Emile Zola



I MISTERI DI MARSIGLIA

 

 

 

 

PARTE PRIMA

 

Capitolo 1 - COME BIANCA DI CAZALIS FUGGI' CON FILIPPO CAYOL

Verso la fine del maggio 184... un uomo sulla trentina camminava frettoloso per una stradicciola del quartiere San Giuseppe, vicino alle Aygalades. Aveva affidato il suo cavallo al garzone d'una fattoria vicina e si dirigeva verso una gran casa quadrata, costruita solidamente, una specie di castello campagnolo come ve ne sono tanti sulle colline della Provenza.

L'uomo fece un giro per star lontano dal castello e andò a sedere in fondo ad un bosco di pini che si stendeva dietro a quella casa.

Là, scostando i rami, inquieto e smanioso, pareva interrogare con lo sguardo i sentieri del bosco, come se aspettasse con impazienza qualcuno. Di tanto in tanto si alzava, faceva alcuni passi e sedeva di nuovo fremendo.

Quell'uomo, alto di statura e di strano aspetto, aveva delle lunghe fedine nere. Nel suo viso di forma allungata, improntato di lineamenti energici, c'era una specie di bellezza violenta. Ma improvvisamente l'espressione dei suoi occhi si addolcì e le labbra carnose si atteggiarono a un sorriso di tenerezza. Una giovinetta era uscita dal castello, e curvandosi come se si volesse nascondere, correva verso il bosco di pini.

Affannata, rossa nel volto, arrivò sotto gli alberi. Aveva sedici anni appena. La sua fisionomia sorrideva con espressione di gioia e di spavento fra i nastri azzurri del suo cappello di paglia. Le cadevano per le spalle i capelli biondi, e le mani sottili appoggiate al seno tentavano di calmare i battiti del cuore.

- Quanto vi fate aspettare, Bianca! - le disse il giovane. - Non speravo più di vedervi.

E la fece sedere accanto a sé sul musco verde.

- Scusatemi, Filippo, - rispose la fanciulla. - Mio zio è andato a Aix a comprare una tenuta ed io non riuscivo a levarmi d'intorno la governante.

Ella si abbandonò nelle braccia dell'uomo amato e cominciò fra loro due una di quelle ingenue e tenere conversazioni che fanno gli innamorati. Bianca era una bambina grande che si divertiva con l'amante come avrebbe fatto con la bambola. Filippo, ardente e silenzioso, la stringeva e la guardava concentrando dentro di sé tutti i trasporti dell'ambizione e della passione.

Mentre erano là, dimenticando il mondo intiero, videro, alzando la testa, dei contadini che passavano per il sentiero vicino e li guardavano ridendo. Bianca, atterrita, si staccò dal suo amante.

- Sono perduta! - disse, pallidissima. - Quegli uomini diranno tutto a mio zio. Ah! per carità, Filippo, salvatemi!

A quel grido il giovanotto si alzò ad un tratto.

- Se volete che vi salvi, - rispose egli con fuoco, - bisogna che veniate con me. Venite, fuggiamo insieme. Domani vostro zio consentirà al nostro matrimonio... I nostri sentimenti saranno soddisfatti per sempre.

- Fuggire... fuggire, - ripeteva la fanciulla. - Ma me ne manca il coraggio... Sono troppo debole, troppo timida...

- Ti darò animo io, Bianca. Noi vivremo una vita d'amore.

Senza capire, senza rispondere, Bianca lasciò cadere la testa sulla spalla di Filippo.

- Ho paura... ho paura d'andare in convento, - ripigliò a voce bassa. - Mi sposerai? mi vorrai sempre bene? Io t'amo... vedi...sono ai tuoi ginocchi.

Chiudendo gli occhi, abbandonandosi interamente, Bianca scese la collina a lunghi passi appoggiata al braccio di Filippo.

Allontanandosi dalla casa ch'essa abbandonava le dette un'ultima occhiata e provò una stretta al cuore che le inumidì gli occhi di grosse lacrime.

Era bastato un momento di oblio per gettarla fiduciosa nelle braccia del giovanotto. Bianca amava Filippo coi primi ardori del suo sangue giovane, con tutte le follie della sua inesperienza.

Fuggiva come una collegiale, volenterosa, senza riflettere a nessuna delle terribili conseguenze di quella fuga. E Filippo la portava via, inebbriato dalla sua vittoria, fremente nel sentirla camminare e respirare al suo fianco.

Avrebbe prima voluto correre a Marsiglia in cerca d'una vettura di piazza. Ma ebbe paura di lasciarla sola sulla strada maestra, e preferì andare a piedi con lei fino alla casa di campagna dove abitava sua madre. Erano distanti una buona lega da quella casa situata nel quartiere di San Giusto.

Filippo dovette abbandonare il cavallo e i due amanti si misero coraggiosamente in cammino. Traversarono prati, terre lavorate, boschi di pini, campi, camminando sempre solleciti. Il sole ardente spiegava davanti a loro larghe estensioni di luce.

Correvano nel tepido ambiente, spinti dalla follia che mordeva il loro cuore. Quando passavano, i contadini alzavano la testa e li guardavano sorpresi.

Impiegarono appena un'ora per giungere alla casa della madre di Filippo. Bianca, sfinita, sedette sopra una panchina di pietra accanto alla porta, mentre il giovanotto andò su per allontanare gli importuni. Ritornò e fece salire Bianca nella propria camera.

Aveva pregato Ayasse, un giardiniere che quel giorno lavorava per sua madre, d'andargli a prendere una carrozza a Marsiglia.

Tutti e due avevano addosso la febbre della fuga. Aspettando la carrozza stavano muti ed ansiosi. Filippo aveva fatto sedere Bianca sopra uno sgabello, e in ginocchio davanti a lei la guardava lungamente e la rassicurava baciandole con tenerezza le mani ch'essa gli abbandonava.

- Tu non puoi stare con questo vestito leggero, - le disse finalmente. - Ti vuoi vestire da uomo?

Bianca sorrise. L'idea del travestimento le faceva provare una gioia da fanciullo.

- Mio fratello è piccolo, - continuò Filippo, - ti metterai i suoi vestiti.

Fu una festa. La fanciulla s'infilò i calzoni ridendo. La sua mancanza di garbo era graziosissima, e Filippo baciava avidamente il rossore delle gote di lei. Quando fu vestita pareva un piccolo uomo, un birichino di dodici anni. Durò gran fatica a far entrare tutti i capelli dentro il cappello, e le mani del suo amante tremavano aiutandola a imprigionare i ricci ribelli.

Finalmente Ayasse tornò con la carrozza. Egli consentì ad ospitare i fuggitivi in casa sua a San Barnaba. Filippo prese tutti i denari che possedeva, e tutti e tre montarono nella carrozza lasciandola poi al ponte del Garetto, per andare a piedi fino a casa del giardiniere.

Era giunto il crepuscolo. Dal cielo pallido si abbassavano ombre trasparenti, e acri odori si alzavano dalla terra ancora calda degli ultimi raggi del sole. Allora un vago timore assalì Bianca.

Quando, al cominciar della notte, nelle voluttà della sera, si trovò sola fra le braccia dell'amante, si risvegliò il suo pudore spaventato e la colse un brivido, come se l'avesse assalita un male sconosciuto. Si abbandonava tutta, felice e impaurita d'essere a quel modo padroneggiata dalla passione di Filippo. Si sentiva mancare, voleva guadagnar tempo.

- Senti, - ella disse, - scriverò all'abate Chastanier mio confessore... Andrà da mio zio per ottenere da lui che mi perdoni e si decida a lasciarci sposare... Mi pare che tremerò meno quando sarò tua moglie.

Filippo sorrise della tenera ingenuità delle ultime parole di lei.

- Scrivi all'abate Chastanier, - le rispose. - Io farò sapere a mio fratello dove siamo. Verrà domani e andrà a portare la tua lettera.

Poi la notte cominciò ad essere calda e voluttuosa. Bianca divenne sposa di Filippo. S'era data da sé, senza un grido di resistenza, e peccava per ignoranza come Filippo peccava per passione e per ambizione. Ah! la tenera e terribile notte, che doveva portare agli amanti tanta miseria e tutta una vita di dolori e di rimorsi!Fu così che Bianca di Cazalis fuggì con Filippo Cayol, in una serena sera di maggio.

 

Capitolo 2 -NEL QUALE SI FA CONOSCENZA DEL PROTAGONISTA MARIO CAYOL

Mario Cayol, fratello dell'amante di Bianca, aveva circa venticinque anni. Era piccolo, magro, d'aspetto d'uomo da poco Il suo viso giallo, con due occhi neri lunghi e socchiusi, era animato di quando in quando da un buon sorriso di rassegnazione e di sacrifizio. Camminava un po' curvo, con delle esitazioni e delle timidezze da fanciullo. E quando l'odio per il male e l'amore della giustizia gli facevano alzar la testa diventava quasi un bel giovane.

S'era preso in famiglia tutte le parti penose, lasciando suo fratello seguire i propri istinti ambiziosi ed appassionati.

Accanto a lui si faceva piccino, diceva spesso d'essere brutto e di voler restare qual era: aggiungeva che Filippo era scusabile se gli piaceva di far pompa della sua alta statura e della maschia bellezza del suo viso. D'altronde, quando l'occasione si presentava, si mostrava severo per quel focoso fanciullone che gli era maggiore d'età e che pure egli trattava con paternali e tenerezze da babbo.

La loro madre, rimasta vedova, non era ricca. Viveva a stento con gli avanzi della dote diminuitale dal marito in speculazioni commerciali. Tali avanzi, depositati presso un banchiere, le rendevano un piccolo assegno che le bastò per allevare i suoi due figli. Ma, quando i due fanciulli furono divenuti grandi, essa mostrò loro le mani vuote, e fece loro vedere quali e quante fossero le difficoltà della vita. I due fratelli, gettati così in mezzo alla lotta per l'esistenza, spinti da differenti temperamenti, presero due strade diverse.

Filippo, che agognava la libertà e le ricchezze, non si poté piegare al lavoro. Voleva arrivare ad acciuffare la fortuna con un colpo solo, e sognava di fare un ricco matrimonio. Secondo lui, quello era un mezzo eccellente per avere una bella entrata e una bella donna. Perciò visse, per dir così, nella strada, si mise a fare l'innamorato, e anche un po' lo scapato. Provava una gioia indicibile a passeggiare per Marsiglia la sua strana eleganza, i suoi vestiti di taglio originale, le sue occhiate e le paroline d'amore. La madre e il fratello lo guastavano cercando di soddisfare ogni suo capriccio. Filippo era però di buona fede; adorava le donne e gli pareva naturale l'essere un giorno amato e rapito da una ragazza nobile, ricca e bella.

Mario, mentre il fratello metteva in mostra la sua bellezza, era entrato come commesso nello studio del signor Martelly, armatore, in via della Darsena. Si sentiva benone nascosto nell'oscurità di quello studio: tutta la sua ambizione consisteva nel guadagnarsi una modesta agiatezza, vivendo pacifico ed ignorato. Provava delle voluttà segrete sovvenendo ai bisogni della madre e del fratello.

I denari guadagnati gli erano cari perché poteva regalarli, e far con essi felici i parenti, gustando la felicità intima del sacrifizio. Aveva preso nella vita la buona strada, il sentiero penoso che conduce alla pace, alla gioia, alla dignità.

Mario usciva di casa per andare allo studio, quando gli fu recapitata la lettera di suo fratello che gli annunziava la fuga con la signorina di Cazalis. Provò una dolorosa sorpresa, e misurò a colpo d'occhio l'abisso in fondo al quale s'erano gettati i due amanti.

Senza metter tempo in mezzo andò a San Barnaba. Davanti alla casa del giardiniere Ayasse vi era un pergolato: due grossi gelsi tagliati a ombrello stendevano i loro nodosi rami proiettando in terra la loro ombra; Mario trovò sotto la pergola Filippo, che guardava amorosamente Bianca di Cazalis seduta accanto a lui. La fanciulla, già stanca, era immersa nel sordo rimorso di quanto avevano fatto.

Il colloquio fu penoso, pieno d'angoscia e di vergogna. Filippo si alzò.

- Tu mi biasimi? - domandò a suo fratello stendendogli la mano.

- Sì, ti biasimo, - rispose vivamente Mario. - Tu hai commessa una cattiva azione. L'orgoglio e la passione ti hanno perduto. Non hai saputo riflettere alle disgrazie che tirerai addosso a te e ai tuoi.

Filippo fece un atto di sdegno.

- Tu hai paura, - disse con amarezza. - Io non ho calcolato. Amavo Bianca, Bianca amava me. Le ho detto vuoi venire con me? Essa è venuta. Ecco la nostra storia Non siamo colpevoli né l'uno né l'altra.

- Perché vuoi mentire? - rispose Mario ancor più severo. - Tu non sei un ragazzo. Sai bene ch'era tuo dovere difendere codesta fanciulla contro se stessa. Dovevi fermarla sull'orlo della colpa:

impedirle di seguirti. Non mi parlare di passione: conosco la sola passione del dovere e della giustizia.

Filippo sorrideva sdegnosamente e strinse Bianca al suo petto.

- Povero Mario, - disse, - sei un buon ragazzo... ma non hai mai amato, non sai che cosa sia la febbre dell'amore. Ecco la mia difesa.

E si lasciò baciare da Bianca che si stringeva a lui rabbrividendo. La povera fanciulla sentiva già di non avere altra speranza che in lui. S'era data a lui, gli apparteneva. E l'amava oramai come una schiava innamorata e paurosa.

Mario, disperato, capì che non avrebbe ottenuto nulla parlando saviamente ai due amanti. Proponendosi di agire per conto proprio, volle essere informato di tutte le circostanze della malaugurata avventura. Filippo rispose con docilità alle domande del fratello.

- Conosco Bianca da quasi otto mesi. La vidi la prima volta in una festa pubblica. Sorrideva a tutti e mi parve che rivolgesse a me il suo sorriso. Da quel giorno l'ho amata e ho cercato tutte le occasioni per avvicinarmi a lei e per parlarle.

- Non le hai mai scritto? - domandò Mario.

- Sì, parecchie volte.

- Dove sono le tue lettere?

- Le ha bruciate... Ogni volta che le scrivevo compravo un mazzo di fiori da Pina, la fioraia del corso San Luigi, e mettevo la lettera in mezzo ai fiori. Margherita, la lattaia, portava i fiori a Bianca.

- E alle tue lettere non ricevevi risposta?

- Da principio Bianca rifiutò i fiori. Poi li accettò, e finì per rispondermi. Ero pazzo d'amore. Sognavo di sposarla e di amarla eternamente.

Mario alzò le spalle. Condusse Filippo a qualche passo di distanza e continuò la conversazione con maggior durezza di tono.

- Sei un imbecille o un bugiardo, - gli disse con calma. - Sai che il signor di Cazalis, deputato, milionario, onnipotente in Marsiglia, non avrebbe dato sua nipote a Filippo Cayol, povero, senza titoli, e per colmo di volgarità anche repubblicano.

Confessa che tu hai calcolato sullo scandalo della fuga per forzare la mano allo zio di Bianca.

- E se fosse vero! Bianca mi vuol bene ed io non ho fatto violenza alla sua volontà. Essa mi ha scelto per marito liberamente.

- Sì, sì, lo so. Tu lo ripeti troppo spesso perché io non sappia quanto debba credere alle tue parole. Ma non hai pensato alla collera del signor di Cazalis che ricadrà terribile su te e sulla tua famiglia. Conosco l'uomo; stasera avrà fatto mostra del suo orgoglio oltraggiato per tutta Marsiglia. La miglior cosa sarebbe di riaccompagnare la fanciulla a San Giuseppe.

- No... non voglio e non posso farlo... Bianca non oserebbe più ritornare a casa sua. Era in campagna da una settimana; la vedevo due volte al giorno in un boschetto di pini. Suo zio non sapeva nulla e il colpo deve essere stato forte per lui... In questo momento non ci possiamo presentare.

- Bene! senti... Dammi la lettera per l'abate Chastanier. Parlerò con questo prete... Se occorre, andrò con lui dal signor Cazalis.

Dobbiamo impedire lo scandalo. Ho una missione da compiere...quella di redimere la tua colpa. Giurami che tu non lascerai questa casa ed aspetterai qui i miei ordini.

- Ti prometto di aspettare, se non sarò minacciato da alcun pericolo.

Mario aveva preso la mano di Filippo e lo guardava lealmente in faccia.

- Ama quella fanciulla, - gli disse con voce commossa indicandogli Bianca, - tu non riparerai mai l'ingiuria fattale.

Stava per allontanarsi quando si avvicinò la signorina di Cazalis.

Aveva le mani giunte; supplicante, soffocava le lacrime.

- Signore, - balbettò, - se vedete mio zio, ditegli che gli voglio bene... Non so spiegarmi quanto è accaduto... vorrei rimanere moglie di Filippo e tornare con lui a casa nostra.

Mario s'inchinò leggermente.

- Sperate, - le disse.

E se n'andò commosso e turbato, sapendo di aver mentito perché era follia lo sperare.

 

Capitolo 3 - VI SONO DEI SERVI ANCHE NELLA CHIESA

Mario, arrivando a Marsiglia, si diresse verso la chiesa di San Vittore, alla quale era addetto l'abate Chastanier. San Vittore è una delle più antiche chiese di Marsiglia: i suoi muri neri, alti, merlati, la fanno parere una fortezza. Il rozzo popolo del porto ha per essa una particolare venerazione.

Il giovane trovò l'abate Chastanier in sagrestia. Quel prete era un vecchio grande, col viso lungo, emaciato, pallido come di cera; gli occhi suoi avevano l'immobilità del dolore e della miseria.

Tornava da un funerale e si toglieva lentamente la cotta.

La sua storia era breve e dolorosa. Figlio di contadini, buono ed ingenuo come un bambino, era stato ordinato prete per contentare il pio desiderio della madre. Facendosi prete aveva voluto compiere un atto di umiltà, di sacrifizio assoluto. Credeva, nella sua grande semplicità, che un ministro di Dio dovesse rinchiudersi nell'infinito dell'amore divino, rinunciare alle ambizioni ed agli intrighi di questo mondo, vivere in un santuario, perdonando i peccati con una mano e facendo l'elemosina con l'altra.

Povero abate! come dovette capire che i semplici di spirito sono buoni soltanto a soffrire e a rimanere nell'ombra! Imparò presto che l'ambizione è una virtù sacerdotale, e che i giovani preti amano spesso Dio per i favori mondani elargiti dalla Chiesa. Vide tutti i suoi compagni di seminario arrabattarsi con i denti e le unghie.

Fu testimonio delle lotte intime, degli intrighi segreti che fanno di una diocesi un piccolo regno turbolento. E siccome restava in ginocchio umilmente, e non procurava di dar nel genio alle signore; siccome non chiedeva nulla e la sua pietà pareva stupida, gli buttarono davanti una parrocchia miserabile come si butta un osso ad un cane.

Restò per quarant'anni in un meschino villaggio fra Aubagne e Cassis. La sua chiesa era simile ad un granaio sbiancata con la calce, completamente disadorna: d'inverno quando il vento rompeva qualche vetro delle finestre, il buon Dio stava al freddo per parecchie settimane, perché il povero curato non sempre possedeva i pochi soldi necessari per far rimettere il vetro. Ma egli non si lamentava mai e viveva in pace nella miseria e la solitudine. Anzi provava delle gioie intense nel soffrire e nel sentirsi fratello dei miserabili della sua parrocchia.

Aveva sessant'anni quando una delle sue sorelle, operaia a Marsiglia, infermò. Gli scrisse e lo supplicò di andare da lei. Il vecchio prete si sacrificò fino al punto di chiedere al vescovo un posticino in qualche chiesa della città. Glielo fecero aspettare per parecchi mesi e finalmente lo chiamarono a San Vittore. Doveva farvi, per così dire, tutte le fatiche grosse; tutte le faccende di poca comparsa e poco profitto. Pregava sui feretri dei poveri e li accompagnava al camposanto, e quando ve n'era bisogno, faceva anche da sagrestano.

Allora cominciò veramente a soffrire. Fin quando era rimasto nel suo deserto, gli era concesso di esser semplice, povero e vecchio a suo agio. Ora sentiva che gli attribuivano a colpa la povertà e la vecchiaia, la semplicità e la dolcezza. Sentì strapparsi il cuore quando si persuase che nella chiesa c'erano dei servitori.

Vedeva d'esser trattato con aria di canzonatura e con compassione.

Chinava di più la testa, si faceva più umile, piangendo nel sentire scossa la propria fede dalle parole e dagli atti dei preti mondani dai quali era circondato.

Fortunatamente aveva per sé le buone ore della sera. Curava la sorella e si consolava dedicandosi a lei. Procurava mille piccole soddisfazioni alla povera inferma. Poi aveva provato un'altra allegrezza: il signor di Cazalis, avendo poca fiducia nei preti giovani, lo aveva scelto per confessore di sua nipote. Il vecchio prete non confessava quasi mai. La proposta del deputato lo commosse fino alle lacrime, ed egli interrogò ed amò Bianca come sua figlia.

Mario gli porse la lettera della fanciulla e studiò sul suo viso le emozioni che in lui quella lettera suscitava. Vide espresso nella fisonomia del prete un dolore intenso. Però il prete non parve esprimere lo stupore prodotto da una inattesa notizia e Mario pensò che Bianca, confessandosi, gli avesse parlato delle relazioni esistenti fra lei e Filippo.

- Avete fatto bene a contare su di me - disse l'abate Chastanier a Mario. - Ma io sono molto debole e punto abile. Avrei dovuto mostrare maggiore energia.

Le mani e la testa del povero prete avevano il triste tremolio della vecchiaia.

- Sono a vostra disposizione, - continuò; - che cosa posso fare per aiutare la sventurata fanciulla?

- Signore, io sono il fratello del pazzo giovanotto fuggito con la signorina di Cazalis, ed ho giurato di riparare la colpa ed impedire uno scandalo. Unitevi a me... L'onore della ragazza è perduto se lo zio si rivolge alla giustizia. Andate a trovarlo, tentate di calmarne la collera e ditegli che sua nipote gli sarà resa.

- Perché non l'avete condotta con voi? Conosco il carattere violento del signor di Cazalis. Vorrà esser sicuro di quanto prometto.

- E' appunto tale violenza che ha spaventato mio fratello... Ma ora non è tempo di ragionare. Siamo sotto la pressione dei fatti compiuti. Sono indignato quanto voi credetelo, e capisco la cattiva azione di mio fratello. Ma per carità, facciamo presto.

- Va bene, - disse semplicemente l'abate, - verrò dove volete voi.

S'vviarono per il bastione della Corderia e giunsero al corso Bonaparte, dove era la casa del deputato. Il signor di Cazalis, il giorno dopo il ratto, era tornato a Marsiglia, agitato da una terribile collera e disperato.

L'abate Chastanier fece fermare Mario sulla porta.

- Non salite, - gli disse. - La vostra visita potrebbe essere presa come un insulto. Lasciatemi fare ed aspettatemi qui.

Per una buona ora Mario passeggiò sul marciapiede con la febbre addosso. Avrebbe voluto salire, spiegare da sé come stavano le cose, domandare perdono in nome di Filippo. Mentre che in quella casa si preparava la disgrazia della sua famiglia, doveva restarsene lì, ozioso, provare tutte le angosce dell'aspettativa.

Finalmente l'abate scese. Aveva pianto; i suoi occhi erano umidi, gli tremavano le labbra.

- Il signor di Cazalis non vuole ascoltar ragioni, - disse con voce tremante. - L'ho trovato accecato dalla collera. E stato già dal procuratore del Re.

E il povero prete non diceva con quali duri rimproveri era stato accolto dal signor di Cazalis che, sfogando l'ira contro di lui, l'accusava nei suoi trasporti di aver dato cattivi consigli alla nipote. Aveva chinato le spalle; s'era messo quasi in ginocchio, senza difender se stesso, chiedendo pietà per gli altri.

- Ditemi tutto! - esclamò Mario disperato.

- Pare che il contadino presso il quale vostro fratello lasciò il cavallo abbia aiutato il signor di Cazalis nelle sue indagini.

Fino da stamattina è stata presentata querela e sono state fatte delle perquisizioni a casa vostra, in via Santa, e nella casa di campagna di vostra madre, nel quartiere di San Giusto.

- Mio Dio, mio Dio! - esclamò Mario.

- Il signor di Cazalis giura di annientare la vostra famiglia.

Invano ho tentato di richiamarlo a più umani propositi. Parla di fare arrestare vostra madre.

- Mia madre! e perché?

- Pretende ch'essa sia complice, ed abbia aiutato vostro fratello a rapire la signorina Bianca.

- Come si fa a provare che tutto ciò è falso? Ah, disgraziato Filippo! Nostra madre ne morirà!

Mario si mise a piangere tenendo le mani giunte dinanzi agli occhi. L'abate Chastanier contemplava quella disperazione teneramente impietosito. Indovinava la bontà e la rettitudine del povero giovanotto che piangeva a quel modo in mezzo alla strada.

- Andiamo... via, - gli disse, - fatevi coraggio, figliolo mio.

- Avete ragione, - rispose Mario, - devo avere coraggio.

Stamattina sono stato vile, avrei dovuto strappare la giovanetta dalle braccia di Filippo e ricondurla a suo zio. Una voce mi diceva di compiere tale atto di giustizia ed ora sono punito per non averle dato ascolto... Mi hanno parlato d'amore, di passione, di matrimonio, e mi sono lasciato intenerire.

Stettero un momento silenziosi.

- Sentite, - disse Mario ad un tratto, - venite con me. Noi due avremo la forza di separarli.

- Volentieri, - rispose l'abate.

E senza neppur pensare a prendere una carrozza, s'avviarono per la via del Breteuil, la riva del Canale, la riva Napoleone e la Cannebière. Camminavano a lunghi passi, senza parlare.

Arrivati al corso San Luigi li fece voltare indietro il suono di una voce giovanile. Era Pina, la fioraia, che chiamava Mario.

Giuseppina Cougourdan, chiamata familiarmente col diminutivo di Pina, era una di quelle buone figliole di Marsiglia, piccole e grassotte, che hanno conservato la delicata purezza del tipo greco. La sua testa rotonda era appoggiata a un paio di spalle inclinate; il suo viso pallido, fra le trecce dei suoi capelli neri, aveva un'espressione di sdegnosa canzonatura; nei suoi grandi occhi scuri si leggeva un'energia appassionata, raddolcita di quando in quando da un sorriso. Poteva avere dai ventidue ai ventiquattro anni.

A quindici anni era rimasta orfana, avendo a carico un fratello di dieci anni. Continuando coraggiosamente il mestiere di sua madre, tre giorni dopo che gliel'avevano sotterrata, si era installata in un'edicola del corso San Luigi facendo e vendendo dei mazzi di fiori e sospirando.

La piccola fioraia diventò presto la simpatia di tutta Marsiglia.

Ebbe la popolarità della gioventù e della grazia. Dicevano che i suoi fiori sapevano più odore di quelli delle altre fioraie. I vagheggini le si presentarono a file: essa vendette loro le sue rose, le sue viole, i suoi garofani e nulla più. Così poté tirar su suo fratello e farlo entrare a diciotto anni al servizio di un capo facchino.

I due giovani abitavano in piazza dell'Ova, nel centro del quartiere del popolo. Il fratello Cadet era un pezzo di giovanotto che lavorava al porto: Pina, imbellita e diventata donna, aveva l'andatura vivace e il garbo grazioso delle marsigliesi.

Conosceva i Cayol per aver loro venduto dei fiori e parlava con essi con la tenera familiarità che ispirano l'aria tepida e il dolce idioma della Provenza. Per dire tutto, Filippo, negli ultimi tempi, le aveva comprato tante rose che essa aveva finito per provare un leggero brivido quando lo vedeva. Il giovanotto, innamorato per istinto, rideva con lei, la guardava in modo da farla arrossire, le indirizzava pur anco un principio di dichiarazione, tanto per non perdere l'abitudine di fare all'amore. E la povera ragazza, dopo avere fino allora trattato male gli innamorati, aveva finito col lasciarsi prendere a quella pania. La notte sognava Filippo e domandava a se stessa con angoscia dove andavano a finire tutti i fiori che gli vendeva.

Mario, avvicinandosi a lei, la trovò rossa e turbata. Si nascondeva a metà dietro i suoi mazzi di fiori. Era adorabile e fresca come una rosa, in mezzo alle gale della sua cuffietta di trina.

- Signor Mario, - diss'ella con voce esitante, - è vero quanto sento dire qui intorno da stamani in poi? Vostro fratello è fuggito con una signorina?

- Chi lo ha detto? - rispose Mario vivacemente.

- Ma... tutti... è una voce ch'è in giro.

E siccome il giovanotto pareva turbato e non rispondeva:

- M'avevano detto che il signor Filippo era uno scapato, aggiunse Pina con una tal quale amarezza. - Diceva sempre paroline troppo melate per esser vere.

Aveva voglia di piangere e si sforzava a trattenere le lacrime.

Poi, con dolorosa rassegnazione e con intonazione più dolce:

- Vedo bene che siete afflitto, - ella disse. - Se avete bisogno di me venite a cercarmi.

Mario la guardò in faccia e gli parve d'indovinare le angoscie di quel cuore.

- Siete una brava figliola! - esclamò; - vi ringrazio e forse accetterò la vostra offerta.

Le strinse la mano con forza, come a un camerata, e corse a raggiungere l'abate Chastanier che l'aspettava sul marciapiede.

- Non abbiamo tempo da perdere, - gli disse. - La notizia dell'avventura corre già per Marsiglia... Pigliamo una carrozza.

Era già notte quando arrivarono a San Barnaba. Trovarono la moglie del giardiniere Ayasse, sola, che faceva la calza in una sala bassa. Quella donna disse loro tranquillamente che il signore e la signorina avevano avuto paura ed erano partiti a piedi dalla parte di Aix. Aggiunse che avevano condotto seco suo figlio per servir loro di guida nelle colline.

Così era svanita l'ultima speranza. Mario, avvilito, torno a Marsiglia senza ascoltare le parole di consolazione dell'abate Chastanier. Pensava alle fatali conseguenze della pazzia di Filippo: si ribellava contro le disgrazie che stavano per colpire la sua famiglia.

- Figlio mio, - gli disse il prete lasciandolo, - io non sono che un pover'uomo. Disponete di me. Intanto vado a pregare Dio.

 

Capitolo 4 - COME IL SIGNOR DI CAZALIS VENDICO' IL DISONORE Dl SUA NIPOTE

Gli amanti erano fuggiti di mercoledì. Il venerdì seguente tutta Marsiglia lo sapeva: le comari chiacchierando sulla porta di casa, infrangiavano il racconto dell'avventura con commenti drammatici:

l'aristocrazia era indignata, la borghesia ne faceva le matte risate. Il signor di Cazalis, nell'impeto della collera, non aveva trascurato nulla per far più rumore, sicché la fuga di sua nipote parve uno scandalo orribile.

La gente che la sapeva lunga capiva facilmente i motivi di tanta collera. Il signor di Cazalis, deputato dell'opposizione, era stato eletto a Marsiglia da una maggioranza composta di alcuni liberali, di preti e di nobili. Affezionato al legittimismo, portando uno dei più antichi nomi della Provenza, s'inchinava umilmente all'onnipotenza della Chiesa e aveva provato profonda ripugnanza nel lusingare i liberali ed accettare i loro voti. Essi erano per lui dei servi, dei miserabili che si sarebbero dovuti fustigare sulla piazza pubblica. Il suo orgoglio indomabile soffriva al solo pensiero di discendere fino a loro.

Pur tuttavia gli era stato necessario chinare la testa. I liberali fecero cascar dall'alto il loro concorso all'elezione; ci fu un momento nel quale, fingendosi di sdegnare il loro aiuto, essi parlarono di buttare all'aria gli accordi ed eleggere uno dei loro. Il signor di Cazalis, costretto dalle circostanze, rinchiuse tutto l'odio suo in fondo al cuore promettendosi di vendicarsi un giorno o l'altro.

Accaddero allora dei pasticci senza nome: il clero si mise all'opera; si carpirono voti a destra e a sinistra, e in grazia di mille salamelecchi e di mille promesse, fu eletto il signor di Cazalis.

Ora gli cadeva nelle mani Filippo Cayol, uno dei capi del partito liberale; finalmente poteva sfogare la sua rabbia contro uno di quei miserabili che avevano messa a prezzo la sua elezione. Questo la doveva pagare per tutti: la sua famiglia doveva essere rovinata e ridotta alla disperazione: lui cacciato in prigione e precipitato dalle alte regioni del suo sogno d'amore sulla paglia di un carcere.

Come! un borghesuccio aveva osato di farsi amare dalla nipote di un Cazalis! L'aveva condotta seco e ora correvano tutt'e due per le strade come due ragazzi che hanno fatto forca alla scuola.

Bisognava mettere in evidenza un simile scandalo. Un uomo da nulla avrebbe potuto forse preferire di lasciare la faccenda in tacere, e nascondere quanto più era possibile la deplorevole avventura; ma un Cazalis, un deputato, un milionario, aveva tanta autorità e tanto orgoglio per far sapere a tutti senza arrossire la vergogna dei suoi.

Che cosa gli importava dell'onore d'una fanciulla! Tutti potevano sapere che Bianca di Cazalis era stata l'amante di Filippo Cayol, ma nessuno doveva poter dire ch'era sua moglie, e s'era incanagliata sposando un povero diavolo senza titolo. L'orgoglio esigeva che la fanciulla restasse disonorata e il suo disonore fosse bandito per le vie di Marsiglia.

Il signor di Cazalis fece affiggere alle cantonate degli avvisi nei quali prometteva diecimila franchi di ricompensa a chi gli riportasse la nipote e il seduttore. Così si fa quando si perde un buon cane da caccia.

Nel ceto aristocratico lo scandalo si diffuse con maggior violenza. Il signor di Cazalis, infuriato, andava dapertutto.

Metteva a profitto l'autorità dei suoi amici, i preti ed i nobili.

Come tutore di Bianca, orfana, della quale amministrava il patrimonio, sollecitava le indagini della giustizia e preparava un processo criminale. Si sarebbe detto che volesse dare la più grande pubblicità allo spettacolo gratuito che stava per incominciare.

Uno dei primi provvedimenti presi da lui fu l'arresto della madre di Filippo Cayol. Quando le si presentò il procuratore del re, la povera signora rispose a tutte le domande che non sapeva dove si trovasse suo figlio. Il turbamento, le angoscie, i suoi timori di madre, che la fecero parlare sconnessamente, furono ritenuti prove della sua complicità. L'arrestarono come ostaggio, sperando forse che il figliolo correrebbe per liberarla.

Alla notizia dell'arresto della madre, Mario diventò come pazzo.

Sapeva che essa era di malferma salute; se l'immaginava con terrore nel fondo di un carcere nudo e gelato, dove sarebbe morta e torturata da tutte le angoscie del dolore e della disperazione.

Per un momento Mario stesso fu molestato. Le sue risposte precise e la cauzione che il suo principale, l'armatore Martelly, offrì per lui, lo salvarono dalla prigione. Voleva esser libero per adoperarsi in pro della sua famiglia.

A poco a poco i fatti si delinearono chiaramente nel suo retto spirito. Era stato atterrito sul principio dalla colpabilità di Filippo e non aveva saputo scorgere se non l'errore irreparabile del fratello. Ma si ribellò al rigore del signor di Cazalis e contro lo scandalo da lui provocato. Aveva veduto i fuggiaschi:

sapeva che Bianca seguiva volontariamente Filippo, e s'indignava sentendo accusato il fratello di ratto. Le parolone gli ferivano continuamente l'orecchio: chiamavano suo fratello scellerato ed infame; non era risparmiata neppur sua madre. Per amore della verità fu costretto a difendere gli amanti e a prendere le parti dei colpevoli contro la giustizia. I lamenti rumorosi del signor di Cazalis lo offendevano. Diceva che il vero dolore è muto, e che non si mette in piazza una faccenda nella quale e compromesso l'onore di una ragazza. Lo diceva non per desiderio di salvare il fratello dalla punizione, ma perché la sua delicatezza era ferita nel vedere tanta pubblicità, data alla vergogna di una fanciulla.

Sapeva come dovesse interpretare la collera del signor di Cazalis, che in Filippo voleva colpire più il repubblicano che il seduttore.

Perciò di tanto in tanto Mario si sentiva soffocato dall'ira.

Insultavano la sua famiglia, imprigionavano sua madre, davano la caccia a suo fratello come ad una bestia feroce, trascinavano nel fango le persone a lui più care accusandole con passione e con malafede. Allora si ribellò. L'amante ambizioso che fuggiva con una fanciulla ricca non era il solo colpevole: ma lo era altrettanto chi metteva a soqquadro Marsiglia e stava per far uso della propria onnipotenza a soddisfazione del proprio orgoglio.

Giacché la giustizia si incaricava di punire il primo colpevole, Mario giurò di punire prima o poi anche il secondo, e intanto di opporsi ai suoi progetti cercando di controbilanciare le sue influenze d'uomo ricco e titolato.

Spiegò quindi una febbrile energia e si dedicò tutto a salvare il fratello e la madre. Il male era che non poteva sapere dove fosse Filippo. Due giorni dopo la fuga aveva ricevuto una lettera nella quale il fuggitivo lo supplicava di mandargli mille franchi per le spese di viaggio. La lettera era datata da Lambesc.

Filippo vi aveva trovato ospitalità per qualche giorno in casa del signor di Girousse, vecchio amico della sua famiglia. Il signor di Girousse, figlio di un membro del parlamento d'Aix, era nato in tempo di piena rivoluzione. Aveva respirato dal primo istante di vita l'aria infocata del 1789 e aveva conservato sempre un po' di febbre repubblicana nel sangue. Non si trovava punto a modo suo nel suo palazzo sul corso d'Aix: gli pareva che la nobiltà di quella città fosse smisuratamente orgogliosa, deplorabilmente fannullona, e giudicandola severamente preferiva viverne lontano.

Il suo amore per la logica gli aveva fatto accettare il progresso fatale dei tempi, e stendeva la mano al popolo, adattandosi volentieri alle nuove tendenze della società moderna. Aveva anche pensato di fondare un'officina rinunciando al titolo di conte per quello d'industriale, parendogli che non esistesse altra nobiltà oltre quella dell'ingegno e del lavoro. Volendo vivere solo, lontano dai suoi pari, abitava quasi tutto l'anno in una tenuta di sua proprietà presso la piccola città di Lambesc, dove aveva accolto i fuggenti.

Mario fu spaventato dalla richiesta di Filippo. I suoi risparmi non arrivavano a seicento franchi. Si mise in giro e cercò due giorni per trovare il resto della somma.

Una mattina, mentre si disperava, vide entrare Pina nella sua stanza. Aveva confidato la sua pena alla ragazza che egli incontrava per tutto dopo la fuga di Filippo. Essa gli domandava continuamente notizie del fratello e le premeva particolarmente di sapere se la fanciulla era sempre con lui.

Pina mise sulla tavola cinquecento franchi.

- Ecco, - ella disse facendosi rossa. - Me li renderete in seguito. Li avevo messi da parte per pagare il cambio a mio fratello.

Mario non voleva accettarli.

- Mi fate perdere il tempo, - gli disse la ragazza adorabilmente burbera. - Torno a vendere i fiori. Se volete verrò a domandarvi notizie tutte le mattine.

E fuggì via.

Mario mandò i mille franchi. Poi non seppe più nulla, rimase senza sapere nuova per quindici giorni. Soltanto sapeva che cercavano Filippo accanitamente: non voleva credere alle storielle grottesche o terribili che andavano in giro. Provava abbastanza terrore, senza badare alle chiacchiere della città. Non aveva mai sofferto tanto. L'ansietà teneva continuamente teso l'animo suo; il più piccolo rumore lo spaventava; ascoltava tutto come se gli dovessero sempre dare una brutta notizia. Seppe che Filippo, andato a Tolone, aveva corso rischio di essere arrestato. Dicevano che i fuggitivi erano ritornati ad Aix: là si perdevano le loro tracce. Avevano tentato di passare i confini? erano rimasti nascosti fra le colline? Non si sapeva.

Mario era inquieto anche perché costretto a trascurare il suo lavoro nello studio dell'armatore Martelly. Se non si fosse sentito inchiodato dal dovere al suo posto, sarebbe corso in aiuto di Filippo adoperandosi personalmente per la sua salvezza. Ma non ardiva lasciare un'azienda nella quale c'era bisogno di lui. Il signor Martelly gli dimostrava un affetto paterno. Vedovo da qualche tempo, vivendo con una sorella di ventitré anni, considerava Mario come suo figlio.

Il giorno dopo lo scandalo l'armatore aveva chiamato Mario nel suo gabinetto e gli aveva detto:

- Amico mio, questa è una brutta faccenda. Vostro fratello è rovinato. Non saremo mai da tanto di poterlo salvare dalle terribili conseguenze del suo sproposito!

Il signor Martelly apparteneva al partito liberale e vi si faceva notare per una asprezza di opinioni tutta meridionale. Aveva avuto dei battibecchi col signor di Cazalis e conosceva l'umore della bestia. La sua probità, le sue grandi ricchezze lo mettevano al disopra di ogni attacco; ma sentiva la fierezza del vero liberalismo, e riponeva il suo orgoglio nel non far mai uso della propria potenza. Consigliò a Mario di starsene tranquillo aspettando gli eventi: lo avrebbe aiutato in tutti i modi a lotta incominciata.

Mario, arso dalla febbre, stava per domandargli un congedo quando Pina corse da lui una mattina piangente:

- Il signor Filippo è stato arrestato, - esclamò singhiozzando, l'hanno trovato con la signorina in una casupola del quartiere dei Trois-bons-Dieux, a una lega da Aix.

E quando Mario, turbato, correva giù per le scale per farsi confermare la notizia, che era vera, Pina, cogli occhi ancora pieni di lacrime, sorrise e disse a voce bassa:

- Almeno non è più con la signorina.

 

Capitolo 5 - NEL QUALE BIANCA FA SEI LEGHE A PIEDI E VEDE PASSARE UNA PROCESSIONE

Bianca e Filippo lasciarono la casa del giardiniere Ayasse verso le sette e mezzo di sera. Durante la giornata avevano visto passar dei gendarmi: si sentivano dire che la sera li avrebbero arrestati, e la paura li cacciò dal loro primo rifugio. Filippo si mise addosso una casacca da contadino. Bianca prese in prestito dalla moglie del giardiniere un vestito da ragazza popolana, d'indiana rosso a fiorellini, e un grembiule nero; si coprì le spalle e il seno con un fazzolettone giallo a quadretti, e si mise in capo un cappello di paglia grossolana. Il figliolo d'Ayasse, Vittorio, ragazzo di quindici anni, li accompagnò attraverso i campi fino alla strada di Aix.

La serata era tepida. Dalla terra s'alzavano delle vampate calde che smorzavano il fresco dell'aria che spirava di tanto in tanto dal Mediterraneo. Dalla parte del tramonto l'orizzonte pareva rischiarato ancora dal chiarore d'un incendio; il rimanente del cielo, di un azzurro violaceo, impallidiva a poco a poco, e le stelle brillavano ad una ad una, simili ai lumi tremolanti di una città lontana.

I fuggitivi camminavano lesti, con la testa bassa, senza scambiar parola. Avevano fretta di trovarsi nel deserto delle colline.

Finché traversarono il contado di Marsiglia incontrarono poca gente che guardavano con diffidenza. Poi si allargò dinanzi a loro la vasta campagna e videro soltanto dei pastori silenziosi ed immobili, in mezzo ai loro armenti, sui margini dei sentieri.

Continuarono a camminare nell'ombra, nel silenzio malinconico della notte. Sentivano intorno dei sospiri indefiniti: i sassi ruzzolavano sotto i loro piedi con un rumore che li inquietava. La campagna addormentata si stendeva tutta nera nella monotonia delle tenebre. Bianca, spaventata, si stringeva a Filippo, affrettando i suoi piccoli passi per non rimanere indietro, e sospirava rammentandosi le sue notti tranquille di fanciulla.

Poi bisognò oltrepassare le colline, le gole profonde. Intorno a Marsiglia le strade sono facili e quasi piane: ma internandosi dentro terra s'incontrano delle catene di roccie che dividono il centro della Provenza in tante ristrette e sterili valli. Lande incolte, collinette sassose seminate di tisici cespugli di timo e di spigo, si presentavano nella loro cupa desolazione agli occhi dei fuggitivi. La strada saliva e scendeva sui fianchi delle colline; qualche frammento di roccia la ingombrava: la campagna pareva, sotto la serenità azzurrognola del cielo, un mare di ciottoli, un oceano di pietra colpito da eterna immobilità in pieno uragano.

Vittorio camminava avanti fischiando un'arietta provenzale, e saltando sui sassi coll'agilità di un camoscio: era cresciuto in quel deserto e ne conosceva tutti i cantucci reconditi. Bianca e Filippo lo seguivano penosamente: il giovanotto portava quasi di peso la ragazza i cui piedi erano maculati dai sassi aguzzi. Essa non si lamentava e quando il suo innamorato la guardava nell'ombra trasparente, gli sorrideva con dolce tristezza.

Avevano passato Septème quando Bianca spossata si lasciò andare in terra. La luna che spuntava lentamente illuminò il suo volto pallido, bagnato di lacrime. Filippo si chinò su di lei.

- Tu piangi, - le disse, - tu soffri, povera fanciulla amata...Ah! quanto sono stato vile tenendoti con me, non è vero?

- Non dite così, Filippo. Io piango perché sono una ragazza disgraziata. Vedete... posso appena camminare. Sarebbe stato meglio inginocchiarsi davanti a mio zio e pregarlo a mani giunte.

Essa fece uno sforzo, si rialzò, e continuarono il viaggio per quella campagna ardente. Non era più la scappata allegra d'una coppia innamorata: era una fuga tetra, piena di ansia, la fuga di due colpevoli silenziosi e rabbrividiti.

Traversarono il territorio di Gardaune, lottando per cinque ore contro gli ostacoli della strada. Finalmente si decisero a scendere sulla strada maestra d'Aix e camminarono più liberamente.

La polvere li accecava.

Quando furono in cima all'erta dell'Arco congedarono Vittorio.

Bianca aveva fatto sei leghe a piedi, fra i sassi, in meno di sei ore: sedutasi sopra una panchina di pietra, alla porta della città, dichiarò di non potere andare più avanti. Filippo, che temeva di essere arrestato restando a Aix, andò in cerca di una carrozza: trovò una donna sopra un carretto che consentì di prenderlo su insieme a Bianca, e accompagnarli a Lambesc, dove essa andava.

Bianca, nonostante le scosse, si addormentò profondamente e non si svegliò fino alla porta di Lambesc. Il sonno l'aveva calmata; si sentiva più tranquilla e più forte. I due amanti scesero dal carretto. Era l'alba, un'alba fresca e raggiante che li riempì di speranza. Tutti i fantasmi della notte erano svaniti: i fuggiaschi avevano dimenticate le rocce di Septème e camminavano l'uno accanto all'altra, sull'erba umida, inebriati di gioventù e d'amore.

Non avendo trovato il signor di Girousse, a cui Filippo aveva risoluto di chiedere ospitalità, andarono all'albergo. Finalmente godettero una giornata di pace, in una camera appartata, tutti assorti nella loro passione. La sera l'albergatore, credendoli fratello e sorella, voleva rifare due letti. Bianca sorrise. Aveva il coraggio della sua tenerezza.

- Rifate un letto solo, - ella disse, - questo signore è mio marito.

Il giorno seguente Filippo andò a far visita al signor di Girousse ch'era tornato. Gli raccontò tutto e gli domandò un consiglio.

- Perbacco, - esclamò il vecchio nobile, - il vostro caso è serio.

Voi sapete che siete un plebeo, amico mio: cent'anni fa il signor di Cazalis vi avrebbe fatto impiccare per aver toccato sua nipote:

ora vi potrà far mettere in prigione. State sicuro che lo farà.

- Ma che cosa debbo fare intanto?

- Che cosa dovete fare? Rendere la fanciulla allo zio e passare il confine il più presto possibile.

- Sapete bene che non lo farò mai.

- Allora aspettate tranquillamente d'essere arrestato; non posso consigliarvi altro.

Il signor di Girousse, con la sua amichevole severità, era il più buon cuore di questo mondo. Quando Filippo, confuso per la freddezza dell'accoglienza ricevuta, stava per andarsene, lo richiamò e prendendogli la mano gli disse:

- Sarebbe mio dovere di farvi arrestare. Appartengo alla nobiltà da voi oltraggiata... Sentite... dall'altra parte di Lambesc devo avere una casetta disabitata della quale vi darò la chiave.

Andatevi a nascondere là, ma non mi dite che vi andate. Se no vi mando i gendarmi.

Così i due innamorati restarono per otto giorni a Lambesc. Vissero ritirati, in una pace turbata a momenti da subitanei spaventi.

Filippo aveva ricevuti i mille franchi di Mario: Bianca diventava una donnina di casa e i due amanti mangiavano con gran delizia nel medesimo piatto.

Tale nuova esistenza pareva un sogno alla fanciulla. A momenti non sapeva più perché ella fosse l'amante di Filippo: qualche volta si ribellava e avrebbe voluto tornare a casa dello zio; ma non osava dirlo.

Era l'ottavario del Corpus Domini. Un giorno, nel pomeriggio, Bianca affacciandosi alla finestra vide passare una processione.

S'inginocchiò a mani giunte. Le parve di vedersi, vestita di bianco, fra le ragazze che cantavano, e si sentì strappare il cuore.

Quella stessa sera Filippo ricevette un biglietto anonimo.

L'avvertivano che il giorno dopo sarebbe arrestato. Credette di riconoscere il carattere del signor di Girousse. Ricominciò più faticosa e più dolorosa la fuga.

 

Capitolo 6 - LA CACCIA AGLI INNAMORATI

Fu una corsa a dirotto senza tregua né riposo, uno spavento continuo. Spinti a destra e a sinistra dal loro stesso terrore, credendo continuamente di sentirsi dietro dei cavalli al galoppo, passando la notte per le strade e il giorno a tremare nelle camere sporche degli alberghi, i fuggiaschi traversarono più volte la Provenza, andando avanti e tornando indietro, non sapendo dove trovare un rifugio sconosciuto, in fondo a qualche deserto.

Lasciando Lambesc una terribile notte di scirocco, andarono verso Avignone. Avevano preso a nolo una carrettella: il vento accecava il cavallo. Bianca tremava, mal coperta dal suo vestito di indiana. Per colmo di disgrazia credettero di vedere da lontano, a una porta della città, i gendarmi che squadravano in viso tutti i passanti. Spaventati, tornarono indietro e ritornarono a Lambesc, traversandolo soltanto.

Giunti a Aix non ardirono di rimanervi e decisero di arrivare al confine a qualunque costo. Si sarebbero procurati un passaporto per mettersi in salvo. Filippo, che conosceva un farmacista a Tolone, pensò di passare per quella città. Sperava che l'amico potesse agevolargli la fuga.

Il farmacista, un giovanotto grasso e prosperoso che si chiamava Jourdan, li ricevette benissimo. Li nascose in camera sua e disse che andava subito a procurar loro un passaporto.

Era appena uscito quando due gendarmi si presentarono.

Bianca stette per svenire. Pallida, seduta in un canto, tratteneva a stento i singhiozzi. Filippo domandò ai gendarmi, con voce soffocata, che cosa desideravano.

- Siete voi il signor Jourdan? - domandò uno di essi con un'asprezza di cattivo augurio.

- No... il signor Jourdan è uscito, ma tornerà presto.

- Va bene, - disse secco il gendarme.

E si mise a sedere. I due poveri innamorati non osavano guardarsi in viso: si sentivano mancare le forze alla presenza di quegli uomini che, senza dubbio, erano andati per cercarli. Il loro supplizio durò una buona mezz'ora. Finalmente Jourdan ritornò.

Impallidì vedendo i gendarmi e rispose alle loro domande straordinariamente confuso.

- Abbiate la gentilezza di venir con noi, - disse uno dei gendarmi.

- Perché? - egli domandò, - che cosa ho fatto?

- Siete accusato di aver rubato al gioco, iersera in un circolo.

Darete le vostre spiegazioni al giudice d'istruzione.

Jourdan rabbrividì. Rimase come fulminato e seguì, con la docilità di un fanciullo, i gendarmi che se n'andarono senza neppure accorgersi dello spavento di Bianca e di Filippo.

La storia del Jourdan fece allora gran chiasso in Tolone. Ma nessuno seppe nulla del dramma violento ch'era accaduto in casa sua, il giorno del suo arresto.

Quel dramma scoraggiò Filippo. Capì d'essere troppo debole per sfuggire alla polizia che lo cercava. Non sperando più d'avere il passaporto bisognava rinunciare a passare il confine. D'altronde si accorgeva che Bianca cominciava a stancarsi. Decise perciò d'avvicinarsi a Marsiglia ed aspettare nei dintorni della città, che la collera del signor di Cazalis si fosse calmata. Come tutti quelli che non hanno più speranza, si faceva di tanto in tanto delle lusinghe di perdono e di felicità.

Filippo aveva ad Aix un parente, di nome Isnard, che teneva bottega di merciaio. Non sapendo più a quale porta bussare, i fuggiaschi tornarono a Aix per chiedere a Isnard la chiave d'uno dei suoi capannotti. Erano perseguitati dalla fatalità: non trovarono il merciaio in casa e furono costretti ad andare a nascondersi in una stanzetta di una vecchia casa del corso Sestio, da una cugina del fattore del signor di Girousse. Quella donna non voleva riceverli, temendo di dover pagare il fio della complice ospitalità: cedette alle promesse di Filippo che la assicurò di fare esentare suo figlio dal servizio militare. Il giovanotto era senza dubbio in un momento di speranza; gli pareva già di esser nipote d'un deputato e faceva generosamente uso dell'onnipotenza dello zio.

La sera, Isnard andò a trovare gli amanti e dette loro la chiave d'un capanno che possedeva nella pianura di Puyricard. Ne possedeva altri due; uno al Tholonet, l'altro nel quartiere dei Trois-bons-Dieux. Le chiavi di questi ultimi erano nascoste sotto grosse pietre delle quali egli dette indicazioni bastanti.

Consigliò i fuggiaschi a non dormire per due notti sotto lo stesso tetto e promise loro di fare quanto poteva per fare perdere le tracce della fuga alla polizia.

Gli amanti partirono per la strada che passa per l'Hopital.

Il capanno di Isnard era situato a destra di Puyricard, fra il villaggio e la strada di Venelles. Era un meschino edifizio di pietre e calcina coperto di tegole rosse; formato da un solo ambiente, una specie di scuderia sporca. In terra c'erano degli avanzi di paglia e dal soffitto pendevano abbondanti ragnateli.

Fortunatamente gli amanti avevano una coperta. Raccolsero la poca paglia in un canto, stesero la coperta e si distesero lì sopra, in mezzo alle acute esalazioni dell'umidità.

Il giorno dopo lo passarono nel letto secco del torrente della Touloubre. Verso sera ritornarono sulla strada di Venelles, fecero un giro per star lontani da Aix, e giunsero al Tholonet.

Arrivarono alle undici alla casupola del merciaio ch'era sotto la chiesa dei gesuiti.

Quel luogo era un po' meno brutto. C'erano due stanze, una cucina ed una stanza da desinare, nella quale vi era un letto di cinghie; sui muri erano incollate delle caricature ritagliate dallo Charivari e dai travicelli imbiancati con il gesso pendevano delle reste di cipolle. I due amanti potevano credersi in un palazzo.

Svegliandosi, furono presi di nuovo dalla paura: passarono le colline e rimasero tutta la giornata nascosti nella gola degli Infernets. A quel tempo i precipizi di Jaumegarde non avevano perduto il loro tetro orrore: il canale Zola non aveva peranco forato la montagna, e nessuno si avventurava in quel funebre imbuto formato da rupi rossastre. In fondo a quel deserto Bianca e Filippo gustarono una profonda pace e si riposarono lungo tempo presso una fonte che scorre, chiara e gorgogliante, da un ammasso di pietre gigantesche.

Ricominciò col cader della notte il pensiero crudele del cercar da dormire. Bianca faceva molta fatica a camminare ancora; i suoi piedi rovinati sanguinavano. Filippo capì che non era possibile condurla più lontano. La sorresse e salirono lentamente sull'altipiano che domina gli Infernets. Là si stendono lande incolte, vasti campi di ciottoli, terreni indefiniti scavati qua e là da cave di pietra abbandonate. Nulla di più stranamente selvaggio di quegli orizzonti brulli, punteggiati qua e là da una vegetazione bassa e di tinta oscura: le rocce escono fuori dalla terra magra come membra contratte: la pianura pare colpita dalla morte durante le convulsioni di una spaventosa agonia.

Filippo sperava di trovare una caverna, una tana. Ebbe la fortuna di trovare uno di quei casotti nei quali stanno rimpiattati i cacciatori, ad aspettare gli uccelli di passo. Sfondò l'uscio senza scrupoli di coscienza, e fece sedere Bianca sopra una panca.

Poi andò a raccogliere una gran quantità di timo: l'altipiano è coperto dell'umile pianticella il cui odore acuto s'eleva da tutte le colline della Provenza. Portato il timo nel casotto, lo stese formandone una specie di materasso sul quale posò la coperta. Il letto era fatto. E i due amanti si dettero il bacio della sera su quel miserabile giaciglio. Quanti dolci patimenti, quanta amara voluttà conteneva quel bacio! Si baciarono con tutta la foga della passione e la collera della disperazione.

L'amore di Filippo si era convertito in rabbia. Obbligato a fuggire senza tregua, minacciato dal vedere svaniti i suoi sogni e da un'implacabile punizione, il giovanotto diventava cattivo e si sfogava stringendo Bianca fra le braccia, come se volesse soffocarla. Quella fanciulla che gli si dava tutta era per lui una vendetta; la trattava come un padrone irritato, la opprimeva sotto i suoi baci, affrettandosi di dar soddisfazione al proprio cuore, mentre era libero ancora. Il suo orgoglio ingigantiva in una gioia infinita. Egli, figlio del popolo, stringeva al seno una figlia di quegli uomini potenti e superbi le carrozze dei quali gli avevano schizzato qualche volta il fango nel viso. Si ricordava le leggende del paese, le vessazioni dei patrizi, il martirio del popolo, tutte le vigliaccherie dei suoi padri vittime dei crudeli capricci dei nobili. Allora soffocava Bianca con una carezza più rude. Aveva finito per provare un piacere maligno facendola correre sui ciottoli delle strade. L'angoscia e la stanchezza dell'amante gliela facevano parere più cara e più eccitante.

L'avrebbe amata meno in una sala, in piena tranquillità. E quando, la sera, essa gli cadeva accanto, spossata dalla fatica, l'amava furiosamente.

Avevano passato una notte da pazzi fra le sporcizie del capanno di Puyricard. Distesi sulla paglia, fra le ragnatele, erano separati dal mondo. Li circondava il gran silenzio del cielo addormentato.

Potevano amarsi liberamente, senza tremare, ed erano tutti assorti nel loro amore. Filippo non avrebbe cambiata quella cuccia con un letto reale, e s'inorgogliva pensando di tenere una discendente dei Cazalis in una scuderia. Il giorno dopo e i seguenti quanta amara soddisfazione provava tirandosi dietro la fanciulla per i deserti di Jaumegarde! La trascinava con le delicate attenzioni di un padre e le violenze della bestia feroce.

Filippo non poté dormire nel casotto: l'odore forte del timo sul quale giaceva gli dava alla testa. Sognò che il signor di Cazalis lo accoglieva teneramente e che lo eleggevano deputato invece dello zio. E di tanto in tanto sentiva i sospiri di Bianca che gli sonnecchiava accanto, agitata.

La fanciulla s'era ridotta a considerare quella fuga come un sogno pieno di ardenti piaceri. Restava inebetita tutto il giorno; sorrideva tristemente, senza lamentarsi. L'inesperienza l'aveva fatta consentire alla fuga, e la debolezza di carattere non le permetteva di mostrare la volontà di tornare. Apparteneva corpo ed anima a quell'uomo che la portava in braccio: soltanto desiderava di non camminare più e continuava a sperare che lo zio la lasciasse maritare quando gli fosse passata la collera All'alba i fuggiaschi abbandonarono il letto di timo. I loro abiti cominciavano a cadere a brandelli e avevano le scarpe sfondate. Al fresco della mattina, in mezzo ai profumi selvatici di quella solitudine, dimenticarono per un'ora le loro miserie, e dissero ridendo d'avere una fame terribile.

Allora Filippo, fatta rientrare Bianca nel casotto, corse al Tholonet a cercare da mangiare. Gli ci volle una buona mezz'ora per arrivare. Quando tornò trovò Bianca spaventata: aveva visto passare dei lupi.

Apparecchiarono la tavola sopra una larga pietra. Parevano una coppia di zingari che facessero colazione all'aria aperta. Dopo mangiato andarono al centro dell'altipiano e vi passarono la giornata, gustandovi le ore forse più dolci del loro amore.

Ma tornò la sera, li riprese il timore, e non vollero passare una seconda nottata in quel deserto. L'aria tepida e pura delle colline li aveva confortati di speranza e di dolci pensieri.

- Sei stanca, povera creatura? - domandò Filippo.

- Oh! sì, - rispose Bianca.

- Senti... facciamo l'ultima gita. Andiamo al capanno di Isnard al quartiere dei Trois-bons-Dieux, e stiamo là fin quando tuo zio ci perdoni o ci faccia arrestare.

- Mio zio ci perdonerà.

- Non oso sperarlo... In tutti i modi, io non voglio più fuggire e tu hai bisogno di riposarti. Vieni. Cammineremo adagio.

Traversarono l'altipiano allontanandosi dagli Infernets, lasciando sulla destra il castello di San Marco che vedevano sull'altura.

Dopo un'ora erano arrivati.

La casupola di Isnard era sulla collina a sinistra della strada di Vauvenargues, al di là del burrone di Repentance. Era una casupola a due piani: a terreno c'era una stanza con un tavolino zoppo e tre seggiole non impagliate. Una scala portava alla stanza superiore, specie di granaio completamente nudo, dove gli amanti trovarono soltanto un vecchio materasso sopra un mucchio di fieno.

Isnard aveva messo caritatevolmente un lenzuolo sul materasso.

Era intenzione di Filippo di andare il giorno seguente ad Aix per informarsi sulle intenzioni del signor di Cazalis. Capiva di non poter restare più lungamente nascosto. Si coricò quasi calmato dalle buone parole di Bianca che giudicava l'accaduto con le sue speranze di fanciulla.

Gli amanti battevano la campagna da venti giorni. Da venti giorni la gendarmeria percorreva il paese, seguiva le loro tracce, poi le perdeva, e le ritrovava aiutata da qualche vago indizio. Il ritardo rinfocolava l'ira del signor di Cazalis: il suo orgoglio era irritato da ogni nuova difficoltà. A Lambesc i gendarmi erano giunti qualche ora troppo tardi: a Tolone si erano accorti del passaggio dei fuggiaschi quando erano già ritornati a Aix:

scappavano da per tutto come per miracolo. Il deputato aveva finito con l'accusare la polizia di cattiva volontà.

Lo assicurarono che gli amanti si trovavano nei dintorni di Aix e che sarebbero arrestati. Corse ad Aix e volle assistere alle indagini.

Quella donna del corso Sestio che li aveva alloggiati per qualche ora, si spaventò. Per non essere accusata di complicità, raccontò quanto sapeva, e disse che dovevano essere nascosti in uno dei capanni di Isnard.

Questi, interrogato, negò senza turbarsi. Dichiarò di non aver veduto, da qualche mese, il suo parente Cayol. Ciò accadeva precisamente quando Bianca e Filippo si rifugiavano nella casupola del quartiere dei Trois-bons-Dieux. Il merciaio non li poté avvertire. Il giorno dopo alle cinque un commissario di polizia picchiava alla sua porta e gli annunziava che si sarebbe fatta una perquisizione in casa sua e nei suoi tre immobili.

Il signor di Cazalis rimase a Aix dichiarando che aveva paura di uccidere il seduttore della nipote, se gli fosse capitato di trovarsi faccia a faccia con lui. Gli agenti incaricati di visitare il capanno di Puyricard lo trovarono vuoto. Isnard s'offrì di accompagnare due gendarmi al Tholonet; sapendo di fare una passeggiata inutile. Un commissario accompagnato da altri due gendarmi, andò ai Trois-bonsDieux. Aveva condotto seco anche un fabbro, giacché Isnard aveva risposto vagamente che la chiave era nascosta sotto una pietra.

Erano circa le sei quando il commissario giunse alla casupola. Le aperture erano tutte chiuse, non si sentiva alcun rumore. Si avanzò e, a voce alta, picchiando col pugno l'uscio di legno gridò:

- Aprite, in nome della legge!

Gli rispose soltanto l'eco. Nessuno si mosse. Dopo qualche minuto il commissario, rivoltosi al fabbro, gli ordinò:

- Aprite l'uscio.

Il fabbro si mise all'opera. Si udì nel silenzio lo stridere dei grimaldelli. Allora l'imposta di una finestra s'aprì con violenza, e alla luce bionda del sole nascente, apparve Filippo Cayol sdegnoso e irritato, col collo e le braccia nude.

- Che cosa volete? - diss'egli appoggiandosi coi gomiti sul parapetto della finestra.

Al primo colpo battuto dal commissario i due amanti s'erano svegliati. Seduti tutt'e due sul materasso, rabbrividiti, avevano ascoltato ansiosi il rumore delle voci.

Il grido «in nome della legge» che suona terribile all'orecchio dei colpevoli, aveva colpito Filippo. S'era alzato fremendo, smarrito, non sapendo dove battere il capo. La fanciulla accovacciata, rinvolta nel lenzuolo, con gli occhi ancora sonnolenti, piangeva di vergogna e di disperazione.

Filippo capiva che tutto era finito: non gli restava che arrendersi. E sentiva salirsi al cuore una sorda reazione. Svaniti i suoi sogni, non sarebbe più marito di Bianca: aveva rapito un'ereditiera per farsi cacciare in prigione: la catastrofe gli procurava il carcere in cambio della felice esistenza sognata. Fu assalito da un pensiero vile: pensò a lasciar lì la fanciulla e fuggire dalla parte di Vauvenargues: lo avrebbe potuto buttandosi dalla finestra di dietro. Si chinò verso Bianca e balbettando, a voce sommessa, le disse quel suo progetto. La fanciulla, soffocata dai singhiozzi, non lo capì, non lo udì. Egli si accorse con angoscia ch'essa non era in grado di proteggere la sua fuga.

Udì in quel momento il rumore dei grimaldelli introdotti nella serratura. Il dramma, avvenuto in quella camera nuda, non era durato più di un minuto.

Filippo si sentì perduto: gli ridette coraggio l'orgoglio ferito.

Se fosse stato armato si sarebbe difeso. Poi, disse a se stesso che non era un rapitore, che Bianca lo aveva volontariamente seguito, e la vergogna non era per lui. Allora aprì l'imposta con rabbia, domandando che cosa si volesse da lui.

- Aprite, - ordinò il commissario, - vi diremo dopo quel che si vuole.

Filippo scese ed aprì la porta.

- Siete voi il signor Filippo Cayol? - domandò il commissario.

- Sì, - rispose il giovanotto con forza.

- Allora vi arresto come imputato di ratto. Avete rapito una minore di sedici anni che deve essere nascosta con voi.

Filippo sorrise.

- La signorina Bianca di Cazalis è su, - egli disse, - e potrà dichiarare se ha subìto violenza da parte mia. Non so come possiate parlare di ratto. Oggi stesso dovevo andare a buttarmi ai ginocchi del signor di Cazalis per domandargli la mano di sua nipote.

Bianca era scesa, pallida e rabbrividita, dopo essersi vestita in fretta.

- Signorina, - le disse il commissario, - ho l'ordine di accompagnarvi da vostro zio che vi aspetta a Aix piangendo.

- Ho un gran rimorso d'aver fatto dispiacere a mio zio, rispose Bianca con voce ferma, - ma non si può accusare il signor Cayol, che io ho seguìto di mia volontà.

E rivolgendosi al giovanotto, commossa, e con le lagrime agli occhi:

- Sperate, Filippo, - continuò, - vi amo e supplicherò mio zio di esser buono con noi. Forse saremo separati soltanto per pochi giorni.

Filippo la guardava tristemente, scotendo la testa.

- Siete una bambina paurosa e debole, - le rispose lentamente.

Poi aggiunse con tono aspro:

- Ricordatevi solamente che appartenete a me... Se mi abbandonate, a qualunque ora della vostra vita mi troverete in voi, sentirete sempre scottare sulle vostre labbra i miei baci, e quello sarà il vostro castigo.

Essa piangeva.

- Vogliatemi bene quanto ve ne voglio io, - aggiunse Filippo con voce più dolce.

Il commissario fece montare Bianca in una vettura che aveva mandato a prendere e la ricondusse a Aix, mentre i due gendarmi portavano via Filippo e andavano a metterlo sotto chiavistello nelle prigioni di quella città.

 

Capitolo 7 - NEL QUALE BIANCA IMITA L'ESEMPIO DI SAN PIETRO

La notizia dell'arresto non arrivò a Marsiglia prima del giorno seguente. Fu un avvenimento. Nel pomeriggio era stato veduto il signor di Cazalis passare in carrozza per la Cannebière insieme alla nipote. Chiacchiere se ne facevano senza fine: tutti parlavano dell'atteggiamento trionfante del deputato; della confusione e del rossore di Bianca. Il signor di Cazalis era uomo da portare a spasso la fanciulla per tutta Marsiglia per far sapere alla popolazione che essa era ricaduta nelle sue mani e che la sua stirpe non si sarebbe incanaglita.

Mario, avvisato da Pina, corse per la città tutta la giornata. La voce pubblica gli confermò la notizia: poté sapere tutti i particolari dell'arresto. L'accaduto in poche ore era diventato leggenda: i bottegai, i bighelloni, lo raccontavano come fosse stato una meravigliosa avventura accaduta un secolo prima.

Il giovane, stanco di sentir ripetute tante fandonie, corse al suo studio, con la testa in pezzi, non sapendo a qual partito appigliarsi.

Disgraziatamente il signor Martelly doveva stare assente fino alla sera del giorno seguente. Mario sentiva la necessità di fare qualche cosa subito. I suoi timori dei primi momenti si erano calmati: aveva riflettuto che suo fratello non poteva essere accusato di ratto, e Bianca lo avrebbe difeso. Concluse ingenuamente col credere che fosse suo dovere andare dal signor di Cazalis per domandargli la mano della nipote a nome di suo fratello.

La mattina dopo si vestì tutto di nero e scendeva le scale quando Pina gli si presentò, secondo il solito. La povera ragazza impallidì quando Mario le disse lo scopo per il quale usciva di casa.

- Mi permettete di accompagnarvi? - gli domandò con voce supplichevole. - Aspetterò giù la risposta della signorina e di suo zio.

Pina seguì Mario. Arrivato al corso Bonaparte il giovane entrò risoluto in casa del deputato e si fece annunziare.

La collera che accecava il signor di Cazalis era svanita. Era vendicato. Stava per provare la sua onnipotenza schiacciando un detestato repubblicano. Intanto desiderava di gustare la gioia crudele di prendersi gioco della sua preda. Epperò dette ordine di fare entrare il signor Mario Cayol, da cui s'aspettava lacrime e suppliche.

Il giovanotto lo trovò in piedi, in mezzo ad una gran sala, in attitudine altera. Si inoltrò verso di lui e senza lasciargli tempo di parlare, gli disse con voce calma e cortese:

- Signore, ho l'onore di domandarvi, in nome di mio fratello Filippo Cayol, la mano della signorina Bianca di Cazalis, vostra nipote.

Il deputato rimase di stucco. Non poté neppure arrabbiarsi, tanto gli parve grottesca la richiesta di Mario. Tirandosi un passo indietro, guardando il giovane in faccia e ridendo sdegnosamente, rispose:

- Siete matto, signor mio... So che siete un giovane onesto e laborioso ed in grazia di questo non vi faccio mettere alla porta... Vostro fratello è uno scellerato, un briccone, e sarà punito come si merita. Che cosa volete da me?

A Mario, sentendo insultare il fratello, venne una voglia matta di pigliare a pugni il nobile insultatore. Si contenne e continuò, con voce che cominciava a tremare per l'emozione:

- Ve l'ho detto: vengo qui per offrire alla signorina di Cazalis l'unica riparazione possibile, il matrimonio che laverà l'ingiuria che le è stata fatta.

- Noi siamo superiori all'ingiuria, - esclamò il deputato con disprezzo. - La vergogna per una Cazalis non consiste nell'essere stata l'amante d'un Filippo Cayol - sarebbe un'onta per lei l'imparentarsi con gente come voi.

- La gente come noi ha altri princìpi in fatto d'onore... Però, io non insisto... il solo dovere mi imponeva l'offerta da voi rifiutata. Permettetemi di aggiungere soltanto che vostra nipote accetterebbe senza dubbio tale offerta, se io avessi l'onore di rivolgermi a lei.

- Credete? - disse il signor di Cazalis con aria beffarda.

Suonò e dette l'ordine di fare scendere subito la nipote. Bianca comparve pallida, con gli occhi rossi, annientata dalle emozioni troppo violente. Vedendo Mario rabbrividì.

- Signorina, - le disse freddamente lo zio, - il signore domanda la vostra mano in nome dell'infame che non voglio nominare in presenza vostra. Ditegli quello che mi avete detto ieri.

Bianca esitò. Non osava guardare Mario. Con gli occhi addosso allo zio, tremando da capo a piedi, mormorò con voce debole e incerta:

- Vi dicevo ch'ero stata portata via per forza e che farò di tutto perché sia punito l'odioso attentato del quale sono stata vittima.

Tali parole furono dette come una lezioncina imparata a mente.

Come san Pietro, Bianca rinnegava il suo dio.

Il signor di Cazalis non aveva perduto tempo. Quando ebbe nelle mani la nipote fece pesare tutta la sua caparbietà e il suo orgoglio sopra di lei. Essa sola poteva fargli vincere la partita.

Era necessario che essa mentisse, e soffocasse gli impulsi del cuore; che fosse uno strumento compiacente e passivo nelle sue mani.

Le parlò per quattr'ore con parole compassate e pungenti. Ma non commise lo sbaglio di arrabbiarsi. Parlò con schiacciante alterigia, rammentando l'antichità della stirpe, mettendone in evidenza la potenza e le ricchezze. Fece da una parte un'abile pittura di un matrimonio diseguale, volgare e ridicolo; dall'altra le mostrò le nobili gioie di un matrimonio ricco ed illustre.

Attaccò la fanciulla dal lato della vanità, la stancò, la oppresse, la inebetì, la rese quale la voleva, docile e inerte.

Terminato il lungo colloquio, il lungo martirio, Bianca era vinta.

Forse le parole opprimenti di suo zio avevano fatto ribellare il suo sangue di patrizia al ricordo delle brutali carezze di Filippo; forse si erano risvegliate in lei le visioni dell'adolescenza, sentendo parlare di abiti ricchissimi, di onori d'ogni specie, di delicatezze mondane. D'altronde aveva la testa troppo malata e il cuore troppo vile per resistere a quella volontà terribile. Ciascuna frase del signor di Cazalis la colpiva, la schiacciava, le metteva addosso una dolorosa ansietà.

Non si sentiva più forza di volontà. Aveva amato e seguìto Filippo per debolezza, ora per debolezza si rivoltava contro di lui: era sempre la stessa anima timida. Accettò tutto, promise tutto. Aveva furia di sottrarsi al peso oppressivo delle paternali dello zio.

Quando Mario le sentì fare la strana dichiarazione rimase stupito, spaventato. Si ricordava il contegno della fanciulla in casa del giardiniere Ayasse; gli pareva di vederla attaccata al collo di Filippo, espansiva, fidente, amorosa.

- Ah, signorina! - esclamò con amarezza, - l'attentato odioso del quale siete stata vittima vi indignava molto meno il giorno in cui mi avete pregato a mani giunte d'implorare il perdono e il consenso di vostro zio... Avete considerato che la vostra bugia sarà causa della rovina dell'uomo che forse amate ancora e che è vostro sposo?

Atterrita, colle labbra chiuse, guardando vagamente davanti a sé, Bianca balbettò:

- Non so che cosa vogliate dire... Io non dico bugie... Ho ceduto alla forza... Quell'uomo mi ha oltraggiata, e mio zio vendicherà l'onore della nostra famiglia.

Mario s'era impettito: la collera generosa ch'egli provava lo faceva parere più grande, e la giustizia e la verità imbellivano la sua faccia scarna. Si guardò intorno e fatto un gesto sprezzante, disse pacatamente:

- E sono in casa dei Cazalis, in casa dei discendenti della illustre famiglia, onor di Provenza...! Non sapevo che la menzogna abitasse in questa casa, e non mi aspettavo di trovarvi ospiti la calunnia e la viltà... Oh! mi starete a sentire fino alla fine.

Voglio sbattere la mia dignità di staffiere sulla faccia indegna dei miei padroni.

Poi, voltandosi al deputato, e indicando Bianca tremante:

- Questa fanciulla è innocente, - continuò, - e le perdono la sua debolezza... Ma voi, signore, siete un uomo accorto, e salvate l'onore delle fanciulle facendone delle bugiarde col cuore vile...Se ora mi offriste la mano della signorina Bianca di Cazalis per mio fratello la rifiuterei, perché non ho mai mentito, non ho mai commessa una cattiva azione, e mi vergognerei di imparentarmi con della gente come voi.

Il signor di Cazalis fu avvilito dalla sfuriata del giovanotto. Al primo insulto aveva chiamato un gran diavolo di servitore che stava pronto sulla porta. Avendogli fatto cenno di mandar fuori Mario, questi ripigliò con terribile slancio:

- Se quest'uomo fa un passo mi metto a urlare che mi assassinano... Lasciatemi passare... Un giorno forse vi potrò sputare sulla faccia, davanti a tutti, le verità che vi ho dette ora in questa sala.

E se n'andò, con passo lento e deciso. Non pensava più alla colpa di Filippo; suo fratello diventava per lui una vittima che voleva salvare e vendicare a qualunque costo. La più piccola menzogna, la minima ingiustizia, provocavano una tempesta in quell'anima piena di rettitudine. Lo scandalo provocato dal signor di Cazalis dopo la fuga gli aveva fatto prendere le difese dei fuggitivi: ora che Bianca mentiva e il deputato calunniava, avrebbe voluto essere onnipotente per dire la verità in mezzo alla strada.

Trovò sul marciapiede Pina inquietissima.

- Dunque? - gli domandò la ragazza appena lo vide.

- Dunque! - rispose Mario, - sono miserabili mentitori e pazzi orgogliosi.

Pina tirò il fiato: il sangue le salì alle gote.

- Allora, - essa ripigliò, - Filippo non sposa la signorina?

- La signorina, - disse Mario sorridendo amaramente,- pretende che Filippo sia uno scellerato che l'ha rapita per forza... Mio fratello è rovinato!

Pina non capiva. Abbassò la testa domandando a se stessa come faceva la signorina a dare dello scellerato al suo amante. Pensava che a lei non sarebbe parso vero di farsi rapire da Filippo, anche con la forza. La collera di Mario la consolava: il matrimonio era andato in fumo.

- Vostro fratello è rovinato! - mormorò essa con una grazia affettuosa. - Oh! lo salverò io... noi lo salveremo.

 

Capitolo 8 - VASO DI FERRO E VASO DI TERRA

Quando la sera Mario raccontò al signor Martelly la scena avuta col signor di Cazalis, l'armatore gli disse tentennando il capo:

- Non so che cosa consigliarvi, mio buon amico. Non ardisco togliervi ogni speranza; ma siatene pur sicuro, sarete vinto. E' vostro dovere tentare la lotta ed io vi seconderò come posso. Però confessiamo che siamo deboli e disarmati, di fronte ad un avversario che ha per alleati il clero e la nobiltà. Marsiglia ed Aix non voglion bene alla monarchia di luglio, e sono devote a un deputato dell'opposizione che fa guerra accanita al signor Thiers.

Aiuteranno il signor di Cazalis nella sua vendetta: parlo ben inteso dei pezzi grossi, il popolo ci aiuterebbe se ci potesse aiutare. Miglior cosa di tutte sarebbe aver dalla nostra qualche prete influente. Non conoscete nessun prete che sia nelle buone grazie di monsignor vescovo?

Mario rispose che conosceva l'abate Chastanier, un povero galantuomo, senza voce in capitolo.

- Non importa, andate a trovarlo, - replicò l'armatore. - La borghesia non ci può essere utile; la nobiltà ci metterebbe alla porta. Resta la Chiesa. Bisogna rivolgersi a lei. Mettetevi all'opera e da parte mia farò quanto posso.

Mario andò a San Vittore il giorno seguente. L'abate Chastanier lo accolse con pauroso imbarazzo.

- Non chiedete nulla a me, - rispose alle prime parole del giovine. - S'è saputo ch'io m'ero già occupato di questa faccenda e mi son toccati severi rimproveri... ve l'ho detto, sono un pover'uomo e non posso che pregare Iddio.

L'umiltà del vecchio commosse Mario. Stava per andarsene quando il prete lo trattenne e gli disse a voce sommessa:

- Sentite; qui c'è uno che vi potrebbe essere utile, l'abate Donadei. Dicono che sia nelle buone grazie di monsignore. E' un prete forestiero, un italiano, credo, ed ha saputo in pochi mesi farsi voler bene da tutti...

L'abate Chastanier s'interruppe, esitante, come se domandasse un parere a se medesimo. Il brav'uomo pensava che stava per compromettersi terribilmente, ma non poteva resistere al piacere di rendere un servigio.

- Volete che vi accompagni da lui? - domandò a un tratto.

Mario, avendo osservata la breve esitazione, tentò di rifiutare:

ma il vecchio tenne duro: non pensava più alla propria tranquillità, bensì a contentare il suo cuore.

- Venite, - egli disse, - l'abate Donadei sta di casa a due passi sul boulevard della Corderia.

Dopo qualche minuto l'abate Chastanier si fermò davanti a una casetta di un piano, una di quelle casette chiuse, misteriose, che sanno odore di confessionario.

- Sta qui, - disse a Mario.

Una vecchia serva aprì e li fece entrare in una piccola stanza, parata di scuro, che pareva un austero salottino.

L'abate Donadei li ricevette con garbata disinvoltura. Il suo viso pallido, nel quale l'astuzia si combinava con la malignità, non espresse alcuna sorpresa. Mise avanti delle seggiole con un gesto pigro, mezzo inchinevole, mezzo sorridente, facendo gli onori di casa come una signora farebbe gli onori del suo salotto.

Vestiva una lunga sottana nera non stretta alla cintola. In quel severo costume aveva delle mosse da civettuola; un paio di manine bianche e morbide uscivano dalle maniche larghe, e la sua faccia rasa appariva morbida e fresca in mezzo ai ricci castagni dei suoi capelli. Poteva avere circa trent'anni.

Seduto in una poltrona ascoltò, con sorridente gravità, le parole di Mario. Gli fece ripetere i particolari più scabrosi della fuga di Filippo e di Bianca: pareva che quella parte del racconto destasse in lui molta curiosità.

L'abate Donadei era nato a Roma: aveva uno zio cardinale. Un bel giorno lo zio l'aveva mandato improvvisamente in Francia, non si sa bene per qual motivo. Arrivando, il bell'abate fu obbligato a entrare nel piccolo seminario d'Aix come professore di lingue viventi. Tale condizione infima lo umiliò talmente da farlo ammalare.

Il cardinale si commosse e raccomandò il nipote al vescovo di Marsiglia. Soddisfatta l'ambizione, il Donadei fu guarito. Entrò a San Vittore e, come diceva ingenuamente l'abate Chastanier, seppe farsi amare da tutti in pochi mesi La sua carezzevole indole italiana, la sua faccia graziosa e rosea lo facevano parere un Gesù bambino a tutte le pinzochere della parrocchia. Faceva furore specie dal pulpito: il suo accento straniero dava una strana attrattiva ai suoi sermoni, e quando allargava le braccia, sapeva far tremolare le mani in modo da far piangere l'uditorio.

Era nato per intrigare.

Usò ed abusò della raccomandazione di suo zio al vescovo di Marsiglia. Diventò presto una potenza, potenza occulta che lavorava alla chetichella sotto terra, e apriva degli abissi sulla strada di coloro dei quali voleva sbarazzarsi. Divenuto membro di un circolo religioso onnipotente a Marsiglia, a forza di buona grazia, sorridendo e piegando la schiena, impose la propria volontà ai colleghi e si mise alla testa del partito. Si mischiò in qualunque avvenimento; mise lo zampino in tutti gli affari: fu lui che aiutò il signor di Cazalis a diventar deputato, ed aspettava qualche buona occasione per farsi pagare dall'eletto i servigi resigli. Il suo progetto era di adoperarsi prima in pro della gente ricca: più tardi, meritata la loro riconoscenza, faceva conto di adoperar loro per far ricco sé.

Interrogò Mario con compiacenza; parve disposto ad aiutarlo, tanta fu la sua attenzione, e la simpatia dimostratagli nell'accoglierlo. Il giovanotto si lasciò sedurre da quella graziosa amabilità di modi, e gli aprì l'animo suo; gli disse i propri progetti, gli confessò che soltanto il clero poteva salvare suo fratello. Finalmente lo pregò di aiutarlo presso Monsignore.

L'abate Donadei si alzò e con tono di canzonatura austera:

- Signore, - disse, - il mio carattere sacro mi proibisce di mischiarmi in questa deplorabile e scandalosa faccenda. Troppo spesso i nemici della Chiesa accusano i sacerdoti di uscire dalle loro sagrestie. Non posso far altro che domandare a Dio il perdono di vostro fratello.

Anche Mario, costernato, s'era alzato in piedi. Capiva che il Donadei lo aveva messo in mezzo. Ma voleva mantenersi riservato e calmo.

- Vi ringrazio, - rispose. - Le preghiere sono un'elemosina molto grata per gli infelici. Chiedete a Dio che gli uomini ci facciano giustizia.

E s'avviò per uscire seguìto dall'abate Chastanier che camminava a capo basso. Donadei aveva ostentato di non vederlo neppure.

Sul limitare il bel prete, ripigliando la sua graziosa disinvoltura, trattenne Mario per un momento.

- Voi siete impiegato dal signor Martelly, se non sbaglio? - gli domandò.

- Sì, signore, - rispose sorpreso il giovine.

- E' un gran galantuomo. Ma so che non è dei nostri Tuttavia l'ho in grande stima. Sua sorella, la signorina Clara, che ho l'onore di confessare, è una delle nostre migliori parrocchiane.

Mario lo guardava non sapendo che cosa rispondere e Donadei aggiunse arrossendo lievemente:

- E' una signorina molto graziosa, di una esemplare bontà.

Salutò con squisita cortesia, poi chiuse la porta senza rumore.

L'abate Chastanier e Mario, rimasti soli sul marciapiede, si guardarono in faccia: il giovanotto non poté trattenersi da alzar le spalle. Il vecchio prete era mortificato dal vedere un ministro di Dio che recitava a quel modo una parte in commedia. Si volse verso il compagno e gli disse esitando:

- Amico mio, non bisogna pigliarsela con Dio se i suoi ministri non sono sempre quali dovrebbero essere. Questo giovanotto è soltanto colpevole di ambizione...

E continuo un bel pezzo scusando il Donadei. Mario lo guardava commosso da tanta bontà, e suo malgrado metteva a confronto il povero vecchio con l'abate potente, i cui sorrisi dettavano legge alla diocesi. Pensò allora che la Chiesa non ama di eguale amore i suoi figli, e che, come tutte le madri, dà dei vizi ai visini color di rosa e trascura le anime affettuose che si sacrificano nell'ombra.

I due visitatori s'allontanavano quando una carrozza si fermo davanti alla casetta chiusa e misteriosa. Mario vide scendere dalla carrozza il signor di Cazalis, e il deputato entrò difilato dal Donadei.

- Guardate! - esclamò il giovine, - sono persuaso che il sacro carattere di quel prete non gli impedirà di cooperare alla vendetta del signor di Cazalis.

Gli venne la tentazione di tornare indietro e rientrare in quella casa dove facevano fare una parte tanto brutta a Dio. Poi si calmò, ringraziò l'abate Chastanier e si allontanò, pensando con dolore che l'ultima porta di scampo, quella della quale l'alto clero tiene la chiave, si era chiusa per lui.

Il giorno seguente il signor Martelly gli riferì i risultati di un tentativo fatto verso il primo notaio di Marsiglia, il signor Douglas, uomo pio, divenuto in meno di otto anni una vera potenza per mezzo della sua ricca clientela e delle generose elemosine. Il suo nome era rispettato ed amato. Si parlava con ammirazione delle virtù di questo integro lavoratore che viveva frugalmente: tutti avevano illimitata fiducia nella sua onestà e nella sua intelligente attività.

Il signor Martelly si era servito di lui per investire alcuni capitali. Sperava che qualora il Douglas volesse aiutare Mario, una parte del clero sarebbe stata per lui! Andò dal notaio e gli chiese aiuto. Douglas parve molto imbarazzato e balbettò una risposta evasiva, dicendosi sovraccaricato d'affari e impotente a lottare contro il signor di Cazalis.

- Non ho insistito - disse il signor Martelly a Mario, - essendomi parso di capire che il vostro avversario vi aveva prevenuto. Pure mi sorprende che il Douglas, l'uomo probo, si sia lasciato legar le mani... Intanto, mio buon amico, credo che la partita sia veramente perduta.

Mario corse per un mese giù e su per Marsiglia tentando di procurarsi l'appoggio di alcune persone influenti. Fu ricevuto da tutti freddamente, con una cortesia canzonatoria. Il signor Martelly non fu più fortunato. Il deputato s'era accaparrato clero e nobiltà. La borghesia e i negozianti ridevano sotto i baffi, senza voler far nulla, per paura di compromettersi. Il popolo metteva in burletta il signor di Cazalis e sua nipote, non potendo altrimenti giovare a Filippo Cayol.

Passavano i giorni; l'istruttoria del processo criminale procedeva speditamente. Mario era sempre solo, come il primo giorno, per difendere il fratello dall'ira del signor di Cazalis e dalle bugie compiacenti di Bianca. Gli restava però sempre fedele Pina, le cui chiacchiere appassionate procuravano a Filippo le calorose simpatie di tutte le ragazze del popolo.

Una mattina Mario seppe che suo fratello e il giardiniere Ayasse erano rinviati alla corte d'Assise, il primo come imputato di ratto, il secondo come complice di quel reato. La signora Cayol era stata messa in libertà per mancanza delle prove necessarie a comprenderla nell'accusa.

Mario corse ad abbracciare la madre. La povera donna aveva molto sofferto durante la prigionia: la sua malferma salute era gravemente compromessa. Alcuni giorni dopo essere uscita di carcere, spirò tranquilla nelle braccia del figlio che giurò singhiozzando di vendicarne la morte.

Il suo trasporto funebre fu occasione di dimostrazioni popolari.

La madre di Filippo fu accompagnata al cimitero di San Carlo da un immenso corteggio di popolane che non si riguardavano punto dall'accusare a voce alta il signor di Cazalis. Mancò poco che quelle donne non andassero a tirar sassate nelle finestre del deputato.

Tornando dal cimitero, Mario si sentì solo nel suo quartierino di via Santa, e cominciò a piangere dirottamente. Il pianto lo sollevò, e gli parve di vedere chiaramente delineata dinanzi a sé la via da percorrere. Le disgrazie dalle quali era oppresso ingigantivano in lui l'amore del vero e l'odio contro le ingiustizie. Sentiva che tutta la sua vita sarebbe consacrata ad un santo scopo.

Non poteva più far nulla a Marsiglia. La scena del dramma cambiava. L'azione doveva svolgersi a Aix, secondo le peripezie del processo. Voleva trovarsi sul luogo per seguirne le fasi e profittare degli eventuali incidenti. Domandò al principale un congedo d'un mese che il signor Martelly si affrettò ad accordargli.

Il giorno della partenza trovò Pina alla diligenza.

- Vengo a Aix con voi, - gli disse la ragazza senza scomporsi.

- Ma è una pazzia! non siete ricca abbastanza per sacrificarvi a questo modo... E i vostri fiori chi li venderà?

- Oh! ho messo al mio posto una mia amica, che sta sul mio pianerottolo in piazza dell'Ova... Ho pensato... posso esser utile a qualche cosa... mi sono messa l'abito delle feste ed eccomi qui.

- Vi ringrazio, - rispose Mario commosso.

 

Capitolo 9 - NEL QUALE IL SIGNOR DI GIROUSSE FA DEI PETTEGOLEZZI

Ad Aix Mario andò a casa di Isnard che stava in via d'Italia. Il merciaio non era stato molestato. Sdegnavano una vittima di tanto poca importanza.

Pina andò diritta dal custode delle carceri, suo zio da parte di madre. La ragazza aveva già fatto il suo piano. S'era portata con sé un bel mazzo di rose che fu accolto con molta festa. Il suo bel sorriso, le sue festose belle maniere, la fecero diventare in due ore la simpatia dello zio, ch'era vedovo con due bambine, delle quali Pina fu subito la seconda mamma.

Il processo doveva cominciare ai primi della settimana seguente.

Mario non osando più fare alcun passo aspettava con ansietà il principio dei dibattimenti. A momenti aveva ancora la debolezza di sperare, di far conto sopra un verdetto assolutorio.

Passeggiando sul Corso, incontrò una sera il signor di Girousse, venuto da Lambesc per assistere al processo di Filippo. Il vecchio gentiluomo lo prese per un braccio e, senza aprire bocca, lo portò al suo palazzo.

Mario sorrideva delle maniere burbere ed originali del conte.

- Dunque! - disse questi, - non mi invitate neppure a rendervi un servizio, a difendervi contro Cazalis? Va bene... siete intelligente. Capite che io non posso far nulla contro questa nobiltà vana e testarda alla quale appartengo. Vostro fratello l'ha fatta grossa!

Il signor di Girousse camminava a lunghi passi nel salone. A un tratto si piantò dritto davanti a Mario.

- Ascoltate la nostra storia, - disse a voce alta. - Siamo, in questa città, una cinquantina di messeri come me, che viviamo per conto nostro, rifugiati in un passato morto per sempre. Ci chiamiamo i migliori di Provenza e stiamo qui senza far nulla, a grattarci i ginocchi... Ma siamo dei gentiluomini, dei cuori cavallereschi, che aspettano devotamente il ritorno dei loro principi legittimi. Eh! aspetteremo un bel pezzo; tanto che la solitudine e la pigrizia ci avranno ucciso prima che un principe legittimo ricompaia. Se siamo di buona vista vedremo come procedono gli avvenimenti. Noi diciamo ai fatti: - non andrete più avanti,- e i fatti ci passano tranquillamente addosso e ci schiacciano. Vado sulle furie quando vedo che siamo di una testardaggine tanto ridicola quanto eroica. Dire che siamo quasi tutti ricchi, che potremmo essere quasi tutti industriali intelligenti e lavorare per il bene del paese, e invece preferiamo ammuffire in fondo ai nostri palazzi come dei vecchi avanzi d'un altro tempo!

Riprese fiato e continuò con più forza:

- E siamo orgogliosi della nostra esistenza inutile. Non lavoriamo per disprezzo al lavoro. Abbiamo un santo orrore per il popolo che ha le mani nere! Ah vostro fratello ha toccato una delle nostre figliole! Gli faremo vedere s'è del nostro stesso sangue. Faremo lega tutt'insieme per dare una lezione ai villani e cavar loro la voglia di farsi voler bene dalle nostre figlie.

Qualche prete potente ci seconderà... essi sono fatalmente legati alla nostra causa... Sarà una bella campagna per la nostra vanità.

Dopo un momento di silenzio il signor di Girousse riprese con aria beffarda:

- La nostra vanità ha patito qualche volta serie avarie! Qualche anno prima della mia nascita, nel palazzo vicino al mio, avvenne un dramma terribile. Il signor d'Entrecasteaux, presidente del parlamento, assassinò sua moglie nel letto; le tagliò la gola con un rasoio, spinto, dicono, da una passione che voleva soddisfare anche a costo di un delitto.

Il rasoio fu ritrovato venticinque giorni dopo in fondo al giardino: si trovarono nel pozzo anche i gioielli della vittima gettati là dall'assassino per far credere che il delitto fosse stato commesso da altri a scopo di rapina. Il presidente d'Entrecasteaux fuggì e si rifugiò in Portogallo dove morì miseramente. Il parlamento lo condannò in contumacia ad essere arruotato... Vedete che abbiamo i nostri scellerati anche noi ed il popolo non ha ragione di invidiarci. Questa vile condotta d'uno dei nostri dette un colpo terribile alla nostra autorità. Un romanziere potrebbe scrivere un libro commovente narrando la sanguinosa e lugubre storia. E sappiamo anche piegar la schiena,- continuò il signor di Girousse rimettendosi a camminare. Quando Fouché, il regicida, allora duca d'Otranto, fu esiliato per poco tempo verso il 1810 nella nostra città, tutta la nostra nobiltà andò a leccargli le scarpe. Mi ricordo un aneddoto che mostra a quale bassa servilità eravamo discesi. Il primo gennaio del 1811 facevamo a spinte per andare ad augurare il buon anno al vecchio convenzionale. Nella sala di ricevimento parlavano del freddo rigido che faceva, e uno dei visitatori esprimeva qualche inquietudine sulla sorte degli oliveti. - Che cosa c'importa degli oliveti! - esclamò uno dei nobili personaggi purché il signor duca stia bene! - Ecco come siamo fatti, mio caro: umili con i potenti, alteri con i deboli. Vi sono delle eccezioni, ma rare. Vedrete che vostro fratello sarà condannato. Il nostro orgoglio che si abbassa davanti a un Fouché, non si abbasserà davanti a un Cayol! E' logico. Buonanotte.

Il conte congedò Mario a quel modo. Parlando, s'era inasprito da sé e temeva che la collera finisse per fargli dire delle sciocchezze.

Il giorno dopo, Mario lo incontrò di nuovo, e il conte lo condusse un'altra volta al suo palazzo. Aveva in mano un giornale nel quale erano stampati i nomi dei giurati che dovevano giudicare Filippo.

Picchiò il giornale col dito, con forza, esclamando:

- Ecco gli uomini che condanneranno vostro fratello. Volete che vi racconti qualche storiella sul loro conto? Vi dirò delle cose curiose ed istruttive.

Il signor di Girousse s'era messo a sedere e scorreva con gli occhi il giornale alzando le spalle.

- E' un giurì coi fiocchi, scelto bene, un'assemblea di persone ricche e premurose di servire la causa del signor di Cazalis. Sono tutti più o meno fabbricieri di chiese, più o meno frequentatori dei salotti della nobiltà. Hanno tutti per amici degli uomini che passano la mattinata in chiesa e spogliano i loro clienti durante il resto della giornata.

Poi nominò i giurati a uno a uno e parlò della gente che essi frequentavano con violento sdegno.

- Humbert, - egli diceva, - fratello d'un negoziante di Marsiglia, negoziante d'olio, tenuto in gran credito, che tutti i poveri diavoli salutano con tanto di scappellata. Vent'anni or sono suo padre era un povero commesso; adesso i figli sono milionari in grazia della sua abilità. Un anno vendette anticipatamente una grande quantità d'olio, a prezzo corrente. Poche settimane dopo, il freddo guastò gli oliveti, la raccolta andò a male, ed egli sarebbe stato rovinato se non ingannava i clienti. Preferì l'ingannare all'esser povero. Mentre i suoi colleghi consegnavano della buona mercanzia a scapito, comprò tutti gli olii guasti e rancidi che poté trovare e fece le promesse consegne. I clienti si lamentarono, strepitarono. Rispose a sangue freddo ch'egli aveva mantenute le promesse e non potevano pretender nulla di più. E il colpo era fatto. E tutta Marsiglia conosce questa storia e non ha sufficienti scappellature per l'uomo abile.

Gautier... altro negoziante di Marsiglia. Ha un nipote, Paolo Bertrand, scroccone all'ingrosso. Questo Bertrand era in società con un tale Aubert, di New York che gli mandava dei carichi di mercanzia da vendersi a Marsiglia. Facevano a metà dei guadagni.

Il Bertrand guadagnava bene ingannando il socio ad ogni divisione degli utili. Un giorno capita una crisi commerciale e la società subisce delle perdite. Bertrand continua ad accettare le mercanzie che gli arrivano, ma si rifiuta di pagare le tratte che l'Aubert tira sopra di lui, dicendo che gli affari vanno male ed è dissestato. Le tratte tornano di nuovo e sono nuovamente respinte, aggravate di spese enormi. Bertrand dichiara con tutta pace che non vuol pagare; che non è obbligato a rimanere socio di Aubert eternamente, e non deve nulla a nessuno. Le tratte vanno e vengono e finalmente il negoziante di New York, indignato e sorpreso, è costretto a pagarle. Costretto a far causa per procura, Aubert ha perduto la lite intentata al Bertrand per rifacimento di danni; mi assicurano che in quest'affare abbia perduto due buoni terzi del suo patrimonio, un milione e duecentomila franchi. Bertrand è rimasto il più onesto uomo del mondo; fa parte di tutte le società e di parecchie congregazioni; è invidiato e onorato.

Dutailly... mercante di grano. Una volta accadde a uno dei suoi generi, Giorgio Fouque, una disgrazia della quale gli amici si affrettarono a nascondere lo scandalo. Il Fouque faceva in modo di trovar sempre avariati i carichi di grano che i bastimenti gli portavano. Le società d'assicurazione pagavano il danno standosene alla stima d'un perito. Stanche di pagare sempre, le società incaricarono della stima un onesto fornaio. Il Fouque andò subito a fargli visita e, parlando del più e del meno, gli fece scivolare in mano qualche moneta d'oro. Il fornaio lasciò andare in terra le monete e con una pedata le fece saltare in mezzo alla stanza, nella quale c'erano parecchie altre persone. Il Fouque non ha perduto il suo credito.

Delorme... abita in una città vicina a Marsiglia. S'è ritirato dal commercio da un pezzo. Sentite l'infamia commessa da suo cugino Mille. Trent'anni or sono la madre di Mille aveva una bottega di mercerie. Quando si ritirò dal commercio, cedette la bottega a un suo commesso, giovanotto attivo ed intelligente da lei considerato come un figliolo. Il giovanotto, chiamato Michel, pagò presto il prezzo della bottega ed aumentò talmente la sua clientela che gli convenne cercare un socio. Scelse un giovanotto di Marsiglia, Giovanni Martin, che aveva qualche soldo e pareva uomo onesto e lavoratore. Michel offriva al socio un affare sicuro. Da principio tutto andò a meraviglia. I guadagni aumentavano ogni anno e i due soci intascavano delle belle somme. Ma Giovanni Martin, attaccato ai quattrini e bramoso di farsi ricco, finì col dirsi che guadagnerebbe il doppio restando solo. Ma il restar solo non era facile; Michel era il suo benefattore ed era amico del proprietario dello stabile, il figlio della signora Mille. Se questi fosse stato onesto, il Martin non poteva riuscire nel suo indegno progetto. Andò a fargli visita e trovò in lui il briccone del quale aveva bisogno. Gli offrì di fare un nuovo contratto d'affitto a suo nome, contro il pagamento di una bella somma; raddoppio, triplicò l'offerta. Il Mille, avaro e ignorante, vendette la propria coscienza al maggior prezzo possibile. Fu concluso il contratto. Allora Giovanni Martin recitò la parte d'ipocrita in faccia al Michel; gli disse che voleva rompere il contratto di società per andare a metter bottega in un altro luogo; gli disse perfino quale locale aveva preso in affitto. Il Michel, sorpreso, non potendo supporre l'infamia della quale era vittima, gli disse che era libero di ritirarsi e la società fu sciolta. Poco tempo dopo, terminando il contratto d'affitto del Michel, Giovanni Martin col suo nuovo contratto in mano, mise trionfalmente alla porta il suo benefattore. Il Michel, diventato quasi matto per quel tradimento, andò a metter bottega più lontano, ma avendo perduta la clientela, consumò quanto era riuscito a metter da parte in trent'anni di penoso lavoro. E' morto paralitico, soffrendo atroci patimenti, gridando che il Martin e il Mille erano miserabili traditori e chiedendo vendetta ai suoi figlioli. Oggi i suoi figlioli lavorano, sudando sangue, per farsi una posizione. Il Mille è imparentato con le principali famiglie della città, i suoi figlioli sono ricchi, e vivono pacificamente riveriti e stimati da tutti.

Faivre... sua madre aveva sposato in seconde nozze un tale Chabran, armatore e scontista. Lo Chabran scrisse un giorno ai molti suoi creditori, portando a pretesto delle speculazioni mal riuscite, ch'era obbligato a sospendere i pagamenti. Alcuni consentirono ad accordargli una proroga, la maggioranza voleva fare gli atti. Allora lo Chabran si mise a fianco due giovanotti, in qualità d'impiegati, e durante otto giorni insegnò loro la lezione. Quando li ebbe bene ammaestrati, andò a far visita ai suoi creditori, l'uno dopo l'altro, accompagnato da quei due, lamentandosi ed invocando pietà per i suoi due figlioli, laceri e senza pane... Lo stratagemma riuscì benone; i creditori lacerarono i loro titoli di credito. Il giorno dopo, lo Chabran era alla Borsa, più tranquillo e più insolente che mai. Un mezzano, che non sapeva nulla della faccenda, andò a proporgli di scontare tre lettere di cambio firmate dai negozianti che, il giorno prima, gli avevano condonato il debito.

"Non faccio affari, disse egli con alterigia, con gente simile." Oggi lo Chabran si è ritirato dagli affari; sta in villa e dà tutte le domeniche pranzi succulenti.

Gerominot... Il presidente del circolo dove passa la serata è uno strozzino dei peggiori. Ha guadagnato un milioncino con la sua industria ed ha potuto maritare la figliola a un pezzo grosso del ceto bancario. Il suo vero nome è Pertigny. Ma dopo aver fallito, guadagnando trecentomila lire nel fallimento, si fa chiamare Felix. Questo briccone fallì la prima volta quarant'anni or sono e comprò una casa, dando ai creditori il quindici per cento. Dieci anni dopo fallì una seconda volta e poté comprare una villa, dando ai creditori il dieci per cento. Quindici anni or sono fallì per la terza volta per trecentomila franchi ed offrì il cinque per cento. I creditori rifiutarono ed egli provò che quanto possedeva era roba di sua moglie e non dette un soldo a nessuno.

Mario era scorato e fece un gesto di disgusto quasi per interrompere quella serie di abominazioni.

- Non mi credete forse? - ripigliò il terribile conte. - Siete un ingenuo... Non ho finito e voglio che mi ascoltiate sino alla fine.

Il signor di Girousse era in vena di beffare terribilmente. Le sue parole alte e stridenti, cadevano come frustate sulle persone delle quali raccontava le disgustose storie. Nominò i giurati a uno a uno, analizzò la loro vita e quella delle loro famiglie, mettendone in vista le vergogne e le miserie. Ne risparmiò appena qualcuno. Poi si piantò in atteggiamento violento davanti a Mario e continuò:

- Avreste forse l'ingenuità di credere che tutti questi milionari, questi nuovi ricchi, queste persone potenti che oggi vi dominano e vi schiacciano, siano santi, giusti, di vita illibata? Essi fanno pompa, particolarmente a Marsiglia, della loro vanità e della loro insolenza; sono diventati devoti e bacchettoni: hanno ingannato perfino i galantuomini che li salutano e li stimano. In una parola formano da loro un'aristocrazia; il loro passato si dimentica; si vede solo la loro ricchezza e la loro probità di fresca data.

Bene! io strappo le maschere! Sentite: questo ha fatto fortuna ingannando un amico; quell'altro facendo il mercante di carne umana; quello vendendo la moglie e la figliola; quello speculando sulla miseria dei creditori; quell'altro ricomprando per un tozzo di pane le azioni di una società della quale era direttore, dopo averle screditate; questo affondando un bastimento carico di sassi, invece che di mercanzia, e facendosi indennizzare del carico perduto dalle società di assicurazioni; quest'altro, socio di commercio sulla parola, ricusandosi di dividere i rischi di un'operazione pericolosa; questo, figurando di fallire due o tre volte e vivendo poi come una persona per bene; questo vendendo per vino acqua di campeggio o sangue di bove; questo accaparrando i carichi di grano in mare nei tempi di carestia; questo frodando l'erario in grande, tentando di corrompere gli impiegati; quest'altro mettendo sulle cambiali le firme false di parenti o d'amici che, il giorno della scadenza, pagano e stanno zitti piuttosto che mandare in galera il falsario; questo dando fuoco da sé alla sua officina o ai suoi bastimenti assicurati al di sopra del valore reale; questo, buttando sul fuoco le cambiali strappate dalle mani del creditore il giorno del pagamento; questo, giocando alla Borsa con la ferma intenzione di non pagare, il che non impedisce d'arricchire, otto giorni dopo, alle spese di qualche imbecille...

Al signor di Girousse mancò il fiato. Tacque per un pezzo lasciando calmare la sua furia. Poi quando le sue labbra si mossero di nuovo, sorrise meno amaramente:

- Io sono un po' misantropo, - disse affettuosamente a Mario che lo aveva ascoltato con dolore e sorpresa, - vedo tutto nero.

L'ozio al quale mi condanna il mio titolo, mi ha lasciato tempo di studiare le vergogne di questo paese. Sappiate che fra noi vi sono anche dei galantuomini. Per disgrazia hanno paura dei bricconi o li disprezzano.

Mario s'accomiatò dal signor di Girousse, turbato da quanto aveva ascoltato. Prevedeva che suo fratello sarebbe condannato senza pietà. Il giorno seguente dovevano cominciare i dibattimenti.

 

Capitolo 10 - UN PROCESSO SCANDALOSO

Tutta Aix era in moto. Lo scandalo fa un gran rumore nelle piccole città tranquille, dove la curiosità degli sfaccendati non ha tutti i giorni un nuovo scopo. Si parlava solamente di Filippo e di Bianca: si raccontavano per la strada le avventure degli amanti; si diceva forte che l'accusato era condannato in anticipo, avendo il signor di Cazalis, direttamente o per mezzo di amici, richiesto il voto di condanna a ciascun giurato.

Il clero d'Aix spalleggiava il deputato; però molto debolmente:

c'erano nel clero uomini ai quali ripugnava di cooperare ad una ingiustizia. Alcuni preti obbedirono alle pressioni venute dal circolo religioso di Marsiglia del quale l'abate Donadei era, per così dire, il padrone. Quei preti tentarono con visite e con abili mezzi termini di legare le mani alla magistratura, e riuscirono a persuadere i giurati che le ragioni del signor di Cazalis erano sacrosante.

La nobiltà li aiutò con molta efficacia. Essa credeva suo debito di onore lo schiacciare Filippo Cayol. Lo considerava come un nemico personale, che aveva osato attentare alla dignità d'un casato dei loro, e l'aveva in quel modo insultato. Si sarebbe creduto che i nemici fossero alle porte della città vedendo quei conti e quei marchesi affaccendarsi, arrabbiarsi, stringersi in lega fra loro. Si trattava invece soltanto di far condannare un povero diavolo colpevole di amore e di ambizione.

Anche Filippo aveva amici e difensori. Il popolo parteggiava apertamente per lui. Il basso ceto biasimava la sua condotta, riprovava i mezzi impiegati; diceva che avrebbe fatto meglio a voler bene a una sua pari e sposarla; ma, condannandone gli atti, lo difendevano clamorosamente contro l'orgoglio e l'odio del signor di Cazalis. Si sapeva in città che Bianca, interrogata dal giudice istruttore, aveva rinnegato il suo amore; e le ragazze del popolo, vere provenzali, coraggiose e pronte al sacrifizio, la trattavano con insultante disprezzo, chiamandola "la rinnegata".

Attribuivano motivi vergognosi alla condotta di lei, e non si trattenevano dal gridar forte la loro opinione in piazza, nel linguaggio energico della gente di strada.

Tanto fracasso faceva danno a Filippo. La città intera sapeva il segreto del dramma che doveva rappresentarsi. Quelli ai quali premeva di far condannare l'accusato non si davano neppure la pena di nascondere le loro pratiche, tanto erano sicuri del trionfo:

quelli che avrebbero voluto salvarlo, sentendosi deboli e senza armi, si consolavano urlando, contenti di far dispetto ai potenti che non speravano di vincere.

Il signor di Cazalis aveva, senza vergogna, trascinato ad Aix la nipote. Per i primi giorni si levò il gusto di farla passeggiare sul Corso.

Protestava a quel modo contro l'idea di disonore che la moltitudine attaccava alla fuga della ragazza: pareva volesse dire a tutti: "Vedete che un plebeo non sa disonorare una Cazalis. Mia nipote vi è ancora superiore del suo titolo e delle sue ricchezze".

Ma le passeggiate non poterono seguitare molto. La folla fu irritata da quel contegno: Bianca fu insultata; mancò poco che non pigliassero zio e nipote a sassate. Le donne si mostrarono particolarmente accanite: non riuscivano a capire come la fanciulla non fosse colpevole ed avesse soltanto obbedito ad una ferrea volontà!

Bianca, dinanzi alla collera popolare, tremava. Abbassava gli occhi per non vedere quelle donne che le buttavano addosso delle occhiate di fuoco. Sentiva dietro di sé gesti di disprezzo, parole orribili delle quali non capiva il significato; le si piegavano le ginocchia e si appoggiava allo zio per non cadere. Pallida, convulsa, rientrò un giorno in casa dichiarando che non sarebbe più andata fuori.

La povera fanciulla s'accorse che sarebbe divenuta madre.

Finalmente si aprirono i dibattimenti. Le porte del Palazzo di Giustizia furono assediate fino dalla mattina presto, da gruppi che si erano formati in piazza dei Predicatori, gesticolando, parlando a voce alta. Si bisticciavano a proposito del risultato probabile del processo, discutendo la colpabilità di Filippo, il contegno del signor di Cazalis e di Bianca.

La sala delle Assise si riempì lentamente. Avevano aggiunto qualche fila di sedie per le persone con biglietto di invito, eppure ve n'erano tante che la maggior parte dovette restare in piedi. c'erano i principali della nobiltà, avvocati, impiegati, tutte le persone notabili d'Aix. Nessun accusato aveva mai avuto un tale uditorio. Quando furono aperte le porte per lasciar libero ingresso al popolo minuto, soli pochi curiosi poterono trovare posto. Gli altri si dovettero contentare di occupare i corridoi sino alla gradinata del palazzo. Da quella folla salivano su di tanto in tanto del mormorii e degli urli, il rumore dei quali, penetrando nella sala e spandendovisi, turbava la tranquilla maestà del luogo.

La tribuna era stata invasa dalle signore. Formavano lassù una massa compatta di volti ansiosi e sorridenti. Quelle che erano in prima fila si sventolavano, si spenzolavano, abbandonavano le loro mani inguantate sul velluto rosso della balaustrata. Indietro, nella penombra, si vedevano delle file di facce color di rosa, ma non si scorgevano i corpi ai quali appartenevano, perduti in mezzo alle trine, ai nastri, alle stoffe. E da quella folla chiacchierina e pronta ad arrossire uscivano delle risatine perlate, delle paroline sussurrate, dei piccoli gridi acuti.

Quando fu fatto entrare Filippo Cayol, scese un gran silenzio. Le signore se lo mangiavano con gli occhi; alcune puntarono sopra di lui dei cannocchiali da teatro, esaminandolo da capo a piedi. Il giovanotto, i cui energici lineamenti accusavano la violenza dei desideri, ebbe un grande successo. Alle donne, andate per giudicare del buon gusto di Bianca, la fanciulla parve meno colpevole quando ebbero veduto l'alta statura e lo sguardo aperto del suo amante.

Il contegno di Filippo fu calmo e dignitoso. Era vestito tutto di nero. Pareva non accorgersi della presenza dei due gendarmi che aveva accanto; e si alzava e si metteva a sedere con il garbo dell'uomo bene educato. Di tanto in tanto guardava la folla tranquillamente ma senza spavalderia. Si voltò parecchie volte verso la tribuna, ed ogni volta, suo malgrado, sorrise: sentiva anche lì il bisogno d'amare e il desiderio di piacere.

Fu letto l'atto d'accusa.

Era terribile per l'accusato. I fatti accaduti vi erano interpretati abilmente e severamente, secondo le deposizioni del signor di Cazalis e di sua nipote. Diceva l'atto che Filippo aveva sedotto Bianca servendosi di cattivi romanzi: si trattava realmente di due libri della signora de Genlis, roba da bambini.

L'accusa, accettando la versione di Bianca, diceva inoltre che la fanciulla era stata rapita violentemente; ch'essa per resistere si era attaccata ad un mandorlo, e che durante tutta la fuga il seduttore aveva dovuto ricorrere alle intimidazioni per farsi seguire dalla sua vittima. Il fatto più grave era asserito sulla fede di una affermativa della signorina di Cazalis: essa pretendeva di non avere mai scritto lettere a Filippo, e che le due lettere presentate dall'imputato le erano state fatte scrivere da lui, a Lambesc, con la data di molti giorni prima per misura di precauzione.

Terminata la lettura dell'atto d'accusa, la sala si riempì del rumoroso mormorio delle conversazioni particolari. Ognuno era andato lì sapendo la storia del fatto a suo modo, ed ognuno discuteva a mezza voce il racconto ufficiale. La folla rimasta fuori strillava. Il presidente minacciò di far sgombrare la sala e a poco a poco poté ottenere un po' di silenzio.

Cominciò allora l'interrogatorio di Filippo Cayol.

Quando il presidente gli ebbe rivolte le solite domande e gli ebbe ripetuti i motivi dell'accusa che pesava sopra di lui, Filippo senza rispondere disse a chiara voce:

- Sono accusato di essere stato rapito da una ragazza.

Tali parole fecero sorridere tutti gli spettatori. Le signore nascondevano il viso dietro il ventaglio per ridere senza farsi scorgere. Per quanto potesse parere insulsa ed assurda, la risposta di Filippo esprimeva esattamente la verità. Il presidente fece osservare con ragione, che non s'era mai veduto un uomo di trent'anni rapito da una fanciulla di sedici.

- Non si è neppur mai visto, - rispose tranquillo Filippo, - una fanciulla di sedici anni che percorre le strade maestre, traversa la città, incontra centinaia di persone, e non pensa a chiedere aiuto al primo che passa per essere liberata dal suo seduttore, dal suo carceriere.

E si mise a dimostrare l'impossibilità materiale delle violenze e delle intimidazioni delle quali era accusato. A qualunque ora del giorno Bianca sarebbe stata libera di lasciarlo, di domandare aiuto e soccorso; lo aveva seguìto perché gli voleva bene ed aveva consentito alla fuga. Filippo dimostrò grande affezione per la fanciulla, e molto rispetto per il signor di Cazalis. Confessò i propri torti e chiese semplicemente che non gli facessero far la figura di seduttore indegno.

L'udienza fu rimandata al domani per l'interrogatorio dei testimoni. La sera, la città era agitata: le signore parlavano di Filippo con ostentata indignazione; gli uomini di senno lo trattavano con minore severità; il popolo lo difendeva con energia.

Il giorno dopo la folla assalì più numerosa e più rumorosa le porte del Palazzo di Giustizia. I testimoni erano quasi tutti a carico. Il signor di Girousse non era stato citato: temevano la sua brusca franchezza; d'altronde egli avrebbe dovuto piuttosto essere arrestato come complice. Lo stesso Mario andò a pregarlo di non compromettersi, temendo egli pure l'animo violento del vecchio conte, che poteva fare gran danno con una delle sue tirate.

Un solo testimone depose in favore di Filippo: l'albergatore di Lambesc, il quale dichiarò che Bianca dava al suo compagno il nome di marito. Tale deposizione fu come cancellata da quelle degli altri testimoni. La lattaia Margherita si confuse e disse di non ricordarsi di aver portato le lettere della signorina di Cazalis all'imputato. A questo modo ogni testimonio serviva il signor di Cazalis o per paura, o per imbecillità, o per mancanza di memoria.

Una terza udienza fu necessaria per le arringhe. L'avvocato di Filippo lo difese con dignitosa semplicità. Non cercò di scusare quanto c'era di colpa nella condotta di lui; lo dipinse come uomo appassionato ed ambizioso, che si era lasciato sviare da speranze di ricchezze e d'amore. Ma provò nel tempo stesso che l'accusato non poteva essere condannato per ratto, e che l'accaduto escludeva di per se stesso ogni sospetto di violenza e d'intimidazione.

La requisitoria del procuratore del Re fu terribile. Si credeva che sarebbe stato meno severo, e le sue accuse energiche produssero un effetto disastroso. Il giurì pronunziò un verdetto affermativo. Filippo Cayol fu condannato a cinque anni di reclusione e alla berlina sopra una piazza di Marsiglia. Il giardiniere Ayasse fu punito con qualche mese di prigione.

Nella sala si udì un mormorio indefinito: fuori la folla rumoreggiava.

 

Capitolo 11 - NEL QUALE BIANCA E PINA SI TROVANO FACCIA A FACCIA

Bianca aveva assistito alla condanna di Filippo, nascosta in fondo alla tribuna. Era là, per ordine dello zio, che voleva soffocare in essa qualunque resto di affetto, mostrandole l'amante fra due gendarmi, come un ladro. Una vecchia parente si era incaricata di accompagnarla a quell'edificante spettacolo.

Mentre le due donne stavano aspettando, sulla scalinata del palazzo di giustizia, la loro carrozza, furono bruscamente separate dalla folla che si precipitava fuori da tutte le uscite.

Bianca, spinta in mezzo alla piazza dei Predicatori, fu riconosciuta dalle mercatine che cominciarono a insultarla e farle l'urlata.

- E' lei, è lei, - gridavano - la rinnegata! la rinnegata!

La povera fanciulla, smarrita, non sapendo dove rifugiarsi si sentiva morire di vergogna e di paura, quando una ragazza si fece largo in mezzo al gruppo che la circondava e andò a mettersele accanto.

Era Pina.

Anche la fioraia aveva assistito alla condanna di Filippo. Per tre ore di seguito aveva provate tutte le angosce del timore e della speranza: la requisitoria del procuratore generale l'aveva atterrita e s'era messa a piangere sentendo pronunciare la sentenza.

Usciva dal palazzo irritata, in uno stato di esaltazione terribile, quando udì le grida delle mercatine. Capì che Bianca era là, e che essa si sarebbe potuta vendicare ingiuriandola; e corse con i pugni serrati e la bocca piena d'insulti. Bianca era, secondo lei, la vera colpevole: aveva mentito, e commesso uno spergiuro ed una viltà. A quest'idea tutto il suo sangue plebeo le saliva alla testa e la spingeva a urlare e a percuotere.

E si precipitò, allontanando la folla, per prendersi la sua parte di vendetta.

Ma quando fu davanti a Bianca, quando la vide pallida di spavento, quella fanciulla tremante e debole le fece compassione. Le parve tanto piccina, tanto carina, d'una fragilità tanto delicata, che sentì nascersi in cuore una generosa idea di perdono. E, respinte con un gesto violento le donne che mostravano i pugni alla signorina, alzando la testa, a voce alta, gridò:

- Non vi vergognate? cento contro una! Dio non ha bisogno delle vostre urlate per castigarla... lasciateci passare.

Aveva preso Bianca per la mano e stava imperterrita, davanti alla folla che mormorava e che si stringeva più di prima per non lasciar passare le due ragazze. Pina aspettava, con le labbra pallide e tremanti. Rassicurava con lo sguardo la signorina e si accorse del suo stato. Impallidì e si avanzò verso le mercatine.

- Lasciatemi passare, - ripigliò con più forza. - Non vedete che la povera ragazza è incinta e che farete morire la sua creatura?

Mandò indietro con una spinta un grosso donnone che borbottava, e tutte le altre donne fecero largo.

Le ultime parole di Pina le avevano rese compassionevoli. Le due ragazze poterono allontanarsi. Bianca, rossa per la vergogna, si attaccava alla sua compagna e affrettava il passo.

La fioraia, per scansare la via del Ponte Moreau, piena di gente e di frastuono, prese la piccola strada San Giovanni. Giunta sul Corso accompagnò la signorina di Cazalis al suo palazzo, la porta del quale era aperta. Durante il tragitto non aveva aperto bocca.

Bianca la pregò di entrare nell'atrio e lì, socchiusa la porta, le disse con voce commossa:

- Signorina... come vi ringrazio di avermi soccorso... quelle donnacce cattive mi avrebbero ammazzata...

- Non mi ringraziate, - disse burberamente Pina, - ero venuta anch'io come le altre per insultarvi, per picchiarvi...

- Voi...

- Sì... vi detesto, vorrei che foste morta in fasce.

Bianca guardava la fioraia con sorpresa. I suoi istinti aristocratici ripigliavano in lei il sopravvento, e le sue labbra riprendevano una impercettibile espressione di sdegno. Le due ragazze si trovavano a tu per tu, l'una con tutta la sua grazia delicata, l'altra con la sua energica bellezza. Si contemplavano in silenzio, sentendo dentro di loro la rivalità della razza e del cuore.

- Siete bella, siete ricca, - ripigliò Pina con amarezza, perché siete venuta a portarmi via l'amante, quando volevate finire con l'odiarlo e col disprezzarlo? Dovevate cercarlo fra i vostri pari; avreste trovato un giovanotto pallido e vile quanto voi che vi avrebbe soddisfatto filando con voi il perfetto amore da bambina.

Non ci venite a portar via i nostri uomini, se no vi graffieremo i visini color di rosa.

- Non vi capisco, - balbettò Bianca che ricominciava ad aver paura.

- Non mi capite... Sentite... Io volevo bene a Filippo. Veniva a comprare delle rose tutte le mattine, e il mio cuore batteva come un martello quando gli davo i miei fiori. Ora ho saputo dove andavano a finire quei fiori. Un giorno mi hanno detto ch'era fuggito con voi. Ho pianto: poi ho pensato che lo avreste amato molto e reso felice. Invece l'avete fatto mettere in carcere...non ne parliamo più... via, se no mi riscaldo e vi picchio...

Si interruppe perché soffocava; poi continuò avvicinandosi, riscaldando col suo fiato ardente le guance gelate di Bianca:

- Voi non lo sapete come si fa a voler bene noialtre povere ragazze? Vogliamo bene con tutto il nostro corpo e tutta la nostra anima. Quando fuggiamo con un uomo non andiamo poi a dire ch'egli ha approfittato della nostra debolezza. Lo stringiamo nelle nostre braccia per difenderlo... Ah! se Filippo mi avesse voluto bene! Ma io sono disgraziata, povera, brutta...

E Pina singhiozzava, debole quanto la signorina di Cazalis. Questa le prese la mano e le disse piangendo:

- Per carità non mi accusate... Volete essere mia amica, volete che vi parli col cuore sulle labbra? Se sapeste quanto soffro! Io non posso far nulla: obbedisco a mio zio che mi tiene soggetta con le sue mani di ferro. Sono vile, lo so... ma non ho la forza di non esserlo. Amo Filippo e lo trovo sempre in me stessa... Me lo disse: - Se tu mi tradisci, la tua punizione sarà di amarmi eternamente, di sentirmi sempre nel tuo cuore... E qui, mi brucia e mi ucciderà. Or ora quando l'hanno condannato ho sentito dentro di me qualche cosa che trasaliva, che mi strappava le viscere...Io piango, vedete, e vi chiedo perdono.

Tutta la collera di Pina era svanita. Essa sostenne Bianca che sentiva mancarsi.

- Avete ragione, - continuava la fanciulla, - non merito pietà. Ho rovinato l'uomo che amo e che non mi amerà mai più... Per carità, se un giorno sarà vostro marito, ditegli che ho pianto, chiedetegli perdono per me. Impazzirei pensando che non posso fargli sapere quanto bene gli voglio: ne riderebbe e non capirebbe la mia viltà. No... non gli parlate di me. Mi dimenticherà... sarà meglio: sarò sola a piangere.

Successe una pausa di doloroso silenzio.

- E la vostra creatura? - domandò Pina.

- La mia creatura... - disse Bianca confusa - non lo so... mio zio me la prenderà...

- Volete che le faccia io da mamma?

La fioraia disse queste parole con voce affettuosa e solenne. La signorina di Cazalis la strinse fra le braccia in un abbraccio appassionato.

- Quanto siete buona, e come sapete amare... Procurate di vedermi a Marsiglia. Quando sarà il momento confiderò in voi.

Precisamente allora giunse la vecchia parente dopo aver cercato per un pezzo Bianca in mezzo alla folla. Pina scomparve e si avviò nuovamente per il Corso. Giunta in piazza dei Carmelitani, vide da lontano Mario che parlava con l'avvocato di Filippo.

Mario era disperato. Non s'era mai immaginato che il fratello potesse essere condannato ad una pena tanto severa. Lo spaventavano i cinque anni di carcere, ma lo atterriva forse più l'idea della berlina sopra una piazza pubblica di Marsiglia. In quella pena riconosceva la mano del deputato: il signor di Cazalis desiderava particolarmente di rendere Filippo indegno dell'amore di una donna.

Intorno a Mario la folla gridava protestando contro l'ingiustizia.

Il pubblico biasimava ad una voce l'esorbitanza della pena.

Mentre Mario si sfogava con l'avvocato, disperandosi, una mano leggera lo prese per un braccio. Si voltò subito e si vide accanto Pina calma e sorridente.

- Sperate e seguitemi, - essa gli disse a voce bassa, - vostro fratello è salvo.

 

Capitolo 12 - CHE PROVA COME IL CUORE DI UN CARCERIERE NON SIA SEMPRE DI PIETRA

Mentre Mario, prima del processo, correva inutilmente per la città, Pina, dal canto suo, aveva intrapreso una regolare campagna contro la coscienza di suo zio, il carceriere Revertègat.

S'era stabilita in casa di lui e passava le giornate nelle carceri. Procurava dalla mattina alla sera di rendersi utile, e farsi adorare da suo zio che viveva solo, come un orso brontolone, insieme alle due bambine. Gli toccò la corda dell'amor paterno, facendo delle carezze alle piccole e spendendo i propri risparmi in balocchi, chicche e abitini.

Le bambine non erano abituate ad esser trattate a quel modo, e si affezionarono straordinariamente alla cugina grande, che se le faceva saltare sulle ginocchia e regalava loro tante belle e buone cose. Il padre intenerito ringraziava Pina con vera eloquenza.

Subiva, suo malgrado, l'influenza penetrante della ragazza.

Brontolava quando era costretto a lasciarla. Pareva che essa avesse portato seco l'odore soave dei fiori, la freschezza delle rose e delle viole. L'alloggio del carceriere era profumato da quando la Pina vi si trovava sorridente e festosa; le sue gonnelle chiare parevano portarvi luce, aria allegria. Tutto rideva nella sala nera e Revertègat diceva ridendo d'avere in casa la primavera. Il brav'uomo dimenticava tutto per gli effluvi carezzanti di quella primavera; il suo cuore s'inteneriva, ed egli lasciava da parte la rozzezza e la severità, proprie del suo mestiere.

Pina era troppo furba per non sapere recitare la sua parte con gentile prudenza. Non precipitò; si contentò di convertire a poco a poco il carceriere alla pietà e alla dolcezza. Poi, lui presente, compianse Filippo e forzò lo zio a dichiarare che tenevano in carcere ingiustamente quel giovanotto. Quando vide d'aver lo zio in suo potere, ammansito ed obbediente, gli domandò se avrebbe potuto far visita a Filippo. Lo zio non osò dire di no; condusse egli stesso la nipote, la fece entrare e rimase fuori a fare la sentinella.

Pina rimase confusa davanti a Filippo. Lo guardava diventando rossa e dimenticando quanto aveva da dirgli. Filippo la riconobbe e le si avvicinò con aria affettuosa e cortese.

- Voi qui, cara fanciulla! - esclamò, - quanto siete buona venendo a farmi visita. Mi permettete di baciarvi la mano?

Filippo credeva d'essere nel suo quartierino di via Santa, e non era forse lontano dal sognare una nuova avventura. La fioraia, sorpresa, quasi offesa, ritirò la mano e guardò fissa e severa l'amante di Bianca.

- Siete matto, signor Filippo, - ella disse - sapete pure che ormai per me siete ammogliato... Parliamo di cose serie.

Abbassò la voce e disse in fretta:

- Il carceriere è mio zio: da otto giorni io lavoro per liberarvi.

Son venuta per dirvi che i vostri amici non vi dimenticano...Sperate.

Filippo ascoltando quelle buone parole, si pentì della sua amorosa accoglienza.

- Datemi la vostra mano - disse con voce commossa. - E' un vecchio amico che ve la chiede per stringerla come ad un camerata... Mi perdonate?

La fioraia sorrise senza rispondere.

- Credo di potervi presto spalancare la porta... Quando volete fuggire?

- Fuggire? Ma sarò assolto. Perché fuggire? Se me n'andassi dichiarerei da me stesso ch'io sono colpevole.

Pina non aveva pensato a tale ragionamento. Per lei Filippo era condannato anticipatamente: ma pure egli aveva ragione; bisognava aspettare la sentenza. Era rimasta in silenzio, pensosa e indecisa; Revertègat picchiò con le nocche due piccoli colpi sulla porta pregando Pina d'uscire.

- Dunque, - ella ripigliò, - tenetevi pronto. Se siete condannato, vostro fratello ed io prepareremo la vostra fuga... Fidatevi!

Se n'andò lasciando Filippo quasi innamorato. Intanto Pina aveva tempo sufficiente per conquistare lo zio. Continuò nel sistema già adottato, meravigliando quel buon uomo a furia di bontà e di modi graziosi, e facendogli compatire la sorte del prigioniero. Una sera, dopo aver intenerito Revertègat con tutte le moine che seppe inventare, arrivò a chiedergli addirittura la libertà di Filippo.

- Perbacco! - disse il carceriere - se dipendesse da me, gli aprirei subito la porta.

- Ma non dipende che da voi, zio mio, - rispose ingenuamente Pina.

- Ah! tu lo credi... Il giorno dopo mi metterebbero in mezzo a una strada ed io creperei di fame con le mie due creature.

La fioraia diventò seria a quelle parole. Poi, dopo un momento:

- Ma se vi dessi dei quattrini... se io volessi bene a quel giovanotto e vi pregassi a mani giunte di rendermelo...

- Tu... tu! - disse il carceriere sorpreso.

S'era alzato in piedi, e guardava la nipote per vedere se si burlava di lui. Quando la vide seria e commossa, si chinò, vinto, intenerito, facendo un gesto di consenso.

- Come vero me, farò quello che tu vorrai. Sei troppo bella e troppo buona figliola.

Pina lo baciò e parlò d'altro. Ormai era sicura di vincere. Più volte, di tanto in tanto, ritoccò quel tasto, ed abituò Revertègat all'idea di lasciar scappare Filippo. Non voleva gettare suo zio nella miseria e gli offrì una ricompensa di quindicimila franchi.

L'offerta fece perdere il lume degli occhi al carceriere che da quel momento appartenne a Pina, mani e piedi legati.

Perciò Pina aveva potuto dire a Mario, col suo intelligente sorriso: - Seguitemi... vostro fratello è salvo.

Condusse il giovanotto alle carceri. Strada facendo gli raccontò tutto il suo stratagemma, e gli disse come aveva fatto a conquistare lo zio a poco per volta. La rettitudine di Mario si ribellò da principio al racconto di quella commedia. Poi pensò agli intrighi del signor di Cazalis, e si calmò riflettendo che egli usava armi eguali a quelle del suo avversario.

Ringraziò Pina affettuosamente non sapendo come esprimerle la propria riconoscenza. La ragazza, felice di vederlo commosso, badava appena alle sue proteste di affetto.

Non poterono parlare con Revertègat prima di sera. Alle prime parole, il carceriere accennò a Mario le sue due bambine che si trastullavano in un canto della stanza.

- Signor mio - disse senza affettazione - ecco la mia scusa. Non vi chiederei un soldo se non dovessi dar da mangiare a quelle creature.

Mario abbreviò di quanto gli fu possibile quella scena penosa:

sapeva che il carceriere cedeva per guadagno e per affezione nel tempo stesso, e non potendo disprezzarlo, gli dava noia di concludere con lui un simile affare.

Tutto fu combinato in pochi minuti. Mario disse che la mattina dopo sarebbe partito per Marsiglia da dove sarebbe tornato con i quindicimila franchi promessi da Pina. Andava a prenderli dal suo banchiere: la madre aveva lasciato una cinquantina di mila franchi depositati presso il signor Bérard, uno dei più solidi e più stimati banchieri della città. La fioraia doveva restare a Aix ed aspettare il ritorno di Mario.

Partì pieno di speranza, parendogli già di vedere il fratello libero. A Marsiglia, appena sceso dalla diligenza, ricevette una notizia terribile che lo annientò: il banchiere Bérard era fallito.

 

Capitolo 13 - UN FALLIMENTO COME TANTI ALTRI

Mario corse al banco Bérard. Avendo la fede dei cuori onesti, non poteva credere alla brutta notizia. Strada facendo, diceva a se stesso che le voci messe in giro potevano esser calunnie, e si attaccava a folli speranze. In quel momento la perdita del suo patrimonio voleva dire la perdita del fratello. Gli pareva che il caso non potesse esser tanto crudele: il pubblico doveva ingannarsi e il Bérard lo avrebbe pagato.

Quando entrò nel banco l'angoscia gli strinse il cuore; vide la desolante realtà. Gli uffici erano vuoti: quelle grandi stanze deserte e silenziose, con gli sportelli chiusi e gli scrittoi sgombri, gli parvero funebri. Un disastro finanziario lascia dietro di sé una cupa desolazione. Dalle filze, dalle carte, dalla cassa usciva un vago odore di rovina. E dappertutto si vedevano le strisce di carta bianca ed i grandi sigilli rossi del sequestro legale.

Mario traversò tre stanze senza incontrare nessuno. Finalmente trovò un impiegato ch'era andato a prendere nello scrittoio qualche oggetto che gli apparteneva personalmente. L'impiegato disse sgarbatamente a Mario che il signor Bérard era nella sua stanza.

Il giovane entrò fremendo, e dimenticandosi di chiudere la porta.

Vide il banchiere che lavorava tranquillamente, scrivendo lettere, ordinando carte, facendo somme. Ancora giovane, alto di statura, di fisonomia bella ed intelligente, vestito con ricercatezza, aveva degli anelli al dito e l'aspetto d'uomo ricco e galante. Si poteva credere che si fosse vestito allora per ricevere i clienti e spiegare le cause della loro rovina.

Aveva un contegno coraggioso. Era una vittima rassegnata o un briccone matricolato che s'imponeva con la propria audacia.

Vedendo entrare Mario lo guardò in faccia e il suo volto ebbe un'espressione di leale tristezza.

- Vi aspettavo, caro signore - disse con voce commossa vedete, aspetto tutti quelli che ho rovinato. Avrò coraggio fino alla fine, ma voglio che ognuno possa assicurarsi che io non ho da arrossire.

Prese un libro e l'aprì sullo scrittoio, con affettazione.

- Ecco i miei conti - continuò. - Un milione di passivo, contro un milione e cinquecentomila franchi di attivo. Il tribunale liquiderà e voglio sperare che i miei creditori non perderanno un soldo. Io sto peggio di tutti, avendo perduto quattrini e credito, derubato indegnamente da debitori insolvibili.

Mario non aveva ancora aperto bocca. Vedendo la calma rassegnata del Bérard, e quell'apparenza di dolore austero, non riusciva più a trovare né un grido di rimprovero, né una parola di sdegno.

Compativa quasi quell'uomo che sfidava la tempesta; finalmente gli disse:

- Perché non m'avete prevenuto quando vi siete accorto che i vostri affari s'imbrogliavano e minacciavano una catastrofe? Mia madre era amica della vostra. In grazia delle nostre antiche relazioni dovevate farmi ritirare la somma che stavate per compromettere... La vostra rovina mi spoglia assolutamente di tutto e mi getta nella disperazione.

Il Bérard si avvicinò e prese le mani di Mario.

- Non lo dite, - esclamò con voce piagnucolosa, - non mi mortificate. Non sapete quali crudeli rimorsi mi torturano...quando ho visto l'abisso, ho voluto attaccarmi ai rasoi: ho lottato fino all'ultimo, sperando di salvare i capitali confidatimi in deposito... non sapete quali terribili rischi si corrono, maneggiando i denari altrui!

Mario non seppe rispondere. Che cosa poteva dire ad un uomo che si scusava accusandosi? Non avendo prove non poteva trattare il Bérard come un imbroglione, e non gli restava che andarsene. Il banchiere parlava con tanto dolore nella voce e in modo tanto franco e penetrante ch'egli si affrettò ad uscire per lasciarlo tranquillo.

Traversando di nuovo le stanze vuote vide l'impiegato che aveva finito di raccogliere la propria roba farne un involto e pigliare il cappello. Quell'impiegato seguì Mario borbottando. Per le scale lo guardava in un modo strano, alzando le spalle. Fuori sul marciapiede, lo fermò senza complimenti.

- Che cosa ve ne pare del signor Bérard...? Bravo commediante, non è vero? La porta della stanza era rimasta aperta ed ho riso parecchio a vedere le sue smorfie di desolazione. E' mancato poco che non abbia pianto, quel degno uomo! Permettete che ve lo dica:

vi siete lasciato canzonare proprio in tutta regola.

- Non vi capisco - rispose Mario.

- Tanto meglio. Vuol dire che siete un giovane onesto... Io lascio questa baracca veramente con giubilo. M'aspettavo da un pezzo il colpo, ed avevo preveduto lo scioglimento di questa gran commedia ladresca. Ho buon odorato per accorgermi quando in un banco si ruba.

- Spiegatevi!

- E' una cosa semplicissima, ve la spiego in due parole. Dieci anni fa Bérard ha aperto un banco. Oggi son convinto che dal primo giorno preparava il suo fallimento. Egli deve aver ragionato a questo modo: Voglio esser ricco, perché ho desideri in grande; voglio arricchire presto perché mi preme di soddisfare presto i miei desideri. La strada diritta è lunga e faticosa; preferisco la scorciatoia dello scrocco e metterò da parte il mio milione in dieci anni. Mi metterò a fare il banchiere e avrò una cassa per prendere... i capitali del pubblico. Ogni anno farò sparire una somma rotonda, fin quando occorra. Smetterò quando avrò piene le tasche. Allora sospenderò tranquillamente i miei pagamenti, e di due milioni statimi affidati restituirò generosamente ai miei creditori due o trecentomila franchi. Il resto, nascosto dove so io, mi servirà a campare come piace a me, da uomo pigro e voluttuoso. Avete capito?

Mario ascoltava stupefatto.

- Ma - esclamò finalmente - è impossibile quel che mi raccontate.

Bérard mi ha detto che il suo passivo è un milione e l'attivo un milione e mezzo. Saremo pagati tutti fino al centesimo.

L'impiegato si mise a ridere sgangheratamente.

- Santo Dio! quanto siete ingenuo! Ci credete davvero a un attivo di un milione e mezzo? Prima di tutto bisognerà prelevare da questa somma la dote della signora Bérard. La signora Bérard ha portato in dote al marito cinquantamila franchi che Bérard ha trasformati, nel contratto nuziale, in cinquecento bei mila franchi: un piccolo furto di quattrocento cinquantamila franchi, come vedete. Rimane un milione quasi tutto rappresentato da finti crediti... Il sistema è facilissimo. A Marsiglia c'è della gente che vende la propria firma per cinque franchi; e questo mestiere facile e lucrativo rende abbastanza bene. Bérard si è fatto firmare mucchi di cambiali da questi uomini di paglia e si è messo in tasca le somme che dice di aver prestato a debitori insolvibili. Vi dovrete dichiarar contento se vi daranno il dieci per cento, se ve lo daranno, fra diciotto mesi, due anni, quando il sindaco del fallimento avrà terminato il suo lavoro.

Mario era sconcertato. I cinquantamila franchi lasciati da sua madre si cambiavano in una somma inconcludente. Aveva bisogno subito di denaro, e gli dicevano di aspettare due anni. E la sua rovina, la sua disperazione erano opera di uno scellerato che lo aveva canzonato. Sentiva salirsi la collera al viso.

- Questo Bérard è un briccone, - esclamò con forza. - Sarà energicamente perseguitato. Bisogna sbarazzare il mondo da questi uomini abili che arricchiscono rovinando il prossimo. Finirà in galera...

L'impiegato scoppiò in un'altra risata.

- Bérard si piglierà forse quindici giorni di carcere... Ecco fatto. Voi ricominciate a non capire? Mi spiego.

I due giovani erano rimasti fermi sul marciapiede. Per non pigliare le spinte di chi passava rientrarono nell'atrio della casa del banchiere.

- Dite che Bérard andrà in galera... In galera ci vanno i malaccorti. Nei dieci anni durante i quali prepara e vagheggia il suo fallimento, il nostro uomo ha preso le sue precauzioni:

un'infamia simile è un'opera d'arte. I suoi conti appaiono in regola, ed egli ha la legge dalla sua. Sa già i pochi rischi che corre. Il tribunale potrà tutt'al più rimproverargli di essere stato troppo largo nelle sue spese personali: l'accuseranno di aver messo in giro troppe cambiali, mezzo rovinoso per procurarsi denari. Tali colpe procurano una punizione derisoria. Bérard, ve l'ho detto, se la caverà con quindici giorni, o un mese di carcere.

- Ma non si può proclamare in pubblico il delitto di quest'uomo, provarlo, e farlo condannare?

- No... non si potrebbe farlo. Mancano le prove, ve l'ho già detto. Bérard non ha perduto il tempo; ha preveduto tutto, si e procurato delle amicizie potenti in Marsiglia, sapendo d'averne bisogno un giorno o l'altro. Ora, in questa città di cricche, è un personaggio inviolabile: a torcergli un capello tutti i suoi amici griderebbero addolorati e furiosi. Tutt'al più lo terranno in carcere qualche giorno per salvare le apparenze. Quando ne uscirà troverà il suo milioncino, farà pompa del suo lusso, e gli sarà facile procurarsi una nuova stima. Allora lo incontrerete in carrozza, in panciolle sopra i cuscini, e le ruote della sua carrozza vi sporcheranno di fango: lo vedrete noncurante ed ozioso, con una casa piantata in lusso, godere tutti i piaceri dell'esistenza. E per ricompensare degnamente questo trionfo del furto lo saluteranno, gli vorranno bene, e gli apriranno un nuovo credito d'onore e di reputazione.

Mario stava ferocemente silenzioso. L'impiegato lo salutò, e prima di allontanarsi aggiunse:

- E' così che si recita la farsa! Avevo tutto ciò sullo stomaco e sono contento di avervi incontrato per sbarazzarmene... Ora vi darò un buon consiglio: non dite a nessuno quanto vi ho raccontato; dite addio ai vostri quattrini, e non vi occupate più di questo brutto affare. Riflettete bene e vedrete se ho ragione.

Vi riverisco.

Mario rimase solo. Gli venne una voglia matta di risalire al banco di Bérard e pigliarlo a schiaffi. I suoi istinti di probità e di giustizia si ribellavano, lo spingevano a trascinare il banchiere in mezzo alla strada, proclamando il suo delitto. Poi il disgusto successe allo sdegno; si rammentò la sua povera mamma indegnamente ingannata da quell'uomo, e sentì per lui un disprezzo profondo.

Accettò il consiglio dell'impiegato, e s'allontanò da quella casa sforzandosi di dimenticare d'aver posseduto dei denari derubatigli da un briccone.

Tutto quanto l'impiegato gli aveva detto accadde realmente: Bérard fu condannato a un mese di carcere per fallimento semplice. Un anno dopo, fresco come una rosa, camminando con piglio insolente, passeggiava per Marsiglia con il buon umore dell'uomo ricco.

Faceva sentire il suono della sua borsa nei circoli, nelle trattorie, nei teatri, dovunque c'erano dei piaceri da comprare a denaro sonante. E incontrava dappertutto qualche compiacente o qualche imbecille che gli facevano tanto di scappellata.

 

Capitolo 14 -CHE DIMOSTRA COME SI POSSANO SPENDERE TRENTAMILA FRANCHI L'ANNO GUADAGNANDONE MILLE OTTOCENTO

Mario scese senza accorgersene verso il porto. Andava dove lo portavano le gambe. Una sola idea martellava nella sua testa, ripetendogli col monotono ritornello di un doppio di campane, che gli erano necessari quindicimila franchi subito. Si guardava intorno con lo sguardo incerto dei disperati come se cercasse in terra, fra due pietre del selciato, la somma della quale aveva bisogno.

Sul porto provò la bramosia d'esser ricco. Lo irritavano le mercanzie ammonticchiate lungo le banchine di scarico, i bastimenti che arrivavano portando dei patrimoni, il rumore, il movimento di quella folla che guadagnava quattrini. Non s'era mai accorto tanto della propria miseria. Per un momento provò un sentimento d'invidia, di ribellione, di gelosa amarezza. E domandò a se stesso perché egli era povero e tanti altri erano ricchi.

E la campana gli martellava sempre nel cervello. Quindicimila franchi! quindicimila franchi! gli pareva di sentirsi spezzare il cranio. Non poteva tornare a mani vuote. Suo fratello lo aspettava: gli restavano solo poche ore per salvarlo dall'infamia.

Non trovava nulla: la sua intelligenza intormentita non gli suggeriva neppure un'idea pratica. Si aggirava nella propria impotenza, torturava invano lo spirito, si dibatteva strangolato dalla collera e dall'angoscia.

Non avrebbe mai osato chiedere un prestito di quindicimila franchi al signor Martelly suo principale. Il suo stipendio non era sufficiente per garantire quel prestito: d'altronde conosceva la rigidità di princìpi dell'armatore e ne temeva i rimproveri, qualora gli avesse detto di voler comprare la coscienza di un uomo. Il signor Martelly gli avrebbe risposto con un rifiuto.

Ad un tratto gli venne un'idea. Non voleva discuterla e si diresse frettoloso verso la sua abitazione in via Santa.

Sullo stesso pianerottolo di Mario abitava un giovane impiegato, Carlo Bletry, esattore della saponeria dei signori Daste e Degans.

C'era una specie d'intimità fra i due giovanotti che abitavano l'uno accanto all'altro. Mario era stato attratto dalla bontà di Carlo che frequentava le chiese, teneva una condotta esemplare, e pareva di grande probità. Da due anni però spendeva molto; aveva ammobiliato il suo quartierino veramente con lusso, comprando tappeti, parati, specchi, mobili ricchi. Tornava a casa più tardi, viveva più alla grande; ma continuava a sembrare buono ed onesto, tranquillo e pio.

Da principio Mario s'era meravigliato vedendo spendere tanto il suo vicino, non potendo capire come un impiegato con milleottocento franchi di stipendio potesse comprare della roba tanto cara. Ma Carlo gli aveva detto d'avere ereditato, aggiungendo che faceva conto di rinunciare al suo posto per vivere delle proprie rendite. Anzi si era messo a disposizione di Mario offrendogli la sua borsa. Mario aveva rifiutato l'offerta.

In quel punto se ne ricordava. Andava a picchiare all'uscio del suo giovane amico per chiedergli i mezzi necessari a salvare suo fratello. Un prestito di quindicimila franchi non poteva scomodare ad un uomo che buttava via i quattrini a palate. Faceva conto di rimborsarlo a poco a poco, persuaso che Carlo gli avrebbe accordato tutto il tempo necessario.

Non trovò Carlo in via Santa, ed avendo fretta, s'avviò verso la saponeria Daste e Degans, situata sul boulevard delle Dame.

Quando vi giunse e domandò di Carlo Bletry lo guardarono in modo strano. Gli operai gli dissero bruscamente di dirigersi direttamente al signor Daste ch'era nel suo scrittoio.

Mario, sorpreso di quell'accoglienza, si decise a parlare con l'industriale. Lo trovò in colloquio con tre signori che tacquero quando egli si presentò.

- Potrebbe dirmi, - domandò Mario, - se il signor Carlo Bletry è in fabbrica?

Daste dette una rapida occhiata ad uno dei tre, un signore grosso, pallido e severo.

- Il signor Carlo Bletry starà poco ad arrivare, - rispose, abbiate la bontà d'aspettarlo... Siete suo amico?

- Sì, - rispose ingenuamente Mario, - abitiamo nella stessa casa... Lo conosco da quasi tre anni.

Vi fu un momento di silenzio. Mario credendo di dar noia, aggiunse salutando ed avviandosi verso la porta:

- Vi ringrazio... vado ad aspettarlo fuori.

Allora il signore grosso disse qualche parole all'industriale. Il signor Daste trattenne Mario con un gesto:

- Restate pure, ve ne prego... La vostra presenza può giovarci.

Dovete conoscere di certo le abitudini del Bletry e ci potrete dare delle informazioni sul suo conto.

Mario, sorpreso, non arrivando a capire, fece una mossa d'uomo esitante.

- Scusate, - disse il signor Daste con molta cortesia, - mi accorgo che le mie parole vi sorprendono.

Accennò al signore grosso e continuò:

- Questo signore è il commissario di polizia del quartiere e l'ho fatto chiamare per arrestare Carlo Bletry che in due anni ci ha rubato sessantamila franchi.

Mario capì tutto sentendo accusare Carlo di furto. Si spiegò le spese pazze del giovanotto e fremette all'idea di aver potuto accettare le sue offerte. Non lo avrebbe mai creduto capace di un'azione tanto bassa. Sapeva che a Marsiglia, come in tutti i grandi centri industriali, vi sono degl'impiegati che rubano ai principali per mantenere i propri vizi ed il lusso: aveva sentito più volte parlare di impiegati che guadagnano cento o centocinquanta lire al mese, e trovano il modo di perdere delle grosse somme al gioco, di regalare dei marenghi alle ragazze, e di far vita nei caffè e nelle trattorie. Ma Carlo pareva tanto pio, tanto modesto, tanto onesto, aveva saputo recitare con tanta arte la sua parte di ipocrita, ch'egli s'era lasciato ingannare dalle apparenze di probità, ed aveva ancora qualche dubbio, nonostante l'accusa formale del signor Daste.

Sedette aspettando la catastrofe del dramma. Non poteva fare diversamente. Per una mezz'ora in quella stanza regnò un cupo silenzio. L'industriale s'era messo a scrivere: il commissario e i due agenti, silenziosi e quasi addormentati, guardavano vagamente dinanzi a loro con una pazienza terribile. Un tale spettacolo avrebbe fatto diventare onesto Mario se non lo fosse già stato.

Si sentì un rumore di passi. La porta si aprì lentamente.

- Ecco il nostro uomo, - disse Daste alzandosi in piedi.

Carlo Bletry entrò senza sospettare di nulla. Non fece neppur caso delle persone riunite in quella stanza.

- Mi avete fatto chiamare? - disse con la cantilena degl'impiegati che parlano con i superiori.

Vedendo che Daste lo guardava fisso, si voltò e si accorse della presenza del commissario ch'egli conosceva di vista.

Diventò pallido, capì d'essere scoperto, e cominciò a tremare da capo a piedi. Era andato incontro al castigo da sé, a testa avanti. Sentendo che il suo turbamento lo accusava, si sforzò di parer calmo, di ritrovare un po' di sangue freddo e di audacia.

- Sì, vi ho fatto chiamare, - rispose Daste con violenza. Sapete il perché, non è vero? miserabile, non mi ruberete più...

- Non so cosa vogliate dire, - balbettò Bletry, - non ho rubato nulla. Di che cosa mi accusate?

Il commissario s'era seduto al tavolino dell'industriale per redigere il processo verbale. I due agenti stavano a guardia dell'uscita.

- Signor Daste, - disse il commissario, - ditemi in quale occasione vi siete accorto delle sottrazioni commesse, secondo voi, dal signor Bletry a vostro danno?

Daste raccontò la storia del furto. Disse che l'esattore faceva alcune riscossioni con molta lentezza. Ma tale lentezza era stata attribuita alla cattiva volontà dei debitori tanta era la fiducia della quale godeva il giovane impiegato Le prime sottrazioni dovevano essere state commesse da almeno diciotto mesi. Finalmente il giorno prima, essendo fallito un suo cliente, egli era andato a reclamare un pagamento di cinquemila franchi ed aveva saputo che Bletry li aveva già riscossi da qualche settimana. Spaventato era tornato allo stabilimento e si era convinto, esaminando i libri di cassa, che gli mancavano circa sessantamila franchi.

Il commissario sottopose quindi ad un interrogatorio Bletry. Il giovane colto alla sprovvista, non potendo negare, inventò una storia ridicola.

- Un giorno, - egli disse, - ho perduto un portafogli che conteneva quarantamila franchi. Non ho osato confessare al signor Daste la grossa perdita. Allora ho cominciato a profittare di qualche somma per giocare alla Borsa sperando di guadagnare e rimborsare la ditta.

Il commissario gli domandò dei particolari, lo confuse, lo obbligò a contraddirsi. Bletry tentò di dire un'altra bugia.

- Avete ragione... non ho perduto il portafogli; preferisco confessare tutto. Sono stato derubato io stesso. Avevo dato alloggio a un giovanotto al quale mancava il pane. Una notte è fuggito portandomi via l'incasso della giornata... una somma enorme.

- Guardate... non aggravate la vostra colpa con le menzogne, disse il commissario con la pazienza desolante degli impiegati di polizia, - capirete bene che non possiamo credere le fandonie che ci raccontate.

Si rivolse verso Mario e continuò:

- Ho pregato il signor Daste di trattenervi perché ci aiutiate... L'imputato è vostro coinquilino, avete detto. Non sapete nulla del suo modo di vivere, non lo potreste scongiurare con noi di dire la verità?

Mario rimase terribilmente imbarazzato. Bletry gli faceva compassione: esso barcollava come un ubriaco, e lo supplicava con lo sguardo. Non era un briccone indurito nel vizio: era vittima di qualche passione, di viltà di cuore e di animo.

La coscienza di Mario parlava forte e gli ordinava di dire quanto sapeva. Non rispose al commissario; preferì indirizzare la parola al Bletry.

- Sentite, Carlo, - gli disse, - non so se siate reo. Vi ho sempre veduto buono e tranquillo. So che date da vivere a vostra madre e che tutti i vostri conoscenti vi vogliono bene. Se avete commesso un errore, confessate il vostro accecamento: farete soffrire meno quelli che vi stimano e vi amano, accusando francamente voi stesso e mostrandovi sinceramente pentito.

Mario parlava con voce affettuosa e convincente. Bletry, rimasto silenzioso e sordamente irritato dopo le parole del commissario, fu commosso dall'indulgenza dell'amico. Pensò alla madre, alla stima ed alle amicizie che stava per perdere, e sentì serrarsi la gola.

Scoppiò in singulti: pianse a calde lacrime, nascondendo gli occhi nelle mani chiuse, e per parecchi minuti si udirono soltanto gli sfoghi della sua disperazione. Era una confessione completa. Tutti tacevano.

- Sì, - esclamò finalmente piangendo, - ho rubato, sono un miserabile... non sapevo più quel che facevo. Ho preso prima qualche centinaio di franchi; poi me ne occorrevano mille, duemila, diecimila per volta. Mi pareva che qualcuno mi spingesse di dietro... E i miei bisogni, i miei desideri crescevano sempre.

- Che cosa avete fatto di tutte le somme sottratte? - domandò il commissario.

- Non lo so... Le ho regalate, le ho mangiate, le ho perdute al gioco. Non sapete quello che vuol dire... Nella mia miseria ero tranquillo e non pensavo a nulla; mi piaceva d'andare a pregare in chiesa, e vivere da onest'uomo... Ho gustato il lusso ed il vizio... ho avuto delle amanti, ho comprato dei bei mobili. Ero pazzo.

- Potreste nominarmi le ragazze con le quali avete mangiato i quattrini rubati.

- Le conosco forse di nome? Le trovavo di qui e di là, dappertutto, per la strada e nei balli pubblici; venivano con me perché avevo le tasche piene di marenghi e se ne andavano quando li avevo finiti... Poi ho perduto molto al baccarat, nei circoli... Son diventato ladro vedendo dei figli di famiglia buttar via i quattrini dalle finestre e impoltronirsi nella ricchezza e nell'ozio. Ho voluto anch'io possedere delle donne, godere dei piaceri ardenti, delle notti di gioco e d'orgia. Avevo bisogno di trentamila franchi l'anno e ne guadagnavo mille ottocento... Allora ho rubato.

Il disgraziato, soffocato dal dolore, si lasciò cadere sopra una sedia. Mario si avvicinò al signor Daste, egli pure commosso, supplicandolo a essere indulgente. Si affrettò ad andarsene perché quella scena gli aveva fatto sanguinare il cuore. Lasciò Bletry inebetito in una specie di stupore nervoso. Qualche mese dopo seppe che quel giovane era stato condannato a cinque anni di prigione.

Quando Mario fu uscito fuori si sentì sollevato. Capì che i fatti gli avevano servito di lezione assistendo all'arresto di Carlo.

Poche ore prima sul porto aveva avute delle brutte idee e ora aveva potuto accorgersi dove conducono.

A un tratto si ricordò a quale scopo era andato alla saponeria.

Gli rimaneva un'ora di tempo per trovare i quindicimila franchi per salvare il fratello.

 

Capitolo 15 - NEL QUALE FILIPPO NON VUOLE METTERSI IN SALVO

Mario dovette riconoscere la propria impotenza. Non sapeva più a quale porta bussare. Un semplice impiegato non trova in un ora da farsi prestare quindicimila franchi.

Percorse lentamente la via d'Aix lambiccandosi il cervello e non trovando nulla nel fondo dei suoi pensieri affaticati. Il bisogno di denaro è terribile: si preferirebbe lottare contro un assassino anziché contro il fantasma invisibile ed opprimente della povertà.

Nessuno ha potuto finora inventare un pezzo da cinque franchi.

Quando Mario giunse disperato, stretto dal bisogno, sul corso Belzunce, si decise a tornare a Aix a mani vuote. La diligenza stava partendo: c'era rimasto un posto solo sull'imperiale. Mario prese quel posto volentieri; preferiva stare all'aria aperta, perché l'ansietà lo soffocava, e sperava che i larghi orizzonti della campagna calmassero la sua febbre.

Il viaggio fu triste. Era passato di mattina davanti agli stessi alberi, alle stesse colline, e la speranza che allora lo faceva sorridere gettava degli allegri riflessi sui campi ed i colli.

Rivedeva adesso quel paese che specchiava tutta la tristezza dell'anima sua. La pesante vettura correva senza posa: le terre lavorate, i boschi di pini, i piccoli casolari si stendevano lungo la strada, e Mario trovava in ogni punto di vista un lutto più nero, un dolore più acuto. Annottò e gli parve che tutto il paesaggio si coprisse d'un immenso velo di lutto.

Arrivato a Aix si avviò a passo lento verso le carceri. Gli pareva che sarebbe arrivato sempre troppo presto con la triste notizia.

Quando entrò nell'abitazione del carceriere erano le nove di sera.

Per ammazzare il tempo Revertégat e Pina giocavano alle carte sopra un angolo della tavola.

La fioraia si alzò con un movimento di gioia e corse incontro al giovanotto.

- Dunque? - domandò essa con aperto sorriso, voltando indietro la testa con civetteria.

Mario non osò rispondere. Si mise a sedere, affranto.

- Dunque parlate, - esclamò Pina, - avete i denari?

- No, - rispose semplicemente Mario.

Ripreso fiato, raccontò il fallimento di Bérard, l'arresto di Bletry, tutte le disgrazie che gli erano capitate a Marsiglia, e terminò dicendo:

- Ora sono un povero diavolo... Mio fratello rimarrà in prigione.

La fioraia restò dolorosamente sorpresa. Con le mani giunte, in quell'atteggiamento di pietà che prendono le donne di Provenza, essa ripeteva lamentosamente:

- Poveri, poveri noi!

Guardava lo zio e sembrava volesse spingerlo a parlare, Revertégat contemplava i due giovani con compassione. Si vedeva che in lui c'era lotta. Finalmente risoluto egli disse a Mario:

- Sentite, il mio mestiere non mi ha indurito il cuore al punto di essere insensibile al dolore della brava gente. Vi ho già detto perché vendevo la libertà di vostro fratello. Ma non vorrei che mi credeste spinto soltanto dall'amore del denaro. Se dolorose circostanze vi impediscono di proteggermi per il momento dalla miseria, non per questo mi tratterrò dall'aprire la porta al signor Filippo... Mi soccorrerete più tardi... mi darete i quindicimila franchi, soldo per soldo, quando potrete.

Pina sentendo tali parole batté le mani. Saltò al collo dello zio e lo baciò sulla bocca. Mario si fece pensieroso.

- Non posso accettare il vostro sacrifizio, - egli rispose. - Mi facevo un rimprovero di farvi mancare al vostro dovere, e non voglio aggravare la mia responsabilità mettendovi sul lastrico, senza un tozzo di pane.

La fioraia si voltò stizzita verso il giovane.

- State zitto voi, - esclamò. - Bisogna salvare Filippo... voglio così... D'altronde non abbiamo bisogno di voi per aprire le porte della prigione. Venite, zio... se Filippo acconsente, suo fratello non potrà dir nulla in contrario.

Mario seguì la giovane e il carceriere che si avviarono verso la cella del prigioniero Avevano preso una lanterna cieca, e si avanzarono pian pianino per i corridoi, per non farsi sentire.

Tutti e tre entrarono nella cella e chiusero la porta dietro di loro. Filippo dormiva. Revertégat, intenerito dalle lacrime della nipote, addolciva quanto poteva per Filippo il regime severo delle carceri: gli portava la colazione e il pranzo che Pina preparava per lui; gli portava dei libri, e gli aveva dato anche una coperta di più. La cella era diventata abitabile e Filippo non vi si annoiava troppo, sapendo d'altronde che si preparava il modo di farlo fuggire.

Si svegliò e stese le mani con slancio al fratello ed alla fioraia.

- Venite a prendermi? - domandò egli sorridendo.

- Sì, - rispose Pina, - vestitevi subito.

Mario stava zitto. Il suo cuore batteva forte. Temeva che un cocente desiderio di libertà facesse accettare a suo fratello l'offerta di fuga ch'egli aveva creduto di dover rifiutare.

- Sicché tutto è fissato ed accomodato, - ripigliò Filippo. Posso fuggire senza paura e senza rimorsi... Avete i denari promessi? Tu non rispondi nulla, Mario?

Pina si affrettò a parlare:

- Vi ho detto di far presto, - esclamò, - di che cosa v'impicciate, voi?

Aveva preso i vestiti di Filippo e glieli porgeva, aggiungendo che andava ad attendere nel corridoio.

Mario la trattenne col gesto.

- Scusate, non posso lasciare ignorare a mio fratello le nostre sventure.

E nonostante l'impazienza di Pina raccontò di nuovo le peripezie della sua gita a Marsiglia. Non dava alcun consiglio; voleva soltanto lasciare piena libertà a suo fratello.

- Ma allora, - disse Filippo atterrito, - non hai dato i denari al carceriere. Siamo senza un quattrino, dunque!

- Non ve ne date pena, - rispose il carceriere avvicinandosi. Mi aiuterete più tardi.

Il prigioniero rimase muto. Non pensava più a fuggire; pensava alla miseria, alla triste figura che avrebbe fatto d'allora in poi nelle passeggiate di Marsiglia. Non più abiti eleganti, non più ozio, non più amori. D'altra parte c'erano in lui sentimenti cavallereschi, idee da poeta che non gli consentivano di accettare il sacrifizio di Revertégat.

Rientrò nel suo povero letto, si tirò la coperta fino al mento e disse con voce tranquilla:

- Va bene, rimango.

Il volto di Mario era raggiante. Pina rimase avvilita.

Volle dimostrare la necessità della fuga, parlò dell'infamia della berlina. Si animava, era bellissima nella sua collera, e Filippo la guardava ammirandola.

- Mia bella figliola, - le disse, - mi fareste forse cedere ai vostri inviti se non fossi divenuto cieco e caparbio in questa prigione... Ma per dire il vero ho già commesse tante vigliaccherie da non volermi caricare di più la coscienza... Sarà quello che Dio vorrà... Tutto non è perduto Mario mi libererà!troverà i denari... vedrete. Mi verrete a prendere quando egli avrà pagato il mio riscatto. Noi fuggiremo insieme e vi darò un bacio...

Parlava quasi scherzando. Mario gli prese la mano e gli disse:

- Grazie, fratello... confida in me.

Pina e Revertégat uscirono. Filippo e Mario restarono soli per qualche minuto. Parlarono seri e commossi; parlarono di Bianca e della sua creatura.

Quando i tre visitatori furono di nuovo nell'abitazione del carceriere, la fioraia cominciò a disperarsi di nuovo domandando a Mario che cosa intendesse di fare - Vado a rimettermi all'opera, - disse. - Il male è che abbiamo fretta e non so a chi rivolgermi.

- Posso darvi un consiglio, - disse Revertégat. - C'è in città, a due passi di qui, un banchiere, il signor Rostand che forse consentirà a prestarvi una forte somma. Ma vi prevengo che questo Rostand ha la riputazione d'essere uno strozzino...

Mario non poteva scegliere i mezzi per riuscire al suo scopo.

- Vi ringrazio, - egli disse, - domattina andrò a cercarlo.

 

Capitolo 16 -I SIGNORI STROZZINI

Il signor Rostand era un uomo abile. Esercitava con la massima tranquillità la sua vergognosa industria. Per darle un'apparenza onorevole aveva aperto un banco: pagava la sua patente, era in regola con la legge. All'occasione, sapeva anche avere un po' d'onestà, e prestava allo stesso interesse degli altri banchieri della città, suoi colleghi. Ma aveva, per così dire, un retrobottega nel quale macchinava le sue birbonate.

Sei mesi dopo aperto banco, diventò il gerente di una società d'usurai, d'una banda nera che gli affidò dei capitali. La combinazione finanziaria fu fatta con patriarcale semplicità. Chi aveva il bernoccolo dell'usura e non osava fare affari per conto proprio, a tutto rischio e pericolo, gli portò i denari pregandolo di farli fruttare. Così egli poté avere da maneggiare delle somme considerevoli, e profittare largamente delle angustie di chi aveva bisogno d'un prestito. Quelli che davano i quattrini restavano sconosciuti. Rostand si era impegnato solennemente a prestare a interessi favolosi, al cinquanta, al sessanta, ed anche all'ottanta per cento. Ogni mese i sovventori si riunivano in casa sua; egli presentava i conti e si ripartivano gli utili. Ma Rostand faceva in modo da buscarsi sempre la parte più grossa e rubare ai ladri.

S'attaccava particolarmente al piccolo commercio. Quando un negoziante lo andava a cercare alla vigilia d'una scadenza, gli imponeva delle condizioni esorbitanti. Il negoziante le accettava sempre e in questo modo Rostand era stato causa d'una cinquantina di fallimenti in dieci anni. Tutto gli serviva: prestava cinque franchi a un'erbivendola come mille a un mercante; non perdeva mai l'occasione di prestar dieci franchi oggi per farsene rendere dodici domani. Faceva la posta ai figlioli di famiglia, ai giovanotti scapestrati che buttano i quattrini fuor di finestra e stava pronto a raccogliere quelli che cadevano. Faceva dei giri in campagna, tentando i contadini, e quando il raccolto era stato cattivo, portava via pezzo per pezzo le loro cascine e i loro terreni.

La sua casa era divenuta una vera trappola dentro la quale sparivano i patrimoni. Si citava il nome di persone, d'intere famiglie rovinate da lui. Nessuno ignorava tutte le combinazioni segrete del suo mestiere. S'indicavano a dito i suoi sovventori, ricchi possidenti, pensionati dello Stato, negozianti, perfino operai. Ma non c'erano prove. La patente di banchiere metteva Rostand al sicuro ed egli era troppo furbo per farsi cogliere in fallo.

Una volta sola, da quando esercitava il suo mestiere s'era trovato in pericolo. Il fatto fece gran rumore. Una signora di ricca famiglia prese in prestito da lui una grossa somma; era donna molto caritatevole ed aveva sciupato il suo denaro dando di qua e di là, facendo grandi elemosine. Sapendola completamente rovinata, Rostand pretese ch'essa firmasse delle cambiali col nome del fratello: con quelle firme false nelle mani era sicuro di esser pagato dal fratello cui premeva di evitare uno scandalo. La povera signora firmò. La carità per il prossimo l'aveva rovinata: la debole bontà del suo carattere la fece soccombere. Rostand aveva calcolato esattamente: le prime cambiali furono pagate, ma presentandosene sempre delle nuove il fratello si stancò e volle vedere il fondo di quella faccenda. Andò da Rostand e minacciò di farlo processare: disse che preferiva disonorare la sorella che farsi rubare indegnamente da un farabutto. Lo strozzino, impaurito, restituì le cambiali che aveva ancora in mano. Ma non ci rimise neppure un soldo di tasca: aveva prestato al cento per cento.

Da quel giorno il Rostand fu estremamente prudente. Amministrò i capitali della banda nera con un'abilità che gli valse la fiducia e l'ammirazione dei signori strozzini. Mentre i suoi sovventori passeggiavano al sole come tanti fior di galantuomini, egli se ne stava chiuso in una gran stanza scura: là i pezzi da venti franchi della società crescevano e moltiplicavano. Egli metteva tutto il suo amor proprio nell'essere un briccone abile: ogni operazione gli stava a cuore quanto un dramma o una commedia; applaudiva se stesso quando gli riusciva bene uno stratagemma, e provava allora la soddisfazione, il piacere di un autore che trionfa; poi metteva sul tavolino i quattrini rubati e si sprofondava nella voluttà dell'avaro.

Revertégat aveva indirizzato ingenuamente Mario a un tal uomo.

La mattina del giorno seguente Mario andò a bussare all'uscio di Rostand, verso le otto. La casa dello strozzino era solida e quadrata. Tutte le persiane erano chiuse e la facciata aveva una nudità glaciale, un'aria di mistero e di diffidenza. Una vecchia serva sdentata, vestita di sbrendoli di indiana sporca, andò ad aprire la porta.

- Il signor Rostand? - domandò Mario.

- E' in casa, ma è occupato, - rispose la serva senza aprire tutta la porta.

Il giovanotto impaziente spinse il battente ed entrò nel vestibolo.

- Va bene, - disse, - aspetterò.

La serva incerta, sorpresa, capì che non le sarebbe riuscito di mandarlo via. Si decise perciò di farlo salire al primo piano, dove lo lasciò solo in una specie d'anticamera. Era una stanza piccola, buia, con le pareti coperte di carta verdastra scolorita qua e là dall'umidità. Tutta la mobilia consisteva in una seggiola impagliata. Mario sedette su quella sedia.

In faccia a lui, una porta aperta gli lasciava vedere l'interno d'uno scrittoio, nel quale un commesso scriveva con una penna d'oca orribilmente stridente sulla carta. A sinistra aveva un'altra porta che doveva dare ingresso alla stanza del banchiere.

Mario aspettò un pezzo. Sentiva intorno a sé l'odore acuto della carta vecchia. Il quartiere era di una sporcizia che disgustava, e la nudità dei muri gli dava un aspetto lugubre. Nei cantucci c'era ammassata la polvere, e nel soffitto i ragni filavano placidamente le loro tele. Il giovane soffocava, tormentato dallo stridere della penna d'oca, sempre più rumoroso.

Ad un tratto udì parlare nella stanza vicina, e le parole gli arrivarono all'orecchio chiare e distinte, stava per allontanare discretamente la seggiola, quando fu inchiodato al suo posto da alcune frasi. Vi sono conversazioni che si possono ascoltare, e la delicatezza non è fatta per tutelare l'intimità di taluni uomini.

Una voce secca, che doveva esser quella del padrone di casa, diceva con amichevole burberità:

- Signori, ci siamo tutti... parliamo di cose serie. La seduta è aperta... Renderò fedelmente conto delle operazioni del mese e poi si farà il reparto degli utili.

Seguì un leggero tumulto, un rumore di conversazioni particolari che adagio adagio si tacque. Mario che non poteva ancora capire, si sentiva pure spinto da una viva curiosità: indovinava che dietro quell'uscio accadeva qualche cosa di strano.

Difatti lo strozzino Rostand aveva riuniti i suoi degni soci della banda nera. Mario s'era presentato precisamente all'ora della seduta, nel momento in cui il gerente mostrava i libri, spiegava le operazioni.

La solita voce ripigliò:

- Prima di entrare in particolari debbo confessare che i risultati di questo mese sono inferiori a quelli del mese scorso. Abbiamo ottenuto in media il sessanta per cento, e abbiamo oggi da ripartire il cinquantacinque...

Si udirono varie esclamazioni, simili a quelle di una folla malcontenta che protesta mormorando. Erano presenti almeno quindici persone.

- Signori, - continuò Rostand con un'amarezza beffarda, - ho fatto quello che ho potuto e dovreste ringraziarmi. Tutti i giorni il mestiere si fa più difficile. D'altronde ecco qui i miei conti...vi darò subito notizie di alcuni affari da me trattati.

Un profondo silenzio durò per qualche secondo. Poi s'udì un fruscio di fogli, e il rumore delle pagine di un registro svoltate. Mario cominciava a capire ed ascoltava con maggior attenzione.

Allora Rostand cominciò ad enumerare le sue operazioni, dando qualche spiegazione sopra ciascuna, col tono stridente e nasale di un usciere di tribunale.

- Ho prestato, - egli disse, - diecimila franchi al conte di Salvy, un giovanotto di venti anni che sarà maggiorenne fra nove mesi. Aveva perduto al gioco e pare che la sua amante esigesse da lui una grossa somma. Mi ha firmato per diciottomila franchi di cambiali a novanta giorni. Queste cambiali sono firmate, come è naturale, con la data del giorno nel quale il debitore raggiungerà la maggiore età. I Salvy hanno grandi possedimenti... E un affare eccellente.

Le parole dell'usuraio furono accolte da un mormorio lusinghiero.

- Il giorno dopo, - egli continuò - ricevetti la visita dell'amante del conte, disperata perché egli le aveva dato soltanto due o tre biglietti da mille. Mi ha giurato che mi consegnerebbe Salvy, mani e piedi legati, per contrattare un nuovo prestito. Quando ritornerà pretenderò l'atto di cessione di una tenuta. Abbiamo ancora nove mesi di tempo per pelare questo ragazzo che sua madre lascia senza quattrini.

Rostand sfogliava il registro. Dopo una breve pausa continuò:

- Jourdier... negoziante di panni, ha bisogno ogni mese di qualche centinaio di lire per far fronte ai suoi impegni. Gli ho prestato altri seicento franchi al sessanta per cento. Quest'altro mese, se viene a chiedermi un soldo, faccio dichiarare il fallimento, e diventiamo padroni delle sue mercanzie.. Marianna... erbivendola.

Ha bisogno tutte le mattine di dieci franchi e me ne rende quindici tutte le sere. Credo che abbia il vizio di bere...Piccolo affare, ma sicuro; rendita fissa di cinque franchi al giorno... Laurent... contadino del quartiere di Roquefavour, mi ha ceduto, palmo a palmo, un terreno di sua proprietà vicino all'Arco. Questo terreno vale cinquemila franchi e ci costerà due mila. Ho scacciato Laurent dalla sua proprietà. Sua moglie e i suoi figlioli sono venuti da me a pianger miseria... Mi terrete conto di tutti questi fastidi, non è vero?... Andrea... mugnaio.

Ci era debitore di ottocento franchi. Gli ho minacciato un sequestro. Allora è corso da me supplicandomi di non rovinarlo, dimostrando che non poteva pagarmi. Ho consentito a fare il sequestro io stesso, senza bisogno d usciere, e mi sono fatto dare più di milleduecento franchi in mobili e biancheria... Ho guadagnato quattrocento franchi mostrandomi umano.

L'uditorio provò qualche piccolo fremito di soddisfazione. Mario udiva le risa soffocate di quegli uomini che si divertivano sentendo l'abilità di Rostand. Questi continuò:

- Ora vengono gli affari soliti: tremila franchi al quaranta per cento a Simone negoziante; millecinquecento franchi al cinquanta per cento a Charancon mercante di bestiame; duemila franchi all'ottanta per cento al marchese di Cautarel; cento franchi al trentacinque per cento al figliolo del notaio Tingrey...

E seguitò così per un quarto d'ora, indicando nomi e cifre, enumerando prestiti dai dieci ai diecimila franchi, con interesse variabile dal venti al cento per cento. Quando ebbe finito una voce grossa e fioca disse:

- Ma che cosa ci dicevate dunque, mio caro? avete lavorato stupendamente in questo mese. Tutti i crediti sono eccellenti. E' impossibile che il profitto non superi il cinquantacinque per cento, in media. Avete sbagliato di certo annunciandoci questa cifra.

- Non sbaglio mai, - rispose seccamente lo strozzino.

A Mario che aveva quasi appoggiato l'orecchio all'uscio parve di notare una tal quale indecisione nella voce di quel miserabile.

- Non vi ho ancora detto tutto, - bisbigliò Rostand imbarazzato,- abbiamo perduto dodicimila franchi otto giorni fa.

A quelle parole fecero seguito esclamazioni terribili. Mario sperò per un momento che quei bricconi finissero per mangiarsi fra loro.

- E che diavolo! statemi a sentire, - gridò il banchiere in mezzo al tumulto, - vi faccio guadagnare tanto da farmi perdonare se una volta vi faccio perdere qualche cosa per caso. D'altronde, non è stata colpa mia. Sono stato derubato...

Pronunziò tali parole con l'indignazione d'un uomo onesto. Quando fu ristabilita la calma aggiunse:

- Ecco il fatto... Monier è un negoziante di grano, uomo solvibile del quale avevo avuto buonissime informazioni, e mi venne a chiedere dodicimila franchi. Gli risposi che non li avevo, ma conoscevo un vecchio ladro che forse glieli avrebbe prestati a un interesse esorbitante. Ritornò il giorno dopo e si disse pronto ad accettare qualunque patto. Gli feci osservare che si pretendevano cinquemila franchi d'interessi per sei mesi. Accettò... Vedete bene ch'era un affarone. Mentre ero andato a prendere i denari, sedette al mio tavolino e firmò diciassette cambiali da mille franchi l'una. Guardai le cambiali e le misi sopra un angolo di questo banco. Poi parlai qualche minuto con Monier, che s'era alzato e che stava per andarsene, avendo intascato il denaro.

Quando se ne fu andato volli riporre le cambiali... Le presi... Il birbante aveva barattato le cambiali contro un fascio simile di cambiali per burla, scarabocchiate d'inchiostro, all'ordine non so di chi, e senza firma... M'aveva rubato i quattrini... Mancò poco che non mi venisse un accidente e corsi dietro al ladro che se la passeggiava tranquillamente nel Corso... Alle prime parole che gli dissi, mi trattò di strozzino e minacciò di condurmi dal commissario di polizia. Quel Monier ha la reputazione di uomo integro e leale e ho preferito stare zitto.

Il racconto era stato spesso interrotto dai commenti dell'uditorio irritato.

- Confessate, caro Rostand, che vi è mancata l'energia, - disse la voce fioca. - In questo modo perdiamo i nostri denari...prenderemo soltanto il cinquantacinque per cento. Un'altra volta vigilate meglio i nostri affari... Intanto facciamo la spartizione.

Malgrado l'angoscia e l'indignazione, Mario non poté trattenere un sorriso. Il furto del Monier gli parve una bella commedia, e dentro di sé applaudiva il birbante che aveva imbrogliato un altro birbante.

Sapeva ormai quale era il mestiere di Rostand. Non aveva perduto una sola parola detta nella sala vicina, e facilmente s'immaginava la scena che vi doveva accadere. Appoggiato alla spalliera della sedia, con l'orecchio teso, vedeva con gli occhi della mente gli strozzini, che si bisticciavano, con gli sguardi avidi, la fisionomia contratta dalle cattive passioni che li agitavano.

Provò una specie di triste gioia quando si rammentò quello ch'era andato a fare in quello scannatoio. Che ingenuità! mio Dio!Credeva di trovare là i quindicimila franchi che dovevano salvare Filippo e aspettava da un'ora per esser cacciato fuori dal banchiere come un mendicante. Oppure Rostand gli chiederebbe il cinquanta per cento di interesse e lo svaligerebbe con impudenza.

All'idea che lì, vicino a lui, si trovava una riunione di bricconi che profittavano delle miserie e delle vergogne di una città, si alzò bruscamente e mise la mano sulla maniglia dell'uscio.

Si sentiva nella stanza un rumore distinto di monete d'oro. Gli strozzini si dividevano il bottino. Riscuotevano il frutto di una mesata di birbonate. Quei denari che contavano e solleticavano voluttuosamente il loro tatto pareva che scoppiassero a momenti in singulti. In mezzo a un silenzio che metteva i brividi, la voce del banchiere pronunciava delle cifre con una rigidità di suono metallico. Faceva la parte ad ognuno dei soci, diceva una cifra, e lasciava cadere un mucchio di monete sonanti.

Allora Mario girò la maniglia dell'uscio. Col viso pallido, lo sguardo fisso, rimase per qualche secondo immobile sulla soglia.

Aveva dinanzi a sé uno strano spettacolo. Rostand era ritto davanti al suo tavolino: dietro di lui c'era una cassaforte aperta nella quale attingeva l'oro a manciate. Intorno al tavolino, seduti in cerchio, c'erano i componenti della banda nera, alcuni aspettando la loro parte, altri intascando i denari appena ricevuti. Ogni momento il banchiere dava un'occhiata ai suoi conti, si chinava sopra un registro, consegnando i denari con tutta la prudenza possibile. I suoi soci tenevano gli occhi fissi sulle sue mani.

Al rumore fatto dall'uscio tutte le teste si voltarono con un brusco movimento di spavento. E quando videro Mario serio e indignato, come per istinto posarono le mani sui loro mucchi d'oro. Vi fu un momento di stupore e di turbamento.

Mario riconobbe benissimo quei miserabili. Li aveva incontrati per la strada, a testa alta, con la fisionomia di gente per bene, e ne aveva salutato anche qualcuno che avrebbe potuto salvare suo fratello. Erano tutti ricchi, onorati, autorevoli: vi erano fra loro antichi impiegati, proprietari, frequentatori assidui delle chiese e dei salotti della città. A vederli a quel modo avviliti, impalliditi, Mario fece un gesto di disgusto.

Rostand si era scosso. I suoi occhi battevano febbrilmente: le sue labbra carnose e sbiancate tremavano; tutto il suo viso rossastro e rugoso di avaro esprimeva una specie di sorpresa e di spavento.

- Che cosa volete? - domandò a Mario balbettando. - Non s'entra nelle case degli altri in questa maniera!

- Volevo quindicimila franchi, - rispose il giovane con voce calma e beffarda.

- Non ho denari, - si affrettò a rispondere l'usuraio avvicinandosi alla sua cassa.

- State tranquillo, ho rinunciato all'idea di farmi derubare.

Debbo farvi sapere che da un'ora sono dietro questa porta ed ho assistito alla vostra riunione Tale dichiarazione fu come un colpo di maglio che fece abbassare la testa a tutti i componenti della banda nera. Quegli uomini avevano ancora il pudore della loro onorabilità, e qualcuno cercò di nascondersi il viso fra le mani. Rostand, che non aveva reputazione da perdere, si ricomponeva poco a poco. Si avvicinò a Mario ed alzando la voce gridò:

- Chi siete voi? con qual diritto venite ad ascoltare dietro gli usci? perché penetrate nella mia stanza se non avete da chiedermi nulla?

- Chi sono io? - disse il giovane senza gridare e con calma, sono un giovane onesto e voi siete un briccone. Con qual diritto sono stato ad ascoltare? Col diritto che ha ogni galantuomo di smascherare i furfanti. Perché sono venuto in casa vostra? per dirvi che siete uno scellerato e nient'altro.

Rostand tremava di rabbia. Non sapeva spiegarsi la presenza di quel vendicatore che gli diceva la verità in faccia. Stava per gridare, per slanciarsi su Mario, quando questi lo trattenne con un gesto energico.

- Tacete, - ripigliò, - me ne vado, qui soffoco. Ma non me ne son voluto andare senza sfogarmi un poco... Che razza d'appetito avete, signori! Vi ripartite le lacrime e le disperazioni delle famiglie con ghiottoneria: fate delle spanciate di furto e d'imbrogli... Sono contento di avervi turbata la digestione e messo addosso i brividi dell'inquietudine.

Rostand tentò invano d'interromperlo... Mario continuò con voce vibrante:

- Almeno i ladri di strada hanno del coraggio. Si battono, rischiano la loro pelle. Ma voi, signori, rubate vergognosamente nascosti. Eppure non avreste bisogno di essere birbanti, per vivere! Siete tutti ricchi! Commettete delle scelleratezze, Dio me lo perdoni, per il gusto di commetterle!

Qualche strozzino si alzò minaccioso.

- Non avevate mai veduta la collera di un uomo onesto, non è vero?- aggiunse Mario beffandoli, - la verità vi irrita e vi fa paura.

Siete abituati ad essere trattati con i riguardi dovuti alle persone leali, ed essendovi ingegnati a nascondere le vostre infamie per vivere stimati da tutti, avete finito per credervi meritevoli del rispetto accordato alla vostra ipocrisia. Ho voluto che una volta nella vostra vita foste insultati come meritate, e perciò sono venuto fin qui.

Mario vide che lo avrebbero ammazzato se continuava. Si ritirò, passo passo, verso la porta, imponendosi agli usurai con lo sguardo. Si fermò un'ultima volta, e:

- So bene, - disse, - che non vi posso trascinare davanti alla giustizia umana. Le vostre ricchezze, la vostra posizione, la vostra abilità vi rendono inviolabili. Se avessi l'ingenuità di mettermi in lotta con voi rimarrei schiacciato... Ma almeno non voglio avere il rimorso di essermi trovato vicino ad uomini pari vostri senza aver loro sputato in faccia il mio disprezzo. Vorrei che le mie parole fossero un ferro rovente che stigmatizzasse le vostre fronti. La folla vi verrebbe dietro fischiandovi, e forse profittereste della lezione... Spartitevi il vostro oro: se avete ancora qualche cosa di buono in voi, vi scotterà le mani!

Chiuse la porta e se n'andò. Quando fu nella strada sorrise di tristezza. Vedeva la vita stendersi dinanzi a lui con tutte le sue onte e le sue miserie e gli pareva di fare nel mondo la parte nobile e ridicola di un Don Chisciotte dell'onore e della giustizia.

 

Capitolo 17 - DUE BRUTTI FIGURI

Quando Mario ebbe raccontata la sua sfuriata al carceriere ed alla fioraia, questa esclamò:

- Siamo un pezzo avanti! Perché vi siete infuriato? Forse quell'uomo vi avrebbe prestato la somma.

Le donne hanno delle testardaggini che danno un po' di elasticità alla loro coscienza: Pina, per quanto leale, avrebbe fatto orecchio da mercante in casa di Rostand, o si sarebbe prevalsa all'occasione dei segreti confidatigli dal caso.

Il Revertégat era mortificato d'aver consigliato a Mario d'andare dal banchiere.

- Vi avevo prevenuto, - gli disse, - non ignoravo le voci che corrono sul suo conto; ma credevo che c'entrasse per molto la maldicenza; se avessi saputo precisamente come stavano le cose, non vi avrei mandato da lui.

Mario e Pina passarono tutto il pomeriggio facendo progetti stravaganti, cercando invano nella loro testa il modo d'improvvisare i quindicimila franchi necessari allo fuga di Filippo.

- Come! - diceva la ragazza, - non si deve trovare nella città un buon cuore che ci faccia uscire dall'imbroglio? Non vi sono persone ricche che prestino i loro denari a un interesse ragionevole? Vediamo, zio, cercate con noi. Nominatemi una persona caritatevole ai piedi della quale possa andare a gettarmi.

Revertégat scuoteva la testa:

- Sì! - rispondeva, - vi sono degli uomini di buon cuore e delle persone ricche che potrebbero aiutarvi. Soltanto non avete alcun diritto alla loro bontà, e non potete da un momento all'altro andare a chieder loro denari. Bisogna che vi rivolgiate a degli scontisti e, non avendo da offrire alcuna garanzia solida, siete obbligati a bussare alla porta degli usurai... Conosco dei vecchi avari, dei vecchi bricconi che sarebbero felici di avervi fra l'unghie, o che vi farebbero cacciare di casa loro come dei mendicanti pericolosi.

Pina ascoltava lo zio. Tutti questi discorsi di quattrini s'imbrogliavano nel suo cervello. Alla sua anima franca ed aperta pareva naturale, facilissimo, chiedere ed ottenere una grossa somma in due ore. Vi sono dei milionari che possono tanto facilmente disporre di qualche migliaio di lire senza scomodarsi!

- Cercate bene, via, - disse ella al carceriere insistendo - non vi viene in mente proprio nessuno col quale si possa almeno tentare?

Il Revertégat guardava commosso il suo volto ansioso. Avrebbe voluto tacere a quella fanciulla le brutali realtà della vita, vedendola piena delle speranze della gioventù.

- No, - rispose, - non saprei davvero... vi ho parlato di vecchi bricconi che hanno guadagnato vergognosamente grandi ricchezze.

Sono gente come il Rostand, che prestano cento franchi per farsene rendere centocinquanta dopo tre mesi...

Esitò, poi ripigliò a voce più bassa.

- Volete che vi racconti la storia di uno di loro?... si chiama Roumieu, antico notaio. La sua industria consisteva nel dare la caccia alle eredità: introducendosi nelle famiglie, chiamatovi dalla sua qualità a far la parte di confidente e d'amico, studiava il terreno e preparava le imboscate. Quando s'incontrava in un testatore d'anima debole e vile diventava la sua creatura, lo circonveniva, l'attirava a sé poco a poco, con dei complimenti, con delle moine, con tutta una sapiente commedia di cure delicate e di espansioni filiali. Ah! era un uomo abilissimo! Bisognava vederlo addormentare la vittima, diventare pieghevole e insinuante, cattivarsi l'amicizia di un vecchio!

Adagio adagio spossessava i veri eredi, nipoti o cugini, e redigeva egli stesso un testamento che li spogliava del patrimonio del parente nominando lui erede universale. Non precipitava mai nulla, aspettava dieci anni per raggiungere lo scopo, per far maturare un affare: si comportava con una prudenza felina, strisciando nell'ombra, non saltando sulla preda se non quando la vedeva intontita, resa inerte dagli sguardi e dalle carezze di lui. Dava la caccia alle eredità come la tigre alla lepre, con una brutalità muta, una ferocità carezzevole.

A Pina pareva d'ascoltare una novella delle Mille e una notte e guardava lo zio spalancando gli occhi per la sorpresa. Mario cominciava a non meravigliarsi più di tante scelleratezze.

- E quest'uomo ha messo da parte un bel patrimonio? - domandò al carceriere.

- Sì... si citano esempi strani per provare la sorprendente abilità di Roumieu. Dieci o quindici anni sono, per esempio, entrò nelle buone grazie di una signora che aveva mezzo milione di patrimonio. La vecchia signora diventò sua schiava, al punto da privarsi di un pezzo di pane per non sciupare quanto voleva lasciare a quel demonio che s'era impadronito di lei e le comandava a bacchetta. Era veramente indemoniata per lui, e tutta l'acqua benedetta di una chiesa non sarebbe bastata per esorcizzarla. Bastava una visita di Roumieu per procurarle un'estasi infinita. Quando la salutava nella strada, essa sentiva una scossa, diventava rossa dalla consolazione. Non s'è mai potuto capire con quali adulazioni, con quale sistema astuto ed invadente, il notaio abbia potuto penetrare tanto addentro in quel cuore chiuso da una esagerata devozione. Quando la vecchia signora morì spogliò i suoi eredi diretti e lasciò i cinquecentomila franchi a Roumieu. Tutti se l'aspettavano.

Ci fu una pausa.

- Ecco... - continuò Revertégat, - potrei citarvi un altro esempio. L'aneddoto è una crudele commedia nella quale Roumieu dette prova di una elasticità straordinaria. Un tale Richard, avendo messo da parte qualche centinaio di migliaia di franchi esercitando il commercio, si ritirò e andò a vivere con una onesta famiglia che aveva cura di lui e ne rallegrava la vecchiaia. Il vecchio commerciante aveva promesso ai suoi ospiti, in cambio della loro premurosa amicizia, di lasciarli eredi del fatto suo.

Essi vivevano in quella speranza; avevano molti figli e facevano conto di collocarli onorevolmente. Ma capitò Roumieu e diventò presto intimo del Richard; lo condusse qualche volta in campagna e preparò in segreto la sua presa di possesso. La famiglia ospite del commerciante non sospettò di nulla; visse per quindici anni in una dolce quiete, facendo progetti per l'avvenire, sicura di essere felice e ricca. Richard morì; il giorno dopo, Roumieu apparve nominato suo erede con grande sorpresa e disperazione di una famiglia che ci aveva rimesso affezione e quattrini... Tale è il cacciatore d'eredità... Quando cammina non si sente il rumore dei suoi artigli; i suoi slanci sono troppo rapidi per poterli misurare, e prima che lo si scorga accovacciato sulla preda ne ha già succhiato tutto il sangue.

Pina era disgustata.

- No, no - disse, - non andrò mai a chieder quattrini ad un uomo simile... Non ne conoscete altri, zio?

- Eh! povera figliola... tutti gli strozzini si somigliano; hanno tutti qualche macchia incancellabile nella loro vita. Conosco un vecchio ladro che ha più d'un milione di suo, e vive solo, in una casa sudicia e trasandata. Guillaume si seppellisce nel fondo del suo antro puzzolente. I muri di quella tomba sono screpolati dall'umidità; il pavimento non è neppure ammattonato e si cammina sopra una specie di sozzo letamaio di fango e di tritumi; dal soffitto ciondolano le ragnatele, tutto è coperto di polvere, e attraverso i vetri unti e bisunti entra una luce spenta e lugubre.

L'avaro sembra dormire nella sporcizia come i ragni dormono immobili nelle loro tele. Quando una vittima incappa nei lacci ch'egli tende, la tira a sé e le succia il sangue delle vene. Non mangia che legumi cotti nell'acqua e non si leva mai la fame. Si copre di stracci e fa la vita di un mendicante lebbroso. Tutto questo per conservare i denari già messi da parte e per aumentare il tesoro... Presta soltanto al cento per cento.

Pina impallidiva allo spettacolo ributtante messole innanzi agli occhi dallo zio.

- Però, - continuava il carceriere, - Guillaume ha degli amici che ne lodano la pietà. Non crede né a Dio né al diavolo e se potesse venderebbe Cristo per la seconda volta; ma ha la furberia di fingere gran devozione, e questa finzione gli procura la stima di alcuni cervelli piccini. Lo si trova sempre che striscia i piedi per le chiese, che s'inginocchia a tutti i pilastri, che consuma l'acqua benedetta a secchie. Domandate a tutta la città se quel santo personaggio ha mai fatto una buona azione! Adora Dio, ma ruba al prossimo suo; non si potrebbe nominare una persona ch'egli abbia soccorso. Presta ad usura: non dà mai un soldo ai disgraziati. Se un disgraziato andasse a morir di fame sulla porta di casa sua non gli porgerebbe né un pezzo di pane né un bicchier d'acqua. Gode di qualche stima perché l'ha rubata come tutto quanto possiede...

Il Revertégat tacque guardando la nipote non sapendo se dovesse continuare.

- Avreste l'ingenuità d'andare da un tale uomo? - egli disse finalmente; - non posso dir tutto, non posso parlare dei vizi di Guillaume. Quel vecchio ha delle passioni ignobili: qualche volta dimentica l'avarizia per soddisfare gli appetiti della lussuria.

Si raccontano a voce bassa contratti vergognosi, seduzioni nauseanti...

- Basta! - esclamò Mario con forza.

Pina, rossa e costernata, abbassò la testa, non avendo più né coraggio né speranza.

- Vedo che i quattrini costano troppo, - disse il giovane, - e che bisogna vendersi per comprarne. Ah! se avessi il tempo di guadagnare col mio lavoro la somma che ci abbisogna!

Rimasero tutti e tre muti, non sapendo trovare alcuna via di salute.

 

Capitolo 18 - NEL QUALE BRILLA UN RAGGIO DI SPERANZA

Spinto dalla necessità, il giorno seguente Mario decise di andare dal signor di Girousse. Da quando cercava denari, aveva pensato di rivolgersi al vecchio conte. Ma aveva sempre rinunciato a quell'idea, temendo le stravaganze originali del gentiluomo, non osando confessargli la propria miseria, e arrossendo al pensiero di dovergli dire a quale scopo doveva servire la somma della quale andava in cerca. Gli dispiaceva immensamente di dover confidare ad una terza persona l'evasione del fratello, e più che ad altri al signor di Girousse.

Quando Mario vi si presentò, il palazzo era vuoto, ed il conte era partito per Lambesc. Fu quasi contento di non trovarlo, tanto gli pareva grave il passo che stava per fare. Rimase sul Corso, indeciso, non avendo il coraggio d'andare a Lambesc, disperato di vedersi ridotto all'inazione.

Mentre percorreva un viale, affranto, con lo sguardo smarrito, incontrò Pina. Erano le sette della mattina. La fioraia, vestita con eleganza, aveva in mano una sacchetta da viaggio, e parve a Mario franca e sorridente.

- Dove andate? - le domandò sorpreso.

- Vado a Marsiglia, - rispose Pina.

La guardò interrogandola con lo sguardo.

- Non posso dirvi nulla, - essa continuò, - ho un progetto, ma temo di fare un fiasco... Stasera ritornerò. Via... non vi disperate.

Mario l'accompagnò fino alla diligenza. Quando si mosse la pesante vettura egli la seguì per un bel pezzo con gli occhi: quella vettura portava con sé l'ultima sua speranza e doveva riportargli o l'angoscia o la gioia.

Gironzò fino a sera intorno a tutte le diligenze che arrivavano.

Si aspettava l'ultima e Pina non era ancora tornata. Roso dall'impazienza, Mario andava e veniva con passo agitato, temendo che la fioraia non tornasse fino al giorno dopo. Non sapendo nulla, non sapendo quale potesse essere l'ultimo tentativo, non aveva il coraggio di passare una notte d'ansia e d'incertezza.

Passeggiava sul Corso, con i brividi addosso, come allucinato.

Finalmente vide la diligenza, lontano, in mezzo alla piazza della Rotonda. Quando sentì il rumore delle ruote sul selciato ebbe dei violenti palpiti. S'appoggiò ad un albero, guardando i viaggiatori scendere ad uno ad uno con una flemma che lo faceva disperare.

Ad un tratto restò lì inchiodato. In faccia a lui, ad uno sportello aperto aveva veduto apparire l'alta statura, il viso pallido e malinconico dell'abate Chastanier. Quando l'abate fu sul marciapiede porse la mano ad una giovane per aiutarla a scendere.

Quella giovane era la signorina Bianca di Cazalis.

Dietro di lei scese giù dalla carrozza Pina, con un salto leggero, senza servirsi del montatoio.

Era raggiante.

I due viaggiatori, guidati dalla fioraia, si avviarono all'albergo dei Principi: Mario, rimasto nell'ombra, li seguì macchinalmente, senza capir nulla, come inebetito.

Pina restò dieci minuti tutt'al più nell'albergo.

Quando ne uscì vide Mario e gli corse incontro, presa da un accesso di pazza allegria.

- Sono riuscita a portarli qui, - disse battendo le mani, - spero che ora otterranno quanto desidero. Domani lo sapremo...

Poi prese il braccio di Mario e gli raccontò la sua giornata.

L'aveva colpita una frase del giovane che si lamentava di non avere il tempo di guadagnare lavorando la somma della quale aveva bisogno: d'altra parte le storie dello zio le avevano provato essere inutile e vana la speranza di trovare uno strozzino ragionevole.

Perciò tutto si riduceva a guadagnar tempo; ad allontanare più che fosse possibile il giorno nel quale Filippo sarebbe esposto alla berlina. Li spaventava quell'infame supplizio che consegnava il condannato alle beffe ed agli insulti della folla.

Allora la ragazza aveva fatto il suo piano, piano ardito, che forse poteva riuscire appunto perché audacissimo. Faceva conto di andare diritta in casa del signor di Cazalis, vedere la nipote di lui, farle il quadro dell'esposizione pubblica di Filippo, dimostrandole quanto c'era d'insultante per lei in un tale spettacolo. Così l'avrebbe persuasa ad aiutarla, e sarebbero andate insieme a pregare il deputato di entrar lui di mezzo. Se il signor di Cazalis non consentiva a chieder la grazia, forse avrebbe potuto almeno domandare una proroga.

Pina non discuteva molto intorno ai suoi mezzi d'azione. Le pareva impossibile che lo zio di Bianca dovesse resistere alle sue lacrime. Aveva fede nel proprio sacrifizio.

La povera ragazza sognava desta quando sperava che, sul più bello, il signor di Cazalis si sarebbe piegato. Quell'uomo altero e caparbio aveva voluto l'infamia di Filippo, e nulla avrebbe potuto impedirgli di compiere la propria vendetta. Se Pina avesse avuto da fare con lui, non sarebbe riuscita a nulla; avrebbe sciupato i sorrisi più belli, le lacrime più toccanti.

Fortunatamente per lei, il caso l'aiutò. Quando si presentò al palazzo del deputato, nel corso Bonaparte, le dissero che il signor di Cazalis era stato chiamato a Parigi da qualche motivo attinente al suo ufficio politico. Chiese di poter vedere la signorina Bianca: le risposero vagamente che la signorina non c'era, viaggiava.

La fioraia, perplessa, fu costretta ad andarsene e cominciò a riflettere in mezzo alla strada. Il suo piano andava a monte; l'assenza dello zio e della nipote le toglieva l'appoggio sul quale credeva di potere sperare, non avendo amici che potessero giovarle. Pure non voleva perdere ogni speranza, né tornare ad Aix senza alcun risultato.

Le venne ad un tratto l'idea di rivolgersi all'abate Chastanier.

Mario le aveva parlato spesso del vecchio prete: essa ne conosceva la bontà, la virtù del sacrifizio. Forse egli avrebbe potuto darle qualche preziosa informazione.

Lo trovò da sua sorella, la vecchia operaia inferma. Gli aprì il cuore e gli disse in poche parole lo scopo del suo viaggio a Marsiglia. Il prete l'ascoltò commosso.

- Vi conduce il cielo, - le rispose. - In tale circostanza credo di poter violare il segreto confidatomi. La signorina Bianca non è in viaggio. Suo zio volendo nascondere la sua gravidanza e non potendo condurla seco a Parigi, ha preso in affitto per lei una casetta nel villaggio di Sant'Enrico... Essa abita là con una governante. Il signor di Cazalis, al quale sono rientrato in grazia, mi ha pregato di andare a farle visita spesso e mi ha dato larga autorità su di lei... volete che io vi accompagni da quella povera fanciulla che troverete molto cambiata e abbattuta?

Pina accettò con gioia. Quando vide comparirsi la fioraia, Bianca impallidì e cominciò a piangere. Aveva un cerchio azzurrognolo intorno agli occhi: le sue labbra erano scolorate, le gote bianche come la cera. Si vedeva che un grido terribile, il grido della verità, s'innalzava dentro di lei e la faceva essere malsicura.

Quando, con voce soave e con affettuose carezze, Pina le ebbe fatto capire ch'essa poteva forse risparmiare a Filippo una umiliazione suprema, Bianca si alzò in piedi e disse con voce interrotta:

- Sono pronta, disponete di me. Ho nelle viscere una creatura che mi parla continuamente di suo padre. Vorrei calmare la collera di questo piccolo essere non ancora nato.

- Allora, - ripigliò Pina con trasporto, - aiutateci nel nostro tentativo di liberazione. Sono certa che voi, facendo un passo, otterrete almeno una proroga.

- Ma, - osservò l'abate Chastanier - la signorina Bianca non può venire ad Aix sola. Io devo accompagnarla. So che il signor di Cazalis mi rimprovererà quando saprà di questo viaggio. Pure ne accetto la responsabilità, perché mi pare di agire da uomo onesto.

Appena ottenuto il consenso, Pina lasciò a Bianca e al prete appena il tempo di fare qualche preparativo. Ritornò con loro a Marsiglia, li cacciò in diligenza e li condusse trionfalmente ad Aix. Il giorno seguente Bianca doveva andare dal presidente che aveva pronunciata la sentenza contro Filippo.

Quando Pina ebbe finito il racconto, Mario la baciò sulle gote facendo diventare color di rosa anche la bianca fronte della fanciulla.

 

Capitolo 19 - UNA PROROGA

La mattina dopo Pina andò a prendere Bianca e l'abate Chastanier.

Voleva accompagnarli sino alla porta del palazzo del presidente, per sapere subito il risultato delle loro pratiche. Mario, indovinando che la sua presenza darebbe soggezione alla signorina di Cazalis, andò a girellare per il Corso, come un'anima dannata, seguendo da lontano le due ragazze ed il prete. Quando furono saliti, la fioraia vide il giovane e gli fece segno di andare a raggiungerla. Aspettarono tutt'e due, senza far parola, agitati ed ansiosi.

Il presidente ricevette Bianca dimostrandole molta compassione.

Capiva che in quel disgraziato processo essa era la più punita. La povera fanciulla non poté parlare; alle prime parole cominciò a singhiozzare, e il suo aspetto di supplicante invocava pietà meglio che non l'avrebbero invocata le sue preghiere.

Toccò all'abate Chastanier di spiegare il motivo della loro presenza e presentare l'istanza.

- Signore, - egli disse al presidente, - siamo qui a mani giunte.

La signorina di Cazalis è già affranta sotto il peso delle disgrazie che l'hanno colpita. Essa vi chiede in grazia di risparmiarle una nuova umiliazione.

- Che cosa desiderate da me? - domandò il presidente con voce commossa.

- Desideriamo che risparmiate, se è possibile, un nuovo scandalo... Il signor Filippo Cayol è stato condannato alla berlina e tale punizione gli deve essere inflitta uno di questi giorni. Ma l'infamia non colpirà lui solo: non vi sarà un solo colpevole alla berlina, vi sarà anche una disgraziata fanciulla che vi domanda pietà. Vi par di sentire, non è vero? le grida della folla, le ingiurie scagliate contro la signorina di Cazalis:

essa sarà trascinata nel fango dal popolaccio, e il suo nome andrà di bocca in bocca intorno al luogo dell'ignobile supplizio, accompagnato da beffe atroci e da sconce espressioni...

Il presidente pareva dolorosamente impressionato. Stette un momento in silenzio. Poi, come se gli venisse in mente all'improvviso un'idea, domandò:

- Ma vi manda da me il signor di Cazalis? E' informato di quanto fate?

- No, - rispose il prete con franca dignità, - il signor di Cazalis non sa che siamo venuti qui. Gli uomini hanno dei motivi, delle passioni che li trascinano e impediscono loro qualche volta di giudicare esattamente la loro posizione. Forse, venendo a rivolgervi tale preghiera, noi andiamo contro i desideri dello zio di Bianca... Ma al disopra delle passioni e degli interessi degli uomini c'è la bontà e la giustizia. Perciò non ho avuto paura di compromettere il mio sacro carattere prendendo sopra di me il pregarvi di essere buono e giusto.

- Avete ragione, - disse il presidente, - capisco quali motivi vi hanno condotto qui e le vostre parole mi hanno veramente commosso... voi lo vedete. Disgraziatamente io non posso impedire una punizione, non è nelle mie facoltà di modificare una sentenza della corte d'Assise.

Bianca balbettò a mani giunte:

- Non so quello che voi possiate fare per me; ma siate misericordioso, ve ne prego, ditevi che avete condannato me e procurate di alleviare i miei patimenti.

Il presidente le prese le mani e con dolcezza paterna:

- Povera figliola, - le disse, - in questo processo la mia parte e stata penosa. Sono molto dispiaciuto di non potervi dire oggi: Non abbiate paura, posso buttar giù la berlina e voi non vi sarete esposta col condannato.

- Allora, - ripigliò il prete, - l'esposizione avrà luogo fra poco... non vi è neppure concesso di ritardare la deplorevole scena.

Il presidente s'era alzato in piedi.

- Il ministro della giustizia, in seguito a domanda del procuratore generale può prorogare l'esecuzione. Volete che la berlina non si faccia prima della fine di dicembre? Sarò felice di dimostrarvi la mia compassione e la mia buona volontà.

- Sì, sì, - esclamò Bianca con trasporto, - allontanate da me il più che sia possibile tale momento... Forse mi sentirò più forte.

L'abate Chastanier, conoscendo i progetti di Mario, pensò che, dopo la promessa del presidente, non doveva insistere di più. Si unì perciò a Bianca per accettare l'offerta.

- Va bene, siamo d'accordo, - disse loro il presidente accompagnandoli. - Domanderò ed otterrò, ne sono convinto, che la giustizia abbia il suo corso fra quattro mesi. Fino allora state tranquilla, signorina. Sperate, il cielo procurerà forse qualche sollievo alle vostre pene.

I due supplicanti scesero.

Quando Pina li vide, corse loro incontro.

- Dunque? - domandò affannata.

- Come vi avevo detto, - rispose l'abate Chastanier, - il presidente non può impedire l'esecuzione della sentenza.

La fioraia impallidì.

- Ma, - si affrettò ad aggiungere il vecchio prete, - egli ha promesso di mettersi di mezzo per far prorogare il momento della berlina. Avete quattro mesi di tempo per adoperarvi alla salvezza del prigioniero.

Suo malgrado, Mario si era avvicinato al gruppo formato dalle due ragazze e dal prete. La strada, solitaria e silenziosa, biancheggiava sotto gli ardenti raggi del sole di mezzogiorno; fra le pietre mal connesse del selciato cresceva l'erba, e solo un cane camminava con la magra schiena nello stretto filo d'ombra proiettato dalle case. Quando Mario udì le parole dell'abate Chastanier, si avanzò con un movimento repentino, e gli strinse le mani con effusione:

- Padre mio! - disse con voce tremante, - mi rendete la fede e la speranza. Da ieri dubitavo di Dio. Come ringraziarvi? come provarvi la mia riconoscenza? Ora mi sento un coraggio invincibile, sono certo di salvare mio fratello.

Bianca aveva abbassato la testa vedendo Mario. Un ardente rossore le era salito alle guance.

Rimaneva lì confusa, imbarazzata, soffrendo orribilmente alla presenza di quel giovane che la sapeva spergiura, e che essa e suo zio avevano ridotto alla disperazione. Mario, quando la sua gioia fu calmata, fu dispiaciuto di essersi avvicinato. L'aspetto desolato della signorina di Cazalis lo impietosiva.

- Mio fratello è stato molto colpevole, - le disse, perdonategli come io vi perdono.

Non seppe trovare altre parole. Avrebbe voluto parlarle della sua creatura, interrogarla sul destino serbato a quel povero essere, reclamarlo a nome di Filippo. Ma la vide tanto mortificata da non osare tormentarla di più.

Pina indovinò certamente i suoi pensieri. Mentre egli faceva qualche passo con l'abate Chastanier, la fioraia disse in fretta a Bianca:

- Ricordatevi che vi ho offerto d'essere la madre di vostro figlio. Ora vi voglio bene e vedo che avete un buon cuore.

Avvisatemi ed io correrò in vostro aiuto. Per conto mio vigilerò, perché non voglio che il povero piccino abbia da soffrire delle pazzie dei suoi parenti.

Bianca strinse silenziosamente la mano della fioraia per tutta risposta. Grosse lacrime le rigavano le guance.

La signorina di Cazalis e l'abate Chastanier ripartirono immediatamente per Marsiglia. Pina e Mario corsero alle carceri.

Dissero a Revertégat che avevano quattro mesi di tempo per preparare la fuga, e il carceriere giurò che avrebbe mantenuta la sua parola, in qualunque giorno e a qualunque ora andassero a reclamarla.

Prima di lasciare Aix i due giovani vollero rivedere Filippo per dargli notizie dell'accaduto e confortarlo a sperare. La sera, alle undici, Revertégat li fece entrare di nuovo nella cella.

Filippo cominciava ad abituarsi al regime della prigione e non parve loro molto abbattuto.

- Purché mi risparmiate, - egli disse, - l'ignominia della berlina, consento a tutto. Preferirei di spaccarmi la testa contro il muro anziché subire quella pena.

Il giorno dopo la diligenza riportò a Marsiglia Mario e Pina.

Andavano a continuare la lotta in più vasto campo andavano a frugare in fondo alle miserie umane e a vedere a nudo le piaghe d'una grande città abbandonata a tutti i trasporti dell'industria moderna.

 

 

PARTE SECONDA

 

Capitolo 1 - IL SIGNOR SALVARIO, CAPO FACCHINO

Il principale di Cadet Cougourdan, il capo facchino Salvario, era un ometto piccolo, vivace, bruno, di membra robuste e atticciate.

Il suo gran naso uncinato, le sue labbra sottili, il suo viso allungato esprimevano la vanitosa fiducia, l'astuta spacconeria che sono caratteri distintivi di alcuni tipi del Mezzogiorno.

Cresciuto sul porto, da giovane semplice operaio, aveva messo da parte per dieci anni quanto guadagnava. Sollevava enormi pesi:

aveva una forza nervosa da meravigliare. Aveva per abitudine il ripetere che gli uomini grandi e grossi non gli facevano paura.

Per dire il vero quel nano ne avrebbe fatte buscare a un gigante.

Ma nell'adoperare la sua forza si mostrava saggio e prudente, evitando le liti, sapendo che la tensione dei suoi muscoli valeva quattrini e un pugno procura soltanto noie. Viveva sobriamente, dedicandosi tutto al lavoro ed all'avarizia, con la fretta di arrivare alla meta che s'era proposto.

Finalmente un giorno si trovò in mano le migliaia di franchi che gli occorrevano per eseguire il suo progetto. Diventò principale dalla sera alla mattina, prese degli uomini sotto di sé e stette a vederli correre e sudare, con le braccia incrociate sul petto. Di tanto in tanto, brontolando, dava una mano. In fin dei conti era un pigro matricolato: aveva lavorato per caparbietà, preferendo fare tutt'insieme tutto il lavoro della sua vita per riposarsi più tardi nelle dolcezze dell'ozio di un uomo ricco.

A poco a poco l'operaio avaro si trasformò in un nuovo ricco prodigo. Salvario aveva dei cocenti appetiti di ricchezze e piaceri: voleva avere molti quattrini per divertirsi molto, e voleva divertirsi molto per far vedere a tutti che aveva molti quattrini. La vanità di arricchito lo spingeva a divertirsi facendo una casa del diavolo. Quando rideva pretendeva che tutta Marsiglia sentisse le sue risate.

Portava dei vestiti di panno fine sotto i quali s'indovinava il corpo stecchito dell'antico operaio. Sul gilet faceva pompa d'una catena d'oro grossa un dito, alla quale erano attaccati dei ciondoli tanto massicci da accoppare un bue. Aveva alla mano sinistra un anello d'oro massiccio senza alcuna pietra. Con le scarpe verniciate, il cappello a cencio, bighellonava tutto il giorno per la Cannebière e sul porto fumando in una magnifica pipa di spuma guarnita d'argento. E camminando faceva ballare sulla pancia i ciondoli della catena, e dava alla folla delle occhiate.

Godeva.

A poco a poco Salvario aveva affidato la direzione della sua azienda a Cadet Cougourdan di cui gli andava a genio il carattere vivace: quel giovanotto possedeva a vent'anni un'intelligenza sicura e franca che gli dava una vera superiorità su tutti gli altri facchini. Il principale fu contentissimo d'avere un uomo simile sottomano: lo nominò sorvegliante degli uomini che lavoravano per suo proprio conto, e poté d'allora in poi far bella mostra di sé, e delle sue manie, per tutta Marsiglia. Si contentava di fare i conti ogni mattina e intascare i quattrini guadagnati.

Cominciò per lui l'esistenza che aveva sognato. Si fece ammettere in un circolo. Giocò, ma con prudenza, parendogli che le emozioni del gioco non valgano quanto costano: voleva spender bene i suoi quattrini e andava in cerca di piaceri solidi e duraturi. Mangiava nelle migliori trattorie e aveva delle donne che metteva in evidenza davanti alla folla. La sua vanità era deliziosamente solleticata quando poteva distendersi sui cuscini d'una vettura accanto a un vestito di seta. La donna non era nulla, il vestito tutto. Si portava dietro il vestito di seta negli stanzini riservati delle trattorie, e apriva le finestre perché ognuno che passava lo potesse vedere a pranzo con una donna vestita bene, mangiando delle vivande molto care. Altri avrebbero chiuse le persiane, e messo il segreto all'uscio; egli sognava invece di baciare le amanti in un palazzo di vetro perché la folla potesse persuadersi ch'egli era tanto ricco da farsi amare da delle belle donnine. Capiva l'amore a suo modo.

Da un mese era rapito in estasi. Aveva incontrato una giovane donna la cui conoscenza solleticava il suo amor proprio. Era l'amante di un conte ed in fama d'essere una delle regine della società equivoca di Marsiglia. Si chiamava Teresa Armanda, ma abitualmente la chiamavano Armanda.

Quando Armanda mise la prima volta la manina inguantata nella mano larga di Salvario, mancò poco che il capo facchino non svenisse dalla consolazione. Quella stretta di mano fu scambiata nei viali di Meilhan, davanti la porta della casa abitata dalla ragazza, e i passanti si voltarono indietro per guardare quell'uomo e quella giovane donna che si facevano dei sorrisi e delle riverenze.

Salvario se n'andò, gonfio d'orgoglio, e fanatico dell'abbigliamento e delle belle maniere di Armanda. D'allora in poi ebbe un pensiero solo; aver per amante quella donna, soppiantare un conte, e andare a spasso con una vestita di velluto e di trine.

Fece la posta ad Armanda mettendosi sempre sulla sua strada.

S'innamorava dei cenci di lusso ch'essa aveva addosso e del profumo delle sue vesti. Era orgoglioso di esser salutato, di parere uno dei suoi amici, e non gli sarebbe dispiaciuto l'esser creduto uno dei suoi amanti. Una sera salì in casa di Armanda e ne uscì la mattina dopo. Credette che le proprie attrattive personali gli avessero procurato tale vittoria. Durante otto giorni la fatuità di Salvario fu insopportabile: guardava passare la gente con aria di compassione beffarda. Quando portava Armanda a braccetto, sul marciapiede, la strada non gli pareva larga abbastanza. L'andatura, il rumore delle sottane della sua amante, lo facevano andare in estasi.

Raccontava a tutti i suoi trionfi. Cadet fu uno dei suoi primi confidenti.

- Se tu sapessi! - gli disse - che bella figliola, e come mi adora! In casa sua c'è di tutto; specchi, tappeti, portiere... Par d'essere da una signora, parola d'onore! Eppure non è punto superba, buona figliola, con le mani bucate... Ieri ho fatto colazione nel suo salotto, poi abbiamo preso una vettura scoperta e siamo andati insieme al Prado. Tutti ci guardavano... C'è da morir di consolazione in compagnia d'una donna simile.

Cadet sorrideva. Il suo ideale era l'amore di una ragazza robusta; Armanda gli pareva una bambola meccanica, un ninnolo che gli si sarebbe spezzato fra le mani. Ma non voleva contraddire il principale e andava in estasi con lui per le attrattive della ragazza. La sera raccontava poi a Pina le pazzie di Salvario.

La fioraia aveva ripreso il suo posto nel chiosco del corso San Luigi. Vendeva fiori, spiando, cercando le occasioni per aiutare Mario. Non si dimenticava del prestito dei quindicimila franchi e ogni giorno faceva un progetto nuovo, e pensava di rivolgersi alle persone che per caso l'avvicinavano.

- Credi - domandò una mattina al fratello - che il signor Salvario sia uomo da prestar denari?

- Secondo, - rispose Cadet; - darebbe volentieri mille franchi a un povero, in pubblica piazza, davanti a molta gente, per fare mostra del suo buon cuore.

La fioraia si mise a ridere.

- Non si tratta di domandargli l'elemosina, - ella ripigliò.

Bisognerebbe però che la sinistra di chi presta ignorasse in questo caso quello che fa la destra.

- Diavolo! troppo disinteresse... Ma in tutti i modi si può tentare.

Pina immaginò un altro progetto basandolo su queste poche parole.

Credeva Salvario ricchissimo, e non lo giudicava, in fondo, cattivo. Forse si poteva ottenere da lui qualche cosa servendosi del predominio di Armanda.

La fioraia capì che era necessario prima di tutto persuadere Mario ad andare da quella ragazza. Lì stava il difficile. Mario vi si sarebbe rifiutato senza discutere, avrebbe detto che nulla di comune poteva esservi fra lui e quella donna.

Un giorno Pina si lasciò scappar di bocca, come per sbaglio, il nome di Armanda, e fu molto sorpresa vedendo Mario sorridere come se avesse sentito ricordare una persona di conoscenza.

- La conoscete quella signora? - gli domandò.

- Sono stato una volta a casa sua; mi condusse Filippo. Quella signora, come la chiamate voi, apriva le sue sale una volta la settimana e mio fratello n'era uno dei frequentatori... fui molto ben ricevuto e ho trovato una padrona di casa molto cortese e molto elegante.

L'elogio di Armanda fatto da Mario parve rattristare Pina.

- Pare, - continuò Mario, - che da un anno in poi le cose siano molto cambiate in quella casa. Mi dicono che Armanda sia molto imbrogliata nei suoi affari. Però la dicono furba, e magari intrigante, e se le capita qualche imbecille saprà levarsi dai fastidi nei quali si trova.

Era passata la strana emozione dalla quale era stata presa Pina.

Essa continuò abilmente nel preparare l'esecuzione del suo progetto senza precipitare.

- L'imbecille è bell'e trovato - disse ridendo; - non lo conoscete il signor Salvario, il principale di Cadet?

- Un poco, - rispose Mario. - L'ho incontrato qualche volta sul porto in pantofole...

- Sicuro... è l'amante di Armanda da qualche mese... Dicono che ne abbia spesi già parecchi per lei.

Poi, con tono indifferente, Pina aggiunse:

- Perché non tornate a far visita ad Armanda? Potreste incontrare qualche riccone che vi potrebbe aiutare nella faccenda che sapete... Forse il signor Salvario potrebbe esser disposto a farvi questo piacere.

Mario diventò serio e stette un momento zitto: consultava se stesso.

- Sì, - disse finalmente, - avete ragione. Non devo rinunciare ad alcun tentativo... Bisognerà che domani vada a far visita a quella donna... Le spiegherò lo scopo della visita parlandole di mio fratello...

La fioraia lo guardava in faccia battendo gli occhi.

- Badate, - ripigliò essa ridendo forzatamente, - di non restare ai piedi della incantatrice... Ho sentito parlare spesso dei suoi vestiti belli e di buon gusto, del suo talento, e dello strano predominio che essa ha sugli uomini.

Mario, sorpreso dalla voce commossa della sua amica, le prese la mano e la guardò in viso con lo sguardo penetrante:

- Che cosa avete? - le domandò. - Si direbbe che sono un peccatore e vado a casa del diavolo... Povera Pina! non ho affatto voglia di pensare a tali sciocchezze. Ho una sacra missione da compiere.

Poi, guardatemi bene... quale donna vorrebbe sapere di un bel mobile come me?

Pina lo guardò, sorpresa di non trovarlo più tanto brutto. Una volta le pareva orribile. Adesso le pareva che dal suo volto si spandesse luce e lo trasfigurasse. Il giovane le strinse amichevolmente la mano ed essa ne fa turbata.

La sera dopo, come aveva risoluto, Mario andò a casa di Armanda.

 

Capitolo 2 - UNA "LORETTE" MARSIGLIESE

L'origine di Armanda era molto misteriosa. Pretendeva di essere nata nell'India, figlia di una indigena e di un ufficiale inglese.

Partendo da questo punto, raccontava a chi stava a sentirla, un romanzo del quale era l'eroina. Il suo primo errore lo metteva sulla coscienza di un ricco protettore che, mortole il padre, l'aveva presa con sé ed allevata con ogni premura per farne poi la sua amante, come si ingrassa una gallina per mangiarla più tenera.

Si divertiva a raccontare questa storia brutalmente romantica.

Grazie alle bugie di Armanda, non si seppe mai la sua vera storia.

Un giorno s'era posata a Marsiglia come uno di quegli uccelli che da lontano lontano sentono al fiuto un paese ricco di preda d'ogni specie. Aveva dato prova di grande intelligenza con lo stabilirsi in una città industriale. Appena arrivata, si attaccò alla gente d'affari, ai giovani negozianti che buttan via i quattrini a palate. Capì che quei giovanotti, inchiodati tutto il giorno in uno scrittoio, desideravano divertirsi la sera buttando via l'oro guadagnato.

Tese i suoi lacci con arte. Mise su casa con gran lusso e le dette una tal quale apparenza aristocratica. Le riuscì facile vincere le rivali già stabilite nella città. Quelle povere ragazze erano tutte d'una grande ignoranza; si vestivano male, sapevano appena parlare, facevano pompa di un lusso meschino e volgare, si davano scioccamente. Armanda le soggiogò tutte con l'eleganza e con lo spirito acquistato qua e là praticando gente bene educata. Ed a poco a poco diventò una celebrità profana.

In casa sua, come diceva ingenuamente Salvario, si dava l'aria d'una duchessa. Il suo quartiere era mobiliato con un gusto squisito.

Aprì il suo salotto, vi attirò i giovanotti ricchi col chiasso che faceva fare sul conto suo, e li trattenne con la buona grazia e il garbo delle sue maniere. La donna mantenuta appariva appena sotto la padrona di casa. Aveva degli amanti, lo faceva sapere volentieri: ma in pubblico, quando riceveva, teneva un contegno decente del quale le facevano grandi elogi. Era un tipo del vizio elegante, profumato, intelligente.

Le persone assennate la consideravano come una vera piaga, come un baratro senza fondo nel quale andavano a precipitare i capitali dei giovani commercianti marsigliesi. Le donne mantenute, sue rivali, ne dicevano tutto il male possibile e l'accusavano di vergognosi intrighi: mettevano in ridicolo il suo viso magro, le sue rughe precoci: dicevano che era brutta, era quasi vero, - e dichiaravano di non capire la ragione del fanatismo che quegli imbecilli di uomini avevano per quella creatura. Armanda le lasciava dire e regnava tranquillamente. Per parecchi anni le dominò con l'ingegno, il lusso, la sapienza di donna elegante e raffinata. S'andava in casa sua in abito nero e cravatta bianca.

Poi, tutto ad un tratto, la sua reputazione scemò, senza causa apparente. Venne il bisogno e fece danno al suo lusso. Era passata di moda: mancavano gli amanti generosi. Si trovò alle strette di quella mezza miseria che si veste di seta e cammina sui tappeti.

Lottò disperatamente contro la fortuna avversa sentendo che, se non faceva tutti gli sforzi possibili per conservare l'appartamento di gran signora, sarebbe finita sulla strada.

Capiva che tutto il prestigio le veniva dall'apparente ricchezza, dal vestiario, dai denari che le permettevano di recitare la parte di duchessa mancata. Il giorno che le sarebbe mancato un abito, o avrebbe dovuto chiudere il suo salotto, sarebbe diventata una povera ragazza, brutta e appassita, della quale nessuno avrebbe saputo che farsi. Perciò dette prova di una energia febbrile per trovar degli amanti, per procurarsi denari a qualunque prezzo.

In tali circostanze fece la conoscenza di una signora Mercier che le prestò qualche somma ad un interesse esorbitante. Aveva messo in mezzo tanti giovani imbecilli, e si lasciò mettere in mezzo a sua volta, senza lamentarsi molto... Sperava di farsi pagare capitale e interessi dal primo uomo ricco del quale sarebbe divenuta l'amante. Gli uomini ricchi non comparvero ed essa diventò più inquieta.

Spinta dalla necessità, sentendo che tutti i giorni la sua bellezza, con la quale guadagnava il pane, se n'andava insieme col lusso, arrivò al delitto. Per calmare le esigenze dei creditori aveva dovuto vendere specchi, mobili, porcellane; la sua casa si vuotava, le pareti a poco a poco restavano nude, ed essa pensava con orrore all'ora nella quale, stanca e invecchiata, si sarebbe trovata fra quattro mura nude. I tappezzieri, le modiste, tutti i fornitori dei quali era debitrice, diventavano meno trattabili da quando fiutavano la prossima rovina della loro cliente: sapevano che gli amanti diventavano rari, ed esigevano il pagamento immediato dei loro crediti. Alcuni parlavano già di sequestrare i mobili.

Armanda capì d'esser rovinata se non faceva quattrini subito, in qualunque modo.

Ricorse allora ad un mezzo estremo. Imitò la scrittura di tre o quattro amanti e firmò delle cambiali al suo ordine col nome di quegli uomini. Poi, non osando presentarsi a un banchiere, si rivolse alla Mercier che consentì a scontarle parecchie di quelle cambiali. E' da supporre che l'usuraia non ne ignorasse l'origine e vi speculasse sopra. Tenendo in pugno la ragazza, potendo da un momento all'altro presentar querela al procuratore del re, e sperando di esser pagata dai supposti firmatari desiderosi di evitare scandali, considerava le cambiali false da lei possedute in garanzia come preferibili a delle buone. Essa contava di fare un patrimonio con quest'affare, esigendo dei frutti enormi, imbrogliando sempre più gli affari di Armanda, facendo la parte di furba e d'ipocrita a meraviglia.

Durante due anni Armanda vivacchiò alla meglio senza fastidi.

Aveva indicato nelle cambiali il proprio domicilio e, ad ogni scadenza, faceva quattrini a qualunque costo, pigliando cento franchi dal primo che trovava, completando la somma necessaria vendendo qualche cosa, e facendo nuovi prestiti con nuove cambiali false. La Mercier seguitava a mostrarsi umile e disposta a servirla: voleva tenere stretta bene la preda prima di mostrare i denti e morderla.

Venne un momento nel quale Armanda non poté più pagare le cambiali false. Invano si offriva, andando al Chateau-des-Fleurs, come una da pochi soldi: non le riusciva più di guadagnare quanto le occorreva a tenere una casa aperta.

Le capitò allora di fare la conoscenza di Salvario. Lasciò per lui un conte, già da lei rovinato, credendo il capo facchino ricco e generoso. In altri tempi, quando era regina di Marsiglia, e faceva pompa insolente dei suoi velluti e delle sue trine avrebbe guardato Salvario dall'alto della ricchezza e dell'eleganza dei suoi amanti. Ma ormai non sdegnava più alcuna vittima: s'attaccava a tutti e si sarebbe messa volentieri a pigliar quattrini persino da mani sporche. L'antico operaio credette affezione il bisogno che spingeva la ragazza nelle sue braccia. Dopo qualche mese essa si accorse con spavento che il suo nuovo amante era prudentemente economo come un nuovo ricco e spendeva da egoista tutti i suoi denari. Due o tre cambiali false non furono pagate, e la Mercier cominciò ad inquietarsi.

Le cose erano a questo punto quando, una sera, Mario andò ingenuamente a casa d'Armanda. Credeva ancora di trovarvi parte della ricca e numerosa comitiva a cui l'aveva presentato il fratello. Sperava vagamente di far la conoscenza di qualche giovane negoziante disposto ad aiutarlo: faceva anche qualche calcolo su Salvario, del quale Pina aveva volontariamente esagerata la generosità.

Fu molto sorpreso di trovare il salotto d'Armanda vuoto. Quella grande stanza, che gli parve stranamente spogliata, era rischiarata da un solo lume. Salvario era mezzo sdraiato sopra un largo divano e pareva digerisse il pranzo con ostentazione, sbottonando qualche bottone del gilet, e tenendo fra le dita uno stecchino da denti. Armanda leggeva Graziella appoggiando malinconicamente la testa alla palma della mano sinistra. Una cagnolina levriera, ch'essa chiamava Djali, era coricata ai suoi piedi con la testa posata sulle sue pantofole di velluto granato.

Il leggere davanti ai suoi amanti le opere dei grandi poeti moderni era uno dei mezzi di seduzione adoperati da Armanda. Aveva una piccola biblioteca nella quale si trovavano le opere di Chateaubriand, di Victor Hugo, di Lamartine, di Musset.

La sera, al pallido chiarore del lume, quando era ancora bella, sfogliava languidamente delle pagine di versi o di prosa poetica.

Quella lettura formava come un'aureola intorno alla sua testa; gli amanti, che avevano creduto d'aver a che fare con una ragazza ignorante, trovavano invece una donna istruita, quasi letterata, che leggeva libri dei quali essi non avevano mai avuto il coraggio di sfogliare le pagine. Salvario particolarmente si sentì oppresso e dominato, quando la sua amante prese un giorno un volume di versi e cominciò a sfogliarlo tranquillamente davanti a lui che, a mala pena, scorreva qualche volta un giornale. Una donna che apriva un libro di poesie gli parve una creatura superiore alle altre. Ogni qualvolta Armanda leggeva, lui presente, Salvario si raccoglieva e prendeva un'aria pretenziosa e soddisfatta. Gli pareva di diventar sapiente anche lui.

Mario sorrise vedendo la posa di Armanda che voleva parere in estasi, e l'atteggiamento di Salvario in panciolle sul divano, con le mani giunte sul ventre.

Armanda accolse con la sua solita grazia il nuovo venuto. Fra lei e Filippo c'erano state relazioni più o meno intime, ed essa trattava Mario come una vecchia conoscenza. Lo invitò a sedere e gli rimproverò il farsi vedere tanto di rado. - So che in questi ultimi tempi, - ella aggiunse, - avete avuto molti fastidi. Povero Filippo! Mi pare ogni tanto di vederlo in un carcere umido, lui che aveva tanta passione per il lusso e i divertimenti... Imparerà a spender meglio i suoi affetti.

Salvario si era un po' rialzato. Aveva la buona qualità di non essere geloso: anzi andava superbo del bel numero di uomini che la sua amante aveva avuto. Le antiche avventure d'Armanda davano, secondo lui, maggior pregio alla sua conquista. D'altronde Mario gli parve tanto mingherlino e da poco di sentirsi soddisfatto di parere un colosso al suo confronto.

Armanda presentò i due uomini l'uno all'altro.

- Oh! ci conosciamo, - disse Salvario con un sorriso da uomo felice. - Conosco anche il signor Filippo Cayol. Quello è uno scapato!

Salvario era felicissimo d'essere stato trovato con Armanda da solo a sola. Cominciò a darle del tu, a parlare dei divertimenti che si prendevano insieme. Continuò poi a parlar di Filippo e rivolgendosi ad Armanda:

- Veniva spesso da te, non è vero? Ah! va là... non te lo proibisco. Credo che vi siate amati... Lo incontravo qualche volta al Chateau-des-Fleurs... Vi siamo stati ieri al Chateau-des- Fleurs... Eh? cara mia, quanta gente, quanti bei vestiti!

Si voltò poi verso Mario:

- La sera abbiamo mangiato alla trattoria... Molto cara... Non tutti possono levarsi quel gusto.

Pareva che Armanda ci soffrisse, perché c'era in lei ancora un fondo di delicatezza. Guardava Mario, dando dei leggeri colpi di spalla e delle occhiate di canzonatura a Salvario. Ma egli, imperturbabile, si metteva in mostra con compiacenza.

Mario indovinò allora i bisogni e le torture di Armanda. Provò un sentimento di pietà vedendo il salone deserto, e indovinando su quale spaventosa china precipitava quella donna da lui conosciuta spensierata e felice, si pentì d'esservi andato.

Verso le dieci, rimase solo con Salvario che si mise a spiegargli come aveva fatto a diventare ricco, e quanto se la godeva. Una domestica era venuta a dire a bassa voce ad Armanda che la Mercier era in anticamera, molto stizzita.

 

Capitolo 3 - NEL QUALE LA MERCIER MOSTRA LE UNGHIE

La Mercier era una donna sulla cinquantina, rotonda, grassa, che piagnucolava continuamente lamentandosi perché i tempi erano difficili. Vestita di percalle stinto, avendo sempre sotto il braccio una sportellina di paglia che le serviva da cassa, camminava a piccoli passi, con l'andatura sorniona d'una gatta.

Fingeva umiltà e miseria, e si dava l'aspetto di infelice per muovere a pietà la gente. Il suo viso fresco, nel quale le rughe sembravano pieghe di grasso, contraddiceva le lacrime tanto abbondantemente versate.

L'usuraia interpretava benissimo la sua parte con Armanda. Da principio fece la buona donna. S'impadronì di lei con arte infernale, mostrandosi ora servizievole, ora egoista, imbrogliando i conti, lasciando aumentare i frutti, mettendo la debitrice nell'impossibilità di verificare come stavano le cose.

Quando una cambiale scadeva e Armanda non aveva da pagarla, la Mercier prima si desolava; poi prometteva di pigliare in prestito da qualcuno i denari, dichiarando che essa non possedeva la somma necessaria. Anticipava il valore della cambiale e si faceva rimborsare subito da Armanda che aveva così da pagare altri interessi. Con questo via vai di cambiali, in questo continuo aumentare di interessi, Armanda non sapeva più neppure quant'era il suo debito, né quanto aveva pagato. E il debito aumentava senza nuovi prestiti, e più diventava vecchio più s'imbrogliava. Armanda si sentiva perduta in fondo ad un caos.

L'usuraia conservava le sue apparenze piagnucolose e smorfiose.

Quando dava essa stessa i denari perché Armanda potesse pagarla, le faceva considerare tutto il suo sacrifizio, l'eroismo della sua condotta.

- Eh! non avete mai visto un creditore come me, - le diceva. Vado a cercarvi i denari dei quali avete bisogno! E' bella anche questa!

- Ma, - rispondeva Armanda, - andate a farvelo prestare per voi, perché io debbo darlo a voi!

- No, - rispondeva la vecchia, - lo faccio unicamente per farvi un piacere.

A poco a poco la Mercier era a questo modo diventata di casa. Ogni due o tre giorni andava a far vedere la sua faccia astuta, e intenerita. Armanda diventò sua schiava. Ora la Mercier arrivava di corsa e si lasciava cadere disperata sopra una sedia, accusando la ragazza di volere scappare senza pagarla; bisognava portarla in giro per casa per farle vedere che non erano stati fatti i bauli.

Ora dava una grande scampanellata, ed entrando diceva che la derubavano, rimproverava ad Armanda le spese che faceva, paragonava la vita d'Armanda alla sua, la rimproverava di essere insolvibile e piena di debiti, e terminava col chiederle nuove garanzie.

Qualche altra volta si presentava a chieder bruscamente quattrini, poi si addolciva, piangeva miseria, e se n'andava strisciando i piedi in modo che faceva pietà. Ogni visita era accompagnata da un diluvio di lacrime. Aveva la ghiandola lacrimatoria obbediente e ne abusava per mettere in imbarazzo la gente.

Ogni suo lamento era seguìto da un singulto; si dimenava sulla sedia, pronunciava le parole più insignificanti con voce dolente.

Armanda, stanca e intontita, finiva per non saper più dire una parola. A momenti le avrebbe ceduto tutto, biancheria, vestiti, mobili, pur di non sentir più i suoi perpetui lamenti.

L'usuraia aveva inventato un altro stratagemma. Compariva di tanto in tanto con gli occhi rossi, dicendo di non aver pane, d'esser vicina a morire. Armanda, irritata, nervosa, le diceva d'accomodarsi e mangiare. Versava dei ruscelli di lacrime per avere dello zucchero, del caffè o dell'acquavite.

- Ahimè! cara signora, - piagnucolava, - sono pure disgraziata.

Stamani sono stata obbligata a pigliare il caffè senza zucchero, e domani mattina non avrò né zucchero né caffè... Siate generosa...Siete voi che mi mettete sulla paglia a questa maniera: se mi deste i miei denari non sarei forzata a venire a chiedere l'elemosina... Di grazia, datemi qualche libbra di zucchero e di caffè... Datemela in ricompensa di tutti i piaceri che vi ho fatto.

Armanda non sapeva rifiutare. Spendeva i suoi ultimi soldi, tanto la facevano tremare talune occhiate bestiali e canzonatorie della sua creditrice. Se diceva di non aver denari:

- Va bene, - rispondeva l'usuraia, - vado a presentare al vostro amante la cambiale che mi avete data...

Armanda non la lasciava neppur finire. Mandava a vendere qualche cosa per comprare quello che la Mercier desiderava. La disgraziata ragazza chiudeva gli occhi per non vedere l'abisso che si era scavato davanti ai piedi. Essa era divenuta ormai proprietà di quella donna che aveva in mano prove terribili contro di lei: e le obbediva, sordamente ribelle, domandandosi con disperazione in quale modo avrebbe potuto scapparle dalle grinfie.

La Mercier durò per due anni a piangere e a cavar di sotto ad Armanda quanto poteva. Non se n'andava mai a mani vuote.

I denari che le aveva prestato le avevano già fruttato il duecento cinquanta per cento. Se il capitale era in pericolo, i frutti lo superavano di due o tre volte. Un giorno l'usuraia capì che bisognava cambiar sistema. Armanda la riceveva sempre con dei brividi nervosi, sintomi d'una crisi. Non aveva più un soldo, e già due volte s'era rifiutata a darle dello zucchero.

La vecchia decise di non pianger più e ricorrere ai mezzi estremi.

Le restava di giocar il tutto per tutto, esigendo il pagamento immediato dei debiti arretrati, minacciando Armanda di denunciarla al procuratore del re.

Aveva avuto la prudenza di non lasciar mai supporre alcun sospetto relativamente ai biglietti falsi da lei posseduti. Fece presto il suo piano. Stabilì d'andare dalla ragazza e di farle una gran paura. Se uno dei suoi amanti era là, si sarebbe rivolta a lui, facendo uno scandalo e ottenendo di essere pagata in un modo qualunque. Voleva divorare la sua preda, dopo averle succhiato tutto il sangue.

Il giorno prima era scaduta una cambiale firmata da Armanda col nome di Salvario e data da lei alla Mercier per rinnovarne un'altra. La Mercier, avendo un pretesto per romperla, non volle aspettare più oltre. Si presentò in casa della ragazza precisamente quando vi si trovavano Mario e Salvario.

Armanda andò tutta turbata nell'anticamera. Si tirò dietro la Mercier in un salottino separato dalla sala soltanto da un uscio.

Le offrì una sedia, col rispetto pauroso e supplicante dei debitori insolvibili verso i creditori.

- Ah! ah! - esclamò l'usuraia rifiutando la sedia, - vi burlate di me, voi, mia cara signora. Un'altra cambiale che mi ritorna a casa non pagata. Io sono stanca finalmente!

Parlava a voce alta e insolente, con le braccia incrociate. Il suo viso piccolo e rosso era lustro per la collera. Armanda avrebbe preferito la solita voce piagnucolosa e lamentevole.

- Di grazia, - le disse spaventata, - parlate più adagio. Ho gente in casa. Sapete bene che la mia posizione è molto imbrogliata...Accordatemi qualche giorno.

La Mercier fece un gesto screanzato. Si alzava sulle punte dei piedi e parlava sul viso di Armanda.

- Che cosa importa a me se avete gente in casa? - ripigliò senza abbassare il tono della voce. - Io voglio esser pagata, e subito!La signora compra dei cappellini, la signora va al Chateau-des- Fleurs, la signora ha degli amanti che le procurano mille passatempi... Ne ho forse io, degli amanti? Ne faccio a meno, mangio pane secco e bevo acqua, mentre voi vi rimpinzate di roba ghiotta. Così non si può andare avanti. Mi occorre il mio denaro, altrimenti mi rivolgerò... Sapete dove, non è vero?

Accompagnò le ultime parole con un'occhiata minacciosa. Armanda impallidì.

- Ah! vi dà fastidio sentirmi parlare a questo modo, - continuò la vecchia ironicamente. - Mi avete presa per una imbecille! Se ho fatto la stupida, l'ho fatto perché mi faceva comodo, e vi trovavo il mio tornaconto.

E si mise a ridere alzando le spalle. Poi aggiunse con violenza:

- Se stasera non mi pagate, domani scrivo al procuratore del re.

- Non so che cosa vogliate dire, - balbettò Armanda.

L'usuraia s'era messa a sedere. Si sentiva padrona della posizione, e voleva levarsi il gusto di divertirsi un po' con la sua vittima.

- Ah! non sapete che cosa voglio dire quando vi parlo del procuratore del re, - disse, facendo una smorfia orribile, come presa da una improvvisa allegria. - Ma voi mentite, cara signora!Guardatevi in quello specchio... siete trasfigurata... confessate d'essere una briccona!

A tale parola Armanda rialzò la testa. Le parve d'aver ricevuto una frustata in faccia. Le ritornò il sangue freddo, e indicando la porta alla Mercier:

- Andatevene subito, - le disse a voce alta.

- No, non me ne andrò, - rispose la vecchia sprofondandosi nella poltrona, - voglio i miei quattrini... se mi toccate, grido all'assassino e le persone che sono nel vostro salone verranno a soccorrermi... Vi ho già detto che non sono una stupida...Pagatemi subito ed io vi lascerò in santa pace.

- Non ho denari, - rispose freddamente Armanda.

La risposta esasperò l'usuraia. Da un anno se la sentiva ripetere ad ogni sua visita. Aveva finito per crederla una canzonatura.

- Non avete denari, mi dite sempre così, - essa gridò. - Datemi i vostri mobili, i vostri vestiti... Ma no, preferisco farvi andare in prigione. Vado a presentar querela ed accusarvi di falso...Vedremo, mia bella signora, se fra i carcerieri troverete degli amanti che vi pagheranno abiti di seta e pranzetti delicati.

Armanda vacillava, perdeva tutta la sua fermezza, temendo che Mario e Salvario udissero la voce della vecchia usuraia. Questa si accorse del suo spavento e si mise a gridare più forte.

- Sì... domani posso farvi andare davanti alle Assise... Lo sapete, non è vero?... Ho nelle mani più di dieci cambiali false nella quali avete imitato la firma dei vostri amanti. E' una bella abilità!... Andrò a cercare tutti questi signori, dirò loro chi siete, ed essi vi getteranno in mezzo alla strada. Morirete come un cane...

Riprese fiato mentre Armanda pensava a strozzarla per farla tacere.

- Toh! - continuò la vecchia, - mi avete detto che di là c'è gente... C'è forse nella vostra sala uno di quelli dei quali avete rubato il nome per batter moneta. Ora lo vedrò. Bisogna ch'io lo sappia. Lasciatemi passare.

Si avviò verso l'uscio. Armanda le si piantò davanti, colle braccia tese, pronta a colpire se la Mercier si fosse avanzata.

- Volete picchiar me, che vi ho dato da mangiare, che vi ho prestato i miei poveri quattrini, - balbettò l'usuraia soffocando di rabbia.

E fece un passo indietro gridando:

- A me, a me!

Armanda si voltò subito indietro per chiudere a chiave la serratura. Ma non fece a tempo. L'uscio si apriva ed essa si trovò faccia a faccia con Mario e Salvario che guardavano nel salottino inquieti e curiosi.

 

Capitolo 4 - CHE PROVA COME IL MESTIERE DI "LORETTE" ABBIA LE SUE PICCOLE NOIE

Salvario e Mario erano rimasti soli nella sala quasi mezz'ora.

Mario se ne sarebbe voluto andare, ma aveva creduto di non poter farlo senza salutare la padrona di casa. Faceva finta di stare ad ascoltare le chiacchiere del capo facchino.

Il rumore delle voci era giunto subito fino alle loro orecchie. A poco a poco il rumore era cresciuto a tal punto che tutti e due stettero in ascolto, non potendo più fingere di volere esser discreti. Allora il grido della Mercier li aveva fatti alzare ed aprire la porta del salottino.

Si trovarono davanti uno strano spettacolo. Al loro apparire, Armanda indietreggiò vacillando, e si lasciò andare sopra una poltrona. Prendendosi la testa fra le mani, scoppiò in singhiozzi, abbattuta, senza volere alzar la testa né dire una parola.

L'usuraia, arrabbiata, col viso acceso, s'avvicinò ai due uomini e si mise a parlare loro, con una volubilità rabbiosa. Di tanto in tanto s'interrompeva per voltarsi indietro e mostrare il pugno ad Armanda che pareva non la sentisse, tutta agitata dalla disperazione che faceva tremare il suo corpo.

- Avete visto, non è vero? - ripeteva la vecchia, - mi voleva picchiare. Aveva il braccio alzato... La miserabile! Immaginatevi, buoni signori, che io le ho dato tutti i miei quattrini a quella donna. Mi piace di rendere dei servizi. Poi, la credevo onesta. Mi ha fatto scontare delle cambiali firmate da persone onorevoli: mi credevo ben garantita. Oggi ho saputo che le cambiali sono false e che sono stata indegnamente derubata. Che cosa avreste fatto al mio posto? Le ho rimproverato il suo indegno procedere, e allora ha minacciato di battermi.

Salvario apriva gli occhi meravigliato. Osservava ora l'abbattimento d'Armanda, ora l'eccitamento della Mercier. Si avvicinò alla ragazza e le disse:

- Su via, mia cara, difenditi. Questa donna mente, non e vero? Tu non hai fatto simili sciocchezze? Parla dunque!

Armanda non si mosse e continuò a singhiozzare.

- Oh! non parlerà, non si difenderà, - ripigliò l'usuraia trionfante. - Sa bene che ho le prove nelle mani. Domattina scriverò al procuratore del re.

Mario, dolorosamente sorpreso, guardava Armanda con compassione.

Il caso gli faceva incontrare una nuova vergogna, una nuova miseria umana. Si rammentava della triste scena alla quale aveva assistito quando era stato arrestato, in sua presenza, Carlo Bletry. Davanti a quella donna gettata nell'infamia dal vizio, provava un sentimento di compassione. Indovinava in parte le occasioni che l'avevano spinta al delitto, capiva le necessità che, di caduta in caduta, la facevano andare a finire nel fango.

Avrebbe voluto salvarla, restituirla a una vita onesta, darle i mezzi per uscire da quel putridume.

- Perché la volete rovinare? - disse tranquillamente all'usuraia.

- Non sarete con questo pagata prima. Non l'opprimete: datele invece i mezzi di riaversi e di rimborsarvi.

- No, no, - rispose spietatamente la vecchia, - voglio che vada in prigione. Ho aspettato troppo. Anche ieri non mi ha pagato una cambiale di mille franchi che aveva firmato pagabile in casa sua... L'ha firmata col nome di Salvario, il nome di uno dei suoi amanti di certo.

Salvario sentendosi nominare fece un salto. Lo spaventava la cifra.

- Dite che avete una cambiale di mille franchi firmata Salvario? - domandò atterrito.

- Sì, signore, l'ho portata, è nella mia sportellina.

- Fatemela vedere, vi prego.

Salvario rigirò la cambiale fra le mani, esaminò da vicino la firma e rimase confuso.

- Perbacco - esclamò - è imitata perfettamente!

Si voltò verso Armanda, oppressa dal dolore, e continuò con un tono aspro:

- Cara mia, non facciamo sciocchezze... non pagherò!... sapete!Che diavolo: potrei darvi cento franchi, ma mille è troppo.

Non le dava più del tu e cominciava a pentirsi della sua buona fortuna.

- Oh! non ho soltanto quella, - disse la Mercier, - ne ho dell'altre firmate con nomi diversi. Pure, se mi pagasse questa, mi adatterei a stare zitta, aspetterei ancora.

Le parole assennate di Mario le avevano fatto capire che era preferibile il non presentar querela. Giacché le era capitato fra i piedi Salvario, sperava ch'egli avrebbe pagato. Diventò arrendevole, cambiò tattica, e si mise a scusare Armanda.

- In fine dei conti, - disse, - non so se le altre cambiali sono false. La povera donnina si è trovata a dei momenti brutti. Non bisogna fargliene carico, signor mio. E' una buona ragazza.

E cominciò a piangere a calde lacrime. Mario non poté trattenersi dal sorridere. Salvario andava e veniva, agitato, brontolando fra i denti. L'infamia della sua amante lo commuoveva poco: era agitato soltanto dalla lotta che l'egoismo e la generosità combattevano in lui.

- No, insomma, - esclamò finalmente, - non posso dar nulla.

Armanda piangeva sempre, d'un pianto sordo e straziante. Quella donna, che aveva provate tutte le gioie del lusso e dell'adorazione, soffriva crudelmente nel fango dove era caduta.

Era lì, avvilita, davanti alla miseria ed alla vergogna, e si disperava pensando all'eleganza, alla ricchezza d'una volta. Non si sarebbe più alzata; sarebbe ancora scesa più in giù, diventata l'ultima delle creature. Si disperava anche di più pensando che la sua ignominia sarebbe pubblica. La presenza di Salvario e di Mario raddoppiava i suoi rimorsi. Quel dolore muto d'Armanda commuoveva stranamente Mario, debole davanti alle lacrime. Se li avesse avuti, avrebbe dato volentieri i mille franchi chiesti dall'usuraia. Dopo un penoso silenzio si rivolse a Salvario che, molto seccato, passeggiava nella stanza a lunghi passi.

- Vediamo, via, signore, - gli disse, - bisogna salvare questa donna. Le sue lacrime perorano per lei meglio di me... voi l'amate e non l'abbandonerete in un tale stato di disperazione.

- Eh! sì, l'amavo, - rispose seccamente il capo facchino, - e credo di averlo dimostrato abbastanza da tre mesi a questa parte.

Sapete che ho già speso più di cinquemila franchi con lei... Non voglio dar più nulla, tanto peggio... Si accomoderà come potrà.

Sarebbero mille franchi buttati via. Che profitto ne ricaverei se glieli dessi?

- Avreste fatta una buona azione. Quello che essa ha fatto è vergognoso, né voglio scusarla: soltanto credo d'indovinare che cosa l'ha spinta a diventare falsaria. Potrei difendere la sua causa.

- Tutto ciò non mi riguarda. Ha fatto quello che ha voluto...Vedete bene che io non vado in collera. Voglio soltanto uscire da questo brutto imbroglio.

Mario era scoraggiato: si rammentò quanto gli aveva detto Pina della vanità del capo facchino, e ripigliò con tono indifferente:

- Non ne parliamo più! Vi ho detto questo perché vi sapevo ricchissimo e generoso: prima o poi la vostra bella azione si sarebbe saputa e voi avreste guadagnato per più di mille franchi d'elogi.

- Credete? - disse Salvario esitando.

- Ne sono certo. Pochi uomini fanno simili sacrifizi e perciò vi sarebbe una vera gloria nel salvare una donna... ma non ne parliamo più.

Salvario si fermò in mezzo alla stanza e cominciò a riflettere.

La Mercier, che lo vedeva esitare e provava dei brividi di desiderio all'idea di riscuotere mille franchi, pensò bene di metter bocca. Aveva ripreso la sua voce piagnucolosa, il suo contegno umile e cerimonioso.

- Ah! signore, - disse a Salvario, - se sapeste come vi adora questa povera donnina. Parecchi uomini ricchi hanno tentato di prendere il vostro posto. Essa ha rifiutato tutte le proposte e forse per questo non ha potuto riparare agli errori commessi, rimanendo nelle strettezze; non potete immaginarvi quanto vi sia affezionata.

Tali parole lusingarono molto Salvario. Messo in ballo il suo amor proprio, la faccenda cambiava d'aspetto. Prese un atteggiamento trionfante e disse:

- Ebbene... sia; darò i mille franchi. Ve li porterò domani sera.

Andate e lasciate la signora in pace.

L'usuraia salutò con strisciante umiltà, e se n'andò pian pianino, chiudendo le porte senza far rumore.

Armanda aveva alzato la testa. Pareva più vecchia col viso bagnato di lacrime. Scossa ancora dallo spavento, e con la febbre della vergogna addosso, si alzò con fatica e voleva inginocchiarsi ai piedi di Mario e di Salvario.

Mario la trattenne, mentre il capo facchino diceva:

- Andiamo, via... basta. Accetto i vostri ringraziamenti e mi auguro che il mio sacrificio vi sia utile.

Per dire il vero Salvario non trovava più alcuna attrattiva in Armanda. Si era accorto che la povera creatura era appassita, e la lezione ricevuta gli pareva tanto dura da fargli dimenticare per un pezzo i salottini della società equivoca. Si trovava meglio con le sartine.

I due uomini se n'andarono. Sulla soglia della porta Armanda baciò con trasporto la mano di Mario. Aveva trovato in lui una pietà vera e profonda; lo ringraziava d'averla salvata.

La sera dopo Salvario andò in cerca di Mario perché lo accompagnasse dalla Mercier. L'usuraia abitava una casa schifosa in via del Pavé-d'Amour. I due visitatori salirono al terzo piano e bussarono invano ad una porta umida e nerastra. A quel rumore uscì fuori un'inquilina e disse loro che "la vecchia briccona" era stata arrestata la mattina di quello stesso giorno.

- Da qualche tempo, - disse la vicina, - era pedinata dalla polizia. Pare che fosse stata presentata una querela contro di lei. Sono tutti contenti del suo arresto in questa casa... Ha appena avuto il tempo di bruciare le carte che la potevano compromettere.

Mario capì che la Provvidenza aveva salvato Armanda. Interrogò altra gente di quella casa e si accertò che l'usuraia aveva bruciato le cambiali firmate da Armanda, per paura che non servissero come prova contro di lei: dubitava che Armanda, trovandosi compromessa, direbbe tutta la verità e rivelerebbe particolari schiaccianti. D'altronde distruggendo le cambiali non perdeva nulla; era già rientrata da un pezzo ne' suoi.

Salvario fu molto contento dell'avventura. Riportò indietro trionfalmente i suoi mille franchi, avendo potuto dar prova di generosità senza spendere un soldo. Era tanto di guadagnato.

- Siete testimone, - egli disse a Mario, - ch'ero venuto a pagare.

Vedete come son fatto io, mi piace d'esser generoso: butto i quattrini dalla finestra... Non mi scomoda di spendere mille lire quando si tratta di levarmi un gusto.

Mario lo lasciò andare in estasi e corse a casa di Armanda a darle la buona notizia.

La trovò triste e turbata. Aveva passato una nottata terribile, cercando un mezzo supremo per uscire da quell'infamia.

Quando seppe che le cambiali false erano state distrutte e perciò essa aveva riacquistato la sua libertà, parve trasfigurarsi. Baciò Mario con passione e gli giurò che avrebbe profittato della lezione cambiando vita.

- Lavorerò, - ella disse, - mi condurrò da donna onesta... Allora, solamente allora, voglio che mi rendiate la vostra amicizia...Arrivederci.

Mario la lasciò commosso da quella decisione e da quelle promesse.

Quando si trovò solo si rimproverò la propria abnegazione: da due giorni viveva fuori di sé, non pensando alla salvezza del fratello. Quando Pina gli domandò i risultati delle pratiche fatte, non osò raccontarle le scene alle quali aveva assistito: si contentò di dirle che non bisognava pensare neppure per sogno a chiedere quattrini in prestito a Salvario, e che Armanda non riceveva più alcuno.

- A quale porta andrete a picchiare allora? - gli domandò la fioraia.

- Non lo so, - rispose Mario. - Ma ho un progetto e voglio metterlo in esecuzione.

 

Capitolo 5 -IL NOTAIO DOUGLAS

Mario era tornato allo studio del signor Martelly, e vi aveva ripreso il suo ufficio trovando nel lavoro una specie di quiete.

L'animo suo diventava più libero nella pace e nel silenzio della sua stanza. Si diceva che aveva quattro mesi di tempo per aiutare Filippo, e rifletteva per intere giornate ai mezzi ai quali poteva ricorrere.

Il signor Martelly lo trattava sempre come un figlio. Qualche volta Mario pensava di dirgli tutto e chiedergli i quindicimila franchi. Poi si lasciava prendere dal timore, dalla timidezza:

temeva l'austerità repubblicana del suo principale. Decise di lottare ancora, d'esaurire tutti i mezzi possibili prima di rivolgersi a lui. Dopo aver bussato invano a tutte le porte si sarebbe deciso forse a confidare al signor Martelly l'imbarazzo nel quale si trovava invocandone la benevolenza.

Intanto gli parve tempo di non agire più da giovane ingenuo e di non fare più alcun tentativo inutile. Pensò a guadagnare da sé la somma necessaria. La cifra lo spaventava: capiva di non poter metter da parte in quattro mesi quel piccolo patrimonio. Ma pure si sentiva un coraggio capace di sollevare le montagne.

Si rammentò che il notaio Douglas, del quale il signor Martelly aveva inutilmente richiesto l'appoggio in favore di Filippo, gli aveva offerto da qualche mese di nominarlo suo procuratore. Il notaio e l'armatore erano in relazione d'affari, e spesso il signor Martelly mandava Mario da Douglas a sistemare dei conti. Un giorno, andando dal notaio, Mario si decise ad accettarne le offerte: se i guadagni erano scarsi, forse avrebbe potuto tentare, quando si fosse fatto meglio conoscere, di domandare un prestito.

Il notaio Douglas abitava una casa di apparenza semplice ed austera. Lo studio occupava tutto il primo piano: c'era un numero grandissimo di impiegati, in grandi sale fredde e spoglie, allineati davanti a lunghe tavole d'abete. Il lusso non era penetrato in quel luogo dove regnava una attività prodigiosa e un'onesta ruvidità. Si sentiva d'essere in casa di un uomo che non perdeva mai la testa nelle gioie della vita.

Da dieci anni Douglas era succeduto a Imbert, del quale era stato giovane di studio per dodici anni. Era un giovane intelligente ed intraprendente, appassionato per gli affari, che sognava gigantesche speculazioni. La febbre dell'industria, dalla quale era presa la Francia, gli bruciava il sangue e gli metteva addosso una strana ambizione: avrebbe voluto guadagnar molto, non per vivere in mezzo alle ricchezze, ma perché provava una cocente voluttà a mischiarsi negli affari e a fare riuscire le imprese da lui tentate.

Fino dai primi giorni gli parvero troppo limitati i proventi del suo studio di notaio. Era nato banchiere, con le mani fatte per rimescolare grosse somme. Il notariato, con le sue operazioni calme, il carattere quasi paterno e sacro, non conveniva affatto al suo temperamento di aggiotatore. Si sentiva fuori di posto, e tutti i suoi istinti lo spingevano a mettere a frutto il denaro depositato nelle sue mani. Non poteva rassegnarsi alla parte d'intermediario disinteressato, e si gettò, ansante e con la febbre addosso, nell'ardita impresa di negoziare il denaro, per il quale doveva più tardi commettere grossi delitti.

Pagò in qualche mese la somma dovuta per aver rilevato lo studio, senza che si potesse sapere precisamente dove l'avesse presa. Poi cominciò a dimostrare una prodigiosa attività. In pochissimo tempo il suo studio acquistò un'importanza considerevole. Si mise alla testa del notariato di Marsiglia, spalancando la porta a tutti e formandosi una clientela che aumentava ogni giorno. Il suo sistema era molto semplice; non rimandava mai un cliente, rispondeva ad ogni richiesta; trovava sempre denari per chi ne voleva in prestito ed aveva sempre eccellenti impieghi di capitali per quelli che glieli confidavano. Così nel suo studio si formò un considerevole movimento di capitali.

All'inizio, i rapidi progressi di Douglas sorpresero un poco. Si parlò d'imprudenza; parve che il giovane notaio andasse innanzi troppo presto, e si caricasse di un fardello troppo pesante. Non si spiegavano bene i mezzi da lui impiegati per far fronte alle esigenze dovute al continuo incremento dei suoi affari. Ma Douglas calmò le inquietudini del pubblico con la semplicità della propria vita. Lo si credeva ricchissimo ed egli continuava a vestire modestamente, a non sfoggiare alcun lusso, a non prendersi nessun divertimento. Tutti seppero che faceva una vita sobria, mangiava male, e viveva come un borghesuccio qualunque. Era molto pio, faceva abbondanti elemosine, andava in chiesa, e stava in ginocchio durante tutta la messa. Acquistò la reputazione d'uomo onesto e la consolidò di giorno in giorno. Si finì per citarlo come modello d'onore e di santità. Il suo nome fu rispettato ed amato.

Era arrivato a tale risultato in sei anni. Per altri sei anni fu alla testa del notariato marsigliese: il suo studio fu il più frequentato, quello dove si trattavano i più grossi affari. I ricchi si onoravano d'avere per loro notaio quell'uomo pio e modesto, dotato di ogni virtù. La nobiltà e il clero lo spalleggiavano: i commercianti avevano finito per aver cieca fede nella sua lealtà. La posizione era conquistata e Douglas ne profittava precipitosamente.

Aveva circa quarantacinque anni. Era un uomo forte e traverso, tendente all'obesità. La faccia, sempre rasa con molta cura, aveva un pallore diafano: le carni parevano morte, gli occhi soli vivevano. A vederlo lo si sarebbe detto un sagrestano diventato banchiere. Si sentiva come un brontolio sordo sotto quell'apparenza tranquilla: il sangue doveva battere dei gran colpi in quel corpo di gladiatore che pareva dormisse; quando parlava con cantilena, la voce lasciava scappare a momenti dei suoni che tradivano la febbre interna dalla quale era tormentato.

Era sempre, a tutte l'ore, nella sua stanza, fredda e ammobiliata poveramente. Nell'anticamera c'era sempre qualche prete o qualche monaca. La porta stava sempre aperta e si giungeva fino a lui con grande facilità. Metteva in mostra, anche con troppa compiacenza, la sua carità, il disprezzo per il lusso, l'austera bonarietà.

Mario sentiva una vera simpatia per quell'uomo, la cui semplicità lo seduceva. Gli faceva piacere andarlo a trovare.

Quel giorno dunque, dopo aver parlato a Douglas dell'affare per il quale lo aveva mandato Martelly, Mario aggiunse esitando:

- Mi resta a parlarvi di una faccenda mia personale... Ma temo di essere importuno.

- Ma come, amico caro, - disse cordialmente il notaio, - sono qui ai vostri ordini. Vi ho già offerto il mio aiuto e vi ho offerto la mia casa.

- Mi rammento le vostre cortesi proposte e desidero appunto ricordarvi quanto mi diceste alcuni mesi sono...

- Vi ho detto che dipendeva da voi guadagnare qualche cosa con me.

Sarei contentissimo di far cosa grata a un giovane come voi, mettendo a prova la vostra buona volontà e il vostro coraggio.

Quanto c'ho detto allora ve lo ripeto Oggi.

- Vi ringrazio ed accetto, - disse semplicemente Mario commosso dai modi franchi e generosi di Douglas.

Questi trasalì di gioia alle parole di Mario. Voltò immediatamente la sua poltrona e indicò a Mario una sedia - Sedete e parliamo, - gli disse. - Ho cinque minuti di tempo da dedicarvi... Sapete come mi piacciano i giovani. Pronti alla fatica e che parlino chiaro. Non c'immaginate quanto piacere mi procurate dandomi la possibilità di esservi utile.

Sorrideva, e ciascuna sua parola pareva una carezza.

- Ecco di che cosa si tratta... I miei clienti non risiedono tutti a Marsiglia e ho dovuto perciò studiare un mezzo per facilitare le relazioni. Ho preso al mio servizio alcun procuratori che rappresentano gli assenti e ne amministrano i beni. Quando uno dei miei clienti, per un motivo qualsiasi, non può occuparsi dei suoi affari, mi lascia un procura in bianco, affidandomi l'incarico di trovare un persona leale che adempia onestamente al suo ufficio.

So che siete un giovane attivo e onesto e vi offro di rappresentare due o tre proprietari dei quali ho le procure. Non c'è da far altro che mettervi il vostro nome e avrete il cinque per cento in tutti gli affari.

Il Douglas parlava con voce naturale e calma. Mario fu spaventato dalla responsabilità di quell'incarico; ma sentiva in sé tale rettitudine che non esitò ad accettare.

- Sono ai vostri ordini, - disse a Douglas. - Voi mi guiderete e mi consiglierete. So di non aver nulla da temere obbedendovi in tutto.

Il notaio si alzò.

- Per non sovraccaricarvi fin da principio - disse - vi confiderò per ora due sole procure.

Scelse fra le filze della sua stanza e tornò al suo scrittoio dove lesse due procure nelle quali aveva intercalato il nome di Mario.

Tali procure conferivano poteri illimitati al mandatario; diritto di compra e vendita, d'ipoteca, e facoltà di comparire in lite davanti ai tribunali.

Quando ebbe terminata la lettura dei due documenti il notaio aggiunse:

- E' necessario che vi dia qualche chiarimento riguardo alle persone che rappresenterete.

E porgendo a Mario una delle procure:

- Ecco prima di tutto la procura del mio cliente ed amico, signor Authier, di Lambesc. In questo momento è a Cherburgo e deve partire presto per New York dove va a prender possesso di una eredità. Prima di partire ha comprato un immobile a Marsiglia, in via Roma. Voi lo amministrerete durante la sua assenza. Domani devo ricevere le sue istruzioni e ve le trasmetterò.

Poi prese l'altra.

- Ed ecco la procura del signor Mouttet, già negoziante a Tolone, che mi ha affidato i suoi capitali incaricandomi di prendere delle ipoteche sopra una casa di campagna situata nel quartiere di San Giusto.

Mouttet mi ha mandato altri fondi che desidera impiegare: la gotta lo tiene inchiodato sopra una poltrona e mi ha pregato di trovargli un procuratore che possa fare le sue veci. Tornate domani e c'intenderemo definitivamente per i due affari.

Douglas si alzò per accomiatare Mario. Sulla porta gli strinse la mano con familiarità brusca e cordiale. Mario se n'andò stordito dai fatti rapidamente avvenuti. Si meravigliava della facilità con la quale il notaio lo aveva incaricato di importanti affari, e si sentiva a disagio sotto la grave responsabilità che stava per pesargli addosso.

 

Capitolo 6 - NEL QUALE MARIO CERCA INUTILMENTE UNA CASA E UN UOMO

Il giorno dopo Mario andò da Douglas per avere le ultime istruzioni.

- Siete puntuale, - gli disse sorridendo il notaio. - Vedrete che faremo eccellenti affari... Vi voglio arricchire. Accomodatevi.

Sono da voi fra un minuto.

Douglas faceva colazione su un angolo del suo scrittoio. Mangiava pane duro e noci, bevendo un po' d'acqua. Tale frugalità commosse Mario e dissipò in lui le inquietudini del giorno prima. Un uomo tanto sobrio non poteva metterlo in pasticci: era di certo un cuore onesto, un'anima leale, una mente sincera, che s'era consacrato al suo ufficio come un prete si vota a Dio.

Quando ebbe finite le noci, il notaio disse:

- Dunque parliamo dei nostri affari. Ho ricevuto una lettera di Authier. Desidera che si inscrivano delle ipoteche sulla sua casa.

Ha bisogno di denari per il viaggio. Ecco la lettera.

Mario prese la carta che gli porgeva Douglas e cercò con gli occhi, istintivamente, il bollo postale.

- Questa lettera, - disse immediatamente il notaio, - mi è stata mandata in un plico che conteneva varie altre carte.

Mario arrossì, temendo di avere offeso il suo nuovo principale.

Lesse la lettera del signor Authier che difatti chiedeva di fare un prestito sulla sua casa di via Roma. Pregava Douglas di usare della procura e mandargli i denari al più presto possibile. Quando Mario ebbe terminato di leggere, il notaio ripigliò:

- Ecco una richiesta di prestito che arriva a proposito, giacché il signor Mouttet mi fa premura continuamente di trovargli un impiego sicuro e proficuo. Voi, procuratore dei miei due clienti, di chi chiede il prestito e di chi vuol farlo, li potete contentare subito tutti e due. Si tratta semplicemente di fare la vostra firma ed io manderò al signor Authier la somma rimessami dal signor Mouttet.

Parve a Mario che il sistema del signor Douglas fosse troppo sbrigativo. Avrebbe voluto vedere gli immobili, mettersi almeno in relazione per lettera con le persone che doveva rappresentare. Non dubitava certamente della buona fede del notaio, ma non poteva fare a meno di provare un timore vago ed inesplicabile. Lo riprendevano le inquietudini del giorno precedente; gli pareva di fare un salto nel buio, e la voce carezzevole, i sorrisi del signor Douglas gli facevano provare uno strano turbamento. Ma non sapendo definire la sensazione strana ch'egli provava, cercava di reagire contro di essa.

Il notaio preparava già i documenti sui quali Mario doveva mettere la sua firma. Si fermò ad un tratto dicendo:

- Perbacco! manca un documento... manderò un mio impiegato a prenderlo all'ufficio delle ipoteche.

Douglas pareva infastidito. Mario, per istinto, spinto dalla inquietudine che provava, si alzò:

- Non posso aspettare, - egli disse, - dovrei già essere dal signor Martelly. Se volete rimandiamo a domani l'altro, lunedì, la firma di queste carte.

- Sia pure, - disse il notaio esitando, - avrei preferito che l'affare si terminasse oggi... Avete visto quanta premura ha il signor Authier... Ma... venite domani l'altro Mario respirò meglio quando fu per strada. Si dette del ragazzo, arrossì dei sospetti indeterminati che gli erano venuti in mente.

Era quasi fuggito, dominato da un sentimento indefinibile, ed alzava le spalle come un fanciullo pauroso della propria ombra.

Tuttavia era contento di aver due giorni di tempo per riflettere, per spiegare e vincere le proprie ripugnanze.

Nel pomeriggio di quello stesso giorno, ricevette nel suo studio una visita che gli fece molto piacere. Il signor di Girousse, che consumava il suo tempo oziando in tutte le città del dipartimento, andò a stringergli la mano. Era arrivato allora a Marsiglia e doveva ripartire la stessa sera.

- Caro amico, - disse a Mario, - come siete felice di esser povero e di lavorare per vivere. Non vi potete immaginare come mi annoio io! Se potessi, prenderei il posto di vostro fratello. Mi pare che mi divertirei di più in prigione.

Mario sorrise degli strambi desideri del vecchio conte.

- Il processo di Filippo, - continuò questi, - mi ha aiutato a tirare avanti la vita per un mese. Non ho mai assistito ad un simile spettacolo di sciocchezza e di miseria umana. Ho avuto una voglia matta di alzarmi per dire, in tribunale, come la pensavo.

M'avrebbero messo di certo la camicia di forza... Lambesc diventa inabitabile.

Da quando il signor di Girousse era entrato nella sua stanza, Mario pensava a domandargli informazioni del signor Authier. Era sicuro che il vecchio conte lo conoscesse, abitando la stessa città, stando a ciò che diceva Douglas. Procurò di darsi un'aria indifferente:

- Vi sono però delle persone benestanti a Lambesc, - egli disse.

Potreste avvicinarle ed annoiarvi meno. Non conoscete il signor Authier, un proprietario, che credo sia vostro vicino?

- Authier? - ripeté il vecchio gentiluomo cercando nella memoria.

- Authier! non conosco nessuno che si chiami così a Lambesc. Dite che è un proprietario?

- Sì... ha comprato ultimamente una casa a Marsiglia. Deve possedere una vasta estensione di terreno, vicino al vostro castello...

Il signor di Girousse cercava sempre nella mente.

- Vi ingannate, - disse alla fine. - Io non conosco assolutamente nessun signor Authier. Sono certo che a Lambesc non c'è proprietario di questo nome, giacché io mi sono divertito a imparare i nomi di tutti gli abitanti del paese. Bisogna prendersi pure qualche passatempo.

- Vediamo... intendiamoci bene, - ripigliò Mario diventato pallido, - si tratta di un signor Authier che ha ereditato un bel patrimonio. In questo momento è a Cherburgo pronto a partire per New York, dove è morto il parente di cui egli è erede universale.

Il conte scoppiava dalle risa.

- Che storia mi state raccontando? - esclamò. - Se a Lambesc accadesse una tale avventura, se uno dei miei vicini ereditasse da uno zio d'America, credete che io non ne saprei nulla e che mi priverei del divertimento prodotto da un tal romanzo nella nostra piccola città? Vi ripeto che a Lambesc nessuno ha mai avuta l'eredità da melodramma della quale mi parlate.

Mario restò annichilito. Il ragionamento del conte era giusto, e in tutta la faccenda il solo Douglas poteva essere il mentitore.

- Per che cosa vi preme questo signor Authier?

- Nulla, - rispose Mario fra i denti. - Uno dei miei amici me ne ha parlato, e forse avrò malinteso il nome della città dove abita.

Era ancora esitante nell'accusare Douglas: si sentiva un sussurrìo nella testa che gli impediva di giudicare esattamente la condizione delle cose. Ricevette come imbarazzato la stretta di mano data dal signor Girousse che gli diceva:

- Arrivederci. Venite ad aprire la caccia con me. Mi divertirà!

Quando il conte se ne fu andato, Mario si trovava in una dolorosa perplessità. Senza dubbio doveva esservi un malinteso. Pure le affermazioni del signor di Girousse erano chiare e decisive: il signor Authier non era conosciuto a Lambesc: perciò Douglas mentiva, qualunque fosse il suo scopo. Mario non osava dedurre la conseguenza di quelle menzogne; indovinava degli abissi sotto i propri passi e spiegava l'inquietudine che provava in faccia al notaio. Avendo però semplici sospetti, deliberò di scoprire come stavano le cose prima di impegnarsi e di dare la propria firma.

Capiva, d'altronde, quanto grave sarebbe stata la più leggera accusa, e decise di agire con molta prudenza, senza precipitare e senza mostrarsi diffidente.

Il giorno dopo era domenica. Mario avendo una giornata di libertà, andò in via Roma dove era la casa comprata dall'Authier. Era una grande e bella casa affittata a vari inquilini. Fu subito certo che nessuno di loro conosceva il signor Authier, non lo avevano mai veduto, e tutti, fino ad allora, avevano trattato direttamente col notaio Douglas.

Si confermavano i sospetti di Mario. Volle tentare un'ultima prova e andò a cercare il vecchio proprietario della casa, di cui un inquilino gli aveva dato l'indirizzo. Quel proprietario si chiamava Landrol e abitava in una strada vicina.

- Signore, - gli disse Mario, - sono incaricato dal signor Authier di amministrare la casa che gli avete venduta e domandarvi chiarimenti sopra alcuni antichi contratti d'affitto da voi ceduti, e sul prezzo delle pigioni.

Landrol si mise cortesemente a disposizione di Mario e rispose a tutte le sue domande.

Mario usava prudenza. Quando ebbe parlato di questo e di quell'altro, arrivò abilmente al vero scopo della sua visita.

- Vi ringrazio moltissimo, - disse, - e mi dispiace di avere abusato della vostra pazienza. Mi dovete scusare perché non ho potuto vedere il signor Authier, che in questo momento è assente.

Ho pensato che avendo trattato con lui mi potreste parlare del suo carattere e farmi sapere le sue intenzioni.

- Non ho mai trattato col signor Authier, - rispose Landrol con naturalezza. - Non l'ho mai neppur veduto questo signore. L'affare è stato trattato e concluso col signor Douglas che ha pensato a far firmare gli atti, come era necessario.

- Ah! credevo che il signor Authier avesse visitato l'immobile, secondo l'uso.

- No... non sapete che è in America da sei mesi? Il signor Douglas ha visitato la casa e l'ha acquistata in nome del suo cliente, dal quale aveva ricevute le necessarie istruzioni.

Mario si morse le labbra. A momenti gli scappava di bocca un terribile segreto. Il giorno prima il notaio gli aveva detto che Authier era venuto da Lambesc a cercare e scegliere una casa.

Dunque la menzogna era chiara. Authier non poteva nello stesso tempo essere in America da sei mesi, ed a Cherburgo ad aspettare i quattrini per partire. Evidentemente tale personaggio non esisteva né a Cherburgo né a New York, come non esisteva a Lambesc. Era un mito, un fantoccio fantastico che Douglas faceva figurare per qualche scopo criminoso. E Mario pensò subito che la procura a suo nome costituisse un falso per l'autore del quale c'era la pena dei lavori forzati.

Arrossì come se egli stesso fosse stato il colpevole, e ringraziò di nuovo, balbettando, Landrol che lo guardava con curiosità, meravigliato di vederlo tanto male informato degli affari del suo rappresentato.

Quando fu solo nella strada, Mario fu costretto a credere all'evidenza dei fatti: solo Douglas aveva potuto commettere la falsificazione del documento ch'egli aveva seco. Il giovane non sapeva spiegarsi lo scopo di quel delitto. La casa era stata pagata integralmente ed egli credette che il notaio avesse comprato quella casa sotto un finto nome per nascondere il vero stato del suo patrimonio. Malgrado tale spiegazione il delitto esisteva: Douglas, l'uomo onesto e pio, era un falsario.

Mario ebbe paura che Mouttet, il vecchio negoziante di Tolone, fosse egli pure un uomo di paglia. Corse in cerca di un amico che aveva dimorato lungamente a Tolone e l'interrogò. Respirò meglio quando seppe che Mouttet esisteva realmente ed era cliente di Douglas. Allora, spinto sempre dai suoi sospetti, volle vedere la proprietà sulla quale Mouttet prendeva delle ipoteche. Aveva impiegato la mattinata cercando inutilmente un uomo; impiegò il pomeriggio nel cercare una casa.

Allevato nel quartiere di San Giusto, nella casa di campagna di sua madre, Mario conosceva tutte le case di quel tratto di spiaggia.

Il possedimento sul quale Douglas pretendeva di aver preso ipoteca in nome del Mouttet, apparteneva ad un tal Giraud in casa del quale Mario andava a fare il chiasso quando era bambino. Andò subito dal Giraud e gli si presentò come uno che fa una passeggiata, come un amico andato a dare una stretta di mano al padrone di casa.

Era verso la metà di settembre. All'orizzonte il mare addormentato, pesante, immobile, pareva un immenso tappeto di velluto azzurro. La campagna oppressa dalla calura si stendeva gialla di sole. Dalla riva del mare venivano di tanto in tanto dei lievi soffi di brezza, e correvano leggeri fra i pini facendone fremere le foglie. Quando Mario passò davanti alla casa dove sua madre lo aveva cullato, una sensazione acuta gli fece sgorgare lacrime dagli occhi. In mezzo al silenzio di quella solitudine triste, gli pareva di udire la voce di quella santa donna il cui ricordo lo sosteneva nella missione che s'era imposto.

Giraud lo accolse come un figliol prodigo.

- Non vi fate più vedere, - gli disse, - venite qui qualche volta a consolarvi di tutti i vostri fastidi... In questa casa avete degli amici affezionati che vi aiuteranno a passare qualche ora tranquilla.

Mario fu commosso da quella accoglienza. Da quando si trovava a tu per tu con le miserie della vita, disperava spesso dell'umanità.

Per un'ora intera dimenticò lo scopo della sua visita. Lo stesso Giraud gli facilitò il delicato interrogatorio al quale si era proposto di sottoporlo.

- Vedete, - gli disse il padrone di casa, - qui viviamo felici.

Non siamo ricchi, ma le poche pertiche di terra che possediamo bastano per procurarci il necessario.

- Vi credevo in cattive acque, - disse Mario. - I raccolti sono stati cattivi.

Il Giraud lo guardò sorpreso.

- In cattive acque... neppur per sogno... Perché mi dite così?...

Mario si accorse d'arrossire.

- Scusate, - balbettò, - non vorrei parervi indiscreto... Mi hanno assicurato che in conseguenza degli ultimi raccolti siete stato obbligato ad ipotecare il vostro possesso.

Udendo tali parole il Giraud fece una gran risata.

- Che ve l'ha assicurato si è ingannato, - rispose; - grazie a Dio non ho impegnato neppure un palmo di terra. Mario voleva insistere.

- Pure, - egli disse - mi hanno nominato il notaio che avrebbe presa ipoteca... il signor Douglas.

Il Giraud continuava a ridere del suo riso franco ed aperto.

- Il signor Douglas è un sant'uomo, ma la casa che ha ipotecato non è la mia, siatene sicuro.

Il giorno avanti Mario aveva veduto l'atto nel quale era chiaramente indicata la casa di Giraud, quel documento era firmato dal proprietario. Il notaio aveva perciò commesso un secondo falso, e questo secondo non si poteva spiegare facilmente quanto il primo. Aveva messo in tasca i quattrini di Mouttet destinati a chi aveva richiesto il prestito.

Prima di denunciare Douglas, Mario voleva riflettere. Authier non esisteva, e la casa sulla quale Mouttet aveva ipoteca non esisteva neppur quella, giacché Giraud dichiarava che non era la sua.

C'erano in tali faccende degli abissi nei quali il giovane non discendeva che coi brividi addosso. Dopo una notte passata con la febbre, il lunedì mattina, Mario si decise a andare dal notaio.

 

Capitolo 7 - NEI QUALE SI VEDE CHE L'ABITO NON FA IL MONACO

Entrando nello studio di Douglas, Mario fu sorpreso dalla calma religiosa di quelle stanze severe nelle quali sapeva che abitava il delitto. Non gli riusciva di abituarsi a tanta ipocrisia; avrebbe voluto che le mura proclamassero ad alta voce l'infamia del notaio. L'attività silenziosa dei giovani di studio, l'apparenza onesta della casa lo irritavano e gli facevano provare dei dubbi penosi.

Pallido e commosso, s'era seduto in anticamera quando Douglas lo vide dalla porta della sua stanza, ch'era secondo il solito aperta.

- Entrate, entrate, - gli disse, non mi disturbate... fra un momento sono da voi.

Mario entrò. Nella stanza vi erano cinque o sei preti, fra i quali l'abate Donadei. Quel prete civettone e sorridente accarezzava il notaio con la voce e con lo sguardo. Era andato a chiedergli l'elemosina.

- Siete nostro amico, - gli diceva, - e noi ci rivolgiamo a voi ogniqualvolta le cassette dell'elemosine per i nostri poveri sono vuote.

- Fate bene, - rispose Douglas alzandosi.

E prese alcune monete d'oro da una cassetta.

- Di quanto avete bisogno? - domandò al prete.

- Ma, - ripigliò il Donadei con voce dolcissima, - credo che cinquecento franchi ci basteranno. Abbiamo tanto bisogno dell'aiuto delle persone pie ed onorate...

Douglas l'interruppe dicendo:

- Ecco cinquecento franchi.

Ed aggiunse con voce leggermente tremante:

- Padre mio, pregate per me.

Allora tutti i preti si alzarono e circondarono il notaio ringraziandolo, e invocando le benedizioni del cielo sopra di lui.

Douglas, in piedi, riceveva i loro auguri, pallidissimo: a Mario parve di accorgersi che le sue labbra e le palpebre avessero dei leggeri battiti nervosi. Donadei non risparmiava gli elogi e le affettuose proteste di simpatia.

- Dio vi renderà quanto ci date, - diceva, - ve lo rende già facendo prosperare la vostra casa e concedendovi la pace delle anime giuste. Ah! signor mio, siete un bell'esempio, in questa città corrotta dal materialismo del secolo. Bisognerebbe desiderare che i commercianti imitassero la semplicità della vostra vita, e avessero la vostra pietà, la vostra bontà di cuore... Non si vedrebbe allora l'orribile spettacolo offerto dall'attuale società marsigliese...

Pareva che il Douglas si trovasse a disagio: gli elogi del prete lo irritavano. Lo interruppe di nuovo, e, spingendolo dolcemente verso la porta, gli disse:

- No, no... non sono un santo... tutti abbiamo bisogno della misericordia di Dio. Se credete di dovermi essere obbligato pregate per me.

I preti salutarono, fecero un'ultima riverenza e finalmente se ne andarono.

Mario aveva assistito a quella scena, silenzioso, in un canto della stanza. Lo indignava la commedia rappresentata sotto i suoi occhi. Forse Douglas credeva di comprare il perdono del cielo e pagarlo generosamente coi quattrini rubati. Il sant'uomo, l'uomo di buon cuore, che soccorreva gli infelici, il cristiano che viveva nelle chiese, era un ipocrita ed un birbante. E Mario, pensando a ciò, guardava i preti e il notaio e gli pareva di sognare desto: era andato per confondere un falsario e si trovava davanti ad un uomo caritatevole per cui la Chiesa faceva voti.

Quando fu passato il primo momento di sorpresa Mario sentì un più acuto desiderio di fare il suo dovere. Quando il notaio si avanzò sorridente verso di lui, stendendogli la mano, indietreggiò lentamente e guardandolo fisso, gli disse bruscamente:

- Chiudete la porta.

Douglas, sorpreso e dominato, andò a chiudere.

- Mettete la stanghetta, - aggiunse Mario duramente, - dobbiamo parlare.

Douglas obbedì e ritornò verso Mario, sorpreso e malcontento.

- Che cosa avete dunque, caro mio? - gli domandò.

E siccome Mario, preso forse da un ultimo pensiero di pietà, non gli rispondeva, continuò:

- Del resto, avete ragione. E' meglio essere soli per parlare d'affari... Dunque siete pronto? Mi son procurato il documento che mancava e mi manca soltanto la vostra firma per prendere ipoteca nella casa dell'Authier, in nome di Mouttet... sapete che abbiamo fretta; ho ricevuto stamani un'altra lettera del mio cliente Authier che mi si raccomanda di mandargli i denari al più presto.

Il notaio si alzò, stese alcune carte sul tavolino, e intinta una penna nell'inchiostro la porse a Mario.

- Firmate, - gli disse tranquillamente.

Mario era rimasto muto, e aveva seguìto con sguardo calmo ogni movimento di Douglas. Invece di prender la penna lo guardò in faccia e gli disse con voce naturale:

- Ieri sono stato a visitare la casa di via Roma. Ho parlato con gli inquilini e l'antico proprietario, che mi hanno detto di non conoscere il signor Authier.

Douglas impallidì: le sue labbra furono contratte dal fremito già osservato da Mario. Riprese le carte, posò la penna e sedette, balbettando:

- Ah! questo mi sorprende molto.

- Ieri l'altro, - continuò Mario, - ricevetti la visita del signor di Girousse, un ricco proprietario di Lambesc, ed egli mi aveva affermato che nessuno dei suoi vicini si chiamava Authier... che questa persona non esisteva di certo... Oggi so ch'egli non s'ingannava... Che cosa debbo credere?

Il notaio non rispose. Guardava davanti a sé vagamente, fremendo, impallidendo, sentendosi perduto, cercando probabilmente con l'ansia della disperazione un mezzo d'uscire da quell'imbroglio.

- Sono stato poi al quartiere di San Giusto, - continuò inesorabilmente Mario. - La casa sulla quale voi m'avete detto iscritta un'ipoteca a favore del vostro cliente Mouttet, appartiene ad un vecchio amico di mia madre, il signor Giraud, il quale mi ha affermato che i suoi beni non sono gravati da alcun onere ipotecario... ve lo domando di nuovo, che cosa debbo credere?

Douglas continuava a tacere.

- Bene! - disse Mario con enfasi, - giacché vi rifiutate di rispondermi vi dirò io quello che credo e che è... Il vostro signor Authier non è mai esistito. E' un fantoccio, un burattino inventato da voi per fare con più comodo qualche vergognoso pasticcio. Voi non avete presa nessuna ipoteca, e vi siete messo in tasca i denari del Mouttet. Per arrivare a questo bel risultato avete commesse varie falsificazioni, e oggi siete sul punto di commetterne altre per procurarvi nuovi capitali.

Mario parlava ad un marmo immobile ed insensibile. La calma di Douglas accrebbe il suo sdegno.

- Non devo giudicare i vostri crimini, - disse alzando la voce, ma debbo chiedervi conto della vostra condotta indegna nei miei confronti. Come! volevate immischiarmi allegramente alle vostre porcherie; mi avreste compromesso, e mi trattavate con amicizia, sapendo la mia condizione di modesto lavoratore... Mi pare d'avere il diritto, non è vero? di dirvi che siete un miserabile.

Il notaio non batteva palpebra.

- E un momento fa c'erano qui dei preti che vi benedicevano! Avete fatta la vostra parte da grande attore. Io solo, a Marsiglia, so chi siete, e se dicessi a voce alta l'enormità del vostro delitto forse mi lapiderebbero, tanto bene avete saputo imbrogliare il pubblico. Come credere che il notaio Douglas, l'uomo stimato da tutti, l'uomo frugale e religioso, lavori vergognosamente nell'ombra per rovinare la sua clientela? Io stesso, se potessi dubitarne, ne dubiterei ancora, vedendovi calmo davanti a me, nel vostro atteggiamento umile e pio di frate che prega... Ma parlate... difendetevi, se potete.

Douglas aveva preso un tagliacarte, e lo rigirava fra le dita, come se quanto diceva Mario non lo riguardasse neppure.

Finalmente rispose:

- Che cosa volete che vi dica? Mi giudicate da ragazzo. Vi lascio strillare. Forse dopo mi ascolterete tranquillamente.

 

Capitolo 8 - LE SPECULAZIONI DEL NOTAIO DOUGLAS

Quando Mario si sentì accusato da Douglas di giudicarlo da ragazzo aprì la bocca per gridargli che lo giudicava da onest'uomo; al falsario pareva una puerilità che gli si rimproverassero le sue falsificazioni e si voleva dar l'aria di uomo incompreso. Mentre Mario stava per parlare, il notaio lo interruppe con un movimento d'impazienza.

- Se parlate sempre voi, - gli disse, - avrete ragione per forza.

Mi son lasciato insultare in pace. Che diavolo! lasciatemi difendere con tutta calma. Avrei preferito che non conosceste il mio sistema: ma, giacché avete scoperto una parte della verità, preferisco dirvi tutto. So che siete intelligente, mi capirete meglio di un altro... D'altronde sono stanco: non sono riuscito a mettere in pratica la mia teoria e so che sono rovinato. Per ciò consento a confessarmi interamente a voi. Vedrete che non ho voluto rovinare nessuno, e che in buona fede vi ho offerto amichevolmente di farvi guadagnare qualche sommetta. Finalmente mi giudicherete e spero che poi mi considererete soltanto come uno speculatore disgraziato. Vogliate ascoltarmi.

Mario credeva di sognare. Guardava Douglas come si guarda un pazzo quando parla ragionando. Il tono calmo di quell'uomo, il poco rimorso che dimostrava, i suoi gesti da uomo convinto, lo facevano parere un inventore di buona fede intento a spiegare tristemente, ma senza vergogna, perché la sua invenzione non fosse riuscita bene.

- Non entriamo nei particolari, - egli ripigliò, - lasciamo da parte gli affari Authier e Mouttet che non hanno alcuna importanza. Bisogna vedere e giudicare l'insieme del vasto e complicato macchinismo che io ero riuscito a metter su... Vi meravigliate ch'io me ne compiaccia. Ve lo ripeto, sono rovinato, posso parlare senza paura di compromettermi. Anzi provo quasi piacere a spiegarvi la mia invenzione.

E si piantò davanti a Mario come uno che ha da raccontare una storia interessante. Giocherellava ancora indifferentemente col tagliacarte.

- Prima di tutto, - egli disse, - sono d'accordo con voi nel dire che ho sbagliato e sono un gran birbante, se mi si considera come notaio. Ma io mi sono sempre riguardato come banchiere, come uomo d'affari. In una parola, voi tenetemi in conto di uno speculatore... Quando io succedetti al mio antico principale, lo studio aveva una scarsa clientela. I miei primi sforzi avevano per scopo di fare di questo studio un gran centro d'affari. Sono stato obbligato a soddisfare tutte le richieste, prestare a chi aveva bisogno di quattrini, prendere in prestito da chi non sapeva come impiegare i capitali, vendere a chi aveva voglia di comprare, comprare da chi cercava di vendere. Ho fatto come i cacciatori che si mettono d'intorno degli zimbelli in gabbia per richiamare gli uccelli liberi: ho creato una quarantina di persone immaginarie, dando ad esse dei nomi con i quali ho potuto fare affari di ogni genere. Authier, ve lo confesso, è uno di questi personaggi fantastici. Ho potuto così comprare un gran numero di stabili, pagandoli con prestiti contratti dai compratori fittizi, e dando ipoteca su quegli stessi stabili. Mi son formato così un capitale, un giro di cassa, una numerosa clientela che ha servito di base al mio credito.

Douglas parlava con voce chiara, e dopo una breve pausa continuò:

- Non potete ignorare che, quando si specula sul denaro, ci si trova spesso di fronte a bisogni terribili. Mi sarei dovuto fermare per forza alle prime speculazioni, se, avendo gravati di ipoteche i miei stabili, non mi fossi potuto procurare in qualche modo i capitali necessari alle altre speculazioni che avevo in mente. Adoperai il mezzo che mi pareva più semplice e più comodo.

Quando le ipoteche ebbero assorbito il valore dei beni, li liberai con una falsa ricevuta, e li potei offrire in garanzia di nuovi prestiti.

- Ma questa è un'infamia! - esclamò Mario.

- Vi ho pregato di non interrompermi, - ripigliò Douglas bruscamente. - Poi mi difenderò, ora mi contento di narrare i fatti... Fui obbligato ad allargare subito il mio sistema. I miei quaranta personaggi non mi bastavano. Ricorsi allora ad un mezzo la cui audacia ebbe perfetta riuscita. Feci contrarre dei prestiti a dei proprietari, a dei negozianti conosciuti, dei quali aggravai d'ipoteca i beni e falsificai la firma: dopo ogni nuova ipoteca, ne feci l'annullamento, con una ricevuta falsa, mettendomi al coperto da ogni seccatura... Capite... è una cosa semplicissima.

- Sì, sì capisco, - mormorò Mario che finiva per credere pazzo il notaio.

- Del resto ho battuto moneta in qualunque modo, quando ne avevo bisogno. Volevo andar diritto al mio scopo, e sono sempre andato avanti, senza badare ad ostacoli, accettando francamente tutte le conseguenze della mia teoria... Perciò ho inventato insieme debitore ed immobile; ho preso ipoteche sopra possessi che non esistevano o non appartenevano alla persona che supponevo contrarre il prestito... Altre volte, quando avevo urgente bisogno di denari, ho inventato delle cambiali che ho emesso al ribasso, col nome di qualcuno dei primi negozianti di Marsiglia e con la mia girata... Vedete che non vi nascondo nulla e mi accuso da me stesso. Mi confesso interamente a voi perché mi preme di giustificarmi, ed oramai sono costretto a rinunciare a mettere in pratica il mio sistema.

Mario era veramente spaventato. Rabbrividendo si faceva un'idea dell'intelligenza di quell'uomo. Sentiva d'aver davanti a sé un fenomeno morale, e subiva quella strana confessione come si subisce un brutto sogno. Gli pareva di trovarsi fra il rumore e il fumo di una macchina, in mezzo agli ingranaggi.

- Così, - ripigliò Douglas, - avete capito il mio sistema. Ho voluto essere banchiere; fare fruttare i capitali che mi venivano nelle mani. Ho acquistato per conto mio degli stabili, credendo di poterli rivendere con profitto. La mia teoria dei nomi supposti era sufficiente a tutti i bisogni: con l'aiuto di quei nomi non ho mandato via nessuna delle persone che si sono rivolte a me; e all'occasione ho prestato, ho preso a prestito, ho venduto, ho comprato. Quando non mi sono più bastati i capitali procuratimi dal mio credito personale, o da quello dei miei personaggi immaginari, me ne sono procurato degli altri aggravando d'ipoteche simulate il primo capitato, parente, amico o cliente, salvo a liberare più tardi i beni di questa persona a sua insaputa, come li avevo impegnati. In una parola il mio studio è diventato una banca.

- Una casa di ladri, - gridò Mario, - una fabbrica di documenti falsi.

Douglas scosse le spalle.

- Dovreste aver già capito, - egli disse, - che non ho mai cercato di rubare a nessuno dei miei clienti. Spero che mi renderete giustizia... Mi resta di parlarvi della mia più bella invenzione.

Per amministrare gli stabili acquistati e far fruttare i capitali presi in prestito, immaginai di creare dei procuratori che rappresentassero i miei quaranta personaggi immaginari; scelsi per procuratori dei giovani onorati, dei quali feci dei complici inconsapevoli. Avevo fiducia nel mio sistema; avrei arricchito di certo quelli che mi aiutavano, se disastrose circostanze non mi avessero impedito di riuscire. Quando vi ho offerto di rappresentare Authier volevo unicamente, ve lo ripeto, aiutarvi e farvi partecipare ai guadagni di una speculazione che mi pareva eccellente.

Queste ultime parole irritarono Mario. Aveva esaurito il suo coraggio; gli pareva che sarebbe diventato pazzo, se avesse continuato ad ascoltare gli strani discorsi di Douglas.

- Vi ho ascoltato pazientemente, - egli disse fremendo, - le birbanterie che mi avete raccontato con una strana impudenza mi provano che siete o un imbecille o un briccone.

- Oh! no, - interruppe il notaio battendo il pugno sul tavolino,- Non mi avete capito davvero. Ve l'ho ripetuto quattro o cinque volte, sono un banchiere... Di grazia ascoltatemi.

Douglas si era alzato. Si fermò davanti a Mario. Nel suo contegno nulla indicava né la paura né la vergogna.

- M'avete chiamato birbante e ladro, - disse con dolcezza, - e vi ho lasciato insultarmi, perché mi accusavate in nome della società, parlavate come un procuratore del re che giudicasse legalmente la mia condotta. Ma dovete mettervi da un altro punto di vista se volete capirmi... Ragioniamo un poco. Un ladro, non è vero, è quello che ruba la roba d'altri e fugge quando ha le tasche piene? Non ho mai avuto l'idea del furto. Da più di sei anni metto in pratica il mio sistema e sono povero come lo ero il primo giorno: le mie operazioni non sono riuscite, ho perduto anche qualche migliaio di franchi di tasca mia. Sapete quale vita ho fatto; ho mangiato pane e bevuto acqua: ho vissuto come un lavoratore austero ed infaticabile. Qualche elemosina è stata il mio solo lusso. Uno strano ladro è quello che ha vissuto nella sua stanza come in un convento, ed ha maneggiato enormi somme senza provare neppure la tentazione di appropriarsi di un soldo!Confessate che, se fossi veramente un ladro, avrei da un pezzo ammassato dei capitali nella mia cassa e sarei scappato.

Mario rimase sorpreso e confuso. Non aveva considerato l'accaduto da questo lato. Quell'uomo aveva evidentemente ragione: non lo si poteva accusare di furto.

- Vi ferisce e vi irrita il mio sistema per se stesso, - ripigliò Douglas. - E' andato male ed io sarò un gran birbante: se fosse riuscito bene avrei messo da parte un bel patrimonio senza far torto a nessuno: sarei molto ricco e tutti mi stimerebbero. Sì, la mia base d'operazione è stata il delitto; ho speculato nelle falsificazioni, ho preso una strada ardita e nuova. Ma, secondo me, la riuscita era sicura. Avevo fede nella mia attività; non pensavo che cadendo potevo trascinare qualcuno con me nella caduta. In questo sono stato cieco... Vedete quale è stata la mia condotta: prendevo ipoteche sopra stabili immaginari o già ipotecati, ma pagavo i frutti delle somme prestate; mettevo in giro cambiali false, ma le pagavo; i miei personaggi immaginari erano dei prestanome dietro dei quali ero io, e me ne servivo unicamente per allargare il giro dei miei affari. Capitemi bene:

volevo prima di tutto procurarmi dei capitali e farli fruttare; poco importano i valori fittizi, e gli atti falsificati, i mezzi d'ogni genere impiegati per aumentare il mio credito. In fatto di speculazioni, la sola realtà è il guadagno ricavato più o meno abilmente da un capitale. Vedete; alla Borsa si traffica su delle semplici supposizioni: ammettete per un momento che comprando e vendendo degli stabili, con i quattrini altrui, fossi riuscito a raddoppiare il capitale procuratomi illegalmente, lo avrei rimborsato per intero, senza rubar nulla a nessuno; avrei distrutti i documenti falsi e mi sarei ritirato dagli affari con un patrimonio guadagnato a forza di lavoro e d'intelligenza. Il mio sistema è tutto qui. Non avendo patrimonio di famiglia, sono stato costretto a prendere in prestito dai miei clienti i denari necessari a qualunque operazione finanziaria. Non era un furto, era un farsi imprestare.

Mario si sentiva preso da una specie di terrore ascoltando i ragionamenti chiari e logici di Douglas. Il notaio ingigantiva terribilmente ai suoi occhi. Lo considerò per un momento come un genio spostato che aveva adoperato a far del male rare qualità d'energia e d'audacia. Se quell'uomo avesse posseduto potenti mezzi d'azione, forse avrebbe fatto qualche cosa di grande. In fondo, ogni colpevole della specie di Douglas possiede delle qualità straordinarie.

Meravigliava più di tutto Mario il modo semplice e naturale col quale il notaio parlava delle falsificazioni commesse.

Nell'intelligenza di quell'uomo vi doveva essere del guasto. Era ammalato: la febbre della speculazione che lo consumava l'aveva indotto a poco a poco a considerare il delitto come un mezzo eccellente, quando potesse restar nascosto ed impunito. Lo diceva da sé; per quanto falsario, gli pareva di essere onesto qualora non facesse perdere un soldo a nessuno.

Dopo una pausa, Douglas ripigliò tentennando la testa:

- I sistemi sono sempre belli; la pratica sola fa aprire gli occhi sulle imperfezioni del ragionamento. In teoria dovevo guadagnare un gran patrimonio. Non so come siano andate le cose, ma sono coperto di debiti e vedo che sono rovinato. Ho sciupato più di un milione in operazioni mal riuscite... la mia clientela e rovinata...

La voce del notaio s'era affievolita e l'emozione gli faceva venir le lacrime agli occhi. Cominciò a camminare agitato. E camminando diceva:

- Non potete immaginarvi la vita atroce che faccio da due anni.

Tutte le mie speculazioni sono andate male. Mi sono trovato di fronte a bisogni terribili. Per conservare il mio credito, per nascondere le mie falsificazioni, ho dovuto commetterne tutti i giorni delle nuove. Non pensavo più a guadagnare; pensavo a difendermi, a salvarmi dalla galera. Dio sa se, potendo recuperare i capitali compromessi, avrei rimborsato tutti, per vivere poi secondo la legge comune. Ma gli interessi enormi che dovevo pagare mi hanno messo a terra; ho rivenduto gli stabili comprati perdendovi, e per quanto abbia lottato mi è venuta addosso la disdetta e mi ha precipitato in fondo all'abisso. Oggi il mio passivo è considerevole; non posso far fronte alle scadenze di questa quindicina, e per me sospendere i pagamenti equivale ad una condanna ai lavori forzati. Se la giustizia dà una sola occhiata nelle mie carte, mi mettono subito in carcere.

Mario si sentiva quasi preso da pietà per quel miserabile. Douglas sedette di nuovo e ripigliò più abbattuto:

- D'altronde, tutto è finito, mi sono confessato a voi e so che voi andrete a denunciarmi alla giustizia... E' meglio finirla giacché così non posso andare più avanti... Avete ragione, sono un infame e devo essere punito.

Mario non si mosse. Pensava, non sapendo a quale partito appigliarsi. Lo riteneva il timore di essere mescolato in quell'imbroglio, e di perdere un tempo prezioso essendo chiamato come testimonio; la sua missione richiedeva tutto il suo tempo.

D'altronde non era obbligo suo denunciare il notaio. Quell'uomo aveva ormai le braccia legate, s'avviava fatalmente contro il castigo, e sarebbe caduto da sé nelle mani dei suoi giudici.

- Dunque? perché esitate? - domandò Douglas. - Sapete tutto...aspetterò qui gli agenti che manderete a prendermi.

Mario si alzò e strappò le procure sulle quali era stato scritto il suo nome.

- Siete un miserabile, - egli disse, - il mio giudizio non è cambiato. Ma non ho bisogno di aiutare la giustizia; che sappia punirvi senza di me. Il castigo verrà da sé.

Ed uscì.

Ecco come ebbe termine questo episodio. Il giorno seguente Douglas fuggì non potendo far fronte alle sue scadenze. Un vero panico si sparse per Marsiglia a tale notizia. Parecchie famiglie erano rovinate e non si poteva ancora calcolare tutta l'entità del disastro. Fu una specie di calamità pubblica. Allo spavento delle persone danneggiate si univa lo stupore degli onesti: non si perdonava al notaio l'ipocrisia con la quale per parecchi anni aveva ingannato una città intera.

Douglas fu raggiunto e giudicato ad Aix, in mezzo ad una agitazione terribile. Accettò la sua parte con uno straordinario sangue freddo. Senza il suo aiuto la giustizia non avrebbe potuto vedere chiaro in affari tanto imbrogliati. Il tribunale doveva pronunciarsi su più di novecento atti sui quali era stato commesso ogni genere di falsità, e la mente dei giudici non sapeva concepire combinazione che il falsario non avesse messa in pratica. I fatti a suo carico erano tanti, complicati da tanti particolari, e colpivano tanto gran numero di vittime, ch'era impossibile di far la luce in quel caos senza l'aiuto di chi, dopo aver immaginato ed eseguito i reati, poteva solo sbrogliarne la matassa. Il Douglas lavorò con uno zelo infaticabile ed una sorprendente veracità a stabilire la propria posizione come quella dei suoi creditori e dei suoi debitori.

Però si difese sempre energicamente dall'accusa di furto. Ripeté ch'era uno speculatore disgraziato, e che se la giustizia e le circostanze glielo avessero permesso, avrebbe riordinato i suoi affari e quelli dei suoi clienti. Parve accusare il tribunale di legargli le mani e impedirgli di riparare al male fatto. Fu condannato ai lavori forzati a vita e alla berlina.

 

Capitolo 9 - COME UN UOMO BRUTTO POSSA DIVENTARE BELLO

Mario e Pina erano tornati da due mesi a Marsiglia. Il giovane, uscendo dallo studio del Douglas, dovette confessare che fino allora aveva perduto il suo tempo e non era riuscito a trovare ancora il primo soldo dei quindicimila franchi necessari alla salvezza di Filippo. Propriamente non sapeva far altro che amare e sacrificarsi: ma aveva l'animo troppo retto e troppo leale, e di una troppo generosa semplicità per procurarsi in poche settimane la forte somma ch'egli cercava da disperato. S'era condotto sempre come un ragazzo. I deplorevoli incidenti nei quali si era trovato mischiato, gli amori di Armanda e di Salvario, l'ipocrisia e le falsità di Douglas gli mostravano la vita sotto un aspetto terribile che lo scoraggiava. Invece d'avanzare retrocedeva; temeva di non riuscire e compromettersi, facendo qualche nuovo tentativo, e di cadere nelle mani di qualche briccone che lo volesse sfruttare. Diffidando di tutti, gli pareva di esser circondato di trappole. Simili cuori affettuosi, ignorando il male e volendo il bene, sono feriti e sanguinano fatalmente ogni ora.

Intanto si avvicinava dicembre. Bisognava affrettarsi se voleva salvare Filippo. Non si poteva più sperare in alcuna pietà ed il condannato sarebbe stato esposto sull'infame berlina. A tali pensieri, Mario piangeva d'impotenza e di stanchezza. Avrebbe voluto liberare il fratello con una fatica da gigante: messo alla prova, si sarebbe impegnato a forare con le unghie le mura del carcere, a graffiare, a stritolare le pietre con le dita. Tale fatica non gli sarebbe sembrata penosa, e vi sarebbe riuscito, consumandosi magari le mani. Ma l'idea dei quindicimila franchi lo spaventava; perdeva la testa quando si trattava di denari, di umili pratiche, di traffici più o meno sporchi; e si sentiva incapace di condurre a buon fine la minima impresa. Ciò spiegava la ingenua fiducia che lo aveva spinto verso Armanda e Douglas.

Ciononostante non aveva abbandonato ogni speranza. Grazie alle stesse qualità che lo facevano essere debole, alla bontà del suo cuore ed alla rettitudine del suo animo, gli ritornavano sempre idee di fiducia e di speranza. Le lezioni che gli davano le vergogne del mondo non gli potevano impedire di credere alla generosità altrui.

"Ho ancora più di sei settimane di tempo, - pensava. E' impossibile che in sei settimane non trovi un vero amico. Non c'è nulla di disperato." Si sarebbe certamente ammalato, per le angosce, le speranze e le disperazioni, se non avesse avuto accanto una consolatrice che gli sorrideva nei brutti momenti. Fra lui e i Cougourdan era nata una stretta intimità. Ogni giorno Mario andava a far visita a Pina e passava con lei delle lunghe serate. Da principio parlavano di Filippo; poi, senza dimenticare il povero prigioniero, parlavano di loro stessi, del loro passato, del loro avvenire. Furono conversazioni piene di abbandono che li riposavano dalle fatiche e dalle ansie della giornata, e davano loro nuove forze per il giorno dopo.

A poco a poco, Mario, ogni mattina, desiderò d'arrivare presto a sera per trovarsi nella cameretta di Pina. Quando aveva qualche speranza, correva a dirlo all'amica; quando aveva un dispiacere correva a raccontarglielo ed esserne consolato. Soltanto là, in fondo di quella stanza che sapeva di buon odore ed era allegramente rischiarata dal sole, viveva bene in una affettuosa tristezza. Una sera volle per forza aiutare Pina che faceva dei mazzetti per venderli il giorno dopo: si divertì come un bambino a levare le spine dalle rose, a riunire i garofani a gruppetti, a prendere delicatamente ad una ad una le viole mammole e le margherite e porgerle a Pina. Da quella sera in poi diventò fioraio, dalle otto alle dieci. Diceva che quel lavoro lo divertiva e lo calmava. Quando, porgendo i fiori a Pina, le toccava le dita, si sentiva avvampare in viso: lo strano malessere, l'emozione penetrante che provava in quel momento, erano evidentemente la sola causa dell'improvvisa vocazione dimostrata per il mestiere di fioraio.

Mario era senza dubbio un ingenuo. Si sarebbe sorpreso, magari offeso, se gli avessero detto che s'innamorava di Pina. Avrebbe gridato ch'era troppo brutto per osare di amare quella ragazza, e che d'altronde gli sarebbe parso un delitto quell'amore nato e cresciuto all'ombra della sciagura di suo fratello. Ma il suo cuore avrebbe subito protestato. Mario non aveva mai vissuto nell'intimità d'una donna. S'era lasciato conquistare dal primo sguardo affettuoso. Consolandolo, dandogli coraggio, avendo sempre per lui un sorriso carezzevole e una tepida stretta di mano, Pina gli era parsa da principio una sorella e una madre mandatagli dal cielo nell'amarezza. Ma, a sua insaputa, la sorella e la madre diventava una sposa, ch'egli amava già con tutta la passione affettuosa e devota del suo cuore.

Tale amore doveva nascere per forza fra due giovani che piangevano e sorridevano insieme. Il caso li aveva avvicinati, la loro bontà li congiungeva. Erano degni l'uno dell'altra; c'era in loro la simpatia onnipotente del sacrificio.

Pina da qualche tempo aveva dei maliziosi sorrisetti, dei quali Mario non si accorgeva. Essa aveva indovinato che egli l'amava prima che egli si fosse accorto di essere innamorato. Le donne hanno una vista particolare per penetrare tali segreti: leggono negli occhi fin dentro l'anima dei loro innamorati. Però la fioraia nascose premurosamente il rossore delle proprie guance; procurò di rimanere l'amica cordiale di Mario senza aprirgli gli occhi, con una stretta di mano più calda. Vedendoli, ogni sera, seduti l'uno in faccia all'altra, avendo fra di loro una tavola coperta di rose, si sarebbero creduti un fratello ed una sorella.

Pina andava ogni domenica a Sant'Enrico. Aveva preso una pietosa simpatia, una misericordiosa amicizia per Bianca. Quella povera fanciulla che stava per diventar madre e la cui vita futura era spezzata per sempre, le era ogni giorno sempre più cara: essa vedeva i rimorsi di lei, le lacrime di rammarico da lei versate, era testimone della sua desolata esistenza e cercava di addolcirne la disgrazia con le sue visite. Andava col suo gaio sorriso a rallegrare la piccola casa sulla spiaggia, dove Bianca piangeva pensando a Filippo e alla sua creatura. Per la fioraia quello era un santo pellegrinaggio che compiva religiosamente. Partiva verso mezzogiorno, dopo colazione, e restava fino a sera con la signorina di Cazalis. La sera, a notte fatta, trovava Mario che l'aspettava vicino al mare, e tornavano a piedi a Marsiglia, a braccetto, come due giovani sposi.

Durante quelle passeggiate Mario gustava una pura gioia. La domenica sera era per lui la ricompensa di tutte le fatiche della settimana. Aspettava Pina sulla spiaggia, dimenticando le pene, spiando con la febbre il momento dell'arrivo della ragazza; poi, quando essa era giunta, si sorridevano e tornavano adagio adagio, nelle dolci ombre della notte nascente, scambiando parole d'amicizia e di speranza. A Mario la strada non pareva mai lunga abbastanza.

Una domenica Mario arrivò presto. Un sentimento delicato lo tratteneva dall'entrare nella casa di Bianca e dal rinnovare i suoi dolori, sedette sopra un banco di sabbia vicino al villaggio, e pazientò guardando l'immensità azzurra che gli si stendeva davanti. Restò lì quasi due ore, assorto in una vaga contemplazione, in pensieri di affetto e di felicità che lo cullavano dolcemente. L'immenso orizzonte lo inteneriva: tutto il suo amore per Pina, a sua insaputa, gli saliva dal cuore alle labbra; il mare ed il cielo, l'infinito dell'acqua e dell'aria lo turbavano, gli aprivano l'anima: nel vasto mare non vedeva che Pina, non sentiva altro che il nome di lei nel rumore sordo e regolare delle ondate.

La fioraia arrivò e sedette accanto al giovane che le prese la mano, senza parlare. Davanti a loro si stendevano il mare e il cielo, d'un turchino dolce e pallido. Cadeva il crepuscolo. Una profonda serenità illanguidiva gli ultimi rumori e gli ultimi chiarori. Dalla parte del tramonto, deboli splendori color rosa, gettavano riflessi chiari sulle rocce della costa. Nell'aria c'erano dei soffi di tenerezza, una gran voce fremente che andava spegnendosi.

Profondamente commosso, Mario teneva nella sua mano quella dell'amica. Continuava il suo sogno. Sorrideva tristemente, fissando all'orizzonte la caligine indefinita nella quale si confondevano cielo e mare. Ed a voce bassa, senza saperlo, le sue labbra dissero quello che pensava il suo cuore.

- No, no, - egli mormorò, - sono troppo brutto.

Pina, da quando Mario le aveva preso la mano, sorrideva dolcemente e con malizia. Finalmente il suo amico si sarebbe deciso a parlare: lo indovinava dagli sguardi più profondi dei suoi occhi, dalla stretta più appassionata della sua mano. Quando udì Mario dire ch'era troppo brutto, parve meravigliata e dispiacente.

- Troppo brutto! - esclamò, - ma voi siete bello, Mario!

Pina aveva messo tanta espressione nel grido sfuggitole, che Mario voltò la testa e giunse le mani, guardandola ansioso. Essa, avendo capito di aver rivelato bruscamente il segreto del suo cuore, abbassò la fronte che le si imporporò di rossore. Restò così, per qualche secondo, muta ed imbarazzata. Ma non era ragazza da indietreggiare davanti ad una confessione completa del suo amore; c'era in lei troppa franchezza e vivacità perché potesse consentire a recitare la commedia ipocrita che, in simile occasione, recitano le innamorate.

Rialzò coraggiosamente la fronte e guardò in faccia Mario che tremava.

- Sentite, amico, - gli disse. - Voglio essere franca. Sei mesi or sono non pensavo a voi. Vi credevo brutto, non vi avevo mai guardato... Oggi siete diventato bello. Io non so come sia accaduto, ma vi giuro...

Malgrado la sua risoluzione esitava, e un subitaneo rossore le coloriva di nuovo le guance. Si fermò, non potendo dire francamente a Mario che lo amava. Essa conosceva la timidezza del giovane e parlava soltanto per incoraggiarlo. Mario restava immerso nella sua estasi di tenerezza: non chiedeva di più:

sarebbe rimasto là, sulla spiaggia, tutta la notte, senza cercare di ottenere da Pina una confessione più completa. Pina s'impazientava.

La storia dell'amore della fioraia era semplicissima. Essa aveva amato da principio l'alta statura, la fisionomia energica di Filippo, con l'accecamento che spinge le ragazze a preferire i bei giovani che hanno tutta la loro bellezza nel volto e non nell'anima. Poi, ferita nel cuore dall'indifferenza dell'amante di Bianca, vedendo chiaro nel suo carattere vanitoso, aveva giudicato severamente la sua condotta ed a poco a poco si era staccata da lui. Ed allora si trovò sola con Mario, in una intimità che li avvicinava sempre di più.

L'amore, in questo caso, era nato dalla bontà. Brutto per gli occhi, Mario diventava bello per il cuore. Da principio Pina aveva veduto in lui soltanto un amico desolato che aveva bisogno di soccorso: aveva accettato la metà delle sue pene, fraternamente, spinta un po' dal suo amore per Filippo, molto dal bisogno naturale di essere servizievole. S'era perciò unita a Mario e li aveva uniti sempre più il comune pensiero della liberazione di Filippo. La loro affezione si sviluppò a questo modo: si amarono consacrandosi alla stessa speranza e vivendo di quella, lavorando allo stesso scopo.

Mario diventò bello nel compire l'opera generosa. Obbligata a paragonare Filippo a Mario, Pina vide in quest'ultimo un essere straordinario, il principe innamorato che sognano le ragazze. Per lei da quel momento, il viso di Mario si trasfigurò: essa lo vide bello di tutta la beltà della su indole affettuosa e leale. Si sarebbe molto meravigliata sentendo dire che il suo amante era brutto.

Mario udiva ancora le parole della sua amica, quelle parole che gli avevano detto: "Sei bello e ti amo." Non osava aprir bocca temendo di dissipare il dolce sogno che lo faceva dolcemente languire.

Pina sorrideva ancora, imbarazzata.

- Non mi credete? - gli disse, parlando per dire qualcosa senza saper bene quello che dicesse.

- Sì, vi credo, - rispose Mario con voce sommessa profonda, - ho bisogno di credervi... Quando non eravate ancora qui il rumore dei flutti mi ha detto un segreto. Non so che cosa abbiano stasera il cielo ed il mare. Parlano con voce tanto dolce da commuovermi il cuore e turbarmi la mente. In quest'ultima ora del giorno, nella tristezza del crepuscolo, ho trovato in me una felicità ignorata... Vuole sapere il segreto che le onde mi hanno mormorato nell'orecchio?

- Sì, - disse la fioraia, a cui l'emozione faceva tremare le mani.

Mario le si avvicinò e con accento timido:

- Le onde mi hanno detto che vi amavo, - le mormorò.

La notte scendeva grigia e solenne. Nel cielo biancheggiavano chiarori di una trasparenza lattea. Il mare immobile, d'un turchino scuro, si addormentava respirando un fiato lento e forte.

Montavano al cielo odori freschi e salati, portati dal vento della sera, e le serenità dello spazio si allargavano nella notte.

Dolce ora per una confessione d'amore. Una tenerezza divina, una calma sorridente si espandeva dal mare calmo. Ai piedi della roccia battevano lentamente le onde cullando la costa che sonnecchiava; mentre dalla terra ancora calda e febbricitante venivano soffi acuti di passione. Si sarebbe detto che il gran mare aiutava con la sua voce le affettuose parole di Mario.

- Ho capito, - disse scherzosamente la fioraia, - le onde sono delle chiacchierine. Vi hanno detto la verità almeno?

- Sì, sì... le onde mi hanno detto la verità. Adesso lo sento, amica mia, vi amo da sei mesi... Quanto mi fa bene confessarvelo!Da un pezzo mi mancava qualche cosa: quando ero vicino a voi mi penetrava una mesta dolcezza; sentivo in fondo a me delle voci confuse e non riuscivo a capire quello che mormoravano. Oggi è bastato il silenzio di questo scoglio perché io le sentissi proclamare il mio amore.

Pina ascoltava sorridendo le parole di Mario. Le ombre si facevano sempre più azzurrognole e misteriose.

Mario esitò. Poi con accento umile e dolce:

- Non ve ne avrete a male di quello che vi dico? - le domandò. So che non potete volermi bene.

- Non sapete nulla, - rispose Pina con burbera tenerezza. - Dio mio! quanto siete lungo a decidervi! Io ho la risposta pronta da più di un mese!...

- E questa risposta...?

- Domandatela alle onde, - ripigliò la fioraia ridendo.

E porse le sue due mani a Mario che incominciò a baciarle come un pazzo. Era ormai notte fatta e il sordo rumore del mare continuava voluttuosamente per quelle tenebre. Mario si chinò verso Pina e le baciò la bocca.

Allora parlarono come innamorati, come fanciulli, di puerilità.

Parlarono di ricordi del passato, di progetti per l'avvenire. La loro voce era una musica che carezzava loro l'orecchio, e parlavano per udirsi parlare, per sentirsi a vicenda il soffio tepido dell'altro correre sulle gote. Erano tanto felici nell'ombra, in faccia all'infinito che si apriva dinanzi a loro!

- Vedi, - diceva Pina, - ci sposeremo quando tuo fratello sarà liberato. Bisogna prima di tutto liberare Filippo.

Al nome di Filippo, Mario si sentì fremere. Aveva dimenticato il fratello. La triste realtà gli comparve davanti. Aveva vissuto per due ore in paradiso, e ricadeva sulla terra dall'alto del suo sogno.

- Filippo, - mormorò Mario mortificato, - sì, dobbiamo pensare a Filippo. Oh! mio Dio, la mia felicità è forse già finita? Tu vuoi bene a mio fratello, non è vero? Di grazia, dimmi la verità.

Pina non rispondeva e singhiozzava. Le parole di Mario le spezzavano il cuore. Mario insisteva, disperandosi. Allora la fioraia esclamò:

- Amo te perché sei buono e sai amare... vedi bene che non posso amare Filippo.

C'era un tale slancio di fede e d'amore in quel grido che Mario finalmente capì. La strinse fra le braccia, in un improvviso slancio d'adorazione. Non provava più alcun rimorso.

- Siamo felici, - ripigliò, - siamo egoisti. Mentre respiriamo qui l'aria libera del mare, Filippo soffoca in una prigione... Ah! non sappiamo far nulla per liberarlo.

- Sì... tu vedrai! - rispose Pina, - vedrai come è coraggioso un uomo quando ama ed è amato.

Restarono in silenzio con le mani nelle mani. Il mare continuava a cullare il loro amore con la sua voce monotona. Tornarono a Marsiglia al chiaror delle stelle, pieni della loro giovane speranza e del loro tenero affetto.

 

Capitolo 10 - NEL QUALE RICOMINCIANO LE OSTILITA'

Bianca viveva in pianto. L'autunno impallidiva i malinconici orizzonti, la stagione era fredda e triste. Immensi brividi scotevano il mare la cui voce si faceva lamentosa, mentre gli alberi gettavano in terra le loro foglie. Sotto la nudità cupa del cielo si mostrava la nudità delle acque e delle sponde. Quella tristezza dell'aria, quegli ultimi addii dell'estate mettevano d'intorno a Bianca la disperazione ch'essa provava nel cuore.

Viveva ritirata nella casetta della spiaggia. Situata a pochi minuti di distanza da Sant'Enrico, la casetta era isolata sopra uno scoglio e dominava il mare le cui ondate andavano a battere sotto le finestre. Bianca stava delle giornate intiere a contemplare ed ascoltare le ondate, il rumore isocrono delle quali assopiva i suoi dolori. Era la sua sola distrazione: seguiva con lo sguardo le grandi distese di schiuma che si rompevano in spruzzi: i suoi dolori si calmavano di fronte all'immensità dolce e monotona.

Qualche volta usciva di sera, accompagnata dalla governante.

Scendeva in riva al mare e sedeva sopra un pezzo di roccia. Il vento fresco della notte calmava le febbri che la bruciavano.

Stava lì nel buio, dimentica di tutto, assorbita dal rumore dell'acqua, e tornava a casa quando il freddo l'aveva empita di brividi.

Uno stesso pensiero l'opprimeva costantemente. Ogni momento quel pensiero era là davanti a lei, incombente, inesorabile. Nei brividi della notte o nei tepori del giorno, in faccia all'infinito o nel nulla dell'oscurità, Bianca pensava a Filippo ed alla creatura che portava in seno.

La sua grande consolatrice era Pina. Se la fioraia non fosse andata a passare mezza giornata con lei ogni domenica, la povera fanciulla sarebbe morta di disperazione. Sentiva il bisogno imperioso di confidare la propria tristezza a un'anima buona. La solitudine la spaventava, perché quando era sola le si drizzavano davanti i suoi rimorsi e la spaventavano.

Quando arrivava Pina, le due ragazze salivano in una piccola stanza dove si chiudevano per parlare e piangere senza essere disturbate. Lasciavano la finestra aperta: lontano, sul velluto azzurro del mare, passavano delle vele bianche, come messaggeri di speranza.

Ed ogni domenica spargevano le stesse lacrime, ripetevano le stesse parole strazianti ed intenerite.

- Oh! come è pesante la vita - diceva Bianca. - Ho pensato tutta la giornata alle ore passate con Filippo fra le rupi del Jaumegarde e degli Infernets. Mi sarei dovuta uccidere in quell'abisso, cadendo in fondo a qualche precipizio.

- Perché sempre piangere, sempre rimpiangere? - rispondeva con dolcezza Pina. - Non siete più una bambina, avete dei doveri sacri da compiere. Di grazia, pensate al presente e non vivete in un passato irreparabile... finirete per ammalarvi ed uccidere la vostra creatura.

Bianca fremeva.

- Uccidere la mia creatura, - ripigliava essa singhiozzando. Non me lo dite. Bisogna che questa creatura viva per riscattare la mia colpa ed ottenere il mio perdono. Ah! Filippo lo sapeva, me lo diceva che gli sarei appartenuta per sempre. Ho avuto un bel rinnegarlo; ho tentato invano di soffocare la sua memoria. Il mio orgoglio è stato spezzato, e ho dovuto abbandonarmi all'amore pieno di rimorsi che mi divora. E ora amo Filippo come non l'ho mai amato, con tutto il mio rammarico e la mia disperazione.

Pina non rispondeva. Avrebbe voluto che Bianca fosse più forte e accettasse la dura missione della maternità. Ma la signorina di Cazalis era sempre un'anima debole e non sapeva far altro che piangere. Perciò la fioraia prometteva a se stessa di agire, quando fosse giunto il momento.

- Se sapeste, - continuava Bianca, - quanto soffro quando non siete qui. Sento in me Filippo che mi tortura: egli rivive nella mia creatura, lo porto dappertutto nel mio seno, e dappertutto mi rimprovera il mio spergiuro. Egli è sempre davanti a me, intorno a me, in me. Lo vedo sul pagliericcio del suo carcere, lo sento piangere e maledirmi. Vorrei non aver più cuore! Allora vivrei tranquilla.

- Andiamo, via, calmatevi, - diceva Pina.

Spesso le consolazioni non avevano alcun potere su quella disperazione. La fioraia assisteva con terrore a quelle scene di desolazione. Studiava l'amore spezzato di Bianca, come un medico studia una malattia strana e terribile e diceva a se stessa: Ecco come si soffre, ecco quello che si diventa quando si ama vilmente.

Un giorno, durante una delle solite crisi di disperazione, Bianca guardò fissa la sua compagna e le disse con voce straziata:

- Dovete sposarlo, non è vero?

Pina non capì subito.

- Non me lo nascondete, - ripigliò vivamente Bianca. Preferisco sapere tutto. Siete una buona ragazza, lo farete felice, e ho più piacere di saperlo ammogliato con voi, anziché occupato a cercare facili avventure per Marsiglia. Quando sarò morta ditegli che l'ho sempre amato.

E scoppiò in singulti. La fioraia le prese dolcemente le mani e le disse:

- Vi prego, siate madre, non siate più amante. Dimenticate tutto, se è possibile, per la vostra creatura... Del resto, tranquillizzatevi, non sposerò mai Filippo... forse sarò sua sorella.

- Sua sorella? - ripeté la signorina di Cazalis.

- Sì, - rispose Pina sorridendo celestialmente pensando a Mario.- Amo e sono riamata.

E le raccontò i suoi amori, calmò la sua febbre parlandole di Mario.

Bianca pianse lacrime meno cocenti, ascoltando il racconto di quell'affetto tranquillo. Da quel giorno volle più bene a Pina, non provò più altro che una cupa tristezza pensando a Filippo. Si dedicò tutta alla sua creatura. Il vero amore, l'amore sincero e generoso della sua compagna le entrava nel cuore.

Qualche volta Pina trovava l'abate Chastanier nella casetta della spiaggia. Il prete portava a Bianca le consolazioni della religione, sollevandola dalla terra e dalle sue passioni. Avrebbe voluto vedere entrare in un convento la signorina di Cazalis, perché capiva che non c'era per lei più felicità possibile nei piaceri del mondo. Essa doveva restar vedova eternamente, e non possedeva sufficiente forza d'animo per crearsi una vita calma nella sua vedovanza.

Ma il povero prete era molto ignorante nelle cose del cuore.

Bianca preferiva piangere con Pina parlando di Filippo che ascoltare le prediche dell'abate Chastanier. Eppure il vecchio trovava qualche volta in sé degli accenti profondi, e la fanciulla lo guardava sorpresa, desiderosa di penetrare nel mondo di calma nel quale egli viveva. Avrebbe voluto inginocchiarsi, restare prosternata per sempre, immersa in un'estasi che l'avrebbe liberata da tutti i suoi mali. A questo modo diventava a poco a poco quello che doveva essere, una serva di Dio, una di quelle sante creature ferite dal mondo, che salgono al cielo avanti di morire.

Un giorno l'abate Chastanier rimase là fino a sera e andò via con Pina. Doveva dare alla fioraia delle cattive notizie che non voleva far sapere a Bianca. Sulla spiaggia trovò Mario che aspettava l'amica.

- Figliolo caro, - gli disse, - le vostre pene ricominciano. Ieri mi ha scritto il signor di Cazalis. Si meraviglia che la sentenza pronunciata contro vostro fratello non sia stata ancora eseguita e mi dice che fa delle premure per affrettare l'ora della berlina...A che punto siete voi? fate conto di liberare presto il prigioniero?

- Eh! no, - rispose Mario addolorato, - sono allo stesso punto del primo giorno... speravo di avere almeno sei settimane di tempo.

- Non credo, - ripigliò l'abate, - che il signor di Cazalis possa indurre il presidente a mancarci di parola... Le nostre pratiche sono rimaste segrete e questo mi fa credere che la proroga durerà fino agli ultimi di dicembre come ci è stato promesso. Ma vi consiglio di affrettarvi... ho voluto avvertirvi di quanto accade.

Pina e Mario erano costernati. Rientrarono in Marsiglia col prete, silenziosi, ricaduti di nuovo in tutte le angosce. Il loro amore li aveva accecati per una settimana, e ora ritrovavano lo stesso abisso sulla loro strada.

 

Capitolo 11 - LA BERLINA A MARSIGLIA

Qualche giorno dopo, mentre una mattina Mario andava al suo ufficio, verso le nove, trovò la via del Paradiso ingombra di folla numerosa che scendeva verso la Cannebière. Si fermò all'angolo di via della Darsena e alzandosi sulla punta dei piedi, vide piazza Reale piena di gente.

L'ardente curiosità che spingeva tutto quel popolo s'impadronì a poco a poco di Mario, alcune parole colte al volo gli misero addosso una indefinita ansietà: anch'egli volle andare a vedere; e si lasciò trascinare dalla folla che riempiva la strada come un torrente. Arrivò facilmente in piazza Reale. Ma là l'ondata dei curiosi che sboccava da via del Paradiso si urtava ad una massa compatta di persone ferme. Tutti si alzavano sulle punte dei piedi, guardando dalla parte della Cannebière.

Mario vide dei soldati a cavallo. Non scorgeva altro, non indovinava ancora quale tremendo spettacolo poteva fare accorrere a quel modo tutta la popolazione della città.

Intorno a lui la folla rumoreggiava. Voci alte pronunciavano vivaci parole, in mezzo al mormorio sordo della moltitudine.

Poteva udire alcune di quelle parole:

- E' arrivato da Aix stanotte.

- Sì... ripartirà per Tolone domani.

- Vorrei vedere che faccia farà!

- Dicono che si sia messo a piangere quando ha visto il boia portare le corde.

- No... no... s'è portato bene! Andate là... è un pezzo d'uomo robusto che non piange come una femminuccia.

- Scellerato! il popolo dovrebbe raccogliere dei sassi e lapidarlo.

- Voglio tentare di avvicinarmi.

- Aspettatemi... Lo devono fischiare... Ci voglio essere anch'io.

Tali parole, interrotte da risa beffarde, accompagnate da gesti violenti, risuonavano crudelmente alle orecchie di Mario. Un vero spavento s'impadroniva di lui; gli saliva alla fronte il sudore freddo. Si domandava con angoscia chi poteva essere l'uomo che la folla correva ad insultare.

La folla si agglomerava, si pigiava sempre più: ed egli capì che non gli sarebbe stato possibile sfondare quel muro formidabile.

Allora si decise a girare intorno alla piazza Reale. Andò per via Vacon, prese per via Beauveau, e sboccò nella Cannebière. Là lo aspettava uno strano spettacolo.

Per tutta la sua lunghezza, dal porto al corso Belzunce, la Cannebière era piena di un'immensa folla tumultuante che aumentava di minuto in minuto. Ondate di popolo sboccavano da tutte le strade. A momenti correvano per quella folla dei soffi di collera, ed allora si levavano dei gridi, spandendosi a larghe onde sonore, simili al brontolio profondo del mare. Tutte le finestre erano piene di spettatori: i monelli erano montati sulle facciate delle case, attaccandosi alle insegne dei negozi. Tutta intiera Marsiglia era là, ed ogni curioso volgeva gli occhi verso lo stesso punto. C'erano nella Cannebière più di sessantamila persone che guardavano e urlavano.

Finalmente quando Mario riuscì ad avvicinarsi capì quale era lo spettacolo che attirava e tratteneva la folla. In mezzo alla Cannebière, in faccia alla piazza Reale, era innalzato un palco di rozze tavole. Su quel palco un uomo era legato a un grosso palo.

Due compagnie di fanteria, un plotone di gendarmeria e di cacciatori a cavallo circondavano la piattaforma e proteggevano il condannato dalla crescente irritazione del popolo.

Mario da principio vide soltanto il disgraziato legato al palo che dominava la folla. Un'orribile ansietà gli fece desiderare di scorgere il viso di quell'uomo: forse era Filippo, forse il signor di Cazalis era riuscito ad anticipare l'ora della espiazione. A quell'idea la vista di Mario si appannò: si sentì gli occhi pieni di lacrime, e si vide davanti una fitta nuvola che gli impediva di scorgere. Si appoggiò ad una bottega, sentendosi venir meno, ferito al cuore da ogni grido della folla. Gli parve, in quella febbre, di aver riconosciuto Filippo sul palco; gli parve che Filippo fosse davvero là; che la moltitudine lo insultasse. La vergogna, il dolore, la pietà che s'impadronirono di lui lo misero in un'angoscia crudele. Per qualche minuto rimase come tramortito; poi ebbe il coraggio di alzare la testa e guardare.

Il disgraziato era legato fortemente al palo. Aveva addosso un paio di calzoni ed una giacca di tela grigia. Il capo era coperto da un berretto del quale si era tirato la tesa sugli occhi. Teneva inoltre la testa costantemente bassa nascondendo il viso ai curiosi. Aveva la faccia rivolta verso il porto, e non alzò mai una volta la fronte per guardare il mare che si stendeva davanti a lui, libero e felice.

Quando Mario ebbe guardato di nuovo il paziente, ebbe dei dubbi, si sentì sollevato; quell'uomo pareva due volte più grosso di suo fratello. D'altronde conosceva Filippo e sapeva che non avrebbe tenuto la testa bassa e si sarebbe fatto un dovere di rendere alla folla disprezzo per disprezzo. Pur tuttavia Mario aveva qualche timore; quella testa bassa lo rendeva inquieto; avrebbe voluto vedere chiaramente i lineamenti del condannato.

Intorno al giovane la folla continuava a vociferare, alzar grida di collera o d'ironia.

- Alza la testa, briccone! fatti vedere in viso, scellerato!

- Oh! non l'alzerà la testa, ha paura!

- Finalmente non potrà far più danno!

- Ha le mani legate, non potrà più rubare!

- Lo credete! eppure è stato sul punto di rubare la grazia!

- Sicuro, la gente ricca, le persone pie hanno cercato di risparmiargli l'umiliazione della berlina.

- Un povero diavolo non avrebbe saputo accattivarsi tante simpatie.

- Ma il re ha tenuto duro, ha detto che il castigo deve essere uguale per gli scellerati di tutti i ceti.

- Oh! il re è un brav'uomo.

- Eh! Douglas, briccone, ipocrita, ladro, non farai buffonate...non andrai più in chiesa a pregare Iddio di proteggere le tue falsità.

Mario respirò. Quelle grida gli dicevano finalmente chi fosse il paziente. Riconobbe allora Douglas, e vide chiaramente la faccia pallida e grassa del notaio. Ma in fondo al cuore pensava al fratello; pensava ch'egli pure avrebbe forse dovuto subire i sarcasmi e le urlate della folla.

La moltitudine rumoreggiava ancora.

- Ha rovinato più di cinquanta famiglie; la galera è troppo poco per lui.

- Marsiglia dovrebbe farsi giustizia.

- Sì... precisamente... lo piglieremo, e l'ammazzeremo quando passerà.

- Vedete come pare comodo lassù.

- Non soffre abbastanza: l'avrebbero dovuto impiccare per i piedi.

- Ecco il boia che lo scioglie... Corriamo.

Difatti Douglas scendeva dalla piattaforma. Montò in un piccolo carro scoperto, attaccato a un cavallo, che lo doveva riportare in prigione. In quel momento vi fu un gran movimento di folla. Tutti si precipitarono per insultare, forse per uccidere quel miserabile. Ma i soldati circondarono il carretto e i gendarmi misero i cavalli al galoppo, allontanando i più turbolenti.

Mario guardò un'ultima volta il condannato con profonda pietà.

Quell'uomo certamente era un gran colpevole; ma il Calvario della vergogna sul quale saliva lo faceva degno più di commiserazione che di collera. Mario era rimasto appoggiato ad una bottega.

Mentre guardava il carretto che si allontanava, sentì due operai che passavano dicendo:

- Ritorneremo quest'altro mese. Devono mettere in berlina quel giovanotto che portò via la ragazza... Sarà anche più divertente.

- Ah! sì, Filippo Cayol... L'ho conosciuto. E' un gran matto...Bisognerà sapere il giorno preciso per non mancare. Vi sarà del sussurro.

Gli operai si allontanarono: Mario si mosse pallido e abbattuto.

Quegli uomini avevano ragione: fra un mese sarebbe toccato a suo fratello. Ed il caso lo aveva fatto assistere a tutte le onte che Filippo sarebbe stato costretto a subire. Sapeva ormai quali patimenti lo attendevano; lo metteva al posto di Douglas e si immaginava l'orribile scena. L'angoscia lo tenne lungamente a occhi chiusi, con le orecchie piene di strepiti: vedeva Filippo sulla piattaforma e la folla che lo insultava e rideva.

 

Capitolo 12 - NEL QUALE MARIO PERDE LA TESTA

Mentre Mario stava appoggiato agli sporti della bottega, gli occhi fissi in terra, dolorosamente commosso dallo spettacolo al quale aveva assistito, sentì una mano posarglisi senza complimenti sulla spalla.

Alzò la testa e si vide davanti Salvario.

- Ehi! giovanotto! che cosa fate qui? - esclamò ridendo. - Si direbbe che vi debbano legare al palo.

Ed indicava la piattaforma. Salvario era vestito con galanteria; aveva calzoni e vestito di panno fine, e dal gilet mezzo sbottonato usciva fuori il bianco della camicia. Erano appena le dieci ed il capo facchino passeggiava in pantofole, col cappello a cencio sull'orecchio, ed una bella pipa di schiuma in bocca. Si capiva ch'era padrone lui del marciapiede della Cannebière; vi stava su come in casa sua, occupando il maggiore spazio possibile, e guardando chi passava con aria protettrice e confidenziale. Con le mani in tasca, allargando i pantaloni, a gambe larghe, esaminava Mario con sguardo di superiorità pieno di condiscendenza.

- Mi sembrate triste e malato, - aggiunse; - fate come me, state bene, mangiate e bevete bene, e divertitevi. Io non so che cosa siano i fastidi! Sono robusto, ho buono stomaco, e posso buttar via cento franchi quando mi pare. So che bisogna esser ricchi per fare come me, e tutti non sono ricchi...

Guardava Mario con compassione e gli pareva tanto pallido e malaticcio da provare una gran gioia sentendosi grasso e rosso a confronto di lui. In quel momento avrebbe prestato volentieri mille franchi a quel giovanotto.

Mario non ascoltava le chiacchiere di Salvario. Gli aveva stretto la mano distrattamente, immergendosi di nuovo nei suoi tristi pensieri. Pensava con la disperazione nel cuore che per tre mesi aveva vanamente lottato senza essere ancora riuscito a nulla. Il palo che vedeva lì dritto aspettava Filippo: gli sembrava d'avere i piedi inchiodati al marciapiede e di non poter più correre ad aiutare il fratello. In quel momento si sarebbe venduto per avere qualche migliaio di lire; avrebbe commesso una viltà.

Salvario, non ricevendo risposta, continuava a chiacchierare. Gli faceva piacere di sentire il suono della propria voce.

- Che diamine! - diceva, - un giovanotto si deve divertire. Povero voi! non vi divertite abbastanza, lavorate troppo, mio buon amico.

Ci vogliono molti quattrini... I divertimenti costano... Io qualche settimana spendo un visibilio... Voi non vi potete divertire tanto, è impossibile: ma pure potreste ridere un po'...Avete qualche soldo, non è vero? Volete che qualche volta, la sera, vi conduca in un luogo dove non vi annoierete?

Salvario aveva creduto di mostrarsi generosissimo facendo tale offerta a Mario. Aspettò per un momento i suoi ringraziamenti. Ma siccome il povero giovane continuava a tacere, lo prese per un braccio e lo trascinò sul marciapiede.

- M'incarico io di voi - esclamò, - vi slancerò io come si deve.

Voglio che fra otto giorni siate allegro come me. Io mangio nelle trattorie migliori; ho per amanti le più belle donne di Marsiglia, e come vedete, passeggio tutto il giorno... questa è una bella vita.

Si fermò, si piantò bruscamente davanti a Mario e incrociando le braccia riprese:

- Sapete a che ora sono andato a letto...? Stamani alle tre...Sapete dove ho passato la nottata? al circolo Corneille dove giocavano un gioco d'inferno. C'erano due creature adorabili, donne vestite di velluto, con dei gioielli, delle trine, delle cose costosissime che non si osano toccare con la punta delle dita. La Chiarina, una brunetta piccola, ha vinto più di cinquemila franchi.

Mario rialzò subito la testa.

- Ah! - diss'egli con uno strano accento. - Si possono guadagnare cinquemila franchi in una notte?

Salvario fece una risata.

- Dio mio! quanto siete ingenuo! ho veduto guadagnare molto di più. C'è chi ha fortuna... L'anno scorso ho conosciuto un giovanotto che ha guadagnato sedicimila franchi in due notti...Entrò nel circolo con me senza un soldo. Gli prestai cinque franchi e due giorni dopo possedeva sedici bei mila franchi. Li abbiamo mangiati insieme. Quanto mi son divertito per un mesetto!

Mario aveva le fiamme al viso. Un brivido lo invadeva e gli bruciava il petto. Non aveva mai provato un'emozione tanto acuta.

- Bisogna essere soci d'un circolo per giocare? - domandò.

Salvario sorrise e strinse l'occhio maliziosamente, alzando le spalle.

- Credevo, - ripigliò Mario, - che gli estranei non potessero entrare ed i soci soli, pagando una tassa, avessero diritto di giocare.

- Sì, sì, avete ragione - rispose ridendo Salvario, - i soli soci hanno diritto di giocare. Soltanto accade che quelli che non ne hanno diritto, gli estranei, sono spesso in maggioranza intorno al tappeto verde e giocano un gioco più grosso dei soci... Capite?

Questa volta fu Mario che prese per un braccio Salvario. Fecero qualche passo in silenzio, poi il giovane domandò al suo compagno con voce strozzata:

- Potete condurmi stasera al circolo Corneille?

- Bravo! - esclamò Salvario. - Rideremo! vedo che cominciate a capire la vita. Vedete... il vino, il gioco, le belle... io non esco di qui... Quando vi ho visto tanto pallido ho detto: - Ecco un giovanotto che bisogna slanciare... Procurate di vincere dei quattrini, prendetevi presto un'amante, ed ingrasserete, perbacco.

Sicuro... vi condurrò stasera al circolo Corneille e vi farò conoscere la Chiarina.

Mario fece un gesto d'impazienza. Non gli importava nulla della Chiarina. Aveva un'idea fissa nella testa. Giacché si potevano guadagnare sedicimila franchi in due notti, voleva tentare la sorte e domandare al caso il riscatto di Filippo. E diceva a se stesso che il cielo lo avrebbe protetto e sarebbe uscito dal circolo con le mani piene d'oro.

Era accaduto uno sviamento nella sua mente retta e sana. Sotto i ripetuti colpi della sventura lo spirito della saviezza si era velato. Tutto l'abbatteva. L'abate Chastanier, dicendogli delle nuove pratiche del signor di Cazalis, gli aveva dato l'ultimo colpo.

Poi la berlina di Douglas, terribile spettacolo, aveva finito di turbarlo, di renderlo pazzo, mettendogli sotto gli occhi l'ignobile castigo riserbato a suo fratello; stava perdendo la testa. Ridotto all'impotenza e non sapendo a quale porta picchiare nelle sue angosce supreme, pensava al gioco come ad un mezzo provvidenziale che doveva toglierlo d'imbarazzo o immergerlo più profondamente nella disperazione.

Non sapeva più quello che si faceva; obbediva agli istinti del bruto. Guardò Salvario domandandosi se era il vizio o la virtù che aveva mandato quell'uomo sulla sua strada, quando lo torturavano le premure del deputato e il pensiero del supplizio di Filippo. In quel momento avrebbe accettato tutto, avrebbe combattuto la sua disdetta con qualunque arma.

- Va bene, siamo intesi, - gli disse Salvario lasciandolo. Dove ci troveremo stasera?

- Sarò qui sulla Cannebière alle dieci, - rispose Mario.

Lasciò Salvario e andò al suo studio. Non s'era mai trovato in tale stato di esaltazione. Passò una giornata terribile, con la febbre addosso, la testa che gli bruciava, lo sguardo errante, pensando con cocente desiderio alla nottata nella quale avrebbe giocato. Sognava sveglio; vedeva l'oro accumularsi davanti a lui; credeva già di esser ricco e s'immaginava che suo fratello fosse libero.

La sera, verso le otto, andò, secondo il solito, da Pina. La fioraia si accorse che le mani di Mario scottavano.

- Che cosa avete? - gli domandò inquieta.

Balbettò qualche parola; poi se n'andò dicendo:

- Non m'interrogate... Filippo sarà libero e noi saremo tutti felici.

Passò da casa, prese cento franchi, economizzati soldo per soldo, e ando in cerca di Salvario. Alle dieci entravano tutt'e due nel circolo Corneille.

 

Capitolo 13 - LE BISCHE MARSIGLIESI

Prima di raccontare il nuovo episodio di questo dramma e mostrare Mario nelle angosce del gioco è necessario spiegare le cause della moltiplicazione delle bische in Marsiglia. Chi scrive queste linee vorrebbe poter mostrare, in tutta la sua schifosa nudità, la piaga divorante che rode una delle città più ricche e più vitali della Francia.

E' da notare che la passione del gioco desola particolarmente i grandi centri commerciali. Quando un'intera popolazione si dedica alla speculazione sfrenata, è quasi impossibile che non si butti nelle emozioni penose del gioco. Il gioco diventa una speculazione aggiunta alle altre: si specula sul caso; si continua la notte il lavoro del giorno: durante il giorno si è cercato di arricchire vendendo una merce qualunque: la notte si tenta di aumentare il guadagno arrischiandolo sul tappeto verde. Se è vero che il commercio è spesso un gioco, i commercianti possono credere di non cambiare d'ambiente passando dal loro negozio alla bisca vicina.

La febbre commerciale è contagiosa. A Marsiglia, dove esistono grossi patrimoni accumulati in pochi anni, non c'è giovanotto che non sogni altrettanta cuccagna. Tutti vogliono negoziare; la città intera è un enorme banco nel quale si vive per batter moneta.

Andate sul porto, dovunque va la folla; sentirete parlare soltanto di quattrini; vi crederete in un immenso ufficio di banco dove tutte le conversazioni sono irte di cifre. Quando si hanno dieci franchi in tasca il grande scopo è di guadagnarne venti, trenta, quaranta. Chi ha grossi capitali gioca alla Borsa, comprando e rivendendo. Ma i poveri, quelli che posseggono pochi franchi, hanno la risorsa del gioco: non potendo tentare grandi imprese sono soddisfatti affidandosi al caso: è un mezzo di far fortuna o di rovinarsi che tutti possono scegliere; mezzo facile e pronto, traffico strano, pieno di emozioni cocenti. Il giocatore è uno speculatore che vive in una notte tutta un'ansiosa esistenza, e prova l'ansietà, le speranze e le disperazioni di un aggiotatore.

In una città come Marsiglia, dove il danaro è sovrano, dove la popolazione ha addosso la febbre del commercio, il gioco diventa una necessità, una specie di banco aperto a chiunque, nel quale il ricco ed il povero possono rischiare soldi o monete d oro.

Aggiungete a ciò che i ricchi, quelli che buttano via i quattrini a palate, e guadagnano in un giorno delle somme enormi, non tengono molto di conto dell'oro facilmente accumulato. Un operaio guarda con rispetto il pezzo da cinque franchi che gli danno la sera; ha sudato sangue per guadagnarlo e per lui rappresenta un lavoro opprimente, lunghe ore di fatica; bisogna ch'egli viva con quei quattrini. Ma un negoziante, un banchiere, che stando a sedere al suo tavolino, ha guadagnato prima di sera qualche centinaio di lire, non ha paura di lasciar cadere qualche pezzo da venti franchi, mettendo il guadagno in tasca. Sa che il giorno dopo guadagnerà altrettanto; è ancora giovane; vuol godersi la vita: essendo stato rinchiuso per parecchie ore, ha bisogno la sera di piaceri variati, di forti emozioni. E butta via i quattrini nelle trattorie, nei caffè, sul tappeto verde, spendendo con la stessa facilità con la quale guadagna.

Una città commerciale è perciò allegra e scapestrata per forza. In quel grande scorrere di patrimoni, in quel soffio ardente di traffico che penetra nel fondo di tutte le case, vi sono ore di follia, bisogni imperiosi di godimento. A talune ore questo popolo è accecato dal bagliore dell'oro e si butta nell'orgia come si è buttato negli affari. La stessa febbre assale la città da un'estremità all'altra; piccoli e grandi, ricchi e poveri, sono agitati dallo stesso bisogno di guadagnare dell'oro fino alla rovina o fino al milione.

Si capisce l'esistenza, direi quasi la necessità delle bische in Marsiglia. Ultimamente ve n'erano cento ed il loro numero andava sempre crescendo. La polizia è vinta dalla smania dei giocatori.

Scoperta e chiusa una casa di gioco se n'aprono due accanto. Per tagliare il male alla radice, bisognerebbe troncare la febbre che agita tutta la popolazione. A mio credere, il male non è rimediabile: si può uccidere l'uomo, ma non si uccidono le sue passioni.

La polizia che esercita direttamente la sua autorità sulle bische ne chiude quante ne può scoprire. Ma la sua missione è più difficile ad esercitarsi nei circoli che, qualche volta, si cambiano in vere case di gioco. I giocatori, pieni di talento inventivo quando vogliono soddisfare la loro passione, procurano di mettersi sotto la protezione della legge. Con quanto io dico non intendo punto accusare taluni circoli onorevoli di Marsiglia; voglio soltanto essere lo storiografo di quei circoli vergognosi, frequentati da scrocconi e qualche volta terribilmente macchiati dal sangue di un suicida.

Ecco come si fonda un circolo. Alcune persone domandano il permesso di riunirsi, la sera, in un locale designato, per conversare fra loro, per bere e per giocare ai giochi permessi.

Ogni socio deve pagare una tassa; è proibito ammettere estranei, vale a dire di tenere tavola da gioco per il primo che capita. Ma, dopo qualche mese, non si conversa più, non si beve più, e si passano le nottate intiere al tappeto verde; le puntate, che da principio erano modeste, crescono a poco a poco fino al punto da rendere facile il rovinarsi in poche notti: la disciplina si rallenta, entra chi vuole, nel circolo vi sono più estranei che soci, sono ammesse anche le donne, i furfanti si presentano per spogliare i giocatori novizi, e tutto ciò dura fin quando si presenta la polizia e chiude il circolo. Due mesi dopo il circolo si riapre poco lontano, la commedia ricomincia e termina con la stessa catastrofe.

Questa è una delle piaghe vive di Marsiglia, piaga divorante che s'allarga ogni giorno. I circoli diventano bische, abissi che inghiottono le sostanze e l'onore degli imprudenti che vi si arrischiano. Gustati una volta i piaceri ardenti del gioco, tutti gli altri sembrano insipidi; vi si consuma fino all'ultima goccia di sangue; vi si perde fino all'ultimo soldo. Non passa settimana senza qualche nuova disgrazia, senza una qualche nuova querela indirizzata alla procura del re.

I negozianti si rovinano intorno al tappeto verde. Vanno là a compromettere gli interessi dei loro clienti, a divorare prima i loro guadagni, poi ad intaccare i capitali confidati alla loro probità commerciale: sono quindi obbligati a dichiarare il fallimento e trascinano nella loro rovina quanti hanno avuto fiducia nella loro onestà.

Impiegatucci che hanno la passione del lusso e dell'orgia, ed ai quali la modicità dello stipendio impedisce di soddisfare quelle passioni, vedendo intorno a loro i ricchi sprofondati nei godimenti, con delle amanti, far pompa di loro in carrozza e esaurire i piaceri rumorosi della vita, presi dall'invidia, provano l'acuto desiderio di condurre una simile esistenza.

Allora, per procurarsi i quattrini, giocano: giocano prima il loro stipendio, poi, quando hanno disdetta, rubano ai loro padroni ed entrano nella via del delitto.

Giovanetti ingenui, appena usciti di collegio, sono spogliati da abili furfanti. Se vincono, si abbandonano alle orgie; se perdono, fanno dei debiti, sottoscrivono delle cambiali a degli usurai, e mandano in fumo i loro beni.

Si raccontava ultimamente un fatto caratteristico Un impiegato, avendo ricevuto dal suo principale qualche migliaio di franchi per andare a pagare alla dogana i diritti d'entrata di talune mercanzie, andò la sera in un circolo e perse al baccarat la somma che gli era stata affidata. Il principale minacciò di sporgere querela. A tale notizia i soci del circolo si adunarono e decisero di rimborsare essi stessi al principale la somma stornata dall'impiegato. Quando ebbero pagato, l'impiegato firmò una cambiale a favore del cassiere del circolo, e il cassiere non ha mai fatto gli atti per farsi pagare quello che il povero impiegato non possedeva.

Tale condiscendenza non è forse una confessione? Hanno capito che erano tutti solidalmente colpevoli del furto commesso ed hanno insabbiato l'affare perché la giustizia non li andasse a disturbare nel soddisfacimento della loro passione.

Salvario condusse Mario in quell'ambiente di follia, in mezzo a quei giocatori febbricitanti.

 

Capitolo 14 - NEL QUALE MARIO VINCE DIECIMILA FRANCHI

Il circolo Corneille era una delle bische autorizzate delle quali si parla nel precedente capitolo. Da principio era stato composto di soli soci ammessi a maggioranza di voti, che pagavano una tassa di venticinque franchi. Ma, in reatà, ognuno poteva entrarvi e giocare. Per salvare le apparenze, sulle prime, si contentavano di affiggere sopra uno specchio i nomi dei nuovi venuti, oppure si esigeva dagli estranei un biglietto di presentazione d'uno dei soci. Ma ben presto non fu chiesto più biglietto e nessuno si dava più la pena di affiggere i nomi. Entrava chi voleva.

Il capo facchino era certamente un onesto uomo, incapace di commettere una bassezza. Ma l'abitudine di divertirsi gli aveva fatto contrarre delle strane amicizie. Diceva ingenuamente che gli piaceva più la compagnia del bricconi di quella delle persone ammodo, perché queste lo annoiavano mentre i bricconi lo facevano ridere. Cercava le cattive compagnie per istinto, per potersi scapricciare a suo comodo e divertirsi come piaceva a lui, cioè facendo un baccano del diavolo. Sotto la sua apparenza di bonomia egli nascondeva un'astuzia ed una prudenza rara: non si comprometteva mai, giocando poco, e allontanandosi quando correva un qualsiasi pericolo. Non ignorava la poca dignità della maggior parte dei frequentatori del circolo Corneille: ci andava perché vi trovava delle donne facili e perché poteva appagarvi le sue manie di nuovo ricco.

Salvario e Mario, dopo aver salita una scala stretta, arrivarono al primo piano, in una vasta sala dove erano disposte una ventina di piccole tavole di marmo. Intorno alle pareti c'erano dei divani di velluto rosso, ed in mezzo delle sedie impagliate: pareva una sala da caffè. In fondo c'era una gran tavola coperta di panno verde sulla quale delle venature di seta rossa disegnavano due quadrati, fra i quali stava una cesta destinata a raccogliere le carte già adoperate. Era la tavola da gioco; la circondavano molte sedie.

Mario, entrando, dette un'occhiata spaventata alla sala. Soffocava come un uomo caduto nell'acqua. Pareva che entrasse in una caverna per esservi divorato da bestie feroci Il cuore gli batteva forte, le tempie gli si coprivano di sudore; una specie di timidità, mista a ripugnanza, lo teneva immobile, confuso, imbarazzato.

Nella sala non vi era quasi nessuno. Alcuni uomini bevevano. Due donne in un angolo discorrevano vivacemente a voce bassa. La tavola da gioco rimaneva scura e vuota nel fondo, non essendo ancora accesi i lumi che si abbassavano in mezzo al tappeto verde.

A poco a poco Mario riacquistò la sua sicurezza; ma la febbre gli serpeggiava ancora nelle vene.

- Che cosa volete bere? - gli domandò Salvario.

- Quello che volete, - rispose macchinalmente Mario, guardando la tavola da gioco con timida curiosità.

Salvario fece portare della birra.

Si distese sopra un divano ed accese un sigaro.

- Ah! c'è la Chiarina con la sua amica Isnarda, - esclamò ad un tratto vedendo le due ragazze che parlavano nell'angolo. Guardate che amori di donne. Eh! che cosa ne dite? Ci vorrebbero delle ragazze come quelle per consolarvi.

Mario guardò le ragazze. La Chiarina aveva addosso un vecchio vestito di velluto nero, macchiato e spelato; era piccola, bruna, appassita: il suo viso pallido a macchie gialle aveva un aria di stanchezza da far pena a vederlo. L'Isnarda, lunga, secca, pareva anche più vecchia e più in cattivo stato; il suo corpo magro pareva volesse sfondare nelle spalle il vestito di seta ritinto.

Mario non sapeva spiegarsi ammirazione appassionata di Salvario per quelle creature. Voltò la testa con un atto di disgusto; gli era apparso il volto fresco di Pina e aveva vergogna di trovarsi in un luogo simile.

Le due ragazze, alle quali la voce di Salvario aveva fatto volgere la testa, si misero a ridere.

- Oh! sono delle allegrone, - mormorò Salvario, con loro non ci si annoia. Se volete, le portiamo via stasera.

- Non si gioca? - domandò Mario interrompendo il compagno.

- Dio mio, che furia! - ripigliò Salvario, mettendosi in mostra per attirare l'attenzione delle ragazze... Sì, si giocherà, fino a domattina se volete... Non vi mancherà tempo... Guardate come mi osservano la Chiarina e l'Isnarda A poco a poco i frequentatori arrivavano. Un cameriere accese i lumi e parecchi giocatori andarono a sedere intorno alla tavola.

Le due ragazze si misero a girellare per la sala sorridendo agli uomini di loro conoscenza; finirono per sedersi accanto a quello che teneva il banco, sperando senza dubbio, di guadagnarsi qualche pezzo da venti franchi. Salvario si decise allora ad avvicinarsi ai giocatori.

Mario rimase per un momento in piedi studiando il gioco. Si rivolse al suo compagno e gli disse:

- Spiegatemi come bisogna fare.

Salvario rise molto della ingenuità di Mario.

- Ma, caro mio, - gli disse, - non c'è nulla di più facile. Da dove venite? Tutti sanno giocare al baccarat... Guardate...Sedetevi. Mettete la vostra puntata di qua o di là, dentro uno di questi quadrati circondati dalla riga rossa. Vedete; il banchiere si serve di due mazzi di carte di diverso colore, di cinquantadue l'uno; dà due carte da ogni parte e se ne dà due per sé. I dieci e le figure non contano; il punto più alto è nove e bisogna procurare di avvicinarsi più che si può al nove. Se fate più del banco vincete; se avete meno di lui perdete. Ecco fatto.

- Ma, - disse Mario, - vedo alcuni giocatori chiedere una carta.

- Sì... c'è facoltà di cambiarne una per accomodare il gioco...Spesso si fa peggio... vi consiglio di rimanere sempre su sei... è un buon punto.

Mario sedette alla tavola.

- Non giocate? - domandò a Salvario.

- No, preferisco ridere con la Chiarina.

E andò a gironzare intorno alla bruna. Per dire il vero non si curava di rischiare i suoi quattrini. Gli pareva che il gioco ne portasse via troppi. Per lui le emozioni della vincita e della perdita erano troppo rapide... gli piacevano i divertimenti solidi e duraturi.

Il banchiere mescolava le carte.

- Fate il vostro gioco, signori, - egli disse.

Mario, rabbrividendo, posò cinquanta franchi sul tappeto Aveva deciso di giocare i suoi cento franchi in due colpi.

Gli passavano davanti agli occhi dei bagliori rossi: sentiva in sé un mormorio che lo stordiva: gli tintinnavano le orecchie e gli si appannava la vista. Le sue sensazioni erano talmente violente da fermargli le pulsazioni del cuore.

- Gioco fatto! - disse il banchiere.

E dette le carte. Toccava a Mario a guardarle. Le prese e le guardò come un ebete. Aveva cinque. Chiese carte e fece quattro.

Il banco aveva tre. Un mormorio di sorpresa corse intorno alla tavola: Mario aveva vinto.

Da quel momento non seppe più quello che accadeva, visse come in un sogno. Per più di cinque ore restò lì abbattuto, oppresso, addormentato dalla monotonia del gioco, vincendo sempre, perdendo qualche volta per vincere sempre di più: giocava con un'audacia che faceva tremare i giocatori di professione, e vinceva contro tutte le probabilità, mettendo al verde quanti giocatori si succedettero al banco.

Aveva accanto un uomo di età che lo guardava stupefatto e con evidente invidia. Quell'uomo finì per avvicinarglisi e domandargli a voce bassa:

- Signore, sareste tanto gentile di dirmi qual è la vostra scaramanzia.

Mario non capiva. Scaramanzia, nel gergo dei giocatori, è una specie di talismano che libera dalla disdetta. Tutti i giocatori sono più o meno superstiziosi. Ciascuno di loro inventa una piccola divinità protettrice, un modo di acciuffare la fortuna.

Il vecchio signore parve offeso dal silenzio di Mario.

- Non credo di essere stato indiscreto, - gli disse, - sarei stato curioso di sapere come possiate avere tanta fortuna... Io, non lo nascondo... ecco qui la mia scaramanzia.

Si levò il cappello e mostrò che in fondo c'era un'immagine della Madonna. Mario gli avrebbe riso in faccia se avesse avuto il suo sangue freddo, ma spossato da parecchie ore di gioco, fece un gesto di impazienza e continuò ad ammucchiare dell'oro davanti a sé senza dire parola.

Salvario, meravigliato della fortuna del compagno, era andato a mettersi dietro alla sua sedia. Preferiva il veder giocare al giocare. Gli faceva piacere di vedere sulla tavola delle grosse somme quando non rischiava di perderle. La Chiarina e l'Isnarda avevano seguìto Salvario e s'appoggiavano familiarmente alla spalliera della sedia di Mario. Si chinavano sopra lui, gli sorridevano, lo guardavano amorosamente. Erano corse come uccelli da preda all'odore dell'oro.

Suonarono le cinque. Una luce biancastra entrava dalle finestre. I giocatori se n'andavano a uno a uno. Mario finì per trovarsi solo, con diecimila franchi di vincita davanti.

Sarebbe rimasto davanti al tavolino da gioco fino a sera, fino al giorno dopo, senza accorgersene, senza lamentarsi della fatica.

Aveva giocato come un automa, per cinque ore e con un'idea fissa, quella di vincere sempre. Avrebbe voluto finire in un colpo solo, guadagnare in una notte la somma che gli era necessaria, e non rimettere più piede nella bisca.

Quando si trovò solo davanti al tavolino, abbrutito, affranto dall'emozione e dalla stanchezza, cercò con lo sguardo qualcuno che giocasse ancora. Aveva contato la vincita e sapeva che era soltanto di diecimila franchi.

Gliene occorrevano altri cinquemila. Avrebbe dato tutto il mondo perché non fosse spuntato il giorno, forse avrebbe a quel modo avuto il tempo di completare il riscatto di Filippo. Stava lì guardando le sue monete d'oro, mettendosele in tasca adagio adagio, piegando i biglietti di banca a uno a uno e cercando nella sala un giocatore in ritardo.

Ad un piccolo tavolino c'era un tale che era stato tutta la notte a vedere senza giocare. Quando aveva veduto che Mario vinceva, gli si era avvicinato e non l'aveva più perso di vista. Pareva che lo aspettasse. Lasciò che i giocatori se ne andassero ad uno ad uno, mangiando Mario con gli occhi, studiando la febbre che l'agitava, facendogli la posta come ad una preda già assicurata.

Quando Mario, contrariato e rabbrividito, si decise ad andarsene, lo sconosciuto si alzò immediatamente e gli si avvicinò, domandandogli:

- Signore, volete fare una partita di ècarté con me?

Mario stava per accettare con riconoscenza, quando Salvario che lo seguiva a passo a passo, lo prese per un braccio e gli disse in un orecchio:

- Non giocate!

Mario si voltò ed interrogò Salvario con un'occhiata.

- Non giocate, - questi ripeté, - se volete conservare i diecimila franchi che avete in tasca... Per amor di Dio, dite di no, e venite via... Dopo mi ringrazierete!

Mario non voleva dargli retta: ma Salvario lo tirava a poco a poco verso la porta, e vedendolo esitare, s'incaricò di rispondere per lui.

- No... No... signor Felix, - disse a quell'uomo, - il mio amico è stanco... Arrivederci, signor Felix.

Il signor Felix parve molto seccato da quella risposta e guardò Salvario come per rimproverarlo d'impicciarsi negli affari degli altri. Poi fece fronte indietro, fischiò fra i denti e borbottò:

- Ho perduto la mia nottata!

Salvario non aveva lasciato Mario. Quando furono nella strada, questi gli domandò impermalito:

- Perché m'avete impedito di giocare?

- Povero innocente! perché ho avuto pietà di voi, perché non ho voluto far guadagnare i vostri diecimila franchi a quella cara gioia del signor Felix.

- E' un briccone quell'uomo?

- No, sta nei limiti dell'onestà.

- Allora avrei vinto.

- No, avreste perduto... I calcoli di Felix sono sicuri... Vedete come fa... non gioca mai durante la notte. Verso mattina, quando i giocatori sono spossati, ne accaparra uno e lo fa sedere a un tavolino d'ècarté. Non si tratta più d'un gioco d'azzardo, ma d'un gioco nel quale c'è bisogno di tutta l'intelligenza ed il sangue freddo. Felix è calmo, prudente, ha la testa fresca e riposata: il suo avversario è febbricitante, accecato, non vede più neppure le carte ed in pochi colpi e spogliato nel modo più onesto del mondo.

- Capisco... e vi ringrazio.

- Il Felix ha guadagnato un vero patrimonio mettendo in pratica il suo sistema tutte le notti... Però, ve l'ho detto, gioca onestamente. Soltanto fa in modo che i suoi avversari siano in stato di perfetta imbecillità. Ecco come riescono le persone abili... Se fossi al suo posto, domanderei un brevetto d'invenzione.

Mario non disse parola. S'erano fermati in mezzo alla strada deserta, davanti alla porta del circolo Corneille. Il tempo era bigio e piovoso, un odore indefinito si alzava dal selciato: il vento fresco della mattina penetrava nelle ossa. Abbottonati fino al mento, tremanti, barcollavano tutt'e due come ubriachi: il loro viso pallido, gli occhi imbambolati dicevano chiaramente ai pochi passanti come avevano passato la notte.

Mentre Mario si allontanava sentì un braccio appoggiarsi al suo.

Si voltò e riconobbe l'Isnarda: la Chiarina aveva preso a braccetto Salvario. Le due donne non avevano lasciato i due uomini che sapevano d'oro: li avevano seguiti, affamate all'idea dei diecimila franchi che Mario portava addosso, facendo conto di prendersi la loro parte di quella somma. Mario pareva loro un ingenuo da condurre facilmente per il naso e da spogliare con comodo.

L'Isnarda si mise a ridere e disse, con voce leggermente avvinazzata:

- Come! andate già a dormire, signori?

Mario ritirò vivacemente il braccio, con ripugnanza che non si curò di nascondere.

- Amorini belli, - rispose Salvario, - vi pagherò volentieri la colazione... ma promettetemi di essere molto divertenti. Venite voi, Mario?

- No, - disse burberamente il giovane.

- Ah! il signore non viene? - disse la Chiarina strascicando la voce, - ah... è una cosa noiosa... ci avrebbe pagato dello Champagne... Sarebbe suo dovere.

Mario si mise le mani in tasca, tirò fuori due manciate di monete d'oro, e le gettò alla Chiarina e all'Isnarda, che se le misero in tasca senza neppur pensare ad offendersene.

- A stasera, - disse Mario a Salvario.

- A stasera, - rispose il capo facchino.

Prese a braccetto una donna per parte e se ne andò cantando e facendo un baccano indiavolato per la via silenziosa.

Mario lo vide allontanarsi e poi andò nella sua tranquilla camera di via Santa. Erano le sei del mattino. Si coricò e dormì d'un sonno di piombo fino alle due del pomeriggio.

Quando aprì gli occhi vide sul cassettone i quattrini vinti; fu quasi spaventato dai riflessi dorati delle monete. Rammentò poi, ad un tratto, con strana lucidità, la notte passata, e fu preso alla gola da un'acuta emozione. Ebbe paura di esser diventato giocatore, perché la sua prima idea svegliandosi era stata di tornare alla bisca e di vincere ancora.

E ripeteva a se stesso: "No, non è vero, non posso avere quell'orribile passione; non posso esser diventato giocatore dalla sera alla mattina; gioco per liberare Filippo, non gioco per me." Poi pensò a Pina. Allora si contenne per non scoppiare in pianto.

Pensò che aveva già diecimila franchi e poteva fare a meno di tornare alla bisca: cinquemila franchi li avrebbe potuti trovar facilmente senza rischiare quelli già vinti.

Si vestì e scese nella strada. La testa gli andava in pezzi. Non pensò neppure ad andare allo studio. Entrò in una trattoria e non poté mangiare. Vedeva girare tutto, e a momenti soffocava come se gli mancasse l'aria. Quando fu notte, andò macchinalmente, passo passo, al circolo Corneille.

 

Capitolo 15 -COME MARIO EBBE LE MANI MACCHIATE DI SANGUE

Entrando nella sala, Mario vide Salvario a un tavolino, fra la Chiarina e l'Isnarda. Il capo facchino non le aveva più lasciate dalla mattina. Si alzò e andò a stringer la mano a Mario.

- Ah! caro amico, - gli disse, - avete fatto male a non venire con noi. Ci siamo divertiti come matti. Queste ragazze sono tanto allegre! farebbero ridere i sassi... Così mi piacciono le donne, a me!

E condusse Mario al tavolino dove la Chiarina e l'Isnarda bevevano della birra. Mario si mise a sedere di mala voglia.

- Volete che faccia società con voi, stasera? - gli disse l'Isnarda.

- No, - rispose Mario burberamente.

- Ha fatto bene a rifiutare, - disse Salvario a voce alta, - lo faresti perdere. Sai pure che il proverbio dice: di fortuna nell'amore disgrazia nel gioco.

E aggiunse all'orecchio al suo compagno:

- Perché non ve la pigliate per amante? non vedete che occhiate vi dà?

Mario s'alzò senza rispondere e andò a sedere al tavolino da gioco. Si preparava una partita ed egli era ansioso di riprovare le emozioni della sera avanti.

Volle seguire lo stesso metodo: mise cinquanta franchi sul tavolino e li perse: ne mise altri cinquanta e li perse di nuovo.

I giocatori sono naturalmente fatalisti e sanno per esperienza che il caso ha le sue leggi come tutte le cose di questo mondo, e che qualche volta fa in una notte la fortuna di un uomo e la notte dopo la rovina, con la medesima ostinazione. Arriva un momento nel quale la fortuna abbandona, e chi ha vinto una lunga serie di colpi, ne perde una altrettanto lunga. Mario era in uno di tali momenti terribili.

Perse cinque volte di seguito. Salvario, che gli si era avvicinato e stava a vederlo giocare, gli disse rapidamente:

- Non giocate stasera, non siete in vena... Perderete quanto avete vinto ieri sera.

Mario alzò le spalle con un atto d'impazienza. Aveva la gola secca e la fronte bagnata di sudore.

- Lasciatemi stare, - rispose di mala grazia, - so quello che faccio... O tutto o nulla.

- Fate il comodo vostro, - ripigliò Salvario. - Io vi ho avvertito... Ho acquistato un po' d'esperienza giocando e vedendo giocare per dieci anni, fra qualche ora, caro mio, non avrete più un soldo... succede sempre così...

Prese una sedia e s'accomodò dietro a Mario volendo assistere alla effettuazione delle sue predizioni. La Chiarina e l'Isnarda, sperando di buscare qualche marengo, come la sera prima, sedettero pure vicino a Mario. Ridevano, facevano le civette, e Salvario di tanto in tanto rideva con loro con gran rumore. Quelle risate, quelle canzonature che sentiva dietro di sé, irritarono Mario. Due o tre volte fu sul punto di voltarsi indietro, per mandare al diavolo Salvario e le ragazze. Disperato perché perdeva, avvilito dai colpi strani e terribili del caso, si sentiva addosso una rabbia che avrebbe voluto sfogare su qualcuno.

Aveva prima giocato col metodo della sera precedente, con audacia e risolutezza, rischiando le battute di cinque, e confidando sulla buona fortuna. Ma questa lo aveva abbandonato, e l'audacia non otteneva più alcun risultato. Allora volle regolarsi prudentemente: calcolare le probabilità, giocare da furbo.

Perdette ugualmente. Più d'una volta ebbe otto ed il banco nove.

La fortuna sembrava prendersi il crudele divertimento di spogliare colui che aveva colmato dei suoi favori. Era un combattimento ad oltranza, nel quale, ad ogni nuovo assalto, ad ogni batter di carte, Mario era vinto. Dopo un'ora aveva già perduto quattromila franchi.

Salvario canterellava dietro di lui:

- Ve l'avevo detto... Lo sapevo bene.

E Chiarina ed Isnarda, vedendo andarsene i pezzi da venti franchi sui quali avevano fatto conto, canzonavano Mario e cercavano con l'occhio un giocatore più fortunato.

Mario, smarrito davanti all'abisso aperto dinanzi a lui, si voltò verso Salvario e gli disse, con voce strozzata:

- Voi che sapete giocare, insegnatemi.

- Oh! perdereste anche sapendo giocare come un angelo. Il caso è cieco... va dove vuole, e non si può dirigerlo, fareste meglio a smettere.

- No... no... voglio finirla.

- Ebbene... proviamo... giocate la serie.

Mario giocò la serie. Colpo per colpo perdette cinquecento franchi.

- Perbacco! - disse Salvario - allora giocate una sì e una no.

Mario obbedì e seguitò a perdere.

- Ve l'ho detto... ve l'ho detto... - ripeteva Salvario Provate a raddoppiare.

Mario provò a raddoppiare e non fu più fortunato.

- C'è da diventar matti! - esclamò con rabbia.

- Non giocate più - disse Salvario.

- Sì, voglio giocare, giocherò fino a che ne avrò.

Salvario si alzò fischiettando fra i denti, non poteva capire l'ostinazione nervosa del compagno, egli che non azzardava mai più di cento franchi sul tappeto verde.

- Guardate, - ripigliò, - il banco passa la mano e si ritira.

Prendete il suo posto... Forse potrà cambiare la vena.

Mario prese il banco. Pagò due franchi per le carte, ed uno alla cassa del gioco, secondo l'uso del circolo. Mescolò le carte e le dette ai giocatori dicendo:

- Signori, le carte...

Alcuni giocatori le mescolarono di nuovo e le resero a Mario che le mescolò una terza volta, come di diritto. La partita ricominciò. Adesso Mario poteva essere spogliato in pochi colpi.

Ne perse due. Salvario era sempre dietro a lui e aveva finito per prendere a cuore quel giovine intrepido. Questi stava distribuendo di nuovo le carte ai puntatori quando Salvario gli fermò il braccio e gli disse nell'orecchio:

- Badate, vi rubano... Date le carte come un ragazzo ingenuo.

- Cioè?

- Sì, dandole le fate vedere e i puntatori sanno quale è il vostro gioco... Chi fa banco per la prima volta si lascia sempre cogliere a questa gherminella. Tenete le carte basse...

Mario seguì il saggio consiglio e se ne trovò bene. In pochi colpi riprese una bella sommetta. Poi la sorte cambiò di nuovo e perse.

Si stabilì una specie d'equilibrio fra le vincite e le perdite; tuttavia, a poco a poco, sentiva svanirsi fra le mani i diecimila franchi.

Non tralasciò alcun mezzo per far cambiare la sorte. Più volte si fermò e cambiò carte: un'altra volta esaurì il mazzo per stancare la disdetta e richiamare a lui la fortuna.

Ma tutti i metodi furono inutili. La fortuna pareva si divertisse a scherzare con la sua vittima, e a farla soffrire un pezzo invece di ucciderla con un colpo solo. A momenti lo lusingava facendogli vincere una bella somma; poi ad un tratto gli portava via quanto gli aveva dato e anche più.

Salvario faceva la ronda intorno alla tavola perché il suo giovane amico non fosse derubato troppo. C'era davanti a Mario un giovanotto che faceva un piccolo gioco e ciononostante doveva già vincere una discreta somma: ogniqualvolta vinceva la sua puntata compariva di venticinque franchi, ogniqualvolta perdeva aveva davanti un pezzo da cinque lire. Lo conservava dicendo che era la sua scaramanzia e pagava con altra moneta.

Salvario lo guardava con diffidenza. Seguiva con l'occhio i suoi gesti e si accorse che nascondeva venti franchi in oro sotto i cinque in argento: quando vinceva li metteva in mostra; quando perdeva lasciava la moneta d'oro nascosta e dava a Mario cinque franchi soltanto.

Pare che non passi notte che tale mariuoleria si rinnovi nelle bische di Marsiglia.

- Aspetta, aspetta, - mormorò Salvario, - ti servo io bello mio.

Il colpo seguente fu vinto da Mario. Il giovanotto stava per dare i cinque franchi in spiccioli quando Salvario allungò il braccio, smosse il pezzo da cinque franchi e scoprì il pezzo da venti nascosto.

- Voi rubate, signor mio, - esclamò, - fuori di qui Il furfante non si scompose.

- Di che cosa v'impicciate voi? - rispose con insolenza.

Lasciò i suoi venticinque franchi sul tavolino, si alzò, fece due o tre giri per la sala e se n'andò tranquillamente. I puntatori si erano contentati di brontolare a denti stretti.

Mario diventò pallidissimo. Era dunque giunto fin lì, fino a giocar con dei ladri!

Da quel momento ebbe davanti agli occhi un velo che gli fece commettere sbagli enormi. Perse e fu quasi contento di perdere.

Gli passò la febbre e non si sentì più soffocato. I denari gli bruciavano le mani quando li toccava: avrebbe voluto finire col perdere tutta la vincita e andarsene a mani vuote.

Gli rimasero poco dopo soli due o trecento franchi davanti.

Accanto a lui, dal principio della serata, giocava un giovanotto che aveva seguìto le peripezie della partita con viva ansietà. Man mano che perdeva diventava più pallido e più accigliato. S'era messo davanti una bella somma e guardava disperatamente ogni moneta d'oro che se n'andava.

Mario lo aveva sentito più volte pronunciare delle parole interrotte e quell'angoscia gli aveva fatto paura. Gli pareva d'indovinare che in quel giovane accadeva un dramma spaventoso.

Un ultimo colpo finì per spogliarlo. Rimase un momento immobile, col viso contratto. Poi si mise una mano sugli occhi, tirò fuori in un baleno una pistola di tasca, si mise la canna in bocca e sparò.

Si sentì il rumore di qualche cosa che si spezzava. Il sangue zampillò, e alcune gocce larghe, tepide, color di rosa, schizzarono sulle mani di Mario.

Tutti i giocatori si alzarono spaventati. Il cadavere era per metà bocconi sulla tavola, con le braccia ripiegate, la testa ciondoloni. La palla, traversato il collo, era uscita di sotto l'orecchio destro, facendo un buco rosso dal quale usciva un piccolo getto di sangue. Sul tappeto verde si formò un largo strato di sangue, nel quale si bagnavano le carte abbandonate.

I giocatori scambiavano fra loro, a voce bassa, qualche parola di terrore.

- Conoscete quel disgraziato?

- Credo che sia un esattore della ditta Lambert e soci.

- E' di famiglia onorata. Suo fratello ha acquistato lo studio di un avvocato sei mesi or sono.

- Si sarà approfittato di una somma importante, e si è ucciso dopo averla perduta.

- In tutti i casi poteva andare a tirarsi una pistolettata in qualche altro luogo... Fra venti minuti sarà qui la polizia e farà chiudere il circolo.

- Sono noiosi questi tali che hanno la smania di uccidersi! qui si stava bene, si giocava senza seccature. Ora bisognerà cambiar casa.

- Sono andati ad avvertire il commissario?

- Sì.

- Io me la batto.

La fuga fu generale. I giocatori presero il cappello e infilarono prudentemente la scala. Si sentivano inciampare negli scalini come ubriachi.

Mario rimase seduto accanto al cadavere. Era colpito da immobilità, guardava stupidamente il collo rosso del suicida, e le macchie di sangue che gli coprivano le mani. Gli si drizzavano i capelli sul capo; lampi di pazzia passavano nei suoi occhi spalancati. Aveva ancora in mano le carte. Ad un tratto le buttò via, scosse violentemente le mani come per asciugare il sangue che gli bagnava le dita, e fuggì gettando un rauco grido.

Non raccattò neppure le poche centinaia di franchi che aveva ancora davanti. La macchia di sangue si allargava poco a poco, e le monete d'oro parevano galleggiare su quell'onda sanguinosa.

Restarono nella sala il cadavere e le due ragazze. Salvario era stato tra i primi a fuggire. Quando la Chiarina e l'Isnarda si videro sole, si avvicinarono al tavolino, attirate dall'oro che luccicava in mezzo al sangue.

- Facciamo a metà, - disse l'Isnarda.

- Sì, ma facciamo presto, - rispose la Chiarina, - è inutile che la polizia raccolga questi quattrini.

E presero ognuna una manciata d'oro da quel lago rossastro. Le monete insanguinate disparvero nelle loro tasche. Si asciugarono le dita col fazzoletto, e se n'andarono a loro volta, affannate, credendo di udirsi dietro la voce del commissario di polizia.

Erano le tre del mattino: forti ventate spingevano innanzi neri nuvoloni che ingombravano il cielo grigio. Nell'aria c'era una specie di nebbia che cadeva come pioggia finissima e fredda. Non c'è nulla di più mesto di tali ore mattutine in una grande città:

le strade sono deserte, i profili delle case si disegnano tristemente.

Mario correva come un pazzo per le vie silenziose. Scivolava sul selciato untuoso, metteva i piedi nei rigagnoli, inciampava nei marciapiedi. E correva sempre, con le braccia avanti, scuotendo le mani con una rabbia feroce.

Gli pareva che le gocce di sangue schizzate sulle sue dita gli bruciassero la carne. La sua immaginazione era stata tanto colpita dall'orribile spettacolo di cui era stato testimone, che quelle macchie gli facevano provare un vero dolore fisico. Correva, barcollando, tremando, spinto da un'idea fissa. Voleva andare a tuffare le mani nel mare e lavarsele con tutta l'acqua degli oceani. Solamente a quel modo avrebbe potuto sopire il terribile bruciore che lo divorava.

Correva inquieto e feroce, scuotendo sempre le mani; prendendo le strade traverse, come un assassino. A momenti diventava pazzo; gli pareva d'aver ammazzato il suicida per rubargli quindicimila franchi. Allora sentiva dietro di sé i passi pesanti dei gendarmi, ed accelerava la corsa, non sapendo dove nascondere le mani che lo avrebbero denunciato.

Dovette traversare il corso Belzunce. Sotto i viali passavano degli operai ed egli provò un'orribile angoscia. Per non scendere al porto dalla Cannebiére, entrò nella città vecchia. Là, le strade sono strette e buie: nessuno avrebbe potuto vedere le sue mani sanguinose.

Arrivò in piazza dell'Ova. Soltanto allora pensò alla Pina, si ricordò ad un tratto che si levava prestissimo, e poteva esser già sulla piazza e vederlo coperto di sangue. Lo avrebbe interrogato ed egli non avrebbe potuto rispondere nulla. Non sapeva più che dire, aveva la testa confusa, si trovava come smarrito in un sogno. Gli bruciavano le mani e correva sempre, correva per andare a tuffarle nel mare e spegnere i carboni accesi che gli si erano attaccati alla carne.

Percorse vicoli angusti, ripide discese, andando a rischio venti volte di spaccarsi la testa. Sdrucciolò e cadde due volte: ogni volta si rialzò di slancio e ricominciò a correre.

Finalmente vide le masse nere dei bastimenti addormentati nell'acqua densa del porto. Corse sulle lastre bianche e levigate, ma non trovando barche, ebbe per un momento la folle idea di buttarsi nell'acqua per estinguere in un solo colpo i suoi ardori.

Le bruciature che gli pareva di sentire diventavano intollerabili.

Egli gridava e piangeva.

Finì per scorgere un piccola barca da passeggiata ormeggiata in fondo della banchina; vi saltò dentro, vi si distese bocconi e tuffò febbrilmente le braccia nell'acqua, fino alle spalle.

Gli eruppe dal petto un grosso sospiro di sollievo. La freschezza dell'acqua sopiva la febbre, le onde lavavano il sangue che gli bruciava le mani.

Rimase lungo tempo disteso a quel modo, dimenticando tutto, non sapendo più perché era là. Di tanto in tanto tirava fuori le braccia dell'acqua, fregava furiosamente le mani, le guardava e le fregava di nuovo. Poi immergeva di nuovo le braccia agitando dolcemente l'acqua, e provando una deliziosa voluttà nel sentirsi il freddo penetrare nell'ossa.

Un'ora dopo era ancora là, pensando che il mare non aveva acqua abbastanza per lavargli le mani. A poco a poco le sue idee si calmarono; la testa gli divenne pesante. Gli parve d'avere vuoto il posto del cervello. Gli correvano per le membra brividi gelati.

Passo passo, senza accorgersene, andò in via Santa, non pensando più a nulla. Non sapeva più da dove veniva né che cosa aveva fatto. Andò a letto e gli venne un febbrone terribile.

 

Capitolo 16 - IL LIBRO DA MESSA DELLA SIGNORINA CLARA

Mario stette a letto tre settimane preso da violento delirio. Una febbre cerebrale acuta lo portò a un passo dal sepolcro. Lo salvarono la gioventù e le cure amorevoli.

Una sera, all'ora del crepuscolo, aprì gli occhi, sentendosi la testa libera. Gli parve di uscire da una notte profonda. Non sentiva più il suo corpo, tanto era debole: ma la febbre era scomparsa e la sua mente, ancora vacillante, si ridestava.

Le cortine del letto erano abbassate. Attraverso la stoffa bianca passava una luce dolce e tiepida e lo circondava di un debole chiarore. Nella camera silenziosa aleggiavano dei profumi. Si sollevò sul letto. A quel piccolo rumore un'ombra si mosse dietro le tendine.

- Chi è là? - domandò con voce appena intelligibile.

Una mano aprì pian pianino le cortine e Pina, vedendo Mario seduto, esclamò con accento di gioia:

- Sia lodato Iddio! siete salvo! mio caro...

E si mise a piangere. Il malato capì tutto, stese le sue povere mani dimagrite alla ragazza dicendole:

- Grazie, sentivo che eravate là. Mi pare di aver fatto un brutto sogno, e rammento adesso che, durante quel sogno, vi vedevo chinata su di me come una madre.

Lasciò cadere la testa sul guanciale e poi ripigliò con voce di fanciullo:

- Sono stato malato molto, non è vero?

- Ora è passata; non pensiamo più a queste brutte cose, rispose allegra la fioraia. - Dove eravate stato... le maniche del vostro soprabito erano tutte bagnate!

Mario si passò una mano sulla fronte.

- Ah! me ne ricordo, - esclamò, - è una cosa terribile!

Raccontò allora a Pina le due nottate terribili passate alla bisca. Le fece la confessione di tutte le sue angosce e le sue speranze.

- E' stata una lezione terribile, - disse egli terminando. Avevo dubitato, m'ero affidato al caso. Ho tremato un momento credendo di sentire in me gli istinti del giocatore. Eccomi guarito da una scottatura di ferro rovente. Quanto tempo sono stato malato?

- Circa tre settimane, - rispose Pina.

- Dio mio! tre settimane perse. Non abbiamo più che una ventina di giorni di tempo...

- Non state a pensarci, adesso... guarite...

- Ed il signor Martelly non mi ha fatto cercare?

- Non vi inquietate, v'ho detto. Sono stata là io... è accomodato tutto...

Mario parve più calmo. Pina continuò:

- Non c'è altro da fare che prendere in prestito i denari dal signor Martelly. Si sarebbe dovuto cominciare di lì... Tutto andrà bene... Intanto dormite e state zitto... non parlate più, il medico ve l'ha proibito.

La convalescenza fu sollecita, in grazia delle cure amorevoli ed assidue di Pina. Essa aveva capito che ormai il suo sorriso doveva bastare per guarire Mario, ed ogni mattina compariva ridente, col suo alito fresco che riempiva la cameretta di un soffio di primavera.

- Che bella cosa essere malati! - ripeteva spesso il convalescente.

I due innamorati passarono una bellissima settimana. Il loro amore si era accresciuto fra i patimenti e il timore della morte. Li univa l'uno all'altra un nuovo legame. Ormai si appartenevano a vicenda.

Dopo otto giorni d'intimità gaia e commovente, quando, con un bel sole, Mario poté uscire di casa e fare qualche passo per il corso Bonaparte, presero lui e Pina per due innamorati il giorno dopo le promesse. Li aveva fidanzati nel dolore l'affetto, e l'abnegazione. Camminavano lentamente e la fioraia sosteneva il giovane ancora debole e lo guardava con occhi innamorati. Si sentiva orgogliosa della sua opera, orgogliosa della guarigione del suo innamorato, ed egli la ringraziava sorridendo con appassionata riconoscenza.

Il giorno dopo Mario voleva ritornare al suo ufficio e Pina dovette andare in collera perché si riposasse altri due o tre giorni. Gli premeva di vedere il signor Martelly: desiderava tastare il terreno e sapere se poteva far conto sull'armatore.

- Eh! non c'è fretta! - diceva la fioraia con una calma che sorprendeva Mario. - C'è ancora una settimana di tempo. Basta che abbiamo i denari l'ultimo giorno.

Passarono due giorni e Mario poté ottenere che Pina lo lasciasse tornare a prendere il suo posto. Stabilirono che sarebbero partiti per Aix il lunedì seguente. Pina parlava come se avesse già avuta in tasca la somma necessaria a riscattare Filippo.

Mario fu accolto con paterna bontà dal signor Martelly. L'armatore voleva dargli un'altra settimana di congedo, ma il giovane lo assicurò che il lavoro compirebbe la sua guarigione. Si trovava confuso davanti a lui pensando che fra due o tre giorni, avrebbe dovuto tentare di farsi prestare una forte somma. Quest'idea lo imbarazzava, e lo imbarazzava il sorriso penetrante con il quale il signor Martelly lo guardava.

- Ho veduto la signorina Pina, - disse l'armatore accompagnando Mario al suo scrittoio, - è una graziosa ragazza... un buon cuore; vogliatele bene...

Sorrise ancora e ritornò nella sua stanza. Quando fu solo, Mario provò una vera gioia ritrovandosi nella stanza dove aveva passate tante giornate di lavoro. Riprese possesso del suo dominio, si sedette con piacere nella sua sedia, toccò i fogli, le penne sparse. Era stato sul punto di morire ed ora si ritrovava faccia a faccia con la tranquilla esistenza di tutti i giorni.

La stanza dove lavorava era di faccia all'abitazione dell'armatore. Qualche volta chi andava di là, s'ingannava e picchiava al suo uscio. Quella mattina, mentre stava per mettersi al lavoro, furono picchiati due colpi leggeri. Rispose invitando ad entrare.

Si presentò un uomo vestito di un lungo soprabito nero, con la faccia rasa, I gesti lenti, l'atteggiamento umile e sornione d'un uomo di chiesa.

- La signorina Clara Martelly? - domandò.

Mario, occupato nell'osservarlo, non gli rispose; gli pareva di aver veduto altrove quell'individuo. L'uomo, esitando, finì per levarsi dalle immense tasche del soprabito un libro da messa chiuso in un astuccio.

- Le riporto, - continuò con la sua voce di flauto, - il libro da messa che ha lasciato iersera nel confessionario.

Mario pensava sempre dove avesse veduto quella faccia di baciapile. L'uomo capì l'interrogazione muta nelle occhiate del giovane, e, chinando leggermente la testa, aggiunse:

- Sono il sagrestano di San Vittore.

Queste parole furono un lampo di luce per Mario. Si ricordò di aver veduto quell'individuo, in sagrestia, quando era andato a cercare l'abate Chastanier. Provò come una scossa nel suo intelletto, e spinto da una specie di divinazione domandò a sua volta:

- Vi manda il signor Donadei, non è vero?

- Sì - rispose il sagrestano dopo aver nuovamente esitato.

- Bene! datemi il libro, lo consegnerò alla signorina Clara.

- Ma il signor abate mi aveva raccomandato di consegnarlo soltanto alla signorina.

- Lo avrà fra pochi minuti. Adesso non può essere ancora alzata...la si disturberebbe.

- Mi promettete di consegnarlo voi?

- Sicuro.

- Dite alla signorina che l'abate ha trovato ieri questo libro nel confessionario e mi ha incaricato di riportarlo... Il signor abate presenta i suoi ossequi alla signorina.

- Glielo riferirò, state tranquillo.

Il sagrestano posò il libro sullo scrittoio e se n'andò facendo una riverenza. Ma pure chiudendo la porta esitava ancora e pareva diffidente.

Quando fu andato via, Mario si meravigliò dell'insistenza che aveva mostrata di voler parlare alla signorina Clara. Si rammentò confusamente degli elogi della sorella del signor Martelly che gli erano stati fatti dall'abate Donadei. Guardava il libro da messa e la sua mente si perdeva in congetture e ragionamenti senza conclusione.

Con un moto non pensato, allungò un braccio e prese il libro da messa. Lo levò dalla custodia. Era un volume molto alto, quasi quadrato, rilegato riccamente con le scantonature d'argento. Sulla parte anteriore erano rilevate le iniziali della signorina Martelly.

Mario osservava quel libro, e se lo rigirava fra le mani quando si accorse che un sottile foglio di carta appariva attraverso la doratura dei margini. Lo aprì, spinto da un curiosità irragionevole e gli cadde davanti un foglio piegato in quattro.

Era un piccolo foglietto di carta rosa, profumato di un vago odore d'incenso. Mario stava per riporlo nel libro, quando, prendendolo, vide ch'era marcato con l'iniziale D e con una croce in rilievo.

Lo spiegò subito e lesse:

"Cara anima, della quale il Signore mi ha confidato la salvezza, ascoltate, vi prego, il progetto che io ho fatto per la vostra eterna felicità. Non ho osato dirvelo a voce, temendo di cedere troppo alle adorabili emozioni che produce in me la santità vostra.

"Non potete rimanere in casa di vostro fratello. E' un luogo di perdizione; vostro fratello si è dato al culto degli idoli moderni. Venite, venite con me. Noi troveremo una solitudine. Vi rimetterò in mano di Dio.

"Forse le mie lacrime, i miei fremiti, vi hanno rivelato i segreti del mio cuore. Vi amo, come la Santa Chiesa nostra madre ama le anime pure che vanno a lei. Vi sogno tutte le notti, e vedo me e voi, stretti in un amplesso celeste, salire al cielo dandoci angelici baci.

"Ah! non resistete alla chiamata di Dio. Venite. C'è una religione superiore, che non riveliamo al volgo, la quale unisce a due a due le creature. Fa degli sposi e non dei martiri.

"Ricordatevi i nostri colloqui. Ditevi che vi amo e venite. Vi aspetto a casa mia. Una carrozza di posta vi aspetterà nella strada vicina." Mario, dopo tale lettura restò sbalordito. L'abate Donadei proponeva un rapimento bello e buono alla signorina Clara. C'era nella sua lettera una nebbia d'incenso, un misticismo libertino e nuvoloso che velava il senso brutale del concetto dietro la dolcezza devota delle frasi; l'idea era parafrasata, diluita nello stile barocco del quale si servono alcuni preti; ma Donadei non aveva saputo trovare una perifrasi per indicare la carrozza di posta, e la sua lettera religiosa terminava con un'offerta da gendarme, sul significato della quale non era possibile ingannarsi. Un desiderio ardente aveva dovuto far perder la testa al grazioso abate e fargli dimenticare la prudenza sorniona che lo guidava in ogni sua azione.

Mario lesse e rilesse il biglietto, pensando che cosa dovesse fare. Era indignato e sentiva montargli al viso la collera. Ma lo tratteneva un pensiero: ignorava ciò che ne pensasse la signorina Clara, e temeva che Donadei, nell'ombra misteriosa del confessionario, fosse già riuscito a turbare il cuore della fanciulla. Voleva essere sicuro, prima di colpire il prete, di non colpire anche la sua vittima. Non avrebbe osato, per qualunque cosa, far nascere uno scandalo che avrebbe ucciso il signor Martelly.

Decise di punire l'abate in un modo originale, se egli solo meritava di esser punito. Prese il libro e andò dalla signorina Clara, temendo di sorprenderle sul volto una emozione accusatrice.

 

Capitolo 17 - NEL QUALE SALVARIO SI PROPONE DI SPENDERLI BENE

La signorina Clara Martelly era una bella ragazza di ventitrè anni, che le circostanze avevano fatto diventare devota. Doveva sposare un cugino che si era miseramente affogato a Endoume. La disperazione l'aveva avvicinata a Dio, e a poco a poco, frequentando le chiese, aveva gustato tali dolcezze, da addormentarsi nei profumi inebrianti dell'incenso, cullata dal mormorìo delle voci dei preti.

Non era precisamente un'anima devota; era un'anima dolce e contemplativa, consolata dalla religione, cui essa si mostrava riconoscente. Forse un giorno doveva svegliarsi e ritornare alle gioie del mondo. Intanto, viveva un po' da reclusa, serena, avendo gusti tranquilli. Suo fratello, libero pensatore e repubblicano, anima affettuosa e generosa, la lasciava pensare e praticare a suo talento. Non usava del suo titolo di capo di casa altro che per sorvegliare gli affari della sorella ed assicurarle una posizione indipendente.

Mario trovò la signorina Clara nel salottino dove, secondo il solito, lavorava a far dei corredini da bambini da regalare a povere donne. La signorina conosceva Mario e lo trattava affettuosamente, come un amico di casa. Il signor Martelly aveva condotto spesso Mario ad un suo possedimento dalle parti dell'Estaque, e là Mario e Clara erano divenuti buoni amici. I buoni cuori s'indovinano a vicenda e non tardano molto a comprendersi.

La bella devota, vedendo entrare l'impiegato di suo fratello, si alzò subito per dargli la mano.

- Siete voi, Mario! - gli disse sorridendo. - Siete guarito, tanto meglio, il cielo m'ha esaudita.

Mario fu commosso da quella amichevole accoglienza. Guardò fisso negli occhi Clara, e non vi seppe scorgere altro che una fiamma pura, una calma virginale. Si sentì come sollevato da un peso che lo soffocava, tanto gli parve schietto e sincero lo sguardo di lei.

- Vi ringrazio - rispose - ma non sono venuto per mostrarvi un morto resuscitato...

E presentandole il libro, aggiunse:

- Ecco un libro da messa che avete dimenticato, a quanto pare, ieri a San Vittore...

- Ah! sì, volevo mandarlo a cercare... Come è venuto nelle vostre mani?

- E' venuto a portarlo un sagrestano.

- Un sagrestano!

- Sì, da parte dell'abate Donadei.

Clara prese il libro e lo posò tranquillamente sopra il mobile, senza dimostrare alcuna emozione. Mario continuava ad osservarla ansiosamente. Se il più piccolo rossore le fosse salito alle guance, avrebbe creduto che tutto fosse perduto.

- A proposito, - disse la fanciulla sedendosi - voi conoscete, credo, l'abate Chastanier.

- Sì, - rispose Mario meravigliato.

- E' un eccellente uomo, non è vero?

- Sicuro! un ottimo cuore, un'anima profondamente pia ed onesta.

- Mio fratello me ne ha fatto grandi elogi; ma voi sapete che in materia di religione la mia fiducia in mio fratello non è senza limiti.

Clara sorrise. Mario non capiva dove volesse arrivare soltanto gli pareva tanto calma, tanto felice, da sentirsi completamente rassicurato.

- Vedo proprio che l'abate Chastanier è un santo, - soggiunse Clara, - e da domani in poi gli affiderò la direzione della mia coscienza.

- Lasciate l'abate Donadei? - domandò Mario vivamente.

La fanciulla alzò la testa, sorpresa dal tono di voce di Mario.

- Sì, lo lascio, - rispose essa con grande naturalezza. - E' giovane ed ha la mente leggera degli italiani. E poi ho saputo delle brutte cose sul conto suo.

Lavorava tranquillamente con l'ago, le sue mani non avevano fremiti, la sua fronte rimaneva bianca e pura. Allora Mario se n'andò, convinto di poter agire senza offendere quella vergine anima, e di punire il solo Donadei. Non conosceva la vera causa che consigliava Clara a cambiar confessore: forse essa aveva capito di non esser più sicura fra le mani del galante abate; ma in qualunque caso, nessuna parola, nessun fatto potevano farla arrossire.

Mario aveva tenuto per sé il morbido foglio color di rosa che conteneva la dichiarazione del Donadei. Si sarebbe potuto contentare di portarlo al vescovo di Marsiglia. Preferì punire e canzonare l'abate, che si era burlato sfacciatamente di lui quando aveva tentato di raccomandargli Filippo. Aveva già fatto il suo progetto. Per eseguirlo gli occorreva però l'aiuto di Salvario.

Dopo colazione non tornò allo studio e cercò Salvario in tutti i caffè. Non lo trovò. Si decise di andare a domandare a Cadet Cougourdan dove era nascosto il suo principale.

- Oh! non si nasconde! non è il suo vizio, - rispose Cadet ridendo. - Deve essere in una trattoria della Reserve, e scommetto che procura di farsi vedere da tutta Marsiglia.

Mario scese al porto e si fece portare alla Reserve da una piccola barca da passeggiata, coperta di tende a righe gialle e rosse. La barca scivolò lentamente sull'acqua dense del bacino, fra la spazzatura di ogni genere; bucce d'arancia, avanzi di legumi, oggetti senza nome, che si aggruppavano insieme in una specie di spuma biancastra. Vogava sempre, in una specie di via aperta fra i bastimenti, rasente ai loro fianchi neri. Era come perduto in una foresta, nella quale s'innalzavano da ogni parte alberi magri o diritti, in cima d'ognuno dei quali sventolava un lembo di stoffa dai vivi colori.

Non aveva ancor messo piede a terra, quando sentì le risate rumorose di Salvario, seduto a tavola sulla terrazza di una trattoria. Non lo si vedeva, ma egli faceva in modo di far sapere che c'era.

Le trattorie della Reserve somigliano a quelle d'Asnières e di Saint-Cloud. Sono capannette, padiglioni, o qualunque altra specie di bruttura architettonica. Son fatte di tavole e di calcina e i colpi di vento minacciano di farle volare in mare. A Salvario piaceva andarci perché vi si paga caro e ci si può far vedere da lontano.

Guidato dalla voce di Salvario, Mario non tardò a trovarlo. Era su di una terrazza con la Chiarina e l'Isnarda, dalle quali non si separava più: era persuaso di far meglio la figura di uomo ricco portando in giro due donne, una per braccio. La terrazza tremava sotto l'uragano d'allegria del quale la inondava Salvario. Il degno uomo cominciava ad essere un tantino ubriaco.

- Bravo! bravo! - gridò vedendo Mario. - Ricominceremo a far colazione... Abbiamo cominciato a mezzogiorno. Abbiamo mangiato aragoste, zuppa di pesce, tonno...

E continuò a enumerare una dozzina di vivande con vanità da fanciullo. Era orgoglioso di essersi buscato un'indigestione.

- Eh! - continuò, - si sta bene qui! Caro, ma molto elegante. Che cosa volete mangiare?

Mario si scusò, facendo osservare che erano le tre e che egli aveva già fatto colazione da un pezzo.

- Bah! si mangia sempre, - esclamò Salvario, felice di essere stato sorpreso in compagnia; - mangeremo così fino a stasera...Mi costerà dei quattrini, ma... tanto peggio... Chiarina, figliola mia, ti ubriacherai bevendo troppo Champagne.

Chiarina non fece tesoro dell'osservazione e tracannò un gran bicchiere di Champagne. Tanto, non aveva più paura di ubriacarsi, perché era già ubriaca.

- Dio mio! come sono diventate queste ragazze! - continuò a dire Salvario alzandosi e facendosi vento col tovagliolo.

Si avvicinò alla ringhiera della terrazza e disse forte, per farsi sentire da quelli che passavano:

- Ho già speso molti denari per loro, ma non importa, sono divertenti!

Mario si affacciò accanto a lui.

- Volete passare una bella serata domani? - gli domandò a un tratto.

- Perbacco... sicuro!

- Vi costerà qualche ventina di franchi.

- Perbacco... ma ci divertiremo.

- Molto! Li spenderete bene!

- Allora accetto.

- Tutta Marsiglia saprà l'avventura e si parlerà di voi per otto giorni.

- Accetto, accetto!

- Bene... ascoltate...

Mario si chinò all'orecchio di Salvario e gli parlò a voce bassa.

Gli spiegava il suo piano. Un momento dopo Salvario scoppiò in una risata che pareva volesse soffocarlo. Il progetto gli pareva divertente, divertentissimo.

- Siamo intesi, - disse quando Mario ebbe finito di confidargli il suo segreto. - Mi troverò domani sera con la Chiarina alle dieci sul boulevard della Corderia. Ah! che bella commedia!

 

Capitolo 18 - COME L'ABATE DONADEI RAPI' LA SUA ANIMA GEMELLA

L'abate Donadei si era lasciato padroneggiare da uno di quei desideri violenti che scoppiano qualche volta nelle indoli astute e sornione. Egli, tanto abile e prudente, aveva commesso uno sbaglio. Se ne accorse quando fu andato via il sagrestano col libro da messa e il bigliettino amoroso. Ormai era obbligato a subire qualunque conseguenza del suo colpo audace. Clara aveva suscitato in lui degli appetiti che voleva soddisfare a qualunque costo. Non badava agli scrupoli sacri della professione. Vedeva dall'alto le umane faccende, ed era stato mescolato in troppi intrighi più o meno onorevoli, per aver paura di commettere una seduzione. Questa per lui era il meno: lo preoccupavano le conseguenze.

Durante due mesi aveva tentato di attirare Clara in casa sua. Ma quando essa, ingenuamente, stava per arrendersi al suo desiderio, Donadei aveva rinunciato a un tal mezzo, convincendosi che, in Marsiglia, non si poteva condurre a buon fine un simile intrigo.

Così era giunto a poco a poco, da giocatore ardito, a voler giocare il tutto per tutto: la sua passione ingigantiva e lo tormentava; egli consentiva a rinunciare alla sua posizione autorevole in cambio dell'amore di una donna: preferiva rapire addirittura Clara e fuggire con lei in Italia.

Donadei era troppo astuto, troppo intelligente, per non conservarsi libera la ritirata. Se la fanciulla avesse finito col metterlo nell'imbarazzo, l'avrebbe cacciata in un convento, e sarebbe rientrato in grazia allo zio cardinale. Tutto ben calcolato, tutto ponderato, un rapimento gli era sembrato il mezzo più comodo, più pronto, ed anche il meno pericoloso.

Aveva soltanto paura che Clara non andasse all'appuntamento, e non consentisse a partire con lui. Allora il bigliettino amoroso sarebbe diventato un'arma terribile. Non possedeva la donna e perdeva la posizione. Ma era accecato dal desiderio e non vedeva il tranquillo candore della sua penitente; interpretava le adorazioni da lei rivolte a Dio come tante mute dichiarazioni d'amore rivolte a lui.

Pure gli restava qualche timore, e si pentiva di essere arrivato ad un punto dal quale non poteva tornare indietro. Si risvegliarono in lui la prudenza e la viltà. Aspettò impaziente che il sagrestano tornasse. E quando lo vide disse:

- Dunque?

- Ho consegnato il libro.

- Alla signorina in persona?

- Sì, alla signorina.

Il sagrestano dette questa risposta con una stupenda disinvoltura.

Strada facendo, s'era pentito di aver dato il libro a Mario, e comprendendo di aver male eseguito l'incarico, s'era deciso a mentire per meritarsi le buone grazie del prete.

Il Donadei si sentì un po' rassicurato. Pensava che se la fanciulla si fosse indignata leggendo il biglietto, lo avrebbe bruciato. Un caso, l'aver dimenticato un libro da messa, aveva sollecitato una catastrofe da lui cercata e desiderata da tanto tempo. Non c'era più da far altro che attendere.

La mattina dopo ricevette la visita di una signora, della quale non poté discernere il viso coperto da un fitto velo.

La signora gli porse una lettera e se ne andò rapidamente. La lettera conteneva queste due sole parole: "Sì, stasera." Donadei andò in estasi e fece i preparativi della partenza.

Chi avesse seguito la signora velata, l'avrebbe veduta fermarsi col galante Salvario che l'aspettava in via del Piccolo Cantiere.

Alzò il velo: era Chiarina.

- E' carino quel prete, - diss'ella fermandosi.

- Ti piace, tanto meglio, - rispose Salvario. - Badiamo veh!figlia mia, portati bene: tu vai a guadagnarti il tuo posto in paradiso!

E se n'andarono ridendo rumorosamente.

Alle nove e mezzo Chiarina e Salvario erano nuovamente in via del Piccolo Cantiere. Camminavano passo passo, fermandosi di tanto in tanto come se aspettassero qualcuno. Chiarina, vestita semplicemente di lana nera, aveva il viso nascosto da un fitto velo, Salvario era travestito da commissionario.

- Ecco Mario, - disse a un tratto Salvario.

- Siete pronti? - domandò a voce sommessa Mario arrivando. Avete imparate bene le vostre parti?

- Perbacco, - rispose Salvario, - vedrete come le rappresenteremo bene... Ah che bella burletta! Voglio riderne per sei mesi!

- Andate dal prete, vi aspettiamo qui... Rammentatevi d'essere prudente.

Salvario andò a picchiare all'uscio della casa del Donadei, che gli aprì in persona, tutto affaccendato, in costume da viaggio.

- Che cosa volete? - domandò malamente il prete, che non si aspettava di trovarsi a faccia a faccia con un uomo.

- Sono venuto con una signorina, - rispose il finto commissionario.

- Va bene... fatela entrare.

- Non ha voluto venire fin qui.

- Ah!

- Mi ha detto così: - Direte a quel signore che preferisco montare subito in carrozza.

- Aspettate, ho da portar via qualche cosa.

- Ma la signorina ha paura, in mezzo al boulevard.

- Allora correte subito e ditele che la carrozza è ferma alla cantonata di via dei Tiranni... Che monti... Sarò lì fra cinque minuti.

Donadei chiuse subito la porta e Salvario si mise a ridere zitto zitto, tenendosi i lombi. L'avventura gli pareva impagabile.

Ritornò in via del Piccolo Cantiere dove lo aspettavano Mario e Chiarina.

- Tutto va benone, - disse loro a voce bassa, - il prete è caduto nella trappola con una innocenza angelica. So dov'è la carrozza.

- L'ho vista venendo qui, - disse Mario, - è sulla cantonata della via dei Tiranni.

- Sì... ma non c'è un minuto da perdere; l'abate ha promesso di essere lì fra cinque minuti.

I tre personaggi, rasentando le case, andarono fino alla via dei Tiranni. Là videro, nell'ombra, la carrozza pronta a partire al primo schiocco di frusta. Mario e Salvario si nascosero nell'antro di un portone. Chiarina rimase davanti a loro sul marciapiede.

Aspettando il prete, Salvario e Chiarina scherzavano a bassa voce.

- Non saprà che farsene di me, - diceva la ragazza, - mi lascerà alla prima posta.

- Chi lo sa!

- E' carino. Avevo paura che fosse vecchio.

- Dimmi un po', mi pari innamorata dell'abate... Oh! non sono geloso, sai! Soltanto se tu vai tanto volentieri con lui, dovresti rendermi i mille franchi che ti ho dato per deciderti a entrare nel complotto.

- I mille franchi! bravo! e se mi pianta chi me lo paga il viaggio per tornare indietro?

- Scherzavo, mia cara, non riprendo mai quello che ho dato...D'altronde li ho spesi bene.

Mario interruppe il dialogo per ripetere a Chiarina le istruzioni che le aveva dato.

- Fate quello che vi ho raccomandato. Procurate che si accorga della canzonatura soltanto a qualche lega da Marsiglia. Non parlate, fate la vostra parte con intelligenza... Quando avrà scoperto tutto, parlate fuori dei denti: dite che ho il suo biglietto nelle mani e che lo porterò all'arcivescovo se vi userà qualche soverchieria, e se tornerà qui ancora. Consigliatelo a cercar fortuna altrove.

- Potrò io tornare subito a Marsiglia?

- Sicuro! Non voglio altro che mandar via lui da Marsiglia rendendolo ridicolo. Avrei potuto farlo scacciare dai suoi superiori: preferisco disfarmene con una canzonatura.

Salvario scoppiava dal ridere immaginando la scena che sarebbe accaduta fra Donadei e Chiarina.

- Cara mia, - le disse, - digli che tu sei maritata e che tuo marito ti cercherà dapertutto per intentarti un processo per adulterio... Vuoi che ti corra dietro per fare una paura atroce al tuo rapitore?

Questa buffonata piacque tanto a Salvario che quasi soffocava dal ridere. Un momento dopo, Mario vide un'ombra nera avanzare rapidamente:

- Silenzio, - disse, - credo che il nostro uomo sia qui. Chiarina, mettetevi davanti allo sportello della carrozza.

Salvario e Mario si tirarono indietro nel loro nascondiglio.

Chiarina col viso nascosto, tutto nero, si mise all'ombra della carrozza.

Era difatti Donadei che arrivava. Soffiava: aveva buttato via la sottana, e portava con galanteria un vestito da borghese.

- Cara, carissima Clara, - disse commosso baciando la mano di Chiarina, - quanto siete stata buona!

- Clara o Chiarina, - mormorò Salvario, - è la stessa cosa.

- E' Dio che vi ha consigliata, - continuava il prete spingendo dolcemente la ragazza nella carrozza.

E montò subito dopo di lei dicendo:

- Andiamo in paradiso!

Il postiglione schioccò la frusta e la carrozza di posta partì facendo un gran frastuono.

Allora Salvario e Mario uscirono fuori ridendo.

- Il prete rapisce l'anima gemella della sua, - disse Mario.

- Buon viaggio, signor abate, - esclamò Salvario Quando la carrozza fu sparita nel buio, portando via Donadei e Chiarina, Salvario e Mario percorsero il boulevard della Corderia, ridendo di tanto in tanto quando ripensavano al prete che viaggiava con quella specie di donna.

- V'immaginate la faccia che farà alzando il velo di Chiarina?diceva Salvario. - A dirla fra di noi, sapete Chiarina è brutta; avrà per lo meno una quarantina d'anni. Gli auguro un buon divertimento... Ah no, corpo di bacco, questa è troppo bella!

Salvario ammetteva volentieri che la Chiarina fosse brutta e vecchia, perché i quarant'anni e il viso grinzoso rendevano più saporita la burla.

Si contorceva dal ridere, ed aveva furia di arrivare alla Cannebière per raccontare la storia agli amici. Mario più serio, pensava che aveva dato al prete la compagnia che si meritava.

Lasciò Salvario verso le undici e tornò a casa.

A mezzanotte, gli abitanti di Marsiglia che non erano ancora andati a letto, sapevano che l'abate Donadei aveva rapito con una carrozza di posta, Chiarina, una ragazza che da quindici anni bighellonava per tutte le orge della città. Salvario era andato a dirlo nei caffè ed aveva raccontato l'avventura con una frangia di particolari inauditi.

Si ripeteva di bocca in bocca la frase del grazioso abate.

"Andiamo in paradiso." Si sapeva che le aveva baciato la mano, e si vociferavano mille cose sulle cause che potevano aver deciso alla fuga la coppia innamorata. Il più bello era che Salvario, non conoscendo i motivi che avevano consigliato Mario a far rapire la Chiarina, fu d'una ingenuità inarrivabile. Convinto che la burla sarebbe tanto più divertente, quanto più serio fosse sembrato l'amore di Donadei per Chiarina, egli mentì con disinvoltura meridionale: fece credere che il prete fosse davvero pazzamente innamorato di quella ragazza grinzosa, gialla, stanca di vergogna, che tutti conoscevano. Fu una sorpresa generale, una universale canzonatura: nessuno poteva capire come il galante abate, del quale le devote erano fanatiche, fosse scappato con una donna simile, e facevano tutti delle matte risate a proposito di quegli amori mostruosi Il giorno dopo, lo scandalo era noto a tutta la città. Salvario trionfava, diventava un personaggio celebre. Si sapeva ch'egli era stato l'ultimo amante della Chiarina; dunque l'abate Donadei l'aveva rubata a lui. Passeggiò tutta la giornata in pantofole sulla Cannebière, accettando burlescamente le condoglianze che gli facevano i suoi intimi. Parlava fortissimo, rispondendo a quelli, chiamando questi, usando ed abusando della sua popolarità. Non rimpiangeva davvero i suoi mille franchi; non aveva mai messo un capitale a frutto tanto alto per divertirsi.

Quando fu veduta tornare Chiarina, lo scandalo diventò spaventevole. Salvario le comprò un vestito di seta e la portò a spasso una settimana intera per Marsiglia, in carrozza scoperta.

Quando passavano, li additavano, si mettevano sulle porte per vederli passare. Mancò poco che Salvario non soffocasse dalla consolazione.

Chiarina era andata fino a Tolone. Il Donadei non aveva tardato ad accorgersi quale donna rapiva: s'era infuriato terribilmente ed avrebbe voluto lasciarla in mezzo alla strada maestra, al tocco dopo la mezzanotte, lontano dall'abitato. Ma Chiarina non si spaventava facilmente. S'era fatta sentire minacciando l'abate, usando delle armi che erano in mano di Mario. Donadei, fremendo, costretto ad obbedire, l'aveva dovuta condurre fino a Tolone, dove si erano separati: lei, per tornare a Marsiglia, il prete per arrivare al confine.

Salvario portò tanto a spasso la sua amante e fece nascere tale chiasso che l'autorità se ne dovette immischiare pregata dal vescovo: Chiarina fu mandata altrove ad esercitare il fascino delle sue attrattive. D'allora in poi Salvario nei momenti di espansione, vale a dire dieci o dodici volte al giorno, diceva a chi lo voleva sentire:

- Ah! se sapeste che bella donna avevo per amante! Me l'hanno portata via i preti.

 

Capitolo 19 - IL RISCATTO DI FILIPPO

Il giorno dopo il rapimento, Mario andò al suo studio soddisfatto dell'impresa del giorno precedente. Aveva salvato un'onesta famiglia dalla disperazione e liberata la città da un intrigante del quale aveva personalmente motivo di lamentarsi. Col cuore sollevato, la coscienza tranquilla, stava per mettersi al lavoro, quando gli andarono a dire che il signor Martelly aveva domandato di lui.

Andando nella stanza del suo principale, Mario si decise improvvisamente a chiedergli il riscatto di Filippo. Tale decisione lo fece tremare. Sentiva che non sarebbe stato capace di fare una tale richiesta, se continuava a riflettervi. Andando dal signor Martelly era inutile attendere ed era meglio arrischiare la richiesta subito.

Trovò nella stanza il signor Martelly e l'abate Chastanier.

L'armatore era pallido, ed i suoi occhi lampeggiavano di collera.

Andò incontro a Mario e gli disse:

- Siete un giovane coraggioso e d'onore e non ho voluto, in una grave congiuntura, far nulla senza domandare il vostro parere.

L'abate Chastanier pareva mortificato e triste. Le sue scarne mani tremavano di vecchiaia e di dolore.

Il signor Martelly disse a Mario indicandogli il vecchio prete:

- Ho ricevuto la visita di questo signore ed ho avuto notizia di un ignobile tentativo che mi turba...

- Calmatevi, per carità, - interruppe il prete, - non mi fate pentire d'avere adempito al mio dovere di onest'uomo prevenendovi... Credo di essermi inquietato fuor di proposito.

- Non sareste qui se i vostri sospetti non fossero fondati sulla certezza. Vi ringrazio del passo fatto, capisco il sentimento di dignità che vi ha condotto in casa mia, e capisco anche gli ultimi sforzi che fate per difendere quell'infame...

L'armatore si voltò verso Mario e continuò con asprezza:

- Figuratevi che in questo momento un prete tenta di disonorarmi.

Il signor abate è venuto a dirmi di vigilare sopra Clara. Mi ha fatto sapere con mille reticenze che l'abate Donadei esercita sopra di lei un predominio pericoloso e ch'egli teme... Oh! se quel miserabile ha contaminato la purità di quella fanciulla, lo ammazzo come un cane...

L'abate Chastanier abbassò la testa. Non si pentiva del passo fatto, avendo agito da uomo onesto: ma lo atterriva l'esplosione di collera del signor Martelly. Soffriva come s'egli fosse stato il reo: soffriva l'onta per tutta intera la Chiesa.

L'armatore si calmò un poco. Poi dopo un momento di pausa:

- Non ho voluto prendere una risoluzione prima di consultare un uomo calmo e saggio, e vi ho fatto chiamare, Mario!... Il mio primo moto è stato d'andare da quel prete e pigliarlo a schiaffi.

Forse si può fare di meglio.

Mario aveva ascoltato tranquillamente il suo principale, e la sua tranquillità aveva rimesso un po' di calma nel cuore di Chastanier. Il giovane, che aveva pronta la risposta, non pensava più a Donadei: pensava invece a come avrebbe potuto domandare un prestito. Ed il signor Martelly gli disse ad un tratto, con slancio:

- Sentiamo, che cosa fareste al mio posto?

Mario sorrise.

- Farei quello che ho già fatto, - disse pacificamente.

E raccontò il rapimento della Chiarina. Dopo le prime parole, non appena ebbe narrato il colloquio avuto con Clara a proposito del libro da messa, Martelly gli strinse la mano con una effusione di affetto. La sicurezza che sua sorella era sfuggita al pericolo, senza neppure supporlo, lo riempiva di grande allegrezza. Rise quando ebbe saputa tutta l'avventura, e lo stesso abate Chastanier non poté trattenere un triste sorriso.

- Non vi avrei confessato, - aggiunse Mario, - la parte presa da me in tale canzonatura se voi aveste ignorato il pericolo corso...Ho voluto rassicurarvi interamente.

- Non cercate di sottrarvi alla mia riconoscenza, - esclamò l'armatore. - Già vi tenevo in conto di mio figlio adottivo; ora mi avete reso un tale servizio del quale non so davvero come ricompensarvi.

Dicendo tali parole chiamò Mario in disparte e lo guardo in faccia, in modo affettuoso ed incoraggiante.

- Non avete nulla da dirmi in segreto? - gli domandò a mezza voce.

Mario rimase confuso.

- Siete un gran bambino, - continuò il signor Martelly, fortunatamente, durante la vostra malattia ho veduto la signorina Pina; se no, non saprei ancora nulla. Aspettate; vado a firmare un buono di quindicimila franchi che, se volete, potrete subito riscuotere.

Udendo l'offerta generosa fattagli dall'armatore, Mario rimase come una statua. Impallidì; una emozione ineffabile gli empì gli occhi di lacrime. Soffocava, temeva di singhiozzare.

Come! gli si offrivano così ad un tratto i denari che aveva cercato durante alcuni mesi come un disperato! Non aveva chiesto nulla e i suoi più cari desideri erano soddisfatti! Gli pareva un sogno.

Martelly s'era diretto verso un tavolino. Sedette e stava per firmare un buono di cassa, ma prima di scrivere alzò la testa e disse a Mario:

- Avete bisogno di quindicimila franchi, non è vero?

La domanda scosse Mario dal suo stupore. Giunse le mani e domandò con voce tremante:

- Come mai vi sono noti i miei pensieri segreti? Che cosa ho fatto perché siate tanto buono e generoso con me?

L'armatore sorrise:

- Non vi dirò come si dice ai bambini che il mio dito mignolo mi ha raccontato tutto... Ma ho ricevuto davvero la visita di una fata. Non ve l'ho già detto? la signorina Pina è venuta da me.

Mario finalmente capì. Ringraziò ardentemente, dal fondo del cuore, il buon angelo che gli rendeva speranza e tranquillità e lo aveva salvato dalla morte. Si spiegò allora il sorriso della fioraia, quando le aveva parlato di Filippo. Essa era sicura di salvare il prigioniero, e aveva fatto da sola tutta la penosa fatica di chiedere un prestito.

Mario non sapeva più se gettarsi ai piedi di Martelly, o correre a gettarsi a quelli di Pina.

L'armatore si compiaceva di vedere il viso del suo impiegato rischiarato dalla gioia del cuore. Il suo sguardo incontrò quello dell'abate Chastanier, rimasto seduto, e i due uomini si compresero; il libero pensatore gustava come il prete la gioia del beneficio, l'emozione deliziosa di fare la felicità altrui e di assistere allo spettacolo di tale felicità.

- Ma, - esclamò Mario, - non so quando potrò rimborsarvi una somma tanto forte.

- Non ve ne occupate, - rispose l'armatore. - Mi avete reso grandi servizi, m'avete forse salvato dal disonore. Lasciatemi fare questo piacere senza che si parli di rimborso fra noi.

E vedendo passare un'ombra sulla fronte di Mario aggiunse:

- Non intendo con questo di pagare il vostro affetto, mio buon amico. So che taluni debiti non si pagano con denari...Considerate, vi prego la cosa diversamente. Siete con me da quasi dieci anni, e spero vi rimarrete un pezzo; i quindicimila franchi che vi do sono un premio, una piccola parte dei guadagni realizzati con la vostra cooperazione. Non li potete ricusare.

Martelly chinò la testa per firmare il buono. Mario lo trattenne di nuovo.

- Sapete a quale scopo è destinata la somma? - domandò con ansietà.

L'armatore posò la penna contrariato e leggermente pallido.

- Dio mio! - esclamò, - quanto è difficile fare un piacere alle persone oneste... Bisogna sapere tutto, con loro! Di grazia, non mi obbligate ad essere vostro complice. So che siete un bravo giovane, avete un'anima affettuosa ed amante. Ecco tutto. Non ho bisogno di conoscere tutte le vostre azioni e tutti i vostri pensieri. Non farete mai una cattiva azione, non e vero? Questo mi basta.

Per scrupolo di animo retto, Martelly voleva figurare di non sapere che la somma data a Mario doveva servire a comprare una coscienza. D'altra parte dava volentieri una mano alla fuga di Filippo, sapendo di quali armi il signor di Cazalis s'era servito per farlo mettere in prigione. Ma, in linea di massima, desiderava conservare intatta l'austerità repubblicana e si era proposto di non essere apertamente complice dell'evasione.

Mario insisteva. Allora l'abate Chastanier intervenne, con quell'accecamento di carità che gli faceva sempre accettare volentieri le più pesanti responsabilità.

- Non rifiutate, mio buon amico, - egli disse a Mario. - Conosco i vostri progetti e posso garantire al signor Martelly, che volete fare cosa buona e legittima.

E sorrideva del suo stanco sorriso di vecchio: Mario capì da quale suprema carità erano dettate quelle parole, e andò a stringergli la mano affettuosamente. Intanto l'armatore firmava il buono di quindicimila franchi.

- Ecco, - disse porgendolo a Mario, - vi prego di passare subito dalla cassa.

E quando Mario, avendolo ringraziato di nuovo, stava per uscire, lo richiamò:

- Sentite, - gli disse, - dovrete essere ancora un po' debole.

Prendetevi un'altra settimana di congedo. Dopo lavorerete meglio.

Gli voleva dare il tempo necessario di liberare Filippo. Mario lo indovinò e gli venne da piangere di tenerezza. Se ne andò per non mettersi a piangere come un bambino, e presentò il buono alla cassa. Quando ebbe i quindicimila franchi in tasca, scese le scale in quattro salti, e si mise a correre nella strada come un matto.

Andava da Pina.

La fioraia era nella sua cameretta di piazza dell'Ova. Mario entrò dentro, ballando e ridendo come se avesse perduto la testa. Prese Pina per la vita e la baciò sulle gote. Poi distese sulla tavola i quindici biglietti da mille. Pina, sorpresa e quasi spaventata dal vederlo entrare a quel modo, si mise a ridere a quello spettacolo e cominciò a batter le mani.

Allora fra i due amanti avvenne una scena di deliziosa tenerezza, di ringraziamenti, di dimostrazioni d'affetto. Egli diceva d'essere un imbecille; che lei sola aveva fatto tutto. E le baciava le mani, le si metteva in ginocchio davanti, la guardava in un'estasi di tenerezza. Essa arrossiva, tentava invano di difendersi e voleva dimostrare di non meritarsi alcun ringraziamento.

Per quasi sei mesi s'erano sottoposti a penose prove, picchiando invano a tutte le porte. Ad un tratto, il riscatto di Filippo era lì pronto davanti a loro. Dimenticavano perciò le loro miserie e i loro terrori, le vergogne e le scioccherie alle quali si erano trovati presenti. Nel loro cuore non c'era ormai che felicità e gioia intensa e grande.

Prima di lasciarsi fissarono di partire la mattina dopo per Aix.

 

Capitolo 20 - L'EVASIONE.

La mattina dopo alle sette Mario andò a prendere a nolo un calesse. Non voleva partire con la diligenza. Occorreva una vettura per la fuga e preferiva prenderla a Marsiglia, da dove lo avrebbe portato a Aix ed avrebbe poi servito a suo fratello. Il giorno prima s'era messo d'accordo con un capitano mercantile che doveva condurre Filippo a Genova.

Mario e Pina partirono alle nove. Il giovanotto guidava; fu una vera gita di piacere per i due innamorati. Alla salita della Vista scesero e corsero per la strada come ragazzi, lasciando camminare il cavallo adagio adagio. Fecero colazione a Septèmes, in una cameretta d'albergo, facendo mille progetti per l'avvenire. Ora che Filippo stava per esser libero potevano pensare a sposarsi.

S'intenerivano vedendo avvicinarsi l'ora nella quale si sarebbero potuti amare in pace.

Il resto del viaggio fu ugualmente allegro. Verso mezzogiorno, passando davanti ad Albertas, si fermarono di nuovo per lasciare riprendere fiato al cavallo, e si riposarono sotto gli alberi a destra della strada. Finalmente giunsero ad Aix.

Per quanto avessero ritardato vi giungevano ancora troppo presto.

Per non far nascere sospetti non volevano andare alle carceri prima di notte. Mario lasciò il calesse affidato a Pina, in una strada deserta, e andò in cerca del suo parente Isnard. Questi pensò a ricoverare il cavallo e la vettura, e si impegnò a trovarsi con essa, a mezzanotte precisa alla salita dell'Arco. I due giovani, prese tali precauzioni, stettero nascosti fino a sera.

Mentre Mario e Pina si avviavano alla bottega di Isnard dove dovevano aspettare la notte, all'angolo di una strada dette quasi un urto al signor di Cazalis. Abbassò la testa e camminò frettoloso. Il deputato non lo vide. Ma Mario si disperò di quell'incontro; fu preso da indeterminata inquietudine, ebbe paura che qualche altra disgrazia improvvisa impedisse il compimento del suo voto, all'ultimo momento. Senza dubbio il signor di Cazalis era ad Aix per affrettare la vendetta e forse vi era riuscito.

Fino a sera Mario ebbe la febbre. Gli venivano in mente le idee più strane. Avendo i denari temeva altri ostacoli. Finalmente andò alle carceri con Pina. Bussarono alla porta massiccia: udirono il rumore di un passo pesante e una voce burbera che domandò loro che cosa volessero.

Siamo noi, zio, - disse Pina, - apriteci.

Aprite presto, signor Revertégat, - disse alla sua volta Mario.

La voce rispose cupamente:

- Il signor Revertégat non è più qui: è malato.

Mario e Pina rimasero muti e avviliti davanti la porta chiusa.

La fioraia da quattro mesi non aveva creduto necessario di scrivere a suo zio. Aveva la sua promessa e le bastava. La notizia di quella malattia fu come un fulmine per lei e per Mario. Non avevano mai pensato che quel buon uomo potesse ammalarsi. Tutti i loro sforzi andavano a frangersi contro un ostacolo imprevisto.

Avevano con loro quanto era necessario per il riscatto di Filippo e non lo potevano liberare.

Quando il loro doloroso stupore cominciò a dissiparsi Pina riprese animo e disse:

- Andiamo da mio zio; deve essere in casa di una delle sue cugine, in via della Glacière.

- A quale scopo? - rispose Mario, - tutto è perduto.

- No, no, venite.

Mario la seguì affranto dalla disperazione. Essa camminava risolutamente non potendo credere che il caso fosse tanto crudele.

Revertégat era difatti da una sua cugina in via della Glacière.

Era a letto da quindici giorni. Quando vide entrare i due giovani, capì che cosa andavano a chiedergli. Si tirò su, baciò la nipote in fronte, e le disse sorridendo:

- Dunque, è venuta l'ora?

- Siamo andati alle carceri, e ci hanno detto che voi siete malato.

- Dio mio! perché non ci avete avvisati? - esclamò Mario addolorato, - ci saremmo affrettati.

- Sì, - ripigliò la fioraia, - come si fa, ora che non siete più carceriere?

Revertégat li guardava sorpreso della loro disperazione.

- Perché vi desolate tanto? - domandò finalmente. - Sono un po' ammalato, è vero: ho chiesto un congedo, ma sono sempre al mio posto: se volete, mi metto a vostra disposizione per domani sera.

Mario e Pina fecero una esclamazione di gioia.

- Quell'uomo che vi ha risposto, - continuò Revertégat, - è stato incaricato di supplirmi per qualche giorno. Domattina andrò a riprendere il mio ufficio: ho appena un po' di febbre, posso uscire di casa senza pericolo. D'altronde è una cosa di premura.

- Lo sapevo che non bisognava disperarsi, - esclamò trionfalmente la fioraia.

Mario era convulso per l'emozione.

- Avete fatto bene a venir qui oggi, - ripigliò il carceriere dopo un breve silenzio. - Ho saputo stamani che il signor di Cazalis era ad Aix e faceva tutti i possibili sforzi per affrettare il giorno della pubblica esposizione. Ha ottenuto, mi dicono, che la si faccia fra tre giorni. Se il signor Filippo non scappa domani sera, non vi potrò più servire, perché domani l'altro sarà trasferito nelle carceri di Marsiglia.

Mario rabbrividì. Era giunto a tempo. Si mise d'accordo col carceriere e fissò l'appuntamento per la sera seguente. Poi corse a prevenire Isnard che la fuga era ritardata di un giorno.

I due giovani stettero nascosti tutto il giorno seguente. Erano però più calmi, avevano una certezza. L'evasione doveva esser fatta alle undici. Verso le dieci andarono alle carceri.

Revertégat era al suo posto; aprì pian pianino la porta e li fece entrare nella sua stanza.

- E' tutto pronto, - egli disse.

- Mio fratello è avvisato? - domandò Mario.

- Sì... ho dovuto prendere qualche precauzione. Per garantire quanto è possibile la mia responsabilità, desidero far parere che il prigioniero sia fuggito dalla finestra della sua cella.

- Eccellente desiderio, mio caro zio, - interruppe Pina scherzando.

- Ecco che cosa ho fatto. Oggi dopo mezzogiorno sono andato nella cella del signor Filippo ed ho segato io stesso una delle sbarre dell'inferriata.

- Ma è necessario che mio fratello passi dalla finestra? domandò Mario inquieto.

- Nemmeno per sogno: andiamo a prenderlo, uscirà con voialtri dalla porta. Soltanto io staccherò la sbarra e attaccherò un pezzo di corda all'inferriata. Domani si crederà che il prigioniero sia fuggito di là. Darò nello stesso modo le mie dimissioni, ma eviterò molte seccature.

Revertégat accese una lanterna cieca e tutti e tre si diressero verso la cella di Filippo.

Lo trovarono in piedi pronto a partire. Mario lo riconobbe appena, tanto era dimagrito ed impallidito. Si baciarono in silenzio, evitando di parlare per non fare rumore. Il carceriere andò alla finestra, staccò la sbarra, e annodò il pezzo di corda. Pina era rimasta di sentinella nel corridoio. Uscirono tutti e quattro, rasentando pian piano i muri, temendo di urtare qualcosa nel buio.

Mario non aveva lasciato la mano di Filippo. Quando furono nella stanza del carceriere buttò un mantello addosso al fratello, gli nascose la testa nel cappuccio, e volle andarsene subito.

Raggiunto lo scopo dei suoi tentativi, temeva qualche contrattempo. Rabbrividiva al più piccolo strepito. Revertégat fece fatica a farlo pazientare dieci minuti, temendo che il rumore dei passi nel corridoio avesse dato l'allarme, e non volendo aprire la porta che a colpo sicuro. Un profondo silenzio regnava nelle carceri. Allora si decise a levare i chiavistelli.

I due fratelli se n'andarono solleciti dirigendosi a testa bassa verso la piazza dei Predicatori. Pina rimase un po' indietro, per consegnare i quindicimila franchi allo zio. Raggiunse i compagni mentre infilavano la piazza San Giovanni.

Presero il Corso e camminarono nell'ombra nera degli alberi.

Rimaneva loro un solo timore; bisognava che uscissero dalla città e le porte ne erano chiuse; dei guardiani erano incaricati di aprirle a chi usciva tardi ed essi potevano essere disgraziatamente arrestati.

Camminavano sempre, guardandosi d'intorno, diffidando delle poche persone che incontravano. All'angolo della via dei Carmelitani videro un uomo che li seguiva. Il loro cuore batteva violentemente.

A un tratto lo sconosciuto affrettò il passo e andò a battere un colpo sulla spalla di Mario.

- Non sbaglio... siete voi, mio giovane amico... Che cosa fate a quest'ora sul Corso?

Mario, preso da una rabbia sorda, stringeva già i pugni, quando riconobbe la voce del signor di Girousse.

- Lo vedete, passeggio, - rispose allora balbettando.

- Ah passeggiate! - ripigliò il conte ironicamente.

Guardò Pina e poi Filippo avvolto nel mantello.

- Mi pare di conoscerlo, - mormorò.

E aggiunse burberamente amichevole:

- Volete che vi accompagni? Desiderate uscire di città, non è vero? non aprono la porta a tutti... ! Io conosco un guardiano, venite.

Mario accettò con riconoscenza. Il signor di Girousse fece aprire la porta senza difficoltà. Non aveva più detto una parola. Quando fu sulla piazza della Rotonda, dette la mano a Mario.

- Rientrerò dalla porta d'Orbetello, - gli disse, - buon viaggio!

Ed a voce più bassa:

- Riderò, domani, vedendo le smorfie del signor di Cazalis.

Mario guardò commosso allontanarsi quell'uomo generoso che nascondeva la bontà del suo cuore sotto le apparenze del burbero benefico.

Isnard aspettava i fuggitivi col calesse. Filippo volle guidare per ricevere nel viso tutto il vento fresco della notte. Provava una vera voluttà sentendosi trasportare dalla leggera vettura nel buio. Quella rapida corsa gli faceva gustare meglio le delizie della libertà.

Poi vennero le espansioni, le confidenze, mentre il cavallo saliva lentamente l'erta delle colline. Pina e Mario confessarono il loro amore a Filippo, e quando questi seppe che si sarebbero sposati presto, diventò triste. Mario capì, gli dette notizie della sua creatura, parlò seriamente, a mezza voce promettendogli di vegliare durante la sua assenza. Si sarebbe occupato subito d'ottenere la grazia. Egli e Pina avrebbero pensato all'esiliato.

E la mattina seguente, Filippo, appoggiato alla murata del piccolo bastimento che lo portava a Genova, guardò lungamente dalla parte di Sant'Enrico. Laggiù, al disopra delle ondate azzurre, vedeva una macchia grigiastra, la casa dove la povera Bianca piangeva tutte le lacrime del suo cuore.

 

 

PARTE TERZA

 

Capitolo 1 - IL COMPLOTTO

Circa due mesi dopo la fuga di Filippo, durante una calma serata di febbraio, Bianca passeggiava lentamente. Cadeva il crepuscolo.

Lontano, il mare era pallido, e appena increspato dal vento della sera, rumoreggiava debolmente fra i sassi della spiaggia.

Soffiavano già in fondo all'aria limpida i tepori della prossima primavera. Nel gran cielo azzurro del mezzogiorno vi sono qualche volta, d'inverno, delle giornate di sole che hanno tutta la forza generosa dei soli d'estate.

Bianca camminava a piccoli passi, lungo gli scogli, guardando crescer la notte sulle onde che diventavano di un turchino scuro, e i lamenti delle quali diventavano più dolci. La disgraziata era molto cambiata. Aveva appena diciassette anni e le fatalità terribili che la colpivano l'avevano curvata, e le avevano colorito il viso del pallore della morte.

Tutto il suo vigore, tutta la sua vivacità leggera e spensierata, se n'erano andati con le sue lagrime. Si avvicinava il tempo nel quale sarebbe divenuta madre, e camminava vacillante per debolezza, oppressa più dal peso dei dispiaceri che dal peso della sua creatura.

Pochi passi dietro di lei camminava una donna alta, magra e stecchita, che la seguiva come un aguzzino segue un galeotto. Non la perdeva di vista, sorvegliava ogni suo movimento. Quella donna era la governante che il signor di Cazalis aveva data a sua nipote da alcune settimane. Il deputato era allora a Marsiglia, dove era andato sapendo che il parto era imminente. Voleva esser presente per vigilare. La creatura, il bastardo che doveva apparire nella sua famiglia, lo irritava terribilmente. Aveva già fatto il suo piano, e desiderava soltanto di poterlo mettere in atto.

Quando, ottenuto un congedo, poté segretamente andare alla casetta di Sant'Enrico, gli parve che sua nipote non fosse prigioniera abbastanza. Aveva bisogno di metterla in clausura per porre in opera il suo progetto. La prima governante che aveva scelto gli parve troppo debole, troppo compiacente. Seppe che quasi ogni giorno una ragazza andava a far visita a Bianca, e tale notizia lo fece molto temere. Allora decise di affidare la guardia della piccola casa a una carceriera vigilante che non lasciasse entrare nessuno e gli rendesse fedelmente conto dei più insignificanti incidenti.

La signora Lambert, la donna alta e magra, l'aguzzino, era fatta apposta per la sua parte. Zitellona, educata ad esagerata devozione, aveva la ruvidità dei cuori non generosi, la cattiveria sorda di chi non ha mai amato. Sapeva che Bianca era rea d'una colpa d'amore, e ciò la faceva essere più dura, più implacabile, perché tutti gli uomini l'avevano sdegnata. Adempì col più completo rigore all'ufficio affidatole dal signor di Cazalis, sorvegliò con diabolica astuzia la prigioniera, la circondò di solitudine, mandando via quelli che le si avvicinavano troppo. La piccola casa diventò una specie di cittadella nella quale essa si fortificò, tenendo in sua balìa Bianca. Pina fu scacciata senza pietà appena si mostrò sulla spiaggia. La signora Lambert stava a spiarla fin quando non si fosse del tutto allontanata. La fioraia dovette rinunciare alle sue visite. La povera Bianca moriva di dolore e di noia, sentendosi soffocare dalla vigilanza severa della carceriera che l'opprimeva ogni giorno di più.

Era ammesso un solo visitatore, l'abate Chastanier, ma la signora Lambert faceva in modo di ascoltare quanto egli diceva alla sua penitente.

Quella sera Bianca aveva ottenuto in grazia dalla governante il permesso di fare una breve passeggiata sulla riva del mare. Il parto si avvicinava; essa soffriva di nausee e stordimenti che l'aria aperta calmava. Bianca e la governante andavano lungo gli scogli, la fanciulla pensando come le riuscirebbe a eludere la vigilanza che sconvolgeva i suoi progetti, la governante osservando dietro ogni roccia, temendo di veder saltar fuori qualcuno a rubarle la prigioniera. Stavano per rientrare in casa, quando ad un tratto, nello stretto sentiero, videro un'ombra nera avanzarsi verso di loro.

Era notte fatta. La signora Lambert ebbe una paura maledetta e fece tre o quattro passi avanti, ma riconobbe subito l'abate Chastanier. Il prete, non avendo trovato Bianca in casa, era venuto a cercarla sulla spiaggia.

- Entriamo in casa, - disse bruscamente la signora Lambert.

Starete meglio in salotto a far conversazione. L'aria diventa fresca.

- Si sta benissimo qui, - mormorò Bianca, - restiamo ancora qualche minuto.

E urtò leggermente nel gomito il prete perché la secondasse nel suo desiderio.

- Oh! sì, - diss'egli alla sua volta, - la serata è veramente primaverile. L'aria fresca che viene dal mare è eccellente; farà molto bene alla nostra cara malata.

Prese il braccio della fanciulla ed aggiunse scherzando:

- Andiamo a spasso insieme, figliola mia, come due innamorati.

Signora Lambert, se avete paura di prendere freddo rientrate in casa... verremo subito.

E riprese la strada della spiaggia portando seco Bianca che sorrideva della malizia del vecchio. La governante non entrò in casa; perché avrebbe preferito prendersi venti raffreddori piuttosto che perdere di vista la sua prigioniera per un solo quarto d'ora. Si mise a seguire gli altri due, a dieci o dodici passi, inquieta, cercando di ascoltare, e pigliandosela con il rumore delle onde che le impedivano di udire. In casa udiva tutto comodamente, sia stando presente, sia nascosta dietro una porta:

ma là, fra gli scogli, non osava, non sapeva fare il suo mestiere di spia.

Bianca diceva al prete con voce trista e riconoscente:

- Come vi ringrazio di avermi procurato un momento di colloquio con voi; lo vedete, la mia prigionia diventa ogni giorno più dura.

- Sperate, figliola cara, sarete presto liberata, e allora potrete agire secondo la vostra convinzione ed il vostro cuore.

- Oh! a me non ci penso; della mia povera persona potrebbero fare quello che vogliono senza che mi venisse voglia di ribellarmi...Lo sapete, sono decisa; le vostre parole mi hanno indicato la sola strada che ora mi resta.

- Non sono io, è Dio stesso che vi ha concesso la pace e la speranza.

Bianca parve non avere udito. E continuò animandosi a poco a poco:

- Ho fatto il sacrificio di tutte le mie consolazioni, sono felice di patire, perché così spero di meritarmi il perdono. Vorrei, a momenti, inventare delle sofferenze più atroci per affrettare la penitenza...

- Allora, figliola mia, perché vi lamentate della solitudine?domandò affettuosamente il prete.

- Non si tratta di me, padre mio, se fossi minacciata di un carcere perpetuo forse mi rassegnerei... ma tremo per la povera creatura che devo mettere al mondo.

- Che cosa potete temere?

- Che so io? Se mio zio non avesse in mente qualcosa, non mi terrebbe rinchiusa a questo modo... vedete quante precauzioni prende per isolarmi, per impedirmi di parlare anche con voi...Sono sicura che in questo momento la signora Lambert si dispera.

- Voi esagerate.

- No, sapete che dico la verità, e procurate di calmare i miei timori. Vedete, tutto questo mi spaventa e temo per la mia creatura, ho il presentimento d'una disgrazia.

Restò dolorosamente silenziosa, poi ripigliò ad un tratto con voce straziante:

- Volete aiutarmi a salvare la mia creatura?

Il prete fu sorpreso e turbato da quella invocazione. Esitò, non osando rispondere.

- Calmatevi, - le disse finalmente, - sapete quanto vi sono affezionato.

- Ve lo ripeto... ho sacrificato tutto, ma desidero che la mia creatura sia felice.

- Che cosa posso fare per voi? - domandò il prete commosso.

La signora Lambert s'era a poco a poco avvicinata, e aveva finito per camminare sui loro calcagni. Bianca sentì il rumore dei passi sulla ghiaia. Si voltò e disse a voce bassa al prete:

- Pregate Pina di venire qui domani verso le sei e di passare vicino a me, senza che la signora Lambert la possa riconoscere.

Il giorno dopo Bianca e la governante passeggiavano sulla spiaggia, al tramontare del sole. Durante la giornata Bianca s'era lamentata di violenti dolori di testa, ed aveva passato tutto il pomeriggio chiusa nella sua camera. La sera, poi, aveva finto di sentirsi delle nausee e degli stordimenti, per andare a prendere dell'aria, in riva al mare.

La signora Lambert le stava vicina, diffidente, promettendosi di non lasciar accadere quello che era accaduto la sera prima.

Bianca, di tanto in tanto, guardava ansiosa la strada di Marsiglia.

A notte chiusa vide da lontano, su quella strada, una donna vestita d'una giacca alla provenzale, col viso nascosto da un largo cappuccio di indiana. Il passo svelto e sollecito di quella donna le fece capire ch'era quella da lei aspettata.

La donna si avanzava rapidamente. Passando dette un urto a Bianca che le consegnò una lettera, dicendole:

- Compite i miei voti, ve ne supplico.

Il volto affettuoso di Pina apparve per un momento, sotto il cappuccio, con un bel sorriso consolatore, pieno di affettuose promesse. Poi la fioraia seguitò la strada, di passo lesto, come era venuta.

La signora Lambert, magra e stecchita, non aveva visto nulla, capito nulla.

 

Capitolo 2 - IL PIANO DEL SIGNOR DI CAZALIS

Come diceva Bianca, se lo zio non avesse avuto qualche progetto, non gli sarebbe parso necessario di tenerla rinchiusa a quel modo.

Il desiderio di nascondere lo stato in cui essa si trovava non giustificava l'eccesso delle precauzioni prese dal signor di Cazalis per isolarla e tenerla in sua completa balìa.

L'inesorabilità della signora Lambert, il contegno serio e severo del deputato, la vita solitaria alla quale la costringevano, facevano capire a Bianca che si tramava nell'ombra ed era minacciata da qualche avvenimento crudele. L'istinto materno le fece presentire che non si voleva colpire lei, ma la creatura che portava ancora nelle viscere. Aspettavano senza dubbio la nascita di quella creatura, e allora sarebbe accaduto qualche cosa di terribile che essa non sapeva prevedere, ma il cui pensiero la faceva tremare.

I timori di Bianca erano esagerati. La solitudine le esaltava i pensieri e le procurava orribili allucinazioni. Il signor di Cazalis non era uomo da compromettersi martirizzando un fanciullo.

Desiderava soltanto di far sparire al più presto l'erede di Bianca.

Bianca, alla morte di suo padre, aveva ereditato parecchie centinaia di migliaia di lire. Essa aveva dieci anni. Si ritirò presso lo zio, nominato suo tutore, e che da allora amministrò le sue sostanze. Non ne approfittò molto; ma trovandosi tanti denari per le mani perse la testa, fece gran lusso e mangiò quasi tutto quanto egli possedeva di suo. Quando la nipote fuggì con Filippo ebbe una paura atroce di essere obbligato a render conto della tutela, perché se gli avessero tolta l'amministrazione della nipote, sarebbe caduto in miseria. Da parecchi mesi viveva alle spalle della nipote.

Fin quando la fanciulla gli era stata soggetta non aveva provato alcun timore. Sapeva di poterne fare quel che voleva, piegarla, come cera molle, a proprio talento. Gli era molto comodo il carattere debole di quella creatura. Una bambola simile non avrebbe mai osato reclamare il suo patrimonio. Faceva conto di maritarla o di metterla in convento spendendo il meno possibile.

Perciò la scappata dei due amanti lo aveva atterrito. Era andato sulle furie, aveva dato la caccia ai fuggitivi, e aveva ripreso violentemente con sé la nipote, temendo un matrimonio fra lei e Filippo: conosceva Filippo e sapeva che gli avrebbe fatto metter fuori fino all'ultimo soldo. La sua tasca era dolorosamente ferita quanto il suo orgoglio. Mentre andava in furia a voce alta contro il matrimonio disuguale, rabbrividiva pensando che tale matrimonio, non solo sarebbe una macchia al suo blasone, ma un vuoto orribile per la sua borsa, che farebbe sparire il suo lusso e la sua potenza.

La nipote restò incinta. Quando se n'avvide ne fu irritato. I suoi calcoli andavano all'aria. Bianca avrebbe avuto un erede, ed esso sarebbe stato più esigente della madre. Allora diventò senza pietà, fece di tutto per trascinare Filippo alla berlina; procurò d'infamarlo per far riverberare un po' d'infamia sulla sua creatura: avrebbe voluto privarla dei diritti civili prima che venisse al mondo. Quando seppe che Filippo era scappato e sfuggiva all'infamia, le sue inquietudini si cambiarono in vero terrore.

Era rovinato.

La lotta doveva esser suprema. Obbligato a render conto della tutela, sarebbe finito sul lastrico. Anzi, non era nemmeno sicuro di cavarsela a sì buon mercato, a prezzo della miseria, perché sapeva di avere intaccato il patrimonio di Bianca in modo troppo visibile. Da una parte, tenendo la nipote e i denari, continuava a vivere da gran signore, e trovava modo di spogliare la fanciulla legalmente: dall'altra, se gli domandavano un rendimento dei conti, se in nome del fanciullo esigevano il deposito confidatogli, sarebbe stato obbligato a domandare l'elemosina per non morire di fame. Si capisce perciò con quale energia accettasse il combattimento e con quale ansietà si sforzasse di trionfare.

Per lui Bianca non esisteva più. Una semplice occhiata, l'alzar la voce la facevano rabbrividire e consentire a tutto. Ma il deputato tremava all'idea del fanciullo ch'essa portava in seno. Quella piccola creatura prima d'aver visto la luce faceva impallidire l'onnipotente signor di Cazalis. Se fosse nato morto, sarebbe stata per lui una fortuna insperata.

Non l'avrebbe ucciso per orgoglio di razza, ma pregava Iddio di chiamarlo a sé. Un giorno sarebbe stato grande e, spinto dai Cayol, avrebbe reclamato i beni di sua madre. Tale pensiero faceva sudare freddo il deputato. I Cayol erano il suo grande spavento.

Se i Cayol potevano impadronirsi del fanciullo lo avrebbero allevato per farne la loro vendetta. Allora s'immaginava tutte le disgrazie che gli sarebbero capitate: rendere tutto, dare un patrimonio a gente che avrebbe voluto schiacciare, e lui a chiedere un pezzo di pane per la strada.

Tali timori lo avevano spinto a rinchiudere Bianca nella casetta della spiaggia. Voleva isolarla dai Cayol, impedirle di intendersi con loro e di sottrarre la creatura subito dopo il parto. Prendeva tutte le precauzioni possibili per assicurarsi il pieno ed intero possesso di quella creatura. Metteva Bianca in clausura per mettervi l'erede. Faceva conto d'esser presente alla nascita per impossessarsi del nascituro ed impedirgli di divenire lo strumento della sua rovina. Intanto aveva incaricato la signora Lambert di sorvegliare i dintorni della casa e di non lasciarvi entrare nessuno. Temeva un colpo di mano.

Credeva che sarebbe salvo quando avesse avuto la creatura nelle sue mani. A momenti, dentro di sé, era quasi contento del fallo irreparabile commesso dalla nipote. Se si fosse maritata, gli sarebbe costato molta fatica defraudarla anche della più piccola parte del patrimonio. Invece non si sarebbe più maritata, sarebbe entrata in un convento a piangere la propria vergogna ed a lui sarebbero rimasti tutti i quattrini. Tollerava le visite dell'abate Chastanier sperando che il vecchio prete avrebbe indicato a Bianca il monastero come unico rifugio. Voleva che riuscisse ad ogni costo questo modo di disfarsi di lei.

Quando la madre fosse stata in monastero, si sarebbe incaricato del figlio. Il suo progetto era di tenerlo con sé, educarlo con cura, e tentare di consacrare anch'esso alla religione. Non poteva prevedere l'avvenire, ma voleva avere tutte le buone probabilità dalla sua. Alla rovina immediata preferiva il rischio d'una rovina lontana. Suo figlio adottivo sarebbe cresciuto sotto i suoi occhi, ed egli avrebbe tentato di disfarsene decorosamente, o consigliandolo a farsi prete, o facendolo ammazzare in guerra, o mettendolo in mezzo ad una strada dopo aver trovato un mezzo legale per rubargli ogni cosa. In qualunque modo gli premeva, prima di tutto, che non andasse nelle mani dei Cayol.

Tale era il piano del signor di Cazalis. Andava a far visita a Bianca tutte le mattine accompagnato da un dottore che lo informava regolarmente dei progressi della gravidanza. Quando Bianca osava lamentarsi timidamente della sua prigionia, egli andava sulle furie, parlava dell'onore della famiglia, la faceva arrossire dicendole che avrebbe dovuto sotterrarsi viva per nascondere al mondo la propria vergogna. Avrebbe voluto sbrigarsi; aveva fretta di tornare a Parigi, dove lo richiamavano i lavori della Camera, essendo aperta la sessione; ma non voleva allontanarsi prima di aver consegnato in mani sicure il neonato.

Ogni giorno si faceva rendere esatto conto dalla signora Lambert di quanto era accaduto durante la sua assenza. Le domandava particolarmente se avesse visto gironzolare qualcuno intorno alla casa. La governante lo rassicurava: non vedeva nessuno; ed egli cominciava a credere che nessuno avrebbe tentato di portargli via la creatura.

Provò una gran gioia quando gli fu detto che il parto avrebbe avuto luogo fra poche ore.

Bianca sentì quelle parole dette a mezza voce. E quando lo zio e il dottore furono usciti dalla sua camera, andò alla finestra e attaccò alla persiana uno straccio bianco.

 

Capitolo 3 - NEL QUALE SI VEGGONO GLI EFFETTI D'UN PEZZO DI CENCIO BIANCO

E necessario descrivere, in poche parole, la casetta della spiaggia. Quella casetta era costruita molto bizzarramente: aveva due porte, una sul davanti che immetteva nelle stanze del piano terreno; una di dietro che dava accesso a quelle del primo piano.

La casa era addossata ad una rupe in modo che il primo piano, dalla parte di dietro, era un pian terreno.

La camera di Bianca, le cui finestre davano sul mare, era al primo piano, a sinistra della scala; dopo la camera ce n'era un'altra che le serviva di spogliatoio e nella quale s'apriva la porta di dietro. Quella porta era chiusa da una serratura arrugginita, che non era stata aperta forse da una ventina d'anni. La chiave era andata persa, e nessuno passava da quella porta. Il signor di Cazalis, prendendo a fitto la casa, non aveva fatto neppure attenzione a quell'apertura dimenticata.

Alcune settimane prima del parto, Bianca, cercando in terra uno spillo che l'era caduto, trovò in una fessura, fra la parete e l'impiantito di legno, una chiave. Le venne subito in mente che fosse la chiave della vecchia porta. Non si era ingannata: la chiave aprì la serratura e Bianca, spingendo l'uscio, poté scorgere la campagna. Mise la chiave in luogo sicuro e non ne fece parola con nessuno, dicendole l'istinto ch'era nelle sue mani una via di salute.

Il giorno del parto, dopo avere attaccato alla persiana il pezzo di cencio bianco, prese la chiave dal fondo della cassetta dove l'aveva nascosta: poi tornò a letto nascondendola sotto il capezzale.

Quando il signor di Cazalis seppe che il parto era prossimo, decise di stabilirsi nella casetta e di non andarsene prima di essersi assicurato del possesso della creatura. Trattenne il medico, fece chiamare la levatrice, mandò a cercare a Marsiglia una balia già fissata da qualche tempo; e la balia era una donna sulla fedeltà della quale poteva contare. Prese tali disposizioni, aspettò, e andò a passeggiare sulla riva del mare, inquieto malgrado tutte le precauzioni prese, pensando che egli era perduto se il neonato gli sfuggiva di mano. Si tranquillizzava pensando che ciò non era possibile, e che non avrebbe lasciato la casa di Bianca fin quando la balia non avesse portato via la creatura.

Passeggiò per qualche ora, dando di tanto in tanto un'occhiata alle finestre della camera nella quale sua nipote gridava ansimando. La signora Lambert doveva andarlo a cercare quando tutto era terminato. Annottò, ed egli finì per mettersi a sedere sulla sabbia, guardando le ombre che andavano e venivano dietro i vetri delle finestre illuminate.

Intanto la povera Bianca agonizzava. Il medico e la levatrice ebbero paura, per un momento, che ella morisse. Il dolore aveva talmente indebolito il suo corpo, che la scossa del parto mancò poco non l'uccidesse. Ebbe un figlio, ma non udì il primo vagito di quel piccolo essere: pallida, svenuta, giaceva come una morta sul letto del dolore. Le misero accanto il fanciullo, non essendo ancora giunta la balia e la signora Lambert corse ad avvertire il signor di Cazalis che tutto era finito e che Bianca moriva.

Al deputato spiacque molto che la balia non fosse ancora arrivata.

Ma si contenne: non gli conveniva dimostrare la propria ansietà in presenza del dottore e della levatrice. Gli importava poco, in fin dei conti, delle sofferenze della nipote, ma dovette simulare affezione e inquietudine, vedendo Bianca distesa sul letto, pallida come una morta. Domandò al dottore se vi era ancora pericolo.

- Non credo, - rispose il medico, - e penso di potermene andare.

La presenza della signora basterà, - aggiunse indicando la levatrice, - ma non so raccomandarvi abbastanza di risparmiare alla puerpera qualunque contrarietà, qualunque forte emozione...Si tratta della vita... Domani ritornerò.

Mentre il signor di Cazalis accompagnava il dottore alla porta, arrivò la balia. Rientrò in casa con lei, rimproverandola, e risalì in camera di Bianca. La balia si scusò del ritardo e il deputato le dette i suoi ordini. Doveva portar via il neonato e vigilarlo continuamente. La mattina seguente sarebbe ripartita per il villaggio dove abitava, in un angolo remoto del dipartimento delle Basse Alpi.

Sperava che non sarebbero andati a cercare suo nipote in quel nascondiglio.

Trovò vicino al letto dell'ammalata la signora Lambert e la levatrice. Quando si avvicinò per prendere il bambino e consegnarlo alla balia, i suoi sguardi incontrarono gli occhi spalancati di Bianca che lo fissavano. Malgrado ciò, egli osò allungare la mano.

Allora Bianca fece un supremo sforzo. Riuscì ad alzarsi seduta e a stringersi al petto il bambino.

- Che cosa volete? - domandò al signor di Cazalis con voce soffocata.

Il deputato indietreggiò.

- La balia è arrivata, - rispose esitando. - Sapete bene quello che abbiamo stabilito. Bisogna consegnarle il bambino.

Alcuni giorni prima le aveva detto che l'onore della famiglia richiedeva l'allontanamento del figlio di Filippo, appena nato.

Essa si era piegata, come sempre, alle parole brevi e violente dello zio. Ma sperava di poter tenere con sé il bambino almeno per ventiquattr'ore, e aveva fondato tutti i suoi progetti su tale speranza.

Quando sentì che il signor di Cazalis esigeva la consegna immediata del neonato, credette che tutto fosse perduto. Il suo piano andava a monte; non le rimaneva tempo di sottrarlo al pericolo che le sue angosce di madre indovinavano.

Diventò più pallida e lo strinse al seno.

- Oh, per grazia! - esclamò, - lasciatemelo fino a domattina.

Si sentiva debole, aveva paura d'esser vile e di obbedire.

Il deputato ripigliò con voce della quale conteneva la violenza, temendo di farsi sentire dalla levatrice.

- Mi chiedete una cosa impossibile. Vostro figlio deve sparire per qualche tempo se non ci volete coprire di vergogna.

- Ve lo consegnerò domattina, - disse Bianca rabbrividendo, siate buono, lasciate ch'io possa guardarlo e amarlo per poche ore.

Nessuno lo vedrà stanotte, in questa camera.

- E' meglio finirla subito. Baciatelo e consegnatelo alla balia.

- No... lo tengo io... Voi mi uccidete...

Pronunciò queste ultime parole con accento straziato. Il signor di Cazalis non aggiunse verbo, temendo di arrabbiarsi: quella impreveduta resistenza lo sorprendeva e lo inquietava. S'avanzava nonostante per impadronirsi del bambino, che Bianca stringeva fra le braccia, quando levatrice, avendo udito, lo chiamò in disparte e gli disse di non garantirgli la vita della nipote, s'egli insisteva. Gli convenne cedere.

- Va bene! - disse bruscamente alla puerpera, - tenetevi vostro figlio. La balia aspetterà fino a domani.

Bianca collocò il bambino presso di sé; poi si lasciò ricadere sul guanciale, sorpresa della propria vittoria. Le si colorirono le guance, e socchiuse gli occhi fingendo di sonnecchiare, piena di speranza e di gioia.

Poco dopo la signora Lambert e la levatrice, vedendola calma, si ritirarono per andare a riposare qualche ora. Il signor di Cazalis restò un momento solo con la nipote che stava sempre a occhi chiusi. Guardava il bambino e diceva a se stesso che quel povero essere, tanto fragile, era il suo più crudele nemico. Mentre stava per uscire dalla camera, sentì un piccolo rumore nello spogliatoio. Aprì la porta, guardò, e non vedendo nulla credette di essersi ingannato. Allora si decise a scendere, risoluto a vegliare tutta la notte, provando sempre suo malgrado una indefinita inquietudine. Aveva ceduto al desiderio di Bianca non potendo fare altrimenti. Il bambino avrebbe dovuto già essere lontano Ma se ne sarebbe sbarazzato il giorno dopo; era già convenuto, e i Cayol non potevano andarglielo a prendere. Egli stesso aveva messo il catenaccio alla porta d'ingresso.

Quando Bianca fu sola s'alzò ad un tratto, tendendo l'orecchio.

Essa pure aveva sentito rumore nello spogliatoio. Si alzò con grande fatica, prese la chiave di sotto al capezzale, e si trascinò barcollando, appoggiandosi ai mobili, fino alla porta di dietro. Tale imprudenza poteva ucciderla. Ma una forza sovrumana la sosteneva, e camminava a piedi nudi sul mattonato, senza pensare che rischiava la vita. Pensava soltanto a salvare suo figlio.

C'era qualcuno che raspava alla vecchia porta ed era quello il rumore udito dal signor di Cazalis. Bianca, dopo aver corso pericolo più volte di svenire, riuscì a metter la chiave nella serratura. La porta si aprì.

Entrò Pina.

Il biglietto che Bianca le aveva dato di nascosto sulla spiaggia, pochi giorni prima, conteneva queste poche righe:

"Ho bisogno della vostra affezione e della vostra abnegazione.

Conosco il vostro cuore e mi rivolgo a voi come ad una amica.

Quando avrò bisogno del vostro aiuto, attaccherò un cencio bianco alla persiana della mia finestra. Vi aspetto a un'ora dopo la mezzanotte seguente al giorno in cui vedrete il segnale. Venite alla porta che è dietro la casa e raspate adagino per avvertirmi della vostra presenza. Sarete il mio buon angelo".

Quando Pina ebbe letto il biglietto capì che si trattava del figlio di Filippo. Si consigliò con Mario che le suggerì di ubbidire a puntino alle istruzioni di Bianca. Da quel giorno la fioraia appostò sulla spiaggia un monello, con la consegna di correre ad avvertirla non appena avesse veduto il segnale. Il ragazzo non vide nulla per otto giorni. Una mattina scorse da lontano un pezzo di cencio bianco e corse a Marsiglia.

La sera Mario e Pina andarono in carrozza fino a Sant'Enrico.

Lasciarono la carrozza nel villaggio e avanzarono insieme verso gli scogli, in mezzo ai quali era situata la casetta. Egli restò nascosto a pochi passi dalla vecchia porta, mentre Pina si faceva sentire all'ora indicata.

Quando Bianca ebbe aperto le cadde nelle braccia svenuta. La fioraia poté appena portarla sul letto e coprirle le membra tremanti. Dopo andò a chiudere la porta che dava nella scala, perché nessuno le potesse sorprendere. Poi si sbarazzò del gran mantello dal quale era coperta e si avvicinò di nuovo alla puerpera, che ancora giaceva immobile con gli occhi chiusi.

A poco a poco Bianca rinvenne: quando, aprendo gli occhi, vide e riconobbe Pina al suo capezzale, si sollevò e, con slancio di gioia e di speranza, le si buttò al collo piangendo lacrime di contentezza.

Rimasero tutte e due, per qualche minuto, senza parola. Poi Pina vide il neonato, lo prese e lo baciò. Allora Bianca esclamò:

- Lo amerete come se foste sua madre, non è vero?

La fioraia guardava la creatura con la tenerezza delle ragazze innamorate che pensano alla maternità. Contemplando il figlio di Filippo pensava a Mario e diceva: "Avrò un figliolo come questo".

Tale idea la faceva arrossire. Rimise il bambino sul letto e sedette accanto a Bianca.

- Sentite, - disse questa sollecitamente, - abbiamo poco tempo da perdere. Qualcuno può salire e sorprenderci da un momento all'altro. Voi mi siete affezionata, non è vero?

Pina si chinò e la baciò sulla fronte.

- Vi voglio bene come ad una sorella, - rispose.

- Lo so, e per questo ho fiducia in voi. Vi confido la più santa eredità che possa lasciare una donna.

- Ma voi non siete morta!

- Sì, sono morta!... fra qualche giorno, quando sarò ristabilita apparterrò a Dio... Non m'interrompete. Lascio questo mondo, ma prima di lasciarlo, voglio dare una madre a mio figlio che presto non ne avrà più. Ed ho pensato a voi.

E Bianca strinse affettuosamente la mano di Pina.

- Avete fatto bene, - disse la fioraia, - sapete che ho considerato sempre vostro figlio come mio.

- Non ho bisogno di raccomandarvi d'amarlo, - aggiunse la puerpera con uno sforzo, - amatelo come lo sapete amare, con tutto il cuore: amatelo per me e per Filippo e procurate ch'egli sia più felice dei suoi genitori.

L'emozione le soffocò la voce. Dopo una breve pausa continuò:

- Ma se non ho bisogno di pregarvi di amare mio figlio, vi supplico a mani giunte di vegliare su di lui. Nascondetelo fino da domani in qualche angolo ignoto; evitate che possa esser conosciuto il segreto della sua nascita; in una parola giuratemi di difenderlo contro chiunque, di tenerlo sempre presso di voi come un sacro deposito.

Si animava parlando e Pina la scongiurò con lo sguardo di abbassare la voce.

- Temete qualche insidia? - le domandò affettuosamente la fioraia.

- Non so quello che io temo... Mi pare che mio zio odi il fanciullo, e ve lo consegno perché non rimanga nelle sue mani. Non potendo vegliare io sul bambino, desidero affidarlo ad un'anima onesta che ne faccia un uomo. Se anche non dicessi addio al mondo, rinuncerei a tenerlo con me, perché sono debole e vile e non mi riuscirebbe di difenderlo.

- Difenderlo contro chi?

- Non lo so! Temo... Mio zio è un uomo implacabile... Ma non ne parliamo... Vi do mio figlio ed ormai lo ritengo al sicuro. Ora posso andarmene tranquilla. Ho avuto tanta paura di non potervi consegnare questa povera creatura!

Seguì una nuova pausa. Pina ripigliò esitando:

- Poiché mi date tali istruzioni supreme, posso e debbo farvi una domanda... So che non interpreterete male le mie intenzioni. Voi siete padrona di un grosso patrimonio amministrato dal signor di Cazalis?

- Sì, - rispose Bianca, - ma non me ne sono mai occupata.

- Ora vostro figlio non ha alcun bisogno e potrà essere povero fin quando resterà con noi. Noi lo faremo ricco di affezione e di felicità. Ma forse un giorno la ricchezza potrà esser una leva potente nelle sue mani... Voi non intendete privarlo dell'eredità? - V'ho detto che dico addio al mondo e sarò come morta.

- Questa è una ragione di più per assicurare l'avvenire del bambino. Chiedete un rendiconto al signor di Cazalis, regolate i vostri affari prima di ritirarvi dal mondo.

Bianca rabbrividì.

- No... non l'oserei mai... Voi ignorate la potenza terribile che lo zio esercita sopra di me... un solo suo sguardo mi annienta.

No... non posso domandargli un rendiconto.

- Pure l'avvenire di vostro figlio lo esige.

- No, ve l'ho detto, non me ne sento il coraggio.

Pina restò per un momento imbarazzata, in silenzio. Il dovere la spingeva ad insistere ed avrebbe voluto che Bianca vincesse i suoi vili timori.

- Non volendo agire voi stessa, - essa ripigliò, - lasciate agli altri la cura di occuparsi del patrimonio di questo bambino. Vi opporreste alla rivendicazione ch'egli potrà un giorno pretendere di questo patrimonio cui voi rinunciate?

- Siete crudele, - rispose la giovane madre piangendo, - mi fate pesare tutta la mia debolezza e la mia impotenza... Lo sapete che io vi do tutte le mie facoltà.

- Allora va bene... Non firmate nessun atto... non vendete un palmo dei vostri possedimenti. Quando sarete ristabilita mi farete avere gli atti che comprovino l'identità di vostro figlio... Così, quando sarà venuta l'ora, saremo forti, e potremo parlare a voce alta.

Bianca pareva oppressa da tali discorsi. Avendo un po' d'energia non si sarebbe ritirata dalla lotta, avrebbe vissuto per suo figlio, proteggendolo e difendendone gli interessi. La fioraia indovinò le desolanti riflessioni che essa faceva, ed aggiunse a voce più sommessa:

- Se vi ho fatto dispiacere rivolgendovi tutte queste domande, pensate che un uomo ha dei diritti sul bambino ed un giorno difenderà i suoi interessi... Allora vorrei rendergli conto della mia missione e dargli i mezzi di compierla.

Bianca singhiozzava.

- Non vi ho parlato di Filippo, - esclamò, - perché non devo più pensare a lui. Egli ha lasciato in me un amore che mi ha divorato ed oggi mi costringe alla penitenza. Ditegli che l'ho amato al punto da dire addio al mondo a diciassette anni, e ditegli che lo supplico di adoperarsi per la felicità di nostro figlio. Tutto quello ch'egli farà sarà ben fatto.

Pina udì in quel momento del rumore per la scala. Si alzò, si coprì subito col mantello, e prese il bambino che la madre le porgeva piangendo, e trattenendolo per baciarlo ancora.

Quell'addio fu pieno di muta disperazione e di ansiosa fretta.

Bianca si alzò per accompagnare Pina e per richiudere la porta dietro di lei. Rimase un momento seminuda sulla soglia, esposta al vento freddo che soffiava dalla campagna e dette un ultimo bacio sulla fronte del suo piccino. Poi ebbe appena il tempo di levare la stanghetta della porta della sua camera e di ritornare a letto.

Suo zio entrò pian pianino.

 

Capitolo 4 -COME IL SIGNOR DI CAZALIS PERDETTE LA TESTA PERDENDO IL SUO BISNIPOTE

Il signor di Cazalis s'era assopito, in una sala a piano terreno, sotto la camera di Bianca. Gli era parso più di una volta, sonnecchiando, di sentire rumore di passi sulla sua testa. Un rumore più distinto lo svegliò di soprassalto. Si alzò e diffidando volle andare a vedere se aveva sognato o no. Temeva che Bianca si fosse alzata per scrivere una lettera ed avvertire i suoi amici. Non gli venne neppur l'idea che qualcuno avesse potuto entrare in casa, avendone vigilato l'ingresso come un cane da guardia.

Salì, risoluto a spiare la nipote. Non sentendo nulla aprì pian piano la porta e dette un'occhiata alla camera. La luce fioca del lume da notte gli fece scorgere Bianca con gli occhi chiusi, il viso mezzo nascosto sotto il lenzuolo, e gli parve che dormisse profondamente. Incoraggiato da quel silenzio, pensò di fare una visita minuziosa, entrò nello spogliatoio e non vi trovò nulla di sospetto; tornò in camera e guardo inutilmente dappertutto.

Sorrideva già dei suoi puerili timori quando gli balenò nella mente un pensiero. Trattenne a stento un grido. Non aveva visto il bambino.

Cominciò a cercare di nuovo. Scosse il letto brutalmente senza che Bianca aprisse gli occhi. Non capì ch'essa fingeva di dormire.

Un'angoscia terribile gli turbava lo spirito; finì con l'andare su e giù per la camera, disperato come una bestia feroce, pensando al modo di ritrovare il nipote a qualunque costo. Si chinava a guardare sotto i mobili, immaginandosi che Bianca avesse nascosto il neonato per fargli paura. Continuò a cercare per un quarto d'ora, ritornando dieci volte allo stesso posto, non potendo credere alla terribile verità.

Quando fu stanco e certo che il bambino non camera né in camera né nello spogliatoio, andò a piantarsi davanti al letto dove Bianca giaceva spossata, immobile. Contemplò stupidito il posto dove era il bambino quando aveva lasciata sola la nipote. E ripeteva tra sé: "Era là e ora non c'è più".

Non tentò neppure di spiegarsi come era avvenuta quella strana scomparsa. Vedeva soltanto il fatto, del quale la paura gli mostrava tutte le conseguenze.

I suoi calcoli andavano a monte. L'erede di Bianca non era più nelle sue mani, ed egli un giorno o l'altro sarebbe stato obbligato a rendergli i conti della tutela. Si sarebbe scoperto ch'egli aveva intaccato il patrimonio di sua nipote, e gli avrebbero ripreso i beni sui quali era fondata tutta la sua potenza. Quel colpo terribile lo esponeva ad una quantità di rappresaglie. Non s'ingannava vedendo in esso la vendetta dei Cayol e si spaventava pensando che il suo onore era oramai nelle loro mani.

Lo irritava specialmente il pensiero di naufragare entrando in porto. Se non avesse ceduto alle lacrime di Bianca, il fanciullo sarebbe già stato lontano. Dopo tutte le precauzioni prese, il suo progetto era miseramente abortito. A poco a poco arrivò ad uno stato di irritazione cieca vedendosi canzonato in un modo tanto crudele.

Allora si domandò come avevano fatto a portar via il bambino. La sua rabbia aumentò: capì che la nipote aveva dato mano al complotto e gli venne voglia di picchiarla.

- Che cosa ne avete fatto? - le domandò con voce cupa.

Da quando lo zio era in camera Bianca stava rabbrividendo sotto le lenzuola. Teneva gli occhi ostinatamente chiusi per non vederlo, per ritardare la scena ch'essa prevedeva. Ascoltava con terrore il rumore dei suoi passi, lo seguiva nelle vane ricerche, e si sentiva gelata ed abbrividiva tanto più quanto più s'avvicinava il momento della crisi. Quando egli si fermò davanti al letto, e la guardò immobile, muto per lo stupore, credette ch'egli stesse pensando al modo di ucciderla. Al suono della sua voce aprì gli occhi; ma aveva la gola secca, chiusa dall'angoscia, e non poteva rispondere.

- Che cosa avete fatto del bambino? - le domandò di nuovo il signor di Cazalis con voce sempre più soffocata.

Bianca provò a parlare, balbettò, ma non seppe pronunciare una sola parola. Allora lo zio l'accusò, la insultò con un eccesso da bruto.

- Non siete del sangue mio, vi rinnego, - egli gridò. - Avrei dovuto lasciarvi nelle mani di quel facchino che vi aveva portato via. Siete la sua degna compagna. Ah! voi vi alleate con i nostri nemici, diffidate di me e preferite confidare vostro figlio a quella famiglia di mascalzoni... Non lo negate... Indovino tutto... Siete una disgraziata! dopo aver disonorato il mio nome non vi vergognate di darci tutti nelle mani del vostro amante. Ho avuto torto... non mi dovevo immischiare nei vostri affari... Mi auguro che facciano di vostro figlio uno scellerato come loro, un mendicante che verrà ogni giorno a chiedere l'elemosina alla nostra porta e che io farò cacciar via.

Parlò così per un quarto d'ora, accecato dal furore che gli impediva di accorgersi di quanto diceva. Non rispettò nulla, coprì la nipote di fango, la ferì tanto profondamente ch'essa si rialzò fremente, trovando il coraggio nella sua indignazione e nel suo dolore. Se egli si fosse mostrato prepotente e freddo, essa avrebbe piegato, gli avrebbe dato delle armi contro lei stessa: ma egli fu villano ed essa divenne forte e gli rispose con fermezza:

- Avete indovinato... ho consegnato mio figlio a coloro cui appartiene. Non devo spiegare a voi i motivi della mia condotta e in questo momento voi oltrepassate i diritti che potete avere su di me. Sapete che la mia risoluzione è già presa: quando sarò guarita entrerò in un monastero e saremo estranei l'un l'altro.

Dunque smettete d'insultarmi...

- Ma perché non mi avete lasciato quel fanciullo che avrei amato come un mio figlio? - domandò il signor di Cazalis contenendosi a stento.

- Ho agito secondo gli impulsi del mio cuore... non mi interrogate, non potrei rispondervi... voglio dimenticare le vostre ingiurie e ringraziarvi di aver vegliato sulla mia infanzia. E' tutto quello che posso fare... Voi vi siete messo a rischio di uccidermi... ora lasciatemi.

Il signor di Cazalis capì di aver oltrepassato i limiti. Ebbe paura che la nipote indovinasse il vero motivo della sua collera.

Si calmò, ma non poté fare a meno di rivolgerle una domanda pericolosa:

- Fra noi due, - egli mormorò, - vi sono dei conti da regolare.

- Non ne parliamo... non ho né la forza né la volontà di occuparmene. Ve l'ho detto... io sono morta e non ho più bisogno di nulla. Mio figlio, se vorrà, si rivolgerà più tardi a voi per far valere i suoi diritti. Ho affidato la cura dei suoi interessi a persone oneste... Debbo prevenirvi però che quelli, dei quali parlavate or ora tanto brutalmente, sono decisi ad agire nel caso che vi opponiate alla mia volontà. Ed ora, per grazia, lasciatemi sola.

Bianca lasciò cadere la testa sul guanciale, felice di aver vinto e s'addormentò placidamente.

Il signor di Cazalis esitò un momento. Poi, non sapendo dir altro, se n'andò. La disgrazia che lo colpiva era irreparabile, ma preferiva un pericolo lontano al pericolo ch'egli avrebbe provocato chiedendo nuove spiegazioni. I bambini non crescono in un giorno, e gli sarebbe rimasto tempo di mettersi al coperto da ogni reclamo. Conveniva perciò tacere e aspettare. Quando la madre sarebbe stata in un monastero, avrebbe potuto cercare il figlio ed impadronirsene. Sapeva che Filippo era fuggito in Italia, e ne concludeva che il neonato doveva essere stato consegnato a suo fratello. Faceva conto di cominciarne le ricerche intorno a Mario Cayol.

Frattanto andò a Parigi dove lo chiamava il suo ufficio di deputato. Evitava così i cattivi consigli della collera e poteva riflettere meglio intorno al progetto da seguirsi.

 

Capitolo 5 - NEL QUALE BIANCA DICE ADDIO AL MONDO

Bianca stette a letto tre settimane fra morte e vita. Le profonde commozioni che l'avevano scossa durante la notte del suo puerperio le misero addosso una febbre che poco mancò non la mandasse al mondo di là. Durante le tre settimane d'agonia Pina e l'abate Chastanier vegliarono al suo capezzale. Il signor di Cazalis andando via aveva licenziato la signora Lambert, ormai inutile, e la porta della casetta s'era riaperta per la fioraia. La puerpera non era più vigilata da nessun guardiano; suo zio si era contentato di consegnarla al vecchio prete, e faceva conto di trovarla sepolta in un monastero, tornando a Marsiglia.

A poco a poco Bianca si ristabilì in salute. Le cure affettuose e devote, l'aria sana del mare che entrava liberamente per le sue finestre la costrinsero a vivere, malgrado il desiderio segreto ch'essa aveva di morire, di lasciare il mondo nel quale aveva pianto tanto. Quando il medico le annunciò ch'era salva volse verso Pina i suoi grandi occhi malinconici e le disse:

- Sarei stata tanto bene sotto terra... Devo dunque soffrire ancora!...

- Volete stare zitta... i morti sentono freddo, sapete. Amate, fate del bene, e avrete una vita felice.

E Pina baciò la signorina di Cazalis, che le rispose con voce intenerita:

- Avete ragione... dimenticavo che posso lavorare per alleviare le miserie degli infelici, trovando così qualche conforto alle mie sofferenze.

La convalescenza fu breve. Bianca poté presto alzarsi e andare alla finestra, dove si estasiò in contemplazioni consolatrici, fissando gli occhi sul mare infinito. Tutti i malati dovrebbero andare a guarire sulle rive del Mediterraneo: l'aspetto di quella immensità calma ha la tranquilla maestà che lenisce i dolori.

Una bella mattina, davanti alla finestra aperta, con lo sguardo fisso all'orizzonte azzurro, Bianca parlò precisamente all'abate Chastanier della sua ferma volontà di farsi monaca.

- Padre mio, - gli disse, - mi tornano le forze ogni giorno, e la vita di questo mondo non essendo più fatta per me, voglio che, appena guarita, i miei primi passi mi conducano a Dio.

- Figlia mia... questa decisione è molto importante. Prima di lasciarvi stringere dei legami eterni debbo rammentarvi i beni terreni che voi lasciate.

- E' inutile... la mia decisione è irrevocabile... Voi conoscete tutte le ragioni che mi ci hanno spinta. Voi stesso mi avete mostrato l'amore divino come il solo rifugio contro l'amore umano che ha troncata la mia esistenza. Non mi trattate come una fanciulla, ve ne prego... trattatemi come una donna che ha molto sofferto ed ha bisogno di espiare le proprie viltà...Confessatelo, padre mio; non vi sono per me beni paragonabili alla tranquillità dell'anima e se arrivo a gustare le gioie del perdono non avrò da rimpiangere i pochi beni terreni ai quali rinuncio volentieri... non mi impedite d'andare a Dio.

L'abate Chastanier chinò la testa: Bianca parlava con voce tanto profondamente commossa ch'egli capì di non poterle rifiutare le dolcezze dell'abnegazione.

- Non volevo discutere la mia decisione, - ripigliò la convalescente con voce più calma. - Desideravo consultarvi sulla scelta di un ordine religioso... ve l'ho detto, mi sento in forze, e voglio fra otto giorni aver lasciato questa spiaggia della quale ogni scoglio mi rammenta la mia breve vita di passione e di dolore.

- Ho già pensato alla scelta che potreste fare, - rispose il prete, - ho pensato all'ordine delle Carmelitane.

- Le Carmelitane non hanno piena clausura?

- Sì; conducono una vita contemplativa, e inginocchiate davanti a Dio lo supplicano di perdonare al mondo. Sono le figlie dell'estasi... Il vostro posto è fra di loro. Siete debole, avete bisogno di dimenticare, di mettere una barriera insuperabile fra voi e la vostra adolescenza. Vi consiglio di rinchiudervi in fondo al santuario, lontano dagli uomini e vivere nell'ardore della preghiera, piena d'oblio e di voluttà celeste.

Bianca guardava il mare. Le parole del prete le avevano fatto bagnare le palpebre di lacrime. Dopo un breve silenzio, essa mormorò, come parlando a se stessa:

- No, no, sarebbe una viltà il cercare la calma, l'addormentarsi nell'estasi. Sarebbe una specie d'egoismo del quale non mi sento capace... Desidero guadagnarmi il perdono lavorando con le braccia e con lo spirito per essere utile agli infelici. Se non posso aver cura di mio figlio, veglierò sui figli delle povere madri che non hanno pane. Sento che soltanto a questo prezzo sarò felice.

Seguì una nuova pausa; poi, prendendo la mano dell'abate e guardandolo in faccia, essa aggiunse:

- Padre mio, mi potreste far entrare nelle suore di San Vincenzo de' Paoli, quelle che chiamano le suore dei poveri?

L'abate Chastanier protestò dicendo ch'essa era troppo delicata e non avrebbe potuto sopportare le grosse fatiche che quelle sante donne fanno negli ospedali, negli orfanatrofi, dovunque vi siano dolori da alleviare.

- Non ve ne date pensiero, - rispose Bianca in uno slancio di affetto, - sarò tanto forte da meritarmi il perdono delle mie colpe. Se non mi sapessi rendere utile, non mi riuscirebbe di dimenticare... Devo pregarvi di un ultimo favore... fatemi mettere addetta a un orfanatrofio. Mi parrà d'essere la mamma di tutti i bambini affidati a me e li amerò come avrei amato il mio.

L'abate Chastanier fu costretto a cedere, tanto ella pianse e parlò con trasporto d'amore. Promise di fare i passi necessari e qualche giorno dopo annunciò a Bianca che i suoi desideri erano esauditi. Gli pareva d'altronde naturalissima la decisione della fanciulla; la sua anima era fatta per capire le grandi abnegazioni. Scrisse al signor di Cazalis che gli rispose, con indifferenza, che la nipote era libera di decidere: quanto faceva era fatto bene. Non gli pareva vero di vederla entrare in un ordine monastico povero e modesto che non si mostra punto ghiotto di doti.

La vigilia del giorno in cui la signorina di Cazalis doveva abbandonare la piccola casa della spiaggia, essa parve all'abate Chastanier inquieta ed imbarazzata. Pina le domandò i motivi di quella subitanea tristezza. Bianca s'inginocchiò davanti al prete e gli disse con voce tremante:

- Padre mio, non sono ancora morta ai desideri di questo mondo:

vorrei vedere mio figlio un'ultima volta prima di appartenere tutta a Dio.

L'abate la rialzò subito.

- Andate... andate dove il vostro cuore vi consiglia e sappiate che non offendete il cielo cedendo alla vostra tenerezza. Il cielo ama quelli che amano. Tutta la dottrina cristiana e questa.

Bianca, commossa, si affrettò a vestirsi. Pina doveva condurla a vedere il bambino. Uscirono insieme. Dal giorno del parto Bianca non aveva più parlato della creaturina. La fioraia l'aveva accertata ch'era al sicuro, che stava bene ed era curato nel miglior modo desiderabile.

Quando Pina e Mario ebbero nelle mani il bambino se ne ritornarono in calesse a Marsiglia. Il giorno dopo, con una audacia che doveva riuscire felicemente, lo avevano nascosto a San Barnaba, dalla moglie del giardiniere Ayasse, pensando che al signor di Cazalis non sarebbe mai venuto in mente di cercarlo lì.

Pina condusse perciò Bianca a San Barnaba. Quando questa rivide la casa, i gelsi che stendevano i loro rami davanti alla porta, la panchina di pietra sulla quale si era seduta insieme a Filippo, le ritornò in mente tutto il passato e scoppiò in singhiozzi. Era trascorso appena un anno e le pareva che l'ora presente fosse divisa da secoli di sofferenze da quella del suo primo amore. Le pareva di essere ancora attaccata al collo del suo amante, senza pensieri, sperando in un avvenire di felicità. E nello stesso tempo si sentiva desolata, col cuore sanguinante, afflitta al punto da rinunciare alle gioie dei suoi diciotto anni. Le stringeva la gola una suprema amarezza, pensando che pochi mesi erano bastati per condurla dai sogni di felicità di fanciulla ai cupi pensieri del rimorso di penitente.

Bianca s'era fermata davanti alla porta del giardiniere Ayasse, tremante, non osando entrare, temendo di trovare lo spettro di Filippo in quella casa dove aveva ricevuto le sue carezze.

Pina si accorse di quel turbamento, dissipò il terrore, calmò la febbre di quelle memorie, dicendo con voce calma:

- Andiamo, entrate... Vostro figlio è là.

Bianca oltrepassò la soglia della casa. Suo figlio doveva difenderla contro il passato. Quando ebbe fatto tre passi nella prima stanza, una grande stanza rozza ed affumicata, si trovò davanti a una culla. Si chinò sul bambino che dormiva e lo contemplò per un pezzo senza svegliarlo. La moglie del giardiniere, seduta vicino alla porta, faceva la calza e cantava a mezza voce una cantilena dolce e lenta della Provenza.

Annottava. Bianca baciò sulla fronte il figliolo. Essa piangeva e le sue lacrime calde svegliarono il bambino che alzò le braccia lamentandosi. La povera madre sentì mancarsi. Il suo dovere non la tratteneva accanto a quella culla? Aveva essa diritto di rifugiarsi tra le braccia del Signore? Ebbe paura di cedere a quelle tentazioni, a folli speranze. Si disse che aveva peccato e doveva esser punita: le parve udire una voce che gridava: "Sarà tuo castigo l'esser privata delle carezze di quel bambino". E fuggì singhiozzando dopo aver coperto di baci il viso di quel piccolo essere ch'essa si condannava a non più rivedere.

Ormai qualunque amore era morto per lei: era spezzato l'ultimo legame che l'attaccava al mondo. Quella crisi suprema la sbarazzò dell'involucro corporeo: essa diventò tutt'anima.

Tornata a Marsiglia, consegnò a Pina i documenti che autenticavano la nascita di suo figlio. Il giorno dopo partì per una piccola città del dipartimento del Varo, dove entrò in un orfanatrofio, come aveva desiderato.

 

Capitolo 6 - UN RESUSCITATO

Passarono due anni. Nei primi mesi Mario sposo Pina e andò ad abitare con lei in un quartierino, modesto e nascosto, sul corso Bonaparte. Il signor Martelly, testimonio di Mario, gli fece la dote mettendolo come socio a parte degli utili della ditta. Pina lasciò la sua edicola del corso San Luigi per consacrarsi tutta alla casa, ma volendo continuare a guadagnare, fabbricava nei momenti d'ozio dei fiori artificiali ai quali sapeva dare grazia e freschezza. Quando le facevano dei complimenti per la sua abilità, sospirava e pensava con rammarico ai fiori freschi e profumati d'una volta.

- Se vedeste le rose che fa il buon Dio! - diceva.

Due anni trascorsero in tranquilla felicità. La giovane coppia visse come in un nido di musco caldo e nascosto. I giorni si seguivano ugualmente felici, pieni di dolce monotonia. Gli sposi avrebbero voluto che l'eternità durasse così, con gli stessi baci e le stesse gioie. Ogni mattina Mario andava al suo ufficio, e Pina si metteva davanti ad un tavolino, facendo dei guanti, ritagliando dei petali, creando con le dita leggere delicati fiori di mussolina. La sera, se ne andavano per le strade rumorose fino alla riva del mare, dalla parte di Endoume. Avevano trovato laggiù un cantuccio di scogli dove sedevano soli, in faccia all'azzurra immensità: e fino a notte guardavano con emozione il gran mare che a Sant'Enrico li aveva fidanzati. Lo andavano a ringraziare a quel modo; a cercare nelle sue voci profonde il canto adatto al loro amore. Quando tornavano si amavano di più e gustavano una notte piena di felicità.

Una volta la settimana, la domenica passavano la giornata in campagna. Andavano il mattino a San Barnaba e ritornavano la sera.

Quella visita al figlio di Bianca e di Filippo era per loro una specie di pellegrinaggio. Si trovavano bene in casa del giardiniere Ayasse, sotto i gelsi davanti alla porta. La campagna li rallegrava, faceva venire loro uno spaventoso appetito, e tornavano giovani e chiassoni. Mentre Mario parlava col giardiniere, Pina si baloccava in terra col bambino. Obbedendo a un desiderio di Bianca erano stati compare e comare del figlio di Filippo e gli avevano messo nome Giuseppe. Quando Giuseppe chiamava "mamma" Pina, essa sospirava e guardava Mario, quasi lo accusasse di non darle un angioletto biondo come il suo figlioccio; poi stringeva questo fra le braccia e lo amava come se fosse stata sua madre.

Giuseppe cresceva bello e delicato, come un figlio dell'amore.

Camminava da sé, balbettava qualche parola del delizioso chiacchierio dell'età infantile. Mario e Pina si contentavano di adorarlo. Più tardi avrebbero pensato a farne un uomo e dargli quel posto a cui aveva diritto nel mondo.

E la giovane coppia non si dimenticava del fuggitivo, del povero Filippo che viveva solo e desolato in Italia. Suo fratello si dava da fare per ottenergli la grazia, sicché potesse ritornare a Marsiglia a ricominciare una nuova vita, la vita del lavoro.

Disgraziatamente gli ostacoli erano molti ed una resistenza sorda rendeva inefficaci i più energici sforzi. Ma egli non disperava di nulla ed era sicuro di arrivare, un giorno o l'altro, allo scopo desiderato.

Intanto scriveva spesso a Filippo facendogli coraggio e raccomandandogli sopra tutto di non lasciarsi tentare dall'idea di tornare in Francia. Tale imprudenza poteva compromettere tutto.

Filippo rispondeva che non ne poteva più, che s'annoiava mortalmente. Tale disperazione, tale impazienza spaventarono suo fratello che arrivò ad inventare delle bugie per trattenere Filippo in esilio. Gli prometteva di ottenere la grazia fra un mese, lo assicurava che sarebbe stata concessa nel mese seguente.

Per un anno intero riuscì in questo modo a farlo pazientare.

Una domenica sera, Pina e Mario tornavano da San Barnaba, quando alcuni inquilini li avvertirono che uomo era venuto più volte a cercarli nel pomeriggio. Mentre stavano andando a letto pensando chi potesse essere quell'uomo, fu bussato alla porta di casa.

Mario andò ad aprire e rimase stupefatto:

- Come, sei tu? - esclamò con l'accento della disperazione.

Pina accorse e riconobbe Filippo che l'abbracciò dopo aver abbracciato il fratello.

- Sì, sono io... laggiù sarei morto, sono voluto tornare a qualunque costo.

- Che pazzia! - ripigliò Mario sconfortato. - Ero sicuro di farti accordare la grazia. Ora non posso garantire più nulla.

- Oh! mi nasconderò fino a quando non ti sarà riuscito. Non era più possibile ch'io vivessi lontano da voi, lontano dal mio figliolo. Era una malattia.

- Ma perché non mi hai prevenuto? almeno avrei preso qualche precauzione...

- Se ti avessi prevenuto, non mi avresti lasciato tornare a Marsiglia. Ho fatto di testa mia. Tu che sei uomo di senno riparerai a tutto.

E poi voltandosi verso Pina:

- Come sta il mio Giuseppe?

I pericoli del fuggitivo furono dimenticati. Alla sorpresa e al malcontento dei primi momenti seguirono le espansioni, ed una affettuosa conversazione che durò fino alle tre della mattina seguente. Filippo raccontò le proprie sofferenze, le miserie dell'esilio. Per vivere aveva dato qua e là delle lezioni di francese, evitando di stabilirsi in un luogo, preferendo restare solo e sconosciuto. Quando ebbe confessato tutti i suoi dolori, Mario, commosso profondamente, non pensò più a rimproverargli il ritorno: cercò invece il mezzo di nasconderlo in Marsiglia, perché potesse attendere la grazia vicino a suo figlio.

Mario pretese prima di tutto che Filippo si facesse radere, e tale operazione cambiò addirittura la sua fisionomia. Poi lo vestì di abiti grossolani e lo fece entrare come facchino col fratello di sua moglie, Cadet, successore di Salvario. Era stabilito che Cadet lascerebbe passeggiare Filippo in pace sul porto senza imporgli nessuna fatica. Ma dopo due giorni il finto facchino volle lavorare per distrarsi, e fu incaricato di sorvegliare una squadriglia di manovali.

Durante alcuni mesi tutto andò bene. Mario aspettava da un momento all'altro di poter liberare suo fratello. Filippo era pienamente felice. Ogni sera andava a San Barnaba, e vicino a suo figlio provava delle gioie che gli facevano dimenticare i dolori della vita.

Era già da un anno a Marsiglia, quando una sera arrivando a casa del giardiniere Ayasse, gli parve di vedersi seguire da un uomo grande e secco che gli andava dietro fino al portone. Le risate di Giuseppe gli fecero dimenticare quell'uomo. Se il giorno seguente egli avesse voltato la testa si sarebbe accorto che l'uomo grande e secco lo pedinava e lo spiava di nuovo.

 

Capitolo 7 - NEL QUALE IL SIGNOR DI CAZALIS VUOLE ABBRACCIARE IL BISNIPOTE

Molti cambiamenti erano avvenuti nell'esistenza del signor di Cazalis, durante i tre anni trascorsi dalla nascita del figlio di Bianca e Filippo. Non era stato rieletto deputato e si era stabilito a Marsiglia. Il fiasco fatto in grazia dell'impopolarità procuratasi col suo procedere verso i Cayol, non pareva lo avesse addolorato molto. Per dire il vero preferiva sorvegliare gli affari propri invece di quelli del paese: aveva abbastanza fastidi a casa sua, abbastanza da fare per riparare ai colpi che lo minacciavano, anche senza incaricarsi di un mandato che lo teneva inchiodato a Parigi per parecchi mesi dell'anno.

Si domiciliò nel suo palazzo del corso Bonaparte e fece in modo di farsi dimenticare dalla città intiera. Smise di andare in carrozza e d'inzaccherare i pacifici bottegai: si studiò di passare inosservato e riuscì ad essere sconosciuto, dopo un certo tempo, alla maggioranza dei suoi concittadini. Sognava di assicurare presto la sua tranquillità per andare poi a Parigi a mangiarsi il patrimonio della nipote.

Conduceva volentieri una vita triste e ritirata, perché un istinto di prudenza lo consigliava di studiare il terreno e procurarsi l'impunità prima di appropriarsi di quanto non gli apparteneva.

Avrebbe avuto una voglia matta di sfogar subito le sue brame. Ma la paura lo assaliva: voleva poter derubare Bianca senza che si potesse dargli del ladro.

Quando fu riuscito a farsi dimenticare e si fu rinchiuso nel suo palazzo come un semplice borghese amante del silenzio e nell'ombra, preparò le sue batterie. Sperava di aver fatto assopire con la propria indifferenza la diffidenza degli avversari. In fin dei conti il suo desiderio più vivo era quello di ritrovare il figlio di sua nipote e impadronirsene. Soltanto allora avrebbe potuto disporre delle ricchezze che aveva fra le mani. Ma, con uno sforzo di ipocrisia, seppe contenersi durante tre anni: se ne stette tranquillo, senza fare apparentemente alcun passo per sapere dove si nascondeva il suo bisnipote.

Tale commedia ebbe per conseguenza che Mario si tranquillizzò.

Egli aveva creduto che il giorno dopo il rapimento, il signor di Cazalis sarebbe andato su tutte le furie, e avrebbe cercato dappertutto in ogni cantuccio di Marsiglia. Da principio fu sorpreso del contegno indifferente dello zio di Bianca, pensò che l'apparente tranquillità nascondesse un inganno: poi, a poco a poco, i sospetti svanirono ed egli si addormentò in una placida fiducia; finì per non pensare più a quell'uomo nascosto nell'ombra per far la posta alla preda.

Il signor di Cazalis aveva pazienza e non cercava le occasioni, avendo capito che per un pezzo i Cayol non potevano servirsi del fanciullo contro di lui. Permetteva loro di allevarlo, facendo conto di portarselo via quando, nelle loro mani, cominciasse a diventare pericoloso. Fin quando Filippo non fosse tornato in Francia, ed il figlio di lui non avesse raggiunto una data età, Mario aveva le mani legate, né poteva sollevare uno scandalo pericoloso per il fratello. Il signor di Cazalis faceva assegnamento sul criterio retto e giusto di Mario per condurre i propri affari a buon porto: pensava che il giovane non avrebbe mai consentito a compromettere Bianca, e gli avrebbe piuttosto abbandonato l'eredità. In tutti i modi aveva cinque anni di tempo per pensarci.

Se faceva conto sulla virtù di Mario, aveva però paura davvero quando pensava a Filippo. Questi non lo avrebbe risparmiato quando gli fosse caduto nelle mani. Si ricordava la violenza, il carattere energico del fuggitivo ch'egli credeva uomo incapace di indietreggiare davanti a qualunque cosa, qualora volesse sfogare un odio e vendicarsi. Perciò prese le sue precauzioni per mettersi in guardia, dato il caso che Filippo tornasse in Francia.

Desiderava ardentemente di vederlo commettere tale imprudenza; e più per farlo arrestare che per sfuggire alla sua vendetta, incaricò un tal Matteo, briccone matricolato, di andare in Italia, pedinare il giovanotto, e ritornare con lui quando si fosse imbarcato. La spia eseguì fedelmente l'incarico. Trovò Filippo a Genova e non lo lasciò più. Quando Filippo arrivò a Marsiglia, Matteo era sulla stessa nave. Ma per caso lo perse di vista durante lo sbarco, e annunciò al suo padrone la presenza del nemico nella città senza potergli indicare dove s'era nascosto.

Quando il signor di Cazalis seppe che Filippo era a Marsiglia, cominciò ad essere inquieto, non per timore d'una vendetta immediata, ma per paura che il giovane lo perseguitasse nascostamente. Desiderava vederlo tornare in Francia, ma a patto di saperne il rifugio e consegnarlo alla polizia il giorno dopo l'arrivo. Essendogli sfuggito, credeva di sentirselo intorno, scavargli la terra sotto i piedi. Visse per un anno in grande sospetto, sorvegliando Mario, incaricando Matteo di seguirlo dappertutto, ma non poté arrivare fino a Filippo: era stabilito fra i due fratelli che avrebbero rinunciato a incontrarsi fin quando la grazia del condannato non permettesse loro di stringersi la mano senza rischio. Filippo era talmente cambiato con i suoi abiti da facchino, senza barba, il viso e le mani abbronzate dal sole, che Matteo gli passò più volte accanto senza riconoscerlo.

Il signor di Cazalis, non volendo mescolare la polizia nella faccenda prima d'averne assicurato l'arresto, si disperava vedendo che la sua spia non otteneva alcun risultato. Lo sguinzagliava ogni mattina per Marsiglia, facendogli delle promesse sempre più vistose, spinto dal timore di vedere accolte le premure di Mario per ottenere la grazia del fratello.

Un giorno il signor di Cazalis, passando sul porto, s'imbatté in un capannello di gente radunata intorno a un ferito. Seppe ch'era un facchino che si era schiacciato un piede sotto una cassa pesante. Avvicinandosi vide vicino al povero ferito un compagno, un altro facchino, che dava degli ordini. I gesti bruschi e la voce alta di quell'uomo gli fecero una grande impressione. Aveva udito la voce di Filippo una volta sola durante il processo, ma gli era rimasta nelle orecchie forte e vibrante.

Ritornò sollecito al palazzo e fece chiamare Matteo dandogli istruzioni precise. Doveva assicurarsi dell'identità del facchino, seguirlo per due o tre giorni, per sapere quali erano le sue abitudini e quali luoghi frequentava. Il giorno seguente cominciò la caccia.

Il progetto del signor di Cazalis era concepito con abile semplicità, voleva prendere due piccioni con una fava. Gli era venuta la smania di abbracciare il nipotino e parendogli d'averlo lasciato abbastanza nelle mani dei Cayol, desiderava averlo a sua volta in proprio potere. Per ritrovare e portar via il bambino poteva servirsi del padre. Filippo doveva andare spesso a far visita al figliuolo: bastava seguire il padre per sapere dove era nascosto il figlio. Il signor di Cazalis pensava che, sapendolo, gli sarebbe stato facile far arrestare il suo nemico e d'impadronirsi nello stesso tempo dell'erede di Bianca.

Due giorni dopo Matteo annunciò al suo padrone che il facchino era precisamente Filippo Cayol e che, ogni sera, andava a San Barnaba da un giardiniere chiamato Ayasse, il quale aveva in custodia un bambino.

L'ex deputato capì e sorrise trionfando.

- A che ora va quell'uomo a San Barnaba? - domandò a Matteo.

- Alle sei di sera e vi si trattiene fino alle otto o le nove.

- Va bene... torna domani alle sei a prendere ordini.

Il giorno seguente il signor di Cazalis ebbe un breve colloquio con Matteo. Poi partirono insieme per San Barnaba dove arrivarono alle sette. Due gendarmi li accompagnavano.

 

Capitolo 8 - IL GIARDINIERE AYASSE

Da quando stava nascosto in Marsiglia, Filippo faceva una vita monotona e la sua unica consolazione era quella di poter andare tutte le sere ad abbracciare il figliolo a San Barnaba. Mario, per prudenza, lo aveva supplicato di aspettare la grazia prima di far quelle visite. Era preferibile che padre e figlio fossero separati fino al giorno in cui si sarebbero potuti vedere senza rischio di compromettersi a vicenda. Ma anche Mario aveva dovuto cedere alle insistenti preghiere del fratello, e per tranquillizzarsi pensava che il signor di Cazalis ignorasse la dimora di Filippo e di suo figlio a Marsiglia.

Il condannato, non vedendo mai alcuno, neppure Mario, andava ogni sera in casa d'Ayasse e godeva soltanto là qualche ora felice.

Generalmente il giardiniere e sua moglie profittavano della sua presenza per andare fino a Marsiglia a portarvi la verdura e la frutta che raccoglievano nel loro orto. Rimasto solo in casa, Filippo metteva il chiavistello e rimaneva lì a trastullarsi con Giuseppe, come un bambino.

Si sentiva quieto, dimenticava il passato e il presente, sognando un avvenire di felicità. Quando era lì chiuso in quella vecchia casa tranquilla, non si ricordava più d'essere un condannato, un miserabile che un gendarme poteva riaccompagnare in città ammanettato: gli pareva d'essere un contadino che si riposasse la sera dopo aver lavorato tutta la giornata. Quelle ore serene gli davano nuova forza e lo preservavano dalle cattive idee, dalle quali di tanto in tanto era preso.

In quell'uomo invecchiato e curvo, che badava al bambino come una balia affezionata, non si sarebbe riconosciuto il giovanotto elegante, innamorato e chiassone che, tre anni prima, aveva riempito Marsiglia con il rumore delle sue avventure.

E' una dura scuola quella della disgrazia.

La sera nella quale il signor di Cazalis e Matteo andavano a San Barnaba accompagnati da due gendarmi, Filippo era arrivato, secondo il solito, verso le sei a casa d'Ayasse. Il giardiniere e sua moglie l'aspettavano per andare a Marsiglia con un carretto di uva. Quando Filippo fu solo entrò nella stanza terrena e vi si chiuse dentro. Giuseppe non aveva voglia di fare del chiasso:

aveva corso tutto il giorno per le vigne e dormiva sopra un vecchio canapé con le labbra sorridenti e sporche di mosto.

Filippo camminò adagio per non svegliarlo e andò a sedere di fronte a lui. Stava a vederlo dormire, in mezzo al silenzio, al chiarore incerto del crepuscolo. Rimase così muto ed immobile quasi un'ora, ascoltando il respiro leggero del fanciullo, e gustando una delizia profonda nel contemplare suo figlio. Gli scorrevano sulle guance delle grosse lacrime, delle quali non si accorgeva neppure.

Mentre era là smarrito in quell'estasi di tenerezza, fu bussato sgarbatamente e gli parve di sentirsi afferrare le spalle da mani che volevano arrestarlo. I colpi ripetuti e violenti lo scossero dal suo sogno, e lo fecero passare da quella obliosa serenità al consueto spavento. Dietro la porta c'erano dei gendarmi.

Ascoltò, deciso a non aprire. Chiudeva la porta ogni sera per far credere che la casa era vuota. Il piccolo Giuseppe dormiva sempre, roseo e sorridente. I colpi raddoppiavano: il condannato notò che li picchiava una mano debole ed impaziente, nello stesso tempo udì una voce di donna, una voce soffocata, piena d'emozione che balbettava:

- Aprite, aprite presto per l'amor di Dio!

Gli parve di riconoscere la voce e levò il chiavistello.

Pina entrò nella stanza, richiudendo subito la porta, affannata, sentendosi venir meno. Stette un minuto a riprender fiato, con le mani sul cuore, senza poter parlare.

Filippo la guardava sorpreso. Essa non andava mai a quell'ora in casa d'Ayasse, e c'era qualche grave motivo se s'era arrischiata a far quella visita che poteva comprometterlo.

- Che cosa c'è? - le domandò.

- Son qua, - rispose Pina con un gran sospiro, - li ho veduti per la strada e mi sono messa a correre attraverso i campi per arrivare prima di loro.

- Di chi parlate?

Pina lo guardò sorpresa da quella domanda.

- Ah! sì... non sapete nulla... Venivo a dirvi che vi vogliono arrestare stasera...

- Mi vogliono arrestare stasera! - esclamò il giovane con rabbia.

- Sì... adesso... Mario ha saputo per miracolo che il signor di Cazalis era andato a chiedere due gendarmi per fare un arresto a San Barnaba...

- Sempre quell'uomo!

- Allora Mario è tornato a casa pazzo di dolore e mi ha dato l'incarico di venir qui a prendere il bambino e supplicarvi di fuggire.

Filippo fece un passo verso la porta.

- No! - esclamò Pina, - ormai è troppo tardi. Non sono arrivata a tempo. Ve l'ho detto che sono qui.

Singhiozzava e sedutasi sopra una seggiola, vicino al piccolo Giuseppe, lo guardava, avvilita. Filippo girava per la stanza come cercando un'uscita.

- E non c'è via di scampo! - diceva fra sé. - Preferisco rischiare tutto... Datemi il bambino... E' buio e forse mi riuscirà di scappare.

E si abbassava per prendere Giuseppe, quando Pina gli fermò le mani invitandolo con un gesto energico a tender l'orecchio. S'udì allora un rumore di passi davanti alla casa. Nello stesso tempo fu picchiato brutalmente con il calcio di una carabina, e una voce brusca esclamò:

- Aprite, in nome della legge.

Filippo divenne pallidissimo e si lasciò cadere sul canapé, accanto al figlio.

- Tutto è finito! - esclamò.

- Non aprite, - disse Pina a voce sommessa. - Mario mi ha raccomandato di ritardare quanto era possibile il vostro arresto, per guadagnar tempo, nel caso vi fosse impossibile fuggire.

- Perché non è venuto lui stesso?

- Non lo so. Non mi ha detto che cosa avesse intenzione di fare...è andato via correndo, mentre io montavo in vettura per venire qui.

- Non vi ha detto se sarebbe venuto ad aiutarci?

- Non mi ha detto nulla... ve lo ripeto... il dolore gli aveva turbato la mente. Gli ho sentito soltanto ripetere: "Dio voglia che mi riesca".

In quel momento i calci delle carabine picchiarono nuovamente alla porta e s'udì una seconda volta la terribile intimazione:

- Aprite, in nome della legge!

Pina si mise un dito sulle labbra per raccomandare a Filippo il più assoluto silenzio. Ogni colpo, ogni parola, dava loro una scossa, aumentava le loro pene. Fra loro due il piccolo Giuseppe continuava a dormire, ma di un sonno inquieto e agitato.

I gendarmi picchiavano e gridavano già da cinque minuti.

Uno di loro finì per dire al signor di Cazalis che la casa pareva vuota e che essi non avevano facoltà di buttare giù la porta.

- Se si fosse certi che l'individuo c'è, - aggiunse il gendarme,- si potrebbe mandar all'aria la serratura ma non si può correre il rischio di fare una cosa simile inutilmente.

- L'individuo è lì dentro di certo, - disse Matteo, - l'ho veduto entrare!

- Rispondo io di tutto! - disse a sua volta il signor di Cazalis, - prendo su di me la responsabilità di qualunque atto.

I due gendarmi scossero la testa, sapendo benissimo che essi soli sarebbero stati puniti, per la violazione di domicilio. Avevano ricevuto l'ordine di arrestare la persona che sarebbe stata loro indicata e non potevano oltrepassare i limiti della consegna.

Il signor di Cazalis si arrabbiava vedendoli incerti e disposti a lasciare l'impresa, quando un rumore si fece udire dentro la casa.

- Sentite! - egli disse, - la casa non è vuota e il nostro uomo è là!

Era il piccolo Giuseppe che s'era svegliato. Spaurito, trovandosi al buio, nel sentire quelle voci di fuori, s'era messo a piangere.

Pina, spaventata, tentava invano di rassicurarlo con le sue carezze, senza riuscire a calmarlo. Il figlio tradiva il padre.

I gendarmi picchiarono nuovamente, gridando:

- Se non aprite, sfonderemo la porta.

Filippo capì che l'uscio non poteva resistere per un pezzo ai colpi di calcio della carabina. Si alzò e accese un lume, non avendo più paura d'essere tradito dalla luce.

Giuseppe, spaventato dai colpi che facevano tremare la casa, gridava sempre più forte, e Pina che s'era alzata per cullarselo fra le braccia, andava su e giù, disperata, non sapendo come farlo tacere.

- Lasciatelo gridare, - le disse Filippo, - ormai sanno che sono qui.

E andò ad abbracciare suo figlio, dicendogli:

- Povero piccino!

Lo guardava con gli occhi pieni di lacrime. Dopo averlo abbracciato e baciato un'ultima volta, si avviò risoluto verso la porta.

Pina lo fermò.

- Andate ad aprire? - gli domandò ansiosamente.

- Sì, - egli rispose, - non sentite? Il legno delle imposte si rompe; la serratura è scassinata. Ayasse può tornare da un momento all'altro, e d'altronde, giacché la fuga è impossibile, non voglio che sciupino l'uscio.

- Per carità... aspettate un momento... guadagniamo tempo.

- Guadagnar tempo? e a che scopo? ormai non è tutto finito?

- No; ho fiducia in Mario. Mi ha raccomandato di ritardare il vostro arresto quanto era possibile: vi supplico di obbedire alla sua preghiera. Si tratta della vostra salvezza.

Filippo tentennò il capo dicendo:

- Mi faranno pagar caro ogni minuto di resistenza. E' meglio non lottare quando si lotta inutilmente.

Pina vedeva che la disperazione lo avviliva e non sapeva più che cosa dire per ridargli un po' d'energia. Le venne ad un tratto un'idea.

- Ma che cosa succederà a Giuseppe? - esclamò. - Quando sarete arrestato, quegli uomini lo porteranno via.

Filippo che aveva già la mano sul chiavistello, si voltò indietro tremante e pallido, e si avvicinò di nuovo a Pina.

- Non mi avete detto che il signor di Cazalis è là con i gendarmi?- le domandò.

- Sì, - rispose Pina.

- Ora capisco tutto... Miserabile egoista! pensavo solamente a salvarmi mentre mio figlio è più minacciato di me. Avete ragione... vengono qui ad arrestarmi perché mi vogliono rubare Giuseppe. Che cosa posso fare, mio Dio!

In quel frattempo fu dato un colpo tanto forte all'uscio, che il legno scricchiolò come se si fosse spaccato. Filippo si guardò d'intorno smarrito.

- Non c'è scampo! fra qualche minuto la porta sarà sfondata. Come fare, mio Dio, per fuggire?

I colpi raddoppiavano. Si capiva che i gendarmi si stizzivano contro quell'uscio tanto resistente.

Filippo rimase per qualche secondo con la testa fra le mani, cercando di riflettere, di trovare una via di salvezza. Poi, con voce sommessa disse rapidamente a Pina:

- Sono del vostro parere... bisogna guadagnar tempo. Mario è stato sempre il mio angelo salvatore.

- Barrichiamo la porta con i mobili, - disse la giovane.

- No... è un cattivo espediente... Una resistenza aperta affretterebbe la catastrofe.

- Che cosa volete fare dunque?

- Aprire la porta e consegnarmi. Prima però voi salirete nel granaio con Giuseppe, vi nasconderete nel miglior modo possibile, ed io farò in maniera di mandar per le lunghe le formalità del mio arresto per dare a mio fratello il tempo di giungere in nostro aiuto.

- E se vi portano via subito ed io rimango in balia di quegli uomini?

- Vuol dire che allora il cielo ha stabilito la nostra perdita.

Non c'è tempo di discutere: abbiamo solamente due strade da tenere. Sentite? l'uscio si spezza. Per l'amor di Dio! salite subito... nascondetevi bene!

Spinse Pina verso la scala; poi, quando fu sparita nel buio, andò a levare il chiavistello.

 

Capitolo 9 - GRAZIA! GRAZIA!

Prima di aprire Filippo spense il lume.

I gendarmi, che stavano per precipitarsi nella casa, si fermarono di botto sulla soglia, temendo qualche sorpresa nascosta in quel buio. Poteva essere stata aperta sulla loro strada la botola di una cantina, o potevano assalirli di dietro dopo averli lasciati entrare.

- Bisognerebbe avere un lume, - disse uno di loro. - Non possiamo cercare e trovare un uomo in questo buio.

- Io non ho fiammiferi, - disse l'altro.

Il signor di Cazalis si disperava. Non aveva preveduto quel nuovo ostacolo. Il buio lo separava ancora da Filippo come un muro impenetrabile.

- Avreste forse paura? - esclamò.

E in un momento di rabbia, spinse avanti i gendarmi che fecero due o tre passi dentro la stanza.

Filippo che s'era messo in piedi appoggiato al muro vicino all'ingresso, si slanciò passando dietro le spalle dei gendarmi, e si trovò fuori dopo aver quasi buttato a terra Matteo.

- Aiuto! - urlò costui, - l'uomo scappa.

I gendarmi tornarono indietro. Filippo s'era fermato di fronte alla casa a pochi metri di distanza. Avrebbe potuto fuggire, ma non pensava più a se stesso; pensava a suo figlio. Aveva spento il lume e fatto finta di scappare soltanto per guadagnar tempo.

Sdegnosamente, con le braccia incrociate sul petto, disse a voce alta:

- Che cosa volete da me, perché m'avete forzato ad aprire quella porta?

I due gendarmi gli erano saltati addosso e l'avevano afferrato ognuno per un polso.

- Lasciatemi, - aggiunse egli con forza, - vedete che io mi consegno da me, volontariamente. Se avessi voluto scappare, a quest'ora sarei lontano. Parlate... che cosa volete da me?

- Abbiamo ordine di arrestarvi, - risposero lasciandolo, ubbidendo all'imperiosità della sua voce.

- Va bene; verrò quando m'avrete fatto vedere il mandato.

Entriamo...

Rientrò nella stanza fingendo di non vedere né Matteo né il signor di Cazalis. Quando fu acceso il lume e si presentarono l'ex deputato e la sua anima dannata, Filippo si volse ai gendarmi e disse loro con tono ironico:

- Questi signori appartengono alla polizia?

Al gentiluomo quella domanda fece l'effetto di una frustata sul viso. Capì l'odiosità della sua parte e scoppiò la collera sorda ch'egli covava dentro di sé.

- Che cosa aspettate? - esclamò, - imbavagliate quel miserabile, torturatelo... Birbante! t'ho ritrovato e questa volta non mi scapperai.

Aveva la bava alla bocca e chiedeva le manette per metterle da sé ai polsi di Filippo che lo guardava con insultante disprezzo. I gendarmi avevano dato a Filippo il mandato d'arresto contro di lui, ed egli lo leggeva lentamente, cercando un mezzo per ritardare ancora di qualche istante il momento di dover seguire i gendarmi.

In quel frattempo Matteo era sparito. Aveva acceso un moccolo che portava con sé ed era andato su per la scala. Eseguiva gli ordini del signor di Cazalis, che gli aveva promesso una generosa ricompensa se portava via il piccolo Giuseppe, approfittando della confusione che sarebbe nata dall'arresto di Filippo.

Matteo era un uomo prudente che non faceva mai nulla alla cieca.

Da due giorni studiava le abitudini della famiglia Ayasse: sapeva che il giardiniere e sua moglie erano a Marsiglia e pensava che Filippo, sentendo i gendarmi, avesse nascosto il figlio in una camera del piano superiore. Faceva conto di trovare il bambino solo e di portarselo via senza difficoltà.

Visitò tutte le stanze del primo piano e non trovò nulla. Buttò all'aria la serratura d'un uscio chiuso, frugò in tutti i cantucci, e si convinse che il piccolo Giuseppe non c'era.

Allora decise a salire nel granaio.

L'uscio del granaio era chiuso da una semplice stanghetta. Matteo l'aprì e fece alcuni passi sulla paglia ammonticchiata, in qualche punto, fino al tetto. Alzava il moccolo, guardando da lontano negli angoli, non osando andare avanti per la paura di dar fuoco a ogni cosa. Non vide nulla. C'era in quel granaio un ammasso di oggetti indescrivibili: vecchi caratelli sfondati, arnesi rurali fuori uso, rottami senza nome che ingombravano l'impiantito e gettavano qua e là grandi ombre nere.

Matteo credette che Filippo non avesse potuto nascondere il figlio in mezzo a quella roba vecchia, coperta di polvere e di ragnatele.

Non cercò altro e scese di nuovo al primo piano, dove ripeté una visita minuziosa. Aprì i mobili, alzò le tende, guardò dapertutto.

Non c'era nulla. Sedette e si mise a riflettere. Il briccone aveva l'abitudine di ragionare sempre e di condursi secondo le regole della logica.

Fece un breve e assennato ragionamento. Aveva sentito strillare il bambino, dunque il bambino era in casa; se non lo trovava al primo piano, doveva essere per forza su nel granaio. Dunque aveva cercato male.

Risalì nel granaio.

Per esser sicuro del fuoco, posò il moccolo sopra un vecchio annaffiatoio. Gli venne in mente di accendere i covoni di paglia a rischio di dar fuoco alla casa. Il bambino era lì di certo e gli pareva che la morte di quel piccolo essere avrebbe fatto un gran piacere al signor di Cazalis. Se avesse lasciato cadere il moccolo, l'erede di Bianca sarebbe morto arrostito. Ma ebbe timore di oltrepassare, per troppo zelo, i confini del suo mandato. Il suo padrone gli aveva chiesto il fanciullo vivo e non poteva convenientemente portarglielo morto.

Cominciò a tastare la paglia, a frugare fra i vecchi caratelli.

Andava adagio, senza trascurare nessun ripostiglio, aspettandosi di metter le mani sopra un corpo caldo da un momento all'altro. Il moccolo, piantato sull'annaffiatoio, illuminava il granaio di una luce gialla e tremolante che lo guidava malamente nelle sue ricerche. Quando fu giunto in fondo al granaio, si fermò ad un tratto ad ascoltare il rumore di una respirazione soffocata.

Sorrise con aria trionfante. Il rumore veniva fuori da un cantuccio formato da fasci di paglia ammucchiati a qualche distanza dal muro.

Matteo allungò la testa, con le mani tese. Quando ebbe dato un'occhiata dentro quel nascondiglio, la sorpresa gli fece ricadere le mani. Pina si era rizzata ad un tratto di faccia a lui, stringendosi tra le braccia il piccolo Giuseppe che s'era riaddormentato e sorrideva nel sonno.

La giovane donna ascoltava da un quarto d'ora lo scalpiccìo dei passi di Matteo. Provò, durante quel tempo, una terribile ansia.

Mancò poco che non si tradisse quando Matteo entrò nel granaio la prima volta. Respirò quando scese, e si credette salva. Invece era tornato e l'aveva scoperta. Si vedeva perduta; le avrebbero strappato dalle braccia Giuseppe.

Dritta in piedi, fremente, dicendosi che si sarebbe lasciata assassinare prima di cedere il bambino, Pina guardava in faccia Matteo.

Questi, sulle prime fu stupefatto. Non si aspettava di trovar là quella giovane donna a lui sconosciuta e che pareva essere la madre del fanciullo. Poi, il miserabile compose le labbra in un sorriso di cattivo augurio. In fin dei conti preferiva aver da fare con lei che trovarsi di fronte Filippo. Con una spinta la poteva buttare sul fieno e portarle via facilmente il bambino.

Pina gli lesse certamente quel pensiero negli occhi, perché mise le spalle al muro, puntandosi sulle gambe, pronta a difendersi.

Non dicevano parola. Il moccolo rischiarava vagamente il loro silenzio. Egli allungò la mano: Pina chiuse gli occhi credendosi morta, quando un rumore crescente salì dalla stanza nella quale Filippo era sempre con i gendarmi. Una voce amata, che Pina riconobbe subito, gridava:

- La grazia... la grazia!...

Pina si sentì rinata.

- Sentite? - disse a Matteo. - Il cielo ci ha aiutati. Le hanno portate per voi le manette i gendarmi, briccone!

Matteo, spaventato, dimenticò Pina e il bambino, pensando soltanto a mettersi in salvo. Corse alla porta del granaio e stette in ascolto, guardando da che parte avrebbe potuto fuggire, se le cose prendevano cattiva piega.

Filippo, al pianoterra, dopo aver letto il mandato d'arresto, era stato costretto a darsi nelle mani dei gendarmi. Riuscì tuttavia a ritardare ancora la partenza, protestando che non poteva abbandonare la casa del giardiniere Ayasse senza lasciargli due righe di spiegazione. Aveva veduto sparire Matteo e tremava per Pina e per suo figlio. Non faceva più conto su Mario; ma avrebbe voluto attendere il ritorno del giardiniere per non lasciare la casa in balìa del signor di Cazalis.

I gendarmi gli dettero il permesso di scrivere due righe. Poi gli dissero che bisognava andare. Allora Filippo guardò d'intorno disperato, e vide soltanto l'ex deputato che sogghignava.

- Dunque! - gli disse costui, - eccovi finalmente legato! non rapirete più le ricche ereditiere, non getterete più lo scandalo nelle famiglie. Sarà un curioso spettacolo vedere il galante Filippo di Cayol alla berlina.

Filippo non rispose. Per non essere tentato a dargli uno schiaffo, figurava di non accorgersi della presenza di quell'uomo. Mentre il signor di Cazalis lo insultava un gendarme gli metteva le manette.

- Andiamo, - gli disse.

E bisognò che Filippo s'avviasse verso la porta. Si sentiva stringere la gola dall'angoscia e stava per scoppiare in singulti.

In quel momento, la porta essendo già aperta, un grido di gioia si fece sentire al di fuori e un uomo entrò ripetendo:

- La grazia... la grazia!

Era Mario. Non avendo trovato carrozze era venuto da Marsiglia di corsa. Da una tasca del suo vestito coperto di polvere, tirò fuori un plico e lo presentò ai gendarmi. Il plico annunziava la grazia accordata dal re a Filippo. Quella grazia era stata promessa da un mese al fratello del condannato ed il caso l'aveva fatta arrivare precisamente all'ora in cui il signor di Cazalis metteva in opera tutta la propria influenza per costringere il procuratore del re ad agire energicamente. Mario non era corso subito a San Barnaba appunto per andare a vedere per l'ultima volta se la grazia fosse arrivata.

I gendarmi s'inchinarono davanti alla lettera onnipotente. La loro parte era finita. Il signor di Cazalis, stupefatto da quella improvvisa catastrofe, li guardò ferocemente mentre si allontanavano, come se avessero contribuito a liberare il suo nemico. Nella follia della sua disperazione avrebbe voluto costringerli a portare Filippo in prigione, a qualunque costo.

Mario, appena entrato, aveva abbracciato il fratello, dicendogli:

- Sei libero... grazie a Dio sono arrivato a tempo.

Filippo era rimasto un momento immobile, oppresso dall'emozione, incredulo. Poi, tutt'ad un tratto, era corso verso la scala, pensando all'uomo salito su per rubare suo figlio.

Matteo sentì il rumore dei suoi passi. Spaventato, capì d'essere in pericolo, e cercò un mezzo di scampo. Davanti alla finestra del granaio un pezzo di fune pendeva da una carrucola. Prese la fune e si lasciò scivolare, a rischio di rompersi il collo. Andò a scendere quasi sulla testa del signor di Cazalis, che se n'andava bestemmiando, con l'odio nel cuore. Quando l'ex deputato vide Matteo senza il bambino voleva picchiarlo. La spedizione era completamente rimasta senza risultato: il padre come il figlio gli erano sfuggiti di mano.

Pina, scampata dalla brutalità di Matteo, scese nella sala terrena. I due fratelli e Pina abbracciarono il piccolo Giuseppe, fuori di sé dalla gioia.

- Ora siamo forti, - esclamò Mario, - non pesa più su di noi una condanna infame, e potremo lavorare francamente per la felicità di questo fanciullo.

 

Capitolo 10 - FEBBRAIO 1848

Il giorno seguente, svegliandosi, i due fratelli provarono una viva compiacenza trovandosi insieme senza alcun sospetto. Avevano condotto Giuseppe con loro dopo avere generosamente ringraziato e ricompensato Ayasse.

Filippo e suo figlio dormirono nel piccolo appartamento della giovane coppia. Mario non poté dormire, ancora scosso dalle emozioni della giornata, e pensò ad un programma di nuova vita.

Quando tutti furono riuniti intorno alla tavola apparecchiata da Pina per la colazione, si decise ad esporre i suoi progetti.

- Dunque, - disse, - parliamo di cose serie. Bisogna decidere che cosa faremo di questo bambino e che cosa farà Filippo di sé.

Filippo si fece serio ed attento. Aveva pensato spesso all'esistenza che avrebbe condotta quando gli sarebbe stato permesso di non nascondersi, giacché capiva di dover lavorare per suo figlio rinunciando alla propria ambizione ed alle follie.

- Il bambino, - continuò Mario sorridendo e guardando in viso Pina, - troverà facilmente una mamma...

Pina aveva Giuseppe sulle ginocchia e gli faceva mangiare la pappa, con mille carezze. Quando sentì le parole di suo marito esclamò:

- La mamma è bell'e trovata! L'hanno affidato a me, non è vero, Filippo? Sono io la sua mamma... Giacché Mario non mi vuol regalare un figlio prenderò questo e lo terrò sempre con me.

Vedrete quanto bene gli vorrò!

Filippo intenerito strinse la mano alla cognata. L'idea d'avere un figliolo di quell'età l'aveva spesso spaventato, e aveva pensato come farebbe ad aver cura d'un bambino di quattro anni. L'offerta di Pina lo toglieva dall'imbarazzo: Giuseppe avrebbe avuto una madre affezionata ed egli non si sarebbe separato dal figlio.

- Il bambino è a posto, - disse Mario ridendo, - io m'incarico di mettere a posto il babbo. Ma, prima di tutto, Filippo, dimmi quali sono le tue intenzioni.

- Voglio lavorare, voglio far dimenticare le mie pazzie e formarmi un avvenire calmo e felice.

- Va benissimo... Tu rinunci al sogno di essere ricco e ti adatti ad essere un povero diavolo come me?

- Sì...

- Allora ho io quello che ti occorre... Tu non puoi continuare a fare il facchino, ed io ti offro un modesto impiego che ti darà da vivere senza essere a carico di nessuno.

- Accetto subito... Ho fiducia in te, ad occhi chiusi, sicuro che tu mi procurerai la felicità.

- Allora io ti sistemerò subito nel banco del mio principale, il signor Martelly... Da più di sei mesi ti tengo in serbo un posto da mille ottocento franchi l'anno... Credi a me, rimani nell'ombra, non cercare più di dominare, e passeremo giorni felici.

I due fratelli andarono dall'armatore, che accolse Filippo benevolmente e si mostrò contentissimo di aiutarlo prendendolo come suo impiegato.

- Caro Mario, - egli disse, - mettetelo dove volete. Qui c'è molto da fare ed abbiamo bisogno di impiegati intelligenti e attivi. Mi piace essere servito fedelmente.

Mario incaricò il fratello di una parte della corrispondenza che era estesissima. Da quel momento cominciò per Filippo una vita di pace. Passava le sue giornate al banco: la sera trovava la tranquillità vicino alla sua famiglia; pigliava Giuseppe sulle ginocchia e si trastullava con lui per ore intere. Pina aveva avuto dal padrone di casa una camera al quarto piano che essa aveva messo in ordine per Filippo. Vivevano in comune; esso mangiava e dormiva da suo fratello, non andava mai fuori e pareva contento di quella domestica felicità.

Per parecchie settimane la loro vita fu tutta d'affezione e di dolcezza. Vedendo quella famiglia concorde e felice non si sarebbero supposte le emozioni violente che l'avevano scossa qualche mese prima.

Tuttavia Filippo ritrovava di tanto in tanto il suo accento conciso ed irritato di un tempo. Lo ripigliava la febbre quando ripensava al signor di Cazalis, e parlava di farla pagar cara allo zio di Bianca.

- Siamo vili, - disse una sera a Mario, - non sappiamo vendicarci.

Io dovrei andare a pigliare a schiaffi quell'uomo e a chiedergli il patrimonio di mio figlio.

Quei bruschi accessi di collera spaventavano Mario, che giudicava lo stato delle cose con maggior sangue freddo.

- Oltrepasseresti la misura dando uno schiaffo al tuo nemico, egli rispondeva. - Ti farebbe arrestare di nuovo... ecco le conseguenze.

- Ma quell'uomo è un ladro! Tiene per sé dei quattrini che non gli appartengono, e forse li mangia. Ah! tu sei felice, Mario, che puoi pensare a cose simili senza inquietarti. Io voglio invece portargli via la roba che non è sua.

- Te ne scongiuro, non fare pazzie. Noi viviamo in pace, non turbare la nostra tranquillità.

- Tu vuoi dunque che io rinunci per mio figlio all'eredità di sua madre?

- Preferisco che almeno per ora tu rinunci a vedere di nuovo turbata la nostra felicità. Accontentiamoci di difendere senza attaccare. Siamo troppo deboli, ci faremmo rompere al primo urto.

- Vorrei che mio figlio fosse ricco e potente. Ho ambizione per lui se non ne ho più per me.

- Tuo figlio è felice; noi lo amiamo e lo educheremo da uomo onesto. Credimi; non ha bisogno di nulla, e forse sarebbe da compiangere se tu riuscissi a farlo ricco.

Simili colloqui accadevano spesso fra Mario e Filippo. Mario capiva che il signor di Cazalis era troppo potente per poterlo attaccare con probabilità di buon successo; capiva che l'ex deputato alla prima occasione avrebbe ripreso l'offensiva, e voleva serbare le proprie forze per la difesa. Il suo più gran desiderio era che lo zio di Bianca dimenticasse l'esistenza di Filippo e di Giuseppe.

Molte altre ragioni lo consigliavano di raccomandare al fratello il disinteresse. Temeva che diventando ricco, riperdesse il giudizio. Sognava per il nipote l'esistenza tranquilla dell'impiegato, e non gli pareva di potergli preparare un migliore avvenire. Egli diceva spesso: "Questo ragazzo sarà povero e felice come me, e troverà una Pina che gli procurerà la felicità che godo io". E dentro di sé aveva deciso di non chiedere neppure un soldo al signor di Cazalis.

Quando Filippo lo assediava, gli parlava di Bianca dicendogli che uno scandalo l'avrebbe uccisa, giacché il signor di Cazalis non si sarebbe lasciato ripigliare qualche centinaio di migliaia di lire senza mettere a soqquadro tutta Marsiglia. A questo modo teneva a freno il fratello e gli impediva di fare una pubblicità che avrebbe potuto avere per conseguenza irreparabili disgrazie.

Finalmente Mario provò a Filippo non essere ancor giunta l'ora di vendicarsi e reclamare l'eredità. La vita di famiglia continuò ad essere sempre più tranquilla. La loro sola inquietudine era l'idea di sentir agitare nell'ombra attorno a loro il signor di Cazalis, e si stringevano intorno al piccolo Giuseppe per proteggerlo contro i tentativi che temevano.

Giunsero così i primi di febbraio. Mario giudicava che suo fratello fosse guarito dalle smanie ambiziose. Nulla nella sua condotta lo lasciava presagire, quando ad un tratto Filippo cominciò ad uscir solo di casa, e a non farsi vedere al banco per delle intere giornate.

Mario tremò all'idea di veder minacciata la pace di casa. Seguì il fratello per vedere dove andava, e seppe che era divenuto membro di una società segreta, attiva, propagatrice delle idee repubblicane. Tale scoperta lo desolò, si disperò credendosi compromesso e accorgendosi di fornire al signor di Cazalis delle armi che avrebbe potuto usare spietatamente. Quando si arrischiò a domandare qualche cosa al cospiratore:

- Senti, - questi gli disse, - ho promesso di non far più pazzie, ma non ho rinunciato alle mie convinzioni. E' suonata l'ora del popolo, e non sarei un uomo onesto se non lavorassi al bene di tutti.

Ed aggiunse con un sorriso:

- Avrò un'amante sola, e si chiamerà libertà.

Mario cercò invano di trattenerlo la sera vicino a Giuseppe.

Filippo non volle dargli ascolto.

Per dire il vero la vita pacifica non conveniva a Filippo. Dopo due mesi cominciava ad esserne stanco; aveva bisogno di emozioni violente, di una esistenza di scosse e di pericoli. Si buttò con gioia in mezzo ai rischi che prometteva la rivoluzione imminente.

Era stato sempre un uomo d'azione, democratico avanzato. Inasprito dall'aver sofferto, volendo vendicarsi della nobiltà, accettò con gioia crudele la speranza d'una insurrezione. Diventò capo partito, spinse sommessamente gli operai alla rivolta, preparando la popolazione povera alle sognate barricate.

Il venerdì 25 febbraio, un fulmine scoppiò su Marsiglia. Si seppe che Luigi Filippo era detronizzato e la repubblica era stata proclamata a Parigi.

La notizia d'una rivoluzione, mise la costernazione nella città.

Quel popolo di negozianti, conservatore per istinto, non occupandosi d'altro che d'interessi materiali, era affezionato alla dinastia degli Orléans, che durante diciotto anni aveva favorito lo sviluppo del commercio e dell'industria. L'opinione della maggioranza di Marsiglia era questa: il miglior governo è quello che lascia agli speculatori la maggior libertà d'azione.

Perciò gli abitanti della città si spaventarono all'annuncio d'una crisi che avrebbe per forza sospeso gli affari e provocati molti fallimenti, sopprimendo il credito sul quale vivono molte case di commercio.

Marsiglia accoglieva dunque la repubblica come un deplorabile disastro commerciale. Si sentiva ferita al cuore, nella sua prosperità, dal movimento insurrezionale di Parigi. La maggioranza si disperò temendo di perdere gli scudi ammassati: la parola "libertà" fece trasalire appena qualche galantuomo e scosse pochi dal sonno potente della cupidigia.

Filippo s'ingannava credendo di poter spargere fra i suoi concittadini il seme delle idee repubblicane. Vi s'era messo con tutta la foga della sua indole, e sognava sveglio, lavorando per realizzare i suoi sogni. S'egli avesse studiato meglio l'ambiente nel quale si trovava, se avesse avuto il sangue freddo necessario a giudicare uomini e cose, avrebbe rinunciato ad alzare la bandiera del liberalismo e sarebbe rimasto quieto.

Per dire il vero, non esisteva un partito repubblicano. Non c'era alcun legame fra la borghesia liberale ed il popolo; il popolo restava in basso, senza scopi precisi, non osando agire da solo; la borghesia si contentava di sognare un po' di onesta libertà fatta per suo uso e consumo. I pochi repubblicani da parata, che portavano in giro dappertutto le loro belle frasi, erano semplicemente dei chiacchieroni, che non avevano idea dello spirito moderno della società umana, e cercavano il mezzo di avvantaggiarsi con un nuovo stato di cose.

Di fronte a questi repubblicani deboli e disuniti si trovavano due forze potenti: i legittimisti, che ridevano sotto i baffi della caduta di Luigi Filippo, sperando di profittare della confusione per tornare al potere; e i conservatori, la folla dei commercianti, che volevano la quiete a qualunque costo, qualunque fosse il padrone, legittimo od usurpatore. Questi ultimi desideravano ardentemente una sola libertà: la libertà di guadagnare dei milioni.

Se Marsiglia lo avesse osato, avrebbe potuto fare una contro- rivoluzione. Obbligata a sottomettersi agli avvenimenti, si contentò di opporre una sorda reazione al nuovo governo. Accettò la repubblica con diffidenza e tentò di diminuirne, quanto era possibile, i benefici. Gli elementi conservatori e legittimisti continuarono a predominare, e fecero della città un centro di attiva opposizione.

A momenti, quando non lo esaltava la febbre, Filippo vedeva benissimo che egli ed i suoi amici non sarebbero riusciti a far diventare Marsiglia repubblicana; ed allora provava una gran collera e una grande disperazione. Da qualche tempo s'era buttato nel giornalismo; ma si accorse subito che i suoi articoli appassionati non erano neppure letti dalla folla atterrita dei negozianti. Gli parve che l'azione fosse preferibile all'apostolato.

Un provvedimento che lo irritò fu l'istituzione d'una guardia nazionale, scelta fra la borghesia aristocratica di Marsiglia.

Quella guardia era evidentemente destinata a far rigar diritto il popolo. Avrebbe voluto vedervi ammessi i poveri come i ricchi, affinché la città fosse affidata a tutti i cittadini, a una truppa francamente animata da idee liberali. Il popolo faceva paura ai conservatori, ed essi armavano la borghesia per creare un antagonismo fra essa ed il popolo, per farli urtare l'uno contro l'altro, se le circostanze lo permettevano. Ciò equivaleva a preparare la guerra civile. La corporazione dei facchini fu la sola accettata, perché si pensò che i suoi componenti, dipendenti dai negozianti per i quali lavoravano, avrebbero consentito a combattere contro i loro fratelli, gli altri lavoratori, il popolaccio il cui nome solo faceva venire i brividi.

Filippo si rifiutò energicamente di far parte della guardia nazionale.

- Io resto col popolo, - disse in pubblica piazza, - se l'attaccano, se non rispettano i suoi diritti, gli consiglierò d'armarsi e combatterò con lui.

Dal venerdì 25 al martedì 29, Marsiglia non si seppe decidere a proclamare la repubblica. Le autorità del caduto governo rimasero al loro posto, la città intera fu ansiosa ed irrequieta. Il prefetto ed il sindaco affermavano di essere senza notizie di Parigi. Sentendo quanto pericolo vi fosse nel lasciare il potere in mano alle creature del re caduto, i repubblicani fecero varie dimostrazioni senza alcun risultato. La reazione cominciava, i conservatori non volevano abbandonare il posto, prima d'esser sicuri che non c'era ormai più speranza. Si arrivò così al lunedì sera. Gli operai, riuniti sulla Cannebière, dovettero dirigersi verso il municipio, in massa, con torce e bandiere, per ottenere la promessa che la mattina seguente si sarebbe proclamato il nuovo governo.

Durante i cinque giorni Filippo visse con la febbre addosso. Non andava più al banco, tornava tardi, scosso dalle emozioni violente della giornata. La sera portava nella sua casa desolata parole di collera e di minaccia. Pina e Mario lo guardavano afflitti, e capivano che si perdeva senza poterlo trattenere sull'orlo dell'abisso.

 

Capitolo 11 - NEL QUALE MATTEO DIVENTA REPUBBLICANO

Il giorno dopo la sua spedizione alla casa del giardiniere Ayasse il signor di Cazalis fu preso da un vero spavento. Gli parve d'essere nelle mani dei suoi nemici; ottenuta la grazia di Filippo Cayol, lo avrebbero perseguitato senza misericordia.

Lasciò indovinare le sue paure a Matteo. Non sapendo su chi sfogare la rabbia della quale era causa la sua impotenza, caricò Matteo di rimproveri, lo insultò, gli disse che era stato pagato da Mario per non portar via Giuseppe.

Matteo sopportò filosoficamente le ingiurie con un'alzata di spalle.

- Tirate avanti, - rispose con impudenza, - trattatemi da miserabile, se vi fa piacere. Sapete bene che in fin dei conti vi sono affezionato perché mi pagate molto più di quello che mi potrebbero pagare quegli straccioni dei Cayol... Invece di arrabbiarvi fareste meglio a ragionare e pigliare una decisione.

Il sangue freddo di quel briccone calmò il signor di Cazalis.

Confessò al suo complice d'avere una voglia matta di scappare e andarsene a vivere tranquillamente in Inghilterra o in Italia. Era quello il modo più semplice e più sbrigativo per fuggire le noie dalle quali era minacciato. Non potevano andare a chiedergli i conti della tutela all'estero.

Matteo ascoltò il padrone scotendo la testa. Quel progetto di fuga non gli conveniva. Per mettersi da parte qualche cosa gli occorreva che il signor di Cazalis restasse a Marsiglia per speculare sulla sua paura e cavargli di sotto quanti più quattrini poteva. Capiva che il suo padrone aveva tutte le ragioni di voler fuggire; nella fuga era la sua salvezza. Ma gli importava poco della salvezza del signor di Cazalis; gl'importava poco di comprometterlo, quando spingendolo in una lotta di incerto risultato trovava il suo tornaconto. Gli premeva prima di tutto di non perdere la sua paga. Perorò vivacemente contro la fuga e gli riuscì di trovare qualche buon argomento.

- Perché fuggire? - egli disse. - Non volete vendicarvi? Non c'è nulla di disperato. I vostri nemici tremano davanti a voi e non oseranno mai assalirvi di fronte. Mille ragioni li obbligano a stare zitti. Io, al vostro posto, resterei, vorrei vincere, e riprenderei l'offensiva. Quegli imbecilli commetteranno qualche sproposito. Profittiamo di tutto; arriverà il momento nel quale li avremo di nuovo fra le unghie... M'avete accusato di non essere buono a nulla perché non vi ho portato il bambino. Voglio prendermi la rivincita... Sulla mia parola di galantuomo, avrete il bambino! Corpo di Bacco! noi due siamo capaci di riuscire in qualunque cosa.

Parlò un pezzo abilmente facendo appello all'orgoglio, al bisogno di vendetta del suo padrone, e finì col deciderlo a rimanere e continuare la lotta. Allora tennero fra di loro una lunga conferenza.

Prima di tentare ogni altro mezzo, il signor di Cazalis volle che Matteo facesse una prova con Bianca. Doveva presentarle a firmare varie carte che spogliavano suo figlio di gran parte della sua eredità. Matteo andò, risoluto a non farle firmare nulla: ciò avrebbe reso troppo semplice l'affare e i suoi servizi diventavano inutili: firmate quelle carte, il signor di Cazalis poteva fare a meno di lui.

Fece in modo che Bianca negasse assolutamente la firma. Il rifiuto della nipote inasprì il signor di Cazalis, che pensò soltanto a vendicarsi. Parlava di sterminare i Cayol. Matteo desiderava di vederlo giunto a quel grado d'irritazione. Si affrettò a farsi dare pieni poteri, e lo supplicò di non mischiarsi in nulla, di non compromettersi. Ogni sera andava a fargli il suo rapporto, vero o falso, lo teneva informato delle gesta dei suoi nemici, calmandolo, irritandolo, secondo il bisogno, e promettendogli sempre pronta vittoria.

Passarono due mesi. Il signor di Cazalis cominciava a perdere la pazienza dicendo che i Cayol avevano troppo buon senso e non parevano disposti a commettere nessuno sproposito, quando una sera Matteo entrò nel suo salotto con aria trionfante fregandosi le mani.

- Che cosa c'è di nuovo? - domandò subito l'ex deputato al suo complice.

Matteo non rispose subito. Si era messo comodamente a sedere su una poltrona, e socchiudeva gli occhi con le mani sulla pancia con un gesto di soddisfazione. Quel facchino trattava come un suo pari l'illustre discendente dei Cazalis.

- Che opinione avete della repubblica? - domandò ironicamente al suo padrone. - E' una bella invenzione, non e vero?

Il padrone alzò le spalle. Tollerava la sfacciataggine di quel pezzente che si compiaceva spesso di offenderlo.

- Sapete già che la monarchia è morta e sotterrata, - ripigliò Matteo. - Da ventiquattr'ore siamo tutti cittadini ed ho una voglia matta di darvi del tu.

Il signor di Cazalis da qualche mese si occupava di politica con molta indifferenza. Aveva saputo il giorno prima che Luigi Filippo era caduto, senza dare nessun peso a tale notizia. Quando era deputato dell'opposizione e procurava di scalzare quel trono che il popolo aveva buttato giù, avrebbe applaudito ad un tale avvenimento, salvo a cercare subito dopo i mezzi per tenere a freno la canaglia, come chiamava generalmente gli operai. Ma allora gli premeva più d'ogni altra cosa di conservare il patrimonio di sua nipote per mangiarselo impunemente.

Ciononostante, quando sentì che Matteo aveva voglia di dargli del tu, sentì dentro di sé un movimento di reazione.

- Non scherziamo, - disse freddamente, - sentiamo; che notizie avete?

Matteo continuò ad essere insolente.

- Oh! oh! come parlate malamente ai vostri fratelli... perché ora siamo tutti fratelli... è scritto sulle bandiere. Oh! la repubblica è una gran bella cosa!

- Insomma! che cosa sapete? di dove venite?

- So che uno di questi giorni faremo le barricate, e vengo dal circolo dei Lavoratori del quale sono uno dei soci più popolari...E' un peccato che le vostre opinioni c'impediscano di venirmi a sentire. Stamani ho fatto un discorso contro i legittimisti che ha ottenuto le lodi di tutti. Se volete posso darvi qualche saggio della mia eloquenza.

E Matteo si alzò e restò in piedi, con una mano sul cuore, l'altra tesa avanti, come uno che sta per parlare.

Il signor di Cazalis capì che il suo complice aveva da dargli qualche buona notizia e gliela faceva cascare dall'alto divertendosi alle sue spalle. Apparteneva a quell'uomo ed era costretto a subirne tutte le canzonature. Per viltà, per compiacenza verso quell'uomo che si divertiva con lui come con una preda, si abbassò fino a sorridere delle sue smorfie da saltimbanco, sperando di farlo decidere a parlare prima.

- Dovete essere un eccellente oratore, - gli disse ridendo a fior di labbra.

Matteo era rimasto nella sua posizione cercando le frasi di un discorso. Poi si lasciò cadere nuovamente sulla poltrona, incrociò le gambe e continuò sempre in tono canzonatorio:

- Non me ne ricordo più... Era bellissimo... ho detto che i legittimisti erano delle canaglie. Credo anche di avervi nominato e di aver proposto d'impiccarvi alla prima occasione... La proposta è stata applaudita... Capirete che devo pensare alla mia popolarità.

Rideva, mostrando i suoi denti da lupo. Il signor di Cazalis cominciava ad essere irritato da quella familiarità, e camminava su e giù, facendo degli sforzi per non arrabbiarsi. Matteo si godeva con delizia la collera del padrone. Stette un momento zitto; quando gli parve imprudenza l'insistere, aggiunse:

- A proposito, dimenticavo di dirvi che il signor Filippo Cayol è mio collega al circolo dei Lavoratori.

Il signor di Cazalis si fermò di botto.

- Finalmente! - egli disse.

- Sì, - continuò Matteo, - il signor Filippo Cayol è un fervente repubblicano che m'onoro di avere per maestro. I suoi discorsi sono quelli di un democratico convinto quanto me. Quel giovanotto salverà la patria se avrà bisogno di essere salvata.

- Ah! quello sciocco si è buttato nel movimento liberale?

- A corpo perduto. E' uno dei capi del partito rosso. Gli operai lo adorano perché con essi non è orgoglioso e ha l'ingenuità di dire loro in buona fede che il popolo è re e che i poveri prenderanno il posto dei ricchi e dei nobili.

Il signor di Cazalis era raggiante.

- Si compromette; l'abbiamo nelle mani! - esclamò.

Matteo faceva finta d'essere scandalizzato.

- Come? si compromette! dite ch'egli è un eroe, un figlio sublime della repubblica, fra dieci anni i popoli vincitori dei re gli innalzeranno degli altari. Sono stato tanto entusiasmato dai suoi discorsi da sentire subito in me la stoffa del repubblicano.

E si alzò continuando buffonescamente:

- Cittadini, voi vedete in me un repubblicano. Guardatemi, vedete come è fatto un repubblicano! Siamo poche centinaia a Marsiglia, ma ci sacrifichiamo per la salute dell'umanità. Quanto a me sono pieno di zelo...

Alla sua volta passeggiava su e giù per il salotto.

- Ecco che cosa ho già fatto per la repubblica. Ho preso per modello Filippo Cayol e l'ho seguìto passo per passo. Siamo stati ammessi tutti e due in una società segreta: poi mi sono fatto ammettere insieme a lui nel circolo dei Lavoratori. Ogni qualvolta egli parla, io l'applaudisco e lo inebrio di entusiasmo. Sono certo che incoraggiato da me, Filippo Cayol farà delle grandi cose.

- Capisco, capisco...

- Noi faremo le barricate, perché le barricate sono necessarie alla gloria di Filippo Cayol. Il popolo ha lavorato abbastanza, non è vero? Gli aristocratici lavoreranno a loro volta... Qualche fucilata rimetterà il buon ordine. Filippo Cayol marcerà alla testa dei suoi amici operai; li condurrà alla gloria, purché un gendarme non lo prenda per il bavero e non lo conduca davanti alla Corte d'assise, che è capace di condannarlo alla deportazione.

L'ex deputato non stava più nella pelle dalla consolazione. Lo divertivano anche le smorfie di Matteo. Gli stringeva le mani e gli ripeteva con passione:

- Grazie, grazie, tu sarai ricco!

Matteo stette un momento zitto, poi scoppiò in una risata.

- Ecco fatto, - esclamò, - la farsa è rappresentata!

Aveva in sé del saltimbanco. Era felice per aver messo bene in scena le notizie portate. Padrone e servo sedettero e parlavano a voce più bassa.

- Avete capito, - disse Matteo, - abbiamo nelle mani il signor Filippo che si comporta come un bambino, fidatevi di me, gli farò commettere qualche stravaganza che gli sarà fatta pagar cara.

- Ma se tu lo segui sempre ti riconoscerà!

- No! mi ha visto una volta sola, di sera, a San Barnaba. Poi ho comprato una parrucca color biondo acceso che mi dà un'apparenza veramente rivoluzionaria. Che sciocchi questi democratici, caro principale! Parlano di giustizia, di doveri, di eguaglianza ed hanno delle apparenze oneste che mi fanno stizzire. Se sapessero che lavoro per voi scommetto che mi farebbero a pezzi. Non mi pagherete mai abbastanza il sacrificio che faccio, consentendo a farmi credere uno dei loro.

- E se i liberali vincessero?

- Come? credete che a Marsiglia vogliano tanto bene alla repubblica? Qualunque cosa accada, i repubblicani, in questa brava città, ne buscheranno. Non abbiate paura. Se il Cayol può essere acciuffato in qualche scaramuccia è bell'e accomodato. Non passeranno quindici giorni che i nostri negozianti saranno stufi della libertà e avranno voglia di strozzare quanti la servono.

L'ex deputato si ricordò delle manovre elettorali con le quali era stato eletto, e non poté trattenere un sorriso. Il suo complice aveva ragione; dove regna il Dio quattrino, le idee repubblicane non prosperano.

- Non ho bisogno di esporvi tutto il mio piano, - aggiunse Matteo.

- State tranquillo, vi consegnerò padre e figlio. Ricominciamo la spedizione di San Barnaba, ma con migliore esito.

Il padrone lo ringraziava di nuovo.

- Ohè! - gli disse Matteo, - non mi farete pigliare in trappola con gli altri repubblicani per sbarazzarvi di me! Mi comprometto e voglio esser garantito. Scrivetemi una lettera nella quale m'incaricate di sorvegliare Filippo Cayol. In questo modo diventate mio complice. Vi renderò la lettera quando mi pagherete per i miei servizi una somma che fisseremo d'accordo.

Il signor di Cazalis acconsentì. Non poteva fare altrimenti ed era certo di aver dalla sua Matteo con i denari. Matteo gli raccomandò di star quieto in casa. Voleva agire per conto suo.

 

Capitolo 12 - LA REPUBBLICA A MARSIGLIA

La repubblica fu finalmente proclamata in forma solenne a Marsiglia, la mattina del 29 febbraio sulla Cannebière. Era una mattina fredda e piovosa. Mentre le antiche autorità deponevano il potere, il commissario provvisorio mandato da Parigi a Marsiglia, arrivava da Aix in carrozza di posta. Un caso singolare mise così faccia a faccia, durante lo sfilare della truppa e della guardia nazionale, i rappresentanti della monarchia decaduta e quelli della nuova repubblica.

Quella giornata fu solenne per Filippo. Le sue più care speranze si realizzavano. Aveva temuto per un momento che una reggenza si sostituisse alla monarchia. La lentezza con la quale il prefetto e il sindaco di Marsiglia avevano riconosciuto la rivoluzione gli facevano credere che la lotta di Parigi non fosse stata decisiva.

Quando sentì proclamare pubblicamente il nuovo governo gli parve che il popolo avesse ottenuto una grande vittoria, e credette fermamente che fosse giunta l'ora del gran partito democratico.

Ma le speranze del giovane non tardarono a essere smentite dai fatti. Cadde dall'alto delle sue passioni umanitarie nella realtà delle passioni e degli interessi umani. Fu una grave caduta che lo inasprì e lo spinse a risoluzioni estreme.

Aveva creduto ingenuamente che alla proclamazione della repubblica avrebbe fatto seguito un largo movimento che avrebbe spinto tutta la città sulla via del liberalismo.

Fu dolorosamente sorpreso quando vide che, fatalmente spinte dalle circostanze, le autorità superiori erano costrette ad andar d'accordo con la reazione. I conservatori, i legittimisti restarono in qualche modo padroni di Marsiglia. Nei posti ufficiali c'erano dei loro amici, loro creature, che dirigevano segretamente gli affari pubblici. In una parola la città tollerò, non accettò, il nuovo governo.

Quando i repubblicani si accorsero che non avevano conquistato nulla, vollero inviare a Parigi dei rappresentanti risoluti a difendere gli interessi del popolo. Le elezioni imminenti assorbirono tutte le loro forze. Sentivano quanto premeva loro una vittoria e volevano scegliere i rappresentanti nelle loro file.

Le elezioni erano fissate per il 23 aprile. Durante le tre settimane che precedettero quel giorno, Filippo ebbe parte attiva al lavoro elettorale dei circoli. La democrazia era stata già battuta nell'elezione d'una nuova rappresentanza municipale, nella quale, nonostante il desiderio dei repubblicani, erano entrati uomini ostili al nuovo ordine di cose. I circoli, per non lasciarsi battere una seconda volta, dettero prova di grande attività e di grande energia. Compilavano liste preparatorie, catechizzavano il popolo, cercavano di far trionfare in tutti i modi la loro causa.

Durante quelle tre settimane d'agitazione, Filippo poté ancora illudersi. Dimenticò quale era il vero stato della città, e non vide più la formidabile reazione dalla quale era attorniato il piccolo gruppo dei liberali. Correva per Marsiglia dalla mattina alla sera, incoraggiando gli uni, ringraziando gli altri, cercando di procacciare il maggior numero di voti possibile. Si era incaricato di interrogare taluni uomini che i repubblicani volevano eleggere come loro rappresentanti, e che per modestia o per altre cause stavano nell'ombra. Fra questi c'era il signor Martelly.

Una mattina Filippo andò al banco, dove compariva ormai raramente, e chiese qualche minuto di colloquio alI'armatore. Il signor Martelly lo ricevette subito. Capì che il giovane non andava a fargli visita come suo impiegato: non gli parlò delle lunghe assenze, lo trattò da amico, indovinando la missione che si era incaricato di adempiere.

Dopo due o tre delle solite frasi, Filippo entrò in materia.

- Non vi ho più veduto da un pezzo al circolo dei Lavoratori, disse al signor Martelly, - voi siete socio di quel circolo, non è vero?

- Sì, - rispose l'armatore. - Ci vado raramente. Credo che tali riunioni giovino poco alla causa del liberalismo.

Filippo finse di non capire.

- Si deplora spesso la vostra assenza, - continuò. - Gli uomini come voi sono preziosi. Avete avuto torto, come mi diceva ieri uno dei nostri colleghi, di mettervi in disparte quando fu eletta la rappresentanza municipale Oggi che si avvicinano le elezioni politiche dovete farvi vedere ed accettare con la vostra autorità la causa che difendiamo.

Il signor Martelly non rispose. Guardava in faccia il suo interlocutore per obbligarlo a fargli delle proposte nette e precise. Filippo capì quel desiderio.

- Noi siamo tutti disposti ad appoggiare la vostra candidatura.

Perché non vi presentate?

Vi fu un momento di silenzio. L'armatore era serio e triste.

- Perché? - rispose subito dopo con voce lenta, - perché sono certo di non riuscire. Lasciate che vi parli come un padre, come un amico. Voi andate incontro alla vostra rovina. La repubblica ucciderà voi e voi ucciderete la repubblica. Sapete come la penso, e non dubitate, spero, ch'io sia pronto a versare il mio sangue per il trionfo della giustizia e della verità, ma nel vostro caso, l'abnegazione non può essere utile. Siamo vinti prima di aver combattuto. Ho avuto l'idea d'andare a Parigi ad offrire l'opera mia al nuovo governo, per aiutarlo con la mia persona ed i miei denari. A Marsiglia ho le braccia legate. Ho risoluto di stare in disparte, perché non mi voglio trovare in mezzo a tutte le brutte faccende che prevedo.

- Sicché voi siete certo del trionfo della reazione?

- Sì... se tutte le città di provincia sono come Marsiglia, la nostra repubblica durerà tutt'al più due o tre anni, e poi verrà un dittatore. I fatti ve lo dimostreranno.

L'accento severo del signor Martelly, la sua disperazione tranquilla, fecero molta impressione sull'animo di Filippo. Egli capì, per un momento, la dura verità.

- Forse avete ragione, - disse con tristezza, - ma se i giovani avessero la vostra esperienza, starebbero con le mani in mano e parrebbe una viltà. Vedete, è meglio lottare... Vi ricusate dunque a mettervi avanti?

- No, davvero... Se il popolo crede d'aver bisogno di me, risponderò al suo invito, qualunque cosa accada, sebbene certo di non riuscire. Non credo d'avere il diritto di sottrarmi alla necessità delle circostanze. Non indietreggerò davanti alla probabilità di uno scacco quando i repubblicani mi inviteranno ad espormici. Ma non voglio essere confuso con gli ambiziosi, che ora buttano all'aria la città, e adulano la repubblica come adulavano la monarchia per consolidare la loro posizione e la loro fortuna.

Sono stato fin qui nell'ombra per non essere creduto uno di loro.

Voglio che si sappia, se mi presenterò candidato, che il popolo ha pregato me ed io non ho pregato nessuno.

La voce del signor Martelly s'era animata. Ritto in piedi, con gli occhi spalancati, accompagnava ognuna delle sue frasi con un gesto energico. Anche Filippo s'era alzato in piedi.

- Vedrete che tutto andrà bene, - disse, - vado a dire ai nostri amici che accettate il loro mandato. Il vostro nome sarà messo fino da oggi sulle liste preparatorie e dovrà uscire dall'urna.

- Siete giovane! - ripigliò l'armatore scuotendo il capo.

Sognate a occhi aperti. Povero figliolo! la libertà è molto malata. Credo che ci ritroveremo ai suoi funerali.

Filippo fece un movimento violento.

- Va bene! - esclamò, - se l'ammazzano, prenderemo dei fucili ed ammazzeremo gli assassini. Vi sarà la guerra civile, le barricate... sangue, morti. Tanto meglio!

Era esasperato, tremava. Il signor Martelly gli aveva preso le mani e cercava di calmarlo - Se farete le barricate, - gli disse, - andrò a mettermi fra il vostro fuoco e quello della truppa. Non si deve versare sangue in nome della fratellanza. No, no... non si devono commettere violenze.

Filippo si congedò. Quel colloquio lasciò in lui una malcelata inquietudine. Il ragionamento calmo dell'armatore aveva fatto l'effetto di una doccia fredda sulla sua passione. Dentro di sé e malgrado se stesso disperava dell'esito. Continuò ad occuparsi con zelo delle elezioni. Quando venne il giorno aveva ricominciato a sperare, ma i risultati lo atterrirono. Tutte le predizioni del signor Martelly si compirono. Non soltanto egli non fu eletto, ma vinse completamente il partito della reazione. Su dieci eletti c'erano tre soli repubblicani radicali; gli altri appartenevano al partito conservatore o erano legittimisti Da quel giorno Filippo visse in uno stato continuo d'irritazione.

Vista l'inutilità dei propri sforzi, si ostinava ciononostante in un'impresa che doveva portargli sventura. Ogni giorno il suo partito era nuovamente sconfitto: la reazione ingigantiva. Un giornale predicava apertamente il decentramento politico per sottrarsi a quella che chiamava la dittatura rivoluzionaria di Parigi. L'autorità, debole e impotente, faceva delle concessioni continuamente. Se un re fosse sbarcato sulla Cannebière, sarebbe stato acclamato.

I repubblicani protestavano invano contro la formazione della guardia nazionale composta esclusivamente di borghesi ricchi e per conseguenza conservatori. In un tale sistema d'organizzazione c'era un pericolo permanente di guerra civile. Se un giorno la guardia nazionale e il popolo si fossero incontrati ne sarebbe accaduto un urto.

Filippo prevedeva il fatale incontro, e pregustava una gioia feroce nel sognare una lotta a mano armata. Intanto fraternizzava col popolo, andava a tutti i banchetti, si ubriacava di retorica.

Dopo le elezioni s'era dimesso dal suo posto per vivere liberamente nella strada, in mezzo agli avvenimenti di tutti i giorni. Non sapeva come sarebbero andate a finire le cose, ma aveva la vaga speranza di una lotta dalla quale il popolo sarebbe uscito vincitore. Allora la repubblica avrebbe trionfato e gli operai a loro volta sarebbero divenuti padroni.

Passarono altri due mesi, e giunse la metà di giugno.

Pina e Mario vivevano in continua inquietudine. Mario non osava dire più nulla a suo fratello che accoglieva i consigli con segni evidenti di cattivo umore. Si contentava di sorvegliarlo di nascosto, per essere sempre pronto a salvarlo quando stesse per commettere una pazzia.

Un giorno, sboccando sulla Cannebière, si trovò di fronte ad un capitano della guardia nazionale che faceva luccicare al sole i galloni nuovi della sua uniforme. Riconobbe Salvario.

L'antico capo facchino era raggiante. Batteva i tacchi sul lastrico come un trionfatore, e guardando le sue spalline con la coda dell'occhio, lasciava scorgere sulle labbra un sorriso di vanità soddisfatta. La spada gli dava noia battendogli sulle polpe, ma la teneva con una mano, appoggiando il pugno sull'elsa.

Quella spada doveva essere "il più bel giorno della sua vita" come la sciabola del signor Prudhomme. L'uniforme lo vestiva attillato militarmente, e soffocando nella tunica era felice di soffocare per la salute della patria. Dal suo modo di camminare, con i gomiti larghi e la testa buttata indietro, s'indovinava che Salvario salvava la Francia ad ogni dieci passi. Gli si leggeva in viso la gioia infantile di essere vestito da soldato ed il desiderio feroce d'esser preso sul serio.

Incontrando Mario si trovò imbarazzato. Temeva che questi si ricordasse del passato, del tempo in cui frequentava le bische, e lo canzonasse vedendolo in uniforme. Lo guardò inquieto per la propria dignità che non voleva compromettere. Quando si accorse che il giovane tratteneva un sorriso gli parve necessario di mostrarsi in tutte le parvenze del suo grado.

- Eh! - esclamò con accento militare, breve e sonoro, - eh! mio giovanotto! come state! Non vi vedo da un secolo! quante cose sono accadute! quante cose!

Parlava tanto forte da far voltar indietro quelli che passavano.

Tale curiosità lo lusingava moltissimo. Si mosse facendo un gran rumore d'acciaio e gettando negli occhi della folla i riflessi delle sue spalline e dei suoi galloni.

Mario gli dette la mano senza rispondergli ed egli credette di averlo intontito con lo splendore della sua uniforme. Lo prese per un braccio con aria di protezione e cominciò a risalire la Cannebière degnandosi di dargli prove d'amicizia.

- Eh! mi guardate? - ripigliò, - vi sorprende di vedermi nella guardia nazionale? Che volete? mi hanno tanto pregato, tanto supplicato, che ho finito per accettare. Capirete bene che preferirei mille volte di starmene tranquillo in casa. Ma in tempi difficili i buoni cittadini hanno dei doveri da compiere. Avevano bisogno di me ed io non ho potuto rifiutarmi.

Mentiva con una sfacciataggine colossale. Era lui che aveva pregato, sollecitato a mani giunte, per avere un posto di capitano. Voleva avere delle spalline dorate: a questo patto soltanto consentiva a servire la patria.

Mario cercava qualche parola di risposta e non la trovava: finì per balbettare:

- Sicuro... siamo in tempi difficili.

- Ma siamo qua noi! - esclamò Salvario impugnando l'elsa della spada. - Bisognerà passare sul nostro corpo prima di turbare la tranquillità del paese. Non abbiate paura: rassicurate le vostre mogli ed i vostri figli; la guardia nazionale adempirà la missione che le è confidata.

Disse quelle parole come se le avesse imparate a memoria. Mario, per fargli dispetto, aveva voglia di domandargli notizie di Chiarina.

- Vedete; la popolazione, - continuò Salvario, - è pacifica ed ha fede nella nostra vigilanza e nel nostro coraggio.

Si fermò e ripigliando il suo consueto tono di voce ingenua e soddisfatta, domandò:

- Vi piace la mia uniforme? Ho l'aspetto marziale, non è vero? Se sapeste quanto mi costano queste spalline!

- State benissimo; vi confesso che il vedervi inaspettatamente mi ha fatto molta impressione... E quali sono le vostre opinioni?

Salvario parve sconcertato.

- Le mie opinioni? le mie opinioni...? ah! volete sapere che cosa penso della repubblica, non è vero? Penso che è una bella cosa. Ma l'ordine, capirete bene... La guardia nazionale è istituita per mantenere l'ordine... L'ordine, io non vado più in là...

Si pavoneggiò trionfante per aver saputo trovarsi un'opinione. In fondo stimava la repubblica che gli aveva dato le spalline; ma gli avevano detto che i repubblicani, trionfando, gli avrebbero portato via i quattrini ed egli detestava i repubblicani. Cercava di fare andar d'accordo bene o male questi due sentimenti, e d'altronde non interrogava mai le proprie convinzioni.

Fece qualche altro passo con Mario, poi lo lasciò dicendogli con aria d'importanza che il servizio lo reclamava altrove. Ma era una finta: fece fronte indietro e si riavvicinò a Mario per dirgli in aria confidenziale:

- Mi dimenticavo d'una cosa... Dite a vostro fratello di non compromettersi con quel branco di mascalzoni che lo seguono dappertutto. Consigliategli di non mescolarsi con la canaglia e di farsi nominare capitano come me. E' più prudente.

Mario, senza rispondergli, gli stringeva la mano per ringraziarlo, ed egli aggiunse, perché in fin dei conti era sempre un buon uomo:

- Se posso esservi utile in qualche impiccio, contate su me. Mi piace servire gli amici come la patria. Sono a vostra disposizione; avete capito?

Non si pavoneggiava più. Mario lo ringraziò di nuovo e si lasciarono più amici di prima.

La sera Mario parlò dell'incontro fatto a suo fratello e a Pina, e li divertì descrivendo loro l'atteggiamento trionfante dell'antico capo facchino.

Filippo finì con l'irritarsi.

- E la quiete della città è affidata a tali uomini! Sono ben vestiti; si divertono a fare i soldatini. Corpo di Bacco: stiano attenti; li forzeremo a pigliare la loro parte sul serio. Il popolo è stanco della loro vanità e delle loro sciocchezze.

- Taci! - gli disse severamente Mario, - quegli uomini possono essere ridicoli, ma non si uccide il proprio paese.

Filippo si alzò e ripigliò con violenza:

- Il paese non è con loro. Gli operai, i lavoratori sono il paese... La borghesia ha i fucili, il popolo non ne ha. Guardano il popolo a mano armata come una bestia feroce! Un giorno la bestia mostrerà i denti e divorerà i guardiani. Ecco...!

E salì adirato in camera sua.

 

Capitolo 13 - LA STRATEGIA DI MATTEO

Matteo era veramente un repubblicano puro, un radicale con il quale non c'era da scherzare. Con la fronte coperta per metà dalla sua parrucca rossa, agitava la testa nei circoli, come una torcia dalla fiamma rosseggiante. Era sempre per i partiti estremi e appoggiava tutte le proposte dalle quali potessero derivare disordini nella città. Finì per ispirare una specie di misterioso terrore, e si ascoltavano i suoi pareri con ammirazione spaventata. Il giorno seguente a quello delle elezioni aveva parlato addirittura di bruciare Marsiglia e la proposta gli dette grande popolarità fra i repubblicani esaltati.

Spesso incontrava Filippo, ma evitava di far conoscenza con lui, contentandosi di sorvegliarlo da lontano e di prendere appunto delle parole audaci che egli si lasciava scappare. Avrebbe voluto vederlo compromesso in qualche cospirazione. Finché si contentava di declamare nei circoli, d'assistere ai banchetti e alle dimostrazioni popolari, capiva che non c'era da concludere nulla contro di lui. Perciò lo spingeva alla guerra civile, alle barricate. Sperava che alla prima fucilata Filippo sarebbe andato nella strada a battersi e l'avrebbero condannato come insorto.

La guerra civile era desiderata da Matteo. Avendo promesso al padrone di consegnargli padre e figliolo, faceva calcolo sopra un tumulto insurrezionale per rubare il piccolo Giuseppe, mentre Filippo si sarebbe fatto uccidere o arrestare. S'era formato nella testa un progetto che non poteva fallire, secondo lui. Ma bisognava risolvere il popolo a battersi.

Intanto il signor di Cazalis perdeva la pazienza. Da tre mesi aspettava invano che Matteo mantenesse le sue promesse.

Quando questi andava ogni sera di nascosto a rendergli conto dei fatti accaduti durante la giornata, si lamentava del lungo ritardo che l'obbligava a vivere nascosto nel suo palazzo.

- Signor mio! - gli diceva sorridendo la spia, - non posso fare le barricate da me solo. Lasciate che l'insurrezione maturi. Siete più repubblicano di me... Accade qualche volta, eh?

Una sera, Matteo entrò come un fulmine nella stanza dell'ex deputato, esclamando:

- Credo che domani ci batteremo. Ho parlato al circolo per due ore intiere.

Era fuori di sé dalla gioia. Vedeva in un avvenire prossimo la somma promessagli dal padrone. Questi lo assediò di domande desiderando d'avere qualche certezza.

- Sentite, - disse Matteo, - i marsigliesi non si sarebbero mossi, ma hanno ricevuto la visita di alcuni parigini che hanno preso parte alle giornate di febbraio, e questa visita li ha riscaldati.

Questi parigini vanno a far la guerra in Italia, e derubati strada facendo da uno dei loro capi, sono arrivati a Marsiglia privi di tutto.

- Ma quei parigini sono partiti.

- Sì, ma hanno lasciato qui il soffio della rivoluzione. C'è stata una dimostrazione in loro favore davanti alla prefettura ed è mancato poco che non si siano tirate delle fucilate. Si voleva che la città li soccorresse. Domani gli operai malcontenti devono fare una grande dimostrazione che spero finirà male.

- Che cosa vogliono gli operai?

Matteo lo informò della situazione del momento che era molto grave. L'istituzione degli opifici nazionali aveva incontrato a Marsiglia molte difficoltà e doveva essere causa di grandi sventure. I soli lavori riservati al popolo, per decreto del governo provvisorio, erano i trasporti di terra necessari per gli scavi del canale, allora in costruzione, che conduce in città le acque della Duranza. C'era là una gran quantità di lavoratori, occupati indistintamente in un lavoro ben differente dai loro mestieri speciali, che maledicevano il pane che guadagnavano, e tenevano sempre acceso il fuoco della rivolta.

Il loro malcontento derivava dalla differenza di trattamento stabilita dal governo fra loro e gli operai di Parigi. Questi lavoravano dieci ore, quelli dei dipartimenti undici ore. Il commissario, in conseguenza dei reclami continui degli operai marsigliesi, temendo l'esasperazione di quella folla poco disciplinata, credette opportuno di usare dei pieni poteri a lui conferiti e ridusse la durata del lavoro a dieci ore.

Disgraziatamente tutti gli impresari dei lavori non accettarono la riduzione dell'orario. Alcuni continuarono a pretendere dai loro uomini undici ore di lavoro: altri ritennero il prezzo dell'ora che gli operai non facevano. Perciò continue rivolte, ed uno stato permanente di esasperazione che doveva finire con una crisi violenta. Fino a quel momento le premure dei lavoratori non avevano ottenuto alcun risultato; le dimostrazioni erano terminate con vane promesse, che nessuno manteneva non appena voltavano le spalle. Volevano finirla, volevano ottenere giustizia.

Il martedì 20 giugno, vigilia del giorno in cui Matteo dava le notizie al suo padrone, i delegati delle corporazioni si erano riuniti per discutere l'opportunità di una grande manifestazione.

Avevano quasi tutti votato contro prevedendo che ne deriverebbe un sanguinoso conflitto.

- I delegati sono persone prudenti ed abili, - disse Matteo, ma fortunatamente gli operai sono troppo irritati per ascoltarli. Se fra loro vi sono delle teste fredde, ve ne sono anche delle calde che pensano di farsi giustizia a fucilate. Credo di potervi promettere una piccola insurrezione. So che molti operai hanno deciso di non tener conto del voto dei delegati e di fare ugualmente la dimostrazione. Sarebbe strano che qualche combinazione non desse origine al conflitto. Vedrete come ve li riscalderò...

Il signor di Cazalis gongolava di gioia ascoltando la sua spia.

- Hai preso bene le tue disposizioni, - gli domandò, - sei sicuro che il Cayol si comprometterà e tu potrai portar via il bambino?

- Non abbiate timore. Questo riguarda me... se vi sarà battaglia, il signor Filippo sarà in prima fila, siatene certo. Quanto al fanciullo, sarà prima di sera in vostro potere. Quegli operai son pur bestie... vanno a farsi ammazzare o cacciare in prigione per delle sciocchezze... Che bella burletta che è la repubblica!Arrivederci... verrò domattina a dirvi il programma della giornata.

Matteo lasciò il signor di Cazalis e rimase fino a notte per le strade, ascoltando i discorsi, e studiandosi di prevedere gli avvenimenti. Gli dispiacque di sapere che il commissario del governo non si mostrava ostile alla dimostrazione. Erano andati da lui, si diceva, alcuni delegati per fargli sapere che non potevano contenere la folla degli operai ed egli aveva lasciato capire che quella iniziativa del popolo avrebbe potuto autorizzarlo ad azione decisa contro gli impresari recalcitranti. Si aggiungeva ch'egli stesso avesse stabilito l'itinerario da percorrersi dalla colonna dei dimostranti, mentre egli avrebbe ricevuto i loro rappresentanti.

Matteo andò a letto furioso contro la repubblica.

"Sono una massa di vigliacchi" diceva, "e non oseranno neppure di tirare una fucilata. Battetevi, mascalzoni... Se non vi battete sono rovinato. Mostrano i pugni, vogliono mangiare i ricchi e finiscono con l'abbracciarli. Disgustano... Domattina tutta la lite finirà in un banchetto e il commissario e gli operai prenderanno insieme un'indigestione di salame... Staremo a vedere." Appena desto, andò subito a ronzare nelle vicinanze della prefettura. Era giovedì 22 di giugno. Il palazzo era circondato di truppe.

"Ah!" disse fra sé Matteo, "lo sapevo che si sarebbero battuti, vado a cercare i miei amici operai per lanciarli contro quelle baionette." Prima d'andarsene si avvicinò ai capannelli e seppe che il commissario s'era pentito di aver permessa la dimostrazione; fino dal giorno precedente erano state prevenute alcune compagnie della guardia nazionale, e consegnata la truppa. Lo spione osservò che fra le compagnie di guardia nazionale chiamate sotto le armi non ce n'era nessuna repubblicana. Salvario si pavoneggiava a una cantonata.

Matteo si affrettò a correre al boulevard Chave, dove si teneva una nuova riunione dei delegati. Essi furono contrari alla dimostrazione, come lo erano stati due giorni prima. Alcuni di loro annunciarono che gli operai da essi rappresentati erano andati a lavorare secondo il solito. Mentre gli uomini calmi se ne andavano, quelli che volevano la dimostrazione a qualunque costo, spinti da Matteo, trascinavano i loro camerati. Si formò un gruppo, che andò mano a mano aumentando, e diventò una folla. Il popolo si era mosso, non si poteva più trattenerlo.

Quando Matteo capì che non c'era più bisogno di spingere quella folla, la lasciò ingrossare da sé e andare verso la Prefettura.

Durante quel tempo egli terminò di disporre il suo piano di battaglia.

Prima di tutto volle dare al signor di Cazalis le notizie promesse. Suonavano le nove. Pensando che non gli sarebbe stato possibile traversare la piazza di San Ferreol piena di truppe, prese lungo il canale e piazza Breteuil e si trovò a pochi passi dal palazzo del suo padrone. Bisognava che passasse davanti alla casa dei Cayol, situata nel corso Bonaparte, vicino al palazzo.

Passando, alzò la testa e dette un'occhiata di trionfo alla casa.

Il suo piano dipendeva dalle circostanze. Faceva conto sul tumulto dell'insurrezione per portar via Giuseppe. Mario sarebbe corso sicuramente a cercare suo fratello, alle prime fucilate, ed allora gli era facile strappare il bambino dalle braccia di Pina. Sperava che, essendo vicino alla Prefettura, tutto il quartiere sarebbe andato sottosopra: forse si sarebbero fatte delle barricate nelle strade vicine. Aspettava qualche evento che gli rendesse facile il ratto del bambino e si riprometteva di agire energicamente e di riuscire in qualunque modo.

Mentre guardava la porta, rammentandosi l'interno della casa che studiava da un pezzo, vide uscire rapidamente una giovane donna che teneva fra le braccia un bambino. Riconobbe Pina e il piccolo Giuseppe. Quell'uscir fuori non gli piacque, e si mise a pedinare Pina.

Pina camminava lesta, senza voltarsi. Andò per via Breteuil, risalì la Cannebière fino a piazza Reale e s'internò nelle viuzze della vecchia città. Matteo la seguiva domandandosi dove poteva andare. Arrivarono a questo modo in piazza dell'Ova. Pina sparì ad un tratto dentro una casa e Matteo restò qualche minuto in mezzo alla piazza, perplesso, cercando il modo di far tornare vantaggiose a lui le precauzioni prese dai Cayol.

Mario, avvertito da suo fratello, fino dal giorno precedente, dei tumulti che potevano avvenire nelle vicinanze della Prefettura, aveva deciso di non lasciare Giuseppe nella casa del corso Bonaparte. Temeva un colpo di mano: sentiva che il signor di Cazalis era lì, nell'ombra, ad aspettare la prima occasione.

Quando si battono nelle strade, si ruba facilmente nelle case.

Parve dunque prudente a Mario di non lasciare il bambino nella camera dove sarebbero andati a cercarlo volendolo rapire:

stabilirono, egli e Pina, di nasconderlo in qualche luogo fino dalla mattina e pensarono al quartierino che la fioraia aveva abitato per un pezzo in piazza dell'Ova, dove ora abitava suo fratello Cadet. Mentre Mario correva per la città per vegliare su Filippo, sua moglie era andata a rifugiarsi col bambino in un cantuccio di Marsiglia dove credeva di non essere scoperta.

Salendo le scale era allegra pensando che erano in salvo.

Matteo, dopo aver fatto due o tre passeggiate sotto gli alberi, s'avvicinò ad un distaccamento di guardie nazionali fermo ad uno degli angoli della piazza. Era formato da uomini appartenenti ad una compagnia repubblicana. La spia s'accorse subito con chi aveva da fare.

- Pare che vogliano menar le mani alla Prefettura, - disse al tenente.

Il tenente finse di non aver capito. Dopo un momento, Matteo ripigliò:

- Qui si farebbero delle belle barricate. La piazza pare fatta apposta!

Il tenente si guardò d'intorno con compiacenza e finì per decidersi a parlare.

- Sì, sì - disse, - basterebbe sbarrare poche viuzze. Gli operai sono nostri fratelli e noi non lotteremo contro di loro.

Matteo, che il tenente credeva un manovale, gli strinse la mano e scappò correndo. Il caso lo aveva aiutato: ormai il suo piano di campagna era fatto. Arrivò ansante in casa del signor di Cazalis.

- Va tutto bene, - gli disse, - garantisco il risultato.

Si accorse che il signor di Cazalis s'era vestito da guardia nazionale.

- Perché questa mascherata? ero venuto a consigliarvi di non farvi vedere.

- Non posso star fermo, - rispose l'ex deputato. - Sono troppo impaziente... voglio vedere da me. Scendiamo.

Scesero e Matteo raccontò al padrone quanto aveva già fatto nella mattinata. Avvicinandosi alla Prefettura sentirono un rumore sordo e terribile, il rumore della nascente sommossa.

 

Capitolo 14 - LA SOMMOSSA

Mentre Matteo seguiva Pina e andava ad avvertire il signor di Cazalis, la colonna degli operai discendeva verso la Cannebière.

Questa colonna partita dalla stazione della ferrovia era composta da un centinaio di operai: ma avanzandosi riuniva tutta la gente che trovava sul suo passaggio. Uomini e donne, tutta la popolazione delle strade era trascinata da quel torrente di folla che si precipitava dalle alture di Marsiglia: quando la dimostrazione sboccò da via Noailles, si allargò nel corso come un'ondata formidabile. Migliaia di teste si agitavano come i cavalloni di un oceano umano.

Un rumore sordo, confuso, simile alla voce del mare, si alzava dalle file di quella folla. Essa serbava una calma spaventosa. Si avanzava senza gridare, senza far guasti, muta e triste. Piombava su Marsiglia, e pareva che non avesse coscienza dei propri atti e obbedisse alla legge fisica della caduta dei gravi. Un'enorme roccia lanciata dall'alto sarebbe ruzzolata così fino nel porto.

I camiciotti bianchi e turchini predominavano nelle file. Vi erano anche delle sottane di donna a colori vivi. Qua e là si vedevano le macchie scure dei vestiti degli uomini ai quali pareva che il popolo obbedisse. La folla discendeva per la Cannebière scorrendo fra le case come acqua vivente, piena di riflessi variegati, con un rumore minaccioso.

In testa alla colonna, in mezzo ad un gruppo di operai, camminava Filippo, a testa alta, con la fisionomia energica e risoluta.

Vestiva un abito nero, abbottonato fino al collo e stretto alla vita come una tunica militare. Si capiva ch'era pronto alla lotta, che l'aspettava e la desiderava. Non diceva parola. Intorno a lui gli operai pallidi e silenziosi lo guardavano di tanto in tanto e parevano aspettare i suoi ordini.

Quando la colonna entrò in via San Ferreol vi fu un po' di tumulto: essa si fermò un minuto o due, poi si rimise in marcia.

La via era vuota fino alla piazza nella quale va a terminare: i bottegai avevano chiusi i negozi; la gente era alle finestre: il silenzio era rotto soltanto dal rumore dei passi della folla.

In mezzo della strada vuota, sulla cantonata di un circolo, gli operai videro un uomo piccolo di statura che pareva aspettasse la dimostrazione. Quando Filippo gli fu vicino riconobbe suo fratello. Mario, senza aprir bocca, andò a metterglisi accanto e camminò tranquillo in mezzo ai rivoltosi. I due fratelli si scambiarono semplicemente un'occhiata. Si credette che non si conoscessero neppure.

E la fiumana continuò ad avanzarsi fino alla piazza di San Ferreol.

A qualche metro dalla piazza un cordone di truppa chiudeva la strada. La folla era disarmata e le baionette dei soldati luccicavano al sole. Un mormorio di collera e di sorpresa si levò dalle prime file e si propagò rapidamente fino alla coda della colonna ch'era ancora nella Cannebière. Gli operai dicevano con voce sommessa e minacciosa che si voleva sgozzarli, che erano circondati dalle truppe e che la dimostrazione era stata permessa per poterli scannare con più comodo.

Mentre questo mormorio aumentava, quattro delegati usciti dalle file chiesero di parlare col commissario del governo, secondo gli accordi del giorno avanti. Erano appena scomparsi dietro le file dei soldati, quando accadde un fatto le cui conseguenze furono sanguinose.

La coda della colonna, sentendo parlare di truppe armate, di baionette e di strage, credette che le prime file fossero state già trucidate. Allora cominciò a spingere innanzi con furia.

Obbedendo al movimento irresistibile di quella massa d'uomini, il gruppo che circondava Filippo dovette fare qualche passo avanti.

Con le braccia incrociate sul petto, per far vedere che non avevano alcuna intenzione ostile, ma obbedivano a un urto materiale, gli operai arrivarono fino davanti ai soldati.

Vedendoli avvicinare un ufficiale, perduta la testa, ordinò improvvisamente d'incrociare le baionette. E le baionette lucide e acute, si abbassarono rivolte contro il popolo.

Vi fu un tentativo disperato di retrocedere. Filippo e i suoi si buttarono indietro volendo fermare la folla enorme che li spingeva alla morte. Ma il muro vivente era impenetrabile come un muro di pietra. Per forza, per fatalità, gli operai arrivarono sulla punta delle baionette; se le videro davanti al petto, le sentirono entrare a poco a poco nelle loro carni.

Mentre il generale che comandava la truppa, facendo un gesto di disperazione, ordinava di rialzare le baionette, si racconta che una voce ben chiara gridasse dalla piazza San Ferreol: "Infilate quella canaglia!" Ed alle finestre di un circolo aristocratico vicino, alcuni signori ben vestiti applaudivano vedendo versare il sangue del popolo, come se fossero stati in un palco a teatro a ridere delle facezie di una commedia.

Ai primi colpi di baionetta gli operai gridarono di rabbia e di terrore. La folla che era stata fino allora in silenzio, vedendosi assalita senza alcuna intimazione legale, diventò pazza. Aveva solamente i suoi pugni per proteggerla contro i fucili che la minacciavano.

Filippo non fu ferito, grazie a Mario che lo trattenne, mentre stava per buttarsi avanti, coi pugni chiusi. Intorno a lui alcuni operai furono leggermente feriti. Uno solo ebbe il braccio traversato da parte a parte.

Al comando del generale i soldati avevano rialzate le baionette e rinculavano passo a passo. La folla intanto s'era fermata vedendosi senz'armi. E ad un tratto, si era sbandata, disperdendosi nelle strade laterali, gridando:

- Vendetta, vendetta... assassinano i nostri fratelli.

Per un momento il rumore fu veramente terribile, gli operai si allontanavano chiedendo armi e soccorso, spargendo in ogni strada lo spavento e la collera, ed alzando sempre il grido formidabile:

- Assassinano i nostri fratelli... vendetta, vendetta.

Il signor di Cazalis e Matteo erano in quel momento sul corso Bonaparte. Il rumore sordo che sentirono era il rumore della fuga del popolo. Matteo capì che le cose prendevano una brutta piega e si fregò le mani. Per sapere come regolarsi fermò un pacifico borghese che scappava spaventato andando a chiudersi in casa.

- Sì, signore, - disse il borghese balbettando, - laggiù si ammazzano. I soldati hanno caricato il popolo. Il popolo darà fuoco alla città, è certo.

E scappò, credendo di vedersi le fiamme dietro.

- Che cosa vi avevo detto? - disse Matteo al signor di Cazalis.

Sapevo bene che il caso ci avrebbe aiutati. Siamo in piena rivoluzione. Ora potremo lavorare per i nostri piccoli affari.

- Che cosa farai? - domandò l'ex deputato.

- Una cosa semplicissima. Ora che il popolo è matto lo guiderò a seconda della mia fantasia. Mi basta che si batta dove lo condurrò io.

E siccome il signor di Cazalis non capiva e lo interrogava con lo sguardo, lo spione continuò:

- Fidatevi di me, non ho tempo di spiegarmi. Un'ultima parola...Vi consiglio di profittare del vostro travestimento per unirvi ad una compagnia di guardia nazionale. Se fanno una barricata andate insieme con la truppa che le darà l'assalto.

- Perché?

- Non mi avete detto che siete impaziente e curioso? Allora fate quello che vi ho detto: godrete lo spettacolo dai primi posti...Capite! vi potrebbe accadere di trovar Filippo sulla direzione del vostro fucile. Non lo sbagliate almeno!... E non fate scherzi di cattivo gusto; non tirate sopra di me per levarvi un incomodo.

Siamo intesi: quando la barricata sarà presa vi farò vedere come lavoro io.

Matteo se n'andò. Gli premeva di imbrogliare le cose. Passando per via Grignan per entrare in via San Ferreol e mescolarsi ai gruppi degli operai che si ritiravano, vide sul marciapiede due uomini che parlavano vivacemente. Riconobbe Mario e Filippo.

- Aspetta, aspetta, - mormorò fra sé correndo, - ti costringerò io a venire a batterti con noi.

Mario supplicava Filippo di non compromettersi di più. Gli parlava del figlio, della comune felicità di tutti. E siccome suo fratello faceva dei gesti d'impazienza:

- Sia pure! - esclamò, - non parliamo di noi. Ma non vedi che l'insurrezione non può riuscire? Deve essere desiderio di un buon patriota l'evitare lo spargimento di sangue quando la lotta è contraria agli interessi di tutti. Credo di servir la patria meglio di te predicando la pace.

- Hanno tentato di assassinare i nostri fratelli, - rispose Filippo, - è necessaria la vendetta. Non siamo noi che abbiamo cominciato. Vuoi che te lo dica? Non vogliamo più questa repubblica borghese; vogliamo una repubblica nostra, del popolo.

Non rispondere nulla; è inutile. Se il popolo si batterà, mi batterò anch'io.

- Disgraziato! tu ti rovini, e rovini i tuoi amici incoraggiandoli con l'esempio... portandoli a farsi imprigionare. Rammentati quello che ti ha detto il signor Martelly.

Per un buon quarto d'ora Mario insistette nel persuadere il fratello che appena gli dava ascolto. Ad un tratto Filippo lo prese per un braccio e lo costrinse a tacere. Il rumore delle fucilate si faceva sentire verso l'estremità della via San Ferreol.

- Senti? - disse Filippo esaltato, - tirano sopra uomini disarmati che chiedono giustizia. E tu vuoi che stia a vedere tranquillamente; tu vuoi che io sia un vile!

Fece qualche passo, poi voltandosi indietro:

- Se mi ammazzano, - aggiunse con dolcezza, - tu pensa a Giuseppe... addio!

Mario lo raggiunse.

- Vengo con te, - gli disse tranquillamente.

I due giovani andarono solleciti per la via San Ferreol e arrivati a via Vacon sentirono il rumore delle fucilate a destra. Allora voltarono per via Roma e si trovarono in mezzo al combattimento.

Matteo, mescolandosi agli operai, s'era messo a gridar vendetta più forte degli altri. Riunì a quel modo un gruppo dei più esaltati e quel gruppo si avviò cantando la Marsigliese. Sulla cantonata di via Pizançon si fermarono un momento ad ascoltare Matteo che con la mano faceva segno di tacere.

- Amici, - egli disse, - è una cosa sciocca il cantare, bisogna agire. Se noi seguitiamo ad andar così per le strade troveremo dei soldati che ci ammazzeranno o ci faranno prigionieri.

Il gruppo fece sentire un ruggito di collera:

- Vendichiamo i nostri fratelli, - ripigliò Matteo, - il sangue vuol sangue.

- Sì, sì, - urlarono gli operai, - alle barricate, alle barricate.

Matteo vide una compagnia di guardia nazionale che si avanzava a passi misurati.

- Vedete, fratelli, mandano quegli uomini per ucciderci. Noi ci difenderemo fino alla morte.

Il popolo era ubriaco; mostrò i pugni alle guardie nazionali e cercò dei sassi per lapidarle.

- No... qui no, - disse Matteo, - non si potrebbe resistere cinque minuti. Venite con me.

Gli operai lo seguirono. Avevano bisogno di un capo e sceglievano quello che parlava di strage. Corsero fino a via Roma. Tre grandi carri vuoti passavano appunto allora per quella strada. La spia afferrò per la briglia il cavallo del primo carro, e malgrado le grida del carrettiere ordinò di staccarlo.

Quando l'operazione fu finita disse al carrettiere:

- Porta via i cavalli... Il popolo ha bisogno dei carri... Te li pagherà se vince.

Poi rivoltosi verso gli operai e mostrando in faccia a loro la via della Palude aggiunse:

- Presto, tirate là questi carri e rovesciateli attraverso la strada. Cercate nelle botteghe e troverete da rinforzare la barricata.

In cinque minuti la barricata era alzata. Si componeva di tre carri e di qualche botte vuota trovata in una cantina vicina. Non si poteva pensare a difenderla seriamente. Ma gli insorti erano pazzi d'irritazione, e non pensavano all'assoluta mancanza d'armi che li esponeva a farsi bersagliare senza poter rispondere ai colpi.

Matteo si rallegrava in silenzio. Non gli dispiaceva affatto di fare uccidere qualcuno dei suoi buoni amici operai che da quattro mesi l'annoiavano mortalmente con i loro discorsi umanitari.

D'altronde, perché il suo progetto riuscisse, aveva bisogno di un morto. Perciò egli stesso aveva fatto sì che la barricata fosse piena di buchi affinché vi potessero penetrare le palle.

Pochi minuti dopo regnava in quella strada un silenzio di morte.

Gli operai, distesi in terra, aspettavano. Ad un tratto udirono il rumore dei passi pesanti e misurati d'una compagnia che avanzava in via Roma. Soltanto allora si ricordarono di non avere armi. Si misero a strappare rabbiosamente le pietre del selciato, pietre aguzze e squadrate, i colpi delle quali dovevano essere terribili.

I passi pesanti e misurati si avanzavano sempre più. Finalmente la compagnia apparve all'angolo di via Roma. Il capitano Salvario che camminava in testa, si fermò inquieto vedendo la barricata. Nello stesso tempo una grandine di sassi cadde sulle guardie nazionali.

Vi furono delle ammaccature e il chepì del capitano fu rotto da una sassata.

La compagnia rinculò di qualche passo all'assalto improvviso. Le pietre continuavano a piovere, cadendo su quel gruppo d'uomini. Un commissario di polizia uscì dalle file e fece le intimazioni legali accolte da un profondo silenzio. Gli insorti, esaurita la loro provvista di sassi, s'erano di nuovo distesi a terra buttando all'aria il selciato e preparandosi alla lotta senza neppure ascoltare le intimazioni. Mentre si rialzavano, il commissario si ritirò; i fucili si abbassarono, e una pioggia di palle passò al disopra della barricata. Gli operai ebbero appena il tempo di rannicchiarsi, di nascondersi nei vani delle porte, o dovunque trovavano riparo. Nessuno fu ferito. La loro rabbia era tale che non pensarono neppure a fuggire, e continuarono a tirar sassate nascondendosi come era possibile. I proiettili mal diretti passavano al disopra della barricata o le cadevano davanti.

Matteo s'era prudentemente messo al coperto dietro una grossa botte. Incoraggiava i suoi uomini, stizzito per la poca abilità della guardia nazionale, e cercando di spingere gli operai contro le palle.

Mormorava fra i denti:

"Non se ne farà ammazzare neppur uno di questi miserabili".

Aveva indosso un po' di paura. Sapeva che la barricata sarebbe stata presa quando le guardie nazionali l'avrebbero voluto, e temeva di cadere nelle loro mani, cosa che avrebbe mandato a monte tutti i suoi piani. Voleva un morto, nulla di più: poi se la sarebbe data a gambe. Disgraziatamente nessuno degli insorti pareva disposto a farsi ammazzare.

Per cinque buoni minuti rimase dietro la botte sudando di ansietà e di paura. Le fucilate continuavano, e le palle, forando i carri, facevano saltare delle schegge di legno. Gli operai non osavano più uscire dai loro nascondigli. Uno di loro si arrischiò finalmente in mezzo alla strada per fare una nuova provvista di sassi. S'infilò dietro la barricata profittando di tutti i ripari.

Matteo lo seguiva con gli occhi fissi. Sentiva che quell'uomo era la vittima della quale aveva bisogno.

"Ci siamo" pensava. "Se passa davanti alla breccia che ho lasciato nella barricata, rimane freddo." Da un minuto si era accorto che una grandine di palle penetrava da quella apertura. L'operaio s'era messo tranquillamente a scalzare i ciottoli e Matteo lo chiamava con gesti energici. L'operaio, fiducioso, credendo che il suo capo avesse da dirgli qualche cosa d'importante, ricominciò a strisciare adagio adagio dietro la barricata. Si trovò in faccia all'apertura; otto o dieci palle gli entrarono nel corpo e lo fecero cadere sanguinolento sul selciato.

Si contorse atrocemente, poi rimase bocconi immobile.

Allora Matteo cacciò un urlo terribile e tutti gli insorti corsero nel mezzo alla strada urlando. Le guardie nazionali cessarono il fuoco credendo che i difensori della barricata si arrendessero. La spia profittò di quel momento per impadronirsi del cadavere.

Chiamò aiuto, caricò il morto sulle spalle di altri operai, e si mise alla loro testa gridando vendetta.

- All'armi! bisogna che il popolo sappia che la guardia nazionale tira sopra i cittadini inermi... All'armi! all'armi! assassinano i nostri fratelli.

E dentro di sé diceva:

"Ho il mio morto, il popolo si batterà".

Il gruppo da lui guidato fuggì per la via della Palude e si udirono allontanarsi i clamori di quegli uomini che portavano un morto come bandiera d'orrore e di ribellione.

Mario e Filippo giunsero allora sul luogo del combattimento.

Trovarono una compagnia della guardia nazionale in mezzo a via Roma fra i rottami dei tre carri rovesciati. La compagnia pareva molto mortificata della propria vittoria: aveva creduto d'aver a che fare con un centinaio di uomini e si sentiva confusa accorgendosi di aver fatto fuoco per mezz'ora sopra una diecina di poveri diavoli. Capiva tutto l'orribile e sanguinoso ridicolo del proprio errore.

Il capitano Salvario era irritatissimo. Lo irritava veramente, più d'ogni altra cosa, la terribile ferita ricevuta dal suo chepì all'inizio del combattimento. Si credeva offeso nella dignità della sua divisa: gli pareva che tutto il prestigio del suo bel vestito se ne fosse andato dal buco fatto dalla sassata rivoluzionaria.

Mario, riconoscendolo, gli si avvicinò per sapere qualche notizia dell'accaduto. Ma l'antico capo facchino non gli dette tempo di parlare.

- Capite, - gli gridò, - dei mascalzoni che ci pigliano a sassate!Non hanno neppure fucili quegli imbecilli! guardate...!

E gli mostrava il chepì, la cui placca dorata era rotta dalla sassata.

- Una palla avrebbe fatto un piccolo buco. Ora invece sono obbligato a comprare un chepì nuovo. Costano cari questi arnesi.

- Potreste dirmi...? - domandò Mario.

Ma Salvario non lo lasciò finire. Lo tirò da parte, rimettendosi in capo il chepì sfondato e gli domandò:

- Ditemelo francamente... Non è vero che questo cappello sfondato mi fa sfigurare? Birbanti di repubblicani! Me la pagheranno questa sassata!

Mario profittò della collera di Salvario per rivolgergli finalmente una domanda.

- Ma che cosa è accaduto?

- Ne abbiamo ammazzato uno... E va bene! erano là, dietro quei carri, due o trecento, forse mille; li abbiamo scacciati dopo un'ora di lotta accanita. Guardate quella pozza di sangue nella strada. Deve esserne morto uno di certo! impareranno a lapidare la guardia nazionale... Ordine vuole essere, ordine... non conosco altro.

Mario stava per lasciarlo quando Salvario lo trattenne per un bottone del soprabito.

- Sono dispiacente, - gli disse con voce languida, - della morte di quel povero diavolo... Forse non me l'aveva tirata lui la sassata... Fossi certo ch'è stato lui! Quando l'ho visto in terra mi ha fatto un effetto...! Ma prima di tutto l'ordine.

Mario lo lasciò dire, poi raggiunse il fratello che l'aspettava qualche passo distante. Era profondamente rattristato da quanto aveva saputo. Quel sangue sparso doveva ricadere sulla testa di chi lo aveva versato.

- Dunque? - gli domandò Filippo.

Mario non rispose subito. Non poteva nascondere al fratello l'accaduto ed esitava a dirglielo temendo una sfuriata terribile.

Fecero qualche passo insieme, muti.

- Non rispondi? - disse Filippo. - Dietro quei carri vi erano dei cadaveri, non è vero?

- No, - rispose Mario decidendosi a dire la verità, - è morto un solo operaio.

- Che importa il numero! - interruppe con violenza il repubblicano Filippo. - Ora so qual è il mio dovere... La lotta è inevitabile... Non mi pregherai più di starmene in casa tranquillo. Sarebbe una viltà!... Ho esitato anche troppo: vado a ritrovare quelli che ho giurato di difendere qualora fossero attaccati...

I due fratelli parlando fra loro erano arrivati al corso San Luigi, dove furono fermati da una folla immensa. La sommossa rumoreggiava da quella parte.

 

Capitolo 15 -NEL QUALE MATTEO FINISCE COL BUTTARE ALL'ARIA LA CITTA'

I delegati, giunti a penetrare fino al commissario del governo, avevano ottenuto da lui soltanto una lettera nella quale egli giustificava il desiderio degli operai di lavorare dieci ore al giorno. Ma la lettera giunse troppo tardi. I delegati ebbero un bel mostrarla ai gruppi che incontravano; la parola vendetta era su tutte le bocche; il popolo dichiarava che il sangue voleva sangue.

Come accade quasi sempre, la maggioranza non si occupava delle cause della lotta che si preparava. La maggioranza della popolazione ignorava lo scopo della sommossa: le bastava sapere che c'era dell'ira e del terrore per l'aria. Mentre si batteva la generale per le strade e le guardie nazionali correvano ai loro posti, tutti ignoravano quale nemico andassero a combattere. Una compagnia di facchini non volle marciare avendo sentito dire che si doveva misurare contro il popolo; malgrado le speranze contrarie quegli operai non volevano sparare contro altri operai.

Il popolo si sollevava; questa era la sola notizia certa che correva in mezzo alla folla. Perché si sollevava, che cosa voleva?Nessuno avrebbe saputo rispondere. Gli operai stessi non erano più spinti dal motivo che li aveva condotti davanti alla prefettura; si lasciavano trasportare solamente dalla collera. La lotta era diventata personale, senza alcuna premeditazione di sollevazione politica. Se alcuni arruffoni non avessero spinto il popolo alla violenza per un loro secondo fine, tutto sarebbe finito in grida e minacce.

Divenne centro del movimento la piazza Reale, che dal febbraio si chiamava piazza della Rivoluzione. Alcune compagnie repubblicane vi avevano il loro quartiere. Quando le notizie del combattimento di via della Palude si sparsero fra i capannelli fermi sul Corso e sulla Cannebière, gli operai si diressero in folla verso quelle compagnie e domandarono se erano disposte a marciare contro il popolo. L'assembramento fu presto numerosissimo: si raccontavano con grida furiose i fatti della mattina; si dicevano i nomi dei cittadini uccisi o feriti dalla truppa e dalla guardia nazionale.

Quei racconti esaltavano gli animi. Il tumulto cresceva. La folla però non si muoveva; si contentava d'urlare e di chieder vendetta.

Era necessaria una nuova scossa per determinare un'aperta rivolta.

Il generale comandante della guardia nazionale tentò un supremo ardimento. Andò in mezzo alla folla cercando di calmare gli animi con parole concilianti.

Quel generale non era punto simpatico. Lo accusavano, a torto o a ragione, di non essere amico della repubblica.

Si era circondato disgraziatamente di uno stato maggiore scelto fra le file dei reazionari. Per la folla era uno sconosciuto, ed il popolo, accecato dalla collera, lo ritenne responsabile dei deplorevoli fatti accaduti. Nessuno s'era accorto del suo gesto di disperazione quando i soldati, senza suo ordine, avevano incrociate le baionette in via San Ferreol. Quando apparve fu circondato da gruppi di esaltati che lo insultarono e lo accusarono di quanto era accaduto la mattina. Si mantenne calmo, non cercò di scusarsi, si contentò di promettere al popolo tutte le soddisfazioni possibili, scongiurandolo di non essere causa di più gravi sciagure. Fu necessario che le compagnie repubblicane si muovessero per soccorrerlo. Si ritirò, pronunciando a voce alta e ferma parole di pace. Il tumulto crebbe dopo la sua partenza.

Allora comparve un ufficiale di polizia e intimò alla folla di ritirarsi. Le compagnie ricevettero l'ordine d'andare a schierarsi sulla Cannebière: una chiuse la strada; un'altra si schierò lungo il marciapiede a sinistra. Tale movimento poté soltanto spostare il centro dell'assembramento. Il corso San Luigi e la Cannebière furono invasi. Le file della guardia nazionale erano rotte ogni momento, lasciando passare frotte di popolo. La folla era immensa:

i rumori diventavano sempre più violenti. La più piccola occasione poteva far nascere lo scoppio.

Ad un tratto un rumore sordo si fece sentire sul corso San Luigi.

Il corteo che portava l'operaio ammazzato in via della Palude, ed a capo del quale camminava Matteo, era sboccato da via d'Aubagne.

Matteo s'era strappato i vestiti per far supporre una lotta corpo a corpo, e si era messo in prima fila, urlando, nero di polvere, scuotendo con furia la sua parrucca rossa. Lo seguivano quattro uomini portando il cadavere, le braccia e le gambe del quale ciondolavano orribilmente: la testa rovesciata indietro mostrava una ferita orrenda che aveva portata via metà d'una gota. Poi veniva il piccolo gruppo dei difensori della barricata, deliranti per la corsa arrabbiata che Matteo aveva fatto far loro per le strade della città. E tutti gridavano: Vendetta! vendetta! - con voce rauca e straziante.

Il corteo produsse un effetto terribile. Matteo aveva calcolato di ottenere il colpo di scena finale sulla Cannebière piena di gente.

Perciò aveva fatto passeggiare il corteo per molte strade prima di portarlo in mezzo alla folla. Voleva dare all'assembramento il tempo di formarsi, stancare i suoi uomini, farne dei pazzi furiosi per scatenarli dopo ai quattro angoli della città e sollevarla.

Quando il corteo sboccò da via d'Aubagne la folla gli si aprì subito davanti, urlando di spavento e di collera. Un'ondata di spinte schiacciò molti spettatori contro le case. In mezzo al terrore, all'ira ch'esso sollevava d'intorno, il corteo funebre andava innanzi, diritto, aprendo attraverso i gruppi una larga strada che gli si richiudeva subito dietro con spaventoso tumulto.

Arrivato sulla Cannebière il corteo sfondò il cordone di guardie nazionali che sbarrava la strada e traversò la folla che occupava il marciapiede fino alla piazza della Repubblica. L'effetto prodotto su quest'altra folla fu più terribile. Quei pochi uomini insanguinati parevano buttare torce ardenti sul loro passaggio.

Matteo lasciò il corteo internarsi nella città vecchia e risalì sollecito verso il corso San Luigi. Traversandolo, aveva veduto in un caffè delle guardie nazionali rifugiatesi là dentro per non farsi maltrattare dal popolaccio. Vedendo quelle guardie gli era venuta in mente un'idea e tornava indietro per effettuarla. Gli dispiaceva che gli operai fossero disarmati, giacché la lotta non sarebbe stata veramente seria finché il popolo non avesse avuto dei fucili. Se non si scambiavano subito alcuni colpi la folla poteva esser domata e messa a dovere immediatamente. La vera insurrezione era ritardata dalla mancanza di armi.

Quando fu giunto di nuovo sul corso San Luigi si mescolò ai gruppi ancora frementi per la vista del corteo funebre, e fece rivolgere l'attenzione d'alcuni popolani verso il caffè dove erano le guardie nazionali.

- Sono carlisti! - gridava, - abbasso la guardia nazionale!

Quel grido trovò un'eco nella folla. Tutti gli sguardi si rivolsero verso il caffè, tutte le bocche si misero a urlare ed a minacciare i rifugiati.

- Li riconosco, - urlava Matteo, - appartengono alla compagnia che ci ha sparato in via della Palude.

L'affermazione era falsa, ma in quel momento non poteva essere smentita. Le grida raddoppiarono, i più esaltati cominciarono a raccattare delle pietre e a tirarle contro le finestre alle quali si mostravano guardie nazionali. Alcune di queste ebbero l'imprudenza di mirare sul popolo. La folla perse la testa e si precipitò nel caffè. Matteo, nella prima fila degli assalitori, gridava:

- Ci occorrono dei fucili... disarmiamoli.

Filippo e Mario erano da un quarto d'ora all'angolo di via Roma.

Non potendo andare avanti si contentavano di stare ad ascoltare seguendo l'andamento della sommossa. Avevano veduto passare il sinistro corteo dell'operaio ucciso.

- Guarda! - aveva esclamato Filippo stringendo con forza il braccio al fratello.

E aveva ripreso il suo feroce silenzio. Poi, quando le guardie nazionali avevano preso di mira il popolo, s'era slanciato, senza parlare, correndo insieme alla plebe all'assalto del caffè.

Lui e Mario, che l'aveva seguìto, entrarono nel caffè insieme a Matteo. Le sale superiori furono invase in pochi secondi. Le guardie nazionali prudentemente non opposero seria resistenza, e furono disarmate dai primi che entrarono.

Filippo s'era impadronito di due fucili e ne offrì uno al fratello.

- No, - disse questi, - non mi batto contro altri francesi.

Filippo fece un gesto d'impazienza e ritornò sul corso senza neppur guardare se Mario gli andava dietro. Mario lo seguiva, non sapendosi risolvere ad abbandonarlo, e sperando ancora di portarlo via da quella confusione.

Sul Corso e sulla Cannebière l'agitazione era grandissima. Alcuni insorti ai quali era riuscito di procurarsi i fucili disarmando le guardie nazionali, corsero ad unirsi alle compagnie repubblicane.

Filippo si fermò davanti all'albergo degli Imperatori, a pochi passi da Matteo.

Il generale scelse quel momento per fare un nuovo tentativo di conciliazione. Ricomparve in mezzo alla folla predicando concordia. Per un fatale errore, il popolo continuava a vedere in lui il solo colpevole dei fatti accaduti la mattina. Mentre passava davanti all'albergo degli Imperatori, alcuni uomini afferrarono le briglie del suo cavallo, e gli si formò intorno un gruppo che lo insultava e lo minacciava. Alcune guardie nazionali tentarono invano di liberarlo.

Matteo guardava intanto se il fucile che aveva preso era carico.

Gli luccicavano gli occhi e gli contorceva le labbra un riso silenzioso. Gli era venuta un'altra idea per precipitare la catastrofe.

Si nascose dietro la folla e mirò al generale che aveva in faccia.

Partì il colpo: s'alzò un gran rumore. Il generale asciugò tranquillamente con una mano le poche gocce di sangue che la palla gli aveva fatto uscire sfiorandogli una gota.

La fucilata di Matteo fu seguìta da molte altre che sparsero il panico fra la folla. I curiosi fuggirono in disordine, atterriti, aspettandosi di essere mitragliati fuggendo. Gli insorti si allontanarono urlando:

- Alle barricate! alle barricate!

Si sarebbe detto che un vento di collera spazzava l'assembramento.

Le compagnie di guardie nazionali si dispersero trascinate da quel torrente. In meno di due minuti il Corso e la Cannebière rimasero spopolate.

Il generale s'era ritirato pallido e triste. Matteo era sparito come per incanto. Filippo indignato s'era rivolto dalla parte dove una nuvoletta di fumo indicava la presenza dell'assassino: aveva potuto vedere soltanto una forma vaga curvarsi e sparire.

Quando il crocicchio fu vuoto e la generale batté di nuovo nel silenzio delle vie spaventate, Mario trascinò suo fratello verso piazza dell'Ova. Là era nascosta la loro felicità. Entrando in via Grande videro un gruppo d'operai che occupavano la piazza e vi costruivano delle barricate. Mario trattenne un grido d'angoscia.

Era circa mezzogiorno.

 

Capitolo 16 -LE BARRICATE DI PIAZZA DELL'OVA

Mentre la paura disperdeva la folla, Filippo e Mario s'erano fermati qualche minuto vicino all'albergo degli Imperatori, riparati dalle sporgenze di un portone, per non essere trascinati dalla corrente dei fuggiaschi.

Filippo sentiva rivoltarsi in lui tutto il suo sentimento di lealtà ripensando al vile tentativo di assassinio commesso contro il generale, e suo fratello, leggendogli in viso quell'indignazione, pensava di profittare dell'occasione per tentare un'ultima volta ad allontanarlo dalla guerra civile.

Quando rimasero soli, Mario domandò a Filippo:

- Dunque? vuoi far causa comune con quegli assassini?

- Vi sono dei miserabili in tutti i partiti.

- Lo so... ma un'insurrezione è fatalmente condannata, se incomincia con tali auspici... Te ne scongiuro, vieni con me, non ti compromettere di più.

I due fratelli s'erano diretti a lenti passi verso il Corso. Mario aveva spinto Filippo da quella parte per condurlo dove era nascosto suo figlio: pensava che una volta là gli sarebbe possibile trattenerlo e salvarlo anche suo malgrado.

- Pina e Giuseppe si sono rifugiati qui vicino, - gli diceva strada facendo. - Ho consigliato a mia moglie di passare la giornata con tuo figlio nel piccolo quartierino di piazza dell'Ova, per essere al sicuro da un colpo di mano, facile ad effettuarsi durante il tramestio d'una giornata come questa.

Andiamo, vieni... resteremo soltanto pochi minuti, se vuoi.

Filippo seguiva il fratello senza rispondere. Gli ritornarono a mente le parole severe del signor Martelly: la fucilata tirata contro il generale gli risuonava ancora nelle orecchie. Non voleva abbandonare la causa del popolo, eppure suo malgrado, cominciava a sentire la voce della ragione che gli diceva di non pigliar parte ad una scaramuccia inutile e sanguinosa. D'altronde ignorava quello che accadeva; forse era già tutto finito; gli operai erano andati in strade lontane a costruire delle barricate, probabilmente prese prima che difese. Camminava inquieto accanto a suo fratello, non sapendo a quale partito appigliarsi.

Allora i due fratelli entrando in via Grande videro in piazza dell'Ova un assembramento d'operai che costruiva in fretta una barricata.

Mario si fermò disperato. Pensò che Pina e Giuseppe si sarebbero trovati in mezzo all'insurrezione; pensò che Filippo si sarebbe battuto. Gli dispiaceva soprattutto di essere egli l'autore di tutto quel male. Non era lui che aveva consigliato a sua moglie di rifugiarsi là? Non era lui che aveva condotto suo fratello in piena sommossa?

Filippo s'era anch'egli fermato. Indicò la piazza a suo fratello:

- Vedi, - gli disse, - il caso ha voluto risparmiarmi una viltà portandomi verso coloro che avevo giurato di difendere e che forse stavo per abbandonare. Combatterò per la liberta e veglierò su mio figlio.

Scavalcò i primi ostacoli buttati attraverso la strada, e si trovò in mezzo agli operai che gli strinsero calorosamente la mano.

Mario lo seguì e salì subito nella camera dove c'erano Pina e Giuseppe.

Matteo aveva raggiunto il suo scopo, piano piano, aiutato dal caso. Aveva in parte guidato gli avvenimenti, spingendo il popolo alla sommossa, e conducendolo a battersi dove voleva che l'insurrezione scoppiasse.

Dopo aver tirato la fucilata al generale, mentre la folla fuggiva spaventata, egli s'avviò per il Corso correndo, portandosi dietro dei gruppi d'operai, e gridando:

- In piazza dell'Ova! in piazza dell'Ova!

Quando si vide seguito da una diecina d'insorti gridò più forte e gli corse dietro la folla. Quel gruppo d'uomini armati dette una direzione alla insurrezione ancora esitante. Gli operai si sarebbero dispersi non sapendo dove trincerarsi; ma vedendo correre i camerati verso un luogo ch'essi indicavano, vollero andare a quel ritrovo, e quanti erano spinti da un desiderio di vendetta si avviarono per via Grande. La piazza dell'Ova fu presto piena.

Matteo fece osservare come fosse bene scelto quel posto.

- Vedete, - disse agli operai che lo circondavano, - pare fatto apposta per combattere.

Quelle parole corsero fra la folla. Difatti la rivolta doveva scoppiare in mezzo alla vecchia città, fra quelle viuzze che si potevano facilmente sbarrare. Ognuno capiva che là l'insurrezione era a casa sua e pensarono tutti soltanto a battersi.

Tuttavia gli operai non osavano agire. Il plotone di guardie nazionali che Matteo aveva veduto la mattina, era ancora in un angolo della piazza.

- Aspettate, - disse Matteo, - li mando via... me ne incarico io.

Sono amici.

Andò diritto dal tenente con il quale aveva già parlato, e gli domandò se i suoi uomini erano dalla parte del popolo. Il tenente gli rispose ch'erano per il buon ordine.

- Anche noi, - rispose sfacciatamente Matteo.

Poi, avvicinandosi all'ufficiale, aggiunse a voce bassa:

- Sentite... ho da darvi un consiglio... Andatevene presto... Se vi rifiutate saremo obbligati a disarmarvi, forse ad uccidervi, e non ci si deve ammazzare tra fratelli. Credete a me, non state qui un minuto di più.

Il tenente si guardò intorno. Non gli dispiaceva d'andarsene, ma non voleva passar da vile. La sua condizione era critica. Gli insorti avevano circondato le guardie nazionali e ne sbirciavano i fucili con occhio di desiderio.

D'altronde alcuni operai s'erano già messi a lavorare alla barricate e il tenente non poteva assistere a quell'operazione senza impedirla. Preferì andarsene. Le guardie nazionali sfilarono in ritirata in mezzo a un profondo silenzio.

La piazza apparteneva perciò agli insorti che cominciarono a cercare di fortificarvisi nel miglior modo possibile. Mancavano i materiali per alzare una barricata alta e solida. Si dovettero contentare dei banchi e delle casse degli erbivendoli: le misero attraverso le strade e poi frugarono nelle case vicine per trovare delle botti, delle tavole, dei materiali qualunque.

Durante questo tempo Matteo si riposava sugli allori. Giunto al suo scopo avrebbe voluto scomparire fra la folla per non compromettersi di più. S'era lavato il viso ad una fontana vicina, dimenticando il fucile appoggiato al muro. Passeggiava con le mani in tasca, come un buon bottegaio, in mezzo ai capannelli, tanto tranquillo nell'aspetto che gli operai non lo riconoscevano più.

Salì sugli scalini d'una casa da dove seguiva con gli occhi attentamente quanto accadeva sulla piazza. Cercava con lo sguardo Filippo e Mario.

- Cascherete in trappola, cari miei, - pensava sorridendo in silenzio, - è preparata troppo bene. Ah! volevate mettere il bambino al sicuro. Sciocchi che siete! l'avete messo invece nelle mie mani... Correte a proteggerlo quel caro amorino e resterete in trappola con lui.

Guardava sempre senza mostrarsi impaziente: sapeva che quelli da lui attesi non potevano mancare. Quando i due fratelli sbucarono da via Grande alzò le spalle e disse fra sé:

- Eh! lo sapevo.

Poi non li lasciò più. Li seguì con lo sguardo fra la folla, vide Mario salire da Pina, mentre Filippo si univa agli insorti.

- Va bene, - mormorò, - sarò costretto forse ad ammazzare il più piccolo. Quanto a quell'altro, se le guardie nazionali non lo manderanno a ingrassar la terra, accomoderemo le cose in modo da farlo marcire in prigione.

Scese dal suo osservatorio e andò per curiosità a gironzare intorno a Filippo. Non era ancora il momento di agire. Gli pareva d'essere a teatro e i suoi istinti erano piacevolmente solleticati dalla speranza di assistere ad un macello.

Aspettando di operare il ratto, si decise a divertirsi vedendo ammazzare la gente.

Gli insorti s'erano messi intanto a lavorare di nuovo alle barricate. Avevano raccolto sulla piazza a poco a poco una quantità considerevole di materiali; una confusione, un ammasso di oggetti senza nome che ripartivano fra le sei barricate in costruzione. Facevano la catena passandosi le tavole, i sassi, tutto quanto capitava loro sotto mano. Ognuno correva di qua, di là, e andava poi a buttare nel monte quanto aveva trovato. Era un viavai febbrile, una specie di vasto laboratorio della sommossa, nel quale gli operai si affrettavano a lavorare con le minacce sulle labbra e la vendetta in cuore. Mentre i più portavano materiali, altri, carrai e legnaioli, si erano presi l'incarico di consolidare le barricate. Non avendo né chiodi né martelli, si contentavano di introdurre un oggetto dentro un altro.

Le due barricate più grandi furono innalzate all'ingresso di via Grande dalla parte del Corso, e all'ingresso di via Requis-Novis.

Malgrado gli sforzi degli insorti, quelle barricate erano semplicemente ammassi di oggetti poco resistenti e non potevano opporre un serio ostacolo. Quattro barricate ancora più deboli furono costruite attraverso le vie Vieille Cuiraterie, della Luna Bianca, della Vieille Monnaie e della Luna d'Oro. Una sola restò libera, la via delle Marchese, che lasciava agli insorti un passaggio necessario per comunicare con la via Belzunce, la piazza dei Predicatori, e tutti i vicoli stretti e tortuosi dei vecchi quartieri per i quali speravano trovare uno scampo in caso di disfatta. Barricata a quel modo la piazza dell'Ova sarebbe stata una specie di fortezza inespugnabile, se le barricate fossero state più solide.

Filippo, appena si trovò in mezzo ai repubblicani, diede mano all'opera senza esitare. Aveva lavorato ardentemente come gli altri per portare sulle barricate tutto quanto trovava.

Dimenticava le savie parole di Mario e non pensava più a suo figlio. S'era risvegliata in lui tutta la sua foga e lo trascinava.

Mentre stava ruzzolando una botte, sentì una voce ironica che gli domandava:

- Volete che vi dia una mano?

Alzò la testa e riconobbe il signor di Girousse che, con le mani in tasca, lo stava guardando con compiacenza.

Il signor di Girousse era arrivato il giorno avanti a Marsiglia.

Sentendo qualche cosa di serio in aria era corso per non perdere l'occasione di distrarsi. Dalla proclamazione della repubblica in poi egli aspettava un dramma. Dimenticava di appartenere alla nobiltà e osservava spassionatamente la collera del popolo.

Cercando bene dentro sé stesso vi avrebbe trovato un po' di simpatia più per la causa democratica, che per la causa legittimista, alla quale il suo nome lo legava fatalmente. Ad Aix tutti dicevano senza complimenti che il signor di Girousse era un originale cui piaceva di stringere la mano agli operai, e i nobili gli avrebbero chiuso la porta in faccia se egli non avesse portato il nome di uno dei più antichi casati della Provenza.

Correva dalla mattina le strade di Marsiglia, studiando i progressi della sommossa, mettendosi ai primi posti, nel più bello della confusione, per non perdere alcun episodio. Una sola cosa lo aveva irritato; la fucilata contro il generale. Altrove gli era parso che il popolo pagasse generosamente di persona, e che mostrasse una collera superba e delle violenze magnifiche.

Quando sentì dire che gli insorti facevano le barricate in piazza dell'Ova, vi corse subito. Voleva assistere alla catastrofe del dramma. Penetrò nel recinto delle barricate, si unì ai combattenti, decise di non muoversi di là, fin quando non fosse tutto finito.

Filippo lo guardava sorpreso. Il conte era sui due piedi dinanzi a lui, vestito di un abito nero abbottonato, con un cappello a cencio, e sotto un braccio teneva un gran sciabolone arrugginito e coperto di polvere. Sorrideva con aria di canzonatura.

- Voi qui? - esclamò Filippo. - Voi dei nostri?

Il signor di Girousse guardò la sua sciabola.

- Non è una bella sciabola? - disse senza rispondere. - Me l'hanno affidata per difendere la libertà.

E raccontò come gli era capitato di essere arruolato fra gli insorti. Questi, mancando di armi, cercavano di procurarsene in tutti i modi possibili. Un fabbricante di serrature aveva fatto osservare che i rigattieri di via Belzunce e di via Santa Barbara dovevano avere delle vecchie armi nelle loro botteghe. In una di quelle botteghe un operaio, pigliando il conte per un camerata, gli aveva dato lo sciabolone che aveva sotto il braccio.

- Chi me l'ha dato mi ha fatto giurare di cacciarlo nella pancia ai nemici della patria. Credo che non manterrò il giuramento. Ma questa sciabola fa un bell'effetto sotto il braccio ed io la tengo. Non vi pare che nessuno dei miei antenati, i prodi di una volta, non deve avere avuto migliore apparenza della mia in questo momento?

Filippo non poté fare a meno di sorridere.

- Vi ho fatto una domanda sciocca un momento fa, - disse al conte con un po' d'amarezza. - Vi ho domandato se eravate dei nostri. Mi dimenticavo che non potete essere qui che come curioso. Venite a vedere se il popolo sa morir bene! Credo che ne sarete contento.

Il repubblicano mostrò al gentiluomo la folla attiva degli operai.

- Vedete, - ripigliò, - ecco il gregge tosato e marcato col ferro rovente dai vostri padri. Per la terza volta in sessant'anni il gregge si ribella. Ve lo predico, finirà per mangiare i guardiani.

Invece di spingerlo alla rivolta sarebbe stato meglio accordargli la libertà ed il pane del quale aveva bisogno per vivere. Avrebbe impiegato in opere utili tutta l'energia della quale si serve oggi per fare delle barricate.

Il signor di Girousse non sorrideva più. Era diventato triste.

Filippo continuò con violenza:

- Qui non è il vostro posto. Venite in mezzo alle barricate come i patrizi di Roma antica andavano al circo a veder morire gli schiavi... Malgrado la vostra bontà, corre del sangue crudele nelle vostre vene. Avete delle curiosità da padrone annoiato, lo vedo; e la nostra insurrezione, questa insurrezione che costerà tante lacrime, è per voi uno spettacolo. Credete a me; fareste meglio ad andarvene. Noi non siamo attori e non abbiamo bisogno di spettatori.

Il vecchio conte era diventato pallido. Restò immobile per un momento, poi, quando Filippo si riabbassò per ripigliare la sua botte, gli domandò con accento tranquillo:

- Amico, volete permettermi di aiutarvi?

Prese la botte da una parte. Repubblicano e legittimista la portarono insieme fino alla barricata, sopra la quale la buttarono.

- Perbacco! - esclamò il signor di Girousse, - non pesava, ma la mia sciabola mi dava una gran noia.

Si fregò le mani per pulirsele dalla polvere e ritornò sulla piazza dove si trovò faccia a faccia con Mario. Dopo le prime parole di sorpresa gli disse sorridendo:

- Vostro fratello mi ha consigliato d'allontanarmi. Ha ragione; sono un vecchio curioso... Nascondetemi in qualche posto.

Mario lo fece salire nella casa dove erano Pina e Giuseppe. Il conte si affacciò ad una finestra del pianerottolo del terzo piano che guardava sulla piazza. Le parole di Filippo lo avevano rattristato.

Mario era sceso soltanto per pregare suo fratello di andare a rassicurare la povera Pina e il bambino che morivano di paura.

Risalì quando Filippo gli ebbe promesso di raggiungerlo. Filippo voleva far prima il giro della piazza. Le sei barricate erano terminate: almeno, gli insorti avevano rinunciato all'idea di alzarle di più, non trovando altri materiali. Un silenzio pesante cominciava a dominare su quella folla. Alcuni operai, seduti in terra, aspettavano riposandosi. Si sentiva che l'ora della lotta si avvicinava.

Filippo s'inquietò nel vedere che fra le mani dei combattenti c'erano poche armi veramente servibili. Appena una cinquantina erano armati di fucile. Gli altri erano provvisti di bastoni, di stecche da biliardo prese nei caffè. Molti di quelli senza fucile erano invece provvisti di armi fantastiche trovate nelle botteghe dei rigattieri; spiedi, vecchie lance o vecchie sciabole, o semplici verghe di ferro. Intorno alla fontana in mezzo alla piazza una diecina di operai affilava delle lame arrugginite sulle pietre fredde dell'orlo della vasca. C'erano pochissime cartucce:

appena qualche centinaio prese nelle giberne delle guardie nazionali disarmate.

Filippo capì che le barricate non potevano resistere lungamente.

Non volle scoraggiare gli altri manifestando la sua opinione.

Raccomandò soltanto di occupare le case attigue alle barricate.

Sperava che gli assalitori sarebbero tornati indietro, sentendosi grandinare addosso i proiettili lanciati dalle finestre e dai tetti.

Erano state già invase parecchie case. Gli insorti bussavano alle porte dei quartieri che volevano occupare, minacciando di sfondarle se non le aprivano. Poi vollero le chiavi delle terrazze, e d'ogni finestra fecero una feritoia, d'ogni tetto una piazzaforte. Durante quasi mezz'ora si affaticarono a portare sassi nelle case. Sui tetti levavano di posto e rompevano le tegole, ingombrando le terrazze di rottami destinati a ferire la testa ai soldati.

Quando Filippo fu sicuro che tutte le disposizioni opportune erano state prese, si decise a raggiungere suo fratello. Aveva preso il comando degli uomini che occupavano la casa dove stavano rifugiati Pina e Giuseppe. Quella casa faceva angolo fra via Grande e la piazza dell'Ova, a destra venendo dal Corso. Filippo prevedeva che la barricata di via Grande sarebbe stata assalita con maggior vigore e non era senza timore dei pericoli che correvano, durante la lotta, le persone che vi si erano rifugiate.

Vi condusse uomini sicuri ed affezionati e fece loro giurare di difendere l'entrata fino all'ultimo fiato. Dopo averli appostati sui tetti ed alle finestre tornò sul pianerottolo del terzo piano dove trovò il signor di Girousse che gli accennò l'uscio.

- Vi aspettano, - gli disse.

Mentre Filippo disponeva la difesa, Matteo era risalito sulla scalinata della casa che si trovava dall'altra parte della piazza.

Aveva veduto il repubblicano affacciarsi alle finestre e gli era ricomparso sulle labbra come una smorfia il suo silenzioso sorriso di briccone.

 

Capitolo 17 - CIO' CHE IL PREVIDENTE MATTEO NON AVEVA PREVEDUTO

Il colloquio fu breve e commovente. Filippo prese un momento sulle ginocchia il piccolo Giuseppe e si sentì intenerito.

- Ve lo confido, - disse a Pina e a Mario, - forse non lo rivedrò più, ma so che gli rimarranno un padre e una madre.

Mario non aprì bocca. Capiva che suo fratello credeva di adempiere un dovere e non gli disse nulla per trattenerlo. Pina aveva gli occhi pieni di lacrime.

Sembrò che Filippo facesse uno sforzo per uscire da quella camera piena di muta disperazione. Volle sfuggire alle tenere viltà dalle quali si sentiva invaso. Dette un ultimo bacio a suo figlio e lo rimise sulle ginocchia di Pina. Poi, camminando di passo febbrile, come per scacciare i suoi pensieri, andò alla finestra. Quella finestra dava sulla via Grande. Si voltò verso Pina, dopo aver data un'occhiata fuori e le disse:

- Bisognerà che andiate via dal posto dove siete... Mettetevi da una parte, lontana dalla finestra... Qui potrebbe arrivar qualche palla.

Si fermò e non poté trattenere un grido:

- Ah! la guerra è maledetta! L'ho desiderata con tutto il cuore ed eccola a mettere in pericolo quelli che io amo.

Si stringeva disperatamente la fronte con una mano. Stava per scoppiare in singhiozzi, quando con voce brutale disse dirigendosi verso la porta:

- Vieni tu, Mario?

Sulla soglia rivolse un ultimo addio a Pina e a Giuseppe che lo guardavano, mentre si allontanava. Lui e il fratello non pensavano in quel momento al signor di Cazalis e l'idea di un colpo di mano era lontana dalla loro mente. Temevano soltanto per la giovane donna e il bambino la brutalità degli insorti e dei soldati durante la lotta.

Quando furono sul pianerottolo trovarono il signor di Girousse che pareva nascondersi dietro uno stipite della finestra guardando qualche cosa con attenzione.

- Dite, - domandò loro, - conoscete quell'uccellaccio?

Ed accennò col dito a Matteo fermo dall'altra parte della piazza.

- Seguo da una mezz'ora le sue mosse, - continuò il conte. - Non ha cessato un momento di guardare questa casa. Quell'uomo deve avere delle cattive intenzioni.

I due fratelli guardarono verso il punto indicato.

- Quell'uomo con i capelli rossi? - domandò Mario.

- Precisamente... io detesto i rossi ed ho un odorato particolare per riconoscere i bricconi. Quello là è guercio ed ha sulle labbra un sorriso che non promette nulla di buono.

- Ma io lo conosco! - disse Filippo. - E' un democratico esaltato.

Mi ricordo di averlo udito fare dei discorsi incendiari nei circoli... Non l'ho mai osservato bene, e vi confesso che mi ha ispirato sempre una specie di ripugnanza... Ecco... guarda ancora dalla nostra parte.

Il giovane si sentiva preso da una indefinita diffidenza.

S'immaginava che Matteo potesse essere un agente provocatore, uno di quei traditori che allora si insinuavano fra i democratici e li spingevano a risoluzioni estreme per poi darli in mano della polizia.

Mario aveva altri sospetti che non osava manifestare.

- Vieni, - disse a Filippo, - bisogna sapere perché quell'uomo guarda questa casa a quel modo.

Scesero e si mescolarono alla folla. Non perdettero di vista Matteo fingendo di non occuparsi di lui. Durante dieci minuti passeggiarono per la piazza senza cessare di sorvegliarlo.

Matteo gustava i più bei progetti con una superba fiducia in se stesso. Aveva previsto tanto bene ogni cosa, tutto gli era tanto bene riuscito, da credersi sicuro della vittoria. Trionfava di già dimenticando l'abituale prudenza e pensando che tutti avessero perduta la testa e nessuno badasse a lui.

Quando vide i due fratelli cessò di guardare la casa e prese un'aria di sempliciotto. A testa bassa, parve assorto in riflessioni profonde. Mario e Filippo lo videro scendere dalla scalinata ed errare perplesso in mezzo alla folla. Infatti discuteva tra sé se gli conveniva andare a rubare il bambino prima della lotta, evitando di compromettersi nel rimanere ancora in mezzo alle barricate. Doveva sbarazzarsi di Pina che non gli dava noia: avrebbe adoperato il bavaglio ed alla peggio il coltello.

Gli dava noia invece quella maledetta parrucca rossa che gli aveva fatto da bandiera fino allora, e della quale avrebbe voluto sbarazzarsi ad ogni costo. Pensava che essa gli toglieva ogni libertà d'azione: non avrebbe potuto portare un bambino in collo se tutti lo potevano riconoscere per l'uomo dai capelli rossi, il focoso tribuno che un giorno aveva proposto di dar fuoco a Marsiglia.

Matteo passeggiò un pezzo non sapendo decidersi. Capiva tutta l'importanza di un cambiamento di fisionomia. Filippo e Mario, vedendolo guardarsi intorno, si erano persuasi che il signor di Girousse aveva ragione. Ad un tratto Matteo fece un gesto come un uomo che prende una risoluzione e si diresse verso la porta di una delle case della piazza. Vi entrò dopo essersi assicurato che nessuno lo spiava.

Pochi momenti dopo i due fratelli, tenendo gli occhi fissi su quella porta, ne videro uscire un signore un po' calvo vestito come l'uomo dai capelli rossi.

Filippo trattenne un grido di collera. Aveva riconosciuto Matteo a colpo d'occhio.

- Ah miserabile! - disse con voce soffocata a suo fratello, - è l'anima dannata del signor di Cazalis, quello che ha già tentato di portar via Giuseppe da casa d'Ayasse.

- Sentivo qualche tranello, - disse Mario che era impallidito.

- Ora mi spiego tutto... Quei maledetti capelli rossi mi avevano messo fuori di carreggiata. Mi pareva di conoscerlo, ma l'avevo veduto solamente di sera e non gli sapevo trovare un nome.

Mario interruppe il fratello.

- I minuti sono preziosi... Cazalis deve essere qua nascosto nell'ombra. Ha messo quell'uomo sui tuoi passi per rovinarti, e per impadronirsi di Giuseppe. Non mi spiego come tutto ciò sia accaduto, ma prima di tutto è necessario sbarazzarci di quell'uomo. Poi vedremo.

Filippo stette zitto, oppresso dal pensiero di tutte le disgrazie delle quali egli era la cagione.

- Capisci, - ripigliò Mario, - non lo possiamo fare arrestare accusandolo di un ratto non ancora commesso. E qui non si troverebbe nessuno per agguantarlo.

- Tu sbagli, - disse Filippo i cui occhi si erano illuminati. Ho un'idea: aspetta.

Filippo corse verso un gruppo d'operai che gli erano affezionati.

Parlò con loro a bassa voce per qualche minuto, poi ritornò da Mario dicendogli:

- Guarda, il nostro uomo casca nella rete.

Gli operai si erano sparpagliati: poi, ad uno ad uno, avevano fatto in modo di circondare Matteo, che non sospettando nulla, prendeva il contegno placido di un borghese.

- Rientrate in casa, - gli disse brutalmente uno degli operai.

- Aspetta, - ripigliò un altro, - non mi è viso nuovo questo cittadino.

- Eh! - gridò un terzo, - che cosa ne hai fatto dei tuoi capelli rossi?

- E' un falso fratello, è un falso amico, - gridò tutto il gruppo.

Quel grido corse per tutta la piazza. Si formò un assembramento in mezzo al quale Matteo era violentemente sballottato. Uno degli insorti gli aveva frugato in tasca e trovato la parrucca, prova di colpabilità, che passava di mano in mano. Parlavano d'impiccare il miserabile, giacché ognuno rammentandosi la parte ch'egli aveva fatto, gridava ch'era un agente provocatore, un ferro di bottega della polizia, e bisognava dare un esempio impiccandolo ad un lampione.

Matteo tremava di spavento. In quel momento non ragionava e non si meravigliò quando vide lo stesso Filippo muoversi in suo soccorso.

- Andiamo, via, amici miei, - disse Filippo, - non vi sporcate le mani ammazzando quell'uomo. Basterà guardarlo a vista... Più tardi potrà esserci utile... Se tenta di scappare tirategli una fucilata nella schiena.

Due operai afferrarono Matteo e lo chiusero in una piccola bottega. Uno dei due rimase di sentinella alla porta, armato di fucile.

Matteo fu obbligato a fare delle tristi riflessioni. Maledisse cento volte l'idea bislacca di levarsi la parrucca, ma non sospettò la parte avuta dai Cayol nella sua cattura. Filippo aveva finto di non riconoscerlo: Matteo s'immaginava che gli fosse capitata quella disgrazia soltanto perché gli insorti lo prendevano per un agente provocatore, accusa contro la quale non si poteva difendere. In fondo burlava quasi i suoi nemici che l'avevano soccorso. Non si disperava troppo, considerando sempre gli operai come tanti imbecilli, e pensando che gli sarebbe stato facile scappare al momento dell'assalto alle barricate. Quello era un semplice contrattempo. Bastava aspettare.

Filippo s'era ritirato con Mario in un angolo della piazza e gli diceva:

- Ho preferito non lasciarlo impiccare. Se vinceremo, quell'uomo nelle nostre mani sarà un'arma terribile contro Cazalis.

- E se siete vinti?

- Se siamo vinti confido a te mio figlio. Tu lo proteggerai... Non mi trattenere... devo andare avanti diritto senza voltarmi addietro.

La conversazione dei due fratelli fu interrotta da un mormorio sollevatosi in mezzo alla piazza. Erano le due. Le barricate erano terminate da un'ora; gli insorti aspettavano. Avevano profittato di quel riposo per fissare un piano di difesa e prendere altre disposizioni. Dopo l'arresto di Matteo s'era fatto un grande silenzio. Ciascun operaio, fermo al suo posto, guardava fisso davanti a sé, col fucile pronto, concentrandosi nel pensiero della vendetta.

Ad un tratto quelli che guardavano verso via Grande videro avanzarsi due persone che, arditamente, penetrarono dentro la piazza. Udendo il mormorio dal quale erano accolti, Filippo si avvicinò e riconobbe il signor Martelly e l'abate Chastanier.

L'armatore gli andò subito incontro.

- Per carità, - gli disse, - se avete qualche autorità su questi uomini, dissuadeteli da una lotta fratricida.

- Figlio mio, - disse a sua volta sommessamente il prete, - son venuto per supplicarvi a mani giunte di evitare lo spargimento di sangue.

Filippo tentennò la testa senza rispondere. La loro presenza lo turbava; si sentiva più colpevole davanti a loro. L'armatore continuò:

- Vedete, vengo come vi avevo promesso a mettermi fra le fucilate del popolo e quelle della truppa. Rimpiango oggi di non aver acquistata popolarità fra gli operai tanto da obbligarli ad ascoltarmi e seguire i miei consigli.

- Non posso far nulla, - disse finalmente Filippo. - Questi uomini sono irritati: mi ascoltano perché credo come loro che il popolo abbia diritto a vendicarsi: ma mi volterebbero le spalle se parlassi loro di perdono e d'oblio. Tentate voi.

Gli operai s'erano piano piano avvicinati. Il signor Martelly si avvicinò a loro:

- Amici miei, - disse, - sono incaricato di annunciarvi che si farà giustizia ai vostri reclami. Vengo adesso dal commissario del governo.

Quelle parole furono accolte da un profondo silenzio che dimostrava una sorda collera. Dopo un momento l'intera folla rispose con un solo grido:

- E' troppo tardi.

Allora l'abate Chastanier si rivolse agli operai, uno ad uno. Ma, uno ad uno, si allontanarono tutti, non volendo ascoltare. Quando diceva loro che Dio proibisce di versare sangue, gli rispondevano:

- Perché non lo avete detto alle guardie nazionali stamani?

Dal canto suo il signor Martelly non era più fortunato. Lo conoscevano per uomo indipendente, ma lo sapevano ricco e forse lo accusavano dentro di loro di obbedire a un sentimento di paura.

Il prete e l'armatore tornarono costernati vicino a Filippo.

Questi avrebbe desiderato vederli riuscire nel loro scopo, ma non osava aiutarli apertamente. Si sentiva vile di fronte ai suoi errori dei quali ora vedeva le conseguenze, di fronte al pericolo che minacciava i suoi cari.

- Vi avverto, - disse, - che ogni tentativo è inutile. Il popolo vuole battersi e si batterà. Lasciateci fare il nostro dovere.

Tacque per tender l'orecchio. Un rumore sordo e lontano veniva da via Grande.

- Ecco la truppa e la guardia nazionale, - ripigliò con voce solenne.

E si allontanò stringendo la mano a Mario che risalì da Pina. Il signor Martelly e l'abate Chastanier s'avviarono verso la barricata di via Grande, dietro la quale si era andato a metter Filippo.

S'era fatto di nuovo un profondo silenzio in mezzo al quale si sentivano i passi pesanti e cadenzati dei soldati. Gli insorti rannicchiati, nascosti, aspettavano.

 

Capitolo 18 - L'ATTACCO

Vestito della sua uniforme di guardia nazionale il signor di Cazalis poté seguire le varie fasi della sommossa. La mattina, quando Matteo l'aveva lasciato davanti alla Prefettura, s'era introdotto nelle file della prima compagnia che aveva incontrato.

Era quella di Salvario, e l'ex deputato poté assistere alla scaramuccia di via della Palude.

Non conosceva precisamente i progetti di Matteo e la curiosità lo spinse a seguire tutte le sue manovre. Dopo la presa della barricata, andò con la compagnia di Salvario sulla Cannebière e fu testimone dei fatti che vi accaddero. Quando vide passare il corteo condotto dallo spione capì che la lotta era inevitabile e ricordò l'appuntamento datogli dal suo complice.

Ma si trovò molto perplesso quando il timor panico disperse la folla. La prudenza gli consigliava di non abbandonare i suoi nuovi compagni d'armi. Rimase per due ore con la compagnia in piazza della Rivoluzione.

Lo indispettiva di non conoscere meglio i progetti di Matteo che gli aveva detto soltanto di ritrovarsi dove si sarebbero assalite le barricate. Lo riscosse un ordine portato da una staffetta a cavallo che il capitano Salvario trasmise così alle guardie nazionali:

- Figlioli, la patria ha bisogno di noi: avanti, in marcia!

Il capo-facchino non aveva mai fatto un discorso tanto eloquente.

Si sentì talmente entusiasmato di se stesso da percorrere la Cannebière alla testa dei suoi uomini con aspetto trionfante, senza pensare molto ai pericoli ai quali andava ad esporsi.

Il signor di Cazalis fu sorpreso quando la compagnia voltò a sinistra invece di dirigersi verso via Roma. Credeva che Matteo si fosse adoperato a portare la lotta verso il corso Bonaparte, e non capiva come il suo complice volesse fare per rubare Giuseppe, se il combattimento era nella città vecchia. Quando la compagnia fu all'imboccatura di via Grande vide la barricata. Gli bastò: fedele all'appuntamento aspettava gli avvenimenti.

Il corso Belzunce era pieno di truppe. C'erano due plotoni di fanteria e trecento artiglieri. Quando la compagnia di Salvario fu arrivata, il comandante della truppa ebbe un breve colloquio col capitano della guardia nazionale.

- Vi aspettavo, - disse a Salvario, - ho l'ordine d'agire con molto riguardo, e credo che il vedere la truppa irriterà di più gli operai. E' preferibile che vada avanti la guardia nazionale e tenti un ultimo sforzo di conciliazione. Parlate agli insorti come concittadino.

Salvario credette allora che i destini della Francia fossero nelle sue mani. Formò la compagnia in colonna ed entrò risolutamente in via Grande. Dietro la guardia nazionale il comandante fece avanzare la truppa.

Quando il capitano fu a cinquanta passi dalla barricata comandò:

"Alt!" e si avvicinò solo. Una quindicina d'insorti si mostrarono.

L'antico capo-facchino vedendosi luccicare davanti le canne dei fucili sentì dentro di sé un sordo fremito di paura. Ma, per vanità, si contenne bene.

- Perbacco, sono un amico! non tirate! siamo tutti Marsigliesi e non ci dobbiamo ammazzare in famiglia. Qui siete tutti buoni ragazzi, non è vero? Deponete le armi, ed andiamo ognuno per i fatti nostri.

Un grido solo rispose a quelle esortazioni.

- E' troppo tardi!

- Non è mai troppo tardi per essere ragionevoli. Al vostro posto darei ascolto alla voce del dovere. Vi devono aver già detto che il rappresentante del governo dà soddisfazione ai vostri reclami.

Che cosa volete di più?

- Vogliamo vendetta... ritiratevi!

Salvario seguiva con attenzione le mosse degli insorti. Gli parve di sentire un rumore sospetto, e stava per andarsene quando una voce forte gridò di dietro la barricata:

- Attenti, abbassatevi.

Salvario si lasciò andare in terra e le truppe che erano dietro di lui si chinarono.

Nel medesimo tempo una scarica, partita dalla barricata e dalle case vicine passò sugli assalitori come un rumore terribile di uragano. Grazie all'avviso che aveva fatto abbassare la testa ai soldati, ne rimasero feriti soltanto una diecina. La scarica era stata tanto improvvisa che le guardie nazionali sbandarono impaurite. Salvario rasentando le case a sinistra raggiunse la sua compagnia che andò a riformarsi cento passi indietro.

In quel frattempo accadeva una rapida scena dietro la barricata.

Il signor Martelly e l'abate Chastanier erano rimasti in mezzo agli operai, non cessando di raccomandare che si evitasse lo spargimento di sangue.

Mentre Salvario parlava, l'armatore si era accorto che qualche infuriato stava per tirare, ed aveva gridato: "Attenti, abbassatevi". Quando gli insorti si accorsero dello scarso risultato della loro scarica circondarono rabbiosi il signor Martelly. Filippo capì il pericolo del suo antico principale. Lo salvò ordinando a due insorti d'impadronirsi di lui e del prete e di guardarli a vista. Li condussero tutti e due nella piccola bottega dove si trovava già Matteo.

Intanto le truppe si avanzavano. Il comandante aveva dato l'ordine alla fanteria di prendere la barricata d'assalto. Alcune guardie nazionali si erano unite ai soldati, e fra queste il signor di Cazalis. Avendo veduto Filippo in cima alla barricata, suo unico pensiero era tirargli una fucilata nascondendosi in qualche porta.

Mentre la nuova colonna d'attacco si slanciava contro la barricata fu respinta da una seconda scarica, molto più micidiale della prima. Un capitano, ferito mortalmente, andò a spirare in una casa vicina: furono messi fuori combattimento più di trenta uomini. Il comandante capì che la lotta era ineguale e non si poteva prendere la barricata di fronte, perché gli insorti nascosti dietro tiravano a colpo sicuro e gli assalitori non potevano fare altrettanto. Soldati e guardie nazionali si sparsero lungo via Grande, dai lati, rasente ai muri, cominciando il fuoco in ordine sparso. I colpi di fucile si succedettero irregolarmente ed ogni uomo che si faceva vedere era sicuro di sentirsi fischiare una palla vicino agli orecchi.

Salvario s'era rifugiato in un portone. Quell'eccellente uomo cominciava a trovare scabroso il mestiere di guardia nazionale. La sua vanità era stata dapprima lusingata dal titolo di capitano, e dall'importanza che esso gli dava in quei momenti difficili. Ma quando vide che si battevano sul serio la sua pietà borghese si risvegliò, e guardava con occhio lacrimoso e spaventato gli uomini che si vedeva cadere d'intorno. Avrebbe voluto far cessare il combattimento; prima di tutto per non buscarsi una palla, poi per non assistere a quello spettacolo pietoso. Egli non avrebbe ammazzato una mosca, e pensava soltanto a mettersi al sicuro e ad aiutare i suoi amici che potevano essere compromessi in quelle faccende.

Per caso si trovava riparato nello stesso portone nel quale era il signor di Cazalis. Riconobbe l'antico deputato e trattenne un gesto di meraviglia. Sapendo quale odio lo spingeva contro i Cayol, capì che si trovava lì travestito per un'idea di vendetta.

Aveva veduto Filippo sulla barricata e stava attento a Cazalis che pareva aspettasse col fucile pronto. Il repubblicano essendosi mostrato nuovamente per caricare il fucile, il legittimista puntò e lasciò andare una fucilata. Ma Salvario, fingendo di barcollare, lo urtò e la palla andò a schiacciarsi sul muro di una casa.

Il signor di Cazalis, irritato, non osò insultare il capitano sotto i cui ordini si era messo volontariamente. Caricò di nuovo il fucile, rodendo dentro sé con la sua rabbia, mentre Salvario diceva fra sé:

- Perbacco! i Cayol sono miei amici. Mario mi ha fatto ridere tanto con la Chiarina... Non li lascerò ammazzare a questo modo...Stiamo a occhi aperti.

E dimenticandosi d'essere capitano, pensò soltanto a far piacere a Mario salvando Filippo.

Questi non immaginava neppure da qual pericolo era scampato.

Infervorato dalla lotta si batteva come un disperato. Le sue incertezze sparivano, credeva di difendere suo figlio. Tirava sulle truppe perché le truppe tiravano sulla casa dove erano Pina e Giuseppe. Alzava ogni momento gli occhi alla finestra della camera e impallidiva quando vedeva spezzarsi qualche cristallo di quella finestra.

Alla finestra vicina il signor di Girousse di tanto in tanto si affacciava con superbo disprezzo del pericolo. Salutava Filippo con la mano, poi si godeva come dilettante lo spettacolo della barricata.

La lotta continuò così per mezz'ora. Soldati e insorti si scambiarono delle fucilate da lontano. C'erano pause lugubri di due o tre minuti; poi una fucilata, un grido, e poi di nuovo silenzio. I pantaloni rossi dei soldati erano buonissimi bersagli per gli operai, che poterono ammazzare un gran numero di uomini.

Essi si nascondevano meglio; ma quando veniva una fucilata da una finestra, quella finestra era subito crivellata di palle. Gli insorti che erano andati a buttar pietre dalle terrazze erano i più esposti alle fucilate. Di tanto in tanto uno cadeva dal tetto in mezzo alla strada, ammazzato sulle grondaie come un passerotto.

La lotta poteva durare a quel modo fino a sera. Era molto più micidiale di un attacco decisivo. Una trentina di cadaveri giacevano in terra in mezzo a pozze di sangue.

Alla prima fucilata Mario era sceso nella strada. Non avendo potuto impedire il combattimento, voleva soccorrere i combattenti.

Fece stabilire un'ambulanza in una bottega e si occupò con zelo di trasportarvi i feriti. Mentre passava dietro la barricata, un uomo gli cadde accanto mortalmente ferito. Si chinò su di lui e riconobbe con sorpresa Carlo Bletry, l'impiegato infedele della ditta Daste e Degans. Quel disgraziato riconobbe Mario e gli disse:

- E' inutile, signor Mario... è finita... vado all'altro mondo...Ah! la Provvidenza è pur buona che vi ha condotto verso di me.

Poi ripigliò con sforzo, avendo già le mani contratte:

- Vi giuro che non ho scaricato il fucile. Mi hanno trascinato qua i miei compagni, ho dovuto far come loro... Sentite, debbo chiedervi un favore. Promettetemi di adempiere le mie ultime volontà.

Bletry si sollevò penosamente e si levò una cintura dalla vita.

Mentre la porgeva a Mario fu preso da una convulsione e la cintura cadde in terra: ne uscì fuori qualche moneta.

Quando poté parlare continuò:

- Questa cintura contiene cento franchi. Fatemi il piacere di portarla ai signori Daste e Degans, e dite loro che non è colpa mia se non ho rimborsato intieramente la somma della quale ho fatto tanto cattivo uso.

Mario lo guardava meravigliato.

- Voi non sapete, - continuò Bletry, - che sono stato graziato di due anni. Sono uscito tre anni or sono di prigione e d'allora in poi ho lavorato come manovale. Dei centotrenta franchi al mese che guadagnavo ne ho mandati regolarmente cento ai miei principali. Ho pagato a questo modo tremila e tanti franchi... Speravo di arrivare a guadagnare di più, e m'ero sognato di consacrare la vita intera al pagamento del mio debito... La morte è arrivata troppo presto...

Le parole gli restarono strozzate in gola. Dopo una breve agonia spirò, col viso contratto, le membra irrigidite.

Mario aveva sentito una specie di rispetto davanti a quella terribile morte. Quell'infelice che giaceva in terra gli pareva fatto grande dal dolore e dai rimorsi.

Prese la borsa e si allontanava, quando udì un gran rumore dalle vie Luna d'oro e della Vieille Monnaie. Ad un tratto vide dei soldati e delle guardie nazionali sboccare da quelle vie ed invadere la piazza.

Grandi avvenimenti erano succeduti durante i pochi minuti passati da Mario accanto a Bletry. Mentre le fucilate continuavano in via Grande, due altre colonne avevano assalito gli insorti dalle straducole della città vecchia.

Una colonna aveva attaccato piazza dell'Ova da via Requis-Novis.

Giunta in cima a via Pierre-qui-Rage, si fermò vedendo la barricata alzata dagli insorti. Un commissario di polizia che precedeva la truppa si avanzò esortando gli operai alla calma ed all'ordine. Gli gridarono in risposta che il popolo era stato provocato, e nello stesso tempo ricevette una fucilata in un braccio. Appena si fu ritirato fu fatta una scarica sulla truppa, accompagnata da una pioggia di sassi e di tegole. Parve il rumore di un tuono e la strada fu in un momento piena di fumo. I soldati sorpresi si buttarono di lato, rasente alle case; cominciò un tiro al bersaglio come in via Grande. Tali scaramucce sono terribili; un pugno d'uomini trattiene spesso tutto un esercito.

Mentre il combattimento continuava da due parti, un'altra colonna, che doveva essere più fortunata, avanzò verso la barricata di via Grande dalla parte del palazzo di Giustizia. Questa colonna venuta dal palazzo di città non si avvicinò; ricevette la fucilata di una sentinella che si allontanò, e ritenendo impossibile superare l'ostacolo senza artiglieria, si decise ad aggirarlo.

Entrò in via Belzunce dove trovò una trentina d'insorti che fecero una scarica e poi scapparono, gli uni in via delle Marchese, gli altri in via Santa Marta, Santa Barbara e Mulino dell'Olio. I soldati li inseguirono al passo di corsa, buscando qualche fucilata alla quale risposero, frugando due o tre case e arrestando qualche combattente. Ma non osarono penetrare nella via delle Marchese che li avrebbe condotti diritti in piazza dell'Ova.

Supponevano barricata anche quella strada stretta e pericolosa:

temevano di essere schiacciati dai proiettili lanciati dai tetti e dalle finestre.

La colonna continuò a girare intorno alla piazza. Giunta in piazza San Martino si divise: parte entrò in via della Luna d'Oro, parte in via della Vieille Monnaie. Il piano era di sboccare contemporaneamente in piazza dell'Ova, dove i due distaccamenti, difatti, giunsero insieme.

I soldati si lanciarono sulle barricate, costruite da quella parte meno solidamente. Sorpresi da quello slancio gli insorti si rifugiarono in disordine nelle case. Per qualche minuto fermarono la colonna facendo un fuoco ben nutrito dalle finestre. Ma il loro fuoco rallentò quasi subito, i soldati passarono di corsa e si trovarono in mezzo a piazza dell'Ova.

Mario, vedendo i vincitori, capì che suo fratello era perduto, se non lo salvava a tempo dall'essere arrestato. Corse alla barricata di via Grande. Filippo voltando le spalle alla piazza, occupato a difendersi, non si era accorto della vittoria delle truppe. Mentre i due fratelli si dirigevano alla casa dove erano Pina e Giuseppe, videro che non facevano a tempo a giungervi ed entrarono in una casa dirimpetto. Barricarono la porta, disperati, non osando parlare dalla paura che avevano per avere forzatamente abbandonato il bambino e la giovane.

C'era sulla piazza un grande tumulto. Quando gli insorti videro che i soldati erano padroni della posizione, imitarono Filippo e Mario correndo a rifugiarsi nelle case. Le colonne che assalivano le barricate di via Grande e via Requis-Novis s'erano meravigliate vedendo cessare il fuoco. Poi, avendo capito quello che accadeva, superate le barricate abbandonate, s'erano riunite ai vincitori.

La piazza era piena di truppe che si preparavano ad assediare le case, in mezzo ad un frastuono da stordire.

Allora l'insorto, che faceva la guardia ai tre prigionieri nella piccola bottega, prese la fuga.

Matteo scivolò fra la folla e disparve: il signor Martelly e l'abate Chastanier, tristi ed immobili, aspettavano terribili rappresaglie. E di tanto in tanto la fisionomia curiosa del signor di Girousse appariva alla finestra ch'egli non aveva più lasciato da quando era cominciato il combattimento.

 

Capitolo 19 - NEL QUALE MATTEO HA FINALMENTE GIUSEPPE FRA LE SUE BRACCIA

Salvario aveva perduto di vista il signor di Cazalis entrando in piazza. Era inquieto non sapendo dove fosse andato, dopo averlo sorvegliato per un'ora dentro il portone. Il buon uomo continuava a non ricordarsi più di essere capitano. Aveva un'idea fissa:

soccorrere il fratello del suo amico Mario.

Girando per la piazza inquieto ed imbarazzato, pensò che Filippo fosse nascosto nell'antica abitazione di Pina. Guardò la casa e vide la testa del signor di Girousse.

- Ehi! dite un po' voi... lassù, - gridò al vecchio conte, scendete ad aprire la porta.

Il signor di Girousse era egli pure inquieto sulla sorte toccata a Filippo. Si decise a scendere sapendo che i due fratelli si erano rifugiati nella casa dirimpetto e sperando di poterli aiutare. Ma quando fu sceso trovò degli insorti che avevano messo il chiavistello e non lo volevano lasciare uscire. Ottenne finalmente di aprire uno spiraglio. Gli insorti lo cacciarono fuori e chiusero di nuovo.

Salvario e il signor di Girousse si trovarono faccia a faccia.

- Perbacco, - esclamò il capitano, - bisognava lasciare la porta aperta. Vi farò arrestare.

Il conte guardava il capitano con curiosità.

- Mi volete fare arrestare... bene! arrestatemi voi e conducetemi verso quei due che sono là.

Gli indicò il signor Martelly e l'abate Chastanier. Salvario l'accompagnò e si scusò quando seppe d'aver messe le mani sopra un conte, un ricco proprietario.

- Non ci mancava altro che farmi deportare, - disse il signor di Girousse ridendo, - la mia giornata sarebbe stata completa.

Si fermò a parlare a voce bassa con l'armatore informandolo di tutto.

- Non abbiamo veduto nulla, - disse il signor Martelly, - siamo stati chiusi in quella bottega insieme ad un personaggio che aveva una vera faccia da scellerato... Mi dite che Filippo e Mario sono in quella casa?

- Sì... ho paura che li arrestino. Ed il peggio è che ho lasciato in quest'altra casa il figlio di Filippo e la moglie di Mario.

Tale notizia desolò l'armatore. L'abate Chastanier gli fece osservare che Pina e Giuseppe non correvano alcun pericolo: si poteva sempre intervenire qualora la casa fosse saccheggiata.

Bisognava pensare prima di tutto ai due fratelli e farli fuggire.

Il male era che non pareva possibile aiutarli in nessun modo.

Le truppe, invasa la piazza, non restavano con le mani in mano.

Dalle finestre tiravano ancora qualche fucilata; bisognava finirla. Fu dato l'ordine di prendere d'assalto tutte le case chiuse, sui tetti delle quali gli insorti bruciavano le loro ultime cartucce. Alcuni zappatori buttarono giù le porte a colpi di scure.

Salvario era disperato: avrebbe voluto allontanare i soldati dalla casa dove supponeva nascosto Filippo, e non trovava mezzo di riuscirvi. Riunì i suoi uomini, li portò dalla parte opposta della piazza, li fece perquisire altre abitazioni. Ma ebbe il dispiacere di vedere un colpo partire dalla casa ch'egli voleva proteggere.

Un tenente rimase ferito e le truppe si slanciarono verso la porta.

- Imbecilli! - borbottò Salvario, - che bisogno avevano di ferirlo. Ora il mio amico è bell'e spacciato.

Si avvicinò per essere almeno uno dei primi ad entrare.

Mentre ciò accadeva due uomini parlavano vivacemente in un canto della piazza. Erano Matteo e il signor di Cazalis. Uscendo dalla bottega la spia aveva subito visto il suo padrone in mezzo alla folla. Quando l'ebbe condotto da parte gli domandò con tono di canzonatura:

- Dunque? non vi congratulate con me? non ho lavorato bene?

- Non ti ho veduto sulla barricata.

- Questi imbecilli hanno avuto la precauzione di mettermi al sicuro dalle palle chiudendomi in una bottega. Li ringrazio... La vittoria è nostra.

- Dove hai portato il bambino?

- Eh! che furia! ve lo consegnerò di qui a poco... vedete, è là, dentro quella casa della quale spezzano la porta.

Matteo disse al signor di Cazalis quello che aveva fatto e quello che gli rimaneva da fare. Era sicuro dell'esito.

- Nel frattempo, - aggiunse, - bisogna agire con sollecitudine.

Hanno messo dentro con me, non so per quale ragione, due uomini amici dei Cayol. Guardate, sono ancora sulla porta della nostra prigione comune. Ho paura che la loro presenza ci disturbi.

Il signor di Cazalis riconobbe Martelly e l'abate Chastanier. Non vide il signor di Girousse che gli voltava la schiena.

- Ah! - disse, - non sono qui per noi. Animo! Matteo, se tu riesci raddoppio la ricompensa promessa.

Gli zappatori avevano dato i primi colpi di scure e la porta risuonava cupamente.

- Sai dove sia andato a finire quel miserabile Filippo? - domandò il signor di Cazalis.

- Spero che l'abbiano arrestato. In tutti i casi lo acchiapperanno adesso, se è dentro. Non vi pigliate pena: è bell'e accomodato e non gli possono toccare meno di dieci anni di deportazione.

- Avrei preferito finirla! l'ho avuto a tiro di fucile... Non credi che possa disturbare i tuoi piani se è dentro la casa?

- Ah! sarà nascosto in qualche armadio. Attenti!... la porta cede.

Non vi impicciate di nulla; lasciate fare a me e state a vedere, se vi diverte. Quando avrò il bambino seguitemi, faremo i conti altrove.

Matteo lasciò il padrone in mezzo alla piazza e andò ad unirsi agli assedianti. Le scuri degli zappatori avevano sfondata la porta, ma i cardini e la serratura resistevano ancora.

Salvario seguiva ansiosamente l'operazione, facendo conto di riunire i suoi uomini ed entrare per primo. Quando la porta cominciò a cadere, sentì una mano posarglisi sul braccio. Si voltò e riconobbe Cadet, il fratello di Pina.

Il giovanotto lo tirò da parte e gli domandò con voce soffocata:

- Che cosa succede? avete visto mia sorella?

E prima che Salvario avesse potuto rispondere:

- Da stamane siamo consegnati, io e i miei uomini, nel nostro ufficio. L'autorità, sapendo come la penso, ha mandato un picchetto di guardie nazionali alla mia porta e sono potuto scappare soltanto adesso. Sono volato a casa di mio cognato nel corso Bonaparte. La casa è vuota. Dio mio! che cosa è accaduto?parlate.

- Andiamo, via... una disgrazia non viene mai sola. Tutta la famiglia deve essere in questa casa.

- Credete che mia sorella sia qui?

- Non lo so... so che ho veduto Filippo sulla barricata battersi come un arrabbiato... Povero Cadet. Ho paura che la faccenda vada a finir male. Mi dimenticavo che il vostro nemico gira per la piazza...

- Quale nemico?

- Il signor di Cazalis... E' travestito da guardia nazionale.

Cadet si sentì rabbrividire. Tutt'ad un tratto si accorse che la porta era sfondata.

- Corriamo presto, - esclamò.

Un'onda di soldati s'era precipitata per entrare nella casa. Ma tre o quattro fucilate tirate dalle scale fecero ritirare gli assalitori in disordine. Per qualche minuto nessuno osò penetrare nel vestibolo. Gli insorti avevano bruciate le ultime cartucce e dopo quel simulacro di difesa, s'erano affrettati a salire sul tetto tentando di scappare. Quando fu passato il primo timore i soldati si decisero ad avanzare cauti fino ai piedi della scala:

poi, vedendo che non trovavano resistenza, invasero la casa frugandone tutti i cantucci.

Salvario e Cadet avevano commesso l'errore di allontanarsi di alcuni passi parlando. Quando vollero avvicinarsi alla porta si trovarono dietro a una folla che impediva il passo. Malgrado i loro sforzi, quando furono dentro, dovettero salire la scala adagio adagio, tanto era ingombra di soldati e guardie nazionali.

Arrivati al terzo piano incontrarono un uomo che scappava dando delle spinte a tutti: quell'uomo, che i soldati presero per un inquilino terrorizzato, aveva un bambino in braccio. Passò tanto presto, nascondendo il bambino sotto il soprabito, che Cadet non poté vederlo in faccia. Il giovanotto si voltò indietro, avvertito da un sentimento indefinito: quell'individuo aveva già sceso cinque o sei scalini. Il fratello di Pina spinto da Salvario continuò a salire e si trovò davanti alla porta del suo quartierino.

La porta era spalancata. In mezzo alla prima stanza giaceva in terra Pina, svenuta. Giuseppe era sparito.

 

Capitolo 20 - COME L'INSORTO FILIPPO TIRO' UN'ULTIMA FUCILATA

Durante la lotta le angosce di Pina erano state terribili. Ogni fucilata la faceva trasalire e pensare con spavento che forse la palla aveva ucciso uno dei suoi cari. Avrebbe voluto essere giù nella strada per dividere i pericoli di Mario e di Filippo. Ma la presenza di Giuseppe la tratteneva in quella stanza dove essa moriva di ansia.

Il povero bambino si rifugiava in braccio a lei. Era bianco come un pannolino, e stringeva i denti non potendo piangere. Con la faccia nascosta fra le sottane di Pina, stringendole la vita con le piccole braccia, stava muto ed immobile.

Le palle entrarono più volte dalle finestre, scantonando i mobili ed entrando nei muri. Pina guardava i buchi stupefatta. Si faceva più piccola, stringeva più forte Giuseppe fra le braccia. Non pensava a se stessa, ma rabbrividiva pensando che una palla poteva rimbalzare e colpire il fanciullo.

Quel supplizio durò più di un'ora. Essa ascoltava con ansietà ogni rumore. Capì dal tumulto della piazza che le barricate erano state prese.

Provò allora un sollievo che fu seguìto da più crudeli timori.

Cessate le fucilate osò avvicinarsi alla finestra e dare un'occhiata fuori. Si domandava perché Mario e Filippo non erano saliti in casa dopo la presa delle barricate.

Avrebbero dovuto nascondersi in fretta vicino a lei. Non essendo andati, bisognava credere che fossero prigionieri, forse morti. La sua mente spaventata non ammetteva altra ipotesi. Le parve di vedere suo marito e suo cognato distesi nel loro sangue sul selciato, o condotti in prigione in mezzo ai soldati. Quelle immagini evocate dalla sua fantasia finirono per farla scoppiare in lacrime.

Guardando in piazza Pina vide le truppe che si precipitavano verso la casa. Si ritirò all'istante. Risuonarono subito dopo i colpi di scure. Giuseppe si mise a piangere: il suo spavento, muto fino allora, si manifestava con gridi acuti. Chiamava il babbo, si attaccava al collo di Pina, e gridava che non voleva essere preso dai soldati.

Le grida del bambino finirono per far perdere la testa a Pina. Si precipitò per la scala volendo scendere e correre da Mario e da Filippo. Ma arrivata al secondo piano sentì la porta spezzarsi e cadere. Nello stesso tempo gli insorti, nascosti nel corridoio, salivano, dopo aver fatto fuoco. Essa rimase un momento indecisa; poi sentì i passi degli assalitori che si avvicinavano. Sarebbe rimasta lì se, affacciandosi alla ringhiera, non avesse veduto l'uomo che saliva per primo. Era Matteo. Pina credette di vedere un fantasma. Affascinata, con gli occhi spalancati per l'orrore, risalì retrocedendo dinanzi a Matteo che la guardava. Quando fu rientrata nella stanza, senza darle tempo di chiudere, egli si slanciò su di lei e le strappò dalle mani Giuseppe. Pina cacciò un grido sordo: fu la sua unica difesa; l'emozione l'aveva annichilita e le si piegarono le gambe. Quando non si sentì più il bambino fra le braccia, stese avanti le mani come per riprendere il suo tesoro, e non afferrando nulla, cadde come corpo morto sul pavimento.

Nessuno dei soldati si era accorto di quella scena, ma da una casa vicina due testimoni avevano assistito al ratto di Matteo.

La casa nella quale si erano rifugiati a caso Mario e Filippo era situata dall'altra parte di via Grande, sulla cantonata della piazza. Per una fortunata combinazione i due fratelli erano i soli insorti penetrati là dentro. Quando furono entrati misero il catenaccio. La scala era silenziosa e deserta: gli inquilini barricati nelle loro stanze non si facevano vedere.

Mario e Filippo sedettero un momento sui primi scalini e si consigliarono. Non sapevano come sfuggire ai soldati che da un momento all'altro potevano sfondare la porta. Rimaneva loro il tentativo di una fuga sui tetti, ma era un mezzo arrischiato, e sebbene il pericolo fosse imminente, avrebbero voluto rimanere lì ancora per assicurarsi che Pina e Giuseppe non correvano pericolo.

- Non avremmo dovuto abbandonarli, - disse Filippo. - Siamo stati vili pensando soltanto alla nostra salvezza.

- Non disperiamoci, - rispose Mario che cercava di rassicurarsi, rassicurando il fratello. - Forse ci saremmo rovinati inutilmente... Pina è forte e coraggiosa.

- Non importa... non fuggirò se non quando sarò sicuro della loro sorte... senti... sfondano una porta... andiamo su...

Salirono al primo piano e videro, dalla finestra del pianerottolo, che la casa assediata era quella di fronte. Per qualche minuto rimasero immobili e affannati: ogni colpo di scure trovava un'eco nel loro cuore. Non avevano mai provato un'emozione simile.

Seguirono le diverse fasi dell'assedio con dolorosa ansietà.

Soffrivano della loro impotenza; non potevano correre in aiuto di quelli che credevano minacciati; dovevano assistere inutilmente all'assalto dato da quella folla furiosa.

Ad un tratto Filippo cacciò un urlo di rabbia. Aveva visto Matteo nelle prime file degli assalitori e lo indicò a suo fratello.

- Miserabile! - mormorò. - L'avrei dovuto lasciare impiccare. Sarà scappato ed è là per portar via Giuseppe.

Si voltò e cacciò un altro urlo, accennando a Mario col dito una guardia nazionale mezza nascosta dietro uno degli alberi della piazza, e dicendo con voce strozzata:

- Cazalis...

Ed aggiunse aggiustando il fucile alla spalla:

- Non ho più che una palla... sarà per lui.

Stava per tirare, quando Mario gli strappò il fucile di mano.

- Non assassinare inutilmente. Avremo forse bisogno di quella palla... è un vero tranello.

In quel momento la porta cedeva ai colpi di scure.

- Andiamo più in su, - disse Mario.

Salirono fino al terzo piano. Là li aspettava uno spettacolo terribile. Avevano dirimpetto la finestra della camera dove erano Pina e Giuseppe. Videro Pina che si disperava e non le poterono gridare, in mezzo al frastuono, che vegliavano su di lei. Pallidi e tremanti assistettero all'episodio del ratto. Quando Pina volle scendere la seguirono con lo sguardo giù per le scale. Poi la videro risalire retrocedendo davanti a Matteo. Poi Matteo era entrato nella camera ed aveva strappato Giuseppe dalle braccia di Pina.

Mario rese il fucile a Filippo dicendogli con voce soffocata:

- Sentivo che avevamo bisogno di quest'ultimo colpo.

Filippo puntò, ma il fucile gli tremava nelle mani. Aveva paura di colpire suo figlio. Matteo ebbe tempo di uscire dalla stanza e di cominciare a scendere.

Quando il miserabile passò davanti alla finestra del pianerottolo del secondo piano Filippo sentì nuovamente mancargli le forze. Non poté tirare.

- Se tu lo lasci arrivare in strada, - disse Mario, - perdiamo il bambino.

Filippo, fatto un supremo sforzo, diventò calmo e freddo. Appoggiò il fucile al davanzale della finestra e aspettò Matteo al passo.

La spia seguitava a scendere e mise il piede sul pianerottolo del primo piano. La fucilata partì.

Al rumore del colpo Salvario e Cadet, che richiamavano in vita Pina, alzarono la testa e videro i due fratelli, dall'altra parte della strada, affacciati ansiosamente a guardare l'effetto della fucilata. Salvario si lasciò sfuggire un'esclamazione di gioia e di sorpresa: sapeva dove erano quelli che voleva proteggere. Cadet ebbe un improvviso presentimento di quanto accadeva. Non avendo visto il bambino nella stanza, pensava a quell'uomo che gli era passato accanto per la scala.

Scese in fretta. Al primo piano si trovò davanti ad uno strano spettacolo.

Matteo era disteso sugli scalini con la testa fracassata. Cadendo aveva aperto le braccia e Giuseppe gli era andato addosso senza farsi male. La palla di Filippo era entrata nel cranio della spia, passando a pochi millimetri dalla testa del fanciullo. Questi, cessato lo svenimento che aveva permesso a Matteo di portarlo via facilmente, aveva ripreso i sensi e piangeva mezzo disteso su quel cadavere.

Cadet prese il bambino fra le braccia. Aveva già risalito qualche scalino quando gli venne improvvisamente un'idea. Riscese e frugò il cadavere: s'impadronì di tutte le carte che gli trovo addosso; potevano ancora servire a qualche cosa.

Quando rientrò nella stanza del terzo piano trovò Salvario impacciato, non sapendo come assistere Pina ancora svenuta.

Non aveva saputo fare altro che portarla sul letto. Cadet le posò Giuseppe accanto. Il bambino abbracciò subito Pina stringendosi addosso a lei, contento d'aver ritrovato il suo caro rifugio, e richiamandola in vita con le carezze. Essa si alzò e abbracciò Giuseppe con passione. Le pareva di aver fatto un orribile sogno.

Poi, ad un tratto impallidì di nuovo.

- Dove sono Mario e Filippo? - domandò, - non mi nascondete nulla, vi prego.

Cadet le indicò allora i due fratelli nella casa vicina. Essa restò immobile, assorta nella sua gioia. Il pericolo non era ancora finito per loro, ma vivevano e per il momento essa non chiedeva di più.

Anche Filippo e Mario erano contenti. Dopo aver tirato la fucilata Filippo s'era sentito svenire. Gli si turbò la vista e cacciò un urlo di rabbia vedendo cadere Matteo e il bambino. Per un momento l'angoscia gli strinse la gola: il fumo non gli permetteva di vedere se aveva o no colpito il figlio.

Ma quando Mario sentì piangere il bambino che Cadet riportava nella camera, esclamò:

- Guarda!

Allora i due fratelli contemplarono con infinita gioia la scena.

Vedevano Pina e Giuseppe sani e salvi e pensavano di non correre più alcun pericolo avendo vicino degli amici per difenderli.

Si tranquillizzarono ancor più vedendo salire nella camera di Cadet il signor Martelly e l'abate Chastanier guidati dal signor di Girousse. Avevano aspettato che fossero entrati i soldati per entrare alla loro volta e proteggere Pina. La vista di un cadavere per le scale fece loro affrettare il passo. Saliti su seppero tutto da Cadet e Pina.

- Quel Cazalis è un miserabile, - esclamò il signor di Girousse. - Ma bisogna prima di tutto sottrarre Mario e Filippo alle indagini della truppa. Guardate... non c'è tempo da perdere.

Difatti la condizione dei due fratelli diventava pericolosa. La fucilata tirata da Filippo aveva richiamato l'attenzione della truppa sulla casa dove si erano rifugiati. Gli zappatori ne sfondavano la porta a colpi di scure.

- Non possono salvarsi altrimenti che fuggendo per i tetti, disse il signor Martelly.

- E' impossibile, - rispose Cadet, - la casa è molto più alta delle altre, sono rovinati.

Pina si sentiva di nuovo oppressa dalla disperazione. Tutte le persone riunite intorno a lei si lambiccavano invano il cervello.

E i colpi di scure raddoppiavano di violenza.

Il signor di Girousse si rivolse bruscamente a Salvario che Cadet gli aveva presentato come un amico.

- Non potete ordinare ai vostri uomini di fermarsi? - gli disse.

- Eh! - rispose il capitano disperato, - credete che le guardie nazionali obbediscano...! Aspettate, aspettate.

Salvario spalancò gli occhi: si capiva che il suo cervello concepiva stentatamente qualche cosa di grosso. Ad un tratto disse:

- Ho una buona idea... Cadet, vieni con me.

I due uomini scesero in fretta. Il signor di Girousse e gli altri attesero cinque minuti ansiosamente. Finalmente tornarono portando ciascuno un fagotto di abiti.

Cadet fece segno a Mario e a Filippo di spalancare la finestra dietro la quale stavano mezzi nascosti. Quando ebbero capito e obbedito, il giovanotto buttò loro i due fagotti con un'abilità ed una forza ammirabile. I soldati occupati a buttar giù l'uscio non videro quelle masse nere passare sopra le loro teste.

Quella era la buona idea di Salvario. Andato con Cadet in un'ambulanza dove erano raccolte dieci o dodici guardie nazionali ferite, aveva rubato tranquillamente due uniformi complete in mezzo alla confusione delle amputazioni e delle medicature.

Filippo e Mario stavano per tentare la via dei tetti quando si accorsero che gli amici si occupavano della loro salvezza. Appena ebbero i vestiti salirono nelle soffitte e si vestirono da guardie nazionali. Avevano appena gettato i loro abiti in una corte vicina, quando sentirono cadere la porta d'ingresso. Si nascosero e si unirono poi arditamente alla frotta degli assedianti. Per qualche minuto li aiutarono anche a fare delle ricerche che rimasero senza risultato: poi, senza alcuna fretta, ritornarono nella strada.

Trovarono il signor di Girousse e Salvario che li aspettavano. Un po' più lontano, sulla piazza, c'erano Cadet e Pina, accompagnati dal signor Martelly e dall'abate Chastanier. Pina, che portava al collo il piccolo Giuseppe, sarebbe voluta ritornare subito a casa sua nel corso Bonaparte. Quando vide Mario e Filippo nella strada si allontanò, ma non poteva trattenersi di voltare indietro la testa a ogni passo. Aveva incaricato il signor di Girousse di accompagnare i due fratelli.

Filippo e Mario strinsero forte la mano a Salvario senza saper trovar parole per ringraziarlo.

- Va bene, va bene, - disse l'ex capo-facchino. - Che diavolo! si cerca di giovare agli amici. Ma... badate bene! l'ordine prima di tutto! la guardia nazionale è stata istituita per il mantenimento dell'ordine... Ed io non scherzo con il servizio.

E cominciò a gridare alle guardie nazionali che lo guardavano sbalordite. Il signor di Girousse e i due fratelli si allontanarono sollecitamente.

Mentre Salvario raccoglieva in rango i suoi uomini, vide dietro un albero il signor di Cazalis inquieto, pallido. Finse di non vederlo e lo tenne d'occhio.

L'ex deputato non sapeva spiegarsi i fatti strani dei quali era stato testimone. Da quando Matteo era entrato nella casa aspettava di vederlo uscire senza capire più nulla. Veduta invece comparire Pina col piccolo Giuseppe in collo, vedendo i suoi nemici sfuggire miracolosamente a tutti i tranelli, fu preso da una rabbia sorda.

Raddoppiava la sua collera e lo torturava l'idea d'essere stato tradito da Matteo.

"Che cosa sta facendo quel miserabile?" mormorava. "Si e venduto ai Cayol e li ha fatti scappare." Non potendo più trattenersi, decise d'andare a vedere che cosa facesse Matteo in quella casa dalla quale non usciva. Se l'avesse incontrato lo avrebbe strozzato. Arrivato al primo piano urtò il cadavere del suo complice. Diventò smorto, e lo guardò a bocca aperta, atterrito. Poi, ad un tratto, si chinò e gli frugò le tasche. Trovatele vuote parve disperato. Dette un calcio di rabbia al cadavere e si allontanò frettoloso.

- Lo sapevo, - pensò Salvario, che non lo aveva perduto di vista, - che quell'uccellaccio là doveva entrare per qualche cosa nel ratto del bambino!

La lotta era terminata; le truppe erano vittoriose. La resistenza era stata vivace ma breve. Prese le barricate, i capi dell'insurrezione erano fuggiti. Furono arrestati molti operai.

Quelli che non poterono scappare dai tetti furono presi nelle cantine, negli armadi, sotto i letti, dovunque avevano potuto trovare un asilo.

Perquisite le case, distrutte le sei barricate, la truppa occupò militarmente piazza dell'Ova.

La stessa sera vi fu una riunione intima in casa di Mario. I due sposi, Filippo e Giuseppe si erano riveduti piangendo di gioia e di tenerezza. Il signor di Girousse turbò la loro felicità facendo osservare che bisognava far sparire presto Filippo se non volevano vederlo spedire in qualche colonia. Offrì di condurlo con sé il giorno dopo a Lambesc e di nasconderlo in una delle sue fattorie, e l'offerta fu accettata con riconoscenza. Per un giorno Filippo doveva stare nascosto nella casa del signor Martelly.

Quando Filippo fu andato via il signor di Girousse ebbe una lunga conversazione con Mario riguardo al signor di Cazalis. Cadet aveva consegnato al cognato le carte trovate in tasca a Matteo, fra le quali la lettera che la spia si era fatta scrivere dal padrone, dove gli prometteva una somma per il ratto di Giuseppe. Tale documento era un'arma terribile. I Cayol potevano dettar la legge allo zio di Bianca.

Mario credette opportuno di non reclamare nulla dal signor di Cazalis, e di servirsi della lettera soltanto come un'eterna minaccia per costringere l'ex deputato a non fare alcun passo contro Filippo.

Il signor di Girousse approvò tale disinteresse e s'incaricò di andare a parlare con il signor di Cazalis. Vi andò il giorno seguente e stette con lui per due ore. I servitori non sentirono altro che qualche grido terribile. Non si seppe mai quale fosse stata la conversazione fra i due gentiluomini. E' supponibile che il signor di Girousse rimproverasse al signor di Cazalis il suo indegno procedere e lo costringesse a fare delle solenni promesse.

La nobiltà lavò i panni sporchi in famiglia. Quando il signor di Girousse se n'andò, i servitori osservarono che il loro padrone lo accompagnava umilmente, con le labbra strette, e le guance pallide.

Un'ora dopo il vecchio conte e Filippo erano in calesse sulla via di Lambesc.

 

Capitolo 21 - IL DUELLO

Un anno dopo i sanguinosi avvenimenti sopra descritti passò su Marsiglia un nuovo soffio di morte. L'intiera città ne fu colpita.

Non erano più poche centinaia di feriti; i morti cadevano a centinaia. Il colera era venuto dopo la guerra civile.

Sarebbe una dolorosa storia quella delle numerose e terribili epidemie che hanno desolato Marsiglia. La posizione di questa città, il suo clima caldo, i suoi continui rapporti con l'Asia, la sporcizia delle vecchie strade, sembrano averla destinata fatalmente ad essere un focolaio d'infezione dove le malattie contagiose si propagano con spaventosa rapidità. Quando giunge l'estate la città è minacciata dal morbo. Se per disgrazia vi penetra per la minima negligenza il flagello, invade il litorale e si propaga in tutta la Francia.

L'epidemia del 1849 fu piuttosto benigna. Si manifestò verso la metà d'agosto. Si aggravò, si dice, soltanto dopo lo sbarco di un drappello di soldati ammalati, provenienti da Roma e da Algeri.

Cinquanta di quei soldati morirono la notte dopo il loro arrivo.

Da quel momento il morbo imperversò su Marsiglia.

Le fazioni politiche di quel tempo rimproverarono acerbamente al governo della repubblica un decreto in data del 18 agosto, che dava il permesso alle navi provenienti dal Levante d'entrare subito in porto, purché i medici di bordo dichiarassero di non aver malati sospetti. Quel decreto sopprimeva le quarantene e apriva la città ai germi della malattia.

L'incubazione fu molto lenta. Alla fine d'agosto le vittime del morbo erano state soltanto centonovantasei. Ma il mese di settembre fu terribile: morirono milleduecento persone. L'epidemia cessò nell'ottobre dopo avere ucciso altre cinquecento persone.

Un folle timor panico invase gli abitanti nei primi giorni del flagello. Fuggivano tutti. La notizia del diffondersi del colera passò di quartiere in quartiere come il fuoco sopra una traccia di polvere. Un uomo era morto dopo un'atroce agonia e subito dopo le donnicciole dicevano di aver visto passare cinquanta morti. Il popolo parlava a voce bassa di veleno, accusando i ricchi di avere avvelenate tutte le fontane. Tali sospetti aumentavano il timor panico. Un povero diavolo, che beveva alla fontana del Corso, rischiò di farsi accoppare perché un operaio pretendeva di averlo veduto buttare qualche cosa nell'acqua.

La paura faceva danni incredibili in quelle ardenti immaginazioni.

Pareva agli abitanti che un vento impestato soffiasse sulla città.

Le donne camminavano per le strade tenendosi un fazzoletto sulla bocca. Non osando più né bere né respirare, i Marsigliesi non potevano più vivere.

La città fu abbandonata. Quanti poterono fuggire, fuggirono. Le campagne vicine erano piene di rifugiati. Alcuni andarono ad accamparsi fino sulle colline della Nerthe: preferivano vivere all'aria aperta, dormire sotto una tenda, che restare in una città dove s'incontrava un morto ad ogni passo. I ricchi, quelli che avevano una casa in campagna o potevano prenderla a fitto, furono i primi ad allontanarsi: poi gli impiegati, gli operai, i lavoratori, che mettevano a rischio la loro esistenza giornaliera lasciando il loro lavoro, si sentirono vili, ed un gran numero di essi preferì fuggire ed esporsi al pericolo della fame. A poco a poco Marsiglia diventò vuota e triste.

Vi rimasero soltanto i coraggiosi che combattevano o sdegnavano l'epidemia, ed i poveri diavoli obbligati a rimanere ad onta dei brividi della paura. Se vi furono atti di viltà, e improvvise fughe di medici e di impiegati, vi furono pure atti di energia e di abnegazione. Sin da principio si aprirono posti di soccorso nei quartieri più danneggiati; e giorno e notte molti generosi si consacravano al sollievo della popolazione impaurita.

Mario fu dei primi ad avere l'intenzione di offrire la sua opera.

Ma dovette cedere alle lacrime di Pina e di Giuseppe, e consentì ad allontanarsi da Marsiglia. Conosceva sua moglie; essa non lo avrebbe lasciato ed avrebbe diviso con lui i pericoli, ai quali sarebbe stato esposto anche il bambino. L'idea che Pina e Giuseppe gli potevano morire fra le braccia spaventò Mario, che se n'andò avendo paura per i suoi cari.

La famiglia si rifugiò nel quartiere di San Giusto, in una casetta presa in affitto, vicina all'antica casa di campagna dei Cayol.

Era vicina la fine d'agosto. Filippo non aveva rimesso piede a Marsiglia da un anno: era restato a Lambesc, in casa del signor di Girousse, aspettando che fossero dimenticati i fatti di giugno.

Non era stato molestato. Lo cercarono, ma furono invocate protezioni potenti e le ricerche cessarono.

Quando Filippo seppe che la sua famiglia si trovava nel suburbio di Marsiglia, si congedò dal signor di Girousse e corse ad abbracciare il figliolo. A Lambesc s'annoiava, e dimostrò al fratello che poteva abitare senza pericolo in casa sua. Il colera aveva fatto dimenticare l'insurrezione: nessuno pensava ad andarlo ad arrestare a tre chilometri da Marsiglia.

Cominciò una vita buona e tranquilla. Mentre il flagello colpiva e spaventava la città, gli abitanti della casetta di San Giusto godevano giornate felici. Un po' d'egoismo li aveva vinti loro malgrado: dopo i colpi terribili sofferti si addormentavano tranquilli nella loro felicità.

Uscivano poco, contentandosi di passeggiare nel piccolo recinto che circondava la casetta. Passarono due settimane in pace. Una mattina Filippo, che aveva sognato tutta la notte il passato, disse che andava a fare una passeggiata. Uscì e si avviò verso il mulino di San Giuseppe, passando per la strada che soleva fare in altri tempi per andare da Bianca.

Quando fu giunto nel bosco di pini ch'era dietro la casa di campagna, ripensò a quella giornata di maggio, a quel pomeriggio nel quale Bianca s'era follemente gettata nelle sue braccia ed erano cominciate le disgrazie della sua esistenza. Quei ricordi erano dolci ed amari al tempo stesso. Rivedeva la sua gioventù, gli amori ardenti, il pianto ed il rammarico della sola donna da lui amata. Senza ch'egli se ne accorgesse due grosse lacrime gli rigarono le gote.

Mentre asciugava quelle lacrime, guardando intorno a sé per ritrovare il posto dove Bianca gli s'era seduta accanto, vide il signor di Cazalis immobile in mezzo ad un sentiero, che lo guardava con occhi terribili.

L'ex deputato era stato uno dei primi a lasciare Marsiglia. S'era rifugiato nel suo possedimento nel quartiere San Giuseppe, dove viveva solo, inferocito da una rabbia sorda. Dopo il suo colloquio col signor di Girousse era caduto in uno scoraggiamento interrotto di tanto in tanto da terribili impeti di collera. Dopo un anno si sentiva ancora nelle orecchie le parole d'indignazione e di disprezzo del vecchio conte. Quelle parole lo soffocavano e avrebbe voluto sfogarsi contro qualcuno. Sapendo di non potere attaccare di fronte il signor di Girousse, s'augurava di trovarsi a tu per tu con Filippo per finirla; ucciderlo o essere ucciso.

Non pensava più neppure ai quattrini: aveva perduto i suoi gusti di potenza e di lusso. Saputo che i Cayol gli abbandonavano il patrimonio della nipote, quelle ricchezze gli erano indifferenti.

Gli era rimasto in cuore soltanto il bisogno di lavare nel sangue di un nemico il disprezzo del signor di Girousse.

Improvvisamente incontrava Filippo, in un luogo deserto, in quel bosco che gli apparteneva. Era uscito a testa bassa, studiando un mezzo per giungere al suo scopo, e il caso lo metteva di fronte a colui ch'egli invocava con tutti i voti della propria collera.

I due uomini si guardarono per un momento in silenzio. Si erano chinati tutti e due come per saltarsi al collo. Si meravigliarono di vedersi l'un l'altro in quella attitudine da bestia feroce, e vollero trattarsi da fiere civilizzate.

- Vi cerco da un anno, - disse finalmente il signor di Cazalis.

Voi mi infastidite e io vi do fastidio. Bisogna che uno di noi due sparisca.

- Sono anch'io della vostra opinione.

- Ho delle armi qui in casa. Aspettatemi, sarò qui fra pochi minuti.

- No, no: non ci possiamo battere a questo modo. Se vi uccidessi mi accuserebbero di avervi assassinato. Ci occorrono dei testimoni.

- E dove volete prenderli?

- Fra due ore possiamo essere tornati da Marsiglia ciascuno con due amici.

- Va bene. L'appuntamento è per mezzogiorno, in questo stesso luogo.

- Sì, in questo stesso luogo.

Avevano parlato concisamente, ma senza alcun insulto. La provocazione fu spontanea, come se si fosse trattato di cosa stabilita da un pezzo.

Filippo corse a Marsiglia, deciso di lasciare ignorare a suo fratello il duello fissato. Sentendo ch'era fatale e necessario non volle che vi si potesse frapporre nessun ostacolo.

Mentre passava per il Corso incontrò Salvario che camminava a lunghi passi.

- Non mi fermate, - gli disse l'antico capo-facchino, - torno alle Aygalades di corsa... Qui gli uomini cascano come le mosche. Ieri ottanta morti...

Filippo, senza dargli ascolto, gli annunziò che aveva un duello e faceva conto su di lui. Quando gli ebbe detto il nome dell'avversario:

- Sono con voi, - esclamò Salvario, - non mi dispiacerebbe di veder saltare le cervella di quello scellerato.

Andarono insieme dal signor Martelly, la cui condotta coraggiosa era allora da tutti ammirata. L'armatore ascoltò seriamente Filippo e pensò, come lui, che il duello era necessario e fatale.

- Sono a vostra disposizione, - gli disse.

Presero una carrozza e pochi minuti prima di mezzogiorno entrarono nel bosco di pini, dove dovevano aspettare il signor di Cazalis.

Egli finalmente arrivò.

Dopo aver corso invano tutta Marsiglia per trovare due amici, si era deciso a rivolgersi ad una caserma dove due sergenti di buona volontà avevano consentito a fargli da testimoni.

Quando la carrozza che li aveva portati si fu messa accanto a quella di Filippo, furono contati i passi, caricate le armi, presto e in silenzio, senza che i testimoni facessero nessun tentativo di conciliazione. I preparativi d'un duello non furono mai stati più semplici e più solleciti.

- Quando i due avversari ebbero preso posizione l'uno di fronte all'altro, Filippo, favorito dalla sorte alzò l'arma pronto a far fuoco.

Un presentimento lo aveva fatto rabbrividire. Prima che il signor di Cazalis arrivasse s'era messo a guardare melanconicamente i pini che lo circondavano e sotto i quali in altri tempi aveva amato. Il caso è crudele. La scena era la stessa, il vasto cielo si stendeva con la stessa limpidezza, la campagna lo attorniava con gli stessi orizzonti dolci e tranquilli.

Quando alzò la pistola, a Filippo parve di ricordarsi ch'egli era precisamente nel posto dove Bianca gli aveva dato il primo bacio.

Quel ricordo lo turbò stranamente. Gli pareva di sentirsi mormorare in cuore: "Ho peccato, sarò punito".

Tirò il grilletto con mano tremante. La palla andò a rompere un ramoscello di pino.

Il signor di Cazalis alzò l'arma alla sua volta. Mirò con la faccia contratta, gli occhi pieni di fiamme. Salvario e Martelly aspettavano, pallidi. Filippo guardava coraggiosamente la pistola che lo minacciava: ma non la vedeva, pensava suo malgrado a Bianca e si sentiva dentro una voce ripeter più forte: "Ho peccato, sarò punito".

Il colpo partì: Filippo cadde.

Il signor Martelly e Salvario corsero verso il ferito, disteso sull'erba, che si premeva con la mano il fianco destro.

- Siete ferito? - domandò Salvario con la voce tremante.

- Son morto, - rispose Filippo, - questo luogo doveva essermi fatale.

Svenne. I due testimoni si consultarono. Nella fretta non avevano pensato a portare con loro un medico. Bisognava assolutamente portare il ferito a Marsiglia, al più presto.

- Lo metteremo in carrozza, - disse Martelly, - ed io lo condurrò all'ospedale dove riceverà più prontamente le cure delle quali ha bisogno. Voi intanto correte ad avvertire suo fratello, ma fate in modo che la cognata e il bambino non s'accorgano di nulla.

Erano tutti e due desolati come se perdessero un parente. Salvario si diresse correndo verso San Giusto, mentre Martelly, aiutato dai sergenti, portava Filippo nella carrozza. Il signor di Cazalis si era ritirato facendo l'indifferente, mentre il cuore gli balzava di gioia feroce.

L'armatore raccomandò al cocchiere di far andar piano i cavalli.

Il triste viaggio durò un'ora intera, durante la quale Martelly sosteneva la testa pallida e vacillante del ferito svenuto. Gli aveva messo un fazzoletto sulla ferita per stagnare il sangue, ma vedendolo tanto sfinito temeva di non condurlo vivo fino all'ospedale.

Finalmente vi giunsero. Quando il signor Martelly ebbe detto che portava un ferito gli fu risposto bruscamente che le sale erano piene. Finirono col ricevere Filippo, ma per mancanza di posto lo portarono in una sala di colerosi. Il medico che l'aveva visitato nella sala d'accettazione aveva detto che lo portassero dove volevano; ormai non c'era più nulla da fare.

Martelly l'accompagnò. Non voleva lasciarlo prima che arrivasse Mario. La sala dove entrò faceva stringere il cuore solo a vederla. Due file di letti erano schierate lungo le pareti come tombe, e in quei letti si vedevano rigidità di cadaveri, movimenti furiosi di agonizzanti. Il flagello urlava e si contorceva in quella lunga e fredda sala.

Alcune monache sottili e delicate giravano penosamente intorno ai letti aiutando i medici nel loro ufficio.

Martelly s'era seduto accanto al letto nel quale avevano messo Filippo. Guardava la morte in faccia e seguiva con gli occhi le monache che, dolci e consolatrici, si avvicinavano con premura agli agonizzanti.

Ne vide una che, pochi passi distante da lui, consolava con dolci parole gli ultimi momenti di un vecchio. Non gli parve sconosciuta la fisionomia di quel vecchio contratta dall'agonia. Si avvicinò e riconobbe con dispiacere l'abate Chastanier. Il prete moriva vittima della carità. Dal principio dell'epidemia non si era riposato un momento: saliva giorno e notte nelle soffitte, visitava le famiglie povere colpite dal morbo; aveva venduto quanto possedeva per soccorrere i miserabili, e quando non gli era rimasto altro che i vestiti addosso, si era messo a chiedere l'elemosina ai ricchi per i suoi poveri. La mattina stessa un attacco di colera fulminante lo aveva colpito in strada, appena uscito da una casa della vecchia città. L'avevano portato subito all'ospedale. Da due ore soffriva terribilmente, ma serenamente.

Quando il signor Martelly gli si avvicinò, gli occhi gli si velavano e non vedeva più nulla. Pure riconobbe l'armatore: gli sorrise, ma non poté pronunciare parola. Alzò una mano ed indicò il cielo.

Quando fu morto, Martelly lo guardò in silenzio. Poi ritornò a sedere vicino a Filippo, che era immobile come un cadavere. In quel momento la suora, dopo essersi inginocchiata un momento davanti al cadavere dell'abate Chastanier, si avvicinò per vedere se potesse essere utile al ferito.

Appena ebbe dato un'occhiata a Filippo, una viva emozione turbò la sua fisionomia. Guardando fissa il giovane, rimase lì, col petto ansante, assorta in dolorosa contemplazione.

Mario entrava nella sala insieme a Salvario. Un singhiozzo gli uscì dalla gola nel vedere il fratello stecchito e pallido come un morto. La notizia del duello e della ferita di Filippo gli era giunta tanto inaspettata da farlo parere inebetito. Non potendo piangere era corso, spaventando Salvario con la sua calma apparente.

Quando fu davanti al ferito, pianse e chiese un medico con violenza, pretese che lo guarissero. Il medico che era nella sala consentì a speculare nuovamente la ferita. Mario si sentì bruciare le viscere quando il contatto della sonda fece urlare Filippo.

Il grido del moribondo fece trasalire la suora. S'avanzò e Mario la vide:

- Voi qui! - esclamò con violenza. - Dovevo immaginarmi che sareste venuta ad assistere agli ultimi momenti di colui che è stato condannato alla disgrazia dal vostro amore. Siete degna nipote di vostro zio che ha ucciso mio fratello.

La suora aveva le mani giunte. Guardava Mario con aspetto umile e supplicante, senza poter rispondere, talmente il dolore le stringeva la gola.

- Perdonatemi, - ripigliò subito Mario, - non so quello che dico.

Non state qui. Filippo, aprendo gli occhi, potrebbe vedervi... Non è vero? bisogna risparmiargli le emozioni vive...

Parlava come un bambino piccolo: delirava. Riconoscendo Bianca nell'abito delle suore di San Vincenzo de' Paoli aveva creduto davvero di vedere un fantasma. Gli rammentava un passato di dolori e di sofferenze.

Bianca aveva chiesto in grazia, appena cominciato il colera, d'essere addetta all'ospedale di Marsiglia. Forse sperava di morirvi. La sua abnegazione era ammirabile. Viveva fra la morte con un coraggio da martire. Nessuno avrebbe supposto la sua infanzia debole e delicata, la sua nascita illustre, vedendola curva sugli orribili volti dei moribondi, calmandone col sorriso le ultime sofferenze. Più volte l'avevano voluta allontanare di là, dicendole che aveva pagato il suo debito. Ma a forza di preghiere aveva ottenuto di rimanere.

Sfidava la morte da un mese e la morte la rispettava. L'agonia dell'abate di Chastanier e la vista di Filippo esanime l'avevano colpita talmente da infrangere il suo coraggio. Vacillava; la debolezza umana si risentiva in lei.

Si tirò indietro obbedendo a un gesto di Mario. Il medico terminava intanto la fasciatura. Filippo aprì gli occhi e si guardò intorno spaventato e sorpreso. Vide suo fratello e si rammentò.

Mario gli si avvicinò. Aveva con un supremo sforzo asciugate le lacrime.

- Non vedo Giuseppe, - gli disse Filippo con voce flebile come soffio, - dov'è?

- Ora viene, - rispose Mario.

- Subito, non è vero? voglio vederlo... subito... subito.

E richiuse gli occhi. Mario mentiva. Era corso senza dir nulla a Pina né a Giuseppe, volendo ritardare di qualche ora la loro disperazione. Ma in quel momento avrebbe dato tutto per aver portato con sé il bambino.

- Volete che vada a pigliarlo? - gli domandò Salvario, per niente tranquillo in mezzo ai colerosi, sebbene non osasse scappare.

Mario accettò l'offerta con trasporto e Salvario se n'andò di corsa. Filippo aveva sentito. Riaprì gli occhi e ringraziò il fratello con un'occhiata. Voltandosi, la sua fisionomia s'irradiò di un'estasi felice. Aveva veduto Bianca che s'era avvicinata sentendo il suono della sua voce.

- Sono già morto? - mormorò Filippo. - O cara e dolce visione!

E svenne di nuovo.

 

Capitolo 22 - IL CASTIGO

Quando si fu allontanata la carrozza che portava Filippo, il signor di Cazalis ringraziò calorosamente i sergenti che lo avevano assistito come testimoni.

- Signori, - disse, - perdonatemi il disturbo che vi ho dato e permettetemi di riaccompagnarvi a Marsiglia.

I sergenti fecero qualche complimento dicendo che potevano tornare soli in città. Ma il signor di Cazalis insistette. Gli premeva veramente di sapere se Filippo era morto. Non osava rallegrarsi finché il suo nemico non fosse stato inchiodato nella cassa.

Quando la carrozza che riportava l'ex deputato e i suoi due testimoni sboccava dalla via d'Aix, fu fermata dalla solenne processione che riaccompagnava alla sua chiesa la statua della Madonna della Guardia, protettrice di Marsiglia. In caso di pubbliche calamità, gli abitanti la portano per la città, le si prosternano ai piedi, la supplicano d'implorare per loro la misericordia di Dio.

Il signor di Cazalis fu irritato da quel contrattempo. Dovette star lì fermo per un quarto d'ora, mandando al diavolo dentro di sé la processione, tanta era in lui la smania di aver notizie di Filippo.

Nel momento stesso in cui passava la Madonna, si sentì discendere nelle viscere un freddo mortale. Si appoggiò, pallido, alla spalla di uno dei sergenti e s'abbandonò in fondo alla carrozza lamentandosi sommessamente.

Un accesso di colera lo fulminava. Scampato dalla mano di Filippo, il colera s'incaricava di castigarlo.

I due sergenti uscirono dalla carrozza. La folla, saputo subito che lì dentro c'era un coleroso, si allontanò spaventata.

- Portatelo all'ospedale, - gridò uno dei sergenti al cocchiere.

Il cocchiere frustò il cavallo, la carrozza entrò nella città vecchia, e qualche minuto dopo era alla porta dell'ospedale.

Due aiutanti andarono a prendere il signor di Cazalis per trasportarlo nella sala dei colerosi. C'era un solo letto vuoto, ed era accanto a quello di Filippo.

Quando vi adagiarono l'ex deputato già livido, Mario e il Martelly lo riconobbero e indietreggiarono colpiti da un sacro terrore.

Il signor di Cazalis non si accorse subito delle persone in mezzo alle quali era capitato per caso. Era una sfida... in una convulsione si sollevò e vide Filippo nel letto vicino, svenuto.

Ghignò credendolo morto. Poi pensò ch'egli pure sarebbe morto senza poter gustare la vendetta, e ricadde urlando di rabbia.

- Salvatemi! - gridava, - voglio vivere... sono ricco... vi pagherò bene...

E si contorceva negli spasimi dicendo che gli strappavano le viscere.

Filippo intanto aveva riaperto gli occhi. La voce rauca del suo vicino di letto l'aveva destato dall'assopimento mortale che a poco a poco lo invadeva. Alzò la testa e vide come in sogno il signor di Cazalis.

Quando questi vide il creduto morto risuscitare e fissare su lui lo sguardo incerto, fu preso da un impeto di rabbia e di terrore.

- Non è morto? - esclamò, - il miserabile vivrà... ed io muoio.

Si guardavano: si odiavano anche in punto di morte. Ad un tratto udirono una voce celestiale che diceva:

- Stendetevi la mano... Non si deve portare con sé la collera nell'eternità.

Alzarono la testa e videro Bianca al loro capezzale vestita da suora.

Filippo senza parlare, giunse le mani. Credeva d'essere già nel mondo di là dove aveva sognato tante volte di ritrovare la sua amata. Il suo sogno continuava.

Il signor di Cazalis strinse i denti, udendo le parole di pace.

- Chi ti ha condotto qui? - esclamò. - Sapevi che sarei morto e sei venuta a godere lo spettacolo della mia fine.

- Ascoltate, - ripigliò Bianca, - Dio vi giudicherà. Non comparite davanti a lui con l'anima macchiata dall'odio. Per carità, stendete la mano a Filippo...

- No... mille volte no... Piuttosto dannato per l'eternità che riconciliato con lui... Quando lo miravo con la mia pistola sapevo che sarebbe morto. Non sperare di salvarlo e di riaverlo per amante!

Bestemmiò mostrando i pugni al cielo, vomitando ingiurie contro la nipote e Filippo. Era già freddo, e l'orrore della propria morte gli dava l'eccitamento di un animale arrabbiato ma impotente a mordere.

Bianca si era avvicinata al letto del ferito che la guardava sempre con dolcezza, e chinandosi su di lui gli domandò:

- Volete stendere la mano a quell'uomo?

Filippo sorrise.

- Sì, - disse, - gli perdono e desidero che mi perdoni. Voglio vivere con te in cielo... Non è vero che pregherai Dio d'accogliermi nel tuo paradiso?

Bianca commossa prese la mano del moribondo:

- Datemi la vostra, - disse al signor di Cazalis.

- No, mai, mai! - gridò il coleroso. - Non voglio vivere con voi, nel vostro paradiso... Preferisco le fiamme dell'inferno...Vattene... Mai! mai!...

Si stringeva le mani l'una con l'altra torcendo le braccia.

Urlando "mai! mai!" fu preso da un'estrema convulsione e spirò.

Bianca, spaventata, aveva voltata la testa. Quando guardò nuovamente Filippo lo vide spirante a sua volta. Gli strinse debolmente la mano. Gli occhi di lui erano divenuti chiari, il sorriso più pallido. Credeva d'essere già morto e non pensava più né a suo fratello, né a suo figlio ch'egli aveva voluto vedere.

- Non è vero? - mormorò spirando, - tu mi porti con te?

E morì.

Pina e Giuseppe entravano in quel momento nella sala. Mario chiuse gli occhi a suo fratello: Pina commossa s'inginocchiò. Il bambino, solo ai piedi del letto, non capiva nulla e singhiozzava.

Da quando Giuseppe era entrato, Bianca lo guardava fuori di sé. Le venne in mente all'improvviso il pericolo che lo minacciava. Baciò la mano di Filippo rimasta abbandonata nelle sue mani, poi prese il bambino fra le braccia e lo portò via di corsa.

Il signor Martelly dovette strappar di là Mario e Pina. Ma mentre Mario stava per andare, sentì la voce di una moribonda che lo chiamava.

- Non mi riconoscete più? - gli disse quella donna. - Avete dimenticato la miserabile Armanda? Avevo giurato di non rivedervi che meritevole del vostro perdono. Sono entrata in questo ospedale come servente... e vi muoio! Volete darmi la vostra mano?

Mario strinse la mano a quella disgraziata e si accorse allora dove si trovava. Assorto nel suo dolore non s'era ancora guardato intorno. La sala gli apparve ad un tratto con tutte le sue agonie.

Martelly gli indicò il cadavere dell'abate Chastanier. Mario spinse avanti Pina ed uscì allucinato da una vertigine.

Quando furono per le scale si accorsero della scomparsa di Giuseppe. Ne domandarono, lo cercarono da per tutto. Lo trovarono finalmente in un canto di una corte interna. Una suora di San Vincenzo de' Paoli lo teneva fra le braccia e lo baciava con frenesia.

Il giorno dopo, tornando per la sepoltura del fratello, Mario seppe che suor Bianca era morta durante la notte di colera fulminante.

Capitolo 23 - EPILOGO

Sono passati dieci anni.

Il signor Martelly si è ritirato in una villa che si è fatta fabbricare fra gli scogli d'Endoume. Vive in quella solitudine con sua sorella. Sua sola tristezza è il vedere che la libertà è pianta che non alligna in Francia: sa di dover morire senza aver potuto assistere al trionfo della democrazia.

Mario ha preso il suo posto nello studio di via della Darsena.

L'eredità raccolta da Giuseppe alla morte di sua madre e del signor di Cazalis ha dato un considerevole sviluppo ai suoi affari. Gli armatori Cayol sono proprietari di una delle principali case commerciali di Marsiglia.

Mario e Pina sono invecchiati volendosi bene e godendo la felicità attesa per tanto tempo. Pina irradia intorno a sé la propria serenità allegra e benevola. Suo fratello Cadet è uno dei soci più attivi della ditta.

Giuseppe è un bel giovanotto di diciannove anni che ha la bellezza delicata di Bianca e l'energia appassionata di Filippo. Ha terminato i suoi studi e vuol lavorare con lo zio, al quale ha affidato l'amministrazione del suo patrimonio.

Qualche volta, la sera, quando la famiglia è riunita, parlano del passato. Evocano i cari fantasmi di Bianca e di Filippo, e li piangono con lacrime non amare. Venuta la pace, i ricordi acquistano la dolcezza di un canto triste e lontano.

Giuseppe va tutti gli anni per l'apertura della caccia a Lambesc, dal signor di Girousse. Il conte è molto vecchio, ma ha lo spirito vivo ed originale della giovinezza. Non s'annoia più e si è deciso a fondare una grande officina.

- Ah! - dice spesso al giovane, - se sentiste come parla di me la nobiltà del dipartimento! Mi sono incanaglito sposando l'industria... Mi dispiace di non essere nato operaio, poiché non avrei passato cinquant'anni della mia vita trascinando un'esistenza inutile in questo cantuccio di Francia.

Il grande amico di Giuseppe è il buon Salvario, che, pieno di reumatismi, non ha rinunciato alla sua andatura da trionfatore.

Quando c'è sole va a portare a spasso la sua vanità sulla Cannebière, e crede in buona fede che tutte le ragazze che passano s'innamorino di lui.

Giuseppe gli pare un giovanotto troppo savio.

- Sentite, - gli dice appoggiandosigli al braccio, - bisogna divertirsi in questo mondo. Ai miei tempi si rideva dalla mattina alla sera. Quante ne ho fatte, mio Dio! Ho avute per amanti tutte le belle ragazze della città. Domandatelo a vostro zio. Parlategli della Chiarina. Quella me n'è costati!

Ed aggiunge a bassa voce questa frase che gli piace di ripetere:

- E i preti me l'hanno portata via!