Emile Zola
GERMINALE
PARTE PRIMA
Capitolo primo
In mezzo all'aperta pianura, sotto un cielo senza stelle, nero d'un nero d'inchiostro, un uomo percorreva, solo, la strada maestra tra Marchiennes e Montsou; dieci chilometri di massicciata che si lanciava in linea retta attraverso campi di barbabietole. Quasi non vedeva dove metteva i piedi; e dell'immenso orizzonte piatto che lo circondava aveva solo sentore per le raffiche del vento di marzo: vaste raffiche che spazzavano la pianura come un mare; gelate da leghe e leghe di palude e di landa sulle quali erano passate. Non un profilo d'alberi sul cielo; diritta come un molo, la strada si protendeva in un buio impenetrabile allo sguardo.
Partito verso le due da Marchiennes, l'uomo camminava a passi affrettati, rabbrividendo sotto la giacchetta logora di cotone e le brache di velluto; impacciato da un pacco avvolto in un fazzolettone a quadri che si stringeva contro e mutava spesso di fianco per ficcare in tasca le mani intirizzite che la sferza del vento scorticava. Nel suo capo vuoto di operaio senza lavoro e senza tetto rimuginava un unico pensiero: la speranza che col sorgere dell'alba il freddo si farebbe sentir meno.
Camminava così da un'ora quando, a due chilometri da Montsou, scorse a sinistra, come sospesi a mezz'aria, rosseggiare tre fuochi, simili a bracieri che ardessero all'aperto. Subito esitò; poi, tant'è, non poté resistere alla tentazione di scaldarsi un momento le mani.
Il sentiero incassato che prese gli sottrasse i fuochi alla vista. Ora l'uomo aveva a destra una palizzata, una specie di paratia di grosse tavole che costeggiava una strada ferrata; a sinistra un argine erboso oltre il quale si distinguevano in confuso dei tetti: una borgata di case basse, uniformi.
Un duecento passi più in là, a una svolta, i fuochi ricomparvero; più vicini questa volta; ma, non fosse stato il vapore che li annebbiava, si sarebbero detti delle lune, e apparivano così alti sul cielo grigio da lasciare incerti di che si trattasse. L'uomo se lo chiedeva, quando un altro spettacolo lo arrestò. Era, a livello del suolo, una macchia massiccia, un tozzo agglomerato di edifizi, di dove si slanciava il camino d'una fabbrica. Vaghi bagliori uscivano dalle sudice finestre; fuori, cinque o sei smorte lanterne appese a travature annerite lasciavano intravedere di scorcio una fila di enormi cavalletti. E da quella apparizione fantastica, immersa nella notte e nel fumo, non saliva che un suono; il respiro lungo e affannoso d'uno scappamento che non si riusciva a vedere.
Ah, una miniera! Presentarsi? per sentirsi dire di no? L'uomo si sentì riprendere dall'avvilimento. Invece di dirigersi verso il fabbricato, si decise a salire sul terrapieno, sul quale ardevano, in bracieri di ghisa, i tre fuochi che aveva avvistati per primi e che servivano a far luce agli operai nel loro lavoro e a riscaldarli.
I terrazzieri dovevano aver finito il turno da poco, perché stavano sgombrando lo sterro. Già i manovali avviavano i trenini sulle rotaie che correvano sui cavalletti e presso ogni fuoco si scorgevano ombre umane occupate a ribaltare berline.
- Buon giorno, - fece, avvicinandosi a uno dei bracieri.
Colui che aveva salutato voltava le spalle al fuoco; era un carrettiere; un vecchio vestito d'un maglione violetto, con in capo un berretto di pelo di coniglio; il suo cavallo, un grande cavallo fulvo, aspettava, fermo come un macigno, che si scaricassero i sei vagoncini che aveva trainato sin lì. Il manovale addetto alla manovra di scarico, un ragazzone di pelo rosso, sfiancato, non mostrava fretta: manovrava la leva così fiaccamente che pareva dormisse. E qui in alto il vento soffiava più impetuoso che mai; una tramontana ghiacciata che investiva con la violenza d'una falciata.
Il vecchio rese il saluto.
Vi fu una pausa. Avvedendosi dello sguardo diffidente dell'altro, il nuovo venuto si affrettò a presentarsi - Mi chiamo Stefano Lantier, meccanico... Non ci sarebbe lavoro per me, qui?
Ora, in luce, mostrava ventun anno; bell'uomo, bruno, piuttosto smilzo ma d'aspetto robusto.
Rassicurato, il carrettiere scosse il capo:
-Da meccanico, no... Ancora ieri se ne sono presentati due inutilmente. No, no.
Lasciata passare una raffica che mozzava le parole in bocca, Stefano, indicando la macchia scura del fabbricato lì sotto:
-E' una miniera, non è vero?
Questa volta, a impedire all'altro di rispondere, fu un impeto di tosse che lo strangolò. Quando poté sputare, lo sputo lasciò sul terreno imporporato dal braciere una chiazza nerastra.
- Sì, una miniera; il Voreux. Ed ecco, là, le case operaie... - e tendeva il braccio a indicare nella notte la borgata di cui l'altro aveva intravisto i tetti.
S'era finito di scaricare; da sé, senza che il carrettiere avesse neanche da schioccare la frusta, il grosso cavallo fulvo ripartì, camminando tra le rotaie e trainando pesantemente la berlina vuota, il pelo arruffato sotto una nuova raffica; mentre il vecchio gli si metteva dietro, armeggiando a fatica le gambe irrigidite dai reumatismi.
Ormai, agli occhi del giovane, il Voreux aveva perso il suo aspetto fantastico. Indugiandosi a scaldarsi le mani scorticate dal freddo, ora Stefano riconosceva la tettoia incatramata del capannone della cernita, il castello del pozzo, lo stanzone del macchinario per l'estrazione, la torretta quadra della pompa di eduzione. La miniera, pigiata a quel modo in una piega del terreno, coi suoi tozzi fabbricati in mattone, col camino che ne sporgeva come un corno minaccioso; aveva l'aria malvagia d'un animale ingordo, appiattato lì per divorare gli uomini. Contemplandola, pensava a sé; all'esistenza di vagabondo che da otto giorni menava in cerca di lavoro; si rivedeva nelle Officine delle Ferrovie dove lavorava, il giorno che aveva schiaffeggiato il suo capo. Scacciato da Lilla, scacciato dappertutto, il sabato prima era arrivato a Marchiennes, attrattovi dalla speranza di trovar lavoro in quelle ferriere; ma nulla: né alle ferriere, né da Sonneville. La domenica l'aveva passata nascosto tra le cataste di legname d'una fabbrica di carri, donde poc'anzi - quella stessa notte alle due - un sorvegliante l'aveva scoperto e scacciato. Non aveva più un soldo né un cantuccio di pane: a che seguitare a battere le strade, senza una meta, senza neppure un luogo dove ripararsi dalla tramontana?
Sì, ora la vedeva bene; era proprio una miniera. Le rade lanterne rischiaravano il locale delle macchine: l'improvviso schiudersi d'una porta gli aveva permesso di intravedere, in un lampo accecante, i fuochi delle caldaie. Ora si spiegava tutto; anche lo scappamento della pompa, quel lungo affannoso soffio incessante che si sarebbe detto la respirazione strozzata del mostro.
L'addetto allo scarico dei vagoncini, occupato a schermirsi dal freddo, non aveva neanche alzato gli occhi su Stefano; e questi già si chinava a raccattare da terra l'involto cadutogli e si disponeva ad andarsene, quando una tosse stizzosa gli annunciò il carrettiere di ritorno. A poco a poco si vide il vecchio emergere dall'ombra, seguìto dal cavallo fulvo che trainava altre sei berline colme.
- Ci sono delle fabbriche a Montsou?
Il vecchio sputò nero, poi rispose con una voce che il vento lasciava appena udire:
- Oh mica sono le fabbriche che mancano! Bisognava essere qui tre o quattr'anni or sono! Tutte le fabbriche lavoravano; non si trovavano uomini; non s'era mai guadagnato tanto... Ed ecco che ora si ricomincia a stringere la cintola... Uno strazio da queste parti! si licenziano le maestranze, le fabbriche chiudono una dopo l'altra... La colpa non sarà forse sua; ma perché mai l'Imperatore va a battersi in America? Senza contare che le bestie muoiono di colera, tale e quale come i cristiani.
Toccato questo tasto, tutti e due, a frasi smozzicate per via del vento che portava via le parole di bocca, presero a lamentarsi.
Stefano raccontava tutti i passi che da una settimana faceva inutilmente per trovare lavoro: bisognava dunque crepar di fame? presto per le strade non si vedrebbero che accattoni. Il vecchio gli dava ragione; sì, non poteva che finir male; non era permesso, perdìo, gettare tanti cristiani sul lastrico.
- La carne compare di rado, in tavola!
- Ma si avesse almeno del pane!
- Giusto, del pane, almeno!
A stento si udivano a vicenda; il lugubre ululato delle raffiche strappava le parole di bocca.
Alzando la voce e volgendosi verso mezzodì:
-Ecco, è lì Montsou... - E indicando via via col braccio le località che nominava, immerse nel buio:
-A Montsou, lo zuccherificio Fauvelle lavora ancora; ma quello di Hoton ha già ridotto il personale; che tengano duro, non c'è quasi altro che i mulini Dutilleul e la corderia Bleuze per canapi da miniera. A nord poi, - e il vecchio si rivolse nella nuova direzione, e abbracciò d'un gesto vago mezzo orizzonte, - i cantieri Sonneville non hanno ricevuto due terzi delle ordinazioni degli anni precedenti; due soli, dei tre altiforni delle ferriere di Marchiennes, sono accesi; infine, nelle vetrerie Gagebois, si minaccia lo sciopero perché corre voce d'una riduzione di paga. Noi qui, finora si tira avanti, - concluse. - Nondimeno l'estrazione del carbone è scemata. E guardate, in faccia a noi, la Victoire; anche lì sono rimaste in funzione solo due batterie di forni a coke.
Sputò, riattaccò il cavallo assonnato alle berline scariche e ripartì dietro a lui.
V'era appena giunto, e ora, il paese, il giovinotto lo conosceva meglio che se lo abitasse da tempo. Quel buio, il braccio teso del vecchio lo aveva popolato di grandi miserie; di quelle miserie, senza rendersene conto, Stefano sentiva ovunque intorno a sé la presenza. Non era un annuncio di fame che il vento di marzo lanciava attraverso la campagna spoglia? Le raffiche, sempre più rabbiose, parevano recar seco con la cessazione d'ogni lavoro la carestia; e, con la carestia, la morte di chi sa quanta gente. E Stefano frugava con lo sguardo le tenebre tutt'intorno, come sforzandosi a penetrarle, disputato tra il desiderio e la paura di vedere ciò che nascondevano.
Nella notte che celava nel suo grembo ogni cosa, non scorgeva che le fonderie e i gasometri laggiù, lontanissimi. In queste, cento ciminiere a coppia si allineavano di sbieco, simili a ribalte di lumi rossi; mentre le due torri, a sinistra, ardevano contro il cielo d'una luce turchina come torce gigantesche. Spettacolo che stringeva il cuore come quello d'un incendio. Altri astri non si affacciavano al minaccioso orizzonte che i fuochi notturni delle terre dell'antracite e del ferro.
- Siete mica belga, per caso?
Era il carrettiere che gli ricompariva alle spalle. I carrelli stavolta erano solo tre. Scaricherebbe intanto questi; un guasto alla cabina d'estrazione, la rottura d'una madrevite, sospendeva il lavoro per un buon quarto d'ora.
Infatti, sotto il terrapieno, s'era fatto silenzio; i vagoncini non scrollavano più col loro continuo rullio i cavalletti del binario; e dalla miniera non veniva più che, affievolito, il battere d'un martello su una lamiera.
- No, sono del Mezzodì.
Felice dell'interruzione, il manovale, vuotati i carrelli, s'era seduto per terra; in tutto il tempo, senza uscire dal suo scontroso mutismo, aveva appena alzato sul carrettiere uno sguardo spento, quasi a rinfacciargli la sua loquacità. Insolita, a dire il vero, nel vecchio; bisognava che la fisionomia dello sconosciuto gli fosse andata a genio o che l'avesse preso una di quelle smanie di confidenza per le quali a volte i vecchi parlano ad alta voce da soli.
- Io sono di Montsou. Bonnemort, mi chiamo.
- Buonamorte! E' un soprannome? - chiese Stefano, stupito.
Il vecchio fu felice dell'osservazione. Ridacchiando esultante: - Proprio così... Tre volte m'hanno tirato fuori di lì in fin di vita, - e indicava il Voreux. - Una volta senza più un pelo che non fosse strinato; un'altra con della terra persino nel gozzo; la terza gonfio d'acqua come un rospo. Allora, visto che di morire non volevo saperne, per celia m'hanno messo nome Bonnemort.
E ci rise sopra a suo agio; un ridere che somigliava al cigolio d'una carrucola male oliata e che finì per procacciargli un nuovo attacco di tosse.
Adesso, bene in luce, il vecchio mostrava un testone seminato di radi capelli bianchi, un viso rincagnato, livido, chiazzato di macchie vinose. Basso di statura, aveva un collo di toro, le gambe a roncola, mani tozze in cima a lunghe braccia che quando ciondolavano toccavano i ginocchi. Si sarebbe detto del resto, anche lui come il suo cavallo, di pietra; come il cavallo immobile sulle zampe, non pareva accorgersi né del freddo né dell'ululo del vento. Finito che ebbe di tossire, con un raschio profondo, come volesse con lo sputo divellere anche le viscere, scaracchiò, costellando il terreno di un'altra chiazza d'inchiostro.
- E' da tanto tempo che lavorate nella miniera?
Bonnemort allargò espressivamente le braccia:
-Oh, da tanto, sì! Non avevo otto anni quando sono sceso in miniera! giusto qui, al Voreux, e adesso, ne ho cinquantotto... Fate il conto... Sono passato per tutti i mestieri; manovale prima, poi spingicarichi, appena ne ho avuto la forza; quindi, per diciott'anni staccatore... In seguito, per colpa di queste maledette gambe, mi hanno messo coi terrazzieri a rinterrare, a riparare i guasti, finché è venuto il momento che si è dovuto tirarmi di là dentro, per via che il medico ha detto che, se no, ci restavo.
Allora, è ormai da cinque anni, m'hanno impiegato al traino dei vagoncini... Eh, che ne dite? Mica male, cinquant'anni di miniera, di cui quarantacinque all'ombra!
Tizzi accesi che ogni tanto traboccavano dal braciere, gli mettevano sul livore del viso bagliori di sangue.
- Stattene a casa, mi dicono. Ma io non ci sento da quest'orecchio! Non sono allocco al punto che credono! Due anni tirerò bene avanti; e raggiunti i sessanta, avrò diritto ai miei centottanta franchi di pensione. Se dessi loro retta, non ne toccherei che centocinquanta.
Volponi loro! Ma io non ci casco! Del resto sono ancora robusto, non fossero le gambe. E' l'acqua, capite, che mi è entrata nella pelle, a forza di docciature. Certi giorni non posso muovere un piede senza urlare.
Lo interruppe un nuovo impeto di tosse.
- Ed è l'acqua che vi dà questa tosse?
Il vecchio negò col capo; mai più! E, quando poté parlare:
-No, no.
E' un'infreddatura che mi sono buscata il mese scorso. Non sapevo che cosa fosse tossire! e ora non faccio altro... E il curioso è che sputo, che sputo... Nuovo raschio violento in gola, seguìto dal solito scaracchio.
- Sangue, mica? - s'arrischiò Stefano a chiedere.
A tutto suo agio Bonnemort s'asciugò la bocca col dorso della mano.
- Mai più! E' carbone... Ne ho, dentro, di carbone, tanto da riscaldarmi per il resto dei miei giorni... Eppure, sono cinque anni ormai che di polvere di carbone non ne mangio. Si vede che senza saperlo ne avevo immagazzinato una buona provvista. Bah! il carbone purifica! allunga la vita!
Ci fu un silenzio. Dalla miniera giungevano i colpi cadenzati del martello; il vento fischiava e il suo lagno arrivava dalle profondità della notte come un grido di fame e di morte.
Nel bagliore delle fiamme, strapazzate dal vento, ora il vecchio a bassa voce rimasticava antichi ricordi. Ah non era certo da poco che lui e i suoi lavoravano alla miniera! Era da quando la Compagnia era stata fondata, ch'essi in famiglia lavoravano nella miniera di Montsou; da un bel po', vale a dire da centosei anni, ormai. Anzi, era stato il padre di suo padre, Guglielmo Maheu, ragazzino quindicenne a quel tempo, che aveva scoperto il carbone a Réquillart; e Réquillart, una miniera ormai sfruttata, laggiù presso lo zuccherificio Fauvelle, era stato il primo pozzo della Compagnia. Tutto il paese poteva testimoniarlo; tanto è vero che il giacimento scoperto là, si chiamava ancora col nome di suo nonno: giacimento Guglielmo. Un nonno che lui non aveva conosciuto: un omaccione, per quel che si raccontava, forte come un toro, morto a settant'anni, di vecchiaia. Dopo di lui suo padre, Nicola Maheu detto il Rosso, a quarant'anni appena, nel Voreux ci aveva lasciato la pelle; la miniera si stava allora scavando: una frana lo aveva schiacciato; di lui non s'era più trovato né traccia di sangue né un osso: bevuto! Più tardi v'erano rimasti due suoi zii e tre suoi fratelli. Lui, Vincenzo Maheu, poteva chiamarsi ancora fortunato, che, a parte le gambe male in sesto, aveva portato via, si può dire, la ghirba sana. Ma, d'altronde, che fare? Lavorare bisognava. E quel mestiere che si passavano di padre in figlio, non era un mestiere al pari d'un altro? Adesso era la volta di suo figlio, Ognissanti Maheu, di crepare lì dentro; e col figlio, i nipoti, l'intera famiglia; alloggiata lì in faccia, nelle case operaie.
Centosei anni di miniera, i nipoti dopo i nonni, sempre a servizio dello stesso padrone. Quanti borghesi, è vero?, non avrebbero saputo contare altrettanto bene la storia della loro famiglia!
- E passi, finché c'è da mangiare! - commentò Stefano di nuovo.
- E' quel che dico anch'io: finché c'è pane, si può tirare avanti.
E il vecchio s'indugiò a guardare la borgata operaia che s'andava punteggiando di lumi. Al campanile di Montsou suonarono le quattro; il freddo si acuiva.
- E' ricca la Compagnia? - Stefano domandò.
Il vecchio alzò le spalle, poi le lasciò ricadere come gliele accasciasse una valanga di scudi.
- Oh sì, oh sì... Non forse tanto quanto quella qui vicino, di Anzin.
Ma ricca, comunque, a milioni e milioni. Da non poterli contare.
Diciannove pozzi, di cui tredici per l'estrazione; il Voreux, la Vittoria, Crèvecoeur, Mirou, Saint-Thomas, Madeleine, Feutry-Cantel, e altri ancora, e sei per l'eduzione e l'aerazione, come sarebbe Réquillart... Diecimila operai; concessioni che s'estendono su sessantasette comuni; cinquemila tonnellate al giorno di estrazione, una ferrovia che allaccia insieme tutte le miniere; e poi opifici, fabbriche... Ah, sì! ah sì! del denaro ce n'è!
S'udì un rotolar di carrelli sulle rotaie: il cavallo drizzò le orecchie. Il guasto alla cabina doveva essere stato riparato: i manovali avevano ripreso a lavorare. Nel riattaccare per il viaggio di ritorno, il vecchio aggiunse sottovoce, come indirizzandosi al cavallo:
- Non prendere mica l'abitudine di cianciare, battifiacca della malora! Se il signor Hennebeau sapesse in che perdi il tempo!
Stefano, con gli occhi al buio, sovrappensiero: - E' di codesto Hennebeau la miniera?
- No. Lui non è che il direttore generale. E' pagato come noi.
Il giovane, accennando con un largo gesto intorno:
-E tutto questo, allora, a chi appartiene?
Strangolato da un nuovo attacco di tosse, Bonnemort non poté rispondere. Solo quando ebbe sputato e si fu asciugato dalle labbra la bava nerastra, disse, nel vento che rinforzava:
- Che? a chi appartiene tutto questo?... E chi lo sa! A della gente che sta da quelle parti! - e indicava vagamente con la mano un punto perso nel buio, la località lontana e da lui mai vista, dove abitava la famiglia per la quale i Maheu, di padre in figlio, si sfiancavano da oltre un secolo nella miniera. La sua voce aveva preso un tono di timore riverenziale, quasi parlasse del tabernacolo inaccessibile in cui si nascondeva il dio infingardo e satollo al quale tutti loro s'immolavano senza averlo mai visto.
Ancora una volta, senza nesso apparente:
-Almeno di pane, ci si potesse saziare! - Stefano tornò a dire.
- Sì, si avesse almeno tutti i giorni del pane! Sarebbe già bello!
Da sé il cavallo s'era avviato; il carrettiere gli tenne dietro strascicando faticosamente le gambe.
Presso la leva, il manovale non aveva dato segno d'udire; raggomitolato in sé come un riccio, il mento tra le ginocchia, fissava nel vuoto i grossi occhi spenti.
Stefano s'era rimesso sottobraccio l'involto, ma non si decideva ancora ad andarsene. Il riverbero del braciere gli scottava il petto, mentre le raffiche gli gelavano la schiena. Non gli converrebbe, a ogni buon conto, presentarsi nella miniera? Il vecchio poteva aver parlato senza sapere; e poi lui non si adattava a qualunque lavoro? Dove andare d'altronde, che fare in quel paese affamato dalla disoccupazione? crepare dietro un muro come un cane randagio? Eppure qualche cosa lo faceva esitare: la paura che gli incuteva il Voreux, in mezzo a quella piatta pianura inghiottita dalla notte. A ogni raffica, il respiro del vento pareva farsi più vasto come se l'orizzonte da cui sfociava s'andasse allargando. Non barlume d'alba in cielo; solo gli altiforni e i gasometri fiammeggiavano insanguinando il buio senza diradarlo. E in fondo alla sua buca il Voreux s'accucciava sempre di più, simile a una bestia in agguato; e il suo respiro si faceva sempre più faticoso e più lungo come lo appesantisse la digestione di tutta quella carne umana da smaltire
Capitolo secondo
In mezzo a campi di grano e barbabietola, la borgata operaia dei Duecentoquaranta dormiva nella notte nera. Vagamente si distinguevano i suoi quattro vasti isolati di piccole abitazioni addossate; isolati geometrici, paralleli, evocanti la caserma e l'ospedale; separati da tre spaziosi viali, spartiti in tanti orticelli eguali. E sullo spiazzo deserto non s'udiva che il lagno delle raffiche nei graticci divelti degli steccati.
In casa Maheu, al numero 16 del secondo isolato, nulla si muoveva.
Nell'unica stanza al primo piano regnava un buio pesto che pareva schiacciare del suo peso il sonno dei vivi che vi si indovinavano ammucchiati; a bocca aperta, atterrati dalla stanchezza. Nonostante il freddo intenso del di fuori, l'aria appesantita conservava un calore animale; quel soffoco che si respira nelle stanze, per bene tenute che siano, e che sa di bestiame umano.
Suonarono le quattro al cucù della sala a pianterreno. Nulla ancora si mosse; sibili di respiri esili cui tenevano bordone due ronfi sonori.
La prima ad alzarsi fu Caterina. Sebbene stanca morta, la ragazza aveva udito al piano di sotto scoccare le ore e per abitudine le aveva contate, pur senza ancora trovare la forza di scuotersi del tutto il sonno di dosso. Buttate le gambe fuori delle coperte, cercò a tastoni la candela; e, strofinato un fiammifero, l'accese. Ma a tirarsi su non ce la faceva; la testa pesante, cedendo al bisogno invincibile di ricadere sul cuscino, le ciondolava da una spalla all'altra.
Ora la candela rischiarava la camera; una stanza quadra, con due finestre, occupata da tre letti. C'era un armadio, una tavola, due vecchie seggiole di noce, che staccavano sull'ocra chiaro delle pareti. Nient'altro: dei vestiti appesi a un chiodo, una brocca posata per terra, presso una ciotola grezza che serviva da catino. Nel letto di sinistra Zaccaria, il primogenito di ventun anno, era coricato col fratello Gianlino, che ne compiva undici; in quello di destra due marmocchi, Leonora ed Enrico, la prima di sei, il secondo di quattro anni, dormivano abbracciati; mentre Caterina divideva il terzo con la sorella Alzira, così poco sviluppata per i suoi nove anni che la ragazza non ne avrebbe neppure avvertita la vicinanza, non fosse stata la gobba della piccola malata che le sfondava le costole. Per la porta a vetri aperta, si vedeva il pianerottolo; specie di corridoio, dove il padre e la madre occupavano il quarto letto, contro il quale avevano dovuto sistemare la cuna dell'ultima nata, Estella, di appena tre mesi.
Caterina faceva sforzi disperati per vincere la sonnolenza. Si stirava, si ficcava le dita nella selva di capelli rossicci che le cadevano arruffati sulla fronte e sulla nuca. Mingherlina per i suoi quindici anni, di sé, fuori dalla stretta guaina della camicia, non lasciava vedere che i piedi infreddoliti e le braccia delicate, d'un biancore latteo che contrastava con la tinta smorta del viso, già sciupato dal quotidiano lavarsi con sapone scadente.
Un ultimo sbadiglio le spalancò la bocca, un po' grande, su dei bellissimi denti che smagliavano sul rosa anemico delle gengive; mentre gli occhi grigi prendevano un'espressione di pianto, un'espressione affranta, che pareva gonfiare di fatica tutta la sua nudità.
Dal pianerottolo giunse un grugnito; la voce impastoiata di Maheu che borbottava: - Perdìo, è ora!... Hai acceso tu, Caterina?
- Sì, padre. E' suonato ora, da basso.
- Spicciati dunque, fannullona! Se ieri sera avessi smesso prima, di ballare, ci avresti svegliato da un po'... Bella vita che si fa!
E seguitò a brontolare; ma, riguadagnato dal sonno, la lingua gli si ingarbugliò, i rimproveri cessarono: riprese a russare.
La giovinetta in camicia s'aggirava sull'ammattonato della stanza a piedi scalzi. Nel passare davanti al letto di Enrico e di Leonora ricondusse sui due le coperte che n'erano scivolate; annientati dal sonno dell'infanzia, quelli seguitarono a dormire. Alzira aveva aperto gli occhi; e, zitta zitta, s'era rigirata per occupare il posto lasciato caldo dalla sorella.
- Su dunque, Zaccaria! e tu, Gianlino, andiamo! - ripeteva Caterina, ritta davanti ai fratelli che non si muovevano, il naso ficcato nel cuscino.
Dovette afferrare il maggiore per le spalle e scuoterlo; poi, mentre egli masticava ingiurie, si decise a scoprirli, strappando loro le coperte di dosso. Vedendoli dibattersi a gambe nude, li trovò buffi e rise.
- Non far la stupida, piantala! - borbottò Zaccaria di malumore, quando si fu rizzato a sedere. - Non mi vanno, a me, gli scherzi... Dire, santo Dio, che bisogna alzarsi!
Era magro, dinoccolato, con un viso lungo, seminato di radi peli, i capelli biondicci e il colorito anemico, comune a tutta la famiglia.
Non per pudore, ma per non prendere freddo, abbassò la camicia che gli era risalita sul ventre.
- E' suonato da basso, - ripeteva Caterina. - Andiamo, saltate giù. Se no, il babbo... Gianlino che s'era raggomitolato su se stesso, richiuse gli occhi, dicendo: - Vatti a fare... Io dormo.
Di nuovo lei rise, d'un riso di buona figliola. Gianlino era così piccolo, mingherlino, con le articolazioni ingrossate dei linfatici, che lei non durò fatica a toglierlo di peso dal letto. Lui si divincolava, mentre il viso scialbo e grinzoso di scimmia, bucato dagli occhi verdi, impallidiva di rabbia impotente. Senza parlare, la morse a un seno.
- Mascalzone! - mormorò lei trattenendo un grido; e lo depose in terra.
Alzira, zitta zitta, il mento ficcato sotto le coperte, seguiva coi suoi occhi svegli d'inferma ogni movimento della sorella e dei fratelli, occupati ora a vestirsi. Una disputa s'accese a proposito del catino; i due maschi respinsero a spintoni la sorella, trovando che impiegava troppo tempo a lavarsi. Le camicie svolazzando scoprivano ciò ch'erano destinate a nascondere, mentre, gonfi ancora di sonno, tutti e tre facevano pipì con la placida disinvoltura d'una covata di cuccioli cresciuti insieme.
Caterina fu la prima a essere pronta. Infilò le brache da minatore, il camiciotto di tela, annodò intorno alla crocchia la cuffia turchina. Negli abiti puliti del lunedì, l'avresti detta un maschio, non avesse denunziato il suo vero sesso un lieve molleggiare delle anche.
- Quando rincasa il vecchio, - osservò maligno Zaccaria, - avrà piacere a vedere il letto sossopra. Ma non dubitare, gli dirò io chi deve ringraziare.
Il vecchio era il nonno: Bonnemort, che, lavorando di notte, si coricava di giorno; sicché la cuccia non faceva mai a tempo a freddarsi; dopo l'uno, v'entrava l'altro, a russare.
Senza dargli risposta, Caterina tirava su le coperte, le rincalzava.
Ormai dei rumori giungevano attraverso i muri dell'appartamento attiguo. In quelle case che la Compagnia aveva fatto per economia costruire in mattoni, le pareti erano così sottili che un respiro le attraversava. Si viveva gomito a gomito; e la vita intima d'ognuno non aveva segreti neppure per i bambini. Ora, s'era prima udito un passo pesante per la scala che ne vibrava; quindi l'abbandonarsi d'un corpo in qualcosa di soffice, seguìto d'un rifiato di sollievo.
- Benone! - commentò Caterina. - Ecco Levaque che scende, e Bouteloup che prende il suo posto nel letto della moglie.
Gianlino sghignazzò e persino negli occhi di Alzira passò un lampo di malizia. Ogni mattino li metteva di buon umore il trio dei vicini: un operaio di turno di giorno ne alloggiava un altro di turno di notte: combinazione che garantiva alla Levaque un marito di notte e uno di giorno.
- Filomena tossisce, - riprese Caterina che tendeva l'orecchio.
Dei Levaque, Filomena era la figlia maggiore; una spilungona di diciannove anni, l'amante di Zaccaria, il quale le aveva già fatto due figlioli; così cagionevole di petto che, non avendo mai potuto lavorare in fondo alla miniera, l'avevano messa alla cernita del carbone.
- Beh! Filomena! - chiosò Zaccaria. - Lei se ne impipa, lei se la dorme! E' da sporcacciona dormire sino alle sei!
Si stava infilando le brache, quando, attraversato da un'idea, aprì la finestra. Fuori, nel buio, il borgo operaio si svegliava; le imposte chiuse si punteggiavano di lumi. Ed ecco scoppiare un nuovo battibecco: Zaccaria si sporgeva a curiosare se, dalla casa dei Pierron, lì in faccia, uscisse Danseart, il sorvegliante del Voreux, che si diceva se la facesse con la Pierron; mentre la sorella gli gridava che già dal sabato il marito aveva preso servizio di giorno, per cui, evidentemente, Danseart non poteva aver dormito quella notte con l'amante. Tutti e due si riscaldavano a sostenere ciascuno l'esattezza delle sue informazioni; e intanto l'aria dell'esterno entrava a ventate nella camera, finché Estella, raggiunta nella culla da quel gelo, scoppiò in lacrime e strilli.
Quel pianto destò di colpo Maheu. Che aveva addosso da riaddormentarsi a quel modo, come un buono a nulla? E sacramentava con tanta energia che più nessuno nella stanza fiatava.
Gianlino e Zaccaria finirono di lavarsi con infastidita lentezza. Nonostante il baccano, i due marmocchi, Eleonora ed Enrico, uno nelle braccia dell'altro, non s'erano mossi e si continuava a udire il loro piccolo respiro.
- Caterina, porta di qua la candela! - gridò Maheu.
Finendo di abbottonarsi, la ragazza obbedì, lasciando che i fratelli cercassero i loro abiti alla poca luce che veniva dalla porta.
Mentre suo padre saltava giù dal letto, lei scese a tastoni, in calzerotti di lana come stava; e in sala accese un'altra candela per preparare il caffè. Sotto la credenza erano schierati tutti gli zoccoli della famiglia.
- Vuoi piantarla, malanno! - gridò Maheu a Estella che non la smetteva di strillare.
Basso di statura come il vecchio Bonnemort, gli somigliava per quanto un grasso può somigliare a un magro; lo stesso testone, la stessa faccia piatta e livida sotto i capelli biondicci tagliati corti.
L'armeggiare delle sue lunghe braccia nerborute sopra la culla, spaventava la bambina che berciava sempre di più.
- Lasciala gridare; intanto non c'è verso di chetarla, lo sai! - disse la moglie allungandosi nel letto ormai tutto per sé. Anche lei adesso s'era svegliata; e si lagnava di non poter dormire in pace una notte intera. Che non avrebbero potuto andare al lavoro senza romperle ogni volta il sonno? Ficcata sotto le coperte, non lasciava vedere che il lungo viso dai tratti marcati, d'una bellezza massiccia, già sciupata a trentanove anni dalla sua vita disagiata e da sette gravidanze. Indolente, con gli occhi al soffitto, prese a discorrere, mentre il suo uomo si vestiva. Ora né lei né lui avvertivano più gli strilli della bambina che si strangolava a gridare.
- Sai che mi trovo già a secco? E non siamo che a lunedì! Ancora sei giorni per arrivare alla quindicina. Così non si può andare avanti. Fra tutti portate in casa nove franchi. Come vuoi che ce la faccia?
Siamo in dieci bocche.
- Nove franchi! - protestò Maheu. - Io e Zaccaria, tre: sono già sei. Caterina e il vecchio due: fanno quattro. Quattro e sei: dieci. E un franco Gianlino, fa undici!
- E sia: undici. Ma le domeniche non le conti? E i giorni che non si lavora? In media, non sono mai più di nove franchi al giorno.
Il marito non rispose: cercava in terra la cinghia. Rialzandosi:
-Va' là, non lamentiamoci! Io sono ancora in gamba. Quanti a quarant'anni passano alla manutenzione!
- Va bene, caro; ma con questo il pane resta quello che è. Come me l'aggiusto oggi? Non hai niente, tu?
- Due soldi, ho.
- Tienli per il tuo gotto di birra... Mio Dio, come rimedio? Sei giorni sono lunghi a passare! Con Maigrat siamo in debito di sessanta franchi. Ieri l'altro mi ha messo alla porta. Andrò lo stesso a vedere; ma se si ostina... E la donna seguitò con voce querula il suo lagno; immobile, chiudeva ogni tanto gli occhi alla luce smorta della candela. Diceva della dispensa vuota, dei marmocchi che le chiedevano da mangiare; del caffè esaurito, dell'acqua che provocava delle coliche, delle interminabili giornate passate a ingannar la fame con foglie di cavolo lesse. A poco a poco aveva dovuto alzar la voce per soverchiare gli strilli di Estella. Solo quando questi divennero assordanti, Maheu diede segno d'udirli; fuori di sé, afferrò l'urlante fagottino e lo buttò sul letto della madre.
- Tieni, - e l'ira lo faceva tartagliare, - prendila tu, se no la strozzo. Maledetta bambina! Tetta, non le manca nulla, a lei; e protesta più forte degli altri!
Già Estella s'era attaccata al capezzolo; ricoverata sotto la coperta, calmata dal calduccio del letto, già non lasciava più udire che il piccolo succhio ingordo delle labbra.
Maheu, in capo a un silenzio:
- Quei signori della Piolaine non t'avevano detto che ti facessi vedere?
Lei torse la bocca: c'era poco da sperarne.
- Sì, li ho incontrati per strada. Vanno in giro a portare dei vestiti ai bambini poveri. Insomma, stamattina andrò da loro. Mi porterò Leonora ed Enrico. Mi dessero anche solo uno scudo... Una pausa. Maheu era pronto. Restò un momento lì irresoluto; poi con voce sorda: - Che cosa posso farci io? E' com'è; aggiustati per la minestra... A parlarne non si rimedia, meglio andare al lavoro.
- Hai ragione. Spegni la candela: non m'occorre, per vedere di che colore sono i miei pensieri... Già Zaccaria e Gianlino scendevano; il padre li imitò e la scala scricchiolò sotto i passi pesanti, attutiti dai calzerotti di lana. Alle loro spalle, lo stanzino e la camera ricaddero nel buio. Ora i piccoli dormivano e anche Alzira aveva calato le palpebre sugli occhi. Solo la madre restò a fissare il buio a occhi aperti, mentre Estella appesa alla mammella cascante lasciava sfuggire un borbottio di gattino sazio.
Da basso, Caterina s'era anzitutto preoccupata d'accendere il fuoco nella stufa; una stufa di ghisa con un fornello a graticola al centro e due ai lati, nei quali bruciava giorno e notte del carbon fossile. La Compagnia passava mensilmente a ogni famiglia otto quintali di scaglietta, carbone duro che veniva raccattato nei cunicoli. Siccome s'accendeva con difficoltà, la ragazza ogni sera lo copriva; e così il mattino dopo non aveva che da scuotere la cenere e da aggiungere qualche pezzetto di carbone tenero.
Quindi, messo il bricco al fuoco venne a dare un'occhiata a ciò che restava nella credenza.
La stanza assai ampia (occupava l'intero pianterreno) era tenuta con estrema pulizia. Intonacata di verde chiaro, aveva il pavimento lavato a sguazzo e cosparso di sabbia bianca. Con la credenza di abete verniciato, la ammobiliava una tavola e delle seggiole dello stesso legno. Alle pareti, stampe a colori chiassosi - i ritratti dell'imperatore e dell'imperatrice regalati dalla Compagnia; guerrieri e santi dorati - contrastavano con la nudità dell'ambiente. Completava l'arredamento una scatola, sulla credenza, di cartone rosso e l'orologio a cucù, dal quadrante dipinto a vivaci colori che riempiva del suo tic-tac il vuoto del soffitto. Presso la porta che dava sulla scala, un altra se ne apriva per la quale si scendeva in cantina. A dispetto della pulizia che vi regnava, ammorbava l'aria - un'aria costantemente appesantita dal sentore del carbon fossile - il tanfo di soffritto di cipolla che vi persisteva dal giorno prima.
Davanti alla credenza aperta, ora Caterina rifletteva. Nell'armadio non restava che un pezzo di pane, del formaggio molle da tavola e solo più un'ombra di burro; bisognava ricavarne quattro pagnottelle da portarsi sul lavoro. La ragazza si decise: affettò il pane; una fetta la coprì di formaggio, l'altra la spalmò parsimoniosamente di burro: il primo panino era fatto. Un momento dopo tutte e quattro le pagnottelle s'allineavano sul tavolo; dalla più grossa destinata al babbo, alla più piccola destinata a Gianlino.
Per quanto assorta in apparenza nella bisogna, Caterina aveva certo continuato a ruminare in mente le chiacchiere di Zaccaria su Pierron e la moglie, perché a un certo punto schiuse a mezzo la porta d'ingresso e gettò un'occhiata fuori. Il vento seguitava a soffiare; luci sempre più numerose correvano dietro le facciate basse delle case; la sveglia animava il borgo. Già porte sbattevano chiudendosi, nere file d'operai s'allontanavano nel buio.
Era ben sciocca, lei, a star lì a prender freddo; certo, Pierron se la dormiva placido sino alle sei. Era ancora in contemplazione della casa, quando la porta di là degli orti s'aperse; la sua curiosità s'acuì, ma a uscire fu la piccola dei Pierron: Lidia, che si recava al lavoro.
Il traboccare del bricco la fece voltare. Chiuse la porta, accorse: l'acqua bollente spandendosi minacciava di spegnere il fuoco. Caffè non ce n'era più, bisognò utilizzare i fondigli rimasti il giorno prima. Addolcì quell'acqua tinta con zucchero grezzo. Giusto a tempo, suo padre e i fratelli scendevano.
- Capperi! - commentò Zaccaria. - Ecco un caffè che non ci agiterà i nervi!
Conciliante, Maheu spallucciò:
-Bah, caldo lo è. E' già qualche cosa.
Gianlino, raccolte le briciole di pane dal tavolo, le buttò nella tazza. Mesciuto che ebbe a tutti, Caterina, versò il caffè che avanzava nelle fiaschette di latta. Tutti e quattro, in piedi, trangugiavano in fretta al fumoso chiarore della candela.
- Siamo pronti, alla fine! Si direbbe che viviamo di rendita! - disse il padre.
Per la porta rimasta aperta, giunse dal piano di sopra la voce della Maheu:
- Il pane prendetelo tutto, - gridava. - Ho un po' di vermicelli, per i bambini.
- Va bene, sì, - rispose Caterina.
Aveva ricoperto il fuoco e messo su un canto del fornello un resto di zuppa: il nonno, al ritorno dal lavoro, la troverebbe calda.
Ciascuno prese di sotto la credenza il suo paio di zoccoli; mise la fiaschetta a tracolla, ficcò tra veste e camicia, sulla schiena, l'involto del pane. Uscirono; ultima, la ragazza, che soffiò sulla candela e chiuse la porta a chiave. La casa ripiombò nel buio.
- Toh, si parte a tempo, - osservò un uomo che stava chiudendo la porta accanto. Era Levaque, col figlio Berto, un monelluccio dodicenne, grande amico di Gianlino. Caterina, dallo stupore, soffocò una risatina all'orecchio di Zaccaria. Cosicché, Bouteloup non aspettava neanche più, per prendere il suo posto nel letto coniugale, che il marito fosse uscito.
Ormai nelle case i lumi si spegnevano. Ancora lo sbattere, nel chiudersi, d'una porta; poi tutto ricadde nel silenzio. Finalmente a loro agio nei letti, donne e bambini riattaccarono a dormire. E dal villaggio spento al Voreux che ansimava, fu, sotto le raffiche del vento, un lento sfilar di ombre: minatori che s'avviavano al lavoro, curve le spalle donde l'involto delle provviste sporgeva come una gobba, conserte sul petto le braccia che, così sfaccendate, li impacciavano.
Nella leggera tenuta di tela battevano i denti dal freddo; senza affrettarsi per questo di più; sbandandosi lungo tutta la strada con un pesticcìo di mandria
Capitolo terzo
Stefano s'era alfine deciso e, sceso dal terrapieno, era entrato nel Voreux.
Ma tutti quelli ai quali si rivolgeva per sapere se ci fosse lavoro, scuotevano il capo: il sorvegliante non poteva tardare; chiedesse a lui. Lo lasciarono libero di muoversi a piacer suo tra le costruzioni male illuminate, piene di vani bui, in un groviglio di piani e di sale che disorientava.
Salita una scala buia mezzo crollata, Stefano s'era trovato su una passerella traballante; aveva quindi attraversato il capannone della cernita, immerso in un buio così fitto che, per non sbattere contro qualche ostacolo, aveva dovuto procedere a tastoni. Improvvisamente gli si pararono davanti, bucando le tenebre, due occhi gialli, enormi: era nella ricevitoria, sotto il castello, all'imboccatura stessa del pozzo.
Un caposquadra, papà Richomme, un omaccione dalla faccia di gendarme bonario sbarrata da baffoni grigi, stava giusto dirigendosi verso l'ufficio del ricevitore. Anche a lui Stefano ripeté la domanda:
-Ci sarebbe mica bisogno d'un operaio, che s'adatterebbe a qualunque lavoro? - L'altro stava per dir di no; ma si riprese, e come gli altri rispose allontanandosi:
-Aspettate Danseart, il sorvegliante: è lui che comanda.
Nel locale quattro grandi lampade a riflettore investivano di luce il pozzo, illuminando a giorno le scale di ferro, le leve dei segnali e dei cardini, i panconi di guida su cui scivolavano le due gabbie. Il resto della vasta sala, simile a una navata di chiesa, spariva, popolato di grandi ombre scintillanti. Solo la lampisteria splendeva in fondo, mentre nell'ufficio del ricevitore la fioca lampada pareva una stelluzza prossima a spegnersi. Si cominciava a estrarre; e sulle lastre di ghisa era un rintronare continuo, un rullare incessante di berline, un correre di operai che le spingevano curvando la schiena, tra l'agitarsi e lo strepitare di tutti quegli ordigni al buio.
Un momento Stefano restò fermo dov'era, assordato e come cieco. D'ogni parte entravano correnti d'aria, ghiacciandolo. Per sottrarvisi, e attirato dalla macchina di cui ora vedeva luccicare gli ottoni e l'acciaio, le si accostò.
Era installata in alto a una distanza di venticinque metri dal pozzo; e poggiava così saldamente sulla sua base di mattoni che, pur andando a tutto vapore e sviluppando una forza di quattrocento cavalli, lo scorrere dell'enorme biella, che da una parte emergeva e dall'altra si sprofondava silenziosa come olio, non comunicava alle pareti la minima vibrazione. Il macchinista, ritto alla sbarra di comando, tendeva l'orecchio ai segnali a soneria, senza lasciare un attimo dell'occhio la tabella indicatrice sulla quale il pozzo era raffigurato coi suoi piani di carico, da uno spaccato verticale percorso da piombini - che rappresentavano le gabbie - appesi a funicelle. E, a ogni partenza, e per tutto il tempo che la macchina era in moto, le pulegge, le due immense ruote di cinque metri di raggio, ai cui mozzi i due cavi di acciaio si avvolgevano e si svolgevano in senso contrario, giravano con tale velocità da non apparire più all'occhio che come mulinelli di polvere grigia.
- Attenzione! - gridarono tre manovali che trascinavano una scala altissima. Per poco Stefano non v'era rimasto schiacciato sotto. I suoi occhi si andavano abituando al buio; adesso vedeva scorrere i cavi - trenta metri e più di treccia d'acciaio - che arrivati di volata nel castello, passavano lassù sulle pulegge fisse, per scendere quindi a picco nel pozzo, attaccati alle gabbie. Portava le pulegge un'alta armatura di ferro, simile a quella che regge le campane.
Il rapido scorrere del cavo, quel continuo andirivieni d'un filo enormemente pesante che, con la velocità di dieci metri al secondo, arrivava a sollevare dodicimila chili, si compiva con la leggerezza d'un volo d'uccello, senza un rumore, senza un urto.
- Attento, sacradìo! - Erano i due di prima che con la scala andavano a verificare la puleggia di sinistra.
Intontito da tutto quel trambusto, Stefano tornò nella ricevitoria.
Quel turbinare di ordigni sul suo capo lo sconcertava. Rabbrividendo nelle correnti d'aria, le orecchie intronate dal rotolare dei vagoncini, osservò la manovra delle gabbie. Presso il pozzo, il segnale funzionava: un pesante martello mosso da una leva che una corda, tirata dal fondo, lasciava ricadere su una specie di incudine. Un colpo per fermare, due per far discendere il cavo, tre per farlo risalire: era un battere incessante come di mazze ferrate che dominava il tumulto, accompagnato da uno squillare di soneria: frastuono che l'operaio preposto alla manovra accresceva lanciando a pieni polmoni gli ordini al macchinista, attraverso un portavoce.
In mezzo a tutto quel fracasso, le gabbie aggallavano e risprofondavano, si vuotavano e si riempivano, senza che Stefano capisse gran che in quel complicato lavoro. Una cosa sola gli era chiara: che il pozzo inghiottiva gli uomini a bocconi di venti e di trenta con tanta disinvoltura che del loro passare non pareva neanche avvedersi.
La discesa degli operai nel ventre della terra s'iniziava alle quattro. Arrivavano nella «baracca» a piedi scalzi, la lampada in mano; e a gruppetti qua e là aspettavano per imbarcarsi d'essere in numero sufficiente.
Col balzo silenzioso dell'animale notturno che scatta dalla sua tana, la gabbia di ferro emergeva nel buio, si calava sui paletti, portando in ciascuno dei suoi quattro scomparti orizzontali due berline colme di carbone. Ai pianerottoli corrispondenti ai quattro scomparti, dei braccianti tiravano fuori le berline, le sostituivano con altre vuote o riempite in anticipo di legname da rivestimento. Ed era nelle berline vuote che gli operai si pigiavano in cinque per ciascuna, così da raggiungere in un solo viaggio il numero di quaranta quando trovavano tutte le berline sgombre.
Compiuto il carico, un ordine partiva dal portavoce, un boato sordo e inintelligibile; mentre veniva tirata quattro volte la corda che annunciava giù nel pozzo l'arrivo di quel carico di carne umana. Quindi, con un leggero sobbalzo, la gabbia si tuffava in silenzio, piombava giù come un ciottolo nell'acqua, lasciandosi dietro, unica scia, lo scorrere e il vibrare del cavo.
- E' profondo? - s'informò Stefano da un minatore, che, con occhi di sonno, aspettava il suo turno.
- Cinquecentocinquantaquattro metri, - rispose quello. - Ma attraversa quattro livelli; il primo, a trecento metri.
Tacquero tutti e due, gli occhi al cavo che risaliva.
- E se si spezza?
- Ah, se si spezza... - e l'altro finì la frase col gesto.
Era giunto il suo turno; la gabbia era riapparsa con la consueta leggerezza di sughero che aggalla. Con altri compagni, quello si accosciò nella berlina vuota; la gabbia si rituffò per riemergere di nuovo in capo a quattro minuti appena, e inghiottire un nuovo carico d'uomini.
E d'uomini, a questo modo, nel corso d'una mezz'ora il pozzo ne divorò! Con più o meno ingordigia, a seconda della profondità del livello cui erano destinati; ma senza arrestarsi un momento, con la fame che sempre si rinnova d'un buzzo capace di digerire un popolo intero. Il budello si riempiva, si riempiva senza che dal suo buio venisse segno di vita; mentre la gabbia seguitava a sorgere dal vuoto sempre nello stesso silenzio vorace.
Stefano, a forza di aspettare, fu ripreso dal malessere che già aveva provato sul terrapieno. Perché ostinarsi? Il sorvegliante che attendeva lo congederebbe come avevano fatto gli altri. E una specie di vaga paura improvvisamente lo decise; venne via di là; e fuori non rallentò il passo che davanti al reparto delle caldaie, attratto dal calore che ne usciva. La porta spalancata lasciava vedere sette caldaie a due fornelli. In mezzo a una bianca nebbia, nel fischio delle fughe di vapore acqueo, un fuochista stava caricando uno dei fornelli, il cui riverbero si faceva sentire fin sulla soglia. Il giovinotto s'avvicinava per approfittarne, quando incrociò una nuova squadra di operai in arrivo. Erano i Maheu con Levaque. Scorgendo in testa Caterina: «tant'è, - si disse, - ha un'aria così affabile questo ragazzo; potrebbe portarmi fortuna. Perché non azzardare un'ultima domanda?» - Scusate, camerata, non ci sarebbe bisogno, che sappiate, d'un operaio che s'adatterebbe a qualunque lavoro?
Trasalendo alla voce che usciva così inaspettatamente dall'ombra, la ragazza lo guardò interdetta. Rispose per lei il padre, che aveva udito la domanda, e che s'intrattenne un momento con lo sconosciuto. No, di lavoranti non s'aveva bisogno. Poveraccio però, Maheu si disse, per le strade, in questi tempi, in cerca di lavoro... E raggiungendo gli altri commentò:
-Eh! a ciascuno di noi potrebbe ben capitare lo stesso... Non lagniamoci. Non tutti, come noi, possono schiattar di lavoro.
Il gruppetto s'avviò diritto alla «baracca»: uno stanzone imbiancato alla meglio, con tutto intorno alla parete degli armadi chiusi da lucchetti. Al centro s'arroventava una specie di stufa di ferro mancante di sportello: talmente rimpinzata di carbon fossile che dei tizzoni ne traboccavano crepitando sul pavimento di terra battuta. Altra illuminazione non c'era che quel braciere, i cui riflessi sanguigni tremolavano lungo i sudici zoccoli di legno, s'allungavano sin sul soffitto che la polvere di antracite anneriva.
Nel momento che vi arrivavano i Maheu, nell'aria surriscaldata dello stanzone scoppiavano delle risate. Una trentina d'operai, con la schiena rivolta alla fiamma, se la stavano arrostendo con evidente soddisfazione. Prima di raggiungere il loro posto, tutti venivano lì a fare una buona provvista di caldo, per sfidare con più coraggio l'umidità del pozzo. Ma quel mattino il divertimento era doppio: si dava la berta alla Mouquette, una spingicarichi diciottenne, una pasta di figliola, solo un po' troppo esuberante di tette e di deretano. Abitava a Réquillart col padre, il vecchio Mouque, stalliere; e col fratello Mouquet, manovale come lei al Voreux; ma i tre lavorando a ore diverse, la ragazza veniva alla miniera da sola; e d'estate in mezzo al grano, contro un muro d'inverno, si sollazzava con l'amoroso che ogni settimana era un altro. Tutta la maestranza maschile del Voreux era passata fra le sue braccia; una vera messa comune tra colleghi, senza alcuna conseguenza.
Una volta che a Mouquette avevano rinfacciato di essersi obliata con un chiodaiolo di Marchiennes, era mancato poco che dalla rabbia la ragazza schiattasse: aveva troppo rispetto di sé, lei; vorrebbe perdere un braccio il giorno che qualcuno potesse vantarsi di averla vista con altri che con uno delle miniere.
- Non sei più con Chaval, allora? - le diceva un minatore ridacchiando.
- Ti sei presa quel piccolino lì, allora? Ma a quello lì, gli ci vorrebbe una scala! Vi ho visti, dietro Réquillart; tanto è vero che posso dirti che lui, per sposarti, era salito su un paracarro.
Mouquette di rimando, senza prendersela:
-E con ciò? Che te ne fa a te? Non ti si è mica scomodato perché tu lo aiutassi a salire!
Trivialità bonacciona che scatenò un nuovo scoppio di risa e fece sussultare le schiene degli uomini che s'arrostivano intorno alla stufa; mentre la ragazza portava a spasso in mezzo a loro l'indecenza del suo costume provocante, ma al tempo stesso grottesco, per via di quella esuberanza di ciccia, spinta quasi alla deformità.
Senonché, come già a suscitarla, fu ora Mouquette a spegnere tutta quella ilarità, annunziando a Maheu che Fiorenza, la grande Fiorenza, non verrebbe più; il giorno prima l'avevano trovata nel suo letto stecchita; chi diceva per una «caduta» del cuore, chi a causa d'un litro di grappa bevuto a garganella.
- Giusto oggi! E come rimedio così sui due piedi con una spingicarichi di meno su due che ne avevo? - si disperò Maheu. - Ma è una vera disdetta! - (Maheu - in società con lui Zaccaria, Levaque e Chaval - lavoravano a cottimo). - Con Caterina sola, non ce la faccio! - Ma ecco si batte la fronte:
-Ah! ci sarebbe quel giovinotto di poco fa che cercava lavoro!
Danseart passava per l'appunto davanti alla baracca. Maheu gli espose il caso e chiese che l'autorizzasse ad assumere l'operaio: la Compagnia non aveva appunto in programma di sostituire alle ragazze dei maschi, sull'esempio della miniera di Anzin? Il sorvegliante ebbe dapprima un sorrisetto: quel progetto d'escludere le donne a pro degli uomini ripugnava di solito ai minatori, preoccupati di impiegare le figlie e poco curanti delle conseguenze che derivavano alla salute e alla moralità delle ragazze.
Solo dopo aver esitato un po' acconsentì, riservandosi però di far ratificare la sua decisione da Négrel, l'ingegnere.
- Be', - fece Zaccaria, - chi sa dov'è a quest'ora, quello là!
- L'ho visto che si fermava presso le caldaie, - disse Caterina.
- E allora vallo a chiamare, spìcciati! - la incitò il padre.
La ragazza uscì di corsa, facendosi largo tra una frotta di operai che, cedendo ad altri il posto intorno alla stufa, salivano al pozzo.
Imitandoli Gianlino, senza attendere il padre, andò anche lui a munirsi della sua lampada; e uscì dalla baracca insieme a Berto, un ragazzo più sviluppato di corpo che di cervello, e a Lidia, una mingherlina appena decenne.
Precedendoli su per la scala buia, la Mouquette ora strillava, trattando i due ragazzi di sudici mocciosi e minacciandoli di ceffoni se seguitavano a pizzicottarla.
Stefano era ancora infatti nel locale delle macchine, e stava discorrendo col fuochista, occupato ad alimentare i forni. Lo tratteneva lì la ripugnanza che provava a riaffrontare il gelo della notte. Ma s'era ormai deciso a partire, quando sentì una mano posarglisi sulla spalla: Caterina.
- Si è trovato qualche cosa da farvi fare. Venite.
Alla prima non capì. Poi, lo invase una tale esultanza che dalla gratitudine afferrò ambe le mani della ragazza e le strinse con forza.
- Grazie, camerata... Ah voi siete davvero un bravo giovinotto, non c'è che dire!
Nel rosso riverbero dei forni, Caterina lo guardò ridendo dell'equivoco. La divertiva il fatto che, poco sviluppata com'era e col mazzocchio nascosto dalla cuffia, lui la scambiasse per un maschio. Stefano pure rideva; di contentezza; e un momento restarono tutti e due lì a guardarsi, con le guance accese e gli occhi ridenti.
Rientrando nella baracca, trovarono Maheu che, accosciato davanti alla cassetta dove li riponeva, stava cavandosi gli zoccoli e i calzerotti di lana. In quattro parole i due uomini s'accordarono: un franco e mezzo di paga giornaliera; il lavoro era faticoso, ma vi si faceva presto la mano. Quanto alle scarpe, tenesse quelle che aveva; e gli prestò un berretto usato e un copricapo di cuoio destinato a salvaguardare l'integrità del cranio: precauzione che il padre e i figli disdegnavano.
Dalla cassetta prese gli utensili tra i quali c'era giusto il badile di Fiorenza; quindi vi chiuse dentro, con gli zoccoli e le calze che s'era tolti, anche l'involto di Stefano.
A questo punto accorgendosi che Chaval non s'era ancora visto, sbottò: - Che sta mai facendo per non essere ancora qui, quel porco di Chaval? Qualch'altra sgualdrina da ribaltare su un mucchio di pietre! Siamo già in ritardo di mezz'ora, quest'oggi!
Lo scatto tirò dal suo trasognamento Zaccaria, che con Levaque stava placidamente arrostendosi le spalle presso la stufa.
- E' Chaval che aspetti? E' arrivato prima di noi! è già nel pozzo da un po'!
- Come! e aspetti adesso a dirlo? Andiamo, andiamo, spicciamoci!
Caterina smise di scaldarsi le mani per seguirli. Stefano le lasciò il passo e le tenne dietro su per le scale.
Ripassò così per un dedalo di scale e di corridoi bui, dove il calpestio dei piedi scalzi si avvertiva appena. Ed ecco fiammeggiare di nuovo con tutti i suoi lumi la lampisteria: una stanza vetrata tappezzata tutto attorno di rastrelliere sovrapposte cui erano appese centinaia di lampade Davy, collaudate e ripulite dal giorno prima, e tutte accese come i ceri d'una cappella. Allo sportello, ogni operaio ritirava la sua, contrassegnata col punzone del proprio numero; la esaminava, la chiudeva lui stesso; mentre il marcatempo segnava l'ora sul registro. Maheu dovette intervenire perché una lampada fosse assegnata al suo nuovo spingicarichi. E non era finita: ultima precauzione, gli operai dovevano sfilare davanti a un verificatore il quale si assicurava che tutte le lampade fossero chiuse a dovere.
- Diancine! non fa caldo, qui, - sussurrò Caterina, colta da un brivido. Stefano si limitò a scuotere il capo. Ecco che si trovava di nuovo davanti al pozzo, al centro del vasto locale spazzato da correnti d'aria.
Certo, la sua risoluzione era presa: eppure, in mezzo a quel rintronare di berline, tra i colpi sordi dei segnali, lo strozzato muggire del portavoce, davanti a quell'incessante saettare sul suo capo di cavi che le pulegge avvolgevano e svolgevano con pazza velocità, tant'è una specie di sgomento lo prendeva alla gola. Le gabbie sprofondavano, affioravano, come di soppiatto, senza tregua inabissavano uomini, che la nera fauce pareva bevesse. Lui pure ora, nella fauce, ingoierebbe: il suo turno era venuto. Intirizzito taceva; e quel silenzio tradiva così bene lo stato di eccitazione nervosa in cui si trovava, che Zaccaria e Levaque, ridacchiando, se lo indicavano a vicenda: né l'uno né l'altro infatti approvava l'assunzione dello sconosciuto; e, meno che mai, il secondo, offeso che non lo si fosse consultato. Sicché Caterina rifiatò di sollievo a udire il padre dare al giovinotto delle spiegazioni: - Vedete, sopra la gabbia c'è un dispositivo per ovviare agli eventuali guasti; una specie di paracadute: dei ramponi di ferro che, se mai il cavo si spezzasse, si incastrano nelle guide. Non già che ogni rischio sia escluso!... Sì, il pozzo è diviso in tre scomparti, separati da paratie verticali; al centro, quello delle gabbie, a sinistra il bugigattolo delle scale a pioli... E interrompendosi e smorzando la voce: - Ma che diavolo si fa qui, sacradìo! è lecito farci crepare di freddo a questo modo?
Il capo-squadra Richomme, che si disponeva a scendere pur lui, la lampada a fiamma libera agganciata al cuoio del berretto, lo udì:
- Non farti sentire, non ti fidare! - mormorò paterno; era stato minatore anche lui e per gli antichi colleghi gli restava una grande comprensione. - Del resto per le manovre ci vuole il suo tempo... Ecco, ci siamo. Suvvia, imbàrcati.
La gabbia era aggallata; rivestita di bandone e d'una fitta rete metallica attendeva, a piombo sui cardini. Maheu, Zaccaria, Levaque e Caterina presero posto nella berlina di fondo; e siccome ogni veicolo doveva bastare per cinque, Stefano vi si introdusse a sua volta; ma evidentemente qualcuno dei passeggeri ci teneva a star comodo, perché il giovane dovette pigiarsi vicino alla ragazza; che in quella ristrettezza di spazio era costretta a puntargli un gomito nel ventre.
La lampada lo impacciava; lo consigliarono di appuntarla a un'asola della giacca; ma non udì e continuò a tenerla goffamente in mano.
Sopra e sotto di loro si seguitava a imbarcarsi: un'infornata di bestiame alla rinfusa. «Perché non si parte? che succede?» A Stefano pareva di attendere un anno. Finalmente una scossa lo fece sussultare: tutto andò a picco, gli oggetti intorno presero il volo; mentre lui provava il capogiro di chi cade, un rimescolìo nelle viscere. La penosa sensazione durò finché si fu in luce: il tempo per le gabbie di attraversare, tra un vorticare di armature, i due piani della ricevitoria. Poi, una volta piombato nel buio della miniera, non fu più che uno stordimento che ottundeva ogni altra sensazione.
- Eccoci in viaggio, - disse placidamente Maheu.
Tutti intorno erano come a casa loro. Lui, certi momenti, si domandava se si scendeva o si saliva. A tratti avveniva che ci si credesse fermi ed era quando la gabbia filava a piombo senza toccare le guide; poi eccola improvvisamente vibrar tutta, i panconi di guida mettersi a ballare. «Ci siamo! la catastrofe!» pensava Stefano. Incollava, per rendersi conto, la fronte alla griglia, ma senza riuscire a scorgere la parete del pozzo. Anche nell'interno era molto se si distingueva il groviglio dei corpi. Solo la lampada a fiamma libera di Richomme brillava, nell'altra berlina, di viva luce.
Maheu seguitava a metterlo al corrente:
-Questo scompartimento qui, ha quattro metri di diametro. Il rivestimento avrebbe bisogno di essere rifatto; perde acqua da tutte le parti... Ecco, si arriva al primo livello, sentite?
S'udiva strepito d'acqua che cade; e Stefano si stava appunto chiedendo di che si trattasse. Era stato da principio come l'avvisaglia d'un acquazzone: un rimbalzar di goccioloni sul tetto della gabbia; ma ora la pioggia cadeva a rovescio, ruscellava sulle pareti, si tramutava in diluvio. Doveva esserci qualche fessura sul tetto, perché già un filo d'acqua gli colava lungo le spalle, gli arrivava alla pelle.
Si sprofondava nel buio e nell'umidità, in un freddo che diventava glaciale, quando vi fu come un lampo: s'attraversava una zona illuminata; si ebbe appena la visione d'una caverna dove forme umane si agitavano in una luce accecante, che già tutto ripiombava nel buio.
- E' il primo piano di carico, - spiegò Maheu. - Siamo a trecentoventi. Guardate come si fila! - e, dicendo, alzava la lampada e ne faceva cader la luce sul pancone di guida; emergendo essa sola dal buio, la massiccia trave fuggiva con la rapidità della rotaia sotto il treno lanciato. Altri tre livelli passarono in un barbaglio di luci. Nel buio la pioggia strepitava. - Si scende ben fondi! - mormorò Stefano. Nella posizione in cui si trovava e dalla quale la timidezza gli impediva di togliersi, col gomito di Caterina puntato nel ventre, gli pareva che quella caduta durasse da ore. La ragazza non apriva bocca; ma aderendogli contro gli comunicava un po' del proprio calore.
Quando alfine la gabbia si arrestò - si era a cinquecentocinquantaquattro metri di profondità - Stefano si stupì a sentirsi dire che la discesa era durata esattamente un minuto. Lo scatto dei cardini che si incastravano, il sentire sotto di sé il terreno solido, gli fu di tale sollievo che prese celiando a dare del tu a Caterina:
-Che ci hai sotto la pelle, per essere così caldo?... E verifica un po' se il gomito ce l'hai ancora a posto, perché mi sembra d'averlo nella pancia.
Allora anche lei non si tenne. Ma come! era cieco a scambiarla per un maschio?
- Direi piuttosto che ce l'hai nell'occhio, il mio gomito! - e partì in una risata, che lo lasciò interdetto.
La gabbia si vuotava; gli operai attraversarono il piano di carico: uno stanzone ricavato nella roccia, con la volta in muratura, che tre grandi lampade a fiamma libera rischiaravano. Spinte a braccia, le berline cariche rotolavano sul pavimento di lastre di ghisa. Le pareti tramandavano un sentore di cantina, una frescura pizzicante di salnitro, nella quale passavano a tratti buffate di caldo, provenienti dalla vicina scuderia. Quattro gallerie vi si aprivano spalancate come bocche.
- Di qui, - disse Maheu a Stefano. - Non siamo giunti ancora; ci restano da fare due chilometri buoni.
Gli operai si separavano, a gruppi si dileguavano in fondo ai neri budelli. Una quindicina prese per la galleria di sinistra: Caterina in testa con Zaccaria e Levaque; dietro, Maheu; Stefano, in coda. Era una bella galleria di carriaggio, tagliata contro vena in una roccia solida che solo qua e là era occorso armare di muro. Procedevano per uno, in silenzio, senz'altra compagnia che la fiammella della lampada; avanti, sempre avanti.
Stefano a ogni passo incespicava, inciampava nelle rotaie. Da un po' ora, tendeva inquieto l'orecchio a un sordo rumore che si faceva via via più minaccioso e che pareva venire dalle viscere della terra: un lontano rombo di tempesta. Il fragore d'una frana che stava per precipitare su di loro, per schiacciarli, l'enorme massa di terra che li divideva dalla luce del giorno? Un bagliore bucò la tenebra, la roccia vibrò; Stefano, sull'esempio degli altri, s'addossò alla parete e si vide passare rasente un cavallone bianco. Trainava una fila di vagoncini; sul primo, Berto che guidava; spingeva l'ultimo coi pugni Gianlino, correndogli dietro a piedi scalzi.
Rimessosi in cammino, giunsero a un bivio dove altre due gallerie s'aprivano e dove il gruppo si sdoppiò. La galleria per la quale presero era tappezzata di legname; sostegni di quercia puntellavano la volta, vestivano la roccia franosa di fitte armature, che lasciavano intravedere negli interstizi qui lastre di schisto pagliettate di mica, là grezzi massi di arenaria, scuri e rugosi.
Senza tregua passavano tonitruando, s'incrociavano, treni di berline piene, di berline vuote; e il loro tuono se lo portavano via al trotto fantasmi d'animali che si penava nell'ombra a distinguere. Su un doppio binario di scambio, nero serpente in letargo, un treno era fermo; il cavallo di traino starnutì; così solo, si distinse dal buio col quale celava tutt'uno, simile a un blocco staccatosi dalla volta.
Sportelli d'aerazione s'aprivano sbattendo, si richiudevano adagio. E via via che si procedeva, la galleria si faceva più angusta, la volta ineguale si abbassava, costringendo a curvarsi ogni momento.
Stefano prese una tremenda zuccata; se non si spaccò il cranio, fu in grazia del berretto di cuoio. Eppure spiava dinanzi a sé, per imitarlo, ogni movimento di Maheu, il cui profilo si staccava nero sul chiarore della lampada. Come Maheu, anche gli altri dovevano, di quella volta, conoscere l'armatura in ogni dettaglio, la roccia in ogni sua sporgenza, perché non capitava mai che vi battessero contro del capo. Al giovane, impacciava il passo anche il suolo scivoloso, che più si procedeva più s'inzuppava d'acqua. Ogni tanto gli toccava guadare veri acquitrini che solo il diguazzare delle scarpe nella fanghiglia rivelava.
Ma la cosa cui era meno preparato erano i bruschi cambiamenti di temperatura. In fondo al pozzo, l'aria era viva; e nella galleria di carriaggio, per la quale s'incanalava tutta l'aria della miniera, soffiava un vento gelato che, nelle strozzature, pigliava la violenza d'una bufera. Via via poi che ci si addentrava negli altri camminamenti, dove arrivava solo, e razionata, l'aria immessa, il vento cadeva e cresceva il caldo: un caldo soffocante, greve come piombo.
Nello svoltare a destra per imboccare una nuova galleria, Maheu ruppe il lungo silenzio; senza volgersi:
-La vena Guglielmo! - disse a Stefano.
Era il massiccio in cui si trovava il loro cantiere. Pochi passi sul nuovo camminamento bastarono perché Stefano si trovasse col capo e i gomiti indolenziti. Il tetto in pendio s'abbassava al punto che per tratti di venti, trenta metri gli toccava avanzare piegato in due. L'acqua arrivava alle caviglie. Si percorsero in queste condizioni duecento metri; quand'ecco davanti a lui Levaque, Zaccaria e Caterina sparire: come assunti. Restava Maheu solo, dei quattro; che:
- Si sale, - avvertì. - Appendete la lampada a un'asola e tenetevi al piedritto, - e sparì a sua volta. Stefano gli si mise dietro. Si trovò in un pozzetto aperto nella vena; era riservato ai minatori e serviva tutte le gallerie secondarie del quartiere. Era alto quanto il filone sessanta centimetri appena. Per buona fortuna che il giovane era smilzo, perché, nuovo a quell'esercizio, si tirava su con un dispendio di forze sproporzionato al profitto; aggrappandosi ai puntelli di sostegno, avanzava a furia di braccia, appiattendo spalle e fianchi più che poteva. Quindici metri più in su, s'incontrò la prima galleria secondaria; ma bisognò proseguire, il cantiere di abbattimento di Maheu e dei suoi era al sesto: «all'inferno», com'essi dicevano; e le gallerie secondarie si scaglionavano una sull'altra di quindici in quindici metri; non la si finiva più di salire attraverso quella fessura che acciaccava la schiena e il petto. Stefano rantolava; era come se il peso delle rocce lo stritolasse; ma più dello sforzo che gli strappava i polsi e contundeva le gambe, soffriva della mancanza d'aria: sembrava che il sangue gli bucasse la pelle.
Vagamente, in una delle gallerie che attraversarono, scorse due esseri - o bestie? - che, curvi, spingevano delle berline: erano Lidia e la Mouquette già al lavoro. E lui doveva arrampicarsi due piani più su ancora! I goccioloni di sudore gli impedivano la vista; disperava di raggiungere gli altri, che, essi sì, scivolavano via spediti come niente fosse.
Lo accolse la voce di Caterina:
- Coraggio, ci siamo! - C'erano infatti. Ma, mentre Stefano metteva piede nel cantiere, dal fondo un'altra voce gridò:
-Ebbene! che faccenda è questa? ci si infischia degli altri, eh! Io che ho due chilometri da fare per venire, sono qui da un'ora!
Era Chaval che protestava; un giovanotto alto, magro, sui venticinque, ossuto, dal viso maschio. Scorgendo la nuova recluta, chiese, con un tono tra stupito e sprezzante:
-Che novità è questa? - E ragguagliato da Maheu, commentò tra i denti:
-Sicché gli uomini portano via il pane alle ragazze!
Nello sguardo che i due si scambiarono, si lesse uno di quegli odi istintivi che divampano all'improvviso. Stefano aveva avvertito nelle parole una offesa ma lì per lì non ne afferrò il motivo.
Nel silenzio che si fece, tutti si misero al lavoro. Finalmente le maestranze erano al loro posto; a ogni livello, in fondo a ogni cunicolo, il lavoro riprendeva.
Il pozzo vorace aveva inghiottito la sua quotidiana razione d'uomini - poco meno di settecento operai - che a quest'ora nell'immenso formicaio attendevano al loro lavoro, scavando d'ogni parte la terra, crivellandola di buchi, tarlandola come un vecchio legno. E dai più profondi strati della miniera, a incollare l'orecchio alla roccia, si sarebbe potuto udire, nel pesante silenzio, il brusìo di tutti quegli insetti umani in moto, dal veloce scorrere del cavo che alzava e calava la gabbia d'estrazione, sino al morso degli utensili che in fondo ai cantieri d'abbattimento intaccavano il carbone.
Volgendosi, Stefano si trovò di nuovo pigiato contro Caterina; ma questa volta ne indovinò la forma nascente del seno; ed ecco si spiegò il tepore che la sua vicinanza gli aveva comunicato.
- Sei dunque una ragazza? - mormorò stupefatto.
Lei, d'un'aria gaia, senza arrossire:
-Ma certo! Ce n'hai messo però del tempo!
Capitolo quarto
I quattro minatori s'erano allungati uno sopra l'altro, per tutta l'altezza del fronte di attacco. Divisi da assiti agganciati tra loro, che trattenevano il carbone via via che cadeva, accudivano ciascuno a quattro metri circa di filone; e il filone era così sottile - in quel punto raggiungeva appena i cinquanta centimetri - che, schiacciati tra muro e tetto, dovevano trascinarsi sui ginocchi e sui gomiti né potevano muoversi senza acciaccarsi le spalle.
Sicché, per intaccare il minerale, erano costretti a star sdraiati su un fianco, a storcere il collo e maneggiare di sbieco la corta piccozza da minatore.
In basso, aveva preso posto Zaccaria; sopra di lui, Levaque e Chaval; in alto, Maheu. Cominciavano col demolire a colpi di piccozza lo strato di schisto; quindi, praticate due intaccature verticali nel filone, staccavano il masso, facendovi leva dall'alto con un cuneo di ferro. Il carbone, grasso, si frantumava e i rottami rotolavano lungo il ventre e le cosce dell'operaio. Quando, trattenuto dall'assito, il carbone aveva fatto mucchio ai suoi piedi, lo scavatore spariva, come murato nella stretta fenditura.
Chi stava peggio, era Maheu. Là in alto, la temperatura saliva sino a trentacinque gradi; l'aria non circolava e la sua mancanza diventava alla lunga mortale. Per vederci, aveva dovuto appendere a un chiodo, vicinissima alla testa, la lampada; che, scaldandogli il cranio, finiva di arroventargli il sangue. Supplizio che aggravava ancora l'umidità. La roccia sopra di lui, a pochi centimetri dal viso, trasudava acqua che in goccioloni rapidi e continui cadeva, con una specie di ritmo ostinato, sempre nello stesso punto. Lui aveva un bel torcere il collo, rovesciare la nuca; senza tregua i goccioloni lo colpivano in faccia, vi si schiacciavano schioccando. In capo a un quarto d'ora n'era inzuppato; e, madido per conto suo di sudore, fumava come un cencio nella conca del bucato.
Stamane poi una goccia gli si accaniva contro l'occhio; bestemmiava; ma, ostinandosi, seguitava lo stesso a menar colpi che lo facevano sobbalzare tra le due pareti di roccia, simile a un moscerino che le pagine d'un libro minacciano di spiaccicare.
I quattro non si scambiavano parola. Dal loro affannarsi non usciva altra voce che, attutito e come lontano, quel battere irregolare delle piccozze.
Nell'aria morta, i rumori prendevano un suono sordo, senza eco. E il buio che regnava intorno, inspessito dalla polvere di carbone e appesantito dal gas che opprimeva le palpebre, era d'una compattezza che i lucignoli delle lampade incappucciati di rete metallica, riuscivano solo a forare di punti rossastri. Non si distingueva nulla; lo scavo s'apriva, saliva su a mo' di un ampio camino, piatto e obliquo, in cui si fosse andata accumulando la fuliggine di dieci inverni.
Delle forme spettrali che vi si agitavano, il vago barlume lasciava ora indovinare la curva d'un'anca, ora un braccio nodoso, ora una faccia accesa e come insanguinata. A volte, nello staccarsi, vi balenava, con le sue sfaccettature e i suoi spigoli luccicanti di cristalli, un blocco di carbone. Tutto quindi ripiombava nella notte; animata solo dai sordi colpi, dall'ansimare dei petti, dai sospiri o dai sagrati che l'incomoda posizione e la fatica, in quell'aria pesa e sotto quel continuo stillicidio, strappavano agli scavatori.
Zaccaria, che la sbornia del giorno prima infiacchiva, smise presto di battere col pretesto d'un rivestimento urgente da fare: occupazione che gli permetteva di obliarsi a fischiettare sottovoce, lo sguardo perso nell'ombra. Alle spalle degli scavatori, c'erano infatti già quasi tre metri di roccia sfruttata, che, avari del loro tempo e incuranti del rischio, ancora non si erano preoccupati di puntellare.
- Ehi, tu, l'aristocratico! - gridò il giovane a Stefano, - passami un po' di tavole!
Stefano, cui Caterina stava insegnando a maneggiare il badile, andò a quel che della catasta era rimasto dal giorno prima (ogni mattina, di solito, la catasta veniva rifornita di assi bell'e pronte, tagliate su misura).
E vedendo il nuovo spingicarichi venire avanti traballando sul carbone, con le braccia impacciate da quattro assicelle di quercia:
- Spìcciati dunque, battifiacca! - lo incitò.
Avuto l'occorrente, Zaccaria praticò con la piccozza un'intaccatura nel tetto, un'altra nel muro in corrispondenza della prima e v'inserì quindi per i due capi l'asse. Nel pomeriggio i terrazzieri utilizzavano lo sterro lasciato dai compagni in fondo al cunicolo per interrare le parti sfruttate del giacimento, seppellendo le armature di legno che vi trovavano e lasciando solo il passaggio superiore e inferiore libero per il carriaggio.
Maheu smise di sbuffare. Finalmente aveva avuto ragione del blocco che stava demolendo. S'asciugò con la manica il viso grondante e solo ora si volse a guardare che mai Zaccaria fosse salito a fare alle sue spalle.
- Lascia, lascia! - disse. - Si vedrà poi, dopo colazione. Meglio, ora, darci dentro e scavare; dobbiamo spicciare più berline che si può..
- Ma crolla! C'è già una fenditura, non vedi? Temo che frani.
Il padre spallucciò. Macché franare! E se mai? non sarebbe la prima volta! si caverebbero d'impiccio egualmente. Finì per stizzirsi e rispedì il figlio al suo posto di scavatore.
Tutti stavano, del resto, prendendosi un po' di riposo. Levaque, senza essersi mosso dalla sua posizione di lavoro, bestemmiava contemplandosi il pollice, che la caduta d'un pezzo d'arenaria gli aveva scorticato a sangue. Chaval, per mettersi più a suo agio, si cavava a furia la camicia di dosso, restando a torso nudo. Erano già neri di carbone, coperti d'un minuto pulviscolo che il sudore trasformava sulla pelle in chiazze e rivoletti.
Fu Maheu a riprendere a battere; più in basso, ora, il capo a filo della roccia. Adesso la goccia gli cadeva sulla fronte, con una ostinazione che pareva volesse trivellargli il cranio.
- Non ci far caso! - diceva intanto Caterina a Stefano. - E' la loro abitudine, di alzare la voce! - e da buona figliola, riprese la sua lezione: ogni vagoncino usciva alla luce come partiva di lì, contrassegnato da un gettone che all'ufficio ricevitore permetteva di iscriverlo in conto del cantiere di abbattimento; per cui bisognava badare che il vagoncino fosse ben colmo e di buon minerale, per non incorrere nel rischio che venisse rifiutato.
Nell'oscurità, cui gli occhi s'andavano abituando, Stefano distingueva ora il viso della ragazza; ancora risparmiato dal carbone, era d'un pallore anemico. Che età poteva avere? A giudicare dalla gracilità, Stefano non le avrebbe dato più di dodici anni; ma capiva bene che doveva averne di più. La sua disinvoltura di maschio, quell'ingenua sfrontatezza, lo mettevano in soggezione. Non gli piaceva; aveva un'aria troppo sbarazzina quel viso infarinato di "pierrot", chiuso alle tempie dalla cuffia; ma, ciò che più lo stupiva, era la forza di cui la ragazza dava prova: una forza nervosa che s'accompagnava a una grande destrezza. A riempire il carrello faceva prima di lui, maneggiando il badile con perizia e sveltezza; lo avviava quindi sino al piano inclinato, con una spinta lenta ma continua e senza strappi; e senza difficoltà lo accompagnava, scivolando come niente fosse, sotto la bassa volta; mentre lui, per farlo, trafelava, s'incagliava, ogni po' deragliava.
Non già che il compito fosse facile. Il piano inclinato distava dal cantiere una sessantina di metri; e il passaggio - che ancora gli sterratori non avevano allargato - era un vero budello, schiacciato sotto una volta ineguale, tutta bozze e sporgenze. In certi punti il vagoncino carico passava appena; e il conducente doveva allora accucciarsi, spingere piegato sulle ginocchia se non voleva spaccarsi il cranio. In più, il rivestimento già cedeva; grucce che non resistevano al peso, i puntelli si spezzavano a metà, s'incrinavano di lunghe fenditure. Bisognava stare attenti a non ferirsi contro quegli spunzoni; e sotto quell'incombere della volta, che schiantava col suo peso travi di quercia massicci, si strisciava ventre a terra, col terrore di essere da un momento all'altro stritolati.
- Di nuovo! - scattò Caterina in una risata.
Il carrello, nel punto più difficile, era uscito dal binario. Dove le rotaie nel terreno cedevole si piegavano, Stefano non riusciva a mantenervi il veicolo. Sacramentava, si arrabbiava, s'accaniva a rimettere le ruote sulla via giusta, senza riuscirvi per quanti sforzi facesse.
- Aspetta dunque! Se ti arrabbi, è solo peggio!
Lesta, già Caterina s'era insinuata rinculoni sotto il vagoncino; e d'uno sforzo di reni, ora lo sollevava, lo rimetteva a posto. Un peso di sette quintali! Stupito, vergognoso, lui balbettava delle scuse.
La ragazza dovette mostrargli come bisognava divaricare le gambe, puntare i piedi contro il paramento da ambo i lati del cunicolo, per trovarvi un solido punto di appoggio. Il corpo doveva piegarsi, le braccia irrigidirsi, in modo da far forza con le spalle, coi fianchi, con ogni muscolo. Per imparare a non esser da meno, lui durante un viaggio la guardò fare: la ragazza filava via, piegata in due, protendendo il deretano, i pugni così vicini a terra che pareva camminasse carponi, come la scimmietta che si produce nel circo.
Sudava, ansimava, le sue giunture scricchiolavano; ma, resa indifferente dalla abitudine che vi aveva fatto, non emetteva un lagno; si sarebbe detto che vivere piegati in due a quel modo, fosse sorte comune di tutta l'umanità... A fare altrettanto, lui non arrivava; le scarpe lo impacciavano; l'avanzare a quel modo, a testa bassa, gli fiaccava le reni. In capo a qualche minuto, quella posizione diventava un supplizio; al punto che era costretto a mettersi in ginocchio per raddrizzarsi un momento e riprender fiato.
Poi, al piano inclinato, ricominciavano le difficoltà. Caterina gli insegnò ad agganciare in un batter d'occhio la berlina.
In cima e in fondo al piano, che serviva tutti i cantieri di coltivazione compresi fra un livello e l'altro, stava un ragazzo addetto alla manovra: il frenatore in alto, il ricevitore in basso. Due monellacci, d'un'età tra i dodici e i quindici, che si lanciavano a vicenda delle oscenità, e ai quali bisognava urlare di peggio per richiamarne l'attenzione. Quando s'otteneva lo scopo, al presentarsi d'una berlina da far risalire, il ricevi-carichi lanciava il segnale; la spingi-carrelli agganciava il suo colmo; che, col peso, rimontava l'altro, non appena il frenatore gli dava il via. Nella galleria in fondo si formavano i trenini che i cavalli si incaricavano di trainare sino al pozzo.
Dalla cima al piano inclinato - che, lungo un centinaio di metri e rivestito interamente di legno, risonava come un gigantesco portavoce - adesso Caterina chiamava:
-Ohè, bastardi maledetti!
Non venne risposta: i due se la dovevano dormire. A tutti i ripiani il traffico s'arrestò. Nel silenzio, una sottile voce di bimba lanciò: - Uno dei due è sulla Mouquette, scommetto!
La frase suscitò uno scoppio di ilarità; tutte le spingi-carichi si spanciavano.
- Chi è? - chiese Stefano a Caterina.
- Che ha gridato così? la piccola Lidia; una cosina che sa il fatto suo e che coi suoi braccini di bambola fa filare il carrello, come non potrebbe meglio una donna fatta. Quanto alla Mouquette, ha ragione la Lidia! oh quella è capacissima di farsela con tutti e due i ragazzi a un tempo.
Invece di laggiù la voce del ricevi-carichi arrivò. Certo, un sorvegliante ch'era venuto a passare. Nei nove ripiani il traffico riprese, non si udì più che il richiamo alternato dei due manovali, lo sbuffare delle spingi-carichi che arrivavano, sfiatate, al piano inclinato, fumanti come giumente troppo cariche.
Era allora, alla vista di quelle ragazze abbrivate carponi dietro il vagoncino, le reni arcuate, le anche che minacciavano di schiantare i calzoncini da maschio, che la foia si accendeva nei maschi e un vento di bestialità soffiava nella miniera.
E, di ritorno da ciascun viaggio, Stefano ritrovava l'aria soffocante del cantiere, piena del sordo, cadenzato rumore delle piccozze, del penoso ansare dei minatori che s'accanivano al lavoro.
Tutti e quattro s'erano messi nudi; e, interamente coperti di polvere che il sudore appiccicava alla pelle, facevano ormai tutt'uno col carbone. C'era stato anzi un momento che s'era dovuto soccorrere Maheu che rantolava e rimuovere, per liberarlo, le assi che arginavano il carbone.
Zaccaria e Levaque sacramentavano contro il filone che, dicevano, diventava sempre più faticoso estrarre: ciò che avrebbe reso disastroso il lavoro a cottimo. Chaval ogni tanto si metteva sulla schiena e dava sfogo al suo malumore investendo di male parole Stefano, la cui presenza manifestamente gli dava sui nervi: - Battifiacca della malora! un giovanotto che non ha la forza d'una ragazza! Lo riempi sì o no quel carrello? Ah! ti risparmi, eh? Sta' all'occhio, sacradìo, che se ci rifiutano un carico, il mezzo franco di ritenuta lo trattengo a te!
Il giovane evitava di rispondere; gli premeva troppo non perdere il posto, se posto si poteva chiamare quel supplizio da galeotto; per cui s'acconciava a obbedire, per brutali che fossero i modi di chi lo comandava. Ma non ne poteva più; aveva i piedi scorticati, le membra spezzate, il torace come stretto in una morsa di ferro.
Per fortuna, il cantiere si disponeva a far colazione: erano le dieci. Per saperlo, Maheu non ebbe bisogno di guardare l'orologio; il buio che regnava lì dentro, per fitto che fosse, non lo faceva sgarrare di cinque minuti. I quattro si rivestirono; e, scesi dallo scavo, si accosciarono sui calcagni; i gomiti stretti ai fianchi, nella posizione consueta a minatori che, anche fuori della miniera, non hanno bisogno, per sedersi, né di pavimento, né d'altro. E ciascuno, tirato fuori il suo pacchetto, come compiendo un rito, prese a sbocconcellare e a masticare la spessa fetta di pane, lasciando cadere a tratti qualche breve commento sul lavoro della mattinata.
Caterina, che non s'era seduta, finì per raggiungere Stefano che s'era allungato in disparte, le gambe attraverso le rotaie, il dorso appoggiato all'armatura di legno; in un punto in cui il terreno era abbastanza asciutto.
- Non mangi tu? - gli chiese con la bocca piena, la ragazza. Ma, dicendo, si sovvenne d'averlo trovato a errare nella notte, e intuendo che non aveva un soldo e neanche, forse, un pezzo di pane:
-Vuoi favorire? - si affrettò a soggiungere. E siccome lui si schermiva asserendo di non aver fame con un tremito nella voce che lo smentiva: - Ah, non ti giovi! ma ho morso di qui, sai, io; tu attacca dall'altra parte, - e già della fettona di pane imburrato ne aveva fatto due.
Prendendo quella che la ragazza gli porgeva, Stefano dovette fare uno sforzo per non inghiottirla tutta in una volta. Appoggiò i gomiti sulle cosce per non lasciar vedere che le braccia gli tremavano. Con la tranquilla disinvoltura della buona compagna, già Caterina gli si era allungata accanto, bocconi, il mento in una mano, nell'altra il pane che sbocconcellava adagio. Deposte in terra in mezzo a loro, le lampade li rischiaravano.
Caterina lo osservò un momento in silenzio: con quel viso affilato, i baffetti neri, doveva trovarlo bello. Guardandolo, sorrideva vagamente di piacere.
- Sicché eri meccanico in ferrovia, e ti hanno licenziato... E perché mai?
- Perché ho schiaffeggiato il mio capo.
Schiaffeggiare un superiore! Una cosa che sconvolgeva tutte le idee di gerarchia, di obbedienza passiva che la ragazza aveva succhiato col latte materno.
- Davvero?!
- Devo dire che avevo bevuto, - spiegò lui. - Quando bevo, non so più quello che mi faccio. Mi ammazzerei e ammazzerei il primo che vedo. Sì, bastano due cicchetti per mettermi addosso idee sanguinarie. Dopo, sto male per due giorni di fila.
Lei, facendosi seria:
-Ma non bisogna bere!
- Oh, va' là che lo so! mi conosco! - e scoteva il capo.
Lo detestava, l'alcool. Ultimo di una razza di ubriaconi che l'alcool aveva impregnato sino alle midolla e portato alla rovina, scontava ora la tremenda eredità: una goccia di acquavite bastava ad avvelenarlo.
Inghiottito un boccone:
-E' per via di mia madre che mi rincresce d'aver perso il posto, - aggiunse. - Mia madre non è davvero nell'agiatezza, e qualche soldo ogni tanto glielo mandavo.
- Dove l'hai tua madre?
- E' a Parigi. Lavandaia, in via della Goccia d'oro.
Una pausa. Quando ci pensava, a queste cose, all'eredità che gli covava nel sangue, alla minaccia che incombeva sulla sua salute e sulla sua gioventù, negli occhi gli passava lo sgomento. Restò un istante come smarrito a fissare il buio. Si rivedeva bambino, presso la madre che, ancora bella e nel pieno delle forze, era stata piantata dal marito; poi ripresa, dopo che s'era sposata con un altro; la rivedeva vivere tra quei due uomini che se la disputavano, avviarsi con essi alla rovina, tra il vino e la sporcizia. Rivedeva la strada in tutti i suoi dettagli; la bottega ingombra di biancheria sporca, la casa appestata da fiati vinosi, echeggiante di schiaffi da slogar le mascelle. Come parlando a se stesso: - Ora, - fece, - non è con la paga di un franco e mezzo che la potrò aiutare... Morirà di fame, è certo -. Scrollò con disperazione le spalle e rimise i denti nella fetta di pane.
Caterina, che sturava la borraccia, gli offrì da bere: - Oh questo non ti può far male! è caffè. Ci si strozza, a masticare a secco!
A lui pareva d'aver già abusato mangiandole metà della colazione e rifiutò. Ma l'altra insisteva con tanta buona grazia! - Ebbene, berrò io per prima, visto che sei così gentile... Ma ora non puoi più rifiutare; mi offenderesti... - e gli porgeva la fiaschetta.
Per farlo, si era alzata sui ginocchi. Vista così da presso e, rischiarata in pieno dalla lampada, la ragazza, ora, gli appariva graziosa. «Come ho potuto trovarla brutta?» Stefano si chiedeva.
Adesso che la polvere di carbone lo scuriva, il giovinotto trovava a quel volto una strana attrattiva. I denti, nella bocca un po' grande, scintillavano bianchissimi; gli occhi, come dilatati, avevano i riflessi verdognoli degli occhi dei gatti. Sfuggita alla cuffia, una ciocca di capelli le vellicava l'orecchio, facendola ridere. In quel momento, di anni, si poteva ben dargliene quattordici; non pareva più la ragazzetta di prima.
- Se è per farti piacere... - e Stefano, bevuto un sorso, le rendeva la fiaschetta. Lei la portò alla bocca; ma per tendergliela di nuovo; - si fa a mezzo, - dicendo. Il passare del recipiente da una bocca all'altra li divertiva. Ed ecco, il giovinotto si chiese se non fosse il momento di attirarla a sé, di baciarla sulla bocca. Lo tentavano ora quelle labbra tumide, d'un rosa che il nero del carbone avvivava. Ma lei lo intimidiva, non osava: a Lilla, più che donne di strada e della peggior specie non aveva praticato; con un'operaia, una ragazza di famiglia, si trovava impacciato. Riprendendo a mordere il suo pane: - Indovino, che hai quattordici anni?
Lei quasi si risentì.
- Quattordici? Quindici, ne ho! E' vero che sono mingherlina... Ma qui in miniera stentiamo a svilupparci, noi ragazze... Allora lui cominciò a interrogarla; né sfrontata né timida, Caterina rispondeva alle sue domande senza reticenze. Il giovane presto si rese conto di non aver nulla da insegnare a quella ragazza; ma insieme sentiva che ragazza era ancora, bambina anzi nel corpo; sessualmente immatura per colpa certo dell'ambiente malsano in cui viveva e dell'esistenza faticosa che menava. Nella speranza di metterla in imbarazzo, lui riportò il discorso su Mouquette. Ah ne combinava di belle, quella lì! e sul conto di Mouquette Caterina gliene raccontò di crude e di cotte, con la più grande naturalezza, divertendocisi un mondo.
- E tu non ce l'hai un amoroso?
- No; ma l'avrò bene prima o poi. Mi rincresce dare dei dispiaceri a mia madre, ma prima o poi... Lo disse curvando le spalle e rabbrividendo un niente negli abiti bagnati di sudore; il viso prese l'espressione docile e rassegnata della creatura che è pronta a subire uomini e cose.
- Vivendo in questa promiscuità, se ne trovano, è vero, dei galanti?
- Come no?
- E poi, non si fa del male a nessuno... Il parroco non l'ha da sapere.
- Oh, del parroco non me ne do pensiero, me ne infischio... L'Uomo nero, piuttosto, mi fa paura... - Come, l'Uomo nero?
- Il vecchio minatore che anche da morto bazzica la miniera e strangola le ragazze che sgarrano.
Che si pigliasse gioco di lui?
- Tu credi a queste frottole? Sei ingenua a questo punto?
- Oh, so leggere e scrivere, io... E' una cosa che serve, un po' d'istruzione. Ancora al tempo dei miei genitori, si veniva su analfabeti.
«E' carina davvero; tanto! - si diceva Stefano. - Le lascio finire il suo pane, poi l'attiro e la bacio su codeste sue labbra color di rosa».
Era la decisione del timido; un proposito di violenza che lo faceva tartagliare. Quegli abiti maschili su quel corpicino di femmina, quel camiciotto, quelle brachette, lo eccitavano e al tempo stesso lo intimidivano.
Inghiottito l'ultimo boccone, bevve alla fiaschetta, quindi gliela porse perché la vuotasse. Il momento era venuto di mettere in atto il suo proposito; e Stefano gettava un'occhiata sospettosa laggiù verso il gruppo dei minatori, quando un'ombra ostruì il cunicolo: Chaval.
Di là, l'uomo restò un momento a guardarli. Poi venne avanti; e, assicuratosi che Maheu non lo vedeva, afferrò Caterina, che non s'era mossa da sedere, per le spalle, le rovesciò il capo tranquillamente come se Stefano neanche esistesse, la marchiò in bocca d'un bacio brutale come un morso: il bacio della gelosia, imperioso come una presa di possesso. La ragazza si ribellò:
-Oh lasciami, sai!
Tenendole fermo il capo, lui la fissava in fondo agli occhi. Sul viso annerito dell'uomo, cui il naso dava un'aria rapace, fiammeggiavano rossi la barba e i mustacchi. Finché mollò la presa e s'allontanò senza dir parola.
Stefano era allibito alla scena. Che stupido, lui, ad averci pensato tanto! Baciarla ormai non poteva più: lei avrebbe creduto che gliene desse il coraggio l'esempio dell'altro. Si sentì profondamente mortificato nel suo amor proprio.
- Ah, - commentò sottovoce, - era dunque una bugia! Ce l'hai, vedo, l'amoroso!
- Ma che amoroso! ti giuro! - protestò lei. - Non c'è nulla fra noi. Fa così, a volte, per scherzo... Non è neppure di queste parti; ci è arrivato qui sei mesi fa da Pas-de-Calais.
S'erano intanto alzati; il lavoro riprendeva.
La freddezza che in Stefano era sottentrata, addolorò Caterina. Certo, in cuor suo la ragazza trovava Stefano preferibile a Chaval. Avrebbe voluto mostrarsi gentile, consolarlo: e non sapeva come. Le offrì l'occasione di distrarlo almeno, la meraviglia con cui il giovanotto notava che la fiamma della lampada era adesso turchina e che bruciava in un alone pallido. Affettuosa sussurrò:
-Vieni che ti faccio vedere una cosa! - E condottolo in fondo al cantiere, gli indicò nel carbone un crepaccio. Un leggero gorgoglìo ne sfuggiva, simile allo zufolo d'un uccello. - Mettici la mano... Pare vento, senti? E' il grisù!
Una cosa così innocente, il grisù? il terribile gas che poteva da un momento all'altro far saltare una miniera? Del suo stupore, lei rideva. - Ce n'ha da essere parecchio oggi, nell'aria! è per via del grisù che la fiamma prende questa tinta!
Dall'alto venne la voce irritata di Maheu:
-Ebbene, quando la finite di cianciare, fannulloni?
I due si affrettarono ai carrelli e misero mano alle pale. Colmati che li ebbero, ingobbendosi sotto la bassa volta, li spinsero sino al piano inclinato. Già al secondo viaggio, erano zuppi di sudore e con le giunture dolenti.
I minatori s'erano rimessi a scavare. Spesso, per non prender freddo, capitava abbreviassero il pasto; che, consumato in silenzio e al buio con quella voracità, pesava poi sullo stomaco come piombo. Distesi sul fianco, adesso maneggiavano la piccozza con più accanimento di prima, decisi a spicciare più lavoro possibile. Assillati dal bisogno di guadagnare, se pure a costo di tanta fatica, all'infuori di quello, non vedevano più altro. Lo stillicidio cui erano esposti, l'umidità che gonfiava le loro giunture, i crampi che dava loro la posizione cui erano costretti, la notte in cui erano immersi e che li sbiancava come piante allevate in cantina, tutto questo non lo avvertivano più. Eppure più le ore passavano, più l'aria si guastava, scaldata dalle lampade fumose, dai fiati malsani, resa irrespirabile dal grisù che aggravava le palpebre, le impigliava come una ragnatela; e che solo l'aerazione notturna avrebbe dissipato. Ma che importava? Seppelliti sotterra, nel loro buco di talpe, senza più aria nei polmoni arsi, essi seguitavano a battere, a battere
Capitolo quinto
Maheu, senza consultare l'orologio - l'aveva, togliendolo, lasciato nella giacca - smise di battere per dire:
-A momenti è il tocco. Hai finito, Zaccaria?
Da un po' il giovane s'era messo a puntellare la roccia. Ma più che lavorare era rimasto sul dorso, lo sguardo vago, a pensare alla partita di calcio del giorno prima. Alla voce del padre si riscosse:
- Sì, mi pare che ora basti. Domani si vedrà, - e tornò a riprendere il suo posto nello scavo.
Sull'esempio di Maheu, anche Levaque e Chaval avevano deposto la piccozza. Ci fu una tregua. Asciugandosi col braccio nudo la faccia guardavano il tetto di schisto crepato di fenditure. Il discorso cadde, al solito, sul lavoro.
- Ci voleva anche questa, - mormorò Chaval, - che ci toccasse un terreno che frana... Il cottimo di questo non tiene conto!
- Farabutti! - borbottò Levaque. - Non cercano altro che metterci nel sacco.
Zaccaria rise. Poco gli importava a lui, del lavoro e del resto; ma lo divertiva sentir sparlare della Compagnia.
Pacato, Maheu osservò che bisognava farsi una ragione; prevedere di che natura sarebbe il terreno, un terreno che ogni venti metri cambiava, era impossibile. Poi, come gli altri due seguitavano a inveire contro i dirigenti, guardandosi intorno inquieto:
-Zitti! ora basta!
- Hai ragione, - disse Levaque, smorzando a sua volta la voce. - Farsi udire, non è igienico.
Anche lì a quella profondità, li ossessionava il terrore delle spie, quasi che anche il filone fosse provvisto d'orecchie.
Chaval invece alzò, come a sfida, la voce:
-Ciò non toglie che se quel porco di Danseart s'arrischia ancora a parlarmi sul tono dell'altra volta, un mattone nel ventre non glielo leva nessuno... Non gli impedisco mica, io, di pagarsi le bionde che hanno la pelle fina... A questa, Zaccaria si smascellò dalle risa. La tresca del sorvegliante con la Pierron era nella miniera un argomento inesauribile di frizzi. Anche Caterina, laggiù, s'appoggiò al badile per ridere più a suo agio; poi, in due parole mise Stefano al corrente; mentre Maheu, assalito da una paura che non dissimulava più:
-Insomma, piantala! - intimò a Chaval. - Se vuoi attirarti dei guai, aspetta a farlo quando sei solo!
Non aveva finito di dire, che dalla galleria sovrastante giunse un suono di passi. Ed ecco, lì in alto, comparire l'ingegnere della miniera, il piccolo Négrel, come le maestranze lo chiamavano: accompagnato da Danseart, il sorvegliante.
- Ve lo dicevo? - bisbigliò Maheu. - Qualcuno c'è sempre che sbuca dalla terra.
Paolo Négrel, nipote di Hennebeau, era uno scapolo sui ventisei, snello e prestante, dai capelli crespi e i baffetti castani. Il naso appuntito, la vivacità dello sguardo gli davano l'aria d'un simpatico furetto. Scettico e intelligente, s'imponeva agli operai coi suoi modi secchi e recisi. Era vestito come loro, sporco come loro di carbone; e, per guadagnarsene la stima, mostrava un coraggio a tutta prova; sempre il primo a passare nei punti più rischiosi, a farsi avanti se avveniva una frana o uno scoppio di grisù.
- E' qui, vero, Danseart? - lo si udì chiedere di lassù.
Il sorvegliante, un belga grasso, dal naso carnoso:
-Sissignore, - rispose con esagerato servilismo:
-eccolo là, l'uomo che è stato assunto stamattina.
Tutti e due s'erano lasciati scivolare in mezzo al cantiere. Stefano si venne a presentare. Négrel gli alzò in viso la lampada, lo considerò un attimo, senza rivolgergli domande. - Sta bene, - disse alfine. - Però mi piace poco che si raccattino sconosciuti per la strada... Che sia l'ultima volta!
E senza ascoltare le spiegazioni che gli davano, - necessità di lavoro, intenzione della Compagnia di sostituire nel carriaggio personale maschile a quello femminile - prese a esaminare il tetto, mentre i minatori ripigliavano a scavare.
Quand'eccolo gridare:
-Dite dunque, Maheu, ve ne stropicciate voi della vita! Finirete per restarci tutti quanti qui sotto, nome d'un cane!
L'interpellato, con tono sicuro di sé:
-Oh è solido!
- Come! solido! Ma se la roccia cede già! e voi m'avete l'aria di credere d'aver fatto già troppo a piantare un paletto ogni due metri e più! Ah siete tutti gli stessi, voialtri! vi lascereste crollare il mondo sul capo piuttosto che interrompere lo scavo e impiegare nel rivestimento il tempo che ci vuole!... Vi prego di puntellare qui immediatamente. Il doppio ne occorre, di paletti! capite?
E vedendoli nicchiare, discutere, udendoli dire che della loro incolumità erano da sé buoni giudici, andò in furia:
- Andiamo! andiamo! come se rimanendoci, foste voi a sopportarne le conseguenze! Sì, eh? Niente affatto! Sarà la Compagnia a sopportarle, con le pensioni che dovrà pagarvi, a voi o alle vostre donne... Vi conosco, ripeto: dareste la pelle per spicciare due berline di più.
Dominando l'ira che gli bolliva dentro, Maheu, con voce ancora pacata: - Se ci pagassero a sufficienza, i rivestimenti li faremmo meglio.
L'ingegnere spallucciò, ma non rispose. Solo quando fu sceso dal cantiere, lanciò di là sotto:
-Vi resta un'ora; mettetevici tutti.
Intanto vi avverto che infliggo al cantiere tre franchi di ammenda.
Alla frase rispose da parte dei minatori un sordo brontolìo. Solo il sentimento della subordinazione li tratteneva; quella specie di gerarchia militare che, dal manovale al sorvegliante, li curvava tutti sotto lo stesso giogo. Ciò malgrado, e sebbene Maheu li tenesse a freno con lo sguardo, Chaval e Levaque ebbero un gesto di rabbia e Zaccaria alzò a scherno le spalle. Ma il più sdegnato era forse Stefano. Dacché si trovava in fondo a quell'inferno, sentiva maturare in sé uno spirito di ribellione. Guardò Caterina rassegnata, la sua schiena curva. Era mai possibile che ci si ammazzasse a sfacchinare in quel modo, in quel buio di tomba, senza guadagnare neppure i pochi soldi del pane quotidiano?
Négrel intanto stava allontanandosi con Danseart, che non aveva cessato di approvarlo con continui dondolii del capo. Nella galleria le loro voci si alzarono di nuovo: s'erano fermati a esaminare com'era stato rivestito il tratto che spettava ai minatori di armare - un tratto di dieci metri alle spalle di ogni cantiere.
- Quando vi dico che se ne infischiano! - strillava l'ingegnere. - E voi, nome d'un cane, che cos'è che sorvegliate?
- Ma sì, ma sì, - l'altro balbettava. - Gliel'ho cantato in musica! Ho la gola secca a forza di ripeter sempre le stesse cose!
- Maheu! Maheu! - chiamò imperioso Négrel.
Tutti scesero dal cantiere, mentre Négrel seguitava: - Guardate qui, è puntellare questo? Sta in piedi per miracolo! Ecco qui una traversa che scappa già dai quadri, tanto si è avuto fretta di spicciarsi... Perdìo! ora capisco perché la manutenzione ci costa un occhio del capo. Ma per voialtri, purché il rivestimento duri finché ne siete responsabili, non è vero? E poi tutto crolla e la Compagnia è costretta a tenere un esercito d'operai per le riparazioni! E laggiù? guardate un po', se non sembra fatto per dispetto!
Chaval volle parlare, ma lui non lo lasciò: - No, lo conosco il vostro ritornello... Che vi si paghi di più, eh? Ebbene vi prevengo che finirete per costringere la direzione a fare una cosa: sì, vi si pagherà il rivestimento a parte, e il compenso per berlina verrà ridotto in proporzione. Vedremo se ci guadagnerete... Intanto rifate subito tutto questo rivestimento. Domani passo a verificare.
La minaccia produsse tanta impressione che poté allontanarsi senza che alcuno ribattesse. Danseart, così servile con l'ingegnere, restò indietro di qualche passo, per dire fuori dei denti:
-Mi fate dare dei cicchetti, voialtri... Ma con me non saranno solo tre franchi di multa che vi toccheranno! State all'erta!
Allontanato che si fu il sorvegliante, Maheu esplose:
-Dio santo!
quel che non è giusto, non è giusto. A me piace che si conservi la calma perché è il solo modo d'intendersi; ma alla fine vi farebbero uscire dai gangheri... Avete sentito? la berlina pagata meno e il rivestimento a parte! ancora una trovata per diminuirci quel poco! Dio santo benedetto!
Cercava su chi sfogarsi. Vedendo Stefano e la figlia con le braccia ciondoloni:
-Vi spicciate voi due a darmi l'occorrente? Cosa state lì a guardare? Finisce che vi prendo a calci.
Stefano andò a caricarsi, punto offeso da quella rudezza; era per conto suo così inferocito contro i capi che trovava i minatori troppo remissivi. Dal canto loro Levaque e Chaval s'erano sfogati in parolacce. Tutti ora, compreso Zaccaria, ci davano dentro ad armare.
Per quasi mezz'ora non s'udì che il gemere dei paletti conficcati a colpi di mazza. Sbuffavano in silenzio, irritati contro la roccia che, potendo, avrebbero ributtato su d'una spallonata.
- Mi pare che basti, adesso! - disse finalmente Maheu, trafelato e schiumante di rabbia. - Il tocco e mezzo... Oh una bella giornata! non si ricaverà mezzo scudo!... Io pianto lì, ne ho fin sopra i capelli! - E sebbene ci fosse ancora una mezz'ora di lavoro, si rivestì.
Gli altri lo imitarono. Non ci si potevano più vedere, nel cantiere. E siccome Caterina aveva ripreso a spingere la berlina, la richiamarono, irritati dal suo zelo:
-Anche il carbone, se avesse i piedi, farebbe come noi -. E i sei partirono coi loro arnesi sottobraccio: rifacendo la strada del mattino, avevano due chilometri da percorrere, per arrivare al pozzo.
Mentre gli altri si spicciavano a scender giù, Caterina e Stefano rimasero indietro, trattenuti in una galleria secondaria dalla piccola Lidia che aveva fermato la berlina per farli passare. Angustiata, la ragazza raccontò che la Mouquette un'ora prima era stata presa da una emorragia al naso e l'aveva piantata per andarsi a fare delle abluzioni; ma doveva essere una cosa seria, perché ancora non era tornata. Confidata la sua pena, mentre i due si allontanavano, la piccina riprese a spingere il carico; sfiancata, infangata, irrigidendo i braccini e le gambe d'insetto, simile a una formichetta impegnata a trascinare un peso sproporzionato alle sue forze.
Stefano e Caterina, coricati sul dorso, ora si calavano giù per il pozzetto, aderendo più che potevano con le spalle al suolo, per non scorticarsi contro la volta; e filavano così veloci sulla rocca levigata da tutti i deretani del quartiere, che dovevano ogni tanto afferrarsi al rivestimento «perché», dicevano scherzando, «le chiappe non pigliassero fuoco».
Ma, per quanto s'affrettassero, quando giunsero in fondo non scorsero più nessuno dei camerati. Forse erano già laggiù, dove la galleria faceva gomito: dovevano essere quelli delle loro lampade, i punti rossi che vi si vedevano sparire. Allora, la momentanea eccitazione che li aveva tenuti allegri sin allora, cadde; non avvertirono più che la stanchezza; lei davanti, lui dietro, si rimisero pesantemente in cammino.
Al poco chiarore delle lampade che moccolavano, Stefano distingueva davanti a sé Caterina come in una nebbia. Il pensiero che era una ragazza gli dava una specie di disagio; si diceva ch'era ben sciocco a non abbracciarla; e più sciocco ancora perché glielo aveva impedito il ricordo dell'altro. Certo, lei gli aveva mentito: Chaval era il suo amante e ogni mucchio di scaglietta gli era buono per godersela: a capire che era così, non bastava quel molleggiare delle anche? Taceva, piccato senza ragione contro di lei, come se la ragazza gli avesse fatto le corna.
Nonostante l'ostilità di quel silenzio, lei invece tutti i momenti gli si volgeva, lo avvertiva degli inciampi, pareva invitarlo a mostrarsi gentile. Erano tutti e due, in quel momento, così soli e sperduti! perché almeno non scherzare insieme da buoni amici?
Finalmente sbucarono nella galleria di carriaggio: per l'irresolutezza di lui, fu un sollievo; lo sguardo della ragazza invece si attristò: del rimpianto di un'ora di gioia perduta per sempre.
Adesso, intorno a essi, rumoreggiava la vita sotterranea: viavai di caposquadra, incrociarsi di treni trainati da cavalli al trotto, brillare di lampade nel buio come stelle nella notte. Dovevano appiattarsi contro la roccia per lasciare il passo ad ombre: uomini ed animali di cui ricevevano l'alito in faccia. Gianlino che correva a piedi scalzi dietro il suo treno, gridò loro una malignità che, nel fracasso del traino, non udirono.
I due seguitavano a camminare, anche lei ora in silenzio; mentre lui, non riconoscendo il percorso fatto al mattino, si chiedeva dove mai diavolo la ragazza lo conducesse a perdersi. Ma ciò di cui più soffriva era il freddo: un freddo che lo aveva colto all'uscita dal cantiere, che andava crescendo e del quale tremava quanto più si avvicinava al pozzo. Nelle stretture, l'aria riprendeva la sua violenza di bufera. Il giovane disperava ormai di giungere, quand'ecco si trovò nella stanza di livello.
Chaval gli lanciò un'occhiata sospettosa. Con lui erano gli altri; madidi di sudore nella corrente gelata, smaltivano nel mutismo il malumore. Arrivati troppo presto, non avrebbero potuto risalire che fra mezz'ora; tanto più che c'era un cavallo da calar giù, operazione che richiedeva un'infinità di precauzioni. In un fragore di ferraglia si scaricavano ancora berline; le gabbie sparivano su per il nero budello, tra l'acqua che ne cadeva a dirotto e che, riempiendo lo smaltitoio melmoso ch'era sotto il pozzo, accresceva l'umidità intorno.
Con gli abiti fradici di pulviscolo d'acqua, uomini s'affaccendavano senza posa intorno al pozzo; tiravano corde di segnali, manovravano leve. Le tre lampade a fiamma libera immergevano l'ambiente in una luce rossastra, agitavano sulle pareti ombre gigantesche, dandogli l'apparenza d'una tana di briganti; d'una fucina di banditi, piantata in prossimità d'un torrente.
Maheu fece un ultimo tentativo; s'avvicinò a Pierron, di servizio dalle sei:
-Suvvia, se vuoi puoi bene lasciarci risalire -. Ma l'addetto al carico, un aitante giovanotto d'aspetto mite, intervenne spaventato:
-Impossibile, chiedi al caposquadra... Mi buscherei una multa.
Smozzicando bestemmie, dovettero rassegnarsi.
Caterina, chinandosi all'orecchio di Stefano:
-Vieni a vedere la scuderia: sentirai, c'è un altro stare!
Per svignarsela, dovettero darsi l'aria di girellare: l'accesso alla scuderia era vietato. S'apriva a sinistra, in fondo a una corta galleria. Larga venticinque metri e alta quattro, ricavata nella roccia, con la volta in mattoni, la scuderia poteva alloggiare venti cavalli. Vi si stava bene infatti, in quel tepore animale, in quel sentore di paglia rinnovata di fresco. L'unica lampada vi spandeva un chiarore discreto, una luce calma.
I cavalli alla mangiatoia volgevano il capo, sgranando occhi umani per rimettersi tosto a macinare, a tutto loro agio, l'avena, come dei lavoratori ben pasciuti e in salute, benvoluti da tutti.
Caterina stava leggendo ad alta voce il nome degli animali sulle placche di zinco inchiodate sopra le mangiatoie, quando, all'improvviso sorgere di un corpo di sulla paglia, soffocò un grido.
Era la Mouquette che, disturbata nel sonno, balzava su dal suo improvvisato giaciglio.
Era un'abitudine che la ragazza aveva preso: nei lunedì in cui si risentiva troppo delle baldorie del giorno prima, si procurava da sé, assestandosi un pugno sul naso, un'emorragia; e col pretesto d'andare in cerca d'acqua per arrestarla, piantava il lavoro e veniva a schiacciare un sonnellino sulla paglia, nel caldo della scuderia. Il padre, d'una grande condiscendenza per la figlia, tollerava la cosa, a rischio d'aver delle seccature.
In quella, eccolo per l'appunto entrare. Tozzo, calvo, col viso solcato da rughe, papà Mouque s'era però conservato in carne - fatto raro in un vecchio minatore cinquantenne. Dacché l'avevano messo alla scuderia, masticava tabacco con un impegno da farsi sanguinare le gengive.
Vedendo altri due con la figlia, montò in furia:
-Che ci fate qui dentro, voialtri? Aria! aria! filate. E in due con un uomo! sgualdrine! E sulla mia paglia! Non avete altro posto per fare le vostre sudicerie?
Mouquette, divertita, si teneva la pancia. Ma Stefano, a disagio, s'avviò all'uscita, mentre Caterina gli sorrideva.
Di ritorno, trovarono Gianlino e Berto ch'erano arrivati allora col loro treno di berline e aspettavano di caricarle. Nell'attesa, Caterina si avvicinò ad accarezzare il cavallo di traino e intanto lo presentava al compagno. Era Battaglia, quello lì, il più anziano della miniera; un cavallo bianco con dieci anni di servizio a quella profondità. Da dieci anni, Battaglia viveva in quel buco, senza aver rivisto il sole; occupando nella scuderia sempre lo stesso posto, percorrendo, nell'adempimento del suo dovere, sempre le stesse gallerie. Ben pasciuto, lustro di pelo, bonario, vi conduceva una vita di saggio, al riparo dai rischi di lassù. Del resto, a vivere al buio, s'era fatto malizioso. La galleria in cui lavorava aveva finito per diventargli così familiare, che spingeva da sé col muso gli sportelli d'aerazione e chinava la testa, per non urtarci contro, nei punti in cui la volta s'abbassava troppo. Senza dubbio aveva contato i viaggi che gli spettavano, perché, raggiunto quel numero, non c'era verso di fargliene fare uno di più: bisognava ricondurlo alla mangiatoia. Ormai invecchiava e la limpidità del suo sguardo si velava a volte di malinconia. Chi sa che nel suo testone confuso non rivedesse vagamente il mulino dov'era nato; un mulino nei pressi di Marchiennes, affacciato sulla Scarpe, circondato di verzura, battuto sempre dal vento. Un mulino sul quale, altissima, ardeva una lampada; immensa; che la sua memoria di bestia stentava ormai a ricordar bene. E la testa ciondolante, le vecchie zampe prese da un tremito, Battaglia si sforzava, senza riuscirvi, di ricordare il sole.
Quattro colpi di martello annunziavano che si calava il nuovo cavallo: momento emozionante, perché non era raro che nel tragitto la bestia morisse di spavento. Già nella rete in cui lo imbracavano, l'animale si dibatteva atterrito; quando poi, sollevato, si sentiva mancar la terra di sotto, s'impietriva e senza un fremito sotto il corto pelo spariva nel pozzo, l'occhio fisso e dilatato dallo spavento.
Questo qui era troppo grosso per passare tra i panconi di guida; e, nell'agganciarlo sotto la gabbia, gli si era dovuto piegare e fermare la testa sul fianco. La gabbia, calata per precauzione con più lentezza del solito, mise tre minuti a compiere il tragitto. Ritardo che acuì l'impazienza dell'attesa: che si faceva? si lasciava l'animale sospeso in aria a mezza strada, nel buio? Finalmente, il cavallo comparve, nella sua immobilità di macigno, l'occhio fisso, dilatato di stupore. Era un cavallo baio, d'appena tre anni, e si chiamava Trombetta.
Babbo Mouque, incaricato di riceverlo, si fece avanti: - Attenzione! Tiratelo giù, ma senza ancora slegarlo.
Poco dopo Trombetta era coricato sul pavimento di ghisa. Seguitava a non muoversi, come fosse ancora sotto l'incubo dell'interminabile budello nero che lo aveva ingoiato; e adesso, di questo piano di carico pieno di frastuono.
Si cominciava a slegarlo, quando Battaglia, staccato in quel momento dal traino, allungò, ad annusarlo, il collo. Quindi s'accostò al nuovo compagno piovutogli in quel modo dal cielo.
I presenti, divertiti, fecero cerchio intorno. Ebbene, sa di buono eh, vecchio Battaglia, il nuovo collega? Sordo ai frizzi, Battaglia si animava. Certo avvertiva nel compagno il buon odore dell'aria aperta, l'odore, che lui aveva scordato, dell'erba al sole. Ed eccolo tutto a un tratto partire in un sonoro nitrito, in una specie di fanfara di gioia, che si sarebbe detto velasse, come un singhiozzo, un sentimento di pietà. C'era in quel nitrito il benvenuto al nuovo compagno, il rimpianto dell'aperto e del sole, ma anche della commiserazione per il nuovo prigioniero che non risalirebbe alla luce che morto.
- Ah che bel tipo, Battaglia! - gridavano gli operai, messi in allegria dalle prodezze del loro beniamino. - Eccolo lì a discorrere coll'amico.
Neanche adesso che l'avevano slegato, Trombetta si muoveva. Restava sul fianco, strangolato dallo spavento, come se si sentisse ancora preso nella rete. Ci volle una scudisciata per farlo alzare: solo ora, balzò sugli zoccoli, stordito, il corpo percorso da un lungo brivido. E babbo Mouque condusse i due, che già se l'intendevano, verso la scuderia.
- Suvvia, si è a tiro adesso? - chiese Maheu.
Non ancora: si dovevano vuotare le gabbie e, del resto, all'uscita mancavano dieci minuti.
Poco alla volta i cantieri si vuotavano, le maestranze affluivano. Ai piedi del pozzo c'era già in attesa una cinquantina d'uomini, zuppi e tremanti, minacciati d'ogni parte dalle correnti d'aria. La piccola Lidia s'ebbe in faccia a tutti uno schiaffo dal padre (chi l'avrebbe detto così manesco quel Pierron, giudicandolo al viso?), perché era venuta via prima dell'ora. Zaccaria, di nascosto, allungava manate alla Mouquette, col pretesto di riscaldarsi.
Ma intorno il malcontento si diffondeva. Chaval e Levaque riferivano la minaccia dell'ingegnere, di scemare il compenso della berlina e di pagare il rivestimento a parte. La notizia venne accolta da esclamazioni; incuranti, le voci si alzavano di tono. Ben presto nella piccola folla che si pigiava laggiù a poco meno di seicento metri dal suolo, tra quegli uomini sporchi di carbone e intirizziti dall'attesa, si delineò una rivolta: accusarono la Compagnia di far perire una metà di loro in fondo alla miniera e di mettere alla fame l'altra metà.
Stefano ascoltava fremendo.
- Sbrighiamoci! sbrighiamoci! - ripeteva impaziente Richomme per affrettare lo scarico. Prima si risaliva, meglio. Da quel brav'uomo che era, finora aveva fatto finta di non udire per non vedersi costretto ad appioppare multe. Ma il coro delle proteste a un certo punto divenne tale che non poté più fare il sordo. Ora alle sue spalle si gridava che «così non poteva durare, che un bel giorno la bottega salterebbe».
- Tu che hai la testa sul collo, - disse a Maheu, - falli dunque tacere. Quando non si è i più forti, bisogna bene essere i più giudiziosi.
Ma Maheu che s'era andato calmando e già si inquietava anche lui di ciò che udiva intorno, non ebbe bisogno di intervenire. Già il vocìo era caduto da sé: Négrel e Danseart, di ritorno dal loro giro di ispezione, sbucavano, anch'essi trafelati, da una galleria.
Per l'abitudine alla disciplina, automaticamente la folla s'aprì e fece ala; e l'ingegnere passò senza dir motto. Prese posto in una berlina, in un'altra il sorvegliante; fu tirata cinque volte la corda: «ciccia di riguardo» come chiamavano quel segnale gli operai. E la gabbia s'involò, in mezzo a un cupo silenzio
Capitolo sesto
Nella gabbia che lo riportava alla luce, pigiato fra gli altri quattro, Stefano si decise: sfidando la fame, riaffronterebbe la strada. Meglio crepar subito che ridiscendere in quell'inferno, a non guadagnare neppure il necessario per il pane. Al suo fianco ora non c'era più Caterina: stivata con gli altri lì sopra, la ragazza non gli comunicava più con la sua vicinanza il buon tepore che lo intorpidiva.
Meglio non pensare più a sciocchezze, venir via di lì. Aveva abbastanza istruzione, lui, per non rassegnarsi a vivere come quel gregge di pecore: finirebbe prima o poi per strozzare qualche capo.
Quando si sentì come accecare. Il risalire era stato così rapido che la luce lo intontì; sbatteva le palpebre in tutto quel chiaro, cui i suoi occhi s'erano già divezzati. Ciò non gli tolse di sentir con sollievo la gabbia fissarsi sui cardini. Uno scaricatore apriva le porte, gli operai saltavano dalle berline.
- Di', Mouquet, si va allora stasera al Vulcano? - bisbigliò Zaccaria all'orecchio dell'amico. (Il Vulcano era un caffè-concerto di Montsou). Mouquet assentì strizzando l'occhio e un ridere silenzioso gli fendette in due la faccia. Piccolo e traverso come il padre, il ragazzo aveva l'aria del menimpippo che non pensa che all'oggi. Vedendosi passar vicino la sorella, le appioppò una manatona sul culo, in segno d'amor fraterno.
Adesso Stefano stentava a riconoscere la ricevitoria: spoglio e sporco, alla terrea luce che vi penetrava per le finestre nere di carbone, il vasto locale aveva perso l'aspetto che all'ambigua luce della lanterna lo aveva tanto impressionato. Solo la macchina coi suoi ottoni vi riluceva in fondo; i cavi d'acciaio, spalmati di lubrificante, scorrevano simili a nastri inzuppati d'inchiostro; le pulegge lassù, la possente armatura che le portava, le gabbie, le berline, tutto quello sfoggio di metallo non faceva che accrescere, col suo grigiore agghiacciante di vecchia ferraglia, la tetraggine dello stanzone. Senza tregua, il rullìo delle berline scrollava il pavimento di ghisa; mentre, da tutto quel rimestìo di carbon fossile, si diffondeva nell'aria un fine pulviscolo che anneriva il suolo, le pareti e fin le ultime travature del castello.
Chaval, ch'era andato a dare un'occhiata al quadro dei gettoni, nello sgabuzzino a vetri del ricevitore, tornò dai compagni furibondo. Due delle berline erano state rifiutate, una perché deficiente di carico, l'altra perché di materiale scadente.
- Non mancava che questo! che ci trattenessero ancora due franchi! Ecco che cosa si guadagna ad assumere dei fannulloni che delle braccia si servono come il porco della coda!
E la sguardataccia che, dicendo, lanciò a Stefano non lasciò dubbio a chi alludeva. Il giovane fu tentato di rispondere a suon di pugni. Ma a che pro? visto che partiva. E nella sua decisione si confermò definitivamente.
- Non si può far bene dal primo giorno, - osservò Maheu, conciliante.- Domani farà meglio.
Non per questo la notizia della ritenuta causò minore irritazione; un'irritazione che cercava su chi sfogarsi. Levaque nel restituire la lampada, se la prese col lampista che, a sentir lui, trascurava di pulirla. Non si calmarono un po' che nella baracca, al caldo della stufa che vi ardeva ancora.
Un caldo, anzi, eccessivo; troppo alimentata, la stufa era rovente; e il suo riverbero insanguinava le pareti, avvampando l'aria dello stanzone senza finestre. Standone a distanza, tutti a quel fuoco si scaldavano con mugolii di gioia, prima la schiena che fumava come zuppa appena scodellata; poi, il ventre. La Mouquette, per farsi asciugare la camicia, aveva come niente fosse calato le brachette. E siccome i ragazzi le davano la berta, eccola lei, tra un uragano di risa, scoprirsi il culo e mostrarlo - gesto che significava, ai suoi occhi, il colmo del disprezzo.
- Io vado via, - disse Chaval, che aveva riposto gli attrezzi. Solo la Mouquette si spicciò per corrergli dietro, col pretesto della strada da fare insieme sino a Montsou. Ma con la sua partenza, i frizzi non cessarono: si sapeva che di lei Chaval era stufo.
Preoccupata, Caterina parlava intanto all'orecchio del padre; Maheu mostrò alla prima stupore, poi assentì col capo; e, chiamato Stefano, gli disse sottovoce, nel rendergli l'involtino:
-Come credete; però senza un soldo in tasca, rischiate entro quindici giorni di morir di fame... Potrei trovare dove vi facciano credito: volete che tenti?
Il giovane resto un momento interdetto. La sua intenzione era di chiedere a Maheu che gli versasse i pochi soldi della giornata. Ma la presenza di Caterina, che lo fissava, lo trattenne: la ragazza poteva prenderlo per uno scansafatica.
- Non vi prometto niente, beninteso, - proseguì Maheu. - Si prova: alla peggio rischiamo un rifiuto.
Stefano allora acconsentì. Il rifiuto era certo; ma, se anche, lui non s'impegnava per questo a restare; mangerebbe un boccone e subito dopo partirebbe. Ma a vedere la gioia con cui Caterina accolse il suo sì, il sorriso che la illuminò, l'occhiata piena di amicizia che gli rivolse, la contentezza d'essergli venuta in aiuto, gli dolse di aver accettato. Intanto, a che pro?
Una volta rimessi gli zoccoli e chiusi i ripostigli dove custodivano le loro robe, i Maheu lasciarono la baracca. Stefano li seguì e con lui Levaque col figliolo. Ma nell'attraversare il locale della cernita, un battibecco che v'era scoppiato li arrestò.
Quello della cernita era un vasto capannone dai travi anneriti, con finestroni senza vetri che mantenevano l'ambiente in una corrente d'aria continua.
Le berline che vi giungevano direttamente dalla ricevitoria, rovesciavano il loro contenuto sulle tramogge dei lunghi sdruccioli di lamiera - ai due lati dei quali le operaie addette alla cernita, in piedi su gradini e armate di pala e rastrello, separavano le pietre dal carbone; per quindi spingere questo verso delle specie di imbuti, dai quali cadeva nei carri ferroviari, fermi lì sotto in attesa di carico.
C'era tra quelle operaie la figlia di Levaque, Filomena: esile e pallida, l'aria remissiva della ragazza che sputa sangue. Con la testa fasciata in uno straccio di lana turchina, le braccia nere sino ai gomiti, si trovava a lavorare a fianco della suocera di Pierron, l'Abbruciata come la soprannominavano: una vecchia strega dagli occhi di gufo e la bocca stretta come la borsa d'un avaro.
Le due stavano in quel momento azzuffandosi; Filomena accusava l'altra di rastrellare, con le proprie, le sue pietre; tanto che lei non riusciva in dieci minuti a farne su una cesta. Venivano pagate a ceste; di lì un continuo esplodere di litigi. Si accapigliavano, si stampavano a vicenda sul viso acceso d'ira la nera impronta degli schiaffi.
- Dàlle uno spintone, che la butti a terra! - gridò di lassù Zaccaria all'amante.
Le lavoranti scoppiarono a ridere. Ma l'Abbruciata, rivolgendosi ringhiosa verso il giovane:
- Ah tu! - lo rimbeccò, - invece di parlare, faresti meglio a riconoscere i due bastardi che le hai fatto! Domando io se è permesso: una cosina di diciott'anni che stenta a tenersi ritta!
Maheu dovette intromettersi perché il ragazzo non mettesse in atto la minaccia, d'andare un po' a vedere, diceva, di che colore avesse la pelle, quella carogna.
Al comparire d'un sorvegliante, accorso al putiferio, tutti i rastrelli ripresero a frugare il carbone. Ai due lati della tramoggia non si videro più che dorsi curvi di donne, accanite a disputarsi le pietre.
Fuori, il vento era a un tratto caduto, ora pioveva dal cielo grigio un umidore gelato. Insaccati nelle spalle, le braccia conserte, i minatori s'avviarono a casa alla spicciolata, con un dondolio nelle reni che, sotto la giacca lisa, ne metteva in mostra la forte ossatura.
Adesso, alla luce del giorno, li avresti detti un branco di negri che si fossero rotolati nel fango. A chi non aveva finito il suo pane, il pacchetto delle provviste ricollocato tra la camicia e la pelle, sporgeva sul dorso come una minuscola gobba.
- Toh! Bouteloup! - annunziò ghignando Zaccaria.
Senza arrestarsi, Levaque scambiò due parole col suo inquilino; un giovanottone bruno, sui trentacinque, dall'aria placida e onesta.
- E' cotta, Luigi?
- Credo!
- Allora è di buon umore, oggi, la consorte?
- Direi di sì.
Diretti al lavoro gli sterratori passarono: nuove squadre di operai che, una ad una, s'inabissavano. Era il turno delle tre; altri uomini che mai sazio il pozzo inghiottiva e che, in fondo alle gallerie, sottentravano nel lavoro a cottimo agli scavatori. La miniera non scioperava mai; notte e giorno c'erano insetti umani che frugavano la roccia a seicento metri sotto i campi di barbabietole.
I ragazzi camminavano in testa. Gianlino confidava a Berto tutto un piano complicato per ottenere a credito quattro soldi di tabacco. Lidia, per discrezione, seguiva i due a distanza. Dietro a lei, Caterina con Zaccaria e Stefano camminavano in silenzio. Si fermarono davanti all'osteria del Risparmio. Raggiungendoli: - E' qui, - disse a Stefano, Maheu. - Vogliamo entrare? Si tenta!
Al momento di separarsi, Caterina trattenne un istante gli occhi sul giovane, come a prendere a malincuore congedo da lui; dei grandi occhi d'un verde d'acqua sorgiva, illimpiditi dal nero del viso. Gli sorrise; poi s'avviò con gli altri su per la salita che conduceva alle case operaie.
L'osteria si trovava tra la borgata e il Voreux, all'incrocio delle due strade. Era una costruzione in mattoni, a due piani, imbiancata di calce, con le finestre incorniciate da una larga fascia turchina.
Sull'insegna quadra, inchiodata sopra l'ingresso, si leggeva in giallo la scritta: «Al Risparmio, spaccio tenuto da Rasseneur». Aveva sul retro, chiuso da una siepe, un gioco di bocce. La Compagnia aveva fatto di tutto per acquistare quello scampolo di terreno, incastrato tra i suoi vasti possedimenti e dove, a farlo apposta, si teneva osteria; proprio lì, all'uscita della miniera.
La sala, angusta, imbiancata di fresco, era spoglia ma chiara. La arredavano tre tavoli, una dozzina di sedie e un banco d'abete non più grande d'un armadio da cucina.
Sul banco, non più d'una dozzina di boccali, tre bottiglie di liquori, una caraffa, una cassetta di zinco con rubinetto di stagno per spillare la birra. Non altro, non una mensola, un quadretto, né un mazzo di carte. Nella stufa di ghisa, lucida di vernice, si consumavano lentamente dei pezzetti d'antracite. Sul pavimento uno straterello di sabbia bianca preservava l'ambiente dall'umidità che imbeveva il paese.
- Una birra, - ordinò Maheu ad una biondona, la figlia d'una vicina che stava qualche volta al banco, - Rasseneur c'è?
Era uscito, ma non poteva tardare; e dicendo quello spillava la birra.
A tutto suo agio, ma senza staccare dal vetro le labbra, Maheu bevve metà del bicchiere, per liberare la gola dalla polvere di carbone. Al compagno non offrì nulla. Nel locale non c'era che un cliente: un minatore, zuppo e infangato anche lui, che seduto a un tavolo centellinava la sua birra, come assorto.
In quella ne entrò un altro; ordinò d'un cenno, pagò e se ne andò senza aver aperto bocca.
Ed ecco un omaccione sui trentott'anni, dal viso tondo, sbarbato di fresco, farsi avanti con un sorriso bonario. Era Rasseneur, minatore un tempo anche lui e ottimo operaio, che da tre anni la Compagnia aveva licenziato in seguito a uno sciopero.
Buon parlatore e sempre il primo a battersi per le rivendicazioni di classe, Rasseneur aveva finito per trovarsi a capo dei malcontenti. Già prima del licenziamento sua moglie - come tante altre mogli di minatori - teneva osteria; per cui, una volta disoccupato, Rasseneur s'era fatto oste a sua volta, e con danaro ottenuto in prestito aveva, come a sfida, aperto bottega proprio in faccia al Voreux. Ora il suo commercio prosperava, la bottega era diventata un centro di ritrovo e lui s'andava arricchendo grazie ai risentimenti che aveva saputo a poco a poco instillare in cuore ai colleghi d'un tempo.
Maheu senza preamboli:
-Questo qui è il giovanotto che ho assunto stamani, - gli disse. - Hai una camera libera e sei disposto a fargli credito per la prima quindicina?
Il faccione di Rasseneur prese subito un'aria di grande diffidenza. Lanciò a Stefano un'occhiata scrutatrice e senza darsi la pena di mostrarsi dispiaciuto: - Impossibile. Ho tutte e due le camere occupate.
Sebbene fosse la risposta che il giovane s'attendeva, non per questo ne soffrì meno; lo sorprese anzi accorgersi quanto già l'idea di partire gli fosse diventata incresciosa. Ma non importa; appena avuti i pochi soldi della giornata, partirebbe. Il minatore seduto al tavolo se n'era andato. Altri clienti entrarono alla spicciolata; restavano in piedi al banco il tempo d'umettarsi la gola arsa dalla polvere di carbone; poi uscivano, e, sfiaccati, riprendevano la strada. Nessuna gioia in quel bere: solo un risciacquarsi l'ugola, il silenzioso appagamento d'un bisogno.
- Allora, novità nessuna? - chiese l'oste smorzando la voce, a Maheu che assaporava a piccoli sorsi quel che restava di birra.
A quel tono sospettoso, Maheu si volse intorno; e, vedendo che non c'era altri che Stefano:
-C'è che hanno trovato un nuovo pretesto... Sì, il rivestimento.
E riferì l'incidente del mattino, chiusosi con la minaccia di Négrel; via via che parlava, il sangue affluiva al viso dell'oste, un'ira crescente gli lampeggiava negli occhi. Finché esplose: - Ah bene! il giorno che si attentano a scemare i prezzi, sono spacciati!
E seguitò; ma messo a disagio dalla presenza di Stefano, al quale senza parere lanciava ogni tanto un'occhiata. Con reticenza e sottintesi, parlava di Hennebeau, della moglie di lui, del nipote, il piccolo Négrel, senza far nomi; ripetendo che così non poteva durare, che a breve scadenza le cose precipiterebbero. C'era in giro troppa miseria; citò le officine che chiudevano, i continui licenziamenti di operai. Da oltre un mese egli dava a credito giornalmente più di sei libbre di pane. Gli era stato detto, il giorno prima, che Deneulin, il proprietario della miniera vicina, non sapeva più come far fronte. Del resto, proprio quel giorno gli era arrivata da Lilla una lettera, piena di particolari preoccupanti.
- Me l'ha scritto quella persona, sai, che hai visto qui una sera.
La moglie, comparendo a sua volta, gli levò la parola di bocca:
- Pluchart, vuoi dire! Oh se comandasse lui, quel tipo lì, le cose non tarderebbero ad andar meglio!
Era una spilungona di donna, nasuta, dai pomelli violacei; una fanatica; in politica, assai più radicale del marito.
Da un po' fattosi attento, ora Stefano s'interessava al discorso, capiva più che non dicessero, s'appassionava anche lui a quelle idee di riscossa. Al nome di Pluchart trasalì; - Pluchart? Io lo conosco, Pluchart! - gli scappò detto, quasi suo malgrado.
Al loro sguardo interrogativo:
-Sì, - spiegò, - sono meccanico, e, a Lilla, Pluchart l'ho avuto capo nell'officina dove lavoravo. Ho avuto spesso occasione di parlare con lui; è un uomo capace!
In Rasseneur, che di nuovo lo scrutava, si produsse un improvviso cambiamento: di punto in bianco il suo viso s'illuminò di simpatia. Tanto che, rivolgendosi alla moglie:
-Il signore lavora con Maheu. E' Maheu che me lo conduce per vedere se ci fosse una camera libera e se potessimo fargli credito per una quindicina.
Allora tutto s'appianò e in quattro parole s'accordarono. La camera era libera dal mattino. E l'oste, lasciandosi andare, mise da banda ogni reticenza; pur ripetendo che lui non chiedeva ai padroni l'impossibile, come tanti altri facevano, ma solo delle concessioni ragionevoli. Al che sua moglie alzava le spalle: ma che, ma che! lei non transigeva: l'operaio doveva ottenere il pieno trionfo dei suoi diritti.
E siccome cominciava a perorare: - Belle cose, sì, - tagliò corto Maheu, accomiatandosi. - Ma questo non impedirà che si continui a scendere nella miniera; e, finché vi si scenderà, ci saranno di quelli che ci lasceranno la pelle... Guarda tu, Rasseneur: sono tre anni che ne sei uscito e rieccoti un giovanotto.
- Sì, mi sono rimesso bene, devo dire! - ammise l'oste lusingato.
Stefano accompagnò sin sulla porta Maheu che se ne andava, ringraziandolo del servizio che gli aveva reso; ma l'altro scoteva il capo, senza dir nulla. Di sulla soglia il giovane lo guardò affrontare con passo stracco la salita. La Rasseneur l'aveva pregato di scusarla se non poteva condurlo subito in camera a lavarsi: aveva i clienti da servire; pazientasse un momento. Ora ch'era fatta, Stefano fu ripreso dall'indecisione: doveva restare? Qualche cosa gli fece rimpiangere la libertà della strada, la fame sofferta alla luce del sole ma compensata dalla gioia di sentirsi padrone di sé. Tra il momento che s'era spinto sul terrapieno della miniera, sfidando le raffiche della tramontana e quello in cui era tornato alla luce dopo ore e ore trascorse carponi al buio, ora gli pareva che non un giorno fosse passato, ma degli anni. Ricominciare una simile vita gli ripugnava; all'idea di ridursi una bestia che si lascia accecare e schiacciare, il suo orgoglio si ribellava.
Disputato da questi pensieri, lasciava intanto errare lo sguardo sull'immensa pianura che di là si dominava. A scoprirla qual era, ora stupì.
Non così se l'era figurata il mattino, al gesto con cui il vecchio Bonnemort gliela aveva indicata nel buio. C'era ben sempre lì in faccia il Voreux, con le sue costruzioni in legno e in mattoni; il capannone incatramato della cernita, il castello del pozzo col suo tetto di ardesia, il locale della macchina d'estrazione e l'alta ciminiera rossiccia; tutto quell'agglomerato di edifizi, pigiati l'uno contro l'altro, appiattati in una piega di terreno con l'aria malvagia della bestia in agguato. Ma tutt'attorno, Stefano non s'aspettava uno spiazzo vasto come questo che ora aveva sott'occhi; trasformato in un'enorme chiazza d'inchiostro da cumuli e cumuli di carbon fossile, irto di giganteschi cavalletti sui quali correvano i binari dei cavalcavia, ingombro in disparte di tanto legname in cataste da far pensare a un'intera foresta abbattuta.
A destra, simile a una barricata eretta da giganti, sbarrava la vista il terrapieno; invaso ormai d'erba nella parte abbandonata dal traffico, nell'altra roso da un fuoco sotterraneo che ardeva da oltre un anno, emettendo uno spesso fumo, e che lasciava alla superficie, tra il grigiore degli schisti e delle arenarie, lunghe strisce di ruggine rossa. Tutto intorno alla macchia d'inchiostro si stendevano a perdita d'occhio campi di grano e di barbabietole, adesso in riposo; terreni acquitrinosi dove, tra stocchi di piante palustri, qualche salcio intristiva e praterie laggiù solcate da radi filari di pioppi. Più lontano, macchie bianche indicavano le borgate: Marchiennes a settentrione, Montsou a mezzogiorno; mentre a levante chiudeva l'orizzonte, col suo orlo violetto d'alberi brulli, la foresta di Vandame. E, nell'aria livida del tramonto invernale, pareva che su tutto si fosse abbattuta la polvere di carbone che vomitava il Voreux; incipriando gli alberi, tappezzando le strade, seminando di sé l'intera pianura.
Ma la cosa che più lo sorprese fu il vedere il fiume Scarpe sistemato a canale: lavoro di cui nella notte non s'era reso conto. Un canale che dal Voreux raggiungeva in linea retta Marchiennes: un nastro, lungo due leghe, d'argento brunito, simile a un viale fiancheggiato d'alti alberi, soprelevato sul terreno intorno e che scorreva a perdita d'occhio tra due scarpate verdeggianti viste di scorcio, con le sue acque chiare su cui scivolava la poppa tinta di minio delle chiatte. Vicino alla miniera, c'era un porticciolo d'imbarco, con ormeggiate delle chiatte sulle quali le berline si scaricavano direttamente. Quindi il canale faceva gomito e tagliava diagonalmente i terreni paludosi; e l'anima della piatta pianura pareva raccogliersi tutta lì, in quell'acqua disciplinata che l'attraversava come una strada maestra, trainandone via il carbon fossile e il ferro.
Lo sguardo di Stefano risaliva dal canale al borgo operaio, costruito lassù sull'altura pianeggiante e del quale, di lì, solo i tetti d'embrici sporgevano. Poi, ridiscendeva verso il Voreux; e ai piedi della scarpata argillosa s'arrestava su due enormi cumuli di mattoni, fabbricati e cotti sul posto.
Serviva il pozzo una diramazione della ferrovia, di proprietà della Società Mineraria, che passava dietro la palizzata che Stefano aveva costeggiato arrivando. Sul binario non c'era più, in movimento, che un vagone; spinto a braccia, strideva con un fischio acuto. L'estrazione era cessata: il pozzo stava certo inghiottendo le ultime squadre degli sterratori. Al paesaggio, il giorno aveva tolto il suo mistero! non più fragori di cui restasse inspiegabile la causa, non più fiammeggiare d'astri sconosciuti. Dall'alba gli altiforni e i gasogeni là in fondo non insanguinavano più il cielo.
Del fantasmagorico spettacolo notturno restava solo il soffio della pompa d'eduzione, quella specie di incessante respiro prolungato e faticoso: il fiato d'un orco che nulla poteva saziare e che lasciava ora scorgere il suo grigio pennacchio di fumo.
Allora Stefano di colpo si decise. A persuaderlo a restare, fu il riaffacciarglisi in mente di due limpidi occhi? o non piuttosto il vento di rivolta che soffiava dal Voreux? Neanche lui sapeva. Ma decise di ridiscendere nella miniera per soffrire e per battersi, preso da un sordo rancore contro quella «gente» di cui parlava Bonnemort: per quel dio infingardo e satollo al quale diecimila «morti di fame» immolavano la loro esistenza, senza conoscerlo.
PARTE SECONDA
Capitolo primo
La villa dei Grégoire sorgeva a due chilometri a levante di Montsou, sulla strada di Joiselle. Era una grande casa quadra, senza stile, che risaliva al principio del Settecento. Dei vasti poderi che un tempo ne dipendevano, non restava che una trentina di ettari, cintati, di facile coltivazione. L'orto e il frutteto erano tuttora conosciuti per i loro prodotti, i più apprezzati della regione. Un boschetto faceva le veci di parco. Il viale di tigli secolari - cupola di verzura che correva per trecento metri dal cancello alla scalinata d'ingresso, - costituiva un oggetto di curiosità in quella pianura piatta, dove da Marchiennes a Beaugnies, gli alberi di alto fusto si contavano.
Quel mattino i padroni erano già in piedi alle otto: cosa insolita, abituati com'erano a fare lunghi sonni. Gli è che l'agitazione che aveva messo loro indosso il ventaccio della notte li aveva persuasi ad alzarsi con un'ora buona di anticipo.
Mentre il marito andava a vedere se il vento aveva recato danni, lei, avvolta in una calda vestaglia, era scesa in pantofole in cucina.
Piccolotta, pingue, la Grégoire conservava, a dispetto dei suoi cinquantott'anni, sotto la smagliante canizie, un faccione fresco ed ingenuo.
- Melania, - disse alla cuoca, - non potresti cuocerla adesso, la ciambella, visto che la pasta è pronta? Ci vorrà mezz'ora almeno prima che la signorina si alzi. Le si farebbe una sorpresa: la inzupperebbe nella cioccolata.
- Giusto! una buona idea! - esclamò la cuoca, illuminandosi. Era una vecchia magra, in casa da trent'anni. - Ci vuole poco! Il fuoco è acceso; il forno dev'essere caldo. E poi c'è Onorina che mi dà una mano.
Onorina era una ragazza sui vent'anni, che i Grégoire s'erano presi in casa da bambina e che faceva loro da cameriera. Oltre le due donne, di servitù non avevano che il cocchiere: Francesco, il quale sbrigava i lavori pesanti. L'orto e il frutteto erano affidati a un contadino che, con la moglie, accudiva anche al giardino e al pollaio. Tutta gente che viveva insieme d'amore e d'accordo, grazie all'andamento patriarcale della casa e il trovarsi come in famiglia per l'affabilità con cui erano trattati.
La Grégoire che aveva avuto svegliandosi l'ispirazione di fare alla figlia la ghiotta sorpresa, restò a veder mettere la ciambella al fuoco. L'ampiezza della cucina, l'estrema pulizia che vi regnava, l'arsenale di casseruole, di attrezzi e di recipienti che la guerniva, lasciava indovinare l'importanza che i Grégoire attribuivano alla tavola. Si doveva mangiar bene in quella casa! Credenze, scaffaletti, mensole, tutto traboccava di provviste.
- Falla indorare bene, sai! - E fatta quest'ultima raccomandazione, la Grégoire passò nella sala da pranzo.
Come non bastasse il calorifero che intiepidiva la casa, lì era acceso anche il caminetto. A parte questo, nessun lusso: una grande tavola, delle sedie, un buffè d'acagiù. Solo due soffici poltrone tradivano nei padroni un debole per le comodità, parlavano di lunghi chili beati. Dopo i pasti non si passava mai in salotto; si restava lì in famiglia.
In quella, il marito rientrava: vestito di fustagno, portava bene anche lui i suoi sessant'anni. Un viso bonario d'onest'uomo, roseo sotto le candide ciocche di capelli. Tanto Francesco che il contadino gli avevano assicurato che di danni non ce n'erano stati: in tutto, una canna del camino abbattuta. Ogni mattina egli amava dare un'occhiata alla Piolaine: non tanto grande da procurargli grattacapi, abbastanza per fargli gustare le soddisfazioni del proprietario.
- E Cecilia? - chiese. - Non si alza più, quest'oggi?
- Mah! Eppure, mi pareva d'averla udita muoversi.
In tavola era apparecchiato per la colazione: tre tazze sulla candida tovaglia. Spedirono Onorina a vedere. La ragazza ridiscese quasi subito, sbuffando dal ridere; e, smorzando la voce come se anche di lì temesse di svegliare la signorina:
-Oh, ma la vedessero! se la dorme come un angioletto! Da non credere! è un godimento, guardarla!
Inteneriti i genitori si scambiarono un'occhiata. - Che, si va? - lui propose. - La cara! - mormorò lei seguendolo.
La stanza della figlia era la sola messa con lusso: tappezzata di seta celeste, arredata di mobili laccati bianchi, filettati d'azzurro: il capriccio esaudito di una bambina viziata. Il letto biancheggiava vagamente alla luce discreta che una tendina scostata vi lasciava piovere; e in mezzo a tutto quel candore, la fanciulla dormiva, la guancia mollemente appoggiata sul braccio ignudo. Non bella; troppo prosperosa, scoppiante di salute; già donna a diciott'anni; ma aveva la carnagione d'una freschezza lattea, i capelli castani, un nasetto impertinente, ammorbidito dal tondo viso pienotto. Semiscoperta, respirava così soavemente che il petto, già peso, appena lievitava.
- E' stato quel maledetto vento, che non l'ha lasciata dormire! - Lui le fece cenno di tacere. Ambedue si chinavano in estatica contemplazione su quella figlia così a lungo desiderata, venuta quando quasi non speravano più. La fanciulla seguitava a dormire nell'innocenza della sua nudità, ignara della loro presenza, di quei visi che quasi toccavano il suo. Ad un leggero fremito tuttavia che passò su quel volto immobile, tremando di svegliarla, padre e madre si ritrassero e in punta di piedi uscirono dalla stanza.
Solo sul pianerottolo:
-Scendiamo piano! - lui raccomandò. - Se non ha dormito, è meglio non destarla.
Lei:
-Oh, sino all'ora che vuole! la cara! A colazione, aspetteremo.
E mentre in cucina le donne, senza brontolare, anzi divertite, badavano che la cioccolata non si freddasse, i Grégoire, rientrati in sala da pranzo, si sprofondavano ciascuno nella loro poltrona; lui a dare una scorsa al giornale, lei a lavorare a un copriletto a maglia, nel gran silenzio tiepido della casa.
Il patrimonio dei Grégoire, d'un reddito di circa quarantamila franchi, era interamente investito in una azione delle miniere di Montsou. Con compiacimento essi ne raccontavano l'origine, che risaliva alla fondazione della Compagnia.
Circa al principio del Settecento, la scoperta di giacimenti carboniferi tra Lilla e Valenciennes aveva scatenato nel paese una specie di follia. Il successo dei primi che avevano ottenuto concessioni dallo Stato - gli stessi che più tardi dovevano fondare la Compagnia di Anzin - aveva esaltato le fantasie. In ogni comune si facevano scandagli, le società spuntavano come funghi, era una gara a ottenere concessioni. Ma, fra i tanti, nessuno per certo aveva dato prova di maggior perspicacia e costanza del barone Desrumaux. Una ostinazione eroica: per quarant'anni di fila, senza mai perdersi d'animo, Desrumaux s'era dibattuto in mezzo a continui ostacoli: prime ricerche infruttuose: pozzi dovuti abbandonare dopo mesi e mesi di lavoro; frane che ostruivano gli scavi, improvvise inondazioni in cui perivano gli operai; centinaia di migliaia di franchi buttati a trivellare il suolo, poi, le difficoltà e i grattacapi dell'amministrazione, le improvvise sfiducie degli azionisti; la lotta contro i signorotti feudali proprietari di latifondi, ostinati a non riconoscere le concessioni reali se prima non si trattava con loro. Ed era finalmente riuscito a fondare la Società Desrumaux, Fauquenoix e C., e già i pozzi cominciavano a rendere, quando la spietata concorrenza di due concessioni vicine - quella di Cougny, appartenente al conte omonimo e quella di Joiselle, appartenente alla Società Cornille e Jeard, per poco non avevano fatto fallire l'impresa. Per fortuna il 25 agosto 1760 le tre concessioni venivano a un accordo e si fondevano in una. Con questo accordo la Compagnia delle Miniere di Montsou era fondata, tal quale esiste ancor oggi. Per la spartizione degli utili fra i soci, presa a campione la moneta d'allora, si era divisa l'intera proprietà in ventiquattro soldi, suddiviso ciascuno in dodici denari ciò che faceva complessivamente duecentottantotto denari; e poiché il denaro era di diecimila franchi, il capitale assommava quasi a tre milioni.
In quegli anni, il barone possedeva la Piolaine, con annessi trecento ettari di terreno; e aveva alle sue dipendenze, in qualità di amministratore, Onorato Grégoire; un giovane della Picardia, il bisnonno di Leone, padre di Cecilia. Quando s'era fondata la Compagnia, Onorato che aveva da parte una cinquantina di migliaia di franchi, cedendo al contagio dell'incrollabile fiducia che animava il padrone, cavò il malloppo dalla calza in cui lo teneva e acquistò un denaro; tremando al pensiero di derubare della somma i figli. L'erede, Eugenio, non riscosse infatti che dividendi ben modesti; e, siccome s'era messo a vivere di rendita e i quarantamila franchi lasciatigli dal padre se li era scioccamente fatti mangiare in una speculazione rovinosa, visse piuttosto a stecchetto. Ma a poco a poco gli interessi del denaro salirono; la fortuna della famiglia cominciò con Feliciano, il quale poté realizzare il sogno che il nonno aveva accarezzato per il nipotino: l'acquisto della Piolaine che, smembrata e messa all'asta come bene nazionale, gli fu aggiudicata a un prezzo irrisorio. Tuttavia le annate che seguirono furono cattive; bisognò attendere la fine delle catastrofi che accompagnarono la Rivoluzione sino alla sanguinosa sconfitta e alla caduta di Napoleone. A beneficiare del timido e peritoso investimento dell'avo, fu Leone Grégoire; fu lui a vederlo fruttare con un crescendo che aveva del miracolo. Col prosperare della Compagnia quei poveri diecimila franchi si moltiplicavano. Già nel 1820 fruttavano il cento per cento: diecimila franchi; nel 1844 ne resero ventimila; nel 1850, quaranta. Due anni prima, infine, il dividendo era salito all'incredibile cifra di cinquantamila; il valore del denaro, quotato alla Borsa di Lilla un milione, nel giro di un secolo s'era centuplicato.
A questo punto qualcuno consigliò a Grégoire di vendere; sorridendo paterno, lui si rifiutò. Sei mesi dopo scoppiava nell'industria una crisi, per cui il valore del denaro cadeva a seicentomila. Il crollo lo lasciò indifferente; non rimpianse nulla. Ormai i Grégoire avevano nella loro miniera una fiducia incrollabile: il corso dell'azione era calato? risalirebbe. Nella sua solidità credevano come in Dio. Religiosa fiducia, alla quale si mescolava la profonda gratitudine che nutrivano per un titolo che da un secolo manteneva la famiglia a far nulla. Era, per i Grégoire, quel titolo, come una divinità privata, che il loro egoismo circondava d'una specie di culto; la fata benefica che consentiva loro di cullarsi nel dolce far niente, di dormire sonni beati, d'appagare a tavola la loro golosità. Di padre in figlio il beneficio durava; perché correre l'alea, dubitandone, d'indisporre la sorte? E c'era in fondo alla loro fedeltà anche un terrore superstizioso: la paura che se avessero realizzato e chiuso in un tiretto il milione del titolo, esso come per incanto si sarebbe volatilizzato. Lo vedevano più al sicuro nelle viscere della terra, donde un popolo di minatori, generazioni e generazioni di affamati, lo estraevano un po' per giorno, a seconda del loro bisogno.
Né del resto solo di questi beni la sorte gratificava la famiglia.
Giovanissimo, Grégoire aveva sposato la figlia d'un farmacista di Marchiennes: bruttina, senza un soldo di dote; ma che lui adorava e che lo aveva ripagato in tanta felicità. Chiusasi in casa, lei viveva in estatica contemplazione del marito, senz'altra volontà che quella di lui; i gusti dell'uno erano quelli dell'altro; comune l'ideale, ch'era di condurre un'esistenza comoda. E così, pieni di tenerezza e di piccole premure l'uno per l'altro, vivevano da quarant'anni una vita di saggi, consumando il reddito quasi alla chetichella, senza alcuna ambizione di comparire. Solo la nascita tardiva della figlia aveva scompigliato un po' il bilancio familiare. Per appagare ogni suo capriccio - un altro cavallo, una nuova carrozza, dei vestiti fatti venire da Parigi - volentieri mettevano mano ai risparmi.
Accontentarla in tutto, anche adesso ch'era grande, era per i genitori gustare una gioia di più. Per la figlia, niente ai loro occhi appariva troppo bello; mentre essi personalmente avevano una tale ripugnanza per tutto ciò ch'era pompa e ostentazione, che vestivano ancora abiti di moda al tempo della loro gioventù. Ogni spesa poi che non fosse fatta in vista d'un utile, la consideravano insensata.
L'uscio della sala da pranzo si spalancò di colpo e una voce squillante: - Ah, dunque vi mettevate a tavola senza di me!
Era Cecilia che, saltata allora da letto e piena ancora di sonno, s'era affrettata a scendere, dandosi appena il tempo di ravviare i capelli e di infilare la vestaglia.
- Ma no! Vedi anzi che ti si aspettava! - protestò la madre. - E' stato il ventaccio di stanotte, eh, a non lasciarti dormire?
- Che vento? ha fatto vento, stanotte? Non me ne sono accorta. Ho dormito tutto d'un fiato.
- Ah questa! si chiama dormire! - Ne risero insieme; ilarità cui si unirono le donne, entrate a servire la colazione: l'idea che la signorina avesse dormito dodici ore filate metteva di buon umore tutta la casa.
Alla vista della ciambella:
-Come? di già cotta! - e Cecilia batté le mani festante. - Oh la bella improvvisata! - E mentre tutti i visi intorno a lei si illuminavano, se possibile, anche di più:
-Oh bene!
E' così calda calda, che mi piace nella cioccolata!
Le tazze fumavano e finalmente si misero a tavola. Ma i commenti sulla ciambella non finirono lì. Melania e Onorina fornivano particolari sulla cottura; guardavano i padroni impinzarsi, impiastricciarsi ingordamente le labbra: era un piacere, dicevano, fare un dolce quando lo si vede festeggiare così.
In quella abbaiarono i cani: la maestra, probabilmente, che due volte la settimana veniva da Marchiennes a insegnare il piano a Cecilia.
(Siccome anche l'insegnante di lettere le lezioni gliele impartiva a domicilio, tutta l'istruzione di Cecilia s'era fatta in casa; e la capricciosa ragazza cresceva in una beata ignoranza che le consentiva, alla prima difficoltà, di buttare dalla finestra il libro che la annoiava).
- Il signor Deneulin, - annunciò Onorina, che era andata ad aprire.
Già l'annunciato entrava. Deneulin era un cugino di Grégoire. Sebbene avesse varcato la cinquantina, conservava nerissimi i grossi mustacchi e i capelli che portava corti. Parlava forte e gestiva con vivacità: si sarebbe detto un ufficiale di cavalleria in congedo.
Avanzando con fare disinvolto:
- Sì, sono io! Buongiorno! Non vi scomodate, prego!
Le esclamazioni che lo avevano accolto duravano che già lui s'era seduto. I Grégoire ripresero la colazione.
- Hai qualcosa da dirmi? - chiese Leone.
- Oh nulla! Sono uscito a fare una cavalcata per sgranchirmi un po'; e, passando di qui, ho voluto salire un momento a darvi il buongiorno.
Cecilia gli domandò delle figlie. Stavano benissimo. Gianna era ormai tutta presa dalla pittura; mentre Lucia, la maggiore, passava le giornate al piano, a esercitarsi nel canto. Dicendo, la sua voce ebbe un leggero tremito, come se sotto la gaiezza che ostentava celasse qualche preoccupazione.
- E al pozzo? Tutto bene? - chiese Grégoire.
- Eh sai! bene! Mi risento anch'io, come tutti noi, di questa malaugurata crisi. Ah, le stiamo scontando, le annate buone! Si sono aperte troppe fabbriche, costruite troppe ferrovie! Nella prospettiva di chi sa quali guadagni, si è immobilizzato troppo capitale! E oggi il denaro scarseggia; non se ne trova più abbastanza per far lavorare le fabbriche. Grazie a Dio, la situazione non è però disperata; nonostante tutto, spero che me la caverò.
Come il cugino, anche lui aveva ereditato una azione delle miniere di Montsou ma, ingegnere intraprendente, che anelava a farsi una grossa fortuna, il giorno che il titolo aveva raggiunto il milione, s'era affrettato a vendere. Da mesi, maturava un piano. La moglie aveva ereditato da uno zio la piccola concessione di Vandame, ma i due pozzi della concessione, il Jean-Bart e il Gaston-Marie, si trovavano in uno stato tale di abbandono ed erano di un'attrezzatura così difettosa, che il loro sfruttamento copriva a stento le spese. Ora, egli accarezzava il progetto di riattare la Jean-Bart, di attrezzarla a nuovo e di allargare il pozzo per arrivare a maggiore profondità, riservando la Gaston-Marie al prosciugamento. Si doveva, asseriva, trovare là dentro carbone a iosa, da farci l'oro a palate. La sua previsione era giusta; senonché nei lavori di riattamento, il milione era andato; e giusto nel momento che i fatti cominciavano a dargli ragione, era scoppiata nell'industria quella maledetta crisi. In più, cattivo amministratore, buono, sebbene burbero, coi suoi operai, si faceva derubare; e poi, dacché gli era morta la moglie, lasciava briglia sciolta alle figlie: la maggiore, che sognava di diventare una grande attrice; l'altra, che neppure il rifiuto di tre tele mandate al Salon aveva guarito del suo ticchio per la pittura. Due ragazze, del resto, d'un inalterabile buonumore anche nelle ristrettezze e che sapevano all'occorrenza cambiarsi in ottime massaie.
- Vedi, Leone, - proseguì esitante, - hai avuto torto tu, a non vendere quando io l'ho fatto. Adesso che il titolo precipita, hai bel corrergli dietro! Se mi avessi affidato il tuo denaro, avresti visto i quattrini che si sarebbero fatti con Vandame!
Il cugino non si scompose, placido, seguitando a sorbire la sua cioccolata: - Mai! ... Mi conosci, sai che non mi piace speculare. Vivo in pace.
Sarei matto a mettermi negli affari per procacciarmi dei grattacapi. E quanto al titolo di Montsou, ribassi pure: per i bisogni che ho, mi renderà sempre abbastanza. Non bisogna, che diavolo!, lasciarsi prendere la mano dall'avidità! Poi, ascolta quel che ti dico: sarai tu, un giorno, a morderti le dita; le azioni di Montsou si riprenderanno e, grazie a loro, mangeranno ancora pane bianco i figli dei figli di Cecilia!
Deneulin lo ascoltava con un sorriso impacciato.
- Sicché, - mormorò, - se ti proponessi di mettere cento biglietti da mille nella mia impresa, rifiuteresti?
L'aria allarmata che presero i Grégoire lo fece pentire d'esser corso troppo; meglio riservare quella richiesta d'un prestito per il giorno in cui si trovasse con l'acqua alla gola.
- Oh non sono a questi punti! - s'affrettò a tranquillizzarli. - Ho detto così per dire... Dio mio, chi sa che tu non abbia ragione; il danaro che gli altri guadagnano per noi è quello che ingrassa senza dare preoccupazioni!
Mutarono discorso. Cecilia tornò a parlare delle cugine: le loro aspirazioni artistiche la mortificavano un po', ma pungevano la sua curiosità. La madre le promise che il primo giorno di sole la condurrebbe a trovarle, quelle care figliole. Grégoire distratto pensava ad altro: - Io, - finì per dire, - se fossi nei tuoi panni non mi intesterei più oltre e tratterei con Montsou. Fa gola, a Montsou, la tua miniera. Potresti rifarti di quello che hai speso.
Alludeva alla gelosia che esisteva da lunga data tra la concessione di Montsou e quella di Vandame. Sebbene la miniera di Deneulin avesse un'importanza ridotta, la sua potente vicina vedeva di malocchio, incastrata tra i suoi sessantasette comuni, quella lega quadrata di terreno, quel pozzo che non le apparteneva; e dopo aver cercato invano di ucciderlo con la concorrenza, ora spiava il momento che agonizzasse per incorporarselo a buon mercato. Era una lotta senza quartiere (d'ambo le parti gli scavi di gallerie non si arrestavano che a duecento metri l'una dall'altra); se anche dissimulato sotto il buon viso che i rispettivi dirigenti si facevano, era un duello all'ultimo sangue che le due imprese avevano impegnato.
Un lampo di collera era passato negli occhi di Deneulin:
-Mai! - esclamò a sua volta. - Finché sarò vivo io, Montsou non l'avrà, Vandame! Mi son bene accorto, giovedì, a cena da loro, che Hennebeau mi faceva la corte! Già lo scorso autunno, quando vennero a Montsou, i vostri capocchioni mi usarono ogni sorta di cortesie. Li conosco, va' là, quei marchesi e duchi, quei generali e ministri! dei briganti che, se potessero, vi toglierebbero di dosso anche la camicia!
Preso l'aire, non si fermava più. Grégoire, del resto, non difendeva affatto i dirigenti della Compagnia - quei sei padreterni, istituiti dall'accordo del 1760, che facevano e disfacevano a piacer loro; e che, se un membro veniva a morire, il nuovo lo sceglievano immancabilmente tra gli azionisti più forti e influenti. Al riguardo, l'opinione personale del proprietario della Piolaine era che quei signori spesso passavano il segno nella loro ingordigia per il danaro.
Melania era venuta a sparecchiare. Fuori, i cani ripresero ad abbaiare; e già Onorina si avviava alla porta; ma Cecilia, che il caldo e l'abbondante colazione infastidivano, la prevenne:
-Vado io.
E' certo la maestra.
Anche Deneulin s'era alzato. Seguìta dello sguardo la fanciulla: - Ebbene, - chiese sorridendo, - e queste nozze col piccolo Négrel?
- Oh niente di deciso, per ora, - rispose la madre. - Cose per aria... Sarà bene pensarci su.
- Direi anch'io! - E in una risata maliziosa:
- Credo che zia e nipote... Ciò che mi stupisce, è che sia la Hennebeau a buttarsi così al collo di Cecilia!
Grégoire protestò: come si potevano fare di quelle insinuazioni! una signora così distinta e più anziana di Négrel di quattordici anni! Via, via: non scherziamo su queste cose!
Senza smettere di ridacchiare, Deneulin gli diede la mano e partì.
Cecilia, rientrando:
-No, neanche ora è la maestra. E' quella donna con due bambini, sai, mamma... quella moglie di minatore che s'è incontrata insieme... Si fan passare qui?
Come si presentavano, i tre? Erano mica troppo sudici? Non tanto; e gli zoccoli, li lascerebbero fuori... I genitori esitavano. Ma s'erano già sprofondati nelle poltrone, avevano iniziato il chilo. Doversi scomodare, li decise.
- Fateli passare, Onorina.
E la Maheu e i due piccini entrarono; intirizziti, affamati; in soggezione e quasi spauriti a vedersi in quella sala dove si stava così caldi e dove si respirava un così buon odore di ciambella
Capitolo secondo
A poco a poco era trapelata nella stanza, per le stecche della persiana, la grigia luce dell'alba, riflettendosi a ventaglio sul soffitto. Nell'aria chiusa, fatta quasi irrespirabile, tutti ancora dormivano: Leonora ed Enrico, in braccio uno dell'altro; Alzira, per via della gobba, col capo più basso del busto; il vecchio Bonnemort, - a tutto suo agio nel letto lasciato da Zaccaria e da Gianlino - russando a bocca spalancata. Non il suono d'un respiro veniva dal bugigattolo del pianerottolo, dove, nell'allattare Estella, la madre s'era riassopita, la mammella ciondoloni; sotto il cui traboccare rischiava di soffocare la pupa che, buttata di traverso sul ventre materno, dormiva anche lei, satolla.
Fuori, in istrada, sbatté qualche porta, zoccoli strepitarono sui marciapiedi: le operaie della cernita che si recavano al pozzo. Poi, più nulla sino alle sette. Alle sette, sbattere di persiane che s'aprivano, colpi di tosse e sbadigli di gente che si alzava. Ma neanche lo stridore, che seguitò parecchio, d'un macinino da caffè, destò nessuno nella stanza.
Quando, a far balzare Alzira sul letto, scoppiò chi sa dove un putiferio: strilli intercalati da suoni di schiaffi. Avvistasi dell'ora avanzata, la gobbina corse a piedi scalzi a scuotere la madre: - Mamma, mamma, è tardi, tu che hai da andare... - E:
-Ve', - dicendo, - che soffochi Estella! - tirava via la piccina di sotto la cioccia materna.
Stropicciandosi gli occhi:
-Porca vita! - imprecò la Maheu con voce impastata di sonno. - Si va a letto che si è da sotterrare e non ci si alzerebbe più! Vesti Leonora ed Enrico, li porto con me. Estella te la lascio: non mi fido, con questo freddo cane, a tirarmela dietro.
Dicendo si levava. S'infilò una vecchia sottana turchina, la meglio che aveva; un giubbetto grigio di lana, cui il giorno prima aveva messo due toppe. E brontolando - anche la minestra, quel mattino, da cucinare! -, urtando dove passava, scese da basso.
Alzira si portò in camera Estella che s'era messa a strillare. A otto anni, quanti ne contava, già Alzira aveva imparato le piccole amorevoli astuzie con cui si distrae un bambino che piange; e, quanto la madre, già sapeva come prendere la sorellina per calmarne le bizze. La coricò nel suo letto ancor caldo; e, dandole un dito da suggere, la riaddormentò. Appena in tempo per poter correre a separare Leonora ed Enrico che, alfine svegli, stavano dandosi il solito buongiorno. I due, infatti, non andavano d'accordo che quando dormivano. Appena sveglia, la bambina, forte dei suoi due anni di vantaggio sull'altro si lanciava sul quattrenne maschietto, il quale riceveva gli schiaffi senza renderglieli. Tutti e due avevano un testone più enfio che grosso e dei capelli giallicci arruffati. Perché smettesse, Alzira dovette tirare via la prepotente per le gambe, minacciando di sculacciarla. Li aiutò quindi a lavarsi e a vestirsi: operazioni alle quali non si prestarono senza nuovi strilli e gran pestare di piedi. Di aprire le persiane si evitava perché la luce non svegliasse Bonnemort il quale seguitava a russare in mezzo a tutto quel chiasso.
- E' cotta! - annunziò da basso la Maheu. - Siete pronti lassù?
Scesa, la donna aveva aperto le imposte, aggiunto carbone e ravvivato il fuoco. La sua speranza che della minestra fosse sopravvanzato qualcosa all'appetito di Bonnemort, l'aveva smentita la casseruola trovata pulita. S'era quindi rassegnata a far cuocere la manciata di vermicelli che teneva in serbo da tre giorni. Quanto a condirla, se ne farebbe a meno: il burro rimasto dalla vigilia era così poco che non poteva esserne avanzato. E invece, brava Caterina! tanto come una noce, l'aveva lasciato. Ora però nella credenza non restava più nulla: neppure una crosta di pane. Che ne sarebbe di loro se Maigrat si ostinava a rifiutarle credito? se l'andata alla Piolaine non le fruttava neanche l'agognato scudo? Di ritorno dal lavoro, gli uomini avrebbero voluto mangiare: il mezzo di vivere senza cibarsi finora, disgraziatamente, non era stato inventato. Spazientendosi:
-Venite giù sì o no? A quest'ora dovrei essere per strada!
E, come scesero, della minestra fece tre parti: lei non aveva fame. Per sé, fece bollire per la terza volta i fondigli di caffè; e, di quell'acqua tinta, ne trangugiò due bicchieroni: sempre meglio che niente. E ad Alzira:- Ascoltami bene: fa' piano, che il vecchio non si svegli; e sta' attenta che Estella non si butti giù da letto. Se si desta e si mette a strillare, ecco qui un pezzetto di zucchero. Non ti dico di non mangiartelo, perché so che non lo farai... Lo sciogli nell'acqua e gliela dài a cucchiaini. Inteso?
- E la scuola, mamma?
- La scuola, ebbene ci andrai un altro giorno... Oggi ho bisogno di te.
- E la minestra? Devo metterla al fuoco, se ritardi?
- La minestra, la minestra... No, aspettami.
Visto che far la minestra Alzira sapeva - e non solo, ma tante altre cose che con la sua intelligenza precoce di ammalata aveva imparato per tempo - ora la gobbina capì e non insistette.
Ormai il borgo si destava; frotte di ragazzi passavano sulla strada strascicando le scarpe, diretti a scuola. Suonarono le otto. Un vocìo crescente ora giungeva anche dall'appartamento di faccia: erano i Levaque che si facevano sentire. Intorno alle caffettiere le comari iniziavano la loro giornata, i pugni sui fianchi, le lingue in moto come pale di mulini a vento. Una dalla strada venne a schiacciare la faccia vizza, il naso rincagnato contro il vetro della finestra:
-Ci ho una cosa da raccontarti, da' retta!
- Dopo, dopo! Adesso ho premura: devo uscire! - E nel timore di capitolare davanti all'offerta d'un caffè caldo, la Maheu spintonò fuori i due rampolli e uscì; mentre alle sue spalle Bonnemort seguitava a riempir la casa del suo ronfio cadenzato.
Fuori, la donna notò con sorpresa che il vento era caduto e con esso, di colpo, il gelo. Il cielo era terreo; ingrommati di verde, i muri sputavano una umidità appiccicosa; il fango delle strade invischiava il passo: il fango caratteristico dei paesi del carbone, nero come fuliggine stemperata nell'acqua, spesso e tegnente da lasciarci gli zoccoli. Manco a dirlo, la piccina si divertì subito a sguazzarvi dentro con le ciabatte; sicché s'era appena messa in cammino e già la madre doveva fermarsi per suonargliele.
Uscita dal borgo, e costeggiato il terrapieno, la Maheu seguì il canale, scorciando per strade appena segnate, tra terreni incolti chiusi da palizzate che la borraccina inverdiva. Capannoni si succedevano, lunghi edifizi di fabbriche, alte ciminiere eruttanti fuliggine, che finivano d'insudiciare quella tetra campagna di sobborgo industriale. Dietro un ciuffo di pioppi, l'antico pozzo di Réquillart drizzava le possenti armature; tutto ciò che della torretta crollata restava ancora in piedi. Di lì, svoltando a destra, rientrarono sulla strada maestra. Qui, ad attirarsi il rabbuffo e la correzione fu il maschietto, chinatosi a manipolare una pallottola di fango:
-Aspetta sudicione, che te lo do io il tiro a segno! - Equamente distribuiti, gli scapaccioni materni persuasero i due a contentarsi di diguazzare, sbirciando beati le pillacchere che sollevavano; mentre li andava ammansendo la fatica, a ogni passo maggiore, che costava alle reni lo sforzo di sfangarsi.
Ora, alle loro spalle, la strada si slanciava diritta per due leghe in direzione di Marchiennes, simile a un nastro intriso di lubrificante, tra terreni rossastri sull'orlo e traboccante sul pendio d'un grande avvallamento. Queste strade del Nord, tracciate diritte tra le città manifatturiere e che ora salgono ora scendono, ma con pendii sempre dolci, vengono aperte poco alla volta; e dell'intero dipartimento tendono a fare un unico centro industriale. Le piccole case in mattone, dipinte a vivaci colori per reagire alla tetraggine del paesaggio, in giallo le une, in celeste le altre - quelle, e non mancavano, dipinte in nero, anticipavano il colore che col tempo assumerebbero - digradavano ai due lati, serpeggiando sino in fondo alla discesa. Doppia fila di casette addossate l'una all'altra, che interrompevano qua e là grandi edifizi a due piani: abitazioni di capi-officina. La chiesa, pur essa in mattoni, si sarebbe detta, con quel suo campanile quadro già annerito, il nuovo modello d'un altoforno. E tra gli zuccherifici, le fabbriche di cavi per miniere, le raffinerie di farina, pullulavano i locali di danza, i caffè, gli spacci di birra; con tale abbondanza che su mille case di abitazione se ne contavano più di cinquecento.
Avvicinandosi ai Cantieri della Compagnia - una lunga fila di magazzini e di officine - la Maheu si decise a prendere i rampolli per mano. Cento passi più oltre, sorgeva l'abitazione del direttore: una specie di comodo villino che un cancello separava dalla strada e che aveva dietro un giardino con qualche magro albero. Davanti all'ingresso si era, proprio in quel momento, venuta a fermare una carrozza, con dentro una signora in pelliccia e un signore col nastrino all'occhiello: parigini certo venuti in visita, perché, nella penombra dell'ingresso, ecco comparire la Hennebeau e prorompere in esclamazioni di sorpresa e di giubilo.
Scrollati, perché non si facessero tirare, i bambini che ora dalla stanchezza si trascinavano, la Maheu, col cuore in gola, si diresse verso la bottega di Maigrat.
Maigrat abitava una casetta separata dalla villa del direttore da un semplice muro; e aveva lì un magazzeno: un lungo fabbricato che apriva sulla via una bottega senza vetrina. Vendeva un po' di tutto: coloniali, salumi, frutta, pane, birra, stoviglie da cucina.
Sorvegliante in passato al Voreux, aveva in un primo tempo aperto una botteguccia; poi, grazie alla protezione degli antichi capi, era andato allargando il suo commercio sino a costringere i piccoli esercenti a chiudere. Comperava a grandi partite; il che, unito allo smercio che la numerosa clientela operaia gli assicurava, gli permetteva di vendere a miglior mercato e a più lungo respiro. Senza dire che godeva del favore della Compagnia, con la quale s'era mantenuto in stretti rapporti e che, a sue spese, gli aveva fatto la casa e il magazzeno.
L'uomo per l'appunto era in piedi sulla soglia. Abbordandolo con aria umile:
-Sono di nuovo qui, signor Maigrat! - disse la Maheu.
Quello la guardava senza rispondere. Era un grosso uomo, d'una cortesia gelida, che sulle proprie decisioni si vantava di non tornar mai. - Andiamo, non mi manderete via come ieri... Vorrete bene, di qui a sabato, farmi credito del pane... Non mi scordo, non dubitate, che da due anni vi siamo in debito di sessanta franchi... Era un debito che i Maheu avevano contratto al tempo dell'ultimo sciopero. Tante volte avevano promesso di saldarlo, magari lasciando giù due franchi a quindicina; ma neanche così ce l'avevano fatta.
L'impaccio toglieva alla donna ogni disinvoltura; a ogni frase si impuntava; umiliarsi così, le costava.
Non credesse; anche loro, come gli altri, sarebbero arrivati al sabato; ma due giorni avanti, il calzolaio li aveva minacciati di farli arrestare se non lo pagavano: venti franchi, una tegola che li aveva ridotti senza un centesimo.
A ogni supplica, Maigrat, le braccia conserte, la pancia sporta in avanti, negava col capo.
- Mica caffè, vi chiedo; vede, signor Maigrat... due pani... tre libbre di pane al giorno... Finché quello, uscendo dai gangheri:
-No! - gridò brutalmente.
Dietro a lui era comparsa la moglie: una meschinella che passava le giornate a tenere la contabilità, senza ardire alzare il capo dal registro. All'ardente supplica che gli occhi della Maheu le indirizzarono, si scansò.
Si raccontava che alle clienti del marito la Maigrat cedeva il suo posto nel letto coniugale. Quando un minatore aveva bisogno di qualche giorno di credito di più, bastava - era risaputo - mandasse in bottega la moglie o la figlia; belle o brutte non contava, purché fossero compiacenti.
Riportando sull'uomo lo sguardo supplichevole, la Maheu s'urtò in quello di lui; in quegli occhietti scialbi che ora impudenti la spogliavano. Che la si potesse guardare così al tempo che era giovane, la Maheu avrebbe ancora capito; ma adesso, ch'era madre di sette figli!
Indignata, tirò a sé con uno strattone i marmocchi che, raccattati dei gusci di noce, vi frugavano dentro nella speranza di trovarvi qualcosa.
- Non vi porterà fortuna, signor Maigrat! Ricordatevene, - disse; e partì.
Ormai non le restava altra speranza che di ottenere qualcosa dai signori della Piolaine; se falliva anche quella... meglio non pensarci.
Svoltò a manca per la via di Joiselle. (Lì all'angolo sorgeva la sede dell'amministrazione: un vero palazzo in mattoni, dove ogni autunno venivano a celebrare sontuosi banchetti i pezzi grossi della Compagnia). E, strada facendo, già in cuor suo la poveraccia spendeva lo scudo che si faceva sicuro: del pane, anzitutto; poi un po' di caffè, un quarto di burro, un moggio di patate per la minestra del mattino e un boccone la sera per non andar a letto digiuni; infine, se c'entrava, una fetta di pasticcio di maiale per il vecchio che aveva bisogno di carne.
Incrociarono il parroco del luogo. Il reverendo Joire veniva avanti attento a dove metteva i piedi, rimboccandosi la sottana, per non bagnarla, come un gattone che ha paura dell'acqua. Di carattere mite, ostentava di non impicciarsi di nulla per stare in buona così coi poveri che coi ricchi. Chi sa perché, sebbene coi preti la Maheu se la facesse poco, lì per lì sperò che questo le darebbe qualcosa. - Buongiorno, signor parroco! - Ma lui sorrise ai piccini e tirò dritto.
C'erano ancora due chilometri da fare, in quella mota nera e appiccicosa. Avviliti, i piccini ora non si divertivano più; e più si andava, più si facevano rimorchiare.
Ai due lati della strada si susseguivano sempre gli stessi terreni incolti, cintati di palizzate verdi di muffa; gli stessi agglomerati di fabbriche sporchi di fumo, irti di alte ciminiere. Quindi si entrò in aperta campagna: terre piatte, senza il profilo d'un albero; un mare di brune zolle che si stendeva a perdita d'occhio, limitato laggiù dall'orlo violetto della foresta di Vandame.
- Mamma, prendimi in braccio! - Dovette portarli un po' l'uno un po' l'altro.
Pozzanghere invadevano la strada; la donna si rimboccava, per paura di arrivare in condizioni impresentabili. Più volte rischiò di scivolare, tanto si sdrucciolava. E quando i tre giunsero finalmente davanti allo scalone d'ingresso, si videro balzar contro due enormi cani, che abbaiando furiosi spaventarono i bambini. Per tenerli a bada, il cocchiere dovette ricorrere alla frusta.
- Lasciate qui gli zoccoli, - ripeteva intanto Onorina.
Nella sala da pranzo madre e figli restarono lì piantati; intontiti da quel tepore, messi in soggezione dagli sguardi che rivolgevano loro quel vecchio signore e quella vecchia signora, sprofondati nelle loro poltrone.
- Figlia mia, - disse la Grégoire, - fa' il tuo piccolo dovere.
I Grégoire incaricavano Cecilia delle loro beneficenze. Per una fanciulla, mostrarsi caritatevole era, a loro dire, indispensabile complemento d'una buona educazione; in una casa poi come la loro, che era, dicevano, la casa del buon Dio. Senonché la carità va fatta con discernimento: è così facile ingannarsi e, con le migliori intenzioni, incoraggiare il vizio! Per non correre questo rischio, i Grégoire si astenevano da dar danaro; per principio, mai un centesimo. Da' due soldi ad un povero e immancabilmente quello corre a berseli. Motivo per cui le loro elemosine erano sempre in natura; e consistevano soprattutto in vestiti che, durante l'inverno, distribuivano ai bambini poveri per ripararli dai rigori della stagione.
- Oh, i cari angioletti! - esclamò Cecilia. - Come sono pallidini, per aver fatto la strada con questo freddo! Onorina, va' su: c'è un involto nel mio armadio.
Le domestiche anch'esse contemplavano quei tre con la commiserazione e con quel certo disagio che ispira lo spettacolo dell'indigenza a chi ha il cibo e il letto assicurato. Mentre la cameriera saliva al piano di sopra, la cuoca rimise in tavola quel che era avanzato della ciambella; e restava lì, dimentica, a gingillarsi, le mani in mano.
- Ho giusto ancora due vestitini di lana e degli scialletti, - proseguì Cecilia. - Vedrete come staranno caldi questi amorini!
La Maheu, ritrovando la lingua:
- Mille grazie, signorina! - balbettò.- Tutti loro sono così buoni!
Dicendo, gli occhi le si gonfiarono di lagrime; ormai dello scudo si faceva sicura; restava solo di trovare il modo di chiederlo, caso non ci pensassero.
La cameriera non ricompariva; seguì un silenzio impacciato.
Aggrappati alla sottana della madre, i bambini non avevano occhi che per la ciambella.
La Grégoire, per rompere il silenzio:
-Avete questi due soli?
- Oh, sette ne ho, signora!
Grégoire che aveva ripreso il giornale, ebbe un sobbalzo:
-Sette figli! ma perché, Dio mio!
- E' un'imprudenza metterne al mondo tanti! - mormorò la vecchia.
La Maheu abbozzò un gesto come a scusarsi. E' la natura che vuole così; vengono al mondo senza che si voglia. E poi, per i poveri, rappresentano una risorsa, i figli; una volta cresciuti, portano in casa, aiutano a mandare avanti la baracca. Tanto è vero che anche loro, i Maheu, avrebbero potuto campare, non fosse stato che il nonno era immobilizzato su una sedia dai reumatismi e che, di sette figli, due soli e la ragazza più grande si trovavano in età di scendere nel pozzo. D'altronde, anche le bocche inutili bisognava bene sfamarle.
- E' da molto tempo che lavorate nella miniera? - chiese la Grégoire.
Alla Maheu venne da ridere, ma si contenne:
-Oh, per questo, sì! Io non ci ho lavorato che sino all'età di vent'anni. Quando ho avuto il secondo bambino, il medico m'ha detto che, se seguitavo, ci lasciavo la pelle. Perché, dice, quella vita mi metteva non so che dissesto nelle ossa. E poi, ormai m'ero sposata; e, da fare, ne avevo abbastanza in casa. Ma dalla parte del mio uomo, oh essi è dai tempi dei tempi che lavorano nelle miniere! a cominciare dal nonno del nonno! insomma, non si sa da quando; dal primo colpo di piccone che hanno dato a Réquillart.
Grégoire osservava pensoso quei tre meschini, dai visi cerei, dai capelli di stoppa; quegli ultimi campioni d'una razza minata, impoverita nel sangue, brutti della bruttezza tetra dei morti di fame.
Nel nuovo silenzio che si fece, s'udì il borbottìo del carbon fossile che bruciava nel caminetto, il sibilo del gas che se ne sprigionava.
La sala, piena d'un caldo umido, aveva quell'aspetto opprimente di benessere in cui si crogiola la felicità borghese.
- Non viene dunque più giù, Onorina! - scattò Cecilia impaziente.
- Melania, va' a dirle che il pacco è in fondo all'armadio, a sinistra. Chi sa dove lo cerca!
Grégoire concluse ad alta voce le riflessioni che lo spettacolo di quella miseria gli ispirava:
-No, non è allegra la vita, mia buona donna. Bisogna però dire che anche gli operai si mostrano poco saggi. Invece di mettersi dei soldi da parte come fanno i nostri contadini, i minatori bevono, si indebitano, finiscono per mancare del necessario per mandare avanti la famiglia.
- Il signore ha ragione, - rispose remissiva la donna. - Non sempre si cammina per la buona strada. E' ciò che non mi stanco di dire a quelli che sgarrano, quando li sento lagnarsi... Io, sono caduta bene: mio marito non beve. Non dico con questo che anche lui nei giorni di festa non si passi un bicchiere di più; però, a onor del vero, non eccede mai. Cosa che, come moglie, apprezzo tanto più, in quanto, prima di sposarmi, beveva, con rispetto parlando, come un lavandino... Con tutto ciò, vede, mica ci avvantaggia tanto il fatto che non beva. Càpitano lo stesso dei giorni, e oggi è uno di quelli, che lei potrebbe per modo di dire, appenderci col capo in giù senza che dalle nostre tasche uscisse il becco d'un quattrino.
Con questo accenno, la Maheu sperava di suggerire ai Grégoire l'idea dello scudo. E insistette perciò sull'argomento, passando a parlare del debito contratto; insignificante dapprima, poi ingrossatosi via via sino a diventare preoccupante. Si aveva un bel pagare puntualmente alla riscossione della quindicina; veniva sempre quella volta che si prendeva la roba a credito; e allora addio! Non si pareggiava più. Il buco diventava incolmabile; e gli uomini perdevano l'amore a un lavoro che non permetteva loro neppure più di sdebitarsi. Arrivati a questo punto, non c'era più speranza: dai guai li tirava più solo la morte. D'altra parte, si doveva anche riconoscere che chi lavora nei pozzi, d'un bicchierotto di birra per liberarsi la gola dalla polvere di carbone, aveva bisogno. Senonché si cominciava con uno e si finiva che dall'oste si piantavano le tende. Del resto, senza farne colpa a nessuno, poteva ben essere che i minatori non guadagnassero abbastanza...
- Credevo, - obiettò la Grégoire, - che la Compagnia vi desse l'alloggio e il riscaldamento.
Andando istintivamente con l'occhio all'allegra fiammata che bruciava nel caminetto:
- E sì, sì, - ammise la Maheu, - il carbone ce lo passa; non sarà di prima scelta; ma bruciare, brucia. Per l'alloggio, versiamo sei franchi al mese; pare niente e spesso non si sa come fare a pagarli. Oggi, ad esempio, mi si potrebbe fare a pezzi, che da me non si tirerebbero due soldi che sono due soldi. Dove non ce n'è, non ce n'è.
Sprofondati nelle poltrone, i coniugi tacevano, presi a poco a poco da tedio e disagio davanti a quell'ostentazione di miseria. Nel timore di averli urtati, la Maheu col suo tono di donna ragionevole che vede il pro e il contro e non se la piglia: - Oh, - soggiunse, - non è per lagnarmi! le cose sono come sono e bisogna accettarle; tanto più che noi avremmo bel fare, non vi cambieremmo nulla di sicuro! Il meglio è ancora, non è vero, signore? non è vero, signora? cercar di fare onestamente il nostro dovere, nel posto che il buon Dio ci ha assegnato.
Ah ora, sì! Queste parole riscossero la piena approvazione di Grégoire:
- Quando si nutrono di questi sentimenti, si è al disopra della sventura!
Arrivò finalmente l'involto. Cecilia lo svolse, ne trasse i due vestitini, vi aggiunse qualche scialletto, qualche paio di calze, dei guanti di lana. Tutti capi che ai piccini andrebbero a pennello, disse, passandoli alle donne che li involtassero; di premura, ché la maestra di piano era arrivata.
Vedendosi spinta lei e i piccini verso l'uscita, la Maheu prese il coraggio a due mani:
- Oggi è miseria nera, per noi, - balbettò strozzata. - Se potessimo avere solo uno scudo... - La voce le mancò: i Maheu erano fieri, non mendicavano.
Cecilia, interdetta, guardò il padre.
- No, non è nelle nostre abitudini, - disse quello, secco; col tono di chi allega un preciso dovere. - Non possiamo farlo.
Toccata dall'espressione d'angoscia che lesse sul volto della madre, Cecilia volle almeno dar qualcosa ai piccini. Andata alla ciambella, che calamitava ancora gli sguardi dei due, ne fece due parti: una fetta per ciascuno:
-Ecco, è per voi! - Poi, ravvedendosi, avvolto ciascun pezzo in un vecchio giornale:
-Ne darete anche ai vostri fratelli e sorelle, non è vero?
E, sotto gli occhi inteneriti dei genitori, li avviò all'uscita.
E i poveri mimmi, digiuni anche di pane, se ne andarono, tenendo religiosamente nella mano intirizzita dal freddo ciascuno il pezzo di ciambella. Ma la madre che se li tirava dietro, non vedeva più nulla: campi, strada, cielo, tutto girava e si confondeva ai suoi occhi.
Traversando Montsou, risoluta entrò da Maigrat; e tanto fece, nelle sue suppliche seppe mettere tanta forza di persuasione che finì per portarsi via due pagnotte, del caffè, del burro e persino uno scudo. (Maigrat accordava a breve scadenza anche dei piccoli prestiti).
Non lei, era Caterina che l'uomo voleva: lo capì alla raccomandazione che quello le fece: che per gli acquisti gli mandasse la figlia. Ebbene, si vedrebbe. Se Maigrat si faceva troppo sotto, Caterina era tipo da scostarlo a ceffoni
Capitolo terzo
Suonavano le undici alla chiesetta del borgo: una cappella in mattoni, dove alla domenica il parroco di Montsou veniva a dir messa. Dalla scuola che, pur essa in mattoni, le sorgeva a fianco, arrivava, nonostante le finestre chiuse per il freddo, il compitare dei ragazzi.
I larghi spiazzi che correvano tra i quattro grandi isolati di case uniformi, avaramente spartiti in tanti orticelli, erano deserti; spogliati dall'inverno, i coltivi non dissimulavano più lo squallore del terreno marnoso, punteggiato qua e là e reso più triste dai radi legumi superstiti. Nelle case la minestra era al fuoco, i camini fumavano. Di quando in quando una donna s'affrettava rasente le facciate; apriva una porta, spariva. Sebbene non piovesse, nelle botti scaglionate lungo i marciapiedi i tubi di scarico delle grondaie gocciolavano, alimentati dall'umidità di cui l'aria era pregna sotto il grigiore del cielo. E il villaggio, sorto da un giorno all'altro in mezzo alla sterminata pianura, orlato dalle strade nere che parevano listarlo a lutto, non aveva di allegro che il rosseggiare dei suoi tetti di coccio, ravvivato di continuo dagli acquazzoni.
Rincasando, la Maheu passò prima a comprare le patate dalla moglie d'un sorvegliante, che ne aveva ancora del raccolto. Dietro una cortina di magri pioppi - il solo albero che crescesse in quelle terre piatte - sorgeva un gruppo di edifizi: isolati di quattro case ciascuno, circondati di orti. Siccome quelle case la Compagnia le riservava ai capisquadra, gli operai avevano soprannominato la frazione «borgo delle "Calze-di-seta"»; allo stesso modo che, con bonaria allusione alla loro miseria, chiamavano il proprio, «borgo dei "Paga i tuoi debiti"».
- Uff! ci siamo finalmente! - e la Maheu, carica di fagotti e d'involtini, spinse in casa i due rampolli, infangati e morti di stanchezza.
Davanti al fuoco, Alzira stava ninnando tra le braccia Estella strillante. In mancanza d'acqua zuccherata, la gobbina aveva cercato di ingannarla dandole il seno; simulazione che spesso riusciva; ma questa volta aveva avuto bello scartare la camicia e imboccare la pupa del magro seno d'inferma; quella che lo mordeva senza trarne una goccia di latte, si imbizziva sempre di più. Sbarazzata che si fu degli involti:
-Dàlla qui a me, - s'infuriò la Maheu; e cavava dal corpetto l'otre della mammella. - Altrimenti non ci lascia scambiare parola -. La strillona vi si appese, di colpo si chetò e si poté discorrere.
Grazie alla piccola massaia, in casa tutto bene: il fuoco mantenuto acceso, il pavimento scopato, la saletta in ordine. Di su seguitava a venire il cadenzato russare del nonno, un ronfio che dal mattino non s'era interrotto un istante.
Alla vista di tutto quel ben di Dio che ingombrava la tavola - il fagottino degli abiti, due pagnotte, il monticello di patate, i pacchetti del caffè, del burro, della cicoria, la mezza libbra di pasticcio di maiale - Alzira esclamando:
-Quanta roba, mamma, che hai portato! Allora, se vuoi, mi metto dietro alla minestra.
- La minestra... - fece eco la voce stanca della madre. - Non ci hai per farla né l'acetosella né i porri; dovresti uscire a coglierli. No, lascia, la farò io, la minestra per gli uomini. Per noi metti a bollire delle patate; con un po' di burro vanno benissimo. E il caffè, ti raccomando! non ti scordare il caffè!
Dicendo, le sovvenne della ciambella. Guardò sotto il tavolo dove Leonora ed Enrico, già riposati e più vispi di prima, lottavano tra loro: avevano le mani vuote. Quei due ingordi, la ciambella, non se l'erano pappata dietro le sue spalle, strada facendo? Al suono degli schiaffi, la gobbina che metteva la marmitta al fuoco:
- Non picchiarli, mamma! Se è per me, sai che non ci tengo. Con tutti i passi che hanno fatto, avranno avuto fame.
Suonò mezzogiorno. In istrada si udì scarpettare: l'uscita dalla scuola. Le patate erano cotte; il caffè, inspessito per una buona metà di cicoria, gorgogliava nel filtro. Sbarazzato un canto della tavola, la madre vi mangiò sola. I ragazzi si contentarono delle ginocchia: il maschietto, adocchiando tutto il tempo l'involtino unto del pasticcio di maiale, senza osare chiederne. E la Maheu era ancora dietro a sorseggiare il suo caffè scaldandosi le mani al bicchiere, quando scese Bonnemort. In anticipo; tanto che di solito la minestra gliela tenevano sul fuoco. Oggi, vedendo che minestra non era, prese a borbottare; e, solo all'osservazione della nuora che «non sempre si fa quel che si vuole», si azzittì e attaccò le patate. Ogni tanto, per pulizia, s'alzava e andava a sputare nella cenere; per quindi ripiombare sulla sedia a masticare senza denti, il capo basso, lo sguardo spento.
- Ah, mi scordavo, mamma, - Alzira si risovvenne a un tratto. - E' venuta a cercarti la vicina...
- Oh, quella noiosa! - s'infastidì la Maheu. Ce l'aveva, adesso, la Maheu, con la Levaque; che, il giorno prima, richiesta d'un prestito, per rifiutarglielo aveva pianto miseria; come non si sapesse che giusto quel giorno Bouteloup le aveva anticipato la quindicina. (Erano rari, nel borgo, i prestiti tra famiglia e famiglia).
- Ah, mi fai ricordare! Mettimi in un pacchetto una macinata di caffè.
Vado a renderlo alla Pierron che me l'ha imprestato avant'ieri.
Preso il pacchetto, disse che tornerebbe subito per mettere la minestra al fuoco. Ed uscì con Estella in braccio, lasciando il vecchio Bonnemort a ruminare, mentre sotto il tavolo Leonora ed Enrico si disputavano le bucce cadute.
Evitando la strada per non sentirsi chiamare dalla Levaque, la Maheu scorciò attraverso gli orti. Il suo, appunto, confinava con quello dei Pierron e i due orti comunicavano per un varco apertosi nello steccato traballante. In quel punto era il pozzo al quale attingevano quattro famiglie; e di fianco al pozzo, riparato alla vista da una grama pianta di lillà, c'era un basso casotto, addetto a ripostiglio, dove i Maheu trovavano modo di allevare il coniglio che ingrassavano per i giorni di festa.
Sonò il tocco, l'ora del caffè: non un'anima sulle soglie né alle finestre. Solo uno sterratore intento a vangare il suo pezzetto di terra, in attesa dell'ora di turno. Nell'arrivare all'isolato di faccia, la Maheu ebbe la sorpresa di vedere sbucare davanti alla chiesa un signore con due dame. Si arrestò un momento e li riconobbe: era la Hennebeau che accompagnava in visita al borgo operaio gli ospiti del mattino.
- Ma perché tanta premura? Avevi ben tempo! - esclamò la Pierron alla vista del caffè.
Ventottenne, la Pierron passava per la bella della borgata. Bruna, una fronte esigua, degli occhioni, una boccuccia, un seno non sciupato dalla maternità; per giunta, sempre linda e leccata come un gatto. Sua madre, l'Abbruciata, vedova d'uno staccatore perito nella miniera, aveva impiegato la figlia in una fabbrica, giurando che non la darebbe mai a un carboniere; e che quella invece, nel timore di restare zitella, si fosse sposata proprio con un carboniere, vedovo per giunta e con una bambina di otto anni, non s'era mai data pace. Ciò non toglie che la coppia vivesse felice, incurante delle chiacchiere che correvano sulla compiacenza di lui e sugli amanti di lei. Mai un debito; la carne due volte la settimana, la casa tenuta come uno specchio. Quasi non bastasse, la Compagnia, sollecitata da qualcuno, l'aveva autorizzata a tenere un piccolo spaccio di biscotti e confetti, che la Pierron esponeva in barattoli su mensolette nel vano della finestra. Piccolo commercio che le rendeva sei sette soldi al giorno; sin dodici, la domenica. A disturbare quella felicità non c'era che l'Abbruciata, coi suoi asti di vecchia rivoluzionaria da sfogare contro i padroni e le vendette da prendere contro la Compagnia che le aveva ucciso il marito; e la piccola Lidia che scontava in troppo frequenti scapaccioni i malumori della famiglia.
- Ma sai che ti cresce a vista d'occhio, questo tesoro! - la complimentò la Pierron, vezzeggiando Estella.
- Ah, il daffare che mi dà, non parliamone! Beata te che non hai marmocchi! Tu almeno puoi badare alla casa.
Anche la Maheu la casa la teneva in ordine e ogni sabato faceva il bucato; e tuttavia mandava gli occhi, invidiosa, per quella saletta così linda; con qualche pretesa di eleganza, anzi: uno specchio, due vasi dorati sulla credenza, delle stampe nella loro cornice.
La Pierron stava prendendo il caffè; sola: i suoi erano al pozzo. - Ne pigli un goccio con me? - No, grazie. Ho finito ora il mio... - E con ciò?
Già: uno di più non guastava; e la Maheu accettò. Di tra i barattoli di confetture e biscotti si scorgevano le case di faccia. E gli occhi delle due donne si fermarono sulle tendinette delle finestre, che col loro colore rilevavano la maggiore o minore diligenza delle rispettive massaie. Le più sozze, veri strofinacci da tavolo di osteria, erano le tendine della Levaque: ma che se n'era servita per pulire il fondo delle casseruole, quella là?
- Mi domando com'è possibile vivere in una simile sporcizia! - commentò la Pierron.
Per la Maheu, fu lo spunto d'uno sfogo che minacciava di non finire più. Ah se lei avesse avuto un dozzinante come Bouteloup, la sua casa avrebbe cambiato faccia! A saper fare, un uomo a dozzina è una grande risorsa. Pur, beninteso, non andarci a letto insieme! Del resto, dal canto suo, che faceva il marito? Beveva, bastonava la moglie e correva dietro alle canterine dei caffè-concerto di Montsou.
Ah, quelle! la Pierron, solo a sentirle nominare, prese un'aria profondamente disgustata. Altro che malattie non c'era da prendersi, con quelle! Una di loro, a Joiselle, non aveva impestato tutti gli operai d'un pozzo?
- A proposito, sai che mi fa specie che tu lasci andare tuo figlio con la Filomena!
- Brava! e impediscilo tu! Il loro orto è attiguo al nostro. D'estate, Zaccaria è sempre con Filomena dietro i lillà. E che credi che si prendano soggezione? Non si può andare ad attingere acqua senza sorprenderli sulla conigliera che fanno i comodi loro.
Era la storia di tutti i giorni; l'inevitabile conseguenza della promiscuità in cui si viveva. Di lì, la corruzione che imperversava nella gioventù; la disinvoltura con cui, calato il giorno, le ragazze si buttavano a gambe all'aria sul basso tetto in pendio di quel casotto. Quando non si prendevano il disturbo di andarlo a fare a Réquillart o nel grano, era su quel casotto che tutte le spingi- carichi facevano il loro primo bambino. Poco male, del resto, visto che di solito le coppie finivano per sposarsi; il brutto era per quelle madri che vedevano il figlio ammogliarsi troppo presto; a ogni figlio che prende moglie, è una quindicina di meno che entra in casa.
- Se fossi in te, - riprese la Pierron, facendosi seria, - preferirei vederli sposati. Il tuo Zaccaria l'ha già ingravidata due volte; finiranno per far famiglia a parte. Anche se non lo ammogli, sul guadagno di lui non puoi più contare.
A questa, la Maheu andò in bestia:
-Ascolta quel che ti dico: se si mettono insieme, li maledico, - e protese le mani come a giurare. - Zaccaria non ha forse degli obblighi verso di noi? Ci è costato, non è vero? Ebbene, ha il dovere di risarcirci, prima di accollarsi una donna da mantenere. Che ne sarebbe di noi, me lo dici, se appena svezzati i nostri figli si mettessero a guadagnare per gli altri? Tanto vale allora crepare!
Ma dopo un po', ravvedendosi, concluse:
-Parlo in generale. Quanto a Zaccaria, col tempo si vedrà... Come è forte il tuo caffè! si sente che tu ci metti quel che ci vuole!
Si intrattennero ancora un po'; poi la Maheu, protestando che doveva ancora mettere al fuoco la pignatta per la minestra, si congedò.
Fuori - già i ragazzi tornavano da scuola - un curiosare di donne, richiamate sulle soglie dal passare della Hennebeau che accompagnava gli ospiti in visita alla borgata. La presenza di quei tre nel villaggio cominciava ad attirare l'attenzione: lo sterratore smise un momento di vangare; in un orto due galline rizzarono la cresta allarmate.
Nel rincasare, la Maheu andò a sbattere nel naso della Levaque che, appostata sulla via, attendeva al varco il medico della Compagnia: Vanderhaghen, un ometto sempre indaffarato, sempre frettoloso che i consulti li dava correndo. Eccolo!
- Dottore, non chiudo più occhio, la notte... Mi ascolti un momento... Vanderhaghen, che dava del tu a tutte, senza fermarsi: - Lasciami in pace! Bevi meno caffè, se vuoi dormire... La Maheu, profittando a sua volta:
-E mio marito, dottore, che ha sempre quei dolori alle gambe... Non avrebbe un momentino?...
- Sei tu che lo direni! non ho tempo da perdere!
E le piantò in asso in mezzo alla strada, a guardare la sua schiena che s'allontanava. Le due si scambiarono un'occhiata e spallucciarono: niente da fare. Poi la Levaque:
-Entra un momento da me. Ci sono delle novità. Intanto pigli un caffè: l'ho fatto or ora.
La Maheu avrebbe voluto sottrarsi; ma tant'è, per non usarle uno sgarbo... La saletta dove entrò manteneva a iosa la promessa delle tendine: pavimento e pareti lardosi; la credenza e la tavola da restarci attaccati a toccarle; un tanfo di casa maltenuta che pigliava alla gola.
Con le spalle al fuoco, i gomiti piantati sul tavolo, il naso nel piatto, Bouteloup finiva un resto di bollito. Massiccio di corporatura e giovane ancora per i suoi trentacinque anni, aveva l'aria mansueta d'un buon ragazzone. Ritto vicino a lui, Achillino, il primo nato di Filomena, già quasi treenne, lo guardava mangiare; con un'espressione di golosità negli occhi così supplichevole, che l'uomo, dissimulando nel barbone la pietà che la muta preghiera gli faceva, la esaudiva ogni tanto, ficcando in bocca al bambino un pezzetto di carne.
- Attendi, - e la Levaque metteva a bollire e rimescolava nella caffettiera una cucchiaiata di zucchero greggio.
Sempre spettinata, con un viso piatto seminato di peli grigi, il seno che le cascava sul ventre e il ventre che le traboccava sulle cosce, la Levaque, sebbene solo di sei anni più anziana del ganzo, aveva l'aspetto ripugnante della donna finita. Lui l'aveva presa per naturale condiscendenza, per lo stesso spirito di adattamento che gli faceva accettare la minestra coi capelli dentro, il letto con le lenzuola che si rinnovavano ogni tre mesi. La donna, insomma, faceva parte della pensione; ora, soleva dire il marito, un dozzinante che ci trova il suo tornaconto, non è più un dozzinante ma un amico.
- Sai che ti volevo dire? - seguitava la Levaque. - Che iersera la Pierron è stata vista gironzolare nei pressi delle "Calze-di-seta". Il messere che sai la aspettava dietro il Risparmio; e se la sono filata insieme lungo il canale. Che te ne pare, eh? Che faccia tosta, per una donna che ha marito!
- E ti fa specie a te? - la Maheu di rimando. - Pierron, prima di sposarsi, a quel messere mandava dei conigli in regalo; ora, prestandogli la moglie, i conigli li risparmia.
Bouteloup che stava imboccando Achillino d'una mollica di pane masticata, esplose in una risata che scrollò la tavola; mentre le due donne davano libero sfogo alla maldicenza: una civetta mica più bella di un'altra, la Pierron; ma sempre occupata a rinfrescarsi il deretano e il resto, a lustrarsi, a impomatarsi. D'altronde, se al marito piaceva mangiare di quel pane, affar suo. Ci sono degli uomini così ambiziosi che, solo per sentirsi dire grazie, ai capi leccherebbero le scarpe.
Le interruppe l'entrare d'una vicina che riportava dal Voreux la bambina di Filomena, Desiderata, una pupetta di nove mesi. Tutti i giorni la madre se la faceva portare nel reparto dove lavorava e si sedeva un momento sulla tramoggia ad allattarla.
- Potessi fare lo stesso con questa! - sospirò la Maheu guardando Estella che le si era addormentata in braccio. - La mia, se la lascio un minuto si mette subito a strillare!
E se ne sarebbe andata; ma la trattenne l'intimazione a restare che leggeva da un po' negli occhi della Levaque. Non era solo per parlarle della Pierron che la vicina l'aveva attirata in casa. Infatti: - Di' su: non ti parrebbe tempo che si sposassero quei due?
Sinora, di tacito accordo, le due madri avevano preferito non parlare di matrimonio fra Zaccaria e Filomena, desiderose ambedue di non vedere il bilancio famigliare scemarsi d'una quindicina. Perché avere fretta? La Levaque s'era persino rassegnata a tenersi in casa il primo nipotino; ma adesso che se ne era aggiunto un secondo e che il primo cresceva e mangiava anche lui la sua parte di pane, lei si sentiva in perdita; e perciò, da donna che non intende rimetterci del suo, ormai non vedeva l'ora che Filomena si sposasse.
- Zaccaria è franco di leva: ostacoli non ve ne sono più... Di' su: quando?
- Rimandiamo almeno a primavera! - propose, per cavarsela, la Maheu. - Che seccature, questi figlioli! Per appiccicarsi, non avrebbero potuto aspettare d'essere marito e moglie? Se Caterina mi combina lo stesso guaio, parola mia d'onore, la strozzo!
L'altra, spallucciando:
-Lascia andare! Ci passerà anche lei come le altre!
Bouteloup, con la disinvoltura di chi è in casa sua, era andato alla credenza e vi rovistava in cerca di pane. Non finite di sbucciare, restavano su un angolo del tavolo le patate per la minestra di Levaque: prese e lasciate chi sa quante volte. E la vicina vi si rimetteva, quando piantò di nuovo lì per impalarsi davanti alla finestra ed esclamare:
-Che succede in strada? Ve', la Hennebeau con dei signori! Eccoli che entrano dalla Pierron!
E tutte e due ricaddero a parlare di quella fraschetta. Sempre così! si sapeva! Se capitava qualcuno a visitare le case operaie, era diritto dalla Pierron che la Compagnia lo portava. Tacendogli, beninteso, che quella se la intendeva col suo sorvegliante-capo. Non ci voleva molto a curare la pulizia, quando si aveva alloggio e riscaldamento gratis e si disponeva d'un amante con uno stipendio di tremila, e che quindi poteva largheggiare in regali! Pulizia d'apparenza, perché a guardarci sotto... E le due non smisero finché:
- Eccoli che escono! - annunziò la Levaque. - Fanno il giro... Guarda! direi che si dirigano da te!... La Maheu si allarmò: chi sa se Alzira aveva pensato a dare un colpo di spugna al tavolo? E poi, lei che aveva ancora da mettere la minestra al fuoco! Salutò e, senza guardarsi intorno, filò a casa.
Trovò tutto in perfetto ordine e Alzira che, vedendo la madre ritardare, s'era messa a preparare la minestra. Con un cencio davanti a mo' di grembiule, la gobbina, seria seria, stava pulendo gli ultimi porri e l'acetosella colti nell'orto; mentre in un calderone al fuoco si scaldava l'acqua per il bagno che gli uomini farebbero rientrando dal lavoro. Per miracolo, anche Leonora ed Enrico erano quieti: li teneva buoni un vecchio almanacco di cui strappavano i fogli. Bonnemort fumava in silenzio la pipa. La Maheu aveva appena ripreso fiato, che la Hennebeau bussava. - Permettete, è vero, buona donna, - chiese sorridendo con ostentata affabilità. Alta, bionda, d'una bellezza sontuosa che la quarantina appesantiva un po', indossava sotto la mantella di velluto nero un abito di seta paglierina. Si arrischiò dentro senza dar troppo a vedere il timore che aveva di macchiarsi; e rivolta al signore dal nastrino all'occhiello e alla signora in pelliccia:
-Entrino, entrino... Non disturbiamo nessuno... Che ne dicono, eh? Anche qui non è tutto lindo? Eppure questa brava donna ha ben sette figli! Tutte così, le abitazioni dei nostri operai... Per sei franchi al mese, ché tanti ne pagano d'affitto, una grande sala a pianterreno, due camere al primo, una cantina e un orto... I visitatori non lesinavano la loro ammirazione, si guardavano intorno come stentassero a credere ai propri occhi.
- E un orto! - fece eco la dama. - Ma farei patto di viverci io! Incantevole!
- Di carbone ne ricevono più che non ne consumino... Hanno il medico due volte la settimana; e, sebbene sulla paga non si facciano ritenute, la pensione assicurata per la vecchiaia.
- Un paradiso! il vero paese della cuccagna! - mormorò il signore, estasiato.
La Maheu s'era precipitata a offrire delle sedie. Le signore fecero segno che non si disturbasse. Snocciolate le poche frasi di circostanza che aveva appreso, già, infatti, la Hennebeau era impaziente di togliersi di lì. Se qualche distrazione alla sua noia anche quel girare per i borghi operai gliela procurava, l'odore di miseria che si respirava pure nelle case in cui sapeva di potersi arrischiare, faceva presto a indisporla. E poi che gliene importava in fondo, di tutta quella gente che col lavoro manteneva il suo lusso?
- Che bei bambini! - la visitatrice si sentì in obbligo di dire; sebbene in cuor suo li trovasse orribili, con quei testoni, le selve arruffate di quei capelli giallicci. Al che, la madre dovette dire l'età di ciascuno, e anche su Estella rispondere alle domande che per educazione le rivolgevano. Per un senso di rispetto, Bonnemort s'era tolto la pipa di bocca; ma le sue gambe irrigidite, il viso terreo, lo stato in cui quarant'anni di miniera lo avevano ridotto, non per questo mettevano meno a disagio. Dovette accorgersene, perché colto da un violento impeto di tosse, uscì a sputare nell'orto, nel timore che la vista di quello nero scaracchio indisponesse quei signori. La più festeggiata fu Alzira. Che donnina di casa, che cara! Complimentarono la madre: quale risorsa una bambina così sveglia, così assennata a quell'età! Della gobba nessuno fiatò; sebbene proprio a quella andassero con più insistenza gli sguardi, combattuti tra pietà e malessere.
- Ebbene, - concluse la Hennebeau, - ora, a Parigi, lor signori potranno dire, all'occasione, come si sta nei nostri borghi operai. Mai più frastuono di adesso; costumi patriarcali; tutti felici e in buona salute, come hanno modo di constatare. Per l'aria che vi si respira e per la pace che vi regna, un soggiorno, sto per dire, da consigliare a chi avesse bisogno di rimettersi!
- Meraviglioso, veramente meraviglioso! - riepilogò il signore, in un'ultima esplosione di entusiasmo. E i visitatori accompagnati sin sulla soglia dalla Maheu, uscirono coll'espressione incantata con cui si esce da un baraccone di fiera; e lemme lemme si avviarono, sfogando ad alta voce la loro ammirazione.
La strada s'era animata; dovettero aprirsi il passo tra capannelli di comari, accorse alla notizia e indaffarate a propagarla. La Levaque per l'appunto aveva sequestrato davanti alla sua porta la Pierron, uscita anch'essa a curiosare. - Sai? Sono ancora dai Maheu! - Davvero? Che ci mettono le tende? - Tutte e due, invidiose, affettavano sorpresa: che potevano trovarci dai Maheu, per intrattenercisi così a lungo?
- Sempre in bolletta, con tutto quello che guadagnano! Ma già, quando si hanno dei vizi da mantenere!
- Ho appreso proprio ora che stamattina lei è andata a piangere miseria da quelli della Piolaine! E che Maigrat le fa di nuovo credito... Ora tutti sanno con che genere di moneta si ripaga Maigrat!
-Non intenderai mica che si ripaga su di lei! ci vorrebbe un bello stomaco! E' Caterina che salda i conti!
- Beninteso. Eppure, vuoi ridere? Non più tardi d'un momento fa, sai la madre che cosa ha avuto la faccia tosta di dirmi? Che se sua figlia ci cascasse, la strozzerebbe! Come se Chaval, Caterina, non se la fosse da un bel pezzo servita sulla conigliera!
- Ssst! Eccoli!
Ricompostesi di colpo, allora le due s'erano contentate di spiare, affettando indifferenza, l'uscita dei visitatori. Via quelli, fecero cenno alla Maheu di raggiungerle; e ora, immobili tutte e tre, li stavano a guardare allontanarsi. E quelli non avevano fatto trenta passi che nel gruppetto i commenti riprendevano più velenosi che mai: - Ne hanno per parecchio danaro di vestiti e di cianfrusaglie addosso, quelle due: per più danaro, per certo, che non valgano esse stesse!
- Oh sicuro! L'altra non la conosco; ma quella di qui, non la pagherei quattro soldi, ciccia compresa! Si raccontano di lei certe cose...
- Che mai? di'!
- Che ha degli amanti... L'ingegnere, intanto.
- Quel magro, piccolino? Mi fa specie! uno spillo che se lo perde non lo ripesca più tra le lenzuola!
- Che vuol dire, se lei ci trova il suo gusto? Piuttosto io, per me, quando vedo una che a tutto fa boccacce e ha sempre l'aria di annoiarsi dov'è... Ve' con disprezzo ci volta a tutte il sedere! Chi gliel'ha insegnata l'educazione?
I tre seguitavano a camminare passo passo chiacchierando, quando una vettura venne a fermarsi davanti alla chiesa. Ne scese un signore sulla cinquantina, chiuso in un soprabito nero; il viso abbronzato aveva un'espressione autoritaria, affabile ma compassata.
- Il marito! - bisbigliò la Levaque, abbassando la voce quasi quello potesse udirla, presa dalla soggezione che il direttore incuteva a tutti. - Eppure, la faccia del cornuto, dite quel che volete, ce l'ha!
Ormai tutta la borgata s'era riversata sulla strada. In un crescendo di curiosità, i crocchi si fondevano, formavano folla; mentre file di mocciosi si piantavano sui marciapiedi a bocca aperta. Vi fu persino un momento che di dietro lo steccato della scuola fece capolino il viso scialbo dell'insegnante. Appoggiato col piede alla vanga, lo sterratore adesso seguiva la scena con occhi sgranati. E il cicaleccio delle comari si propagava con lo strepito d'una ventata in un mucchio di foglie secche. Soprattutto davanti alla porta della Levaque c'era un vero assembramento. Con tanti orecchi in ascolto, adesso prudentemente la Pierron si era azzittita. Anche la Maheu, da quella donna ragionevole che era, si contentava di guardare; e siccome Estella, svegliata dal vocìo, s'era rimessa a strillare, per chetarla, senz'ombra di soggezione aveva tirato fuori, sotto gli occhi di tutti, la lunga cioccia penzolante.
Quando, caricati gli ospiti, la carrozza si mosse e filò in direzione di Marchiennes, da tutta quella folla adunata s'alzò un ultimo confuso vocìo; le donne gesticolavano, si parlavano faccia contro faccia: si sarebbe detto un formicaio in sommossa.
In quella, rintoccarono le tre. Già gli operai addetti allo sterro, tra cui Bouteloup, erano partiti; quand'ecco svoltare dalla chiesa i primi minatori di ritorno dal pozzo: neri in faccia, bagnati di sudore, venivano avanti, le spalle curve, le mani intrecciate sulle reni.
Allora fu un fuggi fuggi generale. Sbandatesi come galline al calare del nibbio, tutte le donne rientrarono in casa di corsa, spaventate alla prospettiva che ora sconterebbero il troppo tempo perduto a cicalare e a mescersi caffè. E - preludio di chi sa quanti battibecchi coniugali - si sparse per tutto il borgo il grido:
-Oh povera me! E la mia minestra che non è pronta!
Capitolo quarto
Sistemato che ebbe Stefano al Risparmio, Maheu rincasò e trovò a tavola Caterina, Zaccaria e Gianlino che, coi vestiti umidi ancora indosso, stavano finendo la minestra. Al ritorno dal lavoro, l'appetito era così imperioso che ognuno si metteva a tavola senza darsi neanche una lavata e senza aspettare nessuno; per cui in sala era sempre apparecchiato.
Per prima cosa, entrando, Maheu notò le provviste; non disse nulla, ma la sua fronte si spianò. Il pensiero che la credenza era vuota, che in casa non c'era più né burro né caffè, non lo aveva lasciato un momento in tutta la mattinata: che farebbe sua moglie? e se rincasava a mani vuote, come si rimedierebbe la cena? Invece ecco che tutto era andato bene. Poi le chiederebbe come aveva fatto. Intanto rifiatava.
Già in piedi, Caterina e Gianlino sorbivano il caffè; mentre Zaccaria, d'appetito più esigente, si imburrava una fetta di pane. Il giovinotto vedeva bene lì nel piatto il pasticcio di maiale; ma s'asteneva dal prenderne: era in tutto una porzione, destinata quindi al padre.
- Birra non ne ho comprata, - si scusò la Maheu, quando il suo uomo si fu a sua volta seduto a tavola. - Altrimenti finivo i soldi... Ma se la gradisci, Alzira va a prendertene una pinta -. (In fine di quindicina la minestra si buttava giù con un bel bicchierone d'acqua fresca).
Maheu la guardò ammirato: anche del danaro, dunque, era riuscita a procurarsi!
- No, no. L'ho bevuta al Risparmio, la birra. Mi basta -. E a piccole cucchiaiate attaccò nella ciotola che gli serviva di scodella il pastone di pane e di patate, insaporito di porri e acetosella, che già si rassodava; mentre, aiutata da Alzira, la moglie lo serviva, attenta a che non gli mancasse nulla; con la mano che Estella le lasciava libera, gli avvicinava il burro e l'affettato, riponeva al fuoco il caffè per mescerglielo bollente.
Caterina intanto aveva riempito dell'acqua del calderone la botte dimezzata che serviva di tinozza; e senz'ombra di soggezione, abituata com'era a farlo dall'età di otto anni, lesta lesta ora si spogliava.
Solo sfilandosi la camicia, diede le spalle; e prese a stropicciarsi da capo a piedi con un pezzo di saponaccio. Nessuno la guardava; neppure Enrico mostrava curiosità di vedere come era fatta. Lavata che si fu si lanciò nuda su per le scale, lasciando sul pavimento, con la camicia molle di sudore, il mucchietto dei vestiti. Adesso sarebbe toccato a Zaccaria entrare nella tinozza; col pretesto che il fratello era ancora dietro a mangiare, Gianlino v'era già saltato dentro.
Scoppiò un litigio: Zaccaria protestava il suo diritto di precedenza; se per cavalleria aveva ceduto il posto alla sorella, non per questo si rassegnava a lavarsi nell'acqua sporca che lascerebbe Gianlino: un'acqua da rifornirci d'inchiostro tutti i calamai della scuola. Il battibecco finì che tutti e due si lavarono insieme, voltati come Caterina verso il fuoco; aiutandosi anzi a vicenda a insaponarsi dove da sé non arrivavano. Dopodiché anch'essi infilarono, nudi com'erano, la scala.
- Ve' se è il modo di lavarsi! Ogni volta allagano il pavimento! - e la Maheu raccattava da terra i vestiti per metterli ad asciugare. - Alzira, dài un colpo di spugna, da brava!
Ma si interruppe in ascolto: nell'appartamento attiguo era scoppiato un pandemonio: l'imprecare d'una voce maschile, un pianto di donna, colpi sordi di percosse: il trambusto d'una zuffa.
- La Levaque che riscuote! - osservò placido Maheu, raschiando col cucchiaio il fondo della ciotola. - E Bouteloup che lo rassicurava che la minestra era cotta!
- Ah, sì, "cotta"! Se ancora un momento fa le ho visto sul tavolo le patate ancora da sbucciare!
Il putiferio cresceva. Seguì contro la parete l'urto d'un corpo, così violento che la saletta ne rimbombò. Poi, più nulla.
Maheu, inghiottendo l'ultima cucchiaiata, col tono imparziale d'un giudice:
-Se neanche la minestra gli fa trovare pronta, - sentenziò, - non ha torto Levaque!
E, bevutoci sopra un bicchierone d'acqua, si mise davanti il pasticcio di maiale. Ne tagliava dei pezzetti e con la punta del coltello li spalmava sul pane. Amava consumare i pasti in silenzio; abitudine che tutti in casa rispettavano. Adesso per esempio la curiosità lo pungeva di sapere dove lo aveva preso, quel pasticcio, la Maheu; non certo da Maigrat, che non usava tenerne. Ma dal chiedere si asteneva. Domandò solo se Bonnemort era ancora su. No, il vecchio era uscito, come il solito, a fare due passi. E si rifece silenzio.
Ma l'odorino di ciò che il babbo stava mangiando aveva fatto alzare il capo a Leonora ed Enrico che, sotto il tavolo, si divertivano a derivare dei rigagnoletti dall'acqua rovesciata. Tiratisi su, i due vennero a piantarsi presso il padre: Enrico, come il più piccolo, davanti. I loro occhi seguivano la traiettoria d'ogni boccone; con speranza, al partire dal piatto; con costernazione, all'arrivo. Maheu finì per accorgersi della golosità con cui lo spiavano: una golosità che li faceva inghiottire a tempo con lui.
- Non ne è toccato, ai bambini, di pasticcio?
All'esitazione di lei:
-Sai che queste ingiustizie non mi vanno? Mi toglie l'appetito vedermeli intorno a piatire.
Lei, stizzendosi:
-Ne hanno avuto sì! - mentì. - Se badi a loro, puoi dargli la tua parte e quella degli altri. Basta non lo diranno mai. Non è vero, Alzira, che ne abbiamo avuto tutti del pasticcio?
- Ma sì, mamma! - confermò senza battere ciglio la gobbina che, in quelle occasioni, sapeva mentire con la sicurezza d'un grande.
Davanti a tanta impudenza, Leonora ed Enrico restarono senza fiato, essi abituati a buscarle alla minima bugia. I loro cuoricini si gonfiavano di sdegno. Avrebbero voluto protestare, dire che, se mai, essi non c'erano quando gli altri ne avevano mangiato. Ma già la Maheu li cacciava:
-Levàtevi dai piedi a vostro padre! Non vi vergognate di star sempre lì col naso nel suo piatto? E se anche ne mangiasse lui solo, del pasticcio, con questo? Lui guadagna; mentre voialtri siete solo buoni a spendere. Divorate più che non pesiate voi stessi!
Maheu li richiamò, se li sedette uno per gamba; e, imboccandoli a turno, divise con loro il resto del pasticcio. I bambini erano al settimo cielo.
Alzandosi da tavola:
-No, làscialo nella caffettiera, il mio. Prima mi lavo... Piuttosto dammi una mano a buttar via l'acqua sporca.
E stavano vuotando la tinozza nella cunetta della strada, quando Gianlino comparve sulla soglia. S'era cambiato; ora indossava un paio di calzoni e una blusa di lana: smessi da Zaccaria; e si vedeva, da tanto gli erano larghi. La madre, vedendolo svignarsela alla chetichella:
-Dove vai? - Qui. - Dove qui? Senti, va' a raccogliere un po' di radicchiello per l'insalata di stasera. Dico a te, hai capito? Se torni senza, le buschi.
Senza dire né sì né no, quello partì, le mani in tasca, strascicando gli zoccoli e dondolandosi sulle reni come un vecchio minatore.
Dopo di lui, comparve Zaccaria; un po' meglio aggeggiato, lui; con una maglia di lana a righe nere e turchine che gli modellava il torso.
Maheu gli gridò di non farsi attendere per cena; lui scosse in risposta il capo e s'allontanò con la pipa tra i denti.
La tinozza era di nuovo piena; e Maheu si toglieva la giacca; senza fretta, per dar tempo ad Alzira di condurre fuori i piccini a giocare. Non gli piaceva fare il bagno in presenza dei figli; se nella borgata tutti lo facevano, buon pro; ma lui trovava che sguazzare insieme poteva andare per i bambini.
Ma che faceva su Caterina?
- Mi do due punti alla sottana. Ieri mi ci sono fatto uno strappo.
- Bene... Ora però non scendere: tuo padre si lava.
Così i coniugi rimasero soli. La Maheu s'era decisa a deporre Estella su una sedia; persuasa una volta tanto dal tepore del fuoco a star buona, quella occhieggiava di là i genitori col suo sguardo incerto di creaturina che non pensa. Una volta che si fu spogliato, Maheu s'inginocchiò per prima cosa a tuffare il capo nella tinozza; insaponandoselo quindi ben bene con un pezzo di quel sapone nero che alla lunga finiva per dare ai capelli una tinta giallastra. Ciò fatto, entrò nell'acqua e si spalmò allo stesso modo petto, ventre e cosce, stropicciandosi energicamente la pelle con ambi i pugni. La moglie, ritta lì a guardarlo:
-Senti, allora. Ho visto, sai, l'occhiata che hai avuto arrivando... Eri in pensiero, eh, ché vedendo la roba ti sei rasserenato? Figurati che quelli della Piolaine non m'hanno dato un soldo. Oh sono stati gentili, non dico; hanno vestito i bambini da capo a piedi. Tanto più quindi, capirai, m'è costato chiedere; a mendicare, mi manca la voce... Si interruppe per andare alla sedia a sistemare meglio Estella che pericolava; mentre il marito seguitava a stropicciarsi con forza, attendendo pazientemente, nonostante la curiosità che lo mordeva, la fine del racconto senza sollecitarla con domande.
- Prima che alla Piolaine, devi sapere, ero stata da Maigrat, che mi aveva detto di no; e in che modo! come si scaccia un cane! ... Figurati quindi i momenti che ho passato! Tengono caldo i vestiti di lana, ma non riempiono la pancia, è vero?
Maheu alzò il capo: niente alla Piolaine, niente da Maigrat: oh, e allora? Ma anche questa volta si astenne dal chiedere.
Lei intanto s'era rimboccate le maniche per insaponarlo dove a lui era malagevole arrivare. Le spalle, intanto; e l'uomo si mise ritto per non vacillare sotto la spinta. Gli piaceva, a Maheu, che la moglie lo insaponasse, lo massaggiasse dappertutto con forza.
- Sicché sono tornata da Maigrat; e questa volta gliene ho dette, oh se gliene ho dette! Che era un senza cuore, che se c'era una giustizia se ne avrebbe a pentire... Imbarazzato, senza trovare che rispondere, stornava gli occhi; si vedeva che, potendo, se la sarebbe svignata... Dalle spalle, la donna era scesa alle natiche; e, infervorandosi nella bisogna, di là si spingeva a stropicciarlo fra le gambe, dappertutto, senza lasciare una piega; presa dallo zelo che metteva a lucidare i rami di cucina alla vigilia delle grandi ricorrenze. E soffiando dalla fatica nella scalmana di tutto quello armeggiare, le parole le si strozzavano in gola:
-Finché, per farla corta, messo alle strette, m'ha gratificato di vecchio empiastro, ma ha ceduto... Ci darà il pane a credito sino a sabato; e intanto, quel che è il meglio, m'ha avanzato uno scudo. In più, ho preso da lui il burro, il caffè, la cicoria; e, non contenta, stavo per farmi dare anche il salame e le patate ma siccome già borbottava... Sette soldi il pasticcio, diciotto le patate, dello scudo mi restano ancora tre franchi e settantacinque; c'entra dunque ancora un po' di carne in umido e un bollito... Che ne dici? Non ho perso la mattinata, eh?
Adesso lo asciugava, lo strofinava con un panno, nei punti dove stenta a seccare. E lui esultante, senza pensiero del debito e dell'indomani, la approvava tra grandi risate, la abbrancava, la stringeva a sé.
- Che ti piglia? Matto! finiscila! Non vedi che sei bagnato e mi infradici tutta... Ti dirò, però: temo che Maigrat abbia delle idee... Stava per parlare di Caterina; ma a che mettergli quella pulce nell'orecchio? Maheu non era uomo da prendere la cosa alla leggera.
- Quali idee?
- Di rifarsi sui conti, no? Bisognerà che Caterina li riveda attentamente.
Rassicurato, lui la abbrancò di nuovo; e questa volta per non mollarla più. Era quasi sempre così che il bagno in famiglia finiva. Il rude massaggio, il solletico che asciugandolo lei gli faceva per tutto il corpo, ringagliardiva l'uomo. Del resto, l'ora del bagno era in tutte le case l'ora dei grilli; l'ora in cui, senza averne l'intenzione, si mettevano al mondo più bambini. Alla notte, la vicinanza della prole impediva le effusioni coniugali.
Ecco infatti che ora lui la spingeva verso la tavola, celiando malizioso: andiamo, perché rifiutargli l'unico momento buono della giornata? Non se lo meritava forse? Era la sua frutta, quella; e una frutta che non costava niente.
Più per stare al gioco che sul serio, lei si dibatteva un po', ma col seno in tumulto, piegandosi già in vita sotto l'assalto.
- Che ti piglia? Ma sei matto, con Estella che ci guarda! Fammela almeno voltare di là!
- Gnamo! ha tre mesi! sì che capisce!
Festeggiata che ebbe la sua donna, Maheu non si rivestì; restò in calzoni; gli piaceva dopo il bagno starsene un po' a torso nudo. Sulla pelle che aveva bianca come quella d'una donna, sul largo petto d'un lucore di marmo venato d'azzurro, sulle braccia nerborute che ostentava, il minerale aveva lasciato dei graffi, dei tagli - "innesti", nel gergo dei minatori -; e di quei segni del mestiere Maheu andava fiero. Né solo lui; tanto che dopo il bagno erano molti i minatori che, per farsi ammirare, uscivano sulle soglie.
Anche lui ora vi si affacciò un istante, sfidando l'umidità del di fuori; lanciò una grassa facezia a un collega avvistato di là degli orti, pure lui a torso nudo. Altri si affacciarono. E i ragazzi che bighellonavano sui marciapiedi alzavano il capo, ridevano anch'essi a quell'allegra esposizione di petti che si ritempravano dalla fatica, affrontando ignudi l'aria aperta.
Neanche rientrato in casa, infilò la camicia; e, prendendo il caffè, raccontò alla moglie la grana che l'ingegnere aveva piantato a proposito dei rivestimenti. Ormai l'ira per il rabbuffo gli era sbollita; e ai consigli di prudenza che lei gli dava, assentiva col capo. La Maheu era donna piena di moderazione e di buon senso: non ci si profitta di niente, soleva dire, a mettersi in urto con la Compagnia; come a battere la testa nel muro. A sua volta, la moglie gli raccontò della visita fattale dalla signora Hennebeau. Non se lo dicevano; ma, di quella visita, tutti e due erano fieri.
Dalla scala arrivò la voce di Caterina:
-Posso scendere? La fanciulla aveva indosso l'abito nuovo: un vestituccio di lana e seta rigata, sbiadito dall'uso e liso nelle pieghe; in capo, una cuffia nera di tulle, senza nastro.
- Dove vai, che ti sei messa in ghingheri?
- A Montsou, a comprarmi un nastro per il cappello. Quello vecchio l'ho tolto: era diventato indecente.
- Sicché sei in quattrini, tu?
- No. E' la Mouquette che s'è offerta di prestarmi dieci soldi.
La madre la lasciò partire, ma sulla soglia la richiamò:
-Senti: il nastro non andarlo mica a comprare da Maigrat, sai! Penserebbe che scialiamo e te lo farebbe pagare il doppio.
- E cerca di rientrare prima che sia notte! - aggiunse il padre che, accosciato presso il fuoco, stava facendosi asciugare le ascelle.
Il pomeriggio Maheu lo dedicò all'orto. Già vi aveva seminato piselli, fagioli e patate; ora gli restavano da trapiantare delle piantine di cavolo e di lattuga che aspettavano dal giorno prima nella loro motta di terra. I legumi che tiravano da quello scampolo di terreno bastavano per i loro bisogni; solo le patate, con l'uso che ne facevano, erano sempre insufficienti. Maheu era molto bravo come agricoltore; persino dei carciofi, otteneva dal suo orto: raffinatezza, questa, che agli occhi dei vicini passava per una posa.
Stava dunque dissodando il terreno per il trapianto, quando nell'orto attiguo Levaque uscì a fare una pipata e a dare un'occhiata alle lattughe piantate quel mattino da Bouteloup. (Non fosse stato per il dozzinante, in quell'orto sarebbe cresciuta l'ortica).
- Che si va al Risparmio? - propose Levaque, che a menar le mani s'era riposato e al tempo stesso ringalluzzito. - Non sarà poi un guaio una birra! - Farebbero una partita a bocce, due chiacchiere con gli amici; e rientrerebbero per cena. Che vivere è se non ci si concede un po' di svago dopo il lavoro?
Mica cattiva, l'idea; ma Maheu non si lasciò tentare:
-Se non le trapianto oggi, domani addio lattughe! - In realtà, era per economia che rifiutava; per non scemare sia pure di poco quello che avanzava dello scudo.
Alle cinque, capitò la Pierron a vedere se era con Gianlino che la sua Lidia se l'era svignata. Probabilmente sì, intervenne Levaque, perché anche il suo Berto era sparito; le scappate quei tre le facevano sempre insieme. Ma Maheu non era dello stesso parere: Gianlino, sua moglie l'aveva mandato a raccogliere radicchio. Tranquillizzata così la donna, tutti e due presero a bersagliarla di sboccate galanterie e di grasse facezie. Quella fingeva d'offendersi; ma restava lì, solleticata in fondo da quella bonacciona crudità di linguaggio; strillando alle parolacce, ma ridendo da tenersi la pancia. A prendere, non chiamata, le sue difese, arrivò una spilungona; tartagliava, strozzata dallo sdegno, che pareva una gallina che chioccia. Altre dalle soglie le diedero man forte, imbaldanzite dalla lontananza. Intanto l'uscita dalla scuola aveva riempito la strada di monelli, che gridavano, si rotolavano in terra, si azzuffavano; mentre a ridosso delle facciate, accoccolati anche lì sui calcagni come fossero nella miniera, i padri ch'erano rimasti a casa, fumavano la pipa, scambiandosi una parola ogni tanto.
Finì che Levaque allungò la mano sulla Pierron per assicurarsi della sodezza della sua coscia; solo allora quella s'offese e partì; dopodiché anche lui si decise ad andare al Risparmio da solo, mentre Maheu seguitava a rincalzare di terra le sue piantine.
La luce del giorno scemò quasi di colpo. La Maheu accese il lume, borbottando contro Caterina e gli altri due che ancora non comparivano. L'avrebbe scommesso, lei, che andava così! Nemmeno quell'unico pasto, si riusciva a farlo insieme: mancava sempre qualcuno. E, poi, l'insalata! che diavolo poteva ancora raccogliere a quell'ora, con quel buio, quel gaglioffo di ragazzo? Sarebbe venuto così bene, un po' di radicchiello, per accompagnamento all'intingolo che lei aveva rimediato: uno spezzatino di porri e patate, insaporito di acetosella, crogiolava al fuoco nel soffritto di cipolla! (Di cipolla soffritta tutta la casa puzzava; un odorino per sé buono, ma che ha il difetto di irrancidire presto e d'impregnare talmente i muri che era con quel tanfo di cucina povero che i borghi operai s'annunciavano a distanza).
Ricacciato in casa dal calare della notte, Maheu si lasciò andare su una sedia; e, con la testa contro il muro, si appisolò. In fine di giornata era così stracco che, se si sedeva, s'addormentava. D'un sonno che non ruppe neppure la scodella che, nel suo zelo di aiutare Alzira, Leonora s'era lasciata sfuggire di mano.
Il cucù sonava le sette, quando comparve Bonnemort: l'ora del suo turno s'avvicinava e doveva ancora cenare.
Allora la Maheu svegliò il marito:
-Ebbene, mangiamo noi! Sono del resto abbastanza allevati per trovare da sé la porta di casa. Me ne dispiace per l'insalata! ma pazienza!
Capitolo quinto
Inghiottita la minestra, Stefano salì alla stanza che la Rasseneur gli aveva assegnato: una cameretta a tetto, larga un palmo; con vista sul Voreux. Era talmente spossato (da due notti, quasi non dormiva) che stramazzò sul letto vestito. Si svegliò all'imbrunire, intontito che lì per lì non si raccapezzava dov'era. Aveva le ossa indolenzite e al capo una grande pesantezza. Stentò a rizzarsi in piedi. Meglio uscire: una boccata d'aria prima di cena forse lo rimetterebbe.
Fuori, il vento era caduto e la temperatura s'andava mitigando. Il cielo si copriva di nubi cariche di pioggia: di quelle piogge del nord che si protraggono per giorni e giorni e che s'annunciano appunto col tepore e l'umidità dell'aria. Già laggiù il calar della notte inghiottiva i margini dell'immensa pianura, quel mareggiare di terreni rossicci sul quale il cielo basso pareva sfarsi in nero pulviscolo.
Spettacolo d'uno squallore e d'una tristezza che metteva la morte nell'anima.
Il giovane prese a camminare a caso, senz'altro scopo che di scrollarsi quel malessere d'addosso. Passando davanti al Voreux, già immerso nella notte e senza ancora un lume, s'arrestò un momento ad assistere all'uscita del turno di giorno. Erano certo le sei, perché dal pozzo venivano via a gruppi braccianti, manovali, caricatori, stallieri; mescolati alle operaie della cernita che si distinguevano nel buio alle risate.
Primi a venirgli incontro, furono l'Abbruciata e Pierron. La vecchia questionava col genero, perché in una contestazione avuta col sorvegliante circa il suo ricavo di pietre, lui non l'aveva spalleggiata.
- Va' là, cappone! vale la pena di portare le brache per poi inconiglirsi così davanti a un sudicione che ci succhia il sangue!
Come non dicesse a lui, Pierron le teneva dietro in silenzio. Finché: - Che avrei dovuto fare, secondo te? saltargli alla gola? Grazie mille! per tirarmi addosso un subisso di guai!
- Cala i calzoni, allora! - rincarò inviperita. - Ah sacramento! se mia figlia m'avesse dato retta... Non basta dunque che m'abbiano ammazzato il mio uomo; dovrei ancora dire grazie, eh? Ah no, sai! devo averla la mia vendetta!
S'allontanarono. Stefano li seguì con gli occhi; con quella criniera bianca scarmigliata, quel naso a becco, le lunghe braccia scheletriche gesticolanti, la vecchia aveva l'aria d'una furia.
Da lei lo distrasse il dialogo che ora si svolgeva alle sue spalle; tra Zaccaria - lo aveva riconosciuto, passando, in uno in attesa al margine del la strada - e il suo amico sopraggiunto: Mouquet.
- Vieni? Si mangia un boccone, poi si fila insieme al Vulcano.
- Sì. Ma non subito: aspetto una persona.
- Chi mai?
La «persona» già l'altro l'aveva avvistata, perché, seguendo il suo sguardo, Mouquet si voltò e vide Filomena che usciva dal capannone della cernita. Credette di capire:
-Ah bene... Allora io ti precedo.
- Sì; ti raggiungo subito.
Qualche passo più avanti, Mouquet incontrò il padre che usciva anche lui dal Voreux; si diedero appena la buonasera; il figlio proseguì per la strada maestra, il padre svoltò lungo il canale.
Su questa via appartata già Zaccaria attirava Filomena riluttante. Anche stasera, la ragazza protestava di avere fretta, e i due bisticciavano con l'irritazione di due vecchi amanti. Non potersi vedere altro che per strada, non era un divertimento; specie d'inverno che in terra è bagnato e manca anche la comodità che d'estate offre il grano.
- Ma no, senti: non è per questo! - borbottò lui impaziente. - E' per una cosa che ho da dirti... - La allacciava alla vita, la traeva con sé dolcemente. Solo quando furono entrati nell'ombra del terrapieno:
- Hai denaro? - le chiese. - Per che farne? - Lui si confuse; parlò d'un debito di due franchi che, i suoi, guai se lo sapessero...
- Fa' a meno, via, di contarmi delle frottole! Come se non lo avessi visto Mouquet! Vai con lui da quelle donnacce del Vulcano.
Lui protestò, si batté il petto, diede la sua parola d'onore. Poi vedendo che neppure così la ragazza beveva, smentendosi di colpo: - Vieni anche tu, se ti ci diverti... Vedi bene che non ci vado per quello che credi... Sì, che me ne faccio io, di quelle là! Vieni, allora?
- E il piccino? Posso muovere un passo con un bambino che non fa che strillare? Lascia, lascia che vada: lo sento di qui, che grida.
Ma lui la trattenne, la supplicò. Fosse buona; era per non fare una figuraccia con l'amico; aveva promesso. Un uomo, del resto, non poteva tutte le sante sere andare a letto con le galline!
Vinta, lei s'era messa a frugare in un risvolto del giubbetto; con l'unghia ne scucì l'orlo e ora ne tirava fuori delle monete da mezzo franco. Nascondeva lì i soldi delle ore in più, nel timore che, trovandoli, la madre se li appropriasse.
- Ne ho cinque, vedi. Te ne do volentieri tre. Ma prima bisogna che tu mi giuri d'ottenere da tua madre il consenso al nostro matrimonio. Non ne posso più di fare questa vita; e di sentirmi, come non bastasse, rinfacciare da mia madre ogni boccone che mangio... Giura, giura, prima! - Glielo disse senza che nella voce vibrasse la minima passione, con quel suo tono stracco di ragazza malata, stanca solo di vivere. Lui giurò: l'aveva promesso, la promessa era sacra. Poi, ottenuto quel che voleva, la baciò, la oppresse di moine, la costrinse a ridere; e, poiché erano lì in quel cantuccio complice dei loro amori, sarebbe andato oltre; ma lei disse di no, di no; che non gliene verrebbe alcun piacere. Allora impaziente di raggiungere l'amico, lui scorciò per i campi, mentre lei prendeva, sola, la strada di casa.
Stefano, tanto per muoversi, li aveva seguiti a distanza, credendo si trattasse d'un semplice appuntamento.
«Come in tutti i centri industriali, anche qui, si vede, le ragazze cominciano presto», si disse. E ricordava le operaie che, a Lilla, aspettava all'uscita dalle fabbriche: branchi di ragazze che già a quattordici anni si davano, spinte dalla miseria.
Ma un nuovo incontro doveva stupirlo di più. Da una buca sotto il terrapieno, in un punto dove erano dei macigni ch'erano crollati dall'alto, usciva una voce irritata. S'arrestò. Era Gianlino che rimbrottava Lidia e Berto, seduti vicini a lui.
- Eh, che dici? Volete toccarne un altro paio di schiaffi? Che ci avete da protestare? Chi è che ha avuto l'idea, sentiamo?
Quel giorno infatti Gianlino aveva avuto un'idea. In un primo tempo, ottemperando all'ingiunzione della madre, aveva scorrazzato i prati lungo il canale in cerca di radicchiello; e, aiutato dagli altri due che s'era tirato dietro, in meno d'un'ora ne aveva fatto una buona provvista. A questo punto però s'era detto che tutta quella insalata era troppa per mangiarla a cena; perché non andare a Montsou a venderne nelle case una parte? si ricaverebbe qualche soldo. Là, a suonare alle porte aveva delegato la piccina; la sua esperienza gli diceva che una ragazza che offre della merce ha sempre maggiore probabilità che un uomo di vedersela comprare. Senonché la vendita era andata così bene che la provvista di radicchio c'era andata tutta. E ora, di ritorno dall'impresa, i tre stavano spartendo il ricavo: undici soldi.
- E' ingiusto! Per tre, devi dividere! - Berto protestò. - Se tu ti intaschi sette soldi, che ci rimane a noi?
- Come ingiusto? - ribatteva l'altro furente. - Intanto io ho raccolto di più che voialtri due insieme!
Credulo e pieno di ammirazione per il capo, di solito, per timidezza Berto si sottometteva, al punto di non reagire agli schiaffi, sebbene fosse maggiore d'età e più robusto di Gianlino. Ma questa volta il bottino era grosso e la parte che gliene toccava di diritto gli faceva gola.
- Di' tu, Lidia: non ci deruba a questo modo? Se non ci dà la nostra parte, è la volta che noi andiamo a dirlo a sua madre!
Gianlino, mettendogli il pugno sotto il naso:
-Ripeti un po', se hai il coraggio! ... Sono io piuttosto che andrò a dire ai vostri genitori che l'insalata che avevo raccolto per mia madre, voi ve la siete venduta! E poi, tu, testa di cavolo, come si fa a dividere undici per tre? Guarda un po' se ci riesci, tu che sei furbo... Eccovi qui i vostri due soldi a testa; e fate presto a farli sparire, se no me li intasco io.
Berto ingollò male, ma prese i due soldi. Tremante, Lidia non aveva aperto bocca. La bambina nutriva per Gianlino l'amore misto di paura che prova la meschinella per il marito che la batte. E con un umile sorriso già allungava la mano al soldone che Gianlino le porgeva, quando di colpo questi mutò parere:
-Sì, ma che fine fanno in mano tua? A nasconderli non sei buona e tua madre te li piglia. E' meglio che te li tenga io. Li chiederai a me, se ti occorreranno -. Dicendo, intascò anche quelli. E, per impedirle di protestare, ridendo la abbracciò, si rotolò in terra con lei.
Lidia era infatti la sua mogliettina; nei cantucci bui, i due si provavano insieme a mettere in pratica quell'amore di cui sentivano discorrere e al quale anche troppo spesso assistevano dal buco delle toppe, di dietro le staccionate degli orti. Se però dell'amore non ignoravano nulla, erano troppo giovani per farlo davvero: tentavano, si spossavano in inutili tentativi, gingillandosi in giochetti lascivi come cuccioli viziosi. Lui lo chiamava «fare a babbo e mamma»; e quando a giocare quel gioco la invitava, lei accorreva; e si lasciava prendere, tutta tremante del delizioso tremito dell'istinto; adombrandosi spesso alle sue esigenze, ma cedendo sempre a un'attesa ogni volta delusa. Da quegli spassi, ai quali i due s'abbandonavano senza prendersi minimamente soggezione della sua presenza, Berto era escluso; bastava anzi che lui si attentasse a toccare la bambina e volavano pugni; sicché, a trovarsi a disagio, in quelle occasioni, era lui. Allora per rifarsi della stizza e del rodimento, cercava tutti i modi per interrompere i loro abbracci, per spaventarli.
Così ora:
-Vi vedono! - sibilò fra i denti. - Siete fritti, c'è un uomo che vi guarda! - E questa volta non era un'invenzione: l'uomo era Stefano che riprendeva la sua passeggiata. I due colpevoli balzarono su e se la diedero a gambe.
Divertito di quel panico, il giovane, girato il terrapieno, proseguì lungo il canale. Certo, cominciavano un po' troppo presto, quei due discoli. Ma tant'è: che altro c'era da aspettarsi da bambini che ne vedono d'ogni sorta, ne sentono di tutti i colori? a meno di legarli... Ma pur dicendosi così, una certa tristezza in cuor suo Stefano la provava.
Ma non era finita: doveva vederne delle altre. Arrivando a Réquillart, cadde in mezzo a un brulicare di coppie che si aggiravano furtive intorno all'antico pozzo in rovina. Era infatti in quella località fuori mano e pochissimo frequentata che davano convegno all'amoroso le ragazze di Montsou; era lì che le operaie del pozzo, quelle almeno che avevano ritegno a esporsi in pubblico sulla conigliera di Maheu, venivano a fare il loro primo bambino. Lo stato delle palizzate dava a tutti libero accesso a quello ch'era stato il piazzaletto della miniera, e che ora non era più che un terreno incolto, ingombro dei resti dei due capannoni crollati e delle carcasse dei giganteschi cavalletti rimasti in piedi. Qua e là berline fuori uso finivano di arrugginirsi; cataste di legname, di marcire; una lussureggiante vegetazione riconquistava passo passo quell'angolo di terra, lo copriva d'un intrico d'erbacce, tra cui già si slanciava al cielo qualche albero, giovane ma vigoroso. Spesseggiandovi i nascondigli, le ragazze vi si trovavano a loro agio; ognuna vi aveva scovato il suo; mentre le cataste di legna, le berline, le travi offrivano ai maschi le maggiori comodità. Pur trovandovisi si può dire gomito a gomito, le coppie non si importunavano. E con quell'orgia all'aperto, in cui l'istinto scatenato fecondava grembi e grembi quasi ancora acerbi, si sarebbe detto che, intorno al pozzo esaurito, alla macchina per sempre ferma, la natura intendesse prendersi una specie di rivincita.
Pure, un abitante, il pozzo lo aveva; ed era il guardiano: il vecchio Mouque al quale la Compagnia aveva consentito di occupare due stanze sottostanti alla torretta, che il prevedibile crollo delle ultime travature minacciava: tanto che il vecchio aveva dovuto puntellare parte del soffitto.
Là dentro, Mouque - che di mestiere era stalliere al Voreux - si trovava d'incanto; una stanza la divideva col figlio e lasciava l'altra alla figlia.
Siccome le finestre erano prive di vetri, le aveva chiuse con tavole; se in casa ci si vedeva poco, in compenso si stava caldi. Un custode del resto che non aveva niente da custodire, perché della miniera solo il pozzo veniva ancora utilizzato come camino, per l'aerazione del vicino Voreux.
E così babbo Mouque finiva d'invecchiare in mezzo agli amori; dei quali, anzi, uno almeno lo riguardava piuttosto da presso. Sua figlia infatti - la Mouquette come la chiamavano - non aveva undici anni che già contentava chi voleva di lei; buttandosi sulla schiena in tutti i cantucci della miniera; e non da monelluccia acerba e spaurita come la Lidia, ma da pollastra bene in carne, appetita dai maschi barbuti.
Senza per questo dar motivo al genitore di rimostranze, visto che, per rispetto a lui, in casa non introduceva mai nessuno. A quegli spassi dell'età, del resto, a forza di viverci in mezzo, il vecchio non faceva più caso. Si recasse al lavoro o ne ritornasse, uscire dal suo buco per lui voleva dire correre a ogni passo il rischio di mettere il piede su una coppia; peggio poi, se doveva aggirarsi nelle vicinanze del pozzo in cerca di legna per accendere il fuoco o di erica per il coniglio; ché allora vedeva spuntare un po' dovunque di tra l'erba visi accesi di ragazze e in pari tempo doveva stare attento a non inciampare contro gambe allungate attraverso i sentieri. Incontri d'altronde che avevano finito alla lunga per non scomodare più nessuno: né lui, preoccupato ormai soltanto di non cadere, né le ragazze che egli lasciava finissero di trastullarsi, allontanandosi a piccoli passi discreti, da quel brav'uomo che era che non si faceva specie di fatti così naturali. Soltanto se quelle ormai lo conoscevano bene, non meno bene aveva finito per conoscerle lui; di sorprenderle in certe posizioni, Mouque non si stupiva più di quello che possa stupire l'ortolano il tripudiare delle gazze lascive sui peri del suo orto. Ah quella gioventù! come sapeva mettere il suo tempo a profitto! come si satollava! Anzi non di rado, a quella vista, un rimpianto lo pungeva di non poter pure lui far lo stesso; e, tentennando il mento, distraeva lo sguardo dai maschiacci irruenti che, senz'ombra di discrezione, ansimavano nel buio dei loro nascondigli. Qualche attimo di malumore glielo procurava una coppia: non s'erano scelti quei due, per scaldarsi a vicenda, proprio il muro sotto la sua camera? Non già che gli disturbassero i sonni; ma all'irruenza con cui s'amavano, il muro, alla lunga, minacciava di risentirsi.
Vecchio come lui, tutte le sere veniva a trovarlo Bonnemort, che nella sua passeggiata serotina immancabilmente passava di lì. Visita d'ambo le parti poco loquace; nella mezz'ora che trascorrevano insieme, era tanto se si scambiavano dieci parole. Ma, pure in silenzio, stare insieme li confortava; rimuginare il passato, riandare tutti e due alle comuni vicende, già di per sé costituiva un piacere che non aveva bisogno di esprimersi in parole. Si sedevano su una trave fianco a fianco; e bastava la parola che di tanto in tanto uno lasciava cadere perché ambedue chinassero su quella il capo e ciascuno per suo conto partisse per il paese dei ricordi. Era ringiovanire. Intorno gli amanti rimboccavano sottane di pulzelle, baci scoccavano, crepitavano qua e là sommesse risate, nell'ombra complice si diffondeva, con quello acuto delle erbe calpestate, un sentore di fornicazione. Non era stato pure lì, a ridosso della miniera, che quarantatré anni innanzi, babbo Mouque, anche lui, aveva assaggiato la sua prima donna? una spingi-carichi così mingherlina che, per sentirsela sotto, la coricava sul fondo d'un carrello. Bei tempi, quelli! Ed esalato questo rimpianto, tentennando il capo, i due vecchi si separavano; a volte, dimenticandosi persino di darsi la buonanotte.
Non quella sera, però: se Stefano arrivando che Bonnemort prendeva congedo, lo udì che diceva a Mouque:
-Buonanotte, mio caro!... - Poi arrestandosi:
-E senti: l'hai conosciuta tu la Strinata? - No, Mouque, la Strinata, non l'aveva conosciuta; perché rimasto un momento a pensare, scosse in risposta le spalle; quindi rientrando in casa:
- Buonanotte, mio caro, buonanotte!
A prendere il loro posto fu Stefano. Si lasciò andare sul trave, accasciato da una tristezza che d'ora in ora cresceva, senza ch'egli ne vedesse il motivo. E forse adesso, a fargliela sentire di più, era la vista del dorso curvo di Bonnemort che s'allontanava e che gli ricordava il suo arrivo quel mattino al Voreux, gli interminabili lagni del vecchio, reso loquace dal vento strapazzone che gli cardava i nervi. Che vita da bestie, trascinava quella gente! E tutte quelle ragazze che, condannate a una simile esistenza, pure erano ancora abbastanza stupide per lasciarsi andare, la sera, a mettere al mondo dei bambini, destinati alla loro volta a faticare e a penare! Anziché darsi con tanto trasporto, non avrebbero fatto meglio a scordarsi del sesso, a votarsi alla sterilità, a schivare il maschio come si fugge la peste? O era l'invidia a parlare in lui? il rimpianto di essere solo, mentre gli altri a quell'ora se ne andavano a due a due a sollazzarsi? O era il tempo, quel tepore umido e malsano dell'aria, che lo opprimeva! Cominciava a piovere; rade gocce, per ora; ne avvertiva la freschezza sulle mani che gli bruciavano. Sì, ci cascavano tutte: come mosche nel latte; l'istinto era più forte della ragione.
A confermarglielo se ve ne fosse stato bisogno, in quel momento una coppia, che arrivava da Montsou, lo rasentò da sfiorarlo - senza avvedersi di lui, immobile com'era nel buio. La ragazza, certo una novellina, accorgendosi solo ora verso dove il compagno la attirava, s'impuntava, cercava di svincolarsi, supplicava sottovoce di no, di no; ma l'altro, senza darle retta, seguitava a spingerla verso uno dei capannoni: quello dove restava in terra a marcire qualche rotolo di funi. I due erano Chaval e Caterina; ma Stefano non li aveva riconosciuti; e ora li seguiva con lo sguardo, distratto dai suoi pensieri dal desiderio di vedere come andava a finire; desiderio che adesso acuiva una curiosità sporcacciona. Perché prendere le difese della ragazza? Come tutte le sue pari, se diceva di no, voleva dire che ci stava.
Uscita di casa, Caterina aveva preso la via di Montsou. Dall'età di dieci anni, da quando cioè aveva cominciato a guadagnarsi il pane che mangiava, la fanciulla correva le strade sola, come in paese tutte le sue coetanee; e se, nonostante che i genitori le avessero lasciato così presto la briglia sul collo, s'era conservata vergine era, più che altro, al suo sviluppo tardivo che lo doveva.
Arrivata davanti ai Cantieri della Compagnia, attraversò ed entrò da una lavandaia dov'era certa di trovare la Mouquette; la casa era frequentata da comari che vi passavano delle ore intorno alla caffettiera. Ve la trovò, infatti; senonché il prestito, la Mouquette non era più in grado di farglielo, perché quei dieci soldi li aveva proprio allora spesi per offrire a sua volta. - E' bollente: prendine un bicchiere anche tu -. E siccome Caterina rifiutava:
-Vuoi che li chieda io per te a qualche amica? - Anche adesso la fanciulla rifiutò; ormai, meglio risparmiarli, quei soldi: il contrattempo le diceva che il nastro, se lo comprava, ormai le porterebbe male. E s'era rimessa coraggiosamente in strada per tornare al borgo, quando, giunta alle ultime case, si sentì apostrofare:
-Ehi, Caterina, dov'è che vai così di premura?
Era Chaval sulla soglia del caffè Piquette. Si fermò contrariata; non già che il giovinotto le dispiacesse; ma in quel momento si sentiva così di cattivo umore...
- Entra dunque a bere qualcosa! Un bicchierino di dolce, vuoi?
- Grazie di cuore; come accettassi. Ma è tardi e a casa m'aspettano -.
Lui l'aveva raggiunta in mezzo alla strada e insisteva supplichevole.
Era da un po' che Chaval meditava di attirarla in camera sua; abitava lì, sopra Piquette, al primo, una bella stanza con un letto a due piazze.
- Ti metto mica paura, che non vuoi mai farmi una visitina?
Lei, buona figliola, rideva: certo che gliela farebbe la visitina: la settimana però che le donne non figliano. Senonché così schermendosi, le venne fatto di accennare al nastro che non s'era potuta comprare.
Lui colse la palla al balzo:
-Ma te lo compro io, il nastro! Che diamine!
La fanciulla s'imporporò. La coscienza le diceva di rifiutare, ma quel nastro le faceva talmente gola! «Glielo rendo, quello che spende», si disse; ed accettò a quel patto.
- Come vuoi ! ... Me li renderai se non vieni a letto con me -. E si diresse verso la bottega di Maigrat; proprio dove la madre le aveva raccomandato di non andare.
- No, non lì. Mia madre m'ha detto di non comprarlo, da Maigrat.
- Che fa? Non hai mica bisogno di dirglielo! Non c'è che Maigrat, a Montsou, che tenga dei bei nastri.
A vederseli entrare in bottega, insieme come due fidanzati che acquistano il regalo di nozze, Maigrat diventò paonazzo e la scatola dei nastri la spinse sul banco con la stizza dell'uomo che si vede preso per il bavero. E all'uscita li seguì sulla soglia e si piantò lì a guardarli allontanarsi; dove lo scomodò la timida voce della moglie, venuta a chiedergli un chiarimento; allora si sfogò su di lei, la coprì d'improperi, sacramentò che un giorno avrebbe a fare con lui certa sporca gente che ai benefici rispondeva con calci, mentre avrebbe dovuto buttarsi ai suoi piedi e leccargli le scarpe.
Usciti, i due s'avviarono insieme. Chaval non l'aveva presa a braccetto; ma con piccoli urti che potevano passare per involontari, camminando la indirizzava, senza parere, dove voleva lui. Solo dopo un po', Caterina improvvisamente s'accorse che avevano lasciato la via maestra per inoltrarsi sulla stradetta di Réquillart. Ma lui non le diede il tempo di protestare; l'aveva allacciata alla vita e la ubriacava di paroline tenere. Com'era sciocca ad avere paura di lui! come Chaval poteva volere del male a una bambina graziosa come lei, morbida come la seta, dolce come un agnellino, un bomboncino proprio da sgranocchiare? A quel caldo fiato d'uomo che le sfiorava l'orecchio, la nuca, la fanciulla si sentiva percorrere da un brivido delizioso. La voce le mancava, non trovava che rispondere. Doveva volerle bene davvero, Chaval. Non era la prima volta che Caterina se lo diceva. Ancora una di quelle sere, a letto, spenta la candela, s'era giusto chiesta come si comporterebbe se Chaval si dichiarasse, se le parlasse come ora faceva; e, addormentatasi, aveva sognato che gli diceva di sì; e a quel sì aveva provato per tutto il corpo un languore voluttuoso.
Come mai allora all'idea di cedergli adesso provava ripugnanza e una specie di rimorso? Doveva capirlo un momento dopo. Chaval s'era chinato a baciarla sul collo; rabbrividendo al vellichìo dei suoi baffi sulla nuca, la fanciulla chiuse gli occhi; da quel buio emerse un viso; il viso di un altro uomo: del giovane appena visto quella mattina.
Solo ora riaprendo gli occhi, si guardò intorno: Chaval l'aveva condotta tra le rovine di Réquillart. Alla vista del capannone verso il quale la spingeva, ebbe un sobbalzo e indietreggiò:
-Ah no! ah lì no! Ti prego, lasciami! - supplicava. La paura del maschio la invase: quella specie di panico che in un istinto di difesa irrigidisce i muscoli, anche quando la ragazza desidera l'uomo e sta già per soccombergli. Sebbene non le restasse più nulla da imparare, la fanciulla sbigottiva davanti alla minaccia d'una violenza, d'uno strazio nella carne che, non conoscendo, s'esagerava.
- No! ti dico di no! Non voglio! Sono troppo giovane... ti giuro! è la verità! Più tardi, quando almeno sarò fatta.
Lui con voce sorda:
-Stupida! tanto meglio, allora! Che ti fa, se non rischi niente?
Non disse altro; l'afferrò brutalmente, la spinse nel capannone.
Caterina cadde riversa su un mucchio di funi; e, ripresa dalla sottomissione che aveva succhiato col latte, cessò di difendersi. Un balbettio sbigottito che presto si spense e s'udì soltanto l'ansimare dell'uomo.
Stefano che, fermo al suo posto, era rimasto in ascolto, preso da disagio si alzò. Ancora una volta la corta farsa era finita; una ragazza di più era caduta nella trappola. Ma nel malessere che provava c'era anche dell'invidia e della stizza. Si tolse di là, scavalcando ostacoli, incurante di richiamare l'attenzione: ormai quei due erano troppo occupati per lasciarsi distrarre dalla presenza di chicchessia. Credeva; invece non aveva percorso cinquanta metri sulla via del ritorno che, volgendosi a un suono di passi, li rivide. Di già! La coppia riprendeva, come lui, la strada di casa. Lui la teneva allacciata alla vita; riconoscente seguitava a bisbigliarle nel collo; lei invece ora pareva solo contrariata d'aver fatto tardi, impaziente di rincasare.
Chi sa perché, il giovane fu preso dal desiderio di vederli in faccia; ma una simile curiosità la giudicò così stupida che, per non cederle, affrettò invece il passo. Per poco; un minuto dopo già, quasi suo malgrado, rallentava; e al primo lampione non resistette: si celò nell'ombra.
Chaval, lo riconobbe alla prima; ma, era davvero Caterina quella ragazza lì vestita di celeste? era lei la monella del mattino, in brache da uomo e col capo imprigionato nella cuffia di tela? Sfido! Adesso capiva perché dianzi, quando gli era passata vicino, non l'aveva riconosciuta!
Il giovane restò lì, inchiodato dallo stupore. Eppure non c'era dubbio: quegli occhi erano i suoi: degli occhi un po' verdi, d'una trasparenza d'acqua sorgiva. Ah, la sgualdrina! Preso - perché poi? - da un impeto di sdegno, in cuor suo la ingiuriò, rimuginò propositi di vendetta. Del resto, si disse, sta malissimo vestita da donna!
Ora i due lo precedevano; e lui era costretto ad assistere alle effusioni alle quali si abbandonavano, ignari d'essere spiati. Chaval ogni po' la obbligava ad arrestarsi per baciarla nel collo; e già lei, dimentica della fretta, sotto quelle carezze s'attardava, gorgogliando di piacere.
Era stata veritiera dunque, Caterina, quando il mattino gli aveva giurato di non avere un amante! e lui, stupido, che, pur non credendole, invece di fare come l'altro, l'aveva rispettata! e vedersela poi ora soffiare sotto gli occhi! provando per colmo uno sporco piacere alla prospettiva di ciò che quei due andavano a fare! Vedeva rosso, a pensarci, stringeva i pugni; l'avrebbe strozzato, quell'altro!
Il supplizio si prolungava. Arrivati nei pressi del Voreux, i due rallentarono ancora più il passo; non contenti, si fermarono due volte lungo il canale; tre, all'ombra del terrapieno; diventati allegrissimi, si scambiavano ogni sorta di moine. E Stefano, se non voleva farsi vedere, doveva fermarsi a tempo con loro, fare le stesse soste. Si sforzava di soffocare dentro di sé ogni altro sentimento che non fosse il rancore puro e semplice d'essersi lasciato sfuggire l'occasione: questo smacco, si diceva, mi insegnerà ad avere meno scrupoli, a trattare le donne come vanno trattate!
Ma quando alfine la coppia si fu lasciata alle spalle il Voreux e arrivò il sospirato momento che Stefano avrebbe potuto mettere fine alla sua tortura rientrando al Risparmio, eccolo invece proseguire, scortare i due sino alle case operaie; e restare in piedi un buon quarto d'ora nell'ombra, ad assistere alle ultime effusioni. Solo quando vide Chaval partire, si staccò di là; ma per rimettersi a camminare e spingersi per un buon tratto sulla via di Marchiennes; gingillandosi per strada, sforzandosi di non pensare più a nulla; unicamente desideroso di ritardare il momento di chiudersi in camera, nello stato d'animo in cui era.
Erano le nove, quando riattraversò la borgata, deciso finalmente a cenare e a coricarsi: se no, alle quattro chi si alzava? Nero nel buio, il villaggio dormiva; non una luce trapelava dalle persiane chiuse; simili a caserme, le case dormivano d'un sonno pesante. Solo un gatto gli attraversò la strada, per sparire d'un balzo negli orti. Come a ogni fine di giornata, i minatori, ingozzata la minestra, erano a letto, fulminati dal chilo e dalla stanchezza.
Arrivato al Risparmio, Stefano occhieggiò attraverso i vetri nella saletta illuminata: di avventori, un meccanico e due operai del turno di giorno. Prima di spingere la porta, il giovane indugiò ancora un momento ad abbracciare con lo sguardo il paesaggio lì sotto, immerso nella notte.
Davanti a lui, trafitto di nudi lumi, il Voreux conservava il suo aspetto di orco famelico, in agguato nella sua buca. I tre bracieri del terrapieno ardevano, come sospesi a mezz'aria, simili a lune di sangue; e nel loro rosso riverbero veniva ogni tanto a stagliarsi, smisurata, l'ombra nera di Bonnemort e del suo cavallo. Al di là, nella piatta pianura, la notte aveva inghiottito tutto: Montsou, Marchiennes, il bosco di Vandame, le distese di barbabietole e di grano. Interrompevano quel buio, simili a fari lontani, solo i fuochi azzurri degli altiforni e quelli rossi dei gasogeni. Sempre più la notte s'infittiva; e la pioggia che ora cadeva lenta, continua, la riempiva del suo monotono gocciolio, soverchiato solo dall'affannoso respiro intermittente della pompa di eduzione che giorno e notte anfanava
PARTE TERZA
Capitolo primo
L'indomani, Stefano riprese il lavoro nella miniera. A quella esistenza che in principio gli era parsa così dura, s'andava abituando. Sopravvenne solo, a interrompere la monotonia della prima quindicina, una febbre che lo tenne due giorni a letto, con le membra fracassate. Nel semi delirio, si vedeva dietro a spingere la berlina per un camminamento così stretto che il suo corpo non vi passava.
Effetto del tirocinio, conseguenze d'uno strapazzo dal quale presto si rimise.
E così i giorni si susseguivano ai giorni; settimane, mesi passavano. Anche lui ora saltava da letto alle tre, sorbiva il caffè, si muniva della doppia fettona di pane imburrato che la Rasseneur gli preparava.
Immancabilmente, nel recarsi al pozzo, incrociava il vecchio Bonnemort che ne tornava; uscendone, Bouteloup che vi si recava per il suo turno. Come gli altri, aveva la cuffia da minatore, la tuta di tela; come gli altri, arrivando si scaldava la schiena alla stufa della baracca. Poi, a piedi nudi, tra le correnti d'aria della ricevitoria, aspettava d'imbarcarsi. Ma il motore luccicante di ottoni lassù nell'ombra, non lo intimidiva più, né i cavi che scorrevano col silenzioso volo di uccelli notturni né, tra il fragore dei segnali, delle berline che scrollavano il pavimento di ghisa e il tuonare degli ordini, l'incessante affiorare e inabissarsi delle gabbie. La lampada faceva poco chiaro; e dentro di sé Stefano imprecava contro il lampista, quando dal suo torpore lo tirava quel mattacchione di Mouquet, che, all'apparire della gabbia, vi spingeva tutti dentro, profittandone per schioccare manate sui deretani delle ragazze. Ed ora la gabbia si sganciava e precipitava giù come un ciottolo, senza che lui volgesse neanche il capo a dire addio alla luce. Il timore di precipitare non gli si affacciava nemmeno; più si scendeva tra lo scrosciare della pioggia, più si sentiva a casa sua. E al piano di carico dove Pierron li accoglieva con la sua aria sorniona, si ripeteva ogni volta lo scalpiccio di mandria delle squadre che, strascicando i piedi, s'avviavano ciascuna al suo cantiere. Quelle gallerie, ormai il giovane le conosceva meglio delle strade di Montsou; sapeva da che parte bisognava piegare, i punti in cui occorreva curvarsi, saltare una pozzanghera. E, quel che più importa, adesso sapeva economizzare le forze; nel lavoro aveva acquistato destrezza, con una rapidità che stupiva i compagni. Non era nel pozzo da tre settimane e già veniva citato tra i manovali più abili; nessun altro spingeva la berlina con più fermezza e energia di lui né al piano inclinato l'agganciava in meno tempo di lui. La sua corporatura gli consentiva di insinuarsi dovunque, e le braccia che aveva poco muscolose, sotto quella pelle bianca e delicata di donna dovevano essere di ferro, tanto si mostravano resistenti alla fatica. Non si lagnava mai, certo per amor proprio, neppure quando la stanchezza gli mozzava il fiato. Un appunto solo gli facevano i compagni: quello di non stare allo scherzo. Al primo motteggio, si inalberava. A parte ciò i camerati lo consideravano uno di loro, un vero minatore; l'abitudine infatti lo riduceva ogni giorno più una specie di macchina. A quei due chilometri di strada sotterranea aveva preso talmente la mano che avrebbe potuto percorrerli senza lampada, con le mani in saccoccia.
Gli incontri che faceva erano sempre gli stessi: un caposquadra che alzava la lampada in faccia agli arrivati; babbo Mouque che rimorchiava un cavallo; Battaglia che, guidato da Berto per la cavezza, starnutiva e scoteva il capo, Gianlino che correva dietro il treno chiudendo via via le porte d'aerazione; la prosperosa Mouquette, la mingherlina Lidia curve dietro la loro berlina.
Anche all'umidità soffocante del cantiere d'abbattimento, il giovane s'era a poco a poco assuefatto. Salire il pozzetto gli sembrava adesso un gioco da ragazzi; quasi si fosse assottigliato e potesse passare per fessure dove una volta non avrebbe arrischiato la mano. Respirava senza risentirsene il pulviscolo di carbone; al buio, ci vedeva come di giorno; a forza di sentirsi sulla pelle da mane a sera gli abiti zuppi, il sudore non lo importunava più.
Maheu specialmente, che apprezzava il lavoro ben fatto, gli si andava affezionando ogni giorno di più. Né solo per quello; al pari degli altri, intuiva, riconosceva al giovane un'istruzione superiore alla sua; lo vedeva leggere, scrivere, schizzare progetti sulla carta; lo udiva discorrere di cose di cui egli ignorava sin l'esistenza. Il che non lo stupiva; sapeva bene, Maheu, che un meccanico ha la mente più aperta d'un carboniere; ma questo gli faceva solo apprezzare maggiormente il tranquillo coraggio con cui Stefano s'era adattato, per non morire di fame, a lavorare nel pozzo. Fra gli avventizi, questo giovane era il primo ch'egli vedeva acclimatarsi in così poco tempo. Sicché, quando il lavoro di scavo urgeva, affidava a lui il rivestimento, sicuro di ottenere un lavoro eseguito a regola d'arte e di lunga durata. Per quel maledetto rivestimento, i capi infatti gli erano sempre addosso; c'era ogni momento da aspettarsi di veder comparire Négrel e Danseart, di sentirli gridare che il rivestimento così non andava, che bisognava rifarlo daccapo. Ora, i tratti armati da Stefano - Maheu aveva notato - avevano la virtù di accontentare l'ingegnere, sebbene né lui né il suo tirapiedi lo dessero a vedere, anzi seguitassero a sbraitare che un giorno o l'altro la Compagnia adotterebbe al riguardo un provvedimento radicale. Minaccia che alimentava nelle maestranze un sordo malcontento e, al cui accenno, anche Maheu, per solito così calmo, stringeva i pugni.
Una rivalità s'era delineata in principio tra Zaccaria e Stefano; i due una sera s'erano minacciati a vicenda di schiaffi. Ma l'offerta d'una birra era bastata ad ammansire il primo; che, buon figliolo in fondo e unicamente preoccupato del proprio piacere, aveva presto finito anche lui per inchinarsi alla superiorità dell'altro. Levaque pure, ormai, faceva buon viso al nuovo venuto: uno, diceva, che aveva le sue idee ma col quale trovava piacere a discutere di politica. Una sorda ostilità Stefano avvertiva soltanto in Chaval; non che i due si facessero il viso dell'armi, che anzi si trattavano da amici; ma, quando scherzavano insieme, gli sguardi che si lanciavano non dicevano nulla di buono. Tra i due uomini, Caterina aveva ripreso il suo contegno di ragazza stanca e rassegnata, continuamente curva a spingere la sua berlina; sempre gentile col compagno di traino, che si mostrava a sua volta servizievole; ma sottomessa all'amante, di cui subiva apertamente le carezze. Era quella ormai una relazione accettata, un legame riconosciuto, sul quale anche la famiglia di lei chiudeva gli occhi; al punto che Chaval si recava ogni sera con la ragazza dietro il terrapieno; quindi l'accompagnava sin sulla soglia di casa e lì la lasciava dopo averla abbracciata sotto gli occhi dei genitori e dell'intera borgata.
Stefano che s'illudeva d'essersi messo il cuore in pace, la punzecchiava spesso a proposito di quelle passeggiate; e, celiando, non le risparmiava qualcuna di quelle espressioni crude che così sovente nella miniera ricorrevano tra giovinotti e ragazze; e lei rispondeva sullo stesso tono, arrivando a spiattellare per bravata quel che l'amante le aveva fatto; non senza però riuscire a dissimulare un certo turbamento quando i loro occhi si incontravano.
Tutti e due allora stornavano il capo; ed a volte restavano anche un'ora senza parlarsi, come risentiti uno contro l'altro, per qualcosa che non si dicevano e che ciascuno aveva come seppellito nel cuore.
La primavera era arrivata. Uscendo dal pozzo una sera d'aprile, Stefano ne aveva ricevuto in volto il tiepido alito: un buon odore di terra giovane, di verzura tenera, d'aria libera e pura; e da allora, ogni giorno che passava, all'uscire dalle sue dieci ore di vita sotterra, da quell'inverno senza mutamento di cui nessuna estate riusciva a diradare il buio o a mitigare l'umidità, quel sentore l'aveva avvertito più acuto, quell'alito più tiepido. Coll'allungarsi delle giornate, in maggio arrivò al pozzo che il sole sorgeva aureolando d'un pulviscolo d'oro il Voreux e tingendo di rosa il pennacchio di vapore che lanciava al cielo imporporato la pompa di eduzione. Si era finito di battere i denti; una tiepida brezza spirava dai margini della pianura mentre, perdute in cielo, le allodole trillavano. Alle tre, poi, uscendo dal pozzo, lo accoglieva il caldo abbraccio del sole che incendiava l'orizzonte e faceva rosseggiare i cumoli di mattoni anche sotto lo strato di carbone che li rivestiva.
Col giugno, il verde glauco del grano già adulto spiccò su quello dei campi di barbabietole. Era un mare di verzura mobile a ogni soffio di brezza, che si stendeva a vista d'occhio; e d'una crescita così rapida che ogni sera il giovane stupiva di vederlo tanto più rigoglioso che al mattino. I pioppi del canale si impennacchiavano di foglie; l'erba invadeva il terrapieno, fiori costellavano i prati: tutta una vita che germogliava e prorompeva alla superficie, mentre seppellito sotterra lui accudiva al suo penoso lavoro.
Adesso non era più a ridosso del terrapieno, che le sue passeggiate serotine importunavano le coppie. Avvertito dalle scie che del loro passaggio serbavano le messi già biondeggianti, egli indovinava il nido dove si nascondevano all'ondeggiare qua e là delle spighe, alle oscillazioni che la loro turbolenza comunicava alle fiorite di rosolacci. Nel grano, per nostalgia della loro prima stanza nuziale, erano tornati Zaccaria e Filomena. L'Abbruciata, sempre in cerca di Lidia, la scovava tutti i momenti in compagnia di Gianlino: annidati così profondamente nel folto che, perché spiccassero il volo, doveva pocomeno mettere loro i piedi sopra. La Mouquette, poi, non aveva preferenze: ogni posto le era buono per buttarsi sulla schiena; era difficile attraversare un campo senza vedere la sua testa sparire dentro l'erba ed emergerne solo i ginocchi, eloquenti di piacere. Ma se alle altre coppie Stefano non trovava nulla a ridire, arricciava invece il naso le sere che sorprendeva a fare com'esse Caterina e Chaval. Due volte, al suo appressarsi, aveva scorto i due appiattirsi a terra e restare lì senza che più uno stelo si muovesse intorno a loro; un'altra volta, nel percorrere un sentiero gli erano apparsi tra la messe, per sparire subito, gli occhi verdi della fanciulla. Allora trovò che l'immensa pianura era troppo angusta; e, smesse le passeggiate, preferì passare la serata al Risparmio.
- Una birra, signora Rasseneur... No, stasera non ho voglia d'andare in giro; ho le gambe indolenzite -. E volgendosi verso il cliente che non mancava mai al tavolo di fondo e che fumava, il capo appoggiato alla parete:
-Souvarine, vuoi favorire? - Grazie. Non prendo nulla.
Di Souvarine, Stefano aveva fatto la conoscenza al Risparmio; era il suo compagno di pensione. Macchinista al Voreux, occupava la camera attigua alla sua. Sui trent'anni, esile, biondo, aveva un viso delicato, incorniciato dai capelli che portava lunghi e dalla rada barba. La dentatura bianca e appuntita, la bocca e il naso sottili, il colorito roseo della carnagione gli davano l'aria d'una ragazza: un'aria di mansuetudine caparbia che lo sguardo a tratti incrudeliva col suo freddo lampo d'acciaio. Nella cameretta di operaio povero, non aveva di suo che una cassa di libri e di cartacce. Russo, di sé non parlava mai, incurante delle leggende che correvano sul suo conto. I minatori, per natura quanto mai diffidenti verso gli stranieri, lo arguivano d'un'altra classe sociale dalle mani: delle mani delicate di aristocratico; e la sua presenza tra loro l'avevano in principio attribuita alla necessità di sottrarsi all'espiazione di qualche trascorso, d'un omicidio magari. Ma poi lui s'era mostrato così fraterno verso di loro, così scevro li fierezza; l'avevano visto distribuire con tanta generosità gli spiccioli che aveva in tasca alla ragazzaglia del borgo, che ormai non ne diffidavano più, rassicurati dalla parola «rifugiato politico» con cui lo udivano designare: espressione vaga in cui vedevano l'attenuante fosse pure d'un delitto e come un titolo di fratellanza nel dolore.
Nelle prime settimane, Stefano lo aveva trovato di una riservatezza scoraggiante; sicché la sua storia l'aveva appresa solo dopo.
Souvarine era l'ultimo discendente d'una famiglia nobile del governatorato di Toula. A Pietroburgo, dove studiava medicina, come la maggior parte della gioventù d'allora, fervente socialista, s'era indotto a imparare un mestiere manuale, quello del meccanico, per aver modo di mescolarsi al popolo e di aiutarlo con l'amore d'un fratello.
Ed era lavorando da meccanico che campava, dacché era espatriato in seguito ad un attentato, andato fallito, contro lo zar. Per prepararlo, era vissuto un mese nella cantina d'un fruttivendolo, occupato a scavare una mina sotto la strada ferrata e a caricare bombe, col continuo rischio di saltare lui e la casa. Rinnegato dalla famiglia, senza soldi, rifugiato in Francia come operaio nelle fabbriche che sospettavano nello straniero una spia, già rischiava di morire di fame, quando finalmente, in un momento di bisogno, la Compagnia di Montsou lo aveva assunto. Da un anno vi lavorava, mostrandosi buon operaio, sobrio, di poche parole; e accudendo al suo servizio una settimana di giorno e una di notte alternativamente, con una puntualità per la quale veniva citato ad esempio.
Al rifiuto:
-Sicché sete tu non ne hai mai? - osservò Stefano celiando. Quello, con voce assente:
-Sete? Quando mangio.
Anche a proposito di donne, Stefano amava punzecchiarlo; insinuando, mettiamo, che lo aveva visto in compagnia dalle parti delle "Calze-di- seta". Era tanto se quello spallucciava. Con una ragazza? per che fare? la donna per lui era un compagno. No, niente donne, in quel senso: perché, per amore di una donna, correre il rischio di invigliacchirsi? No: né donna né amico. Non voleva legami. Come non teneva alla sua vita, non voleva farsi schiavo della vita degli altri. Così ogni sera verso le nove, quando l'osteria si vuotava, Stefano s'intratteneva un po' a discorrere con Souvarine; lui facendo durare più a lungo possibile l'unica birra, l'altro fumando sigarette su sigarette, da averne le dita ingiallite. Lo sguardo trasognato del russo seguiva le spire del fumo come assorto in un miraggio; mentre sotto il tavolo la sua mano cercava, irrequieta, qualcosa da brancicare, un oggetto sul quale indugiarsi; e finiva per trovarlo nella grossa coniglia sempre pregna che girava in libertà per la casa. Ormai Polonia - così lui l'aveva battezzata - veniva da sé a cercare le sue carezze: gli annusava i pantaloni, si rizzava, grattandolo con le zampe richiamava la sua attenzione; finché lui non la pigliava su come si piglia un bambino. Aggomitolata contro l'amico, le orecchie in riposo, la bestia chiudeva gli occhi; e lui, senza mai stancarsi, in un'involontaria carezza, le passava la mano sul grigio pelame serico; e, al contatto di quella morbidezza tiepida e viva, la fronte gli si spianava.
Una sera che, partito l'ultimo avventore, non rimaneva coi due che l'oste:
-Sapete? - Stefano uscì a dire, - ho ricevuto una lettera di Pluchart.
- Ah! - s'interessò Rasseneur, in piedi presso il tavolo. - A che punto è l'Internazionale?
Da due mesi, il giovane aveva iniziato e intratteneva un'assidua corrispondenza col meccanico di Lilla, al quale aveva avuto l'idea di comunicare la notizia della sua assunzione al Voreux e che ora lo andava indettando in vista della propaganda che Stefano poteva fare tra i minatori a pro dell'Internazionale.
- A gonfie vele, va! Piovono adesioni da tutte le parti, a quel che scrive Pluchart!
Rasseneur a Souvarine:
- E tu, che ne pensi tu, di questa associazione?
L'interpellato che stava grattando dolcemente il capo della coniglia, liberò una lunga boccata di fumo; poi con la solita voce assente:
- Sciocchezze! - mormorò. - Sempre sciocchezze!
Nel suo ingenuo zelo di neofita, nel suo astio di ribelle contro il capitalismo, Stefano insorse. Come «sciocchezze»? si trattava della Internazionale dei lavoratori, della famosa Associazione di cui da poco erano state gettate le basi. Non era un tentativo imponente, una campagna che avrebbe una buona volta portato al trionfo della Giustizia? Abolite le frontiere; le classi lavoratrici di tutto il mondo che insorgevano, che s'univano per assicurare all'operaio il pane che si guadagna. Come si poteva chiamare una sciocchezza un'organizzazione come quella? semplice e grandiosa al tempo stesso? Alla base, la sezione, che rappresenta il comune; poi la federazione che raggruppa le sezioni d'una stessa provincia; quindi la nazione; e sopra la nazione, finalmente, l'Umanità, impersonata in un Consiglio generale dove ogni nazione è rappresentata da un segretario corrispondente. Prima di sei mesi, l'Internazionale conquisterebbe il mondo e detterebbe legge ai padroni riottosi.
- Tutte stupidità! - rincarò Souvarine. - Il vostro Carlo Marx è così arretrato che confida ancora nel libero svolgersi delle forze naturali perché il miracolo si compia. Niente politica, niente cospirazione, è vero? tutto alla luce del sole e unicamente per ottenere un rialzo dei salari. Finitela dunque una buona volta di rompermi le scatole con la vostra evoluzione! Ci vuol altro! Appiccate il fuoco ai quattro canti delle città, falciate i popoli, fate repulisti di tutto; e quando di questa società putrefatta non resterà più l'ombra, allora, ma solo allora, ci sarà la speranza che ne rispunti una migliore!
Stefano sbottò in una risata. I discorsi del russo gli riuscivano spesso sibillini; e quella teoria della distruzione integrale gli aveva l'aria di una posa. Rasseneur, più ancorato al sodo di lui e d'un buonsenso d'uomo sistemato, non rilevò neppure la sfuriata. Desideroso solo di informarsi: - Sicché allora, - chiese a Stefano, - tenterai di creare una sezione a Montsou?
Era quello infatti che Pluchart, nella sua qualità di segretario per la Federazione del Nord, lo incitava a fare. Nelle sue lettere egli insisteva soprattutto sui vantaggi che nell'eventualità d'uno sciopero, verrebbero ai minatori dall'appartenere all'Internazionale.
Ora, che lo sciopero fosse in vista, era la convinzione di Stefano; la faccenda dei rivestimenti non poteva che finir male; un giro di vite ancora da parte della Compagnia e le maestranze insorgerebbero.
Col tono di chi pesa il pro e il contro:
- L'ostacolo, - osservò Rasseneur, - sta nelle quote da versare. Cinquanta centesimi l'anno per il fondo sociale, due franchi per sezione, pare nulla; ma scommetto che molti si tireranno indietro.
- Tanto più, - Stefano aggiunse, - che occorrerebbe anzitutto fondare una cassa di previdenza, da diventare all'occasione fondo di resistenza. Non importa, c'è tempo a pensarci. Io sono pronto, se gli altri lo sono.
Seguì un silenzio. Sul banco, il lume a petrolio filava. Per la porta spalancata arrivò dal Voreux, distintissimo, il rimestare d'un badile nel carbone: un fuochista che alimentava la sua caldaia. Fu la Rasseneur che era entrata e, più alta del vero nell'immancabile vestito a lutto, ascoltava scura in viso, a rompere il silenzio:
-I prezzi sono alle stelle! - esclamando. - Indovinate cos'ho pagato stamattina una serqua di uova: ventidue soldi! A questo modo non può durare. Qualcosa bisogna che scoppi.
Su questo tutti furono d'accordo. E i tre uomini, uno alla volta, si sfogarono. L'operaio non poteva più far fronte; la Rivoluzione non aveva fatto che aggravare la situazione; dall'Ottantanove era la borghesia che s'impinguava, con un'ingordigia che al lavoratore non lasciava neanche i piatti da leccare. Della ricchezza e dell'agio che negli ultimi cent'anni s'erano straordinariamente accresciuti, chi poteva dire che la classe operaia avesse anche in minima parte beneficiato? Li avevano dichiarati liberi, i lavoratori; e con ciò s'erano lavati le mani di loro. Liberi di che? di crepare di fame; oh per questo, quanto volevano! Non era il diritto di votare per dei bei tipi che, una volta eletti, pensavano alla propria pancia e della povera gente si preoccupavano quanto della terza gamba, che faceva entrare pane nella madia! No, ad un modo o ad un altro, così non poteva durare; fosse pacificamente, con leggi, con un'intesa amichevole, o fosse con la violenza, appiccando fuoco a tutto e massacrandosi a vicenda, bisognava uscirne. Se non i vecchi, i giovani una soluzione la vedrebbero certo. Il secolo non finirebbe senza che un'altra rivoluzione scoppiasse; quella degli operai, questa volta: un cataclisma che ripulirebbe la società da capo a fondo, e la ricostruirebbe su basi più giuste.
- Ha da scoppiare il bubbone! - dichiarò recisa la Rasseneur. - Sì, sì, - fecero coro i tre uomini, - ha da scoppiare!
Ora Souvarine lisciava le orecchie a Polonia che dal piacere arricciava le nari. A fior di labbro, lo sguardo perso, come parlando a se stesso:
-Aumentare il salario, che forse si può? Una legge di ferro lo fissa allo stretto necessario; all'indispensabile, perché l'operaio possa mangiare pane e sputo e procreare dei figli. Se il salario scende sotto quel livello, l'operaio crepa; e la richiesta di nuovi operai lo fa risalire. Se supera quel livello, cresce l'offerta di manodopera e lo fa calare. E' l'altalena delle pance vuote, la condanna a vita alla galera della fame.
Le volte che, come ora, Souvarine si lasciava andare a toccare problemi ch'essi ignoravano, Rasseneur e Stefano lo ascoltavano a disagio: turbati da quelle sconsolanti affermazioni ch'essi non sapevano come controbattere.
Lui, senza uscire dalla sua flemma, fissandoli:
-Capitelo una volta!
o si fa piazza pulita di tutto o saremo sempre daccapo. Sì, l'anarchia ci vuole: un repulisti generale, la terra lavata dal sangue, purificata dal fuoco! E' la premessa necessaria: dopo, si vedrà.
- Dice bene, il signore! - approvò la Rasseneur, che anche nelle sue intemperanze di rivoluzionaria si manteneva sempre compitissima.
Stefano che la constatazione della propria ignoranza avviliva, volle troncare. Alzandosi:
-Andiamocene a letto. Tutto questo non impedirà che alle tre io mi debba alzare.
Già Souvarine aveva soffiato via dalle labbra il mozzicone e prendeva delicatamente sotto la pancia la grossa coniglia per deporla a terra. L'oste chiudeva. Si separarono in silenzio, rimuginando in mente ciascuno per suo conto i grossi problemi che li preoccupavano.
E discorsi del genere si rinnovavano ogni sera intorno all'unico boccale di birra che Stefano impiegava un'ora a vuotare. In quelle discussioni, le idee che, confuse ancora, sonnecchiavano nel giovane si andavano sviluppando e chiarendo. Assillato dal desiderio di istruirsi, a lungo egli aveva esitato a chiedere al vicino di camera libri in prestito; senonché disgraziatamente Souvarine non possedeva quasi altro che trattati in russo o in tedesco. Tra essi, il giovane aveva finito di scovare un libro in francese sulle Società Cooperative. - Ancora delle sciocchezze! - aveva commentato, vedendoglielo prendere, Souvarine; e puntualmente leggeva «la Battaglia», un foglio anarchico che si pubblicava a Ginevra e che il russo riceveva. Ma sebbene i due si vedessero ogni giorno, Souvarine non usciva dal suo riserbo; si sarebbe detto un uomo che vivesse alla giornata, senza interessi né sentimenti e tanto meno beni che lo attaccassero alla vita.
Soltanto ai primi di luglio, Stefano vide la sua situazione migliorarsi. Un fatto nuovo era venuto a interrompere la monotonia del lavoro nel pozzo: nei cantieri del giacimento Guglielmo, s'era verificato un perturbamento nel filone, sicuro indizio d'una interruzione della vena; falla che infatti poco dopo si palesò e che con tutta la loro conoscenza del terreno, gli ingegneri non avevano previsto. Al Voreux non si discorreva più d'altro. Il minerale era sparito e non lo si sarebbe rintracciato che più in basso, al di là della falla. Il punto in cui riaffiorerebbe, i vecchi minatori già lo fiutavano come segugi la lepre. Ma per intanto occorreva impiegare altrove gli uomini rimasti disoccupati; e dei manifesti annunciarono che la Compagnia metteva all'asta dei nuovi lotti. Fu così che un giorno, all'uscita, Maheu si accompagnò con Stefano e gli offrì di assumerlo in qualità di staccatore al posto di Levaque, passato a un altro cantiere. Già per questa assunzione egli aveva il benestare del sorvegliante capo e dell'ingegnere, che si mostravano ambedue molto contenti del giovane. Sicché Stefano, lusingato dalla stima che con quell'offerta Maheu gli testimoniava, non ebbe che da accettare l'insperato avanzamento. La sera stessa i due tornarono insieme al pozzo a prendere conoscenza del bando d'asta. I cantieri messi all'incanto appartenevano alla vena Filonnière e si trovavano nella galleria settentrionale del Voreux. Alla lettura che Stefano gli faceva, Maheu scoteva il capo: le condizioni d'appalto non si potevano dire davvero vantaggiose. Come infatti Maheu fece notare recandosi all'indomani sul posto, il cantiere distava dal piano di carico, il terreno era di natura franosa, il minerale duro, e tenue lo spessore della vena. Ma che fare? se si voleva rimediare il pane, conveniva adattarsi. Così, la domenica seguente, i due intervennero all'asta che si teneva nella baracca. In assenza dell'ingegnere divisionale la presiedeva l'ingegnere del pozzo, assistito dal capo-sorvegliante.
Davanti al piccolo palco improvvisato in un angolo della baracca si pigiavano già una folla di cinque o seicento concorrenti; e le aggiudicazioni si susseguivano con un tale ritmo che sul confuso vocìo non si udiva che lanciare cifre, subito sopraffatte da altre. Sebbene i lotti all'incanto fossero ben quaranta, un momento Maheu temette di non farcela a ottenerne uno per sé. Tutti i concorrenti calavano, preoccupati dalle voci che correvano di crisi, colti dal panico di restare senza lavoro. Impassibile davanti a quell'accanimento, Négrel lasciava che le offerte scendessero alle cifre più basse; mentre Danseart, nel suo zelo, mentiva sulla vantaggiosità dei contratti.
Maheu dovette entrare in lizza con un collega che anche lui s'intestava a ottenere quel lotto; i due finirono per disputarselo, scemando a gara il compenso d'un centesimo per berlina. E se Maheu riuscì vittorioso fu abbassando a tal punto le sue pretese che, dietro di lui, Richomme si stizziva, lo urtava del gomito, borbottando tra i denti che a un simile prezzo era impossibile se ne tirasse.
All'uscire dalla baracca, Stefano bestemmiava. Alla vista di Chaval che lemme lemme se ne tornava da spasso con Caterina - certo i due erano stati a sollazzarsi nel grano mentre Maheu si sacrificava per assicurare il pane alla famiglia - la sua ira esplose:
-Sacradìo, è prendere per la gola, questo! Sicché oggi si è arrivati a costringere l'operaio a far la pelle all'operaio!
Messo al corrente, Chaval andò in escandescenze: ah mai lui avrebbe accettato a quel prezzo! A sua volta, Zaccaria, venuto per curiosare, dichiarò ch'era un trattamento che gridava vendetta. Ma Stefano d'un gesto iroso troncò le recriminazioni: - Finirà! Saremo noi, un giorno, i padroni!
A questa, Maheu che non aveva più aperto bocca, parve uscire dal suo intontimento: - I padroni, noi! - fece eco. - Ah porca miseria! Sarebbe tempo!
Capitolo secondo
Era l'ultima domenica di luglio, il giorno della fiera di Montsou. Dal sabato sera le brave massaie del borgo operaio avevano lavato a sguazzo la saletta: interi secchi d'acqua lanciati sull'impiantito e contro le pareti. Ancora il pavimento non s'era asciugato, nonostante la sabbia di cui l'avevano cosparso: una spesaccia per borse così magre. La giornata si annunciava caldissima, sotto la cappa di piombo d'uno di quei cieli temporaleschi che opprimono in estate le terre del Nord, spoglie e piatte a vista d'occhio.
Alla domenica, in casa Maheu, ci si alzava da letto con comodo Se il padre sveglio per abitudine dalle cinque, nonostante il desiderio di restare un po di più coricato, finiva per vestirsi, i ragazzi invece dormivano sin tardi. Quella domenica, uscito a fumare nell'orticello, Maheu, com'ebbe finito la pipata, tornò dentro e consumò da solo la solita fetta di pane imburrato. Quindi occupò la mattinata in piccoli lavoretti; riparò la tinozza che perdeva, incollò sotto l'orologio a cucù un ritratto del principe ereditario trovato tra le mani dei due piccini. Intanto, ad uno ad uno, comparivano in sala gli altri.
Bonnemort si portò una sedia fuori e restò lì a prendere il sole, mentre, aiutata da Alzira, la Maheu si dava a sfaccendare in cucina.
Scese quindi Caterina, spingendosi avanti Leonora ed Enrico che aveva aiutato a vestirsi. E suonavano le undici, già l'odore dello stufato di coniglio si spandeva per la casa, quando comparvero ultimi, sbadigliando e con gli occhi ancora gonfi di sonno, Zaccaria e Gianlino.
Intorno, la festa metteva la borgata in subbuglio. In tutte le case ci si affrettava ad allestire la colazione, per poi scendere in comitiva a Montsou. Bande di monelli scorrazzavano per strada, uomini in maniche di camicia strascicavano le suola, dondolandosi sulle anche, con la pigra andatura dei giorni di vacanza. Finestre e porte, spalancate sulla bella giornata lasciavano scorgere gli interni, che le famiglie, una volta tanto al completo, animavano di gesti e di voci. E l'odorino appetitoso del coniglio al fuoco riempiva da un capo all'altro la contrada, soverchiando per una volta quello, inveterato, di soffritto di cui erano impregnate sin le facciate.
A mezzodì in punto, i Maheu si misero a tavola. In confronto al baccano intorno, al cicaleccio delle comari da soglia a soglia, al fuoco di fila di domande e risposte - scambi d'oggetti in prestito, mocciosi scacciati o tirati in casa a scapaccioni - il pasto dei Maheu fu silenzioso. Gli è anche perché da tre settimane i Maheu le battevano fredde ai Levaque, per via del matrimonio tra Zaccaria e Filomena ancora rimandato. Se gli uomini si trattavano, le donne facevano addirittura finta di non conoscersi. Dissapore che li aveva avvicinati di più alla Pierron; senonché quella domenica la Pierron, piantato il consorte e la figlia, era partita all'alba per andare a trovare una cugina a Marchiennes; una cugina che faceva a tavola le spese di infiniti motteggi: ah sì, si sapeva bene di che cugina si trattava! Una cugina con tanto di mustacchi, caposorvegliante al Voreux! Da svergognata, notò la Maheu, piantare la famiglia proprio in un giorno come quello!
Oltre il coniglio, ingrassato da un mese per l'occasione, i Maheu si godettero quel giorno una succulenta minestra e un bollito. Nello scialo era andata tutta la paga della quindicina, toccata per l'appunto il giorno prima. Chi se ne ricordava d'una simile pacchia? Neppure l'ultima Santa Barbara - la patrona che i minatori festeggiano con tre giorni consecutivi di vacanza - il coniglio era stato così grasso e tenero. Per cui le dieci paia di ganasce, a cominciare da quelle di Estella che metteva i primi denti per finire a quelle di Bonnemort che stava perdendo gli ultimi, masticarono d'una tale lena che anche gli ossicini sparirono. Ghiotta, la carne, ma piuttosto indigesta, per chi com'essi ne assaggiava così di rado! Di tutta quella grazia di Dio non restò che un pezzetto di lesso; la sera, chi avesse ancora appetito, rimedierebbe con pane e burro.
Il primo a svignarsela fu Gianlino. Berto lo aspettava dietro la scuola; ma i due dovettero girellare parecchio intorno alla casa di Lidia prima di poter tirare con loro la ragazzina: l'Abbruciata, decisa a non uscire, le faceva la guardia. Quando s'accorse che la nipote gliela aveva fatta egualmente, la vecchia alzò al cielo le braccia scheletriche e partì in imprecazioni; mentre infastidito da quello schiamazzo, Pierron usciva filosoficamente a fare due passi con l'aria del marito che non ha scrupolo a svagarsi un po' sapendo che neanche sua moglie si sta annoiando. Sull'esempio di Bonnemort, pure Maheu si decise a uscire; ma prima:
-Scendi tu? Ci si ritrova a Montsou? - chiese alla moglie. No: coi bambini da rimorchiarsi dietro, la gita la allettava poco. Ma chi sa, forse sì, ci ripenserebbe. Se scendeva, Montsou non era Parigi, si ritroverebbero.
Uscito sul pianerottolo, Maheu, dopo un'esitazione, entrò in faccia per vedere se Levaque era pronto. Vi trovò Zaccaria in attesa dell'amante; e la Levaque dietro a battere il suo chiodo: che si prendevano gioco di lei? Questa volta era decisa ad avere con la Maheu un'ultima spiegazione. Era un vivere, tenersi in casa i marmocchi senza padre di sua figlia? quando questa continuava a farsela col ganzo?
- Io sono contento, se mia madre vuole, - ripeteva Zaccaria. E siccome Filomena aveva finito tranquillamente di aggiustarsi in capo la cuffia, la coppia se la svignò. Appreso che Levaque era già via, Maheu disse alla donna che se la spicciasse con sua moglie e filò a sua volta. Invitato fuori a bere una birra, Bouteloup che, aggomitolato al tavolo, stava terminando il suo formaggio, aveva rifiutato ostinatamente l'offerta. No, lui restava con la donna. Da buon marito!
Il borgo s'andava intanto spopolando; gli uomini ne partivano gli uni dietro gli altri; mentre le ragazze, sportesi ad adocchiare dalle soglie, s'allontanavano in direzione opposta, ciascuna al braccio dell'amoroso. Così Caterina: suo padre aveva appena svoltato dalla chiesa che la figlia, avvistato Chaval, s'affrettava a raggiungerlo per prendere con lui la strada di Montsou. Rimasta sola coi due piccini, la Maheu si mescé un secondo caffè bollente e restò lì sulla sedia a centellinarselo, senza trovare la forza di alzarsi. Del borgo erano rimaste padrone le donne; e s'invitavano a vicenda a scolare le caffettiere intorno alle tavole ancora calde della grassa mangiata.
Sicuro di trovare Levaque al Risparmio, Maheu lemme lemme si diresse a quella volta. Non s'era ingannato: nello spiazzo, circondato di siepe, dietro l'osteria, Levaque stava giocando una partita a bocce.
Bonnemort e l'inseparabile Mouque, in piedi, seguivano degli occhi la boccia, così assorti che si scordavano persino di scambiarsi delle gomitate. Nella striscia d'ombra che il sole a picco lasciava lungo la casa, Stefano seduto a un tavolo sorbiva la birra. Era solo: Souvarine l'aveva lasciato per salire in camera sua e chiudersi a scrivere o a leggere, come aveva l'abitudine di fare quasi tutte le domeniche.
- Giochi? - chiese Levaque a Maheu. No; di caldo, Maheu ne aveva già abbastanza e moriva dalla sete.
- Rasseneur, una birra! - lanciò Stefano. E a Maheu:
-Te la offro io -. (Tutti quel giorno si davano del tu).
Il giovane dovette ripetere l'ordine; e alla terza chiamata, fu l'ostessa a portare la birra. Stefano abbassò la voce per lagnarsi del trattamento: buona gente, certo, i Rasseneur, che la pensavano come loro; ma birra scadente; e almeno la servissero fredda! Delle minestre poi, che si mangiavano al Risparmio, meglio non parlare. Non fosse stata la vicinanza al Voreux, lui si sarebbe cercato da un pezzo un'altra sistemazione. Ma così non poteva durare; bisognava assolutamente che si trovasse una pensione al borgo, in qualche famiglia.
- Certo, certo, - assentiva placido Maheu. - In famiglia, vuoi mettere, staresti assai meglio.
Scoppiarono acclamazioni: un colpo maestro, col quale Levaque aveva battuto tutti i competitori. Mouque e Bonnemort, il naso a terra, conservavano in mezzo agli applausi un silenzio quanto mai approvativo. L'esultanza per il bel colpo traboccò in facezie, che rinforzò l'apparire d'oltre la siepe, del viso acceso della Mouquette.
La ragazza che gironzolava da un po' nei pressi, all'udire quella esplosione di gioia, s'era azzardata a far capolino.
- Come?! Sola? - la apostrofò Levaque. - Tu, la Mouquette, senza un uomo al fianco! E i tuoi galanti?
Quella, senza punto confondersi, ridendo anzi impudente:
-I miei galanti? li ho messi a riposo: ne hanno bisogno. Ne cerco uno fresco.
Fu una gara a offrirsi, una bordata di lazzi e di parole crude. Lei tra grandi risate, rifiutava del capo, faceva la difficile. Presente alla scena, il genitore non alzò neppure gli occhi dalle bocce.
Levaque lanciando un'occhiata in direzione di Stefano:
- Va' là, lo sappiamo bene a chi tiri, figlia mia!... Ma ho paura che se lo vuoi, dovrai prenderlo con la forza!
Stefano rise. Era intorno a lui, infatti, che la ragazza faceva la ruota. Divertito, ma per niente lusingato, il giovane a sua volta rifiutava col capo. Qualche minuto ancora la Mouquette restò piantata dietro lo steccato, in contemplazione di Stefano. Poi si tolse di là e s'allontanò a lenti passi, improvvisamente seria e come accasciata dalla sferza del sole.
Sottovoce, il giovane prese a spiegare minutamente a Maheu la necessità per i minatori di Montsou di istituire un fondo di previdenza. - Dal momento che la Compagnia proclama che ci lascia liberi, che possiamo temere? A nostro favore non ci sono che le pensioni ch'essa accorda; ma, siccome non ci fa trattenute sulla paga, è a piacer suo che le assegna. Orbene, non ti pare che sarebbe da parte nostra una misura di prudenza creare un'associazione di mutuo soccorso sulla quale poter contare almeno nei casi di bisogno urgente?
- E precisava nei suoi dettagli il progetto, ne discuteva l'organico: tutto il daffare se lo accollerebbe lui.
Persuaso, Maheu finì per dire:
-Io, per me, ci sto. Sono gli altri piuttosto. Cerca di decidere gli altri.
Al gioco delle bocce, Levaque era uscito vincitore. La vittoria venne celebrata con nuove bevute di birra. Maheu declinò l'offerta d'un secondo boccale; più tardi, se mai: c'era tempo prima di sera. E intanto si chiedeva dove potrebbe trovare Pierron: a colpo sicuro, al caffè Lenfant. Decise Stefano e Levaque ad accompagnarlo; e i tre s'avviarono alla volta di Montsou, mentre una nuova comitiva invadeva il gioco da bocce.
Per strada, bisognò far tappa da Casimiro, quindi al Progresso: vedendoli passare, dei compagni li invitavano dentro e non c'era modo di dire di no. E ad ogni sosta era una birra; quando non erano due, se essi per cortesia ricambiavano. Si intrattenevano dieci minuti, scambiavano quattro parole; e il gioco poco più in là si ripeteva.
Meno male che di birra ci si può caricare senza risentirne altro incomodo che l'urgenza di fermarsi un po' troppo spesso in intimo colloquio con un muro. Da Lenfant, capitarono su Pierron che si stava scolando la sua seconda birra; e che, per non rifiutare di brindare insieme, ne gradì una terza in loro compagnia.
Accresciuti di uno, si diressero al Tizzone, per vedere se c'era Zaccaria. Il locale era vuoto; per intrattenervisi un momento, col pretesto che poteva capitare, ordinarono anche lì una birra. Si spinsero quindi al Sant'Eligio, dove fu Richomme a proporre una bevuta; dopodiché vagarono di locale in locale senza darsi più la pena di trovare giustificazioni ai loro sopraluoghi; così, unicamente per sgranchirsi le gambe.
Eccitato, ad un certo punto:
-Perché non si va al Vulcano? - propose Levaque. Gli risposero delle risatine impacciate. Poi, perché no? e tutti si misero sulla scia ch'egli s'apriva fra la crescente calca.
Al Vulcano - un corridoio più che una sala - cinque o sei scollacciate canterine, il rifiuto dei postriboli di Lilla, sfilavano con mossette di bertuccia su una specie di palcoscenico rizzato in fondo, mettendo generosamente in vista un'anatomia da mostri. Previo esborso di mezzo franco, chi ne avesse l'uzzolo, poteva scegliersene una e servirsela sulle assi del retroscena. Il pubblico era costituito in maggioranza da giovinastri delle miniere, tra i quali figuravano dei manovali non ancora quindicenni; tutti che ostentavano una preferenza per il cicchetto. Ma si arrischiava là dentro anche qualche vecchio minatore: viziosi, manco dirlo, che lasciavano la famiglia andare in malora.
Appena la comitiva si fu sistemata intorno a un tavolino, Stefano s'accaparrò Levaque; e, con lo zelo dei neofiti che si credono investiti d'una missione, prese a iniziare anche lui al suo progetto d'una cassa di previdenza. - Un franchetto al mese, - perorava, - chi non si sentirebbe di versarlo? E in quattro cinque anni, sai il gruzzolo che si metterebbe da parte? Ora quando si ha del danaro da parte, qualunque cosa accada, ci si sente forti, ti pare?... Ebbene: che ne dici tu?
Levaque, col capo a tutt'altro:
-Ma per me non dico di no. Ci sarà tempo a discorrerne -. Visibilmente ora lo interessava di più una biondona corpulenta che gracchiava una romanza. Prima che ne attaccasse una seconda, Maheu e Pierron, che avevano finito la birra, si alzarono; Levaque restò: si rivedrebbero fuori.
In istrada, Stefano, uscito coi due, si ritrovò tra i piedi la Mouquette: gli dava la caccia, era chiaro. Questa volta la ragazza gli si parò davanti, ridendo del suo riso di buona figliola, a fissarlo con occhi che dicevano: «Mi vuoi dunque?» Spallucciando il giovane le lanciò un frizzo. Lei allora ebbe un gesto di dispetto e si perdette nella folla.
- E Chaval? dove sarà mai? - chiese Pierron.
- Già: Chaval, - fece Maheu. - Lo troviamo certo da Piquette. Si va?
Ma sulla soglia un principio di tafferuglio li arrestò. Col pugno alzato Zaccaria minacciava un chiodaiolo, un tipo di belga massiccio e flemmatico. Chaval assisteva con le mani in saccoccia.
- Eccolo Chaval! - annunziò placido Maheu. - E' con Caterina.
Da cinque ore Caterina e l'amante si aggiravano instancabili attraverso la fiera. Lungo la via di Montsou - una spaziosa strada che scendeva a zigzag tra due file di basse case dipinte a vivaci colori - era, sotto il sole, un pigiarsi di gente, simile al traboccare all'aperto d'un formicaio: uno scalpiccio che sollevava da terra una nera nube di polvere. I caffeucci che si aprivano ai due lati erano così gremiti che coi tavolini invadevano la strada; dove merciaioli ambulanti, schierati su due ali, sciorinavano in vendita ogni sorta di mercanzie: fisciù e specchi per le ragazze, coltelli da tasca e berretti per i maschi; nonché dolciumi e biscotti per ogni borsa.
Davanti alla chiesa s'era impiantato un tiro all'arco; giochi di bocce, in faccia ai Cantieri. Di fianco alla sede della Compagnia, allo svolto per la strada di Joiselle, dentro un recinto improvvisato con assi, si assisteva a un combattimento di galli: due crestuti galli battaglieri, speronati di ferro, che si sgozzavano a colpi di becco.
Più oltre, da Maigrat si poteva vincere al biliardo un grembiule o, a scelta, un paio di mutande donnesche. E, simili a grandi pause, lunghi silenzi cadevano ogni tanto sulla folla; su quel pigia pigia di gente che si abbeverava e s'impinzava senza parlare, covando nell'afa, che le padelle bollenti all'aperto accrescevano ancora, una sola indigestione di birra e di patate fritte.
A Caterina, Chaval acquistò uno specchietto da diciannove soldi e, per tre franchi, un fazzoletto da collo. Immancabilmente a ogni andirivieni, i due incrociavano la coppia Mouque e Bonnemort, scesi anch'essi alla festa; e che la percorrevano in su e in giù chiusi in sé, del loro passo pesante. Ma un altro incontro dovevano fare che li indignò: quello di Gianlino, dietro a incitare Lidia e Berto a rubare una bottiglia di ginepro da uno spaccio all'aperto, rizzato al margine d'un terreno incolto. Senonché al loro arrivo, già la bambina se la batteva col bottino: a Caterina non restò che prendere il fratello a ceffoni. Quei due arnesi, un giorno o l'altro, finirebbero dentro!
Sull'ingresso della Testa-Mozza, un avviso, che vi figurava da parecchio, indiceva per quel giorno una gara di canto per fringuelli: Chaval, passando davanti al locale, ebbe l'idea di farvi assistere l'amante. Una quindicina di chiodaioli di Marchiennes partecipavano alla gara, ciascuno con una dozzina di gabbie. Nella corte, le gabbiette semibuie, appese a chiodi, erano disposte su più file a un assito, e ognuna aveva dentro, immobile, l'uccello accoccato. Uscirebbe vincitore, il cantore che in un'ora ripetesse il suo verso il maggior numero di volte. Ogni concorrente si teneva, presso le sue gabbie, una lavagnetta segnapunti in mano, sorvegliando i rivali e da essi sorvegliato. Già la gara s'era accesa tra i fringuelli di timbro vellutato e quelli di timbro squillante. Timidi sulle prime, azzardando solo rari gorgheggi, i cantori erano andati poi eccitandosi a vicenda e accelerando sempre più il ritmo; per abbandonarsi alla fine a una tale frenesia di emulazione che se ne videro alcuni soccombere allo sforzo e spirare. I proprietari li sferzavano con la voce, gridavano loro in vallone di cantare ancora; ancora un piccolo gorgheggio; mentre, appassionandosi al gioco, il pubblico, un centinaio di spettatori, tra quella musica assordante di centottanta fringuelli che, a contrattempo, ripetevano il medesimo verso, tratteneva il fiato. Fu un fringuello dal timbro squillante a strappare il primo premio: una caffettiera in ferro battuto.
Caterina e Chaval erano lì, quando entrarono Zaccaria e Filomena. I quattro si strinsero la mano e fecero gruppo. Quand'ecco Zaccaria inquietarsi: aveva sorpreso una mano che s'allungava a pizzicare nelle cosce la sorella: la mano d'un chiodaiolo che, coi compagni, assisteva allo spettacolo. Accesa in viso, Caterina accennò al fratello di tacere, nel timore d'una baruffa se l'amante se ne accorgeva e si adontava. Per questo, sino allora aveva fatto finta di nulla. Ora, Chaval s'era avvisto sì del maneggio, ma non se la pigliava; si contentava di ghignare. Uscirono e l'incidente pareva liquidato.
Senonché i quattro erano appena entrati da Piquette a rinfrescarsi l'ugola ed ecco il chiodaiolo ricomparire più imbaldanzito e provocante che mai. Al nuovo attentato contro l'onore della famiglia, Zaccaria non si tenne; si scagliò sull'insolente:
-E' mia sorella, brutto porco! Aspetta che ti insegno io a mancarle di rispetto!
Tutti si intromisero; mentre Chaval, imperturbabile:
-Lascia stare, Zaccaria, - badava a ripetere. - E' cosa che mi riguarda. Ti dico che di quel tipo lì faccio meno conto che d'uno sputo!
In quella arrivava Maheu, in punto per far animo alla figlia e a Filomena, già lì per piangere. Il provocatore se l'era squagliata e intorno si rideva.
Per metterci una pietra sopra, Chaval, che da Piquette era di casa, propose una bevuta. Brindarono. Stefano dovette toccare con Caterina. Fu quindi Pierron a voler offrire ad ogni costo; e regnava nella comitiva il più invidiabile affiatamento, quando la vista di Mouquet, chi sa come, rinfocolò in Zaccaria il risentimento per l'oltraggio non vendicato:
- Vieni con me, Mouquet! ho un conto da regolare. Devo rompergli il muso a quel maiale! - E, avviandosi con l'amico: - Chaval, ti affido Filomena. Vado e torno.
Dopo tutto, se il giovinotto ci teneva a vendicare l'onore della sorella, era un buon esempio che dava. E, riconoscendolo, Maheu si sentì in dovere di berci su in compagnia una nuova birra. Filomena invece, vedendo Mouquet s'era rassicurata: Zaccaria non correva alcun pericolo; l'onore della sorella era stato un pretesto per svignarsela al Vulcano col compagno di baldoria.
La consuetudine voleva che le giornate di fiera si chiudessero al Buontempone, dove si ballava. Tenitrice del ballo era la Désir, una vedovella tonda come una botte, ma così ben conservata e arzilla che a cinquant'anni si passava ancora sei amanti: uno, spiegava, per giorno di settimana; e li allenava così senza stancarli per la prova generale, una specie di ricapitolazione, che aveva luogo la domenica.
Da trent'anni spillava birra ai minatori; in riconoscenza di che, li chiamava tutti «i miei bambini». E del resto quelle marmotte di spingi-carichi della miniera, se si sveltivano, a chi lo dovevano se non al suo ballo dove imparavano a sciogliere le gambe?
Il Buontempone consisteva di due vani: la mescita, col banco e i tavoli; e, comunicante con essa per un'ampia entrata, la sala da ballo, con l'impiantito di legno e le pareti rivestite di mattoni. Ad abbellirla, due festoni di fiori dl carta si incrociavano da un angolo all'altro del soffitto e li riuniva al centro una ghirlanda degli stessi fiori; mentre lungo le pareti spiccavano in bell'ordine degli scudetti dorati recanti nomi di santi: Sant'Eligio, patrono dei metallurgici; San Crispino, patrono dei calzolai; Santa Barbara, patrona dei minatori: tutti i santi protettori dei diversi mestieri esercitati a Montsou. La volta era così bassa che dalla pedana, non più larga d'un pulpito di chiesa, dell'orchestra i tre musicanti vi battevano contro il capo. Provvedevano all'illuminazione quattro lumi a petrolio che venivano appesi ai quattro canti della sala.
Quella domenica si ballava dalle cinque, alla luce del giorno. Ma solo verso le sette cominciò la ressa. In istrada s'era levato un ventaccio che sollevava da terra neri nugoli di polvere; una polvere che entrava negli occhi e faceva crepitare l'olio nelle padelle. Un po' per questo, un po' per sedersi, anche Maheu, Stefano e Pierron finirono per approdare al Buontempone; e vi trovarono Chaval che ballava con Caterina, mentre Filomena, sola, stava a guardarli. Né Levaque né Zaccaria erano ricomparsi. In mancanza di panche intorno al ballo, Caterina, dopo ogni giro, veniva a sedersi al tavolo del padre.
Invitata a imitarla, Filomena preferì restare in piedi. La sera scendeva; l'orchestra crepitava; nella sala non si distingueva più, tra un confuso armeggiare di gomiti, che un mareggiare di anche e di seni. Uno schiamazzo salutò la comparsa delle lampade: la scena si illuminò di colpo; facce accese, pettinature disfatte, ciocche di capelli incollati alla pelle, svolazzare di sottane che diffondevano per tutta la sala un fortore di coppie in sudore. Maheu indicò a Stefano la Mouquette, che grassa e tonda come una palla di sugna, volteggiava come una trottola al braccio d'un allampanato caricatore. Un uomo le ci voleva ed aveva finito per pescarlo.
Erano le otto quando comparve la Maheu, con Estella alla poppa e appiccicata alla gonna la minuta figliolanza. Era venuta direttamente lì, a cercare il suo uomo, sicura di trovarlo. Oggi, la cena si poteva ritardare: chi aveva fame? con tanto caffè poi e tanta birra ingurgitata? Dietro la Maheu spuntò, tra l'affluire di altre, anche la Levaque; un mormorio la accolse: la pilotava Bouteloup ed era lui che teneva per mano i marmocchi di Filomena. La Maheu si volgeva a parlarle: le due donne erano dunque di nuovo in buona. Esse infatti avevano avuto per strada una vivace discussione; col risultato che la Maheu aveva finito per dare il suo consenso al matrimonio; certo le cuoceva rinunziare al guadagno che il suo maggiore portava in casa; ma sentiva anche l'ingiustizia di defraudare Filomena. Il buon viso che ora faceva alla vicina, non le impediva tuttavia di chiedersi con ansietà come farebbe a mandare avanti la baracca, adesso che le già magre entrate venivano così sensibilmente a ridursi.
- Non è con voi mio marito? - chiese la Levaque; e, mentre la rassicuravano, si sistemava alla meglio al tavolo vicino a quello occupato dai Maheu, lei, Bouteloup, i marmocchi: tutti, pigiati come salacche. Anche Filomena adesso venne a sedersi e parve contenta che la sposassero. Richiesta di Zaccaria, con la voce incolore di sempre: - Era qui ora: verrà.
Maheu intanto aveva scambiato un'occhiata con la moglie: ah, sicché aveva dato il suo consenso? Oscurandosi in fronte, s'accese la pipa, preoccupato anche lui del domani. Mettete dunque al mondo dei figli! appena sono in grado di aiutarvi, ecco che vi piantano.
Il galoppo finale d'una quadriglia riempiva l'aria d'un rosso pulviscolo; ancora qualche bercio di tromba simile al richiamo d'una locomotiva in panna, e i ballerini si arrestarono, fumanti come cavalli giunti al traguardo. Chaval ricondusse Caterina; e i due, in piedi alle spalle di Maheu, finirono la loro birra. La Levaque si chinò all'orecchio della Maheu:
- Ti ricordi, tu che parlavi di strozzarla, tua figlia, se ci cascava?
- Bah, - fece l'altra rassegnandosi in viso. - Sono cose che si dicono. Ma mi tranquillizza il fatto che Caterina bambini non ne può avere; di questo almeno sono certa... Se così non fosse, se dovessi per forza darle marito, me lo dici noi che si mangerebbe?
L'orchestra riattaccava: una polca. Nell'assordante frastuono che ricominciava, Maheu fece parte alla moglie d'una buona ispirazione che gli era balenata: perché non prenderebbero uno a dozzina? Stefano, ad esempio che era appunto in cerca d'una pensione? La stanza da dargli l'avrebbero ora che Zaccaria se ne andava. Riguadagnerebbero da una parte quello, suppergiù, che perdevano dall'altra. Ma certo! ottima idea! bisognava farlo. E rianimata da quella prospettiva, la Maheu, in un impulso di generosità, ordinò un'altra birra per tutti.
Stefano stava intanto catechizzando Pierron, conquistandolo al suo progetto d'una cassa di previdenza. E già era riuscito a fargli promettere di aderirvi, quando commise l'imprudenza di scoprire lo scopo cui la cassa doveva servire. - Nell'eventualità d'uno sciopero, capisci di che utilità ci sarebbe? Potremmo fregarci della Compagnia; attingere di lì i primi fondi per la resistenza. Eh? dunque tu ci stai?
A questa, Pierron aveva abbassato gli occhi:
-Ah, così? - tartagliò.
- Ci penserò sopra... Ma portarsi bene non è la migliore cassa di previdenza?
Stefano non ebbe tempo di rispondergli; Maheu lo prendeva da parte, e con la sua franchezza di brav'uomo gli offriva su due piedi di prenderlo come dozzinante. Con la stessa franchezza, il giovane accettò. Ben lieto! era il suo sogno abitare nel borgo operaio, vivere in stretto contatto coi compagni di lavoro. Si accordarono in quattro parole, ma - avvertì la Maheu - occorreva aspettare che Zaccaria si accasasse.
Ed eccolo finalmente Zaccaria; e con lui i compari. Chi avesse ignorato donde venivano, l'avrebbe capito dai fiati che sentivano il cicchetto, dall'acre odore di muschio e di baldracca che si portavano dietro. All'olio tutti e tre soddisfattissimi di sé, ridacchiavano, si spingevano a gomitate a vicenda. La notizia che stava per prendere moglie, scatenò in Zaccaria una tale ilarità che per poco dal ridere non si strozzava. Placida, Filomena osservò che preferiva ancora vederlo ridere che piangere.
Sedie non ve n'erano più; Bouteloup dovette far posto alla sua a Levaque che, vedendosi in mezzo alla famiglia al completo, di colpo si intenerì e una volta di più ordinò da bere per tutti. - Porca l'oca! - berciava. - Non tutti i giorni ci si diverte!
Si restò sino alle dieci. Donne seguitavano ad arrivare con codazzi di prole, in cerca del loro uomo da rimorchiare a casa; le madri, perduta ogni soggezione, cavavano dal corpetto ciocce bionde e lunghe come tette di mucca e impiastricciavano di latte bebé tutti guance; mentre i più grandicelli senz'ombra di ritegno, carponi sotto i tavoli, davano il via alla birra ingurgitata. Di birra era un'orgia che vuotava le botti; di birra si arrotondavano le pance; zampillava birra dai più insoliti rubinetti. Pigiati e gonfi a quel modo, gli spettatori si ficcavano in corpo a vicenda gomiti e ginocchi, allegri, beati di affratellarsi così. Un ridere in pelle spalancava le bocche come salvadanai. In quel calore di forno, nel nebbione di fumo, ognuno si metteva a suo agio, si sbracava, si scamiciava. Unico inconveniente, la difficoltà di spostarsi di dove si era; spinta da necessità, ogni tanto una ragazza vi riusciva, s'apriva il passo sino alla pompa laggiù, si rimboccava, rientrava nel ballo. Sotto i festoni di fiori di carta, i ballerini, accecati dal sudore di cui grondavano, non si scorgevano più l'un l'altro; ciò che incoraggiava gli intraprendenti a cogliere il momento giusto per approfittarne. E quando una ninfa piegava sopraffatta sotto l'assalto del fauno, l'orchestra attutiva il tonfo di quella capitolazione sotto il suo strepito indiavolato, scarpettandole intorno le coppie danzanti la sottraevano alla vista; e allora si sarebbe detto che tutto il ballo franasse su quei due.
Qualcuno venne ad avvertire Pierron che sua figlia dormiva di traverso sul marciapiede, davanti all'ingresso. Avendo beneficiato della sua parte nel furto, la ragazzina s'era ubriacata. Per riportarla a casa, il padre dovette togliersela in collo - seguìto a distanza da Gianlino e da Berto che, in cimbali anche loro ma ancora abbastanza sicuri sulle gambe, alla scena si spanciavano dal ridere.
Fu il segnale della partenza. I Maheu e i Levaque si decisero a rincasare; il Buontempone cominciava a sfollarsi. Nello stesso momento anche Bonnemort e Mouque si mettevano sulla via del ritorno; taciturni, chiusi nei loro ricordi, con passo di sonnambuli. Tutti insieme riattraversarono un'ultima volta la fiera, tra le padelle di patate fritte che si freddavano, gli spacci segnalati da rigagnoletti che s'allungavano sino in mezzo alla strada.
Una volta ch'ebbero oltrepassate le ultime case e rientrarono in ombra, risa cominciarono a zampillare da tutta quella gente in cammino, a propagarsi per la buia campagna, sotto il cielo che si manteneva minaccioso. Un alito ardente usciva dalle messi mature: quante coppie quella notte dovettero smarrirvisi!
Al borgo arrivarono sbandati. Chi a casa cenò, lo fece per abitudine, fra cascaggini di sonno.
Giunto davanti al Risparmio, Stefano invitò Chaval a bere il bicchiere della staffa; e dell'occasione profittò per perorare anche con lui la causa della cassa di previdenza.
- Perbacco, se ci sto! - esclamò Chaval. - Spuntala! Tu sei uomo da riuscirci!
- Sì, mettiamoci tutti a una... Vedi, Chaval, io, per il trionfo della giustizia darei tutto: il bere, le donne... Ah non c'è che un'idea che mi scaldi il cuore! l'idea che saremo noi a spazzare dalla faccia della terra queste carogne di borghesi!
Capitolo terzo
Verso la metà d'agosto, appena cioè Zaccaria si trasferì con la famiglia nella nuova abitazione concessa dalla Compagnia, Stefano venne a stare dai Maheu.
Abitare sotto lo stesso tetto con Caterina lo mise nei primi tempi a disagio. In casa egli aveva il posto del fratello maggiore. Come già Zaccaria, era lui ora che divideva il letto di Gianlino, a fianco di quello della sorella; e l'intimità tra lui e la fanciulla era continua. Coricandosi, alzandosi doveva spogliarsi e vestirsi davanti a lei; e lo stesso l'altra. Al momento che la ragazza restava in camicia, egli non poteva a meno di notare la bianchezza quasi trasparente di bionda anemica che la vestiva dai calcagni all'attaccatura del collo, segnata da una collana di ambra; una bianchezza lattea in così vivo contrasto col viso e le mani già sciupate, da lasciare il giovane turbato. Ostentava di stornare da lei gli occhi, ma a poco a poco imparava a conoscerla: una volta erano i piedi che, abbassandosi, il suo sguardo incontrava; un'altra, il ginocchio intravisto mentre si coricava; al mattino, i piccoli seni erti che, lavandosi, la ragazza scopriva.
Anche Caterina, senza mai guardarlo, si spicciava più che poteva a sparire sotto le coltri; in un lampo si svestiva e, lesta come una biscia, s'allungava al fianco di Alzira; ancora Stefano non aveva fatto tempo a cavarsi le scarpe, che già lei gli voltava le spalle, non lasciandogli scorgere di sé più altro che la pesante crocchia.
Del resto, il contegno del giovane non diede mai a Caterina occasione di adombrarsi. Se la tentazione di sbirciarla era troppo forte perché lui vi resistesse, Stefano però non si lasciava mai andare a scherzi di parola e tanto meno di mano. Anche senza il ritegno che gli ispirava la presenza dei genitori, il sentimento di amicizia, venato di risentimento, che provava verso la ragazza, gli impediva di mancarle di rispetto; mentre smorzava il desiderio l'intimità stessa cui la vita in comune li costringeva; intimità d'ogni istante per la quale, degli altri, non restavano segreti neppure i bisogni corporali. Fra individui costretti a vivere così sotto gli occhi gli uni degli altri, un senso di pudore si risvegliava ormai solo al momento del bagno quotidiano; ed era questa l'unica occasione in cui Caterina si appartava, ritirandosi al piano di sopra.
L'abitudine del resto fece presto a dissipare quel disagio; in capo a un mese, i due già si aggiravano svestiti per la stanza alla luce della candela senza quasi vedersi. Lei non si spicciava più a sparire fra le coltri; ripresa l'antica abitudine, s'indugiava sulla sponda del letto, le braccia alzate, ad acconciarsi i capelli per la notte, senza accorgersi della camicia che le rimontava sulle cosce; e lui, in mutande, qualche volta la aiutava, le porgeva le forcelle cadute.
L'abitudine aboliva il pudore; trovarsi insieme seminudi, diventava naturale; male non ne facevano e non era colpa loro se, in tanti, si disponeva d'una camera sola.
Ciò non toglie che li cogliessero ancora subitanei turbamenti; di sorpresa, quando meno pensavano a male. Per lui, era quando dopo sere e sere che non vi aveva fatto caso, gli riappariva di colpo la bianchezza di quel corpo; scottato, doveva stornare gli occhi per non cedere alla bramosia di abbrancarlo. Altre sere, era lei che si sentiva invadere senza motivo da uno sgomento pudore; si infilava sotto le lenzuola, come fuggisse, come già si sentisse addosso le mani avide dell'altro. Ed erano le notti che, spenta la candela, si sentivano a vicenda svegli e capivano che era il pensare l'uno all'altro che, nonostante la stanchezza, impediva al sonno di venire. Insonnie che li lasciavano innervositi e come imbronciati per tutto l'indomani, e alle quali preferivano le volte che si coricavano tranquillamente, come due buoni camerati.
Nella nuova vita, l'unico inconveniente o quasi di cui Stefano ebbe a lagnarsi fu la posizione in cui Gianlino dormiva: raggomitolato come un riccio. Alzira s'udiva appena; al mattino, Leonora ed Enrico li trovavano in braccio l'un dell'altro, tal qual si erano addormentati. Nel buio della casa, rompeva solo il silenzio il russare di Maheu e di sua moglie: cadenzato e regolare come il soffiare di due mantici.
Insomma, Stefano si trovava meglio che al Risparmio: il letto non era cattivo e una volta al mese vi cambiavano le lenzuola. Anche la minestra era migliore; solo la carne si vedeva di rado. Ma era così per tutti; con quello che pagava di pigione, il giovane non poteva pretendere che gli passassero tutti i giorni il coniglio. I suoi quarantacinque franchi mensili aiutavano la famiglia a tirare avanti; grazie ad essi e a qualche debituccio fatto nelle botteghe, si campava; e i Maheu mostravano all'ospite la loro gratitudine facendogli trovare la biancheria lavata, i vestiti in ordine. Ora insomma Stefano provava che vuol dire per uno scapolo avere una donna che si cura di lui.
Fu dai Maheu che Stefano ebbe agio di chiarire a sé le idee che gli fermentavano in capo. Sin qui il sordo malcontento che regnava tra i suoi compagni di lavoro non aveva svegliato in lui che l'istinto della rivolta. Ogni sorta di confusi problemi gli si presentarono: perché la povertà degli uni e la ricchezza degli altri? perché i primi sotto il calcagno dei secondi, senza la speranza di poter mai prenderne il posto? Il primo passo fu intanto di rendersi conto della propria ignoranza. Da allora, una segreta vergogna, un cruccio lo morse: non sapeva nulla e questo gli toglieva l'ardire di discorrere delle cose che più gli stavano a cuore: l'eguaglianza degli uomini, la giustizia per cui ai beni della terra tutti avrebbero dovuto partecipare. Allora si buttò con ardore a studiare; ma senza metodo, come fa l'ignorante nella sua sete di apprendere.
Della conoscenza di Pluchart, esponente del partito socialista e persona tanto più istruita di lui, profittò per farsi mandare dei libri. Mal digerita, la loro lettura non fece che esaltarlo di più; quella soprattutto d'un manuale di medicina, "L'Igiene del Minatore", in cui l'autore, un medico belga, passava in rivista le malattie che insidiano la vita dei carbonieri. Altri, che trattavano di problemi economici, gli rimasero ostici; l'aridità tecnica dell'esposizione lo respinse. Il suo vero pasto lo trovò invece in opuscoli di propaganda anarchica che produssero su di lui un'enorme impressione; in giornali dello stesso colore che anzi conservò come quelli che in eventuali discussioni gli avrebbero fornito argomenti inoppugnabili. Anche Souvarine gli prestava dei libri; e il "Trattato sulle Società Cooperative" gli aveva fatto vagheggiare tutto un mese la possibilità d'una società universale di scambio che aboliva il danaro e a base dell'intera vita sociale poneva il lavoro. Cominciò a sentirsi meno ignorante; a concepire, adesso che «pensava», un certo orgoglio di sé.
Durante i primi mesi, non andò oltre l'entusiasmo dei neofiti; il suo cuore traboccava d'indignazione contro gli oppressori, si esaltava nella speranza del prossimo trionfo degli oppressi. A costruirsi un sistema non era giunto ancora: restava nel vago delle letture fatte. In lui le rivendicazioni pratiche di Rasseneur si confondevano con le teorie incendiarie di Souvarine; e quasi ogni giorno, venendo via dal Risparmio, seguitava a declamare coi due contro la Compagnia, tutto preso nel suo sogno che gli mostrava a portata di mano la rigenerazione radicale del mondo, pacificamente ottenuta, perché non costerebbe una goccia di sangue né una rottura di vetri. I mezzi tuttavia per arrivarvi restavano nell'ombra; preferiva credere che le cose andrebbero da sé: ed era perché, davanti al compito di formulare un progetto di ricostruzione, la sua mente si smarriva. Rifuggiva anzi dal trarre conseguenze e si mostrava pieno di moderazione; sino ad asserire che dalla questione sociale bisognava bandire la politica: frase che aveva letto e che gli pareva buono ripetere coi compagni di lavoro; gente poco incline alle novità e, d'istinto, conservatrice.
Adesso ogni sera in casa Maheu ci si attardava una mezz'ora a chiacchierare prima di salire a coricarsi; ed era ogni sera la stessa discussione che Stefano intavolava. Più i suoi gusti s'affinavano, più il giovane si sentiva urtato dalla promiscuità in cui gli operai vivevano. Che si era delle pecore per vivere com'esse segregati in uno stabbio in mezzo alla campagna e pigiati uno contro l'altro al punto da non potersi mutare la camicia senza mostrare il sedere al vicino? Bel vantaggio che ne veniva alla salute e alla morale da una promiscuità che favoriva, rendeva anzi inevitabile, la corruzione!
- Eh già, - ammetteva Maheu, - certo che se si avesse più danaro si abiterebbe più al largo! Comunque, è ben vero che vivere pigiati come salacche non giova a nessuno. Si sa come va a finire: uomini bevuti e ragazze gravide.
Prendendo lo spunto di qui, ciascuno diceva la sua; e nel tanfo di petrolio che appestava la stanza, già ammorbata da quello di soffritto, la conversazione si protraeva. No, ben certo, non era allegro vivere. Si faticava come bruti in un lavoro al quale un tempo condannavano i galeotti; vi si lasciava spesso la ghirba prima della nostra ora; e tutto questo per non rimediare neanche un po' di lesso a cena. Certo, come i polli il becchime, lo stretto necessario per far tacere la fame si aveva; si mangiava, ma appena quel tanto che permetteva di stare in vita e di seguitare a patire; o carichi di debiti perseguitati dai creditori quasi che il pane si rubasse. Quando arrivava la domenica, si era così stracchi che si passava il tempo a dormire. I soli piaceri che restavano, quello di sborniarsi e d'ingravidare la moglie. Per di più la birra ti fa mettere pancia e la pancia ti fa mancare di rispetto dai figli. Ah no; in quelle condizioni vivere non era punto allegro.
La Maheu interloquendo:
-Il più brutto, vedete, è quando ci si persuade che le cose non possono cambiare... Finché uno è giovane si fa delle illusioni, spera che un po' di bene verrà... Ma la vita grama dura, vi si resta dentro imprigionati e si capisce che non se ne uscirà più... Io non voglio male a nessuno, ma vengono dei momenti che da questa ingiustizia mi sento rivoltare.
Cadeva un silenzio. Come oppressi da malessere alla prospettiva di quell'orizzonte chiuso, tutti sospiravano. Solo Bonnemort, se era presente, sgranava gli occhi dalla sorpresa: ai tempi suoi non ci si tormentava così: si nasceva nella miniera, si abbatteva il carbone e non si chiedeva di più; mentre oggi spirava un'aria che faceva alzare la cresta anche ai carbonieri.
- Non bisogna sputare su niente, - borbottava. - Una buona birra è una buona birra... Chi comanda è spesso una canaglia; ma qualcuno ci sarà sempre a comandare, è vero? Inutile dunque rompersi la testa a ragionare su quel che è.
- Ah si? - prorompeva allora Stefano, animandosi di colpo. - Sicché all'operaio anche di pensare sarebbe proibito?
Invece proprio perché l'operaio aveva cominciato a pensare, le cose cambierebbero; e più presto che non si credesse. Ai tempi del vecchio, il minatore viveva nella miniera come una talpa, come una macchina da estrarre carbone; senza nulla udire, senza nulla vedere di quello che succedeva fuori del suo buco. A questo modo i ricchi che governano avevano buon gioco a mettersi d'accordo per tirare dalla sua pelle tutto il profitto possibile: lui nemmeno lo sospettava. Ma ora in fondo al pozzo il minatore si stava svegliando; era una vera messe che in grembo alla terra germogliava e che un bel giorno proromperebbe alla luce. Sì, una messe di uomini, un esercito d'uomini che ristabilirebbe la giustizia. Con la Rivoluzione tutti i cittadini non erano diventati eguali? Per quale motivo, avendo anche lui il diritto di voto, l'operaio dovrebbe restare lo schiavo del padrone che lo paga? La macchina ha reso le grandi società onnipotenti; contro di esse l'operaio non ha neanche più le garanzie d'un tempo, quando gli appartenenti a uno stesso mestiere, riuniti in corporazioni, avevano modo di difendersi. Tutte ragioni, queste e altre, per le quali un simile stato di cose non poteva durare; e l'istruzione un giorno avrebbe cambiato le cose. Anche senza uscire dal borgo operaio, era facile constatare che il lavoratore non era già più l'ignorante d'una volta: se i nonni non sapevano fare la loro firma, i padri la facevano già; i figli poi già scrivevano e leggevano come professori. Ah se veniva su, perbacco, se a poco a poco cresceva la messe d'uomini risoluti che presto maturerebbe al sole! Dal momento che non si era più come alberi radicati al proprio posto e ognuno poteva nutrire l'ambizione di prendere il posto del suo vicino, perché mai l'operaio non inizierebbe la lotta, non cercherebbe di spuntarla?
Sebbene scosso, Maheu restava diffidente:
-Già; ma muovi un dito e ti rendono il libretto. Il vecchio dice bene; a penare sarà sempre il minatore e senza mai la speranza di offrirsi un cosciotto di castrato. La Maheu, uscendo dal silenzio assorto che da un po' manteneva:
- Ancora fosse vero ciò che i parroci ci raccontano! si potesse almeno credere che i poveri di questo mondo saranno i ricchi nell'altro!
Un coro di risa la interruppe; persino i ragazzi spallucciavano: l'incredulità bevuta nell'aria, se li lasciava ancora nel loro intimo prestar fede alla comparsa dei trapassati nel pozzo, li aveva liberati dalla paura del Cielo.
- Ah i parroci, macché! - esclamava Maheu. - Lo credessero quello che predicano, s'impinzerebbero meno e lavorerebbero di più per accaparrarsi lassù un buon posto... Eh, no: quando si è morti si è morti.
La Maheu abbandonando le braccia e sospirando accasciata:
- Ah mio Dio, mio Dio! Allora, noi altri siamo davvero fottuti!
Si guardavano a vicenda. Bonnemort si spurgava nel fazzoletto, Maheu non si avvedeva che la pipa gli si era spenta tra i denti. Alzira ascoltava tutta orecchi, tra i due piccini addormentati sulla tavola. Quella più presa dall'entusiasmo con cui Stefano annunciava l'avvento per i diseredati d'un paradiso in terra, era Caterina: i suoi limpidi occhi non lasciavano il giovane un momento. Intorno, sulle case operaie scendeva il silenzio del sonno; appena, lontano, il piagnucolare d'un bambino, il rissoso soliloquio d'un ubriaco ritardatario. Nella saletta, lo scandito tic-tac del cucù; e, nonostante il soffoco dell'aria, un frescolino che dall'impiantito ancora umido saliva su per le gambe.
- Ma come? - Stefano riprendeva. - Siete dunque ancora a questa? Vi fate ancora di queste idee? Forse che c'è bisogno d'un buon Dio e del suo paradiso per essere felici? non è in vostro potere di farvelo da voi, sulla terra, il paradiso?
E con voce ispirata cominciava a parlare a parlare. Alle sue parole, l'orizzonte che li imprigionava s'apriva per gli infelici, un fascio di luce ne erompeva a illuminare la loro vita. Spazzata via da tutto quel sole, spariva di colpo la vita di miseria e di stento ch'essi avevano sino allora conosciuto, la sorte, che li schiacciava, di pecore, destinate prima alla tosa e poi al macello; il lavoro da bruti cui dalla nascita piegavano la schiena; tutto d'incanto spariva e in un barbaglio mai visto di luce la Giustizia scendeva dal cielo. Se il buon Dio non c'era più, sarebbe la Giustizia ad assicurare la felicità agli uomini, inaugurando sulla terra il regno della fraternità e della eguaglianza. Sorgeva in un giorno, come accade nei sogni, una immensa città, splendente come un miraggio, dove ogni cittadino viveva del suo lavoro e partecipava alle gioie di tutti. Putrefatto, il vecchio mondo era crollato in polvere; una umanità giovane, lavata dei suoi crimini, non formava più che un solo popolo di lavoratori, avente a divisa: «a ciascuno secondo il suo merito, un merito proporzionato al rendimento». E il sogno via via si coloriva, s'allargava ad abbracciare il mondo, diventava allettante quanto più usciva dai limiti del possibile.
Come presa da capogiro, le prime volte la Maheu si rifiutava di ascoltare. No, no: troppo bello; sogni ai quali era pericoloso abbandonarsi; dopo, la delusione renderebbe la vita invivibile; a costo di fare una carneficina, nessuno più vi si rassegnerebbe. Inquieta al vedere che il suo uomo vi cadeva, già gli luccicavano gli occhi:
-Non dargli retta, Maheu! - gli gridava.- Vedi bene che sono favole che ci racconta... Ti pare mai possibile che i ricchi consentano a piegare la schiena come noi?
Eppure, a poco a poco, anche lei si lasciava conquistare; finiva per animarsi in viso; solleticata nella fantasia, cominciava a sperare anche lei in quel mondo meraviglioso. Faceva così bene scordare per un momento la dura realtà! Quando si vive piegati a terra come bestie, si ha bisogno d'una briciola di menzogna, di concederci almeno nell'immaginazione i beni di cui non godremo mai. E poi l'idea che si trattava di mera giustizia, la appassionava; in questo era d'accordo col giovane:
-Su questo punto, esclamava, - avete ragione! Io quando ho il diritto dalla mia parte, mi farei tagliare a pezzi! E che dei beni della vita dovremmo avere anche noi la nostra parte, è una verità sacrosanta.
Approvato indirettamente così, Maheu s'infiammava:
- Io non sono ricco; ma, pagherei volentieri uno scudo, perbacco, per non morire prima di aver visto questa!... Quale capovolgimento!... Ebbene, ci sarà molto da attendere? e come ci si arriverà?
Era la domanda che Stefano attendeva. L'edifizio della vecchia società scricchiolava; non avrebbe durato al di là di qualche mese - affermava perentorio. Quanto ai mezzi coi quali vi si arriverebbe, si mostrava meno reciso; fidando sull'ignoranza dell'uditorio, mescolava cose lette, azzardava spiegazioni non chiare neppure a lui. Ne veniva fuori una accozzaglia di tutti i sistemi; ma tutti li addolciva la certezza in un facile successo, in una riconciliazione generale che metterebbe fine ai malintesi fra le classi. Certo, ammetteva, tra i padroni e i capitalisti qualche recalcitrante si troverebbe; che si renderebbe magari necessario ridurre alla ragione con la forza... I Maheu davano segno di capire, approvavano; senza batter ciglio, accettavano le soluzioni più miracolose, con la cieca fede dei neofiti, dei primi credenti che dalla putredine del mondo antico s'attendevano sorgesse d'incanto il regno di Dio. Aggrappandosi a qualche parola colta nella conversazione, la piccola Alzira immaginava la felicità sotto l'aspetto d'una casa ben riscaldata, dove i bambini mangiavano a sazietà e giocavano quanto volevano. Caterina immobile restava con gli occhi fissi su Stefano; e quando il giovane taceva, era corsa da un piccolo brivido e impallidiva come colta da freddo.
Era la Maheu di solito che, alzando gli occhi al cucù:
- Le nove passate, Gesummaria! - esclamava. - A che ora ci si sveglierà domattina?
E a malincuore tutti si alzavano. Ritrovarsi faccia a faccia con la loro miseria dopo essere stati per qualche minuto ricchi e felici, era ricadere di colpo nella disperazione. Bonnemort, che partiva per il suo turno di lavoro, borbottava che tutte quelle storie non rendevano la minestra migliore; mentre gli altri uno ad uno salivano su, urtati dall'umidore delle pareti, dal tanfo d'aria chiusa come se per la prima volta lo avvertissero.
Erano le notti che, coricatasi per ultima e spenta la candela, Caterina sentiva Stefano voltarsi e rivoltarsi smanioso nel letto, senza riuscire a prendere sonno.
Spesso a quelle veglie prendevano parte i vicini: Levaque che si esaltava all'idea della spartizione dei beni; Pierron che si eclissava prudentemente appena si attaccava la Compagnia. Di tanto in tanto, compariva un momento Zaccaria; ma alle discussioni di politica si annoiava a morte e preferiva scendere al Risparmio a berne un gotto. Quanto a Chaval, trovava ch'erano troppo moderati nelle loro pretese: era del sangue che lui voleva. Quasi ogni sera adesso egli passava un'ora dai Maheu: assiduità cui lo spingeva un'inconfessata gelosia, il timore che qualcuno gli soffiasse Caterina. All'amante, di cui già si stava stancando, si era riattaccato da quando un altro uomo dormiva nella stanza di lei e la notte poteva approfittarne.
L'ascendente di Stefano sui compagni s'andava affermando e sin d'ora nel borgo operaio se ne avvertivano gli effetti. La sua era una propaganda in sordina, tanto più efficace in quanto s'appoggiava sulla stima in cui tutti ogni giorno più lo tenevano. A dispetto della sua diffidenza di prudente massaia, la Maheu lo aveva in considerazione: il giovane non beveva e non giocava, pagava puntualmente il mensile, ed era sempre curvo sui libri. Grazie alla Maheu, la sua fama di persona istruita s'era sparsa tra le vicine che profittavano per farsi scrivere le lettere. Stefano diventava così una specie d'uomo di fiducia, incaricato della corrispondenza, consultato dalle famiglie nei casi delicati. Considerazione che sin dal settembre gli aveva permesso di creare il suo famoso fondo di previdenza; modesto per ora, partecipandovi solo i minatori della borgata; ma al quale egli sperava di far aderire le maestranze di tutti i pozzi, se la Compagnia che finora se n'era disinteressata, non lo ostacolava. Dell'Internazionale, lo avevano da poco nominato segretario e per le sue prestazioni egli riceveva anzi una piccola retribuzione. Per cui si trovava ad essere quasi ricco; se un minatore con famiglia stenta a sbarcare il lunario, uno scapolo sobrio e senza impegni come lui riesce ancora a mettersi qualcosa da parte.
Da questo momento una lenta trasformazione si andò operando nel giovane. Aspirazioni di eleganza e di agio, soffocate sinora dalla povertà, cominciarono a far capolino. Si comprò un vestito decoroso, un buon paio di scarpe; e bastò perché tutto il borgo gli si serrasse intorno, lo riconoscesse capo. Soddisfazioni d'amor proprio, prime gioie della popolarità, che il giovane assaporò con delizia e dalla quale si lasciò ubriacare. Trovarsi alla testa degli altri, comandare - lui così giovane e ancora ieri semplice manovale - lo riempiva di orgoglio, dava consistenza al suo sogno d'una prossima rivoluzione, alla parte che ambiva rappresentarvi. L'espressione del suo viso mutò, divenne grave, si ascoltò parlare; mentre la nascente ambizione influenzava in senso estremista le sue teorie, lo inclinava a più violente soluzioni.
L'autunno intanto s'avanzava; già il frizzare dell'ottobre arrugginiva gli orti della borgata. Spogli, i lillà non servivano più di schermo alle amorose intraprendenze dei maschi. Nei solchi sopravvivevano ormai solo gli ortaggi d'inverno, i cavoli ingioiellati di pruina, i sapori da mettere da parte per la cattiva stagione. Di nuovo gli acquazzoni scrosciavano sugli embrici rossi, traboccavano dalle grondaie, con strepito di torrente andavano a colmare le botti. Nelle abitazioni, la stufa, rimpinzata di carboniglia, restava accesa di continuo, avvelenando l'aria chiusa della saletta. Si era di nuovo alle soglie d'un inverno che s'annunciava durissimo.
Fu una di quelle prime notti d'ottobre - una notte d'un freddo cane che, eccitato dai discorsi tenuti a veglia, Stefano non riuscì a chiudere occhio.
Quella sera aveva spiato Caterina mentre si ficcava a letto e aveva notato l'impazienza con cui la ragazza aveva soffiato sulla candela. Anche lei quella sera appariva turbatissima; presa da una di quelle crisi di pudore che, spingendola a far presto, la impacciavano nei movimenti, col risultato di scoprirla quanto meno voleva. Ora, al buio, non dava più segno di vita; ma Stefano sentiva bene che non dormiva neanche lei; che anzi pensava a lui, come lui a lei: muta comunione che non li aveva mai turbati a quel punto. Trascorsero dei minuti; né l'uno né l'altro si muoveva; solo le respirazioni si facevano affannose più cercavano di smorzarle. Due volte lui fu per alzarsi, per prenderla. Era stupido, alla fine, avere tanta voglia uno dell'altro e non appagarla mai! Perché resistere così al desiderio? I bambini dormivano; lei certo lo aspettava col cuore in gola; chiuderebbe le braccia su di lui, muta, stringendo i denti. In questa tensione passò quasi un'ora. Né lui si alzò né lei si volse dalla sua parte: dalla paura di non resistere a chiamarlo.
Più vivevano fianco a fianco e più il ritegno che li separava diveniva insormontabile; fatto di pudori, di scontrosità, di scrupoli di amicizia ch'essi stessi non avrebbero saputo spiegarsi
Capitolo quarto
- Senti, - fece la Maheu al suo uomo, - giacché ci vai per la quindicina, a Montsou, prendimi una libbra di caffè e un chilo di zucchero.
Senza alzare gli occhi dal suo lavoro - si stava rabberciando una scarpa per risparmiare i soldi del ciabattino - Maheu assentì.
L'altra, esitante:
- E senti: ti direi anche di passare dal macellaio... Un pezzetto di vitella, che ne penseresti? E' tanto che non ne vediamo!
Questa volta lui alzò il capo:
-Ma che credi? che oggi mi paghino a bigliettacci da mille? E' magra, oggi, la mia donna! Non vedi, maledizione, che tutti i momenti ci fanno incrociare le braccia per forza?
La Maheu si azzittì. S'era alla fine d'ottobre, il pomeriggio d'un sabato. Quel giorno ancora, la Compagnia aveva sospeso l'estrazione in tutti i pozzi, col pretesto che le operazioni di paga disturbavano il regolare andamento del lavoro. La verità era invece che, impressionata dall'aggravarsi della crisi, la Compagnia, non volendo aumentare uno stock già di difficile esito, coglieva ogni pretesto per mettere in forzato sciopero i suoi diecimila operai.
- E non scordarti che Stefano ti aspetta al Risparmio, - riprese la moglie. - Va' con lui; se cercano di imbrogliarti nel conteggio delle ore, lui è più fino di te, per accorgersene -. Maheu annuì.
- E poi senti un po' da quei signori per quel che riguarda tuo padre... Il medico è d'intesa con la direzione... - E volgendosi verso il suocero:
-Dico bene, voi, che il medico si sbaglia? che a lavorare ce la fate ancora?
Da dieci giorni Bonnemort non si muoveva dalla sedia; gli si erano, diceva, «intorpidite le zampe». La Maheu dovette ripetergli la domanda.
- Sicuro, - borbottò il vecchio, - che ce la farei! Non si è spacciati, per aver male alle gambe. Sono tutte storie che tirano fuori per non passarmi la pensione di centottanta.
Ben quaranta soldi, il vecchio, portava a casa. Angosciata al pensiero che potessero venirle a mancare anche quelli:
-Dio mio! - la donna si sfogò. - Se seguita così, passa poco che ci seppelliscono tutti!
- Da morti, non si ha più fame! - tagliò corto Maheu; e, piantata qualche altra bulletta, si decise a partire.
Per le maestranze del Voreux, la paga della quindicina non si sarebbe fatta che verso le quattro. Sicché nessuno si affrettava; gli uomini si gingillavano, s'incamminavano alla spicciolata; inseguiti dalla moglie che raccomandava loro una volta ancora di tornare presto. Molte li incaricavano di commissioni, nella speranza che così non si attarderebbero a bere.
Al Risparmio Stefano era sceso ad attingere notizie. Correvano voci allarmanti: la Compagnia, si diceva, era sempre più scontenta del modo con cui si eseguivano i rivestimenti; caricava gli operai di multe; un urto pareva inevitabile. Questo, che confessava, non era del resto che un appiglio che serviva a dissimulare tutto un complesso di motivi ben più gravi tenuti segreti.
Arrivando al Risparmio, Stefano vi trovò un collega di ritorno da Montsou, entrato a bere una birra; il quale raccontava che allo sportello della cassa era stato affisso un manifesto; che cosa dicesse, con precisione non sapeva. Un secondo, un terzo sopravvennero; ognuno con una versione diversa. Comunque, pareva sicuro che la Compagnia avesse preso una decisione.
Vedendo Souvarine al solito tavolo, con solo davanti il solito pacchetto di trinciato:
-Che ne dici tu? - Stefano gli chiese, sedendogli accanto. Il russo finì di arrotolarsi la sigaretta; poi con la sua flemma abituale:
-Dico che era da prevedere. E' il laccio al collo, che vogliono mettervi!
Nella situazione era lui solo, col suo acume, a vederci chiaro. Pacatamente prese a spiegare. Colpita dalla crisi, la Compagnia, se non voleva soccombere, era costretta a ridurre le spese; e, naturalmente, a dover stringere la cinghia, sarebbero gli operai: si servirebbe quindi d'ogni pretesto per ridurre le paghe. Da due mesi, le riserve di carbone giacevano intatte sui piazzaletti; quasi tutte le officine erano ferme. Siccome di sospendere il lavoro la Compagnia non ardiva, spaventata dal ristagno nelle vendite, per uscire da una situazione che la rovinava, andava in cerca di una via di mezzo: che poteva essere uno sciopero, dal quale gli operai uscirebbero sconfitti e pronti ad accettare paghe ridotte. In più, l'istituzione d'una cassa operaia la preoccupava, rappresentando una minaccia per l'avvenire; minaccia di cui lo sciopero farebbe presto a sbarazzarla, finché i fondi fossero modesti.
Rasseneur era venuto anche lui a sedersi al tavolo e i due ascoltavano costernati. Non essendovi più nel locale che l'ostessa alla cassa, ora si poteva discorrere liberamente.
- Che idea! - mormorò Rasseneur. - Perché tutto questo? La Compagnia non ha alcun interesse ad uno sciopero e gli operai neppure. Il meglio è intendersi.
Era la voce della saggezza. Rasseneur parteggiava sempre per le rivendicazioni ragionevoli. Da quando anzi aveva visto il suo antico pensionante salire così rapidamente nel favore popolare, egli inclinava ad esagerare la sua moderazione, a predicare che non si ottiene nulla quando si vuole avere tutto d'un colpo. Nella sua remissività di uomo pingue, nutrito di birra, s'andava facendo strada una segreta gelosia, aggravata dal vedere il suo locale disertato, dal notare la sempre minore frequenza con cui lo si consultava e ascoltava. Al punto che, dimentico del suo rancore contro la Compagnia, che lo aveva licenziato, arrivava qualche volta a prenderne le parti.
- Sei contro lo sciopero, tu, allora? - lo apostrofò dalla cassa la moglie. E siccome lui dichiarava reciso di sì, lei dandogli sulla voce:
-Ebbene, sei un coniglio, ecco cosa! Lascia parlare i signori!
Stefano, con gli occhi sul boccale che la donna gli aveva servito, rifletteva. Alzando alfine il capo:
-Probabilissimo quel che dice il collega; e a questo sciopero bisognerà risolversi, se ci costringeranno... Pluchart per l'appunto m'ha scritto in proposito cose giustissime. Lui pure, per principio, è contrario allo sciopero, visto che l'operaio non ne soffre meno del datore di lavoro; senza che con ciò si arrivi a nulla di decisivo. Ma, nello sciopero, egli vede un'ottima occasione per decidere i nostri ad aderire alla sua grande Associazione... Del resto, ecco qui la lettera.
Infatti, Pluchart, deluso dalla diffidenza che l'Internazionale incontrava fra i minatori di Montsou, sperava di vederli aderire ad essa in massa il giorno che entrassero in conflitto con la Compagnia. Per quanto si fosse adoperato, Stefano non era riuscito a procurargli un nuovo iscritto; vero è che del proprio ascendente si era valso soprattutto a pro della cassa di previdenza; ma il fondo raccolto era per ora così tenue che, come diceva Souvarine, farebbe presto ad esaurirsi; e fatalmente gli scioperanti si butterebbero allora nelle braccia dell'Internazionale per essere soccorsi nella lotta dai loro fratelli di tutto il mondo.
- Quanto avete in cassa? - chiese Rasseneur.
- Tremila appena. E, avant'ieri, non lo sapete?, la Compagnia m'ha fatto chiamare. Oh sono stati compitissimi; m'hanno ripetuto che non avevano nulla in contrario a che i loro operai si creassero un fondo di previdenza... Ma ho ben capito che desidererebbero però averne il controllo... Senza dubbio dobbiamo aspettarci un'opposizione da quella parte.
Udita la cifra, l'oste s'era messo ad andare su e giù e a fischiettare sprezzante. Tremila franchi! che ci esce con tremila franchi? il pane di una settimana, a dir molto! E se era sui soccorsi dal di fuori, dall'Inghilterra, che bisognava contare, meglio fin d'ora andarsene a nanna e tenersi ben chiotti. No, uno sciopero in quelle condizioni, era troppo stupido.
Allora tra quei due uomini che nel loro comune odio per il capitale finivano di solito per intendersi, corsero per la prima volta parole aspre.
Indirizzandosi a Souvarine:
-Vediamo: e tu che ne dici? - chiese Stefano.
In risposta il russo lanciò la solita frase sprezzante:
-Gli scioperi? Sciocchezze! - Poi, nell'imbarazzato silenzio che seguì, aggiunse placido:- Insomma, no non dico, se vi fa piacere. Lo sciopero è una cosa che rovina gli uni, uccide gli altri; per cui un po' di piazza pulita la fa. Solo che di questo passo, per rigenerare il mondo, occorrerebbero almeno dieci secoli. Cominciate dunque a farmi saltare codesta galera che vi succhia il sangue a tutti -, e della mano femminea indicava gli edifizi del Voreux, in vista per il vano della porta rimasta aperta.
Ed avrebbe seguitato, ma un incidente lo interruppe: Polonia la grassa coniglia domestica, che s'era arrischiata fuori, rientrava d'un balzo, fuggendo la sassaiola d'un branco di monelli; e riparando spaurita contro di lui, le orecchie ciondoloni, il codino ritto, gli si strofinava negli stinchi, implorava perché la pigliasse su. Come l'ebbe accolta sulle ginocchia e ricoverata sotto le mani, il russo cadde in quella specie di trasognato torpore, in cui il contatto della morbida e tiepida pelliccia ogni volta lo immergeva.
Quasi all'istante stesso, comparve Maheu. Invano la Rasseneur insisté perché bevesse (la donna aveva un modo di proporre una birra che si sarebbe detto la regalasse). Stefano si alzò e i due partirono insieme per Montsou.
Nei giorni che ai cantieri si facevano le paghe, la cittadina assumeva l'aria di festa delle allegre domeniche di fiera. Da tutte le borgate operaie i minatori vi affluivano in massa.
L'ufficio cassa essendo troppo angusto, attendevano sull'ingresso, stazionavano in crocchi in mezzo alla strada, la sbarravano d'una coda che continuamente si rinnovava. Profittando dell'occasione, venditori ambulanti impiantavano lì le loro bancarelle, esponendo in vendita ogni sorta di mercanzie; taluni persino stoviglie e salumi. Ma a fare buoni incassi erano soprattutto gli spacci di birra e le liquorerie, dove i minatori entravano di preferenza: prima, per ingannare l'attesa; intascata la paga, per bagnarla. Né mancavano scapestrati che non rincasavano senza aver fatto una punta anche al Vulcano.
Nei gruppetti di minatori che affollavano la strada non regnava quel giorno il buonumore che vi metteva di solito l'aver toccato la quindicina e l'andare scemandola di locale in locale. Maheu e Stefano vi avvertirono invece un sordo malcontento, sempre più evidente via via che si inoltravano. Pugni si serravano, parole di minaccia correvano di bocca in bocca.
- E' vero, allora? - chiese Maheu a Chaval, incontrato davanti a Piquette. - Hanno fatto la porcata? - Ma quello, lanciata a Stefano un'occhiata di traverso, si limitò a rispondere con un grugnito di rabbia. Dacché era passato a lavorare con altri, Chaval aveva sentito crescere in sé nei riguardi di Stefano un'ostilità fatta d'invidia: «quell'ultimo venuto, - diceva, - che si dà arie di padreterno e al quale tutto il borgo lecca le scarpe». Invidia che si complicava di gelosia; tanto che conducendo Caterina a Réquillart o dietro il terrapieno, non c'era volta che non l'accusasse nei termini più offensivi di farsela col pigionante di sua madre; dopodiché, ripreso per la ragazza da un desiderio bestiale, la massacrava di carezze.
Maheu chiese ancora:
-Hanno cominciato a pagare il Voreux? - Chaval accennò di sì e volse le spalle, mentre i due si decidevano ad entrare ai cantieri.
L'ufficio paga consisteva in una stanzetta rettangolare, spartita in due da un assito. Sulle panche, cinque o sei minatori sedevano in attesa; mentre il cassiere, assistito dall'impiegato, era dietro a pagarne un altro, ritto col berretto in mano, davanti allo sportello. Sull'intonaco grigio-fumo della parete di sinistra, spiccava, incollato di fresco, un manifesto giallo: il manifesto davanti al quale dal mattino i minatori sfilavano. In due, in tre restavano lì piantati; poi, senza far motto, ripartivano, accasciando le spalle, come fiaccati alla spina dorsale. Due adesso vi sostavano davanti: un giovane con una testa quadra di bruto e un vecchio pelle e ossa, dall'aria ebete. Le labbra del primo compitavano sillaba a sillaba, senza che ne uscisse suono; l'altro che non era in grado di fare neppure questo, si limitava a fissare intontito l'avviso. Erano molti che venivano così, unicamente a vedere.
- Leggici dunque che dice, - disse al compagno Maheu, che anche lui a leggere stentava.
L'avviso era diretto alle maestranze di tutti i pozzi. La Compagnia informava che, vista la trascuratezza con cui si seguitavano a eseguire i rivestimenti, stanca di infliggere multe senza alcun risultato, era venuta nella determinazione di adottare per gli operai dei cantieri un nuovo sistema di pagamento. D'ora in poi, cioè, compenserebbe il rivestimento a parte; a metro cubo di legname reso in cantiere e impiegato, basandosi sulla quantità necessaria a un lavoro ben fatto. Il prezzo per berlina di carbone estratto verrebbe di conseguenza abbassato da 50 a 40 centesimi, non senza tuttavia tener conto della natura del terreno e della distanza del cantiere dal piano di carico. Seguiva un calcolo, pochissimo chiaro, tendente a dimostrare che la diminuzione di dieci centesimi per berlina veniva a essere esattamente compensata dal prezzo corrisposto per il rivestimento. Affinché ciascuno avesse il tempo di convincersi del vantaggio che il nuovo sistema di pagamento presentava - aggiungeva il manifesto - la Compagnia differiva sino al primo dicembre, un lunedì, l'applicazione della nuova tariffa.
Dallo sportello, il cassiere:
-Voi, lì, non potreste leggere senza gridare? qui non ci si intende più!
Stefano seguitò come quello avesse parlato ai muri. La voce gli tremava.
La lettura era finita e nessuno ancora staccava gli occhi dal manifesto; il vecchio minatore e il giovane avevano l'aria di aspettare dell'altro; finché si decisero e uscirono, accasciando le spalle.
- Ah perdìo! - fece, con appena il fiato, Maheu. S'erano lasciati andare sulla panca; assorti, a testa bassa, conteggiavano mentalmente, mentre altri prendevano il loro posto davanti al manifesto. Che ci si beffava di loro? Col rivestimento, mai riuscirebbero a riacchiappare i dieci centesimi che perdevano per berlina: di otto, a dir tanto, si rifarebbero. Erano due centesimi bell'e buoni di cui la Compagnia li derubava; a non tener conto del tempo che un rivestimento ben fatto porterebbe via... Ecco dunque a che cosa la Compagnia voleva venire! a un ribasso di salario mascherato! Realizzava delle economie nelle tasche dei suoi operai.
- Ah perdìo! - ripeté Maheu risollevando il capo. - Siamo dei vigliacchi se accettiamo!
Lo sportello era libero; vi si diresse. Gli assuntori di lavoro a cottimo ritiravano la paga anche per i soci: ciò che facilitava l'operazione.
- Maheu e soci, vena Filonnière, cantiere numero sette.
Cantilenando, l'aiuto cassiere cercava sulle liste risultanti dallo spoglio dei libretti di lavoro dove i capisquadra segnavano giorno per giorno il numero delle berline spicciate. Trovato che ebbe, con la stessa voce:
-Maheu e soci, - ripeté, - vena Filonnière, cantiere numero sette... Centotrentacinque franchi -. E già il cassiere contava l'importo.
Allibito, Maheu guardò quel poco danaro, mentre un senso di freddo gli arrivava al cuore; e astenendosi dal toccarlo:
-Scusi, - balbettò, - è sicuro che non ci sia errore?
Certo, una paga magra se l'aspettava; ma, a meno che non avesse fatto male i conti, non a quel punto! Di così poco, versato a ogni socio quello che gli spettava, per sé e la famiglia gli resterebbe sì e no una cinquantina di franchi.
- No, no, non c'è sbaglio, - rispose l'impiegato. - Dovete levare due domeniche e quattro giorni di sospensione di lavoro. Avete dunque nove giorni.
Maheu rifaceva mentalmente il conto; no, neanche con la sottrazione di sei giorni, il conto tornava. E stava per dirlo, quando l'impiegato aggiunse:
-E non scordate le multe: venticinque franchi di ammenda per la cattiva esecuzione dei rivestimenti.
Maheu ebbe un gesto disperato. Quattro giorni di disoccupazione, venti cinque franchi d'ammenda, ora sì, non c'era più nulla da ribattere. Ohimè! e dire che quando Bonnemort lavorava e il guadagno di Zaccaria entrava in casa, sino a centocinquanta franchi incassava di quindicina!
- Insomma, - s'impazientì il cassiere, - lo ritirate o no questo denaro? Vedete bene che ci sono altri che attendono d'essere pagati. Se non lo volete, ditelo!
E con la grossa mano che tremava, Maheu s'era deciso a raccogliere il danaro, quando l'impiegato sovvenendosi:
-Aspettate! ho qui il vostro nome. Ognissanti Maheu, è vero? Il segretario generale desidera parlarvi. Entrate, è solo.
Frastornato, Maheu obbedì e si trovò in uno studio tappezzato di "reps" verde stinto, ammobiliato di vecchio acagiù. E per cinque minuti ascoltò, senza quasi udire tanto le orecchie gli ronzavano, ciò che il segretario gli diceva: un tipo alto slavato che gli parlava da seduto, d'oltre la valanga di cartacce che ingombravano lo scrittoio. Ah, di suo padre gli parlava; di Bonnemort che stava per essere messo a riposo con una pensione di centocinquanta franchi; centocinquanta, a un uomo di cinquant'anni che ne ha passati quaranta nella miniera. Ma non era tutto; e con voce più dura il segretario passava a parlare di lui, Maheu Ognissanti; lo accusava di occuparsi di politica, accennava al giovane che teneva a dozzina, alla faccenda della cassa di previdenza; infine, per il suo bene, lo consigliava a non lasciarsi montar la testa, a non commettere pazzie, a non compromettersi lui che era uno dei migliori operai del Voreux. Alla lavata di capo, Maheu volle ribattere; ma non gli uscì che qualche parola sconnessa; strapazzò tra le mani febbrili il berretto e si ritirò balbettando:
- Certamente, signor segretario... Le assicuro che... Fuori, raggiunto Stefano, sbottò: - Sono un buono a nulla, avrei dovuto rispondergli per le rime! Non ci dànno di che sfamarci e poi vengono ancora a romperci le scatole con queste osservazioni... Sì, è contro di te che ce l'ha; dice che hai messo su contro la Compagnia tutto il borgo operaio... Ma che fare, santo Dio? piegare la schiena e dire grazie... Ha ragione lui: è ancora il meglio... - e tacque, combattuto tra stizza e paura. Stefano, buio in viso, rifletteva.
Ripassarono attraverso i capannelli di operai che sbarravano la strada. Nei crocchi l'esasperazione cresceva: un'esasperazione chiusa, senza gesti, di gente calma per temperamento; un sordo mormorio saliva da tutta quella folla pesante, foriero di tempesta. C'era stato chi aveva fatto il conto del profitto che la Compagnia realizzava con la nuova tariffa; e la notizia di quell'economia fatta ai loro danni circolava, sdegnava i più tardi a capire. Ma, a irritare gli animi, era soprattutto la delusione per la disastrosa paga riscossa; la ribellione, cui li incitava la fame, contro le continue sospensioni di lavoro e le continue multe. Se già stentavano a sfamarsi, come camperebbero guadagnando ancor meno? Nei caffè si alzava apertamente la voce; le proteste asciugavano a tal punto le gole che la sparuta quindicina finiva sul banco degli spacci.
Nel ritorno, Stefano e Maheu non scambiarono parola.
A vedere il marito rincasare a mani vuote, la Maheu, ch'era sola coi ragazzi:
-Ebbene, così mi torni? né caffè né zucchero? Bel modo! Un pezzetto di vitella non sarebbe stato la rovina!
Preso da un groppo alla gola, che non riusciva a vincere, l'uomo non rispondeva. Poi un impeto di disperazione gli scompose il rozzo viso incallito, un impeto di pianto gli gonfiò gli occhi. Abbandonandosi su una sedia, buttò i cinquanta franchi sul tavolo e ruppe in singulti come un bambino:
-Tieni, - tartagliando, - è tutto quello che ti porto: il nostro guadagno fra tutti!
Quasi a chiedergli spiegazione, la donna si volse verso Stefano; vedendolo muto e accasciato, capì e s'abbandonò anche lei alla disperazione. Come vivere quindici giorni, in nove, con cinquanta franchi? Zaccaria li aveva piantati, il vecchio non poteva più muovere le gambe: era la fine a breve scadenza. Sconvolta a vedere la madre piangere, Alzira le si buttò al collo; i due piccini presero a singhiozzare.
E ben presto da tutto il borgo operaio sorse lo stesso grido di disperazione, lo stesso lagno. Gli uomini erano rientrati; ogni famiglia si desolava alla vista dell'irrisoria quindicina. Delle porte si aprirono; quasi che gli interni fossero troppo angusti per contenere la loro disperazione, delle donne si fecero sulle soglie a smaniare. Piovigginava, ma chi se ne accorgeva? Si chiamavano l'un l'altra, l'un l'altra si mostravano sulla mano tesa il ricavo della quindicina.
- Ve', ecco che gli hanno messo in mano! Non è infischiarsi della povera gente?
- E io, guardate! Neppure di che pagare il pane!
- E io, allora? Contate! Ci toccherà venderci la camicia!
Con le altre, uscì sulla strada la Maheu. Un assembramento si formò intorno alla Levaque che strillava più delle altre: quel lazzarone di suo marito aveva addirittura fatto a meno di rincasare; certo, magra o grassa, la quindicina si stava liquefacendo al Vulcano. Filomena teneva d'occhio Maheu: la parte che di quei cinquanta franchi le spettava non finisse in mano di quello scriteriato di Zaccaria. Padrona di sé, appariva solo la Pierron: oh lei sapeva bene che il suo accomodante marito si tirerebbe sempre di impiccio; che sul suo libretto di caposquadra comparirebbero sempre più ore che non ne avesse fatto. Sdegnata della viltà del genero, l'Abbruciata invece stava con le più scalmanate: ritta al centro d'un gruppo, tendeva minacciosa il braccio scheletrico verso Montsou; e, senza nominarli, gridava all'indirizzo degli Hennebeau:
-Dire che non più tardi di stamane ho visto passare in carrozza la loro domestica. Sì, la cuoca, in tiro a due, che certo andava a comprare il pesce a Marchiennes! - Le rispose un coro di voci indignate. L'idea di quella cuoca in grembiule bianco, mandata in carrozza al mercato, esasperò le donne. Neanche del pesce, potevano fare a meno, quelli là, mentre i loro operai crepavano di fame! Ah, ma non sarebbe sempre così! anche per i poveri verrebbe il loro turno! E quel grido di rivolta riecheggiava le idee seminate da Stefano, le diffondeva. L'attesa della promessa età dell'oro si acuiva; impazienti di ottenere la loro parte di felicità, smaniavano di evadere dalla povertà che li imprigionava. Ormai l'ingiustizia con cui erano trattati passava ogni limite; visto che anche il pane strappavano loro di bocca, essi finirebbero bene per esigere il loro diritto. Le donne in specie avrebbero voluto prendere subito d'assalto, entrare subito con la forza nella città ideale dove non esisterebbero più miserabili.
Già scendeva la notte; e, sotto il rinforzare della pioggia, tra lo scatenato scorrazzare dei ragazzi, le donne seguitavano ancora a riempire la contrada di strilli e di pianti.
Quella sera stessa, al Risparmio, lo sciopero venne deciso. Rasseneur non vi si opponeva più; Souvarine lo accettava come un primo passo. Fu Stefano a riassumere la situazione in una frase: dacché lo voleva, come coi fatti mostrava, la Compagnia avrebbe lo sciopero
Capitolo quinto
Passò una settimana. Al Voreux si seguitava a lavorare; ma torvi e sospettosi nell'attesa del conflitto.
Per i Maheu la quindicina si annunciava anche più grama della precedente: prospettiva che inaspriva la Maheu, nonostante la sua moderazione e remissività. Una notte Caterina non s'era permessa di dormire fuori di casa, per ricomparire il mattino dopo così sfinita e male in gamba da non essere in grado di recarsi al pozzo? Piangendo, la ragazza aveva raccontato che era stato Chaval a trattenerla presso di sé, minacciandola di botte se non gli ubbidiva. Preso da una crisi di gelosia, l'amante voleva impedirle di tornare nel letto di Stefano, dove, sosteneva, i suoi la facevano dormire. Furente, la madre aveva ingiunto alla figlia di romperla con un simile bruto; andrebbe lei a cercarlo a Montsou e a prenderlo a schiaffi. Ma intanto era un'altra giornata di lavoro perduta; e del resto Caterina, ormai che s'era messa con Chaval preferiva ancora restare con lui.
Due giorni dopo, un altro guaio. Il lunedì e il martedì, Gianlino che tutti in casa credevano a lavorare nel pozzo, se l'era invece squagliata per i campi spingendosi sino al bosco di Vandame e tirandosi dietro Berto e Lidia. In quali ruberie, in quali spassi di discoli precoci avessero occupato le due intere giornate, mistero. Lui s'ebbe in pubblico dalla madre una sculacciata così persuasiva che la ragazzaglia che vi assistette ne restò atterrita.
- Che se ne sono mai viste di compagne? - gridava la Maheu. - Figlioli che è costato un occhio allevare, che hanno ormai il sacrosanto dovere di portar soldi in casa e che invece... - Grido che le strappava dal cuore il ricordo della sua giovinezza di stenti, l'abitudine alla miseria che in ogni figlio fa vedere, da quando è in culla, un sostegno per l'avvenire. E ancora l'indomani, all'ora che tutti partivano per il pozzo, la Maheu si sollevò da letto per dire a Gianlino:
-E tu, gaglioffo, tieni a mente che se ti ci provi ancora, è la volta che al deretano ti ci levo la pelle!
Nel nuovo cantiere il lavoro era duro. In quel punto la vena Filonnière era così sottile che i minatori, schiacciati tra tetto e muro, per abbattere si scorticavano i gomiti... Aggiungi che più si avanzava più cresceva l'umidità; c'era da temere d'ora in ora l'improvviso erompere di uno di quei torrenti d'acqua che schiantano le rocce e travolgono gli uomini. Ancora il giorno prima, Stefano, nel ritirare la piccozza conficcata profondamente nel terreno, aveva ricevuto in faccia un getto d'acqua: semplice allarme per fortuna che aveva solo inzuppato e reso più malsana la cava.
Al pari dei compagni, del resto, il giovane ormai non si preoccupava più di possibili rischi, assorto interamente nel suo lavoro, era diventato com'essi incurante del pericolo; allo stesso modo che, vivendo in mezzo al grisù, non ne avvertiva più il peso sulle palpebre, la sensazione di ragnatela che metteva sulle ciglia. Era tanto se di esso ci si ricordava quando la fiammella della lampada scemava e si tingeva di turchino; qualcuno allora metteva l'orecchio contro la vena e restava un attimo in ascolto di quel gorgoglìo che sfuggiva dalle crepe. Piuttosto, sempre incombente era la minaccia delle frane; non solo perché i rivestimenti, sbrigati in fretta, erano insufficienti, ma anche perché, impregnato d'acqua com'era, il terreno smottava facilmente.
Già la terza volta quel giorno Maheu aveva dovuto far puntellare. Ed erano le due e mezzo, s'avvicinava l'ora dell'uscita; allungato su un fianco Stefano finiva di staccare un blocco, quando un lontano rombo, come di tuono, scosse tutta la miniera. - Che diavolo succede? - gridò, lasciando la piccozza. Avrebbe detto che alle spalle gli fosse crollata la galleria. Ma già Maheu si lasciava scivolare sul pendio del cantiere:
-Corriamo, presto! E' una frana!
Tutti lo imitarono; in un unanime impulso di solidarietà, tutti si lanciarono di corsa, in mezzo al silenzio di morte che s'era fatto. Agitando in pugno le lampade, correvano in fila indiana lungo i cunicoli, carponi come quadrupedi; e, senza rallentare, si interrogavano e rispondevano a vicenda, laconici: dove mai poteva essere? nei cantieri d'abbattimento? No, il rumore veniva da sotto! dalla galleria di carriaggio, piuttosto!
Raggiunto il pozzetto, vi scomparvero dentro inghiottiti, incitandosi e urtandosi l'un l'altro, incuranti di farsi male.
Gianlino, col ricordo ancora bruciante della correzione materna, attendeva quel giorno al suo solito lavoro. Trottava a piedi scalzi in coda al suo treno, chiudeva lui le porte d'aerazione; e solo quando non aveva a temere l'incontro d'un caposquadra, saliva sull'ultima berlina: abuso che, favorendo il sonno, era proibito. Ogni volta poi che, per dare il passo a un altro, il treno sostava in un binario morto, il suo più grande divertimento era di correre in testa a trovare il conducente: il suo amico Berto. Gli arrivava sopra di sorpresa, senza lampada; lo pizzicava a sangue, gli giocava ogni sorta di scherzetti, quali può farne una scimmietta maligna; e a una scimmia il monello infatti somigliava con quei suoi capelli color carota, le orecchie a ventola, il musetto arguto, i piccoli occhi verdi che luccicavano al buio. D'una precocità morbosa, aveva l'intelligenza ottusa e l'indemoniata sveltezza d'un aborto d'uomo che sta regredendo al primitivo stato animalesco.
Quel pomeriggio era al traino Battaglia; ed ora, fermo su un binario morto, il vecchio cavallo ripigliava fiato. Raggiungendo l'amico:
- Che cos'ha nelle corna questa vecchia brenna per arrestarsi così a secco? - chiese Gianlino. - Finirà per farmi spezzare le gambe -.
L'altro stava per rispondere; ma dovette invece trattenere Battaglia che all'appressarsi dell'altro treno, dava segni di irrequietezza. L'animale aveva riconosciuto di lontano, al fiuto, il suo compagno Trombetta; il cavallino per cui s'era preso di grande affetto dal giorno che l'aveva visto piovere dal cielo. La sua, si sarebbe detta l'amorevole commiserazione d'un vecchio filosofo, desideroso di consolare un giovane amico infondendogli la sua pazienza e rassegnazione. Trombetta, infatti, non riusciva ad acclimatarsi; trainava la berlina controvoglia; restava con la testa ciondoloni, accecato dal buio, struggendosi sempre nel rimpianto del sole. Perciò, ogni volta che lo incontrava, Battaglia allungava a lui il muso, starnutendo lo innaffiava, quasi che con quella specie di carezza volesse fargli coraggio.
- Eccoli daccapo a sbaciucchiarsi! - rise Berto. E come Trombetta fu passato; - Va' là, che è malizioso il vecchio! - spiegò a Gianlino. - Quando s'arresta come ha fatto poco fa, gli è che subodora un ostacolo; un sasso o una buca. Bada alla salute, lui; non vuol farsi male. Oggi poi, chi sa che diavolo ci trova, laggiù, dov'è la bocca d'aerazione. Spinge la porta e "alt": si pianta sulle quattro zampe. Mica hai notato qualcosa, tu, in quel punto?
- Io nulla. Acqua a bizzeffe! Ne sono inzuppato sino al ginocchio.
Il trenino ripartì. E nel viaggio successivo, com'ebbe d'una capata aperto la porta d'aerazione, di nuovo l'animale s'impuntò: nitriva, tremava. Quando si decise, fece tutto un tratto al galoppo. Gianlino era rimasto indietro per chiudere la porta. Incuriosito, si chinò a scrutare la pozzanghera in cui diguazzava; poi, alzato il capo, notò che sotto il continuo gocciolare d'una sorgente, il rivestimento aveva fatto pancia.
In quella lo raggiunse un minatore: certo Berloque, conosciuto col nomignolo di Chicot; il quale veniva di corsa dal cantiere, avvertito che la moglie era stata presa dalle doglie del parto. Lui pure si fermò a guardare ciò che il monello guardava. E già questi spiccava la corsa per raggiungere il treno, quando tutto a un tratto ecco prodursi uno spaventoso scricchiolio: fulminea la frana inghiottì uomo e ragazzo.
Seguì un profondo silenzio. Sollevata e cacciata innanzi dal vento suscitato dalla frana, una densa nube di polvere s'ingolfò per i cunicoli. Accecati, soffocati da essa, i minatori scesero da ogni parte, dai più lontani cantieri, tra un danzare di lampade che rischiaravano a malapena quell'accorrere di diavoli neri per quelle tane di talpe.
Come i primi arrivati inciamparono nell'ostacolo, si volsero a dar la voce agli altri. Quelli che provenivano dall'opposto cantiere si trovarono la strada sbarrata dal cedimento che ostruiva la galleria. Fu facile constatare che il tetto era crollato per una dozzina circa di metri. Il guasto in sé non aveva nulla di grave; ma ogni cuore provò una fitta quando di sotto il cumulo di materiale franato s'udì uscire un rantolo.
Arrestato il treno, Berto era tornato sul posto gridando:
-C'è sotto Gianlino! c'è rimasto sotto Gianlino!
In quello stesso istante Maheu sbucava trafelato dal pozzetto in compagnia di Zaccaria e di Stefano. Strozzato dall'angoscia, non poté sfogarla che in imprecazioni:
-Sacradìo! sacradìo! sacradìo!
Arrivate anch'esse di corsa, in mezzo a tutto quel trambusto che il buio accresceva, Caterina, Lidia e la Mouquette si abbandonarono a scene di disperazione. Invano si cercò di farle tacere; a ogni rantolo, come impazzite, ripigliavano a strillare.
Richomme, accorso fra i primi, e desolato che né Négrel né Danseart si trovassero nella miniera, incollò l'orecchio al cumulo di macerie. No, finì per dire, dopo essere rimasto alquanto in ascolto; non era il rantolo d'un ragazzo quello che arrivava. Certo c'era anche un uomo, lì sotto.
Già a più riprese, il padre aveva chiamato Gianlino per nome; nessuna risposta: il ragazzo doveva esserci rimasto sul colpo. E il rantolo seguitava, uguale. Alle domande:
-Chi sei? Di' il tuo nome! - solo quel rantolo rispondeva.
- Sotto, sotto! spicciamoci! - incitava Richomme che già aveva disposto il salvataggio. - Non è ora di commenti!
D'ambo i lati gli uomini attaccarono la frana con zappe e badili. Tra Maheu e Stefano, Chaval lavorava in silenzio; mentre Zaccaria dirigeva lo sgombro dello sterrato. L'ora dell'uscita era giunta; ma per quanto affamati, a nessuno veniva in mente di abbandonare i compagni in pericolo. Ma, poiché dell'insolito ritardo le famiglie s'inquieterebbero, cercarono di mandare le ragazze ad avvertire; ma né Caterina né Mouquette e neppure Lidia vollero muoversi: davano una mano anche loro; e poi, senza sapere, non se la sentivano di allontanarsi.
Andò Levaque; dicesse solo che c'era stata una frana, un semplice guasto che stavano riparando.
Alle quattro, non si fosse verificato il cedimento di qualche altro masso, la frana si sarebbe potuta dire ridotta di metà: in meno d'un'ora s'era fatto il lavoro d'una giornata. Maheu in specie ci dava dentro con tale accanimento che se uno si accostava per dargli il cambio, si vedeva respinto come un intruso.
Finché:
-Attenti adesso! Già quasi ci siamo! - raccomandò Richomme. - Adagio! che non corriamo noi il rischio di finirli!
Infatti il rantolo diventava sempre più distinto. Era esso a guidare il lavoro di scavo. Ora poi si sarebbe detto che sfiorasse i badili.
Quando, all'improvviso, cessò. Ammutoliti tutti si guardarono; rabbrividendo, come avessero sentito passare nel buio la gelida ala della morte. Grondanti sudore, i muscoli tesi a spezzarsi, cautamente procedevano nello scavo. Incontrarono un piede. Allora, lasciati i badili, presero a rimuovere la terra con le mani, a liberare il sepolto membro per membro. La testa era intatta; le lampade la rischiararono, e corse su tutte le bocche il nome di Chicot. A toccarlo, si sarebbe detto ancora in vita; la caduta di un macigno gli aveva spezzato la spina dorsale.
Richomme:
-Avviluppatelo in una coperta e caricatelo su una berlina. Il piccolo, ora! Sotto!
Toccò a Maheu il colpo di zappa che aprì nella frana il primo varco; gli uomini che lavoravano di là gridarono di aver trovato Gianlino svenuto: il ragazzo aveva ambedue le gambe spezzate, ma respirava. Fu il padre a toglierselo sulle braccia; a portarlo imprecando a denti stretti - che era il suo modo di dare sfogo al dolore; mentre straziante si levava intorno il lamento delle donne.
Il piccolo convoglio funebre fu allestito in un momento; Battaglia trainava le sue berline; nella prima, il corpo di Chicot, tra le braccia di Stefano; nella seconda, Maheu che seduto sul fondo, si teneva sulle ginocchia Gianlino coperto da un cencio strappato a una porta di aerazione. Si partì al passo. Su ciascuna berlina metteva la sua stella rossa una lampada da minatori. Dietro venivano i minatori: una cinquantina d'ombre in fila. Solo adesso gli uomini avvertivano la fatica durata; come schiacciati dal suo peso, strascicavano i piedi, barcollavano sulla fanghiglia; tetro corteo a lutto, simile a una mandria colpita da epidemia.
Quasi mezz'ora s'impiegò ad arrivare al piano di carico; in quel buio pesto, lungo quelle gallerie che si lanciavano diritte, svoltavano, si biforcavano, il sotterraneo corteo pareva non finir mai.
All'imboccatura del pozzo, prevenuto da Richomme corso avanti, Pierron teneva pronta una gabbia; vi furono caricate le due berline. Sotto la gelida pioggia che scrosciava dall'alto, la gabbia impiegò due minuti a risalire. Gli uomini che vi avevano trovato posto guardavano in su, più impazienti del solito di rivedere la luce. All'uscita già il medico attendeva (il manovale spedito a cercarlo, aveva avuto la fortuna di trovarlo in casa). Nella stanza dei capisquadra, dove tutto l'anno ardeva un gran fuoco, erano stati approntati secchi d'acqua calda e stesi per terra due materassi; sui quali il morto e il ferito vennero adagiati. Solo Stefano e Maheu furono ammessi; gli altri s'accalcarono lì fuori, commentando a bassa voce l'accaduto.
Data un'occhiata a Chicot:
-Andato! - disse subito Vanderhaghen. - Potete lavarlo -. Il corpo fu spogliato, lavato con una spugna, deterso del carbone che il sudore appiccicava ancora alla pelle.
Inginocchiato sull'altro materasso, ora Vanderhaghen esaminava il ferito. Liberò il capo dalla cuffia; sfilò con destrezza il camiciotto, i calzoni, la camicia. E il misero corpicino apparve in tutta la sua magrezza d'insetto; sudicio di carbone, imbrattato di fango, chiazzato qua e là di sangue.
Niente né al capo né al torace... Ah, ecco qui: sono le gambe che ne hanno toccato!
Per mettere le ferite a nudo, lo lavarono. Sotto la spugna, il corpo apparì anche più scarno; la carne era così livida che ne trasparivano le ossa. Faceva pena vedere come era ridotto quell'esserino, quell'ultimo rampollo di tutta una discendenza di morti di fame, semistritolato dal peso delle rocce. Una volta che il corpo fu pulito si distinsero nettamente le contusioni alle cosce: due ecchimosi paonazze che spiccavano sul biancore della pelle.
Rinvenendo, Gianlino emise un gemito. Piantato in piedi a piè del materasso, le braccia penzoloni, Maheu lo guardava; la commozione lo sopraffece, si lasciò sfuggire un singulto. Alzando il capo:
-Ah sei tu il padre? - fece il medico. - Non è il caso di disperarsi, vedi bene che è vivo. Dammi una mano, piuttosto... Si trattava di due fratture semplici; ma quella della gamba destra destava preoccupazione; quasi certo si sarebbe reso necessario amputare.
Informati dell'accaduto, arrivarono intanto Négrel e il capo- sorvegliante, in compagnia di Richomme che aveva finito per pescarli. Evidentemente irritato, l'ingegnere ascoltava il racconto che il caposquadra gli faceva. Non si tenne: sempre per via di quei maledetti rivestimenti! Non l'aveva detto e ripetuto cento volte, lui, che qualcuno finirebbe per lasciarci la pelle? Razza di animali, che, se li si costringeva ad armare meno alla carlona, uscivano a parlare di sciopero! E fossero loro, almeno, in caso di disgrazia, a pagare i cocci! ma era la Compagnia che adesso doveva far le spese. Bella accoglienza gli farebbe Hennebeau, quando lo informerebbe dell'accaduto!
Sfogatosi:
-Chi è? - chiese a Richomme, che durante quella sfuriata non aveva aperto bocca, gli occhi sul morto che stavano avvolgendo in un lenzuolo.
- E' Chicot, un buon operaio... lascia tre bambini, poveraccio!
Vanderhaghen chiese che il ferito venisse senza indugio trasportato in casa dei genitori. Suonavano le sei, già la sera calava; meglio sgombrare di lì anche il morto; e Négrel ordinò che si attaccassero i cavalli al carro funebre e si recasse una barella. In questa venne adagiato il ferito, mentre sul furgone si caricava il cadavere, in una col materasso. Il gruppo di operai che si pigiava fuori, trattenuto da curiosità e da desiderio di notizie, ammutolì all'aprirsi dell'uscio.
Dietro il carro funebre e la barella, un nuovo corteo si formò che, attraversato il piazzaletto, a lento passo attaccò l'erta che saliva al borgo operaio. Intorno la sconfinata pianura che i primi freddi avevano spogliato e che il calar della notte andava via via nascondendo alla vista, come dentro un sudario caduto dal livido cielo.
Stefano suggerì sottovoce a Maheu di mandare avanti Caterina a preparare la madre. Maheu, che seguiva la barella con l'aria intontita del toro che ha ricevuto la mazzata, assentì col capo; e la ragazza spiccò la corsa.
Ma già si arrivava; già nel borgo era stata segnalata la comparsa del lugubre carro. Come impazzite, donne uscivano sulla strada, abbandonandosi alla disperazione; altre, vestite come si trovavano, correvano incontro al corteo. Il loro numero crebbe in un batter d'occhio; le strozzava tutte la stessa angoscia. Ah c'era dunque un morto? chi era? La notizia della frana, portata da Levaque, se era servita lì per lì a rassicurarle, ora contribuiva ad allarmarle. Una frana! chissà allora quanti c'erano rimasti! questa non era che una prima vittima! chissà quante ne seguirebbero!
La Maheu, che già covava in sé un brutto presentimento, alle prime parole balbettate dalla figlia:
-Ah, tuo padre! - era balzata su a gridare; e, senza voler sentire altro, s'era precipitata fuori. Alla vista del furgone che proprio in quel momento sbucava di dietro la chiesa si sbiancò in viso, vacillò.
Sulle porte, donne, mute di spavento, allungavano il collo; altre si accodavano al corteo, chiedendosi trepidanti davanti a che soglia si arresterebbe.
Quando, passato che fu il funebre veicolo, la Maheu scorse il suo uomo che accompagnava la barella e vide la barella fermarsi davanti a casa sua e nella barella Gianlino storpiato ma vivo pure lui, l'angoscia le si convertì dentro in tanta stizza, e, mentre intorno a lei Alzira, Leonora ed Enrico si buttavano a piangere, lei senza una lacrima:
- Ah, non è che questo! - balbettò infuriandosi:
-Anche i figli adesso ci storpiano! Tutt'e due le gambe, mio Dio! che me ne faccio adesso?
Vanderhaghen le diede sulla voce: avrebbe dunque preferito che ci fosse rimasto? Tacesse, almeno! Ma le sue parole non fecero che inasprirla di più; pur dando una mano a portare in casa il ferito e procurando al medico ciò che gli occorreva, imprecava contro la sorte: ecco ora un invalido di più da mantenere che si aggiungeva, come non ne avesse abbastanza di bocche inutili da sfamare! Dove lo troverebbe il danaro?
Ai suoi strilli che non accennavano a cessare, s'erano intanto uniti i lamenti strazianti che uscivano da una casa vicina; quelli della moglie e dei tre bambini di Chicot.
La notte era calata; dopo la spossante giornata, gli uomini potevano alfine sedersi davanti alla grama minestra. Un tetro silenzio era caduto sul borgo, rotto solo da quegli ululati.
Tre settimane trascorsero. L'amputazione era stata evitata, ma Gianlino continuerebbe a zoppicare per il resto della vita. In seguito ad un'inchiesta, la Compagnia s'era indotta a venire in aiuto alla famiglia con un'elargizione di cinquanta franchi; impegnandosi inoltre di trovare al ragazzo, una volta che si fosse ristabilito, un'occupazione che gli risparmiasse di ridiscendere nel pozzo. Del colpo, comunque la situazione dei Maheu si risentì parecchio, anche perché un febbrone, causato dalla scossa ricevuta, costrinse il padre a restare per qualche giorno a letto.
Arrivò la domenica; solo da tre giorni Maheu aveva ripreso il lavoro. Quella sera, a veglia, Stefano portò il discorso sulla nuova tariffa che col primo dicembre avrebbe dovuto entrare in vigore. La manterrebbe, la Compagnia, quella minaccia? si mostrava preoccupato.
Stettero alzati più del solito, in attesa che Caterina rincasasse: la ragazza era, si capisce, con Chaval. Ma Caterina non rincasò. Alle dieci, la madre tirò il paletto, muta d'ira. Quella notte Stefano stentò a prendere sonno: lo teneva sveglio quel letto lì vicino; vuoto, si poteva dire, tanto poco posto Alzira vi teneva.
Neppure l'indomani Caterina si fece viva. Fu solo la sera, tornando dal lavoro, che i Maheu appresero la decisione di Chaval di tenere ormai l'amante con sé. Stanca delle continue scenate di gelosia che Chaval le faceva Caterina s'era indotta a mettersi definitivamente con lui. Per evitare le recriminazioni della famiglia, di punto in bianco Chaval aveva lasciato il lavoro al Voreux e s'era ingaggiato alla Jean-Bart, il pozzo di Deneulin, dove lei lo aveva seguìto. La coppia abitava però sempre a Montsou, da Piquette.
Maheu, sulle prime, parlò, sì, di andare a prendere a schiaffi Chaval e di ricondurre a casa la figlia a calci in culo. Ma poi ci ripensò: a che pro? non era sempre così che andava a finire? Impossibile impedire a una ragazza di attaccarsi a un uomo, il giorno che gliene viene l'uzzolo; meglio pazientare, nell'attesa che lui la sposasse. Avviso che la Maheu non condivideva:
-Forse che l'ho picchiata, io, quando è venuto fuori questo Chaval? - gridava prendendo a testimone Stefano, che ascoltava pallido in silenzio. - Orsù, dite, voi che siete un giovane ragionevole. L'abbiamo lasciata libera di fare quel che voleva, non è così? visto che, mio Dio, finiscono tutte per cascarci... Io stessa che parlo, ero incinta quando Maheu mi ha sposato. Io però non me la sono filata, sono rimasta coi miei. Mai, da ragazza, avrei fatto la porcheria di portare il mio guadagno a un uomo che non ne aveva bisogno... Ah, è una cosa che mi rivolta, vedete! Ci sarebbe da perdere per sempre la voglia di mettere al mondo dei figli!
E siccome Stefano scuoteva solo il capo, s'ostinava a tacere, lei accalorandosi:
-Una ragazza che tutte le sere andava dove le pareva e piaceva! Che cosa ci ha dunque nel sangue? il pepe? Non poteva aspettare che fosse sua madre a maritarla, una volta che ci avesse aiutato a cavarci dai guai? Non ho forse ragione? Ma ecco com'è; noi siamo stati troppo buoni con lei, non avremmo dovuto lasciare che andasse con un uomo. Concedi un dito ed esse ti prendono la mano.
Alzira approvava col capo. Leonora ed Enrico, impauriti al veder la madre così adirata, piangevano, cercando di non farsi sentire; mentre la donna passava ora a elencare i suoi guai: primo, Zaccaria che s'era stati costretti ad accasare; poi, il vecchio, paralizzato lì su quella sedia dai reumatismi; poi, Gianlino con le gambe male rabberciate, che non sarebbe in grado di lasciare il letto che fra dieci giorni; e infine questa ultima tegola, quella poco di buono di Caterina, che li piantava per il ganzo! Tutta la famiglia si sfasciava. A tirare il carro non restava che il padre! Come vivere in sette persone, a non contare Estella, sui tre franchi di Maheu?
- Non ci cambi nulla, a roderti! - osservò questi, cupo. - E non si è ancora alla fine, ho paura!
Stefano che durante tutta la sfuriata della donna non aveva tolto gli occhi da terra, a questa alzò il capo; e con lo sguardo come assorto in un lontano miraggio: - Ah l'ora è venuta! è venuta, l'ora!
PARTE QUARTA
Capitolo primo
Per quel lunedì, gli Hennebeau avevano invitato a colazione i Grégoire con la figliola. Nel pomeriggio, Paolo Négrel avrebbe condotto !a signorina a visitare gli importanti lavori con cui si stava rimodernando il pozzo di Saint-Thomas; pretesti, sia la colazione che la gita, escogitati dalla Hennebeau per affrettare le nozze tra il nipote e Cecilia. Ed ecco che proprio quel lunedì, scoppiava lo sciopero: come un fulmine a ciel sereno.
Il primo dicembre, allorché la Compagnia aveva annunciato la prossima entrata in vigore del nuovo salario, i minatori erano rimasti calmi; e così, il giorno in cui s'era fatta la paga della prima quindicina, nessuno di loro aveva sollevato la minima obiezione. Per cui tutti, dal direttore all'ultimo sorvegliante, credevano la nuova tariffa accettata; tanto maggiore perciò la sorpresa per l'improvvisa levata di scudi. Lo sciopero era stato preparato con tanta segretezza e riusciva così unanime da far sospettare in chi l'aveva diretto un'energia non comune.
Il direttore ne ebbe la prima notizia da Danseart, venuto a svegliarlo alle cinque per avvertirlo che, al Voreux, non un uomo era sceso; e che la borgata dormiva profondamente, a porte e finestre chiuse. Ma peggiori notizie lo aspettavano. Balzato da letto e messosi al lavoro ancora pieno di sonno, Hennebeau vedeva abbattersi sullo scrittoio, come una gragnuola, dispacci su dispacci; mentre ogni quarto d'ora un nuovo latore di cattive notizie chiedeva di essere ricevuto. In principio egli sperò che la rivolta si limitasse al Voreux; ma dovette presto disilludersi. A Mirou, a Crèvecoeur, alla Madeleine non s'erano presentati che gli addetti ai cavalli; alla Victoire e a Feutry- Cantel, i due pozzi più disciplinati, solo due terzi delle maestranze avevano preso servizio; unico, Saint-Thomas si teneva sinora fuori del movimento.
Sino alle nove, il direttore non fece che battere telegrammi: al prefetto di Lilla, alle autorità civili e militari, agli amministratori della Compagnia, per avvertire e chiedere istruzioni. Infine, per avere precisi ragguagli, mandò Négrel a fare un giro di ispezione nelle miniere vicine.
Solo a questo punto, si sovvenne dell'invito a colazione; e già stava per mandare il cocchiere dai Grégoire per disdirlo, quando un'esitazione lo arrestò. L'uomo che con tanta risolutezza aveva nel giro di poche ore predisposto ogni cosa per affrontare la situazione, adesso mancava d'iniziativa davanti a una decisione di nessun conto. Salì dalla moglie e la trovò in accappatoio. Senza scomporsi:
-Ah, si sono messi in sciopero, - fece la donna, quando lui l'ebbe richiesta del suo avviso. - Ebbene, che ci fa? Non lasceremo mica di far colazione per questo, è vero? - Lui ebbe bel dire che la giornata non si annunziava adatta per un invito a pranzo, e che la visita a Saint-Thomas non si sarebbe potuta fare; lei trovava risposta a tutto: perché mandare a monte un desinare già avviato? Quanto alla gita, si vedrebbe al momento: se davvero presentava qualche rischio, ci si rinunzierebbe.
- Del resto, - aggiunse quando la cameriera che la pettinava se ne fu andata, - sai perché mi sta a cuore avere qui quella brava gente... Questo matrimonio dovrebbe importarti di più che non le bizze dei tuoi operai... Insomma, mi piace così: non mi contrariare.
Lui la guardò e un leggero tremito tradì, su quel viso duro e chiuso di uomo d'ordine, il morso d'un segreto dolore. L'accappatoio lasciava scoperte le spalle e il seno della donna: delle spalle e un seno di Pomona indorata dall'autunno; d'una bellezza sontuosa e, per quanto matura, desiderabile ancora. Un attimo lui dovette provare prepotente il desiderio di prenderla, di morderla come un frutto, nel tepore e nell'irritante profumo di muschio di quella stanza dove tutto respirava lusso e sensualità. Ma si contenne: da dieci anni dormivano separati.
- Sta bene, - disse andandosene. - Lasciamo tutto com'è.
Hennebeau era nato nelle Ardenne. I suoi inizi erano stati difficili. Trovatosi, ragazzo ancora, orfano e senza mezzi, aveva seguìto con ogni sorta di sacrifici il corso di ingegnere minerario a Parigi.
Laureatosi a ventiquattr'anni e partito per la Grand'Combe, aveva fatto la prima pratica nella miniera di Santa Barbara. Tre anni dopo, i pozzi di Marles, nel Pas-de-Calais, lo avevano visto ingegnere divisionale; ed era stato qui ch'egli s'era ammogliato, sposando - colpo di fortuna di regola nella sua carriera - la figlia d'un ricco filandiere di Arras. Quindici anni la coppia aveva abitato la piccola città di provincia. La monotonia di quella vita, non allietata neppure dalla nascita d'un figlio, congiurò a distaccare sempre più i due coniugi. La donna, allevata nell'adorazione del danaro, cominciò a disdegnare quel marito che guadagnava con tanto stento così poco da non consentire alla sua vanità alcuna di quelle soddisfazioni che da educanda aveva vagheggiato.
Lui, di un'onestà intransigente, non speculava, rigido come un soldato nell'adempimento del suo dovere. Ad aggravare il disaccordo tra i due s'era aggiunto sin dal principio uno di quei curiosi malintesi della carne che gelano i temperamenti più ardenti; lui adorava la moglie; lei era d'una sensualità ingorda di bionda; e già dormivano divisi, a disagio ambedue, irrimediabilmente urtati sin dal primo approccio. E, all'insaputa di lui, già la moglie aveva un amante, quando, nel desiderio di venire incontro alle aspirazioni di lei, Hennebeau lasciò i pozzi di Marles per accettare a Parigi un posto negli uffici. Ed era invece Parigi che doveva rendere definitiva la loro disunione; quella Parigi dove lei, sin dal tempo della prima bambola, aveva sognato di vivere; e dove, diventata di colpo elegante, spogliatasi nel giro d'una settimana d'ogni provincialismo, la donna si lanciò nel vortice di tutte le dispendiose follie del tempo. I suoi dieci anni di soggiorno parigino furono riempiti da una grande passione: scandaloso legame con un uomo; il cui abbandono poco mancò la uccidesse. Questa volta lui non poté ignorare; avvennero fra i due coniugi scenate tremende; ma, disarmato davanti alla placida incoscienza con cui quella donna prendeva il suo bene dove lo trovava, egli si rassegnò.
Fu dopo la rottura tra i due, allorché la vide ammalarsi di dolore, che Hennebeau aveva accettato il posto di direttore nelle miniere di Montsou, nella estrema speranza che, portata a vivere in quel deserto, la donna finisse per correggersi.
Il trasferimento a Montsou significò per la coppia un ritorno alla noia e all'irritazione dei primi tempi del matrimonio. Lei, sulle prime, parve trarre sollievo da quella grande pace, attingere calma dalla monotonia di quella piatta pianura sconfinata. Prese anzi le arie della donna finita il cui cuore è morto per sempre e che ormai si sente così distaccata dal mondo che non si cruccia neanche più di ingrassare. Ma sotto quella cenere covava un'ultima fiamma che non tardò a manifestarsi: un bisogno di vivere ancora che la donna ingannò dandosi durante sei mesi febbrilmente da fare per sistemare e arredare a suo modo la casa. Dichiarando che, nello stato in cui si trovava, era impossibile viverci, la riempì di tappezzerie, di ninnoli, di oggetti d'arte, con un gusto ed un lusso che della casa degli Hennebeau si parlò anche a Lilla. Ma appena quell'occupazione cessò di assorbirla, tutto a Montsou le divenne odioso, il paese intorno la esasperò: quelle mortificanti distese di campi, quelle strade nere che non finivano mai, quella terra senza alberi, brulicante d'una popolazione che la schifava e spaventava al tempo stesso. I lamenti dell'esiliata cominciarono. Accusò il marito di averla sacrificata a uno stipendio di quarantamila franchi, una miseria che bastava appena a mandare avanti la casa. Non avrebbe potuto anche lui come i suoi colleghi, darsi dattorno? esigere una cointeressenza, ottenere delle azioni, arrotondare insomma in qualche modo i suoi proventi? E su questo tasto insisteva con la crudeltà della moglie che ha portato in dote un patrimonio. Lui intanto, senza mai darlo a vedere, nascondendolo anzi dietro l'impassibilità dell'uomo d'affari, si torturava nel desiderio di quella creatura: passione tardiva d'una violenza che s'acuiva con l'aggravarsi dell'età. Quella donna, lui non l'aveva mai goduta da amante; e la smania di averla anche lui una volta nel modo che l'avevano avuta gli altri, lo ossessionava. Ogni mattino si proponeva di conquistarla; ma davanti alla scostante freddezza con cui quella lo guardava, alla precisa sensazione che tutto in lei si rifiutava, finiva per evitare di sfiorarle sia pure una mano. Era, la sua, una sofferenza senza possibilità di guarigione ch'egli gelosamente celava sotto un contegno gelido; lo strazio d'un cuore bisognoso di affetto che si struggeva in segreto di non aver trovato, nella compagna che s'era scelto, la felicità che si era ripromesso.
Quando più nulla la distrasse, la Hennebeau cadde in una crisi di tedio; s'atteggiò a vittima d'un esilio che ormai si augurava apertamente la conducesse alla tomba. Fu allora che arrivò a Montsou Paolo Négrel. Sua madre che, rimasta vedova d'un militare di carriera, viveva ad Avignone d'una piccola rendita, s'era costretta alla più rigida economia per mettere il figlio in grado di concorrere ad una cattedra nel Politecnico. Ma la riuscita del giovane agli esami era stata così modesta, che lo zio lo aveva persuaso a rinunziare al posto, offrendosi di assumerlo come ingegnere al Voreux. Accolto e ospitato in casa di Hennebeau come un figlio, Paolo si trovò sin dal primo momento nella possibilità di mandare alla madre millecinquecento franchi, la metà dello stipendio. Per indurlo ad accettare un così generoso trattamento, lo zio gli aveva fatto presente l'imbarazzo in cui alla sua età chiunque si sarebbe trovato, se avesse dovuto metter su casa per suo conto, in una delle villette che la Compagnia riservava agli ingegneri dei pozzi. Dal canto suo, la Hennebeau aveva dal primo giorno trattato il giovane con l'amorevolezza della buona zia che dà del tu al nipote e che veglia a che in tutto e per tutto si trovi bene. Nei primi mesi specialmente, gli aveva testimoniato un interessamento materno, sino a soccorrerlo di consigli pur nelle minime cose. Ma anche in questo compito, non cessava di essere donna; e facilmente si lasciava andare con lui a confidenze di carattere intimo. Quel giovinotto così pratico, d'una intelligenza spregiudicata, che manifestava sull'amore tanto pessimismo, la interessava; mentre la attirava l'arguzia del suo viso mefistofelico.
Manco a dirlo, finì che una sera Paolo si trovò fra le braccia della zia; lei ebbe l'aria di darsi per buoncuore: amare non poteva più; per lui intendeva unicamente essere un'amica. Infatti, non fu gelosia; si burlava di lui che trovava le operaie del pozzo al riparo di ogni tentazione e quasi gli teneva il broncio per il fatto che non avesse mai qualche avventura piccante da raccontarle. Poi, l'idea di dargli moglie la appassionò; le sembrava bello sacrificarsi, metterlo lei stessa nelle braccia di una ragazza ricca. Nonostante questo progetto, i loro rapporti seguitarono; Paolo era il suo passatempo, il suo balocco; su lui riversava le sue ultime tenerezze di donna annoiata e prossima al tramonto. Il sospetto della tresca non sfiorò Hennebeau che due anni dopo: una notte che avvertì presso l'uscio un fruscio di piedi scalzi. Ma l'idea che tra quel ragazzo e quella donna che poteva essergli madre ci fosse qualcosa, che i due ardissero consumare l'adulterio proprio in casa sua sotto i suoi occhi, gli apparì così enorme che la scacciò senz'altro. Il fatto poi che l'indomani la moglie gli confidava esultante la sua scelta d'una sposa per il nipote, del mostruoso sospetto lo fece addirittura arrossire; e per Paolo non nutrì più che riconoscenza, se grazie a lui la casa era diventata meno tetra.
Scendendo dalla camera della moglie, trovò giusto il giovinotto che rientrava dal suo giro di ispezione.
- Ebbene? Niente di grave, a giudicare dal tuo viso!
- Ho fatto il giro dei borghi. Gli operai si mantengono tutti calmi. Credo solo che ti invieranno una loro rappresentanza.
Hennebeau avrebbe voluto chiedere maggiori ragguagli; ma dall'alto giunse la voce della moglie: - Sei tu, Paolo? Vieni dunque a darmi notizie. Buffi, questi vostri operai che vorrebbero anche fare i cattivi, mentre stanno meglio di noi!
Privato così del suo informatore, Hennebeau tornò al suo tavolo di lavoro, dove nel frattempo s'erano accumulati altri telegrammi.
Alle undici arrivarono i Grégoire; i quali restarono stupiti di vedersi aprire immediatamente e della premura con cui Ippolito, gettata un'occhiata in cima e in fondo alla strada, li sollecitò a entrare. In salotto, le tende erano calate; furono fatti passare direttamente nello studio, dove Hennebeau si scusò di riceverli; ma il salotto era in vista dalla strada: indugiarvisi sarebbe stata una provocazione ch'era meglio evitare. E siccome quelli non capivano:
- Come? non sapete nulla, allora? - Ma neanche quando apprese dello sciopero, Grégoire uscì dalla sua flemma. Bah! non succederebbe nulla! erano tutti dei così bravi ragazzi! Agitando il mento, la moglie approvava, radicata anche lei nella fiducia in cui la confermava la secolare rassegnazione dei minatori; mentre Cecilia, allegrissima quel giorno, e incantevole di salute nel suo vestito color albicocca, sorrideva alla parola sciopero, che alla sua spensieratezza evocava solo passeggiate di beneficenza in giro per i borghi operai.
In quella compariva la padrona di casa, chiusa in un abito di seta nera e scortata da Négrel. Già di sulla soglia: - Che ne dite di questa seccatura? Non poteva scegliere un altro giorno, quella gente? Paolo, sapete, è d'avviso che per oggi convenga rinunciare a Saint-Thomas!
- Oh poco male! - s'affrettò a dire Grégoire. - Resteremo qui e sarà tanto di guadagnato!
Siccome Paolo s'era contentato di salutare, d'una occhiata imperiosa la Hennebeau lo spinse verso Cecilia: che diamine! così s'accoglie la fidanzata? E quando udì i due colombi tubare, li avvolse in uno sguardo materno. E mentre il marito finiva di scorrere i dispacci e rispondeva ai più urgenti, ci tenne ad avvertire gli ospiti che dell'arredamento dello studio lei non era responsabile; se no, il pesante mobilio di acagiù che lo ingombrava avrebbe da gran tempo preso la porta; come sarebbe sparita dalle pareti quella tappezzeria di carta un tempo rossa e ormai stinta; né si sarebbero viste in giro quelle cartelle tutte gualcite dall'uso.
In queste chiacchiere trascorse quasi un'ora; e si stava per passare in sala da pranzo, quando capitò Deneulin. Inchinatosi appena alla padrona di casa e salutati i Grégoire, Deneulin si rivolse preoccupato a Hennebeau:
-Sicché ci siamo! Me l'ha detto ora il mio ingegnere... Da me, stamattina, gli uomini sono discesi tutti... Ma lo sciopero può estendersi, non sono affatto tranquillo. Sentiamo, com'è la situazione da voi?
Aveva attaccato subito l'argomento che gli stava a cuore; il tono concitato e la nervosità dei gesti che tradivano una viva ansietà, gli davano in quel momento l'aspetto d'un ufficiale di cavalleria in congedo. E il direttore cominciava a metterlo al corrente, quando Ippolito annunciò che la colazione era servita.
- Resta con noi, - disse allora Hennebeau. - A tavola si discorre meglio.
Col capo altrove, Deneulin accettò su due piedi; solo dopo, ravvedendosi, si scusò con la Hennebeau, la quale già aveva fatto mettere un nuovo piatto a tavola e che si mostrò lietissima di averlo a colazione.
A destra e a sinistra di Hennebeau sedettero la Grégoire e Cecilia; Paolo, tra questa e Grégoire; quindi la padrona di casa, con a fianco Deneulin.
- Mi scuserete, - disse la Hennebeau, mentre si serviva l'antipasto, mi scuserete se non vi do, come volevo, delle ostriche... Al lunedì a Marchiennes c'è un arrivo di ostriche d'Ostenda; e la mia intenzione era di mandare la cuoca con la vettura... Ma la donna ha avuto paura d'essere presa a sassate.
A sassate? Trovando una simile paura ridicola, i convitati partirono in un coro di risa, così rumoroso che preoccupò Hennebeau. Lanciando un'occhiata inquieta alla strada sulla quale s'aprivano le finestre:
- Ssst, - raccomandò. - Non facciamoci troppo sentire, stamane! Non è igienico.
- Ah, comunque vada, - celiò Grégoire in risposta, - d'un affettato come questo, non intendo far parte a nessuno!
Si rise ancora, ma più sommessamente. Nella sala ovattata di sontuose tappezzerie, con antiche cassapanche di quercia lungo le pareti, i convitati si mettevano a loro agio. Credenze a vetri luccicavano di argenteria; un lampadario di rame pendeva dal soffitto e nelle sue bocce si specchiavano palme e ciuffi di aspidistra che sorgevano da vasi di maiolica. Fuori, la giornata di dicembre, che una pungente brezza gelava; mentre il tepore di serra che regnava nell'interno permetteva di avvertire nell'aria l'aroma dell'ananas che aspettava, tagliato a fette, in una coppa di cristallo.
Per impressionare i Grégoire, il mefistofelico Négrel:
- Se si tirassero le tendine? - propose a un certo punto. E siccome, credendo a un ordine, la domestica che aiutava Ippolito abbassò qualche tendina, nella penombra della sala tutti per scherzo cominciarono a dar segni di paura; posando la forchetta, un bicchiere, si badava a non far rumore; e si salutava ogni nuovo piatto come fosse sfuggito a un saccheggio. Gaiezza più ostentata che sentita, dietro la quale si celava una paura bell'e buona, se tutti loro malgrado lanciavano ogni tanto occhiate inquiete alla strada, quasi che davvero un'orda di affamati fosse lì fuori in agguato.
Dopo l'imbrogliata d'uova con tartufi, vennero servite delle trote di fiume. La conversazione era caduta sulla crisi che da un anno e mezzo si andava aggravando.
- Era inevitabile! - disse Deneulin. - Una prosperità come quella di questi ultimi anni non poteva portare ad altro... Pensate agli immensi capitali che si sono immobilizzati in costruzioni di ferrovie, di porti, di canali; a tutto il danaro andato in speculazioni avventate... Soltanto qui da noi, guardate quanti zuccherifici si sono impiantati! tanti che sarebbero già troppi se la barbabietola desse tre raccolti all'anno! Quale meraviglia, allora, che il danaro liquido scarseggi? finché non fruttano i milioni che si sono spesi!... Di qui, questo ingorgo, questo ristagno degli affari.
Hennebeau vedeva altrove le cause della crisi; ma ammise che le annate grasse avevano avvezzato male gli operai.
- Quando penso, - esclamò, - che nei nostri pozzi dei ragazzi arrivavano a guadagnare persino sei franchi al giorno, il doppio di quanto guadagnano oggi! Si capisce che vivessero comodi e pigliassero l'abitudine di spendere. Oggi naturalmente trovano duro ritornare alla frugalità d'un tempo!
- Via, signor Grégoire! - s'udì la voce della Hennebeau, - prenda quest'altra piccola trota, la prego... Sono squisite, è vero?
Il marito proseguì:
-Ma francamente, è nostra la colpa? Anche noi ne soffriamo, e come!, di questa crisi. Da quando una dopo l'altra le officine chiudono, anche il minerale in giacenza è diventato un problema esitarlo; e davanti a una richiesta che va sempre scemando ci tocca per forza ridurre il prezzo di costo. E' questo che gli operai non vogliono capire!
Seguì un silenzio. In tavola venivano servite pernici arrosto, mentre la domestica mesceva intorno del Chambertin.
Deneulin, come parlando a se stesso:
-Prima la carestia in India. Poi la cessata ordinazione, da parte dell'America, di ferro e di ghisa, che ha portato un grave colpo ai nostri altiforni. Un disastro tira l'altro; e delle conseguenze tutto il mondo degli affari si risente. E l'Impero che era così fiero del prosperare dell'industria! - Attaccò un'ala di pernice. Poi, alzando la voce:
-Il peggio si è che per abbassare il prezzo di costo occorrerebbe produrre di più; altrimenti il ribasso si ripercuote sui salari e l'operaio non ha torto di dire che chi ci va di mezzo è lui! - La franca ammissione suscitò un battibecco. Quei discorsi interessavano ben poco le signore; per fortuna l'appetito era ancora vivace e ciascuno s'occupava soprattutto di ciò che aveva nel piatto.
Ippolito era ricomparso e mostrava di voler dire qualcosa.
- Che c'è? dispacci? Portali qui; aspetto delle risposte.
- No, signore. C'è Danseart in anticamera; ma non vorrebbe disturbare.
Hennebeau si scusò di farlo introdurre. Trafelato, il corpulento sorvegliante del Voreux entrò tra la curiosità di tutti e si tenne a qualche passo dalla tavola. Gli operai seguitavano a mantenersi calmi, ma avevano deciso di mandare al direttore una loro rappresentanza che sarebbe lì fra qualche minuto.
- Sta bene, grazie. E voi, soprattutto, non vi scordate di farmi tenere due volte al giorno un rapporto dettagliato della situazione.
Partito Danseart, si riprese a celiare. Tutti si buttarono sull'insalata russa; a sentirli, non c'era un secondo da perdere se si voleva finirla. Ma la tavolata si sganasciò addirittura, quando a Négrel, che chiedeva del pane, la domestica rispose con un «sì, signore» così terrificato che non lo sarebbe stato di più se si fosse sentita alle spalle una banda di forsennati, pronti al massacro e allo stupro.
- Puoi parlare, sai, - le osservò agra la Hennebeau. - Ancora non sono qui.
In un fascio di corrispondenza recatagli allora, Hennebeau trovò una lettera che volle leggere ad alta voce. Era di Pierron. Il caposquadra avvertiva rispettosamente il direttore di trovarsi costretto, per evitare vendette, ad aderire allo sciopero; anzi, a far parte della rappresentanza, sebbene personalmente deplorasse quel passo. A lettura finita:
-Ecco la libertà di lavoro! - commentò Hennebeau, sarcastico.
Richiesto del suo parere sulla durata dello sciopero:
-Oh, non è il primo che vediamo! Durerà come l'ultimo: una settimana, due a farla lunga. Le passeranno all'osteria, si capisce; ma appena proveranno il morso della fame, torneranno ai pozzi, buoni buoni.
Deneulin scosse il capo:
-Non la vedo così rosea... Questa volta mi sembrano meglio organizzati. Non hanno una cassa di previdenza?
- Sì, ma con un fondo di appena tremila franchi. Che vuoi che facciano con tremila franchi? Io sospetto che li capeggi un certo Stefano Lantier. E' un buon operaio; mi rincrescerebbe dovergli restituire il libretto, come sono stato costretto a fare con Rasseneur; che continua ad avvelenarmi il Voreux con le sue idee e la sua birra. Comunque, entro otto giorni la metà degli scioperanti ridiscende e tra due settimane tutti i diecimila sono in fondo ai pozzi.
Di questo era certo. La sua sola preoccupazione era che la Compagnia potesse addossare a lui la colpa dello sciopero. Da qualche tempo egli si sentiva meno nelle grazie dei superiori. Tanto che ora, dimentico della porzione di insalata russa che si era servito, riprendeva in mano i telegrammi ricevuti da Parigi, per penetrarne meglio il significato; distrazione che gli ospiti scusavano: per Hennebeau il pranzo non era ormai un rancio consumato sul campo di battaglia, in attesa delle prime schioppettate?
Allora le signore presero a discorrere fra loro. La Grégoire si impietosiva sulla sorte di quei poveracci che assaggerebbero che cos'è la fame; e la figlia già si vedeva in giro a distribuire buoni per il pane e la carne. Ma la Hennebeau fece alte meraviglie che si potesse parlare così: i carbonieri di Montsou nell'indigenza? nella miseria, della gente che la Compagnia forniva gratuitamente di casa, di riscaldamento e di medico? Il suo disinteresse per quel gregge era tale che la conoscenza che aveva dei minatori si limitava alla lezioncina appresa sul loro conto e con la quale edificava i parigini che accompagnava a visitare i borghi operai; una lezioncina alla quale la donna aveva finito per credere e che quindi la indignava sull'ingratitudine di quella gente.
Négrel intanto insisteva nel suo tentativo di spaventare Grégoire. Cecilia non gli dispiaceva e, per accontentare la zia, era disposto a sposarla; ma innamorato non era; aveva troppa esperienza per perdere, come diceva, la testa. Repubblicano di tendenze quale si professava, non per questo si mostrava meno rigido ed esigente con gli operai; né, trovandosi in compagnia di signore, rifuggiva dal parlarne con sottile sarcasmo.
Cogliendo il momento in cui Grégoire, illuminato del suo bonario sorriso, appoggiava la moglie, rincarando anzi in sentimenti paterni verso i minatori: - Per parte mia, - obiettò Négrel, - io, devo dire, non condivido l'ottimismo di mio zio. Temo al contrario qualche grave disordine. Per cui la consiglio, signor Grégoire, di barricare la Piolaine. I dimostranti potrebbero metterle la villa a sacco.
- Saccheggiarmi! - trasecolò il vecchio. - E perché mai saccheggiarmi?
- Non è lei un azionista di Montsou? Non fa niente; vive sul lavoro degli altri; incarna, in una parola, l'odiato capitale. Ce n'è quanto basta. Stia certo che se la rivoluzione avesse a trionfare, la forzerebbero a restituire il suo patrimonio come danaro rubato.
A questa, il vecchio smarrì la sua calma di bambino, la serenità dell'incoscienza in cui viveva. Tartagliò:
-Danaro rubato, il mio?
come sarebbe a dire? Non se l'era forse guadagnato, e duramente, il capitale iniziale il mio povero bisnonno? e non abbiamo forse corso tutti i rischi dell'impresa? O forse che oggi io faccio cattivo uso delle mie rendite?
Vedendo a quei discorsi i due Grégoire sbiancarsi, la Hennebeau s'affrettò a correre in aiuto dell'ospite:
-Non vede, caro signore, che Paolo celia?
Ma Grégoire era fuori di sé; al punto che dal piatto che il cameriere passava, prese, senza sapere quel che facesse, tre gamberi in una volta e cominciò a romperne i gusci coi denti.
- Ah non dico! vi sono certo degli azionisti che abusano. Ho saputo, ad esempio, di ministri imboccati con grosse somme in compenso di servizi resi alla Compagnia. Per non dire di quell'alto personaggio, di cui taccio il nome, un duca, il più forte dei nostri azionisti, che mena una vita scandalosa, dilapidando milioni in donne, in orge, in ogni sorta di lussi. Ma noi, ma noi che viviamo senza dar nell'occhio a nessuno, da quei buoni diavoli che siamo; noi che non speculiamo, che ci contentiamo di campare onestamente di quello che abbiamo, senza scordarci della povera gente... Andiamo, via! bisognerebbe proprio che i nostri operai fossero dei briganti matricolati per venire a rubare a noi, foss'anche una spilla!
Esultante d'essere riuscito a spaventarlo, Négrel si adoperava ora a rassicurarlo.
Mentre tutte le mascelle seguitavano a sgranocchiare gamberetti, il discorso cadde sulla politica. Grégoire che ancora non s'era rimesso dall'emozione, dichiarò che, nonostante tutto, lui restava liberale, e rimpianse Luigi Filippo. Deneulin invece era per un governo forte; a parer suo, l'Impero stava scivolando sulla pericolosa china delle concessioni.
- Ricordate l'Ottantanove? - disse. - Furono i nobili che con la loro complicità, con la loro simpatia per le nuove idee, resero possibile la Rivoluzione. Ebbene che succede oggi? oggi è la borghesia che col suo liberalismo spinto, la sua smania di novità, la sua indulgenza verso il popolo, fa lo stesso gioco imbecille... Sì, sì; voi affilate le zanne alla belva perché ci divori. E ci divorerà, statene certi!
Le signore lo costrinsero a cambiare discorso chiedendogli delle figlie. Lucia era a Marchiennes a esercitarsi nel canto, ospite di un'amica; Gianna stava facendo un ritratto per il quale posava un vecchio mendicante. Ma, dicendo, Deneulin appariva distratto; il suo sguardo andava a Hennebeau, assorto nella lettura dei telegrammi. Finché cedendo ancora una volta alla sua preoccupazione:
-Insomma, - chiese a bruciapelo, - voialtri che pensate di fare? - L'altro trasalì e se la cavò con una frase vaga:
-Vedrò. Mah! Vedremo un po'!
Deneulin come pensando ad alta voce:
-Certo, voialtri avete le reni solide, potete aspettare. Io invece, se lo sciopero si estende a Vandame, sono spacciato. Col mio unico pozzo, per quanto in piena efficienza, io posso cavarmi d'impiccio solo se lavoro ininterrottamente. Ah non è una prospettiva allegra, la mia, t'assicuro!
L'involontaria confessione diede a riflettere ad Hennebeau. Nel caso che lo sciopero si protraesse, perché non utilizzarlo sino a lasciare che il vicino si rovinasse, per incorporarvi quindi con poca spesa la concessione? Era il mezzo più sicuro per lui di rientrare nelle grazie della Compagnia, che quel pozzo lo agognava da anni.
Chiese ridendo:
- Se la Jean-Bart ti dà tante preoccupazioni perché non la cedi?
Già l'altro s'era morsa la lingua. - Oh questo mai e poi mai! - dichiarò con una violenza che fece sorridere tutti.
Si era arrivati al dolce: la torta di mele meringata fu festeggiatissima; l'ananas, dichiarato del pari squisito, offrì lo spunto a una discussione sulla ricotta con cui era stato preparato.
Uva e pere coronarono il pasto. Un vino del Reno che, in sostituzione dello sciampagna giudicato volgaruccio, Ippolito andava mescendo generosamente, completò quel beato intorpidimento di fine pranzo, in cui le parlantine si sciolgono e i cuori si affratellano.
Certo, il progetto di matrimonio tra Paolo e Cecilia fece in quell'occasione un buon passo avanti. Sollecitato dalle occhiate della zia, Négrel si riconquistò con ogni sorta di amabilità e piacevolezze i due vecchi che aveva atterrito. Al sorprendere un'intesa così intima tra zia e nipote, Hennebeau ancora una volta fu sfiorato dall'atroce sospetto; ma ancora una volta lo scacciò: sua moglie non stava appunto combinando sotto i suoi occhi lo sposalizio di Paolo?
Si recava il caffè, quando, allarmatissima, irruppe la domestica:
- Signore, signore, eccoli qui! - Intendeva: i rappresentanti degli operai. S'udirono usci sbattere; una ventata di panico parve attraversare la casa.
- Fateli passare in salotto, - disse Hennebeau.
Tra i convitati era corsa un'occhiata di disagio. Vinta la prima impressione, che li aveva ammutoliti, ritentarono di scherzare: uno abbozzò il gesto di vuotarsi la zuccheriera in tasca; un altro propose di far sparire i piatti. Ma davanti al viso che s'era oscurato del padrone di casa la posticcia gaiezza cadde; le voci si spensero in bisbigli, mentre arrivava dalla stanza vicina il passo pesante degli operai, smorzato appena dallo spessore dei tappeti.
- Spero che berrai prima il tuo caffè, - disse sottovoce al marito la Hennebeau.
- Ma certo! Che aspettino! - Fingendosi unicamente occupato della sua chicchera, lui però tendeva innervosito l'orecchio.
Paolo aveva condotto Cecilia a mettere un occhio alla toppa. I due soffocavano risate, parlottavano col fiato.
- Li vede?
- Sì. Uno grosso, ne vedo; e due piccoli dietro.
- Delle ghigne, eh?
- Ma no. Perché, poverini? Anzi.
Bruscamente Hennebeau lasciò la sedia: il caffè scottava: lo berrebbe dopo. E uscendo si pose un dito sulle labbra: fossero prudenti.
Tutti s'erano riseduti. E così restarono in silenzio, senza osare muoversi, l'orecchio teso verso il salotto; messi a disagio da quelle voci d'uomo che ne venivano
Capitolo secondo
Il giorno prima, in una riunione da Rasseneur, Stefano con qualche altro aveva scelto i delegati che l'indomani dovevano recarsi alla direzione.
Quando la sera la Maheu apprese che fra questi era il suo uomo, si desolò:
-Vuoi che ci buttino sul lastrico? - Lui pure aveva accettato a controvoglia. Ambedue, al momento di passare ai fatti, erano ripresi dalla rassegnazione di sempre: a un indomani incerto, avrebbero ancora preferito piegare la schiena. Di solito lui, nei dubbi, si rimetteva al parere della moglie che era donna di buon consiglio. Questa volta però alla sua osservazione si risentì; tanto più che nel suo intimo divideva i timori di lei. - Oh, insomma, lasciami in pace! - borbottò buttandosi a letto e volgendole le spalle. - Faccio il mio dovere. Sarei un bel vigliacco a piantare i compagni.
La donna si coricò a sua volta. Né l'uno né l'altro parlava. In capo a un lungo silenzio, lei:
-Hai ragione, vacci. Soltanto, caro il mio uomo, lo capisci anche tu, siamo spacciati.
A mezzogiorno in punto si misero a tavola: l'appuntamento era per il tocco, al Risparmio; di là si recherebbero direttamente da Hennebeau. Patate. Restava sì un pezzetto di burro, ma quello bisognava lasciarlo per companatico la sera.
Stefano a bruciapelo a Maheu:
-Sai che contiamo su di te per fare le nostre ragioni -. Maheu restò senza fiato.
- Ah questo no! è troppo! - protestò la moglie. - Che venga, sta bene; ma che sia anche il capo, questo no. Oh bella! perché lui piuttosto che un altro?
Stefano allora accalorandosi spiegò i motivi della scelta. Maheu era il miglior operaio del pozzo: il più benvoluto, il più stimato, quello che tutti portavano ad esempio per la sua moderazione. In bocca sua le richieste degli operai acquisterebbero un peso decisivo. In un primo tempo, disse, aveva pensato di parlare lui: ma era lì da troppo poco tempo. Uno anziano sarebbe più ascoltato. Insomma, scegliendo Maheu i compagni affidavano al più degno la difesa dei loro interessi. Maheu non poteva esimersi; sarebbe stata una viltà.
Alla moglie non restò che arrendersi:
- Va', va', mio uomo: sacrificati. Io non ti dico di no, dopotutto!
- Ma io non ce la farò a parlare. Dirò delle stupidaggini!
Felice d'averlo deciso, Stefano, battendogli la mano sulla spalla:
- Tu dirai quello che hai nel cuore e andrà benone.
Vi fu un silenzio. Ingozzandoli, le patate tenevano buoni anche i ragazzi. A bocca piena, Bonnemort ascoltava, scuotendo il capo. Quando ebbe inghiottito:
-Oh quanto a dire, di' quello che vuoi; intanto sarà sempre come se non avessi aperto bocca. Ah se ne ho visto io, di queste commissioni operaie! Quarant'anni fa alla direzione ci hanno buttato fuori; e nemmeno a calci: a sciabolate! Oggi vi riceveranno, forse; ma quanto a rispondervi, risponde questo muro? Minchia! hanno il danaro, loro; se ne strafottono!
Ricadde il silenzio. Maheu e Stefano si alzarono, lasciando la famiglia mogia davanti ai piatti vuoti. Passarono a prendere Pierron e Levaque; e tutti e quattro si recarono al Risparmio dove i delegati dei borghi vicini stavano arrivando alla spicciolata. Quando da Rasseneur ci furono tutti e venti, si accordarono un'ultima volta sulle richieste da fare alla Compagnia e partirono per Montsou. Una brezza pungente spazzava la strada. Arrivarono che suonavano le due.
Bussato che ebbero, si videro per prima cosa richiudere la porta in faccia: aspettassero. Quando tornò, il domestico li introdusse in salotto e scostò le tende. Una luce discreta, filtrata dalle tendine ricamate, riempì la stanza. Rimasti soli, gli operai non ardirono sedersi; rasi e lavati di fresco; vestiti dell'abito buono, rimasero lì in piedi a rigirare in mano i berretti, a guardarsi intorno impacciati.
Nel salotto, arredato col gusto che l'amore per le anticaglie aveva messo di moda, figuravano gli stili più diversi: poltrone Enrico secondo, seggiole Luigi quindici, un panciuto stipo del Seicento italiano, un "contador" spagnolo del Quattrocento; un davanti d'altare, a paravento del caminetto; fregi d'antiche pianete riportati sulle portiere. Quegli ori stinti, quelle antiche sete cangianti, tutto quel lusso di cappella li metteva in soggezione, mentre impigliava i piedi il lungo vello degli spessi tappeti orientali. Ma più di tutto li opprimeva il caldo che regnava nell'ambiente, quel tepore uniforme che ora il calorifero fiatava sulle loro facce ancora gelate dal freddo dell'esterno.
Erano lì da cinque minuti e nell'aria chiusa del sontuoso salotto il loro disagio cresceva, quando finalmente il direttore entrò; chiuso nel lungo abito a doppio petto militarmente abbottonato, che recava all'occhiello il nastrino d'una onorificenza.
- Ah eccovi! - esclamò per primo. - Siete in rivolta, dunque, a quel che pare... - Poi, interrompendosi, aggiunse cortese ma freddo:
- Accomodatevi... Non chiedo di meglio che discorrere.
I minatori si volsero intorno cercando dove sedersi. Qualcuno si azzardò a calarsi su una sedia; ma i più, intimiditi dai ricami e dalle sete, preferirono restare in piedi.
Seguì un silenzio. Hennebeau aveva spinto la poltrona davanti al caminetto; e ora li contava, si sforzava di ricordarne i nomi dalla fisonomia. Riconosciuto alla prima Pierron che si teneva dietro le spalle degli altri, fermò lo sguardo su Stefano che gli sedeva di faccia.
- Sentiamo, che avete da dirmi?
A prendere la parola, s'attendeva fosse Stefano. Vedendo invece farsi avanti Maheu, nella sorpresa non poté trattenersi dall'esclamare:
- Come! voi! il bravo operaio che si è sempre dimostrato così ragionevole, un anziano di Montsou, d'una famiglia come la vostra che lavora nei nostri pozzi dal giorno che il primo è stato inaugurato! Ah questa non me l'aspettavo! Mi addolora che proprio voi siate a capo dei malcontenti!
Maheu lo lasciò dire a occhi bassi. Poi con voce sorda in principio ed esitante:
-Signor direttore, gli è appunto perché io sono un uomo tranquillo che non ha mai dato motivo a lagnanze, che i compagni mi hanno scelto. Questo deve provarle che non si tratta d'una rivolta di scalmanati, di teste calde in cerca di disordini. Noi chiediamo solo giustizia; siamo stanchi di patire la fame e ci sembra giunta l'ora di venire a un accordo perché almeno non ci abbia a mancare il pane quotidiano.
Via via la sua voce s'era rinfrancata. Alzò gli occhi a quelli del direttore e proseguì:
-Ella sa bene che noi non possiamo accettare il nuovo sistema di paga. Ci si incolpa di eseguire male i rivestimenti. E' vero; non impieghiamo in quel lavoro il tempo che esigerebbe. Ma, se facessimo altrimenti, la nostra giornata verrebbe ancora a ridursi; e visto che neanche qual è adesso arriva a procurarci lo stretto necessario, scemarla ancora vorrebbe dire la fine, il colpo di grazia. Ci paghi meglio; e, invece di accanirci ad abbattere, che è l'unico lavoro che ci rende, faremo i rivestimenti meglio, vi impiegheremo il tempo che ci vuole. Non c'è altra uscita: perché sia fatto, il lavoro dev'essere pagato... Che cosa si è andati invece a escogitare? una cosa, vede, che non riesce a entrarci nella zucca. Loro ribassano il prezzo della berlina; poi pretendono che quel che pagano per il rivestimento ricompensi quel ribasso. Se anche fosse vero, noi non ci troveremmo per questo meno danneggiati, in quanto il rivestimento porta sempre via maggior tempo. Ma quello che ci esaspera, è che non è neppure vero: la Compagnia non compensa un bel niente: si mette soltanto due centesimi a berlina in tasca, ecco tutto!
- Sì, sì! E' così! - si udì intorno mormorare, a un gesto d'impazienza col quale Hennebeau cercava d'interrompere l'oratore.
Ma Maheu non lo lasciò parlare. Ormai, vinta la prima timidezza, le parole gli venivano da sole; tanto che, a momenti, si ascoltava con sorpresa, chiedendosi se era lui a parlare. Erano idee che covava in cuore da tanto e che ora traboccavano fuori tutte in una volta. Parlò dell'indigenza in cui vivevano tutti, del duro lavoro, dell'esistenza da bruti che conducevano; delle mogli e dei bambini che a casa chiedevano inutilmente pane. Citò la scarsezza delle ultime paghe, le quindicine irrisorie divorate dalle ritenute e dai giorni di forzata disoccupazione, portate alle famiglie in lagrime. La Compagnia intendeva dunque farli crepare tutti?
- Per cui, signor direttore, - concluse, - ci siamo decisi a venirle a dire che, crepare per crepare, preferiamo crepare a far niente. Ci si guadagnerà, almeno, di non faticare... Abbiamo abbandonato i pozzi; vi ridiscenderemo solo se la Compagnia accetta le nostre richieste... Essa vuole ridurre il prezzo della berlina, pagare il rivestimento a parte. Noi vogliamo che le cose restino com'erano e in più chiediamo che ci venga riconosciuto un aumento di cinque centesimi per berlina. Ora sta a loro mostrare se sono per la giustizia e il lavoro.
Voci si alzarono qua e là ad approvare:
-E' così! ... Ha espresso il nostro pensiero... Non si chiede che ciò che è giusto -. Altri, senza parlare, assentirono gravemente col capo.
Il lussuoso salotto coi suoi ori e i suoi pizzi, con l'accozzaglia di mobili che li intimidivano per la loro stranezza, era sparito. I minatori non si sentivano neppure più sotto i piedi i tappeti che calpestavano coi pesanti scarponi.
La stizza strappò a Hennebeau un gesto d'impazienza: - Datemi dunque modo di rispondervi, - scattò. - Anzitutto è inesatto che con la nuova tariffa la Compagnia ci guadagni due centesimi a berlina. Vediamo le cifre.
Seguì una discussione confusa: ognuno diceva la sua. Nell'intento di dividerli, il direttore interpellò in proposito Pierron, che balbettando si schermì. Levaque, spalleggiato dai più aggressivi, ingarbugliava le cose, asseriva fatti che ignorava.
- Se parlate tutti insieme, non ci si capirà mai! - osservò Hennebeau.
L'uomo aveva ricuperato la calma, la fredda cortesia impersonale dell'amministratore che ha ricevuto una consegna e intende farla rispettare. Dal principio della seduta, teneva Stefano sotto il fuoco del suo sguardo, per provocarlo a uscire dal suo silenzio. A questo scopo, lasciata cadere la discussione sui due centesimi, uscì a dire: - No, ammettete dunque la verità: c'è fra di voi qualche testa guasta che vi mette su. E' una specie di contagio, ormai, che si propaga come un'epidemia tra gli operai e che corrompe i migliori... Oh non ho bisogno che lo riconosciate: lo vedo coi miei occhi, che vi hanno cambiato da quelli che eravate. Non è forse vero che vi hanno promesso più burro che pane? che vi hanno detto che il vostro turno è venuto, di essere i padroni? Per finire con irreggimentarvi nella famigerata Internazionale; in quella associazione a delinquere che ha per mira la distruzione della Società.
Stefano allora lo interruppe:
- Lei s'inganna, signor direttore: finora, non un minatore vi ha aderito. Ma, se vi si spingono, tutti i pozzi si iscriveranno. Dipende dalla Compagnia.
Da questo momento, fu come gli altri non esistessero più; la lotta si ridusse a un duello tra lui e Hennebeau.
- La Compagnia è la Provvidenza per i suoi uomini, avete torto a minacciarla. Quest'anno ha speso trecentomila franchi nella costruzione di case operaie, che non le fruttano che il due per cento, e non parlo né delle pensioni che passa né del combustibile né dei medicinali che dà... Voi che avete l'aria intelligente, che in pochi mesi siete diventato uno dei nostri più abili operai, non fareste meglio a far conoscere queste verità, invece di rovinarvi, frequentando gente poco raccomandabile? Sì, intendo parlare di quel Rasseneur, del quale abbiamo dovuto liberarci per salvare i nostri pozzi dalla lue socialista. Vi si vede continuamente nel suo locale; ed è senza dubbio Rasseneur che vi ha spinto a istituire quella cassa di previdenza, contro la quale nulla avremmo da eccepire se rappresentasse solo una forma di risparmio; ma nella quale abbiamo invece motivo di ravvisare un'arma contro di noi, un fondo di riserva per pagare le spese d'una guerra. E, a questo proposito, debbo avvertirvi che su quella cassa, la Compagnia intende avere un controllo.
Stefano lo lasciava dire, gli occhi negli occhi; le labbra agitate da un piccolo tremito nervoso. Sorridendo all'ultima frase:
-Ecco dunque una nuova pretesa, di cui ella non m'aveva sinora fatto cenno. Mi duole, ma noi desideriamo proprio il contrario: che di noi la Compagnia si occupi meno; che invece di assumersi nei nostri riguardi la parte della Provvidenza, si mostri con noi puramente e semplicemente giusta, dandoci quello che ci viene e cioè il guadagno ch'essa si spartisce. E' forse onesto che, in ogni crisi dell'industria, lasci morire di fame i lavoratori per salvare i dividendi degli azionisti? Dica quel che vuole, la nuova tariffa è un ribasso di salario mascherato; ed è ciò che ci indigna, perché se la Compagnia si trova nella necessità di fare delle economie, fa male, queste economie, a realizzarle unicamente sull'operaio.
- Ah ci siamo finalmente! - esclamò Hennebeau. - L'aspettavo, questa accusa di affamare il popolo e di vivere del suo stento! Come potete dire delle stupidaggini simili, voi che dovreste sapere gli enormi rischi che i capitalisti corrono nell'industria? Prendiamo appunto ad esempio l'industria mineraria: un pozzo attrezzato di tutto punto importa una spesa da centocinquantamila a due milioni di franchi; e da una simile somma immobilizzata, quanto ce ne vuole prima di trarre un meschino interesse! Quando va bene; visto che da noi la metà quasi delle società minerarie fallisce regolarmente... Le poche che fruttano, d'altronde, è stupido accusarle di crudeltà... Quando i loro operai stanno male, vuol dire che anch'esse stanno male. Credete forse che, nell'attuale crisi, la Compagnia ci rimetta meno di voi? Non è essa che fissa i salari; è la concorrenza che li fissa. Se così non fosse, la Compagnia si rovinerebbe. Prendetevela con la situazione generale, non con lei. Ma voialtri non volete udirle, non volete capirle queste palmari verità!
- Sì, comprendiamo benissimo che per noi non c'è possibilità di star meglio fintanto che le cose andranno in questo modo; è questo anzi il motivo per cui i lavoratori finiranno un giorno per fare in modo che le cose vadano diversamente.
Questa frase così pacata nella forma e nel tono, Stefano la pronunciò con un accento così convinto e in cui vibrava una tale minaccia, che un leggero brivido colse Hennebeau. Seguì un profondo silenzio.
Senza avere ben capito, i compagni sentivano che Stefano aveva affermato il loro diritto a partecipare di quel benessere che li circondava; e di nuovo gettavano intorno sguardi ostili alle sontuose tappezzerie, alle comode poltrone, a tutto quel lusso dove il più insignificante dei ninnoli sarebbe bastato a nutrirli per un mese.
Alfine, senza avere spianato la fronte, il direttore si alzò per congedarli. Mentre tutti lo imitavano, Stefano toccò nel gomito Maheu, il quale con un impaccio nella voce che tradiva il suo scoraggiamento: - Allora, signor direttore, - disse, - questo è tutto ciò che ci risponde... Riferiremo ch'ella respinge le nostre richieste... - Io, brav'uomo? Ma io non respingo un bel niente! - si stupì Hennebeau. - Io sono un salariato al pari di voi. In questa faccenda io non ho più voce in capitolo di quanto ne abbia l'ultimo dei vostri manovali. Mi dànno degli ordini e il mio solo compito è di vegliare a che siano osservati. Io vi ho detto quello che ho creduto mio dovere dirvi; ma mi guarderei bene dal decidere... Le richieste che m'avete sottoposto le comunicherò all'amministrazione; e, appena la riceverò, vi farò conoscere la risposta.
Adesso parlava col distacco dell'alto funzionario che dalla questione di cui si occupa non è toccato; con la freddezza cortese del semplice intermediario. Ed ora i minatori lo guardavano diffidenti, chiedendosi che interesse potesse avere a fingere così; quanto doveva intascare per mettersi così tra loro e i veri padroni. Un disonesto, certo; altrimenti, un uomo pagato come un operaio come avrebbe potuto consentirsi quel lusso?
Stefano volle fare un ultimo tentativo:
- Vede dunque, signor direttore, come è brutto per noi non avere con chi perorare personalmente la nostra causa. Altrimenti potremmo spiegare molte cose, trovare delle ragioni che a lei per forza sfuggono... Hennebeau non se la prese; ebbe anzi un sorriso:
-Ah diavolo, la cosa si complica, se non avete fiducia in me. Allora bisogna andiate laggiù... E, alzando gli occhi, gli operai videro la sua mano accennare vagamente in direzione d'una finestra. "Laggiù", dove? A Parigi, certo. Ma dove, esattamente? Mah! Il gesto del direttore arretrava quel "laggiù" a una lontananza insuperabile, nel paese sacro e inaccessibile dove accosciato nel suo sacrario troneggiava il nume sconosciuto.
Mai la vedrebbero essi, quella divinità; la avvertivano solo come una forza che, da lontano, pesava sui diecimila minatori di Montsou. Ed era quella forza, invisibile ma dalle decisioni inappellabili, che il direttore aveva alle spalle quando parlava.
Sulla commissione operaia piombò lo scoraggiamento.
Anche Stefano si strinse nelle spalle come a dire che non restava che andarsene; mentre Hennebeau, battendogli amichevolmente sul braccio, chiedeva a Maheu notizie di Gianlino: - Mi rallegro di quel che mi dite; ma è stata egualmente una dura lezione! E voi che mi venite a difendere i rivestimenti mal fatti! - E alzando la voce ed indirizzandosi a tutti:
-Pensateci bene, amici miei: vi renderete conto che uno sciopero sarebbe un disastro per tutti. Prima d'una settimana, sarà la fame. Come farete? Io faccio assegnamento sulla vostra saggezza: lunedì al più tardi sono sicuro che ridiscenderete.
Tutti s'avviarono all'uscita, curvi, in uno scalpiccio di mandria; senza rispondere parola a quella speranza di sottomissione.
Toccò a Hennebeau ricapitolare: da una parte, la Compagnia con la sua nuova tariffa; dall'altra, gli operai con la richiesta di cinque centesimi in più per berlina. Ma non si facessero illusioni; egli sentiva il dovere di prevenirli che l'amministrazione respingerebbe sicuramente le loro condizioni.
- Rifletteteci bene prima di commettere delle bestialità, - ripeté, inquieto davanti al loro silenzio.
In anticamera, Pierron colse un momento in cui nessuno lo osservava per accennare un saluto; mentre Levaque ostentatamente si calcava il berretto in capo. Maheu cercava una parola per congedarsi; ma Stefano lo toccò del gomito; questa volta, per farlo tacere. E tutti se ne andarono in mezzo a un minaccioso silenzio, che il tonfo della porta, chiusa con forza, suggellò.
Rientrando in sala da pranzo, Hennebeau trovò i commensali come li aveva lasciati: immobili, in silenzio; davanti al bicchierino di liquore che nessuno aveva toccato. In due parole mise al corrente Deneulin che, da pensieroso che era, si fece buio. Poi, mentre il padrone di casa sorbiva il suo caffè freddo, si tentò di cambiare discorso. Ma senza riuscirci: persino i Grégoire ricaddero subito a parlare dello sciopero: come mai, si stupivano non c'erano delle leggi per impedire agli operai di abbandonare il lavoro? Paolo rassicurava Cecilia: con l'arrivo della gendarmeria ogni pericolo di disordini scomparirebbe.
Finché, chiamato il domestico: - Ippolito, - ordinò la Hennebeau, - prima che noi si passi in salotto spalanca le finestre, che si cambi l'aria
Capitolo terzo
Quindici giorni passarono; e si arrivò all'inizio della terza settimana. Per quel lunedì la direzione contava nella ripresa del lavoro; ma l'ostinazione della Compagnia aveva esasperato le maestranze. Anziché un aumento, i fogli di presenza segnalarono una diminuzione nel numero degli operai. Il Voreux, Crèvecoeur, Mirou, Madeleine non erano più i soli a scioperare; alla Victoire e a Feutry- Cantel, i minatori discesi s'erano ridotti a un quarto; e persino a Saint-Thomas cominciavano le astensioni. Lo sciopero tendeva a diventare generale.
Sullo spiazzo del Voreux pesava il silenzio; quel tetro silenzio, quell'abbandono e quel vuoto in cui piombano i grandi cantieri quando vi cessa il lavoro. Lassù sul binario della "decauville", tre o quattro berline rimaste a mezza strada, si profilavano sul grigiore del cielo dicembrino con la muta eloquenza delle cose inanimate. Sotto, tra i piedi dei giganteschi cavalletti, lo stock di carbon fossile, che s'andava esaurendo, lasciava scoperti tratti sempre più grandi di nero suolo; mentre le cataste di legname marcivano sotto gli acquazzoni. Nel porticciolo d'imbarco una chiatta non finita di caricare sonnecchiava sull'acqua sporca del canale; e sul terrapieno deserto, dove i solfuri decomponendosi seguitavano a fumare nonostante la pioggia, un carretto alzava al cielo le stanghe come braccia imploranti. Ma più impressionante ancora, era il letargo in cui erano caduti i fabbricati: il capannone della cernita aveva tutte le imposte sbarrate; la ciminiera non emetteva più che a certe ore qualche rado fumacchio; non un suono usciva dalla ricevitoria, di solito così fragorosa; nel locale delle caldaie si gelava. Solo sino alle nove gli ascensori funzionavano; il tempo di calare nel pozzo gli stallieri col foraggio per le bestie e i capisquadra: i soli che, tornati operai, lavoravano nella miniera, più che ad altro a riparare i guasti che per la cessata manutenzione si verificavano nei camminamenti. (Dalle nove in su, chi doveva scendere o risalire si valeva delle scale).
Sull'altura in faccia, il borgo dei Duecentoquaranta pareva anch'esso morto. La calma che vi regnava aveva rassicurato il prefetto accorso da Lilla e persuaso a ritirarsi la gendarmeria che ne aveva battuto le strade. Gli scioperanti mantenevano un contegno esemplare. Gli uomini, per non andare a bere, dormivano la maggior parte del giorno; per tenere i nervi e la lingua a freno, le donne si misuravano il caffè; persino i bambini parevano compresi del momento: nei giochi come nelle risse erano diventati meno rumorosi. Mantenersi a ogni costo calmi, era la parola d'ordine cui nessuno veniva meno.
Dai Maheu, era un continuo andirivieni. Lì Stefano, nella sua qualità di segretario, aveva distribuito il fondo di previdenza fra le famiglie più bisognose; distribuzione alla quale era seguita quella di qualche altro centinaio di franchi pervenuti da diverse parti, ricavi di sottoscrizioni e di collette. Ma con questo i mezzi di resistenza si erano esauriti; gli operai non avevano più danaro per far fronte e la fame s'annunciava minacciosa. Maigrat aveva sì promesso sulle prime di far credito per una quindicina di giorni; ma in capo a otto giorni aveva tutto a un tratto mutato parere. A mutarlo, nel suo servilismo, era stato probabilmente indotto dalla Compagnia che nell'affamare gli operai vedeva il mezzo più spiccio per troncare lo sciopero. Semplice ipotesi; perché, da quel capriccioso tiranno che era l'esercente poteva anche aver obbedito ai suoi umori personali, lui che normalmente accordava o negava credito a seconda della ragazza più o meno piacente che gli entrava in bottega. Con la Maheu in specie si mostrava inesorabile, per ripicco di non essersi potuto godere Caterina. Alla mancanza di pane, si aggiungeva poi il freddo; le donne vedevano ogni giorno scemare la provvista di carboniglia, senza la speranza di poterla rinnovare finché gli uomini non riprendessero lavoro. Saltare i pasti non bastava; bisognava anche battere i denti.
Dai Maheu, tutto già mancava. I Levaque seguitavano a campare su quattro scudi prestati da Bouteloup. Chi di danaro non difettava, erano i Pierron; ma, per non esporsi a richieste di prestiti, si provvedevano a credito da Maigrat, il quale, alla Pierron, avrebbe dato a fido anche la bottega. Era da sabato, ormai, che in parecchie case s'andava a letto senza cena. Eppure, la prospettiva di ciò che li attendeva, non strappava un lamento a nessuno, tutti con tranquillo coraggio tenevano fede alla parola data. Per quanto male andassero le cose, li sosteneva tutti una incrollabile fiducia nell'avvenire, una specie di fede, l'accecamento del credente. Poiché era stato loro promesso l'avvento di un'èra di giustizia, per la conquista di quel bene comune erano pronti a tutto soffrire. La fame esaltava i cervelli; mai una situazione senza scampo come la loro aveva dischiuso a occhi allucinati un più promettente orizzonte. Ed era proprio quando per i digiuni la loro vista si intorbidava, che più distintamente avvistavano laggiù la città del loro sogno; e vicina ormai, già quasi a portata di mano: una specie d'età dell'oro dove tutti lavoravano e si era tutti come fratelli. Nulla faceva vacillare la convinzione che entro poco tempo il loro sogno s'avvererebbe. Il fondo di previdenza s'era liquefatto, la Compagnia non accennava a cedere, ogni giorno inevitabilmente la situazione si aggraverebbe; ed essi conservavano intatta la speranza e alla realtà non guardavano che con un sorriso di sprezzo. La terra poteva aprirsi sotto i loro piedi, che un miracolo li salverebbe. Questa fede suppliva alla mancanza di pane, bastava da sola a rifocillarli. Quando i Maheu - come gli altri - avevano digerito troppo presto l'acquosa minestra, una specie di vertigine li sollevava al disopra di se stessi - che era per loro come l'estatica attesa del paradiso per i martiri dati in preda alle fiere.
Ormai, Stefano era senza contrasto il capo. Nelle veglie, oracolava; più si istruiva, più il giovane si lasciava andare a trinciare sentenze non importa su che argomento. Le notti le passava a leggere; s'era messo in corrispondenza con altri esponenti del partito; s'era persino abbonato al «Vendicatore», un foglio socialista belga; e quel giornale, il primo che girava nella borgata, gli aveva attirato da parte dei compagni una grande considerazione. La crescente popolarità di cui godeva lo inorgogliva ogni giorno più: tenere una vasta corrispondenza, discutere con le personalità più in vista della provincia la sorte dei lavoratori, sentirsi soprattutto il centro d'un mondo, questo esaltava sempre più la vanità dell'antico meccanico, del minatore di ieri dalle mani sudice di carbone. Era salire d'un gradino nella scala sociale; e le soddisfazioni morali e materiali che dall'entrare così a far parte dell'odiata borghesia si riprometteva, non se le confessava neanche a se stesso. Un solo cruccio gli restava: la coscienza che aveva della propria ignoranza: coscienza che lo rendeva timido e impacciato appena si trovava in presenza d'un uomo ben vestito. Seguitava sì a studiare, divorando ogni libro che gli capitava; ma questa mancanza appunto d'un criterio nella scelta delle sue letture, impediva una rapida assimilazione, gli inzeppava la mente d'una tale farragine che finiva per sapere cose che non aveva capito. Per cui venivano momenti di lucidità in cui si dubitava capace di assolvere il compito che s'era assunto, in cui la paura lo assaliva di non essere l'uomo che i suoi fedeli si attendevano. Un avvocato, un competente che sapesse parlare e al tempo stesso agire, non sarebbe stato meglio di lui a quel posto? Ma un simile scrupolo lo scacciava subito, stizzosamente. No, no! niente avvocati! tutte canaglie che mettevano a profitto ciò che sapevano per impinguarsi alla pelle del popolo! Andasse come voleva; ma i lavoratori dovevano sbrigare da sé le loro faccende. E, di nuovo, si vagheggiava a capo della folla: Montsou ai suoi piedi; Parigi, laggiù in prospettiva, come attraverso una nebbia. Chi sa? l'elezione a deputato un giorno; un seggio in parlamento dall'alto del quale, primo operaio del mondo, egli avrebbe con un discorso fulminato la borghesia... Da qualche giorno, delle lettere di cui Pluchart lo bersagliava, lo tenevano esitante. L'antico meccanico si offriva di venire a Montsou a presiedere una riunione privata dove terrebbe un discorso per rinfocolare negli animi la resistenza. L'occasione gli appariva inoltre propizia per spingere i minatori di Montsou, rimasti sinora diffidenti, ad aderire all'Internazionale.
Sebbene paventasse dei disordini, Stefano personalmente avrebbe accettato l'offerta, ma Rasseneur aveva vivacemente disapprovato quell'intervento. Nonostante la sua popolarità, il giovane doveva fare i conti coll'oste che serviva la Causa da più tempo e che contava tra i clienti dei seguaci convinti. Sicché, nell'incertezza, all'offerta di Pluchart non aveva ancora risposto.
Ora proprio quel lunedì verso le quattro, una nuova lettera gli veniva recapitata, mentre si trovava con la Maheu nella saletta a pianterreno. La donna era sola: nella sua insofferenza per l'ozio, il marito era andato a pescare sotto la chiusa, se aveva la fortuna di prendere un bel pesce col suo ricavo avrebbe comprato del pane; Bonnemort e Gianlino erano usciti per collaudare le loro gambe; e i due bambini avevano accompagnato Alzira sul terrapieno, dove la gobbina passava le ore a frugare lo sterro per racimolare un po' di carboniglia.
Seduta vicino alla poca brace, che non si osava più alimentare, la donna, con la mammella che traboccava dal corpetto sbottonato, allattava Estella.- Buone notizie? - chiese, quando gli vide ripiegata la lettera. - Ce ne manderanno del danaro? - Al gesto con cui la disingannava:
-Questa settimana non so proprio come ce la caveremo... Ma duro terremo; a qualunque costo. Quando si sa d'avere la ragione dalla propria parte, si finisce sempre per essere i più forti, non è vero?
Ormai, seppure con qualche riserva, anche lei stava per lo sciopero.
Certo, sarebbe stato meglio indurre la Compagnia a riconoscere i suoi torti, senza venire a quell'estremo. Ma ormai era fatta e il lavoro non si doveva riprenderlo senza aver prima ottenuto giustizia. Su questo punto era intransigentissima: piuttosto crepare che, ridiscendendo, riconoscere di fatto d'avere torto, quando si aveva ragione.
- Ah scoppiasse un colera coi fiocchi! - uscì Stefano a imprecare, - che sbarazzasse di tutti gli sfruttamiseria della Compagnia!
Ma lei gli diede sulla voce. Quello no; la morte non si doveva augurare a nessuno. - Che profitto ne avremmo? Tolti di mezzo questi, ne spunterebbero degli altri. Io chiedo solo che quei signori si ravvedano; e non dispero che avvenga, perché delle brave persone ve ne sono dappertutto. Le vostre idee, lo sapete, io non le condivido per niente.
Infatti, la Maheu non mancava mai di disapprovare le intemperanze del giovane; lo trovava troppo battagliero. Farsi pagare il proprio lavoro il prezzo che valeva, questo era più che giusto; ma perché andarsi a impicciare del governo, dei ricchi e che so io? perché mettere il naso nelle faccende degli altri, esponendosi immancabilmente ad avere la peggio? Dissentire da lui, non le impediva beninteso di conservargli la sua stima: il giovane non si ubriacava, le versava regolarmente i quarantacinque soldi della pensione: quando uno si porta da galantuomo, il resto gli si può passare.
Stefano allora venne a fare l'elogio della Repubblica; che, diceva, avrebbe dato del pane a tutti. Ma la Maheu scosse il capo: si ricordava bene, lei, del Quarantotto: un'annataccia, dalla quale lei e il suo uomo erano usciti nudi come vermi. Era stato nei primi tempi del loro matrimonio. E con voce querula prese a dire di tutto quello che avevano sofferto, lo sguardo smarrito dietro i ricordi; mentre Estella, senza staccarlesi dal seno, le si addormentava in grembo. Assorto anche lui, il giovane non riusciva a togliere gli occhi da quell'enorme cioccia, da quella floscia valanga di carne, d'una bianchezza che contrastava col colorito itterico del povero viso avvizzito.
- Non un centesimo, non un centesimo di pane da mettere sotto i denti; e tutti i pozzi che chiudevano. Insomma, lo sterminio della povera gente, tal quale come oggi.
Diceva ancora, che la porta si aprì. Ammutolirono di stupore: Caterina. Dacché era scappata con Chaval, neanche nei dintorni la ragazza s'era più fatta vedere. Anche a lei, ricomparire in casa, doveva costarle perché ora dal turbamento si scordò di richiudere e restò lì davanti ai due, zitta e tremante. S'aspettava di trovare la madre sola; la presenza del giovanotto le mozzava in bocca le parole che s'era preparate per via.
Senza alzarsi da sedere:
-Che ci vieni a fare qui? - la investì la Maheu. - Non ne voglio più sapere io di te! Riprendi la porta!
Sgomentata da quella accoglienza, Caterina a precipizio: - Madre, non è che un po' di zucchero e caffè... Per i bambini... Ho fatto qualche ora in più, nel pensiero di loro... E così tartagliando cavava di tasca e metteva sul tavolo un involtino.
Alla Jean-Bart, il pensiero dei suoi nella miseria, non le dava pace; e ora metteva il pretesto dei bambini per evitare un rifiuto. Ma questa prova di buoncuore non disarmò la madre: - In luogo di portarci della roba di cui si può fare a meno, avresti fatto meglio a restare con noi a guadagnare del pane!
E sfogandosi la caricò di rimproveri, le buttò in faccia tutto quello che la gente da un mese diceva sul suo conto. Scappare con un uomo, mettersi a sedici anni con un uomo, quando si ha la famiglia in strettezze! bisognava essere una senza cuore, la più ingrata delle figlie. Uno sbaglio tutti lo possono commettere, si può scusarlo; ma un trattamento simile ricevuto da una figlia, una madre non lo scorda più. E ancora potesse dire che in casa la angariavano! Al contrario, troppo libera l'avevano sempre lasciata, a contentarsi che rincasasse per la notte!
- Di' su, che cos'è che hai nel sangue? a sedici anni!
Caterina, immobile presso il tavolo, ascoltava a testa bassa. Un tremito agitava il suo corpicino di ragazza ancora non fatta. A frasi mozze tentò di difendersi. - Oh se fosse per me! per il gusto che ci piglio! ... E' lui! quando vuole, devo ben piegarmi, visto che il più forte è lui... Si sa mai come le cose vanno a finire? Comunque è fatta; è inutile tornarci su. Ormai, lui o un altro, è lo stesso. Dovrà ben sposarmi... Si difendeva fiaccamente, con la rassegnazione al destino delle ragazze che subiscono il maschio ancora acerbe. Non era la sorte di tutte? Ma lei s'era aspettata di meglio: uno che prima o poi l'avrebbe presa per forza, un bambino ne sarebbe nato; poi, il responsabile la sposava, la miseria in due in famiglia. E non arrossiva di dirlo, se tremava a quel modo, era che le coceva d'essere trattata da sgualdrina davanti a Stefano: una presenza che la metteva alla tortura.
Comprendendolo, il giovane s'era alzato e fingeva d'attizzare le poche braci che restavano. Ma ciò non impedì che i loro sguardi s'incontrassero. Lui la trovò pallida, affranta, ma carina sempre con quei suoi occhi che, nel viso che le si era scurito, splendevano più limpidi che mai. Nel cuore del giovane ogni risentimento sfumò; avrebbe desiderato solo di saperla felice con l'uomo che gli aveva preferito. Provò il bisogno d'occuparsi ancora di lei; il desiderio di andare a Montsou, di ottenere dall'altro che la trattasse un po' più umanamente. Ma nell'affetto che lo sguardo di lui le offriva ancora, Caterina non vide che della pietà e dello sprezzo. Il cuore le si strinse; e le parole di scusa che avrebbe voluto balbettare le si strozzarono in gola.
- Fai meglio, a tacere! - riprese implacabile la madre. - Se è per restare che sei venuta, bene; altrimenti, toglimiti subito dai piedi. E ringrazia che Estella dorme; se no a quest'ora t'avrei allungato un calcio nel sedere.
Quasi che tutto a un tratto la minaccia s'avverasse, una pedata raggiunse infatti la ragazza: un calcio così brutale che la lasciò stordita, tra sorpresa e dolore. Era Chaval che l'aveva pedinata e la spiava da un po' di dietro la porta.
Stefano e la Maheu rimasero impietriti di stupore.
- Ah sudiciona! - l'altro intanto inveiva, - lo sapevo bene che tornavi qui a farti accarezzare dal tuo ganzo! E sei tu che lo paghi, eh? Col mio denaro eh, e lo mantieni a caffè! - E spingendola furibonda verso l'uscita:
-Esci di qui dentro, perdiosanto!
E siccome, sfuggendogli, lei si rincantucciava, l'energumeno prese a inveire contro la madre:
-E tu, complimenti, un bel mestiere lo fai, a stare sulla porta a farle da palo, mentre quella puttana di tua figlia si dimena al piano di sopra!
E dicendo, riacchiappata per un braccio la fanciulla, a strapponi la trascinava via. Sulla soglia si volse; e di nuovo alla Maheu - che, inchiodata sulla sedia da Estella che dormiva, si scordava di rientrare la mammella:
-E quando non c'è la figlia, è la madre, vedo, che si fa tamponare! Mostragliela, mostragliela la mercanzia! non se ne schifa, quel porco del tuo inquilino!
Stefano, che, per non mettere la borgata a rumore, s'era già a stento trattenuto da strappargli dalle mani la fanciulla, vinse anche adesso una voglia pazza di turargli la bocca con un manrovescio. Ma anche la sua sopportazione aveva un limite; e fremente dell'antico odio, della gelosia a lungo dissimulata e che ora esplodeva, a questo punto si alzò, e affrontando il prepotente, a denti stretti:
-Vuoi mica che ti faccia la pelle, di'?
- Provati!
E per qualche istante i due stettero a fissarsi con gli occhi iniettati di sangue, così da presso che l'uno sentiva il fiato dell'altro bruciargli la pelle.
Fu Caterina a impedire che passassero ai fatti: supplichevole si intromise, tirò via per un braccio l'amante, se lo trasse dietro in istrada.
- Che bruto! - E Stefano, richiuse d'impeto la porta alle spalle dei due, dovette sedersi, tanto tremava d'ira repressa.
La Maheu, che non aveva battuto ciglio, ebbe un gesto di rassegnazione, desolato; cui seguì un penoso silenzio, pesante di tutto ciò che i due sentivano inutile dirsi. Suo malgrado, il giovane ricadeva a guardare quel seno, quel traboccare di carne, d'una bianchezza che lo metteva a disagio. Certo l'aver tanto figliato l'aveva avvizzita e sfiancata, la Maheu; ma solidamente costruita, larga d'anche e di petto, con quel suo volto massiccio, d'una bellezza non del tutto cancellata, c'era chi la trovava ancora piacente, a dispetto dei suoi quarant'anni.
Tranquillamente, senz'ombra di soggezione, ora lei raccoglieva a due mani e rientrava la poppa; il capezzolo s'ostinava a sporgere. Rintuzzato anche quello, s'abbottonò; e nel vecchio giubbetto nero, riprese di colpo il suo solito aspetto mortificato di buona massaia.
Solo adesso commentò l'accaduto:
-E' un maiale, Chaval. Soltanto a un lurido porco come lui possono venire in mente simili sudicerie! Ah, ma a me, che mi fa? Se non gli ho detto quel che gli spettava, è che non ne valeva la botta -. Poi, senza distogliere gli occhi dal giovane, col tono disarmato dl chi si confessa:
-Anch'io, non dico, ho i miei difetti; ma quello lì, no. Non ci sono che due uomini che mi hanno toccata; a quindici anni, un manovale che lavorava con me; e, dopo lui, Maheu. Se Maheu pure mi avesse piantato, eh certo, chi può dire come sarebbe andata? Ma neanche d'essermi portata bene con lui, mi faccio un vanto; perché, quando noi donne non sgarriamo, è spesso che ci sono mancate le occasioni. Dico solo quello che è; e conosco qualche mia vicina che non potrebbe dire altrettanto, non è vero?
- Oh questo è sacrosanto! - E Stefano si alzò.
Via lui, la donna depose su due sedie accostate il fagottino che la impacciava e si decise a ravvivare il fuoco; se mai il suo uomo aveva avuto fortuna, un po' di minestra quella sera si rimedierebbe.
Fuori, Stefano trovò già buio. Nella notte glaciale, il giovane camminava a testa bassa e si sentiva invadere da una grande malinconia. Non era già per la scena brutale cui aveva poco prima assistito; anche la sua indignazione contro Chaval e la pietà per Caterina s'attenuavano ora davanti a un dolore più vasto: la commiserazione per l'intera umanità, per l'atroce vita di stento della povera gente. Pensava alla borgata senza pane; alle donne, ai bambini che quella sera non cenerebbero; a tutta quella folla che lottava nella fame contro l'ingiustizia. E, nella tetraggine dell'ora, il dubbio, che sinora solo a momenti l'aveva sfiorato, lo riassaliva, dandogli un malessere mai prima provato. Quale spaventosa responsabilità s'era accollato. Ora che il danaro era finito e le botteghe non facevano più credito, doveva spingerli ancora sulla strada sulla quale li aveva messi, costringendoli ancora a resistere? E quale sarebbe il risultato se nessun soccorso più arrivava, se la fame abbatteva gli animi? La visione del disastro gli appariva improvvisamente in tutta la sua gravità: bambini che morivano d'inedia, madri in pianto, gli uomini costretti a ridiscendere nei pozzi in condizioni di salute peggiorate. L'idea che a spuntarla potesse essere la Compagnia, lo riempiva di sgomento; in tal caso, egli avrebbe fatto solo la rovina dei compagni.
Inciampando nei sassi, seguitava a camminare. Quando alzò gli occhi, si vide in faccia il Voreux. L'incombere della notte appesantiva la massa oscura dei fabbricati, che in mezzo al piazzaletto deserto, prendeva l'aria d'un forte abbandono. Con l'arresto della macchina d'estrazione, sulla miniera era calata la morte. A quell'ora, non più un segno di vita: non una voce, non il barlume d'una lampada. Nel totale annientamento del pozzo, anche l'ansimare della pompa d'eduzione non arrivava più che come un rantolo lontano.
Stefano guardava; e di nuovo il sangue gli affluiva al cuore. Gli operai pativano la fame, ma anche i capitali della Compagnia si intaccavano. Perché sarebbe essa la più forte nella guerra che il lavoro aveva impegnato col capitale? Ammesso anche che la Compagnia vincesse, la vittoria le costerebbe cara. Si vedrebbe dopo chi ci aveva rimesso di più. Di nuovo il giovane si sentiva ripreso dal furore della lotta, dal bisogno selvaggio di farla finita con la miseria, pure a costo della vita. Meglio morire tutto d'un colpo che un poco giorno per giorno, vittime rassegnate dell'ingiustizia e della fame.
Esempi di eroismo, incontrati nelle sue abborracciate letture, gli tornavano a mente: popoli che, per arrestare il nemico, avevano dato alle fiamme le loro città; padri che, per scamparli dalla schiavitù, avevano spaccato ai figli il cranio sui lastrici delle vie; uomini, che s'erano lasciati perire d'inedia piuttosto che assaggiare il pane dei tiranni. Questi esempi della storia lo esaltavano, lo liberavano dal pessimismo per infondergli la baldanza del ribelle; fugavano i suoi dubbi, lo facevano vergognare d'essersi, anche per un'ora, abbandonato allo sconforto. E con quel ridestarsi della fede, di nuovo l'orgoglio gli gonfiava il cuore; l'ambizione cresceva in lui di essere il capo, di vedersi obbedito sino al sacrificio della vita. Il potere anzi cui aveva sinora ambìto, non lo appagava più; sognava il trionfo. Ma una volta arbitro della situazione, egli farebbe il gran gesto: il gesto semplice e magnanimo di rinunziare al potere, di rimetterlo nelle mani del popolo... Da questo sogno lo risvegliò la voce di Maheu: la fortuna lo aveva assistito, aveva preso una magnifica trota e dalla vendita ricavato tre franchi: in tavola quella sera ci sarebbe la minestra.
Dicendogli che lo avrebbe raggiunto, Stefano lo lasciò proseguire verso casa ed entrò al Risparmio. C'era un solo cliente. Aspettò che se ne andasse; quindi, secco secco informò Rasseneur che la sera stessa avrebbe scritto a Pluchart di venire senz'altro. La sua decisione era presa: organizzerebbe una riunione privata. La vittoria era certa, se i minatori di Montsou aderivano in massa all'Internazionale
Capitolo quarto
Fu la Désir, la proprietaria del Buontempone, a offrire il suo locale per la riunione - fissata per le due del giovedì. Inferocita per le ingiustizie che si facevano ai suoi «ragazzi», i minatori, da quando specialmente vedeva il suo esercizio vuoto, nel suo risentimento contro chi, ai suoi occhi, ne aveva la colpa, la vedovella aveva accolto con entusiasmo l'occasione di vendicarsi. Uno sciopero «asciutto» come questo non s'era visto a memoria d'uomo. Per evitare ogni occasione di perdere la calma, i bevitori più incalliti non mettevano il naso fuori di casa. La via principale di Montsou che nei giorni di riposo formicolava per solito di gente, s'allungava ora muta e tetra in un'aria di desolazione. Birra non se ne spillava più, le cunette erano asciutte. Stato di cose di cui si aveva sentore anche prima d'entrare in città, dai visi preoccupati che i proprietari affacciavano sulla strada dalle soglie del Casimiro e del caffè del Progresso. In Montsou, poi, non un cliente in tutta la filza di locali che s'aprivano sulla via di città, a cominciare dal caffè Lenfant, ad arrivare - passando per il caffè Piquette e lo spaccio della Testa Mozza - al caffè Tizzone. Solo il Sant'Eligio, bazzicato dai capisquadra, qualche birra la mesceva ancora. E persino al Vulcano quelle figliole sbadigliavano da smascellarsi per mancanza di corteggiatori, sebbene, in considerazione del momento, avessero ribassato a cinque la tariffa di dieci soldi. Per gli esercenti insomma era un pianto, un crepacuore generale.
Alla proposta di Stefano:
-Beninteso! - aveva esclamato la Désir, smanacciandosi le cosce. - E' tutta colpa dei gendarmi, se si è a questo! Mi schiaffino in prigione, se credono; ma il gusto di fargliela in barba, me lo voglio levare! - Per lei, tutti erano gendarmi, dal prefetto all'ultimo sorvegliante dei pozzi. «Gendarmi» era la parola spregiativa con cui bollava tutti i nemici della povera gente. Ma certo! perché glielo chiedeva? Tutta la sua casa era a disposizione dei minatori. Presterebbe gratuitamente la sala da ballo; s'incaricherebbe anzi lei, di spedire gli inviti; se proprio lo credeva necessario; perché, per suo conto lei ne avrebbe fatto a meno: uno spasso di più vedere le ghigne che farebbero quelli della legge!
L'indomani Stefano la portò a firmare una cinquantina di inviti che aveva fatto ricopiare dai vicini più istruiti; e che vennero indirizzati ai venti della commissione operaia e a quegli altri compagni di cui si era sicuri. Come ordine del giorno, vi figurava la discussione sul proseguimento dello sciopero; in realtà Pluchart avrebbe tenuto un discorso per convincere le maestranze ad aderire in massa all'Internazionale.
Ma Pluchart che aveva telegraficamente annunciato il suo arrivo per la sera del mercoledì, era il mattino del giovedì e ancora non s'era visto. Che succedeva? Stefano era sulle spine. Se anche si trattava solo d'un ritardo quel ritardo gli impediva di prendere accordi con l'oratore, come avrebbe voluto fare, prima della riunione. Inquieto, alle nove si recò a Montsou, nella speranza che Pluchart fosse andato direttamente là, senza passare prima dal Voreux.
- No, finora il vostro amico non s'è visto, - gli disse la Désir. - Ma è tutto pronto; venite a vedere -. E lo precedette nella sala da ballo. L'arredamento aveva subìto pochi cambiamenti: al soffitto c'era sempre la ghirlanda di fiori finti dalla quale pendevano i festoni e sulle pareti gli scudetti di cartone dorato recanti i nomi di santi o di sante. Solo che al posto dell'orchestra figurava ora un tavolo con tre seggiole e delle panche disposte traversalmente occupavano lo spazio riservato ai ballerini.
- A meraviglia!
- E fate conto, inutile dirlo, d'essere in casa vostra. Gridate finché vi pare... Se vorranno venire, i gendarmi, dovranno prima passare sul mio corpo!
Nonostante le sue preoccupazioni, la frase lo fece sorridere. Vasta com'era la vedovella, a passarle sul corpo, i gendarmi avrebbero messo il loro tempo. Più che una donna, una barricata. Un seno che, per abbracciarlo, un uomo non bastava. Tanto che le male lingue avevano buon gioco quando asserivano che, dei sei amanti di settimana, due montavano di turno ogni sera, tanto era il daffare cui dovevano sobbarcarsi.
In quella entrarono Rasseneur e Souvarine, mentre la Désir si ritirava. - Oh, già qui? come mai così per tempo? - esclamò Stefano, sorpreso.
Souvarine che usciva dal suo turno di notte (i macchinisti non erano in sciopero) veniva, disse, per curiosare. Rasseneur invece non rilevò l'osservazione. Nell'oste, da due giorni, il giovane notava un certo impaccio; il solito sorriso bonario non illuminava più il suo tondo faccione.
- Pluchart ancora non s'è visto. Non capisco come sia.
Rasseneur distolse lo sguardo e tra i denti:
-Non mi stupisce: io non lo aspetto più.
- Che intendi dire?
L'altro allora si decise; guardando Stefano in viso, affrontò la spiegazione.
- Sono stato io a scrivergli, se vuoi saperlo; pregandolo di non venire... Sì, io sono d'avviso che le nostre faccende dobbiamo sbrigarle fra noi, senza intervento d'estranei.
Stefano gli ficcò gli occhi negli occhi:
-Hai fatto questo! hai fatto questo! - ripeteva fuori di sé, tartagliando dalla collera.
- Sì, io! eppure sai se ho stima di Pluchart! E' un uomo abile, coraggioso: una guida di cui ci si può fidare. Ma vedi, io non ci credo alle vostre idee, io! alla politica, al governo, a tutte queste storie, non ci credo. Quello che io desidero è che il minatore sia trattato meglio: ecco! Non per niente ho lavorato vent'anni nel pozzo, vi ho sudato di fatica e di stenti. Uscendone, mi son giurato di arrivare a rendere almeno sopportabili le condizioni di vita dei poveri diavoli che nel pozzo penano ancora. Ora, lo sento benissimo, quello che voialtri otterrete con le vostre storie sarà solo di rendere la sorte dell'operaio anche più dura. Quando sarà costretto dalla fame a ridiscendere, la Compagnia gli farà scontare la rivolta infierendo su di lui, come si fa rientrare a randellate nella cuccia il cane che ne è scappato. Ed è questo che io voglio evitare, capisci?
Piantato sulle gambe, sporgeva il ventre, alzava la voce. La sua natura d'uomo ragionevole e paziente si palesava in frasi chiare, traboccanti senza sforzo. Non era stupido credere che si potesse cambiare il mondo in quattro e quattr'otto, mettere gli operai al posto dei padroni, spartire la ricchezza come si fa a spicchi una mela? Ammesso che una cosa simile fosse realizzabile, ci vorrebbero per arrivarci migliaia d'anni. Per cui non lo seccassero coi miracoli! Il partito più saggio, se non si voleva rompersi il muso contro un muro, era di non uscire dalla legalità, di esigere le riforme possibili, di cogliere insomma ogni occasione per migliorare la sorte dei lavoratori. Per questa via, egli era sicuro, se lo si lasciava fare, di ottenere dalla Compagnia condizioni migliori; mentre ostinandosi nella strada in cui si erano messi, addio! sarebbe la fine di tutti!
Strozzato dall'indignazione, Stefano lo aveva lasciato parlare.
- Ma che hai, al posto del sangue, nelle vene? - sbottò alla fine. E per resistere alla tentazione di prenderlo a schiaffi, si mise a percorrere concitato la sala, ad aggirarsi tra le panche, a sfogare su di esse la rabbia.
- Chiudete la porta, almeno, - consigliò Souvarine. - Non è necessario che vi facciate sentire -. E andato a chiuderla lui stesso, tranquillamente prese posto su una sedia. S'era arrotolato una sigaretta, e, con un sorrisetto che gli assottigliava le labbra, osservava ironico i due.
- Quando ti sarai arrabbiato, - proseguì Rasseneur, - mi dici che cosa rimedi? Io, sul principio, ho creduto che tu avessi buonsenso. Ti vedevo raccomandare ai compagni la calma, costringerli a stare in casa; adoperare insomma la tua autorità per mantenerli nell'ordine. E ti ammiravo. Ma ecco che sei tu stesso, ora, a buttarli allo sbaraglio!
A ogni giro per la stanza, Stefano tornava a lui, lo impugnava per le spalle, gli gridava in faccia:
-Ma sacradìo, io voglio sì essere calmo... Sì, ho tenuto i compagni a freno; anche adesso li sconsiglio di muoversi. Ma c'è un limite alla fine! Non bisogna neanche lasciarsi prendere per il bavero! Beato te che resti di ghiaccio. Io, a certe ore, sento la mia testa che se ne va.
Così dicendo, si confessava. Ormai egli derideva le proprie illusioni di neofita, la cieca fede con cui aveva creduto prossimo l'avvento d'un regno di giustizia, tra uomini diventati fratelli. Ah sì, davvero! incrocia le braccia e aspetta che quel regno si avveri, che così gli uomini seguiteranno sino alla fine del mondo a divorarsi tra loro. Al contrario! se non si voleva che l'ingiustizia si perpetuasse, che i ricchi seguitassero a succhiare il sangue dei poveri, era necessario intervenire. Per cui, ora arrossiva d'avere un tempo potuto dire che dalla questione sociale bisognava bandire la politica. Era l'ignoranza che glielo aveva fatto dire; ora si era istruito, le sue idee si erano maturate, si vantava di possedere un sistema. Ma, quando tentava di esporlo, vi riusciva male; le basi su cui lo imbastiva erano confuse; si risentivano delle teorie che il giovane via via aveva abbracciato e ripudiato una dopo l'altra. Il concetto che vi dominava ancora, era quello di Marx: il capitale è il risultato d'una spoliazione, il lavoro ha il dovere e il diritto di riconquistare quella ricchezza rubata. Quanto al modo di raggiungere lo scopo, in un primo tempo Stefano s'era lasciato sedurre dalla utopia proudhoniana del mutuo credito: una grande banca di scambio che sopprimesse gli intermediari. Poi, lo avevano attratto le società cooperative di Lasalle; dotate dallo Stato, destinate a trasformare gradualmente la terra in un'unica città industriale; finché anche questa soluzione l'aveva rigettata davanti alla difficoltà d'un controllo. E di lì era poco dopo approdato al collettivismo, alla restituzione alla collettività di tutti gli strumenti di lavoro. Ma il nuovo sogno restava vago; come realizzarlo non vedeva; scrupoli sentimentali e di ragionamento gli impedivano di arrischiare le affermazioni categoriche dei fanatici. Si trattava, diceva, di impadronirsi prima di tutto del potere; più in là non si azzardava. In seguito si vedrebbe.
Tornando a piantarsi davanti all'oste:
-Mi dici che ti prende? per che motivo ti schieri dalla parte della borghesia? Non dicevi anche tu «bisogna che il bubbone scoppi»?
Un fugace rossore salì al viso di Rasseneur:
-Sì, l'ho detto. E se scoppierà, vedrai che non sarò da meno degli altri. Solo, mi rifiuto di stare con quelli che fomentano disordini per pescarvi una posizione.
Ad arrossire ora fu Stefano. Da questo momento i due cessarono di gridare. Una volta dichiarata, la rivalità che covava tra loro li gelò. Divennero aggressivi, cattivi.
Era del resto quella latente rivalità il sentimento che li aveva portati a esagerare ciascuno le proprie idee, spingendo l'uno a irrigidirsi in un atteggiamento rivoluzionario, l'altro in un'ostentazione di prudenza; il sentimento che li aveva loro malgrado trascinati al di là delle loro vere convinzioni, sino a costringerli entrambi ad assumersi delle parti che non si erano scelte.
Per questo il biondo viso femmineo di Souvarine che li ascoltava, lasciava trapelare un silenzioso disprezzo; lo schiacciante disprezzo dell'uomo pronto a sacrificare oscuramente la vita, senza neanche la aureola del martirio.
- Allora è per me che dici questo? - chiese Stefano. - Sei dunque invidioso?
- Invidioso di che? Io non mi atteggio mica a grand'uomo, - ribatté l'altro. - Non cerco mica di aprire a Montsou una sezione dell'Internazionale, per diventarne il segretario! - E senza lasciarsi interrompere:
- Sii dunque sincero. Tu te ne infischi, dell'Internazionale! Smanii solo di metterti alla nostra testa, di fare il signore, tenendo la corrispondenza col tuo famoso Consiglio Federale del Nord!
Stefano restò un momento senza fiato. Poi, fremente:
-Ah così? Io credevo di non avere nulla a rimproverarmi. Non mancavo occasione di consultarti, perché sapevo che, qui, tu avevi combattuto per la Causa molto prima di me. Ma visto che tu non puoi tollerare nessuno al tuo fianco, d'ora innanzi farò da solo. E, per cominciare, ti avverto che la riunione avrà luogo anche se Pluchart non viene; e che i compagni aderiranno all'Internazionale malgrado te.
- Oh... "aderiranno", - balbettò l'altro. - Non è detto ancora.
Occorrerà deciderli a pagare la quota d'iscrizione.
- Niente affatto! Agli operai che si trovano in sciopero l'Internazionale accorda, per questo, una dilazione. Pagheranno quando potranno. Mentre è essa che verrà fin d'ora in nostro aiuto.
Allora Rasseneur perdette ogni ritegno:
-Ebbene, la vedremo. Alla riunione ci sarò anch'io e parlerò. Sì; non ti permetterò di montare la testa ai camerati; li illuminerò io sui loro veri interessi. Sapremo chi essi intendono seguire; se me, ch'essi conoscono da trent'anni; o te, che in meno d'un anno hai messo tutto sossopra in casa nostra. No, no, non voglio sentire più niente! Tra noi, ormai, è a chi dei due schiaccerà l'altro!
E uscì sbattendo l'uscio. I festoni di fiori finti ondeggiarono, gli stemmi dorati sobbalzarono sulla parete. Poi nello stanzone ricadde pesante il silenzio. Seduto al tavolo, Souvarine se la fumava filosoficamente.
Fatto qualche passo in silenzio, Stefano prese a sfogarsi. Era colpa sua se i compagni piantavano quel grosso fannullone per seguire lui? Non era per nulla vero che lui avesse cercato la popolarità; così poco l'aveva cercata, che gli riusciva difficile spiegarsi come si fosse conquistato la simpatia degli operai, la loro fiducia, l'ascendente che ora aveva su di loro. L'accusa poi di spingerli allo sbaraglio per soddisfare un'ambizione personale, lo indignava; e si batteva il petto, protestando che quel che faceva era unicamente per spirito di fraternità.
E arrestandosi di colpo davanti a Souvarine:
- Vedi? - esclamò. - Sapessi che l'opera mia deve costare una goccia di sangue ad un compagno, filerei subito in America.
Il macchinista spallucciò e un sorriso gli assottigliò di nuovo le labbra: - Oh per questo! - sussurrò. - Che conta il sangue? Ne ha bisogno, la terra.
Calmatosi, Stefano prese una sedia e si aggomitolò all'altro capo del tavolo di fronte a Souvarine. Quel viso biondo dallo sguardo trasognato, che un guizzo di luce rossa a tratti incrudeliva, lo inquietava, esercitava su di lui una strana attrattiva.
Non occorreva per questo che Souvarine parlasse; era anzi il suo silenzio che, intrigandolo, lo conquistava.
- Sentiamo, che faresti tu al mio posto? - gli chiese. - Non ho ragione di voler agire? ... Il meglio, non ti pare? è che entriamo a far parte dell'associazione.
A tutto suo agio Souvarine emise un filo di fumo; poi:
- Oh sciocchezze! - rispose al solito. - Ma nell'attesa, perché no? Del resto, la loro Internazionale sta per diventare davvero efficiente. Se ne occupa Lui.
- Lui chi?
- Lui!
Pronunciò il monosillabo, smorzando la voce, con tono di religioso rispetto. Del Maestro, parlava: di Bakunin lo sterminatore.
- Lui solo può dare il colpo di grazia, - proseguì, - mentre con la loro teoria dell'evoluzione, i tuoi scienziati non sono che dei codardi... Sotto la sua direzione, l'Internazionale, prima di tre anni annienterà il vecchio mondo.
Smanioso di istruirsi, di comprendere quel culto della distruzione sul quale il russo non lasciava cadere che qualche vaga frase quasi volesse tener per sé il segreto, Stefano pendeva ora dalle sue labbra.
- Ma insomma spiegami... Quale scopo vi proponete?
- La distruzione di tutto... Non più nazioni, non più governi, non più proprietà, non più Dio, non più culto.
- Sì, capisco... Soltanto a che vi porterà questo?
Alla comunità primitiva, informe; a un mondo nuovo, al ricominciamento di tutto.
- E i mezzi? Come contate di arrivare a questa distruzione integrale?
- Col fuoco, col veleno, col pugnale. Il brigante è il vero eroe, il vendicatore del popolo, il rivoluzionario in atto, che non sa di frasi attinte nei libri. Occorre che una serie di spaventosi attentati atterrisca i potenti e svegli il popolo.
Parlando, il viso di Souvarine diventava spaventoso; gli occhi chiari s'accendevano d'un ardore mistico, le mani femminee si contraevano sull'orlo del tavolo quasi volessero spezzarlo; una specie di estasi pareva sollevarlo dalla sedia. Sconcertato, l'altro lo guardava; e il pensiero gli andava alle rade confidenze che il russo gli aveva fatto: di mine caricate sotto il palazzo dello zar, di capi di polizia scannati come cinghiali; d'una compagna di fede, la sola donna che Souvarine avesse amato, impiccata a Mosca un mattino di pioggia, mentre, perduto nella folla, lui le inviava l'ultimo saluto.
Scartando da sé tutte quelle visioni atroci:
-No, no! - Stefano protestò. - Non si è ancora arrivati a questo, da noi! L'assassinio, l'incendio, no, no! E' iniquo, è mostruoso. Da noi tutti insorgerebbero e farebbero giustizia sommaria del colpevole!
E poi lui seguitava a non capire; contro l'abominevole proposito di sterminare l'umanità alla radice, come si falcia raso terra un campo di segale, tutto in lui si ribellava. E dopo? Che si farebbe, dopo? Da un simile salasso come risorgerebbe l'umanità?
- Spiegami meglio! Qual è il vostro programma? Per metterci in cammino, noi francesi abbiamo bisogno di conoscere la meta.
L'altro, senza uscire dalla sua trasognata impassibilità:
-Tutti i ragionamenti sono criminali, perché impediscono la distruzione pura e semplice e ostacolano la marcia della rivoluzione.
Sebbene gli facesse correre un brivido nella schiena, la placida risposta mosse Stefano a riso. Per attirarlo, qualche cosa di buono quella teoria doveva averlo, nella sua spaventosa semplicità. Ma accennarvi anche solo coi compagni, sarebbe stato dare partita vinta a Rasseneur. Si trattava di essere pratici.
Era l'ora e la Désir venne a chiedere se volevano far colazione. I due passarono nell'entrata, che durante la settimana un paravento mobile divideva dalla sala da ballo. Come ebbero finito la frittata e il formaggio, Souvarine volle partire. Alle insistenze dell'altro perché restasse:
-A che fare? ad ascoltare delle inutili sciocchezze? Ne ho udite già troppe. Buon divertimento! - e con la sua aria placida e cocciuta se ne andò, la sigaretta penzolante tra le labbra.
Era il tocco: Pluchart certo gli mancava di parola. Verso l'una e mezzo cominciarono ad arrivare gli invitati alla riunione. Stefano si mise lui stesso all'ingresso a verificare gli inviti, nel timore che, come al solito, la Compagnia mandasse qualcuno dei suoi. Dei compagni, riconosciuti, furono fatti passare anche senza invito. Alle due ricomparve Rasseneur che si sedette davanti al banco a finire tranquillamente la pipata, chiacchierando. La provocante sicurezza di sé che l'oste ostentava, mise a dura prova i nervi già così eccitati di Stefano; e non meno la comparsa nel caffè di alcuni giovinastri, come Zaccaria, Mouquet ed altri, venuti unicamente per far chiasso. Essi si infischiavano dello sciopero, in cui non vedevano che una giustificazione alla loro fannullaggine. Seduti davanti al gotto di birra, sghignazzavano, davano la berta ai compagni che prendevano la cosa sul serio, compassionandoli di doversi sorbire compunti la noiosa cerimonia.
Un altro quarto d'ora trascorse. Il pubblico cominciava a impazientirsi e già Stefano si decideva a entrare e prendere lui la parola, quando la Désir, in vedetta sulla soglia dell'esercizio:
- Eccolo, - gridò, - eccolo!
Era infatti Pluchart, che arrivava in una vettura tirata da uno sfiancato ronzino. Saltò a terra. Mingherlino di corporatura, aveva un testone quadro, l'aspetto insignificante dello zerbinotto di provincia. Sotto il soprabito nero, vestiva nel modo pretenzioso dell'operaio che si è rimpannucciato da poco. Una certa rigidità nel muoversi, le larghe mani dove le unghie, mangiate dalla lima, non ricrescevano, ricordavano ancora, alla distanza di cinque anni, il mestiere che aveva lasciato; mentre l'evidente cura della persona, il modo specialmente con cui si pettinava, tradivano la vanità dell'uomo, inorgoglito dai suoi successi tribunizi. Attivissimo, sempre in moto su e giù per la provincia, a diffondere le sue idee, Pluchart era infatti soprattutto il servitore della propria ambizione.
Appena a terra, mise le mani avanti:
-Scusatemi, non fatemene colpa!
Ieri, conferenza a Preully il mattino, la sera comizio a Valençai; oggi colazione a Marchiennes con Sauvagnat. Appena adesso ho potuto noleggiare una carrozza. Sono a pezzi, la mia voce ve lo dice. Ma non importa, parlerò lo stesso -. E s'avviava verso la sala, quando:
- Accidenti! e le mie carte! La facevo bella, se le scordavo in vettura!
Tornò alla carrozza che il cocchiere stava già mettendo in rimessa, e ne ritirò una cassetta nera di legno che prese sottobraccio.
Mentre Stefano raggiante camminava nella sua ombra, Rasseneur mortificato non ardiva farsi avanti a tendergli la mano. Ma già Pluchart gliela stringeva. Alla lettera ricevuta accennò appena: perché quell'idea di non fare la riunione? le riunioni vanno sempre fatte, ogni volta che si può! La proprietaria gli offrì da bere; grazie, no; non aveva bisogno di bere per parlare. Soltanto, doveva spicciarsi: la sera contava di spingersi ancora a Joiselle, dove lo aspettava Legoujeux per prendere accordi.
Tutti allora entrarono in crocchio nella sala; in coda Maheu e Levaque arrivati in quel mentre. Dietro di loro l'uscio fu chiuso a chiave; ciò che fece sghignazzare il gruppetto degli spiritosi, perché Zaccaria gridò a Mouquet:
-Si chiudono a chiave, capisci, per fare un figlio, fra tutti!
Nell'aria chiusa della sala da ballo, dove il caldo risuscitava un sentore di coppie sudate, un centinaio di minatori sedevano in attesa. Mormorii corsero, teste si voltarono, mentre l'oratore e il suo seguito andavano a prendere posto al tavolo. Era quello, Pluchart? Tutti gli occhi s'appuntarono su di lui; il suo modo di vestire cagionava sorpresa e disappunto.
Su proposta di Stefano, si procedette subito alla nomina della presidenza; i nomi che lanciava venivano approvati per alzata di mano. A presiedere, venne nominato Pluchart; ad assisterlo, Stefano e Maheu.
Seguì un tramestìo di seggiole: la presidenza s'insediava. Ma dov'era più Pluchart? sparito? S'era solo chinato dietro il tavolo, a sistemare lì in terra presso di sé la cassetta, che aveva finora continuato a tenere sottobraccio. Quando si raddrizzò, batté leggermente il pugno sul tavolo, per richiamare l'attenzione; poi con voce arrochita:
-Cittadini... Cittadini... Lo interruppe l'aprirsi d'una porticina che dava accesso alla cucina e il comparire della proprietaria che, tant'è, recava sei birre su un vassoio. A Maheu che s'era alzato per liberarla del vassoio:
-Non disturbatevi! - sussurrò la vedova. E sentenziando:
-Quando si parla, la gola si secca, - se ne andò.
Pluchart poté proseguire. Si disse commosso per l'accoglienza fattagli dai minatori di Montsou, si scusò del ritardo, allegando il daffare che aveva e l'indisposizione di gola. Diede quindi la parola al cittadino Rasseneur che l'aveva chiesta.
In previsione, già Rasseneur s'era piantato a fianco del tavolo presso il vassoio delle birre. Una sedia rivoltata gli serviva di tribuna.
Era visibilmente emozionato. Prima di lanciare il suo «Camerati!» tossì per schiarirsi la voce.
L'ascendente che esercitava sugli operai era dovuto alla facilità del suo eloquio, alla possibilità che aveva di parlar loro alla buona per ore, senza mai stancarsi. Senza azzardare un gesto, ma senza smettere mai di sorridere, li annegava, li intontiva di parole, finché tutti non gridassero:
-Sì, sì, è verissimo! Hai ragione!
Questa volta però aveva sin dalle prime parole avvertito nell'uditorio una sorda ostilità; per cui procedeva guardingo, limitandosi per ora a trattare del proseguimento dello sciopero e riservandosi di attaccare l'Internazionale se gli applausi lo incoraggiavano a farlo.
Certo, ammetteva, il sentimento dell'onore esigeva che non si cedesse alle pretese della Compagnia; senonché quante sofferenze si sarebbero dovute affrontare, a quali tristi tempi bisognava prepararsi se occorreva resistere ancora a lungo! E, pur senza consigliare la sottomissione, seminava scoraggiamento; descriveva le borgate in preda alla fame, chiedeva ai fautori del proseguimento dello sciopero su quali risorse contassero. Tre o quattro dei suoi tentarono un applauso; ma quel consenso non fece che irrigidire di più gli altri in un freddo silenzio e accentuare la disapprovazione in cui le frasi cadevano. Allora, perduta la speranza di riconquistarli, Rasseneur, cedendo alla stizza, predisse ai compagni le peggiori sciagure se si lasciavano montare la testa da provocatori venuti di fuori. Offesi di sentirsi trattare come ragazzi incapaci di governarsi da sé, a questo punto, i tre quarti dei presenti si alzarono esasperati per impedirgli di proseguire. Ma lui, sfidando il tumulto, seguitava a parlare, umettandosi sempre più spesso con sorsi di birra l'ugola; finché, perdute le staffe, gridò che «non era ancora nato, oh no, chi gli impedirebbe di compiere il suo dovere illuminando i compagni».
Pluchart s'era alzato; e, in mancanza di campanello, picchiava pugni sul tavolo:
- Cittadini... cittadini... - ripeteva. Quando ebbe ottenuto un po' di silenzio, si venne ai voti e l'assemblea ritirò la parola a Rasseneur. Risultato previsto, perché i venti della commissione operaia guidavano gli altri, inferociti dalla fame e sempre più ostinati nella speranza di spuntarla.
- Te ne freghi, tu! hai la pancia piena, tu! - urlava all'oste Levaque mostrandogli il pugno. Maheu, poi, era così irritato dall'ipocrisia di quel discorso che, per calmarlo, Stefano dovette chinarsi a parlargli dietro le spalle del presidente.
Questi s'era alzato e chiedeva ora di parlare. Si fece un religioso silenzio.
Pluchart parlò. La parola gli usciva roca e stentata; ma l'uomo era così avvezzo a portare in giro in una con le idee quella faringite, che parlando rinfrancava la voce e dalla sua cagionevolezza traeva anzi effetti patetici. Spalancando le braccia, accompagnava i periodi con un dondolio delle spalle. La sua era un'eloquenza un po' da predicatore; la untuosità con cui lasciava cadere la frase, con la sua stessa monotonia finiva per convincere.
Il pistolotto era quello che sfoderava in tutti i posti dove parlava per la prima volta: l'importanza dell'Internazionale, le sue grandi benemerenze. Dell'Associazione enunciò lo scopo: l'emancipazione della classe operaia. Delineò la sua imponente struttura: il comune alla base; sopra, la provincia; più in alto ancora, la nazione; e, in cima a tutto, infine l'Umanità. Le braccia si muovevano maestose, sovrapponevano i diversi piani dell'edificio, innalzavano la grandiosa cattedrale del mondo futuro. Passò quindi a dire dell'organizzazione interna; lesse gli statuti, parlò dei congressi, accennò all'importanza crescente dell'istituzione; al suo programma che, partito dal problema salariale, s'era andato via via allargando sino a proporsi la liquidazione della società capitalistica e la conseguente abolizione del salariato. Non più nazionalità; i lavoratori di tutto il mondo, uniti da un comune bisogno di giustizia, spazzerebbero via il marciume della borghesia, fonderebbero alfine la Società Libera, in cui chi non lavora non mangia.
Muggiva; il suo fiato faceva danzare i fiori finti dei festoni, mentre ripercossa dal basso soffitto, la voce rimbombava. La folla di teste ondeggiò; s'udì gridare:
-Bene! E' quello che ci vuole! Ci stiamo!
Lui non si lasciò interrompere. In capo a tre anni, asserì, l'Internazionale avrebbe conquistato il mondo; enumerò le nazioni che già vi avevano aderito. Da ogni parte piovevano consensi; mai nessuna religione aveva in così poco tempo contato tanti fedeli. Diventati che si fosse i padroni, si detterebbero leggi ai datori di lavoro; e sarebbe allora la volta dei padroni di sentirsi stringere da un pugno alla gola.
- Sì, sì! Saranno essi allora a discendere nei pozzi!
Pluchart chiese silenzio col gesto. E passò a trattare degli scioperi.
Per principio, egli li disapprovava; erano un'arma d'un'efficacia troppo lenta che inaspriva più che altro le sofferenze degli operai. Ma, in attesa di meglio, quando diventava inevitabile, bisognava ricorrervi, perché lo sciopero aveva il vantaggio di disorganizzare il capitale. E anche in questo campo l'Internazionale si rivelava per lo scioperante una provvidenza; e citava esempi: a Parigi, in occasione dello sciopero dei bronzieri, i padroni, atterriti dalla notizia che l'Internazionale alimentava coi suoi fondi lo sciopero, avevano su due piedi accordato tutte le richieste; a Londra, l'associazione aveva salvato le maestranze d'un pozzo di carbone, rimpatriando a proprie spese un treno di belgi, ingaggiati dal proprietario della miniera.
Bastava aderire, e i trusts industriali tremavano; gli operai entravano a far parte del grande esercito dei lavoratori, decisi a morire gli uni per gli altri pur di affrancarsi dalla schiavitù del capitale.
Applausi lo interruppero. L'oratore si asciugò col fazzoletto la fronte, mentre respingeva del gesto la birra che Maheu gli porgeva. Quando accennò a proseguire, nuovi applausi glielo impedirono.
- Non c'è bisogno d'altro! - sussurrò allora a Stefano. - Presto! i moduli!
Dicendo, si tuffò sotto il tavolo, riemerse con la cassetta. Superato il vocìo:
-Cittadini! - gridò. - Ecco i moduli d'iscrizione. Che i vostri delegati si avvicinino; io li consegnerò loro ed essi ve li distribuiranno... La quota d'iscrizione verrà pagata a suo tempo.
Rasseneur si buttò avanti per protestare. Stefano che sentiva il progettato discorso restargli in gola, si agitava; Levaque sprangava pugni in aria; Maheu, in piedi, parlava senza che si afferrasse parola di ciò che diceva. E in tutto quel baccano, dal piancito di legno più acre saliva alle nari, con la polvere che se ne alzava, il fortore di piedi e d'ascelle di cui tanti balli lo avevano impregnato.
In quella, la porticina di nuovo s'aprì; e, ostruendola col ventre e col seno:
-Zitti, dunque, santo Dio! - strillò la Désir. - Ci sono i gendarmi!
Era il commissario del rione che, accompagnato da quattro armigeri, arrivava con qualche ritardo a stendere verbale e a sciogliere la riunione. Da cinque minuti la vedova li teneva a bada sulla soglia dell'esercizio: lì era a casa propria, e in casa propria lei aveva ben diritto di radunare degli amici. Ma quelli ora l'avevano respinta; e lei veniva ad avvertire i suoi ragazzi. - Sgattaiolatevela di qui! In cortile c'è una sporcacciona di guardia di sentinella. Ma la legnaia dà direttamente sul vicolo. Andiamo, su, spicciatevi!
Già il commissario tempestava l'uscio di pugni; e, non vedendosi aprire, minacciava di sfondarlo. Qualcuno certo era andato a fargli la spia, perché gridava che buon numero dei presenti erano senza biglietto d'invito, per cui la riunione era illegale.
Ma ora, come sciogliersi così? non s'era votato né per l'adesione all'Internazionale né per il proseguimento dello sciopero. Nella sala la confusione era al colmo; tutti si ostinavano a parlare insieme. Quando a Pluchart venne un'ispirazione: votassero per levata di mani.
Braccia si alzarono; i delegati dichiararono di aderire in nome dei compagni assenti. E fu così che i diecimila carbonieri di Montsou divennero membri dell'Internazionale.
Intanto si cominciava a scappare. Per proteggere la ritirata, la Désir era andata a barricare della sua mole l'uscio; contro il quale già risuonavano i calci dei fucili, con colpi che si ripercuotevano nel suo dorso. I minatori scavalcavano le panche, se la svignavano in fila indiana attraverso la cucina e la legnaia. Rasseneur fu tra i primi a squagliarsi; seguìto da Levaque, che, già dimentico d'averlo ingiuriato, si riprometteva di farsi offrire una birra per rimettersi dall'emozione. Stefano, caricatosi della cassetta, aspettava che il locale si vuotasse; con Pluchart e Maheu, che ci tenevano all'onore di uscire per gli ultimi.
I tre erano appena partiti, che la serratura dell'uscio saltava; e il commissario si trovava faccia a faccia con la vedova sola, che opponeva ancora all'irruzione della forza pubblica il baluardo del petto e del ventre.
- Bel profitto ci trovate a scassinarmi tutto! Vedete che non c'è anima viva!
Il commissario, un tipo pletorico che non aveva nessun gusto per i drammi, si contentò di minacciarla di tradurla in prigione. E se ne andò a stendere flemmatico il verbale, tra gli sghignazzi di Zaccaria e compari, messi in umore dal bel tiro che i compagni avevano giocato alla polizia.
Fuori, nel vicolo, Stefano, impacciato dalla cassetta, trottava, seguìto dagli altri due, quando si ricordò che alla riunione Pierron non s'era visto, e ne chiese a Maheu; e Maheu senza smettere di correre, lo informò che il caposquadra s'era fatto prendere da una compiacente indisposizione: la paura dl compromettersi.
Vollero trattenere Pluchart; ma egli dichiarò che partiva all'istante per Joiselle, dove Legoujeux attendeva ordini. Allora, sempre correndo, gli augurarono buon viaggio e proseguirono, gambe in collo, attraverso Montsou. E, soli ora, per quel che l'affanno della corsa lo permetteva, si scambiavano frasi di esultanza, per la certezza del trionfo: quando l'Internazionale avrebbe inviato gli aiuti, sarebbe la Compagnia a supplicarli di riprendere il lavoro.
E, nella frenesia di quella speranza, in quel rimbombare di scarponi echeggiante sui lastrici delle vie, si avvertiva, oltre l'esultanza, qualcosa di cupo e di selvaggio: una sete di violenza che avrebbe presto contagiato tutti i borghi operai, per propagarsi in un baleno da un capo all'altro del paese
Capitolo quinto
Una quindicina di giorni ancora e si arrivò ai primi di gennaio. Una gelida coltre di nebbia inghiottì l'immensa pianura. La miseria era cresciuta, la fame si faceva sentire ogni giorno di più; nei borghi operai si tirava la vita coi denti. L'aiuto spedito da Londra, i quattromila franchi dell'Internazionale, erano andati nel pane di tre giorni; dopodiché non era arrivato più niente. Quella grande speranza delusa abbatteva gli animi. In chi contare ormai se anche i fratelli li abbandonavano? Si sentivano perduti, isolati dal mondo, nel cuore dell'inverno.
Il martedì, ogni risorsa venne a mancare nella borgata dei Duecentoquaranta. Stefano e gli altri venti della Commissione s'erano dati dattorno, si erano prodigati in tutti i modi; sottoscrizioni erano state aperte nelle città vicine e persino a Parigi; si facevano collette, si organizzavano conferenze. Ma con magri risultati; l'opinione pubblica che s'era tanto commossa all'inizio, ora si disinteressava d'uno sciopero che si protraeva all'infinito nella massima calma, senza dar luogo a incidenti.
Solo le famiglie più povere beneficiavano ancora di qualche elemosina che bastava a stento a tenerle in vita. Le altre tiravano avanti impegnando la roba, vendendo pezzo per pezzo le suppellettili di casa. Tutto andava a finire dai rigattieri: la lana dei materassi, le masserizie; qualche mobile, persino. Un momento c'era stato che si erano creduti salvi; quando i piccoli esercenti di Montsou avevano offerto credito, nel tentativo di portar via a Maigrat, che li rovinava, la clientela; e, durante una settimana infatti, Verdonck il droghiere, i due panettieri Carouble e Smelten vendettero a fido; ma le loro provviste si esaurivano; si fermarono. Ne godette qualche usciere; l'unico risultato fu che i minatori si indebitarono in modo da risentirsene per lunga pezza. Cessato ogni credito, venduta l'ultima vecchia casseruola, non restava che buttarsi in un canto a crepare di fame come cani randagi.
Stefano si sarebbe venduto vivo. Perché i Maheu potessero ancora mettere al fuoco la pignatta, aveva vuotato le tasche nelle loro ed era andato a Marchiennes a impegnare i calzoni e il soprabito buono. Solo le scarpe s'era tenuto, per sentirsi, diceva, almeno i piedi sul sodo. Si rodeva al pensiero che lo sciopero era scoppiato troppo presto, prima che la cassa di previdenza avesse avuto tempo di riempirsi; in ciò, egli vedeva l'unica causa del disastro, perché il giorno che i risparmi fossero stati sufficienti ad alimentare la resistenza, la vittoria contro i padroni sarebbe stata sicura. Abbandonando il lavoro prima del tempo, s'era fatto il gioco della Compagnia che, come diceva Souvarine, aveva tutto l'interesse ad affrettare lo sciopero per distruggere i primi fondi.
La vista di quei poveracci senza pane e senza fuoco, gli era insostenibile. Preferiva uscire, stancarsi in lunghe passeggiate. Una sera, di ritorno da una di quelle corse per la campagna, passando nei pressi di Réquillart il giovane scorse a terra una vecchia svenuta. Di inedia, certamente. La rialzò e diede la voce a una ragazza che passava di là dello steccato. Era la Mouquette.
- Ah, sei tu! Aiutami; bisogna farle bere qualche cosa di forte.
La Mouquette, commossa sino alle lacrime, rientrò in casa di corsa; una crollante topaia che il padre aveva ricavato tra le macerie e reso alla meglio abitabile. Ne tornò subito con del pane e una borraccia di ginepro. Il liquore rianimò la vecchia, che senza parlare si buttò avidamente sul pane. Era la madre di un minatore; abitava in una borgata operaia dalla parte di Cougny; e tornava da Joiselle, dove era stata inutilmente a chiedere dieci soldi in prestito a una sorella, quando s'era sentita mancare. Come la vecchia ebbe finito il pane, se ne andò più ubriaca che sazia.
I due restarono soli in quel lembo di terra inselvatichito, davanti ai capannoni crollati che la vegetazione inghiottiva.
- Ebbene, non entri a berne un bicchierino? - gli domandò tutta allegra la ragazza. E vedendolo esitare:
-Hai sempre paura di me, vuol dire?
Toccato dal buoncuore con cui l'aveva vista correre in aiuto della vecchia e sedotto da quel suo ridere, Stefano la seguì. Lei se lo tirò dietro in camera; e uno sull'altro gli versò due bicchierini di ginepro. La stanzetta era così ben tenuta e pulita che Stefano gliene fece i complimenti. Lì dentro, del resto, respirava un certo agio: il padre seguitava ad accudire i cavalli del Voreux; e lei, col pretesto di non farcela a stare con le mani in mano, s era improvvisata lavandaia, lavoro che le fruttava un buon franco e mezzo al giorno.
- Se mi piacciono gli uomini, non vuol mica dire per questo che io sia una fannullona!
E, a bruciapelo, prendendolo alla vita:
-Di', perché non mi vuoi amare?
All'uscita, lui non poté trattenersi da ridere.
- Ma te lo voglio sì, bene!
- No. Non come intendo io... Sai, che mi struggo dalla voglia... Di', sarei così felice!
Era infatti da mesi che glielo diceva. Lui la guardava: la ragazza gli si incollava addosso, lo stringeva fremente fra le braccia, alzava al suo un viso così innamorato e supplichevole ch'egli si sentì rimescolare.
Non aveva certo nulla di bello quel faccione tondo, dalla pelle ingiallita, segnata dal carbone. Ma gli occhi bruciavano di un tale fuoco, l'attesa lo soffondeva di un così dolce rossore, vi metteva un tale tremito, che lo ringiovaniva. Davanti a una offerta così umile e ardente, il giovane non se la sentì di dirle di no.
Leggendogli negli occhi che cedeva:
-Oh vuoi, non è vero? - balbettò lei, ai sette cieli. - Vuoi! vuoi! - E gli si diede con la goffaggine e l'abbandono d'una vergine; come fosse la prima volta che le succedeva e prima di lui non avesse conosciuto altro uomo.
Quando la lasciò, fu lei a traboccare di gratitudine: grazie, gli ripeteva; gli baciava le mani.
Dell'avventura Stefano restò un poco vergognoso; non ci si vantava d'aver avuto la Mouquette. Andandosene, si giurò di non ricaderci; ma non poteva impedirsi di ripensare a lei con tenerezza: era davvero una gran buona figliola.
Rincasando, del resto, le notizie che apprese gli fecero scordare l'avventura. Correva voce che la Compagnia si indurrebbe a qualche concessione purché a fare il primo passo fosse la rappresentanza operaia, recandosi di nuovo dal direttore. Dei capisquadra, per lo meno, avevano sparso questa voce.
La verità era che, nella lotta ingaggiata, la miniera soffriva più ancora dei minatori. Ostinarsi, accumulava rovine da ambo le parti: se la mano d'opera periva di fame, il capitale si distruggeva. Ogni giorno di sciopero, erano centinaia di migliaia di franchi che si perdevano. Ogni macchina che si arresta è una macchina morta; attrezzature e materiale si danneggiavano, il danaro spariva come acqua nella sabbia.
Coll'esaurirsi delle poche riserve di carbone, la clientela parlava di provvedersi nel Belgio: ciò che costituiva una minaccia per l'avvenire. Ma non era ancora questo che spaventava di più la Compagnia; sì i guasti che con un crescendo allarmante si producevano nella galleria e nei cantieri d'abbattimento. A ripararli, i capisquadra non bastavano più; i rivestimenti cedevano da tutte le parti; non passava ora che non si verificasse qualche frana.
In breve volgere di tempo i danni erano giunti a tal punto, che già ora sarebbero occorsi parecchi mesi prima di poter riprendere l'estrazione. La Compagnia li teneva gelosamente celati; ma già per tutto il paese si sussurrava che a Crèvecoeur erano crollati di colpo trecento metri di galleria, ostruendo l'accesso alla vena Cinquepalmi; che alla Madeleine, la vena Malgradotutto smottava e si riempiva di acqua.
La direzione seguitava a smentire quando davanti a due disastri, susseguitisi a breve distanza, si trovò improvvisamente costretta a confessare. Un mattino, presso la Piolaine, il suolo apparve spaccato da una larga crepa: dovuta al franamento, prodottosi il giorno prima, nella galleria nord di Mirou che vi correva sotto. E l'indomani, tutto un angolo di sobborgo sprofondò per uno scoscendimento nell'interno del Voreux: poco mancò che nel baratro che s'aprì due case restassero inghiottite.
Stefano e i rappresentanti operai esitavano a rischiare un passo senza conoscere le intenzioni della Compagnia. Interrogarono Danseart; ma il capo sorvegliante si schermì: certo, si deplorava il malinteso e si farebbe tutto il possibile per venire a un accordo; ma di più non precisò. Finirono per decidere di tornare da Hennebeau per non dare appigli: non volevano che poi li si potesse accusare d'aver rifiutato alla Compagnia un'occasione di riconoscere i suoi torti. Ma giurarono di non cedere su nessun punto, di mantenere a qualunque costo le condizioni già fatte, che erano le sole giuste.
L'incontro avvenne il martedì mattino: il primo giorno, per il borgo operaio, di miseria nera. L'abboccamento si svolse meno cordiale del primo. Fu ancora Maheu a parlare: i compagni lo mandavano a chiedere se quei signori avevano nulla di nuovo da comunicar loro. Sulle prime, Hennebeau affettò sorpresa: a lui nessun ordine era giunto; nulla del resto poteva cambiare, finché i minatori si intestassero nella loro insensata ribellione. Questa rigidità autoritaria fece sui rappresentanti una pessima impressione; anche se si fossero mossi con le intenzioni più concilianti, il modo con cui si vedevano accolti, sarebbe bastato a ribadirli nella loro intransigenza.
In un secondo tempo, il direttore volle, sì, cercare insieme una base su cui trattare; proponendo che gli operai accettassero che il rivestimento venisse compensato a parte; in cambio di che, la Compagnia si impegnerebbe ad accrescere quel compenso dei due centesimi di cui la si accusava di profittare. Concessione del resto, avvertì, di cui prendeva lui l'iniziativa, nulla essendovi di deciso; ma che si lusingava di far accettare a Parigi. I delegati rifiutarono e ripeterono le loro richieste: che si mantenesse l'antico sistema di paga e si aumentasse di cinque centesimi il prezzo della berlina. Solo ora venne fuori la verità: Hennebeau confessò che le condizioni che aveva fatto balenare come possibili, e dovute, in tal caso, al suo interessamento, erano invece state proposte dall'amministrazione; e insisté perché senz'altro le accettassero, per amore delle loro donne e dei bambini che morivano di fame. Gli occhi a terra, cocciuti, i rappresentanti dissero di no, di no; negando violentemente col capo. Si separarono in malo modo; Hennebeau sbattendo gli usci alle loro spalle; gli operai facendo, nell'allontanarsi, risuonare i tacchi sul lastricato con la rabbia muta dei vinti, spinti dalla disperazione.
Dal canto loro le donne, verso le due, tentarono un passo da Maigrat; ammansirlo, strappargli una settimana ancora il credito era l'ultima speranza che restava. L'idea era stata della Maheu, che si faceva troppo spesso illusioni sul buon cuore della gente. Decise l'Abbruciata e la Levaque ad accompagnarla; con altre donne che s'aggiunsero, scesero in città in una ventina. Invitata a unirsi a loro, la Pierron si era schermita: il consorte seguitava a star male, di lasciarlo non si fidava.
A vederle arrivare, i benestanti di Montsou scossero il capo: non diceva niente di buono quella banda di donne, cupe in viso e male in arnese, che avanzavano occupando in tutta la larghezza la strada. Alcune porte si chiusero; una signora, non si sa mai, s'affrettò a nascondere l'argenteria. Era la prima volta che comparivano in città così: pessimo segno: di solito le cose si mettono male, quando le donne si mostrano a quel modo per le vie Da Maigrat le aspettava una scenataccia. Il bottegaio le accolse sghignazzando, affettando di credere che venissero a saldare i debiti: brave, brave, vi siete data la voce per portarmi tutto in una volta quello che mi dovete!
Ma quando la Maheu prese la parola, troncando bruscamente quella farsa, l'uomo finse d'andare in bestia per la delusione.
Che si beffavano del prossimo? dell'altro credito ancora avevano la faccia di chiedere? desideravano dunque di vederlo sul lastrico? No; non una patata, non un briciolo di pane, a fido. Andassero da Verdonck, da Carouble, da Smelten a chiedere roba a credito, visto che ormai si provvedevano da quelli.
Le donne lo lasciarono dire con aria di spaurita umiltà; si scusavano; spiavano nei suoi occhi, in quegli occhi porcini, se mai si lasciasse impietosire.
Sfogata la finta collera, Maigrat riprese a schernirle: all'Abbruciata offrì addirittura la bottega purché lo pigliasse per ganzo. Alla screanzata facezia, erano così avvilite, le poverette, che riuscirono a ridere; la Levaque, anzi, s'offrì: lei ci stava! altroché!
Allora mutò registro; diventato di colpo villano, le buttò fuori a spintoni: si togliessero di lì. E siccome, arretrando, esse seguitavano a insistere, a implorare, ne malmenò una. Le altre, già sulla strada, lo trattarono di venduto; mentre in un impeto di sdegno, la Maheu, le braccia in aria, gli augurò che crepasse, gridando che un uomo simile non era degno di stare al mondo.
Il ritorno fu ben triste. Al loro apparire, gli uomini alzarono il capo; vedendole a mani vuote, lo riabbassarono senza chiedere. Per oggi, non c'era scampo, s'andrebbe a letto senza una cucchiaiata di minestra; ma più tetra era la prospettiva dei giorni che seguirebbero: così ormai per chi sa quanto, senza speranza di mutamento. Ma erano stati loro a volerlo; e nessuno parlava di cedere. La gravità anzi della situazione li intestardiva nella resistenza; come fiere accerchiate, preferivano crepare in silenzio in fondo al loro buco, piuttosto che arrendersi. Chi avrebbe osato per primo parlare di sottomissione? avevano giurato di tenere duro tutti insieme e tutti sarebbero solidali; come nella miniera, quando un compagno restava sotto una frana. Il loro dovere era quello; la vita della miniera li aveva abituati a rassegnarsi; non si spaventava all'idea di una settimana di fame chi, com'essi, dall'età di dodici anni, aveva fatto il callo a una esistenza di continui rischi; a sostenerli nel loro sacrificio si aggiungeva quindi un orgoglio di soldati, di uomini fieri del loro mestiere, che nella quotidiana lotta con la morte avevano imparato a sfidarla.
In casa dei Maheu, la serata fu tetra. Seduti davanti al fuocherello fumoso in cui si consumava l'ultima manciata di carboniglia, tutti tacevano. La stanza pareva morta; da due giorni non l'animava più l'amico tic-tac dell'orologio a cucù; dacché, partito l'ultimo pugno di lana, avevano venduto anche quello per ricavarne tre franchi. Tutto il lusso della sala si compendiava ora nella scatola di cartone rosa, rimasta a pavoneggiarsi sulla credenza: un antico regalo di lui, al quale la Maheu teneva più che ai suoi occhi. Le due sole seggiole buone, avevano preso anch'esse la porta; il nonno e i bambini si stringevano ora gomito a gomito su una panchetta muffita, ritirata dall'orto. E la livida luce del crepuscolo che calava pareva accrescere il freddo dell'ambiente.
- Che fare? - ripeté la Maheu, accosciata nel canto del fuoco. Stefano in piedi guardava i ritratti dell'augusta coppia imperiale incollati alla parete. Se a quelle stampe la famiglia non avesse tenuto come a una belluria, le avrebbe lacerate da un pezzo.
- E dire, - fece, - che di questi gaglioffi che ci guardano crepare, non si ricaverebbe un baiocco!
Dopo un'esitazione, la Maheu, impallidendo:
-Se portassi a vendere la scatola?
Maheu che, seduto sull'orlo del tavolo, le gambe penzoloni, teneva il viso sul petto, si drizzò come punto: - No, quella no!
Con uno sforzo la moglie si alzò e fece il giro della stanza. Era possibile, buon Dio, che si fosse ridotti in quella miseria? La credenza pulita come la mano; non più un oggetto da vendere; neppure l'idea di come procurarsi un pezzo di pane!
E il fuoco che si stava spegnendo! Quel mattino aveva mandato Alzira a raccattare carboniglia sul terrapieno; ma la Compagnia aveva proibito anche quello e la bambina era tornata a mani vuote. Fu con lei che ora la madre se la prese: era proprio il caso di badarci alle proibizioni della Compagnia? si derubava forse qualcuno a raccattare un po' di scaglietta buttata? Solo adesso, la piccina in lacrime per l'immeritato rimprovero, raccontò che un uomo l'aveva colta in flagrante e minacciata di schiaffi. Ma ci tornerebbe; ci tornerebbe l'indomani; la picchiasse pure, quell'uomo.
- E quel lazzarone di Gianlino? - gridò allora la madre nel suo bisogno di sfogarsi. - Dov'è andato a finire, mi domando? Doveva portare dell'insalata: almeno, avremmo brucato come bestie. Vedrete che neanche oggi rincasa. Già ieri ha dormito fuori. Che cosa traffichi non so; ma quell'animale mi ha l'aria d'avere sempre la pancia piena!
- Rimedierà forse qualche soldo per strada, - suppose Stefano.
A questa idea, la madre, fuori di sé, alzò i pugni:
-Se sapessi mai una cosa simile! i miei figli mendicare! Preferirei vederli morti, me insieme.
Maheu s'era di nuovo accasciato su di sé. Leonora ed Enrico, stupiti che non si cenasse, cominciavano a frignare; mentre filosoficamente il vecchio Bonnemort rivoltava in bocca la lingua per illudere la fame.
Più nessuno fiatò. L'appetito isolava ciascuno nella contemplazione dei propri malanni: Bonnemort pensava alla tosse che non gli dava tregua, ai reumatismi che aggravandosi degeneravano in idropisia; Maheu alla sua asma, ai suoi ginocchi gonfi d'acqua; la moglie alle scrofole dei due bambini, conseguenza dell'anemia ereditata col sangue.
Era il mestiere certo che voleva così; e nessuno se ne lagnava, finché a inasprire quei mali non si aggiungeva, come ora, la denutrizione: una denutrizione che già mieteva vittime nelle case.
La tetraggine del crepuscolo abbuiava sempre più la stanza.
- Che fare? - ripeté la Maheu. - Dove andare, mio Dio, per trovare qualche cosa da mettere sotto i denti?
Non reggendo allo strazio, allora Stefano si decise: - Aspettatemi. Vado a vedere. Chi sa che... - e uscì.
Da un po' lo tentava l'idea di tornare dalla Mouquette: se, come era probabile, la ragazza ne aveva, un po' di pane glielo cederebbe. Certo non era senza ripugnanza che si risolveva a quel passo: la Mouquette gli bacerebbe le mani, come la servetta innamorata al suo principe; ma lui era anche disposto ad accontentarla di nuovo, pur di venire in soccorso a degli amici come i Maheu.
Via lui, anche la Maheu si alzò:
-Vado anch'io a vedere. E' stupido star qui con le mani in mano... Qualcosa bisogna pur fare.
Al rabbioso sbattere della porta, nessuno nella stanza si scosse.
Alzira aveva acceso un moccoletto. A quel poco chiarore, tutti restarono muti in attesa.
Fuori, la Maheu ebbe un attimo d'esitazione. Poi entrò dai Levaque.
- Senti, l'altro giorno ti ho prestato un pane. Non potresti rendermelo?... - Ma s'interruppe; lo spettacolo che le si presentava non era punto incoraggiante: la casa puzzava di miseria peggio della sua.
La Levaque fissava come ebete la stufa spenta; mentre il consorte, stravaccato sul tavolo, dormiva; ubriaco a digiuno di birra, offertagli da chiodaioli suoi amici. Bouteloup si strofinava le spalle contro il muro, con l'aria intontita del buonuomo cui è stato spillato sin l'ultimo risparmio e che non si capacita di dover ancora saltare i pasti.
- Magari! Ma avercelo, mia cara! Ed io che giustappunto pensavo di chiederne uno a te! - E siccome, indisposto dalla birra mal digerita, il marito tra il sonno guaiva, gli si avventò, gli schiacciò il muso sul tavolo: - Zitto, porcone! - intimandogli. - Ti brucia le budelle, eh, la sbronza! Ben ti sta. Invece di farti pagar da bere, non avresti potuto chiedere qualche cosa in prestito ai tuoi compari?
E, preso l'aire, seguitò, in mezzo a tutta quella sporcizia, a imprecare, a sfogarsi: da tanto tempo il pavimento non assaggiava la scopa che ne saliva un tanfo che pigliava alla gola. - Ma che mi fa! caschi anche il tetto, se vuole! Quel rompicollo di Berto è sparito da stamane. Così non mi tornasse più davanti, sarebbe un imbarazzo di meno.
Dopo di che dichiarò che lei se ne andava a letto; in letto almeno si sta caldi. E scrollò Bouteloup: - Andiamo, vieni su. Il fuoco è spento; e, per vedere delle scodelle vuote, non mette conto consumare la candela... Vieni dunque, Luigi? Ti dico che ce ne andiamo a letto. Ci si appiccica, è un sollievo anche quello. E che questo maialone schiatti pure qui dal freddo!
Uscita di là, la Maheu scorciò risolutamente per gli orti, diretta dalla Pierron. Nell'interno, si udiva ridere: ma al suo bussare, voci e risa cessarono di colpo. Dovette aspettare un po' prima che le aprissero.
- Toh, sei tu? - esclamò la Pierron affettando sorpresa. - Credevo fosse il dottore. - E, senza lasciarla parlare, indicando il marito seduto davanti a un gran fuoco:
-Ah va male! Sempre allo stesso punto! Di faccia, si direbbe che sta benino; gli è che il male l'ha nel ventre. Gli abbisogna molto caldo, dice il medico; per questo, brucio tutto quello che ho.
Pierron infatti era il ritratto della salute. L'affanno nella respirazione, che simulava, non ingannava nessuno. E poi, entrando, la Maheu aveva annusato un buon odore d'intingolo: coniglio, si sarebbe detto. Evidentemente, il ritardo nell'aprire era servito a far sparire i piatti.
- Mia madre ha fatto un salto a Montsou per vedere di procurarsi un pane. Noi siamo sulle spine ad aspettarla.
Qui interdetta si arrestò; aveva seguito lo sguardo che la vicina lanciava alla tavola; con le briciole di pane, si erano dimenticati, nella fretta, la bottiglia di bordò. Ma si riprese subito: sì, era vino: ordine del medico; e quei bravi signori della Piolaine glielo avevano portato per il suo uomo. E si diffuse in parole di gratitudine per quei buoni Grégoire; gente d'oro. E la figliola, specialmente, così alla mano! entrava nelle case, distribuiva lei stessa i soccorsi... - So, li conosco, - disse la Maheu. E: «Piove sempre sul bagnato: la roba va a chi ne ha», pensava intanto, con una stretta al cuore. Ma se quei signori davvero erano venuti nella borgata, come mai lei non li aveva visti? E se ne rammaricò: anche lei avrebbe forse potuto tirarne qualche cosa.
Alfine si decise:
-Ero venuta, nella speranza di trovarti un po' più al largo di me... Non avresti per caso da prestarmi un pugno di vermicelli? A buon rendere, beninteso... Allora la Pierron fece una scena di disperazione:
-Vermicelli? una parola! Neanche quel che si dice un granello di semola -. E anche sua madre doveva aver fatto buco; altrimenti a quell'ora sarebbe lì. Sicché la prospettiva era d'andare a letto digiuni.
In quella arrivò agli orecchi un pianto soffocato. Esasperata, la Pierron si alzò e, per farla tacere, andò a tempestare di pugni l'uscio che dava in cantina. Sì, vi aveva chiuso a chiave quella vagabonda di Lidia. Non era rientrata alle cinque, quella sgualdrina, dopo essere stata tutto il giorno chi sa dove? Non la si poteva più domare, spariva continuamente.
E, pur sentendosi scacciata, la Maheu restava lì, senza sapersi decidere a partire. Il bel caldo di cui si godeva in quella stanza la penetrava di benessere e insieme la indignava; il pensiero che lì si mangiava, le faceva sentire più acuto il morso della fame. Era chiaro, ormai: i due s'erano, con un pretesto, sbarazzati della vecchia e della bambina per sbafarsi da soli il coniglio. Ah, si ha un bel dire, ma quando una donna si comporta male, in casa sua va a gonfie vele!
Di colpo, si decise:
-Buonasera!
Fuori era notte fatta; la luna, velata da nuvoli, scialbava appena del suo chiaro la terra. Invece di riattraversare gli orti, la Maheu fece il giro: non si sa mai, rientrare a mani vuote la desolava.
Ma lungo le case che rasentava, non una porta incoraggiava a bussare; già le facciate col loro buio, col loro silenzio parlavano di miseria. Anche il puzzo di soffritto, col quale prima la borgata si annunziava a distanza, dopo settimane di quel regime di quaresima, era sparito; le case operaie non tramandavano più che un umido tanfo di cantina, l'odore dei luoghi che la vita ha disertato. Appena qualche vago rumore ne usciva: di pianti soffocati, di bestemmie represse. Il silenzio che vieppiù si appesantiva annunciava il sonno, visitato dagli incubi della fame, di corpi stramazzati attraverso i letti.
Nel passare davanti alla chiesa, vide un'ombra scantonare furtiva: il parroco di Montsou, il reverendo Joire che la domenica veniva a celebrare la messa nella cappella del borgo. Certo usciva di sacrestia, dove qualche dovere del suo ministero lo aveva chiamato.
Insaccato nelle spalle, sforzava la sua consueta andatura d'uomo grassoccio e bonario, preoccupato solo di vivere in buona con tutti. Se si era scomodato così di notte, era stato certo per non compromettersi, facendosi vedere tra gli scioperanti. Filone, l'uomo! Non per niente aveva ottenuto di recente una promozione. Era almeno la voce che correva, ma il fatto ch'era già stato visto in giro col successore - uno magro, dallo sguardo di fuoco - la confermava.
- Sor prevosto, sor prevosto! - tartagliò la Maheu. Ma il reverendo non si fermò. Lanciato un:
-Buonasera, mia buona donna! - allungò anzi il passo.
Era arrivata davanti a casa. Le gambe le si piegavano; rientrò.
Trovò tutti come li aveva lasciati: Maheu sulla sponda della tavola, accasciato; Bonnemort e i bambini che, per aver meno freddo, si stringevano uno contro l'altro sulla panchetta. In tutto quel tempo non avevano scambiato una parola; solo il moccoletto s'era consumato e ora la fiammella lappolava.
Allo schiudersi della porta, solo i bambini alzarono il capo; ma, vedendo la madre a mani vuote, riabbassarono gli occhi a terra, reprimendo una gran voglia di piangere per non farsi anche sgridare.
La Maheu s'era riafflosciata al suo solito posto, presso il fuoco ormai quasi spento. Nessuno le chiese nulla; avevano tutti capito; meglio non affaticarsi a parlare. E nel silenzio che si ristabilì, tutti, in uno scoraggiato avvilimento, si afferrarono ormai al solo filo di speranza che restava: l'arrivo di Stefano, la possibilità che qualche cosa portasse. Ma i minuti passavano, quel filo si faceva sempre più tenue.
Eccolo, finalmente. E un involtino lo aveva; ne venne fuori una dozzina di patate lesse, fredde.
Anche dai Mouque il pane mancava: quelle patate erano la cena di Mouquette; per forza la ragazza aveva voluto fargliene un involtino, baciandogli le mani di gratitudine.
La parte che la Maheu gli offriva, il giovane la lasciò protestando che s'era servito per il primo. Non era vero; ma, anche volendo, ora non avrebbe potuto fare altrimenti, a vedere l'avidità con cui i bambini si buttavano sul cibo. Maheu e la moglie fecero, più che altro, l'atto di mangiare; il vecchio invece, perduto il lume degli occhi, poco mancò ingurgitasse tutto lui. Una patata dovettero riprendergliela per darla ad Alzira che non ne aveva ancora avuto.
Quando ebbero placato la prima fame, Stefano riferì le notizie che aveva raccolto. Irritata dall'ostinarsi degli scioperanti, la Compagnia parlava di restituire i libretti di lavoro agli operai più compromessi. Una vera e propria dichiarazione di guerra, insomma. Ma c'era di peggio: se la notizia era attendibile, la Compagnia si vantava d'aver persuaso un gran numero di minatori a riprendere il lavoro; già l'indomani, alla Victoria e a Feutry-Cantel le maestranze ridiscenderebbero al completo: alla Madeleine e a Mirou, un terzo degli operai si ripresenterebbe.
Per Maheu e la moglie fu una mazzata.
- Ah perdìo! - urlò lui, - se ci sono tra noi dei traditori, non si può lasciar passare così!
E, saltato in piedi, nel bollore dell'ira:
-Domani sera, tutti alla faggeta! Là siamo in casa nostra; là non verranno a scomodarci come dalla Désir.
«Tutti alla faggeta» era l'antica parola d'ordine, che adunava i padri dei loro padri quando vi andavano per organizzarsi e resistere contro i soldati del re.
L'antico grido svegliò di soprassalto Bonnemort che già si appisolava sul chilo.
- Sì, sì, a Vandame! - gridò anche lui, preso da sacro fuoco. - Sto con voi, se si va alla faggeta!
- Tutti si andrà! - scattò la Maheu. - E' tempo di farla finita con i tradimenti e le ingiustizie!
Stefano decise di comunicare l'indomani in mattinata l'ordine a tutte le borgate.
Il fuoco intanto s'era spento e la candela dava l'ultimo guizzo. Nella mancanza di ogni mezzo d'illuminazione, dovettero, tremando dal freddo, coricarsi a tastoni. Trascinati a letto al buio, i bambini piangevano
Capitolo sesto
Gianlino era guarito e aveva ripreso a camminare; ma con le gambe così male in sesto che zoppicava d'ambo le parti. Ma, pure con quell'andatura da anatroccolo, bisognava vedere come filava! Più spedito, si sarebbe detto, di prima, con l'agilità furtiva e sospetta d'una faina.
Quella sera, tra lusco e brusco, stava in agguato sulla via di Réquillart; in compagnia, manco a dirlo, di Berto e Lidia. S'era appostato in un campo incolto a riparo d'uno steccato, di fronte a una botteguccia di commestibili che s'apriva di fianco a un sentiero ed esponeva in vista tre o quattro sacchi di lenticchie e di fagioli, incipriati di carbone; tenuta da una vecchia quasi orba. Sull'anta della porta, appeso a uno spago, penzolava uno stoccafisso; ed era quello stoccafisso, rinsecchito e seminato da sopraluoghi di mosche che i suoi occhi di furetto covavano. Già due volte aveva dato il via a Berto, perché andasse a spiccarlo; ma ogni volta qualcuno era comparso al gomito della strada. Sempre dei rompiscatole che vi impediscono di attendere ai vostri affari!
Stavolta a sbucare fu un uomo a cavallo: il direttore delle miniere! I tre si appiattirono a terra per non farsi scorgere.
Dacché durava lo sciopero, lo si vedeva spesso, Hennebeau, passare così, da solo, incurante del pericolo, in mezzo alle borgate in rivolta; per accertarsi coi suoi occhi di come andassero le cose. E mai un sasso era fischiato ai suoi orecchi; per le strade non incrociava che uomini taciturni, lenti a scoprirsi al suo passaggio; ma rari anche quelli; assai più frequenti, invece, le coppie sulle quali senza volerlo capitava, occupate nei loro nascondigli, più che di politica, a mettere il tempo a profitto.
Per non disturbarle nei loro colloqui tirava diritto senza dar segno di scorgerle; ma quell'orgia sfacciata di amori all'aperto acuiva in lui i rimpianti, gli gonfiava il cuore di desideri inappagati. Né ora, dietro lo steccato, gli sfuggì il groviglio dei due maschietti bocconi sulla bambina: anche i marmocchi pigliavano già gusto a strofinare uno contro l'altro la loro miseria! E ritto in sella, militarmente abbottonato, si allontanò; ma gli occhi gli si erano inumiditi.
- Disdetta porca! non la finiscono più di passare! - brontolò Gianlino, rialzandosi guardingo. - Su, Berto, su! è il momento! Lànciati, presto! Gli dài uno strappone, per far prima!
E l'altro, obbediente, stava per scattare, quando ecco sulla strada comparire altri due. - Mio fratello, accidenti! - imprecò Gianlino, riconoscendo Zaccaria alla voce; Zaccaria che raccontava a Mouquet d'avere scovato, cucita nella sottana della moglie, una moneta da due franchi. Un bazza! Scambiandosi manate sulla spalle, i due amici sghignazzavano di esultanza - Se domani si facesse una bella partita di pallone? che te ne pare? - proponeva Mouquet. - Si partirebbe dal Risparmio alle due, si andrebbe dalle parti di Montoire... - Già! buona idea! - approvava Zaccaria. - Ma che comizio! che sciopero!
(Mille volte meglio godersele, quelle ferie insperate!) E i due già svoltavano, quando - porca disdetta! - l'incontro di Stefano li fermò e si misero a chiacchierare. Gianlino friggeva:
-Ma ci mettono le tende ora qui? E' quasi notte; a momenti la vecchia ritira la mercanzia.
Accompagnandosi a un minatore che andava a Réquillart, ora Stefano passava loro davanti. Dalle parole dei due, Gianlino apprese che l'adunata nella faggeta era rimessa all'indomani: non si sarebbe fatto a tempo in giornata ad avvertire tutte le borgate.
- Sentite? - bisbigliò ai suoi complici il monello. - E' per domani il comizio. Dobbiamo esserci anche noi. Domani pomeriggio si fila, inteso? - E vedendo la strada finalmente sgombra, diede il via a Berto.
Per fortuna, faceva già quasi buio. Spiccata la corsa, Berto s'era appeso allo stoccafisso, strappando lo spago. E agitandolo in aria come un aquilone, ora si metteva in salvo, seguito a gambe levate dagli altri due. Richiamata dal trambusto, la vecchia uscì sulla soglia; e, interdetta, restò lì a strizzare nel buio gli occhi cisposi, senza distinguere chi scappasse a quel modo.
I tre piccoli teppisti cominciavano a impensierire il paese, che ormai scorrazzavano come una banda ladresca. Da principio s'erano accontentati per i loro spassi del piazzaletto del Voreux: ruzzavano nei mucchi di carbone, uscendone conciati come spazzacamini; giocavano a moscacieca tra le cataste di legname, smarrendovisi in mezzo come in una foresta vergine. Poi avevano dato l'assalto al terrapieno; si lasciavano sdrucciolare sul sedere per le ripide scarpate, scottanti pel fuoco che vi covava sotto; si ficcavano nel groviglio di rovi che ne copriva la parte abbandonata; e, nascosti lì dentro, passavano intere giornate a divertirsi zitti come topi in ogni sorta di maliziosi giochetti. Ma il teatro delle loro gesta s'andava ogni giorno allargando: si picchiavano a sangue tra i cumoli di mattoni, scorrazzavano i prati in cerca d'erbe sugose che mangiavano; perlustravano gli argini del canale, frugando nelle pozzanghere e agguantando pesciolini che inghiottivano vivi; si spingevano sempre più lontano, su su sino al bosco di Vandame, alla cui ombra facevano scorpacciate di fragole in primavera, di nocciole e mirtilli d'estate. Sicché in poco tempo l'immensa pianura era diventata tutta loro.
Ma a spingerli a quelle scorribande, a farli battere come lupacchiotti le strade da Montsou a Marchiennes, era, ogni giorno più imperioso, un istinto di rapina. Il capo di quelle spedizioni restava Gianlino; era lui che adocchiava la preda, che aizzava gli altri due a fare man bassa di cipolle nei coltivi, a saccheggiare i frutteti, a sguarnire le mostre delle botteghe. Già in paese quei guasti venivano imputati agli scioperanti; e, nella fantasia della gente, il terzetto diventava una banda di razziatori perfettamente organizzata. Una volta Gianlino non era arrivato a costringere Lidia a derubare sua madre? Tutto un barattolo di zucchero d'orzo era sparito dalla finestra dove la Pierron lo teneva. E la ladruncola, massacrata di botte, non aveva fiatato, tanto era il terrore che il capo le incuteva. Il peggio era che, nella spartizione del bottino, Gianlino si faceva la parte del leone. Berto pure doveva consegnare a lui il ricavo dei furti e ringraziare se il prepotente non lo persuadeva a ceffoni a lasciargli tutto. Sì, da un po' di tempo, della sua autorità Gianlino abusava. Lidia la batteva come si batte un moglie legittima; e della dabbenaggine dell'altro profittava per spingerlo in imprese sballate; per poi sghignazzargli in faccia quando quel ragazzone, che con un pugno lo avrebbe atterrato, ne usciva scornato e malconcio.
Gli è che in fondo Gianlino li disprezzava ambedue, li trattava da suoi tirapiedi. Da qualche giorno, anzi, dava loro a bere d'avere per amante una principessa che si sarebbe schifata di vederseli davanti. Frottola che agli occhi dei due acquistava verosimiglianza dal fatto che, da qualche giorno appunto, lo vedevano spesso dileguarsi all'improvviso, a un capo di strada, allo svolto d'un sentiero, dove che sia; non senza beninteso aver prima intascato il bottino e aver loro ferocemente intimato di rincasare all'istante. Né quella sera andò diversamente.
Fermandosi infatti al primo gomito di strada:
-Da' qui! - ingiunse a Berto, strappandogli lo stoccafisso di mano.
Il ragazzo protestò:
-Ne voglio, sai! Sono io che l'ho preso!
Gianlino alzando la voce:
-Ehi? che dici? Ne avrai se te ne darò; e non stasera, per certo. Domani... se ce ne sarà ancora.
E spinta di malagrazia la bambina a fianco del ragazzo, come un caporale che allinea i suoi soldati, passò alle loro spalle:
-Adesso restate lì fermi come vi ho messi... Se vi voltate, vedete che vi succede! E quando avrete contato sino a cento, e non prima, filate dritti a casa. E se tu, Berto, t'azzardi a toccare Lidia foss'anche con un dito, ricordati che lo saprò e saranno schiaffi che vi vedrete arrivare! - E sgusciò via sui piedi scalzi, sparendo con la leggerezza d'un'ombra.
Fedeli alla consegna, i poveretti non si mossero, nella certezza che se solo si fossero voltati, si sarebbero sentiti arrivare degli schiaffi, senza vedere di dove. I loro cuori erano gonfi del bene taciuto che si volevano; un affetto che aveva fatto maturare a poco a poco tra i due il timore, che li affratellava, di Gianlino. Lui si struggeva dal desiderio di attirarla a sé, di serrarla fra le braccia forte forte come vedeva fare alle coppie; e lei pure ci sarebbe stata: le sarebbe piaciuto sentirsi coccolare, assaggiare un amore che non fosse quello brutale che conosceva. Ma né all'uno né all'altro sarebbe venuto in mente di disobbedire al tiranno. E così nel ritorno, sebbene fosse buio pesto, nemmeno si abbracciarono; camminavano fianco a fianco, traboccanti l'un per l'altro di tenerezza e disperati; certi che, se solo si toccavano, la minaccia di Gianlino s'avvererebbe.
Alla stessa ora, Stefano arrivava a Réquillart. Il giorno prima, la Mouquette lo aveva scongiurato di tornare; e lui tornava; non senza vergogna, cedendo a un'inclinazione per quella figliola che lo adorava come il Bambin Gesù. Ma ritornava col proposito di rompere: la vedrebbe, le spiegherebbe che bisognava rinunziare a vedersi così di spesso, se non si voleva dar nell'occhio. Il momento che i compagni attraversavano era così penoso, che darsi spensieratamente al bel tempo sarebbe stata da parte loro una imperdonabile leggerezza e un affronto alla troppa gente che moriva di fame.
La ragazza però non era in casa. Il giovane allora si decise ad aspettarla lì fuori; e ora cercava di riconoscerla tra le ombre che passavano. In faccia a lui, sotto i resti della torretta crollata, s'apriva l'ingresso dell'antica miniera. Un trave rimasto in piedi, cui era ancora attaccato un pezzo di tetto, si profilava, sinistro come il braccio d'una forca, al disopra del buio vano; e nel muro di sostegno, schiantato, che orlava la bocca del pozzo, due alberi avevano messo radice: un sorbo e un platano che, sospesi così a mezz'aria, parevano sbucare dalle profondità della terra. Era un angolo che l'abbandono aveva rinselvatichito, l'apertura d'un baratro ingombra di assi ammuffite, mascherata d'erba e cespugli; sui quali emergevano dei prugnoli e dei biancospini, popolati a primavera di nidi di capinere. Per evitare ingenti spese di manutenzione, la Compagnia si proponeva di colmare quel pozzo sfruttato; ma il progetto veniva da dieci anni differito per metterlo in esecuzione, si attendeva d'avere provvisto il Voreux d'un sistema d'aerazione indipendente; il focolaio che ora lo alimentava trovandosi in fondo al pozzo di Réquillart il cui canale d'eduzione funzionava da camino. Ci si era perciò accontentati di rafforzare il livello d'acqua con puntelli che attraversavano lo scomparto d'estrazione; ed erano state abbandonate a sé le gallerie superiori, per non tenere in efficienza che la galleria di fondo, in cui ardeva l'enorme braciere d'antracite, d'un tiraggio così potente che, alla chiamata d'aria, scatenava da un capo all'altro del vicino pozzo una vera bufera. Per misura di prudenza, perché non venisse a mancare ogni comunicazione con l'esterno, era stato sì dato l'ordine di conservare il passaggio delle scale; ma di quella manutenzione in realtà nessuno se ne occupava; le scale marcivano nell'umidità, e già qualche pianerottolo era crollato. All'esterno un fitto cespuglio di rovi ostruiva l'entrata; e, siccome la prima scala non esisteva più, per raggiungere in discesa i primi gradini che tenevano, bisognava appendersi a una radice del sorbo e di lì lasciarsi cadere, raccomandandosi l'anima a Dio.
Celato dietro un cespuglio, Stefano aspettava, quando lì vicino un lungo fruscio corse nella ramaglia: certo, la fuga spaventata di qualche biscia. Ma no! che qualcuno strofinava un fiammifero! e al brusco lampo di luce un'ombra si profilava nel buio. Il giovane trasecolò: nell'ombra aveva riconosciuto Gianlino, che, accesa una candela, si calava sotterra. Dove poteva mai andare? Si sporse sul vuoto; il monello già era sparito, solo un vacillante chiarore saliva dal secondo pianerottolo. Non esitò un attimo; abbrancandosi alle radici del sorbo, anche lui si calò; e dopo un salto che avrebbe potuto essere di cinquecentottanta metri - quanti ne misurava il pozzo - e non fu che di sette, con sollievo si sentì un gradino sotto il piede. Prese a scendere cercando di fare meno rumore possibile. Di essere seguìto, Gianlino non s'era avvisto, perché la luce continuava a sprofondare, agitando sulle pareti, ingigantita, l'ombra inquietante del ragazzo, il suo sgangherato zoppicare. Il monello scendeva con l'agilità d'una scimmia; afferrandosi con le mani, puntellandosi coi piedi, aiutandosi col mento nei punti in cui i gradini mancavano. Le scale, di sette metri ciascuna, si susseguivano; alcune ancora solide; altre traballanti, scricchiolanti, lì lì per rompersi sotto il peso; e così i ripiani che le intercalavano, tavolati talmente coperti di muffa che il piede vi affondava come dentro la borraccina. Più si scendeva, più l'aria diventava calda e soffocante: un riverbero di forno, proveniente dal canale di tiraggio, per fortuna poco attivo dacché durava lo sciopero; ché, in tempi normali, quando il focolaio smaltiva la sua razione giornaliera di cinque tonnellate d'antracite, avventurarsi là dentro sarebbe stato arrischiare la vita.
«Non si ferma dunque più questo rospo? dove va mai a finire?» imprecava tra sé Stefano, trafelato. Già due volte il giovane aveva rischiato di precipitare. Sul legno mucido il piede scivolava. Avesse avuto almeno anche lui una candela! il riflesso di quella che fuggiva lì sotto, gli era di così poco profitto che tutti i momenti cozzava in qualche sporgenza. S'erano già discese venti scale; e quello non accennava a fermarsi. Ventuna, ventidue, ventitré... e si sprofondava, si sprofondava sempre. La testa gli pigliava fuoco in quell'aria arroventata. Si giunse finalmente al primo piano di carico: s'erano percorse trenta scale, si era cioè a circa duecentodieci metri di profondità. Lì la luce che lo precedeva si mise a filare lungo una galleria. Per non perderla d'occhio, vi si affrettò dietro anche lui.
«Ancora per molto mi porterà a spasso? - si chiedeva. - Certo è nella scuderia che questa talpa ha messo la tana».
Neanche! il camminamento di sinistra, quello che menava alla rimessa lo sbarrava una frana. La corsa ricominciò; più malagevole ora e più rischiosa. Pipistrelli impauriti s'alzavano a volo, andavano a incollarsi alla volta. Se anche lì il monello avanzava destreggiandosi con un'agilità di biscia, non era lo stesso per il giovane che procedeva con immensa difficoltà. Gli è che, come succede per tutte le gallerie abbandonate, anche questa s'era andata via via restringendo, ricolmata in gran parte dal cedimento delle pareti; tanto che in certi punti il passaggio si riduceva a un budello, prossimo a ostruirsi del tutto. Strozzature per di più che lo sfasciarsi del rivestimento armava di spunzoni, così scheggiati ed aguzzi che ci si feriva contro, rischiando di restarvi infilzati. Stefano doveva quindi avanzare sui ginocchi o carponi, mandando nel buio le mani in avanscoperta. Ci fu un momento che si sentì passare addosso, galoppare dalla nuca ai calcagni, tutta una frotta di grossi ratti atterriti.
Aveva percorso in quelle condizioni un buon chilometro, quando dovette arrestarsi; si sentiva le reni spezzate, il fiato mancare: «Sacradìo, si arriva una buona volta?» Sì, si era arrivati. In quel punto il budello si allargava in una specie di grotta spaziosa, dovuta alla volta rimasta pressoché intatta. Si trovavano in fondo all'antica galleria di carriaggio, scavata contro vena e formante come una grotta naturale.
Gianlino s'era arrestato; e ora, piantata tra due sassi la candela, si metteva con evidente sollievo a suo agio, come chi riprende finalmente possesso del proprio domicilio. Aggeggiata come se l'era, la grotta presentava infatti le comodità d'una abitazione. In un angolo uno spesso strato di fieno invitava a coricarsi; su un tavolo improvvisato con assi, ogni sorta di provviste erano in vista: del pane, delle mele, bottiglie di ginepro incignate - tutto un bottino accumulato in settimane di ruberie, nel quale figurava anche il superfluo, come dei pezzi di sapone e delle scatole di lucido da scarpe, rubate evidentemente per il semplice gusto di rubare. Era dunque anche egoista, Gianlino! ferocemente, se tutta quella abbondanza se la teneva per sé.
Rimasto in contemplazione di quel magazzino di refurtiva il tempo di rifiatare:
- Ah, è dunque qui! - esclamò a un tratto, facendolo sobbalzare,- ah è dunque qui che vieni a rimpinzarti! te ne infischi tu, che noi di sopra si crepi di fame!
Riconoscendo la voce, l'altro si riprese subito:
-Ce n'è anche per te, se ne vuoi! Ti andrebbe per esempio un pezzetto di questo, scottato sulla brace? - e mostrava lo stoccafisso. Dicendo, cavò un coltello a lama fissa, nuovo di trinca; e con quello si mise a ripulire il pesce delle cacatine di mosca.
- Che bel coltello che hai! - l'altro lo adulò, facendoglisi vicino.
Era uno di quei piccoli coltelli-pugnale dal manico d'osso, inscritto di solito di un motto. Su questo si leggeva: "Amour".
- E' stata Lidia a regalarmelo! - rispose lui. (In realtà, la ragazzina, incitata da lui, lo aveva sottratto con destrezza a un venditore ambulante fermo col suo carretto davanti al caffè della Testa Mozza. Ma Gianlino non entrò in particolari).
Seguitando a raschiare:
-Non è vero che si sta bene qui? Si patisce meno freddo e l'aria sa di buono.
Stefano gli si era seduto vicino: ci teneva a farlo discorrere. La sua ira era sfumata per lasciare il posto a una specie di ammirazione per quello scavezzacollo così abile e industrioso quando voleva.
Si stava bene, infatti, in quel buco. Nel tepore che vi regnava, non si poteva pensare senza raccapriccio al freddo dell'esterno. Col tempo, le miniere si liberano dei gas nocivi: non si avvertiva alcun sentore di grisù, ma solo un odore di vecchio legno muffito, un aroma come di etere, pimentato da una punta di garofano. Il rivestimento in quell'ombra aveva assunto invecchiando la patina giallina del marmo; e si fregiava di bianche efflorescenze simili a trine, di vegetazioni fioccose che parevano vestirlo d'una passamaneria di seta o di perle.
Altre travi si coprivano di fungosità. Ragni di neve s'appendevano a fili; farfalle e mosche bianche aliavano intorno: tutta una fauna scolorita che il sole non aveva mai toccato.
- Sicché non hai paura tu qui? - La domanda lo sorprese:
-Di che, paura? dal momento che sono solo!
Aveva finito di raschiare; e ora, acceso un fuocherello di legna, ne sparpagliava le braci, vi teneva sopra il pesce ad arrostire. Quando lo giudicò sufficientemente cotto, spartì un pane in due: metà per sé metà per l'inatteso ospite. Il piatto era terribilmente salato, ma squisito per uno stomaco di struzzo. Mordendo la sua parte Stefano:
- Ora non mi stupisco più che tu ingrassi mentre noi si dimagrisce a vista d'occhio! Ma non lo sai che sei un bel porco a rimpinzarti da solo? Agli altri non ci pensi?
- Oh bella! che colpa ho io se gli altri sono fessi?
- Fai bene del resto a nasconderti. Se tuo padre sapesse che rubi, ti concerebbe per le feste.
- Come se i ricchi non rubassero anche loro! E a noi! Non lo dici sempre, tu? Il pane l'ho fregato a Maigrat; ma sapevo bene, portandoglielo via, che era roba nostra sacrosanta che mi riprendevo. Il non trovare che rispondere e la bocca piena persuasero Stefano a non ribattere. Lo osservava, quel ragazzo, che la miniera si può dire aveva figliato, per poi quasi accopparlo; quel muso, quegli occhi verdi, quelle orecchie a ventola, quel cranio dove una furberia da selvaggio teneva il posto d'intelligenza; quella specie d'aborto umano avviato a tornare allo stato di bruto.
- E Lidia, - chiese, - la conduci qui qualche volta?
Lui con un riso sprezzante:
- La piccola? Neanche per idea. Le piscione chiacchierano troppo!
Che s'erano mai visti, seguitava a dire pieno di disdegno, degli stupidi come lei e Berto? Il pensiero che si bevevano tutte le sue frottole e se ne andavano a mani vuote mentre lui si godeva al caldo i proventi delle loro fatiche, lo faceva gongolare. Poi, con la comica gravità dell'uomo vissuto:
-Meglio vivere soli! - concluse. - Almeno si va sempre d'accordo!
Stefano, che aveva finito il suo pane, vi bevve sopra un sorso di ginepro. Un momento fu tentato di ricambiare l'ospitalità, riportando fuori per un'orecchia il piccolo gaglioffo e minacciandolo, se non la smetteva di rubacchiare, di spifferare ogni cosa al padre. Ma un'idea che gli era balenata da un po', lo dissuase: chi sa che un nascondiglio sicuro come quello non diventasse prima o poi provvidenziale per i compagni e per sé: se le cose si mettevano male... Cosicché si contentò di far giurare a Gianlino di andare almeno a dormire a casa; e, preso un pezzo di candela, partì, lasciando l'altro tranquillamente occupato a riordinare la casa.
Fuori, trovò la Mouquette che, seduta su una trave, s'era, nonostante il gelo, ostinata ad aspettarlo. Vedendolo, la ragazza gli si buttò al collo; e quando lui le disse che aveva deciso di non vedersi più, fu come le piantasse un coltello nel cuore. Oh, ma perché? non gli voleva forse abbastanza bene? Nel timore di cedere alla tentazione di seguirla in casa, Stefano la trasse con sé sulla strada, spiegandole con la maggiore dolcezza possibile che quella relazione lo pregiudicava agli occhi degli amici.
- Nella mia posizione, capisci? Politicamente!
Lei si stupì. Che c'entrava la loro relazione con la politica? Poi le balenò il sospetto che il giovane si vergognasse di lei; e trovava la cosa quanto mai naturale, non se ne offendeva:
-Se è per questo, ti do ragione,- gli disse. - Anzi, senti: ti fai vedere da tutti a darmi uno schiaffo: io mi presto. Così tutti sapranno che m'hai piantato. Ma di quando in quando, però, noi si seguita a vederci; di nascosto, un momentino. Oh, di questo, te ne scongiuro! no, non mi dire di no! Te ne vai quando vuoi, io non ti tratterrò, te lo giuro!
Nonostante la pietà che gli faceva, Stefano tenne duro. No, era proprio necessario troncarla. Ma di piantarla lì, dopo quel rifiuto, non si sentiva; lasciandola, almeno abbracciarla. Passo passo erano giunti alle prime case di Montsou; sul loro capo splendeva una grande luna piena; e i due si tenevano strettamente abbracciati, quando qualcuno venne a passare: una ragazza che riconoscendoli ebbe un brusco sobbalzo, come inciampasse in un sasso.
- Chi è? - chiese Stefano, contrariato.
- E' Caterina che torna dalla Jean-Bart.
Eccola, infatti, di spalle. Proseguiva a capo basso, le spalle accasciate, il passo incerto. Gli bruciò d'essersi fatto vedere da lei, ne provò rimorso... Perché poi? non aveva anch'essa un uomo? non era stata lei la prima a dare a lui quel dolore la sera di Réquillart? Eppure il pensiero d'averle reso pan per focaccia lo desolava.
La Mouquette dovette leggergli in cuore, perché sciogliendosi dal suo abbraccio:
-Devo dirtelo? - tra i singhiozzi mormorò. - Se non mi vuoi è che c'è un'altra che ti preme.
L'indomani fu una splendida giornata: una di quelle rigide e terse giornate d'inverno che la terra indurita risuona sotto i passi come una lastra di cristallo.
Dal tocco Gianlino se l'era battuta; ma dovette aspettare un pezzo dietro la chiesa l'amico e poco mancò partissero senza Lidia. Solo all'ultimo momento la madre l'aveva liberata, minacciandola di chiuderla di nuovo la notte seguente in cantina coi topi, se non tornava con una buona provvista di radicchio. Per cui, atterrita dalla minaccia, la ragazzina avrebbe voluto prima di tutto riempire il cavagno; ma Gianlino si oppose: che urgenza c'era? Urgente era invece impadronirsi di Polonia, la grossa coniglia di Rasseneur: una cattura che il monello meditava da tempo. Caso volle che mentre passavano davanti al Risparmio, Polonia sbucasse giustappunto sulla strada. D'un balzo Gianlino le fu sopra, la abbrancò per le orecchie, la ficcò nel cavagno; e via tutti e tre: ora ci si divertirebbe a farle fare le corse sin su alla faggeta.
In quella comparirono sulla strada Zaccaria e Mouquet con altri due; bevuta una birra al Risparmio, i quattro si disponevano a iniziare la grande partita. La posta era un berretto e un fazzolettone rosso da collo, depositati nelle mani di Rasseneur. Le due coppie - capitanate una da Zaccaria, l'altra da Mouquet - si disputarono la prima tappa: un tratto di circa tre chilometri, dal Voreux alla fattoria Paillot.
Vincitore uscì Zaccaria che aveva scommesso di coprirlo in sette mandate, contro le otto chieste da Mouquet. La palla o "cholette" - un uovo di bosso - fu collocato in terra ritto. I giocatori brandivano ciascuno la "crosse", un mazzuolo dalla testa di ferro innestata su un largo manico, sul quale, per facilitarne la presa, era fittamente avvolta una cordicella.
Il rintoccare delle due fu il segnale della partenza. Zaccaria iniziò la partita con un colpo magistrale che in tre riprese mandò la palla a più di quattrocento metri attraverso i campi di barbabietole. (Per le strade e nell'abitato era proibito giocare, ché il gioco aveva già fatto delle vittime).
Non meno in gamba dell'avversario, Mouquet ribatté la palla con tanta energia che con un colpo solo la ributtò indietro cinquecento metri. E così seguitarono: una coppia lanciandola innanzi, l'altra rintuzzandola; sempre a passo di corsa, attraverso campi arati, inciampando e ammaccandosi i piedi contro le zolle indurite dal gelo.
Da principio, Gianlino e gli altri due, entusiasmati dai bei colpi, avevano seguìto i giocatori. Ma poi, ricordatisi della coniglia che si sballottavano dietro nel canestro, l'avevano tirata fuori e mollata in piena campagna, per vedere come se la cavava a correre. Al suo scattare, i tre spiccarono la corsa; e si iniziò uno scalmanato inseguimento, che si protrasse un'ora buona; tra strilli lanciati per spaventarla, continue insidie tese per farla cadere, tentativi di riacchiapparla, che Polonia ogni volta eludeva. Se non l'avesse impacciata un principio di gravidanza, i tre si sarebbero spolmonati a correre invano. Ripigliavano fiato, quando un'imprecazione li fece voltare; era Zaccaria, che aveva visto la sua palla passare a un dito dalla testa del fratello. I tre erano ricaduti in piena partita. Si disputava la quarta tappa; la seconda aveva spinto i giocatori dalla fattoria Paillot ai Quattro Canti; di lì a Montoire, la terza; e ora in sei riprese stavano coprendo il tratto da Montoire al Prato delle Vacche. In totale due leghe e mezzo in un'ora; senza contare il tempo perduto a rinfrescarsi l'ugola da Vincenzo e allo spaccio dei Tre Saggi. Di mano, stavolta era Mouquet; due scatti ancora in avanti e avrebbe vinto. Ma Zaccaria fu così abile nel controgioco che mandò la palla a ruzzolare in un fossato; così profondo che il compagno di Mouquet non riuscì a ripescarla. Tutti e quattro gridavano; l'interesse della partita s'acuiva perché, il punteggio essendo pari, bisognava ricominciare. Dal Prato delle Vacche alle Erberosse non c'erano che due chilometri, da coprire in cinque mandate. Una volta arrivati là, ne berrebbero un gotto da Lerenard.
Gianlino lasciò che andassero avanti: gli era venuto in mente un bel gioco. Si cavò di tasca e legò a una zampa posteriore di Polonia un pezzo di spago. Se l'era immaginato, lui, che lo spettacolo sarebbe buffo! Nel tentativo di distanziarsi dai suoi tormentatori, la coniglia arrancava, sciancandosi in modo così pietoso che dal ridere quelli si spanciavano. Non contenti, dello spago le fecero un collare; e s'aspettavano di poter metterla al trotto come un animale da tiro; ma visto che Polonia non galoppava come avrebbero voluto, presero essi a tirarla, a trascinarla un po' sul dorso, un po' sulla pancia. Il passatempo durava da più d'un'ora, quando, rantolante, la rificcarono in fretta e furia nel cavagno: di lì sopra, dal bosco di Cruchot, arrivavano le voci di Zaccaria e degli altri, ai quali i monelli venivano per la seconda volta ad attraversare il gioco. Quelli ormai divoravano i chilometri senza concedersi altro riposo che il tempo di vuotare un gotto nei locali che si proponevano a meta. Dalle Erberosse s'erano spinti a Buchy; di lì alla Croce di Pietra, dalla Croce a Chamblay. Del loro scalpitare dietro i balzi della palla, il terreno risonava; con quel gelo, non si affondava e quindi non c'era rischio di rompersi una gamba. Nell'aria asciutta i colpi di mazzuolo crepitavano come fucilate. Impugnandone il manico, i giocatori si buttavano avanti con tutto il corpo, come assestassero la mazzata al bue; per ore, senza mai stancarsi; percorrendo leghe e leghe; saltando fossi a piè pari, scavalcando siepi, muretti di cinta, rovinando giù per scarpate. Un esercizio che, a durarlo, occorrevano polmoni come mantici e ai ginocchi cerniere di ferro; e nel quale i quattro si disanchilosavano le articolazioni arrugginite nelle miniere. Un gioco che agli appassionati di venticinque anni faceva percorrere sin dieci leghe; e nel quale, per mancanza di elasticità, già a quaranta nessuno si cimentava più.
Suonarono le cinque; il giorno cominciava a declinare. Per decidere a chi toccava la posta, restava un'ultima tappa, sino cioè alla faggeta di Vandame; «dove», ridacchiava Zaccaria nel suo sprezzo per la politica, «sarebbe bella capitassimo in pieno comizio».
Gianlino, al contrario, senza averne l'aria, non un momento in tutta la passeggiata, aveva perso di vista quella meta. Tanto che s'infuriò contro Lidia che, presa da scrupoli, parlava di tornarsene per cogliere il radicchio. Non assistere al comizio, ora che ne erano a pochi passi? per conto suo, egli ci teneva a sentire quello che i vecchi avrebbero detto. E propose di accorciare la strada che restava con una nuova trovata: sino ai primi alberi si farebbero precedere da Polonia, cacciata avanti a sassate. In cuor suo, ma lo taceva, il monello s'augurava che nel tragitto la bestia ci restasse; lo mordeva una sorda bramosia di accoppare la coniglia, per portarsela nella miniera a Réquillart e papparsela da solo. Rimessa a terra, la malcapitata riprese la corsa, le orecchie ciondoloni, arricciando il naso. Un sasso le spelacchiò il dorso, un altro le mozzò la coda; e per quanto il calar della notte la aiutasse a sottrarsi ai colpi, ci sarebbe rimasta, se tutto a un tratto i suoi carnefici non si fossero visti davanti, a pochi passi, Maheu e Stefano, ritti al centro d'una radura. Impauriti, raccattarono Polonia e la rificcarono nel cavagno.
Quasi nello stesso istante, l'ultimo colpo di mazzuolo mandava la palla a cadere a qualche metro dal luogo del raduno. E così giocatori e monelli capitavano insieme in pieno comizio.
Dal primo calare del crepuscolo, per strade e sentieri era, in tutto il paese, un incamminarsi di gente, un silenzioso affluire d'ombre, dirette in comitiva o alla spicciolata verso l'orlo violaceo della faggeta spoglia. I borghi operai si vuotavano; donne e bambini ne partivano come per una passeggiata, sotto il vasto cielo terso. Ormai non si distinguevano più: l'ombra aveva invaso i camminamenti; ma di quella folla in marcia che, spinta da un solo impulso, sorretta da una sola speranza, s'indirizzava alla stessa meta, si percepiva il fruscio contro siepi e cespugli, il sommesso parlottare, il concorde scalpiccio.
Ed era a quei vaghi confusi rumori che Hennebeau, di ritorno dalla sua cavalcata, tendeva a quella stessa ora l'orecchio. Quante coppie aveva incontrato nella bella serata invernale! quanti amanti visto perdersi nella macchia o sparire dietro un muretto, con le labbra unite!
Non gli capitava ogni volta che usciva, di scoprire dall'alto della sua cavalcatura ragazze ribaltate in fondo a fossati, straccioni occupati a far scorpacciate della sola gioia che non costava nulla? E poi, questi imbecilli ardivano ancora lagnarsi della loro vita, quando a tiro di mano avevano l'unica felicità che meritasse al mondo un tal nome! Oh come volentieri egli avrebbe accettato di dividere con loro la fame, purché gli fosse stato concesso di ricominciare l'esistenza a fianco d'una donna che gli si fosse data con tutto l'ardore dell'anima e dei sensi, magari su un mucchio di ghiaia! Come li invidiava quei poveracci! come li sentiva senza confronto più felici di lui!
E così, a capo basso, procedeva lentamente verso casa; straziato da quei bisbigli che sorgevano e si spegnevano qua e là per la campagna già buia e nei quali la sua amarezza non riconosceva che baci
Capitolo settimo
Era al Pian delle Dame che si teneva il comizio: una vasta radura, in dolce pendio, che un taglio di alberi aveva aperto da poco nel fitto del bosco; e che bellissimi faggi dagli alti tronchi istoriati di licheni chiudevano tutto attorno d'un bianco colonnato. Qualche gigante giaceva abbattuto sull'erba; mentre a sinistra sorgeva il cubo geometrico d'una catasta di tavole. Col calar della sera il freddo si faceva più vivo; la borraccina gelata scricchiolava sotto i piedi. Da basso, dove il buio era fitto, si vedevano i rami profilarsi lassù sul pallore del cielo, dove la luna piena che sorgeva all'orizzonte, andava spegnendo le stelle.
Poco meno di tremila minatori erano accorsi all'appello: una folla brulicante d'uomini, di donne e bambini che riempiva via via la radura, traboccava sotto gli alberi. Ritardatari seguitavano ad affluire, invadendo i tratti di bosco ceduo vicini dove straripava nel buio l'ondeggiare delle teste. Un sordo mugghio usciva da tutta quella folla, suonava nella spoglia foresta come un vento di burrasca. Lassù, in cima al pendio, dominavano l'adunata tre ombre gesticolanti: quelle di Stefano, di Maheu e di Rasseneur. Un dissenso doveva essere scoppiato, perché giungevano a tratti le loro voci alterate. Intorno erano in parecchi ad ascoltarli: Levaque che stringeva i pugni; Pierron che distraeva altrove il capo, evidentemente seccato di non aver potuto invocare più oltre a scusa la malattia per assentarsi.
Vicino a loro, sedevano fianco a fianco su una ceppaia Bonnemort e il vecchio Mouque, immersi nei loro pensieri. In disparte si tenevano con altri, venuti anch'essi per curiosare, Zaccaria e Mouquet; mentre attentissime, in un atteggiamento che si sarebbero dette in chiesa, si stringevano in gruppo le donne: la Maheu che scuoteva in silenzio il capo alle sorde imprecazioni della Levaque; Filomena, che, ripresa dall'inizio dell'inverno dalla solita bronchite, non faceva che tossire. Non abbastanza compresa del momento, si mostrava solo la Mouquette, che rideva senza ritegno ascoltando gli improperi di cui l'Abbruciata caricava la figlia: una snaturata che per impinzarsi da sola di coniglio mandava via di casa sua madre, una poco di buono che si ingrassava in barba a quel cornuto contento di Pierron. Gianlino, adocchiata la catasta di tavole, vi si era arrampicato coi due complici; e ora i tre discoli dominavano di lassù tutta l'adunata.
A provocare il dissenso era stato Rasseneur, con la pretesa che si procedesse regolarmente all'elezione d'una presidenza. Lo smacco subito al Buontempone gli bruciava; e l'uomo s'era giurato di prendersi la rivincita: al comizio non avrebbe più davanti i delegati, ma la folla stessa dei minatori; cosa che gli avrebbe permesso, si lusingava, di riacquistare su di essi l'antico ascendente. Alla pretesa, Stefano s'era ribellato; trovava imbecille l'idea d'una presidenza nella faggeta: dove, se non lì, era il caso di bandire quelle pastoie, di agire rivoluzionariamente? Finché, seccato dall'insistere dell'altro, il giovane lo piantò e salito su un tronco d'albero abbattuto: - Compagni! - gridò, - compagni... S'accaparrò subito l'attenzione. Mentre Maheu costringeva Rasseneur ad azzittirsi, già il confuso rumoreggiare della folla si spegneva in un lungo mormorio.
- Compagni! - ripeté Stefano; e con voce squillante:
-Poiché ci si proibisce anche d'incontrarci e di discutere tra noi, poiché contro di noi, per impedircelo, si mandano i gendarmi come fossimo dei delinquenti, è qui che dobbiamo accordarci e far le nostre ragioni! Qui siamo liberi, siamo in casa nostra! nessuno verrà a chiuderci la bocca perché sarebbe come volerla chiudere agli uccelli nell'aria!
Scoppiò un coro di approvazioni:
- Sì, dici bene... La faggeta è nostra! Almeno qui abbiamo diritto di parlare! Parla!
Stefano fece una pausa. La luna, troppo bassa ancora all'orizzonte, non rischiarava che le cime degli alberi. Immersa nel buio sottostante, la folla tratteneva il fiato. Al buio anche lui, l'oratore non era che un'ombra nera che la sovrastava.
Levato lentamente il braccio, Stefano prese a parlare. Lasciata ogni enfasi oratoria, la sua voce era scesa al tono dimesso del compagno che rende conto ai compagni del mandato da loro affidatogli. (Era il discorso che avrebbe pronunciato al Buontempone se l'irruzione della polizia non glielo avesse impedito).
Esordì riepilogando oggettivamente e succintamente i motivi e gli sviluppi dello sciopero: fatti, nient'altro che fatti. Uno sciopero, disse, cui lui stesso s'era indotto a malincuore; che i minatori non avevano voluto, ma che la direzione aveva provocato con la nuova tariffa imposta per i rivestimenti. Ricordò quindi il passo che la rappresentanza operaia aveva fatto presso la Direzione, la malafede dimostrata in quell'occasione dalla Compagnia, la tardiva concessione in un secondo tempo dei dieci centesimi ch'essa aveva offerto in restituzione, dopo aver tentato di metterli in tasca. Passò poi a giustificare, con le cifre alla mano, l'esaurimento del fondo di previdenza, l'impiego fatto dei quattromila franchi inviati dall'Internazionale; brevemente scusò l'Associazione, Pluchart e gli altri, di non aver potuto far di più, impegnati com'erano nella conquista del proletariato di tutto il mondo. Ammise che la situazione s'aggravava di giorno in giorno: la Compagnia restituiva i libretti e minacciava di assumere operai nel Belgio; inoltre, faceva pressione sui tentennanti e un gran numero di essi li aveva persuasi a discendere. Con una voce incolore che sottolineava le cattive notizie, parlò della fame che minacciava d'aver ragione della resistenza, delle poco liete prospettive che restavano, della durezza della lotta che stava per impegnare gli ultimi coraggi.
Di punto in bianco, senza mutar di tono: - E' in queste circostanze, compagni, che stasera siete chiamati a prendere una decisione. Siete per la continuazione, il proseguimento dello sciopero? E, in caso affermativo, che contate di fare per costringere la Compagnia ad arrendersi?
Si fece un grande silenzio. Invisibile sotto lo stellato, la folla taceva oppressa dal peso di quelle parole; non si udiva tra gli alberi che il suo respirare affannoso.
Ma già Stefano aveva ripreso a parlare. La sua voce era cambiata. Se finora a parlare era stato il segretario dell'Associazione, chi parlava adesso era il capobanda, l'apostolo.
Vi sarebbero forse fra quelli che lo ascoltavano dei codardi inclini a venir meno alla parola data? Come! quel che da un mese si soffriva, sarebbe come non stato? Si tornerebbe ai pozzi a capo basso e la vita da cani ricomincerebbe come prima? Non era preferibile, in tal caso, morire fin d'ora, nell'eroico tentativo di distruggere la tirannia del capitalismo affamatore?
Rassegnarsi ogni volta alla fame fino al giorno che la fame di nuovo spingesse i più remissivi a insorgere, non era uno stupido gioco che già da troppo durava? E metteva sotto gli occhi dell'uditorio la sorte del minatore: sfruttato, destinato a scontare lui solo le restrizioni della crisi, ridotto a non mangiare ogni qual volta le necessità della concorrenza abbassavano il prezzo di costo. No! La tariffa offerta per il rivestimento era inaccettabile; non era che una economia larvata; si tirava a derubare l'operaio di un'ora di lavoro al giorno. Questa volta la misura era colma; il momento era giunto che la povera gente spinta alla disperazione farebbe giustizia.
Dicendo, aveva alzato le braccia. Prima che le riabbassasse, la folla elettrizzata dalla parola giustizia, scoppiò in applausi: un crepitìo di mani che si propagò come uno scrosciare di foglie secche. Grida sorsero:
-Giustizia! E' tempo! Giustizia!
Stefano via via s'accalorava. Come oratore, non disponeva della facondia di Rasseneur; spesso la parola non gli veniva: doveva storcere la frase; un colpo di spalla sottolineava lo sforzo con cui ne usciva. Ma, in quel continuo incespicare, lo soccorrevano immagini alla buona, d'un'evidenza e d'una efficacia che gli conquistarono l'uditorio; mentre il gestire, quel suo tenere parlando i pugni stretti alla vita per poi avventarli insieme di colpo, quel brusco sporgere la mascella come per azzannare - tutta quella mimica che tradiva così bene il minatore al lavoro - produceva sui compagni un grande effetto. Se non era un grande oratore, tutti però convenivano che sapeva farsi ascoltare.
Con voce più vibrante:
-Il salario, - proseguì, - non è che una nuova forma dell'antica schiavitù. La miniera dev'essere del minatore, allo stesso modo che il mare è del pescatore, la terra del contadino. E' vostra, mi capite, la miniera! appartiene a voi tutti, che da un secolo la pagate con tanti stenti e tanto sangue! - E audacemente affrontò oscure questioni di diritto, leggi speciali sulle miniere, tutto un groviglio di provvedimenti in cui lui stesso si smarriva. Il sottosuolo al pari del suolo apparteneva alla nazione; solo per un odioso privilegio, le Compagnie ne detenevano il monopolio: un privilegio tanto più iniquo a Montsou, dove la pretesa legalità delle concessioni era contraddetta dai patti conclusi coi proprietari degli antichi feudi, in forza d'una vecchia consuetudine dell'Hainaut. Per i minatori non si trattava dunque che di riconquistare ciò che a loro apparteneva - e le braccia dell'oratore s'allargavano ad indicare l'intero paese che s'estendeva al di là della faggeta.
Nel gesto lo investì il chiaro di luna che già le vette degli alberi rimandavano. Scorgendolo lassù aureolato di luce, in atto di distribuire a mani aperte i beni della terra, la folla, ancora in ombra, scoppiò in un nuovo prolungato applauso. - Sì, sì! parla bene! ha ragione! bravo!
Lui allora, il momento era venuto, saltò in groppa al suo cavallo di battaglia: la restituzione degli strumenti di lavoro alla collettività: frase che amava ripetere e che, nella sua astrattezza, solleticava deliziosamente la sua vanità. Mai come in quel momento aveva sentito le proprie convinzioni mature. Partito, nel suo generoso zelo di neofita, dal bisogno sentimentale di riformare il salariato, adesso non vedeva più che la necessità di sopprimerlo. Dopo l'adunata al Buontempone, il suo collettivismo ancora umanitario e informe, s'era irrigidito in un complicato programma, dove ogni articolo era stabilito con rigore scientifico. Il principio su cui lo fondava, era il dogma che la libertà non era realizzabile, se prima non si distruggeva lo Stato. Solo quando il popolo si fosse impossessato del governo, non prima, sarebbe possibile procedere alle riforme: ritorno alla comunità primitiva pura e semplice; sostituzione d'una famiglia fondata sulla libertà e l'eguaglianza dei suoi membri, alla famiglia oppressiva di tipo patriarcale, fondata sull'obbedienza; eguaglianza assoluta dei cittadini, civile politica ed economica; indipendenza dell'individuo, garantita dal possesso dei mezzi di lavoro e dell'intero profitto da essi ricavato; infine, istruzione professionale gratuita, a spese della collettività. Un totale rinnovamento insomma della vecchia società corrotta. Attaccò il matrimonio; il diritto di testare; fissò i limiti entro cui ognuno poteva possedere; con un ampio gesto del braccio, che ripeteva il gesto del mietitore che falcia la messe - spazzò dalla terra l'ingiustizia che sin allora vi aveva regnato; e con l'altra mano prese a costruire sulle rovine della vecchia la nuova Umanità: tutto un edificio di verità e di giustizia che l'alba del nuovo secolo avrebbe visto giganteggiare. Nell'ebbrezza del sogno che andava delineando, la logica vacillava; di fermo, restava l'idea fissa del fanatico. La foga del dire faceva tacere gli scrupoli della coscienza, le obiezioni del buonsenso. Nulla diventava più facile di quel nuovo mondo; di esso ormai parlava come di una macchina che in due ore si sarebbe sentito di montare; e non aveva più alcun peso quante distruzioni e quanto sangue costerebbe.
Travolto dall'entusiasmo:
-E' venuto il nostro turno! - concludendo esclamò. - Dipende ora da noi disporre del potere e della ricchezza!
Dai margini della faggeta si scatenò, si propagò sino a lui, un subisso di applausi. Ora la luna imbiancava tutta la radura; nella marea che vi si agitava, profili di teste spiccavano ora nettamente sin laggiù tra i grigi tronchi dove la vista quasi si perdeva. Erano in quell'aria glaciale, espressioni di collera, occhi che luccicavano, bocche spalancate: tutta una folla in subbuglio; uomini, donne, bambini lanciati al sacrosanto saccheggio dell'antico bene di cui erano stati spossessati. Scaldati dentro dal fuoco di quelle parole, non avvertivano più il freddo. Un'esaltazione religiosa li sollevava da terra: la febbre di speranza dei primi cristiani, in attesa dell'imminente regno di Dio.
Molte frasi del discorso erano sfuggite al loro comprendonio; poco avevano capito in quei ragionamenti tecnici e astratti; ma era anzi quella oscurità, quella astrattezza che moltiplicava le loro speranze, schiudeva ai loro occhi miraggi che li accecavano. Quale sogno! essere i padroni, cessar di penare, godere a loro volta! - Giusto, perdiosanto! Il nostro turno! Morte agli sfruttatori!
Le donne in specie erano fuori di sé: la Maheu, presa dal capogiro della fame, era uscita dalla sua solita calma; la Levaque urlava; l'Abbruciata, come ossessa, agitava le braccia di strega. Filomena si torceva in un attacco di tosse; alla Mouquette luccicavano gli occhi, nell'entusiasmo gridava frasi d'amore all'oratore. Tra Pierron che tremava e Levaque che parlava troppo, Maheu, conquistato, aveva avuto uno scatto di rabbia mentre messi a disagio, Zaccaria e i suoi compari tentavano, senza riuscirci, di far dello spirito:
-Come aveva fatto il compagno a parlare così a lungo senza umettarsi l'ugola?
Ma chi schiamazzava di più era, sulla catasta, Gianlino; incitando gli altri due a imitarlo e agitando il cavagno con dentro la misera Polonia.
Appena cessato, l'applauso si rinnovò. Stefano assaggiava finalmente l'ebbrezza della popolarità: era il potere che ora stringeva in pugno, che prendeva alfine consistenza in quei tremila petti che una sua parola bastava a far vibrare. «Anche Souvarine, - pensava, - mi applaudirebbe, se soltanto si fosse degnato di venirmi ad ascoltare!» In lui, il russo avrebbe riconosciuto un ottimo allievo; solo un punto del programma, Souvarine, non avrebbe accettato: quello che concerneva l'istruzione, giudicandolo un'ingenuità sentimentale, lui che nella sacra e salutare ignoranza vedeva la condizione necessaria perché il carattere dell'uomo si ritemprasse.
In mezzo al consenso generale, solo Rasseneur spallucciava d'ira e di sprezzo. - Lascerai parlare me, adesso! - gridò a Stefano. Che, cedendogli il posto:
-Fa' pure! Vedremo se ti ascolteranno!
Già l'oste era salito sul tronco d'albero, col gesto chiedeva silenzio. Ma la folla seguitava a rumoreggiare; nelle prime file lo avevano riconosciuto e, ripetuto, il suo nome si propagava a tutta l'assemblea. Ci si rifiutava di ascoltarlo; anche i suoi ultimi fedeli, bastava la sua vista a indignarli. La sua facile eloquenza, quel suo scorrevole e bonario discorrere, di cui avevano subìto così a lungo il fascino, ora lo consideravano una blanda camomilla buona solo per addormentare i pusillanimi.
Inutilmente egli parlò tra l'ostile rumoreggiare; invano riprese il solito discorso conciliante, sull'impossibilità di cambiare il mondo con leggi, sulla necessità di lasciare al tempo il compito di riformare la società. Lo schernivano, lo zittivano. Lo smacco subìto al Buontempone si aggravava, si mutava in un'irrimediabile sconfitta. Gli lanciarono manciate di borraccina gelata.
- Abbasso il traditore!
- strillò una voce di donna.
Lui seguitò a spiegare che la miniera non poteva essere proprietà del minatore, alla stessa stregua che l'arte del tessere è proprietà del tessitore. Ciò che il minatore poteva ottenere, era piuttosto di partecipare agli utili, d'essere interessato nell'industria, di diventare il figliolo dell'azienda. Le grida di «Abbasso il traditore!» si moltiplicarono; fischiò qualche sassata. Allora Rasseneur impallidì; il senso della propria impotenza gli riempì gli occhi di lacrime. Era il fallimento di vent'anni di ambizioso cameratismo, tutta la sua vita che crollava sotto l'ingratitudine della folla. Colpito al cuore, non ebbe più la forza di continuare e scese dall'improvvisata tribuna. Vedendo Stefano esultare:
- Tu ne ridi, tu! - balbettò. - Bene. Ti auguro che ti capiti lo stesso... E ti capiterà, ricordatelo!
E abbozzando un largo gesto con cui respingeva da sé ogni responsabilità nei disastri che prevedeva, s'allontanò solo per la bianca campagna silenziosa.
Fece tacere i fischi che partivano al suo indirizzo, la sorpresa di vedere Bonnemort succedere al posto di Rasseneur. Sinora, come Mouque, il vecchio non era uscito dal suo solito trasognamento in cui pareva ruminare antichi ricordi. Senza dubbio, assalito dalla nostalgia del passato, ora egli cedeva a uno di quegli improvvisi bisogni di loquacità, per cui capitava si diffondesse per ore a rievocare il passato.
S'era fatto un profondo silenzio. Impressionava quel viso, cui il chiaro di luna prestava un pallore spettrale; ma più ancora sconcertavano i racconti in cui si perdeva, comprensibili solo a lui e senza alcun nesso con lo scopo della riunione. Bonnemort diceva della sua giovinezza; dei suoi due zii periti nel Voreux; della polmonite che gli aveva portato via la moglie. Ma, a ogni ricordo, l'idea che tornava con insistenza era che le cose non erano mai andate bene, che non andrebbero mai. - Così la volta che ci riunimmo in questa stessa faggeta, si era in cinquecento, per accordarci contro il re che non voleva diminuirci le ore di lavoro... - E, lasciato in tronco il racconto, passava a dire d'un altro sciopero:
-Ah quanti ne ho visti, io, di scioperi! E tutti venivano a finire sotto questi alberi; oppure laggiù alla Carbonaia, o più lontano ancora al Salto del Lupo. A volte gelava, a volte si scoppiava dal caldo. Una sera - e sorrideva al ricordo - si rovesciò un tale acquazzone che si dovette scappare senza esserci potuto dire nulla. E i soldati del re arrivavano e tutto finiva a schioppettate. Noi si alzava la mano come mi vedete fare, si giurava di non ridiscendere... Ah l'ho giurato anch'io e sempre si ridiscendeva... Un certo malessere cominciava a serpeggiare nella folla che lo guardava a bocca aperta; quando Stefano, che nulla aveva perso della scena, saltò a fianco del vecchio. Nelle prime file aveva scorto Chaval: «Di certo, c'è anche Caterina», s'era detto; e il desiderio di farsi applaudire davanti a lei, aveva rinfocolato il suo impeto oratorio. Tenendosi vicino Bonnemort:
-Compagni, - gridò, - avete udito? Ecco uno dei nostri anziani; ecco che cosa ha sofferto! E' quello che, come noi, toccherà ai nostri figli di soffrire, se non la facciamo una buona volta finita coi ladri che ci affamano e ci tolgono la pelle!
Mai aveva parlato con tanta violenza. Additò nel vecchio la vittima d'un'esistenza di stenti e di lutti; la sbandierò come un esempio che gridava vendetta. Risalendo al primo dei Maheu, fece brevemente la storia di tutta quella famiglia, logoratasi nei pozzi, sfruttata all'osso dalla Compagnia; e che dopo cent'anni di miniera si trovava più affamata di prima. Ad essa contrappose i succhioni della Compagnia, trasudanti danaro; tutta la cricca degli azionisti, mantenuti da un secolo dal lavoro altrui nell'ozio e nei godimenti, al pari di baldracche. Non era inconcepibile che migliaia e migliaia di creature umane crepassero di padre in figlio sotto terra, perché il ricavo del loro sudore andasse a impinguare gli scrigni dei nababbi, servisse loro a imbandire festini, a celebrare orge e a corrompere i ministri?
Fece quindi sfilare davanti agli occhi dei compagni il corteo di malattie che insidiano la vita del minatore, dando di ognuna particolari raccapriccianti: l'anemia, la scrofolosi, la bronchite nera, i reumi che paralizzano. Era tutta la povera gente, che le grandi Compagnie a poco a poco assorbivano, per gettarla in pasto alle macchine, accantonarla come bestiame nei borghi operai: milioni di braccia, tenute in schiavitù per far la fortuna d'un migliaio di fannulloni. Ma ormai quel tempo era passato; il minatore non era più l'ignorante d'una volta, la bestia che si manda a morire nei pozzi. Dal fondo delle miniere un esercito stava sorgendo; un esercito in continua crescita, che con impeto irresistibile traboccherebbe presto alla gran luce del sole. Si vedrebbe allora chi avrebbe ancora il coraggio di assegnare centocinquanta franchi di pensione in compenso di quarant'anni di servizio a un vecchio di sessant'anni che sputa polvere di carbone e non si regge in piedi per i reumatismi, guadagnati a lavorare nei cantieri! Sì! quel giorno la manodopera farebbe i conti col capitale: con quel dio anonimo che l'operaio non ha mai visto in faccia e che s'accoscia chi sa dove, nel segreto del suo tabernacolo; e di là succhia il sangue ai morti di fame che lo mantengono! Lo si andrebbe a scovare quel giorno, per vederlo in faccia al chiarore degli incendi; lo si affogherebbe nel sangue l'idolo immondo che si satolla di carne umana!
Aveva finito e ancora il braccio additava laggiù il nemico; chi sa dove, all'altro capo del mondo.
Il clamore che questa volta si scatenò fu tale che si udì da Montsou; dove, nelle case dei ricchi, qualcuno alzò il capo e gettò inquieto lo sguardo dalla parte di Vandame, chiedendosi se qualche spaventosa frana non ne fosse stata la causa. Spaventati, degli uccelli notturni si levarono a volo.
A Stefano parve il momento di concludere:
-E allora, compagni, qual è la vostra decisione? Siete per il proseguimento dello sciopero?
Un urlo affermativo gli rispose.
- E quali provvedimenti intendete prendere contro i traditori? Dobbiamo impedire che i vigliacchi riprendano il lavoro; altrimenti la nostra sconfitta è sicura.
- Morte ai traditori! - gridò la folla frenetica.
- Sicché decidete di richiamarli al dovere, di costringerli a tener fede ai patti... Ebbene, ecco ciò che propongo di fare: rechiamoci anche noi ai pozzi. La nostra presenza impedirà ai codardi di consumare il tradimento; e la Compagnia si persuaderà che siamo tutti a una, che moriremo piuttosto di cedere.
- Sì! così! Bene! Ai pozzi! ai pozzi!
Lo sguardo di Stefano, sempre in cerca di Caterina - la ragazza evidentemente non c'era - incontrava invece ogni volta quello sardonico di Chaval. Piantato lì davanti, l'uomo spallucciava; l'invidia per il successo del giovane lo rodeva; Si sarebbe venduto pur di beneficiare a sua volta di un po' di quella popolarità.
- E se ci sono tra noi degli spioni, stiano all'erta, perché li conosciamo! Sì: vedo dei minatori di Vandame che non hanno abbandonato il lavoro.
- Mica dici per me? - chiese Chaval, provocante.
- Per te o per altri... Ma visto che la prendi per te, ebbene, dovresti capire che quelli che mangiano non hanno nulla da fare, in questo momento, con quelli che hanno fame. Tu lavori alla Jean-Bart.
- Oh, lavora! - commentò una voce di scherno. - Ha una donna che lavora per lui!
Chaval facendosi rosso e imprecando:
-Oh bella! che allora è proibito lavorare?
- Certo! quando i compagni fanno la fame per il bene comune, è proibito mettersi ipocritamente ed egoisticamente dalla parte dei padroni! Se tutti si fossero astenuti dal lavoro, è da un po' che l'avremmo spuntata! Dal giorno che Montsou ha scioperato, non un operaio di Vandame avrebbe dovuto più scendere! Il colpo di grazia per la Compagnia sarebbe che il lavoro s'arrestasse in tutto il paese, da Deneulin come qui... Capisci? Ad abbattere, alla Jean-Bart, non ci sono che dei traditori! tutti traditori, siete voialtri!
Intorno a Chaval la folla si faceva minacciosa; pugni si alzavano; già serpeggiava il grido:
-A morte! a morte! - L'uomo impallidì. Ma già il desiderio d'avere il sopravvento sull'altro gli aveva suggerito un'idea. - Lasciatemi dunque parlare, - gridò a sua volta, raddrizzandosi in vita. - Venite domani alla Jean-Bart: vedrete come lavoro! Vandame è solidale con voi: mi hanno mandato a dirvelo. Ma astenersi dal lavoro non basta: dobbiamo spegnere i fuochi, costringere a scioperare anche i macchinisti. Tanto meglio se le pompe si arresteranno; l'acqua demolirà i pozzi e la rovina sarà davvero completa.
La violenza di questi propositi incontrò tanto favore che le sue parole furono accolte da frenetici applausi; e, da allora, anche Stefano passò in ombra. In mezzo allo schiamazzo, altri oratori si susseguirono sul tronco d'albero; ciascuno gesticolando rincarava in violenza. Come nell'esaltazione d'una fede religiosa, ora la folla, stanca di attendere il miracolo, si decideva nella sua impazienza a provocarlo. La fame la faceva vedere rosso; dall'incendio e dalla carneficina sarebbe sorta, in un'apoteosi di gloria, la felicità universale. E intanto la luna bagnava del suo mite chiarore la marea di teste; e la foresta chiudeva nel suo cerchio di silenzio quell'invito al massacro. Solo la borraccina gelata scricchiolava sotto quel calpestio; tra l'indifferenza degli alti faggi che ritagliavano in nero sul cielo gli svelti tronchi vigorosi e il nitido intrico dei rami.
Spintavi dal pigia pigia, la Maheu si trovò accanto al marito: tutti e due, esasperati da un'attesa che durava da mesi, ora, perduta la calma abituale, approvavano la Levaque che chiedeva addirittura la testa degli ingegneri. Pierron se l'era squagliata. Parlando tutti e due a tempo, Mouque e Bonnemort divagavano o proponevano atrocità; ma delle loro parole ben poco arrivava. Per far lo spiritoso, Zaccaria reclamava la demolizione delle chiese; mentre il suo compagno di gioco strepitava e batteva la mazzuola al solo scopo di accrescere il baccano. Le più accese erano le donne; la Levaque, coi pugni sulle anche, investiva Filomena accusandola d'avere riso; la Mouquette si proponeva a gran voce di demolire i gendarmi a calci nel sedere; l'Abbruciata, non paga di aver preso a ceffoni la nipote trovata senza radicchio e senza cavagno, seguitava a far lo stesso con l'aria, per dare un esempio di come si comporterebbe con «quei signori» appena le fossero caduti nelle grinfie. Gianlino, rimasto un momento male alla notizia che la Rasseneur aveva visto benissimo chi le aveva rubato la coniglia, s'era poi rinfrancato al pensiero che la mollerebbe ripassando davanti al Risparmio; e ora urlava più degli altri e brandiva il coltello nuovo, facendone orgogliosamente lampeggiare la lama.
- Compagni! Compagni... - badava a ripetere Stefano ormai roco, per ottenere un momento di silenzio e concludere il comizio.
Appena riuscì a farsi ascoltare:
- Compagni! allora domattina alla Jean-Bart! E' inteso?
- Sì, sì, alla Jean-Bart. Morte ai traditori!
Un uragano di tremila voci riempì il cielo e si spense nel limpido chiaro di luna.
PARTE QUINTA
Capitolo primo
Alle quattro la luna tramontò, la notte si fece d'inchiostro. La vecchia casa in mattoni di Deneulin - che sorgeva sulla strada di Vandame, a tre chilometri da quella grossa borgata - era immersa nel sonno. L'ingegnere, che il giorno prima l'aveva passato quasi tutto in fondo alla miniera, russava con la faccia alla parete, sognando che lo chiamavano. Finì per svegliarsi: dall'orto lì sotto, vasto e maltenuto, che separava la casa dal pozzo della Jean-Bart - qualcuno chiamava davvero. Corse alla finestra. Era uno dei suoi capisquadra:
- Che è? - Una rivolta, ingegnere. Metà degli uomini s'è messa in sciopero e impedisce all'altra metà di prendere servizio.
Intontito dal sonno e intirizzito dall'aria gelata della notte, Deneulin stentava a capire:
- Obbligateli a scendere, perdìo! - tartagliò.
- E' da un'ora che cerchiamo di farlo, ma non c'è verso. Tanto, che ci siamo indotti a venire da lei. Non c'è che lei che possa ridurli alla ragione.
- E sia! Vengo!
Si vestì in fretta. Con lo schiarirsi delle idee, lo prendeva una viva ansietà. Il domestico e la cuoca seguitavano a dormire: oh, per essi, avrebbero potuto demolire la casa! Invece dalla stanza di fronte, giungeva un bisbigliare allarmato.
Infatti usciva di camera che tutte e due le figlie comparivano in accappatoio sul pianerottolo:
-Che succede, babbo?
Lucia, la maggiore (aveva ventidue anni), era alta, bruna, altera; mentre Gianna, di tre anni più giovane, era piccola, bionda, tutta grazia.
- Oh perché vi siete alzate? Non era proprio il caso! - il padre le rassicurò. - Qualcuno alla miniera che vuol fare un po' di chiasso. Vado a vedere.
- Ma non vorrai mica partire così! Prendi qualche cosa di caldo. Ti fa male, lo sai, andare sul lavoro digiuno!
Lui si schermiva; non aveva tempo, doveva andare. Ma Gianna appendendoglisi al collo:
-Senti, papalino: o prendi due biscotti e un bicchierino oppure resto così: non ti mollo!
Pur borbottando che i biscotti gli resterebbero sullo stomaco, dovette accontentarle. Già le due ragazze con la bugia in mano lo precedevano in sala da pranzo; e mentre una mesceva il rum, l'altra arrivava dalla dispensa coi biscotti.
Rimaste giovanissime prive della madre e viziate dal padre, le due Deneulin avevano fatto da sé la propria educazione. La maggiore accarezzava l'ambizione di cantare nei teatri; l'altra quella di diventare una grande pittrice, arte del resto nella quale manifestava una personalità sconcertante. Ma quando in conseguenza di dissesti finanziari, s'era dovuto modificare il tenore di vita, ecco inaspettatamente le due estrose ragazze mutarsi in abili e parsimoniose massaie, capaci di scoprire nei conti dei fornitori l'errore d'un centesimo. Sicché oggi, pur senza rinunciare al loro atteggiamento spregiudicato di artiste, le Deneulin sorvegliavano le spese, discutevano i prezzi, lesinavano il soldo, rimodernavano da sé i vecchi abiti, riuscendo a conservare alla casa, pur fra le crescenti ristrettezze, un certo decoro.
- Ancora un biscotto, papà! - insisteva Lucia. E notandone l'aria preoccupata e il silenzio:
- Non dev'essere affatto una cosa da niente, a giudicare dal tuo viso. Non vorresti che ti accompagnassimo? Sì, sì. A quella colazione sapranno bene fare a meno di noi.
Alludeva a una passeggiata combinata per quel mattino. La Hennebeau andava a prendere con la carrozza Cecilia alla Piolaine; per passare quindi con la carrozza da loro e recarsi tutte insieme a Marchiennes, dove la moglie del direttore delle ferriere le invitava a colazione.
Era un'occasione per visitare, con le ferriere, gli altiforni e i gasogeni.
- Sì, sì! veniamo con te! - insistette Gianna a sua volta.
Ma l'ingegnere si inquietò:
-Siete matte! se vi ripeto che non è nulla! Fatemi il santo piacere di rificcarvi a letto, e di farvi trovare pronte, come d'accordo, per le nove! - e, abbracciate le figlie, s'affrettò a partire. S'udirono i suoi stivali risuonare sul terreno gelato dell'orto.
Turata la bottiglia e chiusi a chiave i biscotti, le Deneulin profittarono dell'insolita occasione per verificare se tutto era in ordine nella saletta linda ma un po' fredda, che parlava di parchi pasti. Trovarono un tovagliolo non riposto; proponendosi di dare una strapazzata al domestico, risalirono finalmente in camera.
Nello scorciare attraverso l'orto, Deneulin pensava al rischio che correva il milione di Montsou: quel capitaletto che aveva realizzato con la speranza di decuplicarlo. Era stato finora un ininterrotto susseguirsi di disdette; enormi e imprevedibili spese per riparazioni venute ad aggiungersi a contratti di manodopera rovinosi; il tutto culminato nella disastrosa crisi dichiaratasi nell'industria mineraria proprio al momento che l'impresa cominciava a fruttare. Se lo sciopero scoppiava anche alla Jean-Bart, Deneulin era a terra.
La Jean-Bart non aveva l'importanza del Voreux; ma, rimessa com'era a nuovo, costituiva, secondo l'espressione degli ingegneri, «una piccola miniera modello». Non ci si era accontentati di allargare il pozzo d'un metro e mezzo e di portarlo a una profondità di settecento metri; lo si era rinnovato da capo a fondo: macchinario nuovo, gabbie nuove: tutta una attrezzatura rispondente agli ultimi perfezionamenti tecnici. Non solo: nelle costruzioni si avvertiva addirittura una ricerca di eleganza. Un festone di legno lavorato intorno alla tettoia di cernita; abbelliva la torretta un orologio; la ricevitoria e il locale delle caldaie s'arrotondavano a cupola; mentre ingentiliva la ciminiera, che li sormontava, una spirale di mattoni neri e rossi, alternati a mosaico. La pompa di eduzione era impiantata nell'altro pozzo della concessione, il vecchio pozzo Gaston-Marie riservato unicamente a quest'uso. Sicché a destra e a sinistra del pozzo di estrazione non aveva che due scomparti: quello del ventilatore a vapore e quello delle scale a pioli.
Era andata così. Quel mattino, arrivato alle tre, Chaval s'era dato a sobillare i compagni: piantassero il lavoro, imitassero quelli di Montsou, chiedessero anch'essi l'aumento di cinque centesimi a berlina. Messi su, i quattrocento operai ch'erano nella baracca e si disponevano a discendere, tumultuando s'erano riversati nella ricevitoria. Chi non aderiva allo sciopero, vi arrivava a piedi scalzi, e con gli attrezzi sotto braccio e la lampada in mano attendeva di discendere; mentre gli altri, in zoccoli e con sulle spalle il cappotto col quale erano arrivati, sbarravano l'accesso al pozzo. I capisquadra si spolmonavano per mettere ordine: i rivoltosi si mostrassero ragionevoli; non impedissero almeno di discendere a chi non intendeva scioperare.
Vedendo tra questi Caterina in tenuta da lavoro, Chaval la aggredì: non le aveva intimato, prima di uscire, di non muoversi da letto?
Era vero, ma la ragazza s'era presentata lo stesso; è che non poteva farne a meno. Lui non le dava mai un soldo; lasciava anzi spesso che fosse lei a pagare per due. In queste condizioni come scioperare? Caterina sapeva bene dove andavano a finire le operaie disoccupate: a Marchiennes, in una casa pubblica.
- Perdìo, che ci sei venuta a fare tu qui? - E alle scuse che lei balbettava:
-Allora ti metti contro di me, bagascia! Fila a casa o ti ci riaccompagno a calci in culo!
Impaurita, lei si scansò, ma rimase: voleva almeno vedere che piega prenderebbero le cose.
In quella, sbucando dal locale della cernita, comparve Deneulin. Nonostante la mezz'ombra in cui le lanterne lasciavano lo stanzone, d'un'occhiata abbracciò la scena: nella folla che vi si pigiava, non un viso gli era sconosciuto. Nel locale, pulito e come nuovo, tutti i segni del lavoro sospeso: dalla macchina sotto pressione il vapore sfuggiva con leggeri sibili; le gabbie pendevano immobili dai cavi; berline, abbandonate sui binari, ingombravano il pavimento di ghisa; un gran numero di lampade brillava ancora nella lampisteria: solo ottanta ne erano state ritirate.
Certo che la sua parola non mancherebbe di fare effetto e che il lavoro riprenderebbe:
-Ebbene, che succede mai, ragazzi miei? - chiese Deneulin con voce sicura. - Di che v'avete a lagnare? Apritevi con me, faremo presto a intenderci.
D'abitudine, si mostrava paterno coi dipendenti, pur esigendo che facessero il loro dovere. Autoritario, brusco di modi, cercava di conquistarseli con una bonarietà non scompagnata però da risolutezza; e per lo più vi riusciva. Gli operai rispettavano in lui l'uomo di fegato, il padrone che si faceva vedere spessissimo fra loro nei cantieri d'abbattimento, ed era sempre il primo a comparire ogni volta che un incidente si verificava, che un pericolo minacciava le maestranze. In occasione di scoppi di grisù, mentre i più bravi si tiravano indietro, due volte già egli s'era fatto calare sul luogo del disastro, appeso per le ascelle a una corda.
- Andiamo, non vorrete mica farmi pentire di aver risposto di voi. Sapete che ho respinto l'offerta d'un picchetto di gendarmi che doveva montare la guardia al pozzo. Non abbiate timore di parlare: sono qui per ascoltarvi.
Messi in soggezione, ora tutti tacevano, si tiravano indietro. Fu Chaval a prendere la parola:
-Ecco, signor ingegnere; c'è che alle condizioni attuali non ci sentiamo più di lavorare. E' necessario che ci venga accordato un aumento di cinque centesimi a berlina.
Deneulin mostrò sorpresa:
-Come? un aumento? in base a che, questa richiesta? Io non mi lagno dei lavori di rivestimento, né intendo imporvi una nuova tariffa, come fa la Compagnia di Montsou.
- Sta bene; ma anche se non ci sono questi motivi di scontento, per i nostri compagni sussistono ragioni d'agitarsi. Essi esigono un aumento a berlina di cinque centesimi, perché le condizioni ora in vigore sono insufficienti. Non è vero, voialtri, che vogliamo cinque centesimi di più?
Delle voci assentirono; si ricominciava a rumoreggiare, a gesticolare minacciosamente. A poco a poco intorno a Deneulin il cerchio degli operai si restringeva. Un lampo passò negli occhi dell'ingegnere; si dominò per non cedere alla tentazione di afferrare qualcuno per il collo. Meglio discutere, ragionare.
- Voi volete dunque un aumento di cinque centesimi e io non ho difficoltà a riconoscere che il lavoro lo vale. Senonché io non ho possibilità di accordarvi questo aumento. Se ve l'accordassi, sarei perduto. Rendetevi conto anzitutto che, perché voialtri viviate, devo anzitutto vivere io. Ora la verità è che io mi trovo in una situazione tale che il minimo aumento nei prezzi di costi mi condurrebbe diritto al fallimento. Due anni or sono, ricordatevelo, in occasione dell'ultimo sciopero che vi fu, ho ceduto alle vostre richieste; potevo ancora farlo. Ma non per questo quell'aumento è stato meno rovinoso; sono due anni infatti che lotto, che faccio fronte a stento. Oggi come oggi, preferirei chiudere bottega, piantare ogni cosa, piuttosto che trovarmi sin dal mese venturo a non saper dove prendere il danaro per pagarvi.
Chaval sogghignava: sì che si poteva credergli! sì che un padrone sciorina così in pubblico i propri interessi! Gli altri tenevano il capo basso, cocciuti, increduli: l'andasse a raccontare a chi voleva, che non s'arricchiva alle spalle dei suoi operai!
Deneulin allora ricorse a nuovi argomenti. Spiegò la lotta che sosteneva contro quelli di Montsou, sempre in agguato, sempre pronti a far di lui un boccone al primo passo falso. Era una concorrenza spietata che lo costringeva a tutte le economie; tanto più che la profondità del pozzo faceva salire il costo della estrazione: condizione sfavorevole, che il maggior spessore dei filoni compensava a stento. All'aumento di paga accordato sotto la pressione dell'ultimo sciopero, mai egli si sarebbe indotto se non si fosse trovato nella necessità di seguire l'esempio di Montsou per timore che le maestranze lo abbandonassero. Pensassero all'indomani: se lo costringevano a vendere, bel risultato per loro, passare sotto il gioco della Compagnia di Montsou! Lui non era uno di quei padroni che troneggiano lontano in un sacrario inaccessibile; non era, lui, uno di quegli azionisti che il minatore non vede mai e che pagano degli aguzzini per sfruttarlo. Lui era un imprenditore in proprio, che rischiava ben altro che il suo danaro; lui rischiava tutto: ingegno, salute, vita. La sospensione del lavoro significherebbe per lui la fine, perché riserve di minerale non ne aveva e alle ordinazioni quindi non avrebbe potuto dare esito. D'altra parte il capitale investito nell'attrezzatura del pozzo, non poteva restare infruttuoso. Altrimenti, come potrebbe lui far onore ai suoi impegni? chi pagherebbe l'interesse delle somme affidategli dagli amici? Sarebbe la bancarotta.
- Ecco dunque come stanno le cose, - concluse. - Vorrei convincervi... Non si chiede, è vero, a un uomo di sgozzarsi da sé. Ora che io vi accordi l'aumento che domandate o che pure vi lasci scioperare, è lo stesso preciso che se mi segassi la gola.
Tacque. Nella folla corsero mormorii. Una parte degli ascoltatori sembrava esitare. Parecchi si riaccostarono al pozzo.
- Almeno, - propose un caposquadra, - che ognuno sia libero di sé. Chi sono quelli che vogliono lavorare?
Vedendo Caterina farsi avanti tra i primi, Chaval furibondo la respinse:
- Noi si è tutti a uno! - gridò. - Soltanto i vigliacchi piantano i compagni!
A questo punto ogni conciliazione apparve impossibile. Ripresero a vociare. A spintoni si scacciavano dal pozzo i volenterosi, a rischio di schiacciarli contro il muro. Deneulin, nella sua disperazione, tentò un istante di lottare da solo contro tutti, d'imporsi, di ridurre i forsennati all'obbedienza. Ma si rese subito conto dell'insensatezza dell'impresa e si ritirò nell'ufficio del ricevitore. Lì rimase qualche minuto senza fiato su una sedia; così mortificato della propria impotenza da non vedere più che fare. Solo quando si fu un po' calmato, gli venne un'ispirazione: parlare a Chaval, vedere che avesse in buzzo quell'uomo. E quando il sorvegliante gli riferì che quello acconsentiva al colloquio, congedò tutti d'un gesto.
Sin dalle prime parole, Deneulin capì d'aver a fare con un vanitoso, roso dall'invidia. Allora ricorse all'adulazione: si stupiva, veramente si stupiva che un operaio del suo merito compromettesse così il suo avvenire. Da tempo, disse, aveva messo gli occhi su di lui e lo destinava ad un rapido avanzamento. Concluse offrendogli a bruciapelo di nominarlo a breve scadenza caposquadra. L'altro ascoltava in silenzio: i pugni che in principio stringeva, via via che l'ingegnere parlava, s'andavano allentando. Un lavorio avveniva nel suo cervello: se le cose stavano così, a che pro intestarsi nello sciopero? egli resterebbe sempre il tirapiedi di Stefano; mentre ora alla sua ambizione ben altra prospettiva si schiudeva: quella di passare nel numero dei capi. Solleticato dalla proposta di Deneulin, già l'orgoglio gli scaldava il sangue, lo ubriacava. D'altra parte, sulla banda di scioperanti, di cui dal mattino attendeva l'arrivo, ormai non c'era più da fare assegnamento: qualche ostacolo era certo sopravvenuto, l'intervento fors'anche della gendarmeria. Era dunque - o non più - il momento di sottomettersi. Così si diceva; ma col capo seguitava lo stesso a fare cenni di diniego, a darsi indignato grandi manate sul petto, ad atteggiarsi a uomo che non si lascia corrompere. Finché, tacendo dell'appuntamento dato agli scioperanti di Montsou, promise di calmare i compagni, di convincerli a riprendere il lavoro.
Deneulin non si mostrò; gli stessi capisquadra si tennero in disparte. Fu Chaval dall'alto di una berlina a parlare; perorò, discusse per un'ora. Una parte degli operai lo fischiava; di questi un centinaio s'allontanarono esasperati, ostinandosi nella risoluzione ch'era stato Chaval a patrocinare.
Erano da poco passate le sette, in un tripudio di sole l'alba sorgeva su una giornata che si annunciava rigidissima, ed ecco ridestarsi nella miniera il lavoro. Fu la macchina d'estrazione a dare il segnale della ripresa: la biella si tuffò; le pulegge svolsero i cavi. Poi, fra lo strepitare dei segnali, si iniziò la discesa: le gabbie si riempivano, s'inabissavano, riaggallavano; il pozzo inghiottiva la sua giornaliera razione di carne umana; mentre sulle lastre di ghisa altri operai spingevano a braccia le berline in un fragore di tuono.
Vedendo Caterina in attesa del suo turno:
- Sacradìo, - Chaval imprecò, - che stai lì a fare con le mani in mano? ti spicci a discendere? Alle nove, arrivando puntuale con Cecilia, la Hennebeau trovò le due Deneulin bell'e pronte; elegantissime negli abiti chi sa pure quante volte riaccomodati. Non era sola, scortava la carrozza Négrel a cavallo. Come mai? si stupì Deneulin: anche Négrel della partita?
Placida, la Hennebeau spiegò che l'avevano allarmata col dirle che le strade erano piene di brutti ceffi; per questo aveva chiesto al nipote d'accompagnarle. Négrel rideva: non c'era di che impensierirsi; minacce al solito di pochi scalmanati, ma non uno che ardirebbe lanciare un sasso contro un vetro. Deneulin, caldo ancora del successo riportato, raccontò come aveva domato la rivolta nel suo pozzo: ormai ogni apprensione era sfumata. E lì sulla strada di Vandame, mentre quelle donzelle prendevano posto in vettura, tutti si rallegravano per l'incantevole giornata, ben lungi da sospettare che poco lontano fermentava e dilagava per la campagna il malcontento; e una folla si metteva in marcia, della quale, solo che avessero appoggiato contro terra l'orecchio, avrebbero avvertito il minaccioso avvicinarsi.
- Allora siamo intesi, - concluse la Hennebeau. - Stasera lei, Deneulin, viene a riprendere le sue figliole e cena con noi. Anche la signora Grégoire, che viene a riprendere Cecilia, sarà dei nostri.
- Non mancherò.
La vettura partì in direzione di Vandame, scortata al trotto dal galante Négrel; mentre le Deneulin si sporgevano ancora una volta a sorridere al padre, fermo sul ciglio della strada.
Attraversata la foresta, si pigliò per la strada che da Vandame porta a Marchiennes. Giunti che si fu in prossimità del Tartaret, Gianna chiese alla Hennebeau se era mai stata alla Collina Verde. No; sebbene lì ormai da cinque anni, la Hennebeau non s'era mai spinta sin là. Allora si svoltò: valeva la pena di allungare d'un po' la strada.
Il Tartaret era, al margine della foresta, una landa incolta, d'una sterilità di terreno vulcanico; sotto la quale ardeva da secoli una miniera di carbon fossile che aveva preso fuoco. La storia di quella miniera si perdeva nella leggenda. Minatori del paese raccontavano che, per punire i peccatacci di cui le operaie di quella sotterranea Sodoma s'erano macchiate, il fuoco era piovuto dal cielo; così improvviso e copioso che non una delle sciagurate aveva fatto a tempo a trovare scampo all'aperto; trasformando l'antico pozzo in una geenna dove oggi ancora le malnate bruciavano. Alla superficie le rocce calcinate, d'un rosso cupo, si coprivano, come di una lebbra, di incrostazioni di allume; mentre spuntava lungo le crepe il giallo fiore dello zolfo. Chi la notte era abbastanza coraggioso per mettere l'occhio a quelle spaccature, giurava di vedere tra un lingueggiare di fiamme torcersi tuttora le anime delle dannate. Fuochi fatui correvano raso terra; e calde buffate di fumo si sprigionavano di continuo da quella cucina del diavolo, appestando l'aria del loro tanfo. Ma in mezzo alla maledetta landa - miracolo di eterna primavera - una collina sorgeva, la Collina Verde appunto; perennemente verzicante d'ameni praticelli, popolata di faggi il cui fogliame a ogni primavera si rinnovellava, seminata di coltivi che sin tre volte all'anno maturavano il raccolto. Era una serra naturale, che il calore sotterraneo alimentava. Su di essa la neve si squagliava nel volgere di poche ore. Anche adesso, e si era in dicembre, l'enorme mazzo di verdura si spampanava in tutto il suo rigoglio, in contrasto con gli alberi spogli della vicina foresta; il morso del gelo non ne aveva strinato neanche gli orli.
Mentre la carrozza filava di nuovo in pianura, Négrel prese a motteggiare sulla leggenda. Era di solito per combustione spontanea, dovuta all'attrito della polvere di carbone, che le miniere prendevano fuoco.
Se l'incendio non si domava subito, non c'era più rimedio; e citava l'esempio d'una miniera del Belgio: per spegnerla, s'era dovuto inondarla, deviandoci dentro un fiume.
Ma a questo punto anche Négrel si ammutolì. Con sempre maggiore frequenza si incontravano da un po' gruppi di minatori. Passavano in silenzio, lanciando sguardi ostili a tutto quel lusso che li costringeva a fare ala. Davanti al loro crescere, al ponticello sulla Scarpe si dovettero mettere i cavalli al passo. Che accadeva mai perché si vedessero tanti sfaccendati in giro? Le signorine s'impaurirono; Négrel cominciò a subodorare qualche disordine. Per cui fu per tutti un vero sollievo arrivare finalmente a Marchiennes.
Sotto il sole che pareva spegnerle, le batterie dei gasogeni e le torri degli altiforni emettevano pennacchi di fumo che, inquinando l'aria, ripiovevano in fuliggine
Capitolo secondo
Da un'ora Caterina attendeva al suo lavoro, che già, grondante di sudore, doveva arrestarsi. Si asciugava il viso, quando Chaval, dietro ad abbattere, non udendo più il rumore del traino né potendo, per il pulviscolo ch'era nell'aria, rendersi conto, alla scarsa luce della lampada, del perché di quell'arresto:
- Che è? - gridò. E alla risposta della ragazza:
-Soffoco, mi manca il cuore. - Fa' come noi, stupida! - ribatté furibondo, - togliti la camicia!
Lavoravano a settecento e più metri di profondità, nella prima galleria del filone Desiderata, distante tre chilometri dal piano di carico: un punto della miniera, del quale i minatori che vi avevano lavorato parlavano impallidendo e abbassando la voce, con lo sgomento con cui avrebbero parlato dell'inferno; di parlarne anzi evitavano, di quel braciere; si contentavano di scuotere il capo. Gli è che, quanto più le gallerie si spingevano verso il nord, tanto più si avvicinavano al Tartaret, cioè al fuoco sotterraneo che a fior di terra calcinava le rocce. Lì, la temperatura raggiungeva in media i 45 gradi. Si era dunque nel cuore della città maledetta, in mezzo alle fiamme che - a credere a chi diceva d'averle viste lingueggiare attraverso le crepe del terreno - spuntavano all'aperto zolfo e gas mefitici.
Dopo un attimo d'esitazione, Caterina, che non aveva più indosso che le brache, si tolse anche quelle; e legatasi con uno spago la camicia intorno ai fianchi, a braccia e cosce nude si rimise al lavoro:
- Un po' meglio va! - Nel malessere che il soffoco le dava, entrava anche una vaga paura. Sebbene già da cinque giorni lavorasse lì, ancora la ragazza non aveva vinto un certo superstizioso terrore, inculcatole dai racconti tante volte uditi da bambina: il terrore delle antiche colleghe che seguitavano a bruciare sotto il Tartaret in punizione di peccatacci sui quali si sorvolava. Certo lei non era più in età da prestar fede a quelle fole; pure, se all'improvviso una di quelle dannate le fosse comparsa davanti, arroventata come una padella al fuoco, con due tizzoni per occhi? L'idea solo le dava la pelle d'oca.
Allo scambio, che si trovava ad ottanta metri dal cantiere, le sottentrava una compagna che per altri ottanta spingeva la berlina sino al piano inclinato, dove il manovale s'incaricava d'inoltrarla insieme ai carichi provenienti dalle gallerie sottostanti. La collega - una vedova macilenta sui trent'anni - vedendo Caterina in camicia:
- Capperi! tu almeno soggezione non te ne pigli! Potessi mettermi anch'io in camicia come te! Anche così come sono, quei porci di manovali me ne dicono già tante!
- Oh a me che me ne fa degli uomini! Non voglio crepare! - e ripartì spingendo innanzi la berlina vuota.
Né solo per la vicinanza del Tartaret si boccheggiava là sotto. Il peggio era che la galleria ne costeggiava un'altra, profondissima, della Gaston-Marie, abbandonata dieci anni innanzi in seguito a uno scoppio di grisù. Il filone aveva preso fuoco e seguitava tuttora a bruciare dietro il muro d'argilla, - la «concia» come i minatori lo chiamavano - che era stato innalzato per arginare l'incendio; muro che ogni poco occorreva riparare. Isolato così, il fuoco avrebbe dovuto spegnersi per mancanza d'aria; ma qualche corrente doveva alimentarlo, se dopo dieci anni arroventava ancora la parete, al punto che, passando, s'era investiti come da una vampa. Ora, era appunto lungo la «concia» che il carriaggio si svolgeva per oltre un centinaio di metri, in una temperatura di sessanta gradi.
In capo a due viaggi, Caterina si sentì di nuovo mozzare il respiro. Fortuna che lì, lo spessore del filone - uno dei più spessi che si fossero incontrati nella regione - aveva consentito di allargare il camminamento in modo che ci si muoveva comodamente. Il suo metro e novanta di altezza, permetteva anzi agli staccatori di lavorare in piedi: vantaggio tuttavia al quale essi avrebbero preferito un po' di fresco.
Al nuovo arresto nel traino, Chaval riprese a imprecare:
-Dormi mica?
Chi è che mi ha messo alle costole una simile brenna? Ti sbrighi o non ti sbrighi?
A piè del cantiere, colta da un malessere che le impediva di ubbidire, la ragazza, appoggiata al badile, guardava i compagni con aria ebete. Stentava a distinguerli nella luce rossastra delle lampade, interamente nudi, ma d'una nudità che non offendeva tanto la mascherava la polvere di carbone che il sudore incollava alla pelle. Parevano scimmioni occupati in chi sa che oscura mena, spine dorsali che si protendevano, membra arsicce che si agitavano in un lavoro spossante, tra tonfi di piccozze e anfanare di petti: una visione d'inferno. Essi però la distinguevano meglio si vede; perché cessarono di battere e presero a beffarla: ah anche le brache s'era cavata!
- Bada che non ti prenda un'infreddatura!
- Mica per niente s'è tolta i calzoni! E' che può mostrarle le gambe! E con tutta quella grazia di Dio, pretenderesti di godertela tu solo, eh, Chaval! Ce n'è per due!
- Mica detto! Bisognerebbe vedere! Tirala su, piccina, la camicia! più su! più su ancora!
Senza prendersela, Chaval ne approfittò per un nuovo sfogo:
-Oh, per questo, ce n'ha! E ci gode a sentirselo dire! Oh, per questo, starebbe lì sino a domani, la sudiciona!
Raccogliendo tutte le forze, la ragazza aveva intanto riempito la berlina ed ora la avviava. L'ampiezza del camminamento le impediva sia da un lato che dall'altro di puntellarsi, per spingere, al rivestimento. I piedi scalzi si storcevano in cerca d'appoggio, nel solco dei binari; spezzata in due, procedeva a rilento, protendendo e irrigidendo le braccia. Arrivata alla «concia», a quel supplizio s'aggiungeva quello dell'arroventato riverbero; cominciava a grondare da capo a piedi, goccioloni che parevano l'avvisaglia d'un acquazzone. Non era che a un terzo della meta e i goccioloni si cambiarono in rigagnoli; la accecarono, la impiastricciarono di nera fanghiglia. La scarsa camicia, che pareva imbevuta d'inchiostro, le si incollò alla pelle, le risalì, nel movimento delle anche, alle reni; imbrigliandola, la impacciò al punto che la costrinse un'altra volta a fermarsi. Che diavolo le succedeva quel giorno? Mai come oggi s'era sentita le ossa di mollica. Forse l'aria viziata. La ventilazione a quella profondità non arrivava, per cui si respirava ogni sorta di miasmi. Sfuggivano dal filone con un gorgoglio di fonte; a volte, in tale copia da spegnere la lampada; senza parlare del grisù, di cui non ci si preoccupava quasi più, tanto se ne respirava. La conosceva bene Caterina, quell'aria! l'«aria morta», come i minatori la chiamavano, pregna in basso di gas pesanti che producono asfissia; in alto, di gas leggeri che, se si infiammano, fulminano in men che non si dica, con lo schianto d'un tuono, tutti i cantieri d'una miniera, seminandoli di morti. Con tanta che ne aveva sorbita di quell'aria, a cominciare da bambina, come mai oggi la sopportava così male? le orecchie le ronzavano, la gola ardeva. Non reggendo più, provò il bisogno di togliersi la camicia: quella tela diventava sulla pelle una tortura; la più piccola piega la scottava, la scorticava. Volle resistere alla tentazione, piegarsi ancora a spingere: dovette raddrizzarsi all'istante. Allora, smaniosa, si strappò d'addosso la camicia «per il ritorno, - dicendosi, - me la rimetterò». E ignuda ormai, miserevole come la femmina che mendica trottando nella belletta delle strade, riprese a spingere; carponi quasi; imbrattata di carbone e di fango sino al ventre e alle reni, simile alla bestia da tiro d'una vettura di piazza.
Ma il sollievo non fu che momentaneo. Che togliersi ancora? la pelle, se avesse potuto. Una morsa la serrava alla tempia, il ronzio alle orecchie la assordava. S'abbandonò sui ginocchi. S'ingannava o davvero la lampada, piantata lì davanti nel carbone del carrello, si stava spegnendo? Rimontarne il lucignolo, fu l'unico pensiero che in quell'oscurarsi della coscienza restò a galla. Due volte posò in terra, per esaminarla, la lampada ed entrambe le volte la vide impallidire, come alla fiammella pure mancasse l'aria. E di colpo, eccola spegnersi. Tutto allora sprofondò nel buio. Il capo le girava come una trottola, il cuore le mancava, cessava di battere, paralizzato anch'esso dalla spossatezza che le legava le membra. Caterina era stramazzata all'indietro e ora agonizzava nell'aria irrespirabile che s'accumulava raso terra.
- Scommetto che si sta prendendo un altro po' di svago, maledizione! - e Chaval sportosi in ascolto, non udendo alcun rumore di traino:
-Ehi Caterina, dico, battifiacca della malora!
La sua voce si perdeva lontano nel buio della galleria, senza ottenere risposta. - Vuoi proprio che venga io a farti spicciare? - Silenzio di morte.
Furente, Chaval balzò giù; e con la lampada in mano si lanciò in avanti con tale impeto che poco mancò inciampasse; riverso, il corpo della ragazza sbarrava il camminamento. A bocca aperta, si chinò a guardare. Che era? mica una finta per schiacciare un sonnellino? Ma nell'avvicinarle la lampada al viso, notò che la fiammella vacillava. Ripeté il gesto, con lo stesso risultato; e finalmente capì: il gas! un brutto tiro del gas! Davanti al camerata in pericolo, allora di colpo la sua collera cadde; si destò in lui lo spirito di solidarietà. Già dava la voce ai compagni; gli portassero da vestirsi. E intanto, tolta in braccio la svenuta, la sollevava più in alto che poteva. Come gli ebbero buttato sulle spalle i vestiti suoi e di Caterina, impugnate le due lampade e reggendo sul braccio libero la ragazza, si mise di corsa. Galoppava, prendendo ora a destra ora a sinistra, di galleria in galleria, verso la più vicina bocca d'aerazione, verso l'aria gelida e vivificante. A un gorgogliare d'acqua che filtrava dalla roccia si arrestò; si trovava all'imbocco della grande galleria di carriaggio per la quale passava un tempo il traffico della Gaston- Marie. Lì faceva capo una bocca d'aerazione che scatenava in quel chiuso poco meno d'una tempesta, rinfrescando l'aria al punto che, seduta che ebbe la ragazza con la schiena appoggiata al piedritto, l'uomo fu colto da un brivido. Spiandola e vedendola rinvenire:
- Animo, Caterina! - ed alzava la voce come l'altra potesse udirlo. - Tienti un po' ritta che io possa inzuppare questo nell'acqua!
Lo allarmava vedersela ciondolare. Riuscì comunque a immergere nell'acqua la camicia di lei e a passargliela bagnata sul viso. Esile a quel modo, per la sua età così poco sviluppata, la fanciulla si sarebbe detta più di là che di qua. Finalmente un brivido corse su quel seno appena accennato, si propagò al ventre, alle cosce. E Caterina aperse gli occhi:
-Ho freddo, balbettando. - Ah bene! - esclamò l'altro, e rifiatava. - Parola mia, preferisco! - E prese a rivestirla. Se metterle la camicia fu impresa da poco, meno agevole fu infilarle le brache tanto poco lei poteva aiutarsi.
- Dove sono? - lei ora chiedeva. - E come mai ero nuda? - Poi ricordandosi, si confuse: come mai aveva osato spogliarsi del tutto? E a lui chiedeva:
-In quello stato m'hanno vista? senza neanche uno straccio davanti? - Lui, diventato allegro, adesso inventava: certo! per portarla lì, aveva ben dovuto passare con lei nuda fra le braccia tra i compagni che facevano ala! Colpa sua, del resto: che le era venuto in mente di togliersi anche la camicia? Poi, vedendola avvilita, la tranquillizzò: portandola, correva così veloce che nessuno, stesse certa, aveva visto se fosse maschio o femmina. - Accidenti! ma qui fa un freddo cane! - e Chaval si rivestì a sua volta.
Mai Caterina lo aveva visto così premuroso, così gentile con lei. Di solito per una parola buona doveva aspettarne due villane. Come sarebbe bello vivere d'amore e d'accordo! Nello stato di spossatezza in cui si trovava, la ragazza provava adesso un languido bisogno di affetto. Sorridendogli:
- Dammi un bacio, - bisbigliò. Lui la abbracciò, s'allungò al suo fianco. - Vedi, - lei riprese, - che avevi torto a sgridarmi? Era vero che non ne potevo più. Voialtri lassù in alto non lo sentite il caldo che fa da basso. Nel camminamento si cuoce.
- Certo, lo credo anch'io, sotto gli alberi si starebbe meglio... No, scherzo! Mi rendo conto benissimo che dove lavori adesso ci stai male.
Sentire che le dava ragione, la commosse al punto che volle mostrarsi brava:
-Oh è stato solo perché ero indisposta! e l'aria, anche, che oggi è proprio irrespirabile. Ma vedrai, adesso che si torna, se sono una battifiacca! Quando è tempo di lavorare, si lavora, no? Io piuttosto che darmi vinta, ci schiatterei.
Ci fu un silenzio. Allacciandola alla vita, lui se la stringeva contro, come a proteggerla. E lei, pur sentendosi già in grado di tornare nel cantiere, s'abbandonava con delizia a quell'attimo di felicità; così struggente che le gonfiò gli occhi di pianto. Chaval con trasporto:
-Perché piangi? T'avrei preso con me se non ti volessi bene? - Lei scosse in risposta il capo: quante volte gli uomini prendono una donna infischiandosi di lei, così per cavarsi un capriccio! Ora, a pensare quanto la sua vita sarebbe stata più felice a fianco d'un altro che la tenesse sempre così, avvinta a sé, la prendeva la disperazione e le sue lacrime scorrevano più calde. Un altro? un altro, di cui ora le sorgeva innanzi confusa l'immagine e al cui ricordo le si gonfiava il cuore. Ma ormai... Ormai, lei desiderava più solo vivere sino alla fine con quello lì... purché non la maltrattasse tanto... - Se mi vuoi bene, - disse allora, - cerca di quando in quando di essere con me come sei ora, - e i singhiozzi le troncarono la voce. Lui baciandola di nuovo:
-Scioccona che sei! Ma sì, sarò come vuoi! te lo giuro. Mica sono più cattivo d'un altro, sai! - Mentre diceva, lei gli spiava con speranza il viso e di tra le lacrime cominciava a sorridere. Forse Chaval non aveva torto: se ne incontrano così di rado di donne felici! E comunque, anche senza credere troppo nel suo giuramento, ora lo vedeva appunto come avrebbe voluto fosse sempre; e Caterina si abbandonava alla felicità del momento.
Si erano riabbracciati e si stringevano ancora una contro l'altro, quando un avvicinarsi di passi li fece saltar su. Erano tre compagni che non avendoli visti ripassare, venivano per notizie.
I due amanti si rimisero in strada verso il cantiere. Ma erano ormai le dieci; tanto valeva trovarsi un angolo fresco dove consumare la colazione. Così fecero; e stavano per berci sopra dalla fiaschetta un sorso di caffè, quando li colpì un rumore in lontananza. Che poteva essere? qualche nuovo incidente? E si misero di corsa verso i lontani cantieri donde il rumore proveniva. A ogni passo incontravano compagni allarmati; tutti gridavano, ma nessuno sapeva dire che fosse: certo qualche cosa di grave. L'allarme s'andava propagando per tutta la miniera. Ombre gesticolanti sbucavano dalle gallerie, lampade s'agitavano nel buio, filavano via veloci. Che diavolo era successo? dove? perché non si diceva? Finché un caposquadra passò gridando:
- Tagliano i cavi!
Allora fu il panico. Tutti perdevano la testa; tutti correvano all'impazzata verso il pozzo. I cavi? perché si tagliavano i cavi? e chi li tagliava? con le maestranze ancora nella miniera? Era impossibile!
La spiegazione l'ebbero da un secondo capo-sorvegliante che passò gridando:
- Quelli di Montsou stanno tagliando i cavi! Che tutti escano! - Correva gettando l'allarme; la sua voce si riudì già lontana.
Allibito, Chaval si arrestò, costringendo anche la ragazza a fermarsi. La squadra degli scioperanti ch'egli già si figurava in prigione, era dunque arrivata! La prospettiva di caderci in mezzo all'uscita, gli paralizzava le gambe. Un istante pensò di tornare indietro, di risalire per il pozzo della Gaston-Marie; ma l'ascensore da quella parte non funzionava più. Sacramentava, indeciso, cercando di dissimulare la propria paura, ripetendo ch'era stupido correre a quel modo; come si poteva pensare che li abbandonassero in fondo alla miniera?
Già il caposquadra di prima ripassava:
-Uscire, uscire tutti! Alle scale, alle scale!
Travolto via con gli altri, Chaval se la prese con la ragazza che non correva abbastanza: voleva che ci restassero loro due soli in fondo, a crepare di fame? perché, gridò, erano ben capaci, quei banditi di Montsou, di fare a pezzi le scale prima che il pozzo si vuotasse.
Gridata così, l'ipotesi che i dimostranti potessero arrivare a quell'estremo, si sparse e finì per far perdere la testa a tutti. Non fu più per le gallerie che una fuga disordinata e tumultuosa, una corsa insensata a chi arrivava prima. Già c'era chi asseriva che le scale erano state interrotte, che si era bloccati.
E quando sbucando a gruppi atterriti dalla galleria gli operai cominciarono ad affluire nello stanzone del piano di carico, fu un vero avventarsi verso l'imboccatura del pozzo, uno schiacciarsi contro la porticina d'accesso alle scale, un ingolfarsi di forsennati su per il nero budello. Calmo in mezzo al tumulto, solo un vecchio stalliere che aveva finito allora di ricondurre per misura di prudenza le sue bestie in scuderia, li guardava come si guarda una folla di mentecatti - lui abituato a passare le notti nella miniera e sicuro che non mancherebbero di tirarlo fuori di là dentro.
- Sacradìo! vuoi sì o no salire per prima? Almeno se scivoli ti reggo!
Trafelata e ansante per quella corsa di tre chilometri, Caterina sgomenta s'abbandonava, senza raccapezzarsi, ai risucchi della folla. Chaval allora la tirò a sé con una brutalità così inaspettata che la fece gridare e traboccare in pianto: ecco come l'amante manteneva il giuramento appena fatto! ah mai lei sarebbe felice!
- Passa dunque! - urlò quello. Ma lei nicchiava; obbedendogli, si esporrebbe per tutto il tragitto ai suoi maltrattamenti; e intanto il pigia pigia li spingeva entrambi da parte. Sotto il calpestio della folla in preda al panico, il tavolato, sotto il quale s'apriva il pozzetto di scarico profondo dieci metri, scricchiolava paurosamente. E tutti ricordavano che due anni innanzi proprio lì sotto, nell'acqua melmosa di quello smaltitoio, in seguito alla rottura d'un cavo, erano annegati due uomini. Questa volta sarebbe ben peggio, se il tavolato cedeva al peso!
- Zuccona della malora! Crepa dunque: mi ti toglierai una buona volta dai piedi! - e, persa la pazienza, Chaval passò primo. Caterina gli si mise dietro.
Per sbucare alla luce, c'erano da salire centodue scale; e ogni scala, di sette metri circa, poggiava su una specie di pianerottolo di legno che occupava tutta la larghezza del bugigattolo e nel quale una apertura quadrata permetteva appena alle spalle di passare. Era come un pozzetto verticale, di settecento metri d'altezza che correva tra la parete del pozzo e la paratia dello scompartimento d'estrazione: un umido budello nero interminabile, dove le scale si rizzavano quasi a perpendicolo una sull'altra, a distanze eguali. Un uomo robusto impiegava quasi mezz'ora per arrampicarsi sino in cima alla gigantesca colonna; di più ora, dato lo stato in cui si trovava quel passaggio che serviva ormai solo in caso di disastro.
In principio Caterina salì di buona lena. I suoi piedi avvezzi a camminare scalzi sull'aguzza carboniglia dei cunicoli, quasi non avvertivano la guarnitura di ferro che armava i pioli contro il logorio; e le sue mani incallite di spingi-carichi s'afferravano senza difficoltà ai montanti, che pure non arrivavano a impugnare. La occupava anzi, la distraeva dai suoi tristi pensieri quell'imprevista arrampicata; quel lungo serpente d'uomini - tre per scala- che si issava così lento che quando la testa sbucherebbe alla luce, ancora la coda si trascinerebbe laggiù sul pozzetto di scarico. Per ora l'avanguardia non doveva trovarsi che a un terzo del tragitto. Più nessuno parlava; nel gran silenzio s'udiva solo il sordo scalpiccio dei piedi; mentre le lampade, simili a stelle erranti, si scaglionavano dal basso in alto, in una fila che s'allungava, s'allungava... Sull'esempio di qualcuno dietro a lei, anche Caterina prese a contare le scale via via che se le lasciava alle spalle. Se ne erano già superate quindici, con che si era arrivati al primo piano di carico. A questo punto ci fu un arresto; così inatteso, che Caterina sbatté contro le gambe di Chaval, facendolo prorompere in bestemmie. Di gradino in gradino l'arresto si propagò finché tutta la colonna fu ferma. Che succedeva? ognuno ritrovava la voce per chiedere allarmato che fosse. Per il non sapere che succedeva lassù, l'ansietà cresceva quanto più s'era vicini alla meta. Non mancò chi gridò che le scale erano interrotte, che bisognava ridiscendere.
E già ci si credeva, il terrore di tutti essendo quello; ma un'altra spiegazione dell'arresto già passava di bocca in bocca: un minatore che era scivolato. Senonché, la nuova versione era poi la giusta? Mah! il vocìo impediva di capire. - Che dovremo dormire qui? - Finalmente, senza che il motivo della fermata venisse meglio chiarito, l'arrampicata riprese, lenta e penosa come prima, tra il calpestio di piedi e l'oscillare delle lampade. Non c'era però da illudersi: certo più su troverebbero le scale interrotte.
Alla trentaduesima scala, oltrepassato appena il terzo piano di carico, Caterina sentì le braccia e le gambe intormentirsi. Era stato in principio un leggero formicolio; ma ora piedi e mani avevano perso la sensibilità, non riconoscevano più quello che toccavano; mentre la muscolatura cominciava a dolerle: un dolore che da vago si faceva a poco a poco cocente. E nell'intorpidimento che la invadeva le tornava a mente ciò che raccontava il nonno, Bonnemort, del tempo che l'estrazione si faceva a spalle. Ragazzine di dieci anni, curve sotto la corba, s'arrampicavano per scale semplicemente appoggiate alla parete del pozzo; sicché se avveniva che una di esse scivolasse o anche solo che da una cesta traboccasse un blocco di carbone, tre o quattro erano travolte e ruzzolavano giù a capofitto.
Il morso dei crampi intanto cresceva; la ragazza perdeva la speranza di farcela.
Nuovi arresti le permisero di riprendersi un po'; ma le voci allarmanti che ognuno provocava finivano di intontirla. Davanti e dietro a sé, i respiri si facevano faticosi; quella ascensione che non finiva mai, cominciava a dare a tutti il capogiro: una vertigine collettiva, una specie di mal di mare che coglieva anche lei. Vacillando come ebbra in quel buio, urtando continuamente nelle pareti che la schiacciavano, la ragazza soffocava. E ora, all'approssimarsi del livello d'acqua, si aggiungeva la pioggia battente che minacciava di spegnerle la lampada e che inzuppandole il corpo in sudore, la percorreva di lunghi brividi. Due volte Chaval le si rivolse senza ottenere risposta:
-Che faceva lì sotto? aveva perso la lingua? Gli dicesse almeno se ce la faceva!
Si saliva da mezz'ora, ma così straccamente che s'era arrivati appena alla cinquantanovesima scala: quarantatré ne restavano!
Caterina finì per tartagliare che, sì, ce la faceva; a scanso di sentirsi dare dell'infingarda. Il ferro dei pioli adesso doveva scorticarle i piedi: lo avvertiva come il dente d'una sega che già attaccasse l'osso. Ad ogni afferrarsi ai montanti, s'aspettava che le mani, sbucciate e intormentite da non poterle più chiudere, si lasciassero sfuggire il sostegno; e sentendosi le spalle slogate, le cosce come divelte dal troppo prolungato sforzo, già si vedeva precipitare all'indietro. Ciò che più la faceva soffrire era la poca pendenza delle scale, messe quasi verticalmente, che obbligava a tirarsi su a spese dei polsi, il ventre schiacciato contro il legno. Le respirazioni adesso erano così affannose che coprivano lo scalpiccio: un rantolo enorme che riempiva il budello da cima a fondo, moltiplicato dalle vibrazioni della paratia.
Un grido di dolore a un certo punto lo sopraffece: un manovale, corse voce, che s'era spaccato il cranio contro lo spigolo d'un ripiano.
E Caterina saliva saliva. Il livello d'acqua venne oltrepassato. Cessata la pioggia, una specie di nebbia appesantì quell'aria di cantina, avvelenata dal tanfo di legno bagnato e di tutta quella ferraglia arrugginita.
Macchinalmente la ragazza seguitava a contare: ottantuno, ottantadue, ottantatré... Diciannove scale, ancora. Era solo quel compitare a fior di labbro che con la cadenza del suono la sosteneva. Dei movimenti che faceva aveva perduto la conoscenza. La fila di lampade turbinava davanti ai suoi occhi, ogni volta che li alzava. Perdeva sangue, si sentiva mancare: a farla precipitare, sarebbe bastato un soffio. Il peggio era che dal basso ora si spingeva; che la catena d'uomini, cedendo alla crescente irritazione prodotta dalla fatica, al furibondo bisogno di rivedere il sole, adesso si buttava avanti tutta insieme. I primi erano ormai sbucati alla luce; ma se questo dimostrava che le scale non erano interrotte, non liberava chi era lontano dall'uscita dal timore che potessero esserlo ancora; e il pensiero di restare lì, mentre gli altri già respiravano l'aria libera, li faceva impazzire. Tanto che, a un nuovo arresto, tutti imprecando seguitarono a salire, spintonandosi, scavalcandosi, camminando su chi cadeva, non badando più a nulla pur di arrivare.
Sopraffatta, Caterina stramazzò:
-Chaval! - gridando, in un appello disperato. Ma Chaval non la udì; si stava battendo anche lui a calci e a pugni per passare prima. La ragazza fu travolta, calpestata; svenne. E nello svenimento sognava d'essere anche lei una di quelle piccole operaie di cui il nonno raccontava; anche lei, ora, un blocco di carbone scivolato da una cesta l'aveva travolta e di colpo, come un passero raggiunto da una sassata, era precipitata in fondo al pozzo. Cinque scale soltanto restavano da salire; si era impiegato più di un'ora. Portata a spalle, tenuta ritta nella strozzatura del budello, Caterina non seppe mai come era sbucata alla luce. Di colpo si trovò in mezzo a una luce accecante, tra lo schiamazzare d'una folla che la fischiava
Capitolo terzo
Sin dall'albeggiare, un fermento di rivolta aveva corso i borghi operai, avvisaglia della sommossa che ora andava crescendo minacciosa per le strade, dilagando per la campagna. Ma lo spargersi della notizia che cavalleria e gendarmi battevano la pianura, aveva consigliato di differire l'ora della partenza. Quelle truppe, si diceva, erano arrivate da Douai nella notte; si accusava Rasseneur di aver venduto i compagni, prevenendo Hennebeau; una spingi-carichi assicurava anzi d'aver visto il domestico che il direttore aveva mandato a spedire il telegramma. Di dietro le imposte i minatori spiavano, stringendo i pugni, il passare dei soldati nel barlume dell'alba.
Verso le sette e mezzo, al sorgere del sole, un'altra voce venne a calmare gli animi. Non di tradimento si trattava; bensì d'uno dei periodici spiegamenti di forza che, da quando era scoppiato lo sciopero, il comando del distretto ordinava, su invito del prefetto di Lilla. I minatori esecravano questo funzionario che, dopo aver promesso di intervenire in senso conciliativo, si limitava ora a far sfilare ogni otto giorni le truppe con l'evidente scopo di intimorirli. Sicché quando dragoni e gendarmi ripresero tranquillamente la via di Marchiennes, paghi d'avere intronato i borghi del trotto dei loro cavalli, i minatori risero alle spalle di quel bonomo di prefetto che ritirava le truppe proprio al momento buono. Sino alle nove rimasero sulle soglie a farsi buon sangue a contemplare con aria sorniona allontanarsi le schiene bonarie degli ultimi gendarmi. Crogiolandosi nei morbidi letti di piuma, i benestanti di Montsou dormivano ancora. La Hennebeau era stata vista uscire in carrozza e lasciarsi alle spalle la villa silenziosa, dove certo il marito era già al suo tavolo di lavoro. Non un pozzo era presidiato: mancanza di previdenza che si verifica fatalmente al momento del pericolo e che dà la misura dell'incapacità d'un governo e degli errori di ogni sorta che commette quando si tratterebbe di non lasciarsi sorprendere dagli avvenimenti. E suonavano le nove, quando finalmente i minatori presero la via di Vandame per recarsi al posto di convegno.
Stefano si rese subito conto che non troverebbe alla Jean-Bart i tremila compagni sui quali aveva contato. Molti ritenevano la manifestazione differita; ma, quel che è peggio, già due o tre bande s'erano avviate; e, se egli esitava a mettersi alla loro testa, c'era rischio che compromettessero ogni cosa. Quasi un centinaio, poi, partiti avanti luce, avevano dovuto rifugiarsi nella faggeta, in attesa degli altri. Souvarine, che Stefano era salito a consultare, s'era stretto nelle spalle: il più spiccio era, disse, appiccare il fuoco a Montsou; e dieci tipi risoluti avrebbero raggiunto meglio lo scopo che una folla; mentre così la cosa rischiava di prendere di nuovo una piega sentimentale. Rifiutò perciò di partecipare e si richinò sul libro che teneva aperto davanti. Uscendo, nell'attraversare il gioco da bocce, Stefano scorse Rasseneur seduto davanti alla stufa; pallidissimo, ascoltava i rimproveri di cui la moglie, nell'immancabile vestito a lutto che la cresceva di statura, lo bersagliava; in forma educata ma non per questo meno pungente.
Maheu fu d'avviso che non si dovesse mancare all'appuntamento: un appuntamento come quello era sacro. Anche in lui del resto, come in tutti, la notte aveva calmato gli ardori; ora Maheu temeva degli eccessi da parte della folla: il loro dovere era quindi di trovarsi sul posto per impedire ai compagni di abbandonarsi a violenze. La moglie lo approvava col capo. Stefano ripeté, compiaciuto, che bisognava, sì, agire rivoluzionariamente, ma senza attentare alla vita di nessuno. Partendo, rifiutò di accettare la parte che gli spettava della pagnotta avuta il giorno prima; dalla bottiglia di ginepro si vuotò invece tre bicchierini che bevve uno sull'altro, per vincere, disse, il freddo; del liquore si riempì anzi una fiaschetta. Alzira resterebbe a badare ai bambini; quanto a Bonnemort, le sue gambe si risentivano troppo della passeggiata del giorno prima perché potesse alzarsi da letto.
Per prudenza partirono alla spicciolata. Gianlino se l'era già svignata da un bel po'; mentre Maheu e la moglie s'incamminavano per la via più lunga alla volta di Montsou, Stefano si diresse alla faggeta incontro ai compagni. Per istrada raggiunse una frotta di donne, tra le quali riconobbe l'Abbruciata e la Levaque; camminando mangiavano delle castagne portate dalla Mouquette; con la buccia, per sentirsi più a lungo qualcosa sullo stomaco. Nella faggeta il giovane non trovò più nessuno; già i compagni, che in un primo tempo vi si erano rifugiati, si trovavano alla Jean-Bart. Messosi di corsa, Stefano arrivò davanti al pozzo nel momento che un centinaio di dimostranti, tra cui Levaque, mettevano piede sul piazzaletto della miniera. Altri affluivano d'ogni parte: i Maheu dalla via maestra, le donne attraverso i campi; sbandati, senza armi né guida, confluendo tutti lì come rigagnoli che avvia in unico punto la pendenza del terreno. Arrampicato su un cavalletto, Gianlino si disponeva di lassù ad assistere allo spettacolo. Non si era in più di trecento. D'un balzo Stefano si portò fra i primi.
Ci fu un'esitazione quando in cima alla scala della ricevitoria comparve Deneulin. - Cos'è che volete? - chiese risoluto l'ingegnere.
Seguìta con gli occhi la carrozza di dove le figlie si sporgevano ancora a sorridergli, Deneulin era tornato al pozzo, ripreso da una vaga inquietudine. Non c'era di che; tutto vi procedeva regolarmente: la discesa era avvenuta, l'estrazione era stata ripresa. E, tranquillizzatosi, s'intratteneva col capo-sorvegliante nel capannone della cernita, quando venne segnalato l'arrivo degli scioperanti.
Sportosi a una finestra, alla vista di quella folla che, ingrossandosi via via, invadeva il piazzaletto, ebbe subito netta la sensazione della propria impotenza. In che modo difendere quell'agglomerato di edifici accessibili da ogni parte? A fatica avrebbe racimolato tra i suoi operai una ventina d'uomini disposti a stringerglisi intorno. Si sentì spacciato. Facendosi forza per non accasciarsi davanti al disastro:
-Che volete? - ripeté, pallido d'ira repressa. Dei mormorii corsero la folla che ondeggiò minacciosa. Stefano si decise a farsi avanti:
-Signore, non siamo venuti con alcuna intenzione di farle del male. Ma è necessario che il lavoro cessi in tutti i pozzi.
Deneulin non si contenne:
-Imbecilli! - sbottò. - Sarebbe del bene allora, secondo voi, che mi fareste arrestando il lavoro nel mio pozzo? Tanto varrebbe che mi tiraste a bruciapelo una schioppettata nella schiena. Sì, i miei uomini sono discesi; ma per farli risalire, tenete presente che dovete prima farmi la pelle!
A questa risolutezza di linguaggio, la folla rumoreggiò. Maheu dovette trattenere Levaque che si buttava avanti minaccioso; mentre Stefano seguitava a ragionare: si convincesse Deneulin della legittimità della loro richiesta; ma Deneulin rispondeva allegando il diritto per tutti di lavorare.
- Mi rifiuto del resto di scendere a queste stupide discussioni. In casa mia intendo comandare io. Mi rammarico solo di non avere qui quattro gendarmi per spazzarvi via tutti. La colpa è mia, lo riconosco, d'essere sempre stato troppo buono con gli operai. Ho quel che mi merito. Con gente della vostra specie, l'unico argomento che valga è la forza. Capiterà lo stesso al governo che si illude di comprarvi; con le sue concessioni, non farà che fornirvi le armi con le quali lo rovescerete; ecco tutto!
Stefano faceva uno sforzo per dominarsi. In tono quanto possibile pacato:
-Badi, signore, sta a lei evitare un disastro. Dia ordine, la prego, ai suoi operai di sospendere il lavoro. Altrimenti, debbo avvertirla che io non rispondo dei miei compagni.
- Non faccio cessare nulla, levàtemivi dai piedi. Io voi non vi conosco; non appartenete al mio pozzo, non ho nulla da discutere con voi. Bisogna essere dei briganti per venire in questo modo a fare i prepotenti in casa d'altri.
Vociferazioni si alzarono, coprirono la sua voce. Le donne lo bersagliavano d'insulti. Lui seguitava a tenere testa; in quella rudezza di linguaggio, nella quale si sfogava il suo temperamento autoritario, trovava sollievo. Dal momento che la rovina era ad ogni modo inevitabile, scendere a patti gli ripugnava come una viltà.
Ma il numero dei dimostranti cresceva ogni minuto. In poco meno di cinquecento, già si avventavano contro l'ingresso; e lui rischiava per fierezza di rimetterci la vita, quando d'uno strattone il caposorvegliante lo trasse indietro:
-Per carità, ingegnere, qui succede un massacro! A che pro? - Deneulin si dibatteva. Tirato dentro:
- Razza di banditi, - lanciò in un ultimo grido di protesta, - la vedrete il giorno che si tornerà ad essere noi i più forti!
Premuta alle spalle dalle donne che strillavano incitandoli, già la prima fila s'avventava su per la scala, ammassandovisi da schiantarne la ringhiera. La porta, chiusa solo da un saliscendi, cedette subito. Ma il varco di lì era troppo angusto per l'impazienza degli assalitori; pigiati, schiacciati uno contro l'altro, quelli in coda cercarono altre entrate; chi passò dalla baracca, chi dal capannone della cernita, chi dal locale delle caldaie. Fu da ogni parte un traboccare nell'interno; in meno di cinque minuti, l'intera miniera cadde in mano dei dimostranti: che, esultando per la vittoria riportata sull'ostinazione del proprietario, tumultuando invasero tutti i tre piani dell'edificio. Lanciandosi dentro tra i primi:
-Che non gli facciano la pelle, però, adesso ! - disse a Stefano Maheu, allarmato. E già il giovane anche lui accorreva; ma quando si fu reso conto che Deneulin s'era barricato nella sala dei capisquadra:
-E se anche? - rispose. - Sarebbe colpa nostra? un cocciuto simile! - Così diceva, ma dentro di sé era inquieto: si controllava ancora abbastanza per non cedere al cieco impulso del risentimento. E poi vedere che già la folla cominciava a eccedere, che si era appena al principio e già gli sfuggiva di mano, lo urtava nel suo orgoglio di capo. Invano esortava alla calma; invano si spolmonava a ripetere che non bisognava fare il gioco degli avversari, abbandonandosi a inutili distruzioni.
- Alle caldaie! - urlava l'Abbruciata. - Spegniamo i fuochi! - Levaque che aveva trovato una lima la impugnava minaccioso, dominando il vocìo col grido:
-Tagliamo i cavi! tagliamo i cavi!
L'incitamento insensato si propagò in un baleno; presto Stefano e Maheu si trovarono soli a protestare contro di esso; ma il tumulto era assordante e non riuscivano a farsi ascoltare. Ce ne volle prima che Stefano riuscisse a collocare la frase: - Ma ci sono degli uomini in fondo al pozzo, compagni!
Lo schiamazzo crebbe; da ogni parte partirono voci:
-Peggio per loro!
Non dovevano scendere! Traditori! Ben gli sta! Sì, che ci rimangano!... E poi hanno le scale per salvarsi!
L'idea che ai compagni restava quella via di scampo li confermò, li incocciutì nel loro proposito; visto che non gli restava che cedere, Stefano, per evitare il peggio, corse alla macchina: bisognava almeno far risalire le gabbie; il peso dei cavi precipitandovi sopra da quell'altezza non le fracassasse. Coi pochi altri presenti al momento dell'invasione, il macchinista se l'era svignata; fu Stefano a impugnare la sbarra di comando e ad eseguire la manovra; appena in tempo che già Levaque con altri due s'arrampicava sull'armatura di ghisa che portava le pulegge. Le gabbie infatti s'erano appena calate sui paletti, che, cigolando, la lima cominciava a mordere la treccia d'acciaio. Nel silenzio che si fece, quello stridore parve riempire tutta la miniera; a orecchi tesi e occhi alzati, tutti seguivano con impazienza l'operazione. Maheu, in prima fila, anche lui, si sentiva invadere da una gioia feroce, quasi che il morso della lima li liberasse tutti dalla loro vita di stenti, impedendo con la recisione del cavo che si discendesse mai più in quel maledetto budello.
Frattanto dalla scala che scendeva alla baracca, l'Abbruciata seguitava a incitare:
-I fuochi, bisogna spegnere! Alle caldaie, alle caldaie!
Delle donne già la seguivano. Per impedire che fracassassero ogni cosa, la Maheu si affrettò a raggiungerle: anche lei come il marito, pensava che era meglio far valere i propri diritti senza abbandonarsi al saccheggio della roba altrui. Già nel locale delle caldaie le donne stavano cacciandone i due fuochisti; mentre l'Abbruciata, armata di badile, ginocchioni davanti a uno dei forni, lo vuotava di combustibile; gettato sull'impiantito di mattoni, il carbone incandescente seguitava a bruciare emettendo un nero fumo. Dieci forni alimentavano le cinque caldaie. Presto tutte le donne s'accanirono in quel lavoro di spegnimento; la Levaque, maneggiando il badile a due mani; la Mouquette con le sottane rimboccate sin sulle cosce; insanguinate tutte in viso dal riverbero delle braci, sudanti e scarmigliate come streghe.
Sul pavimento i tizzoni si ammucchiavano in cumuli sempre più alti; e al calore che emanavano già nel soffitto dello stanzone s'apriva una crepa. Fu la Maheu a gettare l'allarme:
- Basta, smettete! piglia fuoco la baracca! - Meglio così, - l'Abbruciata ribatté. - Ah è venuta alfine l'ora che ho attesa tanto della vendetta! Me la pagano, ora, di avermi ammazzato il mio uomo!
In quella una voce squillante soverchiò il tumulto:
-Attenzione! - strillava. - Attenzione, che do il via! - Era Gianlino. Esultante nella gazzarra, il monello s'era intrufolato tra i primi in quel branco di furie; smanioso di combinarne qualcuna anche lui, aveva adocchiato i rubinetti di scarico. I getti di vapore eruppero con la violenza di cannonate; in un fragore di tempesta le cinque caldaie si vuotarono, fischiando da far sanguinare le orecchie. Tutto sparì nella nebbia; i mucchi di tizzoni s'oscurarono, le donne non furono più che ombre, marionette gesticolanti. In vista, solo lassù, dietro i bianchi vortici di fumo, il monello che trionfava, la bocca spalancata per l'esultanza d'avere scatenato quell'uragano.
Ma se qualche secchio d'acqua ancora bastò a scongiurare ogni pericolo d'incendio, non per questo si placò il furore della folla; la delusione anzi lo aizzò. Uomini scendevano brandendo martelli, le donne s'armavano di sbarre di ferro. Già si parlava di bucare le caldaie, di fracassare il macchinario, di demolire il pozzo. Stefano, avvertito, s'affrettò con Maheu ad accorrere. Sebbene anche lui cominciasse a scaldarsi, si padroneggiava, s'adoperava a calmare i compagni: i cavi tagliati, i fuochi spenti, le caldaie vuotate non impedivano già la ripresa del lavoro? che volevano di più? Ma nessuno gli badava; e già Stefano vedeva naufragare quel poco di autorità che gli rimaneva, quando lì fuori scoppiò un putiferio. Tra i fischi s'udiva gridare:
-Abbasso i traditori! Ah i porci, le carogne! Dàgli, dàgli!
Era il saluto col quale i dimostranti accoglievano all'uscita gli operai rimasti bloccati nel pozzo. Abbarbagliati dal ritorno alla luce, quelli restavano lì un momento a sbattere le palpebre; poi si buttavano avanti, tentando di raggiungere la strada e mettersi in scampo.
- Abbasso i giuda! abbasso i rinnegati!
Richiamati da quel vociare, tutti si rovesciarono fuori; i locali in un lampo si vuotarono. Facendo ala, i cinquecento di Montsou costrinsero i traditori a passare in mezzo a loro. E ognuno che sbucava dalla porticina, imbrattato, coi vestiti a brandelli, lo accoglievano a fischi, lo investivano d'insulti, lo coprivano di scherni; ve' quello lì, col culo sui calcagni! e quell'altro, col naso rosicchiato dalle baldracche del Vulcano! e quest'altro, che perde sego dagli occhi da rifornire di ceri un altare maggiore! e quello spilungone senza natiche, lungo come la quaresima! Una spingi-carichi nel panico ruzzolò in terra, enorme, sfasciata, e suscitò un subisso di risa. Le mani s'allungavano sui malcapitati, gli insulti diventavano sanguinosi, i pugni s'alzavano; e i poveracci seguitavano a sfilare, battendo i denti, zitti sotto il piovere delle invettive, spiando di sotto in su l'arrivare dei colpi; felici quando finalmente potevano spiccare la corsa.
- Ma ce n'è sempre? Non finiscono mai d'uscire? - Stefano non poté trattenersi dall'esclamare. Non si trattava più, allora, di qualche operaio persuaso a discendere dalla fame o spinto dalle pressioni dei capisquadra! alla Jean-Bart, allora, le maestranze erano scese quasi al completo! era stato dunque menzognero il consenso che le sue parole avevano riscosso al comizio?
Se lo chiedeva, quando sulla porticina uno comparve che gli strappò un grido: Chaval.
- Tu? Ah, perdìo, è qui che ci avevi dato appuntamento?
Scoppiarono imprecazioni; i dimostranti si spinsero avanti per buttarsi sul traditore. Come? il giorno prima aveva giurato d'essere solidale con loro ed era disceso lo stesso? Se questo non si chiamava infischiarsene!
- Al pozzo! al pozzo! Pigliatelo su, buttatelo nel pozzo!
Livido di paura, Chaval balbettava delle scuse. Cedendo al risentimento generale, Stefano glielo impedì:
-Te la sei cercata da te, l'avrai! Su, su, cammina, pezzo di farabutto!
Coprì la sua voce un nuovo scoppio di indignazione: sull'uscita stava Caterina: accecata dal sole, sgomenta di vedersi in mezzo a quella folla di energumeni. Con le gambe spezzate dall'interminabile salita, pigliava appena fiato, quando la madre la scorse; alzando il pugno, le si avventò:
-Ah sudiciona! anche tu! mentre la madre fa la fame, tu la tradisci col tuo magnaccia! - Maheu le trattenne il braccio; ma per scrollare lui la figlia, bianco d'ira; rinfacciarle la sua condotta, gridando più di tutti.
La comparsa della ragazza aveva finito di esasperare Stefano; come per non vederla, si volse ai compagni:
-Via, andiamo! agli altri pozzi! - e a Chaval:
-E tu vieni con noi, schifoso pidocchio!
Gli diedero appena il tempo di prendersi nella baracca gli zoccoli, di infilarsi la maglia. Stringendoglisi addosso, lo trascinarono via, obbligandolo a correre con loro. Ora certo gli farebbero la pelle! atterrita, Caterina s'abbottonò alla meglio sul collo il camiciotto da uomo e, decisa più che mai a non abbandonarlo, s'affrettò dietro l'amante.
Gianlino, che aveva trovato un corno da pastore, lo imboccò; soffiandovi dentro a pieni polmoni, ne traeva dei suoni rochi: il richiamo con cui si radunano le mandrie. Le donne - l'Abbruciata, la Levaque, la Mouquette si rimboccarono le sottane per correre meglio; mentre Levaque brandiva un'ascia, agitandola in aria come il tambur maggiore la mazza. E di nuovo la folla si rovesciò sulla strada; in disordine, simile a un torrente che straripa. Ormai si era quasi un migliaio; all'uscita, per far prima, abbatterono qualche palizzata.
- Ai pozzi! ai pozzi! Abbasso i giuda! Morte al lavoro!
In un baleno la Jean-Bart si vuotò; al fragore delle distruzioni e allo schiamazzo dei dimostranti subentrò un silenzio di tomba. Allora Deneulin uscì dal suo rifugio; e, rifiutando col gesto che lo si accompagnasse, visitò da solo la miniera. Era pallido, ma calmissimo. La prima sosta la fece davanti al pozzo; alzò gli occhi, vide i cavi tagliati: penzolavano inerti; tra il nerume del lubrificante luccicava la recente ferita, prodotta dal morso della lima. Quindi salì a dare un'occhiata alla macchina; contemplò la biella che, immobilizzata, pareva l'arto colpito da paralisi d'un colosso; il metallo già freddo gli comunicò il gelo che dà, a toccarlo, un cadavere. E, sceso nel locale delle caldaie, passò lentamente in rivista i fornelli: spenti, vuoti, inondati; bussò col piede alle pareti delle caldaie, che suonarono a vuoto.
Era davvero finita; era la rovina. Anche se riallacciava i cavi, se riaccendeva i fuochi, dove trovare gli uomini? Altri quindici giorni di arresto ed era il fallimento.
Ma pure davanti alla gravità del disastro, Deneulin non provava più alcuna animosità contro i briganti di Montsou; sentiva che i veri colpevoli erano tutti; che tutto ciò era la conseguenza d'una colpa collettiva, secolare. Oh certo dei bruti, gli autori di quello scempio; ma dei bruti che non sapevano leggere e che crepavano di fame
Capitolo quarto
E per l'aperta pianura bianca di brina la banda avanzò sotto il pallido sole d'inverno, traboccando ai lati della strada, attraverso le piantagioni di barbabietole.
A partire dalla Fourche-aux-Boeufs, Stefano aveva preso il comando. Senza che si sostasse, lanciava ordini, regolava la marcia. In testa, suonando la sua rustica fanfara, trottava Gianlino. Dietro, le donne formavano l'avanguardia, alcune armate di bastoni; la Maheu che con occhi torvi fissava l'orizzonte, quasi a cercarvi quel regno di giustizia che le era stato promesso; l'Abbruciata, la Levaque, la Mouquette che, di sotto i cenci, buttavano avanti bellicosamente la gamba, come soldati che muovono alla battaglia (in caso di brutti incontri, si vedrebbe se i gendarmi avrebbero l'animo di infierire sulle donne). Seguivano gli uomini che, ammassati come un gregge, formavano il grosso e s'allargavano in una retroguardia irta di sbarre di ferro, tra le quali lampeggiava l'ascia brandita da Levaque.
Stefano, al centro, teneva d'occhio Chaval e lo costringeva a camminare davanti a lui; mentre, dietro, Maheu, buio in viso, lanciava occhiate a Caterina che, introdottasi, sola del suo sesso, tra tutti quegli uomini, s'ostinava a restare presso l'amante, nel timore che gli facessero del male. Capi scoperti si scarmigliavano alla brezza. Non si udiva che il battere degli zoccoli, simile al trepestio d'una mandria in libertà, spinta avanti dal rauco strombettare di Gianlino. Quando da quella folla in marcia ecco sorgere un nuovo grido:
-Pane!
pane! pane! - Era mezzogiorno; la fame accantonata in sei settimane di sciopero mordeva le viscere, attizzata dall'aria frizzante e dalla corsa. Le poche croste masticate all'alba, le castagne offerte dalla Mouquette non erano più che un ricordo; i ventri protestavano e la loro protesta acuiva il risentimento contro i traditori.
- Ai pozzi! ai pozzi! Non più lavoro! Pane, vogliamo!
Stefano, che al mattino aveva rinunciato anche a quel poco, avvertiva allo stomaco dei crampi. Non gli usciva un lamento; ma, senza quasi avvedersene, si portava ogni tanto la fiaschetta alla bocca; era così intirizzito che senza quel sorso sentiva che non arriverebbe alla meta. I pomelli gli si accendevano, gli luccicavano gli occhi; ma si conservava ciò nonostante abbastanza padrone di sé per non rinunciare al proposito di evitare inutili eccessi.
Al bivio di Joiselle, un minatore che s'era unito ai dimostranti per rancore verso Deneulin, tentò di avviare la banda a destra gridando:
- Alla Gaston-Marie! Andiamo ad arrestare la pompa! Inondiamo la Jean-Bart!
Stefano reagì: a che pro distruggere la miniera? Nonostante il suo risentimento, l'inutile gesto ripugnava al suo cuore di operaio. Maheu lo spalleggiò: trovava ingiusto pigliarsela con una macchina. Ma poiché già la banda eccitata svoltava a destra e quello s'ostinava a lanciare il suo grido di vendetta, soverchiandone la voce:
-A Mirou! - gridò Stefano. - Ci sono là dei traditori! A Mirou!
La sua presenza di spirito e la risolutezza del piglio ricacciò la banda sulla strada di sinistra; la direzione di marcia si invertì, mentre Gianlino balzava di nuovo in testa, soffiando a tutti polmoni nel corno. Per questa volta la Gaston-Marie era salva.
I quattro chilometri che separavano da Mirou vennero superati in mezz'ora; a passo quasi di corsa. Da questa parte, la sterminata pianura, che si perdeva laggiù all'orizzonte come in un mare, era attraversata dal nastro di ghiaccio del canale; e solo gli alberi spogli degli argini, trasformati dalla galaverna in giganteschi candelabri, ne rompevano la piatta monotonia. Né Montsou né Marchiennes erano in vista; li sottraeva allo sguardo un avvallamento del terreno.
Sbucando davanti alla miniera, i dimostranti videro un uomo piantarsi, come in attesa, sulla passerella d'accesso al capannone della cernita; e avvicinandosi riconobbero in esso babbo Quandieu, il più anziano caposquadra della regione; un vecchio ben conosciuto da tutti, che, a dispetto dei suoi settant'anni e dei capelli interamente bianchi, si conservava ancora così vegeto e robusto da costituire una vera eccezione nel paese del carbone.
- Che venite a fare da queste parti, massa di fannulloni?
Apostrofata così, la banda si arrestò. Non era un padrone, quello; era un operaio al pari di loro; un vecchio compagno che incuteva a tutti rispetto.
- Ci sono degli uomini in fondo al pozzo, - disse Stefano. - Falli uscire.
- Ci sono, - ammise il vecchio. - Una settantina, ce n'è; perché gli altri si sono presi paura di voialtri, pezzi di delinquenti! Ma vi avverto che non ne uscirà uno o avrete prima da fare con me!
Scoppiarono esclamazioni; gli uomini spingevano, le donne si buttarono avanti. D'un balzo il vecchio scese la passerella, sbarrò l'ingresso.
Allora intervenne Maheu:
-Quandieu, siamo nel nostro diritto. Come possiamo ottenere che lo sciopero sia compatto se non costringiamo i compagni a essere con noi? - Il vecchio restò un momento interdetto; quello della solidarietà di classe era un argomento, si vede, che gli riusciva nuovo. Finì per dire:
-Sarete nel vostro diritto, non nego.
Ma io conosco solo la consegna. Sono solo, qui. Il turno degli uomini dura sino alle tre; e sino alle tre non uscirà nessuno.
Le ultime parole si persero tra i fischi. Pugni si alzarono minacciosi; avanzando contro il vecchio, già le donne lo assordavano di strida, gli soffiavano in faccia il caldo dei fiati. Ma Quandieu teneva duro, la testa canuta e la bianca barbetta erette a sfida. Soverchiando con la voce lo schiamazzo:
- Ah, di qui non passate, perbacco! Come è vero Dio, preferisco farmi ammazzare che lasciarvi toccare i cavi... Smettetela di spingermi! o mi butto nel pozzo sotto i vostri occhi!
Dallo stupore, la folla s'arrestò.
- Chi è quell'idiota che non capisce questo? Io sono un operaio al pari di voi; mi è stato comandato di far la guardia al pozzo; la faccio.
E più in là il suo comprendonio non andava; altra idea non capiva in quel cervello che quella del dovere, della supina obbedienza alla consegna. Irrigidito in essa, restava lì cocciuto, con nello sguardo spento la negra tristezza di cinquant'anni di miniera.
I compagni ora lo guardavano ammirati; sentendo nel loro intimo qualche cosa vibrare alle sue parole; riconoscendo in esse la voce, neppure in loro estinta, del dovere, il sentimento di fraternità e di sacrificio nel rischio nel quale anch'essi erano cresciuti.
Credendo che esitassero, il vecchio ripeté:
-Sotto i vostri occhi, mi butto!
Una così eroica fermezza dissuase i dimostranti dall'insistere. Tutti volsero le spalle. Tornata sulla strada, la banda si rimise in marcia al grido:
-A Madeleine! a Crèvecoeur! Non più lavoro! Pane! pane!
E la marcia aveva ripreso il suo slancio, quando vi fu al centro un principio di tafferuglio: profittando del momento, Chaval doveva aver cercato di svignarsela. Stefano infatti ora lo teneva saldamente per un braccio, minacciava di fargli la pelle se ripeteva il tentativo.
Quello si dibatteva, protestava rabbioso: non era dunque più libero nemmeno di togliersi d'addosso il sudicio del carbone? - Mòllami! è un'ora che batto i denti dal freddo! - Che dal gelo lo riparasse poco la maglia che aveva indosso, si vedeva; e si capiva che lo infastidisse la polvere di carbone che il sudore gli aveva incollato alla pelle.
- Cammina, o il sudicio te lo leviamo noi d'addosso! - ribatté Stefano; trattenendosi, per non dare il mal esempio, da minacciarlo di peggio.
Con pena il giovane sentiva Caterina arrancare alle sue spalle. Non poté fare a meno di darle un'occhiata. A vederla in quello stato, provò una stretta al cuore. Aveva i calzoni infangati e sotto il camiciotto da uomo batteva i denti dal freddo. Doveva essere all'estremo delle forze; eppure non si lasciava distanziare d'un passo dall'amante. - Te ne puoi andare, tu, - le disse. Ma la ragazza non sembrò neanche udire; solo i suoi occhi, incontrandosi con quelli di Stefano, ebbero un lampo di rimprovero: perché voleva che abbandonasse il suo uomo? Certo non era molto gentile con lei, Chaval; ma era il suo uomo, il primo che l'aveva avuta. Non era bello che si mettessero contro di lui in tanti. Anche se non gli avesse voluto bene, per amor proprio lei lo avrebbe difeso.
- Vattene! - le ripeté seccamente Maheu. L'ingiunzione paterna la fece rallentare un momento. Tremante, si sentì salire il pianto agli occhi. Poi, vinta la paura, riprese di corsa il suo posto. Allora non la importunarono più.
La banda, attraversata la strada di Joiselle, seguì per un breve tratto quella di Cron, per risalire quindi verso Cougny. Ora all'orizzonte si profilavano camini di officine; e lungo tutta la strada era un susseguirsi di depositi di legname, di fabbriche di mattoni dai finestroni polverosi. Senza sostare, passarono davanti alle borgate operaie dei Centottanta e dei Settantasei; e da ambedue, all'appello del corno, al clamore alzato da tutti quei petti, famiglie al completo uscirono sulle soglie delle basse casette; uomini donne e ragazzi corsero a unirsi ai dimostranti, si misero al passo con essi.
Quando si arrivò davanti alla Madeleine si era in millecinquecento. La strada d'accesso alla miniera scendeva con dolce pendio; la vociferante colonna dovette aggirare il terrapieno, per quindi spiegarsi sul piazzale della miniera. Erano in quel momento passate di poco le due. Ma i sorveglianti, avvertiti, avevano anticipato l'uscita delle maestranze; sicché all'arrivo dei dimostranti, stavano sbarcando dall'ascensore gli ultimi venti operai. Cercarono scampo nella fuga; furono inseguiti a sassate. Due furono picchiati, uno ci rimise una manica. Questa caccia all'uomo salvò il materiale; né i cavi né le caldaie soffrirono danni. Già la banda s'allontanava, diretta al pozzo vicino.
Crèvecoeur non distava di lì che mezzo chilometro. Anche qui si arrivò che gli operai uscivano. A una spingi-carichi, caduta in mano alle donne, furono strappati i calzoni; a chiappe nude fu frustata sotto gli occhi degli uomini che ridevano. Dei manovali furono presi a ceffoni; altri se la cavarono con qualche livido e un'emorragia al naso. E questo scatenarsi d'una ferocia che andava crescendo, questo sfogarsi d'un rancore accumulato da anni e che ormai pigliava a tutti la mano, s'accompagnava a grida, a urla strozzate esprimenti odio per il lavoro mal retribuito, reclamanti pane per gli stomachi famelici, morte per i traditori. Si misero a tagliare i cavi; ma li intaccarono solo: la lima non faceva abbastanza presto per la fretta febbrile che li spingeva agli altri pozzi. Nel locale delle caldaie fu fracassato un rubinetto; mentre l'acqua rovesciata (per errore) a secchi sui fornelli ne faceva saltare le griglie.
- A Saint-Thomas! a Saint-Thomas! - fu il nuovo ordine di marcia. In quella miniera, la più disciplinata, lo sciopero non era arrivato. L'idea che in quel pozzo stavano lavorando settecento loro compagni o poco meno, li faceva vedere rosso. All'uscita li accoglierebbero a randellate; una battaglia in piena regola, questa volta; si vedrebbe a chi toccherebbe la peggio! Senonché la voce si sparse che a Saint- Thomas c'erano i gendarmi, quegli stessi di cui si erano beffati il mattino. Come si sapeva? Mah! nessuno l'avrebbe potuto dire. Comunque, parve più prudente dirigersi altrove; si decisero per Feutry-Cantel.
Ripresi da vertigine, tutti con rinnovato slancio si rimisero in marcia, tra un grande strepitare di zoccoli, al grido:
- A Feutry- Cantel! a Feutry-Cantel! - Laggiù, se non settecento, quattrocento lavoravano certo, vigliacchi! valeva sempre la pena; si riderebbe!
Il pozzo di Feutry-Cantel si appiattava in una bassura a tre chilometri di lì in prossimità della Scarpe. Già s'erano lasciati alle spalle la strada di Beaugnies e stavano superando la salita delle Cave di Gesso, quando corse voce - chi era stato a lanciarla? - che a Feutry-Cantel doveva esserci la cavalleria. In un lampo la notizia si propagò da un capo all'altro della colonna che rallentò all'istante la marcia. La cosa appariva probabile: se no, come mai da tante ore che si batteva la campagna, ancora non si sarebbe incontrato un elmo né un chepì? Una certa inquietudine cominciò a insinuarsi negli animi; troppo bello; che si avvicinasse il momento di scontare l'impunità di cui avevano sinora goduto?
Esitavano ancora, quando un nuovo grido scoppiò; anche questo partito non si seppe da chi:
-Alla Victoire! alla Victoire!
Perché alla Victoire non c'era né cavalleria né gendarmeria? Mah! Tutti comunque parvero rassicurarsi. Invertita la direzione di marcia, scesero dalla parte di Beaumont, tagliarono per i campi per raggiungere la strada di Joiselle. Quando si videro la strada sbarrata dalla ferrovia, ne abbatterono, per passare, le palizzate. Ormai ci si avvicinava a Montsou: il terreno s'andava avvallando, le piantagioni di barbabietole dilagavano a vista d'occhio sino a toccare laggiù le case nere di Marchiennes. Stavolta c'erano da percorrere cinque chilometri buoni. Li fecero di volata, spinti avanti da un tale slancio che, sebbene spossati, non avvertivano più la fatica né sentivano più i piedi dolere. Quando, attraversato il canale al ponte Magache, comparvero davanti alla Victoire erano in duemila. Ma ormai erano le tre suonate, l'uscita degli operai era avvenuta, nel pozzo non rimaneva più nessuno. Delusi, si sfogarono in vuote minacce; tutto ciò che poterono fare fu di accogliere con un lancio di mattoni gli sterratori che arrivavano per il loro turno. Una volta che anche questi si furono sbandati, la miniera cadde in loro mano; ma era deserta: non un traditore su cui rifarsi. Allora, infuriati, se la presero coi materiali. Fu lo sfogarsi tutto in un colpo d'un rancore accumulato in anni di stenti, una specie di frenesia di distruzione e di massacro che finalmente si appagava.
Sorpresi dietro un capannone dei manovali che caricavano di antracite un carro:
-Sparite all'istante! - Stefano intimò. - Non un pugno di carbone deve uscire dalla miniera! - Persuasi dal comparire dietro a lui d'una frotta di dimostranti, quelli non se lo fecero ripetere. Allora chi staccò i cavalli, che, frustati, si misero atterriti al galoppo; chi, ribaltato il veicolo, ne fracassò le stanghe.
Levaque intanto, s'era avventato brandendo l'ascia contro i cavalletti della "decauville"; e vi menava sopra colpi all'impazzata nell'intento di demolire i cavalcavia. Siccome massicci come erano i cavalletti resistevano, trovò più spiccio divellere le rotaie. Maheu, facendo leva con una sbarra di ferro, fece saltare i cuscinetti; e un momento dopo tutta la banda era impegnata a sradicare il binario.
Capitanate dall'Abbruciata, le donne intanto avevano invaso la lampisteria. Maneggiati da quelle furie, i bastoni fecero presto a lastricarne l'impiantito di rottami di vetro. Per accanimento, la Maheu in quello scempio non si mostrò da meno della Levaque. Tutte si lordarono d'olio, la Mouquette felice addirittura di sentirsene inzuppata (non s'era accorta che Gianlino gliene aveva scolato nel collo un'intera lampada). Ah, c'era gusto a vendicarsi, una volta tanto! solo che non si placavano con questo i morsi della fame. Presto infatti, su ogni altro, dominò il grido:
- Pane! pane! vogliamo mangiare! - Non c'era giusto alla Victoire una cantina? si troverebbe certo incustodita. Comunicarono la bella ispirazione agli uomini; i quali, com'ebbero finito di divellere le rotaie, circondarono la baracca. Le imposte non resistettero a lungo; ma nell'interno non si trovò che qualche pezzo di carne cruda e un sacco di patate. Il saccheggio tuttavia portò a scoprire in un ripostiglio una cinquantina di bottiglie di ginepro. Fu la goccia nella sabbia: le cinquanta bottiglie furono scolate in un baleno. Stefano colse l'occasione per rifornirsi la borraccia. A forza di bere a stomaco vuoto, il giovane però era ormai quasi ubriaco, dell'ebbrezza pericolosa degli affamati. I suoi occhi si erano andati iniettando di sangue; e sempre più spesso una specie di ghigno scopriva tra le labbra esangui i canini. A questo punto s'accorse che Chaval, profittando della confusione, se l'era squagliata. Ruppe in imprecazioni; accorsero e il fuggiasco fu scovato dietro una catasta di legname, dove s'era nascosto con Caterina. - Ah sudicione d'un sudicione! - Stefano prese a urlare, - hai paura, eh, di comprometterti! Fosti tu nella faggeta a chiedere lo sciopero dei macchinisti per arrestare le pompe e ora cerchi di lavartene le mani, di far cadere su di noi tutta la responsabilità. Ebbene, perdìo, si torna alla Gaston-Marie, adesso! Voglio che sia tu, con le tue mani, a fracassare la pompa. Sì, perdìo, tu, la fracasserai!
E, dicendo, non s'accorgeva d'essere lui ora ad aizzare i compagni a distruggere quella pompa che poche ore prima aveva salvato! La proposta fu accolta da un subisso di applausi. Tutti si precipitarono fuori; mentre Chaval, afferrato per le spalle, trascinato, spintonato in malo modo, seguitava a chiedere che lo lasciassero almeno lavarsi.
Vedendo la figlia affrettarglisi dietro:
-Va' via, tu! - Maheu le intimò. Ma questa volta all'ingiunzione Caterina alzò appena sul padre gli occhi che fiammeggiavano e seguitò a correre.
Di nuovo la banda avanzava per l'aperta campagna, rifacendo la strada a ritroso. Erano le quattro; il sole prossimo al tramonto allungava sul suolo ghiacciato le ombre gesticolanti di quell'orda in cammino. Evitata Montsou, sboccarono, in un punto più alto, sulla via di Joiselle; e, per risparmiarsi il lungo giro Fourche-aux-Boeufs, passarono sotto la villa della Piolaine.
Grégoire ne era giusto uscito da poco, dovendo, prima di recarsi a cena dagli Hennebeau, passare dal notaio. Col suo viale di tigli deserto, l'orto e il frutteto spogli, la villa pareva dormire; nessun segno di vita ne usciva. Le finestre erano chiuse e i vetri appannati dal buon tepore di dentro. Nel suo silenzio la casa parlava di tranquillità e di benessere, di placidi sonni e di lauti pasti; tradiva l'esistenza patriarcale che i proprietari vi conducevano, un'esistenza felice perché priva di crucci e paga di sé.
Passando, la banda lanciava sguardatacce nell'interno; alzava gli occhi sui muri di cinta, armati in cresta di cocci di vetro. Il grido: - Pane! pane! vogliamo del pane! - sorse irresistibile. Al clamore, rispose solo, rabbioso, il latrato dei cani: due fulvi danesi si rizzarono minacciosi ai cancelli mostrando le zanne. Attirate dal rumore, le due donne di servizio rimaste sole in casa, ora spiavano di tra le stecche d'una persiana, pallide di paura, quello sfilare di energumeni. Quando a un passo da loro un fragore scoppiò, che, gesummaria, le fece cadere in ginocchio, più morte che vive: un sasso aveva mandato in frantumi un vetro della finestra vicina. Era stata una prodezza di Gianlino: il monello, che con un pezzo di spago s'era fatto una fionda, non aveva voluto tirare dritto senza inviare con quella un salutino ai signori della Piolaine.
Sottolineato dai borborigmi del corno, il grido:
-Pane! pane! - si affievolì in lontananza.
Seguitando sempre a ingrossarsi, la banda, che adesso non contava meno di duemilacinquecento uomini, arrivò alla Gaston-Marie, tutto rovesciando e spazzando davanti a sé come un torrente in piena.
Appena un'ora avanti dei gendarmi erano passati di lì; ma, messi su una falsa pista dai contadini, avevano proseguito in direzione di Saint-Thomas, senza prendere neppure la precauzione di lasciare nella miniera qualche uomo di guardia. In meno d'un quarto d'ora i fuochi furono spenti, le caldaie vuotate, l'edificio invaso e devastato. Ma era soprattutto con la pompa che i dimostranti ce l'avevano. Di vederla arrestarsi, non si accontentarono. - A te, porcone! - intimò Stefano a Chaval, mettendogli in mano una mazza. - Tocca a te cominciare! andiamo sbrìgati! hai ben giurato con noi! - Tremando, Chaval tentò di sottrarsi; nel corpo a corpo che ne seguì, il martello cadde a terra; allora, nella loro impazienza, i presenti, senza aspettare altro, si avventarono sulla pompa, ferma ma intatta, come su un vivo da accoltellare. A colpi di sbarra, di mattoni, d'ogni oggetto che capitava loro fra mano, fracassarono la macchina. Qualcuno persino vi spezzò sopra il bastone. I dadi saltavano, i pezzi d'acciaio e d'ottone si sconnettevano; una zappa, maneggiata a due mani, sventrò il serbatoio di ghisa che si vuotò inondando il locale; un ultimo gorgoglìo, simile a un rantolo, segnò la morte della pompa.
Regolato anche questo conto, i dimostranti si rovesciarono fuori come forsennati; avanzando pigiati dietro Stefano che teneva saldamente Chaval per i polsi.
- A morte il traditore! al pozzo! al pozzo! - Livido di paura, il disgraziato seguitava tartagliando a ripetere, con l'ebete cocciutaggine del fissato, che aveva bisogno di darsi almeno una risciacquata al viso. Levaque finì per accontentarlo:
-Ah, se non vuoi altro! Toh, che vuoi di meglio d'un catino come questo? Qui ci sguazzi!
Una perdita d'acqua nella conduttura della pompa trasformava in quel punto il suolo in un acquitrino che il gelo copriva d'una spessa lastra di ghiaccio. Rotta a calci la crosta, a spintoni costrinsero Chaval a inginocchiarsi, a ficcare nella buca la testa.
- Tuffati dunque! - strillava l'Abbruciata, - perché, se non ti tuffi ci pensiamo noialtri... Da bravo!... Ed ora bevitene una buona sorsata su, su, col muso nel truogolo!
Gli convenne ubbidire; carponi bevve tra un esplodere di risa malvage.
Una donna gli tirò le orecchie; un'altra gli buttò in faccia una manciata di fimo, raccolto fumante sulla strada. Imbestialito, l'uomo dava strattoni per liberarsi.
A spingerlo carponi aveva dato una mano anche Maheu; né sua moglie si mostrava da meno nell'infierire: i due sfogarono così su Chaval un rancore d'antica data. Persino la Mouquette, che di solito restava buona amica dei suoi ganzi, con quello lì si mostrava spietata: lo trattava di impotente, proponeva di cavargli i calzoni per vedere se era ancora un uomo. Stefano le impose silenzio:
-Basta, basta! Non c'è bisogno che vi ci mettiate in tutti... Ora, Chaval, se te la senti, è tra noi due che ce la vediamo -. Dicendo, strinse i pugni, nello sguardo gli lampeggiò un furore omicida: era l'ebbrezza che si mutava in sete di sangue.
- Sei pronto? Uno di noi due deve restarci. Dategli un coltello; io ho il mio.
Allibendo, Caterina lo guardò. In un lampo, le tornarono a mente le confidenze che il giovane le aveva fatto: della smania di uccidere che poco alcool bastava ad accendergli nel sangue, in quel sangue trasmessogli intossicato da tutta una generazione di ubriaconi. Fulminea allora gli si parò davanti e, mettendovi tutta la sua forza, gli appioppò due schiaffi, gridandogli in faccia strozzata di sdegno: - Vergognati, vigliacco! Non basta ancora tutto quello che gli hai fatto? vuoi anche assassinarlo adesso che non si regge più in piedi? - E indirizzandosi a Maheu, alla madre, a tutti intorno:
-Siete dei vigliacchi! una massa di vigliacchi, siete! Uccidetemi con lui. Vi cavo gli occhi, io, se lo toccate ancora. Vigliacchi, vigliacchi!
E si piantò davanti al suo uomo risoluta a difenderlo contro tutti; dimentica delle percosse, della vita di stenti che Chaval le faceva fare, traboccante d'un coraggio che le dava il pensiero di appartenere a quell'uomo dal momento ch'era stata sua, il pensiero che si ritorceva in tanta onta per lei il trattamento ingiurioso che gli usavano.
Sotto gli schiaffi, Stefano era diventato verde. Il primo impulso fu di strozzare la ragazza. Invece si passò la mano sulla fronte col gesto dell'ubriaco che torna in sé. Poi, nel silenzio che s'era fatto: - Ha ragione lei, - disse a Chaval, - ora basta... Levamiti davanti!
Chaval non se lo fece ripetere; spiccò la corsa, e, dietro di lui, Caterina. Solo la Maheu mormorò:
-Avete fatto male a lasciarlo. Corre certo a tradirci.
La banda s'era rimessa in moto. Erano vicine le cinque; il sole, ormai all'orizzonte, arrossava la pianura della sua luce di sangue. Un merciaiolo ambulante che passava portò la notizia che la cavalleria stava scendendo dalla parte di Crèvecoeur. Allora la banda ripiegò, un ordine corse: - A Montsou! alla direzione! Pane! pane!
Capitolo quinto
Hennebeau s'era fatto alla finestra per salutare la moglie che partiva per Marchiennes. Seguìto un momento con lo sguardo Négrel che galoppava a lato della carrozza, tornò a sedersi al suo tavolo da lavoro. Quando la presenza della moglie e del nipote non l'animava, la casa si sarebbe detta disabitata. Così era quel giorno: via per servizio il cocchiere, via Rosa la nuova cameriera in permesso sino alle cinque - non restava in casa a muoversi in pantofole di stanza in stanza che Ippolito il cameriere; e in cucina tra le sue casseruole la cuoca, in faccende dall'alba per farsi onore al pranzo della sera. Sicché, dato l'ordine di rimandare chiunque si presentasse, Hennebeau si riprometteva questa volta una buona giornata di lavoro nel grande silenzio della casa deserta.
Verso le nove tuttavia, nonostante la consegna, Ippolito si azzardò ad annunziare Danseart; il capo-sorvegliante aveva qualcosa di urgente da comunicare. Solo ora il direttore venne a conoscenza della riunione tenuta il giorno prima nella faggeta; ma il resoconto che ne ascoltava era così ricco di particolari, che Hennebeau indovinò alla prima da chi potevano essere trapelati, dalla Pierron, indubbiamente, la cui tresca con Danseart era così nota che non passava settimana senza che due o tre lettere anonime arrivassero alla direzione a denunciare la condotta scandalosa del capo-sorvegliante. Il racconto sapeva troppo di alcova; la Pierron, era chiaro, aveva messo l'amante a parte delle confidenze del marito. Fu per Hennebeau una buona occasione per far capire al suo dipendente che era al corrente della sua intimità con la donna e per consigliargli un po' più di prudenza se voleva evitare uno scandalo. A questa uscita che non s'attendeva, Danseart balbettò sconcertato, tentò di negare; ma l'improvviso rossore che gli imporporava il grosso naso confessava per lui. Non insisté; felice del resto di cavarsela così a buon mercato; di solito il direttore, nella sua intransigenza d'uomo da quel lato irreprensibile, si mostrava ben altrimenti severo coi suoi dipendenti in fatto di moralità. Riportato il discorso sullo sciopero, Hennebeau si disse d'avviso che del comizio non era il caso di preoccuparsi; non si trattava che di una rodomontata di pochi scalmanati; comunque, per ora, le masse operaie non si muoverebbero certo, intimidite come dovevano essere dallo spiegamento di forze cui avevano assistito il mattino.
Del che tuttavia nel suo intimo egli certo si sentiva meno sicuro di quanto avesse voluto apparire, se, appena via Danseart, fu tentato di mandare un dispaccio al prefetto. Se non lo fece, a trattenerlo fu la paura di dare a vedere una preoccupazione che poteva mostrarsi infondata. Gli bruciava già abbastanza di aver dato prova di poco fiuto con l'assicurare in giro - e peggio con lo scrivere alla Compagnia - che entro quindici giorni lo sciopero sarebbe liquidato, quando invece dopo due mesi ancora non accennava a cessare. Il protrarsi di quello sciopero era la sua spina d'ogni giorno; ogni giorno egli sentiva di perdere terreno nella considerazione dei suoi superiori; e andava in cerca d'un successo clamoroso - ma non vedeva quale potesse essere - che lo risarcisse dello smacco e lo rimettesse in buona luce presso i capi. Ai quali appunto aveva chiesto istruzioni per il caso che si verificassero disordini. La risposta si faceva attendere: sperava che arrivasse con la posta del pomeriggio. Sarebbe allora in tempo a chiedere telegraficamente l'occupazione militare dei pozzi, se in tale senso quei signori si pronunciavano. Con tutta la sua energia, d'assumersi lui quella responsabilità Hennebeau non si sentiva; a suo modo di vedere, una misura così drastica non poteva che scatenare la battaglia, con tutto il suo accompagnamento di violenze e di lutti.
Sino alle undici, poté lavorare in pace; in un silenzio che rompeva appena lo strascichìo, quasi impercettibile per la lontananza, dell'arnese col quale il servo dava la cera a una stanza del primo piano. Ma dopo quell'ora, ecco arrivare uno dopo l'altro due telegrammi: il primo annunciava l'invasione della Jean-Bart da parte degli scioperanti di Montsou; il secondo ne precisava i particolari: i cavi tagliati, i fuochi spenti, la devastazione del pozzo. La notizia lo stupì: che erano andati a fare gli scioperanti da Deneulin? come mai non avevano invece attaccato un pozzo della Compagnia? Meglio così, del resto: il saccheggio di Vandame affrettava l'attuazione del suo progetto: l'esproprio della Jean-Bart.
La solitudine in cui consumò la colazione, nella vasta sala, servito in silenzio dal domestico che, anche in pantofole, si studiava di non far rumore, contribuì, col freddo che gli metteva in cuore, ad acuire le sue preoccupazioni; ed era in questo stato d'animo quando l'arrivo d'un caposquadra gli apprese che gli scioperanti marciavano su Mirou. Quasi subito dopo, mentre finiva di prendere il caffè, gli fu recapitato un terzo telegramma: anche Madeleine e Crèvecoeur erano minacciate. Allora la necessità gli si impose di prendere una decisione: ma quale? era meglio attendere la posta delle due, non far nulla senza aver prima ricevuto istruzioni, oppure chiedere senz'altro l'invio di truppa? Non si sapeva decidere.
Sovrappensiero, rientrò nello studio, in cerca d'un promemoria destinato al prefetto che, a sua domanda, la sera innanzi Négrel aveva stilato. Non lo trovò: che il nipote lo avesse lasciato in camera sua, dove soleva dopo cena trattenersi a scrivere? E, rimandando a dopo la decisione da prendere, dominato dall'idea di quella carta che non trovava, salì a cercarla in camera di Négrel.
Con sua sorpresa, trovò la stanza ancora sossopra: certo, Ippolito s'era dimenticato o, peggio, aveva trascurato di farla. Vi si respirava ancora l'aria chiusa e calda della notte, inumidita dalla respirazione di chi vi aveva dormito e appesantita dal calorifero rimasto aperto. Ma, in quell'aria, lo aggredì alle nari, da mozzargli quasi il respiro, l'acuto profumo che vi restava e che certo proveniva dal catino, ancora pieno dell'acqua in cui il nipote s'era lavato. Un grande disordine regnava nella stanza: vestiti buttati alla rinfusa, asciugamani stesi ad asciugare sulle spalliere delle seggiole, il letto disfatto; come strappato via dalle coperte, un lenzuolo penzolava sul tappeto.
A tutto questo del resto, lì per lì, Hennebeau non diede che un'occhiata distratta, dirigendosi verso il tavolo ingombro di carte. Due volte passò in rivista foglio per foglio: il promemoria non c'era.
Dove diavolo quel disordinato di Paolo poteva averlo ficcato? Nel tornare verso il centro della camera, il suo sguardo che sempre in cerca passava da mobile a mobile, fu arrestato da un oggetto che luccicava fra le pieghe del lenzuolo. Attirato, macchinalmente si avvicinò e allungò la mano all'oggetto. Era un flaconcino montato in oro. Lo riconobbe di colpo: il flacone d'etere dal quale la moglie non si separava mai. Come si trovava lì? nella stanza da letto di Paolo? Impallidì: era anche troppo chiaro: sua moglie aveva dormito in quella stanza.
- Scusi... - si udì attraverso l'uscio che s'apriva la voce di Ippolito:
-Scusi, ma... - E alla vista della stanza, costernato:
-Oh è vero! ho ancora da far la camera, scusi. Ma con Rosa che è uscita, tutto è caduto sulle mie spalle... Hennebeau aveva fatto sparire il flacone nel pugno, che lo stringeva convulso. - Che vuoi? - C'è uno giù che arriva da Crèvecoeur. Ha una lettera. - Sta bene, vattene e digli che aspetti.
Sua moglie aveva dormito lì! Chiuse l'uscio dal di dentro; riaprì la mano: il flacone vi aveva lasciato la sua impronta in rosso. Una improvvisa illuminazione si fece in lui. Vedeva, ora: era da mesi che quell'abominio durava. Si ricordò del sospetto che, mesi prima, gli era balenato; ricordò i fruscii di vesti contro gli usci, lo scivolare di piedi scalzi sul pavimento che, nel silenzio della casa, qualche notte il suo orecchio aveva avvertito: sua moglie che saliva in camera di Négrel. Si lasciò andare su una sedia; e restò a lungo a fissare con occhio ebete il letto, come un uomo colpito da una mazzata.
Ma di nuovo una mano bussò all'uscio, tentò la maniglia. - Oh, scusi, non sapevo che si fosse chiuso... - Che vuoi ancora? - E' urgente; gli operai, pare, che fracassano tutto. Altri due che cercano di lei; e sono arrivati dei telegrammi... - Lasciami in pace! tra un momento scendo!
Al pensiero che senza una provvida dimenticanza, sarebbe stato il servo a trovare il flacone, allibì. Come poteva illudersi del resto che Ippolito non sapesse? Chi sa quante volte aveva trovato il letto ancora caldo degli adulteri amplessi; capelli di lei sul guanciale, tracce più intime ancora, innominabili, sulle lenzuola! Certo più d'una volta, anzi, - gli pareva di vederlo Ippolito - s'era indugiato lì fuori a origliare, divertito dai gemiti, dai sospiri lascivi che l'uscio appena soffocava. E perché ora tutti i momenti con un pretesto o un altro il servo si affacciava, se non era per soddisfare a una curiosità maligna?
Come impietrito davanti a quel letto, ora Hennebeau riandava il passato; ricapitolava tutto ciò che dal primo giorno di matrimonio quella donna gli aveva fatto soffrire: l'irrimediabile divorzio d'anima e di corpo che sin dal principio li aveva divisi; gli amanti che uno dopo l'altro lei si era presi senza ch'egli ne avesse il sospetto; il ganzo che per dieci anni lui le aveva tollerato come si tollera in una inferma una voglia immonda; la loro venuta a Montsou; poi, la speranza insensata in cui lui s'era cullato di arrivare a guarirla; il torpore, simile a una laboriosa convalescenza, in cui la donna era vissuta per mesi; l'apparire sul volto amato dei primi segni dell'età, di quella vecchiaia ch'egli si illudeva gliela avrebbe resa; e invece la comparsa in casa del nipote; gli atteggiamenti materni che verso Paolo lei aveva preso, le confidenze che al ragazzo faceva sul suo cuore per sempre morto, seppellito per sempre sotto la cenere... E la sua cecità di marito, lontanissimo dal prevedere ciò che avverrebbe, in adorazione sempre davanti a quella donna che s'ostinava a considerare sua e che lui solo non poteva avere, mentre tanti l'avevano avuta. La passione vergognosa che ancora adesso lo teneva schiavo, al punto che di gratitudine sarebbe caduto ai suoi piedi, se soltanto quella donna avesse consentito ad accordargli gli avanzi degli altri! Gli avanzi, era a quel ragazzo che lei li dava.
Lo squillare da basso d'un campanello lo strappò ai suoi pensieri: era il segnale con cui lo si avvertiva dell'arrivo della posta. Si tirò su; ma, invece di scendere, andò come forsennato per la stanza, imprecando: «Me ne infischio io, oh come me ne infischio dei loro dispacci e delle loro lettere!» Ah, se la collera che lo invadeva avesse potuto sfogarla spazzando via da sé, rintuzzando a colpi di tacco in qualche cloaca, il cumulo di immondezze che appestava la casa! «Sudiciona d'una donna!» e non trovava per bollarla qualifica che lo appagasse. Adesso non era arrivata a macchinare con l'aria più materna, il matrimonio tra il suo ganzo e Cecilia? era dunque ormai solo vizio quella insaziabilità, se non provava neppure più il morso della gelosia? Semplice depravazione, dunque; abitudine contratta, come quella del dolce in fin di tavola.
Per gettare ogni colpa sulla moglie, adesso Hennebeau ne scagionava quasi interamente il nipote: un pomo acerbo che a lei aveva ridato l'appetito ed al quale aveva morso come al frutto che s'offre dall'albero a cui si allunga come ladri la mano. Che finirebbe per appetire quella donna, a che cosa non si abbasserebbe il giorno che non avesse più un nipote compiacente, abbastanza di manica larga per accettare in casa loro la tavola, il letto e la donna?
Un picchio discreto all'uscio; e Ippolito attraverso la toppa timidamente azzardò:
-La posta, signore... C'è anche Danseart, che l'attende, è tornato per dire che si stanno sgozzando...
- Scendo, scendo, maledizione!
E ora che farebbe? Li scaccerebbe entrambi come appestati appena si ripresentassero, a randellate, li accoglierebbe! griderebbe loro in faccia che ad accoppiarsi andassero almeno altrove. Erano i loro fiati, i loro respiri mescolati che appesantivano l'aria di quella stanza; il profumo, che entrando lo aveva aggredito, era l'odore di muschio di cui sua moglie si impregnava la pelle - una perversità anch'essa, quella preferenza per i profumi violenti -; ed era il sentore della fornicazione, della consumazione dell'adulterio che il suo olfatto avvertiva intorno in ogni oggetto: nei catini ancora colmi, nel letto sconvolto, nel mobilio, in tutta la stanza appestata dal vizio.
In uno scatto d'ira impotente si avventò contro il letto, lo martellò di pugni, accanendosi nei punti dove più evidente restava l'impronta dei corpi; furente contro quelle coperte in disordine, quelle lenzuola gualcite che cedevano inerti ai colpi, come spossate anch'esse dalle lascivie di tutta la notte... Quando gli giunse dalla scala il passo di Ippolito. Arrossendo della stoltezza del suo gesto, si fermò.
Ansante, si passò la mano sulla fronte madida. La faccia che ora lo specchio gli rimandava non la riconobbe. E solo quando si sentì un po' più padrone di sé, si decise finalmente a scendere.
Oltre Danseart, erano in cinque ad attenderlo. Tutti latori di cattive notizie: la situazione peggiorava d'ora in ora. Il capo-sorvegliante, in mancanza di meglio, si diffuse sull'episodio di Mirou, salvata dalla fermezza del vecchio Quandieu. Hennebeau ascoltava simulando attenzione; ma la sua mente era altrove.
Appena poté li congedò, assicurando che prenderebbe le misure del caso. Tornato nello studio e risedutosi davanti allo scrittoio, restò lì come intontito, il capo tra le mani, gli occhi sbarrati. Quando lo sguardo gli cadde sulla posta, fece uno sforzo per cercarvi la lettera che attendeva dal mattino. C'era. Ma le righe gli ballavano davanti agli occhi. Finì comunque per capire che quei signori qualche subbuglio se lo auguravano; certo non gli ordinavano di provocarlo; ma lasciavano capire che, ove un'energica repressione si rendesse necessaria, essa affretterebbe la cessazione dello sciopero. Allora, scaricato di responsabilità, Hennebeau lanciò una serie di dispacci: al prefetto di Lilla, al comando della guarnigione di Douai, alla gendarmeria di Marchiennes.
Finalmente ora poteva restare un po' a tu per tu con se stesso.
Protestando un attacco di gotta, si chiuse a chiave nello studio; e lì restò tutto il pomeriggio, facendo dire che non riceveva a chiunque si presentasse, limitandosi a scorrere i telegrammi e le lettere che seguitavano ad arrivare. Fu quindi di lì che seguì la marcia dei dimostranti: da Madeleine a Crèvecoeur, da Crèvecoeur alla Victoire, dalla Victoire alla Gaston-Marie. Ma ciò non gli tolse di constatare, dalle notizie che gli pervenivano, il completo disorientamento delle forze mandate a difendere i pozzi; le quali, messe su false piste, immancabilmente voltavano le spalle alla miniera proprio nel momento che veniva attaccata. Ma a lui che importava? Si scannassero, distruggessero pure tutto. S'era ripreso la testa tra le mani; e, sigillati con le dita gli occhi, si sprofondava sempre più nel grande silenzio della casa, rotto solo di tanto in tanto dal rumore del daffare che la cuoca si dava in cucina per il pranzo della sera.
Erano le cinque; già il crepuscolo invadeva lo studio; ed Hennebeau era ancora lì aggomitato al tavolo, immobile come una statua; quando un vocìo gli arrivò che lo fece trasalire: certo i due sciagurati di ritorno da Marchiennes. Ma il vocìo cresceva; e, per vedere chi fosse, Hennebeau stava appressandosi alla finestra, quando da quello schiamazzo scaturì pauroso il grido:
-Pane! pane! pane! - Era la banda degli scioperanti che irrompeva in Montsou; mentre, manco a dirlo, la gendarmeria se ne allontanava di corsa, diretta al Voreux che le risultava minacciato.
Alla sfilata di quella stessa banda aveva poco prima assistito la Hennebeau e la sua comitiva. L'incontro era avvenuto sulla strada maestra a due chilometri dalle prime case di Montsou, un po' oltre il bivio di Vandame.
La giornata a Marchiennes era trascorsa allegramente: s'era fatta un'ottima colazione in casa del direttore delle ferriere; poi s'era occupato il pomeriggio in un'interessante visita alle fabbriche e a una vetreria dei dintorni. E, nel limpido tramonto della bella giornata d'inverno, ci si avviava a casa, quando Cecilia s'era lasciata prendere dal capriccio di bere una tazza di latte caldo in una piccola fattoria che costeggiava la strada. Aiutate dal galante Négrel, tutte allora erano scese di vettura; e la contadina, impressionata della visita, già si disponeva premurosa ad apparecchiare; ma avendo le due Deneulin gridato che il bello era assistere alla mungitura, tutte, portandosi dietro le tazze, erano passate nella stalla, dove tra grandi risa e capitomboli sulla paglia avevano improvvisato una specie di merenda campestre. E la Hennebeau, ostentando di farlo per compiacere la fanciulla, avvicinava schifiltosa le labbra alla tazza, quando, tendendo l'orecchio:
-Che è mai? - Una specie di boato s'udiva infatti in distanza.
Fattesi sull'ingresso - servendo anche di fienile, la stalla aveva sulla strada una larga entrata per i carri - già le ragazze partivano in esclamazioni: laggiù a sinistra, sbucando dalla via di Vandame, un nero flutto vociferante di gente s'avanzava compatto. Négrel uscì anche lui a vedere:
-Diavolo! che stiano passando ai fatti i nostri sbraitoni? - Saranno di nuovo gli operai dei pozzi, - suggerì la contadina. - Sarebbe la seconda volta che passano di qui. Pare che le cose si mettano poco bene; che i dimostranti stiano prendendo il sopravvento... - Lasciava cadere le parole spiandone l'effetto sui visi dei visitatori. Accortasi dell'ansietà e del panico che suscitava, s'affrettò a concludere:
-Che canaglie!
A raggiungere Montsou non si faceva più a tempo. Allora Négrel ordinò al cocchiere di spicciarsi a togliere la carrozza di mezzo la strada; e gliela fece portare sull'aia dietro una tettoia, sotto la quale lui condusse il cavallo, che un monello gli aveva tenuto per la briglia.
Al ritorno nella stalla, trovò la zia e le ragazze che, allarmatissime, si disponevano a seguire la contadina che s'era offerta di nasconderle in casa sua. No, era meglio restare lì; si era più al sicuro; nel fieno, nessuno li verrebbe a cercare. Chiusero il portone, sebbene, nello stato in cui era, desse poca garanzia di resistere a un'eventuale spinta dall'esterno e fosse così spaccato di fessure da riparare appena dalla vista.
- Animo, suvvia! Vuol dire che venderemo cara la pelle! - celiò Négrel, per incoraggiarle; ma il suo spirito ottenne solo d'impaurirle di più.
Lo schiamazzo si appressava; sebbene lì davanti la strada fosse ancora sgombra, ai loro occhi già la spazzava la raffica foriera dell'uragano. Tanto che Cecilia, corsa a ficcare la testa nel fieno:
- No, no, - smaniò, - io non voglio nemmeno vedere!
Stizzita contro quella gente che veniva a sciuparle all'ultimo momento la bella giornata, la Hennebeau pallidissima si teneva discosta dalla porta, il viso atteggiato a sprezzo e disgusto; mentre le due Deneulin, pur anch'esse tremando, avevano messo l'occhio ad una fessura, desiderose di non perdere nulla dello spettacolo.
Primo a comparire, annunciato da un rombo di tuono e dal sussultare del suolo sotto la violenza dei passi, fu Gianlino che soffiava nel corno. - Il popolo lavoratore che passa: mano ai sali, signore! - Malgrado le sue convinzioni repubblicane, col bel sesso Négrel amava beffarsi della canaglia. Ma la sua spiritosaggine si perse nel frastuono.
Urlanti e gesticolanti, le donne erano apparse; un migliaio o poco meno; scarmigliate dalla corsa, mal coperte da cenci che lasciavano intravedere qua e là la pelle, dei corpi di femmine sfiancate a forza di figliare. Alcune tenevano fra le braccia l'ultimo nato, lo sollevavano, lo mostravano come brandissero e agitassero un segno di vendetta e di lutto. Altre, più giovani, procedevano impettite come muovessero alla battaglia, impugnando bastoni; mentre le vecchie, simili a furie scatenate, urlavano così forte che nei colli scarniti le corde si tendevano quasi a schiantarsi. Seguiva la valanga degli uomini; duemila forsennati; manovali, braccianti, staccatori; una massa pigiata e confusa che avanzava compatta al punto che non vi si discerneva più nulla: camiciotti di tela o maglie a brandelli, tutto spariva in un'unica tinta terrea. Galleggiavano su quella uniformità solo il lampeggiare degli occhi, lo spalancarsi dei neri buchi delle bocche, bercianti la «Marsigliese»; le cui strofe naufragavano in un mugghio confuso, accompagnato dallo schioccare degli zoccoli. Sulla marea di teste irta di sbarre di ferro, un'ascia passò; e quell'unica ascia, tenuta verticale, che era come il vessillo della banda, si ritagliava sul limpido cielo con l'aguzzo profilo d'una mannaia.
- Che ghigne spaventose! - balbettò la Hennebeau. Négrel tra i denti: - Il diavolo mi porti se ne riconosco una! di dove sbucano fuori tutti questi banditi? - L'ira, la fame, i patimenti che da due mesi duravano, la stanchezza prodotta da quello scalmanato correre di miniera in miniera, aveva infatti allungato quei pacifici visi in mascelle di belve. In quel momento il sole tramontava, insanguinando la pianura della cupa porpora dei suoi ultimi raggi.
Tinti di quella porpora, uomini e donne seguitavano a correre simili a beccai imbrattati di sangue; e fu come se, non più una folla, ma un fiume di sangue dilagasse per la strada.
La tragica bellezza dello spettacolo strappò alle due Deneulin un soffocato grido di ammirazione:
-Stupendo! - Ma, nel sussurrarlo, impressionate anch'esse, istintivamente si ritrassero e si trovarono presso la Hennebeau. La donna s'appoggiava ora all'orlo dell'abbeveratoio; il pensiero che bastava che uno di quei forsennati mettesse l'occhio a una fessura perché per loro fosse finita, la agghiacciava. Persino Négrel, a dispetto di tutto il suo coraggio, adesso era preso da un panico che stentava a dominare, quanto più lo giudicava irragionevole. Sparita dentro il fieno, Cecilia non dava segno di vita; mentre gli altri, per quanto si proponessero di stornare gli occhi dalla scena, come affascinati seguitavano a guardare.
Quel che passava lì davanti era il minaccioso preludio d'una rivoluzione che a breve scadenza fatalmente li travolgerebbe tutti.
Sì, il secolo non volgerebbe a termine, che in una rossa sera come questa, il popolo scatenato strariperebbe così per le strade: grondante del sangue della borghesia, agiterebbe sulle picche delle teste, sventrerebbe i forzieri e ne seminerebbe l'oro. Le donne urlerebbero; minacciosi come questi, gli uomini spalancherebbero fauci di belva. Sì, sarebbero gli stessi cenci che ricomparirebbero, lo stesso strepitio di zoccoli che rintronerebbe le vie; sarebbe la stessa raccapricciante folla, lacera, sudicia, dal fiato appestato, che spazzerebbe via il vecchio mondo sotto la sua barbarica spinta irresistibile. Incendi fiammeggerebbero; delle città non resterebbe pietra su pietra; si ritornerebbe all'esistenza selvaggia dei boschi, dopo il pauroso esplodere di foia, dopo l'immane orgia che vedrebbe in una notte i diseredati sfiancare le donne dei ricchi, mettere a sacco le loro cantine. Più nulla resterebbe; non un soldo delle fortune accumulate, non un titolo o una posizione sociale; sino al giorno in cui forse un nuovo mondo sorgerebbe sulle rovine dell'antico. Sì, era un'avvisaglia di questo, ciò che ora si scatenava su quella strada con la irresistibilità d'una forza di natura; era dell'imminente ciclone che essi ora ricevevano in viso la ventata che bastava a farli trascolorire.
Un grido sorse che soverchiò il canto della «Marsigliese»:
-Pane!
pane! pane! - Le Deneulin si strinsero contro la Hennebeau ch'era lì per svenire; mentre Négrel si metteva loro davanti, come per ripararle del suo corpo. Che già fosse suonata l'ora, per il vecchio mondo, di sfasciarsi?
Ma qualcosa quelle signore dovevano ancora vedere che finì di sbalordirle. Della colonna dei dimostranti stava ormai sfilando il codazzo dei ritardatari, quando sulla strada comparve la Mouquette.
Procedeva senza fretta occhieggiando intorno per sorprendere alla finestra, sulla soglia del giardino, qualche grasso borghese; e appena ne avvistava uno, non potendo, come le sarebbe piaciuto, sputargli in faccia, gli volgeva di colpo le spalle; e, scoprendo certa parte del corpo, faceva al suo indirizzo il gesto ch'essa riteneva il più oltraggioso. In quel momento doveva averne visto uno da quel lato lì della strada; perché, volte le spalle, di scatto si rimboccò sino in capo le sottane; e, sporgendo le natiche, mise in mostra un enorme tafanario che, all'ultimo sole - non di vergogna - si imporporò. Un deretano punto osceno; feroce, piuttosto; che non fece ridere nessuno, lì nella stalla.
La strada si vuotò; già lontana, la colonna proseguiva su Montsou svoltando, sfilando tra le basse case variopinte. La carrozza venne fatta uscire dall'aia; ma il cocchiere non si sentiva di assumersi la responsabilità di ricondurre tutte quelle signore finché gli scioperanti fossero padroni della strada. Ed altra via non c'era. La Hennebeau, coi nervi tesi dalla paura che s'era presa, strillava fuori di sé:
-Ma bisogna bene che rientriamo! la cena non può aspettare!
L'ha fatto apposta quella sporca gente, a scegliere il giorno che ho degli invitati! Andate a far loro del bene!
Le due Deneulin s'adoperarono intanto per persuadere Cecilia a uscire dal suo nascondiglio. La fanciulla resisteva: non era vero che quei ceffi avessero finito di sfilare e lei non voleva vederli.
Finalmente rimontarono tutti in vettura. Négrel, risalito a cavallo, ebbe allora l'ispirazione di passare per la stradetta di Réquillart.
- Va' al passo, - raccomandò al cocchiere. - E' una strada da capre. Se laggiù dei dimostranti ti impediscono di rientrare sulla maestra, tu allora ci fermi dietro il vecchio pozzo. Noi si rientra a piedi per la porticina del giardino; la carrozza e i cavalli li metti dove puoi, nella rimessa di qualche albergo -. Si partì.
La colonna straripava ormai per le vie di Montsou. Gli abitanti che già due volte avevano visto passare gendarmi e cavalleria, erano in gran fermento. Circolavano voci allarmanti; si sussurrava di manifesti scritti a mano, nei quali i dimostranti minacciavano di morte i grassi borghesi. Nessuno li aveva letti; ma ciò non impediva che se ne citassero frasi testuali. Specialmente in casa del notaio, il panico era al colmo; giusto in quel momento gli era stata recapitata una lettera anonima, la quale lo avvertiva che negli scantinati della casa era interrata una botte di esplosivo che la farebbe saltare se lui non si dichiarava per il popolo.
La lettera era arrivata che in visita dal notaio c'erano i Grégoire; i quali, propensi a crederla lo scherzo d'un burlone, stavano discutendone, quando l'irruzione nelle vie della banda fece perdere del tutto la testa ai padroni di casa. I Grégoire sorridevano: non era il caso di spaventarsi così; e scostando le tendine, spiavano in istrada: no, no, nessun serio pericolo; tutto s'appianerebbe, finirebbe in una bolla di sapone.
Suonavano le cinque; per cena, avevano tempo: gli Hennebeau abitavano lì di fronte; di certo, vi troverebbero la figlia ad aspettarli. Meglio aspettare che le strade si sgombrassero un po'. Ma nessuno in Montsou aveva l'aria di condividere il loro ottimismo; dappertutto, lì sotto, gente spaventata che correva, porte e finestre che si chiudevano con fracasso. Maigrat, poi, lì in faccia, si barricava addirittura in bottega, ne sprangava con sbarre l'ingresso, così pallido e tremebondo che quella meschinella della moglie doveva lei fissare le imposte.
La colonna dei dimostranti s'era intanto fermata davanti all'abitazione del direttore; il grido echeggiava:
-Pane! pane! pane!
- Hennebeau era ancora in piedi nel vano della finestra, quando Ippolito, nel timore di qualche sassata, venne a chiudere le persiane. La stessa operazione ripeté al pianterreno e al primo; e per tutta la casa fu uno sbattere d'imposte e uno stridere di spagnolette. Disgraziatamente, non si poteva allo stesso modo sottrarre alla vista la cucina, la cui finestra, che s'apriva sotto il livello della strada, offriva il provocante spettacolo dei grassi preparativi della cena.
Privato del suo posto d'osservazione, macchinalmente Hennebeau salì in cerca d'un altro al secondo; e ricapitò nella stanza del nipote che, per la sua posizione, permetteva di dominare tutta la strada sino ai cantieri della Compagnia. Si appostò dietro le persiane. Ora nella camera ogni segno di disordine era scomparso. Certo, rimetterci piede, non fu per lui senza emozione. Senonché ormai dello strazio che alla scoperta aveva provato il mattino, della lotta che tutto il giorno aveva sostenuto con se stesso, non risentiva che la stanchezza: una immensa stanchezza.
Come la camera tornata fredda e ordinata, così si sentiva lui nel suo intimo. A che pro uno scandalo? che forse in casa era cambiato qualcosa? Aveva scoperto alla moglie un amante di più: e con ciò? Un'aggravante c'era, è vero: che se lo fosse scelto in famiglia. Ma tale scelta non costituiva alla fine un vantaggio? visto che salvava le apparenze? D'essersi abbandonato quel mattino a un accesso di gelosia furiosa, ora si faceva compassione. Come era stato ridicolo, a prendere il letto a pugni! Conoscerle un amante di più, che poteva ormai voler dire se non disprezzarla un po' di più? non altro. Provava un'atroce amarezza; tutto gli appariva inutile, la vita una sequela di dolori; ma soprattutto sentiva una grande vergogna di sé che, inerte davanti a quella abiezione, pure seguitava ad adorare e a desiderare quella donna!
Sotto la finestra, le grida si rinnovarono, crebbero di violenza:
- Pane! pane! pane! - «Imbecilli!» e Hennebeau strinse i denti.
La folla gli rinfacciava le laute prebende, lo trattava da fannullone e di grasso borghese, di sporco maiale che si regala indigestioni di leccornie, mentre chi lavora crepa di fame. Avvistata la cucina, le donne vi si pigiavano davanti: inferocite alla vista del fagiano che si rosolava sullo spiedo, all'odore degli intingoli che straziava i loro stomachi vuoti, imprecavano in coro. Guarda lì se se ne passano di buone bottiglie e di tartufi quei porci di borghesi! da farne strippate!
- Pane! pane! pane! - «Imbecilli, - si disse di nuovo Hennebeau, - se vi illudete con questo che io sia felice!» Che stizza lo pigliava contro l'ottusità di quei bruti! come volentieri avrebbe regalato loro i suoi guadagni per possedere in cambio la loro mancanza di sensibilità; per poter, come essi, accoppiarsi senza rimorsi con chi gli piaceva! Ah perché non poteva cedere loro il suo posto a tavola perché s'impinzassero sino al vomito dei suoi fagiani; e andarsene lui, in vece loro, a godersi le ragazze sulle aie e dietro le siepi, senza alcun pensiero di quelli che se l'erano godute prima! Tutto, lui avrebbe dato: la sua educazione, l'agio, il lusso, la sua autorità di direttore, pur di potere per un giorno essere l'ultimo dei miserabili che gli ubbidiva, libero di sé, senza scrupoli morali, abbastanza irresponsabile per picchiare la moglie e trescare con le vicine! E magari, sì, anche di provare la fame, s'augurava! chi sa che, ottundendogli il cervello, la fame non lo liberasse del tarlo che lo rodeva, dal suo quotidiano rovello! Ah, vivere come un bruto, nulla più possedere, battere il grano con la più sudicia, la più nauseosa delle operaie dei suoi pozzi, ed essere capace di accontentarsene!
- Pane! pane! pane! - Pane! come se bastasse! L'aveva il pane, lui; ma non era meno per questo il più infelice degli uomini. Il rimpianto della sua vita fallita, la vita del cuore, l'unica che gli importasse, lo prese alla gola come una mano che lo strozzasse. Ah, no; non bastava avere del pane per essere felice! Chi era quell'idiota che faceva dipendere la felicità dalla spartizione dei beni? Questi acchiappanuvole di rivoluzionari, potevano bene distruggere la società e farne sorgere una nuova; con l'assicurare a tutti un tozzo di pane, non darebbero all'umanità una gioia di più né la libererebbero da un solo dolore! Al contrario, sarebbe l'infelicità che farebbero regnare sulla terra; perché persino i cani finirebbero per urlare di disperazione il giorno che, non più paghi di soddisfare i loro istinti, illusi di elevarsi, cadessero in balìa delle passioni che nulla può saziare. No, il solo bene era non esistere; ma, dovendo nascere, nascere albero, nascere pietra; granello di sabbia, meglio ancora, che non sa del piede che lo calpesta.
A questo punto, sopraffatto dal dolore, Hennebeau ruppe in pianto. Il crepuscolo era calato sulla strada, quando contro i muri s'abbatté la prima sassaiola.
- Imbecilli! imbecilli! - ripeté fra i singulti. Ma ormai senza risentimento, assorbito com'era nel suo dolore.
Ma l'urlo della fame si rinnovò più forte, si scatenò come un uragano che spazza via ogni cosa:
-Pane! pane! pane!
Capitolo sesto
Rientrato in sé agli schiaffi di Caterina, Stefano s'era rimesso alla testa dei dimostranti. Ma, mentre li lanciava su Montsou, con una voce che lo strapazzo di tutto il giorno arrochiva, un'altra voce si elevava in lui, quella della ragione, a chiedergli stupita che stava facendo. Nessuno degli eccessi cui si era finora abbandonata la banda, era nelle sue intenzioni; come poteva essere che, partito il mattino col proposito di non lasciarsi prendere la mano da risentimenti, di conservare il controllo dei suoi uomini e d'evitare inutili violenze e distruzioni, fosse invece passato di eccesso in eccesso, sino ad arrivare adesso a mettere l'assedio alla casa del direttore? Eppure, era ben lui che ora, davanti alla villa, aveva dato l'alt. Gli è che anche questa volta, se si trovava ad assecondare i compagni nel nuovo eccesso, era per scongiurarne uno maggiore: il saccheggio dei cantieri che già nelle file si ventilava. Tanto è vero che anche adesso, al crepitare delle prime sassate contro la facciata, egli si chiedeva, inutilmente, verso quale più ragionevole bersaglio indirizzare un furore che non era più in grado di frenare.
Mentre era lì impotente in mezzo alla strada, si sentì chiamare; in piedi sulla soglia del Tizzone, che la proprietaria s'era affrettata a munire d'imposte, c'era un uomo:
-Senti una parola... - Lo seguì.
Il locale era affollato d'una trentina di operai, tra uomini e donne; appartenenti per la maggior parte alla borgata dei Duecentoquaranta; tutti che al mattino erano rimasti a casa e che, scesi per notizie, erano stati sorpresi dall'arrivo dei dimostranti. C'era Zaccaria con Filomena; Pierron con la moglie, che voltavano le spalle per nascondere la faccia. Siccome non erano entrati che per mettersi al riparo, nessuno beveva.
Al riconoscere nell'uomo che l'aveva chiamato Rasseneur, Stefano già s'allontanava: ma quello:
-Ti cuoce, eh, rivedermi? Le seccature cominciano, ti avevo avvertito. Ormai potete chiedere pane; sarà piombo che riceverete!
Il giovane allora, tornando sui suoi passi:
-Quel che mi brucia, ah questo sì, è vedere dei vigliacchi che con le mani in mano, stanno a guardarci mentre noi rischiamo la pelle!
- Sicché avete intenzione di rifarvi con quelli di faccia?
- La mia intenzione è di restare sino in fondo coi miei amici, almeno si creperà insieme -. E più che mai deciso a morire coi compagni, li raggiunse.
A emulare i grandi, ora si mettevano anche i ragazzini; a tre che gli vennero tra le gambe, Stefano allungò una pedata, gridando - e non era per loro che lo gridava - che a fracassare dei vetri non si profitta nulla. Berto e Lidia, venuti a raggiungere Gianlino, stavano facendosi insegnare dal monello a maneggiare la fionda. Lanciavano un sasso a turno, gareggiando a chi producesse più guasto. Per imperizia, Lidia aveva ora, nella confusione, mandato un sasso a finire in testa a una passante; e della prodezza i due si spanciavano. Li stavano a guardare, seduti lì dietro su una panca, Bonnemort e Mouque. La prospettiva di quale svago avesse indotto il primo a trascinare sin lì le sue gambe malazzate, non si capiva: il vecchio aveva il viso terreo dei giorni in cui non gli si cavava parola di bocca.
A Stefano nessuno obbediva più. A dispetto dei suoi ordini, i sassi seguitavano a grandinare. Constatare come quei bruti, così lenti a muoversi, una volta scatenati diventavano pericolosi e tenaci nell'ira, lo stupiva e sgomentava. Eccolo lì sotto i suoi occhi all'opera, il vecchio sangue fiammingo: torpido, che impiega dei mesi per scaldarsi; ma che una volta scaldato si butta senza più ritegno a qualunque eccesso e non ascolta ragione finché la sua ferocia non si è saziata.
Al suo paese, nel meridione, le folle pigliano fuoco prima; ma si placano anche prima. Per strappargli l'ascia di mano, dovette battersi con Levaque; né sapeva più in che modo calmare i Maheu, che scagliavano pietre a due mani. Ma le donne, soprattutto, lo atterrivano: la Levaque, Mouquette e altre, invasate da furore omicida, tutte unghie e denti, abbaianti come cagne; dominate dall'allampanata figura dell'Abbruciata che le aizzava.
Quando ciò che Stefano non poteva più ottenere, lo ottenne un incidente da nulla; che, suscitando stupore, causò un momento di bonaccia. Fu la comparsa dei Grégoire, decisisi finalmente a congedarsi dal notaio. Nell'attraversare la strada, i due coniugi avevano un'aria così placida e fiduciosa, dai loro visi traspariva così bene la persuasione che i loro bravi operai facevano per chiasso, che questi, nel timore di colpire quel vecchio signore e quella vecchia signora piovuti dal cielo, smisero davvero di tirare. Il tempo per i due di attraversare, entrare nel giardino, salire la scalinata, suonare alla porta barricata; e, poiché non si apriva, restare lì in attesa. Pochissimo, per fortuna; perché in quella attraversava a sua volta la calca Rosa che rientrava; volgendosi intorno sorridente ai dimostranti che, essendo di lì, conosceva uno ad uno. Fu lei a farsi riconoscere da Ippolito, che finì per aprire. Erano appena dentro, che i sassi riprendevano a fioccare. Uscita dal momentaneo intontimento la folla ora gridava più forte:
- Morte alla borghesia! evviva la repubblica sociale! - A non impressionarsi, l'unica restava Rosa, che al domestico allibito seguitava a dire:
-Macché, li conosco. Non sono mica cattivi, macché! - Parere del resto condiviso da Grégoire; che appeso con meticolosa cura il copricapo all'attaccapanni e aiutata la consorte a liberarsi della mantella:
- Certo, - rincarava, - sono buoni figlioli, in fondo! Quando avranno gridato ben bene, se ne andranno a cenare di miglior appetito.
In quella, scendeva la scala e si faceva incontro agli ospiti Hennebeau. Aveva ripreso la sua aria abituale, fredda e cortese. Solo il pallore del viso tradiva la giornata trascorsa. Il direttore, il padrone di casa aveva ripreso il sopravvento sull'uomo.
- Ma sanno, - disse, - che ancora le signore non sono rientrate?
Solo adesso i Grégoire si turbarono. Cecilia ancora per strada! come farebbe a rientrare, se lì fuori lo scherzetto si protraeva?
- Avrei mandato il domestico in cerca dei gendarmi, - si scusava Hennebeau. - Ma dove pescarli? Dicono sì che ce ne sono in giro; ma in tutta la giornata, ancora non m'è riuscito di ottenerne uno. Quattro chepì e un caporale sarebbero bastati a spazzare la strada di questa canaglia!
Canaglia! Rosa volle dire ancora la sua:
-Ma non c'è da aver paura, signore! E' tutta brava gente!
Il direttore scosse il capo; mentre a confermare l'ottimismo della cameriera il tumulto in istrada cresceva e i sassi piovevano più fitti.
- Io non ne faccio loro colpa. Scuso anzi la loro ignoranza, di credere che noi ci si accanisca a volere il loro male. Senonché, responsabile sono io, di ciò che può accadere!
E, scansandosi davanti alla Grégoire:
-La prego, signora, non resti qui in piedi, s'accomodi -. E avrebbe accompagnato gli ospiti in salotto; ma fu trattenuto in anticamera dalla cuoca. Abbandonate le sue casseruole, la donna veniva a declinare ogni responsabilità per il pranzo, se non arrivavano le sfogliate che aveva ordinato al pasticciere di Marchiennes e che avrebbero dovuto essere lì per le quattro. Che il commesso si fosse preso paura, si fosse perso per strada? o che gli avessero vuotato la cesta, quelle canaglie? e già la donna vedeva le sue sfogliate finite nella pancia di quegli affamati. Ad ogni buon conto, lei avvertiva: se le sfogliate non arrivavano...
- Ma arriveranno, arriveranno... - la consolò Hennebeau. - Un po' di pazienza. Non bisogna fasciarsi la testa prima di essersela rotta.
Ed apriva alla Grégoire l'uscio del salotto, quando, seduto su una cassapanca ad attendere, scorse un uomo, del quale l'oscurità, in cui era immerso il vestibolo, gli aveva sin allora impedito di avvertire la presenza.
- Voi, Maigrat? che succede?
L'esercente s'era alzato ed ora Hennebeau ne vedeva la faccia stravolta dalla paura. Non era più Maigrat, il grosso uomo di prima placido e ben saldo sulle gambe.
- Signor direttore, - disse tartagliando, - mi scusi se mi sono introdotto così in casa sua. E' per chiederle se può darmi aiuto nel caso che mi assaltino la bottega.
Hennebeau allargò le braccia:
-Mi spiace; ma vedete bene che sono minacciato anch'io e che in casa non ho nessuno. Non era meglio che restaste dove eravate, a far la guardia alla vostra roba?
- Ma l'ho sprangata, la bottega; e poi ci ho lasciato mia moglie.
Sua moglie di guardia! bella guardia che poteva fare quella meschinella, ridotta come lui l'aveva a forza di botte!
Spazientito e non senza una punta di sprezzo:
- Insomma, che volete che ci faccia, caro Maigrat! Io non sono in grado di far niente per voi; cercate di difendervi. Il consiglio che vi posso dare è di tornare subito a casa. Li sentite che cosa gridano? E' proprio pane che vogliono.
Infatti! Nello schiamazzo anzi Maigrat credette di udire il suo nome. Ma ormai come passare? Rischiava d'essere fatto a pezzi. D'altra parte, il pensiero che gli saccheggiassero la bottega... Incollò il viso al vetro della porta e, sudando freddo e tremando, restò lì a spiare fuori.
Intanto i Grégoire s'erano decisi a passare in salotto, dove Hennebeau impassibile cercava di fare gli onori di casa. Ma invano invitava gli ospiti ad accomodarsi; restavano in piedi, trasalendo a ogni nuovo clamore, punto a loro agio in quella stanza chiusa e barricata, dove prima del tempo due lampade erano state accese. Chi sa perché lì, attutito dalle tappezzerie e dai tendaggi, l'urlo dei dimostranti arrivava anche più minaccioso. Avviarono comunque una larva di conversazione; ma il discorso ricadeva sempre su quella sommossa, di cui non ci si rendeva ragione. Hennebeau si dichiarava stupito di non aver avuto in anticipo sentore di qualche cosa, di quello che bolliva in pentola, egli era stato così poco informato, che degli avvenimenti ora attribuiva la colpa soprattutto a Rasseneur.
- E' quell'uomo, - diceva, - che li ha sobillati -. Ma si rassicurassero; i gendarmi non potevano tardare; non era da credere che lasciassero così la sua abitazione alla mercé della folla. Dal canto loro, i Grégoire, era della figlia che si preoccupavano; poverina, così facile a impressionarsi per nulla! Che, visto il pericolo, la carrozza fosse tornata a Marchiennes?
L'attesa durò un altro quarto d'ora, snervante. Al baccano esterno, ora, ogni tanto, s'aggiungevano raffiche di sassi contro le finestre, le persiane chiuse che ne rimbombavano come tamburi. La situazione diventava insostenibile; e già Hennebeau parlava di uscire lui, di affrontare da solo la marmaglia, e di andare incontro alla carrozza, quando nel salotto irruppe il domestico gridando:
-Signore, è qui fuori, sua moglie! Ammazzano la signora!
Come Négrel aveva previsto, la vettura non aveva potuto rientrare sulla strada maestra per la minacciosa presenza di gruppi di scioperanti; sicché l'ingegnere aveva deciso di fare a piedi i cento metri che li separavano da casa; una volta raggiunta la porticina che dava sul giardino, dal giardiniere o da chi per lui riuscirebbe bene a farsi aprire. E tutto sul principio era andato liscio; e già la Hennebeau bussava alla porticina, quando, avvertite, delle donne invasero il vicolo. Allora cominciarono i guai: la porta non s'apriva, invano Négrel tentò d'aprirla a spallonate. Vedendo crescere nel vicolo il numero delle donne, temette di essere soverchiato; e spinse avanti la zia e le ragazze nel disperato tentativo di aprirsi il passo tra gli assedianti e raggiungere l'ingresso principale. Ma le donne si misero alle loro calcagna, vociando li attorniarono; mentre il grosso dei dimostranti, disorientato dalla presenza di quelle signore ben vestite smarritesi nella mischia, s'accalcava sul loro passaggio.
Raggiunta la scalinata d'ingresso, le due Deneulin s'erano infilate in casa per la porta che Rosa teneva semiaperta; la Hennebeau, dietro; e ultimo Négrel, che aveva tirato il catenaccio, persuaso d'aver visto Cecilia sgattaiolare dentro per prima. Non era così: la fanciulla l'avevano persa nel tragitto; rimasta indietro, la fanciulla era stata colta da un tale panico che, voltate le spalle alla casa, s'era buttata da sé in bocca al lupo.
Ad accoglierla, s'alzò il grido:
-Evviva la repubblica sociale! a morte la borghesia! a morte! - Dei dimostranti, i più lontani, la scambiarono per la Hennebeau, aiutati nell'abbaglio dalla veletta che le nascondeva il viso; altri fecero il nome d'un'amica di lei, la giovane moglie d'un proprietario d'opificio, detestato dagli operai. Del resto, fosse chi voleva, poco importava; per esasperare la folla bastava quell'abito di seta, la pelliccia, la piuma bianca sul cappello; in più quella fraschetta era profumata, aveva un orologio e la pelle delicata di chi carbone non ne tocca.
- Vieni qui, carina, - gridò l'Abbruciata, - che te li mettiamo noi i fronzoli in un certo posto dove non ce li hai!
E la Levaque:
- E' da noialtre che li spremono fuori, queste fraschette! ve' che pelliccia, mentre noi si crepa dal freddo! Via, via tutto! Spogliatela nuda, che le insegniamo a vivere!
E la Mouquette, buttandosi avanti:
-Sì, sì, sculacciarla dobbiamo!
E, rose d'invidia, scalmanate, allungavano le grinfie, come per prendersi ciascuna un pezzetto di quella figlia di ricchi.
- Non c'e l'avrà mica più bello del nostro, il sedere!
- Noi almeno di sotto siamo sane; mentre per solito quelle lì, sotto i fronzoli...
- E' durata abbastanza l'ingiustizia! Si dovranno vestire come noi, queste troie, che per farsi lavare la sottanina spendono quanto noi per campare una settimana!
In mezzo a quelle furie, Cecilia tremante, paralizzata dalla paura, non sapeva che balbettare:
-Signore, ve ne prego, signore, non mi fate del male! - Quando emise un grido che le si strozzò in gola: un paio di tozze mani gelate l'aveva afferrata alla gola. Le mani di Bonnemort, presso il quale, spinta dalle donne, la fanciulla era venuta a trovarsi. Ubriaco di fame, inebetito dalla lunga vita di stenti, il vecchio, mosso da chi sa mai che sotterraneo rancore, usciva improvvisamente con quel gesto da una rassegnazione durata cinquant'anni. Dopo avere in vita sua salvato dalla morte una dozzina di compagni, rischiando la pelle nel grisù e nelle frane, adesso neppure lui avrebbe saputo dire a quale demone, a quale subitaneo impulso cedeva, come calamitato dalla bianchezza di quel collo di fanciulla. E poiché quel giorno aveva perso la favella, seguitando a stringere, muoveva senza emettere suono le labbra, col biascichio dell'idiota che rumina ricordi.
Ma le donne s'intromisero:
-No, no! - gridavano. - Il culo vogliamo che mostri! a culo all'aria, la vogliamo!
Appena accortisi della sparizione di Cecilia, Négrel e Hennebeau, riaperta la porta, s'erano animosamente lanciati fuori per correre in suo aiuto. Ma al cancello, contro il quale ormai la folla premeva, dovettero, per aprirsi il passo, impegnare una colluttazione; mentre sulla gradinata s'affacciavano i Grégoire atterriti.
Fortuna volle che una delle sue persecutrici strappasse intanto a Cecilia la veletta; e che, riconoscendola, la Maheu gridasse a Bonnemort:
-Lasciala, vecchio! Non vedi che è la signorina della Piolaine? - Sdegnato che se la prendessero con un'innocente, anche Stefano s'adoperava per liberare la fanciulla da quel cerchio di furie. Un'ispirazione lo soccorse: brandendo l'ascia che aveva strappato a Levaque:
-Da Maigrat! - gridò. - Da Maigrat, amici! C'è del pane là dentro! Sfondiamo la baracca di Maigrat! - E facendo seguire il gesto alle parole, s'avventò coll'ascia alzata; seguìto da Levaque, da Maheu e da qualcun altro. Ma il diversivo non valse a distrarre le donne dalla loro preda che, dalle mani di Bonnemort, cadeva in quelle dell'Abbruciata. Incitati da Gianlino, già Lidia e Berto s'introducevano carponi sotto le gonne della fanciulla per vedere com'era fatta; già, tirati da più parti, i vestiti si schiantavano quand'ecco apparire un uomo a cavallo e buttarsi avanti d'impeto, menando intorno scudisciate su chi non faceva presto a scansarsi. - Ah canaglia! a picchiare le nostre figlie siete dunque arrivati!
Era Deneulin che giungeva per la cena. D'un balzo fu a terra; afferrò Cecilia per la vita; e, manovrando con l'altra mano con destrezza il cavallo, lo spinse avanti a mo' di cuneo, aprendosi un passaggio nella folla, che, allo scalciare dell'animale, indietreggiava. Al cancello la battaglia continuava; ma, schiacciando e travolgendo, riuscì a passare, liberando in pari tempo col suo arrivo inaspettato Négrel e Hennebeau che, tempestati di colpi, stavano per soccombere. Solo in cima alla scala, per aver voluto fare scudo del suo corpo a Hennebeau, nell'entrata, fu raggiunto da una sassata che per poco non gli slogò la spalla.
- Bravi! - gridò. - M'avete fracassato le macchine; rompetemi anche le ossa adesso! - e sbatté la porta; appena in tempo; perché una gragnuola di sassi la investì.
- Un secondo di più, - commentò, rifiatando, - e la mia testa partiva. Ma che dire a dei forsennati simili? Non ragionano più. Non ci sarebbe che ammazzarli.
Cecilia riprendeva i sensi. Non aveva riportato neppure una graffiatura; ci aveva rimesso solo la veletta. E i Grégoire si abbandonavano alla commozione, quando:
-Tu? che succede? come ti trovi qui? come hai fatto a entrare?
Era Melania, la loro cuoca. Scappata, folle di paura, dalla Piolaine, per venire ad avvertire i padroni che i dimostranti «avevano buttato giù la villa», aveva trovato la porta d'ingresso semiaperta e s'era introdotta dentro senza che, nella confusione, nessuno la notasse. E cominciò un interminabile racconto dove l'unica sassata che aveva colpito la Piolaine, quella lanciata dalla fionda di Gianlino, diventava una cannonata che aveva squarciato i muri. Oh questa! gli sgozzavano la figlia, gli spianavano la casa! Nella testa di Grégoire, l'opinione che aveva dei suoi operai cominciò a modificarsi. Allora bisognava proprio credere che ce l'avessero con lui! E perché mai? perché viveva onestamente del loro lavoro?
La Hennebeau stentava a rimettersi: pallidissima, non s'era più mossa dalla poltrona sulla quale s'era afflosciata arrivando. Ebbe solo un fugace sorriso quando intorno si complimentarono con Négrel. I più calorosi nel ringraziarlo erano i Grégoire: ormai, si capiva, il matrimonio tra Cecilia e l'ingegnere era cosa fatta.
Hennebeau andava con lo sguardo dall'uno all'altro; più che partecipare, assisteva. La prospettiva di quel matrimonio, se da una parte gli dava un certo sollievo perché sbarazzava la casa del ganzo, dall'altra lo impensieriva: privata di Négrel, nelle braccia di chi finirebbe sua moglie? Poteva aspettarsi di tutto.
- E voi, mie care, come ve la siete cavata? - chiese Deneulin alle figlie. - In tutto, con un po' di paura? - Un po' di paura, sì, l'avevano avuta; ma ora erano contente dell'avventura e ridevano.
- Non c'è che dire, - seguitò lui, - è stata una bella giornata! Ora però se vorrete sposarvi, la dote dovrete farvela da voi! E che non vi tocchi di dover pensare anche a vostro padre! Aspettatevelo!
Scherzava con l'amarezza in gola. Le figlie gli si buttarono fra le braccia; gesto che visibilmente lo commosse.
Deneulin dunque si confessava rovinato: Hennebeau dissimulò un lampo di gioia. Finalmente lo scopo che da anni perseguitava, stava per essere raggiunto; Vandame stava per cadere nelle mani della Compagnia.
Era il successo personale che il direttore si augurava, quello che lo rimetterebbe nelle grazie dei suoi capi. Soddisfazioni che l'uomo traeva dall'adempimento soldatesco del proprio dovere; modeste felicità che lo compensavano in parte delle amarezze e dei disinganni che la vita gli infliggeva.
Ma che stava succedendo, fuori? Nel tiepido e ovattato ambiente del salotto, il rumore della strada arrivava adesso attutito. La sassaiola era cessata e con essa lo schiamazzo. Solo, in lontananza, dei sordi tonfi, come di colpi d'accetta menati contro il legno. Per rendersi conto, gli uomini passarono nell'ingresso e misero l'occhio al vetro della porta; mentre le donne salivano al primo piano, a curiosare di dietro le stecche delle Persiane.
- Me l'aspettavo! Come poteva mancare quel furfante di Rasseneur? - ed esclamando, Hennebeau cedeva a Deneulin il suo posto d'osservazione. - Eccolo lì, lo vede, ingegnere?, sull'ingresso del caffè di fronte. Io l'avevo subodorato, che in tutto questo c'era il suo zampino!
Non era Rasseneur però, sibbene Stefano che stava intanto sfondando a colpi d'ascia la porta del negozio di Maigrat; e incitava in pari tempo i compagni: non apparteneva a loro sacrosantamente la roba che c'era dietro quell'uscio? Non avevano gli operai il diritto di riprendersela? non era ad essi che l'aveva rubata quel ladro di Maigrat, che da tanto tempo li sfruttava e li affamava d'intesa con la Compagnia? Attratti dalla prospettiva del saccheggio, tutti a poco a poco venivano via dalla casa del direttore per accorrere lì. Di nuovo il grido:
-Pane, pane! - s'alzava minaccioso. Lì finalmente, dietro quella porta, ne troverebbero davvero del pane! Fu come si accorgessero tutto a un tratto che se non si sfamavano all'istante stramazzerebbero d'inedia sulla strada. In tanti ora si avventavano a catapulta contro quella porta che, nel maneggiare l'ascia, Stefano doveva fare attenzione a non colpire qualcuno.
Maigrat intanto, che Hennebeau aveva lasciato in anticamera, di lì s'era in un primo tempo rifugiato in cucina; ma in cucina non arrivava quasi nulla di ciò che avveniva all'esterno. Non reggendo alla tortura alla quale lo metteva la sua immaginazione, lavorando a vuoto, risalì al primo piano e, uscito nel giardino, si nascose dietro la pompa.
Allora, tra lo schiamazzo dei dimostranti e i colpi d'accetta, udì distintamente gridare il proprio nome. Non c'era più dubbio, gli assaltavano la bottega; se non vedeva, ora udiva; era come assistesse allo scassinamento; e ogni colpo d'ascia era un colpo che gli arrivava al cuore. - Ecco, questo è un cardine che è saltato... E' questione di minuti e m'invadono la bottega! - Le orecchie gli ronzavano; la fantasia gli rappresentava al vivo l'irrompere dei briganti nel negozio; gli scassinavano i tiretti, gli sventravano i sacchi, facevano man bassa su tutto... Neppure la casa risparmierebbero; lo ridurrebbero povero in canna; e già si vedeva ridotto sul lastrico, costretto dalla miseria a battere le strade mendicando... A una simile prospettiva si sentiva impazzire; ah, piuttosto affrontare la morte, che lasciarsi ridurre a quel punto!
Di dov'era appostato, vedeva il muro di fianco di casa sua; e, alla finestra che vi si apriva, distingueva un profilo di donna; vago, sbiadito: sua moglie che, affacciata dietro i vetri, tendeva anche lei l'orecchio ai colpi, con la stessa muta rassegnazione con cui accettava le percosse del marito. Ma sotto quella finestra sorgeva una rimessa; situata in modo che dal giardino degli Hennebeau si poteva raggiungerne il tetto; bastava per questo arrampicarsi in cima al muro di divisione, salita che facilitava l'ingraticciata di cui il muro era coperto. Una volta lassù, strisciando carponi sul tetto della rimessa, avrebbe potuto arrivare alla finestra e issarsi in casa. In questo tentativo Maigrat vide l'unica possibilità che gli restasse di scongiurare il saccheggio del suo avere; rientrato in casa, avrebbe forse il tempo di barricare la bottega, accatastando banco e scaffali contro la porta; e magari, perché no? di ricorrere ai mezzi eroici dell'olio bollente, del petrolio acceso rovesciati dall'alto sugli assalitori.
Senonché, non si decideva; l'attaccamento alla proprietà lottava in lui con la codardia, combattuto tra i due sentimenti, l'uomo restava lì a mordersi i pugni. Finché a un colpo che sembrò squarciare la porta, non resistette; ah, neppure una pagnotta doveva cadere in mano di quei banditi! piuttosto lui e sua moglie avrebbero difeso i sacchi coi loro corpi!
Aveva appena raggiunto il tetto della rimessa che dalla strada lì sotto scoppiò una salve di fischi:
-Ve', ve'! guardatelo lassù, guardatelo lassù, il gattone! Dài, dài!
Dal pensiero dell'imminente saccheggio spronato a spicciarsi, Maigrat benché tozzo, s'era arrampicato in un momento in cima al muro, senza darsi pensiero del graticcio, che si spezzava sotto i piedi in cerca d'appoggio. Ed ora stava strisciando carponi, appiattendosi più che poteva per non farsi scorgere.
Ma il ventre lo impacciava e la forte pendenza del tetto lo costringeva ad aggrapparsi ai tegoli con le unghie. Tuttavia anche così sarebbe arrivato alla meta, non fosse stato il tremito che lo invase alla prospettiva di finire lapidato: lì sotto infatti, la folla, che ora il tetto gli nascondeva, seguitava a gridare:
-Dàgli al gattone!! dài! facciamogli la festa! - Ed ecco tutto a un tratto le sue mani mollarono la presa; rotolando come un barilotto traboccò dalla grondaia, cadde di traverso sul muro di divisione, e, rimbalzando sulla strada, si spaccò il cranio contro un paracarro. Alla finestra lassù la larva di donna che s'affacciava ai vetri, non si ritrasse; continuò a guardare.
Seguì un attimo di stupore; a Stefano l'ascia sfuggì di mano.
Interrompendosi, Levaque, Maheu e gli altri s'erano voltati; e ora guardavano il muro che si rigava d'un filo di sangue. Allo schiamazzo era sottentrato un profondo silenzio.
Per poco; in un urlo d'esultanza, le donne, come ubriacate dalla vista del sangue, s'avventarono.
- Esiste dunque un Dio! Ah, l'hai finita, brutto porco! - e sfogando in scherni e invettive il lungo rancore attorniarono il cadavere ancora caldo.
- Ve' com'è bellino ora, con la zucca incignata!
- E il mio debito, allora? - gridava la Maheu. - Ma eccoti pagato! e tutto in una volta, ladro maledetto! Non rifiuterai più, adesso, di farmi credito!
E come eccitata dalle sue stesse parole, chinandosi a turargli con una manata di terra la bocca:
-Toh, anche gli interessi ti pago! Mangia, su, mangia, tu che ci mangiavi!
- E' il pane che ci hai rifiutato, la terra che mordi!
- Non ne mangerai altro d'ora in poi!
- Non ti ha portato fortuna negarlo a chi non ne aveva!
E, in un crescendo, insulti e sberleffi piovevano; mentre, steso sul dorso, il morto fissava immobile il cielo donde calava la notte.
Ma non solo del pane negato le donne l'avevano con Maigrat; un altro conto restava da regolare con lui. Per saldare anche questo, ora gli giravano intorno annusandolo come lupe. Che fargli, di quale oltraggio marchiarlo per mettersi in pari?
A dar voce al segreto rancore di tutte fu l'Abbruciata.
- Accapponiamolo! - gridò. Sì, sì, accapponarlo. Troppe ne aveva fatte, quel maiale!
Già la Mouquette gli tirava giù i calzoni; la Levaque le diede una mano a cavarglieli. Con le sue secche mani di vecchia, l'Abbruciata divaricò le cosce, impugnò quel cencio di pelle grinzosa. Lo abbrancava tutto; e nello sforzo di svellerlo, la sua schiena ossuta si arcuava, le braccia di scheletro scricchiolavano. Flaccido, quello resisteva: dovette riacchiapparlo meglio. Quando alfine strinse in mano quella poca carne villosa e sanguinante, la agitò in aria con un grido di trionfo.
Il laido trofeo fu salutato da un coro di imprecazioni: - Ah non le ingraviderai più le nostre figlie, sporcaccione!
- L'hai finita di pagarti su noi! Non ci verremo più a pararti il deretano per ottenere un po' di pane in cambio!
- Te lo vuoi mica prendere un acconto sui dieci franchi che ti devo? Io ci sto... se tu ci stai!
S'additavano a vicenda il sanguinoso carniccio, la bestia malvagia di cui tutte avevano avuto a soffrire; l'avevano schiacciata, finalmente; l'avevano lì inerte in loro balìa! Vi sputavano sopra; avanzavano verso di lei le mascelle, ripetendo in un'esplosione di scherno furente:
-Non puoi più! non puoi più! Non è più un uomo che sotterreranno! Va' dunque a fartela coi vermi, cappone!
Inalberato in cima a un bastone quel brandello, l'Abbruciata, seguìta dal vociferante codazzo, si lanciò sulla strada. Lo agitava in alto come un vessillo. Il lamentevole avanzo umano penzolava di lassù, gocciolando sangue, simile a un resto di frattaglie appeso al gancio d'un macellaio.
Dalla finestra, lassù, la Maigrat non s'era mossa; all'ultima luce del tramonto la sua faccia scialba pareva ora ridesse; e non era forse che il vetro difettoso cui s'appoggiava a deformarne in quel modo i lineamenti. O magari rideva davvero, la disgraziata che, curva a fare conti, aveva passato tutta la vita fra umiliazioni e percosse. I presenti avevano assistito con raccapriccio all'oscena mutilazione. Né Stefano né Maheu avevano potuto intervenire; troppo tardi avevano capito ciò che le donne stavano facendo. E tutti ora guardavano allibiti quella sfilata di furie.
Richiamato dal vocìo, qualcuno si fece sulla soglia del Tizzone: Rasseneur, stomacato, pallidissimo; Zaccaria e Filomena, trasecolati.
Al passare delle donne, Bonnemort e Mouque uscirono dal loro torpore per disapprovare crollando il capo. Solo Gianlino era esultante: dava gomitate a Berto e incitava Lidia:
-Guarda, guarda cosa c'è lassù!
Di ritorno, il laido corteo passò sotto le finestre degli Hennebeau.
Le signore e le ragazze che spiavano di dietro le persiane si incuriosirono. Che era quella processione? Ignare dell'accaduto (il muro di faccia aveva loro impedito di vedere) aguzzavano gli occhi per distinguere di che si trattasse.
- Che cos'è che hanno in cima a quel bastone? - chiese Cecilia, che il sentirsi al sicuro aveva rianimato.
Gianna:
-Mah! una pelle di coniglio, si direbbe! - Anche Lucia era del parere della sorella.
- Non mi pare, - disse la Grégoire. - Lo direi piuttosto un pezzetto di lardo. Avranno svaligiato la pizzicheria. Oppure... La Hennebeau la toccò col ginocchio; la vecchia allora capì e s'interruppe. E le due donne restarono lì allibite. Mangiata la foglia, le ragazze si astennero dal fare altre domande; sbiancandosi in viso, seguirono a occhi sbarrati il cruento segnacolo finché l'oscurità non lo sottrasse alla vista.
Stefano aveva ripreso in mano l'accetta; ma la lasciò ricadere. Nel bestiale sfogo delle donne, come quella dei compagni, anche la sua ira era sbollita. Il cadavere che sbarrava la strada sbarrava adesso anche la bottega.
Maheu stava lì impietrito, quando si sentì sussurrare all'orecchio di mettersi in salvo. Si volse: era Caterina, trafelata, vestita ancora del camiciotto da uomo. La respinse:
-Ripeti; che questa volta le pigli! - La ragazza si torse disperata le mani; restò lì un momento, interdetta; poi corse a Stefano:
- Mettiti in salvo! arrivano i gendarmi! - Anche lui la ricacciò; e cominciava a ingiuriarla, già il ricordo degli schiaffi gli accendeva i pomelli. Ma lei insistette, lo obbligò a buttare l'ascia, a viva forza lo tirò di là:
-Arrivano i gendarmi, ti dico! E' stato Chaval, se vuoi saperlo, ad andare a chiamarli, è lui che li porta qui. E' stato un tradimento così vigliacco che mi ha sdegnato... Per questo, sono qui! Svìgnatela! non voglio che ti acchiappino.
Stefano allora cedette. S'era appena allontanato con Caterina, quando s'udì in lontananza un galoppar di cavalli. Il grido s'alzò:
- I gendarmi! i gendarmi!
All'allarme seguì un fuggi fuggi generale; come spazzata da un ciclone, in un baleno la strada si vuotò. Non restò che laggiù la macchia rossa del corpo di Maigrat.
Sulla soglia del Tizzone, Rasseneur si affacciò; come liberato da un incubo, applaudiva a viso aperto alla facile vittoria delle armi, mentre in Montsou deserta, nelle buie case sprangate, i ricchi tremavano di paura, senza arrischiare un'occhiata fuori. La pianura intorno ormai inghiottita dalla notte; vi bruciavano solo, all'orizzonte, i sinistri fuochi degli altiforni e dei gasogeni.
Il pesante galoppo s'avvicinava. Lo squadrone sbucò in una massa compatta, che si distingueva nelle tenebre soltanto per la macchia più scura che vi metteva. E dietro i gendarmi, protetto da loro, il carretto del pasticciere di Marchiennes finalmente arrivò. Un ragazzo saltò a terra e cominciò tranquillamente a sballare la sua merce e a tirare fuori l'involto delle sfogliate che la cuoca degli Hennebeau aspettava dalle quattro.
PARTE SESTA
Capitolo primo
Si arrivò così alla metà di febbraio, tra il protrarsi d'un inverno rigido e senza sole che metteva a dura prova la resistenza degli scioperanti. Una seconda volta le autorità avevano percorso il paese: il prefetto di Lilla, un rappresentante del governo, un generale. Di rinforzo ai gendarmi era arrivata a Montsou della truppa: un reggimento al completo, che si teneva accampato da Beaugnies a Marchiennes. Picchetti armati presidiavano i pozzi; ad ogni macchina montava la guardia una sentinella. Una siepe di baionette proteggeva la villa del direttore, i cantieri della Compagnia, persino l'abitazione privata di qualche ricco. Le strade non risuonavano più che del passo cadenzato delle pattuglie. Sul terrapieno del Voreux, nel vento gelido che vi soffiava, passeggiava notte e giorno un soldato con la baionetta inastata, dominando di lassù la piatta pianura come il gabbiere il bastimento. E ogni due ore, come in paese di conquista, echeggiava il cambio della guardia:
-Chi va là? Parola d'ordine!
Anziché allentarsi, lo sciopero s'era esteso ad altri pozzi; a Crèvecoeur, a Mirou, alla Madeleine l'estrazione era sospesa; a Feutry-Cantel e alla Victoire, il numero degli operai scemava ogni giorno; a Saint-Thomas, tenutasi finora in disparte, cominciavano le defezioni.
Era ormai un ostinarsi delle maestranze nello sciopero, la loro muta risposta a quello spiegamento di forze che le offendeva profondamente nel loro orgoglio. Tra le piantagioni di barbabietole, le borgate operaie parevano disabitate. Era un caso incontrare per le strade qualche torvo solitario, che, imbattendosi in gendarmi, abbassava lo sguardo. Ma sotto quell'apparenza tetra e inoffensiva, sotto quella resistenza cocciuta e passiva, covava l'ipocrita mansuetudine, la docilità coatta e paziente della belva in gabbia che non perde d'occhio il domatore, pronta a saltargli alla nuca se volta la testa.
La Compagnia, che la morte nei pozzi rovinava, parlava di assumere operai nel Borinage, alla frontiera belga; ma non osava farlo; sicché la battaglia s'era come arrestata, limitandosi da una parte all'astensione dal lavoro, dall'altra all'occupazione militare dei pozzi. Specie di apparente tregua, che inauguratasi sin dall'indomani dei torbidi, era suggerita dalla vicendevole paura: una paura che persuadeva sia l'una che l'altra parte a seppellire quanto possibile l'accaduto nel silenzio. L'inchiesta che era stata aperta sui fatti, aveva concluso che causa della morte di Maigrat era stata una caduta; sul particolare della mutilazione riscontrata sul cadavere, si sorvolava, lasciandolo nell'alone di leggenda che già vi si formava intorno. Dal canto suo, la Compagnia s'era astenuta dal confessare i danni sofferti; per gli stessi motivi che avevano dissuaso i Grégoire dall'esporre Cecilia alla pubblicità d'un processo, dove la fanciulla avrebbe dovuto comparire come testimone. Qualche arresto tuttavia c'era stato: comparse, come sempre, all'oscuro di tutto, terrorizzate di trovarsi sul banco degli accusati. Per un equivoco, Pierron era stato tradotto ammanettato a Marchiennes: episodio di cui si rideva ancora. Così pure era stato per un filo che Rasseneur non s'era visto portar via tra due gendarmi. Alla direzione ci si contentava di compilare liste di operai da licenziare; i libretti di lavoro venivano restituiti a dozzine. Nella sola borgata dei Duecentoquaranta, ben trentasei operai lo ricevettero; tra i quali Maheu e Levaque. La responsabilità dell'accaduto si faceva ricadere interamente su Stefano, scomparso senza lasciare traccia la sera dei torbidi e ancora oggi inutilmente ricercato. A denunciarlo, era stato nel suo astio Chaval; il quale, vinto dalle suppliche di Caterina, per salvare i genitori di lei, s'era astenuto dal fare altri nomi. I giorni passavano; tutti sentivano che questa era solo una tregua; e con l'anima tesa si aspettava l'epilogo. Ormai, a Montsou, i ricchi la notte si svegliavano di soprassalto, scambiando il ronzio degli orecchi per rintocchi d'allarme, annusando nell'aria odore di spari.
Ma il colpo più impensato, una vera mazzata, la assestò loro dal pulpito il nuovo parroco, il reverendo Ranvier: un magro prete dallo sguardo di fuoco, succeduto all'abate Joire. Che salto dalla sorridente mansuetudine del predecessore, grasso e bonario, preoccupato solo di tenersi in buona con tutti! Non s'era permesso, quest'altro, di prendere in una predica le difese dei banditi che stavano disonorando il paese? Delle scelleratezze, per i cui autori aveva trovato delle scusanti, in un attacco in piena regola contro la borghesia, aveva su di essa riversato l'intera responsabilità. Era stata, a sentirlo, la borghesia che spossessando la Chiesa dei suoi antichi privilegi per attribuirseli e abusarne, aveva fatto della terra un luogo maledetto di ingiustizia e di patimento. Era essa, la borghesia, che alimentava la discordia tra le classi: essa che col suo ateismo, col suo rifiutarsi di tornare alla fede, alla fraterna convivenza dei primi cristiani, preparava all'umanità una paurosa catastrofe. Ed aveva osato minacciare i ricchi, avvertendoli che se si ostinavano a fare i sordi alla voce di Dio, Dio si metterebbe dalla parte dei poveri; agli increduli gaudenti riprenderebbe i loro beni, li distribuirebbe agli umili della terra per il maggior trionfo della Sua gloria.
La predica aveva fatto sulle devote un'enorme impressione. Questo, aveva dichiarato il notaio, era pretto socialismo e della peggior specie. Già tutti vedevano il nuovo parroco impugnare la croce, mettersi alla testa d'una banda, assestare alla società borghese dell'Ottantanove colpi tali che l'avrebbero demolita.
Informato di quella predica, Hennebeau s'era limitato a dire con una spallucciata:
-Se ci darà troppa noia, il vescovo ci sbarazzerà di lui.
Mentre in tutto il paese il panico teneva così gli animi in agitazione, Stefano, che s'era trovato un nascondiglio a Réquillart, abitava sotterra nella tana di Gianlino. Chi lo avrebbe immaginato così vicino?
Ma era appunto la tranquilla audacia con cui s'era scelto il rifugio proprio dentro la miniera, in quella galleria abbandonata dell'antico pozzo, che aveva sviato e fatto fallire le ricerche. Per arrivarvi, bisognava cominciare con aprirsi il passaggio attraverso l'inestricabile groviglio di cespugli spinosi che, cresciuti tra le armature crollate del castello, ostruivano l'imbocco. Nessuno là dentro si rischiava più; bisognava, per farlo, appendersi alle radici del sorbo, di lì lasciarsi cadere, senza vedere dove, sino a raggiungere coi piedi i gradini che ancora tenevano della prima scala a pioli. Una volta lì, e cioè allo sbocco dell'antico passaggio di fortuna, affrontare in un'aria calda che mozzava il respiro centocinquanta metri di discesa, irta di rischi; quindi strisciare faticosamente carponi per un quarto di lega tra le anguste pareti d'una galleria prima di raggiungere la tana ladresca, zeppa di bottino.
Il giovane viveva là dentro in mezzo all'abbondanza. Arrivandovi aveva trovato, oltre ciò che restava dello stoccafisso, ogni sorta di provviste, comprese delle bottiglie di ginepro. Il giaciglio di fieno era comodissimo; l'assenza di correnti d'aria manteneva nell'ambiente una temperatura costante, da tiepidario. Di luce solo scarseggiava; questa minacciava anzi di venirgli a mancare del tutto. Gianlino che s'era improvvisato suo fornitore e lo provvedeva di tutto con una prudenza e una segretezza che erano effetto della sfrenata gioia che gli dava il farla in barba ai gendarmi, ancora non era riuscito a mettere la mano su un pacco di candele. A partire dal quinto giorno, Stefano non accese più che al momento dei pasti: mangiato al buio, il boccone non gli andava giù. Il non avere a temere sorprese nel sonno, l'abbondare di pane, lo stare caldo non lo compensavano che in parte di dover vivere in quel buio. Era questo il suo maggiore tormento. Il peso, che gli schiacciava il cervello, di quelle tenebre, diventava tutt'uno col peso dei pensieri che lo opprimevano. Quello anzitutto, che ormai campava di furto, a dispetto delle teorie comuniste che professava, lo riempiva di scrupoli. Per farli tacere, si lesinava il cibo, si contentava di pane. Ma doveva bene nutrirsi; ancora il suo compito non era assolto. Un altro pensiero che non gli dava pace era quello della minaccia che covava nel suo sangue intossicato; del furore omicida che un dito d'alcool bastava a scatenare e che gli aveva, poco prima, armato la mano contro Chaval.
Alla fine di quella giornata, appena calatosi sotterra, s'era sentito al sicuro, spossato e quasi accoppato dall'orgia di violenza dalla quale usciva aveva dormito due giorni d'un sonno di piombo; eppure quel sonno non aveva smaltito gli effetti dell'orgia, se ancora adesso gliene restava la nausea. Si sentiva la bocca amara, le membra rotte, il cervello indolenzito come all'indomani d'una tremenda gozzoviglia.
Allo scadere della settimana, dovette rinunciare a vederci anche al momento dei pasti. Gianlino era tornato a mani vuote: neppure i Maheu potevano mandargli una candela. Ormai, Stefano passava ore e ore sdraiato sul fieno. Portato da quell'isolamento a esaminarsi, con stupore scoprì che certo per un lavorio operatosi in lui a sua insaputa il suo modo di pensare s'era venuto orientando in un senso finora insospettato. Era la coscienza della propria superiorità che, coll'istruirsi, il giovane acquistava; una specie di esaltazione di sé che sempre più lo distaccava dai compagni. Come spiegarsi, se no, il disgusto che di loro aveva provato subito all'indomani di quel giorno? Troppe cose in essi gli ripugnavano, già a ricordarle: la bassezza dei loro appetiti, la grossolanità degli istinti, il tanfo di tutta quella miseria sciorinata al sole. Tanto che anche adesso, condannato a quel buio, bastava l'idea di tornare a vivere in loro compagnia a dargli un urto di stomaco. Che schifo, quei corpi ammucchiati alla rinfusa, quel lavarsi tutti nella stessa tinozza, quel vivere, come bestie in una stalla, in quell'aria chiusa, in quel puzzo di soffritto irrancidito! Non uno con cui si potesse parlare sul serio di politica. Elevarli, dar loro il gusto d'una vita migliore, portarli al grado di educazione che ha il borghese, sino a fare di essi la classe dirigente, oh che lunga impresa sarebbe! E finché divideva la loro sorte, quale speranza per lui di arrivare a tanto? Così il giovane ragionava; e non s'avvedeva che a distaccarlo dai compagni era l'ambizione di mettersi alla loro testa, la presunzione di pensare in vece loro.
Una sera Gianlino arrivò con un mozzicone di candela: l'aveva portata via dalla lanternetta d'un carrettiere. Fu per Stefano una festa. Quando in quel buio si sentiva inebetire, accendeva un momento; bastava perché l'incubo di quelle tenebre si dissipasse; e allora subito spegneva, avaro d'una luce che gli era diventata necessaria quanto il pane. Se non lo rompeva la scorribanda dei topi, lo scricchiolare delle vecchie armature o il minimo rumore del ragno che filava la sua tela, il silenzio arrivava alle sue orecchie come un rombo. Con gli occhi sbarrati nel tiepido vuoto, ricadeva a pensare ai compagni, a chiedersi come andasse lassù. Abbandonarli, l'avrebbe giudicata la peggiore delle viltà. Se si teneva nascosto, era per conservare la sua libertà, per poterli soccorrere di consigli, per aiutarli. Ormai, a forza di scrutarsi, il giovane vedeva chiaro in se stesso: in attesa di meglio, la sua ambizione sarebbe stata di essere un altro Pluchart: abbandonare il lavoro, dedicarsi unicamente alla lotta di classe; ma solo, in una camera sua; ambizione che giustificava a se stesso dicendosi che il lavoro intellettuale è troppo assorbente per consentire distrazioni, ed esige, per essere proficuo, un'assoluta tranquillità.
Informato da Gianlino che i gendarmi lo credevano passato nel Belgio, una sera, al calar della notte, - s'era al principio della seconda settimana - s'azzardò a uscire dal suo buco. Desiderava rendersi conto della situazione; vedere se conveniva ostinarsi o meno nello sciopero. Nel suo intimo, egli riteneva la partita perduta. Se prima che cominciasse, nutriva dei dubbi sul risultato dello sciopero, e nell'aderirvi aveva solo ceduto agli avvenimenti, ora che di ribellione s'era ubriacato, ricadeva nella convinzione che far arrendere la Compagnia era impresa disperata. Ma non se lo confessava ancora, trattenuto dal pensiero delle conseguenze della disfatta, della grave responsabilità che ricadrebbe su di lui per le sofferenze che ne conseguirebbero. E poi la fine dello sciopero non segnerebbe il suo tramonto, il naufragio della sua ambizione? non significherebbe anche per lui il ritorno all'abbrutimento della miniera, alla bestiale convivenza coi compagni di lavoro? Per cui, senza infingimenti con se stesso, si sforzava di recuperare, ritrovare la fiducia d'un tempo, di persuadersi che resistere metteva ancora conto; che, davanti all'eroico suicidio del lavoro, il capitale non potrebbe a lungo tener duro senza distruggersi da sé.
Il paese infatti risuonava da capo a fondo di crolli: fabbriche e opifici, che la situazione fallimentare delle società abbandonava a se stessi. Errando la notte per la buia campagna, lupo che s'arrischia fuori della sua tana, Stefano, per quanto camminasse, non vedeva ai lati della strada che edifici minaccianti rovina profilarsi sul livido cielo. L'industria zuccheriera, soprattutto, s'era risentita dello sciopero; la riduzione delle maestranze non aveva salvato né lo zuccherificio Hoton né quello Fauvelle. Da Dutilleul non si macinava farina dal secondo sabato del mese; e la fabbrica di cavi per miniera Bleuze aveva definitivamente chiuso i battenti. Dalla parte di Marchiennes, la situazione s'aggravava ogni giorno; non un forno restava acceso nella vetreria Gagebois; da Sonneville, i licenziamenti erano quotidiani; nelle ferriere, uno solo dei tre altiforni lavorava ancora; dei gasogeni, non una batteria fiammeggiava all'orizzonte. Lo sciopero dei pozzi di Montsou, determinato dalla crisi che l'industria attraversava da due anni aveva aggravato quella crisi, affrettando il disastro. Alle sue cause - cessate ordinazioni dall'America, ingorgo di capitali immobilizzati in un eccesso di produzione - s'aggiungeva ora l'improvviso mancare del combustibile per le poche caldaie che lavoravano ancora. Impauritasi davanti al disagio generale, la Compagnia, riducendo l'estrazione e affamando i minatori, già dalla fine di dicembre era venuta fatalmente a trovarsi senza un chilo di carbone sullo spiazzo dei suoi pozzi. Era tutta una catena: la rovina d'uno si tirava dietro quella d'un altro, il crollo d'un'industria trascinava con sé quello dell'industria affine, in un susseguirsi così rapido di catastrofi che il loro contraccolpo si avvertiva anche nelle città vicine, a Lilla, a Douai, a Valenciennes, dove banchieri in fuga mettevano sul lastrico intere famiglie.
Spesso, nella gelida notte, Stefano si fermava in ascolto, arrestato a uno svolto da un rovinio di pietre e calcinacci. Allora, aspirando l'aria a pieni polmoni, si sentiva invadere dall'esultanza del prossimo sfacelo; dalla speranza che l'alba stava per sorgere sul crollo del vecchio mondo: non più un capitale in piedi, l'eguaglianza passata a livellare tutto come una falce maneggiata raso suolo. Ma, in quel crollo, lo interessavano soprattutto i pozzi della Compagnia. Nel buio, si rimetteva in cammino; li visitava uno a uno, felice a ogni constatazione d'un nuovo danno. Frane seguitavano a prodursi, sempre più preoccupanti quanto più l'abbandono si protraeva. Sopra la galleria settentrionale di Mirou, lo sprofondamento del suolo s'era esteso al punto che la via di Joiselle ne era stata inghiottita per un tratto di cento metri: quanto avrebbe potuto fare una scossa di terremoto; e allarmata dalla prova che un simile cedimento forniva della sua incuria, la Compagnia pagava senza mercanteggiare i terreni ai proprietari danneggiati. Crèvecoeur e Madeleine, scavate in una roccia facilmente franabile, s'andavano ostruendo ogni giorno più. Alla Victoire, si diceva, due capisquadra erano rimasti sepolti; una fuga d'acqua aveva inondato Feutry-Cantel; a Saint-Thomas, s'era resa urgente la costruzione d'un muro per puntellare un chilometro di galleria, la cui armatura si schiantava d'ogni parte.
Spese e spese che si venivano accumulando; brecce che si aprivano nei dividendi degli azionisti; la distruzione a breve scadenza dei pozzi che non poteva mancare alla lunga d'inghiottire i famosi capitali di Montsou, per quanto centuplicati da un secolo di prosperità.
Allora, davanti a tanto accanirsi della sorte contro il trust delle miniere, Stefano ricominciava a sperare; si persuadeva che un mese ancora di resistenza - il terzo - avrebbe assestato il colpo di grazia al mostro, alla belva stracca e satolla che s'accasciava, come un idolo, laggiù nel suo ignorato sacrario. Sapeva che i disordini verificatisi a Montsou avevano avuto una grande eco nella stampa della capitale; una violenta polemica s'era accesa tra i fogli ufficiosi e quelli dell'opposizione; dai primi, versioni terrificanti dei fatti erano state sfruttate soprattutto contro l'Internazionale, che il regime, dopo averla incoraggiata, ora paventava. Sapeva che, non avendo la Compagnia delle Miniere più potuto fare il sordo, due dei dirigenti s'erano degnati di venire per un'inchiesta; ma come loro malgrado, mostrandosi quanto mai sicuri circa l'esito del conflitto e così poco preoccupati della situazione che appena tre giorni dopo erano ripartiti, dichiarando che tutto andava per il meglio.
D'altra parte però, Stefano aveva appreso che i due, durante il loro soggiorno, non avevano fatto che tenere sedute, spiegando un'attività febbrile nella trattazione di affari, circa i quali tuttavia nessuna indiscrezione era trapelata. Dal che, Stefano aveva dedotto che la tranquillità dei due era ostentata; e aveva concluso che, se gente come quella abbandonava la partita, voleva dire che la vittoria degli operai era certa. Senonché il giorno dopo doveva ricredersi: la Compagnia era troppo forte per lasciarsi vincere così facilmente; essa poteva perdere dei milioni, ché del danno si sarebbe in seguito risarcita alle spalle degli operai, lesinando sulle paghe. Lo capì quando seppe da un sorvegliante della Jean-Bart, dove s'era spinto la notte seguente, che si parlava della cessione di Vandame a quelli di Montsou. I Deneulin, si diceva, si dibattevano nelle ristrettezze; ristrettezze, naturalmente, di gente agiata; ma gli imbarazzi finanziari e il sentirsi impotente minavano la salute e invecchiavano il padre; mentre le figlie dovevano lottare perché anche quello di cui si vestivano non finisse in mano dei creditori. In quella casa di ricchi si viveva peggio, insomma, che nelle famiglie operaie, non obbligate come quelli a mantenere un certo decoro e non gelose, com'erano i Deneulin, che dei loro guai nulla trasparisse.
Alla Jean-Bart il lavoro non era stato ripreso; mentre s'era reso necessario installare una nuova pompa alla Gaston-Marie; per di più, non s'era potuto evitare - per quanto ci si fosse spicciati - un principio di allagamento che imponeva forti spese. Tanto che Deneulin s'era finalmente indotto a chiedere al cugino un prestito di centomila franchi; ma ne aveva avuto un rifiuto che, per quanto previsto, aveva finito di accasciarlo. Se i Grégoire glielo rifiutavano, era per affetto, per non vederlo ostinarsi in una lotta impossibile: il loro consiglio era che vendesse. No, lui non vendeva; non se ne parlasse neanche. Doveva essere proprio lui a fare le spese dello sciopero? S'augurava prima di morire d'un colpo apoplettico. Ma poi, che fare? aveva ascoltato le proposte offerte. Un pozzo come quello, costato tante riparazioni, tutto attrezzato a nuovo, che solo il rifiuto d'un prestito gli impediva di sfruttare, se l'era visto deprezzare con ogni sorta di pretesti. Quel che gli offrivano, gli avrebbe permesso, nella migliore ipotesi, di pagare i debiti. Due giorni interi, Deneulin s'era battuto coi due amministratori della Compagnia, venuti a Montsou. Esasperato dalla olimpicità con cui quelli cercavano di abusare ignobilmente della situazione in cui si trovava, Deneulin, perduta la pazienza, aveva finito per dichiarare che a quelle condizioni mai e poi mai si sarebbe indotto a vendere. E le cose erano rimaste lì; i due erano tornati a Parigi ad attendere pazientemente il momento immancabile in cui, con l'acqua alla gola, l'altro avrebbe ceduto.
Allora Stefano capì e lo riprese lo scoraggiamento: ecco che già la Compagnia aveva trovato un compenso ai suoi disastri. I grandi capitali sono così forti che s'impinguano anche nella disfatta, divorano i piccoli, vittime della battaglia che era stata ingaggiata contro di loro.
Lo risollevò un poco l'indomani la notizia che gli portò Gianlino: al Voreux, il rivestimento cedeva, già tutti i giunti facevano acqua. S'era dovuto in fretta e furia correre ai ripari, mandando a lavorare una squadra di carpentieri. Sin là, nei suoi sopraluoghi notturni, il giovane non s'era ancora arrischiato; dissuaso dal profilo della sentinella sempre all'erta sul terrapieno. Impossibile non farsi scorgere; dominando i dintorni, la sentinella sembrava, lassù in aria, la bandiera del reggimento.
Questa volta, profittando che il cielo s'era coperto, verso le tre vi si recò. Voleva assumere informazioni dirette dai compagni. Gli dissero che le condizioni in cui l'armatura si trovava erano tali che, a loro parere, sarebbe stato urgente rifarla daccapo: ciò che avrebbe impedito l'estrazione per tre mesi. A lungo il giovane indugiò presso l'imboccatura del pozzo; il concerto di mazze che ne usciva lo riempiva di esultanza.
Venne via che albeggiava. La sentinella era lì: adesso, di passare inosservato, non poteva sperare; meglio dunque non tentare neanche di schivarla. Ah come la rivoluzione avrebbe trionfato facilmente, se non vi fossero stati i soldati che la borghesia pigliava nel popolo, per armarli contro il popolo! Sarebbe, per questo, bastato che l'operaio, il contadino, ricordandosi della loro origine, fossero improvvisamente passati dall'altra parte. Era questo pensiero che atterriva la borghesia, che la faceva sudare freddo: il pericolo di quella diserzione. Se fosse avvenuta, nel giro di due ore essa sarebbe stata spazzata via, annientata; e con essa l'abominevole ingiustizia che il suo egoismo aveva instaurato sulla terra. Del resto, chi sa! Già si diceva che, di socialismo, fossero infetti interi reggimenti. Era vero? proprio alle cartucce distribuite dalla borghesia sarebbe toccato di inaugurare il regno della giustizia? E già Stefano accarezzava la speranza che fosse di lì, che l'ammutinamento cominciasse; che il reggimento di presidio ai pozzi fosse il primo a unirsi agli scioperanti, a mettere al muro in massa i dirigenti della Compagnia, a consegnare finalmente la miniera ai minatori. Immerso in queste fantasticherie, era senza quasi accorgersene, salito sul terrapieno. Ebbene, perché no? avrebbe scambiato quattro chiacchiere con la sentinella; un'occasione per sondare lo stato d'animo dei soldati. Come distratto, proseguì alla sua volta dandosi l'aria d'uno che, passando di lì, ne profitta per raccattare i pezzi di legna che trova fra lo sterro e farsene un fastello.
- Tempaccio, è vero, compagno? Vorrei sbagliarmi, ma siamo alla neve.
Di sentinella, era un biondino timido, dal viso pallido seminato di chiazze rosse. L'impaccio che gli dava il cappotto, lo diceva una recluta.
- Già, direi anch'io, - e i suoi occhi azzurri cercavano in cielo la conferma della previsione, nella bassa nebbia che pesava laggiù sulla pianura come una cappa di piombo.
- Che poco criterio, i tuoi superiori, piantarti lì a crepare dal freddo! Ci fossero i cosacchi in vista, capirei! E col vento poi che ci tira, qui!
Caldi, no, non si stava di certo; ma non si lagnava, il soldatino.
C'era del resto lì una specie di garitta, dove se voleva poteva ripararsi e indicava il casotto che nelle nottatacce di vento serviva di rifugio al vecchio Bonnemort. Ma la consegna era di non muoversi dalla sommità del terrapieno; per cui, lui, anche se le mani non avvertivano più il fucile, non si muoveva. Sì, apparteneva al picchetto distaccato al Voreux; in sessanta, erano. E siccome di montare di guardia ogni tanto toccava a lui, sì, più di una volta già aveva corso il rischio che gli si congelassero i piedi. Ma era il mestiere che voleva così. E già intontito dall'abitudine alla disciplina militare, il soldatino rispondeva alle domande balbettando, come un bambino svegliato nel sonno.
Inutilmente, Stefano portò il discorso sulla politica. Ai suoi pistolotti, l'altro assentiva senza aver l'aria di capire.
Repubblicano? Sì, anche il suo capitano aveva sentito dire che lo era; lui però di queste cose non se ne intendeva; per lui era tutto lo stesso. Se gli ordinavano di sparare, sparerebbe, per non buscarsi una punizione; solo per questo. Stefano lo ascoltava e sentiva crescere la sua avversione per l'esercito; per quei suoi fratelli ai quali barattavano il cuore, semplicemente con l'insaccarli dentro una divisa.
- Come ti chiami? - Giulio. - E di dove sei? - Di Plogof, laggiù... - e allungò a caso il braccio. "Laggiù", intendeva in Bretagna; di più non sapeva. Al nome del paese natio s'era illuminato in viso, sorrideva: - Laggiù ho mia madre e mia sorella che mi aspettano... Ah, ma chi sa quando le rivedrò... Quando sono partito, m'hanno accompagnato sino a Pont-l'Abbé. Col cavallo dei Lepalmec, che per poco non s'è spezzato le gambe in fondo alla discesa di Audierne. Priscillo, mio cugino, ci aveva preparato le salsicce; ma le donne piangevano troppo, ci sono rimaste in gola... Oh quanta strada, Dio buono, che c'è di qui a casa mia! - Seguitava a sorridere e gli occhi gli si inumidivano. Forse si rivedeva nella landa deserta di Plogof, su quella punta selvaggia del Raz, flagellata dalle tempeste, un giorno di gran sole, alla stagione che la sua terra è tutta rosea di eriche in fiore.
- Mi dica lei che lo saprà, signore, - s'azzardò. - Se tengo buona condotta, dice che me lo daranno tra due anni un mese di licenza?
Il mattino era ormai alto; fiocchi di neve cominciavano a scendere dal cielo terreo. E anche Stefano s'era lasciato andare a discorrere del suo paese; della Provenza di dove era venuto via bambino; quando lo mise in sospetto vedere lì sotto sbucare dai rovi Gianlino. Stupito di trovarlo lì, il monello gli faceva segno di venire via. Sì, perché intanto era un sogno, per ora, che i soldati potessero far lega con gli operai. Ci vorrebbero anni e anni, per questo. Comunque era un'altra delusione; e lo rattristava come se non vi fosse stato preparato. Quand'ecco, capì il segno di Gianlino: era l'ora del cambio della guardia. Allora, accasciato dalla certezza della disfatta, s'allontanò alla volta di Réquillart; mentre, trottando al suo fianco, il ragazzo accusava la sentinella, quel venduto, di aver chiamato fuori gli uomini di picchetto per sparare loro addosso. Lassù intanto avveniva il cambio della guardia; s'udirono le frasi sacramentali:
- Chi va là? Parola d'ordine! -; poi il passo cadenzato del picchetto di ritorno; pesante come in un paese di conquista.
Sebbene ormai fosse giorno, i borghi operai non davano segno di vita; sotto il tallone militare, i loro abitanti mordevano il freno in silenzio
Capitolo secondo
Dopo una nevicata di due giorni, il gelo quel mattino aveva tutto ghiacciato, il paese dell'antracite, con le sue strade d'inchiostro, i suoi muri e alberi neri, non era più che un candido lenzuolo che si stendeva tutto eguale a perdita d'occhio. Sotto la neve, la borgata dei Duecentoquaranta spariva. Non un filo di fumo dai tetti, coperti d'una spessa coltre che le abitazioni senza fuoco, gelide come i paracarri delle vie, non intaccavano nemmeno. L'abitato si sarebbe detto, nella bianca pianura, una cava di marmo bianco; un villaggio defunto, avvolto nel suo sudario. Lungo le strade, solo le orme fangose che vi avevano stampato le pattuglie.
In casa dei Maheu, s'era consumata da un giorno l'ultima palata di carboniglia; con un tempo simile, in cui neppure i passerotti trovavano un filo d'erba, a raggranellarne foss'anche una manciata sui terrapieni dei pozzi, non c'era più da pensare. Per essersi ostinata a cercarne, frugando nella neve con le sue povere mani intirizzite, Alzira stava morendo. Già due volte la madre l'aveva portata da Vanderhaghen, avviluppata dentro una coperta e tutte e due le volte senza trovarlo in casa; la seconda però, la domestica le aveva promesso che il dottore passerebbe prima di notte da loro; e ora, ritta dietro i vetri, ne spiava l'arrivo; mentre la piccola inferma, che aveva voluto scendere dal letto nell'illusione che vicino alla stufa spenta avrebbe meno freddo, seduta su una sedia batteva i denti.
In faccia a lei, il vecchio Bonnemort, che di gambe stava un po' meglio, sembrava dormisse. Leonora ed Enrico erano ancora fuori a battere questuando le strade. Maheu passeggiava accasciato su e giù per la stanza spoglia di mobilio, a ogni andirivieni urtandosi quasi nelle pareti, simile al moscone che, non vedendolo, dà continuamente del capo nel vetro. Anche il petrolio era finito; ma, sebbene fosse ormai calata la notte, il riflesso della neve bastava a vederci.
Quando, annunciata da un fragore di zoccoli, ecco la Levaque spalancare d'impeto la porta, e gridare, fuori di sé, dalla soglia:
- Sicché sei stata tu a dire che dal mio inquilino io mi faccio pagare un franco per ogni nottata che passa con me?
La Maheu alzò le spalle:
-Non mi seccare che ho altro per la testa!
Io non ho detto un bel niente!... Chi te l'ha dato a intendere intanto?
- M'hanno detto che l'hai detto; chi, non hai da saperlo... Hai anzi aggiunto che ci sentivi attraverso la parete fare le porcherie; e che se in casa mia non ci si entra dalla sporcizia, è perché io sono sempre a letto c on qualcuno... Ripeti che non l'hai detto, se ne hai il coraggio!
Non passava giorno che non scoppiassero liti in conseguenza di chiacchiere donnesche. Tra le famiglie poi che abitavano uscio a uscio, le baruffe erano così frequenti che capitava s'accapigliassero e si riconciliassero nel giro della stessa giornata. Questo in tempi normali; ora poi che la fame acuiva gli astii e che il bisogno di sfogarsi faceva prudere a tutte le mani, gli alterchi s'erano moltiplicati e inveleniti più che mai: una «spiegazione» tra due comari finiva sempre in una colluttazione fra i rispettivi mariti.
Ecco infatti, di rinforzo alla moglie, arrivare Levaque che si tirava dietro riluttante Bouteloup:
-E' qui Bouteloup; dica un po' lui se ha mai dato del danaro a mia moglie per andarci a letto insieme!
Nascondendo la timidezza e l'imbarazzo nel barbone, quello si schermiva, balbettava:
-Oh questo no! Macché! che vi pare? Mai un soldo, mai!
Trionfante, Levaque venne a Maheu; e, mettendogli il pugno sotto il naso:
-Sai, non mi vanno a me queste storie! Quando per moglie si ha una linguacciuta come la tua, le si rompe il filo della schiena... Oppure, è che ci credi, tu, a quello che è andata a dire?
Esasperato di dover intervenire, - neanche ruminare in pace la propria disperazione, si poteva? - Ma perdìo, - Maheu sbottò. - Non ne abbiamo già abbastanza di guai? anche questi pettegolezzi, ora? Lasciami in pace, se no meno. E chi t'ha detto intanto che l'ha detto mia moglie?
- Chi l'ha detto? E' la Pierron che l'ha detto!
- Ah, ah! - La Maheu scattò in un risolino secco, di gioia; e andando alla Levaque:
-Ah, la Pierron, eh? Buona quella! E a me la Pierron, vuoi sapere che m'ha detto? che tu vai a letto con tutti e due i tuoi uomini alla volta, uno sopra e l'altro sotto!
Allora scoppiò un putiferio.
- Di ben altre, la Pierron, ne ha dette sul vostro conto! - gridarono di rimando i Levaque ai Maheu. - Che avete venduto Caterina, ha detto; e vi siete impestati tutti quanti, bambini compresi, per via d'una carogna di malattia che Stefano s'è buscato al Vulcano!
Maheu perdette il lume degli occhi:
- Questo, ha detto! ha detto questo! Benone! Vado io a chiederglielo; e se mi dice che l'ha detto, le stampo queste cinque dita sulla faccia!
Dicendo, si slanciò fuori; i Levaque lo seguirono per testimoniare, mentre Bouteloup, che aveva un sacro orrore per i litigi, se la svignava chiotto chiotto.
Eccitata dalla disputa, la Maheu si disponeva a seguire anche lei il marito, ma un lagno di Alzira la trattenne. Rimboccò la coperta intorno alla poverina, che batteva i denti dalla febbre; e, con l'angoscia negli occhi, tornò ad appostarsi alla finestra. E quel medico che non si faceva vedere!
Maheu e i Levaque, arrivati alla porta della Pierron, trovarono lì fuori Lidia che, per ingannare il tempo, scarpettava nella neve. Le imposte erano chiuse; ma da una trapelava la luce. Alle loro domande, la ragazzina rispose impacciata; no, il babbo non era in casa; era andato al lavatoio a ritirare i panni lavati dalla nonna. Richiesta della madre, si turbò: che facesse non sapeva. Poi, tant'è, in una risatina sorda che sfogava il suo malumore, spiattellò ogni cosa: la madre l'aveva chiusa fuori, per via che in casa c'era Danseart; con lei lì, non avrebbero potuto discorrere a loro agio.
Il capo-sorvegliante infatti era arrivato nella borgata dal mattino, accompagnato da due gendarmi, col proposito d'indurre gli operai a riprendere il lavoro; e s'era aggirato di casa in casa, facendo pressioni su quelli che tentennavano, annunciando a tutti che se entro lunedì non si presentavano, la Compagnia era decisa a ingaggiare minatori nel Borinage. E al cadere della notte, trovando la Pierron sola in casa, s'era spicciato della scorta per attardarsi a bere in compagnia dell'amante un bicchierino davanti al fuoco.
Ah, così? Inuzzolito alla prospettiva dello spettacolo che pregustava, Levaque intimò brusco a Lidia di andare altrove a giocare; e con una risatina grassa che gli chiocciò in gola:
-Ssssst, - fece agli altri.
- Ora godiamoci questa. Le nostre ragioni le faremo dopo, - e mise l'occhio alla fessura illuminata.
Non s'era sbagliato! Curvo, soffocando piccole esclamazioni, Levaque dava ora a vedere per più segni il gusto matto che quello che vedeva gli dava. La moglie volle la sua parte; ma ritraendosi quasi subito, dichiarò con una smorfia da mal di pancia, che queste erano cose che le davano l'urto di vomito. Maheu invece cedette il posto soddisfattissimo: capperi, se valeva la pena! Allora ciascuno a turno buttò un'occhiata dentro; ed era come se a teatro si passassero di mano il binoccolo.
La sala, lustra che ci si specchiava, era rallegrata da un gran fuoco; sul tavolo, bottiglia di liquore e pasticcini: una vera orgia. Così sfacciata, che finì per esasperare i due capifamiglia, i quali pure, in altro momento, ne avrebbero avuto per due mesi di buonumore. Che quella si facesse dare su sino in gola a cosce all'aria, buon pro le facesse. Ma, perdìo, regalarsi la pacchia davanti a quel buon fuoco e, per rimettersi in forza, trattarsi a liquori e pasticcini, mentre i vicini non hanno un cantuccio di pane né un pezzetto di carbone!
In quella:
-Il babbo! - strillò Lidia arrivando di corsa.
Pierron, infatti, veniva avanti lemme lemme, con l'involto del bucato in spalla. Maheu, a bruciapelo:
-Di' su; mi riferiscono che tua moglie è andata a dire che io ho venduto Caterina e noi in casa siamo tutti impestati... E, in casa tua, quanto è che te la paga, tua moglie, il messere che ora è dietro a lustrarla?
Colto all'impensata, Pierron faceva le viste di non capire; quando la moglie, allarmata da quelle voci lì fuori, perse la testa; e, per rendersi conto, aprì addirittura la porta, affacciando un viso in fiamme che l'avrebbe tradita anche senza il corpetto slacciato e la sottana rimboccata alla vita; e lasciando intravedere dietro le sue spalle il complice che si rimboccava in fretta e furia i pantaloni. Questi, sgomento all'idea che la sua disavventura potesse giungere all'orecchio del direttore, infilò la porta e se la batté, seguìto da un coro di risa, di sberleffi e di fischi.
Allora le lingue si sbrigliarono:
-Tu che trovi sempre che le altre sono sporche, - gridava la Levaque alla Pierron, - non hai di granché a vantarti d'esser pulita! Sfido! hai chi ti lustra!
E Levaque di rincalzo:
-E sparla delle altre, poi! Guardatela lì la sudiciona che è andata a dire che mia moglie va a letto con due uomini alla volta, uno sopra e l'altro sotto!
Ma già l'altra s'era ripresa; e, forte di sapersi la più bella e la più ricca, teneva testa alla canèa. Con un'aria di regina offesa:
-Ho detto quello che ho detto, - rimbeccò. - Levatevi di qui. Vi riguarda forse quello che faccio? E' l'invidia che vi fa parlare! Ce l'avete con noi perché noi ne mettiamo ancora da parte. Andate, andate: non saranno le vostre calunnie che metteranno male tra me e mio marito: lui sa benissimo perché il signor Danseart si trovava in casa.
Anche Pierron infatti ora alzava la voce, prendeva le difese della consorte. Allora fu contro di lui che tutti si rivolsero: gratificandolo di venduto, di spia, di tirapiedi della Compagnia.
Maheu:
-Ti tappi in casa, eh, perché non ti vedano quando ti ingozzi delle leccornie che ti pagano quelli ai quali ci tradisci!
- Sta' zitto, tu, Maheu; ti conviene. Credi che non lo sappia chi è stato a ficcare sotto la mia porta il pezzo di carta coi due ossi in croce e sopra un pugnale?
Allora, come sempre da quando la fame imbestialiva anche i più mansueti, gli uomini vennero alle mani e si scazzottarono di santa ragione. Si dovette sottrarre Pierron alla gragnuola di pugni che i due, avventatiglisi addosso, gli somministravano. Perdeva ancora sangue dal naso, quando sopraggiunse la suocera. Messa al corrente, la vecchia disse solo:
-Quel porco lì è la vergogna e il disonore della mia famiglia!
Rientrando in casa:
-E' venuto? - chiese Maheu. Dal vano della finestra di dove non s'era mossa:
-Non ancora! - rispose la moglie.
- E i ragazzi sono rientrati?
- Non ancora.
L'uomo allora riprese a camminare in su e in giù col passo di prima: il passo pesante del bue che ha ricevuto la mazzata. Immobile sulla sua sedia, Bonnemort non aveva neanche alzato il capo. Fissando con gli occhi sbarrati il soffitto dove la neve metteva un bianco barlume, che immergeva la stanza in un chiarore lunare, Alzira taceva. Per non dare dolore ai suoi, si sforzava di contenere il tremito da cui era presa; ma, per quanto impegno ci mettesse, ci riusciva così poco, che ogni tanto la coperta tradiva il rabbrividire del magro corpicino.
Intorno, le pareti spoglie testimoniavano già da sole l'agonia della casa. Le fodere dei materassi erano andate a raggiungere dal rigattiere la lana che avevano contenuto. Poi erano partite le lenzuola; e via via tutto quello da cui si poteva tirare qualche profitto. Una sera s'era cenato con due soldi: il ricavo d'un fazzolettone del nonno. A ogni oggetto da cui ci si separava, erano lacrime che scorrevano. Ancora adesso la Maheu rimpiangeva la scatola di cartone rosa di cui pure aveva dovuto disfarsi: un antico regalo del suo uomo; era uscita di casa stringendosela al seno come un bambino e consegnandola aveva provato una fitta al cuore; la stessa che ad abbandonare in un portone il nato che non si può mantenere. Ormai da vendere non avevano che la pelle; una pelle così malandata che nessuno l'avrebbe pagata un centesimo. Non si davano neanche più la pena di cercare; sapevano che in casa non c'era più nulla e che quindi non c'era più speranza d'ottenere nulla: né una candela, né una manciata di carboniglia, né una patata; e di quella totale indigenza aspettavano di morire; e se insorgevano ancora era quando si trattava dei bambini, perché allora si ribellavano all'inutile crudeltà della sorte: perché invece di farla morire subito, il destino aveva voluto che Alzira si ammalasse?
- Eccolo finalmente! - esclamò la Maheu. Una forma nera era passata davanti alla finestra. Ma l'aprirsi della porta la disingannò: non era Vanderhaghen, era il nuovo parroco, il reverendo Ranvier.
La vista di quella desolazione non parve impressionarlo minimamente.
Non era la prima casa che vedeva, nel borgo; perché anche lui, a somiglianza di Danseart, andava di casa in casa; non in cerca di operai come l'altro, ma di «uomini di buona volontà».
Aggredendoli infatti a bruciapelo con nella voce l'ardore del fanatico:
-Perché, figli miei, non siete venuti domenica alla messa?
Male! Eppure non c'è che la Chiesa che possa salvarvi... Suvvia, promettetemi che domenica non mancherete.
Dopo averlo squadrato, Maheu s'era rimesso a camminare.
Per lui rispose la moglie:
- Per che farci, alla messa, signor parroco? Non le pare che il buon Dio di noi se ne lavi le mani? Che cosa ha fatto al buon Dio la mia piccina che è lì che batte i denti dalla febbre? Non ce ne aveva mandato abbastanza, è vero, di prove? bisognava che me la facesse anche cadere ammalata, proprio ora che non ho neanche la possibilità di farle una tazza d'acqua calda.
Allora, ritto in mezzo alla stanza, a lungo il prete parlò. Sfruttando il momento, il pauroso stato d'indigenza prodotto dallo sciopero e l'esasperazione contro la borghesia che esso metteva negli animi, predicò con l'ardore del missionario che vuol convertire dei selvaggi alla fede. Disse che la Chiesa era coi poveri; sarebbe Essa un giorno a far trionfare la Giustizia sulla terra, attirando sulla scelleratezza dei ricchi il castigo del Cielo. Che quel giorno non tarderebbe a spuntare, perché i ricchi avevano usurpato quaggiù il posto di Dio; e, impadronendosi con la violenza del potere che solo a Dio compete, erano arrivati a governare senza di Lui. Ma che se gli operai volevano che si giungesse a un'equa spartizione dei beni della terra, era nelle mani dei preti che dovevano mettersi, allo stesso modo che, alla morte di Gesù, i piccoli e gli umili s'erano stretti intorno agli Apostoli. Quale forza non avrebbe il Pontefice, di quale Esercito non disporrebbe il Clero il giorno che comandasse alle sterminate masse operaie? Nel giro d'una settimana, il mondo sarebbe purgato dei malvagi; i padroni indegni verrebbero cacciati, la legge del lavoro governerebbe la società, ognuno sarebbe ricompensato secondo il suo merito; si instaurerebbe allora finalmente il vero regno di Dio.
Ascoltandolo, alla Maheu pareva d'udire Stefano quando nelle veglie profetizzava la fine di tutti i loro guai. Solo, questa volta restava scettica: degli uomini in sottana non s'era mai fidata.
- Parla bene, reverendo... E dunque non se la fa, lei, coi ricchi? I suoi predecessori andavano tutti a pranzo in casa del direttore; e se noi chiedevamo del pane, ci minacciavano l'inferno.
Ranvier dichiarò allora che tra la Chiesa e il popolo esisteva un deplorevole malinteso; e, senza accusare esplicitamente nessuno, attaccò i parroci delle città, i vescovi, l'alto clero che, corrotto da una vita di agi, avido di dominio, era venuto a patti con la borghesia, senza accorgersi nella sua cecità che era la borghesia che lo spossessava dell'impero del mondo. La salvezza verrebbe dai preti di campagna; essi insorgerebbero in massa; e, con l'aiuto dei diseredati, ristabilirebbero sulla terra il regno di Cristo. E, dicendo, quasi già si vedesse alla loro testa, ergeva l'ossuta figura, mandava lampi dagli occhi - capobanda dei diseredati, rivoluzionario del Vangelo. Senonché, trascinato dall'entusiasmo, già infiorava il suo dire di espressioni mistiche, troppo astruse per il modesto uditorio, che da un po' non lo seguiva più.
Finché, brutalmente, Maheu:
-Tutto bello, reverendo; ma non sono le belle frasi che cavano la fame. Una pagnotta sarebbe servita meglio allo scopo!
- Quanto a questo, venite intanto a messa e Dio provvederà!
E uscì per entrare dai Levaque a catechizzarli alla loro volta. Così, tutto assorto nel suo sogno d'un immancabile trionfo della Chiesa, che ai suoi occhi toglieva importanza alle sofferenze attraverso le quali passava, e quasi non gliele lasciava vedere, il reverendo Ranvier correva a mani vuote di borgata in borgata, per nulla preoccupato che quei poveracci morissero di fame, vedendo anzi nei patimenti che duravano il lievito più efficace per la loro eterna salute!
Via lui, non si udì più nella stanza che l'andirivieni di Maheu, pesante da scuotere l'impiantito; soverchiato solo un momento dal dirugginio di vecchia carrucola con cui Bonnemort si schiarì la gola. Assopita, ora Alzira vaneggiava sottovoce, rideva: nel delirio della febbre, forse si credeva al caldo, al sole, a giocare. La madre venne a tastarle la fronte:
-Scotta, adesso! Disdetta infame! Non c'è nemmeno più da aspettarlo, quello là! quei briganti gli avranno proibito di venire -. (Quello là era il medico e i briganti la Compagnia).
Ma la porta s'apriva: lui certo. Macché! la luce di speranza si spense, le braccia della donna ricaddero. Non senza impaccio: - Buonasera, - fece Stefano, una volta che si fu assicurato d'aver richiuso.
Spesso il giovane arrivava così all'improvviso, profittando del buio.
Informati quasi subito del suo rifugio, i Maheu non lo avevano rivelato a nessuno; sicché nella borgata tutti ignoravano che ne fosse di lui; e, circondata di leggenda, la sua persona alimentava ancora delle speranze. Un giorno, si sussurrava, ricomparirebbe; e, nella superstiziosa attesa del miracolo che è sempre l'ultima a morire, già lo vedevano arrivare colmo d'oro, al comando d'un esercito: ciò che aveva predetto allora si avvererebbe, si instaurerebbe di colpo sulla terra il regno promesso. Chi diceva d'averlo visto sulla strada di Marchiennes che si celava, con altri tre, in fondo a una vettura; chi asseriva che era in Inghilterra e fissava entro due giorni la data del suo ritorno. Qualcun altro invece lo accusava di nascondersi in una cantina, con la Mouquette che gli teneva caldo: amorazzo che, risaputo, lo aveva un po' screditato (primi sintomi, questi, del declinare della sua popolarità; effetto della delusione seguìta alla cieca fede e che era fatale ogni giorno di più dilagasse).
- Che tempo da cani! ... E, voi, nessuna novità? sempre di peggio in peggio?... Ho sentito dire che Négrel è partito per la frontiera belga con l'incarico di ingaggiare degli uomini. Se fosse vero, sarebbe la fine per noi!
Stefano questa volta aveva dovuto farsi violenza per tornare dai Maheu; per entrare in quella stanza gelida e buia, riaffrontare la vista di quei disgraziati, che ora l'oscurità gli lasciava appena indovinare. A trovarsi lì, provava il disagio, la ripugnanza di chi per aspirazioni e cultura si sente già distaccato dai compagni. Combattuto tra pietà e ribrezzo davanti a quello squallore, al lezzo di quei corpi ammucchiati alla rinfusa, ora il giovane cercava, senza trovarlo, il modo d'entrare in discorso: era venuto per esortarli a cessare un'inutile resistenza.
Già l'accenno che aveva azzardato suscitava una violenta reazione; piantandoglisi davanti, Maheu:
-A ingaggiare degli uomini nel Belgio?
- gridò. - Si provino a farlo, quei delinquenti! li facciano venire, che sarà la volta che saltano i pozzi!
Certo, la Compagnia se lo meriterebbe, ammise Stefano; ma, purtroppo, che possibilità c'era di farlo? coi soldati che li presidiavano e proteggerebbero la discesa di quegli altri? E, davanti all'obiezione, Maheu stringeva i pugni; «sentirsi quelle baionette alle spalle», come lui s'esprimeva, era la cosa che lo esasperava di più. I minatori non erano dunque più padroni in casa loro? li si trattava dunque come galeotti, li si costringeva al lavoro coi fucili carichi? Lui c'era affezionato, alla sua miniera; sapeva lui che cosa gli costava non discendervi da due mesi. Ma appunto per questo, al pensiero che altri glielo portassero via, il suo pozzo, che glielo usurpassero, vedeva rosso.
A questo punto dovette ricordarsi che gli era stato reso il libretto; perché, interrompendo lo sfogo, con altra voce:
-Quantunque, non so perché me la prendo così calda, io. Io non ci ho più niente a che fare, col Voreux. Mi buttino fuori anche di qui e non mi resterà che crepare sulla strada.
Stefano colse la palla al balzo:
- Oh per questo non ti dar pensiero... Se vuoi, il tuo libretto lo riprendono sin da domani. Non ci si priva così alla leggera d'un operaio come te.
Lo interruppe, lo fece volgere intorno un ridere sommesso, infantile, che usciva dall'ombra: il ridere di Alzira nel delirio.
Finora in quel buio era tanto se, dalla sua immobilità, Stefano aveva riconosciuto il profilo di Bonnemort. L'ilarità di quel fagottino lo raccapricciò: anche i bambini si mettevano a morire!
Questo gli fece trovare la voce per dire:
-Suvvia, così non può durare. Ci è andata male; riconosciamolo e arrendiamoci. Non ci resta altro da fare.
A questa, fu la Maheu, tenutasi sin qui in disparte, a insorgere come una vipera. Bestemmiando come un uomo, venne a piantarglisi davanti e dandogli improvvisamente del tu:
-Che cos'è che hai detto? - gli gridò sulla faccia. - Tu? tu, parli così?
Tartagliando sconcertato, lui tentò di rimediare; ma quella non lo lasciò:
-Non lo ripetere, sai! non lo ripetere! o, donna come sono, ti spacco la faccia! Sicché noi si sarebbe patita due mesi la fame, si sarebbe venduto tutto il po' che si aveva, avrei visto i bambini ammalarmisi, e tutto sarebbe come non stato? tutto questo per niente, per ritrovarsi come prima? Ah, a un pensiero simile, io non ci vedo più! No, no! io do fuoco a tutto, faccio un macello, ormai, piuttosto che arrendermi! - E, additando nel buio, minacciosa, il marito:
-E se il mio uomo, lo vedi? rimette piede là dentro, lo vado ad aspettare sulla strada per sputargli in faccia e dargli il titolo che si merita!
Il viso di lei Stefano non lo distingueva, ma l'alito della sua bocca gli bruciava la faccia. Sgomento allo spettacolo di quella disperazione, che era opera sua, aveva indietreggiato. In quella furia che non udiva ragione e parlava di fare un macello, come riconoscere la moglie di Maheu, la donna equilibrata d'un tempo, aliena da ogni violenza, aborrente dal sangue? Non era più lui ora; era lei, che si ergeva a paladina dei diritti delle masse, che reclamava la repubblica e la ghigliottina, per farla finita con quei ladri di ricchi, impinguatisi alle spalle dei morti di fame, per sbarazzare una buona volta la terra degli sfruttatori della povera gente!
- Sì, - gridava, - con queste unghie li spellerei vivi!... Basta, basta! Non eri tu pure a dirlo, che la nostra ora era venuta? Quando penso che mio padre, il padre di mio padre, e il padre del padre di mio padre, tutti i nostri vecchi, hanno sofferto quello che noi soffriamo; e che ai nostri figli e ai figli dei nostri figli toccherà la stessa sorte, mi sento impazzire! Ben altro dovevamo fare quel giorno! Dare fuoco a Montsou, si doveva; che non ne restasse pietra su pietra. E se ho un rimorso, sai qual è? è di non avere lasciato che il vecchio la strozzasse, la loro Cecilia! Lasciano bene, quelli della Piolaine, che me li strangoli la fame, i miei figlioli!
Nel buio le parole della donna cadevano sorde e secche come colpi di scure. La speranza che le avevano messo in cuore, si mutava, alla smentita dei fatti, in tanto veleno.
Stefano batté in ritirata:
-Non mi sono fatto capire, - s'affrettò a dire, appena la Maheu glielo permise. - Intendevo, con le mie parole, che si dovrebbe venire a una transazione con la Compagnia. Mi consta che i pozzi stanno andando in rovina; per salvarli, certo la Compagnia acconsentirebbe a trattare.
- Scendere a patti? No, niente affatto! - insorse daccapo la Maheu; e si sarebbe rimessa a urlare, ma le tolse la parola l'aprirsi della porta.
Nemmeno ora era Vanderhaghen; erano Enrico e Leonora che rincasavano: a mani vuote. Avevano avuto, sì, due soldi da un signore; ma, nel ruzzare tra loro, li avevano persi; e per quanto in tre avessero frugato nella neve, non c'era stato verso di ripescarli.
- E Gianlino dov'è rimasto? - Se l'è filata; ha detto che aveva da fare.
Stefano si sentì stringere il cuore. Erano dunque arrivati a tendere la mano! ed era la madre che li mandava! la Maheu, una volta orgogliosissima; e che adesso proponeva che a tendere la mano si andasse tutti; tutti i diecimila operai di Montsou; con tanto di bastone e di bisaccia come dei vecchi invalidi: tutto un esercito di mendicanti che allarmerebbe il paese.
Allora, un nuovo strazio si aggiunse: con la fame che avevano raggranellato per le strade, i due volevano mangiare. - Perché non si cena? - chiedevano. E frignando si trascinavano per la stanza, come in cerca di quel che non c'era; finché, in quel buio, pestarono i piedi ad Alzira, strappandole un gemito. Fuori di sé, la madre avventò loro due schiaffi; nel buio, a caso. E fu peggio; perché quelli si misero a strillare che avevano fame. Alla donna allora mancò il cuore; fu come se le gambe le diventassero sotto di cencio; s'afflosciò per terra e, attirati a sé i due e Alzira anche lei, se li strinse disperatamente al seno e ruppe in pianto: un lungo pianto che le distese i nervi e la lasciò lì senza più forze, annientata, a invocare la morte, a balbettare come in una litania:
-Perché non ci prendi tutti, mio Dio?
Per pietà, facci morire, che sia finita!
Il nonno conservava la sua immobilità di vecchio tronco colpito dal fulmine; mentre Maheu, senza volgere il capo, s'ostinava nel suo andirivieni di automa.
La porta s'aprì; questa volta fu il medico che entrò.
- Diavolo! non vi accecherebbe mica una candela! Spicciamoci: ho il tempo contato -. Oppresso dal daffare, come al solito era di pessimo umore.
Per fortuna, aveva lui dei fiammiferi. Accendendone parecchi uno dopo l'altro, Maheu gli fece luce. A quel vacillante chiarore, il corpo della ragazzina apparve in tutta la sua atroce magrezza: la magrezza dell'uccellino che agonizza nella neve. Di lei, si poteva dire, la gobba sola restava. Eppure sorrideva: un sorriso smarrito di moribonda; gli occhi sbarrati, le mani rattrappite sul petto incavato.
E, straziata a quella vista, la madre si chiedeva se era giusto che Dio gliela prendesse, quella poverina così sveglia e quieta, l'unica che le desse una mano in casa; quando:
-Addio! - esclamò il medico. - Se n'è andata. Di inedia. Non è la prima: un'altra, qui accanto... Tutti mi chiamate, ma io che posso fare? ordinarvi delle bistecche?
Maheu scottato lasciò cadere il fiammifero; e il buio coprì del suo velo pietoso il cadaverino ancora caldo.
Già Vanderhaghen era partito. Nel buio della stanza non si udì più che il singhiozzare della madre, la sua invocazione ostinatamente ripetuta, il lugubre interminabile lagno:
-Mio Dio, anche me ora, piglia anche me... Prendi il mio uomo e tutti i miei! Per pietà, perché sia finita una volta
Capitolo terzo
Quella domenica, alle otto di sera l'osteria del Risparmio era già vuota; seduto al solito posto, il capo appoggiato alla parete, restava Souvarine.
Nei locali non s'erano mai visti così pochi clienti come adesso; è che, tra i minatori, era ormai una mosca bianca chi riusciva a rimediare i due soldi della birra. Al banco, la Rasseneur non usciva da un silenzio ingrugnato; mentre il marito in piedi presso la stufa seguiva sovrappensiero il fumo rossiccio che si svolgeva dal carbone. Quando, nel silenzio del locale surriscaldato, un bussare di nocche contro i vetri della finestra fece volgere Souvarine; che si alzò: aveva riconosciuto i tre colpetti secchi con cui Stefano, le volte che passando sulla strada lo vedeva solo al tavolo, lo chiamava fuori. Ma prima che il meccanico raggiungesse la porta, già l'oste l'aveva aperta; e, riconoscendo Stefano nel rettangolo di luce che la finestra rifletteva sulla strada:
-Che sono queste storie? - gli diceva. - Temi forse che io ti faccia la spia? Entra; starete sempre meglio dentro, a discorrere.
Il giovane entrò. Rivedendolo, premurosa la Rasseneur fece l'atto di mescergli una birra; ma lui d'un gesto rifiutò; mentre il marito proseguiva:- Non è da ora che so dove ti nascondi. Se io fossi la spia che i tuoi amici vanno dicendo, i gendarmi te li saresti visti capitare da un po'.
- Non hai bisogno di dirmelo, - l'altro rispose. - Lo so che non hai mai mangiato di quel pane... Si può non avere le stesse idee e stimarsi lo stesso.
Seguì un silenzio. Souvarine aveva ripreso il suo posto, le spalle al muro, lo sguardo perso nelle spire dell'immancabile sigaretta. Irrequiete, le mani gli andavano da sé sulle ginocchia, come vi cercassero qualcosa; qualcosa che gli mancava; ed era, senza che lui se ne rendesse conto, il tepido pelame di Polonia.
Fu Stefano, che gli si era seduto di fronte, a rompere il silenzio:
- Dunque, sapete la notizia? Domani al Voreux il lavoro riprende. Négrel è tornato con gli uomini.
- Già! - confermò Rasseneur, ritto al tavolo. - Hanno aspettato che facesse buio, a scaricarli. Purché adesso non si ricominci coi subbugli... - E, spallucciando, a Stefano:
-Non è, sai, Stefano, per ricominciare a discutere... Soltanto, andrà a finire male, se vi intestate oltre. Vedi? si ripete per voi quello che sta succedendo per l'Internazionale. Avantieri ero a Lilla per affari; e per l'appunto ho incontrato Pluchart. Ebbene, le cose non vanno come vorrebbe; pare che l'associazione minacci di sfasciarsi... Entrò in particolari. Dopo aver conquistato le masse operaie di tutto il mondo con una rapidità di cui la borghesia ancora tremava, ora l'Internazionale andava ogni giorno più perdendo terreno, minata all'interno da competizioni e dissidi. Da quando gli anarchici vi avevano preso il sopravvento e ne avevano scacciato i riformisti della prima ora, la baracca scricchiolava; la lotta fra le diverse tendenze aveva relegato in soffitta il programma iniziale, quello della riforma del salariato; mentre l'insofferenza per la disciplina toglieva, in alto come in basso, ogni autorità ai capi. Tanto che si poteva fin d'ora prevedere il fallimento di quella ribellione delle masse che per un momento aveva minacciato di spazzare via d'un colpo la vecchia società capitalistica.
- Pluchart ci fa una malattia, - proseguì Rasseneur. - In conseguenza di questo stato di cose lui non è più ascoltato affatto. Ciò nonostante, non molla, seguita a tenere discorsi. Uno, anzi, ha intenzione di tenerlo a Parigi... Quanto al nostro sciopero, lui lo considera fin d'ora fallito; me l'ha detto e ripetuto più volte.
A capo basso, Stefano lo lasciava dire, senza muovere obiezioni. Il giorno prima, in un abboccamento che aveva avuto coi compagni, s'era accorto che cominciava a spirare contro di lui un vento di fronda; aveva avvertito nei loro discorsi quei primi segni di impopolarità che annunciavano la disfatta. Ma non voleva confessare l'abbattimento che solo il viso tradiva, davanti all'uomo che gli aveva predetto che, alla prima delusione, la folla gli si rivolgerebbe contro e che quel giorno anche lui assaggerebbe i suoi fischi.
- Certo, - ammise, - neanch'io mi illudo: lo sciopero è fallito. Ma era previsto, questo. E' stato uno sciopero che, in gran parte, noi abbiamo subìto, con poca speranza di spuntarla. Senonché ci si monta la testa, ci si fanno delle illusioni; e quando le cose si mettono male, ci si scorda che bisognava aspettarselo, cominciano le recriminazioni, e ci si incolpa a vicenda come davanti a un disastro capitato fra capo e collo.
- Ma allora, - disse Rasseneur, - se credi la partita perduta, perché non lo fai capire ai tuoi e non li persuadi a cessare lo sciopero?
Stefano lo fissò bene in faccia:
-Senti, non insistere su questo punto. Tu hai le tue idee e io le mie: il che non impedisce che io ti stimi; non sarei entrato, se non fosse così. Ma io resto sempre di avviso che se noi soccomberemo in piedi, le nostre carogne di morti di fame saranno sempre più utili alla causa del popolo che non tutta la tua politica di uomo giudizioso... Ah se uno di questi vigliacchi di soldati mi mettesse una pallottola nel cuore, come sarei contento di finire così! - Dicendo, gli occhi gli si erano inumiditi. Era stato il grido del vinto; con esso il giovane s'era augurato l'unica sorte che potesse liberarlo dai dubbi e dai rimorsi tra i quali si dibatteva.
- Bravo! - approvò nella sua intransigenza la Rasseneur, fulminando di un'occhiata di sprezzo l'accomodante marito.
Con le mani sempre inquiete, brancicanti sulle ginocchia, Souvarine seguitava a fissare il vuoto e non dava segno d'udire. Il suo viso femmineo, dai baffetti biondi, il naso sottile, la minuta dentatura di rosicante, con l'espressione di crudeltà che prendeva, tradiva le visioni che passavano per quel capo di mistico sanguinario. Solo adesso aprì bocca, indottovi da una parola che il suo cervello aveva colto nei discorsi di Rasseneur, e che il suo cervello ruminava ancora. Come parlando a se stesso:
- E' tutta un'accolta di vigliacchi! Non c'era che un uomo capace di fare dell'Internazionale uno strumento di distruzione formidabile. Ma occorrerebbe volere; nessuno vuole ed è perciò che una volta ancora la rivoluzione abortirà.
E mentre alle sue confidenze di sonnambulo gli altri due restavano a guardarlo sconcertati, seguitò a sfogarsi sulla imbecillità degli uomini col tono d'uno che è stomacato di tutto. In Russia nulla andava bene; le notizie che aveva ricevuto di là gli avevano tolto ogni speranza. Tutti i suoi compagni d'un tempo s'erano dati alla politica; i famosi nichilisti al cui nome in Europa si tremava, - figli di popi, piccoli borghesi, commercianti - non andavano oltre il ristretto orizzonte della liberazione nazionale; avevano l'aria di credere che, una volta tolto di mezzo lo zar, il mondo sarebbe bell'e liberato. E, appena egli parlava loro della necessità di falciare alle radici come una messe matura la vecchia umanità, appena anzi pronunciava l'innocentissima parola repubblica, non era più capito, era anzi sospettato; come ormai fuori gioco, lo si metteva nel numero dei teorici falliti del cosmopolitismo rivoluzionario. Tra tutte queste accuse, il suo attaccamento al paese dov'era nato traspariva tuttavia dall'amarezza con cui ogni tanto esclamava:
- Stupidi! Non verranno mai a capo di niente, con delle idee così balorde!
Poi, smorzando ancora la voce, in frasi amare rievocò il suo antico sogno di fraternità. Se aveva rinunciato ai beni e alla posizione cui la sua nascita gli dava diritto, se aveva fatto causa comune con gli operai, era stato unicamente nella speranza di vedere finalmente sorgere una nuova società fondata sul lavoro di tutti. Per anni, i soldi delle sue tasche erano passati nelle mani dei monelli della borgata operaia; per anni, egli aveva testimoniato ai suoi compagni di lavoro un affetto di fratello, sorridendo alle loro diffidenze, conquistandoseli col suo fare tranquillo d'operaio puntuale e poco loquace. Eppure, in tanto tempo, ad affratellarseli davvero non era riuscito; ai loro occhi egli restava un estraneo: da essi lo divideva la sua irriducibile avversione per ogni legame, la volontà di restare padrone di sé, il suo disprezzo per i piaceri e le meschine vanità.
Quel mattino, poi, una notizia di cronaca letta sui giornali, lo aveva messo fuori dei gangheri.
A questo punto, rivolgendosi a Stefano, con gli occhi che gli lampeggiavano:
-Come la intendi tu, una cosa così? Voglio dire quei due operai d'un cappellificio di Marsiglia che, avendo vinto a una lotteria centomila franchi, non hanno saputo di meglio che investirli in tanti titoli; e hanno dichiarato che d'ora innanzi si proponevano di vivere di rendita senza più lavorare!... Sì, mica soltanto loro: voi francesi, siete così tutti; è la vostra aspirazione di tutti voi operai questa: di scovare un tesoro per ritirarvi in qualche cantuccio a godervelo da soli, nell'ozio, trincerati nel vostro egoismo. Avete un bel gridare contro i ricchi, se poi vi manca il coraggio di rendere ai poveri persino il danaro che vi piove dal cielo! Finché sarete così attaccati al vostro e fintantoché il vostro odio per i borghesi sarà solo effetto dell'invidia di non essere al posto loro, non sarete mai degni d'una sorte migliore!
Come? quei due, secondo lui, avrebbero dovuto rinunciare alla vincita? Una simile pretesa gli apparì così balorda, che Rasseneur scoppiò in una risata.
Davanti alla sua ilarità e al silenzio dell'altro, Souvarine divenne verde; preso da una di quelle sacre collere che sterminano i popoli, con un viso che faceva paura:
-Sarete tutti spazzati dalla faccia della terra, buttati a marcire, voialtri francesi, se la pensate così! Nascerà colui che annienterà la vostra razza di infingardi e di gaudenti! Vi dico di più: le vedete le mie mani? se ne avessi la forza, afferrerei io la terra come afferro questo tavolo, la scrollerei sino a mandarla in frantumi perché le sue macerie vi seppellissero tutti quanti!
- Ben detto! - approvò di nuovo la Rasseneur, metà per convinzione, metà per cortesia.
Seguì un silenzio. Poi, Stefano ricadde a parlare degli operai assoldati nel Belgio. Avrebbe voluto sapere da Souvarine che disposizioni erano state prese al pozzo per proteggerli. Ma Souvarine, ricaduto nel trasognamento, rispondeva appena: tutto ciò che gli constava era ch'era stata fatta una distribuzione di cartucce agli uomini di guardia. Intanto l'irrequietezza delle mani sui suoi ginocchi era giunta a un punto che, ecco, l'uomo si rese conto di quello che gli mancava: - Dov'è Polonia?
Alla domanda, l'oste allungò un'occhiata alla moglie; poi scoppiò in una nuova risata. E dopo un attimo d'esitazione:
-Polonia? E' al caldo, Polonia! - (Dopo il suo movimentato incontro con Gianlino, la grossa coniglia, rimasta certo ferita, non aveva più partorito che coniglietti morti; e, per non mantenere una bocca inutile, proprio quel giorno lì ci si era rassegnati a metterla in casseruola con contorno di patate).
- Sì, ne hai mangiato una coscia anche tu, stasera. E se non sbaglio ti sei leccato le dita.
Souvarine subito non aveva afferrato. Impallidì, il mento gli tremò. Ma i due non ebbero il tempo di notarlo: la porta s'era aperta, Chaval entrava, spingendosi avanti Caterina.
Dopo essersi ubriacato di birra e di fanfaronate in tutti i locali di Montsou, ora veniva al Risparmio, per far vedere agli antichi compagni che non aveva paura.
- Ti dico che berrai anche tu una birra qui. E vedremo se c'è qualcuno che s'arrischia a guardarmi in cagnesco.
Scorgendo a un tavolo Stefano, la ragazza si sbiancò; mentre il suo compagno partiva in una sghignazzata provocante.
- Due birre, madama! Noi si brinda alla ripresa del lavoro!
Nel silenzio che s'era fatto nel locale, senza rispondere motto, la Rasseneur li servì. Né l'oste né i due al tavolo avevano dato segno di udire. Lui allora, in un crescendo d'arroganza:
-Conosco qualcuno che è andato a dire che io sono una spia. Me lo ripeta un po' in faccia; così si liquida la partita.
Nessuno rispose. Gli uomini volsero altrove il capo, distrassero gli occhi sulle pareti.
Quello, alzando ancora la voce:
-C'è chi si nasconde e c'è chi non si nasconde. Io, da nascondere non ho niente. Ho piantato Deneulin e la sua sporca baracca; e domani scendo al Voreux, perché c'è gente che mi stima e m'ha affidato dodici belgi da comandare. E se la cosa dà ai nervi a qualcheduno, può dirlo: si discorrerà.
Non ricevendo neanche adesso risposta, Chaval scaricò la sua stizza sulla ragazza:
-Vuoi bere o no? Brinda con me alla salute di tutti i porci che si rifiutano di lavorare! con l'augurio che possano schiattare.
Caterina ubbidì, ma con mano così tremante che fu molto se si avvertì l'urto dei due bicchieri. Chaval aveva intanto cavato di tasca e, con l'ostentazione dell'ubriaco, faceva saltare nella palma una manciata di monete d'argento:
-Danaro mio sacrosanto, guadagnato col sudore della fronte! Sfido qualcuno qui dentro a fare altrettanto: scommetto il collo che non arriva a tirar fuori dieci soldi.
Nessuno neanche adesso fiatò. Esasperato, Chaval allora passò all'attacco diretto:
-Sicché, - prese a dire, - è di notte che i bagherozzi sbucano fuori? bisogna aspettare che i gendarmi siano a nanna per incontrare le facce proibite?
Stefano si alzò, calmissimo: - Senti, tu mi annoi... Sì, sei una spia. Il tuo danaro puzza di tradimento lontano un miglio. E se non ti ho udito finora, è che mi schifa toccare la tua pelle di venduto. Ma tant'è! io sono quello che cerchi: è da un po' che tra noi c'è un conto sospeso.
Chaval strinse i pugni.
- Ora sì! ma ce n'è voluto per svegliarti, pezzo d'un vigliacco! Tu da solo, ci sto. Preparati a pagarmi le mascalzonate che mi hai fatto.
Caterina già s'avanzava supplichevole fra i due; ma i due non ebbero bisogno di respingerla. Vinto il primo impulso, da sé la ragazza si ritrasse: questa volta o un'altra, doveva ben finire così. Paralizzata da un'angoscia che la ammutoliva e le impediva persino di tremare, s'appoggiò alla parete, gli occhi sbarrati sui due uomini che stavano per scannarsi a causa sua.
Senza fretta, la Rasseneur si alzò a ritirare, per precauzione, i bicchieri dal banco; poi, olimpica, si risedette. Dare a vedere anche solo curiosità, non sarebbe stato confacente alla sua dignità di padrona.
Non si poteva però lasciare che due vecchi compagni di lavoro si sgozzassero così; e Rasseneur si ostinava a intervenire tanto che Souvarine dovette scomodarsi; venne a prenderlo per una spalla e riconducendolo al tavolo:
-Non ti impicciare, non ti riguarda... Ce n'è uno di troppo: sopravviverà il più forte.
Senza attendere che l'altro attaccasse, già Chaval sferrava pugni a vuoto. Era lui il più alto e il più snello. Mirava al viso; e, buttandosi avanti impetuoso col corpo, avventava ora l'uno ora l'altro braccio come maneggiasse due spade; senza lasciar per questo di lanciare all'avversario insulti sempre più sanguinosi, un po' per la platea, un po' per eccitarsi.
- Ah ruffiano della malora! è il suo naso che voglio! per ficcarmelo in culo! Su, fammela vedere quella ghigna, quello specchietto per puttane, che io ne faccia del pastone per i maiali! vedremo, dopo, se quelle troie di donne ti correranno ancora dietro!
Stefano invece si manteneva corretto. Zitto, serrando i denti, stava in guardia, raggomitolato in sé, riparandosi coi pugni il petto e la faccia; per balzare avanti, spiato il momento, come una molla che scatta e assestare all'avversario tremendi colpi di punta.
Sul principio, non si fecero gran male. L'avventarsi a catapulta dell'uno, la fredda attesa dell'altro tiravano il duello in lungo. Sotto le spesse suola la rena scricchiolava. Una sedia ribaltò. Ma alla lunga non poteva durare; già i respiri si facevano mozzi e affannosi, mentre l'afflusso del sangue congestionava i visi che diventavano paonazzi.
- Toccato! - urlò Chaval. - Ho la tua carogna!
Vibrato di sbieco, il pugno di Chaval s'era infatti abbattuto come una mazza sulla spalla di Stefano, in un tonfo sordo di muscoli che si ammaccano. Soffocando un gemito, fulmineo Stefano rispose con un diretto, che avrebbe sfondato il petto dell'altro se questi, in uno dei suoi continui salti di capra, non si fosse scansato. Il colpo tuttavia lo raggiunse al fianco sinistro, abbastanza forte ancora per farlo vacillare e mozzargli il respiro.
Sentendosi dal dolore infiacchire le braccia, Chaval nell'ira gli si scaraventò contro col piede alzato, mirando al ventre e tartagliando strozzato:
-Piglia! le budella, voglio vederti!
Il calcio andò a vuoto; ma la slealtà del colpo indignò Stefano, che alfine uscì dal suo silenzio:
-Taci una volta, animale! E non i piedi, perdìo! o prendo la sedia e ti fracasso il cranio!
Allora il duello s'invelenì. Di nuovo, Rasseneur fece l'atto di intervenire; ma un'occhiataccia della moglie lo fermò: non era pubblico il locale? anche lì due clienti potevano bene regolare i loro conti. L'oste allora si contentò di collocarsi davanti alla stufa, per evitare almeno che i due andassero a finirvi dentro. Impassibile, Souvarine si arrotolava una sigaretta, ma si scordava d'accenderla. Contro il muro, Caterina pareva una statua; solo le mani le erano andate alla cintola, nervose le dita gualcivano la stoffa. Tutta la sua volontà era tesa nello sforzo di non lasciarsi sfuggire un grido che, tradendola, avrebbe esposto uno dei due duellanti a più duri colpi; nello smarrimento del resto in cui si trovava, chi dei due s'augurava ne uscisse, a lei stessa sarebbe stato difficile dire.
L'avventare colpi all'impazzata finì presto per spossare Chaval. Nonostante l'ira che sempre più lo invadeva, Stefano invece seguitava a stare in guardia e quasi sempre riusciva a parare. Qualche colpo tuttavia lo sfiorava: e uno gli aveva lacerato il padiglione dell'orecchio, quando, subito dopo, un'unghiata gli azzannò il collo, causandogli un tale dolore che, prorompendo anche lui in bestemmie, vibrò al petto dell'altro uno dei suoi poderosi diretti. Ancora una volta, chinandosi fulmineo, Chaval lo evitò; ma per riceverlo in pieno viso. Il pugno gli schiacciò il naso e sfondò un occhio che si tumefece, divenne violaceo; mentre dalle nari il sangue sgorgava copioso. Intontito dal colpo, accecato dall'emorragia, lo sciagurato annaspava con le braccia l'aria quando un secondo colpo di punta, raggiungendolo finalmente in pieno petto, lo stramazzò all'indietro col tonfo sordo d'un sacco di cemento.
Stefano s'arrestò.
- Alzati. Se non ti basta, si ricomincia.
Passò qualche secondo prima che l'altro desse segno di vita. Rimessosi a fatica sulle ginocchia, restò lì un momento, raggomitolato in sé; la mano gli andava alla coscia come se la tastasse. Ma, appena si fu rizzato in piedi, eccolo di nuovo scaraventarsi, la gola gonfia d'un urlo selvaggio.
Senonché Caterina l'aveva visto frugarsi in tasca. Suo malgrado, dal cuore le traboccò un grido, che la stupì, perché la rivelò a se stessa:
-Guardati! Ha il coltello!
Stefano fece appena a tempo a parare col braccio il primo colpo. La spessa lama tagliò la maglia: una di quelle lame che una ghiera di rame fissa a un manico di bosso. Già il giovane s'era impadronito del polso di Chaval. S'impegnò un corpo a corpo furibondo; lui, sentendosi spacciato se mollava; l'altro, dando strattoni per svincolarsi. L'arma a poco a poco s'abbassava; irrigidite nella tensione, le due braccia si stancavano; due volte Stefano avvertì sulla pelle il gelo della lama. Allora in uno sforzo disperato, stritolò quel polso in una morsa tale che la mano si schiuse, lasciò cadere il coltello. Tutti e due si buttarono per riprenderlo; ma fu Stefano che lo agguantò, che lo brandì a sua volta. E prima che l'altro si rialzasse, gli fu sopra, col ginocchio lo inchiodò sul pavimento:
-Ah assassino, t'apro io la gola, adesso!
Di nuovo gli accendeva il sangue, gli intorbidava la vista, gli intronava le orecchie l'istinto omicida che ben conosceva. Mai, sebbene non fosse ebbro, lo aveva assalito con questa violenza. Eppure la volontà di non cedergli sopravviveva in lui; contro il folle impulso del suo sangue tarato lottava con la disperazione di chi, accecato di foia, s'astiene, sull'orlo d'uno stupro, dal consumarlo.
Finì per dominarsi; si buttò l'arma dietro le spalle; e con una voce che l'orgasmo ancora strozzava:
-Tirati su e toglimiti davanti!
Questa volta, Rasseneur non aveva resistito; gridando:
-Fuori, fuori di qui, se volete accopparvi! - (così agitato che la moglie, impettita al banco, gli aveva seccamente osservato che gridava sempre prima del tempo), s'era precipitato; ma tenendosi fuori di tiro, per paura di buscare una coltellata.
Souvarine, che per poco non era stato colpito dal lancio del coltello, si decideva ad accendere la sigaretta mentre Caterina, andando con gli occhi da Stefano a Chaval e vedendoli tutti e due vivi, in una specie di istupidimento, si chiedeva se era finita.
- Vattene! - ripeté Stefano. - Vattene o ti finisco!
L'altro si alzò, s'asciugò col dorso della mano il sangue che seguitava a scorrergli dal naso e a imbrattargli il mento; e in quello stato s'avviò, strascicando i piedi e bestemmiando di rabbia, verso l'uscita. Come un automa, Caterina fece l'atto di seguirlo; ma lui voltandosi di colpo, squadrandola e vomitando improperi:
-Ah no, ah no! Poiché è lui che vuoi, va' con lui, carogna. E da me non rimettere piede, se ci tieni alla pelle!
Ed uscì sbattendo con fracasso la porta. Nel silenzio che si fece s'intese di nuovo il borbottio del carbon fossile che si consumava nella stufa. Per terra non restava che la sedia ribaltata e qualche chiazza di sangue che la sabbia beveva
Capitolo quarto
Venuti via dal Risparmio, Stefano e Caterina si avviarono fianco a fianco in silenzio. Il disgelo cominciava, un lento disgelo che insudiciava la neve senza scioglierla. Lassù, nel cielo livido, cacciati da un vento di tempesta, neri nuvoloni s'accavallavano, si stracciavano; dietro i quali s'indovinava la luna piena; mentre sulla terra non spirava soffio d'aria e nel silenzio s'udiva solo lo sgrondare dei tetti, lo staccarsene ogni tanto e il cadere molle di qualche cuscinetto di neve.
Il giovane, preoccupato di trovarsi così di punto in bianco la ragazza tra le braccia, nel suo impaccio non trovava nulla da dire. Che fare? portarla con sé nel suo nascondiglio di Réquillart, gli appariva assurdo. All'offerta, d'altronde, che lui le aveva fatto di ricondurla a casa sua, lei s'era rifiutata: oh no! qualunque cosa, piuttosto che ricadere a vivere a carico dei genitori, dopo averli piantati in così malo modo! Per cui né l'uno né l'altro parlavano più; procedevano davanti a sé senza meta, per le strade che il disgelo mutava in fiumi da fanghiglia. Prima, erano scesi verso il Voreux; poi preso a destra e ora camminavano fra il terrapieno e il canale. - Dovrai ben dormire, in qualche posto, - lui finì per dire. - Se avessi almeno io una camera... - Ma una strana timidezza gli impedì di proseguire. Gli sovvenne del loro passato, del gran desiderio che avevano provato l'uno per l'altro, degli scrupoli e dei pudori che avevano impedito che si amassero. Era dunque perché la desiderava ancora che si sentiva così turbato? e che ora al pensiero di lei avvertiva di nuovo un caldo al cuore? E perché adesso il ricordo degli schiaffi ricevuti dalla ragazza, anziché irritarlo, lo eccitava? Se dunque non s'ingannava, quale migliore occasione poteva offrirglisi di questa? - Risòlviti, suvvia: dove vuoi che ti conduca? Ti sono dunque decisamente antipatico, per rifiutarti così a venire a stare con me?
Caterina che, in zoccoli, ogni momento in tutta quella fanghiglia scivolava, gli teneva dietro a fatica. A capo basso:
- Sono già avvilita abbastanza; non mi amareggiare anche tu, - supplicò. - Che bene ce ne verrebbe, me lo dici, dal metterci insieme, ora che io ho un amante e tu pure hai una donna?
Alludeva alla Mouquette. Non era di dominio pubblico quella relazione? Lui le giurò che non era vero; ma lei scosse il capo:
-Non ti ricordi più che una sera vi ho sorpresi che vi baciavate in bocca?
Lui arrestandosi:
- Tutte sciocchezze! Peccato che siano esse a impedirci di stare insieme. Si sarebbe andati così bene d'accordo!
Lei, commossa:
-Va' là, Stefano, non rimpiangere! ci perdi poco!
Sapessi che stecco sono! così magra e così mal combinata che, certo, non diventerò mai una donna! - E seguitò su questo tono: si trovava mille difetti; s'accusava di quel ritardo di pubertà come d'una colpa. Pur avendo un amante, lei restava sempre una ragazzina e quella immaturità la diminuiva ai propri occhi. Quando si ha la possibilità di mettere al mondo dei bambini, allora perlomeno si ha una scusa a far l'amore.
Stefano, a udirla parlare così, si sentì stringere il cuore da una grande pietà:
-Mia povera piccina! - mormorò.
Si trovavano nell'ombra che proiettava il terrapieno del Voreux.
Proprio in quel momento una nube eclissò la luna; non vedendosi più in viso, i loro respiri s'incontrarono, le labbra si cercarono; e stavano per esaudire il desiderio che da tanto li tormentava, quando la luna riapparve, rivelando nettissimo, lassù in cima alle rocce bagnate del suo chiarore, il profilo della sentinella. Rivelandosi in viso, si ritrassero - ripresi dall'antico ritegno - che era fatto di molto affetto, mescolato d'un'ombra di risentimento.
Con passo più pesante ripresero a sfangare nella mota.
- Allora, ci hai pensato bene, proprio non vuoi? - lui chiese.
- No. Te, dopo Chaval, eh? e, dopo te, un altro... No, mi disgusta; non ci trovo nessun piacere; e a che scopo, allora?
Per un altro centinaio di passi proseguirono senza scambiare parola.
- Sai almeno dove vai? Con un tempo simile, non posso lasciarti per la strada.
Lei, tranquillamente:
-Rientro, Chaval è il mio uomo: è da lui che devo dormire.
- Ma ti ammazzerà dalle botte!
In risposta lei si strinse rassegnata nelle spalle. La batterebbe; ma, una volta stanco di batterla, smetterebbe. Non era sempre meglio che restare per strada a girovagare come una mendicante? Lei, poi, agli schiaffi s'era abituata. Otto ragazze su dieci, si disse per consolarsi, non cascano meglio di me. Se Chaval un giorno la sposasse sarebbe ancora ben buono.
Senza quasi avvedersene, ora i due avevano preso la strada di Montsou; e, via via che vi si avvicinavano, cadevano in silenzi sempre più lunghi. Già si sentivano due estranei che non avessero mai avuto nulla in comune. Lui non trovava più nulla da dire per trattenerla; sebbene, al pensiero che tornava con Chaval, si sentisse spezzare il cuore. Ma che poteva offrirle di meglio lui? costretto a una vita come la sua, a nascondersi e a fuggire, senza altra prospettiva per l'indomani che la pallottola d'un soldato? Più saggio forse, non aggiungere nuovi guai a quelli che già aveva: ricondurla, come a testa bassa stava facendo, dall'amante.
Sicché non mosse obiezioni quando Caterina, all'angolo dei cantieri, venti metri prima del caffè Piquette, si fermò:
-Non m'accompagnare oltre. Se ti vedesse, sarebbe peggio.
Il caffè era chiuso, ma dalle imposte trapelava qualche luce. Al campanile della chiesa suonavano le undici.
- Addio, - lei mormorò, e gli porse la mano che il giovane trattenne nella sua. Liberatasi con dolce violenza, la ragazza s'avviò senza più voltarsi.
Ma anche quando l'ebbe vista entrare e sparire, Stefano, preoccupato dell'accoglienza che Chaval le farebbe, restò lì, in ascolto, con gli occhi sulla casa.
Ma la casa restava buia e silenziosa; finché al primo piano s'illuminò una finestra; s'aprì e un'ombra si sporse. Quando il giovane fu abbastanza vicino, l'ombra di lassù gli bisbigliò:
-Non è rientrato; io mi corico. Vattene, ti scongiuro!
Stefano se ne andò. La temperatura doveva essersi addolcita, perché ora dai tetti l'acqua ruscellava; dai muri, dalle palizzate, da tutto il confuso agglomerato immerso nella notte di quel sobborgo industriale, trasudava umidità.
Prima si diresse verso Réquillart; si sentiva così stanco e in preda a una tale tristezza che provava ormai solo il bisogno di sparire sotterra, di perdere nel sonno la coscienza di tutto. Ma poi il pensiero delle nuove maestranze che il mattino dopo scenderebbero nel Voreux e del risentimento che fermentava tra i compagni contro la truppa che avrebbe protetto quella discesa, gli fece cambiare direzione; e tra le pozzanghere del disgelo proseguì lungo il canale.
Era giunto di nuovo ai piedi del terrapieno, quando la luna si svelò in tutto il suo splendore. Alzò gli occhi al cielo; le nuvole continuavano a galopparvi; ma, sparpagliate dal vento di lassù, ora si sfilacciavano; sicché sulla faccia della luna non passavano che nuvolette trasparenti, oscurandola solo per attimi. E di quell'immacolato chiaro di luna Stefano si abbeverava gli occhi, quando, nell'abbassarli, qualche cosa in cima al terrapieno arrestò il suo sguardo.
Ora lassù la sentinella, per vincere l'intirizzimento, s'era messa a passeggiare, percorrendo un breve tratto nella direzione di Marchiennes, quindi lo stesso tratto nella direzione di Montsou. La fiamma bianca della baionetta inastata sormontava il suo nero profilo, che si stagliava nitidissimo sul pallore del cielo. Ma non era questo che aveva attirato la sua attenzione; sì, un'ombra che si appostava dietro la garitta di Bonnemort e si moveva guardinga, come in agguato; e così nitida anch'essa che dalla felinità delle mosse, il giovane non esitò a riconoscere in essa Gianlino. Se quel birbante si riparava così dalla vista della sentinella, non poteva essere che per giocarle qualche brutto tiro; certezza che Stefano ebbe subito, conoscendo di che odio il monello era animato contro «quegli assassini di soldati che erano venuti ad ammazzare a schioppettate la gente». E a un oscurarsi della luna, vedendolo raggomitolarsi in sé come per spiccare il balzo, stava per chiamarlo, quando il riapparire della luce glielo mostrò accosciato nella stessa posizione. Nel suo andirivieni, la sentinella si spingeva sino alla garitta e lì faceva dietro-front.
Stefano esitava ancora sul da farsi, quando al nuovo eclissarsi della luna, ecco col balzo d'un gatto selvatico Gianlino scattare sulle spalle del soldato, aggrapparvisi con l'unghie e coi denti, vibrare il coltello alla gola; e, il colletto della divisa resistendo, impugnarlo a due mani e spingerlo dentro, appendendovisi quasi col corpo. (Una certa pratica a sgozzare, il monello l'aveva fatta a spese degli animali che gli venivano a tiro).
Tutto questo fu l'affare di un attimo: s'avvertì un grido soffocato, il rumore di ferraglia che fece il fucile nel cadere... Già la luna riappariva radiosa.
Pietrificato dallo stupore, Stefano continuava a guardare. La voce per chiamare non gli usciva. Lassù il terrapieno era deserto; nessuna ombra si profilava più sul cielo dove erravano le nuvole. Appena rinvenne dallo sbalordimento, il giovane s'avventò di corsa e trovò Gianlino carponi davanti al cadavere: il soldato era stramazzato sul dorso a braccia spalancate. In tutto quel chiaro, il grigio del cappotto e il rosso dei pantaloni si staccavano nettissimi sul candore della neve. Non una goccia di sangue; stagnava la ferita il coltello conficcato sino al manico.
Preso da un impeto di rabbia, Stefano assestò al precoce assassino un pugno che lo allungò bocconi presso la sua vittima: - Perché, perché l'hai fatto?
Gianlino si tirò su, in guardia; gattoni si allontanò di qualche passo; il felino arcuarsi della spina dorsale, gli orecchi a ventola, gli occhi verdi, la mascella sporgente, tutto in lui fremeva ancora d'emozione per il bel colpo.
- Perché l'hai fatto?
- Così. Me n'è venuta la voglia.
E non ci fu verso di cavargli altro. Da tre giorni la tentazione di accoppare il soldato lo ossessionava al punto, disse, che gli era venuto a dolere il capo lì - e si toccava dietro le orecchie. E con ciò? Che si dovevano forse avere scrupoli quando si trattava di quei venduti di soldati, venuti a farla da padroni in casa d'altri? Al comizio nella faggeta, durante la corsa di miniera in miniera non s'era appunto gridato?... E dei gridi incendiari uditi in quella occasione ripeteva qualche frase rimastagli in mente.
- T'ha spinto a farlo qualcuno?
Macché! l'idea era stata sua; e gli era venuta naturale come in altri giorni quella di rubare cipolle nei campi.
Atterrito davanti a quella incoscienza, alla facilità con cui in quel cranio di ragazzo poteva germogliare il delitto, Stefano lo scacciò da sé come un animale irresponsabile:
-Lévamiti dattorno! - riuscendo solo, con un calcio, a farlo scostare.
Purché ora il grido della vittima non avesse dato l'allarme! e, ad ogni riapparire della luna, il giovane gettava gli occhi verso il posto di guardia.
Ma nulla laggiù si muoveva. Allora si chinò sul caduto; le mani già si freddavano; sotto il cappotto il cuore non batteva più. Dell'arma usciva dal collo solo il manico d'osso, sul quale spiccava in nero la parola: "Amore". Gli occhi di Stefano salirono al viso del soldato. Ed ecco lo riconobbe: era Giulio, la recluta con la quale proprio lì s'era trattenuto un mattino a discorrere. Davanti a quel povero mite viso di biondino, seminato di macchie rosse, una grande pietà lo invase. Spalancati, gli occhi celesti fissavano il cielo con lo stesso sguardo incantato con cui quel mattino aveva cercato all'orizzonte il paese natio. Dove si trovava quel paese che la recluta vedeva nel suo ricordo sfolgorante di sole? Certo a Plogof, con una notte simile, il mare al largo urlava. «E forse è passato sulla landa - il giovane si disse - il vento che soffia lassù». E ritte su quella landa vide con l'immaginazione due donne, la madre e la sorella di Giulio; si tenevano la cuffia, che il vento strappava di testa; e, volte nella direzione in cui si figuravano si trovasse il loro caro, aguzzavano lo sguardo, quasi che attraverso tanto spazio potessero vedere che faceva, a quell'ora. Ormai per sempre, lo avrebbero atteso! Che orrenda cosa, questo uccidersi fra poveri diavoli, per conto dei ricchi!
Ma urgeva fare sparire il cadavere. Gettarlo nel canale? Io ripescherebbero. E allora? Il tempo stringeva; occorreva spicciarsi. Gli venne un'ispirazione: se riusciva a trasportarne il cadavere sino a Réquillart, là avrebbe saputo come farlo sparire davvero per sempre. Chiamò Gianlino, perché gli desse una mano; ma, nella paura di toccare altre busse, ora il ragazzo si schermiva, protestava la necessità di andarsene, si diceva aspettato. (Era vero, del resto; il ragazzo aveva dato appuntamento a Berto e a Lidia in un nascondiglio che i tre s'erano scovato sotto le cataste di legname del Voreux; un appuntamento per trovarsi presenti quando comincerebbe la sassaiola contro i nuovi operai che all'alba scenderebbero nel pozzo).
Stefano allora ricorse alle minacce; ed ebbero miglior esito.
Allora, perché nel trasportare il cadavere il sangue non uscisse dalla bocca, Stefano legò stretto, a mo' di corda, il fazzoletto intorno al collo del soldato. Sul posto non restava né traccia di sangue, né, per lo sciogliersi della neve, segni di colluttazione per terra.
- Prendilo per le gambe.
E, messosi lui il fucile ad armacollo, Stefano impugnò il morto per le spalle. E tutti e due scesero passo passo con quel peso dal terrapieno, attenti a non far franare qualche pietra.
Per buona fortuna, la luna s'era coperta. Per poco; ché, mentre filavano lungo il canale, riapparve tersissima: fu un miracolo che al posto di guardia non li scorgessero. Impacciati dal dondolio del cadavere e obbligati dal suo peso a riprendere fiato ogni cento passi, procedevano in silenzio e più in fretta possibile. Nello svoltare sulla stradina di Réquillart, fecero appena in tempo a nascondersi dietro un muro: passava una pattuglia. Più avanti incrociarono un passante; ma era un ubriaco, che ingiuriandoli s'allontanò. Coperti di sudore, arrivarono finalmente all'antica miniera, in un tale stato di tensione nervosa che tutti e due battevano i denti.
Ma una volta lì, Stefano lo sapeva bene, restava il più difficile: far passare il soldato per il budello delle scale.
Bisognò intanto che, dall'alto, Gianlino lo lasciasse scivolare a poco a poco, mentre Stefano, tenendosi con una mano aggrappato ai cespugli, con l'altra lo accompagnava sino a fargli superare le due prime scale che la mancanza di parecchi gradini rendeva rischiose. Se anche meno disagiate, bisognò poi ripetere la manovra a ogni nuova scala; sicché per ben trenta scale, e cioè per una discesa di duecentodieci metri, Stefano camminò a ritroso, col pericolo che la spinta del cadavere lo facesse precipitare. L'operazione si svolse al buio; a che pro consumare il prezioso moccoletto che restava e che ora non avrebbe fatto che impacciarli? Solo quando ebbero raggiunto il primo piano di carico, si rese necessario vederci. In attesa di Gianlino andato in cerca della candela, Stefano si sedette in terra a riprendere fiato, col cuore che in petto gli martellava.
Al ritorno del ragazzo, lo consultò: dove era meglio nascondere il soldato?
Nessuno conosceva l'antico pozzo in tutti i suoi meandri quanto Gianlino che, per la sua snellezza, poteva passare anche per le fessure.
Rimessisi col loro fardello in cammino attraverso un dedalo di gallerie in rovina e percorso così circa un chilometro di strada, arrivarono in un punto dove, sostenuta da una traballante armatura, la volta, costituita da una roccia franosa, s'abbassava, non lasciando libero che uno stretto vano, lungo quanto il corpo d'un uomo. Fu in quella specie di loculo naturale che, come in una bara, coricarono il soldatino, col suo fucile al fianco. Dopodiché, pochi colpi di tacco, assestati ai paletti che ancora tenevano, bastarono perché la volta si fendesse e crollasse, dando appena il tempo ai due di sgattaiolare via sui gomiti e i ginocchi. Voltosi a constatare gli effetti, Stefano notò con sollievo che il tetto seguitava a franare, schiacciando sotto il suo enorme peso il cadavere che in pochi minuti ne fu inghiottito.
Raggiunta la caverna, l'uomo e il ragazzo si buttarono sul fieno; Gianlino, mormorando che dormirebbe un'ora, prima dell'appuntamento. Stefano spense la candela; non ne restava che un pezzetto. Anche lui si sentiva pesto e indolenzito; ma di prendere sonno non aveva speranza; troppi pensieri lo tenevano sveglio. Uno, soprattutto: come mai quel monello lì non aveva esitato un momento a sgozzare un soldato del quale ignorava anche il nome, mentre lui, avendolo a sua mercé, s'era astenuto dal farlo con quel mascalzone di Chaval? Eppure le sue convinzioni rivoluzionarie ammettevano bene il coraggio, il diritto anzi, d'uccidere.
«Sarei dunque un codardo?» Gianlino già russava: un russare di ebbro in cui pareva smaltire l'ubriacatura dell'omicidio. La vicinanza del piccolo assassino, il sentirlo così profondamente addormentato, gli dava un disagio, un'irritazione intollerabile. Quando... ma che era? trasalì; allibì.
Dalle viscere della terra, giungeva un fruscio; non un fruscio, un gemito. Ghiacciandogli le spalle e rizzandogli i capelli in testa, gli si ripresentò l'immagine del soldatino, allungato come lui in quelle tenebre; premuto, col suo fucile a fianco, dal peso delle rocce. Il gemito diventava un singhiozzo; un singhiozzo che riempiva la miniera. Dandosi dell'imbecille, dovette riaccendere; solo la vista, alla tremolante luce, della galleria vuota, lo liberò dell'incubo. Un quarto d'ora restò lì, a fissare, in preda ai suoi pensieri, la vacillante fiammella. Ma la candela era agli sgoccioli. Il lucignolo sfrigolò, si spense; tutto ripiombò nel buio. E nel buio il persistere di quel ronfio intollerabile! perché Gianlino cessasse di russare, lo avrebbe preso a schiaffi. Allora una gran voglia di aria aperta lo aggredì; lo cacciò attraverso le gallerie, lo spinse su per il budello delle scale; di corsa quasi, come si sentisse inseguito da un'ombra.
All'aperto, rifiatò. Ma l'idea della morte non lo lasciava, ora anzi gli si presentava, gli si imponeva, come l'ultima speranza. Poiché uccidere non osava, toccava a lui soccombere. Morirebbe coraggiosamente, per la causa della rivoluzione; sarebbe la fine di tutto, anche dei pensieri che lo tormentavano; con una morte così, chiuderebbe nobilmente la propria vita, buona o cattiva che fosse stata. Nella dimostrazione di protesta contro i belgi si metterebbe in prima fila; se la truppa sparava, una pallottola ci sarebbe anche per lui. Rianimato da questa decisione, tornò nei pressi del Voreux; suonavano le due. Dalla stanza dei capisquadra, dove era accantonata la truppa di presidio al pozzo, arrivava un confuso vocìo: la sparizione della sentinella che metteva in subbuglio il posto di guardia. Il capitano era stato svegliato; s'era proceduto a un minuzioso sopralluogo; ma l'assenza di qualunque indizio che deponesse in senso contrario, aveva fatto concludere trattarsi di diserzione.
Al ricordo che il capitano era di sentimenti repubblicani, Stefano ricadde a vagheggiare la possibilità che i soldati si mettessero con gli scioperanti, e, rifiutandosi di sparare sugli operai, dessero il segnale del massacro della borghesia. Allora a morire non pensò più; coi piedi nel fango, nello stillicidio del disgelo, restò delle ore a ruminare il suo sogno, ripreso dalla speranza che la vittoria fosse ancora possibile.
Ma erano le cinque, come mai i belgi non arrivavano? A questo punto Stefano s'accorse che la discesa nel pozzo era cominciata. Allora capì: per precauzione, la Compagnia aveva fatto dormire nel Voreux gli operai che aveva assoldato. Del tiro informò i compagni incaricati di riferire, i quali non s'erano accorti di nulla; e che corsero al borgo operaio ad avvertire; mentre lui restava in attesa sull'argine del canale.
Suonarono le sei. Il cielo impallidiva e s'annunciava a levante il rosseggiare dell'alba, quando sbucò da un sentiero, con le sottane rimboccate sui magri stinchi, il reverendo Ranvier, che, come ogni lunedì, andava a dire messa in un convento di fronte. Squadrando Stefano coi suoi occhi di bracia: - Buongiorno, - gridò, - amico mio! - Ma non s'ebbe risposta; già Stefano aveva spiccato la corsa: aggirarsi laggiù, nei pressi della "decauville", aveva scorto una figura di donna che non poteva essere che Caterina.
Infatti! Da mezzanotte la ragazza batteva le strade. Rincasando, Chaval con un ceffone l'aveva fatta saltare su da letto:
-Fila, se non vuoi che ti faccia passare per la finestra! - Presa a calci, aveva avuto appena il tempo di coprirsi alla meglio e di scendere, che un ultimo spintone la buttava in strada. Nella speranza che impietosito lui la richiamasse, piangendo e battendo i denti dal freddo, era rimasta a sedere lì fuori su un paracarro, con gli occhi sulla casa.
Finché, cacciata anche di lì dal gelo, era uscita da Montsou; ma per tornare ancora una volta, poco dopo, sotto la finestra di lui, senza tuttavia azzardarsi a bussare e a chiamare, come s'era proposta.
Questa volta non le restava che tornare dai suoi.
Rassegnandosi s'avviò. Ma una volta che ci fu, una tale vergogna la prese che, invece di bussare, proseguì lungo gli orti, sbigottita al pensiero di poter essere, nonostante l'ora, vista e riconosciuta da qualcuno. E da allora aveva camminato a caso, trasalendo al minimo rumore nella paura sempre di essere fermata, scambiata per una girovaga e di finire - ciò che da qual che mese era il suo incubo - nella casa pubblica di Marchiennes.
Due volte, nel suo disperato vagabondare, s'era trovata davanti al Voreux; e la seconda, il vocìo che usciva dal posto di guardia, l'aveva fatta allontanare di corsa volgendosi trafelata a guardarsi alle spalle, aspettandosi di vedersi inseguita.
Ma finiva sempre per tornare nella stradicciola di Réquillart, sebbene sapesse che immancabilmente vi troverebbe qualche avvinazzato; e la attirava la vaga speranza di incontrarvi l'uomo di cui qualche ora prima aveva rifiutato l'ospitalità. L'ora della discesa nel pozzo la ricondusse al Voreux; sebbene, che poteva sperare? Ormai tra lei e Chaval era tutto finito; di scendervi con lui, lui le aveva proibito, nel timore che la ragazza lo compromettesse. Alla Jean-Bart d'altronde non c'era più lavoro. In queste condizioni, che le restava da fare? Andarsene dal paese a cercare lavoro altrove? Crepare di fame?
Rassegnarsi a subire le percosse di tutti gli uomini ai quali piacesse? E in questi pensieri la misera seguitava penosamente a trascinarsi, diguazzando nel fango, inciampando nelle carreggiate; inzaccherata sino ai capelli, le gambe che le si piegavano sotto, senza osare neanche sostare il tempo di riprendere fiato.
Al sorgere dell'alba, lo scorse, Chaval; lo riconobbe alle spalle; che girava guardingo il terrapieno.
Ma a che pro raggiungerlo? Preferì sedersi lì presso, a ridosso d'una catasta di legname: di tra le tavole aveva visto Lidia e Berto far capolino.
In quel nascondiglio i due ragazzi avevano passato la notte, obbedienti all'ordine di Gianlino, il loro «capitano», di attenderlo lì. E nella lunga attesa, per tenersi caldo, i due s'erano stretti uno contro l'altra; immaginando, al soffiare del vento, di trovarsi nella capanna abbandonata di qualche boscaiolo. Ma era la disperazione dell'uno che cercava in quel modo rifugio in quella dell'altro, sebbene per sfogarsi non trovasse la voce. Come Lidia non osava parlare delle percosse che, precocemente donna, buscava da Gianlino, così Berto taceva il suo risentimento per i ceffoni di cui il ragazzaccio gli era prodigo. Ah, davvero il capitano passava la misura! li spingeva in ruberie in cui rischiavano la pelle e poi il bottino se lo teneva tutto per sé.
Affratellati dal rancore che, sebbene lo tacessero, nutrivano ambedue verso il loro aguzzino, quella notte anzi, i due, nonostante la proibizione, avevano finito per abbracciarsi e baciarsi, sfidando gli schiaffi di una mano invisibile di cui Gianlino li aveva minacciati, se in sua assenza osassero farlo. E poiché la minaccia non s'avverava, a stringersi insieme e a baciarsi avevano seguitato; ma castamente, senza cercare altro; mettendo in quelle carezze tutta la loro passione contrastata, tutta la sacrificata tenerezza dei loro cuori mortificati. E tutta la notte s'erano scalducciati, uno contro l'altra, così felici in fondo a quel buco che felici così non ricordavano d'essere stati mai, neppure il dì di Santa Barbara, quando in casa si mangiavano le frittelle con lo zucchero e si beveva il vino.
Quand'ecco un improvviso squillar di tromba li fece saltare dal nascondiglio. Lì fuori, al segnale, Caterina aveva trasalito e s'era rizzata a guardare: i soldati dal corpo di guardia imbracciavano i fucili. In quella, trafelato dalla corsa, anche Stefano la raggiunse.
E i quattro, alla luce dell'alba già alta, videro laggiù scendere dalle alture del borgo operaio una frotta di uomini e donne che avanzava minacciosa
Capitolo quinto
Già tutti gli accessi al pozzo erano stati bloccati; e la truppa, con le armi al piede, sbarrava la sola entrata rimasta libera: quella che conduceva alla ricevitoria attraverso una stretta scala in cui s'aprivano gli ingressi alla stanza dei capisquadra e alla baracca. Il capitano aveva schierato i suoi sessanta uomini su due file, a ridosso del muro di mattoni, per evitare che venissero accerchiati.
Sulle prime, la frotta dei dimostranti, una trentina al più, si tenne a distanza; concitati e incerti, si consultarono sul da fare.
Arrivata la prima, la Maheu, che, sorpresa dall'allarme mentre si pettinava, s'era annodato in fretta e furia un fazzoletto intorno al capo, e aveva sulle braccia Estella addormentata, si scalmanava a ripetere:
-Bisogna impedire che qualcuno entri o esca! Sorprenderli tutti nel pozzo, bisogna! - E Maheu approvava, quando arrivò da Réquillart per prendere servizio il vecchio Mouque. Vollero impedirglielo; ma lui protestava: i suoi cavalli aspettavano l'avena; anche se c'era la rivoluzione, dovevano ben mangiare. In più, quel giorno c'era un cavallo morto e s'aspettava lui per estrarlo dal pozzo. Stefano intervenne perché i compagni lo lasciassero passare.
Non era stato un pretesto, quello del cavallo morto: un quarto d'ora dopo, mentre ingrossata da nuovi arrivi la frotta dei dimostranti diventava minacciosa, a pian di terra s'aprì una larga porta e degli uomini apparvero che si spingevano avanti un carretto con la carogna dell'animale; triste carname, ancora imbracato nella rete di corda, che scaricarono sullo spiazzo, tra le pozzanghere di neve disciolta.
L'impressione che quella vista produsse, permise agli uomini di rientrare e di barricare di nuovo l'uscita, senza che alcuno pensasse a impedirlo. E' che, dalla testa ripiegata sul collo, tutti avevano riconosciuto il cavallo.
- E' Trombetta, è vero? E' Trombetta!
Era Trombetta infatti. Dal giorno che l'avevano calato nel pozzo, il cavallino non era mai riuscito ad acclimatarvisi. Restava triste, eseguiva controvoglia il lavoro che gli era imposto, come torturato dal rimpianto della luce. Invano, Battaglia gli si strusciava contro, gli mordicchiava il collo per infondergli un po' della rassegnazione che aveva messo da parte in dieci anni di miniera. Quei segni di affetto non facevano che acuire la malinconia di Trombetta; alle confidenze del compagno invecchiato al buio, il pelame del cavallino s'arricciava, percorso da brividi; e tutti e due, ogni volta che s'incontravano, parevano, annusandosi, confidarsi la loro pena; il vecchio di non riuscire più a ricordarsi, il giovane di non poter scordare. Vicini di mangiatoia, abbassavano insieme il capo, si soffiavano l'un l'altro nelle froge; certo rievocavano così la luce, i prati verdeggianti, le strade bianche, le sconfinate distese dorate dal sole.
E quando Trombetta, coperto di sudore, s'era abbandonato agonizzante sulla lettiera, Battaglia disperatamente s'era messo a fiutarlo, aspirando in un modo che pareva singhiozzasse. La miniera gli portava via l'ultima sua gioia, a Battaglia; quell'amico che gli era piovuto dal cielo, olezzante dei buoni odori che gli ricordavano la giovinezza all'aria aperta. E quando s'era accorto che l'altro non si muoveva più, nitrendo di spavento, aveva strappato la cavezza.
Era da otto giorni, del resto, che il vecchio stalliere aveva avvertito Danseart: ma sì che ora c'era proprio tempo di occuparsi d'un cavallo ammalato! e poi quei signori vedevano di malocchio che si trasferissero gli animali. Adesso però che Trombetta era morto, dovevano ben rassegnarvisi. Il giorno prima, aiutato da altri due, Mouque aveva impiegato un'ora a imbracarlo. Per portarlo all'imboccatura del pozzo, sellarono Battaglia. E così toccò al vecchio animale di trainare la spoglia dell'amico attraverso una galleria così angusta che, a costo di scorticarlo, doveva ogni tanto dare degli strattoni; a ogni strattone, s'avvertiva l'attrito contro le pareti della misera carcassa, attesa dall'uomo che lo scuoierebbe; e Battaglia udendo quell'attrito dimenava la testa. E quando, giunto al pozzo di carico, l'ebbero staccato dal traino, Battaglia seguì con occhio tetro i preparativi che si facevano per riportare l'amico alla luce; lo vide spingere su delle traversine, vide attaccare sotto una gabbia la rete che lo imbracava. Allo squillare del segnale, alzò il capo per vederlo partire; lo vide sollevarsi prima adagio; poi tutto d'un colpo sparire per sempre, ingoiato dal nero budello. E, come non ancora persuaso, l'animale restò lì a collo proteso, ripreso forse, chi sa, dal confuso ricordo di ciò che Trombetta ritroverebbe lassù, ma neppure lui vedrebbe più. Anche lui compirebbe lo stesso tragitto, imbracato in quella stessa rete, attraverso quello stesso budello. L'aria che soffiava la bocca del pozzo portandogli notizia di lontane campagne, lo strangolava. Come ebbro, rientrò pesantemente nella scuderia.
Sullo spiazzo, davanti al cadavere di Trombetta, i minatori restavano bui. Una donna commentò a mezza voce:
-Pazienza un uomo, che se vi scende è perché vuole!
Ma un nuovo gruppo di dimostranti arrivava dal borgo operaio; con in testa Levaque, che, seguìto dalla moglie e da Bouteloup, gridava:
-A morte i belgi! Non vogliamo stranieri in casa nostra! a morte, a morte!
Tutti si buttavano avanti; Stefano dovette fermarli. Egli s'era accostato al capitano: un giovane alto, snello, appena ventottenne, dall'espressione disperata e risoluta. Lo metteva al corrente della situazione, cercava di conquistarlo alla causa, spiando sul viso di lui l'effetto delle sue parole. Perché correre il rischio d'una inutile carneficina? Non erano nel loro diritto gli operai chiedendo giustizia? «Siamo tutti fratelli; non dovrebbe essere difficile intenderci». Alla parola "repubblica", l'ufficiale era trasalito. Mantenendo una rigidezza militare, disse brusco:
-State indietro! non costringetemi a fare il mio dovere -. Tre volte Stefano tornò alla carica. Alle sue spalle i compagni rumoreggiavano. Correva voce che Hennebeau fosse nella miniera:
-Caliamolo appeso per il collo! si vedrà se lo abbatte da sé, il carbone! - Ma era una falsa voce; nella miniera c'erano solo Négrel e Danseart, che si mostrarono un momento a una finestra della ricevitoria: il capo-sorvegliante tenendosi un po' in disparte (dacché era stato sorpreso con la Pierron, l'uomo aveva perso la sua sicurezza); l'ingegnere, invece, imperterrito, esaminando la folla con i suoi occhietti di faina, con sulle labbra il sorriso beffardo e sprezzante che aveva per tutto. Partirono dei fischi, i due si ritrassero; nel rettangolo della finestra restò solo il viso biondiccio di Souvarine, ch'era appunto di servizio. Dall'inizio dello sciopero, il meccanico non aveva abbandonato una volta il lavoro. Taciturno, appariva ogni giorno più come assorto in qualche idea fissa, che gli metteva una luce dura, metallica in fondo alle pupille.
- State indietro! - ripeté a Stefano alzando la voce il capitano. - Non sono qui per ascoltare le vostre ragioni. Io ho la consegna di far la guardia al pozzo e la manterrò. E non premete sui miei uomini o saprò come tenervi al vostro posto!
La voce era ferma; ma dal pallore del viso traspariva una crescente inquietudine davanti al continuo ingrossarsi delle file dei dimostranti. Nel timore di non poter far fronte sino a mezzogiorno, ora in cui smontava di servizio, l'ufficiale a ogni buon conto aveva spedito a Montsou un manovale chiedendo rinforzi.
In risposta alla sua intimazione, nuove grida si alzarono:
-A morte gli stranieri! In casa nostra vogliamo comandare noi!
Scoraggiato, Stefano si ritirò. Era la fine, non restava che battersi e morire. Non più trattenuta da lui, la folla dei dimostranti si spinse addosso ai soldati. Erano in quasi quattrocento; e sempre altri ne affluivano dai borghi vicini; di corsa, lanciando tutti lo stesso grido.
- Andatevene! - Maheu e Levaque gridavano infuriati sul viso alla truppa. - Non abbiamo niente contro di voi, ma andatevene!
E la Maheu rincarava:
-Che c'entrate voialtri? Lasciate che facciamo le nostre ragioni!
Ma la più scalmanata era, alle sue spalle, la Levaque:
-Vi si dovrà ammazzare, perché ci lasciate passare? Vi si chiede solo di togliervi di mezzo!
Più sfacciata ancora, Lidia aggiunse lo scherno: dal pigia pigia dove s'era intrufolata con Berto, la sua vocina squittì: - Ve' che salami di fantaccini!
Un po' in disparte, Caterina guardava e ascoltava, inebetita di trovarsi in quel nuovo scompiglio. Anche questa, ora! Che aveva dunque fatto di male per non poter stare quieta un momento? Ma se il giorno prima ancora le riuscivano incomprensibili le violenze dello sciopero - perché, con che profitto, infatti, attirarsi dei nuovi guai, quando se ne hanno già tanti? - adesso anche a lei un bisogno di vendetta gonfiava il cuore. E ricordando i discorsi ascoltati nelle veglie d'autunno, aguzzava l'orecchio per cogliere ciò che Stefano diceva ai soldati; e doveva riconoscere che parlava loro da fratello: si ricordassero che venivano anch'essi dal popolo e che perciò dovevano stare col popolo contro la borghesia sfruttatrice.
In quella un rimescolio avvenne nella folla; v'era piombata in mezzo come una valanga, la dominava del suo corpo scheletrico, l'Abbruciata: gesticolante, accecata dai cernecchi che le cadevano sugli occhi: - Ci sono anch'io! - rantolò trafelata per la corsa. - Quel venduto di Pierron m'aveva chiuso in cantina! - E d'impeto, com'era arrivata, si buttò sui soldati vomitando ingiurie dal nero cratere della bocca:
- Razza di canaglie! di porci! che leccate gli stivali ai vostri ufficiali, e il coraggio l'adoperate solo contro la povera gente!
Allora, come a un segnale, la folla esplose in insulti, in imprecazioni. I pochi gridi che s'elevavano ancora di - Evviva i soldati! a morte l'ufficiale! - naufragarono presto nel clamore generale:
-Abbasso le brache rosse!
Ma sotto la gragnuola degli insulti, la truppa, irrigidita nella consegna, manteneva la stessa impassibilità, lo stesso silenzio con cui aveva accolto gli inviti a fraternizzare, gli amichevoli tentativi di insubordinazione.
Alle sue spalle, il capitano aveva sguainato la spada; e siccome la folla premeva sempre di più addosso agli uomini, minacciando di schiacciarli contro il muro, ordinò di incrociare le baionette. Una doppia siepe di punte d'acciaio accolse i petti dei dimostranti.
Arrestata:
-Ah i mangiapani a ufo! - imprecò l'Abbruciata. Ma già, dopo aver indietreggiato un istante la folla si ributtava avanti, sprezzante della morte e come esaltata dal rischio.
Più di tutti s'esponevano le donne, incitate dalla Maheu e dalla Levaque che strillavano:
-Uccideteci, uccideteci dunque! Vogliamo i nostri diritti.
Levaque, a rischio di tagliarsi, aveva abbrancato tre baionette in una volta e dava strattoni, tirava a sé per disinastarle; con una forza che l'ira moltiplicava, le storceva, per spezzarle, le lame; mentre, pentito d'essersi lasciato indurre a seguirlo, placido Bouteloup lo guardava fare, tenendosi a rispettosa distanza.
- Fate, che vediamo! fate un po' se ne avete il coraggio! - li sfidava Maheu; e si sbottonava la giacca, tirava via la camicia, offriva nudo il petto villoso. E spaventoso di insolenza e di coraggio si spingeva contro le baionette obbligando, per non infilzarlo, i soldati ad arretrare. E siccome la punta di una l'aveva ferito, come pazzo proprio contro quella incalzava: gli entrasse dentro, gli si conficcasse nel costato.
- Vigliacchi, non osate, eh! Dietro a noi ce ne sono diecimila come noi. Uccideteci pure; ve ne resteranno sempre da uccidere!
Siccome i soldati avevano l'ordine di non sparare se non in caso di assoluta necessità, la loro situazione si faceva critica. E poi ridotti con le spalle al muro com'erano, nell'impossibilità ormai di arretrare, come impedire che quei forsennati si infilzassero da sé? Pure in così pochi tenevano bravamente testa alla crescente marea, attenendosi con sangue freddo agli ordini ricevuti. Il capitano non batteva ciglio; appena un certo nervosismo gli assottigliava le labbra. Sapeva di poter contare sui suoi uomini; se aveva paura era che, bersagliati di ingiurie, finissero per perdere la pazienza. Già un sergente, - un giovane alto, magro, - palpebrava in modo preoccupante, mentre i quattro peli che gli tenevano luogo di baffi si rizzavano. Vicino a lui, un vecchio con galloni, cotto dal sole di quattro campagne, era diventato verde quando s'era visto trattare la baionetta come fosse di latta. Un altro, una recluta che, da poco, si capiva, aveva lasciato l'aratro per il fucile, si faceva paonazzo ogni volta che si sentiva dare del porco e della canaglia. Né la canèa accennava a calmarsi: accuse e minacce che suonavano come schiaffi, invettive sanguinose, pugni che si tendevano. Occorreva tutta la forza della disciplina militare, perché la truppa si mantenesse così impassibile, per irrigidirla in quel mutismo coatto, leggermente sprezzante.
Ma già s'annunciava prossimo il momento che la truppa reagirebbe, quand'ecco comparire dietro i soldati il vecchio caposquadra Richomme, farsi avanti gridando: - Perdìo, è stupido infine! smettete! Non c'è buon senso in quello che fate!
Il suo viso di gendarme bonario era stravolto; piantandosi tra la siepe delle baionette e i dimostranti: - Compagni, ascoltate! Sapete tutti che sono un vecchio operaio come voi e che con voi sono sempre rimasto. Ebbene, io vi prometto, perdìo, che se giustizia non vi sarà fatta, sarò io che dirò ai capi ciò che loro va detto. Ma ora eccedete! Non ci guadagnate nulla a insolentire questi bravi ragazzi, né a costringerli a bucarvi la pancia!
E già quel franco parlare otteneva il suo effetto, quando malauguratamente si riaffacciò di lassù il profilo mefistofelico di Négrel. Certo, nel timore che la folla lo sospettasse d'aver mandato Richomme non sentendosi di esporsi lui, l'ingegnere tentò di parlare. Ma la sua voce fu coperta da un tale coro di fischi e proteste, che, stringendosi nelle spalle, si ritirò.
Da quel momento Richomme ebbe un bel ripetere che lui non li supplicava per conto d'altri, ma personalmente, come loro compagno: insospettiti, non gli badarono più. Non per questo il vecchio abbandonò la partita:
-E sia! mi farò rompere la testa con voi, ma non vi lascio finché vedo che non connettete più! - E si rivolgeva a Stefano perché lo aiutasse nella sua opera di persuasione; ma il giovane si strinse nelle spalle come a dire: «E chi ce la fa più? è tardi».
Ormai i dimostranti erano oltre cinquecento; ma a quelli che facevano sul serio s'erano mescolati dei curiosi che si divertivano a stare a vedere. Tra questi Zaccaria e la moglie, venuti lì come a uno spettacolo, al punto che s'erano tirati dietro i figlioli. Con un nuovo gruppo proveniente da Réquillart, arrivò col fratello la Mouquette; lui, adocchiato l'amico Zaccaria, sogghignando venne a dargli una manata sulle spalle; mentre la sorella, accesissima, correva a mettersi in prima fila coi più scalmanati.
Il capitano intanto lanciava continue occhiate sulla strada di Montsou; prevedendo che si troverebbe presto a malpartito se i rinforzi non arrivavano, l'ufficiale, per intimorire la folla, ordinò ai soldati di caricare i fucili. Ma la coperta minaccia ottenne solo di esasperare maggiormente gli animi; i dimostranti risposero al gesto con parole di sfida e di dileggio.
- Vedi? - le donne sghignazzavano. - Partono per i tiri, questi conigli vestiti da soldati!
La Maheu si buttò avanti con tanto impeto che il sergente le chiese che ci venisse a fare lì con quel marmocchio in braccio; Estella infatti s'era svegliata e ora si aggrappava piangendo al seno della madre.
- Che te ne importa a te? - rispose lei. - Spara adesso, se ne hai il coraggio!
Sprezzanti, gli uomini scuotevano il capo: macché, non un colpo partirebbe. - Hanno cartucce a salve, - asserì Levaque. E Maheu:
- Vorrei vedere anche questa! Che siamo mica cosacchi? Non si tira sui compatrioti, perdìo!
Altri osservavano che comunque, non facevano soggezione le pallottole a chi tornava, come loro, dalla campagna di Crimea. Per cui tutti seguitavano a buttarsi sui fucili, così pigiati che se in quel momento una scarica fosse partita, ne sarebbe seguìto un macello.
Alla Mouquette l'idea, l'idea sola, che dei soldati potessero sparare su delle donne, faceva vedere rosso. A corto ormai di fiato e di ingiurie, la ragazza nel suo sdegno ricorse al solo gesto oltraggioso che potesse ancora appagarla. Date le spalle alle truppe, si rimboccò a due mani le sottane e, protendendo il groppone, mise bene in mostra l'enorme tafanario. E facendolo passare sotto gli occhi d'un soldato dopo l'altro:
-Ecco, prendete, per la vostra ghigna! E' ancora troppo pulito perché ve lo meritiate, sudicioni! E si chinava, si curvava sino a terra, si spostava in giro dall'uno all'altro, per dare a ciascuno la sua parte, urtando con la sfacciata rotondità il destinatario del suo omaggio: - Ecco per l'ufficiale! ecco per il sergente! ecco per i signori soldati!
Il maneggio suscitò un coro d'ilarità: Berto e Lidia si contorcevano, persino Stefano uscì un momento dai suoi pensieri per applaudire.
Tutti ora, dimostranti e spettatori, fischiavano la truppa come la vedessero lordata da quel deretano. Solo Caterina restava silenziosa in disparte; sentendo in sé crescere un odio che le bruciava la faccia, le metteva in gola un gusto di sangue.
Allora, per calmare l'evidente nervosismo dei suoi uomini, il capitano procedette all'arresto dei più scalmanati; ma la Mouquette si sottrasse, sgattaiolando fra le gambe dei compagni. Levaque e altri due vennero condotti nella stanza dei capisquadra e lì guardati a vista. Di lassù intanto si sporgevano Négrel e Danseart e invitavano il capitano a far rientrare la truppa e a chiudersi dentro; ma l'ufficiale si rifiutò di farlo: le porte d'accesso alla ricevitoria non presentavano alcuna garanzia di resistenza a un assalto e a lui toccherebbe l'onta di vedersi disarmare.
Gli stessi soldati, d'altronde, avrebbero sentito come un disonore ritirarsi davanti a dei poveracci calzati di zoccoli.
Questo gesto di forza fece alla prima una certa impressione; ma un'impressione che durò poco. Ben presto un clamore s'alzò: la folla protestava contro l'arresto, esigeva l'immediato rilascio dei prigionieri; ai quali - già qualche voce gridava - si stava facendo la pelle. E, come al segnale d'un'azione concertata in anticipo, tutti, a un tratto, obbedendo a un impulso collettivo, corsero ad armarsi, da un cumulo lì vicino, di mattoni; i bambini recandone uno alla volta, le donne riempiendosene la sottana. In breve ogni dimostrante ne ebbe ai suoi piedi una provvista e il tiro cominciò. In testa alle donne si piantò l'Abbruciata; la vecchia spezzava i mattoni sull'ossuto ginocchio, e con la destra e la sinistra a vicenda li lanciava. A tirare, la Levaque si sfiancava: grassa com'era, disponeva di così poca forza che, per non mancare tutti i colpi, doveva esporsi; invano, nella speranza di ricondurla a casa, ora che il marito era all'ombra, Bouteloup la tirava indietro. Alla sassaiola, tutte si eccitavano. La Mouquette che a spezzare i mattoni sulla ciccia delle cosce se le era insanguinate, adesso li lanciava interi. Anche i ragazzi s'erano uniti alle donne; e Berto insegnava a Lidia come si tirava meglio, lanciando di sotto in su a gomito piegato. E i proiettili fioccavano, grandinavano, abbattendosi con sordi tonfi. Trascinata dall'esempio, tutto a un tratto anche Caterina si trovò in prima fila, a lanciare anche lei tra quelle furie i suoi spezzoni con tutta la forza delle magre braccia. Perché fosse uscita così di colpo dalla sua parte di spettatrice e ora s'accanisse più delle altre, la ragazza non avrebbe saputo dire. Provava solo una pazza voglia di massacro, che le mozzava il respiro. Anche quello era un modo di farla finita con la sua vita di stenti; era stanca di ricevere schiaffi e maltrattamenti, di trascinarsi come un cane randagio nel fango delle strade, senza neanche la possibilità di mendicare una minestra a sua madre, ridotta come lei a ingollare la lingua. Mai un po' di requie; anzi, da quando aveva l'uso della ragione, un andar sempre di male in peggio. Per questo, senza saperlo, s'accaniva a rompere i mattoni e a scagliarli; non altro che per il gusto di spazzare via tutto, accecata talmente d'ira da non vedere neanche a chi fracassava la ghigna.
Da un proiettile poco mancò che Stefano restasse accoppato. Contuso a un orecchio, si volse; e con stupore scoprì che a colpirlo non poteva essere stata che Caterina. A rischio della pelle, restò dov'era a guardarla. Con lui, non erano pochi che, come smemorati, stavano lì inoperosi, trattenuti nella ressa dall'interesse della battaglia. Mouquet, poi, doveva addirittura credersi a una gara di tiro; giudicava i colpi: ben centrato, quello! che schiappa, chi ha tirato quest'altro! Dal giubilo, a ogni commento, dava gomitate a Zaccaria impegnato in un battibecco con la moglie, per via di due schiaffi somministrati ai rampolli in risposta alla loro pretesa che se li togliesse in spalla. Più prudenti, altri curiosi si pigiavano sull'orlo della strada. E lassù, all'ingresso del borgo operaio dove s'era trascinato appoggiandosi al bastone, ora si profilava ritto immobile sul cielo color ruggine, il vecchio Bonnemort.
Da quando era cominciato il tiro dei mattoni, Richomme s'era ributtato tra i soldati e i dimostranti, esortando gli uni, supplicando gli altri; così disperato che aveva le lacrime agli occhi. Che cosa dicesse, lo schiamazzo impediva di udire; si vedevano solo i suoi baffoni grigi tremare.
Contagiati dall'esempio, ora anche gli uomini ci si mettevano, davano di piglio ai mattoni. Maheu solo, buio in viso, restava in disparte. Vedendoselo alle spalle con le braccia penzoloni:
-Che stai lì a fare con le mani in mano? - lo aggredì la moglie. - Lasci che ti portino i compagni in prigione? Avrebbero per caso più fegato le donne? Mi vedresti me, se non ci avessi questo impiccio! - e indicava Estella che le si aggrappava strillando al collo. E siccome l'altro non dava segno di udire spingendogli tra i piedi dei mattoni:
- Perdìo! devo metterteli in mano? Sputarti in faccia, devo davanti a tutti, per farti muovere.
Allora il sangue affluì al viso dell'uomo che si chinò anche lui a raccattare mattoni e a scagliarli. Ma, come non si fidasse, la moglie gli rimase alle spalle; stringendosi bocconi sul petto la piccina per farla tacere, seguitò a incitarlo, a latrargli nelle orecchie, a spingerlo avanti finché non lo vide davanti alle bocche dei fucili.
Sotto il grandinare dei mattoni, la poca truppa spariva. Fortuna che i proiettili passavano quasi tutti sopra le teste; di colpi, lì dietro, il muro era sforacchiato. Un attimo l'idea di ritirarsi, fece salire il sangue al viso dell'ufficiale; ma per farlo era tardi; al minimo cenno di ripiegamento, la folla gli avrebbe fatto gli uomini a pezzi.
Lui perdeva sangue dalla fronte, per un mattone che gli aveva spaccato la visiera. Nelle file, parecchi erano i feriti; l'esasperazione era giunta al limite oltre il quale l'istinto di conservazione prende il sopravvento sul sentimento di disciplina. A una mazzata che quasi gli aveva slogato la spalla, il sergente aveva smozzicato una bestemmia. La recluta, col viso scorticato in due punti e un pollice stritolato, non poteva più reggersi su un ginocchio senza vedere le stelle; che ci si sarebbe prestati ancora un pezzo a fare i fantocci da tiro a segno? Un colpo di rimbalzo aveva raggiunto all'inguine il veterano, che, dallo spasimo, s'era quasi lasciato sfuggire di mano lo schioppo. Più d'una volta già il capitano era stato lì per ordinare il fuoco e tutte le volte era riuscito sinora a dominarsi. E solo adesso, davanti all'infierire dei forsennati, apriva per farlo la bocca, quando i fucili spararono da sé: prima tre colpi; poi cinque; poi una scarica intera; infine, un colpo in ritardo, che echeggiò isolato nel sepolcrale silenzio.
Lo sbalordimento impietrò un attimo la folla. La truppa aveva dunque sparato? A bocca aperta, ne dubitava ancora, quando, con lo squillo di cessato fuoco, lacerarono l'aria le grida dei feriti. Allora, allo stupore, sottentrò il panico; fu un impazzito sbandarsi, un fuggi fuggi generale.
Ai primi tre colpi, Berto e Lidia s'erano afflosciati uno sull'altro: la piccina, colpita al viso; lui, attraversato da una pallottola sotto la clavicola sinistra. Lidia, fulminata, non si muoveva più; lui invece si trascinava, cercava, nelle convulsioni dell'agonia, di prendere fra le braccia l'altra, quasi a rinnovare il loro unico abbraccio. E Gianlino che, arrivato finalmente da Réquillart, sgambettava gonfio di sonno tra il fumo degli spari, capitò giusto in tempo per assistere a quell'abbraccio e vedere Berto spirare. I cinque successivi colpi avevano abbattuto l'Abbruciata e Richomme. Questi, ferito al dorso e caduto in ginocchio, s'era rovesciato su un fianco; e ora rantolava per terra, col pianto ancora negli occhi. La vecchia, con la gola squarciata, era crollata da ritta con un sinistro scricchiolio di vecchia carcassa; uno sbocco di sangue le aveva strozzato in bocca l'ultima bestemmia. A questo punto lo scroscio di fucileria aveva spazzato il terreno e falciato nel raggio di cento passi i capannelli di curiosi che ridevano alla battaglia. Una pallottola era entrata in bocca a Mouquet, che, stramazzando ai piedi di Zaccaria e Filomena, aveva spruzzato di sangue i due bambini. Nello stesso istante, la Mouquette riceveva due pallottole nel ventre.
Vedendo i soldati spianare il fucile, istintivamente la ragazza, nel suo buoncuore, s'era buttata davanti a Caterina, gridandole di ripararsi; il colpo ricevuto in sua vece, con un urlo l'aveva fatta cadere lunga distesa sulle reni. Stefano accorse per rialzarla; ma lei d'un segno gli fece capire che non ne valeva la pena. E finché non ebbe finito di rantolare, seguitò a sorridere a lui e a Caterina, come se, andandosene, fosse felice di vederli insieme.
Tutto pareva finito, anche l'eco dello scroscio s'era perduto lassù contro la facciata delle case operaie, quando partì quell'ultimo sparo isolato. Colpito in pieno cuore, Maheu girò su se stesso e cadde bocconi con la faccia in una pozzanghera. Senza capire, la moglie si chinò:
-Ehi, vecchio, che fai? Sta' su! Non hai mica niente, eh? - Per voltargli la faccia, dovette mettersi Estella sotto il braccio:
- Parla, dunque! hai male da qualche parte? - Maheu aveva lo sguardo vacuo; alla bocca, una schiuma sanguigna. Allora la donna capì. Si calò nel fango a sedere; e tenendo sotto il braccio la bambina come un involto, restò a guardare il suo uomo inebetita.
Lo spiazzo davanti alla miniera era sgombro. Livido, ma senza dare altrimenti a vedere turbamento per il disastro della sua vita, il capitano s'era tolto, poi rimesso d'un gesto secco il chepì sfondato; mentre con la stessa impassibilità i suoi uomini ricaricavano i fucili. Alla finestra della ricevitoria, s'erano sporte un attimo le facce sgomente di Négrel e di Danseart; e dietro di loro s'era intravisto Souvarine: una ruga gli sbarrava la fronte, come a ribadirvi il chiodo d'un'idea fissa. All'imbocco lassù del borgo operaio, Bonnemort pareva una statua; calava una mano sul bastone, con l'altra si faceva schermo agli occhi, come per non perdere nulla del massacro dei suoi.
I feriti urlavano; i morti si irrigidivano, marionette cui s'è rotto il filo tra le pozzanghere e le chiazze di carbone che il disgelo scopriva. E in mezzo a quei cadaveri d'uomini rattrappiti e come rimpiccioliti, magri dell'atroce magrezza della fame, - sinistro ammasso di carname, spiccava la carogna di Trombetta.
A fianco di Caterina, Stefano, rimasto illeso, aspettava ancora che la ragazza, venuta meno per il dolore e la stanchezza, fosse in grado di alzarsi, quando il tuonare d'una voce lo fece trasalire. Era il reverendo Ranvier che tornava da dir messa; e che, agitando le braccia in aria, invocava sugli assassini la punizione del Cielo. Come invaso da furore profetico, annunciava prossimo sulla terra l'avvento del regno della giustizia, la scomparsa della borghesia, sterminata dal fuoco celeste; di quella borghesia che metteva il colmo alla sua iniquità facendo massacrare i lavoratori e i diseredati di questo mondo.
PARTE SETTIMA
Capitolo primo
L'eco delle fucilate di Montsou era giunto a Parigi e vi aveva suscitato un'enorme impressione. Da quattro giorni tutta la stampa dell'opposizione, indignata, dava in prima pagina sotto titoli vistosi terrificanti particolari dell'eccidio: quattordici morti, tra cui tre donne e due bambini; venticinque feriti; numerosi arresti; Levaque - cui s'attribuiva una risposta al giudice istruttore degna d'un antico - assurto a una specie di eroe. Per contro, il regime, colpito al cuore da quelle poche pallottole, affettava la calma dell'onnipotenza, senza rendersi conto neppure lui della gravità del colpo. Non si trattava che d'un increscioso conflitto d'interessi, scoppiato laggiù lontanissimo dalla capitale, senza conseguenze quindi sulla pubblica opinione; d'un incidente di scarso rilievo, che sarebbe presto dimenticato.
In via ufficiosa la Compagnia delle Miniere aveva ricevuto l'ordine di mettere la cosa a tacere e di porre fine allo sciopero, il cui irritante protrarsi minacciava di diventare un pericolo sociale. Per cui, sin dal mattino del mercoledì, si videro giungere a Montsou tre amministratori della Società. La cittadina che, impaurita com'era, non aveva ancora osato compiacersi dell'eccidio, rifiatò: l'incubo, sotto il quale da un po' viveva, stava per finire. Per l'appunto, il tempo s'era messo al bello; splendeva il sole, uno di quei primi soli di febbraio al cui tepore il glicine mette le prime foglie. Il palazzo dell'amministrazione, con tutte le finestre spalancate, pareva rivivere. Ne uscivano voci più rassicuranti: quei signori, quanto mai addolorati dell'accaduto, erano accorsi, si diceva, per schiudere ai mal consigliati operai braccia paterne. Ora che il male era fatto al di là certo di quanto non ci si fosse augurato, i tre si prodigavano nel loro compito di salvatori; decretavano misure eccellenti, quanto tardive. Per prima cosa licenziarono gli operai assoldati nel Belgio - licenziamento che presentarono clamorosamente come la più grande concessione che potessero fare alle maestranze. Quindi sospesero l'occupazione militare dei pozzi - che gli scioperanti sconfitti non minacciavano più. Furono pur essi a ottenere il silenzio sulla sparizione della sentinella del Voreux; visto che, per quante ricerche si fossero fatte, né il cadavere né il fucile dello scomparso erano stati ritrovati, si decise di far passare il soldato per disertore, quantunque sussistesse il sospetto d'un delitto. Quei signori insomma, nel timore del domani e giudicando pericoloso confessare l'irresistibilità d'una folla scatenata attraverso le vacillanti strutture del vecchio mondo, si adoperarono in tutti i modi per attenuare la portata dell'accaduto. Compito conciliativo, che non impediva conducessero in pari tempo a buon fine affari propriamente amministrativi; tant'è vero che s'era visto recarsi da loro Deneulin e abboccarsi con Hennebeau; l'ingegnere, si assicurava, stava per accettare le offerte dei tre e cedere Vandame.
Ma ciò che impressionò di più il paese furono i vistosi manifesti gialli di cui i tre fecero tappezzare i muri. Vi si leggeva a caratteri di scatola «Operai di Montsou! Noi non vogliamo che gli errori di cui avete avuto sott'occhio in questi ultimi giorni le funeste conseguenze, privino dei mezzi di sussistenza gli operai di buonsenso e di buona volontà. Lunedì mattina riapriremo pertanto tutti i pozzi; e, una volta che il lavoro sia ripreso esamineremo con coscienza e benevolenza ogni situazione suscettibile di essere migliorata. Faremo insomma per voi tutto quello che sarà giusto e in nostro potere di fare». Per tutta una mattinata i diecimila operai delle miniere sfilarono davanti ai manifesti. Nessuno apriva bocca, molti scuotevano il capo; altri venivano via strascicando il passo, senza che il viso avesse lasciato trasparire alcunché.
Sin qui il borgo dei Duecentoquaranta s'era ostinato in una selvaggia resistenza, quasi che il sangue dei compagni che aveva arrossato il fango del Voreux ne sbarrasse l'accesso ai compagni. Di questi, appena una dozzina era ridiscesa: Pierron e qualcun altro della sua risma. Accigliati, li si guardava partire e tornare; ma senza un gesto o una parola di minaccia. Per cui l'affissione del manifesto sulla porta della chiesa fu accolta con sorda diffidenza. Di restituzione dei libretti, non vi si parlava; significava che la Compagnia si rifiutava di riassumerli? E la paura di rappresaglie, il fraterno proposito di protestare contro il licenziamento dei più compromessi, persuadeva tutti a una resistenza ad oltranza. C'era qualcosa di poco chiaro; bisognava vedere; ritornerebbero al pozzo quando quei signori si decidessero a spiegarsi meglio.
Sulle case pesava il silenzio; neanche la fame contava più ormai che la morte violenta aveva visitato i loro tetti, si poteva morire tutti. Ma una abitazione, soprattutto - quella dei Maheu - restava buia e silenziosa sotto il peso del suo lutto. Da quando aveva accompagnato al cimitero il suo uomo, la Maheu non aveva più aperto bocca. A mischia finita, vedendosi da Stefano ricondurre Caterina semiviva, non aveva battuto ciglio. Spogliandola davanti al giovanotto per metterla a letto, un momento aveva creduto che anche quella le tornasse con una pallottola nel ventre; ed era stato trovandole la camicia imbrattata di sangue. Ma poi capì; nell'emozione dell'atroce giornata, nella fanciulla s'era di colpo manifestata la pubertà. Ah, un bel regalo anche questo, la possibilità fin d'ora di mettere al mondo dei figli che un giorno i soldati massacrerebbero! Né alla figlia né a Stefano la donna rivolgeva parole; e se qualche volta il suo sguardo si posava sui due, quello sguardo pareva chiedere che ci stessero a fare in casa sua. Restando lì anche a dormire (divideva di nuovo il letto di Gianlino), il giovane rischiava di farsi pizzicare; ma, a tornare a Réquillart, preferiva ancora la prigione; dopo avere visto tanti morti, rabbrividiva al pensiero di passare la notte in quel buio, dal quale lo teneva lontano - e non lo confessava a se stesso - anche la paura del soldato che vi dormiva per sempre. E poi, lo scacco subìto gli bruciava talmente che alla prigione pensava come a uno scampo. Invece, nessuno lo cercava; e Stefano attraversava ore di abbattimento, senza avere neanche modo di abbrutirsi in un lavoro qualsiasi.
La notte avevano ricominciato a russare tutti in mucchio. Bonnemort occupava adesso il letto dei due piccini, passati in quello di Caterina - non più importunata dalla gobba che la povera Alzira le piantava nelle costole. Era al momento di coricarsi che la madre avvertiva il vuoto fattosi in casa, dal freddo letto diventato troppo vasto. Inutilmente, per colmare quel vuoto, prendeva Estella con sé; rimedio inefficace; e la poveretta inghiottiva per ore le sue lacrime in silenzio.
Poi le sue giornate presero a scorrere come prima. Il pane seguitava a mancare ma non per questo, ahimè, si moriva; qualche cosa da mettere sotto i denti si raggranellava sempre, a destra o a manca - che rendeva ai disgraziati il cattivo servizio di mantenerli in vita. Nulla era cambiato; in meno, c'era il suo uomo.
Il pomeriggio del quinto giorno, Stefano - che la vista di quella donna taciturna metteva alla tortura - uscì a far quattro passi lì davanti alla strada. (Passeggiate cui lo spingeva spesso l'inerzia, intollerabile, cui era costretto; e che faceva a capo basso, le braccia ciondoloni, sempre in preda agli stessi pensieri). Questa volta, camminava lemme lemme su e giù da mezz'ora, quando, dell'acuirsi del proprio disagio si rese ragione notando che i compagni si facevano sulle soglie a osservarlo. (Il po' di popolarità di cui ancora godeva, s'era dileguato al momento che la truppa aveva fatto fuoco; ormai non usciva più senza sentirsi inseguire da sguardi, il cui odio gli bruciava la nuca). Alzò il capo: uomini dall'espressione minacciosa, donne che al suo passare scostavano le tendine. Sotto il peso di quella muta accusa, del rancore a stento contenuto che leggeva in quegli occhi dilatati dal pianto e dalla fame, il suo passo s'impacciava, non comandava più alle gambe. Al crescere alle sue spalle di quel sordo mormorio, fu preso da una tale paura che tutti gli abitanti uscissero a rinfacciargli la loro miseria, che rientrò in casa sgomento. Ma lì qualcosa lo attendeva che finì di sconvolgerlo.
Presso la stufa spenta stava il vecchio Bonnemort; inchiodato sulla sedia (come sempre dal giorno dell'eccidio, in cui due vicine lo avevano raccolto da terra, dove giaceva come fulminato col bastone rotto in mano). E mentre i due bambini, per ingannare la fame, raschiavano, da allegare i denti, una vecchia casseruola dove la vigilia erano stati cotti dei cavoli, la Maheu, deposta Estella sulla tavola, minacciava col pugno alzato Caterina:
- Dillo ancora!
ripetilo, quello che hai detto, se hai il coraggio!
La ragazza aveva manifestato l'intenzione di tornare al Voreux. Il pensiero di non guadagnarsi neppure quello che mangiava, d'essere, in casa di sua madre, tollerata come un animale che è solo d'impiccio, le pesava ogni giorno dl più; e sin dal martedì sarebbe ridiscesa nella miniera, non fosse stata la paura di Chaval.
- Ma come vuoi fare? - balbettò. - Non si può vivere senza fare nulla. Rimedieremo almeno il pane.
Dandole sulla voce, la madre:
-Senti bene quel che ti dico: il primo di voi che torna nel pozzo, lo strangolo... Ah no! Sarebbe troppo grossa, che dopo avere accoppato il padre seguitassero a levare la pelle ai figli! Basta, ormai! preferisco vedervi portar via tutti tra quattro assi, come ho visto portare lui.
E il silenzio che aveva così a lungo mantenuto lo sfogò in un diluvio di parole. Li avvantaggerebbe di molto, oh sì, quello che Caterina porterebbe a casa! trenta soldi sì e no; più, a farla grossa, altri venti, se quei signori si degnassero di trovare qualcosa da fare per quel gaglioffo di Gianlino! Cinquanta soldi e sette bocche da sfamare. Gli altri non erano buoni che a sbarazzare la scodella. Quanto al nonno, certo nella caduta, gli si era rotto qualcosa nel cervello. Bastava guardarlo! A meno che non gli si fosse rovesciato il sangue, a vedere i soldati sparare sui compagni.
- Dico bene, vecchio? E' stata l'ultima mazzata che vi hanno assestato! Con tutto il vostro pugno di ferro, siete bell'e spacciato!
Bonnemort la guardava con occhi spenti, senza capire. Rimaneva delle ore così con lo sguardo fisso; quel che gli restava di comprendonio, lo impiegava tutto nell'astenersi dallo sputare fuori del piatto che, per istinto di pulizia, gli mettevano vicino, pieno di cenere.
- E ancora non gli liquidano la pensione! Gliela negheranno, oh certo, per via delle nostre idee! No! vi dico che ormai ha passato ogni limite quella gente della malora!
- Però, - azzardò Caterina, - sul manifesto dicono...
- Vuoi piantarla col tuo manifesto? Non capisci che è ancora una trappola per metterci nel sacco? Gli costa poco fare i gentili, ora che ci hanno fatto sparare addosso...
- Sarà, mamma; ma, allora, noi dove si va? Perché qui non ci lasciano di certo.
La Maheu ebbe un gesto evasivo, disperato. Dove andrebbe? e che lo sapeva lei? Non voleva neanche pensarci, per non uscire pazza. In qualche posto andrebbero. E siccome il raschio della casseruola diventava lacerante, la donna piombò sui due piccini e li prese a schiaffi. Ai loro strilli s'aggiunsero quelli di Estella che, trascinatasi a quattro zampe all'orlo della tavola, era caduta.
Per consolarla:
- Che fortuna se ci restavi sul colpo! - gridò la Maheu. Così tutti loro potessero come l'Alzira togliersi d'impiccio.
Ma nell'augurarlo appoggiò il capo al muro e scoppiò in singhiozzi.
Stefano, lì impalato, non aveva osato intervenire. Che contava più in quella casa dove anche i bambini si ritraevano diffidenti da lui? Ma a quello scoppio di pianto non resse: - Suvvia, suvvia, coraggio! Si cercherà d'uscirne... Senza dar segno d'udirlo, quella con voce lamentosa, come parlando a se stessa:
-Ah, ma è possibile che ci si sia ridotti così? Prima, per quanto male, si campava. Di pane secco; ma si era tutti insieme... Che cosa s'è dunque fatto, mio Dio, che delitto abbiamo dunque commesso, per trovarci in questi guai, gli uni sottoterra, gli altri senza più altro desiderio che andarci anche loro? Era ben vero che si era come bestie da tiro attaccate al carro; che non era punto giusto che, mentre quelli s'arricchivano sempre di più, noi si avesse sempre a toccarle, senza mai la speranza d'un po' di bene. Senza speranza, che sugo a vivere? Sì, come andava non poteva durare, un respiro ci voleva... Avessimo saputo, però! E' possibile che a chiedere ciò che è giusto, ci si debba tirare addosso il finimondo?... - Ansimava; la voce le si strozzava in gola.
- Poi, c'è sempre chi la sa più lunga di voi e viene a farvi credere che basta volere e si può migliorare la propria condizione... Ci si monta la testa: la realtà è così dura che si finisce per credere possibile l'impossibile. Già io mi illudevo come una scema; vagheggiavo un mondo in cui si fosse tutti fratelli. Parola! m'esaltavo, già vivevo nelle nuvole... Ma di lassù si ricasca nella merda e ci si rompe il filo della schiena... Non era vero, tutte balle; di quel che ci si immaginava di vedere non esisteva un bel niente. Di reale, la miseria, oh di quella quanto se ne vuole, e, come non bastasse, le fucilate, per giunta... Ogni parola, ogni lacrima suscitava in Stefano un rimorso. Che dire, che conforto dare a quella donna precipitata da tanta speranza nella più dura realtà?
E, improvvisamente, affrontandolo e dandogli del tu, lei in un ultimo impeto di rabbia: - E tu? forse che anche tu parli di tornare al pozzo, dopo averci spinti tutti allo sbaraglio? Io non ti rinfaccio niente. Ti dico solo che, nei tuoi panni, io sarei già morta dal dispiacere, di aver fatto tanto male ai miei compagni.
Stefano volle rispondere; ma a che pro giustificarsi, dare delle spiegazioni che la donna, nel suo dolore, non capirebbe?
Si strinse nelle spalle, disperato. Poi, non reggendo, si tolse di là e tornò in istrada.
Lì, gli uomini erano ancora sulle soglie, le donne alle finestre: tutto il borgo pareva lo aspettasse. Al suo ricomparire s'alzò un mormorio minaccioso; altre facce si mostrarono. L'animosità che da quattro giorni covava contro di lui, scoppiava ora in pubblico in un coro di maledizioni. Pugni si tendevano verso di lui; madri lo additavano all'odio dei figli; vecchi sputavano guardandolo. Era il voltafaccia che immancabilmente si avvera all'indomani della sconfitta, il fatale capovolgersi del fervore popolare; una esecrazione che tutte le sofferenze patite inutilmente esasperavano. Stefano scontava ora la fame e le morti che aveva provocato.
Già nell'uscire di casa, s'ebbe uno spintone da Zaccaria che arrivava in compagnia di Filomena; lo udì ghignare: - Ve' com'è in ciccia, lui! Ingrassa, si vede, la pelle degli altri!
E la Levaque, facendosi sulla porta con Bouteloup, ad alta voce: - Sì, perché ci sono dei vigliacchi che fanno massacrare i bambini. Il mio Berto, per esempio; al cimitero dovrebbe andarlo a cercare, per rendermelo!
Del marito in prigione si scordava: non c'era Bouteloup a farne le veci? Ma ecco se ne ricordò per soggiungere, alzando ancora la voce:
- Ma si sa! I mascalzoni se la spassano quando i galantuomini sono in gattabuia!
Per scansarla, Stefano andò a sbattere contro la Pierron che arrivava di corsa attraverso gli orti. (La morte della madre, la Pierron, l'aveva accolta come una liberazione - quella linguaccia rischiava di farli impiccare, lei e il ganzo. Né piangeva di più la figlia, quella sgualdrinella della Lidia; un vero impiccio di meno. Ma ci teneva a rabbonire le vicine mostrandosi solidale con esse).
- E mia madre, di'? e la mia figliolina? Ti hanno visto tutti che ti nascondevi dietro le loro spalle, quando esse si buscavano le pallottole in vece tua!
Che fare? strozzarla lei e le altre? battersi contro tutta la borgata?
Il giovane ne ebbe un attimo la tentazione. Il sangue gli ronzava nelle orecchie, gli intorbidava la vista. Furente di vederli di così scarso comprendonio, così zotici, da addossare a lui la colpa della sconfitta: «Che razza di bruti!» si diceva.
Com'era stupida la cosa! Oh come gli bruciava di non poterseli mettere un'altra volta ai piedi!
Si contentava di accelerare il passo, di fare orecchie da mercante come se quegli insulti non lo toccassero. Ma presto quell'affrettarsi si mutò in fuga; al suo passare, da ogni casa partivano fischi, un codazzo gli si ingrossava dietro, gli camminava sui calcagni; tutta la popolazione, felice di sfogare alfine il suo rancore, lo malediceva in un crescendo di imprecazioni. Eccolo lì lo sfruttatore, l'assassino, l'unica causa delle loro sciagure! Incalzato dall'urlante branco, Stefano arrivò in fondo all'abitato: sfiatato dal correre, livido, atterrito.
Lì finalmente lo lasciarono. Seguìto solo da pochi testardi, il giovane continuava a camminare; quando, in fondo alla discesa, di fronte all'osteria del Risparmio, s'imbatté in altri che uscivano dal Voreux.
Nel gruppetto c'era, con Chaval, il vecchio Mouque. Questi che per la morte dei figli non aveva mosso lagno né dato a vedere rimpianto e che seguitava come niente a lavorare al Voreux, eccolo ora, alla vista di Stefano, andare improvvisamente in bestia. Gli occhi si riempirono di lacrime e dalla bocca - che l'abitudine di masticare cicche aveva ridotto a un nero buco sanguinolento - traboccò una bordata d'ingiurie: - Sporcaccione! maiale! pezzo di carogna! Alto là! m'hai da pagare quei due poveretti che m'hai fatto uccidere! La tua ora è venuta!
E raccattato un mattone, lo spezzò, lo lanciò. E Chaval, imitandolo, felice dell'occasione di vendicarsi:
-Sì, sì, facciamolo fuori, - ghignò inferocito. - E' la tua volta, adesso! adesso ci sei, lavativo porco!
Grida selvagge si levarono, tutti diedero di piglio ai mattoni, li spezzarono, li scagliarono; per fare a Stefano quello che avrebbero voluto fare ai soldati. Stordito ora il giovane faceva fronte, tentava di metterli in ragione. I discorsi che un tempo gli avevano procacciato tanti applausi, gli tornarono alle labbra. Ripeteva le parole con le quali li aveva ubriacati, al tempo che li aveva docile gregge ai suoi piedi. Senonché il suo ascendente era caduto, e in risposta riceveva solo sassate. Ferito ad un braccio, prese a indietreggiare; finché incontrò con le spalle il muro dell'osteria: si sentì perduto.
Da un momento Rasseneur s'era fatto sulla soglia.
- Entra, - gli disse semplicemente.
Stefano esitava; gli ripugnava trovare scampo là dentro.
- Entra dunque, parlerò loro.
Rassegnandosi Stefano entrò e si andò a rintanare in fondo alla sala mentre con le sue larghe spalle l'oste sbarrava l'ingresso.
- Suvvia, amici miei, siate ragionevoli. Non vi ho mai ingannato, lo sapete bene, io. Sono sempre stato per la calma, io; e se mi aveste dato retta non vi trovereste certo a questa.
Dondolando le spalle e il ventre, a lungo lasciò fluire la sua facile e blanda eloquenza che agiva sui nervi come un bagno d'acqua tiepida.
E quella eloquenza riscuoteva di nuovo in pieno l'antico successo; riconquistava come per incanto all'uomo l'antica popolarità; cullato da essa, nessuno più nel pubblico ricordava d'avere, appena un mese prima, fischiato quelle stesse frasi e trattato Rasseneur di codardo.
- Bravo! - si gridava.- Siamo con te! ecco come bisogna parlare! - Scoppiò un tuono di applausi.
Stefano si sentiva mancare, il cuore gli si impregnava di amarezza.
Gli tornò in mente ciò che Rasseneur gli aveva predetto nella foresta: «proverai anche tu l'ingratitudine della folla». Ah, la stupida bestia! come presto scordava i benefici ricevuti! La folla: una forza cieca che continuamente divora se stessa. E sotto la stizza che gli dava vedere quei bruti buttare a mare la loro causa, c'era in Stefano la disperazione per il proprio smacco, per la tragica fine della sua ambizione. Sicché tutto era già finito? Eppure, quel giorno, nella faggeta, tremila petti avevano vibrato all'unisono col suo; quel giorno egli aveva stretto in pugno la popolarità; di quella folla, si era sentito il padrone. Folli sogni lo avevano ubriacato: Montsou al suoi piedi, un seggio di deputato a Parigi. Da quel seggio egli avrebbe con un discorso fulminato la borghesia: il primo discorso pronunciato da un operaio dalla tribuna di un parlamento.
E dal sogno ora ecco si ridestava miserabile come prima, esecrato dalla folla che lo aveva idolatrato, inseguito da essa a sassate.
La voce di Rasseneur si alzò di tono: - Non una volta la violenza ha avuto successo; in un giorno non si può rifare il mondo. Coloro che vi hanno promesso di cambiare tutto in un giorno, sono dei buffoni o dei disonesti!
- Bravo! bravo! - la folla vociferò.
Era dunque lui il colpevole? e la domanda che Stefano si poneva finì di accasciarlo. Era proprio colpa sua lo stato di cose di cui per primo soffriva, la miseria degli uni, il massacro degli altri, quelle donne, quei bimbi dimagriti e senza pane? Prima del disastro, una sera, egli s'era prospettato le conseguenze che ora aveva sott'occhio. Ma già allora una forza che non dipendeva più da lui lo spingeva, lo trascinava coi compagni. Mai, del resto, egli li aveva guidati; erano stati sempre essi a condurlo, a obbligarlo a fare cose che, senza la spinta di quella folla che lo incalzava, mai avrebbe fatto. Egli non aveva previsto né voluto alcuna delle violenze cui la folla s'era abbandonata; erano stati gli avvenimenti a sopraffarlo. Come, ad esempio, avrebbe potuto prevedere che un giorno i suoi fedeli lo prenderebbero a sassate? Mentivano quegli ossessi quando lo accusavano di aver loro promesso una esistenza facile e oziosa. E in questo giustificarsi ai propri occhi, nel ragionamenti con cui cercava di placare i rimorsi, c'era il sordo cruccio di non essersi mostrato all'altezza del compito, l'incertezza che sempre lo tormentava dell'uomo che non è sicuro del fatto suo.
Si sentiva senza più coraggio, ormai staccato col cuore dai compagni; di essi aveva anzi paura, di quella folla cieca e irresistibile che, incurante di regole e teorie, si scatena spazzando via ogni cosa come una forza di natura. Ad allontanarlo ogni giorno più da essa, sino a fargli provare una vera ripugnanza, era stata la sua educazione, l'affinarsi dei suoi gusti, l'aspirazione di tutto il suo essere a una classe superiore Un subisso di applausi soverchiò la voce dell'oratore:
-Evviva Rasseneur! Bravo, bravo! Lui sì che parla bene!
Già la folla si disperdeva, l'oste chiuse la porta; e i due uomini si guardarono in silenzio. Ebbero ambedue un'alzata di spalle; e finirono per bere insieme una birra. Quello stesso giorno si dava alla Piolaine un grande pranzo per festeggiare il fidanzamento di Négrel con Cecilia. Dal giorno prima i Grégoire avevano fatto dare la cera in sala da pranzo e mettere in ordine il salotto. Melania regnava in cucina, sorvegliava gli arrosti, rimestava gli intingoli: un odore appetitoso riempiva la casa. Francesco il cocchiere aiuterebbe Onorina a servire; il giardiniere riceverebbe i convitati al cancello, sua moglie rigovernerebbe. Mai una festa di gala come quella aveva messo sossopra la grande casa patriarcale.
Tutto andò come meglio non si poteva desiderare. La Hennebeau fu incantevole con Cecilia; e sorrise a Négrel, quando il notaio galantemente propose di brindare alla felicità della futura coppia. Né meno amabile si mostrò suo marito. La gioia che gli brillava in volto colpì i convitati; si sussurrava che, rientrato nelle grazie della direzione, stava per ottenere la Legion d'Onore per l'energia con cui aveva saputo domare lo sciopero. Degli avvenimenti recenti si evitava di parlarne; ma dall'allegria che regnava traspariva l'esultanza per la vittoria; e il pranzo acquistava sempre più l'aria di esserne la celebrazione ufficiale. Finalmente si rifiatava, ci si era liberati dall'incubo, si ricomincerebbe a mangiare e a dormire in pace!
Un'allusione discreta venne fatta alle vittime del cui sangue era ancora fresco il fango del Voreux. Era stata però una lezione necessaria. E tutti si commossero quando i Grégoire aggiunsero che il dovere di ciascuno era ora di recarsi nei borghi operai a medicare le ferite.
I Grégoire avevano ripreso verso gli operai il loro atteggiamento benevolo; li scusavano, i loro bravi minatori; già li vedevano in fondo ai pozzi ridare il buon esempio di una secolare rassegnazione. I notabili di Montsou, passata la tremarella, ammisero, bontà loro, che il problema dei salari esigeva di essere attentamente riesaminato.
All'arrosto, la vittoria apparì completa, quando Hennebeau diede lettura d'una lettera con cui il vescovo gli annunciava il trasferimento dell'abate Ranvier. Ma che s'era mai visto un prete trattare i soldati di assassini? Cose dell'altro mondo! A proposito di che, - si serviva la frutta - il notaio ci tenne a dichiararsi recisamente libero pensatore.
A tavola era presente Deneulin con le sue due figlie. In mezzo a tutta quella allegria, egli si sforzava di dissimulare la propria tristezza. Era rovinato. Quella mattina appunto, aveva firmato l'atto di vendita alla Compagnia di Montsou della sua concessione di Vandame. Preso per il collo, s'era dovuto piegare alle esigenze dei gerenti la Società e lasciare in loro mano la preda che da tanto tempo agognavano, ricavandone a stento di che pagare i creditori. Aveva anzi, all'ultimo momento, accettato come una manna l'offerta che essi gli avevano fatto di assumerlo come ingegnere divisionale; gli toccherebbe così di sorvegliare da semplice impiegato il pozzo che aveva inghiottito il suo patrimonio.
Era il rintocco funebre che annunciava la morte delle piccole imprese private, la sparizione imminente degli imprenditori in proprio, assorbiti uno dopo l'altro dall'orco mai sazio del capitale, sommersi dalla sempre crescente marea dei grandi trusts. Lui solo pagava le spese dello sciopero; quando si brindava al nastrino di Hennebeau sentiva bene che si brindava al proprio disastro. E se di esso un po' si consolava, era vedendo con quanta disinvoltura reggevano il colpo le figlie; Lucia e Gianna, graziosissime negli abiti rimediati alla meglio, ridevano infatti, da quelle belle ragazze che erano, un po' maschie e sprezzanti del danaro.
Come si passò a prendere il caffè in salotto, Grégoire prese il cugino in disparte e lo complimentò della coraggiosa decisione.
- Che vuoi? il tuo unico torto è di aver rischiato a Vandame il titolo di Montsou. Dopo tutta la pena che ti sei presa, ecco che ti si è squagliato in mano; mentre il mio, che non è uscito dal mio tiretto, mi permetterà ancora di vivere senza fare nulla, come lo permetterà ai figli dei figli dei miei figli.
Capitolo secondo
La domenica, al calar della notte, Stefano uscì dall'abitato. Sotto il cielo limpidissimo occhieggiante di stelle, la notte aveva l'azzurra trasparenza d'un crepuscolo. Scese verso il canale, ne seguì l'argine lemme lemme, risalendo verso Marchiennes. Era la sua passeggiata favorita; per due leghe un sentiero erboso correva diritto, rasente l'acqua che scorreva simile a un lingotto d'argento liquefatto. Lì di solito non incontrava nessuno; per cui fu con una punta di contrarietà che questa volta si vide un uomo venire incontro. Non essendovi altra luce che quella delle stelle, lo riconobbe solo quando se lo trovò faccia a faccia.
- Toh, sei tu!
Souvarine scosse il capo senza rispondere.
Restarono un momento di fronte; poi si avviarono insieme verso Marchiennes; fianco a fianco, eppure lontani, isolati com'erano nei loro pensieri.
Stefano fu il primo a rompere il silenzio: - Hai visto sui giornali che successo ha avuto Pluchart a Parigi? All'uscita dall'adunanza di Belleville la folla che lo aspettava gli ha fatto un'ovazione. Eccolo lanciato. Quello lì ormai arriva dove vuole.
L'altro spallucciò; esprimeva così il suo disprezzo per i bei parlatori che si dànno alla politica come si darebbero all'avvocatura: per arricchirsi, spacciando frasi.
Da poco, Stefano s'era iniziato alla conoscenza di Darwin. In un libretto ne aveva letto dei brani, riassunti e messi alla portata di tutti; e da quella lettura mal digerita s'era fatto a modo suo un'idea della lotta per l'esistenza: i magri che mangiano i grassi, il popolo sano che divora l'infrollita borghesia.
Ne accennò a Souvarine. Il russo sbottò: erano degli imbecilli, i socialisti, che accettavano Darwin; quell'apostolo d'una teoria che, con la sua famigerata legge della selezione, buona solo per dei filosofi borghesi, voleva dare una base scientifica alla diseguaglianza sociale.
L'altro insisteva, voleva ragionare; e presentò sotto forma di ipotesi un dubbio che gli si era affacciato. Supponiamo, disse, che della società com'è ora si arrivi a fare piazza pulita. Orbene: posto che vi saranno sempre i furbi e gli scemi, i sani e gli ammalati, non c'è da temere che la nuova società si macchi a poco a poco delle stesse ingiustizie di quella che ha soppiantato? che daccapo i meno validi fisicamente e intellettualmente diventino schiavi degli altri? A questa prospettiva che perpetuava la diseguaglianza nel mondo, l'altro si ribellò: se davvero l'uomo non era in grado di realizzare la giustizia sulla terra, ebbene, meglio perisse. Quante società putrefatte esistevano, tante dovevano essere spazzate via, occorresse magari arrivare alla soppressione dell'ultimo uomo. Lo disse con tono feroce; e tra i due ricadde il silenzio.
A lungo, Souvarine seguitò a camminare a testa bassa sul margine erboso; così assorto che rasentava il filo dell'acqua col passo sicuro del sonnambulo che procede lungo un cornicione. Poi, improvvisamente, con un filo di voce: - Te l'ho raccontato, - chiese, - come è morta?
- Chi?
- La mia donna, lassù, in Russia... Stefano ebbe un gesto vago. Quella voce incrinata di commozione, quell'improvviso bisogno di confidarsi non se lo aspettava dall'uomo che aveva conosciuto sin allora impassibile e come staccato da tutti e da se stesso. Di lei, sapeva solo che era stata la sua amante e che era finita a Mosca impiccata.
Lo sguardo perduto sull'argentea striscia del canale, tra i due colonnati d'alte piante che la notte inazzurrava, Souvarine raccontò: - L'impresa era fallita. Quattordici giorni si era rimasti appiattati in una buca a minare la ferrovia. E invece del treno imperiale, a saltare in aria fu un treno passeggeri... Allora, Annuscia fu arrestata. Era lei che ogni sera travestita da contadina ci portava il pane. Era stata pure lei che aveva appiccato il fuoco alla miccia... Un uomo sarebbe stato notato più facilmente... Confuso nella folla, ho seguìto il processo che durò ben sei giorni... Dissimulò la commozione che gli impacciava la lingua tossendo. Poi: - Due volte fui lì per gridare, scavalcare chi avevo davanti, raggiungerla. Ma a che pro? un uomo di meno è un soldato di meno; e io sentivo bene che lei me lo proibiva ogni volta che i suoi grandi occhi sbarrati incontravano i miei... Ritossì.
- L'ultimo giorno, sulla piazza, c'ero... Pioveva; disturbati dall'acquazzone quei buoni a niente perdevano la testa... Venti minuti, avevano impiegato per impiccare i primi quattro; la corda si spezzava; il quarto non riuscivano a finirlo... Annuscia era lì in piedi ad aspettare. Mi cercava con gli occhi e non mi trovava. Salii su un paracarro. Allora mi vide e i nostri occhi non si lasciarono più. Da morta mi guardava ancora... Ho agitato il cappello e sono partito.
Un nuovo silenzio. La bianca scia del canale si allungava a perdita d'occhio. Sull'erba che attutiva i passi, i due procedevano a fianco, ricaduti nel loro isolamento. Laggiù all'orizzonte, l'acqua pareva bucare il cielo d'uno spiraglio di luce.
Con voce dura Souvarine ripigliò: - Era il castigo della nostra colpa e la colpa era stata di amarci. Sì, è bene che sia morta; dal suo sangue nasceranno gli eroi e il mio cuore s'è purificato d'ogni viltà... Ah, niente: né parenti, né donna, né amico! niente che mi faccia tremare la mano quando occorre prendere la vita degli altri o dare la mia!
Stefano s'arrestò, preso da un brivido che non era solo dovuto al fresco della notte. Non fece alcun commento.
- Ci si è allontanati parecchio, - disse soltanto. - Vuoi che torniamo?
E nel rimettersi lemme lemme in cammino verso il Voreux, aggiunse, dopo pochi passi:
-Hai veduto il manifesto?
Alludeva ai nuovi manifesti che la Compagnia aveva fatto affiggere quel mattino. Erano redatti in tono più conciliante e più esplicito: la Compagnia s'impegnava a riprendere il libretto dei minatori che ridiscenderebbero l'indomani. Tutto sarebbe dimenticato; anche i più compromessi beneficerebbero del perdono.
- Sì, ho visto.
- Ebbene, che ne pensi?
- Ne penso... che è finita... Il gregge ridiscenderà. Siete tutti senza spina dorsale.
Con calore Stefano difese i compagni: un uomo può essere bravo, una folla che muore di fame è impotente; e siccome passo passo s'era giunti al Voreux, lì davanti al buio agglomerato di edifici del pozzo, giurò che lui non vi sarebbe ridisceso mai; ma scusava quelli che vi ridiscenderebbero.
A questo punto, gli sovvenne d'una voce che gli era giunta: che i carpentieri non avevano avuto il tempo di riparare l'armatura del pozzo. Chiese a Souvarine se era vero che il premere del terreno contro il rivestimento aveva fatto fare pancia alle assi al punto che, nel passare, una delle gabbie vi strofinava contro per la lunghezza di oltre cinque metri. Tornato silenzioso, l'altro rispondeva laconico. Sì, ci aveva lavorato anche il giorno prima; c'era infatti un tratto in cui la gabbia raschiava contro l'armatura; lì anzi per passare si doveva raddoppiare di velocità. Era stato fatto osservare ai capi; ma tutti dal primo all'ultimo rispondevano spazientiti che quel che ora premeva era estrarre carbone; in seguito si riparerebbe.
- Vedi dunque che si sfascia, - mormorò Stefano. - E' quello che ci vorrebbe!
Gli occhi sul pozzo, indistinto nell'ombra, l'altro placido:
-Se si sfascia, i compagni ne sapranno qualcosa, visto che tu li esorti a ridiscendere.
Suonavano le nove al campanile di Montsou. Souvarine si accomiatò, se ne andava a dormire; poi, senza neppure tendere la mano:
-Ebbene, addio! - disse. - Io parto.
- Parti? come sarebbe a dire?
- Sì. Ho ritirato il libretto; vado altrove.
Tra stupito e commosso l'altro lo guardava. Era da due ore che ci stava insieme e a dirglielo aspettava ora! e con quel tono! mentre a lui, solo all'annuncio dell'improvvisa separazione, si stringeva il cuore. Ci si era conosciuti, si era penato insieme: l'idea di non vedersi più fa sempre un certo effetto.
- Parti! e dove vai?
- Via. Che lo so io, dove?
- Ma ti rivedrò?
- No, non credo.
Tacquero e restarono un momento uno in faccia all'altro, senza trovare altro da dirsi.
- Addio, allora.
- Addio.
Come Stefano ebbe voltato le spalle, Souvarine ridiscese sull'argine; e prese a passeggiare su e giù a capo basso, ombra che si muoveva confusa nella notte. Al lontano rintoccare delle ore, si fermava in ascolto. Solo quando scoccò la mezzanotte venne via e s'incamminò alla volta del Voreux.
Il pozzo, a quell'ora, era deserto: i forni non si riaccenderebbero che alle due. In tutto, incontrò un caposquadra che cascava dal sonno; gli disse che veniva a prendersi un vestito che aveva dimenticato.
Arrotolati nel vestito c'erano un cacciavite, una piccola sega robusta, un martello e uno scalpello. Messosi sottobraccio l'involto, anziché uscire per la baracca, infilò lo stretto corridoio che conduceva al passaggio delle scale; contandole, lentamente prese a scendere, al buio. Il cedimento nell'armatura s'era verificato a trecentosettantaquattro metri dalla bocca del pozzo. Arrivato in fondo alla cinquantaquattresima scala tastò la parete; faceva pancia. Allora si accinse tranquillamente al lavoro che aveva studiato da tempo in tutti i suoi particolari.
Per prima cosa attaccò con la sega un'asse della paratia e vi praticò un'apertura che lo mise in comunicazione con lo scompartimento delle gabbie. Di lì, tenendosi a cavalcioni, al lampo di fiammiferi che via via accendeva e subito spegneva, poté rendersi conto dello stato in cui si trovava il rivestimento e delle riparazioni che ultimamente v'erano state fatte.
Nel tratto tra Calais e Valenciennes il trivellamento dei pozzi di miniera è reso quanto mai difficile da immense distese d'acqua che s'incontrano sotterra, al livello delle valli più basse. Soltanto con la costruzione di armature di legno, stagne come le doghe d'una botte, si riesce a contenere l'impeto delle sorgenti; a isolare il pozzo in mezzo a veri e propri laghi che ne battono le pareti coi loro flutti bui.
Nello scavo del Voreux, di rivestimenti se n'erano dovuti costruire due: quello superiore, nelle sabbie franose e nelle argille bianche sottoposte allo strato cretaceo - tutte crepate di fenditure e imbevute di acqua come spugne; quello inferiore, immediatamente sopra lo strato carbonifero, in una sabbia gialla di consistenza farinosa, mobile come l'acqua; ed era qui che si trovava il Torrente: sorta di mare sotterraneo, terrore delle miniere del nord; un mare insondabile, di cui nulla si sa, che ha come il nostro le sue tempeste e i suoi naufragi e rotola i suoi flutti a oltre trecento metri dal suolo.
Alla sua enorme pressione, i rivestimenti, per solito, resistono validamente. Il maggior pericolo che li minaccia, è l'assestarsi dei terreni vicini, scrollati dal continuo cedere e ricolmarsi dei cantieri d'abbattimento sfruttati. In questi scoscendimenti di rocce, si producono a volte linee di frattura che, propagandosi a poco a poco sino all'armatura del pozzo, finiscono alla lunga per storcerla e curvarla verso l'interno. Il grave pericolo è qui; che in quel punto il rivestimento ceda e una valanga di acqua e di terra ricolmi la miniera.
Nel quinto tratto dell'armatura, Souvarine constatò una deformazione allarmante: le tavole facevano pancia, al punto che parecchie erano già uscite dai quadri. Già dai giunti l'acqua sfuggiva in violenti zampilli («spifferi» nel gergo della miniera), attraverso la stoppa incatramata che li calafatava. I carpentieri, nella fretta, s'erano limitati a fissare agli angoli delle squadre di ferro; ma il lavoro era stato fatto così alla carlona che nemmeno tutte le viti erano state messe. Non c'era dubbio, dietro l'armatura, si stava producendo nelle sabbie del Torrente un movimento preoccupante. Bastava dunque allentare le viti: un'ulteriore spinta del terreno avrebbe fatto saltare tutte le squadre.
Souvarine non esitò un istante. Era un lavoro d'una temerarietà folle.
Venti volte rischiò di perdere l'equilibrio, di fare un salto di centottanta metri. Aveva dovuto afferrarsi ai panconi di guida delle gabbie; e, sospeso nel vuoto, camminava lungo le traverse che, a eguali distanze, li congiungevano. Si lasciava scivolare dall'una all'altra; e ora si sedeva, ora si rovesciava all'indietro, ora si protendeva in avanti, in un tranquillo sprezzo della morte; non avendo spesso per punto d'appoggio che un gomito o un ginocchio. Un soffio sarebbe bastato a farlo precipitare. Tre volte, senza un brivido, fece appena a tempo ad afferrarsi. Prima, tastava con la mano; quindi svitava. E quando non si orientava più in mezzo a quel groviglio di travi scivolose, solo allora ricorreva ad un fiammifero.
Allentate che ebbe le viti, attaccò le assi; e il rischio crebbe. Individuata quella che tratteneva le altre - l'asse chiave dell'armatura - contro di essa si accanì. La forava, la segava, la riduceva di spessore, in tutti i modi la indeboliva; mentre, attraverso i buchi e le spaccature, l'acqua schizzava accecandolo, inzuppandolo lo intirizziva. Due fiammiferi non s'accesero; gli altri si bagnarono. Intorno a lui, fu il buio compatto, la notte senza fondo.
Allora una specie di furore lo prese; ubriacato dall'orrore di quelle tenebre che l'acqua flagellava a dirotto, s'abbandonò a un'orgia di distruzione. Prese a menare intorno, dove arrivavano, colpi alla cieca; accanendosi col martello, la sega, il cacciavite contro il rivestimento, come fosse impaziente di sentirselo crollare sul capo. E in quel corpo a corpo metteva la ferocia con cui avrebbe sventrato a coltellate un nemico che cercasse. Ah, avere finalmente ragione di quel mostro dalle fauci sempre spalancate che s'impinguava ogni giorno di carne umana e non ne era mai sazio! Maneggiati all'impazzata, gli attrezzi mordevano il legno; mentre lui strisciava sulle travature, saliva, scendeva, si spenzolava, conservando l'equilibrio per miracolo; in un frenetico agitarsi, simile allo svolazzare d'un pipistrello nell'armatura d'una cella campanaria.
Finché... Così conservava il controllo dei suoi nervi? D'avere ceduto alla stizza, d'essersi lasciato travolgere da quella ventata di follia, provò rossore. Si fermò; si riprese. E, rifiatato che ebbe, tornò nel passaggio delle scale, rimise a posto l'asse segata, chiuse di nuovo la paratia. Il guasto recato era più che sufficiente; uno maggiore avrebbe gettato l'allarme, fatto correre ai ripari. Prima di sera, ferita mortalmente al ventre, la belva rantolerebbe; e il marchio che le troverebbero impresso nelle carni direbbe al mondo che non era perita di morte naturale.
Arrotolati di nuovo con cura gli attrezzi nel vestito, Souvarine risalì a tutto suo agio le scale. Senza aver incontrato nessuno, si trovò fuori che suonavano le tre. Di andare a cambiarsi, non gli passò neppure per la testa; si piantò sulla strada in attesa. A quella stessa ora, nel buio silenzio della camera, Stefano, già sveglio anche lui, avvertiva un lieve rumore. Si rizzò sul gomito in ascolto. Nulla; solo il russare di Bonnemort e della Maheu, il calmo respiro dei bambini e il sibilo che, lì al suo fianco, emetteva Gianlino.
S'era certo ingannato; e il giovane si ributtava sotto, quando il rumore si ripeté. Era lo scricchiolio d'un pagliericcio; qualcuno che si alzava, cercando di non farsi udire. Caterina; che si sentisse male?
- Sei tu, Caterina? cos'hai? - chiese sommessamente.
Non venne risposta; e per un po' più nessuno si mosse. Poi, nuovo scricchiolio. Sicuro questa volta di non essersi ingannato, Stefano scese e, protendendo le mani, mosse verso il letto vicino. Le mani incontrarono Caterina; seduta sulla sponda del letto, la ragazza tratteneva il fiato.
- Ebbene, perché non rispondi? che fai?
- Mi alzo, - quella finì per dire.
Lui, stupito:
-A quest'ora?
- Sì: torno al lavoro.
Il giovane provò una stretta al cuore, le si sedette accanto. La ragazza sottovoce:
- Non posso più seguitare così. Mi pesa troppo vivere con le mani in mano. Non mi sento addosso che sguardi di rimprovero. Preferisco affrontare i maltrattamenti di Chaval. Se di quello che guadagnerò mia madre non vorrà saperne, ebbene, sono abbastanza grande per cuocermi la minestra da me. Lasciami, ora mi vesto. E non dire niente, sai, se non mi vuoi male!
Ma Stefano restava lì. A farle sentire la pena e la pietà che gli faceva, l'aveva allacciata alla vita. Stretti uno contro l'altra sulla sponda del letto, avvertirono attraverso la camicia il calore dei loro corpi. Nella ragazza il primo impulso era stato di sciogliersi da quell'abbraccio; ma poi, mettendosi sommessamente a piangere, gli aveva passato il braccio intorno al collo e lo aveva attirato a sé in una stretta disperata.
Restarono un po' così, a pensare ciascuno al loro amore infelice, rimasto inappagato. Tutto dunque fra loro era per sempre finito? neanche ora che erano liberi, avrebbero il coraggio di amarsi? Eppure a dissipare il reciproco ritegno, il disagio che li divideva, causato da ogni sorta di idee nelle quali neppure essi leggevano chiaro, un po' di gioia sarebbe bastata!
- Torna a letto, - sussurrò lei. - Non voglio accendere; se no, mia madre si sveglia. E' ora che vada... lasciami!
Senza ascoltarla, lui la stringeva perdutamente a sé, il cuore oppresso da un'atroce tristezza. L'invincibile bisogno di un po' di felicità lo invadeva. Si vedeva lui e lei sposi in una casetta pulita, senza più altra ambizione che quella di vivere e morire insieme. Si contenterebbe di pane; e se di pane ve ne fosse per uno solo, sarebbe per Caterina. A che cercare altro? forse che la vita poteva dare di più?
E siccome lei:
- Lasciami, - insisteva, - ti prego!... - e gli toglieva le braccia dal collo, Stefano in un improvviso impeto di tenerezza: - Aspetta, che mi vesto anch'io, - le bisbigliò all'orecchio. - Vengo con te!
E subito, d'averlo detto lui stesso si stupì. Come mai, dopo aver giurato di non ridiscendere nel pozzo, ora di colpo vi si era deciso? così alla leggera, senza rifletterci un momento, senza pesare quello che diceva?
Ma ecco, l'aveva appena pronunciata quella parola, che già non provava più che impazienza di metterla in atto. Al suo cervello era subentrata una grande calma; tutti i suoi dubbi s'erano d'incanto dissipati. Si sentì il prigioniero che infila per caso la porta che gli restituisce la libertà; il naufrago che si trova a riva senza sapere come.
Allarmata, Caterina cercò di dissuaderlo; capiva che quella decisione il giovane la prendeva per amor suo e paventava l'accoglienza che i compagni gli farebbero. Ma lui le chiuse la bocca: la Compagnia garantiva l'impunità a chi riprendeva il lavoro; di tutto il resto s'infischiava.
- Sì, ho deciso, ridiscendo... Non prolunghiamo questo colloquio che potrebbe svegliarli e vestiamoci!
Si vestirono al buio. Lei, della tenuta di lavoro che, coricandosi, s'era messa a tiro di mano; lui d'un paio di brache e di una giacca che con mille precauzioni tolse dall'armadio.
Per non far rumore omisero di lavarsi. E già s'avviavano senza aver svegliato nessuno, quando lei nell'attraversare il corridoio dove dormiva la Maheu urtò in una sedia. La madre si svegliò; di tra il sonno: - Che è? - chiese.
Tremante la ragazza s'arrestò, stringendo con forza la mano di Stefano. - Sono io, - lui fu pronto a rispondere. - Esco a prendere una boccata d'aria.
- Ah, siete voi! - fece la donna; e si riaddormentò. Ma Caterina s'era presa tanta paura che il giovane dovette spingerla, per deciderla a proseguire.
Scesi giù, la ragazza fece a metà con lui d'un pane che s'era procurato il giorno prima per aver qualcosa da portarsi al pozzo; e, finalmente in strada, i due pian piano si chiusero dietro la porta. Souvarine non s'era mosso di dov'era; piantato davanti al Risparmio, guardava passare i minatori che, col sordo scalpiccio d'un gregge, ritornavano al lavoro. Li contava come il macellaio i capi di bestiame che entrano al mattatoio. Quanti ne passavano! Pure nel suo pessimismo, che i codardi fossero tanti, Souvarine non l'aveva previsto. E a quell'incessante sfilare, il russo s'irrigidiva sempre più nella sua indifferenza; i denti stretti, lo sguardo tagliente. Ma a un tratto ebbe un trasalimento. Senza discernere il viso, uno ne aveva riconosciuto all'andatura. Gli mosse incontro, lo fermò.
- Dove vai?
Invece di rispondergli, Stefano interdetto:
-Toh, - balbettò, - non sei dunque partito?
Solo all'insistenza dell'altro confessò che tornava al lavoro. E' vero, ancora un momento prima gli aveva giurato che non vi tornerebbe. Senonché come si poteva vivere senza fare niente, nel miraggio d'un sogno che si avvererebbe sì o no fra cent'anni? E poi c'erano dei motivi personali, che lo avevano deciso.
Souvarine l'ascoltò, dominandosi a stento; poi, afferrandolo per le spalle e ricacciandolo verso il baraccamento: - Torna a casa, lo voglio, capisci?
Ma mentre l'altro si ribellava protestando che delle sue azioni era giudice lui solo, nella ragazza che aveva al fianco Souvarine riconobbe Caterina. Un momento i suoi occhi andarono dall'uno all'altra; poi si tirò indietro, abbozzando un gesto come a dire: «Allora, come credi! » Quando ha in cuore una donna, l'uomo è spacciato. In quel momento forse, come in un lampo, il russo rivide una piazza di Mosca, l'amante impiccata: l'ultimo legame col mondo che lo impacciasse e che la forca s'era incaricata per lui di recidere, rendendolo libero di disporre della vita degli altri e della propria.
- Va', - disse soltanto.
Messo a disagio Stefano restava lì; gli rincresceva separarsi dal compagno in quel modo; cercava per congedarsi una parola affettuosa.
- Allora, sei sempre deciso a partire?
- Sì.
- Ebbene, dammi la mano, mio caro. Felice viaggio e non serbarmi rancore.
L'altro gli tese senza effusione la mano: né donna né amico.
- Addio, davvero, stavolta.
- Addio.
E Souvarine, fermo al bivio, seguì con lo sguardo i due che entravano al Voreux
Capitolo terzo
Alle quattro la discesa cominciò. Danseart, che aveva preso nella lampisteria il posto del marcatempo, iscriveva ogni operaio che si presentasse e gli faceva consegnare la lampada. Assumeva tutti, in conformità alla promessa del manifesto, senza muovere osservazioni. Quando però vide presentarsi allo sportello Stefano con Caterina, ebbe un sobbalzo; e, paonazzo in viso, già apriva bocca per rifiutarsi di iscriverli; ma, dominandosi, si contentò di ghignare trionfante: ah, dunque anche il capintesta, l'intransigente tra gli intransigenti, si confessava vinto! Non si stava poi tanto male, si vede, con la Compagnia, se il più implacabile dei suoi nemici tornava a chiederle del pane!... Stefano incassò in silenzio; e, presa la lampada, salì con la ragazza al pozzo. Era lì nella ricevitoria, che Caterina paventava l'accoglienza dei compagni. Nel gruppo di minatori che vi si trovava in attesa d'imbarco scorse sin dalla soglia Chaval. Già questi le si precipitava contro, quando la vista di Stefano lo arrestò. Affettando un riso di scherno, ebbe allora una scrollata di spalle: ah, benissimo! lui se ne infischiava della ragazza, dal momento che c'era un altro che occupava presso di lei il suo posto ancora caldo! Affar suo, se al signore piacevano gli avanzi; per lui anzi, un impiccio di meno. Ostentazione di sprezzo che lo sguardo smentiva e sotto la quale dissimulava la furibonda gelosia che lo mordeva. Gli altri, senza avere neanche l'aria di vederli, restarono a capo basso in silenzio. Lanciata al più un'occhiata alla coppia, abbattuti e senza risentimento, tornarono a fissare la bocca del pozzo, la lampada in mano, tremando sotto la tuta di tela alle correnti d'aria dello stanzone.
Finalmente la gabbia aggallò, venne l'ordine d'imbarcarsi. Stefano e Caterina trovarono posto alla meglio in una berlina dov'erano già Pierron e due staccatori. In quella accanto, ora Chaval, ad alta voce per farsi sentire, lamentava che la Compagnia non aveva profittato dell'occasione per sbarazzare dei fannulloni la miniera; ma il vecchio Mouque, al quale si rivolgeva, ricaduto nella rassegnazione di sempre e già dimentico della perdita dei figli, si stringeva nelle spalle come a dire: «lascia andare!» La gabbia filò nel buio. Nessuno parlava.
Ma a due terzi del tragitto vi fu uno strofinìo pauroso. Tra uno scricchiolare di ferrame, i passeggeri furono gettati uno contro l'altro. - Accidenti! - Stefano brontolò. - Vogliono farci in poltiglia! Finiremo col restarci tutti, in grazia al loro maledetto rivestimento. E poi dicono che l'hanno riparato!
Superato l'ostacolo, ora la gabbia scendeva sotto un acquazzone così dirotto che gli orecchi si tendevano inquieti. Evidentemente, s'era aperta nei giunti una quantità di falle. Pierron, interrogato, dissimulò la sua apprensione; manifestarla, poteva metterlo in cattiva luce presso i superiori; non per niente da parecchi giorni lui aveva ripreso servizio. - Oh, non c'è nessun pericolo. E' da tanto che è così! Certo che di tappare tutti gli spifferi non c'è stato il tempo.
Sulle loro teste il fracasso cresceva; arrivarono all'ultimo piano di carico sotto un vero torrente. Non un sorvegliante s'era preso la pena di salire per il passaggio delle scale a vedere come stavano le cose. Per quel giorno la pompa basterebbe; nella notte i carpentieri verificherebbero i giunti.
Nelle gallerie, il lavoro stentava a riorganizzarsi. Non c'era per ora da pensare a riprendere l'estrazione. Négrel aveva deciso che, per i primi cinque giorni, tutti gli uomini disponibili venissero impiegati nei lavori di riattamento. Dappertutto minacciavano frane; i cunicoli e i camminamenti avevano talmente sofferto che occorreva anzitutto riparare i rivestimenti; e questo per centinaia di metri. Si costituirono quindi delle squadre di dieci uomini ciascuna; e, sotto la direzione d'un sorvegliante, vennero impiegate nei punti più danneggiati.
A discesa finita, risultò che trecentoventidue operai avevano ripreso il lavoro: circa la metà dell'intera maestranza. A completare il drappello di cui facevano parte Stefano e Caterina venne assegnato proprio Chaval, né fu un caso: intrufolatosi in coda agli altri, Chaval all'ultimo momento aveva forzato la mano al caposquadra. Li mandarono in fondo alla galleria nord, tre chilometri quasi di strada, a sgombrare un camminamento della vena Diciotto Pollici, ostruito da una frana. Si mise mano alla pala e alla zappa. Stefano, Chaval e cinque altri attendevano al lavoro di sgombro, mentre Caterina e due manovali caricavano e spingevano lo sterro al piano inclinato. Sotto la continua sorveglianza del caposquadra, nessuno quasi parlava; ma questo non tolse che per poco i due rivali non venissero alle mani.
Pur borbottando che di una sgualdrina come lei non voleva più saperne, Chaval importunava Caterina, le dava non visto degli urtoni; al punto che Stefano dovette minacciarlo d'una lezione se non finiva di molestarla. Già i due uomini si mangiavano con gli occhi; bisognò separarli.
Verso le otto passò Danseart. Era di pessimo umore e lo sfogò sul caposquadra: così non andava, occorreva armare via via che si sgombrava; a quel modo lì non si combinava nulla! Se ne andò, annunciando che tornerebbe con l'ingegnere (era dall'alba che lo aspettava e non capiva come mai tardasse tanto).
Un'altra ora trascorse. Sospeso il lavoro di sgombero, il caposquadra aveva messo tutti a puntellare; compresa Caterina e i due manovali che preparavano e portavano sul posto il legname occorrente.
In quel fondo di galleria la squadra costituiva si può dire un posto avanzato, confinata com'era all'estremità della miniera e tagliata fuori da ogni comunicazione con gli altri cantieri. Strani rumori, lontani scalpiccii di gente che correva li fecero, sì, due o tre volte volgere il capo: che stava accadendo? si sarebbe detto che le viscere della miniera si vuotassero, che già i compagni risalissero; e a passo di corsa. Ma subito dopo il silenzio si ristabiliva; ed essi si rimettevano a puntellare tra un battere di mazze che intronava le orecchie; e al quale col riprendere del lavoro di sgombero, presto s'aggiunse il fragore del traino. Quand'ecco Caterina, di ritorno dal primo viaggio, annunciare atterrita che al piano inclinato non c'era più anima viva.
- Ho chiamato e nessuno m'ha risposto. Sono scappati tutti.
La notizia fece una tale impressione che tutti buttarono gli attrezzi e si misero di corsa: l'idea di trovarsi soli abbandonati in fondo al pozzo, lontanissimi dal piano di carico, metteva le ali ai piedi. Con la sola lampada in mano, correvano in fila indiana. Lo stesso caposquadra perdeva la testa; lanciava appelli, sempre più allarmato dal silenzio che gli rispondeva, dal trovare sul suo cammino tutte le gallerie deserte.
Che stava succedendo, perché non si incontrasse un'anima? perché il pozzo si fosse vuotato così di colpo? L'incertezza del pericolo che correvano, della minaccia che incombeva sul loro capo, non faceva che accrescere il panico. E stavano già per sboccare sul piano di carico quand'ecco un torrente sbarrare loro la strada. Ebbero subito l'acqua al ginocchio; dovettero rallentare, fendere a fatica il flutto, col pensiero che un minuto di ritardo poteva significare la morte.
- Maledizione! è il rivestimento che ha mollato! - Stefano gridò. - Lo dicevo io!
Da quando aveva preso servizio, Pierron vedeva con crescente inquietudine l'acqua cadere dal pozzo con violenza sempre maggiore.
Pur attendendo con gli altri due al carico delle berline, alzava ogni poco gli occhi a quella cascata che gli intronava gli orecchi, sporgendosi sino a farsi innaffiare. Ma la sua apprensione si cambiò in sgomento quando notò che ai suoi piedi il pozzetto di scarico, sebbene profondo dieci metri, si riempiva; già l'acqua ne traboccava, dilagava sul pavimento di ghisa: la pompa dunque non bastava più. La si udiva infatti anfanare con un singulto di fatica. Allora avvertì Danseart che, sagrando, rispose che bisognava aspettare l'arrivo dell'ingegnere. Due volte Pierron tornò alla carica senza tirare altro dal belga esasperato che delle scrollate di spalle: ebbene, se l'acqua saliva, che ci poteva fare lui?
Nel passare davanti al pozzo, Battaglia, allo scroscio dell'acqua, si impennò: Mouque dovette trattenerlo a due mani: allungando il collo in direzione del pozzo, il vecchio cavallo nitriva di spavento.
- Che hai? di che ti prendi paura? ah, perché piove! Vieni via, non è cosa che ti riguardi -. Ma lo stalliere ebbe a penare per condurlo al traino; dagli zoccoli alle orecchie l'animale era tutto un tremito.
I due erano appena spariti in fondo a una galleria, che lassù nel pozzo si produsse un sinistro scricchiolio, seguìto dal fracasso di qualcosa che cadeva: una tavola di quercia del rivestimento s'era schiantata e rimbalzava contro le pareti, precipitando da centottanta metri di altezza. Fracassò una berlina vuota; i tre addetti al carico avevano fatto appena in tempo a scansarsi. Al tempo stesso una massa d'acqua s'abbatteva giù con la violenza d'un torrente al cadere d'una diga.
Allora Danseart si decise; ma s'era appena avviato per andare a vedere, che un altro pezzo dell'armatura crollava. Davanti all'evidenza del disastro, spaventato, diede l'ordine di risalire e spedì i capisquadra nei cantieri e dare l'allarme.
Allora cominciò un fuggi fuggi pauroso da tutte le gallerie alla volta; file di operai arrivavano di corsa, si lanciavano all'assalto delle gabbie. Si schiacciavano, si massacravano per imbarcarsi. Alcuni che si erano lanciati su per il budello delle scale dovettero ridiscendere: il passaggio era già ostruito. Al partire di ogni gabbia la folla che restava a terra s'abbandonava a scene di panico e di disperazione: chi poteva dire se la gabbia seguente passerebbe ancora? Lassù infatti il rivestimento seguitava a sfasciarsi; sordi schianti si susseguivano senza interruzione - assi rovinavano giù tra un fragoroso crescente diluviare. Una delle gabbie ebbe il tetto sfondato; poi anche i panconi sui quali scorreva si ruppero. L'altra incontrava tale resistenza che lo sforzo che faceva per passare minacciava di spezzare il cavo. E in attesa di risalire c'era ancora un centinaio d'uomini. Inzuppati, feriti, rantolanti si aggrapparono alla gabbia superstite. Due li accoppò la caduta d'una trave; un terzo che si era appeso sotto la gabbia, precipitò da una cinquantina di metri e sparì nello smaltitoio.
Inutilmente Danseart cercava d'imporsi: armato di una piccozza da minatore, minacciava di servirsene contro chi non gli obbedisse, s'adoprava per mettere ordine, intimava agli addetti al carico di attendere a imbarcarsi quando tutti gli altri si fossero messi in salvo. Nessuno gli badava.
Riacchiappato Pierron, che livido di paura aveva tentato di risalire tra i primi, ora da ogni nuova gabbia in partenza lo teneva lontano a ceffoni. Adesso però che, tra il diluviare dell'acqua, la micidiale pioggia dei rottami mostrava, infittendosi, che tutta l'armatura si stava rapidamente sfasciando, e un minuto di ritardo poteva significare la morte, anche lui aveva perduto il dominio dei propri nervi, la mascella gli ballava. E dalle gallerie sbucavano ancora operai quando, sopraffatto dal panico, anche lui saltò su una berlina, immediatamente imitato da Pierron. La gabbia risalì.
Proprio in quel mentre la squadra di Stefano sbucava sul piano di carico. Vedendo la gabbia risalire si precipitarono: ma dovettero retrocedere: in un ultimo crollo il rivestimento si sfasciava, il pozzo si ostruiva, la gabbia non ridiscenderebbe più. Caterina singhiozzava, Chaval proruppe in bestemmie: si era in una ventina, possibile che quei porci di capi li abbandonassero così?
Babbo Mouque che del suo solito passo stava riconducendo Battaglia, era ancora lì che lo teneva per la briglia; e tutti e due, il vecchio e la bestia, assistevano stupefatti al rapido crescere della piena. Già l'acqua arrivava alla coscia. Stefano, che non riusciva a disserrare i denti, sollevò la ragazza tra le braccia. E tutti restavano col viso in aria a guardare inebetiti il nero buco che franava vomitando un fiume, quasi ancora attendessero di lì un soccorso che non poteva più venire.
Sbarcando alla luce, Danseart vide Négrel che arrivava di corsa (a farlo apposta, quel mattino la Hennebeau l'aveva trattenuto con sé in camera a sfogliare dei cataloghi, per la scelta del corredo. Erano ormai le dieci).
- Ebbene, che diavolo mai succede? - gridò di lontano.
- Il pozzo che rovina! - E il sorvegliante, balbettando, lo mise al corrente. Incredulo, l'ingegnere spallucciava: andiamo! che l'armatura d'un pozzo poteva sfasciarsi così facilmente? certo si esagerava!
- Non è mica rimasto dentro qualcuno, vero?
Danseart si turbò. No, nessuno. Lo sperava, almeno. Qualcuno però poteva non aver fatto a tempo...
- Come! perdìo! Perché allora voi siete uscito? Non si abbandonano i propri uomini! - Ordinò che si verificasse il numero delle lampade: risultò che, delle trecentoventidue distribuite il mattino, solo duecentocinquantadue erano state riconsegnate; senonché parecchi confessavano che, nello scompiglio, la loro l'avevano perduta. Si cercò di procedere all'appello; ma neanche così si riuscì a stabilire con esattezza il numero dei mancanti, gli scampati non erano più tutti presenti e anche fra i presenti ce n'erano che, nello stato di panico in cui si trovavano, non udivano il loro nome. Quanti mancavano? nessuno era in grado di dirlo: forse venti, forse quaranta. Una cosa era certa: che in fondo al pozzo ne erano rimasti: spenzolandosi sull'imboccatura, si distingueva tra il fragore delle acque e quello delle frane, il loro urlo.
Per prima cosa, Négrel mandò in cerca di Hennebeau e fece chiudere la miniera; provvedimento tardivo: i minatori che, in preda al terrore, erano corsi a casa, avevano ormai gettato l'allarme nel borgo operaio e branchi di donne, di vecchi e di bambini già affluivano in preda alla disperazione. Si rese necessario stendere intorno al pozzo un cordone di sorveglianti che, tenendo la folla a bada, le impedisse di intralciare l'opera di salvataggio. Molti degli scampati erano ancora lì in tenuta di lavoro che fissavano istupiditi la bocca del nero budello in cui per poco non avevano trovato la morte. Intorno ad essi donne sgomente si pigiavano, assillandoli di domande, supplicandoli di dir loro i nomi dei rimasti nel pozzo: c'era il tale? il talaltro? E quelli, scossi da brividi, con gesti di mentecatti che tentano di scacciare da sé l'atroce visione che li ossessiona, rispondevano balbettando di non poter dire, di non sapere. La folla cresceva a vista d'occhio; dappertutto s'alzavano lamenti mentre lassù sul terrapieno, seduto per terra nella garitta di Bonnemort, un uomo, Souvarine, seguiva con gli occhi la scena.
Négrel che passava, alle donne che con voce strozzata dai singhiozzi gridavano:
-I nomi! i nomi! - Appena li sapremo, - promise, - li affiggeremo. Ma nulla è perduto, li salveremo tutti. Scendo io nel pozzo -. Infatti, con tranquillo sprezzo del pericolo, l'ingegnere si disponeva a calarsi.
Ordinato di sganciare la gabbia, Négrel vi aveva fatto sostituire all'estremità del cavo una capace tinozza; e nella previsione che l'acqua gli spegnesse la lampada, un'altra ne aveva fatto appendere sotto la tinozza, a riparo di essa.
Lo aiutavano nei preparativi capisquadra tremanti, sul cui viso si leggeva il terrore.
- Voi, Danseart, verrete con me, - disse secco; ma vedendo quello vacillare e sbiancarsi, lo respinse sprezzante:
-No, no; ho bell'e capito; mi sareste solo d'impiccio. Meglio solo.
Già lui era entrato nella tinozza che oscillava all'estremità del cavo, in una mano teneva la lampada, stringeva con l'altra la corda di segnale. - Calami. Adagio! - gridò lui stesso al macchinista. Il cavo si svolse e l'uomo sparì nell'abisso, donde seguitava a salire straziante l'urlo dei disgraziati.
In bilico nel vuoto, Négrel si rigirava, faceva cadere sulla parete tutto intorno la luce della lampada. Lì in alto, il rivestimento era intatto; se anche lì trapelava acqua dai giunti, era in così poca quantità che la lampada non ne soffriva. Ma a trecento metri, come cioè fu giunto al rivestimento inferiore, eccola, come aveva previsto, spegnersi di colpo; mentre la tinozza si colmava d'acqua. A fargli luce, non restava più che la lampada appesa sotto i suoi piedi.
Allora, davanti alla gravità del disastro, l'ingegnere, per quanto coraggioso, si sentì correre un brivido per la schiena: dell'armatura non restava più che qualche tavola: le altre s'erano inabissate, divellendo con sé le cornici. Dietro, nella parete, enormi vuoti si andavano scavando; e da quei varchi le sabbie gialle sgorgavano in massa, simili a valanghe di farina; mentre il Torrente scaricava le sue acque con la violenza d'un fiume che ha rotto le dighe. Appeso a un filo in mezzo a quel crescente sfasciarsi del pozzo, seguitò a scendere; roteando insieme alla tinozza, così poco rischiarato dalla stellina rossa che lo precedeva nel buio, che sotto di sé credeva di intravedere a una grande distanza strade e crocicchi d'una città distrutta; ed era solo il gioco di specchi delle grandi ombre che si muovevano. A porre riparo al disastro non c'era più da pensare; tutto ciò che si poteva ancora tentare era il salvataggio degli uomini in pericolo. Fin qui l'urlo che saliva dal fondo gli era giunto all'orecchio sempre più distinto; ma scendere oltre ora non si poteva: un ostacolo insormontabile sbarrava il pozzo: un cumulo di materiale, dove le paratie squarciate, i panconi di guida infranti s'accavallavano alla rinfusa con le condutture divelte della pompa di eduzione. E Négrel stava contemplando col cuore stretto quello sfacelo, quand'ecco l'urlo cessare. Certo, ricacciati dall'inondazione, i disgraziati avevano cercato scampo nelle gallerie, seppure il rapido crescere della piena non aveva già chiuso loro la bocca.
Dovette rassegnarsi a dare il segnale che lo tirassero su. Ma, a un certo punto fece arrestare di nuovo: d'un disastro così fulmineo non si spiegava la causa. Volendo rendersi conto, esaminò le poche tavole che tenevano ancora: in esse, nel discendere, aveva notato delle intaccature, degli squarci che lo avevano insospettito. Siccome per l'acqua che v'era entrata, anche l'unica lampada agonizzava, ricorse alla mano: e al tatto constatò nel legno, senza possibilità d'equivoco, dei colpi di sega, di trapano, tutto un lavoro di demolizione. Non c'era dubbio; il disastro era stato voluto. E tastava ancora le tavole, ancora non rinveniva dalla sorpresa, quando in esse si produsse uno scricchiolio; e poco mancò che, divelte con le loro cornici, non travolgessero anche lui nel loro inabissarsi. La scoperta lo aveva fatto allibire; all'idea che un uomo fosse stato capace di tanto, raccapricciava; quasi che la presenza del malfattore appiattato giganteggiasse ancora in quel buio, si sentì gelare da un brivido superstizioso. Allora gridò, diede uno strappone alla corda; appena in tempo del resto: pochi metri più in su, il rivestimento tentennava; la stoppa sfuggiva dai giunti, l'acqua ne zampillava. Ormai era questione di ore: i resti dell'armatura cedevano; il pozzo si ricolmava.
Fuori ad aspettarlo c'era Hennebeau. - Ebbene? - chiese ansioso. E siccome, strozzato dall'emozione l'altro restava lì zitto:
- Non è possibile, è vero? Non è mai successo!... Hai visto bene?
Négrel lo disingannò con un cenno del capo: sì, era proprio il crollo.
E, non volendo dire di più in presenza dei dipendenti, trasse via di là lo zio; e solo quando furono in disparte, gli confidò in un orecchio la scoperta fatta: le assi forate e segate, l'attentato al pozzo, sgozzato e ormai rantolante. Hennebeau impallidì; e ora anche lui smorzava la voce, per quell'istintivo bisogno che si ha di soffocare nel silenzio fatti d'una mostruosità che sfida la nostra immaginazione. Meglio, intanto, nascondere il proprio sbigottimento davanti ai dipendenti: in seguito si vedrebbe. Ed entrambi seguitavano a parlottare sgomenti che un uomo avesse ardito calarsi nel pozzo; e, sospeso nel vuoto, mettere in cento modi la vita a repentaglio, per condurre a termine una impresa così delittuosa. Era quello un eroismo nel male, che non capivano, cui si rifiutavano di credere a dispetto dell'evidenza; così come si rifiuta credito a racconti di evasioni o d'altro che superano la nostra credibilità.
Quando Hennebeau tornò sul posto, a ordinare ai capisquadra, con un gesto di desolata impotenza, di far evacuare la miniera, gli stiracchiava il viso un tic nervoso. Gli operai s'allontanarono in silenzio, volgendosi a dare un'ultima occhiata di rimpianto a quell'agglomerato di edifici ancora in piedi, ma già deserto, che più nulla poteva salvare. Il direttore fu l'ultimo ad abbandonare, con l'ingegnere, la ricevitoria; al loro apparire la folla che aspettava lì fuori in angosciosa attesa, li accolse, rinnovando ostinata il grido:
-I nomi! i nomi! i nomi!
A gridare c'era anche la Maheu. Alla notizia dell'accaduto, la donna s'era ricordata del rumore che l'aveva svegliata nella notte: certo sua figlia era tornata con Stefano al pozzo, e i due c'erano certo rimasti. E dopo avere, nel primo impeto di stizza, gridato che ben gli stava a quei senza cuore, a quei vigliacchi, adesso era lì in prima fila a tremare di ansietà.
La sua anzi non era più apprensione; ai discorsi che udiva intorno, ormai era diventata certezza. Sì, sì: Caterina era rimasta dentro; e Stefano pure: uno affermava d'averli visti. Il dubbio perdurava riguardo agli altri: no, quello lì no; il talaltro, piuttosto; Chaval, forse anche: col quale tuttavia un manovale assicurava d'essere risalito. La Levaque e la Pierron, sebbene i loro fossero tra gli scampati, non si disperavano meno delle altre.
Uscito dal pozzo tra i primi, Zaccaria, a dispetto della sua aria di menimpipo, s'era buttato piangendo nelle braccia di Filomena e della madre; e dal fianco di questa non s'era più mosso; ne divideva l'angoscia; rivelava ora per la sorella un attaccamento che da lui non ci si sarebbe aspettato; si rifiutava di crederla nella miniera.
- I nomi! i nomi! i nomi, per amor di Dio!
All'inutile insistenza Négrel si spazientì.
- Fateli dunque tacere! - gridò ai capisquadra. - Li daremo, i nomi, appena li sapremo! C'è di che sbattere la testa nel muro, a sentirli gridare così!
E Réquillart, il vecchio pozzo di Réquillart? Due ore erano trascorse dal momento del disastro, e a nessuno ancora, nello scompiglio, era venuto in mente che restava quella via, per tentare un salvataggio.
L'ispirazione ne era appena venuta a Hennebeau, quando si sparse la voce che proprio di là cinque operai erano allora allora tornati alla luce, risalendo le scale dell'antico passaggio di fortuna. Tra gli altri si faceva il nome di babbo Mouque. Come! il vecchio stalliere aveva dunque ripreso il lavoro? tutti se ne stupivano.
Senonché ciò che i cinque scampati riferivano, non era fatto per sollevare gli animi: ben quindici compagni non avevano potuto seguirli, sperduti o tagliati fuori dalle frane; né c'era speranza di salvarli, perché a Réquillart l'acqua raggiungeva già i dieci metri. Dei quindici si davano i nomi; e a ogni nome gridato erano scene di disperazione che scoppiavano nella folla.
- Fateli dunque tacere! - ripeté furente Négrel. - E, soprattutto, che si portino indietro d'un buon centinaio di metri! Indietro, indietro! E' pericoloso stare qui!
Per farli arretrare, i capisquadra dovettero battersi. Perché li si scacciava? per impedire che vedessero i morti? Immaginando nuovi guai, la folla riluttava a obbedire. Bisognò spiegarle che tutta la miniera rischiava d'essere inghiottita dal crollo del pozzo: allora si rassegnarono, ma ce ne volle; e siccome, quasi calamitati, tendevano a riavanzare, il cordone che li arginava dovette essere raddoppiato.
Già un migliaio di persone si pigiava tumultuando sulla strada; e da tutti i borghi dei dintorni, e persino da Montsou, accorreva gente a vedere; mentre lassù sul terrapieno, per ingannare l'attesa, Souvarine seguitava a fumare imperturbabile, gli occhi fissi sulla miniera.
Era ormai mezzogiorno; e, sebbene tutti fossero digiuni, nessuno si muoveva. Sul grigio sporco del cielo nebbioso veleggiavano pigre nuvole color ruggine. Allarmato dalla presenza lì sotto di tutta quella gente, un grosso cane abbaiava furioso dal gioco di bocce del Risparmio. Sconfinando a poco a poco nei terreni vicini, la folla si stringeva ora in cerchio a cento metri dal pozzo. Entro quel cerchio, al cui centro era il Voreux, non un'anima, non un suono: il deserto. Per le porte e le finestre rimaste aperte si scorgevano gli interni, deserti del pari. L'unico abitante, un gatto su una scala, insospettito da quella solitudine, d'un balzo saltò giù e scomparve. Le caldaie dovevano stentare a spegnersi, perché sbuffi di fumo sfuggivano ancora dalla ciminiera; mentre in cima alla torretta la banderuola cigolava al vento e il suo stridere era l'unica malinconica voce che usciva dal grande agglomerato d'edifici, colpito a morte.
Alle due nessun crollo s'era ancora verificato. In prima fila, spiccava il gruppetto dei dirigenti per i copricapi e i soprabiti che li distinguevano dalla folla. Per quanto stanchi di stare in piedi, neppure essi s'allontanavano; straziati di dover assistere impotenti al disastro, si scambiavano rade parole, sottovoce, come al capezzale d'un moribondo. Improvvisi fragori, schianti sotterranei di materiale che precipitava, intercalati da silenzi, indicavano che anche il rivestimento superiore finiva di sfasciarsi. Era la ferita che sempre più s'allargava, il cedimento cominciato in fondo al pozzo dei terreni che s'avvicinava alla superficie. A un certo punto, sopraffatto da nervosismo, Négrel, smanioso di rendersi conto di quel che succedeva, si buttò avanti da solo; ma fu trattenuto: a che pro? Eludendo la vigilanza, un vecchio minatore, spiccata la corsa, raggiunse la baracca; poco dopo ricomparve: era andato a ricuperare gli zoccoli.
Suonarono le tre. Nulla ancora. Un rovescio d'acqua aveva inzuppato la folla senza smuoverla d'un passo. Il cane di Rasseneur riprese ad abbaiare. Fu solo alle tre e venti che una prima scossa si verificò. Il Voreux ne tremò; ma restò in piedi, indenne. Ma una seconda seguì quasi subito; nella folla le rispose un clamore: la tettoia della cernita, dopo aver oscillato due volte, era crollata con spaventoso fragore. Sotto l'enorme peso le armature si schiantavano, si spezzavano, con un attrito che ne faceva sprizzare scintille. Da questo momento, il terremoto divenne continuo, le scosse si succedettero senza interruzioni: franamenti sotterranei che s'accompagnavano a boati di vulcano in eruzione. Invece di latrati, ora il cane di Rasseneur emetteva uggiolii lamentosi; si sarebbe detto avvertisse le scosse in anticipo; e le donne, i ragazzi, tutta quella gente che assisteva, non poteva trattenere a ciascun sobbalzo, un clamore d'angoscia. In meno di dieci minuti il tetto d'ardesia della torretta crollò, e una larga breccia s'aprì nell'edificio della ricevitoria e nel locale delle macchine. Poi ogni rumore cessò; il cedimento ebbe una sosta, si fece di nuovo un grande silenzio.
Tutta un'ora, il Voreux restò com'era: diroccato a metà, come danneggiato da un bombardamento. La folla s'era istintivamente tirata indietro di qualche metro e guardava ammutolita. Sotto le armature del capannone della cernita, ammucchiatesi alla rinfusa, si distinguevano le leve per il ribaltamento delle berline fracassate, le tramogge sfondate e contorte. Ma soprattutto l'aspetto della ricevitoria era impressionante, ridotta a un cumulo di macerie; tra un piovere di mattoni, interi pezzi di muro erano crollati. L'armatura in ferro che portava le pulegge s'era piegata e spariva per metà nel pozzo; una gabbia era ancora appesa; il cavo dell'altra, strappato, penzolava su un confuso ammasso di berline fracassate, di lastre di ghisa, di scale a pioli. Per contro, nella lampisteria, rimasta miracolosamente illesa, intere file di lampade s'allineavano ancora. E in fondo alla sua nicchia sventrata, si vedeva la macchina, ancora solidamente piantata sulla sua base di mattoni: luccicante d'ottoni, con la sua muscolatura d'acciaio che pareva indistruttibile; l'enorme biella che, ripiegata in aria, evocava il possente ginocchio d'un gigante, sdraiato nella placida coscienza della propria forza.
Quell'ora di tregua, che lasciava credere che i terreni si fossero assestati, fece nascere in Hennebeau la speranza di riuscire ancora a salvare la macchina e quel che restava in piedi degli edifici. Ma rifiutava ancora il permesso di accostarsi; meglio attendere un'altra mezz'ora.
L'attesa divenne spasmodica; la speranza acuiva l'ansietà; a tutti batteva il cuore. Anticipato da un nuvolo nero che invadeva l'orizzonte, il crepuscolo calava: sinistro tramonto su quel relitto di uno sconvolgimento tellurico. Si era fermi lì dalle sette. E già, varcato il cordone, gli ingegneri avanzavano con cautela su quella specie di terreno minato, quando un'ultima violenta scossa li fece arretrare di corsa; accompagnata da boati sotterranei, come da un pauroso cannoneggiamento. Le costruzioni ancora in piedi crollarono. Come travolti da un ciclone s'abbatterono per primi gli avanzi del capannone di cernita e della ricevitoria.
A sbrecciarsi, a sparire, fu quindi il locale delle caldaie; poi la torretta quadra in cui rantolava la pompa d'eduzione, procombette come colpita in pieno da un obice. Fu allora che con raccapriccio si vide sul suo piedistallo la macchina vacillare, spalancare le braccia, lottare contro la morte. Avanzò, allentò la biella; come un gigante che tenta di alzarsi e non ce la fa, la sporse a mo' di ginocchio: stritolata, sprofondò. In piedi ora non c'era più che la ciminiera; alta trenta metri, oscillava alle scosse come un albero di nave nella tempesta. Ci si aspettava di vederla andare in briciole, polverizzarsi; quando tutta d'un pezzo sprofondò, bevuta dalla terra, liquefatta come un cero colossale; di essa, alla superficie, non emerse neppure più la punta del parafulmine.
Era finita: la bestia malvagia, nutrita di carne umana, che il mattino ancora s'appiattava in agguato in quella piega del terreno, aveva cessato di emettere il suo lungo respiro affannoso. Il Voreux s'era inabissato del tutto.
Urlando, la folla si mise in scampo. Donne correvano tappandosi gli occhi per non vedere. Una ventata di terrore travolse gli spettatori come una manciata di foglie secche. Loro malgrado, gridavano a squarciagola; agitavano le braccia alla vista dell'immenso vuoto che, simile al cratere d'un vulcano, si era spalancato sotto i loro occhi; profondo una quindicina di metri, s'estendeva dalla strada al canale per una larghezza di almeno quaranta. L'intero spiazzo intorno alla miniera aveva seguito la sorte delle costruzioni: i giganteschi cavalletti, le passerelle coi binari, tutto un treno di berline, tre vagoni, tutto era stato inghiottito; comprese le cataste di legna scomparse come pagliuzze nel gorgo. Sul fondo non si distingueva più che un ammasso di travi, di mattoni, di ferri; di blocchi di cemento stritolati, aggrovigliati insieme, imbrattati di fango dalla furia della catastrofe. E l'enorme buca seguitava ad allargarsi; crepe che partivano dagli orli, si propagavano, irradiandosi, sempre più lontano attraverso i campi. Una già minacciava l'osteria del Risparmio, nella cui facciata s'erano aperte delle falle. Che anche il borgo operaio corresse il rischio d'essere inghiottito? fin dove dovevano fuggire per mettersi in scampo, sotto la minaccia di quel cielo di piombo che pareva anche lui abbassarsi per schiacciarli?
A Négrel sfuggì un grido di dolore; Hennebeau arretrò e si coprì con le mani la faccia. Ma qualcosa mancava ancora al disastro: un argine cedette e il canale si vuotò di colpo, rovesciandosi in una massa d'acqua schiumeggiante e ribollente in uno dei crepacci; vi sparì dentro col rombo d'una cascata nel profondo d'una valle. La miniera beveva il fiume, inondandosi per anni. Presto il cratere si riempì; e una distesa d'acqua e di fango, simile al lago sotto cui dorme una città maledetta, occupò il posto dove poco prima era il Voreux.
Nell'atterrito silenzio che si fece, non si udì più che il cadere di quell'acqua che sprofondava ronfando nelle viscere della terra.
Sul terrapieno anch'esso minacciato, allora Souvarine si alzò. In due che s'avvicinavano aveva riconosciuto la Maheu e Zaccaria: madre e figlio si disperavano al pensiero degli sventurati che seppelliva sotto di sé la paurosa valanga di terra. Buttato l'ultimo mozzicone, l'uomo s'allontanò, senza neanche darsi un'occhiata alle spalle, nel buio che s'infittiva. Scemando via via, la sua ombra si perse in lontananza, si confuse con la notte. Era verso l'ignoto che tranquillamente si incamminava; verso lo sterminio; a far saltare, dovunque vi fosse dinamite, uomini e città.
Sarà ancora lui, certo, che si troverà di fronte l'agonizzante borghesia, il giorno che a ogni passo si sentirà saltare sotto i piedi i lastrici delle vie
Capitolo quarto
La sera stessa Hennebeau era partito per Parigi; ci teneva a informare del disastro la Compagnia prima che la notizia venisse data dalla stampa. Al ritorno, l'indomani, già l'uomo aveva ricuperato la calma abituale, la sicurezza del direttore che nulla ha da rimproverarsi. Evidentemente era riuscito a scagionarsi d'ogni responsabilità nel disastro, perché la fiducia che la Compagnia riponeva in lui non scemò; al contrario, se ventiquattr'ore dopo veniva firmato il decreto che lo insigniva della Legion d'Onore.
Ma se la posizione del direttore non se ne risentì, la Compagnia vacillò sotto il terribile colpo. Non già per la perdita di quei pochi milioni; sì, per il terrore dell'indomani, per la quotidiana sorda inquietudine in cui la teneva il fatto che uno dei suoi pozzi era stato delittuosamente fatto crollare. L'attentato al Voreux la sbigottì al punto, che ancora una volta sentì il bisogno di seppellire la cosa nel silenzio. A che pro dare pubblicità all'inqualificabile misfatto? Ammesso che se ne scoprisse l'autore, perché farne un martire? L'eroismo - l'incredibile eroismo di cui quell'uomo aveva dato prova - non farebbe che traviare altri cervelli, che partorire tutta una generazione di incendiari e di terroristi. D'altronde, nella impossibilità di scoprire il reo, la Compagnia finì per credere all'esistenza di tutto un complotto; essendo inammissibile che un uomo da solo avesse trovato la forza e l'audacia di compiere un lavoro di quel genere; ed era questa la paura che la ossessionava; che l'integrità dei suoi pozzi seguitasse a essere insidiata, che la minaccia che su di essi incombeva crescesse anzi di giorno in giorno.
Hennebeau ebbe l'incarico di creare intorno ai pozzi una vasta rete di spionaggio, per quindi licenziare alla spicciolata e alla chetichella gli elementi sospetti di complicità nel delitto o che risultassero comunque pericolosi. Per considerazioni di prudenza politica, di quella epurazione ci si contentò. In tronco, venne licenziato solo Danseart; mantenerlo in servizio dopo lo scandalo scoppiato in casa della Pierron non si poteva; a motivo, venne addotta la codardia di cui s'era macchiato abbandonando i suoi uomini. Licenziarlo era del resto dare anche una soddisfazione alle maestranze che lo esecravano. Tuttavia qualcosa della verità era trapelato nel pubblico, se la direzione si vide costretta a smentire voci che correvano; e stando alle quali a provocare il disastro sarebbe stato un barile di polvere messo nel pozzo dagli scioperanti. Intanto una sommaria inchiesta del governo s'era conclusa con una relazione che attribuiva il crollo del pozzo a un cedimento dell'armatura, determinato dalla pressione del terreno. Era accusare di incuria e di scarsa sorveglianza la Compagnia; ma questa aveva preferito non ribattere.
Nella stampa della capitale, già al terzo giorno il disastro di Montsou era stato relegato tra i fatti di cronaca; e anche lì non si parlava più che delle vittime rimaste in fondo al pozzo; le notizie, che su di esse giornalmente si davano, venivano lette avidamente.
A Montsou, bastava nominare il Voreux per vedere i borghesi impallidire e restare interdetti; una leggenda si andava formando che i più coraggiosi esitavano a confidarsi all'orecchio. L'intera popolazione manifestava sentimenti di viva pietà per le vittime; si organizzavano passeggiate alla miniera distrutta; famiglie al completo accorrevano a gustare l'orrore delle rovine, così grevi sul capo dei miseri che vi erano sotto sepolti.
Deneulin, nominato proprio ora ingegnere divisionale, si trovò a dover far fronte a ogni sorta di difficoltà. Sua prima cura, fu di arginare il canale; visto che il torrente che ne dilagava aggravava d'ora in ora il disastro. Impresa che non si presentava facile; per cominciare, un centinaio di operai, li adibì anzitutto alla erezione d'una diga; due volte l'impeto della corrente travolse le prime opere di sbarramento. Vennero quindi messe in opera le pompe e cominciò una lotta accanita per riconquistare palmo a palmo i terreni inghiottiti. Ma più ancora appassionava il salvataggio dei dispersi. Incaricato di questo era Négrel; disperato tentativo al quale non si poteva dire mancassero le braccia. In un commovente slancio di solidarietà, tutti venivano a offrire spontaneamente la loro opera. Dimentichi dello sciopero, non chiedevano neppure quale compenso riceverebbero; anche gratuitamente, si dicevano pronti a rischiare la pelle, dal momento che era in pericolo quella dei loro compagni. Tutti erano lì pronti coi loro attrezzi, impazienti di sapere in che punto mettere mano. Molti anche fisicamente menomati dalla brutta avventura alla quale erano scampati, - affetti da tremiti nervosi, da sudori freddi, ossessionati da incubi - si presentavano lo stesso; e si mostravano anzi più ancora degli altri risoluti a battersi con la terra, quasiché avessero una rivincita da prendersi. Senonché era qui che cominciavano le difficoltà: da che parte attaccare? da dove iniziare uno scavo che avesse probabilità di successo?
Personalmente, Négrel riteneva che non uno dei disgraziati fosse ancora in vita; o per asfissia o per annegamento, tutti e quindici, secondo lui, erano a quest'ora periti. Ma nei crolli delle miniere è di regola supporre in vita gli uomini rimastivi; ed era perciò da questa ipotesi che lui partiva. Il primo quesito che gli si poneva, era dedurre, in base ai dati a sua conoscenza, in quale parte della miniera i superstiti potessero essersi rifugiati. Su un punto i capisquadra e i vecchi minatori consultati erano d'accordo: davanti all'inondazione, i compagni erano certo risaliti di galleria in galleria; per cui si trovavano senza dubbio sequestrati in fondo a qualcuno dei camminamenti più alti. Ipotesi che suffragava del resto la testimonianza del vecchio Mouque; dal cui confuso racconto risultava anzi probabile che, nello scompiglio della fuga, la banda si fosse spicciolata per via e disseminata un po' a tutti i ripiani. Ma quando si veniva a discutere di ciò che si poteva tentare per il salvataggio, i pareri divergevano. Dato che le gallerie più vicine alla superficie erano sempre a centocinquanta metri di profondità, per raggiungerle, sarebbe occorso scavare un pozzo: impresa alla quale non c'era nemmeno da pensare. Restava Réquillart: l'unica via d'accesso che vi portasse vicino. Il guaio era che l'antico pozzo, anch'esso inondato, non era più in comunicazione col Voreux; e che emergesse sopra il livello delle acque non restava di esso che qualche tronco di gallerie dipendenti dal primo piano di carico. Il prosciugamento richiedendo anni, il meglio che si poteva fare era perciò visitare quelle gallerie, per vedere se qualcuna si spingesse in prossimità delle gallerie sommerse, in fondo alle quali si supponevano rifugiati i minatori in pericolo. Conclusione logicamente accettabile; per arrivare alla quale s'era prima dovuto scartare un gran numero di progetti, praticamente inattuabili.
Négrel cercò allora tra la polvere degli archivi i piani dei due pozzi; li studiò e determinò i punti dai quali, con qualche speranza, si potevano iniziare le ricerche. Al disperato tentativo, l'ingegnere s'andava appassionando, preso anche lui da una febbre di solidarietà umana, nonostante l'ironica indifferenza per tutto che era nel suo temperamento.
A Réquillart, le prime difficoltà si incontrarono per penetrarvi: bisognò liberare l'entrata del pozzo dalla vegetazione che l'aveva ostruita: abbattere il sorbo, radere al suolo i prugnoli e il biancospino; quindi riparare le scale a pioli. Dopodiché, l'ingegnere poté calarsi e iniziare in quel buio le ricerche. Ai dieci operai che aveva preso con sé, faceva battere qua e là la roccia nei punti che egli designava; battuto che aveva, l'operaio appoggiava alla roccia l'orecchio per udire se ai suoi colpi qualcuno rispondeva. Ma tutte le gallerie praticabili furono visitate senza che alcun suono giungesse in risposta. L'incertezza si accrebbe: in che punto iniziare uno scavo, in che direzione procedere se di là della roccia non giungeva segno di vita? Eppure in un crescendo d'ansietà ci si ostinava a cercare.
Tutte le mattine adesso la Maheu arrivava a Réquillart; si sedeva su una trave davanti al pozzo e di lì non si muoveva sino a sera. A ogni operaio che usciva, si alzava, lo interrogava con lo sguardo: niente? No, niente. Allora si risedeva, si rimetteva ad attendere; senza una parola, il viso duro, sigillato.
Stanato dal suo rifugio, Gianlino aveva girellato nei dintorni con l'aria inquieta di chi si sente la coscienza sporca. Pensava al soldatino che dormiva sotto le rocce e temeva che quelle ricerche finissero per turbarne il sonno provvidenziale; ma la parte della miniera dove il soldato giaceva era sott'acqua; e poi gli scavi si facevano più a sinistra, nella galleria di ponente. Sul principio anche Filomena s'era mostrata, per accompagnare Zaccaria, che faceva parte della squadra di ricerche; ma quasi subito aveva smesso di venire: a che pro prendere freddo inutilmente? ed era rimasta a casa a trascinare le sue giornate di donna stracca e apatica, occupata a tossire da mane a sera. Ben diverso da lei, Zaccaria dall'inquietudine non viveva più; avrebbe fatto chi sa che per trovare la sorella. Se la sognava, ridotta uno scheletro dalla fame, senza più voce per chiamare aiuto; e gli capitava allora di balzare sul letto gridando. Due volte a Réquillart s'era messo a scavare altrove che nei punti designati dall'ingegnere: Caterina, si trovava lì, ne era sicuro. Tanto che Négrel lo aveva scacciato ed escluso dalle ricerche; ma non per questo lui s'allontanava; e, incapace di sedersi in attesa con la madre, girellava intorno al pozzo come un'anima in pena.
Si era al terzo giorno; se neanche quel giorno lì s'approdava a nulla, Négrel, disanimato, aveva deciso di sospendere le ricerche. Nel rientrare dopo colazione con gli uomini nella miniera per un ultimo tentativo, s'imbatté in Zaccaria che ne usciva; acceso in viso e gesticolante:
-C'è, c'è! - gridava. - Mi ha risposto! Presto, presto!
- Nonostante la proibizione avuta di rimettere piede nel pozzo, il giovane vi si era calato; e ora tornava su giurando che nella prima galleria del giacimento Guglielmo qualcuno aveva risposto ai suoi colpi. - Ma se di lì siamo già passati due volte! - obiettò incredulo Négrel. - Comunque, vediamo!
La Maheu s'era alzata da sedere e ce ne volle per impedirle di scendere anche lei. Ritta in piedi restò sull'imbocco del pozzo a fissare il buio.
L'ingegnere batté lui pure tre colpi, intercalati da pause; e fatto fare il più assoluto silenzio, applicò l'orecchio alla vena. Nessun rumore gli giunse. Scosse il capo; evidentemente il poveretto s'era illuso. Furente, Zaccaria batté a sua volta: oh se udiva lui rispondere! Gli occhi gli luccicavano, tremava dalla emozione. Allora uno dopo l'altro gli operai ripeterono la prova: sì, sì, essi percepivano nettamente dei lontani colpi in risposta. Stupito, Négrel si provò di nuovo, e finì per cogliere anche lui un suono: un suono cadenzato appena percettibile, nel quale riconobbe il segnale dei minatori in pericolo. Nell'antracite il suono si propaga a grandissima distanza con limpidità cristallina. Quello lì, a giudizio d'uno dei capisquadra, partiva da non meno di cinquanta metri. Ma che erano cinquanta metri? tendere il braccio era già toccare la mano dei compagni. I minatori furono presi da una tale esultanza che Négrel dovette senza indugio iniziare i lavori di approccio. Zaccaria risalì di corsa a dare la notizia alla madre; dalla commozione madre e figlio si abbracciarono. Ma la Pierron, che quel giorno la curiosità aveva spinta a Réquillart, non poté astenersi da dire la sua:
- Non vi montate, però, la testa; potreste andare incontro a una grossa delusione. Vostra figlia potrebbe non essere lì -. Anche questo era vero: Caterina poteva trovarsi altrove. Zaccaria la rimbeccò furente: - Chi t'ha chiesto il tuo parere, uccello del malaugurio! C'è, lo so io! - Già la Maheu s'era riseduta; in silenzio, impassibile, s'era rimessa ad attendere.
Appena la notizia si sparse, da Montsou si riversò una nuova folla di gente; anche se da vedere non c'era nulla, restava lì egualmente; fu necessario tenere a bada i curiosi.
Nel pozzo si scavava notte e giorno. Nella previsione che si potessero incontrare ostacoli, l'ingegnere aveva fatto aprire nella vena tre passaggi in discesa che convergevano verso il punto dove i superstiti si supponevano imprigionati. Data l'angustia dello scavo non poteva lavorarvi che un uomo alla volta; il quale, ogni due ore, riceveva il cambio. Una catena d'uomini, che s'allungava più si avanzava nello scavo, si passava di mano in mano le ceste di carbone ricavato. Sul principio il lavoro procedette spedito; nelle prime ventiquattr'ore lo scavo si approfondì di sei metri. Zaccaria aveva ottenuto di prendervi di nuovo parte: onore che tutti si disputavano; e s'arrabbiava quando in capo alle sue due ore si veniva a rilevarlo; rifiutandosi di deporre la piccozza, invadeva il turno degli altri. La galleria dove lavorava si trovò presto più avanzata delle altre. Il giovane si batteva con tale accanimento contro il carbone, che il suo respiro affannoso pareva il soffiare d'un mantice. Quando, sopraffatto dalla stanchezza, usciva, nero e infangato, di là sotto, stramazzava, e si doveva avvolgerlo in una coperta. Quindi, malcerto ancora sulle gambe, si ributtava al lavoro; e l'eroico corpo a corpo col filone ricominciava. Disgraziatamente il minerale s'andava indurendo.
Esasperato di non procedere più così svelto, due volte il giovane si trovò in mano la piccozza spezzata. Anche il caldo, si metteva contro di lui; più si avanzava più la temperatura cresceva: un caldo che in quello stretto budello per la mancanza di aerazione diventava intollerabile. C'era, sì, un ventilatore a mano, ma serviva a poco; tanto che tre volte si dovette portar fuori di peso un minatore boccheggiante.
Négrel faceva vita comune coi suoi uomini. Consumava nel pozzo i pasti che gli portavano; e, se si concedeva qualche riposo, non erano mai più di due ore di sonno: coricato su una bracciata di paglia, avvoltolato in un mantello. Ciò che alimentava in tutti il coraggio era la supplica che arrivava di laggiù, il richiamo via via più distinto che gli sventurati lanciavano perché ci si affrettasse. Ormai esso arrivava nitidissimo, col timbro d'una vibrazione di armonica. Era esso che serviva di guida; si avanzava a quel limpido rintocco come in battaglia al rombo del cannone. Profittando dei momenti in cui avveniva il cambio, Négrel scendeva a incollare l'orecchio alla vena; e sinora la risposta ai suoi colpi era sempre arrivata immediata e incalzante. Non c'era dubbio: la direzione era quella buona; ma con quale lentezza si avanzava! Si arriverebbe in tempo? Nei primi due giorni, lo scavo era stato di tredici metri; al terzo giorno, solo di cinque; e, al quarto, era sceso a tre. Diventando compatto, il carbone s'induriva; ormai in ventiquattr'ore ci voleva tutta per progredire di due metri. Sebbene non ci si fosse davvero risparmiati, al nono giorno si era avanzato in tutto di trentadue metri; ne restavano, si calcolava, una ventina. Per i prigionieri era il dodicesimo giorno che cominciava: dodici volte ventiquattr'ore senza pane, senza fuoco, in mezzo a tenebre glaciali. Questo pensiero, se inumidiva le ciglia, infondeva nelle braccia nuovo vigore. Pareva impossibile che degli esseri umani potessero resistere un'ora di più! Dal giorno prima, infatti, s'era notato un affievolirsi nei colpi in risposta; e si tremava all'idea che da un momento all'altro potessero cessare del tutto.
Ogni giorno la Maheu veniva a sedersi all'imbocco del pozzo, con in braccio Estella - che non poteva lasciare sola l'intera giornata. Ora per ora, seguiva così il procedere dei lavori, dividendo coi minatori speranze e scoraggiamenti. Nei gruppi di gente che stazionavano lì, come a Montsou, l'attesa era febbrile, infiniti i commenti. Il cuore di tutto il paese batteva lì sotto con quello degli sventurati.
Il nono giorno, all'ora di colazione, Zaccaria che aveva finito il suo turno, fece il sordo a chi lo chiamava per dargli il cambio. Come forsennato, seguitò imprecando ad accanirsi nello scavo. Approfittava così d'una momentanea assenza dell'ingegnere.
Con lui non c'era che un caposquadra con tre minatori.
Bisogna credere che il giovane, infuriato di non vederci, imputando alla scarsa luce la lentezza con cui procedeva, abbia commesso l'imprudenza di aprire la lampada. E questo malgrado i severissimi ordini che erano stati dati in contrario; s'erano infatti constatate fughe di grisù, accumulatosi in quelle gallerie sprovviste di aerazione. Fatto sta che tutto a un tratto, esplose col fragore d'una cannonata una vampa di fuoco che, dal budello in cui lavorava, si propagò fulminea da un capo all'altro delle gallerie.
Travolto il caposquadra e i tre minatori, s'avventò su per la gola del pozzo; eruppe all'esterno, proiettando intorno pezzi di roccia e rottami di armature. La Maheu, stringendosi al seno Estella strillante, balzò in piedi, tra un fuggi fuggi generale.
Quando Négrel e i suoi uomini furono di ritorno, la vista del disastro li riempì di costernazione; e insieme di sdegno contro la terra matrigna che massacrava in quel modo i suoi figli. Così dunque, con la perdita di nuove vite, li ripagava dell'abnegazione con cui si prodigavano per salvare i compagni?
Sfidando ogni sorta di rischi, faticarono tre ore buone per riaprirsi l'accesso alle gallerie e per portare alla luce le vittime. Né il caposquadra né i tre staccatori erano morti; ma, coperti d'orribili piaghe, tramandavano un tanfo di carne abbrustolita; avendo respirato il fuoco, erano ustionati anche in gola ed emettevano un lagno incessante supplicando che li si finisse. Dei tre staccatori, uno era quello che, nel giorno dell'assalto ai pozzi, aveva assestato con una zappa il colpo di grazia alla pompa della Gaston-Marie. Le mani dei due altri serbavano ancora i segni delle piaghe che s'erano fatte a scagliare mattoni contro la truppa. Al loro passare, la folla, impallidita e fremente, si scoprì.
Ritta in piedi, la Maheu aspettava. La salma di Zaccaria fu l'ultima a comparire. Carbonizzato, decapitato, il corpo dell'infelice era irriconoscibile. La madre seguì col passo d'un automa la barella che raccoglieva i miseri resti. Lo sguardo solo era vivo negli occhi senza una lacrima. Faceva senso quella donna coi capelli al vento che procedeva come una statua, recando fra le braccia l'ultima nata. All'arrivo, Filomena accolse il marito morto con aria ebete; poi proruppe in un pianto dirotto, nel quale il suo dolore trovò subito sfogo. Già la Maheu dello stesso passo era tornata a Réquillart: accompagnato il figlio, tornava ad aspettare la figlia.
Altri tre giorni trascorsero. Superando enormi difficoltà, i lavori di scavo erano stati ripresi. Per fortuna le gallerie d'approccio non erano franate; ma l'aria che vi si respirava era così viziata che si dovettero mettere in funzione dei nuovi ventilatori. Adesso i minatori ricevevano il cambio ogni venti minuti. La distanza che li separava dai compagni non era più che di due metri; ma ormai, nell'accanimento con cui demolivano il filone, erano sostenuti più da un ripicco che dalla speranza del successo; dall'altra parte non arrivava più alcun suono. Quel mattino - il quindicesimo dalla catastrofe, il dodicesimo dall'inizio dei lavori di salvataggio - un silenzio di morte s'era fatto.
Nel ceto borghese di Montsou la notizia del nuovo disastro produsse una grande impressione. Delle gite all'antico pozzo vennero organizzate; con tale slancio che i Grégoire, contagiati dall'esempio, si decisero a recarvisi anch'essi. Combinarono una scampagnata: con la loro vettura si recherebbero al Voreux, mentre la Hennebeau vi condurrebbe nella sua Gianna e Lucia. Visitati sotto la guida di Deneulin i lavori di riattamento in corso, tornerebbero a casa passando per Réquillart, dove da Négrel s'informerebbero a che punto si trovavano gli scavi e se si nutriva ancora qualche speranza. La sera poi si cenerebbe tutti insieme.
Quando verso le tre i Grégoire con la figlia scesero di vettura davanti al pozzo crollato, vi trovarono già la Hennebeau che, tutta in celeste, si schermiva con un ombrello dal pallido sole di febbraio. Non una nuvola in cielo e nell'aria un tepore di primavera. Con il marito a fianco, la donna prestava un orecchio distratto alle spiegazioni che Deneulin le dava sulle difficoltà che s'erano incontrate per arginare il canale. Sedotta dalla tragicità del soggetto, Gianna, che non dimenticava mai di portarsi dietro un albo da disegno, s'era messa a prendere schizzi; mentre, seduta vicino e lei sul rottame d'un carro ferroviario, la sorella lanciava esclamazioni di gioia davanti al panorama che dichiarava «stupefacente». Dalla diga non finita di costruire, un filone d'acqua sfuggiva ancora, che in spumeggiante cascata si riversava nell'enorme buca del pozzo inghiottito. Quell'afflusso non impediva però che nel cratere il livello dell'acqua, bevuta dal terreno, si andasse abbassando; e scoprisse sempre più il pauroso groviglio di rottami che si stendeva sul fondo: specie di cloaca che faceva pensare ai resti d'una città sprofondata nel fango e che contrastava con la bella giornata e l'azzurro tenero del cielo.
- E ci si scomoda per vedere di questa bella roba! - esclamò Grégoire deluso.
Cecilia, tutta rosea di salute, felice di respirare l'aria pura, nonché impressionarsi dello spettacolo, vi scherzava sopra; mentre la Hennebeau con una smorfia di schifo:
-Già, - riconosceva, - non è un panorama davvero per cui valga la pena di scomodarsi!
I due ingegneri si misero a ridere. Per interessare le signore, le condussero in giro, dando loro spiegazioni sui lavori in corso, sul funzionamento delle pompe, dei battipali con cui si conficcavano i puntelli. Ma, apprendere che il prosciugamento del cratere - premessa indispensabile per la ricostruzione del pozzo - richiederebbe degli anni - sei, sette fors'anche - invece di interessarle, le impressionò spiacevolmente. Cose alle quali era meglio non pensare; spettacoli simili servivano solo a procurare brutti sogni.
- Abbiamo visto anche troppo! Andiamocene! - tagliò corto la Hennebeau, dirigendosi verso la vettura. Ma le due Deneulin protestarono. Come! digià? Si era appena arrivati; e il disegno era ancora da finire! Esse restavano; si ritroverebbero per cena, dove il padre le condurrebbe. Sicché solo Hennebeau desideroso anche lui di sentire che diceva Négrel, prese posto nella carrozza a fianco della moglie.
- Ebbene, precedeteci, - disse Grégoire. - Noi abbiamo una visitina da fare nel borgo operaio. Ci ritroviamo tra poco a Réquillart.
Così fecero: la vettura degli Hennebeau filò lungo il canale, mentre quella dei Grégoire iniziava a piccolo passo la salita verso la borgata dei Duecentoquaranta.
Era un'opera buona che i coniugi si proponevano, a coronamento della gita. Dalla morte di Zaccaria il loro cuore era stato toccato; in paese non si discorreva più che dei Maheu; di quella disgraziata famiglia, così duramente colpita. Non già che i Grégoire compiangessero il padre, quel brigante, quel massacratore di soldati, che s'era reso necessario sopprimere come una bestia feroce. Ma la moglie, sì, meritava compassione; quella povera donna che, perso il marito e subito dopo il figlio, ora poteva aspettarsi che anche la figlia le fosse resa cadavere; senza contare che si diceva pure che avesse in casa un vecchio invalido da mantenere, un figlio storpiato da una frana; e che, come non bastasse, durante lo sciopero, una bambina le fosse morta di fame. Per cui, sebbene i suoi guai quella famiglia in parte se li meritava per le idee malsane che professava, i Grégoire avevano deciso di dare in questa occasione una prova della loro magnanimità, del loro spirito conciliativo e della buona volontà che avevano di dimenticare, portando essi in persona un piccolo dono alla famiglia. Due pacchi infatti, accuratamente fasciati, si trovavano sotto un sedile della vettura.
Una vecchia indicò al cocchiere l'abitazione che cercavano: numero sedici, secondo caseggiato. Ma, scesi di carrozza, i Grégoire bussarono invano; prima discretamente, poi col pugno; nessuna risposta; al lugubre echeggiare dei colpi nell'interno, la casa si sarebbe detta disabitata da un pezzo, spopolata dalla morte. Contrariata:
-Non c'è nessuno, - disse Cecilia. - Uff, che seccatura!
E ora che ne facciamo di questi pacchi?
Quand'ecco schiudersi la porta vicina e mostrarsi la Levaque.
- Oh, signore! Oh, signora! scusino tanto! Signorina, mi scusi! E' la mia vicina che volevano? Non c'è; è a Réquillart -. E in un'alluvione di parole prese a raccontare il perché e il come dell'assenza; a ripetere che bisognava ben darsi una mano a vicenda e che lei per l'appunto s'era presa in casa Leonora ed Enrico per permettere alla madre di andare a Réquillart.
Avendo notato gli involti, con occhi che le luccicavano di cupidigia, passò a dire della sua povera figlia che, anche lei, aveva perso il marito: a ostentare la propria miseria. Poi, esitante:
-Se però lor signori ci tengono, la chiave l'ho io. C'è il vecchio, in casa.
I Grégoire si guardarono sorpresi: come mai se il vecchio era in casa non rispondeva? Che dormisse? Ma quando la Levaque si fu decisa ad aprire la porta la vista che si offerse ai loro occhi li impalò sulla soglia.
Inchiodato su una sedia davanti alla stufa spenta, Bonnemort era solo. Aveva gli occhi fissi sbarrati. Intorno a lui, la saletta pareva immensa, ora che non c'era più il mobilio d'abete verniciato, né l'orologio a cucù che una volta la animava. Sulla nudità delle pareti verdoline non restavano che i ritratti dell'imperatore e dell'imperatrice, a sorridere del loro affabile sorriso ufficiale.
All'irrompere per la porta della luce dell'esterno, il vecchio non aveva palpebrato; restava lì immobile, istupidito, come se nessuno fosse entrato. Ai suoi piedi, uno di quei piatti con della cenere che usa mettere sul pavimento perché i gatti non sporchino.
- Non facciano caso se non saluta nemmeno, - lo scusò la Levaque. - Pare che nel cervello gli si sia guastata qualche rotella. E' da una quindicina di giorni che non parla più di adesso.
Intanto una specie di raschio in gola, un sordo raschio che pareva partire dalle profondità del ventre, affaticava il vecchio; ed eccolo infatti liberarsi d'uno spesso scaracchio nerastro che andò a raggiungere gli altri, di cui la cenere del piatto era impastata. E già Bonnemort era ricaduto nella sua immobilità, dalla quale usciva solo per sputare a quel modo il carbone di cui cinquant'anni di miniera gli avevano intasato i polmoni.
Sconcertati, lottando contro lo schifo che il vecchio causava loro, i Grégoire cercavano ciò nonostante di rivolgergli qualche parola amichevole, di conforto.
- Ebbene, buon uomo, avete dunque preso freddo? - chiese Grégoire.
L'altro non volse il capo, non distolse gli occhi dalla parete. Il silenzio ricadde pesante.
- Vi farebbe bene un buon decotto caldo! - aggiunse la Grégoire. Né una parola né un gesto le rispose.
Cecilia, sottovoce:
-Ascolta, papà: ce l'avevano detto, veramente, che era ammalato; solo che ci è passato di mente... A disagio, s'interruppe. Sul tavolo aveva già posto una marmitta e due bottiglie di vino. Sfasciò il secondo pacco e ne trasse un paio di scarpe: un paio di grosse scarpe da uomo, massicce. Era quello appunto il dono che destinavano al vecchio. La fanciulla le teneva penzoloni e con lo sguardo andava ai piedi che avrebbero dovuto calzarle; dei piedi enfiati, che, si vedeva bene, non avrebbero camminato più.
Grégoire per dissipare l'imbarazzo:
- Ebbene, arrivano un po' in ritardo, eh, brav'uomo! Ma meglio tardi che mai, non è vero?
Bonnemort non diede segno di udire; il viso conservò la sua impassibilità di statua.
Per sbarazzarsene, Cecilia, quasi di soppiatto, posò le scarpe contro il muro; ma chiodate com'erano, per quanto piano facesse, risuonarono sul pavimento; e restarono lì, monumentali, a ingombrare la stanza della loro incongrua presenza.
Alla Levaque, alla vista delle scarpe, era passato negli occhi un lampo di cupidigia:
- Nemmeno un grazie ne avranno! Scusino l'ignoranza; ma per me è come regalare un pettine a un calvo! - E seguitò a chiacchierare: avrebbe voluto attirare i visitatori m casa sua, per impietosirli sulla sua miseria; ma non sapeva come fare. Finalmente trovò: se desideravano notizie dei Maheu, chi poteva darle meglio di Leonora e di Enrico - i bambini che si era presi in casa - così carini, così svegli?
Felice di togliersi di lì, il padre disse alla figlia:
- Vieni tu, tesoro?
- Sì, subito.
Ciò che, suo malgrado quasi, la tratteneva presso Bonnemort era una curiosità; l'impressione d'averlo già visto, e ben da vicino, quel viso mal squadrato, scialbo, livido, segnato dal lavoro della miniera... Ed ecco si ricordò; si rivide circondata da una folla urlante, si sentì stringere alla gola da due mani gelide. Sì, sì: era quello seduto lì, l'uomo che aveva tentato di strangolarla! lo ritrovava! E ora gli osservava le mani posate sulle ginocchia: mani d'operaio, dai polsi possenti ancora, nonostante l'età. Sotto lo sguardo della fanciulla che lo scrutava, a poco a poco Bonnemort parve uscire dal suo torpore, notare la presenza della ragazza: intontito, adesso la esaminava a sua volta; e il sangue gli saliva alle guance, un tic nervoso gli stirava la bocca, donde colava un filo di saliva nera. Come attirati a vicenda, affascinati, i due restavano faccia a faccia: lei in pieno sboccio, fresca e prosperosa, cresciuta com'era nel benessere e nel dolce far niente; lui, gonfio d'acqua, rattrappito, ripugnante di bruttezza, con le stigmate d'una razza minata di padre in figlio, dagli stenti e dalla fame.
Quando, poco dopo, sorpresi di non vedersi raggiungere dalla figlia i Grégoire vennero a prenderla, urlarono di orrore. Cecilia giaceva sul pavimento, strangolata; aveva il viso violetto e sul collo l'enorme impronta paonazza d'una mano. Presso di lei, Bonnemort: crollato sul pavimento, donde le gambe non gli avevano più permesso di alzarsi; le mani pareva stringessero ancora; con aria ebete guardava i presenti a occhi sgranati. Nel cadere, aveva rotto la sputacchiera, imbrattando intorno le pareti del suo contenuto. Illeso, restava contro il muro il monumentale paio di scarpe.
Non si poté mai ricostruire con esattezza quel che fosse accaduto. Perché Cecilia s'era avvicinata? inchiodato com'era sulla sedia, come Bonnemort aveva potuto afferrarla alla gola? Afferratala, certo lui non aveva più allentato la stretta, impedendole di gridare; per stramazzare, solo all'ultimo rantolo, insieme alla vittima. Non un rumore, non un gemito aveva attraversato le sottili pareti. Bisognò supporre che, alla vista di quel bianco collo femminile, Bonnemort fosse stato preso da un istinto sanguinario, travolto da un'improvvisa demenza. Stupì tanta ferocia in quel vecchio invalido che, contrario alle nuove idee, aveva sempre vissuto da onest'uomo, dando sempre esempio d'una supina obbedienza. Quale antico rancore lungamente maturato e rimasto a lui stesso oscuro, aveva sfogato in quel gesto?
L'efferatezza dell'atto venne spiegata con l'incoscienza: era stato il delitto d'un idiota.
Inginocchiati presso la morta, i Grégoire singhiozzavano, fuori di sé dalla disperazione. Uccisa, la loro Cecilia adorata! la figlia che per tanti anni avevano desiderato invano e che, da quando era venuta, avevano colmato d'ogni tenerezza! la figliola di cui andavano a spiare il sonno in punta di piedi; quella figlia che i loro occhi non trovavano mai abbastanza prosperosa! A che vivere, ora che lei non c'era più? Era il crollo della loro esistenza.
- Ah il delinquente! - la Levaque si scalmanava a gridare. - Che ha fatto mai! Chi si sarebbe aspettato una cosa simile! E stasera la Maheu, quando tornerà... Non converrebbe, dicano, che l'andassi a chiamare?
E poiché i due vecchi, per quanto sbraitasse, non la udivano:
- Sarebbe meglio! - decise per suo conto. - Vado!
Ma nell'uscire gli occhi le ricaddero sul paio di scarpe. Richiamati dalle sue grida, già dei vicini accorrevano. A qualcuno certo quelle scarpe farebbero gola. E che ci stavano a fare, del resto, in una casa dove non c'era più nessuno che potesse mettersele? Destramente le fece sparire: dovevano essere giusto della misura che andavano bene a Bouteloup.
A Réquillart intanto gli Hennebeau aspettavano inutilmente i Grégoire. Négrel li aveva messi al corrente dei lavori: la sera stessa si sperava di raggiungere i prigionieri; senonché il loro silenzio durava da troppo, restavano ben poche probabilità di trovarli in vita. Seduta sul trave alle spalle dell'ingegnere, la Maheu ascoltava col fiato sospeso, bianca come un cencio, quando capitò la Levaque. Alla notizia della prodezza del suocero, non ebbe che un gesto di stizza impaziente. Tuttavia si alzò e seguì la vicina.
La Hennebeau si sentiva venir male. Quale orrore! strangolata, quella povera Cecilia, ancora un'ora prima così traboccante di vita, così allegra! Il marito dovette sorreggerla, portarla quasi di peso nel tugurio di Mouque; con mani impacciate slacciarle il busto, turbato dall'odore di muschio che ne esalava. E siccome, inondata di lacrime, lei abbracciava Négrel, sconvolto alla notizia di quella morte che mandava a monte lo sposalizio, il marito Hennebeau guardò i due lamentarsi, liberato da una segreta inquietudine.
La disgrazia appianava tutto: se alla moglie rimaneva l'amante, lui non aveva più a temere che nel letto di lei succedesse al nipote, perché no?, il cocchiere
Capitolo quinto
Abbandonati in fondo alla miniera, gli sventurati urlavano di spavento. Avevano ormai l'acqua al ventre. Il fragore della cascata li atterriva, il precipitare degli ultimi tratti del rivestimento suonava alle loro orecchie come la fine del mondo; ma ciò che li faceva addirittura impazzire, era il nitrito dei cavalli chiusi nella scuderia: un grido d'agonia raccapricciante, da non potersi più scordare, di animale che sgozzano.
Mouque aveva liberato Battaglia. Il vecchio cavallo restò un momento piantato sulle zampe, colto da un tremito che gli arricciava tutto il pelo, a fissare con l'occhio sbarrato il crescere della piena. Alla luce rossastra delle tre lanterne che lo rischiaravano ancora, lo stanzone si colmava, l'acqua verdastra saliva. Ed ecco, a sentirsi cogliere da quel gelo, Battaglia partire di scatto; in un furioso galoppo sparire in fondo a una galleria. Fu il si salvi chi può. - Più nulla da fare, qui! - gridò Mouque. - Tentiamo dalla parte di Réquillart -. La speranza di trovare scampo da quella parte, purché si arrivasse in tempo, mise le ali ai piedi. I venti in fila si buttarono avanti, tenendo alte le lampade perché l'acqua non le spegnesse. Per fortuna, la galleria era, anche se poco, in salita; per cui poterono avanzare per duecento metri, aprendosi il passo nell'acqua, senza che il suo livello crescesse. Negli animi degli sventurati antiche credenze si ridestavano: era la terra che sguinzagliava così il suo sangue per vendicarsi dell'arteria che l'uomo le aveva reciso. Un vecchio balbettava antichi scongiuri, piegando i pollici in fuori, per placare i cattivi geni della miniera.
Ma al primo crocicchio, scoppiò un dissenso: lo stalliere sosteneva che bisognava prendere a sinistra; altri, che prendendo a destra si accorciava. Si perse un minuto a discutere. - E' vostra la pelle! a me che m'importa? - troncò brutalmente Chaval. - Io vado di qui, - e prese a destra, seguìto da due. Gli altri continuarono ad arrancare dietro a Mouque: nel pozzo di Réquillart il vecchio c'era cresciuto. Senonché neppure lui era sicuro di sé; a ogni bivio esitava. Né i vecchi come lui si raccapezzavano di più; nell'orgasmo, non riconoscevano più i noti camminamenti; il loro intersecarsi li disorientava; e, mentre urgeva affrettarsi, a ogni biforcazione si arrestavano netto. Stefano veniva in coda: Caterina, che la stanchezza e il panico paralizzavano, gli impediva di tener dietro agli altri. Lui avrebbe preso, con Chaval, a destra; giudicava quella la strada buona; ma alla compagnia del rivale, aveva preferito affidarsi al caso, andasse come voleva. Di spicciolarsi per strada del resto non avevano ancora finito; altri erano partiti in altre direzioni; dietro a Mouque non si era più che in sette.
Vedendo la ragazza accasciarsi, Stefano volle portarla. Lei, quasi senza voce:
-No, va' tu, lasciami! Non posso più, preferisco morire qui -. Si perdeva tempo; già gli altri li distanziavano di parecchio; e, vincendo la resistenza di lei, Stefano se la toglieva in braccio, quand'ecco davanti a loro la volta cedere, un enorme ammasso sbarrare la strada, separandoli dai compagni. Era la piena che nel suo crescere attaccava le rocce, le demoliva, le faceva d'ogni parte franare. Dovettero tornare sui loro passi. Ma ad un certo punto perdettero l'orientamento, non seppero più in che direzione camminavano. Bisognò rinunciare a risalire per l'antico pozzo; l'unica speranza che restava, tentare di raggiungere le gallerie superiori, dove c'era la possibilità, che, col decrescere della piena, si venisse a liberarli.
- Ah, ecco: ora m'oriento! - esclamò Stefano a un tratto: aveva riconosciuto la vena Guglielmo. - Maledizione! eravamo sulla strada giusta; ma ormai è fatta. Se andiamo diritti, arriviamo al pozzetto; saliremo di là.
Avevano l'acqua al petto, avanzavano con immensa fatica; ma finché le lampade rischiarassero la strada... Per economizzare l'olio, ne spensero una. Stavano per raggiungere il pozzetto quando, alle spalle udirono un frastuono che li fece volgere. I compagni forse, che, fermati dalla frana, tornavano anch'essi indietro? No; si sarebbe detto piuttosto l'avvicinarsi d'una tempesta: un ribollire d'acque, uno schizzar di schiuma: animato, perché ne usciva - e s'avvertiva di lì - un respirare affannoso. Ed ecco emergere dall'ombra, avanzare alla loro volta, disimpegnandosi a fatica dai rivestimenti che la schiacciavano, una massa gigantesca, biancicante. Non poterono trattenere un grido: era Battaglia.
Partito dal piano di carico, l'animale s'era buttato a galoppare di galleria in galleria; a spingersi all'impazzata attraverso la città sotterranea che abitava da anni, in quel buio al quale i suoi occhi si erano avvezzati; come se conoscesse la strada, fiutasse la meta. Galoppava, galoppava; piegando il collo, raccogliendo le zampe; rallentando appena nelle stretture che il suo corpaccione ostruiva. Né il succedersi delle strade né il loro biforcarsi lo faceva esitare. Verso dove galoppava così? Verso il ricordo della sua gioventù, verso il mulino sulla Scarpe, dov'era nato, verso la confusa visione del sole, la reminiscenza che gli restava di quella immensa lampada raggiante alta nel cielo? Col ravvivarsi del ricordo, si ridestava in lui la volontà di vivere; era la voglia di respirare ancora una volta l'aria della pianura che lo cacciava diritto innanzi a sé; avanti, avanti fino al varco per cui uscire di nuovo alla luce, al caldo del sole. La rivolta prendeva il sopravvento sulla lunga rassegnazione: rivolta contro la miniera che, dopo averlo privato della luce, ora voleva privarlo anche della vita. L'acqua gli sferzava i fianchi; gli mordeva la groppa. E più si inoltrava più le gallerie si restringevano, abbassando la volta, raccostando le pareti. Battaglia continuava lo stesso a trottare; incurante di scorticarsi contro i rivestimenti, di lasciarvi lembi di carne. D'ogni parte la miniera pareva chiudersi su di lui, per farlo prigioniero, per soffocarlo.
E ora infatti eccolo lì che, preso tra roccia e roccia, si strizzava per passare. Aveva le zampe anteriori fiaccate; una caduta certo che gliele aveva spezzate. In un ultimo sforzo disperato, si disimpegnò ancora per qualche metro; ma lì i fianchi non passavano più; la miniera lo sequestrò, lo immobilizzò senza scampo. I due videro allora Battaglia protendere il muso che perdeva sangue, cercare un'ultima volta con lo sguardo che gli si annebbiava l'agognato varco. Il rapido crescere della piena già lo ricopriva; allora il vecchio cavallo sentendosi sopraffatto, si mise a nitrire: lo stesso nitrito lungo, raccapricciante, più rantolo che nitrito, con cui nella scuderia erano periti i suoi fratelli. Era uno spettacolo straziante, l'agonia a quella profondità di quel vecchio animale storpiato e ridotto all'impotenza che si dibatteva, lontano dalla luce. Il nitrito non cessava; già l'acqua sommergeva la criniera e ancora dalle fauci spalancate e protese usciva, sempre più rauco, quel richiamo di animale che annega. Vi fu un ultimo ronfio, il sordo singulto d'una botte che si riempie; quindi il silenzio.
- Ah portami via, ho paura, - singhiozzava Caterina. - Ho paura! Non voglio morire! portami via!
Era la morte che la ragazza aveva visto; né il crollo del pozzo né l'inondazione le avevano soffiato in viso la paura come ora il nitrito di Battaglia agonizzante. Nelle sue orecchie quel nitrito durava; le raggricciava la pelle.
- Portami via! portami via!
Stefano l'aveva sollevata e spinta su per il pozzetto; appena in tempo: già avevano l'acqua alle spalle. Nell'aiutarla a tirarsi su (Caterina non aveva la forza di aggrapparsi), più d'una volta il giovane temette gli sfuggisse; di vederla precipitare nel gorgo che mugghiava lì sotto.
Raggiunta la prima galleria, sgombra ancora, ripresero fiato: ma quando la marea li raggiunse anche lì, dovettero riprendere a salire. E a salire seguitarono per ore, cacciati dalla piena di galleria in galleria; su su sino alla testa; dove, avendo potuto sostare un po' di più, già si abbandonavano alla speranza. Li deluse un più vivace crescere della piena che credevano arrestata e che li costrinse ad arrampicarsi più che in fretta, alla settima e poi all'ottava. Una galleria sola restava; quando vi furono, rimasero a guardare con ansia ogni centimetro d'acqua crescere, e si sentivano venir meno. Stavano dunque per fare la fine del vecchio cavallo, per annegare schiacciati contro la volta?
Boati giungevano ogni po', indizi di frane. Ricacciata e compressa in fondo alla galleria, l'aria acquistava la forza d'un esplosivo: schiantava rocce, demoliva terreni. Era il terrificante fragore dei cataclismi sotterranei; un ripetersi in misura ridotta degli sconvolgimenti tellurici, del tempo che i diluvi spianavano le montagne, cambiavano faccia alla terra. Trasalendo a quel continuo rombo, Caterina giungeva le mani, seguitava a balbettare sbigottita:
- Non voglio, non voglio morire... - Lui, per calmarla, giurava che l'inondazione s'era arrestata e che, siccome era ormai da sei ore che scappavano davanti alla piena, i compagni non potevano tardare a venir loro in aiuto... Sei ore, diceva; ma del tempo non avevano più l'esatta nozione; in realtà, ad attraversare la vena Guglielmo, avevano impiegato un giorno intero.
Inzuppati, intirizziti si sedettero. Con la stessa libertà che se fosse stata sola, lei si tolse i vestiti, ne strizzò l'acqua; quindi se li rimise per farseli asciugare sulla pelle. Vedendola a piedi nudi, lui la costrinse a mettersi i suoi zoccoli. E, abbassato il lucignolo della lampada, si disponeva ad attendere, quando dei crampi allo stomaco li avvertirono che dal giorno prima non avevano toccato cibo; fu questo il primo sintomo che li persuase d'essere ancora in vita. Trovarono i panini ridotti ad una poltiglia, e Caterina dovette inquietarsi per indurre Stefano a mangiare la sua parte. Appena ebbe finita la propria, la ragazza vinta dalla stanchezza s'allungò lì per terra; e subito si assopì. Lottando anche lui contro il sonno, il giovane la vegliò, lo sguardo fisso, la fronte fra le mani.
Quante ore passarono così? Stefano non avrebbe saputo dirlo; ciò che invece purtroppo sapeva era che nel pozzetto lì sotto il nero flutto era affiorato e che il suo livello inesorabilmente cresceva. A traboccarne fu prima un sottile rigagnoletto, che serpeggiando s'allungò; poi s'allargò, gorgogliò, prese forza, raggiunse i piedi dell'addormentata. Col cuore in gola, il giovane esitava a svegliarla; quale crudeltà strappare la poveretta a quel totale oblio, col pericolo magari di interrompere il sogno in cui si cullava, un sogno d'aria libera e di sole! E poi, a che pro? Per fuggire dove? Se lo chiedeva, quando si batté la fronte: come non ci aveva pensato? Nel punto dov'erano della miniera, il piano inclinato non comunicava in alto col piano inclinato che serviva il piano di carico superiore? Era una via d'uscita. L'occhio al progredire della montante marea, il giovane lasciò Caterina dormire il più a lungo possibile. Quando alfine con dolcezza la scosse:
-Ah è vero, mio Dio! - fece lei tirandosi su; e riprendendo coscienza della situazione rabbrividì, si torse disperata le mani.
- No, fatti animo, - lui la confortò. - Non è come credevo; c'è un passaggio, ti giuro.
Per arrivare al piano inclinato dovettero avanzare piegati in due, con l'acqua di nuovo alle spalle. Raggiuntolo, presero a salire per quello stretto passaggio interamente rivestito di legno, lungo un centinaio di metri. Prima di iniziare la rischiosa salita, tentarono di tirar giù il cavo per agganciarlo a uno dei carrelli ed evitare così che l'altro carrello scendesse mentre salivano, e li stritolasse. Ma qualcosa impediva al meccanismo di funzionare perché il cavo non cedette. Astenendosi di aggrapparvisi, e rompendosi invece le unghie nelle armature che non offrivano presa, cominciarono a salire. Il giovane veniva dietro alla ragazza e la tratteneva col capo quando scivolava.
Quand'eccoli urtarsi contro dei tronconi di travi che sbarravano il piano inclinato. Una frana impediva di proseguire. Per buona fortuna, in quel punto s'apriva una porta; varcata la quale, si trovarono in una galleria. Vi brillava una lampada. Si chiedevano come mai, quando una voce maschile gridò stizzosa:
-Ah! Ah! Non ci sono dunque io solo, di stupido, al mondo! - E riconobbero Chaval: l'uomo si trovava sequestrato lì dalla frana che aveva colmato di terra il piano inclinato. Solo; i due che lo avevano seguito erano rimasti accoppati per strada e lui, che se l'era cavata con una ferita al gomito, aveva avuto il fegato di tornare indietro carponi a prendere le loro lampade e a frugarli per impossessarsi delle provviste. S'allontanava, quando un secondo cedimento murava alle sue spalle la galleria.
Lì per lì, vedendosi sbucare davanti quei due nuovi compagni di sventura, Chaval s'era proposto di sopprimerli, per non aver a spartire con altri le sue provviste; ma, riconoscendoli:
-Ah sei tu, Caterina! - e gorgogliava d'un riso malvagio. - T'è andata male, eh? E hai pensato bene di tornare dal tuo uomo! A meraviglia! Adesso si balla insieme!
Stefano ostentava di non vederlo. Questi, sconcertato per l'incontro che non s'attendeva, aveva avuto un gesto come per proteggere la ragazza che gli si stringeva contro. Senonché non restava che accettare la situazione; e, come se si fossero lasciati buoni amici un'ora prima, chiese solo:
-Hai guardato bene? Sei sicuro che non c'è modo di passare per i cantieri?
L'altro, seguitando a ghignare:
-Ah sì, i cantieri! Aspettavo che mi suggerissi tu! Sono franati anch'essi i cantieri; siamo presi tra due muri come sorci in trappola. Ma se tu respiri sott'acqua, puoi rifare la strada per cui sei venuto!
Arrivava infatti il ciangottio dell'acqua che invadeva il piano inclinato: anche da quella parte la strada era tagliata. Chaval non esagerava chiamando trappola il tratto di galleria in cui si trovavano; ostruito d'ambo le parti da enormi frane. Non un varco; tutti e tre erano murati.
- Resti allora, eh? - proseguì quello beffardo. - Non hai di meglio da fare. E, a meno che mi stuzzichi, per me sarà come tu non ci fossi.
Anche qui c'è posto per due. Si vedrà chi è il primo a schiattare. A meno che non ci vengano in aiuto, ciò che mi sembra difficile.
- Se provassimo a battere dei colpi nella roccia? Chi sa, potrebbero udirci...
- Neanche questo aspettavo che me lo suggerissi tu... Eccoti il sasso.
Prova tu. Io sono stufo di battere, - e gli porgeva una grossa scheggia di arenaria che si vedeva già adoperata a quell'uso.
Lanciato il segnale dei minatori in pericolo, Stefano a sua volta applicò l'orecchio alla vena. Nulla. Venti volte ripeté il tentativo, sempre con lo stesso risultato.
Affettando disinteresse, Chaval disponeva intanto le sue robe. Allineò le tre lampade contro la parete, lasciandone accesa una sola; quindi nel cavare di tasca le due pagnotte - che, a farle durare, potevano bastare per due giorni - e mettendole all'asciutto su un'asse del rivestimento: - Metà è tua, sai, Caterina, - disse rivolgendosi a lei, - per quando non ne potrai più dalla fame.
La ragazza non gli rispose. Ricadere tra quei due uomini che se la disputavano era quanto di peggio poteva capitarle.
E l'atroce vita a tre cominciò. Seduti per terra, a pochi passi uno dall'altro, i due uomini tacevano. Solo, all'osservazione di Chaval che tenere accesa una seconda lampada rappresentava un inutile spreco, l'altro aveva spento la sua. Dopodiché ricadde il silenzio. Preoccupata dalle occhiate che l'antico amante le gettava, Caterina s'era allungata presso Stefano. Le ore succedevano alle ore. S'udiva solo il ciangottio dell'acqua che continuava a salire, sopraffatto ogni tanto da rombi lontani annuncianti gli ultimi assestamenti dei terreni. Quando la lampada cominciò a lappolare, esitarono un momento ad accenderne un'altra per timore del grisù. Ma a restare al buio, non era preferibile, poi si dissero, saltare subito in aria? Accesero e non accadde nulla. Di nuovo s'allungarono in terra; l'attesa ricominciò. Quando, a un rumore, Stefano e Caterina alzarono il capo; era Chaval che aveva addentato mezza pagnottella e vincendo la tentazione di inghiottirla d'un colpo, la masticava adagio. Per i due affamati, fu il supplizio di Tantalo. Quello, con aria provocante, alla ragazza:
-Davvero, non ne vuoi tu? Hai torto!
Morsa da una fame che le pungeva gli occhi di lacrime, la ragazza aveva in risposta abbassato gli occhi per paura di cedere alla tentazione. Che genere di contraccambio l'offerta di Chaval esigesse, Caterina non ignorava; ancora quel mattino lui le aveva soffiato in faccia il suo desiderio: un desiderio che, ora, il vederla con l'altro rendeva furibondo. La conosceva bene Caterina la fiamma di bramosia che bruciava in quegli occhi: la stessa di quando Chaval, nelle sue crisi di gelosia, l'ammazzava di botte, accusandola di farsela con l'altro. Buon Dio, nemmeno morire in pace si poteva dunque in quella tana dove stavano agonizzando? Cedere a Chaval era gettare i due uomini uno contro l'altro: una cosa che solo a pensarla la faceva tremare. Stefano dal canto suo si sarebbe lasciato morire d'inedia piuttosto che mendicare dal rivale un boccone.
Il silenzio s'appesantiva, i minuti passavano con la lentezza di secoli. Ormai da un giorno i tre si trovavano imprigionati insieme. La seconda lampada si spegneva; dovettero ricorrere alla terza. Attaccando la seconda pagnotta, Chaval a Caterina:
-Accòstati dunque, - sussurrò, - stupida che sei! - All'invito la fanciulla rabbrividì.
Stefano, per lasciarla libera, s'era voltato di là. Accorgendosi che la poveretta neanche così si muoveva:
-Va', bambina mia! - la esortò sottovoce. L'affettuosa esortazione diede il via alle lacrime che la ragazza tratteneva: un lungo pianto abbandonato, che le toglieva la forza d'alzarsi; se avesse fame non sapeva più, avvertiva solo in tutto il corpo un indolenzimento, una grande prostrazione. Stefano s'era alzato; furente di vedersi costretto a vivere le ultime ore a fianco del rivale che esecrava, il giovane ora andava su e giù, battendo senza speranza la vena. Ogni dieci passi, doversi trovare l'altro fra i piedi! Nemmeno tanto spazio da poter crepare lontano uno dall'altro! E lei, la disgraziata ragazza, che anche sotterra due uomini si disputavano, destinata a quello dei due che sopravvivrebbe e che poteva benissimo essere Chaval!
Col passare delle ore, quella situazione senza uscita si aggravava; nell'aria che i fiati e i bisogni corporali soddisfatti in comune appestavano sempre più, quella promiscuità diventava intollerabile.
Stringendo i denti, due volte Stefano s'avventò contro le rocce come per aprirsi un varco.
S'era giunti così alla sera del secondo giorno. Chaval era venuto a sedersi presso Caterina e divideva con lei l'ultima fetta di pane.
E mentre lei con la gola come ostruita dal lungo digiuno, stentava a buttare giù qualche boccone, d'ogni boccone di cui si privava, lui si rifaceva allungandole delle carezze. Sfinita com'era, lei non si difendeva. Ma quando lui nel suo ripicco di geloso, deciso a godersi la ragazza sotto gli occhi del rivale, tentò di violentarla, Caterina: - Ah lasciami! - gemette. - Mi rompi le ossa!
Stefano che fremendo s'era volto altrove per non vedere, al lagno:
- Lasciala, perdìo! - gridò fuori di sé, accorrendo.
- Che c'entri tu? - Chaval s'inviperì. - E' la mia amante! è carne mia! - e, a sfida, riafferrandola, se la strinse contro, le schiacciò sulla bocca la bocca. - Lasciaci in pace, hai capito? Impicciati dei fatti tuoi!
Ma Stefano, bianco d'ira, alzando la voce:
-Se non la lasci, ti strozzo!
Comprendendo dal tono che non diceva per dire, Chaval scattò in piedi. Meglio comunque per quello dei due che ci restasse; ci guadagnerebbe di risparmiarsi una lunga agonia. Si rinnovava così in quei pochi metri di spazio che consentiva a stento di muoversi, tra quei due destinati ben presto ad allungarvisi fianco a fianco cadaveri, il duello dei primi tempi del mondo.
- Bada, - sibilò Chaval, - che questa è la volta che ti faccio la pelle!
Stefano sentì il sangue affluirgli al capo; la vista gli si intorbidò, mentre la gola gli si serrava da strozzarlo.
Irresistibile come un bisogno fisico, come il prudere d'una mucosa che provoca un attacco di tosse, lo invase il bisogno di uccidere. Sopraffacendo la volontà, quel bisogno, scatenato dal sangue tarato, crebbe, esplose. Da sé la mano era corsa alla parete, e ora impugnava un'enorme scheggia di schisto. Brandendola a due mani, con una forza che la pazzia moltiplicava, la abbatté in capo a Chaval. Chaval non fece in tempo a scansarsi. Colpito in pieno, stramazzò col cranio spaccato, in una pozza di sangue che dilagava. Alla luce fumosa della lampada che vi si rifletteva, il corpo del caduto non fu più per terra che una macchia scura, simile a un mucchio di carboniglia.
Con occhi sbarrati il giovane si chinò sull'ucciso. Era dunque fatta; l'istinto sanguinario che gli sonnecchiava nelle vene e che tante volte egli era riuscito a dominare, questa volta aveva avuto il sopravvento. Eppure, d'alcool questa volta era digiuno; ad armargli la mano era bastato quello che gli avevano trasmesso col sangue coloro da cui discendeva. Ma per quanto la sua coscienza si rivoltasse e i capelli gli si drizzassero in capo davanti all'assassinio commesso, pure una specie di esultanza, la gioia bestiale della voglia infine appagata, gli faceva balzare il cuore; e ad essa una punta d'orgoglio si mescolava: l'orgogliosa constatazione d'essere stato il più forte. Un ragazzo come Gianlino non lo era stato abbastanza per sgozzare di sua mano la sentinella del Voreux? Anche lui ora non era stato da meno.
E a Caterina che lì ritta:
-L'hai ammazzato, mio Dio! - gridava di raccapriccio, lui torvo:
-Che lo rimpiangi, forse?
Strangolata dall'emozione, quella balbettava. Poi vacillò; e cadendogli fra le braccia:
-Ah uccidi me pure! che moriamo insieme! - e in un abbraccio frenetico si avvinghiarono l'uno all'altra, augurandosi, quasi sperando che il voto si esaudisse.
Poi Stefano provvide a sgombrare del cadavere quel poco spazio in cui dovevano pur vivere; e mentre la fanciulla si tappava gli occhi, lo trascinò, lo spinse giù pel piano inclinato. Ma udendolo sprofondare tra un vortice di schiuma, entrambi rabbrividirono: la piena aveva già dunque sommerso anche il piano inclinato; di là anzi già l'acqua traboccava nella galleria.
Una nuova agonia cominciò; alla luce della lampada - l'ultima - che s'andava spegnendo, spiavano l'implacabile incessante salire d'acqua. Prima l'ebbero alle caviglie; poi alle ginocchia. La galleria essendo in pendìo, cercarono scampo nella parte alta. Ma, dopo una tregua di qualche ora, il flutto li raggiunse anche lì, ebbero l'acqua alla cintola.
Ritti in piedi, la schiena incollata alla roccia, la guardavano salire salire: ancora un po' e chiuderebbe loro la bocca. Avevano appeso la lampada; e il suo riflesso che or ora ingialliva quel rapido pullulare di piccole onde, presto scemò; non fu più che un semicerchio che via via si restringeva, divorato dall'ombra che pareva infittirsi col crescere della piena. Quand'ecco il buio avvilupparli di colpo; friggendo, la fiammella s'era spenta. Fu la notte compatta, impenetrabile; il sonno della terra che anch'essi ormai dormirebbero e che non avrebbe risveglio.
Stefano proruppe in una sorda imprecazione; mentre, a sfuggire l'abbraccio delle tenebre, Caterina si ricoverava contro di lui; e in un soffio le saliva alle labbra la frase dei minatori: La Morte spegne la lampada.
Eppure, a quella prospettiva, l'istinto si ribellava; una insensata volontà di vivere moltiplicò le loro forze. Come forsennati, si diedero a scavare, all'altezza delle loro teste, lo schisto; lui, col gancio della lampada, lei con le unghie; e ottenuto che ebbero nella parete un gradino, vi si issarono a sedere; piegati in due per l'incombere della volta, le gambe penzoloni. Ma anche lì, il gelo dell'acqua avvertito dapprima solo ai calcagni, fece presto a chiudere nella sua morsa le caviglie; per guadagnare quindi i polpacci, le ginocchia, in una spinta inesorabile e senza tregua. Già il gradino, tagliato in pendìo, imbevendosi, si faceva scivoloso; per tenersi su, dovettero aggrapparvisi. Era la fine; quanto resterebbe loro da vivere, ridotti a quella nicchia, dove il minimo movimento minacciava di farli precipitare, nello stato di esaurimento e di inedia in cui si trovavano, senza più nulla con cui ingannare la fame, accecati dal buio?
Quel buio, più di tutto li sgomentava, già pieno della presenza della morte ch'essi non vedrebbero venire.
Ormai ricolmata, la miniera non aveva più suoni; nel pauroso silenzio, essi percepivano solo sotto di sé il tacito salire dell'acqua dalle profondità, quel crescere sordo della marea. Silenzio e buio che avevano tolto loro la nozione del tempo; le ore si susseguivano eguali, accorciate, anziché rese interminabili, dalla stessa angoscia. Si credevano là dentro da due giorni e due notti; e in realtà erano già alla fine del terzo giorno. D'essere salvati, avevano perduto la speranza: anche chi fosse stato in grado di arrivare sino a loro, non avrebbe saputo dove cercarli; e, posto che l'acqua li risparmiasse, perirebbero comunque di fame. Ancora una volta avrebbero invocato soccorso; ma con che cosa battere i colpi? il sasso era rimasto sott'acqua. Del resto, a che pro? nessuno li udirebbe.
Rassegnata, Caterina aveva appoggiato contro il filone il capo che le doleva, quando trasalì; e raddrizzandosi:
-Ascolta! - Lui credette lì per lì che alludesse al gorgoglio che faceva l'acqua salendo; e volle rassicurarla:
-Non è l'acqua, - mentì. - Sono io che muovevo le gambe!
Lei impaziente:
-No, no, non questo... Laggiù è stato! ascolta! - e riaccostava l'orecchio alla parete. Indovinandone il gesto, Stefano la imitò. Ma per qualche secondo, nulla. Poi, lontanissimo, impercettibile quasi, tutti e due intesero tre colpi, intercalati da pause.
Ma era vero? o li ingannava il ronzio delle orecchie? o quel che udivano erano scricchiolii nella vena? E se era vero, come rispondere?
- Non hai gli zoccoli tu? batti col tacco.
Nel buio risuonò di nuovo l'appello dei minatori; e ad esso, in distanza, altri tre colpi risposero. Non era stato un inganno. Presi da frenesia, ora non la finivano più di ripetere il richiamo, ottenendo ogni volta risposta. Piangevano, si abbracciavano, a rischio di cascare. Finalmente! il soccorso tanto atteso arrivava! Scordati di colpo i patimenti durati, l'angoscia dell'attesa, l'insuccesso di tanti tentativi fatti, si abbandonarono alla gioia; fu come se i salvatori fossero lì, non avessero che da allungare la mano per trarli in salvo.
- E' stata una bella fortuna, eh, che io appoggiassi la testa!
- Hai un udito, tu! Io non avrei sentito nulla!
Da allora si diedero il cambio; l'uno o l'altro era sempre in ascolto, pronto a rispondere al minimo segnale. Non passò molto che distinsero dei colpi di piccone: s'iniziavano i lavori d'approccio, i compagni aprivano una galleria. Non un rumore sfuggiva alla loro attenzione.
Senonché quella euforia fu di breve durata. Per quanto seguitassero a mostrarsi pieni di speranza per ingannarsi a vicenda, tutti e due a poco a poco furono ripresi dallo scoraggiamento. In un primo tempo, s'erano diffusi in congetture; evidentemente era dalla parte di Réquillart che si veniva loro in soccorso; la galleria veniva praticata nel filone; più d'una fors'anche, visto che erano tre le piccozze al lavoro.
Questo li portò a calcolare lo strato di roccia che li separava dai compagni; risultò d'uno spessore che raffreddò i loro entusiasmi e finì per ammutolirli. Senza più dirselo, ognuno dentro di sé fece il computo dei giorni che s'impiegherebbero ad aprirsi un passaggio sin lì: tanti che, all'arrivo dei soccorsi, essi sarebbero morti da un pezzo.
Ripiombati da tanta speranza nel più nero sconforto, evitavano di parlarsi; e, se ancora rispondevano ai segnali, era macchinalmente, solo per l'istintivo bisogno di far sapere ai compagni che erano ancora vivi.
Uno, due giorni passarono: erano lì da sei giorni. L'acqua s'era arrestata al ginocchio. In quel gelo, le gambe non le sentivano più. Potevano sì ogni tanto, tirarle su; stando così scomodi, che in capo a un'ora dei tremendi crampi li costringevano a riabbandonarle. Lo schisto, poi, sotto di loro era diventato così scivoloso che ogni dieci minuti dovevano con un colpo di rem tirarsi su. Impediti com'erano di aderire con le spalle al filone per via degli spuntoni che ne sporgevano e costretti a curvare il capo se non volevano spaccarselo contro la volta, alla loro tortura s'era aggiunto un dolore alla nuca, fisso come per un chiodo che vi fosse conficcato dentro. E poi in quell'aria chiusa, compressa come dentro una campana, respirare diventava sempre più faticoso. Se uno parlava, la sua voce arrivava all'altro affievolita, come se partisse da chi sa quali lontananze. Il ronzio alle orecchie crebbe; credettero d'udire precipitosi rintocchi di campane a martello, il galoppare d'una mandria in fuga sotto la gragnuola.
In un primo tempo Caterina soffrì orribilmente la fame; si recava al petto le povere mani contratte, ansimava emettendo un lagno incessante, straziante come per una tenaglia che le strappasse le viscere. Stefano, in preda allo stesso supplizio, tastava intorno al buio, quando la sua mano incontrò un pezzo di rivestimento fradicio che riuscì a sbriciolare. Una manciata di quella specie di segatura la passò alla ragazza, che la inghiottì ingordamente. Di quel legno tarlato si cibarono per due giorni; ma anche quello venne a fine; disperati, si scorticavano le dita nel tentativo di sgretolarne dell'altro; ma era un legno che teneva ancora e dovettero desistere.
Avessero potuto masticare i vestiti che avevano indosso! vi si provavano invano. Una risorsa fu la cinghia di cuoio che lui aveva alla cintola; la ridussero in tanti pezzetti che, a furia di masticare, si sforzavano a inghiottire. Quel cuoio perlomeno metteva le mascelle in moto, dava l'illusione di mangiare. Finita anche la cintura, tornarono alla stoffa, la succhiarono per ore.
Ma presto quei crampi allo stomaco si calmarono; la fame non fu più che un dolore sordo, il lento progressivo esaurirsi delle forze. Certo, avrebbero finito per soccombere se non avessero avuto da bere quanta acqua volevano... Bastava per questo che si chinassero, l'attingessero nel cavo della mano. E non facevano altro, tanto li bruciava la sete: una sete che tutta quell'acqua non riusciva a estinguere.
S'era al settimo giorno, quando Caterina, nel chinarsi a bere, si sentì urtare la mano da qualche cosa che galleggiava. Per riconoscere di che si trattasse, Stefano brancicò nel buio:
-Non capisco; si direbbe la copertura d'una porta d'aerazione -. La ragazza bevve; ma nell'attingere una seconda manciata, toccata di nuovo, gettò un grido di raccapriccio:
-E' lui, mio Dio! - Chi lui? - Come chi? L'ho riconosciuto dai baffi!
Era il corpo di Chaval; dal piano inclinato la piena l'aveva risospinto lì. Stefano allungò il braccio; incontrò anche lui quei baffi, un naso maciullato; quel contatto lo riempì di paura e di ribrezzo. Presa da un'incoercibile nausea, la ragazza aveva già risputato l'acqua rimastale in bocca; convinta d'aver bevuto del sangue; che sangue dell'ucciso fosse tutta l'acqua lì sotto.
- Aspetta, - balbettò lui. - Lo spingo via, - e con una pedata allontanò il cadavere. Ma passava poco e quello ribussava alle loro gambe.
- Te ne vai maledizione! - Al terzo tentativo di scacciarlo, si persuase della sua inutilità: il filo della corrente, si vede, lo riportava sempre lì. La vittima non voleva andarsene; voleva stare con loro, addosso a loro. Macabra compagnia che finì per rendere l'aria irrespirabile. Per tutto il giorno, si astennero dal bere; preferendo morire che dissetarsi in quell'acqua. Ma già l'indomani la sete aveva ragione del ribrezzo; scostando a ogni sorso il corpo, ripresero a bere. A che pro avergli spaccato il cranio, se era destino che dovesse tornare a mettersi fra loro, cocciuto nella sua gelosia? Ormai l'avrebbero lì sino alla fine, a impedir loro anche da morto di stare soli insieme. Un altro giorno passò; un altro ancora. Al menomo risucchio dell'acqua Stefano si sentiva toccare dall'uomo che aveva ucciso: oh, appena: la gomitata con cui il vicino ti ricorda che c'è. E ogni volta trasaliva. Non riusciva più a toglierselo davanti agli occhi; gonfio, se lo figurava, putrefatto, con quei mustacchi rossi nel viso maciullato. Poi, in un eclissi della memoria di averlo ucciso, si scordava; era l'altro che nuotava verso di lui, ed ora lo avrebbe morso.
Adesso Caterina era presa da crisi di lacrime; che duravano ore e dalle quali usciva affranta, come esanime... Poi cadde in uno stato di sonnolenza invincibile. Lui la scuoteva; lei, senza neanche sollevare le palpebre, balbettava qualcosa, poi subito si riaddormentava. Nel timore che cascasse, il giovane le aveva passato il braccio intorno alla vita. Era lui adesso che rispondeva ai segnali. I colpi di piccozza s'avvicinavano, risuonavano ormai alle sue spalle. Ma anche le sue forze se ne andavano; era tanto se rispondeva. I compagni li sapevano lì; a che stancarsi a battere i colpi? Né che arrivassero importava più; inebetito dal lungo attendere, era giunto a dimenticare per ore quello che attendeva.
Seguì un miglioramento: il livello dell'acqua scemava, il corpo di Chaval si allontanò. E per la prima volta essi muovevano qualche passo per la galleria, quando il battere delle piccozze, che da nove giorni durava ininterrotto, tutto a un tratto cessò. L'improvviso ristabilirsi del silenzio li colpì come una mazzata. Che significava, quell'arresto? Presi da panico all'idea che la loro agonia potesse ricominciare, s'afflosciarono a terra, si cercarono, si strinsero come impazziti l'una all'altro.
E ora stavano lì seduti fianco a fianco, quando lei, partendo in una sommessa risata:
- Deve far bello fuori, - uscì inaspettatamente a dire. - Vieni, andiamo a spasso... Sulle prime Stefano tentò di reagire a quella ventata di follia, ma poi anche il suo cervello cedette al contagio e il giovane smarrì la sensazione della realtà. Caddero tutti e due in una specie di allucinazione. Presa dall'irrequietudine e dalla morbosa loquacità che dà la febbre, ora la fanciulla scambiava il ronzio delle orecchie per uno scorrere d'acque, un cantare di uccelli; le sue narici percepivano un acuto odore d'erba calpesta; grandi sprazzi gialli che le attraversavano la retina la persuasero di trovarsi all'aperto, presso il canale, tra le messi, una giornata di sole. - Che bel caldo che fa, eh? Oh, prendimi! restiamo insieme! Oh sempre, sempre insieme!
Stefano la stringeva a sé; lei abbandonandoglisi contro carezzevole:
- Come siamo stati sciocchi, - cinguettava felice, - ad aspettare tanto! Fin dalla prima volta che ti ho visto, io mi sono sentita tua, sai! E tu, musone, che non l'hai capito! Poi, ti ricordi, in casa da noi, la notte? quando né tu né io si riusciva a prendere sonno? Tu ascoltavi il mio respiro e io il tuo. Che voglia che si aveva di abbracciarci! - E, conquistato da quella gaiezza, anche Stefano cominciò allora a risuscitare ricordi del bene che s'erano taciuti. In tono di scherzoso rimprovero:
-Tu m'hai picchiato una volta, sì sì: due schiaffoni, uno per guancia! - Lei, accattando perdono:
-E' che ti amavo! Vedi, facevo di tutto per non pensare più a te. E' finita, mi ripetevo, tra noi. Eppure dentro di me una voce mi diceva che giorno verrebbe che ci metteremmo insieme. Bastava un'occasione, un caso felice, non è così? "Felice", ah proprio! - e Stefano rabbrividì. Avrebbe voluto riprendere contatto con la realtà, scuotere da sé quel sogno. Irretito in esso, invece:
-Nulla è mai finito, - sentenziò. - Basta un attimo di felicità, perché tutto ricominci.
Lei, battendo le mani:
-Ah, allora mi tieni con te, è vero? questa è la volta buona, allora? - Per la debolezza, la voce le si spense in gola; e come venendo meno, s'abbandonò. Spaventato, lui, per sorreggerla, se la strinse sul cuore. - Ti senti male? - Stupita alla domanda, lei, risollevandosi:
-No, tutt'altro. Perché?
Ma già la domanda l'aveva destata dal suo sogno. Sgomenta, guardò la notte che li circondava; si torse le mani e ruppe in singhiozzi:
-Che buio, - gemette, - che buio! mio Dio! - Non erano più le messi che vedeva, né odore d'erba che respirava nell'aria, né il canto delle allodole che udiva. La trionfante luce del sole si eclissò davanti alla realtà: la miniera franata, inondata; le tenebre; il tanfo di chiuso, il funebre sgocciolare del sotterraneo, dove da tanti giorni agonizzavano. Tutto un orrore che i sensi turbati ora moltiplicavano, trasformavano in incubo; e dove, ricaduta nelle superstizioni dell'infanzia, rivide aggirarsi l'Uomo nero: l'antico minatore che ricompariva nel pozzo a torcere il collo alle ragazze che sgarrano.
Infatti:
-Senti? Hai udito? - No, io nulla. - Sì sì, l'Uomo nero, sai? Eccolo, eccolo lì! Le hanno reciso un'arteria, alla terra; e la terra si vendica inondando la miniera del suo sangue.. Ed è lì, lo vedi? guarda! più nero della notte!... Ho paura! ho paura! - e tremando da capo a piedi, s'ammutolì. Poi ricredendosi, col fiato più che con la voce:
-No! è ancora l'altro!
- Chi l'altro? - Quello che sta con noi, che non è più -. E ossessionata dall'immagine di Chaval, confusamente prese a parlare di lui; dell'esistenza da cani che avevano menato insieme; ricordò l'unica volta, alla Jean-Bart, che lui le aveva testimoniato un po' d'affetto; le ingiurie e gli schiaffi con cui l'aveva poi sempre trattata, picchiandola a sangue per poi sfinirla di carezze.
- E' geloso, ti dico! e viene per impedirci ancora di stare assieme. Oh caccialo! e tienmi con te, tienmi tutta con te! - In un impeto di tenerezza, gli si era appesa al collo; cercò la sua bocca, fremente vi incollò la sua. La notte ridivenne giorno, il sole riapparve; e Caterina rise d'un calmo riso d'amante. Lui, sentendosela contro seminuda sotto i vestiti in brandelli, in un brusco risveglio di virilità, l'abbrancò. E consumarono finalmente la loro notte nuziale in fondo a quella tomba, su quel giaciglio di mota. Spinti all'improvviso imperioso desiderio di non morire senza prima aver avuto la loro parte di bene, dal bisogno di sentirsi un'ultima volta vivi, si amarono nella disperazione, sulla soglia stessa della morte.
Appagato il loro amore, non desiderarono più nulla. Non si mossero più dal cantuccio dove s'erano abbracciati; lui seduto in terra, lei coricata sulle sue ginocchia. Ore e ore trascorsero così. La ragazza si manteneva immobile; per gran tempo lui la credette addormentata; quando la toccò, sentì ch'era morta. Pure seguitò a non muoversi, come temesse di svegliarla. L'idea che per primo l'aveva avuta donna, che Caterina poteva essere incinta, lo inteneriva profondamente. Altri pensieri - il progetto di partire con lei, la gioia che si riprometteva dalla loro vita in comune - lo visitavano a istanti; ma vaghi fuggevoli come il respiro d'un dormiente che gli sfiorasse la fronte. Ormai esausto, gli restava appena tanto di forza per muovere la mano; per assicurarsi che Caterina era lì con lui, pacificata nella morte come un bambino nel sonno. Null'altro esisteva; neanche il buio. E di se stesso che ne era? si sentiva come altrove, affrancato dal tempo e dallo spazio. Sì, lì presso il suo capo, qualcuno batteva dei colpi; sempre più forti, sempre più vicino; ma se prima era stato il torpore che lo irretiva, l'estrema fiacchezza a impedirgli di rispondere, adesso non sapeva più: sognava. Sognava Caterina; e nel sogno erano gli zoccoli di Caterina che udiva picchiettare, di Caterina che camminava davanti a lui.
Due giorni trascorsero così. Caterina seguitava a tenersi immobile; lui macchinalmente la toccava ogni tanto; e sentendola tranquilla si rassicurava.
Finché qualcosa venne a scuoterlo da quel mortale sopore: un fragore di voci, un crollare là in fondo di massi. L'apparire nel buio d'una lampada gli riempì gli occhi di pianto. Incapace di staccare da essa lo sguardo, da quel punto rosso che bucava la tenebra, seguì, sbattendo le palpebre, il suo avvicinarsi. Già i compagni lo rialzavano da terra, lo sorreggevano, lo portavano via di là. Qualcuno lo sforzò a disserrare i denti, lo imboccò di qualche cosa di caldo. Si lasciò fare.
Fu solo nella galleria di Réquillart, che riconobbe un viso; il viso di Négrel là ritto in attesa. Allora si videro quei due uomini che si disprezzavano a vicenda, buttarsi uno al collo dell'altro, singhiozzando come bambini, rimescolati nel profondo dai sentimenti di fraternità umana che dormivano sotto la ribellione dell'uno e lo scetticismo dell'altro. Lacrime versate sul male di vivere, sull'infelice sorte degli uomini, sull'abisso di dolore che può attingere chi nasce da donna.
Intanto, via via che si scoprivano, i morti venivano rimossi e portati all'aperto. Caterina tra i primi. Quando la Maheu vide Caterina morta, s'afflosciò in terra al suo fianco, gemendo e ululando da spezzare il cuore. Il viso sfigurato di Chaval fece credere che l'avesse ucciso la caduta di qualche masso. Fu allungato accanto ad altri tre: un manovale e due staccatori, gonfi come lui d'acqua, col cranio fracassato come lui. Nella folla, donne impazzite dal dolore, si stracciavano le vesti, si laceravano con le unghie la faccia.
Stefano fu trattenuto nella galleria finché i suoi occhi non si furono abituati alla luce delle lampade. Quando, rifocillato, si fu un po' ripreso e poté uscire, fu come uscisse uno spettro; tutti al suo passare istintivamente si ritraevano. Era d'una magrezza scheletrica e aveva i capelli completamente bianchi.
Al suo apparire, la Maheu cessò di gridare, per fissarlo istupidita, a occhi sbarrati come si guarda un redivivo
Capitolo sesto
Erano le quattro del mattino. L'avvicinarsi del giorno intiepidiva la fresca notte d'aprile. Nel limpido cielo le stelle vacillavano vicine a spegnersi, mentre l'orizzonte si imporporava a levante del primo annuncio dell'alba. E sulla buia campagna assopita correva un brivido, quell'impercettibile fremito che precede il risveglio.
A grandi passi Stefano percorreva la strada di Vandame. Usciva dall'ospedale di Montsou, dov'era rimasto degente tre settimane. Pallido ancora ed emaciato, s'era sentito abbastanza in forza per partire, e partiva. La Compagnia che, sempre in apprensione per i suoi pozzi, seguitava a licenziare alla spicciolata operai, gli aveva fatto sapere che non poteva tenerlo. In compenso, gli offriva cento franchi di buona uscita; e paternamente lo consigliava a lasciare il lavoro delle miniere, ormai troppo gravoso per lui. Stefano aveva rifiutato l'offerta; già ora in possesso di una lettera di Pluchart che lo chiamava a Parigi e gli accludeva i danari per il viaggio. Il giovane vedeva così realizzarsi il suo antico sogno.
Il giorno prima, uscendo dall'ospedale, aveva dormito al Buontempone; e quel mattino s'era alzato prestissimo per esaudire il solo desiderio che gli restava: salutare i compagni, prima di andare a Marchiennes a prendere il treno delle otto.
Il sorgere dell'alba tingeva la strada di rosa. S'arrestò un istante. Che godimento respirare quell'aria pura della precoce primavera! La giornata s'annunciava bellissima. Via via che la luce cresceva, la terra si ridestava dal suo sonno. Si rimise in cammino, facendo risuonare il suolo sotto il bastone di corniolo, lo sguardo teso lontano sulla pianura che emergeva dai vapori della notte.
Non aveva rivisto più nessuno dei compagni; solo una volta la Maheu era venuta a trovarlo all'ospedale: di tornare, era forse stata impedita. Ma sapeva che le maestranze del Voreux scendevano adesso alla Jean-Bart: la Maheu compresa, che s'era rimessa a lavorare.
Le strade si andavano animando; sempre più numerosi, gli passavano vicino dei minatori: chiusi in sé, taciturni. La Compagnia, si diceva, abusava della sua vittoria. Quando, dopo due mesi e mezzo di sciopero, gli operai, costretti dalla fame, erano tornati ai pozzi, avevano dovuto accettare la nuova tariffa, quel larvato ribasso di salario, tanto più odioso adesso che, per scongiurarlo, dei loro compagni erano morti. Per derubarli di un'ora di lavoro, li avevano obbligati a venir meno al giuramento fatto: smacco che li ledeva nell'onore, che non riuscivano a mandare giù e che li riempiva di fiele verso la Compagnia.
Il lavoro aveva ripreso dappertutto: a Mirou, alla Madeleine, a Crèvecoeur, alla Victoire. Dappertutto, nella nebbia del mattino, lungo le strade ancora immerse nella notte, era uno scalpicciare di gregge: file di uomini che trottavano a testa bassa, come bestiame condotto all'ammazzatoio. A braccia incrociate, battendo i denti dal freddo sotto la tuta di tela, procedevano con un dondolio nelle reni, le mani intrecciate sul dorso, curvando la schiena, donde la pagnotta, sistemata tra giacca e camicia, sporgeva come una piccola gobba. E in quel ritorno in massa ai pozzi, nel tetro mutismo di quelle ombre nere che filavano via senza guardarsi intorno, si sentiva la collera che fa stringere i denti, l'odio che gonfia il cuore, e solo una rassegnata obbedienza alle necessità del ventre.
Con l'avvicinarsi ai pozzi, il loro numero cresceva. Camminavano quasi tutti isolati; quelli che arrivavano in gruppo, si accodavano l'uno all'altro in fila indiana; stracchi prima di cominciare, uggiti degli altri e di se stessi. Stefano ne notò uno, vecchissimo, agli occhi che gli ardevano come tizzoni sotto la fronte livida. Un altro, un giovane, sbuffava come una caldaia sotto pressione. Molti portavano gli zoccoli appesi al braccio e scivolavano via col passo felpato dei calzerotti di lana.
Era un affluire incessante; si sarebbe detta la marcia forzata d'un esercito in rotta, avvilito dalla sconfitta, anelante solo a impegnare di nuovo battaglia, a prendersi la rivincita.
Stefano arrivò alla Jean-Bart che il pozzo riaggallava appena dal buio; nel primo barlume dell'alba, le lanterne appese ai cavalletti ardevano ancora. Lassù, in cima alla confusa massa degli edifici, il candido pennacchio d'uno scappamento si sfumava di carminio. Per la scala del capannone di cernita, raggiunse la ricevitoria. Già gli operai affluivano dalla baracca, la discesa cominciava. Il trambusto che regnava nello stanzone lo fermò un momento. Rintronavano sotto le berline le lastre di ghisa del pavimento; i cavi scorrevano sulle pulegge, tra il tuonare del portavoce, lo scatenarsi delle suonerie, i tonfi della mazza sull'incudine del segnale. Ecco di nuovo le gabbie che senza sosta emergevano e si rituffavano, inabissando carichi di operai; eccolo di nuovo lì il mostro occupato a divorare la sua razione di carne umana con la disinvoltura del gigante famelico che del boccone che inghiotte neanche si accorge. Uno spettacolo, ora, che i nervi del giovane, provati dall'infortunio, non tolleravano più; esasperato, preso a ogni sprofondare delle gabbie da un urto di stomaco, dovette stornare gli occhi dal pozzo.
Ma mandandoli intorno nel buio dello stanzone che i lampioni vicini a spegnersi diradavano appena appena, non incontrò un viso conosciuto. I minatori che, a piedi scalzi con la lampada in mano, stavano lì in attesa d'imbarcarsi, gli lanciavano un'occhiata sospettosa, per quindi abbassare il capo e farsi indietro, come messi in soggezione. Essi certo lo riconoscevano; ma il loro volto non esprimeva più alcun rancore. Pareva anzi che la sua presenza li intimidisse; s'aspettassero da lui di sentirsi rinfacciare la loro codardia. Un'attitudine così remissiva gli gonfiò il cuore di pietà; scordò che erano gli stessi che lo avevano preso a sassate e accarezzò di nuovo l'idea di poter fare di quei miseri degli eroi; il sogno di mettersi a capo della folla, di dirigere questa forza di natura che, abbandonata ai propri istinti, non fa che distruggere se stessa.
Solo tra quelli che arrivavano in attesa d'una nuova infornata, riconobbe alfine un viso; oh quel viso lì, Stefano lo conosceva bene! nello sciopero era stato il suo braccio destro, un animoso che, piuttosto che cedere, aveva giurato di soccombere.
- Anche tu ! - mormorò accostandolo. Quello impallidì, le labbra gli tremarono; poi, allargando le braccia:
-Che vuoi! ho moglie! - Ma, come questo, quanti ora il giovane ne riconosceva tra i minatori che affluivano dalla baracca! - Anche tu? anche tu? - E le risposte erano sempre quelle:
-Ho una madre... Ho dei bambini da mantenere... Bisogna pur mangiare... Che altro potevano dire? e tetri restavano lì, gli occhi fissi sul pozzo, impazienti di vedere la gabbia ricomparire; così avviliti della sconfitta patita che anche tra loro evitavano di guardarsi.
Stefano chiese della Maheu. Nessuno aprì la bocca per rispondergli; solo uno fece capire col gesto che la donna stava per arrivare, mentre al nome, altri alzavano le braccia in segno di commiserazione: ah, la povera donna! quale pena!
Soffrendo pur lui di quell'imbarazzo, il giovane tese intorno la mano: partiva, tutti gliela serrarono con forza, a fargli sentire quanto si rodevano in cuore d'aver ceduto, con che ardore speravano nella rivincita. La gabbia aspettava; s'imbarcarono, sparirono inghiottiti. Voltandosi, Stefano vide Pierron; agganciata al cuoio del berretto, aveva ora la lampada a fiamma libera dei sorveglianti. Promosso da otto giorni caposquadra al piano di carico, l'uomo era montato in tanta boria che gli operai, incontrandolo, si scostavano. Il vedere Stefano lì, lo contrariò; si rassicurò solo quando il giovane gli disse che partiva. Scambiarono quattro parole. Adesso sua moglie gestiva il caffè del Progresso, grazie all'appoggio dei dirigenti che «si mostravano così gentili con lei». Diceva; e s'interruppe per infliggere un cicchetto a babbo Mouque: l'ora era passata; che cosa aspettava per sbarazzare del letame la scuderia? Ascoltandolo, il vecchio curvava le spalle. Nell'amarezza del rabbuffo ricevuto, anche lui tese a Stefano la mano; e gliela strinse a lungo calorosamente: la stessa stretta degli altri, fremente d'ira repressa e di irriducibile rivolta. E la mano, che tremava nella sua, di quel vecchio che gli perdonava i figli perduti, sconvolse il giovane talmente che lo guardò sparire senza riuscire a spiccicare una parola di saluto.
- Aspettavo la Maheu. Che non venga stamattina?
La Maheu, tanto dire la disgrazia; e a parlare di disgrazia, c'è il caso di tirarsela addosso. Sicché Pierron fece finta di non capire, allontanandosi col pretesto d'un ordine da dare. Solo vedendo per l'appunto la donna entrare:
-Che dicevi? la Maheu? Eccola qui.
Arrivava infatti dalla baracca; insaccata nelle brache e nella giacca da uomo; il capo stretto nella cuffia, la lampada in mano. Mossa a pietà dalla sorte di quella donna così duramente colpita, la Compagnia aveva fatto per lei una eccezione, consentendo che ridiscendesse nel pozzo nonostante i suoi quarant'anni. E visto che adibirla al carreggio non si poteva, le aveva dato da far andare un piccolo ventilatore a braccia, impiantato da poco nella galleria nord, in quel punto, sprovvisto d'aerazione, della miniera che la vicinanza del Tartaret arroventava. In un bugigattolo dove la temperatura saliva a quaranta gradi, la meschina si sfiancava dieci ore di fila a girare una ruota per guadagnare trenta soldi.
A vederla camuffata in quel modo, con quel seno e quel ventre da idropica traboccanti dalla tenuta da lavoro, Stefano si sentì mancare la voce. Voleva dirle che partiva, che prima di partire aveva tenuto a salutarla; ma le parole non gli venivano e tartagliava. Davanti al suo imbarazzo lei che lo guardava senza ascoltarlo:
-Ti fa specie, eh, - finì per dire, - di vedermi qui, io che giuravo di strangolare il primo dei miei che vi rimettesse piede! ed ecco che a ridiscendervi sono io; per cui mi dovrei strangolare da me, è vero?... Ah, va' là, non avrei aspettato tanto, a farlo, se in casa non ci avessi un vecchio e dei bambini che gridano fame! - E con una voce che la stanchezza affievoliva:
-Non mi scuso, - proseguì, - ti dico le cose come sono. Ho cercato, sì, di tenere duro, anche davanti alla fame; ma poi ci hanno minacciato di buttarci anche fuori di casa. Allora mi sono decisa.
- E il vecchio come sta?
- Oh, lui, non dà la minima noia e si tiene sempre pulito. Ma di cervello è completamente svanito... Per la faccenda che sai, te l'avranno detto, lo hanno assolto. Volevano chiuderlo in un manicomio, ma io mi sono opposta; la roba di dosso che ha gliela avrebbero buttata a bollire in un calderone... Quella storia però ci ha danneggiato parecchio: ha fatto sfumare la pensione che gli dovevano; uno anzi di quei signori m'ha detto che accordargliela sarebbe un'immoralità... - Gianlino ti aiuta?
- Sì. Gli hanno trovato un'occupazione all'aperto. Porta in casa venti soldi. Oh non mi posso lagnare! i capi si sono mostrati quanto mai buoni... come del resto si sono espressi loro stessi... I venti soldi di Gianlino fanno cinquanta, coi miei trenta. Il pane ci uscirebbe, se non fossimo in sei. Estella ora mangia come un grande; e il peggio è che bisognerà aspettare ancora quattro o cinque anni, prima che Enrico e Leonora siano in grado, in età di discendere!
Stefano non poté trattenere uno scatto:
-Anche loro!
All'osservazione, il sangue affluì ai pomelli della donna, negli occhi passò un lampo. Poi accasciò le spalle come sotto il peso del destino.
- Che vuoi? Loro come gli altri! ... Ci abbiamo lasciato la pellaccia tutti... E' la loro volta, adesso.
Dovette scostarsi per lasciar passare una berlina. Dai finestrini ragnatelosi s'affacciava l'alba, annegando nel suo grigiore la luce delle lanterne. Ogni tre minuti, la macchina si rimetteva in moto, i cavi scorrevano; senza sosta le gabbie inghiottivano uomini.
- Andiamo, battifiacca, spicciamoci! - gridava Pierron, con l'occhio alla Maheu. - Su, su, imbarcatevi! non si finisce più, altrimenti, quest'oggi!
La Maheu capì bene che diceva per lei, ma non si mosse; lasciò che anche quella gabbia - la terza - partisse senza di lei. E, sovvenendosi delle prime parole del giovane:
-Sicché tu parti?
- Sì, alle otto.
- Fai bene. Sempre meglio altrove che qui, quando si può. M'ha fatto piacere vederti prima, così almeno te ne vai sapendo che non ti serbo rancore. Lì per lì, certo, vedendomeli ammazzare uno dopo l'altro, ti avrei fatto la pelle, te lo confesso. Ma poi si riflette, ci si fa una ragione, non è vero? Allora si scopre che, allo stringere dei conti, la colpa non è di nessuno. No, no, non t'accusare: non è tua, la colpa. La colpa è di tutti quanti.
E prese quietamente a discorrere dei suoi morti: il suo uomo, Zaccaria, Caterina. Solo facendo il nome di Alzira, gli occhi le si gonfiarono di pianto. Era tornata la donna ragionevole d'un tempo, che giudicava le cose serenamente. Ai ricchi non porterebbe bene, l'aver massacrato tanti poveri cristi; verrebbe indubbiamente il giorno che avrebbero la punizione che si meritavano. Non ci sarebbe neanche bisogno di impicciarsene; la baracca crollerebbe da sé; i soldati sparerebbero sui padroni, come avevano sparato sugli operai. Nella secolare rassegnazione, nella supina obbedienza, succhiata col latte, cui di nuovo la donna si piegava, la certezza era maturata che l'ingiustizia non poteva durare più a lungo, che se lassù non c'era più il buon Dio, un altro ne sorgerebbe a vendicare la povera gente. Parlava sottovoce, guardandosi intorno diffidente. Poi vedendo Pierron accostarsi, aggiunse alzando la voce: - Allora, se parti, va' prima a riprenderti la tua roba... Da noi, hai ancora due camicie, tre fazzoletti e un vecchio paio di calzoni -. (Era quanto, della sua roba, il giovane aveva salvato dai rigattieri).
- No, sono vecchi cenci; te ne servirai per i bambini... A Parigi mi aggiusterò.
Altre due gabbie erano ripartite, senza che la Maheu si decidesse ad approfittarne. Questa volta Pierron la apostrofò direttamente:
-Dite dunque, voi costì! L'avete finita di chiacchierare? Ecco la gabbia, andiamo!
In risposta, la Maheu gli voltò la schiena. Perché faceva tutto quello zelo? Non era responsabile lui, della discesa degli operai! Non gli bastava, a quel venduto, l'odio che s'era già saputo attirare da parte della sua squadra? E lei s'ostinava a stare lì, con la lampada in mano, in mezzo alle correnti d'aria che nello stanzone si mantenevano gelate, a dispetto della stagione. Faccia a faccia, i due restarono in silenzio; avevano il cuore così gonfio che avrebbero voluto dirsi ancora qualcosa; che cosa, né l'uno né l'altro trovava. Finché, lei, tanto per dire:
- La Levaque è incinta e ha sempre il marito in prigione; è Bouteloup, in assenza, che ne fa le veci.
- Ah, già: Bouteloup... - E senti, ti ho mica detto? Filomena è partita.
- Come, partita?
- Sì: se l'è svignata con un minatore del Pas-de-Calais. Subito, ho avuto paura che i marmocchi me li lasciasse sulle costole. Invece no, se li è portati con sé. Che ne dici? una donna che sputa sangue e pare sempre lì per spirare.
Restò assorta un momento; poi:
-E di me! quante non ne hanno dette!
Ti ricordi che dicevano che venivo a letto con te? Oh Dio! morto il mio uomo, fossi stata più giovane, anche questo avrebbe ben potuto succedere, non è vero? Ma non è stato; e oggi come oggi, preferisco. Certo, ce ne rimorderebbe.
- Sì, ce ne rimorderebbe, - fece Stefano, semplicemente.
E né l'uno né l'altro aggiunse parola.
Da una gabbia che aspettava, una voce chiamò, stizzosa, la Maheu: si spicciasse a salire, se non voleva vedersi infliggere una multa. La donna allora si decise; e tese a Stefano la mano. Visibilmente commosso lui la guardava così mal ridotta, davvero finita; con quel viso patito, quei capelli scoloriti che sfuggivano dalla cuffia, quel corpo di buon animale sottomesso, sfiancato dai troppi parti, d'una deformità ormai che la tenuta da lavoro non faceva che sottolineare. E nella stretta di mano che ora riceveva il giovane riconosceva la stessa avuta dai compagni: una stretta di mano lunga, muta: l'appuntamento per il giorno in cui si ricomincerebbe la lotta. Che così era, Stefano lo lesse nella tranquilla certezza che gli occhi di lei esprimevano. A presto, dunque! e questa volta per davvero!
- Fannullona della malora! - inveì Pierron. Tra spinte e urtoni, la Maheu si ammucchiò con altri quattro dentro una berlina. Venne dato il segnale della «carne da strapazzo»; la gabbia si sganciò, piombò nel buio; e non vi fu più che il rapido svolgersi del cavo.
Allora Stefano abbandonò il pozzo. Attraversando per uscire il capannone della cernita, accoccolato in terra, scorse un essere umano che affondava le gambe dentro un cumulo di carbone. Attanagliato tra le cosce teneva un blocco d'antracite e vi menava sopra colpi per liberarla dalla ganga di schisto; sparendo quasi nella nube di polvere che il martello sollevava. Il giovane certo non l'avrebbe riconosciuto se quello, scorgendolo, non avesse alzato la faccia: un muso di bertuccia, le orecchie a ventola, degli occhietti verdognoli: Gianlino, impiegato là dentro a ripulire il minerale delle scorie più grosse.
Il monello ebbe un riso canzonatore; spaccò d'un colpo secco il blocco e scomparve dentro un nuovo polverone.
Fuori, Stefano camminò per un poco assorto. Ogni sorta di pensieri gli ronzavano in capo. Poi ebbe la sensazione dell'aria aperta, del cielo libero; e rifiatò a pieni polmoni. Radioso, il sole sorgeva all'orizzonte, riversando sull'immensa pianura un torrente di luce. Al suo vivificante calore, gioiosa si ridestava la campagna, correva la terra un fremito di giovinezza, un inno alla vita, dove il cinguettare degli uccelli si sposava al sentore delle zolle e dell'erba, allo stormire dei boschi, al mormorare dell'acqua. Vivere metteva ancor conto; la decrepita terra reclamava ancora la sua primavera.
Conquistato da quella esultanza, Stefano riprese a sperare; e, rallentando il passo, lasciò il suo sguardo vagare all'intorno. Intanto si esaminava; si sentì forte, maturato dalla dura esperienza della miniera. Il suo noviziato era finito; partiva di lì armato, non più recluta, ma veterano della rivoluzione: una rivoluzione che libererebbe la terra d'una società, che la sua coscienza condannava.
La gioia di raggiungere Pluchart, di diventare come lui un capo ascoltato, gli suggeriva spunti di discorsi; già di quei discorsi gli veniva di congegnare delle frasi. Il suo programma lo avrebbe riveduto, ampliato. La stessa educazione borghese per la quale s'era innalzato sopra la sua classe, era adesso quella che accresceva il suo astio contro la borghesia. Quegli operai che col loro tanfo di miseria lo indisponevano, sentiva il bisogno di esaltarli; li additerebbe come i soli degni, i soli onesti, l'unica forza viva in cui l'umanità potesse ritemprarsi. Già si vedeva deputato; e il suo trionfo coinciderebbe con quello del popolo, se dal popolo non si lasciava prendere la mano.
Un canto d'allodola perduta in cielo gli fece alzare il capo; sciaveri di nebbia imporporati dall'alba - gli ultimi vapori della notte - si scioglievano nel limpido azzurro.
Vaghi, gli si affacciarono al ricordo i volti di Rasseneur e di Souvarine. Tutto andava a rotoli, quando ognuno voleva comandare; così la famosa Internazionale, che pareva dovesse rinnovare il mondo, abortiva per debolezza dopo aver visto il formidabile esercito di cui disponeva scindersi, sgretolarsi, minato all'interno da rivalità. Darwin aveva dunque ragione? il mondo non sarebbe che una lotta, dove i forti divorano i deboli per la continuità e il miglioramento della specie? Sebbene nella sua presunzione lo scacciasse, questo dubbio lo turbava. Ma un'ispirazione lo soccorse: se una classe doveva perire, non era naturale fosse la borghesia, infrollita nei piaceri; a sopraffarla, il popolo, così giovane, così traboccante di vita?
Era stata la sua prima interpretazione della teoria darwiniana; l'idea di riprenderla alla prima occasione, parlando alla folla, lo entusiasmò. Da un sangue nuovo sorgerebbe una nuova società. E quella prospettiva di un'irruzione di barbari che rigenerasse le vecchie nazioni prossime al crollo, ribadiva in lui la certezza che la rivoluzione era alle porte: la vera; quella dei lavoratori; il suo scatenarsi tingerebbe di porpora quello scorcio di secolo, allo stesso modo che ora, sorgendo, il sole tingeva il cielo di sangue.
Immerso in questi pensieri, seguitava a camminare, scartando i sassi col bastone. E, se alzava il capo, era per riconoscere punti del paesaggio a lui ben noti e per accomiatarsi da essi. Alla Fourche-aux-Boeufs si ricordò che il giorno del saccheggio dei pozzi, aveva preso lì il comando dei dimostranti. Oggi, ahimè, il lavoro massacrante, bestiale, mal retribuito, ricominciava. Laggiù sotto terra, a settecento metri di profondità, certo a quest'ora risuonavano - e gli pareva d'udirli - i colpi sordi, cadenzati, incessanti delle piccozze: erano i compagni che poco prima aveva visto avviarsi; gli uomini neri che nella loro rabbia silenziosa, scavavano, scavavano. Certo, dalla lotta erano usciti vinti; vi avevano rimesso vite e danaro; ma Parigi non li dimenticherebbe i colpi di fucile del Voreux; da quella ferita sempre aperta colerebbe il sangue stesso dell'Impero; e, se la crisi industriale volgeva a fine, se una ad una le fabbriche riaprivano, che importa? lo stato di guerra era dichiarato, la pace non era più possibile. I lavoratori del carbone s'erano contati; avevano saggiato la loro forza; svegliato dal torpore, con la loro richiesta di giustizia, tutta la Francia operaia. La loro disfatta non tranquillizzava nessuno; i borghesi di Montsou, presi, già nell'esultanza della vittoria, da un sordo malessere, si volgevano a guardare se il grande silenzio che s'era fatto non covasse, inevitabile, la loro fine. Capivano che quello che era stato si ripeterebbe, che la rivoluzione ne figlierebbe altre; che, magari domani, poteva dilagare in uno sciopero generale, visto che l'unione mondiale dei lavoratori disponeva di fondi tali da metterli in grado di tenere duro per mesi, senza morire di fame.
Anche quello di Montsou insomma era stato un colpo di spalla assestato alla vacillante società capitalistica; la borghesia aveva sentito sotto di sé le fondamenta scricchiolare e capiva che sotterra altre scosse si preparavano, sempre altre, fino al giorno che il suo tarlato edificio si sconquasserebbe, si inabisserebbe, inghiottito come il Voreux.
Stefano svoltò a sinistra sulla via di Joiselle. Lì, aveva impedito ai suoi di gettarsi sulla Gaston-Marie. Laggiù, nel sole, scorgeva le torrette di parecchi pozzi: Mirou a destra, Madeleine e Crèvecoeur, uno addossato all'altro. Dovunque ferveva il lavoro; da un capo all'altro della sconfinata pianura le viscere della terra risuonavano di colpi di piccozza; un battere incessante sotto i campi, le strade, i villaggi che ridevano al sole; tutto l'oscuro affannarsi d'una sotterranea galera, talmente sprofondata sotto il peso delle rocce che bisognava conoscerne l'esistenza per distinguerne il doloroso ansimare.
E ora il giovane si chiedeva se, quella della violenza, era poi la strada buona per affrettare l'avvento di un'era migliore. Recidere dei cavi, divellere delle rotaie, fracassare delle lampade, che lavoro inutile! Valeva la pena, per arrivare a questo, di mettersi in tremila a scorrazzare devastando il paese? Confusamente il giovane intuiva che solo la strada della legalità condurrebbe un giorno a conseguire risultati decisivi. La sua intelligenza maturava. Stefano aveva ormai ripudiato i suoi vecchi rancori, che oggi considerava effetto di inesperienza. Sì, guidata solo dal buon senso, diceva bene la Maheu: la vera strada per riuscire era che le masse lavoratrici si unissero insieme pacificamente, si conoscessero, si stringessero in sindacati, appena la legge lo consentisse; e il giorno che si trovassero in schiacciante maggioranza - milioni di lavoratori di fronte a poche migliaia di sfruttatori - s'impadronissero del potere, diventassero i padroni. Ah quel giorno, sì, segnerebbe il trionfo della verità e della giustizia! Il dio satollo schiatterebbe all'istante; l'idolo mostruoso che se ne sta appiattato lontano, chi sa dove, nell'ombra del suo sacrario, dove i poveri cristi lo nutriscono del loro sangue, senza averlo mai visto in faccia!
Già, lasciata la via di Vandame, Stefano sboccava sulla maestra. A destra aveva Montsou, con le sue case in pendio; di fronte, i resti del Voreux, la maledetta pozza che tre pompe lavoravano giorno e notte a prosciugare. All'orizzonte, la Victoire, Saint-Thomas, Feutry- Cantel; mentre a nord si slanciavano al cielo le torri degli altiforni, i gasogeni fumavano nell'aria trasparente del mattino.
Vincendo la tentazione di indugiarsi, Stefano accelerò il passo: l'ora del treno s'avvicinava e aveva ancora sei chilometri da percorrere. Ma il sotterraneo battere delle piccozze, che il suo cuore udiva, non cessò di accompagnarlo. Li vedeva, li udiva dovunque si volgesse, i suoi compagni: sotto quel campo di grano, sotto quella siepe, dove sorgeva quel filare di giovani pioppi.
E là, sotto quella piantagione di barbabietole, non c'era, piegata in due, la Maheu: ansimante, poveraccia, dalla fatica quasi quanto il suo ventilatore?
Alto nel cielo, ora il sole di germinale raggiava in tutta la sua gloria. Al caldo dei suoi raggi, la terra sprigionava in mille forme la vita dal suo grembo materno. Le sementi gonfiavano, bucavano di germogli la zolla, variavano i solchi del loro tenero verde. Le gemme degli alberi si schiudevano in lucide foglie; i campi trasalivano sotto la spinta dell'erba, agognanti alla luce. Per la vegetazione in succhio, si propagava come un fremito: era la linfa che urgeva sotto le cortecce, che traboccava dovunque. Ma sotto quel tripudio della natura, sempre più distinto, il giovane continuava a udire l'oscuro travaglio dei minatori. E di questa messe soprattutto la terra era incinta; una messe che spunterebbe un giorno alla luce, grandeggerebbe nei solchi per gli imminenti raccolti. Là in fondo un esercito lentamente cresceva; un nero esercito vendicatore che, schiantando la terra, ben presto esploderebbe alla luce.