiarsi nell'ipocrisia ributtante di un'apparenza di misericordia. "Tu vuoi l'onore, noi ti faremo al massimo l'elemosina della libertà, perché il tuo disonore legale copre i crimini dei tuoi carnefici".


E non c'è, tra la lunga serie di ignominie commesse, un attentato più abominevole contro la dignità umana. E' veramente il colmo, far mentire la divina pietà, farne strumento della menzogna, servirsene per colpire l'innocenza affinché un crimine possa passeggiare al sole, gallonato e impennacchiato!

E che tristezza, inoltre, che il governo di un grande paese si rassegni per una disastrosa debolezza a essere misericordioso, quando dovrebbe essere giusto! Tremare davanti all'arroganza di una fazione, credere di poter ottenere la pacificazione con l'iniquità, sognare non si sa quale abbraccio menzognero e avvelenato, è il massimo dell'accecamento volontario. Forse che il governo, all'indomani stesso della scandalosa sentenza di Rennes, non doveva deferirla alla Corte di cassazione, alla giurisdizione suprema, di cui invece si fa beffe con tanta insolenza? La salvezza del paese non era forse in quell'atto di necessaria energia, che avrebbe salvato il nostro onore agli occhi del mondo, che avrebbe ristabilito da noi il regno della legge? Soltanto nella giustizia c'è la pacificazione definitiva, qualsiasi viltà sarà soltanto la causa di una nuova febbre, e quello che ci è mancato finora è un governo coraggioso che voglia compiere il suo dovere fino in fondo per riportare sul diritto cammino la nazione smarrita, disorientata dalle menzogne.


Ma è tale il nostro decadimento che siamo ridotti a congratularci con il governo per essersi mostrato pietoso. Ha osato essere buono! Gran Dio, che audacia folle, che coraggio eccezionale, esporsi così ai morsi delle belve, le cui frotte selvagge, sbucate dalla foresta ancestrale, si aggirano tra di noi! Essere buoni, quando non si può essere forti, è già meritorio. E del resto, signora, quella riabilitazione che doveva essere immediata, per la giusta gloria del paese stesso, suo marito può aspettarla a fronte alta, poiché non c'è innocente che sia più innocente, di fronte a tutti i popoli della terra.


Suo marito, ah, cara signora! lasci che le dica quanto è grande la nostra ammirazione per lui, la nostra venerazione, il nostro culto. Ha talmente sofferto, e senza ragione, sotto l'assalto dell'imbecillità, della cattiveria umana, che vorremmo medicare con tenerezza ognuna delle sue piaghe. Sappiamo bene che la riparazione è impossibile, che mai la società potrà pagare il suo debito verso il martire, attanagliato con un'ostinazione così atroce, ed è per questo che gli eleviamo un altare nei nostri cuori, non potendo dargli niente di più puro né di più prezioso di questo culto di commossa fraternità. E' diventato un eroe, più grande degli altri perché ha più sofferto. L'ingiusto dolore lo ha reso sacro; è entrato, augusto, purificato ormai, in quel tempio dell'avvenire in cui hanno sede gli dei, quelli le cui immagini toccano i cuori, facendovi nascere un'eterna fioritura di bontà.


Le indimenticabili lettere che le ha scritto, signora, resteranno come il più bel grido d'innocenza torturata che mai sia uscito da un'anima. E se nessuno, finora, è stato fulminato da un destino più tragico, non c'è neppure chi sia salito più in alto nel rispetto e nell'amore degli uomini.


Poi, come se i suoi aguzzini avessero voluto innalzarlo ulteriormente, ecco che gli è stata imposta la tortura suprema del processo di Rennes. Davanti a quel martire schiodato dalla sua croce, sfinito, che si sosteneva soltanto con la forza morale, si sono avvicendati, selvaggiamente, vilmente, coprendolo di sputi, crivellandolo di coltellate, versandogli fiele e aceto sulle piaghe. E lui, stoico, si è mostrato degno d'ammirazione, senza un lamento, di un coraggio altero, di una tranquilla certezza nella verità, che faranno, in avvenire, lo stupore delle generazioni. E' stato uno spettacolo così bello, così straziante, che l'iniqua sentenza ha sollevato i popoli, dopo quel dibattimento mostruoso di un mese, in cui ogni udienza gridava più forte l'innocenza dell'accusato. Il destino si compiva, l'innocente diventava dio, affinché un esempio indimenticabile venisse donato al mondo.


Qui, signora, arriviamo al sommo. Non c'è gloria, non c'è esaltazione più alta. Una riabilitazione legale, una formula d'innocenza giuridica? verrebbe quasi da chiedersi a che pro, dato che non troveremmo un galantuomo nell'universo che già non sia convinto di quell'innocenza. Ed eccolo, quest'innocente, diventato simbolo della solidarietà umana da un capo all'altro della terra.


Laddove la religione del Cristo aveva impiegato quattro secoli a formarsi,a conquistare alcune nazioni,la religione dell'innocente condannato due volte, ha fatto in un baleno il giro del mondo, riunendo in una immensa umanità tutte le nazioni civili. Cerco, nel corso della storia, un analogo movimento di fraternità universale, e non lo trovo. L'innocente condannato due volte ha fatto di più per la fraternità tra i popoli, per l'idea di solidarietà e di giustizia, che cento anni di discussioni filosofiche e di teorie umanitarie.


Per la prima volta nel tempo, l'umanità intera ha avuto un grido di liberazione, una ribellione d'equità e di generosità, come se ormai formasse un popolo solo, il popolo unico e fraterno di cui sognano i poeti.


E che sia onorato, perciò, che sia venerato, l'uomo eletto dalla sofferenza, nel quale si è appena incarnata la comunione universale!

Può dormire tranquillo e fiducioso, signora, nel dolce rifugio familiare, riscaldato dalle sue mani pie. E Lei può contare su noi, per la sua glorificazione. Siamo noi poeti a fare la gloria, e la parte che gli assegneremo sarà così bella che nessun altro uomo della nostra epoca lascerà un ricordo altrettanto commovente.


Si sono già scritti molti libri in suo onore, un'intera biblioteca si è moltiplicata per dimostrare la sua innocenza, per esaltare il suo martirio. Mentre dalla parte dei suoi carnefici i documenti scritti, volumi e opuscoli, si contano, gli amanti della verità e della giustizia non hanno cessato né cesseranno di contribuire alla storia, di pubblicare gli innumerevoli documenti dell'immensa inchiesta, che un giorno permetterà di stabilire i fatti in modo definitivo. E' il verdetto di domani che si prepara, e quello porterà l'assoluzione trionfale, la riparazione lampante, tutte le generazioni in ginocchio a chiedere perdono, alla memoria del glorioso torturato, per il delitto dei loro padri.


E siamo sempre noi, signora, noi, i poeti, a inchiodare i colpevoli alla gogna eterna. Quelli che noi condanniamo, le generazioni li fischiano e li disprezzano. Ci sono nomi di criminali che, marchiati d'infamia da noi, altro non sono che relitti immondi nel succedersi delle epoche. La giustizia immanente si è riservata questo castigo, ha incaricato i poeti di legare all'esecrazione dei secoli coloro le cui malefatte sociali, i cui crimini troppo grandi sfuggono ai tribunali ordinari. So bene che, per questi animi meschini, per quei gaudenti di un giorno, questo è solo un castigo lontano, del quale ridono.


L'insolenza immediata è sufficiente per loro. Trionfare a furia di calci, ecco il successo brutale che soddisfa la loro fame volgare.


E che importa l'indomani della tomba, che importa l'infamia quando non si è presenti per arrossirne? La spiegazione dello spettacolo vergognoso che ci è stato offerto è in questa bassezza d'animo: le menzogne sfrontate, le frodi più accertate, le impudenze lampanti, tutto ciò che non potrebbe mai durare più di un'ora, e che non può non precipitare la rovina dei colpevoli. Ma non hanno una discendenza, questi, non temono che il rossore della vergogna salga un giorno alle guance dei loro figli e dei loro nipoti?

Ah, poveri pazzi! Sembra che neppure li sfiori l'idea che questa colonna infame, alla quale noi inchioderemo i loro nomi, l'hanno eretta proprio loro. Voglio credere che si tratti di crani ottusi, nei quali un ambiente speciale, uno spirito professionale, abbia provocato una deformazione. Così quei giudici di Rennes, che condannano di nuovo l'innocente per salvare l'onore dell'esercito:

si può immaginare qualcosa di più sciocco? L'esercito, già! Lo hanno servito bene, compromettendolo in questa avventura iniqua.


Sempre il fine volgare, l'immediato, senza alcuna previdenza del domani. Bisognava salvare i pochi capi colpevoli, salvo provocare un autentico suicidio dei tribunali militari, un sospetto gettato sull'alto comando, ormai solidale. E fa sempre parte dei loro crimini, del resto, l'avere disonorato l'esercito, essersi fatti artefici di nuovi disordini e di nuova collera, al punto che il governo ha graziato l'innocente, ha ceduto senza dubbio all'urgente bisogno di riparare all'errore tanto da credersi ridotto a quel diniego di giustizia pur di pacificare un po' gli animi.


Ma bisogna dimenticare, signora, bisogna soprattutto mettere in non cale. E' un grande sostegno, nella vita, ignorare le viltà e gli oltraggi. Me ne sono sempre trovato bene. Sono ormai quarant'anni che lavoro, quarant'anni che mi tengo in piedi grazie al disprezzo delle ingiurie che mi è valsa ciascuna delle mie opere. E, dopo due anni che ci battiamo per la verità e la giustizia, l'ignobile moltitudine è cresciuta talmente attorno a noi, che ne usciamo corazzati per sempre, invulnerabili alle ferite. Per conto mio, sono giornali ignobili, sono fantocci di melma che ho radiato dalla mia vita. Non esistono più, salto il loro nome quando mi viene sotto gli occhi, salto perfino gli estratti che possono essere citati dai loro scritti. E' una semplice norma d'igiene. Ignoro se continuano, il disprezzo li ha scacciati dal mio pensiero, in attesa che la fogna li spazzi via del tutto.


Ed è l'oblio sdegnoso di tante ingiurie atroci, che io consiglio all'innocente. Egli è talmente a parte, talmente in alto, che non deve più esserne colpito. Possa rivivere al suo braccio, sotto il sole limpido, lontano dalle folle ammutinate, per ascoltare soltanto il concerto di simpatia universale che sale verso di lui!

Pace al martirizzato che ha tanto bisogno di riposo, e che attorno a lui, nel rifugio dove lei lo amerà e lo guarirà, ci sia soltanto la carezza commossa degli esseri e delle cose.


Quanto a noi, signora, continueremo la lotta, ci batteremo per la giustizia con la stessa asprezza di ieri. Ci occorre la riabilitazione dell'innocente, non tanto per riabilitare lui, che ha tanta gloria, quanto per riabilitare la Francia, che morirebbe sicuramente di questi eccessi d'iniquità.


Riabilitare la Francia agli occhi delle nazioni, il giorno in cui casserà la sentenza infame, questo sarà il nostro sforzo di ogni ora. Un grande paese non può vivere senza giustizia, e il nostro resterà in lutto, fin quando non avrà cancellato la macchia, questo schiaffo alla sua più alta giurisdizione, questo rifiuto del diritto che colpisce ogni cittadino. Il legame sociale è sciolto, tutto crolla, da quando la garanzia delle leggi non esiste più. E c'è stato un aspetto così insolente, in questo rifiuto del diritto, c'è stata una smargiassata così impudente, che non abbiamo neppure la risorsa di far scendere il silenzio sul disastro, di seppellire il cadavere di nascosto, per non arrossire di fronte ai nostri vicini. Il mondo intero ha visto, ha sentito, ed è davanti al mondo intero che la riparazione deve avvenire, risonante quanto lo è stata la colpa.


Volere una Francia senza onore, una Francia isolata, disprezzata, è un sogno criminale. Senza dubbio gli stranieri verranno alla nostra Esposizione, non ho mai dubitato che essi invadano Parigi, l'estate prossima, come si corre alla fiera del giorno di festa, tra lo splendore dei lumi e il baccano delle musiche. Ma può forse bastare, questo, alla nostra fierezza? O dobbiamo tenere tanto alla stima quanto al denaro di quei visitatori venuti da ogni parte del globo? Festeggiamo la nostra industria, la nostra scienza, le nostre arti, esponiamo i nostri lavori del secolo.


Oseremo esporre la nostra giustizia? E vedo ogni ora quella caricatura straniera, l'isola del Diavolo, ricostruita, mostrata al Campo di Marte. Per conto mio, brucio di vergogna, non capisco come l'Esposizione possa venire inaugurata senza che la Francia abbia ripreso il suo rango di nazione giusta. Che l'innocente sia riabilitato, allora soltanto la Francia sarà riabilitata con lui.


Ma torno a dirlo nel concludere, signora, Lei può rimettersi ai buoni cittadini che hanno fatto restituire la libertà a suo marito e che gli faranno restituire l'onore. Nessuno abbandonerà il combattimento; sanno di lottare per il paese, lottando per la giustizia. L'ammirevole fratello dell'innocente darà loro ancora una volta l'esempio del coraggio e della saggezza. E poiché non abbiamo potuto, in un colpo solo, renderle l'amato essere libero e lavato dell'accusa menzognera, le chiediamo soltanto ancora un po' di pazienza, augurandoci che i suoi figlioli non debbano crescere ancora molto, prima che il loro nome sia legalmente puro da ogni macchia.


Quei cari bambini, oggi il mio pensiero torna irresistibilmente verso di loro, e li vedo tra le braccia del padre. So con quale cura gelosa, per quale miracolo di delicatezza, lei li ha tenuti nella completa ignoranza. Credevano il loro padre in viaggio; poi, la loro intelligenza ha finito per svegliarsi, si facevano esigenti, interrogavano, volevano le spiegazioni di una così lunga assenza. Che dire loro, quando il martire era ancora laggiù, quando la prova della sua innocenza era costituita soltanto da qualche raro credente? Il suo cuore dev'essersi spezzato orribilmente. Ma, in queste ultime settimane, allorché l'innocenza ha brillato per tutti, di una luminosità solare, avrei voluto che Lei li prendesse tutti e due per mano e li conducesse in quella prigione di Rennes, affinché avessero per sempre nella memoria il padre ritrovato là, soffuso d'eroismo. E che avesse detto loro che cosa aveva sofferto, quale grandezza morale era la sua, di quale appassionata tenerezza dovevano amarlo per fargli dimenticare l'iniquità degli uomini. Le loro piccole anime si sarebbero temprate in quel bagno di maschia virtù.


Del resto, non è troppo tardi. Una sera, alla luce della lampada di famiglia, nella pace commossa del focolare domestico, il padre li chiamerà a sé, li farà sedere sulle sue ginocchia, e gli dirà tutta la tragica storia. Bisogna che sappiano, perché lo rispettino, perché lo adorino come merita. Quando avrà parlato, sapranno che non c'è al mondo un eroe più acclamato, un martire la cui sofferenza abbia sconvolto più profondamente i cuori. E saranno molto fieri di lui, porteranno il suo nome gloriandosene, come il nome di un coraggioso e di uno stoico che si è purificato fino al sublime, preda del destino più orribile che la scelleratezza e la viltà umane abbiano lasciato compiersi. Un giorno, non saranno né il figlio né la figlia dell'innocente, saranno i figli degli aguzzini quelli che dovranno arrossire, tra l'esecrazione universale.


Voglia gradire, signora, l'espressione del mio profondo rispetto.




LETTERA AL SENATO


Pubblicata su "L'Aurore" il 29 maggio 1900.


Erano passati altri otto mesi, tra l'articolo precedente e questo.


L'Esposizione universale aveva aperto i battenti il 15 aprile 1900, ci trovavamo in piena tregua. Il mio processo di Versailles era stato regolarmente rinviato di sessione in sessione. Ogni tre mesi venivo citato in giudizio, affinché il procedimento non cadesse in prescrizione, e l'indomani ricevevo un'altra carta, dove mi si avvertiva di non disturbarmi. Lo stesso avveniva per la mia vertenza con i tre esperti, Belhomme, Varinard e Couard, che veniva rinviata di mese e mese, all'infinito. - Ci vollero circa quindici mesi, dopo la grazia di Alfred Dreyfus, per maturare il mostro, la legge d'amnistia, la legge scellerata.


Signori senatori, il giorno in cui, con la morte nell'anima, avete votato la legge detta di incompetenza a procedere, avete commesso un primo sbaglio. Voi, i guardiani della legge, avete permesso un attentato alla legge, togliendo un accusato ai suoi giudici naturali, sospettati di non essere giudici integri. Ed era già sotto la pressione governativa che cedevate, in nome del bene pubblico, per ottenere la pacificazione che vi veniva promessa, se aveste consentito a tradire la giustizia.


La pacificazione! Ricordatevi che all'indomani della sentenza della Corte di cassazione, riunite tutte le Camere, l'agitazione è ricominciata, più violenta, più micidiale. Vi eravate disonorati in pura perdita, dal momento che la vostra legge di circostanza, e l'ingiustizia desiderata che da essa ci si aspettava, tornavano a trionfo dell'innocente. E ricordatevi che si è trovato un tribunale militare per consumare a ogni costo l'iniquità suprema, schiaffo alla nostra magistratura più alta di cui la coscienza nazionale dovrà arrossire, finché l'oltraggio non sarà stato riparato.


Oggi, vi si chiede di commettere un secondo errore, l'ultimo, il più maldestro e il più pericoloso. Non si tratta di una legge di incompetenza a procedere, questa volta, ma di una legge di insabbiamento. Avete soltanto cambiato i giudici, ma questa volta vi sollecitano a dire che non ci sono più giudici. Dopo avere accettato la vile bisogna di adulterare la giustizia, eccovi incaricati di dichiarare la giustizia fallita. E, di nuovo, vi prendono per la gola con la necessità politica, vi strappano il vostro voto in nome della salvezza della patria, vi assicurano che, sola, la vostra cattiva azione può darci la pacificazione degli animi.


La pacificazione! Potremmo ottenerla soltanto nella verità e nella giustizia. Non la otterrete certo sopprimendo i giudici, così come non l'avete ottenuta cambiandoli. La otterrete ancor meno, perché aggravate la decomposizione sociale, gettate sempre più il paese nella menzogna e nell'odio. E, quando la miseria di questo espediente momentaneo diventerà palese, quando tanto sudiciume sotterrato finirà per avvelenare e sconvolgere del tutto la nazione, voi sarete i responsabili, i colpevoli, i mandatari di cui la storia narrerà la criminale debolezza.


Più di due mesi fa, quando ho chiesto d'essere ascoltato dalla vostra commissione, signori senatori, il mio desiderio era soprattutto di protestare contro il progetto di amnistia dal quale ci sentivamo minacciare. Oggi, scrivo di quella protesta in questa lettera per rinnovarla con energia anche maggiore, alla vigilia del giorno in cui sarete chiamati a discutere quella legge d'amnistia che, dal mio punto di vista personale, considero come un diniego di giustizia, e, dal punto di vista del nostro onore nazionale, come una macchia incancellabile.


Quel che ho già detto davanti alla vostra Commissione, c'è bisogno che lo ripeta qui? Si finisce per provare un senso di stanchezza e anche di vergogna nel ridire incessantemente le stesse cose. E' una storia che il mondo intero conosce e ha giudicato già da molto tempo, a proposito della quale soltanto dei francesi possono continuare a battersi, nella crisi di demenza dei fanatismi politici e religiosi. Ho detto che, dopo avermi chiuso brutalmente la bocca a Parigi, con l'impudente: "La questione non sarà posta", e che, dopo avere voluto, a Versailles "strangolare Labori", era veramente mostruoso rifiutarmi il processo che io ho voluto, i giudici che avevo pagato in anticipo con tanti oltraggi, con tanti tormenti e con quasi un anno d'esilio, unicamente per il trionfo della verità. Ho detto che mai amnistia più assurda o più inquietante avrà deriso il diritto, perché da che mondo è mondo vengono amnistiati contemporaneamente soltanto delitti e crimini dello stesso ordine, in favore di condannati che già scontavano la loro pena, mentre qui si tratta di amnistiare una stranissima congerie di atti diversi, commessi in ordini diversi, la maggior parte dei quali non è stata ancora nemmeno discussa in tribunale.


E ho detto che l'amnistia veniva fatta contro di noi, contro i difensori del diritto, per salvare i criminali autentici, chiudendoci la bocca con una clemenza ipocrita e ingiuriosa, mettendo nello stesso sacco la gente onesta e i malfattori, equivoco supremo, che farà imputridire del tutto la coscienza nazionale.


Del resto, non sono stato il solo a dire queste cose, quel giorno.


Il colonnello Picquart e Joseph Reinach avevano voluto, come me, essere ascoltati dalla vostra Commissione. E quest'ultima ha avuto perciò l'edificante spettacolo di tre uomini i cui casi sono assolutamente diversi, e dei quali si è deciso di sbarazzarsi con lo stesso metodo sbrigativo, di rifiuto di giustizia. Non si conoscevano prima del caso, sono venuti da tre mondi opposti, si trovano l'uno sotto la sola minaccia di un'azione davanti a un tribunale militare, l'altro con un processo in assise, il terzo condannato in contumacia a tremila franchi d'ammenda e a un anno di prigione. Non ha importanza, si fa confusione tra i loro casi, li si getta nella stessa soluzione bastarda, senza darsi pensiero della situazione atroce in cui vengono lasciati, della loro vita spezzata, delle accuse di cui non potranno lavarsi, delle prove della loro buona fede che non potranno addurre. Si fa in modo di sporcarli del tutto, riservandogli lo stesso trattamento che viene usato ai banditi, con una commedia infame intesa a dare un colore di magnanimità patriottica a un provvedimento d'iniquità e bassezza universali. E volete che questi tre uomini non protestino con tutto il loro dolore di cittadini lesi nel loro interesse e nel loro amore per la grande Francia, di cui hanno creduto dover essere degni figli? Certo, io protesto di nuovo, e so bene che il colonnello Picquart e Joseph Reinach protestano con me, come hanno fatto il giorno in cui abbiamo deposto davanti alla vostra Commissione.


Ma queste cose, signori senatori, le sanno tutti, e meglio di tutti le sapete voi, poiché fate parte del retroscena politico in cui è stata cucinata la mostruosa avventura. Lo sapeva la vostra Commissione, il che spiega l'angoscia giuridica in cui si è dibattuta per tanto tempo, la ripugnanza che provava nel patrocinare un progetto indegno, ripugnanza di cui solo la pressione governativa, nelle circostanze che voi conoscete, ha potuto avere ragione. Voi stessi, ne sono certo, convenite sottovoce che non si era mai visto un simile ammasso di turpitudini, di menzogne e di crimini, d'illegalità flagranti, di rifiuto di giustizia. Perfino lo spaventoso numero di attentati e di infamie vi atterrisce. Come ripulire il paese? Come fare perché a ciascuno venga resa giustizia, senza che la Francia del passato debba franare fino nelle sue antiche fondamenta, e senza essere obbligati a ricostruire finalmente la Francia giovane e gloriosa di domani? E pensieri fiacchi nascono negli spiriti più saldi, troppi sono i cadaveri, meglio scavare un buco per sotterrarceli alla rinfusa, con la speranza che non se ne parli più, a rischio che la loro decomposizione filtri attraverso il sottile strato di terra che li ricopre, e faccia ben presto crepare appestato l'intero paese.


E' così!, vero? e siamo d'accordo su un punto, ossia il male; salito dalle nascoste profondità del corpo sociale, lasciato affiorare alla luce, è orribile. E in fondo differiamo soltanto sul modo di tentare la guarigione. Voi, uomini di governo, sotterrate, sembrate convinti che quello che non si vede è come se non esistesse; mentre noi, semplici cittadini, vorremmo purificare subito, bruciare gli elementi putrefatti, farla finita con i fermenti di distruzione affinché il corpo ritrovi tutto intero la salute e la forza.


E l'avvenire dirà chi aveva ragione.


La storia è semplicissima, signori senatori, ma non è affatto inutile riassumerla.


All'inizio, nel caso Dreyfus c'è stata unicamente una questione di giustizia, l'errore giudiziario del quale alcuni cittadini, di cuore senza dubbio più giusto e più tenero degli altri, hanno voluto la riparazione. Personalmente, in principio io non ci ho visto altro. Ed ecco che, in breve tempo, man mano che la mostruosa avventura si svolgeva, che le responsabilità si spostavano più in alto, arrivavano ai capi militari ai funzionari, agli uomini di potere, la questione ha investito l'intero corpo politico, trasformando il clamoroso caso in una crisi terribile e generale, dove sembrava essere in gioco la sorte della stessa Francia. Così, a poco a poco, sono venuti a scontrarsi due partiti: da una parte, tutti gli avversari della vera Repubblica che dovremmo avere,tutti glispiritiche,forse inconsapevolmente, sono per l'autorità nelle sue diverse forme, religiosa, militare, politica; dall'altra, tutta la libera azione verso l'avvenire, tutti i cervelli liberati dalla scienza, tutti quelli che tendono alla verità, alla giustizia, che credono nel progresso continuo, le cui conquiste finiranno un giorno per realizzare il massimo di felicità possibile. E da quel momento, la battaglia è stata spietata.


Da giudiziario che era, che sarebbe dovuto restare, il caso Dreyfus è diventato politico. Il veleno è tutto lì. E stato l'occasione che ha fatto salire bruscamente alla superficie l'oscuro lavoro di inquinamento e di decomposizione con il quale gli avversari della Repubblica minavano il regime da più di trent'anni. Oggi salta agli occhi di tutti che la Francia, l'ultima delle grandi nazioni cattoliche rimasta in piedi e potente, è stata scelta dal cattolicesimo, o per meglio dire dal papismo, per restaurare il potere vacillante di Roma, ed ecco perché c'è stata un'invasione in sordina, ecco che i gesuiti, per non parlare degli altri strumenti religiosi, si sono appropriati della gioventù con incomparabile astuzia; al punto che un bel mattino la Francia di Voltaire, la Francia che tutt'ora non è ancora ritornata dai parroci, si è risvegliata clericale, in mano a un'amministrazione, a una magistratura, a uno Stato maggiore dell'esercito che ricevono la parola d'ordine da Roma. Le apparenze illusorie sono cadute di colpo, ci siamo accorti che della Repubblica abbiamo soltanto l'etichetta, abbiamo intuito di camminare su un terreno minato da tutte le parti, in cui stavano per sprofondare cento anni di conquiste democratiche.


La Francia era sul punto di appartenere alla reazione, ecco qual è il nostro grido, il nostro terrore. Questo spiega tutta la decadenza morale in cui la fiacchezza delle Camere e del governo ci ha lasciato slittare a poco a poco. Dal momento stesso in cui un Parlamento, in cui un governo teme di agire, per il timore di non essere più con i padroni di domani, la caduta è pronta e fatale. Provate a immaginare degli uomini al potere che si accorgono di non avere più in mano nessuno degli ingranaggi necessari, né funzionari obbedienti, né militari scrupolosi nella disciplina, né magistrati integri. Come perseguire il generale Mercier, mentitore e falsario, quando tutti i generali sono solidali con lui? Come deferire i veri colpevoli ai tribunali, quando si sa che ci sono magistrati per assolverli? Come governare con onestà, se neanche un funzionario eseguirà onestamente le disposizioni? In simili circostanze, bisognerebbe che ci fosse al potere un eroe, un grand'uomo di stato risoluto a salvare il suo paese, magari con l'azione rivoluzionaria, se occorre. E poiché, al momento, uomini così non ce ne sono, abbiamo assistito allo sbandamento dei nostri ministri, impotenti e maldestri quando non erano addirittura complici e canaglie, li abbiamo visti ruzzolare gli uni addosso agli altri, sotto i colpi delle Camere disorientate, in preda alle fazioni, piombate nell'ignominia dell'egoismo meschino e delle questioni personali.


Ma non è tutto, il fatto più grave, il più doloroso, è che si è permesso a una stampa ignobile di avvelenare il paese, di nutrirlo impudentemente di menzogne, di calunnie, di sudiciume e di oltraggi, fino a renderlo folle. L'antisemitismo non è stato altro che lo sfruttamento grossolano di odi ancestrali, per risvegliare il fanatismo religioso in un popolo di miscredenti che non andava più in chiesa. Il nazionalismo altro non è stato che lo sfruttamento altrettanto grossolano del nobile amor di patria, tattica di abominevole politica che condurrà il paese diritto alla guerra civile, il giorno in cui sarà stato possibile convincere una metà dei francesi che l'altra metà li tradisce e li vende allo straniero, dal momento che la pensa diversamente. Ed è stato così che si sono potute formare delle maggioranze, le quali hanno professato che il vero era il falso, che il giusto era l'ingiusto, che si sono letteralmente rifiutate d'intendere ragioni, condannando un uomo perché era ebreo, perseguitando con grida di "a morte" i pretesi traditori la cui unica passione era di salvare l'onore della Francia, nella disfatta del raziocinio nazionale.


Da quel momento, da quando cioè hanno potuto illudersi che il paese stesso, nella sua improvvisa e morbosa follia, passasse alla reazione, quante bravate non hanno fatto le Camere e il governo!

Mettersi contro le maggioranze possibili, ma ci pensate? Il suffragio universale, che sembra così giusto, così logico, ha purtroppo una tara orribile, e cioè che qualsiasi eletto dal popolo altro non è che il candidato di domani, schiavo del popolo per il suo aspro bisogno di essere rieletto; per cui, quando il popolo impazzisce per una di quelle crisi di cui abbiamo avuto esempio, l'eletto è alla mercé di quel pazzo, ripete quel che dice, non ha più il coraggio di pensare e d'agire da uomo libero.


Ecco a quale doloroso spettacolo assistiamo da tre anni: un Parlamento che non sa come usare il suo mandato perché ha paura di perderlo, un governo che dopo aver lasciato cadere la Francia in mano ai reazionari, agli avvelenatori pubblici, teme ogni momento d'essere rovesciato, fa le peggiori concessioni ai nemici del regime che rappresenta, soltanto per poterne stare a capo qualche giorno di più.


Non sono forse queste, signori senatori, le ragioni che vi faranno decidere per questa nuova concessione di un'amnistia il cui risultato sarà di sottrarre al castigo i grandi colpevoli che nessun governo ha osato perseguire? Pensate di salvare voi stessi, dicendo che bisogna pur salvare il governo dall'imbarazzo mortale in cui minaccia di sprofondare a causa delle sue eterne debolezze.


Se un uomo di Stato energico, semplicemente onesto, avesse preso per la collottola il generale Mercier fin dal suo primo crimine, da un pezzo tutto sarebbe rientrato nell'ordine. Invece, a ogni nuova retrocessione della giustizia, l'audacia dei criminali è cresciuta, naturalmente; ed è verissimo che, cresciuto com'è a dismisura il tasso degli abomini, a quest'ora occorrerebbe un bel coraggio per liquidare il caso, secondo giustizia e secondo l'interesse della Francia. Non ce l'ha nessuno, questo coraggio, tutti rabbrividiscono all'idea di esporsi al fiotto d'ingiurie degli antisemiti e dei nazionalisti, tutti si barcamenano con la follia in cui il veleno ha gettato certe maggioranze di elettori, per cui eccovi costretti a un'ennesima viltà, a una colpa suprema che avrà l'effetto di consegnare il paese alla reazione, sempre più trionfante e audace.


Stando così le cose, non vi rendete conto che è un'operazione singolare quella di seppellire i problemi molesti, con la convinzione infantile di eliminarli? Sono già tre anni che sento ripetere dagli uomini politici che non esiste, o che non esiste più un caso Dreyfus ogni volta che hanno interesse a crederlo. Non per questo il caso Dreyfus smette di seguire il suo logico sviluppo, perché è certo che esso finirà soltanto quando sarà finito. Nessun potere umano può arrestare il cammino della verità.


Oggi che spira un nuovo panico, eccovi atterriti, ben risoluti a decretare ancora una volta che non c'è più traccia del caso Dreyfus, né mai ce ne sarà. Sperate, con l'approfondire ulteriormente la fossa in cui lo avete sepolto, e buttandoci sopra la legge d'amnistia, che ormai non potrà più risuscitare. Sforzi vani, esso ritornerà come uno spettro, come un'anima in pena, fino a che non sarà fatta giustizia. Non c'è riposo, per un popolo, se non nella verità e nell'equità.


E il peggio è che potreste essere in buona fede quando date a voi stessi l'illusione che, grazie a questo strangolamento di ogni forma di giustizia, otterrete la pacificazione. E' per la tanto desiderata pacificazione che sacrificate, sull'altare della patria, le vostre coscienze di legislatori onesti. Ah! poveri ingenui, o semplici egoisti maldestri, che una volta di più si disonoreranno in pura perdita! Bella, la pacificazione, dopo aver consegnato, membro per membro, la Repubblica ai suoi nemici, pur di ottenerne il silenzio. Essi urlano più forte, raddoppiano le ingiurie a ogni soddisfazione che viene loro offerta. Questa legge d'amnistia che voi emanate per loro, per salvare i loro capi dal bagno penale, strepitano già che siamo noi a strapparvela. Siete dei traditori, sono traditori i ministri, è un traditore il presidente della Repubblica. E quando avrete votato la legge avrete fatto opera di traditori per salvare dei traditori. Questa sarà la pacificazione, e io vi aspetto all'indomani dell'amnistia, sotto l'ondata di fango con la quale vi copriranno, tra gli applausi dei cannibali che danzeranno la danza del massacro.


Ma non vedete, non capite? Dopo che si era convenuto di tacere, di non parlare più del caso Dreyfus durante la tregua dell'Esposizione, chi sono quelli che ne parlano sempre? Chi ha violentato Parigi, durante le ultime elezioni comunali, riprendendo la campagna di menzogne e di oltraggi? Chi mescola di nuovo l'esercito a quelle vergogne, chi continua a divulgare incartamenti segreti, per tentare di rovesciarne il governo? Il caso Dreyfus è diventato lo spettro rosso degli antisemiti e dei nazionalisti. Senza non possono regnare, ne hanno un continuo bisogno per dominare il paese con il terrore. Come un tempo i ministri dell'impero ottenevano tutto dal corpo legislativo agitando lo spettro rosso, questi non devono far altro che brandire il caso, per inebetire i poveri diavoli di cui hanno fuorviato il cervello. E, ancora una volta, eccola, la pacificazione: la vostra amnistia sarà soltanto una nuova arma nelle mani della fazione che ha sfruttato il caso affinché la Francia repubblicana non crepasse, e che tanto più continuerà a sfruttarlo in quanto la vostra amnistia darà forza di legge all'equivoco, senza che la nazione possa ormai capire da che parte stessero la verità e la giustizia.


In così grave pericolo, c'era una cosa sola da fare, accettare la lotta contro tutte le forze del passato coalizzate, rifare l'amministrazione, rifare la magistratura, rifare l'alto comando, poiché tutto questo dava segni manifesti di putrefazione clericale. Far luce al paese per mezzo di atti, dire tutta la verità, rendere giustizia fino in fondo. Approfittare della prodigiosa lezione pratica che si svolgeva, per fare avanzare il popolo, in tre anni, del passo gigantesco che forse impiegherà cento anni a compiere. Accettare se non altro la battaglia, in nome dell'avvenire, e trarne per la nostra grandezza futura tutta la vittoria possibile. Perfino oggi, benché tante viltà abbiano reso l'impresa quasi impossibile, la sola cosa da fare è sempre la stessa, tornare alla verità, tornare alla giustizia, nella certezza che, al di fuori di esse, per un paese non c'è che decadenza e morte vicina.


Il mio caro e grande Labori, che è stato ridotto al silenzio in una di quelle ore indegne di cui ho parlato, ha avuto tuttavia l'occasione di dirlo, in una circostanza recente, con la sua straordinaria eloquenza. Giacché il governo, giacché gli uomini politici non hanno mai cessato d'intervenire nel caso, di sottrarlo ai tribunali che, soli, dovevano risolverlo, sono gli uomini politici, siete voi, signori senatori, che avete il compito di concluderlo, per la pace più grande e per il bene più grande della nazione. E vi ripeto che, se fate assegnamento sulla vostra legge d'amnistia per conseguire questo risultato, aggraverete le vostre antiche colpe di un'ennesima colpa, di un errore che può essere mortale e che peserà gravemente sul ricordo di voi.


E' per me motivo di stupore, signori senatori, che ci accusino di voler riaprire il caso Dreyfus. Non capisco. C'è stato un caso Dreyfus, un innocente torturato da carnefici che conoscevano la sua innocenza, e quel caso, grazie a noi, è chiuso, relativamente alla vittima stessa, che gli aguzzini hanno restituito alla sua famiglia. Oggi il mondo intero sa la verità, e i nostri peggiori avversari non la ignorano, la confessano, a porte chiuse. La riabilitazione non sarà altro che una formula giuridica, quando verrà il momento, per cui Dreyfus non ha più alcun bisogno di noi, perché è libero e ha intorno a sé, ad aiutarlo, l'ammirevole e valorosa famiglia che non ha mai dubitato del suo onore e della sua liberazione.


Allora, a che scopo dovremmo riaprire il caso Dreyfus? A parte il fatto che non avrebbe nessun senso, non sarebbe di giovamento a nessuno. Quel che noi vogliamo è che il caso Dreyfus si chiuda con l'unica conclusione che potrà restituire la forza e la calma al paese, vale a dire la punizione dei colpevoli, non per rallegrarci del loro castigo ma perché il popolo sappia, finalmente, e perché la giustizia porti la pacificazione, la sola autentica e solida.


Siamo convinti che la salvezza della Francia sta nella vittoria delle forze di domani contro le forze di ieri, degli uomini di verità contro gli uomini d'autorità. Proprio per questo non possiamo ammettere che il caso Dreyfus non abbia come conclusione la giustizia per tutti e che non se ne ricavino le lezioni che ci aiuteranno, domani, a fondare in modo definitivo la Repubblica, se verranno realizzate tutte le riforme di cui esse hanno dimostrato la necessità imperiosa.


Ancora una volta, non siamo noi a riaprire il caso Dreyfus, a utilizzarlo per i nostri scopi elettorali, a riparlarne di continuo alla folla per stordirla. Noi reclamiamo soltanto i nostri giudici naturali, riponiamo nella giustizia per tutti la speranza che essa acclari prontamente la verità e pacifichi, così facendo, la nazione. Dicono che il caso ha fatto molto male alla Francia, è un luogo comune di cui gli stessi ministri si servono, quando vogliono rubare voti. A quale Francia il caso ha fatto tanto male? Se si tratta della Francia di ieri, meglio così! Ed è certo, infatti, che tutte le vecchie istituzioni ne sono uscite sgangherate, che esso ha reso palese l'irrimediabile corrosione del vecchio edificio sociale, al punto che ormai non rimane che abbatterlo. Ma perché dovrei affliggermi del male che esso ha fatto al passato, se è stato utile all'avvenire, se ha operato per la proprietà, per l'integrità della Francia di domani? Mai febbre avrà favorito in modo più netto l'eruzione cutanea della malattia che è necessario curare. E non è affatto il caso Dreyfus che vogliamo riaccendere; a noi basta curare e guarire la malattia di cui è servito a mostrarci la virulenza.


Ma c'è uno scopo ancora più grave, una necessità pressante che mi assilla. L'amnistia che sotterra, l'amnistia che vorrebbe mettere fine a tutto con la menzogna e l'equivoco, ha come terribile conseguenza di lasciarci alla mercé di una divulgazione pubblica da parte della Germania. Ho già fatto diverse volte allusione a questa situazione agghiacciante, che dovrebbe angosciare i patrioti autentici, turbare le loro notti, indurli a esigere la liquidazione completa e definitiva del caso Dreyfus, come un provvedimento di salute pubblica da cui dipendono l'onore e la vita stessa della Francia. E poiché è tempo, oggi, di parlare finalmente forte e chiaro, parlerò.


Nessuno ignora che i numerosi documenti forniti da Esterhazy all'addetto militare tedesco, Schwartzkoppen, si trovano al ministero della Guerra, a Berlino. Ci sono là documenti d'ogni genere, appunti, lettere e, tra l'altro, dicono, tutta una serie di lettere in cui Esterhazy esprime giudizi sui suoi capi, fornendo particolari sulla loro vita privata ben poco edificanti.


Ci sono pure altri elenchi, voglio dire altre enumerazioni di documenti offerti e consegnati, il minore dei quali dimostra senza possibilità di discussione l'innocenza di Dreyfus e la colpevolezza dell'uomo che due nostri tribunali militari hanno assolto, malgrado l'evidenza lampante del suo crimine. Ebbene!

Facciamo l'ipotesi che domani scoppi una guerra tra la Francia e la Germania, ed eccoci sotto la spaventosa minaccia: ancor prima di aver tirato un colpo di fucile, e che si possa dare battaglia, la Germania pubblica in un opuscolo il dossier Esterhazy e io dico che la battaglia è perduta, che siamo sconfitti di fronte al mondo intero senza nemmeno esserci potuti difendere. Il nostro esercito è minato nel rispetto e nella fiducia che deve ai suoi capi, tre nostri tribunali militari vengono riconosciuti rei d'iniquità e di crudeltà, tutta la mostruosa avventura grida ai quattro venti la nostra decadenza e la patria crolla, non siamo altro che una nazione di bugiardi e di falsari.


Ne ho avuto spesso un brivido di morte, io. E come può un governo che sa, accettare di vivere sia pure per un attimo sotto una tale minaccia? Come può parlare di calare il sipario, di restare nel pericolo in cui siamo, adducendo il pretesto che il paese chiede di esserne pacificato? E' assolutamente incomprensibile, e giungo a dire che è come tradire la patria l'astenersi dal fare immediatamente luce con tutti i mezzi possibili, senza aspettare che questa luce venga dall'estero, magari, come un fulmine a ciel sereno. Il giorno in cui l'innocente sarà riabilitato, il giorno in cui verranno puniti i veri colpevoli, soltanto allora avremo spezzato nelle mani della Germania l'arma che essa possiede contro di noi, poiché la Francia avrà riconosciuto da sola il proprio errore e vi avrà posto riparo.


L'amnistia viene perciò a chiudere una delle ultime porte aperte sulla verità. Non ho mai smesso di ripeterlo, il solo testimone che, con una parola, può chiarire tutto, Schwartzkoppen, non si è voluto ascoltarlo. Davanti alla Corte d'assise di Versailles, sarà il mio testimone, quello di cui chiederò l'escussione per commissione rogatoria, quello che non potrà rifiutarsi di dire finalmente l'intera verità e di appoggiarla sui documenti che ha avuto tra le mani. La soluzione è là, non altrove. Di là verrà, presto o tardi, ed è follia da parte nostra il non provocarla e averne l'onore, invece di aspettare che ci venga gettata in faccia, in qualche tragica circostanza.


Il mio stupore è stato grande, il giorno in cui mi sono presentato di fronte alla vostra Commissione, quando il presidente mi ha domandato, da parte del presidente del Consiglio dei ministri, se fossi in possesso di un fatto nuovo, da produrre a Versailles. Era come dire che, se non avevo la verità in tasca, insieme al fazzoletto, tanto valeva che mi lasciassi amnistiare, senza tante proteste. Una domanda del genere mi ha sbalordito, da parte del presidente del Consiglio, il quale sa benissimo che la verità non si porta addosso, e che i processi si fanno appunto perché possa scaturire dagli interrogatori, dalle testimonianze e dalle arringhe. Soprattutto, però, l'ironia d'una domanda del genere, diretta a me, aveva dell'assurdo quando la si ricollegava a tutto ciò che era stato fatto per chiudermi la bocca, per impedirmi di stabilire quella verità di cui ora ci si preoccupava di constatare la presenza in tasca a me. Ho risposto al presidente della vostra Commissione che ero in possesso del fatto nuovo, che se non avevo la verità sulla mia persona, sapevo perfettamente dove trovarla, e che mi limitavo a pregare il presidente del Consiglio d'invitare il guardasigilli a consigliare al presidente dell'assise, a Versailles, di non sbarrare la strada alla mia commissione rogatoria, quando gli avrei chiesto di fare interrogare Schwartzkoppen. E il caso Dreyfus si sarebbe chiuso davvero, la Francia si sarebbe salvata dalla più temibile delle catastrofi.


Votate perciò la legge d'amnistia, signori senatori, perfezionate l'insabbiamento, dite con il presidente Delegorgue che la questione non sarà posta, unitevi al primo presidente Périvier nel soffocare Labori; e se la Francia, un giorno, si ritroverà disonorata di fronte al mondo intero, sarà stata opera vostra.


Non sono tanto ingenuo, signori senatori, da credere che questa lettera vi distoglierà, sia pure per un istante, dalla risoluzione formale nella quale vi sospetto di votare la legge d'amnistia. Il vostro voto è facile a prevedersi, poiché nascerà dalla vostra lunga debolezza e dalla vostra lunga impotenza. Vi siete convinti di non poter fare altrimenti, poiché non avete il coraggio di fare altrimenti.


Se scrivo questa lettera, è unicamente per il grande onore di averla scritta. Faccio il mio dovere, e dubito che voi facciate il vostro. La legge d'incompetenza a procedere è stata un crimine giuridico, la legge d'amnistia costituirà un tradimento civico, l'abbandono della Repubblica in mano ai suoi peggiori nemici.


Votatela, tra non molto ne sarete puniti, e in seguito sarà la vostra vergogna.




LETTERA A EMILE LOUBET, PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA


Pubblicata su "L'Aurore" il 22 dicembre 1900.


Altri sette mesi, tra l'articolo precedente e questo.


L'Esposizione universale aveva chiuso i battenti il 12 novembre, e bisognava finirla, insabbiare definitivamente la verità e la giustizia. Ed è quanto è stato fatto. Il mio processo di Versailles non si farà più, mi hanno privato del sacrosanto diritto di ricorrere in appello dopo una condanna in contumacia.


Brutalmente, hanno soppresso la verità che avrei potuto acclarare, la giustizia che mi sarei fatto rendere. Lo stesso si dica per i tre esperti, Belhomme, Varinard e Couard, che galoppano, con i tremila franchi in tasca; e bisognerà ricominciare tutto da capo davanti alla giustizia civile. Sono semplici constatazioni, le mie, non lo dico per lamentarmi, perché se non altro la mia opera è compiuta. - A titolo di cronaca, aggiungo che a tutt'oggi, febbraio 1901, sono sospeso dal mio grado di ufficiale nell'ordine della Legion d'Onore.


Signor presidente, circa tre anni fa, il 13 gennaio 1898, indirizzai al Suo predecessore, Félix Faure, una lettera di cui egli non tenne conto, sfortunatamente per la sua buona reputazione. Ora che egli dorme il sonno eterno, il suo ricordo rimane oscurato dalla mostruosa iniquità che io gli denunciavo, e della quale si è reso complice, usando, per coprire i colpevoli, tutto il potere che gli dava la sua alta magistratura.


Ed eccola a occuparne il posto, ecco che il caso abominevole, dopo avere sporcato tutti i governi complici o fiacchi che si sono succeduti, finisce in un'ora in un supremo diniego di giustizia, quest'amnistia che le Camere hanno appena votato, con il coltello alla gola, e che porterà nella storia il nome di amnistia scellerata. Dopo gli altri, il Suo governo precipita nell'errore comune, accettando la più pesante delle responsabilità. Ed è, ne sia pur certo, una pagina della Sua vita in procinto di essere sporcata, è la Sua magistratura che corre il rischio di uniformarsi a quella precedente, a sua volta insozzata dalla macchia incancellabile.


Mi permetta perciò, signor presidente, di esprimerle tutta la mia angoscia. All'indomani dell'amnistia, concluderò con questa lettera, visto che una prima mia lettera è stata una delle cause di questa amnistia. Tuttavia, nessuno potrà rimproverarmi d'essere un chiacchierone. Il 18 luglio 1898 partivo per l'Inghilterra, da dove sono tornato soltanto il 5 giugno 1899, e durante quegli undici mesi ho taciuto. Ho ricominciato a parlare solo dopo il processo di Rennes, nel settembre 1899. Poi, sono ricaduto nel più completo silenzio, che ho rotto una sola volta, nel maggio scorso, per protestare contro l'amnistia davanti al Senato. Sono perciò più di diciotto mesi che aspetto giustizia, fissata ogni tre mesi e ogni tre mesi rinviata alla prossima sessione. E ho trovato tutto ciò lacrimevole e comico. Oggi, al posto della giustizia, arriva quest'amnistia scellerata e oltraggiosa. Stimo pertanto che il buon cittadino che sono stato, il silenzio che ho mantenuto per non essere causa d'imbarazzo né di disordini, la grande pazienza che ho usato nel contare su una giustizia così lenta, mi diano oggi il diritto, il dovere di parlare.


Lo ripeto, devo concludere. Un primo periodo del caso termina in quel momento, quello che chiamerò l'intero crimine. E bisogna bene che io dica a che punto siamo, qual è stata la nostra opera e qual è la nostra certezza per domani, prima di rientrare di nuovo nel silenzio.


Non ho bisogno di risalire ai primi abomini del caso, mi basta riprenderlo all'indomani dell'ineffabile sentenza di Rennes, quella provocazione d'iniquità insolente che ha fatto fremere il mondo intero. Ed è qui, signor presidente, che comincia la colpa del Suo governo, e di conseguenza la Sua.


Un giorno, ne sono certo, quello che è accaduto a Rennes verrà raccontato, documenti alla mano, e alludo al modo in cui il Suo governo si è lasciato ingannare e ha creduto perciò di doverci tradire. I ministri erano convinti dell'assoluzione di Dreyfus.


Come avrebbero potuto dubitarne, quando la Corte di cassazione credeva di avere imbrigliato il tribunale militare in una sentenza così netta, che l'innocenza s'imponeva anche senza dibattimento?

Come potevano minimamente preoccuparsi, quando i loro subordinati, intermediari, testimoni, attori perfino nel dramma, promettevano loro la maggioranza, se non l'unanimità? E sorridevano dei nostri timori, lasciavano tranquillamente il tribunale in preda alla collisione, alle false testimonianze, alle manovre flagranti di pressione e d'intimidazione, spingevano la loro cieca fiducia fino a compromettere Lei, signor presidente, omettendo di avvisarla, perché voglio credere che il minimo dubbio le avrebbe impedito di prendere, nel Suo discorso di Rambouillet, l'impegno di inchinarsi di fronte alla sentenza, quale essa fosse. Non prevedere significa forse governare? Siamo di fronte a un governo nominato per assicurare il buon funzionamento della giustizia, per vegliare sull'onesta esecuzione di una sentenza della Corte di cassazione.


Esso non ignora quale pericolo corra quella sentenza in mani fanatiche che ogni sorta di febbri maligne hanno reso poco scrupolose. E non fa niente, si compiace nel suo ottimismo, lascia che il crimine si compia alla luce del sole! Posso convenire che quei ministri abbiano allora voluto la giustizia: ma che avrebbero fatto, mi chiedo, qualora non l'avessero voluta?

Poi, erompe la condanna, quella mostruosità fino ad allora inaudita di un innocente condannato due volte. A Rennes, dopo l'inchiesta della Corte di cassazione, l'innocenza era lampante, non poteva lasciare adito a dubbi di sorta. Ed è la folgore, l'orrore che passa sulla Francia e su tutti i popoli. Come reagirà il governo, tradito, gabbato, provocato, la cui incomprensibile faciloneria è sfociata in un simile disastro? Voglio ancora ammettere che il colpo così dolorosamente risuonato nell'animo di tutti i giusti abbia, in quel momento, turbato i suoi ministri, quelli che si erano presi l'incarico di assicurare il trionfo del diritto. Ma che cosa faranno, quali saranno i loro atti, all'indomani di quel crollo di tutte le loro certezze, una volta constatato che, lungi dall'essere stati artefici di verità e d'equità, con la loro inettitudine e la loro leggerezza hanno causato uno sfacelo morale dal quale la Francia impiegherà molto tempo a riaversi? Ed è qui, signor presidente, che comincia l'errore del Suo governo, e Suo personale, è qui che ci siamo separati da tutti voi, per una divergenza d'opinioni e di sentimenti che è andata via via crescendo.


Per noi, esitare era impossibile, non c'era che un mezzo per operare la Francia dal male che la divorava, se la si voleva guarire e ridarle realmente la pace; non c'è pacificazione, infatti, se non nella tranquillità della coscienza, né ci sarà salvezza per noi, finché sentiremo in noi il veleno dell'ingiustizia commessa. Bisognava trovare il mezzo di convocare di nuovo, immediatamente, la Corte di cassazione; e non mi si dica che questo era impossibile, il governo disponeva degli elementi necessari, perfino prescindendo dal problema dell'uso di potere.


Bisognava liquidare tutti i processi in corso, lasciare che la giustizia facesse la sua opera senza che un solo colpevole le potesse sfuggire. Bisognava pulire l'ulcera a fondo, dare al nostro popolo un'alta lezione di verità e di equità, ristabilire nel suo onore la persona morale della Francia dinanzi al mondo.


Soltanto a quel punto si sarebbe potuto dire che la Francia era guarita e pacificata.


Ed è stato allora che il Suo governo ha preso l'altro partito, la risoluzione d'insabbiare una volta di più la verità, di sotterrarla, pensando che bastasse seppellirla perché non esistesse più. Nello sbigottimento in cui l'aveva gettato la seconda condanna dell'innocente, altro non ha saputo escogitare che il doppio provvedimento di graziare dapprima quest'ultimo, per poi ottenere il silenzio ricorrendo al bavaglio di una legge d'amnistia. I due provvedimenti sono collegati, si completano, sono la rabberciatura di un governo allo stremo che è venuto meno alla sua missione e che, per togliersi d'impaccio, non trova di meglio che rifugiarsi nella ragion di Stato. Il Suo governo ha voluto coprirla, signor presidente, dal momento che aveva avuto il torto di prometterle di impegnarsi. Ha voluto salvarsi a sua volta, credendo forse di appigliarsi al solo partito pratico per salvare la Repubblica minacciata.


Il grande errore è stato perciò compiuto quel giorno, quando si presentava un'ultima occasione di agire, di restituire alla patria la sua dignità e la sua forza. In seguito, lo so bene, via via che i mesi sono trascorsi, trovare salvezza è diventato più difficile.


Il governo si è lasciato spingere in una situazione senza uscita, e quando si è presentato davanti alle Camere per dire che non poteva più governare, qualora gli avesse rifiutato l'amnistia, aveva sicuramente ragione ma non era forse stato lui a rendere necessaria l'amnistia, disarmando la giustizia, quando essa era ancora possibile? In conclusione il governo, scelto per salvare capra e cavoli, non è riuscito se non a lasciar crollare tutto, in una catastrofe immane. E quando si è trattato di ricorrere ai rimedi estremi non ha saputo escogitare di meglio che finire là da dov'erano partiti i governi Méline e Dupuy: l'insabbiamento della verità, l'assassinio della giustizia.


Non è una vergogna, per la Francia, che non uno dei suoi uomini politici si sia sentito abbastanza forte, abbastanza intelligente, abbastanza coraggioso per essere l'uomo della situazione, quello che avrebbe gridato la verità, e che il paese avrebbe seguito? Per tre anni, gli uomini si sono succeduti al potere, e tutti li abbiamo visti vacillare e poi sprofondare nello stesso errore. Non parlo di Méline, l'uomo scellerato che ha voluto il crimine, né del signor Dupuy, l'uomo equivoco, asservito in partenza al partito dei forti. Ma ecco Brisson, che ha osato volere la revisione; non è lacrimevole, l'errore irreparabile in cui è caduto permettendo l'arresto del colonnello Picquart all'indomani della scoperta del falso Henry? Ed ecco Waldeck-Rousseau, i cui coraggiosi discorsi contro la legge di incompetenza a procedere avevano avuto così nobile risonanza in tutte le coscienze: non è disastroso che si sia creduto in obbligo di legare il suo nome a questa amnistia che, con brutalità anche maggiore, dichiara incompetente la giustizia? Ci chiediamo se un amico al governo non ci sarebbe stato più utile, visto che gli amici della verità e della giustizia, dal momento in cui prendono il potere, non sanno più trovare altri mezzi per salvare il paese, che quello di ricorrere a loro volta alla menzogna e all'iniquità.


Poiché, se la legge d'amnistia, signor presidente, è stata votata dalle Camere con la morte nel cuore, viene inteso che lo scopo è di assicurare la salvezza del paese. Nel vicolo cieco in cui si è cacciato, il Suo governo ha dovuto scegliere il terreno della difesa repubblicana, di cui ha sentito la solidità. Il caso Dreyfus ha per l'appunto indicato i pericoli che la Repubblica correva, causa il doppio complotto del clericalismo e del militarismo, che agivano in nome di tutte le forze reazionarie del passato. E da quel momento il piano politico del governo è semplice: sbarazzarsi del caso Dreyfus insabbiandolo, lasciar intendere alla maggioranza che, se non obbedirà docilmente, non avrà le riforme promesse. Andrebbe benissimo, se per salvare il paese dal veleno clericale e militarista non si dovesse cominciare a lasciarlo immerso in un altro veleno, quello della menzogna e dell'iniquità, in cui lo vediamo agonizzare da tre anni.


Senza dubbio il terreno del caso Dreyfus è un terreno politico detestabile. Lo è diventato, per lo meno, a causa dell'abbandono nel quale è stato lasciato il popolo, in mano ai peggiori banditi, nel putridume della stampa ignobile. E concedo ancora una volta che nell'ora attuale l'azione diventi difficile, quasi impossibile. Ma rimane, nondimeno, una concezione molto miope, questa idea che si possa salvare un popolo dal male che lo consuma decretando che quel male non esiste più. L'amnistia è fatta, i processi non si faranno più, non sarà più possibile perseguire i colpevoli: il che non toglie che Dreyfus, innocente, sia stato condannato due volte, e che questa orrenda iniquità, finché non si sarà posto riparo, continuerà a far delirare la Francia in preda a incubi orribili. Si ha un bel nascondere la verità, essa cammina sotto terra, un giorno riaffiorerà per ogni dove, esploderà in vegetazioni vendicatrici. E quel che è peggio è che, oscurando nelle masse il senso del giusto, si contribuisce a demoralizzarla.


Dal momento che non ci sono puniti, non ci sono neppure colpevoli.


Come vuole che gli umili sappiano, preda come sono delle menzogne corruttrici di cui sono stati alimentati? Occorrerebbe una lezione per il popolo, invece gli si ottenebra la coscienza, si finisce per pervertirla del tutto.


E' qui il bandolo: il governo afferma di tendere alla pacificazione con la sua legge di amnistia, e noi altri, invece, sosteniamo che esso corre, al contrario, il rischio di preparare nuove catastrofi. Torno a ripetere, non c'è pace nell'iniquità. La politica vive alla giornata, crede in un'eternità solo perché ha guadagnato sei mesi di silenzio. E' possibile che il governo goda di un po' di tregua, e ammetto perfino che la impiegherà inutilmente. Ma la verità si risveglierà, griderà, scatenerà delle tempeste. Ma dove verranno? Lo ignoro, ma verranno. E in preda a quale disorientamento si troveranno gli uomini che non hanno voluto agire, con quale peso li schiaccerà questa amnistia scellerata dove hanno gettato alla rinfusa galantuomini e malandrini! Quando il paese saprà, quando il paese, sollevatosi, vorrà rendere giustizia, la sua collera non comincerà col cadere su quelli che non l'hanno illuminato a suo tempo quando potevano farlo?

Il mio caro e grande amico Labori l'ha detto con la sua meravigliosa eloquenza: la legge d'amnistia è una legge dettata da debolezza, da impotenza. La viltà dei governi che si sono succeduti ci si è come accumulata, questa legge nasce da tutti i cedimenti degli uomini che, messi di fronte a un'ingiustizia esecrabile, non si sono sentiti la forza di impedirla né di porvi riparo. Di fronte alla necessità di colpire in alto, si sono piegati, hanno indietreggiato tutti. All'ultimo momento, dopo tanti crimini, non è l'oblio, non è il perdono quello che ci viene porto, è la paura, è la debolezza, è l'impotenza in cui si sono trovati i ministri a far semplicemente applicare le leggi esistenti. Ci dicono di volerci parlare per mezzo di concessioni reciproche: non è vero, la verità è che nessuno ha avuto il coraggio di usare la scure con la vecchia società corrotta, e per nascondere questa codardia parlano di clemenza, rilasciano gomito a gomito un Esterhazy, il traditore, e un Picquart, l'eroe al quale l'avvenire innalzerà delle statue. E' una cattiva azione che sarà sicuramente punita, poiché non ferisce soltanto la coscienza ma corrompe la moralità nazionale.


E' una buona educazione, questa, per una Repubblica? Sono queste le lezioni che vengono date alla nostra democrazia, lezioni dove le si insegna che ci sono ore in cui la verità, in cui la giustizia non esistono più, se l'interesse dello Stato lo esige. E la ragion di Stato rimessa in onore da uomini liberi che l'hanno condannata nella Monarchia e nella Chiesa. Bisogna proprio che la politica sia una grande pervertitrice d'anime. E dire che tanti dei nostri amici, tanti fra quelli che, fin dal primo giorno, hanno così validamente combattuto, oggi hanno ceduto al sofisma, aderendo alla legge d'amnistia come a una misura politica necessaria! Mi si spezza il cuore nel vedere un Ranc, così diritto, così coraggioso, prendere le difese di Picquart contro lo stesso Picquart, mostrandosi felice del fatto che l'amnistia, che gli impedirà di difendere il suo onore, lo salverà dall'odio certo di un tribunale militare. E Jaurès, il nobile, il generoso Jaurès che si è prodigato in modo così splendido, sacrificando il suo seggio di deputato, gran bella cosa, in questi tempi di ghiottoneria elettorale! Eccolo, anche lui, accettare di vederci amnistiati, Picquart ed Esterhazy, Reinach e du Paty de Clam, me e il generale Mercier, tutti nello stesso sacco! Insomma, la giustizia assoluta finisce, là dove comincia l'interesse d'un partito? Ah! quale serenità essere un solitario, non appartenere a nessuna setta, dipendere soltanto dalla propria coscienza, e che libertà nel procedere dritti per la propria strada, amando solamente la verità, e volendola, perfino quando potrebbe scuotere la terra e far cadere il cielo!

Nei giorni di speranza del caso Dreyfus, signor Presidente, avevamo fatto un bel sogno. Non avevamo forse in mano un caso unico? un crimine nel quale s'erano impegnate tutte le forze reazionarie, tutte quelle che sono di ostacolo al libero progresso dell'umanità? Mai si era presentata esperienza più decisiva, mai sarebbe stata data al popolo lezione pratica più nobile. In pochi mesi, ne avremmo illuminato la coscienza, avremmo fatto di più, per istruirlo e maturarlo, di quanto non avesse fatto un secolo di lotte politiche. Sarebbe bastato mostrargli all'opera tutti i poteri nefasti, complici del più esecrabile dei crimini: lo schiacciamento di un innocente, le cui torture senza nome strappavano un grido di rivolta all'umanità.


E, confidando nelle forze della verità, attendevamo il trionfo.


Era un'apoteosi della giustizia: il popolo che, illuminato, si levava in massa, il paese che ritrovava la sua coscienza, che innalzava un altare all'equità, celebrando la festa del diritto riconquistato, glorioso e sovrano. E tutto finiva con un bacio universale, tutti i cittadini pacificati, uniti in questa comunione della solidarietà umana. Ahimè! signor presidente, Lei sa bene ciò che è avvenuto, la dubbia vittoria, la confusione per ogni particella di verità strappata, l'idea della giustizia più a lungo oscurata nella coscienza dello sventurato popolo. Sembra che il nostro concetto di vittoria fosse troppo immediato e troppo grossolano. L'umano corso degli eventi non contempla simili trionfi strepitosi che sollevano una nazione, che in un giorno la consacrano forte e potente. Evoluzioni di questo genere non si realizzano da un istante all'altro, si compiono soltanto nello sforzo e nel dolore. La lotta non è mai finita, ogni passo in avanti viene acquistato a prezzo di una sofferenza, soltanto i figli possono constatare i successi riportati dai padri. E se, nel mio ardente amore per il popolo di Francia, non mi consolerò mai di non aver potuto trarre, per la sua educazione civica, l'ammirevole lezione pratica che il caso Dreyfus comportava, sono rassegnato da un pezzo a vedere la verità penetrarlo soltanto a poco a poco, fino al giorno in cui sarà maturo per il suo destino di libertà e di fraternità.


Noi non abbiamo mai pensato ad altro che a lui, tutt'a un tratto il caso Dreyfus si è allargato, è diventato un caso sociale, umano. L'innocente che pativa all'isola del Diavolo era soltanto l'incidente, tutto il popolo soffriva con lui sotto il peso schiacciante di potenze malefiche, nell'impudente disprezzo della verità e della giustizia. E, salvandolo, salvavamo tutti gli oppressi, tutti i sacrificati. Ma soprattutto, ora che Dreyfus è libero, restituito all'amore dei suoi, quali sono i furfanti e gli imbecilli che ci accusano di voler riprendere il caso Dreyfus?

Sono proprio quelli che nelle loro losche mene politiche hanno forzato il governo a esigere l'amnistia, continuando a infradiciare il paese di menzogne. Che Dreyfus cerchi con tutti i mezzi legali di ottenere la revisione del giudizio di Rennes, è chiaro ed è giusto, e noi l'aiuteremo in questo con tutte le nostre forze, il giorno in cui l'occasione si presenterà. Immagino che perfino la Corte di cassazione sarà felice di avere l'ultima parola per l'onore della sua suprema magistratura. Solo che in questo ci sarà soltanto una questione giudiziaria, nessuno di noi ha mai avuto la stupida idea di rinfocolare quello che è stato il caso Dreyfus; e l'unico desiderio possibile è oggi quello di trarre da questo caso le conseguenze politiche e sociali, la messe di riforme di cui esso ci ha mostrato l'urgenza. Starà lì la nostra difesa, in risposta alle accuse abominevoli di cui ci si fa carico, e starà lì soprattutto la nostra definitiva vittoria.


Un'espressione mi accora, signor presidente, ogni volta che la incontro, quel luogo comune che consiste nel dire che il caso Dreyfus ha fatto tanto male alla Francia. L'ho trovata su tutte le bocche, sotto tutte le penne, amici miei la ripetono correntemente, e forse l'avrò usata io stesso. Eppure, non conosco espressione più falsa. E non parlo dello spettacolo ammirevole che la Francia ha offerto al mondo, questa lotta gigantesca per una questione di giustizia, questo conflitto di tutte le forze attive in nome dell'ideale. Così come non parlo dei risultati già ottenuti, gli uffici del ministero della Guerra ripuliti, tutti gli attori equivoci del dramma spazzati via, poiché la giustizia, malgrado tutto, ha fatto un po' dell'opera sua. Ma il bene immenso che il caso Dreyfus ha fatto alla Francia non è, in realtà, d'essere stato l'incidente putrido, il foruncolo che appare sulla pelle e che rivela il marciume interiore? Bisogna ritornare all'epoca in cui il pericolo clericale faceva alzare le spalle, in cui era di moda prendere in giro Homais, volteriano ritardato e ridicolo. Tutte le forze reazionarie avevano continuato a strisciare sotto il selciato della nostra grande Parigi, minando la Repubblica, contando già d'impadronirsi della città e della Francia, il giorno in cui le attuali istituzioni sarebbero crollate. Ed ecco che il caso Dreyfus smaschera tutto, prima che l'insabbiamento sia pronto, ecco che i repubblicani finiscono per accorgersi che rischiano di vedersi confiscare la loro Repubblica, se non vi riportano l'ordine. Tutto il movimento di difesa repubblicano è nato da lì, e se la Francia si salverà dal lungo complotto della reazione, lo dovrà al caso Dreyfus.


Auguro che il governo porti a buon fine questo compito di difesa repubblicana che ha appena invocato per ottenere dalle Camere il voto sulla sua legge d'amnistia. E' il solo mezzo di cui dispone per essere finalmente coraggioso e utile. Ma che non rinneghi il caso Dreyfus, che lo riconosca come il bene più grande che potesse capitare alla Francia, e che dichiari con noi che, senza il caso Dreyfus, oggi la Francia sarebbe di sicuro nelle mani dei reazionari.


Quanto alla mia questione personale, signor presidente, io non recrimino. Tra poco saranno quarant'anni che faccio il mio lavoro di scrittore, senza inquietarmi né delle condanne né delle assoluzioni pronunciate sui miei libri, lasciando all'avvenire la cura di dare il giudizio definitivo. Un processo rimasto a metà non può, di conseguenza, turbarmi molto. E' una faccenda in più che il domani giudicherà. E se rimpiango l'esplosione di verità desiderabile che un nuovo processo poteva far scaturire, mi consolo pensando che la verità troverà certo una via per scaturire ugualmente.


Le confesso, tuttavia, che sarei stato curioso di sapere che cosa una nuova giuria avrebbe pensato della mia prima condanna, ottenuta sotto la minaccia dei generali, armati come di una clava del terribile falso Henry. Non che, in un processo puramente politico, io abbia una grande fiducia nella giuria, così facile da sviare, da terrorizzare. Ma, a ogni modo, sarebbe stata una lezione interessante questo dibattimento che si riapriva, quando l'inchiesta della Corte di cassazione aveva ottenuto la prova di tutte le accuse da me mosse. Se lo immagina? un uomo condannato in base a un falso, e che ritorna davanti ai suoi giudici dopo che il falso è stato riconosciuto, confessato! un uomo che aveva accusato altri, in base a fatti di cui un'inchiesta della Corte suprema ha ormai accertato l'assoluta verità! Avrei passato delle ore piacevoli, in quell'aula, perché un'assoluzione mi avrebbe fatto piacere; e, nel caso ci fosse stata un'altra condanna, l'idiozia vile o la passione cieca hanno una bellezza speciale, che mi ha sempre interessato.


Ma è bene precisare un po', signor presidente. Io Le scrivo unicamente per mettere fine a tutta questa storia, ed è bene che io ripeta davanti a Lei le accuse che avevo portato davanti al presidente Faure, tanto per stabilire definitivamente che erano accuse giuste, moderate, perfino insufficienti, e che la legge del Suo governo, in me, ha amnistiato un innocente.


Ho accusato il tenente colonnello du Paty de Clam "di essere stato l'artefice diabolico dell'errore giudiziario, incoscientemente, voglio sperare, e di avere in seguito difeso la sua opera nefasta, per tre anni, ricorrendo alle macchinazioni più bizzarre e più colpevoli".


Mi sembra discreto e cortese, vero? per chi abbia letto il rapporto del terribile capitano Cuignet, che, invece, si spinge fino all'accusa di falso.


Ho accusato il generale Mercier "di essersi reso complice, non fosse che per debolezza d'animo, di una delle peggiori iniquità del secolo". Qui, faccio onorevole ammenda, ritiro la debolezza d'animo. Ma, se il generale Mercier non ha la scusa di un'intelligenza indebolita, allora la sua responsabilità è totale, negli atti a lui ascritti dall'inchiesta della Corte di cassazione, e che il Codice qualifica criminali.


Ho accusato il generale Billot "di aver avuto tra le mani le prove certe dell'innocenza di Dreyfus e di averle soffocate, di essersi reso colpevole del delitto di lesa umanità e di lesa giustizia, a fini politici e per salvare lo Stato maggiore compromesso". Tutti i documenti a noi oggi noti stabiliscono che il generale Billot era per forza di cose al corrente delle manovre criminali dei suoi subordinati; e aggiungo che proprio per suo ordine il dossier segreto di mio padre è stato consegnato a un giornale immondo.


Ho accusato il generale de Boisdeffre e il generale Gonse "di essersi resi complici dello stesso delitto, l'uno sicuramente per fanatismo clericale, l'altro forse per quello spirito di corpo che fa degli uffici del ministero della guerra l'arca santa inattaccabile". Il generale de Boisdeffre si è giudicato da sé all'indomani della scoperta del falso Henry, nel dare le sue dimissioni, con lo scomparire dalla scena del mondo, caduta tragica di un uomo elevato ai più alti gradi, alle funzioni più alte, e che precipita nel nulla. Quanto poi al generale Gonse, è di quelli che l'amnistia salva dalle più pesanti responsabilità, nettamente stabilite.


Ho accusato il generale de Pellieux e il comandante Ravary "di avere condotto un'inchiesta scellerata, intendo, con questo, dominata dalla parzialità più mostruosa, di cui, nel rapporto del secondo, abbiamo un monumento imperituro di ingenua audacia".


Basta rileggere l'inchiesta della Corte di cassazione per prendere visione del fatto che la collusione è stabilita, provata dai documenti e dalle testimonianze più schiaccianti. Il modo in cui viene istruito il caso Esterhazy altro non fu che un'impudente commedia giudiziaria.


Ho accusato i tre esperti calligrafi, Belhomme, Varinard e Couard, "di aver fatto rapporti menzogneri e fraudolenti, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da disturbi della vista e del giudizio". Lo dicevo di fronte alla straordinaria affermazione dei tre esperti, i quali asserivano che il "bordereau" non era di pugno di Esterhazy, errore che, a mio parere, un bambino di dieci anni non avrebbe commesso. Sappiamo che lo stesso Esterhazy oggi riconosce di aver compilato quell'elenco. E il presidente Ballot Beaupré, nel suo rapporto, ha dichiarato solennemente che, per lui, non c'era possibilità di dubbio.


Ho accusato gli uffici del ministero della Guerra, "di avere condotto sulla stampa, e in particolare su 'L'Eclair', e su 'L'Echo de Paris' una campagna abominevole per fuorviare l'opinione pubblica e nascondere le loro colpe". Non insisto, penso che la prova consista in tutto quello che si è saputo in seguito e in tutto quello che gli stessi colpevoli hanno dovuto confessare.


Infine, ho accusato il primo tribunale militare "di avere violato il diritto, condannando un accusato in base a un documento rimasto segreto", e ho accusato il secondo tribunale di avere coperto, in obbedienza agli ordini, questa illegalità, commettendo a sua volta il delitto giuridico di assolvere scientificamente un colpevole".


Per il primo tribunale militare, il fatto d'avere prodotto un documento segreto è stato nettamente stabilito dall'inchiesta della Corte di cassazione, perfino al processo di Rennes. Per il secondo tribunale militare, il riferimento è sempre l'inchiesta, che ha provato la collusione, il continuo intervento del generale de Pellieux, l'evidente pressione sotto cui l'assoluzione è stata ottenuta, in ossequio al desiderio dei capi.


Come vede, signor presidente, non c'è una delle mie accuse che le colpe e i crimini scoperti non abbiano giustificato, e ripeto che queste accuse appaiono oggi molto pallide e molto modeste, di fronte all'agghiacciante cumulo degli abomini commessi. Confesso che nemmeno io avrei mai osato supporre un tale ammasso. Allora, Le chiedo, qual è il tribunale onesto, o semplicemente ragionevole, che si coprirebbe di obbrobrio col condannarmi di nuovo, ora che la prova di tutto quello che ho avanzato è chiara e lampante? E non sembra anche a Lei che la legge del Suo governo, che amnistia me, innocente, insieme al branco di colpevoli che ho denunciato, sia veramente una legge scellerata?

Così, è finita, signor presidente, almeno per il momento, per questo primo periodo del caso che l'amnistia ha chiuso forzatamente.


Ci promettono, sì, come risarcimento, la giustizia della storia.


E' un po' come il paradiso cattolico, che serve a far pazientare su questa terra gli infelici creduloni che la fame strangola.


Soffrite, amici miei, mangiate il vostro pane secco, dormite per terra, intanto che i felici di questo mondo dormono tra le piume e si cibano di leccornie. Allo stesso modo, lasciate che gli scellerati occupino i primi posti, mentre voi, i giusti, venite spinti nel fango. E aggiungono che, quando saremo morti, toccherà a noi vederci erigere statue. Da parte mia, voglio, sì, e spero perfino, che il compenso della storia sia più serio delle delizie del paradiso. Tuttavia, un po' di giustizia su questa terra mi avrebbe fatto piacere.


Non che io lamenti la nostra sorte, sono convinto che siamo quasi in porto, come si suol dire. La menzogna ha un punto in suo sfavore, ed è che non può durare per sempre, mentre la verità, che è una, ha l'eternità dalla sua. Perciò, signor presidente, il suo governo dichiara che riporterà la pace con la sua legge d'amnistia, e noi crediamo, dal canto nostro, che esso prepari al contrario nuove catastrofi. Un po' di pazienza, e si vedrà chi aveva ragione. Secondo me, non mi stanco di ripeterlo, il caso non può finire, finché la Francia non saprà e non porrà riparo all'ingiustizia. Ho detto che il quarto atto era stato recitato a Rennes, e che per forza di cose ci sarebbe stato un quinto atto.


Me ne resta nel cuore l'angoscia, ci si dimentica sempre che l'imperatore tedesco ha la verità in mano, e che ce la può gettare in faccia, quando suonerà l'ora che forse ha già scelto. Sarà un quinto atto agghiacciante, quello che io ho sempre temuto e di cui un governo francese non dovrebbe accettare neppure per un'ora la spaventosa eventualità.


Ci hanno promesso la Storia, alla Storia anch'io rimando Lei, signor presidente. Ci dirà quello che Lei avrà fatto, Le riserverà una pagina. Pensi a quel povero Félix Faure, a quel conciatore di pelli deificato, così popolare al suo apparire, che aveva commosso perfino me con la sua bonomia democratica: per l'avvenire, sarà soltanto l'uomo ingiusto e debole che ha permesso il martirio di un innocente. E veda se non Le piacerebbe molto di più essere ricordato come l'uomo della verità e della giustizia. Forse ne ha ancora il tempo.


Quanto a me, sono soltanto un poeta, un narratore solitario che svolge la sua opera in un angolo, mettendoci tutto se stesso. Ho già ammesso che un buon cittadino deve accontentarsi di offrire al suo paese il lavoro che riesce ad assolvere nel modo meno maldestro; ed è per questo che mi chiudo nei miei libri. Mi limito perciò a ritornare a essi, poiché la missione che mi ero assegnata è compiuta. Ho fatto la mia parte fino in fondo, quanto più onestamente mi è stato possibile, e rientro definitivamente nel silenzio.


Devo aggiungere, soltanto, che le mie orecchie e i miei occhi rimarranno bene aperti. Sono un po' come suor Anna, mi preoccupo giorno e notte di quel che si profila all'orizzonte, confesso perfino di nutrire la speranza tenace di vedere presto tanta verità, tanta giustizia, avanzare verso di noi dai campi lontani dove l'avvenire incalza.


E aspetto sempre.


Voglia gradire, signor presidente, l'espressione del mio profondo rispetto.