Ernst Theodor Amadeus Hoffmann
RACCONTI
L'uomo della sabbia
Natanaele e Lotario,
Penso che siate tutti molto inquieti, dato che da molto, molto tempo non scrivo. La mamma mi terrà sicuramente il broncio e Clara crederà, forse, che io viva qui tra feste e banchetti, dimentico della soave immagine del mio angelo, così profondamente impressa nel mio cuore. Ma non è così. Ogni giorno e ogni ora penso a tutti voi e nei miei sogni passa la cara figura della mia soave piccola Clara, che mi sorrise dolce dai chiari occhi, proprio così come allora quando entravo a casa vostra.
Ah! ma come avrei potuto scrivervi, in quell'affranta condizione dello spirito, che sconvolgeva tutti i miei pensieri? Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! Presentimenti oscuri di minaccia da parte di un destino crudele gravano sulla mia testa, simili a nuvole nere, che nessun raggio di sole amico può penetrare.
Devo ben dirti che cosa mi è successo: lo devo e lo capisco; ma che io vi pensi ed ecco una folle risata scoppia irrefrenabile in me.
O mio carissimo Lotario! come devo cominciare, per farti anche solo in parte comprendere e sentire che quello che giorni fa mi è successo ha poi davvero spezzato nel modo più ostile la mia vita! Fossi tu qui, potresti constatare tu stesso di persona: così, invece, mi riterrai, ne sono sicuro, uno squilibrato visionario.
Insomma, la cosa spaventosa che mi è capitata e alla cui mortale impronta io mi sforzo inutilmente di sfuggire, non consiste in altro se non in questo: alcuni giorni fa, precisamente il 30 ottobre, a mezzogiorno, un venditore di barometri è entrato nella mia stanza e mi ha offerto la sua merce. Io non gli ho comprato niente, l'ho minacciato anzi di gettarlo dalle scale, ragion per cui egli se n'è andato da solo.
Tu immagini subito che solo ragioni particolarissime e intimamente e profondamente radicate nella mia vita, possono aver dato un significato all'accaduto, anzi che proprio la persona di quello sciagurato mercante deve avere avuto una simile nemica influenza su di me.
E così è infatti. Chiamo a raccolta tutta la mia forza per concentrarmi e per raccontarti con calma e pazienza tanti episodi del tempo della mia infanzia, cosicché tu possa, in ognuno di essi e in quello che ora mi succede, vedere chiaramente come in limpide immagini. Mentre mi preparo a raccontare, sento Clara e te, che dite:
"Ma queste sono vere fanciullaggini!".
Oh, sì, ridete, vi prego, ridete di tutto cuore di me! Ve ne prego proprio! Ma, buon Dio!, a me si rizzano i capelli in testa e è come se vi supplicassi di ridere di me in preda a una folle disperazione, simile a Francesco Moor con il suo servo Daniele.
Ma vengo ai fatti.
Io e le mie sorelle, eccettuato il tempo di pranzo, vedevamo molto poco nostro padre durante il giorno. Egli doveva essere molto occupato con il suo impiego. Dopo la cena, che secondo l'uso antico era alle sette, andavamo tutti con la mamma nella stanza di lavoro del babbo e ci sedevamo intorno a una tavola rotonda. Il babbo fumava e poi si beveva un grosso bicchiere di birra. Spesso ci raccontava storie meravigliose e si accalorava tanto, che nel raccontare gli cadeva giù la pipa e io dovevo sempre riattaccarvi il fuoco con della carta accesa, ciò che per me costituiva ogni volta un divertimento di prim'ordine. Ma spesso ci dava anche in mano libri illustrati e se ne stava muto e rigido nella sua poltrona, soffiando intorno a sé nuvole di fumo così dense, che noi sembravamo nuotare nella nebbia. La mamma era molto triste in sere così e l'orologio batteva appena le nove, che ci diceva: "Via, bambini, a letto, a letto! Ecco arriva l'uomo della sabbia, io l'ho già capito". E veramente io sentivo ogni volta come un passo pesante e lento che faceva rumore sulla scala: quello doveva essere l'uomo della sabbia.
Un giorno questo fracasso e questo avanzare furono per me particolarmente spaventosi e mentre la mamma ci portava via, io le chiesi: "Mammina, ma chi è il cattivo uomo della sabbia, che ci porta via da papà?". "Bambino mio - rispose mia madre - non esiste nessun uomo della sabbia; quando io dico che viene l'uomo della sabbia, voglio solo dire che voi avete sonno e non potete tenere gli occhi aperti, proprio come se qualcuno vi avesse messo dentro della sabbia". La risposta della mamma non mi accontentò: anzi nel mio animo infantile si andò sviluppando l'idea che la mamma avesse negato l'esistenza dell'uomo della sabbia, per non farci spaventare; io però lo sentivo sempre venire su dalla scala. Pieno di un'intensa curiosità di conoscere qualcosa di più intorno a questo famoso uomo della sabbia e alle sue relazioni con noi bambini, interrogai alla fine la vecchia governante della mia sorella minore: che razza di uomo era dunque quest'uomo della sabbia? "O sciocchino! - rispose costei - ma non lo sai ancora? E' un uomo cattivo che viene dai bambini che non vogliono andare a letto e getta loro negli occhi manate di sabbia, finché questi non schizzano fuori sanguinanti dalla testa: allora butta gli occhi in un sacco e li porta, quando la luna splende a metà, da mangiare ai suoi piccoli; loro stanno là in un nido e hanno becchi adunchi come i gufi e beccano dal sacco gli occhietti dei bambini che non sono stati saggi". Allora in me si dipinse terrificante la figura dell'uomo della sabbia e quando a sera sentivo rumore di passi sulla scala tremavo di paura e di orrore. La mamma poteva soltanto strapparmi un grido che mi usciva alla deriva tra le lagrime: "L'uomo della sabbia! L'uomo della sabbia!". Poi scappavo via nella stanza da letto e per tutta la notte la terribile visione dell'uomo della sabbia mi tormentava.
Ero già diventato abbastanza grande per capire che le cose, riguardo all'uomo della sabbia e al suo nido di gufi sotto la luna che splende a metà, non dovevano essere proprio così come me le aveva raccontate la governante. Eppure l'uomo della sabbia restava tuttavia per me un orrendo fantasma, e terrore e raccapriccio si impadronivano di me, quando lo sentivo, non solo salire le scale, ma aprire violentemente la porta della camera di mio padre ed entrare. Per molto tempo non veniva, poi tornava più volte di seguito. Anni e anni durò in me questo terrore e mai mi riuscì di abituarmi alla ripugnante apparizione, mai impallidì in me la figura dell'uomo della sabbia. I suoi rapporti con mio padre iniziarono a preoccupare sempre più la mia fantasia, ma un invincibile senso di vergogna mi tratteneva dal chiederne a mio padre, mentre d'altra parte il desiderio di penetrare il mistero, di vedere il fiabesco uomo della sabbia aumentava con gli anni sempre più in me.
L'uomo della sabbia mi aveva messo sulla via del meraviglioso, dell'avventuroso, che di per sé si annida con tanta facilità in ogni animo infantile. Non mi piaceva leggere o ascoltare che le storie di streghe, coboldi, nani, eccetera, ma sopra a tutte quante stava ancor sempre l'uomo della sabbia, che io nelle forme più stravaganti e ripugnanti disegnavo dappertutto, su tavoli, armadi, pareti, con il gesso o con il carbone.
Quando ebbi dieci anni, mia madre mi sistemò, togliendomi dalla camera dei bambini, in una cameretta che dava sul corridoio, non lontano dallo studio di mio padre: anche allora appena suonavano le nove e lo sconosciuto si annunciava in casa con bacano, noi dovevamo allontanarci in fretta. Dalla mia cameretta io sentivo il suo entrare dal babbo e poi, quasi subito, mi sembrava che uno strano fumo odoroso si diffondesse per la casa. Sempre più forte si fece in me la curiosità e la decisione di fare in qualsiasi modo la conoscenza dell'uomo della sabbia. Spesso strisciavo veloce nel corridoio, quando la mamma era passata, senza però riuscire a capire niente attraverso questo spionaggio, perché quando ormai ero riuscito a raggiungere il posto da dove mi sarebbe stato possibile vederlo, ogni volta l'uomo della sabbia era già sparito dietro la porta. Alla fine, spinto da un impulso al quale non fui capace di resistere, decisi di nascondermi proprio nella camera di mio padre e di aspettare là l'uomo della sabbia. Dal silenzio di mio padre e dalla tristezza di mia madre, mi accorsi che quella sera l'uomo della sabbia sarebbe venuto. Finsi allora una grande stanchezza e prima che suonassero le nove lasciai la stanza e mi nascosi in fondo ad un angolo stretto e buio, vicino alla porta.
La porta di casa scricchiolò, dal pianerottolo si mossero verso la scala passi lenti e pesanti e minacciosi. La mamma mi passò in fretta davanti con le mie sorelle. Piano piano aprii la porta della camera di mio padre: egli sedeva com'era sua abitudine, muto e assente, con le spalle girate alla porta e non si accorse di me. In un attimo fui dentro, dietro la tenda appesa sul davanti di un armadio aperto, messo vicino alla porta, in cui stavano gli abiti di mio padre.
Più vicini, sempre più vicini minacciavano i passi: qualcuno tossì, si raschiò la gola in modo strano e mugolò. Il cuore mi tremava per la paura e per l'attesa. Ecco, proprio davanti alla porta, un passo brusco, poi un colpo violento sulla maniglia e la porta si aprì rumorosamente di schianto. Mi faccio animo con violenza e guardo fuori circospetto: l'uomo della sabbia sta in piedi in mezzo alla camera, davanti a mio padre, la luce chiara dei candelieri gli brucia in viso. L'uomo della sabbia, il temibile uomo della sabbia è il vecchio avvocato Coppelius, che a volte viene a pranzo da noi!
Ma la figura più orribile e rivoltante non avrebbe potuto suscitare in me terrore più profondo di questo Coppelius, per l'appunto.
Immaginati un omaccio con larghe spalle e grossa testa informe, viso terreo, sopracciglia grigie e cespugliose, sotto le quali lampeggiano due occhi verdi come quelli dei gatti e penetranti, naso grosso e pronunciato, che scende sopra il labbro superiore. La brutta bocca si torce spesso in un ghigno bieco; sulle guance gli si vedono due macchie color vino e una strana voce sibilante striscia tra due file di denti stretti.
Coppelius compariva sempre in abito grigio cenere di taglio antiquato, giacca simile per forma e per colore, uguali pantaloni, calze nere e scarpe con piccole fibbie di perle. La piccola parrucca copriva a fatica il cocuzzolo, i finti riccioli svolazzavano al di sopra delle rosse e grosse orecchie e una larga sacca di capelli pendeva rigida di traverso sul collo, cosicché era possibile intravedere la fibbia d'argento, che fermava la cravatta avvolta in molti giri. Tutto il suo aspetto era spiacevole e ripugnante; ma soprattutto le sue manacce pelose e ossute eccitavano in noi bambini il disgusto più intenso, tanto che non potevamo più soffrire quello che lui aveva toccato. Coppelius, che l'aveva notato, provava ora un maligno piacere nel toccare, con questo e quel pretesto, ora un pezzetto di torta, ora un frutto dolce che la mamma ci aveva messo di nascosto sul piatto, così che noi, con le lacrime agli occhi, non potevamo più gustare per lo schifo e la ripugnanza la ghiottoneria, dalla quale avremmo potuto trarre tanto godimento. E faceva lo stesso, quando nei giorni di festa il babbo ci versava un bicchierino di buon vino. Veloce stendeva la sua manaccia sui nostri bicchieri o fingeva addirittura di portarli alle livide labbra.
E la sua risata era proprio diabolica, poiché noi non potevamo che esprimere in silenziosi singhiozzi la nostra rabbia. Ci chiamava continuamente "piccoli animali": a noi non era permesso in sua presenza farci sentire con il minimo suono, ma esecravamo quell'uomo odioso e nemico, che guastava le nostre più piccole gioie con vera premeditazione e con piena coscienza.
La mamma aveva l'aria di odiare proprio come noi questo sinistro Coppelius, poiché non appena egli si faceva vedere, la sua allegria, il suo umore gaio e sereno si trasformavano in triste e tetra serietà. Il babbo si comportava con lui come se fosse un personaggio importante, le cui scortesie conveniva sopportare con indulgenza, che doveva comunque essere ricevuto con buon umore. Egli aveva solo bisogno di accennarlo appena appena, e i piatti preferiti erano cucinati e venivano fatti arrivare dalla cantina vini rari.
Quando dunque io vidi questo Coppelius, si fece strada nella mia anima la convinzione raccapricciante e spaventosa che nessun altro in verità, all'infuori di lui, poteva essere l'uomo della sabbia; ma costui non era più ormai per me lo spauracchio della storia della vecchia governante, che porta gli occhi dei bambini al suo nido di gufi, alla luce della luna, perché essi ne facciano il loro cibo, oh! no!, ma un odioso stregone, un essere mostruoso simile a uno spirito malefico che dovunque arriva porta dolore, miseria, rovina temporanea ed eterna.
Rimasi impietrito in una specie di rigido incantamento. A rischio di venire scoperto e, come prevedevo chiaramente, punito con ogni severità, me ne stetti lì in piedi, sporgendo in avanti la testa a spiare. Mio padre accolse festosamente Coppelius. "Su, al lavoro!", gridò costui con voce rauca e stridente, e scagliò lontano il soprabito. Mio padre, silenzioso e cupo, si tolse la sua veste da camera e tutti e due indossarono lunghi camici neri. Notai di sfuggita il posto, dal quale essi li avevano tolti. Mio padre aprì il battente dell'armadio a muro e io vidi allora che quello che per tanto tempo avevo pensato che fosse tale, non era un armadio a muro, ma più che altro una cavità nera in cui stava un piccolo focolare. Coppelius vi si avvicinò ed una fiamma azzurra si levò scoppiettando dal fornello. Mio Dio! Quando il mio vecchio babbo si chinò a sua volta sul fuoco, egli apparve completamente trasformato! Lo spasimo di un crudele dolore sembrava aver deformato i suoi tratti onesti e miti in un'odiosa immagine diabolica. Assomigliava a Coppelius. Costui brandì la tenaglia incandescente e sollevò, togliendole dal denso fumo, masse rosseggianti, che cominciò poi a martellare con ogni cura. A me sembrava che tutt'intorno diventassero visibili volti umani, ma privi degli occhi; profonde, orride cavità nei visi invece degli occhi.
"Qui, datemi occhi, datemi occhi!" gridò Coppelius, con voce bassa e minacciosa. Io me ne uscii in un grido, attanagliato da un terrore selvaggio e precipitai fuori dal mio nascondiglio, cadendo sul pavimento. Allora Coppelius mi afferrò: "Piccolo animale! Piccolo animale!" belò digrignando i denti: mi tirò su e mi gettò sul fornello, così che già le fiamme cominciavano a lambire i miei capelli. "Adesso sì che abbiamo occhi, occhi, un bel paio di occhi di bambino!" Così soffiava Coppelius, prendendo dal fuoco un pugno di granelli infocati per seminarmeli negli occhi. Allora mio padre alzò supplichevole le mani e gridò: "Maestro, lascia gli occhi al mio Natanaele, lasciaglieli!". Coppelius fece risuonare la sua risata e poi gridò: "Tenga pure il giovanotto i suoi occhi per lacrimare nel mondo, quanto gli è stato assegnato! Ma diamo un po' un'occhiata al meccanismo delle mani e dei piedi". E, detto questo, mi afferrò con tale violenza, che mi scricchiolarono le giunture e prese a svitarmi piedi e mani, costringendoli ora in questa, ora di nuovo in quest'altra posizione. "Non stanno bene in nessun modo! E' proprio uguale a prima! Il vecchio sapeva il fatto suo!" andava sibilando fra i denti Coppelius; ma tutto intorno a me diventò buio e nero, un crampo improvviso mi attraversò i nervi e le ossa, non sentii più niente.
Un dolce e tiepido soffio mi sfiorò il volto e fu come se mi svegliassi da sonno di morte: mia madre stava china su di me:
"E' ancora qui l'uomo della sabbia?" chiesi a fatica. "No, bambino mio, è via, lontano lontano da qui e non ti può più fare male!". Così parlò mia madre e baciò e accarezzò il suo povero bimbo salvato.
Ma perché continuare a stancarti, mio carissimo Lotario? A che scopo continuare a dilungarmi in prolissi particolari su di un unico fatto, quando resta ancora tanto da raccontare? Insomma: io ero stato scoperto nel mio spionaggio e malmenato da Coppelius. Il terrore, la paura mi avevano procurato un'altissima febbre nervosa a causa della quale rimasi infermo per molte settimane.
"E' ancora qui l'uomo della sabbia?". Queste furono le prime parole sensate che io pronunciai, e furono appunto il segno della mia guarigione e della mia salvezza.
Ma devo raccontarti ancora un solo, il più spaventoso momento della mia adolescenza e poi tu sarai convinto che non dipende da difetto dei miei occhi, se tutto mi appare adesso incolore; ma davvero un destino oscuro ha steso sopra la mia vita un fosco velo di nuvole, che strapperò forse soltanto morendo.
Poteva essere passato un anno, quando noi sedevamo una sera, secondo l'antica immutata abitudine, intorno alla tavola rotonda. Il babbo era molto felice e ci raccontava numerosi e divertenti particolari di viaggi, che egli aveva compiuto nella sua gioventù. Ed ecco che allo scoccare delle nove, improvvisamente, sentimmo la porta di casa scricchiolare sui cardini e lenti, pesantissimi passi salire minacciando dall'ingresso su per le scale. "Coppelius!" disse mia madre impallidendo. "Sì, è Coppelius!" ripeté mio padre con voce stanca e spezzata. Dagli occhi di mia madre caddero a fiotti le lacrime. "Ma, babbo, babbo!, deve proprio essere così?!". "E' l'ultima volta rispose lui. - E' l'ultima volta che viene nella mia casa, questo te lo prometto! Adesso va', va' via con i bambini. Andate, andate a letto! Buona notte!".
Io mi sentii come schiacciato tra pietre fredde e pesanti, mi si mozzò il respiro. Mentre me ne restavo lì immobile, la mamma mi prese per un braccio: "Vieni, Natanaele, ma vieni dunque!". Mi lasciai portar via:
entrai nella mia stanza. "Stai calmo e tranquillo, mettiti a letto e dormi, dormi!" mi gridò dietro mia madre.
Ma non potevo chiudere gli occhi, tormentato com'ero nell'intimo da un'indescrivibile ansia. L'odiato, l'orrido Coppelius mi stava davanti, con i suoi occhi scintillanti e mi rideva in faccia biecamente; invano tentavo di liberarmi dalla sua immagine.
Poteva essere mezzanotte, quando risuonò un colpo spaventoso, simile a quello dell'artiglieria in azione. L'intera casa tremò minacciosamente, qualcuno passò rumoreggiando davanti alla mia porta; il portone d'ingresso venne sbattuto con rumore di catenacci.
"Questo è Coppelius!" gridai terrorizzato e saltai dal letto. Era tutto un acuto urlìo senza conforto doloroso. Mi precipitai nella stanza di mio padre, la porta era aperta, un fumo soffocante mi assalì: la ragazza di servizio gridava: "Ah! il signore! il signore!".
Sul pavimento, davanti al fuoco fumante giaceva mio padre, morto, il suo viso ustionato era nero e orrendamente contorto; intorno a lui, vicino a mia madre svenuta, mugolavano e si lamentavano le mie sorelle. "Coppelius, satana scellerato, tu hai assassinato mio padre!" gridai e persi i sensi.
Quando due giorni dopo mio padre fu composto nella bara, i tratti del suo viso erano di nuovo miti e dolci come lo erano stati nella sua vita. E un senso di conforto entrò nella mia anima, perché il suo legame con il diabolico Coppelius non aveva potuto trascinarlo nell'eterna rovina.
L'esplosione aveva risvegliato i vicini, l'accaduto fu presto pubblicamente noto e venne a conoscenza dell'autorità, che voleva citare in giudizio Coppelius. Ma egli era sparito dalla nostra città, senza lasciare nessuna traccia di sé.
Quando io ti dico ora, o mio carissimo amico, che il venditore di barometri era proprio lo scellerato Coppelius, tu non puoi disapprovarmi se interpreto la nemica apparizione come apportatrice di gravi mali. Egli era vestito diversamente, ma l'aspetto di Coppelius e i tratti del suo viso sono troppo profondamente e intimamente impressi nel mio animo perché sia possibile un errore. Qui egli si spaccia adesso per un meccanico piemontese e si fa chiamare Giuseppe Coppola.
Io sono fermamente deciso ad incontrarmi con lui, e, accada quel che accada, a vendicare la morte di mio padre.
Non dire niente alla mamma, riguardo all'apparizione dell'orrendo demonio. Saluta la mia amata, la mia soave Clara, a lei scriverò in una condizione d'animo più tranquilla. Addio!...
Clara a Natanaele
E' vero, sì, che tu da molto tempo non mi scrivi, ma io voglio pensare di essere ancora viva nel tuo ricordo e nel tuo affetto. Perché a me era certo vivacemente rivolto il tuo pensiero, quando volendo spedire la tua ultima lettera a Lotario, invece che a lui, la indirizzasti a me. Tutta gioiosa io lacerai la busta e, subito, le prime parole mi fecero capire l'errore. "O mio carissimo Lotario...". Veramente a questo punto io non avrei dovuto continuare la lettura e consegnare invece la lettera a mio fratello.
Ma io (tu stesso me l'hai a volte rinfacciato stuzzicandomi per gioco) ho un temperamento femminile tanto cauto e tranquillo, che, come più o meno ogni donna, minacci pure la casa rovina, per prima cosa davanti all'imminente distruzione farei scomparire dalle tendine della finestra una piega falsa. Eppure, ad onta della mia abituale calma, ti assicuro che l'inizio della tua lettera mi ha profondamente scosso.
O mio amatissimo Natanaele! Ma come è possibile che nella tua vita sia entrato qualcosa di tanto orribile!
La tua descrizione del sinistro Coppelius è terrificante!
Continuai dunque a leggere. E venni così a conoscenza, allora per la prima volta, dell'orribile, violenta, morte che ti ha tolto il tuo vecchio padre. Lotario, a cui feci notare le singolari circostanze di quella morte, cercò di ricondurmi alla calma, ma gli riuscì male.
Il fatale venditore di barometri Giuseppe Coppola mi perseguitava a ogni passo e quasi mi vergogno di confessare che aveva perfino il potere di turbare il mio sonno, di solito così tranquillo.
Ma presto, anzi proprio il giorno dopo, tutto aveva già preso in me un altro aspetto.
Non essere dunque in collera con me, amico mio che così profondamente amo, se Lotario ti accennerà che, malgrado il tuo strano presentimento che Coppelius è qui per farti del male, io conservo il mio umore sereno e spensierato.
E ora voglio confessare, solo a te, che secondo me tutto il terribile e lo spaventoso di cui tu parli non accade che nell'interno del tuo animo; il mondo esterno e la sua realtà vera hanno in tutto questo ben poca parte. Il vecchio Coppelius era sicuramente un individuo sinistro, ma era appunto il fatto che vi odiasse, a suscitare in voi bambini quella estrema ripugnanza. Nel tuo infantile sentire lo spaventoso uomo della sabbia della favola si riallacciava naturalmente al vecchio Coppelius che, anche se tu non avessi creduto all'esistenza dell'uomo della sabbia, sarebbe sempre rimasto per te uno spirito maligno particolarmente dannoso ai bambini, assimilabile ad uno spirito cattivo. Lo spiacevole e faticoso lavoro notturno con tuo padre, non consisteva tuttavia in altro, se non in ricerche alchimistiche che i due praticavano in segreto e che tua madre non poteva vedere di buon occhio, poiché in primo luogo erano senza dubbio causa di grande inutile dispendio di denaro: e poi, come succede a tutti quelli che si danno a simili occupazioni, distoglievano dalla famiglia lo spirito e il sentimento di tuo padre, essendo egli tutto preso dall'ingannevole impulso a raggiungere una superiore conoscenza. Certamente tuo padre ha dovuto la sua tragica morte a una disattenzione e Coppelius non ne è colpevole.
Crederai che ieri ho interrogato il nostro versatissimo vicino, il farmacista, per sapere da lui se nel corso di ricerche e di esperimenti chimici siano possibili improvvise esplosioni? Egli mi ha detto: "Eh! ma certamente!" e mi ha descritto a modo suo, molto prolissamente e circonstanziatamente, come questo possa succedere, aggiungendo tanti e tali nomi dal suono strano, che io non li ho proprio potuti trattenere. Ecco che a questo punto tu ti senti molto maldisposto verso la tua Clara e dici: "In quel freddo animo non passa e non si agita nessun raggio del Misterioso, di quel che spesso afferra e circonda l'uomo con invisibili braccia: lei vede solo la variopinta superficie del mondo e si rallegra come il più ingenuo bambino del bel frutto rilucente d'oro, dentro al quale sta nascosto il veleno letale".
O mio amatissimo Natanaele! Ma non credi tu dunque che anche in nature serene, spregiudicate, spensierate possa abitare il presentimento di un oscuro potere, che tende con tutte le forze a rovinarci nell'interno stesso della nostra anima? Considera dunque con indulgenza il fatto che io, pur non essendo che una fanciulla, osi spiegare in qualche modo quello che io davvero credo di simili lotte interne.
Ecco però che, al momento buono, non riesco a trovare le parole adatte e tu riderai di me non perché le mie teorie siano assurde, ma perché te le esprimo in un modo così maldestro!...
Se esiste un oscuro potere, con modalità e con intento davvero nemico e traditore pone nell'interno del nostro animo un filo, per mezzo del quale ci lega poi strettamente e ci trascina su un pericoloso e rovinoso cammino, che altrimenti noi non avremmo mai intrapreso, se esiste un simile oscuro potere, esso deve necessariamente foggiarsi in noi simile a noi stessi, anzi diventare noi stessi, poiché solo cosi noi crediamo nella sua esistenza ed assegnamo ad esso un posto, il posto che gli serve appunto per portare a termine il suo misterioso lavoro. Ma se noi avremo animo saldo e rafforzato dalla serenità della vita, e tale che sempre riconosca nel suo vero essere ogni influsso estraneo e ostile e cammini con passo tranquillo sulla via che per inclinazione e vocazione abbiamo intrapreso, allora questo spiacevole potere si aggirerà in inutili cerchi intorno alla figura che deve costituire il nostro proprio specchio.
E' anche certo, come aggiungeva Lotario, che l'oscuro potere fisico, una volta che noi ci siamo dati completamente a lui, spesso spinge a forza nel mondo interno del nostro animo forme estranee, simili a quelle che manda sul nostro cammino il mondo esterno, così che noi stessi suscitiamo da soli quello spirito che poi immaginiamo che ci parli da quelle forme. E' questo il fantasma del nostro proprio Io, la cui intima parentela e la cui profonda influenza sul nostro animo ci sprofonda nell'inferno o ci inebria alle altezze del Cielo.
Tu lo vedi, mio amato Natanaele; io e Lotario ci siamo pronunciati sulla sostanza o natura di quell'oscura forza o violenza e a me tutto sembra adesso ordinato e profondo, adesso che, non senza fatica, sono andata esponendo il più e il più importante.
Le ultime parole di Lotario io non le capisco troppo bene, riesco appena ad intuire quello che lui intende con esse, eppure, sento, sono convinta che tutto è vero.
Ti prego, scaccia lontano dal tuo spirito e per sempre l'odioso avvocato Coppelius e il venditore di barometri Giuseppe Coppola! Sii convinto che niente possono su di te queste estranee apparizioni, che solo il fatto che tu creda a esse e alla loro potenza nemica, può rendertele in realtà nocive. Se da ogni riga della tua lettera non parlasse alto la profonda eccitazione del tuo animo scosso e il tuo stato non mi addolorasse nel più profondo dell'anima, potrei davvero scherzare a proposito dell'avvocato - uomo della sabbia - venditore di barometri Coppelius.
Sii sereno, sereno! Voglio apparire accanto a te come il tuo angelo protettore e con limpido riso mettere in fuga l'odioso Coppelius, se egli si permettesse di introdursi nei tuoi sogni. Io non temo né lui né le sue manacce ossute, dovesse egli come avvocato guastarmi una ghiottoneria o come uomo della sabbia gli occhi.
Eternamente tua....
Natanaele a Lotario,
Mi è dispiaciuto veramente molto che Clara abbia letto la mia ultima a te, avendo aperto la lettera, certo per sbadataggine mia erroneamente a lei indirizzata. Mi ha scritto una profonda, filosofica lettera nella quale distesamente mi dimostra come Coppelius e Coppola esistano solo in me e siano fantasmi del mio Io, che se ne vanno immediatamente in polvere, nel momento stesso in cui io li riconosca come tali. In realtà nessuno crederebbe mai che quello stesso spirito che spesso sorride come un caro e dolce sogno da quegli occhi puri e chiari di bambina, possa poi saper sillogizzare e filosofare tanto magistralmente. Nella sua lettera lei cita te. Penso quindi di essere stato oggetto di vostre comuni discussioni e forse tu le hai letto anche trattati di logica, onde lei potesse far bella mostra delle varie teorie e ordinatamente raggrupparle. Ti prego, lascia stare!
D'altra parte è forse proprio vero che il venditore di barometri Giuseppe Coppola non è neppure per sogno il vecchio avvocato Coppelius. Io seguo le lezioni del professore di fisica, da poco arrivato qui, che come il celebre naturalista si chiama Spallanzani ed è di origine italiana. Egli conosce Coppola già da molti anni e, d'altra parte, dalla sua pronuncia si capisce subito che costui è un piemontese. Coppelius era invece un tedesco e, a quanto mi risulta, non un onesto tedesco. Eppure non riesco a sentirmi completamente tranquillo. Tu e Clara potete pensare finché volete che io sia un tenebroso sognatore, ma io non posso liberarmi dall'impressione che esercita su di me il maledetto volto di Coppelius. Sono contento che lui, come so da Spallanzani, si sia allontanato dalla città. Questo professore è uno strano tipo di nottolone. E' un ometto tondo, con zigomi piuttosto sporgenti, naso sottile, bocca dalle labbra arricciate, occhi piccoli e penetranti.
Lo vedrai meglio, che non in questa mia descrizione, se guardi il ritratto di Cagliostro fatto da Chodowiecki e riprodotto non so più su quale almanacco berlinese. Giorni fa salivo le scale di casa sua quando mi accorsi che nonostante una tenda tirata sopra una porta a vetri era rimasto da un lato un piccolo spiraglio. Non so neppure io come mi sia venuta la curiosità di guardarvi attraverso.
Una signorina alta, molto snella e dalla figura armoniosamente proporzionata, vestita elegantemente, sedeva nella stanza davanti ad un tavolino, su cui si appoggiava con entrambe le braccia, congiungendo le mani. Sedeva di fronte alla porta, per cui io potevo vedere interamente il suo viso d'angelo. Essa sembrava non accorgersi di me e i suoi occhi avevano un che di fisso, direi quasi che non avevano vista. Ebbi l'impressione che dormisse ad occhi aperti. Provai un senso di disagio e mi allontanai silenziosamente per entrare nella sala di lezione, situata lì vicino. Venni poi a sapere che la figura da me scorta è la figlia di Spallanzani, Olimpia, che il padre in modo incomprensibile e crudele tiene rinchiusa: a nessuno è permesso di avvicinarsi a lei. Probabilmente esistono delle circostanze determinanti: forse la ragazza è deficiente o qualcosa di simile. Ma chi sa perché ti scrivo tutto questo. Devi sapere che tra quattordici giorni sarò tra voi. Devo proprio rivedere il mio dolce, il mio caro angelo, la mia Clara. In un soffio scomparirà quel malumore che ha tentato di impadronirsi di me, dopo la fatale altamente filosofica sua lettera. Per questo appunto neppure questa volta le scrivo. Mille saluti...
Niente potrà sembrare più strano e più fantastico di quello che capitò al mio povero amico lo studente Natanaele, e che io, o cortese lettore, inizio a raccontarti.
Hai già vissuto tu, o molto benevolo, una simile esperienza? Furono mai il tuo cuore, la tua mente, i tuoi pensieri in simile misura traboccanti, che ogni altra cosa veniva da essi scacciata? Qualcosa in te fermentava, ribolliva il tuo sangue, divenuto ardore cocente, e scorreva a fiotti violenti nelle tue vene e colorava più intensamente le tue guance. Il tuo sguardo diventava strano, nuovo, quasi volesse afferrare nello spazio deserto figure negate ad ogni altra vista e le tue parole si scioglievano in oscuri sospiri. Ti interrogavano allora gli amici: "Ma che vi accade egregio amico? Che avete, caro?". E tu a voler descrivere l'interno mondo di immagini con i colori più vivi e ardenti e ombre e luci, ad affaticarti a trovare parole che ti aiutassero almeno a cominciare. Ma tutto il meraviglioso, il magnifico, il terribile, l'allegro, il raccapricciante, che era successo in te, ti si presentava tutto contemporaneamente e voleva essere espresso nella prima parola; avresti voluto colpire tutto in un colpo, come una scarica elettrica. E tuttavia ogni parola, ogni tuo potere espressivo ti sembrava incolore, annebbiato e morto. Cercavi, cercavi di nuovo e balbettavi, sillabavi a fatica, mentre le fredde, incomprensive frasi degli amici entravano a spegnere l'interna fiamma, simili a soffio di vento gelato, finché essa non si spegneva. Ma se tu avessi invece, così come opera un avveduto pittore, dato inizio al tuo lavoro con pochi tocchi, tracciando l'abbozzo della tua immagine interiore, allora saresti poi venuto apportando alla scena sempre più vivi e caldi colori, con fatica non pesante, e la vivente folla delle multiformi molteplici figure avrebbe trascinato gli amici, che, come te, avrebbero visto se stessi in mezzo a quella scena, scaturita dal tuo sentimento.
Nessuno (a te, benevolo lettore, devo confessarlo) mi ha chiesto fino ad ora la storia dello studente Natanaele, ma tu sai bene che io faccio parte di quella strana razza degli autori, ai quali, quando essi portino in sé qualcosa di simile a quello che prima ho descritto, nasce nell'animo la convinzione che ognuno, anzi il mondo intero, chieda loro, avvicinandosi: "Ma di che cosa si tratta dunque? Raccontateci tutto, carissimo!".
Qualcosa mi spingeva dunque con violenza a raccontarti la vita dello studente Natanaele, che si svolse sotto il peso del destino. Quello che in essa vi fu di fantastico, di straordinario, riempì tutta la mia anima, ma appunto per questo e perché dovevo subito renderti, o lettore, disposto ad ascoltare e a sopportare una storia che ha dell'insolito, mi tormentai per trovare alla storia di Natanaele un inizio significativo, originale, captatore di attenzione.
"C'era una volta...": l'inizio più bello di ogni favola era troppo freddo.
"Nella piccola città di provincia di ... viveva...": ecco, questo era già meglio, almeno dava subito il tono.
Oppure entrare subito "in medias res". "'Ma vada al diavolo!' gridò, mentre ira e terrore gli davano un aspetto selvaggio, lo studente Natanaele, quando il venditore di barometri Giuseppe Coppola...".
Avevo anzi già incominciato cosi, quando mi sembrò di scorgere nell'aspetto selvaggio dello studente Natanaele qualcosa di grottesco. Ma la sua storia non è certo una farsa.
Insomma nessun discorso mi si presentò alla mente, che riflettesse il benché minimo splendore coloristico del mio quadro interiore.
Decisi di non cominciare proprio. Tu, benevolo lettore, considera le tre lettere che l'amico Lotario mi ha gentilmente comunicato, come abbozzo del quadro, al quale, raccontando, io mi sforzerò ora di apportare colori e ancora colori. Mi succederà forse, come a un buon ritrattista, di mettere insieme alcune figure, che tu troverai somiglianti anche senza conoscerne l'originale, tanto che crederai di aver visto quei personaggi con i tuoi propri occhi. In seguito crederai, forse, o lettore, che non c'è niente di più meraviglioso e di più pazzo della vita reale e che al poeta è concesso soltanto di raccoglierla come riflesso in uno specchio oscuro.
Perché sia più chiaro quello che subito fin dall'inizio è necessario sapere, resta da aggiungere al contenuto di queste lettere, che dopo la morte del padre di Natanaele, Clara e Lotario, figli di un lontano parente morto anche lui, lasciandoli orfani, erano stati raccolti in casa della madre di Natanaele. Clara e Natanaele sentirono uno per l'altra una forte inclinazione, contro la quale nessuno avrebbe potuto opporsi. Erano quindi fidanzati quando Natanaele lasciò la città per andare a proseguire i suoi studi a G. Da qui appunto egli scrive le sue ultime lettere e qui segue i corsi del celebre professore di fisica Spallanzani.
Ora io potrei di buon animo continuare il cammino del mio racconto, ma in questo istante l'immagine di Clara è così viva davanti ai miei occhi che non mi è possibile distoglierne lo sguardo, come sempre è successo quando, sorridendo dolcemente, lei mi ha fissato. Clara non poteva certo essere stimata una bellezza: era questa l'opinione di tutti quelli che per il loro ufficio devono intendersi di bellezza. E tuttavia gli architetti avrebbero lodato le pure proporzioni della sua figura, i pittori avrebbero trovato il suo collo, le sue spalle, il suo petto forse troppo casti, ma si sarebbero certo innamorati dei suoi meravigliosi capelli da Maddalena e soprattutto li avrebbe estasiati il suo colorito alla Battoni. Un pittore, un tipo veramente dotato di fantasia, paragonò un giorno gli occhi di Clara a un lago di Ruesdael, in cui si rispecchi il puro azzurro di un cielo senza nubi, la verde distesa di una foresta, i fiori e l'intera variopinta serena vita di un lussureggiante paesaggio. Poeti e maestri dell'arte del dire vanno ancora più là: "ma che lago, ma che specchio! Possiamo guardare questa fanciulla senza che dal suo aspetto si sprigionino verso di noi canti meravigliosi e suoni, così che ogni cosa in noi si risveglia?.... Che se poi non diamo inizio a un canto davvero eccelso, la colpa è della nostra pochezza, e il lieve sorriso di Clara lo dice chiaramente, che sfiora le sue labbra quando incominciamo a snocciolarle qualcosa che dovrebbe equivalere a una canzone, mentre invece si alternano tra loro solo pochi toni e scombinati....".
Le cose stanno così. Clara aveva la fantasia di un bambino sereno, francamente semplice, infantile, un animo profondamente femminile, un intelletto limpido e acuto. Le persone nebulose e ondeggianti non avevano con lei buon gioco, poiché senza molto parlare, che questo non si addiceva alla silenziosa natura di Clara, il suo limpido sguardo diceva loro insieme a quel sorrisetto ironico: "Miei cari amici, come potete dunque convincermi che quel vostro mondo di ombre trapassanti io debba considerarlo mondo di figure vere, dotate di vita e di movimento?".
Per questo Clara era considerata da alcuni fredda, priva di sentimento, prosaica; altri che della vita avevano una concezione solare e insieme profonda, amavano quella fanciulla piena di sentimento, comprensiva, infantile, ma nessuno la amava quanto Natanaele, che pure spiritualmente viveva nel mondo della scienza e dell'arte.
Clara era affezionata con tutta la sua anima al suo fidanzato, e le prime nubi solcarono la sua vita, quando dovette allontanarsi da lei. Con che rapimento volava tra le sue braccia, quando, come le sue ultime lettere a Lotario mostravano, egli rientrava nella sua città nativa, nella stanza di sua madre!...
Accadde come Natanaele aveva previsto: nell'istante in cui rivide Clara, non pensò più né all'avvocato Coppelius né alla troppo ragionevole lettera di Clara; ogni malinteso tra loro era sparito.
Eppure non a torto Natanaele aveva scritto a Lotario che il sinistro venditore di barometri Coppola era entrato nella sua vita per portarvi il Male. Tutti ebbero questa impressione: fin dai primi giorni Natanaele si mostrò così diverso, così completamente mutato in tutte le espressioni del suo carattere, immerso in un cupo fantasticare: presto si comportò in modo strano, che nessuno gli conosceva. Tutti le cose della vita erano diventate per lui sogno e presentimento, continuamente diceva che ogni uomo, pur credendosi libero, non serve in realtà che a oscure potenze, al loro crudele gioco, e invano ci si oppone: è giocoforza adattarsi umilmente a ciò che il destino ci ha imposto. Giunse perfino ad affermare che è da pazzi il credere in una libera arbitraria creazione artistica o scientifica: poiché l'esaltazione o estasi nella quale soltanto ci è possibile creare, non proviene dal nostro mondo interno, ma da un superiore principio che sta fuori di noi.
A Clara questo mistico farneticare era sgradevole al massimo, ma sembrava che vano riuscisse il suo opporsi. Solo quando Natanaele volle dimostrarle che Coppelius era il principio del male, che si era impossessato di lui quando aveva guardato attraverso il vetro da dietro la tendina e che, entrando nella sua vita, questo principio del male avrebbe distrutto la sua felicità amorosa in modo spaventoso, soltanto allora Clara si fece molto seria e disse: "Sì! Natanaele, hai ragione! Coppelius è un principio del male, un principio nemico. Egli può di sicuro avere su di te l'azione spaventosa di una potenza diabolica che entrasse sensibilmente nella tua vita, ma solo nel caso che tu non lo bandisca dalla tua mente e dal tuo sentimento. Finché tu credi in lui, anche lui esiste e agisce, la tua fede nella sua esistenza è la sua sola forza.
Natanaele, molto irritato che Clara volesse stabilire l'esistenza dell'essere demoniaco solo nel suo mondo interiore, voleva attaccare l'intera teoria mistica dei demoni e delle potenze del male. Clara lo interruppe, a sua volta irritata, senza per altro opporgli una teoria equivalente a non minore irritazione di lui. Egli era dell'opinione che certe fredde e negative disposizioni d'animo si precludessero da sole la via alla comprensione di simili profondi misteri, ma, non rendendosi conto che con questo egli annoverava Clara tra quelle nature inferiori, niente tralasciò per iniziarla ai misteri. Di prima mattina, quando Clara aiutava a preparare la colazione, egli le sedeva accanto e le leggeva ogni specie di libri di mistica, tanto che un giorno Clara dovette pregarlo: "Ma caro Natanaele, se io adesso volessi prendermela con il cattivo principio che in questo momento agisce sul mio caffè? Poiché se, come pretendi tu, lasciassi stare ogni cosa e ti guardassi negli occhi mentre leggi, il caffè mi si rovescerebbe sul fuoco e tutti voi stamattina non avreste nessuna colazione".
Natanaele chiuse con violenza il libro e se ne andò di corsa a chiudersi nella sua camera, pieno di malumore.
Prima egli componeva con una notevole forza espressiva vivaci racconti dall'atmosfera gaia, che Clara ascoltava con intimo piacere: ora le sue poesie erano cupe, incomprensibili, informi, così che anche quando Clara gli risparmiava le sue osservazioni, egli aveva tuttavia la sensazione di quanto poco esse si accordassero con il suo mondo interiore.
D'altra parte niente era altrettanto letale per Clara della noia. Subito nel suo sguardo e nei suoi discorsi si manifestava una invincibile sonnolenza spirituale. E le poesie di Natanaele erano in realtà molto noiose. Il suo malcontento per la freddezza di Clara andò intanto sempre più aumentando, mentre da parte sua Clara non poté superare il suo malumore per le cupe, oscure produzioni di Natanaele, così che senza rendersene conto, essi andarono allontanandosi spiritualmente l'uno dall'altra.
La figura dell'odioso Coppelius, come Natanaele stesso era costretto a confessare a se stesso, era impallidita nella sua fantasia e spesso gli costava fatica dipingerlo a vivi colori nelle poesie, dove lo faceva apparire come "ba-bau" del destino.
Volle infine un giorno esprimere in poesia il presentimento che Coppelius dovesse distruggere il suo amore felice. Rappresentò se stesso e Clara legati da più profondo affetto, ma di tanto in tanto nella loro vita entrava una nera manaccia e afferrava e ne strappava via una gioia, che in essa era nata. Finalmente, quando già stavano davanti all'altare nuziale, ecco che appare spaventoso Coppelius e tocca i puri occhi di Clara ed essi balzano sul petto di Natanaele simili a scintille sanguinose annerendo e bruciando. E Coppelius lo afferra, lo getta in un ardente cerchio di fiamme, che si avvolge a spirale con la rapidità del turbine, lo trascina via in un infocato risucchio. Risuona un muggito simile a quello dell'uragano che furioso flagella le onde del mare schiumose, quando si alzano dritti neri giganti dalla bianca testa in una lotta rabbiosa. Attraverso il selvaggio boato egli sente la voce di Clara: "Ma non li riconosci? Coppelius ti ha ingannato, non erano i miei occhi che bruciavano così sul tuo petto, erano gocce di sangue scaturite dal tuo stesso cuore; io li ho ancora i miei occhi, ma guardami ti prego!". Natanaele pensa:
"E' Clara e io sono suo in eterno!". E il suo pensiero afferra con forza violenta il cerchio di fuoco, così da farlo cessare: nel nero gorgo il mugghiare di prima si spegne in un sordo brontolìo. Natanaele fissa i suoi occhi negli occhi di Clara e è la morte che da essi guarda a lui sorridendo amorosa.
Mentre andava mettendo questo argomento in versi, Natanaele era freddo e tranquillo, si fermava a correggere e a limare e poiché si era sottoposto alle leggi della rima e del metro non si stancò finché tutto non fu disposto in un insieme armonioso e dal ritmo fluente. Ma quando ebbe finito e lesse da solo la poesia ad alta voce, raccapriccio e selvaggio terrore si impadronirono di lui e gridò: "Chi parla con questa terrificante voce?". Tuttavia ogni cosa gli sembrò di nuovo ben presto come una ben riuscita creazione poetica che - pensò - avrebbe potuto riscaldare la freddezza di Clara; non gli venne in mente che senza scopo avrebbe esaltato l'animo di Clara e che a nient'altro avrebbe potuto portare una tale lettura se non ad angoscia di raccapriccianti immagini, annunciatrici di una sorte orrenda, che avrebbe distrutto il loro amore. Clara era molto serena mentre essi sedevano insieme nel giardino della mamma: Natanaele da tre giorni - quelli appunto nei quali era stato occupato a scrivere il suo poema - non l'aveva tormentata con sogni e presentimenti. E poiché egli parlava ora di cose allegre in tono vivace e spensierato come una volta, Clara disse: "Ora finalmente ti ho di nuovo per me! Vedi che abbiamo cacciato lontano l'orrendo Coppelius?". Ed ecco che a queste parole ritornò in mente a Natanaele la poesia, che aveva in tasca e che aveva deciso di leggerle. Tirò fuori i fogli e diede inizio alla sua lettura. Clara, prevedendo una delle solite noiose cose, e rassegnandocisi, cominciò a lavorare tranquillamente a maglia. Ma poiché l'oscurità delle nubi si incupiva alzandosi sempre più nera sulla visione, lei lasciò cadere il suo lavoro e fissò in viso Natanaele. La poesia lo trascinava irresistibilmente, l'interna fiamma colorava di un rosso vivo le sue guance, dagli occhi gli sgorgavano lacrime. Finì e con un lamento carico di profonda languidezza sospirò, afferrando la mano di Clara, come disfatto in un dolore senza conforto: "Ahimè, Clara! Clara!". Clara lo attirò sul suo petto e disse piano, ma con grande lentezza e serietà: "Natanaele, mio tanto amato Natanaele, getta quella folle, quella assurda, quella delirante fiaba sul fuoco!".
Molto crucciato Natanaele si alzò in piedi e, respingendo da sé Clara, gridò: "Ma vattene, dannato automa senza vita!". E corse via: Clara, offesa a morte, scoppiò a piangere amaramente: "Mai, non mi ha amato mai perché non mi capisce!" singhiozzava ad alta voce. Lotario entrò in quell'istante nel pergolato: Clara fu costretta a raccontargli l'accaduto. Egli amava con tutta l'anima sua sorella e ogni parola della sua lamentosa accusa gettò una scintilla nel suo animo e il malumore che da tempo nutriva contro il sognatore Natanaele si accese fino a diventare ira selvaggia.
Corse da Natanaele, gli rinfacciò con dure parole la sua assurda condotta verso sua sorella. Un "fantastico delirante imbecille" venne ricambiato con un "miserabile volgare uomo mediocre". Il duello era inevitabile. Decisero di battersi alla sciabola secondo il locale costume studentesco il giorno dopo dietro il giardino. Si aggiravano muti e scuri in viso, ma Clara aveva sentito la lite violenta e vide all'alba il maestro di scherma portare le sciabole. Capì quello che volevano fare. Arrivati sul luogo della lotta, Lotario e Natanaele si tolsero in un tetro silenzio i soprabiti e nell'ardore dei loro occhi c'era tutto il desiderio sanguinoso di lotta; già stavano per lanciarsi uno contro l'altro, quando arrivò impetuosamente Clara dalla porticina del giardino. Singhiozzando gridò forte: "Mi fate orrore! Selvaggi e pazzi che siete! Colpite subito me, finitemi, prima di assalirvi a vicenda! Come potrei vivere più a lungo nel mondo, quando l'amato avesse assassinato il fratello o il fratello l'amato?".
Lotario lasciò cadere l'arma e in silenzio fissò gli occhi a terra; ma nell'animo di Natanaele, nell'affanno dilaniante del cuore, rinacque tutto l'amore nell'intensità dei più bei giorni della loro splendida giovinezza. L'arma assassina cadde dalla sua mano, si gettò ai piedi di Clara: "Mi potrai mai perdonare, mia unica, mia adorata Clara?".
"Puoi perdonarmi, fratello Lotario?".
Lotario fu commosso dal profondo dolore del suo amico. Piangendo le tre creature riappacificate si abbracciarono e si giurarono a vicenda di separarsi in eterno amore e fedeltà.
Per Natanaele fu come se il grave peso che lo prostrava fosse caduto via lontano da lui, anzi come se avesse redento il suo animo, opponendo resistenza all'oscuro potere che lo teneva prigioniero, e che minacciava di portare alla rovina tutto il suo essere. Egli passò ancora tre giorni felici tra i suoi cari e fece poi ritorno a G., dove avrebbe dovuto restare ancora per un anno; dopo di che, finiti gli studi, sarebbe ritornato per sempre nella sua città nativa.
Alla madre era stato taciuto tutto quello che riguardava la riapparizione di Coppelius, perché certo non senza terrore ne avrebbe potuto rivivere il ricordo, lei che come Natanaele lo riteneva colpevole della morte di suo marito.
Grande fu lo stupore di Natanaele, quando, diretto alla sua abitazione a G., vide che l'intera casa era stata distrutta dal fuoco e dallo scantinato emergevano ormai soltanto i muri nudi e bruciacchiati. Per quanto il fuoco fosse divampato dal laboratorio del farmacista, che abitava al piano inferiore, per cui la casa aveva incominciato a bruciare dal basso in alto, un valoroso e gagliardo amico aveva potuto, ancora per tempo, penetrare nella stanza di Natanaele situata al piano superiore, e portare in salvo manoscritti e strumenti. Il tutto era stato trasportato, senza aver subito nessun danno, in un'altra casa dove era stata fissata una stanza, che subito Natanaele occupò. Non fece nessuna attenzione al fatto che veniva così ad abitare proprio di fronte al professor Spallanzani e non gli sembrò neppure fuori dell'ordinario notare che dalla sua finestra egli guardava appunto nella stanza, in cui spesso sedeva solitaria Olimpia, in modo che la figura di lei era chiaramente riconoscibile, benché i tratti del viso rimanessero imprecisi e confusi. Alla fine dovette tuttavia accorgersi che Olimpia sedeva per ore intere nella stessa posizione, quella appunto nella quale l'aveva scorta un giorno attraverso la porta a vetri: non occupata in nessun tipo di lavoro, sedeva davanti a un tavolino e alzava proprio verso di lui il suo sguardo strano: Natanaele doveva confessare a se stesso di non aver mai visto una figura più bella, ma poiché Clara viveva sempre nel suo cuore, la rigida dura Olimpia gli rimaneva assolutamente indifferente e solo di tanto in tanto alzava gli occhi dal trattato che aveva davanti per guardare di sfuggita quella bella statua; e questo era tutto.
Egli stava appunto scrivendo a Clara, quando bussarono piano alla porta: alla sua risposta aprirono e fece capolino il sinistro Coppola. Natanaele si sentì tremare internamente: ma riflettendo a quello che Spallanzani gli aveva detto a proposito del suo corregionale Coppola e a quello che egli aveva solennemente promesso alla fidanzata circa l'uomo della sabbia Coppelius - si vergognò della sua infantile paura dei fantasmi, raccolse tutta la sua forza e parlò nel modo più soave e placido che trovò: "Non compro nessun barometro, amico mio, vada pure!". Ma a questo punto Coppelius entrò completamente nella stanza e parlò con voce rauca, contraendo la brutta e larga bocca in un odioso riso, mentre i piccoli occhi brillavano penetranti dal di sotto delle lunghe e grigie sopracciglia. "Eh! non barometri, non barometri! Ho anche belli occhi, belli occhi!" Terrorizzato Natanaele gridò: "Ma siete pazzo! Ma come potete avere occhi? Occhi?.... Occhi?....". E intanto Coppola aveva messo da parte i suoi barometri e frugava nelle tasche del suo vestito togliendone occhiali e occhialini. "Ecco, ecco occhiali da mettere sul naso, questi sono miei occhi, belli occhi...". E così dicendo andava estraendo in numero sempre più grande gli occhiali: ci fu allora sulla tavola uno strano, mai visto scintillìo. Mille occhi guardavano in su e accennavano tormentosi e lancinanti, fissandosi poi rigidi e freddi su Natanaele. E lui non poteva distogliere lo sguardo dalla tavola e Coppola continuava a disporvi nuovi numerosi occhiali e sempre più selvaggi balzavano da essi e si incrociavano gli sguardi fiammeggianti, scagliando verso il petto di Natanaele i loro raggi rossoazzurri. Vinto da un terrore selvaggio, egli gridò: "Fermati, fermati ti dico, uomo temibile!" e afferrò saldamente il braccio di Coppola, per trattenerlo, mentre ancora andava arraffando nelle tasche e ne toglieva, malgrado che la tavola ne fosse già interamente ricoperta, altri occhiali. Coppola si liberò dalla stretta, ridendo con il suo riso sordo e rauco e mentre diceva: "Ah niente per lei, ma qui essere belle lenti", aveva riunito in poche manate tutte le paia d'occhiali, le aveva rificcate nelle tasche e da una tasca laterale del soprabito estraeva una quantità di grossi o di piccoli canocchiali. Spariti che furono gli occhiali, Natanaele diventò tranquillo e pensando a Clara riconobbe che lo spettro spaventoso era uscito solo dal mondo del suo Io e che Coppola era un onorato meccanico e ottico e in nessun modo poteva essere un fantasma o il dannato sosia di Coppelius. Per di più le lenti che Coppola andava ora disponendo sulla tavola non avevano niente di speciale o almeno niente di così fantomatico come gli occhiali e nell'intenzione di rimettere a posto le cose, Natanaele decise di comprare qualcosa a Coppelius. Scelse un piccolo binocolo tascabile molto ben lavorato e guardò fuori dalla finestra per provarlo. Nella sua vita non aveva ancora mai avuto una lente che avvicinasse gli oggetti agli occhi tanto netti, chiari e precisi nei contorni. Senza volerlo il suo sguardo si posò sulla stanza di fronte. Olimpia sedeva come al solito davanti al tavolino, con le braccia appoggiate alle mani congiunte. Allora per la prima volta Natanaele vide il bellissimo volto di Olimpia. Solo gli occhi gli sembrarono stranamente rigidi e morti. Ma poiché egli guardò sempre più acutamente attraverso le lenti, gli sembrò che dagli occhi di Olimpia scaturissero umidi raggi lunari; sempre più vivi e fiammeggianti si facevano gli sguardi e fu come se allora per la prima volta si fosse accesa in essi la luce della vista. Natanaele rimase alla finestra incantato, perduto nella contemplazione della celeste bellezza di Olimpia. Un tossicchiare e un raschiarsi in gola lo risvegliarono da una specie di profondo sonno. Coppola stava dietro di lui. "Tre zecchini, tre ducati". Natanaele aveva completamente dimenticato l'ottico, pagò in fretta la somma richiesta. "Non è vero? Belle lenti, belle lenti!" interrogò Coppola con la sua sinistra rauca voce e il bieco sorriso. "Sì, sì, sì" rispose Natanaele seccato. "Addio, caro amico".
Coppola lasciò la stanza, non senza lanciare su Natanaele molte strane occhiate.
"E va bene" pensò Natanaele, "ride di me perché senza dubbio gli ho pagato troppo caro il piccolo binocolo... Pagato troppo caro...".
Ma mentre pronunciava a bassa voce queste parole, gli sembrò che un raccapricciante sospiro di morte echeggiasse nella stanza e gli si mozzò il respiro per l'interna ansia. Lui, proprio lui aveva sospirato in quel modo e lo aveva anche notato. "Clara disse a se stesso - ha proprio ragione di ritenermi uno stupido visionario: eppure è pazzesco, ah! purtroppo più che pazzesco, che lo stupido pensiero di aver pagato troppo caro a Coppola il suo binocolo mi angusti ancora in modo tanto strano. Non riesco a capirne il motivo". Andò a risedersi al suo tavolo per finire la lettera a Clara, ma un'occhiata alla finestra lo convinse che Olimpia sedeva ancora là e saltò su come spinto da un'irresistibile violenza, in un attimo afferrò il binocolo di Coppola e non poté staccarsi dalla seducente visione di Olimpia, fino al momento in cui il suo amico, anzi fratello, Sigismondo non lo chiamò in basso per la lezione del professor Spallanzani.
La tendina sulla misteriosa porta a vetri era accuratamente tirata e gli fu così impossibile vedere da lì Olimpia come del resto durante i giorni che seguirono, nonostante che egli non abbandonasse che raramente la finestra della sua stanza e continuamente guardasse attraverso il binocolo di Coppola. Il terzo giorno le finestre vennero coperte. In preda alla disperazione, spinto dalla nostalgia e da un desiderio ardente, egli uscì fuori dalla città. La figura di Olimpia si librava qua e là nell'aria davanti a lui, usciva da un cespuglio, lo guardava con grandi occhi raggianti da un trasparente ruscello.
L'immagine di Clara era completamente scomparsa dal suo animo: a Olimpia era rivolto ogni suo pensiero e così si lamentava con altissima voce lamentosa: "Ahimè! Mia stella d'amore, eccelsa, meravigliosa! Sei dunque nata soltanto per sparire subito di nuovo e abbandonarmi in una più tenebrosa, in una più disperata notte?".
Più tardi quando si diresse alla sua abitazione per rientrarvi, si accorse che nella casa di Spallanzani c'era una rumorosa agitazione.
Le porte erano aperte, venivano portati ogni tipo di mobili, le finestre del primo piano erano state tolte, le domestiche affaccendate spazzavano e toglievano la polvere, girando su e giù con grandi spazzoloni, tappezzieri e falegnami picchiavano e martellavano attivamente.
Natanaele si fermò sbalordito sulla strada. Lo raggiunse ridendo Sigismondo, e gli chiese: "Ebbene, che ne dici del nostro vecchio Spallanzani?". Natanaele lo assicurò che non ne diceva proprio niente perché niente sapeva del professore, anzi si stava appunto meravigliando del fatto che la casa di solito buia e tranquilla, fosse invasa da un folle agitarsi, come se si trattasse di un albergo.
Allora seppe da Sigismondo che Spallanzani voleva dare l'indomani una grande festa da ballo a cui era invitata mezza università. "La voce comune è che Spallanzani mostrerà domani per la prima volta in pubblico la sua figliola, che così a lungo e con tanta paura ha sottratto alla vista umana" aggiunse.
Natanaele trovò un biglietto d'invito e, con il cuore che gli batteva forte, all'ora stabilita andò dal professore, quando già le carrozze arrivavano e partivano e le luci scintillavano nelle sale addobbate.
La società degli invitati era numerosa e brillante.
Olimpia appariva vestita con magnificenza e buon gusto. Ognuno era costretto ad ammirare il suo viso armoniosamente conformato alla sua figura. La linea della sua schiena era in verità leggermente strana nella sua curva, e strana era la sottigliezza della sua vita di vespa:
ma questo era forse da attribuirsi a un busto allacciato troppo stretto. Nel suo passo, nelle sue posizioni c'era qualcosa di misurato e di rigido, che a molti riusciva sgradevole: se ne dava tuttavia come causa la soggezione che la società le incuteva. Cominciò il concerto. Olimpia eseguì al piano uno spartito con grande perfezione e si produsse in un'Aria, un pezzo di bravura con una voce limpida, forse un po' troppo cristallina, che faceva pensare al suono di una campanella di vetro. Natanaele ne era entusiasta: sedeva nell'ultima fila e non gli era quasi possibile scorgere il volto di Olimpia a causa della luce accecante dei ceri. Inosservato, tolse dalla tasca il binocolo di Coppola e guardò nella direzione della bella Olimpia. Ed ecco che improvvisamente egli fu cosciente che verso di lui si rivolgevano pieni di una profonda nostalgia i suoi sguardi e che ogni gradazione del canto si convertiva in uno sguardo d'amore che penetrava, incendiandolo, il suo essere. I virtuosismi canori, i gorgheggi artificiosi, le "roulades" suonarono alle orecchie di Natanaele come il celestiale giubilo dell'animo trasfigurato dall'amore e quando alla fine, terminata la cadenza, il lungo trillo risuonò con forte eco nella sala, quasi come afferrato da ardenti braccia, egli non poté contenersi e fu costretto dal dolore e dall'estasi ad esclamare ad altissima voce: "Olimpia!". Tutti si volsero a guardarlo e molti risero. Soltanto l'organista del duomo fece un viso ancora più scuro del solito e disse: "Be'! be'!...".
Il concerto era finito, incominciò il ballo. "Ballare con lei! Con lei!...", questa era in quel momento la mèta di tutti i desideri di Natanaele, di tutto il tendere della sua volontà. Ma come osare di pretendere a lei, la regina della festa? Eppure!... Lui stesso non seppe mai come accadde che all'inizio delle danze egli si trovasse vicinissimo a Olimpia, ancora non richiesta, e che, capace solo di balbettare poche parole, egli le afferrasse una mano.
Fredda come ghiaccio era la mano di Olimpia: egli si sentì attraversare e sconvolgere da un raccapricciante gelido brivido di morte; fissò negli occhi Olimpia e da essi arrivarono ai suoi in risposta degli amorosi, nostalgici raggi e fu come se in quel preciso istante nella fredda mano cominciasse a battere il polso e ad ardere l'impetuosa e vitale corrente del sangue. E nell'animo di Natanaele divenne ancora più rovente il desiderio amoroso: prese tra le braccia la bella Olimpia ed entrò con lei nelle danze. Egli aveva sempre pensato di ballare seguendo la giusta cadenza, ma a giudicare dalla particolarissima fermezza ritmica con la quale ballava Olimpia, egli dovette ben presto convincersi che a lui mancava ed era sempre mancata ogni misura e cadenza. Non volle più ballare con nessun'altra signorina e avrebbe semplicemente assassinato all'istante tutti coloro che si avvicinavano ad Olimpia per invitarla a ballare. Ma questo, con suo grande stupore capitò solo due volte, e dopo ogni danza Olimpia sarebbe sempre rimasta a sedere, se egli non avesse mancato di chiedere sempre a lei di ballare. Se Natanaele avesse potuto vedere qualcosa che non fosse la bella Olimpia, non sarebbe certo stato possibile evitare fatali litigi e arrabbiature; poiché vagava per la sala un riso silenzioso e a fatica compresso, e chiunque se ne sarebbe accorto, dato che i giovani in questo o in quell'angolo della sala non si curavano di nasconderlo, perseguitando la bella Olimpia con strani sguardi, di cui non si riusciva a capire la causa. Ma surriscaldato dalle danze e dal molto vino bevuto, Natanaele aveva messo da parte ogni senso di pudore e di ritegno, in genere molto vigile in lui.
Seduto accanto ad Olimpia, le andava parlando un linguaggio d'amore intensamente infiammato e pieno di estasi, che nessuno, né lui né Olimpia, poteva capire. O forse lei sì, poiché lo fissava immobile, emettendo un sospiro dopo l'altro: "Ahimè! Ah! Ahimè!", a cui Natanaele così rispondeva: "O splendida, o celeste donna! O raggio sorto dal promesso Aldilà dell'Amore! O animo profondo, in cui si rispecchia l'intero mio Essere!" e altre frasi dello stesso tipo, ma Olimpia non faceva che sospirare di nuovo: "Ah! Ahimè!...". Il professor Spallanzani passò alcune volte davanti alle due felici creature e mentre guardava sua figlia, uno strano sorriso gli appariva in volto. Di colpo sembrò a Natanaele che ogni cosa nell'abitazione del professore diventasse notevolmente più buia. Guardò intorno a sé e con suo non piccolo stupore si accorse che nella sala ardevano e stavano per finire gli ultimi due ceri. Da molto tempo ormai erano finite le danze. "Separazione! Separazione!" gridò in preda a una disperazione selvaggia, baciò la mano di Olimpia, si chinò sulla sua bocca: labbra fredde come ghiaccio incontrarono le sue ardenti. Come allora, quando aveva toccato la gelida mano di Olimpia, anche ora si sentì afferrato da un brivido interno e la leggenda della fidanzata morta gli attraversò come un lampo lo spirito; ma Olimpia lo aveva stretto forte a sé e nel bacio le sue labbra parvero riscaldarsi e vivere. Il professor Spallanzani passeggiava lentamente su e giù per la vuota sala e i suoi passi rintronavano per l'eco proprio dei luoghi vuoti, mentre la sua figura intorno alla quale giocavano grandi ombre informi e incostanti assumeva un terrificante aspetto di fantasma.
"Mi ami, mi ami, Olimpia?, Solo questa parola: mi ami?" sussurrava Natanaele: ma Olimpia sospirò alzandosi in piedi: "Ah! Ah!...". "Sì, mia pura, mia splendida stella d'amore, disse Natanaele - tu sei nata per me e in eterno illuminerai il mondo interno della mia anima!".
"Ahimè! Ah!" replicava Olimpia, continuando a camminare. Natanaele la seguì: intanto erano arrivati davanti al professore. "Lei si è intrattenuto con mia figlia in modo straordinariamente vivace stasera - disse costui sorridendo: - ebbene, mio caro signor Natanaele, se lei trova piacere nel conversare con questa sciocchina, le sue visite saranno bene accolte".
Natanaele prese congedo, portandosi via nel cuore un intero raggiante splendore.
La festa data da Spallanzani fu l'argomento delle conversazioni nei giorni che seguirono. Nonostante che il professore avesse fatto di tutto per sembrare ospite brillante, le teste matte si ingegnavano a raccontare ogni specie di strane sconvenienti cose che sarebbero successe durante la festa e soprattutto i commenti ricadevano su Olimpia, muta, rigida come una morta, che l'opinione generale volle supporre, ad onta del suo bell'aspetto, deficiente, e per questo appunto, si diceva, Spallanzani l'aveva tenuta per tanto tempo nascosta. Natanaele venne a conoscenza di quelle chiacchiere, il che non mancò di irritarlo, ma egli tuttavia rimase zitto, pensando: "A che scopo avvertirei dunque questi giovanotti che solo il loro ottuso spirito impedisce a loro di riconoscere la profondità e la bellezza dell'animo di Olimpia?".
"Fammi un favore, fratello, - gli disse un giorno Sigismondo - e dimmi come hai fatto a perdere il tuo tempo a guardare quella pupattola di legno là di fronte, tu che sei una persona intelligente?".
Natanaele voleva arrabbiarsi, ma rifletté un attimo e rispose: "Dimmi piuttosto tu, Sigismondo, come ha potuto sfuggire al tuo occhio, che sa abbracciare acutamente ogni cosa bella, e al tuo puro senso della bellezza la celestiale attrattiva d'amore che emana da Olimpia? Eppure io ringrazio il Cielo di non averti come rivale, altrimenti fra noi avrebbe dovuto scorrere del sangue".
Sigismondo capì chiaramente quali fossero le condizioni d'animo dell'amico, girò con abilità intorno al discorso e, dopo avere detto che in amore non è mai opportuno giudicare l'oggetto, aggiunse:
"Tuttavia è per lo meno strano che molti di noi sono più o meno della stessa opinione riguardo a Olimpia. Ci sembra, non avertela a male, fratello, stranamente rigida e priva di anima. La sua figura è regolare e così pure il suo viso, nessuno lo vorrebbe negare. Potrebbe anche passare per bella, se il suo sguardo non fosse così privo del raggio vitale, direi quasi privo della vista. Il suo passo è stranamente misurato e ogni suo movimento sembra stabilito da un congegno di ruote. Il suo suonare il piano, il suo cantare hanno la spiacevole cadenza veramente priva di ogni spiritualità delle macchine sonore e lo stesso si può dire della sua maniera di ballare. Insomma questa Olimpia ci è proprio antipatica in tutti i suoi aspetti e non vorremmo aver niente a che fare con lei: abbiamo l'impressione che agisca soltanto all'apparenza come una creatura vivente e che in lei si nasconda un insieme particolarissimo di cose". Natanaele non volle abbandonarsi all'amarezza del sentimento che si impadronì di lui a queste parole di Sigismondo; dominò il suo malumore e disse semplicemente con grande serietà di tono: "Può darsi che a voi, gente fredda e prosaica, Olimpia riesca spiacevole. Soltanto ad un animo poetico una simile natura può rivelarsi. Soltanto a me arriva il suo sguardo amoroso e a me irradia pensieri e sentimenti, soltanto nell'amore di Olimpia io ritrovo tutto me stesso. A voi dà fastidio che non si diverta in piatte conversazioni, a somiglianza di altri spiriti superficiali. Dice poche parole, è vero, ma queste poche parole sono il vero e proprio geroglifico di un mondo interno pieno d'amore e di conoscenza superiore della vita spirituale nell'intuizione dell'eterno aldilà. Ma per questo voi non avete nessun senso e ogni parola è inutile".
"Che Dio ti protegga, fratello!" rispose Sigismondo molto dolcemente, anzi con una certa malinconia. "Ma a me sembra che tu sia su una cattiva strada. Tu puoi contare su di me, se tutto... No, non posso dire di più".
Natanaele senti che il freddo prosaico Sigismondo si comportava con lui in modo molto leale e strinse quindi con sincera cordialità la mano che gli offriva. Egli aveva completamente dimenticato che al mondo esisteva una Clara, che aveva un tempo amata... sua madre, Lotario... tutti erano spariti dalla sua memoria: viveva soltanto per Olimpia. Da lei si tratteneva per ore ed ore, fantasticando ad alta voce del suo amore, della simpatia divenuta calore e necessità di vita, di psichiche affinità elettive, il che Olimpia ascoltava con religioso rispetto.
Nelle più remote profondità del suo tavolo da lavoro Natanaele andò a cercare tutto quello che in altri tempi era andato scrivendo. Poesie, fantasie, visioni, romanzi, racconti erano ogni giorno ampliati e ornati da sonetti, stanze, canzoni che si involavano verso azzurre lontananze e tutti per ore intere senza stancarsi mai li leggeva, uno dopo l'altro, a Olimpia. Mai prima di allora aveva avuto una simile stupenda ascoltatrice: non ricamava né lavorava a maglia, non guardava fuori dalla finestra né dava da mangiare a nessun uccellino, non giocava con nessun cagnolino, tenendoselo in grembo, né con gattini preferiti, non avvolgeva intorno alle sue dita strisce di carta o qualche altra cosa del genere e non aveva bisogno di nascondere con una leggera tossettina forzata uno sbadiglio. Insomma per ore e ore sedeva con lo sguardo immutabilmente fisso sull'amato, senza muoversi né agitarsi, mentre il suo sguardo si faceva sempre più ardente e vivo. Soltanto quando Natanaele si alzava e le baciava la mano oppure la bocca, essa diceva: "Ah! Ah!" e poi: "Buona notte, mio caro!".
"O splendido, o profondo animo - gridava Natanaele nella sua stanza - solo da te, da te sola io sono veramente compreso!". E trasaliva per intimo trasporto di entusiasmo, quando rifletteva a quale meravigliosa armonia e consonanza diventasse ogni giorno sempre più manifesta tra lui e Olimpia, tra i loro spiriti, e gli sembrava anzi che dal più profondo del suo proprio animo Olimpia avesse parlato a lui delle sue opere e dei suoi doni poetici in generale, che la sua voce avesse risuonato nel suo stesso animo... Il che era del resto possibilissimo, poiché Olimpia non pronunciava mai altre parole all'infuori di quelle più sopra riferite. Che se poi a Natanaele veniva di pensare all'assoluta passività e laconicità di Olimpia in momenti di chiara e fredda lucidità, egli diceva: "Ma che cosa sono le parole?... Parole!... Lo sguardo dei suoi occhi divini dice di più di qualsiasi linguaggio terreno. E come potrebbe una creatura del cielo adattarsi a quel ristretto cerchio che le necessità meschine della terra hanno prodotto?". Il professor Spallanzani sembrava molto soddisfatto della relazione di sua figlia con Natanaele, a cui egli concedeva ogni specie di inequivocabili segni della sua benevolenza e del suo favore e quando finalmente Natanaele osò accennare a un legame con Olimpia il viso del professore si aprì a un largo sorriso ed egli disse: "Io lascio a mia figlia libera scelta".
Incoraggiato da quelle parole, con il desiderio che gli bruciava nel cuore, Natanaele decise di scongiurare Olimpia subito il giorno dopo perché con chiare parole gli dicesse quello che inequivocabilmente da lungo tempo gli diceva il suo puro sguardo d'amore: di voler essere sua per sempre. Si mise a ricercare l'anello che la madre gli aveva dato separandosi da lui, per offrirlo ad Olimpia come simbolo della sua dedizione, della sua vita, che lei aveva fatto germogliare e fiorire. Lettere di Clara e di Lotario gli capitarono tra le mani nella sua ricerca, le scostò indifferente, trovò l'anello, lo mise in tasca e corse da Olimpia. Già sulle scale, sul pianerottolo sentì un chiasso insolito e strano, che sembrava arrivasse dallo studio del professore. Un pestare... Uno scricchiolare... Un dar colpi... Un battere contro la porta, frammisto a imprecazioni e bestemmie....
"Lascia andare!... Lascia andare!... Infame!... Scellerato!... Per questo devo averci messo anima e corpo?... Ah! Ah! Ah!... Non era questa la nostra scommessa!... Io, io ho fatto gli occhi!... Io, il congegno d'orologeria!... Povero scemo tu e il tuo congegno di orologeria! Maledetto cane di un volgarissimo orologiaio, levati dai piedi!... Satana!... Fermati!... Diabolica bestia!... Fermati!... Vattene!... Lascia andare!...".
Erano le voci di Spallanzani e dell'orrendo Coppelius, che in quel modo stridevano e infuriavano una contro l'altra. Preso da un'ansia senza nome, Natanaele si precipitò impetuosamente nella stanza. Il professore si era impadronito, stringendola per le spalle, di una figura femminile, mentre l'italiano Coppola la teneva fortemente per i piedi, e l'uno e l'altro la tiravano e la strascinavano qua e là, contendendosene al colmo dell'ira il possesso. Pieno di profondo terrore Natanaele fece un salto all'indietro quando vide che la figura di donna era Olimpia: in preda a un selvaggio fuoco d'ira, egli volle strappare l'amata ai due uomini infuriati, ma in quello stesso istante Coppola si girò e riuscì con gigantesca forza a rigirare tra le mani del professore la figura e a strappargliela via: poi con la figura stessa lo colpì in un modo così terribile, che egli barcollò all'indietro e cadde su un tavolo pieno di fiale, di alambicchi, di bottiglie e di recipienti cilindrici di vetro: tutte le suppellettili andarono con fracasso in mille pezzi. Intanto Coppola si era gettato sulle spalle la figura ed era corso via, facendo risuonare orribilmente la sua risata, scendeva veloce giù per le scale e i piedi della figura, che penzolavano raccapriccianti sugli scalini, facevano un rumore come di pezzi di legno.
Muto, irrigidito se ne stava in piedi Natanaele: troppo bene aveva visto che il viso di cera di Olimpia era diventato pallido come quello di un cadavere e non aveva più occhi: al loro posto due nere cavità. Essa era una bambola senza vita.
Spallanzani si rigirò sul pavimento: i frammenti di vetro avevano tagliuzzato la testa il petto e le braccia e il sangue usciva a fiotti come da getti di sorgente. Ma raccolse disperatamente tutte le sue forze: "Corrigli dietro, corrigli dietro!... Che cosa stai li ad aspettare! Coppelius, Coppelius mi ha rubato il mio più bell'automa!... Venti anni ci ho lavorato, ci ho messo anima e corpo... il congegno d'orologeria... la parola... il movimento... mio... gli occhi, gli occhi li ha rubati a te... Dannato, scellerato... Corrigli dietro!... Vammi a prendere Olimpia: qui!... Eccoti gli occhi!...".
Allora Natanaele si accorse che sul pavimento giacevano due occhi sanguinolenti, che lo fissarono. Spallanzani li afferrò con la mano ferita e glieli gettò addosso ed essi lo colpirono al petto.
Ed ecco che il delirio lo afferrò con crampi infuocati e penetrò in lui sconvolgendo intelligenza e sensi. "Oh! Oh! Oh! Cerchio di fuoco, cerchio di fuoco, muoviti in tondo. allegro, allegro! Su, pupa di legno, gira, gira pupa di legno!" disse e si gettò sul professore. Lo avrebbe strozzato, se il fracasso non avesse attirato molte persone che entrarono con impeto, strapparono via l'infuriato Natanaele, lo alzarono su, salvando così il professore, che venne subito legato.
Sigismondo, che pure era un giovane robusto, non riuscì a tenere a freno l'infuriato amico, che continuava a gridare: "Gira, gira, pupa di legno!" e andava sferrando colpi intorno a sé con i pugni stretti.
Alla fine le forze riunite di parecchie persone riuscirono ad avere il sopravvento su di lui: fu gettato a terra, legato. Le sue parole sfumarono in uno spaventoso bestiale muggito. E mentre smaniava in questo modo, assalito da una feroce, raccapricciante follia, fu portato al manicomio.
Prima di continuare, o benevolo lettore, il racconto di quanto successe in seguito all'infelice Natanaele, posso dirti, se mai tu prendi una qualche parte alla sorte dell'abile meccanico e costruttore di automi Spallanzani, che egli guarì completamente dalle sue ferite.
Fu obbligato a lasciare l'università, poiché la storia di Natanaele aveva suscitato un forte scalpore e l'opinione generale riteneva un imperdonabile inganno l'aver introdotto di contrabbando, con la frode, nei salotti dabbene (Olimpia li aveva frequentati con trasporto) invece di una persona viva una bambola di legno.
I giuristi lo definivano un inganno raffinato e tanto più difficile da punire, in quanto era stato rivolto contro l'intera società del posto e organizzato in modo tale che nessuno (se si eccettuano alcuni intelligentissimi studenti) se ne era accorto, nonostante che tutti ora rinsavissero e accennassero a una quantità di fatti che a loro erano sembrati sospetti. Questi ultimi tuttavia non portavano a nessun risultato concreto. Come poteva infatti sembrare sospetto a qualcuno il fatto che Olimpia, secondo la testimonianza di un elegante frequentatore di tè, avesse contro ogni abitudine e usanza più spesso starnutito che sbadigliato? L'elegante era del parere che si fosse trattato più che altro del sollevarsi che faceva il meccanismo nascosto, scricchiolando nell'interno in modo percepibile. Il professore di poesia e di eloquenza tirò una presa, richiuse con un colpetto la tabacchiera, si raschiò la gola e disse con solennità:
"Stimatissimi Signori e Signore, ma dunque loro non notano dove sta il veleno dell'argomento? Il tutto è un'allegoria, una metafora continuata! Loro mi capiscono benissimo! 'Sapienti sat!'".
Ma molti onorevolissimi signori non si accontentarono di questo. La storia dell'automa li aveva colpiti profondamente e nei loro animi si insinuò davvero un abominevole senso di sospetto e di sfiducia nei confronti di ogni figura umana. Per potere essere pienamente convinti di non amare una bambola di legno, ma una fanciulla viva, molti innamorati pretesero che l'amata cantasse e ballasse con vivacità, che ricamasse e lavorasse a maglia, mentre essi le leggevano qualcosa, che giocasse con il cagnolino, e via dicendo, ma soprattutto che non stesse solo ad ascoltare in silenzio, ma che parlasse e i suoi discorsi fossero una manifestazione del suo pensiero e del suo sentimento. Il legame d'amore di molti si fece attraverso questa esperienza più saldo e allo stesso tempo più divertente; al contrario altri si andarono a poco a poco separando. "Davvero non è possibile farsi garanti di nessuno" dicevano questo e quello. Ai tè si sbadigliava incredibilmente, ma non si starnutiva mai per non incorrere in sospetti.
Spallanzani, come è stato detto, dovette andarsene per sfuggire alla persecuzione giuridica, avendo con frode introdotto tra la società degli uomini un automa. Coppola era scomparso anche lui.
Natanaele si risvegliò, come se avesse dormito un profondissimo sogno spaventoso, aprì gli occhi e sentì che un indescrivibile sentimento di benessere gli penetrava nel corpo, con soave divino calore. Egli giaceva nella sua stanza, nella sua casa paterna. Clara era china su di lui e non lontano stavano in piedi la madre e Lotario.
"Finalmente, oh finalmente, mio caro, mio amato Natanaele! Ecco che tu sei guarito da una grave malattia e sei di nuovo mio!". Così disse con tutta la sua anima Clara e strinse a sé in un abbraccio Natanaele. A lui sgorgarono chiare, brucianti per la intensa commozione e per la gioia estasiata, le lacrime e a voce bassa e profonda disse in un lamento: "Clara! mia Clara!".
Sigismondo, rimasto vicino all'amico con fedele costanza nel momento del bisogno, entrò nella stanza. Natanaele gli porse la mano: "Tu non mi hai abbandonato fratello fedele!".
Ogni traccia del folle delirio era sparita e ben presto Natanaele ricuperò le sue forze, grazie alle assidue cure della madre, della fidanzata, degli amici. La gioia era tornata intanto a visitare la casa, poiché un vecchio zio avaro, da cui nessuno aveva mai sperato niente, era morto e aveva lasciato erede la mamma, di una non piccola sostanza e di un podere sito in una ridente contrada, non lontano dalla città.
Là erano appunto diretti Natanaele, sua madre, Clara, che egli aveva ora in animo di sposare, e Lotario. Natanaele era diventato mite e dolce come non mai e per la prima volta egli stava rendendosi conto della purezza e della bellezza celestiali dell'animo di Clara. Nessuno, neppure con il minimo accenno, gli ricordava il passato.
Solo quando Sigismondo prese congedo da lui, Natanaele gli disse: "Per Dio!, amico, io me ne andavo su una cattiva strada, ma un angelo mi ha riportato in tempo sul sentiero della luce. Oh! sì! Era Clara!...".
Sigismondo non lo lasciò continuare, per il timore che sopravvenissero in lui ricordi troppo vivi e troppo brucianti, ad agitare intimamente la sua anima.
Era dunque arrivato il tempo in cui queste quattro felici creature si dirigevano verso il piccolo podere. Era mezzogiorno ed essi passeggiavano per le strade della città. Avevano fatto molti acquisti:
la torre del municipio gettava sulla piazza del mercato una lunga ombra gigantesca. "Sentite!" disse Clara. "Saliamo su in cima e guardiamo tutto all'intorno fino ai monti lontani!". Detto fatto.
Tutti e due, Clara e Natanaele, salirono sulla torre: la madre andò a casa con la domestica, e Lotario, che non si sentiva disposto ad arrampicarsi per tanti gradini, disse che li avrebbe aspettati in basso.
I due innamorati se ne stettero a braccetto sul più alto ripiano della torre e guardarono giù, lontano, nella direzione delle foreste che sfumavano nella nebbia e dietro alle quali la catena montuosa si ergeva simile a una città di giganti. "Ma guarda dunque quel piccolo cespuglio dalla forma così strana, che sembra muovere incontro a noi a passo di marcia!" disse Clara. Natanaele con gesto meccanico, prese dal taschino il binocolo di Coppelius. Guardò di lato. Clara stava dritta davanti alla lente. Qualcosa, come un opprimente stringimento, lo prese ai polsi e si arrestò nelle vene: pallido, livido come un morto sbarrò gli occhi fissi sul viso di Clara, ma di colpo gli rotearono gli occhi e mandarono fiamme e piovvero correnti di fuoco, ruggì spaventevolmente, e fu il raccapricciante ruggito di una bestia che ha avvertito vicino a sé il fuoco. Saltò alto nell'aria, ridendo intanto orrendamente e gridando con voce tagliente: "Gira, gira, pupa di legno!", afferrò con forza strapotente Clara e volle scagliarla di sotto. Ma Clara in disperata ansia di morte si aggrappò saldamente al parapetto. Lotario sentì l'imperversante smaniare, sentì il grido d'angoscia di Clara, un orribile presentimento gli attraversò l'anima, salì di corsa la scala. La porta della seconda rampa di scale era chiusa. Più lacerante risuonò l'urlo di Clara. Pazzo d'ira e di paura, si scagliò contro la porta che alla fine cedette e si spalancò. Più lievi intanto si erano fatte e più stanche le grida di richiamo di Clara. "Aiuto! Aiuto! Salvatemi!" Moriva la voce nell'aria.
"E' perduta, assassinata da quel pazzo!" gridava Lotario. Anche la porta dell'ultimo ripiano era chiusa. La disperazione gli diede una forza da gigante; scardinò la porta. Buon Dio! Clara ondeggiava al di sopra del parapetto, stretta da Natanaele impazzito e con una sola mano si aggrappava ancora all'asta di ferro. Rapido come il lampo Lotario prese la sorella. La riportò a terra e nello stesso istante abbatté con un pugno sulla faccia Natanaele, che cadde, lasciando libera la sua preda mortale.
Lotario corse giù dalla torre, portando nelle braccia la sorella svenuta. Era salva.
Ora Natanaele smaniava solo nella galleria e faceva alti salti e gridava: "Gira, cerchio di fuoco!". Accorsero gli uomini, chiamati dal selvaggio urlìo: tra loro spiccava la gigantesca figura dell'avvocato Coppelius, che proprio in quel momento era giunto in città, e si era trovato a passare sulla piazza del mercato.
La gente voleva salire sulla torre per riportare alla calma il forsennato, ma Coppelius rise e disse: "Ah! Ah!, ma aspettate solo un momento: verrà giù lui da solo!". E come gli altri guardò in su.
Natanaele si fermò impietrito, si chinò verso la piazza, si accorse della presenza di Coppelius, e incominciò a gridare, che ne rimbombava l'aria tutt'intorno: "Eh! belli occhi, belli occhi!" e saltò al di là del parapetto.
Quando Natanaele, con la testa fracassata giacque sul selciato, Coppelius era sparito tra la folla.
Molti anni dopo, alcuni sostengono di avere visto Clara, le mani nelle mani di un simpatico tipo di uomo, seduta davanti a una bella villa, mentre intorno a lei giocavano due bambini.
Se ne dovrebbe dunque dedurre che Clara trovò ancora quella tranquilla gioia casalinga che si addiceva al suo carattere sereno e amante della vita, e che mai Natanaele, con il suo intimo squilibrio spirituale, avrebbe potuto essere per lei un buon compagno.
Non lontano dalle rive del Baltico sorge il castello ereditario della famiglia dei Baroni di R..., chiamato R... sitten.
La regione è selvaggia e deserta: spunta appena qua e là un ciuffo d'erba dal terreno formato da sabbie mobili e, al posto del parco, che in genere rallegra, circondandola, una signorile dimora, dalla parte di terra si chiude intorno ai nudi muri un bosco di pini dall'apparenza stentata, il cui eterno oscuro lutto sembra disprezzare il variopinto manto primaverile: non risuona in esso il cinguettio gaio degli uccellini, che si svegliano a nuova gioia, ma soltanto e sempre il funebre gracchiare dei corvi e lo squittìo stridente dei gabbiani che annunciano la tempesta.
A un quarto d'ora di distanza il paesaggio cambia completamente. Come per un tocco magico, il viaggiatore è trasportato in campi fiorenti, fra terreni coltivati e prati lussureggianti, e scorge il ricco e grande villaggio, con la spaziosa casa dell'ispettore aziendale.
Vicino a un piacevole boschetto di ontani si vedono le fondamenta di un grande castello, che uno degli antichi signori aveva intenzione di costruire.
I suoi successori ed eredi, che abitavano sempre nei propri possedimenti di Curlandia, lasciarono la costruzione interrotta e anche il barone Roderico di R..., che pure aveva di nuovo preso ad abitare nel castello ereditario, non ebbe nessun desiderio di continuare nella costruzione, poiché ben si addiceva al suo carattere tenebroso e misantropo il soggiorno nel vecchio castello solitario.
Fece restaurare come meglio si poteva la cadente costruzione e si rinchiuse là dentro in compagnia di un accigliato e melanconico intendente e di una servitù non numerosa. Al villaggio non lo vedevano che raramente, mentre invece passeggiava spesso o cavalcava in su e in giù sulla spiaggia del mare e qualcuno pretendeva di averlo visto da lontano parlare alle onde e ascoltare il rombo e il mormorio del riflusso, come se percepisse le voci di risposta dello spirito del mare.
In cima alla torre di guardia aveva fatto installare un osservatorio, provvisto di telescopi, anzi di un completo apparato astronomico. Da lassù osservava durante il giorno, fissando l'obbiettivo sul mare, le navi, che simili a uccelli marini dalle bianche ali passavano spesso volando sul lontano orizzonte. Lassù passava le notti chiare e stellate, facendo studi di astronomia o, come si pretendeva di sapere, di astrologia, nei quali lo assisteva sempre il vecchio intendente.
Finché fu in vita fu voce comune che si fosse dato alle scienze occulte, alla cosiddetta magia nera e che appunto un'operazione mancata, causa di grave dispiacere a una famiglia principesca, lo avesse cacciato di Curlandia. Il più piccolo accenno al suo soggiorno laggiù lo riempiva di terrore: ma di tutto quello che era accaduto e aveva distrutto la sua vita, egli riteneva colpevoli i suoi avi e solo loro, che avevano abbandonato il castello, culla della loro razza. Per vincolare saldamente, almeno per il futuro, il capo della casa al luogo d'origine, destinò questo ad essere bene di maggiorasco.
Il sovrano diede tanto più volentieri il suo consenso, in quanto il paese si trovava così a riavere una famiglia ricca di virtù cavalleresche, della quale alcuni rami si erano già trapiantati all'estero.
Tuttavia né il figlio di Roderico, Uberto, né l'attuale Signore, chiamato Roderico come il nonno, abitavano volentieri al castello e tutti e due se ne restavano in Curlandia. Si poteva dedurre che, di animo più allegro e amante della vita brillante di quanto non lo fosse stato il loro tenebroso antenato, avessero in antipatia la raccapricciante solitudine di quel soggiorno.
Il barone Roderico aveva concesso a due vecchie sorelle di suo padre, zitelle, che con la loro magra rendita vivevano poveramente, di abitare e di vivere sul fondo. Esse avevano fissato la loro dimora, in compagnia di una vecchia cameriera, nelle piccole e calde stanze del corpo laterale del castello, e oltre a loro e al cuoco, che occupava un grande locale al pianterreno vicino alla cucina, ormai non si aggirava nelle sale e nelle alte stanze del corpo centrale che un vecchio cacciatore, che provvedeva anche al servizio personale del castellano. Il resto della servitù abitava al villaggio, presso l'ispettore.
Solo in autunno inoltrato, quando cominciava a cadere la prima neve e avevano inizio le cacce al lupo e al cinghiale, il deserto e abbandonato castello ritornava a vivere.
Arrivava allora dalla Curlandia il barone Roderico con la sua sposa, accompagnato da parenti e amici e da un ricco seguito di cacciatori.
La nobiltà dei dintorni e anche amici della città vicina, amanti della caccia, si ritrovavano qui, così che a fatica l'edificio centrale e le ali riuscivano ad accogliere la fiumana degli ospiti. In tutte le stufe e in tutti i camini cigolavano fiammate ben nutrite e attizzate, dall'alba fino a notte scricchiolavano gli spiedi, volavano su e giù per le scale cento allegre persone, signori e servi, lontano risuonavano tintinnio di boccali e allegre canzoni di caccia, vicino si sentiva il passo cadenzato delle coppie che ballavano seguendo la rumorosa musica; dovunque gioioso frastuono e risate. Tanto che durante quattro o cinque settimane il castello somigliava più a un lussuoso albergo, posto su una strada maestra molto frequentata, che alla casa di un nobile Signore.
Il barone Roderico occupava il suo tempo in seri affari nella misura in cui questo era possibile, compiendo i suoi doveri di feudatario, in disparte dalla vorticosa vita dei suoi ospiti. E mentre si faceva rendere esatto conto dei proventi delle sue rendite, ascoltava ogni proposta di qualsiasi miglioramento e le piccole liti fra sottoposti, sforzandosi di portare dovunque l'ordine, di eliminare ogni ingiustizia o illegalità per quanto gli fosse possibile. Lo assisteva con onestà in queste funzioni il vecchio avvocato V., procuratore e notaio, per eredità trasmessa di padre in figlio, della Casa di R... e giustiziere dei beni terrieri della regione di P... Otto giorni prima del prefissato arrivo del barone l'avvocato V. era solito andare a R...sitten. Anche nell'anno 179... era venuto il tempo in cui il vecchio V. avrebbe dovuto partire per il castello di R...
Per quanto il settantenne vegliardo si sentisse ancora pieno di vita e di forza, doveva pur tuttavia pensare che l'aiuto di qualcuno nel disbrigo degli affari gli avrebbe fatto comodo.
Fu così che in tono di scherzo mi disse un giorno:
"Cugino! (Aveva l'abitudine di chiamarmi così - benché in realtà io fossi un suo bisnipote - per il fatto che portavo il suo stesso nome). Sai che cosa pensavo? Se tu ti facessi fischiare una volta un po' di vento di mare nelle orecchie e venissi con me al Castello di R...? Tanto più che tu sei in grado di assistermi validamente nel mio lavoro a volte pesante e potresti anche cimentarti una buona volta con la selvaggia vita del cacciatore. E provare che sai passare le tue mattinate a portare a termine un ornato protocollo e sai poi guardare fisso negli occhi scintillanti anche l'altro ostinato animale, si tratti di un peloso raccapricciante lupo o di uno zannuto cinghiale, e forse, chi sa, ammazzarlo con un buon colpo di fucile".
Troppe cose meravigliose avevo sentito sull'allegra stagione delle caccie a R...sitten, ero troppo affezionato con tutta l'anima al mio vecchio e delizioso prozio, per non essere ben contento che egli volesse portarmi con sé questa volta. Già abbastanza esercitato a sbrigare il genere d'affari che diceva lui, promisi di liberarlo con valorosa diligenza da ogni fatica e da ogni preoccupazione.
Il giorno seguente, avvolti in buone pellicce, sedevamo in carrozza in viaggio verso R...sitten, avanzando attraverso una fitta tempesta di neve, annunciatrice del vicino inverno.
Durante il viaggio lo zio mi raccontò molte strane cose riguardo all barone Roderico, fondatore del maggiorasco, che, senza tener conto della sua giovanissima età, lo aveva nominato giustiziere e suo esecutore testamentario. Parlò del carattere selvaggio e violento del vecchio barone, che tutti i membri della famiglia sembravano avere ereditato, tanto che l'attuale signore del maggiorasco, conosciuto da lui come un giovanetto di animo dolce, anzi quasi debole, si andava facendo di anno in anno sempre più violento e selvaggio, come se fosse a sua volta preso da quella eredità. Mi consigliò di comportarmi in modo franco e disinvolto, se volevo acquistare la stima del barone, e arrivò infine a parlarmi dell'abitazione, che una volta per tutte egli si era scelto al castello in vista dei suoi soggiorni, perché calda, comoda e posta in disparte. così che, non appena l'avessimo voluto, avremmo potuto sfuggire al folle frastuono della spensierata società degli ospiti. Nell'ala laterale del castello erano pronte per lui ogni volta due camerette, addobbate con caldi tappeti, proprio vicino alla grande Sala di Giustizia. Di fronte, nel lato opposto, abitavano le due vecchie baronesse.
Finalmente, dopo un viaggio rapido ma disastroso, arrivammo a notte tarda a R. Attraversammo il villaggio: era per l'appunto domenica e la casa dell'ispettore del feudo era illuminata da cima a fondo e risuonava di un'allegra musica da ballo. Anche nel paese musica e canzoni. Tanto più raccapricciante fu la solitudine deserta, in mezzo alla quale proseguimmo il nostro cammino. Il vento del nord ululava sopra le nostre teste in tono tagliente di lamento e come se li avesse svegliati dal profondo sonno di un incantesimo, lo seguivano gemendo i pini, piegati nella tempesta, in sordo urlìo lamentoso.
Dalla superficie bianca del terreno si alzavano le mura nere e squallide del castello: ci fermammo davanti alla porta sbarrata, ma a niente servì che noi gridassimo, che il cocchiere schioccasse la frusta e martellasse la porta di colpi ripetuti: nessuna luce appariva alle finestre.
Il mio vecchio zio fece allora sentire la sua forte voce rimbombante:
"Francesco! Francesco! Ma dove vi siete cacciato? Al diavolo! Ma muovetevi! Stiamo gelando qui davanti a questa porta! Che diavolo, muovetevi!".
Un cane si mise a uggiolare, apparve in una bassa sala una luce incerta e vacillante, che attraversò molte finestre: si fece sentire un rumore di chiavi e le pesanti porte cigolarono sui loro cardini.
"Oh! siate il benvenuto, mille volte il benvenuto, signor Giustiziere! Ma che ne dite, ecco un tempo abbastanza triste!".
Cosi parlò il vecchio Francesco, sollevando la lanterna, in modo che tutta la luce cadesse sul suo viso rugoso, al quale si sforzava di dare un'espressione gioviale.
La vettura entrò nel cortile, scendemmo e io vidi allora distintamente la figura del vecchio servitore, sepolto in una larga livrea alla moda antica, stranamente guarnita da galloni intrecciati. Due riccioli grigi scendevano su una fronte larga e bassa, mentre la parte inferiore del viso aveva il sano colore abbronzato del cacciatore e ad onta dei muscoli del viso, che stranamente stirati formavano una maschera bizzarra, un'espressione di bonomia un po' ingenua e melensa appariva nei suoi occhi e si rivelava soprattutto nella bocca, a salvare tutto il resto.
"E così, mio vecchio Francesco, - disse mio zio scuotendo sul pavimento della grande sala la neve che copriva la sua pelliccia- e così è tutto pronto? Le tappezzerie della mia stanza sono state spazzolate a dovere, i letti sono stati montati, avete scopato e pulito con ogni cura ieri e oggi?".
"No, signor Giustiziere, - rispose Francesco con molta calma, no, tutto questo non è stato fatto".
"Oh! Signore Iddio! - esclamò il prozio. - Eppure ho ben scritto a tempo e arrivo proprio alla data fissata! Sono sicuro che le camere sono fredde gelate!".
"Si, signor Giustiziere! - riprese Francesco, occupato a tagliare accuratamente con l'aiuto di una forbice un enorme lucignolo, che si era formato all'estremità della candela e schiacciandolo poi sotto i piedi. - Vedete: avremmo perso inutilmente il nostro tempo a scaldarle e a che cosa ci sarebbe servito, dal momento che il vento e la neve entrano trionfalmente attraverso i vetri rotti, e che...".
"Cosa?! - esclamò mio zio interrompendolo e aprendo a metà la pelliccia per incrociare meglio le braccia - Cosa? I vetri delle finestre sono rotti e voi, l'intendente della casa, non li avete fatti riparare?".
"No, signor Giustiziere, - continuò il vecchio con la stessa calma - perché non è tanto facile entrare, a causa dei rottami e delle pietre che sono nelle camere".
"Come??! Per mille milioni di diavoli, ma come succede che nella mia camera ci sono pietre e calcinacci?" gridò mio zio.
"Che tutti i vostri desideri siano esauditi, mio giovane signore! - esclamò Francesco, inchinandosi cortesemente mentre io starnutivo, e subito aggiunse: - Si tratta delle pietre e del gesso del muro maestro, caduto nella grande scossa".
"Insomma avete avuto un terremoto?" gridò mio zio irritato.
"Oh no, signor Giustiziere, - riprese il vecchio sorridendo con tutto il volto - ma tre giorni fa è crollata con rumore spaventoso, la volta della Sala delle Udienze".
"Che il diavolo si porti allo stesso modo...". Violento e irritabile per natura, mio zio stava per lasciarsi sfuggire una grossa bestemmia, ma sollevando con la mano destra il berretto di volpe, si trattenne e scoppiando a ridere si rivolse a me:
"Davvero è meglio che non facciamo più domande, per non correre il rischio di venire a sapere tra poco qualcosa di ben peggio o addirittura di sentirci crollare addosso l'intero castello!". "Ma - continuò, rivolgendosi ora al servitore - ma, Francesco, non potevate essere tanto accorto da farmi preparare e scaldare un altro appartamento? Non potevate mettere su in fretta una sala per le Udienze?".
"Tutto questo è stato fatto" - disse il vecchio Francesco, accennando amichevolmente alla scala e cominciando a salire i gradini.
"Ma guardate un po' questo bel tipo!" esclamò mio zio, incamminandosi dietro a lui.
Ce ne andammo attraverso lunghi e alti corridoi a volta; la luce oscillante di Francesco gettava nella spessa tenebra uno strano chiarore. Spesso apparivano, come ondeggianti nell'aria, colonne, capitelli e archi dipinti con vari colori; gigantesche passavano accanto a noi le nostre ombre e i curiosi quadri alle pareti, sulla superficie dei quali esse scivolavano, sembravano tremare e venir meno, mentre le loro voci sussurravano nell'eco minacciosa dei nostri passi: "Non ci svegliate, non ci svegliate! Non svegliate il folle popolo dell'incantesimo, che qui dorme nelle vecchie pietre!...". Alla fine, dopo aver attraversato una serie di gelide e oscure stanze, Francesco aprì la porta di una sala in cui la fiamma che si alzava dal camino ci salutò con il suo crepitare familiare.
Subito mi sentii a mio agio, ma lo zio si fermò nel centro della sala, si guardò intorno e disse con un che di grave e quasi di solenne nella voce:
"E' qui dunque che sarà resa giustizia?".
Francesco, alzando alta la sua fiaccola in modo da rischiarare un candido spazio di muro, dove un tempo senza dubbio c'era stata una porta, disse con voce opaca e dolorosa:
"E' già stata resa giustizia qui!".
"Ma che cosa vi viene in mente, vecchio?" esclamò mio zio, sbarazzandosi della pelliccia e avvicinandosi al fuoco.
"M'è venuto senza pensarci," disse Francesco: accese qualche candela e aprì la porta della stanza vicina, che aveva preparato per riceverci.
In pochi istanti una tavola servita stava davanti al camino: il vecchio servitore portò vivande ben cucinate, alle quali facemmo onore, e una grande tazza di punch, preparato nella classica maniera del Nord.
Mio zio, stanco del viaggio, se ne andò a letto non appena finita la cena. La novità, la singolarità del luogo, lo stesso punch, avevano troppo eccitato il mio spirito, perché io potessi pensare a dormire. Francesco sparecchiò la tavola, ravvivò il fuoco e mi lasciò solo, inchinandosi cordialmente.
Ed ecco che io sedevo ora solitario nell'alta e vasta sala.
La neve aveva smesso di cadere, la tempesta di muggire e il disco della luna brillava attraverso le larghe bifore, in tutti gli angoli della strana costruzione in cui non giungeva il chiarore della mia candela e della fiamma del camino, a rischiararli magicamente. I muri e il soffitto, come spesso nei vecchi castelli, erano decorati al modo antico con pitture fantastiche e dorati arabeschi. Nel centro di enormi quadri di cacce al lupo e all'orso, avanzavano in rilievo figure di uomini e di animali, scolpite nel legno e dipinte a vari colori, alle quali l'incerto tremolante chiarore della fiamma e la luce lunare conferivano una strana verità. Tra un quadro e l'altro erano stati sistemati ritratti in grandezza naturale di antichi baroni in costume da caccia. Tutto aveva l'uniforme tinta scura che dà il tempo; così che più bianco e più nudo ne risultava lo spazio tra le due porte, che portavano alle stanze attigue. Realizzai ben presto che anche in quel punto aveva dovuto esserci in passato una porta poi murata e che per questo quel muro fresco e non ancora dipinto né ornato da intagli risaltava così.
Chi non sa con quanta misteriosa forza un soggiorno in luogo insolito e avventuroso sia capace di afferrare il nostro spirito, quando anche la più passiva delle fantasie si sveglia... in una valle chiusa fra strane pareti di roccia... fra le tenebrose mura di una chiesa..., e ha il presentimento di qualcosa mai sperimentato altrimenti? Aggiungo che avevo appena vent'anni e avevo bevuto svariati bicchieri di buon punch: nessuno faticherà a credere che molto strana e nuova era la disposizione del mio animo quella sera nella grande sala dei Baroni. Sarà bene immaginarsi anche il quieto silenzio della notte, nel quale, simili alle note di un potente organo suonato dagli spiriti, risuonavano il sordo mormorio del mare e il bizzarro sibilo del vento notturno... le nuvole che passavano, che spesso chiare e scintillanti assomigliavano a giganti che passassero strisciando a spiare attraverso le scricchiolanti finestre ad arco acuto... Insomma, io dovetti in realtà sentire nel leggero brivido che mi scosse tutto, che un mondo ignoto e straniero stava ora per nascere visibile e percepibile ai sensi. Ma questo senso era simile a quel gelo sottile, che ci prende nel leggere un racconto di fantasmi scritto con forza vivace e che si prova con tanto piacere.
Mi venne in mente allora che non avrei potuto trovare disposizione migliore per leggere il libro che io, come chiunque altro a quel tempo che fosse in qualche modo affezionato al Romantico, portavo in tasca. Si trattava del "Visionario" di Schiller. Lessi e rilessi e mi scaldai sempre più la fantasia. Giunsi al punto, che colpisce il lettore con potentissimo fascino, della festa di nozze nella casa del Conte di V... Proprio nel momento in cui fa il suo ingresso l'insanguinata figura di Jeronimo, la porta che dava sull'anticamera si spalancò con un colpo violento. Saltai in piedi spaventato e il libro mi cadde a terra dalle mani. Ma ecco che nello stesso istante tutto ritorna tranquillo e io mi vergogno del mio infantile terrore!
"Può darsi che sia stato il vento a sbattere quella porta... non è niente, meno che niente. La mia surriscaldata fantasia trasforma ogni apparizione naturale in fantomatica". Così tranquillizzato, riprendo il mio libro da terra e mi sistemo di nuovo nella poltrona.
Ecco che qualcuno avanza lentamente, attraversa la sala a passi leggeri e misurati e intanto sospira e ansima e in questo sospiro, in questo ansimare c'è l'espressione della più profonda sofferenza umana, del più sconfortato cordoglio...
"Ah! ma forse è una bestia malata e rimasta chiusa dentro al piano inferiore. E' noto del resto che la notte produce simili inganni acustici, avvicinando ogni suono lontano... non è il caso di lasciarsi scuotere da un tale raccapricciante effetto...".
Mi calmo di nuovo con questi ragionamenti: ma ora qualcuno gratta, mentre si sentono sospiri più forti, più profondi, come emessi nello spaventevole terrore dell'ansia di morte, laggiù, vicino a quel muro recente.
"Sì, sì, è una povera bestia rimasta chiusa dentro: adesso mi metto a chiamare forte, a pestare in modo adatto il piede sul pavimento e subito tutto tornerà nel silenzio oppure l'animale si farà sentire da sotto con il verso che è proprio alla sua specie".
Così penso, ma il sangue mi si rapprende nelle vene, un freddo sudore si sparge sulla mia fronte, rimango irrigidito nella poltrona incapace di alzarmi e ancora meno di emettere un suono. Finalmente il sinistro grattare ha fine... si fanno sentire di nuovo i passi... Ho l'impressione che la vita si risvegli in me, mi alzo, avanzo due o tre passi ed ecco che una corrente di aria gelida s'infiltra e attraversa la sala e nello stesso istante la luna getta la sua chiara luce sulla figura di un uomo pesante e quasi orribile di aspetto e, come se la sua voce ammonitrice mormorasse attraverso lo strepito più forte delle onde del mare e il più rintronante ululare del vento notturno, sento chiaramente queste parole:
"Non un passo più in là, non un passo più in là o cadrai nello spaventoso orrore del mondo dei morti!".
La porta si richiude con lo stesso violento colpo di prima. Ascolto distintamente i passi nell'anticamera... qualcuno scende le scale... la grande porta del Castello viene aperta con fracasso e poi richiusa... sembra che qualcuno faccia uscire un cavallo dalla scuderia e dopo un breve intervallo ve lo riporti di nuovo... poi tutto si fa tranquillo!...
Nello stesso istante sentii mio zio agitarsi nella stanza accanto, sospirare e lamentarsi paurosamente, il che mi ridiede tutta la mia presenza di spirito e afferrato il candeliere mi affrettai ad accorrere presso di lui.
Sembrava che il vecchio lottasse con un brutto sogno: "Si svegli! Si svegli!" gridai, a voce alta, mentre lo scuotevo dolcemente per una mano e facevo cadere tutta la luce del candeliere sul suo viso. Mio zio si svegliò con un grido sordo, aprì gli occhi e mi guardò con amichevole affettuosa espressione:
"Hai fatto bene, cugino, a svegliarmi! Eh! sì! avevo un brutto sogno - disse - e la colpa è semplicemente di queste stanze e della sala, che mi costringono a pensare al tempo passato e a molte cose strane che vi sono accadute. Ma adesso vogliamo proprio addormentarci e dormire bene".
Così dicendo il vecchio si rificcò sotto le coperte e sembrò addormentarsi di colpo.
Quando ebbi spento le candele e fui nel mio letto, sentii che egli pregava a bassa voce.
Il giorno dopo iniziò il lavoro.
L'ispettore del feudo venne con i suoi conti e arrivarono tutti quelli che dovevano discutere qualche lite o qualche questione da regolare.
Nel pomeriggio lo zio andò, portandomi con sé, a presentare i suoi omaggi nelle dovute forme alle vecchie baronesse nella loro abitazione. Francesco ci annunciò, aspettammo alcuni istanti e una nonnina sessantenne curva, vestita di seta colorata, che si dava il titolo di dama di compagnia delle Loro Grazie, ci introdusse nel santuario. Qui fummo ricevuti con il più comico e stravagante dei cerimoniali dalle vecchie dame, mascherate secondo la più tramontata e bizzarra moda: io eccitai in modo del tutto particolare la loro stupita ammirazione, quando mio zio mi ebbe presentato con molto umorismo come un avvocato venuto ad assisterlo. Lessi allora in modo molto esplicito sui loro volti che esse ritenevano la mia giovane età causa di grave danno ai dipendenti e alle cose della Casa di R...
In complesso tutta la visita alle due vecchie Signore ebbe in sé qualcosa di ridicolo, ma i brividi della passata notte serpeggiavano ancora gelati dentro di me, mi sentivo come sconvolto da un ignoto potere o piuttosto era come se avessi ormai sfiorato il cerchio, per oltrepassare il quale e precipitare nell'abisso bastava soltanto un passo, come se il chiamare a raccolta tutte le mie intime energie potesse proteggermi dal terrore, che può degenerare in insanabile follia. Fu così che anche le vecchie baronesse con le loro acconciature strane e alte come torri, con i loro vestiti di stoffa bizzarra, inghirlandati di variopinti fiori e nastri, invece di sembrarmi ridicole, mi sembrarono paurose e simili a fantasmi. Mi costrinsi a leggere nei loro volti gialli e avvizziti, nei loro occhi infossati e scintillanti, ad ascoltare nel cattivo francese che veniva fuori russando dalle punte aguzze dei loro nasi, che le vecchie vivevano almeno in buona armonia con l'indefinibile essere vagante simile a spettro nel castello, e che forse esse stesse si davano a pratiche misteriose e terrificanti.
Il mio prozio, sempre gioviale e disposto allo scherzo, impigliò le vecchie con la sua ironia in una conversazione talmente complicata, che in altre condizioni di spirito non avrei saputo come trattenere le risate che mi salivano prorompenti. Ma come ho detto le baronesse erano e restavano sinistramente spettrali e lo zio, che aveva avuto l'intenzione di procurarmi uno spasso speciale, mi lanciava spesso occhiate stupite. Quando ci ritrovammo finalmente soli a tavola nelle nostre stanze, egli scoppiò a dire:
"Ma in nome del cielo, cugino, dimmi una buona volta che cosa ti prende? Non ridi, non parli, non mangi, non bevi!... Stai male o che cosa ti succede?... o ti manca qualcosa?...".
Non esitai allora a raccontargli per filo e per segno tutto quello che di orribile e di spaventoso avevo visto e sentito nella notte precedente. Non omisi niente, neppure, soprattutto, che avevo bevuto molto punch e letto il "Visionario" di Schiller.
"Penso insomma - aggiunsi - perché soltanto così la cosa diventa credibile, che la mia fantasia surriscaldata si sia messa al lavoro per crearmi tutte queste apparizioni, esistenti solo tra le pareti del mio cervello".
Credevo che a questo punto lo zio si sarebbe abbandonato a una serie di pazze e punzecchianti canzonature a proposito dei miei spettri, ma egli diventò molto serio, fissò gli occhi a terra, sollevando poi la testa al soffitto con rapida mossa e disse, guardandomi con l'acceso sguardo dei suoi occhi:
"Non conosco il tuo libro, cugino! ma non ad esso né allo spirito del punch tu devi quell'apparizione spettrale. Sappi che io ho sognato quello che ti è successo. Come te ero seduto (in sogno, si capisce...) nella poltrona vicino al camino, ma quello che si è fatto conoscere da te attraverso suoni, tutto questo io l'ho visto, percependolo con l'occhio interiore. Sì, io vidi il mostro ripugnante entrare e strisciare come privo di forze fino alla porta murata, grattare nella sua disperazione senza conforto la parete, tanto che il sangue sprizzò da sotto le unghie spezzate, scendere poi, far uscire dalla stalla un cavallo e riportarvelo. Hai sentito tu il gallo che cantava in un lontano cortile del villaggio? In quel momento tu mi hai svegliato e io ho potuto opporre resistenza al malvagio fantasma del mostruoso uomo, che vorrebbe ancora orrendamente guastare la serenità della vita".
Il vecchio si fermò e io non volli interrogarlo ancora, ben sapendo che mi avrebbe detto tutto, quando lo avesse ritenuto opportuno.
Dopo un attimo di silenzio, durante il quale egli rimase tutto raccolto in riflessione profonda, il vecchio continuò:
"Cugino, hai abbastanza coraggio per affrontare stanotte con me ancora una volta quella apparizione?".
Naturalmente lo assicurai che mi sentivo già completamente rinvigorito, e pronto.
"Allora - continuò - la prossima notte veglieremo insieme. Una voce in me mi dice che non tanto la potenza del mio spirito, quanto il mio coraggio, fondato su una incrollabile fiducia, deve togliere forza al cattivo spirito e che non un'impresa delittuosa, ma una pia e valorosa azione è scacciare, rischiando la vita, il mostro malvagio che vuole allontanare i figli dalla casa ereditaria dei padri. Ma no, neppure di rischio è il caso di parlare, poiché con un'intenzione così salda e giusta, con una fiducia così pia, un uomo è e resta eroe vittorioso... E tuttavia dovesse la volontà del Signore lasciarmi oltraggiare dalla potenza del male, annuncerai tu, cugino, che io ho dovuto soccombere in una lotta onesta e cristiana contro un'anima infernale, che qui si aggira con la sua distruttrice natura. Quanto a te: tieniti lontano: a te non può succedere nulla!".
Il giorno era passato tra svariate occupazioni che ci avevano distratto, ed era arrivata la sera.
Francesco aveva preparato la cena come il giorno prima e ci aveva portato il punch: la luna piena brillava tra le nuvole scintillanti, le onde del mare rumoreggiavano e il vento della notte ululava e scuoteva i vetri delle bifore.
Costringevamo noi stessi, benché agitati nel più intimo, a conversare di cose indifferenti. Lo zio aveva messo sulla tavola il suo orologio. Suonò mezzanotte. Con fracasso pauroso si spalancò la porta e come la notte prima si avanzarono leggeri e lenti i passi, quasi sfiorassero appena il suolo, attraverso la sala. Si sentì l'ansare e il sospirare.
Il vecchio era impallidito, ma gli occhi brillavano di insolito fuoco; si alzò dalla poltrona, si raddrizzò in tutta la sua alta statura, il braccio sinistro appoggiato alla persona e il destro steso davanti a sé verso il centro della sala e così rimase, simile nell'aspetto a un eroe che comanda.
Intanto i gemiti e i sospiri erano venuti aumentando di intensità ed erano sempre più chiaramente percepibili; qualcuno incominciava ora a grattare qua e là vicino alla porta in modo ancora più ripugnante e orribile della notte precedente.
Il vecchio allora mosse dritto verso la porta murata a passi fermi, così che ne rintronò il pavimento. E là, proprio nel punto in cui con sempre più folle e veemente violenza qualcuno grattava, si fermò, calmo, e disse con voce forte e solenne, come io mai gli avevo sentito:
"Daniele! Daniele! Che cosa fai qui a quest'ora?".
Un grido raccapricciante, orrendo, si alzò e qualcosa cadde con un tonfo sordo, simile a quello di un fardello lasciato cadere in terra.
"Cerca grazia e misericordia davanti al trono dell'Altissimo: è là, il tuo posto! Esci dalla vita, alla quale mai più puoi appartenere!".
Così gridò il vecchio con voce ancora più potente e fu come se un gemito leggero passasse per l'aria e morisse nel mormorio della tempesta che si andava alzando.
Mio zio si avvicinò alla porta della sala e la richiuse sbattendola con tanto fracasso che tutta l'anticamera deserta ne rimandò l'eco.
Nella sua parola, nei suoi gesti rimase qualcosa di soprannaturale, che mi riempì di un tremito profondo.
Quando tornò a sedersi nella sua poltrona il suo sguardo sembrava trasfigurato; congiunse le mani e pregò internamente.
Potevano essere passati così alcuni minuti ed ecco che con quella sua voce piana, che egli sapeva così bene far penetrare nel cuore, mi interrogò:
"E così, cugino?".
Sconvolto dal raccapriccio, dal terrore, dalla paura, da un sacro senso di timoroso rispetto e dall'amore, caddi in ginocchio e bagnai di lacrime cocenti la mano che mi tendeva.
Il vecchio mi abbracciò e stringendomi affettuosamente a sé, mi disse con tenerezza:
"E adesso andiamo tranquilli al santo riposo, cugino caro!".
E fu proprio così. E poiché nella notte successiva e in quelle che seguirono non successe niente di straordinario, ritrovammo la serenità di un tempo a tutto vantaggio delle vecchie baronesse, che, rimanendo in realtà alquanto spettrali, con la loro bizzarra personalità evocavano ormai solo più uno spettro divertente, che il vecchio prozio sapeva eccitare nel modo più buffo. Finalmente, erano passati diversi giorni, arrivò il barone con la sua consorte e un numeroso seguito di cacciatori: gli ospiti invitati si riunirono e si iniziò nel castello, divenuto di colpo vivente, la rumorosa e selvaggia agitazione, descritta più sopra.
Entrando, subito dopo il suo arrivo, nelle nostre stanze, il barone sembrò stranamente sorpreso del nostro cambiamento di residenza, lanciò una fosca occhiata alla porta murata e si passò la mano sulla fronte, come se volesse scacciarne un brutto ricordo.
Il prozio parlò del crollo della sala d'udienza e il barone deplorò che Francesco non ci avesse sistemati meglio e con molta bontà invitò il vecchio avvocato a farsi dare tutto quello che avrebbe potuto contribuire al suo benessere nel nuovo alloggio, troppo inferiore al suo abituale. Il comportamento del barone nei riguardi di mio zio non era soltanto cordiale, ma aveva anche un certo rispetto filiale, come se gli fosse legato da vincoli di parentela.
Ma fu questa l'unica cosa che mi piacque in lui e nel suo carattere aspro e imperioso, che si sviluppava sempre di più. Prestò una scarsa o addirittura nessuna attenzione a me, considerandomi alla stregua di un semplice scrivano. La prima volta che redassi un atto, volle a tutti i costi trovarlo concepito in termini non esatti: il sangue mi ribollì e fui sul punto di rispondergli in tono tagliente, quando mio zio, prendendo la parola, assicurò che tutto quello che io facevo era a suo parere fatto bene e che nell'atto tutto era in perfetta regola.
Quando fummo soli mi lamentai vivacemente del barone, il cui modo di fare mi stava diventando sempre più insopportabile.
"Credi a me, cugino - mi rispose - nonostante le sue maniere non troppo cordiali, il barone è il migliore degli uomini: quel suo modo di fare del resto gli è venuto, come ti ho già detto, da quando è diventato signore del maggiorasco: prima era un ragazzo di carattere dolce e modesto. E in fondo io non trovo poi che sia così rude come lo dipingi tu e mi piacerebbe proprio sapere perché ti è tanto antipatico".
Dicendo queste ultime parole mio zio sorrise con tanta sottile ironia, che il sangue mi salì caldo alla testa.
Come non potevo sentire, esaminando chiaramente me stesso, che questo mio strano odio veniva dall'amore o piuttosto dal fatto che mi stavo innamorando della più attraente creatura che avessi mai incontrato sulla terra? Ed era, questa creatura, la baronessa stessa.
Dal momento del suo arrivo, da quando aveva attraversato le stanze avvolta in una pelliccia di martora russa, che le aderiva perfettamente alla bella persona, la testa coperta da un ricco velo, la sua apparizione aveva agito su di me come un potente irresistibile incantesimo.
La presenza stessa delle due vecchie zie, vestite in modo più stravagante che mai con grandi nodi di nastro alla Fontange nei capelli, che le stavano ai lati saltellando e snocciolavano i loro complimenti francesi di benvenuto, mentre lei, la baronessa, guardava intorno a sé con sguardo indescrivibilmente dolce e salutava chinando affettuosamente la testa ora questo ora quello, pronunciando con la sua voce flautata frasi nel suo puro dialetto di Curlandia, interrotte qua e là da parole tedesche, tutto insomma dava alla sua apparizione un che di ancor più meravigliosamente esotico. Senza volerlo la fantasia riandava all'immagine dell'informe spettro e faceva della baronessa l'angelo della luce, davanti al quale si inchinavano le potenze oscure del male.
La meravigliosa donna mi appare ancora agli occhi dello spirito.
Poteva allora avere appena diciannove anni: il viso, delicato come la figura, aveva l'espressione della più angelica bontà: ma soprattutto nello sguardo dei suoi occhi neri stava un fascino indescrivibile: in quell'ondeggiare, simile a un raggio umido di luna, di un doloroso desiderio nostalgico, e nel cielo di delizia e di rapita estasi del suo purissimo sorriso.
Spesso era come perduta in se stessa e in quegli istanti nubi scure passavano sui suoi tratti sereni. Si sarebbe potuto credere che la angustiasse un conturbante dolore, ma io sentivo che l'afferrava allora il presentimento di un oscuro avvenire pieno di sventure e, senza sapermi spiegare chiaramente il perché, lo mettevo in relazione con il fantasma del castello. Il giorno che seguì l'arrivo del barone, la società si trovò riunita per la colazione; mio zio mi presentò alla baronessa e io, come succede comunemente in una condizione di spirito simile alla mia, mi comportai nel modo più goffo, confondendomi, alle domande della gentilissima donna (come mi trovassi al castello e così via) nei più assurdamente stupidi discorsi, tanto che le vecchie zie attribuirono molto legittimamente il mio turbamento al profondo rispetto per la Castellana e credettero bene di prendermi sotto la loro protezione, lodandomi in francese come giovanotto intelligente e di modi cortesi e "très joli garçon". Il che mi irritò e mi restituì la padronanza di me stesso, cosicché in un francese migliore che non lo fosse quello delle due vecchie mi scappò detto una spiritosaggine:
spalancando gli occhi, le zie mi guardarono, riempiendosi poi accuratamente il naso di tabacco, ma allo sguardo, divenuto improvvisamente serio, con il quale la baronessa si volse da me ad una signora, capii che la mia spiritosaggine aveva sfiorato la pazzia. E questo mi irritò più che mai e desiderai di vedere le due vecchie sprofondare negli abissi infernali.
Il tempo dei languori pastorali, dell'amorosa infelicità, di infantili autoillusioni era passato da tempo per me, cacciato dall'ironia dello zio; e realizzai subito che la baronessa mi era entrata nell'anima, come mai nessuna donna prima di allora. Non vedevo, non sentivo che lei e tuttavia ero perfettamente conscio dell'enorme sciocchezza, anzi della follia di osare un flirt e al tempo stesso dell'impossibilità di starmene in estasi e in adorazione lontana come un ragazzo innamorato, cosa di cui mi sarei profondamente vergognato. Avvicinare l'affascinante signora, senza lasciarle indovinare niente del mio intimo stato d'animo, aspirare il dolce veleno dei suoi sguardi e delle sue parole e poi, lontano da lei, portarla in cuore per lungo tempo, anzi forse per sempre, questo potevo farlo e lo volevo.
Questo amore romantico, anzi cavalleresco, ché così mi appariva nelle insonnie notturne, mi metteva in una tensione tanto forte e io ero così infantile da rivolgere a me stesso patetiche arringhe e da concluderle sospirando lamentosamente: "Serafina!... Oh! Serafina!...".
Finché mio zio si svegliava e mi gridava:
"Cugino!!! Cugino!! Ho l'impressione che tu stia fantasticando a voce alta: di giorno, se ti riesce, finché ti pare e piace, ma di notte lasciami dormire tranquillo!...".
Ero abbastanza preoccupato dal fatto che il vecchio, che aveva già notato fin troppo la mia agitazione all'arrivo della baronessa, avesse afferrato il nome e mi perseguitasse con le sue sarcastiche battute di spirito: ma l'indomani, mentre entravamo insieme nella Sala delle Udienze, non mi disse che le seguenti parole:
"Che Dio conceda ad ognuno tanto buon senso da saper stare al proprio posto! E' una triste cosa diventare persone sciocche!".
Sedette poi alla grande tavola e aggiunse:
"Scrivi chiaro, cugino, perché io non debba fermarmi di botto leggendo i tuoi atti".
La stima e il rispetto filiale che il barone nutriva per il mio vecchio prozio, si notavano in tutte le cose. Così ad esempio lo obbligava ogni sera a prendere il posto d'onore, invidiatogli da tutti, vicino alla baronessa.
Quanto a me, io occupavo ora un posto ora l'altro, a seconda del volere del caso: ma quasi sempre alcuni ufficiali della vicina città si univano a me per chiacchierare sugli avvenimenti nuovi e divertenti e berci sopra.
Accadde così che durante molti giorni io sedetti lontano dalla baronessa, all'altro capo della tavola, fino a che il caso mi avvicinò finalmente a lei.
Nel momento in cui le porte della sala da pranzo si erano aperte, la dama di compagnia della baronessa, signorina non più giovane ma che non mancava di bellezza e di spirito, si trovava impegnata con me in una conversazione che sembrava piacerle. Secondo l'uso le offrii il braccio e non fu poca la mia gioia, vedendola prendere posto non lontano dalla baronessa, che le rivolse un amichevole cenno.
Ognuno capirà facilmente che da quel momento ogni parola da me pronunciata durante il pranzo era ben poco rivolta alla mia vicina e moltissimo alla baronessa; e sia che la mia esaltazione conferisse uno slancio tutto nuovo ai miei discorsi, sia che la signorina fosse ben disposta ad ascoltarmi, essa si fece sempre più attenta, inoltrandosi con irresistibile interesse tra le mutevoli immagini del variopinto mondo che io andavo suscitando in lei.
Ben presto la nostra conversazione si separò del tutto dalla comune, vivendo di vita propria, e riuscì a arrivare anche là dove io appunto volevo. Notai pure che la mia vicina rivolgeva ogni tanto occhiate espressive alla baronessa e che quest'ultima si sforzava di ascoltarci: la sua attenzione sembrò raddoppiarsi soprattutto quando, capitato il discorso sulla musica, io mi lanciai a parlare di questa divina meravigliosa arte con entusiasmo di iniziato, non riuscendo a nascondere che, nonostante le mie aride e tristi occupazioni curialesche, suonavo il piano con sufficiente perizia, cantavo ed avevo già composto anche alcune canzoni.
Finita la cena, la società era passata nel salotto dove venivano serviti liquori e caffè: senza volerlo mi trovai accanto alla baronessa, che parlava con la sua dama di compagnia: subito si rivolse a me con le stesse domande che mi aveva una volta posto, ma in un tono più famigliare di quello che si usa verso una semplice conoscenza: se, cioè, mi piacesse la vita nel vecchio castello e altre simili.
Le risposi come, nei primi tempi del nostro soggiorno, la solitudine selvaggia del posto e lo stesso antico castello mi avessero ridotto in una singolare condizione di spirito, che ora una gioiosa bellezza era appena giunta a mutare: desideravo solo molto vivamente di essere dispensato dall'assistere alle grandi cacce che si stavano organizzando e alle quali non ero allenato.
Sorridendo la baronessa mi rispose:
"Immagino benissimo che queste lunghe scorribande nelle nostre foreste di abeti non debbano sedurla affatto. E' un musicista, lei, e se tutto non m'inganna, anche un poeta. Amo appassionatamente queste due arti! Io stessa suono un po' l'arpa: ma qui a R... sono costretta a privarmene, poiché mio marito non permette che porti con me lo strumento, i cui delicati suoni mal si accorderebbero con le grida e il fracasso dei corni da caccia. Dio mio! La musica mi renderebbe tanto felice qui!".
Le dissi che avrei fatto ogni tentativo in mio potere per soddisfare il suo desiderio, non mettendo in dubbio che al castello avrei trovato qualche strumento, non foss'altro un vecchio piano scordato. La signorina Adelaide (la dama di compagnia della baronessa) si mise a ridere e mi chiese se non sapevo che a memoria d'uomo non erano stati ascoltati al castello di R..., se si eccettuano le gracchianti trombe e i corni dei cacciatori, che la voce raffreddata dei violini, i bassi scordati e gli oboe belanti di pochi musicanti girovaghi.
Ma la baronessa era ormai attaccata al desiderio di sentire un po' di musica e fatta da me e tutte e due, lei e Adelaide, si diedero a ricercare e a proporre espedienti per riuscire ad avere un sia pur lacrimevole pianoforte.
In quel momento il vecchio Francesco attraversò la sala.
"Ecco l'uomo che ha un consiglio per tutto, che procura tutto, anche le cose inaudite e mai viste!". Così dicendo la signorina Adelaide lo chiamò e mentre cercava di fargli capire di che cosa si trattava, la baronessa ascoltava, le mani congiunte, la testa leggermente chinata in avanti, guardando il vecchio servitore con un dolce sorriso. Era delizioso vederla così, simile a un bel bambino che vorrebbe già stringere nelle manine il sospirato giocattolo.
Francesco, dopo avere esposto, a suo modo, molte circostanze che sembravano inesorabilmente opporsi alla possibilità di procurarsi in breve tempo uno strumento così raro, finì per grattarsi la fronte, dicendo:
"Ma al villaggio c'è la moglie dell'Ispettore che con una maestria straordinaria pesta il suo piccolo clavicembalo o come lo chiamate adesso con un nome straniero - e ci canta sopra con una voce ora così straziante che vi farebbe venire le lagrime agli occhi come per le cipolle e ora invece vi verrebbe voglia di mettervi a ballare con tutte e due le gambe...".
"Ha un piano!..." esclamò la signorina Adelaide interrompendolo.
"Ah! sì, certo! E' proprio questo - disse Francesco - gli è venuto da Dresda un..." "Oh! ma è meraviglioso!" esclamò la baronessa.
"Sì, sì: un bell'istrumento - continuò in tono ammirativo il vecchio Francesco, - soltanto un po' debole, perché quando l'organista ha voluto suonarci il cantico: 'In tutte le mie azioni...' lo ha messo tutto in pezzi, cosicché...".
"Oh! mio Dio!..." esclamarono ad una voce la baronessa e Adelaide.
"... cosicché - continuò Francesco - gli è costato parecchio denaro mandarlo a riparare a R...».
"Ma insomma è ritornato?" chiese Adelaide con impazienza.
"Eh! certamente signorina, e per l'ispettrice sarà un onore..." A questo punto passò di lì il barone, osservò il nostro gruppo con espressione sorpresa e disse sorridendo lievemente ironico alla baronessa:
"Francesco deve darvi ancora i suoi buoni consigli?...".
La baronessa abbassò gli occhi arrossendo e il vecchio servitore, spaventato, si irrigidì, la testa alzata e le braccia penzoloni lungo il corpo, in attitudine militare.
Ed ecco, arrivarono, navigando nelle loro ampie e pesanti sottane, le vecchie zie e si portarono via la baronessa.
La signorina Adelaide la seguì.
Io ero rimasto come colpito da un incantesimo: perduto nella delizia di avere finalmente avvicinato la creatura adorata che mi rapiva tutta l'anima e ribollente di indignazione contro il barone, che mi sembrava un despota, davanti al quale tutto il mondo tremava. E non era forse tale uno che costringeva un servitore dai capelli bianchi ad assumere al suo cospetto quell'atteggiamento di schiavo? "Oh! Alla fine! Mi senti? Mi vedi?...": era mio zio che mi batteva sulla spalla.
Risalimmo nelle nostre stanze.
"Non darti tanto da fare intorno alla baronessa - mi disse, quando vi arrivammo. - A che scopi poi? Lascia il mestiere di fare la corte alle signore ai giovani bellimbusti, ché non mancano!..." Gli raccontai come si erano svolte le cose, chiedendo se proprio meritavo i suoi rimproveri. Non mi rispose che "Hem! Hem!".
Indossò la veste da camera, accese la pipa, si sistemò nella sua poltrona e si mise a parlarmi della caccia del giorno precedente deridendo la mia goffaggine e i miei colpi mancati.
Tutto si era fatto tranquillo nel castello e ognuno, ritirato nella sua camera, si occupava di vestirsi per la sera, poiché i musicanti girovaghi dai violini raffreddati, dai bassi stonati, dagli oboe belanti, di cui aveva parlato la signorina Adelaide, erano appunto arrivati e si trattava nientemeno che di un ballo, per quanto era possibile brillante, per la notte.
Mio zio preferiva il sonno a queste rumorose distrazioni ad aveva deciso di restare nella sua stanza. Quanto a me, io ero invece occupato nella mia toeletta, quando fu bussato piano all'uscio:
Francesco apparve e mi annunciò con aria estasiata, che il clavicembalo dell'ispettrice era giunto su una slitta ed era già stato portato nell'appartamento della baronessa. La signorina Adelaide mi pregava di recarmi dalla sua signora.
E' facile immaginare come mi battessero tumultuosamente le vene dei polsi e come dolcemente trasalissi, all'entrare nella stanza in cui avrei trovato Lei. La signorina Adelaide mi venne incontro festosamente. La baronessa, già completamente vestita per il ballo, sedeva con aria sognante davanti alla misteriosa cassa, nella quale dormivano i suoni che a me spettava di risvegliare.
Si alzò e mi stette davanti in un tale splendore di bellezza, che io potei soltanto fissarla, incapace di pronunciare parola.
"Ebbene, Teodoro (seguendo l'affettuosa usanza del Nord, che si ritrova nell'estremo mezzogiorno, essa chiamava tutti con il loro nome di battesimo), ebbene, Teodoro - mi disse - lo strumento è arrivato.
Voglia il cielo che non sia troppo indegno della sua arte!".
Sollevai appena il coperchio e il rumore di una quantità di corde saltate mi assali: tentai un accordo e quelle poche rimaste tese, resero suoni di una spaventosa discordanza.
"Qui c'è ripassato l'organista con le sue manine di fata!" scoppiò a ridere la signorina Adelaide.
Ma la baronessa tutta scoraggiata esclamò:
"Oh!... è proprio una disgrazia! Possibile che io non debba mai avere nessuna gioia qui?".
Mi detti a cercare nel ripostiglio dello strumento ed ebbi la fortuna di trovare alcuni rotoli di corde metalliche: mancava però una chiave da accordatore. Nuovi lamenti.
"Qualunque chiave il cui congegno combini con i pironi potrà servirci" affermai, e subito la baronessa e Adelaide si misero a correre da tutte le parti: in un attimo un magazzino intero di chiavi si trovò davanti a me sulla cassa di risonanza.
Mi misi allora attivamente all'opera. La signorina Adelaide, la baronessa stessa, si sforzavano di aiutarmi, provando una dopo l'altra tutte le chiavi. Eccone finalmente una che entra nel pirone: "Sì, va bene, va bene!" gridano con trasporto.
E la corda tesa fino all'accordo puro si spezza con fracasso e le fa indietreggiare spaventate. E la baronessa a riprendere pazientemente con le sue dita affusolate la rude corda metallica, a riannodarla, a tendermi compiacentemente i rotoli di corda via via che venivo aprendo... A un tratto una mi sfugge e va a perdersi in fondo alla stanza. La baronessa sospira con impazienza. Adelaide ride forte. Io inseguo il piccolo rotolo in un angolo della stanza e fra tutti e tre la riattacchiamo, per vederla ancora spezzarsi. Ma alla fine riusciamo a trovare tutti i numeri, ad attaccare tutte le corde e i suoni magri e confusi cominciano a ordinarsi, a fondersi in accordi pieni e armoniosi.
"Ci siamo riusciti! Il piano è accordato!" gridò la baronessa, guardandomi con un dolce sorriso.
Come cancellò subito fra noi la timidezza e l'impaccio delle convenienze questa fatica fatta in comune! Subito si stabili una confidente familiarità, che dissipò, penetrando in me simile a una corrente elettrica, l'imbarazzo che mi pesava addosso come un gran blocco di ghiaccio. Il pathos tutto speciale, che accompagna di solito un amore come il mio ai suoi timidi inizi, era già lontano da me e quando finalmente dopo tanta pena il piano fu accordato, invece di esprimere la piena dei miei sentimenti in fantasie improvvisate, mi trovai ad eseguire quelle dolcissime e deliziose canzonette, che sono arrivate a noi come dono di armonia del Sud.
Mentre cantavo "Senza di te" e "Sentimi, idolo mio" e "Almen non poss'io" e cento volte ripetevo: "Morir mi sento" e gli "Addio!" e "Oh! Dio!" gli sguardi di Serafina si facevano sempre più animati e scintillanti. Si era seduta vicinissima a me cosicché ne sentivo il fiato giocarmi sulla guancia: con il braccio era appoggiata alla spalliera della mia sedia, ed ecco un nastro bianco si staccò dalla sua acconciatura da ballo, cadde sulla mia spalla, ondeggiando un po' tra noi, mosso dai suoi dolci sospiri e dal mio canto, come un fedele messo d'amore.
Ancora oggi mi stupisco, pensando a come io abbia potuto conservare la mia ragione.
Quando mi fermai, tentando nella ricerca di una nuova canzone qualche accordo, Adelaide, che era rimasta seduta in un angolo della stanza, venne ad inginocchiarsi davanti alla baronessa e afferrando le mani di lei se le strinse al petto, pregando:
"O mia cara baronessa, piccola Serafina, adesso anche tu devi cantare!".
La baronessa rispose:
"Ma a che cosa pensi, Adelaide! vuoi che io mi produca con il mio povero canticchiare adesso, dopo il nostro virtuoso?".
Quale gentile spettacolo vederla, a somiglianza di un bambino vergognoso e ben educato, arrossire, gli occhi abbassati, e lottare con il desiderio e l'imbarazzo!
E' facile immaginarsi che io la supplicai a mia volta insistentemente e quando parlò di brevi canti popolari della Curlandia, niente tralasciai fino a che tentò sulla tastiera con la mano sinistra alcuni accordi, come cercando un preludio. Mi alzai per cederle il posto al piano, ma lei non volle, assicurandomi di non sapere suonare il più semplice accordo: appunto per questo, senza accompagnamento, il suo canto sarebbe risuonato ben gracile e incerto. Ed ecco che intonò con voce pura e argentina, che le saliva proprio dal profondo del cuore, una canzone, la cui semplice melodia aveva il carattere proprio esclusivo dei canti popolari. Profondamente essi penetrano nell'anima, tanto che, ascoltandoli, non possiamo non riconoscere la poeticità dell'originaria natura dell'uomo. Un fascino colmo di mistero è racchiuso nelle insignificanti parole del testo, geroglifico dell'ineffabile. Chi non pensa con senso di gioia a quella canzonetta spagnola, la cui espressione esterna è tutta qui:
"Mi imbarcai sul mare con la fanciulla che amo. Ci colse la bufera e la mia fanciulla era sbattuta qua e là paurosamente. No! mai più mi imbarcherò sul mare con la fanciulla che amo".
E la canzonetta della baronessa diceva così:
"Poco tempo fa ho ballato a nozze con il mio tesoro. Un fiore cadde dai suoi capelli. Io lo raccolsi e glielo resi, dicendo: 'Ebbene, tesoro, quando ritorneremo a nozze?'".
Quando accompagnai con accordi e solfeggi la seconda strofa di questa canzone e nella mia estasi indovinai la melodia della successiva sulle labbra di Serafina, passai ai suoi occhi e a quelli di Adelaide come un gran maestro nell'arte dei suoni, e loro mi riempirono di elogi.
Il chiarore delle luci della sala da ballo si diffondeva e brillava fino alle finestre della stanza della baronessa e un disgustoso frastuono di trombette e di corni annunciava alla società degli invitati che era tempo di radunarsi per il ballo.
"Oh, purtroppo devo allontanarmi!...." disse Serafina.
Immediatamente mi alzai.
"Lei mi ha procurato i momenti più felici che io abbia mai vissuto a R...sitten," disse e mi tese la mano. Ebbro di felicità la portai alle labbra e sentii nella stretta tutti i tendini delle sue dita delicate tremare ai miei baci.
Non so come ebbi la forza di risalire nella stanza dello zio e di ridiscendere poi nella sala da ballo.
Diceva un guascone di temere le battaglie, poiché ogni ferita avrebbe potuto essere mortale a lui che era tutto cuore dalla testa ai piedi. Così ero anch'io: così è chiunque in una condizione simile alla mia.
Ogni contatto mi uccideva. La mano di Serafina, le sue dita tremanti erano penetrate in me come frecce avvelenate. Il sangue mi bruciava nelle vene.
Senza proprio farmi un interrogatorio, il mio prozio seppe fare in modo, il giorno dopo, di strapparmi il racconto della mia serata passata in compagnia della baronessa. Sconcertato, lo vidi abbandonare l'aria bonaria e sorridente che aveva preso all'inizio e lo sentii dirmi in tono grave:
"Ti prego, cugino, resisti alla follia che ti ha preso con tanta potenza! Tu non sai che questo inizio, che può sembrarti il più innocuo, può avere conseguenze spaventose. Stai su una fragile lastra di ghiaccio, nella tua distratta pazzia ed essa, senza che tu te ne accorga in tempo, si spezzerà sotto di te e sarai sommerso. Io mi guarderò bene dal tirarti per la falda del vestito: so bene che riuscirai a tornare a galla da solo e che malato a morte dirai: 'Oh! è soltanto un leggero raffreddore che mi sono preso in sogno,' ma una febbre maligna consumerà intanto le tue energie vitali e passeranno anni prima che tu riesca a farti animo. Che il diavolo si porti la tua musica, se non deve servirti ad altro che a turbare la pace serena delle donne sentimentali".
"Ma - lo interruppi - ho forse l'intenzione di portare la baronessa ad una relazione d'amore con me?".
"Scimmiotto! - mi gridò - se soltanto lo pensassi, mi butterei giù dalla finestra!".
Arrivò il barone a mettere fine al nostro penoso colloquio e gli affari mi strapparono alle mie sognanti fantasticherie, nelle quali non vedevo e non sentivo che Serafina.
In salotto tra gli ospiti la baronessa mi rivolgeva poche parole cortesi, ma quasi ogni sera mi arrivava il messaggio della signorina Adelaide, che mi chiamava presso la sua signora.
Ormai alla musica si alternavano spesso conversazioni su diversi soggetti e Adelaide, che pure non era più in età così giovane da poter fare l'ingenua e la buffa, piombava con una quantità di piccole sciocchezze nello stato sentimentale di presentimenti e di sogni, in cui insensibilmente sprofondavamo. Mi confermai sempre più nella convinzione che la baronessa nascondeva davvero nel suo animo qualcosa che lo turbava, così come avevo creduto di leggere nei suoi occhi la prima volta che l'avevo vista, e la funesta influenza dello spettro domestico si presentò lancinante al mio spirito. Qualcosa di spaventoso era successo o doveva succedere. Quante volte sentii l'impulso di raccontare a Serafina come mi avesse toccato il nemico invisibile e come il mio vecchio zio, e certo per sempre, lo avesse cacciato! Ma ogni volta un ribrezzo incomprensibile a me stesso mi strinse la lingua nel momento in cui avrei voluto parlare.
Un giorno la baronessa non comparve a tavola: fu detto che si sentiva indisposta e che restava in camera. Qualcuno chiese con grande interessamento a nome di tutti al barone se l'indisposizione di sua moglie fosse una cosa grave.
Egli sorrise in modo enigmatico, quasi con amara espressione di scherno:
"E' una leggera raucedine, di cui è responsabile l'aria del mare, che non risparmia le vocine delicate e non sopporta altri suoni che gli 'hallalì' dei cacciatori".
E così dicendo rivolse un'occhiata irritata a me, che gli sedevo di fronte. A me, e non al vicino che lo aveva interrogato, erano rivolte le sue parole.
Adelaide, che era seduta vicino a me, diventò estremamente rossa in viso e disse piano senza sollevare la testa e tracciando con la forchetta strani segni sul piatto:
"E anche stasera vedrai Serafina. E anche stasera il tuo dolce canto scenderà a calmare il suo cuore malato".
Anche le parole di Adelaide erano indirizzate a me, ma in quel momento mi colpirono, quasi avessi un segreto intrigo d'amore con la baronessa, che solo con un fatto orribile, solo con il delitto poteva finire. Mi ritornarono pesantemente alla memoria gli avvertimenti di mio zio. Che cosa dovevo fare? Non vederla più. E questo, finché restavo al castello, era impossibile. Lasciare il castello, anche se mi fosse stato possibile, non lo volevo. Sapevo bene che non ero abbastanza forte da strapparmi al fantastico sogno, in cui mi cullavano ineffabili le gioie amorose. Adelaide era ai miei occhi quasi una volgare mezzana e volevo disprezzarla. E tuttavia, riflettendo, ero costretto e vergognarmi di me stesso, e della mia stupidità. Che cosa accadeva in quelle beate ore della sera, che potesse giustificare una relazione con Serafina, più stretta di quanto non lo permettessero la convenienza e la morale? Ma come poteva venirmi in mente che la baronessa nutrisse per me un sentimento qualunque? Eppure ero intimamente convinto del pericolo della mia posizione.
Il pranzo finì presto, poiché si volevano ancora cacciare certi lupi, che avevano fatto la loro apparizione nella foresta di pini, confinante con il castello. La caccia conveniva perfettamente al mio stato d'animo e dichiarai allo zio che era mia intenzione prendervi parte.
"Ma bene! - mi disse, sorridendomi contento - mi piace vederti uscire un po' di più. Io per me resto a casa e tu prendi pure il mio fucile e legati alla vita il mio coltello da caccia: è una buona arma sicura in caso di pericolo, a condizione però che uno sappia mantenere il suo sangue freddo".
La parte del bosco, in cui erano stati avvistati i lupi, fu circondata dai cacciatori. Faceva un freddo da spaccare le pietre: il vento soffiava attraverso i pini e mi gettava in faccia i chiari fiocchi di neve, così che a fatica riuscivo a vederci a sei passi di distanza. Tutto irrigidito dal gelo, abbandonai il mio posto e cercai un rifugio nell'interno del bosco. Mi appoggiai a un albero con il fucile sottobraccio e presto dimenticai totalmente la partita di caccia.
I miei pensieri mi portavano da Serafina, nella sua raccolta stanza. Sentii risuonare lontanissimi degli spari e, nello stesso istante, un frusciare nel canneto vicino e vidi a una diecina di passi di distanza un lupo enorme che mi correva addosso.
Appoggiai il fucile alla spalla, premetti il grilletto... Avevo mancato il colpo, l'animale balzò su di me con occhi fiammeggianti, io ero ormai perduto, se non avessi avuto sufficiente presenza di spirito per estrarre il coltello da caccia e piantarlo nella gola al lupo nel momento in cui cercava di azzannarmi. Il sangue mi sprizzò sulle mani e sulle braccia.
Uno dei guardiacaccia del barone accorse gridando il richiamo caratteristico dei cacciatori in pericolo e in un batter d'occhio tutti erano raccolti intorno a me. Accorse anche il barone:
"Per l'amor del cielo! Ma lei è ferito! Lei perde sangue!".
Assicurai che non lo ero e il barone si rivolse allora al guardiacaccia, accorso per primo, per sotterrarlo di rimproveri, poiché non aveva tirato subito appena io avevo fallito il colpo: e per quanto costui si scusasse, dicendo che in quello stesso istante il lupo si era slanciato su di me cosicché un colpo sarebbe stato pericolosissimo, il barone non smise di irritarsi con lui, per non essersi preso, come cacciatore anziano e più esperto, maggior cura di me.
Intanto gli altri avevano sollevato da terra il lupo morto. Era uno dei più grossi esemplari che si fossero da tempo visti in quella regione, e generale fu l'ammirazione per il mio coraggio e la mia risolutezza, per quanto a me personalmente il mio comportamento sembrasse naturalissimo e non avessi affatto realizzato il mortale pericolo che correvo.
Soprattutto il barone mi diede prova di un grandissimo interessamento e non si stancava di chiedermi se, per quanto non ferito, non temessi di risentire conseguenze dello spavento.
Tornammo al castello. Il barone mi dava amichevolmente il braccio:
aveva dato il mio fucile da portare ad un guardiacaccia. Continuava a parlare della mia eroica azione, tanto che io stesso finii per credere al mio eroismo e perdendo ogni modestia mi sentii, di fronte allo stesso barone, uomo coraggioso e risoluto. Lo scolaretto aveva superato felicemente il suo esame: non era più uno scolaretto e tutte le timide ansiose paure dello scolaretto se ne erano andate. Mi sembrava di essermi conquistato il diritto di lottare per il favore di Serafina.
Si sa di quali assurde suggestioni sia capace la fantasia di un giovane innamorato.
Al castello, vicino al camino e a un grande bicchiere di punch fumante, fui ancora l'eroe del giorno: poiché soltanto il barone, oltre a me, aveva ucciso un lupo. Tutti gli altri cacciatori dovettero accontentarsi di attribuire i loro colpi mancati alla oscurità e alla neve e di raccontare terrificanti storie di antiche e fortunate avventure di caccia e di schivati pericoli.
Ero sicuro questa volta di ottenere le lodi del mio prozio e in quella fiduciosa attesa gli raccontai in modo abbastanza prolisso la mia avventura, non dimenticando di dipingere a colori vivaci l'aspetto feroce e sanguinario del lupo affamato.
Lo zio mi rise in faccia e disse:
"Dio è forte nei deboli!".
Quando, stanco di bere e di parlare, mi diressi attraverso il corridoio alla Sala delle Udienze, mi sembrò di vedere una figura sottile che avanzava da quella parte con una candela in mano. Entrando nella Sala, riconobbi la signorina Adelaide.
"Bisogna dunque errare come spettri o come sonnambuli per incontrare il nostro valoroso cacciatore di lupi?" mi disse, afferrandomi la mano.
Queste parole: "Spettro", "Sonnambulo", pronunciate in quel posto (eravamo appunto nella Sala delle Udienze) mi caddero pesanti sul cuore. Immediatamente mi riapparvero le terrificanti apparizioni di quelle due notti terribili che vi avevo passato: come allora il vento ululava incombente con profondi suoni di organo, cigolava e fischiava attraverso le vetrate delle bifore e la luna gettava il suo livido chiarore proprio sulla misteriosa parete, dove si era fatto sentire quel grattare straziante. Credetti persino di vedervi macchie di sangue.
La signorina Adelaide, che mi teneva sempre la mano, dovette accorgersi del freddo che mi invadeva tutto.
"Che cos'ha? Perché diventa così freddo e rigido? Andiamo, andiamo, ci penserò io a richiamarla alla vita! Sa che la baronessa aspetta con ansia il momento di vederla, perché non vuole lasciarsi convincere che il lupo cattivo non l'ha davvero sgranocchiato e si tormenta in modo incredibile?... Eh! mio giovane amico, che cosa ha fatto lei alla piccola Serafina? Non l'avevo mai vista cosi! Ah!... ecco che il suo polso batte più veloce e il giovane signore, che sembrava morto, si risveglia improvvisamente. Su, venga con me, piano, ché andiamo dalla piccola baronessa".
Mi lasciai trascinare in silenzio. Adelaide parlava della baronessa in un modo che mi sembrava indegno e soprattutto l'allusione a un'intesa tra noi era volgare.
Quando con Adelaide entrai nella stanza, Serafina mi venne incontro, veloce, tre, quattro passi, emettendo una piccola esclamazione. Poi, come se riflettesse, si fermò: osai prendere la sua mano e portarla alle labbra: la baronessa lasciò che riposasse nella mia e disse:
"Ma, mio Dio, è forse affar suo prendersela con i lupi? Ma non sa lei che i favolosi tempi di Orfeo e di Anfione sono tramontati da un pezzo e che le bestie feroci hanno perso ogni senso di rispetto per i più eccellenti cantori?".
Il tono scherzoso, con cui la baronessa espresse il suo vivo interessamento per me, mi richiamò immediatamente al tono che mi si conveniva, eliminando ogni possibile equivoco. Non so neppure come fu che, invece di andarmi a sedere al piano, presi posto sul divano vicino alla baronessa. La sua domanda: "Ma come mai lei si è messo in quel pericolo?" dichiarò esplicitamente la nostra comune intenzione di non dedicare alla musica quella serata, ma piuttosto alla conversazione.
Quando ebbi raccontato la mia avventura nella foresta e accennato alla calorosa partecipazione del barone, con la velata allusione al fatto che non l'avrei creduto capace di tanto, lei iniziò a dire con accento molto tenero, anzi quasi doloroso:
"Oh, come deve sembrarle rude e impetuoso il barone! Ma creda a me, solo per la durata del suo soggiorno in questo vecchio castello inospitale, solo durante la selvaggia stagione delle cacce nella desolata foresta di pini egli cambia così interamente il suo carattere, o almeno il suo comportamento esteriore. Quello che lo rende tanto diverso è soprattutto il pensiero, che continuamente lo domina, che qui debba succedere qualche cosa di spaventoso e certamente per questa ragione la sua avventura, per fortuna rimasta senza brutto seguito, lo ha scosso in quel modo. Egli non vorrebbe vedere esposto a un pericolo l'ultimo dei suoi servi e tanto meno un caro amico, acquisito da poco. So di sicuro che Gottlieb, il guardiacaccia che non si è precipitato in suo aiuto, subirà a dir poco la punizione più umiliante per un cacciatore: alla prossima battuta di caccia sarà visto seguire gli altri a piedi con un bastone in mano invece del fucile. Al fatto della stagione di caccia in sé, che qui non è mai senza pericoli, si aggiunge il pensiero continuo del barone, che pur temendo di continuo una sciagura, si lascia trasportare dal piacere e dalla voluttà, direi anzi dal demone della caccia: tutto questo porta uno squilibrio penoso nella sua vita, che per forza deve agire di riflesso ostilmente anche su di me. Raccontano tante cose strane sul nostro antenato che fondò il maggiorasco!... So bene che queste mura devono racchiudere un tenebroso segreto di famiglia, che come uno spaventevole spettro scaccia lontano da esse i padroni, concedendo a loro di restarvi per poco tempo in una frastornante e selvaggia agitazione! Ma io!... Come non dovrei sentirmi orribilmente sola in questo frastuono convulso mentre tutto l'orrore che qui striscia su ogni parete mi penetra nell'anima agitandola? Lei, mio caro amico, mi ha procurato con la sua arte i primi momenti sereni che io abbia vissuto in questo castello!... E come farò a ringraziarla in modo adeguato?".
Baciai la mano che mi veniva offerta, parlando a mia volta di questo stesso senso di orrore, provato nei primi giorni, o più precisamente nella prima notte del mio soggiorno, fino al parossismo. La baronessa mi fissò impietrita negli occhi, mentre le andavo descrivendo l'orrore dell'architettura stessa del castello e soprattutto delle decorazioni della Sala delle Udienze, l'orrore del vento mormorante, eccetera eccetera. E forse qualcosa nel tono della mia voce e nell'espressione del mio volto, quando finalmente tacqui fu tuttavia eloquente, perché la baronessa gridò ansiosa:
"No, no, qualcosa di spaventoso le è successo in quella sala, nella quale io non entro mai senza un brivido! Oh! la scongiuro! mi dica tutto!...".
Il volto di Serafina era livido, quasi con un pallore di morte; capii che ormai la cosa più sensata che mi restava da fare, era raccontarle fedelmente tutto quello che mi era successo, per non lasciare alla sua fantasia eccitata di immaginare uno spettro ancora più orrendo e un insieme di fatti in relazione a me, ancora più spaventosi di quelli in realtà accaduti.
Mi ascoltò e la sua angoscia paurosa diventava sempre più grande. Quando ricordai il grattare vicino alla parete, mi interruppe, gridando:
"E' spaventoso!... Sì! Sì! in quel muro è nascosto un segreto terribile!...".
Continuai il mio racconto e dissi come il mio vecchio zio avesse bandito per sempre lo spirito dannato con la potenza soverchiante del suo spirito: sospirò allora profondamente, come liberata da un peso grave, e appoggiandosi indietro alla spalliera del divano, si coprì il viso con tutte e due le mani.
Solo in quel momento mi accorsi che Adelaide ci aveva lasciati soli. Da molto tempo avevo finito il mio racconto e Serafina taceva ancora: mi alzai piano, andai allo strumento e mi sforzai di evocare con la piena degli accordi musicali lo spirito del conforto, affinché strappasse Serafina al regno di tenebre in cui il mio racconto l'aveva immersa. Ben presto intonai con la più delicata voce che seppi trovare una delle sacre cantate dell'abate Steffani. Nelle note così colme di commozione di: "Occhi, perché piangete?...", Serafina si svegliò dai suoi tetri sogni e mi ascoltò sorridendo, gli occhi pieni di lacrime brillanti.
Come fu che io mi inginocchiai allora davanti a lei, come fu che lei si curvò dolcemente su di me, che io la chiusi fra le mie braccia e che un lungo bacio ardente bruciò sulle mie labbra? E come non persi la ragione, sentendola stringermi teneramente a sé, e come la lasciai uscire dal cerchio delle mie braccia e rialzatomi in fretta mi rimisi al piano? Volgendosi da me, la baronessa mosse qualche passo verso la finestra, poi si girò e mi venne incontro in un atteggiamento quasi fiero, che non era suo, e guardandomi fermamente negli occhi, mi disse:
"Suo zio è il vecchio più degno che io conosca: è l'angelo protettore della nostra famiglia. Voglia il cielo che egli abbia compreso anche me nella sua pia preghiera!".
Io non potevo dire parola, il veleno distruttore che avevo assorbito in quel bacio cresceva e bruciava in tutte le mie vene, in tutti i miei nervi!
Entrò la signorina Adelaide. La furia della lotta interna proruppe in un fiotto di calde lacrime, che non riuscii a trattenere. Adelaide mi lanciò un'occhiata sorpresa e senza dubbio sorrise. Mi sarei sentito capace di ucciderla.
La baronessa mi tese la mano e disse con una indescrivibile dolcezza:
"Addio, amico caro! Addio di cuore! e pensi che forse nessuno, meglio di me, ha capito la sua musica!... Ahimè! Le sue note risuoneranno per molto... molto tempo nel profondo del mio spirito!...".
Costrinsi me stesso a pronunciare poche stupide parole di congedo e corsi via nelle nostre stanze.
Mio zio si era già coricato. Rimasi nella Sala: caddi in ginocchio e piansi forte, urlai il nome dell'amata, insomma mi abbandonai a tutte le possibili follie di un delirio amoroso e solo il forte richiamo del vecchio, che si era svegliato alla mia furia: "Ehi, cugino! mi sembra che tu sia impazzito o stai di nuovo prendendotela con il lupo?... Vattene a letto, se ti piace!", soltanto questo richiamo riuscì a trascinarmi nella stanza da letto, dove mi coricai con il fermo proposito di sognare soltanto Serafina. Era forse già passata la mezzanotte, quando io, non ancora addormentato, credetti di sentire in lontananza delle voci e un correre qua e là e un aprire e chiudere, sbattendo, di porte. Rimasi in ascolto e sentii passi che si avvicinavano per il corridoio, qualcuno apriva la porta della sala ed ecco picchiava alla nostra porta.
"Chi è?" gridai ad alta voce. Una voce dal di fuori disse:
"Signor Giustiziere!... Signor Giustiziere!... Si svegli!... Si svegli!...".
Riconobbi la voce di Francesco e mentre chiedevo: "C'è forse il fuoco al castello?" il vecchio si svegliò gridando: "Dove?! Dov'è il fuoco?... Dove è saltato fuori di nuovo quel dannato spettro dell'inferno?...".
"Ah! per l'amor del cielo si alzi, signor Giustiziere! - disse Francesco. - Il signor barone cerca di lei!".
"Che cosa vuole il barone da me? - continuò chiedendo il vecchio. - Che cosa vuole da me di notte? Non sa che la giustizia se ne va a letto col giudice e dorme dello stesso sonno tranquillo?".
"Ah! per favore! - gridò Francesco angosciosamente, - caro signor Giustiziere, si alzi... la graziosa baronessa sta morendo!...".
Con un grido di terrore saltai su dal letto.
"Apri la porta a Francesco!" mi ordinò lo zio. Fuori di me ondeggiavo su e giù per la stanza senza trovare né porta né altro. Dovette assistermi lo zio: Francesco entrò livido nel viso disfatto e accese i candelieri. Ci eravamo appena buttati addosso qualcosa, quando sentimmo nella Sala delle Udienze la voce del barone:
"Posso parlare un momento con lei, caro V.?".
"Perché poi ti sei vestito, cugino? Il barone desidera vedere me" mi chiese il vecchio in procinto di uscire.
"Devo venire giù.... Devo vederla e poi morire" dissi con voce spenta, annientato in un dolore senza conforto.
"Ah! Ah! è così!? Allora hai ragione, cugino!..." e il vecchio mi chiuse con queste parole la porta sul viso tanto violentemente che essa cigolò sui cardini, e la richiuse a chiave dal di fuori.
Fuori di me per questo sopruso, avrei voluto in quel primo momento forzare la porta, ma riflettendo alle conseguenze disgraziate che questo atto di pazzia avrebbe potuto avere, decisi di aspettare il ritorno del vecchio e di sfuggire poi al suo controllo, ad ogni costo. Sentii il vecchio parlare concitatamente con il barone, sentii ripetere molte volte il mio nome, di più non potei capire...
Ad ogni secondo la mia situazione si faceva più mortale.
Percepii alla fine che arrivava un messaggio per il barone e che questi se ne andava correndo precipitosamente. Lo zio rientrò in camera.
"E' morta!..." con questo grido caddi ai piedi del vecchio.
"E tu sei pazzo!" disse lui con la massima calma, mi prese e mi costrinse a sedere.
"Devo andare giù! - continuavo a gridare, - devo vederla, dovesse costarmi la vita!".
"Sì; fallo, caro cugino!" disse il vecchio, chiudendo la porta, togliendo la chiave dalla serratura e mettendosela in tasca.
Allora la rabbia mi fece perdere l'ultimo resto di senno, bruciando pazzamente in me: afferrai il fucile carico e gridai:
"Io mi caccio qui davanti ai suoi occhi una palla nella testa, se lei non mi apre subito immediatamente la porta!".
Il vecchio mi venne vicino e il suo sguardo mi passava da parte a parte, mentre mi diceva:
"Ragazzo, credi di potermi spaventare con le tue miserevoli minacce?... Credi che la tua vita abbia un gran valore ai miei occhi, quando tu sii capace in un momento di infantile stupidità di gettarla via, come faresti con un giocattolo usato?... Che cosa hai tu in comune con la moglie del barone? Chi dà a te il diritto di intrometterti, come un noioso damerino, là dove non c'è posto per te e dove nessuno ti desidera?... Vuoi fare il pastorello innamorato in un'ora grave di pericolo mortale?...".
Mi lasciai cadere annientato nella poltrona.
Dopo una pausa, lo zio continuò con voce più mite:
"E perché tu lo sappia, in tutta la storia del preteso pericolo di morte che la baronessa corre non c'è, molto probabilmente, niente di vero... La signorina Adelaide fa presto a uscire di carreggiata: le cade una goccia d'acqua sul naso e lei a gridare: 'Oh! Dio! che temporale spaventoso!...'. Per colmo di sventura l'allarme d'incendio è arrivato fino alle vecchie zie, che si sono precipitate tra esagerati piagnistei con un intero arsenale di gocce tonificanti... elisir di lunga vita... e non so che cosa ancora. E' stata una crisi violenta di nervi, uno svenimento...".
Il vecchio si fermò: vedeva chiaramente la mia lotta interiore. Camminò un po' su e giù per la camera e poi venne a ripiantarsi davanti a me, scoppiando a ridere di cuore:
"Cugino, cugino! - disse - che razza di ridicoli pasticci mi stai combinando?... Ho paura che si tratti ancora una volta del diavolo che fa passeggiare qui le sue anime dannate: adesso gli sei caduto tu bellamente tra le grinfie e lui sta facendo il suo balletto con te".
Tornò a camminare su e giù per la stanza, poi riprese:
"Su, ormai ci conviene rinunciare al sonno: fumiamoci una buona pipa, che si porterà via queste due orette che ci rimangono di notte e di buio!".
Così dicendo prese dall'armadio una pipa d'argilla, la caricò, canticchiando una canzonetta, con lentezza metodica: poi andò cercando tra le molte carte, finché trovò un foglietto, che arrotolò e con quello accese. Soffiando via davanti a sé le dense nuvole di fumo, disse tra i denti:
"E così, cugino; come è andata poi quella faccenda del lupo?".
Non so come mai quel tranquillo armeggiare del vecchio avesse su di me uno strano effetto calmante. Mi sembrava di non essere più al castello di R... e che la baronessa fosse lontana, tanto lontana, che io soltanto sulle ali del pensiero potevo ormai raggiungerla... L'ultima domanda del vecchio mi irritò:
"Ma - lo interruppi - lei trova proprio la mia avventura di caccia tanto divertente e fatta per essere presa in giro?".
"Oh, per niente, signor cugino, - replicò - ma è che tu non hai la minima idea di quale buffa espressione riesca a tirare fuori uno sbarbatello come te e come sappia rendersi indescrivibilmente ridicolo, quando il buon Dio si degna di fargli capitare qualcosa di straordinario. Vedi, io avevo un amico di università: un uomo tranquillo, riflessivo, raccolto. Il caso lo implicò, lui che a cose di questo tipo non aveva mai dato appiglio, in un affare d'onore e lui, che molti fra gli studenti pensavano fosse adatto soltanto alle poltrone, a fare il pulcino nella stoppa, si comportò con un tale deciso e fermo coraggio, che tutti furono costretti ad ammirarlo profondamente. Ma da quel momento egli cambiò completamente. Il giovane diligente e ordinato era diventato un intollerabile spaccone e attaccabrighe. Banchettava, si dava ai bagordi e si batteva di continuo per sciocchezze, fino al punto che il decano di una corporazione che egli aveva offeso in modo volgare, lo uccise in duello.
Ti racconto questo fatto, cugino, solo così per la cronaca, tu puoi, se ne hai voglia, trarne le conseguenze che vorrai!... E ora per ritornare alla baronessa e alla sua malattia...".
Si sentirono in quell'istante nella sala dei passi leggeri e a me sembrò che si alzasse nell'aria un raccapricciante ansito.
"E' andata!": il pensiero mi trapassò come un lampo.
Rapido il vecchio si alzò e chiamò: "Francesco? Francesco?" "Sì, caro signor Giustiziere!" fu risposto da fuori.
"Francesco, riaccendi un po' il fuoco nel camino e se è fattibile facci preparare due buone tazze di tè", e rivolgendosi a me:
"Fa un freddo del diavolo e sarà più simpatico raccontarci qualcosa accanto al camino". Aprì la porta e io lo seguii macchinalmente.
"Come va in basso?" chiese.
"Ah! - rispose Francesco - non era poi niente di speciale: la graziosa baronessa è di nuovo tutta sollevata e attribuisce il leggero svenimento a un cattivo sogno!".
Avrei voluto gridare dalla gioia, ma uno sguardo severo di mio zio mi riportò alla calma.
"Si, in ultima analisi - disse il vecchio prozio - penso che sia meglio che ce ne andiamo a letto ancora per due orette. Lascia stare il tè, Francesco!".
"Come comanda, signor Giustiziere!" rispose Francesco e lasciò la sala augurandoci una notte tranquilla, senza tener conto che si sentivano già i galli cantare.
"Senti me, cugino, - disse il vecchio, mentre andava vuotando la pipa contro il camino, - è proprio una bella cosa che non ti sia successa nessuna disgrazia con il lupo prima e poi con il fucile carico!".
Capii allora tutto e mi vergognai di aver dato occasione al mio vecchio zio di trattarmi come un ragazzaccio maleducato.
"Sii tanto gentile, cugino, - mi disse il vecchio il mattino seguente - da scendere a prendere notizie della baronessa. Rivolgiti alla signorina Adelaide e avrai certamente un bollettino sanitario in piena regola".
E' facile immaginarsi con quale fretta scendessi al piano inferiore.
Ma mentre battevo un colpo leggero all'anticamera della baronessa, ne uscì rapidamente e mi si presentò davanti il barone. Si fermò stupito e mi misurò con un'occhiata cupa e penetrante.
"Che cosa vuole lei qui?" disse, quasi senza volerlo.
Per quanto il cuore mi battesse dentro, mi feci animo e dissi in tono fermo:
"Sono venuto da parte dello zio a chiedere notizie della graziosa signora". "Oh, non era proprio niente! Il suo solito attacco di nervi:
ora dorme tranquilla e sono certo che scenderà a tavola completamente rimessa e allegra. Dica, dica questo!". Nel dirmi queste parole il barone aveva un'espressione di appassionata veemenza, che tradì ai miei occhi, nonostante tutte le apparenze, la viva preoccupazione da lui nutrita nei confronti di sua moglie.
Mi girai per andarmene, quando il barone mi prese improvvisamente il braccio, esclamando con sguardo fiammeggiante:
"Ho da parlare con lei, giovanotto!".
Non avevo di fronte un marito offeso gravemente da me e non avevo forse ragione di temere una scena che avrebbe potuto concludersi ignominiosamente per me? Non avevo armi addosso, ma ad un tratto mi rivenne in mente l'artistico coltello da caccia che lo zio mi aveva regalato uno dei primi giorni di R...sitten e che avevo ancora in tasca. E seguii il barone, che mi trascinava in fretta dietro a sé, fermamente deciso a non risparmiare la vita di nessuno, nel caso che io avessi corso il rischio di venire indegnamente malmenato. Eravamo entrati nella stanza del barone, che richiuse la porta dietro a sé. Camminò su e giù per la stanza agitato, tenendo le braccia incrociate al petto, poi mi si fermò davanti e ripeté: "Ho da parlarle, giovanotto!".
Mi si era svegliato intanto il più temerario coraggio e replicai, alzando la voce:
"Voglio sperare si tratti di parole che io possa sentire senza essere costretto a risentirmene" Il barone mi gettò uno sguardo stupito, come se non mi capisse. Poi guardò cupamente a terra, gettò le braccia dietro la schiena e ricominciò a passeggiare su e giù per la stanza in gran fretta. Tolse da una vetrina un fucile e osservò la canna, quasi volesse sapere se l'arma era o no carica.
Il sangue mi ribolliva nelle vene: strinsi nella destra il coltello e mi avvicinai al barone, tanto da impedirgli di mirare a me.
"Bell'arma!" disse il barone, risistemando il fucile nella vetrina.
Arretrai di qualche passo e il barone mi si avvicinò. Battendomi sulla spalla con più forza di quanto non fosse strettamente necessario, alla fine parlò:
"Io devo sembrarle sovraeccitato e sconvolto, Teodoro! E in realtà lo sono dopo una notte come questa, trascorsa in mille ansie. La crisi di nervi di mia moglie non era affatto una cosa pericolosa, ora ne sono convinto, ma qui... qui in questo castello, in cui abita uno spirito dannato, io temo di continuo qualcosa di orribile e poi è la prima volta che lei si ammala qui!... E lei, lei solo ne è responsabile!... ".
Replicai molto calmo che non capivo come questo potesse essere, non ne avevo veramente la minima idea.
"Oh! - continuò il barone - almeno quella maledetta cassa dell'ispettrice si fosse rotta in mille pezzi sul ghiaccio oppure se lei... ma no!... no! Doveva essere così, doveva essere così e io solo sono la colpa di tutto. Toccava a me, fin dal primo momento in cui lei incominciò a fare della musica nelle stanze di mia moglie, avvertirla della situazione e della condizione particolarissima di spirito della baronessa...".
Feci il gesto di voler parlare.
"Mi lasci proseguire, - esclamò il barone, - devo dirle tutto per prevenire un suo giudizio avventato. Lei sarà portato a considerarmi un uomo rozzo, incapace di sentire l'arte. Non lo sono affatto. Ma un riguardo basato su una convinzione profonda mi costringe a negare l'ingresso qui per quanto è possibile a quella musica che afferra ogni sensibilità e senza dubbio anche la mia. Sappia che mia moglie soffre di una eccitabilità che alla fine può privarla di ogni serenità e gioia di vita. In queste strane mura lei resta permanentemente in quello stato di esaltata sovraeccitazione che altrove si manifesta solo in maniera momentanea e precisamente come preannuncio di una malattia grave. Lei può chiedermi, e a ragione, perché io non risparmi a questa creatura delicata il soggiorno in questo luogo selvaggio e l'agitata vita della stagione delle cacce. Ma, la chiami pure fin che vuole debolezza, non mi è possibile lasciarla sola. Vivrei tra mille paure, incapace di fare niente di serio. Lo so troppo bene! Le immagini spaventose di ogni specie di mali e disagi che le potrebbero capitare non mi lascerebbero un solo momento: alla caccia come nella Sala delle Udienze... D'altronde credo anche che il soggiorno qui in questo nostro possesso possa agire sulla debole costituzione di mia moglie come un bagno ferruginoso e corroborante...
E veramente il vento del mare che a suo modo sussurra con bravura tra i pini della foresta, l'abbaiare profondo dei bei cani da caccia, il suono ardito e allegro dei corni dovrebbero avere qui il sopravvento su quei pigolamenti snervanti al pianoforte, che nessun uomo dovrebbe suonare in quel modo: ma lei ha deciso di tormentare, sistematicamente tormentare mia moglie a morte!".
Gli occhi del barone brillavano selvaggiamente mentre mi rivolgeva queste ultime parole. Il sangue mi salì alla testa, feci un gesto violento con la mano contro il barone e volevo parlare, ma non mi lasciò il tempo di dire una parola.
"So benissimo che cosa vuol dirmi lei - cominciò - lo so e le rispondo che lei era sulla strada per uccidere mia moglie: in nessun modo posso ritenere lei responsabile della cosa, ma è logico che io debba mettervi fine. Per finire: lei esalta mia moglie con suoni e canti e quando lei ondeggia senza freno né timone nel mare senza fondo delle visioni e dei presentimenti fantastici che la sua musica ha evocato simile a un maligno incantesimo, ecco che lei la sommerge e la costringe nel profondo dell'abisso con il racconto del ripugnante spettro, che deve averla presa in giro su nella Sala delle Udienze. Suo zio mi ha già raccontato tutto, ma per favore mi ripeta ancora una volta tutto quello che lei ha creduto di vedere... di sentire... di presentire...!".
Feci uno sforzo per essere in grado di raccontare tranquillamente dall'inizio alla fine la mia esperienza notturna. Il barone mi interrompeva a tratti con esclamazioni di meraviglia. Quando arrivai a dire con quale pio coraggio il mio vecchio zio si fosse opposto al fantasma e con quali forti parole lo avesse scacciato, congiunse le mani, levandole al cielo e disse con fervore:
"Sì! Lui è lo spirito protettore della mia famiglia! Nel nostro sepolcreto riposerà la sua spoglia mortale!...".
Avevo finito.
"Daniele! Daniele! che cosa fai qui a quest'ora?" andava mormorando tra sé il barone, camminando a braccia conserte su e giù per la stanza.
"Non le serviva altro, signor barone?" chiesi ad alta voce, facendo atto di allontanarmi.
Il barone si scosse come da un sogno, mi prese amichevolmente la mano e disse:
"Sì, caro amico! Lei, che senza volerlo ha tanto danneggiato con la sua musica mia moglie, lei deve ora rimetterla a posto. Soltanto lei ha questo potere!...".
Sentii di arrossire e se avessi avuto di fronte a me uno specchio vi avrei certamente visto un viso molto sciocco e impermalito. Sembrava che il barone si beasse di questo mio imbarazzo, poiché continuava a fissarmi dritto negli occhi con un misterioso sorrisetto ironico.
"Ma come, da che parte potrei mai cominciare per..." scoppiai a dire alla fine con una certa fatica.
"Su, su!... - mi interruppe il barone - non si tratta poi di una paziente pericolosa. Voglio precisamente alludere alla sua arte. La baronessa è ormai prigioniera nel cerchio incantato della sua musica, strapparvela sarebbe insensato e crudele. Continui le sue serate musicali. Ogni sera sarà il benvenuto nelle stanze di mia moglie. Ma arrivi a poco a poco a una musica più energica, unisca abilmente i motivi sereni a quelli seri... e poi, prima d'ogni altra cosa, ripeta abbastanza spesso la storia del brutto spettro. La baronessa vi si abitua e così dimentica che lo spettro abita qui con lei tra queste mura e la storia non ha sul suo animo un'influenza più notevole e forte di quella che qualunque altro racconto del genere, trovato in un romanzo o in un libro di spiritismo, potrebbe avere. Lo faccia, caro amico!". E mi congedò.
Me ne andai: mi sentivo annientato nel profondo, decaduto a bambino incosciente e pazzerello. Pazzo ero stato a credere che in lui ci fosse della gelosia: lui stesso mi mandava da Serafina, lui stesso non vedeva in me che un mezzo qualsiasi privo di volontà propria, da potere usare e mettere da parte come si vuole! Pochi minuti prima temevo il barone, sentendo in me, nei nascosti meandri della coscienza, il senso della colpa; ma questa colpa stessa mi dava la chiara sensazione di una vita più alta, più bella, a cui ero maturato. Tutto crollava ora in una notte oscura e vedevo solo il ragazzo sciocco, che nella sua infantile traslazione stima oro vero la corona di carta che si è messo da sé sulla testa. Mi affrettai a raggiungere il vecchio prozio, che già mi aspettava, e che mi accolse esclamando:
"Insomma, cugino, si può sapere dove sei stato?".
"Ho parlato con il barone," gli risposi a voce bassa e affrettata senza trovare la forza di guardare in viso lo zio.
"Per mille diavoli! - esclamò lui assumendo un tono di stupore. Stavo proprio pensandolo!... E il barone naturalmente ti ha sfidato...?".
La sonora risata che segui immediatamente queste parole, mi provò che anche questa volta, come sempre, lui leggeva i miei pensieri. Strinsi i denti, per non lasciarmi sfuggire nemmeno una parola, ben sapendo che non serviva altro per dare libero sfogo a tutte le feroci canzonature, che già si affollavano sulle labbra del vecchio.
La baronessa scese a tavola in un graziosissimo abito da mattina di un bianco tanto abbagliante da rivaleggiare con la neve caduta di fresco.
Languida e insieme leggermente eccitata, era più bella che mai, mentre parlando a voce bassa e melodica alzava gli occhi neri e la fiamma scura di un dolce desiderio nostalgico li attraversava con il bagliore di un lampo e le guance di giglio le si coloravano di un fuggevole rosso.
Chi ha mai potuto vedere chiaro nelle follie di un giovane dal sangue troppo ardente, che gli sale dal cuore alla testa? L'amaro rancore che il barone aveva suscitato in me, lo riversai tutto sulla baronessa. Ogni cosa mi sembrò come un'empia mistificazione ed ero ben sicuro ormai della mia vista sgombra, che mi permetteva di giudicare chiaramente quel gioco. Volli farne una prova. Come un ragazzo imbronciato evitai la baronessa e sfuggii agli inseguimenti di Adelaide, trovando posto a tavola, proprio come avevo deciso, tra i due ufficiali, in compagnia dei quali mi misi a bere sodo. Alla frutta, ci dedicammo con coscienziosità ai brindisi e come succede sempre in casi simili io ero eccessivamente allegro e rumoroso. Un cameriere mi portò un piatto di confetti, dicendo: "Da parte della signorina Adelaide". Li presi e subito mi accorsi che su uno di essi era stato scarabocchiato a matita: "E Serafina?". Il sangue mi si agitò nelle vene: guardai nella direzione di Adelaide: l'espressione del suo viso era quanto mai furba e sottilmente sagace: sollevò il bicchiere, con un lieve cenno del capo. Quasi involontariamente mormorai: "Serafina", presi a mia volta il bicchiere e lo vuotai d'un fiato. Guardai lei e vidi che in quello stesso istante aveva pure lei finito di bere e posava il bicchiere... I suoi sguardi incontrarono i miei. E un diavolo maligno mi sussurrò: "Disgraziato!... Ma se ti ama!...". Uno degli ospiti si alzò e secondo l'usanza nordica augurò buona salute alla padrona di casa. I bicchieri si scontrarono in gioia rumorosa. Estasi e disperazione si contendevano il mio cuore, l'ardore del vino fiammeggiava in me: tutto mi girava intorno e avevo la sensazione di dover cadere ai suoi piedi e davanti agli occhi di tutti esalare il mio ultimo respiro!!
"Ma che cos'ha, caro amico?"... La domanda del mio vicino mi richiamò a me: Serafina era sparita...
Ci si alzò da tavola. Volevo andarmene, ma Adelaide mi trattenne saldamente, parlò di ogni specie di cose, di cui io non sentivo, non capivo una sola parola... mi prese una mano e mi gridò qualcosa nell'orecchio ridendo forte... Come colpito da catalessi, rimasi lì muto e rigido. Ricordo solo che alla fine presi dalle mani di Adelaide con gesto totalmente meccanico un bicchierino di liquore, lo vuotai, mi ritrovai solo nel vano di una finestra, uscii a precipizio dalla sala, corsi giù per le scale, fuori nella foresta!
La neve cadeva a densi fiocchi, i pini si lamentavano, scossi dalla tempesta. Simile a un uomo in delirio, io saltavo in larghi cerchi e ridevo, selvaggiamente gridando:
"Venite a vedere! Venite a vedere!... Olà!.... Il Diavolo sta facendo il suo balletto con il ragazzino, che aveva creduto di potersi cibare del frutto proibito!...".
Chi sa come sarebbe finito il mio giuoco insensato, se non avessi sentito gridare forte il mio nome. La tempesta era cessata calmandosi e la luna brillava chiara attraverso le nuvole squarciate; sentii i cani e vidi una figura scura che mi si avvicinava.. Era il vecchio cacciatore.
"Per carità, caro signor Teodoro! - iniziò a dire. - Come ha fatto a smarrirsi in questa brutta nevicata! Il signor Giustiziere sta aspettandola con impazienza!...".
Lo seguii in silenzio. Trovai il mio vecchio zio al lavoro nella Sala delle Udienze.
"Hai fatto bene - fu la sua accoglienza - hai fatto davvero bene ad uscirtene un po' all'aria aperta a rinfrescarti. Ti ci voleva. Ma non bere tanto vino, sei ancora troppo giovane per questo e poi non serve a niente".
Non risposi e in silenzio mi sedetti alla scrivania.
"Ma dimmi un po', se non ti spiace, caro cugino: che cosa voleva da te il barone?".
Gli raccontai tutto e conclusi dicendo di non volermi dedicare a quella cura del resto molto dubbia.
"Non sarebbe neppure più possibile, - mi interruppe il vecchio, perché domani mattina prestissimo noi partiamo".
E fu così: non rividi Serafina!
Appena arrivato a K. il vecchio prozio si lamentò che questa volta il faticoso viaggio lo aveva più che mai scosso. Il suo arcigno silenzio, interrotto solo da violenti scoppi di irato malumore, annunciò il ritorno di uno dei suoi attacchi di podagra.
Un giorno fui chiamato in tutta fretta al suo capezzale e lo trovai, colpito da congestione cerebrale, senza parola, che stringeva nella mano irrigidita in un crampo una lettera stazzonata.
Riconobbi la scrittura dell'ispettore dei domini di R...sitten. Ma sopraffatto da un intenso dolore, non osai togliere al vecchio la sua lettera, non dubitando della sua morte imminente.
E tuttavia, prima che il medico arrivasse, il polso riprese a battere; la costituzione straordinariamente robusta del vecchio settantenne seppe opporsi all'attacco mortale, il giorno stesso fu dichiarato dal medico fuori pericolo. Quell'inverno fu di una rigidità eccezionale:
lo seguì una primavera nebbiosa e umida, cosicché non tanto il fatto trombotico al cervello, quanto la podagra, accentuata dal perfido clima, costrinse il vecchio a rimanere a letto per un lungo periodo di tempo. Fu allora che decise di ritirarsi completamente dagli affari. Passò ad un altro la sua carica di giustiziere, di modo che io venni a perdere ogni speranza di ritornare mai al castello di R...
Il vecchio prozio sopportava soltanto le mie cure, solo io potevo con sua soddisfazione intrattenerlo e rasserenarlo.
Ma anche quando, nelle ore buone di calma dei suoi dolori, gli ritornava l'antica allegria e non gli mancavano i rudi scherzi, quando arrivava addirittura alle storielle di caccia e io mi aspettavo in ogni momento di veder riesumato il mio gesto eroico dell'accoltellamento del lupo spaventoso... mai... mai egli fece menzione del nostro soggiorno a R...sitten. E chi non capirà il mio naturale riserbo, che mi impedì sempre di portare espressamente su quell'argomento il discorso? Le mie tristi preoccupazioni, la mia pena quotidiana per lo stato di salute del mio caro vecchio avevano fatto sì che l'immagine di Serafina si ritraesse alquanto nel mio spirito. Non appena il vecchio si ristabilì dalla sua malattia, ripensai con vivacità più intensa ogni istante passato nella camera della baronessa, che mi sembrava una lucente, ormai per sempre tramontata, stella.
Un avvenimento capitò a rievocare tutto il dolore già provato, infondendomi nelle membra un brivido gelato come una apparizione dell'oltretomba.
Una sera aprivo la cartella che avevo portato con me a R...: dai fogli sparsi mi cade in mano un ricciolo bruno, legato da un bianco nastro, che io riconosco immediatamente per una ciocca di capelli di Serafina! Ma quando osservo più da vicino il nastro, vedo la chiara traccia di una goccia di sangue!...
Con grande probabilità, nell'incosciente delirio da cui ero stato colto l'ultimo giorno, la signorina Adelaide era riuscita a infilarmi abilmente in una tasca questo ricordo: ma perché quella goccia di sangue, che mi faceva presentire qualcosa di orribile e innalzava quel languido pegno d'amore a raccapricciante ammonizione di quanto amato sangue una passione avrebbe potuto costare?... Era quel nastro bianco che mi aveva sfiorato, per la prima volta vicino a Serafina, in un lieve spensierato gioco, al quale l'oscura notte aveva impresso il sigillo di una mortale rovina.
Il ragazzo non deve giocare con l'arma della quale conosce il pericolo!
Finalmente le tempeste primaverili avevano smesso di imperversare: l'estate aveva affermato il suo diritto e come prima il freddo, ora era diventato insopportabile il caldo, con l'inizio del mese di luglio. Il vecchio zio si ristabiliva a vista d'occhio, riacquistando le sue forze, e come era solito fare si trasferì in una sua villa alla periferia.
Sedevamo in una tranquilla e tiepida sera nel profumato boschetto di gelsomini: lo zio era insolitamente sereno e non come sempre frizzante di sarcastica ironia, ma di umore mite, quasi tenero.
"Cugino! - cominciò.- Non so che cosa mi succeda oggi. Mi sento bene come mai più da anni e questo senso di benessere mi penetra tutto con un calore elettrico. Credo significhi una morte vicina".
Mi affannai a distoglierlo da quei brutti pensieri.
"Lascia stare, cugino! - continuò. - Non ho più molto tempo da restare quaggiù e voglio ancora togliermi un debito che ho verso di te! Pensi ancora all'autunno che passammo a R...sitten?...".
La domanda del vecchio mi trapassò come un fulmine, ma prima che io potessi rispondere, egli continuò:
"Il cielo dispose che tu allora penetrassi in modo del tutto particolare e indipendentemente dalla tua volontà nei segreti di quella casa. E' venuto ora il tempo che tu sappia tutto. Abbiamo parlato troppo spesso, cugino, di cose che tu intuivi, più che non potessi veramente capire! Che la natura simboleggi nel succedersi delle stagioni il ciclo dell'umana esistenza, tutti lo dicono. Ma io lo intendo in un modo diverso dagli altri. Cadono le nebbie della primavera, evaporano i densi profumi dell'estate e solo la limpida atmosfera autunnale mostra in una visione chiara il lontano paesaggio e l'aldiquà precipita nella notte invernale.
Dico che alla chiaroveggenza della vecchiaia appare distintamente il procedere dell'imperscrutabile potere. Sono sguardi concessi a noi nella terra promessa, verso la quale il pellegrinaggio si inizia con la morte temporale. Come tutto si schiude davanti agli occhi del mio spirito!... Eppure per quanto io veda tutto in forme chiare, non posso esprimerti a parole l'essenziale: la lingua umana non ne è capace. Ascolta, figlio mio, quello che io ora ti racconto come se si trattasse di una meravigliosa storia che potrebbe anche accadere.
Conserva profonda nella tua anima la convinzione che le misteriose relazioni nelle quali tu, forse chiamato, ti avventurasti, avrebbero potuto portarti alla rovina!... Ma!... Ormai tutto questo è passato!...".
Ho conservato così fedelmente nella mia memoria la storia del maggiorascato di R..., come allora me la raccontò il mio vecchio zio, che mi è possibile ora (il vecchio parlava di sé alla terza persona) narrarla quasi con le sue stesse parole.
In una tempestosa notte d'autunno dell'anno 1760, un rombo terrificante, come se l'intero immenso castello stesse precipitando in rovina, svegliò dal suo sonno profondo tutto il personale di R...sitten.
Un attimo e tutti furono in piedi: vennero accese lampade e arrivò ansante, pallido in viso come un cadavere, il maggiordomo con le sue chiavi; ma non poco fu lo stupore di tutti, quando, nel silenzio alto di morte che paurosamente restituiva l'eco ripetuta di ogni stridere straziante di serratura, di ogni passo degli uomini, l'avanzarsi continuò attraverso sale, attraverso corridoi, attraverso stanze perfettamente intatte. In nessun posto la minima traccia di una qualsiasi rovina. Un fosco presentimento si impadronì del vecchio maggiordomo: salì alla grande Sala dei baroni, vicino alla quale, in uno studiolo adiacente, il barone Roderico di R... era solito riposare, dopo essersi dedicato a ricerche astronomiche. Una porta, sistemata tra questo e un altro studiolo, portava immediatamente attraverso uno stretto corridoio alla torre-osservatorio. Ma quando Daniele (così veniva chiamato il vecchio intendente) aprì questa porta, la tempesta gli gettò in viso, fischiando e mugghiando orribilmente, calcinacci e frammenti di pietre, cosicché egli saltò traballante all'indietro per lo spavento, lasciò cadere a terra il candeliere, le cui candele si spensero scoppiettando, e gridò forte:
"O Signore del cielo! Il barone si è orribilmente fracassato!". In quel momento si sentirono esclamazioni lamentose che venivano dallo studiolo del barone. Daniele trovò il resto della servitù raccolto intorno al cadavere del suo signore.
Vestito completamente e con ricchezza maggiore del consueto, una tranquilla serietà nel viso intatto, egli sedeva nella grande sedia a braccioli dai ricchi ornamenti, come se riposasse da un faticoso lavoro. Ma riposava nella morte.
Quando fu giorno, ci si accorse che il coronamento della torre era sprofondato insaccandosi. Le grosse pietre dei merli avevano distrutto soffitto e pavimento dell'osservatorio e insieme alle poderose travi, anch'esse travolte dalla rovina, con forza raddoppiata dalla caduta, avevano infranto la volta sottostante e trascinato con sé una parte del muro maestro del castello e dello stretto corridoio. Non era possibile avventurarsi di un solo passo oltre la porta, senza correre il rischio di precipitare da un'altezza di almeno ottanta piedi nel precipizio profondo. Il vecchio feudatario aveva previsto la sua morte con esattezza anche nell'ora e ne aveva informato i suoi figli. Fu così che subito il giorno seguente Volfango, barone di R..., figlio primogenito del defunto e per conseguenza signore del maggiorasco, arrivò al castello. Sicuro che i presentimenti paterni erano ben fondati, aveva lasciato immediatamente Vienna, dove appunto si trovava in viaggio, e si era affrettato a giungere a R...sitten nel più breve tempo possibile. Il maggiordomo aveva fatto deporre il vecchio barone nella grande sala tutta parata di nero, su un lussuoso catafalco, circondato da alti candelieri d'argento dove bruciavano i ceri funebri. In silenzio Volfango salì la scala, entrò nel salone, si avvicinò al cadavere di suo padre. Là rimase, dritto, le braccia incrociate sul petto, lo sguardo fisso e tenebroso dei suoi occhi, sotto le sopracciglia aggrottate, fissato sul volto terreo del padre. Sembrava una statua, non una lagrima uscì dai suoi occhi. Finalmente, con un movimento quasi spasmodico, tendendo la mano destra verso il cadavere, mormorò con voce sorda: "Le costellazioni ti costringevano a rendere infelice il figlio che amavi?". Poi ritirando la mano e indietreggiando di un passo, il barone sollevò lo sguardo in alto e quando parlò la sua voce si era abbassata di tono, diventata quasi tenera: "Povero vecchio illuso!... La mascherata con i suoi stupidi inganni è ormai finita!... Ora tu sei venuto a sapere che lo scarso possesso che ci è dato quaggiù niente ha in comune con quello al di là delle stelle... Quale forza, quale volere regna di là dalla tomba!...". Tacque per qualche secondo, poi gridò violentemente: "No! Non la più piccola parte della mia felicità terrena, che hai cercato di annientare, la tua folle idea fissa riuscirà a strapparmi!...". E così dicendo tolse dalla sua tasca una carta ripiegata e la tenne tesa tra due dita su un cero che bruciava vicinissimo al cadavere. Attaccato dalla fiamma il foglio illuminò, bruciando alto, il volto del cadavere con il suo riflesso, e la luce vi giocò, nello sfiorarlo, in modo tale che che i muscoli sembrarono muoversi a pronunciare parole senza suono e i servi inginocchiati lontano rabbrividirono di orrore. Il barone concluse l'impresa schiacciando accuratamente sotto i piedi l'ultimo pezzettino di carta che lasciò cadere a terra in fiamme. Gettò un'altra cupa occhiata al padre e uscì in fretta dalla sala.
Il giorno dopo Daniele informò il nuovo barone del recente crollo della torre, descrivendo verbosamente come questo fosse avvenuto nella notte in cui il vecchio signore, di buona e beata memoria, era morto, e finì con il concludere che sarebbe stato molto opportuno provvedere subito alla ricostruzione della torre, poiché se avesse dovuto continuare a cadere in rovina, l'intero castello correva il pericolo, se non di essere distrutto completamente, almeno certo di venire gravemente danneggiato.
"Ricostruire la torre? - assalì il barone il vecchio servo, mentre gli occhi gli brillavano per l'ira - mai!".
"Ma non capisci, vecchio, - continuò calmandosi - che la torre non poteva cadere così da sola, senza nessuna causa? E se fosse stato desiderio del mio stesso padre, che il posto delle sue inquietanti investigazioni astronomiche andasse in rovina; se lui stesso avesse congegnato in modo che il coronamento della torre crollasse, quando egli lo avesse voluto, trascinando nel crollo l'interno della costruzione?... Comunque, sia come sia, vada pure in rovina l'intero castello, ne sarei soddisfatto. Ma che cosa credete, che io voglia abitare qui in questo nido di gufi? Il mio intelligente antenato che fece gettare nell'ameno fondo valle le fondamenta di un nuovo castello mi ha preceduto nel lavoro e io lo seguirò".
"E così - mormorò Daniele - anche i vecchi servitori dovranno prendere in mano il bastone del pellegrino...".
"Va da sé che io non mi farò servire - rispose il barone - da vecchi inservibili e malfermi sulle gambe: ma non scaccerò nessuno. Vi sembrerà abbastanza buono il pane e il cibo che vi darò per carità senza che facciate niente".
"Ridurre me - gridò il vecchio - me, il maggiordomo, l'intendente della casa, fuori servizio...".
Allora il barone, che, in procinto di lasciare la sala, girava le spalle al vecchio, si girò improvvisamente, rosso in viso per la collera, e tendendo il pugno serrato camminò verso il vecchio e gridò con voce spaventosa:
"Te!?... Vecchio mascalzone ipocrita, che insieme a mio padre hai condotto quel disgustoso commercio là in alto, che ti sei attaccato come un vampiro al suo cuore, che hai forse delittuosamente sfruttato la sua follia, per convincerlo alle diaboliche decisioni che mi hanno portato sull'orlo dell'abisso... Te?!! Ma ti dovrei cacciare via come un cane rognoso!...".
Terrorizzato da questo spaventoso discorso, il vecchio era caduto a terra in ginocchio proprio accanto al barone: accadde allora che (poiché sempre negli stati d'ira il corpo segue macchinalmente il pensiero e lo porta a termine nel gesto) forse involontariamente a queste ultime parole, il barone spinse avanti con violenza il piede destro e colpì il vecchio così duramente al petto, che questi cadde a terra con un gemito sordo. A fatica si rialzò, emettendo un suono strano, simile al lamento di un animale ferito a morte, e trapassò il barone con uno sguardo, in cui ardevano insieme l'ira e la disperazione. E lasciò che giacesse a terra, senza neppure toccarla, la borsa di denaro che il signore gli aveva gettato nell'uscire.
Si erano intanto riuniti i più prossimi parenti della casata che abitavano nei dintorni, con pompa solenne il vecchio barone fu deposto nel sepolcreto di famiglia, nella chiesa di R...sitten, e quando finalmente gli ospiti lasciarono la casa, sembrò che il nuovo signore del maggiorasco uscisse da quel suo stato d'animo, per rallegrarsi francamente dell'acquistato possesso. Passò in esatta rassegna tutte le rendite del maggiorascato con l'aiuto di V., riconosciuto da lui al primo colloquio e riconfermato nel suo ufficio, concedendogli tutta la sua fiducia, e fece il calcolo di quanto poteva venire da esse una volta detratto l'occorrente per le migliorie e per la costruzione del nuovo castello. V. fu dell'opinione che era impossibile che il vecchio barone avesse consumato le sue rendite annuali e che dovesse esserci ancora del denaro nascosto da qualche parte, poiché tra le carte non erano stati trovati che pochi titoli bancari e in una cassetta di ferro una somma liquida, ammontante a poco più di mille talleri. Chi poteva essere al corrente della cosa, se non Daniele, che, difficile e ostinato com'era, avrebbe aspettato a parlare solo quando fosse stato interrogato.
Il barone fu molto preoccupato dal fatto che Daniele, gravemente offeso da lui, non per tornaconto personale, poiché a che cosa poteva servire al vecchio la più grossa somma di denaro, se era senza figli e non desiderava che di finire la sua vita nel castello di R...sitten, ma per vendicarsi dell'ingiuria patita, preferisse lasciare i tesori nascosti alla loro consunzione, che rivelare il loro nascondiglio. Raccontò a V. tutto quello che era accaduto tra lui e Daniele e concluse dicendo che secondo molte voci che gli erano arrivate Daniele soltanto era responsabile di quell'oscura, inspiegabile ripugnanza del vecchio barone a vedersi vicino i suoi figlioli a R...sitten. Il giustiziere disse che quella voce era assolutamente falsa, poiché nessuno al mondo avrebbe avuto il potere di influire sulle decisioni del vecchio e tanto meno di determinarle, assumendosi d'altra parte l'incarico di strappare a Daniele il segreto del denaro nascosto in chi sa quale posto. Non ci fu bisogno di tanto, perché, non appena il giustiziere cominciò a dire: "Ma com'è, Daniele, che il vecchio barone ha lasciato così poco denaro liquido?", quello rispose subito di rimando: "Allude forse, signor giustiziere, a quel paio di stracci talleri, che lei ha trovato nella cassettina?... Il resto, se vuol saperlo, giace nella volta, accanto allo studiolo del signor barone!... Ma il meglio - continuò mentre il suo sorriso si trasformava in un ghigno ripugnante e gli occhi scintillanti gli si iniettavano di sangue - ma il meglio, molte migliaia di pezzi d'oro, sono sepolti là sotto le macerie!".
L'avvocato V. fece chiamare immediatamente il barone e i tre andarono insieme nello studiolo. Daniele fece scorrere un riquadro della parete e apparve una serratura. Mentre il barone la fissava impietrito con avidi sguardi e si disponeva poi ad aprirla, tentando ognuna delle chiavi pendenti dal grosso mazzo che faticosamente e con forte strepito andava torcendo nella tasca, Daniele restava lì dritto nella figura guardando in basso con diabolica maligna fierezza, verso il barone, che si era piegato per osservare meglio la serratura.
Con l'impronta della morte in viso, con voce sussultante, parlò alla fine: "Se sono un cane, illustrissimo signor barone... ho in me del cane anche la fedeltà". E porse al barone una lucida chiave di acciaio. Questi gliela strappò con violenza dalle mani e con poca fatica aprì la porta.
Entrarono in un basso e piccolo sottoscala a volta, in cui stava un forziere di ferro molto grande e aperto. Al di sopra di numerosi sacchi di denaro stava un foglio. Il vecchio barone vi aveva scritto con la sua ben nota grande e antica scrittura:
"Centocinquantamila talleri imperiali in vecchi federichi d'oro, risparmiati sulle rendite del feudo di maggiorasco di R...sitten. La somma è destinata alla costruzione del castello. Inoltre il signore del maggiorasco che mi seguirà, in possesso di questo denaro, sulla più alta collina a occidente della torre del castello, che egli troverà in rovina, dovrà far costruire un faro a vantaggio dei naviganti e curare che venga acceso ogni notte.
R...sitten, nella notte di S. Michele dell'anno 1760.
Roderico, barone di R.
Dopo aver sollevato uno dopo l'altro i sacchi e averli lasciati ricadere giù nella cassa, godendo del tintinnare dell'oro, all'improvviso, il barone si girò verso il vecchio maggiordomo, lo ringraziò per quella prova di fedeltà e lo assicurò che solo delle chiacchiere maligne erano state la causa del suo maltrattamento. Non semplicemente egli doveva restare al castello, ma in funzione di maggiordomo e con stipendio aumentato del doppio: "Voglio completamente risarcirti il danno: vuoi dell'oro? Prendi uno di quei sacchi!". Così concluse il barone il suo discorso al vecchio, stando in piedi davanti a lui con occhi bassi e accennando con la mano al forziere, al quale poi si accostò ancora una volta a mostrare i sacchi. Un vivo color rosso si sparse improvvisamente sulle guance del vecchio, che emise quel terrificante suono, simile al lamento di un animale ferito a morte, che il barone aveva descritto al giudice. Costui sussultò, poiché quello che il vecchio intendente andava ora mormorando tra i denti, suonava come: "Sangue per oro!". Il barone sprofondato nella contemplazione del tesoro, non aveva notato niente della scena: Daniele, che era stato scosso da un brivido spasmodico e febbrile, si avvicinò a testa china e in attitudine di umile ossequio al barone, gli baciò la mano e disse con voce di pianto passandosi il fazzoletto sugli occhi come per asciugarsi le lagrime: "Ah! mio caro signore!... Che cosa devo farne io, povero vecchio senza figli, dell'oro?... Ma lo stipendio raddoppiato, questo sì lo accetto volentieri e voglio attendere al mio ufficio con tutta la forza e tutta la solerzia che mi sarà possibile!".
Il barone, che non aveva badato gran che alle parole del vecchio, lasciò ricadere il pesante coperchio del forziere, così che tutto il ripostiglio sembrò minacciosamente schiantarsi; poi mentre chiudeva il forziere e ne toglieva soprappensiero la chiave, disse frettolosamente: "Bene, bene, vecchio!". "Ma, continuò dopo un momento quando erano già rientrati nella sala, tu hai parlato anche di numerose monete d'oro, che giacerebbero sotto le rovine della torre crollata?".
In silenzio il vecchio si avvicinò alla porta e la aprì con fatica. Ma aveva appena scostato il battente che la tormenta irrompente gettò nella sala densi fiocchi di neve, un corvo impaurito svolazzò squittendo e gracchiando tutto intorno, sbatté le nere ali contro le finestre e si riprecipitò, non appena ritrovata l'apertura della porta, nel baratro. Il barone avanzò nel corridoio, ma barcollò all'indietro al primo sguardo gettato nel profondo. "Vista terrificante... vertigine..." balbettò e cadde, come svenuto, fra le braccia del Giustiziere V. Ma subito si riprese e stringendo il vecchio con occhiate penetranti, chiese: "E là sotto?".
Nel frattempo il vecchio aveva di nuovo chiuso il battente, e per farlo aveva dovuto appoggiarvisi sopra con tutto il corpo, tanto che, dopo esser riuscito a togliere dalla serratura arrugginita la chiave, ansava e sbuffava. Portata però a termine l'impresa, si rivolse al barone e disse, con uno strano sorriso, girando e rigirando tra le mani la chiave:
"Sì, là sotto giacciono a migliaia... tutti i magnifici strumenti del defunto signore... telescopi, quadranti... globi... riflettori... e tutto giace distrutto in mille pezzi nelle macerie, tra le pietre e le travi!".
"Ma denaro! denaro liquido? - lo interruppe il barone, - tu hai parlato di monete d'oro? Di', vecchio?".
"Intendevo soltanto, - replicò il servo, - cose che erano costate migliaia di monete d'oro".
Non fu possibile cavargli altro.
Il barone sembrò rallegrarsi moltissimo di essere arrivato di colpo in possesso dei mezzi necessari per eseguire il suo progetto preferito e cioè la costruzione di un nuovo e splendido castello. A dire il vero il giustiziere era del parere che nell'intenzione del vecchio signore si trattasse semplicemente del restauro e della completa costruzione in tutte le sue parti del vecchio castello, tanto più che in effetti ogni nuova costruzione avrebbe difficilmente raggiunto la maestosa grandezza, le semplici severe linee dell'antica casa d'origine. E tuttavia il barone restò fermo nel suo proposito, dichiarando che in disposizioni del genere non riguardanti i documenti di fondazione la volontà del trapassato doveva cedere alla sua.
Spiegò che era suo dovere sfruttare clima, terreno e paesaggio per rendere il soggiorno di R...sitten gradevole, poiché aveva in animo di portarvi tra breve tempo, come moglie adorata, una creatura, sotto tutti gli aspetti degna dei più grandi sacrifici.
Il modo misterioso in cui il barone parlava di un'unione in segreto già forse conclusa, impedì al giudice ogni ulteriore domanda, mentre d'altronde la decisione del barone lo tranquillizzava, vedendo ora in quell'avidità di ricchezza più il desiderio ardente di far dimenticare all'essere amato una patria più bella e abbandonata, che vera e propria avara sete di oro.
Avaro altrimenti sarebbe stato costretto a reputarlo, vedendolo crogiolarsi alla vista dei bei federichi d'oro, incapace di trattenersi dal mormorare: "Quel vecchio mascalzone ci ha certamente taciuto il tesoro più ricco, ma la prossima primavera faccio sgombrare le rovine della torre sotto i miei occhi!".
Vennero gli architetti e con loro il barone discusse a lungo come provvedere nel modo in ogni senso migliore alla costruzione. Respinse progetti su progetti, nessuno gli sembrava abbastanza ricco, abbastanza grandioso. Cominciò anzi lui stesso a schizzarne, e rasserenato da queste occupazioni che costantemente presentavano alla sua mente il raggiante quadro di un felicissimo futuro, diventò di un umore allegro, anzi a volte sfrenato, a cui voleva che tutti partecipassero. La sua munificenza, il lusso sontuoso della sua ospitalità venivano a controbattere almeno il sospetto di avarizia.
Daniele sembrava avere a sua volta dimenticato il torto che gli era stato fatto. Tranquillo e modesto nei confronti del padrone, che tuttavia, ripensando al tesoro nel precipizio, lo seguiva con uno sguardo diffidente, eccitò lo stupore di tutti ritornando di giorno in giorno più giovane. Poteva darsi che lo avesse profondamente abbattuto il dolore per la morte del suo vecchio padrone e che cominciasse ora a riaversi dal dispiacere: poteva darsi anche che, non costretto più a trascorrere fredde nottate insonni sulla torre, godesse del cibo migliore e del buon vino che gli piaceva; il fatto sta che dal vecchio usciva un uomo robusto con le guance rosse e una ben nutrita figura, che camminava con passo ben fermo e rideva forte quando sentiva uno scherzo.
L'allegra vita nel castello di R... ebbe fine a causa dell'arrivo di un uomo, di cui si sarebbe appunto pensato che alla vita allegra appartenesse in tutto. Quest'uomo era Uberto, il cadetto di Volfango.
Vedendolo comparire, costui, pallido in volto come un morto, gridò:
"Sciagurato, che cosa vuoi qui?...".
Uberto si precipitò tra le braccia del fratello, ma questi lo afferrò, e lo portò con sé di sopra, in una camera fuori mano, nella quale si chiuse con lui. Rimasero insieme parecchie ore, finché alla fine Uberto scese con il viso stravolto e chiese i suoi cavalli.
Il giustiziere gli andò incontro: egli fece atto di oltrepassarlo. V., nel presentimento che forse in quell'occasione un mortale rancore fraterno potesse finalmente aver fine, lo pregò di trattenersi almeno un paio d'ore ancora e in quel momento arrivò dal piano superiore anche il barone, gridando ad alta voce: "Rimani qui, Uberto! Ritornerai sulla tua decisione!...".
Lo sguardo di Uberto si rasserenò, egli riprese la padronanza di sé e, togliendosi in fretta la ricca pelliccia che gettò a un servo, tese la mano a V. e disse, entrando con lui nella stanza con un sorriso di scherno:
"Il signore del maggiorasco ha la bontà di sopportare la mia presenza".
V. pensava che la sciagurata incomprensione fra i due fratelli, causata e aumentata dalla continua lontananza, si sarebbe ormai finalmente conclusa. Uberto prese le molle di ferro, che stavano presso il camino e mentre attizzava con esse un fuoco più vivo da un nodoso e fumigante ciocco, disse a V.:
"Vede bene, signor giustiziere, che io sono un buon diavolo, bravissimo in tutte le faccende domestiche. Ma Volfango è un uomo tutto preso dai più stravaganti pregiudizi e... un piccolo strozzino".
V. ritenne opportuno non immischiarsi più oltre nei rapporti tra i due fratelli, tanto più che il viso di Volfango, il suo comportamento, la sua voce rivelavano chiaramente l'uomo dilaniato nel profondo da passioni di ogni tipo.
Per consultare il barone sulle sue decisioni riguardo a non so quale questione a proposito del maggiorasco, V. salì nella sua stanza a sera già avanzata.
Lo trovò che passeggiava concitatamente su e giù per la stanza, le mani intrecciate sul dorso; accorgendosi alla fine della presenza del giustiziere, si fermò e, afferrando le sue mani, fissandolo cupamente negli occhi, gli disse con voce spezzata:
"E' venuto mio fratello!...".
"So bene - continuò non appena V. fece l'atto di aprir bocca a domandare - che cosa vuol dirmi lei. Ahimè! Lei non sa niente. Lei non sa che il mio sciagurato fratello... sì, soltanto sciagurato voglio chiamarlo!... non sa che come uno spirito del male egli si fa sempre incontro sul mio cammino a distruggere la mia pace. Non è merito suo se io non sono ora indicibilmente infelice; ha fatto tutto quanto era in suo potere perché lo fossi, ma il cielo non lo ha consentito... Dal giorno in cui fu nota la fondazione del maggiorasco, egli mi perseguita con un odio mortale. Mi invidia questo possesso, che nelle sue mani si sarebbe disperso come pula al vento. E' il più dissennato scialacquatore che ci sia. L'ammontare dei suoi debiti sorpassa di molto la metà delle rendite dei possedimenti liberi in Curlandia che spettano a lui, e adesso, perseguitato dai creditori che non gli danno riposo, arriva qui in gran furia a cercar denaro".
"E lei, il fratello... - volle dire V. - rifiuterebbe...".
Ma il barone lasciando le sue mani, indietreggiò violentemente e gridò forte, in fretta:
"Taccia!... Sì, io rifiuto! Delle rendite del maggiorasco non posso e non voglio buttare via nemmeno un tallero!... Ma ascolti quale proposta ho fatto un'ora fa, invano, a quell'insensato: e poi giudicherà del mio sentimento del dovere. Il patrimonio libero in Curlandia è, come lei sa, rilevante: io ero disposto a rinunciare alla metà che mi spetta, ma in favore della sua famiglia. Uberto ha sposato laggiù una bella e povera ragazza. Da lei ha già avuto dei figli, che ora vivono stentatamente. I beni verrebbero amministrati da un avvocato, dalle rendite verrebbe ricavato il necessario per il mantenimento della famiglia, i creditori mediante accordo verrebbero tacitati. Ma che valore ha per lui una vita tranquilla, libera da preoccupazioni, che cosa contano per lui la moglie e i figli?... Denaro, denaro liquido in grosse somme vuole lui, per poterlo dissipare nella sua leggerezza criminale!... Non so quale demone gli abbia rivelato il segreto dei centocinquantamila talleri: pretende di averne diritto alla metà, sostenendo a suo modo con pazze ragioni che quel denaro deve essere considerato bene libero, sciolto ormai dai vincoli del maggiorasco... Il mio dovere mi impone di rifiutargli questo, ma ho il presentimento che dentro di sé egli vada preparando la mia rovina!".
Per quanto V. si sforzasse di liberare il barone dal sospetto nei riguardi di suo fratello, non riuscì a niente, dovendo necessariamente, non iniziato ai loro intimi segreti rapporti, ricorrere a generiche ragioni di ordine morale, abbastanza deboli in sé.
Il barone gli affidò il compito di trattare con l'ostile e avido Uberto; il che egli fece con tutto il tatto e la cautela possibili e non poca fu la sua soddisfazione, quando alla fine Uberto dichiarò: "E va bene! Accetto le proposte del signore del maggiorasco: ma a patto che lui subito, poiché sono sul punto di perdere per sempre onore e buon nome per la crudeltà dei miei creditori, mi anticipi mille federichi d'oro e permetta che di tanto in tanto io venga a stabilirmi nel bel castello di R... ospite del generoso fratello".
"Mai! Mai! - urlò il barone. - Non permetterò mai che Uberto resti un solo istante al castello, quando io vi avrò portato mia moglie! Vada da quel rompiscatole, mio caro amico, e gli dica che non mille, ma duemila federichi d'oro gli do e non come anticipo, no! glieli regalo... Ma che se ne vada! che se ne vada!...".
V. capì a un tratto che il barone si era già sposato senza il consenso del padre e che proprio in questo matrimonio era la causa della discordia fraterna. Uberto stette ad ascoltare con tranquilla superbia il giustiziere e quando questi ebbe finito, disse, cupamente: "Ci ritornerò sopra: intanto resto qui qualche altro giorno". L'avvocato si sforzò di dimostrare al malcontento come il barone facesse tutto quanto era in suo potere, con la cessione dei beni liberi in Curlandia, per risarcirlo e che non con lui doveva in ogni modo prendersela, pur riconoscendo che una fondazione come quella del maggiorasco, tutta a favore del primogenito e a danno degli altri, ha in sé qualche cosa di odioso.
Uberto, come se si sentisse venir meno il respiro, aprì con uno strattone la giacca dall'alto fino al fondo e, una mano affondata nei pizzi del suo jabot e l'altra appoggiata sul fianco, accennò una rapida mossa di danza su un piede solo e gridò con voce tagliente:
"Bah!... E' l'odio che genera l'odioso!..." e scoppiò in una rintronante risata: "Ma come è generoso da parte del munifico signore del maggiorasco di gettare un po' del suo oro al pezzente!...".
E V. si convinse che di una completa riconciliazione dei due fratelli non era neppure il caso di parlare.
Uberto, con grande disperazione di suo fratello, si sistemò nelle stanze a lui assegnate nel corpo laterale del castello per un lungo soggiorno. Fu notato che si intratteneva spesso e a lungo con il maggiordomo, anzi che a volte quest'ultimo lo seguiva nella caccia al lupo. Per il resto era raramente visibile ed evitava ogni occasione di trovarsi solo col fratello, cosa che a quest'ultimo andava benissimo.
V. sentiva tutto il peso della situazione e doveva confessare a se stesso che lo strano e sgradevole modo di fare e di dire di Uberto aveva l'intento premeditato di guastare la piacevole serenità della vita. Ormai capiva fin troppo bene lo spavento del barone Volfango nel vedere suo fratello arrivare in casa sua.
V. se ne stava tutto solo nella sala delle udienze, tra le sue carte, quando entrò Uberto: più serio, più calmo del solito, e con voce che poteva suonare malinconica, disse:
"Accetto anche le ultime condizioni del barone mio fratello: faccia in modo che io abbia entro stasera i duemila federichi d'oro, poiché è mia intenzione lasciare questa notte stessa il castello... a cavallo... da solo".
"Con il denaro?..." chiese V.
"Lei ha ragione - replicò Uberto - capisco che cosa intende... il peso... Ebbene mi faccia una cambiale per Isak Lazarus a K. Qualcosa mi spinge via di qui: il vecchio ha incatenato qui con le sue stregonerie i suoi spiriti maligni!".
"Parla di suo padre, signor barone?" interrogò severamente V.
Le labbra di Uberto ebbero un sussulto, si appoggiò pesantemente alla sedia come per non cadere, ma riavendosi a un tratto, esclamò: "Allora siamo intesi: oggi stesso, signor giustiziere!" e si diresse alla porta con passo fermo e tranquillo.
"Si accorge che ormai non sono più possibili raggiri e che non può fare niente in opposizione alla mia immutabile volontà" disse il barone stendendo la cambiale. Un gran peso gli veniva tolto dal cuore con la partenza del suo ostile fratello e da tempo non era stato più tanto allegro come quella sera a cena. Uberto aveva pregato di scusare la sua assenza, il che tutti fecero volentieri.
L'avvocato V. abitava in una camera posta abbastanza in disparte, la finestra della quale dava sul cortile del castello. Nel cuore della notte si svegliò e gli sembrò di aver sentito un suono lontano di lamento: ma per quanto stesse in ascolto, tutto rimase in profondo silenzio di morte, cosicché egli credette il suono percepito dalle sue orecchie un'illusione di sogno. Ma un sentimento tutto nuovo e singolare di terrore e di spavento si impadronì in modo così totale e violento di lui, che non gli fu possibile rimanere a letto. Si alzò e si avvicinò alla finestra. Non passò molto tempo che la porta del castello venne aperta e una figura, con una fiaccola accesa in mano, attraversò il cortile. V. riconobbe nella figura il vecchio Daniele: lo vide aprire la porta della stalla, entrarvi e uscirne ben presto portando un cavallo sellato. E dall'oscurità uscì allora una seconda figura, bene avvolta in una pelliccia, un berretto di volpe sulla testa. V. riconobbe Uberto, che parlò per alcuni minuti con Daniele (e V. notò la violenza del colloquio) e che poi si ritirò. Daniele riportò il cavallo nella stalla, ne richiuse la porta e la stessa cosa fece con il grande portone del castello e sparì, attraversando come prima il cortile.
Era evidente che Uberto aveva avuto l'intenzione di partire, ma all'ultimo qualcosa gli aveva fatto cambiare idea. Evidente era anche, però, che le sue relazioni con l'intendente del castello dovevano avere qualcosa di misteriosamente sinistro.
V. aspettò con impazienza il mattino per mettere al corrente il barone degli avvenimenti della notte. Si trattava veramente di mettersi in guardia contro i colpi mancini del malvagio Uberto, che già la vigilia si erano rivelati nel suo volto stravolto.
Il mattino seguente all'ora in cui il barone era solito alzarsi, V. sentì un disperato correre qua e là, un aprire e chiudere violento di porte, un confuso incrociarsi di discorsi e grida. Uscì dalla sua stanza e s'imbatté dappertutto in servitori che, senza fare attenzione a lui, gli passavano davanti con volti cadaverici, salivano e scendevano le scale, entravano e uscivano dalle stanze. Finalmente riuscì a sapere che il barone mancava ed era già stato cercato inutilmente per ore. Si era coricato la sera prima in presenza del suo guardiacaccia e doveva essersi poi alzato e aver lasciato la stanza in veste da camera e pantofole, portando con sé una bugia, poiché anche questi oggetti non si trovavano più nella sua stanza. V., in preda ad un orribile presentimento, corse nella fatale Sala delle Udienze, nello studiolo adiacente alla quale il barone Volfango, come già suo padre, aveva sistemato la sua stanza da letto. La porta che portava alla torre era aperta spalancata: profondamente atterrito V. gridò:
"Egli giace laggiù, nel precipizio, sfracellato!".
E era così. Nella notte la neve era caduta e si vedeva soltanto il braccio dell'infelice, che sporgeva rigido tra le pietre del fondo.
Passarono molte ore prima che fosse possibile agli operai, con pericolo della loro vita, calarsi giù per mezzo di funi e poi far risalire con lo stesso mezzo il cadavere. Nello spasimo del suo mortale terrore, il barone aveva stretto convulsamente il candeliere d'argento e la mano che lo reggeva era l'unica parte intera e intatta dell'intero corpo, orrendamente sfracellatosi nel rotolare precipitando dall'alto sulle pietre acuminate.
Con tutte le furie della disperazione nel viso, Uberto si abbatté nella sala in cui, su una larga tavola, il cadavere appena ricuperato era stato deposto, nello stesso preciso posto che poche settimane prima aveva visto giacere il vecchio Roderico.
Dilaniato dall'orrendo spettacolo, urlò: "Fratello!... o mio povero fratello!... No! Non era questo che chiedevo con insistenza ai demoni che mi incalzavano!...".
A tali equivoche parole V. sussultò: gli sembrò di doversi gettare su Uberto, come sull'assassino del fratello.
Ma egli giaceva svenuto sul pavimento: i servi lo trasportarono nella sua stanza, dove si riebbe abbastanza presto per mezzo di violenti cordiali. Livido in volto, cupo cordoglio negli occhi semispenti, egli entrò più tardi nella stanza di V., accasciato al punto di non reggersi in piedi e, lasciandosi cadere in una poltrona, disse:
"Ho desiderato la morte di mio fratello perché nostro padre con una assurda fondazione aveva legato a lui il meglio dell'eredità... Ora egli ha trovato la morte, una orribile morte... Io sono signore del maggiorasco, ma il mio cuore è disperatamente infranto, non potrò più, non sarò mai più felice. Confermo lei nel suo ufficio, lei ha da questo momento i pieni poteri in tutto quello che riguarda il maggiorasco, dove a me non è possibile abitare!...".
Uberto lasciò la stanza e un paio d'ore dopo era già in cammino per K. Secondo una verosimile versione dell'accaduto, il barone Volfango si sarebbe alzato nella notte, per andare con ogni probabilità nello studiolo adiacente dove aveva fatto sistemare una biblioteca. Ancora immerso nell'incoscienza del sonno, egli avrebbe scambiato una porta per l'altra, avrebbe aperto quella della torre, e avanzatosi, sarebbe precipitato.
Una simile spiegazione aveva in sé molto di forzato. Se il barone non poteva dormire, se aveva voluto andarsi a prendere un libro nella biblioteca, questo significava che era sveglio ed eliminava la causa dell'incoscienza del sonno: d'altra parte solo così lo scambio delle porte e il fatto che invece di quella della biblioteca avesse aperto la porta della torre potevano essere spiegati. Inoltre questa era chiusa a chiave e solo con molta fatica poteva essere aperta.
"Ah! - cominciò a dire, mentre V. andava esponendo tutte queste inverosimiglianze alla servitù raccolta, il guardiacaccia del barone, di nome Francesco. - Ah! caro signor giustiziere, le cose non sono di certo andate così..." "Sì?... e come altrimenti?..." lo interrogò V.
Francesco, un buon diavolo onesto e fedele, che avrebbe voluto seguire nella tomba il suo padrone, non volle parlare davanti a tutti e quello che sapeva disse di volerlo rivelare solo al giustiziere. V. venne dunque in questo modo a sapere che il barone parlava molto spesso a Francesco dei grandi tesori che giacevano sepolti tra le macerie, e che molto spesso altresì, come se un demonio lo assalisse, apriva nottetempo la porta della torre di cui Daniele aveva dovuto consegnargli la chiave e guardava con desiderio intenso giù nel profondo i presunti tesori. Ora poteva essere ben certo che anche in quella notte fatale il barone, dopo aver congedato il suo guardiacaccia, avesse fatto ancora una capatina alla torre e là un'improvvisa vertigine lo avesse colto, trascinandolo nel precipizio. Daniele, che sembrava anche lui profondamente scosso dalla morte del feudatario, propose che la porta venisse murata, poiché era bene prevenire altri spaventevoli pericoli: il che fu subito fatto.
Il barone Uberto di R., attuale signore del maggiorasco, se ne ritornò in Curlandia, senza ripassare da R...sitten, e V. ricevette tutti i pieni poteri che erano necessari per un'illimitata reggenza del maggiorasco. La costruzione del nuovo castello rimase interrotta, mentre invece furono fatti tutti i restauri e le migliorie necessarie e possibili all'antico edificio.
Erano ormai passati molti anni, quando Uberto per la prima volta si ritrovò in autunno avanzato al castello di R. Molti giorni vi passò chiuso nelle sue stanze con V. e poi ripartì per la Curlandia: passando da K. aveva depositato il suo testamento all'autorità governativa. Durante i giorni della sua permanenza a R...sitten, il barone, il cui carattere sembrava totalmente cambiato, aveva parlato molto dei suoi presentimenti di una prossima morte: i quali si avverarono, poiché l'anno dopo morì. Suo figlio, Uberto come lui, arrivò in gran fretta dalla Curlandia, per prendere possesso del ricco maggiorascato. Lo seguivano sua madre e sua sorella. Sembrava che il giovane avesse raccolto in sé tutte le peggiori caratteristiche dei suoi antenati: si fece subito conoscere come superbo, altezzoso, furioso, avido, fin dai primi istanti passati nel castello. Pretese di cambiare sui due piedi un'infinità di cose che non gli andavano a genio per qualsiasi ragione; cacciò il cuoco, tentò di battere il cocchiere, ma non gli riuscì perché quel mezzo gigante ebbe la sfrontatezza di non sopportarlo: insomma era sulla strada più breve per iniziare le funzioni di tirannico signore del maggiorasco, quando V. si fece avanti e con severa fermezza lo assicurò che non una sedia sarebbe stata rimossa dal suo posto, non un gatto avrebbe lasciato la casa a meno che non gli fosse piaciuto di lasciarla, prima dell'apertura del testamento.
"Come, lei osa opporsi a me, signore del maggiorasco?..." cominciò a dire il barone. V. non lasciò al giovane schiumante di rabbia il tempo di finire il suo discorso, ma misurandolo con uno sguardo che voleva passarlo da parte a parte, disse: "Non tanta fretta, signor barone!... Lei non ha in nessun modo il potere di dettar legge qui, prima dell'apertura del testamento: attualmente io e soltanto io sono padrone qui e saprò respingere la violenza con la violenza. Si ricordi che io sono autorizzato a interdirle il soggiorno a R...sitten, in forza dei miei pieni poteri, quale esecutore testamentario di suo padre, e delle vigenti disposizioni giudiziarie; e le consiglio di recarsi tranquillamente a K. per evitare qualcosa di spiacevole".
La serietà del giustiziere, il suo tono deciso, diedero alle sue parole la forza adatta, perché il barone, che voleva prendere d'assalto la fortezza con corna troppo acuminate, avvertisse la debolezza delle sue armi e ritenesse che la miglior cosa era ancora coprire il suo scorno con una risata sprezzante.
Erano passati tre mesi ed era venuto il giorno in cui, secondo le disposizioni del barone morto, il suo testamento doveva venire aperto a K., dove era stato depositato. Oltre i funzionari del tribunale, il barone e V., si trovava nella sala di giustizia anche un giovane di nobile aspetto, che V. aveva portato con sé, e che tutti, nel vedere un fascio di carte che gli sporgeva dall'abbottonatura del soprabito, pensarono che fosse uno scrivano di V. Il barone lo squadrò, come del resto fece con quasi tutti i presenti, dall'alto in basso ed espresse con mala grazia il desiderio di finirla presto con quella prolissa cerimonia e soprattutto poche chiacchiere e scribacchiature. Non riusciva a capire come specialmente in una successione del genere, almeno per quello che riguardava il maggiorasco, ci potesse essere bisogno di ricorrere a un testamento e, nel caso che ci fossero aggiunte, dipendeva soltanto dalla sua volontà il riconoscerle o no.
Riconobbe il carattere e il sigillo del defunto padre, dopo avervi gettato malvolentieri uno sguardo imbronciato, e mentre il notaio del tribunale si accingeva a dare lettura del documento, egli guardava con aria indifferente nella direzione della finestra, il braccio destro abbandonato incurantemente sulla spalliera della seggiola, il sinistro appoggiato alla cattedra del giudice, tamburellando con le dita sul verde tappeto di quella.
Dopo un piccolo proemio, il defunto barone Uberto di R. dichiarava di non avere mai posseduto il maggiorasco come vero e proprio signore del maggiorasco, ma solo in nome dell'unico figlio del defunto barone Volfango di R., a ricordo del nonno chiamato Roderico: a lui, per la successione di famiglia, era passato, alla morte del padre, il maggiorasco. L'esattissimo rendiconto delle entrate e delle uscite, un prospetto della situazione da lui trovata era contenuto negli allegati al testamento. Volfango di R., così raccontava nel suo testamento Uberto, aveva conosciuto in un suo viaggio a Ginevra la signorina Julie de Saint Val e tanto era stato il suo amore per lei, da deciderlo a non lasciarla mai più. Essa era molto povera e la sua famiglia, per quanto di buona nobiltà, non era tuttavia di brillante condizione. Solo per questo egli non avrebbe potuto sperare nel consenso di suo padre, che riteneva che lo scopo della sua vita fosse l'apportare alla casa del maggiorasco il maggior lustro possibile, e tuttavia osò comunicare al vecchio il suo amore. Successe quello che era da prevedersi; il barone dichiarò di avere già scelto la sposa per il signore del maggiorasco, ed era quindi inutile parlare di un'altra.
Volfango, invece di andare in Inghilterra come avrebbe dovuto, tornò a Ginevra sotto il nome di Born e sposò Julie, che nel corso di un anno gli diede un figlio, per la sopravvenuta morte di Volfango legittimo signore del maggiorasco. Le ragioni per le quali Uberto aveva tanto a lungo taciuto questi fatti e si era assunto il titolo di signore del maggiorasco, erano giustificate in vari modi e riportate a precedenti intese con Volfango, ma avevano tutta l'apparenza di essere insufficienti e campate per aria.
Come colpito dal fulmine il barone fissava in viso il notaio che con voce monotona e stridente andava annunciando tutta quella rovina. Quando ebbe finito, V. si alzò, prese per la mano il giovane che aveva portato con sé, e disse inchinandosi ai presenti: "Signori, ho l'onore di presentarvi il barone Roderico di R., signore del maggiorasco".
Il barone Uberto fissò il giovane, caduto dal cielo a depredarlo del ricco maggiorascato e della metà dei possedimenti liberi in Curlandia, con occhi fiammeggianti per la collera trattenuta, poi minacciò con il pugno stretto e uscì correndo, incapace di dir parola, fuori della sala. Invitato dai giudici del tribunale, il barone Roderico aveva intanto esibito i documenti che comprovavano la sua identità, un estratto del registro parrocchiale della chiesa in cui suo padre si era sposato, nel quale si certificava che il tale giorno il mercante Volfango Born nativo di K. era stato unito in matrimonio religioso con la signorina Julie de Saint Val; seguivano i nomi dei testimoni. Allo stesso modo mostrò il suo certificato di battesimo (egli era stato battezzato a Ginevra come legittimo figlio del mercante Volfango Born e di sua moglie Julie, nata de Saint Val) e inoltre diverse lettere di suo padre a sua madre, da tempo morta, tutte però firmate da un semplice V.
V. esaminò con sguardi un po' oscuri tutte queste carte e disse in tono abbastanza amaro raccogliendole di nuovo insieme: "Ma il Signore provvederà!".
Subito il giorno dopo il barone Uberto di R. fece presentare dal suo avvocato difensore all'autorità governativa di K. un'istanza, nella quale egli chiedeva niente di meno che l'immediata consegna a lui del maggiorasco di R...sitten. Era cosa di per sé stessa evidente - diceva l'avvocato - che il defunto barone Uberto non avrebbe potuto disporre del maggiorasco né in sede di testamento né in nessun'altra forma.
Quel testamento non era dunque altro che la deposizione scritta e legalmente trasmessa, secondo la quale il barone Volfango di R. avrebbe lasciato il maggiorasco in eredità a un figlio tuttora vivente: ma essa non aveva forza probativa maggiore di quella di una qualunque altra dichiarazione, non potendo quindi in nessun modo valere come legittimazione del pretendente barone Roderico di R. Era affare di questo pretendente di dimostrare nel corso del processo la legittimità del suo diritto di erede, che con quella istanza gli veniva espressamente contrastato, e di rivendicare per sé il maggiorasco che, nelle attuali condizioni, secondo il diritto di successione passava al barone Uberto di R. Con la morte del padre, il possesso era passato immediatamente al figlio e non serviva nessuna dichiarazione di immissione nell'eredità poiché il maggiorasco era bene irrinunciabile, per cui l'attuale signore del maggiorasco non doveva essere infastidito nel suo possesso da pretese tutt'altro che chiare. Quale motivo avesse portato il defunto barone a porre la candidatura di un secondo pretendente al maggiorasco, era cosa indifferente: veniva d'altronde fatto notare che, se serviva, si sarebbe potuto provare che lui stesso aveva avuto una relazione amorosa nella Svizzera come risultava dalle sue lettere, venendo così il preteso figlio del fratello ad essere il suo proprio, nato da una relazione illecita, a cui, in una crisi di rimorso, aveva voluto devolvere il maggiorasco.
Per quanto tutta la verosimiglianza fosse dalla parte delle circostanze esposte nel testamento, per quanto i giudici fossero disgustati da quest'ultima mossa di Uberto, che non si peritava di accusare il morto padre di un delitto, tuttavia la cosa in sé, come veniva presentata dall'istanza, sembrava giusta, e solo gli infaticabili sforzi di V. per convincere il tribunale ad aspettare e la sua precisa assicurazione che in breve tempo sarebbe stata prodotta la prova della legittimità del barone Roderico di R. riuscirono a far sì che venisse soprasseduto alla consegna del maggiorasco a Uberto, mentre continuava fino alla sistemazione della cosa lo stato di amministrazione affidata a lui.
V. aveva la chiara coscienza di quanto fosse difficile tener fede alla sua promessa. Aveva già passato minuziosamente in rassegna tutta la corrispondenza del vecchio Roderico, senza trovare traccia di una lettera, neppure di una frase in relazione con il legame di Volfango con la signorina di Saint Val. Immerso nelle sue preoccupazioni, sedeva una sera nello studiolo del vecchio barone Roderico a R...sitten, dopo averlo frugato in tutti i sensi, e lavorava a un promemoria per un notaio di Ginevra, segnalatogli come uomo acuto e attivo, che avrebbe dovuto procurargli alcune notizie adatte a portare chiarezza nella posizione del giovane Roderico.
Si era fatta mezzanotte: la luna piena splendeva chiara nella sala adiacente, la cui porta era aperta. E fu allora come se qualcuno salisse a passi lenti su per la scala, con sonoro e stridente tintinnio di chiavi. V. si fece attento, si alzò, passò nella sala e sentì allora distintamente un avvicinarsi attraverso l'ingresso alla porta della sala. Un attimo dopo questa fu aperta e un uomo dal viso sconvolto e livido avanzò lentamente, in camicia da notte, un candeliere acceso in una mano, nell'altra il grosso mazzo delle chiavi. Immediatamente V. riconobbe il maggiordomo e stava già per chiamarlo e chiedergli che mai volesse a un'ora così tarda della notte, quando qualche cosa di indefinibile, di spettrale in tutta la figura del vecchio, nel suo volto irrigidito nella morte, lo sfiorò con un soffio gelato. Realizzò di avere davanti a sé un sonnambulo. Il vecchio attraversò la sala con passi misurati, dirigendosi con sicura decisione alla porta murata, che un tempo aveva aperto il passaggio alla torre. Giunto vicinissimo ad essa si arrestò e cacciò dal profondo del petto un alto ululato, che riecheggiò in così spaventevole modo nella grande sala, che V. trasalì di terrore e raccapriccio. Poi, deposto il doppiere a terra, Daniele iniziò a grattare con tutte e due le mani la parete con tale violenza, che ben presto il sangue sprizzò di sotto alle unghie, mentre egli si lamentava e rantolava, come oppresso da una innominabile angoscia di morte. Appoggiò poi l'orecchio al muro, come ad afferrare un suono, e accennò con la mano nel gesto di chi vuol calmare qualcuno, si curvò a raccogliere il doppiere da terra e a passi leggeri misurati strisciò di nuovo verso la porta.
V. lo seguì con cautela, la sua candela in mano: scesero le scale; il vecchio aprì con le sue chiavi il grande portone del castello, V. si insinuò abilmente dietro a lui: egli si diresse allora alla scuderia, sistemando con grande stupore di V. il doppiere in modo da illuminare l'intero locale sufficientemente e senza pericolo d'incendio, andò a prendere sella e finimenti e sellò con la massima cura - il sottopancia ben stretto, le staffe rialzate, - un cavallo, sciogliendolo poi dalla mangiatoia. Dopo avere allontanato con la mano una ciocca di peli della criniera dalla fronte, schioccando la lingua e battendo il collo dell'animale, lo portò fuori. Nel cortile rimase per qualche istante fermo e dritto, nell'atteggiamento di chi riceve ordini e promette di eseguirli, chinando ripetutamente la testa. Poi riportò il cavallo nella scuderia, gli tolse sella e finimenti e lo legò alla mangiatoia. Prese allora il doppiere, richiuse a chiave la stalla, rientrò nel castello e sparì infine nella sua stanza, che chiuse a chiave, con ogni cura.
V. si sentì scosso nell'intimo da quello spettacolo, il presentimento di un orribile misfatto nacque in lui come un nero spettro infernale, che non gli dava pace. Assorbito completamente dall'incerta situazione del suo protetto, credette di potere almeno utilizzare quello che aveva visto a vantaggio di quest'ultimo. Il giorno dopo, verso sera, Daniele venne nella sua stanza, per avere un'indicazione circa l'andamento della casa. V. lo prese per le braccia e lo costrinse a sedersi con gesto famigliare dicendo: "Senti un po', vecchio amico! E' tanto tempo che voglio chiederti che cosa ne pensi di questo gran pasticcio che il testamento di Uberto ci ha buttato tra capo e collo... Tu credi che quel giovane sia veramente un figlio di Volfango, nato da legittime nozze?". Il vecchio buttandosi indietro sulla spalliera della seggiola e sfuggendo agli sguardi di V. fissi su di lui gridò con malumore: "Per me!... può esserlo e può non esserlo!... Che cosa me ne viene in tasca a me?... Che diventi padrone chi vuole!...". "Ma voglio dire continuò V. avvicinandosi ancora di più al vecchio e posandogli una mano sulla spalla - dal momento che tu avevi tutta la fiducia del vecchio Roderico, lui non ti avrà certo tenute nascoste le relazioni dei suoi figli. Ti avrà raccontato del legame che Volfango aveva stretto contro la sua volontà?...". "Non riesco proprio a ricordarmi niente di simile," replicò il vecchio, sbadigliando maleducatamente. "Tu hai sonno, vecchio mio! - disse V. - hai per caso avuto una notte cattiva?".
"Che io sappia, no - rispose il vecchio - ma adesso me ne vado a dare gli ordini per la cena," e si alzò con fatica dalla seggiola, strofinandosi la schiena curva e di nuovo ancora più sonoramente di prima sbadigliando. "E rimani un momento qui, vecchio!" esclamò V.
trattenendolo per una mano nell'intenzione di costringerlo a sedersi di nuovo: ma il vecchio rimase in piedi vicino alla scrivania, alla quale si appoggiò con tutte e due le mani, il corpo chinato verso V., domandando sgraziatamente: "Ma insomma che cosa crede?... Che cosa vuole che me ne importi a me del testamento e del maggiorasco?...".
"No, no! non vogliamo parlare di questo! - lo interruppe V. - di tutt'altra cosa, caro Daniele! Tu sei nervoso e irritabile, tu sbadigli: tutto questo sta a dimostrare uno strano stato di rilassamento e mi viene proprio da pensare che sia stato tu stanotte...". "Che cosa sarei stato io stanotte?" chiese il vecchio, irrigidendosi nella sua posizione. "Mentre io, continuò a dire V., - me ne stavo ieri a mezzanotte nello studiolo del vecchio barone vicino alla grande sala, tu sei entrato dalla porta, rigido e livido in volto sei andato direttamente alla porta murata, hai raspato il muro con tutte e due le mani e ti sei lamentato, come se stessi soffrendo indicibili tormenti. Sei sonnambulo, Daniele?".
Il vecchio ripiombò sulla sedia, che V. si affrettò ad avvicinargli.. Non emise il minimo suono, il crepuscolo avanzato non permetteva di vedere i suoi tratti. V. notò solo che il suo respiro si era fatto breve e che batteva i denti.
"Già! - continuò dopo un breve silenzio - strani questi fenomeni dei sonnambuli! Il giorno dopo non ricordano più niente di quello strano stato e di tutto quello che, pienamente svegli, hanno fatto".
Daniele continuava a restare silenzioso.
"Mi è capitato già un fatto simile al tuo - continuò V.; - avevo un amico che si dava a regolari passeggiate notturne, ogni volta che ritornava la luna piena, proprio come te. A volte si sedeva perfino al suo tavolo e scriveva lettere. La cosa più strana e degna di meraviglia era questa: bastava che io cominciassi a sussurrargli piano nell'orecchio e presto riuscivo a trascinarlo in una conversazione. Rispondeva in modo assolutamente coerente a ogni domanda e anzi, cose che da sveglio si sarebbe ben guardato dal confidarmi, gli uscivano ora involontariamente dalle labbra, come se gli fosse impossibile resistere alla forza che agiva in lui... Per il diavolo! Credo proprio che un sonnambulo non riuscirebbe a tenere per molto tempo segreto un delitto da lui compiuto, ognuno potrebbe strappargli una confessione, in quello stato!... Beati quelli che hanno una coscienza pulita, come me e te, Daniele, noi possiamo anche permetterci il lusso di essere sonnambuli, nessuno ci strapperà mai di bocca la confessione di un delitto! Ma stammi un po' a sentire Daniele, tu volevi certo salire alla torre astronomica, quando grattavi la porta murata in un modo così raccapricciante? Volevi senza dubbio ritornare agli antichi lavori, come il vecchio Roderico?... Bene, bene, te lo chiederò la prossima volta!...".
Durante questo discorso, il vecchio aveva preso a tremare sempre più forte, alla fine il suo corpo fu scosso tutto e sollevato in una orribile spasmodica convulsione ed cominciò a balbettare in modo incomprensibile, in tono alto di lamento. V. suonò per i servi. Furono portate delle lampade. Il vecchio era sempre in quello stato: lo sollevarono simile ad un automa dai movimenti irresponsabili e lo portarono nella sua camera... Dopo essere rimasto per circa un'ora in stato di convulsione, cadde in un sonno simile a uno svenimento profondo. Quando si svegliò, espresse il desiderio di bere del vino e quando glielo ebbero portato, cacciò dalla camera il servitore che voleva restare a vegliarlo e, come al solito, si chiuse dentro a chiave. Mentre parlava a Daniele, V. aveva davvero preso la decisione di tentare la prova, per quanto fosse costretto a confessare a se stesso prima di tutto che Daniele, messo al corrente del suo sonnambulismo, avrebbe fatto di tutto per sfuggirgli, in secondo luogo che confessioni strappate a un uomo in quello stato non potevano mai essere prese in considerazione per una ulteriore discussione in sede giuridica.
E tuttavia verso mezzanotte andò nella sala, nella speranza che Daniele, come accade in malattie di questo tipo, fosse costretto ad agire contro la sua stessa volontà. A mezzanotte ci fu nel cortile un gran frastuono. V. sentì distintamente il rumore di una finestra sbattuta, scese in fretta e nel corridoio lo assalì un'ondata di fumo puzzolente, che proveniva, come ben presto si accorse, dalla camera del maggiordomo. Lo stavano appunto tirando fuori, rigido come un cadavere, per metterlo a letto in un'altra camera. I servi raccontarono che a mezzanotte un garzone era stato svegliato da strani sordi colpi ripetuti: pensò che fosse capitato qualcosa al vecchio e si affrettò ad alzarsi per corrergli in aiuto, quando il guardiano notturno aveva gridato forte dal cortile: "Fuoco! Fuoco! Nella stanza del signor maggiordomo sta divampando un incendio!". A questo grido erano immediatamente accorsi molti servi, ma ogni sforzo per abbattere la porta della stanza era rimasto senza risultato. Uscirono allora in tutta fretta nel cortile, ma il guardiano notturno con decisa prontezza aveva già sfondato la finestra della bassa stanza, situata al piano terreno e strappato le tendine in fiamme, per cui un paio di secchi d'acqua furono sufficienti a estinguere l'incendio, nello spazio di pochi istanti. Il maggiordomo giaceva in mezzo alla stanza profondamente svenuto. Stringeva ancora nella mano il doppiere le cui candele accese avevano appiccato fuoco alle tendine e suscitato l'incendio. Brandelli in fiamme gli erano caduti sul viso, bruciandogli le sopracciglia e una parte dei capelli. Se il guardiano notturno non si fosse accorto dell'incendio, il vecchio maggiordomo sarebbe morto senza che nessuno lo soccorresse. Non poca fu la sorpresa dei servi nel trovare la porta della stanza rinforzata dall'interno da due nuovissimi catenacci, che ancora la sera prima non c'erano. V. capì che il vecchio aveva fatto di tutto per rendere impossibile a se stesso l'uscire dalla sua stanza: ma non aveva potuto opporsi al cieco impulso.
Il vecchio cadde gravemente ammalato: non parlava, guardava solo fisso davanti a sé, come attanagliato da una spaventosa idea fissa, con sguardi che tradivano l'immagine della morte.
V. era convinto che il vecchio non potesse mai più sollevarsi dal suo letto. Egli aveva fatto ormai tutto quello che era in suo potere per il suo protetto, non restava che aspettare con calma lo sviluppo delle cose. Decise quindi di ritornare a K. La partenza era fissata per il giorno successivo. A tarda sera egli era ancora occupato a riunire le sue carte, quando gli capitò fra le mani un pacchetto, che il barone Uberto aveva già consegnato a lui sigillato e con la soprascritta: "Da aprirsi dopo la lettura del mio testamento", che in modo incomprensibile era sfuggito alla sua attenzione. Stava per di dissigillarlo, quando la porta si aprì ed entrò Daniele a lievi passi di fantasma. Posò sulla scrivania una nera cartella che portava sotto il braccio, poi cadendo in ginocchio con un profondo sospiro da agonizzante e afferrando in uno spasimo le mani di V. parlò con voce vuota e sorda, come se parlasse da un profondo sepolcro:
"Non vorrei morire sul patibolo!... Giudichi quello lassù!...". Poi si rialzò faticosamente, ansimante di orrendo terrore e così come era venuto lasciò la stanza.
V. passò l'intera notte a leggere il contenuto della cartella nera e del plico di Uberto. Tutto era perfettamente corrispondente e determinava di per sé i provvedimenti, che ora dovevano esser presi.
Giunto a K., V. andò subito dal barone Uberto di R., che lo ricevette villanamente. La straordinaria conseguenza di un colloquio cominciato a mezzogiorno e durato senza interruzione fino a notte tarda, fu che il giorno seguente il barone dichiarò davanti al tribunale di riconoscere il pretendente al maggiorasco secondo il testamento di suo padre, per il figlio nato dalle legittime nozze del primogenito del defunto barone Roderico con la signorina Julie de Saint Val, per conseguenza legalmente legittimato erede del maggiorasco. Quando uscì dalla sala del tribunale, la sua carrozza con i cavalli da posta era pronta davanti alla porta, in tutta fretta egli se ne partì, lasciando sole la madre e la sorella. Con ogni probabilità non lo avrebbero mai più rivisto: questo aveva scritto loro, tra altre dichiarazioni ugualmente misteriose. Grande fu lo stupore di Roderico per l'improvvisa piega che la cosa aveva preso: pregò con insistenza V. di spiegargli come mai fosse successo quel miracolo e quale misteriosa potenza fosse in gioco. V. rimandò la spiegazione a un altro momento e precisamente a quando egli avesse già preso possesso del maggiorasco. Il trapasso del maggiorasco non poteva ancora aver luogo, perché il tribunale non accontentandosi della dichiarazione di Uberto, pretendeva tuttora la completa legittimazione di Roderico. V. propose a Roderico di abitare a R...sitten e aggiunse che la madre e la sorella di Uberto, lasciate in momentaneo imbarazzo dalla sua improvvisa partenza, avrebbero preferito il soggiorno tranquillo al castello alla rumorosa e cara città.
Il trasporto, con il quale Roderico accettò la proposta e il pensiero di abitare almeno per qualche tempo sotto lo stesso tetto con la baronessa e sua figlia, disse chiaramente quale profonda impressione avesse fatto sul suo animo Serafina, la soave e graziosa fanciulla. E in realtà il barone seppe così bene mettere a profitto il soggiorno a R...sitten, che poche settimane più tardi si era già guadagnato il profondo amore di Serafina e insieme il consenso di sua madre. A V. tutto questo sembrava un po' affrettato e prematuro dal momento che la legittimazione di Roderico a signore del maggiorasco rimaneva ancora incerta. Lettere dalla Curlandia arrivarono a interrompere l'idillio al castello. Uberto non si era nemmeno fatto vedere nelle sue terre, dirigendosi direttamente a Pietroburgo, dove si era arruolato ed era già partito per la guerra che i russi conducevano appunto in quel tempo contro i persiani. Questo fatto rese necessaria l'immediata partenza della baronessa e di sua figlia per le loro terre, dove regnava disordine e confusione. Roderico, che si considerava già come figlio acquisito, non esitò ad accompagnare la fidanzata e così, poiché V. ritornò subito a K., il vecchio castello rimase un'altra volta solitario e vuoto. La grave malattia del maggiordomo peggiorava ogni giorno di più, tanto che, convinto lui stesso di non potersi mai più ristabilire, il suo incarico fu trasferito a un vecchio cacciatore, fedele servitore di Volfango, di nome Francesco.
Dopo tanta attesa, V. ricevette alla fine dalla Svizzera le più favorevoli notizie. Il parroco che aveva benedetto le nozze di Volfango era morto da tempo: in compenso fu ritrovata una sua annotazione autografa in un registro parrocchiale, secondo la quale colui che era stato unito in legittime nozze con la signorina Julie de Saint Val, sotto il nome di Born, aveva legalmente e in modo completo dimostrato di essere il figlio primogenito del barone Roderico di R. da R...sitten, barone Volfango di R. Inoltre erano stati scoperti i due testimoni, un mercante di Ginevra e un vecchio capitano francese, trasferitosi a Lione, ai quali Volfango aveva reso nota la sua vera personalità e che avevano sottoscritto con giuramento la dichiarazione del registro parrocchiale. In possesso dunque dei documenti compilati nella forma richiesta, V. procedette alla completa dimostrazione dei diritti del suo difeso e niente si oppose più alla consegna del maggiorasco che avrebbe avuto luogo nel prossimo autunno. Uberto era caduto alla prima battaglia: lo stesso destino che aveva colpito un anno prima della morte del padre il suo fratello minore, aveva ora colpito anche lui: ne derivò che i beni di Curlandia toccarono alla baronessa Serafina di R., venendo così ad essere una bella dote per il felicissimo Roderico.
Novembre era da poco cominciato, quando la baronessa e Roderico con la sua fidanzata giunsero a R...sitten. Seguì la consegna del maggiorasco e immediatamente dopo l'unione di Roderico con Serafina. Passarono molte settimane di ebbrezza e di allegria e poi a poco a poco gli ospiti più che sazi cominciarono a lasciare il castello, con grande soddisfazione di V. che non voleva andarsene senza aver iniziato in tutti i suoi particolari al possesso del feudo il giovane barone. Con la più grande precisione lo zio di Roderico aveva tenuto i conti delle rendite e delle spese, e così, dal momento che Roderico aveva ricevuto annualmente una somma abbastanza modesta per il suo mantenimento, il capitale liquido, trovato alla morte del vecchio barone, si era notevolmente accresciuto con le somme sopravanzanti dalle rendite. Soltanto durante i primi tre anni Uberto aveva devoluto in suo utile le rendite del maggiorasco, ma ne aveva fatto redigere uno strumento di debito, istituendo un'ipoteca sulla parte a lui spettante dei possessi di Curlandia.
Dalla notte in cui Daniele si era rivelato sonnambulo, V. aveva fatto sistemare la sua camera da letto nello studiolo del vecchio barone, per poter venire con maggiore sicurezza a conoscenza di quello che Daniele gli avesse in seguito potuto spontaneamente confessare. Fu così che in questa stanza e nell'adiacente sala V. e il barone si riunivano per le loro conversazioni d'affari. Lì sedevano appunto una sera tutti e due alla enorme scrivania vicino al camino bene acceso, V., la sua penna in mano, annotando le somme e calcolando la ricchezza del signore del maggiorasco, e questi, i gomiti appoggiati alla tavola, immerso nella contemplazione dei registri della contabilità, importantissimi documenti. Né l'uno né l'altro si accorgevano del rumore delle onde, dello stridio pauroso dei gabbiani, che svolazzando qua e là per annunciare la tempesta venivano di tanto in tanto a sbattere contro i vetri delle finestre: né l'uno né l'altro facevano attenzione alla tempesta, che alzatasi intorno alla mezzanotte, penetrava nel castello con il suo selvaggio muggito, così che nel camino, negli stretti ingressi si risvegliavano tutte le mostruose gracidanti voci e l'una contro l'altra, opponendosi, si incrociavano con fischi e ululati. Quando, infine, dopo un colpo di vento che fece tremare minacciosamente nell'eco tutto l'edificio, improvvisamente l'intera sala rimase nell'incerto chiarore del plenilunio, V. esclamò:
"Che razza di tempaccio!". Il barone, sprofondato nella visione delle ricchezze capitategli in sorte, rispose in tono indifferente, girando con un sorriso compiaciuto un foglio del libro delle entrate: "Già, proprio tempestoso".
Ma come saltò su invece, toccato dalla gelida mano del terrore, quando la porta della sala si spalancò e apparve una figura livida e spettrale che si avanzava con la morte impressa in viso. Daniele, che V. come chiunque altro riteneva prostrato nel suo letto in uno stato di abbandono di forze tale da non essere capace di muovere un dito, Daniele, ricaduto nel suo sonnambulismo, aveva dovuto riprendere le sue passeggiate notturne. Muto, il barone fissava il vecchio: ma quando costui tra i paurosi sospiri del suo mortale tormento, prese a raspare il muro, allora un profondo terrore si impadronì del giovane barone. Livido in volto come un morto, fece un salto in avanti, mentre i capelli gli si drizzavano sul capo, si avvicinò minacciosamente al vecchio e gridò con voce così forte che tutta la sala ne rintronò:
"Daniele! Daniele! Che cosa fai qui a quest'ora?...".
Allora il vecchio emise quell'urlo di lamento, simile al grido di morte dell'animale colpito, che già aveva fatto sentire il giorno in cui Volfango gli aveva offerto oro in cambio della sua fedeltà, e cadde a terra.
V. chiamò i servi: rialzarono il vecchio, ma tutti i tentativi per richiamarlo in vita furono vani. Come fuori di sé, il barone gridava:
"Signore Iddio!... Signore Iddio! Ma non sapevo che basta chiamare per nome i sonnambuli, per farli cadere morti all'istante?... Ah! sciagurato, sciagurato che sono!... ho ucciso quel povero vecchio!... Mai per tutta la vita avrò più un'ora di bene!...".
Dopo che i servitori ebbero trasportato altrove il cadavere e la sala fu di nuovo vuota, V. prese per mano il barone che continuava ancora ad accusarsi, in profondo silenzio lo portò davanti alla porta murata e disse:
"Colui che qui è caduto morto ai suoi piedi, barone Roderico, era lo sciagurato assassino di suo padre!".
Come vedesse a un tratto comparirgli davanti tutte le dannate anime infernali, il barone fissava il suo sguardo su V., che continuò:
"E' arrivato il tempo di rivelarle il raccapricciante segreto che pesava sull'anima di quel mostro e che lo costringeva, perseguitato dalle furie della maledizione, ad aggirarsi così nelle ore del sonno.
Il volere di Dio ha permesso che il figlio si vendicasse dell'uccisore di suo padre... Le parole che lei ha tuonato nelle orecchie di quello spaventoso sonnambulo furono le ultime che il suo infelice padre pronunciò!".
Sussultante, incapace di dire una sola parola, il barone aveva preso posto vicino a V., davanti al camino.
V. cominciò a riferirgli il contenuto della memoria lasciata da Uberto a V. e che egli era tenuto a dissuggellare solo dopo l'apertura del testamento. Uberto si accusava con espressioni che testimoniavano il suo profondo pentimento per l'odio irriconciliabile che si era impadronito di lui verso il fratello maggiore dal momento in cui il vecchio Roderico aveva fondato il maggiorasco. Ogni arma gli era stata tolta di mano, poiché, se gli era una volta riuscito con biechi raggiri di separare il figlio dal padre, tutto questo restava senza un risultato effettivo, non essendo in potere dello stesso Roderico di strappare a Volfango il diritto della primogenitura e non essendo questi disposto, pur disgustato e ostile nei riguardi del figlio, a ritornare sulle proprie decisioni per cambiarle. Quando Volfango iniziò a Ginevra la sua relazione amorosa con la signorina di Saint Val, Uberto credette di poter finalmente rovinare il fratello. Ebbe allora inizio quel periodo in cui, con la connivenza di Daniele, egli pensò di indurre, attraverso una serie di piani criminosi, il vecchio a prendere decisioni che dovevano portare il figlio alla disperazione.
Egli sapeva bene che nel modo di pensare del vecchio Roderico solo un matrimonio con una delle più antiche famiglie del paese avrebbe potuto dare al maggiorasco un lustro fondato e duraturo. Il vecchio aveva letto questa unione nelle costellazioni e ogni delittuosa turbativa dei voleri delle costellazioni avrebbe causato la rovina della fondazione. L'unione di Volfango con Julie sembrò dunque in questo senso al vecchio come un criminale attentato rivolto contro i decreti del cielo, della potenza che lo aveva assistito nella sua mortale carriera, mentre veniva ad essere giustificato ogni manovra diretta alla rovina di Julie, demoniaco principio venuto ad opporglisi. Uberto conosceva l'amore di Volfango per Julie, che sfiorava la follia, poiché perderla avrebbe significato per lui l'infelicità, l'avrebbe forse spinto a uccidersi e tanto più volentieri egli diventò l'aiuto indispensabile dei piani del padre, in quanto egli stesso era preso da colpevole passione per Julie e sperava di riuscire a farla sua. Una speciale protezione del cielo fece in modo che i velenosi intrighi andassero tutti a vuoto, contro la ferma decisione di Volfango, e che anzi egli riuscisse a ingannare il fratello. L'avvenuto matrimonio di Volfango e la nascita di un figlio rimasero per Uberto un segreto. Con il presentimento della prossima morte venne al vecchio Roderico l'idea che Volfango potesse già aver sposato la nemica Julie. Nella lettera in cui ordinava al figlio di trovarsi nel giorno fissato a R...sitten, per succedergli nel maggiorascato, lo malediva, qualora non avesse spezzato quell'unione. Era questa la lettera che Volfango aveva bruciato vicino al cadavere di suo padre.
Il vecchio scrisse a Uberto che Volfango aveva sposato Julie, ma che lui avrebbe saputo spezzare quell'unione. Uberto ritenne tutto questo immaginazione del suo delirante padre, ma dovette spaventarsi non poco, quando a R...sitten lo stesso Volfango non solo confermò con molta disinvoltura il presentimento del padre ma aggiunse anche che Julie gli aveva dato un figlio e che fra breve lei, che lo aveva fino ad allora ritenuto il mercante Born, si sarebbe rallegrata infinitamente nel conoscere il suo vero stato e le ricchezze ereditate. Aveva anzi intenzione di recarsi di persona a Ginevra per andare a prendere e accompagnare nella nuova patria la creatura adorata. Ma prima che egli potesse adempiere a questo proposito, lo raggiunse la morte. Uberto mise ogni cura nel nascondere l'esistenza di un figlio nato da Volfango e Julie e si appropriò così del maggiorasco, che spettava di diritto al bambino. Erano appena passati pochi anni, che un profondo pentimento lo colse. Il destino gli rimproverava la sua colpa in modo terribile; con l'odio che germogliava e sempre più cresceva tra i suoi due figli.
"Tu sei un povero disgraziato morto di fame - diceva il maggiore, ragazzino di dodici anni, al fratello più piccolo - ma io, quando nostro padre muore, io sarò signore del maggiorasco di R...sitten e ti converrà essere umile e baciarmi la mano, quando dovrò darti i soldi per un vestito nuovo". Il cadetto, pieno di ira selvaggia per il superbo scherno del maggiore, gli lanciò contro il coltello, che per l'appunto aveva in mano, ferendolo quasi mortalmente.
Uberto, nel timore di qualche grave sciagura, mandò subito il cadetto a Pietroburgo, dove più tardi diventò ufficiale e sotto gli ordini di Suwarow combatté contro i francesi e cadde in battaglia. Dal manifestare al mondo il segreto del suo possesso ottenuto con la frode e la disonestà, lo trattenne sempre la vergogna e il disonore che sarebbe ricaduto su di lui, ma non volle defraudare il legittimo proprietario di un solo centesimo. Prese delle informazioni a Ginevra e venne a sapere che la signora Born, inconsolabile per la misteriosa scomparsa di suo marito, era morta, ma che il giovane Roderico era allevato da un uomo perbene che lo aveva preso con sé. Uberto si fece allora passare, sotto falso nome, per un parente del ragazzo e inviò regolarmente somme tali da rendere possibile un'educazione accurata e completa del giovane signore del maggiorasco. Come egli raccogliesse minuziosamente gli interessi dei proventi del maggiorasco, come ne disponesse nel suo testamento, è già noto. Della morte del fratello Uberto parlava usando tuttavia espressioni stranamente enigmatiche, che molto lasciavano indovinare che la cosa si era svolta in circostanze misteriose e che Uberto aveva, se non altro in modo mediato, partecipato a una azione delittuosa. Il contenuto della cartella nera finiva di mettere in chiaro ogni cosa. Alla infida corrispondenza tra Daniele e Uberto era allegato un foglio scritto e firmato di propria mano da Daniele. V. lesse una confessione che lo fece sussultare profondamente. Era stato Daniele a chiamare Uberto al castello, rivelandogli il segreto dei centocinquantamila talleri scoperti. E' noto che accoglienza ricevesse Uberto dal fratello, come egli volesse andarsene, ingannato e deluso in tutte le sue speranze e nei suoi desideri, e come V. riuscisse a trattenerlo. Nell'animo di Daniele ribolliva sanguinosa la vendetta che voleva prendersi del superbo giovane che aveva voluto scacciarlo come un cane rognoso. Fu lui ad attizzare ogni giorno l'incendio da cui Uberto nella sua disperazione doveva essere consumato.
Nella foresta di pini durante la caccia al lupo, tra la tempesta e la tormenta di neve, essi si misero d'accordo per la rovina di Volfango.
"Disfarsi di lui!..." mormorava Uberto, guardando di lato e puntando il fucile. "Sì, disfarsi di lui... - sogghignò Daniele - ma non così, non così...". E giurò su quanto aveva di più caro che avrebbe assassinato il barone, senza che anima viva potesse dirne nulla.
Uberto, avuto finalmente il denaro, ebbe orrore del delitto e volle partire, per opporre resistenza ad ogni altra tentazione. Fu Daniele che nella notte sellò il suo cavallo e lo portò fuori dalla stalla, ma quando il barone fece per salirvi, Daniele disse con voce tagliente:
"Io penso, signor barone Uberto, che tu dovresti rimanere nel maggiorasco, che in questo momento è venuto a te, poiché il superbo signore che lo teneva giace sfracellato nel precipizio della torre!".
Daniele aveva osservato che, tormentato dalla sua sete d'oro, Volfango si alzava spesso nel cuore della notte, usciva dalla porta che un tempo portava alla torre e con avidi sguardi contemplava l'abisso, secondo le assicurazioni di Daniele rifugio e nascondiglio di incalcolabili tesori.
Al corrente del fatto, Daniele stette in quella notte fatale dritto davanti alla porta della sala. Non appena sentì il barone aprire la porta della torre, entrò e si avvicinò al barone fino a sfiorarlo, mentre egli stava sull'orlo dell'abisso. Il barone si girò e, vedendo il servo scellerato nei cui occhi già brillava di sinistra luce il delitto, gridò: "Daniele, Daniele, che cosa fai qui a quest'ora?..." Ma Daniele stridette selvaggiamente: "Giù, cane rognoso!" e con un violento calcio precipitò l'infelice nell'abisso.
Troppo intimamente scosso dall'orrendo delitto, che aveva assassinato suo padre, il barone Roderico non poté più avere un'ora serena al castello. Se ne andò nei suoi beni di Curlandia, per non ritornare a R...sitten che una sola volta all'anno, in autunno. Francesco, il vecchio Francesco, sosteneva che Daniele, del quale egli aveva intuito il delitto, si aggirasse ancora come spettro in quei posti al tempo del plenilunio, e diede dell'apparizione un ritratto perfettamente corrispondente a quello visto e scacciato da V. La scoperta delle circostanze che gettavano il disonore sulla memoria di suo padre, aveva spinto Uberto in giro per il mondo.
E con questo il mio vecchio prozio mi aveva raccontato tutto. Ma ecco che egli prese fra le sue la mia mano e disse, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime, con voce molto tenera:
"Cugino... cugino... anche lei, la pura e soave donna... la fatalità crudele, la terribile potenza che ha fissato la sua dimora in quel castello, si è presa anche lei!... Due giorni dopo la nostra partenza, a chiusura della stagione di caccia il barone aveva organizzato una corsa di slitte. Lui personalmente portava la sua sposa, ed ecco che mentre scendevano la valle, i cavalli, improvvisamente imbizzarritisi, si impennarono con una furia spaventosa.
"Il vecchio... Il vecchio ci insegue!..." gridò la baronessa con voce acuta. In quello stesso istante venne sbalzata lontano dal colpo che aveva fatto rovesciare la slitta. La trovarono senza vita... non c'è più!... Il barone non può trovare conforto... la sua calma è quella di un moribondo...! Mai più ritorneremo a R...sitten, cugino!".
Il vecchio tacque, io mi congedai da lui con il cuore infranto e solo il tempo che assopisce ogni cosa poté alleviare il dolore per cui avevo creduto di dover morire.
Erano passati molti anni. Da tempo V. riposava nella sua tomba, e io avevo abbandonato la mia patria. L'infuriare della guerra mi trascinò, rovesciandosi a devastare l'intera Germania, fino a Pietroburgo. Nel viaggio di ritorno, a non grande distanza da K., io costeggiavo in una buia notte d'estate le rive del mar Baltico, quando vidi brillare davanti a me nel cielo una grande stella scintillante. Giunto più vicino, mi accorsi dalla fiamma rossa e simile a quella di una fiaccola, che quello che io avevo preso per una stella doveva essere un gran fuoco acceso, ma non riuscivo ancora a capire come mai potesse innalzarsi così nell'aria. "Amico, che razza di fuoco è quello là davanti a noi?" chiesi al postiglione. "Ma non è un fuoco - replicò lui. Quello lì è il faro di R...sitten!".
R...sitten! Appena pronunciato dal postiglione, a quel nome saltò su vivo e chiaro il quadro di quel fatale tempo di autunno che io vi avevo vissuto. Vidi il barone, Serafina... Ma anche le vecchie zie stravaganti, me stesso con il mio viso bianco e roseo di ragazzo, ben pettinato e incipriato, nel mio bel vestito di un color azzurro tenero di cielo, me, l'innamorato che sospira come un mantice e geme canzonette davanti agli occhi dell'amata.
Con profonda melanconica dolcezza invadendomi e agitandomi tutto, mi danzavano davanti come variopinte luci i rudi scherzi di V. che ora mi sembravano ben più divertenti di allora. Commosso dunque da dolore e strano piacere insieme, scesi il mattino seguente poco dopo l'alba a R...sitten, davanti all'edificio della posta. Riconobbi la casa dell'ispettore del possesso e chiesi di lui. "Con sua licenza - disse l'impiegato della posta, togliendosi la pipa di bocca e tastandosi il berretto da notte. - Qui non c'è nessun ispettore di possesso: questo è un ufficio regio e il regio consigliere è ancora a letto". Seppi in seguito che l'ultimo signore del maggiorasco, barone Roderico di R., era già morto da sedici anni senza discendenti e che, secondo la fondazione del maggiorasco, questo era passato allo stato.
Salii al castello: era tutto in rovine. Una buona parte delle pietre dell'antica costruzione era stata utilizzata per il faro, come mi assicurò un vecchio contadino che incontrai mentre usciva dal bosco di pini e con il quale attaccai discorso. Lui sapeva anche la storia dello spettro che aveva dovuto abitare al castello e mi assicurò che, ancora adesso, e specialmente nelle notti di plenilunio, si facevano sentire tra le rovine raccapriccianti grida di lamento.
Povero vecchio Roderico dalla vista corta! Quale tremendo e maligno potere hai evocato con i tuoi scongiuri ad avvelenare nel suo primo sorgere e fiorire quella stirpe che tu avevi pensato di aver piantato con radici salde per l'eternità?
Il giorno di San Michele, proprio nel momento in cui dai Carmelitani sonava l'Ora di notte, una lussuosa diligenza tirata da quattro cavalli attraversò rumoreggiando le viuzze della piccola città polacca di confine di L. e venne alla fine a fermarsi davanti alla porta di casa del vecchio borgomastro tedesco. I ragazzi sporsero curiosi le teste dalla finestra, ma la padrona di casa si alzò dal suo posto ed esclamò, gettando con aria seccata il suo lavoro d'ago sulla tavola e rivolgendosi al marito, che si era mosso in fretta dalla stanza vicino: "Ecco di nuovo qualche forestiero, che scambia la nostra tranquilla casa per una locanda; ma la colpa è dell'insegna. Perché hai fatto dorare ancora la colomba di pietra che sta sopra la porta?".
Il marito sorrise significativamente, senza, risponderle: in un attimo aveva buttato da una parte la veste da camera e aveva indossato il vestito festivo che, ben spazzolato dopo il ritorno dalla chiesa, pendeva dalla spalliera della sedia e, prima che la sua stupefatta moglie trovasse il tempo di aprire la bocca per una domanda, egli stava già dritto, con il berretto sotto il braccio, così che la sua bianca testa argentata risaltava chiara e luminosa nel crepuscolo, davanti allo sportello della carrozza, che nel frattempo un servitore aveva aperto. Una signora anziana in grigio soprabito da viaggio scese dalla vettura, la seguiva una figura alta e giovanile dal viso coperto da fitti veli, che, appoggiandosi al braccio del borgomastro, barcollò nella casa più che entrarvi a passo normale e appena arrivata nella camera, come venendole meno la vita, cadde nella poltrona spinta vicino a lei dalla padrona di casa, dopo un cenno del marito. La signora anziana disse con voce bassa e triste al borgomastro: "Povera creatura!... devo assolutamente restare con lei ancora per qualche momento" e così dicendo fece per togliersi il mantello da viaggio: la figlia maggiore del borgomastro la assistette nel gesto; apparve un abito monacale sul quale brillava all'altezza del petto una croce, cosa che rivelava la signora badessa di un convento di monache cistercensi. La Dama velata aveva intanto dato segno di vita con un lieve, a stento percepibile ansito e poco dopo aveva chiesto alla padrona di casa un bicchier d'acqua. Costei portò invece ogni tipo di gocce corroboranti e di essenze e ne lodava la meravigliosa forza, pregando la Dama velata di deporre quel velo pesante e fitto, che senza dubbio le impediva di respirare liberamente. Difendendosi con il gesto della mano da ogni tentativo di avvicinarsi da parte della signora, chinando la testa e ritraendola con i segni del più profondo ribrezzo, respinse il consiglio e anche quando alla fine si lasciò indurre ad aspirare il profumo di una fortissima essenza, quando bevve un po' dell'acqua chiesta, nella quale la sollecita signora aveva versato qualche goccia di un autentico elisir, lo fece sotto i veli, senza scostarli neppure un po'. "Avete fatto preparare, caro signore - disse la badessa rivolgendosi al borgomastro - tutto così come era desiderato, non è vero?". "Certamente - rispose il vecchio, - credo che il serenissimo ed eccellentissimo principe sarà contento di me, come pure la signora, per la quale io sono pronto a fare tutto quello che è nelle mie possibilità di fare". "Lasciatemi dunque sola un momento con la mia povera bambina". La famiglia dovette lasciare la stanza. Si sentì la badessa parlare con calore e con dolcezza alla Dama e finalmente anche questa rispondere con un accento che penetrava nel profondo dell'anima. Senza stare esattamente ad ascoltare, la padrona di casa restò dritta vicino alla porta della stanza: le signore parlavano ora in italiano e questa circostanza contribuì a renderle tutta la scena ancora più misteriosa e aumentò l'ansia che le stringeva le labbra. Il vecchio si portò via moglie e figlia, incaricandole di occuparsi del vino e dei rinfreschi, mentre lui rientrava invece nella stanza.
La Dama velata sembrava ora più consolata e calma, in piedi a capo chino e mani giunte davanti alla badessa. Costei non disdegnò di accettare qualcosa dai rinfreschi offerti dalla signora, poi esclamò:
"E' tempo ormai!". La Dama velata si prostrò in ginocchio, la badessa mise la mano sulla sua testa e pregò piano. Poi, mentre frequenti lacrime le scendevano dagli occhi sulle guance, strinse tra le sue braccia la velata, se la strinse al petto con violenza come non potendo frenare il proprio dolore: ma, riprendendosi, benedì con un gesto pieno di dignità solenne l'intera famiglia e, accompagnata dal vecchio borgomastro, si affrettò a raggiungere la carrozza, davanti alla quale i cavalli della posta, attaccati in quel momento, nitrivano forte. Tra suoni di corno e grida di incitamento ai cavalli, il postiglione guidò la diligenza attraverso le viuzze della città e sparì. La padrona di casa, come si accorse che la dama velata sarebbe rimasta e, dal momento che due grossi bauli erano stati scaricati e venivano trasportati in casa, a quel che sembrava per un lungo soggiorno, non poté impedirsi di essere presa da un penoso senso di curiosità e di preoccupazione. Uscì sul corridoio per incontrare il marito, che stava appunto per rientrare nella camera: "Per l'amor di Dio! - sussurrò piano ansiosa - che razza di ospite mi porti in casa, perché è vero che tu sai già tutto di questo e però non me ne hai detto niente". "Tutto quello che so io, lo verrai a sapere anche tu," replicò il vecchio con grande calma. "Ah! Signore! - continuò la moglie in tono ancora più spaventato. - Forse tu non sai tutto: se almeno fossi stato qui adesso. Appena partita la badessa, la signora si sentì evidentemente soffocare sotto i suoi spessi veli. Sollevò allora il fitto crespo nero che le giungeva fino alle ginocchia e io vidi..." "Be', che cosa hai visto?" la interruppe suo marito, mentre lei si guardava intorno tremando, come se vedesse fantasmi. "No, - riprese la moglie - i tratti del viso no, non mi è stato possibile di vederli chiaramente di sotto ai veli sottili, ma il pallore cadaverico sì, ah! quell'atroce colore di morte. Ma sta' a sentire, vecchio, e nota questo: chiaro, fin troppo chiaro, palese e chiaro come la luce del giorno è il fatto che la signora è incinta. Poche settimane ancora e dovrà mettersi a letto". "So anche questo, moglie disse il marito in tono alquanto burbero. - E perché tu non muoia di curiosità e di inquietudine, voglio spiegarti ogni cosa in due parole. Sappi dunque che il principe Z., il nostro alto patrono, alcune settimane fa mi ha scritto che la badessa del monastero cistercense di O. mi avrebbe portato una signora che io avrei dovuto accogliere nella mia casa, in tutta segretezza, impedendo con ogni cura qualsiasi pubblicità. La signora, che non voleva essere chiamata che semplicemente Celestina, avrebbe aspettato qui il prossimo parto e poi sarebbe stata di nuovo riportata via con la sua creatura. Se ora aggiungo che il principe mi ha raccomandato con le espressioni più insistenti e più vive la più attenta cura della signora, aggiungendo per le prime spese e per il disturbo quella bella borsa di ducati che tu puoi trovare e sbirciare nel mio cassettone, penso che tutte le tue preoccupazioni se ne andranno". "Dovremo insomma tener mano forse a colpe gravi, come ne commettono i gran signori". Ancora prima che il vecchio avesse il tempo di risponderle qualcosa, la figlia uscì dalla stanza chiamandolo vicino alla signora, che, desiderosa di riposo, chiedeva di essere portata nella camera preparata per lei. Il vecchio aveva fatto adornare le due stanzette del piano superiore come meglio era stato possibile: egli restò dunque non poco imbarazzato quando Celestina gli chiese se, all'infuori di quelle due stanze, egli non possedesse un altro locale, le cui finestre dessero sul retro. Rispose di no e aggiunse che per la verità sarebbe stato ancora disponibile un unico locale con finestre verso il giardino; ma non meritava di essere chiamato camera, tutt'alpiù sgabuzzino: grande a mala pena tanto da contenere un letto, una tavola e una sedia, avrebbe potuto essere paragonato a una povera cella di convento. Celestina espresse immediatamente il desiderio di vedere quella stanzaccia e, messovi appena piede, dichiarò che proprio quel posto si confaceva in tutto e per tutto ai suoi desideri e alle sue necessità e che lì e soltanto lì avrebbe abitato, per cambiarlo con un altro locale più spazioso solo quando le sue condizioni avessero richiesto l'assistenza di una infermiera. Il vecchio borgomastro aveva paragonato la stanza alla cella di un chiostro: in realtà proprio così appariva il giorno dopo.
Celestina aveva appeso alla parete un'immagine della Madonna e aveva messo sulla vecchia tavola di legno, sotto il quadro, un crocefisso. Il letto consisteva in un saccone di paglia e in una coperta di lana e, fatta eccezione per uno sgabello di legno e di un'altra piccola tavola, Celestina non sopportò nella sua stanza nessun'altro mobile.
La padrona di casa, riconciliata con la straniera dal profondo dilaniante dolore che scaturiva da tutta la sua persona, credette di doverla confortare come si fa in circostanze analoghe, cercando di rasserenarla: ma la straniera la pregò con parole commoventissime di non disturbare una solitudine, nella quale solo tutte le facoltà del suo spirito rivolte alla Vergine e ai santi potevano trovare consolazione. Ogni giorno all'alba, Celestina andava al convento dei Carmelitani, per ascoltarvi la prima messa: il resto del giorno pareva averlo dedicato ad esercizi di pietà, poiché ogni volta che era necessario cercarla nella sua stanza, la si trovava sempre in preghiera o immersa nella lettura di libri di pietà. Rifiutava tutti i cibi che non fossero verdura, tutte le bevande che non fossero acqua e solo in seguito alle rimostranze del vecchio che le faceva notare come al suo stato, come alla creatura che viveva in lei fosse necessario un nutrimento migliore, si decise alla fine a mangiare di tanto in tanto brodo di carne e a bere un po' di vino. Una vita severa e claustrale come quella fu ritenuta nella casa l'espiazione di gravi colpe commesse in passato, suscitando sentimenti insieme di compassione e di rispetto, ai quali non poco contribuivano la nobiltà della figura e la regale grazia dei movimenti di lei. Il fatto, tuttavia, che lei non deponesse mai i suoi veli, cosicché a nessuno era possibile vedere il suo viso, veniva a mischiarsi sgradevolmente alla disposizione degli animi nei confronti della pia straniera. Nessuno oltre al vecchio borgomastro e alla parte femminile della sua famiglia si avvicinava a lei e costoro, mai in vita loro usciti dalla propria cittadina, non avrebbero logicamente potuto riconoscere un viso che non avevano mai prima di allora visto... A che scopo dunque quel velo? La fantasia attiva delle donne trovò presto una raccapricciante storia. Un marchio spaventoso (così suonava la favola), la traccia dell'unghione di Satana, aveva orrendamente deturpato il viso della straniera: di qui la necessità del velo. Il borgomastro doveva faticare, per evitare o impedire le chiacchiere, perché almeno davanti alla porta di casa sua non si parlasse tanto di avventurosi casi riguardanti la straniera, il cui soggiorno nella casa del borgomastro era di certo conosciuto a ognuno nella città. Le sue andate alla chiesa dei Carmelitani erano anch'esse notate e presto venne chiamata la nera signora del borgomastro, espressione alla quale si riallacciava senza dubbio di per se stessa l'idea di una spettrale apparizione. Il caso volle che un giorno, nel momento in cui la figlia portava il pranzo alla straniera nella sua stanza, la corrente d'aria sollevasse il velo: con la velocità di un lampo la straniera girò il viso, sfuggendo in quello stesso istante alla vista della fanciulla.
Costei ridiscese tuttavia pallida e tremante in tutte le membra. Non una deturpazione; ma come già sua madre, lei aveva visto un viso di un pallore marmoreo, dalle cui orbite stranamente cave lampeggiava la luce dello sguardo. Il vecchio attribuì con ragione molto all'immaginazione della ragazza, ma in fin dei fatti, anche lui era nella stessa condizione di spirito degli altri: desiderava che quella creatura conturbante, a dispetto di tutta la sua pietà, fosse lontana dalla sua casa. Poco tempo dopo, il vecchio svegliò una notte sua moglie e le disse che già da qualche minuto sentiva, proveniente dalla camera di Celestina, un lieve lamentarsi e ansimare e insieme rumore ripetuto di colpi. La moglie si affrettò a salire, nel presentimento di quello che poteva essere accaduto o accadere. Trovò Celestina, vestita e avvolta nei suoi veli, a sedere sul letto, semisvenuta e presto si convinse che il parto era imminente. In pochi momenti tutti i preparativi, da lungo tempo iniziati, furono compiuti ed ecco che, passati pochi minuti, venne alla luce un robusto e bel bambino. Questo avvenimento, benché atteso da tempo, giunse tuttavia come inaspettato e distrusse con le sue conseguenze la situazione penosa e sinistra della straniera, che fino ad allora aveva pesato gravemente su tutta la famiglia. Il bambino apparve come mediatore di conciliazione, nato per avvicinare di nuovo Celestina agli esseri umani. Il suo stato non le permetteva nessuna delle pratiche ascetiche a cui si era data in passato, e mentre il suo abbandono e la sua debolezza le rendevano necessarie le persone che si prendevano sollecita cura di lei, essa si abituava sempre più alla loro vicinanza. La padrona di casa, ora che poteva prendersi cura di lei, cuocerle personalmente una zuppa ricostituente e portargliela pure di persona, andava dimenticando in queste casalinghe preoccupazioni tutto il male che un tempo le era venuto in mente contro l'enigmatica straniera. Non pensava neppure più che forse la sua onorata casa stava servendo di rifugio allo scandalo.
Il vecchio giubilava tutto ringalluzzito e vezzeggiava il bambino, come se fosse il suo proprio nipotino, e, come del resto tutti gli altri, si era abituato anche al velo di Celestina, al fatto stesso che essa fosse rimasta velata persino durante il parto. La levatrice era stata da lei scongiurata che, nel caso le fosse sopravvenuto uno stato di incoscienza, i veli non dovessero tuttavia essere tolti che dalla levatrice stessa in caso di pericolo di morte. Era certo che la vecchia levatrice aveva visto Celestina senza velo, ma non diceva niente tranne che: "La povera, giovane signora deve proprio velarsi così!". Pochi giorni dopo comparve il monaco carmelitano che aveva battezzato il bambino. Nessuno poté assistere al suo colloquio con Celestina, che durò più di due ore. Lo sentirono parlare concitatamente e pregare. Quando se ne fu andato, trovarono Celestina che sedeva nella poltrona con il suo bambino in braccio: sulle tenere spalle del piccolo era stato sistemato uno scapolare e gli pendeva sul petto un Agnusdei. Passarono mesi e settimane, senza che, come il borgomastro aveva creduto e come gli era anche stato detto dal principe, qualcuno venisse a prendere Celestina e il suo bambino. Non fossero stati i fatali veli, avrebbe potuto entrare a far parte dell'intimità della famiglia, ma essi erano sempre lì ad impedire l'ultimo passo per un affettuoso avvicinamento. Il vecchio ebbe alla fine il coraggio di chiederne espressamente ragione alla straniera, ma quando lei con voce sorda e solenne gli ebbe risposto: "Soltanto con la morte cadranno questi veli", egli tacque e desiderò di nuovo che la carrozza con la badessa apparisse alla porta di casa sua. Era arrivata intanto la primavera, la famiglia del borgomastro ritornava a casa da una passeggiata, portando in mano mazzi di fiori, i più belli dei quali erano destinati a Celestina. Proprio nell'istante in cui essi stavano per varcare la soglia, giunse al galoppo un cavaliere che chiedeva del borgomastro. Il borgomastro disse di essere lui in persona e di trovarsi precisamente davanti alla propria casa. Allora il cavaliere saltò precipitosamente di sella, legò il cavallo all'anello fissato al muro, e si precipitò all'interno, lanciando un grido rintronante: "E qui, è qui!", e salì correndo la scala. Si sentì sbattere una porta e Celestina gridare di terrore. Il vecchio, preso dallo spavento, si affrettò a seguirlo. Il cavaliere - ora era possibile riconoscerlo per un ufficiale della guardia a cavallo francese, decorato di molte medaglie - aveva strappato il bambino dalla culla e lo aveva preso nel braccio sinistro avvolto nel mantello: il destro glielo aveva afferrato Celestina, lottando con tutte le sue forze, per trattenere il ladro della sua creatura. Nella lotta l'ufficiale le strappò il velo... un viso irrigidito di morta, bianco come marmo, ombreggiato da riccioli neri lo guardava, lanciando fiamme dalle orbite cave, mentre dalle labbra immobili e semiaperte usciva un acuto grido lamentoso di dolore. Il vecchio si accorse che Celestina portava una maschera bianca che le aderiva perfettamente al viso. "Donna spaventosa, vuoi che la tua pazzia prenda anche me?" gridò l'ufficiale, mentre con violenza si liberava dalla sua stretta, cosicché Celestina cadeva al suolo. Essa allora abbracciò le sue ginocchia supplicandolo con l'espressione del più ineffabile, del più straziante dolore: "Lasciami il bambino!... oh, lasciami il bambino!... Non devi dannarmi per tutta l'eternità... per amore di Cristo, per amore della Vergine Santa... lasciami il bambino... lasciami il bambino!". In mezzo a tanti pianti e lamenti, non un muscolo si muoveva, non si agitavano le labbra del viso cadaverico, tanto che all'orrendo spettacolo il sangue si gelò per l'orrore al vecchio, a sua moglie... a tutti quelli che lo avevano seguito! "No! - gridava l'ufficiale come al colmo della disperazione. - Donna snaturata, inesorabile! Riusciresti più facilmente a strapparmi da questo petto il cuore, ma trascinare nella rovina di un'empia follia la creatura che sola sparge balsamo di conforto sulla ferita sanguinante, no! questo mai!". L'ufficiale strinse con forza maggiore a sé il bambino, che cominciò a piangere forte. Allora Celestina urlò con voce soffocata: "Vendetta... Vendetta del cielo sopra di te... Assassino!". "Lasciami!... Lasciami!... vattene, spettro d'inferno!" sibilava l'ufficiale che, respingendo lontano da sé con un movimento convulso del piede Celestina, voleva dirigersi verso la porta. Il vecchio borgomastro gli sbarrò il cammino, ma quello, estratta con rapidissima mossa una pistola, puntandola sul vecchio, gridò: "Una pallottola nella testa a chi tenta di strappare al padre la propria creatura", scese a precipizio le scale, si lanciò a cavallo senza lasciare il bambino e galoppò via a grandissima velocità.
La padrona di casa, con un'ansiosa paura in cuore per quello che sarebbe successo ora a Celestina e per quello che bisognava fare nei suoi confronti, superò l'orrore che la maschera mortuaria le ispirava e corse di sopra per assisterla. Quale dovette essere il suo stupore nel trovare Celestina ritta in mezzo alla camera, muta, le braccia pendenti inerti lungo i fianchi. Le rivolse la parola, ma non ebbe nessuna risposta. Incapace di sopportare la vista della maschera, le rimise i veli, che le giacevano a terra intorno: nessun cenno di vita.
Celestina era immersa in uno stato simile alla condizione degli automi, il che riempì di nuova ansia e di nuova pena la signora, che andava in cuor suo scongiurando ardentemente il Signore di liberarla da quella sinistra straniera. La sua preghiera venne esaudita immediatamente, poiché davanti alla porta di casa si stava appunto fermando la stessa vettura, che un giorno aveva portato Celestina.
Arrivò la badessa e con lei il principe Z., l'alto patrono del borgomastro. Quando costui ebbe saputo tutto ciò che era appena successo, disse con dolcezza e con calma: "Arriviamo troppo tardi: ora dobbiamo affidarci alla Provvidenza di Dio". Portarono giù Celestina: rigida e muta, senza dar segno di una volontà o di un desiderio, si lasciò sistemare nella vettura, che un istante dopo partiva. Per il vecchio borgomastro, per tutta la sua famiglia fu come se solo in quel momento essi si svegliassero da un brutto sogno di spettri che li aveva oppressi con grande paura.
Poco tempo dopo che gli avvenimenti sopra raccontati si erano svolti nella casa del borgomastro di L., nel chiostro cistercense di O. fu sepolta con insolita solennità una sorella laica dell'ordine e si sparse segretamente la voce che si trattasse della contessa Hermenegilda di C. che ognuno credeva in viaggio per l'Italia in compagnia della sorella di suo padre, principessa di Z. In quello stesso periodo di tempo fece la sua comparsa a Varsavia il conte Nepomuceno di C., padre di Hermenegilda, che, riservando per sé un piccolo possesso in Ucraina, nominava per mezzo di un atto notorio eredi di tutti i suoi restanti possedimenti di grande entità, i due figlioli del principe di Z. suoi nipoti. Gli fu chiesto se non intendesse pensare alla dote di sua figlia, e lui allora alzando al cielo un cupo sguardo carico di lacrime, disse con voce sorda: "Ha già avuto la sua dote!". E non esitò affatto non solo a confermare la voce della morte di Hermenegilda nel convento di O., ma addirittura a rivelare la singolare fatalità che aveva pesato sul capo di Hermenegilda e l'aveva portata prematuramente alla tomba come una martire espiatrice. Un buon numero di patrioti, piegati, ma non abbattuti dalla caduta della Patria, pensarono di attirare di nuovo il conte in segrete affiliazioni che avevano come meta la ricostruzione dello stato polacco: ma non trovarono più in lui l'uomo focoso e vibrante d'entusiasmo per la libertà e per la patria , l'uomo che aveva in altri tempi affrontato con incrollabile coraggio le più rischiose imprese, ma un vecchio straziato da un dolore selvaggio, sul punto di seppellirsi nella più completa solitudine, reso ormai estraneo ad ogni commercio umano. In altri tempi, quando, dopo la prima spartizione della Polonia, si andava preparando l'insurrezione, il conte Nepomuceno di C. aveva fatto del suo castello il luogo segreto di convegno dei patrioti. Lì riuniti in sontuosi banchetti, gli animi dei giovani si accendevano nella lotta per la patria. E là, tra la schiera dei giovani eroi, apparve Hermenegilda, simile ad angelo inviato dal cielo a consacrare. Come è tipico delle donne della sua nazione, prendeva parte a tutte le manifestazioni, anche a quelle di carattere politico, mostrando, all'età di non ancora diciassette anni, nel considerare e pesare le singole cose, una maturità di giudizio, spesso in opposizione a tutti gli altri, che dimostrava un ingegno straordinariamente acuto e una singolare chiaroveggenza: per cui spesso a lei era lasciata la decisione. Nessuno poteva starle alla pari, per il talento della rapida intuizione, della comprensione e della acuta esposizione delle cose, del conte Stanislao di R., giovane di circa vent'anni, pieno di fuoco e riccamente dotato. Accadde così che Hermenegilda e Stanislao discutessero spesso da soli in vivaci ardenti colloqui le questioni che si erano presentate: insieme esaminavano le proposte... insieme le accettavano... insieme le respingevano, ne proponevano altre: e spesso accadeva che i risultati dei colloqui tra la fanciulla e il giovane venissero riconosciuti, dagli anziani che consigliavano la gioventù, come quel che di meglio, di più prudente fosse possibile intraprendere. Che cosa vi poteva essere di più naturale che pensare all'unione di questi due esseri, dai meravigliosi talenti dei quali sembrava stesse per sorgere la salvezza della patria? Oltre a questo era in quel momento politicamente molto importante un legame di parentela tra le due famiglie che si aveva ragione di credere animate da interessi opposti, cosa che molto spesso accade in Polonia. Hermenegilda, profondamente penetrata da queste considerazioni, accettò lo sposo che le veniva destinato, come un dono del cielo, cosicché il loro fidanzamento ufficiale fu la conclusione dei convegni patriottici nel castello paterno. Si sa che i polacchi dovettero soccombere, che con la caduta di Kosciusko fallì un'impresa troppo basata su un'eccessiva fiducia in se stessi e su uno spirito di cavalleresca fedeltà erroneamente supposto. Il conte Stanislao, al quale la precedente carriera militare, la giovinezza e l'energia avevano assegnato un posto importante nell'esercito, aveva combattuto con coraggio da leone.
Sfuggito a fatica a un'atroce prigionia, ferito a morte, egli tuttavia ritornò. Solo Hermenegilda lo teneva ancora saldamente legato alla vita, tra le sue braccia egli sperava di trovare di nuovo il conforto e la speranza perduta. Non appena guarito dalle sue ferite, si affrettò ad andare nei possedimenti del conte Nepomuceno, per esservi ancora una volta e in modo più doloroso ferito. Hermenegilda lo accolse con un disprezzo che sfiorava lo scherno. "Vedo dunque davanti a me l'eroe che voleva affrontare la morte per la patria?". Fu questa la sua esclamazione di saluto: come se, in un suo folle delirio, avesse considerato il fidanzato uno di quei favolosi paladini della leggenda cavalleresca, la cui spada aveva il potere di distruggere interi eserciti. A che cosa servirono tutti i giuramenti, a che servì l'affermare che nessuna forza umana avrebbe potuto resistere alla valanga rombante che annientava ogni cosa al suo passaggio e che si era scatenata sopra la loro patria, a che servì il pianto di un ardentissimo amore? Hermenegilda, quasi che il suo cuore, gelido come il cuore di una creatura morta, non potesse accendersi che nel violento lottare per una missione mondiale, restò incrollabile nella decisione di non concedere la propria mano al conte Stanislao, prima che gli stranieri fossero stati cacciati dal territorio della Madre Patria. Il conte si accorse allora troppo tardi che Hermenegilda non l'aveva mai amato, poiché la condizione che lei poneva lui era sicuro che forse mai, o certamente solo in un tempo molto lontano, si sarebbe potuta avverare. Giurandole fedeltà fino alla morte, egli lasciò la fidanzata e si arruolò nell'esercito francese, il che lo portò a prender parte alle guerre che in quel momento venivano combattute in Italia.
E' fama delle donne polacche di avere un carattere singolarmente lunatico. Sentimento profondo, leggerezza spontanea, stoica negazione di sé, infuocata passione, freddezza e rigidità come di morte, tutto questo si ritrova in un variopinto miscuglio nella loro anima e produce alla superficie quel continuo cambiamento e quello strano tormento che assomiglia al gioco delle onde che si susseguono l'una all'altra nel movimento di risucchio verso il fondo agitato di un ruscello.
Hermenegilda vide con indifferenza il fidanzato separarsi da lei, ma erano appena passati pochi giorni che si sentì oppressa da un tale inesprimibile senso di nostalgico desiderio, come solo l'amore sa creare più ardente. Passò il torrente impetuoso della guerra, fu proclamata l'amnistia: gli ufficiali polacchi vennero liberati dalla prigionia. Capitò così che numerosi tra i compagni d'armi di Stanislao vennero uno dopo l'altro a ritrovarsi nel castello del padre di Hermenegilda. Con profondo dolore tutti riandavano con il pensiero a quegli infelicissimi giorni, ma alto e vibrante era l'entusiasmo per il coraggio leonino con il quale tutti avevano allora combattuto, ma nessuno come, nessuno più di Stanislao. Egli aveva riportato di nuovo all'assalto i battaglioni che indietreggiavano nel momento in cui tutto sembrava perduto, e la fortuna gli aveva concesso di spezzare con la sua cavalleria le file nemiche. Era cambiato il destino del giorno: una palla l'aveva colpito e con il grido: Patria... Hermenegilda!, era caduto di sella in una pozza di sangue. Ogni parola del racconto era come una punta di pugnale per il cuore di Hermenegilda: "No! non lo sapevo ancora!... non lo sapevo... non sapevo di amarlo indicibilmente e di averlo amato dal primo momento in cui l'ho visto! Quale diabolico accecamento ha potuto ingannare me, infelicissima creatura, tanto da farmi credere di poter vivere senza di lui, che è tutta la mia vita! Sono io che l'ho mandato a morte!... non ritornerà più!". Hermenegilda scoppiò in un pianto così doloroso, che tutti ne ebbero l'animo scosso. Insonne, inseguita continuamente da un'inquietudine, vagava di notte attraverso il parco e come se il vento della notte avesse in suo potere di portare all'amato lontano le sue parole, gridava all'aria: "Stanislao... Stanislao... ritorna... sono io... è Hermenegilda che ti chiama... non mi senti?... ritorna, non mi fare morire della dolorosa nostalgia di te, nella sconfortata disperazione!".
Lo stato sovraeccitato di Hermenegilda sembrò arrivare a una vera e propria follia, che la spingeva a mille azioni irragionevoli. Il conte Nepomuceno, nella terribile paura che la sorte della sua cara figliola suscitava in lui, pensò che forse sarebbe stato opportuno e utile l'intervento di un medico e riuscì in realtà a trovare un dottore che acconsentì a trascorrere qualche tempo al castello, prendendosi cura della fanciulla sofferente. Per quanto il suo metodo di cura, più psichico che fisico, avesse fatto una giusta diagnosi del male, per quanto l'efficacia di esso non fosse completamente da negare, tuttavia non fu mai possibile parlare di una completa guarigione, poiché, dopo lunghi periodi di calma, ritornavano di nuovo inaspettati gli strani fenomeni di parossismo. Una singolare avventura diede alla cosa un andamento del tutto diverso. Hermenegilda aveva gettato sdegnata nel fuoco il piccolo bambolotto vestito da ulano, che di solito stringeva al petto come stringesse l'amato e a cui dava i più dolci nomi, perché quello non aveva voluto cantare: "Podrìsz twoia nam niemila, milsza przyiazn w Kraiwbyla" con quel che segue. Rientrando nella sua stanza dopo questa esecuzione, essa si trovò a passare nell'anticamera nel momento in cui, con suono metallico di speroni, qualcuno vi faceva il suo ingresso.
Essa si guardò attorno: vide un ufficiale vestito dell'uniforme della guardia francese, che portava il braccio sinistro al collo avvolto in bende, si precipitò su di lui, gridando: "Stanislao!... mio Stanislao!..." e gli svenne tra le braccia. L'ufficiale, paralizzato dalla sorpresa e dallo stupore, dovette fare non poca fatica per sostenere quant'era necessario con l'unico braccio valido che aveva, Hermenegilda, alta e formosa di figura, e di conseguenza peso non leggero. Egli se la strinse sempre più fortemente al petto e mentre sentiva il cuore di Hermenegilda battere accanto al suo petto, era costretto a riconoscere a se stesso che quella era veramente una delle più inebrianti avventure che egli avesse mai vissuto. Passarono secondi su secondi, l'ufficiale, acceso in tutte le sue fibre dal fuoco amoroso che scorreva in lui, come in mille scariche elettriche, dalla bella creatura che teneva fra le braccia, stampò baci ardenti sulle dolci labbra. Così lo trovò il conte Nepomuceno, che usciva in quel momento dalla sua stanza. A sua volta anch'egli esclamò, giubilante di gioia: "Conte Stanislao!...". In quell'istante Hermenegilda si scosse, lo strinse disperatamente nelle sue braccia, esclamando di nuovo, completamente fuori di sé: "Stanislao!... Mio fidanzato!...
mio sposo!...". L'ufficiale avvampò in viso e, tremante... incapace di darsi un contegno calmo, indietreggiò di alcuni passi, sfuggendo con delicatezza agli abbracci di Hermenegilda. "Questo è il momento più dolce della mia vita... ma non voglio bearmi in una felicità che soltanto un errore mi procura... io non sono Stanislao... purtroppo non lo sono davvero!". Così disse balbettando e con grande fatica l'ufficiale: spaventata, Hermenegilda balzò all'indietro e quando, fissando attentamente negli occhi l'ufficiale, essa si fu convinta che la somiglianza davvero grandissima tra l'ufficiale e il suo fidanzato l'aveva tratta in inganno, la poveretta fuggì via lamentandosi a voce alta di pianto.
Il conte Nepomuceno fece fatica a ritenere possibile che il cugino del conte Stanislao (come tale infatti si presentò l'ufficiale), da ragazzino che era soltanto pochi anni prima, fosse così presto cresciuto, e fosse diventato un robusto giovane. Naturalmente bisognava anche tener conto del fatto che la dura vita di guerra aveva impresso al viso e a tutto l'insieme un carattere più virile di quanto avrebbe altrimenti potuto essere. Il conte Saverio aveva infatti insieme a suo cugino Stanislao, maggiore a lui di qualche anno, lasciato la patria; come Stanislao anche lui aveva preso servizio nell'esercito francese e aveva combattuto nelle campagne italiane.
Diciottenne appena, egli si era allora mostrato eroico combattente, cauto e insieme coraggioso come un leone, tanto che il generale lo aveva promosso al grado di suo aiutante e attualmente, all'età di vent'anni, rivestiva già il grado di colonnello. Le ferite riportate lo costringevano ora a restare per qualche tempo a riposo. Rientrato in patria, dunque, era andato nei possedimenti del conte Nepomuceno per adempiere un incarico che gli era stato affidato dal cugino Stanislao, e vi era stato ricevuto come il fidanzato in persona. Il conte Nepomuceno e il dottore fecero quanto era loro possibile per tranquillizzare Hermenegilda, che sconvolta dalla vergogna e da un amaro dolore non voleva lasciare la sua stanza fino a quando Saverio fosse rimasto al castello: ma invano. Saverio era fuori di sé per il fatto che Hermenegilda non volesse rivederlo. Le scrisse che egli scontava innocente una pena troppo dura per una disgraziata somiglianza. Senza contare, poi, che quella disgrazia, nata da un istante fatale, non colpiva solo lui, Saverio, ma anche l'adorato Stanislao, poiché al messaggero di una dolce ambasciata d'amore veniva tolta ogni occasione di consegnare a lei nelle sue mani, come aveva promesso, la lettera di Stanislao e di aggiungere ancora, in un colloquio intimo, tutto quello che Stanislao nella fretta del momento non aveva potuto scrivere. La cameriera di Hermenegilda, che Saverio aveva conquistato alla sua causa, seppe trovare il momento opportuno per consegnare il messaggio e quello che non era riuscito al padre, quello che non aveva potuto il dottore, lo ottenne Saverio con la sua lettera. Hermenegilda decise di vederlo. In profondo silenzio, con gli occhi bassi, lo ricevette nella sua camera. Saverio le si avvicinò con passo titubante, prese posto davanti al divano sul quale lei sedeva, ma nel chinarsi che fece, si inginocchiò più che sedersi, davanti ad Hermenegilda e, così inginocchiato, la scongiurò con le più commoventi espressioni, pronunciate con un accento quale avrebbe potuto usare accusandosi del più imperdonabile delitto, che non facesse pesare su di lui la colpa dell'errore che aveva permesso a lui di provare la beatitudine dell'amico carissimo. Non lui, no, Stanislao lei aveva abbracciato, nell'estasi dell'incontro. Consegnò la lettera e cominciò a raccontare di Stanislao, di come avesse, con alta e cavalleresca fedeltà, anche in mezzo alla battaglia, avuto fisso il pensiero alla donna del suo cuore, come in lui ardesse sempre e soltanto la fiamma della libertà della patria. Saverio raccontava con infiammata vivacità: riuscì a trascinare anche Hermenegilda, che superato ogni senso di vergogna e di imbarazzo fissò su di lui senza distoglierlo lo sguardo affascinante dei suoi occhi bellissimi, cosicché quello, nuovo Calaf, colpito dallo sguardo di Turandot, agitato nell'intimo da un senso dolcissimo di delizia, poté solo a fatica continuare il suo racconto. Senza rendersene conto, spinto dall'interna lotta contro la passione che, violenta, voleva divampargli in petto, egli si perse nella lunga descrizione di singoli combattimenti. Parlò di attacchi di cavalleria... di masse irrompenti... di batterie conquistate...
Impaziente lo interruppe Hermenegilda esclamando: "Oh basta con queste scene di sangue di una infernale tragedia!... Dimmi solo che mi ama... che Stanislao mi ama!". Allora Saverio, preso coraggio, prese la mano di Hermenegilda e stringendola appassionatamente al petto: "Ascoltalo il tuo Stanislao, è lui stesso che ti parla", esclamò, e dalle labbra gli scaturirono come un torrente le dichiarazioni e i giuramenti dell'amore più alto e infuocato, come quelli che possono essere propri della più consumata passione nel suo stato di delirio. Era caduto ai piedi di Hermenegilda, che lo aveva circondato con le sue braccia, ma quando, rialzatosi velocemente, tentava di stringerla a sé, si sentì da lei respinto con violenza. Hermenegilda lo fissò con uno sguardo stranamente vitreo e disse con voce sorda: "Vano fantoccio, anche se ti avessi riscaldato a vita, con il calore del mio petto, tu non potresti essere Stanislao, non potrai mai e poi mai esserlo". Dopo di che lasciò la stanza a passi lenti e leggeri. Saverio si accorse troppo tardi della sua irresponsabilità. Sentiva ora anche troppo vivacemente di essersi innamorato della promessa sposa del suo amico, innamorato fino alla follia e che ogni passo compiuto per la soddisfazione del suo sentimento lo avrebbe fatalmente portato a tradire l'amicizia. Partire immediatamente, senza rivedere Hermenegilda, questa fu l'eroica decisione che mise subito in atto, tanto che ordinò che fossero preparati i suoi bagagli e che fosse attaccata la sua carrozza. Il conte Nepomuceno dovette stupirsi moltissimo quando Saverio andò a prendere congedo da lui: fece di tutto per trattenerlo ma, con una fermezza che sembrava prodotta più da una specie di irrigidimento che da vera forza di animo, Saverio rimase incrollabile nella sua decisione dichiarando che particolarissime cause lo costringevano a partire. Se ne stava dritto al centro della stanza, la sua sciabola al fianco e il berretto militare in mano. Il servitore lo aspettava nell'anticamera con il mantello, in basso, davanti alla porta del castello, i cavalli impazienti nitrivano... Si aprì in quel momento la porta: entrò Hermenegilda che, sorridendo con indescrivibile grazia, avanzò verso il conte e disse: "Lei vuole già partire, caro Saverio?... E io che speravo di sentire da lei ancora tante cose del mio adorato Stanislao!... Non sa che i suoi racconti mi portano indicibile conforto?". Saverio abbassò gli occhi arrossendo; sedettero: il conte Nepomuceno non smetteva di ripetere che da molti mesi ormai egli non aveva visto Hermenegilda in una condizione di spirito più serena e spensierata. A un suo cenno, - si era ormai fatta sera, - fu disposta la tavola per la cena in quella stessa stanza. Brillò nei bicchieri il più nobile vino di Ungheria e, le guance di nuovo splendenti di rosa, Hermenegilda brindò dal calice colmo al ricordo dell'amato e alla libertà della patria. "Partirò stanotte", pensava tra sé Saverio e in realtà, non appena furono tolte le tavole, egli interrogò il servitore per sapere se la vettura lo aspettava ancora: il servo rispose che per ordine del conte Nepomuceno da molte ore i cavalli erano stati staccati e la vettura riportata in rimessa: i cavalli stavano mangiando nella stalla e Woycieh russava da basso sul suo pagliericcio. Il conte Saverio si arrese: l'inaspettata apparizione di Hermenegilda aveva convinto il conte che non solo era possibile, bensì saggio, e insieme piacevole, rimanere al castello e da questa convinzione egli arrivò a un'altra e cioè, se soltanto gli fosse riuscito di padroneggiarsi, di impedire l'irrompere della passione che, eccitando il morboso stato d'animo di Hermenegilda, le sarebbe potuta essere fatale sotto ogni aspetto. Che poi le cose stessero per svolgersi in modo diverso, - così concluse Saverio la sua riflessione - che Hermenegilda, svegliandosi un giorno dai suoi sogni, preferisse la serena bellezza del presente all'incertezza del futuro, tutto questo era in potere di circostanze prestabilite e della loro influenza concomitante, cosicché in nessun modo sarebbe stato possibile parlare di mancata lealtà e di amicizia tradita. Quando il giorno dopo Saverio rivide Hermenegilda, gli riuscì in realtà, evitando accuratamente anche la minima occasione che potesse eccitare l'ardore del suo sangue, di vincere la propria passione; e restando nei limiti della più severa cortesia, osservando anzi un cerimoniale abbastanza freddo, egli diede alla sua conversazione solo un leggero andamento galante, quello appunto che offre veleno mortale alle donne, misto a dolcissimo zucchero. Saverio, giovane di vent'anni, inesperto di ogni commercio amoroso, guidato dall'istinto sicuro del male, spiegò l'arte del più consumato Don Giovanni. Non parlò che di Stanislao e del suo amore per la soave fidanzata, ma attraverso la fiamma ardente che in quei momenti lo accendeva, egli seppe abilmente far trasparire la propria immagine, tanto che Hermenegilda, nell'artificioso smarrimento, non sapeva nemmeno più separare le due immagini, quella di Stanislao assente da quella del presente Saverio. La compagnia di Saverio diventò così ben presto una necessità per lo spirito eccitato di Hermenegilda e accadde che, spesso anzi in intimo affettuoso colloquio, essi fossero visti costantemente insieme.
L'abitudine sopraffece ogni giorno di più il ritegno di Hermenegilda, mentre contemporaneamente Saverio oltrepassava quei limiti di un freddo cerimoniale nei quali egli si era con raffinato calcolo costretto all'inizio. Dandosi il braccio Hermenegilda e Saverio facevano ora lunghe passeggiate per il parco, e quando, seduto vicino a lei nella sua stanza, egli le raccontava del felice Stanislao, lei, senza accorgersene, abbandonava le mani fra le sue. Il conte Nepomuceno, quando non si trattava di politica o di problemi riguardanti la patria, non era in grado di guardare acutamente le cose; accontentandosi di quello che vedeva, lasciava che il suo spirito, chiuso ad ogni altra manifestazione, non riflettesse le immagini della vita che quando esse morivano, per poi sparire senza traccia. Senza avere nessuna intuizione di quello che poteva essere lo stato d'animo di Hermenegilda egli ritenne una cosa buona il fatto che essa avesse finalmente sostituito i fantocci che nella sua insensata mania avrebbero dovuto rappresentare l'amato con un giovane in carne e ossa e pensò anzi di prevedere con molta furbizia che Saverio, a lui caro quanto il futuro genero, avrebbe preso completamente il posto di Stanislao. Non pensava più al fedele Stanislao. Da parte sua, Saverio aveva la stessa convinzione, tanto più che, passati ormai due mesi, Hermenegilda, per quanto in apparenza ancora tutta piena dell'immagine e del ricordo di Stanislao, permetteva che Saverio le si avvicinasse sempre di più e le facesse dichiarazioni personali. Un mattino si seppe che Hermenegilda si era chiusa nelle sue stanze con la cameriera, e non voleva vedere nessuno. Il conte Nepomuceno pensò che si trattasse di nuovo di una crisi passeggera. Egli pregò il conte Saverio di usare l'influenza che si era acquistata sull'animo di Hermenegilda per farla guarire, ma quale fu il suo stupore quando Saverio non solo si rifiutò di avvicinare Hermenegilda, ma apparve completamente e incomprensibilmente cambiato. Invece del suo abituale contegno spontaneo e ardito, egli sembrava depresso e scosso come chi avesse visto un fantasma, il tono della sua voce era incerto, le sue parole stanche e incoerenti. Disse di dover assolutamente partire per Varsavia, disse che non avrebbe mai più rivisto Hermenegilda, disse che il suo spirito turbato gli aveva negli ultimi tempi causato raccapriccio e terrore, che aveva stabilito di rinunciare a ogni felicità dell'amore e che solo allora, nella fedeltà di Hermenegilda all'amato, spinta quasi fino alla follia, egli aveva compreso con sua profonda vergogna l'infedeltà che stava per compiere verso l'amico, che infine una fuga immediata era l'unico mezzo di salvezza. Il conte Nepomuceno non capì niente di tutto questo: ma gli sembrò soltanto di intuire che il folle vaneggiare di Hermenegilda aveva allontanato il giovane. Cercò anzi di dimostrarlo a lui, ma inutilmente. Saverio si oppose con violenza sempre più forte a quello che con sempre più grande insistenza il conte gli andava dicendo sulla necessità di guarire Hermenegilda da tutte le sue bizzarrie e quindi di rimanere presso di lei. La disputa finì presto, poiché Saverio, quasi spinto da una forza invisibile e irresistibile, fuggì via, si lanciò nella sua carrozza e sparì.
Il conte Nepomuceno, profondamente irritato dalla condotta di Hermenegilda, non si occupò più di lei e accadde così che passò molti giorni chiusa nelle sue stanze, senz'altra compagnia che quella della sua cameriera.
Immerso in profondi pensieri, con l'animo pieno delle eroiche imprese di quell'uomo che i Polacchi adoravano allora come un idolo falso, il conte Nepomuceno sedeva un giorno nella sua stanza quando la porta si aprì ed entrò Hermenegilda, vestita a lutto, avvolta in un lungo velo vedovile. A passi lenti e solenni si avvicinò al conte, cadde in ginocchio davanti a lui e disse con voce rotta dai singhiozzi: "O padre mio, il conte Stanislao, mio amato sposo, non è più. E' caduto da eroe in una sanguinosa battaglia: davanti a te in ginocchio sta ora la sua sventuratissima vedova!". Il conte Nepomuceno dovette ritenere questa una nuova manifestazione violenta dello spirito scosso di sua figlia, tanto più che pochi giorni prima erano giunte notizie che confermavano l'ottimo stato di salute del conte Stanislao. Egli rialzò delicatamente Hermenegilda, dicendo: "Sii calma, figlia mia, Stanislao sta bene, presto correrà fra le tue braccia". Allora Hermenegilda respirò a fatica come in un doloroso sospiro d'agonia e si lasciò cadere affranta da un selvaggio dolore, vicino al padre, sui cuscini del divano. Ma poco dopo, ritornata a sé, disse con una meravigliosa calma e fermezza: "Lascia che io ti dica come tutte le cose si sono svolte, mio caro padre. Poiché tu lo devi sapere per riconoscere in me la vedova del conte Stanislao di R. Sappi che sei giorni fa al tramonto io mi trovavo nel padiglione nel lato meridionale del parco.
Tutti i miei pensieri, il mio essere intero rivolto all'amato, sentii che i miei occhi involontariamente si chiudevano e non nel sonno caddi allora, ma in un singolare stato che in nessun altro modo potrei definire se non chiamandolo sogno cosciente. Ed ecco che intorno a me ci fu all'improvviso uno stridore e tumulto di armi, sentii un selvaggio frastuono: vicinissimi a me cadevano colpi su colpi, mi svegliai e non poco fu il mio stupore trovandomi in una tenda da campo. Davanti a me in ginocchio stava lui in persona... il mio Stanislao. Lo abbracciai e lo strinsi al cuore. - Dio sia lodato, - esclamò, tu vivi, tu sei mia! - Mi disse allora come, subito dopo la cerimonia nuziale, io fossi caduta in uno svenimento profondo e io, creatura stordita, mi ricordai solo allora che infatti frate Cipriano, che in quel momento scorgevo mentre usciva dalla tenda, ci aveva, pochi minuti prima uniti in matrimonio nella vicina cappella, fra il tuonare dei colpi e il selvaggio imperversare della battaglia. Al mio dito brillava la fede d'oro. La felicità celeste con la quale io abbracciai allora di nuovo il mio sposo è impossibile ad esprimersi; un'estasi senza nome e mai prima di allora provata, l'estasi della donna che ha raggiunto il suo ideale, mi sconvolgeva l'animo: persi i sensi... mi prese un brivido gelato. Aprii gli occhi... oh terrore! Nel pieno della selvaggia mischia... la tenda, dalla quale verosimilmente qualcuno mi aveva salvato, bruciava davanti a me!... Stanislao era assalito da cavalieri nemici... i suoi compagni tentano di salvarlo... troppo tardi... colpito alle spalle da un cavaliere, egli cade da cavallo". Sopraffatta di nuovo dall'immensità del suo dolore, Hermenegilda svenne. Nepomuceno corse a prendere un forte cordiale, ma non ce ne fu bisogno poiché Hermenegilda con meravigliosa energia riprese la padronanza di sé: "Il volere del Cielo si è compiuto", disse con voce profonda e solenne, "non accuse e lamenti si convengono a me, ma l'essere fedele fino alla morte al mio sposo, dal quale nessun legame terreno mi deve separare. Portare il suo lutto, pregare per lui, per la nostra salvezza, questa è la mia decisione e niente riuscirà a distogliermene". Il conte Nepomuceno aveva ogni ragione di credere che la follia latente nell'animo di Hermenegilda si fosse espressa in quella visione, e poiché il tranquillo e claustrale lutto di Hermenegilda per suo marito non dava luogo a nessuna esaltata e preoccupante manifestazione, egli pensò che questo suo stato, al quale il prossimo arrivo del conte Stanislao avrebbe posto fine, giungeva opportuno. E quando di tanto in tanto egli lasciava cadere nel discorso qualche cosa riguardo ai sogni e alle visioni, Hermenegilda sorrideva dolorosamente poi stringeva l'anello d'oro che portava al dito, baciandolo e bagnandolo di lacrime ardenti. Il conte Nepomuceno notò con stupore che questo anello era in realtà un anello nuovo, che egli non aveva mai visto e neppure conosceva, ma poiché mille erano le possibilità per le quali lei avrebbe potuto venirne in possesso, così non pensò affatto di darsi la briga di indagare oltre.
Più importante fu per lui la triste notizia che il conte Stanislao era caduto prigioniero del nemico. Hermenegilda intanto cadde in uno strano stato di malattia, spesso si lamentava di sensazioni strane, che non propriamente malattie potevano essere chiamate, ma che agitavano in modo nuovo e sconosciuto tutto il suo fisico. In questo tempo giunse al castello il principe Z. con la sua moglie. La principessa, poiché la madre di Hermenegilda era morta molto presto, aveva fatto le sue veci con la fanciulla. Per questo dunque essa fu ricevuta da lei con affetto filiale. Hermenegilda aprì alla degna signora il segreto del suo cuore e si lamentò in tono di amara malinconia di essere ritenuta una pazza sognatrice, nonostante che per tutto quello che riguardava la verità di ogni circostanza delle sue nozze realmente avvenute con Stanislao, essa potesse produrre le prove più convincenti. La principessa, informata in precedenza di tutto e convinta dello stato di anormale agitazione di Hermenegilda, si guardò bene dal contraddirla; si accontentò di assicurarla che il tempo avrebbe portato la spiegazione di ogni cosa e che intanto era bene affidarsi in pia umiltà al volere del Cielo. Più attenta si fece la principessa quando Hermenegilda giunse a parlarle delle sue condizioni fisiche, e descrisse i fenomeni che sembravano sconvolgere tutta la sua vita. E quando sembrò che Hermenegilda si stesse completamente rimettendo, ognuno notò che la principessa la sorvegliava con la più ansiosa sollecitudine e che la sua preoccupazione si faceva sempre più intensa. Le pallide labbra e le smorte guance ripresero il loro colore, gli occhi persero quel fuoco tenebroso e sinistro, lo sguardo diventò mite e tranquillo, le forme smagrite si arrotondarono sempre più, insomma Hermenegilda fioriva in tutta la bellezza della sua gioventù. Eppure sembrava che la principessa la ritenesse allora più che mai malata, poiché le chiedeva con una tormentosa ansia dipinta in volto, non appena Hermenegilda sospirava o semplicemente impallidiva un poco: "Che cosa hai, bambina, che cosa ti senti?". Il conte Nepomuceno, il principe e la principessa discutevano tra loro sulle possibili conseguenze della idea fissa di Hermenegilda di essere la vedova di Stanislao. "Io credo purtroppo - disse il principe, - che la sua follia resterà inguaribile, perché nel corpo è sana come un pesce e nutre lo stato sconvolto della sua anima con tutta l'energia; sì -, continuò poiché la principessa guardava fisso davanti a sé con espressione dolorosa, - sì, è sana come un pesce, per quanto sia proprio a torto e con suo evidente svantaggio, curata, vezzeggiata e impaurita come una malata". La principessa, a cui erano rivolte queste parole, fissò fermamente negli occhi il conte Nepomuceno e disse presto, con aria decisa: "No!... Hermenegilda non è malata, ma se non fosse nel regno dell'impossibilità che le cose si siano svolte in quel modo, io sarei convinta che è incinta". Detto questo, si alzò e lasciò la camera. Come colpiti dal fulmine il conte e il principe si fissavano esterrefatti. Il principe, ritrovando per primo la parola, dichiarò che sua moglie di tanto in tanto veniva presa dalle più stravaganti visioni. Ma il conte Nepomuceno disse con estrema serietà:
"La principessa ha ragione: un errore simile da parte di Hermenegilda è da mettersi assolutamente nel regno dell'impossibile; ma quando ti dico che mentre Hermenegilda mi passava ieri davanti, un assurdo pensiero mi ha attraversato la mente: - Ma guardate un po', la giovane vedova è incinta! -, che questo pensiero può venire confermato palesemente dall'esame della sua figura, quando ti dico tutto questo, non puoi non trovare logico che le parole della principessa mi abbiano riempito di oscura ansia, anzi addirittura di penosissima paura". Per parecchi giorni i due ondeggiarono da una decisione all'altra: per tutti e due le forme di Hermenegilda erano sospette, alla principessa spettava ora di trovare un'uscita alla situazione. Lei respinse la proposta che entrasse nella faccenda un medico che con molta probabilità avrebbe potuto essere un chiacchierone e dichiarò che del resto tra cinque mesi sarebbe stato necessario l'aiuto di un'altra persona. "Quale persona?" esclamò il conte Nepomuceno atterrito. "Sì -, continuò con voce alterata la principessa, - ormai non c'è più nessun dubbio: o Hermenegilda è la più scellerata ipocrita che sia mai nata, oppure siamo davanti a un mistero imperscrutabile.... Insomma lei è incinta". Irrigidito dal terrore, il conte Nepomuceno non trovò parole; alla fine, facendosi a stento animo, scongiurò la principessa di indagare a ogni costo con la stessa Hermenegilda chi fosse lo sciagurato che aveva macchiato la sua casa di un'onta incancellabile.
"Hermenegilda non sospetta ancora - disse la principessa - che io so del suo stato. Mi riprometto di sapere tutto dal momento in cui le dirò che cosa in realtà le accade. La sorpresa farà cadere la maschera dell'ipocrita oppure dovrà in qualche modo imprevisto rivelarsi la sua innocenza, per quanto io non riesca a immaginare neppure in sogno come questo sia potuto succedere". La sera di quello stesso giorno la principessa si trovò sola nella sua stanza con Hermenegilda, lo stato della quale si rivelava ogni ora più nell'aspetto. A un tratto la principessa afferrò l'infelice creatura per le braccia, la fissò acutamente negli occhi e disse con tono deciso: "Cara, tu sei incinta!". Allora Hermenegilda alzò al cielo uno sguardo che un'estasi divina trasfigurava ed esclamò con accento del più sublime rapimento:
"Oh madre, madre, lo so! E' tanto tempo che sento in me la certezza di una indicibile felicità che mi attende, anche se lo sposo amato è caduto sotto i colpi assassini dei selvaggi nemici. Sì, l'istante della più sublime felicità che io abbia goduto sulla terra vive ancora in me e lo riavrò nel caro pegno del soave legame". La principessa ebbe l'impressione che tutto le girasse intorno, come se stesse per perdere i sensi: la verità nell'espressione di Hermenegilda... il suo rapimento, la sua reale trasfigurazione non potevano portare a crederla una creatura ipocrita né potevano far sospettare l'inganno e tuttavia solo il delirio di un folle avrebbe potuto dar credito alla sua convinzione. Trascinata appunto da quest'ultimo pensiero, la principessa respinse da sé Hermenegilda gridandole violentemente:
"Pazza! Un sogno ti ha ridotta nello stato che copre tutti noi di vergogna e di scandalo!... Ma credi dunque di potermi sedurre con la tua stupida storiella? Torna in te: cerca di ricostruire tutti gli avvenimenti degli ultimi tempi: una confessione pentita può forse riscattarti". Inondata di lacrime, disfatta nell'acerbo dolore, Hermenegilda cadde in ginocchio davanti alla principessa e si lamentò piangendo: "Madre, anche tu mi ritieni una visionaria, anche tu non credi che la Chiesa ha consacrato il mio legame con Stanislao, che io sono sua moglie... Ma guarda dunque qui al mio dito il suo anello... E poi che cosa dico, tu conosci il mio stato, ma non è abbastanza per convincerti che non ho sognato?". La principessa notò con il più profondo stupore che il pensiero di una colpa non sfiorava neppure lontanamente lo spirito di Hermenegilda e che essa non aveva afferrato la sua allusione, non l'aveva neppure compresa. Stringendo con passione al petto le mani della principessa, Hermenegilda continuava a supplicarla che ora almeno, poiché il suo stato non lasciava dubbi, volesse credere a suo marito, tanto che la signora, sconvolta e completamente fuori di sé, non sapeva in realtà che cosa dire ormai a quell'infelice e quale cammino seguire per trovare la traccia del mistero che necessariamente doveva esistere. Solo parecchi giorni più tardi la principessa dichiarò al consorte e al conte Nepomuceno come non fosse possibile venire a sapere da Hermenegilda, che si credeva resa madre da suo marito, più di quanto essa stessa affermava con la più intima e profonda convinzione. Gli uomini, irritati, trattarono Hermenegilda da ipocrita e il conte Nepomuceno giurò che dal momento che le maniere dolci non riuscivano a farla distogliere dal pazzo pensiero di dare ad intendere a lui la più cretina delle invenzioni, avrebbe pensato lui a prendere i provvedimenti più severi. Ma la principessa gli oppose che ogni severità sarebbe stata solo una inutile crudeltà. Come infatti è stato detto, era ormai convinta che Hermenegilda non fingeva affatto, credendo al contrario con tutta l'anima a quello che diceva: "Ci sono molti altri misteri,- continuò, - nel mondo, che noi non siamo in grado di capire. E se l'azione intensa del pensiero potesse avere anche un effetto fisico, se un incontro spirituale di Stanislao e di Hermenegilda l'avesse ridotta in quello stato che per noi è altrimenti inspiegabile?". Malgrado la loro ira, malgrado tutta l'oppressione di quel tragico momento, il principe e il conte Nepomuceno non riuscirono a trattenere una sonora risata quando la principessa espresse questo suo pensiero che gli uomini chiamarono il più sublime che avesse mai reso etereo l'umano. La principessa, rossa in viso come fiamma, ribatté che agli uomini per la loro rozza natura mancava la sensibilità di simili cose e che lei riteneva lo stato di cose in cui si trovava la sua povera bambina (all'innocenza della quale credeva fermamente) scandaloso e atroce e che un viaggio sarebbe stato l'unico mezzo e il migliore per strapparla alle insidie e allo scherno del suo stesso ambiente: aveva appunto deciso di partire al più presto con lei. Il conte Nepomuceno fu molto contento della proposta poiché dal momento che Hermenegilda stessa non faceva nessun mistero del suo stato era necessario, se la sua reputazione doveva essere risparmiata, allontanarsi dalla cerchia delle conoscenze.
Presa questa decisione ognuno si sentì più tranquillo. Il conte Nepomuceno non pensava quasi più al preoccupante mistero, ora che intravvedeva la possibilità di nasconderlo al mondo, lo scherno del quale era per lui il dolore più amaro; e del resto molto giustamente il principe riteneva che in quella particolarissima situazione, davanti alla sincera e schietta condizione di spirito di Hermenegilda, non ci fosse nient'altro da fare che lasciare al tempo la soluzione dello stravagante enigma. Stavano dunque sul punto di separarsi dopo aver preso le decisioni che abbiamo detto, quando l'improvviso arrivo del conte Saverio di R. portò nuove preoccupazioni in aggiunta a tutte le difficoltà precedenti. Riscaldato dalla rapidissima cavalcata, completamente coperto di polvere, con la furia di un uomo spinto da una selvaggia passione, egli irruppe nella stanza e senza salutare, dimentico di ogni convenienza, gridò a voce altissima: "E' morto il conte Stanislao. Non è stato fatto prigioniero dai nemici, no! E' stato abbattuto, ucciso; qui ci sono le prove!" e gettò in mano al conte Nepomuceno diverse lettere che aveva tirato fuori di tasca con violenza. Quest'ultimo cominciò a leggere in uno stato di completo smarrimento. La principessa scorse i fogli e aveva appena letto le prime righe che alzando gli occhi al cielo e congiungendo le mani esclamò: "Hermenegilda, povera bambina, che mistero insondabile!".
Aveva notato che la data della morte di Stanislao coincideva con quella dichiarata da Hermenegilda e che tutto si era svolto proprio come lei ne aveva avuto visione in quel fatale istante. "E' morto, - diceva ora Saverio, con ardore, Hermenegilda è libera, niente mi si oppone più, io l'amo come la mia vita, chiedo la sua mano!". Il conte Nepomuceno non fu capace di rispondere, prese invece la parola il principe, dichiarando che alcune particolari circostanze rendevano impossibile il prendere in considerazione in quel momento la sua domanda, che egli non avrebbe potuto in nessun modo vedere Hermenegilda e che quindi la cosa migliore era per lui allontanarsi in fretta come era venuto. Saverio ribatté che se, come pensava, il principe faceva allusione allo stato d'animo scosso di Hermenegilda, egli lo conosceva molto bene, ma lo considerava appunto per questo tanto meno un impedimento, anche per il fatto che la sua unione con Hermenegilda avrebbe posto fine a quello stato. La principessa lo assicurò che Hermenegilda aveva giurato fedeltà fino alla morte al suo Stanislao, per cui avrebbe senza dubbio alcuno rifiutato ogni altra unione, d'altra parte in quel momento non si trovava neppure al castello. Allora Saverio scoppiò a ridere forte: egli aveva bisogno soltanto del consenso paterno; a commuovere il cuore di Hermenegilda ci avrebbe pensato lui. Al colmo dell'ira per l'importuna insistenza del giovane, il conte Nepomuceno dichiarò che inutilmente sperava sul suo consenso e che lasciasse subito il castello. Il conte Saverio lo guardò fisso in volto, aprì la porta dell'anticamera e gridò in basso che Woycieh gli portasse su il suo bagaglio, liberasse i cavalli dalla sella e li conducesse in stalla. Rientrò poi nella stanza e si buttò a sedere in una poltrona accanto alla finestra, dichiarando con tranquilla serenità: "Prima che io abbia parlato con Hermenegilda e che io l'abbia vista, mi caccerà dal castello soltanto un'aperta violenza". Il conte Nepomuceno gli rispose che in quel caso poteva pure contare su un lungo soggiorno, ma doveva però permettere a lui di lasciare il castello. Tutti, il conte Nepomuceno, il principe e la principessa uscirono dunque dalla stanza per far sparire nel più breve tempo possibile Hermenegilda, ma il caso volle che proprio in quel momento, contrariamente alla sua abitudine di ogni giorno, lei fosse uscita nel parco. Saverio, che lasciava vagare il suo sguardo fuori della finestra vicino alla quale sedeva, la vide passeggiare in lontananza. Si precipitò nel parco e la raggiunse proprio nel momento in cui entrava in quel fatale padiglione nella parte meridionale del parco. Il suo stato era ormai evidente agli occhi di chiunque: "Oh potenza del cielo", esclamò Saverio arrestandosi davanti a Hermenegilda e, cadendo poi ai suoi piedi, prese a scongiurarla con i più sacri giuramenti del suo immenso ardentissimo amore di accettarlo come marito, di farlo felice. Hermenegilda fuori di sé per lo spavento e la sorpresa gli disse: "Un maligno destino vi ha portato fino a me per disturbare la mia quiete... Mai, mai sarò la moglie di un altro, io, legata fino alla morte alla fedeltà verso l'adorato Stanislao". Ma poiché Saverio non cessava con le sue suppliche e con i suoi giuramenti e poiché infine nella follia della sua passione egli le rinfacciò di ingannare se stessa, e di avere già concesso a lui i più dolci istanti di amore, poiché rialzandosi da terra fece per stringerla nelle sue braccia, lei, simile in volto a una morta, lo respinse con ribrezzo e disprezzo gridando: "Pazzo miserabile egoista, così come non ti è possibile distruggere il dolce pegno della mia unione con Stanislao, così non è in tuo potere indurmi a tradire delittuosamente la mia fedeltà: scompari dalla mia vista!". Allora Saverio la strinse, mostrò i pugni, scoppiò in una selvaggia risata di scherno e gridò: "Pazza! ma non sei tu, proprio tu, che hai spezzato quello sciocco giuramento? La creatura che porti in seno è mia! Me hai abbracciato, qui in questo luogo.... Sei stata la mia amante e tale rimani, se io non ti innalzo a mia moglie". Hermenegilda lo guardò: nei suoi occhi ardeva una fiamma infernale. Sibilò: "Mostro!" e cadde a terra come colpita a morte.
Inseguito da tutte le furie, Saverio rientrò correndo al castello, si imbatté nella principessa, la afferrò con impazienza per la mano trascinandola nella stanza. "Mi ha respinto con ribrezzo... Ha respinto me, il padre di suo figlio!". "In nome di tutti i Santi! Tu, Saverio... Dio mio! Ma sei in te?" esclamò atterrita la principessa.
"Condannatemi pure, - continuò Saverio più calmo, - ma chiunque avesse sentito il sangue bruciargli nelle vene come me in quel momento, avrebbe commesso la mia stessa colpa... Trovai Hermenegilda nel padiglione in uno stato così strano che non potrei assolutamente descriverlo. Essa era stesa sul divano e sembrava immersa in un sonno profondo, popolato da sogni. Ero appena entrato che lei si alzò, venne verso di me, mi prese la mano e percorse il padiglione a passo solenne. Si inginocchiò, io feci altrettanto, pregò e io mi accorsi presto che lei vedeva in spirito davanti a noi un sacerdote. Si tolse dal dito un anello, porgendolo al prete, lo presi io e le misi al dito un anello d'oro, che avevo tolto dal mio, poi lei cadde nelle mie braccia, ardente d'amore... Quando fuggii giaceva in un sonno profondo senza conoscenza". "Mostro, assassino!" gli gridò la principessa fuori di sé.
In quel momento entrarono il conte Nepomuceno e il principe, che in poche parole vennero a conoscenza della confessione di Saverio; e profondamente offeso fu l'animo delicato della principessa quando gli uomini trovarono molto scusabile la delittuosa azione di Saverio, come quella che poteva essere riparata facilmente dalla sua unione con Hermenegilda. "No! disse la principessa, Hermenegilda non darà mai la sua mano di sposa a colui che ha osato, simile al maligno spirito dell'inferno, avvelenare il momento più sublime della sua vita con il più mostruoso delitto". "Lei dovrà darmi la sua mano, disse il conte Saverio con freddo e superbo scherno, - se vorrà salvare il suo onore... Io resto qui e tutto si sistemerà". Si sentì intanto un rumore sordo di passi: riportavano al castello Hermenegilda che il giardiniere aveva trovata svenuta nel padiglione. La deposero sul divano: prima che la principessa avesse il tempo di impedirlo, Saverio avanzò e le prese una mano: ed ecco che con un grido spaventoso, non voce umana, ma simile al lacerante grido di dolore di un animale selvaggio, lei balzò in piedi e fissò il conte con occhi che mandavano fiamme, il viso stravolto in una atroce convulsione. Lui barcollò all'indietro come se quello sguardo lo avesse colpito a morte e balbettò in modo a stento comprensibile: "I cavalli!". A un cenno della principessa lo portarono giù... "Vino, del vino!" gridò, tracannò alcuni bicchieri e ritrovando un po' di forza balzò a cavallo e sparì... Lo stato di Hermenegilda che ora sembrava da un subdelirio diventare furia selvaggia, fece cambiar parere al conte e al principe, che solo allora videro tutto ciò che di spaventoso, di irreparabile c'era stato nell'azione di Saverio. Volevano chiamare un medico, ma la principessa respinse ogni intervento del genere quando forse solo un conforto spirituale avrebbe potuto giovare. Invece del medico, comparve il frate carmelitano Cipriano, confessore della casa. A lui riuscì in modo meraviglioso di svegliare Hermenegilda dalla incoscienza della sua follia. Ben presto anzi divenne tranquilla e calma; parlò in modo del tutto coerente con la principessa esprimendo il desiderio di trascorrere dopo il parto la sua vita nel monastero Cistercense di O. in lutto e penitenza continua. Ai suoi abiti vedovili aveva ora aggiunto dei veli che coprivano impenetrabilmente il viso e che non sollevava mai. Padre Cipriano lasciò il castello per ritornarvi tuttavia non molti giorni più tardi. Il principe aveva intanto scritto al borgomastro di L.: là Hermenegilda avrebbe atteso il parto e vi sarebbe stata accompagnata dalla badessa del Monastero, parente della famiglia, mentre la principessa avrebbe intrapreso il suo viaggio in Italia, facendo credere di portare con sé Hermenegilda... Era la mezzanotte: la carrozza che avrebbe dovuto portare Hermenegilda al monastero attendeva alla porta. Affranti dal dolore il conte Nepomuceno, il principe e la principessa aspettavano l'infelicissima creatura per dirle addio. Essa entrò, condotta per mano dal frate, nella stanza rischiarata intensamente dalla luce delle candele. Cipriano disse con voce solenne: "Sorella Celestina peccò gravemente quando si trovava ancora nel mondo, poiché l'empietà del demonio macchiò la purezza del suo animo, ma un voto che mai sarà sciolto le porta ora conforto, calma e beatitudine eterna!... Il mondo non rivedrà mai quel viso, la bellezza del quale attirò il demonio... Guardate! Così comincia e finisce Celestina la sua espiazione!". Così dicendo il frate sollevò i veli di Hermenegilda e una dilaniante sofferenza trapassò il cuore di tutti quando videro la livida maschera di morte nella quale era per sempre rinchiuso il bellissimo volto di Hermenegilda!... Lei si separò, senza avere la forza di pronunciare una parola, dal padre, che, disfatto dal dolore, pensava di non poter più vivere ancora. Il principe, che pure era un uomo calmo ed equilibrato, piangeva dirottamente e solo la principessa riuscì, respingendo con ogni forza il terrore di quel viso raccapricciante, a dominarsi.
Come il conte Saverio fosse venuto a sapere il luogo del soggiorno di Hermenegilda e persino la circostanza che il bambino da lei nato sarebbe stato consacrato al servizio della Chiesa, rimane un fatto inspiegabile. Ben poco gli giovò il rapimento del bambino, poiché, arrivato a P., quando volle affidare alle cure di una donna fidata il piccolo, esso non era svenuto per il freddo, come lui credeva, ma morto. Dopo di allora il conte Saverio sparì senza lasciare traccia di sé. Tanto che si credette che egli si fosse ucciso. Erano passati molti anni quando il giovane principe Boleslao di Z., durante un suo viaggio a Napoli, giunse nei dintorni di Posillipo. In quella ridente e amena contrada è situato un monastero camaldolese: il principe salì a visitarlo, per godere una vista che gli era stata indicata come la più meravigliosa di tutta Napoli. Proprio nel momento in cui stava per entrare nel giardino dalla cima della scogliera, che gli era stata descritta come il punto più bello, egli notò un monaco seduto davanti a lui su un masso, che lasciava vagare lontano il suo sguardo mentre sulle ginocchia stava aperto un libro di preghiere. Il suo viso, nei tratti principali ancora giovanile, sembrava tuttavia stravolto dai segni di un profondo affanno. Nell'anima del principe nacque un oscuro ricordo, mentre sempre più da vicino osservava il monaco. Gli si fece accanto e gli occhi gli caddero sul libro di preghiere scritto in polacco. Rivolse quindi al monaco la parola in quella lingua, ma costui, pieno di spavento, si girò e appena vide il principe coprì il suo volto e come spinto dallo spirito del male fuggì via attraverso i cespugli. Il principe Boleslao assicurava, raccontando al conte Nepomuceno la sua avventura, che quel monaco non era altri se non il conte Saverio di R.
LA SIGNORINA DI SCUDERY (Storia del tempo di Luigi Quattordicesimo).
La piccola casa, che Maddalena di Scudéry, conosciuta per i suoi versi e per il favore di cui godeva presso Luigi Quattordicesimo e la Maintenon, abitava, era situata nella via Saint-Honoré.
Molto tardi, intorno alla mezzanotte - si era nell'autunno del 1680 - fu bussato con tanta violenza alla porta di casa, che tutto il vestibolo ne rimbombò. Battista, che nella modesta organizzazione casalinga della signorina di Scudéry, riuniva in sé le funzioni di cuoco, di lacchè e di portiere, era andato con il permesso della padrona al paese per assistere alle nozze di sua sorella, e fu così che la Martinière, la governante, si trovò ad essere la sola persona sveglia in tutta la casa. Sentì i colpi ripetuti e si ricordò all'improvviso che, con Battista assente, si trovava sola con la padrona, senza nessun mezzo di difesa.
Tutti i delitti di effrazione, di furto e di omicidio, che succedevano in quel tempo molto facilmente a Parigi, si affollarono alla sua mente. Non dubitò nemmeno un attimo che una banda di malfattori, a conoscenza della solitudine indifesa della casa, tentava appunto di penetrarvi con le peggiori intenzioni nei confronti dei suoi abitanti. Se ne stette dunque nella sua stanza, tutta tremante e spaurita, maledicendo Battista e le sorelle che si sposano.
Intanto il rimbombo dei colpi alla porta si faceva sempre più forte e, nelle pause tra un colpo e l'altro, le sembrava di sentire il suono di una voce, che gridava: "Ma aprite dunque in nome di Cristo! Aprite!".
Alla fine, presa da una agitazione sempre crescente, la Martinière prese una lampada e corse giù al piano terreno nell'anticamera.
Sentì allora distintamente la voce che gridava: "Ma aprite, aprite in nome di Cristo!...".
"Così non parla un brigante! - disse fra sé la Martinière. Forse è davvero un disgraziato inseguito, che cerca rifugio presso la mia padrona, sempre disposta a fare del bene... Ma prudenza!...".
Aprì una finestra e chiese, ingrossando la sua voce profonda, per quanto le era possibile, allo scopo di darle un suono maschile, chi osava fare a ora così tarda un rumore capace di turbare il sonno dell'intero quartiere.
Alla luce incerta della luna che si era fatta proprio in quel momento strada tra le dense nuvole scure, vide una figura avvolta in un mantello di un color grigio chiaro, alta, un ampio cappello calato sugli occhi che impediva di vedere il viso.
Essa riprese ad alta voce in modo da farsi sentire anche sulla strada:
"Holà! Battista, Claudio, Pietro! Alzatevi e venite un po' a vedere chi è quel mascalzone vagabondo che vuole la casa!".
Ma la figura giù dalla strada, rispose con voce dolce, quasi lamentosa:
"Ah! la Martinière! So bene che siete voi, buona donna, ad onta di tutti gli sforzi che fate per cambiare la voce. So anche che Battista è andato al paese e che voi siete rimasta sola con la vostra padrona. Apritemi tranquillamente e non abbiate paura di niente! Io devo parlare immediatamente con la vostra signora".
"Ma siete pazzo? - ribatté la Martinière. - La mia signora dovrebbe parlare con voi a quest'ora di notte? Ma non sapete che ormai dorme da un pezzo e che per niente al mondo vorrei svegliarla in questi buoni momenti del primo sonno, di cui alla sua età ha tanto bisogno?".
"Io so - rispose di rimando l'uomo dalla strada - so che la vostra signorina ha messo da una parte il manoscritto del suo romanzo 'Clelia', a cui lavora senza tregua e che in questo momento compone alcuni versi, che ha intenzione di leggere domani alla signora di Maintenon. Vi scongiuro, signora Martinière, fatemi la carità di aprirmi la porta. Sappiate che si tratta di salvare un disgraziato dalla sua rovina, sappiate che l'onore, la libertà la vita stessa di un uomo dipendono da questi attimi, dal fatto in cui io devo parlare con la vostra signorina. Pensate che la collera della vostra padrona ricadrà eternamente su di voi, quando verrà a sapere che proprio voi avete chiuso crudelmente la porta a un infelice che veniva ad implorare il suo aiuto".
"Ma perché invocare la pietà della mia padrona a quest'ora? Tornate domani a un'ora migliore!". Così parlava la Martinière dall'alto della sua finestra.
Le fu risposto dal basso:
"Quando la sorte arriva a colpirvi con la rapidità del fulmine, si preoccupa forse del tempo e dell'ora? Quando la salvezza di un uomo dipende da un istante si deve forse ritardarlo? Aprite la porta e non abbiate nessun timore di un disgraziato senza aiuti che tutto il mondo abbandona, di un perseguitato, che viene a supplicare la vostra padrona di strapparlo ad un incombente pericolo!".
La Martinière si accorse che, mentre diceva queste cose, lo sconosciuto sospirava e piangeva: d'altronde il suono della sua voce annunciava un giovane ed era dolce, penetrando soavemente nell'anima. La governante si sentì commossa fino nel profondo e senza esitare oltre scese le scale con il mazzo delle chiavi.
Non appena la porta fu aperta, l'uomo dal mantello si precipitò dentro con impeto e precedendo sulla scala la Martinière, esclamò:
"Portatemi dalla vostra signorina!".
La Martinière spaventata sollevò il doppiere e il chiarore tremolante delle candele illuminò un viso giovane e regolare, ma mortalmente pallido e orribilmente scomposto. Per lo spavento fu quasi per cadere, quando l'uomo aprì il mantello e lei vide la lucente impugnatura di uno stiletto che sporgeva dalla piega del giustacuore.
Lo straniero le lanciava occhiate scintillanti e le gridò con maggiore violenza: "Portatemi dalla vostra padrona, vi dico!".
La Martinière vide allora la sua signorina in pericolo immediato; tutto l'amore per la sua cara padrona, che onorava come madre, si risvegliò in lei e le diede un coraggio di cui non si sarebbe mai creduta capace. Chiuse rapidamente la porta della sua stanza che aveva lasciata aperta, vi si mise davanti, fronteggiando lo straniero, a cui disse con voce ferma: "In realtà, la vostra pazza condotta in questa casa si accorda molto male con le lamentose parole che avete pronunciato sulla strada e che, ora me ne accorgo, molto fuori luogo, hanno suscitato la mia compassione. Voi non parlerete, non dovete parlare con la mia signorina! Se non nascondete in cuore cattivi propositi, non dovete cercare di sfuggire il giorno e la sua luce; ritornate dunque domani a trattare del vostro affare! Adesso, liberate subito immediatamente la casa dalla vostra presenza!".
Lo straniero emise un profondo sospiro e guardò la Martinière fissamente con una spaventosa espressione negli occhi, portando la mano al suo pugnale.
La Martinière raccomandò in silenzio l'anima al suo creatore: ma restò coraggiosamente al suo posto, fissò arditamente lo straniero, mentre con più forza si andava appoggiando contro la porta, attraverso la quale quell'individuo avrebbe dovuto passare per raggiungere l'appartamento della signorina di Scudéry.
"E lasciatemi andare dalla vostra signorina, vi dico!" gridò ancora una volta lo straniero.
"Fate quello che volete! - ribatté la Martinière - io non mi muovo di qui!... Ma se riuscite a portare a termine la cattiva azione che avete in animo di fare, finirete prima o poi in piazza di Grève, come tutti i vostri scellerati complici!".
"Ah! sì! avete ragione voi, Martinière - esclamò l'uomo.- Ho l'aria di un ladro e sono armato come un assassino; ma tutti quelli che chiamate miei complici, non sono giustiziati, non sono giustiziati!".
Così dicendo, estrasse il pugnale, lanciando terribili sguardi alla povera donna spaventata a morte.
"Gesù," esclamò costei, aspettandosi il colpo mortale. Ma in quello stesso istante si sentì sulla strada un tintinnio di armi, si sentì uno scalpitare di cavalli.
"La Maréchaussée!... La Maréchaussée!... Aiuto!... Aiuto!..." gridò la Martinière.
"Donna maledetta! Ma vuoi rovinarmi? Ormai tutto è andato! Andato! Prendi, prendi, consegna questo alla tua padrona!... questa notte stessa... domani, se vuoi".
Mentre andava mormorando a bassa voce queste parole, lo straniero aveva strappato di mano alla Martinière il doppiere, aveva spento le candele e le aveva spinto a forza tra le mani una cassettina.
"Per la salvezza eterna della tua anima, consegna questa cassettina alla tua padrona!" gridò l'uomo e con un balzo fu fuori dalla casa.
La Martinière era caduta a terra: si rialzò con fatica e brancolando nel buio si ritirò nella sua camera, dove si gettò, sfinita, incapace di pronunciare parole, in una poltrona.
A un tratto sentì girare le chiavi che aveva lasciate nella serratura della porta di casa: sentì chiudere e poi avvicinarsi alla sua stanza passi leggeri e incerti. Inchiodata dallo spavento, senza la forza di muoversi, restò in attesa dell'orrendo. Ma quale fu la sua sorpresa, quando, apertasi la porta, essa riconobbe al chiarore di un lumino da notte alla prima occhiata l'onesto Battista, che sembrava pallido e tremendamente sconvolto.
"In nome di tutti i santi, signora Martinière! - cominciò a dire- vi prego, ditemi tutto quello che è successo! Ah! ma che paura!... Ma che paura!... Non so che cosa fosse, ma ho dovuto assolutamente partire, qualcosa mi spingeva via ieri sera dalla festa di nozze con violenza!... Ed ecco che arrivo nella strada. La signora Martinière, penso tra me, ha il sonno leggero, certamente anche se busso piano mi sente e mi fa entrare... Ma non mi viene incontro allora una numerosa pattuglia, gente a cavallo e a piedi, armata fino ai denti, che mi trattiene e non vuol lasciarmi andare?... Per fortuna fa parte del gruppo anche Desgrais, il luogotenente della Maréchaussée che mi conosce benissimo: dice, mentre quegli altri mi alzano la lanterna sotto il naso: 'Ehi, Battista, da dove vieni di notte? A casa devi startene, come un bravo domestico a custodirla! Tira aria cattiva qui intorno e abbiamo motivo di credere che questa notte stessa faremo una buona retata.' Non potete immaginarvi, signora Martinière, con quale peso queste parole mi caddero sul cuore. Arrivo sulla soglia di casa ed ecco che un uomo tutto avvolto in un mantello esce a precipizio dalla porta e il pugnale, nel buio, brilla chiaro nella sua mano: mi corre addosso... E la casa è aperta, le chiavi sono nella serratura... Ma ditemi, che cosa significa tutto questo?".
La Martinière, liberata dalla sua paura mortale, raccontò come si erano svolti i fatti. Tutti e due, lei e Battista, scesero al piano terreno: trovarono nell'anticamera il candeliere a terra, là dove lo straniero nel fuggire lo aveva gettato.
"E' fin troppo certo - disse Battista - che la nostra signorina stanotte avrebbe dovuto essere derubata e forse anche assassinata. L'uomo, come mi avete raccontato, sapeva che voi eravate sola in casa con la signorina, anzi che essa vegliava ancora scrivendo: era certamente uno di quei sciagurati briganti che penetrano fin dentro le case, venendo a sapere con la loro astuzia tutto quello che può servire al compimento delle loro diaboliche imprese. E la cassettina, signora Martinière, quella lì è meglio che la buttiamo nella Senna, nel punto in cui è più profonda. Chi ci può garantire che non si stia macchinando qualche cosa di terribile contro la nostra buona signorina e che, aprendo la cassetta, essa non cada morta come il vecchio marchese di Tournay, dissuggellando la lettera inviata da uno sconosciuto?...".
Dopo essersi consigliati a lungo insieme, i due fedeli servitori decisero alla fine che l'indomani mattina avrebbero raccontato tutto alla signorina e che le avrebbero anche consegnato la misteriosa cassettina, che sarebbe stata aperta con tutte le precauzioni necessarie. Si richiamarono insieme alla memoria ogni circostanza e ogni particolare della apparizione dell'uomo sconosciuto e furono d'accordo nel concludere che doveva trattarsi di un segreto fuori dal comune, del quale non spettava loro il giudizio, ma che dovevano affidare alla loro padrona, perché ne giungesse alla rivelazione.
Le preoccupazioni di Battista avevano il loro buon fondamento.
Proprio a quei tempi Parigi era teatro dei più efferati delitti, proprio a quei tempi la più diabolica invenzione dell'inferno ne offriva i mezzi più facili.
Glaser, un farmacista tedesco, il miglior chimico del suo tempo, si era occupato, come spesso succede a scienziati del suo genere, di ricerche alchimistiche. Il suo scopo era di trovare la pietra filosofale. Gli si associò un italiano di nome Exili: ma per quest'ultimo l'alchimia era solo un pretesto e una finta. Egli volle venire a conoscenza soltanto delle miscele, delle cotture, delle sublimazioni di sostanze velenose, in cui Glaser sperava di incontrare gli elementi che gli erano necessari; tanto che alla fine gli riuscì di preparare quel sottile veleno, che, inodoro e insaporo, uccidendo sul colpo o lentamente, non lascia nel corpo umano nessuna traccia e inganna ogni scienza e arte medica, che, non sospettando l'avvelenamento, è costretta ad ascrivere la morte a cause naturali.
Per quanto grande fosse la cautela con la quale Exili procedeva nei suoi lavori, egli fu tuttavia sospettato di commercio di veleni e portato alla Bastiglia. Nella stessa cella fu in seguito chiuso il capitano Godin de Sainte-Croix. Costui era stato per molto tempo l'amante della marchesa di Brinvillier e aveva vissuto con lei, gettando il disonore su tutta la famiglia: poiché il marchese rimaneva insensibile alla condotta di sua moglie, il padre di lei, Dreux d'Aubray, luogotenente civile di Parigi, si vide costretto a separare la coppia adultera con un mandato di cattura che fece emettere contro la persona del capitano.
Violento, senza carattere, ipocrita bigotto, portato fin dalla prima gioventù a delitti di ogni tipo, geloso e vendicativo all'eccesso, niente avrebbe potuto essere o giungere in quel momento maggiormente bene accetto al capitano che il diabolico segreto di Exili, mediante il quale egli ebbe il potere di distruggere tutti i suoi nemici. Diventò così lo scolaro assiduo di Exili e presto uguagliò il suo maestro, cosicché, uscendo dalla Bastiglia, era in grado di lavorare da solo.
La Brinvillier era una donna immorale, Sainte-Croix ne fece un mostro. A poco a poco la convinse ad avvelenare il suo proprio padre, presso il quale viveva, poi i due fratelli e infine la sorella: il padre per vendetta, i fratelli a causa della ricca eredità.
La storia di un gran numero di avvelenamenti diede allora la prova che una delittuosa attività del genere poteva diventare una passione senza freno, a cui l'uomo non è capace di opporsi. Senza uno scopo ulteriore, per pura voglia di farlo, per un desiderio simile a quello del chimico che fa esperimenti per il suo piacere, così molto spesso gli avvelenatori hanno ucciso persone, la cui vita o morte poteva essere loro perfettamente indifferente.
L'improvvisa morte di numerosi poveri ricoverati nell'Hotel Dieu diede in seguito motivo di sospettare che i biscotti fatti settimanalmente distribuire dalla Brinvillier, con lo scopo di essere considerata modello di pietà e di generosità benefica, fossero avvelenati.
Sta di fatto comunque che essa avvelenava il pasticcio di piccione che offriva agli amici invitati a banchetto. Il cavaliere del Guet e molte altre persone caddero vittime di questi infernali conviti.
Sainte-Croix, la Chaussée, suo aiuto, e la Brinvillier seppero per un lungo periodo di tempo nascondere la loro attività delittuosa dietro un impenetrabile velo: ma la potenza divina aveva decretato che i loro delitti sarebbero stati puniti già su questa terra. I veleni che Sainte-Croix preparava erano così impalpabili, che aspirando una sola esalazione della sua polvere (i parigini l'avevano chiamata "poudre de succession") un uomo trovava la morte. Sainte-Croix si copriva dunque il viso con una maschera, quando compiva le sue operazioni. Un giorno, mentre agitava in una fiala la polvere che aveva appena finito di preparare, la maschera cadde e si spezzò: il turbamento, di cui anche la respirazione risentì, fece sì che alcune particelle di veleno volassero sul viso di Sainte-Croix, che morì all'istante. Essendo egli morto senza lasciare eredi, il tribunale si affrettò a far mettere i sigilli sulla sua eredità. Fu trovato in un cofano chiuso un completo arsenale che serviva a questo mostro per i suoi assassini e insieme le lettere della Brinvillier, che non lasciarono nessun dubbio sui loro delitti. La Brinvillier fuggì a Liegi, dove si nascose in un convento. Desgrais, uno dei funzionari della Maréchaussée, fu spedito sulle sue tracce e si presentò al convento travestito da prete. Riuscì a mettere insieme un intrigo d'amore con quella spaventosa creatura e a trascinarla quindi ad un appuntamento segreto in un giardino appartato alla periferia della città. Non appena essa vi giunse, fu afferrata da soldati di Desgrais, l'amante chierico si trasformò improvvisamente in ufficiale di polizia e la costrinse a salire su una vettura, che sotto buona scorta partì di carriera alla volta di Parigi.
La Chaussée era già stato decapitato: la Brinvillier subì lo stesso supplizio. Dopo l'esecuzione il suo corpo fu bruciato e le sue ceneri disperse al vento. I parigini respirarono il giorno in cui questo mostro, che impunemente immolava amici e nemici, fu scomparso dalla faccia della terra. Ma presto si sparse la voce che i segreti dell'infame Sainte-Croix erano passati in altre mani. Il fantasma dell'assassinio si insinuava invisibile nel circolo più intimo delle relazioni umane, sotto i legami della parentela, dell'amore, dell'amicizia e catturava le sue vittime con sicurezza e con rapidità ancora maggiori. Era possibile vedere un giorno una persona passeggiare piena di salute e il giorno dopo vederla vagare pallida, minata da un male divorante: e non c'era perizia di dottori che riuscisse a strapparla alla morte.
La ricchezza, un impiego importante, una moglie troppo giovane e forse troppo bella erano altrettanti titoli per una candidatura alla morte.
La più crudele diffidenza spezzava i vincoli più sacri. Il marito tremava davanti alla propria moglie, il padre sfuggiva il proprio figlio, la sorella temeva il fratello. Nei pranzi offerti agli amici i cibi restavano intatti e là dove un tempo regnava la gioia e la spensieratezza più allegra non era ormai più possibile incontrare che sguardi inquieti, tesi nello sforzo di penetrare la maschera di un assassino.
Padri di famiglia andavano personalmente a fare provviste nei mercati più lontani dal loro quartiere e preparavano i loro pasti in un angolo oscuro per mettersi al riparo contro il tradimento. Ma spesso tutte queste precauzioni erano inutile.
Al fine di porre un rimedio al male che andava continuamente aumentando, il Re nominò un tribunale speciale, che investì del diritto di ricercare e punire questi misteriosi e occulti delitti.
Questo tribunale fu la cosiddetta "Chambre ardente", presieduta da La Reynie che tenne le sue sedute non lontano dalla Bastiglia. Ma tutti i suoi sforzi per raggiungere i colpevoli restarono infruttuosi: Desgrais era incaricato di scoprirli.
Nel Faubourg Saint-Germain abitava una vecchia chiamata la Voisin, che prediceva l'avvenire ed evocava i morti e con l'aiuto dei suoi assistenti, "le sage" e "le vigoureux", riusciva a ispirare terrore perfino a gente comunemente ritenuta né debole né superstiziosa. Faceva anche di più. Allieva di Exili, come Sainte-Croix, preparava come lui un veleno sottile che non lasciava traccia e aiutava in questo modo figli perversi a raggiungere prima del tempo l'eredità paterna e donne sfrenate a convolare a nozze più allegre.
Desgrais scoprì questo mistero: la donna confessò tutto e fu condannata dalla Chambre ardente e giustiziata sulla piazza di Grève. In casa sua fu trovata una lista di persone che erano ricorse al suo lavoro e non soltanto ne seguirono esecuzioni su esecuzioni, ma gravi sospetti caddero su personaggi di altissimo rango. Si pensò ad esempio che il cardinale di Bonzy avesse trovato dalla Voisin il mezzo per sbarazzarsi in poco tempo di tutte le persone alle quali avrebbe dovuto pagare delle rendite nella sua qualità di Arcivescovo di Narbona. La duchessa di Bouillon, la contessa di Soissons, i cui nomi furono trovati tra quelli della lista, vennero accusate di essersi servite delle arti di quella diabolica donna e persino il nobile nome di Francesco Enrico di Montmorency, Boudebelle, duca di Lussemburgo, Pari e Maresciallo di Francia non uscì senza macchia dall'inchiesta.
La terribile Camera ardente perseguitò anche lui ed egli si costituì personalmente prigioniero alla Bastiglia, dove l'odio di Louvois e di La Reynie lo confinò in una cella grande non più di sei piedi. Molti mesi passarono prima che una commissione dichiarasse il suo delitto immeritevole di tanto castigo: egli si era fatto fare una volta l'oroscopo dal "sage".
E' certo che lo zelo cieco del presidente La Reynie causò abusi di potere e a crudeltà. Il tribunale prese il carattere che era stato proprio dell'Inquisizione; il minimo sospetto era sufficiente per motivare un rigoroso incarceramento e spesso la cura di provare l'innocenza dell'imputato era lasciata al caso. Oltre a questo La Reynie aveva un'apparenza ripugnante e delle maniere tanto aspre che si attirava l'odio di coloro dei quali per il suo ufficio avrebbe dovuto essere il vendicatore e il sostegno.
La Duchessa di Bouillon interrogata da lui se avesse visto il diavolo, rispose: "Mi sembra di vederlo in questo momento!".
Ora mentre il sangue dei colpevoli e dei sospetti scorreva a fiumi sulla piazza di Grève e i misteriosi delitti per avvelenamento diventavano sempre più rari, si rivelò un'altra sciagura di specie diversa, che diffuse tra la popolazione nuovo panico.
Sembrava che si fosse costituita una banda di malfattori per appropriarsi di tutti i gioielli. Una ricca guarnizione appena comprata spariva in modo incomprensibile, anche se era custodita benissimo. Ma il peggio era che chiunque osasse portare su di sé o con sé gioielli di notte, camminando nelle vie cittadine o negli oscuri androni delle case, era senza eccezione derubato, anzi assassinato.
Quelli che per caso salvavano la vita, riferivano che un colpo sulla testa li aveva abbattuti come se fossero stati colti dal fulmine, e riavutisi dallo stordimento si erano trovati derubati e in tutt'altro posto, trasportati misteriosamente lontani dal punto in cui si trovavano prima. Gli assassinati, che quasi ogni mattina giacevano sulle strade o nelle case, presentavano tutti la stessa ferita: un colpo di pugnale al cuore, che secondo il giudizio dei medici uccideva con tanta velocità e precisione che il ferito cadeva a terra senza vita e non aveva neppure potuto emettere un suono.
E chi alla lussuriosa corte di Luigi Quattordicesimo non era invischiato in qualche segreto commercio d'amore, per cui nel buio della notte si insinuava nella casa del convegno, portando spesso con sé un ricco regalo?...
Come se i malfattori fossero alleati di essenze incorporee, sapevano con la massima esattezza quando capitava un fatto del genere. Spesso l'infelice non raggiungeva nemmeno la casa in cui aveva pensato di godere le gioie dell'amore, spesso si abbatteva sulla soglia o proprio davanti alla camera dell'amante, che con terrore trovava il cadavere sanguinante.
Inutilmente Argenson, ministro della pubblica sicurezza, fece catturare gli elementi del popolo che gli sembravano sospetti.
Inutilmente La Reynie si infuriava tremendamente e cercava di strappare confessioni.
Inutilmente le scorte e le pattuglie notturne di guardia furono rinforzate. Non si riusciva a trovare la minima traccia degli autori. Solo la precauzione di girare armati fino ai denti e di farsi rischiarare il cammino da una torcia serviva in qualche modo e dava fino a un certo punto garanzia di sicurezza. E tuttavia c'erano stati anche casi in cui il servo era stato spaventato da un lancio di pietre, mentre nello stesso istante, il padrone veniva assassinato.
Degno di nota era il fatto che, nonostante tutte le ricerche in ogni posto dove soltanto fosse possibile il commercio di preziosi, non fu reperibile neppure uno tra i gioielli rubati e quindi anche questo filone di indagini non poteva offrire nessuna traccia che fosse possibile seguire.
Desgrais, per la rabbia che i bricconi sapessero farla alla sua astuzia, aveva la schiuma alla bocca. Il quartiere della città in cui in un dato momento si trovava, era risparmiato, mentre in un altro, in cui nessuno avrebbe potuto prevedere un fattaccio, l'assassinio e il furto coglievano di sorpresa le loro ricche vittime.
Desgrais ideò il trucco di creare numerosi Desgrais, così uguali l'uno all'altro nella maniera di camminare, nei gesti, nel parlare, nella figura e nel viso che gli stessi sbirri della polizia non sapevano più dove si nascondesse il vero Desgrais. E lui, intanto, solo, a rischio della sua stessa vita, spiava nei più remoti fondi di vicoli e seguiva da lontano questa o quella persona che per suo ordine portava addosso una ricca guarnizione di gioielli: costui rimaneva indisturbato. Quindi i banditi erano al corrente anche di quest'ultima trovata.
Desgrais era alla disperazione.
Una mattina Desgrais si presenta dal presidente La Reynie: pallido, stravolto, fuori di sé.
"Bene, che cosa avete? Che notizie portate? Avete scoperto la traccia?" lo investe il presidente non appena lo vede.
"Eccellenza! - comincia Desgrais, balbettando per la rabbia. Eccellenza... ieri notte... il marchese De la Fare è stato assassinato in mia presenza... poco lontano dal Louvre".
"Ah, perbacco! - grida La Reynie tutto giubilante - finalmente l'abbiamo!...".
"Ah, ma state a sentire prima come sono andate le cose! - lo interrompe Desgrais, con un sorriso amaro. - Mi apposto nelle vicinanze del Louvre, per sorvegliare, maledicendoli con tutto il cuore, i demoni incarnati che si prendono gioco di me. Ed ecco che vedo avanzarsi con precauzione una figura che mi sfiora senza tuttavia accorgersi di me. Alla luce della luna riconosco il marchese De la Fare. Potevo aspettarlo lì: sapevo dove andava in tanta segretezza. Non si è allontanato più di una decina di passi, che una seconda figura spunta da sotto terra e si getta su di lui, lo abbatte al suolo, gli cade addosso. Senza riflettere, sorpreso dall'istante che avrebbe potuto consegnare nelle mie mani l'assassino, io grido e con un salto potente voglio piombare su di lui dal mio angolo buio. Ma inciampo nel mantello e cado. Vedo l'uomo che se ne scappa via con la velocità del vento. Mi tiro su e gli corro dietro; correndo soffio nel mio corno il fischio di richiamo, mi rispondono i fischi dei gendarmi appostati... le vie deserte si animano... tintinnio di armi... galoppo di cavalli da ogni parte... 'Qui, a me, a me! Desgrais, Desgrais!...' grido tanto che ne rintrona la strada. E intanto vedo sempre l'uomo davanti a me nella chiara luce della luna e i suoi tentativi di piegare ora a destra ora a sinistra per trarmi in inganno. Arriviamo nella rue Nicaise: ecco che le sue forze sembrano venir meno, io tiro fuori tutte le mie, le aumento del doppio... ha quindici passi di vantaggio, non di più...".
"Voi lo raggiungete, lo arrestate... arrivano i gendarmi..." grida La Reynie e afferra il braccio di Desgrais come se fosse l'assassino fuggiasco in persona.
"... quindici passi... - continua Desgrais con voce sorda e respirando a fatica - davanti a me l'uomo balza di lato nell'ombra e sparisce attraverso il muro".
"Sparisce attraverso il muro?!!! Ma delirate?" grida La Reynie indietreggiando e battendo le mani nel congiungerle insieme con violenza.
"Chiamatemi, - continua Desgrais, strofinandosi la fronte come chi è oppresso da gravi pensieri - chiamatemi pure, Eccellenza, un pazzo in delirio, un folle visionario, ma niente cambia di quello che vi racconto. Mi arresto, impietrito dallo stupore, davanti a quel muro; arrivano numerosi gendarmi, con loro è il marchese De la Fare che si è riavuto, con la spada sguainata in pugno. Accendiamo le fiaccole. Tastiamo il muro qua e là: nessuna traccia di una porta, di una finestra o comunque di una qualsiasi apertura. Abbiamo davanti una muraglia spessa e pietrosa, che poggia contro una casa abitata da persone che il minimo sospetto non può sfiorare. Ancora oggi ho ispezionato tutto. E' il diavolo in persona che ci sfotte".
L'avventura di Desgrais si diffuse per Parigi.
Le teste erano piene degli incantesimi, delle stregonerie, delle evocazioni di spiriti e scongiuri, dei patti con i diavoli dell'inferno della Voisin, del "Vigoureux" e del prete spretato, il "Sage": e come è proprio della nostra natura sempre immutabile, in cui la tendenza al soprannaturale, al meraviglioso sorpassa e predomina ogni facoltà raziocinante, così la gente si convinse presto che niente di meno, come Desgrais aveva detto solo in un momento di disperazione, il diavolo in persona proteggeva gli scellerati che gli avevano venduto l'anima. E' facile del resto immaginarsi che la storia di Desgrais acquistò diffondendosi molti fronzoli. Ne fu anche stilata una relazione a stampa, con aggiunta di incisione su legno, rappresentante una disgustosa e terrificante figura di diavolo che si inabissa nella terra davanti a un atterrito Desgrais, che fu venduta a tutti gli angoli di strada. E questo bastava per gettare il popolo nel terrore e per togliere ogni coraggio agli stessi soldati e sgherri della polizia, che ora vagavano e si incrociavano su e giù per le strade di notte tremanti e sbigottiti, provvisti di ogni specie di amuleti e cosparsi di acqua benedetta.
Argenson vide tutti gli sforzi e il lavoro della Camera ardente naufragare e si presentò al Re con la proposta di nominare un tribunale speciale per il nuovo delitto, che avesse la possibilità di seguire le tracce dei colpevoli e di punirli con un potere ancora più esteso. Il re convinto di avere concesso un potere già troppo grande alla Chambre ardente, scosso dall'orrore di innumerevoli esecuzioni, proposte ed effettuate da quell'assetato di sangue che era La Reynie, scartò senz'altro la proposta.
Fu scelto allora un altro mezzo per attirarsi il favore del Re.
Nelle stanze della marchesa di Maintenon, dove il re era solito trattenersi nel pomeriggio e dove spesso si fermava anche a lavorare fino a tarda notte con i suoi ministri, fu gli fu portata una poesia in nome degli amanti in pericolo, che lamentavano di dover rischiare la propria vita, ogni qualvolta gli obblighi delle relazioni galanti imponessero loro di portare un ricco dono all'amante. Onore e gioia è spargere il proprio sangue in un confronto cavalleresco: ma ben altra cosa è l'occulta malvagità di un attacco proditorio e assassino, contro il quale non è possibile armarsi. Solo Luigi, la splendida stella polare di ogni amore e di ogni relazione galante, aveva il potere di dissipare, richiamando la luce, l'oscura notte e scoprire così il nero segreto che vi si nascondeva. Il divino eroe che aveva sgominato e abbattuto i suoi nemici, avrebbe anche in questa occasione impugnato la sua scintillante spada e come Ercole, l'idra di Lerna, come Teseo il Minotauro, avrebbe distrutto il minacciante mostro che annientava o guastava la dolce voluttà d'amore, trasformava ogni gioia in tenebra di profondo dolore, di lutto senza conforto.
Per quanto si trattasse di una cosa piuttosto seria, non mancavano nel poemetto in questione battute frizzanti di fine spirito umoristico, specialmente là dove gli amanti erano descritti mentre, con il terrore nel cuore, se ne andavano traballanti attraverso vicoli segreti e deserti e arrivavano infine dalla loro amante, e più avanti nel punto in cui il poeta lamentava che la paura uccidesse in fasce il voluttuoso desiderio d'amore e impedisse ogni bella avventura galante.
Il tutto finiva naturalmente in un magniloquente panegirico di Luigi Quattordicesimo. Non poteva quindi non succedere che il re leggesse da cima a fondo il poemetto con evidente compiacimento. Alla fine, senza neppure alzare gli occhi dalla pergamena, egli si girò bruscamente verso la Maintenon, lesse ancora una volta ad alta voce la poesia e chiese poi sorridendo di buon umore quale fosse la sua opinione circa i desideri degli amanti in pericolo. La Maintenon, fedele alla sua puritana serietà, sempre colorata di un certo che di bigottismo, rispose che vie proibite e segrete non erano degne di speciale protezione, mentre d'altronde i malfattori erano degni di speciale estirpazione.
Il re, per niente contento della risposta avuta, ripiegò il foglio e stava già per ritornarsene dal suo segretario di stato che lavorava nella stanza vicina, quando con la coda dell'occhio vide la signorina di Scudéry, che stava seduta su una poltroncina bassa, poco lontano dalla marchesa di Maintenon. Verso di lei si diresse allora il re e il sorriso piacevolmente divertito comparso per scomparire subito alla risposta della marchesa tra la bocca e le guance, ricomparve un'altra volta: in piedi davanti alla signorina, spiegando ancora la pergamena del poemetto, disse con dolcezza:
"La marchesa non vuol saperne niente delle galanti avventure dei nostri innamorati signori e mi induce a battere strade poco meno che proibite. Ma lei, signorina, che cosa ne pensa di questa supplica in versi?".
La Scudéry si alzò in segno di rispettoso omaggio dalla sua poltrona e un fuggitivo rossore, colorò le pallide guance della vecchia e degna signorina simile al rosso delle nuvole di sera; e disse abbassando gli occhi e inchinandosi leggermente:
"Un amant qui craint les voleurs n'est point digne d'amour." Il re sinceramente stupito dello spirito cavalleresco condensato in quelle poche parole e che stroncava in un attimo tutto il poemetto con le sue prolisse tirate, esclamò con uno scintillìo nello sguardo:
"Per San Dionigi, lei ha ragione, signorina. Nessuna cieca misura di rigore che punisca gli innocenti insieme ai colpevoli sarà promulgata per proteggere la poltroneria e che Argenson e La Reynie facciano quello che possono!"
L'indomani mattina, raccontando alla sua padrona i fatti della notte, la Martinière rievocò e descrisse con i colori più vivaci tutti gli orrori del tempo e consegnò infine tutta tremante e sbigottita alla vecchia signorina una misteriosa cassetta. Insieme, lei e Battista, che pallido pallido se ne stava in un angolo della stanza rigirandosi tra le mani il berretto da notte e appena poteva parlare tanta era la sua paura e la sua angoscia, scongiurarono la signorina nel modo più pietoso in nome e per l'amore di tutti i Santi del Paradiso di aprire però il cofanetto con tutta la prudenza possibile.
La Scudéry, soppesando e palpeggiando tra le mani il mistero racchiuso, disse sorridendo:
"Ma voi due vedete fantasmi!... Che non sono ricca, che in casa mia non si trovano tesori degni di un assassinio, questo lo sanno quegli scellerati là fuori come lo sappiamo noi, voi ed io, dato che, come voi stessi dite, essi spiano e conoscono i più intimi angoli delle case. E perché qualcuno dovrebbe attentare alla mia vita? Chi può avere interesse alla morte di una persona di settantatré anni, che in tutta la sua esistenza non se l'è mai presa che con i malfattori e i disturbatori della pubblica quiete dei suoi propri romanzi, che fa versi mediocri che non potranno mai suscitare l'invidia di nessuno, che non lascerà dietro di sé niente, se non gli ornamenti di una vecchia signorina che di tanto in tanto compare a corte e un paio di dozzine di libri rilegati bene e con il taglio dorato. Tu, Martinière, descrivi pure l'apparizione dello sconosciuto con i più foschi colori, ma io non posso spingermi a credere che egli avesse una cattiva intenzione".
"Dunque!".
La Martinière indietreggiò di tre passi, Battista fu lì lì per accasciarsi con un sordo gemito sulle ginocchia, nel momento in cui la signorina premette un bottone metallico sporgente e il coperchio del cofanetto si spalancò con uno scatto rumoroso.
Quale fu la sorpresa della signorina vedendosi brillare incontro dal fondo del cofano due braccialetti d'oro, riccamente ornati di pietre preziose e una simile collana. Tolse il gioiello, e mentre lodava il meraviglioso lavoro della collana la Martinière lanciava sguardi ammirati ai braccialetti e andava esclamando senza fermarsi che neppure la Montespan con tutta la sua vanità possedeva di certo un gioiello come quello.
"Ma che cosa può significare, che cosa significa tutto questo?" si chiese la Scudéry. Ed ecco che in quello stesso istante vide sul fondo del cofanetto un foglio di carta piccolo e ripiegato. E con ragione pensò che vi avrebbe appunto trovato la spiegazione del mistero.
Ma aveva appena letto il contenuto del biglietto, che questo le cadde dalle mani tremanti: alzò gli occhi al cielo in uno sguardo eloquente e ricadde quasi venendo meno nella sua poltrona. Spaventati la Martinière e Battista le furono accanto con un salto.
"Oh! - esclamò la signorina con una voce che le lacrime stavano per soffocare. - Che affronto!... Che terribile vergogna!... Anche questo doveva succedermi in età così avanzata! Ho forse buttato là parole sconvenienti in un momento di pazza temerarietà, come avrebbe potuto fare una ragazza giovane e insensata? O Signore, ma come è possibile che parole gettate là quasi per scherzo vengano interpretate in modo così orrendo? E sarebbe poi permesso a qualcuno di incolpare me, io che senza macchia sono rimasta fedele fin dalla mia fanciullezza alla virtù e alla pietà, sarebbe possibile incolparmi del delitto di una diabolica connivenza?".
La signorina continuava a piangere forte e a singhiozzare, tenendo il fazzoletto davanti agli occhi, cosicché Battista e la Martinière, sbigottiti, disorientati e ansiosi, non sapevano come assistere la loro buona signora in un dolore tanto grande.
La Martinière raccolse intanto da terra il fatale foglietto.
Vi era scritto:
"'Un amant qui craint les voleurs n'est point digne d'amour.'" L'eccezionale acutezza del vostro spirito, onoratissima signora, ha salvato da una persecuzione più violenta noi che sulla debolezza e sulla vigliaccheria usiamo il diritto del più forte e ci appropriamo di tesori che sarebbero altrimenti prodigati in modo non degno. Accogliete benevolmente questo gioiello come pegno della nostra riconoscenza. E' il più prezioso che da lungo tempo sia capitato nelle nostre mani: e tuttavia gioielli ben più magnifici di quanto il presente non lo sia dovrebbero ornare la vostra degnissima persona.
Formuliamo la preghiera che non ci vogliate privare della vostra amicizia e del vostro ricordo.
GLI INVISIBILI."
"Ma è possibile - esclamò la Scudéry, quando si fu riavuta un po' - è possibile che certi uomini siano capaci di spingere tanto avanti la spudoratezza dell'oltraggio e la scelleratezza dello scherno?".
Il sole splendeva chiaro attraverso le tende rossoscarlatte della finestra e le pietre preziose che giacevano sul piano della tavola vicino al cofanetto aperto diedero uno scintillio rossastro.
Accorgendosene la signorina di Scudéry si coprì il viso e gli occhi per il terrore e ordinò alla Martinière di togliere immediatamente dalla sua vista quei maledetti gioielli che portavano ancora il sangue delle vittime assassinate.
La Martinière richiuse collana e braccialetti nel cofano e fu del parere che la cosa migliore era di consegnare i gioielli al capo della polizia confidandogli tutto quello che era successo nella notte, a cominciare dalla paurosa apparizione del giovane sconosciuto fino alla violenta consegna del cofanetto.
La Scudéry si alzò e passeggiò a passi lenti su e giù per la stanza, come riflettendo a quello che conveniva fare.
Poi ordinò a Battista di far venire una portantina e alla Martinière di vestirla, perché voleva andare immediatamente dalla marchesa di Maintenon.
Vi si fece portare proprio nell'ora in cui, come lei sapeva, la marchesa era sola nelle sue stanze. Prese con sé la cassettina dei gioielli.
Grande dovette certo essere la sorpresa della Maintenon, quando vide entrare, pallida, stravolta, barcollante, la signorina di Scudéry, che, malgrado i suoi molti anni, pareva sempre la dignità, la grazia, l'allegria in persona. "In nome di tutti i santi, che cosa vi è successo?" esclamò accogliendo la povera signorina spaurita, che completamente fuori di sé faticava a reggersi in piedi e pensava solo a raggiungere più in fretta che le fosse possibile la poltrona che la marchesa le offriva. Quando alla fine poté di nuovo parlare, raccontò quale affronto profondo, insanabile le avesse procurato l'irriflessivo scherzo, con il quale aveva risposto alla supplica degli amanti in pericolo. La marchesa dopo aver appreso la cosa in tutto il suo svolgimento, fu del parere che la Scudéry prendesse troppo a cuore il singolare avvenimento, poiché lo scherno di creature scellerate non poteva arrivare a toccare uno spirito così alto e nobile; e desiderò infine di vedere il gioiello.
La Scudéry le porse il cofanetto aperto e la marchesa non poté impedirsi un grido di sorpresa, quando vide i preziosi gioielli. Tolse la collana, tolse i braccialetti e si avvicinò con essi alla finestra, facendo ora in modo che i raggi del sole vi giocassero sopra, accostandoseli ora agli occhi per osservare più da vicino e ammirare il fino lavoro di cesello che con meravigliosa arte ornava ogni singolo pezzetto della treccia d'oro della collana.
All'improvviso si girò con mossa rapida verso la signorina ed esclamò:
"Ma sapete signorina che soltanto René Cardillac e nessun altro può avere lavorato questa collana e questi braccialetti?...".
René Cardillac era a quel tempo il più abile orefice di Parigi, uno degli uomini maggiormente dotati di senso artistico e insieme uno degli uomini più stravaganti del suo tempo. Piuttosto basso di statura, ma largo di spalle e di corporatura forte e muscolosa, Cardillac, che pure aveva oltrepassato la cinquantina, aveva ancora la forza e l'agilità di un giovane. Di questa energia, da dirsi veramente eccezionale, sembravano un'espressione gli stessi suoi fitti e crespi capelli rossicci e il viso largo e pieno. Se Cardillac non fosse stato conosciuto in tutta Parigi come il più onesto e rispettabile galantuomo, disinteressato, aperto, senza trucchi, sempre pronto ad aiutare, lo strano sguardo dei suoi piccoli occhi nelle orbite profondamente incavate, il loro strano scintillìo verde, avrebbero potuto far nascere su di lui il sospetto di una segreta cattiveria, di una maligna crudeltà. Come già si è detto, Cardillac era nella sua arte il più abile, non solo in tutta Parigi, ma con grande probabilità in tutto il mondo. Conoscitore intimo della natura delle pietre preziose, egli sapeva trattarle e incastonarle in modo tale che una collana o un braccialetto che prima erano sembrati abbastanza insignificanti, uscivano dalle mani di Cardillac in tutta la loro magnificenza. Egli accoglieva ogni ordinazione con una specie di bramosia ardente e ne richiedeva un prezzo così basso che non era certo in rapporto con il lavoro compiuto. Il suo lavoro non gli dava tregua: notte e giorno era possibile sentirlo nella sua officina battere metalli e pietre con il suo martello e spesso, quando già il lavoro era quasi al termine, improvvisamente non gli piaceva più, dubitava della finezza di un'incastonatura, di un particolare motivo sufficiente per gettare di nuovo tutto il lavoro fatto nel crogiuolo di fusione e per ricominciare ogni cosa di nuovo... In questo modo ogni lavoro diventava un vero capolavoro insuperabile, che suscitava l'ammirato stupore del committente. Ma ecco che al momento della consegna si riusciva a fatica a togliergli di mano il lavoro compiuto. Mille pretesti erano buoni per tenere a bada il committente per settimane e settimane, per mesi e mesi. Inutilmente si tentava di offrirgli il doppio del prezzo per il suo lavoro: egli non voleva assolutamente ricevere un solo luigi in più del prezzo stabilito. E quando alla fine era costretto a cedere alle insistenze del cliente e a consegnare il lavoro, lo faceva con tutte le manifestazioni di intenso dispetto, anzi di un intimo rabbioso risentimento che ribolliva in lui. Aveva dovuto consegnare un'opera eccezionalmente magnifica e ricca, del valore di molte migliaia di luigi, per la preziosa rarità delle gioie e per il finissimo lavoro di oreficeria. Eccolo, ridotto in uno stato di delirio, correre come un pazzo qua e là, imprecando a se stesso, al suo lavoro, a tutto quello che gli stava attorno. Ma non appena qualcuno cominciava a inseguirlo, gridando forte: "René Cardillac, potreste farmi una bella collana per la mia fidanzata" o "braccialetti per la mia ragazza?", egli si fermava improvvisamente e ritornava tranquillo, investiva il suo interlocutore con lo sguardo lampeggiante dei suoi piccoli occhi e chiedeva strofinandosi le mani:
"Ebbene, che cosa avete lì?". E l'altro tirava fuori una scatoletta:
"Ecco, qui ci sono queste gioie, niente di particolare, roba piuttosto comune, ma sotto le vostre mani...".
Cardillac non gli lascia neppure il tempo di finire, gli strappa la scatoletta dalle mani, ne toglie le pietre, che veramente non hanno poi un grande valore, le mette controluce e grida in estasi:
"Oh! Oh! Roba comune? Per niente! Graziose queste pietre splendide queste pietre, lasciate fare a me! e se non vi rincresce di spenderci una manciata di luigi, io vi ci metto un paio di pietruzze, che vi brilleranno davanti agli occhi come veri raggi del sole!".
L'altro risponde: "Io mi rimetto completamente a voi, mastro René, e pagherò quello che vorrete".
Senza fare nessuna distinzione, si tratti di un ricco borghese o di un nobilissimo signore della corte, Cardillac a questo punto si getta con impeto al collo del suo cliente, lo abbraccia, lo bacia, dice che lo ha reso di nuovo felice e che in otto giorni il lavoro sarà finito. Corre a casa all'impazzata, si precipita nell'officina, si butta a corpo morto al lavoro e in otto giorni un capolavoro ha vita. Ma come arriva il committente che, contento di pagare la modesta somma richiesta, vuole portarsi via il gioiello, Cardillac diventa dispettoso, rozzo, tracotante.
"Ma insomma, mastro Cardillac, riflettete, mi sposo domani!...".
"E che cosa me ne importa a me se vi sposate domani? Tornate tra quindici giorni a chiedere la vostra roba!".
"Ma il lavoro è finito e qui c'è il denaro: ho diritto di averlo!".
"E io vi dico che ci sono moltissime cose da cambiare nel vostro gioiello e che oggi non ve lo do assolutamente!".
"E io vi dico che se non mi consegnate oggi steso il gioiello, che del resto sono pronto a pagarvi il doppio, mi vedete arrivare qui tra poco con gli sbirri di Argenson!".
"E va bene! Che Satana vi tormenti con mille tenaglie infocate e appenda tre quintali di peso alla collana, cosicché la vostra sposa ne venga strozzata!". E così dicendo Cardillac ficca violentemente il gioiello nella tasca della giacca al fidanzato, lo prende per il braccio e butta fuori dalla sua stanza, così che costui rotola giù per le scale, e ride proprio come un demonio, quando vede il povero diavolo allontanarsi zoppicando da casa sua, con il fazzoletto sotto il naso sanguinante.
Allo stesso modo nessuno avrebbe potuto spiegare la sua condotta, quando, cominciato con il più grande entusiasmo un lavoro, supplicava all'improvviso il cliente con tutte le manifestazioni di un animo sconvolto nel più intimo, tra lacrime e singhiozzi, con le più insistenti, impressionanti affermazioni, per la Vergine e per tutti i santi, di dispensarlo da un simile lavoro.
Molte persone, stimate moltissimo dal re e dal popolo, gli avevano inutilmente offerto grosse somme, per ottenere da lui il più semplice lavoro. Quanto al re, egli si gettò ai suoi piedi e lo scongiurò di fargli la grazia di non chiedergli mai di fare qualcosa per lui. Allo stesso modo si rifiutò costantemente di fare qualche cosa per la marchesa di Maintenon, e respinse addirittura con orrore e terrore la commissione di lei, di fare un piccolo anello ornato con l'emblema dell'arte, che Racine avrebbe dovuto ricevere da lei.
"Scommetto - disse la Maintenon - che se lo mando io a chiamare, anche solo per sapere per commissione di chi ha fatto questo lavoro, si rifiuterà di venire, nel timore di una eventuale ordinazione, non volendo a nessun costo lavorare per me. Per quanto sembri che da un po' di tempo in qua, a quello che mi dicono, egli lavori con maggior diligenza del solito e che consegni il lavoro immediatamente, non senza tuttavia profondo dispiacere e smorfie disperate".
La Scudéry, a cui premeva moltissimo che il gioiello ritornasse al più presto possibile nelle mani del legittimo proprietario, propose di far chiamare il mastro Bel-Tipo, facendogli subito sapere che si desiderava da lui semplicemente un giudizio su certi gioielli. La marchesa approvò. Fu mandato a chiamare e, come se si fosse trovato appunto già sulla strada, non era passato molto tempo che egli comparve nell'appartamento.
Vedendo la Scudéry parve interdetto, come chi, colpito all'improvviso da un fatto inaspettato, dimentica quello che si dovrebbe fare in quel momento, si inchinò per primo profondamente e con l'espressione del più grande rispetto davanti alla degnissima dama, e solo in seguito si rivolse alla marchesa di Maintenon. Costei gli chiese in fretta, accennando ai gioielli che rilucevano brillanti sul fondo verde scuro della tavola, se fossero lavoro suo. Cardillac vi gettò appena uno sguardo e, fissando negli occhi la Marchesa, richiuse braccialetti e collana con grande prestezza nel cofano, che era lì vicino, e si affrettò a metterli da parte fuori dalla sua vista. E disse, mentre un brutto sorriso brillava sul suo rosso ghigno:
"In realtà, signora marchesa, bisogna conoscere abbastanza male René Cardillac, per mettere anche un solo istante in dubbio che anche un altro qualsiasi orefice del mondo potrebbe incastonare e lavorare in questo modo dei gioielli. Certamente: questo è lavoro mio!".
"Benissimo: diteci dunque per chi avete lavorato la collana e il resto" continuò la marchesa.
"Per me solo - rispose Cardillac - Sì, sì - continuò poiché le due signore, la Maintenon e la Scudéry, lo guardavano sorprese, la prima con espressione di incredulità, la seconda di ansiosa attesa per gli sviluppi successivi della cosa - potete benissimo trovare la cosa molto strana, marchesa, e però è proprio così! Semplicemente per amore e desiderio di un bel lavoro, io ho raccolto le mie più belle pietre e nella mia gioia ho lavorato con più diligenza e con più cura che mai prima d'ora. Tempo fa il gioiello è sparito misteriosamente dalla mia officina".
"Sia ringraziato il cielo!" esclamò la Scudéry mentre gli occhi le brillavano per la gioia e saltava su dalla poltrona svelta e, agile come una giovanetta, muoveva verso Cardillac e posava le mani sulle sue spalle.
"Mastro René - disse alla fine - riprendete quello che vi appartiene e che scellerati malandrini vi avevano rubato!". E raccontò con molti particolari diffusamente in che modo essa fosse venuta in possesso delle gioie. Cardillac ascoltò il racconto con gli occhi rivolti a terra. Soltanto di quando in quando un incomprensibile: "Hm! Così!... ah! Oh, oh!" e ora metteva le mani dietro la schiena, ora si strofinava il mento lentamente e le guance. Quando la Scudéry ebbe finito, sembrò che Cardillac stesse lottando con pensieri del tutto fuori dal comune, che intanto gli erano venuti in mente, e che stentasse a farsi strada in lui una decisione. Si passava con forza la mano sulla fronte, sospirava, premeva la mano sugli occhi, per toglierne le lacrime che vi erano apparse. Alla fine afferrò il cofanetto che la Scudéry gli presentava, si lasciò cadere lentamente in ginocchio e disse:
"A voi, nobile, degna signorina, il fato ha voluto destinare questo gioiello. E io so adesso che nel farlo pensavo a voi, anzi lo facevo per voi! Non vogliate disprezzare e respingere questo lavoro, che è il migliore di quanti da molto tempo io non abbia fatto, e che in questo momento con le mie mani vi offro! E portatelo!".
"Ma, ma! - scherzò la Scudéry di buon umore - Che cosa vi viene in mente, mastro René: si conviene dunque alla mia età di adornarsi con risplendenti gioie? E perché poi farmi un tale ricchissimo, troppo ricco omaggio? Andate, andate, mastro René, se fossi bella come la marchesa di Fontanges e ricca state pur certo che non mi lascerei sfuggire il gioiello dalle mani, ma che cosa può fare a queste braccia sfiorite la inutile magnificenza e che cosa servirebbe a questo collo velato il brillante ornamento?".
Cardillac intanto si era rialzato e disse, come fuori di sé, mentre il suo sguardo si faceva selvaggio ed egli continuava a porgere il cofanetto alla Scudéry:
"Fatemi questa carità, signorina, e accettatelo Voi non potete credere quale profonda venerazione io nutra per voi, per la vostra virtù, per i vostri alti meriti! Accettate dunque il mio dono modesto soltanto come tentativo di dimostrarvi in modo adeguato il mio intimo sentimento".
Poiché la signorina di Scudéry continuava a respingere l'offerta, la Maintenon prese il cofanetto dalle mani di Cardillac, dicendo:
"Suvvia, signorina! non fate che parlare continuamente dei vostri molti anni. E che cosa abbiamo di comune noi, voi ed io, con gli anni e con il loro peso?! E non comportatevi come una fanciulletta timida, che vorrebbe con ogni desiderio raggiungere il frutto che le viene offerto, soltanto che questo potesse accadere senza bisogno di mani e di dita. Non offendete il nostro bravo mastro René, rifiutando di accettare spontaneamente come regalo, quello che mille altri non potrebbero avere nonostante tutto il loro oro, di tutte le loro preghiere e pianti".
E nel dire questo la Maintenon aveva spinto il cofanetto tra le mani della signorina: Cardillac allora si precipitò ai suoi piedi, baciò il vestito della Scudéry... le sue mani... si lamentò...
sospirò... singhiozzò... Saltò su... corse via come un pazzo, rovesciando con tale violenza sedie e tavolini che le porcellane, scontrandosi tra loro, tintinnarono.
Spaventata la Scudéry esclamò: "Ah! per amore di tutti i santi, che cosa prende a quell'uomo!". Ma la marchesa, d'umore stranamente allegro, tanto da sfiorare una certa petulanza, completamente estranea al suo carattere, scoppiò in una chiara risata e disse:
"Ci siamo, signorina! Mastro René è mortalmente innamorato di voi ed eccolo che comincia secondo l'usanza stabilita e l'autentico costume della migliore galanteria ad attaccare il vostro cuore con ricchi regali".
La Maintenon continuò ancora nello scherzo, consigliando alla Scudéry di non essere troppo crudele verso il suo disperato innamorato, tanto che quest'ultima, lasciando spazio al suo umore naturale, fu trascinata a prospettare una serie di spumeggianti scherzose eventualità. Pensò, che se le cose andavano avanti in quel modo, finalmente vinta, essa avrebbe offerto al mondo il raro inaudito esempio di una settantatreenne fidanzata di orefice di antica nobiltà senza macchia. La Maintenon si offrì di intrecciare la corona da sposa e di istruirla sui suoi futuri doveri di padrona di casa, di cui certamente una povera bamboccetta sperduta come lei non poteva sapere niente.
Quando finalmente la Scudéry si alzò per prendere congedo dalla marchesa essa si fece, nonostante tutti i suoi scherzi e le sue risate, molto seria nel prendere in mano il cofanetto dei gioielli.
Disse:
"Eppure, marchesa, io non mi servirò mai di questo gioiello In qualunque modo sia andata la cosa, esso è stato nelle mani di quella banda di scellerati assassini che con l'impudenza del demonio e forse addirittura in segreto legame con lui compiono furti e assassini. Ho orrore del sangue, che sembra tuttavia aderire allo splendore delle pietre. Ed ecco che anche la condotta di René Cardillac ha in sé, lo devo confessare, ai miei occhi qualcosa di stranamente pauroso e inquietante: non posso impedirmi di presentire, nascosto dietro a tutto questo, un segreto terrificante, spaventoso, e se riesamino ancora una volta tutto l'affare nelle sue diverse fasi e circostanze con grande chiarezza, non riesco ad avere nemmeno la minima idea di ciò in cui potrebbe consistere il mistero e soprattutto non posso concepire come l'onesto mastro René, modello di buono e pio borghese, sia collegato con cose cattive, con gente dannata. Una cosa rimane ad ogni modo ben certa: che io non riuscirò mai a convincere me stessa a mettere quella collana e quei braccialetti".
La marchesa fu del parere che questo significasse portare gli scrupoli un po' troppo in là: ma poiché la signorina le chiedeva che cosa avrebbe fatto lei, al posto suo, rispose in tono serio e fermo:
"Buttare il gioiello nel punto più profondo della Senna piuttosto che portarlo una sola volta".
La scena con mastro René ispirò alla Scudéry dei versi frizzanti di spirito allegro, che la sera del giorno seguente essa lesse nell'appartamento della Maintenon alla presenza del re. E' da credere che, vincendo ogni brivido di brutti presentimenti, essa avesse saputo rappresentare a spese di mastro René la grottesca comica figura della settantatreenne fidanzata dell'orefice di antichissima nobiltà, con colori vivaci. Il re rise proprio di cuore e giurò che Boileau- Despréaux aveva trovato il suo maestro, ragion per cui la poesia della Scudéry si guadagnò la fama di essere la più spiritosa che fosse mai stata scritta.
Erano passati parecchi mesi, allorché il caso volle che la signorina di Scudéry passasse un giorno nella carrozza a vetri della duchessa di Montansier per il Pont-Neuf. L'invenzione delle elegantissime lastre di cristallo agli sportelli era ancora a quel tempo tanto nuova che il popolo curioso si pigiava in folla, quando per le strade appariva una carrozza del genere. Successe dunque che la plebe con facce stupite si ammassò intorno alla carrozza della Montansier circondandola, tanto da impedire o quasi ai cavalli di muoversi. Allora la Scudéry sentì un suono di voci irritate in un litigio, sentì delle bestemmie e si accorse che un uomo si stava facendo strada attraverso la fitta massa di gente a furia di colpi di pugno e di spintoni. E quando le fu più vicino, la colpirono gli sguardi trapassanti di un volto livido, stravolto da un furibondo dolore, di un giovane. Il giovane continuava a fissarla, mentre lavorava gagliardamente di gomiti e di pugni per farsi largo davanti a sé, finché giunse allo sportello della vettura, lo aprì con un violento improvviso strattone, scagliò in grembo alla Scudéry un foglietto e distribuendo e ricevendo spintoni e pugni, sparì come era venuto Con un grido di terrore, la Martinière, che si trovava vicino alla signorina, era caduta all'indietro sui cuscini della carrozza, semisvenuta all'apparire dell'individuo allo sportello. La Scudéry si attaccò invano al cordone del campanello per chiamare il cocchiere: che quello, come se fosse spinto dalla furia di uno spirito maligno, si diede a frustare all'impazzata i cavalli, che, schizzando schiuma dai musi, scalpitarono, si impennarono, e finalmente a trotto serrato attraversarono il ponte con fragore di tuono La Scudéry versò tutta la sua fiala di profumo sulla donna svenuta, che alla fine aprì gli occhi e con grandi tremiti e sussulti, aggrappandosi spasmodicamente alla sua padrona, con la paura e il terrore dipinti nel viso livido, emise a fatica suoni di lamento:
"Oh! Santa Vergine! Ma che cosa voleva quel terribile uomo?... Ah!... era proprio lui... proprio lui... lo stesso che vi ha portato il cofanetto in quella notte tremenda!... ".
La Scudéry fece tutto il possibile per tranquillizzare la povera donna, dimostrandole che non era successo niente di male e che restava solo da sapere il contenuto del biglietto. Spiegò il foglio e vi trovò le parole: "Un fato avverso, che voi potete distogliere da me, mi spinge con violenza nell'abisso!... Vi supplico, come un figlio supplicherebbe sua madre, dalla quale egli non può venire abbandonato, vi supplico nell'ardore più intenso di un amore filiale a far pervenire a mastro René Cardillac la collana e i braccialetti, che voi avete ricevuto a mezzo mio, sotto un pretesto qualsiasi: una riparazione, un cambiamento... Il vostro bene, la vostra vita ne dipende. Se non lo fate entro dopodomani, io entro con la forza nella vostra casa e mi uccido davanti ai vostri occhi".
"Una cosa è certa - disse la Scudéry, dopo che ebbe letto - e cioè che se veramente questo misterioso individuo appartiene alla banda degli scellerati assassini, egli non nasconde nessuna cattiva intenzione nei miei confronti. Se gli fosse riuscito di parlare con me in quella notte, chi sa quali avvenimenti singolari e straordinari, quale oscuro reciproco legame delle cose mi sarebbe stato rivelato, di cui io vado ora inutilmente cercando nella mia anima la più pallida idea. Sia come sia, sono comunque decisa a fare quello che mi si dice in questo foglio, fosse pure senza altro risultato che di disfarmi di quel malaugurato gioiello, che mi fa l'effetto di un diabolico talismano del principio stesso del male. E Cardillac, fedele alle sue vecchie abitudini, non se lo lascerà scappare un'altra volta tanto facilmente dalle mani".
La Scudéry si proponeva di andare subito il giorno seguente dall'orefice con il suo gioiello. Ma evidentemente tutti i bei spiriti di Parigi quella mattina si erano messi d'accordo per assalire tutti insieme la signorina di Scudéry con poesie, drammi, aneddoti.
La Chapelle aveva appena finito di leggere la scena di una tragedia e astutamente assicurato che intendeva con quel suo lavoro dare scaccomatto a Racine, che quest'ultimo faceva appunto il suo ingresso e lo stendeva al suolo con patetico discorso di un certo re, fino a che Boileau fece salire dall'oscuro cielo della tragedia le sue sfere luminose, per non sentire parlare in eterno soltanto del colonnato del Louvre, nel quale l'architetto e dottor Perrault lo aveva messo alle strette.
Il pomeriggio era avanzato, la signorina dovette andare dalla duchessa di Montansier, di modo che la visita a René Cardillac si trovò ad essere rimandata al giorno dopo.
La Scudéry si sentiva oppressa da un'insolita irrequietezza. Le stava costantemente davanti agli occhi il giovane e dalle profondità del suo animo, della sua memoria cercava a fatica di farsi strada per risalire un oscuro ricordo, come se già altrove, se già in altri tempi essa avesse visto quel viso e quei tratti. Sogni paurosi vennero a turbare il suo sonno leggero, le sembrava di aver trascurato per leggerezza veramente colpevole di porgere la sua mano in aiuto per afferrare quella che l'infelice, sul punto di sprofondare nell'abisso, le aveva tesa; le sembrava anzi che fosse stato in suo potere di impedire un efferato delitto, un avvenimento sciagurato. Subito nelle prime ore del mattino si fece vestire e se ne andò munita della cassettina dei gioielli a trovare l'orefice.
Il popolo si spingeva a frotte in direzione della rue Nicaise, dove appunto abitava Cardillac, si radunava in folti gruppi davanti alla porta della casa di lui gridava, rumoreggiava, imperversava, avrebbe voluto irrompere nella casa, trattenuta a stento dalle guardie della Maréchaussée, che la circondavano. Tra il selvaggio confuso urlìo si distinguevano voci irate che urlavano: "Prendete l'assassino! Fatelo a pezzi!".
Alla fine compare Desgrais seguito da molti dei suoi uomini, che riescono ad aprirsi un passaggio tra la fitta folla.
La porta di casa si spalanca, un uomo carico di catene ne viene portato fuori e viene trascinato via tra le più abominevoli maledizioni della plebe infuriata...
Nell'attimo in cui la Scudéry, mezza morta per lo spavento e per gli orribili presentimenti, si accorge di quella apparizione, le risuona alle orecchie un acuto fortissimo grido di disperazione: "Avanti sempre avanti!" lei grida fuori di sé al cocchiere, che riesce con un'abile improvvisa virata a separare il folto ammassamento di popolo e a fermarsi davanti alla porta di Cardillac.
E là vede, la signorina di Scudéry, Desgrais e ai suoi piedi una fanciulla bella come il giorno, con i capelli sciolti, semisvestita, con il volto della paura selvaggia e della sconfortata disperazione, che gli abbraccia le ginocchia e grida con l'accento tremendo lacerante di un mortale dolore:
"E' innocente!... è innocente!..." Inutili riescono tutti gli sforzi di Desgrais e della sua gente per strapparla da lì, per rialzarla da terra. Alla fine un uomo robusto e rozzo afferra la poveretta con le sue pesanti manacce, la strappa via con violenza da Desgrais, inciampa goffamente e lascia andare la ragazza, che cade giù per i gradini e senza un lamento, come morta rimane a giacere sulla strada.
Incapace di trattenersi più a lungo, la Scudéry apre di colpo la portiera, scende in fretta, esclamando: "Ma in nome di Cristo che cosa è successo? Che sta succedendo qui?".
La folla fa spazio rispettosamente alla venerabile signora, che vedendo che due donne del popolo si sono avvicinate alla fanciulla, l'hanno fatta sedere sui gradini e si prendono cura di strofinarle le tempie con essenze spiritose, si accosta a Desgrais e ripete con forza la sua domanda.
"E' successo qualcosa di orribile, - risponde Desgrais; - René Cardillac è stato trovato stamane assassinato da un colpo di pugnale.
Il suo socio Oliviero Brusson è l'assassino. L'hanno appena portato via per chiuderlo in carcere".
"E la ragazza?", interroga la Scudéry "E' Madelon - dice Desgrais - Quello scellerato è il suo amante. Adesso lei grida, piange, strepita senza fermarsi, che è innocente, completamente innocente. Dopo tutto può darsi che lei sia al corrente della cosa e sono obbligato a far portare anche lei alla Conciergerie".
Così dicendo Desgrais squadra la ragazza con un'occhiata così maligna e crudele, che la signorina di Scudéry ha un fremito d'orrore.
La fanciulla cominciava proprio allora a respirare adagio, ma muta immobile giaceva sui gradini, gli occhi chiusi, e la gente non sapeva che cosa fosse il caso di fare, se trasportarla di nuovo in casa o continuare ad assisterla lì finché si fosse svegliata. Profondamente commossa, tanto da averne gli occhi pieni di lacrime, la signorina di Scudéry osservava quell'angelo che respirava innocenza e sentiva raccapriccio pensando a Desgrais e ai suoi compari. In quel momento si sentirono dei passi pesanti e sordi scendere per le scale: portavano il cadavere di Cardillac. Con rapida decisione la signorina esclamò:
"Prendo la ragazza con me! Voi incaricatevi del resto, Desgrais!".
Un sordo mormorio di soddisfazione corse attraverso la folla. Le donne sollevarono la fanciulla, ognuno si avvicinò a spinte al gruppo, mille braccia si tesero nel desiderio di aiutare a sostenerla ed essa fu trasportata alla carrozza come a volo attraverso l'aria, tra le benedizioni che uscivano a fiumi dalle bocche di tutti per la signorina di Scudéry, che aveva strappato l'innocenza al tribunale di sangue.
Grazie alle cure di Serons, il medico più famoso di Parigi, Madelon, che per diverse ore era rimasta in uno stato di completa insensibilità, ritornò finalmente a poco a poco in sé. La Scudéry portò a termine quello che il medico aveva incominciato, facendo brillare nell'animo della fanciulla i raggi soavi della speranza, fino a che un torrente di lacrime scorse con violenza dagli occhi della fanciulla, a sollevare nello sfogo il suo cuore. Fu in grado allora, sebbene di tanto in tanto il prepotere di un lancinante dolore soffocasse le sue parole in profondi singhiozzi, di raccontare come si erano svolti i fatti.
Intorno alla mezzanotte era stata svegliata da una leggera serie di colpi battuti alla porta della sua stanza e aveva sentito la voce di Oliviero che la scongiurava di alzarsi immediatamente, perché suo padre stava per morire. Terrorizzata era saltata su dal letto e aveva aperto la porta. Oliviero, pallido e stravolto, fradicio di sudore si era allora diretto con passo traballante all'officina (bottega) e lei lo aveva seguito. Là giaceva suo padre con gli occhi fissi sbarrati nel penoso rantolo dell'uomo che lotta con la morte. Urlando di dolore si era precipitata su di lui e solo in quel momento si era accorta che la camicia era tutta insanguinata. Oliviero l'aveva trascinata via dolcemente e poi si era dato a tentare tutto quello che era in suo potere per lavare con acque balsamiche e per fasciare la ferita che suo padre aveva sotto il seno sinistro. Intanto suo padre aveva ripreso conoscenza e il suo rantolo era cessato e aveva abbracciato con un intenso sguardo lei e Oliviero e prendendo la mano di sua figlia l'aveva posta in quella di Oliviero, stringendole tutte e due appassionatamente. Tutti e due, Oliviero e lei, si erano inginocchiati vicino al letto del padre, egli si era sollevato con un grido tremendo lacerante, ma subito era ricaduto all'indietro ed era spirato con un profondo sospiro. Allora tutti e due si erano messi a piangere e a lamentarsi forte. Oliviero aveva raccontato che Cardillac era stato assassinato in sua presenza, durante una passeggiata che egli per suo ordine aveva fatto con lui nella notte, e che con enorme fatica aveva trasportato a casa il pesante corpo dell'uomo, che non credeva tuttavia ferito a morte. Di primo mattino i vicini di casa, ai quali non era sfuggito il tramestìo notturno e le acute grida di lamento e i pianti, erano saliti in casa e li avevano trovati ancora inginocchiati in pianto sconfortato ai lati del letto. Poi la voce della morte si era sparsa, la Maréchaussée si era introdotta in casa brutalmente e Oliviero era stato trascinato via come l'assassino del suo padrone. A questo punto Madelon aggiunse un quadro commoventissimo della pietà, della virtù, della fedeltà del suo caro Oliviero: disse come egli stimasse il padre quasi fosse il suo, e come quest'ultimo nutrisse lo stesso sentimento e come, nonostante la sua povertà, lo avesse scelto come proprio genero poiché in lui l'abilità era pari alla fedeltà e alla elevatezza dei sentimenti. Madelon raccontò tutto questo dal profondo del cuore e aggiunse che anche se avesse visto con i suoi propri occhi Oliviero trapassare il petto di suo padre con un colpo di pugnale, avrebbe sempre considerato il fatto come una cosa diabolica, piuttosto che credere Oliviero capace di un delitto così inaudito e orrendo.
La Scudéry, profondamente scossa dall'innominabile dolore di Madelon e tutta propensa a considerare innocente l'infelice Oliviero, prese informazioni e trovò confermata pienamente ogni cosa raccontata dalla ragazza riguardo alle reciproche relazioni tra il padrone e il suo apprendista.
I coinquilini, i vicini furono tutti concordi nell'affermare che Oliviero poteva essere considerato come il modello di una condotta onesta, pia, fedele, laboriosa, nessuno conosceva di lui aspetti che fossero cattivi e disonesti e tuttavia quando il discorso veniva a cadere sul delitto, tutti alzavano le spalle ed erano del parere che lì doveva esserci qualcosa di inconcepibile.
Oliviero, portato alla presenza della Chambre ardente, negò con la più grande fermezza e con limpida franchezza l'accusa che gli era mossa, affermando che il suo padrone era stato assalito e abbattuto in sua presenza nella pubblica via, che egli l'aveva allora trasportato ancora vivo a casa sua, dove pochi istanti dopo era spirato.
E anche questo concordava pienamente e in ogni particolare con il racconto di Madelon.
La signorina di Scudéry non si stancava di farsi raccontare le minime circostanze del terribile avvenimento. Si informò con esattezza, se mai tra padrone e apprendista ci fosse stato motivo di screzio o di lite, se era possibile che Oliviero non fosse del tutto padrone di sé in quegli improvvisi accessi d'ira che a volte in forma di cieca pazzia si impadroniscono anche dei caratteri più calmi e buoni e li trascinano a compiere azioni che la loro volontà sembrerebbe respingere: ma sempre più ardente alle sue ripetute domande si faceva l'effusione di Madelon nel parlarle della tranquilla felicità domestica, nella quale vivevano tre persone legate vicendevolmente dalla più profonda tenerezza, cosicché ogni ombra di sospetto si allontanava sempre più nell'animo della signorina nei confronti del delitto di cui era accusato Oliviero. Esaminando ogni punto con attenzione e volendo ammettere che, a dispetto di tutte le circostanze che testimoniavano in suo favore, Oliviero fosse davvero colpevole dell'assassinio di Cardillac, la signorina di Scudéry non riusciva tuttavia a trovare in nessuna delle sue deposizioni un solo motivo che avesse potuto trascinare il giovane a un delitto, il cui più immediato risultato era di turbare la sua felicità.
"E' povero, ma abile... Gli riuscirebbe di guadagnarsi la stima e l'amicizia del più celebre maestro, ama sua figlia, il maestro favorisce il suo amore, felicità e agiatezza gli sono assicurate per tutto il resto della sua vita!... Ma ammettiamo che Oliviero, sopraffatto, Dio sa per quali motivi, dalla collera, abbia attaccato e ucciso proditoriamente il suo benefattore, il suo padre, quale maledetta dissimulazione è la sua, che lo ha portato a comportarsi, dopo il fatto, così come egli si è comportato?...".
Fermamente convinta dell'innocenza del povero Oliviero, la signorina di Scudéry prese la decisione di salvare il giovane a qualunque costo. Le sembrò prudente, prima di ricorrere alla clemenza del re, di rivolgersi al presidente La Reynie, allo scopo di richiamare la sua attenzione su tutte le circostanze favorevoli a Oliviero e di far nascere, se solo fosse stato possibile, nell'animo del presidente un'intima convinzione a favore dell'accusato, che avrebbe dovuto comunicarsi anche agli altri giudici.
La Reynie ricevette la signorina di Scudéry con tutto il rispetto e la stima, ai quali la vecchia signorina, onorata dalla più alta stima del re, aveva diritto di pretendere. Egli ascoltò in silenzio tutto quello che lei gli veniva raccontando, circa il delitto, sulle relazioni di Oliviero con il suo padrone e sul carattere del giovane.
Un sorriso fine, tanto da essere ironico, fu infine l'unica manifestazione che il suo affermare, il suo scongiurare spesso interrotto da lacrime, ché ogni giudice doveva essere per l'accusato non un nemico, ma un uomo pronto a considerare attentamente tutto quello che in favore di lui può parlare, non aveva incontrato orecchie completamente sorde. E quando ebbe detto tutto e sfinita si asciugava le lacrime dagli occhi, La Reynie rispose:
"E' degno del vostro cuore eccellente, signorina, il lasciarsi commuovere dalle lacrime di una fanciulla innamorata e giovane e di credere quindi tutto quello che lei dice; è degno di voi ancora il non poter concepire neppure il pensiero di un delitto così orrendo: diversa è la cosa per il giudice, abituato a strappare la maschera alla più scellerata dissimulazione. Certamente non appartiene al mio ufficio svelare a chiunque mi fa domande lo sviluppo progressivo di un processo criminale. Signorina, io faccio il mio dovere, poco m'importa il giudizio del mondo. I criminali devono tremare davanti alla Chambre ardente, che non conosce altre pene, all'infuori del sangue e del fuoco. Ma non vorrei sembrare ai vostri occhi, signorina, come un mostro di durezza e di crudeltà; concedetemi dunque che vi descriva con chiarezza in poche parole la sanguinaria azione dell'assassino, che - e ne sia ringraziato il cielo! - espierà la sua colpa. L'acutezza del vostro spirito vi farà allora rifiutare quella benevolenza, che a voi tanto si addice, ma che in me sarebbe del tutto fuori luogo. Dunque!... Un mattino René Cardillac viene trovato assassinato da un colpo di pugnale. Non c'è nessuno vicino a lui, tranne sua figlia e il suo apprendista Oliviero Brusson. Nella stanza di Oliviero viene trovato tra le altre cose un pugnale bagnato di sangue recente, che si adatta perfettamente alla ferita. "Cardillac è stato assassinato durante la notte davanti ai miei occhi". Questa è la deposizione di Oliviero. "Ma volevano derubarlo?" "Non lo so". "Eri con lui e non ti è stato possibile opporti all'assassino... trattenerlo, chiamare aiuto?...". "Il padrone camminava una quindicina di passi avanti, io lo seguivo". "Ma perché, diavolo, così lontani?".
"Il padrone voleva così". "Ma insomma che cosa faceva a quell'ora tanto tarda per la strada mastro Cardillac?". "Non posso dirlo". "Era uscito altre volte da casa dopo le nove?". A questo punto Oliviero è preso dall'imbarazzo, si confonde, sospira, sparge lacrime e giura per tutto quello che c'è di più sacro che Cardillac è veramente uscito quella notte e che ha trovato la morte. Ma notate bene questo, signorina. E' provato fino all'evidenza più lampante che Cardillac non è affatto uscito in quella notte dalla sua casa e quindi l'affermazione di Oliviero di essere uscito con lui è una turpe menzogna. Il portone di casa è provvisto di una pesante serratura, che fa nell'aprirsi e nel chiudersi un penetrante rumore: per di più i battenti girano sui cardini gridando e gemendo, come lo hanno abbastanza dimostrato ripetuti tentativi, in modo tale che il fracasso rimbomba fino agli ultimi piani. Ora al piano terreno, quindi vicinissimo alla porta, abita il vecchio mastro Claude Patru con la sua governante, persona di un'ottantina d'anni circa, ma ancora vivace e in gamba. Queste due persone hanno sentito Cardillac scendere la scala alle nove in punto, secondo la sua abitudine, chiudere la porta e sprangarla con grande fracasso, risalire, leggere ad alta voce la preghiera della sera, poi ritirarsi nella sua camera da letto, a quanto lasciava indovinare lo sbattere di una porta. Mastro Claude, come capita spesso ai vecchi, soffre d'insonnia. Anche quella notte non riusciva a prendere sonno. Potevano essere circa le nove e mezzo, quando la governante fece luce nella cucina, nella quale andò attraversando il vestibolo, e si sedette vicino a mastro Claude presso la tavola a leggere una vecchia cronaca, mentre il vecchio, abbandonandosi ai suoi pensieri, ora si buttava in poltrona, ora si rialzava e per guadagnarsi il sonno e la stanchezza, passeggiava su e giù a passi leggeri e lenti per la camera. Tutto rimase calmo e silenzioso fino alla mezzanotte. In quel momento sentirono passi pesanti sulle loro teste, un tonfo greve, come di un grosso fardello che cadesse a terra e subito dopo gemiti sordi. Tutti e due si sentirono presi da uno strano senso di spavento e di sorpresa. L'idea di un delitto che in quell'istante si stava commettendo attraversò la loro mente. La chiara luce del mattino rischiarò quello che era accaduto nelle tenebre!".
"Ma in nome di tutti i santi! - lo interruppe la signorina di Scudéry - dopo tutto quello che vi ho raccontato così circostanziatamente, dove potete trovare un motivo qualsiasi che abbia dato origine a questo infernale delitto?".
"Hem!... - replicò La Reynie. - Cardillac non era povero... Possedeva delle pietre preziose ammirabili...".
"E non doveva ereditare tutto sua figlia? - ribatté la signorina. - Dimenticate dunque che Oliviero era sul punto di diventare il genero di Cardillac?".
"Forse doveva dividere o addirittura assassinare per conto di altri?" disse La Reynie.
"Dividere, assassinare per conto di altri?" esclamò la signorina sbalordita.
"Sapete, signorina, che Oliviero avrebbe già da tempo versato il suo sangue sulla piazza di Grève, se il suo delitto non fosse legato al mistero profondo e impenetrabile che incombe fino ad ora minaccioso su tutta Parigi? E evidente che Oliviero appartiene a quella banda di assassini che, prendendosi gioco di tutta la vigilanza, di tutti gli sforzi, di tutte le ricerche delle corti di giustizia, ha saputo portare i suoi colpi in sicurezza e impunità. Per mezzo suo ogni cosa sarà chiarita, deve essere chiarita. La ferita di Cardillac è del tutto simile a quelle che portavano sul loro corpo tutte le persone che sono state assassinate e depredate per le strade e nelle case. Quello che infine porta a tutta la questione il colpo decisivo, è il fatto che, dopo che Oliviero Brusson è stato chiuso nel carcere, tutti i delitti e tutti i brigantaggi sono terminati. Le strade sono sicure durante la notte come in pieno giorno. Prova sufficiente che Oliviero era il capo della banda. Egli non vuole ancora confessare niente, ma ci sono i mezzi per farlo parlare anche contro voglia".
"E Madelon - gridò la signorina di Scudéry - la fedele, innocente colomba?...".
"Eh! Chi mi garantisce che non sia a conoscenza del complotto! disse sorridendo con cattiveria. - Che cosa le importa di suo padre! Essa non ha lacrime che per quell'assassino!".
"Ma che cosa dite!... - gridò la Scudéry. - Ma come sarebbe possibile?!... Il padre!... Una figlia!...".
"Oh, per questo! - continuò La Reynie, - pensate soltanto alla Brinvillier! Vorrete anzi scusarmi se presto sarò costretto a strapparvi la vostra protetta e a farla gettare alla Conciergerie".
A questo atroce sospetto sorse nelle vene della Scudéry un brivido gelato. Ebbe la sensazione che per quell'uomo terribile non potessero avere senso lealtà e virtù, come se dovunque nel segreto dei più profondi pensieri egli spiasse colpe e delitti di sangue. Si alzò: "Siate umano!", fu tutto quello che riuscì a dire, respirando a fatica, oppressa.
Con cerimoniosa cortesia il presidente la accompagnò fino alle scale: al momento di scenderle, le venne uno strano pensiero, senza che lei stessa se ne rendesse ben conto.
"Mi sarà permesso di vedere l'infelice Oliviero Brusson?", chiese rivolgendosi con un movimento improvviso al presidente.
Costui la scrutò pensieroso e sul suo viso apparve quel ripugnante sorriso che era la sua caratteristica.
"Certamente - disse - voi volete, stimatissima signorina, affidandovi più alla voce interiore che al fatto accaduto sotto i nostri occhi, provare al vostro sentimento la colpa o l'innocenza di Oliviero. Se il raccapricciante soggiorno del delitto non suscita in voi disgusto, se non vi fa orrore il quadro dell'abiezione nei suoi ultimi stadi, tra due ore la Conciergerie vi sarà aperta. Vi verrà mostrato questo Oliviero, il cui destino eccita la vostra compassione".
In realtà la signorina di Scudéry non poteva convincersi della colpevolezza del giovane. Tutto parlava contro di lui, nessun giudice avrebbe potuto agire diversamente da come aveva agito La Reynie, davanti a una simile lampante evidenza di fatti. Ma il quadro della felicità domestica, presentato da Madelon sotto tinte così vive, cancellava con la sua luminosità ogni sospetto, tanto che la signorina preferì accettare un inesplicabile mistero, che credere a qualcosa a cui tutto il suo essere si ribellava. Decise di farsi raccontare ancora una volta da Oliviero tutti gli avvenimenti di quella notte famosa e di penetrare, per quanto gli sarebbe stato possibile, un segreto che non era stato rivelato ai giudici soltanto perché essi avevano trascurato di indagarlo. Arrivati alla Conciergerie, la signorina venne portata in un locale spazioso e chiaro. Qualche attimo più tardi sentì un rumore di catene. Portavano Oliviero Brusson. Ma egli aveva appena oltrepassato la soglia, che la signorina di Scudéry cadde a terra svenuta. Quando si fu riavuta, Oliviero era sparito.
Chiese con violenza di essere riportata alla sua vettura: via, via all'istante da quel ricovero di scellerati. Ahimè!... Al primo sguardo lei aveva riconosciuto in Oliviero Brusson il giovane che sul Pont-Neuf le aveva gettato in grembo il biglietto, che aveva portato nella sua casa il cofanetto dei gioielli.
Non c'era ormai più ragione di dubbio. I tremendi sospetti di La Reynie trovavano conferma. Oliviero Brusson faceva parte di quella banda infame di assassini: certamente era stato lui ad uccidere il suo padrone... E Madelon?... Mai nella sua vita la signorina di Scudéry era stata più amaramente ingannata nel suo più intimo sentire: mortalmente raggiunta sulla terra dalle potenze infernali, delle quali aveva sempre voluto negare l'esistenza, sentiva di dubitare di ogni verità. Fece posto nella sua anima ai più tremendi sospetti: arrivò a credere Madelon complice del delitto, anzi partecipe ad esso. E come è solito capitare allo spirito umano, che da quando ha evocato da sé un'immagine, cerca con avidità i colori per caricarne i tratti, così la signorina di Scudéry trovava ora nella condotta stessa di Madelon mille circostanze, esaminandone i minimi particolari, che davano adito ai suoi sospetti. In questo modo molte cose, che fino a quell'istante le erano sembrate prova di innocenza e di purezza, diventavano testimonianza certa di spudorata cattiveria, di premeditata finzione.
Quel dolore dilaniante, quelle lacrime di sangue potevano benissimo esserle strappate dal terrore di vedere l'amante spargere il suo sangue sul patibolo, e sì... forse di cadere lei stessa sotto le mani del boia. Strappare dal proprio seno la vipera che vi aveva riscaldato, questo fu il pensiero che occupava la mente della signorina nello scendere dalla vettura. Rientrata nella sua stanza, Madelon corse a gettarsi ai suoi piedi. Alzando verso di lei i suoi occhi - un angelo del Signore non avrebbe potuto averli più puri -, le mani giunte sul petto ansante, si lamentava e chiedeva piangendo aiuto e conforto. La signorina di Scudéry contenendosi a fatica e cercando di dare alla sua voce un tono il più possibile grave e calmo le rispose:
"Va'! Va'! Consolati della morte di un assassino, che sta per ricevere il premio dei suoi delitti. Che la Vergine Santissima ti preservi dall'essere tu stessa convinta di un orrendo delitto!...".
"Ah! Tutto è perduto adesso!...". Con questo acutissimo grido Madelon precipitò a terra svenuta.
La signorina abbandonò la ragazza alle cure della Martinière e si ritirò in un'altra stanza.
Con l'animo straziato, disgustata da ogni cosa terrena, la signorina di Scudéry si sentì stanca di vivere in un mondo pieno di inganni diabolici. Accusò lo scherno amaro del destino, che durante lunghi anni le aveva concesso di fortificarsi nella fede, nella lealtà e nella virtù e che, al termine della sua vita, annientava di colpo il quadro ridente, che in essa aveva brillato chiaro. Sentì la Martinière che andava rassicurando Madelon, che sospirava piano e piangeva.
"Oh! Signore!... - diceva - anche lei!... Anche lei quei crudeli hanno voluto ingannare!... Povera povera me!... Povero Oliviero!...".
Queste parole penetrarono profondamente nel cuore della signorina, facendovi di nuovo sorgere il presentimento di un mistero e la fede nell'innocenza di Oliviero. Assediata dai sentimenti più contraddittori, fuori di sé, la signorina di Scudéry esclamò:
"Ma quale dannato spirito dell'inferno mi ha implicato in questa orribile faccenda, che mi costerà la vita?".
In quel momento entrò Battista, pallido e spaventato, dicendo che fuori c'era Desgrais. Dal tempo dello spaventoso processo della Voisin, l'apparizione di Desgrais in una casa, era indizio certo di un'accusa criminale, da qui lo spavento di Battista, per cui la signorina gli chiese sorridendo leggermente:
"Battista, che cosa ti succede?... E' proprio vero?... Il nome di Scudéry è stato trovato sulla lista della Voisin?...".
"Ah, per l'amore di Gesù! - gridò Battista, tremando in tutto il corpo - come potete dire cose di questo genere? Ma Desgrais mi è sembrato così misterioso, così incalzante, sembra che non possa aspettare di vedervi".
"Ebbene, Battista, - disse la signorina di Scudéry - fai dunque entrare immediatamente quest'uomo che a voi sembra tanto orribile e che a me non fa nessuna paura".
"Il Presidente La Reynie - disse Desgrais entrando - mi manda da voi, signorina, con una preghiera, che non oserebbe mai sperare di vedere esaudita, se non conoscesse la vostra virtù, il vostro coraggio, se non fosse in mano vostra l'ultimo mezzo per portare alla luce del giorno un orrendo delitto di sangue, se non aveste voi stessa preso parte al tremendo processo che tiene il fiato sospeso alla Chambre ardente, anzi a tutti noi quanti siamo. Oliviero Brusson, dopo che vi ha vista, è quasi pazzo furioso. Altrettanto sembrava prima disposto ad una confessione, altrettanto oppone ora una saldissima resistenza.
Giura di nuovo per Gesù Cristo e per tutti i santi di essere completamente innocente dell'assassinio di Cardillac, per quanto sia pronto a soffrire volentieri la morte, che ha meritata. Notate, signorina, che queste ultime parole si riferiscono evidentemente ad altri delitti che pesano sulla sua coscienza. Ma vano è stato finora ogni sforzo per strappargli una sola parola di più: la minaccia stessa della tortura non ha avuto nessun frutto. Ora ci supplica, ci scongiura di procurargli un colloquio con voi. A voi e a voi soltanto vuole confessare tutto. Degnatevi, signorina, di accogliere la confessione di Brusson".
"Che cosa!!... - esclamò la signorina di Scudéry, fuori di sé per l'indignazione - dovrei servire da organo di un tribunale di sangue? Dovrei abusare della confidenza di un disgraziato per condurlo al patibolo?... No, Desgrais, Brusson sarà uno scellerato assassino, ma io non posso ingannarlo in un modo tanto abbietto!... Non voglio sapere niente dei suoi segreti, che rimarrebbero chiusi nel mio cuore come una santa confessione".
"Può darsi, signorina - replicò Desgrais con un fine sorriso. Può darsi che le vostre disposizioni cambierebbero, se aveste sentito parlare Oliviero Brusson. Non siete stata voi a pregare il Presidente di essere umano? Ecco che egli si mostra tale, con il cedere alla folle pretesa di Brusson, cercando l'ultimo mezzo, prima di lasciarlo al suo destino della tortura, per la quale è già da parecchio tempo maturo".
Involontariamente la signorina di Scudéry fu scossa da un brivido.
"Vedete - continuò Desgrais - nessuno ha intenzione di costringervi ancora una volta ad entrare in quelle basse e oscure segrete, che vi riempiono di ribrezzo e di orrore. Nel silenzio della notte, senza nessun apparecchio, come se fosse un uomo libero, Oliviero sarà portato in casa vostra. Ben sorvegliato, ma in modo da non esser sentito da nessuno, egli potrà confidarvi ogni cosa liberamente. Vi rispondo sulla mia vita che non avete niente da temere per voi stessa da parte di quel miserabile. Egli parla di voi con rispetto sincero e profondo e giura che solo il destino, impedendogli di vedervi prima d'oggi, è causa della sua morte. D'altronde vi sarà pure permesso di tacere quello che Brusson vi avrà rivelato, o di dirne quello che crederete opportuno di dire. E' possibile costringervi a qualcosa di più?".
La signorina di Scudéry guardò per lungo momento fissamente il pavimento. Le sembrava di dover obbedire al potere superiore, che da lei voleva la risoluzione di un tremendo mistero, e di non poter sottrarsi al meraviglioso intreccio di vicende nel quale senza volerlo si trovava coinvolta.
Prendendo improvvisamente la sua decisione, essa disse con dignità:
"Dio mi darà la calma e la fermezza: portate qui Brusson: voglio parlare con lui".
Come quando Brusson aveva portato il cofanetto dei gioielli, fu bussato alla porta di casa intorno alla mezzanotte. Battista, informato della visita notturna, aprì. Un brivido di gelo invase la signorina di Scudéry, quando ai passi ripetuti, al rumore sordo che sentì, capì che le guardie che avevano portato nella sua casa Brusson, si disponevano in tutti gli angoli della casa.
Alla fine la porta della stanza si aprì piano. Desgrais entrò e dietro a lui Oliviero Brusson, libero da catene, ben vestito.
"Ecco Brusson, stimatissima signorina!" disse Desgrais, inchinandosi in atto di rispettoso omaggio. E uscì dalla camera.
Brusson cadde in ginocchio davanti alla signorina di Scudéry, alzando verso di lei le mani giunte, mentre dagli occhi gli sgorgavano fitte le lacrime.
La signorina di Scudéry si fece pallida in volto, lo guardò incapace di dir parola. Dal viso del giovane, nei tratti pur stravolti dalla disperazione e dal dolore, splendeva la pura espressione di un animo nobilissimo. E quanto più a lungo la signorina di Scudéry lasciava riposare il suo sguardo sul viso del giovane, tanto più vivace si faceva in lei il ricordo di una persona amata, della quale non riusciva a ricordarsi che in modo molto incerto. Tutti i suoi terrori vennero meno in lei, dimenticò che l'assassino di Cardillac le stava in ginocchio davanti e gli rivolse la parola in quel tono piacevole di tranquilla benevolenza che le era proprio:
"Ebbene, Brusson, che cosa avete da dirmi?".
Costui, sempre in ginocchio, ebbe un sospiro ancora più doloroso e profondo e rispose:
"O mia degna, mia venerabile signorina, ma dunque ogni traccia di ricordo è cancellata in voi?".
La signorina di Scudéry, continuando a fissare sempre più attentamente il giovane, rispose che in realtà trovava in lui una certa somiglianza con una persona a lei cara e soltanto a questa somiglianza appunto egli doveva il fatto che, superando il profondo disgusto ispiratole dalla vista di un assassino, lo stesse per ascoltare con animo tranquillo. Brusson profondamente ferito da quelle parole, si rialzò bruscamente e indietreggiò di un passo, lo sguardo cupo fisso a terra. Poi disse con voce sorda:
"Avete dunque dimenticato del tutto Anna Guyot?... E' Oliviero, il suo figliolo, è il bambino che voi eravate solita cullare sulle vostre ginocchia, che vi sta davanti".
"Oh, per l'amore di tutti i santi!" gridò la signorina di Scudéry coprendosi il viso con tutte e due le mani e ricadendo all'indietro sui cuscini della sua poltrona. La signorina aveva motivo sufficiente per spaventarsi in quel modo. Anna Guyot, figlia di un borghese caduto nella miseria, era stata fin dall'infanzia accolta nella casa della signorina di Scudéry, che con l'amore di una madre per la propria creatura l'aveva educata con ogni cura e sollecitudine. Quando fu grande, ci fu un bel giovane di buoni costumi, chiamato Claudio Brusson, che la chiese in moglie. Poiché egli era un abilissimo orologiaio che non avrebbe mancato di guadagnarsi riccamente la vita a Parigi e poiché d'altra parte Anna aveva per lui un affetto profondo, la signorina di Scudéry non vide ragione di opporsi al matrimonio della sua pupilla. I due giovani ebbero la loro casa, vissero nella tranquilla dolcezza della felicità domestica e la nascita di un bambino bello come un angelo, immagine fedele della soave mammina, venne a stringere ancora più intimamente il legame che li univa.
La signorina di Scudéry fece del piccolo Oliviero il suo idolo: lo portava via a sua madre per ore, per giorni interi, per la gioia di carezzarlo. Il bambino si abituava a vederla e rimaneva accanto a lei come accanto a sua madre.
Erano passati tre anni, quando l'invidia del mestiere dei compagni di lavoro giunse a portargli un danno tanto grave da togliergli ogni giorno di più la possibilità di lavoro, finché infine egli poteva a stento procurarsi un misero nutrimento. E gli venne allora la nostalgia della sua bella città natale di Ginevra e il desiderio di tornare ad abitarvi e capitò così che tutta la piccola famiglia si trasferisse là, nonostante tutte le richieste della signorina di Scudéry, che aveva preso su di sé l'impegno di sostenerla, in opposizione al progetto. Anna scrisse ancora un paio di volte alla sua mamma adottiva, poi tacque e la signorina dovette credere che la felicità della vita nella bella patria di Brusson non permettesse il risorgere nel suo animo del ricordo dei giorni passati.
Ed erano appunto ventitré anni compiuti, che Brusson con la sua donna e il suo bambino aveva lasciato Parigi ed era andato a stabilirsi a Ginevra.
"Oh! Ma è spaventoso!... - gridò la signorina di Scudéry, dopo che si fu riavuta alquanto. - Tu sei Oliviero, il figlio della mia Anna!... E ora...".
"Certamente - rispose Oliviero con calma e fermezza - certamente, mia onoratissima signorina, voi non avreste mai pensato che il ragazzino al quale come tenerissima madre dedicavate tutte le vostre carezze, al quale, cullandolo sulle ginocchia, ficcavate in bocca leccornia dopo leccornia, a cui infine davate i più dolci nomi, diventato giovanotto si sarebbe presentato un giorno davanti a voi, accusato di un raccapricciante orrendo delitto di sangue. Non sono immune da rimproveri, la Chambre ardente può a buon diritto accusarmi di un delitto; ma quanto è vero che spero e voglio morire in grazia di Dio, sia pure per mano del carnefice, sono puro di quel sangue: non io, non per mano mia, non per colpa mia è stato versato quello dell'infelice Cardillac!".
A questo punto Oliviero tremò in tutto il corpo, barcollando. In silenzio la signorina di Scudéry gli indicò una sedia, che gli stava vicino. Egli vi si lasciò cadere in silenzio.
"Ho avuto tempo a sufficienza per prepararmi a questo mio colloquio con voi che io considero come l'estremo favore del cielo riconciliato con me e per acquistare tanta calma e tanta fermezza quanta ne è necessaria ora per raccontarvi la storia del mio tremendo, inaudito destino avverso. Fatemi la carità di ascoltarmi con pazienza, per quanto orrore la rivelazione di un segreto, che certamente voi non sospettate neppure lontanamente, vi stia per fare. Oh se il mio povero padre non avesse mai lasciato Parigi!... Per quanto all'indietro nel tempo io ritorni con i miei ricordi di Ginevra mi trovo sempre bagnato dalle lacrime dei miei sconsolati genitori, portato io stesso al pianto dai loro lamenti, che pure rimanevano per me incomprensibili. Più avanti ebbi la sensazione precisa, la completa coscienza del bisogno schiacciante, della profonda e assoluta miseria in cui i miei genitori vivevano. Mio padre si era visto ingannato in tutte le sue speranze. Piegato dal peso della disperazione profonda, soccombendo ad esso, egli morì proprio quando gli era riuscito di sistemarmi come apprendista presso un orefice. Mia madre parlava molto di voi, avrebbe voluto riversare nel vostro cuore tutte le sue pene, ma poi lo scoraggiamento della miseria le cadde addosso. Questo, e anche una falsa vergogna che spesso brucia negli animi feriti a morte, la trattenne sempre dal mandare a compimento il suo proposito. Pochi mesi dopo la morte di mio padre, mia madre lo seguì nella tomba".
"Povera, povera Anna!..." esclamò la signorina di Scudéry scossa dal dolore. "In eterno siano rese grazie all'eterno potere divino, che essa è laggiù e non vede il suo caro figliolo cadere nelle mani del boia, bollato dal marchio dell'infamia!". Così gridò violentemente Oliviero, lanciando al cielo un tremendo sguardo selvaggio. Fuori si sentì una certa agitazione: qualcuno andava su e giù.
"Oh! oh! - disse Oliviero con un sorriso amaro. - Desgrais sveglia i suoi sbirri, come se io potessi o volessi scappare di qui! Ma andiamo avanti. Dal mio padrone fui trattato con rudezza, per quanto facessi presto nell'esercizio dell'arte grandi progressi, tanto da superare in poco tempo il maestro.
Capitò un giorno che uno straniero venne nella nostra bottega per comprare alcuni gioielli. Vedendo poi una collana alla quale stavo lavorando, mi batté sulla spalla con espressione affettuosa e mentre osservava il gioiello mi disse: 'Ah! Perbacco! mio giovane amico, ma questo è un lavoro di prim'ordine. Davvero non saprei chi potrebbe superarvi, se non René Cardillac, che certamente, senza tema di smentita, è il primo orafo del mondo. Da lui dovreste andare: egli sarà felice di accogliervi nella sua bottega, poiché voi soltanto potrete assisterlo nei suoi lavori, mentre da parte vostra, soltanto da lui potrete imparare ancora qualcosa.' Le parole dello straniero erano rimaste profondamente impresse nella mia anima. Non ci fu più vita tranquilla per me a Ginevra, una forza alla quale non ero in grado di resistere mi trascinava via di là. Finalmente mi riuscì di liberarmi dal contratto che mi legava al mio padrone. Venni a Parigi.
René Cardillac mi fece un'accoglienza fredda e aspra. Io insistetti perché mi affidasse un lavoro qualunque, fosse pure modesto e insignificante. Ebbi l'incarico di montare un anello. Quando gli riportai il mio lavoro, egli mi guardò fisso con i suoi occhi scintillanti, come se avesse voluto penetrare fino in fondo all'anima mia. Poi disse:
'Tu sei un operaio abile e valoroso, puoi venire qui ad aiutarmi nella mia bottega. Ti pagherò bene. Sarai contento di me.' Cardillac mantenne le sue parole. Lavoravo già da molte settimane nella bottega di Cardillac e non avevo ancora visto Madelon, che, se non sbaglio, si trovava allora a soggiornare in campagna presso una parente di Cardillac. Finalmente arrivò. O potenza eterna del Cielo, che cosa successe in me, quando per la prima volta vidi quell'angelo!... Ha mai amato un uomo, così come ho amato io?... E ora... Oh! Madelon!...".
Il dolore soffocò le parole di Oliviero. Si premette il viso con le mani e singhiozzò violentemente. Alla fine vincendo con uno sforzo enorme il dolore selvaggio che lo afferrava, continuò a dire:
"Madelon mi guardava con simpatia. Prese a venire sempre più spesso nella bottega. Mi accorsi del suo amore e per me fu l'estasi. Per quanto il padre ci sorvegliasse severamente, spesso le nostre mani si stringevano furtive, segno di unione conclusa, e Cardillac sembrava non accorgersi di niente. Io pensavo tra me: prima mi guadagno le sue buone grazie, così da arrivare ad essere a mia volta mastro orafo, e poi gli chiedo la mano di Madelon. Ma un mattino, mentre mi preparavo a cominciare il mio lavoro, Cardillac mi si piantò davanti, bruciando nel torvo sguardo di collera e di disprezzo. 'Non ho più nessun bisogno del tuo lavoro. Esci immediatamente da questa casa e non comparire mai più alla mia presenza! E non ho bisogno di dirti perché non ti possa più sopportare qui. Povero disgraziato, troppo in alto pende il bel frutto a cui aspiravi!...'. Volli parlare, ma egli mi afferrò in una stretta d'acciaio e mi gettò fuori, così violentemente, che caddi sul selciato e mi ferii gravemente alla testa e al braccio.
Fuori di me, lacerato da un dolore furibondo, mi allontanai da quella casa e trovai come Dio volle all'estremità del sobborgo Saint-Martin un mio generoso conoscente, che mi accolse nella sua soffitta. Non avevo pace, non avevo riposo. Di notte mi spingevo fino alla casa di Cardillac nella speranza che Madelon sentisse i miei sospiri, i miei lamenti e forse riuscisse a parlarmi non vista né sentita dalla sua finestra. Ogni specie di progetti temerari si incrociavano nel mio cervello, per l'esecuzione dei quali mi ripromettevo di mettermi d'accordo con lei. Alla casa di Cardillac, nella Rue Saint-Nicaise si aggiunge un'alta muraglia, in cui si vedono nicchie e statue mutilate.
Sono lì una notte, proprio vicino a una di queste statue e tengo gli occhi alzati alle finestre della casa, che danno sul cortile circondato appunto da quel muro. Allora mi accorgo ad un certo momento che nella bottega di Cardillac si accende la luce. E' la mezzanotte:
come mai a quest'ora tarda Cardillac è ancora sveglio, visto che in genere va a riposare alle nove? Il cuore mi batte d'inquietudine, penso a un avvenimento qualunque che forse sta per aprirmi la porta di quella casa. E subito la luce sparisce. Mi stringo alla statua, nel fondo della nicchia, ma spaventato balzo all'indietro, avvertendo un movimento contrario al mio, come se la statua fosse diventata cosa viva. Nel chiarore incerto della notte, mi accorgo ora che il piedistallo di pietra sta girando lentamente su se stesso e dietro a questo compare una figura scura, che cautamente avanza nella via. Salto giù dalla statua: essa aderisce come prima al muro. Involontariamente, quasi spinto da un segreto potere, mi metto a seguire la figura. A un tratto, precisamente all'altezza di un'immagine della Vergine, la figura si gira, la luce piena della lampada che brucia davanti all'immagine sacra gli cade sul viso. E' Cardillac. Una paura che non potrei definire, un terrore sinistro si impadroniscono di me. Sotto il dominio di un forte incantesimo, sono costretto a proseguire, a seguire il fantomatico, spettrale sonnambulo. Poiché tale ritenevo appunto il padrone, per quanto non fosse una di quelle notti di luna piena, tempo in cui a questi malati prende nel sonno la loro follia. Alla fine Cardillac scompare nelle tenebre fittissime. A una certa tossetta, che io ben conoscevo, mi accorgo intanto che si è ritirato nell'androne di una casa. Che cosa significa questa sua condotta, che cosa ha in mente di fare?... Pieno di stupore mi vado così interrogando e mi tengo rasente alle case.
Sono passati pochi istanti ed ecco arrivare un uomo canticchiando un motivetto: ha sul cappello un ciuffo di piume splendenti e fa tintinnare gli speroni. Come una tigre si slancia dal suo nascondiglio sulla preda, così Cardillac dal buio del suo angolo si scaglia su quell'uomo, che cade al suolo immediatamente rantolando. Io accorro lanciando un grido di terrore, Cardillac sta sopra all'uomo disteso a terra: 'Mastro Cardillac, che cosa fate?' grido forte. 'Maledetto!' ruggisce Cardillac, mi passa davanti correndo a velocità fulminea e scompare. Completamente fuori di me, trovando a mala pena la forza di tenermi in piedi, mi avvicino al caduto. Mi inginocchio accanto a lui:
'Forse - penso - è ancora possibile salvarlo'; ma nessuna traccia di vita. Nel mio terrore mortale mi accorgo appena che sono circondato dalla Maréchaussée: 'Eccone ancora un altro che quei demoni hanno abbattuto... Ehi, giovanotto, che cosa fai qui? Sei uno della banda?... Levati di torno!...". Così gridano varie voci intorno a me e qualcuno tenta di prendermi. Io sono appena in grado di balbettare che in nessun modo avrei potuto commettere un simile orribile delitto e che li pregavo di lasciarmi ritirare in pace, quando uno di essi mi punta sul viso la luce della sua lanterna ed esclama ridendo: 'Ma è Oliviero Brusson, l'apprendista orefice, che lavora dal nostro bravo Cardillac!... Sì!... Sarebbe proprio lui ad assassinare la gente per le strade!... Ma guardatelo un po' se vi sembra il vero tipo dell'assassino perfetto, che si lamenta sul corpo dell'ucciso, per farsi prendere... Su, ragazzo, come è andata? Racconta, presto.' Io racconto che proprio vicino a me un uomo era sbucato all'improvviso dalle tenebre addosso a quello che ora giaceva lì a terra, lo aveva abbattuto ed era scappato via con la rapidità del lampo quando io avevo gridato. E io avevo voluto vedere se fosse stato possibile fare ancora qualcosa per quel disgraziato. 'Proprio no, ragazzo mio,' - dice uno degli uomini che aveva frattanto sollevato il cadavere. - 'Costui è spacciato: il colpo di pugnale, come al solito, gli ha trapassato il cuore.' 'Diavolo!' - dice un altro - 'siamo ancora una volta arrivati troppo tardi, come ieri sera.' E così dicendo si allontanano portandosi via il cadavere.
Quello che io provavo, è ben difficile dirlo a parole: mi toccavo, come per assicurarmi che non ero in preda a un brutto sogno: aspettavo di risvegliarmi da un momento all'altro e di dovermi stupire della pazza larva ingannevole. Cardillac... il padre della mia Madelon... uno scellerato assassino!... Ero caduto esausto sui gradini di una casa. Il mattino avanzava: un cappello da ufficiale, riccamente ornato di piume, era a terra davanti a me. La sanguinaria azione di Cardillac, perpetrata in quel luogo stesso dove io sedevo, mi rinacque davanti in tutta la sua chiarezza. Atterrito fuggii. Scosso fin nel profondo, incapace di radunare i miei pensieri, me ne stavo nel mio abbaino: ed ecco la porta si apre piano e René Cardillac entra. 'In nome di Cristo! Che cosa volete qui?...' gli grido. Lui, non prestando al mio grido nessuna attenzione, avanza verso di me e mi sorride con una tale calma e una tale bonomia, che l'orrore dell'anima mia ne è raddoppiato. Avvicina un vecchio sgabello mangiato dai tarli e si mette a sedere vicinissimo a me, poiché io non trovo nemmeno la forza di alzarmi dal giaciglio di paglia, su cui mi ero gettato. 'Ebbene, Oliviero, come va la vita? Povero ragazzo - comincia a dire, - davvero ho avuto una fretta un po' eccessiva, scacciandoti da casa mia. Tu mi manchi da tutte le parti. Soprattutto in questo momento, in cui ho per l'appunto tra le mani un lavoro che non posso finire senza di te. Che cosa ne diresti di ritornare a lavorare nella mia bottega?... Non rispondi?... Sì, lo so, ti ho offeso... Non volevo lasciarti ignorare che ero irritato con te per via del tuo amoreggiare con la mia Madelon. Ma poi ho considerato a lungo la cosa tra me e ho trovato che per la tua diligenza, la tua abilità, la tua fedeltà, non potevo augurarmi genero migliore di te. Su, vieni con me e guarda un po' di fare in modo di guadagnarti in moglie Madelon'.
Le parole di Cardillac mi passarono il cuore, trasalii davanti alla sua perfidia, non riuscivo a pronunciare parola.
'Tu esiti - continuò, in tono tagliente, mentre lo scintillio dei suoi occhi mi passava attraverso. - Forse oggi non puoi venire con me! Hai altre cose in mente!... Forse stai meditando di andare a cercare Desgrais o addirittura di farti introdurre da d'Argenson o La Reynie.
Ma stai ben attento, ragazzo, che gli artigli che tu vuoi sfoderare per afferrare altri a loro rovina, non afferrino te stesso, dilanianti.' Allora il mio animo profondamente rivoltato traboccò:
'Che coloro - grido - che hanno da rimproverarsi infami delitti, temano questi nomi, che voi avete or ora pronunciato: io no; io non ho niente da temere, non ho niente a che fare con loro'.
'E se vogliamo bene considerare la cosa, Oliviero, - continua intanto a dire Cardillac, - per te sarebbe sempre un onore lavorare con me, con me che sono l'orafo più famoso del mio tempo, altamente stimato in ogni luogo a causa della sua rettitudine e della sua lealtà, tanto che qualsiasi maligna calunnia ricadrebbe sul capo del calunniatore... Per quello poi che riguarda Madelon, devo confessarti che a lei soltanto devi la mia attuale generosità. Ti ama con una violenza che io non avrei mai potuto sospettare in quella dolce creatura. Appena partito tu immediatamente mi si precipitò ai piedi, mi abbracciò le ginocchia e tra un fiume di lacrime mi confessò che senza di te non poteva più vivere. Io pensavo che se lo mettesse in mente lei, come succede quasi sempre a queste ragazzine innamorate, che vogliono morire subito, quando il primo cascamorto le guarda con piacere. Ma invece la mia Madelon diventava ogni giorno più cagionevole di salute e quando io cercavo di distoglierla dalla sua follia, essa mi andava ripetendo migliaia di volte il tuo nome. Che cosa dovevo fare, alla fine? Dovevo lasciare che si disperasse?... Ieri sera le ho detto che acconsentivo a tutto e che venivo a prenderti. E in una notte è rifiorita come una rosa e ti aspetta con ansia fuori di sé dal desiderio d'amore.' Che il Cielo mi perdoni: ma io non so davvero come accadde che a un tratto mi trovai nella casa di Cardillac che Madelon esclamando forte nella più grande esaltazione: 'Oliviero... Mio Oliviero... Mio amato... Mio sposo...' si buttò su di me, tra le mie braccia, mi strinse al seno; che io nell'eccesso della mia estatica dolcissima gioia giurai per la Santa Vergine e per tutti i santi che mai e poi mai l'avrei abbandonata!".
Scosso dal ricordo di quel momento tanto decisivo Oliviero fu costretto a fermarsi. La signorina di Scudéry, piena di raccapriccio per la criminalità di un uomo che fino a quel momento essa aveva considerato l'onestà, la virtù in persona, gridò: "Ma è spaventoso!... René Cardillac appartiene a quella banda di assassini, che per tanto tempo ha fatto della nostra buona città un covo di banditi?". "Che cosa dite, signorina? disse Oliviero. - Alla banda? Ma non è mai esistita nessuna banda del genere! Era Cardillac solo che nella sua scellerata infame attività cercava e trovava in tutta la città le vittime dei suoi massacri! E in questo appunto, nel fatto che era solo, consisteva tutta la sicurezza, con la quale riusciva a portare a termine le sue imprese e la insormontabile difficoltà di poter trovare le tracce dell'assassino. Ma lasciatemi continuare! Il seguito vi spiegherà i segreti dell'uomo più infame e nello stesso tempo più infelice tra quanti ne vivono. Ognuno può facilmente immaginarsi quale fosse allora la mia posizione nei confronti del mio padrone. Il passo era stato fatto, non potevo più tornare indietro. A tratti avevo la tremenda impressione di essere diventato il complice assassino di Cardillac, soltanto nell'amore di Madelon dimenticavo il travaglio del mio spirito, soltanto vicino a lei mi riusciva di sentire attutito, di cancellare anche ogni traccia esteriore di quel tormento senza nome.
Durante il lavoro comune nella bottega, non mi era possibile guardare in viso il padrone, per il raccapriccio sapevo appena tirar fuori qualche parola in presenza di quell'uomo spaventoso che riuniva in sé e praticava tutte le virtù del padre giusto e affettuoso, del cittadino onesto, mentre la notte copriva i suoi empi delitti.
Madelon, figlia pia, buona come un angelo, idolatrava suo padre. Mi sanguinava il cuore, pensando a volte che se la vendetta degli uomini avesse un giorno raggiunto lo scellerato sotto la sua maschera, colei che davvero era stata ingannata con tutta la perfida astuzia di Satana, avrebbe dovuto soggiacere alla più atroce disperazione.
Sarebbe bastato questo unico pensiero a chiudermi la bocca, avessi dovuto scontarne la pena con la morte riservata ai criminali. Per quanto i discorsi della Maréchaussée me l'avessero fatto conoscere abbastanza, lo scopo dei delitti di Cardillac rimaneva tuttavia per me un enigma, come pure il modo in cui li portava a termine. La spiegazione non si fece attendere a lungo. Un giorno Cardillac, il quale di solito, cosa che aumentava maggiormente il mio orrore, si mostrava durante il lavoro dell'umore più gaio e sereno, rideva e scherzava, rimaneva invece serio e raccolto in sé. A un tratto buttò lontano il gioiello a cui stava appunto lavorando, così che ne caddero da tutte le parti perle e diamanti confondendosi tra loro, si alzò in piedi violentemente e disse:
'Oliviero!... Tra noi due non può più andare avanti così: i nostri rapporti mi sono insopportabili. Quello che alla sottilissima astuzia di Desgrais e dei suoi soci non è stato dato di scoprire, il caso te lo ha gettato quasi per gioco tra le mani. Tu mi hai visto nel mio lavoro notturno, al quale mi spinge la mia cattiva stella e contro il quale non è possibile opporsi. Ed è stata anche la tua cattiva stella che ti ha permesso di seguirmi, che ti ha avvolto in veli impenetrabili, che ha dato al tuo passo la leggerezza per cui tu potessi vagare senza essere sentito, come il più minuscolo tra gli animali, e io, che nella notte vedo, simile a tigre, chiaro come durante il giorno, che afferro nelle vie il più lieve rumore, il vibrare delle ali di una zanzara, non ti ho visto né ti ho udito.
Non è più il caso di pensare a un tradimento, data la tua posizione di oggi. Ed è questa la ragione per la quale ora saprai tutto.' 'Mai, mai più sarò il tuo complice, assassino!': così avrei voluto gridare, ma quell'interno terrore che mi aveva preso alle prime parole di Cardillac mi strinse la gola. Invece di parole, potei soltanto emettere un suono incomprensibile. Cardillac andò di nuovo a sedersi nella sua sedia da lavoro. Asciugò il sudore che copriva la sua fronte. Sembrava molto commosso dal ricordo di tempi passati, tanto da potere solo a fatica raccogliersi. Finalmente cominciò a dire:
'Uomini sapienti parlano molto delle impressioni strane, di cui le donne in stato interessante sono passibili, e del singolarissimo meraviglioso influsso di esse, vivaci e involontarie come sono, sul bambino. Di mia madre mi è stata raccontata una fantastica storia. Al primo mese della sua gravidanza, essa assisteva con altre donne a una festa di Corte al Trianon. Il suo sguardo cadde allora su un cavaliere vestito alla spagnola, che portava al collo una collana di pietre preziose e non le riusciva di smettere di guardarlo. Tutto il suo essere non fu più che il desiderio spasmodico di raggiungere quelle pietre preziose che con il loro brillare apparivano ai suoi occhi un bene ultraterreno. Lo stesso cavaliere, molti anni prima, quando mia madre non era ancora sposata, aveva insidiato la sua virtù, ma era stato allora respinto con disgusto. Mia madre lo riconobbe, ma in quel momento egli fu per lei, nello splendore di quei raggianti diamanti, una creatura superiore, in possesso di ogni bellezza. Il cavaliere notò gli sguardi focosi, infiammati di desiderio di mia madre. Si lusingò di essere questa volta più fortunato con lei, di quanto che non fosse stato un tempo. Seppe avvicinarlesi, non basta, seppe toglierla dalla compagnia dei suoi parenti e attirarla in un solitario angolo del parco. Là egli la strinse appassionatamente nelle sue braccia, mia madre afferrò la bella collana, ma nello stesso istante egli cadde e trascinò con sé mia madre al suolo. Sia che fosse stato colpito all'improvviso da un colpo apoplettico, o sia per qualche altra ragione, egli era morto. Vani furono tutti gli sforzi disperati di mia madre per strapparsi dalle braccia del cadavere irrigidite nel crampo della morte. Con i suoi vuoti occhi, di cui ogni forza visiva s'era spenta, fissati su lei, il morto si rotolava con lei al suolo.
Il suo acuto grido di aiuto giunse infine alle orecchie di gente che si trovava a passare in lontananza: costoro si affrettarono a venire a toglierla all'abbraccio del suo raccapricciante amante. Lo spavento gettò mia madre gravemente malata e a lungo nel suo letto. Diedero lei, diedero me che dovevo nascere per spacciati, ma essa guarì e il parto fu più felice di quanto si fosse osato sperare. Ma i terrori di quell'istante pauroso mi avevano colpito. La mia cattiva stella era sorta e aveva irraggiato verso di me la scintilla che doveva accendere nel mio seno una delle più singolari e funeste passioni. Già fin dalla mia più tenera infanzia non volevo altro, non mi piaceva altro che diamanti splendenti, che gioielli d'oro. La cosa fu considerata come una qualsiasi mania infantile. Ma era qualcosa di diverso, perché cresciuto rubavo oro e gioielli, dappertutto dove potevo trovarli.
Come il conoscitore più consumato io distinguevo per istinto le perle preziose vere da quelle false. Soltanto queste mi attraevano, le false e l'oro coniato non mi interessavano affatto. Questo violento desiderio innato dovette piegarsi sotto le tremende punizioni di mio padre e allora per trattare soltanto le pietre preziose e l'oro mi rivolsi al mestiere di orafo. Lavorai con passione e diventai ben presto il primo maestro di quest'arte. Cominciò allora un periodo, in cui l'innato impulso, per tanto tempo represso, si sprigionò con violenza, crebbe fortissimo, distruggendo intorno a sé ogni cosa. Non appena avevo terminato e consegnato un gioiello, cadevo in uno stato di irrequietezza, di sconforto, che mi rapiva sonno, salute, volontà di vita. Come uno spettro, notte e giorno, la persona del mio cliente mi stava davanti agli occhi e una voce mi diceva all'orecchio: 'E' tuo... Ma è tuo... E prendilo dunque.. Che cosa servono i diamanti ai morti?...'. E io mi diedi allora al furto. Avevo libero ingresso nelle case dei Grandi, presto presi a trarre profitto da ogni occasione, non c'era serratura che resistesse alla mia abilità e in poco tempo il gioiello a cui avevo lavorato era di nuovo nelle mie mani. Ed ecco che questo non servì più a cacciare la mia inquietudine. Quella voce sinistra si faceva pur sempre udire in me, mi scherniva dicendo: 'Ah! Ah! I tuoi gioielli... è un morto che li porta...'. Neppure io seppi come mi assalì l'odio più inesprimibile verso coloro per i quali avevo finito un lavoro. Sì! Nel profondo del mio animo cresceva una voglia di sangue, davanti alla quale io stesso inorridivo e sussultavo d'orrore. In quel tempo appunto comprai questa casa. Mi ero accordato con il proprietario e sedevamo tutti e due in questa stanza contenti dell'affare concluso e bevevamo un fiasco di vino. Era scesa la notte, feci l'atto di alzarmi, quando il venditore mi disse: 'Sentite, mastro René, prima che ve ne andiate devo ancora rivelarvi un segreto di questa casa.' E così dicendo aprì uno degli armadi incassati nella parete, ne fece scorrere il fondo, entrò in un piccolo locale, si chinò, sollevò il coperchio di una botola. Scendemmo per una scala stretta e ripida, arrivammo a una piccola porta che aprì, uscimmo all'aperto nel cortile. Il vecchio signore che mi aveva venduto la casa si diresse allora al muro, fece scorrere un ferro lievemente sporgente e immediatamente una parte del muro girò su se stessa, lasciando spazio a un passaggio, attraverso il quale un uomo avrebbe potuto comodamente insinuarsi e raggiungere la strada. Potrai vedere un giorno l'artificio, Oliviero, che con grande probabilità fu fatto fare da furbi monaci di un chiostro, che anticamente sorgeva in questo luogo, per poter di nascosto entrare e uscire. E' un intavolato, ricoperto solo all'esterno di calce e di intonaco, nel quale dall'esterno è stata collocata una statua pure di legno ma perfettamente simile alle altre tanto da sembrare di pietra anch'essa, che gira insieme al basamento su cardini invisibili. Pensieri tenebrosi sorsero in me alla vista di questo dispositivo; era come se fosse lì predisposto da tempo per mandare a compimento cose che rimanevano tuttora per me nel mistero. Avevo appunto consegnato a un signore della corte un gioiello ricchissimo che, lo sapevo, era destinato a una ballerina dell'Opera. Il tormento della morte non mi lasciò... lo spettro si attaccava a tutti i miei passi... Satana sussurrante al mio orecchio... Venni a vivere in questa casa. Bagnato dal sudore di sangue della paura, mi giravo insonne nel mio letto.
Vedo in sogno l'uomo introdursi furtivamente nelle stanze della danzatrice con il mio gioiello. Nel mio esasperato furore salto su... mi getto addosso un mantello, scendo per la scala segreta... esco attraverso il passaggio del muro nella rue Saint-Nicaise... Quello viene... Gli piombo addosso, grida, ma stringendolo saldamente da dietro gli pianto il pugnale nel cuore... il gioiello è mio!... Fatto questo, sentii in me una calma, una contentezza dell'anima, come mai prima di allora. Lo spettro si era dileguato, la voce di Satana taceva. Ora sapevo che cosa voleva da me la mia cattiva stella: era necessario cederle o morire. Tu capisci adesso tutta la mia condotta, Oliviero, tutte le mie azioni. Non credere che, obbligato a fare quello che non posso non fare, io abbia rinunciato bellamente a quel sentimento di compassione, di pietà, che dovrebbe essere innato nella natura dell'uomo. Tu sai quanta pena mi costi la consegna di un'ordinazione, tu sai come per molta gente, di cui non voglio la morte, io non lavori, come, per quanto sappia che solo il sangue caccerà lontano da me domani il mio fantasma, oggi mi accontenti di abbattere con un buon pugno il possessore dei gioielli per riaverli in mia mano.' Dopo avermi detto tutto questo Cardillac mi portò nel sotterraneo segreto e mi permise di contemplare i tesori della sua collezione di preziosi. Il re non ne possiede una più ricca. Un cartello appeso a ogni pezzo, mostrava chiaramente e con precisione annotato per chi il lavoro era stato fatto e quando era stato ripreso con il furto, la rapina o l'assassinio.
'Il giorno delle tue nozze - disse Cardillac con voce profonda e solenne - tu mi farai, Oliviero, giuramento sacro, sulla santa immagine del Crocifisso di Cristo, di distruggere alla mia morte tutte queste ricchezze, mediante un procedimento che ti renderò noto; non voglio che creatura umana, ultimi degli ultimi Madelon e te, venga in possesso di un bene acquistato con il sangue.' Imprigionato in un tale labirinto di atrocità, conteso e dilaniato dall'amore e dal ribrezzo, dalla delizia e dall'orrore, ero da paragonare a quel condannato, a cui un angelo soave dolce sorridendo fa cenno dall'alto, ma saldo lo attanaglia con infocate tenaglie Satana e il sorriso amoroso dell'angelo pio diventa per lui, riflettendo in sé la beatitudine tutta del cielo, il più crudele dei suoi tormenti. Pensavo alla fuga... al suicidio... ma Madelon!... Biasimatemi, biasimatemi, signorina, di essere stato troppo debole per vincere e annientare una passione che mi teneva incatenato al delitto: ma non ne sconto ora la pena con la più tremenda delle morti? Un giorno Cardillac rientrò a casa insolitamente sereno. Accarezzò Madelon, gettò a me occhiate affettuose, bevette a tavola una bottiglia di vino pregiato, cosa che era solito fare soltanto nei giorni di festa solenne, cantò, si mostrò giubilante. Madelon ci aveva lasciati: mi alzai per andare nella bottega. 'Rimani seduto, ragazzo! - mi gridò Cardillac. - Basta lavorare per oggi! Vieni, beviamo alla salute della più degna, della più eccellente dama di Parigi!'. Dopo che ebbi scontrato il suo bicchiere con il mio e che egli ne ebbe vuotato uno pieno, disse: 'Dimmi un po' Oliviero, se non ti piacciono questi versi:
Un amant qui craint les voleurs
n'est point digne d'amour.'
E raccontò quello che era accaduto tra voi e il re nelle stanze della Maintenon e aggiunse che vi aveva sempre tenuta alta nella sua stima come nessun'altra persona al mondo: soltanto voi, dotata di tanta sublime virtù da far impallidire in sua presenza come priva di forza la sua cattiva stella, avreste potuto portare i più splendidi gioielli usciti dalle sue mani, senza suscitare in lui il fantasma del male e pensieri di sangue e delitto.
'Ascolta, Oliviero - disse - che cosa ho deciso di fare. Da molto tempo avevo una commissione per Enrichetta d'Inghilterra: braccialetti e collana, per i quali dovevo io stesso fornire le pietre. Il lavoro mi è riuscito come fino ad oggi nessun altro e mi si spezzava il cuore al pensiero che avrei dovuto separarmi da quello che era diventato il mio gioiello preferito. Tu sai come la principessa sia morta vittima di un assassinio. Io ho trattenuto i gioielli e ora voglio mandarli come segno della mia devozione rispettosa e della mia riconoscenza alla signorina di Scudéry a nome della banda perseguitata. Così, mentre da una parte la Scudéry riceve un segno tangibile del suo trionfo, io mi faccio bellamente beffe, come si meritano, di Desgrais e dei suoi soci. Sarai tu a portarle le gioie.' E, per me fu, nel momento in cui Cardillac pronunciò il vostro nome, signorina, come se neri veli fossero scostati e il quadro bello e luminoso della mia prima infanzia si innalzasse davanti ai miei occhi nei suoi variopinti e lucenti colori. Un meraviglioso senso di conforto crebbe nella mia anima, un raggio di speranza, per cui gli spiriti delle tenebre scomparvero. Cardillac poté accorgersi dell'impressione che le sue parole avevano prodotto su di me, interpretarla a modo suo. 'Sembra che la mia proposta ti vada a genio - disse. - Confesso che una voce dal più remoto angolo di me stesso mi ha comandato di fare questo, una voce ben diversa da quella che pretende da me vittime sanguinose come un carnivoro affamato... A volte provo un sentimento così strano... una paura interna, il timore di qualcosa di spaventoso, che trapassa nel tempo librandosi da un mondo al di là e il cui brivido d'orrore mi afferra violento. Arrivo allora a credere che il male compiuto attraverso le mie azioni dalla mia cattiva stella, possa venire attribuito alla mia anima immortale, che in esso non ha mai avuto nessun ruolo. In una tale situazione di spirito decisi di fare una bella corona di diamanti alla Vergine della chiesa di Sant'Eustazio. Ma quella incomprensibile paura mi cadde addosso ogni volta che intrapresi il lavoro e ogni volta più forte ed ora l'ho tralasciato del tutto. Mi sembra adesso di portare un'offerta in umiltà d'omaggio alla personificazione della virtù e della pietà, e che ricorro a una potente patrona, inviando alla signorina di Scudéry i più magnifici gioielli che io abbia mai lavorato.' Cardillac, che è al corrente nel modo più minuto e preciso del vostro modo di vita, mi indicò allora la maniera e l'ora in cui io avrei dovuto portarvi il gioiello, che aveva intanto racchiuso in una graziosa cassettina.
Tutta la mia anima era in estasi, poiché proprio attraverso quello scellerato di Cardillac io stavo per trovare la via, e il cielo stesso me la mostrava, per salvarmi dall'inferno, nel quale mi trascinavo, miserabile, abbandonato peccatore. Io pensavo così. Opponendomi alla volontà di Cardillac, volli spingermi fino a voi. Io, il figlio di Anna Brusson, il vostro beniamino, pensavo di gettarmi come tale appunto ai vostri piedi e rivelarvi tutto... tutto. Voi avreste conservato il segreto, commossa dalla infinita miseria che minacciava la povera innocente Madelon da questa rivelazione, ma la vostra mente acuta e superiore avrebbe senza dubbio trovato il mezzo sicuro di distruggere la scellerata perfidia di Cardillac anche senza quella rivelazione. Non chiedetemi quali avrebbero potuto dunque essere questi famosi mezzi, non lo so proprio... ma che voi avreste salvato Madelon e me, questo sì, questo lo credevo fermamente nell'anima mia, con la stessa fede che porto all'aiuto confortatore della Santissima Vergine. Voi sapete, signorina, che il mio progetto fallì quella notte. Ma io non abbandonai la speranza di essere più felice una prossima volta. E a un tratto capitò che Cardillac perse tutta la sua serenità. Si aggirava fosco per la casa, guardava davanti a sé con gli occhi fissi, mormorava parole inintelligibili, combatteva con la mano stendendola in avanti quasi a difendersi e a cacciare un'essenza nemica, il suo spirito sembrava tormentato da pensieri del male. Così aveva passato un'intera mattina. Alla fine andò a sedersi al suo tavolo di lavoro, poi si rialzò tutto scoraggiato, guardò fuori attraverso la finestra e disse serio e cupo: 'Eppure vorrei che Enrichetta d'Inghilterra avesse portato i miei gioielli!'. Queste parole mi riempirono di orrore. Sapevo ora che il suo spirito conturbato era stato di nuovo preso dal demone dell'assassinio e che la voce di Satana si era ancora una volta fatta sentire alle sue orecchie. Vidi la vostra vita minacciata da questo demonio omicida. Se Cardillac avesse riavuto nelle mani il suo gioiello, voi sareste stata salva. Il pericolo cresceva di momento in momento. Vi incontrai allora sul Pont-Neuf, mi spinsi fino alla vostra carrozza, vi gettai quel biglietto, in cui vi scongiuravo di portare immediatamente a Cardillac il gioiello ricevuto. Voi non venivate. La mia ansia paurosa cresceva fino a diventare disperazione, quando il giorno seguente Cardillac d'altro non parlò che del suo prezioso gioiello, comparso durante la notte ai suoi occhi. Necessariamente dovevo mettere in relazione questi discorsi con il gioiello inviato a voi ed ero convinto che stesse covando un assassinio, proponendosi di realizzarlo forse già nella notte seguente. Dovevo salvarvi, ne andasse pure la vita di Cardillac. Quando Cardillac, secondo il suo costume, si fu chiuso nella sua stanza dopo la preghiera serale, io scesi in cortile attraverso una finestra, mi insinuai per l'apertura nel muro e mi appostai non lontano, dove l'ombra era più spessa. Non passò molto tempo che Cardillac uscì e prese a risalire cautamente la strada. E io dietro. Si diresse alla rue Saint-Honoré: ebbi un sussulto. Cardillac era improvvisamente sparito alla mia vista. Decisi di appostarmi sotto il vostro portone. Ed ecco arrivare, cantando e fischiettando un motivo, proprio come la prima volta, in cui il caso mi aveva fatto spettatore dell'attività omicida di Cardillac, un ufficiale, che mi passa davanti senza accorgersi di me. Ma nello stesso istante una nera figura balza fuori in avanti e piomba su di lui. E' Cardillac. Voglio impedire questo assassinio, lancio un urlo e in due o tre balzi sono sul posto... non è l'ufficiale è Cardillac che cade al suolo rantolante. L'ufficiale lascia cadere il pugnale, tira fuori la spada dal fodero, e pensando che io sia il compare dell'assassino, mi si fa incontro pronto alla lotta, ma poi come vede che senza affatto curarmi di lui, mi curvo sul cadavere, si allontana in fretta. Cardillac viveva ancora. Dopo aver raccolto il pugnale che l'ufficiale aveva lasciato cadere a terra, mi caricai Cardillac sulle spalle e con grande fatica lo trasportai a casa e attraverso il passaggio segreto nella bottega. Il resto vi è noto. Voi vedete, signorina, che il mio unico delitto consiste nel non aver mai denunciato alla giustizia il padre della mia Madelon e nel non avere di conseguenza posto fine alla sua delittuosa attività. Io sono puro di ogni macchia di sangue. Nessuna tortura riuscirà mai a strapparmi il segreto degli scellerati delitti di Cardillac. Non voglio agire contro i decreti della Provvidenza eterna, che fino ad ora ha coperto con un velo impenetrabile agli occhi della virtuosa figlia le atroci colpe di sangue del padre, cosicché tutta la miseria del passato si getti impetuosa su di lei stroncandola, non voglio che la vendetta del mondo tolga con violenza bestiale il cadavere alla terra che lo copre, non voglio che il boia bolli ora a fuoco con il marchio dell'infamia le sue membra putrefatte. No!... la fidanzata dell'anima mia mi piangerà come innocente ingiustamente caduto, il tempo lenirà il suo dolore, ma insuperabile sarebbe lo strazio per gli orrendi crimini d'inferno di un padre tanto amato".
Oliviero tacque, ma ecco che un torrente di lacrime gli sgorgò dagli occhi, si gettò ai piedi della signorina di Scudéry e la scongiurò:
"Voi siete convinta... sì, voi siete convinta della mia innocenza... Abbiate compassione di me e ditemi che cosa ne è di Madelon...".
La signorina di Scudéry chiamò la Martinière e dopo pochi istanti Madelon volava tra le braccia di Oliviero. "Tutto va bene ora, dal momento che tu sei qui... oh sì lo sapevo che questa eccellente signorina ti avrebbe salvato!", così andava esclamando una volta dopo l'altra Madelon e Oliviero dimenticò il suo destino, dimenticò tutto ciò che gli incombeva minaccioso, fu libero e beato. Si lamentarono tutti e due nel più commovente dei modi di quello che l'uno per l'altra aveva dovuto soffrire e di nuovo si abbracciavano e piangevano nell'estasi d'essersi ritrovati.
Se la signorina di Scudéry non fosse già stata convinta dell'innocenza di Oliviero, ne avrebbe dovuto acquistare allora la certezza al vedere i due dimenticare nella beatitudine del loro fortissimo legame d'amore e il mondo e la loro miseria e il loro indicibile soffrire. "No - disse a se stessa - una tale beata facoltà di dimenticare è data solo a un cuore puro".
I chiari raggi del mattino si facevano strada attraverso i vetri delle finestre. Desgrais batté alcuni colpi leggeri alla porta della stanza e ricordò come fosse ormai tempo di portare via Brusson, poiché il fatto non avrebbe potuto avvenire più tardi che con schiamazzo di popolo. Gli amanti dovettero separarsi.
Gli oscuri presentimenti, che avevano turbato lo spirito della signorina di Scudéry fin dalla prima comparsa di Oliviero nella sua casa, avevano preso una tremenda e reale consistenza. Essa vedeva il figlio della sua cara Anna preso innocente fra tragici lacci, tanto che il salvarlo da una orribile morte sembrava a fatica pensabile.
Onorava l'eroico sentimento del giovane, che preferiva morire carico di colpe e di accuse, piuttosto che rivelare un segreto che di necessità avrebbe causato la morte della sua Madelon. Non riusciva a trovare nel regno tutto delle diverse possibilità, quella che le avrebbe concesso di strappare l'infelicissimo al crudele tribunale di sangue. E tuttavia salda era ormai nel suo cuore la decisione di non indietreggiare davanti a nessun sacrificio, per allontanare un'ingiustizia in procinto di essere commessa e che gridava al cielo tutta la sua iniquità. Con mille piani e progetti si andava di continuo tormentando, che rasentavano perfino la stravaganza dell'avventura e che respingeva con la stessa rapidità con cui li aveva concepiti. E sempre più scompariva ogni barlume di speranza, spingendola in braccio alla disperazione. Ma la fiducia assoluta, infantile, pia di Madelon, l'adorazione con cui essa parlava del fidanzato, che in breve assolto da tutte le accuse che gli venivano mosse l'avrebbe abbracciata sua sposa, riportarono la signorina in quella stessa condizione di spirito di quando, per la prima volta, si era sentita commossa fino nel profondo del cuore a contatto delle loro sventure.
Per fare dunque alla fine qualcosa di pratico, la signorina di Scudéry scrisse una lunga lettera a La Reynie in cui gli diceva come Oliviero Brusson le avesse dimostrato nel modo maggiormente degno di fede la sua innocenza nei confronti della morte di Cardillac e come soltanto l'eroica decisione di portare con sé nella tomba un segreto, la rivelazione del quale avrebbe portato alla rovina l'innocenza e la virtù stesse, lo trattenesse dal fare davanti al tribunale una deposizione, che lo avrebbe liberato completamente dall'accusa di assassinio per la morte di Cardillac, non solo, ma anche dall'accusa di appartenere alla banda degli scellerati assassini. Tutta la forza di uno zelo ardente, dell'eloquenza del cuore era stata adoperata dalla signorina per muovere a sentimenti di umanità il duro cuore di La Reynie. Poche ore più tardi La Reynie rispose di rallegrarsi proprio di cuore per il fatto che Oliviero Brusson si fosse pienamente giustificato agli occhi della sua protettrice, della sua degnissima protettrice. Per quello poi che riguardava l'eroica decisione di Oliviero di portare con sé nella tomba un segreto concernente il delitto, era invece molto dispiacente che la Chambre ardente non potesse nutrire al riguardo lo stesso sentimento di stima ammirata, che anzi avrebbe dovuto con energici mezzi spezzare ogni eroismo dello stesso genere. Contava di venire nel termine di tre giorni in possesso di un tale strepitoso segreto, che in realtà avrebbe senza dubbio portato alla luce del giorno prodigi avvenuti.
Troppo bene sapeva la signorina di Scudéry che cosa intendeva quell'uomo spaventoso per mezzi energici che avrebbero spezzato l'eroismo di Oliviero. Ormai era certo che sulla testa dell'infelice pendeva la tortura. Nella sua ansia mortale venne in mente alla signorina che, almeno allo scopo limitato di ottenere una proroga, sarebbe tornato utile il consiglio di un giureconsulto. Pierre-Arnaud d'Andilly era allora il più celebre avvocato di Parigi. La profondità della sua scienza, la comprensività del suo intelletto uguagliavano la sua rettitudine e la sua virtù. Da lui andò dunque la signorina di Scudéry e gli fece un racconto completo del fatto, quanto era possibile farlo senza lasciarsi sfuggire il segreto di Brusson. Si aspettava di vedere d'Andilly prendere con calore la difesa di Oliviero, innocente, ma la sua speranza fu delusa nel modo più amaro. D'Andilly aveva ascoltato ogni cosa fino alla fine con calma attenzione: e sorridendo rispose ora con queste parole di Boileau: 'Le vrai peut quelquefois n'etre pas vraisemblable.' Egli dimostrò alla signorina come i più impressionanti e decisivi motivi di sospetto parlavano contro Brusson, che la linea di condotta seguita da La Reynie non aveva niente di crudele e non poteva dirsi affrettata, che anzi era perfettamente giuridica e diversamente egli non avrebbe potuto agire senza venire meno ai doveri di un giudice. Lui, d'Andilly, non osava sperare, neppure per mezzo della più abile apologia difensiva, di salvare Brusson dalla tortura. Questo era in potere di Oliviero e di lui solo: o con una completa confessione sincera o con la rivelazione precisa delle circostanze in cui si era svolto l'assassinio di Cardillac, che molto probabilmente avrebbero potuto dar luogo a successive nuove ricerche e scoperte.
"E va bene, se le cose stanno così, vado a gettarmi ai piedi del re e chiedo la grazia" disse la signorina di Scudéry, mentre le lacrime le strozzavano la voce. "Per l'amor del cielo, signorina! - gridò d'Andilly - non fate mai una cosa simile! Tenete in serbo quest'ultima estrema risorsa, ché, una volta venuta a mancare, tutto è perduto per voi. Il re non potrà mai graziare un delinquente di tal fatta: i rimproveri più amari del popolo che si sentirebbe ancora in pericolo raggiungerebbero il suo trono. E possibile invece che Brusson con la rivelazione del suo segreto o con qualche altro mezzo riesca a diminuire i sospetti che gravano su di lui. Sarà allora il tempo di ricorrere alla clemenza del re, il quale non andrà ad informarsi di quello che è stato provato davanti alle corti di giustizia, ma consulterà semplicemente la sua intima personale convinzione". La signorina di Scudéry dovette necessariamente cedere alla consumata esperienza di d'Andilly. Immersa in una profonda amarezza, sprofondata nelle sue complicate riflessioni, pensando a quello che in nome della Santissima Vergine e di tutti i santi avrebbe potuto fare a questo punto per salvare l'infelice Brusson, essa sedeva a sera inoltrata nella sua stanza, quando la Martinière entrò, annunciando il conte di Miossens, colonnello della Guardia del re, che desiderava urgentemente parlare con la signorina. "Vogliate scusarmi, signorina, - disse Miossens inchinandosi in un saluto militare,- se io vi importuno a ora così tarda e così sconveniente della sera. Noialtri soldati non possiamo fare diversamente e due parole mi saranno sufficienti per scusarmi con voi. Oliviero Brusson mi porta qui".
La signorina, al colmo dello stupore e dell'attesa di quello che stava per apprendere, esclamò ad alta voce: "Oliviero Brusson!... Il più infelice tra tutti gli uomini?... Che cosa avete di comune con lui?...".
"Sapevo bene - rispose Miossens sorridendo - che il solo nome del vostro protetto sarebbe stato sufficiente a procurarmi un'accoglienza favorevole!... Tutto il mondo è convinto della colpevolezza di Brusson. So che voi siete di diverso parere: esso si basa, a quanto mi è stato detto, su rivelazioni a voi fatte dall'accusato stesso. Per me la cosa sta diversamente. Nessuno può essere più convinto di me dell'innocenza di Brusson nella morte di Cardillac".
"Oh! parlate, parlate!" esclamò la signorina di Scudéry mentre le brillavano gli occhi per la gioia.
"Io stesso - continuò a dire Miossens - io stesso ho abbattuto nella rue Saint-Honoré il vecchio orefice, non lontano dalla vostra casa".
"In nome di tutti i santi!... Voi... Voi..." gridò la Scudéry.
"E vi giuro, signorina - continuò il conte - che sono fiero della mia azione. Sappiatelo: Cardillac era il peggior delinquente, il più scellerato ipocrita: era lui che proditoriamente nella notte assassinava e depredava e tanto a lungo era riuscito a sfuggire a tutti i tranelli. Non so come, ma si fece strada in me un sospetto contro il vecchio mascalzone, quando, in preda a un visibile irrequieto turbamento, venne a portarmi il gioiello che gli avevo ordinato e si informò con grande precisione a chi lo destinavo e quando riuscì a sapere con arte scaltrissima dal mio cameriere come e quando io ero solito andare a visitare una certa signora. Da molto tempo mi aveva fatto impressione un particolare: le infelici vittime del macello orrendo della più atroce rapina presentavano tutte la stessa ferita mortale. Ebbi dunque la certezza che l'assassino era allenato al colpo, che doveva uccidere all'istante, e contava proprio su quello. Fosse andato a vuoto quel colpo, la lotta diveniva alla pari. L'osservazione mi fece adottare una misura precauzionale talmente semplice che proprio non riesco a capire come da tempo non sia potuta venire in mente ad altri, che avrebbero potuto in questo modo far salva la vita dagli attentati del mostro assassino. Indossai sotto il giustacuore una leggera corazza. Cardillac mi attaccò alle spalle. Mi strinse in un abbraccio straordinariamente poderoso, ma il ben diretto e sicuro colpo scivolò sul ferro. In quello stesso istante io mi girai verso di lui e gli piantai nel petto il pugnale che tenevo pronto". "E voi tacete, voi non vi presentate al tribunale a fare la vostra deposizione dell'accaduto?" chiese la signorina di Scudéry.
"Permettete, signorina, - continua Miossens - che io vi faccia notare come una dichiarazione di questo genere, se non potrebbe portare con sé addirittura la mia rovina, certamente mi coinvolgerebbe in un processo per me spiacevolissimo. Mi avrebbe forse prestato fede La Reynie, che dappertutto fiuta il delitto, se io avessi accusato Cardillac, l'onesto, il virtuoso Cardillac, modello di ogni pietà e di ogni virtù, del tentato omicidio? E se la spada della giustizia avesse rivolto precisamente contro me la sua punta?".
"Ma questo non era possibile! - esclamò la signorina di Scudéry,- la vostra nascita... la vostra posizione...".
"Oh, - continuò Miossens, - pensate soltanto al maresciallo di Lussemburgo, che per essersi fatto fare l'oroscopo da Le Sage suscitò contro se stesso il sospetto di omicidio per avvelenamento e si ebbe la Bastiglia. No, per San Dionigi! neppure un'ora della mia libertà, neppure l'estremità delle mie orecchie lascerei in mano a quell'arrabbiato idrofobo di La Reynie, che ci metterebbe tanto volentieri il coltello alla gola a tutti!".
"Ma in questo modo voi portate l'innocente Brusson sul patibolo!".
"Innocente, signorina!? - replicò Miossens. - Chiamate innocente il complice dell'infame Cardillac?... che lo ha assistito in tutte le sue criminali imprese, che ha meritato per questo cento volte la morte?... No, in verità giustamente spargerà quello il suo sangue e se io, stimatissima signorina, vi ho rivelato la vera interdipendenza delle cose, questo è avvenuto in previsione del fatto che voi ne poteste trarre vantaggio per il vostro protetto, senza tuttavia nuocere a me e darmi in balìa della Chambre ardente".
La signorina di Scudéry felice nell'intimo del suo cuore di vedere in modo così evidente confermata la sua convinzione dell'innocenza di Brusson, non esitò a raccontare tutto al conte che già sapeva della criminale attività di Cardillac e a invitarlo ad andare con lei da d'Andilly. A lui ogni cosa, sotto il sigillo della segretezza, sarebbe stata rivelata e lui avrebbe dato il consiglio per gli svolgimenti futuri.
D'Andilly, dopo che la signorina gli ebbe raccontato tutto l'accaduto nella maniera più esatta possibile, si informò ancora una volta dei minimi particolari, delle più insignificanti circostanze. Soprattutto chiese al conte se veramente fosse convinto di essere stato attaccato da Cardillac e se avrebbe ancora potuto riconoscere Oliviero per il giovane che aveva trasportato via il cadavere. "Oltre al fatto, - rispose il conte, - che nella chiara notte lunare riconobbi allora perfettamente il vecchio orefice, ho visto in seguito da La Reynie il pugnale, con cui era stato colpito Cardillac. E' il mio, riconoscibile al delicato lavoro dell'impugnatura. Il giovane mi era lontano non più di un passo, potei quindi osservare tutti i suoi tratti, tanto più che gli era caduto di testa il cappello, cosicché ora lo riconoscerei senza nessuna incertezza".
D'Andilly tacque per alcuni istanti, lo sguardo fisso avanti a sé, poi disse: "Non è il caso di pensare di salvare Brusson dalle mani della giustizia per vie ordinarie. Egli è deciso a non denunciare Cardillac come assassino e ladro per via di Madelon. Può benissimo insistere in questa posizione, poiché, se anche riuscisse a dare la prova dei delitti del suo padrone, con la rivelazione del passaggio segreto e del tesoro ammassato, non potrebbe tuttavia sfuggire alla condanna capitale come complice. La stessa situazione si riproduce se il conte di Miossens svela al giudice la propria avventura con l'orefice, così come essa ha realmente avuto luogo. Una dilazione è l'unica cosa che dobbiamo cercare di ottenere. Il conte di Miossens si presenti alla Conciergerie, si faccia portare davanti Oliviero Brusson e lo riconosca per l'uomo che ha portato via con sé il cadavere di Cardillac. Poi vada in gran fretta da La Reynie e gli dica: "Vidi buttare al suolo un uomo nella rue Saint-Honoré e stavo avvicinandomi al cadavere, quando un altro uomo si fece avanti con un balzo, si chinò sul cadavere, e poiché questo dava ancora segni di vita, se lo caricò sulle spalle e se lo portò via. Quell'uomo l'ho riconosciuto in Oliviero Brusson. Questa dichiarazione porterà con sé come conseguenza necessaria un nuovo interrogatorio, un confronto con il conte di Miossens. Insomma la tortura viene sospesa e l'inchiesta continua.
Sarà tempo allora di rivolgersi al re in persona. E il farlo nel modo più adatto e abile rimane affidato alla vostra acuta e sensibile intelligenza, signorina! Secondo me, sarebbe cosa buona rivelare al re l'intero segreto. Le dichiarazioni di Brusson vengono confermate dal racconto del conte. Ulteriore conferma ci daranno le ricerche nella casa di Cardillac. Non una sentenza, ma la decisione del re, basata sull'intima convinzione del sentimento, che concede la grazia laddove i giudici possono soltanto punire, può dare fondamento alla nostra causa".
Il conte di Miossens seguì alla lettera i consigli di d'Andilly e in realtà accadde tutto quello che costui aveva previsto.
Si trattava dunque di presentarsi al re e questo era il punto più difficile poiché egli, ritenendo Brusson l'unico assassino che per tanto tempo aveva tenuto Parigi nell'ansia e nel terrore, provava nei suoi riguardi un sentimento tale di orrore, che il sentir ricordare anche da lontano quello scellerato processo, lo gettava in una collera violentissima. La Maintenon, fedele al suo principio di non parlare mai al re di cose spiacevoli, rifiutò ogni mediazione: cosicché il destino di Oliviero Brusson si trovò ad essere completamente affidato alla signorina di Scudéry. Dopo lunghe riflessioni lei prese alla fine una decisione che mise in atto con la stessa rapidità con cui l'aveva concepita. Indossò un abito nero di pesante stoffa di seta, si ornò con i preziosi gioielli di Cardillac, si coprì di un lungo velo nero e comparve nelle stanze della Maintenon proprio nell'ora in cui sapeva di potervi incontrare il re. La nobile figura della venerabile signorina aveva in quell'abbigliamento solenne una maestà che risvegliò un senso di profondo rispetto persino in quella varia folla abituata a passare la propria dissipata e inconsistente vita nelle anticamere reali. Ognuno si fece indietro per fare spazio e quando fece il suo ingresso il re stesso si alzò stupito e ammirato e le mosse incontro. Gli brillarono allora negli occhi i preziosi diamanti della collana e dei braccialetti ed egli esclamò: "Quanto è vero il cielo questi sono i gioielli di Cardillac!". E poi rivolgendosi alla Maintenon con un simpatico sorriso: "Vedete, marchesa, - disse, - la nostra fidanzata porta il lutto del suo sposo".
"Oh!... Sire - lo interruppe la signorina di Scudéry, continuando il suo scherzo. - Ma come dunque si converrebbe a una fidanzata immersa nel dolore un tale splendido adornarsi? No, mi sono completamente liberata da quell'orefice e neppure penserei più a lui, se ogni tanto non mi ritornasse alla mente il quadro ripugnante di lui trasportato davanti a me, anzi vicinissimo a me, cadavere assassinato". "Come - chiese il re, voi avete visto quel povero diavolo?". La signorina di Scudéry raccontò allora in breve (senza fare ancora nessun cenno di Brusson) come il caso l'avesse portata davanti alla casa di Cardillac, nel momento appunto in cui era stato scoperto il delitto. Descrisse il selvaggio dolore di Madelon, l'impressione che quella celeste creatura aveva fatto su di lei, il modo in cui, tra la vivissima soddisfazione del popolo, aveva strappato l'infelice dalle mani di Desgrais. Ed ebbero allora inizio, con interesse sempre crescente, le scene con La Reynie... con Desgrais... con Oliviero Brusson stesso... Il re, trascinato dalla forza della vivacissima vita ardente nel racconto della signorina, non si accorse neppure che il discorso si aggirava sul tremendo e disgustoso processo Brusson, non fu capace di pronunciar parola, e soltanto poté emettere di quando in quando un suono esclamativo, che tradiva l'interna commozione. Prima che lui, ancora fuori di sé per le cose inaudite che aveva apprese e ancora incapace di ordinarle nella sua mente, potesse prevederlo, la signorina di Scudéry era ai suoi piedi e implorava grazia per Oliviero Brusson.
"Che cosa fate? - proruppe, mentre prendendole le mani la costringeva a prendere posto in una poltrona. - Signorina!... Voi mi stupite!... mi stupite nel modo più strano!... Ma è veramente una storia spaventosa! Chi si fa garante della verità del racconto di Brusson?".
"La deposizione di Miossens... le ricerche perquisitorie che verranno condotte in casa di Cardillac... l'intima convinzione... e ahimè il cuore virtuoso di Madelon che ha riconosciuto virtù pari alla sua nell'infelicissimo Brusson!...".
Il re stava per rispondere qualcosa, ma in quell'istante scorse Louvois, che lavorava nella stanza accanto, avanzarsi sulla porta del salotto e guardare verso di lui con aria preoccupata. Il re si alzò e seguendo Louvois, passò nella stanza adiacente. Tanto la signorina di Scudéry quanto la marchesa di Maintenon considerarono l'interruzione come veramente dannosa ai loro fini, poiché, preso una volta di sorpresa, il re poteva ora mettersi in guardia e non lasciarsi sorprendere di nuovo. Ma, erano passati pochi minuti, il re rientrò nella sala, camminò su e giù per qualche tempo, a passo veloce, venne a mettersi poi, le mani intrecciate sul dorso, davanti alla signorina di Scudéry e, senza guardarla in viso, disse a bassa voce: "Mi piacerebbe vedere la vostra Madelon!". "O mio grazioso Sire - esclamò in risposta a lui la Scudéry - quale alta... alta felicità vi degnate di concedere alla povera e disgraziata bambina... oh! un cenno vostro è necessario e vedrete la piccola ai vostri piedi!...". Trottando allora più in fretta che poteva verso la porta, impedita com'era dai pesanti vestiti, essa gridò a qualcuno che il re voleva vedere Madelon Cardillac: poi ritornò indietro e pianse e singhiozzò di commozione e di gioia. Nel presentimento di un tale favore, la signorina di Scudéry aveva portato con sé Madelon, che stava in attesa presso la cameriera della marchesa di Maintenon con una breve supplica, redatta da d'Andilly, tra le mani. In pochi istanti lei si trovò alla presenza del re, inginocchiata ai suoi piedi, ma incapace di pronunciare una sola parola. Il timore, la sorpresa, il timido rispetto, il dolore e l'amore agitavano sempre più violentemente il sangue nelle vene della povera creatura; le sue guance erano in fiamme: dagli occhi attraverso le lunghe ciglia di seta scendevano lacrime grosse e brillanti come perle a bagnare il seno candido e grazioso.
Il re sembrò colpito dalla meravigliosa bellezza dell'angelica fanciulla. Con un gesto pieno di dolcezza la sollevò e fece un movimento come se volesse baciare la mano che teneva tra le sue. Ma la lasciò libera e continuò a fissarla con occhi umidi di lacrime, che tradivano la commozione del suo animo. A voce bassissima sussurrò la marchesa di Maintenon alla signorina di Scudéry: "Ma non assomiglia prodigiosamente in ogni tratto del suo volto alla La Vallière, la piccola?... Il re si è abbandonato ai più dolci ricordi... La vostra causa è vinta...". Per quanto queste parole fossero state sussurrate a voce bassa, sembrò tuttavia che il re le avesse afferrate. Una fuggitiva vampa di rossore gli colorò il volto, il suo sguardo sfiorò rapidamente la Maintenon, lesse la supplica che gli veniva tesa e disse poi in tono dolce e benigno: "Sono propenso a credere, mia cara figliola, che tu sia convinta dell'innocenza del tuo amato: ché non potrebbe essere altrimenti: ma sentiamo un po' che cosa pensa a questo proposito la Chambre ardente!".
Un lieve gesto della mano licenziò la piccola, che sembrava stesse per annegare tra le sue lacrime. Con suo grande spavento la signorina di Scudéry si accorse che il richiamo alla La Vallière, in un primo momento favorevole alla fanciulla, sembrava ora invece aver cambiato la disposizione dell'animo del re, dopo che la Maintenon aveva pronunciato quel nome. Poteva darsi che il re si fosse sentito avvertire, in una maniera non troppo delicata, che era sul punto di sacrificare la giustizia alla bellezza: o forse accadde a lui, come a colui che svegliato bruscamente dal suo sogno, vede scomparire in un baleno le belle immagini che credeva di poter afferrare. O forse ancora non vide più a un tratto davanti a sé la sua La Vallière, ma pensò soltanto a "soeur Louise de la Miséricorde" (questo era il nome che la La Vallière aveva preso entrando come religiosa presso le carmelitane), che lo tormentava con la sua pietà e con le sue penitenze. E che cosa rimaneva da fare ormai, se non attendere con pazienza la decisione del re? Intanto era diventata nota la deposizione fatta dal conte di Miossens al tribunale della Chambre ardente: e come spesso accade che il popolo si fa con leggerezza trascinare da un estremo all'altro, così quello stesso, che era stato maledetto come abominevole assassino e minacciato di morte dal furore della folla, ancor prima che salisse le scale del patibolo, fu ora oggetto della compassione generale, come vittima innocente di un barbaro tribunale. Adesso soltanto i suoi vicini si ricordavano della sua vita virtuosa, del suo grande amore per Madelon, della fedeltà, della dedizione di anima e corpo che egli aveva sempre dedicata al vecchio orefice. Fitti ammassamenti di popolo si fecero minacciosi sotto le finestre del palazzo di La Reynie, gridando: "Ridateci Oliviero Brusson! E innocente!..." e giungevano al punto di gettare pietre contro le vetrate, tanto che La Reynie fu costretto a cercare protezione dalla Maréchaussée contro la plebe tumultuante.
Passarono molti giorni, senza che la signorina di Scudéry venisse a conoscenza della minima notizia, riguardante il processo Brusson.
Tutta sconfortata andò dalla marchesa di Maintenon, che da parte sua le assicurò che il re manteneva il silenzio sull'argomento e non le sembrava quindi assennato ricordarglielo. E poi le chiese, sorridendo di uno strano sorriso: "Ebbene, che cosa fa la nostra piccola La Vallière?", il che convinse la signorina di Scudéry di un fatto:
nell'animo di quella donna orgogliosa si agitava un senso di dispetto e di fastidio nei confronti di una situazione che avrebbe potuto attirare il re, così facile da sedurre, in una regione, della quale lei non aveva e non avrebbe mai potuto capire il fascino.
Non c'era dunque niente da sperare da parte della marchesa di Maintenon. Finalmente le riuscì di sapere, con l'aiuto di d'Andilly, che il re aveva avuto un lungo colloquio segreto con il conte di Miossens e che Bontemps, il cameriere di fiducia e commissionario del re, era stato alla Conciergerie per parlare con Brusson e che nella notte, questo stesso Bontemps con molti uomini, aveva fatto un sopraluogo nella casa di Cardillac, dove si era trattenuto a lungo.
Claude Patru, l'inquilino del piano inferiore, assicurava che durante l'intera notte c'era stato andare e venire sopra la sua testa e senza dubbio Oliviero era tra quella gente, poiché egli era sicuro di aver riconosciuto la sua voce. Era dunque un fatto certo che il re si era occupato di fare eseguire delle indagini per conoscere direttamente la cosa. Incomprensibile restava tuttavia il grande ritardo di una conclusione.
Senza dubbio La Reynie faceva tutto quanto era in suo potere per non lasciarsi sfuggire la vittima che già teneva saldamente tra i denti. Questo terrore soffocava tutte le speranze in boccio.
Era già quasi passato un mese, quando la marchesa di Maintenon fece dire alla signorina di Scudéry che il re desiderava vederla quella sera nelle stanze della marchesa.
Il cuore batté con violenza nel petto della vecchia signorina: sapeva bene che stava per essere decisa la sorte dell'infelice Oliviero Brusson. Lo disse alla povera fanciulla, che si diede a pregare con tutto l'ardore la Vergine e tutti i santi, perché risvegliassero nell'animo del re la convinzione dell'innocenza di Oliviero.
E tuttavia sembrò all'inizio che il re avesse completamente dimenticato la cosa, poiché passò il tempo chiacchierando piacevolmente come una volta con la marchesa e con la signorina di Scudéry, senza fare neppure la più piccola allusione al povero Brusson. Finalmente apparve Bontemps, che si avvicinò al re e pronunciò alcune parole a voce tanto bassa che le due dame non riuscirono ad afferrare una sillaba. La Scudéry sussultava. Il re si alzò allora, mosse verso la Scudéry e disse con uno sguardo splendente: "Siate felice, signorina!... Il vostro protetto, Oliviero Brusson, è libero!".
La signorina di Scudéry, incapace di dire una parola, tra le lacrime che le sgorgavano impetuose e irrefrenabili dagli occhi, fece l'atto di gettarsi ai piedi del re. Ma impedendole il gesto, egli le disse:
"Via, via, signorina! Voi dovreste essere avvocato del parlamento e lottare per sostenere i miei diritti e miei affari: per San Dionigi, alla vostra eloquenza nessuno al mondo potrebbe resistere! Però - aggiunse, fattosi serio in volto - perfino colui, che la virtù dovrebbe difendere e proteggere, non può essere sicuro da atroci sospetti e accuse, non può sentirsi al sicuro davanti alla Chambre ardente e a tutti i tribunali di giustizia del mondo!".
La signorina di Scudéry trovò allora parole che si espansero nella più ardente gratitudine. Il re la interruppe, ricordandole che in casa sua essa avrebbe certamente trovato ringraziamenti ben più infiammati ad aspettarla di quelli che egli poteva pretendere da lei, poiché secondo ogni verosimiglianza in quel momento stesso il felice Oliviero stava già abbracciando la sua Madelon. "Bontemps vi conterà mille luigi - concluse il re - che voi darete a nome mio alla piccola come dono di nozze. Sposi pure il suo Brusson, che non merita una tale fortuna, ma poi tutti e due lascino Parigi. Questa è la mia volontà".
La Martinière venne incontro alla signorina di Scudéry e dietro a lei Battista: tutti e due con volti raggianti, tutti e due giubilanti gridando: "E' qui, è libero!... Oh! Che cari cari ragazzi!...". La coppia beata si precipitò ai piedi della signorina di Scudéry.
"Oh! sì! Io lo sentivo in me che voi, voi sola, avreste salvato mio marito!" esclamò Madelon.
"Ah! La fede, la fiducia più ferma in voi fu sempre viva nel mio cuore!" esclamò Oliviero e tutti e due baciarono la mano della venerabile dama, bagnandola di mille lacrime ardenti. E poi furono di nuovo gli abbracci appassionati: e il giurarsi a vicenda che la divina felicità di quell'istante superava e portava via con sé tutto il soffrire senza nome dei giorni passati e che mai, fino alla morte, l'uno avrebbe lasciato l'altra.
Pochi giorni più tardi furono uniti in matrimonio dalla benedizione della chiesa. Brusson non avrebbe potuto rimanere a Parigi, dove tutto gli ricordava i tempi spaventosi dell'attività criminale di Cardillac, dove il più banale dei casi avrebbe potuto giungere a svelare il tremendo segreto, ora noto a un gran numero di persone, e distruggere così la sua cara preziosa felicità. Subito dopo le nozze, seguito dalla benedizione della signorina di Scudéry, egli partì con la sua giovane sposa per Ginevra. La ricca dote di Madelon, la sua abilità nella professione e le sue grandi virtù civili, gli crearono presto laggiù una vita felice e libera da qualsiasi preoccupazione. Per lui diventarono realtà le speranze che avevano ingannato suo padre fino alla tomba.
Era passato un anno dalla partenza di Brusson, quando fu pubblicato un avviso, firmato da Harley de Chauvalon arcivescovo di Parigi e dall'avvocato del parlamento Arnaud d'Andilly, come qualmente un peccatore pentito sotto il segreto della confessione avesse consegnato alla chiesa un ricco tesoro proveniente da rapine, e consistente in gioielli e pietre preziose. Chiunque, nello spazio di tempo che giungeva circa alla fine dell'anno 1680, era stato depredato, specialmente in seguito ad attacco assassino sulla pubblica via, avrebbe dovuto presentarsi all'avvocato Arnaud d'Andilly, dove, qualora la descrizione del gioiello che era stato rubato corrispondesse con esattezza ad uno dei gioielli ritrovati nel tesoro, e nessun dubbio fosse possibile circa la legittimità della richiesta, avrebbe ricevuto il proprio gioiello. Un gran numero di persone, che non figuravano nella lista di Cardillac come uccisi, ma semplicemente storditi con un pugno, si presentarono uno dopo l'altro dall'avvocato del parlamento e ricevettero con loro non piccola sorpresa i diamanti, l'oro che un tempo era stato loro rapito. Il resto fu destinato al tesoro della chiesa di Sant'Eustazio.
Il conte Ippolito era rientrato in patria dai suoi lunghi viaggi in lontane regioni per entrare in possesso della ricca eredità di suo padre, morto da non molto tempo. Il castello ereditario era situato nella più ridente e bella contrada che si possa immaginare e le rendite dei beni terrieri fornivano al conte il modo di procedere alle più varie e lussuose operazioni di abbellimento. Tutto quello che in questo genere di cose era parso al conte, durante i numerosi viaggi e specialmente nel corso dei suoi soggiorni in Inghilterra, attraente, pieno di buon gusto, lussuoso e come tale gli era piaciuto, doveva ora ricomparire ancora una volta davanti ai suoi occhi. Operai e artisti, così come il genere dei lavori lo richiedeva, giunsero alla sua chiamata al castello, il restauro del quale ebbe subito inizio, cominciando dai luoghi che lo circondavano e cioè con la sistemazione di un amplissimo parco nello stile più splendido, che comprendeva persino la chiesa, il camposanto e la casa parrocchiale, cosicché il tutto sembrava parte dell'artistico bosco. Tutti i lavori erano diretti personalmente dal conte, che possedeva le doti e le conoscenze necessarie per farlo e che si dedicò tutto, anima e corpo, a queste occupazioni, tanto che un anno era già passato e a lui non era ancora venuto in mente, seguendo il consiglio di un suo vecchio zio, di far brillare il suo astro alla Residenza davanti agli occhi delle fanciulle della buona società, per scegliervi la più bella, la più buona, la più nobile e farla sua moglie.
Egli sedeva appunto una mattina al suo tavolo da disegno per tracciare il progetto di un nuovo edificio, quando gli si fece annunciare una vecchia baronessa, lontana parente di suo padre. Ippolito nel sentire il nome della baronessa si ricordò immediatamente che suo padre aveva sempre parlato di costei con la più profonda indignazione anzi addirittura con un senso di ribrezzo ed aveva a più riprese messo in guardia persone che avevano espresso l'intenzione di avvicinarla, perché se ne tenessero lontane, senza tuttavia dare mai una motivazione che spiegasse il pericolo. Ché se qualcuno interrogava il conte con insistenza maggiore, egli era solito rispondere che esistono certe cose delle quali è meglio tacere che parlare. In ogni modo era ben certo che alla Residenza erano corse orribili voci circa un certo processo criminale del tutto strano e inaudito, nel quale la baronessa sarebbe stata coinvolta, per cui, separata da suo marito, cacciata dalla sua lontana città, essa doveva soltanto alla clemenza sovrana che tale processo fosse stato messo a tacere. Sgradevolmente impressionato dalla vicinanza di una persona che suo padre aveva aborrito, per quanto a lui rimanessero tuttora ignote le cause di questo ribrezzo, Ippolito fu tuttavia costretto ad accogliere la noiosa visita, poiché il dovere dell'ospitalità, che in quella regione ha valore grandissimo, glielo imponeva. Mai persona al mondo, senza essere almeno orribile d'aspetto, avrebbe fatto al conte un'impressione di estrema ripulsa, come per l'appunto la baronessa. Al suo entrare essa trapassò il conte con uno sguardo acceso e vivo, sul quale fece poi ricadere le palpebre, chiedendo scusa della sua visita in termini quasi umili. Lamentò che il padre del conte, schiavo di stranissime idee preconcette che gente a lei nemica aveva saputo malignamente insinuargli, l'aveva odiata fino alla morte e non le aveva mai concesso il benché minimo aiuto, per quanto essa si trovasse ridotta nella più amara miseria, tanto da doversi vergognare del suo proprio stato. Venuta finalmente in possesso in modo del tutto inaspettato di una piccola somma di denaro, le era stato possibile abbandonare la Residenza e fuggire a cercare asilo in una lontana cittadina di provincia. Durante il viaggio a quella volta, lei non aveva saputo opporre resistenza all'impulso di vedere il figlio di un uomo, che, nonostante l'odio ingiustificato che egli le aveva sempre votato irriconciliabilmente, lei aveva sempre avuto nella più alta stima. La baronessa parlava con il tono commovente della verità e il conte si sentì tanto più scosso, quanto più, distogliendo lo sguardo dal ripugnante viso della vecchia, egli si immergeva nella contemplazione della deliziosa, stupenda creatura, che era entrata insieme alla baronessa. Costei tacque; il conte sembrò non accorgersene: rimase muto. Allora la baronessa lo pregò di scusare la sua condotta impacciata in quel luogo, che non le aveva fatto ricordare di presentare al conte al suo ingresso la figlia Aurelia.
Allora soltanto il conte ritrovò l'uso della parola e scongiurò la baronessa, rosso in volto fino alle orecchie, in uno stato di smarrimento quale avrebbe potuto convenire a un giovinetto innamorato, di concedergli la riparazione di quello che si poteva attribuire a suo padre, come colpa derivata però soltanto da equivoco, accettando per il momento il suo invito di trattenersi al castello. Per mostrare tutta la sua buona volontà egli afferrò la mano della baronessa, ma la parola gli morì, il respiro gli si mozzò in gola, un brivido gelido lo fece sussultare internamente. Egli sentì la sua mano attanagliata da quella, irrigidita nello spasimo della morte, della baronessa e il volto grande ossuto e squallido di lei che lo guardava fisso dagli occhi senza vista gli sembrò quello di un cadavere rivestito di abiti odiosamente fastosi. "O mio Dio, che contrattempo, proprio in questo momento!..." esclamò Aurelia e si lamentò poi con voce soave e commovente che la sua povera mamma era presa a tratti da improvvise crisi di tetano, che tuttavia questo suo stato era solito passarle in breve tempo, senza ricorso a qualsiasi intervento medico. A fatica il conte riuscì a liberarsi dalla stretta della baronessa e tutta la calda vita di una dolce voluttà amorosa gli ritornò, quando, afferrando la mano di Aurelia, la portò con impeto alle labbra. Giunto ormai alle soglie dell'età matura, il conte sentiva ora per la prima volta tutta la violenza della passione: tanto più difficile era quindi per lui il nascondere i propri sentimenti, tanto più che il modo in cui Aurelia li accoglieva, la sua elevata e, insieme, infantile amabilità, accendeva in lui le più rosee speranze. Erano passati pochi istanti, quando la baronessa si riebbe dal suo attacco e senza avere coscienza dello stato che aveva attraversato assicurò il conte che accettava di buon grado la proposta di soggiornare per qualche tempo al castello, dimenticando una volta per sempre l'ingiustizia con cui suo padre aveva agito verso di lei. Il tenore di vita del conte si trovò ad essere quindi improvvisamente cambiato, ed egli dovette credere che il favore particolarissimo del destino gli avesse portato l'unica donna al mondo che, divenuta la compagna ardentemente amata della sua vita, gli avrebbe potuto accordare tutta la più alta felicità concessa all'uomo nella sua esistenza terrena. Il comportamento della vecchia baronessa rimase invariato; era tranquilla, seria, si sarebbe anzi detto, chiusa in se stessa: ma, quando se ne dava l'occasione, mostrava un'indole dolce e un cuore aperto ad ogni piacere innocente. Il conte si era intanto andato abituando al viso cadaverico, che incuteva in realtà un singolare terrore, e alla figura spettrale della vecchia; attribuendo tutto questo al suo stato di malattia, così come alla tendenza a un tenebroso fantasticare il fatto, riferitogli dai servitori, che la baronessa faceva di frequente passeggiate notturne attraverso il parco spingendosi fino al cimitero. Egli si vergognava che i pregiudizi di suo padre lo avessero così a lungo influenzato e legato e le più insistenti e ansiose raccomandazioni del vecchio zio perché vincesse il suo sentimento e rinunciasse a una relazione che, tra breve o alla lunga, lo avrebbe irrimediabilmente trascinato alla rovina, persero tutta la loro efficacia sul suo animo. Convinto fermamente del profondo amore di Aurelia, egli chiese la sua mano ed è facile per chiunque immaginare con quale gioia la baronessa, che si vedeva così strappata al bisogno, nuovamente collocata in seno al benessere, concedesse il suo consenso. Il pallore e tutti quei caratteristici tratti, che sono segno di sofferenza profonda, intima, invincibile, erano scomparsi dal viso di Aurelia, mentre la beatitudine dell'amore brillava nei suoi occhi e sulle sue guance rosee. Il mattino del giorno fissato per le nozze un caso impressionante giunse a rendere vani i desideri del conte. Avevano trovato la baronessa senza vita giacere bocconi in terra nel parco a poca distanza dal cimitero e la stavano trasportando al castello proprio nello stesso istante in cui il conte si era alzato e, nell'estasi della felicità raggiunta, lasciava errare i suoi sguardi nel parco. Egli pensò che la baronessa fosse stata colta da uno dei suoi soliti attacchi di tetano: ma tutti i tentativi per farla ritornare in vita riuscirono vani; era morta.
Aurelia non si abbandonò alle esplosioni di un dolore violento; chiusa in un assoluto mutismo, essa sembrava straziata tanto nell'intimo dal colpo che l'aveva raggiunta, da non avere neppure lacrime per piangere. Il conte ebbe paura per la sua amata e con grande delicatezza e riguardo osò richiamare la povera bambina rimasta completamente sola al mondo ai loro reciproci rapporti visti in questo nuovo aspetto, che richiedevano che si passasse sopra alle convenienze per fare qualcosa di ben più conveniente, e cioè appunto, nonostante la morte della madre, procedere alle nozze il più presto possibile.
Allora Aurelia si gettò nelle braccia del conte e gridò "Sì!... Sì... per amore di tutti i santi... per la salvezza dell'anima mia!... sì!...". Il conte attribuì questa esplosione di un animo intimamente eccitato e commosso, all'amaro pensiero che la convenienza le interdicesse il soggiorno al castello, proprio quando, abbandonata, sola al mondo e senza patria, non avrebbe saputo dove rifugiarsi. Curò che Aurelia avesse una degna signora di età avanzata come dama di compagnia, fino a tanto che, passate alcune settimane, fosse giunto di nuovo il tempo delle nozze, che nessun avvenimento improvviso e spaventoso venne più a turbare, coronando al contrario la felicità di Ippolito e di Aurelia.
Durante questo periodo, Aurelia si era trovata in uno stato di ansia e di agitazione. Non il dolore per la perdita della propria madre, no:
ma una intima, indicibile, mortale ansia sembrava inseguirla senza riposo. Nel mezzo dei più dolci colloqui d'amore essa saltava in piedi improvvisamente, e, pallida all'improvviso come un cadavere, quasi afferrata da un repentino spavento, stringeva il conte tra le sue braccia, mentre dagli occhi le sgorgavano copiose le lacrime, come se volesse attaccarsi saldamente a qualcosa perché una forza nemica e invisibile non la trascinasse via nella rovina e gridava: "No! no!... Mai!... Mai...". Ma ora, da che era diventata la sposa del conte, sembrava che lo stato di esaltata ansia fosse cessato e che quella spaventosa paura l'avesse lasciata. Era logico che il conte pensasse a qualche tremendo segreto, da cui l'animo di Aurelia era turbato, ma con ragione egli aveva ritenuto indelicato interrogare al riguardo Aurelia, fino a che quello stato di ansia sospesa la trattenesse ed essa preferisse tacere della cosa. Ora invece, diventato suo marito, egli osò delicatamente alludervi e chiedere quale fosse stata allora la causa del suo strano stato d'animo. Aurelia assicurò che le avrebbe fatto tanto bene aprire ora tutto il suo cuore all'amato compagno della sua vita. Non poco dovette dunque stupirsi il conte, nell'apprendere che soltanto la scellerata vita della madre aveva riversato sul capo di Aurelia tutta quella miseria distruttrice:
"Esiste dunque, - esclamò Aurelia - qualche cosa di più orribile nel mondo che il dover nutrire verso la propria madre sentimenti di odio e di orrore?". Il padre, lo zio del conte non erano dunque stati schiavi di falsi pregiudizi e la baronessa aveva ingannato il conte con premeditata ipocrisia. Perché il destino fosse in seguito sempre favorevole alla sua pace (il conte era costretto ora a pensare così) la sciagurata madre era morta proprio nel giorno delle sue nozze. E non lo nascose alla moglie: ma Aurelia continuò spiegandogli come proprio dopo la morte della madre essa si fosse sentita afferrata da presentimenti oscuri e paurosi e come non potesse cacciare il raccapricciante terrore che la morta stesse per alzarsi dalla sua tomba a raggiungerla, a strapparla dalle braccia del suo amato, a trascinarla con lei nell'abisso. Aurelia si ricordava (così raccontò) abbastanza vagamente alcuni episodi del tempo della sua infanzia: un mattino (essa si era appena svegliata dal sonno) scoppiò nella casa un terribile tumulto. Le porte venivano aperte e chiuse con colpi violenti, si incrociavano gridando voci sconosciute. Quando finalmente tutto fu ritornato tranquillo, la governante di Aurelia la prese in braccio e la portò in una grande stanza in cui erano raccolti molti uomini; al centro, steso su una lunga tavola, giaceva un uomo: lo stesso che tante volte aveva giocato con Aurelia, l'aveva rimpinzata di dolciumi e che lei aveva chiamato papà. Essa tese verso di lui le sue braccine e volle baciarlo. Ma le labbra sempre calde erano ora fredde come il ghiaccio e Aurelia scoppiò, senza che lei stessa ne capisse bene la ragione, in un gran pianto.
La governante la portò in una casa estranea dove essa rimase a lungo, fino a che non comparve una signora, che la portò via con sé in una carrozza. Ed era costei sua madre, che poco tempo dopo partì con Aurelia alla volta della Residenza. Aurelia poteva avere sedici anni, quando comparve in casa della baronessa un uomo, che essa ricevette con gioia ed espansione, come se si trattasse di un vecchio conoscente. Egli prese a venire sempre più spesso e presto l'andamento di casa della baronessa andò cambiando in modo notevole ed evidente.
Mentre prima di allora essa aveva abitato in una cameretta sotto il tetto e si era mantenuta con poveri cibi e vestita con miserabili vestiti, adesso si trasferì in un quartiere elegante in uno dei più bei punti della città, si procurò bellissimi vestiti, mangiò e bevette con lo straniero, che era ormai suo ospite quotidiano, cibi e bevande prelibate e prese parte a tutte le manifestazioni della vita mondana, che la Residenza poteva offrirle. Soltanto per Aurelia questo mutamento nella condizione di sua madre, che evidentemente lo doveva allo straniero, non aveva avuto nessun effetto. Lei restava chiusa nella sua stanza quando la baronessa se ne andava a divertirsi con il suo amico straniero e continuava la sua vita nello stesso modo miserabile di prima. Lo straniero che malgrado i suoi quarant'anni aveva un aspetto molto fresco e giovanile, era di figura alto e bello e anche il suo viso poteva dirsi virile. Nonostante tutto questo egli era talmente antipatico ad Aurelia, poiché di frequente il suo comportamento, che egli cercava di costringere ad un livello di distinzione, diventava goffo, volgare, plebeo. Le occhiate, con le quali egli aveva cominciato ad adocchiare Aurelia, la riempivano di sinistro raccapriccio, anzi di un ribrezzo, di cui non si sapeva tuttavia spiegare la causa. Fino a quel momento la baronessa aveva trovato che non valeva la pena di dire ad Aurelia anche una sola parola che riguardasse i suoi rapporti con lo straniero. Adesso le disse il nome, aggiungendo che il barone era ricco sfondato e loro lontano parente. Celebrò la sua figura, i suoi tratti e concluse chiedendo ad Aurelia se le piacesse. Aurelia non seppe tacere l'intimo senso di ribrezzo che nutriva nei riguardi dello straniero, ma la baronessa la fulminò con un'occhiata che la immerse nel più violento terrore e la trattò da stupida sempliciotta. Ben presto la baronessa si fece più affettuosa con Aurelia, di quanto non lo fosse stata per il passato. Essa ebbe in regalo abiti eleganti, ricchi ornamenti di ogni specie e le fu permesso di prendere parte a pubblici divertimenti. Lo straniero intanto andava facendo di tutto per accattivarsi il favore di Aurelia in un modo tale che glielo faceva apparire sempre più ripugnante. Ma la sua delicata sensibilità di fanciulla doveva essere ferita mortalmente il giorno che una malvagità del caso la rese testimonio segreto della rivoltante turpitudine dello straniero e della sua snaturata madre. E quando, pochi giorni dopo, lo straniero in uno stato di semiebbrezza la prese nelle sue braccia, in modo tale che non era più il caso di essere in dubbio sulle sue scellerate mire, lei, trovando nella disperazione forza maschile, respinse e gettò a terra lo straniero, che cadde all'indietro, e fuggì a rinchiudersi nella sua stanza. Allora la baronessa le spiegò con calma freddezza che, dal momento che lo straniero manteneva tutto l'andamento di casa e lei non aveva nessuna voglia di ritornare a vivere nell'antica miseria, ogni stupida smorfia era inutile e dannosa: Aurelia doveva cedere alle voglie dello straniero, che aveva altrimenti minacciato di lasciarla. Invece di prestare attenzione alle suppliche angosciose di Aurelia e alle sue disperate lacrime, la vecchia, ridendo sconciamente in turpe scherno, cominciò a parlare di una relazione che le avrebbe schiuso tutte le voluttà della terra, e fu, nel suo scherno, così sfrenatamente nefanda, che Aurelia ne fu terrorizzata. Si vide perduta e la fuga immediata le sembrò l'unica via di scampo. Aurelia era riuscita a procurarsi la chiave di casa e, messi insieme i pochi averi che la più impellente necessità richiedeva, a mezzanotte, quando credeva che sua madre dormisse, si insinuò nell'anticamera debolmente illuminata. Già stava per uscire piano piano, quando la porta di casa si spalancò con violenza e con fracasso e qualcuno salì pesantemente su per le scale. La baronessa precipitò al suolo, appena giunta nell'anticamera, ai piedi di Aurelia, vestita di una rozza e sudicia veste, il petto e le braccia scoperti, i grigi capelli sciolti e svolazzanti. E dietro a lei, incalzandola da vicino, lo straniero, che urlava con voce rintronante:
"Aspetta, aspetta, satana maledetto, strega d'inferno! Ti voglio rendere il tuo pranzo di nozze!..." e la afferrò per i capelli trascinandola nel centro della stanza e cominciò a malmenarla, a picchiarla nel modo più crudele con il grosso bastone che portava con sé. La baronessa cacciò uno spaventevole urlo di terrore: Aurelia, prossima a perdere i sensi, corse alla finestra aperta a gridare aiuto. Accadde che in quel preciso momento si trovasse a passare lì sotto una pattuglia di guardia della polizia armata. Entrarono impetuosamente nella casa. "Prendetelo! - urlò torcendosi nell'ira e nel dolore la baronessa ai soldati - tenetelo ben stretto!... Guardategli le spalle nude... è...". Mentre la baronessa pronunciava il nome dell'uomo, il sergente comandante della pattuglia esclamò tutto giubilante: "Ah! ah! finalmente! ti abbiamo preso, eh! Urian!" e così dicendo i soldati legarono strettamente lo straniero e lo strascinarono via, nonostante tutti i suoi sforzi per liberarsi. In mezzo a tutta la confusione di quel momento, la baronessa aveva notato molto bene e perfettamente capito le intenzioni di Aurelia. Si limitò a prendere non troppo delicatamente Aurelia per un braccio, a cacciarla nella sua stanza, che chiuse a chiave: ma non disse parola.
Il mattino seguente la baronessa uscì e non rientrò che a sera inoltrata, mentre Aurelia, rinchiusa nella sua stanza come in una prigione, non vide e non sentì nessuno e dovette passare l'intera giornata senza cibo né bevanda. Questo stato di cose durò per parecchi giorni di seguito. Spesso la baronessa la guardava con occhi lucenti di rabbia, sembrava che essa lottasse allora con una decisione, fino a che una sera trovò rientrando una lettera, il cui contenuto sembrò farle piacere. "Creatura stravagante, sei tu la colpa di tutto; ma adesso le cose vanno bene e spero anzi che non ti colga il tremendo castigo che lo spirito del male aveva sospeso su di te". Così parlò la baronessa ad Aurelia, poi diventò di nuovo affettuosa e Aurelia, ora che non aveva più da temere l'uomo che le incuteva tanto ribrezzo, non pensò più alla fuga ed ebbe di conseguenza, maggiore libertà. Era passato un po' di tempo, quando un giorno, mentre Aurelia sedeva per l'appunto solitaria nella sua stanza, si alzò dalla strada un forte frastuono. La cameriera entrò a dire di gran furia che stavano appunto portando via il figlio del boia, che per assassinio era stato in quel posto bollato a fuoco e passavano lì sotto diretti alla casa di correzione, ma lui era riuscito a sfuggire alle sue guardie e a saltare giù dal carro. Aurelia, presa da un improvviso oscuro presentimento, si accostò barcollando alla finestra: non si era sbagliata, era lo straniero, che circondato da numerose guardie veniva ricaricato sul carro e rinchiuso saldamente. Ancora una volta era ricondotto all'espiazione delle sue colpe. Già prossima a venir meno, Aurelia ricadde nella sua poltrona, quando lo sguardo tremendamente selvaggio di quell'individuo la colpì, quando egli con gesto minaccioso alzò il pugno verso la finestra. La baronessa si assentava ancora per molte ore da casa, lasciandovi sola Aurelia, che conduceva quindi una ben triste vita tra le più amare considerazioni sul suo destino, su ciò che di minaccioso inaspettatamente, improvvisamente poteva arrivare a colpirla. Dalla cameriera, che del resto era entrata in casa dopo quella notte fatale e a cui qualcuno aveva potuto raccontare in seguito come quel mascalzone assassino fosse vissuto in intima relazione con la signora baronessa, Aurelia venne a sapere che alla Residenza si aveva molta compassione per la povera baronessa che era stata ingannata in modo tanto scellerato da un tale delinquente di bassa specie. Aurelia sapeva anche troppo bene quanto diversamente stessero le cose e le sembrava impossibile che almeno i soldati di polizia, che avevano quella volta acciuffato l'uomo in casa della baronessa, quando costei l'aveva nominato e aveva dato loro come segno di riconoscimento il marchio di fuoco sulle spalle dell'assassino, non fossero fermamente convinti dell'intimità delle relazioni tra il figlio del boia e la baronessa. In seguito la stessa cameriera si espresse in modo a volte abbastanza equivoco su quello che si pensava qua e là e su quello che si pretendeva addirittura di sapere e cioè che il tribunale aveva tenuto severissime inchieste e aveva persino minacciato di arresto la graziosa signora baronessa, poiché sembrava che quello scellerato del figlio del boia avesse raccontato molte cose strane. Ancora una volta la povera Aurelia dovette riconoscere la snaturata e turpe natura della madre, che le aveva fatto ritenere possibile, dopo quegli spaventosi avvenimenti, di rimanere a vivere alla Residenza. Finalmente sembrò che essa fosse costretta a lasciare il luogo in cui si vedeva perseguitata da ignominiosi e fin troppo ben fondati sospetti e a fuggire in qualche lontana regione. Durante questo viaggio era capitata al castello del conte dove era accaduto quello che più sopra è stato raccontato. Aurelia, ora che tutte le sue tristi preoccupazioni erano scomparse, avrebbe dovuto sentirsi felice: ma quale fu il suo profondo terrore, quando, nella dolcezza del suo nuovo sentimento, parlandone alla madre come di generoso provvidenziale dono del cielo, costei, le fiamme dell'inferno negli occhi, gridò con voce tremenda: "Tu sei la mia sciagura, creatura scellerata e malvagia, ma nel mezzo della tua sognata felicità ti colpirà la vendetta, se una morte improvvisa e rapida mi porta via.
Nell'infezione tetanica, che la tua nascita mi è costata, sta il veleno di Satana". A questo punto Aurelia si fermò, si gettò sul petto del conte e lo scongiurò piangendo di permetterle di non ripetere per intero quello che la baronessa aveva detto ancora nella sua delirante pazzia di iraconda. Si sentiva sconvolta e dilaniata nel più profondo del suo animo tutte le volte che ripensava alla spaventosa minaccia, che superava ogni idea del pauroso e del terribile, pronunciata da sua madre, preda delle potenze del male. Il conte consolò sua moglie nel modo migliore che seppe trovare, per quanto egli stesso si sentisse attraversato in tutto il suo essere da brividi gelati. Egli doveva confessare a se stesso, anche quando si fu calmato, che le enormità della baronessa, che tuttavia ormai non viveva più, gettavano ancora un'ombra nera nella sua vita, che gli era sembrata chiara e luminosa come il sole.
Era passato qualche tempo e Aurelia cominciò a cambiare. Mentre da una parte il pallore cadaverico del volto e l'occhio spento facevano pensare a malattia, l'umore e il carattere di nuovo turbato, irrequieto, ombroso davano luogo a concludere che qualche altro segreto fosse di nuovo venuto a turbarla. Essa sfuggiva il suo stesso sposo ed ora si chiudeva a chiave in una camera, ora andava alla ricerca dei punti più solitari del parco e quando si lasciava vedere di nuovo, i suoi occhi gonfi di lacrime e i tratti stravolti del viso testimoniavano di uno spaventoso tormento che aveva sofferto.
Inutilmente il conte si sforzava nella ricerca di quella che poteva essere la causa dello stato di sua moglie, e dallo sconforto totale in cui infine egli era caduto, poté soltanto salvarlo la diagnosi di un famosissimo medico, che affermò essere tutte le minacciose manifestazioni della grande eccitabilità della contessa il segno inequivocabile di un prossimo lieto evento. Lo stesso medico si permise un giorno, mentre sedeva a tavola con il conte, ogni specie di allusioni al sospettato stato di gravidanza. Sembrò che la contessa sentisse ogni cosa senza prendervi nessuna parte, ma ad un tratto si fece attenta e fu quando il dottore prese a parlare degli stranissimi desideri che a volte le donne in quello stato sentono, e ai quali non è possibile né da parte loro né da parte degli altri opporsi senza che il fatto avvenga con pregiudizio della loro salute. La contessa assalì il dottore con domande e costui non si stancò di chiedere alla sua esperienza pratica i casi più comici e divertenti e di descriverglieli. "E non solo - disse - ma si danno anche esempi di desideri abnormi, dai quali alcune donne furono portate a compiere le più spaventose terrificanti azioni. Così ad esempio la moglie di un fabbro ebbe una volta un desiderio così grande della carne del marito, che non ebbe pace fino a tanto che, tornato un giorno costui a casa mezzo ubriaco, essa gli piombò addosso inopinatamente con un coltellaccio e lo fece a pezzi in modo tanto feroce, che egli in poche ore rese l'anima a Dio".
Il medico aveva appena finito di dire queste parole, che la contessa svenne, scivolando a terra dalla sua sedia, e soltanto con grande fatica poté essere salvata dalla crisi di nervi che in seguito la colse. E il dottore dovette riconoscere di non aver agito con prudenza nel rievocare in presenza di una donna dal sistema nervoso così debole, quel fatto pauroso.
Eppure sembrò che la crisi avesse avuto sullo stato della contessa un benefico effetto, perché diventò più tranquilla. per quanto poi, pochissimo tempo dopo, un contegno di una singolarissima rigidità, una fosca fiamma negli occhi e l'accresciuto pallore mortale del viso gettarono il conte in nuovi tormentosi dubbi circa lo stato di salute di sua moglie. Il punto più misterioso e inspiegabile di questo stato era tuttavia il fatto che lei prendeva pochissimo cibo, come se tutto le provocasse il disgusto, particolarissimamente la carne, tanto che ogni volta era costretta ad alzarsi da tavola con le più vivaci manifestazioni di ribrezzo. L'arte medica non poteva avere nessun successo, poiché le suppliche più insistenti, più amorose del conte, niente insomma al mondo aveva il potere di far prendere alla contessa una sola goccia di medicina. Essendo dunque passate settimane e mesi senza che la contessa avesse assaggiato un boccone di cibo, rimanendo insondabile mistero come potesse continuare a vivere mancandole totalmente il nutrimento, il medico pensò che dovevano essere in gioco forze esulanti dal campo della pura scienza umana. Con un pretesto qualunque egli lasciò il castello, ma il conte capì molto bene che al celeberrimo dottore lo stato di sua moglie era sembrato troppo enigmatico perché egli volesse attendere più a lungo ed essere testimonio di una inspiegabile malattia, senza per altro essere capace di portarvi soccorso. E' facile immaginarsi quale fosse lo stato d'animo del conte: ma non bastava ancora. Precisamente in quel periodo di tempo un vecchio servitore prese l'occasione di aver trovato solo il conte, per rivelargli come ogni notte la contessa lasciasse il castello e non vi ritornasse che sul fare dell'alba. Il conte nell'apprendere la notizia si sentì invadere le membra da un freddo glaciale.
Si ricordò allora, e per la prima volta lo notò, che da qualche tempo verso la mezzanotte gli prendeva regolarmente un sonno che non aveva niente di naturale ed ora lo attribuì a qualche narcotico che la contessa gli somministrava, con lo scopo di abbandonare non vista e non sentita la camera che essa, contrariamente al costume aristocratico, condivideva con il marito. I più neri presentimenti caddero nella sua anima: pensò alla diabolica madre, gli istinti della quale si stavano forse ora risvegliando nella figlia, pensò a qualche turpe relazione, pensò allo scellerato figlio del boia. La prossima notte gli avrebbe svelato il mistero che poteva essere la sola causa dell'inspiegabile stato di sua moglie. La contessa era solita preparare con le sue mani ogni sera il tè, che poi versava al conte, e allontanarsi. Quella sera egli non ne bevette neppure una goccia e leggendo, secondo la sua abitudine, a letto, non sentì vicino alla mezzanotte quella tremenda sonnolenza prenderlo come al solito. E tuttavia si buttò tra i cuscini e fece finta di essersi profondamente addormentato. Piano piano allora la contessa lasciò il suo letto, si avvicinò a quello del conte, gli fece brillare in viso la luce di una candela e poi sgusciò fuori dalla stanza. Il conte sussultò, si alzò, si avvolse in un mantello e scivolò dietro i passi di sua moglie. Era una notte di luna piena, una notte chiara, cosicché gli fu possibile vedere davanti a sé netta nei contorni, per quanto avesse molti passi di vantaggio su di lui, la figura di Aurelia avvolta in una bianca camicia da notte. La contessa diresse il suo cammino, attraverso il parco, al cimitero: là giunta sparì vicino al il muro. Rapidamente il conte le corse dietro fino alla cancellata del camposanto che trovò aperta. Ed ecco che nella chiara luce diffusa della luna egli vide davanti a sé vicinissimo un cerchio di orribili figure. Vecchie donne seminude si erano accasciate a terra e nel centro del cerchio giaceva il cadavere di un uomo, che esse con ingordigia di lupe divoravano.
Aurelia era tra loro! In selvaggio terrore il conte fuggì via a precipizio e corse incosciente, istigato, aizzato, inseguito dal terrore mortale, dall'infernale spavento, per i viali del parco, ritrovandosi al primo chiarore del mattino fradicio di sudore davanti alla porta del castello. Involontariamente, senza essere in grado di concepire un pensiero che avesse il minimo significato, salì a salti la scala, si precipitò attraverso varie stanze nella sua camera da letto. La contessa giaceva là, addormentata, o così sembrava, in un dolce sonno delicato e il conte volle con ogni sforzo convincersi che tutto era stato solo una raccapricciante visione di sogno: o forse invece - dal momento che il mantello bagnato dalla rugiada dell'alba era lì a testimoniare della realtà del suo tremendo vagabondaggio notturno, ed egli troppo bene aveva di quello coscienza - una visione ingannevole aveva terrorizzato a morte attraverso i sensi la sua anima. Senza attendere il risveglio della contessa egli lasciò di nuovo la stanza, si vestì e disperato salì a cavallo. La cavalcata nella bellezza del mattino, tra i cespugli odoranti, dai quali levavano a lui il loro saluto lieto gli uccelli appena svegli, allontanò le tremende visioni della notte. Confortato e rasserenato egli rientrò al castello. Ma quando tutti e due, la contessa e il conte, si sedettero soli a tavola e costei al venire in tavola del piatto di carne, fece l'atto di allontanarsi con l'espressione del più insormontabile disgusto, allora la verità tremenda e atroce di tutto quello che nella notte aveva visto, si fece strada nell'animo del conte. Si alzò in un balzo d'ira selvaggia e gridò con voce terribile:
"Maledetto parto dell'inferno! So bene che cosa significa il tuo schifo per i cibi degli uomini, dalle tombe tu strappi il tuo nutrimento, femmina diabolica!". Ma mentre il conte urlava queste feroci parole, la contessa con un alto ululato gli si slanciò addosso e con la furia della jena lo morsicò al petto. Il conte scacciò da sé, buttandola a terra, la folle, che tra gli spasimi e le convulsioni più ripugnanti spirò. Il conte morì pazzo.
Precisamente il giorno 20 di novembre dell'anno 1815 Alberto di B., tenente colonnello dell'esercito prussiano, si trovava in cammino sulla via che da Liegi porta ad Aquisgrana. Il quartier generale del corpo d'armata al quale apparteneva doveva arrivare quello stesso giorno a Liegi, nella sua marcia di ritorno dalla Francia, e fermarsi lì per un riposo di due o tre giornate. Alberto era arrivato la sera prima: ma il mattino dopo il suo arrivo egli si era sentito prendere da una singolare e sconosciuta irrequietezza e non voleva confessare a se stesso che sogni informi, che per tutta la notte non gli avevano dato requie, e null'altro, annunciandogli un avvenimento molto lieto in sua attesa ad Aquisgrana, lo avevano convinto a mettersi subito e in gran fretta in cammino a quella volta. Mentre ancora si stava meravigliando grandemente della propria decisione, sedeva già in sella al veloce cavallo, grazie a cui contava di raggiungere la città prima del far della notte.
Un vento d'autunno aspro e pungente soffiava rumoreggiando sui campi spogli e svegliava in lontananza le voci dei nudi tronchi degli alberi, che penetravano nel suo sordo ululare con gemiti strani. Stridendo si alzavano in volo uccelli di rapina e muovevano in numerose schiere verso le gravide nuvole che sempre più si avvicinavano le une alle altre, finché anche l'ultimo raggio di sole sparì dietro a quelle e un grigiore stanco e cupo coprì l'intera volta del cielo. Alberto si strinse più strettamente nel mantello e mentre trottava, davanti a sé per l'ampia strada, solitario, gli si ridipinse nella memoria il quadro degli ultimi mesi così densi di destino. Andava considerando come non molte lune prima egli avesse percorso quello stesso cammino in direzione opposta nella più bella stagione dell'anno. La campagna era allora nella sua lussureggiante fioritura:
variopinti tappeti coprivano i prati odorosi; splendevano nella dolce luce dorata del sole i cespugli in cui gli uccelli trillavano e cantavano le liete canzoni. La terra si era ornata a festa, come una fidanzata ardente di desiderio, a ricevere le vittime consacrate alla morte, gli eroi caduti in sanguinosa lotta, nell'oscurità del suo vestito di promessa sposa.
Alberto era giunto al corpo d'armata a cui era assegnato, quando già i cannoni tuonavano sulle rive della Sambre: in tempo tuttavia per prendere parte alle sanguinose battaglie di Charleroy, Gilly, Gosselins. Il caso aveva voluto che Alberto si trovasse sempre presente a fatti di importanza decisiva. Così si trovò a partecipare all'ultimo assalto del villaggio di Planchenoit, che portò alla vittoria nella più memorabile delle battaglie (Belle Alliance). Così egli combatté nell'ultimo scontro della campagna, quando l'estremo sforzo del furore e della feroce disperazione del nemico venne ad infrangersi contro l'incrollabile spirito battagliero della schiera di eroi; al villaggio di Issy il nemico, che con l'imperversante fuoco delle sue artiglierie aveva pensato di portare la rovina e la morte nelle nostre file, fu respinto, tanto che i nostri tiratori lo inseguirono fino a non grande distanza da Parigi. Nella notte che seguì (dal 3 al 4 luglio) fu resa nota la convenzione di armistizio riguardante la resa della città.
La battaglia di Issy si presentò in quel momento allo spirito di Alberto con particolare chiarezza: egli si sorprese a ricordare e a ripensare cose alle quali - a suo avviso - allora durante il combattimento non aveva prestato grande attenzione, a cui anzi non avrebbe potuto prestare attenzione. E rivide con gli occhi della mente vivissimi davanti a sé numerosi volti di ufficiali e di compagni d'armi e profondamente colpì il suo animo l'ineffabile espressione che brillava in molti occhi e che non significava gelido disprezzo della morte, ma divina estasi. E riascoltò parole: ora incoraggianti alla battaglia, alla lotta, ora spezzate in tronco dall'ultimo sospiro della morte, che avrebbero dovuto essere affidate in custodia al mondo della notte, a somiglianza dei motti esaltatori degli eroi delle antiche epiche età.
"Ma non mi sta succedendo - pensava tra sé Alberto - come a colui, il quale, al suo destarsi, ripensa subito al sogno fatto, ma solo più tardi ne ricorda con chiarezza i singoli particolari? Sì! un sogno... soltanto un sogno, noi saremmo disposti a pensare, avrebbe potuto, sorpassando in volo su ali potenti spazio e tempo, produrre tutto quello che di titanico, di mostruoso, di inaudito è accaduto nel corso dei fatali diciotto giorni di quest'ultima campagna, grande beffa di ogni più ardito pensiero, di ogni più arrischiata combinazione, che spirito speculante avesse mai potuto concepire. No!... Lo spirito umano non sa la sua propria grandezza: l'azione va al di là del pensiero!... Poiché non la rozza, imperfetta forza fisica ma lo spirito crea i fatti, così come essi accadono, ed è la forza psichica di ogni singolo spirito veramente ispirato, che si aggiunge alla saggezza, al genio del Capo e fa che si compia fino all'ultimo il prodigio, l'inaudito".
Nel mezzo di queste riflessioni, Alberto fu disturbato dal suo palafreniere: costui gli era rimasto indietro una ventina di passi, quando ad un tratto lo sentì gridare a voce altisonante: "Ehi! per mille diavoli! Paolo Talkebarth! Ma da che parte del mondo vieni?".
Alberto fece girare il cavallo e si accorse allora che il cavaliere, che pochi momenti prima gli era caracollato davanti senza tuttavia richiamare la sua attenzione, si era fermato accanto al suo servo e aveva sciolto i due lati facciali del vistosissimo berretto di pelo di volpe, che gli copriva interamente la testa, di modo che ne era venuto fuori scintillante del più bel color rosso cinabro, l'intero ben noto viso di Paolo Talkebarth, il vecchio palafreniere del colonnello Vittore di S.
E allora all'improvviso, Alberto seppe che cosa lo aveva spinto via irresistibilmente da Liegi verso Aquisgrana: soltanto non riusciva ancora a concepire come il pensiero di Vittore, il suo più caro amico, che con ottime ragioni egli poteva credere ad Aquisgrana in quel momento, se ne fosse rimasto confuso e informe nella sua anima, senza giungere a una lucida consapevolezza.
A sua volta esclamò ora Alberto: "Ma guarda un po'! Paolo Talkebarth! Da dove vieni?... Dov'è il tuo padrone?".
Paolo Talkebarth fece una deliziosa riverenza e disse, portando la mano spianata nel saluto militare alla troppo grande coccarda del suo berretto di volpe: "Tuoni e fulmini! Paolo Talkebarth! Sì, sono proprio io, illustrissimo signor tenente colonnello! Un tempaccio da queste parti, zermannöre! (sur mon honneur). La colpa è del cardoncello!... La vecchia Lisa lo diceva sempre. Non so se lei, signor tenente colonnello, conosce la vecchia Lisa Granodipepe: sta a Genthin, ma quando uno è stato a Parigi e ha visto le muffe del 'Schartinpland (jardin des plantes)...' Insomma, quello che si cerca lontano si trova vicino e io adesso faccio alt davanti al signor tenente colonnello, che avrei dovuto andare a cercare a Liegi. Lo 'spirus familus (Spiritus familiaris)' ha sussurrato ieri sera misteriosamente all'orecchio del mio padrone che l'illustre signor tenente colonnello era arrivato a Liegi. 'Zackermannthö! (Sacré nom de Dieu)' era una bella gioia! Ma sia pure come vuole, io non ho mai fatto gran conto del cavallo falbo. Un bell'animale, zermannöre, ma un carattere prettamente infantile. La baronessa ha fatto del suo meglio, questo è vero... Care persone qui da queste parti, ma il vino non vale niente e quando uno è stato a Parigi... Be', il signor colonnello avrebbe potuto fare il suo ingresso altrettanto bene, quanto chi fosse passato sotto 'l'Argen Trumph (Arc de Triomphe)' e io avrei messo al cavallo bianco la gualdrappa nuova... Zacker, quello lì sì avrebbe drizzato le orecchie... Ma la vecchia Lisa lo diceva sempre (era la mia amante di Genthin), sì lei diceva sempre... Signor tenente colonnello non so se lei...".
"Che ti prenda una paralisi alla lingua!... - esclamò Alberto interrompendo il terribile chiacchierone. - Il tuo padrone è ad Aquisgrana. E va bene: facci andare avanti... abbiamo ancora più di cinque ore di cammino!".
"Alt!... - grida allora con tutta la forza dei suoi polmoni Paolo Talkebarth. - Alt! Alt! illustrissimo signor tenente colonnello! Il tempo è cattivo qui da queste parti, ma, accidenti, per chi ha occhi a posto come noi, che mandano lampi attraverso la nebbia!...".
"Paolo! - gridò Alberto. - Non farmi perdere la pazienza! Dove è il tuo padrone?... Non è dunque ad Aquisgrana?...".
Paolo Talkebarth sorrise così giocondamente, che tutto il viso gli si raggrinzò in mille pieghe, simile a un fazzoletto bagnato, poi stese in avanti il braccio e fece segno verso un edifizio, che era possibile vedere dietro un piccolo bosco, posto su un'altura dolcemente sorgente dal livello del piano, e disse: "Là in quel castello". Senza stare ad attendere le chiacchiere senza fine che Paolo Talkebarth sarebbe stato disposto a infliggergli, Alberto piegò nel cammino laterale che dalla strada maestra portava al boschetto e mise il cavallo a trotto serrato.
Dal poco che ha detto, l'onesto Paolo Talkebarth deve essere sembrato al benevolo lettore un tipo abbastanza stravagante. Bisognerà dire quindi che, parte dell'eredità paterna, egli era passato al servizio del colonnello Vittore di S., dopo essere stato Intendente generale e 'Maitre des Plaisirs' di tutti i giochi e di tutte le folli birbonate della sua infanzia e della sua fanciullezza, dal momento in cui il colonnello aveva vinto per la prima volta la spada di ufficiale. Un vecchio e strano tipo di Magister, per due generazioni precettore della casa di S., aveva perfezionato, con tutte le nozioni e l'educazione che lasciava scorrere alla volta di Paolo Talkebarth, la felicissima disposizione di cui la natura aveva riccamente dotato costui, a una straordinaria confusione e a un raro spirito. Con tutto questo egli era alla fine la più fedele anima, che potesse essere dato di incontrare in questo mondo. Pronto ad affrontare per il suo padrone ad ogni istante la morte, né età avanzata né altra considerazione di qualsiasi tipo avrebbero potuto trattenere il buon Paolo dal prender parte alla campagna del 1813. La sua fibra d'acciaio gli permetteva di superare ogni disagio, ma meno forte della sua costituzione fisica si dimostrò quella spirituale, che durante il suo soggiorno in Francia e in particolar modo a Parigi ricevette un colpo notevole o almeno uno strano scossone. Vale a dire che Paolo Talkebarth sentì allora per la prima volta che il signor Magister Sprengepilcus aveva avuto perfettamente ragione, quando lo aveva detto una grande luce, che un giorno avrebbe brillato di chiaro splendore. Questo splendore Paolo Talkebarth lo aveva riconosciuto nella facilità con cui egli era penetrato negli usi e costumi di un popolo straniero e ne aveva imparata la lingua. Non poco si gonfiò d'orgoglio per il fatto (e lo ascrisse senz'altro e soltanto alle magnifiche risorse del suo spirito) che spesso in tutto quello che era approvvigionamento e alloggiamento egli otteneva cose che sarebbe parso impossibile ottenere. Le bellissime espressioni francesi del Talkebarth (il lettore conosce già alcune piacevoli bestemmie) avevano fatto il giro, se non proprio di tutta l'armata, certamente della divisione alla quale apparteneva il suo padrone. Ogni soldato a cavallo, che arrivava in un villaggio del territorio occupato, gridava al contadino che gli si faceva incontro le parole di Paolo Talkebarth: "Pisang!... de lavendel pur di schevals!..." ('Paysan de l'avoine pour les chevaux!').
Così, come è proprio delle nature eccentriche in generale, anche a Paolo Talkebarth non andava a genio che qualcosa si svolgesse nei modi consueti. Soprattutto egli amava le sorprese e cercava tutti i modi possibili e immaginabili per procurarne al suo padrone, che poi spesso restava in realtà profondamente sorpreso, per quanto in un modo completamente diverso da quello che l'onesto Talkebarth aveva voluto: cosicché quasi sempre i suoi più felici piani naufragavano miseramente nella loro realizzazione. Anche questa volta egli si mise a supplicare compassionevolmente il tenente colonnello di B., precisamente nell'attimo in cui quest'ultimo stava per oltrepassare a cavallo il portale d'ingresso della tenuta, di fare per favore un piccolo allungamento di strada e di entrare nel cortile dal retro, così che il suo padrone non si accorgesse della sua presenza che nel momento in cui gli sarebbe entrato nella stanza. Alberto fu costretto a farsi piacere l'idea di cavalcare attraverso un prato paludoso e di lasciarsi inzaccherare dal fango che schizzava al passaggio del cavallo e infine di attraversare un certo fragilissimo ponte costruito sopra un fossato. Paolo Talkebarth avrebbe voluto, facendo mostra della sua abilità ippica, passare aldilà con un salto, ma cadde giù con il cavallo immergendosi fino al ventre e con gran fatica il palafreniere di Alberto riuscì a tirarlo in secco sulla riva. Allora diede allegramente di sprone al cavallo lanciando alte grida di giubilo e balzò con un selvaggio "Hussah!" nel cortile della villa. Ma per l'appunto vi si erano radunate tutte le oche, anatre, tacchine, galli e galline della fattoria, per esser portati a dormire: e più in là, da una parte, veniva portato un gregge di pecore e dall'altra un gregge di quegli animali in cui un giorno Nostro Signore ficcò il demonio; ragion per cui facile è immaginare come Paolo Talkelbarth, ben poco padrone del suo cavallo, galoppando senza volerlo veramente tutto intorno per il cortile in ampi giri, producesse non poche devastazioni nella proprietà domestica. Tra un orribile fracasso di animali stridenti, starnazzanti, belanti, grugnenti, tra l'abbaiare del cane da cortile e il gridare della serva, Alberto fece il suo ingresso glorioso, mandando con tutto il cuore al diavolo l'onesto Paolo Talkebarth in compagnia di tutti i suoi progetti di sorpresa.
Alberto balzò a terra ed entrò nella casa, che, senza avere pretese di bellezza e di eleganza, tuttavia si presentava veramente ospitale e dava l'impressione di essere comoda e abbastanza spaziosa. Sulle scale incontrò un uomo non troppo alto, ben nutrito, abbronzato in viso e vestito di un corto abito da caccia, che con un sorriso agrodolce gli chiese: "Acquartierato?". Dal tono con cui l'uomo pronunciò questa parola, Alberto capì immediatamente di avere di fronte a sé il padrone di casa, e di conseguenza, come sapeva dalle informazioni di Paolo Talkebarth, il barone di E. Egli assicurò dunque di non essere affatto acquartierato nella sua villa, essendo al contrario sua unica intenzione quella di visitare un suo carissimo amico, il colonnello Vittore di S., che avrebbe dovuto trovarsi appunto lì e che al signor barone chiedeva soltanto l'ospitalità per quella sera e per la notte, proponendosi infatti di ripartire di nuovo il mattino seguente all'alba.
Il viso del barone si rasserenò in modo evidente e tutto il sole, che in condizioni ordinarie si aveva l'impressione splendesse su quel viso bonaccione, ma un po' troppo largo, ritornò ad apparirvi nel suo più chiaro splendore, quando, nel salire con lui la scala, Alberto lasciò cadere incidentalmente che verosimilmente quella contrada non sarebbe stata toccata da nessun corpo d'armata, da nessun distaccamento che si trovasse in marcia.
Il barone aprì una porta: Alberto entrò in una simpatica ed accogliente sala e vi vide Vittore, che sedeva dandogli le spalle.
Vittore si girò al rumore della porta aperta, saltò su e si precipitò con una sonora esclamazione di gioia nelle braccia del tenente colonnello. "Di', Alberto, è vero che pensavi a me la notte scorsa?... Io lo sapevo, il mio senso interno me lo aveva detto, che tu eri a Liegi e proprio nello stesso preciso istante in cui tu vi entravi a cavallo!... Io fissai allora tutti i miei pensieri su di te con intensità, le braccia del mio spirito ti abbracciarono: non potevi sfuggirmi!".
Alberto dichiarò che veramente, come il benevolo lettore sa, certi indefinibili sogni che non erano riusciti a raggiungere una chiara e comprensibile forma, lo avevano cacciato via da Liegi.
"Sì! - disse Vittore con aria ispiratissima. - Sì, non è una chimera, non è una immaginazione senza senso; ci è data la forza divina, che, comandando al tempo e allo spazio, annuncia e comunica il sovrasensibile al mondo dei sensi!".
Alberto non capì bene che cosa intendesse dire con questo Vittore, e del resto tutto il contegno dell'amico, che era completamente fuori del comune, dimostrava in lui uno stato di evidente tensione e sovraeccitazione. Intanto la signora che stava seduta vicino al camino accanto a Vittore si era alzata e si era avvicinata all'amico. Alberto le si inchinò, guardando Vittore con sguardo interrogativo. "La signora baronessa Aurora di E. - gli disse l'amico - colei che mi ospita con tanta generosa bontà, colei che mi ha assistito con ogni cura nella mia malattia e nel mio abbattimento".
Alberto si convinse, osservando la baronessa, che la piccola e rotondetta signora non doveva ancora avere raggiunto i quaranta, che un tempo aveva dovuto essere fatta molto benino, ma che il nutriente cibo di campagna e in più molte primavere, avevano portato le forme del corpo un po' troppo aldilà delle linee stabilite della bellezza, il che recava pregiudizio e danno perfino al viso grazioso e ancora abbastanza fiorente di freschezza, i cui occhi azzurro-scuri dovevano avere qualche volta in tempi andati brillato pericolosamente nel cuore di più d'uno. L'abbigliamento della nobile signora fu giudicato da Alberto fin troppo ospitale, poiché se la stoffa del vestito di un bianco accecante testimoniava della accuratezza del bucato e dell'imbiancatura, diceva nello stesso tempo chiaramente di appartenere a un livello ben basso dell'industria tessile, che doveva essere ancora al punto della filatura e tessitura casalinghe. Un fazzoletto da collo di seta dai colori troppo crudi, buttato trascuratamente intorno alla nuca per cui era possibile vedere il bianco collo, non rialzava lo splendore dell'abbigliamento. Ciò che tuttavia formava una strana eccezione, era il fatto che la baronessa portava ai piccoli piedi le più aggraziate scarpette di seta e sulla testa la più deliziosa cuffietta a punta secondo l'ultima moda di Parigi. E poiché quella cuffietta ricordava al tenente colonnello precisamente un amore di grisette che il caso gli aveva portato fra le braccia a Parigi, una quantità di rare e gentili espressioni gli affiorarono, grazie a quel ricordo, alle labbra, per chiedere venia della sua improvvisa apparizione. La baronessa non tralasciò di rispondere adeguatamente a tali galanterie. Irrefrenabile vide, una volta che ebbe aperto la bocca, il fiume del suo parlare, fino a che arrivò al punto: non era possibile ospitare con tutta la sollecitudine necessaria un ospite tanto caro, l'amico del colonnello tanto amato da loro. Al suono del campanello scosso con violenza e al grido rintronante: "Marianna! Marianna!" apparve una vecchia donna accigliata; a giudicare dal grosso mazzo di chiavi che pendeva alla sua cintura, la governante di casa. Con costei e con il signor marito venne esaminato tutto quello che di bello e di gustoso poteva essere preparato: si trovò tuttavia che ogni leccornia, per esempio selvaggina e simili o era già stata completamente consumata o non poteva essere procurata che l'indomani mattina. Cercando con fatica di scacciare un senso di cattivo umore, Alberto assicurò che lo avrebbero costretto a ripartire immediatamente nel cuore della notte, se anche minimamente avessero disturbato il consueto andamento della casa per lui. Un po' di minestra fredda, qualche fetta di pane imburrato gli sarebbe ampiamente bastato per la cena. Era impossibile, rispose la baronessa, che il signor tenente colonnello si accontentasse, dopo la sua tremenda cavalcata con un tempo freddo e rigido, di non aver niente di caldo: e in seguito a lunghe consultazioni con Marianna fu messa in chiaro, riconosciuta e stabilita come eseguibile la confezione di un vin brulé. Marianna scappò via con stridore e sbattere di chiavi una contro l'altra: ma nel momento in cui tutti stavano per mettersi a sedere, ecco arrivare una serva sbalordita e affannata e la baronessa fu chiamata fuori. Alberto capì che davanti alla porta stavano rendendo conto in tutti i minimi particolari dell'orrendo guasto, che Paolo Talkebarth aveva perpetrato; seguì poi la lista non trascurabile di tutti i morti, feriti e malmenati. Il barone corse dietro alla baronessa e mentre fuori la baronessa gridava e brontolava, il barone desiderava l'onesto Paolo Talkebarth nel paese dove cresce il pepe e l'intera servitù scoppiava in un generale "lamento", Alberto raccontò brevemente al suo amico che cosa era accaduto nel cortile con Paolo Talkebarth. "Imprese di questo genere, - esclamò pieno di malumore Vittore - bravure simili è capace di farle soltanto quel vecchio buffone, e per di più quel gonzo lo fa con tali buone intenzioni che non è possibile prendersela con lui".
Intanto fuori si era fatta un po' di calma: la servotta era ritornata con la consolante notizia che Pippo Sbircia era rimasto solo spaventato, ma che se l'era cavata senza nessun danno e in quel momento beccava con appetito la sua cena.
Il barone rientrò con viso sereno e ripeté tutto contento che Pippo Sbircia era stato risparmiato dal selvaggio Paolo Talkebarth che non si curava della vita e sicurezza degli uomini e colse l'occasione per parlare molto a lungo e particolareggiatamente degli utili economici che derivano ad una fattoria dall'allevamento dei polli. Pippo Sbircia, che era stato semplicemente spaventato senza subire ulteriori danni, era cioè, il vecchio, da tutti altamente stimato, gallo di casa, da anni ormai vanto e ornamento dell'intero cortile e pollaio.
Anche la baronessa entrò di nuovo nella stanza, ma solo per armarsi di un grosso mazzo di chiavi, che pendeva dalla serratura di un armadio. In gran fretta si affrettò a uscire e ora Alberto poté sentire come tutte e due, padrona di casa e governante, scendessero le scale, gradino dopo gradino, con fracasso di chiavi e come poi risuonassero le voci acute di serve chiamate e come infine dalla cucina salisse la piacevole musica del mortaio e della grattugia. "Oh! Signore! - pensava Alberto - se fosse arrivato il generale con l'intero stato maggiore, non ci sarebbe stato più fracasso, di quanto ne sembra causare la mia disgraziata tazza di vin brulé!".
Il barone, che dall'allevamento del pollame era passato alla caccia, non era ancora arrivato alla fine di una complicatissima storia di un bellissimo cervo che si era fatto scorgere e che egli non aveva colpito, quando la baronessa entrò nella sala e dietro a lei nessun altro se non Paolo Talkebarth in persona, che portava in finissimo vasellame di porcellana il vin brulé.
"Mettete tutto qui, mio buon Paolo" disse la baronessa con grande cordialità, il che Paolo Talkebarth ricambiò con un indescrivibilmente dolce: "A fu zerpire, Madame!". I mani degli uccisi del cortile sembravano pacificati e tutto perdonato.
Soltanto allora ognuno si mise tranquillamente a sedere. La baronessa, dopo aver servito l'ospite della bevanda, cominciò a lavorare a una mostruosa calza di lana e il barone colse l'occasione per diffondersi ampiamente sullo scopo del lavoro a maglia, che era destinato ad essere portato alla caccia. Frattanto aveva afferrato la caraffa nell'intento di mescersi una tazza di vino. "Ernesto!" gli gridò la baronessa in tono di rimprovero, e immediatamente egli desistette dall'impresa, scivolò accanto all'armadietto a muro, dove degustò in perfetto silenzio un bicchierino di grappa.
Alberto utilizzò questo istante per mettere finalmente fine al noioso chiacchiericcio del barone, chiedendo all'amico notizie intorno a quello che aveva fatto e che gli era capitato, con intenso interesse.
Ma Vittore fu del parere che ci sarebbe stato ancora tempo a sufficienza per dire in due parole quello che era successo a lui nel tempo passato dalla loro reciproca separazione, mentre al contrario egli non poteva più aspettare di conoscere dalla bocca di Alberto ogni cosa memorabile tra i vari potenti avvenimenti degli ultimi fatali tempi. La baronessa assicurò sorridendo, che niente era più grazioso da ascoltare che le storie di guerra, rapina e uccisione. Anche il barone, che si era di nuovo unito alla società, dichiarò che gli piaceva sentir raccontare storie di battaglie, in cui le cose si erano svolte in modo ben sanguinario, poiché questo gli faceva tornare alla mente le sue partite di caccia. E fu sul punto di ricadere di nuovo nella storia del cervo non colpito. Ma Alberto lo interruppe, ridendo al pensiero del proprio interno malumore, con l'assicurarlo che senza dubbio a caccia si tira forte, ma la disposizione strategica non è poi così malvagia, dal momento che i cervi, i caprioli, le lepri, il cui sangue è in gioco, non rispondono con altri colpi.
Alberto si sentì intanto sempre più riscaldato dalla bevanda gustata e che (egli era costretto a riconoscerlo) era magistralmente preparata con il migliore dei vini, e questo senso di fisico benessere agì beneficamente sul suo spirito, cacciandone completamente il cattivo umore che gli era venuto addosso al trovarsi in un ambiente straniero.
Dispiegò allora davanti agli occhi di Vittore, in tutta la sua raccapricciante sublimità, l'intero quadro di quella tremenda battaglia, che in una sola volta aveva annientato tutti i sogni di colui che aveva sperato di diventare il dominatore del mondo. Con infiammato ardore Alberto descrisse il coraggio leonino dei battaglioni, che da ultimo assaltarono il villaggio di Planchenoit e concluse infine con le parole: "Vittore... o Vittore, se tu ci fossi stato, se tu avessi combattuto vicino a me!...".
Vittore si era accostato vicinissimo alla sedia della baronessa, aveva preso il vistoso gomitolo di lana, rotolato giù dalle ginocchia di lei, e andava giocherellando con quello tra le mani, in modo che la diligente e assidua lavoratrice era costretta a trarre i fili di fra le dita di Vittore e non poteva quindi fare a meno di incontrare spesso con l'esageratamente lungo ferro da calza il braccio di lui.
A queste parole dette da Alberto a voce più alta e vibrata, Vittore sembrò svegliarsi all'improvviso da un sogno. Osservò il suo amico con un singolare sorriso e disse quasi sottovoce: "Oh sì, Alberto caro, quello che tu dici è fin troppo vero!... L'uomo si chiude spesso e di buon'ora con le sue stesse mani in lacci, i cui nodi gordiani spezza con la violenza soltanto la morte!... Ma per quello che riguarda in generale le evocazioni dei demoni attraverso scongiuri, la temeraria chiamata del proprio terribile spirito è certamente fra le altre la più minacciosa che ci sia. Ma qui tutto dorme, ormai!".
Le incomprensibili, misteriose parole di Vittore mostravano a sufficienza come egli non avesse sentito neppure una sillaba di quello che Alberto aveva fino ad allora raccontato, ma come piuttosto durante tutto quel tempo si fosse abbandonato a sogni, che per di più avevano tutta l'aria di essere molto strani. Alberto ammutolì per la sorpresa.
Si accorse allora a sua volta, girando lo sguardo intorno a sé, che il padrone di casa, appoggiato all'indietro alla spalliera della sua poltrona con le mani annodate sul ventre, lasciava pendere la testa stanca sul petto e che la baronessa con gli occhi chiusi serrati continuava a lavorare a maglia meccanicamente come un meccanismo ad orologeria caricato.
Alberto fu in un attimo in piedi provocando rumore, ma in quello stesso istante si alzò anche la baronessa e gli si avvicinò con una grazia tale, a un tempo franca, nobile e deliziosa, che Alberto non vide più la piccola ben nutrita e quasi grottesca figura, ma dovette credere che la baronessa si fosse trasformata in una creatura diversa.
"Perdoni - disse poi e l'intonazione della sua voce era dolcemente armoniosa - perdoni, signor tenente colonnello, a una padrona di casa, dallo spuntare del giorno al cader della notte occupata nelle sue faccende, l'essere impotente a reagire, quando arriva la sera, alla propria stanchezza, anche quando si parli in sua presenza nel modo più interessante e brillante delle cose più interessanti e belle: ugualmente voglia perdonare anche al robusto cacciatore. Non è possibile che lei non provi un intenso desiderio di rimanere solo con il suo amico per parlare insieme proprio a cuore aperto: e in questi momenti ogni estraneo è di peso. Certamente le sembrerà simpatico cenare solo con il suo amico: farò portare la cena nella sua stanza".
Nessuna proposta avrebbe potuto giungere più gradita ad Alberto. Si congedò ipso facto con le più cortesi espressioni dalla sua simpatica ospite, alla quale perdonava ora di tutto cuore il mazzo di chiavi, il lamento sopra Pippo Sbircia spaventato, il lavorare a maglia e le riverenze con la testa.
"Caro Ernesto!" - esclamò la baronessa, poiché i due amici volevano prender congedo dal barone: ma costui invece di rispondere gridò molto distintamente: 'Dài! Dài! Tyras!... Foresto!... Allons...!' e fece pendere la testa dall'altra parte, cosicché dovettero rinunciare a disturbarlo ancora in mezzo ai suoi dolci sogni.
"Dimmi - esclamò Alberto, quando alla fine si ritrovò solo con Vittore. - Dimmi una buona volta che cosa ti è successo! Cioè: prima lasciami mangiare perché ho fame e in realtà mi sembra che qui ci sia qualcosa di più del modesto pane e burro desiderato".
Il tenente colonnello aveva ragione; egli aveva infatti trovato una tavola apparecchiata con gusto e coperta dei più appetitosi cibi freddi, il cui più alto ornamento sembrava costituito da un prosciutto di Bayonne e da un pasticcio di pernice rossa. Paolo Talkebarth fu del parere (e lo disse sorridendo astutamente) quando Alberto espresse il suo compiacimento, che se non ci fosse stato lui e non avesse suggerito alla vergine Marianna tutto quello che andava a genio al signor tenente colonnello, come roba superfink (superfin)... eppure non poteva ancora dimenticare la vecchia zia Lisa, che il giorno delle sue nozze aveva fatto bruciare il pasticcio di riso e ora lui era vedovo da trent'anni e nessuno poteva sapere perché i matrimoni sono conclusi in paradiso e la vergine Marianna... sì certo la graziosa baronessa aveva consegnato a lui personalmente il meglio, vale a dire un intero canestro di Sellery per i signori. Alberto non sapeva bene a che scopo gli fosse stata servita quella irragionevole quantità di verdura, ma fu molto soddisfatto quando Paolo Talkebarth portò in tavola il canestro che non conteneva altro, se non sei bottiglie del migliore vino di Sellery.
Mentre Alberto andava con gran compiacimento assaporando vino e cena, Vittore raccontò in che modo fosse mai capitato nei possedimenti del barone.
Gli strapazzi della prima campagna (1813), tali da sbaragliare le nature più resistenti, avevano ridotto in cattive condizioni la salute di Vittore. I bagni di Aquisgrana avrebbero dovuto rimetterlo in sesto e lui si trovava appunto in quel luogo, quando la fuga di Bonaparte dall'isola d'Elba segnò l'inizio di nuove sanguinose lotte. Durante i preparativi della campagna, Vittore ricevette dalla Residenza l'ordine di presentarsi, qualora il suo stato di salute lo permettesse, all'armata del Basso Reno. Il destino con i suoi improvvisi cambiamenti gli permise però solo una cavalcata di cinque o sei ore.
Proprio davanti al cancello della villa in cui si trovavano ora i due amici, il cavallo di Vittore, che si era sempre dimostrato la bestia più sicura e calma del mondo, provata in mezzo al più infernale baccano della battaglia, si era improvvisamente imbizzarrito e impennato: Vittore cadde a terra, lo dichiarò lui stesso, come avrebbe potuto cadere uno scolaretto che monta a cavallo per la prima volta.
Lì rimase privo di sensi, mentre da una ferita piuttosto grave alla testa gli scorreva a fiotti il sangue, per aver picchiato nella caduta contro una pietra aguzza. Lo trasportarono nella casa, dove aveva dovuto forzatamente aspettare la sua guarigione, dal momento che ogni trasporto pareva pericoloso. La quale guarigione, per quanto la ferita sembrasse ormai completamente rimarginata, non era ancora raggiunta, venendo egli di frequente colto da attacchi di febbre che lo lasciavano in uno stato di languore. Vittore si espanse nella più ardente celebrazione delle sollecite cure e della affettuosa assistenza che la baronessa gli aveva accordato.
"Ah! poi! - esclamò Alberto scoppiando a ridere sonoramente, - dico la verità: a questo non ero preparato! Io mi immagino di incontrare il miracolo in quello che tu mi racconti di straordinario ed ecco che si va a finire, non prendertela a male, in una storia abbastanza sempliciotta, che è possibile trovare in centinaia di romanzi fritti e rifritti, tanto che nessuna creatura umana può decentemente riviverla in personale esperienza. Il cavaliere ferito viene trasportato nel castello, la castellana lo cura,... e il cavaliere diventa un tenerello amoroso! Ma, Vittore, che tu, a dispetto di quello che è stato fino ad ora il tuo gusto, anzi tutto il tuo modo di vivere, ti sia innamorato improvvisamente di una donna vecchiotta e grassa, tanto casalinga e ospitale da far venir voglia di farsi diavolo, che tu faccia la parte del giovinetto languido che si consuma di nostalgico desiderio e sospira (è detto in qualche parte) come un mantice, scrivendo canti per gli occhi della sua bella... senti, tutto questo io voglio considerarlo ancora parte della malattia! L'unica cosa che in qualche misura potrebbe ancora scusarti e metterti in una posizione poetica, sarebbe l'infante di Spagna nel dottore di Suo Onore, che dividendo con te lo stesso destino, cadesse sul naso a Donna Menzia al cancello della villa di campagna e alla fine trovasse l'amata che, senza che egli lo sapesse...".
"Basta! - esclamò Vittore. - Basta, fermati!... Ma credi che non abbia visto, che non abbia capito benissimo, la ragione per cui tu mi consideri un cretinello vanesio? Eppure qui c'è in gioco qualcosa d'altro, qualcosa di più misterioso!... Ma adesso beviamo!...".
Il vino e il vibrato discorso di Alberto avevano prodotto sullo spirito di Vittore una benefica scossa: sembrò svegliarsi da una profonda fantasticheria sognante. Quando dunque Alberto alzò infine il bicchiere colmo ed esclamò: "A te, Vittore, fedele infante, Donna Menzia deve vivere e rivestirsi dell'apparenza della nostra piccola e grassa signora!", Vittore gridò ridendo: "Proprio non posso sopportare che tu mi prenda per uno sciocco! Mi sento nel più intimo del mio animo sereno e disposto a dirti tutto, a confessarti tutto! Tu devi avere la compiacenza di stare ad ascoltare un periodo della mia vita del tutto particolare, che risale ai tempi della mia prima gioventù e può darsi che questo ci porti via metà della notte". "Racconta pure, - replicò Alberto. - Perché vedo che qui c'è vino a sufficienza per rinfrescare gli spiriti vitali un po' ammosciati. Se soltanto non fosse così atrocemente freddo in questa sala e non fosse un delitto andare a disturbare a quest'ora qualcuno dei servi".
"Ma come - disse Vittore - non ci avrebbe pensato Paolo Talkebarth?".
Costui, bestemmiando graziosamente nel suo ben noto dialetto francese, assicurò di avere in realtà personalmente tagliato in piccoli pezzi il legno più eccellente e di averlo preparato lì, per accenderne il più splendido fuoco, cosa che avrebbe fatto immediatamente. "Per fortuna - riprese Vittore - che qui non mi succederà come una volta a Meaux presso un commerciante di drogherie, dove l'onesto Talkebarth mi preparò una fiammata nel camino, che costava al minimo duecento franchi. Il buon uomo si era impadronito di legno di sandalo brasiliano, lo aveva fatto a pezzi, disposto nel camino, tanto che mi sembrò di essere press'a poco come Andolosia, il più famoso figlio del ben noto signor Fortunato, il cui cuoco fu costretto, quando il re proibì di vendergli carbone, ad accendere un fuoco di spezierie".
"Tu sai, - continuò Vittore, quando il fuoco scoppiettava ormai e alzava allegramente la sua fiamma nel camino e quando Talkebarth ebbe lasciato la stanza, - tu sai, Alberto, amico caro, che io ho cominciato la mia carriera militare al reggimento della Guardia a Potsdam: ma molto più di questo non sai, poiché l'occasione non mi si è mai presentata di parlarne con te in modo particolare e ancora di più poiché le immagini di quegli anni mi comparivano davanti con tratti per metà cancellati e solo ora per la prima volta risplendono in vivacità di colori. Non potrei chiamare proprio cattiva la mia prima educazione in casa di mio padre, dato che, propriamente, non ne ho ricevuta alcuna: venni lasciato alle mie tendenze e queste per l'appunto sembravano non dimostrare altro che la mia inclinazione alla vita del soldato. Eppure era evidente che mi sentivo anche portato a una formazione scientifica, come non era assolutamente in grado di darmi il vecchio Magister, che avrebbe dovuto essere il mio precettore e che era felice solo di essere lasciato in pace. A Potsdam cominciai a prendere con facilità conoscenza di nuove lingue, mentre contemporaneamente seguivo gli studi necessari a un ufficiale con interesse appassionato e con successo. Con una specie di furore andavo inoltre leggendo tutto quello che mi capitava fra le mani senza preoccupazioni di scelta e di utilità: e con l'aiuto di una eccellente memoria acquistavo una quantità di conoscenze storiche, senza che io stesso sapessi come. Più tardi mi fecero l'onore di vedere in me uno spirito di poesia, che io non volevo ancora riconoscere a me stesso:
certo è che i capolavori dei grandi poeti mi trasportavano in quell'epoca in uno stato di esaltato entusiasmo, di cui fino ad allora non avevo avuto il minimo presentimento. Fui per me stesso un essere nuovo, che soltanto allora si era sviluppato a vera e completa vita.
Basterà che io nomini qui i "Dolori del giovane Werther" e soprattutto i "Masnadieri" di Schiller. Uno slancio del tutto diverso diede però alla mia fantasia un libro non compiuto, che appunto per questo dà allo spirito un impulso tale, per cui insonne, senza riposo esso deve continuarne il travaglio in eterno movimento, simile all'ondeggiare di un pendolo. Voglio alludere al "Visionario" di Schiller. Può darsi che la tendenza al misticismo, al meraviglioso, comunemente e profondamente radicata nella natura umana, predominasse con maggior violenza in me in quel momento: fatto sta che alla lettura di quel libro, che sembra racchiudere le formule di scongiuro della più potente negromanzia, si schiuse in me un magico mondo pieno di prodigi ultraterreni o meglio sotterranei, nel quale mi aggiravo e smarrivo come un uomo che sogna. Una volta caduto in quello stato d'animo, io divorai con ingordigia tutto ciò che con quella disposizione del mio spirito si accordava e persino opere di contenuto molto più limitato non mancavano di esercitare la loro azione influenzatrice. Così anche il genio di Grosse fece sul mio spirito un'impressione profonda, tanto che anche ora non saprei vergognarmene in nessun modo, poiché almeno la prima parte del libro, sia per la vivacità della esposizione sia per l'abile trattazione dell'argomento, seppe allora scuotere l'intero mondo letterario. Dovetti subire molti arresti per non avere sentito, essendo di guardia, immerso in libri di questo genere o solo nei miei mistici sogni, il segnale del cambio, così che spesso era necessario che mi venisse a rilevare un sottufficiale. Fu precisamente in quell'epoca della mia vita che il caso mi fece avvicinare un uomo dei più singolari.
Accadde cioè che in una bella serata estiva, allorché il sole era già sceso sotto l'orizzonte e si avvicinava il crepuscolo, io me ne andassi vagando in un parco alla periferia di Potsdam, solitario secondo la mia abitudine. Mi sembrò a un tratto di udire, provenienti dal folto di un boschetto situato da un lato del cammino, soffocati suoni lamentosi e al cessare di essi frasi violente esplose in una lingua sconosciuta. Credetti si trattasse di qualcuno bisognoso di aiuto: mi affrettai verso quel punto e vidi subito nella luce incerta e rossa del tramonto una grande figura dalle ampie spalle, che giaceva al suolo, avvolta in un comune mantello militare. Mi feci vicinissimo e riconobbi con mia non piccola sorpresa il maggiore O'Malley dei granatieri. 'Mio Dio! - esclamai. - E' lei, signor maggiore? In questo stato?... Si sente male?... Posso aiutarla?...'.
Il maggiore mi fissò in viso lo sguardo rigido e selvaggio dei suoi occhi e disse poi aspramente: 'Quale demonio vi ha portato qui, tenente? Che cosa importa a voi che io stia qui disteso o che non ci stia?... Andatevene via, in città!'. Il pallore cadaverico del viso di O'Malley, il suo strano stato mi facevano intanto sospettare qualcosa di sinistro e gli dichiarai che non intendevo affatto lasciarlo solo, ma che me ne sarei ritornato in città insieme a lui. 'Così?' disse il maggiore perfettamente calmo e freddo, dopo essere rimasto per qualche istante in silenzio; e fece un tentativo per rialzarsi, in cui dovetti assisterlo, perché la cosa gli riusciva evidentemente difficile. Notai allora che, come era solito fare quando di sera se ne usciva fuori di città a passeggiare, O'Malley aveva gettato semplicemente sulla camicia, senza indossare altro indumento, uno di quei mantelli che venivano comunemente detti 'Commissmantel': calzava tuttavia gli stivali e aveva schiacciato sulla testa calva il berretto da ufficiale dall'ampia treccia dorata. Una pistola, che giaceva a terra vicino a lui, fu da lui afferrata con rapido gesto allo scopo di sottrarla, ficcandola in una tasca, alla mia vista. Per tutta la durata del cammino fino alla città egli non mi disse parola, sbottando di tanto in tanto in frasi spezzate nella sua lingua madre (di nascita era irlandese), che io naturalmente non comprendevo. Arrivato davanti al suo Quartiere egli mi strinse la mano e disse con un accento che veramente aveva in sé qualcosa di indescrivibile, di mai sentito, tanto che ancora adesso risuona nella mia anima: 'Buona notte, tenente!... Il cielo vi protegga e vi dia buoni sogni'. Questo O'Malley era certamente una delle persone più fantastiche che ci possano essere, e se tolgo qualche eccentrico inglese, delle più fantastiche che io abbia mai incontrato nella mia vita e davvero non saprei trovare in tutta la Grande Armata un altro ufficiale da poter paragonare nell'aspetto esteriore a O'Malley. E' ben vero che, secondo quanto molti viaggiatori assicurano, non c'e altra terra come l'Irlanda in cui la natura si sia servita di un conio speciale, per cui ogni famiglia può fare mostra dei pezzi più rari; così il maggiore O'Malley poteva valere ragionevolmente per il prototipo dell'intera sua nazione. Immaginati un uomo robusto come una quercia, sei piedi di altezza, la corporatura del quale non è da chiamarsi propriamente goffa, ma non c'e parte del corpo che si accordi con l'altra e l'intera figura appare come un insieme di parti accozzate arbitrariamente dal caso a somiglianza delle figure del gioco, che vengono appunto messe insieme secondo un numero, fissato per ogni singola parte dal getto dei dadi. Il naso aquilino, la sottile spaccatura delle labbra potrebbero dare al volto una certa impronta di nobiltà, ma gli occhi vicini e sporgenti hanno qualcosa di ripugnante e le sopracciglia alte e fitte come cespugli hanno il carattere della maschera comica. Molto strana era l'espressione quasi di pianto che compariva nel viso di O'Malley quando egli rideva, cosa che accadeva ben di rado, al contrario sembrava che ridesse quando gli prendeva un furibondo accesso di collera; ma questo riso aveva qualcosa di raccapricciante, tanto che anche i tipi più calmi e forti tra gli ufficiali non potevano impedirsi di provare terrore. Ma come era raro che egli ridesse, così era altrettanto raro che si lasciasse trasportare dalla collera. Sembrava cosa impossibile che una uniforme andasse mai bene al maggiore O'Malley. L'arte del più abile fra tutti i sarti del reggimento naufragava alle prese con la informe figura del maggiore: l'abito tagliato e cucito seguendo le misure più precise cadeva in vuote pieghe, gli pendeva addosso, come appeso a un sostegno per essere spazzolato, mentre la spada gli sbatteva sulle gambe e il berretto se ne stava sulla testa in modo così stravagante, che già a un cento passi di distanza era possibile riconoscere il militare scismatico. E, cosa che al pedante attaccamento alla forma di quel tempo sembrava assolutamente inaudito, O'Malley non portava codino.
Certamente esso avrebbe fatto non poca fatica a rimanere attaccato ai rari e grigi ciuffi che si arricciavano alla base del suo cranio, giacché per il resto era del tutto calvo. Se il maggiore cavalcava, si sarebbe potuto credere in ogni momento che stesse per cadere da cavallo, se combatteva, che ad ogni istante stesse per essere colpito dall'avversario e con questo era il miglior cavaliere, il miglior spadaccino e in generale il più consumato e abile ginnasta che ci potesse essere. Tanto, per darti il ritratto di un uomo, l'attività e il carattere tutto del quale sono da chiamarsi veramente misteriosi, poiché un giorno gettava via rilevanti somme di denaro, per poi il giorno dopo trovarsi nel bisogno, e sottraendosi ad ogni controllo dei suoi superiori, faceva in ogni senso quello che voleva. Per l'appunto quello che voleva era per lo più così eccentrico ovverosia, piuttosto, così d'umor pazzo e bilioso, che la gente avrebbe avuto buone ragioni di essere preoccupata per l'integrità, del suo intelletto. Si raccontava, che il maggiore in un certo periodo, nel quale Potsdam e i suoi dintorni erano stati teatro di una singolare mistificazione implicata nelle vicende del tempo, avesse rappresentato una parte importante e ancor adesso avesse relazioni tali da testimoniare quanto di incomprensibile ci fosse nella sua posizione. Un libro tenuto in grande discredito, apparso allora (se non sbaglio sotto il titolo:
'Escorporazioni') e nel quale si trovava il ritratto di un uomo in tutto simile al maggiore, rinforzò quella credenza: e io stesso mi sentivo sempre più disposto a ritenere O'Malley una specie di Armeno, quanto più a lungo e da vicino osservavo la sua stravagante, fantastica, potrei dire spettrale maniera di vivere. Me ne diede anzi egli stesso occasione, avendo concepito nei miei riguardi a partire da quella sera in cui l'avevo trovato malato o per qualche altra ragione molto scosso, nel boschetto, una particolarissima propensione, così che gli sembrava indispensabile di vedermi ogni giorno. Descriverti le stravaganti manifestazioni di questa amicizia, raccontarti molte cose che avevano tutta l'apparenza di dar ragione al giudizio dei camerati i quali pensavano che il maggiore fosse un 'Doppeltganger' e certamente in relazione con il demonio, tutto questo non è poi così necessario che io lo faccia, poiché tra breve verrai a conoscenza dello spirito sinistro che era destinato a penetrare nella mia vita per sconvolgerla.
Mi era stato affidato il presidio di un forte: là venne a visitarmi un mio cugino, il capitano di T., che era venuto da Berlino a Potsdam in compagnia di un giovane ufficiale. Ce ne stavamo seduti in amichevoli conversazioni davanti a bicchieri di vino, quando, era quasi la mezzanotte, fece il suo ingresso nella stanza il maggiore O'Malley.
'Vi credevo solo, tenente,' disse, gettando uno sguardo seccato sui miei ospiti e facendo l'atto di allontanarsi. Il capitano gli ricordò che loro due erano vecchi conoscenti e alla mia preghiera O'Malley si compiacque di rimanere fra noi.
'Il vostro vino, - esclamò O'Malley, dopo averne inghiottito secondo la sua abitudine un bicchiere rapidissimamente, - il vostro vino, tenente, è il più vile raspatore che abbia mai dilaniato le budella di un onest'uomo: fatemi vedere se qui non c'è qualche cosa di meglio!'.
Così dicendo tolse dalla tasca interna del suo mantello commissariale che aveva indossato al solito sopra la camicia, una bottiglia e ne versò a tutti. Trovammo il vino eccellente e ritenemmo che si trattasse di un focoso vino ungherese.
Io stesso non saprei dirti come fu che il discorso cadde su operazioni magiche e da ultimo su quel discreditato libro, di cui ti parlavo poco fa.
Il capitano era solito prendere, specialmente quando aveva bevuto parecchio vino, un certo tono di scherno, che non tutti sapevano sopportare con calma. In questo tono cominciò appunto a parlare di esorcisti e stregoni militari che a quel tempo avevano portato a termine le cose più deliziose e simpatiche, per cui bisognava ancora prestare omaggio alla loro potenza e portar loro offerte di vittime.
'Chi intendete? - gridò O'Malley con voce minacciosa. - Chi intendete, capitano?... Che se per caso voleste fare allusione a me, possiamo escludere senz'altro l'esorcista; perché io mi occupo di 'esaminare' e potrei dimostrarvelo: ma a questo scopo non ho bisogno di talismano di sorta, mi basta la mia spada o una buona canna di pistola'.
Ma il capitano non si sentiva affatto disposto ad avere a che fare con O'Malley: assicurò, ritrattando cortesemente quanto aveva detto, che certamente era stata sua intenzione alludere al maggiore, ma soltanto per uno scherzo, senza dubbio inopportuno. Ora però voleva chiedere seriamente al maggiore se non fosse bene da parte sua confutare lo stupido pettegolezzo secondo il quale egli sarebbe stato in reale rapporto con sinistre potenze a lui sottoposte e per conseguenza contribuire a distruggere la sciocca superstizione, che non si accordava più con un'epoca rischiarata dai lumi della ragione. Il maggiore si stese in avanti occupando l'intera tavola, appoggiò il capo sulle mani strette a pugno, cosicché il suo naso venne a trovarsi ad una distanza massima dal viso del capitano di una spanna scarsa e disse, fissandolo con i suoi occhi spalancati e sporgenti, con grande calma: 'Anche se il Signore non vi ha illuminato con uno spirito molto penetrante, padrone, potrete tuttavia, voglio sperare, comprendere che sarebbe la più folle, la più assurda, direi anzi la più scellerata delle pretese, il credere che ogni cosa sia conclusa e finita con il nostro principio spirituale e che non esistano nature spirituali altrimenti dotate, spesso momentanea provvisoria forma da quella natura a sé stesse formando, che possano rivelarsi a noi nello spazio e nel tempo e, tendendo con tutte le loro forze a uno scambio di energie, possano rifugiarsi in quell'infornata sonora, parlante, che noi chiamiamo corpo. Non voglio ora rimproverare a voi, capitano, di essere completamente ignorante circa argomenti che non si imparano né sulle riviste né nelle parate, e di non avere mai letto niente. Ma se aveste soltanto una volta dato un'occhiata a certi libri che dico io, se conosceste Cardano, Giustino Martire, Lattanzio, Cipriano, Clemente di Alessandria, Macrobio, il Trigemesto, il Nollio, il Dorneo, Teofrasto, Fludd, Wilhelm, Postel, Pico della Mirandola, o soltanto gli ebrei della Cabbala, Giuseppe e Filone, forse sarebbe nata in voi l'intuizione di cose che ora trascendono il vostro orizzonte e delle quali non dovreste neppure parlare.' Detto questo, O'Malley balzò in piedi e si mise a camminare su e giù con tale violenza che i vetri delle finestre ne tremarono.
Il capitano, parecchio imbarazzato, assicurò che nonostante la sua ammirazione e la sua alta stima per la dottrina del maggiore, nonostante che non fosse sua intenzione dissentire da lui circa l'esistenza o meno, circa la necessità di nature spirituali superiori, tuttavia era sua salda e incrollabile convinzione che un legame, di qualsiasi tipo, con uno sconosciuto mondo di essenze spirituali fosse in tutto contrario alla condizione umana e perciò stesso impossibile, e tutto quello che poteva costituire eventualmente una prova del contrario fosse illusione o inganno.
O'Malley, dopo che già da qualche secondo il capitano era rimasto in silenzio, si fermò improvvisamente e cominciò: 'Capitano o voi (rivolgendosi a me) tenente, fatemi il piacere, sedetevi al tavolo e scrivete un poema eroico, magnifico, sovrumanamente grande come l'Iliade!'.
Noi rispondemmo ad una voce che questo non ci sarebbe mai riuscito, dal momento che in nessuno dei due abitava lo spirito di Omero.
'Ah! dunque! - gridò il maggiore. - Dunque vedete bene, capitano! Siccome il vostro spirito è incapace di concepire e di partorire il divino, siccome la vostra natura non saprà mai nulla della disposizione adatta anche soltanto all'accendersi dell'ardore per la conoscenza, così siete necessariamente costretto a negare che per un'altra qualsiasi creatura umana si faccia qualcosa di simile. E io vi dico: questo commercio con creature spirituali superiori è condizionato ad un particolare organismo psichico; e come la forza poetica creativa, così anche ogni organismo è un dono, concesso dal mondo degli spiriti al prescelto'.
Lessi sul viso del capitano, che egli era sul punto di rispondere al maggiore con scherno salace. Per prevenire il peggio, presi io la parola e feci notare al maggiore che, per quanto ne sapevo io, anche i cabalisti ponevano determinate regole e forme, mediante le quali raggiungere tale commercio con essenze immateriali sconosciute. Ma ancora prima che il maggiore avesse potuto ridere, il capitano riscaldato dal vino balzò in piedi e disse con amarezza: 'Ma a che cosa servono tante chiacchiere! Vi state spacciando per una natura superiore, signor maggiore! Volete farci credere che voi, creato di migliore materia, che uno qualunque di noi abbia l'impero degli spiriti. Permettete che io vi ritenga un pazzoide fanatico, fino a tanto che non avrete portato alla luce del giorno una prova della vostra forza psichica!'.
Il maggiore scoppiò in una risata selvaggia e disse poi: 'Ma che cosa credete, capitano? Voi pensate che io sia di volgare esorcizzatore, di pietoso, deplorevole prestigiatore. Questo si confà perfettamente al vostro miope comprendonio!... Eppure!... Vi sarà concesso di gettare uno sguardo in un tenebroso regno di cui voi non avete neppure il più lontano presentimento e che potrebbe afferrarvi a vostra rovina!... Io ve ne prevengo e vi faccio riflettere che il vostro animo potrebbe non essere forte abbastanza da sopportare molte cose che a me appaiono comico gioco.' Il capitano assicurò di essere pronto a misurarsi con tutti gli spiriti e tutti i diavoli che O'Malley era sul punto di evocare con i suoi scongiuri: cosicché dovemmo dare al maggiore la nostra parola d'onore che nella notte dell'equinozio di autunno, nell'istante preciso in cui battevano le dieci, ci saremmo trovati nell'osteria posta accanto a una delle porte della città.
Intanto era venuto il giorno: il sole splendeva attraverso la finestra. Allora il maggiore andò a porsi in mezzo alla stanza e con voce tonante gridò: 'Incubus!... Incubus!... Nehmahmihah Scedim!'. Gettò a terra il mantello che fino a quel momento non aveva deposto e fu lì in perfetta uniforme.
In quello stesso istante io fui costretto ad allontanarmi, poiché la guardia prendeva allora le armi. Quando rientrai erano scomparsi tutti e due, tanto il maggiore che il capitano.
'Io sono rimasto - disse il giovane ufficiale, giovanetto amabile e pio, che trovai solo. - Sono rimasto qui ad aspettarvi solo allo scopo di mettervi in guardia contro questo maggiore, contro quell'uomo terrificante! Lungi da me rimangono i suoi tremendi segreti e mi pento di aver dato la mia parola per assistere ad un avvenimento che potrà essere - e lo sarà certamente per il capitano - rovinoso per tutti noi. Lei mi farà certo l'onore di credere che non sono più disposto ormai a prestare fede a quello che la governante mi raccontava da bambino: ma... ha notato lei che il maggiore ha estratto una dopo l'altra otto bottiglie dalla sua tasca, che in apparenza è grande a malapena quanto basta per contenerne una sola?... che da ultimo, per quanto fino allora non avesse portato sotto il mantello che la camicia, è apparso improvvisamente in mezzo a noi vestito di tutto punto da mani invisibili?' Ed era proprio così come diceva il tenente; devo confessare che fui scosso da brividi gelati.
Il giorno stabilito, il capitano si ritrovò da me in compagnia del suo giovane amico e allo scoccare delle dieci ci trovammo, così come era stato fissato con il maggiore, nell'osteria... Il tenente era silenzioso e raccolto in sé, tanto più rumoroso e allegro appariva accanto a lui il capitano. 'In realtà, - esclamò costui, quando furono ormai le dieci e mezzo e O'Malley non si era ancora fatto vedere. - In realtà io propendo a credere che il signor esorcista ci lasci con tutti i suoi diavoli e spiriti.' 'No, che non lo fa,' fu detto proprio dietro le spalle del capitano e O'Malley stette dietro a noi, senza che nessuno avesse notato come e quando fosse entrato nella stanza. Al capitano morì in gola la risata che avrebbe voluto far seguire alle sue parole.
Il maggiore, vestito come al solito in uniforme, dichiarò che prima di recarci insieme nel luogo in cui egli avrebbe adempiuto alla sua promessa, c'era ancora tempo di bere un paio di bicchieri di punch: ci avrebbe anzi fatto bene, perché la notte era fredda e rigida e avevamo davanti a noi un buon tratto di cammino da percorrere. Ci sedemmo a un tavolo, sul quale il maggiore depose alcune fiaccole legate insieme e un libro.
'Ohoh! - esclamò il capitano. - Questo è certamente il vostro libro di scongiuri, maggiore?'. 'Si capisce!' replicò seccamente O'Malley.
Il capitano afferrò il libro, lo aprì e nello stesso istante scoppiò a ridere così smodatamente, che noi non riuscivamo a capire che cosa potesse essergli sembrato tanto pazzamente ridicolo.
'No, - disse alla fine il capitano, rimettendosi con fatica. - Ah! no! questo è troppo!... Maggiore, in che diavolo di modo avete in mente di prendervi gioco di noi, oppure vi siete soltanto sbagliato? Amici, camerati, guardate qui un momento!'.
'Tu puoi immaginarti, Alberto, amico mio, il nostro profondo stupore allorché ci accorgemmo che il libro che il capitano ci reggeva davanti agli occhi, non era altro che... la grammatica francese del Peplier!...' O'Malley tolse il libro dalle mani del capitano, lo ficcò nella tasca interna del mantello e disse poi in tono molto tranquillo, ché del resto appariva quella sera più che mai tranquillo e dolce:
'Può essere perfettamente indifferente a voi capitano di quale mezzo io intenda servirmi per adempiere la promessa: che del resto in nient'altro consiste se non nel dimostrarvi sensibilmente le mie relazioni con il mondo degli spiriti che ci circonda, in cui anzi è condizionata una nostra superiore esistenza. Ma che cosa credete, che la mia energia abbia bisogno di miserabili grucce o sostegni, quali sarebbero ad esempio: speciali formule mistiche, scelta di un tempo particolare, di un luogo fuori mano e raccapricciante, di cui sono soliti servirsi certi miserevoli seguaci della cabala per esperimenti privi di qualsiasi valore? In mercato aperto, a ogni ora del giorno potrei dimostrarvi quello che è in mio potere. E se allora, quando voi, abbastanza temerariamente, mi avete portato al limite della sopportazione, ho scelto un determinato tempo e un luogo che potesse sembrare a voi raccapricciante, era questa semplicemente una cortesia che ho voluto usare a causa vostra a colui che in certo modo sarà questa volta vostro ospite. Si ricevono volentieri gli ospiti nelle camere adeguatamente preparate e nell'ora più adatta.' Suonarono le undici; il maggiore prese le fiaccole e ci ordinò di seguirlo. Egli avanzò - a passo rapido, tanto che noi facevamo fatica a stargli dietro - dapprima sulla strada maestra, poi piegò, all'altezza della piccola casa del dazio, a destra in un viottolo che portava verso il fitto bosco di pini. Corremmo per quasi un'ora, dopo di che finalmente il maggiore si fermò e ci raccomandò di tenerci ben vicini a lui, altrimenti non avremmo visto il cammino ed avremmo con facilità grande potuto perderci nel fitto del bosco in cui ormai stavamo per inoltrarci. Incominciò allora il cammino attraverso i cespugli e i lacci di rampicanti più folti, così che l'uno o l'altro di noi rimaneva appeso con l'uniforme o con la spada ed era costretto ad aprirsi con fatica una via, fino a che giungemmo ad una radura.
Raggi di luna penetravano attraverso la densa nuvolaglia e io vidi le rovine di un considerevole edificio; in esse penetrò il maggiore. A ogni passo il buio era più cieco: il maggiore ci gridò di fermarci, poiché ci avrebbe portati giù tutti, uno alla volta. Cominciò con il capitano: poi fu la volta mia. Il maggiore mi aveva abbracciato e mi portava, piuttosto che non mi conducesse giù nella tenebra. 'Rimanete, - mi sussurrò O'Malley. - Rimanete qui tranquillamente fino a quando ho portato giù il tenente: allora comincerà il mio lavoro'.
Percepii nell'impenetrabile oscurità il respiro di qualcuno che mi stava vicino: 'Sei tu, capitano?' gridai. 'Certamente rispose il capitano. - Fa' attenzione, cugino, che qui si sta per combinare qualche stupido gioco di bussolotti; ma il maggiore ci ha portato in un dannatissimo posto e vorrei davvero sedere ancora davanti al mio bicchiere di punch: perché ho dei brividi in tutte le membra per il gelo e, se vuoi, anche per una certa infantile paura'.
Io non ero in condizioni migliori di quelle del capitano... Il rigido vento autunnale soffiava e fischiava attraverso i muri; uno strano sussurrare e sospirare gli rispondeva dal profondo. Uccelli notturni strappati alla loro quiete e impauriti svolazzavano intorno a noi con fracasso mentre un leggero guaito sembrava strisciare su dal suolo. In verità il capitano e io avremmo potuto a ragione dire dell'orrore del nostro soggiorno le stesse parole che Cervantes dice di Don Chisciotte.
'la fatale notte prima dell'avventura con i mulini a vento.' Uno dotato di minore coraggio avrebbe perso ogni ritegno. Allo sciacquio di un'acqua vicina e all'ululare dei cani capimmo che non dovevamo trovarci lontani dalla fabbrica di cuoio, che è situata alle porte di Potsdam, proprio vicino al fiume. Alla fine percepimmo il rumore sordo di passi che si facevano sempre più vicini, fino a che vicinissimo a noi il maggiore gridò: 'Adesso siamo tutti insieme e possiamo portare a compimento quello che è stato iniziato!'.. Per mezzo di un preparato chimico egli accese le fiaccole che aveva portato con sé, e le fissò al suolo. Erano sette. Ci trovammo ad essere in una cantina a volta che stava cadendo in rovina. O'Malley ci dispose in un semicerchio, gettò via mantello e camicia, rimanendo ritto accanto a noi nudo dalla cintola in su, aprì il libro e cominciò a leggere con una voce piuttosto simile al ruggito di un lontano animale da preda che all'accento umano: 'Monsieur, prêtez-moi un peu, s'il vous plait, votre canif. Oui, monsieur, d'abord... le voilà... je vous le rendrai...'. 'No!' interruppe a questo punto Alberto il suo amico. 'E' un po' forte! Il dialogo con i vocaboli che riguardano lo scrivere, tolto dalla grammatica di Peplier, come formule di scongiuro!... E voi non vi siete messi a ridere e l'intera buffonata non ha avuto una buona volta fine?...'.
'Sto per arrivare - continuò Vittore. - Sto per arrivare a un momento, di cui sinceramente non so se mi sarà dato di rappresentarlo qui per te. Che la tua fantasia dia vita alle mie parole!... La voce del maggiore si faceva sempre più spaventosa, mentre la tempesta infuriava più violenta e il tremolante chiarore delle fiaccole dava vita alle pareti con strane figure, in un battito d'ala trapassanti. Sentivo il sudore freddo che mi gocciava dalla fronte: con uno sforzo violento ripresi padronanza di me stesso... ecco che un suono tagliente passò fischiando attraverso la volta e lì proprio davanti ai miei occhi stette un Qualcosa".
"Come, - gridò Alberto - un Qualcosa? Ma che cosa vuoi dire, Vittore?... una forma spaventosa?...".
"Sembrerebbe, - continuò a dire Vittore, - sembrerebbe una folle e scellerata insania da parte mia il parlare di una forma senza forma, eppure non posso trovare altra espressione per definire quell'atroce Qualcosa che io scorsi. Basta: nel medesimo istante l'orrore infernale mi cacciò una gelida e acuta punta di pugnale nel petto e persi conoscenza. Nella piena chiarità del mezzogiorno mi ritrovai steso sul mio letto, spogliato dei miei abiti. Tutti gli orrori della notte erano scomparsi, mi sentivo perfettamente a posto e leggero. Il mio giovane amico dormiva nella poltrona. Ma al mio muovermi il tenente si svegliò e dimostrò la gioia più viva nel trovarmi guarito. Da lui venni a sapere come egli avesse chiuso gli occhi non appena il maggiore aveva dato inizio al suo tenebroso lavoro e si fosse sforzato in tutti i modi di seguire il dialogo della grammatica del Peplier e di non volgere la mente a nient'altro all'infuori di quello.
Nonostante tutto questo un'angoscia mai conosciuta lo aveva afferrato, senza pertanto togliergli la conoscenza. Quel raccapricciante sibilo (così mi raccontò il tenente) era stato seguito da un selvaggio smodato scoppio di risa. Allora involontariamente il tenente aveva aperto gli occhi ed aveva visto il maggiore, che si era gettato di nuovo il mantello sulle spalle, sul punto di caricarsi sulle spalle il capitano, che giaceva svenuto al suolo.
'Prendetevi il vostro amico', gridò O'Malley al tenente, dandogli una fiaccola, e prese a salire con il capitano. Il tenente allora si rivolse a me, che me ne stavo lì immobile, ma invano. Apparivo preso da crampi spasmodici e fu soltanto con estrema fatica e sforzo estremo che il tenente riuscì a trasportarmi all'aperto. A un tratto il maggiore si girò indietro, mi sistemò sulle sue spalle e mi portò via, come prima il capitano. Ma un profondo terrore si impadronì del tenente, quando, uscito dalla foresta, vide sull'ampia strada maestra un altro O'Malley, che portava il capitano. Pregando in silenzio per la propria salvezza, egli riuscì tuttavia a dominare il suo terrore e mi seguì, fermamente deciso, succedesse quel che voleva succedere, a non lasciarmi fino alla porta del mio quartiere, dove O'Malley mi depose e, senza dire una parola, sparì. Con l'aiuto del mio servitore (che era già allora il mio onesto buffone, Paolo Talkebarth) il tenente mi portò su nella mia stanza e mi mise a letto. Il mio giovane amico concluse il suo racconto scongiurandomi nel modo più commovente di rinunciare ad ogni relazione con quell'uomo spaventoso. Il medico chiamato in tutta fretta aveva trovato il capitano ridotto senza l'uso della parola, colpito, in quell'osteria fuori porta, nella quale ci eravamo radunati. Egli guarì, ma non fu più idoneo al servizio e dovette chiedere il congedo. Il maggiore era scomparso: gli ufficiali dicevano che era in licenza. E io fui intimamente contento di non averlo rivisto, poiché dal terrore che le sue tenebrose operazioni avevano causato in me, era sorta una profonda esacerbazione nella mia anima. La disgrazia del mio parente era colpa di O'Malley e vedevo il dovere di prendere su lui vendetta di sangue.
Era passato molto tempo: il ricordo di quella notte fatale si era impallidito. Le occupazioni, che il servizio impone, mettevano un freno e comprimevano le mie tendenze alle mistiche fantasticherie. Un giorno mi capitò fra le mani un libro, l'influenza del quale su tutto il mio essere mi sembrò del tutto inesplicabile. Intendo parlare di quel meraviglioso racconto di Cazotte, che in traduzione tedesca ha preso il titolo di 'Teufel amor' (titolo francese originale: 'Le Diable amoureux'). La mia congenita timidezza e anche un certo infantile e schivo carattere e modo di vivere mi avevano sempre tenuto lontano dalle donne, così come allo stesso modo una particolare direzione del mio spirito si opponeva resistendo al ribollire più violento dei bassi desideri dei sensi. Posso essere certo di non mentire, stimando di essere allora del tutto vergine, poiché né il mio cervello, né la mia fantasia si erano fino a quel momento affaticati delle scambievoli relazioni dell'uomo e della donna. Soltanto allora per la prima volta si destò in me, si aprì per me il mistero di una sensualità della quale non avevo avuto il più lontano presentimento. I miei polsi battevano, un fuoco distruggitore mi serpeggiava con violenza nelle vene e nei nervi alla lettura delle scene del più pericoloso e del più raccapricciante amore, che il poeta rappresenta con vivi e infiammati colori. Non sentivo, non vedevo che la seducente Biondetta, soggiacevo come Alvarez ai voluttuosi tormenti".
"Un momento, - interruppe Alberto a questo punto l'amico, - un momento!... non ricordo troppo bene il 'Diavolo innamorato' di Cazotte: ma per quello che ne so, la storia fa perno sul fatto che un giovane ufficiale della Guardia del re di Napoli viene indotto da un amico dedito a pratiche, ad evocare con scongiuri il diavolo in certe rovine vicino a Portici. Nel momento in cui pronuncia la formula una ripugnante testa di cammello si fa avanti sporgendosi da una finestra e grida con voce da far rabbrividire: 'Che vuoi?'. Alvarez, ché tale è il nome del giovane ufficiale della Guardia, ordina allo spirito di mostrarsi prima sotto le forme di un piccolo cane da guardia, poi di un paggio. Accade però che ben presto da quel paggio si sviluppa la più seducente e al tempo stesso la più innamorata fanciulla, che adesca e invischia nel modo più completo e assoluto l'evocatore. Ma come poi vada a finire la graziosissima storiella di Cazotte, mi è proprio sfuggito dalla memoria".
"Questo, - continuò Vittore, - questo non ha nessuna importanza in questo momento: te ne ricorderai alla fine della mia storia... insomma dipese dalla mia tendenza al meraviglioso, ma anche al misterioso, di cui avevo fatto esperienza, se la storia di Cazotte mi apparve ben presto sotto specie di magico specchio, in cui vedevo riflesso il mio proprio destino. Non era forse per O'Malley quel mistico olandese, quel Soberano, che aveva adescato con le sue arti Alvarez? Il desiderio tormentoso che bruciava in me di passare per la stessa tremenda avventura di Alvarez, mi riempiva di terrore; ma i brividi stessi di tale orrore mi facevano sussultare di indescrivibile voluttà, quale mai avevo conosciuta. Spesso nel mio animo si agitava confusa una speranza: che O'Malley sarebbe ritornato e avrebbe dato nelle mie braccia la creatura infernale alla quale ormai mi ero dato tutto, e non avevo la forza di uccidere la peccaminosa speranza e il profondo ribrezzo che venivano poi a trapassarmi il petto simili a punta di pugnale. La strana situazione del mio animo, derivata dal mio stato di esaltazione, rimase per tutti un enigma: mi ritennero malato nell'anima, tentarono di rasserenarmi, di distrarmi: col pretesto di ragioni di servizio fui spedito alla Residenza, dove mi erano aperti i circoli più brillanti. Ma se prima ero stato timido e ombroso ora la società, e soprattutto ogni contatto con le donne, era causa per me di una decisa ripugnanza: poiché anche la più attraente di loro mi sembrava soltanto uno scherno all'immagine di Biondetta, che portavo sempre nel mio cuore. Quando rientrai a Potsdam, sfuggii la vita comune con i miei camerati e il luogo preferito da me per i miei soggiorni era la foresta, teatro un giorno dei raccapriccianti avvenimenti che erano quasi costati la vita al mio povero cugino. Me ne stavo proprio accanto alle rovine ed ero agitato da un oscuro impulso, sul punto di aprirmi un varco attraverso il fitto cespuglio di pruni, quando a un tratto scorsi O'Malley che veniva avanti lentamente e sembrava non accorgersi di me. L'ira, tanto a lungo frenata, divampò: avanzai con impeto verso il maggiore e gli spiegai in poche parole come per quello che era successo con mio cugino, egli dovesse ora battersi con me. 'Può essere fatto subito,' rispose il maggiore, freddo e perfettamente tranquillo. Buttò da una parte il mantello, tirò fuori la spada e mi tolse la mia di mano alla prima mossa con irresistibile abilità e forza. 'Fino all'ultimo sangue!' gridai nel mio selvaggio furore e volevo raccogliere da terra la spada, ma O'Malley mi trattenne saldamente e disse con voce soave e quieta come mai l'avevo udita sulle sue labbra: 'Non essere pazzo, figliolo. Vedi bene che ti sono superiore nella lotta: saresti tu il primo a rimetterci la pelle e d'altra parte non mi perdonerei mai di stare di fronte a te come un nemico, poiché è a te che devo la vita e certo anche qualcosa di più.' Il maggiore mi prese allora sottobraccio e mentre mi trascinava via con dolce violenza, mi dimostrò che la sciagura del capitano ricadeva su di lui e su nessun altro, per sua colpa; avendo egli, nonostante ogni avvertimento, voluto osare cose per le quali non era fatto e costretto lui, il maggiore, a fare quello che aveva fatto con il suo scherno inopportuno. Non so neppure io quale strana forza di magico fascino suonasse nelle parole di O'Malley, si manifestasse in tutto il suo modo di comportarsi. Non soltanto gli riuscì di calmarmi, ma di pormi in un tale stato di esaltazione, che senza volerlo gli rivelai tutto quello che stava succedendo in me, la sconcertante lotta della mia anima. 'La particolare costellazione, - disse O'Malley, quando ebbe appreso tutto, - la particolare costellazione che si libra sopra il tuo capo, figlio mio, ha stabilito che un giorno un insipido libro ti facesse avvertito di quello che esiste nell'interno di te stesso. Insipido voglio chiamare quel libro, perché vi si parla di un fantoccio, il quale si mostra alquanto spiacevole e privo di carattere. Ciò che tu attribuisci all'azione delle immagini voluttuose del poeta non è se non l'impulso a un'unione con un'essenza spirituale proveniente da un'altra regione, condizionata dal tuo organismo, felice composizione di elementi diversi. Se tu mi avessi dimostrato confidenza maggiore, saresti già da lungo tempo in uno stadio superiore; e tuttavia voglio prenderti ora per mio scolaro.' O'Malley cominciò allora con l'istruirmi sulla natura degli spiriti elementari. Io capivo poco di quello che mi diceva, mentre frattanto tutto il discorso veniva a finire nella teoria delle Silfidi, delle Ondine, delle Salamandre e degli Gnomi, come la potresti trovare anche tu nelle conversazioni dei 'Racconti di Cabalis'. Concluse dicendo che mi prescriveva un particolare modo di vita ed era di opinione che certamente nello spazio di un anno avrei raggiunto la mia Biondetta, che senza dubbio non mi avrebbe portato il dolore di trasformarsi tra le mie braccia in un maligno Satana. Con lo stesso ardore di Alvarez, giurai che sarei morto di desiderio in un tempo così lungo, di desiderio e di impazienza e volevo perciò osare tutto per arrivare prima alla mia meta. Il maggiore tacque, fissando lo sguardo avanti a sé pensieroso e poi rispose: 'Certo è che uno spirito elementare tende con desiderio d'amore a voi: questo vi renderà forse possibile di raggiungere in breve tempo quello per cui altri lottano anni e anni. Voglio trarvi l'oroscopo: forse mi si rivelerà la vostra amante. Tra nove giorni vi farò sapere qualcosa di più.' Contavo le ore. Ora mi sentivo tutto penetrato di una dolce speranza, ora avevo la sensazione di essermi cacciato tra i pericoli. Finalmente, nella tarda sera del nono giorno, il maggiore entrò nella mia stanza e mi invitò a seguirlo. 'Si va alle rovine?' chiesi. 'Per niente - rispose O'Malley sorridendo.- Per l'opera che ci proponiamo non è necessario un luogo fuori mano e raccapricciante e neppure una spaventosa evocazione con gli scongiuri della grammatica del Peplier.
Tanto più che il mio Incubus non deve avere parte alcuna nell'esperimento odierno, che siete voi propriamente a intraprendere, non io.' Il maggiore mi portò al suo Quartiere e spiegò come il fine dell'operazione fosse di procurarmi il Qualcosa, per mezzo dal quale il mio Io sarebbe stato schiuso allo spirito elementare e questo avrebbe ricevuto la forza di rivelarsi a me nel mondo visibile ed avere con me commercio sensibile. Si trattava del Qualcosa che i cabalisti ebrei chiamano 'Teraphim'. O'Malley spostò una scansia di libri, aprì la piccola porta che quella celava ed entrammo in un piccolo gabinetto a volta, nel quale, tra le altre strane suppellettili, riconobbi un insieme completo di strumenti per ricerche chimiche, o, come inclinavo a credere, per esperimenti alchimistici.
Sul fornello si sprigionavano dal carbone incandescente fiamme azzurrine. Davanti a questo fornello io dovetti pormi, dirimpetto al maggiore, denudandomi il petto. Avevo appena compiuto questo gesto, che il maggiore rapido, prima che io potessi venirgli meno, fece con una lancetta un'incisione sotto il mio seno sinistro e raccolse in una piccola fiala le poche gocce di sangue sgorgate dalla lieve, a malapena avvertibile ferita. Poi prese una placca di metallo, che la politura aveva reso chiara e simile a uno specchio, vi versò il contenuto di un'altra fiala, una specie di rossiccio umidore, poi di seguito vuotò la fiala che conteneva il mio sangue e con una tenaglia portò la placca sopra al fuoco di carbone. Mi assalì un brivido di terrore profondo, quando mi parve di scorgere che sul carbone si attorcesse a guisa di serpente una lunga, acuminata, infocata lingua, che leccava via con ingordigia voluttuosa il sangue dallo specchio metallico. Il maggiore mi ordinò a questo punto di fissare il fuoco, tendendo intensamente i miei sensi. Lo feci e ben presto ebbi l'impressione di vedere, come in un sogno, lampeggiare vicendevolmente dal metallo che il maggiore teneva ancor sempre saldo al di sopra del fuoco, figure confuse. Ed ecco che a un tratto sentii al petto là dove il maggiore aveva inciso la mia pelle un dolore a tal segno lancinante e violento, che senza volerlo gridai forte. 'Riuscito, riuscito!' esclamò nello stesso istante O'Malley, si alzò dal suo seggio e mise davanti a me sul fornello una pupetta alta circa due dita, a cui sembrava si fosse ridotto lo specchio metallico. 'Questo - disse il maggiore- è il vostro Teraphim. Il favore dello spirito elementare nei vostri riguardi ha l'aria di essere veramente insolito. Adesso potete osare l'estremo.' Per ordine del maggiore presi in mano la pupa, da cui si diffondeva, malgrado che l'apparenza inducesse a crederla incandescente, un calore benefico, la premetti contro la mia ferita, andandomi a porre davanti ad uno specchio rotondo, dal quale il barone aveva allora tolto il panno che lo ricopriva. 'Tendete, - mi sussurrò piano all'orecchio O'Malley, - tendete il vostro animo al più fervido desiderio, il che non vi sarà difficile, poiché il Teraphim è qui che esercita la sua azione e dite con l'accento più dolce di cui siate capace la parola...'. In realtà ho dimenticato la parola dallo strano suono, che allora O'Malley mi suggerì. Ma la metà delle sillabe che la componevano era appena sulle mie labbra, che un brutto volto mi rise maligno dallo specchio nel suo pazzo contorcimento. 'Per tutti i diavoli dell'inferno, da dove vieni, maledetto cane?' gridò O'Malley dietro a me. Mi volsi e vidi il mio Paolo Talkebarth, che stava dritto nell'inquadratura della porta: era il suo bel volto che si era riflesso nel magico specchio. Il maggiore si precipitò furibondo su Paolo Talkebarth: ma prima che io avessi il tempo di gettarmi tra loro, O'Malley si arrestò immobile davanti a lui a una minima distanza e Paolo colse l'occasione per utilizzare il minuto con prolisse espressioni di scusa: che lui mi aveva cercato, che lui aveva trovato la porta aperta, che lui era entrato e così via. 'Togliti di mezzo, gonzo!' disse alla fine O'Malley con gran calma e poiché io aggiungevo: 'Vai pure, mio buon Paolo, vengo subito a casa!' così il povero Eulenspiegel se ne andò via tutto spaventato e sconcertato.
Io avevo continuato a tenere ben salda in mano la pupa e O'Malley dichiarò che soltanto questa circostanza aveva fatto in modo che non andasse persa tutta la fatica fino allora compiuta. L'intrusione inopportuna di Paolo Talkebarth aveva in ogni modo differito il compimento dell'operazione di lungo tempo. Mi consigliò di cacciare il mio servo fedele: ma questo io non potevo sopportarlo. Il maggiore mi informò inoltre che lo spirito elementare che mi aveva donato il suo favore era niente di meno che una salamandra, ciò che si era già manifestato a lui nell'oroscopo, poiché Marte era stato nella prima casa. Di nuovo mi avvicino a momenti che tu potrai soltanto intuire, poiché manca per esprimerli una forma. Dimenticato era ormai il diavolo amoroso, dimenticata Biondetta; io pensavo soltanto... al mio Teraphim. Per ore ed ore riuscivo a fissare la pupa, posta davanti a me su un tavolo, e l'ardore amoroso che furoreggiava nelle mie vene sembrava a poco a poco dare vita, simile al fuoco divino di Prometeo, alla piccola pupa, che cresceva nella voluttà della mia brama. Ma con la stessa rapidità, la figura che si era formata si liquefaceva, nel momento stesso in cui io la pensavo, e al tormento indicibile che mi trapassava il cuore io associavo una strana ira che mi spingeva a gettare via lontano da me la figurina, ridicolo miserabile trastullo. Ma mentre lo afferravo, tutte le mie membra erano come attraversate da una scarica di elettricità e credevo di sentire che la separazione dal talismano dell'amore avrebbe significato l'annientamento di me stesso.
Confesso sinceramente che il mio desiderio, per quanto valesse per uno spirito elementare, si dirigeva soprattutto, in ogni sorta di equivoci sogni, su oggetti del mondo dei sensi, cosicché la mia esaltata fantasia sostituiva ora questa ora quell'altra figura di donna alla ritrosa salamandra, che sfuggiva al mio abbraccio. Naturalmente riconoscevo la mia colpa e scongiuravo il mio piccolo Mistero di perdonarmi l'infedeltà commessa. Soltanto al diminuire della forza di quella strana crisi che altre volte aveva scosso le più remote profondità della mia anima nell'amoroso ardore, e ancor più a un certo senso di vuoto molto spiacevole, io sentivo bene che mi andavo allontanando, anziché avvicinando, alla mia meta. E tuttavia gli impulsi del giovane nella piena fioritura delle sue forze erano uno scherno per il mio Mistero, si prendevano beffe del mio lottare.
Sussultavo al minimo contatto di una qualunque bella donna, e al tempo stesso mi sentivo arrossire in una tremenda vergogna. Il caso mi condusse di nuovo alla Residenza. Vidi la contessa di L., la donna più deliziosa, più seducente e insieme la più desiderosa di conquiste, che avesse mai brillato nei più alti circoli di Berlino: essa gettò su di me il suo sguardo e nella condizione in cui si trovava allora il mio spirito fu per lei cosa delle più facili l'attirarmi nella sua rete di vezzi, e mi ridusse al punto che le confessai senza ritegno tutto quello che tenevo nascosto nel mio animo, le rivelai il mio segreto, le mostrai persino la misteriosa figurina, che portavo costantemente sul petto".
"E lei, - interruppe Alberto l'amico, - lei non ti è scoppiata a ridere in faccia, non ti ha trattato come un ragazzo insensato?".
"No, - continuò Vittore. - No, niente di tutto questo. Mi ascoltò con una serietà che non le era altrimenti propria, e quando io ebbi finito mi scongiurò con le lacrime agli occhi di rinunciare alle diaboliche arti del malfamato O'Malley. Afferrandomi tutte e due le mani, fissandomi con l'espressione dell'amore più soave, essa mi parlò delle tenebrose pratiche degli adepti della Cabala in modo tanto dotto, tanto profondo, che io dovetti non poco meravigliarmene. Ma il mio stupore salì al colmo allorché essa trattò il maggiore come il più scellerato, il più empio traditore a cui io avessi mai salvato la vita, ragione per cui egli voleva trascinarmi nella rovina, invischiandomi con la sua negromanzia. Fallito nella vita, sul punto di essere schiacciato al suolo dal peso della propria profonda ignominia, O'Malley era stato effettivamente lì lì per togliersi la vita, quando io mi ero intromesso impedendo il suicidio, che poi gli era divenuto grave con l'allontanarsi del dolore da lui. Se il maggiore mi aveva ridotto malato fisicamente, così concluse la contessa, lei voleva salvarmi e il primo passo verso la guarigione doveva essere la consegna nelle sue mani della figurina. Lo feci volentieri e con pieno consenso, credendo di liberarmi nel modo migliore da un inutile tormento... La contessa non avrebbe dovuto essere quello che era invece in realtà, se avesse lasciato languire per molto tempo il suo amante, senza calmare la sete bruciante dell'amore. Così accadde anche per me. Finalmente sarei stato felice. A mezzanotte una cameriera fidata attendeva alla porta del palazzo e mi condusse attraverso lunghi e tortuosi corridoi in una stanza che il dio stesso dell'amore sembrava avere ornata. Qui dovevo attendere la contessa. Semistordito dai dolci vapori dei delicati profumi che ondeggiavano per la stanza, sussultante di gioia o di desiderio, rimanevo nel centro della stanza: e allora colpì, trapassò come bagliore di lampo il più intimo del mio essere uno sguardo".
"Come, - gridò Alberto - uno sguardo e non c'erano occhi? E non hai visto niente?... di certo un'altra forma senza forma!".
"Puoi benissimo - riprese Vittore - puoi benissimo trovare quello che ti dico incomprensibile, insomma... non una forma, non scorsi niente, eppure sentii lo sguardo profondamente nel mio petto e un improvviso dolore mi strinse in uno spasimo nel punto che O'Malley mi aveva ferito. Nello stesso istante vidi sulla cornice del camino la mia figurina, in fretta la afferrai, mi precipitai fuori, ordinai con gesti minacciosi alla cameriera spaventata di farmi uscire, corsi a casa, svegliai il mio Paolo e gli feci fare i bagagli. Le prime luci dell'alba mi trovarono sul cammino di ritorno a Potsdam. Avevo trascorso diversi mesi alla Residenza, i camerati si rallegrarono di rivedermi così inaspettatamente e mi trattennero senza scampo l'intero giorno, tanto che soltanto a tarda sera potei fare ritorno al mio quartiere. Deposi la mia cara e riconquistata figurina sul tavolo e mi gettai, non potendo resistere più a lungo alla stanchezza, vestito com'ero, sul letto. Ma ben presto ebbi in sogno la sensazione di essere tutto all'intorno bagnato da fasci luminosi! Mi svegliai, aprii gli occhi: la stanza riluceva veramente di magico chiarore. Ma - o Signore del cielo! - nel medesimo luogo sulla tavola, là dove io avevo deposto la pupa, scorsi un essere femminile che, appoggiato il capo fra le mani, sembrava abbandonato in un sonno leggero. Posso dirti soltanto che non avevo sognato mai una figura più delicata e più incantevole, un volto più delizioso e caro. Fare che tu anche soltanto intuisca il fascino meraviglioso, misterioso, che raggiava dalla bella figura, questo non è possibile alle mie parole. Portava un abito di seta colore del fuoco, che aderendole strettamente al petto e alla vita le giungeva soltanto ai malleoli, lasciandole scoperti i graziosi piedini. Le bellissime braccia, nude fino alla spalla, cui sembrava che Tiziano avesse dato forma e alitato colore, erano adorne di fermagli d'oro; nei capelli bruni dai riflessi rossicci brillava un diamante".
"Ehi, ehi! - disse ridendo Alberto, - la tua salamandra non ha poi un gusto eccezionale... capelli rosso-bruni con tutto questo si veste di seta color fuoco".
"Non prendere in giro - continuò Vittore. - Non prendere in giro, te lo dico un'altra volta: preso da quel fascino misterioso, sentii mozzarmisi il respiro. Finalmente dal mio petto oppresso sfuggì un profondo sospiro. Essa allora aprì gli occhi, si alzò, si avvicinò a me, afferrò la mia mano! La fiamma incandescente dell'amore, del bramoso desiderio spasimò come un lampo attraverso il mio essere, allorché essa strinse lievemente la mia mano, allorché con dolcissima voce mi sussurrò: 'Sì!... Tu hai vinto, tu sei il mio signore, il mio padrone, io sono tua!...'. 'O figlia di dei... creatura celeste!' così gridai forte, la circondai con le mie braccia, me la strinsi al petto. Ma nello stesso istante la creatura liquefece nel mio abbraccio".
"Come? - interruppe Alberto l'amico. - Come sarebbe a dire, per mille diavoli!, liquefatta?...".
"Liquefatta - continuò Vittore - nelle mie braccia. In nessun altro modo potrei descriverti la mia sensazione dell'indescrivibile scomparire di quella soave creatura. E immediatamente si spense il chiarore e io caddi, non so neppure come, in un sonno profondo. Quando mi svegliai avevo fra le mani la pupa. Ti annoierei certamente raccontandoti, intorno ai singolari rapporti miei con la misteriosa creatura, che cominciati quella notte durarono parecchie settimane, più di questo: ogni notte la visita si ripeteva allo stesso modo. Per quanti sforzi facessi a resistere, non potevo oppormi allo stato di sogno, che mi prendeva e dal quale la dolcissima creatura mi svegliava con un bacio. Ma sempre più a lungo rimaneva con me. Molte cose diceva di misteriose esistenze, ma io ero piuttosto intento alla dolce musica delle sue parole, che alle parole stesse. Essa accettava e ricambiava le più dolci carezze. Ma quando io credevo, nel delirio del più ardente rapimento, di aver raggiunto il colmo dell'amore, allora essa scompariva, si dileguava via da me, mentre io piombavo in sonno profondo. Tuttavia spesso anche durante il giorno mi sembrava di sentire il tiepido soffio di una creatura che mi stesse accanto: anzi a volte percepivo vicino a me un sussurrare lieve lieve, un sospiro, quand'ero in società e soprattutto quando parlavo con una donna, di modo che tutti i miei pensieri si rivolgevano al mio Amore misterioso e soave, e muto e rigido si faceva per me il mondo che mi circondava.
Accadde che un giorno in società una signorina mi si avvicinò un po' vergognosa per avere da me un bacio, vinto in gioco come pegno. Mentre mi stavo piegando verso di lei, sentii, prima ancora che le mie labbra toccassero le sue, un bacio ardente e sonoro bruciare sulla bocca e nello stesso istante una voce mormorava: 'Soltanto a me appartengono i tuoi baci.' La Signorina ed io ne restammo tutti e due abbastanza spaventati, gli altri credettero che ci fossimo davvero baciati. Ma questo bacio ebbe per me il valore di un avvertimento, di un segno, ché Aurora (così chiamavo la misteriosa amante) avrebbe presto assunto forma piena e completa nella vita e non mi avrebbe più lasciato.
Allorché, la notte seguente, l'amata mi ricomparve nel modo consueto, io la scongiurai con le più commoventi parole, che mi venivano date dalla divampante fiamma dell'amore e del desiderio, di portare alla sua perfezione la mia felicità, di essere mia per sempre in visibile forma. Essa si tolse soavemente dalle mie braccia e disse con dolce serietà: 'Tu sai in quale modo sei divenuto mio signore. Appartenerti tutta è il mio più grande desiderio: ma soltanto a metà sono spezzate le catene che mi legano al trono cui tutto il mio popolo è soggetto.
Quanto più forte, quanto più potente diviene la tua signoria, tanto più libera mi sento dalla mia penosa schiavitù. La nostra vicendevole relazione si fa sempre più intima e raggiungeremo la meta, prima ancora forse che sia passato un anno. Se tu volessi, mio amato, prevenire l'ordine del destino, ti sarebbero forse ancora necessari sacrifici, passi scabrosi e decisivi'.
'No - gridai. - No, nessun sacrificio, nessun passo scabroso e difficile esiste per conquistarti tutta per sempre! Non posso vivere più a lungo senza di te, io muoio di impazienza, di sofferenza senza nome!'. Allora Aurora mi abbracciò e sussurrò con voce a fatica percepibile: 'Sei beato nelle mie braccia?'. 'Non esiste altra beatitudine!' gridai e strinsi al cuore la donna adorata, ed ero tutto ardore d'amore, tutto delirio di bramosia. Sentii baci ardenti sulle mie labbra e questi stessi baci erano accento melodioso di cielo, musica divina, nella quale percepii le parole: 'Potresti a prezzo del possesso di me rinunciare alla beatitudine di uno sconosciuto aldilà?'. Brividi di gelo mi scossero in tutte le membra, ma nell'orrore divampò ben presto folle la brama e io gridai in irresponsabile furore amoroso: 'Fuori di te non esiste altra felicità... io rinuncio...'.
Credo che a questo punto esitai. 'Domani notte la nostra unione sarà conclusa,' bisbigliò Aurora e io sentii che essa stava per dileguarsi e scomparire dalle mie braccia. La strinsi più forte a me, sembrò che invano essa lottasse e avvertendo oppressi sospiri di agonia, mi immaginai al più alto grado della felicità d'amore. Con il pensiero rivolto a quel Diavolo amoroso, a quella seduttrice Biondetta, mi svegliai da un sonno profondo. Pesante ricadde sulla mia anima quello che nella scorsa notte avevo compiuto. Ripensai allo scellerato scongiuro dello spaventoso O'Malley, ripensai agli ammonimenti del mio giovane e pio amico... mi credetti preso nei lacci del demonio, mi credetti perduto... Straziato nel più profondo dell'anima, balzai su dal letto e corsi all'aperto. Sulla strada mi venne incontro il maggiore e mi trattenne saldamente, dicendo: 'E così, tenente, io vi auguro fortuna: in realtà non vi avrei stimato a tal punto temerario e deciso, voi superate il maestro.' Infiammato di rabbia e di vergogna, incapace di replicare una sola parola io me ne andai e proseguii il mio cammino.
Il maggiore mi rise dietro: riconobbi lo scherno della risata satanica. Nella foresta, non lontano da quelle fatali rovine, scorsi una forma femminile avvolta in panneggiamenti, che, coricata sotto un albero, sembrava abbandonata a un colloquio con se stessa. Mi avvicinai adagio con precauzione e riuscii ad afferrare le parole: 'E' mio, è mio!... O beatitudine divina!... Ha superato anche l'ultima prova!... Se gli uomini sono capaci di un tale amore, che cosa è senza di loro il nostro miserevole essere?...'. Tu indovini che la figura era Aurora. Essa lasciò cadere i suoi veli: amore stesso non avrebbe potuto apparire più incantevole. Il tenero delicato pallore delle guance, lo sguardo trasfigurato in dolcissima malinconia mi fecero sussultare in una voluttà che non ha nome. Mi vergognai dei miei oscuri pensieri... ma ecco che nell'istante in cui io stavo per gettarmi ai suoi piedi, essa scomparve, come un'immagine di nebbia.
Nello stesso momento udii uno scalpicciare nel cespuglio, da cui ben presto sbucò fuori il mio onesto Paolo Talkebarth. 'Pezzo di farabutto, dove ti ha portato il diavolo?' lo assalii. 'Be' be'... - replicò lui, contraendo il volto in quella smorfia sorridente che tu ben conosci. - Be' insomma, proprio portato qui non mi ha, direi, ma certo mi ha accompagnato il diavolo. L'illustrissimo signor tenente era uscito così presto e aveva dimenticato la pipa e il tabacco... allora io ho pensato, di mattina così presto e con un tempo così umido... perché la mia vecchia a Genthin era solita dire...'. 'Chiudi quella boccaccia, chiacchierone e dai qui!...' gridai e mi feci porgere la pipa accesa. Ma avevamo fatto a mala pena due passi, che Paolo Talkebarth ricominciò sottovoce: 'Perché la mia vecchia amante di Genthin diceva sempre che non bisogna fidarsi di un omino fatto da una radice, un tipo a quel modo alla fine non è niente di più di un Incubus o Chezim e stronca a uno il cuore... Be', la vecchia Lisa del caffè, qui alla periferia... Ah! caro signor tenente, lei avrebbe dovuto proprio vedere che razza di bei fiori e di animali e di uomini sapeva fondere! Che l'uomo si aiuti come può e sa, diceva sempre la mia amante a Genthin... ero anche ieri dalla Lisa e le ho portato anche un buon etto di finissimo Moca... Ognuno di noi ha un cuore... La Dorina di Becher è un tipino grazioso: ma ha qualcosa di talmente strano negli occhi, qualcosa come di simile alle salamandre'".
'Tu, tipo di mascalzone, che cosa stai dicendo?' gridai con violenza.
Paolo tacque, ma cominciò di nuovo dopo qualche momento. 'Sì... con questo la Lisa è una donna per bene... Dopo aver fissato il fondo del caffè, lei ha detto: "Con la Doretta in fondo non c'è niente; quello che ha negli occhi di simile a una salamandra le viene dall'impastare focaccine oppure dal pavimento della sala da ballo;' ma un certo giovane signore era secondo lei in grande pericolo. Le salamandre sono le peggiori cose che ci siano e di cui si serva il diavolo per trascinare nella rovina eterna una povera anima umana, perché esse certi stimoli e impulsi... be' insomma: è necessaria una cosa sola, rimanere costanti e tenere il Signore nel cuore ben saldo... allora naturalmente io scorsi nel fondo del caffè perfettamente rassomigliante il signor maggiore O' Malley.' Gridai al bel tipo di starsene zitto ma tu ti puoi immaginare quali sentimenti sorgessero in me ai discorsi di Paolo, che scoprivo a un tratto iniziato al mio oscuro segreto e che in modo tanto inaspettato dimostrava di avere conoscenze intorno alle pratiche cabalistiche, delle quali evidentemente doveva essere debitore alla veggente del caffè... passai il giorno più inquieto di tutta la mia vita. Non era possibile, giunta la sera, fare uscire Paolo dalla stanza, continuamente vi ritornava e si cercava qualche cosa da fare; quando alla fine, era già quasi la mezzanotte, dovette cedere, disse piano, quasi che pregasse per se stesso: 'Porta Dio nel tuo cuore, pensa alla salute della tua anima e potrai resistere agli adescamenti di Satana!'.
Non potrei descriverti come le semplici parole del mio servitore mi sconvolsero, vorrei dire in modo spaventoso, l'anima. Inutili erano tutti i miei tentativi per tenermi sveglio: caddi immerso in quello stato di sogno confuso, che ero costretto a riconoscere come non naturale, come prodotto dall'azione di qualche essenza estranea, di un ignoto principio. Come al solito mi svegliò il magico chiarore. Aurora in tutta la sua sovrumana oltreterrena bellezza stette davanti a me tendendo nel desiderio a me le braccia. Ma come iscrizione incisa a caratteri di fuoco, le pie parole di Paolo brillarono nella mia anima:
'Vattene, allontanati da me, tu seduttore parto dell'inferno!' gridai, ed ecco balzò fuori gigantesco lo spaventoso O'Malley e trapassandomi con occhi dai quali sprizzava il fuoco dell'inferno, ululò: 'Non cercare di resistere, povero omiciattolo, tu sei caduto in nostro potere!'. Al pauroso sguardo del più raccapricciante fantasma avrei saputo oppormi, resistere... O'Malley mi tolse di senno, precipitai svenuto al suolo. Un violento fracasso mi svegliò dallo stordimento: mi sentii afferrare da braccia d'uomo e tentai con la forza della disperazione di liberarmene. 'Illustrissimo signor tenente, sono io!' mi disse all'orecchio qualcuno. Era il mio bravo Paolo, che si sforzava di sollevarmi da terra. Lo lasciai fare. Dapprincipio Paolo non voleva sbottonarsi e dire come erano andate le cose: alla fine assicurò sorridendo in modo misterioso che lui aveva saputo molto più e meglio di quanto io non potessi sospettare con che razza di diabolica ed empia conoscenza io avevo a che fare e il maggiore mi aveva adescato. La vecchia Lisa, donna pia, gli aveva rivelato tutto.
La notte scorsa egli non si era coricato, ma aveva caricato per bene il suo fucile, appostandosi di guardia alla porta. Quando poi mi aveva udito gridare forte e stramazzare al suolo, per quanto gli fosse venuto addosso un certo raccapriccio, aveva sfondato la porta ed era entrato. 'Allora, - così raccontò pressappoco Paolo al suo solito modo un po' pazzo, - allora ci fu lì davanti a me il signor maggiore O'Malley, orrendo e ripugnante alla vista, proprio come nella tazza di caffè, e mi faceva un tale ghigno spaventoso, ma io niente, non mi lasciai affatto confondere e dissi: 'Se tu illustrissimo signor maggiore, sei il diavolo, allora prenditi in santa pace che io ti muova incontro da buon cristiano e dica: Vattene, Satana maledetto, maggiore, te lo dico nel nome del Signore, togliti di qui, altrimenti sparo'. Ma il signor maggiore non voleva cedere e continuava a fissarmi con la sua smorfia ghignante, anzi voleva addirittura arrabbiarsi tremendamente: allora io gridai:
'Devo sparare? devo sparare?'. E poiché il maggiore continuava a non voler cedere e ritirarsi, io sparai veramente. Ma tutto si era dileguato, tutti e due erano filati via attraverso la parete, il signor maggiore, Satana e la Mamzelle Belzebubb'.
La tensione di quel periodo, quegli ultimi spaventosi istanti mi costrinsero per lungo tempo a letto, malato abbastanza gravemente.
Quando fui guarito, abbandonai Potsdam, senza rivedere O'Malley, e non so neppure che cosa sia stato in seguito di lui. L'immagine di quel giorno fatale arretrò alquanto nella mia memoria e finì per cancellarsi del tutto, cosicché io ritrovai la completa libertà del mio spirito, fino a che qui...".
"Insomma, - domandò Alberto impaziente di curiosità e di stupore, - insomma qui hai riperso di nuovo la tua libertà? Non riesco assolutamente a capire come qui...".
"Oh, - interruppe Vittore l'amico, mentre il tono della sua voce prendeva qualcosa di solenne, - con due parole ti spiegherò tutto!... Durante le insonni notti nel mio giaciglio di malato, che ho dovuto trascorrere qui, si risvegliarono tutti i sogni d'amore di quel tempo tremendamente e spaventosamente magnifico della mia vita. Era il mio stesso desiderio che si dava una forma... Aurora... essa mi riapparve di nuovo trasfigurata, purificata nel fuoco del cielo nessun diabolico O'Malley ha potere su di lei... Aurora è... la baronessa!".
"Come? cosa? - gridò Alberto, indietreggiando terrorizzato. - La signora casalinga piccola rotondetta con il suo grosso mazzo di chiavi uno spirito elementare, una salamandra!" andava mormorando poi tra sé e mordendosi le labbra cercava di frenare il suo riso.
"Nella figura, - continuò Vittore, - non è più possibile trovare traccia alcuna di somiglianza, cioè a dire nella vita comune; ma il misterioso fuoco che si irradia dai suoi occhi, il tocco della sua mano...".
"Tu sei, - disse Alberto molto seriamente, - tu sei stato molto ammalato, poiché la ferita che hai riportato alla testa era abbastanza grave da mettere la tua vita in pericolo: ma adesso ti trovo rimesso a tal punto che puoi benissimo venire via con me. Sinceramente dal più profondo del cuore ti prego, mio caro, mio veramente caro amico, lascia questo luogo e accompagnami domani stesso ad Aquisgrana".
"Certamente la mia permanenza qui, - rispose Vittore - non durerà più molto a lungo... Sì, sì, potrei anche venire con te per quello... ma prima una spiegazione... una spiegazione!".
Il giorno seguente, non appena Alberto si svegliò, Vittore gli annunciò di avere ritrovato in sogno, in uno strano sogno spettrale, quella parola di scongiuro, che gli aveva suggerito O'Malley, quando era stato compiuto il Teraphim. Pensava di farne uso per l'ultima volta. Alberto scosse pensieroso la testa e fece preparare ogni cosa per una rapida partenza, occupazione nella quale Paolo Talkebarth tra ogni sorta di stravaganti espressioni, dimostrò la più gioiosa attività. "Zackermannthö! - lo udì mormorare tra sé Alberto. - E' una bella cosa che il diavolo orso abbia per molto tempo tolto il piede del diavolo irlandese, ci sarebbe mancato pure quello!".
Vittore trovò, così come lo aveva desiderato, la baronessa sola, occupata nella sua stanza con un qualunque lavoro femminile. Le disse che voleva ormai lasciare la casa, in cui tanto a lungo aveva goduto della più nobile ospitalità. La baronessa assicurò che mai aveva avuto ospite un amico, che le fosse più caro. Vittore afferrò allora la sua mano e chiese: "E' stata mai lei a Potsdam? Ha mai conosciuto un certo maggiore irlandese?". "Vittore, - lo interruppe la baronessa con violenta rapidità, - noi ci separiamo oggi, non ci rivedremo mai più, non possiamo fare questo! Un velo oscuro è teso sopra la mia vita! Lasci che sia sufficiente da parte mia il dirle che un tenebroso destino mi ha condannata ad avere costantemente l'apparenza di un altro essere, diverso da quello che io sono realmente. Nell'idiota situazione in cui lei mi ha trovato e che mi fa soffrire tormenti spirituali di cui il mio esterno benessere si prende beffe, io sconto la pena di una grave colpa... ma non più oltre... Addio!...". Allora gridò Vittore con voce forte: "Nehelmiahmiheal!" e con un grido di terrore la baronessa precipitò priva di sensi al suolo. Vittore agitato dai più strani sentimenti completamente fuori di sé, riuscì a malapena a riprendere un po' di controllo per chiamare la servitù: poi lasciò in fretta la stanza. "Via, immediatamente via!" gridò all'amico Alberto e con poche parole raccontò quello che era successo. Tutti e due montarono subito in sella ai cavalli pronti ad attenderli e cavalcarono via, senza neppure aspettare il ritorno del barone che era andato a caccia.
Le considerazioni di Alberto durante la sua cavalcata da Liegi ad Aquisgrana hanno più sopra dimostrato con quanta serietà, con quale stupendo senso egli avesse compreso gli avvenimenti di quel periodo fatale. Riuscì a lui, nel viaggio di ritorno alla Residenza, di strappare completamente il suo amico Vittore dal suo stato di sognante fantasticheria, in cui era immerso, e mentre Alberto andava rievocando ancora una volta davanti allo spirito di Vittore tutto ciò che di mostruoso, di prodigioso era accaduto in quell'ultima campagna, nei colori più vivi, quest'ultimo si sentiva penetrato dal medesimo afflato, dal medesimo spirito che viveva in Alberto. Senza che Alberto dovesse ricorrere a lunghe confutazioni e a dubbi, Vittore sembrava non considerare ormai più la sua misticizzante avventura che come un lungo cattivo sogno.
Non poteva mancare che alla Residenza le donne accorressero incontro al colonnello, ricco, bello di figura, ancora giovane rispetto al grado che rivestiva e per di più amabile come nessun altro, in amichevole accoglienza. Alberto era del parere che sarebbe stato un uomo felice quando si fosse scelto per moglie la più bella: ma Vittore gli rispose con grande serietà: "Può darsi benissimo che io sia stato vittima di una mistificazione e lì per servire in modo scellerato a scopi ignoti, oppure che realmente una sinistra potenza abbia voluto perdermi: non mi è costata la beatitudine eterna, ma il paradiso dell'amore sì. Mai più potrà ritornare quel tempo, in cui io ebbi la sensazione della più sublime voluttà terrena, in cui l'ideale dei miei più dolci e inebrianti sogni, l'amore stesso personificato, giaceva tra le mie braccia. Amore e voluttà se ne sono andati per me dal giorno in cui uno spaventoso segreto mi ha rubato colei che veramente era per la più intima vita della mia anima una creatura superiore, quale mai io ritroverò su questa terra".
Il colonnello non si sposò mai.