Arthur Schnitzler
IL RITORNO DI CASANOVA
(1918)
Nel suo cinquantatreesimo anno di vita Casanova, che era ormai da tempo braccato per il mondo non tanto dalla brama di avventure della gioventù quanto dall'inquietudine dell'incalzante vecchiaia, sentì germogliare con tanto impeto nella sua anima la nostalgia di Venezia sua patria, che come un uccello il quale scenda lentamente dalle sue eteree altezze per morire cominciò a tracciarle intorno volute sempre più strette. Più volte, negli ultimi dieci anni del suo esilio, aveva rivolto petizioni al Consiglio dei Dieci, perché gli concedesse di tornare; ma mentre in passato nella redazione di tali scritti, cosa in cui era maestro, la sua penna era stata guidata da orgoglio e caparbietà nonché, talvolta, persino da un certo stizzoso godimento, da qualche tempo dalle sue parole di quasi umile preghiera sembravano parlare, sempre più inequivocabili, un anelito di sofferenza e un sincero pentimento. Credeva di poter contare su un assenso, tanto più che le colpe dei suoi anni passati, tra le quali comunque per i consiglieri veneziani le più imperdonabili non erano la dissolutezza, la litigiosità e le imposture di natura per lo più scherzosa, ma il libero pensiero, stavano gradualmente finendo nel dimenticatoio e la storia della sua fuga mirabolante dai Piombi di Venezia, che egli aveva poi ripetutamente abbellito davanti a corti di regnanti, in castelli nobiliari, presso deschi borghesi e in case di malaffare, cominciava ad avere la prevalenza su ogni altra diceria legata al suo nome; e a Mantova, dove si tratteneva ormai da due mesi, gli erano giunte diverse missive di signori molto potenti che inducevano l'avventuriero, di cui si andavano spegnendo il fulgore interiore come quello esteriore, a sperare che il suo destino sarebbe stato deciso entro breve.
Poiché i suoi mezzi finanziari erano divenuti davvero esigui, Casanova aveva deciso di attendere l'arrivo della grazia nella locanda modesta ma decorosa che aveva già abitato in anni più felici, e nel frattempo trascorreva il tempo - per non menzionare distrazioni meno spirituali, alle quali non era in grado di rinunciare del tutto - componendo un libello contro il blasfemo Voltaire, la cui pubblicazione sperava potesse consolidare la sua posizione e la sua fama presso tutti i benpensanti veneziani subito dopo il suo ritorno in patria.
Un mattino, durante una passeggiata fuori città, mentre cercava di dare l'ultima limatina a una proposizione destinata ad annientare quell'empio francese, fu colto all'improvviso da un'inquietudine straordinaria, quasi un dolore fisico: la vita incresciosamente abitudinaria che conduceva ormai da tre mesi; le passeggiate mattutine fuori porta, in campagna, le brevi serate trascorse giocando a carte con il sedicente barone Perotti e la sua butterata amante, le tenerezze della sua locandiera non più giovane ma focosa, persino lo studio delle opere di Voltaire e il lavoro alla sua ardita e per ora, gli pareva, non malriuscita confutazione: tutto ciò gli sembrava, nell'aria mite e troppo dolce di quel mattino di tarda estate, parimenti insensato e ripugnante; mormorò un'imprecazione, senza sapere a chi o a cosa fosse diretta, e afferrando l'elsa della sua spada, gettando ovunque sguardi ostili, come se dalla solitudine che lo circondava lo guardassero beffardi occhi invisibili, volse d'un tratto i suoi passi verso la città, intenzionato a impartire all'istante istruzioni per un'immediata partenza. Non dubitava infatti che si sarebbe sentito subito meglio non appena si fosse avvicinato alla bramata patria anche solo di qualche miglio. Accelerò il cammino, onde assicurarsi per tempo un biglietto per il postale che partiva prima del tramonto in direzione est; per il resto, gli rimaneva ben poco da fare, poiché intendeva risparmiarsi una visita di commiato al barone Perotti e mezz'ora gli era più che sufficiente per mettere in valigia tutti i suoi averi. Pensò ai due vestiti un po' lisi, uno dei quali, il peggiore, aveva indosso in quel momento, e alla biancheria più volte rammendata, un tempo elegante, che insieme a qualche tabacchiera, a una catena d'oro con orologio e a un certo numero di libri costituivano tutti i suoi possedimenti; gli vennero in mente giorni passati, quando era un signore distinto che traversava la campagna in una magnifica carrozza, fornito di tutto il necessario e pure del superfluo, tra cui un servitore - che a dire il vero era per lo più un imbroglione -; e gli salirono agli occhi lacrime di rabbia impotente. Una giovane donna col frustino in mano lo superò alla guida di un carretto sul quale giaceva ubriaco, tra sacchi e suppellettili domestiche d'ogni genere, suo marito. Sulle prime essa osservò con aria curiosa e beffarda Casanova che si avvicinava di buon passo sotto gli ippocastani sfioriti della strada, col viso stravolto e mormorando tra i denti parole incomprensibili, ma poi, quando vide il suo sguardo ricambiato da un lampo d'ira, gli occhi di lei presero un'espressione spaventata e infine, quando passandogli accanto si girò verso lui, benevola e lasciva. Casanova, che sapeva bene come odio e ira sapessero preservare i colori della gioventù meglio di dolcezza e tenerezza, capì subito che sarebbe bastata una sua osservazione sfrontata per fermare la carrozza e disporre della donna, cosa che non gli dispiaceva mai; tuttavia, per quanto saper questo migliorasse momentaneamente il suo umore, non gli parve che valesse la pena di rinunciare anche solo a pochi minuti per via di un'avventura tanto scadente e perciò lasciò che il carretto dei contadini continuasse a cigolare imperterrito, con i suoi occupanti, tra la polvere e i vapori della via maestra.
L'ombra degli alberi attenuava solo in minima parte la calura del sole che saliva, e Casanova si vide costretto a rallentare gradualmente il passo. La polvere della strada si era accumulata sul suo abito e sulle sue scarpe a tal punto che non si vedeva più quanto fossero consunte; e così lo si sarebbe potuto prendere senz'altro, quanto a stile e portamento, per un signore d'alto rango al quale, per una volta, era venuto in mente di lasciare a casa la sua carrozza. Già si apriva dinanzi a lui l'arco della porta vicino alla quale era situata la locanda dove abitava, quando gli si avvicinò sobbalzando una pesante carrozza di campagna, sulla quale sedeva un uomo benestante e ben vestito, ancora piuttosto giovane. Aveva le mani incrociate sull'addome e gli occhi socchiusi, e pareva proprio sul punto d'appisolarsi quando il suo sguardo, scivolando casualmente su Casanova, si accese di inattesa vivacità, e tutta la sua persona parve cadere in preda a un'allegra agitazione. Si sollevò troppo rapidamente e ricadde subito all'indietro, si tirò di nuovo su, assestò una pacca sulla schiena al cocchiere, per ordinargli di fermarsi, si girò, mentre la carrozza continuava ad andare, per non perdere di vista Casanova, gli fece un cenno con ambo le mani e ne gridò tre volte il nome, con voce fioca ma chiara. Solo dalla voce Casanova aveva riconosciuto quell'uomo: si avvicinò alla carrozza, che si era fermata, afferrò sorridendo le due mani protese verso di lui e disse:
«E' possibile, Olivo, siete voi?» «Sono io, signor Casanova, mi riconoscete ancora?» «Perché non dovrei? Certo, dal giorno delle nozze, quando ci siamo visti per l'ultima volta, siete un po' aumentato di circonferenza... ma anch'io negli ultimi quindici anni sono mutato non insensibilmente, anche se non allo stesso modo.» «Appena» esclamò Olivo, «praticamente niente, signor Casanova! E comunque son passati sedici anni, da pochi giorni! E come può immaginare, proprio in questa occasione abbiamo parlato a lungo di voi, Amalia e io...» «Davvero», rispose cordialmente Casanova, «mi ricordate ancora, qualche volta?» Gli occhi di Olivo si empirono di lacrime. Teneva ancora le mani di Casanova tra le sue, e riprese a stringerle, commosso. «Quanto vi siamo grati, signor Casanova! Come potremmo mai dimenticare il nostro benefattore? E se allora...» «Non parliamone», lo interruppe Casanova. «Come sta la signora Amalia?
Com'è possibile che in questi due mesi che ho trascorso a Mantova - conducendo una vita molto ritirata, devo dire, ma facendo ancora molte passeggiate, com'era mia abitudine - com'è possibile, dicevo, che non vi abbia incontrato, Olivo, neppure una sola volta?» «Semplicissimo, signor Casanova! E' ormai tanto che non viviamo più in questa città, che io d'altronde non ho mai potuto soffrire, come Amalia. Fatemi l'onore, signor Casanova, saltate su, in un'ora siamo a casa mia» - e Casanova fece un lieve cenno di diniego - «non ditemi di no. Amalia sarà felicissima di rivedervi e orgogliosa di mostrarvi i nostri tre figli. Sì, tre, signor Casanova. Tre bambine. Tredici, dieci e otto anni... Nessuna ha ancora l'età per cui - con permesso - Casanova potrebbe farle girare la testa.» Sorrise bonariamente e accennò il gesto di trascinare Casanova in carrozza. Ma Casanova scosse il capo.
Infatti, dopo essere stato quasi tentato di cedere a una comprensibile curiosità e di accogliere l'invito di Olivo, fu colto con rinnovato impeto dalla sua impazienza, e assicurò Olivo che purtroppo affari urgenti lo costringevano a lasciare Mantova il giorno stesso, prima di sera. Che cosa mai cercava a casa di Olivo, d'altronde? Sedici anni erano tanto tempo! Nel frattempo Amalia non si era certo fatta né più giovane né più bella; la figlioletta tredicenne non lo avrebbe certo degnato di particolare considerazione, data la sua età, e l'idea d'ammirare lo stesso signor Olivo, allora un giovanotto magro e studioso, quale padre di famiglia possidente e dedito all'agricoltura in un ambiente rurale, non lo attraeva al punto da fargli rimandare un viaggio che lo avrebbe avvicinato di dieci o venti miglia a Venezia.
Olivo però, che non pareva intenzionato a prendere per buono il rifiuto di Casanova, insistette quanto meno per accompagnarlo in carrozza alla locanda, offerta che Casanova non poté rifiutare. In pochi minuti furono alla meta. La locandiera, una donna formosa sui trentacinque anni, salutò Casanova che entrava con uno sguardo che voleva senz'altro palesare anche a Olivo il tenero rapporto esistente tra loro. A quest'ultimo, comunque, porse la mano come si fa con un conoscente, dal quale, come Casanova ebbe subito modo di sapere, acquistava regolarmente un certo vino che cresceva sulle sue terre, dolceamaro e molto a buon mercato. Olivo si lamentò immediatamente che il cavaliere di Seingalt (così infatti la locandiera aveva chiamato Casanova, e Olivo non esitò un istante a servirsi anch'egli di tale titolo) fosse così crudele da rifiutare l'invito di un vecchio amico appena ritrovato, per il ridicolo motivo di dover ripartire da Mantova il giorno stesso, assolutamente il giorno stesso. La faccia straniata della locandiera lo informò all'istante che questa non sapeva ancora niente delle intenzioni di Casanova, e Casanova ritenne opportuno spiegare che aveva semplicemente anticipato i suoi programmi di partenza per non essere di peso alla famiglia dell'amico con una visita tanto inaspettata; a ogni modo era davvero costretto, anzi obbligato, a concludere nei giorni seguenti un importante lavoro letterario, cosa per la quale non conosceva luogo più adatto di questa eccellente locanda, dove aveva a disposizione una stanza fresca e tranquilla. Olivo ribatté che la sua casa modesta non poteva conoscere onore più grande di quello che le avrebbe fatto il cavaliere di Seingalt se avesse portato proprio là a compimento il suo lavoro; l'isolamento della campagna poteva rivelarsi soltanto proficuo per una tale impresa e, quanto a manuali e libri dotti non ne mancavano, perché da qualche settimana era arrivata con una cassa piena di libri sua nipote, sua di Olivo, la figlia del suo defunto fratellastro, una fanciulla giovane ma già dottissima nonostante la sua gioventù, e se a volte alla sera comparivano degli ospiti, non era certo necessario che il signor cavaliere se ne curasse, a meno che dopo il lavoro e le fatiche del giorno un'allegra conversazione o qualche partitina non gli procurassero una gradita distrazione. Non appena udì parlare di una giovane nipote, Casanova decise all'istante di vedere questa creatura da vicino; dando l'impressione di indugiare ancora, finì col cedere alle insistenze di Olivo, pur mettendo in chiaro che non poteva allontanarsi da Mantova per più di uno o due giorni e scongiurando la sua carissima locandiera di trasmettergli senza indugio, con un messo, quelle lettere che potevano arrivargli e che erano forse d'estrema importanza. Dopo aver sistemato così la faccenda, con grande soddisfazione di Olivo, Casanova andò in camera sua, si preparò per il viaggio e un quarto d'ora dopo era già nella sala da pranzo dove Olivo, nel frattempo, aveva avviato un'animata conversazione d'affari con la locandiera. Allora si alzò, vuotò in piedi il suo bicchiere di vino e, ammiccando con aria di comprensione, le assicurò che le avrebbe riportato il cavaliere - anche se non l'indomani o il giorno appresso - ma comunque in ottimo stato e incolume. Casanova però, improvvisamente distratto e frettoloso, si accomiatò con tale freddezza dalla sua gentile locandiera che questa, già allo sportello della carrozza, gli sussurrò all'orecchio una parola d'addio che era tutto fuorché una carezza.
Mentre i due uomini si dirigevano verso la campagna sulla strada polverosa immersa nella calura del mattino, Olivo raccontò prolissamente e con poco ordine la storia della sua vita: come poco dopo le nozze avesse acquistato un minuscolo terreno fuori città, avviando un piccolo commercio di ortaggi; come gradualmente avesse ampliato i suoi possedimenti e cominciato a dedicarsi all'agricoltura, come infine grazie alla solerzia sua e della sua consorte nonché alla benedizione del Signore fosse stato in grado, tre anni prima, di acquistare dall'indebitatissimo conte Marazzani il suo vecchio castello in parte diroccato con le vigne a esso pertinenti e come ormai si fosse sistemato comodamente, anche se non principescamente, con moglie e figli in quella dimora nobiliare. Tutto ciò però lo doveva soltanto, in ultima analisi, a quelle centocinquanta monete d'oro che la sua sposa o meglio la di lei madre avevano avuto in dono da Casanova; senza tale aiuto prodigioso la sua sorte non sarebbe oggi diversa da quella di allora: insegnare a leggere e scrivere a monelli screanzati, probabilmente sarebbe diventato un vecchio scapolo e Amalia una vecchia zitella... Casanova lo lasciò parlare, quasi senza starlo a sentire. Gli era tornata in mente l'avventura nella quale era rimasto coinvolto allora, insieme ad alcune altre, più significative, tanto che quella, la più irrisoria, aveva occupato ben poco la sua anima e i suoi sensi. Durante un viaggio da Roma a Torino o Parigi - lui stesso non lo sapeva più - e nel corso di un breve soggiorno a Mantova, una mattina aveva scorto Amalia in chiesa e, poiché quel grazioso volto pallido e un po' gonfio di pianto gli era piaciuto, le aveva rivolto gentilmente una domanda galante. Premurosa come all'epoca con lui lo erano tutte, lei era stata ben lieta di aprirgli il suo cuore, e così egli apprese che la ragazza, la quale già viveva poveramente, era innamorata di un povero istitutore, il cui padre negava decisamente l'assenso, come del resto la sua stessa madre, a un'unione così priva di prospettive. Casanova si dichiarò subito pronto a risolvere la faccenda. Per prima cosa si fece presentare la mamma di Amalia; e poiché questa, essendo una graziosa vedova trentaseienne, poteva ancora avere diritto a qualche omaggio, presto Casanova fu legato a lei da un'amicizia così intima che la sua intercessione poteva ottenere da lei qualsiasi cosa. Non appena questa dimostrò di recedere dal suo atteggiamento di rifiuto, anche il padre di Olivo, commerciante decaduto, non lasciò aspettare a lungo la sua approvazione, soprattutto quando Casanova, che gli fu presentato come un lontano parente della madre della sposa, si impegnò generosamente a pagare le spese delle nozze e parte del corredo. Amalia, dal canto suo, non seppe far altro che mostrare la sua gratitudine al suo benefattore, che le era apparso come l'inviato da un altro mondo, un mondo più elevato, nel modo in cui glielo imponeva il suo cuore; e quando, la sera prima delle nozze, si sottrasse con le guance in fiamme dall'ultimo abbraccio di Casanova, non le pareva certo di aver commesso un torto nei confronti del suo sposo, che alla fin fine doveva la sua felicità soltanto alla gentilezza e alla nobiltà d'animo di quello straordinario sconosciuto. Se Olivo avesse mai avuto notizia, in virtù d'una confessione, della straordinaria riconoscenza di Amalia nei confronti del benefattore; se avesse magari accettato il suo sacrificio come naturale, senza postumi di gelosia; o se quanto era accaduto gli fosse ancora ignoto: di tutto questo Casanova non si era mai preoccupato né se ne preoccupava ora.
Faceva sempre più caldo. La carrozza, con gli ammortizzatori in pessimo stato e provvista di cuscini rigidi, avanzava rumorosamente, con scossoni da far pietà; le chiacchiere bonarie con cui la voce fioca di Olivo non desisteva dall'intrattenere il suo accompagnatore sulla fertilità delle sue terre, sull'eccellenza di sua moglie, sulla creanza delle sue figliole e sui rapporti compiaciuti e pacifici con i vicini, agricoltori e nobili, cominciarono ad annoiare Casanova, che si domandò in preda alla collera perché mai avesse accettato un invito che non poteva recargli altro che incomodi e, alla fine, anche qualche delusione.
Anelava alla sua fresca cameretta nella locanda di Mantova, dove in quello stesso momento avrebbe potuto portare avanti il suo libello contro Voltaire, ed era già deciso a scendere alla prima locanda che avessero incontrato, noleggiare una qualsiasi vettura e tornare indietro, quando Olivo eruppe in un forte «Oilà!», cominciò a gesticolare con tutt'e due le mani e, afferrando Casanova per un braccio, indicò una carrozza che si era fermata accanto alla loro, nel frattempo anch'essa ferma, come per prendere accordi. Dall'altra saltarono giù, una dopo l'altra, tre ragazzine, tanto che la tavoletta che avevano usato quale sedile volò per aria e si ribaltò. «Le mie figlie», disse Olivo voltandosi verso Casanova, non senza un certo orgoglio, e poiché questi fece subito per lasciare la carrozza: «Resti seduto, caro cavaliere, tra un quarto d'ora siamo arrivati; possiamo starci anche tutti. Maria, Nanetta, Teresina: vedete, questo è il cavaliere di Seingalt, un vecchio amico di vostro padre: avvicinatevi e baciategli la mano perché senza di lui sareste...». Si interruppe e sussurrò a Casanova: «Stavo per dire una sciocchezza». Si corresse allora a voce alta: «Senza di lui alcune cose sarebbero diverse!». Le bambine, con i capelli neri e gli occhi scuri come Olivo, e tutte di aspetto ancora infantile, anche Teresina, la più grande, guardavano lo straniero con una curiosità disinvolta, quasi contadina, e la più piccola, Maria, si rassegnò a seguire le istruzioni paterne e a baciargli con grande serietà la mano; Casanova però non lo permise, ma prese loro la testa tra le mani, una dopo l'altra, e le baciò sulle guance. Nel frattempo Olivo scambiava qualche parola col giovanotto che aveva condotto sin là la carrozzella con le bambine, dopo di che costui spronò il cavallo e proseguì sulla via maestra in direzione di Mantova.
Le bambine presero posto sul sedile posteriore, dietro Olivo e Casanova, tra risa e scherzosi litigi: erano sedute vicinissime, parlavano tutte insieme e, poiché anche il loro genitore, da parte sua, non smetteva di parlare, per Casanova all'inizio non fu facile desumere dalle loro parole ciò che davvero avevano da raccontare. Un nome risuonò, quello di un certo sottotenente Lorenzi che, come riferì Teresina, aveva cavalcato per un po' accanto a loro, promettendo di far visita la sera e inviando al loro papà i più cordiali saluti. Le bambine riferirono inoltre che anche la mamma, inizialmente, aveva manifestato l'intenzione di venire incontro al papà; ma data la grande calura aveva poi preferito rimanere a casa con Marcolina. Marcolina era ancora a letto, quando erano partite; e dal giardino le avevano tirato, dalla finestra aperta, una gragnuola di bacche e noccioline, altrimenti l'avrebbero trovata ancora addormentata.
«Non è da Marcolina», disse Olivo rivolto al suo ospite, «di solito alle sei o anche prima è già in giardino a studiare a va avanti fino a mezzogiorno. E' vero, ieri sera avevamo ospiti, e la cosa è andata avanti più del solito; si è anche giocato un pochino - certo non come è solito fare il signor cavaliere, noi siamo gente semplice e non ci piace sottrarci soldi l'un l'altro. E poiché anche il nostro degnissimo abate si compiace di partecipare, può immaginare, signor cavaliere, che non si tratta di cose granché peccaminose.» Quando sentirono parlare dell'abate, le bambine scoppiarono a ridere e presero a raccontarsi sa Iddio che cosa, che le fece ridere ancora di più. Casanova si limitò ad annuire distrattamente: nella sua fantasia vedeva la signorina Marcolina, che non conosceva ancora, coricata nel suo letto bianco, davanti alla finestra, col lenzuolo abbassato e il corpo seminudo difendersi con mani ebbre di sonno dalle bacche e dalle noccioline che piovevano dentro - e i suoi sensi furono percorsi da un folle ardore. Non dubitava affatto che Marcolina fosse l'amante del sottotenente Lorenzi, quasi che li avessi visti lui stesso avvinghiati nel più tenero degli abbracci; ed era pronto a odiare lo sconosciuto Lorenzi quanto bramava la mai vista Marcolina.
Nella tremula foschia del meriggio, svettante sul fogliame grigioverde, si scorse una torretta quadrangolare. Presto la carrozza lasciò la via maestra per imboccare una stradina laterale; sulla sinistra salivano regolari le vigne, sulla destra, sopra il muro di un giardino, si piegavano le chiome di alberi secolari. La carrozza si fermò davanti a un portone i cui battenti segnati dalle intemperie erano spalancati; i passeggeri scesero e il vetturino, a un cenno di Olivo, proseguì verso la stalla. Un ampio viale fiancheggiato da ippocastani portava al castelletto, che a prima vista sembrava un po' freddo e trascurato. Casanova fu colpito soprattutto da una finestra rotta al primo piano; ma non gli sfuggì neppure che il cornicione alla base della torre larga e bassa che sormontava grassoccia l'edificio era scalcinato in parecchi punti. Per contro la porta di casa sfoggiava un nobile lavoro d'intaglio e, non appena fu nell'atrio, Casanova si rese subito conto che l'interno della casa era in buone condizioni, senz'altro migliori di quanto non si potesse presupporre dall'esterno.
«Amalia», gridò forte Olivo, tanto che il soffitto a volta gli rimandò la sua eco. «Scendi più svelta che puoi! Ti ho portato un ospite, Amalia e che ospite!» Ma Amalia era già comparsa in cima alla scala, invisibile per loro che erano passati dal sole più pieno alla penombra. Casanova, i cui occhi penetranti avevano conservato la capacità di trafiggere anche l'oscurità della notte, l'aveva scorta prima del marito. Sorrise, sentendo che quel sorriso gli ringiovaniva il volto. Amalia non era assolutamente ingrassata, come temeva, e aveva invece un aspetto giovanile e slanciato. Lo riconobbe all'istante. «Che sorpresa, signor Casanova, che felicità!», esclamò senza nessun imbarazzo, si precipitò rapidamente giù per le scale e porse a Casanova le guance per il saluto, al che egli la salutò senz'altro come una cara amica. «E io dovrei davvero credere, Amalia, che Maria, Nanetta e Teresina sono le vostre deliziose figliole? Per quel che riguarda il tempo, potrebbe anche tornare...» «E anche per tutto il resto», intervenne Olivo. «vi potete fidare, signor cavaliere!» «E' stato il tuo incontro col cavaliere, Olivo» disse Amalia con lo sguardo perduto nei ricordi, «la causa del tuo ritardo?» «Proprio così, Amalia, ma spero ci sia ancora qualcosa da mangiare, nonostante il ritardo!» «Marcolina e io, naturalmente, non ci siamo messe a tavola da sole, per quanto avessimo fame.» «Pazienterete allora», domandò Casanova, «finché non abbia ripulito un pochino me stesso e i miei abiti dalla polvere della via maestra?» «Vi mostrerò subito la vostra stanza», disse Olivo, «e spero, cavaliere, che ne sarete soddisfatto, quasi come...», ammiccò e aggiunse, «come nella vostra locanda di Mantova, anche se può darsi che vi manchi qualcosa.» Fece strada all'ospite, salendo le scale fino alla galleria che percorreva tutto il perimetro dell'atrio e dal cui angolo più lontano si inerpicava verso l'alto una stretta scala di legno. Arrivato in cima, Olivo aprì la porta della camera da letto e, fermo sulla soglia, la mostrò a Casanova con grandi complimenti, definendola la sua umile camera degli ospiti. Una cameriera portò sacca da viaggio e mantello e si allontanò poi con Olivo; Casanova si ritrovò così solo in un ambiente modesto fornito di tutto il necessario ma piuttosto spoglio, in cui quattro finestre ad arco, alte e strette, consentivano da tutte le parti un'ampia vista sulla pianura illuminata dal sole, con le sue vigne verdi, i prati multicolori, i campi gialli, le strade bianche, le case chiare e gli orti scuri. Casanova lasciò perdere la veduta e si preparò in fretta, non tanto per la fame, ma perché lo tormentava la curiosità di vedere Marcolina faccia a faccia il più presto possibile; non si cambiò neppure d'abito, perché intendeva mostrarsi sotto spoglie più brillanti soltanto la sera.
Quando entrò nella sala da pranzo dal pavimento di legno che si trovava a pianterreno, vide subito intorno alla tavola ben apparecchiata, oltre alla coppia dei padroni di casa e alle loro tre figlie, una fanciulla dalla figura aggraziata con un abito grigio opaco che le scivolava semplicemente addosso, la quale lo guardò con fare disinvolto, come se fosse stato di casa o comunque l'avesse già incontrato centinaia di volte. Il fatto che nel suo sguardo non vi fosse traccia di quella luce che un tempo lo salutava tanto spesso, anche quando si presentava come un illustre sconosciuto, nel trascinante splendore della sua gioventù, o nella pericolosa bellezza dei suoi anni virili, ormai non costituiva più da tempo, per Casanova, una novità. Ma anche negli ultimi anni bastava spesso che fosse fatto il suo nome perché sulle labbra delle donne comparisse l'espressione di una tardiva ammirazione o almeno un breve sussulto di rammarico, a significare che lo avrebbero incontrato volentieri qualche anno prima.
Invece adesso, mentre Olivo lo presentava come il signor Casanova, cavaliere di Seingalt, sua nipote sorrise non diversamente da come avrebbe fatto se le avessero nominato un qualunque altro nome in cui non risuonassero echi di avventure e misteri. E anche quando prese posto accanto a lei, le baciò la mano e i suoi occhi le riversarono addosso una scintillante pioggia di rapimento e desiderio, la sua espressione non tradiva nient'altro se non una lieve soddisfazione, ben modesta risposta a un omaggio tanto ardente.
Dopo poche parole di cortese introduzione Casanova comunicò alla sua vicina di essere a conoscenza dei suoi interessi eruditi e le chiese a quale scienza si dedicasse in particolar modo. Ella rispose che coltivava soprattutto lo studio della matematica superiore, al quale era stata introdotta dal professor Morgagni, il celebre professore dell'università di Bologna. Casanova espresse la sua ammirazione per tale interesse, davvero insolito in una fanciulla così graziosa e giovane, per un oggetto così difficile e al tempo stesso disadorno, al che Marcolina gli rispose invece che, a suo parere, la matematica superiore era la più fantastica, lo si poteva ben dire, fra tutte le scienze, quella per sua natura davvero divina. Quando Casanova la pregò di spiegargli più diffusamente questa concezione, che gli giungeva del tutto nuova, Marcolina si schermì modestamente e affermò che i presenti, ma soprattutto il suo caro zio, avrebbero di gran lunga preferito sapere qualcosa di più sulle esperienze dell'amico giramondo che non vedevano da tempo piuttosto che ascoltare una conversazione filosofica. Amalia aderì vivacemente al suo invito e Casanova, che accondiscendeva sempre volentieri a desideri di questo genere, osservò con leggerezza che negli ultimi anni si era occupato prevalentemente di segrete missioni diplomatiche che lo avevano portato, per nominare soltanto le città più grandi, a Madrid, Parigi, Londra, Amsterdam e Pietroburgo. Riferì di incontri e conversazioni di carattere serio e allegro con uomini e donne di vari ceti sociali, senza dimenticare di menzionare la cordiale accoglienza concessagli alla corte di Caterina di Russia, e raccontò in modo assai divertente come Federico il Grande lo avesse quasi nominato precettore in un'accademia per cadetti frequentata da giovani nobili della Pomerania, pericolo al quale si era sottratto con una pronta fuga.
Parlò di tutto ciò e di altro ancora, come se si fosse verificato in un tempo appena trascorso e non, com'era in realtà, anni e decenni prima; qualche volta inventava, senza essere davvero cosciente delle sue bugie, grandi e piccole, soddisfatto sia del proprio umore che della partecipazione con cui si pendeva dalle sue labbra; e mentre così raccontava e fantasticava, gli parve quasi di essere di fatto, ancor oggi, il fortunato, lo sfrontato, il raggiante Casanova che aveva girato il mondo in compagnia di belle donne, era stato insignito da principi mondani e religiosi dei loro alti favori, aveva sperperato, perso al gioco e donato migliaia di ducati, e non quel povero diavolo decaduto che vecchi amici inglesi e spagnoli aiutavano con somme ridicole - e talvolta venivano a mancare anche queste, tanto che era costretto a contare su quei pochi, miseri ducati che vinceva al barone Perotti o ai di lui ospiti; sì, dimenticò persino che il suo massimo traguardo gli pareva di concludere nella sua città natale, che lo aveva dapprima incarcerato e poi, dopo la sua fuga, proscritto ed esiliato, come l'ultimo tra i suoi cittadini, come scrivano, come mendicante, come niente, concludervi, dicevamo, la sua esistenza un tempo così splendida.
Anche Marcolina lo ascoltava attentamente, ma con la stessa espressione come se le stessero leggendo un libro di storie passabilmente interessanti. Il fatto che le fosse seduto davanti una persona, un uomo, Casanova stesso, che aveva vissuto tutto questo e molte altre cose che non raccontava, l'amante di migliaia di donne...
che lo sapesse, la sua espressione non lo tradiva minimamente.
Diversamente scintillavano gli occhi di Amalia. Per lei Casanova era rimasto quello che era, per lei la sua voce era seducente come sedici anni prima, e lui stesso sentiva che gli sarebbe bastata una sola parola e fors'anche meno per ricominciare daccapo, se gli fosse stato gradito, l'avventura d'allora. Ma che cos'era per lui Amalia in quell'ora, quando bramava Marcolina come nessuna prima di lei?
Attraverso la veste semiopaca che l'avvolgeva credeva di scorgere il suo corpo nudo; i seni in boccio germogliavano verso di lui, e quando lei si piegò per raccogliere il fazzoletto che le era scivolato a terra la fantasia in fiamme di Casanova associò al suo movimento un significato così lascivo che si sentì prossimo a svenire. Il fatto che per un secondo incespicò nel racconto non sfuggì a Marcolina, come non le sfuggì che il suo sguardo cominciava a frullare stranamente; ed egli lesse in quello di lei un'improvvisa estraneità, difesa e anche una traccia di nausea. Si ricompose rapidamente e si stava accingendo a riprendere il racconto con rinnovata vivacità quando entrò un religioso corpulento che il padrone di casa salutò come abate Rossi e che Casanova riconobbe immediatamente come la persona che, ventisette anni prima, aveva incontrato su un mercantile diretto da Venezia a Chioggia. «Avevate allora una benda su un occhio», disse Casanova, che raramente si lasciava sfuggire l'occasione di sfoggiare la sua eccellente memoria, «e una contadina con un fazzoletto giallo vi consigliò un unguento miracoloso che casualmente un giovane farmacista dalla voce roca aveva con sé.» L'abate annuì e sorrise, lusingato.
Poi, con faccia furbetta, si fece vicinissimo a Casanova, come se gli volesse comunicare un segreto. Disse invece a voce molto alta: «E voi, signor Casanova, vi trovavate in un corteo nuziale... non so se foste un ospite casuale o il testimone della sposa, ad ogni modo la sposa vi guardava con occhi molto più dolci di quanto non facesse con lo sposo... Si alzò un forte vento, quasi un temporale, e voi cominciaste a leggere una poesia estremamente ardita». «Sicuramente il cavaliere», interloquì Marcolina, «lo fece solamente per placare il temporale.» «Non mi sono mai attribuito», replicò Casanova, «simili poteri magici; non posso tuttavia negare che nessuno pensò più al temporale, quando io iniziai a leggere.» Le tre bambine si erano avvicinate all'abate, e sapevano bene perché.
Le sue tasche enormi contenevano infatti deliziose caramelle in abbondanza; le spinse egli stesso tra le labbra delle bimbe con le sue dita grassocce. Nel frattempo Olivo riferiva all'abate tutti i dettagli del suo incontro con Casanova. Amalia, come smarrita, teneva il suo sguardo incollato alla fronte bruna e signorile del suo caro ospite. Le bambine corsero in giardino; Marcolina si era alzata e le controllava da una finestra aperta. L'abate doveva portare i saluti del marchese Celsi che, salute permettendo, avrebbe fatto visita al prezioso amico Olivo quella sera stessa, insieme alla sua consorte.
«Si combina benissimo», rispose Olivo, «abbiamo infatti, in onore del cavaliere, una piccola, simpatica congrega di giocatori: aspetto i fratelli Ricardi, e viene pure Lorenzi; le bambine gli sono andate incontro.» «E' sempre qui?», domandò l'abate. «E' già una settimana che corre voce debba raggiungere il suo reggimento.» «La marchesa», replicò ridendo Olivo, «avrà ottenuto una licenza dal suo superiore.» «Mi meraviglia», intervenne Casanova «che per un ufficiale mantovano ci siano licenze in un momento come questo.» E proseguì, inventando:
«Due miei conoscenti, uno di Mantova, l'altro di Cremona, si sono messi in marcia nottetempo con i loro reggimenti, in direzione di Milano». «C'è la guerra?», chiese Marcolina dalla finestra; si era voltata, e i tratti del suo volto in ombra rimanevano indistinti; ma Casanova era stato l'unico a notare un leggero tremito nella sua voce.
«Forse non se ne farà di niente», disse con leggerezza. «Ma poiché gli Spagnoli assumono un atteggiamento minaccioso, occorre essere pronti.» «Ma si sa», intervenne Olivo con importanza e aggrottando la fronte, «da quale parte ci schiereremo, se da quella dei Francesi o degli Spagnoli?» «La cosa dovrebbe essere indifferente al sottotenente Lorenzi», affermò l'abate. «Purché abbia finalmente la possibilità di dimostrare il suo eroismo.» «Lo ha già fatto», disse Amalia. «Tre anni fa c'era anche lui, a Pavia.» Ma Marcolina taceva.
Casanova ne sapeva ormai abbastanza. Si avvicinò a Marcolina e abbracciò il giardino con lo sguardo. Non vide nient'altro che il grande prato sul quale giocavano le bimbe, delimitato dalla parte del muro da un filare di alberi alti e fitti. «Che magnifica proprietà», affermò rivolgendosi a Olivo. «Sarei curioso di conoscerla più da vicino.» «E io, cavaliere», ribatté questi, «non saprei immaginarmi un piacere più grande di quello di condurvi nelle mie vigne e tra i miei campi. Sì, se devo dire la verità, domandatelo pure ad Amalia, da quando possiedo questo piccolo podere non ho desiderato niente più ardentemente che potervi avere un giorno ospite sulla mia terra. Dieci volte sono stato sul punto di scrivervi, per invitarvi. Ma si poteva mai essere sicuri che un messaggio vi avrebbe raggiunto? Se qualcuno raccontava di avervi visto di recente a Lisbona, si poteva essere sicuri che, nel frattempo, eravate partito per Varsavia o per Vienna.
E adesso, che come per miracolo vi ritrovo proprio nell'ora in cui volete lasciare Mantova, e che riesco - non è stato facile, Amalia - a trascinarvi qui, ci lesinate talmente il vostro tempo che non intendete donarci - lo credereste, abate! - più di due giorni!» «Il cavaliere si lascerà forse convincere a prolungare il suo soggiorno», disse l'abate, che con gran diletto si stava facendo sciogliere in bocca uno spicchio di pesca, gettando ad Amalia un rapido sguardo dal quale Casanova credette di poter dedurre che questa si fosse confidata più con l'abate che col proprio consorte. «Non mi sarà purtroppo possibile», rispose formalmente Casanova, «non posso infatti nascondere ad amici che prendono così parte al mio destino che i miei concittadini veneziani sono in procinto di darmi un'alquanto tardiva ma tanto più onorevole soddisfazione per il torto che mi arrecarono anni fa, e non posso sottrarmi ancora alle loro insistenze se non voglio sembrare ingrato o addirittura permaloso.» Con un leggero movimento della mano respinse una domanda dettata da curiosità, venerazione che vedeva spuntare dalle labbra di Olivo e osservò in fretta: «Bene, Olivo, sono pronto. Mostratemi il vostro piccolo regno».
«Non sarebbe più sensato», intervenne Amalia, «aspettare il fresco della sera? Il cavaliere non preferisce riposare un po' o fare una passeggiata all'ombra?» E dai suoi occhi luccicò in direzione di Casanova una timida implorazione, come se quella passeggiata in giardino dovesse decidere per la seconda volta il suo destino. Nessuno ebbe niente da obiettare alla proposta di Amalia, e tutti uscirono all'aperto. Marcolina, davanti agli altri, corse nel sole sul prato, verso le bambine che giocavano a volano, e si mise a giocare con loro.
Non era più alta della più grande di loro e, coi capelli sciolti che le ondeggiavano sulle spalle, sembrava lei stessa una bambina. Olivo e l'abate si sedettero su una panchina di pietra sul viale, vicino alla casa. Amalia continuò a camminare a fianco di Casanova. Quando gli altri non poterono più udirla prese a dire, con l'inflessione di una volta, come se la sua voce non gli avesse mai parlato diversamente:
«Così sei di nuovo qua, Casanova! Come ho desiderato questo giorno...
Sapevo che sarebbe venuto». «E' un caso che io sia qui», rispose freddamente Casanova. Amalia sorrise: «Chiamalo come vuoi. Sei qui! In questi sedici anni non ho sognato nient'altro se non questo giorno».
«Si potrebbe supporre», replicò Casanova, «che tu abbia sognato qualcos'altro e... non solo sognato.» Amalia scosse la testa: «Tu lo sai che non è così, Casanova. E anche tu non mi hai dimenticata, altrimenti, nella tua fretta di arrivare a Venezia, non avresti accettato l'invito di Olivo!». «Credi davvero, Amalia, che io sia venuto qui per fare del tuo buon marito un cornuto?» «Perché parli così, Casanova? Se io sono di nuovo tua, in questo non c'è né inganno né peccato!» Casanova scoppiò in una sonora risata. «Non c'è peccato?
Perché non c'è peccato? Perché sono un vecchio?» «Tu non sei vecchio.
Per me non lo sarai mai. Fra le tue braccia ho goduto la mia prima beatitudine... e il mio destino è sicuramente quello di vivere anche l'ultima insieme a te!» «La tua ultima?», ripeté sarcasticamente Casanova, per quanto fosse leggermente commosso, «il mio amico Olivo potrebbe forse avere qualcosa in contrario.» «Ciò di cui parli», replicò Amalia arrossendo, «è dovere, qualche volta anche piacere; ma non è beatitudine... non lo è mai stato.» Non percorsero il viale fino in fondo, come se entrambi temessero la vicinanza del prato dove giocavano Marcolina e le bambine: quasi fossero d'accordo, si volsero entrambi e ben presto, senza parlare, furono di nuovo accanto alla casa. Sul lato stretto dell'edificio, a pianterreno, c'era una finestra aperta. Casanova vide, nel buio della stanza, una tenda tirata a metà, dietro la quale si scorgevano i piedi del letto. Su una sedia, lì accanto, era appoggiata una leggera veste come di velo. «La camera di Marcolina?», domandò Casanova. Amalia annuì. E rivolta a Casanova, con fare allegro e come senza sospetti:
«Ti piace?». «Perché è bella.» «Bella e virtuosa.» Casanova scrollò le spalle, come di fronte a un'informazione non richiesta. Poi disse: «Se tu mi vedessi oggi per la prima volta, ti piacerei davvero, Amalia?».
«Io non so se oggi sei diverso da allora. Io ti vedo come eri allora.
Come ti ho sempre visto da allora, anche tra le lacrime.» «Guardami, Amalia! Le rughe sulla mia fronte! Il mio collo aggrinzito! E questo profondo solco dagli occhi alle tempie! E qui, sì, qui nell'angolo mi manca un dente», e inarcò la bocca in un sogghigno. «E queste mani, Amalia! Guardale bene! Dita come artigli... macchioline gialle sulle unghie... E queste vene... azzurre e gonfie... mani da vecchio, Amalia!» Lei gli prese le mani che egli le mostrava e, nell'ombra del viale, le baciò una dopo l'altra, con devozione. «E stanotte voglio baciare le tue labbra», gli disse in un tono di umile tenerezza che lo amareggiò.
Non lontano da loro, in fondo al prato, Marcolina era sdraiata sull'erba, con le mani sotto la testa, lo sguardo rivolto verso l'alto, mentre le palle delle bambine le volavano sopra. D'un tratto sollevò un braccio, cercando di acchiapparne una. La prese e scoppiò in una risata argentina, le bambine si avventarono su di lei ed essa non seppe difendersi; i suoi riccioli svolazzavano. Casanova sussultò:
«Tu non bacerai né le mie labbra né le mie mani», disse ad Amalia, «e mi avrai aspettato e sognato invano... a meno che io non abbia prima posseduto Marcolina». «Sei folle, Casanova?», esclamò Amalia con voce dolente. «Così non abbiamo da rimproverarci niente», disse Casanova.
«Tu sei folle, perché credi di rivedere in un vecchio l'amante della tua gioventù, io perché mi sono messo in testa di possedere Marcolina.
Ma forse a noi due è dato di tornare alla ragione. Marcolina mi deve ringiovanire... per te. Quindi... cerca di perorare la mia causa presso di lei, Amalia!» «Sei fuori di senno, Casanova. E' impossibile.
Non vuole saperne, degli uomini.» Casanova scoppiò a ridere. «E il sottotenente Lorenzi?» «Che cosa c'entra Lorenzi?» «E' il suo amante, lo so.» «Come ti sbagli, Casanova! Egli ha chiesto la sua mano, e lei gliel'ha rifiutata. Ed è giovane e bello... sì, credo quasi che sia più bello di quanto tu non sia mai stato, Casanova!» «Egli l'avrebbe chiesta in sposa?» «Chiedi a Olivo, se non mi credi.» «E' lo stesso.
Che me ne importa se è una vergine o una sgualdrina, una sposa o una vedova... io voglio averla, la voglio!» «Non te la posso dare, amico mio.» Ed egli sentì, dal tono della sua voce, che lo compativa. «Vedi bene», proseguì lui «che uomo spregevole sono diventato, Amalia.
Soltanto dieci, soltanto cinque anni fa non avrei avuto bisogno di appoggi e intercessioni, neppure se Marcolina fosse stata la dea della virtù in persona. E ora voglio fare di te una ruffiana. Oppure se fossi ricco... Sì, con diecimila ducati... Ma non ne ho neppure dieci.
Sono un mendicante, Amalia.» «Neppure con centomila avresti Marcolina.
Che cosa può importargliene della ricchezza? Ama i libri, il cielo, i prati, le farfalle e i giochi con i bimbi... E con la sua piccola eredità, ha più del necessario.» «Oh, se fossi un principe», esclamò Casanova con quel tono declamatorio che assumeva proprio quando era animato da una passione sincera. «Se avessi il potere di gettare la gente in prigione e di farla giustiziare... Ma io non sono niente. Un mendicante, e per giunta un bugiardo. Mendico dai potenti di Venezia un incarico, un pezzo di pane, una patria! Che ne è di me? Non ti faccio ribrezzo, Amalia?» «Io ti amo, Casanova!» «Allora dammela, Amalia! Sta a te, lo so. Dille quello che vuoi. Dille che vi ho minacciati. Che sei sicura che darei fuoco al vostro tetto! Dille che sono un pazzo, un pazzo pericoloso, uscito di manicomio, e che l'abbraccio d'una vergine può ridarmi la salute. Sì, dille questo.» «Lei non crede ai miracoli.» «Come? Non crede ai miracoli? Allora non crede nemmeno in Dio. Tanto meglio! Io sono ben introdotto presso l'arcivescovo di Milano! Diglielo! La posso rovinare! Vi posso rovinare tutti! Questo è vero, Amalia! Che razza di libri legge?
Sicuramente ce ne saranno alcuni proibiti dalla Chiesa. Fammi dare un'occhiata. Ne compilerò un elenco. Una mia parola...» «Taci, Casanova. Eccola che arriva. Non tradirti! Tieni a freno i tuoi occhi!
Mai, Casanova, mai, ascolta bene quello che ti dico, mai ho conosciuto un essere più puro. Se presagisse ciò che io ho dovuto udire, le parrebbe di essere insozzata e non la vedresti più per tutto il tuo soggiorno qui. Parlale... sì, parlale! Vedrai, mi chiederai perdono.» Marcolina si avvicinò con le bambine; queste la superarono entrando in casa ma essa, come per rivolgere una cortesia all'ospite, si fermò davanti a lui, mentre Amalia si allontanava quasi con intenzione. E a Casanova parve davvero che da quelle labbra semiaperte, da quella fronte liscia incorniciata dai capelli biondo scuro ora raccolti alitasse verso di lui come un acre soffio di castità, e - cosa questa che raramente gli era capitata davanti a una donna e neppure davanti a lei, prima, in quell'ambiente chiuso - sentì sgorgare nella sua anima una specie di devozione, di dedizione scevra da qualsiasi desiderio. E con ritegno, anzi con quel tono di venerazione che si usa rivolgere alle persone di rango superiore, e che dovette lusingarla, le domandò se intendesse dedicare allo studio anche le prossime ore della sera.
Lei replicò che in campagna non era solita lavorare regolarmente, anche se non poteva impedire che certi problemi matematici di cui si andava occupando proprio allora la inseguissero anche nelle ore di riposo, come le era capitato adesso mentre era sdraiata sul prato e guardava il cielo.
Tuttavia quando Casanova, incoraggiato dalla sua gentilezza, si informò scherzosamente su quale fosse questo problema così elevato e al contempo urgente, essa replicò alquanto beffardamente che non aveva minimamente a che fare con quella cabala con la quale il cavaliere di Seingalt, così si raccontava, conseguiva risultati significativi, e quindi egli non avrebbe saputo che farsene. Lo irritò il fatto che parlasse della cabala con tanto malcelato disprezzo; e per quanto egli stesso fosse cosciente, nei suoi pur rari momenti di raccoglimento, che quella singolare mistica dei numeri detta cabala non avesse né senso né giustificazione alcuna, che non esistesse affatto in natura e fosse utilizzata soltanto da imbroglioni e burloni - ruoli che recitava alternativamente, ma sempre dopo matura riflessione - onde menare per il naso faciloni e pazzi, cercò ora, contro le sue migliori convinzioni, di difendere la cabala di fronte a Marcolina come scienza seria e pienamente valida. Parlò della natura divina del numero sette, cui si sarebbe accennato già nella Sacra Scrittura, del profondo significato profetico delle piramidi di numeri che egli stesso aveva insegnato a costruire con un sistema nuovo e del frequente avverarsi delle sue previsioni basate su questo sistema. Non aveva lui stesso, pochi anni prima, indotto il banchiere Hope di Amsterdam a rilevare l'assicurazione di un mercantile già dato per perduto, facendogli così guadagnare duecentomila fiorini d'oro? Ed era ancora così abile nell'esporre le sue teorie, ricche di erudizione fino a dare le vertigini, che anche stavolta, come gli accadeva spesso, cominciò a credere a tutte le assurdità che sosteneva, e arrivò persino a concludere affermando che la cabala non costituiva tanto un ramo quanto lo stesso completamento metafisico della matematica. Marcolina, che fino a quel momento lo aveva ascoltato molto attentamente e con aria apparentemente seria, lo guardò all'improvviso con espressione mezzo dispiaciuta e mezzo birichina, dicendogli: «Voi state cercando, egregio signor Casanova (sembrava non chiamarlo "cavaliere" intenzionalmente), di darmi un'eccellente dimostrazione della vostra famosissima eloquenza, cosa per la quale io vi sono sinceramente grata. Ma sapete naturalmente quanto me che la cabala non solo non ha niente a che fare con la matematica, ma costituisce addirittura un'offesa alla sua vera essenza e, nei suoi confronti, non si comporta diversamente dalle chiacchiere confuse o menzognere dei sofisti rispetto alle dottrine chiare ed elevate di Platone e di Aristotele».
«Purtuttavia», ribatté rapidamente Casanova, «voi mi dovete concedere, bella e dotta Marcolina, che anche i sofisti non si possono assolutamente considerare quei tipi spregevoli e stolti che il vostro severissimo giudizio farebbe supporre. Così - per addurre un solo esempio a noi contemporaneo - si potrebbe definire il signor Voltaire, a partire dal suo modo di pensare e di scrivere, un sofista esemplare; eppure a nessuno verrebbe mai in mente, neppure a me, che pur mi dichiaro suo deciso avversario e anzi, come non voglio nascondere, sto proprio componendo un'opera contro di lui, neppure a me viene in mente di negare al suo straordinario talento il riconoscimento che merita. E voglio sottolineare che non mi sono lasciato corrompere dall'eccessiva cortesia che il signor Voltaire ebbe la bontà di usarmi in occasione di una mia visita a Ferney, dieci anni fa.» Marcolina sorrise. «E' gentile da parte vostra, cavaliere, che abbiate la benevolenza di giudicare con tanta mitezza il più grande spirito del nostro secolo.» «Un grande spirito... addirittura il più grande?», esclamò Casanova.
«Definirlo così mi sembra inammissibile già solo perché, con tutto il suo genio, è un uomo irreligioso, anzi, un ateo. E un ateo non potrà mai essere un grande spirito.» «Secondo me, signor cavaliere, tra le due cose non c'è contraddizione alcuna. Ma prima di tutto dovrete dimostrare che Voltaire può essere definito un ateo.» Ora Casanova era nel suo elemento. Nel primo capitolo del suo libello aveva raccolto tutta una serie di passi tratti dalle opere di Voltaire, ma soprattutto dalla famosa "Pucelle", che gli parevano particolarmente adatti a dimostrare la sua incredulità, passi che adesso seppe citare letteralmente, grazie alla sua eccellente memoria, insieme alle sue argomentazioni in contrario. Ma in Marcolina aveva trovato un'avversaria che gli lasciava ben poco spazio sia come dottrina che come acutezza di spirito e che inoltre, se non nell'eloquenza, gli era però superiore nell'arte vera e propria della parola, e in particolare nella chiarezza dell'espressione. Quei passi che Casanova aveva cercato di interpretare come prove del sarcasmo, dello scetticismo e dell'ateismo di Voltaire, Marcolina li interpretò abilmente e prontamente come altrettante prove del genio scientifico e letterario del francese, nonché del suo instancabile, ardente anelito alla verità, e affermò senza timore che dubbio, sarcasmo e la stessa mancanza di fede, se uniti a una sapienza così abbondante, a un'onestà così incondizionata e a un coraggio così elevato, dovevano giungere a Dio più graditi dell'umiltà dei devoti, dietro la quale perlopiù non si nascondeva nient'altro che un'insufficiente capacità di eseguire ragionamenti coerenti e spesso, cosa di cui non mancavano esempi, pigrizia e codardia.
Casanova la ascoltava con crescente stupore. Poiché non si sentiva in grado di convertire Marcolina, tanto più che si rendeva conto che una certa fluttuante disposizione d'animo degli ultimi anni, che si era abituato a considerare fede, minacciava di dissolversi completamente sotto le obiezioni di Marcolina, si mise in salvo con l'osservazione di carattere generale per cui opinioni come quelle appena esposte da Marcolina erano altamente pericolose non solo per l'ordinamento della Chiesa, ma soprattutto per le fondamenta dello Stato, e passò quindi abilmente a parlare di politica, argomento in cui, con la sua esperienza e la sua conoscenza del mondo, poteva contare su una certa superiorità nei confronti di Marcolina. Ma se anche le mancavano conoscenze ed esperienze personali dei meccanismi diplomatico-cortesi e dovette quindi rinunciare a contraddire Casanova su quei particolari rispetto ai quali l'esposizione di lui le ispirava sfiducia, dalle sue osservazioni egli trasse comunque l'incontestabile conclusione che ella non nutriva particolare rispetto né per i principi di questa terra né per le istituzioni dello Stato, in quanto tali, ed era della convinzione che, nel piccolo come nel grande, l'egoismo e la sete di potere contribuissero non tanto a governare quanto a confondere ulteriormente il mondo. Una simile libertà di pensiero, Casanova l'aveva incontrata di rado in una donna, e mai in una fanciulla che sicuramente non aveva ancora vent'anni; e non senza nostalgia ricordò che il suo spirito in giorni passati, più belli di quelli presenti, aveva percorso con un'audacia cosciente e un po' autocompiaciuta quelle stesse vie sulle quali vedeva ora Marcolina, senza che però questa sembrasse minimamente cosciente della propria audacia. E tutto assorto nella specificità del modo di pensare e di esprimersi di lei, dimenticò quasi che stava camminando accanto a un essere giovane, bello ed estremamente desiderabile, cosa ancora più straordinaria se si considera che si trovava tutto solo con lei nel viale ormai completamente in ombra e piuttosto lontano da casa. D'un tratto però, interrompendo una frase che aveva appena iniziato, Marcolina esclamò vivacemente, come con gioia: «Ecco lo zio!...». E Casanova, come per recuperare il tempo perduto, le sussurrò: «Che peccato. Mi sarebbe piaciuto parlare con voi ancora per ore, Marcolina!». Egli stesso sentì come, mentre diceva queste parole, nei suoi occhi riprendesse a brillare il desiderio, al che Marcolina, la quale durante il precedente colloquio, nonostante ogni ironia, si era comportata in modo quasi confidenziale, assunse subito un contegno più freddo e il suo sguardo espresse quella stessa aria di difesa e quella stessa ripugnanza che già una volta, oggi, tanto avevano ferito Casanova.
Ispiro davvero tanto ribrezzo? si domandò angosciato. No, si rispose da solo. Non è questo. Ma il fatto che Marcolina... non è una donna.
Una dotta, una filosofa, un prodigio sicuramente... ma non è una donna. Ma sapeva al tempo stesso che, in quel modo, cercava soltanto di ingannarsi, di consolarsi, di salvarsi, e che questi tentativi erano vani. Olivo era davanti a loro. «Ebbene», disse a Marcolina, «non ho fatto bene a portarti finalmente in casa qualcuno con cui puoi fare discorsi intelligenti come quelli ai quali sei abituata, con i tuoi professori di Bologna?» «Ma neppure tra loro, carissimo zio», replicò Marcolina, «c'è qualcuno che oserebbe sfidare a duello lo stesso Voltaire!» «Come, Voltaire! Il cavaliere lo sfida?», esclamò Olivo senza capire. «La vostra arguta nipote, Olivo, parla del libello che mi tiene occupato negli ultimi tempi. Un passatempo per le ore di ozio. Un tempo avevo di meglio da fare.» Marcolina, senza badare a questa osservazione, disse: «Avrete una piacevole arietta fresca per la vostra passeggiata. Arrivederci». Fece un rapido cenno e si affrettò verso casa passando per il prato. Casanova si guardò bene dal seguirla con lo sguardo e domandò: «La signora Amalia ci accompagna?».
«No, egregio cavaliere», rispose Olivo, «ha tutta una serie di cose da preparare e organizzare, a casa; inoltre a quest'ora è solita fare lezione alle bambine.» «Che donna e mamma brava e solerte! C'è da invidiarvi, Olivo!» «Sì, me lo dico tutti i giorni», rispose Olivo, e gli salirono le lacrime agli occhi.
Si allontanarono lungo il lato corto della casa. La finestra di Marcolina era aperta, come prima; sul fondo buio della stanza baluginava la veste chiara di velo. Lungo l'ampio viale fiancheggiato dagli ippocastani arrivarono sulla strada, già completamente in ombra.
Si avviarono lentamente in su, lungo il muro del giardino; le vigne cominciavano dove la strada piegava a destra. Tra gli alti vitigni, cui erano appesi grossi acini blu scuro, Olivo guidò il suo ospite sulla sommità della collina, da dove indicò, con un movimento pacifico e soddisfatto della mano, la sua casa, piuttosto in basso rispetto a loro. A Casanova parve di vedere una figura femminile apparire e scomparire dietro la finestra della camera nella torre.
Il sole era quasi al tramonto, ma faceva ancora abbastanza caldo.
Sulle guance di Olivo scendevano gocce di sudore, mentre la fronte di Casanova restava perfettamente asciutta. Ripresero a camminare e, cambiando leggermente direzione, giunsero su campi rigogliosi. La rete dei rami correva da un olivo all'altro senza soluzione di continuità; tra i filari degli alberi ondeggiavano le alte spighe gialle.
«Benedizioni del sole», disse Casanova come per esprimere ammirazione, «in mille forme.» Olivo raccontò di nuovo, e con maggiore dovizia di particolari rispetto a prima, come col passare del tempo avesse acquistato quella piccola proprietà, e come un paio di raccolti e di vendemmie fortunate avessero fatto di lui un uomo benestante, anzi ricco. Casanova però era immerso nei suoi pensieri e si riallacciava solo di rado a una parola di Olivo, per dimostrare la sua attenzione con una domanda interlocutoria. Soltanto quando Olivo, chiacchierando di tutto un po', giunse a parlare della sua famiglia e poi di Marcolina, Casanova lo stette a sentire. Poiché già da bambina, ancora in casa di suo padre, quel fratellastro di Olivo rimasto vedovo prematuramente il quale esercitava l'arte medica a Bologna, le precocissime capacità del suo intelletto avevano seminato stupore nel suo ambiente, si era avuto modo di abituarsi al suo modo di essere.
Suo padre era morto da qualche anno e da allora lei viveva nella famiglia di un celebre professore dell'università di Bologna, proprio quel Morgagni che si proponeva di fare della sua allieva una grande erudita; nei mesi estivi era sempre ospite dello zio. Aveva rifiutato tutta una serie di richieste di matrimonio, da parte di un mercante di Bologna, di un possidente dei dintorni e di recente del sottotenente Lorenzi, e pareva davvero intenzionata a dedicare completamente la sua esistenza al servizio della scienza. Mentre Olivo così raccontava, Casanova sentì il suo desiderio aumentare smisuratamente e l'idea che esso fosse così folle e privo di speranza lo gettò quasi nella disperazione. Proprio mentre dai campi ritornavano sulla via maestra videro avvicinarsi una nuvola di polvere da cui li raggiunsero esclamazioni e saluti. Emerse una carrozza, in cui un signore anzianotto vestito distintamente era seduto accanto a una signora un po' più giovane, formosa e truccata. «Il marchese», sussurrò Olivo al suo accompagnatore, «sta venendo da me.» La carrozza si fermò. «Buona sera, mio eccellente Olivo», esclamò il marchese. «Posso pregarla di presentarmi il cavaliere di Seingalt? Non dubito infatti di avere il piacere di trovarmi davanti a lui.» Casanova si inchinò leggermente. «In persona», disse. «Io sono il marchese Celsi, e questa è la marchesa, la mia consorte.» La signora porse a Casanova la punta delle dita, che egli sfiorò con le labbra.
«Ora, carissimo Olivo», disse il marchese, al cui magro volto giallo cereo non conferivano ceno un aspetto amichevole le fitte sopracciglia rosse che sporgevano unite sopra i penetranti occhi verdi, «carissimo Olivo, noi facciamo la stessa strada, cioè verso casa vostra. E poiché ci manca sì e no un quarto d'ora, voglio scendere e fare due passi con voi. Tu non hai niente in contrario, vero, a proseguire da sola per questo piccolo tratto», continuò rivolto alla marchesa, che per tutto il tempo aveva osservato Casanova con occhi maliziosi e indagatori; senza attendere la risposta della consorte, fece un cenno al cocchiere, al che questi spronò subito impetuosamente i cavalli, come se avesse avuto chissà quale motivo per portar via la sua padrona il più in fretta possibile; e la carrozza era già scomparsa dietro una nuvola di fumo.
«Nei dintorni si sa già», affermò il marchese, che era un paio di pollici più alto di Casanova e di una magrezza innaturale, «che è arrivato il cavaliere di Seingalt ed è sceso presso il suo amico Olivo. Portare un nome così celebre deve dare una vera sensazione di sollievo.» «Siete molto gentile, signor marchese», rispose Casanova, «e tuttavia lo non ho ancora abbandonato le speranze di guadagnarmi un simile nome, anche se per il momento sono ancora molto lontano dalla meta...
Spero che mi ci possa avvicinare un'opera alla quale sto lavorando proprio in questi giorni.» «Possiamo tagliare di qui», disse Olivo imboccando un viottolo tra i campi che portava diritto al muro del suo giardino. «Opera?», ripeté il marchese con espressione incerta. «Si può chiedere di che genere di opera parlate, cavaliere?» «Se me lo chiedete, signor marchese, mi vedo allora costretto a rivolgervi anch'io una domanda, ovvero di che genere di celebrità parlavate poc'anzi.» E guardò orgogliosamente il marchese, in quei suoi occhi penetranti. Perché, per quanto sapesse perfettamente che né il suo romanzo fantastico "Icosamerone" né la sua "Confutazione della Storia del governo veneto di Amelot", in tre volumi, gli avevano procurato una fama letteraria degna di questo nome, gli premeva dimostrare che era quella l'unica fama cui aspirava, e fraintese intenzionalmente tutte le caute osservazioni e allusioni del marchese, il quale al nome di Casanova associava senz'altro un celebre seduttore, giocatore, affarista, emissario politico e chi più ne ha più ne metta, ma certamente non uno scrittore, tanto più che non gli era mai giunto sentore né della confutazione dell'opera di Amelot né dell'"Icosamerone". Alla fine questi osservò, con un certo cortese imbarazzo: «Di Casanova ce n'è uno solo». «Anche questo è un errore, signor marchese», replicò freddamente Casanova. «Ho alcuni fratelli, e il nome di uno di loro, il pittore Francesco Casanova, dovrebbe dire qualcosa a un intenditore.» Fu subito evidente che il marchese non era un intenditore, e così passò a parlare di conoscenti che vivevano a Napoli, Roma, Milano e Mantova,che supponeva Casanova potesse avereincontrato occasionalmente. In tale contesto fece anche il nome del barone Perotti, ma in un tono di leggero disprezzo, e Casanova dovette ammettere che talvolta andava a giocare in casa del barone Perotti, «per distrarmi», aggiunse, «una mezz'oretta prima di andare a dormire.
Per il resto, non mi dedico quasi più a questo genere di passatempo».
«Mi dispiacerebbe», disse il marchese, «perché non posso nascondervi, signor cavaliere, che il sogno della mia vita è sempre stato quello di misurarmi con voi, sia nel gioco che - in anni più giovani - anche su qualche altro terreno. Pensate un po', arrivai a Spa - quanto tempo fa, ormai? - lo stesso giorno, anzi la stessa ora in cui voi partivate. Le nostre carrozze si incrociarono. E a Ratisbona accadde qualcosa di simile. Là mi venne addirittura assegnata la camera che voi avevate lasciato l'ora prima.» «E' una vera sfortuna», disse Casanova un po' lusingato, «quando nella vita ci si incontra troppo tardi.» «Non è ancora troppo tardi», esclamò vivacemente il marchese.
«Su qualche altro terreno, sono disposto a darmi per vinto in partenza, e me ne importa poco... ma per quel che riguarda il gioco, mio caro cavaliere, siamo entrambi proprio negli anni...» Casanova lo interruppe: «Negli anni, può darsi. Ma purtroppo, proprio sul terreno del gioco, non posso più aspirare al piacere di misurarmi con un rivale del vostro rango, perché...», e lo disse con la voce di un principe detronizzato, «perché con tutta la mia fama, egregio signor marchese, non sono diventato niente di più che un mendicante».
Il marchese, involontariamente,abbassò gli occhi davanti all'orgoglioso sguardo di Casanova, e poi scosse la testa incredulo, come davanti a uno strano scherzo. Olivo però, che aveva ascoltato tutto il colloquio con grande emozione, accompagnando con cenni di assenso le risposte eleganti e ponderate del suo straordinario amico, non seppe reprimere un moto di orrore. Si trovavano lungo il muro posteriore del giardino, davanti a una porticina di legno, e Olivo, mentre la apriva con una chiave cigolante e lasciava che il marchese entrasse per primo nel giardino, sussurrò a Casanova, prendendolo per un braccio: «Ritirerete le vostre ultime parole, cavaliere, prima di mettere piede in casa mia. Il denaro di cui vi sono debitore da sedici anni è a vostra disposizione. Non osavo... chiedetelo ad Amalia. E' già stato contato. Intendevo prendermi questa libertà al momento del commiato...». Casanova lo interruppe dolcemente. «Voi non siete mio debitore, Olivo. Quella manciata di ducati, erano - e lo sapete benissimo - un dono di nozze che io, in quanto amico della mamma di Amalia... Non parliamone più. Che importanza ha una manciata di ducati? Il mio destino è davanti a una svolta», aggiunse con voce intenzionalmente alta, in modo che potesse sentirlo anche il marchese, fermatosi a pochi passi di distanza. Olivo scambiò un'occhiata con Casanova, onde accertarsi del suo consenso, e poi osservò, rivolto al marchese: «Il cavaliere è stato richiamato a Venezia e, nel giro di pochi giorni, partirà per la sua città natale». «Di più», aggiunse Casanova, «da qualche tempo mi si chiama sempre più insistentemente.
Io credo però che i signori senatori si siano presi abbastanza tempo.
Che pazientino adesso.» «Un orgoglio», disse il marchese, «cui avete estremamente diritto, cavaliere!» Quando dal viale uscirono sul prato, ormai completamente in ombra, videro riunita vicino alla casa la piccola compagnia che li aspettava.
Tutti si alzarono per andare loro incontro: per primo l'abate, tra Marcolina e Amalia; li seguì la marchesa, a fianco di un giovane ufficiale alto e glabro in uniforme rossa con gli alamari d'argento e lucidi stivali da cavaliere, il quale non poteva essere altri che Lorenzi. Il modo in cui parlava alla marchesa, accarezzando con lo sguardo le sue spalle incipriate come una ben nota prova di altre cose graziose non meno note; e ancor più il modo in cui la marchesa alzava gli occhi verso di lui, sorridendo e con le palpebre semichiuse, non poteva dar adito a dubbi, persino a persone meno esperte, sulla natura del rapporto esistente tra i due nonché sul fatto che non si curavano minimamente di tenerlo segreto. Interruppero il loro colloquio, sommesso ma animato, soltanto quando furono davanti ai nuovi venuti.
Olivo fece le presentazioni di rito tra Casanova e Lorenzi. I due si misurarono con uno sguardo rapido e freddo, che parve rassicurarli della reciproca antipatia, poi sorrisero appena e si inchinarono senza porgersi la mano, poiché a tal fine avrebbero dovuto avvicinarsi entrambi d'un passo. Lorenzi era bello, dal volto magro e, considerata la sua giovinezza, dai lineamenti estremamente affilati; in fondo ai suoi occhi brillava qualcosa di inafferrabile che doveva invitare gli esperti alla cautela. Casanova rifletté solo un secondo su chi gli ricordasse Lorenzi: poi seppe che stava incontrando il suo stesso ritratto, di trent'anni più giovane. Mi sono forse reincarnato nella sua figura, si domandò. Ma dovrei prima essere morto... Ed ebbe un tremito: ma non lo sono già da tempo? Cos'è rimasto in me del Casanova che era giovane, bello e felice? Udì la voce di Amalia. Gli domandò, come da lontano, benché fosse accanto a lui, se gli fosse piaciuta la passeggiata, al che egli espresse ad alta voce, in modo che tutti lo potessero sentire, il massimo apprezzamento per i terreni fertili e ben curati che aveva visitato con Olivo. Nel frattempo la cameriera apparecchiò, sul prato, una tavola di forma allungata, con l'aiuto delle due figlie più grandicelle di Olivo, che portavano da casa tra grandi smancerie e risatine piatti, bicchieri e quanto altro era necessario. Gradualmente scese il crepuscolo; il giardino fu accarezzato da una brezza lieve e rinfrescante. Marcolina si affrettò verso la tavola, per portare a compimento quanto era stato iniziato da bimbe e cameriera e per rimediare alle eventuali mancanze. Gli altri si sparpagliarono liberamente tra prato e viali. La marchesa dimostrò molta cortesia a Casanova, ed espresse il desiderio di udire da lui la celebre storia della sua fuga dai Piombi di Venezia, benché non le fosse affatto ignoto - come aggiunse con un sorrisetto ambiguo - che avesse superato avventure ben più pericolose che, tuttavia, poteva avere maggior ritegno a raccontare. Casanova ribatté che, per quanto avesse anch'egli incontrato le sue difficoltà, gravi e allegre, non poteva dire di conoscere quella vita il cui senso e la cui stessa essenza significano pericolo; infatti, per quanto molti anni prima avesse fatto per un paio di mesi il soldato, in tempi inquieti, sull'isola di Corfù - c'era forse un solo mestiere sulla terra al quale la sorte non l'avesse costretto?! -, non aveva mai avuto la fortuna di partecipare a una vera campagna come quella che era imminente per il signor sottotenente Lorenzi e per la quale quasi lo invidiava. «Allora voi ne sapete più di me, signor Casanova», disse Lorenzi con voce chiara e sfrontata, «e addirittura più del mio comandante, perché ho appena ottenuto un prolungamento a tempo indeterminato della mia licenza.» «Davvero!», esclamò il marchese con malcelata stizza, e aggiunse sarcasticamente: «E pensate, Lorenzi, che noi, soprattutto la mia consorte, avevamo tanto contato sulla vostra partenza che abbiamo invitato nel nostro castello, per gli inizi della prossima settimana, uno dei nostri amici, il cantante Baldi». «Ottima cosa», replicò tranquillamente Lorenzi, «Baldi e io siamo buoni amici, ci sopporteremo. Non è vero?», proseguì rivolto alla marchesa, mostrando i denti bianchissimi. «Ve lo consiglierei», rispose la marchesa con un sorriso allegro.
Con queste parole si sedette a tavola, per prima; al suo fianco Olivo e, dall'altra parte, Lorenzi. Di fronte a lui era seduta Amalia, tra il marchese e Casanova; accanto a questi, sul lato più stretto della tavola, Marcolina; sull'altro, di fronte a lei e accanto a Olivo, l'abate. Le due bambine più grandi, Teresina e Nanetta, porsero le scodelle e si occuparono di mescere l'ottimo vino che cresceva sulle colline di Olivo, e sia il marchese che l'abate ringraziarono le fanciulle con carezze scherzosamente rudi che un padre più severo di Olivo non avrebbe forse tollerato. Amalia sembrava non accorgersi di niente: era pallida, con lo sguardo torvo e l'aspetto di una donna che ha deciso di invecchiare, perché essere giovane non ha più senso per lei. E' tutto qui il mio potere? pensò amaramente Casanova, osservandola di lato. Ma forse era l'illuminazione a modificare così tristemente i tratti di Amalia. Sui commensali cadeva infatti un ampio raggio di luce proveniente dall'interno della casa; per il resto, ci si accontentava del chiarore crepuscolare del cielo. Le cime dei monti, con le loro linee nere e affilate, toglievano ogni vista, e il ricordo di Casanova andò a un misterioso giardino dove, molti anni prima, aveva atteso nottetempo un'amata. «Murano», sussurrò tra sé, ed ebbe un fremito; poi disse forte: «C'è un giardino su un'isola vicino a Venezia, il giardino di un monastero, dove non metto piede da qualche decennio... la sera vi aleggiava questo stesso profumo».
«Siete stato anche monaco?», domandò scherzando la marchesa. «Quasi», rispose Casanova, e raccontò con una certa veridicità come, all'età di quindici anni, avesse ricevuto gli ordini inferiori dalle mani del patriarca di Venezia, ma che già da ragazzino aveva preferito deporre la veste religiosa. L'abate menzionò un vicino monastero femminile che, nel caso in cui Casanova non lo conoscesse, gli consigliava caldamente di visitare. Olivo si unì entusiasticamente alla proposta:
elogiò il cupo edificio antico, i gradevoli dintorni in cui era ubicato, la strada assai varia che conduceva colà. Inoltre, proseguì l'abate, la badessa, suor Serafina - donna estremamente colta, duchessa di nascita - gli aveva espresso in una lettera (per iscritto perché in quel monastero regnava il voto del silenzio perpetuo) di conoscere di persona Marcolina, della cui erudizione era venuta a sapere. «Spero, Marcolina», disse Lorenzi, ed era la prima volta che le rivolgeva direttamente la parola, «che non vi lascerete sedurre a imitare la duchessa-badessa sotto ogni aspetto.» «E perché dovrei?», ribatté allegramente Marcolina, «si può conservare la propria libertà anche senza voti; anzi meglio, perché i voti sono una coercizione.» Casanova era seduto accanto a lei. Non osava neppure sfiorarle appena il piede o toccarle il ginocchio con il proprio: percepire un'altra volta nel suo sguardo quell'espressione di orrore, di nausea - ne era certo - lo avrebbe spinto immancabilmente a compiere una pazzia. «Ho parlato con Marcolina.» «Tu hai...» In lui si accese una speranza folle. «Piano, Casanova. Non si è parlato di te, soltanto di lei e dei suoi piani per il futuro. E ti ripeto ancora: non apparterrà mai a un uomo.» Olivo, che si era servito abbondantemente di vino, si alzò inaspettatamente e, col bicchiere in mano, pronunziò goffamente qualche parola sull'alto onore che rendeva alla sua casa la visita del suo caro amico il cavaliere di Seingalt.
«Dov'è il cavaliere di Seingalt, mio caro Olivo, di cui andate parlando?», domandò Lorenzi con la sua voce chiara. Il primo impulso di Casanova fu quello di scaraventare in faccia allo spudorato il suo bicchiere pieno; Amalia però gli toccò appena il braccio e disse:
«Molta gente, signor cavaliere, vi conosce ancora soltanto col vostro vecchio nome, più famoso, di Casanova».
«Non sapevo», disse Lorenzi con oltraggiosa gravità, «che il re di Francia avesse conferito al signor Casanova un titolo nobiliare.» «Ho potuto risparmiare al re questa fatica», replicò tranquillamente Casanova, «e spero che voi, sottotenente Lorenzi, vi accontenterete di una spiegazione alla quale il borgomastro di Norimberga non ebbe niente da obiettare quando, in un'occasione peraltro irrilevante, ebbi l'onore di esporgliela.» E mentre gli altri tacevano tesi: «L'alfabeto è notoriamente un bene comune. Mi sono cercato una serie di lettere che mi piacessero e sono diventato nobile senza essere obbligato a un principe, il quale peraltro non sarebbe stato in grado di soddisfare le mie esigenze. Io sono Casanova cavaliere di Seingalt. Mi dispiacerebbe per voi, sottotenente Lorenzi, se questo nome non dovesse trovare la vostra approvazione». «Seingalt... un nome eccellente», disse l'abate, e lo ripeté un paio di volte, quasi volesse assaporarlo con le labbra. «E non c'è nessuno al mondo», esclamò Olivo, «che potrebbe chiamarsi cavaliere con maggior diritto del mio nobile amico Casanova!» «E non appena la vostra fama, Lorenzi», aggiunse il marchese, «giungerà così lontano come quella del signor Casanova, cavaliere di Seingalt non esiteremo, se vi aggrada, a chiamare anche voi cavaliere.» Casanova, irritato per l'indesiderato sostegno, era quasi in procinto di affermare che era perfettamente in grado di difendersi da solo quando, dal buio del giardino, si avvicinarono al tavolo due vecchi signori vestiti ancora elegantemente. Olivo li salutò cordialmente e rumorosamente, ben lieto di poter così smussare un dissidio che minacciava di farsi importante e di compromettere l'allegria della serata. I nuovi venuti erano i fratelli Ricardi, scapoloni che, come Casanova seppe da Olivo, avevano vissuto un tempo nel bel mondo, dove avevano tentato con poca fortuna imprese d'ogni genere, e si erano poi ritirati nel villaggio vicino, dov'erano nati, per vivervi a pigione in una miserabile casupola.
Gente singolare, ma innocua. I due Ricardi espressero la loro felicità di rivedere il cavaliere, che avevano conosciuto anni prima a Parigi.
Casanova non ricordava. O era forse Madrid?... «Può essere», rispose Casanova, ma sapeva perfettamente che non li aveva mai visti. A parlare era uno di loro, evidentemente il più giovane; l'altro, che pareva avere novant'anni, si limitava ad accompagnare i discorsi del fratello con incessanti cenni del capo e uno smarrito sogghigno.
Ci si era alzati da tavola. Le bambine erano già scomparse. Lorenzi e la marchesa passeggiavano sul prato, nel crepuscolo. Marcolina e Amalia comparvero presto nel salone, dove sembravano attendere agli ultimi preparativi per il gioco. Che cosa significa tutto ciò, si domandò Casanova, solo in giardino. Mi credono ricco? Mi vogliono spennare? Perché tutti questi eventi, anche la premura del marchese, persino la sollecitudine dell'abate, l'apparizione dei fratelli Ricardi, gli giungevano un po' sospetti; non poteva darsi che anche Lorenzi fosse coinvolto nell'intrigo? O Marcolina? O addirittura Amalia? Forse non è altro, pensò fugacemente, che un tiro dei miei nemici, che intendono ostacolare il mio ritorno a Venezia, addirittura impedirlo all'ultimo momento? Ma dovette subito dirsi che si trattava di un'idea completamente assurda, soprattutto perché non aveva più nemmeno nemici. Era un vecchio cretino, innocuo e decaduto; a chi poteva importare del suo ritorno a Venezia? E mentre, dalle finestre aperte della casa, guardava i signori disporsi prontamente intorno al tavolo sul quale erano già pronte le carte ed erano stati riempiti i bicchieri di vino, fu certo al di là di ogni dubbio che qui non si aveva in mente nient'altro che un'innocua partita, come d'abitudine, alla quale un nuovo giocatore era sempre il benvenuto. Marcolina gli scivolò accanto e gli augurò buona fortuna. «Non restate? Neppure a guardare il gioco?» «Perché dovrei? Buona notte, cavaliere di Seingalt... a domani!» Si udirono fuori alcune voci. «Lorenzi», fu chiamato, «signor cavaliere, stiamo aspettando.» Casanova, nell'ombra della casa, poteva vedere come la marchesa cercasse di trascinare Lorenzi dal prato verso il buio degli alberi. Là lo abbracciò impetuosamente, ma Lorenzi si strappò da lei con un gesto di ribellione e si affrettò verso la casa.
Incontrò Casanova all'entrata e, con una specie di beffarda cortesia, gli cedette il passo, cosa questa che Casanova accettò senza ringraziare.
Il marchese tenne per primo il banco. Olivo, i fratelli Ricardi e l'abate puntarono somme così basse che l'intera partita fu per Casanova - anche oggi che tutto il suo patrimonio ammontava a un paio di ducati - un gran divertimento. Gli parve quindi ancora più ridicolo che il marchese raccogliesse e distribuisse il denaro con aria così compresa, come se si trattasse di importi vertiginosi. All'improvviso Lorenzi, che fino a quel momento non aveva partecipato, gettò nel piatto un ducato e vinse; giocò allora il doppio e vinse una seconda e una terza volta, proseguendo così con poche interruzioni. Gli altri signori continuavano a puntare basso, come prima, e soprattutto i due Ricardi sembravano estremamente scontenti se il marchese pareva non trattarli con lo stesso riguardo riservato al sottotenente Lorenzi. I due fratelli giocavano insieme; l'uno, il più vecchio, che prendeva le carte, aveva il volto imperlato di sudore; l'altro, in piedi dietro di lui, gli parlava incessantemente, come per dargli consigli importanti e infallibili. Quando vedeva che il fratello taciturno incassava, i suoi occhi lampeggiavano; altrimenti li volgeva disperato al cielo.
L'abate partecipava poco, e al massimo sentenziava che «Fortuna e donne baciano chi vogliono» oppure che «La terra è tonda e grande il cielo»; talvolta guardava Casanova con un'aria birichina e incoraggiante e subito dopo Amalia, seduta davanti a questi e accanto al marito, come se spettasse a lui riaccoppiare i due vecchi amanti.
Casanova però pensava soltanto che, adesso, Marcolina si stava lentamente spogliando nella sua stanza e che, se la finestra era aperta, la sua pelle bianca baluginava nella notte. Colto da un desiderio che gli turbava i sensi, voleva alzarsi dal suo posto, accanto al marchese, e lasciare la stanza; il marchese però intese questo movimento come una decisione di partecipare al gioco e disse:
«Finalmente! Sapevamo che non sareste rimasto spettatore a lungo cavaliere». Gli mise davanti una carta e Casanova scommise tutto quello che aveva con sé - ed era praticamente tutto quello che possedeva, circa dieci ducati: non li contò nemmeno, li lasciò scivolare sul tavolo dal suo borsellino, sperando di perderli in un colpo solo, perché sarebbe stato un segno, un segno propizio - non sapeva di che cosa, se del suo prossimo ritorno a Venezia o della vista di Marcolina nuda davanti a lui -; ma prima che decidesse tra le due, il marchese usciva già perdente dal confronto con lui. Anche Casanova, come Lorenzi, giocò il doppio, e anche a lui la fortuna rimase fedele come al sottotenente. Il marchese non si occupò più degli altri; il Ricardi taciturno si alzò offeso, l'altro si torse le mani, e si recarono entrambi in un angolo del salone, come annientati.
L'abate e Olivo non se la presero: il primo mangiava dolci e ripeteva le sue sentenze; l'altro guardava eccitato l'avvicendarsi delle carte.
Alla fine il marchese aveva perduto cinquecento ducati, che Casanova e Lorenzi si divisero. La marchesa si alzò e, prima di lasciare la sala, ammiccò a Lorenzi; Amalia l'accompagnò. La marchesa ancheggiava, cosa questa che Casanova trovò ripugnante; Amalia scivolò al suo fianco come un'umile vecchia. Poiché il marchese aveva perduto tutti i suoi contanti, il banco passò a Casanova, che con rammarico del marchese insistette affinché gli altri riprendessero a giocare. I fratelli Ricardi furono subito al loro posto, curiosi e agitati; l'abate scosse la testa, ne aveva abbastanza, e Olivo giocò soltanto per non venire meno al desiderio del suo nobile ospite. Lorenzi fu di nuovo fortunato; quando ebbe vinto in tutto quattrocento ducati, si alzò e disse: «Domani sono pronto a dare loro la rivincita. Adesso chiedo licenza di poter cavalcare verso casa». «Verso casa», esclamò con un riso di scherno il marchese, che pure si era già ripreso qualche ducato, «ben detto! Il sottotenente abita infatti in casa mia!», aggiunse rivolto agli altri. «E la mia consorte è rincasata anticipatamente. Buon divertimento, Lorenzi!» «Voi sapete benissimo», ribatté Lorenzi senza mutare espressione, «che cavalco alla volta di Mantova e non del vostro castello, dove ieri foste così benevolo da darmi alloggio.» «Cavalcate dove volete, anche al diavolo, per quel che mi riguarda!» Lorenzi si accomiatò dagli altri con la massima cortesia e se ne andò senza dare al marchese la risposta che meritava, cosa questa che meravigliò oltremodo Casanova. Scoprì di nuovo le carte e vinse, tanto che il marchese gli fu presto debitore di qualche centinaio di ducati. A che scopo? si domandò inizialmente Casanova.
Poi però il fascino del gioco, a poco a poco, lo avvinse di nuovo. Non va male, pensò... Tra poco sono mille... possono diventare anche duemila. Il marchese pagherà il suo debito. Entrare a Venezia con un piccolo patrimonio non sarebbe male. Ma perché a Venezia. Di nuovo ricco, di nuovo giovane. La ricchezza è tutto. Quanto meno adesso me la potrò comprare. Chi? Non ne voglio altre... E' nuda alla finestra, ne sono certo... aspetta... sente che verrò... E' alla finestra per farmi impazzire. E io sono qui. Nel frattempo aveva di nuovo distribuito le carte, con espressione impassibile, non solo al marchese, ma anche a Olivo e ai fratelli Ricardi, ai quali ogni tanto spingeva una moneta cui non avevano diritto. A loro non dispiaceva.
Dalla notte giunse un rumore, come lo scalpitio degli zoccoli di un destriero al galoppo sulla strada. Lorenzi, pensò Casanova... Dal muro del giardino giunse come un'eco; poi rumore ed eco si spensero pian piano. A questo punto però la fortuna volse le spalle a Casanova. Il marchese puntava alto, sempre più alto; e a mezzanotte Casanova si ritrovò povero come prima, anzi, ancora di più, perché aveva perduto anche quei pochi ducati. Spinse le carte lontano da sé e si alzò sorridendo: «Grazie, signori».
Olivo spalancò le braccia verso di lui. «Amico mio, continuiamo a giocare... Centocinquanta ducati - lo avete dimenticato - no, non centocinquanta! Tutto ciò che ho, che sono... tutto, tutto!» Balbettava; infatti non aveva smesso di bere per tutta la sera.
Casanova si schermì con un gesto della mano esageratamente distinto.
«Le donne e la fortuna baciano chi vogliono», disse inchinandosi all'abate. Questi annuì soddisfatto e batté le mani. «A domani allora, stimatissimo cavaliere». disse il marchese, «ci riprenderemo i nostri soldi, togliendoli a Lorenzi.» I Ricardi insistettero per continuare a giocare. Il marchese, molto allegro, li lasciò tenere il banco. Essi tirarono fuori le monete che Casanova aveva fatto loro vincere: in due minuti il marchese se le era riprese, e rifiutò decisamente di continuare a giocare con loro se non avevano contanti in mano. Essi si torsero le mani. Il più vecchio cominciò a piangere come un bambino; l'altro, come per calmarlo, lo baciò su entrambe le guance. Il marchese domandò se la sua carrozza fosse già tornata; l'abate rispose affermativamente: l'aveva sentita arrivare mezz'ora prima. Il marchese invitò l'abate e i fratelli Ricardi nella sua carrozza, li avrebbe accompagnati presso il loro domicilio; e tutti lasciarono la casa.
Quando gli altri se ne furono andati Olivo prese il braccio di Casanova e gli assicurò ripetutamente, con la voce rotta, che in quella casa tutto apparteneva a lui, Casanova, e che poteva farne quel che meglio credeva. Passarono davanti alla finestra di Marcolina. Non solo era chiusa, ma davanti era calata anche una grata; dentro pendeva una tenda. In altri tempi, pensò Casanova, tutto ciò non sarebbe servito a niente, o non avrebbe significato niente. Entrarono in casa.
Olivo non si fece impedire di accompagnare l'ospite su per la scala un po' cigolante fino alla camera nella torre, dove lo abbracciò.
«Domani, allora», gli disse, «andremo a visitare il monastero. Ma dormite tranquillamente: non partiamo certo troppo presto e comunque all'ora che più vi è comoda. Buona notte.» Se ne andò chiudendo piano la porta dietro di sé, ma i suoi passi sulla scala risuonarono in tutto l'edificio.
Casanova era solo nella camera timidamente rischiarata da due candele, e i suoi occhi correvano dall'una all'altra delle quattro finestre, orientate secondo i vari punti cardinali. Il paesaggio, immerso in un alone azzurrognolo, era quasi uguale da tutte le parti: ampie pianure con pochi rilievi, soltanto verso nord le creste delle montagne, qua e là singole case, poderi, anche edifici più grandi; tra questi uno un po' più in alto rispetto agli altri, in cui brillava una luce, che Casanova suppose essere il castello del marchese. Nella camera, che oltre all'ampio letto vuoto non conteneva nient'altro se non un lungo tavolo sul quale ardevano le due candele, due seggiole, un cassettone con sopra uno specchio dalla cornice d'oro, avevano fatto ordine mani premurose; anche la sua sacca da viaggio era stata disfatta. Sul tavolo si trovavano la cartella di cuoio chiusa e consunta che conteneva le carte di Casanova, nonché qualche libro che gli serviva per il suo lavoro e aveva quindi portato con sé; vi era preparato anche il materiale per scrivere. Poiché non sentiva la minima sonnolenza, estrasse dalla borsa il suo manoscritto e rilesse, a lume di candela, le ultime cose che aveva scritto. Poiché si era fermato a metà di un paragrafo, non ebbe difficoltà a ripartire da lì. Prese in mano la penna, scrisse rapidamente un paio di frasi e all'improvviso si fermò di nuovo. A che scopo? si domandò, come per un'orribile illuminazione interiore. E se anche sapessi che quanto scrivo e scriverò sarà incomparabilmente grandioso, sì, se anche riuscissi davvero ad annientare Voltaire e a superare la sua fama con la mia, non sarei forse pronto, e con gioia, a dar fuoco a tutte queste carte, se in cambio mi fosse concesso di abbracciare, in quest'ora, Marcolina? Sì, allo stesso prezzo non sarei pronto a far voto di non mettere mai più piede a Venezia, anche se mi ci volessero trasportare in trionfo? Venezia!... Ripeté la parola, che gli risuonò dintorno in tutta la sua magnificenza: e già la vecchia potenza aveva preso il sopravvento su di lui. Gli sorse davanti la città della sua giovinezza, circondata da tutta la magia del ricordo, e il cuore gli si gonfiò di una nostalgia così straziante e smisurata che pensava di non averne mai provata d'uguale. Rinunciare al ritorno gli parve il più impossibile di tutti i sacrifici che il destino potesse pretendere da lui. Che ci faceva, in questo mondo pietosamente sbiadito, senza la speranza, la certezza di rivedere un giorno quella città amata? Dopo anni e decenni di peregrinazioni e avventure, dopo tutta la felicità e l'infelicità che aveva vissuto, dopo tutto l'onore e gli smacchi, dopo i trionfi e le umiliazioni che aveva subìto, doveva avere infine un posto in cui riposare, una patria. E c'era per lui un'altra patria, se non Venezia? Un'altra felicità se non la coscienza di avere di nuovo una patria? In un paese straniero, non gli era proprio possibile attirare accanto a sé una felicità duratura. Gli era ancora concessa, talvolta, la forza di concepirla, ma non più quella di trattenerla. Il suo potere sugli altri, uomini e donne, non c'era più. Soltanto là dove egli significava ricordi la sua parola, la sua voce, il suo sguardo avvincevano ancora; al suo presente questo effetto era negato.
Passato era il suo tempo! E si confessava anche quanto altrimenti cercava di nascondersi con particolare solerzia, cioè che anche i suoi sforzi letterari e persino il suo libello contro Voltaire, nel quale aveva riposto la sua ultima speranza, sicuramente non sarebbe mai stato un tale successo da giungere lontano. Anche per quello era troppo tardi. Sì, se in anni più giovani avesse avuto il tempo e la pazienza per occuparsi seriamente di cose consimili - lo sapeva bene - sarebbe stato pari ai primi poeti e filosofi del suo secolo; allo stesso modo in cui la grande perseveranza e cautela che gli erano proprie avrebbero fatto di lui il più eccelso dei finanzieri o dei diplomatici. Ma dove finivano tutta la sua pazienza e la sua cautela, dove tutti i suoi progetti, quando lo attraeva una nuova avventura d'amore? Donne, donne dappertutto. Per loro aveva gettato via tutto, in ogni istante: per le nobili come per le volgari, per le passionali come per le fredde, per le vergini come per le sgualdrine; per una notte in un nuovo letto si era sempre venduto tutti gli onori e tutte le beatitudini di quel mondo. Ma rimpiangeva ciò che dell'esistenza poteva aver perduto in questo eterno cercare e mai-o-sempre trovare, in questo eterno fuggire di brama in piacere e di piacere in brama?
No, non rimpiangeva niente. Aveva vissuto la sua vita come nessun altro; e non la viveva ancora oggi a modo suo? Dappertutto c'erano ancora donne sulla sua strada, anche se non gli impazzivano più intorno come una volta. Amalia? Poteva averla quando voleva, in quella stessa ora, nel letto del suo ebbro consorte; e la locandiera di Mantova, non era innamorata di lui come di un bel ragazzo, con tenerezza e gelosia? E l'amante butterata ma ben fatta del barone Perotti, non l'aveva implorato, inebriata dal nome Casanova che pareva sprizzarle addosso la voluttà di mille notti, di concederle una sola notte d'amore, ed egli non l'aveva disdegnata come uno che poteva ancora scegliere di suo gusto? Certo - Marcolina - quelle come Marcolina non facevano più per lui. O forse... che lei non avesse mai fatto per lui? C'erano anche donne così. Negli anni passati ne aveva forse incontrata qualcuna, ma poiché ce n'era sempre un'altra più disponibile, non vi si era trattenuto, per non sospirare invano neppure un giorno. E poiché neppure Lorenzi era riuscito a conquistare Marcolina, poiché aveva addirittura rifiutato la mano di quest'uomo, che era bello e sfacciato come in gioventù lo era stato lui, Casanova, poteva darsi davvero che Marcolina fosse proprio quella creatura prodigiosa della cui esistenza sulla terra egli aveva sinora dubitato:
la donna virtuosa. Ma scoppiò in una risata così sonora che riecheggiò in tutta la stanza. «Incapace, cretino!», esclamò forte, come spesso faceva durante i suoi monologhi. «Non ha saputo sfruttare l'occasione.
O la marchesa non lo molla. Oppure se l'è presa soltanto perché non è riuscito ad avere Marcolina, l'erudita... la filosofa?!» E all'improvviso gli venne un'idea: domani le leggerò il mio libello contro Voltaire! E' l'unica creatura che possa comprenderlo. La convincerò... Mi ammirerà. Naturalmente mi dirà... «Eccellente, signor Casanova! Voi scrivete in uno stile magnifico, vecchio signore! Per Dio... Avete annientato Voltaire... vecchio geniale!» Così parlò, sibilando tra sé e sé e andando avanti e indietro per la camera come in una gabbia. Era stato colto da un immane furore, contro Marcolina, contro Voltaire, contro se stesso, contro il mondo intero. Raccolse le sue ultime forze per non mettersi a urlare. Infine si gettò sul letto, senza spogliarsi, e rimase a guardare con gli occhi spalancati le travi del soffitto, dove ogni tanto al lume di candela vedeva brillare tele di ragno. Poi, come talvolta gli capitava quando andava a dormire dopo aver giocato, gli saettarono davanti a velocità fantastica immagini di carte, e infine sprofondò davvero in un sopore senza sogni, che però durò pochissimo. Tese allora l'orecchio al misterioso silenzio intorno a lui. Le finestre della camera nella torre erano aperte verso est e verso sud; da giardino e campi penetravano soavi, dolci profumi d'ogni genere; dal paesaggio rumori indistinti, di quelli che l'incipiente aurora ama portare da lontano e da vicino.
Casanova non riusciva più a restare coricato; lo colse un vivace desiderio di cambiamento, che lo spingeva fuori. Da fuori lo chiamava il canto degli uccelli, la fresca brezza mattutina gli accarezzava la fronte. Casanova aprì piano la porta, scese piano le scale e, con la sua consumata abilità, riuscì a non fare scricchiolare minimamente sotto i suoi passi i gradini di legno; lungo la scala di pietra giunse poi al pianterreno e dalla sala da pranzo, sulla cui tavola erano ancora i bicchieri pieni a metà, in giardino. Poiché sulla ghiaietta i suoi passi si sentivano, andò subito sul prato, che nel chiarore dell'aurora assumeva un'estensione irreale. Poi imboccò il viale, dalla parte in cui si sarebbe trovato sotto gli occhi la finestra di Marcolina. Era chiusa, munita di grata e di tenda come l'ultima volta che l'aveva vista. Casanova si sedette su una panchina di pietra a forse cinquanta passi dalla casa. Sentì passare una carrozza oltre il muro del giardino, poi silenzio. Sul prato aleggiava una delicata foschia grigia, quasi uno stagno torbido-trasparente dai confini incerti. Casanova ripensò ancora a quella notte di gioventù nel giardino del convento di Murano - o di un altro parco - o a un'altra notte - non sapeva più quale: forse erano cento notti che nel suo ricordo diventavano una, come talvolta cento donne che aveva amato nel ricordo diventavano una, la cui figura enigmatica si librava davanti ai suoi sensi confusi. Ma non erano tutte uguali, le notti, alla fin fine? E le donne? Soprattutto quando non c'erano più? E la parola «più» prese a martellargli le tempie, quasi fosse destinata a diventare il battito della sua esistenza perduta.
Gli parve di percepire un fruscio dietro di lui, lungo il muro. O era soltanto un'eco? Sì, il rumore veniva dalla casa. La finestra di Marcolina era improvvisamente aperta, la grata era stata spostata e la tenda tirata da una parte, mentre dal buio della stanza si levava una figura scura: era proprio Marcolina, che si avvicinò al davanzale con la camicia da notte bianca abbottonata fino alla gola, come per respirare la soave aria del mattino. Casanova si era lasciato scivolare lesto giù dalla panchina; al di sopra del bordo, tra i rami del viale, guardava incantato Marcolina, i cui occhi affioravano dalla penombra come senza pensieri, anzi, senza direzione. Soltanto dopo un paio di secondi il suo essere, ancora come assonnato, parve riuscire a raccogliersi in uno sguardo, che lasciò vagare lungamente a destra e a sinistra. Poi si piegò in avanti, come per cercare qualcosa sulla ghiaietta, e subito dopo alzò la testa, coi capelli sciolti, verso l'alto, come verso una finestra del piano superiore. Poi rimase un attimo immobile, le mani appoggiate ai due stipiti della finestra, come inchiodate a una croce invisibile. Soltanto adesso, come se all'improvviso si fossero illuminati dall'interno, Casanova riuscì a scorgere distintamente i suoi tratti in penombra. Sulla bocca le aleggiò un sorriso che si irrigidì subito. Lasciò cadere le braccia; le sue labbra si muovevano in modo singolare, quasi bisbigliassero una preghiera; il suo sguardo vagò di nuovo lentamente nel giardino, indagatore, poi annuì brevemente e, nello stesso istante, qualcuno saltò il davanzale per uscire, qualcuno che fino ad allora doveva essere rimasto accovacciato ai piedi di Marcolina: Lorenzi. Volò, più che camminare, sulla ghiaietta, verso il viale, lo attraversò ad appena dieci passi di distanza da Casanova il quale, trattenendo il respiro, rimaneva sotto la panchina, e si precipitò poi oltre il viale, dove accanto al muro correva una stretta striscia di prato, fino a scomparire agli occhi di Casanova. Casanova udì una porta gemere sui cardini: non poteva essere altro che quella da cui egli stesso era tornato in giardino, ieri sera, con Olivo e il marchese... poi silenzio. Marcolina era rimasta per tutto il tempo completamente immobile: non appena seppe che Lorenzi era al sicuro respirò profondamente, chiuse grata e finestra, la tenda ricadde di nuovo, come per forza propria, e tutto tornò come prima; soltanto che nel frattempo, quasi non avesse più motivo di indugiare, su casa e giardino si era levato il giorno.
Anche Casanova era ancora là, come prima, le mani distese davanti a sé, sotto la panchina. Dopo un po' strisciò avanti, finendo in mezzo al viale, e proseguì a quattro zampe finché non arrivò in un punto dove non potevano vederlo né dalla finestra di Marcolina né da qualsiasi altra finestra. Allora si alzò, con la schiena dolente, si stiracchiò gli arti e finalmente tornò in sé; si ritrovò proprio come se, da cane bastonato, si fosse di nuovo trasformato in un uomo condannato a percepire le bastonate non come dolore fisico, ma come profonda vergogna. Perché, si domandò, non mi sono avvicinato alla finestra finché era aperta? E a lei, saltando il davanzale? Avrebbe potuto resistermi, l'ipocrita, la bugiarda, la sgualdrina? E continuò a imprecare quasi che ne avesse avuto diritto, quasi che lei gli avesse giurato fedeltà come a un amante e lo avesse tradito. Giurò a se stesso che l'avrebbe portata sulla bocca di tutti, che le avrebbe gettato fango addosso davanti a Olivo, davanti ad Amalia, davanti al marchese, all'abate, alla domestica e ai domestici, dicendo che non era altro che una puttanella lasciva, e niente più. Come per esercitarsi, si raccontò nei minimi particolari quel che aveva appena visto, compiacendosi di inventare tutto ciò che potesse mortificarla:
che era nuda alla finestra, che aveva accettato le carezze oscene dall'amante mentre la lambiva la brezza del mattino. Dopo che ebbe così placato la sua collera, rifletté su che cosa fosse meglio fare con ciò che adesso sapeva. Non era ora in suo potere? Non poteva estorcerle con le minacce quei favori che non gli concedeva spontaneamente? Ma questo piano ignominioso riaffondò immediatamente, perché Casanova dovette riconoscerne non tanto l'ignominia quanto l'insensatezza e l'inadeguatezza al caso in questione. Che poteva importare delle sue minacce a Marcolina, la quale non doveva rendere conto a nessuno e che d'altronde, se gliene fosse importato, era abbastanza scaltra da cacciarlo di camera tacciandolo di calunnia e ricatto? E persino se fosse stata disposta a concedersi a lui per comprare il suo silenzio sulla sua tresca con Lorenzi (ma sapeva bene di trovarsi al di là dei limiti di ogni possibilità), per uno come lui, che quando amava desiderava mille volte di più dare felicità che ricevere felicità, un piacere estorto con la violenza non si sarebbe inevitabilmente trasformato in un tormento indicibile, tale da spingerlo sull'orlo della pazzia, dell'autoannientamento? Si trovò improvvisamente davanti alla porta del giardino. Era chiusa col chiavistello. Lorenzi aveva quindi una copia della chiave. E chi era stato - gli venne in mente all'improvviso - ad avventarsi nella notte su un destriero al galoppo, quando Lorenzi si era alzato dal tavolo da gioco? Evidentemente un domestico prezzolato. Senza volerlo, Casanova si trovò costretto a sorridere. Erano degni l'uno dell'altra, Marcolina e Lorenzi, la filosofa e l'ufficiale. E davanti a loro si apriva una magnifica carriera. Chi sarebbe stato il prossimo amante di Marcolina? si domandò. Il professore di Bologna, presso il quale abita. Ma che stupido: lo è già stato... Chi ancora? Olivo? L'abate?
Perché no?! O il giovane domestico che ieri, quando siamo arrivati, era fermo sulla porta con gli occhi spalancati? Tutti! Io lo so. Ma Lorenzi no. E' questo il mio vantaggio su di lui. In realtà non solo era convinto, nel suo intimo, che Lorenzi fosse il primo amante di Marcolina, ma presumeva addirittura che quella fosse la prima notte che gli avesse donato; ma questo non gli impedì di proseguire nel suo gioco di pensieri malvagiamente osceni per tutto il tempo che impiegò a percorrere il perimetro del giardino, lungo il muro. Si trovò così di nuovo davanti alla porta della sala, che aveva lasciato aperta, e vide che per il momento non gli restava altro che tornare nella camera della torre. senza farsi né vedere né sentire. Scivolò per le scale con la massima cautela e, una volta in camera, si abbandonò sulla poltrona dove era già stato seduto: davanti al tavolo dove i fogli sciolti del suo manoscritto parevano aspettare il suo ritorno.
Involontariamente gli occhi gli caddero sulla frase che prima aveva interrotto a metà, e lesse: «Voltaire sarà immortale, certamente; ma si sarà comprato questa immortalità con la sua parte immortale; l'arguzia ha consumato il suo cuore come il dubbio la sua anima, e quindi...». In quel momento la stanza fu inondata dal rosseggiante sole del mattino, tanto che il foglio che teneva in mano cominciò ad ardere ed egli, come sconfitto, lo lasciò cadere sul tavolo, sopra gli altri. Si rese improvvisamente conto che aveva le labbra secche e si versò un bicchiere d'acqua dalla bottiglia che era sul tavolo; era tiepida e dolciastra. Disgustato, girò la testa da una parte: dalla parete, dallo specchio sul cassettone, lo fissava un volto pallido e vecchio, coi capelli scomposti che gli ricadevano sulla fronte. Nel piacere di tormentarsi, abbassò ulteriormente gli angoli della bocca, come un attore di teatro che debba recitare un ruolo disgustoso; si passò le mani tra i capelli in modo che le ciocche gli ricadessero in modo ancora più disordinato; fece la linguaccia alla sua immagine allo specchio, gracchiò con voce intenzionalmente più roca una serie di insulse imprecazioni contro se stesso e infine, soffiando come un bambino maleducato, fece cadere dal tavolo i fogli del suo manoscritto. Poi riprese a imprecare contro Marcolina, e dopo averla fatta oggetto delle parole più sconce, sibilò tra i denti: pensi che la gioia duri a lungo? Diventerai grassa e grinzosa e vecchia come le altre donne, che sono state anch'esse giovani come te: una donna vecchia dai seni cadenti e dai capelli ispidi e grigi, senza denti e maleodorante... e infine morirai! Puoi morire anche giovane! E ti decomporrai! E sarai cibo per i vermi. Per vendicarsi ancora di lei, cercò di immaginarla morta. La vide distesa in una bara aperta, vestita di bianco, ma fu incapace di immaginare su di lei alcun segno di distruzione; anzi, la sua bellezza davvero ultraterrena gli provocò un nuovo accesso di furore. Davanti ai suoi occhi chiusi, la bara divenne un letto nuziale; Marcolina vi era sdraiata e sorrideva con gli occhi socchiusi, con le pallide mani affusolate, come per dispetto, si lacerò la bianca veste sui seni delicati. Ma mentre egli tendeva le braccia verso di lei, mentre si avventava su di lei l'apparizione si dissolse nel nulla. Bussarono alla porta ed egli si scosse da quel torbido sonno: davanti a lui c'era Olivo. «Come, già allo scrittoio?» «E' mia abitudine», rispose Casanova subito tornato in sé, «dedicare al lavoro le prime ore del mattino. Che ore sono?» «Le otto», rispose Olivo; «la colazione è pronta in giardino; non appena comandate, cavaliere, ci metteremo in viaggio per il monastero.
Vedo però che il vento vi ha sparpagliato i fogli!» E si mise a raccogliere le carte dal pavimento. Casanova lo lasciò fare, perché si era avvicinato alla finestra e guardava, allineate intorno alla tavola della colazione che era stata apparecchiata sul prato, all'ombra della casa, Amalia, Marcolina e le tre bambine. Gli dettero il buon giorno.
Egli vide soltanto Marcolina: gli sorrideva gentilmente con occhi luminosi, teneva in grembo un grappolo d'uva precocemente matura e si metteva in bocca un acino dopo l'altro. Come ebbro della sua vista, si ritirò nuovamente nella camera dove Olivo, ancora in ginocchio sul pavimento, cercava i fogli sparpagliati sotto tavolo e cassettone; gli proibì di continuare nei suoi sforzi ed espresse il desiderio di essere lasciato solo per potersi preparare alla gita. «Non c'è fretta», disse Olivo togliendosi la polvere dai pantaloni, «saremo tranquillamente di ritorno per pranzo. Il marchese ci ha pregato inoltre di poter cominciare a giocare nelle prime ore del pomeriggio; evidentemente desidera essere a casa prima del tramonto.» «Mi è del tutto indifferente a che ora si comincia», disse Casanova mentre metteva in ordine i suoi fogli nella cartella; «tanto io non ho intenzione di giocare.» «E invece giocherete», dichiarò Olivo con una risolutezza che gli era insolita, e depose sul tavolo un gruzzolo di monete d'oro. «Il mio debito, cavaliere, in ritardo, ma con tutta la mia gratitudine.» Casanova rifiutò. «Dovete accettare», protestò Olivo, «se non volete offendermi profondamente; inoltre Amalia stanotte ha sognato qualcosa che vi indurrà a farlo... ma ve lo racconterà lei stessa.» E tacque subito. Casanova stava comunque contando le monete; erano centocinquanta, esattamente la somma che, quindici anni prima, aveva regalato allo sposo o alla sposa o alla mamma di lei... non lo sapeva più nemmeno lui. La cosa più ragionevole sarebbe, si disse, che intascassi il denaro, prendessi congedo e lasciassi la casa, se possibile senza rivedere Marcolina. Ma ho mai fatto la cosa più ragionevole? E se nel frattempo fossero giunte notizie da Venezia?... A dire il vero la mia eccellente locandiera ha promesso di trasmetterle qui senza indugio...
Nel frattempo la cameriera aveva portato su una grande brocca di terracotta con acqua fresca di sorgente, e Casanova si lavò tutto il corpo, cosa questa che lo rinfrescò molto; poi si mise il suo vestito migliore, una specie di abito da cerimonia, come avrebbe fatto già la sera prima se solo avesse trovato il tempo di cambiarsi; fu comunque molto contento di potersi presentare a Marcolina in abbigliamento più elegante del giorno prima, anzi, quasi sotto una forma nuova.
Con una giacca di seta grigia lucida e ricamata, guarnita di ampi ricami d'argento alla spagnola, panciotto giallo e calzoni di seta rosso ciliegia, portamento nobile ma non troppo altezzoso, un sorriso meditabondo ma cordiale sulle labbra e gli occhi che irradiavano una giovinezza il cui fuoco non si poteva spegnere: così entrò in giardino dove, con sua grande delusione, trovò sulle prime soltanto Olivo, che lo invitò a sedersi accanto a lui e a servirsi a volontà di quel modesto pasto. Casanova si ristorò con latte, burro, uova, pane bianco e poi ancora pesche e uva, che gli parvero le più gustose che avesse mai assaggiato. Erano giunte, correndo sul prato, le tre bambine; Casanova le baciò tutte e tre, e alla più grande allungò qualche carezza di quelle che ieri aveva accettato dall'abate; ma le scintille che si accesero nei suoi occhi erano, come Casanova ben si accorse, il frutto di un piacere ben diverso da quello di un innocuo gioco infantile. Olivo fu felice di vedere che il cavaliere ci sapeva fare così bene con le bimbe. «E ci volete davvero lasciare già domani?», domandò con timida dolcezza. «Stasera», rispose Casanova, ammiccando scherzosamente. «Sapete, ottimo Olivo, i senatori di Venezia...» «Non vi meritano», lo interruppe vivacemente Olivo. «Che aspettino. Restate con noi fino a dopodomani, ma no, per una settimana.» Casanova scosse lentamente la testa, mentre stringeva la mano della piccola Teresina e la teneva come prigioniera tra le ginocchia. Ella si stava divincolando dolcemente, con un sorriso sulle labbra che non aveva niente di infantile, quando dalla casa uscirono Amalia e Marcolina, l'una con uno scialle nero, l'altra con uno scialle bianco sulle spalle chiare. Olivo le pregò di unire le loro preghiere alle sue. «E' impossibile», disse Casanova con eccessiva durezza nella voce e nell'espressione, perché né Amalia né Marcolina trovavano le parole per unirsi all'invito di Olivo.
Mentre procedevano lungo il viale di ippocastani verso la porta, Marcolina domandò a Casanova se durante la notte avesse sensibilmente proseguito nel suo lavoro, al quale Olivo le aveva raccontato di averlo trovato di primo mattino. Casanova pensava già di darle una risposta ambigua e maligna, che l'avrebbe sorpresa pur senza tradirlo; ma represse quel motto di spirito in considerazione del fatto che ogni fretta avrebbe potuto essere nociva e rispose cortesemente di avere apportato unicamente alcune modifiche cui era stato stimolato dal colloquio con lei. Salirono su una carrozza sformata e mal imbottita ma comunque comoda. Casanova era seduto davanti a Marcolina e Olivo davanti alla sua consorte; ma la vettura era così spaziosa che nonostante le molte scosse era impensabile che gli occupanti potessero toccarsi senza volerlo. Casanova pregò Amalia di raccontargli il suo sogno. Lei gli sorrise gentilmente, quasi bonariamente; dai suoi tratti era scomparsa ogni traccia di risentimento o di rancore. Poi cominciò: «Vi ho visto, Casanova, passare in una magnifica carrozza tirata da sei cavalli scuri davanti a un edificio chiaro. Di più: la carrozza si fermava e io non sapevo ancora chi c'era dentro, quando siete sceso voi, con un magnifico abito da cerimonia bianco coi ricami d'oro, quasi ancora più elegante di quello che indossate oggi (nei suoi modi c'era un'amichevole ironia) e portavate - davvero - la stessa catena d'oro che avete oggi e che io non vi avevo mai visto!
(Questa catena, con l'orologio d'oro e una tabacchiera d'oro tempestate di pietre semipreziose che Casanova teneva in mano, giocherellandoci, erano gli ultimi gioielli di un certo valore che aveva saputo conservare.) Lo sportello fu aperto da un vecchio che aveva l'aspetto di un mendicante: era Lorenzi; voi però, Casanova, eravate giovane, giovanissimo, ancora più giovane di quanto non foste allora. (Disse "allora" incurante del fatto che, da questa parola, volassero tra un frullar d'ali tutti i suoi ricordi.) Voi salutavate in tutte le direzioni, per quanto in lungo e in largo non si vedesse nessuno, ed entravate dalla porta; essa si chiuse violentemente dietro di voi, non so se per opera del vento o di Lorenzi: tanto violentemente che i cavalli si imbizzarrirono e volarono via con la carrozza. Allora udii un urlo dai vicoli vicini, come di persone che cercassero di mettersi in salvo, ma tacque subito. Voi però vi affacciaste a una finestra della casa, adesso sapevo che era una casa da gioco, e salutaste in tutte le direzioni, ma non c'era nessuno. Poi vi volgeste all'indietro, sopra le vostre spalle, come se dietro di voi, nella stanza, ci fosse qualcuno; ma io sapevo che anche là non c'era nessuno. Poi vi scorsi all'improvviso a un'altra finestra, a un altro piano, dove accadde esattamente la stessa cosa, poi sempre più in alto, e ancora, era come se l'edificio crescesse all'infinito, e sempre salutavate verso il basso e parlavate con qualcuno che era alle vostre spalle, anche se in realtà non c'era nessuno. Lorenzi però continuava a rincorrervi per le scale senza raggiungervi. Voi non avevate neppure pensato a fargli l'elemosina...».
«E poi?», domandò Casanova quando Amalia tacque. «Succedeva qualcos'altro, ma io l'ho dimenticato», disse Amalia. Casanova era deluso; al posto di lei avrebbe, come sempre faceva in simili casi, si trattasse di sogni o di realtà, cercato di perfezionare il racconto, di conferirgli un senso, e così osservò, alquanto scontento: «Come è tutto alla rovescia, nel sogno. Io ricco e Lorenzi mendicante e vecchio». «Lorenzi non andrà lontano, con la sua ricchezza», disse Olivo: «suo padre è piuttosto benestante, ma i suoi rapporti col figlio non sono dei migliori». E senza che dovesse fare domande, Casanova venne a sapere che si doveva la conoscenza del sottotenente al marchese, che un giorno, qualche settimana prima, l'aveva semplicemente portato con sé in casa di Olivo. Non c'era certo bisogno di spiegare espressamente a un esperto come il cavaliere che tipo di rapporto intercorresse tra il giovane ufficiale e la marchesa; d'altro canto, poiché il consorte sembrava non trovarci niente da ridire, non si capiva perché la cosa dovesse turbare loro, che non erano direttamente interessati.
«Che il marchese sia così d'accordo come voi sembrate credere, Olivo», disse Casanova, «mi permetterei di metterlo in dubbio. Non avete notato con quale miscuglio di disprezzo e astio tratti il giovane? Non potrei giurare che la cosa andrà a finire bene.» Anche adesso niente si mosse sul volto di Marcolina, né cambiò posizione. Pareva non prendere minimamente parte al colloquio su Lorenzi e godersi tranquillamente la vista del paesaggio. Casanova preferì scendere e proseguire accanto alla carrozza. Marcolina parlò dei dintorni di Bologna e delle belle passeggiate vespertine che amava fare con la figlia del professor Morgagni. Menzionò anche la sua intenzione di recarsi, l'anno dopo, in Francia, per conoscere personalmente il celebre matematico Saugrenue, dell'università di Parigi. «Forse mi concederò il piacere», disse sorridendo, «di fermarmi a Ferney, per sapere dallo stesso Voltaire come egli abbia accolto lo scritto polemico del suo più pericoloso oppositore, il cavaliere di Seingalt.» Casanova, con la mano sul bordo della carrozza, accanto al braccio di Marcolina, la cui manica gonfia gli sfiorava le dita, replicò freddamente: «Non si tratta tanto di come il signor Voltaire accoglierà la mia opera, ma di come l'accoglieranno i posteri: infatti soltanto costoro avranno il diritto di prendere una decisione definitiva». «Voi credete», chiese Marcolina seriamente, «che sulle questioni di cui andiamo parlando possano davvero essere prese decisioni definitive?» «Questa domanda mi meraviglia sulla vostra bocca, Marcolina, le cui opinioni filosofiche e, se posso usare la parola, religiose, non mi sembrano assolutamente inconfutabili di per sé ma comunque ben saldamente fondate nella vostra anima, purché ammettiate di averne una.» Marcolina, non facendo caso alle frecciate nel discorso di Casanova, alzò tranquillamente gli occhi al cielo che si apriva azzurro intenso sulle chiome degli alberi e rispose:
«Talvolta, soprattutto in giorni come oggi», e in queste parole risuonò solo per Casanova, che sapeva, una palpitante devozione proveniente dal profondo del suo cuore di donna, «mi pare che tutto ciò che definiamo filosofia e religione sia solo un gioco di parole, più nobile, certamente, ma anche più insensato di tutti gli altri.
Concepire l'infinito e l'eternità ci sarà sempre negato; la nostra strada procede dalla nascita alla morte; che cosa ci resta se non vivere secondo la legge che ciascuno ha nel suo petto, o anche contro questa legge? Perché ribellione e umiltà sono uguali davanti a Dio».
Olivo guardava la nipote con timida ammirazione e Casanova con una certa paura; questi cercava una risposta con la quale spiegare a Marcolina che lei, per così dire, dimostrava e al contempo negava l'esistenza di Dio; ma sentiva che alla sensibilità di lei non poteva opporre che parole vuote, e non gli vennero neppure quelle. Tuttavia l'espressione particolarmente stravolta del suo volto parve risvegliare in Amalia il ricordo delle sue folli minacce del giorno prima, ed si affrettò a osservare: «E tuttavia Marcolina è devota, credetemi, cavaliere». Marcolina sorrise smarrita. «Lo siamo tutti, a modo nostro», disse cortesemente Casanova, e guardò davanti a sé.
Una curva repentina, e all'improvviso davanti a loro c'era il monastero. Sull'alto muro di cinta svettavano le esili chiome dei cipressi. Al rumore della carrozza che avanzava si era aperta la porta; un portinaio dalla lunga barba bianca salutò devotamente e fece entrare gli ospiti. Lungo un loggiato ad archi, tra le cui colonne si vedeva da ambo le parti un giardino coperto di vegetazione verde scuro, si avvicinarono al monastero vero e proprio, dalle cui mura grigie, completamente prive di ornamenti e simili a quelle di una prigione, soffiava verso di loro un'arietta sgradevole e freddina.
Olivo tirò la fune della campanella; questa emise un suono acuto che subito riecheggiò e una suora velatissima aprì in silenzio e condusse gli ospiti in un parlatorio ampio e spoglio, in cui si trovavano soltanto alcune semplici sedie di legno. Sul retro, esso era chiuso da una grata di ferro dalle sbarre molto grosse, al di là della quale la stanza svaniva in una fitta oscurità. Con l'amarezza nel cuore, Casanova ripensò a quell'avventura che a tutt'oggi gli pareva una delle più straordinarie che avesse vissuto e che aveva avuto inizio in un ambiente assai simile: nella sua anima affiorarono le figure delle due suore di Murano che, nell'amore per lui, si erano ritrovate amiche, e gli avevano regalato insieme incomparabili ore di piacere. E quando Olivo, a voce bassissima, cominciò a parlare della rigorosa disciplina che qui le suore erano tenute a osservare, tanto che dopo la vestizione non potevano più mostrare il loro volto a un uomo ed erano condannate al silenzio perpetuo, sulle sue labbra tremò un sorriso che si irrigidì subito.
In mezzo a loro c'era la badessa, come spuntata dall'oscurità. Muta, salutò gli ospiti; con un inchino oltremodo benevolo del capo velato accettò il ringraziamento di Casanova per il permesso di entrare concesso anche a lui; Marcolina però, che voleva baciarle la mano, la strinse tra le braccia. Poi, con un gesto della mano, invitò tutti a seguirla, e attraverso una stanzetta laterale li guidò in un portico di forma quadrata che correva tutt'intorno a un fiorente giardino.
Rispetto all'altro, inselvatichito, sembrava curato con particolare sollecitudine; e nelle molte aiuole, ricche e illuminate dal sole, giocavano colori che si accendevano e smorzavano in modo straordinario. Ai profumi caldi che fluivano dai calici dei fiori, e che quasi lo stordivano, a Casanova pareva ne fosse mischiato uno particolarmente misterioso, di cui la sua memoria non riusciva a trovare l'eguale. Tuttavia, proprio mentre stava per dire qualcosa a Marcolina a questo proposito, notò che questo profumo misterioso, che gli eccitava il cuore e i sensi, veniva da lei stessa, che si era appoggiata sul braccio lo scialle che aveva tenuto sino a quel momento sulle spalle, cosicché dalla scollatura della sua veste adesso libera si levava il profumo del suo corpo, che si univa a quello dei centomila fiori come se fosse loro affine per natura eppure diverso.
La badessa, sempre muta, condusse i visitatori tra le aiuole, per sentieri stretti e molto tortuosi, simili a un delicato labirinto; nella leggerezza e nella rapidità del suo incedere si percepiva la gioia che lei stessa provava nel mostrare agli altri la variopinta magnificenza del suo giardino; e quasi si fosse prefissa di far venire loro le vertigini, come se guidasse un'allegra ridda, li precedeva andando sempre più in fretta. All'improvviso però - Casanova ebbe l'impressione di svegliarsi da un sogno confuso - si ritrovarono tutti nel parlatorio. Al di là della grata aleggiavano figure scure; nessuno sarebbe riuscito a distinguere se fossero tre o cinque o venti donne velate, quelle che vagavano avanti e indietro al di là delle spesse grate, come spiriti perseguitati; e soltanto gli occhi abituati alla notte di Casanova erano in grado di distinguere figure umane in quella profonda penombra. La badessa accompagnò i suoi ospiti alla porta e, senza parlare, fece loro cenno che erano congedati, scomparendo prima che avessero il tempo di esprimere i loro obbligati ringraziamenti.
All'improvviso, prima che lasciassero la sala, risuonò dai pressi della grata un «Casanova» pronunziato da una voce di donna:
nient'altro che il nome, ma con un'espressione che Casanova credeva di non avere ancora mai udito. Che fosse stata una sua amata o una donna mai vista a infrangere un sacro voto per alitare un'ultima o una prima volta in aria il suo nome; se vi avesse tremato la beatitudine per un inatteso rivedersi, il dolore per qualcosa di irrimediabilmente perduto o il lamento perché un ardente desiderio di giorni lontani si esaudiva così tardi e inutilmente, Casanova non poté saperlo: sapeva soltanto questo, che il suo nome, che tante volte la tenerezza aveva sussurrato, la passione balbettato e la gioia declamato oggi, per la prima volta, arrivava al suo cuore col suono pieno dell'amore. Ma proprio per questo ogni altra curiosità gli pareva assurda e insensata: e dietro un segreto che nessuno avrebbe mai svelato si chiuse quella porta. Se gli altri non avessero fatto capire, con i loro sguardi timidi e fugaci, di aver udito anch'essi quel richiamo, subito riecheggiato, ciascuno avrebbe potuto credere, da parte sua, a un'illusione sensoriale; infatti mentre avanzavano lungo il loggiato fino alla porta nessuno proferì parola. Casanova però seguiva per ultimo; camminava a capo chino, come dopo un grande addio.
Il portinaio era accanto alla porta e ricevette la sua elemosina; gli ospiti salirono sulla carrozza che li ricondusse a casa senza ulteriori indugi. Olivo sembrava imbarazzato, Amalia rapita, Marcolina invece perfettamente tranquilla; e anche troppo intenzionalmente, così parve a Casanova, tentò di avviare con Amalia una conversazione su questioni di economia domestica, che però fu Olivo a sostenere al posto della moglie. Presto vi si unì anche Casanova, che si intendeva a meraviglia di questioni che riguardassero cucina e cantina e non vedeva motivo, date le sue conoscenze ed esperienze anche in questo campo, quasi una dimostrazione della sua poliedricità, di tenersene lontano. A questo punto anche Amalia si destò dal suo trasognamento; dopo l'avventura quasi favolosa e tuttavia opprimente da cui erano riaffiorati, parevano tutti, ma soprattutto Casanova, trovarsi particolarmente a loro agio in un'atmosfera così terrena e quotidiana; e quando la carrozza si fermò davanti alla casa di Olivo, da cui li raggiunse un invitante profumo di arrosto e di erbe d'ogni genere, Casanova si era appena imbarcato nell'appetitosa descrizione di un pasticcio polacco che anche Marcolina ascoltava con un'amabile partecipazione da casalinga, che Casanova trovò lusinghiera.
In preda a un umore stranamente tranquillo e quasi compiaciuto che meravigliava anche lui, sedette poi a tavola con gli altri, facendo a Marcolina una corte scherzosa e gioviale, come ci si aspetta che un vecchio signore distinto possa fare con una giovane beneducata di famiglia borghese. Lei accettò di buon grado e rispose alle sue gentilezze con grazia infinita. Egli faceva una gran fatica a immaginare che la sua costumata vicina fosse quella stessa Marcolina dalla cui finestra, la notte addietro, aveva visto fuggire un giovane ufficiale che evidentemente era stato nelle sue braccia fino a pochi secondi prima; come gli restava difficile supporre che questa dolce fanciulla, che amava rotolarsi sull'erba con ragazzine non ancora cresciute, intrattenesse una dotta corrispondenza col celebre Saugrenue di Parigi; e subito si rimproverò per questa ridicola pigrizia della sua fantasia. Non aveva già sperimentato, innumerevoli volte, che nell'anima di ogni uomo davvero vivo convivono nel modo più pacifico elementi apparentemente nemici? Lui stesso, che fino a poco prima era un uomo agitato, disperato, anzi pronto a compiere atti malvagi: non era adesso così mite, bonario e incline ad allegri giochetti che le figliolette di Olivo ridevano talvolta a crepapelle?
Soltanto dalla sua fame straordinaria, quasi animalesca, di quelle che lo coglievano sempre dopo forti emozioni, egli si accorse che nella sua anima l'ordine non si era ancora completamente ristabilito.
Insieme all'ultima portata la domestica consegnò una lettera appena giunta per il cavaliere con un messaggero proveniente da Mantova.
Olivo, che notò come Casanova fosse impallidito dall'eccitazione, ordinò di dare al messo da bere e da mangiare e poi disse al suo ospite: «Non vi disturbate, cavaliere, leggete tranquillamente la vostra lettera». «Col vostro permesso», rispose Casanova; si alzò da tavola con un leggero inchino, si avvicinò alla finestra e lesse la lettera con simulata indifferenza. Era di Bragadino, suo paterno amico dei giorni di gioventù, un vecchio scapolone che, ormai più che ottantenne, e da dieci anni membro del Consiglio dei Dieci, pareva prendersi cura della sorte di Casanova più degli altri benefattori che questi aveva a Venezia. La lettera, eccezionalmente gentile e scritta da una mano un po' tremante, diceva letteralmente:
"Mio caro Casanova, oggi mi trovo finalmente nella gradita posizione di potervi inviare una notizia che spero sia sostanzialmente all'altezza dei vostri desideri. Nella sua ultima seduta, tenutasi ieri, il Consiglio dei Dieci non solo si è dichiarato pronto a concedervi di rientrare a Venezia, ma desidera addirittura che lo acceleriate il più possibile, poiché ha intenzione di ricorrere quanto prima alla fattiva riconoscenza che avete prospettato in numerose lettere. Come forse ignorate, caro Casanova (poiché purtroppo è da tanto che abbiamo dovuto rinunciare alla vostra presenza), nel corso degli ultimi tempi la situazione della nostra cara città natale dà un po' da pensare, da un punto di vista sia politico che morale. Nascono società segrete contro la nostra costituzione, che pare si prefiggano una rivoluzione violenta; e com'è nella natura delle cose, sono soprattutto certi elementi votati al libero pensiero, irreligiosi e del tutto dissoluti a partecipare in numero prevalente a queste società che, con una parola più dura, si potrebbero definire anche congiure. Sulle pubbliche piazze, nei caffè, per non parlare dei luoghi privati, come ben sappiamo, si tengono i discorsi più spaventevoli, di vero e proprio alto tradimento, ma solo di rado si riesce a cogliere i colpevoli sul fatto o a provare qualcosa di sicuro sul loro conto, poiché certe confessioni estorte con la tortura si sono dimostrate così inattendibili che alcuni membri del nostro Consiglio dei Dieci preferiscono prescindere da metodi investigativi così orribili e per giunta spesso fuorvianti. Non mancano certo persone che si mettano al servizio del governo per il bene dell'ordine pubblico e dello Stato; ma i più sono troppo noti come ardenti sostenitori della costituzione esistente perché qualcuno si lasci facilmente sfuggire, in loro presenza, un'osservazione incauta o addirittura un discorso di alto tradimento. Ora da uno dei senatori, di cui per il momento non voglio fare il nome, è stata avanzata, durante la seduta di ieri, l'ipotesi per cui qualcuno che abbia la fama di uomo senza principi morali e per giunta di un libero pensatore - in breve qualcuno come voi, Casanova - otterrebbe immediatamente la simpatia di quei circoli sospetti di cui andiamo parlando e - con qualche accortezza da parte sua - incontrerebbe presto una fiducia incondizionata. A mio parete intorno a voi si raccoglierebbero necessariamente, quasi ottemperando a una legge naturale, proprio quegli elementi la cui neutralizzazione e punizione esemplare sta particolarmente a cuore al Consiglio dei Dieci, nella sua instancabile sollecitudine per il bene dello Stato; e noi considereremmo non solo una prova del vostro zelo patriottico, mio caro Casanova, ma anche un segno inequivocabile della vostra completa conversione da tutte quelle tendenze che a suo tempo doveste scontare certo duramente, ma non del tutto ingiustamente, come voi stesso oggi riconoscete (se possiamo credere alle vostre rassicurazioni epistolari), nei Piombi, se voi foste pronto a cercare subito dopo il vostro rimpatrio collegamenti nel senso appena accennato con gli elementi che abbiamo caratterizzato, a stringere con loro rapporti amichevoli come uno che nutra le stesse tendenze e soprattutto a riferire senza indugio e dettagliatamente al Senato quanto vi sembri sospetto o comunque degno d'esser saputo. Per tali servizi si sarebbe inclini ad assegnarvi in un primo momento uno stipendio mensile di duecentocinquanta lire, a prescindere da gratificazioni extra per singoli casi di particolare importanza, nonché naturalmente a rimborsarvi senza esitazioni o spilorcerie tutte le spese derivanti dall'esercizio del vostro servizio (mance a questo o a quell'altro individuo, piccoli doni a membri del gentil sesso, eccetera). Non mi nascondo assolutamente che avrete da combattere diversi scrupoli prima di potervi decidere nel senso da noi auspicato; ma permettete al vostro vecchio e sincero amico (che è stato anche lui giovane) di ricordarvi che non è mai disonorevole rendere alla propria amata patria un servizio indispensabile al proseguimento della sua sicura esistenza, anche se fosse un servizio tale che un cittadino superficiale e non animato da intenti patriottici potrebbe ritenerlo meno degno. Vorrei anche aggiungere che voi, Casanova, siete abbastanza conoscitore dell'animo umano per poter distinguere lo sventato dal criminale e il burlone dall'eretico, e quindi starebbe a voi, nei casi che riterreste opportuni, dare la precedenza alla grazia sul diritto. Riflettete però soprattutto sul fano che differireste di lungo tempo, e anzi, come temo, a data imprevedibile, l'adempimento del vostro più ardente desiderio, il vostro ritorno in patria, se doveste rifiutare la benevola proposta del Consiglio dei Dieci, e che io stesso, se mi è lecito farne menzione, essendo un vecchio di ottantuno anni, secondo ogni calcolo umano dovrei rinunciare alla gioia di rivedervi in questa vita. Poiché il vostro impiego, per comprensibili motivi, non avrebbe carattere pubblico ma anzi piuttosto confidenziale, vi prego di indirizzare a me personalmente la vostra risposta, che mi impegno a comunicare al Consiglio dei Dieci nel corso della prossima seduta, che avrà luogo di qui a otto giorni; e inoltre con la maggiore celerità possibile perché, come già ho accennato, ci giungono quotidianamente istanze da parte di persone in parte estremamente degne di fiducia che si mettono volontariamente a disposizione del Consiglio dei Dieci per amore della patria. Certamente nessuno di costoro potrebbe competere con voi, mio caro Casanova, per esperienza e spirito; e se avrete un minimo di considerazione per la mia simpatia nei vostri confronti, allora non dubito che risponderete con gioia alla chiamata che vi giunge da persona così altolocata e bendisposta. Fino ad allora rimango, con immutata amicizia, il vostro affezionato Bragadino.
'Postscriptum'. Avrò il piacere, non appena mi avrete comunicato la vostra decisione, di emettere una cambiale dell'importo di duecento lire sulla banca Valori di Mantova onde coprire le vostre spese di viaggio, Il suddetto".
Casanova aveva da tempo finito di leggere, ma continuava a tenere il foglio davanti agli occhi, per non far notare il pallore mortale dei suoi tratti sconvolti. Nel frattempo il rumore del pasto era proseguito, tra sbattere di posate e tinnir di bicchieri, ma nessuno diceva una parola. Alla fine Amalia si permise di notare, timidamente:
«La minestra si fredda, cavaliere, non volete servirvi?». «Grazie», disse Casanova mostrando nuovamente il volto, cui soltanto grazie alla sua consumata abilità di attore era riuscito a conferire un'espressione calma. «Sono notizie magnifiche, quelle che mi giungono da Venezia, e devo spedire senza indugio la mia risposta. Chiedo perciò licenza di potermi ritirare subito.» «Fate come meglio vi aggrada, cavaliere», disse Olivo. «Ma non dimenticate che tra un'ora si comincia a giocare.» Casanova andò in camera sua, sprofondò su una sedia e tutto il corpo gli si coprì di sudore freddo; era scosso dai brividi, e gli salì in gola una nausea tale che pensò di dover soffocare sul posto. Non era in grado, tanto per cominciare, di concepire un pensiero; e comunque impiegava tutte le sue forze per trattenersi, senza che sapesse dire da che cosa. Infatti in quella casa non c'era nessuno con cui avrebbe potuto sfogare la sua collera immane, e riusciva pur sempre a riconoscere come folle l'oscura impressione che Marcolina fosse in qualche modo corresponsabile dell'indicibile onta che gli era capitata. Quando si fu ricomposto, il suo primo pensiero fu quello di vendicarsi di quei farabutti che avevano creduto di poterlo assoldare come informatore della polizia. Avrebbe voluto insinuarsi a Venezia sotto mentite spoglie e uccidere con l'inganno tutti quei furfanti...
o quanto meno colui che aveva escogitato quel piano miserevole. Era stato forse lo stesso Bragadino? Perché no? Un vecchio, ormai così spudorato che aveva osato scrivere a Casanova quella lettera, così stupido da credere che Casanova - Casanova! che pure aveva conosciuto - fosse adatto a fare la spia! No, non lo conosceva più, Casanova!
Nessuno lo conosceva più, né a Venezia né altrove. Ma lo avrebbero conosciuto di nuovo. Certo, non era più abbastanza né bello né giovane da sedurre una fanciulla virtuosa, né più abbastanza abile e agile da scappare di prigione e fare esercizi ginnici sulla linea di colmo dei tetti... ma era pur sempre più intelligente di tutti loro! E una volta a Venezia, avrebbe potuto darsi da fare come meglio credeva:
l'importante era arrivarci! Forse non ci sarebbe stato neppure bisogno di uccidere qualcuno: esistevano vendette d'ogni genere, più argute e più diaboliche di quanto non fosse un banale omicidio; e se avesse accolto solo in apparenza la proposta di quei signori, sarebbe stata la cosa più facile del mondo rovinare proprio quelli che voleva rovinare e non quelli che invece premevano al Consiglio dei Dieci e che, tra tutti i veneziani, erano senz'altro i migliori! Come? Perché erano nemici di questo infame governo, perché erano considerati eretici, dovevano finire in quegli stessi Piombi dove anch'egli aveva languito, venticinque anni prima, o addirittura sotto la mannaia? Egli odiava il governo cento volte di più e con motivi migliori di costoro, ed eretico lo era stato per tutta la vita, lo era ancora oggi e con convinzioni più sacre di tutti loro! Si era recitato soltanto una fastidiosa commedia, in questi ultimi anni: per noia e nausea. Lui credere in Dio? Che Dio era mai questo, benevolo solo ai giovani, che piantava in asso i vecchi? Un Dio che, quando voleva, si trasformava in diavolo, e convertiva ricchezza in povertà, infelicità in felicità, piacere in disperazione? Tu ti diverti con noi, e noi ti dobbiamo pregare? Dubitare di te è l'unico mezzo che ci rimane, per non bestemmiarti! Non essere! Perché, se sei, ti devo maledire! Strinse i pugni verso il cielo e si drizzò. Involontariamente alle sue labbra affiorò un nome odiato. Voltaire! Sì, adesso era nella disposizione d'animo giusta per portare a compimento il suo libello contro il vecchio saggio di Ferney. Compimento? Ma no, cominciava soltanto adesso. Una nuova opera! Diversa! In cui quel ridicolo vecchio fosse strapazzato come meritava... per la sua cautela, la sua superficialità, il suo servilismo. Un incredulo lui? Di cui ultimamente si diceva che avesse ottimi rapporti coi preti e con la Chiesa e che, nei giorni solenni, si andasse addirittura a confessare?
Un eretico lui? Un chiacchierone, un vigliacco millantatore, nient'altro! Era però giunta la terribile resa dei conti, dopo la quale del grande filosofo non sarebbe rimasto nient'altro se non un'operetta buffa. Come si era atteggiato, il buon signor Voltaire...
«Ah, mio caro signor Casanova, io ce l'ho davvero con voi. Che cosa mi importa delle opere del signor Merlin? Siete voi il responsabile, se ho sprecato quattro ore con queste stupidaggini.» «Questione di gusto, ottimo signor Voltaire! Le opere di Merlin continueranno a essere lette anche quando la "Pucelle" sarà dimenticata da tempo... e saranno probabilmente apprezzati anche i miei sonetti, che mi restituiste con uno spudorato sorriso, senza una sola parola in merito. Ma queste sono piccolezze. Non turbiamo un momento importante con suscettibilità da scrittori: si tratta di filosofia, per Dio!... Incrociare le spade, signor Voltaire, mi faccia il piacere di non morire troppo presto.» Già pensava di mettersi immediatamente all'opera quando gli venne in mente che il messo attendeva una risposta. E con la mano che volava vergò una lettera a quel vecchio sciocco di Bragadino, una lettera carica di lusinghiera umiltà e falsa delizia: egli accoglieva la grazia del Consiglio dei Dieci con gioiosa gratitudine e attendeva a stretto giro di posta la cambiale onde potersi gettare il più presto possibile ai piedi dei suoi benefattori ma soprattutto del suo veneratissimo amico paterno, Bragadino. Proprio mentre stava per sigillare la lettera bussarono piano alla porta: la figlioletta più grande di Olivo, la tredicenne, entrò e riferì che tutta la compagnia era già riunita e attendeva con impazienza il cavaliere per poter giocare. Le brillavano stranamente gli occhi e aveva le guance arrossate; i fitti capelli da donna mandavano riflessi nero-blu sulle sue tempie; la bocca infantile era semiaperta. «Hai bevuto vino, Teresina?» «Proprio così... e il signor cavaliere se ne accorge immediatamente?» Arrossì ancora di più e, come imbarazzata, si passò la lingua sul labbro inferiore. Casanova la afferrò per le spalle, le alitò il suo respiro in volto e la gettò sul letto; lei lo guardò con i suoi occhioni inermi, dai quali era scomparsa ogni luce; ma quando la sua bocca si aprì come per gridare, Casanova fece una faccia così minacciosa che ella quasi si irrigidì e gli lasciò fare tutto quello che volle. La baciò con una tenerezza selvaggia e sussurrò: «Non devi dirlo all'abate, Teresina, neppure in confessione. E quando, più tardi, avrai un innamorato o un fidanzato o persino un marito, non c'è bisogno che lo sappia neppure lui. Del resto devi sempre mentire; anche al papà e alla mamma e alle tue sorelle, se vuoi che le cose ti vadano bene sulla terra. Ricordatelo bene». Così bestemmiò; e a Teresina dovette certo sembrare una benedizione perché gli prese la mano e la baciò devotamente come quella di un prete. Egli scoppiò in una fragorosa risata. «Vieni», disse poi, «vieni, mia piccola donna, scendiamo dabbasso a braccetto!» Lei fece un po' la ritrosa ma poi accettò sorridendo, non scontenta.
Era proprio l'ora che uscissero dalla porta, perché Olivo stava salendo le scale accaldato e con le sopracciglia aggrottate, e Casanova suppose subito che qualche scherzo indelicato del marchese o dell'abate potesse avergli dato da pensare. I suoi tratti si rischiararono subito quando vide Casanova sulla soglia a braccetto con la piccola, come per scherzo. «Perdonatemi, mio ottimo Olivo, se vi ho fatto aspettare. Dovevo finire la mia lettera.» La porse a Olivo come prova. «Prendila», disse Olivo a Teresina mentre le carezzava i capelli un po' scompigliati, «e portala al messo.» «E qui», aggiunse Casanova, «ecco due monete d'oro, dalle a quell'uomo e digli che si affretti affinché la lettera parta oggi stesso da Mantova per Venezia, e informi la mia locandiera che stasera sarò di nuovo da lei.» «Stasera?», esclamò Olivo. «Be', vedremo», disse Casanova con condiscendenza. «E qui, Teresina, c'è una moneta d'oro per te»,... e alle obiezioni di Olivo: «Mettila nel tuo salvadanaio, Teresina: la lettera che hai in mano vale duemila ducati». Teresina corse via, e Casanova annuì soddisfatto: gli procurava un particolare divertimento pagare per i suoi servigi quella ragazzina, di cui aveva già posseduto la mamma e la nonna, in presenza di suo padre.
Quando Casanova entrò con Olivo nel salone, si era già cominciato a giocare. Egli ricambiò con allegra dignità gli enfatici saluti degli altri e prese posto davanti al marchese, che teneva il banco. Le finestre erano aperte verso il giardino, e Casanova udì avvicinarsi alcune voci: passarono Marcolina e Amalia, gettarono una rapida occhiata dentro la sala, scomparvero e non si videro più. Mentre il marchese distribuiva le carte, Lorenzi si rivolse con grande cortesia a Casanova. «Vi faccio i miei complimenti, cavaliere: eravate meglio informato di quanto non fossi io, e il nostro reggimento si mette davvero in marcia domani, prima di sera.» Il marchese parve stupito.
«E ce lo dite soltanto adesso, Lorenzi?» «Non è certo così importante!» «Per me non tanto», affermò il marchese, «ma per mia moglie! Non trovate?» E scoppiò in una risata roca, ripugnante. «E comunque anche per me! Ieri mi avete vinto quattrocento ducati, e non mi rimane abbastanza tempo per recuperarli.» «Anche a noi il sottotenente ha vinto dei soldi», intervenne il più giovane dei due Ricardi, e il più vecchio, senza parlare, alzò gli occhi verso le spalle del fratello che, come il giorno prima, era in piedi dietro di lui. «La fortuna e le donne...», cominciò l'abate. Ma il marchese concluse: «baciano chi sa come trattarle». Lorenzi sparpagliò i suoi soldi davanti a sé, come sbadatamente. «Eccoli qua. Se desiderate, tutti in un solo piatto, marchese, così non dovrete correre troppo dietro al vostro denaro.» Casanova provò all'improvviso una specie di compassione per Lorenzi che non seppe spiegarsi bene neanche lui; ma poiché aveva una certa stima della sua intuizione, si convinse che il sottotenente sarebbe caduto nel primo combattimento cui avrebbe partecipato. Il marchese non accettò quella puntata così alta; Lorenzi non insistette e così il gioco, cui anche gli altri presero modestamente parte, come il giorno prima, iniziò con puntate moderate.
Queste si fecero più alte già nel secondo quarto d'ora; e prima che terminasse quello seguente Lorenzi aveva già perduto i suoi quattrocento ducati col marchese. Di Casanova pareva che la fortuna non si curasse: egli vinse, perse e vinse ancora, a intervalli quasi ridicolmente regolari. Quando l'ultimo ducato fu spinto verso il marchese, Lorenzi tirò un respiro di sollievo e si alzò. «Vi ringrazio, miei signori. Dovrà passare», e indugiò, «lungo tempo prima che possa giocare ancora in questa casa accogliente. E adesso, mio egregio Olivo, prima che io torni in città, consentitemi di prendere congedo dalle signore: vorrei infatti arrivare prima del tramonto, per preparare il mio equipaggiamento per domani.» Spudorato bugiardo, pensò Casanova. Stanotte sei di nuovo qui... con Marcolina! In lui si riaccese la collera. «Come?», esclamò il marchese di pessimo umore, «mancano ancora molte ore a sera e abbiamo già finito di giocare? Se desiderate, Lorenzi, il mio cocchiere può andare ad avvertire la marchesa che tardate.» «Sto andando a Mantova», ribatté impaziente Lorenzi. Il marchese, senza badargli continuò: «Abbiamo ancora tempo; tirate fuori i vostri soldi, anche se sono pochi». E gli tirò una carta. «Non ho un solo ducato» disse stancamente Lorenzi. «Che cosa dite mai!» «Nemmeno uno» ripeté Lorenzi come nauseato. «Che importa», esclamò il marchese in preda a un'improvvisa gentilezza, dall'effetto non gradevolissimo. «Mi dovete dieci ducati, andiamo, e se necessario anche di più.» «Un ducato, allora», disse Lorenzi prendendo le carte.
Quelle del marchese erano più alte. Lorenzi continuò a giocare, come se fosse naturale, e presto fu debitore al marchese di cento ducati.
Casanova prese il banco ed ebbe ancora più fortuna del marchese. Nel frattempo erano rimasti in tre a giocare: oggi nemmeno i fratelli Ricardi avevano sollevato obiezioni e si erano messi a guardare, con Olivo e l'abate. Non fu scambiata una parola: a parlare erano solo le carte, e parlavano abbastanza chiaramente. Il caso volle che tutti i contanti andassero a Casanova, e un'ora dopo aveva sì vinto duemila ducati a Lorenzi, ma venivano tutti dalle tasche del marchese, che era rimasto senza un soldo. Casanova gli mise a disposizione quanto voleva. Il marchese scosse la testa: «Grazie», disse. «Basta così. Io ho finito di giocare.» Dal giardino riecheggiarono le risa e le urla delle bambine. Casanova udì la voce di Teresina; era seduto con le spalle alla finestra e non si voltò. Cercò un'ultima volta, in favore di Lorenzi, non sapeva neppure lui perché, di convincere il marchese a giocare ancora. Questi rispose scuotendo la testa in modo ancora più risoluto. Lorenzi si alzò. «Mi permetterò, signor marchese, di consegnarvi personalmente l'importo di cui vi sono debitore domani prima di mezzogiorno, direttamente nelle vostre mani.» Il marchese fece una risatina. «Sono curioso di vedere come ve la caverete, signor sottotenente Lorenzi. Non c'è anima viva, a Mantova o altrove, che vi presterebbe anche solo dieci ducati, figuriamoci duemila, in particolare oggi che state partendo per una campagna di guerra; e non è detto che torniate.» «Avrete il vostro denaro domani mattina alle otto, signor marchese, sulla mia... parola d'onore.» «La vostra parola d'onore», rispose freddamente il marchese, «non vale per me neppure un ducato, che è molto meno di duemila.» Gli altri trattennero il respiro, ma Lorenzi replicò soltanto, apparentemente senza troppa agitazione: «Mi darete soddisfazione, signor marchese». «Con piacere, signor tenente», rispose il marchese, «non appena avrete pagato il vostro debito.» Olivo, dispiaciutissimo, intervenne balbettando un po': «Mi rendo garante per l'importo, signor marchese. Purtroppo non ho sottomano abbastanza contanti, ma c'è la mia casa, la mia proprietà...» e fece un goffo movimento circolare con la mano. «Non accetto la vostra garanzia», disse il marchese, «per il vostro bene, perché perdereste i vostri soldi.» Casanova vide che gli sguardi di tutti erano fissi sul denaro posto davanti a lui. Se io garantissi per Lorenzi, pensò. Se pagassi per lui... Il marchese non potrebbe rifiutare... Non sarebbe quasi mio dovere? Sono pur sempre soldi del marchese. Ma tacque. Sentiva che dentro di lui stava nascendo un piano, per ora oscuro, cui doveva dare il tempo di prendere forma.
«Avrete il vostro denaro oggi stesso, prima che cali la notte», disse Lorenzi. «In un'ora sono a Mantova.» «Il vostro cavallo potrebbe rompersi il collo», replicò il marchese, «e anche voi... magari intenzionalmente.» «Purtuttavia», intervenne involontariamente l'abate, «il sottotenente non può far apparire denaro come per magia.» I due Ricardi risero, ma smisero subito. «E' evidente», disse Olivo al marchese, «che dovete innanzitutto permettere al sottotenente Lorenzi di allontanarsi.» «Contro un pegno», esclamò il marchese con occhi scintillanti, come se l'accaduto gli procurasse un particolare piacere. «Non mi pare male», disse Casanova distrattamente, perché il suo piano stava maturando. Lorenzi si tolse un anello dal dito e lo fece scivolare sul tavolo. Il marchese lo prese. «Questo può valere mille ducati.» «E quest'altro?» Lorenzi spinse un secondo anello davanti al marchese. Questi annuì, affermando: «Altri mille». «Siete soddisfatto, adesso, signor marchese?», domandò Lorenzi, e fece per andarsene. «Sono soddisfatto», rispose compiaciuto il marchese, «tanto più che questi anelli sono rubati.» Lorenzi si voltò rapidamente e alzò un pugno sul tavolo, per abbatterlo sul marchese. Olivo e l'abate gli trattennero il braccio. «Conosco queste due pietre», disse il marchese senza muoversi dal suo posto, «anche se la montatura è diversa. Vedete, miei signori, lo smeraldo ha un piccolo difetto, altrimenti varrebbe dieci volte tanto. Il rubino è perfetto, ma non molto grande. Queste due pietre facevano parte di un gioiello che io stesso donai a mia moglie. E poiché non posso pensare che la marchesa abbia fatto montare queste pietre come anelli per il sottotenente Lorenzi, esse, anzi tutto il gioiello non può essere altro che rubato.
Comunque... il pegno mi basta, signor sottotenente, alla prossima.» «Lorenzi!», esclamò Olivo. «Avete da noi tutti la parola che nessuna anima viva saprà mai quello che è appena accaduto.» «Ma poi, che cosa ha mai commesso il signor Lorenzi», disse Casanova. «Dei due la canaglia siete voi, signor marchese.» «Voglio sperarlo», rispose il marchese. «Quando uno ha la nostra età, signor cavaliere di Seingalt, almeno in furfanteria non si può far superare da nessuno. Buona sera, miei signori.» Si alzò, nessuno rispose al suo saluto, e se ne andò.
Per un po' ci fu un tale silenzio che si percepirono come eccessivamente forti le risa delle bimbe provenienti da fuori. Chi avrebbe potuto trovare le parole adatte per giungere all'animo di Lorenzi, ancora immobile accanto al tavolo col braccio sollevato?
Casanova, l'unico a essere rimasto seduto al suo posto, provò un involontario piacere estetico nell'osservare questo gesto ormai assurdo, come pietrificato ma nobilmente minaccioso, che pareva trasformare il giovane in una statua. Infine Olivo gli si rivolse con un gesto come di pacificazione; si avvicinarono anche i Ricardi, e l'abate parve volere decidersi a parlare; allora le membra di Lorenzi furono scosse come da un leggero tremito; un gesto imperioso e sdegnato impedì ogni tentativo di ingerenza e, con un cortese cenno del capo, egli lasciò la stanza senza fretta. Nel medesimo istante si alzò anche Casanova, che aveva raccolto l'oro sparso davanti a lui in un fazzoletto di seta, e lo seguì. Sentiva, pur senza vedere le espressioni degli altri, che tutti pensavano si stesse affrettando a fare quello che si erano attesi per tutto il tempo, che mettesse cioè la somma vinta a disposizione di Lorenzi.
Raggiunse Lorenzi nel viale di ippocastani che portava da casa al castello, e disse in tono leggero: «Mi permettereste, sottotenente Lorenzi, di unirmi alla vostra passeggiata?». Lorenzi, senza guardarlo, rispose in tono un po' altezzoso, per niente adeguato alla sua situazione: «Come meglio vi aggrada, signor cavaliere; ma temo che non troverete in me un compagno che faccia conversazione». «Ma forse sarete voi, sottotenente Lorenzi, a trovarne uno in me», disse Casanova, «e se siete d'accordo, prendiamo il sentiero su per le vigne, dove potremo chiacchierare indisturbati.» Lasciarono la via maestra su quello stesso sentiero lungo il muro di cinta che Casanova aveva percorso il giorno prima con Olivo. «Voi presumete giustamente», così esordì Casanova, «che io abbia intenzione di offrirvi la somma di denaro che dovete al marchese; non a mo' di prestito perché - mi perdonerete - mi pare un affare un po' troppo rischioso, ma come ricompensa - a dire il vero non di pari valore - per un piacere che forse sarete in grado di farmi.» «Vi ascolto», disse freddamente Lorenzi. «Prima che vada avanti», riprese Casanova nello stesso tono, «mi trovo costretto a porre una condizione dalla cui accettazione da parte vostra dipende la prosecuzione di questo colloquio.» «Sentiamo questa condizione.» «Pretendo la vostra parola d'onore che mi ascolterete senza interrompermi anche se quanto ho da dirvi suscitasse la vostra sorpresa o la vostra riprovazione o anche la vostra collera.
Sta completamente a voi, sottotenente Lorenzi, se poi accettare o meno la mia proposta, sul cui carattere insolito non nutro nessun dubbio; ma la risposta che mi attendo da voi è soltanto un sì o un no, e qualunque essa sia, nessuno saprà mai niente di quanto qui è stato trattato tra due uomini d'onore che sono forse entrambi anche perduti.» «Sono pronto ad ascoltare la vostra proposta.» «E accettate la mia condizione?» «Non vi interromperò.» «E non mi darete altra risposta se non un sì o un no?» «Nient'altro se non sì o no.» «Benissimo», disse Casanova. E mentre lentamente risalivano la collina, tra i vitigni, sotto un afoso cielo pomeridiano, Casanova cominciò: «Affrontiamo la questione partendo dalle leggi della logica, così ci intenderemo meglio. Evidentemente non avete possibilità alcuna di procurarvi il denaro che dovete al marchese entro il termine da lui stabilito; e nel caso in cui non lo facciate, non c'è dubbio che egli sia ben deciso ad annientarvi. Poiché sa di voi più (qui Casanova azzardò un po' più del dovuto, ma egli amava queste piccole avventure non del tutto prive di pericoli su una strada per il resto predeterminata) di quanto ci abbia oggi rivelato, voi siete davvero completamente nelle mani di questa canaglia, e il vostro destino di ufficiale e di nobiluomo sarebbe segnato. Questo è un lato della cosa.
Per contro sarete salvo non appena avrete saldato il vostro debito e avrete di nuovo in mano gli anelli, comunque siano venuti in vostro possesso; e questo non è meno importante, per voi, poiché tornate padrone di un'esistenza con la quale avevate già chiuso, un'esistenza, poiché siete giovane, bello e ardito, piena di splendori, felicità e fama. Una tale prospettiva mi sembra abbastanza magnifica, in particolare se dall'altra parte non c'è altro che un tramonto senza fama, anzi deprecabile, per sacrificarla a un pregiudizio che personalmente non si è mai nutrito. Io so, Lorenzi» aggiunse rapidamente, come se stesse arrivando un'obiezione e la volesse prevenire, «che voi non avete pregiudizi, come non ne ho mai avuti io; quello che intendo chiedere a voi è cosa che io stesso, al vostro posto e nelle stesse circostanze, non esiterei un attimo a esaudire, come del resto non mi sono mai tirato indietro, quando lo volevano il destino o anche solo il mio umore, a commettere una canagliata, o meglio ciò che i folli di questo mondo amano definire così. Anch'io, Lorenzi, come voi, sono stato pronto in ogni momento a giocarmi la vita per meno di niente, e questo pareggia tutto. Lo sono anche adesso, nel caso in cui la mia proposta non vi piaccia. Noi siamo fatti della stessa stoffa, Lorenzi, siamo fratelli di spirito, e così le nostre anime possono stare l'una davanti all'altra senza falsi pudori, orgogliose e nude. Ecco i miei duemila ducati - anzi i vostri, se permetterete che io trascorra questa notte con Marcolina al posto vostro. Non fermiamoci, Lorenzi, continuiamo a camminare».
Proseguirono tra i campi, tra i bassi alberi da frutto, insinuandosi tra le viti cariche di grappoli; Casanova continuava a parlare. «Non mi rispondete ancora, Lorenzi, non ho finito. Le mie pretese sarebbero naturalmente, se non sacrileghe, quanto meno prive di prospettive e quindi assurde, se voi aveste intenzione di fare di Marcolina la vostra sposa, o se la stessa Marcolina orientasse le sue speranze e i suoi desideri in questa direzione. Ma come la scorsa notte è stata la vostra prima notte d'amore (espresse anche questa sua congettura come un'incrollabile certezza), così quella ventura è destinata a essere, secondo ogni calcolo umano ma pure secondo le intenzioni vostre e di Marcolina, la vostra ultima, per molto tempo e probabilmente per sempre: e io sono convinto che la stessa Marcolina, per salvare il suo amato da una rovina sicura, sarebbe pronta senza indugio, se lui lo desiderasse, a concedere questa notte al suo salvatore. Perché anche lei è una filosofa, e quindi come noi libera da pregiudizi. Ma per quanto io sia certo che supererebbe questa prova, non ho assolutamente intenzione di imporgliela. Perché possedere una donna che non mi vuole e che intimamente mi rifiuta è cosa che, in questo caso, non soddisferebbe le mie esigenze. Non solo come amante, ma come amato, voglio godere una felicità che, alla fine, mi pare abbastanza grande da essere pagata con la vita. Comprendetemi bene, Lorenzi. Per ciò Marcolina non deve neppure presagire che sono io a stringere il suo seno celestiale: deve essere convinta di non avere tra le sue braccia altri che voi. Preparare questa illusione è affar vostro; mantenerla, affar mio. Non avrete particolari difficoltà a farle capire che dovete partire prima che faccia giorno; né sarete in imbarazzo a trovare una scusa per il fatto che la farete felice senza parlare. Del resto, per escludere anche ogni pericolo di una scoperta successiva, a un certo momento fingerò di aver udito un rumore sospetto fuori dalla finestra, afferrerò il mio mantello, anzi il vostro, che naturalmente mi dovrete prestare alla bisogna, e scomparirò dalla finestra, per non farmi vedere mai più. Perché naturalmente, in apparenza, partirò oggi stesso, poi col pretesto di avere dimenticato documenti importanti a metà strada farò tornare indietro il cocchiere e mi introdurrò nel giardino dalla porta di dietro - la copia della chiave me la darete voi, Lorenzi - fino alla finestra di Marcolina, che si aprirà a mezzanotte. Di abito, calze e scarpe mi sarò sbarazzato in carrozza, e indosserò soltanto il mantello, cosicché alla mia precipitosa fuga non rimanga niente che possa tradire me o voi. Il mantello lo riavrete domani mattina alle cinque nella mia locanda di Mantova, insieme ai duemila ducati, in modo che possiate scagliare questa somma ai piedi del marchese prima ancora dell'ora stabilita. In questo senso avete il mio solenne giuramento. E adesso ho finito.» Tutto a un tratto si fermò. Il sole inclinava al tramonto, una brezza leggera carezzava le spighe gialle e un rossiccio chiarore vespertino circondava la torre della casa di Olivo. Anche Lorenzi si fermò; sul suo volto pallido non si muoveva un muscolo, e guardava immobile lontano, oltre le spalle di Casanova. Le braccia gli pendevano fiacche, mentre la mano di Casanova, che era pronto a tutto, era casualmente finita sull'elsa della spada. Trascorsero alcuni secondi senza che Lorenzi recedesse dalla sua rigida postura e dal suo silenzio. Sembrava immerso in una tranquilla riflessione; ma Casanova rimase all'erta, e proseguì tenendo con la destra il fazzoletto coi ducati e con la sinistra l'elsa della spada: «Avete rispettato la mia condizione, come un uomo d'onore. So che non vi è stato facile.
Infatti, anche se non abbiamo pregiudizi, l'atmosfera in cui viviamo è da essi così avvelenata che non possiamo sottrarci completamente alla loro influenza. E come voi, Lorenzi, nel corso dell'ultimo quarto d'ora siete stato più volte in procinto di saltarmi alla gola, così io - lo devo ammettere - ho giocato un po' con l'idea di regalarveli, i duemila ducati, come a un amico, no, al mio amico, perché raramente ho provato per una persona, sin dal primo istante, una simpatia così enigmatica come per voi. Ma se avessi ceduto a questo generoso istinto, me ne sarei profondamente pentito all'istante stesso, proprio come voi, Lorenzi, prima ancora di cacciarvi la palla in testa, avreste disperatamente riconosciuto che eravate stato un folle senza pari a gettare via mille notti d'amore con donne sempre nuove per un'unica notte cui non sarebbe seguita nessuna notte... e nessun giorno».
Lorenzi taceva ancora; il suo silenzio durò secondi, durò minuti, e Casanova si chiese per quanto tempo aspettare ancora. Stava già per allontanarsi con un breve saluto, indicando così che considerava la sua proposta respinta, quando Lorenzi, sempre muto, con un movimento tutto fuorché rapido infilò la mano nella tasca della giacca e porse a Casanova, che nello stesso istante era indietreggiato di un passo come per abbassarsi, ora come prima pronto a tutto, la chiave del giardino.
Il movimento di Casanova, che aveva pur sempre espresso un moto di paura, fece apparire sulle labbra di Lorenzi un sorriso di scherno che subito scomparve. Casanova seppe reprimere, anzi nascondere, la sua crescente collera, il cui effettivo scoppio avrebbe potuto rovinare tutto, e prendendo la chiave con un leggero cenno del capo si limitò a notare: «Posso bene farlo valere per un sì. Tra un'ora esatta - nel frattempo sarete riuscito a parlare con Marcolina - vi aspetto nella camera della torre, dove mi permetterò di consegnarvi immediatamente i duemila ducati, in cambio del vostro mantello. In primo luogo come segno della mia fiducia e in secondo luogo perché non saprei davvero dove custodire il denaro per la notte». Si separarono senza altre formalità; Lorenzi riprese la strada da cui erano venuti assieme, Casanova un'altra, per il villaggio vicino, dove con una copiosa caparra si assicurò alla locanda che una vettura lo aspettasse alle dieci, davanti alla casa di Olivo, per portarlo a Mantova.
Poco dopo, non prima di aver riposto il denaro in un posto sicuro nella camera della torre, entrava nel giardino di Olivo, dove gli si offrì una vista che in sé non aveva niente di singolare ma che, nell'atmosfera di quell'ora, lo commosse in modo abbastanza strano. Su una panchina, sul bordo del prato, era seduto Olivo con Amalia, con un braccio intorno alle spalle di lei; ai loro piedi erano accucciate le bambine, come spossate dai giochi del pomeriggio; la più piccola, Maria, aveva appoggiato la testa sul grembo della mamma e pareva assopita. Nanetta era sdraiata sul prato, ai suoi piedi, con le braccia sotto la nuca; Teresina era appoggiata alle ginocchia del padre, le cui dita giocavano teneramente con i suoi capelli; e quando Casanova si avvicinò, dagli occhi di lei non lo salutò assolutamente uno sguardo di desiderio e di intesa, come involontariamente si aspettava, ma un aperto sorriso di confidenza infantile, come se quel che era accaduto tra lei e lui poche ore prima non fosse stato nient'altro che un gioco da nulla. I tratti di Olivo si accesero gentilmente quando lo vide avvicinarsi, e Amalia gli fece un cenno cordiale e grato. Entrambi lo accoglievano, Casanova non ne dubitava, come si fa con qualcuno che abbia compiuto una nobile azione e che al tempo stesso si aspetti che gli altri abbiano la delicatezza di evitare di farne parola. «E' proprio vero», domandò Olivo, «che ci abbandonate già domani, mio caro cavaliere?» «Non domani», rispose Casanova «ma - come vi ho detto - stasera.» E poiché Olivo stava per sollevare una nuova obiezione, proseguì scrollando le spalle, come rammaricandosi: «La lettera che ho ricevuto oggi da Venezia non mi lascia altra scelta. L'invito giuntomi è così onorevole, sotto ogni punto di vista, che ogni rinvio del mio ritorno significherebbe una perversa, anzi imperdonabile scortesia nei confronti dei miei alti benefattori». Chiese al tempo stesso licenza di potersi ritirare per prepararsi alla partenza e poter così trascorrere indisturbato le ultime ore della sua permanenza nella cerchia dei suoi cari amici.
E senza ascoltare tutte le obiezioni tornò in casa, salì le scale fino alla stanza della torre e, prima di tutto, si cambiò l'abito elegante con quello più semplice, che sarebbe andato bene per il viaggio. Poi rifece la sacca da viaggio e, con un'attenzione che si faceva più vibrante di minuto in minuto, tese le orecchie ai passi di Lorenzi.
Ancor prima del termine prestabilito si udì un leggero colpo alla porta ed entrò Lorenzi, con un ampio mantello blu da cavaliere. Senza dire una parola, se lo fece scivolare dalle spalle con un movimento lieve, cosicché tra i due uomini si venne a trovare, sul pavimento, un informe cumulo di stoffa. Casanova estrasse i suoi ducati dall'imbottitura del letto e li sparse sul tavolo. Li contò accuratamente davanti agli occhi di Lorenzi, cosa che fu abbastanza rapida perché molte monete erano da più di un ducato, consegnò a Lorenzi la somma convenuta, dopo averla distribuita in due borsellini, al che gli rimasero ancora circa cento ducati. Lorenzi mise i borsellini nelle due tasche della giacca, e stava per allontanarsi senza dire una parola. «Alto là, Lorenzi», disse Casanova, «è pur sempre possibile che ci incontriamo ancora, nella vita. Che sia senza astio. E' stato un affare come un altro, siamo pari», e gli porse la mano. Lorenzi non la strinse, ma pronunciò le prime parole. «Non ricordo», disse, «che anche questo fosse previsto dal nostro patto.» Si girò e se ne andò.
Siamo a posto così, amico mio? pensò Casanova. Posso esser quindi certo, a maggior ragione, che non mi hai defraudato. A dire il vero non aveva mai pensato seriamente a questa possibilità: sapeva per esperienza personale che la gente come Lorenzi aveva un senso dell'onore molto particolare, le cui leggi non erano suddivisibili in paragrafi ma sulle quali, nei singoli casi, non si poteva avere dubbi.
Sistemò il mantello di Lorenzi in cima alla sua sacca da viaggio e la chiuse; si nascose addosso il denaro che gli restava, controllò dappertutto la sua camera, dove non avrebbe mai rimesso piede, e con spada e cappello, pronto per partire, si recò nel salone, dove trovò Olivo già seduto a tavola con la moglie e le figlie. Marcolina, proveniente dal giardino, entrò insieme a lui, dall'altra parte, cosa questa che Casanova interpretò come un segno favorevole del destino, e rispose al suo saluto con un disinvolto cenno del capo. Fu servita la cena; la conversazione dapprima stentò, come rallentata dall'atmosfera dell'addio. Amalia sembrava occuparsi particolarmente delle figlie, sempre attenta che non riempissero troppo o troppo poco i loro piatti.
Olivo, senza un motivo plausibile, parlò di un insignificante processo con un suo vicino che si era concluso in suo favore e di un viaggio d'affari che l'avrebbe tra poco condotto a Mantova e a Cremona.
Casanova espresse la speranza di poter rivedere l'amico a Venezia tra non molto. Tra l'altro, che strana coincidenza, Olivo non c'era mai stato. Amalia aveva visitato quella città meravigliosa molti anni prima, da bambina; come fosse stato, non avrebbe più saputo dirlo; ricordava soltanto un vecchio signore avvolto in un mantello rosso scarlatto che era sceso da un'imbarcazione nera di forma allungata, aveva inciampato ed era caduto disteso. «Neppure voi conoscete Venezia?», domandò Casanova a Marcolina, che era seduta proprio davanti a lui e guardava la profonda oscurità del giardino dietro le spalle di lui. Lei scosse la testa, senza una parola. E Casanova pensò: se te la potessi mostrare, la città in cui sono stato giovane!
Oh, se tu fossi stata giovane con me... E gli venne un altro pensiero, quasi assurdo quanto quello: e se adesso ti portassi via con me? Ma mentre tutto ciò attraversava inespresso la sua anima, aveva già cominciato a parlare della città della sua gioventù con quella leggerezza che gli era data anche nei momenti di più forte agitazione interiore: con tanta artificiosità e freddezza come se si fosse trattato di descrivere un quadro,finché,riscaldando involontariamente il tono, giunse a parlare della storia della sua vita, e si trovò improvvisamente con la sua persona in mezzo a quel quadro, che soltanto adesso cominciò a vivere e a rilucere. Parlò di sua madre, celebre attrice per la quale il grande Goldoni, suo ammiratore, aveva composto l'eccellente commedia "La pupilla"; raccontò poi del suo squallido soggiorno nella pensione dell'avaro dottor Gozzi, del suo amore infantile per la figlioletta del giardiniere, che poi era scappata con un lacchè; della sua prima predica da giovane abate, dopo la quale aveva trovato nel borsello del sacrestano non solo le solite monete, ma anche qualche dolce letterina; delle mascalzonate che era solito combinare, con alcuni compagni animati dagli stessi sentimenti, quand'era violinista nell'orchestra del teatro di San Samuele, mascherato o senza maschera, per calli, mescite, sale da gioco e da ballo; ma anche di questi tiri spavaldi e talvolta davvero inquietanti riferì senza adoperare una sola parola sgradevole, anzi in modo poetico-trasfigurante, quasi volesse avere riguardo delle bimbe, che pendevano dalle sue labbra come gli altri, Marcolina non esclusa. Ma il tempo passava e Amalia mandò le figlie a letto. Prima che andassero Casanova le baciò tenerissimamente, Teresina come le due più piccole, e tutte dovettero promettergli di andarlo presto a trovare a Venezia, con i genitori.
Quando le bambine se ne furono andate poté controllarsi di meno, ma continuò il suo racconto senza ambiguità e soprattutto senza vanità di qualunque sorta, così che pareva di sentire più il racconto di un pazzo sentimentale dedito all'amore che quello di un seduttore e avventuriero pericoloso e sfrenato. Parlò della splendida sconosciuta che per settimane aveva viaggiato con lui travestita da ufficiale e una mattina era improvvisamente scomparsa dal suo fianco; della figlia del nobile ciabattino di Madrid che, tra un abbraccio e l'altro, aveva cercato di fare di lui un cattolico fervente; della bella ebrea Lia, di Torino, che andava a cavallo meglio di qualsiasi principessa; della deliziosa e innocente Manon Balletti, l'unica che aveva quasi sposato; della scadente cantante che aveva fischiato a Varsavia dopo di che aveva dovuto battersi a duello col suo amante, il generale della corona Branitzky, e poi fuggire dalla città; della malvagia e miserabile Charpillon, che a Londra l'aveva trattato da pazzo; di un viaggio notturno nella bufera attraverso la laguna, fino a Murano, dalla sua monaca adorata, viaggio che gli era quasi costato la vita; del giocatore Croce che, dopo aver perduto un patrimonio a Spa, aveva preso congedo da lui in lacrime, sulla via maestra, e si era messo in cammino verso Pietroburgo: così com'era, in calze di seta, giacca di velluto verde mela e bastoncino di bambù in mano. Raccontò di attrici, cantanti, modiste, contesse, ballerine, cameriere; di attori, ufficiali, principi, ambasciatori,finanzieri,musicisti e avventurieri; e così straordinariamente fu avvinto dalla magia del suo stesso passato, magia che per quanto esso fosse irrimediabilmente trascorso adesso risentiva, così completo era il trionfo delle sue splendide esperienze sulle misere ombre di cui poteva vantarsi il suo presente, che era quasi sul punto di raccontare la storia di quella fanciulla graziosa e pallida che gli aveva confidato, nella penombra di una chiesa di Mantova, le sue pene d'amore, senza pensare che quella stessa creatura, di sedici anni più vecchia, era seduta davanti a lui a tavola, maritata al suo amico Olivo, quando la cameriera goffamente entrò e avvertì che davanti al cancello era pronta la carrozza. E subito, con il suo incomparabile dono di raccapezzarsi senza indugio nel sogno e nella veglia, ogni qual volta fosse necessario, Casanova si alzò per prendere congedo. Invitò ancora cordialmente Olivo, al quale per l'emozione mancavano le parole, a visitarlo con moglie e figlie a Venezia, e lo abbracciò; quando si avvicinò ad Amalia con la stessa intenzione, essa si scostò leggermente e gli porse solo la mano, che egli baciò con venerazione.
Quando si rivolse a Marcolina, questa gli disse: «Tutto quello che ci avete raccontato stasera - e altro ancora--dovreste scriverlo, signor cavaliere, come avete fatto per la vostra fuga dai Piombi». «Dite sul serio, Marcolina?», domandò lui col ritegno di un giovane scrittore.
Lei sorrise con lieve ironia. «Presumo», disse, «che un tale libro sarebbe ancora più interessante del vostro libello contro Voltaire.» E' probabile che sia vero, pensò lui senza dirlo. Chissà che un giorno o l'altro non segua il tuo consiglio? E tu stessa, Marcolina, ne sarai l'ultimo capitolo. Questa idea, o più ancora il pensiero, che quest'ultimo capitolo sarebbe stato vissuto nel corso della notte a venire, fece lampeggiare così stranamente il suo sguardo che Marcolina lasciò scivolare da quella di lui la mano che gli aveva porto per salutarlo prima ancora che lui, inchinandosi, fosse riuscito a imprimervi un bacio. Senza far notare alcunché, fosse delusione o astio, Casanova si voltò per andare, dando a intendere con uno di quei gesti chiari e semplici che soltanto a lui riuscivano così bene che non voleva essere accompagnato da nessuno, neppure da Olivo.
Si affrettò per il viale di ippocastani a rapidi passi; diede una moneta d'oro alla cameriera che aveva portato la sua sacca da viaggio in carrozza, salì e partì.
Il cielo era carico di nubi. Dopo aver lasciato il villaggio, dietro le cui povere finestre si intravedeva ancora, qua e là, qualche lucina, a brillare nella notte fu soltanto la lanterna gialla fissata davanti, sul timone. Casanova aprì la sacca da viaggio deposta ai suoi piedi, tirò fuori il mantello di Lorenzi e, dopo esserselo drappeggiato addosso, si spogliò sotto la sua protezione, con tutta la cautela del caso. Chiuse nella sacca gli abiti che si era tolto, anche calze e scarpe, e si avvolse bene nel mantello. A quel punto gridò al cocchiere: «Ehi, dobbiamo tornare indietro!». Il cocchiere si voltò seccato. «Ho lasciato in quella casa le mie carte. Mi senti? Dobbiamo tornare indietro.» E poiché quello, un uomo scontento, magro, dalla barba grigia, sembrava esitare: «Non pretendo certo che tu lo faccia gratis. Tieni!». E gli mise in mano una moneta d'oro. Il cocchiere annuì, mormorò qualcosa e, assestando al cavallo una frustata del tutto superflua, girò la carrozza. Quando riattraversarono il villaggio le case erano tutte mute e spente. Ancora un breve tratto lungo la via maestra, e il cocchiere stava per imboccare la stradina più stretta leggermente in salita che conduceva a casa di Olivo.
«Alt!», gridò Casanova, «non avviciniamoci troppo, altrimenti li svegliamo. Aspetta qui sull'angolo. Torno presto... E se ci mettessi un po' di più, ogni ora vale un ducato!» A questo punto l'uomo credette di sapere di che cosa si trattava; Casanova lo notò dal modo in cui annuì con la testa. Scese e si affrettò, presto scomparendo agli occhi del cocchiere, fino al cancello chiuso; seguì poi il muro fino al punto in cui piegava ad angolo retto verso l'alto e imboccò il viottolo tra le vigne, che seppe trovare facilmente, avendolo percorso due volte alla luce del giorno. Si tenne vicino al muro e lo seguì anche dove, a circa metà della collina, piegava di nuovo ad angolo retto. Camminava ora sul soffice prato, nel buio di quella notte coperta; doveva ora fare attenzione a non mancare la porta del giardino. Andò tastoni lungo la recinzione di pietra liscia finché le sue dita non sentirono il rozzo legno; a quel punto riuscì a distinguere chiaramente anche i sottili contorni della porta. Infilò la chiave nella serratura, subito trovata, l'aprì, entrò in giardino e richiuse la porta dietro di sé. Al di là del prato vide svettare la casa con la torre a una distanza improbabile e a un'altezza altrettanto improbabile. Rimase un po' fermo, guardandosi intorno:
perché quelle che per altri occhi sarebbero state tenebre impenetrabili erano per i suoi soltanto una profonda penombra. Invece di procedere sul viale, la cui ghiaietta gli faceva male ai piedi nudi, osò procedere sul prato, che inghiottiva il rumore dei suoi passi. Credeva di volare, tanto era leggero il suo passo. Ero diverso, pensò, quando percorrevo simili strade a trent'anni? Non sento, come allora, scorrere nelle mie vene tutto l'ardore del desiderio e tutta la linfa della giovinezza? Non sono oggi Casanova come lo ero allora?... E giacché sono Casanova, perché non dovrebbe fallire, con me, quell'orrida legge alla quale sono soggetti gli altri e che si chiama invecchiare? E facendosi sempre più ardito si domandò: perché mi insinuo da Marcolina mascherato? Casanova non è più di Lorenzi, anche se è di trent'anni più vecchio? E non sarebbe lei donna da concepire l'inconcepibile? Era necessario commettere una piccola canagliata e indurre un altro a commetterne una ben più grande? Con un po' di pazienza non avrei raggiunto lo stesso scopo? Lorenzi domani parte, io sarei rimasto... Cinque giorni... tre, e sarebbe stata mia, consapevolmente mia. Era schiacciato contro il muro della casa, accanto alla finestra di Marcolina, ancora ben chiusa, e i suoi pensieri continuavano a volare. E' davvero troppo tardi? Potrei tornare, domani, dopodomani... e iniziare la mia opera di seduzione, da uomo d'onore, per così dire. Questa notte sarebbe un'anticipazione delle prossima. Ma Marcolina non avrebbe mai dovuto sapere che oggi ero io, o comunque soltanto più tardi, molto più tardi.
La finestra era sempre chiusa; anche dietro non si muoveva niente.
Mancava ancora qualche minuto a mezzanotte. Doveva farsi notare in qualche modo? Forse bussare piano alla finestra. Poiché non avevano concordato niente del genere, forse la cosa avrebbe potuto far nascere in Marcolina qualche sospetto. Aspettare, quindi. Non poteva mancare molto. Fu colto dal pensiero - e non era la prima volta - che lo avrebbe riconosciuto subito, svelando l'inganno prima che fosse compiuto: un pensiero fugacissimo, quasi la naturale, ragionevole considerazione di una possibilità che sfumava nell'improbabile, più che un serio timore. E gli venne in mente un'avventura piuttosto ridicola successa vent'anni prima: quella con la bruna vecchia di Soletta, con cui aveva trascorso una notte deliziosa convinto di possedere una giovane bella e adorata e che per giunta, il giorno dopo, lo aveva schernito con una spudorata lettera per quell'errore da lei estremamente desiderato e favorito con ogni astuzia. Nel ricordare fu assalito dalla nausea: non avrebbe proprio dovuto pensarci, adesso, e scacciò quell'immagine obbrobriosa. Be', era finalmente mezzanotte?
Quanto doveva rimanerci ancora, schiacciato contro quel muro, gelando nel freddo della notte? O addirittura aspettare invano? Essere defraudato, dopo tutto? Duemila ducati per niente? E Lorenzi con lei dietro la tenda? Prendendosi gioco di lui? Involontariamente strinse la spada che teneva sotto il mantello, sopra il suo corpo nudo. Da un tipo come Lorenzi ci si dovevano aspettare, in fondo, anche le sorprese più penose. Ma poi... in quell'istante udì un leggero scricchiolio: sapeva che la grata della finestra di Marcolina si stava muovendo; subito dopo si spalancarono i due battenti, mentre la tenda rimaneva ancora tirata. Casanova rimase qualche secondo immobile, finché la tenda, tirata da mano invisibile, si alzò da una parte: per Casanova fu il segno di lanciarsi oltre il davanzale, nella stanza, e di chiudere subito dietro di sé finestra e grata. La tenda che era stata tirata ricadde sulle sue spalle, tanto che egli fu costretto a uscirne strisciando, e si sarebbe trovato nella più completa oscurità se dal fondo della stanza, quasi risvegliato dal suo stesso sguardo, un opaco bagliore non gli avesse mostrato la strada. Soltanto tre passi, e fu accolto da braccia che lo desideravano ardentemente; si lasciò scivolare la spada di mano e il mantello dalle spalle e sprofondò nella sua felicità.
Dall'abbandono e dai sospiri di Marcolina, dalle lacrime di beatitudine che baciò sulle sue guance, dall'ardore sempre nuovo con cui accoglieva le sue tenerezze si accorse ben presto che lei condivideva il suo rapimento, che gli pareva più elevato di ogni altro mai goduto, anzi di tipo nuovo, diverso. Il piacere diventava devozione, la più profonda ebbrezza diventava vigilanza senza eguale:
qui era finalmente quanto già spesso, abbastanza stoltamente, aveva creduto di vivere, e che pure non aveva mai vissuto davvero:
l'appagamento era sul cuore di Marcolina. Teneva tra le braccia la donna alla quale poteva dare tutto se stesso per sentirsi inesauribile: sul suo seno l'istante dell'ultimo abbandono e del nuovo desiderio coincidevano in un'unica, inimmaginata voluttà dell'anima.
Su queste labbra non erano la stessa cosa vita e morte, tempo ed eternità? Non era egli un dio? Gioventù e vecchiaia solo una favola inventata dagli uomini? Patria ed estero, splendore e miseria, fama e oblio: distinzioni prive di essenza a uso dei senza fama, dei soli, dei vani, diventate assurde se si era Casanova e si era trovata Marcolina? Indegna, anzi di minuto in minuto più ridicola gli pareva l'idea di fuggire da questa splendida notte come un ladro, senza una parola, senza farsi riconoscere, fedele a un proposito preso vilmente poco prima. Nell'infallibile sensazione di aver dato felicità come ne aveva ricevuta, si credeva già deciso a rischiare e a fare il suo nome, per quanto fosse cosciente di giocare alto, a un gioco che, se avesse perduto, avrebbe dovuto essere pronto a pagare con l'esistenza.
Intorno a lui c'era ancora buio fitto, e poteva posticipare la sua confessione, dalla cui accoglienza da parte di Marcolina dipendeva il suo destino, la sua stessa vita, fino a quando dalla spessa tenda non penetrassero le prime luci dell'aurora. Ma questo stare insieme, muto e beato, dolce e perduto, non era fatto apposta per legare Marcolina a lui più indissolubilmente di bacio in bacio? Quel che era sorto come inganno non diventava verità nell'ineffabile rapimento di questa notte? Non era percorsa, lei, la raggirata, l'amata, l'unica, da un brivido, un presagio che non fosse Lorenzi, il giovane, la canaglia, ma Casanova, ai cui ardori divini si stava abbandonando? E così cominciò a ritenere possibile che il momento tanto anelato e tuttavia temuto della confessione gli sarebbe stato totalmente risparmiato; sognò che Marcolina stessa, palpitante, avvinta, liberata, gli avrebbe sussurrato il suo nome. E poi, quando l'avesse così perdonato, no, quando avesse accolto il perdono di lui, voleva portarla via con sé, subito, in quella stessa ora: lasciare con lei quella casa nel grigiore del primo mattino, salire con lei sulla carrozza che attendeva sulla curva della strada... andarsene con lei, tenerla sempre con sé, coronare così l'opera di una vita, avendo conquistato con l'enorme potenza del suo inestinguibile essere, negli anni in cui gli altri si accingono a una triste vecchiaia, la più giovane, la più bella, la più intelligente, e avendola fatta sua per sempre. Perché questa era sua come nessuna prima di lei. Scivolava con lei per stretti canali misteriosi, tra palazzi alla cui ombra era di nuovo a casa, tra ponti arcuati sui quali guizzavano figure scure; alcune gli facevano un cenno dalla spalletta e scomparivano prima che potesse scorgerle. Adesso la gondola attraccava; gradini di marmo portavano nella magnifica casa del senatore Bragadino, l'unica illuminata a festa; giù e su per le scale correvano figure mascherate, e alcune si fermavano, curiose, ma chi poteva riconoscere Casanova e Marcolina, dietro le loro maschere? Entrò con lei nella sala, dov'era in corso un'importante partita a carte. Tutti i senatori, anche Bragadino, nei loro mantelli purpurei, erano allineati intorno al tavolo. Quando entrò Casanova, sussurrarono tutti il suo nome, come in preda al terrore, perché l'avevano riconosciuto dal lampo dei suoi occhi dietro la maschera. Egli non si sedette, non prese le carte, ma giocò. Vinse, vinse tutto l'oro che era sul tavolo, ma era troppo poco: i senatori dovettero firmare cambiali, perdendo il loro patrimonio, i loro palazzi, i loro mantelli color porpora... erano mendicanti, gli strisciavano intorno a grappoli, gli baciavano le mani, e accanto, in una sala rosso scuro, c'erano musica e danze. Casanova voleva danzare con Marcolina, ma se n'era andata. I senatori coi loro mantelli purpurei erano di nuovo seduti intorno al tavolo, come prima; ma ora Casanova sapeva che non si trattava di carte ma di imputati, criminali e innocenti, il cui destino era in gioco. Dov'era Marcolina? Non l'aveva tenuta tutto il tempo stretta per il polso? Si precipitò giù per le scale, la gondola attendeva; allora avanti, avanti, attraverso l'intrico dei canali, naturalmente il gondoliere sapeva dove si trovava Marcolina: ma perché era mascherato anche lui? Un tempo ciò non era comune a Venezia. Casanova voleva dirglielo, ma non osò. Si diventa così vili da vecchi? E sempre avanti: che città enorme si era fatta Venezia, in questi venticinque anni! Finalmente le case arretravano e il canale si faceva più largo: scivolavano tra le isole, là svettavano le mura del monastero di Murano in cui si era rifugiata Marcolina. La gondola non c'era più - adesso c'era da nuotare - com'era bello! E' vero, nel frattempo i bambini di Venezia giocavano con le sue monete d'oro: ma che cosa gliene importava dell'oro?...
L'acqua era ora calda, ora fresca; mentre si arrampicava su per il muro gli gocciolava dai vestiti. Dov'è Marcolina? domandò nel parlatorio a voce alta e sonante, come può domandare un principe. La chiamerò, disse la badessa-duchessa, e sprofondò. Casanova prese a volare, sbattendo le ali, avanti e indietro lungo le sbarre della grata, come un pipistrello. Se avessi saputo che so volare. Lo insegnerò anche a Marcolina. Dietro le sbarre si libravano figure femminili. Suore, ma indossavano tutte abiti borghesi. Egli lo sapeva per quanto non le vedesse affatto, e sapeva anche chi fossero. C'erano Henriette, la sconosciuta, e la ballerina Corticelli e Cristina, la sposa, e la bella Dubois e la maledetta vecchia di Soletta e Manon Balletti... e altre cento, mancava solo Marcolina! Mi hai ingannato, gridò al gondoliere che aspettava nella gondola; non aveva mai odiato nessuno sulla terra come lui e giurò a se stesso di infliggergli una raffinata vendetta. Ma non era una follia aver cercato Marcolina in un monastero di Murano quando lei si era recata da Voltaire? Che bello che sapesse volare: non avrebbe più potuto permettersi una carrozza. E nuotò via: ma non era più felice come aveva pensato; faceva freddo e sempre più freddo, avanzava in mare aperto, lontano da Murano, lontano da Venezia; tutt'intorno non una nave, e il suo abito pesante ricamato d'oro lo tirava sotto; cercò di sbarazzarsene, ma era impossibile perché teneva in mano il suo manoscritto, quello che doveva consegnare al signor Voltaire: gli entrò acqua nella bocca e nel naso, fu sopraffatto da un'angoscia mortale, tese le mani, rantolò, gridò e aprì faticosamente gli occhi.
Da una sottile fessura tra tenda e telaio della finestra era penetrato un raggio di luce dell'aurora. Marcolina, avvolta nella sua bianca camicia da notte, che teneva chiusa sul seno con ambo le mani, era ferma ai piedi del letto e osservava Casanova con uno sguardo di indicibile orrore, che lo svegliò subito, e completamente.
Involontariamente, quasi in un gesto di implorazione, tese le mani verso di lei. Marcolina, quasi a rispondere, lo respinse con un movimento della mano sinistra, mentre con la destra stringeva ancora più spasmodicamente la sua veste sul seno. Casanova si alzò a metà, appoggiandosi con entrambe le mani al giaciglio, e la fissò. Riusciva tanto poco a distogliere lo sguardo da lei come lei da lui. In quello di lui c'erano collera e vergogna, in quello di lei vergogna e orrore.
E Casanova sapeva come lei lo vedeva, perché lui stesso si vedeva nello specchio dell'aria, per così dire, e si scorgeva come si era visto ieri allo specchio appeso nella camera della torre: un volto giallo e cattivo con rughe profondamente scavate, labbra sottili, occhi penetranti... per giunta triplicemente devastato dalle dissolutezze della notte passata, dall'affannoso sogno del mattino, dal terribile riconoscimento del risveglio. E quanto lesse nello sguardo di Marcolina non fu quello che avrebbe preferito mille volte leggervi, ladro, libertino, canaglia: vi lesse un'unica parola, che però lo abbatté al suolo più ignominiosamente di qualsiasi altra offesa, vi lesse la parola che più temeva, che pronunziò la sua sentenza definitiva: vecchio. Se in quel momento avesse avuto il potere di annientarsi con una parola magica, l'avrebbe fatto, pur di non dover strisciar fuori dal lenzuolo e doversi mostrare a Marcolina nella sua nudità, che doveva parerle più degna di disprezzo della vista di un animale nauseabondo. Lei però, come tornando lentamente alla realtà, ed evidentemente nel bisogno di concedergli l'opportunità di fare il più in fretta possibile quanto era comunque indispensabile, si voltò verso la parete, ed egli sfruttò quel tempo per scendere dal letto, raccogliere il mantello dal pavimento ed avvolgervisi. Recuperò subito anche la spada, e ora, giacché pareva fosse sfuggito all'onta peggiore, quella del ridicolo, si chiese se non fosse possibile mettere in un'altra luce tutta quella storia per lui così penosa con qualche parola ben detta, che non avrebbe avuto imbarazzo a trovare, e addirittura volgerla in suo favore. Sul fatto che Lorenzi gli avesse venduto Marcolina non poteva sussistere per lei, data la situazione, alcun dubbio; ma per quanto lei potesse in quell'istante odiare quel miserabile, Casanova sentiva che lui, vile ladro, doveva sembrarle mille volte più odioso. Un'altra ipotesi prometteva forse più soddisfazione: sminuire Marcolina con discorsi allusivi, beffardamente lascivi: ma anche questa perfida idea si dissolse davanti a uno sguardo la cui espressione carica di orrore si era gradualmente trasformata in una tristezza infinita, come se Casanova non avesse svergognato soltanto la femminilità di Marcolina: no, quella notte, in modo indicibile e inespiabile, l'inganno aveva violato la fiducia, il piacere l'amore, la vecchiaia la giovinezza. A quello sguardo, che con grande tormento di Casanova riaccese per un attimo tutto ciò che in lui c'era ancora di buono, egli si volse: senza girarsi più per guardare Marcolina, andò alla finestra, tirò da una parte la tenda, aprì finestra e grata, gettò uno sguardo nel giardino immerso nel chiarore dell'aurora, come ancora assopito, e con un salto superò il davanzale, ritrovandosi all'aperto. Poiché temeva che qualcuno in casa fosse già sveglio e potesse scorgerlo da una finestra, evitò il prato e si lasciò accogliere dall'ombra protettiva del viale. Uscì dalla porta del giardino e l'aveva appena chiusa dietro di sé quando qualcuno gli si fece incontro e gli sbarrò la strada. Il gondoliere... fu il suo primo pensiero. Perché adesso sapeva, all'improvviso, che il gondoliere del suo sogno altri non era se non Lorenzi. Era là. La rossa giacca dell'uniforme con gli alamari d'argento ardeva nella luce del mattino. Che magnifica uniforme, pensò Casanova nel suo cervello confuso e stanco, non sembra nuova? E sicuramente non è stata pagata... Queste sobrie considerazioni lo riportarono completamente in sé e, non appena ebbe coscienza della situazione, ne fu contento.
Assunse il suo atteggiamento più orgoglioso, afferrò più saldamente l'elsa della spada sotto il mantello in cui era avvolto e disse, nel tono più amabile: «Non trovate, sottotenente Lorenzi, che questa idea vi viene un po' in ritardo?». «Ma no», ribatté Lorenzi, e in quel momento era più bello di qualsiasi uomo che Casanova avesse mai visto, «perché tanto soltanto uno di noi uscirà vivo da questo posto.» «Andate di fretta, Lorenzi», disse Casanova con voce quasi melliflua.
«Non vogliamo rimandare la cosa almeno fino a Mantova? Sarà per me un onore accompagnarvi con la mia carrozza. Aspetta alla curva. Mantenere la forma avrebbe i suoi lati positivi... proprio nel nostro caso.» «Non occorrono forme. Voi, Casanova, o io, proprio adesso.» Estrasse la spada. Casanova scrollò le spalle: «Come desiderate, Lorenzi.
Vorrei però ricordarvi che purtroppo sarei costretto a presentarmi in abbigliamento totalmente inadeguato». Aprì il mantello e rimase nudo, la spada in mano come per gioco. Negli occhi di Lorenzi salì un'ondata di odio. «Non sarete svantaggiato rispetto a me», rispose, e con grande velocità cominciò a sbarazzarsi dei suoi abiti. Casanova si voltò e, per il momento, si avvolse di nuovo nel suo mantello, perché nonostante il sole che si levava tra la foschia mattutina si era fatto sensibilmente fresco. I pochi alberi che si trovavano sulla sommità della collina gettavano sul prato le loro lunghe ombre. Per un momento Casanova si trovò a pensare: e se alla fine passasse qualcuno? Ma il sentiero che correva lungo il muro fino alla porta sul retro era usato solo da Olivo e dai suoi. A Casanova venne in mente che stava forse vivendo gli ultimi minuti della sua esistenza, e si meravigliò di essere così tranquillo. Il signor Voltaire ha fortuna, pensò fugacemente: ma in fondo Voltaire gli era completamente indifferente e avrebbe preferito, in quel momento, poter materializzare davanti alla sua anima immagini più soavi di quella del ripugnante viso aquilino del vecchio letterato. Non era strano, peraltro, che al di là del muro non cinguettasse nemmeno un uccellino? Stava per cambiare il tempo. Ma che cosa gliene importava del tempo? Avrebbe preferito ricordare Marcolina, la voluttà che aveva goduto tra le sue braccia e che avrebbe pagato cara. Cara? Abbastanza a buon mercato! Qualche anno di vecchiaia, in miseria e nullità... Che gli restava da fare al mondo?... Avvelenare il signor Bragadino? Ne valeva la pena? Niente valeva la pena... Come svettavano sottili gli alberi, lassù! Cominciò a contarli. Cinque... sette... dieci. Che non abbia niente di più importante da fare? «Sono pronto, signor cavaliere!» Casanova si voltò di scatto. Lorenzi era di fronte a lui, magnifico come un giovane dio, nella sua nudità. Ogni volgarità era scomparsa dal suo volto: sembrava pronto a uccidere come a morire. E se io gettassi via la mia spada?
pensò Casanova. Se lo abbracciassi? Si lasciò scivolare il mantello dalle spalle e fu così come Lorenzi, slanciato e nudo. Lorenzi abbassò la spada in segno di saluto. secondo le regole della scherma. Casanova restituì il saluto; un attimo dopo le lame si incrociavano e l'argentea luce del mattino giocava scintillante di acciaio in acciaio. Quanto tempo è passato, pensò Casanova, dall'ultima volta in cui mi sono trovato con la spada davanti a un avversario? Non gli venne tuttavia in mente nessuno dei suoi duelli più seri, ma soltanto gli esercizi di scherma che dieci anni prima amava ancora praticare con Costa, il suo domestico, quel farabutto che era poi scappato con centocinquantamila lire. Ad ogni modo, pensò Casanova, era un valente spadaccino... e anch'io non ho disimparato niente! Il suo braccio era sicuro, la sua mano leggera, il suo occhio acuto come non mai.
Gioventù e vecchiaia sono una favola, pensò... Non sono un dio? Non siamo entrambi dèi? Se qualcuno ci vedesse! Ci sono signore che chissà che cosa darebbero. Le lame si piegavano, le punte scintillavano; ogni volta che le spade si toccavano si udiva un lieve canto nell'aria del mattino. Un combattimento? No, un torneo... Perché quello sguardo di orrore, Marcolina? Non siamo entrambi degni del tuo amore? Egli è giovane, ma io sono Casanova!... E Lorenzi cadde, con una stoccata in mezzo al cuore. La spada gli cadde di mano, egli spalancò gli occhi, come in preda allo stupore, sollevò ancora la testa; le sue labbra si contrassero di dolore, abbassò di nuovo la testa, gli si spalancarono le narici, rantolò appena e morì. Casanova si piegò verso di lui, gli si inginocchiò accanto, vide qualche goccia di sangue colare dalla ferita e passò la mano vicino alla bocca del caduto: non un soffio di vita la sfiorò. Un brivido freddo percorse le membra di Casanova. Si alzò e prese il suo mantello. Poi si riavvicinò al cadavere e guardò quel corpo giovanile di una bellezza incomparabile disteso sul prato.
Il silenzio era percorso da un lieve mormorio. Era il vento del mattino che carezzava la chiome al di là del muro. Che fare? si domandò Casanova. Chiamare qualcuno? Olivo? Amalia? Marcolina? A che scopo? La vita non gliela ridà nessuno! Rifletteva con quella fredda calma che gli era sempre stata propria nei momenti più pericolosi della sua vita. Prima che lo trovino possono passare molte ore, forse fino a sera, o anche più. Io ho tempo fino a quel momento, e poi si vedrà. Teneva ancora la spada in mano; vi vide brillare il sangue, e la pulì sull'erba. Gli venne l'idea di vestire il cadavere, ma gli avrebbe fatto perdere minuti preziosi e irrecuperabili. Come per un ultimo sacrificio, si piegò ancora una volta e chiuse gli occhi al morto. «Beato te», disse tra sé, e in preda a una commozione come trasognata baciò l'ucciso sulla fronte. Poi si alzò rapidamente e si affrettò lungo il muro, girò l'angolo e piegò verso il basso, in direzione della strada. La carrozza era ancora all'incrocio dove l'aveva lasciata; il cocchiere, a cassetta, dormiva sodo. Casanova fece ben attenzione a non svegliarlo; prima salì con estrema cautela e soltanto allora lo chiamò. «Ehi! E' ora!» e gli diede una pacca sulla schiena. Il cocchiere si spaventò, si guardò dintorno, stupito che fosse già giorno, poi spronò i cavalli e partì. Casanova si appoggiò allo schienale, avvolto nel mantello che era stato di Lorenzi. Nel villaggio c'era soltanto qualche bimbo per strada; evidentemente uomini e donne erano già tutti nei campi. Quando si furono lasciati le case alle spalle, Casanova tirò un respiro di sollievo; aprì la sacca da viaggio, ne tirò fuori le sue cose e cominciò a rivestirsi, sotto la protezione del mantello, non senza timore che il cocchiere si voltasse e potesse essere sorpreso dal singolare comportamento del suo passeggero. Ma non accadde niente di simile; Casanova poté prepararsi indisturbato, rimise il mantello di Lorenzi nella sacca e tirò fuori il suo. Guardò il cielo, che nel frattempo si era oscurato. Non si sentiva stanco, anzi, estremamente energico e vigile. Rifletté sulla sua situazione e, comunque la osservasse, arrivava alla conclusione che era davvero un po' preoccupante, per quanto non pericolosa come forse sarebbe sembrata a spiriti più ansiosi. Che lo avrebbero subito sospettato di avere ucciso Lorenzi era certo probabile, ma nessuno poteva dubitare che fosse accaduto nel corso di un onorevole duello, o meglio ancora: era stato assalito da Lorenzi e costretto al combattimento, e nessuno poteva accusarlo di un delitto, perché aveva agito per difendersi. Ma perché lo aveva lasciato morto sul prato, come un cane? Neppure questo potevano rimproverargli: fuggire rapidamente era un suo buon diritto, quasi un suo dovere. Lorenzi non avrebbe fatto diversamente. Ma Venezia non avrebbe potuto consegnarlo?
Al suo arrivo si sarebbe subito messo sotto la protezione del suo benefattore Bragadino. Ma non si incolpava così egli stesso di un'azione che poteva anche non essere scoperta o comunque non imputata a lui? C'era una sola prova contro di lui? Non era stato convocato a Venezia? Chi poteva dire che era una fuga? Il cocchiere forse, che aveva aspettato per metà notte lungo la strada? Con qualche moneta d'oro gli si tappava la bocca. Così correvano i suoi pensieri, in cerchio. Improvvisamente gli parve di udire uno scalpitio di cavalli alle sue spalle. Già qui? fu il suo primo pensiero. Avvicinò la testa al finestrino della carrozza e guardò all'indietro: la strada era vuota. Erano passati vicino a una fattoria: aveva sentito l'eco degli zoccoli dei loro stessi cavalli. Il fatto che si fosse ingannato lo tranquillizzò per un po', al punto che gli parve di essere scampato a ogni pericolo. Là svettavano le torri di Mantova... «Avanti, avanti», disse tra sé e sé, perché non voleva che il cocchiere lo sentisse.
Questi però, ormai vicino alla meta, spronò i cavalli di sua iniziativa; furono presto alla porta attraverso la quale Casanova aveva lasciato la città con Olivo meno di quarantotto ore prima; diede al cocchiere il nome della locanda davanti alla quale fermarsi e dopo pochi minuti apparve l'insegna con il leone d'oro, al che Casanova saltò giù dalla carrozza. Sulla porta c'era la locandiera: fresca, col volto sorridente e non scontenta di ricevere Casanova, proprio come si accoglie un amante che, desideratissimo, ritorna dopo un'assenza indesiderata; egli accennò però torvo al cocchiere, testimone sgradito, e disse poi a questo di entrare e mangiare e bere a volontà.
«Ieri sera è arrivata per voi una lettera da Venezia, signor cavaliere.» «Un'altra?», domandò Casanova, e salì di corsa le scale che portavano alla sua camera. La locandiera lo seguì. Sul tavolo c'era una lettera sigillata. Casanova l'aprì in preda alla massima agitazione. Un ripensamento? si chiedeva angosciato. Ma quando l'ebbe letta il suo volto si rischiarò. Erano poche righe di Bragadino, che gli accludeva un ordine di pagamento per duecentocinquanta lire di modo che, qualora avesse deciso in tal senso, potesse non rimandare il viaggio di un sol giorno. Casanova si voltò verso la locandiera e le spiegò, simulando un'espressione seccata, che era purtroppo costretto a proseguire all'istante il suo viaggio, se non voleva correre il pericolo di perdere il posto che il suo amico Bragadino gli aveva procurato a Venezia e al quale aspiravano altre cento persone.
Tuttavia, aggiunse subito quando vide levarsi sulla fronte della locandiera nubi minacciose, egli intendeva soltanto assicurarsi quel posto e ricevere la sua nomina, a segretario del Consiglio dei Dieci di Venezia; poi, una volta insediatosi nella sua carica, avrebbe chiesto immediatamente una licenza per sistemare le sue cose a Mantova, licenza che naturalmente non avrebbero potuto negargli; lasciava infatti qui la maggior parte dei suoi beni... e poi dipendeva soltanto dalla sua cara, affascinante amica se intendesse cedere la locanda e seguirlo a Venezia come sua sposa... Lei gli si gettò al collo e gli domandò con gli occhi colmi di lacrime se, prima della partenza, non potesse almeno portargli in camera una buona colazione.
Egli sapeva che si stava preparando una festa d'addio, per la quale non provava il benché minimo desiderio: ma si dichiarò d'accordo, per potersi finalmente liberare di lei; quando lei ebbe sceso le scale, mise in valigia la biancheria e i libri che gli occorrevano più urgentemente, scese nella sala da pranzo, dove trovò il cocchiere davanti a un pasto abbondante e gli domandò se non fosse disposto - in cambio di una somma che superava del doppio il prezzo consueto - a partire subito con gli stessi cavalli in direzione di Venezia, fino alla successiva stazione di posta. Il cocchiere si dichiarò senz'altro d'accordo, e per il momento Casanova si era liberato della sua più urgente preoccupazione. Entrò la locandiera, rossa in faccia dalla collera, e gli chiese se avesse dimenticato che in camera lo attendeva la colazione. Casanova rispose con la massima disinvoltura che non l'aveva dimenticato affatto e la pregò al tempo stesso, poiché aveva i minuti contati, di recarsi presso la banca sulla quale era emessa la sua cambiale e di ritirargli duecentocinquanta lire con l'ordine di pagamento che le porgeva. Mentre lei correva a prendergli il denaro Casanova andò in camera e, con avidità davvero animalesca, cominciò a ingoiare il pasto che gli aveva preparato. Non lo disturbò che comparisse la locandiera, si limitò a intascare lesto il denaro che gli aveva portato; quando ebbe finito si voltò verso la donna, che era scivolata teneramente al suo fianco e che, ritenendo finalmente giunta la sua ora, gli aveva teso le braccia in modo inequivocabile: egli la abbracciò calorosamente, la baciò su entrambe le guance e, quando pareva pronta a non negargli più niente, si divincolò dicendo: «Devo andare... arrivederci!» con tanta irruenza che lei cadde all'indietro, sull'angolo del sofà. La sua espressione, un miscuglio di delusione, rabbia, impotenza, aveva qualcosa di così irresistibilmente comico che Casanova, mentre si chiudeva la porta alle spalle, non poté trattenere una risata.
Il fatto che il suo passeggero avesse fretta non poteva essere sfuggito al cocchiere; chiedersene il perché non era affar suo e a ogni modo, quando Casanova uscì dalla porta della locanda, era già seduto a cassetta, e non appena quegli fu salito spronò energicamente i cavalli. Gli parve opportuno anche non attraversare la città:
infatti la aggirò, per riprendere la via maestra dall'altra parte. Il sole non era ancora alto, mancavano tre ore a mezzogiorno. Casanova pensò: è anche possibile che non abbiano ancora trovato il cadavere di Lorenzi. Il fatto che era stato lui a uccidere Lorenzi gli affiorava appena alla coscienza: era solo contento di potersi allontanare sempre più da Mantova, che finalmente gli fosse concessa quiete, per un po'... Cadde nel sonno più profondo della sua vita, che in certo qual modo durò due giorni e due notti; perché le brevi interruzioni necessarie per cambiare i cavalli e durante le quali rimaneva seduto nelle sale di mescita delle locande, camminava avanti e indietro davanti alle stazioni di posta, scambiando qualche parola occasionale con postieri, osti, doganieri, viaggiatori, erano particolari che non era riuscito a imprimere nella memoria. Così il ricordo di questi due giorni e notti confluì con il sogno che aveva sognato nel letto di Marcolina, e di questo sogno faceva parte, in qualche modo, anche il duello tra due uomini nudi su un prato verde al chiarore dell'aurora, sogno in cui talvolta, enigmaticamente, lui non era Casanova, ma Lorenzi, non il vincitore, ma il caduto, non il fuggitivo, ma il morto, intorno al cui pallido corpo giovanile giocava solitario il vento del mattino; ed entrambi, lui stesso e Lorenzi, non erano più reali dei senatori nei rossi mantelli purpurei che erano scivolati in ginocchio davanti a lui, e non meno reali di quel vecchio appoggiato alla spalletta di un qualche ponte al quale, nella penombra, aveva gettato un'elemosina dalla carrozza. Se Casanova non avesse saputo tenere separate, in virtù della sua capacità di giudizio, esperienze vissute ed esperienze sognate, avrebbe potuto immaginare di essere caduto, fra le braccia di Marcolina, in un sogno confuso dal quale si svegliò soltanto alla vista del Campanile di Venezia.
Fu al terzo giorno del suo viaggio, da Mestre, che rivide per la prima volta, dopo più di vent'anni di nostalgia, il campanile: una costruzione di pietra grigia che gli si levò davanti lontana, come svettando dalla penombra. Ma egli sapeva che ormai solo due ore di viaggio lo separavano dall'amata città in cui era stato giovane. Pagò il cocchiere, senza sapere se fosse il quarto, il quinto o il sesto con cui facesse i conti, da Mantova, e si affrettò, seguito da un ragazzino che gli portava i bagagli, lungo le misere strade che conducevano al porto, per raggiungere il mercantile che ancora oggi, come venticinque anni prima, partiva alle sei per Venezia. Pareva che aspettasse solo lui: non appena ebbe preso posto tra donne che portavano in città le loro mercanzie, piccoli commercianti e artigiani su una stretta panca, l'imbarcazione si mise in movimento. Il cielo ero fosco e la laguna immersa nella nebbia; c'era odore d'acqua stagnante, legno umido, pesce e frutta fresca. Sempre più alto svettava il campanile e nell'aria si stagliavano anche altre torri; divennero visibili cupole di chiese e da un tetto, da due, da molti gli giunse il riflesso dei raggi del sole del mattino; le case si separavano e crescevano in altezza; dalla nebbia spuntavano imbarcazioni più o meno piccole, dalle quali ci si scambiavano saluti.
Le chiacchiere intorno a lui si fecero più chiassose; una bambina gli offrì di comprare dell'uva; egli assaporò i chicchi blu, sputando le bucce fuoribordo alla maniera dei suoi concittadini, e prese a parlare con qualcuno che gli espresse la sua felicità per il fatto che pareva essere finalmente arrivato il bel tempo. Come, erano tre giorni che pioveva? Non ne sapeva niente: veniva dal sud, da Napoli, da Roma...
Già la nave attraversava i canali della periferia; case sporche lo fissarono da finestre opache, come con occhi ebeti ed estranei; due, tre volte si fermò il battello, ne scesero alcuni giovani, uno con una grande cartella sottobraccio, e donne coi loro panieri; ora si arrivava finalmente in quartieri più ospitali. Non era questa la chiesa in cui si era confessata Martina? E questa la casa in cui, a modo suo, aveva ridato rossore e salute alla pallida Agata, affetta da una malattia mortale? E in quell'altra non aveva fatto nero, di botte, l'infame fratello dell'affascinante Silvia? E in un canale laterale quella casetta gialliccia sui cui gradini dilavati dall'acqua stava a piedi nudi una donna grassa... Prima che riuscisse a ricordare quale figura dei lontani giorni di gioventù potesse collocarvi, l'imbarcazione era entrata nel Canal Grande e procedeva ora lentamente tra i palazzi di quell'ampia via d'acqua. A Casanova, sulla scia dei suoi sogni, sembrava di averla percorsa il giorno prima. Scese al ponte di Rialto perché, prima di recarsi dal signor Bragadino, voleva lasciare i bagagli e assicurarsi una stanza presso una misera pensioncina di cui ricordava l'ubicazione ma non il nome. Trovò la casa più decaduta o quanto meno più trascurata di quanto non ricordasse: un seccato cameriere dalla barba lunga gli assegnò una camera poco accogliente con vista sul muro senza finestre della casa davanti. Ma Casanova non voleva perdere tempo; inoltre gli giunse assai gradito, poiché durante il viaggio aveva quasi esaurito i suoi contanti, il basso prezzo della stanza; decise così di rimanere provvisoriamente lì, si liberò dalla polvere e dalla sporcizia del lungo viaggio, rifletté un po' se indossare il suo abito elegante ma trovò più indicato rimettersi quello più modesto e infine lasciò la locanda. Appena cento passi, per una calle stretta e sopra un ponte, lo separavano dal palazzotto elegante in cui viveva Bragadino.
Casanova si annunziò a un giovane domestico dalla faccia un po' insolente che fece finta di non avere mai udito quel celebre nome; ritornò però dalle stanze del suo signore con un'espressione un po' più gentile e fece entrare l'ospite. Bragadino era seduto a un tavolo vicino a una finestra aperta: stava facendo colazione; voleva alzarsi, cosa questa che Casanova non permise. «Carissimo Casanova», esclamò Bragadino, «come sono felice di rivedervi! Già, chi avrebbe mai pensato che ci saremmo rivisti?» E gli tese entrambe le mani. Casanova le afferrò come se volesse baciarle, ma non lo fece, e rispose a quel cordiale saluto con parole di caloroso ringraziamento, in quel modo un po' reboante di cui la sua espressione non era esente in tali occasioni. Bragadino lo invitò a sedersi e gli chiese innanzitutto se avesse già fatto colazione. Quando Casanova rispose di no, Bragadino suonò al domestico e gli impartì le relative istruzioni. Quando il domestico si fu allontanato, Bragadino espresse la sua soddisfazione per il fatto che Casanova avesse accettato senza riserve l'offerta del Consiglio dei Dieci; l'aver deciso di dedicare i suoi servigi alla patria non gli avrebbe certo arrecato danno. Casanova dichiarò che sarebbe stato felice di soddisfare le aspettative del Consiglio. Lo disse, e in proposito aveva idee ben precise. Non percepiva dentro di sé più tracce di odio contro Bragadino; semmai una certa commozione per quell'uomo vecchissimo e istupidito che gli sedeva davanti con la barba bianca ormai rada e gli occhi cerchiati di rosso, mentre la tazza gli tremava nella mano magra. L'ultima volta che Casanova lo aveva visto, Bragadino poteva avere l'età che aveva oggi Casanova; a dire il vero gli era parso vecchio già allora.
A questo punto il domestico portò la colazione per Casanova che, senza parlare troppo, la apprezzò a dovere, poiché durante il viaggio aveva consumato soltanto qualche frettoloso spuntino. Sì, aveva viaggiato notte e giorno, da Mantova fin lì, tanto aveva fretta di dimostrare la sua disponibilità al Consiglio dei Dieci e al suo nobile benefattore la sua inesauribile gratitudine; lo disse per scusare l'avidità quasi indecente con cui ingurgitò la cioccolata fumante. Dalla finestra penetravano i mille rumori della vita dei canali, grandi e piccoli; le grida dei gondolieri si alzavano monotone su tutte le altre; da qualche parte, non troppo lontano, forse nel palazzo davanti - era palazzo Fogazzari? - gorgheggiava una bella voce di donna, piuttosto alta: apparteneva evidentemente a una creatura molto giovane, una creatura che ai tempi in cui Casanova era fuggito dai Piombi non era ancora nata. Mangiò biscotti e burro, uova, carne fredda, continuando a scusarsi per la sua insaziabilità con Bragadino, che invece lo guardava soddisfatto. «Mi piace», disse, «che i giovani abbiano appetito! E per quanto ricordo, mio caro Casanova, a voi non è mai mancato!» E rammentò un pranzo che, i primi tempi della sua conoscenza con Casanova, aveva consumato con lui - o più propriamente che aveva guardato, con ammirazione, il suo giovane amico consumare - come oggi; perché non era ancora completamente ristabilito, era infatti poco dopo che Casanova aveva buttato fuori di casa il medico che, coi suoi perpetui salassi, aveva portato il povero Bragadino quasi nella tomba... Parlarono dei tempi passati; sì, allora a Venezia si viveva meglio di oggi. «Non dappertutto», disse Casanova, accennando con un lieve sorriso al tetto dei Piombi. Bragadino si schernì con un movimento della mano, come se non fosse il momento di ricordare quei particolari sgradevoli. Del resto allora lui, Bragadino, aveva fatto del suo meglio per salvare Casanova dalla pena, anche se purtroppo invano. Oh, se avesse già fatto parte del Consiglio dei Dieci!
Giunsero così a parlare di politica, e Casanova seppe da quel vecchio il quale, acceso dal suo tema, pareva ritrovare l'arguzia e tutta la vivacità dei suoi anni più giovani, molte cose e singolari sulla preoccupante tendenza spirituale cui aderiva parte della gioventù veneziana e sui pericolosi disordini che segni inequivocabili cominciavano ad annunziare; ed egli non era assolutamente maldisposto quando, la sera di quello stesso giorno, che aveva trascorso chiuso nella sua cupa camera d'albergo a riordinare e in parte bruciare alcune carte, solo per placare la sua anima alquanto turbata, entrò nel Caffè Quadri, in piazza San Marco, considerata il principale punto di ritrovo di liberi pensatori e sovversivi. Tramite un vecchio musicista che lo riconobbe subito, l'ex maestro di cappella del teatro di San Samuele, lo stesso in cui Casanova trent'anni prima suonava il violino, fu introdotto nel modo più naturale in una compagnia di persone per lo più giovani i cui nomi gli erano rimasti impressi nella memoria dal suo colloquio mattutino con Bragadino, che li aveva descritti come particolarmente sospetti. Il suo nome parve però non fare alcun effetto sugli altri, come avrebbe avuto ragione di aspettarsi; anzi i più parevano non sapere nient'altro, di Casanova, se non che molto tempo prima era stato rinchiuso nei Piombi per qualche motivo o forse pure innocente e che ne era fuggito tra mille pericoli. Certo, il libriccino in cui già anni prima aveva descritto così vivacemente la sua fuga non era rimasto ignoto, ma nessuno pareva averlo letto con la meritata attenzione. Divertì alquanto Casanova pensare che dipendeva soltanto da lui procurare il più presto possibile a ciascuno di questi giovani signori un'esperienza personale delle condizioni di vita nei Piombi di Venezia e delle difficoltà dell'evasione; ma ben lungi dal far baluginare o addirittura indovinare un'idea così malvagia, seppe invece recitare anche qui la parte della persona innocua e amabile, intrattenendo ben presto la compagnia a modo suo, raccontando allegre avventure d'ogni genere che gli erano capitate durante il suo viaggio da Roma a Venezia: storie che, per quanto nel complesso piuttosto vere, risalivano in realtà a quindici o venti anni prima. Mentre tutti ancora lo ascoltavano eccitati, qualcuno portò, con altre novità, la notizia che un ufficiale di Mantova era stato ucciso nei pressi della proprietà di un amico di cui era ospite e che il suo cadavere era stato saccheggiato dai briganti, che gli avevano tolto persino la camicia. Poiché simili aggressioni e omicidi all'epoca erano tutto eccetto che rari, anche questo non suscitò particolare scalpore in quella cerchia, e Casanova proseguì il racconto che aveva interrotto, quasi che la cosa gli interessasse ben poco, come agli altri; in realtà però, liberato da un'inquietudine che non aveva confessato neppure a se stesso, trovò accenti ancora più divertenti e insolenti di prima.
Era passata la mezzanotte quando, dopo un breve commiato dai suoi nuovi conoscenti, attraversò da solo la grande piazza vuota su cui si apriva un cielo caliginoso e senza stelle, ma egualmente scintillante.
Con una specie di sicurezza da sonnambulo, senza essere davvero cosciente che lo faceva per la prima volta dopo un quarto di secolo, trovò la strada per strette calli, tra muri scuri e passerelle, fino alla sua misera locanda, la cui porta gli si aprì davanti, pigra e inospitale, solo dopo che ebbe ripetutamente bussato; e pochi minuti dopo, in preda a una dolorosa stanchezza che gli appesantiva le membra senza rilassarle e con un retrogusto amaro sulle labbra che sentiva salire dal più intimo del suo essere, si gettò, spogliato soltanto a metà, su un cattivo letto, per dormire dopo venticinque anni di esilio il primo, tanto desiderato sonno in patria, che finalmente, alle prime luci del mattino, ebbe pietà del vecchio avventuriero e sopraggiunse senza sogni e profondo.
NOTA:
Una visita di Casanova a Ferney ebbe luogo davvero, ma tutti gli eventi della presente novella a essa riferiti, in particolare il fatto che Casanova avrebbe lavorato a un'opera polemica contro Voltaire, non hanno niente a che vedere con la verità storica. Storicamente attestato è inoltre che Casanova tra i cinquanta e i sessanta anni si vide costretto a fare l'informatore per la sua patria, Venezia; notizie più precise e più fedeli a questo proposito e su altre precedenti avventure del celebre avventuriero alle quali si fa incidentalmente riferimento in questo libro si possono trovare nelle sue "Memorie". Per il resto tutto l'intreccio del "Ritorno di Casanova" è completamente inventato.
A. S.