Franz Kafka
RACCONTI
IL FUOCHISTA
Un frammento
(1913)
Quando il sedicenne Carlo Rossmann, mandato in America dai suoipoveri genitori dopo che una domestica lo aveva sedotto e gliaveva messo al mondo un figlio, a bordo della nave che avanzava apiccola forza entrò nel porto di New York, pensò che la statuadella Libertà, già da un pezzo visibile, splendesse sotto una lucepiù intensa. Il braccio che brandisce la spada sembrava essersiappena alzato, intorno alla figura spiravano fresche correnti.
"Com'è alta!" fece tra sé, mentre la folla dei facchini, chepassavano sempre più numerosi, sebbene lui non volesse muoversi,finiva con lo spingerlo contro il parapetto.
Un giovane, che aveva appena conosciuto durante il viaggio, glidisse, dirigendosi verso l'uscita: "E lei non ha voglia discendere?". "Certo, sono pronto!" fece Carlo ridendo, e sia pervantarsi, sia perché era un ragazzo robusto, si caricò la valigiain spalla. Ma nel seguire con lo sguardo il suo conoscente, che siallontanava facendo oscillare il bastone, si accorse, consgomento, che aveva dimenticato l'ombrello in basso. Pregò infretta il conoscente, che non nascose la sua contrarietà, diaspettare un attimo vicino alla sua valigia, si guardò intorno perorientarsi in seguito e corse via. Arrivato in basso, ebbe lasgradita sorpresa di trovare chiuso un corridoio che gli avrebbeabbreviato di parecchio la strada: il provvedimento dipendevasicuramente dallo sbarco generale. Fu allora costretto a cercarsila strada tra un'infinità di camerini e di scalette disposti unodopo l'altro, corridoi a zigzag, una sala ammobiliata da una solascrivania, e alla fine, poco esperto com'era di quel percorsofatto soltanto un paio di volte in mezzo alla gente, si smarrì.
Non passava più nessuno; sulla sua testa sentiva lo scalpiccìo dimigliaia di piedi, lontano gli arrivava l'ultimo ansito dellemacchine: perplesso, senza troppo riflettere, cominciò a picchiarecontro una porticina che si trovò vicino.
"E' aperto!" gridarono dall'interno. Carlo, con un respiro disollievo, spinse la porta. "Ma perché picchia in quel modo?"chiese una specie di gigante, appena lo ebbe visto. Nella strettacabina, dove si stipavano un letto, un armadio, una sedia e ilgigante, arrivava, attraverso un piccolo passaggio, una luceavara, come se fosse l'avanzo di quello che avevano adoperato inalto. "Mi sono smarrito", disse Carlo. "Durante il viaggio non mene ero accorto: ma questa nave non finisce più!". "Eh già, haragione", disse l'uomo con un certo orgoglio, senza smettere diarmeggiare intorno a una valigetta, di cui premeva il coperchioper far scattare la serratura. "Ma entri!" proseguì, "non vorràrestare fuori!". "Non disturbo?" chiese Carlo. "Ma che dice?". "E'tedesco lei?" chiese ancora, diffidente, Carlo, che aveva sentitodei pericoli ai quali è esposto chi arriva in America, soprattuttoda parte degli irlandesi. "Proprio così, proprio così", dissel'uomo. Carlo esitò ancora. Allora l'altro, con gesto improvviso,afferrata la maniglia, tirò dentro Carlo e gli chiuse dietrol'uscio. "Non mi va che mi si guardi dal corridoio", disseriprendendo ad armeggiare intorno alla valigia, "ognuno che passaguarda dentro, si finisce col perdere la pazienza". "Ma se nelcorridoio non c'è nessuno!" disse Carlo, che era finito contro illetto. "Sì, adesso!" disse l'uomo. "E non è di adesso che siparla?" pensò il ragazzo. "E' difficile intendersi con costui".
"Si sieda sul letto, starà più comodo", disse l'uomo. Carlostrisciò nella cuccetta come meglio poté, ridendo per il vanotentativo di entrarci con un salto. Ma appena seduto gridò: "Bontàdivina, la mia valigia!". "E dov'è?". "In coperta, un conoscenteme la sta guardando". "Come si chiama?". Da una tasca segreta chela madre, in occasione del viaggio, gli aveva cucito nella giacca,tirò fuori un biglietto da visita. "Butterbaum, FrancescoButterbaum". "Ci tiene molto, alla sua valigia?". "Certo!". "Eallora perché l'ha affidata a un estraneo?". "Avevo dimenticatol'ombrello e sono corso a riprenderlo, non volevo portarmi dietrola valigia. Poi, mi sono perso". "E' solo? Non l'accompagnanessuno?". "Solo". Forse farei bene ad affidarmi a quest'uomo,pensò Carlo a questo punto. Dove trovare, su due piedi, un amicomigliore? "E ora ha perduto anche la valigia. Sull'ombrello,facciamoci una croce". L'uomo sedette sulla sedia, come se lafaccenda di Carlo cominciasse a interessarlo. "Ma io non credo chela valigia sia perduta". "Beato chi ha fede", disse l'uomograttandosi i capelli neri e fitti, tagliati corti. "Ma su unanave ci sono tanti costumi quanti i porti che si toccano. AdAmburgo il suo signor Butterbaum avrebbe, forse, guardato lavaligia, qui, invece, credo che lei non troverà più ombra nédell'uno né dell'altra". "Bisogna pure che vada a dare un'occhiatalassù", disse Carlo guardandosi intorno per cercare l'uscita.
"Stia fermo!" disse l'uomo e con una manata sul petto, piuttostobrusca, lo ributtò indietro. "E perché?" chiese Carlo con stizza.
"Perché sarebbe assurdo", disse l'uomo. "Tra un istante vado viapure io, ce ne andiamo insieme. Se la valigia è stata rubata,tutto è inutile, se invece l'uomo l'ha abbandonata, la troveremopiù facilmente quando la nave sarà vuota. Lo stesso per il suoombrello". "Lei è pratico della nave?" chiese Carlo condiffidenza, come se l'idea, in sé ragionevole, che la valigia sisarebbe trovata meglio a nave vuota, nascondesse un inganno. "Sonoun fuochista", disse l'uomo. "Lei è un fuochista?" chiese Carlo intono gioioso, come a una splendida, imprevista notizia; e,appoggiandosi sui gomiti, si sporse per vedere meglio l'uomo.
"Davanti alla cabina dove dormivo con gli slovacchi c'era unosportellino attraverso il quale si poteva guardare nella sala-macchine". "Lavoravo proprio là", disse il fuochista. "La tecnicaè stata sempre la mia passione", disse Carlo come parlando tra sé.
"Un giorno sarei sicuramente diventato ingegnere, se non fossidovuto partire per l'America". "E perché dovette partire?". "Eh, èuna storia!" fece Carlo, e con un gesto volle allontanarequell'argomento da sé. Guardò sorridendo il fuochista, come perchiedergli scusa se non si confidava con lui. "Ci sarà stata unaragione", disse il fuochista, non si capiva se per sollecitare orespingere il racconto di quella ragione. "Potrei anche diventarefuochista", disse Carlo. "Ai miei genitori non importa più nientedi quello che farò". "Il mio posto è libero", disse il fuochista,e, come gustando la sicurezza che gli veniva da queste parole,mise le mani in tasca e allungò le gambe fino a raggiungere illetto, coi suoi calzoni spiegazzati, di una stoffa grigio-ferroche sembrava cuoio. Carlo dovette stringersi ancora di più controla parete. "Lascia la nave?". "Sì, stasera ce la battiamo".
"Perché, non le piace?". "Quello che conta sono i fatti, non ciòpiace o non piace. Ma poi, in fondo, ha ragione lei, non mi piace.
Spero che non penserà sul serio di diventare fuochista, anche se èfacile che lo diventi proprio per questo. Per me, lo sconsiglio.
Se voleva studiare in Europa, perché non fa lo stesso qui? Leuniversità americane sono infinitamente migliori di quelleeuropee". "Lo credo", disse Carlo, "ma non ho mezzi per studiare.
Ho letto, non so dove, di un ragazzo che di giorno lavorava in unnegozio e di notte studiava, diventò dottore, poi sindaco, ma perquesto ci vuole una bella costanza, no? Io ho paura di non averla.
Devo aggiungere che non ero uno scolaro d'eccezione, e lasciare lascuola non mi dispiacque troppo. Magari le scuole, qui, sonoancora più severe. L'inglese lo conosco poco o niente. Aggiunga laprevenzione che c'è per gli stranieri". "L'ha già notato? Beh,allora andiamo bene, vedo che ci capiamo. Siamo a bordo di unanave tedesca, di proprietà della Hamburg-America-Linie: perché cisono così pochi tedeschi? Perché il capo-macchinista, un certoSchubal, è un rumeno! Roba da non credere. Quel miserabile ha ilcoraggio di perseguitare noi tedeschi, su una nave tedesca! Nonpensi", gli mancò il fiato e dovette farsi aria con la mano, "nonpensi che io mi lamento tanto per fare. So che lei non ha nessunainfluenza, che è un povero ragazzo. Ma il troppo stroppia!" Conciò si mise a dare pugni sul tavolo, senza distogliere lo sguardoda Carlo. "Sono stato imbarcato su una quantità di navi", e quielencò, d'un fiato, venti nomi, finché a Carlo girò la testa, "emi sono distinto, ho avuto elogi, lavoravo come piaceva ai mieicapitani, per anni rimasi sulla stessa nave a vela", si alzò, comese quello fosse stato il momento più significativo della sua vita,"e qui, su questa carretta, dove tutto funziona a puntino, dovenon serve spreco di cervello, qui non valgo niente, sono didisturbo al signor Schubal, sono un pelandrone, merito di esserecacciato via, mi danno la paga per carità. Lei ci capisce niente?
Io no". "Non dovrebbe farsi trattare così!" disse Carlo convivacità. Si sentiva a suo agio su quel letto, in un'atmosferacosì familiare, che quasi aveva dimenticato di trovarsi sulletavole malferme di una nave, sulle coste di un continentesconosciuto. "E' andato dal capitano? Si è fatto sentire?". "Vadavia, per carità! Non la voglio più con me. Non ascolta quello chedico, e mi dà consigli. Come potrei andare dal capitano?". Sirimise a sedere, come per un'improvvisa stanchezza, tenendo ilvolto tra le mani.
"Non saprei cosa consigliarle di meglio", disse Carlo tra sé.
Pensò che avrebbe fatto meglio ad andare a prendere la suavaligia, invece di stare lì a dare consigli considerati sciocchi.
Nel consegnargli la valigia, suo padre gli aveva chiesto in tonoscherzoso: "Quanto ti durerà?"; e ora quell'oggetto tanto caro eraforse perso sul serio. Lo consolò l'idea che suo padre non avrebbepotuto sapere niente, nemmeno se avesse chiesto informazioni. Lacompagnia di navigazione poteva solo dire che era arrivato a NewYork. Si rammaricò invece di non avere adoperato niente di quantoera nella valigia, sebbene avesse bisogno da un pezzo, peresempio, di cambiarsi la camicia. Aveva fatto economie inutili:
mentre, all'inizio della carriera, era bene che si presentasse inordine, bello pulito, avrebbe dovuto farsi vedere con una camiciasporca. Non fosse stato per questo, la perdita della valigia nonsarebbe stata troppo grave, perché l'abito che indossava eramigliore di quello che era nella valigia, un capo da strapazzo,che la mamma aveva rammendato poco prima della partenza. Gli vennein mente che nella valigia c'era anche un pezzo di salame diVerona, regalo supplementare della mamma, appena assaggiato,perché durante la traversata aveva avuto scarso appetito e lazuppa distribuita sul ponte gli era stata più che sufficiente. Maora gli sarebbe piaciuto avere il salame, per offrirlo alfuochista: basta una piccolezza per conquistare gente simile,aveva imparato Carlo da suo padre, il quale con qualche sigarettaconquistava i piccoli impiegati con cui trattava. La sola cosa cheCarlo poteva offrire era il denaro, ma per il momento, specie sela valigia era andata perduta, non voleva toccarlo. Tornò apensare alla valigia: non poteva darsi pace che durante il viaggiol'avesse sorvegliata con tanta attenzione, fino a perderci ilsonno, per farsela poi portare via in quel modo. Si ricordò dellecinque notti in cui lo assillò l'idea che il piccolo slovacco, duecuccette a sinistra dopo la sua, puntasse la valigia. Lo slovaccoaspettava che Carlo, vinto dalla stanchezza, si appisolasse unattimo, per tirare a sé la valigia con un lungo bastone che gliserviva per giocare o fare esercizi. Alla luce del giorno avevauna faccia innocente, ma scesa la notte si alzava ogni tanto asedere sul suo giaciglio e fissava con uno sguardo triste lavaligia di Carlo. Carlo l'aveva notato perché c'era semprequalcuno che, con l'inquietudine propria dell'emigrante,trasgredendo al regolamento, accendeva un lumino, cercando didecifrare il prospetto incomprensibile di un'agenzia di viaggio.
Se la luce era vicina, Carlo poteva appisolarsi un momento, se eralontana o era buio completo doveva tenere gli occhi aperti. Unacosì dura vigilanza lo aveva sfinito, e forse non era servita aniente. Ma se una volta si imbatteva in quel Butterbaum...
A questo punto, nel silenzio assoluto che si era stabilito, sisentì, lontana, una successione di lievi e rapidi colpi, comeprodotti da piedi infantili. Il rumore diventò più forte. Era ungruppo di persone che si avvicinava. Dovevano avanzare in filaindiana, vista la strettezza del corridoio, e ogni tanto sisentiva un tintinnìo, come di armi. Carlo, sul punto diabbandonarsi a un sonno che lo liberasse da ogni preoccupazioneper la valigia e lo slovacco, si alzò di soprassalto e scosse ilfuochista: il corteo sembrava ormai giunto davanti alla porta. "E'la banda di bordo", disse il fuochista. "Hanno suonato e vanno afare i bagagli. E' finito tutto, possiamo andare, Venga!". PreseCarlo per mano, afferrò ancora un quadretto con l'immagine dellaMadonna appeso sopra la cuccetta, se lo ficcò nella tasca interna,afferrò la valigia e lasciò svelto la cabina.
"Ora vado in amministrazione e canterò a quei signori quello cheho in corpo. I passeggeri sono sbarcati, non è più il caso diavere riguardi". Il fuochista, camminando, continuava a ripeterequest'intenzione più o meno con le stesse parole; provò anche aschiacciare una pantegana che gli aveva traversato la strada,riuscendo solo a farla infilare più in fretta nel suo buco. Avevagambe lunghe ma pesanti, lente a muoversi.
Attraversarono un reparto della cucina dove alcune ragazze con igrembiuli sudici - forse li sporcavano di proposito -rigovernavano, vicino a grandi mastelli. Il fuochista chiamò unacerta Lina, le mise un braccio attorno alla vita e se la portòdietro per un tratto, mentre quella, civettuola, gli si stringevaal braccio. "E' il momento della paga, vieni anche tu?" chiese.
"Perché debbo scomodarmi? Portami tu i soldi", rispose quella, glisgusciò di sotto il braccio e corse via. "Dove hai incontrato quelbel figliolo?" chiese poi, senza aspettare risposta. Le ragazze,che avevano interrotto il lavoro, risero tutte insieme.
Continuarono a camminare, finché non arrivarono davanti a unaporta, sormontata da un palchetto con minuscole cariatidi dorate.
Un lusso insolito, per una nave. Carlo si accorse di non esseremai passato da quelle parti, forse riservate, durante latraversata, ai passeggeri di prima e seconda classe, e accessibilia tutti solo adesso, prima che la nave venisse sottoposta allapulizia generale; come sembrò evidente alla vista di alcuni uominicon la granata sulle spalle, che salutarono il fuochista. Carlo fuimpressionato dalle proporzioni dell'insieme, nel traponte avevapotuto vedere ben poco. Lungo i corridoi correvano i fili dellacorrente elettrica, un campanello trillava senza sosta.
Il fuochista picchiò rispettosamente, e quando sentì dire:
"Avanti!" invitò con un gesto il compagno ad entrare, senzatimore. Carlo entrò, fermandosi vicino alla porta. Dalle trefinestre della sala vedeva le onde del mare: scorgendo quelgioioso movimento, il cuore gli batté più forte, come se nonavesse visto il mare per cinque giorni di fila. Grandi naviincrociavano le loro rotte, oscillando appena sotto la spintadelle onde; a socchiudere gli occhi, sembrava che l'oscillazionedipendesse dalla loro mole. In cima agli alberi fremevano, tesi alvento, lunghi e sottili vessilli. Da una nave da guerrarisuonarono colpi a salve. Una corazzata passò a breve distanza,corrucciata nel suo mantello d'acciaio, coi cannoni che sembravanocullati dalla marcia uniforme e sicura. Visti dalla porta, ivaporini e le barche che sciamavano tra le navi sembravanolontanissimi. Ma dietro tutto questo, New York fissava Carlo conle centomila finestre dei suoi grattacieli. In quella sala unopoteva sapere dove si trovava.
Intorno a un tavolo rotondo sedevano tre signori: un ufficiale dimarina in uniforme blu, e due funzionari portuali americani, indivise nere. Sul tavolo erano mucchi di documenti che l'ufficialescorreva, tenendo la penna in mano, e poi porgeva agli altri, iquali ora leggevano, ora prendevano appunti, ora riponevano ifogli nelle loro cartelle; ogni tanto uno dei due, che continuavaa fare un piccolo verso con i denti, dettava qualche parola alcollega.
Vicino a una finestra, girando le spalle alla porta, un ominosedeva a una scrivania, consultando certi grandi registriallineati su una solida tavola fissata alla parete all'altezzadella sua testa. Aveva vicino una cassetta di sicurezza aperta, e,a quanto pareva, vuota.
La seconda finestra era sgombra e offriva una vista incantevole.
Vicino alla terza parlottavano due uomini. Uno, in divisa, siappoggiava al davanzale, giocando con l'elsa della spada. L'altro,in abiti civili, era girato, con le mani sui fianchi, verso lafinestra e muovendosi scopriva ogni tanto un po' dei nastrini chedecoravano il petto dell'ufficiale; il bastoncino di bambù chestringeva nella destra, sporgeva in fuori come una spada. Carlonon ebbe tempo di guardare bene ogni cosa. Si avvicinò un commessoe chiese al fuochista cosa voleva, guardandolo come se, a entrarelì dentro, avesse perpetrato una sconvenienza. Il fuochista, avoce altrettanto bassa, rispose che voleva parlare con ilcassiere-capo. Il commesso abbozzò un gesto, come per respingerela domanda; tuttavia, in punta di piedi, andò dal signore deiregistri, disegnando una gran curva per evitare il tavolo rotondo.
Il signore sembrò sbalordito alle parole del commesso, si giròverso l'uomo che chiedeva di parlargli e agitò in segno didiniego, le mani sia verso il fuochista, sia, per sicurezza, versoil commesso. Questi ritornò dal fuochista e, col tono di chi fauna confidenza, mormorò: "Esca immediatamente!"Il fuochista guardò Carlo, quasi lì fosse il suo cuore, nel qualeconfidare, muto, le sue pene. Carlo, senza porre tempo in mezzo,attraversò di corsa la sala, sfiorando la sedia dell'ufficiale:
subito il commesso lo inseguì, curvo, le braccia pronte allapresa, quasi avesse da catturare un insetto: ma Carlo arrivò primaal tavolo del cassiere e si aggrappò al suo bordo, nel caso che ilcommesso volesse provare a tirarlo via.
L'incidente produsse una certa agitazione. L'ufficiale vicino altavolo saltò in piedi, i due funzionari portuali rimasero aosservare tranquilli ma attenti, i signori vicino alla finestra siaccostarono, mentre il commesso, consapevole di non essere più alsuo posto in mezzo ai potenti, si faceva indietro. Accanto allaporta, il fuochista aspettava fremente il momento in cui ci fossestato bisogno del suo aiuto.
Il cassiere-capo descrisse, sulla sua poltroncina, un ampio giroverso destra. Incurante di scoprire il suo segreto agli occhi diquei signori, Carlo frugò nella tasca interna, tirò fuori ilpassaporto e lo posò, aperto, sul tavolo, per evitare unapresentazione. Il cassiere non sembrò dare importanza aldocumento, che allontanò con due dita. Carlo, quasi avessecompiuto una formalità indispensabile, rimise il passaporto intasca.
"Mi permetto di dire", cominciò, "che il fuochista è stato, forse,trattato ingiustamente. Un certo Schubal ce l'ha con lui. Hanavigato con onore, su molte navi, che può elencarvi tutte, è unbuon lavoratore, appassionato del mestiere; non si capisce perchéproprio su questa nave, dove il lavoro non è poi tanto pesante,rispetto a quello dei velieri, per esempio, dovrebbe aver datocattiva prova. Solo una calunnia può impedirgli di farsi strada,privandolo di quei riconoscimenti che non gli sarebbero altrimentimancati. Questo è il quadro generale, i particolari li esporràlui". Carlo aveva parlato a tutti i presenti perché, visto chetutti stavano in ascolto, poteva sperare giustizia più da loro chedal cassiere. Aveva avuto, poi, l'accortezza di non dire checonosceva il fuochista solo da poco. In ogni modo, avrebbe parlatomolto meglio, se non fosse stato confuso dal viso rosso delsignore con il bastoncino di bambù che, dal punto in cui sitrovava, vedeva per la prima volta.
"E' la verità, parola per parola", disse il fuochista, prima chequalcuno avesse pensato a interrogarlo, prima, anzi, che sifossero girati a guardarlo. La precipitazione del fuochistaavrebbe potuto essere un grave errore, se il signore con ledecorazioni, nel quale all'improvviso Carlo riconobbe ilcomandante, non avesse dato a vedere di voler ascoltare ilfuochista. Tesa la mano, gridò: "Venga qua, lei!" con una voce chesi sarebbe potuta battere con il martello, tanto era dura. Oratutto dipendeva da come il fuochista si sarebbe comportato, perchéCarlo non aveva nessun dubbio sulla giustizia della sua causa.
Nell'occasione, per fortuna, il fuochista rivelò la sua praticadel mondo. Con calma e decisione esemplari, tirò fuori dallavaligetta un plico e un taccuino; quindi, ignorando il cassiere,andò dritto dal comandante e spiegò sul davanzale i documenti. Alcassiere non rimase altro che alzarsi e avvicinarsi. "Quest'uomo èun famoso attaccabrighe", spiegò, "passa più tempo inamministrazione che in sala-macchine. Ha fatto disperarequell'ottima pasta di Schubal. Mi ascolti bene!" disse rivolto alfuochista. "Lei ora esagera. Dica quante volte è stato cacciatovia dall'ufficio paga, per le sue assurde pretese! Dica quantevolte è corso da me alla cassa! Quante volte non le hanno ripetutoche il suo diretto superiore è Schubal, che lei deve trattare solocon lui? Come osa presentarsi qui, quando c'è il signorcomandante? Non si vergogna di importunare anche lui, non haritegno a mandare avanti questo ragazzo perché ripeta le sueinsulse accuse? Lui, poi, non lo conosco, lo vedo per la primavolta sulla nave!"Carlo si trattenne a stento dal saltargli addosso. Ma ilcomandante disse: "Sentiamo quest'uomo ancora una volta. LoSchubal mi sta prendendo, da qualche tempo, un po' la mano: conquesto non voglio dire niente in suo favore, intendiamoci!" Leultime parole erano rivolte al fuochista. Era evidente che nonpoteva prendere subito le sue parti, ma le cose si mettevano bene.
Il fuochista cominciò a spiegare le sue ragioni, e subito simostrò all'altezza della situazione, chiamando lo Schubal"signore". Carlo gongolava, vicino allo scrittoio abbandonato dalcassiere, e per la gioia continuava a premere il piatto di unabilancetta per le lettere. - Il signor Schubal è ingiusto! Ilsignor Schubal protegge gli stranieri! Il signor Schubal avevaespulso il fuochista dalla sala-macchine e l'aveva mandato apulire i cessi, mansione non certo di pertinenza di un fuochista!
- A un certo momento vennero manifestati dei dubbi sulla periziadel signor Schubal, che doveva essere più apparente che reale.
Carlo fissava con uno sguardo affettuoso, da collega, ilcomandante, perché non si lasciasse influenzare sfavorevolmente dacerte espressioni poco corrette del fuochista. Da tanti discorsi,però, non emergeva niente di concreto, e se anche il comandantecontinuava a guardare davanti a sé, mostrandosi deciso adascoltare, questa volta, il fuochista fino alla fine, gli altrisignori diventarono impazienti. La voce del fuochista, bruttosegno!, non dominò più, incontrastata, nella sala. Il signore inborghese cominciò ad agitare il bastoncino di bambù e a darecolpetti sul pavimento. Gli altri signori cominciarono a guardarsiintorno, distratti. I funzionari portuali, che avevano fretta,tornarono alle loro pratiche e ricominciarono, sia pure senzatroppo impegno, a esaminarle, l'ufficiale si riavvicinò al tavoloe il cassiere capo, che credeva di avere partita vinta, tiròironicamente un profondo sospiro. Unico a non distrarsi sembravail commesso; il quale accennava a Carlo con la testa come perdirgli qualche cosa, certo provando nel suo cuore le pene delpover'uomo alla mercé dei superiori.
Davanti alle finestre continuava a trascorrere la vita del porto.
Passò una chiatta, perfettamente equilibrata col suo immensocarico di botti, e oscurò, per un momento, la sala; i battelli amotore - che ora Carlo, se avesse avuto tempo, avrebbe potutovedere da vicino - scivolavano via rombanti, sotto le manidell'uomo dritto vicino al timone; dalle acque agitate emergevanostrani oggetti che poi le onde coprivano, sottraendoli allosguardo meravigliato; le barche dei transatlantici avanzavanosotto l'energica spinta dei marinai: i passeggeri sedevanoimmobili, anche se con aria preoccupata, al posto loro assegnato,solo qualcuno girava il capo per seguire il cambiamento discenario. Si assisteva a un movimento senza fine, a un'agitazioneche dall'elemento inquieto si trasferiva sui poveri uomini e sulleloro opere.
Tutto ciò spingeva a sbrigarsi, a essere chiari e precisi. Cosafaceva, invece, il fuochista? Coperto di sudore, incapace ditenere, tanto le mani gli tremavano, le carte spiegate suldavanzale, continuava a parlare. Le accuse contro Schubal glifacevano ressa nella testa; una sola, secondo lui, sarebbe statasufficiente per annichilire il rivale; purtroppo al comandantearrivava soltanto un balbettio quasi incomprensibile. Il signorecon il bastoncino di bambù da un pezzo fischiettava guardando ilsoffitto, i funzionari portuali avevano richiamato al loro tavolol'ufficiale e non mostravano l'intenzione di lasciarlo, ilcassiere si tratteneva dall'intervenire solo perché il comandanteera tanto calmo, il commesso, sull'attenti, aspettava da unmomento all'altro un ordine del comandante.
Carlo capì che non poteva più rimanere passivo. Si avvicinò pianoal gruppo, pensando rapidamente a come affrontare la situazione.
Non c'era più tempo, ancora un momento e potevano volare viadall'ufficio. Il comandante doveva essere un buon uomo, e forseaveva una ragione particolare per sembrare come un superioreimparziale: ma non si poteva poi approfittare troppo, come appuntostava facendo il fuochista, nella sua ira.
Carlo disse al fuochista: "Parli in modo più semplice, più chiaro,il signor comandante non capirà niente, se lei continua in questomodo. Lei crede che il signor comandante sappia il cognome omagari il nome di tutti i macchinisti e di tutti gli aiuti; leicrede che, quando ne nomina uno, il signor comandante capiscasubito di chi si tratta? Ordini bene i motivi di reclamo, dicaprima i più gravi poi, via via, gli altri, forse non dovrà nemmenoarrivare alla fine. A me ha sempre raccontato tutto con tantachiarezza!" Se in America è consentito rubare valige, ogni tantosarà anche permessa qualche bugia, pensò per scusarsi.
Se almeno il suo discorso avesse potuto servire! Ma non era troppotardi? Il fuochista si interruppe appena sentì la voce conosciuta,ma con la vista offuscata dalle lacrime per l'onore offeso, per lespaventose rievocazioni, per l'angoscia presente, non poté nemmenoriconoscere Carlo. Come poteva a quel punto, Carlo leggerenell'animo dell'uomo sconcertato, parlare in altro modo, se da unaparte pensava di avere esposto tutto quanto aveva da dire senzanessun successo e dall'altra gli sembrava che, sebbene non avesseancora detto niente, non poteva pretendere da quei signori diascoltare tutto da capo? E proprio ora interviene Carlo, il suounico sostenitore, per dargli buoni consigli, ma riesce solo afargli capire che tutto, tutto è perduto.
"Se mi fossi fatto avanti prima, invece di guardare dallafinestra", si disse Carlo. Chinò la testa davanti al fuochista elasciò cadere le braccia, per significare che non sperava niente.
Ma il fuochista capì male, immaginando che Carlo, con quel gesto,intendesse rimproverare se stesso. Per dissuaderlo, prese un tonolitigioso, finendo col rovinare ogni cosa. Questo, quando isignori al tavolo rotondo già da un pezzo mostravano la loroinsofferenza per l'inutile rumore che li disturbava nel lorolavoro, quando il cassiere-capo cominciava a non capacitarsi dellapazienza del comandante e era ormai vicino a esplodere, quando ilcommesso, tornato nel campo dei suoi padroni, misurava ilfuochista con sguardi rabbiosi, quando il signore con ilbastoncino di bambù, al quale il comandante riservava ogni tantoun'occhiata amichevole, indifferente, anzi seccato nei confrontidel fuochista, alzava in silenzio lo sguardo su Carlo e loriabbassava su un'agenda che aveva tolto di tasca.
"Va bene, va bene", disse Carlo, che faticava a contenere lafiumana di parole riversata ora su di lui, e gli rivolse unsorriso amichevole, senza badare al tono litigioso. "Lei haragione, ragionissima, non ne ho mai dubitato". Per timore chefinisse col dare qualche colpo, avrebbe voluto tenergli ferme lemani o, meglio ancora, avrebbe voluto spingerlo in un angolo persussurargli qualche parola, e invitarlo alla calma. Ma ilfuochista era, ormai, fuori di sé. Carlo fu in un certo qual modoconsolato dall'idea che, in caso estremo, con la forza delladisperazione, il fuochista poteva tenere a bada i sette uominipresenti. D'altronde, sullo scrittoio c'era un quadro di comandopieno di pulsanti: sarebbe bastato schiacciarli con una mano perfare insorgere la nave, coi suoi corridoi pieni di gente ostile.
A questo punto, il signore con il bastoncino di bambù, che si erasempre mostrato indifferente, si avvicinò a Carlo e chiese convoce non forte, ma chiara abbastanza per essere sentita sopra legrida del fuochista: "Come si chiama, lei?" Quasi avesseaspettato, dietro la porta, la domanda del signore, qualcunopicchiò. Il commesso, guardato il comandante e avuto un cenno diassenso, andò ad aprire. Apparve un uomo di statura media, conindosso una vecchia giubba di colore antiquato, che proprio non losi sarebbe preso per un macchinista. Era... Schubal. Se Carlo nonl'avesse capito dalla soddisfazione apparsa negli occhi di tutti,se ne sarebbe accorto con spavento, dal movimento del fuochista:
il quale allungò le braccia e strinse i pugni con tanta passione,da far credere che era disposto a giocare il tutto per tutto. Neipugni aveva tutta la sua forza, anche quella che ora lo teneva inpiedi.
Ecco là il nemico, felice e contento nell'abito della festa, unacartella sotto il braccio, con dentro, forse, il ruolino-paga e illibretto di lavoro del fuochista, che guardava uno dopo l'altro ipresenti, con il proposito evidente di saggiarne l'umore. Queisette dovevano essere tutti dalla sua parte: anche se ilcomandante aveva avuto, prima, qualche cosa da obiettare (ma forseera stato solo un pretesto), dopo la rabbia che gli aveva fattoprendere il fuochista non poteva dire più niente contro Schubal.
Nei confronti di un tipo come il fuochista, non c'era punizioneabbastanza severa; se Schubal meritava un rimprovero, era di nonessere riuscito ancora a vincere la tracotanza del fuochista,arrivata al punto da portarlo davanti al comandante.
Ma forse c'era ancora una speranza. Un contraddittorio tra Schubale il fuochista avrebbe avuto risultati positivi. Un guizzo dellasua malvagità doveva bastare per scoprirla intera a quei signori:
ci avrebbe pensato Carlo. Conosceva abbastanza l'intelligenza, ledebolezze, gli umori di ognuno e, da questo punto di vista, iltempo passato fino a quel momento non era andato perso. Se ilfuochista si fosse comportato a dovere! Purtroppo, si vedeva cheera inadatto alla lotta. Avrebbe potuto spaccare a pugni la testaodiosa di Schubal, se glielo avessero consegnato: ma da solo nonavrebbe mai fatto i due passi che lo separavano da quello. PerchéCarlo non aveva previsto un'eventualità così facile: che Schubal,cioè, sarebbe venuto, se non di sua iniziativa, almeno chiamatodal comandante? Perché, strada facendo, non aveva discusso colfuochista un preciso piano di guerra, invece di infilarsi, senzala minima preparazione, nella prima porta capitata davanti? Ilfuochista avrebbe potuto ancora parlare, dire di sì e di no,ammesso che ci fosse stato un contraddittorio? Se ne stava là agambe larghe, le ginocchia tremanti, la testa alta, con l'aria chegli passava a fatica attraverso la bocca spalancata, quasi che nonavesse più polmoni.
Carlo, in ogni modo, si sentiva forte e lucido come prima non eramai stato. L'avessero visto i suoi genitori, mentre difendeva unagiusta causa davanti a personaggi importanti! Non aveva ancoravinto, ma si preparava ad affrontare la battaglia decisiva. Sisarebbero ricreduti sul suo conto? Lo avrebbero lodato, facendolosedere tra di loro? Lo avrebbero guardato una volta - una volta! -negli occhi nei quali c'era tanta devozione per loro? Domandedifficili, poste in un momento poco opportuno.
"Sono qui, perché credo che il fuochista mi accusi di non so qualidisonestà. Una ragazza della cucina mi ha detto di averlo vistodirigersi da questa parte. Signor comandante e loro tutti signoriqui presenti, mi dichiaro pronto a confutare ogni capod'imputazione sulla base dei miei documenti e, se sarà il caso,attraverso l'ascolto di testimoni imparziali, in nessun modosubornati, in attesa dietro la porta". Così Schubal. Era undiscorso chiaro, da uomo che si rispetta: dalle mutate espressionidei presenti si sarebbe potuto credere che questi tornavano asentire, dopo parecchio tempo, suoni umani. Tuttavia, non vedevanoche il bel discorso aveva le sue magagne. Perché la prima parolache si era presentata alla mente di Schubal era "disonestà"? Sidoveva imperniare l'accusa su questo punto, invece che sulleparzialità nei confronti dei connazionali? Era bastato che unaragazza della cucina avesse visto il fuochista avviarsi versol'ufficio, perché Schubal capisse subito tutto? O non era stato unsenso di colpa, a dargli quella sensibilità? Aveva portato subitodei testimoni; e aveva avuto il coraggio di definirli nonsubornati! Era un imbroglio, solo un imbroglio! Come potevano queisignori accettare tutto questo e giudicarlo onesto? Perché avevalasciato passare tanto tempo tra l'annuncio della ragazza e il suoarrivo? Perché voleva che il fuochista stancasse tanto i signorida far perdere loro la capacità, temuta più di ogni altra cosa, diun retto giudizio. Sebbene si trovasse da un pezzo dietro laporta, non aveva picchiato proprio nel momento in cui la domandainopinata di quel signore poteva fargli sperare che il fuochistaera spacciato?
Tutto ciò era chiaro, mostrato anzi, anche se non di proposito,dallo stesso Schubal: ma quei signori avevano bisogno di vederloin modo diverso, più immediato. Bisognava scuoterli. Su via,Carlo, svelto, approfitta ora del tuo tempo, prima che entrino itestimoni e confondano tutto!
In questo momento il comandante accennò di no con il capo aSchubal e questi, visto che il suo turno sembrava rinviato diqualche minuto, si fece da parte, cominciando con il commesso unaconversazione a mezza voce, illustrata da occhiate in direzione diCarlo e del fuochista, e da gesti eloquenti. Sembrava provare lasua grande orazione.
"Voleva chiedere qualche cosa al ragazzo, signor Giacomo?" disseil comandante, nel silenzio generale, al signore con il bastoncinodi bambù.
"Proprio così", disse quello, ringraziando per l'attenzione con unlieve inchino. E ancora una volta chiese a Carlo: "Come si chiamalei?"Carlo convinto che, nell'interesse di quello che gli stava acuore, era bene liberarsi presto da quell'ostinato, non sipresentò, come era sua abitudine, mostrando il passaporto, madisse in fretta: "Carlo Rossmann".
"Ma no!" fece il signore chiamato Giacomo; e indietreggiò,sorridendo incredulo. Anche il comandante, l'ufficiale, ilcassiere, persino il commesso sembrarono sbalorditi nel sentire ilnome di Carlo. Solo i funzionari portuali e Schubal rimaseroindifferenti.
"Ma no!" ripeté il signor Giacomo, muovendo con un fare quasicerimonioso verso Carlo. "Se è così, io sono tuo zio, Carlo, e tusei il mio caro nipote. Me lo diceva il cuore, tutto il tempo!"disse al comandante, prima che abbracciasse e baciasse Carlo, cherimase immobile e senza parole.
"E lei come si chiama?" chiese Carlo, cortese ma freddo, quando sisentì libero. Cercò di pesare le conseguenze che il fatto nuovopoteva avere per il fuochista; per il momento, Schubal non potevaricavare nessun vantaggio dalla faccenda.
"Ma si rende conto, caro ragazzo, della sua fortuna?" disse ilcomandante, come se la domanda di Carlo avesse leso la dignità delsignor Giacomo. Questi, intanto, si era girato contro la finestra,e si passava un fazzoletto sul viso alterato dalla commozione. "Lapersona che si è presentata come suo zio, è il senatore EdoardoGiacomo. L'aspetta, contro ogni sua aspettativa, una brillantecarriera. Si renda dunque conto di questo, anche se non le èfacile, e sia bravo!""Io ho uno zio Giacomo in America", disse Carlo volgendosi alcomandante, "ma, se ho ben capito, il senatore si chiama Giacomodi cognome".
"Precisamente", disse il comandante aspettando il seguito.
"Ma mio zio Giacomo, fratello di mia madre, si chiama Giacomo pernome di battesimo, ma il suo cognome, naturalmente, dovrebbeessere uguale a quello di mia madre, che da ragazza era unaBendelmayer".
"Signori!" esclamò il senatore allontanandosi tutto allegro, alladichiarazione di Carlo, dalla finestra. Tutti, tranne i funzionaridel porto, scoppiarono a ridere, con più o meno calore.
"Non mi è sembrato di aver detto cose tanto ridicole", pensòCarlo.
"Signori!" ripeté il senatore. "Contro la mia e la lorointenzione, assistono a una piccola scena di famiglia. Non possoquindi fare a meno di fornire loro una spiegazione perché, aquanto mi risulta, solo il comandante" - e la citazione provocòuno scambio reciproco di inchini - "è al corrente di tutto".
"Da ora in poi dovrò stare attento a ogni parola che dirò", sidisse Carlo; e fu facile quando, con un'occhiata, si accorse chela vita cominciava a rifluire nel corpo del fuochista.
"Dall'inizio, molto indietro nel tempo, del mio soggiornoamericano - scusate questo: 'soggiorno', tanto poco appropriatoper il cittadino americano che io sono, con tutta l'anima - daquell'inizio dunque io ho troncato ogni rapporto con i mieiparenti europei, per ragioni che qui non c'entrano e che mi famale toccare. Non posso pensare al momento in cui dovrò, forse,raccontarle al mio nipotino, perché temo di essere costretto aparlargli chiaro dei suoi genitori e sulla loro cerchia".
"E' mio zio, non c'è dubbio", si disse Carlo prestando l'orecchio.
"Forse ha cambiato nome".
"I genitori dunque, e diciamo pure la parola, visto checorrisponde ai fatti, si sono sbarazzati di questo figliolo comesi butta fuori di casa un gatto che disturba. Non cerco attenuantiper quello che ha commesso mio nipote: si tratta di una colpa che,solo a nominarla, si scusa da sé".
"Mica male", pensò Carlo. "Ma non voglio che lo racconti a tutti.
Del resto, non può nemmeno saperlo. Come ci sarebbe riuscito?""A riferire le cose come andarono", continuò lo zio che, puntatoil bastoncino contro il pavimento, si piegava avanti e indietro,riuscendo a togliere ogni accento di gravità alle sue parole,"venne sedotto da una donna di servizio, una certa GiovannaBrummer, che aveva allora un trentacinque anni. Con la parolasedotto non vorrei dispiacere a mio nipote, ma è difficile trovareun'espressione più adatta".
Carlo, che si era avvicinato allo zio, si girò per leggere sulvolto dei presenti l'impressione prodotta dal racconto. Nessunorideva, tutti ascoltavano seri e composti; dopo tutto, non si ridedel nipote di un senatore alla prima occasione. Se qualcunoguardava Carlo con un sorriso, sia pure accennato, questi era ilfuochista: bisognava essere lieti di questo segno di vita econsiderarlo con indulgenza, visto che Carlo aveva fatto misterisu circostanze poi rese pubbliche!
"Ora questa Brummer", continuò lo zio, "ebbe un figlio da mionipote, un bel maschietto al quale venne dato il nome di Giacomo:
la mia modesta persona, sia pure attraverso gli accenni di mionipote, dovette produrre una grande impressione sulla donna. Unavera fortuna. Per non dover pagare gli alimenti o per evitare diessere coinvolti in uno scandalo - ripeto che non conosco le leggidi laggiù né le condizioni della famiglia - i genitori dunquespediscono in America il mio nipotino, scandalosamente sprovvistodi tutto, come vedete. Il ragazzo, non fosse stato per uno di queiprodigi che ancora succedono in America, sarebbe rimastoabbandonato a se stesso, rovinandosi in qualche vicolo di NewYork, se la donna di servizio, in una lettera a me diretta e dopolunghi giri arrivata nelle mie mani solo l'altro ieri, non miavesse raccontato tutta la storia, non dimenticando di descrivermimio nipote e dandomi il nome della nave. Se avessi in animo,signori, di trattenerli ancora, potrei leggere alcuni passi dellalettera" - e così dicendo tirò fuori di tasca e agitò due grandifogli coperti di una fitta scrittura. "Sono sicuro che farebbeloro un certo effetto, la lettera è piena di un'ingenua, gentilefurberia e di un grande affetto per il padre del bambino. Ma nonvoglio trattenerli più di quanto è necessario per spiegare la cosané voglio offendere sentimenti che mio nipote forse prova ancora:
se lui vorrà, potrà leggere, per sua istruzione, la lettera, nellacamera tranquilla che già lo aspetta".
Carlo non sentiva più niente per quella ragazza. Nella nebbia diun passato che si faceva sempre più incerto, la vedeva seduta incucina, i gomiti appoggiati sul piano della credenza. Se luientrava a prendere un bicchiere d'acqua per il babbo o farequalcosa per la mamma, non lo abbandonava con gli occhi. A volte,di fianco alla credenza, in posizione scomoda, scriveva unalettera e sembrava ispirarsi al volto di Carlo; altre volte tenevauna mano sugli occhi, e non c'era modo di farsi ascoltare. Oppure,nella cameretta vicino alla cucina, pregava inginocchiata davantia un crocifisso di legno: Carlo, vedendola attraverso l'usciosocchiuso, provava una specie di vergogna. Oppure correva per lacucina e, se Carlo le impediva di passare, balzava indietro,ridendo come una strega. Oppure chiudeva la porta dopo che Carloera entrato e stringeva la maniglia finché lui non chiedeva diandarsene. A volte prendeva una cosa di cui lui non sapeva chefare e gliela premeva, in silenzio, nelle mani. Una volta, infine,disse: "Carlo!" quindi, con buffe smorfie e sospiri, lo portò,tutto stupito, nella cameretta, chiudendo a chiave la porta. Loabbracciò fino a togliergli il respiro, e, continuando achiedergli di spogliarla, gli tolse tutti i panni di dosso; poi,come in preda a una frenesia, lo mise a letto quasi volesse averlotutto per sé, accarezzarlo e cullarlo fino alla fine del mondo.
"Carlo, Carlo mio!" esclamava come lo considerasse una cosa sua enon si stancasse di ripeterlo. Ma lui non vedeva niente, avevasolo un gran caldo, sotto il mucchio di coperte che lo copriva. Ladonna gli si stese vicino e gli chiese di rivelarle certi segreti.
Al suo silenzio, non si capiva se per scherzo o sul serio, siarrabbiò, lo scosse, volle sentirgli il cuore, gli offerse ilpetto perché lui facesse lo stesso, senza però convincerlo,premette il ventre nudo contro il suo, frugò tra le sue gambe inmodo così ripugnante che Carlo prese a battere la testa suicuscini, poi gli dette alcune spinte con il ventre... Lui ebbel'impressione che la donna fosse diventata una parte di sé, forseper questo lo prese un terribile bisogno di soccorso. Tornòpiangente nel proprio letto, dopo che quella gli ebbe ripetutomille volte arrivederci. Questo era stato tutto, ma lo zio erariuscito a farne un caso straordinario. La cuoca, dunque, avevapensato a lui, e aveva avvertito lo zio del suo arrivo. Era statagentile, un giorno le avrebbe mostrato la sua riconoscenza.
"E ora", esclamò il senatore, "voglio sentirti dire chiaro e tondose sono o no tuo zio".
"Sei mio zio", disse Carlo, baciandogli la mano e ricevendo unbacio sulla fronte. "Sono felice di averti incontrato, ma sbaglise credi che i genitori parlano sempre male di te. Il tuo discorsoconteneva qualche altra inesattezza: le cose, voglio dire, nonandarono come hai raccontato. Di qui, si capisce, non puoi avereun'idea esatta di tutto; se poi i signori hanno saputo particolarinon proprio precisi, pazienza, la faccenda non può avere per lorogrande importanza".
"Ben detto!" disse il senatore. Portò Carlo davanti al comandante,che manifestava apertamente la sua simpatia, e chiese: "Non ho unnipote in gamba?""Sono felice", disse il comandante inchinandosi come fanno solo lepersone che hanno avuto un'educazione militare, "di averconosciuto suo nipote, signor senatore. E' un onore per la mianave, che un simile incontro sia avvenuto a bordo. Il viaggiosottocoperta fu duro, ma come sapere chi si trasporta? Facciamodel nostro meglio per rendere tollerabile il viaggio sottocoperta- facciamo molto di più, va detto, delle società americane - mapurtroppo non siamo ancora riusciti a trasformare questo viaggioin quel che si dice un piacere".
"Non mi ha rovinato", disse Carlo.
"Non l'ha rovinato!" ripeté con una risata il senatore.
"Ho paura solo di aver perso la mia valigia...". A questo punto siricordò di quello che era successo e di quello che ancora restavada fare. Nel girare lo sguardo, vide che i presenti, sempre ailoro posti, lo fissavano muti, per il rispetto e lo stupore. Soloi visi severi e soddisfatti dei funzionari del porto lasciaronotrasparire rammarico per essere arrivati così fa sproposito:
l'orologio che si erano messo davanti sembrava contare più diquanto succedeva o sarebbe successo nella sala.
Il primo a congratularsi dopo il comandante, fu, guarda caso, ilfuochista. "Mi complimento di cuore", disse stringendo la mano aCarlo, quasi con l'aria di dare la sua approvazione. Era sul puntodi rivolgere le stesse parole al senatore, ma questi, come se ilfuochista abusasse dei suoi diritti, fece un passo indietro; el'altro desistette.
A questo punto, tutti si resero conto di quanto dovevano fare,creando una gran confusione. Carlo ricevette le congratulazioni diSchubal, e le accettò ringraziando. Quando la calma fu tornata, sifecero avanti i funzionari del porto e dissero due parole ininglese, che suonarono molto ridicole.
Il senatore, per assaporare fino in fondo la sua gioia, continuavaa rievocare fatti quasi insignificanti, tra l'indulgenza, anzi,tra l'interesse generale. Riferì che, in previsione di un impiegoimmediato, aveva copiato sul taccuino i più caratteristici segnidi riconoscimento di Carlo, ricordati nella lettera della cuoca.
Durante la chiacchierata interminabile del fuochista, tanto perpassare il tempo, aveva cercato di riferire le note della cuoca,non certo precise come quelle di un poliziotto, all'aspetto diCarlo.
"E così ho trovato mio nipote!" concluse con un tono che parevasollecitare altre congratulazioni.
"E ora, che succederà del fuochista?" chiese Carlo, passando sopral'ultimo racconto dello zio. Nella posizione in cui era, credevadi poter dire tutto quello che pensava.
"Il fuochista avrà quel che si merita," disse il senatore, "quelloche il comandante ritiene giusto. Del fuochista ne abbiamo ormaitutti, i signori qui presenti saranno d'accordo, fin sopra icapelli".
"Non è questo che conta, quando si tratta di rendere giustizia",disse Carlo. Parlava tra lo zio e il comandante, e questaposizione gli dava forse la sicurezza di avere in mano lafaccenda.
Il fuochista non sembrava sperare più niente. Aveva infilato lemani sotto la cintola, che i suoi movimenti avevano scopertoinsieme con un pezzo di camicia a righe. Non gliene importava:
aveva raccontato tutte le sue pene, vedessero pure i quattrostracci che portava addosso, prima di buttarlo fuori. Pensò che arendergli quest'ultimo servizio sarebbero stati il commesso eSchubal, le due persone di rango più basso nella sala. Schubalsarebbe stato in pace, non si sarebbe più disperato, come avevaegregiamente detto il cassiere. Il comandante avrebbe potutoingaggiare una quantità di rumeni, ovunque si sarebbe parlatorumeno e forse tutto sarebbe veramente andato meglio. Non cisarebbe più stato un fuochista a fare chiasso alla cassa, anche seci si sarebbe ricordati volentieri della sua ultima protestapoiché, come aveva spiegato il senatore, essa era statal'occasione per il riconoscimento del nipote. Il ragazzo avevacercato, in precedenza, di essergli utile e si era quindi più chesdebitato per il servizio che lui gli aveva reso; il fuochista nonpensava nemmeno di chiedergli qualche altra cosa. In fin deiconti, anche se era nipote di un senatore, non era ancoracomandante: l'ordine fatale doveva uscire dalla bocca delcomandante. Coerentemente con le sue idee, il fuochista cercava dinon guardare dalla parte di Carlo, ma, purtroppo, in quella salapiena di nemici, i suoi occhi non avevano altro luogo sul qualeposarsi.
"Non fraintendere", disse il senatore a Carlo. "Può darsi che siauna questione di giustizia; ma si tratta anche di disciplina. Pertutte e due le ragioni, ma specie per l'ultima, la pratica è dicompetenza del comandante".
"Proprio così!" mormorò il fuochista. Chi notò e capì, sorrisestupito.
"Per di più, il comandante, per causa nostra, ha perso moltotempo, ora che con l'arrivo a New York ha più da fare. Dobbiamoandare via subito, non vorrei che un nostro intervento, del restoinutile, nella lite di due macchinisti, finisse col creare unputiferio. Capisco il tuo modo di agire, caro nipote, ma proprioper questo mi sento autorizzato a portarti subito via".
"Le faccio calare in mare una barca", disse il comandante senzaobiettare niente, con meraviglia di Carlo, alle parole dello zio,che in fondo si era quasi umiliato. Il cassiere si precipitò alloscrittoio e telefonò l'ordine del comandante al nostromo.
"Il tempo stringe", disse Carlo tra sé, "ma non posso fare niente,se non voglio offendere tutti. Non posso lasciare lo zio appena miha trovato. Il comandante è gentile, non di più. La sua gentilezzafinisce dove comincia la disciplina, lo zio ha visto giusto. ConSchubal non voglio parlare, mi dispiace persino di avergli dato lamano. Gli altri non contano niente".
Rimuginando nella testa questi pensieri, si avvicinò piano alfuochista, gli sfilò la destra dalla cintola, e giocherellando conle dita, la tenne tra le sue. "Perché non dici niente?" chiese.
"Perché ingoi tutto?"Il fuochista corrugò la fronte, nello sforzo di esprimere quantoaveva in animo, e intanto guardava la sua mano tra quelle diCarlo.
"So bene che ti hanno trattato come nessuno, su questa nave".
Carlo teneva le sue dita infilate tra quelle del fuochista, equesto si guardava intorno con gli occhi lucidi, come se nessunopotesse rimproverargli il piacere che provava.
"Invece ti devi difendere, dire sì e no, altrimenti la gente nonsaprà la verità. Prometti che mi darai retta, perché ho paura dinon poterti più aiutare". Carlo piangeva, baciando la manoscrepolata del fuochista, questa pendeva inerte, e lui la premevacontro il viso, come un tesoro che si è costretti ad abbandonare.
A questo punto lo zio senatore gli si avvicinò e lo allontanò congarbo.
"Il fuochista, a quanto pare, ti ha incantato", disse guardando,con aria d'intesa, il comandante, al di sopra della testa diCarlo. "Ti sentivi abbandonato e hai incontrato il fuochista, oragli sei grato di questo, bravo. Ma non esagerare, fallo per me,comincia a capire la tua nuova posizione".
Dietro la porta si alzò un gran baccano, si sentirono grida,qualcuno fu spinto brutalmente contro l'uscio. Irruppe dentro unmarinaio, con l'aria stralunata, un grembiule da donna intornoalla vita. "C'è gente di là!" gridò continuando a tirare gomitate,quasi dovesse ancora farsi largo. Quando fu tornato in sé e vollesalutare il comandante, si accorse del grembiule. Se lo strappò didosso, lo gettò per terra e gridò: "E' una vergogna, mi hannomesso addosso un grembiule!"; quindi sbatté i tacchi e salutò.
Qualcuno provò a ridere, ma il comandante disse severo: "Davveroun bello scherzo. Chi c'è di fuori?""I miei testimoni", disse Schubal facendosi avanti. "Faccio lescuse più profonde per la loro condotta. Quando i marinai arrivanoin porto, certe volte diventano matti".
"Li faccia subito entrare!" ordinò il comandante; e volgendosiverso il senatore disse in modo cortese ma sbrigativo: "Abbia labontà, illustre signor senatore, di seguire con suo nipote questomarinaio, che li accompagnerà fino al battello. Non serve che leripeta che la sua personale conoscenza ha rappresentato per me unonore e un piacere. Mi auguro di riprendere presto laconversazione sulle condizioni della marina americana; speriamo,chissà, di essere interrotti nello stesso modo piacevole di oggi".
"Per ora, questo nipote mi è sufficiente", disse ridendo lo zio.
"La ringrazio di cuore per la sua gentilezza. Non è da escludereche, in occasione del nostro viaggio in Europa", e strinseaffettuosamente Carlo a sé, "possiamo intrattenerci più a lungo".
"Ne sarei molto lieto", disse il comandante. I due si strinsero lamano, Carlo poté appena porgere la sua, in silenzio, alcomandante, perché questi aveva già rivolto l'attenzione su unaquindicina di uomini entrati, un po' cerimoniosi, marumorosamente, nella sala, sotto la guida di Schubal. Il marinaiochiese al senatore il permesso di precederli, aprì la strada e lifece uscire senza difficoltà, tra la gente che si inchinava.
Sembrava che quegli uomini dall'aspetto bonario considerassero lalite tra Schubal e il fuochista una faccenda ridicola, che talerimaneva davanti al comandante. Carlo notò Lina, la ragazza dicucina, che lo salutò ammiccando allegra, mentre si allacciava ilgrembiule buttato via dal marinaio.
Lasciato l'ufficio, girarono in un breve corridoio e finironodavanti a uno sportellone. Una scaletta scendeva in una barca giàpronta. La loro guida saltò in barca, i marinai si alzarono esalutarono. Il senatore stava invitando Carlo, fermo sul primogradino, a fare attenzione nella discesa, quando il ragazzoscoppiò in un gran pianto. Lo zio gli mise una mano sotto ilmento, lo abbracciò e accarezzò. Scendendo adagio un gradino dopol'altro, arrivarono abbracciati nella barca, dove il senatorescelse per Carlo un buon posto davanti a sé; quindi, a un suocenno, i marinai si staccarono dalla nave e cominciarono a vogaredi lena. Si erano appena allontanati, quando Carlo riconobbe sulfianco della nave le tre finestre della cassa, nelle quali sistipavano, salutando calorosamente, i testimoni di Schubal. Lo zioli salutò a sua volta, un marinaio riuscì a lanciare loro un baciocon la mano, senza interrompere il ritmo della voga. Era come senon ci fosse più nessun fuochista. Carlo fissò negli occhi lo zio,di cui sfiorava le ginocchia, chiedendosi se quell'uomo gliavrebbe mai potuto sostituire il fuochista. Ma lo zio distolse losguardo e cominciò a guardare le onde, sulle quali la barcaavanzava oscillando.
LA CONDANNA
Una storia
(1916)
Per F.
Era una mattinata domenicale nel momento più bello dellaprimavera. Il giovane commerciante Giorgio Bendemann sedeva nellasua stanza, al primo piano di una di quelle case basse e fragili,allineate in lunga serie sulla riva del fiume, distinte tra loroquasi soltanto per l'altezza e il colore. Aveva appena finito unalettera per un amico d'infanzia, che viveva all'estero; la chiuselentamente, quasi giocherellando, quindi, con i gomiti appoggiatisulla scrivania, si fermò a guardare fuori della finestra ilfiume, il ponte e le colline della sponda opposta, coperte ditenero verde.
Meditava sul fatto che quest'amico, insoddisfatto per la sua vitain famiglia, parecchi anni prima era letteralmente fuggito inRussia. Il commercio che esercitava a Pietroburgo, dopo un ottimoinizio, da un pezzo languiva, come si lamentava l'amico durante lesue visite, che avvenivano sempre più di rado. Il suo affaticarsiall'estero era dunque senza ragione; una gran barba, di foggiaesotica, non riusciva a nascondere le fattezze note sinodall'infanzia, mentre il colorito giallastro sembrava rivelare unamalattia latente. Raccontava di non avere rapporti con la coloniadei connazionali, mentre scarse relazioni aveva con la gente delposto; era ormai rassegnato a restare scapolo.
Cosa scrivere a un uomo simile, che, evidentemente, avevasbagliato strada? Uno lo poteva compiangere, ma come aiutarlo? Glisi doveva forse consigliare di tornare in famiglia, di trasferirela sua esistenza in patria, di riprendere le vecchie amicizie - efin qui non si sarebbero incontrati ostacoli - e per il restoaffidarsi all'aiuto degli amici? Ma fare questo significavasemplicemente dirgli - e con quanto più riguardo gli fosse statodetto, tanto più sarebbe stato offensivo per lui - che i suoitentativi erano stati un fallimento, che era ormai tempo diabbandonarli, che doveva rientrare nel suo paese, lasciando che lagente lo fissasse stupita, come uno tornato per sempre; chesoltanto i suoi amici avevano capito qualche cosa, mentre lui eraun bambinone, al quale conveniva dare retta a quelli rimasti acasa e che avevano avuto successo nella vita. E poi, si potevaessere sicuri che la pena così inflitta sarebbe servita a qualchecosa? Forse non si sarebbe riusciti neppure a farlo tornare acasa, pensò, ricordandosi che quello ammetteva di non capire piùil modo di vivere del suo paese. Sarebbe, così, rimastoall'estero, amareggiato da tutti quei consigli e ancora piùlontano di prima dagli amici. Se poi avesse seguito i consigli e,arrivato in patria, non avesse potuto risollevarsi, per colpa nondegli amici, naturalmente, ma delle circostanze, se non fossestato capace di adattarsi agli altri né di fare a meno di loro, sesi fosse sentito umiliato, se avesse finito col non avere più népatria né amici, non sarebbe stato meglio, per lui, continuare arestare all'estero? Se le cose stavano in quel modo, si potevadavvero pensare che nel suo paese sarebbe riuscito a spuntarla?
Per queste ragioni, se voleva continuare a corrispondere ancoracon lui, non poteva informarlo a fondo delle sue cose, comeavrebbe fatto, senza timore, anche con il più lontano fra iconoscenti. L'amico non tornava in patria da più di tre anni, conla magra scusa dell'instabilità della situazione politica russache, a quanto diceva, non avrebbe consentito la minima assenza aun piccolo commerciante come lui, mentre centinaia di migliaia dirussi giravano tranquillamente per il mondo. Durante quei treanni, molte cose erano cambiate per Giorgio. L'amico aveva saputodella morte della madre di Giorgio, avvenuta due anni prima, e dicome Giorgio, da allora, viveva insieme al vecchio padre.
L'aridità delle sue condoglianze si poteva spiegare solo con ilfatto che, da lontano, il dolore per un simile evento diventainconcepibile. Da allora Giorgio aveva cominciato a mettere piùimpegno sia nel lavoro, sia in parecchie altre cose. Forse suopadre, finché la madre era viva, gli aveva impedito un'attivitàindipendente, perché voleva essere solo a dirigere gli affari;forse dopo la morte della moglie, sebbene continuasse a occuparsidegli affari, si era fatto più discreto; forse, e questo sembravail caso più probabile, avevano influito circostanze fortunate;comunque in quei due anni la ditta si era sviluppata in modoimprevisto, avevano dovuto raddoppiare il personale, il girod'affari si era quintuplicato e sarebbe certo ancora aumentato.
L'amico, però, di quei mutamenti non sapeva nulla. In passato,aveva cercato di convincere Giorgio a emigrare in Russia, perl'ultima volta doveva averlo fatto nella lettera di condoglianze,dilungandosi nei particolari su quali prospettive si aprivano,specialmente per il commercio di Giorgio, lì a Pietroburgo. Lecifre erano insignificanti, tuttavia, in confronto al girod'affari ormai raggiunto dalla ditta di Giorgio. E questi non siera mai sentito di raccontare all'amico dei suoi successi; se loavesse fatto con tanto ritardo, la cosa sarebbe parsa moltostrana.
Si era quindi limitato a parlare solo di avvenimentiinsignificanti, confusamente, come si affacciano alla memorianella quiete di una domenica. Voleva lasciare intatta l'idea chel'amico si era fatto della sua città natale e alla quale si eraormai abituato, durante quella lunga assenza. Era successo, così,a distanza di tempo, che Giorgio annunciasse all'amico, in trelettere piuttosto distanti tra loro, il fidanzamento di un tizioqualunque con una ragazza altrettanto qualunque; finché l'amico,senza che Giorgio lo volesse, cominciò a interessarsi a quel fattocurioso.
Giorgio preferiva scrivergli queste cose piuttosto checonfessargli di essersi fidanzato, un mese prima, lui stesso conuna signorina Frieda Brandenfeld, ragazza di famiglia agiata. Conla fidanzata parlava spesso dell'amico e del carattere tuttoparticolare della loro corrispondenza. "Così non verrà al nostromatrimonio", diceva la ragazza. "Ma io ho il diritto di conosceretutti i tuoi amici!" "Non voglio disturbarlo", rispondeva Giorgio.
"Cerca di capirmi; probabilmente verrebbe, almeno lo suppongo, maconvinto di subire un danno e si sentirebbe a disagio; forse miinvidierebbe, per ripartire poi solo, scontento e incapace disuperare questa sua scontentezza. Solo... sai che significa?" "Vabene, ma non può darsi che venga a sapere lo stesso del nostromatrimonio?" "Questo non saprei impedirlo, anche se, dato il suogenere di vita, la cosa mi sembra improbabile". "Se questi sonogli amici che hai, Giorgio, non avresti neppure dovutofidanzarti". "In questo caso è una colpa che abbiamo in due; maneppure vorrei che fosse diversamente". E quando lei, ansimandosotto i suoi baci, disse ancora: "Eppure è una cosa che midispiace molto", Giorgio pensò di poter scrivere tutto, senzapericolo, all'amico. "Così sono fatto e così deve prendermi", sidisse, "in fondo non posso inventare una persona più adatta aessergli amica di quanto sono io".
Nella lunga lettera che aveva scritta in quella mattinatadomenicale, Giorgio annunciava all'amico l'avvenuto fidanzamentocon queste parole: "Ho riservato per ultimo la novità più bella.
Mi sono fidanzato con la signorina Frieda Brandenfeld, una ragazzadi famiglia agiata, stabilitasi qui parecchio dopo la tuapartenza, e che quindi non puoi conoscere. Ti palerò in seguitopiù a lungo della mia fidanzata, per oggi ti basti sapere che sonomolto felice, che l'unico cambiamento avvenuto nella nostraamicizia è che tu avrai in me, invece di un amico qualsiasi , unamico felice. Nella mia fidanzata, che ti manda i suoi saluti eche ti scriverà di persona, avrai un'amica sincera, cosa non dapoco, per uno scapolo. So che molte ragioni ti impediscono difarci una visita, ma non credi che il mio matrimonio potrebberappresentare una buona occasione per dare un calcio a tutti gliostacoli? In ogni modo, comunque sia, non fare complimenti eregolati come meglio credi".
Con questa lettera in mano, il viso rivolto alla finestra, Giorgiorimase a lungo seduto alla scrivania. Passò per la strada unconoscente e lo salutò, lui gli rispose appena, con un sorrisoassente.
Infine mise la lettera in tasca e, uscendo dalla sua camera,attraverso un breve corridoio, entrò in quella di suo padre, dovenon era stato da mesi. Non ce n'era del resto alcuna necessità,perché vedeva sempre il padre in ufficio, a mezzogiorno mangiavanoinsieme in un ristorante e la sera ognuno cenava dove voleva, perritrovarsi poi, col proprio giornale, nel salotto; a meno cheGiorgio non fosse con gli amici, come succedeva quasi sempre, onon visitasse la fidanzata. Giorgio notò con stupore come lastanza del padre fosse buia, anche in quella mattina piena disole. L'ombra gettata dall'alto muro sul fondo dello strettocortile arrivava dunque fin là! Il padre sedeva vicino allafinestra, in un angolo ornato di vari ricordi della mogliedefunta, e leggeva il giornale tenendolo un po' spostato da unaparte per un difetto della vista. Sul tavolo c'erano gli avanzidella colazione, che sembrava appena toccata.
"Ah, Giorgio!" disse, e gli si fece incontro. La pesante vestagliasi aprì, i lembi gli svolazzarono intorno. "Mio padre è ancora ungigante," si disse Giorgio.
"Ma che buio insopportabile fa qui dentro!" disse poi.
"Eh sì, è proprio buio", rispose il padre.
"E tieni anche la finestra chiusa?""Preferisco così".
"Fuori fa un bel caldo", disse Giorgio, come per riprendere ildiscorso di prima; e si sedette.
Il padre portò via il vassoio della colazione e lo posò su di uncassettone.
"Volevo dirti", continuò Giorgio, seguendo con aria distratta imovimenti del vecchio, "che mi sono deciso ad annunciare il miofidanzamento a Pietroburgo". Sfilò appena la lettera fuori dellatasca e la rimise dentro.
"A Pietroburgo?" chiese il padre.
"Ma sì, al mio amico", fece Giorgio, cercando gli occhi del padre.
In ufficio è completamente diverso, pensò, guarda come siedesolennemente, a braccia conserte.
"Già, al tuo amico", disse il padre, scandendo le parole.
"Sai pure che prima gli volevo tacere il mio fidanzamento. Perriguardo, non per altro. Sai anche tu che ha un caratteredifficile. Potrà saperlo da altri, mi dicevo, anche se, data lavita solitaria che conduce, la cosa sia poco probabile; questo nonposso impedirlo: in ogni modo, non sarà da me che lo saprà".
"E ora hai cambiato idea?" chiese il padre, posando il grossogiornale sul davanzale e sul giornale gli occhiali, che poi coprìcon la mano.
"Sì, ci ho ripensato. Se mi è veramente amico, mi dissi, il miofidanzamento sarà una gioia anche per lui. Per questo, non ho piùesitato ad annunciarglielo. Te lo volevo dire prima di imbucare lalettera".
"Giorgio", disse il padre allargando la bocca priva di denti,"ascolta. Sei venuto da me per questa faccenda, per consigliarticon me. Questo ti fa onore, senza dubbio: ma se non mi dici tuttala verità, non conta nulla, anzi è peggio di nulla. Non vogliotoccare argomenti che esulano dal nostro discorso. Dopo la mortedella nostra cara mamma, sono accadute cose poco belle. Forseverrà il tempo di parlare anche di queste, e prima che non sicreda. Nella ditta mi sfuggono parecchie cose, forse non perché mele nascondono - non voglio neppure pensare che me le nascondano -ma ormai non mi bastano le forze, la memoria mi tradisce e nonriesco più a tenere dietro a tutto. Cosa vuoi, la natura segue ilsuo corso; ma devo anche dire che la morte della mamma mi hacolpito molto più di te. In ogni modo, visto che parliamo diquesta faccenda, della lettera, Giorgio, cerca di non ingannarmi.
E' una piccolezza, proprio una cosa da nulla, dunque noningannarmi. Hai davvero questo amico a Pietroburgo?"Giorgio si alzò, imbarazzato. "Lasciamo stare i miei amici. Milleamici non potrebbero sostituire mio padre. Sai cosa penso? Che nonti riguardi abbastanza. La vecchiaia ha i suoi diritti. Nelladitta mi sei indispensabile, lo sai bene, ma se dovessepregiudicare la tua salute, la chiuderei domani stesso, persempre. Così non va. Dobbiamo pensare a un altro genere di vita,per te, completamente diverso. Te ne stai qui al buio, quando insalotto avresti tutta la luce che vuoi. Tocchi appena lacolazione, invece di nutrirti come si deve. Siedi vicino allafinestra chiusa, quando l'aria ti farebbe così bene. No, babbo!
Andrò a chiamare il dottore e seguiremo le sue prescrizioni.
Scambieremo le camere, tu andrai in quella davanti, io verrò qui.
Per te non sarà un cambiamento, porteremo di là tutte le tue cose.
Ma c'è tempo per questo, ora rimettiti un po' a letto, hai bisognoassoluto di riposo. Vieni, ti aiuterò a svestirti, vedrai che ciriesco. O vuoi andare subito nella camera davanti a stendertiprovvisoriamente sul mio letto? Sarebbe la cosa migliore".
Giorgio era vicinissimo a suo padre, che aveva lasciato cadere sulpetto la testa dagli ispidi capelli bianchi.
"Giorgio!" disse il padre piano, senza muoversi.
Giorgio gli si inginocchiò davanti e vide su quel viso stanco,negli angoli degli occhi, le pupille dilatate che lo fissavano.
"Tu non hai nessun amico a Pietroburgo. Sei sempre stato unburlone e non hai risparmiato neppure me. Come potresti avere unamico proprio là! Non ci posso credere".
"Ma ricordati, babbo", disse Giorgio alzando il vecchio dallapoltrona e togliendogli, mentre si reggeva malfermo sulle gambe,la vestaglia, "saranno ora quasi tre anni che il mio amico venne atrovarci. Mi ricordo che non lo avevi trovato molto simpatico. Unpaio di volte, almeno, ti nascosi la sua presenza, mentre era incamera mia. Capivo la tua avversione, il mio amico è piuttosto unoriginale. Ma poi finisti con l'intenderti benissimo con lui. Ioero orgoglioso che tu rimanessi ad ascoltarlo, lo approvassi, glifacessi domande. Se ci ripensi, te ne ricorderai di sicuro.
Raccontava storie incredibili sulla rivoluzione russa. Peresempio, di aver visto, in occasione di un viaggio d'affari aKiev, durante un tumulto, un prete incidersi una croce nel palmodella mano, quindi alzare la mano e invocare la folla. Tu stessoripetesti poi la storia, diverse volte".
Intanto Giorgio era riuscito a far sedere di nuovo il vecchio, atogliergli con garbo le mutande di lana, che portava su quelle dilino, e anche a sfilargli le calze. Nel vedere che la biancherianon era troppo pulita, si rimproverò di averlo trascurato. Sarebbestato suo dovere sorvegliare anche il cambio della biancheria. Conla fidanzata non aveva ancora parlato di come avrebbe sistematosuo padre, ma insomma era tacitamente stabilito che sarebberimasto solo nella vecchia casa. A questo punto, decise risolutoche suo padre sarebbe andato da lui, nel nuovo appartamento. Aguardare le cose come stavano, forse quelle cure sarebbero stateprodigate troppo tardi.
Sollevò il padre sulle braccia e lo portò a letto. Mentre faceva ipochi passi che lo separavano dal letto, con orrore si accorse cheil padre giocherellava con la catena dell'orologio, contro il suopetto. Non gli fu facile sdraiarlo, tanta era la forza con cui siaggrappava alla catena.
Ma appena fu a letto, tutto sembrò a posto. Il vecchio si coprì dasolo e tirò la coperta fin sopra le spalle. Poi alzò gli occhi suGiorgio, senza nessuna ostilità.
"Ti ricordi di lui, ora, non è vero?" chiese Giorgio,incoraggiandolo con un movimento del capo.
"Sono coperto bene?" chiese il padre, quasi non potesse vedere sei piedi erano ben coperti.
"Ti piace stare a letto, eh?" fece Giorgio, accomodandogli lacoperta.
"Sono coperto bene?" chiese ancora il padre, come se desse moltaimportanza alla risposta.
"Stai tranquillo, sei coperto bene".
"No!" gridò il vecchio con tanta forza che la risposta si incontròquasi con la domanda. Respinse la coperta con un impeto tale che,per un attimo, si spiegò tutta per aria, e si alzò in piedi sulletto. Con una mano sfiorava il soffitto. "Volevi coprirmi, lo so,tesoro mio, ma coperto ancora non sono. Anche se questo fossel'ultimo resto di energia, è abbastanza, troppo per te. Certo checonosco il tuo amico. Sarebbe stato un figlio come mi piaceva. Perquesto tu lo hai ingannato per anni. Che altra ragione potevaesserci? Credi che non ho pianto per lui? Ecco perché ti chiudinel tuo studio, nessuno deve disturbarti, il direttore èoccupato... Solo per poter scrivere le tue false lettere inRussia. Fortunatamente, nessuno deve insegnare al padre aconoscere il proprio figlio. Quando credevi di averlo messo aterra, di tenerlo al punto da posare il sedere su di lui, senzache lui facesse un movimento, ecco allora che il mio signor figliodecide di sposarsi!"Giorgio alzò lo sguardo verso quell'immagine da incubo. L'amico diPietroburgo, che il padre, d'un tratto, mostrava di conosceretanto bene, occupò il suo animo come mai, prima, era accaduto. Lovedeva sperduto nell'immensa Russia. Lo vedeva sulla porta delnegozio vuoto, saccheggiato. In piedi tra gli scaffali fracassati,le merci fatte a pezzi, i bracci dei lumi a gas penzolanti. Perchése n'era dovuto andare tanto lontano?
"Ma guardami dunque!" gridò il padre, e Giorgio, senza rendersiben conto di quello che faceva faceva, corse smarrito per nonperdere nulla, verso il letto, ma si arrestò a mezza strada.
"Perché quella ha alzato le sottane", cominciò il padre con voceflautata, "perché quell'oca schifosa ha fatto così", e perrappresentare la scena si tirò su la camicia fino a mostrare lacicatrice di guerra che aveva sulla coscia, "perché ha alzato lesottane così, così, così, le sei andato dietro; e per sfogarti conlei senza fastidi, hai profanato la memoria di tua madre, traditol'amico e costretto tuo padre a letto, perché non si potesse piùmuovere. E invece si muove, sì o no?". In piedi, senza nessunsostegno, prese a sgambettare. La coscienza del suo acume lorendeva raggiante.
Giorgio stava in un angolo, il più lontano possibile dal padre.
Parecchio tempo prima aveva deciso di osservare bene tutto, pernon essere colto alla sprovvista, alle spalle o dall'alto. Siricordò del proposito, da un pezzo dimenticato, e lo dimenticò dinuovo, come succede quando si vuole passare un filo troppo cortonella cruna di un ago.
"Però il tuo amico non è ancora tradito!" gridò il padre, dandoforza alle sue parole con l'indice mosso in segno di diniego. "Iosono stato il suo difensore qui".
"Commediante!" non poté trattenersi dal gridare Giorgio, ma sirese subito conto dell'errore e con gli occhi sbarrati si morse,troppo tardi, la lingua, fino a piegarsi per il dolore.
"Ma sì, certo che ho recitato la commedia! Commedia! E' proprio laparola giusta! Quale altra consolazione restava al vecchio padrevedovo? Dimmi - e per l'attimo della risposta cerca di essereancora il mio figliolo - che altro mi rimaneva, in quella camerasul dietro, perseguitato dal personale infedele, vecchio come sonofino alle ossa? Mio figlio girava trionfante per il mondo,concludeva affari che io avevo preparato, faceva salti di gioiadal piacere, e passava poi davanti a suo padre con il voltocompunto del galantuomo! Credi forse che non ti abbia amato, ioche ti ho messo al mondo?"Ora si piegherà in avanti, pensava Giorgio, ah se cadesse e sifracassasse! Quest'ultima parola gli passò per il capo con laviolenza di una frustata.
Il padre si piegò in avanti, ma non cadde. Visto che Giorgio nonsi avvicinava, come si era aspettato, si raddrizzò di nuovo.
"Resta dove sei, non ho bisogno di te! Tu pensi di avere ancora laforza di venire fin qui, che ti trattieni solo perché così vuoi.
Attento a non sbagliarti. Io sono ancora il più forte, e diparecchio. Da solo, forse sarei stato costretto a cedere, ma lamamma mi ha dato la sua forza, con il tuo amico ho strettoun'ottima amicizia e la tua clientela l'ho qui in tasca!""Ha le tasche persino nella camicia!" si disse Giorgio; e conquesta osservazione credette di rendere il padre ridicolo davantial mondo intero. Ma lo pensò solo per un istante, perchédimenticava sempre tutto.
"Attaccati pure alla tua ragazza e fatti avanti! Penso io aspazzartela via dal fianco, e non sai come!"Giorgio fece delle smorfie, come se non ci credesse. Il padre fecesolo un segno con la testa verso il figlio, a conferma dellaverità di quanto aveva detto.
"Come mi hai divertito, poco fa, quando sei venuto a chiedermi sedovevi scrivere del fidanzamento al tuo amico. Ma quello sa tutto,caro il mio babbeo, quello sa tutto! Gli ho scritto io, visto chehai dimenticato di portarmi via l'occorrente per scrivere. Perquesto sono anni che non viene, sa tutto cento volte meglio di te,appallottola le tue lettere, senza averle lette, con la sinistra,mentre con la destra tiene le mie e se le legge".
Per l'entusiasmo, agitava il braccio sopra la testa. "Sa tuttomille volte meglio di te!" gridò.
"Diecimila volte!" disse Giorgio, per deridere il padre; ma nellasua bocca l'espressione assunse un'inflessione profondamenteseria.
"Da anni mi aspettavo questa domanda da parte tua! Credi chem'importi qualche cosa? Credi che legga i giornali? Toh!" e gettòa Giorgio un foglio di giornale finito, chi sa come, nel letto. Unvecchio giornale, con un titolo completamente sconosciuto.
"Ce ne hai messo del tempo, per diventare maturo! La mamma hadovuto morire, non ha potuto vedere il gran giorno; il tuo amicosta crepando nella sua Russia, già tre anni fa era giallo dabuttar via, quanto a me, vedi in che condizioni sono ridotto. Haigli occhi per vederlo!""Allora mi hai spiato!" gridò Giorgio.
In tono di compatimento, come tra sé, il padre si limitò arispondere: "Non volevi, forse, dirlo prima? Ora non è più ilcaso".
Poi, con più forza: "Ora saprai dunque che cosa esiste al mondooltre a te, finora sapevi soltanto di te. Certo, eri un bambinoinnocente, ma ancora più certo è che eri una creatura diabolica!
Per questo sappi: io ti condanno a morte per annegamento!"Giorgio si sentì cacciato dalla camera, nelle orecchie il rumoredel padre che si lasciava cadere sul letto. Lungo le scale, chescese di corsa, quasi si trattasse di un piano inclinato, urtòcontro la donna di servizio, che saliva a riordinare le camere.
"Gesù!" gridò la donna coprendosi il volto col grembiule; maGiorgio era sparito.
Si precipitò fuori dal portone, attraversò le rotaie del tram,irresistibilmente attirato dall'acqua. Strinse il parapetto, comeun affamato il cibo. Lo superò con uno slancio, daquell'eccellente atleta che era stato da giovane, con orgoglio deigenitori. Mentre le mani via via allentavano la presa, intravidetra le sbarre della ringhiera un autobus, che avrebbe facilmentecoperto il rumore della sua caduta, gridò piano: "Cari genitori,pure vi ho sempre amati!" e si lasciò cadere giù.
In quel momento il ponte era percorso da un trafficointerminabile.
LA METAMORFOSI
(1916)
1.
Gregorio Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovòtrasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Giacevasulla schiena, dura come una corazza e, sollevando un po' latesta, vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerosenervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta, minacciavadi cadere da un momento all'altro; mentre le numerose zampe,pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavanoconfusamente davanti agli occhi.
"Che mi è successo?" pensò. Non era un sogno. La sua camera, unavera camera per esseri umani, anche se un po' piccola, stava benferma e tranquilla tra le sue quattro note pareti. Sopra iltavolo, su cui era sparso un campionario di tessuti - Samsa eracommesso viaggiatore - era appesa un'immagine ritagliata, nonmolto tempo prima, da una rivista illustrata e collocata in unagraziosa cornice dorata. Raffigurava una donna che, in boa eberretto di pelle, sedeva ben dritta con il busto, alzando versol'osservatore un pesante manicotto di pelliccia in cui scomparivatutto l'avambraccio.
Lo sguardo di Gregorio passò allora alla finestra e il cielocoperto - si sentivano gocce di pioggia picchiettare sulla lamieradel davanzale - finì d'immalinconirlo. "Se dormissi ancora un po',e dimenticassi tutte queste stupidaggini?" pensò; ma la cosa eraimpossibile, perché abituato a dormire sul fianco destro, e nellostato in cui si trovava, non era in grado di assumere quellaposizione. Per quanta forza impiegasse nel cercare di buttarsisulla destra, ricadeva sempre sul dorso. Provò cento volte, chiusegli occhi per non vedere le sue zampine annaspanti e smise soloquando cominciò a sentire sul fianco un dolore leggero, sordo, maiprovato prima.
"Dio mio!" pensò, "che professione faticosa mi sono scelta! Tuttii santi giorni in viaggio. Le preoccupazioni sono maggiori diquando lavoravamo in proprio, in più c'è il tormento delviaggiare: l'affanno delle coincidenze, i pasti irregolari,cattivi, i rapporti con gli uomini sempre mutevoli, instabili, chenon arrivano mai a diventare duraturi, cordiali. Vada tutto aldiavolo!" Sentì un lieve prurito sul ventre; restando supino sitirò adagio verso il capezzale, per poter alzare meglio la testa,e trovò il punto che prudeva coperto da macchioline bianche che lolasciarono perplesso; provò a sfiorare il punto con una zampa, mala ritirò subito, perché il contatto gli provocò un brivido.
Scivolò di nuovo nella posizione di prima. "Queste alzatacce",pensò, "finiscono col rimbecillire. L'uomo deve avere il suosonno. Certi colleghi vivono come le donne di un harem. Se unamattina mi succede, per esempio, di rientrare in albergo pertrascrivere le commissioni ricevute, quei signori si sono appenaseduti per la prima colazione. Ci provassi io, col mio principale:
che volo farei! D'altra parte, chi sa se non sarebbe una fortuna.
Non fosse per i genitori, mi sarei licenziato da un pezzo, sareiandato dal principale e gli avrei detto quello che penso, dalla aalla zeta! Sarebbe dovuto cadere dallo scrittoio! Che strano modo,poi, di sedere sullo scrittoio e parlare da lì agli impiegati,specie se si considera che, sordo com'è, quelli devono andargliproprio sotto il naso. Ma non è detta l'ultima parola: appena avròmesso da parte tanto denaro da pagargli il debito dei mieigenitori, - forse occorrono ancora cinque o sei anni, - lo faròsenz'altro. Allora ci sarà il grande distacco. Ma intanto mi devoalzare, il treno parte alle cinque".
Diede un'occhiata alla sveglia, che ticchettava sul cassettone.
"Dio del cielo!" pensò. Erano le sei e mezzo, e le lancetteproseguivano tranquillamente il loro cammino, anzi la mezza eragià passata, erano ormai i tre quarti. Che la sveglia non avessesuonato? Dal letto si vedeva che era stata messa regolarmentesulle quattro; aveva senza dubbio suonato: possibile che avessecontinuato a dormire con quel suono che scuoteva i mobili? Nonaveva avuto un sonno tranquillo, ma forse per questo aveva dormitopiù pesantemente. Che avrebbe fatto? Il treno successivo partivaalle sette; per riuscire a prenderlo, avrebbe dovuto correre comeun matto, e il campionario non era ancora pronto, mentre lui, poi,non si sentiva troppo fresco e in forze. E anche se fosse riuscitoa prendere il treno, un rimprovero del principale era ormaiinevitabile: il fattorino lo aveva aspettato al treno delle cinquee da un pezzo doveva aver riferito sulla sua assenza. Era unacreatura del principale, senza volontà né cervello. E se si fossedato malato? Sarebbe stato molto penoso e sospetto, perché incinque anni di servizio non era ancora stato malato nemmeno unavolta. Il principale sarebbe venuto con il medico della mutua,avrebbe rimproverato ai genitori la pigrizia del figlio e tagliatocorto a tutte le obiezioni, rimettendosi al medico, per il quale,come si sa, esistono solo individui sanissimi, ma poltroni. E nelsuo caso avrebbe poi avuto tutti i torti? Non fosse stato per unacerta sonnolenza, inspiegabile dopo un riposo così lungo, Gregoriosi sentiva proprio bene, provava perfino un ottimo appetito.
Mentre pensava rapidamente a tutto questo, senza potersi deciderea lasciare il letto, la sveglia suonò le sei e tre quarti. Nellostesso tempo, qualcuno picchiò con cautela alla porta vicino alcapezzale. "Gregorio!" chiamava una voce, quella della mamma.
"Sono le sei e tre quarti. Non volevi partire?".
La voce soave! Gregorio si spaventò quando sentì la propriarisposta. La voce, senza dubbio, era la sua di prima: ma ad essasi mischiava un pigolio lamentoso, incontenibile, che lasciavacapire le parole solo in un primo momento, ma subito ne alterava isuoni a un punto tale, da far dubitare di aver inteso bene.
Gregorio avrebbe voluto dare una lunga risposta e spiegare tutto,ma, in quelle condizioni, si limitò a dire: "Sì, sì, grazie,mamma, sto già alzandomi". Attraverso la porta, la voce non dovésembrare diversa dal solito, perché la mamma fu tranquillizzatadalla spiegazione e si allontanò ciabattando. Ma quel brevedialogo aveva rivelato anche agli altri membri della famiglia cheGregorio, fatto insolito, era ancora in casa. Infatti ecco ilpadre picchiare piano, ma col pugno, a una delle porte laterali.
"Gregorio, Gregorio!" gridò. "Che c'è?". E dopo un po' ripetéancora, con voce più bassa: "Gregorio, Gregorio!".
Attraverso l'altra porta laterale, la sorella chiese piano:
"Gregorio, non ti senti bene? Hai bisogno di qualche cosa?".
Gregorio rispose a entrambi: "Sono già pronto!" sforzandosi direndere la sua voce normale con un'attenta pronuncia e lunghepause tra una parola e l'altra. Il padre tornò alla sua colazione,ma la sorella sussurrò: "Gregorio, apri, ti scongiuro!".
Ma Gregorio non ci pensò nemmeno, ad aprire, e si rallegrò anzidell'abitudine, presa durante i suoi viaggi, di chiudersi, lanotte, in camera, anche a casa.
Voleva alzarsi tranquillo e indisturbato, vestirsi, soprattuttofare colazione, e poi pensare al resto, perché si rendeva contoche, se fosse rimasto a meditare a letto, non sarebbe mai arrivatoa una conclusione ragionevole. Si ricordò che altre volte avevasentito, a letto, un leggero dolore, forse provocato da unaposizione scomoda, che poi, appena alzato, si era rivelato fruttod'immaginazione; e ora era curioso di vedere come le fantasiedella mattinata si sarebbero a poco a poco dileguate. Era convintoche il cambiamento di voce fosse soltanto il preavviso di un forteraffreddore, malattia professionale dei commessi viaggiatori.
Buttare via la coperta fu una cosa da nulla: gli bastò gonfiarsiun poco e quella cadde da sola. Ma dopo cominciarono ledifficoltà, specialmente perché era così grosso. Avrebbe avutobisogno di braccia e di mani, per alzarsi; invece aveva soltantotutte quelle zampine in perpetuo movimento, che non riusciva adominare. Se provava a piegarne una, gli capitava, al contrario,di allungarla; quando riusciva infine a fare con essa ciò chevoleva, le altre, quasi fossero senza controllo, si muovevano conun'altissima e dolorosa intensità. "Via, via, inutile restare aletto!" si disse Gregorio.
Dapprima cercò di uscire dal letto con la parte inferiore delcorpo, ma questa parte, che non aveva ancora visto e che nonpoteva immaginare bene, era troppo difficile da muovere.
Esasperato per la lentezza dell'operazione, raccolse tutte le sueforze e si slanciò in avanti, ma, avendo calcolato male ladistanza, picchiò contro il fondo del letto. Un dolore cocente gliinsegnò che la parte inferiore del suo corpo era, per il momento,la più sensibile.
Cercò allora di portare fuori prima il tronco, e giròprudentemente la testa verso l'orlo del letto. Questa manovrariuscì e la massa del corpo, nonostante la mole e il peso,accompagnò lentamente il movimento della testa. Quando però lasporse fuori dal letto, ebbe paura a spingersi ancora avanti: sefosse caduto così, infatti, si sarebbe fracassato la testa, a menodi un miracolo. In quel momento, non voleva proprio perdere ilcontrollo di sé; preferiva piuttosto restare a letto.
Ma quando, dopo altrettanta fatica, si ritrovò ansimante nellaposizione di partenza e vide le zampine agitarsi le une contro lealtre in modo, se possibile, ancora più rabbioso, di fronteall'impossibilità di mettere ordine e calma in quella confusione,si disse ancora una volta che non poteva assolutamente restare aletto e che la cosa più ragionevole era quella di sacrificare ognicosa alla speranza, sia pure minima, di alzarsi. Nello stessotempo, si disse che una calma, tranquilla riflessione era megliodi una decisione disperata. In quei momenti, di solito, glicapitava di fissare la finestra, ma questa volta la foschiamattutina, che nascondeva perfino le case all'altro lato dellastretta strada, poté ben poco sul suo umore. "Già le sette", sidisse a un nuovo segnale della sveglia, "già le sette e ancora unanebbia così". Per un po' rimase immobile, respirando appena, comese aspettasse dall'immobilità assoluta il ritorno alla vitanormale.
Ma poi si disse: "Prima delle sette e un quarto, devo averlasciato il letto ad ogni costo. Nel frattempo, sarà di certovenuto qualcuno della ditta a chiedere notizie, perché apronoprima delle sette. Si accinse a buttarsi fuori del letto di uncolpo solo, con tutto il corpo. Se si lasciava cadere in questomodo, la testa, che nella caduta avrebbe cercato di teneresollevata, sarebbe rimasta illesa. La schiena sembrava dura:
cadendo sul tappeto, non le sarebbe successo niente. Soprattuttotemeva il rumore che avrebbe prodotto, l'apprensione, se non lospavento, che avrebbe destato dietro le porte. Ma bisognavacorrere questo rischio.
Quando Gregorio ebbe una metà del corpo fuori del letto - il nuovosistema era più un gioco che una fatica, bastava dondolarsi conpiccole scosse - pensò quanto tutto sarebbe stato semplice sequalcuno lo avesse aiutato. Due persone robuste come il padre e ladomestica sarebbero bastate; passate le braccia sotto la suaschiena arcuata, così da farlo sgusciare dal letto, bastava che sifossero chinati con il carico e avessero aspettato, tranquilli,che lui si rovesciasse sul pavimento, dove le zampine, c'era dasperare, si sarebbero dimostrate utili. Ma a parte il fatto che leporte erano chiuse, avrebbe fatto bene a chiedere aiuto? A questopensiero, nonostante le difficoltà, non poté trattenere unsorriso.
La sua manovra era tanto avanzata che, con una oscillazione piùenergica, avrebbe definitivamente perso l'equilibrio; dovevadunque decidersi, perché entro cinque minuti sarebbe scaduto ilquarto. In quel momento suonò il campanello d'ingresso. "E'qualcuno della ditta", si disse; e si sentì agghiacciare, mentrele zampine ballavano ancor più velocemente. Per un momento, non sisentì niente. "Non aprono", si disse Gregorio, in preda a unasperanza irragionevole. Poi, come sempre, naturalmente, ladomestica andò con il suo passo pesante alla porta e aprì. AGregorio bastò sentire la prima parola di saluto del visitatore,per capire di chi si trattava: il procuratore in persona. Maperché Gregorio era condannato a lavorare in una ditta dove laminima mancanza faceva nascere i più gravi sospetti? Gli impiegatierano dunque tutti dei mascalzoni? Non poteva esserci tra loro unapersona fidata, devota, che, per avere sottratto qualche ora alladitta, impazziva dal rimorso, fino a non essere più in grado dialzarsi dal letto? Non bastava mandare un garzone, se eraindispensabile mandare qualcuno; doveva venire il procuratore inpersona, per mostrare a tutta la famiglia, che era assolutamenteinnocente, che le indagini su un caso tanto sospetto potevanovenire affidate solo alla sua intelligenza? Più per l'agitazionein cui questi pensieri lo avevano messo che di proposito, Gregoriosi slanciò, con tutte le sue forze, fuori dal letto. Il tonfo fusonoro, ma non quanto temeva. Il tappeto aveva attutito la caduta,poi la schiena era più elastica di quanto Gregorio pensasse. Nonaveva, però, sollevato abbastanza la testa, che aveva picchiatosul pavimento. Pieno di stizza e di dolore, la girò e la strofinòsul tappeto.
"Là dentro è caduto qualche cosa" disse il procuratore nellacamera di sinistra. Gregorio si chiese se un giorno non sarebbepotuto capitare anche al procuratore, quello che stava accadendo alui; in sé, la cosa poteva essere anche possibile. Ma quasi perribattere duramente a questa ipotesi, nella stanza vicina ilprocuratore fece alcuni passi risoluti, facendo scricchiolare lescarpe di vernice. Dalla camera di destra, la sorella sussurrò,per avvertire Gregorio: "Gregorio, c'è il procuratore!".
"Lo so", mormorò Gregorio, senza tuttavia alzare la voce tanto dafarsi udire dalla sorella.
"Gregorio", disse il padre dalla stanza di sinistra, "il signorprocuratore è venuto a sentire perché non sei partito con il trenodell'alba. Noi non sappiamo cosa dirgli, del resto vuole parlarepersonalmente con te. Apri la porta, avrà certo la bontà discusare il disordine della camera".
"Buon giorno, signor Samsa!" lo interruppe in tono cordiale, ilprocuratore.
"Non sta bene!" diceva la madre al procuratore, mentre il padrecontinuava a parlare accanto alla porta. "Mi creda, signorprocuratore, non sta bene! Altrimenti, come avrebbe potuto perdereil treno? Quel ragazzo pensa solo alla ditta. Quasi mi arrabbio, avedere che la sera non esce mai; è in città otto giorni, e èrimasto sempre in casa. Siede a tavola con noi e legge tranquilloil giornale o studia l'orario ferroviario. Per distrarsi, glibastano i suoi lavori di intaglio. In due o tre sere, per esempio,ha intagliato una piccola cornice: rimarrà meravigliato nel vederequanto è graziosa; è appesa nella camera, la vedrà non appenaGregorio avrà aperto. Del resto, sono contenta che lei sia qui,signor procuratore: da soli, non saremmo riusciti a convincereGregorio a aprire la porta, è così testardo, e di sicuro non stabene, sebbene stamattina presto lo abbia negato".
"Vengo subito", disse Gregorio lento e circospetto; ma non simosse, per non perdere una parola del dialogo.
"Neanche io, signora, posso spiegarmi la cosa in altro modo",disse il procuratore. "Speriamo non sia niente di grave. D'altraparte, debbo dire che noi, uomini d'affari, per nostra fortuna edisgrazia, come si vuole, dobbiamo spesso trascurare un leggeromalessere, per seguire le nostre faccende".
"Allora, può entrare il signor procuratore?" chiese il padreimpaziente, picchiando ancora alla porta. "No", disse Gregorio.
Nella stanza di sinistra subentrò un silenzio penoso, in quella didestra la sorella cominciò a singhiozzare.
Perché la sorella non andava con gli altri? Si era certo alzata inquel momento e non aveva cominciato a vestirsi. E perché piangeva?
Perché lui non si alzava e non faceva entrare il procuratore,perché rischiava di perdere il posto, perché in questo caso ilprincipale avrebbe ripreso a perseguitare i genitori con i vecchicrediti? Per ora queste preoccupazioni erano davvero fuori luogo.
Gregorio era sempre lì e non pensava affatto di abbandonare lafamiglia. Giaceva sul tappeto e nessuno, nel vederlo in quellacondizione, avrebbe potuto pretendere sul serio che facesseentrare il procuratore. Non potevano licenziarlo in tronco per unapiccola scortesia, che si sarebbe potuta facilmente giustificarein seguito. Gregorio pensò che sarebbe stato molto più ragionevolese lo avessero lasciato in pace, invece di disturbarlo con piantie consigli. Ma si rese anche conto che si comportavano così perchénon sapevano cosa pensare, e li scusò.
"Signor Samsa!" disse il procuratore, alzando la voce. "Chesuccede dunque? Si barrica nella sua stanza, risponde soltanto condei sì e dei no, procura ai suoi genitori grosse, inutilipreoccupazioni e trascura, sia detto di sfuggita, i suoi doveriprofessionali in maniera veramente inaudita. Le parlo in nome deisuoi genitori e del suo principale, la prego formalmente dirispondere subito e chiaro. Sono molto, molto stupito. Credevo diconoscerla come un uomo tranquillo, ragionevole, e ora sembraimprovvisamente che lei abbia intenzione di mettersi a fare lostravagante. Il principale, stamattina, ha accennato a unaspiegazione per la sua assenza, a un certo incasso consegnatolepoco tempo fa, ma io ho dato la mia parola d'onore che tra i duefatti non c'era nessun rapporto. La sua ostinazioneincomprensibile mi ha fatto passare la voglia di intercedereancora per lei. Immagino saprà che la sua posizione non è moltosolida. Avevo intenzione di raccontarle ogni cosa a quattr'occhi,ma poiché lei mi fa perdere tempo senza inutilmente, non capiscoperché non debbano essere informati anche i suoi genitori. Il suolavoro, in questi ultimi tempi, ha lasciato molto a desiderare. Lastagione non è favorevole, d'accordo, ai grossi affari; ma nonesiste una stagione in cui non se ne combina nessuno, signorSamsa, non deve esistere".
"Signor procuratore!" gridò Gregorio fuori di sé, dimenticando,per l'agitazione, tutto il resto. "Apro immediatamente. Un leggeromalessere, un po' di vertigine, mi hanno impedito di alzarmi. Sonoancora a letto, ma sarò subito a posto. Mi alzo subito. Un momentodi pazienza! Non sto ancora come speravo, ma va già meglio. Chi siaspettava una cosa simile, così all'improvviso? Ieri sera stavobenissimo, i miei genitori lo sanno, o, per essere precisi,proprio ieri sera sentii qualcosina. Mi si doveva vedere in viso.
Perché non ho avvertito la ditta? Uno spera sempre che ilmalessere passi, senza bisogno di restare a casa. Signorprocuratore! Abbia riguardo per i miei genitori. Tutti irimproveri che lei mi ha fatto sono infondati: nessuno ne ha maifatto parola con me. Forse non ha letto le ultime ordinazioni cheho spedito. Del resto, posso ancora partire col treno delle otto,qualche ora di riposo è bastata per rimettermi. Non si trattenga,signor procuratore, io stesso sarò subito in ditta, abbia la bontàdi dirlo al principale, presentandogli i miei omaggi!"Mentre buttava fuori a precipizio tutte queste parole, senzasapere quello che diceva, Gregorio si era avvicinato agevolmenteal cassettone, grazie alla pratica fatta sul letto, e cercava didrizzarsi appoggiandosi al mobile. Voleva aprire la porta, farsivedere, parlare con il procuratore; era ansioso di sapere che cosaavrebbero detto, vedendolo, quegli stessi che ora si affannavanotanto a cercarlo. Se si fossero spaventati, allora poteva staretranquillo, era libero da ogni responsabilità. Se invece nonavessero dato a vedere nulla, anche in questo caso non avrebbeavuto ragione di inquietarsi e, se faceva in fretta, poteva esserein stazione per le otto. Scivolò diverse volte contro la lisciasuperficie del mobile, poi, con un ultimo slancio, riuscì araddrizzarsi: ai dolori all'addome non faceva più caso, percocenti che fossero. Si lasciò andare contro la spalliera di unasedia vicina e ad essa si aggrappò con le sue zampine. Ora avevaraggiunto il dominio di sé. Rimase, in silenzio, ad ascoltare ilprocuratore.
"Loro hanno capito qualcosa?" chiedeva il procuratore ai genitori.
"Non ci starà prendendo in giro?".
"Per l'amor di Dio!" gridò la madre tra le lacrime. "Forse stamalissimo, e noi lo tormentiamo. Grete! Grete!" chiamò. "Sì,mamma", rispose la sorella dall'altra parte; si parlavanoattraverso la camera di Gregorio. "Corri subito dal dottore.
Gregorio sta male. Svelta, dal dottore. Hai sentito come parla?".
"Era la voce di un animale", disse il procuratore, in tonosingolarmente basso, rispetto alle grida della madre.
"Anna, Anna!" gridò il babbo, attraverso l'anticamera, indirezione della cucina, e batté le mani. "Vada subito a chiamareun fabbro!".
In un gran fruscio di gonne le due ragazze corsero attraversol'anticamera - come aveva fatto, la sorella, a vestirsi tanto infretta? - e spalancarono la porta d'ingresso. Non si sentìrichiuderla; dovevano avere lasciato la porta aperta, come succedenelle case in cui è avvenuta una grave disgrazia.
Gregorio, intanto, era molto più calmo. Dunque, le sue parole nonerano più comprensibili, sebbene a lui fossero sembrate abbastanzachiare, anzi più chiare di prima, forse perché ci aveva fattol'orecchio. Ma allora gli altri dovevano avere capito che qualcosanon andava, e lo avrebbero aiutato. La fermezza e la risolutezzacon cui erano stati presi i primi provvedimenti gli avevano fattobene. Si sentiva di nuovo compreso nella cerchia umana;dall'intervento del medico e del fabbro insieme, senza troppodistinguere, sperava imprevisti, meravigliosi risultati.
Per avere una voce quanto più chiara possibile nelle prossime,decisive conversazioni, tossicchiò, raschiandosi la gola, ma condiscrezione, perché era probabile - da solo non si sentiva didirlo con certezza - che essa non suonasse come una tosse umana.
Nella stanza accanto, non si sentiva più niente. Forse i genitorierano seduti accanto al tavolo col procuratore, e parlavano sottovoce, forse stavano con l'orecchio incollato alla porta, inascolto.
Pian pianino, Gregorio si spinse fino alla porta, tenendosiaggrappato alla sedia. Abbandonata la sedia, si lasciò andare,dritto, contro la porta - le estremità delle sue zampine eranoleggermente vischiose - e si concesse un attimo di riposo. Poi simise a girare, con la bocca, la chiave nella toppa. Visto,purtroppo, che non aveva denti, come avrebbe potuto stringere lachiave? Gli venne in mente che disponeva di robustissime mascelle:
con il loro aiuto, riuscì a girare la chiave, senza accorgersi diessersi, in qualche modo, ferito, se non quando dalla bocca unliquido scuro cominciò a colare sulla chiave, gocciolando poi sulpavimento. "Sentite!" disse il procuratore nella stanza accanto.
"Sta girando la chiave". Queste parole furono, per Gregorio, digrande incoraggiamento, tutti avrebbero dovuto incitarlo, anche ilbabbo e la mamma: "Forza Gregorio!" avrebbero dovuto gridare: "Nonmollare, dacci sotto con la serratura!" Gli sembrava di vederlimentre, pieni d'ansia, seguivano i suoi sforzi. Fece appello atutte le sue energie e si accanì frenetico sulla chiave.
Accompagnava i progressi della chiave con una specie di danzaintorno alla serratura: reggendosi con la bocca, a seconda delbisogno, restava sospeso alla chiave o vi gravava sopra con tuttoil suo peso. Il secco rumore di uno scatto, lo fece trasalire. Conun respiro di sollievo, si disse: "Non ho avuto bisogno delfabbro", e posò la testa sulla maniglia, per tirare a sé l'uscio.
La porta, a questo punto, era aperta; ma Gregorio ancora non sivedeva. Doveva girare adagio, facendo molta attenzione, intornoall'imposta aperta, se proprio sulla soglia non voleva caderemalamente sulla schiena. Stava appunto compiendo, con grandecautela, questa manovra, quando sentì il procuratore emettere un"Oh!" che sembrò il sibilo del vento. Poi lo vide portare una manocontro la bocca spalancata - stava davanti agli altri - eindietreggiare lentamente, quasi fosse spinto, con pressionecostante, da una forza invisibile. La madre, ancora coi capellisciolti e arruffati, nonostante la presenza del procuratore,guardò a mani giunte il padre, fece due passi verso Gregorio, poisi afflosciò a terra in mezzo alle sottane che le si allargavanointorno, sprofondando il viso nel seno. Il padre strinse i pugnicon aria minacciosa, quasi volesse ricacciare Gregorio nella suastanza, poi si guardò intorno smarrito, si mise le mani davantiagli occhi, e scoppiò in singhiozzi.
Gregorio non entrò nella stanza. Appoggiato all'imposta rimastachiusa, e mostrando solo metà del corpo, fissava i presenti con latesta piegata da una parte. Intanto, si era fatto molto piùchiaro; dalla finestra si vedeva benissimo un pezzo del lungofabbricato di fronte, un ospedale di colore grigioferro, con lesue finestre tutte uguali ritagliate sulla facciata. La pioggianon aveva smesso di cadere, c'erano ancora grosse gocce bendistinte che finivano a terra una per una. Piatti, vasetti,tazzine e altre cose coprivano ancora il tavolo; per il padre, laprima colazione era il pasto più importante della giornata e luilo faceva durare ore, leggendo diversi giornali. Sulla parete difronte era appesa una fotografia di Gregorio, quando era militare:
in uniforme di tenente, la mano sulla sciabola, sorrideva felice eincuteva, insieme, rispetto. Attraverso la porta dell'anticamera equella dell'ingresso, si vedeva il pianerottolo e un primo pezzodi scale.
"Ora", disse Gregorio, consapevole di essere il solo ad avereconservato la calma, "mi vesto subito, metto in ordine ilcampionario e parto. Volete farmi partire? Vede bene, signorprocuratore, che non sono un testardo e che mi piace lavorare:
viaggiare è faticoso, ma che farei se non viaggiassi? Dove va,ora, signor procuratore? In ditta? Ah sì? Riferirà tutto per filoe per segno? Una persona, a un certo punto, può essere incapace dilavorare, ma proprio allora gli altri dovrebbero ricordarsi dicome ha sempre lavorato; pensare che in seguito, eliminati gliostacoli, lavorerà con impegno e attenzione ancora maggiori. Leisa quali obblighi ho verso il principale. Inoltre devo pensare aimiei genitori e a mia sorella. Sono nei guai ma me la caverò. Lei,per favore, non mi renda la cosa più difficile di quanto è. Inditta, mi difenda! Il viaggiatore non è amato, lo so. Pensano cheguadagni un sacco di quattrini e che faccia una bella vita.
Purtroppo non ho argomenti per confutare questo pregiudizio. Malei, signor procuratore, lei sa meglio degli altri come stanno lecose; in confidenza, anzi, lo sa anche meglio del principale, che,considerata la sua posizione, può essere portato a giudicare maleun impiegato. Lei sa che il viaggiatore, standosene lontano pertutto l'anno dalla ditta, è facile vittima di pettegolezzi, dicasi fortuiti, di lagnanze ingiustificate, e che non puòdifendersi perché, in genere, ignora tutto; e quando è di ritorno,stanchissimo, da un giro, sperimenta sulla sua pelle leconseguenze di cause ormai impossibili da ricostruire. Signorprocuratore, non se ne vada senza avermi prima, in qualche modo,tranquillizzato che mi darà almeno un po' di ragione!"Ma già alle prime parole il procuratore si era girato, econsiderava Gregorio, scuotendo le spalle, con la faccia scura.
Senza smettere di guardarlo, a poco a poco, quasi che gli fossevietato di lasciare la stanza, si avvicinò alla porta. Messo unpiede in anticamera, ritrasse l'altro con fulminea rapidità dalsalotto, come se il pavimento scottasse; poi fece con la destra ungran gesto verso la scala, come se da quella parte lo aspettasseuna liberazione soprannaturale.
Gregorio comprese che non poteva lasciarlo andare in quel modo, segli stava a cuore il posto nella ditta. Ma i genitori non sapevanovedere altrettanto chiaro. Con il passare del tempo, si eranoconvinti che Gregorio era sistemato per tutta la vita; in quelmomento, poi, il loro smarrimento era così grande, che non eranocerto in grado di prevedere nulla. Gregorio, lui, immaginava cosasarebbe successo. Dovevano fermare il procuratore, calmarlo,convincerlo, infine conquistarlo: ne andava del futuro di Gregorioe della sua famiglia! Se almeno ci fosse stata la sorella: leicapiva, aveva già pianto quando ancora Gregorio se ne stava nellasua stanza, tranquillamente coricato sulla schiena. Ilprocuratore, che aveva un debole per il gentil sesso, le avrebbecertamente dato ascolto; lei avrebbe chiuso la porta di casa e inanticamera lo avrebbe convinto che il suo spavento erairragionevole. Ma la sorella non c'era e Gregorio se la dovevacavare da solo. Senza pensare a come avrebbe potuto spostarsi,nelle condizioni in cui era, né se il suo discorso era statocompreso - probabilmente no - abbandonò il suo sostegno e siaffacciò oltre la soglia per raggiungere il procuratore, mentrequello si aggrappava in modo grottesco alla balaustra delle scale;ma perse l'equilibrio e, con un debole grido, cadde sulle zampine.
Immediatamente, e fu la prima volta, nella mattinata, provò unaspecie di benessere fisico. Notò con soddisfazione che le zampine,con qualcosa di solido sotto, obbedivano a meraviglia, fremevanoaddirittura dal desiderio di portarlo dove voleva: e così pensòche la guarigione da tutti i suoi mali era imminente. Mentre tuttofremente per la voglia di muoversi, rimaneva sul pavimento,proprio di fronte a sua madre, questa, che sembrava esanime, saltòd'un tratto in piedi, spalancò le braccia allargando le dita egridò: "Aiuto, per l'amor di Dio, aiuto!".
A giudicare dal suo capo chino, sembrava che volesse guardareGregorio; cominciò, invece, a indietreggiare a precipizio, senzapensare alla tavola ancora apparecchiata, la urtò, vi si sedettesopra, come avrebbe fatto una persona distratta; e non sembròneppure accorgersi che dalla grande caffettiera rovesciata unrivolo di caffè cominciò a scorrere sul tappeto.
"Mamma, mamma", disse piano Gregorio, alzando gli occhi. Avevadimenticato il procuratore; ma, alla vista del caffè che scorreva,non poté impedirsi di far scattare più volte le mascelle a vuoto.
La mamma gettò un altro grido, lasciò di corsa il tavolo e caddetra le braccia del padre, che le era corso incontro. Ma Gregorionon aveva più tempo per i genitori: il procuratore era sulla scalae, con il mento sulla ringhiera, guardava per l'ultima voltaall'indietro. Gregorio prese la rincorsa, per cercare diraggiungerlo, ma il procuratore dovette intuire qualche cosa,perché con un salto superò diversi gradini e scomparve con un"Uh!" che risuonò per le scale. La fuga del procuratore,purtroppo, fece perdere la testa anche al padre, fino ad alloraabbastanza calmo. Invece di inseguire il procuratore o almeno dilasciare che Gregorio lo inseguisse, afferrò con la destra ilbastone, lasciato dal visitatore su una sedia con il cappotto e ilcappello, prese con la sinistra un giornale dal tavolo, quindi,battendo i piedi e agitando bastone e giornale, prese a spingereGregorio nella sua camera. Non servì nessuna preghiera, che delresto non era neppure capita; mentre i movimenti supplichevolidella testa servirono solo a rendere più violento il battere deipiedi. Nonostante il freddo, la madre aveva spalancato unafinestra e, sporgendosi quanto più poteva, si stringeva il visotra le mani. Tra la sala e il pianerottolo delle scale ci fu unaforte corrente d'aria, le tende delle finestre volarono in alto, igiornali sul tavolo frusciarono e alcuni fogli volarono sulpavimento. Senza pietà il padre continuava a incalzare Gregorio,emettendo sibili da selvaggio. Gregorio, che non aveva nessunapratica della marcia indietro, procedeva molto adagio. Se si fossepotuto girare, avrebbe raggiunto subito la camera, ma, perdendotempo con quella manovra, temeva di spazientire il padre, mentre,d'altra parte, aveva paura per un colpo di bastone, che sarebbestato fatale per la sua schiena o per la sua testa. Ma presto nongli restò altro da fare: con spavento si accorse che,indietreggiando, non sapeva mantenere la direzione. Continuando alanciare al babbo occhiate piene di angoscia, cominciò a eseguirela conversione con la maggiore rapidità possibile, e cioè conestrema lentezza. Forse il padre capì la sua buona volontà perchéinvece di disturbarlo, si mise a dirigere, da lontano, ilmovimento, aiutandolo anzi, ogni tanto, con la punta del bastone.
Se soltanto avesse smesso con quel sibilo intollerabile! AGregorio gli faceva proprio perdere la ragione. Si era quasicompletamente girato quando, frastornato da quel rumore, siconfuse, e ricominciò a girare in senso opposto. In ogni modo,quando fu arrivato di fronte alla porta aperta, si accorse che ilsuo corpo era troppo grosso per passare. Nello stato d'animo incui si trovava, il padre non pensò neppure, naturalmente, adaprire l'altra imposta. La sua idea fissa era di ricacciare subitoGregorio in camera, non si sarebbe rassegnato ai lunghipreparativi necessari a quello per passare, dritto, dall'altraparte. Come se non ci fosse nessun ostacolo, incalzava Gregoriofacendo più baccano che mai, la sua voce sembrava moltiplicata permille. Ora c'era poco da scherzare; e Gregorio rischiò il tuttoper tutto. Ma nello slancio ribaltò, rimanendo incastrato sulfianco e producendosi una lunga escoriazione, mentre la biancasuperficie della porta si sporcava di umori e di sangue. Da solo,non sarebbe più stato capace di muoversi: le sue zampine, da unaparte si agitavano inutili nell'aria, dall'altra erano schiacciatedolorosamente contro il pavimento. In quel momento il padre glidiede il colpo di grazia di grazia e lui, con un gran volo,perdendo sangue abbondantemente, finì nella sua camera. La portavenne chiusa con il bastone, e infine tutto fu silenzio.
2.
Solo all'imbrunire Gregorio si svegliò dal suo sonno pesante,simile a uno svenimento. Si sarebbe svegliato di lì a poco anchesenza rumori, si sentiva abbastanza riposato e in forze; ebbel'impressione di essere stato svegliato da un passo furtivo e daun cauto richiudersi della porta dell'anticamera. La luce dellelampade elettriche della strada rischiarava qualche punto delsoffitto e le parti superiori dei mobili, ma il pavimento restavaal buio. Agitando goffamente le antenne, che a questo puntocominciò ad apprezzare, si trascinò fino alla porta, per rendersiconto di quanto era successo dall'altra parte. Il fianco sinistrogli dava l'impressione di essere un'unica, dolorosa cicatrice, euna fila di zampine non lo reggeva. Un arto era rimasto gravementeferito negli incidenti della mattinata - era già un miracolo chefosse solo uno - e si trascinava inerte.
Solo quando fu arrivato davanti alla porta, capì che cosa lo avevaattirato fin là: un odore di cibi. C'era una ciotola piena dilatte zuccherato, su cui galleggiavano fettine di pane bianco.
Avrebbe quasi riso di gioia, tanto la sua fame era aumentata dalmattino. Immerse avido la testa nel latte, ma subito la ritrassedeluso: non solo provava difficoltà a mangiare per la ferita alfianco - per mangiare doveva comprimere e dilatare tutto il corpo- ma il latte, che la sorella sapeva essere la sua bevandapreferita e per questo glielo aveva portato, ora non gli piacevapiù. Quasi con disgusto, girò la schiena alla ciotola e,strisciando, tornò in mezzo alla camera.
Attraverso le fessure della porta, Gregorio vide che in sala eraacceso il gas; ma mentre a quell'ora, di solito, il padre leggevail giornale del pomeriggio alla madre e, a volte, anche allasorella, in quel momento non si sentiva nulla. Forse questalettura, della quale la sorella gli parlava tanto spesso nelle sueconversazioni e nelle sue lettere, negli ultimi tempi non venivapiù fatta. Ma nemmeno nelle altre stanze si sentiva nulla, e lacasa non poteva essere vuota. "Che vita tranquilla faceva la miafamiglia", si disse Gregorio, fissando il buio, orgogliosoall'idea di avere potuto permettere ai genitori e alla sorella unavita simile, in una casa così bella. E se quiete, benessere,soddisfazione fossero finiti nello spavento? Per non smarrirsi insimili pensieri, Gregorio volle muoversi, e si trascinò in su e ingiù per la camera.
Durante la lunga serata, vide schiudersi prima una, poi l'altradelle porte laterali: qualcuno avrebbe voluto entrare, ma sitratteneva, esitante. Gregorio si fermò davanti alla porta dellasala, deciso a fare entrare, in un modo o nell'altro, ilvisitatore esitante o almeno a vedere chi fosse; ma la porta nonvenne più aperta e Gregorio attese invano. Al mattino, quando leporte erano chiuse, tutti volevano entrare, ora che una porta eraaperta e le altre, evidentemente, erano state aperte durante ilgiorno, nessuno entrava più, mentre le chiavi erano state infilateall'esterno.
La luce fu spenta, in sala, molto tardi: i genitori e la sorellaerano dunque rimasti alzati fino a quel momento, perché Gregorioli sentì allontanarsi tutti e tre in punta di piedi. Prima delmattino, nessuno sarebbe più venuto da lui; aveva dunque tempo perriflettere sul modo di riorganizzare la propria vita. Ma l'ampiastanza, dall'alto soffitto, in cui era costretto a strisciare, glifaceva paura, senza che potesse spiegarsene la ragione, visto checi abitava da cinque anni. Seguendo un oscuro impulso, che glisuscitò un po' di vergogna, corse a infilarsi sotto il divano equi, anche se aveva la schiena un po' compressa e non potevaalzare la testa, si sentì subito a suo agio; gli dispiacque solodi essere tanto grosso da non potere scivolare sotto tutto intero.
Lì sotto rimase tutta la notte, in un dormiveglia dal quale uscivadi soprassalto sotto gli stimoli della fame, per abbandonarsi apaure e a incerte speranze. Per il momento, questa era la suaconclusione, doveva rimanere buono e tranquillo, per alleviarealla famiglia il disagio che lui le procurava.
L'occasione di verificare i suoi propositi si presentò a Gregorioancora prima di giorno, quando la sorella, quasi vestita, aprì laporta dell'anticamera e guardò dentro con ansia. Non lo trovòsubito, ma quando lo vide sotto il divano - Dio mio, doveva puressere da qualche parte, non poteva essere volato via - ne ebbe untale spavento che, incapace di dominarsi, richiuse la porta discatto. Poi, quasi pentita del gesto, la riaprì e avanzò in puntadi piedi, come se fosse nella camera di un malato grave o di unestraneo. Gregorio, spinta la testa fino all'orlo del divano, laosservava. Si sarebbe accorta che non aveva toccato il latte, manon per mancanza di appetito? Gli avrebbe portato qualche altracosa più adatta? Se non l'avesse indovinato da sola, lui avrebbepreferito morire di fame, piuttosto che farglielo notare, anche sebruciava dalla voglia di uscire dal divano, per gettarsi ai piedidella ragazza, supplicandola di dargli qualche cosa di buono damangiare. Ma la sorella si accorse subito, con stupore, dellaciotola ancora piena, intorno alla quale erano cadute alcune goccedi latte: la prese, utilizzando di un pezzo di carta, e la portòvia. Gregorio era curioso di vedere che cosa gli avrebbe portatoin cambio: ma, per quanto fantasticasse, non avrebbe maiindovinato fino a che punto poteva spingersi la bontà dellasorella. Per conoscere i suoi gusti, questa portò una quantità diroba, su un vecchio giornale. Verdura quasi marcia, ossa avanzatela sera prima, rivestite di salsa bianca rappresa, uva passa,mandorle, un formaggio che Gregorio due giorni prima avevadichiarato immangiabile, un pane secco, un pezzo di pane imburratocol sale e un altro senza sale. Accanto al giornale posò laciotola della sera prima, destinata, ormai, a lui, questa voltapiena d'acqua. Prevedendo che Gregorio in sua presenza, nonavrebbe mangiato, spinse la sua delicatezza a lasciare la camera,chiudendo la porta a chiave, facendogli così capire che potevafare il suo comodo. Ora che il pasto era pronto, le zampine diGregorio erano in grande agitazione. Le sue ferite dovevano essereguarite, perché non sentiva più nessun fastidio; ne fu stupito eripensò a un piccolo taglio in un dito che si era procurato unmese prima, e che faceva male ancora due giorni fa. "Che abbia orameno sensibilità?" pensò succhiando avidamente il formaggio, che,fra i cibi, lo aveva immediatamente e imperiosamente attirato. Conun gusto che lo faceva lacrimare, divorò, uno dopo l'altro,formaggio, verdura, salsa; i cibi freschi non gli piacevano, nonpoteva sopportarne neppure l'odore, e li scansò dal resto. Avevafinito da un pezzo, e se ne stava disteso pigramente, quando lasorella, per fargli capire di ritirarsi, cominciò a girare lachiave. Sebbene sonnecchiasse, il rumore lo mise subito inallarme, e si affrettò a raggiungere il divano. Non fu sacrificioda poco, rimanere là sotto nel poco tempo che la sorella restò incamera: il pasto abbondante aveva dilatato il suo corpo, efaticava a respirare. Con gli occhi pieni di lacrime e breviaccessi di soffocazione, vide la sorella spazzare via, convinta difar bene, insieme con gli avanzi, i cibi non toccati, come sefossero, ormai, inservibili. Tutto finì in un secchio, che vennechiuso con un coperchio di legno e portato via. Si era appenagirata, che Gregorio uscì di sotto il divano, si stirò e ripresefiato.
In questo modo Gregorio ricevette, ogni giorno, i suoi pasti: lamattina, quando i genitori e la domestica ancora dormivano, e dopopranzo, quando i genitori facevano un sonnellino e la domesticaveniva allontanata, con qualche incarico, dalla sorella. Neanche igenitori volevano che Gregorio morisse di fame, ma incapaci diassistere ai suoi pasti, preferivano esserne informati da unaterza persona. O, forse, a decidere così era stata la sorella, perrisparmiare ai vecchi, già tanto provati, anche questo piccolodolore.
Gregorio non poté mai sapere con quali pretesti, la prima mattina,erano stati allontanati il medico e il fabbro: dato che nessunoriusciva a capirlo, nessuno, nemmeno la sorella, pensava che luipoteva capire gli altri; quando la ragazza era in camera, tuttoquello che lui sentiva erano sospiri e invocazioni ai santi. Solopiù tardi, quando si fu un po' adattata alla situazione - deltutto, non si adattò mai - Gregorio sentì qualche considerazioneche denotava o poteva denotare affetto. "Oggi ha mangiato digusto", diceva, quando lui aveva fatto piazza pulita del cibo;altre volte, quando non aveva mostrato appetito, cosa che diventòsempre più frequente, diceva in tono di rammarico: "Anche questavolta ha lasciato tutto lì".
Ma se Gregorio non poteva sapere direttamente nessuna notizia,qualche cosa riusciva a sentire dalle stanze vicine: quandosentiva una voce, correva alla porta più adatta e vi aderivacontro con tutto il corpo. Specialmente nei primi tempi non c'eradiscorso in cui non si parlasse, magari in maniera velata, di lui.
I primi due giorni, durante i pasti, si tenne consiglio sul dafare; ma la faccenda era discussa anche negli intervalli, perchénessuno voleva rimanere solo in casa né abbandonare questa senzasorveglianza. Quanto alla domestica, subito il primo giornosupplicò la madre, in ginocchio, di licenziarla, senza che nessunocapisse cosa e quanto avesse capito dell'incidente. Nelcongedarsi, un quarto d'ora dopo, ringraziò, tra le lacrime, peril permesso ottenuto come se fosse il maggiore favore che mai lefosse stato accordato, e aveva promesso, senza che nessuno glieloavesse chiesto, con un terribile giuramento, di non rivelarenulla, assolutamente nulla, a nessuno.
Da allora la sorella e con la madre dovettero badare alla cucina;un lavoro, va detto, non troppo faticoso, perché in casa simangiava poco. Gregorio sentiva le esortazioni che a tavola unarivolgeva all'altro e la risposta immancabile: "Grazie, non ho piùfame" o qualcosa di simile. Forse non bevevano neanche più. Spessola sorella chiedeva al padre se voleva della birra, offrendosi diandare lei stessa a prenderla; al silenzio del padre, pertogliergli ogni scrupolo, aggiungeva che poteva incaricaredell'acquisto la portinaia. L'offerta veniva allora rifiutata daun energico definitivo "No", e il discorso cadeva.
Già dal primo giorno, il padre espose alla madre e alla sorella lasituazione finanziaria e le prospettive della famiglia. Ogni tantosi alzava da tavola e toglieva dalla piccola cassaforte, salvatacinque anni prima dal fallimento della sua azienda, un documento eun libro di appunti. Gregorio lo sentiva aprire la complicataserratura e richiuderla dopo aver preso quello che cercava. Questidiscorsi del padre furono la prima consolazione che Gregorio provònella sua prigionia. Gregorio pensava che suo padre non avessesalvato nulla; almeno, questi non gli aveva mai lasciato crederediversamente, e lui non aveva mai fatto domande. A quell'epoca,l'unico pensiero di Gregorio era stato di far dimenticare allafamiglia il rovescio che li aveva portati alla disperazione. Siera buttato, pieno di foga, nel lavoro, diventando subito, dapiccolo impiegato, un commesso viaggiatore: un'ottima posizione,grazie alla quale i successi si trasformavano in denaro sonante,sotto forma di provvigione: denaro che si poteva spargere sultavolo, davanti alla famiglia stupita e felice. Bei tempi, che nontornarono più con quello splendore, anche se Gregorio guadagnavatanto da mantenere la famiglia e da mantenerla per davvero. Ormaisi erano tutti abituati a quel regime di vita: i suoi accettavanocon gratitudine il denaro, e lui lo dava volentieri, ma ciòavveniva senza grandi effusioni. La sorella gli era, più deglialtri, vicina, e Gregorio si era proposto in segreto di farlaentrare, l'anno successivo, in conservatorio, sperando difronteggiare in qualche modo la spesa considerevole, per farfelice la ragazza che, contrariamente a lui, adorava la musica eamava suonare il violino. Fratello e sorella parlavano spesso delconservatorio, durante le brevi apparizioni che Gregorio faceva infamiglia, ma sempre come di un sogno irrealizzabile. I genitorinon volevano sentire neppure quelle innocenti allusioni, maGregorio pensava seriamente alla cosa e si riprometteva diannunciarla con solennità la sera di Natale.
Questi pensieri, proprio fuori posto nella sua attuale situazione,gli passavano per la testa mentre stava a origliare, appoggiatocontro una porta. A volte la stanchezza lo vinceva e non sentivapiù nulla; la testa abbandonata picchiava contro la porta, ma luila rialzava subito, perché il piccolo rumore era stato notatonell'altra stanza e aveva fatto tacere tutti.
"Chi sa che combina", diceva il padre dopo un momento, girandosidi sicuro verso la camera; e la conversazione interrotta faticavaa riprendere.
Il padre aveva preso l'abitudine di ripetere i suoi discorsi, siaperché da un pezzo non si occupava più di quelle faccende, siaperché la moglie non capiva subito. Gregorio ebbe così modo disentire diverse volte che, nonostante tutte le disgrazie, igenitori disponevano di una certa somma, esigua ma arrotondata,con il tempo, dagli interessi non riscossi. Inoltre non era statospeso tutto il denaro che Gregorio, tenendo per sé solo qualchefiorino, portava ogni mese a casa; e anche questo aveva finito colformare un piccolo capitale. Gregorio, dietro l'uscio, facevaapprovava energicamente con la testa, felice di quell'inaspettataprevidenza. Con questo denaro si sarebbe potuto ridurre ancora ildebito del padre verso il principale, avvicinando così il giornodella sua liberazione; ma, per il momento, era meglio lasciare lecose come il padre le aveva disposte.
Il denaro messo da parte non bastava a far vivere la famigliad'interessi; sarebbe durato un anno, due al massimo. I risparmi,dunque, non si dovevano toccare, ma erano da tenere come riservain caso di necessità; e intanto bisognava guadagnarsi il denaroper vivere. Il padre era sano, ma ormai avanti con l'età, nonlavorava più da cinque anni e non poteva quindi sperare troppo:
durante quei cinque anni, prima vacanza di una vita consacrata allavoro e all'insuccesso, era ingrassato e appesantito. Dovevaforse lavorare la vecchia mamma, che soffriva di asma e faticavasolo a attraversare la casa, costretta a trascorrere metà dellesue giornate sul divano accanto alla finestra, fra crisi disoffocazione? Oppure avrebbe dovuto lavorare, coi suoi diciassetteanni, la sorella, ancora una bambina? Non avrebbe dovutocontinuare a vivere come aveva sempre fatto, con abitini eleganti,lunghi sonni, aiutando in casa, concedendosi qualche modestodivertimento e, soprattutto, suonando il violino? Quando parlavadella necessità di guadagnare denaro, Gregorio abbandonava laporta e si buttava sopra il fresco cuoio del divano, bruciando divergogna e di tristezza.
Spesso rimaneva sdraiato sul divano tutta la notte, senza chiudereocchio, grattando il cuoio per ore e ore. Oppure si sobbarcava lafatica di spingere una poltrona fino alla finestra, si aggrappavaal davanzale, quindi, puntellandosi contro la poltrona, rimanevaappoggiato ai vetri, quasi volesse provare ancora un senso diliberazione che una volta gli veniva dal guardare fuori. La vistagli si abbassava, ora, di giorno in giorno: non riusciva più avedere, per esempio, l'ospedale di fronte, mentre una volta loaveva, con suo gran disappunto, sempre davanti agli occhi; se nonfosse stato sicuro di abitare nella Charlottenstrasse, una viatranquilla ma centrale, avrebbe potuto credere che la sua finestrasi apriva su un deserto, in cui il grigio della terra e del cielosi riunivano senza lasciarsi distinguere. Bastò che la sorella,sempre attenta, vedesse due volte la poltrona vicino alla finestraperché, pulita la stanza, rimettesse la poltrona nello stessoposto, avendo cura di aprire anche le imposte interne.
Se Gregorio avesse potuto parlare con la sorella, ringraziarla perquanto faceva per lui, queste premure non gli avrebbero pesato;ma, così condannato al silenzio, ne soffriva. La ragazza facevadel suo meglio per rendere la situazione meno penosa, e via via,in effetti, ci riusciva; con l'andare del tempo, Gregorio, a suavolta, acquistava sempre più coscienza del suo stato. Già il mododi entrare della sorella era per lui terribile. Appena entrata,sebbene stesse sempre attenta a risparmiare ad altri la vistadella camera, senza richiudere la porta correva alla finestra e laspalancava di colpo, con mani impazienti, come se soffocasse;restava poi al davanzale, respirando profondamente, anche sefaceva molto freddo. La corsa e il fracasso spaventavano Gregoriodue volte al giorno; per il tempo che la sorella si affaccendavanella stanza, lui rimaneva, tremante, sotto il divano, pur sapendoche la ragazza gli avrebbe risparmiato tante angosce se fossepotuta restare, con la finestra chiusa, in una stanza dove eralui.
Una volta - era passato un mese dalla metamorfosi di Gregorio, ela sorella non aveva più motivo di spaventarsi alla sua vista -nell'arrivare un po' prima del solito, la ragazza sorpreseGregorio mentre guardava fuori dalla finestra, immobile, in unatteggiamento terrificante. Se si fosse limitata a non entrare,Gregorio non si sarebbe meravigliato, perché sapeva che, in quellaposizione, le impediva di aprire la finestra; ma lei non solo nonentrò, ma si ritrasse con un salto e chiuse la porta a chiave: unestraneo avrebbe potuto pensare che Gregorio fosse in agguato permorderla. Naturalmente Gregorio si nascose subito sotto il divano,ma dovette aspettare fino a mezzogiorno, prima che la sorellatornasse, molto più inquieta del solito. Egli capì che la suavista le era intollerabile, che sarebbe stato sempre così anche infuturo, che la ragazza, anzi, doveva fare un grande sforzo per nonfuggire alla vista delle parti rimaste fuori dal divano. Perrisparmiarle anche questo, un giorno Gregorio trasportò sullaschiena un lenzuolo dal letto al divano, e lo sistemò in modo dacoprire il mobile fino a terra: l'impresa gli costò quattro ore difatica. Se la sorella avesse pensato che il lenzuolo era inutile,avrebbe potuto toglierlo, perché per Gregorio, chiaramente, nonera gradevole quella segregazione; ma il lenzuolo rimase al suoposto, e quando Gregorio, scansato con cautela un lembo deldrappo, volle vedere come la sorella accoglieva l'innovazione,credette di vedere nei suoi occhi un lampo di gratitudine.
Nelle prime due settimane, i genitori non poterono decidersi aentrare da lui; li sentiva spesso elogiare la sorella, alla qualeprima rimproveravano di essere una buona a nulla. Il padre e lamadre, a volte, aspettavano fuori della camera di Gregorio mentrela sorella finiva le pulizie, per farsi poi raccontaredettagliatamente come era la camera, cosa aveva mangiato Gregorio,come si era comportato quella volta, se non aveva notato, percaso, un lieve miglioramento. Non passò troppo tempo perché lamadre manifestasse il desiderio di visitare Gregorio; ma il padree la sorella la trattennero, adducendo ragioni che Gregorioascoltò attentamente, approvandole in pieno. In seguito, dovetterotrattenerla con la forza, e nel sentirla gridare: "Lasciatemiandare da Gregorio, dal povero figlio mio infelice! Non voletecapire capire che devo vederlo?", Gregorio pensò che forse sarebbestato bene che la mamma fosse entrata da lui non tutti i giornima, mettiamo, una volta la settimana; lei capiva le cose moltomeglio della sorella che, con tutto il suo coraggio, era solo unabambina, e si era forse assunta un compito tanto pesante solo perleggerezza infantile.
Il desiderio che Gregorio aveva di rivedere la madre, diventòpresto realtà. Durante il giorno, per riguardo ai genitori,Gregorio evitava di mostrarsi alla finestra, ma i pochi metriquadrati del pavimento non gli consentivano lunghe passeggiate;rimanere disteso, senza muoversi, gli era già di sacrificiodurante la notte; il cibo non gli dava più nessun piacere: così,per distrarsi, prese l'abitudine di strisciare in lungo e inlargo, per il soffitto e le pareti. In modo particolare, godeva asospendersi al soffitto: non era come sul pavimento, si respiravameglio, il corpo si abbandonava a una leggera oscillazione, e,nella beata smemoratezza che lo prendeva, poteva capitargli, consua sorpresa, di lasciarsi cadere a terra. Ma ora aveva acquistatouna padronanza del suo corpo in modo assai diverso da prima, e lacaduta non aveva nessuna conseguenza. La sorella si accorse subitodel nuovo diversivo di Gregorio - sui muri rimanevano traccevischiose del suo passaggio - e si mise in testa di favorirgli imovimenti portando via i mobili, e cioè, prima di tutto, ilcassettone e la scrivania. Da sola non era in grado di farlo, alpadre non osava chiedere aiuto né poteva rivolgersi alladomestica, una ragazza di sedici anni che, dopo il licenziamentodella cuoca, resisteva, a patto di rimanere chiusa in cucina,aprendo solo quando era chiamata. L'unica soluzione, era ricorrerealla madre, un giorno che il padre fosse stato fuori di casa. Lamadre arrivò con esclamazioni di gioia, ma ammutolì sulla sogliadella camera di Gregorio. La sorella guardò che tutto fosse inordine, poi lasciò entrare la mamma. Gregorio aveva in frettaabbassato ancora di più il lenzuolo, tutto piegato in modo chesembrasse veramente gettato per caso sul divano. Per questa voltarinunciò a spiare: non avrebbe visto la mamma, ma era felice giàsolo per il fatto che fosse venuta.
"Vieni, tanto non si vede", disse la sorella tenendo la madre permano. Poi Gregorio sentì le due deboli donne smuovere il pesantecassettone; la sorella si riservava la parte più pesante dellavoro, mentre la madre l'ammoniva a stare attenta a non farsimale. L'operazione richiese molto tempo. Dopo un quarto d'ora, lamamma disse che era meglio lasciare il cassettone dov'era, primadi tutto perché era troppo pesante, non avrebbero finito prima delritorno del babbo, e con il mobile in mezzo alla camera avrebberointralciato in ogni senso i movimenti di Gregorio, in secondoluogo, Gregorio poteva non essere contento che gli portassero viail mobile. Lei pensava che gli sarebbe dispiaciuto: la vista dellaparete spoglia le stringeva il cuore, perché non avrebbe dovutoprovare la stessa impressione anche Gregorio, abituato da tempo aimobili della sua stanza? Nella stanza vuota, si sarebbe sentitoabbandonato. "E poi", concluse pianissimo, addiritturabisbigliando, quasi volesse evitare che Gregorio, del qualeignorava il rifugio, sentisse il suono delle parole - il senso,era sicura che non lo afferrasse - "e poi, togliere i mobili nonvorrà dire che rinunciamo a ogni speranza di miglioramento, che loabbandoniamo a se stesso? Io credo che la cosa migliore è lasciarealla camera l'aspetto che aveva prima, perché Gregorio, quandotornerà da noi, trovi tutto intatto, e possa dimenticare piùfacilmente questo periodo".
Nel sentire queste parole della madre, Gregorio si rese conto chela vita monotona di quei due mesi, priva di immediati contattiumani, doveva avergli turbato la mente: come spiegarsi,altrimenti, il suo desiderio di abitare in una camera vuota?
Voleva davvero che quella stanza calda e comoda, arredata conmobili di famiglia, fosse trasformata in una tana, nella qualeavrebbe potuto strisciare in ogni direzione, in un rapido eassoluto oblio del suo passato umano? Così vicino era aquell'oblio, che soltanto la voce della mamma, non sentita da unpezzo, era riuscita a farlo tornare in sé? No, non doveva essereportato via niente, tutto doveva rimanere al suo posto, lui nonpoteva rinunciare all'influenza benefica dei mobili, e se questigli impedivano di continuare nei suoi giri insensati, era più beneche male.
Purtroppo, la sorella non fu dello stesso parere. Con i genitori,quando c'era da discutere qualche cosa che riguardava Gregorio, siriservava, non a torto, l'ultima parola: bastò il consiglio dellamamma perché insistesse a portare fuori non solo il cassettone ela scrivania, ai quali aveva pensato in un primo momento, ma tuttii mobili, escluso l'indispensabile divano. Questa decisione nonera dovuta soltanto a una forma di orgoglio infantile o al sensodi sicurezza che aveva acquistato in modo tanto imprevisto edoloroso in quegli ultimi tempi: aveva, in realtà, osservato comeGregorio aveva bisogno di molto spazio per i suoi giri, e che imobili, a quanto pareva, non gli servivano a nulla. Bisogneràinfine ricordare l'esuberanza sentimentale e fantastica propriadella sua età; forse Grete tendeva a vedere ancora più tragica lasituazione del fratello, per diventargli ancora piùindispensabile: nessuno infatti, tranne lei, avrebbe avuto ilcoraggio di entrare in una stanza dove Gregorio regnasse solo,sulle nude pareti.
Così non si lasciò distogliere, nella sua decisione, dalla madre;e inquieta, incerta, questa si applicò, come meglio poté, asmuovere il cassettone. Gregorio, in fondo, poteva fare a meno delcassettone, ma la scrivania poteva restare al suo posto. Appena ledonne ebbero spinto, ansimando, il cassettone fuori dalla stanza,sporse il capo di sotto il divano per vedere come potevaintervenire, senza far nascere guai. Purtroppo, fu la madre arientrare per prima, mentre Grete, nella stanza vicina, siaffaccendava intorno al cassettone, che scuoteva senza riuscire asmuovere. La madre non era abituata a Gregorio, avrebbe potutosentirsi male; quello, spaventato, indietreggiò rapido sinoall'estremità opposta del divano, provocando un leggero movimentodel lenzuolo. Bastò questo a richiamare l'attenzione della donna,che si fermò, rimase un istante immobile, quindi tornò da Grete.
Benché Gregorio si ripetesse che non accadeva niente distraordinario, che tutto si riduceva allo spostamento di qualchemobile, dovette presto confessarsi che i movimenti delle donne, leloro brevi esclamazioni, il rumore dei mobili sul pavimento, losconvolgevano: per quanto rientrasse testa e gambe, schiacciandosicontro il pavimento, non avrebbe potuto sopportarlo a lungo. Glivuotavano la sua camera, gli prendevano tutte le cose alle qualiera affezionato: il cassettone, dove era conservato il traforo congli altri arnesi, lo avevano già portato fuori; ora tentavano dismuovere la scrivania, sulla quale aveva scritto i compitidell'accademia di commercio, delle medie, perfino delleelementari... No, non poteva più apprezzare le buone intenzionidelle donne, le quali, del resto, mute per la fatica, avevanofatto dimenticare la loro esistenza. Si sentivano solo i loropassi pesanti.
Mentre la madre e la sorella, nella stanza accanto, riprendevanofiato, appoggiandosi alla scrivania, lui uscì fuori, tantodisorientato da cambiare direzione quattro volte; perplesso, stavapensando cosa doveva salvare per prima, quando sulla parete ormaispoglia vide il ritratto della signora in pelliccia. Rapidoraggiunse il quadro e si appoggiò al vetro, che aderì contro ilsuo ventre bruciante, dandogli un senso di sollievo. Almeno quelritratto, che copriva col suo corpo, nessuno glielo avrebbe tolto.
Con la testa girata verso la porta della sala, aspettò che ledonne rientrassero.
Queste, che non si erano concesse troppo riposo, tornarono subito.
Grete teneva un braccio intorno alla vita della mamma, quasisorreggendola. "E ora, cosa prendiamo?" disse Grete, guardandosiintorno; e in quel momento il suo sguardo incontrò quello diGregorio sulla parete. Se conservò il suo sangue freddo, fu per lamamma. Tremando tutta e cercando di coprire, con la testa, lavista del muro, disse alla donna: "Vieni, forse è meglio chetorniamo un momento in sala". Gregorio capì che Grete volevamettere al sicuro la mamma, per poi cacciarlo dal muro. Ci siprovasse! Lui non si sarebbe mosso dal suo quadro: piuttosto lesarebbe saltato in faccia.
Ma le parole di Grete servirono a rendere ancora più inquieta lamadre, che si scansò e vide l'enorme macchia bruna sulla carta afiori della tappezzeria. Prima ancora di aver identificato quellamacchia con Gregorio, gridò con voce rauca: "Oh Dio, oh Dio!" ecadde sul divano con le braccia spalancate, come in un gesto disuprema rinuncia, e non si mosse più.
"Ah, Gregorio!" gridò la sorella, alzando il pugno e trafiggendolocon lo sguardo. Erano le prime parole che gli rivolgevadirettamente, dal momento della metamorfosi. Corse nella stanzavicina a prendere qualche cosa per far rinvenire l'esanime;Gregorio volle seguirla, a salvare il ritratto c'era ancora tempo,ma era rimasto attaccato al vetro, e dovette fare uno sforzo perliberarsi. Quindi anche lui si affrettò in sala, quasi fosseancora in grado di consigliare la sorella, seguendolapassivamente, mentre frugava tra flaconi e boccette, espaventandola quando si girò. Una boccetta cadde a terra e andò infrantumi, una scheggia ferì Gregorio in faccia, mentre intorno alui si spandeva un liquido corrosivo. Grete, senza indugiare,afferrò quante più boccette poté e corse dalla mamma, chiudendosidietro la porta con un calcio. Ora Gregorio era separato dallamadre, forse vicina a morire per colpa sua; non poteva aprire laporta, se non voleva fare fuggire la sorella, che doveva rimanereaccanto alla mamma: non gli restava dunque che aspettare e, pienodi rimorsi e di angoscia, cominciò a strisciare sulle pareti, suimobili, sul soffitto, finché non ebbe l'impressione che tutta lastanza gli girasse intorno: a questo punto, disperato, cadde inmezzo al grande tavolo.
Passò qualche minuto. Gregorio giaceva, stremato, sul tavolo;intorno non si sentiva nulla, forse questo era un buon segno. Adun tratto, suonò il campanello. La domestica era, naturalmente,chiusa in cucina, e Grete dovette andare ad aprire. Era arrivatoil padre.
"Che è successo?" furono le sue prime parole: l'aspetto di Gretegli aveva rivelato ogni cosa. Grete rispose con voce soffocata -forse appoggiava il viso contro il suo petto -: "La mamma èsvenuta, ma ora va meglio. Gregorio è scappato". "Me l'aspettavo",disse il padre. "Ve l'ho sempre detto, ma voi donne non voletestarmi a sentire". Gregorio capì che il padre aveva interpretatomale le parole di Grete, che lo immaginava colpevole di qualcheviolenza. Bisognava cercare di placarlo, perché mancavano tempo emodi per spiegargli le cose. Corse verso la porta della camera esi strinse ad essa, affinché il babbo, entrando nell'anticamera,vedesse che lui aveva l'intenzione di rientrare subito nella suastanza, e che non era necessario spingerlo: sarebbe sparito, nonappena gli avessero aperto la porta.
Ma il padre non era in un umore tale da apprezzare simili finezze:
"Ah!" gridò entrando, con una specie di feroce allegria. Gregoriodistolse la testa dalla porta, e la alzò verso il padre. Non se loimmaginava davvero, in quel modo. Negli ultimi tempi, tutto presodalla novità delle sue passeggiate lungo le pareti, avevatrascurato di seguire gli avvenimenti domestici; non doveva quindistupirsi di qualche cambiamento. Ma, ma... quell'uomo era propriosuo padre? Lo stesso uomo stanco, che rimaneva sprofondato nelletto quando Gregorio partiva per un viaggio d'affari? Che, quandotornava, lo riceveva senza alzarsi dalla poltrona, limitandosi adalzare le braccia in segno di gioia? Che in occasione delle rarepasseggiate familiari - qualche domenica, qualche grande festa -si trascinava tra Gregorio e la moglie, avanzanti piano piano?
L'uomo infagottato in un vecchio cappotto, col bastoneprudentemente puntato in avanti, che si fermava ogni dieci passi,facendo fermare gli altri per dire qualche cosa? Eccolo lìimpettito, in un'impeccabile uniforme blu coi bottoni d'oro, dacommesso di banca; sopra il colletto alto e duro della giubbatraboccava il suo pesante doppio mento; gli occhi neri brillavano,vivaci e attenti, al di sotto delle folte sopracciglia; i capellibianchi, di solito in disordine, erano accuratamente pettinati,lucidi e divisi da una esatta scriminatura. Per prima cosa buttòsul divano il berretto col monogramma dorato, probabilmente di unabanca, facendolo volare attraverso la stanza, quindi, gettateindietro le falde della lunga giacca, con le mani in tasca, avanzòminaccioso verso Gregorio. Neppure lui doveva sapere precisamentecosa fare; avanzava sollevando i piedi più di quanto normalmentesi faccia, e Gregorio si stupì per la lunghezza delle sue scarpe.
Ma non si soffermò a riflettere su questo punto: fino dal primogiorno della sua nuova vita sapeva bene che il padre consideravaopportuna, nei suoi confronti, solo la più grande severità, e sidiede alla fuga. Si fermava quando quello si fermava, e riprendevaa correre appena l'altro accennava a muoversi. In questo modofecero diverse volte il giro della stanza, senza che succedesseniente; il ritmo dei loro movimenti era, anzi, tanto lento, da nonavere neppure l'apparenza di un inseguimento. Gregorio, temendoche il padre considerasse una fuga sulle pareti o sul soffittocome una beffa, restava sul pavimento. Ma presto dovetteconvincersi che non avrebbe retto a lungo quella corsa continua:
un solo passo del padre gli costava un'infinità di movimenti e giàlo opprimeva l'affanno, non aveva mai avuto polmoni robusti.
Avanzava barcollando, con tanto sforzo da non riuscire a teneregli occhi aperti, nell'assurda speranza che la fuga rappresentassela salvezza, senza neppure pensare alle pareti pur sempreaccessibili, anche se piene di mobili finemente intagliati, pienidi angoli e di punte... D'improvviso qualcosa gli cadde vicino erotolò via adagio. Era una mela, subito seguita da un'altra.
Gregorio rimase paralizzato dalla paura: inutile continuare acorrere, se il padre aveva deciso di bombardarlo. Si era riempitole tasche dalla fruttiera sulla credenza, e lanciava una mela dopol'altra, senza badare troppo alla mira. Le mele, piccole e rosse,rotolavano sul pavimento, urtandosi come elettrizzate. Una losfiorò e scivolò via senza fargli male; ma un'altra affondòaddirittura nella sua schiena. Gregorio volle trascinarsi ancoraavanti, come se il movimento potesse lenire l'incredibile doloreche lo aveva sorpreso: ma rimase inchiodato al pavimento,sentendosi venir meno. Riuscì ancora a vedere la porta della suacamera che si spalancava, facendo passare la sorella che urlava ela mamma discinta, perché Grete l'aveva svestita per farlariavere, la madre correre verso il padre, inciampando nellesottane che cadevano una dopo l'altra, slanciarsi su di lui,abbracciarlo e tenendolo stretto a sé, con le mani intrecciatedietro la nuca, chiedergli di risparmiare la vita del lorofigliolo. A questo punto, Gregorio non vide più nulla.
3.
La mela, che nessuno osò estrarre, rimase conficcata nella carnedi Gregorio, come un visibile ricordo dell'avvenimento. La graveferita, di cui soffrì per un mese, parve ricordare anche al padreche Gregorio, nonostante il suo aspetto misero e ripugnante, eraun membro della famiglia e non poteva essere trattato come unnemico: il dovere familiare imponeva, al contrario, di reprimerela ripugnanza e di avere pazienza, solo pazienza.
La ferita gli aveva compromesso, probabilmente per sempre, lascioltezza dei movimenti. Per attraversare la stanza impiegava,come un vecchio invalido, lunghi minuti, ad arrampicarsi sui murinon pensava nemmeno più. Ma questo peggioramento del suo statotrovò un compenso nel fatto che tutte le sere, ormai, aprivano leporte della sala. Lui cominciava ad aspettare due ore prima; nelbuio della camera, invisibile dalla sala, poteva vedere lafamiglia intorno al tavolo illuminato e ascoltare i discorsi, colconsenso generale. Era molto meglio di prima.
Certo, non erano più le animate conversazioni di un tempo, allequali Gregorio pensava sempre con una certa nostalgia, quandostanco si infilava tra umide lenzuola, in una cameretta d'albergo.
Quasi sempre i commensali rimanevano in silenzio. Il padre, subitodopo cena, si addormentava in poltrona. La madre e la sorella siesortavano al silenzio; la madre, sporgendosi sotto la lampada,cuciva biancheria fine per un negozio di mode; la sorella,impiegata come commessa, studiava stenografia e francese, nellasperanza di ottenere, un giorno, un posto migliore. A volte ilpadre si svegliava e, come se non sapesse di aver dormito, dicevaalla madre: "Ma quanto continui a cucire oggi?" e subito siriaddormentava, mentre la madre e la sorella si sorridevanostanche.
Per una curiosa caparbietà, il padre non voleva togliersil'uniforme nemmeno in casa; la vestaglia rimaneva appesanell'armadio e lui dormiva, vestito di tutto punto, in poltrona,come se fosse sempre in servizio e aspettasse anche lì la voce diun superiore. L'uniforme, che non gli era stata consegnata nuova,perdeva freschezza di giorno in giorno, nonostante le cure dellamadre e della sorella. Spesso Gregorio rimaneva a fissare, perserate intere, quell'abito coperto di macchie, dai bottoni d'orosempre lucidi, e nel quale il vecchio dormiva, placido e scomodo.
Quando l'orologio aveva suonato le dieci, la madre, a bassa voce,cercava di svegliarlo e di convincerlo ad andare a letto: inpoltrona non poteva dormire, e il riposo gli era necessario,dovendo entrare in servizio alle sei. Ma con quella testardagginedi cui dava prova da quando era diventato commesso, lui insistevaper rimanere ancora a tavola, benché si riaddormentasseregolarmente e fosse poi un'impresa fargli cambiare la poltronacon il letto. La madre e la sorella potevano insistere, con breviesortazioni, quanto volevano, lui scrollava la testa per un quartod'ora, con gli occhi semichiusi, senza alzarsi. La madre lo tiravaper la manica, gli sussurrava paroline all'orecchio, la sorellalasciava i suoi compiti per aiutare la mamma, ma tutto erainutile, quello sprofondava ancora di più nella poltrona. Soloquando le due donne lo afferravano sotto le ascelle, apriva gliocchi, guardava prima una, poi l'altra, diceva: "Davvero una bellavita! Ecco il riposo della mia vecchiaia!" quindi, appoggiandosialle due donne, si alzava a fatica, quasi fosse di peso anche a sestesso, si lasciava portare fino alla porta, faceva un gesto disaluto e continuava da solo; mentre Grete e la mamma, messi daparte penna e cucito, correvano ad aiutarlo ancora.
Chi aveva tempo, in quella famiglia oppressa dal lavoro e dallafatica, di badare a Gregorio più dello stretto necessario? Lespese di casa vennero sempre più ridotte; la domestica fulicenziata; mattina e sera, per fare i lavori più pesanti, venneun donnone ossuto, coi capelli candidi; a tutto il resto pensavala madre, pur continuando nel suo pesante lavoro di cucito. Sidovettero vendere diversi gioielli di famiglia, portati, un tempo,con orgoglio dalla madre e dalla sorella, in feste e circostanzesolenni; Gregorio lo seppe una sera, sentendo discutere i prezzi.
Ma la preoccupazione maggiore della famiglia era che lecircostanze non consentissero di lasciare quella casa, diventatatroppo grande. Come portare via Gregorio? Questi capì, però, che,se il trasloco non si faceva, non era solo per riguardo verso dilui, che avrebbe potuto facilmente essere trasportato in una cassaprovvista di qualche buco; quello che, soprattutto, tratteneva lafamiglia dal cambiare casa, era l'assoluta disperazione, ilpensiero di essere stata colpita da una disgrazia unica nellacerchia dei parenti e degli amici. Compivano con scrupolo estremotutto quanto il mondo impone ai poveri: il padre portava lacolazione ai piccoli impiegati, la madre si sacrificava a cucirela biancheria di estranei, la sorella correva su e giù dietro ilbanco, secondo le richieste dei clienti: eppure, sembrava che nonbastasse. La ferita faceva male a Gregorio come se fosse fresca,quando la madre e la sorella, dopo aver portato a letto il padre,mettevano da parte il lavoro e restavano abbracciate, guancia aguancia. Accennando alla stanza di Gregorio, la madre diceva:
"Chiudi la porta, Grete", e Gregorio si trovava di nuovo al buio,mentre le donne mescolavano le loro lacrime o fissavano la tavolacon gli occhi asciutti.
Gregorio non dormiva quasi più né di giorno né di notte. A voltepensava che, appena aperta la porta, avrebbe ripreso in mano gliaffari di famiglia; dopo un lungo oblio, un giorno gli tornaronoin mente il principale e il procuratore, i commessi e gliapprendisti, il fattorino tonto, due, tre amici di altre ditte, lacameriera di un albergo di provincia, caro, fuggevole ricordo, lacassiera di un negozio di cappelli, che aveva corteggiatoseriamente, ma prendendo le cose troppo alla larga: tutta questagente gli riapparve insieme ad estranei o con altra gentedimenticata, ma nessuno poteva aiutare lui e i suoi, erano cosìlontani, e fu contento quando scomparvero. Quei fantasmi,tuttavia, gli fecero passare la voglia di occuparsi dellafamiglia; ormai sentiva solo rabbia per la cattiva assistenza e,benché non sapesse immaginare nulla che gli facesse gola,fantasticava sul come raggiungere la dispensa per prendere quantogli spettava, anche se non aveva fame. Ora la sorella non cercavapiù di prevenire i suoi desideri. Prima di correre in negozio,mattina e pomeriggio, spingeva col piede un cibo qualsiasi nellacamera di Gregorio, per tirarlo fuori, la sera, con un colpo discopa, indifferente se il cibo era stato assaggiato o, comeaccadeva la maggior parte delle volte, era rimasto intatto. Lapulizia della stanza, che avveniva sempre di sera, non avrebbepotuto essere più sbrigativa. Le pareti erano percorse da striscedi sudiciume, qua e là si vedevano batuffoli di polvere. I primitempi, Gregorio si metteva, all'arrivo della sorella, in un angolopiù sporco degli altri, per farle così, in un certo modo, unrimprovero. Ma la sorella non si sarebbe mossa neppure se luifosse rimasto al suo posto per settimane; vedeva il sudicio quantolui, ma aveva deciso, una volta per sempre, di lasciarlo dove era.
Ciò non toglieva che fosse gelosa della prerogativa di pulire lacamera di Gregorio: un atteggiamento nuovo, che non era la sola amanifestare. Una volta la madre, per pulire la camera a fondo,adoperò parecchi secchi d'acqua, col risultato di contristare, tratanti scrosci, il povero Gregorio immobile sul divano; ma ebbe poiil fatto suo. Quando la sorella, la sera, entrò in camera e siaccorse della novità, si precipitò in sala, offesa a morte, escoppiò in un pianto dirotto, nonostante le mani supplichevolmentelevate della mamma. Il padre, svegliato di soprassalto nella suapoltrona, non seppe, sulle prime, raccapezzarsi, come, del resto,sua moglie; poi l'agitazione divenne generale. Il signor Samsarimproverava a destra la mamma perché non aveva lasciato allasorella la pulizia della camera di Gregorio, a sinistra gridavaalla sorella di non occuparsene più. La madre cercava ditrascinare in camera il marito fuori di sé per l'agitazione,mentre la sorella, scossa da singhiozzi, martellava il tavolo coisuoi piccoli pugni e Gregorio sibilava di rabbia, vedendo che anessuno veniva in mente di chiudere la porta per risparmiargliquella scena e quel chiasso.
Ma anche se la sorella, sfinita dal lavoro, non poteva piùaccudire Gregorio come prima, si poteva trovare una soluzione,senza bisogno di ricorrere alla madre: c'era, infatti, la donna amezzo servizio. La vecchia vedova, che in una lunga vita, graziealle sue solide ossa, ne aveva superate di tutti i colori, nonprovava per Gregorio una vera ripugnanza. Una volta aveva apertoper caso la porta della camera e, con le mani sul grembo, erarimasta, stupita, a guardare Gregorio che, colto di sorpresa,correva di qua e di là, sebbene nessuno lo inseguisse. Da quelgiorno non mancò mai, mattina e sera, di socchiudere la porta e didare un'occhiata a Gregorio. Le prime volte cercava di attirarlocon richiami che dovevano sembrarle affettuosi, come: "Fattiavanti, vecchio scarafaggio!" oppure: "Guardalo un po' il vecchioscarafaggio!" A questi inviti, Gregorio non rispondeva, marestava, immobile, come se nessuno fosse entrato. Invece dipermettere che quella donna lo stuzzicasse secondo i suoicapricci, senza costrutto, avrebbero fatto meglio a ordinarle dipulire la sua camera ogni giorno! Una volta, di mattina presto,mentre una pioggia violenta, forse già un segno della vicinaprimavera, batteva sui vetri, Gregorio fu talmente irritato daidiscorsi della donna, che con la sua andatura goffa e pesante feceper assalirla. La vecchia, per nulla impressionata, si limitò adafferrare una sedia accanto alla porta; immobile, teneva la boccaaperta, lasciando intendere che l'avrebbe richiusa solo quando lasedia si fosse abbattuta sulla schiena di Gregorio. "Allora, nonti fai più avanti?" chiese nel vedere Gregorio battere inritirata. E posò di nuovo la sedia nel suo angolo.
Gregorio non mangiava quasi più nulla. Solo quando si trovava apassare davanti al cibo, tanto per fare qualcosa, afferrava unboccone, che teneva in bocca per ore, sputandolo poi via quasisempre. All'inizio pensò che l'inappetenza gli venisse dallamalinconia in cui lo metteva la sua camera, ma presto si adattò aicambiamenti sopravvenuti. Avevano preso ormai l'abitudine dimettere in quella stanza tutto quello che non trovava postoaltrove, e cioè molta roba, da quando una camera dell'appartamentoera stata affittata a tre pensionanti. Questi serissimi signori -tutti con una gran barba, come Gregorio poté vedere, una volta,dalla fessura della porta - erano esigentissimi in fatto d'ordine,non solo nella loro stanza, ma, poiché erano ormai di casa, intutto l'appartamento e specialmente in cucina. Non sopportavano divedere in giro cianfrusaglie inutili; inoltre, avevano portato conloro quasi tutti i mobili che servivano. Molta roba, che non sipoteva vendere né buttare via, diventata inservibile, era finitanella camera di Gregorio, persino la cassetta della cenere e ilsecchio della spazzatura. La vecchia che aveva sempre fretta,gettava là dentro tutto quello che sul momento non le serviva.
Gregorio, per fortuna, vedeva solo l'oggetto e la mano che loreggeva. Forse la donna aveva intenzione, una volta o l'altra, diriprendere oppure di buttar via in blocco quella roba, ma intantotutto restava dov'era caduto, a meno che Gregorio non fossecostretto a passare tra quel ciarpame; prima fu costretto a farlo,perché gli mancava spazio per strisciare, poi ci prese gusto,sebbene dopo ogni scorribanda rimanesse immobile per ore, stanco etriste da morire.
I pensionanti, a volte, cenavano in casa, nella sala comune. Laporta, in questi casi, restava chiusa, ma Gregorio non ci facevapiù gran caso: già in precedenza, negli ultimi tempi, la porta erarimasta aperta e lui era rimasto, senza che la famiglia se neaccorgesse, nell'angolo più buio della sua stanza. Ma un giorno lavecchia non chiuse bene la porta, che rimase socchiusa anchequando i pensionanti entrarono nella sala. Quelli, dopo avereacceso il gas, sedettero al tavolo dove una volta sedevano ilpadre, la madre e Gregorio, spiegarono i tovaglioli e presero leposate. Subito sulla porta comparve la madre, con un piatto dicarne, seguita dalla sorella, con un piatto pieno di patate. Icibi esalavano un denso sapore. I pensionanti si piegarono suipiatti posti loro davanti, come per esaminarli prima di mangiare:
quello in mezzo, che sembrava il più autorevole, tagliò infatti unpezzetto di carne sul vassoio, con l'evidente proposito diaccertarsi se era ben cotta o se non era il caso di rimandarla incucina. Sembrò soddisfatto e la madre e la sorella, rimaste aguardarlo trepidanti, respirarono e ripresero a sorridere.
La famiglia mangiava in cucina. Tuttavia il padre, prima dipassare in cucina, entrò in sala, si inchinò tenendo il berrettoin mano, e girò intorno al tavolo. I pensionanti si alzarono tuttiinsieme, mormorando qualcosa nelle loro barbe. Rimasti soli,mangiarono in un silenzio quasi completo. A Gregorio sembrò stranoche, in mezzo ai vari rumori, emergesse quello dei denti chemasticavano, quasi a provargli che, per mangiare, servivano identi e che le più belle mascelle del mondo non sarebbero servitea nulla. "Anch'io ho fame!" si disse Gregorio preoccupato. "Ma nondi quella roba. Come si riempiono quei pensionanti, mentre io stocrepando!"Quella stessa sera - Gregorio non ricordava di averlo mai sentito- arrivò dalla cucina il suono del violino. I pensionanti avevanofinito la cena, quello in mezzo aveva tirato fuori un giornale,dando agli altri un foglio per ciascuno; leggevano e fumavano,appoggiati agli schienali. Nel sentire il violino si scossero, sialzarono e, in punta di piedi, si avvicinarono alla portadell'anticamera, stringendosi gli uni agli altri. Dalla cucinadovettero averli sentiti, perché il padre gridò: "Vi disturba lamusica? Possiamo smettere subito". "Al contrario", disse ilsignore di mezzo. "Non potrebbe la signorina venire a suonare qui,dove può stare più comoda e sentirsi maggiormente a suo agio?""Prego, prego!" esclamò il padre, come se fosse lui a suonare. Isignori ripresero i loro posti e aspettarono. Arrivò il padre conun leggìo, seguito dalla madre con la musica e dalla sorella conil violino. La sorella cominciò, tranquilla, a preparare ognicosa; i genitori, che non avevano mai affittato stanze, e perciòesageravano in gentilezza verso gli ospiti, non osarono neppuresedersi sulle loro poltrone. Il padre si appoggiò alla porta, lamano destra infilata tra due bottoni della giacca; la madre, allaquale uno dei signori aveva offerto una sedia, rimase in unangolo, perché le mancò il coraggio di spostarla.
La sorella cominciò a suonare. Il padre e la madre, ognuno dallasua parte, seguivano attenti le mani della ragazza.
Gregorio, attirato dalla musica, si era azzardato un po' piùavanti e sporgeva la testa nella sala. Non si stupiva per loscarso riguardo che ormai aveva verso gli altri, mentre prima sifaceva un vanto della sua delicatezza. Eppure, mai come oraavrebbe avuto ragione di nascondersi. A causa della polvere chenella stanza copriva ogni cosa, alzandosi al minimo movimento, eradiventato tutto polveroso, con la schiena e i fianchi pieni difili, peli, avanzi di cibo. Nella sua apatia, ora, non pensava piùa pulirsi diverse volte al giorno, strofinandosi contro iltappetto, come faceva prima. Nonostante il suo aspetto fossequello descritto, ebbe il coraggio di avanzare sull'immacolatopavimento della sala. Nessuno, per la verità, badava a lui. Lafamiglia era tutta assorta nella musica del violino; ipensionanti, che in un primo momento, con le mani in tasca, sierano tropo accostati al leggìo per leggere le note, disturbandola ragazza, si erano poi ritirati, a capo chino e parlandosottovoce, contro la finestra dove rimasero, sotto lo sguardopreoccupato del padre. Era ormai evidente che erano rimasti delusinella loro speranza di ascoltare una musica bella o almenodivertente, si mostravano annoiati e sopportavano solo percortesia quella seccatura. Il modo in cui soffiavano dal naso odalla bocca il fumo dei sigari, facendolo salire al soffitto,dimostrava un grande nervosismo. Eppure la sorella suonava cosìbene! Con il viso reclinato, seguiva le note con uno sguardoattento e malinconico. Gregorio strisciò ancora in avanti, tenendoil capo contro il pavimento, per poter cogliere un suo sguardo.
Era dunque un animale, se la musica lo prendeva in quel modo? Glisembrava di intravedere una strada verso un desiderato esconosciuto nutrimento. Era deciso ad arrivare fino alla sorella,a tirarla per la gonna, per farle capire che doveva andare colviolino in camera sua, perché nessuno lì sapeva apprezzare la suamusica come lui l'avrebbe apprezzata. Non l'avrebbe più fattauscire dalla sua camera, almeno finché fosse vissuto; il suoaspetto orribile, una volta tanto, gli sarebbe stato utile,sarebbe stato davanti a tutte le porte in una volta sola, perrespingere, soffiando, gli aggressori. Però la sorella non dovevarestare con lui per forza, doveva rimanere spontaneamente,sedergli accanto sul divano, prestargli orecchio: e lui le avrebbeconfidato che aveva avuto la ferma intenzione di mandarla alconservatorio e che per Natale - era già passato Natale? - avrebbeannunciato la cosa a tutti, senza preoccuparsi di nessunaobiezione. A queste parole Grete, commossa, sarebbe scoppiata inlacrime, Gregorio si sarebbe sollevato fino alle sue spalle e leavrebbe baciato il collo, che lei, da quando andava in negozio,portava libero, senza nastro né colletti.
"Signor Samsa!" gridò al padre il signore di mezzo; e, senzaaggiungere parola, indicò Gregorio, che lentamente avanzava. Ilviolino tacque, il signore di mezzo sorrise agli amici scuotendoil capo, e guardò di nuovo verso Gregorio. Il padre credettenecessario di rassicurare i pensionanti, invece di cacciare viaGregorio, sebbene quelli non fossero agitati e sembrasserodivertirsi più per quella apparizione che per la musica delviolino. Il padre corse verso di loro con le braccia spalancate,cercando di spingerli nella loro stanza e di coprire col suo corpola vista di Gregorio. Allora quelli incominciarono ad arrabbiarsi,non si capiva bene se per il comportamento del padre o perché sirendevano d'un tratto conto di aver avuto, a loro insaputa, unsimile vicino. Chiesero spiegazioni al signor Samsa, a loro voltaspalancarono le braccia, tirandosi nervosamente la barba eretrocedendo verso la loro camera. Nel frattempo, la sorella avevasuperato lo smarrimento in cui era caduta dopo l'improvvisainterruzione della musica; dopo essere rimasta un po' con ilviolino e con l'archetto nelle mani che pendevano inerti,continuando a guardare lo spartito come se ancora suonasse, siscosse, depose lo strumento in grembo alla madre, che sedevaancora al suo posto respirando a fatica, e corse nella stanzaaccanto, verso la quale si avvicinavano i pensionanti, sospintidal padre. Sotto le sue mani esperte, coperte e cuscini volaronoin aria, per ridisporsi in bell'ordine sui letti. Prima ancora chei signori avessero raggiunto la stanza, aveva preparato ogni cosaed era scivolata fuori. Il padre sembrava preso così tanto dal suospirito di ostinazione, da dimenticare il rispetto che doveva aisuoi ospiti. Continuava a spingere e spingere, finché il signoredi mezzo, già sulla soglia della camera, non batté, imprecando, unpiede a terra, costringendolo a fermarsi. Il signore alzò la mano,cercò con lo sguardo la madre e la sorella, e disse: "Dichiaroche, considerate le sconcezze esistenti in questa casa e in questafamiglia", a questo punto, con decisione improvvisa, sputò sulpavimento, "do disdetta immediata della camera. Naturalmente nonpagherò un soldo per i giorni che ho abitato qui, vedrò se nonsarà addirittura il caso di chiedervi un indennizzo che,credetemi, sarebbe molto facile da motivare". Tacque e rimase conlo sguardo fisso davanti a sé, come in attesa. Infatti,intervennero gli amici: "Anche noi diamo disdetta immediata".
Allora il signore di mezzo afferrò la maniglia della porta e sichiuse dentro, con fracasso, la porta.
Il padre barcollò, annaspando, fino alla sua poltrona e ci silasciò cadere pesantemente; sembrava quasi che ci si fosse distesoper il pisolino serale, ma le scosse che imprimeva alla testaabbandonata mostravano che non dormiva affatto. Gregorio erarimasto, per tutto il tempo, fermo nel posto in cui i pensionantilo avevano sorpreso. La delusione per il fallimento del suo piano,forse anche la debolezza provocata dalla gran fame, non glipermettevano di muoversi. Sapeva che da un momento all'altro sisarebbe abbattuto su di lui un attacco di tutta la famiglia easpettava. Non si spaventò neppure quando il violino cadde, con unsuono profondo, dalle dita tremanti della mamma, che fino a quelmomento lo aveva tenuto in grembo.
"Cari genitori", disse la sorella, picchiando la mano sulla tavolaa guisa d'introduzione, "così non si va avanti. Se non ve neaccorgete voi, me ne accorgo io. Davanti a questa bestiaccia, nonvoglio pronunciare il nome di mio fratello, vi dico solo: dobbiamocercare di liberarcene. Abbiamo fatto quanto era umanamentepossibile per curarlo e sopportarlo, credo; nessuno potrà farci alriguardo il minimo rimprovero".
"Ha mille ragioni", disse il padre tra sé. La madre, che ancoranon aveva ripreso fiato, tossiva sordamente nella mano tenutacontro il viso, con un'espressione da folle negli occhi.
La sorella le corse vicino e le sostenne la fronte. Le paroledella sorella sembravano aver chiarito le idee al padre. Drittosulla poltrona, giocherellava col berretto finito tra i piatti cheerano rimasti sul tavolo, e di tanto in tanto alzava lo sguardo suGregorio, sempre immobile al suo posto.
"Bisogna cercare di liberarcene", disse la sorella rivolgendosi,ora, solo al padre, perché la mamma, con la sua tosse, non sentivanulla. "Altrimenti finirà con l'ammazzarvi, ne sono certa. Quandosi lavora duro come noi, non è possibile sopportare, per giunta,questo perpetuo martirio in casa. Anch'io non lo sopporto più". Escoppiò in un pianto così violento, che le lacrime presero acolare sul viso della madre, mentre lei, con gesti meccanici, leasciugava.
"Figlia mia", disse il padre impietosito, con un insolito spiritodi comprensione, "che dobbiamo fare?"La sorella si strinse nelle spalle, esprimendo così la perplessitàche l'aveva colta durante il pianto, in contrasto con la sicurezzadi prima.
"Se lui, almeno, ci capisse!" disse il padre, come ponendo unadomanda; ma la sorella, tra le lacrime, scosse con veemenza lamano, per significare che non c'era da pensarci.
"Se lui ci capisse", ripeté il padre chiudendo gli occhi, quasiper dimostrare che, d'accordo con la figlia, escludeva quellapossibilità, "forse potremmo intenderci. Ma così...""Deve andare via!" gridò la sorella. "E' l'unico mezzo, babbo.
Devi solo liberarti del pensiero che quel coso è Gregorio. Lanostra vera disgrazia è stata che lo abbiamo creduto per tantotempo. Come potrebbe essere Gregorio? Se fosse Gregorio, sisarebbe accorto da un pezzo che degli uomini non possono conviverecon una bestia simile e se ne sarebbe andato da solo. Avremmoperduto un fratello, è vero, ma avremmo potuto continuare a viveree a onorare la sua memoria. Invece questa bestia ci perseguita,mette in fuga i pensionanti, vuole, è evidente, occupare tutta lacasa e metterci in mezzo a una strada. Guarda, babbo!" gridòd'improvviso. "Ora ricomincia!".
E in un moto di terrore che Gregorio non riuscì a capire, lasorella abbandonò così bruscamente la madre da far vacillare lapoltrona, quasi preferisse sacrificare la madre piuttosto cherimanere vicino a Gregorio. Quindi corse verso il padre, che,persa a sua volta la testa, si alzò levando le braccia, come perproteggerla.
Ma Gregorio non ci pensava a spaventare qualcuno, tanto meno lasorella. Aveva solo cominciato a girarsi per tornare nella suastanza; i suoi movimenti potevano sembrare sospetti perché,sofferente com'era, nelle fasi più difficili doveva aiutarsi conla testa, che alzava a diverse riprese, e poi batteva sulpavimento. Si fermò e si guardò intorno. Si erano accorti,sembrava, delle sue buone intenzioni: era stato solo un momento dipanico. Ora lo guardavano tristi e in silenzio. La madre eraallungata sulla sua poltrona, le gambe distese e strette unaall'altra, gli occhi quasi chiusi dalla stanchezza; il padre e lasorella sedevano vicini, la sorella aveva appoggiato il bracciointorno al collo del padre.
"Ora, forse, posso girarmi", pensò Gregorio, e si rimise allavoro. Lo sforzo gli dava l'affanno e ogni tanto doveva riposare.
Ma nessuno lo spingeva, poteva regolarsi come credeva. Quando ebbefinito di girarsi, cominciò a dirigersi dritto verso la camera. Sistupì per la distanza e non capì come prima avesse potuto coprire,debole com'era, tutto quel tratto, quasi senza accorgersene.
Sempre preoccupato di strisciare via più in fretta che poteva, nonsi accorse che non una parola, non un grido della famiglia loturbarono. Solo quando ebbe raggiunta la soglia girò la testa, nondel tutto, perché il collo gli si irrigidiva, solo quanto fusufficiente per vedere che alle sue spalle niente era cambiato,soltanto la sorella si era alzata. Il suo ultimo sguardo sfiorò lamadre, ormai assopita.
Appena entrato nella stanza, la porta venne chiusa in fretta,sbarrata e fu girata la chiave. Con tutto quel baccano, Gregoriosi spaventò tanto che le zampine gli si piegarono sotto. Era statala sorella ad avere tanta fretta. Aveva aspettato, dritta inpiedi, quel momento, e poi era balzata avanti senza rumore.
Gregorio non l'aveva neppure sentita arrivare. "Finalmente!" gridòrivolta ai genitori, dopo aver dato una mandata alla chiave.
"E ora?" si chiese Gregorio, guardandosi intorno, nel buio. Siaccorse che non poteva più muoversi. La cosa non lo stupì,piuttosto gli sembrò straordinario di essersi potuto muovere finoa quel momento, sulle sue esili zampe. Del resto, si sentivaabbastanza bene. Aveva, è vero, dolori in tutto il corpo, ma glisembrava che a poco a poco si facessero meno forti e che alla finesarebbero scomparsi del tutto. Non sentiva nemmeno più la melamarcia incastrata nella schiena né la zona infiammata intorno, oracoperta di una polvere sottile. Pensava alla famiglia con teneroaffetto. La sua decisione di sparire era, se possibile, ancora piùferma di quella della sorella. Rimuginando tra sé questi vuoti etranquilli pensieri, sentì l'orologio della torre battere le tredel mattino. Vide ancora una volta, fuori dalla finestra il cielorischiararsi. Poi la testa gli ricadde esanime, e dalle naricisfuggì l'ultimo, tenue respiro.
Quando, la mattina presto, arrivò la donna - sia per la fretta,sia per esuberanza, sbatteva le porte in modo tale che, sebbenel'avessero spesso pregata di avere riguardo, al suo arrivo non erapiù possibile dormire tranquilli - nel fare, come sempre, la suabreve visita a Gregorio, non notò, all'inizio, niente distraordinario. Pensò che quello rimaneva di proposito cosìimmobile, per fare l'offeso; perché lo credeva capace di ragionarecome un essere umano. Con la lunga scopa che per caso stringeva,cercò di solleticarlo, rimanendo sulla porta. Visto che neanchecosì otteneva nulla, si arrabbiò e colpì più forte. Il corpo sispostò, senza resistenza; allora si incuriosì. Appena si fu resaconto di quello che era successo, spalancò gli occhi, si mise afischiettare, ma poi non si trattenne, spalancò la porta dellacamera da letto e gridò nel buio: "Vengano a vedere, è crepato; sene sta lì disteso, proprio crepato!"I due vecchi sedettero sul letto e dovettero rimettersi dallospavento, prima di capire quello che la donna aveva detto. Poi,ognuno dalla sua parte, saltarono in piedi; il marito si buttò unacoperta sulle spalle, la moglie rimase in camicia e così entrarononella camera di Gregorio. Intanto, si era aperta anche la portadella sala, dove Grete dormiva da quando erano arrivati ipensionanti; era completamente vestita, non sembrava che avessedormito, come dimostrava anche il pallore del volto. "E' morto?"chiese la signora Samsa guardando la vecchia con ariainterrogativa, sebbene potesse vedere la cosa da sola e persinoconvincersene senza verifiche. "Direi", disse la donna spingendo,con la scopa, a riprova, il cadavere di Gregorio e facendoloscivolare per un bel tratto. La signora Samsa abbozzò un gesto pertrattenere la scopa, ma si fermò a metà. "Beh", disse il signorSamsa, "ora possiamo ringraziare Iddio". Si fece il segno dellacroce e le tre donne ne seguirono l'esempio. Grete, che non avevadistolto gli occhi dal cadavere, disse: "Guardate com'eradiventato magro. E' tanto che non mangiava più niente. I cibiuscivano dalla camera tali e quali com erano entrati". In realtà,il corpo di Gregorio era secco e appiattito: si vedeva bene, orache non era più sollevato dalle zampine e che nulla distraeva losguardo.
"Vieni da noi un momentino, Grete", disse la signora Samsa con unsorriso malinconico; e Grete, gettata un'ultima occhiata alcadavere, seguì i genitori in camera da letto. La donna chiuse laporta e spalancò la finestra. Sebbene fosse molto presto, l'ariafresca non sembrava più tanto cruda. Era già la fine di marzo.
I tre pensionanti, usciti dalla loro stanza, si guardarono intornostupiti, cercando la loro colazione; erano stati dimenticati.
"Dov'è la colazione?" chiese quello di mezzo, accigliato, allavecchia. Questa posò l'indice sulle labbra e in silenzio liinvitò, con un rapido gesto, a entrare nella camera di Gregorio.
Quelli si fecero avanti e, con le mani nelle tasche dellegiacchette lise, si fermarono intorno al cadavere, nella luceormai chiara.
In quel momento, la porta della camera da letto si aprì e apparveil signor Samsa in uniforme, tenendo a braccetto la moglie e lafiglia. Mostravano tutti tracce di pianto; Grete premeva il visocontro il braccio del padre.
"Se ne vadano subito dalla mia casa!" disse il signor Samsamostrando la porta, senza lasciare le due donne.
"Che intende dire?" chiese, perplesso, il signore di mezzo, con unsorriso dolciastro. Gli altri due continuavano a stropicciarsi lemani dietro la schiena, quasi aspettassero, tutti soddisfatti, unagran discussione, destinata a concludersi a loro vantaggio.
"Intendo esattamente dire quello che ho detto", rispose il signorSamsa; e insieme con le due donne avanzò contro il pensionante.
Quello rimase, dapprima, immobile a fissare in silenzio ilpavimento, come se le cose gli si presentassero ora da un nuovopunto di vista. "Bene, in questo caso ce ne andiamo", feceguardando il signor Samsa come se, in un accesso improvviso diumiltà, dovesse chiedergli un permesso per questa decisione. Ilsignor Samsa si limitò ad accennare più volte, brevemente, con ilcapo, fissandolo con gli occhi spalancati. Il signore uscì agrandi passi nell'anticamera; i due amici, che erano rimasti inascolto con le mani tranquille, gli saltarono immediatamentedietro, quasi temessero che il signor Samsa potesse precederli,impedendo che si riunissero al loro capo. In anticamera presero icappelli dall'attaccapanni, tolsero i bastoni dal portaombrelli,si inchinarono in silenzio e lasciarono la casa. Per un senso didiffidenza, rivelatosi poi ingiustificato, il signor Samsa e ledue donne uscirono sul pianerottolo. Appoggiati alla ringhiera,rimasero a guardare i tre signori che, a passo lento ma continuo,scendevano la lunga scala, scomparendo a ogni piano sotto unacerta curva e riapparendo dopo qualche istante. Quanto più quelliscendevano in basso, altrettanto calava l'interesse della famigliaSamsa; quando un garzone di macellaio li ebbe raggiunti e poisuperati, salendo fiero la scala con un paniere sulla testa, ilsignor Samsa con le donne abbandonò la ringhiera e tuttirientrarono, come sollevati, in casa.
Decisero di dedicare quel giorno al riposo e al passeggio; nonsolo avevano meritato quella tregua, ma ne avevano assolutamentebisogno. Sedettero al tavolo e scrissero tre lettere di scusa, ilsignor Samsa al suo direttore, la signora al suo commissionario eGrete al suo principale. Mentre stavano scrivendo, entrò lavecchia a dire che aveva finito e che se ne andava. I treannuirono, senza alzare lo sguardo; poi guardarono risentiti,perché la donna non accennava a muoversi.
"Allora?" chiese il signor Samsa. La donna si era fermatasorridente sulla soglia, come se avesse da annunciare allafamiglia una grande fortuna, ma volesse prima farsi pregare. Lapiccola penna di struzzo dritta sul cappello, che il signor Samsa,da quando la donna era al suo servizio, non aveva mai potutosoffrire, oscillava in tutte le direzioni. "Ma cosa vuole,insomma?" chiese la signora Samsa. Per lei la donna mostravamaggiore rispetto che per gli altri. "Eh sì", fece quella, e nonpoté continuare a parlare, tanto rideva contenta. "Insomma, volevodire dire che non si devono preoccupare sul come portare viaquella roba là. Ho pensato a tutto io".
La signora Samsa e Grete si chinarono sulle loro lettere, come perriprendere a scrivere. Il signor Samsa, accortosi che la donnaaveva intenzione di riferire ogni cosa nei particolari, la fermòcon un gesto risoluto. Visto che non le lasciavano raccontarenulla, quella si ricordò di avere una gran fretta, gridò,visibilmente offesa, "Arrivederci a tutti!" si girò di furia eabbandonò, dopo una tremenda sbattuta di porta, la casa.
"Stasera, la licenziamo", disse il signor Samsa, ma né la mogliené la figlia gli risposero, perché la domestica sembrava avere dinuovo turbato la pace appena riconquistata. Si alzarono, andaronoalla finestra e rimasero lì abbracciate. Il signor Samsa si rigiròsulla poltrona e rimase a guardarle per qualche momento. Poigridò: "Basta ora, venite qua. Smettetela di pensare alle vecchiestorie e abbiate un po' di riguardo anche per me".
Le donne ubbidirono subito, corsero verso di lui, lovezzeggiarono, e finirono in fretta le loro lettere.
Uscirono di casa tutti insieme, cosa che non facevano da mesi, eandarono a prendere un tram per uscire dalla città. La vettura, incui sedevano soli, era piena della luce di un sole tiepido.
Appoggiati comodamente agli schienali, discussero le possibilitàdel loro avvenire; e, tutto considerato, non le consideravanotroppo brutte: non avevano mai parlato accuratamente delle lorofaccende, ma i loro impieghi erano buoni e soprattuttopromettevano bene. Intanto, si sarebbero procurati un grandevantaggio, cambiando subito casa. Avrebbero preso un appartamentopiù piccolo e più modesto, ma meglio esposto e, in particolare,più pratico di quello attuale, che era stato scelto da Gregorio.
Mentre discorrevano di queste cose, quasi nello stesso momento, ilsignore e la signora Samsa si accorsero, guardando la lorofigliola diventare sempre più vivace, come Grete, nonostante lepene che negli ultimi tempi avevano fatto impallidire le sueguance, era diventata una bella, florida ragazza. La loroconversazione languì e gettandosi, senza volere, occhiated'intesa, pensarono che sarebbe stato tempo di cercarle un bravomarito. E fu per loro una conferma dei loro freschi sogni e delleloro buone intenzioni quando, alla fine della corsa, la figliolasi alzò per prima, stirando il suo giovane corpo.
SCIACALLI E ARABI
da: Un medico di campagna - racconti brevi
(1919)
Eravamo accampati nell'oasi. I compagni dormivano. Un arabo, altoe bianco, mi passò davanti: aveva governato i cammelli e andava adormire.
Mi gettai supino sull'erba. Volevo dormire ma non potevo, unosciacallo ululava lontano, mi alzai a sedere. Prima lontano,l'animale fu improvvisamente vicinissimo. Intorno a me, unbrulichio di sciacalli; occhi d'oro matto che brillavano e sispegnevano; corpi snellii, che si muovevano con agilità eregolarità, come sotto una frusta.
Uno sciacallo mi giunse alle spalle, mi passò sotto un braccio emi si strinse addosso, come se avesse bisogno del mio calore. Poimi si mise davanti e disse, con gli occhi quasi nei miei occhi:
"Io sono lo sciacallo più vecchio del Paese. Sono contento dipoterti ancora salutare. Quasi non ci speravo più, è un'eternitàche ti aspettiamo: già mia madre ti aspettava, e la madre di lei,e prima ancora tutte le loro madri, fino alla madre di tutti glisciacalli, credimi!""Questo mi stupisce", dissi dimenticando di accendere la catastadi legna preparata per tenere lontani, col fumo, gli sciacalli,"sono molto stupito di sentire questo. Arrivo qui per caso dallontano settentrione, compio un breve viaggio. Cosa volete, voisciacalli?"Come incoraggiati da questo discorso forse troppo amichevole,quelli strinsero ancora di più il loro cerchio intorno a me,ansimando e soffiando.
"Noi sappiamo", cominciò lo sciacallo più anziano, "che tu vienidal nord, e appunto su questo si fondano le nostre speranze. Lassùc'è la ragione, che tra gli arabi manca. Impossibile faresprizzare, sai, una scintilla di comprensione dalla loro freddasuperbia. Ammazzano gli animali per mangiarli e disprezzano lecarogne".
"Non parlare così forte", dissi, "gli arabi dormono qui vicino".
"Si vede proprio che sei uno straniero", disse lo sciacallo,"altrimenti sapresti che mai, da che mondo è mondo, uno sciacalloha avuto paura di un arabo. Dovremmo anche temerli? Non basta ladisgrazia di essere capitati tra un popolo simile?""Può essere, può essere", dissi, "non mi permetto di giudicarecose che conosco così poco. La contesa deve essere antichissima,forse è una questione di sangue e solo nel sangue, forse, potràaver fine".
"Sei molto intelligente", disse il vecchio sciacallo. Gli altrirespiravano ancora più in fretta, coi polmoni affannati, sebbenestessero fermi, mentre dalle mascelle aperte esalava un alitoamaro, che a volte si poteva sopportare solo a denti stretti. "Seimolto intelligente: quello che dici, corrisponde al nostro anticoinsegnamento. Li priveremo, dunque, del sangue e la contesafinirà".
"Oh", dissi io più violentemente di quanto volessi, "sidifenderanno, coi loro fucili vi abbatteranno a frotte".
"Tu ci fraintendi", disse quello, "come tutti gli uomini, che sonosempre gli stessi anche nel lontano settentrione. Non liuccideremo. Il Nilo non avrebbe acqua sufficiente per purificarci.
La sola vista dei loro corpi viventi basta a farci fuggire inun'aria più pura, nel deserto, che perciò è la nostra patria".
Tutti gli sciacalli intorno, ai quali, nel frattempo, se ne eranoaggiunti molti altri, piegarono la testa tra le zampe anteriori ecominciarono a pulirsela: era come se cercassero di nascondereun'avversione così tremenda, che avrei voluto, con un salto,balzare oltre il loro cerchio, fuggire via.
"Che cosa avete dunque intenzione di fare?" chiesi accingendomi adalzarmi. Ma non potei, due giovani animali mi avevano addentatoper la giacca e la camicia; dovetti restare seduto. "Ti reggono lostrascico", disse serio il vecchio sciacallo, come spiegazione, "èun segno di stima". "Voglio che mi lascino!" gridai rivolgendomiora al vecchio, ora ai giovani. "Lo faranno naturalmente", disseil vecchio, "se lo vuoi. Ma ci vorrà un po' di tempo, perchésecondo la loro abitudine, hanno affondato bene i denti e devonoallentare la presa a poco a poco. Intanto, ascolta la nostrapreghiera". "Il vostro comportamento non mi ha molto ben dispostoad accettarla", dissi. "Non farci pesare la nostra disgrazia",disse quello, facendo sentire per la prima volta il tono lamentosotipico della sua voce, "siamo dei poveri animali, abbiamo soltantoi denti: per tutto quello che vogliamo fare, il bene come il male,abbiamo soltanto i denti". "Cosa vuoi, dunque?" chiesi non certoplacato.
"Signore!" egli gridò, e tutti gli sciacalli ulularono; dalontano, uno poteva credere di ascoltare una melodia.
"Signore, tu devi mettere fine alla lotta che divide il mondo. Inostri antenati hanno descritto i tuoi tratti parlando dell'uomoche farà questo. Bisogna che gli arabi ci lascino in pace, che cidiano aria respirabile, un orizzonte libero dalla loro presenza,più nessun grido di montone sgozzato, tutte le bestie dovrannocrepare in pace, essere succhiate e ripulite da noi fino all'osso.
Vogliamo purezza, soltanto purezza!"; e tutti piangevano,singhiozzavano. "Come puoi resistere in questo mondo, col tuonobile cuore e le tua carne tenera? Il loro bianco è sporco; illoro nero è sporco; la loro barba, un orrore; bisogna sputare allavista degli angoli dei loro occhi; quando alzano un braccio, nelcavo dell'ascella si apre l'inferno. Perciò, signore, perciò, carosignore, con le tue mani che possono tutto, sgozzali con questaforbice!" A un cenno della testa, si avvicinò uno sciacallo che, aun dente canino, portava appesa una piccola forbice da ricamo,coperta di ruggine.
"Ah, ecco la forbice, finalmente, facciamola dunque finita!" gridòl'arabo che guidava la nostra carovana, dopo essersi avvicinato dinascosto a noi, controvento; e agitò una grande frusta.
Ci fu una fuga generale; ma gli animali si fermarono a una certadistanza, immobili, così stretti gli uni agli altri, da farpensare a un'esile palizzata, sulla quale alitassero fuochi fatui.
"Così, signore, tu hai visto e ascoltato anche questo spettacolo",disse l'arabo, ridendo con l'allegria che la riservatezza dellasua stirpe gli consentiva. "Tu sai dunque quello che vogliono glianimali?" chiesi. "Naturalmente, signore, lo sanno tutti", dissequello. "Da quando esistono arabi, questa forbice gira per ildeserto e continuerà a girare con noi fino alla fine dei tempi. Laoffrono al primo europeo che incontrano, per la grande impresa;sono convinti, ogni volta, che quello è il predestinato. La lorosperanza è assurda: sono dei pazzi, dei veri pazzi. Per questo liamiamo: sono i nostri cani, più belli dei vostri. Stanotte, vedi,è morto un cammello, l'ho fatto trasportare qui".
Quattro portatori vennero e buttarono davanti a noi la pesantecarcassa. Subito gli sciacalli cominciarono a urlare. Comeirresistibilmente trascinati da corde, cominciarono ad avanzare ascatti, strisciando sulla sabbia. Avevano dimenticato gli arabi,dimenticato l'odio, affascinati dalla presenza della carognafetida, che cancellava ogni cosa. Uno si attaccò al collo e alprimo morso trovò la carotide. Come una minuscola, frenetica pompache vuole ad ogni costo estinguere un terribile incendio, pur nonavendo speranza di successo, ogni muscolo di quel corpo si tendevae fremeva. E tutti gli altri, ammucchiati sopra il cadavere,subito lo imitarono.
Allora il capo-carovana fece sibilare la frusta su di loro.
Inebriati dal gusto, quelli alzarono le teste e videro gli arabidavanti a loro; sentirono le scudisciate sui musi, balzaronoindietro e si fermarono a una certa distanza. Ma il sangue delcammello era sparso in pozzanghere, fumante, il suo corpo erasquarciato in diversi punti. Gli si avventarono sopra di nuovo edi nuovo il capo-carovana alzò la frusta: ma io lo trattenni peril braccio.
"Hai ragione, signore", disse, "lasciamoli al loro mestiere; delresto è tempo di partire. Tu li hai visti. Animali curiosi, non èvero? E come ci odiano!"
NELLA COLONIA PENALE
(1921)
"E' una macchina veramente curiosa", disse l'ufficialeall'esploratore, abbracciando con uno sguardo quasi ammirato lamacchina che pure conosceva bene. L'esploratore aveva accettatosolo per cortesia l'invito del comandante ad assistereall'esecuzione di un soldato, condannato per indisciplina eoltraggio a un superiore. L'interesse per l'esecuzione non eraeccessivo neppure nella colonia penale. Nella valletta profonda esabbiosa, isolata da ogni parte da brulli pendii scoscesi, oltreall'ufficiale e al viaggiatore si vedeva il condannato, un uomodall'aria ottusa e dalla bocca larga, spettinato, con la barbaincolta; accanto a lui, un soldato teneva la pesante catena, sullaquale si saldavano una rete di catenelle che stringevano lecaviglie, i polsi e il collo del condannato. Questi sembrava cosìbestialmente rassegnato, da poter essere lasciato libero dicorrere lungo i pendii, bastando solo chiamarlo con un fischioperché tornasse, al momento dell'esecuzione.
L'esploratore non si interessava molto alla macchina e, senzacurarsi di nascondere la sua indifferenza, camminava su e in giùdietro al condannato, mentre l'ufficiale compiva gli ultimipreparativi, ora infilandosi sotto l'apparecchio, profondamentepiantato nel suolo, ora salendo su una scala a pioli per esaminarele parti superiori. Erano lavori che, forse, si sarebbero potutilasciare a un meccanico: ma l'ufficiale li eseguiva con grandezelo, sia perché era un appassionato di quella macchina, siaperché non era possibile affidare quel compito ad altri.
"Ora è tutto pronto!" esclamò infine, e scese dalla scala. Eraspossato, respirava a bocca spalancata e si era ficcati duefazzolettoni da donna tra la nuca e il colletto. "Queste uniformisono troppo pesanti per i tropici", disse l'esploratore invece dichiedere informazioni, come l'ufficiale si aspettava, sullamacchina. "Eh già", disse l'ufficiale lavandosi le mani sporched'olio e di grasso in un secchio d'acqua già pronto, "masignificano la patria, e noi non vogliamo dimenticarcene. Maguardi la macchina", aggiunse con un cenno, mentre si asciugava lemani. "Prima funzionava a mano, ora fa il suo lavoro da sola".
L'esploratore assentì, e accolse all'invito dell'ufficiale. Perpremunirsi contro ogni possibile incidente, questi disse:
"Naturalmente, possono capitare dei guasti: mi auguro che oggi nonavvengano, ma non si sa mai. La macchina deve restare in moto perdodici ore consecutive. Se capita qualche guasto, si tratta, ingenere, di roba da poco, a cui si rimedia presto".
"Non si vuole sedere?" chiese poi, porgendo all'esploratore unasedia di vimini tirata fuori da una catasta. L'esploratore nonpoté rifiutarsi, e si trovò a sedere sull'orlo di una fossa, nellaquale gettò un'occhiata. Non era molto profonda. Da un lato erastata ammucchiata la terra scavata, dall'altro c'era la macchina.
"Non so se il comandante", disse l'ufficiale, "le ha spiegato comefunziona l'apparecchio". Il viaggiatore, per risposta, abbozzò ungesto con la mano: l'ufficiale non chiedeva di meglio, così potevafornire lui le spiegazioni. "Questa macchina", disse afferrandouna manovella e appoggiandovisi sopra, "è un'invenzione del nostrovecchio comandante. Io ho collaborato ai primi esperimenti e poipresi parte a tutti i lavori, fino alla fine. Il meritodell'invenzione, però, spetta solo a lui. Ha sentito parlare delvecchio comandante? No? Ebbene, non credo di esagerare, affermandoche l'organizzazione di tutta la colonia penale è opera sua. Noi,i suoi amici, cui è nota la complessa organizzazione dellacolonia, ci rendemmo conto, alla sua morte, che il successore,anche con mille nuovi piani in testa, per parecchi anni nonavrebbe potuto cambiare nulla di ciò che era stato fatto. Lenostre previsioni si sono avverate: il nuovo comandante ha dovutoriconoscerlo. Peccato che lei non abbia conosciuto il vecchiocomandante! Ma io chiacchiero", s'interruppe, "quando la suamacchina ci sta davanti. E' formata, come vede, da tre parti. Perogni parte, con il passare del tempo, sono stati coniati nomi, percosì dire, popolari. La parte inferiore si chiama il letto, quellasuperiore è il disegnatore, e quella sospesa in mezzo, l'erpice".
"L'erpice?" chiese l'esploratore. Non aveva ascoltato con troppaattenzione; il sole batteva violento su quella valle senz'ombra, eera difficile raccogliere le idee. Tanto più ammirevole glisembrava l'ufficiale che, nell'attillata giubba da parata, caricadi spalline e di cordoni, dava con tanto zelo le sue spiegazioni,pur badando a stringere questa o quella vite. Il soldato sembravatrovarsi nelle stesse condizioni dell'esploratore. Dopo essersiavvolto ai polsi la catena del condannato, si era appoggiato alsuo fucile e, a testa bassa, non sembrava curarsi di nulla.
L'esploratore non se ne stupì, l'ufficiale parlava in francese eil francese non era capito né dal condannato né dal suo guardiano.
Strano, invece, era vedere come il condannato si sforzasse diseguire le spiegazioni dell'ufficiale. Con una specie di assonnatatenacia, continuava a guardare verso il punto indicatodall'ufficiale, e quando questi era interrotto da una domandadell'esploratore, anche lui rivolgeva il suo sguardosull'esploratore.
"Sì, l'erpice", disse l'ufficiale, "il nome è appropriato. Gliaghi sono disposti come quelli di un erpice e l'insieme funzionacome un erpice, anche se da fermo e con molto di più a regolad'arte. Se ne renderà subito conto. Il condannato viene distesoqui, sul letto... Mi interrompo, per precisare che primadescriverò la macchina, poi procederò alla sua messa in opera,così potrà seguire meglio. Nel disegnatore, poi, una ruotadentata, ormai vecchia, fa un tale rumore, quand'è in moto, dacoprire le voci. Purtroppo i pezzi di ricambio, qui, è difficileprocurarseli. Dicevo, dunque, che questo è il letto. E'completamente ricoperto da uno strato di ovatta, e la ragione lavedremo in seguito. Su questa ovatta viene disteso, nudo, ilcondannato; queste cinghie sono per tenerlo fermo, per le mani,per i piedi, per il collo. A questa estremità del letto, su cuil'uomo giace con la faccia in giù, c'è un piccolo tampone difeltro, facilmente regolabile, in modo che penetri di misura nellabocca del condannato. Serve a impedire che quello urli e si mozzila lingua con i denti. L'uomo è costretto a prendere il tampone inbocca, altrimenti le cinghie del collo gli spezzano le vertebrecervicali".
"Questa è ovatta?" chiese l'esploratore, sporgendosi. "Sì",rispose con un sorriso l'ufficiale, "provi a toccare". Prese lamano del viaggiatore e la posò sul letto. "E' un'ovatta preparatain modo speciale; parlerò dopo del suo scopo". L'esploratore avevacominciato a interessarsi alla macchina; facendosi ombra con lamano per proteggere gli occhi dal sole, guardò quanto era alta.
Era un grande apparecchio. Il letto e il disegnatore avevano lestesse dimensioni, e sembravano due cofani dipinti di scuro. Ildisegnatore era fissato due metri circa sopra il letto, e i dueelementi erano collegati fra loro agli angoli da quattro sbarre diottone, che sotto il sole lampeggiavano. Tra i due cofani,sostenuto da un nastro d'acciaio, oscillava l'erpice.
Se l'ufficiale prima non aveva fatto caso all'indifferenzadell'esploratore, ora si accorse del suo interesse crescente.
Affinché l'esploratore avesse tempo di guardare ogni cosa,interruppe quindi le sue spiegazioni. Il condannato imitaval'esploratore, strizzando gli occhi poiché non poteva farsi ombracon la mano.
"L'uomo, dunque, è disteso lì", disse l'esploratore ributtandosiindietro e accavallando le gambe.
"Sì", disse l'ufficiale spostando un po' il suo berretto verso lanuca e passandosi la mano sul viso accaldato. "Ora ascolti bene.
Letto e disegnatore sono provvisti di batterie elettricheautonome: il letto ne ha bisogno per sé, il disegnatore perl'erpice. Quando l'uomo è ben legato, il letto viene messo inmovimento. Esso vibra rapidamente in senso ondulatorio esussultorio. Avrà visto apparecchi simili nelle cliniche: ma nelnostro letto tutti i movimenti sono esattamente calcolati, perchési devono svolgere in perfetta sincronia con i movimentidell'erpice. All'erpice, in ogni modo, è riservata la vera epropria esecuzione della condanna".
"Ma cosa dice la condanna?" chiese l'esploratore. "Ma come, non sanemmeno questo?" disse stupito l'ufficiale, mordendosi le labbra.
"Mi scusi, se le mie spiegazioni possono sembrarle disordinate: lechiedo mille volte scusa. Prima era il comandante a spiegaretutto, ma il suo successore si è sottratto a questo compitoonorifico. Che però non abbia informato un visitatore tantoillustre" - l'esploratore fece un gesto con le mani per respingerel'omaggio, ma l'ufficiale insisté - "un visitatore tanto illustrenemmeno sulla formula della nostra sentenza, ecco un'altra novitàche..." E qui stava per uscirsene in un'imprecazione, ma sicontenne e disse: "Nessuno mi ha detto nulla, quindi nulla mi sipuò rimproverare. Io sono particolarmente autorizzato a spiegarele modalità delle nostre sentenze, perché ho qui", e si battésulla tasca del petto, "i disegni di mano del vecchio comandante".
"Disegni dello stesso comandante?" chiese il viaggiatore. "Avevadunque tante qualità? Soldato, giudice, costruttore, chimico edisegnatore?""Proprio così", disse l'ufficiale assentendo, lo sguardo fisso epensoso. Esaminate le sue mani e visto che non erano abbastanzapulite per toccare i disegni, si avvicinò di nuovo al secchio e lelavò ancora. Poi estrasse una piccola busta di pelle e disse: "Lanostra condanna non è severa. Al condannato viene scritto sulcorpo il comandamento che ha trasgredito. A questo condannato, peresempio", e l'ufficiale indicò l'uomo, "verrà scritto sul corpo:
'Onora il tuo superiore'"L'esploratore diede un'occhiata all'uomo. Quando l'ufficialeaccennò a lui, quello, a testa china, sembrò tendere tutte leforze del suo udito per capire qualche cosa: ma i movimenti dellasua bocca imbronciata mostrarono chiaramente che non ci riusciva.
L'esploratore, pur volendo chiedere diverse cose, in presenzadell'uomo, si limitò a domandare: "Conosce la sua condanna?" "No",disse l'ufficiale; e si accingeva a riprendere le sue spiegazioni,quando l'esploratore lo interruppe: "Non conosce la sua condanna?""No", disse ancora l'ufficiale. Aspettò un momento, come seaspettasse dal viaggiatore una motivazione più circostanziatadella domanda, poi aggiunse: "Inutile comunicargliela, laconoscerà sul suo stesso corpo". L'esploratore sarebbe rimastozitto, ma lo sguardo del condannato, fisso su di lui, sembròchiedere se approvava quello che aveva sentito. L'esploratore, chegià si era appoggiato allo schienale della sedia, si piegò dinuovo in avanti, e chiese: "Ma saprà almeno che è statocondannato!" "Neppure questo", disse l'ufficiale con un sorriso,come se si aspettasse dall'esploratore altre curiose uscite. "No!"disse il viaggiatore, passandosi la mano sulla fronte. "Dunquel'uomo non sa neppure com'è stata accolta la sua difesa?" "Non haavuto nessuna possibilità di difendersi", disse l'ufficialeguardando da una parte, come se parlasse a se stesso e non volesseumiliare l'esploratore raccontando cose tanto ovvie. "Ma dovrà puraver avuto modo di difendersi", disse l'esploratore alzandosidalla sedia.
L'ufficiale si rese conto che rischiava di rimandare a chissàquando la spiegazione del funzionamento della macchina. Siavvicinò perciò all'esploratore, lo prese sotto braccio e,accennando al condannato, irrigidito sull'attenti sia perchél'attenzione era puntata su di lui in modo così palese, sia perchéil soldato aveva pensato di dare uno strappo alla catena, disse:
"La cosa sta così. Nella colonia penale, nonostante la mia giovaneetà, svolgo le funzioni di giudice, perché ho sempre collaboratocol vecchio comandante in tutte le questioni disciplinari, econosco la macchina meglio di ogni altro. Il principio secondo ilquale io giudico, è questo: la colpevolezza è sempre indubbia.
Altri tribunali non possono seguire a questo principio, perchésono composti da diverse persone, e sono sottoposti a istanzesuperiori. Ciò non avviene qui o almeno non avveniva quando c'erail vecchio comandante. Quello nuovo ha provato a intervenire nellamia attività di giudice, ma finora sono riuscito a tenerlolontano, e spero di riuscirci anche in seguito. Quanto al caso dioggi, è sempre come gli altri. Un capitano, stamattina, hadenunciato che quest'uomo, assegnatogli come attendente e chedorme davanti alla sua porta, ha dormito durante le ore diservizio. Il suo obbligo è, infatti, quello di alzarsi ad ognibattere d'ora e di salutare davanti alla porta del capitano.
Obbligo non pesante e d'altra parte necessario, al fine dirimanere sveglio per la guardia e per il servizio. Stanotte ilcapitano ha voluto controllare se l'attendente faceva il suodovere: alle due in punto ha aperto la porta e lo ha trovato chedormiva, tutto rannicchiato su se stesso. Prese dunque la suafrusta e lo colpì al viso. Invece di alzarsi e di chiedereperdono, l'uomo afferrò il suo padrone per le gambe, lo scosse egridò: 'Butta via quella frusta o ti mangio!' Questi i fatti. Ilcapitano, un'ora fa, è venuto da me, io ho messo per iscritto lesue dichiarazioni e subito ho steso la sentenza. Poi ho fattoincatenare l'uomo. Tutto molto semplice. Se l'avessi fattochiamare e l'avessi interrogato, ne sarebbe nata una granconfusione: avrebbe mentito, se mi fosse riuscito di provare lesue bugie ne avrebbe tirate fuori di altre e così via. Invece oralo tengo e non me lo lascio scappare più. Tutto chiaro, adesso? Mail tempo passa, l'esecuzione sarebbe già dovuta essere cominciata,e non ho ancora finito di spiegare il funzionamento dellamacchina". Costrinse l'esploratore a sedere, si avvicinò allamacchina e riprese: "Come vede, l'erpice ha una sagoma umana:
questa è la parte per il tronco, questa per le gambe. Per la testac'è soltanto questo piccolo punteruolo. Tutto chiaro?" E si chinòcortesemente verso il'esploratore, pronto a fornire le descrizionipiù circostanziate.
L'esploratore guardò l'erpice, con la fronte aggrottata. Iragguagli sulla procedura non lo avevano soddisfatto. Doveva,tuttavia, riconoscere che si trattava di una colonia penale, cheerano necessarie speciali misure, che bisognava procedere in tuttocon rigidezza militare. Sperava, inoltre, nel nuovo comandante,che aveva intenzione di introdurre, anche se lentamente, un nuovoprocedimento che non riusciva a entrare nella testadell'ufficiale. Seguendo questi pensieri, l'esploratore chiese:
"Il comandante assisterà all'esecuzione?" "Non è certo", dissel'ufficiale, contrariato dalla domanda brusca, mentre gli sparivadal viso l'espressione cortese: "per questo dobbiamo fare infretta. Purtroppo, sono costretto ad abbreviare le miespiegazioni. Ma domani quando l'apparecchio sarà ripulito - già, èun suo difetto quello di sporcarsi tanto - potrò darle altriparticolari. Ora, mi limiterò solo l'indispensabile. Dunque,quando l'uomo è disteso sul letto e questo è in movimento, siabbassa l'erpice. Esso scende da solo fino a sfiorare il corpo conle punte: raggiunta la posizione voluta, il cavo d'acciaio assumela rigidezza di una sbarra. A questo punto, comincia il gioco. Unprofano non nota differenza tra una e l'altra. L'erpice sembralavorare sempre allo stesso modo: immerge, vibrando, le sue puntenel corpo, che vibra, a sua volta, sul letto. Per consentire atutti di accertarsi dell'esecuzione della condanna, l'erpice èstato fatto di vetro. La messa in opera degli aghi ha comportatoalcune difficoltà tecniche, ma dopo qualche prova ci siamoriusciti. Non ci siamo arresi di fronte a nessuna difficoltà.
Attraverso il vetro, oggi, tutti possono vedere come l'iscrizioneviene eseguita sul corpo. Non vuole avvicinarsi per vedere gliaghi?"L'esploratore si alzò lentamente, avanzò e si piegò sull'erpice.
"Vede", disse l'ufficiale, "ci sono due tipi di aghi, disposti inmodo diverso: quello lungo è accoppiato a quello corto. L'agolungo scrive, quello corto sprizza acqua per eliminare il sangue emantenere chiara l'iscrizione. L'acqua sporca confluisce incanaletti, per finire in questo condotto e quindi nella fossa".
Con il dito teso, l'ufficiale fece un'esatta descrizione delpercorso che l'acqua doveva seguire. Quando, per dare al movimentola massima evidenza, afferrò a due mani l'estremità del tubo discarico, l'esploratore alzò la testa e iniziò a indietreggiareverso la sedia, annaspando, con una mano, dietro la schiena. Conorrore si accorse che il condannato aveva seguito a sua volta,l'invito dell'ufficiale a esaminare da vicino il funzionamentodell'erpice. Aveva tirato per la catena il soldato intontito, e siera piegato anche lui sul il vetro. Con aria perplessa, fissavaquello che i due signori avevano esaminato, ma inutilmente, perchénon aveva avuto spiegazioni. Si chinava da una parte e dall'altra,senza staccare gli occhi dal cristallo. L'esploratore fu tentatodi tirarlo indietro, perché si comportava certo in modo nonconsentito. Ma l'ufficiale lo trattenne con una mano, con l'altraafferrò una zolla di terra dal tumulo vicino e la scagliò controil soldato. Questi spalancò gli occhi, vide quello che ilcondannato si era permesso di fare, lasciò cadere il fucile,piantò i tacchi nella sabbia e diede un tale strappo alla catena,che il condannato crollò a terra; rimanendo poi a guardarlo,mentre si agitava tra un tintinnio d'acciaio. "Rialzalo!" gridòl'ufficiale, che si era accorto che il condannato attirava troppol'attenzione dell'esploratore. Questi stava chinato sopral'erpice, solo per vedere ciò che accadeva al condannato.
"Trattalo con riguardo!" gridò ancora l'ufficiale. Quindi girò dicorsa intorno alla macchina, afferrò il condannato sotto leascelle e, con l'aiuto del soldato, dopo non pochi tentativi,riuscì a rimetterlo in piedi.
"Ora so tutto", disse l'esploratore quando l'ufficiale fu tornatoda lui. "Tutto, meno l'essenziale", disse quello, prendendo ilviaggiatore per un braccio e indicando qualcosa in alto. "Neldisegnatore c'è il meccanismo che mette in movimento l'erpice, equesto meccanismo viene regolato secondo il disegno stabilitodalla sentenza. Io uso ancora i disegni del vecchio comandante.
Eccoli", disse, tirando fuori alcuni fogli dalla busta di pelle.
"Non oso farglieli nemmeno toccare, sono la cosa più preziosa chepossiedo. Si sieda, glieli mostro da qui, potrà vederliugualmente". Di fronte al primo foglio, il viaggiatore avrebbevoluto dire qualche parola di complimento: ma vide solo un ammassodi linee che si incrociavano in ogni senso, così fitte che ilfondo bianco quasi non si distingueva più. "Legga", dissel'ufficiale. "Non ci riesco", disse l'esploratore. "E' molto benfatto", disse l'esploratore, evasivo, "ma non sono in grado didecifrare nulla". "Eh sì", fece l'ufficiale, riponendo di nuovo labusta, "non si tratta di un modello di calligrafia per scolaretti.
Bisogna studiarlo parecchio. Anche lei, alla fine, ci riuscirebbe.
Naturalmente, non possono essere lettere semplici, perché nondevono uccidere subito, ma nello spazio di dodici ore circa: ilpunto culminante, viene calcolato per la sesta ora. Ogni letteradeve essere circondata da una quantità di arabeschi: le letteredisegnano come una fascia sottile intorno al corpo, il resto èdestinato agli arabeschi. E' in grado, ora, di apprezzare illavoro dell'erpice e di tutta la macchina? Stia attento!" Saltòsulla scala, girò un volante, gridò: "Attenzione, si sposti!" - etutto si mise in movimento. Non ci fosse stato lo stridio dellaruota, sarebbe stato splendido. Come sorpreso da quella ruotamolesta, l'ufficiale la minacciò con un pugno, allargò le bracciaverso l'esploratore in atto di scusa, e scese in fretta, persorvegliare i movimenti dal basso. Qualcosa, visibile solo a lui,non andava. Si arrampicò di nuovo in alto, ficcò tutte e due lemani all'interno del disegnatore, e per fare più in fretta ascendere, invece di servirsi della scala, si lasciò scivolarelungo una delle sbarre e infine urlò, con tutte le sue forze,nell'orecchio dell'esploratore, per farsi sentire: "Capisce ilfunzionamento? L'erpice comincia a scrivere; compiuto il primotratto d'iscrizione sul dorso, lo strato di ovatta scorre e giraadagio il corpo sul fianco, per offrire nuovo spazio all'erpice.
Intanto le parti trafitte posano sull'ovatta, la quale, grazie auna preparazione speciale, blocca subito l'emorragia, rendendopossibile una nuova e più profonda incisione. Questi denti, lungol'orlo dell'erpice, strappano l'ovatta dalle ferite quando ilcorpo viene girato una seconda volta, e la gettano nella fossa, inmodo da consentire all'erpice nuovo lavoro. Le lettere vengonoincise sempre più profondamente nel corso di dodici ore. Durantele prime sei il condannato vive, più o meno, come prima, pursoffrendo, si capisce. Dopo due ore, il tampone viene rimosso,perché l'uomo non ha più la forza di gridare. Dentro questaciotola riscaldata elettricamente si versa una pappa di risocalda, che l'uomo può arrivare a sfiorare con la lingua. Nessunorinuncia a questa possibilità: nessuno, almeno, che io sappia, ela mia esperienza è ampia. Dopo circa sei ore, il condannato non èpiù attratto dal cibo. Di solito, mi inginocchio lì davanti estudio il fenomeno. Quasi mai l'uomo ingoia l'ultimo boccone, perlo più lo rigira in bocca, e poi lo sputa nella fossa. Devopiegarmi, altrimenti mi arriva in faccia. Come diventa silenzioso,l'uomo, dopo sei ore! Anche ai più ottusi si schiudel'intelligenza. Comincia dagli occhi, e da lì si irradia. E' unavista che mi fa venire voglia di mettermi sotto l'erpice. Dopo nonsuccede più niente, l'uomo comincia a decifrare l'iscrizione,stringe le labbra e le sporge, come se fosse in ascolto. Non èfacile, lei l'ha visto, decifrare l'iscrizione con gli occhi; mail nostro uomo la decifra con le sue ferite. Non è un lavoro dapoco: per finirlo, gli ci vogliono sei ore. Alla fine, l'erpice lotrafigge da parte a parte e lo scaraventa nella fossa, dove piombanell'acqua insanguinata e nell'ovatta. Allora la giustizia haesaurito il suo compito e noi, io e il soldato, lo seppelliamo".
L'esploratore tendeva un orecchio verso l'ufficiale e, con le maniin tasca, seguiva il lavoro della macchina. Anche il condannatoguardava, ma senza capire. Piegato in avanti, era intento aseguire le vibrazioni degli aghi, quando il soldato, a un cennodell'ufficiale, con un colpo di coltello gli spaccò camicia ecalzoni sul dorso, facendoli cadere a terra: quello provò araccogliere le vesti cadute e riparare così la sua nudità, ma ilsoldato lo sollevò dal suolo e gli sfilò di sotto i piedi gliultimi brandelli. L'ufficiale arrestò la macchina e nel silenziosopraggiunto l'uomo fu adagiato sotto l'erpice. Al posto dellecatene, vennero fissate le cinghie; il condannato sembrò quasisollevato. L'erpice si abbassò ancora, perché l'uomo era magro;quando le punte lo sfiorarono, si vide la sua pelle rabbrividire.
Mentre il soldato gli legava la mano destra, allungò la sinistra,senza rendersene conto, in direzione dell'esploratore. L'ufficialenon abbandonava più l'ospite con lo sguardo, come se cercasse dileggergli in viso l'impressione prodotta dall'esecuzionesommariamente descritta.
La cinghia destinata al polso si strappò: il soldato doveva averlatirata troppo. Il soldato alzò il pezzo strappato, per far capireche era necessario l'intervento del suo superiore. Ma l'ufficialesi era già mosso e, con il viso rivolto all'esploratore disse: "Lamacchina è molto complicata, ogni tanto qualche parte si strappa osi spezza; ma questo non può influire sul giudizio complessivo. Lacinghia è presto sostituita, userò una catena, pur sapendo chequesto pregiudica la leggerezza delle vibrazioni al bracciodestro". Mentre sistemava la catena, disse ancora: "I mezzi per lamanutenzione dell'apparecchio sono ora molto limitati. Al tempodel vecchio comandante, disponevo liberamente di fondi destinati aquest'unico scopo. C'era un magazzino in cui si conservavamo tuttii possibili pezzi di ricambio. Confesso che quasi ne facevospreco, intendo dire prima, non adesso, come pretende il nuovocomandante, che si serve di ogni pretesto per combattere levecchie istituzioni. Ora amministra lui il fondo destinato allamacchina, e quando mando a chiedere una nuova cinghia, si pretendequella strappata come prova, la nuova arriva solo dopo diecigiorni, è di cattiva qualità e non serve molto. Come posso fare amandare avanti, nel frattempo, la macchina senza cinghie, è cosache non interessa a nessuno".
L'esploratore pensava: è sempre pericoloso mischiarsi nellefaccende degli altri. Lui non era un cittadino né della coloniapenale né dello stato al quale questa apparteneva. Se avessevoluto condannare o addirittura impedire l'esecuzione, avrebberopotuto dirgli: sei uno straniero, stai zitto. Lui non avrebbeavuto niente da replicare, al massimo avrebbe potuto dire che noncapiva come gli era successo, perché viaggiava per vedere il mondoe non per trasformare le procedure giudiziarie nei vari paesi. Inquel caso, però, la tentazione era grande: l'illegalità delprocedimento e l'inumanità dell'esecuzione erano indiscutibili.
Nessuno poteva supporre un interesse nell'intervento delviaggiatore: non conosceva il condannato, che non era uomo daattirare la pietà in modo particolare, non era neppure un suoconnazionale. Il viaggiatore aveva poi illustri raccomandazioni,era stato accolto con grande cortesia e forse era stato invitato aquell'esecuzione perché ci si aspettava un suo giudizio: ilcomandante, a quanto aveva sentito, non era un entusiasta di quelprocedimento, e nei confronti dell'ufficiale si comportava in modoquasi ostile.
A questo punto, il viaggiatore sentì un urlo di rabbia.
L'ufficiale aveva appena introdotto, non senza fatica, il tamponedi feltro nella bocca del condannato, quando questi chiuse gliocchi e, preso da una nausea irresistibile, vomitò. L'ufficiale siaffrettò ad alzargli la testa dal tampone e girarla verso lafossa: troppo tardi, il vomito già colava lungo la macchina.
"Tutta colpa del comandante!" gridò l'ufficiale, scuotendofrenetico le sbarre d'ottone. "Mi riducono l'apparecchio come unastalla!" E con le mani tremanti mostrò al viaggiatore quello cheera successo. "Ho impiegato ore per far capire al comandante cheil condannato, alla vigilia dell'esecuzione, non deve ingerirenessun cibo. Ma la nuova corrente dei mollaccioni è di un altroparere. Le signore del comandante rimpinzano il condannato didolciumi prima che sia portato via. Uno che per tutta la vita si ènutrito di pesce marcio, deve mangiare i dolciumi! Ma lasciamoperdere, non è questo che conta: perché non mi danno, piuttosto,un feltro nuovo, quando lo sto chiedendo da tre mesi? Come si puòprendere in bocca, senza ripugnanza questo feltro, succhiato emorso da più di cento uomini nell'agonia?"Il condannato aveva lasciato ricadere la testa e sembravatranquillo, il soldato cercava di ripulire la macchina con lacamicia buttata via. L'ufficiale avanzò verso l'esploratore;questi indietreggiò di un passo, come se temesse qualche cosa, mal'ufficiale gli prese la mano e lo tirò in disparte. "Vorrei dirleuna parola in confidenza", disse. "Posso?" "Certo", dissel'esploratore, e si fermò ad ascoltarlo, con gli occhi bassi.
"Il processo e l'esecuzione che lei ha l'occasione di ammirare,non trovano più, nella nostra colonia, un solo aperto sostenitore.
Io sono il loro unico difensore, e insieme l'unico legatariodell'eredità del vecchio comandante. Non posso nemmeno pensare aun ulteriore perfezionamento del processo, mentre mi occorronotutte le mie forze per mantenere le cose come stanno. Quandoviveva il vecchio comandante, la colonia era piena dei suoipartigiani. Io ho una parte della sua facoltà di persuasione, manon la sua forza: di conseguenza i partigiani sono scomparsi,cioè, ce ne sono parecchi, ma nessuno osa confessarlo. Se leioggi, giorno di esecuzione, entrasse nel caffè e tendessel'orecchio, sentirebbe soltanto, forse, parole ambigue. Sono tuttipartigiani del sistema; ma con questo comandante e le sue idee,non mi servono a niente. Ora, io le chiedo: è' possibile che percolpa di questo comandante, e delle donne che lo influenzano,l'opera di una vita" - indicò l'apparecchio - "debba finire inniente? Si può permettere questo, anche se si rimane solo pochigiorni sulla nostra isola? Non c'è tempo da perdere, stannotramando contro la mia giurisdizione. Nella sede del comando, sisvolgono riunioni alle quali io non sono invitato; persino la suavisita mi sembra che abbia un significato particolare: non avendoil coraggio di fare altro, si manda avanti lei, uno straniero.
Com'erano diverse le esecuzioni di una volta! Già alla vigilia, lavalle era piena di gente che veniva a vedere. La mattina dibuon'ora arrivava il comandante con le sue signore, le fanfaresvegliavano l'intero accampamento, io annunciavo che tutto erapronto, la società - nessun funzionario importante poteva mancare- si disponeva intorno alla macchina: quel mucchio di poltroncineè un misero residuo di quei tempi. La macchina, appena finita dipulire, brillava; a ogni esecuzione, quasi, cambiavo dei pezzi.
Sotto centinaia di sguardi - gli spettatori si alzavano sullapunta dei piedi, tutto intorno - il condannato veniva distesosotto l'erpice dal comandante in persona. Quello che oggi fa unsemplice soldato, era allora compito mio, in qualità di presidentedi tribunale, e me ne consideravo onorato. A questo puntocominciava l'esecuzione! Non una stonatura disturbava il lavorodella macchina. C'era chi non guardava nemmeno più, preferendosdraiarsi, a occhi chiusi, sulla sabbia. Tutti sapevano: ora sicompie la giustizia. Nel silenzio si sentivano soltanto i sospiridel condannato, smorzati dal tampone. Oggi l'apparecchio strappaal condannato sospiri che il tampone riesce sempre a soffocare;allora, gli aghi del disegnatore stillavano un liquido corrosivo,di cui poi venne proibito l'impiego. Lasciamo perdere. Ma cos'erala sesta ora! Impossibile accontentare tutti quelli che volevanovedere più da vicino. Il comandante, nella sua saggezza, avevadisposto che la precedenza venisse data ai bambini; io, in ragionedel mio compito, dovevo rimanere sempre lì vicino; spesso mirannicchiavo con due bambini sulle braccia, uno per parte. Checosa provavamo negli istanti in cui, su quel viso martirizzato,appariva un'espressione estatica! Come protendevamo le nostreguance al rifulgere di quella giustizia finalmente raggiunta e giàsvanente! Che tempi, amico!".
L'ufficiale sembrava dimenticare chi era la persona che gli stavadavanti: aveva abbracciato l'esploratore e aveva posato la testasulla sua spalla. L'esploratore, imbarazzato al massimo, guardavaimpaziente davanti a sé. Il soldato aveva finito di pulire e da unbarattolo aveva versato la pappa di riso nella ciotola. Non appenail condannato, che sembrava completamente rimesso, se ne accorse,cominciò a tendere la lingua verso la pappa. Il soldato cercava diallontanarlo, la pappa era riservata a più tardi: ma a sua voltacacciava nella ciotola le sue mani sporche e mangiava davanti alcondannato bramoso.
L'ufficiale si riprese subito. "Non volevo cercare diconvincerla", disse, "so che è impossibile oggi, far capire queitempi. Ma l'apparecchio continua a funzionare e parla da solo.
Parla di per sé, anche se è isolato in questa valle. E il cadaverepiomba sempre, alla fine, dopo un volo indicibilmente lieve, nellafossa, anche se intorno a questa non sciamano più, come un tempo,centinaia di mosche. Fummo costretti a recintare la fossa con unsolido parapetto, ormai divelto da un pezzo".
L'esploratore, che voleva sottrarre il suo viso allo sguardodell'ufficiale, si guardava in giro distratto. L'ufficialecredette che considerasse lo squallore della valle; gli prese lemani, e, girandogli intorno per incontrare i suoi occhi, disse:
"Vede che vergogna?"L'esploratore non rispose. L'ufficiale si allontanò da lui; agambe aperte, le mani sui fianchi, fissava il suolo, senza direuna parola. Poi rivolse all'esploratore un sorriso che volevaessere di incoraggiamento e disse: "Ieri le ero vicino, quando ilcomandante la invitò. Sentii le parole d'invito. Conosco ilcomandante, capii subito a cosa mirava. Benché abbia autoritàsufficiente per agire contro di me, ancora non ha avuto ilcoraggio di farlo. Vuole invece sottopormi al suo giudizio, algiudizio di un illustre straniero. Il calcolo è sottile: lei sitrova nell'isola da due giorni, non conosceva il vecchiocomandante né il suo modo di pensare; ragiona secondo i princìpieuropei, magari è un deciso avversario della pena di morte ingenerale e di simili esecuzioni meccaniche in particolare; vedràche l'esecuzione avviene senza presenza di pubblico, in modotriste, su una macchina malandata... Considerato tutto questo,pensa il comandante, è molto probabile che lei non approvi il mioprocedimento. E se non l'approva, continua a pensare ilcomandante, non passerà la cosa sotto silenzio, perché lei è unuomo che ha il coraggio delle sue opinioni. Ha visto e imparato arispettare i costumi di molti popoli, non si esprimerà controquesto procedimento con la violenza di cui darebbe prova nel suoPaese: ma il comandante non chiede tanto. Basta lasciarsi andareuna parola di sfuggita. Non è necessario che risponda alle sueconvinzioni, basta che sembri favorire la sua tesi. Sono sicuroche l'interrogherà ricorrendo ad ogni astuzia. Le sue signore,sedute intorno, tenderanno l'orecchio. Lei dirà, mettiamo: 'Da noila procedura è diversa' oppure 'Da noi si usa interrogarel'accusato, prima di condannarlo' oppure 'Da noi ci sono altrepene oltre a quella di morte' oppure 'Da noi le torture sonoesistite solo nel medioevo'. Considerazioni, ai suoi occhi, tantorispondenti a verità quanto naturali, considerazioni inoffensive,che non toccano il mio sistema. Ma come le interpreterà ilcomandante? Mi sembra di vederlo, il buon comandante, respingerela sedia e correre al balcone, mentre le signore gli siprecipitano dietro, mi sembra di sentire la sua voce: 'Un grandeesploratore dell'Occidente, incaricato di studiare l'ordinamentogiudiziario dei vari paesi, ha detto un momento fa che i nostriprovvedimenti giudiziari sono inumani. In seguito al giudizio diuna tale personalità non mi è più possibile, naturalmente,tollerare questa procedura. Da oggi in avanti ordino... eccetera'.
Lei vorrebbe precisare che non ha detto quello che lui proclama,che non ha chiamata inumana la mia procedura, è convinto, anzi,che essa è la più nobile e la più umana, inoltre ammiral'apparecchio. Niente da fare, troppo tardi: lei non arrivanemmeno al balcone affollato di signore: vuole richiamarel'attenzione, vuole gridare, ma una mano di donna le chiude labocca - e io e l'opera del vecchio comandante siamo perduti".
L'esploratore dovette reprimere un sorriso: così facile eral'impresa che gli era sembrata tanto difficile. Disse evasivo:
'Lei esagera la mia influenza. Il comandante ha letto la mialettera di raccomandazione, sa che non sono un esperto diprocedimenti giudiziari. Se esprimessi un'opinione, questa sarebbel'opinione di un privato cittadino, non più importante diqualsiasi altra persona e, in ogni caso, assai meno importante diquella del comandante stesso, il quale, credo, ha poteri moltoampi su questa colonia. Se il comandante la pensa come lei dice,temo che la fine della procedura sia vicina, anche senza bisognodel mio modesto concorso".
L'ufficiale capiva? No, ancora non capiva. Scosse vivacemente ilcapo, si girò un attimo a guardare il condannato e il soldato, chesussultarono e smisero di mangiare il riso, si fece addossoall'esploratore e, fissando non il suo viso ma un punto della suagiacca, disse ancora con voce ancora più bassa di prima: "Lei nonconosce il comandante: non si rende conto, scusi la franchezza, diquanto lei può, in confronto a lui e a noi: la sua influenza, micreda, supera ogni possibile valutazione. Fui beato nel sentireche lei solo avrebbe assistito all'esecuzione. Quest'ordine delcomandante avrebbe dovuto danneggiarmi, io invece lo volgo a miofavore. Senza essere turbato da insinuazioni e da occhiate didisprezzo, inevitabile se un pubblico numeroso fosse statopresente, lei ha ascoltato le mie spiegazioni, ha vistol'apparecchio e si prepara ora ad assistere all'esecuzione. Il suogiudizio si è di certo già formato: dovesse nascere ancora qualcheincertezza, lo spettacolo dell'esecuzione la farà scomparire.
Arrivati a questo punto, le chiedo: mi appoggi nei confronti delcomandante!"L'esploratore non lo fece continuare. "E come potrei?" gridò. "E'impossibile. Non posso né aiutarla né recarle danno".
"Lei può", disse l'ufficiale. Con qualche apprensione,l'esploratore si accorse che l'ufficiale stringeva i pugni. "Leilo può", ripeté l'ufficiale con veemenza ancora maggiore. "Io houn piano che deve riuscire. Lei crede che la sua influenza nonbasti: io so che basta. Ma ammettiamo che lei abbia ragione: nonbisogna tentare di tutto, anche, faccio per dire, l'inutile, percercare di salvare la procedura? Ascolti, ora, il mio piano. Perla sua attuazione è indispensabile che lei oggi, nella colonia,eviti di pronunciarsi sulla procedura. Se nessuno le chiede nulla,non si lasci scappare parola. In ogni modo, le sue dichiarazionisiano brevi e vaghe, dia l'impressione che le riesce difficileparlare della cosa, che è amareggiato, che, se dovesse parlare,dovrebbe uscire in imprecazioni. Io non le chiedo di mentire,nemmeno per idea. Basta che lei risponda con poche parole, peresempio: 'Sì, ho visto l'esecuzione' oppure 'Sì, ho ascoltatotutte le spiegazioni'. Solo questo, niente di più. Questo puòspiegare, anche se non nel senso auspicato dal comandante, il suoaspetto contrariato. Il comandante, naturalmente, capirà arovescio e interpreterà quanto lei ha detto a modo suo. Su questoequivoco si fonda il mio piano. Domani, sotto la presidenza delcomandante, ci sarà nella sede del comando una grande riunione ditutti gli altri funzionari. Il comandante ha provveduto,naturalmente, a trasformare queste riunioni in uno spettacolo. E'stata costruita una galleria, che è sempre piena di spettatori. Ionon posso fare a meno di prendere parte al consiglio, ma tremo peril disgusto. Lei sarà certo invitato alla seduta. Se oggi sicomporta secondo il mio piano, l'invito sarà fatto in forma diinsistente preghiera. Se invece, per qualche motivo, non fosseinvitato, chieda l'invito, lo otterrà sicuramente. Domani, dunque,lei siede in mezzo alle signore nel palco del comandante. Quelloalza gli occhi di continuo, per accertarsi della sua presenza.
Dopo la discussione di diversi argomenti, indifferenti e ridicoli,calcolati per il pubblico - quasi sempre si tratta di opereportuali! - si passa a trattare la procedura giuridica. Se ilcomandante non proponesse l'argomento o tardasse a farlo, cipenserò io. Mi alzerò e farò il mio rapporto sull'esecuzione dioggi. Poche parole, l'annuncio puro e semplice. Non è quella lasede per rapporti del genere, ma non importa. Il comandante miringrazierà, come sempre, con un sorriso cordiale, poi, incapacedi trattenersi, approfitterà della buona occasione. 'Abbiamoappena ascoltato', dirà press'a poco, 'il rapportosull'esecuzione. Da parte mia vorrei aggiungere che l'illustreesploratore, a loro tutti noto per l'onore eccezionale reso con lasua visita a questa colonia, ha assistito all'esecuzione;l'odierna riunione, aggiungo, acquista un significato particolaregrazie alla sua presenza. Non vogliamo chiedere al grandeesploratore cosa pensa dell'esecuzione tradizionale e dellaprocedura relativa?' Naturalmente, grandi applausi, il consenso ègenerale, io faccio più chiasso di tutti. Il comandante si inchinadavanti a lei, e dice: 'In questo caso, le porgo il quesito a nomedi tutti'. Lei, allora, si affaccia al parapetto. Vi appoggi soprale mani, che siano visibili, altrimenti le signore glieleprenderanno e giocheranno con le dita. A questo punto, ha laparola. Non so come farò a resistere per tante ore. Nel suodiscorso non abbia riguardo di nulla, urli la verità, si sporga infuori, gridi, ma sì, gridi la sua opinione, la sua incrollabileopinione in faccia al comandante! Forse non è d'accordo, questimodi non convengono al suo carattere, nel suo Paese, incircostanze simili, ci si comporta diversamente: non importa,andrà bene lo stesso, rimanga pure a sedere, dica solo qualcheparola, la mormori appena, basta che arrivi all'orecchio deifunzionari. Lasci andare la mancanza di pubblico, la ruota chestride, la cinghia strappata, il feltro schifoso, a questo penseròio; mi creda, se il mio discorso non farà scappare il comandantedalla sala, lo costringerà a inginocchiarsi e a balbettare:
'Vecchio comandante, mi inchino davanti a te'. Questo è il miopiano: vuole aiutarmi ad attuarlo? Ma certo che lei vuole, leideve, anzi". L'ufficiale prese l'esploratore per le braccia e lofissò negli occhi, ansimando. Aveva pronunciato le ultime frasi avoce così alta da richiamare l'attenzione del condannato e delsoldato: quelli, anche se non potevano capire niente, smisero dimangiare e guardarono, masticando, l'esploratore.
L'esploratore non aveva mai dubitato sulla risposta da dare.
Sapeva troppo bene il fatto suo per avere dubbi, in quellasituazione: era una persona leale e coraggiosa. Esitò un istante,alla vista del soldato e del condannato; poi, com'era suo doveredisse: "No". L'ufficiale batté più volte, rapidamente, lepalpebre, continuando a fissarlo. "Desidera una spiegazione?"chiese l'esploratore. L'ufficiale annuì, in silenzio. "Sono unavversario di questa procedura", disse il viaggiatore. "Primaancora che lei mi provasse la sua fiducia, fiducia di cui nonabuserò in nessun caso, mi ero chiesto se avevo diritto diintervenire contro questa procedura, e se il mio intervento avevauna probabilità, sia pur minima, di successo. Non avevo dubbisulla persona alla quale dovevo prima rivolgermi: era ilcomandante, naturalmente. Lei mi ha solo confermato nel mioconvincimento, ma, ripeto, ero deciso in precedenza: l'onestàdelle sue idee mi tocca, anche se non può distogliermi dal mioproposito".
L'ufficiale non disse una parola, si volse verso l'apparecchio,afferrò una delle sbarre di ottone e, chinandosi indietro,cominciò a guardare il disegnatore, quasi volesse verificare setutto era in ordine. Il soldato e il condannato sembravano averfatto amicizia; il condannato fece dei cenni al soldato,divincolandosi sul letto, il soldato si chinò verso di lui eaccolse con un cenno di assenso alcune parole che quello glimormorò.
L'esploratore si avvicinò all'ufficiale, e disse: "Lei non sa cosafarò. Dirò al comandante il mio pensiero sulla procedura, non inuna riunione, ma a quattr'occhi. Tra l'altro, non ho tempo diassistere a sedute: partirò o almeno mi imbarcherò domanimattina".
L'ufficiale non sembrò aver sentito. "Dunque la procedura non l'haconvinto", disse tra sé con un sorriso, come un vecchio sorridealle sciocchezze di un bambino, pur continuando, dietro il suosorriso, a seguire i suoi pensieri.
"Via, è l'ora", disse poi, fissando all'improvviso il viaggiatorecon uno sguardo limpido, che sembrava contenere un nascostoappello.
"Ora di che?" chiese inquieto l'esploratore; ma non ebbe risposta.
"Sei libero", disse l'ufficiale al condannato, parlandogli nellasua lingua. Questi, sulle prime, non ci credette. "Andiamo, ti hodetto che sei libero!" disse l'ufficiale. Per la prima volta, sulviso del condannato apparve un'espressione di autentica vita. Eraproprio vero? O era un capriccio momentaneo dell'ufficiale? Ilviaggiatore straniero gli aveva ottenuto la grazia? Cos'erasuccesso? Sul suo viso passarono tutte queste domande: ma non duròa lungo. Qualunque cosa fosse, visto che poteva, voleva esserelibero. Cominciò a dimenarsi, per quanto glielo consentival'erpice.
"Mi strappi le cinghie!" gridò l'ufficiale. "Sta' buono! Ora tisleghiamo". Fatto un cenno al soldato, si mise al lavoro. Ilcondannato, senza dire una parola, rideva piano tra sé, girandoora il viso a sinistra verso l'ufficiale, ora a destra verso ilsoldato, senza dimenticare l'esploratore.
"Tiralo fuori!" ordinò l'ufficiale al soldato. L'operazione eradelicata, a causa dell'erpice; per l'impazienza, il condannato siera già graffiato le spalle.
Da questo momento, l'ufficiale non si curò più di lui. Si avvicinòall'esploratore, tirò fuori la piccola busta di pelle, vi frugòdentro, trovò il foglio che cercava e lo mostrò all'esploratore.
"Legga", disse. "Non ci riesco", disse l'esploratore. "Ho giàdetto che non posso leggere questi fogli". "Osservi il foglio conattenzione", disse l'ufficiale stringendosi all'esploratore, perleggere insieme con lui. Quando ebbe visto che neppure questoserviva, con il mignolo cominciò a disegnare delle lettere soprail foglio, come se non potesse neppure sfiorarlo, per facilitarela lettura. Il viaggiatore fece del suo meglio per compiacere,almeno in questo, l'ufficiale, ma non riuscì a niente. Alloral'ufficiale cominciò a sillabare l'iscrizione, poi la rilessetutta. "'Sii giusto!', c'è scritto", disse. "Ora potrà leggerlo".
Il viaggiatore si chinò tanto che l'ufficiale, temendo glitoccasse la carta, gliel'allontanò; non diceva niente, ma eraevidente che non riusciva a leggere. "'Sii giusto!', c'è scritto",ripeté l'ufficiale. "Può darsi", disse il viaggiatore, "lo credo".
"Bene", disse l'ufficiale, in parte almeno soddisfatto. Con ilfoglio in mano salì sulla scala, stese il foglio, con grandiprecauzioni, nell'incisore, e sembrò cambiare completamente ladisposizione del meccanismo. Era un lavoro faticoso, gliingranaggi dovevano essere estremamente piccoli, se la testadell'ufficiale a volte, durante il lavoro, spariva dentro ilcofano.
L'esploratore, dal basso, seguiva ogni fase del lavoro: alla fineil collo si irrigidì e gli occhi, sotto il cielo saturo di luce,cominciarono a fargli male. Il soldato e il condannato sioccupavano dei fatti loro. Con la punta della baionetta il soldatoaveva estratto dalla fossa la camicia e i calzoni del condannato.
La camicia era sporca da far paura, e il condannato la lavò nelmastello. Quando ebbe indossato la camicia e i calzoni, sia lui,sia il soldato dovettero ridere, perché gli indumenti eranospaccati, dietro, da cima a fondo. Il condannato, che forse sisentiva in obbligo di divertire il soldato, girava su se stesso,mentre il compagno, accovacciato, rideva, dandosi colpi sulleginocchia. Se non eccedevano, era per riguardo ai due signori.
Quando l'ufficiale, in alto, ebbe finito, guardò ancora una volta,con un sorriso, il meccanismo, poi abbassò il coperchio fino aquel momento rimasto aperto, scese a terra, guardò nella fossa epoi verso il condannato, sembrò contento che quello avesserecuperato i suoi abiti, si accostò al mastello per lavarsi lemani e si accorse, troppo tardi, dell'acqua sudicia, si rattristòperché non poteva lavarsi, infine, sebbene non fosse la stessacosa, cacciò le mani nella sabbia, doveva adattarsi, poi si misein piedi e incominciò a sbottonarsi la giubba. Gli capitarono trale mani i due fazzoletti da donna che aveva introdotto tra nuca ecolletto. "Ecco i tuoi fazzoletti", disse, gettandoli alcondannato. E rivolto all'esploratore, come per spiegare: "Omaggiodelle signore".
Nonostante la fretta con cui si tolse la giubba e poi si spogliòcompletamente, trattò ogni capo con grande attenzione, a un certopunto lisciò gli alamari d'argento e fece andare a posto, con unascossa, una nappina. Ma quando un indumento era ripiegato, conmossa sdegnosa lo gettava, nonostante tante precauzioni, nellafossa. Infine gli rimase solo la corta sciabola, con le suecinghie. La sguainò, la spezzò, raccolse i due monconi, il fodero,le cinghie e scagliò via ogni cosa con tanta violenza, che sisentì il tintinnio in fondo alla fossa.
Ora era nudo. Il viaggiatore si morse le labbra, e non dissenulla. Sapeva quello che sarebbe accaduto, ma non aveva il dirittodi fermare in nessun modo l'ufficiale. Se la procedura penale dicui l'ufficiale era davvero sul punto di essere revocata, forseper l'intervento che il viaggiatore sentiva il dovere di compiere,la condotta dell'ufficiale era perfetta: il viaggiatore, al suoposto, non si sarebbe comportato diversamente.
Soldato e condannato, sulle prime, non capirono nulla, nonbadarono, anzi, neppure a quello che succedeva. Il condannato erastato felice di avere riavuto i fazzoletti, ma la sua gioia non fulunga, perché il soldato glieli tolse con una mossa rapida eimprevista. Ora cercava di sfilarglieli di sotto il cinturone, mal'altro teneva gli occhi aperti. Litigavano dunque, un po' perscherzo, un po' sul serio, e si scossero solo quando l'ufficialefu completamente nudo. Il condannato, in particolare, sembròpresentire un grande, repentino cambiamento. Quello che eracapitato a lui, accadeva all'ufficiale. Forse le cose sarebberoarrivate fino in fondo. Forse l'ordine era partito dal viaggiatorestraniero. Si trattava, dunque, di una vendetta. Sarebbe statovendicato fino in fondo. Sul suo viso apparve, per non scomparirepiù, un largo, silenzioso sorriso.
L'ufficiale si era rivolto all'apparecchio. Se anche era evidentela pratica che ne aveva, ora c'era da sbalordire, nel vedere comelo trattava e come quello obbediva. Appena accostata la manoall'erpice, questo prese ad alzarsi e ad abbassarsi, fino aprendere la posizione giusta per riceverlo. Toccò appena l'orlodel letto e quello cominciò a vibrare; il tampone di feltro mosseverso la sua bocca, l'ufficiale sembrò esitare un attimo aprenderlo, ma poi lo imboccò. Tutto fu pronto: le cinghiependevano dalle parti, ma erano inutili, l'ufficiale non avevabisogno di essere legato. Il condannato, viste le cinghie sciolte,dovette pensare che l'esecuzione non era perfetta se non venivanofissate, accennò vivacemente al soldato, e tutti e due corsero alegare l'ufficiale. Questi aveva allungato un piede per urtare ilvolante che doveva mettere in movimento il disegnatore; nel vederesopraggiungere i due, lo ritirò e si lasciò legare. Ma così nonpoteva più raggiungere il volante: il soldato e il condannato nonl'avrebbero trovato, e il viaggiatore, da parte sua, era deciso anon muoversi. Non importa: appena le cinghie furono fissate,l'apparecchio cominciò a lavorare, gli aghi danzarono sulla pelle,l'erpice si alzò e si abbassò. Il viaggiatore stava guardando daun pezzo, quando si ricordò che una ruota del disegnatore avrebbedovuto stridere: ma il silenzio era perfetto, non si sentiva ilminimo fruscio.
Con il suo silenzioso lavoro l'apparecchio si sottraeva,letteralmente, all'attenzione. Il viaggiatore guardò il soldato eil condannato. Dei due, il più vicino era l'ultimo. Tutto lointeressava, nella macchina: si chinava, si allungava, avevasempre qualcosa da indicare al soldato. Il viaggiatore si seccò.
Era deciso a rimanere fino alla fine, ma non poteva più sopportarela vista di quei due. "Tornate a casa", disse. Il soldato, forse,sarebbe stato d'accordo, ma il condannato prese l'ordine come unapunizione. Supplicò, a mani giunte, di rimanere, e quandol'esploratore, scuotendo la testa, non mostrò di cedere, arrivò ainginocchiarsi. L'esploratore capì che gli ordini non servivano, esi accingeva a passare dall'altra parte per allontanare i due,quando sentì in alto, nel disegnatore, un rumore. Alzò la testa:
dunque la ruota non si era quietata? Non era la ruota. Ilcoperchio del disegnatore si sollevò adagio, si spalancò. Emerseroi denti di una ruota, divennero visibili, apparve la ruota intera,come se una possente forza comprimesse il disegnatore e per quelpezzo non ci fosse più posto, la ruota rotolò sull'orlo deldisegnatore, precipitò, rotolò per un pezzo sulla sabbia, si fermòrovesciandosi. Su in alto ne emerse un'altra, seguita da grandi,piccole, addirittura invisibili - e si ripeté la stessa cosa.
Quando si pensava che il disegnatore, ormai, dovesse essere vuoto,appariva un nuovo, complesso ingranaggio, saliva, ricadeva,rotolava sulla sabbia, giaceva immobile. In seguito a questoincidente, il condannato dimenticò l'ordine del viaggiatore: leruote dentate lo affascinavano, avrebbe voluto prenderne una,incitava il soldato ad aiutarlo, ma ritirava impaurito la manoquando appariva una seconda ruota.
Il viaggiatore era molto inquieto: l'apparecchio si stavasfasciando, il suo tranquillo movimento era solo un'apparenza. Glisembrò suo dovere occuparsi dell'ufficiale, poiché questi non erapiù in grado di provvedere a se stesso. Tutto preso dalla cadutadelle ruote, aveva trascurato il resto dell'apparecchio. Quandol'ultima ruota ebbe abbandonato il disegnatore, nel curvarsi sopral'erpice provò una nuova e peggiore sorpresa: l'erpice nonscriveva, incideva, il letto non faceva rotolare il corpo, ma losollevava, vibrando, contro gli aghi. L'esploratore volleintervenire, per cercare di fermare l'apparecchio: quello non eraun supplizio come lo intendeva l'ufficiale, era un assassinio.
Allungò le mani... E l'erpice si alzò di fianco, con il corpotrafitto, come faceva soltanto nella dodicesima ora. Il sanguescorreva attraverso un'infinità di rivoli, e era sangue puro,perché le piccole condutture dell'acqua non funzionavano. Ma ilmovimento conclusivo non riuscì, il corpo non si staccò dai lunghiaghi; il sangue continuava a fluire, e quello rimaneva sospesonella fossa, senza cadere. L'erpice sembrò voler tornare nella suaposizione normale, poi, quasi sentisse di non essere ancoraliberato del suo carico, rimase sopra la fossa. "Aiutatemi!" gridòl'esploratore al soldato e al condannato, mentre afferrava i piedidell'ufficiale. Egli avrebbe tenuto fermi i piedi, gli altriavrebbero afferrato la testa, fino a liberare il corpo dagli aghi.
Ma i due rifiutarono di avvicinarsi, il condannato giròaddirittura le spalle. Il viaggiatore li dovette spingere a forzaverso la testa dell'ufficiale; di cui poté, quindi, vedere ilviso. Era rimasto com'era in vita, non mostrava neppure un segnodella redenzione promessa. Non aveva trovato nell'apparecchioquello che avevano trovato tutti: le labbra erano serrate, gliocchi aperti sembravano vivi, e esprimevano una tranquillapersuasione, sulla fronte c'era il foro del gran puntale di ferro.
Quando il viaggiatore, seguito dal soldato e dal condannato,arrivò alle prime case della colonia, il soldato ne indicò una edisse: "Ecco il caffè".
Un locale profondo e basso come una caverna, con le pareti e ilsoffitto anneriti dal fumo, si apriva sulla strada per tutta lalarghezza della casa. Sebbene questa si distinguesse poco dallealtre della colonia - tutte, tranne il palazzo del comando, assaimalridotte - il viaggiatore, di fronte a essa, sentì comel'impressione di un ricordo storico, sentì la presenza delpassato. Si avvicinò, seguito dai due passò tra i tavoli postisulla strada, respirò l'aria fresca e intanfita che venivadall'interno. "Il vecchio è sepolto qui", disse il soldato, "ilprete gli ha negato un posto al cimitero. Rimasero un pezzoindecisi su dove seppellirlo, infine lo seppellirono qui.
L'ufficiale le ha taciuto questo, perché se ne doveva vergognare amorte. Fece persino dei tentativi per disseppellire, di notte, ilvecchio, ma fu sempre respinto". "Dov'è la tomba?" chiese ilviaggiatore, che non poteva credere al soldato. Il soldato e ilcondannato si allontanarono correndo, e indicarono il punto in cuidoveva trovarsi la tomba. Portarono l'esploratore fino alla paretedi fondo, dov'erano sedute alcune persone: forse scaricatori diporto, uomini robusti, dalle barbe corte, di un nero brillante.
Erano senza giacca e mostravano le camicie strappate, povera,umile gente. Mentre l'esploratore si avvicinava, alcuni sialzarono e, addossati alla parete, rimasero a fissarlo. "E' unostraniero", si sussurrava intorno a lui, "vuole vedere la tomba".
Spostarono un tavolo, e sotto comparve davvero una pietra tombale.
Era una semplice pietra, abbastanza bassa per sparire sotto iltavolo. I caratteri dell'iscrizione erano tanto minuti, che ilviaggiatore dovette inginocchiarsi. L'epitaffio diceva: "Quiriposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che non possono oradichiarare il loro nome, gli hanno scavato questa fossa e dedicatoquesta lapide. Una profezia dice che il comandante, tra un certonumero di anni, resusciterà, e da questa casa guiderà i suoiseguaci alla conquista della colonia. Abbiate fede e attendete!"Quando il viaggiatore si rialzò, vide che gli uomini locircondavano sorridendo, come se avessero letto con luil'iscrizione, l'avessero trovata ridicola, e lo invitassero a farealtrettanto. Il viaggiatore diede a vedere di non accorgersi diniente, distribuì alcune monete, aspettò che il tavolo venisse dinuovo posto sopra la tomba, lasciò il caffè e si avviò al porto.
Il soldato e il condannato furono trattenuti nel caffè da alcuniconoscenti. Ma si liberarono in fretta: il viaggiatore era appenaa metà della lunga scala che lo portava alla barca, che quelli giàlo rincorrevano. Forse volevano costringerlo, all'ultimo momento,a prenderli con sé. Mentre il viaggiatore, in basso, discuteva conun barcaiolo il prezzo del passaggio fino al piroscafo, i due siprecipitarono in silenzio per la scala. Ma quando furono in fondo,il viaggiatore era già sulla barca, e il barcaiolo stavasciogliendo l'ormeggio. Quelli avrebbero ancora potuto saltarenella barca, ma il viaggiatore alzò una pesante gomena piena dinodi e, minacciandoli, li fece desistere.