Antòn Cechov



NOVELLE

 

 

VOLUME SECONDO



DALLE MEMORIE DI UN UOMO IRASCIBILE


Io sono un uomo serio, e il mio cervello ha un indirizzo filosofico.

Di professione son finanziere, studio diritto finanziario e scrivo una dissertazione dal titolo: "Passato e avvenire della tassa sui cani".

Convenite che non ho proprio nulla a che fare con fanciulle, romanze, la luna e altre sciocchezze.

Mattina. Ore dieci. La mia "maman" mi versa un bicchiere di caffè. Io bevo ed esco sul balconcino, per subito por mano alla dissertazione.

Prendo un foglio di carta pulito, intingo la penna nell'inchiostro e traccio il titolo: "Passato e avvenire della tassa sui cani". Dopo aver pensato un po', scrivo: «Rassegna storica. A giudicare da taluni accenni che si hanno in Erodoto e Senofonte, la tassa sui cani trae origine da... ».

Ma qui odo dei passi in sommo grado sospetti. Guardo dal balconcino e vedo una ragazza dal viso lungo e dalla vita lunga. Si chiama, sembra, Nàdenka, o Vàrenka, ciò che, del resto, fa assolutamente lo stesso.

Ella cerca qualcosa, fa vista che non s'accorge di me, e canticchia:

«Rammenti il canto pieno di dolcezza... ».

Io leggo ciò che ho scritto, voglio continuare, ma allora la fanciulla fa mostra d'essersi accorta di me, e dice con voce triste:

- Buon giorno, Nikolài Andreic'! Figuratevi che disavventura ho avuto!

Ieri, passeggiando, smarrii il fermaglio del braccialetto.

Rileggo ancora una volta l'inizio della mia dissertazione, ritocco il filetto di una «c» e voglio continuare, ma la ragazza non la smette.

- Nikolài Andreic', - dice, - siate così gentile, accompagnatemi a casa. I Karelin hanno un cane così enorme che non mi risolvo ad andar sola.

Non c'è che fare, poso la penna e scendo giù. Nàdenka, o Vàrenka, mi prende a braccetto, e ci avviamo alla sua villetta.

Quando mi tocca in sorte di dover camminare sotto braccio con una signora o signorina, mi sento sempre, chi sa perché, un uncino a cui abbiano appeso una grossa pelliccia; Nàdenka poi, o Vàrenka, è una natura, sia detto fra noi, appassionata (suo nonno era un armeno), possiede la facoltà di sospendersi al vostro braccio con tutto il peso del suo corpo e, come una mignatta, stringervisi al fianco. E così andiamo... Passando accosto ai Karelin, vedo un grosso cane, che mi fa rammentar la tassa sui cani. Con angoscia ricordo il lavoro cominciato e sospiro.

- Per che cosa sospirate? - domanda Nàdenka, o Vàrenka, e manda lei stessa un sospiro.

Qui devo fare un'avvertenza. Nàdenka, o Vàrenka (adesso rammento che si chiama, pare, Màscenka), ha immaginato, chi sa come, ch'io sia di lei innamorato, e perciò stima dovere di filantropia guardarmi sempre con compassione e curare verbalmente la mia ferita di cuore.

- Ascoltate, - dice, fermandosi, - io so perché sospirate. - Voi amate, sì! Ma vi prego in nome della nostra amicizia, credete, la fanciulla che amate vi stima profondamente! Il vostro amore non può ripagarvelo del pari, ma ci ha forse colpa lei, se il suo cuore già da un pezzo appartiene a un altro?

Il naso di Màscenka si fa rosso e gonfio, gli occhi le si riempiono di lacrime; ella, a quanto sembra, aspetta da me una risposta, ma, per fortuna, siamo ormai arrivati... Sul terrazzo siede la "maman" di Màscenka, buona donna, ma con pregiudizi; data un'occhiata al viso turbato della figlia, ferma su di me un lungo sguardo e sospira, come volesse dire: «Ah, gioventù, perfin nascondere non sapete!». Oltre a lei, son sedute sul terrazzo alcune ragazze variopinte e in mezzo a loro un mio vicino di villeggiatura, ufficiale a riposo, ferito nell'ultima guerra alla tempia sinistra e all'anca destra. Questo sventurato, al pari di me si è prefisso lo scopo di consacrare quest'estate alla fatica letteraria. Egli scrive "Memorie di un militare". Al par di me, ogni mattina mette mano al suo rispettabile lavoro, ma appena riesce a scrivere: «Io nacqui il... », che sotto il balconcino compare una qualche Vàrenka, o Màscenka, e il ferito servo di Dio è preso sotto guardia.

Tutti quelli seduti sul terrazzo nettano per la confettura certe insipide bacche. Io mi accomiato e voglio andarmene, ma le signorine variopinte con uno strillo agguantano il mio cappello ed esigono ch'io rimanga. Mi metto a sedere. Mi porgono un piatto di bacche e una spilla. Comincio a ripulire.

Le signorine variopinte parlano sul tema: uomini. Il tale è carino, il talaltro è bello, ma non simpatico, un terzo non è bello, ma è simpatico, un quarto non sarebbe brutto se il suo naso non somigliasse a un ditale, e così via.

- E voi, "monsieur" Nicolas,-si rivolge a me la "maman" di Vàrenka, - non siete bello, ma siete simpatico... Nel vostro viso c'è qualcosa... Del resto, - ella sospira, - nell'uomo il più non è la bellezza, ma l'intelligenza...

Le ragazze sospirano e abbassano gli occhi... Esse pure son d'accordo che nell'uomo il più non è la bellezza ma l'intelligenza. Io mi guardo di sbieco allo specchio per convincermi di quanto son simpatico. Vedo una testa arruffata, barba, baffi, sopraccigli arruffati, peli sulle guance, peli sotto gli occhi: tutt'un boschetto, fuor del quale, a mo' di vedetta, guarda il mio solido naso. Bello, non c'è che dire!

- Del resto, Nicolas, voi vincerete con le vostre qualità morali, - sospira la "maman" di Nàdenka, come riconfortando un suo segreto pensiero.

E Nàdenka soffre per me, ma nello stesso mentre la consapevolezza che di fronte le siede un uomo innamorato di lei le procura, a quanto sembra, il massimo diletto. Finito con gli uomini, le signorine parlan d'amore. Dopo una lunga conversazione sull'amore, una delle ragazze si alza e se ne va. Le rimaste cominciano a riveder le bucce a quella ch'è andata via. Tutte trovano ch'è sciocca, insopportabile, brutta, che ha una scapola fuor di posto.

Ma ecco, la Dio mercè, viene infine la cameriera, inviata dalla mia "maman", e mi chiama a desinare. Ora posso lasciare la sgradita compagnia e andare a continuare la mia dissertazione. Mi alzo e prendo commiato. La "maman" di Vàrenka, Vàrenka stessa e le signorine variopinte mi attorniano e dichiarano che non ho alcun diritto di andarmene, avendo dato ieri la parola d'onore di pranzar con loro, e dopo pranzo di andar al bosco per funghi. M'inchino e siedo...

Nell'anima mia ribolle l'odio, sento che, ancora un minuto, e non rispondo più di me, accadrà un'esplosione, ma la delicatezza e il timore di venir meno alle buone maniere mi forzano a obbedire alle signore. E obbedisco.

Ci mettiamo a pranzare. L'ufficiale ferito, al quale, per via della ferita alla tempia, s'è formata una contrattura delle mascelle, mangia con un'aria tale come se fosse imbrigliato e avesse in bocca il morso.

Io arrotolo palline di pane, penso alla tassa sui cani e, conoscendo il mio carattere irascibile, mi sforzo di tacere. Nàdenka mi guarda con compassione. Intingolo di carne tritata, lingua con piselli, pollo arrosto e composta. Niente appetito, ma per delicatezza mangio. Dopo pranzo, quando me ne sto solo in terrazzo a fumare, mi si accosta la "maman" di Màscenka, stringe le mie mani e dice ansando:

- Ma voi non disperate, Nicolas... E' un tal cuore... un tal cuore!

Andiamo al bosco per funghi... Vàrenka è sospesa al mio braccio e si appiccica al mio fianco. Soffro intollerabilmente, ma sopporto.

Entriamo nel bosco.

- Ascoltate, "monsieur" Nicolas, - sospira Nàdenka, - perché siete così triste? Perché state zitto?

Strana ragazza: di che mai posso parlare con lei? Che abbiamo di comune?

- Su, dite qualcosa... - ella prega.

Io comincio a escogitare alcunché di popolare, accessibile alla sua comprensione. Dopo aver pensato, dico:

- Il diboscamento reca un danno enorme alla Russia.

- Nicolas! - sospira Vàrenka, e il suo naso si fa rosso.- Nicolas, voi evitate, vedo, un colloquio aperto... Come se voleste punire col vostro silenzio... Non corrispondono al vostro sentimento, e voi volete soffrire in silenzio, da voi solo... ciò è orribile Nicolas! - ella esclama, pigliandomi impetuosamente la mano, e io vedo come il suo naso comincia a gonfiare. - Che direste, se la fanciulla che amate vi offrisse eterna amicizia?

Io borbotto qualcosa di sconnesso, perché proprio non so che cosa dirle... Di grazia: in primo luogo, non amo nessuna fanciulla e, secondariamente, per che cosa mi potrebbe occorrere un'eterna amicizia? Terzo, son molto irascibile. Màscenka, o Vàrenka, si copre il viso con le mani e dice a mezza voce, come tra sé:

- Egli tace... Evidentemente vuole un sacrificio da parte mia. Non posso mica amarlo, se tuttora ne amo un altro! Del resto... ci penserò... Bene, ci penserò... Raccoglierò tutte le forze della mia anima e, forse, a prezzo della mia felicità salverò quest'uomo dalle sofferenze!

Non capisco nulla. E' una specie di cabalistica. Proseguiamo e cogliamo funghi. Tutto il tempo restiamo zitti. In viso a Nàdenka v'è l'espressione d'una lotta interiore. Si sente un latrar di cani:

questo mi rammenta la mia dissertazione e sospiro rumorosamente.

Attraverso i tronchi degli alberi scorgo l'ufficiale ferito. Il poveretto zoppica dolorosamente a dritta e a manca: a destra ha l'anca ferita, a sinistra gli pende una delle fanciulle variopinte. Il volto esprime rassegnazione al destino.

Dal bosco facciamo ritorno alla casa di villeggiatura a bere il tè, dopo di che giochiamo a "crocket" e ascoltiamo una delle variopinte fanciulle cantare la romanza: "No, tu non m'ami! No! No!..." Alla parola «No» ella torce la bocca fin proprio all'orecchio.

- "Charmant"! (1) - gemono le rimanenti fanciulle. - "Charmant"!

Vien sera. Da dietro i cespugli striscia fuori una luna repellente.

Nell'aria v'è quiete e uno sgradevole odore di fieno fresco. Prendo il cappello e voglio andarmene.

- Ho bisogno di comunicarvi qualcosa, - mi bisbiglia significativamente Màscenka. - Non andate via.

Presento alcunché di poco buono, ma per delicatezza rimango. Màscenka mi prende a braccetto e mi conduce da qualche parte pel viale. Ora poi tutta la figura di lei esprime la lotta. E' pallida, respira a stento e sembra aver intenzione di strapparmi il braccio destro. Che ha?

- Ascoltate... - mormora. - No, non posso... No...

Vuol dire qualche cosa, ma esita. Ma, ecco, dal suo viso io scorgo che si è risolta. Con gli occhi scintillanti, il naso rigonfio, mi afferra la mano e dice rapida:


- Nicolas, son vostra! Amarvi non posso, ma vi prometto fedeltà!

Dopo di che si stringe al mio petto e d'un tratto balza indietro.

- Viene qualcuno... - bisbiglia. - Addio... Domani alle undici sarò al capanno... Addio!

E scompare. Senza capir nulla, sentendo un doloroso batticuore, me ne vado a casa. Mi aspetta "Passato e avvenire della tassa sui cani", ma lavorare ormai non posso. Sono furioso. Si può perfin dire che sono orrendo. Che il diavolo mi porti, non permetterò che mi si tratti come un ragazzuccio! Sono irascibile e scherzar meco è pericoloso! Quando entra da me la cameriera per chiamarmi a cena, le grido:

«Andatevene!». Siffatta irascibilità promette poco di buono.

Il giorno dopo, di mattina. Tempo da villeggiatura, cioè temperatura sotto zero, vento freddo, pungente, pioggia fango e odor di naftalina, perché la mia "maman" ha tolto dal baule i suoi mantelli. Mattinata diabolica. Ciò precisamente il 7 agosto 1887, quando vi fu l'eclisse di sole. E' d'uopo osservarvi che durante l'eclisse ciascun di noi può recare un enorme vantaggio, senz'essere astronomo. Così, ognun di noi può: 1) determinare il diametro del sole e della luna, 2) disegnare la corona del sole, 3) misurare la temperatura, 4) osservare al momento dell'eclisse animali e piante, 5) annotare le proprie impressioni, e così via. Questo è così importante che io, per intanto, lasciai da parte "Passato e avvenire della tassa sui cani" e risolsi di osservare l'eclisse. Ci eravamo alzati tutti prestissimo. Tutto il lavoro imminente l'avevo diviso così: io avrei determinato il diametro del sole e della luna, l'ufficiale ferito avrebbe disegnato la corona, tutto il resto poi se lo sarebbero assunto Màscenka e le signorine variopinte. Eccoci tutti riuniti ad aspettare.

- Perché si ha l'eclisse? - domanda Màscenka.

Io rispondo:

- Le eclissi solari avvengono nel caso che la luna, rotando nel piano dell'eclittica, venga a trovarsi sulla linea congiungente i centri del sole e della terra.

- E che vuol dire eclittica?

Io spiego. Màscenka, dopo aver ascoltato attentamente, domanda:

- Si può attraverso il vetro affumicato scorgere la linea congiungente i centri del sole e della terra?

Le rispondo che questa linea si traccia astrattamente.

- Se è astratta,- non si raccapezza Vàrenka, - come mai può collocarvisi la luna?

Non rispondo. Sento come a cagione di questa ingenua domanda comincia a ingrossarmisi il fegato.

- Son tutte frottole, - dice la "maman" di Vàrenka. - Non si può sapere quel che sarà, e per di più voi non siete stato in cielo neppure una volta, come fate dunque a sapere ciò che accadrà alla luna e al sole? Tutto questo è fantasia.

Ma ecco una macchia nera muover contro il sole. Confusione generale.

Mucche, pecore e cavalli, rizzate le code e rugliando, in preda a terrore correvan per i campi. I cani ululavano. Le cimici, immaginando scesa la notte, erano sbucate dalle fessure e avevan cominciato a mordere quelli che dormivano. Il diacono, che in questo mentre si portava a casa dall'orto i cetrioli, sgomento, balzò dal carro e si nascose sotto il ponte, e il suo cavallo entrò col carro in un cortile altrui, dove i cetrioli furono divorati dai maiali. L'addetto al dazio, che aveva trascorso la notte non a casa, ma presso una villeggiante, saltò fuori in sole mutande e, corso in mezzo alla folla, prese a gridare con voce selvaggia:

- Si salvi chi può!

Molte villeggianti, anche giovani e belle, destate dal rumore, balzarono sulla via, senz'aver calzato le scarpe. Accaddero anche molte altre cose ch'io non mi risolvo narrare.

- Ah, che paura! - strillano le fanciulle variopinte. - Ah! E' terribile!

- "Mesdames", osservate! - grido loro. - Il tempo è prezioso!

E io stesso mi affretto, misuro il diametro... Mi rammento della corona e cerco con gli occhi l'ufficiale ferito. Egli sta lì e non fa nulla.

- Che avete? - grido. - E la corona?

Egli alza le spalle e, impotente, mi accenna con gli occhi le proprie braccia. Alle due braccia del poverino si sono appese le fanciulle variopinte, si stringono a lui dal terrore e gl'impediscono di lavorare. Prendo il lapis e annoto il tempo coi secondi. Ciò è importante. Segno la posizione geografica del punto di osservazione.

Anche questo è importante. Voglio determinare il diametro, ma in questo mentre Màscenka mi prende per la mano e dice:

- Non dimenticate dunque, oggi alle undici!

Io tolgo la sua mano e, facendo caso di ciascun secondo, voglio proseguire le osservazioni, ma Vàrenka convulsamente mi prende a braccetto e si stringe al mio fianco. Lapis, vetri, schizzi: tutto ciò precipita nell'erba. Il diavolo sa che cosa! Ma è tempo, infine, che questa ragazza capisca ch'io sono irascibile, che io, incollerito, divento furioso e allora non posso risponder di me.

Voglio continuare, ma l'eclisse è bell'e finito!

- Rivolgetemi uno sguardo! - sussurra ella teneramente.

Oh, questo è ormai il colmo dello scherno! Convenite che siffatto giocare con l'umana pazienza non può che finir male. Non mi fate poi colpa, se accadrà qualcosa di tremendo! A nessuno permetterò di scherzare, di farsi beffe di me e, che il diavolo mi sbrani, quando sono infuriato non consiglio a nessuno di farmisi accosto, che il diavolo mi porti proprio! Son pronto a tutto!

Una delle ragazze, probabilmente accortasi dal mio viso che sono infuriato, dice, evidentemente allo scopo di calmarmi:

- Ma io, Nikolài Andréievic', ho eseguito il vostro incarico. Ho osservato i mammiferi. Ho visto come prima dell'eclisse un cane grigio è corso dietro un gatto e poi a lungo ha scodinzolato.

Così dall'eclisse non è risultato nulla. Vado a casa. In grazia della pioggia non esco sul balconcino a lavorare. L'ufficiale ferito s'è arrischiato a uscire sul suo balcone e ha scritto perfino: «Io nacqui il...» -, e ora io vedo dalla finestra come una delle fanciulle variopinte lo trascina alla sua villetta. Lavorare non posso, perché son tuttora infuriato e mi sento il batticuore. Al capanno non vado.

Ciò è scortese ma, convenitene, non posso già andarvi con la pioggia!

Alle dodici ricevo una lettera da Màscenka, nella lettera vi sono rimbrotti, la preghiera di recarmi al capanno e il «tu»... All'una ricevo un'altra lettera, alle due una terza... Bisogna andare. Ma prima di andare, devo riflettere a quello di cui parlerò con lei.

Agirò come un uomo ammodo. In primo luogo, le dirò che a torto immagina ch'io l'ami. Del resto, tali cose non si dicono alle donne.

Dire a una donna: «Io non vi amo» è tanto indelicato come dire a uno scrittore: «Voi scrivete male». Meglio di tutto, esprimerò a Vàrenka le mie vedute sul matrimonio. Metto il cappotto pesante, prendo l'ombrello e vado al capanno. Conoscendo il mio carattere irascibile, temo d'aver a dire qualcosa di troppo. Cercherò di contenermi.

Al capanno mi si aspetta. Nàdenka è pallida e ha pianto. Vedendomi, manda un grido di gioia, mi si getta al collo e dice:

- Finalmente! Tu giuochi con la mia pazienza. Ascolta, io tutta la notte non ho dormito... Ho sempre pensato. Mi sembra che, quando ti conoscerò più da vicino... ti amerò...

lo siedo e comincio a esporre le mie vedute sul matrimonio. Dapprima, per non andar lontano, per essere quanto più si può breve, faccio una piccola rassegna storica. Parlo del matrimonio degli indù e degli egizi, dopo di che passo ad epoche posteriori; qualche pensiero di Schopenhauer (1) Màscenka ascolta con attenzione, ma d'un tratto, per una strana incoerenza d'idee, stima necessario interrompermi.

- Nicolas, baciami! - dice.

Io sono turbato e non so che cosa dirle. Ella ripete la sua richiesta.

Non c'è che fare, mi alzo e poso le labbra sul suo lungo viso, nel far che provo la stessa cosa che sentii nell'infanzia, quando un giorno mi fecero baciare alla messa funebre la nonna defunta. Non appagandosi del mio bacio, Vàrenka dà un balzo e mi abbraccia impetuosamente. In questo mentre alla porta del capanno si mostra la "maman" di Màscenka... Ella fa un viso spaventato, dice a qualcuno: «Ssst!», e sparisce, come Mefistofele nella stiva.

Conturbato e furioso, me ne torno al mio villino. A casa trovo la "maman" di Vàrenka, che con le lacrime agli occhi abbraccia la mia "maman", e la mia "maman" piange e dice:

- Io stessa lo desideravo!

Dopo di che - come vi piace questo? - la maman di Vàrenka mi si accosta e mi abbraccia, dicendo:

- Dio vi benedica! E tu, bada, amala... Ricordati che lei per te fa un sacrificio...

E ora mi ammogliano. Mentre scrivo queste righe, mi stanno addosso i paggi d'onore e mi fan premura. Costoro positivamente non conoscono il mio carattere! Ché io sono irascibile e non posso risponder di me! Che il diavolo mi porti, vedrete quel che accadrà più in là! Condurre a nozze un uomo irascibile, furibondo: questo, secondo me, è così poco intelligente come ficcar la mano in gabbia verso una tigre infuriata.

Vedremo, vedremo quel che accadrà!

Così, sono sposato. Tutti mi fanno i rallegramenti, e Vàrenka di continuo si stringe a me e dice:

- Capisci dunque che tu ora sei mio, mio! Dimmi dunque che mi ami!

Dillo!

E intanto le si gonfia il naso.

Ho saputo dai paggi d'onore che l'ufficiale ferito è destramente sfuggito a Imeneo. Egli ha esibito a una fanciulla variopinta un certificato medico che, in grazia della ferita alla tempia, egli non è mentalmente normale, e quindi per legge non ha il diritto di sposarsi.

Un'idea! io pure avrei potuto esibire un certificato. Mio zio aveva accessi d'ubriachezza, un altro zio era molto distratto (una volta, invece del berretto, si mise in testa un manicotto da signora), una zia sonava molto il pianoforte e, incontrando uomini, mostrava loro la lingua. Inoltre anche il mio carattere in sommo grado irascibile è un sintomo assai sospetto. Ma perché le buone idee vengono così tardi?

Perché?




NOTE:


1) Incantevole, delizioso.

2) Il grande filosofo pessimista tedesco (1788-1860), autore di "Il mondo come volontà e rappresentazione", "I fondamenti della morale", "Parerga e Paralipomena".




SSST!...


Ivàn Jegòrovic' Krasnuchin, collaboratore giornalistico di mezza tacca, rincasa a notte tarda accigliato, serio e come particolarmente riconcentrato. Ha un'aria come se s'aspettasse una perquisizione o meditasse il suicidio. Dopo aver camminato un po' per la stanza, si ferma, arruffa i capelli e dice col tono di Laerte (1) che si accinge a vendicar la sorella (2):

- Affranto, stremato nell'anima, in cuore un'angoscia opprimente, ma pure siedi e scrivi! E questo si chiama vita?! Perché nessuno ancora ha descritto la tormentosa discordanza che nasce nello scrittore, quand'egli è afflitto, ma deve far ridere la folla, o quand'è allegro e deve sparger lacrime su ordinazione? Io debbo esser gaio, indifferentemente freddo, arguto, ma immaginate che mi opprima l'angoscia o, mettiamo, che io sia malato, mi stia morendo un bimbo, che partorisca la moglie!

Ciò egli dice scotendo il pugno e rotando gli occhi... Poi va in camera e desta la moglie.

- Nadia, - dice, - mi metto a scrivere... Per favore, che nessuno mi disturbi. Non si può scrivere, se strillano i bambini, sbuffano le cuoche... Da' ordine pure che ci sia il tè e... una bistecca, che so io... Tu lo sai, senza il tè non posso scrivere... Il tè è l'unica cosa che mi sostenga nel lavoro.

Tornato nella sua stanza, egli si leva soprabito, panciotto e stivali.

Si sveste lentamente, dopo di che, data al suo volto l'espressione dell'innocenza offesa, siede alla scrivania.

Sulla tavola non v'è nulla di occasionale, di usuale, ma tutto, ogni minima inezia, reca il carattere della ponderazione e d'un rigoroso programma. Bustini e ritrattini di grandi scrittori, un mucchio di manoscritti in bozza, un tomo di Bielinski (3) con una pagina ripiegata, un osso occipitale in luogo di portacenere, un foglio di giornale, piegato con negligenza, ma in guisa che si veda il posto segnato intorno a matita azzurra, con una grossa scritta in margine:

«Ignobile!». Vi son pure una decina di lapis temperati di fresco e di portapenne con pennini nuovi, visibilmente messi lì perché cause e accidenti esteriori, del genere d'un guasto alla penna, non possano interrompere neanche per un secondo il libero volo creativo...

Krasnuchin si arrovescia sulla spalliera della poltrona e, chiusi gli occhi, si sprofonda nella meditazione del tema. Sente come la moglie strascica le pianelle e spacca legnetti per il samovàr. Ella non s'è ancor destata del tutto, lo si vede dal fatto che il coperchio del samovàr e il coltello di continuo le cascan di mano. Presto giunge il grillare del samovàr e della carne rosolata. La moglie non smette di spaccar legnetti e di sbacchiare intorno alla stufa chiusini, coperchi e sportellini. D'un tratto Krasnuchin sussulta, apre gli occhi spaventato e comincia ad annusar l'aria.

- Dio mio, acido carbonico! - geme, contraendo dolorosamente il viso. - Acido carbonico! Questa donna insopportabile s'è prefissa di avvelenarmi! Orsù, dite, per amor di Dio, posso io scrivere in un ambiente così?

Egli corre in cucina e là esplode in drammatiche urla. Quando, dopo aver aspettato un po', la moglie, avanzando guardinga in punta di piedi, gli porta un bicchier di tè, egli siede come dianzi in poltrona, con gli occhi chiusi, e immerso nel suo tema. Non si muove, si tamburella leggermente in fronte con due dita e fa mostra di non sentir la presenza della moglie... Sul suo viso vi è, come poc'anzi, un'espressione d'innocenza offesa.

Come la ragazzina a cui han donato un prezioso ventaglio, egli, prima di scrivere il titolo, civetta lungamente con se stesso, posa, fa smancerie... Si preme le tempie, ora si rattrappisce e piega le gambe sotto la poltrona, come per dolore, ora strizza languido gli occhi, come un gatto sul divano... Infine, non senza esitanza, allunga la mano al calamaio e, con un'espressione come se firmasse una sentenza di morte, fa il titolo...

- Mamma, dammi dell'acqua! - egli sente la voce del figlio.

- Ssst! - dice la madre. - Il babbo scrive! Ssst...

Il babbo scrive lesto lesto, senza cancellature e interruzioni facendo appena in tempo a voltar le pagine. Busti e ritratti degli scrittori celebri miran la sua penna che scorre rapida, non si muovono e sembra che pensino: «Ohi, fratello, come ci hai fatto la mano!».

- Ssst! - stride la penna.

- Ssst! - fanno gli scrittori, quando sobbalzano con la tavola per un urto del ginocchio.

D'un tratto Krasnuchin si raddrizza, posa la penna e tende l'orecchio... Egli sente un sussurro eguale, monotono... Nella stanza attigua l'inquilino, Fomà Nikolàievic', sta pregando Iddio.

- Sentite! - grida Krasnuchin. - Non vorreste pregare un po' più piano? M'impedite di scrivere!

- Scusate... - risponde timidamente Fomà Nikolàievic'.

- Ssst!

Riempite di scrittura cinque paginette, Krasnuchin si stira e guarda l'orologio.

- Dio, già le tre! - geme. - La gente dorme, e io solo devo lavorare!

Rotto, spossato, chinata la testa di fianco, va in camera, desta la moglie e dice con voce languida:

- Nadia, dammi ancora del tè! Io... sono affranto!

Scrive fino alle quattro, e scriverebbe volentieri fino alle sei, se non fosse esaurito il tema. Civettare e posare davanti a se stesso, davanti agli oggetti inanimati, lungi da un occhio osservatore indiscreto, dispotismo e tirannia sul piccolo formicaio dalla sorte gettato sotto il suo dominio formano il sale e il miele della sua esistenza. E come questo despota qui, in casa, è dissimile da quel piccolo omino umiliato, privo di favella, incapace, che siamo avvezzi a veder nelle redazioni!

- Son così spossato che difficilmente prenderò sonno... - egli dice, coricandosi. - Il nostro lavoro, questo lavoro maledetto, ingrato, da galera, estenua non tanto il corpo quanto l'anima... Dovrei prender del bromuro... Oh, vede Iddio, se non fosse la famiglia, smetterei questo lavoro... Scrivere su ordinazione! E' tremendo! Egli dorme fino alle dodici, o fino all'una del pomeriggio, dorme sodo e profondamente... Ah, come ancora dormirebbe, che sogni farebbe, come si scapriccerebbe, se diventasse uno scrittore noto, redattore, o magari editore!

- Ha scritto tutta la notte! - bisbiglia la moglie, facendo un viso spaventato. - Ssst!

Nessuno ardisce né parlare, né camminare, né far rumore. Il suo sonno è cosa sacra, la cui profanazione il colpevole pagherebbe cara!

- Ssst! - aleggia nell'appartamento. - Ssst!




NOTE:


1) Nell'"Amleto" di Shakespeare.

2) Ofelia.

3) Celebre critico e pubblicista russo (1812-1848).




LA VENDETTA


Lev Savvic' Turmanov, un cittadino qualunque, che aveva un capitaluccio, una moglie giovane e una dignitosa calvizie, giocava, in occasione d'un onomastico, da un amico al "vint" (1). Dopo una buona perdita, quando fu colto dal sudore, si rammentò d'un tratto che da un pezzo non beveva vodka. Alzatosi, in punta di piedi, dondolandosi gravemente, avanzò fra le tavole, attraversò il salotto, dove ballava la gioventù (qui egli sorrise indulgente e batté paternamente sulla spalla a un giovane, esile farmacista), dopo di che sgusciò per un piccolo uscio che metteva alla stanza di ristoro. Lì, su un tavolino rotondo, stavan bottiglie, caraffe con vodka... Accanto ad esse, fra altri antipasti, verdeggiante di cipolline e prezzemolo, giaceva in un piatto un'aringa ormai mezzo mangiata. Lev Savvic' si mescé un bicchierino, mosse in aria le dita, come accingendosi a fare un discorso, bevve e fece un viso sofferente, poi conficcò una forchetta nell'aringa e... Ma allora di là dalla parete si udirono voci.

- D'accordo, d'accordo... - diceva arditamente una voce femminile.

- Solamente, quando sarà?

«Mia moglie», riconobbe Lev Savvic'. «Con chi è?».

- Quando vuoi, amica mia... - rispose dietro la parete una piena, pastosa voce di basso. - Oggi non è del tutto agevole, domani sono occupato tutt'il santo giorno...

«E' Degtiariòv!», riconobbe Turmanov nel basso uno dei suoi amici.

«Anche tu, Bruto, ci sei! (2) Possibile che abbia agganciato anche lui? Ma che donna insaziabile, turbolenta! Non può vivere un giorno senza romanzetto!».

- Sì, domani sono occupato,- continuò il basso. - Se vuoi, scrivimi domani qualcosa... Sarò contento e felice... Solo che dovremmo regolare la nostra corrispondenza. Bisogna escogitare un qualche trucco. Spedire per posta non è punto comodo. Se io ti scrivo, il tuo gallinaccio può intercettare la lettera dal postino; se tu scrivi a me, la mia metà riceverà me assente e sicuramente dissuggellerà.

- Come fare dunque?

- Bisogna idear qualche trucco. Per mezzo della servitù del pari non si può inviare, perché il tuo Sobàkevic' (3) di certo tiene con pugno di ferro cameriera e domestico... O che a carte ci giuoca?

- Sì. Perde eternamente, il babbeo!

- Vuol dire che ha fortuna in amore! - rise Degtiariòv. - Ecco, mammetta, che giochetto ho escogitato... Domani, alle sei di sera in punto io, tornando dall'ufficio, passerò per il giardino comunale, dove ho da incontrarmi col custode. Allora ecco tu, anima mia, cerca assolutamente per le sei, non più tardi, di deporre un bigliettino in quel vaso di marmo che, saprai, si trova a sinistra della pergola di vite...

- So, so...

- Ciò riuscirà poetico, e misterioso, e nuovo... Non lo saprà né il tuo pancione, né la fedel consorte. Hai capito?

Lev Savvic' bevve ancora un bicchierino e si avviò alla tavola da giuoco. La scoperta, che proprio allora aveva fatto, non l'aveva colpito, né meravigliato, né punto indignato. Il tempo ch'egli s'indignava, faceva scenate, litigava e perfino veniva alle mani, era passato ormai da un pezzo; aveva lasciato correre e ora chiudeva gli occhi sui romanzetti della sua volubile consorte. Ma tuttavia gli dispiacque. Espressioni come gallinaccio, Sobàkevic', pancione, eccetera, avevano ferito il suo amor proprio.

«Ma che canaglia, però, questo Degtiariòv!», pensava, segnando i meno.

«Quando lo s'incontra per via, si finge un così caro amico, mette in vista in denti, e fa lisciatine sul ventre, e ora, guarda un po', che scherzi ti combina! In faccia ti tratta d'amico, e di dietro per lui sono un gallinaccio e un pancione...». Quanto più egli sprofondava nei suoi sgraditi meno, tanto più grave si faceva il senso dell'offesa...

«Sbarbatello... », pensava, spezzando stizzosamente il gessetto.

«Ragazzaccio... Non ho voglia solo d'impicciarmi, se no ti farei veder io il Sobàkevic'!».

A cena non poté veder con indifferenza la fisonomia di Degtiariòv, e quello, come apposta, non finiva d'importunarlo con le domande: aveva vinto? perché era così triste? e così via. E aveva perfin la faccia tosta, in base ai diritti della buona conoscenza, di riprendere ad alta voce la consorte di lui, perché poco si curava della salute del marito. E la consorte, come nulla fosse, guardava il marito con gli occhietti languidi, rideva allegra e ciarlava innocentemente, talché il diavolo in persona non l'avrebbe sospettata d'infedeltà.

Tornato a casa, Lev Savvic' si sentiva rabbioso e malcontento come se, invece di vitella, avesse mangiato a cena una vecchia soprascarpa. Si sarebbe forse vinto e avrebbe dimenticato, ma il cicaleccio della consorte e i suoi sorrisi a ogni secondo gli rammentavano il gallinaccio, l'oca, il pancione...

«Consumargli le guance a schiaffi dovrei, al mascalzone... », pensava.

«Bistrattarlo in pubblico».

E pensava che sarebbe stato bene, ora, picchiare Degtiariòv, sparargli in duello, come a un passero... sbalzarlo dall'impiego, o porre nel vaso di marmo qualcosa di sconcio, di puzzolente: un topo morto, per esempio... Non sarebbe stato male sottrarre anticipatamente la lettera della moglie dal vaso, e in sua vece mettere qualche versetto scabroso con la firma «La tua Akulka», o qualcosa del genere.

A lungo Turmanov camminò per la camera e si dilettò in simili fantasie. D'un tratto si fermò e si batté in fronte.

- Ho trovato, bravo! - esclamò, e addirittura raggiò di contentezza.

- Ciò riuscirà a meraviglia! A me-eraviglia!

Quando si fu addormentata la sua consorte, egli sedette a tavola e, dopo lungo esitare, alterando la propria scrittura e inventando errori di grammatica, scrisse quel che segue: «Al mercante Dulinov. Egregio signore! Se alle sei di sera di quest'oggi 12 settembre nel vaso di marmo, che trovassi nel giardino comunale a manca del capanno di vite, non staranno messi da voi duecento rubli, sarete ucciso e la vostra bottega di mercerie salterà in aria». Dopo aver scritto una tal lettera, Lev Savvic' balzò dall'entusiasmo.

- Com'è pensata, eh? - mormorava, fregandosi le mani. - Splendido!

Miglior vendetta satana stesso non l'inventerà! Naturalmente il mercantone avrà paura e subito riferirà alla polizia, e la polizia si apposterà verso le sei nei cespugli, e l'acciufferà, il colombello, quando si farà avanti per la lettera!... Sì che si prenderà paura!

Mentre la faccenda si chiarirà, avrà il tempo, la canaglia, di passarne a iosa, e di star dentro a sazietà... Bravo!

Lev Savvic' appiccicò il francobollo alla lettera e la recò egli stesso alla cassetta postale. Si addormentò col più beato sorriso e dormì soavemente come da un pezzo non dormiva. Destatosi la mattina e rammentando la sua trovata, canticchiò allegro in sordina e prese perfin la moglie infedele per la bazzetta. Avviandosi all'ufficio, e poi seduto in cancelleria, non fece che sorridere e immaginarsi lo sgomento di Degtiariòv, quando sarebbe caduto nel tranello...

Dopo le cinque non resse più e corse nel giardino comunale, per contemplare coi suoi occhi la disperata situazione del nemico.

«Aah!», fece entro di sé, incontrando una guardia.

Giunto al capanno di vite, sedette sotto un cespuglio e, puntando gli sguardi bramosi sul vaso, prese ad aspettare. La sua impazienza non aveva limiti.

Alle sei precise spuntò Degtiariòv. Il giovanotto era, a quanto pareva, del più eccellente umore. La sua tuba posava arditamente sulla nuca e dal suo cappotto aperto sembrava occhieggiasse, insieme col cappotto, l'anima stessa. Egli fischiettava e fumava un sigaro...

«Ecco, ora imparerai a conoscere il gallinaccio e il Sobàkevic'!».

gioì maligno Turmanov. «Aspetta!».

Degtiariòv s'accostò al vaso e vi cacciò pigramente una mano... Lev Savvic' si sollevò e gli piantò gli occhi addosso... Il giovanotto trasse fuori dal vaso un piccolo piego, lo guardò da tutte le parti e alzò le spalle, poi, irresoluto, lo dissuggellò, tornò ad alzar le spalle e gli si dipinse in viso un'estrema perplessità; nel piego v'erano due biglietti iridati (4)!

A lungo Degtiariòv esaminò questi biglietti. Alla fine, senza smettere di stringersi nelle spalle, li ficcò in tasca e pronunciò: «Merci!».

L'infelice Lev Savvic' udì questo «Merci». L'intera serata dipoi stette di fronte alla bottega di Dulinov, minacciando l'insegna col pugno e borbottando indignato:

- Vvvigliacco! Mercantuccio! Spregevole Kit Kitic' (5)! Vvvigliacco!

Lepre panciuta!...




NOTE:


1) Specie di "Whist", che si giuoca in quattro.

2) Allusione alle ultime parole di Cesare - «Tu coque, Brute, fili mi?» (anche tu, Bruto, figlio mio?)-nel vedere fra i congiurati che lo colpivano il figlio Marco Bruto (secondo altri, Decimo Bruto Albino. da Cesare amato come un figlio).

3) Forma patronimica burlesca che significa: figlio di cane.

4) Cioè da cento rubli: i biglietti di banca russi si distinguevano e s'indicavano, nell'uso comune, secondo il colore (rossi, azzurri, grigi, iridati eccetera), in relazione col loro valore.

5) Altra forma patronimica ingiuriosa. Letteralmente: Balena (figlio) di Balena.




LINGUA LUNGA


Natalia Michàilovna, una giovane damina, giunta la mattina da Jalta, pranzava e, menando instancabilmente la lingua, narrava al marito quali fossero gl'incanti della Crimea. Il marito, allietato, guardava con intenerimento il viso rapito di lei, ascoltava e ogni tanto faceva domande...

- Ma, dicono, la vita laggiù è insolitamente cara? - domandò egli fra l'altro.

- Come dirti? Secondo me, il caro dei prezzi l'hanno esagerato, babbino. Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge. Io, per esempio, con Julia Petrovna avevo una camera comoda e decorosa per venti rubli al giorno. Tutto, amico mio bello, dipende dal saper vivere. Certo, se ti vien voglia di andartene da qualche parte in montagna... per esempio, sull'Ai-Petri... prenderai cavallo, guida:

be' allora, certo, è caro. Tremendamente caro! Ma, Vàssicka, che mo- onti ci son là! Figurati delle montagne alte alte, mille volte più della chiesa... In cima nebbia, nebbia, nebbia... In basso enormissime pietre, pietre, pietre... E pini... Ah, non posso rammentare!

- A proposito... in tua assenza qui in non so che rivista lessi di certe guide tartare di laggiù... Schifezze tali! Che, sono in realtà una qualche gente speciale?

Natalia Michàilovna fece una smorfia sprezzante e crollò il capo.

- Comuni tartari, nulla di speciale... - disse. - Del resto io li vidi da lontano, di sfuggita... Me li indicavano ma non vi feci caso.

Io, babbino, ho sempre nutrito una prevenzione contro tutti quei circassi, greci... mori!

- Dongiovanni terribili, dicono.

- Può essere! Ci son donne indegne che...

Natalia Michàilovna d'un tratto saltò su, come se si fosse ricordata d'alcunché di terribile, guardò per mezzo minuto il marito con occhi spaventati e disse, strascicando ogni parola:

- Vàssic'ka, ti dirò che im-mo-ra-li ci sono! Ah, che immorali! Non già, sai, donne semplici, o di mezza tacca, ma aristocratiche, queste spocchiose d'alto bordo! Un orrore semplicemente, io non credevo ai miei occhi! Sarò morta e non l'avrò scordato! Via, ci si può forse lasciar andare al punto di... Ah, Vàssic'ka, addirittura non voglio parlare! Prendiamo anche solo la mia compagna di viaggio Julia Petrovna... Un marito così buono, due bambini... appartiene a gente ammodo, si dà sempre arie di santa, e d'un tratto, puoi figurarti...

Solo, babbino, questo, certamente, "entre nous" (1)... Dai la parola d'onore che non lo dirai a nessuno?

- Via, ecco quel che vai ancora a pensare! Si capisce, non lo dirò.

- Parola d'onore? Bada bene! Io ti credo...

La damina posò la forchetta, diede al suo viso un'espressione misteriosa e bisbigliò:

- Figurati una cosa così... Si recò questa Julia in montagna... Faceva un tempo meraviglioso! Davanti va lei con la sua guida, un po' indietro, io. Avevamo fatto tre o quattro verste (2), d'un tratto, capisci, Vàssic'ka, Julia manda un grido e si porta la mano al petto.

Il suo tartaro la prende per la vita altrimenti sarebbe caduta di sella... Io con la mia guida mi accosto a lei... Che cos'è? Di che si tratta? «Oh», grida, «muoio! Mi sento male! Non posso proseguire!».

Figurati il mio spavento! «Allora», dico, «andiamocene indietro!».

«No», dice, «Natalie, non posso venire indietro! Se faccio un sol passo ancora, muoio dal dolore! Ho degli spasimi!». E prega, scongiura, per amor di Dio, me e il mio Suleiman perché torniamo in città e le portiamo delle gocce di Bestuzev, che a lei giovano.

- Ferma... Io non ti capisco del tutto... - borbottò il marito, grattandosi la fronte. - Prima hai detto d'aver visto quei tartari solo da lontano, e ora vai raccontando di un certo Suleiman.

- Su via, ti attacchi di nuovo a una parola! - si accigliò la damina, senza punto scomporsi. - Non posso soffrir la diffidenza!

Non posso soffrirla! E' sciocco e poi sciocco!

- Io non m'attacco, ma... perché dire il falso? Hai scavallato coi tartari, be', così sia, Dio t'assista, ma... perché tergiversare?

- Uhm!... come sei strano: - s'indignò la damina. - E' geloso d'un Suleiman! Immagino come te n'andresti tu in montagna senza guida!

Immagino! Se non conosci la vita di laggiù, se non capisci, farai meglio a tacere. Taci e taci! Senza guida là non si può fare un passo.

- Lo credo bene!

- Di grazia, senza codesti sorrisi sciocchi! Per tua norma, non sono una Julia qualunque... Io non la giustifico, ma io..; psss! Sebbene non mi atteggi a santa, non mi son però ancor lasciata andare a tanto.

Con me Suleiman non usciva dai limiti... No-o! Mametkul se ne stava tutto il tempo da Julia, ma da me, appena scoccavan le undici, subito:

«Suleiman, marsc! Andatevene!». E il mio sciocco tartarello se ne va.

Lo tenevo, babbino, con pugno di ferro... Appena si metteva a brontolare circa i quattrini o altro, io subito: «Co-ome? coosa? Che co-o-osa?». E a lui veniva il sudor freddo... Ahah-ah'... Gli occhi, capisci, Vàssic'ka, neri neri, come il ca-arbone, un musetto da tartaro, così sciocco, buffo... Ecco io come lo tenevo! Ecco!

- Immagino... - mugolò il consorte, arrotolando palline di pane.

«sciocco, Vàssic'ka! So bene quali pensieri hai! So quel che pensi...

Ma, ti assicuro, con me anche durante le gite non usciva dai limiti.

Per esempio, andassimo in montagna, oppure alla cascata di U-cian-Su, sempre gli dicevo: «Suleiman, venire dietro! Su!». E lui sempre veniva dietro, poveraccio... Perfino durante... nei siti più patetici gli dicevo: «E tuttavia non devi scordare che tu sei solo un tartaro, e io son la moglie d'un consigliere di Stato!». Ah-a,h...


La damina scoppia a ridere, poi si guardò rapidamente attorno e, facendo un viso spaventato, bisbigliò:

- Ma Julia! Ah, quella Julia! Io capisco, Vàssic'ka, perché non folleggiare un po', non riposare dalla vacuità della vita mondana?

Tutto questo si può... folleggia, fammi il piacere, nessuno ti biasimerà, ma prender ciò sul serio, far delle scene... no, come vuoi, questo non lo capisco! Immagina, era gelosa! Via, non è sciocco? Una volta viene da lei Mametkul, la sua passione... Lei non era in casa...

Ebbene, io lo invitai a entrar da me... cominciaron discorsi, e questo e quello... costoro, sai, sono spassosissimi! Inavvertitamente così passammo la sera... D'un tratto entra di volo Julia... Si scaglia contro di me, contro Mametkul... ci fa una scenata... oibò! Questo non lo capisco, Vàssic'ka...

Vàssic'ka bofonchiò, si accigliò e prese a camminar per la stanza.

- Ve la passavate allegramente laggiù, non c'è che dire! - brontolò, sorridendo nauseato.

- Be', com'è scio-occo questo! - si offese Natalia Michàilovna.- Io lo so, a che cosa pensi! Tu hai sempre dei pensieri così disgustosi!

Non ti racconterò proprio nulla. Non ti racconterò!

La damina imbroncì e tacque.




NOTE:


1) Tra noi.

2) La versta corrisponde a chilometri 1,067.




NERVI


Dmitri Ossipovic' Vaksin, architetto, ritornò dalla città alla sua villetta sotto l'impressione fresca della seduta spiritica da poco trascorsa. Svestendosi e coricandosi sul suo letto solitario (madama Vaksin era partita per la Trinità) (1), Vaksin prese involontariamente a riandare tutto ciò che aveva udito e visto. Una seduta, a dirla propriamente, non c'era stata, e la sera era passata solo in conversazioni paurose. Una signorina di punto in bianco s'era messa a parlare di divinazione del pensiero. Dal pensiero insensibilmente eran passati agli spiriti, dagli spiriti alle apparizioni, dalle apparizioni ai sepolti vivi... Un signore e aveva letto il pauroso racconto di un morto che s'era rigirato nella bara. Lo stesso Vaksin aveva chiesto un piattino e aveva mostrato alle signorine come bisogna discorrere con gli spiriti. Aveva evocato, tra l'altro, il proprio zio Klavdi Mirònovic' e mentalmente gli aveva domandato: «Non sarebbe tempo per me d'intestar la casa al nome della moglie?», al che lo zio aveva risposto: «A tempo opportuno tutto è bene».

«Molto v'è di misterioso e di... pauroso in natura... » meditava Vaksin, stendendosi sotto la coperta. «Non fanno paura i morti, ma questa incertezza... ».

Scoccò l'una di notte. Vaksin si girò sull'altro fianco e sbirciò di sotto la coperta la fiammella azzurra del lumino. La luce guizzava e a stento rischiarava la vetrinetta delle icone e un gran ritratto dello zio Klavdi Mironic' appeso di fronte al letto.

«E che, se in questa semioscurità apparisse ora l'ombra dello zio?», balenò nella testa di Vaksin. «No, è impossibile!».

Le apparizioni sono un pregiudizio, frutto d'intelletti immaturi, ma, nondimeno, Vaksin si tirò pur sempre sulla testa la coperta e chiuse più stretti gli occhi. Nella sua immaginazione baluginò il cadavere rigiratosi nella bara, passarono le immagini della morta zia, d'un camerata impiccatosi, d'una ragazza annegata... Vaksin prese a scacciar dalla testa i pensieri tenebrosi, ma più energicamente li scacciava, più chiare si facevan le figure e più paurosi i pensieri.

Egli si sentì oppresso.

«Il diavolo sa quel che è... Hai paura, come un piccolo... E' sciocco!».

«Cik... cik... cik», batteva dietro la parete l'orologio. Alla chiesa del villaggio, nel cimitero, il custode cominciò a sonare. Era un rintocco lento, lugubre, che succhiava l'anima... Per la nuca e il dorso di Vaksin corse un freddo formicolio. Gli sembrò che sopra il suo capo qualcuno respirasse penosamente, come se lo zio fosse uscito dalla cornice e si fosse chinato sul nipote... Vaksin si sentì intollerabilmente oppresso. Dal terrore strinse i denti e trattenne il respiro. Infine, quando dalla finestra aperta volò dentro un maggiolino e ronzò sopra il suo letto, egli non resse e tirò disperatamente il campanello.

- Demetri Ossipic', "was wollen Sie" (2)? - si sentì di lì a un minuto dietro l'uscio la voce della governante - Ah, siete voi, Rosalia Kàrlovna? - si allietò Vaksin. - Perché vi disturbate? Gavrila avrebbe potuto...

- Chavrila vui stessi l'hai lasciato andare in città, e Glafira è andata in qualche posto di prima sera... Non c'è nessuno in casa...

"Was wollen Sie doch" (3)?

- Io, "màtuska" (4), ecco quel che volevo dire... Già... Ma entrate, non state in soggezione! Da me è buio...

In camera entrò la grossa Rosalia Kàrlovna dalle guance rosse e si fermò in atteggiamento di attesa.

- Sedete, "màtuska"... Vedete, ecco di che si tratta... - «Che cosa domandarle?», pensò Vaksin, guardando di traverso il ritratto dello zio e sentendo come la sua anima gradatamente si avviava a uno stato di calma. - Io, a dir propriamente, ecco di che cosa volevo pregarvi... Quando domani l'uomo andrà in città, non dimenticate di ordinargli che... già.., passi a comprar dei cannellini per sigarette... Ma sedete!

- Dei cannellini? Bene! "Was wollen Sie noch" (5)?

- "Ich will" (6)... Io non "will" nulla, ma... Ma sedete! Io penserò ancora che altro...

- E' sconveniente per ragazza restare in camera d'uomo... Vui, io vedo. Demetri Ossipic', siete un birichino... un burlone... Io capito... Non si desta persona per cannellini... Io capito...

Rosalia Kàrlovna si volse e uscì. Vaksin, calmato alquanto dal colloquio con lei e vergognoso della propria pusillanimità, si tirò sul capo la coperta e chiuse gli occhi. Per un dieci minuti si sentì passabilmente, ma poi nella sua testa tornarono a insinuarsi le stesse assurdità... Egli sputò, cercò a tastoni i fiammiferi e, senz'aprir gli occhi, accese la candela. Ma anche la luce non giovò.

All'impaurita immaginazione di Vaksin pareva che da un angolo qualcuno guardasse e che gli occhi dello zio ammiccassero.

- La chiamerò di nuovo, che il diavolo la porti... - decise. - Le dirò che sono malato... Chiederò delle gocce.

Vaksin sonò. Non seguì risposta. Sonò ancora una volta e, come in risposta alla sua scampanellata, ricominciarono i rintocchi al cimitero. Colto da terrore, tutto freddo, egli corse a rotta di collo fuori della camera e, segnandosi, dandosi del pusillanime, volò a piedi scalzi e con la sola biancheria indosso verso la stanza della governante.

- Rosalia Kàrlovna!-prese a dire con voce tremante bussando all'uscio. - Rosalia Kàrlovna! Voi... dormite? Io... già... sono malato... Delle gocce!

Non seguì risposta. Intorno regnava il silenzio...

- Vi prego... capite? Prego! E a che pro codesta... meticolosità, non capisco, in particolare, se un uomo... è malato? Come siete delicata e smancerosa però, davvero! Coi vostri anni...

- Io a vostra moglia dicerò... Non lascia in pacie una figliol'onest... Quando vivio dal baron Antsig e il baron volse venir da me per fiammifori, io capito... io subito capito, quali fiammifori, e detto al baroness... Io son figliol'onest...

- Ah, che diavolo me ne faccio io della vostra onestà? Io sono malato... e chiedo delle gocce. Capite? Sono malato!

- Vostra moglie è donna buona, onest, e voi dovete amarla! Ja (7)! Lei è nobil! Io non desidera esser sua nemico!

- Una sciocca siete, ecco tutto! Capite? Una sciocca!

Vaksin si appoggiò all'architrave, incrociò le braccia e prese ad aspettare che gli passasse la paura. Di rientrar nella sua stanza, dove guizzava il lumino e guardava da una cornice lo zietto, non gli bastavan le forze, starsene all'uscio della governante in sola biancheria era per ogni verso inopportuno. Che si doveva fare?

Batteron le due e la paura tuttora non passava e non diminuiva. Nel corridoio era scuro e da ogni angolo guardava qualcosa di scuro.

Vaksin si girò col viso all'architrave, ma subito gli parve che qualcuno l'avesse leggermente tirato di dietro per la camicia e toccato nella spalla...

- Che il diavolo ti sbrani... Rosalia Kàrlovna!

Non seguì risposta. Vaksin, irresoluto, aprì l'uscio e gettò un'occhiata nella stanza. La virtuosa tedesca dormiva placidamente. Un piccolo lumino da notte rischiarava le prominenze del suo corpo sodo, spirante salute. Vaksin entrò nella camera e sedette su un baule di vimini che stava accanto all'uscio. In presenza di un essere dormente, ma vivo, si sentì più sollevato.

«Se la dorma pure, la tedescotta... » pensava. «Starò vicino a lei, e quando farà giorno, uscirò... Adesso... si fa chiaro presto».

In attesa dell'alba, Vaksin si rannicchiò sul baule, pose un braccio sotto il capo e si mise a pensare.

«Che significano i nervi, però! Un uomo evoluto, pensante, e intanto... il diavolo sa che cosa! Fa perfin vergogna...».

Ben presto, ascoltando il quieto, ritmico respiro di Rosalia Kàrlovna, egli si calmò del tutto...

Alle sei di mattina la moglie di Vaksin, tornata dalla Trinità e non avendo trovato il marito in camera, andò dalla governante a chiederle degli spiccioli per pagare il vetturino. Entrando dalla tedesca, ella vide questo quadro: sul letto, tutta spampanata dal caldo, dormiva Rosalia Kàrlovna, e a una tesa da lei, sul baule di vimini, piegato a ciambella, russava quieto nel sonno del giusto suo marito. Egli era scalzo e in sola biancheria. Quel che disse la moglie, e come fosse sciocca la fisonomia del marito, quand'egli si destò, lo lascio raffigurare ad altri. Io, già, impotente a farlo, depongo le armi.




NOTE:


1) A sessanta chilometri da Mosca: uno dei due più celebri e grandiosi conventi russi (Paltro era a Kiev). Fondato da San Serio nel 1340 comprendeva tredici chiese, un'accademia religiosa, una scuoia di pittura sacra eccetera, ed era meta di continui pellegrinaggi.

2) Che cosa vuole? (in tedesco).

3) Che cosa vuole dunque?

4) Mammina: espressione di rispettosa e familiare cortesia, di uso frequente nel dialogo russo con donna di qualsiasi età.

5) Che cosa vuole ancora?

6) Io voglio...

7) Sì.




LO SPECCHIO CURVO

(RACCONTO DI NATALE)


Io e mia moglie entrammo in salotto. Vi odorava di muffa e d'umidità.

Milioni di ratti e di sorci si precipitarono da tutte le parti, quando noi rischiarammo i muri che non avevan visto la luce durante tutt'un secolo. Quando chiudemmo l'uscio dietro di noi, soffiò una folata e smosse la carta giacente a mucchi negli angoli. La luce cadde su questa carta e noi scorgemmo caratteri antichi e figurazioni medievali. Alle pareti inverdite dal tempo pendevano ritratti di antenati. Gli antenati guardavano altezzosi, arcigni, come se volessero dire:

- Frustarti si dovrebbe, fratellino!

I nostri passi risonavano per tutta la casa. Alla mia tosse rispondeva un'eco, la stessa eco che un tempo aveva risposto ai miei antenati...

E il vento urlava e gemeva. Nella canna del camino qualcuno piangeva, e in questo pianto si sentiva la disperazione. Grosse gocce di pioggia picchiavano sulle scure finestre opache, e il loro picchiare dava angoscia.

- Oh, antenati, antenati! - diss'io, sospirando significativamente.

- Se fossi scrittore, mirando i loro ritratti scriverei un lungo romanzo. Ché ciascuno di questi vegliardi fu giovane un dì, e ciascuno, o ciascuna, ebbe un romanzo... e che romanzo! Guarda, per esempio, questa vecchina, mia bisavola. Vedi, - domandai a mia moglie, - vedi tu lo specchio che pende là nell'angolo?

E additai a mia moglie un grande specchio in bronzea guarnitura nera, appeso in un angolo accanto al ritratto della mia bisavola.

- Questo specchio possiede proprietà magiche: esso causò la rovina della mia bisavola. Lo aveva pagato una somma enorme e non se ne separò fin proprio alla morte. Vi si guardava i giorni e le notti, senza posa vi si guardava perfin quando beveva e mangiava. Nei coricarsi, ogni volta lo metteva con sé in letto e, morendo pregò di deporlo con lei nella bara. Non soddisfecero ii suo desiderio solo perché lo specchio non capiva nel feretro.

- Era civetta? - domandò mia moglie.

- Supponiamo. Ma non aveva forse altri specchi? Perché amò talmente proprio questo specchio, e non un altro qualsiasi? E forse non aveva specchi migliori? No, lì, cara mia, si cela un qualche tremendo mistero. Non può essere altrimenti. La tradizione dice che nello specchio risiede il diavolo e che la bisavola aveva un debole per i diavoli. Certo, è un'assurdità, ma è indubbio che lo specchio in guarnitura di bronzo possiede una forza misteriosa.

Io scossi dallo specchio la polvere, vi guardai e diedi in una risata.

Al mio riso rispose sordamente l'eco. Lo specchio era curvo e contorceva la mia fisonomia da tutte le parti: il naso venne a trovarsi sulla guancia sinistra, e il mento si sdoppiò e si cacciò da un lato.

- Strano gusto quello della mia bisavola! - dissi.

La moglie si accostò irresoluta allo specchio, vi guardò dentro ella pure, e subito accadde qualcosa di terribile. Ella impallidì, tremò in tutte le membra e mandò un grido. Il candeliere le cadde di mano, rotolò sul pavimento e la candela si spense. Ci avvolsero le tenebre.

Subito dopo intesi la caduta sull'impiantito d'alcunché di pesante:

mia moglie si era abbattuta priva di sensi.

Il vento prese a gemere ancor più lamentosamente, presero a correre i ratti, nelle carte frusciarono i sorci. I miei capelli si rizzarono e si mossero, quando da una finestra si staccò l'imposta e volò da basso. Nel vano della finestra si mostrò la luna...

Io afferrai mia moglie, la cinsi e la portai fuori dalla dimora degli avi. Ella rinvenne solo la sera del giorno dopo.

- Lo specchio! Datemi lo specchio! - disse, riavendosi. - Dov'è lo specchio?

Tutt'una settimana dipoi ella non bevve, non mangiò, non dormì, e pregava di continuo che le portassero lo specchio. Singhiozzava, si strappava i capelli in capo, si agitava, e infine, quando il dottore ebbe dichiarato ch'ella poteva morire di esaurimento e che il suo stato era in sommo grado pericoloso, io, vincendo il mio terrore, ridiscesi giù e le recai di là lo specchio della bisavola. Vedendolo, ella rise forte dalla felicità, poi lo afferrò, lo baciò e vi fissò gli occhi.

Ed ecco, son trascorsi ormai più di dieci anni, e lei tuttora si guarda nello specchio e non se ne stacca un solo istante.

- Possibile che questa sia io? - bisbiglia, e sul suo viso insieme col rossore, si accende un'espressione di beatitudine e d'estasi. - Sì, son io! Tutto mentisce, fuorché questo specchio! Mentiscono gli uomini, mentisce il marito! Oh, se mi fossi vista prima, se avessi saputo quale sono realmente, non avrei sposato quest'uomo! Egli non è degno di me! Ai miei piedi devon giacere i cavalieri più belli, più nobili!...

Un giorno, stando dietro a mia moglie, guardai inavvertitamente nello specchio, e scoprii il terribile segreto. Nello specchio scorsi una donna di accecante bellezza, quale mai ho incontrato nella vita. Era un prodigio della natura, un'armonia di beltà, di eleganza e d'amore.

Ma di che si trattava? Che cos'era accaduto? Perché mia moglie, brutta, sgraziata, nello specchio pareva così bella? Perché?

Ma perché lo specchio curvo aveva storto il brutto viso di mia moglie in tutti i sensi, e per tale spostamento dei suoi tratti esso era diventato casualmente bellissimo. Meno per meno dava più.

E ora noi due, io e mia moglie, stiamo davanti allo specchio e, senza staccarcene un sol minuto, vi guardiamo dentro: il mio naso monta sulla guancia sinistra, il mento s'è sdoppiato e spostato da una parte, ma il volto di mia moglie è incantevole, e una passione furiosa, insensata s'impadronisce di me.

- Ah-ah-ah! - sghignazzo io selvaggiamente.

E mia moglie bisbiglia, in modo appena percettibile:

- Come son bella!




AL CIMITERO


"Dove son adesso i suoi raggiri le sue calunnie, gli appigli, le concussioni?

Amleto.

- Signori, s'è levato il vento, e già comincia a far buio. Non faremmo bene ad andarcene, mentre siam sani e salvi?

Il vento percorse il giallo fogliame delle vecchie betulle, e dalle foglie ci si rovesciò addosso una grandinata di grosse gocce. Uno dei nostri scivolò sul terreno argilloso e, per non cadere, si afferrò a una gran croce grigia.

- «Consigliere onorario e cavaliere Jegòr Griaznorukov'... (1) » - egli lesse. - Io conoscevo questo signore... Amava la moglie, portava l'ordine di Stanislao (2), non leggeva nulla... Il suo stomaco digeriva puntualmente... Non era un bel vivere? Sembra che non si sarebbe dovuto morire, ma - ahimè! -il caso gli faceva la posta... Il poveraccio cadde vittima del suo spirito d'osservazione.

Un giorno, stando a origliare, ebbe un tal colpo d'uscio in testa che si buscò la commozione cerebrale (egli aveva un cervello) e morì... Ed ecco, sotto questo monumento giace un uomo che fin dalle fasce odiò i versi, gli epigrammi... Come per derisione, tutto il suo monumento è screziato di versi... Sta venendo qualcuno!

Ci arrivò a pari un uomo con un cappotto liso e dalla faccia rasa, paonazza. Sotto l'ascella aveva una mezza bottiglia, dalla tasca gli spuntava un cartoccio con salame.

- Dov'è qui la tomba dell'attore Muskin? - ci domandò con voce rauca.

Noi lo conducemmo alla tomba dell'attore Muskin, morto un due anni addietro.

- Sareste un impiegato? - gli domandammo.

- Signornò, un attore... Oggidì un attore è difficile distinguerlo da un impiegato concistoriale. Questo l'avete sicuramente osservato... E' caratteristico, sebbene per un funzionario non sia del tutto lusinghiero.

A stento trovammo la tomba dell'attore Muskin. Essa aveva ceduto, s'era ricoperta di loglio e aveva perduto la forma di una tomba... La piccola croce da buon prezzo, piegata su un lato, e coperta di muschio verde annerito dal freddo, aveva un'aria senilmente triste e come malaticcia.

- «Al dimenticabile amico Muskin»... - leggemmo.

Il tempo aveva cancellato l'in e riparato all'umana menzogna.

- Attori e giornalisti raccolsero i soldi per fargli il monumento e...

se li bevvero, i colombelli... - sospirò l'attore, inchinandosi fino al suolo e sfiorando coi ginocchi e il berretto la terra bagnata.

- Cioè, come se li bevvero?

- E' molto semplice. Raccolsero i quattrini, lo stamparono sui giornali e se li bevvero... Ciò non per biasimo dico, ma così.. Buon pro vi faccia, angeli! A voi buon pro, e a lui memoria eterna.

- Una bevuta fa mal pro, e un'eterna memoria non è che afflizione. Ci conceda Iddio una memoria temporale, e in quanto all'eterna, che farsene!

- Dite giusto. Era pure un uomo noto, Muskin, di ghirlande dietro al feretro ne portarono una decina, e già l'hanno scordato! Chi l'ebbe in grazia l'ha dimenticato, e quelli a cui fece del male lo ricordano.

Io, per esempio, non lo scorderò nei secoli dei secoli, perché, tranne che male, nulla mai vidi da lui. Non amo il defunto .

- Che male vi fece dunque?

- Un male grande, - sospirò l'attore, e sul suo viso si diffuse un'espressione di amara offesa. - Uno scellerato fu egli per me, un brigante, si abbia il regno dei cieli. Fu guardando lui e ascoltandolo che mi feci attore. Egli m'attirò con la sua arte fuor della casa paterna, m'incantò con le artistiche vanità, molto promise, e diede lacrime e dolori... Amara sorte quella dell'attore! Perdetti e gioventù, e sobrietà, e l'immagine di Dio... Senza un soldo in tasca, coi calcagni storti, la frangia e le pezze a scacchiera sui calzoni, l'effigie come morsicata dai cani... In capo libertà di pensiero e stoltezza... Mi tolse anche la fede, il mio manigoldo! Pazienza se ci fosse stato dell'ingegno, ma così mi son rovinato per men d'un quattrino... Fa freddo, stimabili signori... Non ne vorreste? Basta per tutti.., Brrr... Beviamo al riposo dell'anima! Sebbene io non l'ami, sebbene sia un morto, pure io ho lui solo al mondo, solo come un dito. Mi vedo con lui l'ultima volta... I dottori han detto che presto morirò dal bere, e allora, ecco, son venuto a prender commiato.

Bisogna perdonare ai nemici.

Lasciammo l'attore a intrattenersi col morto Muskin e proseguimmo.

Cominciò a cadere una pioggerella fredda.

Allo svoltare nel viale principale, cosparso di pietrisco, incontrammo un corteo funebre. Quattro portatori in cinture bianche di calicò e stivali fangosi, con fogliame appiccicato, portavano una bara di color rossobruno. Si faceva buio, ed essi si affrettavano, inciampando e dondolando la barella...

- Passeggiamo qui da due ore appena, e in nostra presenza è già il terzo che portano... Se si andasse a casa, signori?




NOTE:


1) Vale: dalle mani sporche.

2) L'ordine di Santo Stanislao, fondato dal re di Polonia Stanislao Augusto Poniatowski e riconosciuto dallo zar Alessandro primo.




GLI STIVALI


L'accordatore di pianoforti Murkin, un uomo dal viso giallo, il naso tabaccoso e l'ovatta negli orecchi, uscì dalla sua stanza nel corridoio e con voce tintinnante gridò:

- Semiòn! Cameriere!

E guardando la sua faccia spaventata, si poteva pensare che gli fosse cascato addosso l'intonaco, o che in camera sua avesse visto allora allora uno spettro.

- Di grazia, Semiòn! - prese a gridare, scorgendo il cameriere che accorreva da lui.-Che è ciò? Io sono un uomo reumatico, infermiccio, e tu mi costringi a uscire scalzo! Perché non mi dai ancora gli stivali? Dove sono?

Semiòn entrò nella camera di Murkin, guardò nel posto dov'egli aveva l'abitudine di porre gli stivali ripuliti, e si grattò la nuca: gli stivali non c'erano.

- Dove potrebbero essere, i maledetti? - disse Semiòn. - In serata, mi sembra, li pulii e li misi qui... Uhm!... Ieri, confesso, avevo bevuto un po'... E' da supporre che li abbia messi in un'altra camera. E' proprio così, Afanassi Jegoric', in un'altra camera!

Stivali ce n'è molti, e, in cimberli, li distinguerà il diavolo, se tu non hai la testa a segno... Devo averli messi dalla signora che alloggia qui accanto... dall'attrice...

- E ora per causa tua ho da andar dalla signora a disturbare! Eccomi per un'inezia a dover svegliare una brava donna!

Sospirando e tossendo, Murkin si accostò all'uscio della camera attigua e bussò cautamente.

- Chi è? - si sentì di lì a un minuto una voce femminile.

- Sono io! - cominciò con voce querula Murkin, mettendosi nella positura d'un cavaliere che parli con una signora del gran mondo. - Scusate il disturbo, signora, ma io sono un uomo malaticcio, reumatico... A me, signora, i dottori hanno ordinato di tenere i piedi al caldo, tanto più che ora devo andar ad accordare un pianoforte dalla generalessa Scevelitsin. Non posso mica andarci scalzo!...

- Ma voi che volete? Che pianoforte?

- Non un pianoforte, signora, ma riguardo agli stivali!

Quell'ignorante di Semiòn ha pulito i miei stivali e per sbaglio li ha messi nella vostra stanza. Siate così gentile, signora, datemi i miei stivali!

Si udì un fruscio, un salto dal letto e un ciabattare, dopo di che l'uscio si aprì un poco, e una paffuta manina di donna gettò ai piedi di Murkin un paio di stivali. L'accordatore ringraziò e si diresse in camera sua.

- E' strano... - mormorò, calzando uno stivale. - Si direbbe che non è lo stivale destro. Ma qui ci son due stivali di sinistra! Son tutt'e due sinistri! Ascolta, Semiòn, ma questi non sono i miei stivali! I miei stivali sono con tiranti rossi e senza toppe, e questi son certi così rotti, senza tiranti!

Semiòn sollevò gli stivali, li rigirò più volte davanti ai propri occhi e corrugò la fronte.

- Questi son gli stivali di Pavel Aleksandric'... - borbottò guardando di sbieco.

Egli era strabico dall'occhio sinistro.

- Che Pavel Aleksandric'?

- Un attore... viene qua ogni martedì... Dunque è lui che, invece dei suoi, ha calzato i vostri... Vuol dire che in camera da lei ho messo le due paia: i suoi e i vostri. Un bell'impiccio!

- Allora va' e cambiali!

- Salute! - sorrise Semiòn. - Va' e cambiali... E dove ho da prenderlo adesso? E' ormai un'ora ch'è uscito... Va' a cercare il vento nei campi!

- Ma dove abita?

- E chi lo sa? Viene qua ogni martedì, ma dove abiti noi non si sa.

Viene, pernotta, e aspettalo fino a un altro martedì...

- Ecco, vedi, porco, quel che hai combinato! Ebbene che devo fare adesso? E' ora ch'io vada dalla generalessa Scevelitsin, maledetto che sei! I piedi mi si sono intirizziti!

- Cambiar di stivali non è cosa lunga. Calzate questi stivali, camminateci fino a sera, e stasera a teatro... Là domandate dell'attore Blistanov... Se a teatro non volete andare, toccherà aspettare quell'altro martedì. Solo i martedì viene qua...

- Ma perché mai ci son qui due stivali sinistri? - domandò l'accordatore, prendendo con schifiltà gli stivali.

- Come Dio li mandò, così li porta. Per povertà... Dove potrebbe prenderli, l'attore?.... «Ma gli stivali che avete,» dico, «Pavel Aleksandric'! E' pura vergogna!» E lui dice: «Taci», dice, «e impallidisci! In questi stessi stivali», dice, «ho fatto le parti di conti e principi!». Gente bizzarra! Artista, in una parola. S'io fossi governatore, o una qualche autorità, prenderei tutti questi attori, e via in prigione!

Gemendo e facendo smorfie senza fine, Murkin calza a forza sulle proprie gambe i due stivali sinistri e, zoppicando, si avviò dalla generalessa Scevelitsin. L'intera giornata andò per la città, accordò pianoforti, e l'intera giornata gli parve che tutto il mondo guardasse i suoi piedi e ci vedesse su degli stivali con le toppe e i tacchi storti! Oltre alle torture morali, gli toccò sperimentare anche quelle fisiche: si buscò un callo.

A sera era in teatro. Davano "Barbablù" (1). Solo prima dell'ultimo atto, e anche ciò grazie alla protezione d'un conoscente flautista, lo lasciarono passare dietro le quinte. Entrato nel camerino degli uomini, vi trovò tutto il personale maschile. Gli uni si travestivano, altri si truccavano, i terzi fumavano. Barbablù stava con re Bobeche (2) e gli mostrava una rivoltella.

- Comprala! - diceva Barbablù. - L'acquistai io stesso a Kursk d'occasione per otto, ebbene te la lascerò per sei... Un tiro notevole!

- Attenzione... E' carica!

- Potrei vedere il signor Blistanov? - domandò l'accordatore, ch'era entrato.

- Son proprio io! - si girò verso di lui Barbablù. -Che cosa desiderate?

- Scusate, signore, il disturbo, - cominciò l'accordatore con voce implorante.-ma, credete... io sono un uomo malaticcio, reumatico... I dottori m'hanno ordinato di tenere i piedi caldi...

- Ma voi, propriamente parlando, che desiderate?

- Vedete... - continuò l'accordatore, rivolgendosi a Barbablù. - Già... questa notte voi siete stato nelle camere mobiliate del mercante Buchteiev... al numero 64...

- Via che ciance sono? - sogghignò re Bobeche. - Al numero 64 ci abita mia moglie!

- Moglie? Molto piacere... - Murkin sorrise. - Lei proprio, la vostra consorte, mi ha consegnato personalmente gli stivali del signore.. Quando lui, - l'accordatore indicò Blistanov, - fu uscito dalla stanza di lei, io mi accorsi dei miei stivali... dò una voce, sapete, al cameriere, e il cameriere dice: «Ma io, signore, i vostri stivali li ho messi al numero attiguo!». Per sbaglio, essendo in stato di ubriachezza, aveva messo al numero 64 i miei stivali e i vostri, - si girò Murkin verso Blistanov,-e voi, lasciando, ecco, la consorte del signore, avete calzato i miei...

- Ma voi che cosa andate dicendo?- proferì Blistanov, e si accigliò. - O che siete venuto qui a far pettegolezzi?

- Nient'affatto! Dio mi guardi! Non mi avete capito.. Di che sto parlando io? Degli stivali! Avete pernottato, non è vero, al numero 64?

- Quando?

- Questa notte.

- E voi mi ci avete visto?

- No, non vi ho visto, - rispose Murkin, in preda a vivo turbamento, sedendo e cavandosi rapidamente gli stivali. - Io non vi ho visto, ma, ecco, la consorte di lui m'ha gettato fuori i vostri stivali...

Ciò invece dei miei.

- Ma che diritto avete, egregio signore, di affermare simili cose? Non parlo già di me, ma voi offendete una donna, e per di più in presenza di suo marito!

Dietro le quinte si levò un tremendo baccano. Re Bobeche, il marito offeso, d'un tratto s'imporporò e a tutta forza picchiò un pugno sulla tavola, talché nel camerino attiguo due attrici si sentirono male.

- E tu credi? - gli gridava Barbablù.-Tu credi a questo mascalzone? O-oh! Lo ammazzo come un cane, vuoi? Lo vuoi? Ne farò una bistecca! Lo frantumerò.

E tutti coloro che passeggiavan quella sera nel giardino comunale presso il teatro estivo narrano ora d'aver visto come prima del quart'atto si precipitò dal teatro per il viale principale un uomo scalzo dal viso giallo e gli occhi pieni di sgomento. Lo rincorreva un individuo vestito da Barbablù e con una rivoltella in mano. Quel che accadde ulteriormente, nessuno vide. Si sa soltanto che Murkin dipoi, dopo aver fatto conoscenza con Blistanov, per due settimane giacque malato e alle parole: «Io sono un uomo malaticcio, reumatico», prese ad aggiungere ancora: «Sono un uomo ferito...».




NOTE:


1) Opera buffa di Offenbach, rappresentata la prima volta in Francia nel 1866, su tema tratto dalla celebre fiaba di Perrault.

2) Personaggio comico del teatro francese, dopo essere stato un guitto realmente vissuto a Parigi sotto l'Impero e la Restaurazione e divenuto celebre, il cui vero nome era Antoine Mardelard (o Mandelard).




LA GIOIA


Eran le dodici di notte.

Mitia Kuldarov, eccitato, arruffato, entrò di volo nell'appartamento dei suoi genitori e percorse rapido tutte le stanze. I genitori s'eran già coricati. La sorella era a letto e finiva di leggere l'ultima pagina d'un romanzo. l fratelli, studenti di ginnasio, dormivano.

- Di dove vieni? - si meravigliarono i genitori. - Oh, non domandate! Proprio non me l'aspettavo! No, proprio non me l'aspettavo! E'... è perfino inverosimile!

Mitia scoppiò a ridere e sedette in una poltrona, non essendo in grado di reggersi in piedi dalla felicità.

- E' inverosimile! Voi non potete figurarvi! Guardate!

La sorella saltò giù dal letto e, gettatasi addosso la coperta, si avvicinò al fratello. Gli studenti ginnasiali si svegliarono.

- Che cos'hai? Sei tutto convolto!

E' per la gioia mammina! Ora, sai, mi conosce tutta la Russia! Tutta!

Prima voi soli sapevate che al mondo esiste il registratore di collegio (1) Dmitri Kuldarov, e ora tutta la Russia lo sa! Mammina! O Signore. Mitia balzò su, corse per tutte le stanze e tornò a sedere.

- Ma che cos'è accaduto? Parla sensatamente!

Voi vivete come bestie feroci, non leggete i giornali, non fate alcun'attenzione alla pubblicità, e nei giornali v'è tanto di notevole! Se accade qualcosa, si sa subito tutto, nulla si nasconde!

Come sono felice! Oh, Signore! Si sa bene che solo di uomini illustri stampan nei giornali, e qui senz'altro hanno stampato di me.

- Che dici? Dove?

Il babbo impallidì. La mamma lanciò uno sguardo all'immagine e si segnò. Gli studenti di ginnasio saltarono giù e, com'erano, in sola camicia corta da notte, si accostarono al loro fratello maggiore.

- Sissignore! Di me hanno stampato! Adesso tutta la Russia sa di me!

Voi, mamma, riponete questo giornale per ricordo! Leggeremo ogni tanto! Guardate!

Mitia cavò di tasca un numero di giornale, lo porse al padre e puntò il dito su un posto segnato torno torno, con matita azzurra.

- Leggete!

Il padre inforcò gli occhiali.

- Leggete dunque!

La mamma volse uno sguardo all'immagine e si segnò. Il babbo tossì e cominciò a leggere:

- «Il 29 dicembre, alle undici di sera, il registratore di collegio Dmitri Kuldarov... ».

- Vedete, vedete? Avanti!

- « .., il registratore di collegio Dmitri Kuldarov, uscendo dalla birreria sita in via Màlaia Brònnaia, nella casa di Kozichin, e trovandosi in stato d'ubriachezza... ».

- Ero io con Semiòn Petrovic'... Tutto fino alle minuzie è stato descritto! Continuate! Avanti! State a sentire!

- «... e trovandosi in stato d'ubriachezza, scivolò e cadde sotto il cavallo d'un vetturino ivi di stazione, contadino della borgata Durìkina, distretto di Jùchnovo Ivan Drotov. Il cavallo spaventato, dopo aver scavalcato Kuldarov e trascinato su di lui la slitta con dentro il mercante moscovita di seconda categoria Stepàn Lukov, si lanciò al galoppo per la via, e venne fermato dai portieri. Kuldarov, da principio trovatosi privo di sensi, fu condotto alla sezione di polizia e visitato dal medico. L'urto ch'egli aveva ricevuto alla nuca... » - Fu contro la stanga, babbo. Avanti! Leggete avanti!

- «... ch'egli aveva ricevuto alla nuca fu giudicato lieve.

Dell'accaduto fu redatto verbale. All'infortunato furon prestate le cure mediche... ».

- Mi fecero bagnar la nuca con acqua fredda: Avete letto adesso? Eh?

Ecco lì! Ora è andato per tutta la Russia! Date qua!

Mitia afferrò il giornale, lo ripiegò e se lo ficcò in tasca.

- Corro dai Makarov, lo mostrerò loro... Bisogna ancor farlo vedere agli Ivànitski, a Natalia Ivànovna, ad Anissim Vassilic'... Corro!

Addio!

Mitia si mise il berretto con la coccarda e, trionfante, giulivo, corse in strada.




NOTE:


1) Era l'infimo grado (il quattordicesimo dall'alto) della vecchia gerarchia burocratica russa.




UN PORTIERE INTELLIGENTE


In mezzo alla cucina stava il portiere Filìpp e faceva un sermone. Lo ascoltavano i camerieri, il cocchiere, due cameriere, il cuoco, la cuoca e due ragazzi sguatteri, figli carnali di lui. Ogni mattina egli predicava qualcosa quella mattina poi oggetto del suo discorso era la civiltà.

- E vivete voi tutti come un qualche popolo di porci,-diceva, tenendo in mano il berretto con la placca. - Ve ne state qui senza muovervi di casa e, fuorché ignoranza, non si vede in voi nessun incivilimento. Miska giuoca a dama, Matriona schiaccia le noci, Nikifor mette in mostra i denti. Forse che ciò è intelligenza? Ciò non da intelligenza proviene, ma da stoltezza. In voi non c'è punto attitudini intellettuali! E perché?

- E' un fatto, Filìpp Nikandric', - osservò il cuoco. - Si sa, che intelligenza c'è in noi? Da contadini. Forse che noi comprendiamo?

- E perché in voi non ci sono attitudini intellettuali? - continuò il portiere. - Perché voi altri non avete un vero punto di vista. E libretti non ne leggete, e in fatto di scrittura non ci avete nessun concetto. Dovreste prendere un libriccino, starvene seduti e leggere.

Saprete leggere, credo, decifrar lo stampato. Ecco, tu, Miscia, dovresti prendere un libriccino e leggertelo. Profitto a te farebbe, e agli altri piacere. E nei libretti ci si diffonde su tutti gli argomenti. Ci troverai circa l'essere, e circa la divinità, circa i paesi della terra. Quel che da ogni cosa si ricava, come si esprime la diversa gente in tutte le lingue. E l'idolatria del pari. Di tutto nei libretti troverai, purché ne abbia voglia. Lui invece se ne sta accanto alla stufa, a pacchiare e bere. Tal quale come bestie insensate! Oibò!

- E' ora per voi, Nikandric', di montar di guardia, - osservò la cuoca.

- Lo so. Non è affar tuo farmelo presente. Ecco, a mo' d'esempio, diremo, prendiamo non fosse che me. Qual è la mia occupazione, con la mia tarda età? Con che soddisfare l'anima mia? Non v'ha meglio d'un libretto, o della gazzetta. Ora, ecco, andrò a montar di guardia.

Passerò un tre ore al portone. E voi credete che starò a sbadigliare, o a spacciar frottole con le donnette? No-o, non son di quelli!

Prenderò meco un libriccino, mi metterò seduto e me lo leggerò a mio bel piacere. Ecco come.

Filìpp tirò fuori da un armadio un libretto frusto e se lo ficcò in seno.

- Eccola, la mia occupazione. Ci son avvezzo dall'infanzia. Lo studio è luce, l'ignoranza è tenebra: l'avete inteso, immagino? Ecco lì...

Filìpp mise il berretto, fece un raschio e, borbottando, uscì dalla cucina. Varcò il portone, sedette sulla panchina e si fece scuro come un nuvolone.

- Quelli non son gente, ma porci mangiaminestre,-brontolò, pensando tuttora alla popolazione della cucina.

Acquetatosi, cavò fuori il libretto, sospirò gravemente e si applicò alla lettura.

- «E' scritto che meglio non occorre», pensò, dopo aver letto la prima pagina e storto il capo. «Ne dà saggezza, il Signore!».

Era un bel volumetto, d'un'edizione moscovita: "La coltura dei rizocarpi. Occorre a noi il navone?" Lette le prime due pagine, il portiere scosse significativamente il capo e tossicchiò:

- E' scritto giusto!

Letta una terza paginetta, Filìpp si fece meditabondo. Aveva voglia di pensare all'istruzione e, chi sa perché, ai francesi. La testa gli si abbandonò sul petto, i gomiti si appoggiarono ai ginocchi. Gli occhi si socchiusero.

E Filìpp fece un sogno. Tutto, egli vedeva, era cambiato: la stessa terra, le medesime case, il portone di prima, ma la gente non era più quella affatto. Tutta gente saggia, neppure uno sciocco, e per le vie camminano sempre francesi e poi francesi. Un portatore d'acqua, anche lui ragiona: «Io, confesso, son molto scontento del clima e voglio guardare il termometro», e lui stesso ha in mano un grosso libro.

- E tu leggi il calendario, - gli dice Filìpp.

La cuoca è stupida, ma anche lei si mischia alle conversazioni sensate e v'inserisce le proprie osservazioni. Filìpp va in sezione per registrare i clienti, e, strano, perfino in questo luogo severo non parlano che di cose intelligenti e dappertutto sulle tavole ci son dei libretti. Ed ecco, qualcuno s'accosta al cameriere Miscia, lo urta e grida: «Tu dormi? A te domando: dormi?».

- Di guardia dormi, babbeo? -ode Filìpp la voce tonante di qualcuno. - Dormi, farabutto, bestione?

Filìpp saltò su e si fregò gli occhi; davanti a lui stava il vicecommissario di sezione.

- Eh? Dormi? Ti multerò, furfante! Ti farò veder io come si dorme di guardia, brrutto muso!

Di lì a due ore chiamarono il portiere alla sezione. Poi egli fu nuovamente in cucina. Lì, tocchi dalle sue istruzioni, tutti sedevano intorno alla tavola e ascoltavano Miscia, che compitava qualcosa.

Filìpp, accigliato, rosso, si accostò a Miscia, batté col guanto a sacco sul libro e disse cupo:

- Smetti!




NELLA BOTTEGA DEL BARBIERE


E' mattina. Non sono ancor nemmeno le sette, e la bottega di barbiere di Makàr Kuzmìc' Bliostkin è già aperta. Il padrone, giovanotto d'un ventitré anni, non lavato, unto e bisunto, ma vestito con ricercatezza, è occupato a rassettare. Da rassettare in sostanza non c'è nulla, ma egli ha sudato, lavorando. Lì netta con un cencio, là gratta col dito, laggiù trova una cimice e la sventola via dalla parete.

E' una bottega piccola, strettina, luridetta. Le pareti di travi son coperte d'una tappezzeria che rammenta la camicia stinta d'un postiglione. Tra due finestre appannate, lacrimanti, una sottile porticina che scricchiola, deboluccia, al disopra di essa un campanello inverdito dall'umidità, che tremola e tintinna morbosamente da sé solo, senza ragione alcuna. Ma date un'occhiata allo specchio che pende a una delle pareti, e la vostra fisonomia ve la storcerà da tutte le parti nel modo più spietato! Davanti a questo specchio si tagliano i capelli e si rade. Su un tavolino, non lavato e bisunto al pari dello stesso Makàr Kuzmìc', c'è di tutto: pettini, forbici, rasoi, bastoncini di pomata per una copeca, cipria per una copeca, acqua di Colonia fortemente allungata per una copeca. E tutta la bottega non val più d'una monetina da quindici copeche.

Sopra l'uscio risuona il guaito del campanello infermo, e nella bottega entra un uomo maturo in pelliccia corta conciata e stivali di feltro. La sua testa e il collo sono avviluppati in uno scialle da donna.

E' Eràst Ivanic' Jàgodov, padrino di Makàr Kuzmic'. Un tempo servì come custode in un conservatorio, ora invece abita presso lo Stagno Rosso e attende all'arte del magnano.

- Makàruska, salute, luce mia! - dice egli a Makàr Kuzmic', tutto preso dal rassetto.

Si baciano. Jàgodov tira giù dalla testa lo scialle, si segna e siede.

- Che distanza però! - dice, gemendo. - O che è uno scherzo? Dallo Stagno Rosso alla Porta di Kaluga.

- Come ve la passate?

- Male, fratello. Ho avuto la febbre ardente.

- Che dite? Febbre ardente!

- Febbre ardente. Fui a letto un mese, pensavo che sarei morto. Ebbi l'estrema unzione. Ora mi cadono i capelli. Il dottore m'ha ordinato di tagliarli corti. Verranno nuovi capelli, dice, robusti. Ed ecco, io penso nella mia testa: andrò da Makàr. Anziché da qualcun altro, è meglio da un parente. E farà meglio, e non prenderà quattrini.

Lontanuccio alquanto, è vero, ma che è mai ciò? Una passeggiata.

- Io, con piacere... Favorite!

Makàr Kuzmic', strisciando una riverenza, indica la seggiola. Jàgodov siede e si guarda nello specchio, ed è visibilmente soddisfatto dello spettacolo: nello specchio risulta un muso storto con labbra da calmucco, un largo naso smussato e gli occhi sulla fronte. Makàr Kuzmìc' ricopre le spalle del suo cliente con un lenzuolo bianco a chiazze gialle e comincia a far stridere le forbici.

- Vi faccio tutto in pulito, a nudo! - dice.

- Naturalmente, Ch'io somigli a un tartaro, a una bomba. I capelli verranno più fitti.

- Zietta come sta?

- Non c'è male, non c'è. L'altro giorno andò dalla moglie del maggiore per un parto. Le diedero un rublo.

- Così è. Un rublo. Tenete su l'orecchio!

- Tengo... Non mi tagliare, bada. Oh!, mi fai male! Mi tiri i capelli.

- Non è nulla. Senza di ciò nel nostro mestiere non è possibile. E come sta Anna Eràstovna?

- La figliuola? Non c'è male, è in gamba. La settimana scorsa, mercoledì, l'abbiam fidanzata a Sceikin. Perché non sei venuto?

Le forbici smettono di stridere. Makàr Kuzmic' abbassa le mani e domanda spaventato:

- Chi avete fidanzato? - Ma come mai? A chi?

- A Sceikin. Prokofi Petròv. Sua zia è economa al vicolo Zlatoùstenski. Una brava donna. Naturalmente siam tutti contenti, grazie a Dio. Fra una settimana le nozze. Vieni, ce la spasseremo.

- Ma come mai ciò, Eràst Ivanic'? - dice Makàr Kuzmic', pallido, stupito, e scrolla le spalle. - Com'è mai possibile? Ciò... ciò non è in alcun modo possibile! Perché Anna Eràstovna... perché io...

perché io nutrivo dei sentimenti per lei, avevo un'intenzione! Come mai?

- Ma così. L'abbiamo fidanzata su due piedi. E' un brav'uomo.

In viso a Makàr Kuzmic' spunta un sudor freddo. Egli posa sulla tavola le forbici e comincia a fregarsi il naso col pugno.

- Un'intenzione avevo... - dice. - Ciò non è possibile, Eràst Ivanic'! Io... io sono innamorato e avevo fatto l'offerta del cuore...

Anche la zietta aveva promesso. Io vi ho sempre rispettato proprio come un genitore... vi taglio i capelli sempre gratis. Sempre aveste favori da me, e quando il mio babbo morì, voi prendeste il divano e dieci rubli contanti, e non me li avete ridati indietro. Rammentate?

- Come non rammentare! Rammento. Solo, che partito sei tu mai, Makàr?

Sei forse un partito? Né quattrini, né stato, un mestiere da nulla...

- E Sceikin è ricco?

- Sceikin è un artigiano. Ci ha un migliaio e mezzo di rubli di cauzione. Sicché, fratello... Parlarne o non parlarne, la cosa ormai è fatta. Indietro non si torna Makàruska. Cercati un'altra fidanzata...

Il mondo è grande. Su, taglia! Perché ristai?

Makàr Kuzmic' tace e sta immobile, poi cava di tasca un fazzolettino e comincia a piangere.

- Su, che fai! - lo consola Eràst Ivanic'. - Smetti! Ve', strilla, come una donna! Finisci la mia testa, e poi piangi. Prendi le forbici!

Makàr Kuzmic' piglia le forbici, le guarda un minuto ottusamente e le lascia cader sulla tavola. Le mani gli tremano.

- Non posso! - dice. - Non posso ora, son senza forza! Disgraziato uomo che sono! E anche lei è una disgraziata! Ci amavamo l'un l'altro, ci eravamo promessi, e ci han separati gente cattiva senz'alcuna pietà. Andatevene, Eràst Ivanic'! Non vi posso vedere.

- Allora verrò domani, Makàruska. Finirai di tagliare domani.

- Va bene.

- Calmati un poco, e io sarò da te domani, la mattina presto.

Eràst Ivanic' ha mezza testa tosata a nudo, e somiglia a un galeotto.

E' imbarazzante rimanere con la testa così, ma non c'è che fare. Egli si avvolge la testa e il collo con lo scialle ed esce dalla bottega.

Rimasto solo, Makàr Kuzmic' siede e continua a piangere piano piano.

Il giorno dopo, di buon'ora, viene di nuovo Eràst Ivanic'.

- Che volete? - gli domanda freddamente. Makàr Kuzmic'.

- Finisci di tagliare, Makàruska. E' rimasta mezza testa ancora.

- Favorite prima i soldi. Gratis non taglio.

Eràst Ivanic', senza dir neanche una parola, se ne va e tuttora su una metà della testa ha i capelli lunghi e sull'altra corti. Il taglio dei capelli a pagamento egli lo considera un lusso, e aspetta che sulla metà rapata i capelli crescan da sé. E così ha fatto baldoria alle nozze.




IL CALZOLAIO E IL MALIGNO


Era la vigilia di Natale. Maria da un pezzo già russava sulla stufa (1), nella lucernetta s'era consumato tutto il petrolio, e Fiodor Nilov stava sempre seduto a lavorare. Da lungo tempo ormai avrebbe smesso il lavoro e sarebbe uscito sulla via, ma il cliente del vicolo della Campana, che gli aveva ordinato i tomai due settimane addietro, era venuto il dì prima, aveva sbraitato e ingiunto di ultimar gli stivali senza fallo per adesso, avanti mattutino.

- Vita da galera! - brontolava Fiodor, lavorando.-Gli uni dormono da un pezzo, gli altri se la spassano, e tu, ecco, come un Caino qualunque, stattene qui a cucire il diavolo sa per chi...

Per non addormentarsi inavvertitamente, traeva di continuo di sotto la tavola una bottiglia e beveva dal collo, e dopo ogni sorso torceva la testa e diceva forte:

- Per qual motivo mai, dite di grazia, i clienti se la spassano, e io son tenuto a cucir per loro? Forse perché loro han quattrini, e io sono un pezzente?!

Egli odiava tutti i clienti, specie quello che abitava al vicolo della Campana. Era costui un signore d'aspetto tetro, dai capelli lunghi, il viso giallo, in grandi occhiali azzurri e con una voce rauca. Aveva un cognome tedesco, tale che non saresti riuscito a pronunciarlo. Di che condizione fosse e a che cosa attendesse, era impossibile capire.

Quando, due settimane addietro, Fiodor era andato da lui a prender la misura, egli, il committente, stava seduto sul pavimento e pestava qualcosa in un mortaio. Non aveva fatto in tempo Fiodor a salutare che il contenuto del mortaio era d'un tratto divampato e arso con una viva fiamma rossa, mandando puzzo di zolfo e penne bruciate, e la stanza s'era riempita d'un denso fumo roseo, talché Fiodor aveva starnutito un cinque volte; e facendo ritorno dopo di ciò a casa, pensava - «Chi ha timor di Dio non starà a occuparsi di simili faccende».

Quando nella bottiglia non fu rimasto nulla, Fiodor posò gli stivali sulla tavola e prese a riflettere. Appoggiò la testa pesante col pugno e si mise a pensare alla sua povertà, alla penosa vita senz'un raggio di luce, poi ai ricconi, alle loro grandi case, alle carrozze, ai biglietti da cento... Come sarebbe stato bello, se a questi ricconi, che il diavolo li sbranasse, si fossero spaccate le case, fossero crepati i cavalli, stinte le pellicce e le berrette di zibellino! Come sarebbe stato bello, se i ricconi a poco a poco si fossero mutati in poveri, che non hanno da mangiare, e il misero calzolaio fosse diventato un riccone e avesse, a sua volta, fatto lo spavaldo contro un poveraccio di calzolaio alla vigilia di Natale!

Così fantasticando, Fiodor d'un tratto si rammentò del suo lavoro e aprì gli occhi.

«Ma guarda che storia!», pensò, esaminando gli stivali. «I tomai li ho pronti già da un pezzo, e tuttora me ne sto seduto. Bisogna portarli al cliente!».

Egli avvolse il lavoro in un fazzoletto rosso, si vestì e uscì sulla via. Cadeva una minuta neve dura, che pungeva il viso come con aghi.

Era freddo, scivoloso, scuro, i fanali a gas ardevano foschi e, chi sa perché, sulla via odorava di petrolio talmente, che Fiodor sentì un prurito in gola e prese a tossire. Sul selciato scarrozzavano avanti e indietro i ricconi, e ciascun riccone teneva in mano un prosciutto e un quarto di vodka. Dalle carrozze e dalle slitte sbirciavano Fiodor ricche signorine, mostrandogli la lingua, e gridavano ridendo:

- Pezzente! Pezzente!

Dietro a Fiodor camminavano studenti, ufficiali, mercanti e generali, e lo stuzzicavano:

- Ubriacone! Ubriacone! Empio ciabattino, anima di gambale! Pezzente!

Tutto ciò era ingiurioso, ma Fiodor taceva e sputava soltanto. Quando però gli venne incontro il mastro stivalaio Kuzmà Lebiodkin, di Varsavia, e disse: «Io ho sposato una ricca, da me lavoran dei garzoni e tu sei un pezzente, non hai nulla da mangiare», Fiodor non resse e lo inseguì. Lo rincorse finché non si ritrovò nel vicolo della Campana. Il suo committente abitava nel quarto caseggiato dall'angolo, in un appartamento all'ultimo piano. Per andar da lui bisognava attraversare un lungo cortile buio e poi inerpicarsi per un'altissima scala sdrucciolevole, che vacillava sotto i piedi. Quando Fiodor entrò da lui, egli, come allora, come due settimane addietro, stava a sedere sul pavimento e pestava qualcosa nel mortaio.

- Signoria illustrissima, ho portato gli stivaletti! - disse arcigno Fiodor.

Il cliente si levò e in silenzio prese a misurar gli stivali. Fiodor, desiderando aiutarlo, si piegò su un ginocchio e gli cavò uno stivale vecchio, ma subito balzò su e, sgomento, indietreggiò verso la porta.

Il cliente aveva non un piede, ma uno zoccolo equino.

«Eh, eh!», pensò Fiodor. «Ecco lì che storia.».

Per prima cosa sarebbe occorso segnarsi, poi lasciar tutto e scappar giù; ma subito egli considerò che lo spirito maligno s'era incontrato con lui per la prima e, probabilmente, l'ultima volta nella vita, e non valersi dei suoi servigi sarebbe stato sciocco. Egli si vinse e risolse di tentar la fortuna. Messe le mani dietro il dorso, per non farsi il segno della croce, tossicchiò rispettosamente e cominciò:

- Dicono che non c'è nulla di più impuro e di peggiore al mondo dello spirito maligno, ma io così l'intendo, signoria illustrissima, che lo spirito maligno è il più istruito che ci sia. Il diavolo, scusate, ha gli zoccoli e la coda di dietro, ma per contro ha in testa più intelligenza di certi studenti.

- Mi sei caro per tali parole, - disse, lusingato, il committente.

- Grazie, calzolaio! Che vuoi tu dunque?

E il calzolaio, senza perder tempo, prese a lagnarsi della sua sorte.

Cominciò col dire che fin dall'infanzia aveva invidiato i ricchi. Si era sempre sentito offeso che non tutti gli uomini vivessero ugualmente in grandi case e non andassero in giro su buoni cavalli.

Perché, si domanda, è egli povero? In che cosa è peggio di Kuzmà Lebiodkin di Varsavia, che ha casa propria e una moglie che va in cappello? Egli ha lo stesso naso, le stesse braccia gambe, schiena come i ricconi, e allora perché è obbligato a lavorare, quando gli altri se la spassano? Perché è sposato a Maria e non a una signora che odori di profumi? Nelle case dei clienti ricchi spesso gli accade di veder belle signorine ma esse non fanno punto attenzione a lui e solo ogni tanto ridono e si bisbigliano a vicenda: «Che naso rosso ha questo calzolaio!». E' vero, Maria è una donna brava, buona, lavoratrice, ma lei, già, è poco istruita, ha la mano pesante e picchia forte, e quando capita di parlare in sua presenza di politica, o di qualcosa di sensato, lei s'immischia e ne dice di tremendamente grosse.

- Ma tu che vuoi? - lo interruppe il cliente - Ma io prego, signoria illustrissima, Ciort Ivanic' (2) se tale è il piacer vostro, fatemi ricco!

- E sia. Ma solo, bada, in cambio tu mi devi dar la tua anima! Mentre i galli ancor non hanno cantato, va' e firma, ecco, su questo foglietto che mi darai la tua anima.

- Signoria illustrissima! - disse Fiodor cortesemente. - Quando voi mi ordinaste i tomai, io non presi da voi denaro anticipato.

Bisogna prima eseguir l'ordinazione, e poi esigere il denaro.

- Be', sia pure! - accondiscese il cliente.

Nel mortaio d'un tratto si accese la vivida fiamma, ne fluì il denso fumo roseo e si sentì il puzzo di penne bruciate e di zolfo. Quando il fumo si fu disperso, Fiodor si strofinò gli occhi e vide ch'egli non era più Fiodor, né un calzolaio, ma un altr'uomo, in panciotto e con catenina, in calzoni nuovi, e che sedeva in una poltrona a una gran tavola. Due domestici gli servivano le vivande, inchinandosi profondamente, e dicevano - - Mangiate con buon appetito, illustrissimo!

Quale opulenza! I domestici servirono un grosso pezzo di montone arrosto e una zuppierina con cetrioli, poi recarono su una teglia un'oca arrostita; dopo un po', del maiale bollito con rafano. E come tutto ciò era nobile fine! Fiodor mangiava e prima d'ogni piatto vuotava un gran bicchiere d'ottima vodka, come un qualche generale o conte. Dopo il maiale gli servirono il tritello bollito con grasso d'oca, poi una frittata con grasso di maiale e del fegato fritto, e lui mangiava sempre e si estasiava. Ma che ancora? Servirono anche un pasticcio di cipolla e rape in stufato con "kvas" (3). «E come mai i signori non scoppiano per un tal mangiare?», pensava egli. A chiusa presentarono un grosso vaso di miele. Dopo il pranzo comparve il diavolo in occhiali azzurri e domandò, inchinandosi profondamente:

- Siete contento del pranzo, Fiodor Panteleic'?

Ma Fiodor non poteva proferir neanche una parola, tanto si sentiva gonfio dopo il pranzo. Era una sazietà sgradevole, greve, e, per svagarsi, egli prese ad esaminar lo stivale sulla propria gamba sinistra.

- Per simili stivali io non prendevo meno di sette rubli e mezzo. Che calzolaio li ha fatti? - domandò.

- Kuzmà Lebiodkin! - rispose il domestico.

- Chiamarlo qui, l'imbecille!

Ben presto comparve Kuzmà Lebiodkin di Varsavia. Egli si fermò in rispettoso atteggiamento presso l'uscio e domandò:

- Che cosa comandate, signoria illustrissima?

- Silenzio! - gridò Fiodor e batté il piede. - Guardati bene dal discutere, e rammenta la tua condizione di calzolaio, l'uomo che sei!

Tanghero! Tu non sai cucir stivali! Ti pesterò tutto il grugno! Perché sei venuto?

- Per i quattrini.

- Che quattrini ti s'ha da dare? Va' via! Vieni sabato! Cameriere, dagliele sulla collottola!

Ma subito rammentò come con lui stesso si sbizzarrivano i clienti, e si sentì una pena in cuore, e per distrarsi cavò di tasca il grosso portafogli e prese a contare il proprio denaro. Denaro ce n'era molto, ma Fiodor ne avrebbe voluto ancor di più. Il diavolo in occhiali azzurri gli portò un altro portafogli, più grosso, ma egli ne volle più ancora, e quanto più a lungo contava, tanto più diventava insoddisfatto.

A sera il maligno gli condusse un'alta signora popputa in abito rosso e disse ch'era la sua nuova moglie. Fin proprio a notte egli scambiò baci con lei e mangiò panpepati. E la notte giacque su un soffice materasso di piume, si girò da un fianco sull'altro e non poté in alcun modo prender sonno. Si sentiva oppresso.

- Quattrini ce n'è molti, - diceva alla moglie, - da un momento all'altro ci vengono in casa i ladri. Dovresti andar con la candela a dare un'occhiata!

Tutta notte non dormì e si alzò di continuo per sbirciare se il baule era intatto. Verso la mattina bisognava andare in chiesa a mattutino.

In chiesa v'è uno stesso trattamento per tutti, ricchi e poveri.

Quando Fiodor era povero, pregava in chiesa così: «Signore, perdona a me, peccatore!». Lo stesso diceva anche ora, diventato ricco. Che differenza c'era? E dopo morte il ricco Fiodor l'avrebbero seppellito non nell'oro, non nei diamanti, ma nella stessa terra nera, come l'ultimo dei poveracci. Sarebbe bruciato Fiodor nello stesso fuoco in cui bruciavano i calzolai. Offensivo pareva tutto ciò a Fiodor, e per giunta c'era in tutto il corpo la gravezza del pranzo e, invece della preghiera, s'insinuavano in testa i vari pensieri del baule coi soldi, dei ladri, della venduta, perduta anima sua.

Uscì di chiesa crucciato. Per fugare i cattivi pensieri, egli, come spesso accadeva prima, intonò a squarciagola una canzone. Ma aveva appena cominciato che accorse un agente e disse, portando la mano alla visiera:

- Padrone, non possono i signori cantare in strada! Voi non siete un ciabattino!

Fiodor si addossò a uno steccato e prese a pensare: come distrarsi?

- Padrone! - gli gridò un portiere. - Non appoggiarti troppo allo steccato, sporcherai la pelliccia!

Fiodor andò in una bottega e si comprò la miglior fisarmonica, poi andò per la via sonando. Tutti i passanti lo segnavano a dito e ridevano.

- Ed è anche un signore! - lo stuzzicavano i vetturini. - Come un qualunque ciabattino...

- Forse che ai signori è lecito far disordini?-gli disse un agente. - Se almeno andaste in un'osteria!

- Padrone, fate l'elemosina per amor di Cristo! - urlavano i mendicanti, attorniando Fiodor da tutte le parti. - Fate la carità!

Prima, quand'egli era un calzolaio, i mendicanti non gli badavano punto, ora invece non gli davan pace.

E a casa gli venne incontro la nuova moglie, la signora, vestita d'una camicetta verde e una gonna rossa. Egli voleva farle dei vezzi e già aveva alzato la mano per darle una botta sul dorso, ma ella disse stizzosa:

- Villano! Screanzato! Non sai trattare con le signore! Se mi ami, fa' il baciamano, ma di picchiare non permetto.

«Su via, è una vita maledetta!», pensò Fiodor. «Si è esseri viventi!

Non puoi cantare una canzone. né sonar la fisarmonica, né scherzare un po' con una donna... Oibò!».

S'era appena accomodato con la signora per bere il tè, che comparve il maligno in occhiali turchini e disse:

- Be', Fiodor Panteleic', Io ho mantenuto esattamente la mia parola.

Ora voi firmate il foglietto e favorite seguirmi. Adesso sapete quel che significa viver riccamente, ne avete abbastanza!

E trascinò Fiodor all'inferno, dritto alla geenna, e i diavoli piombavano in volo da tutte le parti e gridavano:

- Stupido! Babbeo! Asino!

All'inferno puzzava terribilmente di petrolio, talché si poteva soffocare.

E di colpo tutto scomparve. Fiodor aprì gli occhi e vide la sua tavola, gli stivali e il lume di latta. Il vetro del lume era nero e dalla piccola fiamma sul lucignolo fluiva un fumo puzzolente, come da un tubo. Lì accanto stava il cliente in occhiali azzurri e gridava adirato:

- Stupido! Babbeo! Asino! T'insegnerò io, mariuolo! Hai pigliato l'ordinazione due settimane fa, e gli stivali tuttora non son pronti!

Tu pensi ch'io abbia il tempo di bighellonare da te per gli stivali cinque volte al giorno? Mascalzone! Bestia!

Fiodor scosse la testa e mise mano agli stivali. Il cliente ancora a lungo sbraitò e minacciò. Quand'egli infine si fu calmato, Fiodor domandò cupamente:

- Ma di che, signore, vi occupate voi?

- Io preparo fuochi del Bengala e razzi. Sono pirotecnico.

Sonarono a mattutino. Fiodor consegnò gli stivali, riscosse il denaro e si recò in chiesa.

Per la via filavano avanti e indietro carrozze e slitte con coperture di pelle d'orso. Sul marciapiede, insieme col popolino camminavano mercanti, signore, ufficiali... Ma Fiodor più non invidiava e non mormorava contro il proprio destino. Adesso gli pareva che ricchi e poveri stessero ugualmente male. Gli uni hanno la possibilità d'andare in carrozza, e gli altri di cantar canzoni a squarciagola e sonar la fisarmonica, e in generale una sola e stessa cosa aspetta tutti, non altro che una fossa, e nella vita non c'è nulla per cui si possa abbandonare al maligno una sia pur piccola parte della propria anima.




NOTE:


1) Su certe stufe, lunghe e basse, la gente del popolo usava anche dormire, naturalmente quand'erano spente o prossime a spegnersi.

2) Diavolo Ivanic', cioè figlio d'Ivan: il popolino russo, in questa sua espressione attribuisce al diavolo il patronimico più comune fra i russi (di Giovanni).

3) Bevanda fermentata, fatta con farina o pane di segala e malto.




RAGAZZI


- Volodia è arrivato! - gridò qualcuno in cortile.

- Volòdic'ka è arrivato! - strillò Natalia, correndo in sala da pranzo. - Oh, Dio mio!

Tutta la famiglia dei Koroliòv, che d'ora in ora aspettava il suo Volodia, si precipitò alle finestre. All'ingresso stava un'ampia slitta bassa, e dalla troica di bianchi cavalli emanava un denso vapore. La slitta era vuota, perché Volodia si trovava già nel vestibolo e con le rosse dita intirizzite stava slegando il cappuccio.

Il suo cappotto di studente ginnasiale, il berretto, le soprascarpe e i capelli sulle tempie eran coperti di brina, ed egli tutto dalla testa ai piedi mandava un tal sapido odor di gelo che, guardandolo, veniva voglia d'aver freddo e di dire: "brrr!". La madre e la zia si slanciarono ad abbracciarlo e baciarlo, Natalia si buttò ai suoi piedi e cominciò a cavargli le calzature di feltro, le sorelle levarono strida, gli usci cigolavano, sbattevano, e il padre di Volodia in sola sottoveste e con le forbici in mano corse in anticamera e gridò spaventato:

- Ma noi ti aspettavamo ancora ieri! Sei giunto bene? Felicemente?

Signore Dio mio, ma lasciategli salutare il padre! O che non sono il padre, forse?

- Bau! Bau! - ruggiva in tono di basso Milord, un enorme cagnone nero, battendo la coda contro le pareti e i mobili.

Tutto si era fuso in un solo compatto suono gioioso, che si prolungò un paio di minuti. Quando il primo impeto di giubilo fu passato, i Koroliòv osservarono che oltre a Volodia, si trovava in anticamera anche un piccolo essere, imbacuccato in fazzoletti, scialli e cappucci e coperto di brina; stava immobile in un angolo, nell'ombra gettata da una grossa pelliccia di volpe. -Volòdic'ka, e chi è quello li? - domandò sottovoce la madre.

- Ah! - si ricordò Volodia. - E', ho l'onore di presentarlo il mio compagno Cecevitsin, alunno della seconda classe... L'ho condotto con me, ospite per qualche tempo da noi.

- Molto piacere, favorite!-disse gioiosamente il padre. - Scusate, io sto alla casalinga, senza giacca... Accomodatevi! Natalia, aiuta il signor Cerepitsin a svestirsi! Signore Dio mio, ma cacciate via questo cane! E' un castigo!

Dopo un po' Volodia e il suo amico Cecevitsin, storditi dalla rumorosa accoglienza e tuttora rosei dal freddo, sedevano a tavola e bevevano il tè. Il solicello invernale, penetrando attraverso la neve e i rabeschi delle finestre, tremolava sul samovàr e bagnava i suoi puri raggi nello sciacquadita. Nella stanza era scuro, e i ragazzi sentivano come nei loro corpi intirizziti, non volendo cedere l'uno all'altro si solleticavano il caldo e il gelo.

- Be, ecco presto Natale! - diceva strasciconi il padre, arrotolando una sigaretta di tabacco bruno rossiccio. - Ed è forse molto ch'era estate e la mamma piangeva, accompagnandoti? E tu sei arrivato... Il tempo, caro, va veloce! Non arrivi a dir «ah!» che viene la vecchiaia.

Signor Cibissòv, mangiate, vi prego, non state in soggezione! Da noi s'è alla buona.

Le tre sorelle di Volodia, Katia, Sonia e Mascia - la maggiore di loro aveva undici anni - sedevano a tavola e non staccavano gli occhi dal nuovo conoscente. Cecevitsin era della stessa età e statura di Volodia, non così paffuto e bianco però, ma scarno, abbronzato, coperto di lentiggini. Aveva i capelli ispidi, gli occhi stretti, le labbra grosse, in generale era parecchio brutto e, se non avesse avuto indosso la giubba dello studente ginnasiale, all'apparenza si sarebbe potuto prendere per il figlio d'una cuoca. Egli era cupo, tacque tutto il tempo e non sorrise neppure una volta. Le ragazzine, guardandolo, capirono di colpo che doveva essere una persona molto intelligente e istruita. Egli pensava continuamente a qualche cosa, ed era così occupato dai suoi pensieri che, quando gli domandavano alcunché, sussultava, scoteva il capo e pregava di ripeter la domanda.

Le bambine osservarono che anche Volodia, sempre allegro e loquace, questa volta parlava poco, non sorrideva affatto, e pareva addirittura che non fosse contento d'esser venuto a casa. Mentre stavan seduti a bere il tè, egli si rivolse alle sorelle solo una volta, e per di più con certe parole strane. Indicò col dito il samovàr e disse:

- In California, invece di tè, bevono gin.

Egli pure era occupato da chi sa quali pensieri e, a giudicare dagli sguardi che ogni tanto scambiava con l'amico suo Cecevitsin, i pensieri dei ragazzi eran gli stessi.

Dopo il tè tutti passarono nella camera dei bambini. Il padre e le fanciulline sedettero a tavola e si applicarono al lavoro ch'era stato interrotto dall'arrivo dei ragazzi. Essi facevano con carta variopinta dei fiori e una frangia per l'albero di Natale. Era un lavoro attraente e chiassoso. Ciascun nuovo fiorellino fatto le bambine lo accoglievano con grida d'entusiasmo, perfino con grida di sgomento, come se quel fiorellino fosse caduto dal cielo; il babbo pure si beava e ogni tanto gettava le forbici sul pavimento, arrabbiandosi con esse perché erano spuntate. La mamma accorreva nella camera dei bambini con un viso molto impensierito e domandava:

- Chi ha preso le mie forbici? Di nuovo tu, Ivàn Nikolaic', hai preso le mie forbici?

- Signore Dio mio, perfin le forbici non ti danno! - rispondeva con voce piangente Ivàn Nikolaic' e, arrovesciandosi sulla spalliera della sedia, assumeva l'atteggiamento d'un uomo offeso, ma di lì a un minuto nuovamente andava in estasi.

Nelle sue venute precedenti anche Volodia si occupava dei preparativi per l'albero di Natale, o correva in cortile a vedere come il cocchiere e il pastore facevan la montagna di neve, ma ora lui e Cecevitsin non badarono punto alla carta variopinta e non andarono nemmeno una volta nella scuderia, ma sedettero presso la finestra e presero a bisbigliarsi qualcosa; poi tutt'e due insieme aprirono un atlante geografico e si misero a esaminare una carta.

- Prima a Perm... - diceva piano Cecevitsin. - Di là a Tiumen...

poi Tomsk... poi... poi... nel Kamciatka... Di qua i samoiedi traversano su battelli lo stretto di Behring... Eccoti anche l'America... Li ci son molti animali da pelliccia.

- E la California? - domandò Volodia.

- La California è più giù... Purché si capiti in America, poi la California non è lontana. Procacciarsi di che vivere si può con la caccia e il saccheggio.

Cecevitsin tutto il giorno si tenne in disparte dalle ragazzine e le guardò sottecchi. Dopo il tè serale accadde che per un cinque minuti lo lasciarono solo con le bambine. Star zitto era imbarazzante. Egli tossì ruvido, strofinò con la palma destra la mano sinistra, guardò cupamente Katia e domandò:

- Avete letto Myne-Read?

- No, non l'ho letto... Ascoltate, voi sapete pattinare?

Assorto nei suoi pensieri, Cecevitsin non rispose nulla a questa domanda, ma solo gonfiò forte le guance e fece un sospiro, come se avesse molto caldo. Alzò ancora una volta gli occhi su Katia e disse:

- Quando un branco di bisonti corre attraverso le "pampas", ne trema la terra e in questo mentre i "mustang" (1), spaventati, scalciano e nitriscono.

Cecevitsin sorrise mestamente e soggiunse:

- Così pure gli indiani assaltano i treni. Ma peggio di tutto sono i moscerini e le termiti.

- E che cosa sono?

- Son qualcosa come le formichette, ma solo con le ali. Mordono assai forte. Sapete chi sono io?

- Il signor Cecevitsin.

- No. Io sono Montigomo, Artiglio d'Avvoltoio, capo degl'invincibili.

Mascia, la bambina più piccola, guardò lui, poi la finestra, di là dalla quale già cadeva la sera, e disse con esitanza:

- E da noi ieri han preparato le lenticchie (2).

Le parole del tutto incomprensibili di Cecevitsin e il fatto ch'egli bisbigliava continuamente con Volodia, e che Volodia non giocava, ma pensava sempre a qualcosa: tutto ciò era enigmatico e strano. E le due ragazzine maggiori, Katia e Sonia, presero a sorvegliare con occhio vigile i ragazzi. La sera, quando i ragazzi andarono a letto, le fanciullette si avvicinarono furtive all'uscio e ascoltarono la loro conversazione. Oh, quel che appresero! I ragazzi si accingevano a correr chi sa dove in America a estrarre oro; avevano già tutto pronto per il viaggio: una pistola, due coltelli, biscotti, una lente d'ingrandimento per far del fuoco, una bussola e quattro rubli contanti. Esse appresero che ai ragazzi sarebbe toccato percorrere a piedi parecchie migliaia di verste (3), e lungo la strada combattere con tigri e selvaggi, poi procurarsi oro e avorio, uccider nemici, farsi pirati, bere gin e alla fin fine sposare bellissime donne e coltivar piantagioni. Volodia e Cecevitsin parlavano e nella foga s'interrompevano l'un l'altro. Ciò facendo, Cecevitsin chiamava se stesso: «Montigomo, Artiglio d'Avvoltoio», e Volodia: «Mio fratello viso pallido».

- Tu, bada, non dir nulla alla mamma, -disse Katia a Sonia, avviandosi con lei a dormire. - Volodia ci porterà dall'America oro e avorio, ma se tu lo dirai alla mamma, non lo lasceranno andare.

L'antivigilia di Natale Cecevitsin per tutta la giornata esaminò la carta dell'Asia e annotò qualche cosa, e Volodia, languido, gonfio, come punto da un'ape, camminò cupo per le stanze e non mangiò nulla. E una volta nella camera dei bambini, si fermò perfino davanti all'icona, si segnò e disse:

- Signore, perdona a me peccatore! Signore, preserva la mia povera, infelice mamma!

A sera scoppiò a piangere. Andando a dormire, abbracciò a lungo padre, madre e sorelle. Katia e Sonia capivano di che si trattava, ma la minore, Mascia, non capiva nulla, assolutamente nulla, e solo nel guardar Cecevitsin si faceva pensierosa e diceva con un sospiro:

- Quand'è giorno di digiuno, dice la bambinaia, bisogna mangiar piselli e lenticchie.

La vigilia di Natale per tempo Katia e Sonia si alzarono piano piano dal letto e andarono a guardare come i ragazzi sarebbero scappati in America. Si appressarono furtive all'uscio.

- Allora tu non verrai? - domandava iroso Cecevitsin. - Parla: non verrai?

- O Signore! - piangeva piano Volodia. - Come faccio a venire? Mi fa pena la mamma.

- Fratello mio viso pallido, ti prego, andiamo. Eri tu ad assicurarmi che saresti partito, tu stesso mi hai invogliato, e quando s'ha da andare, ecco che ti sei preso paura.

- Io... io non mi son preso paura, ma mi... mi fa pena la mamma.

- Tu parla: verrai o no?

- Verrò, soltanto... soltanto aspetta. Ho voglia di restare un po' a casa.

- In tal caso, andrò io! - decise Cecevitsin. - Farò anche senza di te. E volevi pure andar a caccia di tigri, combattere! Quand'è così, ridammi i miei pistoni!

Volodia si mise a piangere così amaramente che le sorelle non ressero e anche loro piansero sommesso. Seguì un silenzio.

- Allora non verrai? - domandò ancora una volta Cecevitsin.

- Ve... verrò!

- Allora vestiti!.

E Cecevitsin, per persuadere Volodia, lodava l'America, ruggiva come una tigre, raffigurava il piroscafo, imprecava, prometteva di dare a Volodia tutto l'avorio e tutte le pelli di leone e di tigre.

E questo ragazzo magrolino, abbronzato, dai capelli ispidi e con le lentiggini, pareva alle bambine straordinario, meraviglioso. Era un eroe, un uomo risoluto, intrepido, e ruggiva talmente che, stando dietro l'uscio, si poteva in effetti pensare che fosse una tigre o un leone.

Quando le ragazzine rientrarono in camera loro e si vestirono, Katia con gli occhi pieni di lacrime disse:

- Ah, ho tanta paura!

Fino alle due, quando sedettero a pranzare, tutto fu quieto, ma a pranzo d'un tratto apparve che i ragazzi non erano a casa. Mandarono nella stanza della servitù,alla scuderia,nell'annesso dall'intendente: non c'erano. Mandarono al villaggio: anche là non li trovarono. E il tè poi lo bevvero del pari senza i ragazzi, e quando sedettero a cenare, la mamma era molto inquieta, piangeva perfino. E la notte di nuovo andarono al villaggio, cercarono, si recarono con lanterne sul fiume. Dio, che trambusto si levò!

Il giorno dopo venne il maresciallo di polizia, scrissero in sala da pranzo non so che carta. La mamma piangeva.

Ma ecco, presso la scalinata si fermò una slitta bassa, e dalla troica di bianchi cavalli fluiva il vapore.

- Volodia è arrivato! - gridò qualcuno nella corte.

- Volòdic'ka è arrivato! - strillò Natalia, accorrendo in sala da pranzo.

E Milord latrò in tono di basso: «bau! bau!». Risultò che i ragazzi li avevan trattenuti in città, al "Gostini dvor" (4) (essi vagavano colà e andavan domandando dove si vendesse polvere da sparo). Volodia, come entrò in anticamera, ruppe in singhiozzi e si gettò al collo della madre. Le bambine, tremanti, pensavano con sgomento a quel che ora sarebbe accaduto, sentirono come il babbo condusse Volodia e Cecevitsin nel suo studio e là parlò a lungo con loro; e la mamma pure parlava e piangeva.

- Forse che si può far così? - esortava il babbo. - Se mai, non voglia Iddio, lo risapranno al ginnasio, vi escluderanno. E voi vergognatevi, signor Cecevitsin! Non sta bene! Voi siete l'istigatore e, spero, sarete punito dai vostri genitori. Forse che si può far così? Dove avete pernottato?

- Alla stazione! - rispose orgoglioso Cecevitsin.

Volodia poi stette coricato, e gli applicarono in testa un asciugamano imbevuto d'aceto. Spedirono non so dove un telegramma, e il giorno dopo giunse una signora, la madre di Cecevitsin, e condusse via suo figlio.

Quando Cecevitsin partì, aveva un viso arcigno, arrogante, e, accomiatandosi dalle ragazzine, non disse nemmeno una parola; solo prese a Katia un quadernetto e vi scrisse per ricordo:«Montigomo Artiglio d'Avvoltoio».




NOTE:


1) Nome dal cavallo selvaggio delle "pampas" sudamericane.

2) In russo: "cecevitsa", e l'idea delle lenticchie è richiamata, nella bambina, dal nome del ragazzo.

3) La versta corrisponde a chilometri 1,067.

4) Edificio in cui si trovan riuniti numerosi negozi e banchi di vendita, nel centro della città: bazar.




IVAN MATVEIC'


Tra le cinque e le sei di sera. Uno degli scienziati russi abbastanza noti - lo chiameremo semplicemente lo scienziato - se ne sta seduto nel suo gabinetto e si morde nervosamente le unghie.

- E' semplicemente rivoltante!-dice, guardando senza posa l'orologio. - E' il colmo del disprezzo per l'altrui tempo e fatica.

In Inghilterra un tale individuo non avrebbe guadagnato un soldo, sarebbe morto di fame! Orsù, aspetta, verrai...

E, sentendo il bisogno di sfogar su qualcosa la sua collera e la sua impazienza, lo scienziato si accosta all'uscio che mette in camera della moglie e bussa.

- Ascolta, Katia,-dice con voce sdegnata. - Se vedi Piotr Danilic', riferiscigli che la gente perbene non fa così! E' una schifezza! Raccomanda un copista, e non sa chi raccomanda! Il ragazzaccio nel modo più puntuale ritarda ogni giorno di due, di tre ore. Via, forse che quello è un copista? Per me queste due o tre ore sono più preziose che per un altro due o tre anni! Quando verrà, lo coprirò di contumelie come un cane, denaro non gliene pagherò e lo scaraventerò fuori! Con tal gente non si possono far cerimonie!

- Tu ogni giorno dici questo, e intanto lui viene e riviene.

- Ma oggi ho deciso. Ho già perduto abbastanza per causa sua. Tu scusami, ma gliene dirò di quelle, al modo dei cocchieri gliene dirò!

Ma ecco, infine, si sente il campanello. Lo scienziato fa il viso serio, si raddrizza e, gettando indietro il capo, va in anticamera.

Lì, presso l'attaccapanni, già sta il suo copista Ivàn Matveic', un giovane sui diciott'anni, dal viso ovale come un uovo, senza baffi, in un cappotto frusto, spelato, e senza soprascarpe, Egli ansima e strofina con cura i suoi grossi, sgraziati stivali sullo stoino, il che facendo si sforza di nascondere alla cameriera un buco in uno stivale, da cui occhieggia una calza bianca. Vedendo lo scienziato, sorride di quel sorriso prolungato, largo, un po' sciocco, che hanno sui visi solo i fanciulli e la gente molto bonaria.

- Ah, buon giorno! - dice, tendendo una grossa mano bagnata. - Che, vi è passato il mal di gola?

- Ivàn Matveic'! - dice lo scienziato con voce vibrante, arretrando e intrecciando insieme le dita di tutt'e due le mani. -Ivàn Matveic'!

Dopo di che balza verso il copista, lo agguanta per una spalla e comincia a scuoterlo debolmente.

- Che fate di me!? - dice, in preda a disperazione. - Tremendo, disgustoso individuo, che cosa fate di me! Voi ridete, vi burlate di me? Sì?

Ivàn Matveic', a giudicar dal sorriso, che non ha ancor del tutto lasciato il suo volto, si aspettava tutt'altra accoglienza, e perciò, vista la faccia spirante indignazione dello scienziato, stira ancor più in lunghezza la sua fisonomia ovale e stupefatto apre la bocca.

- Che... che c'è? - domanda.

- E domandate anche! - batte le mani lo scienziato. - Sapete com'è prezioso per me il tempo, e ritardate così! Avete tardato di due ore!... Non avete timor di Dio!

- Ma ora non vengo mica da casa,-mormora Ivàn Matveic', sciogliendo irresoluto la sciarpa.- Sono stato dalla zia a un onomastico, e la zia abita a un sei verste da qui... Se venissi direttamente da casa, be', allora sarebbe un'altra cosa.

- Su, riflettete, Ivàn Matveic', c'è forse logica nei vostri atti? Qui c'è un lavoro da fare, una cosa urgente, e voi andate in giro per onomastici, e a trovar zie! Ah ma sciogliete presto la vostra orribile sciarpa! Insomma, è una cosa intollerabile!

Lo scienziato torna a balzare verso il copista e lo aiuta a distrigare la sciarpa.

- Che donnetta siete... Su, andate!... Presto, per favore!

Soffiandosi il naso in un sudicio fazzolettino gualcito e ravviando la sua giacchetta grigiolina, Ivàn Matveic' attraverso la sala e il salotto va nello studio. Là son già pronti per lui da un pezzo e il posto, e la carta, e perfin le sigarette.

- Sedete, sedete, - lo sospinge lo scienziato, fregandosi impaziente le mani. - Siete un uomo insopportabile... Sapete ch'è un lavoro urgente, e tardate così. Per forza s'ha da litigare. Su, scrivete...

Dov'eravamo rimasti?

Ivàn Matveic' liscia i suoi capelli ispidi, irregolarmente tagliati, e prende in mano la penna. Lo scienziato passeggia da un angolo all'altro, si riconcentra e comincia a dettare:

- La sostanza è che... virgola... che talune, per così dire, basilari forme... avete scritto?-forme sono condizionate unicamente dall'essenza stessa di quei principi... virgola... che trovano in esse la loro espressione e possono incarnarsi soltanto in esse... A capo...

Lì, certo, punto... Maggior indipendenza presentano... presentano...

le forme che hanno un carattere non tanto politico... virgola...

quanto sociale.

- Ora gli studenti di ginnasio hanno un'altra uniforme (1) grigia...

- dice Ivàn Matveic'. - Quand'io studiavo, al mio tempo era meglio:

portavano le divise...

- Ah, ma scrivete, per favore! - si stizzisce lo scienziato Sociale... avete scritto? Parlando poi di riforme relative alla struttura... delle funzioni statali, e non alla regolazione del viver popolare... virgola... non si può dire ch'esse si distinguano per la nazionalità delle loro forme... le ultime quattro parole tra virgolette... E-eh... così... Allora che volevate dire circa il ginnasio?

- Ma ve lo dissi ieri! Son già tre anni che non studio... Mi ritirai dalla quarta classe...

- E perché abbandonaste il ginnasio? - domanda lo scienziato, dando un'occhiata allo scritto di Ivàn Matveic'.

- Così, per circostanze di famiglia.

- Di nuovo s'ha da dirvelo, Ivàn Matveic'! Quando, finalmente, smetterete la vostra abitudine di strascinare le righe? - in una riga non devono esserci meno di quaranta lettere!

- Ma che credete, che lo faccia apposta? - si risente Ivàn Matveic'.

- In compenso, in altre righe le lettere son più di quaranta...

Contate. E se vi sembra ch'io allunghi, potete ridurmi la paga.

- Ah, ma non si tratta di ciò! Come siete indelicato. davvero... Per un nonnulla, subito parlate di denaro. L'essenziale è l'esattezza, Ivàn Matveic', l'esattezza è l'essenziale! Voi dovete avvezzarvi all'esattezza.

La cameriera reca nello studio su un vassoio due bicchieri di tè e un cestello con biscotti... Ivàn Matveic' goffamente, con tutt'e due le mani, prende il suo bicchiere e subito comincia a bere. Il tè è troppo caldo. Per non scottarsi le labbra, Ivàn Matveic' cerca di far sorsi piccoli. Egli mangia un biscotto, poi un altro, un terzo e guardando confuso in tralice lo scienziato, allunga timidamente la mano a un quarto... Le sue sorsate rumorose, quel masticar di buon appetito e l'espressione di famelica avidità nei sopraccigli rialzati irritano lo scienziato.

- Finite presto... Il tempo è prezioso.

- Voi dettate. Io posso insieme e bere, e scrivere... Ho fame, lo confesso.

- Sfido io, andate a piedi!

- Sì... E che brutto tempo! Dalle nostre parti a questa stagione odora già di primavera... Dappertutto pozzanghere, la neve si scioglie.

- Voi, mi pare, siete meridionale?

- Della regione del Don... E in marzo da noi è primavera fatta. Qui c'è gelo, tutti vanno in pelliccia, e laggiù l'erbetta... dappertutto è asciutto e si posson perfino acchiappar le tarantole.

- E perché acchiappar le tarantole?

- Così... dal non saper che fare... - dice Ivàn Matveic' e sospira.

- Acchiapparle diverte. Attacchi a un filo un pezzetto di pece, cali la pece nel buco e cominci con la pece a percuotere la tarantola sul dorso, e lei la maledetta, si arrabbia, afferra con le zampette la pece, e si appiccica... E che cosa ne facevamo! Ne riempivamo tutt'una bacinella e ci mandavamo contro una migale.

- Che migale?

- E' un certo ragno, pure del genere della tarantola. In rissa da sé solo può uccidere cento tarantole.

- M-già... Scriviamo però... Dov'eravamo rimasti?

Lo scienziato detta ancora una ventina di righe, poi siede e s'immerge in una meditazione. Ivàn Matveic', nell'attesa che quello finisca di riflettere, sta seduto e, allungando il collo, cerca di mettere in ordine il colletto della sua camicia. La cravatta non sta a posto, i bottoni dei polsini sono saltati fuori e il colletto si apre continuamente.

- M-già...- dice lo scienziato. - Così è... E che, non vi siete ancora trovato un posto, Ivàn Matveic'?

- No. E dove lo trovi? Io, sapete, avevo pensato di andare volontario.

Ma il babbo consiglia d'entrare in una farmacia.

- M-già... Meglio, se andaste all'università. E' un esame difficile, ma con la pazienza e il lavoro assiduo si può superare. Applicatevi, leggete di più... Leggete molto?

- Poco, lo confesso...-dice Ivàn Matveic', accendendo una sigaretta.

- Turgheniev l'avete letto?

- N-no...

- E Gogol?

- Gogol? Uhm!... Gogol... No, non l'ho letto!

- Ivàn Matveic'! E non vi vergognate? Ahi-ahi! Siete un così bravo ragazzo, c'è tanto di originale in voi, e d'un tratto... Perfin Gogol non avete letto! Leggetelo! Io ve lo darò! Leggetelo senza fallo!

Altrimenti ci guasteremo!

Di nuovo si fa silenzio. Lo scienziato è semidisteso sulla sedia a sdraio e pensa, e Ivàn Matveic', lasciato in pace il colletto, rivolge tutta la sua attenzione agli stivali. Non s'era nemmeno accorto che sotto i piedi, a causa della neve disciolta, gli s'eran formate due grosse pozze. E' imbarazzato.

- Qualcosa non va oggi... - borbotta lo scienziato.-Ivàn Matveic', a voi, mi sembra, piace acchiappare anche gli uccelli?

- Questo in autunno... Qui non ne acchiappo, ma laggiù, a casa, ne acchiappavo sempre.

- Così è... bene. Ma scrivere tuttavia bisogna.

Lo scienziato risolutamente si alza e comincia a dettare, ma di lì a dieci righe torna a sedere sulla sedia a sdraio.

- Sarà forse il caso che rimandiamo a domattina, - dice. - Venite domattina, solo un po' presto, verso le nove. Dio vi guardi dal tardare.

Ivàn Matveic' posa la penna, si alza da tavola e siede su un'altra seggiola. Trascorrono un cinque minuti in silenzio, ed egli comincia a sentire che per lui è ora di andarsene, ch'egli è di troppo, ma nello studio dello scienziato si sta così bene, è così luminoso e caldo, ed è ancor tanto fresca l'impressione dei biscotti al burro e del dolce tè, che gli si stringe il cuore al solo pensiero della casa. A casa c'è povertà, fame, freddo un padre brontolone, rimbrotti, e lì c'è tanta calma e quiete, e s'interessano perfino delle sue tarantole e dei suoi uccelli.

Lo scienziato guarda l'orologio e mette mano a un libro.

- Allora voi mi darete Gogol? - domanda Ivàn Matveic', alzandosi.

- Ve lo darò, ve lo darò. Soltanto, dove mai vi affrettate, colombello? Sedete un po', raccontate qualcosa...

Ivàn Matveic' siede e fa un largo sorriso. Quasi ogni sera si trattiene in questo gabinetto e ogni volta sente nella voce e nello sguardo dello scienziato un che d'insolitamente molle, attirante, come materno. Vi son fino minuti in cui gli sembra che lo scienziato si sia affezionato a lui, gli si sia abituato, e se lo sgrida per i ritardi, è solo perché sente la mancanza del suo cicaleccio riguardo alle tarantole e a come sul Don si acchiappano i cardellini.




NOTE:


1) In russo "forma" ha anche questo significato, richiamato alla mente d'Ivan Matveic' dalle "forme" di cui parla lo scienziato.




UN ESSERE INDIFESO


Per quanto violento fosse stato di notte l'attacco di podagra, per quanto poi scricchiolassero i nervi, Kistunov tuttavia s'avviò la mattina in ufficio e cominciò in tempo a ricevere i postulanti e i clienti della banca. Egli aveva un'aria languida, spossata, e parlava a stento, respirando appena, come un morente.

- Che desiderate? - si rivolse a una sollecitatrice in un mantello antidiluviano, molto simile di dietro a un grosso scarabeo stercorario.

- Favorite vedere, eccellenza, - cominciò con lesta parlantina la postulante, - mio marito, l'assessore di collegio S'ciukin, è stato malato cinque mesi e mentre, scusate, era a letto in casa e si curava, lo hanno messo a riposo senz'alcuna ragione, eccellenza, e quand'io mi recai a riscuotere il suo stipendio, loro, vedete un po', detrassero dalla sua paga ventiquattro rubli e trentasei copeche! «Per che cosa?», domando. «Ma lui», dicono «ha percepito dalla cassa sociale e gli altri funzionari han garantito per lui». Come mai ciò? Forse ch'egli poteva prelevare senza il mio consenso? E' impossibile, eccellenza. Ma perché codesto? Io sono una donna povera, campo solo sui pigionali... Sono debole, indifesa... Patisco offese da tutti e non sento una buona parola da nessuno...

La postulante cominciò a batter gli occhi e ficcò la mano nel mantello in cerca del fazzoletto. Kistunov le prese la domanda e si mise a leggere.

- Permettete, come mai ciò? - egli alzò le spalle.-Io non capisco nulla. Evidentemente voi, signora, avete sbagliato indirizzo.

La vostra richiesta, in sostanza, non riguarda affatto noi. Datevi la pena di rivolgervi al dicastero dove faceva servizio vostro marito.

- I-ih, "bàtiuska" (1), sono già stata in cinque posti e dappertutto neppur la domanda hanno preso! - disse la S'ciukin. - Io ho bell'e perso la testa, meno male che il cognato Boris Matveic', che Dio lo conservi in salute, mi ha suggerito di venir da voi. «Voi», dice, «mammina, rivolgetevi al signor Kistunov: è un uomo influente per voi può far tutto»... Aiutatemi, eccellenza!

- Noi, signora S'ciukin, per voi non possiamo far nulla... Capite:

vostro marito, da quanto posso giudicare serviva nella sanità militare, e il nostro è un istituto assolutamente privato, commerciale, teniamo una banca. Come non capir ciò!

Kistunov ancora una volta alzò le spalle e si girò verso un signore in divisa militare col catarro.

- Eccellenza, - cantilenò con voce querula la S'ciukin, - che mio marito è stato malato, ci ho il certificato medico! Eccolo, favorite guardare!

- Benissimo, io vi credo, - disse in tono irritato Kistunov, - ma, ripeto, questo non ci riguarda. E' strano e persin buffo! Possibile che vostro marito non sappia ove dovete rivolgervi?

- Lui, eccellenza, non sa nulla. Non fa che dire una sola cosa: «Non è affar tuo! Vattene!», e tutto è lì... Affare di chi, allora? L'ho pur io sulle mie braccia! Sulle mi-ie!

Kistunov tornò a girarsi verso la S'ciukin e prese a spiegarle la differenza che passa tra l'ufficio di sanità militare e una banca privata. Quella lo ascoltò attenta, fece col capo un cenno d'assenso e disse:

- Già, già, già... Capisco, "bàtiuska". In tal caso, eccellenza, ordinate di darmi anche solo quindici rubli. Son d'accordo di non aver tutto in una volta.

- Uff! - sospirò Kistunov, arrovesciando il capo. - A voi non la si fa intendere! Ma non capite dunque che rivolgere a noi una simile richiesta è strano come presentar domanda di divorzio, per esempio, in farmacia o all'ufficio del saggio? Non vi hanno pagato tutto, ma noi che c'entriamo?

- Eccellenza, fate ch'io preghi Dio in eterno, abbiate pietà di me, orfanella, - si mise a piangere la S'ciukin. - Sono una donna indifesa, debole... Mi sono sfinita a morte... E in causa con gl'inquilini, e darsi da fare pel marito, e correre per le faccende di casa, e poi ancora le mie devozioni e il cognato senz'impiego... E' solo di nome che bevo e mangio, ma sto appena in piedi... Non ho dormito tutta la notte.

Kistunov sentì palpitazione di cuore. Fatto un viso doloroso e premutasi una mano al cuore, riprese a spiegare alla S'ciukin, ma la sua voce si spezzò...

- No, scusate, io non posso parlare con voi, - disse, e agitò una mano.-Mi gira perfino la testa. Voi c'impacciate e perdete inutilmente il tempo. Uff!... Alekséi Nikolaic', - si rivolse a uno degl'impiegati: - spiegate voi, per favore, alla signora S'ciukin!

Kistunov, eludendo tutti i postulanti, se n'era andato nel suo gabinetto e aveva firmato una decina di carte, e Alekséi Nikolaic' tuttora si affaccendava con la S'ciukin. Stando a sedere nel suo gabinetto, Kistunov udì a lungo due voci: la monotona, contenuta voce di basso di Alekséi Nikolaic' e la voce piagnucolosa, gemebonda della S'ciukin...

- Io sono una donna indifesa, debole, sono una donna malaticcia, - diceva la S'ciukin. - All'aspetto, forse robusta, ma se si va a esaminare, non c'è in me una sola venetta sana. A stento mi reggo in piedi e ho perduto l'appetito... Oggi ho bevuto il caffè, e senz'alcuna soddisfazione.

E Alekséi Nikolaic' le spiegava la differenza tra le amministrazioni e il complesso sistema della trasmissione delle carte. Ben presto fu stanco e lo sostituì il contabile. - Donna supremamente antipatica.-s'indignava Kstunov, torcendo nervoso le dita e accostandosi di continuo alla caraffa con l'acqua. - E' un'idiota, una tonta! Ha sfinito me e sfiancherà loro, la vigliacca! Uff... mi batte il cuore!

Di li a mezz'ora sonò. Comparve Alekséi Nikolaic'.

- Che n'è da voi, di là? - domandò languidamente Kistunov.

- Ma non gliela facciamo intendere in nessun modo, Piotr Aleksandric'!

Siamo semplicemente sfiniti. Noi le bussiamo a picche e lei risponde a fiori...

- Io... io non posso sentir la sua voce... Mi sono ammalato... non ci reggo...

- Chiamiamo il custode, Piotr Aleksandric', che la faccia uscire.

- No, no! - si spaventò Kistunov. - Lei leverà alte strida, e in questa casa ci son molti appartamenti, e il diavolo sa quel che posson pensare di noi... Piuttosto voi, colombello, in qualche modo cercate di spiegarle.

Dopo un minuto si riudì il borbottio di Alekséi Nikolaic'. Passò un quarto d'ora e, dando il cambio al suo tono di basso, prese a ronzare la robusta voce tenorile del contabile.

- Su-per-lativamente vigliacca!- s'indignava Kistunov, con un nervoso tremito di spalle. - Stupida come un'oca, che il diavolo se la porti! Mi si scatena di nuovo la podagra, pare... Daccapo l'emicrania...

Nella stanza attigua Alekséi Nikolaic', ridotto allo stremo, picchia infine un dito sulla tavola, poi sulla propria fronte.

- Insomma, voi sulle spalle non avete una testa, - disse, - ma ecco che cosa...

- Be', non c'è, non c'è da... - si risentì la vecchia. - Dallo a tua moglie il picchio.. Citrullo! Non ti prender troppa libertà.

E, guardandola con astio, con esasperazione, come se volesse inghiottirla, Alekséi Nikolaic' disse con voce bassa, soffocata:

- Via di qui!

- Che co-osa? - strillò d'un tratto la S'ciukin. - Ma come osate?

Io sono una donna debole, indifesa, io non permetterò! Mio marito è assessore di collegio! Ma che citrullo! Se vado dall'avvocato Dmitri Karlic', di te né manco il nome rimarrà! A tre inquilini ho fatto causa, e per le tue parole insolenti ai piedi mi dovrai cadere! Andrò fin dal vostro generale (2)! Eccellenza! Eccellenza!

- Vattene via di qui, canchero! - sibilò Alekséi Nikolaic'.

Kistunov aprì la porta e guardò fuori nella sala. - Che c'è? - domandò con voce di pianto. La S'ciukin, rossa come un gambero, stava in mezzo alla stanza e, roteando gli occhi, puntava le dita in aria.

Gl'impiegati della banca stavano ai lati e, rossi del pari, visibilmente stremati, si scambiavano occhiate smarrite.

- Eccellenza! - si precipitò verso Kistunov la S'ciukin. - Ecco costui, questo stesso... ecco costui... - (ella indicò Alekséi Nikolaic'), - ha dato del dito in fronte, e poi sulla tavola... Voi gli avete ordinato di esaminar la mia pratica, e lui si fa beffe! Io sono una donna debole, indifesa... Mio marito è assessore di collegio e io stessa son figlia d'un maggiore!

- Bene, signora, - gemé Kistunov, - esaminerò... provvederò...

Andate pure... dopo!...

- E quando riscoterò, eccellenza? I denari mi occorrono oggi!

Kistunov si passò in fronte una mano tremante, sospirò e riprese a spiegare.

- Signora, vi ho già detto. Qui è una banca, un istituto privato, commerciale... Che dunque volete da noi? E capite chiaramente che ci disturbate.

La S'ciukin stette a sentirlo e sospira.

- Già, già... - annuì. - Solo, eccellenza, fate la grazia, fatemi pregar Dio in eterno, siatemi padre, difendetemi. Se l'attestato medico non basta, posso presentare anche un certificato della sezione... Ordinate di versarmi il denaro!

A Kistunov s'annebbiò la vista. Egli esalò tutta l'aria, quanta ne aveva nei polmoni e, prostrato, si abbandonò sulla seggiola.

- Quanto volete avere? - domandò con voce flebile.

- Ventiquattro rubli e trentasei copeche.

Kistunov cavò di tasca il portafogli, ne trasse un biglietto da venticinque e lo porse alla S'ciukin.

- Prendete e... e andatevene!

La S'ciukin avvolse in un fazzolettino il denaro, lo nascose e, raggrinzando il viso in un sorrisetto soave, delicato, perfin civettuolo, domandò:-Eccellenza, e non potrebbe mio marito riprendere il posto?

- Io vado via... sono malato... - disse Kistunov con voce languida.

- Ho una tremenda palpitazione di cuore.

Partito ch'egli fu, Alekséi Nikolaic' inviò Nikita per le gocce di lauroceraso, e tutti, prese venti gocce a testa, sedettero al lavoro, ma la S'ciukin poi rimase ancora un paio d'ore in anticamera a discorrere col custode, aspettando che tornasse Kistunov.

Ella venne lì anche il giorno dopo.




NOTE:


1) Letteralmente: babbino. Forma di cortesia molto usata nella conversazione russa, parlando a persona maschile di qualsiasi età, e corrispondente a "màtuskca".

2) La vecchia gerarchia burocratica russa conosceva anche i "generali" civili: il titolo militare veniva esteso ai più alti capi servizio delle amministrazioni non militari.




LE SIGNORE


Fiodor Petrovic', direttore delle scuole elementari della provincia di N., che si stima uomo giusto e magnanimo, riceveva una volta presso di sé in ufficio il maestro Vremionski.

- No, signor Vremionski,-diceva,-le dimissioni sono inevitabili. Con la voce che avete, non si può continuare il servizio d'insegnamento. Ma come vi è scesa?

- Bevvi, sudato, della birra fredda... - sibilò il maestro - Che peccato! Un uomo ha servito per quattordici anni, e d'un tratto una iattura così! Sa il diavolo per quale inezia tocca troncar la propria carriera. E che cosa vi proponete ora di fare?

Il maestro non rispose nulla.

- Avete famiglia? - domandò il direttore.

- Moglie e due figli, eccellenza... - sibilò il maestro.

Seguì un silenzio. Il direttore si alzò dalla scrivania e camminò da un angolo all'altro, agitato.

- Non raccapezzo quel che ho da fare con voi! - disse. - Maestro non potete essere, alla pensione non siete ancor pervenuto...

lasciarvi in balia del destino, ai quattro venti, non è punto agevole.

Per noi siete uno dei nostri, avete servito quattordici anni, è dunque affar nostro aiutarvi... Ma come aiutare? Che posso io fare per voi?

Mettetevi nei miei panni: che posso io fare per voi?

Seguì un silenzio; il direttore camminava e continuava a pensare, e Vremionski, oppresso dal suo affanno, sedeva sull'orlo d'una seggiola e pensava anche lui. D'un tratto il direttore si fece raggiante e schioccò perfino le dita.

- Mi meraviglio come non mi sia venuto prima in mente! - prese a dire svelto. - Ascoltate, ecco quel che posso proporvi... La settimana entrante il segretario del nostro asilo se ne va a riposo.

Se volete, occupate il suo posto! Eccovi!

Vremionski, che non si aspettava una tal grazia, raggiò egli pure.

- A meraviglia, - disse il direttore. - Oggi stesso scrivete la domanda...

Congedato Vremionski, Fiodor Petrovic' risentì sollievo e perfin soddisfazione: davanti a lui non stava più la curva figura del sibilante pedagogo, e faceva piacere riconoscere che, offrendo a Vremionski il posto vacante, egli aveva agito rettamente e secondo coscienza, da uomo buono, perfettamente dabbene. Ma questa buona disposizione non durò a lungo. Quand'egli tornò a casa e sedette a pranzare, sua moglie, Nastassia Ivànovna, d'un tratto si rammentò:

- Ah, sì, per poco non dimenticavo! Ieri venne da me Nina Serghéievna e si raccomandò per un giovane. Nell'asilo da noi, dicono, si fa un posto vacante...

- Sì, ma questo posto è già promesso a un altro, - disse il direttore e si accigliò. - E tu sai la mia norma: non dò mai posti per protezione.

- So, ma per Nina Serghéievna si può fare, suppongo, un'eccezione. Lei ci ama come parenti, e noi finora non abbiam fatto per lei nulla di buono. E non pensare, Fedia, di dir di no! Coi tuoi ghiribizzi e lei offenderesti, e me.

- E chi raccomanda?

- Polzuchin.

- Che Polzuchin? Quello che alla riunione di capodanno faceva il Ciatski (1)? Quel gentiluomo? A nessun patto!

Il direttore smise di mangiare.

- A nessun patto! - ripeté. - Dio me ne guardi!.

- Ma perché?

- Capisci, mammina, che se il giovanotto non agisce direttamente, ma per mezzo di donne, è, di conseguenza, una nullità! Perché non viene egli stesso da me?

Dopo pranzo il direttore si sdraiò nel suo studio sul sofà e si mise a leggere i giornali e le lettere ricevute.

«Caro Fiodor Petrovic'!», gli scriveva la moglie del sindaco.«Voi diceste un giorno ch'io sono scrutatrice di cuori e conoscitrice d'uomini. Ciò vi spetta ora verificar di fatto. Verrà da voi tra giorni a chiedere il posto di segretario nel nostro asilo un tal K. N.

Polzuchin che conosco per un giovane eccellente. Il ragazzo è molto simpatico. Interessandovi a lui, vi persuaderete», eccetera.

- A nessun patto! - proferì il direttore. - Dio mi guardi!

Dopo di ciò non passò giorno che il direttore non ricevesse lettere che raccomandavano Polzuchin. Una bella mattina comparve anche lo stesso Polzuchin, un giovane pienotto, con volto raso da fantino, in un nuovo completo nero...

- Per cose di servizio non ricevo qui, ma in ufficio - disse seccamente il direttore, ascoltata la sua richiesta.

- Perdonate, eccellenza, ma nostri comuni conoscenti mi han consigliato di rivolgermi proprio qui.

- Uhm ! ... - mugolò il direttore, guardandogli con astio le scarpe a punta aguzza. - Per quanto so, - egli disse, - il vostro babbo ha un patrimonio e voi non siete in bisogno, che necessità avete dunque di sollecitare questo posto? E' una paga di soldi!

- Io non per la paga, ma così... Ed è sempre un servizio governativo...

- Già... Tra un mese poi, mi sembra, quest'impiego vi sarà venuto a noia e voi lo lascerete, e intanto ci son candidati per i quali questo posto è una carriera per tutta la vita. Vi son poveracci per i quali...

- Non mi verrà a noia, eccellenza! -interruppe Polzuchin.- Parola d'onore, farò del mio meglio!

Il direttore si sdegnò.

- Ascoltate, - domandò, sorridendo sprezzante, - perché non vi rivolgeste di colpo a me, ma stimaste necessario incomodar preventivamente le signore?

- Non sapevo che ciò vi sarebbe spiaciuto, - rispose Polzuchin, e si confuse. - Ma, eccellenza, se voi non date importanza alle lettere di raccomandazione, vi posso presentar degli attestati...

Egli trasse di saccoccia una carta e la porse al direttore. In calce all'attestato, scritto in stile e caratteri cancellereschi, stava la firma del governatore. Da tutto si vedeva che il governatore aveva firmato senza leggere, giusto solo per sbrigarsi di qualche importuna signora. - Non c'è che fare, m'inchino... obbedisco... - disse il direttore, letto ch'ebbe l'attestato, e sospirò. - Presentate domani la domanda... Non c'è che fare...

E quando Polzuchin fu uscito, il direttore si abbandonò tutto a un sentimento di disgusto.

- Essere dappoco! - sibilava, camminando da un angolo all'altro. - Ha pur ottenuto l'intento, striscione buono a nulla, beniamino delle donne! Rettile! Canaglia!

Il direttore sputò rumorosamente contro l'uscio dietro cui era scomparso Polzuchin, e di colpo rimase male, perché in quel momento entrava nel suo studio una signora, la moglie dell'intendente di finanza.

- Io per un minutino, un minutino... - cominciò la signora.- Sedete, compare, e ascoltatemi attentamente... Dunque, dicono, da voi c'è un posto vacante... Domani, oppur oggi, verrà da voi un giovane, certo Polzuchin...

La signora cinguettava, e il direttore la guardava con occhi torbidi, intontiti, come uomo che si prepara a venir meno, guardava e sorrideva per convenienza.

E il giorno dopo, ricevendo nel suo ufficio Vremionski, il direttore per lungo tempo non si risolse a dirgli la verità. Esitava, s'impappinava e non trovava da che cominciare, che cosa dire. Aveva voglia di scusarsi col maestro, di raccontargli tutta la pura verità, ma la lingua gli s'ingarbugliava, come a un ubriaco, i suoi orecchi ardevano, e gli venne d'un tratto vergogna e stizza di dover rappresentare una parte così assurda: nel proprio ufficio, davanti ai propri dipendenti. D'improvviso picchiò un colpo sulla tavola, saltò su e gridò iroso:

- Io non ho un posto per voi! No e poi no! Lasciatemi in pace! Non tormentatemi! Spiccicatevi, insomma, fate il favore!

E uscì dall'ufficio.




NOTE:


1) Protagonista della celebre commedia satirica di Griboiedov (1795-1829): "Il guaio di avere ingegno", tipo di «occidentale» e liberale russo ancora immaturo.




POLINKA


L'una passata del pomeriggio. Nel gran negozio di mercerie "Novità parigine", che è in una delle gallerie, ferve la vendita. Si ode il monotono brusio delle voci dei commessi, un brusio quale suol esserci a scuola, allorché il maestro obbliga tutti gli alunni a mandar qualche cosa a memoria ad alta voce. E questo rumore uniforme non lo spezzano né le risate delle signore, né i colpi della porta vetrata d'ingresso, né il correr su e giù dei ragazzi.

In mezzo al negozio sta Pòlinka, figlia di Maria Andréievna, tenitrice d'un laboratorio di mode, una piccola bionda magrolina, e cerca qualcuno con gli occhi. Accorre a lei un ragazzo dai neri sopraccigli e domanda, guardandola con gran serietà:

- Che cosa volete, signora?

- Di me si occupa sempre Nikolài Timofeic', - risponde Pòlinka.

E il commesso Nikolài Timofeic', un bruno slanciato arricciato, vestito alla moda, con una grossa spilla sulla cravatta, già ha sgombrato il posto sul banco, ha proteso il collo e con un sorriso guarda Pòlinka.

- Pelagheia Serghéievna, i miei rispetti! - grida con bella, sana voce baritonale. - Favorite!

- Ah, buon giorno, - dice Pòlinka, avvicinandoglisi. - Vedete, son di nuovo da voi... Datemi qualche cordoncino.

- Per che cosa v'occorre propriamente?

- Per una vita, per un dorso, insomma una piccola guarnizione completa.

- Sul momento.

Nikolài Timofeic' mette davanti a Pòlinka parecchi tipi di cordoncino; quella sceglie pigramente e comincia a mercanteggiare.

- Scusate tanto, a un rublo non è punto caro! - cerca di persuaderla il commesso, sorridendo indulgente. - Questo è cordoncino francese, a otto canti... Volentieri, ne abbiamo di quello ordinario, a peso...

Quello è a quarantacinque copeche l'"arscìn" (1), non è più la stessa qualità! Scusate tanto!

- Mi occorre ancora un fianco di conteria con bottoni di cordoncino, - dice Pòlinka, chinandosi sul cordoncino, e, chi sa perché, sospira.

- E non si troveranno qui da voi dei chicchi di conteria di questa tinta?

- Ci sono.

Pòlinka si china ancor più giù verso il banco e domanda sottovoce:

- Ma perché voi, Nikolài Timofeic', giovedì andaste via da casa nostra così presto?

- Uhm!... E' strano che ve ne siate accorta, - dice il commesso con un risolino. - Eravate così perduta dietro al signor studente che...

è strano come ve ne siate accorta!

Pòlinka si fa di fiamma e tace. Il commesso con un tremito nervoso nelle dita chiude le scatole e, senz'alcuna necessità, le pone una sull'altra. Un minuto trascorre in silenzio.

- M'occorrono ancora dei merletti di conteria,-dice Pòlinka, alzando due occhi da colpevole sul commesso.

- Come li volete? I merletti di conteria su tulle neri e in tinta sono la finizione più di moda.

- E a quanto li vendete?

- I neri da ottanta copeche in su, e in tinta a due rubli e cinquanta copeche. E da voi io non verrò mai più,-soggiunge sottovoce Nikolài Timofeic'.

- Perché?

- Perché? Semplicissimo. Voi stessa dovete capire. A che pro ho da torturarmi? Strana faccenda! Forse che per me è piacevole vedere come quello studente recita una parte intorno a voi? Io, già, vedo e capisco tutto. Fin dall'autunno vi fa la corte sul serio e quasi ogni giorno passeggiate con lui, e quand'è da voi in visita, gli tenete gli occhi piantati addosso, come se fosse un qualche angelo. Ne siete innamorata, per voi non c'è miglior uomo di lui, e benissimo, non c'è da far discorsi...

Pòlinka tace e, imbarazzata, passa un dito sul banco.

- Io vedo tutto benissimo, - continuò il commesso. - Che ragione ho dunque di venir da voi? Io ho dell'amor proprio. Non a tutti fa piacere esser la quinta ruota del carro. Che cosa chiedevate?

- La mamma mi ha ordinato di prendere molte cose varie, ma ho dimenticato. Ci vuole ancora del piumino.

- Quale volete?

- Il migliore, quello più di moda.

- Il più di moda adesso è quello di piume d'uccello. La tinta di moda, se desiderate, è ora l'eliotropio o il color "kanàk", cioè bordò con giallo. Una scelta enorme. Ma a che tenda tutta questa storia, proprio non capisco. Voi, ecco, vi siete innamorata, ma come finirà ciò?

Sul viso di Nikolài Timofeic', vicino agli occhi, sono spuntate delle chiazze rosse. Egli stazzona fra le mani una delicata fettuccia lanuginosa e continua a mormorare:

- V'immaginate di sposarlo, eh? Be', a questo riguardo levatevelo dall'immaginazione. Agli studenti è vietato prender moglie, e poi forse ch'egli viene da voi per terminar tutto onestamente? Ma che!

Già, loro, proprio questi studenti, noi non ci hanno in conto neppur di persone... Vanno dai mercanti e dalle modiste solo per farsi beffe dell'altrui mancanza d'istruzione e ubriacarsi. A casa propria e nelle buone case ci si vergogna di bere; sì, ma da gente così semplice, non istruita, come noi non han da vergognarsi di nessuno, si può anche camminare a gambe in su. Sissignora! Così, che piumino dunque prenderete? E se lui vi fa la corte e giuoca all'amore, si sa perché... Quando diventerà dottore o avvocato, rammenterà: «Eh, avevo una volta», dirà, «una certa biondina! Dov'è adesso?». Chi sa che anche ora, in casa sua fra gli studenti, non si vanti di avere in vista una modistina.

Pòlinka si mette a sedere su una sedia e guarda pensierosa la montagna di scatole bianche.

- No, non lo prenderò il piumino! - sospira. - Prenda la mamma stessa quello che vuole, io posso sbagliare. A me date sei "arscini" di frangia per un diplomatico, di quella a quaranta copeche l'"arscìn". Per lo stesso diplomatico mi darete dei bottoni di cocco, coi fori da parte a parte... perché tengano meglio...

Nikolài Timofeic' le involta frangia e bottoni. Lei lo guarda negli occhi con aria colpevole e visibilmente aspetta ch'egli continui a parlare, ma lui tace arcigno e rimette in ordine il piumino.

- Che non dimentichi di prendere anche dei bottoni per una cappotta...

- ella dice dopo un po' di silenzio, asciugandosi col fazzoletto le labbra smorte.

- Quali v'occorrono?

- Lavoriamo per una negoziante, datemi dunque qualcosa che esca dall'ordinario...

- Si, se è per una negoziante, bisogna sceglierli un po' variopinti.

Ecco i bottoni. Una combinazione di colori turchino, rosso, e oro di moda. I più vistosi. Chi è un po' più fine prende da noi quelli neri opachi con un sol cerchietto brillante. Solo che io non capisco.

Possibile che voi stessa non possiate giudicare? Be', a che cosa condurranno quelle... passeggiate?

- Io stessa non so... - bisbiglia Pòlinka, e si china sui bottoni.

- Io stessa non so, Nikolài Timofeic', quel che mi succede.

Dietro il dorso di Nikolài Timofeic', premendolo verso il banco, si apre un varco un grave commesso dalle fedine e, raggiando della più raffinata galanteria, grida:

- Siate così gentile, "madàm" (2), da favorire in questo reparto! Di camicette "dzerse" (3) Si hanno tre tipi: liscia, con spighetta e con perline! Quale volete?

Nello stesso tempo accanto a Pòlinka passa una signora grossa, che dice con voce pastosa, profonda, quasi di basso:

- Purché, per favore, siano senza cuciture, tessute, e che i piombini siano affondati dentro.

- Fate mostra di osservare la merce, - bisbiglia Nikolài Timofeic', chinandosi verso Pòlinka e sorridendo sforzatamente. Voi, che Dio v'assista, avete una cera pallida e malata, vi siete del tutto mutata in viso. Vi lascerà, Pelagheia Serghéievna! E se mai vi sposerà, non sarà per amore, ma per fame, lusingato dai vostri quattrini. Si farà con la dote un arredo decoroso, e poi si vergognerà di voi. Agli ospiti e ai compagni vi nasconderà, perché non siete istruita, e così dirà: la mia orsacchiotta. Forse che voi sapete comportarvi in una compagnia di dottori o di avvocati? Voi per loro siete una modista, una creatura ignorante.

- Nikolài Timofeic'! - grida qualcuno dall'altro capo del negozio.

Ecco, la "mademuasèl" chiede tre arscini di nastro di "nikko" (4) Ce n'avete?

Nikolài Timofeic' si volge di lato, fa un viso sorridente e grida:

- Ce n'ho! Ci son nastri di "nikko", "atamàn" (5) con raso e raso con "muar" (6)!

- A proposito, per non dimenticarmi, Olia m'ha pregata di prendere per lei una fascetta! - dice Pòlinka.

- Negli occhi avete... delle lacrime!-si spaventa Nikolài Timofeic'. - Perché questo? Andiamo verso i busti, io vi parerò, se no è una cosa imbarazzante.

Con un sorriso sforzato e con esagerata disinvoltura il commesso guida rapido Pòlinka verso il reparto dei busti e la nasconde al pubblico dietro un'alta piramide di scatole...

- Che fascetta volete che vi dia?-domanda forte, e subito bisbiglia: - Asciugatevi gli occhi!

- Io... io, di quarantotto centimetri! Soltanto, per favore, lei ha pregato che sia doppia con fodera... di vera stecca di balena... Io ho bisogno di parlar con voi, Nikolài Timofeic'. Venite oggi!

- Ma di che parlare? Non c'è da parlar di nulla.

- Voi solo... mi amate e, tranne voi, non ho nessuno con cui parlare un poco.

- Non giunco, non osso, ma vera stecca di balena... Di che mai dovremmo parlare? Parlare non c'è di che... Vero che oggi andrete con lui a passeggio?

- Ci an... andrò.

- Be', allora di che parlare in tal caso? Coi discorsi non si rimedia... Siete innamorata, vero?

- Sì... - bisbiglia incerta Pòlinka, e dai suoi occhi sgorgano grosse lacrime.

- Che discorsi dunque ci posson essere? - mormora Nikolài Timofeic', alzando nervosamente le spalle e impallidendo. - E nessun discorso occorre... Asciugate gli occhi, ed ecco tutto. Io... io non desidero nulla...

In questo mentre s'avvicina alla piramide di scatole un commesso alto, magro e dice alla sua acquirente:

- Non lo vorreste, un ottimo elastico per giarrettiera, che non ferma il sangue, riconosciuto dalla medicina...

Nikolài Timofeic' fa da schermo a Pòlinka e, cercando di nascondere l'agitazione di lei e la propria, storce il volto a un sorriso e dice forte:

- Ci son due qualità di merletti, signorina! Di cotone e di seta!

L'"oriental", i britannici, la "valensièn" (7), il "croscé" (8), il "torsciòn" (9): questi son di cotone, e il rococò, la spighetta, il "cambré" (10): questi sono di seta... Per amor di Dio, asciugate le lacrime! Vien gente!

E vedendo che le lacrime scorrono tuttavia, continua anche più forte:

- Spagnuoli, rococò, spighetta, "cambré"... Calze di feldekòs (11), di cotone, di seta...




NOTE:


1) Unità russa di misura lineare: metri 0,711.

2) Questa e altre parole straniere che seguono sono trascritte secondo la pronuncia, a indicare che chi le adopera le conosce semplicemente a orecchio, senza saperne la grafia.

3) "Jersey": la principale delle Isole Normanne, nella Manica; dà il nome a un tessuto di lana.

4) Dal nome d'una città giapponese.

5) Così detto dal nome che si dava al capo dei cosacchi.

6) "Moire": moerro, amoerro (seta, o imitazione di seta, marezzata.

7) "Valenciennes", dall'omonima città francese del nord.

8) "Crochet", cioè fatto all'uncinetto.

9) "Torchon" (canovaccio): merletto a maglia assai larga.

10) "Cambrai", anche qui dal nome dell'importante centro tessile francese, nel Dipartimento del Nord.

11) Cioè "fil d'Ecosse": filo di Scozia.




IL CORREDO


Molte case ho veduto in vita mia, grandi e piccine, in muratura e di legno, vecchie e nuove, ma particolarmente mi s'impresse nella memoria una casa. Non è una casa del resto, ma una casetta. E' piccola, a un solo, piccolo piano e con tre finestre, e somiglia oltremodo a una vecchietta piccina, gobba con la cuffia. Intonacata di bianco, con tetto di tegole e un fumaiuolo scortecciato, è tutta immersa nei verde dei gelsi, delle acacie e dei platani piantati dai nonni e dai bisnonni degli odierni padroni. Non la si vede dietro il verde. Questa massa di verzura non le impedisce per altro d'essere una casetta di città. Il suo ampio cortile è allineato con altri, pure ampi e verdi cortili, ed entra a far parte di via Moskòvskaia. Nessuno passa mai in vettura per questa via, di rado qualcuno a piedi.

Le imposte della casetta sono continuamente chiuse: gli inquilini non han bisogno di luce. La luce non è loro necessaria. Le finestre non si aprono mai, perché agli abitatori della casetta non piace l'aria fresca. La gente che vive costantemente fra i gelsi, le acacie e la bardana è indifferente alla natura. Solo ai villeggianti Iddio ha dato la facoltà d'intendere le bellezze della natura, la restante umanità invece, per quanto riguarda queste bellezze, ristagna nella più profonda ignoranza. Gli uomini non apprezzano ciò di cui sono ricchi.

«Quel che possediamo, non lo custodiamo (1)»; non basta: quel che possediamo, non l'amiamo. Attorno alla casetta è il paradiso terrestre, il verde, vivono uccelli giulivi, nella casetta invece...

ahimè! D'estate v'è afa e si soffoca, d'inverno v'è un caldo come al bagno, odor di carbone e una noia, una noia...

Per la prima volta visitai questa casetta che ormai è un pezzo, per un'incombenza: portai il saluto del padron della casa, colonnello Cikamassov, a sua moglie e a sua figlia. Questa mia prima visita la ricordo ottimamente. Né è possibile non ricordarla.

Immaginatevi una donna piccola, mencia, sulla quarantina, che vi guarda con sgomento e stupore mentre voi entrate dall'anticamera in sala. Voi siete un "estraneo", un visitatore, un "giovanotto", e questo è già sufficiente per piombarla nello stupore e nello sgomento.

Nelle mani non avete né una mazza ferrata, né un'accetta, né una rivoltella, voi sorridete amichevolmente, ma vi si accoglie con ansietà.

- Chi ho l'onore e il piacere di vedere? - vi domanda con voce tremante una donna matura, in cui riconoscete la padrona di casa Cikamassov.

Dite il vostro nome e spiegate perché siete venuto. Sgomento e stupore cedono il posto a un acuto, gioioso «ah!» e a uno strabuzzar d'occhi.

Quest'«ah!», come un'eco, si ripercuote dall'anticamera in sala, dalla sala in salotto, dal salotto in cucina... e così fino alla cantina.

Ben presto tutta la casetta si riempie di svariati, gioiosi «ah!». Di lì a un cinque minuti siete seduto in salotto, su un grande, soffice, ardente divano e udite come ormai echeggia di «ah!» tutta la via Moskòvskaia.

Odorava di polvere contro le tarme e di scarpe nuove di capretto, che, avvolte in una pezzuola, stavano accanto a me su una sedia. Alle finestre gerani, straccetti di mussolina. Sugli straccetti delle mosche sazie. Su una parete il ritratto di un qualche vescovo, dipinto a olio e coperto da un vetro con un angolino rotto. Dal vescovo parte una fila di avi dalle fisonomie d'un giallo limone, zingaresche. Sulla tavola un ditale, un rocchetto di filo e una calza non finita, sul pavimento modelli di taglio e una camicetta nera imbastita. Nella stanza attigua due vecchie spaventate, intimidite piglian su dal pavimento modelli e pezzi di "lankort"...

- Da noi, scusate, c'è un tremendo disordine! - disse la Cikamassov.

La Cikamassov conversava con me e sbirciava, confusa, verso l'uscio, dietro al quale tuttora stavan raccattando i modelli. L'uscio, come confuso anch'esso, ora si apriva per un paio di dita, ora si chiudeva.

- Su via, che t'occorre? - si voltò la Cikamassov verso l'uscio.

- "Où est mon cravate, lequel mon père m'avait envoyé de Koursk?" (2) - domandò dietro l'uscio una vocetta femminile. - "Ah, est ce que, Marie, que..." (3) Ah, forse che si può... "Nous avons donc chez nous un homme très peu connu par nous... (4) Domanda a Lukeria...

«Ma come parliam bene il francese, noi!», lessi io negli occhi della Cikamassov, arrossita dal piacere.

Presto si aprì l'uscio, e io vidi un'alta, magra ragazza sui diciannove anni, in un lungo vestito di mussolina con cintura dorata, dalla quale pendeva, ricordo, un ventaglio di madreperla. Ella entrò, fece la riverenza e avvampò in viso. Avvampò dapprima il suo lungo naso, alquanto butterato, dal naso il rossore passò agli occhi, dagli occhi alle tempie.

- Mia figlia! - cantilenò la Cikamassov. - E questo Mànec'ka, è il giovanotto che...

Io feci conoscenza ed espressi la mia meraviglia a proposito del gran numero di modelli. Madre e figlia chinarono gli occhi.

- Da noi all'Ascensione ci fu la fiera, - disse la madre. - Alla fiera noi comperiamo sempre una quantità di stoffe e poi cuciamo tutto l'anno sino alla fiera seguente. Fuori di casa non diamo mai a far nulla. Il mio Piotr Stepanic' non guadagna moltissimo e noi non possiamo permetterci dei lussi. Tocca farci i vestiti noi stesse.

- Ma chi mai in casa vostra porta una tal massa di roba? Siete soltanto in due!

- Ah... forse che questo si può portare? Non è per portare! Questo è il corredo!

- Ah, "maman", che dite? - domandò la figlia, e si fece rossa. - Il signore davvero può pensare... Io mai prenderò marito! Mai!

Disse ciò, ma a lei stessa, alla parola "marito", si accesero gli occhietti.

Portarono il tè, biscotti, conserve di frutta, burro, poi mi rimpinzarono di lamponi con la panna. Alle sette di sera ci fu una cena di sei portate, e durante questa cena udii un rumoroso sbadiglio; qualcuno aveva sbadigliato forte nella stanza attigua. Io guardai verso l'uscio con meraviglia: così può sbadigliare soltanto un uomo.

- E' il fratello di Piotr Semionic', Jegòr Semionic'... - spiegò la Cikamassov, avendo notato la mia meraviglia. - Abita in casa nostra dall'anno scorso. Scusatelo, non può venire a salutarvi. E' un selvaggio tale... ha soggezione degli estranei... Si prepara ad entrare in convento... In servizio ebbe dei dispiaceri... Così, ecco, dal dolore...

Dopo cena la Cikamassov mi mostrò una stola che stava ricamando di propria mano Jegòr Semionic', per poi offrirla alla chiesa. Mànec'ka smise per un momento la sua timidezza e mi fece vedere una borsa da tabacco ch'ella ricamava per il proprio babbo. Quand'io feci vista d'essere stupito per il suo lavoro, arrossì tutta e bisbigliò qualcosa all'orecchio della madre. Questa si fece raggiante e m'invitò ad andare con lei nella dispensa. Nella dispensa vidi un cinque grossi bauli e una quantità di bauletti e cassette.

- Questo... è il corredo! - mi bisbigliò la madre. - L'abbiamo preparato noi stesse.

Data un'occhiata a quei malinconici bauli, presi ad accomiatarmi dagli ospitali padroni. E mi fecero dar la parola che un giorno o l'altro sarei ancora stato da loro.

Questa parola mi accadde di mantenerla un sette anni dopo la mia prima visita, quando fui mandato nella Cittadina come perito in una faccenda giudiziaria. Entrato nella nota casetta, udii quelle stesse esclamazioni... Mi riconobbero... Sfido! La mia prima visita era stata nella vita loro tutt'un avvenimento, e gli avvenimenti, là dove son rari, si rammentano a lungo. Quando entrai nel salotto, la madre, ancor più ingrassata e ormai incanutita, stava strisciando sul pavimento e cuciva una qualche stoffa azzurra, la figlia era seduta sul divano e ricamava. Gli stessi modelli, lo stesso odor di polvere contro le tarme, lo stesso ritratto con l'angolino rotto. Ma cambiamenti tuttavia ce n'erano. Accanto al ritratto del vescovo era appeso quello di Piotr Semionic' e le signore erano in lutto. Piotr Semionic' era morto una settimana dopo la sua promozione a generale.

Cominciarono i ricordi... La generalessa diede in pianto.

- Abbiamo un gran dolore!- disse. - Piotr Semionic' - lo sapete? - non è più. Io e lei siamo orfane e dobbiamo noi stesse pensare ai casi nostri. E Jegòr Semionic' è vivo, ma non possiamo dir di lui nulla di buono. In convento non l'hanno preso per via... per via delle bevande forti. E lui beve adesso ancor di più dal dispiacere. Io mi accingo ad andar dal capo della nobiltà (5), voglio lagnarmi.. Immaginatevi, più volte ha aperto i bauli e... portato via roba del corredo di Mànec'ka, e l'ha donata a pellegrini. Da due bauli ha sottratto ogni cosa! Se continuerà così, la mia Mànec'ka rimarrà senza corredo affatto.

- Che dite "maman"! - disse Mànec'ka e si confuse. - Il signore davvero può pensare Dio sa che cosa... Io mai, mai prenderò marito!

Mànec'ka con aria ispirata, piena di speranza, guardava il soffitto e, visibilmente, non credeva a quel che diceva.

Nell'anticamera guizzò una piccola figuretta maschile dall'ampia calvizie e in soprabito color cannella, con le soprascarpe invece degli stivali, e frusciò come un sorcio.

«Jegòr Semionic', dev'essere», pensai.

Guardavo la madre e la figlia insieme: entrambe erano terribilmente invecchiate e smagrite. La testa della madre aveva riflessi argentei, e la figlia s'era fatta smorta vizza, e pareva che la madre fosse più anziana della figlia d'un cinque anni, non più.

- Mi accingo ad andar dal capo della nobiltà, - mi disse la vecchia, dimenticando che già aveva parlato di ciò. - Voglio lagnarmi! Jegòr Semionic' ci porta via tutto quel che cuciamo, e ne fa dono chi sa dove per la salvezza dell'anima. La mia Mànec'ka è rimasta senza corredo!

Mànec'ka si fece di fiamma, ma non disse più nemmeno una parola.

- Tocca rifar tutto daccapo, e noi non siamo mica Dio sa che riccone!

Noi due siamo orfane!

- Siamo orfane! - ripeté Mànec'ka L'anno passato il destino mi riportò nella nota casetta. Entrato in salotto, io scorsi la vecchia Cikamassov vestita tutta di nero, con le manopole da lutto, era seduta sul divano e cuciva qualcosa. Accanto a lei sedeva un vecchietto in soprabito color cannella e con le soprascarpe in luogo di stivali. Vedutomi, il vecchietto balzò su e corse via dal salotto...

In risposta al mio saluto la vecchietta sorrise e disse:

- "Je suis charmée de vous revoir, monsieur" (6).

- Che cosa state cucendo? - domandai, dopo aver atteso un poco.

E' una camicina. La finirò e andrò a darla al reverendo che la nasconda, se no Jegòr Semionic' la porterà via. Adesso nascondo tutto dal reverendo, - disse in un bisbiglio.

E gettato uno sguardo al ritratto della figlia, che stava davanti a lei sulla tavola, sospirò e disse:

- Noi, vedete, siam orfani!

Ma dov'era la figlia? Dov'era dunque Mànec'ka? Io non facevo domande; non avevo voglia di far domande alla vecchietta vestita a gran lutto, e finché rimasi nella casetta, e poi quando me ne andai, Mànec'ka non m'uscì incontro, io non udii né la sua voce, né i suoi cheti, timidi passi... Tutto era facile a capire e sentivo tanta pena nell'anima!




NOTE:


1) Adagio russo.

2) Dov'è la cravatta che mio padre m'aveva mandato da Kursk?

(Questa frase come le due seguenti, è in un francese sgrammaticato e stentato).

3) Ah, Maria, forse che...

4) Abbiamo dunque in casa nostra un uomo che noi conosciamo ben poco.

5) La nobiltà aveva una sua organizzazione legalmente stabilita, con assemblee e capi provinciali e distrettuali (questi per lo più indicati, nelle traduzioni occidentali, come «marescialli della nobiltà».

6) Sono felice di rivedervi, signore.




LE NOZZE


Un paggio d'onore in cilindro e guanti bianchi, ansimando, si leva in anticamera il cappotto e, con un'espressione come se volesse comunicare qualcosa di tremendo, entra di corsa in sala.

- Lo sposo è già in chiesa!-annuncia, tirando il fiato con difficoltà.

Segue un silenzio. Tutti si sentono improvvisamente tristi.

Il padre della sposa, tenente colonnello a riposo dal viso scarno, smunto, sentendo, probabilmente, che la sua figuretta in giubba corta, militare, e in calzoni alla scudiera non è abbastanza solenne, gonfia gravemente le gote e si raddrizza. Egli prende sul tavolino l'immagine. Sua moglie, una piccola vecchietta in cuffia di tulle con larghi nastri, prende il vassoio col pane e il sale e si mette al suo fianco. Comincia la benedizione.

La sposa Liùboc'ka senza rumore, come un'ombra, si inginocchia davanti al padre, e il suo velo in quel mentre ondeggia e s'impiglia nei fiori sparsi sull'abito, e dall'acconciatura sfuggono alcune forcine.

Inchinatasi all'immagine e scambiato il bacio col padre, che ancor più forte gonfia le gote, Liùboc'ka s'inginocchia davanti alla madre; il suo velo torna a impigliarsi, e due signorine, agitate, corrono a lei, gliel'assestano, lo ravviano, l'appuntano con spilli...

Silenzio, tutti tacciono, nessuno si muove; soltanto i paggi, come focosi bilancini, scalpitano impazienti, quasi attendessero che venga loro permesso di scattar via.

- Chi porterà l'immagine? - si ode un bisbiglio affannato.- Spira, dove sei? Spira!

- Ciubito! - risponde dall'anticamera una voce infantile.

- Dio sia con voi, Daria Danìlovna! - qualcuno conforta a bassa voce la vecchia, che s'è stretta col viso alla figlia e singhiozza. - Ma forse che si può piangere, che Cristo sia con voi! Bisogna gioire, anima cara, e non piangere.

La benedizione ha fine. Liùboc'ka, pallida, tutta solenne, severa nell'aspetto, bacia le sue amiche e dopo di ciò tutti rumorosamente, spingendosi l'un l'altro, si slanciano in anticamera. I paggi, con fretta affannosa, gridando senz'alcun bisogno: Pardon, vestono la sposa.

- Liùboc'ka, lascia che ti guardi almeno ancora una volta! - geme la vecchia.

- Ah, Daria Danìlovna!- sospira qualcuno con rimprovero.Gioire bisogna, e voi Dio sa che cosa avete immaginato...

- Spira! Ma dove sei dunque? Spira! E' un castigo con questo ragazzaccio! Cammina avanti!

- Ciubito!

Uno dei paggi prende lo strascico della sposa, e il corteo comincia a scender giù. Alle ringhiere della scala e agli stipiti di tutte le porte sono appese le altrui cameriere e bambinaie; esse divorano con gli occhi la sposa si sente il loro brusio di approvazione. Nelle ultime file risuonano voci concitate: qualcuno ha dimenticato qualcosa, qualcuno ha il mazzo di fiori della sposina; le signore strillano, supplicando di non fare non so che cosa perché «è di cattivo augurio».

All'ingresso già da un pezzo aspettano una carrozza e un landò. Sulle criniere dei cavalli son fiori di carta e tutti i cocchieri hanno le braccia fasciate presso le spalle da fazzoletti di colore. Sulla carrozza è seduto a cassetta un meraviglioso eroe da fiaba, dall'ampia barba fluente, in caffettano nuovo. Le sue braccia tese in avanti coi pugni chiusi,la testa gettata all'indietro,le spalle straordinariamente larghe gli conferiscono un aspetto non umano, non vivente; è tutto come impietrito...

- Ferma! - dice con voce esile, e subito soggiunge con voce pastosa di basso: - Fai le mattie! - (per il che sembra che nel suo largo collo ci sian due gole). - Ferma! Fai le mattie!

La via da entrambe le parti è assiepata di pubblico.

Fa' avanza-are! - gridano i paggi, sebbene non ci sia nulla da far avanzare, dato che la carrozza già da un pezzo è venuta avanti. Spira con l'immagine, la sposa e due amiche salgono in carrozza. Lo sportello sbatte, e la via echeggia dello strepito della vettura.

- Il landò per i paggi! fa' avanza-are!

I paggi balzano in landò e, quand'esso si mette in moto, si levano su a mezzo e, contraendosi come nelle convulsioni, s'infilano i cappotti.

Si fanno avanzare le vetture seguenti.

- Sofia Denìssovna, sedete! - si odono voci. - Favorite anche voi, Nikolài Mironic'! Ferma! Non datevi pensiero, signorina, ci sarà posto per tutti! Scansatevi!

- Senti, Makàr! - grida il padre della sposa. - Al ritorno dalla chiesa, passate per un'altra strada! Se no è cattivo augurio.

Le vetture strepitano sul selciato, rumori, grida... Infine tutti sono partiti, è tornata la quiete. Il padre della sposa rientra in casa; in sala i domestici sparecchiano la tavola, nell'attigua stanzetta buia, che tutti in casa chiamano «di passaggio», si soffiano il naso i musicanti, dappertutto tramestio, andirivieni, ma a lui sembra che la casa sia vuota. I soldati musicanti si agitano nella loro piccola, scura stanzetta, in nessun modo riescono a trovar posto coi loro ingombranti leggii e strumenti. Sono giunti da poco, ma già l'aria della stanza «di passaggio» s'è fatta notevolmente più densa, non c'è possibilità alcuna di respirare. Il loro «capo» Ossipov, in cui dalla vecchiezza baffi e fedine son diventati un mucchio di stoppa, sta in piedi davanti a un leggio e guarda irritato la musica.

- Tu, Ossipov, non vai alla fine, - dice il tenente colonnello. - Da quanti anni ormai ti conosco? Una ventina d'anni!

- Di più, alta signoria (1) Alle vostre nozze sonammo, se vi piace ricordarvene.

- Sì, sì... - sospira il tenente colonnello e si fa pensoso - Così, fratello, è la storia... I figli, grazie a Dio, li ho sposati, adesso, ecco, marito la figliuola, e restiamo io e la vecchia soli...

Bambinelli non ne abbiamo più. Abbiamo fatto piazza pulita.

- Chi sa? Forse, Jefìm Petrovic', Dio ve ne manderà ancora, alta signoria...

Jefìm Petrovic' guarda con meraviglia Ossipov e ride nella mano.

- Ancora?- domanda. - Come hai detto? Dio mi manderà ancora bambini? A me?

Egli soffoca dalle risa e lacrime gli spuntano negli occhi; i musicanti per urbanità ridono anche loro. Jefìm Petrovic' cerca con gli occhi la vecchia per riferirle quel che ha detto Ossipov, ma lei stessa già piomba difilato su di lui, impetuosamente, irritata, con gli occhi rossi di pianto.

- Non hai timor di Dio, Jefìm Petrovic'! - ella dice, giungendo le mani. - Noi cerchiamo, cerchiamo il rum, non stiamo più in piedi, e tu stai qui! Dov'è il rum? Nikolài Mironic' non può fare senza rum, ma tu non ci pensi più che tanto! Va', vedi di sapere da Ighnàt dove ha messo il rum!

Jefìm Petrovic' va nel sotterraneo dove è situata la cucina. Per la scala sudicia van su e giù donne e domestici. Un giovane soldato, con la giubba gettata su una spalla, ha appoggiato il ginocchio a un gradino e gira la manovella della gelatiera; il sudore gli cola dalla faccia rossa. Nella scura e angusta cucina, fra nuvole di fumo, lavorano i cuochi, presi a nolo al circolo. Uno sventra un cappone, un altro con delle carote fa stelline, un terzo, rosso come porpora, ficca nella stufa una leccarda. I coltelli picchiano, le stoviglie tintinnano, il burro sfriggola; Capitato in quell'inferno, Jefìm Petrovic' dimentica di che gli ha parlato la vecchia.

- E voi qui, fratelli, non siete allo stretto? - domanda.

- Non fa nulla, Jefìm Petrovic'. Siamo allo stretto ma nessuno ci fa torto (2), state tranquillo...

- Fate del vostro meglio, ragazzi.

In un angolo buio sorge la figura di Ighnàt, il credenziere del circolo.

- State tranquillo, Jefìm Petrovic'! - dice. - Presenteremo tutto nel migliore aspetto. Con che cosa ordinate di fare il gelato: col rum, col "go-sotern" (3) o senza niente?

Tornato nelle stanze, Jefìm Petrovic' gironzola a lungo, poi si ferma sulla soglia della stanza «di passaggio« e torna ad avviare il discorso con Ossipov.

- Così è, fratello... - dice. - Rimarremo soli. Finché la nuova casa non sarà asciutta, i giovani vivranno con noi, e poi addio!

Abbiamo appena avuto il tempo di vederli...

Tutt'e due sospirano... I musicanti per urbanità sospirano pure, per il che l'aria si fa anche più densa.

- Sì, fratello, - continua fiaccamente Jefìm Petrovic', - c'era una sola figlia, e diamo anche quella. E' un uomo istruito, parla francese... Soltanto, ecco, sbevucchia, ma chi oggigiorno non beve?

Tutti bevono.

- Non fa nulla, che beva, - dice Ossipov. - La principale qualità, Jefìm Petrovic', è che sappia il fatto suo. E se, poniamo, berrà, perché poi non bere? Bere si può.

- Certo, si può.

Si odono singulti.

- Forse che lui può sentir gratitudine? - si lagna Daria Danilovna con una vecchia. - Vedete, noi a lui madre mia, abbiamo snocciolato diecimila rubli, copeca su copeca, la casa l'abbiam messa in testa a Liùboc'ka, un trecento "dessiatine" (4) di terra... è presto detto? Ma forse che lui può sentir gratitudine? Non son così fatti, oggigiorno, da esser riconoscenti.

La tavola con le frutta è già pronta. Le coppe stanno, fitte, su due vassoi, le bottiglie di sciampagna sono avvolte in tovagliuoli, nella sala da pranzo sibilano i samovàr. Un domestico senza baffi, con le fedine, annota su un foglietto i nomi delle persone alla cui salute annuncerà i brindisi durante la cena, e li legge, come li studiasse a memoria. Dalle stanze caccian fuori un cane altrui, un'attesa ansiosa... Ma ecco, echeggiano voci affannate:

- Vengono! Vengono! "Bàtiuska" Jefìm Petrovic', vengono!

La vecchia, stupefatta, con un'espressione di estremo smarrimento, afferra il vassoio col pane e sale, Jefìm Petrovic' gonfia le gote, e tutt'e due insieme si affrettano in anticamera. I musicanti, con ritegno, accordano frettolosi gli strumenti, dalla via giunge lo strepito delle vetture. Di nuovo è entrato dal cortile il cane, lo scacciano, esso guaisce... Ancora un minuto d'attesa, e nella stanza «di passaggio», scattando bruscamente, rabbiosamente, echeggia un'assordante, selvaggia, furiosa marcia. L'aria risuona di esclamazioni, di baci, schioccano i tappi, i domestici hanno facce severe...

Liùboc'ka e il suo consorte, un grave signore in occhiali d'oro, sono sbalorditi. La musica assordante, la luce viva, l'attenzione generale, la moltitudine di facce sconosciute li opprimono... Essi si guardano intorno ottusamente, senza veder nulla, senza capir nulla.

Si bevono sciampagna e tè, tutto si svolge con decoro e posatezza. I numerosi parenti, certi insoliti nonni e nonne che prima nessuno mai aveva visto, persone del clero, militari a riposo dalle nuche piatte, il padrino e la madrina di nozze dello sposo, i compari stanno in piedi attorno alla tavola e, sorseggiando cautamente il tè, discorrono della Bulgaria; le signorine, come mosche, si stringono alle pareti; perfino i paggi hanno perduto il loro aspetto inquieto e stanno pacifici presso l'uscio.

Ma passano un'ora o due, e tutta la casa già trema per la musica e le danze. I paggi hanno di nuovo un'aria come se avessero strappato la catena. Nella sala da pranzo, dove è stata imbandita in forma di p la tavola degli antipasti, si affollano i vecchi e la gioventù che non balla; Jefìm Petrovic', che ha già vuotato un cinque bicchierini, strizza l'occhio, fa schiocchi con le dita e soffoca dal ridere. Gli è venuto in mente che sarebbe bello dar moglie ai paggi, e la cosa gli piace, gli sembra spiritosa, divertente, e lui è felice, tanto felice che non può esprimerlo a parole, e sghignazza soltanto... Sua moglie, che non ha mangiato nulla dal mattino ed è ebbra per lo sciampagna bevuto, sorride beatamente e dice a tutti - Non si può, non si può, signori, andar nella stanza da letto! Non è delicato andar nella stanza da letto! Non guardate lì dentro!

Ciò significa: favorite guardar la stanza da letto! Tutta la sua vanità materna e tutte le sue capacità si sono profuse in quella camera! E c'è di che vantarsi! In mezzo alla camera stanno due letti con alte materasse; federe di pizzo, coperte di seta, trapunte, con complicati, incomprensibili monogrammi. Sul letto di Liùboc'ka sta una cuffia dai nastri rosei, e sul letto di suo marito una veste da camera di color topo con nappine celesti. Ciascuno degli ospiti, dato uno sguardo ai letti, stima dover suo strizzar l'occhio significativamente e dire: «M-già-a!», e la vecchia è raggiante e bisbiglia:

- La camera un trecento rubli è costata, "bàtiuska". E' uno scherzo?

Su via, andatevene, per gli uomini non sta bene venir qui.

Dopo le due servono la cena. Il domestico dalle fedine annuncia i brindisi e la musica suona una fanfara. Jefìm Petrovic' si ubriaca definitivamente e non riconosce più nessuno; gli pare di non essere a casa sua, ma in visita, e di essere stato offeso; nell'anticamera indossa cappotto e berretto e, cercando le sue soprascarpe, grida con voce rauca:

- Non desidero restar qui oltre! Siete tutti mascalzoni! Farabutti! Io vi smaschererò!

E accanto a lui sta la moglie e gli dice:

- Calmati, anima empia che sei! Calmati, testardo, erode, castigo mio!




NOTE:


1) Titolo che competeva al colonnello e al tenente colonnello.

2) Modo di dire russo.

3) "Haut-Sauternes": uno dei famosi vini bianchi di Sauternes, paese della Gironda, in Francia.

4) La "dessiatina" corrisponde a ettari 1,092.




IGNORANZA


Un giovanotto di campagna, biondiccio e grosso di zigomi, in un pellicciotto strappato e grandi scarpe nere di feltro, attese che il dottore provinciale, terminate le visite, se ne tornasse dall'ospedale al suo alloggio e gli si avvicinò timidamente.

- Vengo da vostra grazia, - disse.

- Che vuoi?

Il giovanotto si passò la palma sul naso di sotto in su, guardò il cielo e infine rispose:

- Da vostra grazia... Qui da te, signoria, c'è nella camerata dei detenuti mio fratello Vaska, il fabbro di Varvàrino...

- Sì, e che?

- Io, dunque, sono il fratello di Vaska... Nostro padre ha noi due:

lui, Vaska, e me, Kirila. Oltre a noi, ci son tre sorelle, e Vaska ha moglie e un bambinello... Molta gente, e nessuno che lavori... Nella fucina, son già quasi due anni che non s'è acceso il fuoco. Quanto a me, sono alla fabbrica di percalle, fucinare non so, e il padre che lavoratore gli è? Non soltanto lavorare, diciamo, ma anche mangiar a dovere non può, il cucchiaio non sa metterlo in bocca.

- Che t'occorre dunque da me?

- Fa' la grazia, manda fuori Vaska!

Il dottore guardò meravigliato Kirila e, senza dir nemmeno una parola, andò oltre. Il giovanotto gli corse avanti e gli si buttò ai piedi.

-Dottore, signor mio bello!-supplicò, battendo gli occhi e tornando a passarsi la palma sul naso. - Usaci la divina grazia, manda tu Vaska a casa! Fa' che si preghi in eterno Dio per te!

Signoria, mandalo! Crepan tutti di fame! La madre frigna tutt'il santo giorno. La donna di Vaska frigna... è proprio una morte! Non vorrei più veder la luce! Fa' la grazia, mandalo fuori, signor mio bello!

- Ma sei sciocco, o sei impazzito? - domandò il dottore, guardandolo con ira. - Come posso io mandarlo fuori? Ma s'è un detenuto!

Kirila si mise a piangere.

- Mandalo!

- Poh, che strambo! Che diritto ne ho io? Sono il carceriere, o che?

Me l'han portato all'ospedale in cura, io lo curo, ma di mandarlo via ho lo stesso diritto come di cacciar te in prigione. Testa di rapa!

- Ma lui l'han messo dentro per niente! Infino al processo, quasi un anno è stato in carcere, ma adesso si domanda, per che cosa ci sta?

Manco male se avesse ammazzato, diciamo, o rubato dei cavalli, ma c'è capitato così, per un bel nulla.

- Giusto, ma io che c'entro?

- Han messo dentro un uomo e loro stessi non san per che cosa. Aveva bevuto, signoria, non aveva coscienza di nulla e perfino il padre aveva ferito all'orecchio, e s'era picchiato una guancia contro un ramo, essendo ubriaco, e due dei nostri ragazzi - gli era venuto voglia, vedi, di tabacco turco - presero a dirgli che entrasse con loro di notte nella bottega dell'armeno, a pigliar tabacco. Lui, essendo ubriaco, diede retta, lo stupido. Ruppero, sai, la serratura, entraron dentro, e avanti a fare il diavolo a quattro. Misero tutto a soqquadro, ruppero i vetri, sparpagliarono la farina. Ubriachi, in una parola! Be', subito il brigadiere... questo e quello poi dal giudice istruttore. Un anno intero stettero in prigione, e una settimana fa, mercoledì, fecero il processo a tutti e tre, in città. Un soldato andava dietro col fucile... venne gente a giurare. Vaska è meno colpevole di tutti, e quei signori giudicarono ch'era stato il caporione. I due ragazzi li han mandati in carcere, e Vaska in una compagnia di detenuti (1) per tre anni. Ma per che cosa? Giudica in coscienza!

- Ancora una volta io non c'entro. Va' dall'autorità.

- Son già stato dall'autorità! Sono andato in tribunale, volevo presentare un'istanza, loro anche l'istanza non la presero. Sono stato anche dal commissario, anche dal giudice istruttore sono stato, e ognuno dice: non è affar mio! Ma di chi è affare? E qui all'ospedale non c'è nessuno superiore a te. Quel che tu vuoi, signoria, lo fai.

- Sei uno stupido tu! - sospirò il dottore. - Una volta che i giurati l'han trovato colpevole, non ci può più far nulla né il governatore, né il ministro perfino, altro che il commissario! Brighi inutilmente!

- E chi l'ha giudicato?

- I signori assessori giurati...

- Ma che signori eran quelli? I nostri stessi contadini. Andréi Guriev c'era, Alioska Chuk c'era.

- Be', io prendo freddo a discorrer con te.

Il dottore scosse la mano e andò rapido verso la propria porta. Kirila voleva già andargli dietro, ma, avendo visto la porta chiudersi con forza, si fermò. Una decina di minuti egli rimase immobile in mezzo al cortile dell'ospedale, guardando, senza mettersi il berretto, l'alloggio del dottore, poi fece un profondo sospiro, si grattò lentamente e si avviò verso il portone.

«Da chi andare dunque?», mormorava, uscendo sulla strada. «Uno dice:

non è affar mio, l'altro dice: non è affar mio. Di chi dunque è affare? No, certamente, finché non ungi le ruote, non fai nulla. Il dottore parla così, e intanto non faceva che guardarmi il pugno: non gli avrei dato un biglietto turchino (2)? Be', fratello, io fino al governatore arriverò».

Appoggiandosi ora su un piede, ora sull'altro, voltandosi di continuo a guardare senz'alcuna necessità, egli si trascinava pigramente per la strada e, visibilmente, era incerto su dove andare... Non faceva freddo e la neve cricchiava debolmente sotto i suoi piedi. Davanti a lui, non più in là d'una mezza versta, si stendeva su una collina la cittaduzza distrettuale in cui di recente avevano giudicato suo fratello. A destra nereggiava il carcere col tetto rosso e con le garitte alle cantonate, a sinistra c'era il gran bosco municipale, ora coperto di brina. V'era silenzio, solo un certo vecchio in giubbetto da donna e con un enorme berretto a visiera camminava più avanti, tossendo e ogni tanto gridando a una vacca che conduceva in città.

- Nonno, salute! - proferì Kirila, giunto a pari col vecchio.

- Salute...

- La porti a vendere?

- No, così... - rispose pigramente il vecchio.

- Sei un cittadino, o che?

Si misero a discorrere. Kirila raccontò perché era stato all'ospedale e di che cosa aveva parlato col dottore.

- Certo, il dottore queste faccende non le conosce, - gli diceva il vecchio, quando entrambi erano entrati in città. - Lui, pur essendo un signore, è stato istruito nel curare con ogni sorta di mezzi, ma quanto a darti un vero consiglio o, diciamo, a scrivere un verbale questo lui non lo può. Per questo c'è un'autorità speciale. Dal conciliatore e dal commissario sei stato. Questi pure nella tua faccenda non son competenti.

- Dove andare dunque?

- Per le vostre faccende di campagnuoli c'è un capo, e a quello è addetto il membro permanente. Va' dunque da lui. Signor Sineokov.

- Quello che sta a Zòlotovo?

- Ma sì, a Zòlotovo. Lui è il vostro capo. Se si tratta di qualcosa che riguarda le vostre faccende, di fronte a lui perfino l'"ispravnik" (3) non ha pieni poteri.

- C'è da andar lontano, fratello. Un quindici verste, penso, o anche più.

- Chi ha bisogno, anche cento verste farà.

- E' così... Presentargli un'istanza, o che?

- Là lo saprai. Se occorre un'istanza, lo scrivano te la farà alla svelta. Il membro permanente ha uno scrivano.

Separatosi dal "nonno", Kirila sostò in mezzo alla piazza, pensò un poco e tornò indietro dalla città. Aveva stabilito di andare a Zòlotovo.

Di lì a un cinque giorni, rientrando, dopo le visite dei malati, nel suo alloggio, il dottore vide nuovamente nel proprio cortile Kirila.

Questa volta il giovanotto non era solo, ma con un certo vecchio scarno, pallidissimo, che senza posa ciondolava il capo, come fosse stato un pendolo, e biascicava con le labbra.

- Signoria, ricorro di nuovo alla tua grazia! - cominciò Kirila. - Ecco, son venuto col padre, fa' la carità, manda fuori Vaska! Il membro permanente non è stato a discorrere. Dice: «Vattene via!».

- Alta signoria! - prese a sibilare in gola il vecchio, alzando i sopraccigli tremanti, - siate misericordioso! Noi siam gente povera, non possiamo ricompensare il vostro onore, ma se fa piacere a vostra grazia, Kiriuska o Vaska possono pagar col lavoro. E lavorino!

- Pagheremo col lavoro! - disse Kirila e alzò la mano come volesse pronunciare un giuramento.- mandalo fuori! Di fame crepano! A tutt'andare frignano, signoria!

Il giovanotto diede un rapido sguardo al padre, lo tirò per la manica e tutt'e due, come a un comando, si buttarono ai piedi del dottore.

Questi scosse la mano e, senza guardarsi indietro, andò in fretta verso la propria porta.




NOTE:


1) Una delle pene sancite dalla legge del tempo era l'invio alle compagnie di detenuti, organizzate militarmente e impiegate in lavori.

2) Cioè da cento rubli: i biglietti di banca russi si distinguevano e s'indicavano, nell'uso comune, secondo il colore (rossi, azzurri, grigi, iridati eccetera), in relazione col loro valore.

3) Capo di polizia distrettuale.




IL PENSATORE


Un afoso meriggio. Nell'aria né suoni, né movimenti... Tutta la natura è simile a un'immensa casa di campagna dimenticata da Dio e dagli uomini. Sotto il fogliame affloscito d'un vecchio tiglio che sorge accanto all'alloggio del direttore carcerario Jaskin, stanno seduti a un tavolino con tre gambe lo stesso Jaskin e il suo ospite, l'ispettore di ruolo della scuola distrettuale Pimfov. Entrambi son senza giacca; i loro panciotti sono sbottonati; i visi sudati, rossi, immobili; la loro capacità di esprimere alcunché è paralizzata dalla calura... La faccia di Pimfov s'è fatta del tutto agra e impregnata di pigrizia, i suoi occhi si sono appannati, il labbro di sotto gli pende. Negli occhi invece e sulla fronte di Jaskin si può ancora notare una certa quale attività; visibilmente, egli pensa a qualcosa... Entrambi si guardano a vicenda, stanno zitti ed esprimono i loro tormenti sbuffando e piombando con le palme addosso alle mosche. Sulla tavola una caraffa di vodka, del lesso tiglioso di manzo e una scatola vuota di sardine con sale bigio. Son già stati bevuti il primo, il secondo, il terzo bicchierino...

- Sissignore! -caccia fuori d'un tratto Jaskin, e così inaspettatamente che il cane, sonnecchiante non lontano dalla tavola, sussulta e, messa la coda tra le gambe, corre in disparte. - Sissignore! Qualunque cosa diciate, Filipp Maksimic', nella lingua russa moltissimi sono i segni d'interpunzione superflui!

- Cioè, perché mai? - interroga modestamente Pimfov, levando via dal bicchierino un'aluccia di mosca.- Anche se ci son molti segni, ciascuno di essi ha il suo significato e il suo posto.

- Questo poi lasciatelo stare. Nessun significato hanno i vostri segni. Pura sofisticheria... Uno colloca una decina di virgole in una riga e pensa di essere intelligente. Per esempio, il sostituto procuratore Merinov dopo ogni parola mette la virgola. Perché questo?

Egregio signore - virgola, avendo visitato le prigioni il tal giorno - virgola, ho notato - virgola (1), che i detenuti - virgola...

poh! Ti vengon le traveggole! E anche nei libri è la stessa cosa...

Punto e virgola, due punti, virgolette diverse. E' persin fastidioso leggere. E il tal bellimbusto, a cui un sol punto non basta, ci si mette e ne pianta tutt'una fila... Perché questo?

- La scienza ciò esige... - sospira Pimfov.

- La scienza... Ottenebrazione delle menti, e non scienza... Per darsi importanza hanno immaginato... di buttar polvere negli occhi... Per esempio, in nessuna lingua straniera c'è questa "iat'", e in Russia c'è (2)... A che serve? si domanda. Che tu scriva "chlieb" (3) con la "iat'" o senza la "iat'", o che non è la stessa cosa?

- Dio sa quel che dite, Ilià Martinic'! - si offende Pimfov. - Come si potrebbe scrivere "chlieb" con la e? Si dicon tali cose che ascoltare è perfino spiacevole.

Pimfov vuota il bicchierino e, battendo gli occhi con aria offesa, volta la faccia da una parte.

- E quanto mi frustarono per questa "iat'"! - continua Jaskin. - Me ne ricordo, mi chiama una volta l'insegnante alla lavagna e detta: «Il medico parti per la città». Io subito a scrivere «il medico» con la "e". Mi fustiga. Di lì a una settimana, di nuovo alla lavagna, di nuovo scrivi: «Il medico partì per la città». Lo scrivo questa volta con la "iat'". Daccapo a frustarmi. «Ma per che cosa, Ivàn Fomic'?

Scusate tanto, voi stesso m'avete detto che qui ci vuole la "iat'"!».

«Allora», dice, «ero fuori di strada, e avendo letto ieri l'opera di un certo accademico sulla "iat'" nella parola "medico", son d'accordo con l'accademia delle scienze. E ti frusto per debito di giuramento»... Be', mi frusta. E anche il mio Vassiutka ha sempre l'orecchio gonfio per questa "iat'"... Se io fossi ministro, vieterei ai vostri simili di turlupinar la gente con la "iat'".

- Addio,-sospira Pimfov, battendo gli occhi e indossando la giacca. - Non posso sentire io, se delle scienze...

- Via, via, via... già s'è offeso! - dice Jaskin, afferrando Pimfov per la manica. - Io, vedete, l'ho detto così, solo per discorrere...

Via, mettiamoci a sedere, beviamo!

L'oltraggiato Pimfov siede, beve e volta la faccia da una parte. Segue un silenzio. Accanto ai due che bevono passa la cuoca Feona con una bacinella di rigovernatura. Si sente lo sguazzare dell'acqua sporca e il guaito del cane annaffiato. Il viso senza vita di Pimfov si fa anche più agro; è sul punto di fondere dal caldo e di colar giù sul panciotto. Sulla fronte di Jaskin si raccolgono delle rughettine. Egli guarda con aria riconcentrata il manzo tiglioso e pensa... S'avvicina alla tavola un invalido, sbircia arcigno la caraffa e, veduto ch'è vuota, porta una nuova razione... Bevono ancora.

- Sissignore! - dice a un tratto Jaskin.

Pimfov sussulta e guarda spaventato Jaskin. Si aspetta da lui nuove eresie.

- Sissignore! - ripete Jaskin, guardando pensoso la caraffa. - A parer mio, anche di scienze ce n'è molte superflue!

- Cioè, come sarebbe a dire? - domanda piano Pimfov. - Quali scienze giudicate superflue?

- D'ogni sorta... Quante più scienze l'uomo conosce, tanto più presume di sé. Maggiore è l'orgoglio... Io le impiccherei tutte queste...

scienze... Via, via... già s'è offeso! Ma che permaloso, perdinci, non si può dire una parola! Sediamo, beviamo!

S'avvicina Feona e, puntando irritata i suoi gomiti paffuti dai lati, mette davanti agli amici una minestra di cavoli verdi in un vaso di terracotta. Comincia un rumoroso mangiar col cucchiaio e masticare.

Come di sotterra, spuntano tre cani e un gatto. Essi stanno davanti alla tavola e gettano occhiate tenere alle bocche masticanti. Alla minestra di cavoli segue una "kascia" (4) al latte che Feona posa con tanta rabbia che dalla tavola si spargono cucchiai e turaccioli. Prima della "kascia" gli amici bevono in silenzio.

- Tutto a questo mondo è superfluo! - osserva a un tratto Jaskin.

Pimfov lascia cader sui ginocchi il cucchiaio, guarda spaventato Jaskin, vuol protestare, ma la lingua gli s'è indebolita per l'ebrietà e s'è imbrogliata nella "kascia" densa... In luogo del consueto «cioè, come sarebbe a dire?», non si ha che un mugolio.

- Tutto è superfluo... - continua Jaskin. - E le scienze, e gli uomini... e gli istituti carcerari, e le mosche... e la "kascia"...

Anche voi siete superfluo... Benché siate un brav'uomo, e crediate in Dio, pure anche voi siete superfluo...

- Addio, Ilià Martinic'! - balbetta Pimfov, sforzandosi d'indossar la giacca e in nessun modo riuscendo a infilar le maniche.

- Adesso, ecco, noi ci siamo rimpinzati, inghebbiati, e a che scopo questo? Così... Tutto ciò è superfluo... Mangiamo, e noi stessi non sappiamo per che cosa... Via via... già s'è offeso! Io, vedete, solo così... per discorrere! E dove avete da andare? Sediamo un po', chiacchieriamo... beviamo!

Segue un silenzio, interrotto solo ogni tanto dal tintinnio dei bicchierini e da un ebbro raschiare in gola... Il sole comincia ormai a volgere al tramonto, e l'ombra del tiglio cresce sempre più. Viene Feona e, sbuffando agitando bruscamente le braccia, stende accanto alla tavola un tappetino. I due amici in silenzio bevono un'ultima volta, si accomodano sul tappeto e, voltandosi il dorso a vicenda, cominciano ad assopirsi...

«Sia lode a Dio», pensa Pimfov, «che oggi non s'è spinto fino alla creazione del mondo e della gerarchia se no c'era da sentirsi rizzare i capelli e si sarebbero scandalizzati anche i santi... ».




NOTE:


1) In russo è obbligatoria la virgola davanti alla congiunzione "che".

2) Si tratta di una vocale il cui suono, "ie", è identico a quello di un'altra (la "e"): molto discussa fra i grammatici russi venne infine soppressa con la riforma ortografica sovietica dei 1918.

3) Pane.

4) Intriso, simile al risotto, che si fa in Russia con varie qualità di granaglie, specialmente con gran saraceno.




LA FIGLIA DI ALBIONE


Alla casa del possidente Griabov si accosta una magnifica carrozza aperta con cerchioni di gomma, grasso cocchiere e sedile di velluto.

Dalla carrozza balzò fuori il capo distrettuale della nobiltà Fiodor Andreic' Otsòv. In anticamera lo ricevette un domestico assonnato.

- I signori sono in casa? - domanda il capo della nobiltà.

- Nossignore. La padrona e i bambini sono andati in visita, e il padrone e "mamsèl" (1) la governante sono a pescare. Fin da stamane.

Otsòv sosta un poco, rifletté e andò a piedi verso il fiume a cercar Griabov. Lo trova a un paio di verste da casa, vicino al fiume. Avendo guardato giù dall'erta ripa e veduto Griabov, Otsòv scoppia a ridere... Griabov, un uomo grande, grasso, dalla testa grossissima, era seduto sulla sabbia, con le gambe ripiegate sotto di sé alla turca, e pescava alla lenza. Il cappello gli stava sulla nuca, la cravatta gli era scesa da un lato. Accanto a lui stava in piedi un'alta, sottile inglese dagli occhi convessi di gambero e dal gran naso di uccello, simile piuttosto a un uncino che a un naso. Era vestita con un abito bianco di mussolina, attraverso il quale fortemente trasparivano le spalle magre, gialle. Da una cintura dorata le pendeva un orologio d'oro. Ella pure pescava alla lenza. Intorno ai due regnava un silenzio di tomba. Entrambi erano immobili, come il fiume su cui nuotavano i loro galleggianti.

- Una voglia da morire, ma un destino crudele! - si mise a ridere Otsòv. - Buon giorno, Ivàn Kuzmic!

- Ah... sei tu?-domanda Griabov, senza staccar gli occhi dall'acqua. - Sei arrivato?

- Come vedi... E tu ti occupi ancor sempre della tua sciocchezzuola!

Non te ne sei ancora disavvezzato?

- Che diavolo... E' tutto il giorno che pesco, dal mattino... Non so perché, oggi si pesca male. Non abbiamo preso nulla né io, né questa fantasima. Stiamo qui, stiamo qui, e almeno si pigliasse un accidente!

C'è addirittura da gridare al soccorso.

- E tu sputaci su. Andiamo a ber la vodka!

- Aspetta... Forse qualcosa acchiapperemo. Verso sera il pesce abbocca meglio.. Son qui, fratello, fin da stamane! Una noia così grossa che nemmeno te lo posso esprimere. M'ha proprio trascinato il diavolo a prender quest'abitudine della pesca! So ch'è un'insulsaggine, e sto qui! Sto qui come un lazzarone qualunque, come un forzato, e guardo l'acqua, come un qualunque imbecille! Alla falciatura bisogna andare, e io pesco. Ieri a Chapanievo officiava Sua Eminenza, e io non ci andai, rimasi qui con questa specie di storione... con questa diavolessa...

- Ma... sei impazzito? -domanda Otsòv, sbirciando impacciato l'inglese. - Sparli davanti a una signora... e di lei stessa...

- Ma che il diavolo la porti! Tant'è, di russo non capisce un'acca.

Parlane bene, parlane male, per lei è tutt'uno! Guarda il suo naso!

Soltanto il naso ti farà svenire! Stiamo insieme giornate intere, e almeno dicesse una parola! Sta lì come uno spauracchio e sgrana le sue lanterne sull'acqua.

L'inglese sbadiglia, cambia il vermicciolo e getta l'amo.

- Mi meraviglio, fratello, non poco! - continua Griabov. - Vive questa scema in Russia da dieci anni, e almeno sapesse una parola di russo!... Un nostro qualunque aristocraticuccio va nel loro paese e ben presto impara a bestemmiarne la lingua, loro invece... il diavolo li conosce! Tu guardale il naso! Il naso guardale!

- Su via, smettila.., Non sta bene... Perché dai addosso a una donna?

- Lei non è donna, ma ragazza... Sogna, scommetto, i fidanzati, questa pupattola del diavolo. E manda non so che odor di putredine... L'ho presa in odio, fratello! Non posso vederla con indifferenza! Quando mi guarda coi suoi occhiacci, mi sento tutto rimescolato, come se avessi dato del gomito contro una ringhiera. Le piace anche pescare.

Guardala: pesca, e celebra un rito! Guarda ogni cosa con disprezzo...

Sta lì, la canaglia, e ha coscienza di esser uomo e, per conseguenza, «re della natura». E sai come si chiama? Uilka Ciàrlsovna Tfais!

Poh!... non si può nemmeno pronunciare!

L'inglese, avendo udito il suo nome, gira lentamente il naso dalla parte di Griabov e lo misura con uno sguardo sprezzante. Da Griabov leva gli occhi su Otsòv e lo inonda di disprezzo. E tutto ciò in silenzio, con gravità e lentamente.

- Hai visto? - domanda Griabov, ridendo forte. - To', dice, è per voi! Ah, tu, fantasima! Solo per i bambini tengo questo tritone. Se non ci fossero i bambini, anche a dieci verste dalla mia proprietà non la lascerei avvicinare... Il suo naso è come quello dell'avvoltoio...

E la vita? Questa pupattola mi rammenta un lungo chiodo. E così, sai, la prenderei e la pianterei in terra. Aspetta... Da me, pare, abbocca...

Griabov balza in piedi e solleva la canna. La lenza si tese... Griabov tira ancora una volta e non poté trar fuori l'amo.

- S'è impigliato! - disse e fece una smorfia. - A una pietra, probabilmente... Che il diavolo lo porti...

Sul viso di Griabov si dipinse la sofferenza. Sospirando, movendosi inquieto e borbottando maledizioni, egli comincia a tirar la lenza. Il tirare non valse a nulla. Griabov impallidì.

- Che seccatura! Bisogna scendere in acqua.

- E tu smetti!

- Non si può... Verso sera si pesca bene... Guarda un po' che scocciatura, che il Signore mi perdoni! Toccherà scendere in acqua.

Toccherà! E se tu sapessi quanta poca voglia ho di spogliarmi! Bisogna cacciar via l'inglese... In sua presenza è scomodo spogliarsi. E' pur sempre, vedi, una dama!

Griabov si tolse cappello e cravatta.

- "Miss"... eh-eh-eh... - si rivolse all'inglese. - Miss Tfais!

"Ze vu pri" (2)... Be', come dirle? Be', come dirti, perché tu capisca? Ascoltate... là! Andate là - Senti?

"Miss" Tfais inondò Griabov di disprezzo ed emise un suono nasale.

- Che cosa? Non capite? Vattene di qui, ti si dice! Devo spogliarmi, pupattola del diavolo! Vattene là! Là!

Griabov tira la miss per una manica, le indica i cespugli e si accoccolò: va' dietro i cespugli, le diceva con ciò, e nasconditi là.

L'inglese, movendo con energia i sopraccigli, pronuncia rapidamente una lunga frase in inglese. I due possidenti scoppiarono a ridere.

- E' la prima volta in vita mia che sento la sua voce... Non c'e che dire, una vocina! Non capisce! Su via, che ho da fare con lei?

- Sputaci su! Andiamo a ber la vodka!

- Non si può, adesso si deve pescare.., La sera... Be', che vuoi che faccia! Che scocciatura! Toccherà spogliarsi in sua presenza...

Griabov si tolse giacca e panciotto e sedette sulla sabbia per cavarsi gli stivali.

- Ascolta, Ivàn Kuzmic', - disse il capo della nobiltà, ridendo forte nella mano. - Questo poi, amico mio, è scherno, derisione.

- Nessuno la prega di non capire! Sarà di lezione per loro, stranieri!

Griabov si leva gli stivali, i calzoni, si tolse la biancheria e si ritrova vestito come Adamo. Otsòv si prese il ventre. Egli era arrossito dalle risa e dalla confusione. L'inglese moveva i sopraccigli e batteva gli occhi... Sulla sua faccia gialla correva un altezzoso, sprezzante sorriso.

- Bisogna freddarsi un poco, -disse Griabov, battendosi sulle anche. - Dimmi di grazia, Fiodor Andreic', perché a me ogni estate viene uno sfogo sul petto?

- Ma scendi al più presto in acqua o copriti con qualche cosa!

Animale!

- E almeno si fosse confusa, la vigliacca! - disse Griabov, entrando in acqua e segnandosi. - Brr... che acqua fredda... Guarda come muove i sopraccigli! Non se ne va... Sta al disopra della folla! He- he-he!... Nemmeno in conto di uomini ci tiene!

Entrato fino ai ginocchi nell'acqua e drizzatosi in tutta la sua enorme statura, egli strizza l'occhio e disse:

- Questa, fratello, per lei non è l'Inghilterra!

"Miss" Tfais cambia freddamente il vermicciolo, sbadigliò e gettò l'amo. Otsòv si volse in là. Griabov sganciò l'uncino, si tuffò e, soffiando, uscì dall'acqua. Di lì a due minuti era già seduto sulla sabbia e tornava a pescare.




NOTE:


1) Per mademoiselle.

2) "Je vous prie" (vi prego).




IN TERRA STRANIERA


Mezzogiorno di domenica. Il possidente Kamiscev se ne sta seduto in sala da pranzo davanti a una tavola apparecchiata con lusso e lentamente fa colazione. Divide la mensa con lui un vecchio francesino lindo e ben raso, monsieur Champougne. Questo Champougne fu un tempo precettore in casa di Kamiscev, insegnò ai suoi figli le belle maniere, la buona pronuncia e le danze, e poi, quando i figli di Kamiscev furon cresciuti e diventati tenenti, Champougne rimase come una specie di "bonne" (1) di sesso maschile. I doveri dell'ex precettore non son complicati. Egli deve vestir con decoro, odorar di profumi, ascoltare l'ozioso chiacchierio di Kamiscev, mangiare, bere, dormire, e nulla più, mi pare. Per questo egli riceve la mensa, la camera e uno stipendio indeterminato.

Kamiscev mangia e, al solito, ciancia.

- E' cosa da morire! - dice, asciugando le lacrime spuntategli dopo che ha mangiato un pezzo di prosciutto densamente spalmato di mostarda. - Uff! M'ha dato alla testa e in tutte le giunture. Ma la vostra mostarda francese non produrrà quest'effetto, anche se mangerai tutt'il barattolo.

- A chi piace quella francese, a chi la russa...-dichiara mansuetamente Champougne.

- A nessuno piace quella francese, fuorché ai soli francesi. Ma qualunque cosa si dia al francese mangerà tutto: e la rana, e il topo, e gli scarafaggi.. brr! A voi, per esempio, questo prosciutto non piace, perché è russo, ma se vi si desse del vetro arrosto e si dicesse ch'è francese, lo mangereste e schiocchereste anche le labbra... Secondo voi, tutto ciò ch'è russo è cattivo.

- Io questo non lo dico.

- Tutto ciò ch'è russo è cattivo, ma ciò ch'è francese... oh, "se tre zoli" (2)! Secondo voi, non c'e miglior paese che la Francia, e, secondo me... su via, che cos'è la Francia, parlando in coscienza? Un pezzetto di terra! Manda là il nostro "ispravnik" (3), e lui in capo a un mese chiederà il trasferimento: non c'è da rigirarsi! Della vostra Francia tutta in un sol giorno si può fare il giro, ma da noi esci fuori dal portone: la fine del territorio non si vede! Vai, vai...

- Sì, monsieur, la Russia è un immenso paese.

- Ecco, è proprio così! Secondo voi, non c'è gente meglio dei francesi. Un popolo colto, intelligente! La civiltà! D'accordo, i francesi son tutti colti, manierosi... è vero... Il francese non si permetterà mai un atto incivile: in tempo porgerà a una signora la sedia, i gamberi non li mangerà con la forchetta, non sputerà sul pavimento, ma... non c'è quell'anima! Quell'anima in lui non c'è!

Soltanto non posso spiegarvelo, ma, come si potrebbe esprimer questo?, nel francese manca quel certo che, quel tal... - (chi parla muove le dita) - quel certo che... di giuridico. Io ricordo d'aver letto in qualche posto che voi tutti avete un'intelligenza acquistata sui libri, e noi abbiamo un'intelligenza innata. Se al russo s'insegnassero le scienze come si deve, nessun vostro professore lo eguaglierebbe.

- Può darsi... - dice, come a malincuore, Champougne.

- No, non può darsi, ma è sicuro! Non c'è da fare smorfie, dico la verità! L'intelligenza russa è un'intelligenza inventiva! Soltanto, certo, non la lasciano libera, ed essa non sa vantarsi... Inventerà qualche cosa e la romperà, oppure l'abbandonerà ai bimbetti, che giochino, il vostro francese invece inventerà qualche bazzecola e griderà da farsi sentire in tutto il mondo. L'altro giorno il cocchiere Iona fece col legno un omino: tiri l'omino per un filo, e lui ti fa un atto indecente. Iona però non si vanta. In generale...

non mi piacciono i francesi! Non parlo di voi, ma in generale... Un popolo immorale! Di aspetto esteriore si direbbe che somiglino a uomini, ma vivono come cani... Si prenda magari, per esempio, il matrimonio. Da noi, se ti sei sposato, ti attacchi alla moglie e non ci son discorsi, ma da voi il diavolo sa quel che è. Il marito sta tutt'il giorno seduto al caffè, e la moglie riempie la casa di francesi e avanti a ballar con loro il cancan.

- Questo è falso! - non regge Champougne, avvampando. - In Francia il principio familiare sta molto in alto!

- Lo conosciamo quel principio! E per voi è una vergogna difenderlo.

Bisogna essere spassionati: se ci sono i maiali, ci sono i maiali...

Un grazie ai tedeschi per avervi battuti... Affè di Dio, un grazie.

Che Dio li mantenga sani...

- In tal caso, "monsieur", non capisco, - dice il francese, balzando in piedi e con gli occhi sfavillanti, - se odiate i francesi, perché mi tenete?

- E dove potrei ficcarvi?

- Mandatemi via, e andrò in Francia!

- Che co-o-osa? Ma forse che ora vi lasceranno entrare in Francia? Voi infatti siete un traditore della vostra patria! Da voi ora è un grand'uomo Napoleone, ora Gambetta... il diavolo stesso non vi raccapezzerebbe!

- "Monsieur",- dice in francese Champougne, mandando spruzzi e sgualcendo fra le mani il tovagliolo.

- L'offesa che dianzi avete recato al mio sentimento non avrebbe potuto escogitarla neppure un mio nemico! Tutto è finito!!

E fatto con la mano un gesto tragico, il francese getta con affettazione il tovagliolo sulla tavola e con dignità se ne esce.

Di lì a un tre ore cambia l'imbandigione e la servitù serve il pranzo.

Kamiscev si mette a tavola solo. Dopo il bicchierino che precede il pranzo si manifesta in lui la sete del vaniloquio. Ha voglia di cicalare, ma un ascoltatore non c'è...

- Che fa Alfòns Liudòvikovic'? - domanda al domestico.

- Sta facendo la valigia.

- Che stuppidone, mi perdoni il Signore!... - dice Kamiscev e va dal francese.

Champougne è seduto in camera sua sul pavimento in mezzo alla stanza, e con mani tremanti mette nella valigia biancheria, boccette vuote di profumi, libri di preghiera, bretelle, cravatte... Tutta la sua decorosa figura, la valigia, il letto e la tavola spirano addirittura eleganza e femminilità. Dai suoi grandi occhi azzurrini gocciano nella valigia grosse lacrime.

- Dove mai volete andare? - domanda Kamiscev, dopo aver sostato un poco.

Il francese tace.

- Partire volete? - continua Kamiscev. - Che c'è, come vi piace...

Non oso trattenervi... Soltanto, ecco quel che è strano: come partirete senza passaporto? Mi meraviglio! Voi lo sapete, io l'ho smarrito il vostro passaporto. L'avevo ficcato in qualche posto fra le carte, e s'è smarrito... E da noi riguardo ai passaporti si è severi.

Non avrete il tempo di far nemmeno cinque verste che vi acciufferanno.

Champougne alza il capo e guarda incredulo Kamiscev.

- Sì... Ecco, vedrete! S'accorgeranno dal viso che siete senza passaporto, e subito: chi siete? Alfòns Champougne! Li conosciamo questi Alfòns Champougne! E non vi garba andare a tappe in luoghi «non tanto lontani (4)»?

- Voi scherzate?

- A che proposito dovrei scherzare? Ne ho proprio bisogno! Soltanto, badate, facciamo un patto: non vogliate poi piagnucolare e scriver lettere. Nemmeno un dito moverò, quando vi faran passare davanti a me coi ferri ai piedi!

Champougne balza su e, pallido, con gli occhi dilatati, comincia a camminare per la stanza.

- Che fate di me?! - dice, afferrandosi nella disperazione il capo.

- Dio mio! Oh, sia maledetta l'ora che mi venne in testa il funesto pensiero di lasciar la patria!

- Via, via, via... ho scherzato! - dice Kamiscev, abbassando il tono. - Che originale, non capisce gli scherzi! Una parola non si può dire!

- Mio caro! - strilla Champougne, tranquillato dal tono di Kamiscev.

- Vi giuro, io sono affezionato alla Russia, a voi e ai vostri figli... Lasciar voi è per me tanto penoso come morire! Ma ogni vostra parola mi ferisce il cuore!

- Ah bel tipo! Se io parlo male dei francesi, per qual motivo dovete offendervi? Quanti sono quelli di cui parliamo male? così, tutti dovrebbero offendersi? Bel tipo, davvero! Prendete esempio, ecco, da Lasàr Issakic', il fittavolo... Io gli dò di questo e di quello, e del giudeo, e del rognoso, e gli faccio l'orecchio di porco con la falda, e lo prendo per i ricci delle tempie (5)... non s'offende mica!

- Ma quello, già, è uno schiavo! Per una copeca è pronto a ogni bassezza!

- Via, via, via... basta! Andiamo a pranzare! Pace e buon accordo!

Champougne incipria il suo viso rosso di pianto e va con Kamiscev in sala da pranzo. La prima portata la si consuma in silenzio, dopo la seconda comincia la medesima storia, e in tal modo le sofferenze di Champougne non han fine.




NOTE:


1) Governante.

2) "C'est très joli" (è molto carino).

3) Capo di polizia distrettuale.

4) Espressione del linguaggio amministrativo, che si usava per indicare l'invio al confino in luoghi della Russia Europea, di qua dagli Urali, in contrapposto alla deportazione nelle lontane regioni siberiane.

5) I cosiddetti "pèissi o pèissiki": i due lunghi riccioli che molti ebrei russi portano tra l'orecchio e la guancia, uno per parte.




LA CUOCA SI SPOSA


Griscia, un piccolo tombolino di sette anni, stava vicino all'uscio della cucina, origliando e gettando occhiate dal buco della serratura.

In cucina avveniva qualcosa, a parer suo, d'inconsueto, di mai veduto fin allora. Davanti alla tavola di cucina, su cui di solito si affetta la carne e si trita la cipolla, era seduto un grosso, robusto campagnuolo in caffettano da vetturino, rosso di capelli, barbuto, con una grossa goccia di sudore sul naso. Egli teneva sulle cinque dita della mano destra un piattino e beveva il tè, e nel far ciò mordeva così rumorosamente lo zucchero (1) che a Griscia correva per la schiena un brivido. Di fronte a lui, su un sudicio sgabello, stava a sedere la vecchia bambinaia Aksinia Stepànovna e beveva pure il tè. La faccia della bambinaia era seria e, nello stesso tempo, raggiante d'una certa qual solennità. La cuoca Pelagheia s'affaccendava attorno alla stufa e visibilmente cercava di nascondere il più lontano possibile la sua faccia. Ma sulla sua faccia Griscia vedeva un'intera luminaria: essa ardeva e passava per tutti i colori, cominciando dal rosso porpora e terminando con un color pallido di morte. Senza posa ella afferrava con le mani tremanti coltelli, forchette, pezzi di legna, stracci, si moveva, borbottava, picchiava, ma, in sostanza, non faceva nulla. Alla tavola, dove si stava bevendo il tè, non gettò nemmeno uno sguardo, e alle domande rivoltele dalla bambinaia rispondeva a scatti, rudemente, senza voltar la faccia.

- Bevete, Danilo Semionic'!- diceva la bambinaia, offrendo al vetturino. - Ma perché sempre tè e tè? Dovreste prendere un po' di vodka!

E la bambinaia avvicinò all'ospite un quartuccio e un bicchierino, e intanto il suo viso assunse un'espressione maliziosissima.

- Non ne faccio uso... no, - si schermiva il vetturino. -Non forzatemi, Aksinia Stepànovna.

- Come siete... Vetturino, e non bevete... Per l'uomo scapolo è impossibile non bere. Prendete!

Il vetturino sbirciò la vodka, poi il viso malizioso della bambinaia, e il suo viso stesso assumeva un'espressione non meno maliziosa: no, pareva dire, non mi pigli, vecchia strega!

- Non bevo, dispensatemi... Nel nostro mestiere non sta bene questa debolezza. Un artigiano può bere, perché rimane sempre allo stesso posto, ma noi altri siamo sempre in vista, in pubblico. Non è così?

Vai alla bettola, e intanto il cavallo se ne va; se t'ubriachi, è anche peggio: da un momento all'altro t'addormenti, o caschi giù da cassetta. La faccenda è così.

- E voi quanto guadagnate al giorno, Danilo Semionic'?

- Secondo i giorni. Un giorno fai vetture per una carta verde (2), e un'altra volta vai in rimessa addirittura senza un "grosc" (3).

Capitan giornate diverse. Oggidì il nostro mestiere non val proprio nulla. Di vetturini, voi stessa lo sapete, ce n'è un buscherio, il fieno è caro, e il passeggero è di poco conto, tira sempre ad andare in tram (4). Tuttavia, ringraziando Dio, non c'è da lagnarsi. Siamo sfamati e vestiti, e... possiamo perfino far felice qualcun altro...

- (il vetturino sbirciò Pelagheia) - se ciò gli va a genio.

Quel che fu detto poi, Griscia non intese. S'avvicinò all'uscio la mamma e lo mandò nella stanza dei bambini a studiare.

- Va' a studiare. Non è affar tuo ascoltar qui!

Giunto nella stanza dei bambini, Griscia si mise davanti la "Parola natia", ma non poteva leggere. Tutto ciò che dianzi aveva visto e udito aveva destato nella sua testa una massa di problemi.

«La cuoca si sposa... », pensava. «Strano. Non capisco perché mai si sposi. La mamma ha sposato il babbo, la cugina Vèroc'ka Pavel Andreic'. Ma il babbo e Pavel Andreic', sia pure, li si può sposare:

hanno catenelle d'oro, bei vestiti, hanno sempre gli stivali lucidati; ma sposare questo terribile vetturino dal naso rosso, in scarpe di feltro... poh! E perché la bambinaia vuole che la povera Pelagheia si sposi?».

Quando dalla cucina se ne fu andato l'ospite, Pelagheia comparve nelle stanze e attese a rassettare. L'agitazione non l'aveva ancor lasciata.

Il suo viso era rosso e come spaventato. Ella toccava appena i pavimenti con la scopa di betulla e scopava cinque volte ogni angolo.

Per lungo tempo non uscì dalla stanza in cui era seduta la mamma.

Evidentemente le pesava la solitudine e voleva confidarsi, dividere con qualcuno le sue impressioni, dare sfogo all'anima.

- Se n'è andato! - borbottò, vedendo che la mamma non cominciava il discorso.

- Ma lui, si vede, è un brav'uomo, - disse la mamma, senza staccar gli occhi dal ricamo. - Così sobrio, posato.

- In fede mia, signora, non lo sposerò!-gridò a un tratto Pelagheia, facendosi di fuoco. - In fede mia, non lo sposerò!

- Tu non dir sciocchezze, non sei una bambina. E' un passo serio, bisogna rifletterci bene, ma così, a vanvera, non c'è da gridare. Ti piace?

- Che cosa andate a immaginare, signora! - si vergognò Pelagheia. - Diranno tali cose che... in fede mia...

«Avresti dovuto dire: non mi piace!», pensò Griscia.

- Come sei schizzinosa però... Ti piace?

- Ma lui, signora, è vecchio! Hi-i!

- Inventa anche! - s'incollerì contro Pelagheia dall'altra stanza la bambinaia. - Quarant'anni non li ha ancora compiuti. E che te ne fai d'un giovane? La faccia, sciocca, non ti dà da bere (5). Sposalo, ecco tutto!

- Com'è vero Dio, non lo sposerò! - strillò Pelagheia.

- Fai la matta! Che lupo mannaro ti ci vuole ancora? Un'altra si sarebbe inchinata fino a terra, e tu: non lo sposerò! Vorresti sempre scambiare occhiatine coi portalettere e i "lepetitori" (6)! Da Grìscenka viene il "lepetitore", signora, così lei s'è fatta venir i calli sugli occhioni guardandolo. Uh, la svergognata!

- Tu questo Danilo l'avevi già visto prima? - domandò la signora a Pelagheia.

- Dove avrei dovuto vederlo? Per la prima volta lo vedo oggi, Aksinia ha condotto da qualche posto... quel diavolo maledetto... E di dove m'è piovuto in testa?

A pranzo, quando Pelagheia serviva i cibi, tutti i commensali le gettavano occhiate in viso e la stuzzicavano col vetturino. Ella arrossiva enormemente e ridacchiava in modo forzato.

«Dev'essere una cosa vergognosa sposarsi... », pensava Griscia.

«Orribilmente vergognosa!».

Tutti i cibi eran salati in eccesso, dai pollastrini non arrostiti a punto gocciolava il sangue e, per colmar la misura, durante il pranzo dalle mani di Pelagheia sfuggivano piatti e coltelli, come da un palchetto inclinatosi, ma nessuno le disse nemmeno una parola di rimprovero poiché tutti capivano il suo stato d'animo. Solo una volta il babbo scagliò con ira il tovagliolo e disse alla mamma:

- Che voglia è la tua di dar moglie e marito a tutti! Che n'importa a te? Si sposin da loro, se vogliono.

Dopo il pranzo presero a comparire in cucina le cuoche e le cameriere dei vicini, e fin proprio a sera si udì un bisbiglio. Di dove avessero avuto sentore del combinato matrimonio, Iddio lo sa. Svegliatosi a mezzanotte Griscia sentì come nella stanza dei bambini, dietro la tenda, bisbigliavano la bambinaia e la cuoca. La bambinaia esortava, e la cuoca ora dava in singulti, ora ridacchiava. Dopo di che, addormentatosi, Griscia sognò il rapimento di Pelagheia da parte di Cernomòr (7) e d'una strega...

Dal giorno seguente sopravvenne una bonaccia. La vita della cucina seguì il suo ritmo, come se il vetturino nemmeno fosse stato al mondo.

Solo ogni tanto la bambinaia si metteva indosso lo scialle nuovo, assumeva una espressione solennemente austera e andava chi sa dove per un paio d'ore, evidentemente per trattative... Pelagheia col vetturino non s'incontrava e quando glielo rammentavano, dava in singulti e gridava:

- Sia tre volte maledetto, che io pensi a lui? Poh!

Una sera entrò in cucina la mamma, mentre lì Pelagheia e la bambinaia stavano tagliando con zelo una qualche stoffa, e disse:

- Sposarlo certamente puoi, è affar tuo, ma sappi, Pelagheia, che lui non può abitar qui... Tu lo sai, a me non piace che qualcuno stia in cucina. Bada dunque, ricorda... E te non ti lascerò andar via per la notte.

- Dio sa quel che immaginate, signora! - strillò la cuoca. - Ma perché mi fate dei rimproveri per lui? Diventi anche furioso! Guarda un po', mi s'è appiccicato, che gli possano...

Fatto capolino in cucina la mattina d'una domenica, Griscia tramortì dalla meraviglia. La cucina era piena zeppa di gente. C'erano le cuoche di tutto il cortile, il portiere, due guardie di città, un sottufficiale coi galloni, il ragazzo Filka... Questo Filka di solito si struscia alla lavanderia e giuoca coi cani, adesso invece era pettinato, lavato e reggeva l'icona guarnita di rame battuto. In mezzo alla cucina stava Pelagheia in un abito nuovo di percalle e con un fiore in testa. Al suo fianco era il vetturino. Entrambi i novelli sposi erano rossi, sudati e battevano intensamente gli occhi.

- Be'... pare, è tempo... - cominciò il sottufficiale dopo un lungo silenzio.

Pelagheia batté gli occhi movendo tutto il viso e si mise a piangere... Il sottufficiale prese sulla tavola un grosso pane, si pose al fianco della bambinaia e cominciò a benedire. Il vetturino s'avvicinò al sottufficiale, gli fece un grande inchino e gli schioccò un bacio sulla mano. La stessa cosa egli fece anche davanti ad Aksinia. Pelagheia lo seguiva macchinalmente e faceva pure inchini.

Infine si aprì la porta esterna, nella cucina soffiò una nebbia bianca, e tutto il pubblico si mosse con rumore dalla cucina verso il cortile.

«Poveretta, poveretta!», pensava Griscia, tendendo l'orecchio ai singhiozzi della cuoca. «Dove l'han condotta? Perché papà e mamma non intervengono?».

Dopo lo sposalizio, fin proprio a sera, nella lavanderia si cantò e si sonò la fisarmonica. La mamma in tutto quel tempo fu arrabbiata perché la bambinaia mandava odor di vodka e, a causa di quelle nozze, non c'era nessuno per preparare il samovàr. Quando Griscia andò a dormire, Pelagheia non era ancora tornata.

«Poveretta, adesso piange in qualche posto al buio!», egli pensava. «E il vetturino le fa: Ssst! Ssst!».

La mattina del giorno dopo la cuoca era già in cucina. Entrò per un momento il vetturino. Ringraziò la mamma e, data un'occhiata severa a Pelagheia, disse:

- E voi, signora, tenetela d'occhio. Fatele da padre e madre. E voi pure, Aksinia Stepanna, non lasciatela, guardate che tutto sia come si deve... senza scappate... Favoritemi anche, signora, un cinque rublini in conto del suo salario. Bisogna comprare un nuovo collare da cavallo.

Un altro problema per Griscia: Pelagheia viveva in libertà, come voleva, senza render conto ad alcuno, e d'un tratto, di punto in bianco, era comparso non so quale estraneo, che da chi sa dove aveva ricevuto un diritto sulla sua condotta e sulla sua roba! Griscia provò amarezza. Gli venne una voglia appassionata, fino alle lacrime, d'essere affettuoso con quella, com'egli pensava, vittima dell'umana violenza. Scelta nella dispensa la mela più grossa, entrò furtivo in cucina, la ficcò in mano a Pelagheia e a precipizio tornò indietro.




NOTE:


1) Le persone del popolo non usavano sciogliere lo zucchero nel tè, ma sorbivano questo tenendo in bocca un pezzo di zucchero.

2) Cioè da cento rubli: i biglietti di banca russi si distinguevano e s'indicavano, nell'uso comune, secondo il colore (rossi, azzurri, grigi, iridati, eccetera), il relazione col loro valore.

3) Mezza copeca.

4) Propriamente, a cavalli.

5) Proverbio russo.

6) Corruzione popolare di «ripetitori».

7) Un mago delle fiabe russe.




NON C'E' FUOCO SENZA FUMO (1)


Con una troica privata, per strade vicinali, osservando il più rigoroso incognito, Piotr Pàvlovic' Possudin s'affrettava verso la cittaduzza distrettuale di N., dove lo chiamava una lettera anonima da lui ricevuta.

«Sorprenderli... Come tegola sul capo... », pensava egli, nascondendo il suo viso nel bavero. «Han fatto un mucchio d'infamie, gli sporcaccioni, e trionfano, scommetto, si immaginano d'aver fatto sparire ogni traccia... Ah-ah!... Immagino il loro sgomento e la loro meraviglia quando, sul più bello del trionfo, si udrà: "Si faccia venir qui Tiapkin-Liapkin!". Sì che succederà uno scompiglio! Ah- ah!... » Dopo aver fantasticato a sazietà, Possudin entrò in discorso col suo guidatore. Da uomo bramoso di popolarità, innanzi tutto gli domandò di sé:

- E Possudin lo conosci?

- Come non conoscerlo! - fece un sorrisetto il guidatore. -Lo conosciamo!

- Ma perché ridi?

- Che bizzarria! Conosco fin l'ultimo scrivano, e non dovrei conoscere Possudin! Appunto è stato messo qui perché tutti lo conoscano, così...

Ebbene? Com'è, secondo te? Bravo?

- Non c'è male... - sbadigliò il guidatore. - Un bravo signore, sa il fatto suo... Non sono ancora due anni che lo mandarono qua, e già ha fatto un mucchio di cose.

- E che ha fatto di tanto speciale?

- Molto di bene ha fatto, che Dio lo conservi in salute. La ferrovia ci ha procurato, nel nostro distretto ha mandato via Chochriukòv...

Non c'eran limiti per questo Chochriukòv... Era un briccone, uno scroccone, tutti quelli di prima gli tenevan mano, ma arrivò Possudin, e Chochriukòv se n'andò al diavolo, come se mai ci fosse stato...

Ecco, fratello! Possudin, fratello, non lo comprerai, no-o! Dagliene magari cento, magari mille, ma lui non si prenderà un peccato sulla coscienza... No-o!

«Sia lode a Dio, almeno da questo lato m'hanno capito», pensò Possudin, esultando. «Ciò è bene».

- Un signore istruito... - continuò il guidatore, - non superbo...

I nostri andarono da lui a lagnarsi li trattò come i signori: la mano a tutti: «Voi, sedete»... Così impetuoso; pronto... Una parola sensata non te la dirà ma sempre: uff! uff! Che ti vada al passo, o altrimenti, Dio mio, non c'è verso, ma tira a far tutto di corsa, tutto di corsa! I nostri non fecero in tempo a dirgli una parola, che lui: «I cavalli!», e difilato qua... Arrivò e regolò tutto... nemmeno una copeca prese. Quanto meglio del precedente! Certo, anche il precedente era bravo. Di così bella apparenza, grave, nessuno gridava più sonoramente di lui in tutta la provincia... Quando veniva, lo si poteva sentire da dieci verste lontano; ma, se si tratta di rapporti esteriori, o di faccende interne, quello di adesso quanto è più abile!

Quello di adesso di cervello in testa ne ha cento volte di più... Un sol guaio... E' in tutto un brav'uomo, ma c'è una disgrazia: è beone!

«Eccoti il contentino!», pensò Possudin.

- Come sai, - domandò, - che io... ch'è un beone?

- Certo, signoria, io personalmente non l'ho mai visto ubriaco, non starò a mentire, ma la gente lo diceva. Anche la gente ubriaco non l'ha visto, ma sul conto suo corre tale voce... In pubblico, o dove va in visita, al ballo o in società, non beve mai. A casa alza il gomito... Si leva al mattino, si frega gli occhi e per prima cosa:

della vodka! Il cameriere gliene porta un bicchiere, e lui ne chiede già un altro... E così tracanna tutto il giorno. E dimmi di grazia:

beve, e non un occhio lo vede! Dunque sa dominarsi. Quando si metteva a bere il nostro Chochriukòv, non soltanto gli uomini, ma perfino i cani urlavano. Possudin invece... almeno gli si arrossasse il naso! Si chiude nel suo studio e lappa... Perché la gente non se n'accorgesse, s'è fatto adattare nella scrivania un certo cassetto, con una cannuccia. In quel cassetto c'è sempre della vodka... Si china sulla cannuccia, succhia un poco, ed è ubriaco... In carrozza pure, nella borsa delle carte...

«Come lo sanno?», si sbigottì Possudin. «Dio mio, perfin questo è noto! Che schifezza... ».

- E anche per quanto riguarda il sesso femminile, ecco... Un briccone!

- (il guidatore si mise a ridere e crollò il capo).Uno sconcio, e basta! Ne ha una decina di quelle... girandole... Due gli abitano in casa... Una, quella Nastassia Ivànovna, è da lui come a dire in luogo di amministratrice, l'altra, come si chiama, diavolo?, Liudmila Semiònovna, a mo' di scritturale... Più importante di tutte è Nastassia. Ciò che questa vuole, lui lo fa sempre... Lo fa girare come la volpe la coda. Grandi poteri le furon dati. E non hanno tanta paura di lui come di lei.. Ah-ah!... E una terza girandola abita in via Kaciàlnaia... Uno scandalo!

«Perfin di nome le conosce», pensò Possudin, arrossendo. «E chi poi le conosce? Un contadino, un vetturale... che non è neanche mai stato in città!... Che infamia... è una schifezza... una trivialità!».

- Ma tu come sai tutto questo? - domandò con voce irritata.

- La gente lo diceva... Io stesso non ho visto, ma ho sentito dalla gente. Ma che è difficile saperlo? A un cameriere o a un cocchiere non taglierai la lingua... E poi, penso, la stessa Nastassia se ne va per tutti i chiassuoli e si vanta della sua fortuna di donna. Agli occhi della gente non ci si nasconde... Ecco, ha preso anche il vezzo questo Possudin di andare in ispezione alla chetichella... Quello di prima, quando voleva andare in qualche posto, lo faceva sapere un mese avanti, e quando viaggiava, tanto di quel chiasso, fracasso e scampanio... ce ne preservi il Creatore! Davanti a lui si galoppava, dietro a lui si galoppava, ai fianchi si galoppava. Giunto sul posto, faceva una buona dormita, mangiava e beveva a sazietà, e avanti a sbraitare per le cose di servizio. Sbraitava un poco, pestava un po' i piedi, faceva un'altra dormita e con lo stesso sistema tornava indietro... Quello di adesso invece, come sente dire qualcosa, cerca di partire di soppiatto, in fretta, perché nessuno veda né sappia...

E' uno spa-as-so! Esce inosservato di casa, in maniera che gl'impiegati non lo vedano, e via in treno... Arriva alla stazione che gli occorre, e non già dei cavalli di posta, o qualcosa di meglio, ma un contadino cerca di noleggiare. S'avviluppa tutto, come una donna, e per tutta la strada borbotta rauco, come un vecchio cane, perché non riconoscano la sua voce. C'è semplicemente da strapparsi le budella dal ridere, quando la gente racconta. Viaggia il babbeo e crede che sia impossibile riconoscerlo. E riconoscerlo, per uno che se n'intende, poh!, è come sputare una volta!...

- Ma come fanno a riconoscerlo?

- E' semplice assai. Prima, quando viaggiava alla chetichella il nostro Chochriukòv, noi lo riconoscevamo dalle sue mani pesanti. Se il passeggero ti picchia sui denti, vuol dire che quello è Chochriukòv.

Ma Possudin lo si può scoprir subito... Un semplice passeggero si comporta anche semplicemente, ma Possudin non è fatto per osservare la semplicità. Arriva, mettiamo, a una stazione di posta, e comincia!..

Per lui c'è puzzo, e si soffoca, ed è freddo... A lui servi pure pollastrini, e frutta, e conserve d'ogni sorta... Così alle stazioni lo sanno: se qualcuno d'inverno chiede pollastrini e frutta, quello è Possudin. Se qualcuno dice al mastro di posta: «Carissimo», e fa correr la gente per varie bazzecole, si può giurare ch'è Possudin. E non manda l'odore dell'altra gente, e si corica alla sua maniera... Si stende alla stazione su un divano, intorno a sé spruzza profumi e ordina di porre accanto al guanciale tre candele. Sta coricato e legge delle carte... Qui poi non solo il mastro di posta, ma anche un gatto raccapezzerà che uomo è quello.

«E' vero, è vero...» -, pensò Possudin. «E come mai prima non lo sapevo?».

- Ma quello a cui occorre lo riconoscerà anche senza frutta e senza pollastrini. Per telegrafo tutto è noto... Comunque t'imbacucchi il grugno, comunque ti nasconda, qui tutti già sanno che vieni.

Aspettano... Possudin non è ancora uscito di casa sua, e qui ormai:

favorisci, tutto è pronto! Lui arriva per coglierli sul fatto, mandarli sotto processo, o sostituire qualcuno, e son loro a farsi beffe di lui. Anche se tu, eccellenza dicono, sei arrivato alla chetichella, guarda pure: da noi tutto è pulito!... Lui si rigira, si rigira, poi se ne va come è venuto... E li loda anche, stringe le mani a tutti, chiede scusa per il disturbo... Ecco com'è! E tu che cosa credevi? Oh-oh, signoria! La gente qui è furba, uno più furbo dell'altro!... Fa piacere veder che razza di diavoli! Sì, ecco, prendiamo anche solo il caso odierno... Me ne vado stamane senza carico, e dalla stazione mi vola incontro un giudeo, il credenziere.

«Dove va», domando, «vossignoria giudaica?». E lui dice: «Porto vino e antipasti nella città di N. Là oggi aspettano Possudin». Furbi, eh?

Possudin forse si prepara ancor soltanto a partire, o s'avviluppa la faccia perché non lo riconoscano. Forse già è in viaggio e pensa che nessuno sa ch'egli viene, e già per lui, dimmi di grazia, son pronti e vino, e salmone, e formaggio, e antipasti svariati... Eh? Lui viaggia e pensa: «Va male per voi, ragazzi!», e i ragazzi se n'infischiano.

Venga pure! Da un pezzo ormai hanno nascosto tutto!

- Indietro! - gridò rauco Possudin. - Torna indietro, bbbestione!

E il guidatore meravigliato voltò indietro.




NOTE:


1) Traduzione libera del titolo russo: «La lesina nel sacco», sottinteso: «non la nasconderai». E' questo un proverbio che corrisponde al nostro, con cui l'abbiamo pertanto sostituito nel titolo.




UN DRAMMA


- Pavel Vassilic', c'è là una certa signora ch'è venuta e chiede di voi, - riferì Lukà. - Aspetta già da un'ora buona...

Pavel Vassìlievic' aveva appena fatto colazione. Avendo sentito della signora, fece una smorfia e disse:

- Ma vada al diavolo! Dille che sono occupato.

- Lei, Pavel Vassilic', è già venuta cinque volte. Dice che ha un gran bisogno di vedervi... Per poco non piange.

- Uhm... Be', va bene, falla passare nello studio.

Pavel Vassìlievic' indossò senza fretta la giubba, prese in una mano la penna, nell'altra un libro e, facendo mostra d'essere occupatissimo, andò nello studio. Là già l'aspettava la visitatrice:

una grossa pingue signora dal viso rosso carnoso e con gli occhiali, all'aspetto assai rispettabile e vestita più che decentemente (aveva uno sgonfio con quattro cannoncini e un alto cappello con uccellino rossiccio). Veduto il padron di casa, ella stravolse gli occhi verso la fronte e giunse le mani in atto di preghiera.

- Voi, certo, non vi ricordate di me, - cominciò con un'alta voce tenorile da maschio, agitandosi visibilmente. - Io... io ebbi il piacere di conoscervi in casa dei Chrutski... Io sono la Muraskin...

- A-a-ah... uhm... Sedete! In che posso esser utile?

- Vedete, io... io... - continuò la signora, mettendosi a sedere e agitandosi anche più. - Voi non vi ricordate di me... Io sono la Muraskin... Vedete, io sono una grande ammiratrice del vostro ingegno e leggo sempre con delizia i vostri articoli... Non pensate che vi lusinghi - Dio me ne guardi - io rendo solo il dovuto... Vi leggo sempre, sempre! Io stessa fino a un certo punto non sono estranea al mestiere d'autore; cioè, certo... non oso chiamarmi scrittrice ma...

tuttavia c'è nell'arnia anche la mia goccia di miele. Ho pubblicato in vari momenti tre racconti per bambini - voi non li avete letti, certo- ho tradotto molto e... e il mio defunto fratello lavorava all'"Azione".

- Ah, sì... e-e-e... In che posso esser utile?

- Vedete... - (La Muraskin abbassò gli occhi e si fece rossa).Io conosco il vostro ingegno... le vostre vedute Pavel Vassìlievic', e vorrei sapere la vostra opinione o più esattamente... pregarvi d'un consiglio. Io, bisogna che vi dica, "pardon pour l'expression" (1), mi sono sgravata d'un dramma e, prima di mandarlo alla censura, vorrei conoscere la vostra opinione.

La Muraskin nervosamente, con l'espressione d'un uccello acchiappato, si frugò nel vestito e ne tirò fuori un grosso, unto scartafaccio.

A Pavel Vassìlievic' non piacevano che i suoi articoli, gli altrui invece, quand'era in procinto di leggerli o di ascoltarli, gli davan sempre l'impressione d'una bocca di cannone puntata direttamente contro la sua faccia. Veduto il quaderno, si spaventò e s'affrettò a dire:

- Bene lasciatelo... leggerò.

- Pavel Vassìlievic'! - disse languidamente la Muraskin, alzandosi e giungendo in atto di preghiera le mani.- Lo so, voi siete occupato... per voi ogni minuto è prezioso, e so che voi in questo momento nell'anima vostra mi mandate al diavolo, ma... siate buono, permettetemi di leggervi subito il mio dramma... Siate gentile!

- Lietissimo... - si turbò Pavel Vassìlievic', -ma, signora, io... io sono occupato... Mi... mi è necessario andar via subito.

- Pavel Vassìlievic'!-gemette la signora, e gli occhi le si riempirono di lacrime. - Io chiedo un sacrificio! Sono sfacciata, sono importuna, ma siate generoso! Domani parto per Kasàn, e vorrei conoscer oggi il vostro parere. Donatemi mezz'ora della vostra attenzione... solo mezz'ora! Vi supplico!

Pavel Vassìlievic' era nell'anima un cencio e non sapeva dir di no.

Quando prese a sembrargli che la signora stesse per singhiozzare e mettersi in ginocchio, egli si confuse e mormorò smarrito:

- Bene, sia pure... ascolterò... Per mezz'ora son pronto.

La Muraskin mandò un grido di gioia, si tolse il cappello e, accomodatasi, cominciò a leggere. Dapprima lesse di come un domestico e una cameriera, rassettando un lussuoso salotto, parlavano lungamente della signorina Anna Serghéievna, che aveva costruito al villaggio una scuola e un ospedale. La cameriera, quando il domestico fu uscito, pronunciò un monologo sul fatto che l'istruzione è luce e l'ignoranza è tenebra; poi la Muraskin fece tornare il domestico in salotto e l'obbligò a recitare un lungo monologo sul padrone, un generale, che non tollerava le convinzioni della figlia, si proponeva di darla in moglie a un ricco gentiluomo di camera ed era d'avviso che la salvezza del popolo stesse in una crassa ignoranza. Dopo che la servitù fu uscita, comparve la signorina in persona e dichiarò allo spettatore di non aver dormito tutta la notte e d'aver pensato a Valentìn Ivànovic', figlio d'un povero insegnante, che aiutava gratuitamente il proprio padre malato. Valentìn aveva studiato tutte le scienze, ma non credeva né all'amicizia né all'amore, non conosceva scopo nella vita e anelava la morte, e perciò bisognava che lei, la signorina, lo salvasse.

Pavel Vassìlievic' ascoltava e con angoscia rammentava il suo divano.

Esaminava con astio la Muraskin sentiva come sui suoi timpani batteva la voce tenorile da maschio di lei, non capiva nulla e pensava:

«Il diavolo t'ha portata qua... Ho proprio un gran bisogno d'ascoltare le tue insulsaggini!... Be', che colpa ci ho io, se tu hai scritto un dramma? O Signore, che quaderno spesso! Ecco un bel castigo!».

Pavel Vassìlievic' gettò uno sguardo al muro di tramezzo, dove pendeva il ritratto di sua moglie, e si ricordò che la moglie gli aveva raccomandato di portarle in villa un "arscin" (2) di fettuccia, una libbra di formaggio e della polvere da denti.

«Purché non perda il campioncino della fettuccia» pensava, «Dove l'ho ficcato? Mi pare, nella giacchetta turchina... Ma quelle vigliacche di mosche son pur riuscite a cospargere di segni d'interpunzione il ritratto di mia moglie. Bisognerà ordinare a Olga di lavare il vetro.

Legge la scena dodicesima, dunque presto è la fine del primo atto.

Possibile che con un tal caldo, e per giunta con una corpulenza come ha questa massa di carne, si possa avere ispirazione? Anziché scriver drammi, farebbe meglio a mangiare okroska (3) fredda e a dormire in cantina... » - Non credete che questo monologo sia un po' lungo? - domandò a un tratto la Muraskin, alzando gli occhi.

Pavel Vassìlievic' non aveva sentito il monologo. Egli si confuse e disse con un tono da colpevole, come se non la signora, ma lui stesso avesse scritto quel monologo:

- No, no, per nulla... Molto carino...

La Muraskin si fece raggiante di felicità e seguitò a leggere:

- "Anna": Siete corroso dall'analisi. Troppo presto avete smesso di vivere col cuore e vi siete affidato all'intelligenza. "Valentìn": Che cos'è il cuore? E' un concetto anatomico. Come termine convenzionale designante ciò che chiamiamo sentimenti, io non lo riconosco. "Anna" (turbata): E l'amore? Possibile che anch'esso sia il prodotto di un'associazione d'idee? Dite francamente: avete amato qualche volta?

"Valentìn" (con amarezza): Non tocchiamo le vecchie ferite, non ancora rimarginate (pausa). A che cosa pensate? "Anna": Mi pare che voi siate infelice.

Durante la scena sedicesima Pavel Vassìlievic' fece uno sbadiglio e inavvertitamente emise coi denti il suono che emettono i cani, quando acchiappano le mosche. Si spaventò di questo suono sconveniente e, per mascherarlo, diede al suo viso l'espressione di una compunta attenzione.

«Scena diciassettesima... Ma quando la fine?», pensava.

Oh, Dio mio! Se questo tormento continuerà ancora dieci minuti, griderò al soccorso... E' una cosa insopportabile!» Ma ecco, finalmente la signora si mise a leggere più in fretta e più forte, alzò la voce e lesse: - "Tela".

Pavel Vassìlievic' sospirò lievemente e s'accinse a sollevarsi, ma subito la Muraskin voltò la pagina e continuò la lettura...

- Atto secondo. La scena rappresenta una via di paese. A destra la scuola, a sinistra l'ospedale. Sui gradini di quest'ultimo son seduti campagnuoli e campagnuole.

- Scusate...- interruppe Pavel Vassìlievic'. - Quanti atti in tutto?

- Cinque, - rispose la Muraskin, e subito, come temendo che l'uditore andasse via, continuò rapidamente. - Da una finestra della scuola guarda Valentìn. Si vede che in fondo alla scena i campagnuoli portano le loro robe alla bettola.

Come condannato a morte e sicuro dell'impossibilità d'una grazia, Pavel Vassìlievic non aspettava più la fine non sperava più in nulla, e si sforzava solo che i suoi occhi non si chiudessero e che l'espressione attenta non lasciasse il suo viso. Il futuro in cui la signora avrebbe terminato il dramma e se ne sarebbe andata gli pareva così remoto ch'egli nemmeno ci pensava.

- Tru-tu-tu-tu. - gli sonava agli orecchi la voce della Muraskin. - Tru-tu-tu... Zzzz... «Ho dimenticato di prendere il bicarbonato», pensava. «A che cosa dunque io... Sì, al bicarbonato... Con tutta probabilità, ho il catarro di stomaco... E' stupefacente Smirnovski tracanna vodka tutto il giorno, e finora non ha il catarro... Sulla finestra s'è posato un uccellino... Un passero.

Pavel Vassilievic' fece uno sforzo per dissigillare le palpebre tese che s'appiccicavano, sbadigliò, senz'aprir la bocca, e guardò la Muraskin. Quella prese ad annebbiarsi, a oscillare davanti ai suoi occhi, divenne tricipite e s'appoggiò con una testa al soffitto.

- "Valentìn": No, permettetemi di partire. "Anna" (spaventata):

Perché? "Valentìn (a parte): E' impallidita! (A lei) Non obbligatemi a spiegarvene le ragioni. Piuttosto morirò, ma voi non saprete queste ragioni. "Anna" (dopo una pausa): Voi non potete partire...

La Muraskin cominciò a gonfiare, gonfiò diventando una massa sola e si fuse con l'aria grigia dello studio; si vedeva soltanto la sua bocca in movimento, poi d'un tratto ella si fece piccina come una bottiglia, si mise a ondeggiare e insieme con la tavola se ne andò in fondo alla stanza...

- "Valentìn" (tenendo Anna fra le braccia): Tu mi hai risuscitato, mi hai mostrato lo scopo della vita! Mi hai rinnovellato, come la pioggia primaverile rinnovella la terra ridestata! Ma... è troppo tardi, troppo tardi! Il mio petto è roso da un male inguaribile... Pavel Vassilievic' sussultò e fissò gli occhi appannati, torbidi sulla Muraskin; per un minuto la guardò immobile, come se non capisse nulla...

- Scena undicesima. Detti, il barone e il commissario coi testimoni...

"Valentìn": Prendetemi! "Anna": Io sono sua! Prendete anche me! Sì prendete anche me! Io l'amo, l'amo più della mia vita! "Il barone":

Anna Serghéievna, voi dimenticate che con ciò rovinate vostro padre...

La Muraskin riprese a gonfiare... Guardandosi attorno bizzarramente, Pavel Vassilievic' si sollevò, gettò un grido con voce profonda, innaturale, afferrò sulla tavola un pesante fermacarte e, inconscio di sé, colpì con esso a tutta forza la testa della Muraskin...

- Legatemi, l'ho uccisa! - disse di lì a un minuto ai servi accorsi.

I giurati l'assolsero.




NOTE:


1) Scusatemi l'espressione.

2) Unità russa di misura lineare: metri 0,711.

3) Piatto, molto vario e ghiotto, di carne o pesce tritato, con cetriuoli, cipolle, uova sminuzzate, con panna e altri ingredienti: una specie d'«insalata russa».




UN'OPERA D'ARTE


Tenendo sotto il braccio qualcosa avvolto nel n. 223 della "Gazzetta della Borsa", Sascia Smirnòv, figlio unico di mamma sua, fece un viso agro ed entrò nel gabinetto del dottor Koscelkòv.

- Ah, caro ragazzo!- l'accolse il dottore. - Be', come ci sentiamo? Che mi direte di bello?

Sascia batté gli occhi, si pose una mano sul cuore e disse con voce agitata:

- La mammina vi saluta, Ivàn Nikolaievic', e ha detto di ringraziarvi... Io sono l'unico figlio della mamma e voi m'avete salvato la vita... m'avete guarito da una grave malattia, e... noi tutt'e due non sappiamo come ringraziarvi.

- Basta, ragazzo! - interruppe il dottore, fondendo dal piacere. - Io ho fatto soltanto ciò che ogni altro avrebbe fatto al mio posto.

- Io son l'unico figlio di mamma mia... Noi siam gente povera e, certo, non possiamo ripagare le vostre fatiche, e... ne siamo assai mortificati, dottore, benché, del resto, la mammina ed io... unico figlio suo, vi preghiamo vivamente d'accettare in segno della nostra gratitudine... ecco, questa cosa che... E' una cosa di gran valore, di bronzo antico... una rara opera d'arte.

- Mal fatto! - il dottore fece una smorfia. - Be' perché questo?

- No, per favore, non rifiutate, - continuò a mormorare Sascia, svolgendo l'involto. - Offendereste col vostro rifiuto me e la mammina... E' una cosa bellissima... di bronzo antico... Essa ci pervenne dal babbo buon'anima e noi la custodivamo come un caro ricordo... Il mio babbo acquistava bronzi antichi e li vendeva agli amatori... Adesso la mammina ed io ci occupiamo della stessa cosa...

Sascia cavò fuori l'oggetto e lo posò solennemente sulla tavola. Era un candelabro poco alto, di vecchio bronzo, d'artistica fattura.

Raffigurava un gruppo: sul piedestallo stavano due figure femminili nel vestito di Eva e in pose per descriver le quali non mi basta né l'ardire, né il temperamento adeguato. Le figure sorridevano civettuole e, in generale, il loro aspetto era tale che, se non avessero avuto l'obbligo di reggere il candeliere, pareva che avrebbero fatto un balzo giù dal piedestallo e combinato nella stanza un baccanale a cui, lettore, sarebbe indecente anche pensare.

Dato uno sguardo al regalo, il dottore si grattò lentamente dietro l'orecchio, fece un raschio e, incerto, si soffiò il naso.

- Sì, è una cosa veramente bellissima, - borbottò, - ma come esprimermi? non è... è troppo poco letteraria... Questa, già, non è scollacciatura, ma il diavolo sa che cosa...

- Cioè, perché poi?

- Lo stesso serpente tentatore non avrebbe potuto immaginare nulla di peggio... Vedete, mettere sulla tavola una simile fantasmagoria vuol dire profanare tutta la casa!

- In che strano modo, dottore, considerate l'arte! - s'offese Sascia. - Ma questa è una cosa artistica, guardatela! C'è lì tanta bellezza ed eleganza, che un senso di reverenza riempie l'anima e le lacrime vengono in gola! Quando vedi una tal bellezza, dimentichi ogni cosa terrena... Guardate quanto movimento, che massa d'aria, d'espressione!

- Tutto ciò lo capisco benissimo, mio caro, - interruppe il dottore, ma io, vedete, sono un uomo di famiglia, qui da me corrono i bimbetti, vengono delle signore.

- Certo, se si guarda dal punto di vista della folla, - disse Sascia, - allora, certo, questa cosa altamente artistica si presenta in un'altra luce... Ma, dottore, siate al disopra della folla, tanto più che col vostro rifiuto amareggereste profondamente me e la mammina. Io son l'unico figlio di mamma mia... voi m'avete salvato la vita... Noi vi diamo la cosa per noi più preziosa, e... e io rimpiango soltanto che voi non abbiate il riscontro per questo candelabro...

- Grazie, colombello, io vi sono molto grato... Salutate la mammina, ma, in fede mia, giudicate voi stesso, qui da me corrono i bimbetti, vengono delle signore... Be', del resto, rimanga pur qui! Tanto a voi non si fa capir la ragione.

- E non c'è niente da far capire, - si rallegrò Sascia. - Questo candelabro mettetelo qui, ecco, vicino a questo vaso. Che peccato che non ci sia il paio! E' un tal peccato! Be', addio, dottore.

Uscito Sascia, il dottore guardò a lungo il candelabro si grattò dietro l'orecchio e rifletté.

«Una cosa superba, non si discute», pensava, «e buttarla via rincresce... Ma lasciarla in casa mia è impossibile... Uhm!... Ecco un problema! A chi regalarla od offrirla?».

Dopo lunga riflessione, si ricordò d'un suo buon conoscente, l'avvocato Uchov, verso il quale era in debito per la trattazione d'una causa.

- Benissimo, - concluse il dottore. - Per lui, come conoscente, è imbarazzante prender da me del denaro e sarà una cosa molto corretta, se gli farò dono dell'oggetto. Porterò dunque a lui questa diavoleria!

A proposito, lui è scapolo e spensierato...

Senza rimandare alle calende greche, il dottore si vestì, prese il candelabro e si recò da Uchov.

- Salve, amico! - diss'egli, avendo trovato l'avvocato in casa. - Eccomi da te... Son venuto a ringraziarti, caro, per le tue fatiche...

Denaro non ne vuoi prendere allora accetta almeno questa cosetta...

ecco qui, mio caro... La cosetta è una magnificenza!

Veduta la cosetta, l'avvocato fu colto da un entusiasmo indescrivibile.

- Questa sì è una trovata! - si mise a rider forte. - Ah, che il diavolo lo scortichi (1), solo i diavoli possono avere una trovata simile! Stupendo! Delizioso! Dove ti sei procurato un tal gioiello?

Dato sfogo al suo entusiasmo, l'avvocato volse un'occhiata timorosa all'uscio e disse:

- Tu però, caro, portati via il tuo regalo. Io non lo accetto.

- Perché? - si spaventò il dottore.

- Ma perché... Qui da me viene mia madre, i clienti.. e anche davanti alla servitù ci ho scrupolo.

- Ni-ni-ni.. Non oserai rifiutare! - agitò le mani il dottore. - E' una porcheria, da parte tua! E' una cosa artistica... quanto movimento... quanta espressione... Non voglio nemmen parlare!

M'offenderai!

- Almeno fosse verniciato, o vi si appiccicassero delle foglioline di fico...

Ma il dottore si mise ad agitar le mani anche più di prima, corse fuori dall'appartamento di Uchov e, contento d'aver saputo disfarsi del regalo, andò a casa...

Uscito lui, l'avvocato osservò il candelabro, lo toccò con le dita da tutte le parti e, al pari del dottore, a lungo si lambiccò il cervello intorno al problema: che far del regalo?

«E un oggetto bellissimo», ragionava, «gettarlo via rincresce, e tenerlo in casa è sconveniente. La miglior cosa è regalarlo a qualcuno... Ecco che cosa, stasera porterò questo candelabro al comico Sciaskin. A quella canaglia piacciono simili cosette, e, a proposito, oggi è la sua beneficiata... ».

Detto, fatto. A sera il candelabro, involtato con cura. fu recato al comico Sciaskin. Tutta la serata il camerino del comico fu preso d'assalto da uomini che venivano ad ammirare il regalo; per tutto il tempo il camerino fu pieno di un entusiastico brusio e di risate simili a nitriti cavallini. Se qualcuna delle attrici s'avvicinava alla porta e domandava: «Si può?», subito s'udiva la voce rauca del comico:

- No, no, "màtuska"! Non sono vestito!

Dopo lo spettacolo il comico si stringeva nelle spalle, allargava le braccia e diceva:

- Be', dove caccerò questa schifezza? Io, già, abito in casa privata!

Da me vengono le artiste! Questa non è una fotografia, non puoi nasconderla in un cassetto!

- E voi, signore, vendetela, - gli consigliò il parrucchiere, svestendo il comico.-Qui nel sobborgo vive una vecchia che acquista bronzi antichi... Andateci e chiedete della Smirnòv... Tutti la conoscono.

Il comico gli diede retta... Di lì a un paio di giorni il dottor Koscelkòv era seduto nel suo gabinetto e, puntatosi un dito in fronte, stava pensando agli acidi biliari. A un tratto s'aprì l'uscio e nel gabinetto entrò di volo Sascia Smirnòv. Egli sorrideva, raggiante, e tutta la sua figura spirava felicità... Nelle mani teneva qualcosa, avvolto in un giornale.

- Dottore!- cominciò ansando. - Figuratevi la mia gioia! Per vostra fortuna c'è riuscito d'acquistare il riscontro per il vostro candelabro!... La mammina è così felice... Io son l'unico figlio di mamma mia... voi m'avete salvato la vita...

E Sascia, tremando per un sentimento di gratitudine posò davanti al dottore il candelabro. Il dottore spalancò la bocca, voleva già dir qualche cosa, ma non disse nulla: gli si era paralizzata la lingua.




NOTE:


1) Qui è sottinteso: «quell'artista», o altra espressione simile.




LA DECORAZIONE


L'insegnante del proginnasio militare, registratore di collegio, Lev Pustiakòv abitava accanto all'amico suo tenente Ledentsòv. Verso quest'ultimo egli volse i suoi passi la mattina di capodanno.

- Vedi di che si tratta, Griscia, - disse al tenente, dopo le congratulazioni d'uso per l'anno nuovo. - Non starei a incomodarti, se non ne avessi estrema necessità. Imprestami, colombello, per la giornata d'oggi la tua croce di Stanislao (1). Oggi, vedi, pranzo dal mercante Spic'kin. E tu conosci quel farabutto di Spic'kin: gli piacciono enormemente le decorazioni e quasi ha in conto di scalzacani quelli a cui non ciondoli qualcosa al collo o all'occhiello. Inoltre ha due figlie... Nastia, sai, e Zina... Ti parlo come ad amico... Tu mi capisci, mio caro. Dammela, fammi il favore!

Tutto ciò disse Pustiakòv balbettando, arrossendo e volgendosi a guardare timidamente verso l'uscio. Il tenente tirò moccoli, ma accondiscese.

Alle due del pomeriggio Pustiakòv andava in vettura di piazza dagli Spic'kin e, aperta un tantino la pelliccia, si guardava in petto. Sul petto gli sfavillava col suo oro e gli svariava col suo smalto l'altrui croce di Stanislao.

«In certo modo senti anche più stima di te stesso», pensava l'insegnante, facendo raschi. «Una cosuccia da poco, vale un cinque rubli, non più, ma come fa furore!».

Giunto alla casa di Spie'kin, egli aprì la pelliccia e si mise lentamente a regolare col vetturino. Il vetturino, come a lui parve, avendo visto le spalline, i bottoni e la croce di Stanislao, restò di sasso. Pustiakòv tossì soddisfatto di sé ed entrò nella casa.

Levandosi la pelliccia in anticamera, gettò un'occhiata in sala. Là, intorno alla lunga tavola conviviale, stavano già pranzando una quindicina di persone. Si udiva un vocio e il tinnire delle stoviglie.

- Chi è che ha sonato là? - si sentì la voce del padron di casa. - Ah, Lev Nikolaic'! Favorite. Avete tardato un po', ma non è un guaio... Ci siamo messi a tavola appena adesso.

Pustiakòv sporse in avanti il petto, alzò la testa e, fregandosi le mani, entrò nella sala. Ma qui egli vide qualcosa d'orrendo. A tavola, al fianco di Zina, era seduto il suo collega, l'insegnante di lingua francese Trambliàn. Lasciar vedere al francese la decorazione avrebbe significato provocare una quantità di domande spiacevolissime, avrebbe significato coprirsi di vergogna in eterno disonorarsi... Il primo pensiero di Pustiakòv fu di strapparsi la decorazione, o di scappar via; ma la decorazione era stata cucita solidamente e una ritirata ormai era impossibile. Coperta rapidamente con la destra la decorazione, egli si curvò, fece un goffo inchino a tutti e, senza dar la mano ad alcuno, s'abbandonò pesantemente su una sedia libera, proprio di fronte al collega francese.

«Deve aver bevuto!», pensò Spic'kin, dato uno sguardo alla sua faccia confusa.

Davanti a Pustiakòv posarono un piatto di minestra. Egli prese con la sinistra il cucchiaio, ma, ricordatosi che con la sinistra è sconveniente mangiare in una società bene ordinata, dichiarò che aveva già pranzato e non aveva fame.

- Ho già mangiato... "Merci"... - borbottò. - Sono stato in visita dallo zio, l'arciprete Jelelev, e lui m'ha pregato tanto... sì...

perché pranzassi.

L'anima di Pustiakòv si colmò di struggente angoscia e di rabbioso dispetto: la minestra mandava un saporoso odore, e dallo storione cotto a vapore veniva un fumettino insolitamente appetitoso.

L'insegnante provò a liberare la mano destra e a coprir la decorazione con la sinistra, ma ciò apparve scomodo.

«Se n'accorgeranno.. E la mano rimarrà distesa su tutto il petto, come se mi accingessi a cantare. O Signore, almeno il pranzo terminasse presto! Mangerò poi in trattoria!».

Dopo il terzo piatto egli guardò timidamente, con un occhio solo, il francese. Trambliàn, chi sa perché fortemente impacciato, guardava lui e del pari non mangiava nulla. Guardatisi a vicenda, si confusero anche più tutt'e due e chinarono gli occhi sui piatti vuoti.

«Se n'è accorto, il farabutto!», pensò Pustiakòv. «Lo vedo dal grugno, che se n'è accorto! E lui, scalzacane, è un pettegolo. Domani stesso lo riporterà al direttore!».

Padroni e ospiti consumarono il quarto piatto, consumarono, per voler del destino, anche il quinto...

Si levò in piedi un certo signore alto dalle narici ampie e pelose, il naso ricurvo e gli occhi socchiusi per natura. Egli si lisciò il capo e dichiarò:

- E-e-e... ep... ep... eppropongo di bere alla prosperità delle signore qui sedute!

I commensali si alzarono rumorosamente e afferrarono i calici. Un sonoro "urrà!" corse per tutte le stanze. Le signore sorrisero e si protesero per toccare i bicchieri. Pustiakòv s'alzò e prese il suo bicchierino nella sinistra.

- Lev Nikolaic', favorite passare questo calice a Nastassia Timoféievna! - si rivolse a lui un tale, porgendogli un calice. - Obbligatela a vuotarlo!

Questa volta Pustiakòv, con suo grande sgomento, dovette mettere in opera anche la mano destra. La croce di Stanislao, col suo nastrino rosso sgualcito, vide finalmente la luce e raggiò. L'insegnante impallidì, abbassò il capo e guardò timidamente dalla parte del francese. Quello guardava lui con occhi meravigliati, interrogativi.

Le sue labbra sorridevano con furberia e dal suo viso l'aria impacciata lentamente dileguava...

- Juli Avgùstovic'! - si rivolse al francese il padron di casa. - Passate questa bottiglietta per competenza!

Trambliàn allungò irresoluto la mano destra verso la bottiglietta e...

oh, felicità! Pustiakòv scorse sul suo petto una decorazione. E non era l'ordine di Stanislao, ma addirittura quello di Anna (2)! Dunque anche il francese aveva fatto il mariuolo! Pustiakòv rise dal piacere, sedette e si mise a suo agio... Ormai non c'era più bisogno di nascondere la croce di Stanislao! Entrambi s'erano macchiati dello stesso peccato e nessuno quindi poteva denunciare e disonorare l'altro...

- A-a-ah... uhm!...- mugolò Spic'kin, vedendo la decorazione sul petto dell'insegnante.

- Sissignore! - disse Pustiakòv. - Una cosa sorprendente, Juli Avgùstovic'! Come son state poche da noi prima delle feste le proposte di onorificenze! Quanta gente c'è da noi, eppure le abbiamo ricevute solo voi ed io! E' una cosa sor-pren-den-te!

Trambliàn annuì allegramente col capo e mise in mostra il risvolto sinistro della giubba, su cui faceva pompa la croce di Sant'Anna di terza classe.

Dopo il pranzo Pustiakòv andava per tutte le stanze e mostrava la decorazione alle signorine. Si sentiva l'anima leggiera e libera, benché la fame lo pizzicasse sotto la bocca dello stomaco.

«Se avessi saputo una faccenda simile», egli pensava, gettando occhiate invidiose a Trambliàn, che discorreva con Spic'kin di onorificenze, «mi sarei appuntata la croce di Vladimiro (3). Eh non ci ho pensato!».

E solo questo pensiero lo faceva soffrire ogni tanto. Per tutto il resto era perfettamente felice.




NOTE:


1) L'ordine di Santo Stanislao, fondato dal re di Polonia Stanislao Augusto Poniatowski e riconosciuto dallo zar Alessandro primo.

2) Istituito nel 1735 dal duca di Holstein-Gottorp in memoria dell'imperatrice Anna di Russia e riconosciuto dall'imperatore Paolo primo nel 1796.

3) L'ordine di San Vladimiro fu fondato nel 1782 dall'imperatrice Caterina seconda in onore del principe che, verso il 1000, aveva introdotto il cristianesimo in Russia.




LA MORTE DELL'IMPIEGATO


Una magnifica sera un non meno magnifico usciere, Ivàn Dmitric' Cerviakòv, era seduto nella seconda fila di poltrone e seguiva col binoccolo "Le campane di Corneville. Guardava e si sentiva al colmo della beatitudine. Ma a un tratto... Nei racconti spesso s'incontra questo "a un tratto". Gli autori han ragione: la vita è così piena d'imprevisti! Ma a un tratto il suo viso fece una smorfia, gli occhi si stralunarono, il respiro gli si fermò... egli scostò dagli occhi il binoccolo, si china e... eccì!!! Aveva starnutito, come vedete.

Starnutire non è vietato ad alcuno e in nessun posto. Starnutiscono i contadini, e i capi di polizia, e a volte perfino i consiglieri segreti. Tutti starnutiscono. Cerviakòv non si confuse per nulla, s'asciugò col fazzolettino e, da persona garbata, guardò intorno a sé:

non aveva disturbato qualcuno col suo starnuto? Ma qui, sì, gli toccò confondersi. Vide che un vecchietto, seduto davanti a lui, nella prima fila di poltrone, stava asciugandosi accuratamente la calvizie e il collo col guanto e borbottava qualcosa. Nel vecchietto Cerviakòv riconobbe il generale civile (1) Brizzalov, in servizio al dicastero delle comunicazioni.

«L'ho spruzzato!», pensò Cerviakòv. «Non è il mio superiore, è un estraneo, ma tuttavia è seccante. Bisogna scusarsi».

Cerviakòv tossì, si sporse col busto in avanti e bisbigliò all'orecchio del generale:

- Scusate, eccellenza, vi ho spruzzato... io involontariamente... - Non è nulla, non è nulla...

- Per amor di Dio, scusatemi. Io, vedete... non lo volevo!

- Ah, sedete, vi prego! Lasciatemi ascoltare!

Cerviakòv rimase impacciato, sorrise scioccamente e riprese a guardar la scena. Guardava, ma ormai beatitudine non ne sentiva più. Cominciò a tormentarlo l'inquietudine. Nell'intervallo egli s'avvicinò a Brizzalov, passeggiò un poco accanto a lui e, vinta la timidezza, mormorò:

- Vi ho spruzzato, eccellenza... Perdonate... Io, vedete... non che volessi...

- Ah, smettetela... Io ho già dimenticato, e voi ci tornate sempre su!

- disse il generale e mosse con impazienza il labbro inferiore.

«Ha dimenticato, e intanto ha la malignità negli occhi», pensò Cerviakòv, gettando occhiate sospettose al generale. «Non vuol nemmeno parlare. Bisognerebbe spiegargli che non desideravo affatto... che questa è una legge di natura, se no penserà ch'io volessi sputare. Se non lo penserà adesso, lo penserà poi!...».

Giunto a casa, Cerviakòv riferì alla moglie il suo atto incivile. La moglie, come a lui parve, prese l'accaduto con troppa leggerezza; ella si spaventò soltanto, ma poi, quando apprese che Brizzalov era un "estraneo", si tranquillò.

- Ma tuttavia passaci, scusati, - disse. - Penserà che tu non sappia comportarti in pubblico!

- Ecco, è proprio questo! Io mi sono scusato, ma lui in un certo modo strano... Una sola parola sensata non l'ha detta. E non c'era neppur tempo di discorrere.

Il giorno dopo Cerviakòv indossò la divisa di servizio nuova, si fece tagliare i capelli e andò da Brizzalov a spiegare... Entrato nella sala di ricevimento del generale, vide là numerosi postulanti, e in mezzo ai postulanti anche il generale in persona, che già aveva cominciato l'accettazione delle domande. Interrogati alcuni visitatori, il generale alzò gli occhi anche su Cerviakòv.

- Ieri, all'Arcadia, se rammentate, eccellenza, - prese a esporre l'usciere,-io starnutii e... involontariamente vi spruzzai... Scus...

- Che bazzecole... Dio sa che è! Voi che cosa desiderate?-si rivolse il generale al postulante successivo.

«Non vuol parlare!», pensò Cerviakav. impallidendo. «E' arrabbiato dunque... No, non posso lasciarla così... Gli spiegherò... ».

Quando il generale finì di conversare con l'ultimo postulante e si diresse verso gli appartamenti interni, Cerviakòv fece un passo dietro a lui e prese a mormorare: - Eccellenza! Se oso incomodare vostra eccellenza, è precisamente per un senso, posso dire, di pentimento!...

Non lo feci apposta, voi stesso lo sapete!

Il generale fece una faccia piagnucolosa e agitò la mano.

- Ma voi vi burlate semplicemente, egregio signore! -diss'egli, scomparendo dietro la porta.

«Che burla c'è mai qui?», pensò Cerviakòv. «Qui non c'è proprio nessuna burla! E' generale, ma non può capire! Quand'è così, non starò più a scusarmi con questo fanfarone! Vada al diavolo! Gli scriverò una lettera e non ci andrò più! Com'è vero Dio, non ci andrò più!».

Così pensava Cerviakòv andando a casa. La lettera al generale non la scrisse. Pensò, pensò, ma in nessuna maniera poté concepir quella lettera. Gli toccò il giorno dopo andar in persona a spiegare.

- Ieri venni a incomodare vostra eccellenza, - si mise a borbottare, quando il generale alzò su di lui due occhi interrogativi, - non già per burlarmi, come vi piacque dire. Io mi scusavo perché, starnutendo, vi avevo spruzzato... e a burlarmi non pensavo nemmeno. Oserei io burlarmi? Se noi ci burlassimo, vorrebbe dire allora che non c'è più alcun rispetto... per le persone...

- Vattene! - garrì il generale, fattosi d'un tratto livido e tremante.

- Che cosa? - domandò con un bisbiglio Cerviakòv, venendo meno dallo sgomento.

- Vattene! - ripeté il generale, pestando i piedi.

Nel ventre di Cerviakòv qualcosa si lacerò. Senza veder nulla, senza udir nulla, egli indietreggiò verso la porta, uscì in strada e si trascinò via... Arrivato macchinalmente a casa, senza togliersi la divisa di servizio, si coricò sul divano e... morì.




NOTE:


1) La vecchia gerarchia burocratica russa conosceva anche i "generali" civili: il titolo militare veniva esteso ai più alti capi- servizio delle amministrazioni non militari.




FILASTROCCA


Nel coro sta in piedi il sagrestano Otlukavin e tiene fra le dita grasse distese una penna d'oca rosicchiata. La sua piccola fronte s'è fatta tutt'una ruga, sul naso gli svariano chiazze di tutti i colori, cominciando dal rosa e terminando con l'azzurro cupo. Davanti a lui, sopra la rilegatura rossiccia del Triodion (1), ci sono due pezzi di carta. Su uno di essi è scritto: «Per la salute», sull'altro: «Per il riposo», e sotto a ciascuno dei due titoli una filza di nomi... Vicino al coro sta una piccola vecchierella dal viso impensierito, con una bisaccia sul dorso. E' meditabonda.

- Poi chi? - domanda il sagrestano, grattandosi pigramente dietro l'orecchio. - Fa' presto, meschina, ché io non ho tempo. Subito mi metterò a legger le ore.

- Subito, "batiuska"... Su via, scrivi... Per la salute dei servi di Dio: Andréi e Daria coi figli... Mitri, di nuovo Andréi, Antìp, Maria...

- Un momento, non troppo in fretta... Non corri mica dietro la lepre, farai in tempo.

- Hai scritto Maria? Be', adesso Kirìll, Gordiéi, l'infante da poco defunto Gherassim, Panteléi... Hai scritto il fu Panteléi?

- Un momento... Panteléi è morto? morto... - sospira la vecchia - Allora come mai lo fai segnare per la salute? - si arrabbia il sagrestano, cancellando Panteléi e trasferendolo nell'altro pezzo di carta.-Ecco, ancora questa... Tu parla sensato, e non far confusioni. Chi altri per il riposo?

- Per il riposo? Subito... un momento... Su via, scrivi... Ivàn, Avdotia, ancora Daria, Jegar... Prendi nota... il soldato Zachàr... Da quando andò in servizio nell'anno quarto, da quel tempo non se n'è sentito più nulla...

- Dunque è morto?

- E chi sa! Forse è morto, e forse è vivo... Tu scrivi...

- Ma dove lo segnerò? S'è morto, diciamo, allora qui: per il riposo, s'è vivo, qui: per la salute... Come si fa a capirvi, voi altre?

- Uhm!... Tu, caro, segnalo in tutt'e due i foglietti, e poi si vedrà.

Ma per lui è lo stesso, comunque tu lo segni è un uomo sviato...

perduto... L'hai segnato? Adesso, per il riposo: Mark, Leonti, Arina... be', e anche Kuzmà con Anna... l'inferma Fedossia...

- L'inferma Fedossia per il riposo? Oilà!

- Me segnarmi per il riposo? Sei ammattito, o che?

- Poh! Tu, torso di cavolo, m'hai fatto sbagliare! Se non sei ancora morta, dillo, che non sei morta, non c'è da cacciarsi qui, per il riposo! imbrogli le cose! Ora va' a cancellare Fedossia e a scriverla in un altro posto... tutta la carta ho sciupato! Su, ascolta, te li leggerò... Per la salute di Andréi, di Daria coi figli, ancora di Andréi, di Antìp, di Maria, di Kirìll, dell'infante da poco defunto Gher... Un momento, come è capitato qua questo Gherassim? Da poco defunto, e poi: per la salute! No, m'hai fatto imbrogliare, meschina!

Che Dio t'assista, m'hai fatto proprio imbrogliare!

Il sagrestano crolla il capo, cancella Gherassim e lo trasferisce nella sezione "per il riposo".

- Ascolta! Per la salute di Maria, di Kirìll, del soldato Zachàr...

Chi altri?

- Avdotia l'hai segnata?

- Avdotia? Uhm!... Avdotia... Jevdokìa... - il sagrestano ripassa entrambi i foglietti. - Ricordo di averla segnata, ma adesso lo sa il diavolo... in nessun modo si può trovare... Eccola! Segnata per il riposo!

- Avdotia per il riposo?- si meraviglia la vecchia. - Non è ancora un anno che ha preso marito, e tu già chiami su di lei la morte!...

Sei tu stesso, caro, che fai confusione, e ti arrabbi con me. Tu scrivi con la preghiera in cuore, ché se in cuore avrai la rabbia, farai contento il diavolo. E' il diavolo che ti guida e ti confonde...

- Un momento, non disturbare...

Il sagrestano aggrotta le ciglia e, dopo aver riflettuto, lentamente cancella Avdotia nel foglietto «Per il riposo». Sulla lettera «d» la penna stride e fa un grosso sgorbio. Il sagrestano si confonde e si gratta la nuca.

- Avdotia, dunque, via di qua... - borbotta turbato - e segnarla qui... Così? Un momento. Se la si mette qui, sarà per la salute, se invece qui, per il riposo.., M'ha fatto proprio confondere questa donna! E anche questo soldato Zachàr è venuto a ficcarsi qua... L'ha portato il diavolo... Non ci raccapezzo nulla! Bisogna daccapo...

Il sagrestano cerca nell'armadietto e ne cava fuori un ottavo di foglio di carta bianca.

- Scarta Zachàr, s'è così... - dice la vecchia. - Che Dio sia con lui, scartalo...

- Zitta!

Il sagrestano intinge lentamente la penna e trascrive da entrambi i pezzi di carta i nomi sul nuovo foglietto.

- Io li segnerò tutti in mucchio, - dice, - e tu portali al padre diacono... Distingua il diacono chi è vivo qui, e chi è morto; lui ha studiato in seminario, e io di queste faccende... anche se mi ammazzi, non ci capisco nulla.

La vecchia prende il pezzo di carta, porge al sagrestano una copeca e mezzo di vecchio conio e a passettini va verso l'altare.




NOTE:


1) Libro liturgico della Chiesa greca, contenente gli uffizi per ordine, così detto, dal greco, perché comprende numerosi inni di tre strofe. Qui si tratta più precisamente di quella sua parte che contiene gli uffizi dalla Pasqua a Ognissanti.




CHIRURGIA


L'ospedale provinciale. In assenza del dottore, che è partito per prender moglie, riceve i malati l'aiuto medico Kuriatin, un uomo grasso, sui quaranta, in giacchetta lisa di seta greggia e calzoni frusti di tessuto a maglia. Sul suo viso c'è l'espressione d'un sentimento di dovere e di soavità. Tra l'indice e il medio della mano sinistra un sigaro puzzolente.

Nella sala di visita entra il sagrestano Vonmiglassov, un vecchio alto, tarchiato, in tonaca color cannella e con una larga cintura di cuoio. L'occhio destro, con la cateratta, è semichiuso, sul naso egli ha un porro, simile da lontano a una grossa mosca. Per un secondo il sagrestano cerca con gli occhi un'icona e, non trovandola, si segna davanti a una damigiana di soluzione fenica, poi cava fuori da un fazzolettino rosso un'ostia e con un inchino la pone dinanzi all'aiuto medico.

- Per che cosa siete venuto?

- Buona domenica a voi, Serghéi Kuzmìc'... Vengo da vostra grazia...

Vero e giusto è quel ch'è detto nel salterio, scusate: «La mia bevanda diluii col pianto (1)» -. M'ero messo l'altro giorno con la vecchia a bere il tè e, Dio mio, non una goccia, non un boccone potei mandar giù, avrei potuto coricarmi e morire... Se mangiavo un tantino, non ci reggevo più! Ma oltre a quel che c'è nel dente, anche tutta questa parte... Mi sento così «rotto, così rotto! Mi risponde nell'orecchio, scusate, come se dentro ci fosse un chiodino o un qualche altro oggetto: mi dà tali fitte, tali fitte! Abbiamo peccato e agito contro la legge (1) Giacché indurii l'anima con vergognosi peccati e nell'ignavia spesi la vita mia (1) Per i peccati, Serghéi Kuzmìc', per i peccati! Il padre prete dopo la liturgia mi rimprovera: «Balbuziente sei diventato, Jefim. e la voce s'è fatta nasale. Canti e non ci si capisce niente». Ma che canto, giudicate voi, ci può essere, se non è possibile aprir la bocca, ch'è tutta gonfia, scusate, e la notte non s'è dormito?...

- Ma già... Sedete... Aprite la bocca!

Vonmiglassov siede e apre la bocca.

Kuriatin aggrotta le ciglia, gli guarda in bocca e, fra i denti ingialliti dal tempo e dal tabacco, scorge un dente ornato di una sbadigliante cavità.

- Il padre diacono mi disse di applicarci del rafano con vodka: non ha giovato. Glikeria Anìssimovna, che Dio la conservi in salute, mi diede da portare al braccio un filo recato dal Monte Athos (2), e mi disse di risciacquare il dente con latte tiepido, e io, se devo confessare, il filo me lo son messo, ma in quanto al latte, non ho seguito il consiglio: ho timor di Dio, c'è il digiuno...

- Pregiudizio... - (pausa). - Bisogna estrarlo, Jefim Micheic'!

- Voi sapete meglio il da farsi, Serghiéi Kuzmìc'. Apposta siete stati istruiti, per capir bene questa faccenda com'è, se s'ha da estrarre o da curare con gocce o con altro... Apposta, benefattori, siete stati messi qui, che Dio vi conservi in salute, perché noi giorno e notte per voi, padri cari... fino alla tomba...

- Bazzecole... - fa il modesto l'aiuto medico avvicinandosi a uno scaffale e rovistando fra gli arnesi. - La chirurgia, bazzecole...

In tutto questo conta l'abitudine la fermezza di mano... Sputarci una volta... L'altro giorno arriva pure all'ospedale, ecco, come voi il possidente Aleksàndr Ivanic' Jeghìpetski... Anche lui per un dente...

Un uomo istruito, interroga su tutto, di tutto s'interessa, del che e del come. Stringe la mano, ti chiama per nome e patronimico (2)...

Sette anni visse a Pietroburgo, annusò tutti i professori... A lungo si stette qui io e lui... Mi prega in nome di Cristo-Dio:

estraetemelo, Serghéi Kuzmìc! Perché non estrarlo? Estrarre si può.

Solo che qui bisogna capire, senza comprendonio non si può. non si può... Ci son denti di vario genere. Uno lo tiri via con le pinze, un altro col piè di capra, un terzo con la chiave... Secondo i casi.

L'aiuto medico prende il piè di capra, lo guarda un momento interrogativamente, poi lo posa e prende le pinze.

- Su via, aprite la bocca ben larga... - dice egli, accostandosi con le pinze al diacono.- Noi subito lo... ecco... Sputarci una volta... Incidere la gengiva soltanto... esercitare una trazione secondo la verticale... e tutto... (incide la gengiva) e tutto...

- Voi siete i benefattori nostri... Noi, stupidi, non possiamo capirci nulla, ma voi il Signore vi ha illuminati...

- Non discorrete, mentre avete la bocca aperta... Questo è facile estrarlo, ma accade che ci siano soltanto le radici... Questo è come sputare una volta...- (applica le pinze) - State fermo, non dimenatevi... State seduto immobile... In un batter d'occhio...- (esercita la trazione)-L'essenziale è prenderlo un po' profondamente - (tira) - ...perché la corona non si rompa...

- Padri nostri... Madre Santissima... Vvv...

- Non così... non così... come si chiama? Non afferratemi con le mani!

Abbassate le mani! - (tira). - Subito... Ecco, ecco... Non è mica una cosa facile...

- Padri... intercessori... - (grida). - Angioli! O-ohoh... Ma da' una stratta dunque, da' una stratta! Perché tiri cinque anni di fila?

- La faccenda è che... la chirurgia... Di colpo non si può... Ecco, ecco...

Vonmiglassov solleva i ginocchi fino ai gomiti, muove le dita, sbarra gli occhi, respira a sbalzi... Sulla sua faccia porporina spunta il sudore, ha le lacrime agli occhi. Kuriatin sbuffa, scalpiccia davanti al sagrestano e tira... Passa un tormentosissimo mezzo minuto, e le pinze scivolano via dal dente. Il sagrestano balza su e si caccia le dita in bocca. In bocca egli tasta il dente al suo posto di prima.

- E hai tirato! - dice con voce piangente e al tempo stesso beffarda. - Che ti possano tirare così all'altro mondo! Ringraziamo umilmente! Se non sai estrarli, non ti ci mettere! Non vedo più il mondo del buon Dio...

- E tu perché mi afferri con le mani? - si adira l'aiuto medico. - Io tiro, e tu mi urti sotto il braccio e dici varie stupidaggini. Scioccone!

- Scioccone sei tu!

- Tu credi, contadino, che sia facile estrarre un dente? Prova un po' tu! Non è mica come salir sul campanile e dar nelle campane! - (gli fa il verso). - «Non sai, non sai!». Di' un po', che istruttore s'è trovato! Ve', tu... Al signor Jeghìpetski, Aleksàndr Ivanic', lo estrassi, e quello niente, non una parola... Un uomo un po' più distinto di te, e non m'afferrava con le mani... Siedi! Siedi, ti dico!

- Non vedo più la luce... Lasciami tirare il fiato... Oh! - (siede).

- Soltanto non tirare a lungo, ma da' una stratta. Non tirare, ma da' una stratta... Di colpo!

- Tu insegna a chi sa! Ma che gente incolta, o Signore! Vivi un po' con costoro... diventerai scemo! Apri la bocca... - (applica le pinze).- La chirurgia, fratello non è uno scherzo... Non è come leggere in coro... - (esercita una trazione). - Non dimenarti...

E' un dente incarnito, si vede, ha messo profonde radici... - (tira). - Non muoverti... Così... così... Non muoverti... Su via, su via... - (si sente uno scricchiolio). - Lo sapevo!

Vonmiglassov sta a sedere immobile per un minuto come privo di sensi.

E' intontito... I suoi occhi guardano senza espressione nello spazio, sulla sua faccia pallida c'è il sudore.

- Avrei dovuto farlo col piè di capra... - borbotta l'aiuto medico.

- Che disdetta!

Tornato in sé, il sagrestano si ficca le dita in bocca e, in luogo del dente malato, trova due rilievi sporgenti.

- Diavolo rrognoso...- proferisce. - Vi hanno piantati qui, erodi, per la nostra rovina!

- Dimmi anche delle insolenze...-borbotta l'aiuto medico, riponendo nell'armadio le pinze.- Ignorante... Troppo poco in seminario ti han trattato a sugo di betulla... Il signor Jeghìpetski, Aleksàndr Ivanic',visse a Pietroburgo un sette anni...

l'istruzione... il suo abito solo varrà cento rubli... eppure non insolentiva... E tu che pavone sei? Hai quel che meriti, non creperai!

Il sagrestano prende sulla tavola la sua ostia e, premendosi la guancia con la mano, se ne va a casa...




NOTE:


1) Tutte queste espressioni sono, nel testo, in slavo ecclesiastico, che è, nei tempi moderni, la lingua della chiesa ortodossa, come da noi il latino per la chiesa cattolica.

2) Il celebre santuario all'estremità sud-est della Penisola Calcidica meta di pellegrinaggi, con la sua ventina di conventi, per tutto il mondo ortodosso, la Russia compresa.

3) L'uso del nome di battesimo seguito dal patronimico, nel rivolgersi a una persona, o nell'indicarla, è per i russi la forma di riguardo; a differenza dall'uso del solo cognome o del solo nome di battesimo.




IL VINT (1)


Un'orribile notte d'autunno Andréi Stepànovic' Peressolìn tornava in carrozza dal teatro. Andava e rifletteva sul vantaggio che recherebbero i teatri, se vi si dessero dei lavori di contenuto morale. Passando davanti alla direzione, smise di pensare a tale vantaggio e prese a guardar le finestre dell'edificio dov'egli, per esprimerci nella lingua dei poeti e dei capitani marittimi, reggeva il timone. Due finestre, quelle della stanza del servizio di turno, erano vivamente illuminate.

«Possibile che tuttora si dian da fare intorno al rendiconto?», pensò Peressolìn. «Sono là in quattro imbecilli e finora non han terminato!

Non si sa mai, la gente penserà che io anche di notte non conceda loro riposo. Andrò e li caccerò via... Férmati, Guri!».

Peressolìn scese di carrozza e andò in direzione. La porta principale era chiusa, invece il passaggio interno, munito solo di un paletto guasto, era spalancato. Peressolìn si valse del secondo, e di lì a forse un minuto stava già alla porta della stanza del servizio di turno. La porta era socchiusa e Peressolìn, datovi un'occhiata, scorse qualcosa d'inconsueto. Intorno a una tavola ingombra di grandi fogli di contabilità, alla luce di due lampade, stavan seduti quattro impiegati e giocavano a carte. Concentrati, immobili, con le facce tinte di verde dai paralumi, essi ricordavano gli gnomi delle fiabe o, Iddio scampi, i falsi monetari... Un aspetto anche più misterioso conferiva loro il giuoco. A giudicare dai loro modi e dai termini di giuoco ch'essi ogni tanto gridavano, quello era un "vint"; giudicando invece da tutto ciò che udì Peressolìn, quel giuoco non si poteva chiamarlo un "vint", e nemmeno un giuoco di carte. Era qualcosa d'inaudito, di strano e di misterioso... Negli impiegati Peressolìn riconobbe Serafìm Svizdulin, Stepàn Kulàkevic, Jereméi Nedoiechov e Ivàn Pissulin.

- Ma come mai butti questa, diavolo olandese? - andò in collera Svizdulin, guardando esasperato il suo compagno "vis-a-vis (2). - Forse che si può giocare così? Io avevo in mano Dorofeiev con un altro, Scepeliòv con la moglie, più Stiopka Jerlakòv, e tu butti Kofeikin. Eccoci senza due! Avresti dovuto, testa di cavolo, buttare Pogankin!

- Be', e che ne sarebbe venuto? - s'inviperì il compagno. - Io avrei buttato Pogankin e Ivàn Andréic' ha Peressolìn in mano.

«Han tirato in ballo, chi sa perché, il mio cognome... ». Peressolìn si strinse nelle spalle. «Non capisco!».

Pissulin distribuì nuovamente e gl'impiegati continuarono:

- Banca di Stato...

- Due: intendenza di finanza...

- Sono senza briscola...

- Sei senza briscola?? Uhm!... Direzione provinciale: due... Se bisogna perire, si perisca, che il diavolo mi porti! L'altra volta rimasi senza uno sulla pubblica istruzione, adesso mi avventerò sulla direzione provinciale. Me n'infischio!

- Piccolo cappotto sulla pubblica istruzione!

- Non capisco! - mormorò Peressolìn.

- Butto un consigliere di Stato... Getta, Vania, un qualche consiglieruccio titolare o un segretario provinciale.

- Perché dovremmo buttare un titolare? Piglieremo anche con Peressolìn...

- E noi al tuo Peressolìn sui denti gliele daremo... sui denti... Noi abbiamo Rìbnikov. Rimarrete senza tre! Fate vedere la Peressolicha (3)! Non avete da nasconderla quella canaglia, dentro la manica!

«Han toccato mia moglie... », pensò Peressolìn... «Non capisco».

E, non volendo restar oltre nell'incertezza, Peressolìn aprì la porta ed entrò nella camera. Se davanti agl'impiegati fosse comparso il diavolo in persona con le corna e la coda, non li avrebbe meravigliati e spaventati tanto come li spaventò e meravigliò il superiore. Se fosse apparso dinanzi a loro l'usciere morto l'anno prima e avesse detto con voce sepolcrale: «Seguitemi, satanassi, nel posto destinato alle canaglie!», soffiando loro addosso il freddo della tomba, non sarebbero impalliditi come impallidirono riconoscendo Peressolìn. A Nedoiechov, dal forte spavento, venne perfin sangue dal naso, e a Kulàkevic' l'orecchio destro si mise a tamburellare e la cravatta si sciolse da sé. Gl'impiegati gettarono le carte, si alzarono lentamente e, scambiatisi un'occhiata, fissarono i loro sguardi sul pavimento.

Per un minuto nella stanza regnò il silenzio...

- Ricopiate proprio bene il rendiconto! - comincio Peressolìn. - Adesso si capisce perché vi piace tanto occuparvi del rendiconto...

Che facevate dianzi?...

- Noi solo per un minutino, eccellenza... - mormorò Svizdulin.Esaminavamo le carte... Ci riposavamo...

Peressolìn s'avvicinò alla tavola e lentamente si strinse nelle spalle. Sopra la tavola stavano non carte, ma fotografie di formato ordinario, tolte dal cartoncino e incollate sulle carte da giuoco. Le fotografie eran molte. Esaminandole, Peressolìn vide se stesso, sua moglie, numerosi suoi subordinati e conoscenti...

- Che scempiaggine!... Come fate a giocare?

- Non siamo stati noi, eccellenza, a inventar questo... Dio ce ne scampi... Noi abbiamo soltanto preso esempio...

- Spiega un po', Svizdulin! Come giocavate? Io ho visto tutto e ho sentito come mi battevate con Rìbnikov... Su via, perché esiti? Non ti mangio mica? Parla!

Svizdulin per lungo tempo fu imbarazzato e timoroso. Infine, quando Peressolìn cominciò ad arrabbiarsi, a sbuffare e farsi rosso dall'impazienza, egli obbedì. Raccolte le fotografie e mischiatele, le dispose sulla tavola e cominciò a spiegare:

- Ciascun ritratto, eccellenza, come pure ciascuna carta ha un suo valore... un significato. Come nei soliti mazzi, anche qui ci sono cinquantadue carte e quattro semi... Gl'impiegati dell'intendenza di finanza son cuori, la direzione provinciale, fiori, gli addetti al ministero della pubblica istruzione, quadri, e picche sarà la sezione della Banca di Stato. Ebbene... I consiglieri di Stato effettivi per noi sono assi, i consiglieri di Stato, re, le consorti dei funzionari di quarta e quinta classe, regine, i consiglieri di collegio, fanti, i consiglieri di corte dieci, e così via. Io, per esempio, ecco la mia fotografia sono un tre, poiché, essendo segretario provinciale...

- Guarda un po'... Io dunque sono un asso?

- Di fiori, e la moglie di vostra eccellenza è regina...

- Uhm!... E' originale... Su via, giochiamo un po' Guarderò...

Peressolìn si tolse il cappotto e, sorridendo incredulo sedette davanti alla tavola. Anche gl'impiegati sedettero a un suo ordine, e il giuoco cominciò...

Il custode Nazàr, giunto alle sette di mattina per scopare la stanza del servizio di turno, rimase stupefatto. Il quadro ch'egli vide, entrando con la spazzola, era così impressionante che adesso se lo ricorda perfin quando, ubriaco fradicio, giace in stato d'incoscienza.

Peressolin, pallido, assonnato e spettinato, stava in piedi davanti a Nedoiechov e, tenendolo per un bottone, diceva - Capisci dunque che non potevi buttar Scepellòv, se sapevi che io avevo in mano me stesso con altri tre. Svizdulin aveva Rìbnikov con la moglie, tre insegnanti del ginnasio, più mia moglie, Nedoiechov quelli della Banca e tre piccoli impiegati della giunta provinciale. Avresti dovuto buttar Kriskin! Tu non ci badare, se quelli buttano l'intendenza di finanza!

Loro son dei volponi!

- Io, eccellenza, ho buttato un titolare, perché pensavo che loro avessero un effettivo (4).

- Ah, colombello, ma non si può mica pensar così! Questo non è giuoco!

Così giuocano soltanto i calzolai. Tu ragiona!... Quando Kulàkevic' butta un consigliere di Corte della direzione provinciale, tu dovevi gettare Ivàn Ivànovic' Grenlandski, perché sapevi che lui aveva Natalia Dmìtrievna e due altre, con Jegòr Jegoric'... Hai guastato tutto! Te lo proverò subito. Sedete, signori, giocheremo ancora un "rober" (5)!

E mandato via il meravigliato Nazàr, gl'impiegati si accomodarono e proseguirono il giuoco.




NOTE:


1) Specie di "wist", che si giuoca in quattro.

2) Dirimpetto, di fronte.

3) Forma femminile di Peressolin, coniata scherzosamente, per indicare la moglie.

4) C'erano consiglieri titolari, di Stato e di Stato effettivi, eccetera.

5) Partita doppia (nel "whist" e nel "vint"), dall'inglese "rubber".




LA DIVISA DI CAPITANO


Il sole nascente guardava imbronciato il capoluogo di distretto i galli si stiravano ancora solo, e intanto nella bettola di zio Rilkin c'eran già degli avventori. Erano in tre: il sarto Merkulov, la guardia di città Zratva e il fattorino della tesoreria Smechunov.

Tutt'e tre avevano bevuto.

- Non parlare! Non parlar nemmeno! - ragionava Merkulov, tenendo la guardia per un bottone.-Un funzionario dell'amministrazione civile, se lo si prende un po' alto in grado, dal punto di vista del sarto bagnerà sempre il naso a un generale. Prendiamo ora non fosse che un ciambellano... Che uomo è quello? Di che condizione? Eppure fa' conto... Quattro "arscini" di panno del migliore, della fabbrica Priundel e figli, bottoni, colletto d'oro, calzoni bianchi a bande dorate, tutto il petto d'oro, sul bavero, sulle maniche e sui risvolti delle tasche uno splendore! Se poi s'ha da lavorare per i signori maestri di corte, scudieri, cerimonieri e altri ministeri... Tu che ne pensi? Lavorammo, ricordo, per il maestro di corte conte Andréi Semionic' Vonliarevski. Un'uniforme da non andarci vicino! Se la toccavi con le mani, nelle vene del polso ti sentivi: cic! cic! I veri signori, se si fan fare un abito, guardati bene dal seccarli. Hai preso la misura e cuci, ma andare a far prove e ritoccare il taglio è assolutamente impossibile. Se sei un sarto di vaglia, fa' senz'altro in base alle misure... Devi saltar giù da un campanile e capitar coi piedi negli stivali, ecco com'è! E vicino a noi, fratellino mio, c'era, come adesso rammento, il corpo dei gendarmi. Il nostro padrone Ossip Jaklic' sceglieva appunto fra i gendarmi i più adatti, che per corporatura si avvicinassero al cliente, per far la prova. Ebbene, proprio così... scegliemmo, fratellino mio, per l'uniforme del conte un gendarmuccio adatto. Lo chiamammo... Indossala, grinta, e sii grato! Uno spasso! Lui indossò, proprio così, l'uniforme, si guardò in petto, e che! Rimase di stucco, sai, cominciò a tremare, perdette i sensi...

- E per gli "ispràvniki" (1) avete lavorato? - s'informò Smechunov.

- Oibò, che pezzi grossi! A Pietroburgo ce n'è di questi "ispràvniki" come di cani non castrati... Qui fan loro tanto di cappello, ma là:

«Fatti da parte, perché spingi?" (2). Abbiamo lavorato per signori militari e per personaggi delle prime quattro classi (3). C'è personaggio e personaggio... Se tu, poniamo, sei della quinta classe (4), sei un'inezia. Vieni tra una settimana e tutto sarà pronto perché a parte colletto e soprammaniche, non c'è nulla... Ma se uno è della quarta classe, o della terza, o, poniamo, della seconda, allora il padrone ci prende tutti a sgrugni e si corre al corpo dei gendarmi.

Lavorammo una volta fratellino mio, per il console di Persia. Gli ricamammo sul petto e sulla schiena dei ghirigori d'oro per un migliaio e mezzo. Pensavamo che non li avrebbe dati - invece no, li pagò... A Pietroburgo perfin nei tartari c'è galantomismo.

Merkulov raccontò a lungo. Verso le nove, sotto l'azione dei ricordi, egli si mise a piangere e a lagnarsi amaramente del destino che l'aveva cacciato in una cittaduzza piena solo di mercanti e di borghesucci. La guardia ne aveva già condotti due alla polizia, il fattorino era andato due volte alla posta e alla tesoreria ed era tornato, ma lui si lagnava sempre. A mezzogiorno stava davanti al sagrestano, si batteva in petto col pugno e recriminava:

- Non voglio io lavorar per i tangheri! Non acconsento! A Pietroburgo lavoravo personalmente per il barone Sputsèl e per i signori ufficiali! Scostati da me, "Kutia" (5) dalle lunghe falde, che i miei occhi non ti vedano più! Scostati!

- Vi siete fatto un ben alto concetto di voi, Trifòn Panteleic', - il sagrestano esortava il sarto. - Anche se nella vostra corporazione siete un artista, non dovete però dimenticar Dio e la religione. Ario (6) montò in superbia come voi e morì d'una morte ignominiosa. Oh, morrete anche voi!

- E morirò! Morirò piuttosto che far gabbani!

- La mia maledizione è qui? - s'udì a un tratto dietro la porta una voce di donna, e nella bettola entrò la moglie di Merkulov, Aksinia, una donna matura con le maniche rimboccate e il ventre serrato alla cintola.

- Dov'è lui, quel grullo? - e girò il suo sguardo indignato sugli avventori.

- Vieni a casa, che tu possa scoppiare, là un tal ufficiale chiede di te!

- Che ufficiale? - si meravigliò Merkulov.

- Il diavolo lo conosce! Dice ch'è venuto per un'ordinazione.

Merkulov si grattò con tutt'e cinque le dita il grosso naso, il che faceva ogniqualvolta voleva esprimere estremo stupore, e borbottò:

- Questa donna è ammattita... Per quindici anni non ho visto una persona distinta e d'un tratto oggi, in giorno di digiuno, un ufficiale con un'ordinazione! Uhm!... Bisogna andar a vedere...

Merkulov uscì dalla bettola e, incespicando, si trascinò a casa... La moglie non l'aveva gabbato. Presso la soglia della sua isba egli vide il capitano Urciaiev, segretario del locale comandante militare.

- Dove vai a bighellonare? - lo accolse il capitano. - Aspetto da un'ora buona... Puoi farmi una divisa?

- Vossign... O Signore! - prese a borbottare Merkulov, soffocando e strappandosi di capo il berretto insieme con un ciuffo di capelli. - Vossignoria! E' forse la prima volta che ne faccio? Ah, Signore! Per il barone Sputsèl ho lavorato... Eduard Karlic'... il signor sottotenente Zembulatov mi deve tuttora dieci rubli. Ah! moglie, ma offri dunque una sedia a sua signoria, che Dio mi castighi... Ordinate che vi prenda la misura o permettete che lavori a occhio?

- Su via... Metti tu il panno e che tra una settimana sia pronta...

Quanto mi prenderai?

- Per carità, vossignoria... Che dite?-fece un sorrisetto Merkulov.-Io non sono un mercante qualunque. Noi, già, comprendiamo come coi signori... Quando lavorammo per il console di Persia, anche senza parole...

Presa la misura al capitano e accompagnatolo alla porta, Merkulov stette un'ora buona in mezzo all'isba a guardar la moglie intontito.

Non poteva credere...

- Ma che disdetta, dimmi di grazia! - egli brontolò infine. - Dove dunque prenderò i soldi per il panno? Aksinia, dammi un po' tu, mia cara, in prestito quei soldi che ti sborsarono per la vacca!

Aksinia gli fece cuccù e sputò. Poco dopo ella lavorava di attizzatoio, rompeva dei vasi sulla testa del marito, lo tirava per la barba, correva in strada e gridava: «Difendetemi, chi crede in Dio!

M'ha ammazzata!... ». Ma a nulla giovarono le sue proteste. La mattina seguente ella giaceva in letto e nascondeva ai garzoni i suoi lividi, e Merkulov andava per le botteghe e, ingiuriando i negozianti, sceglieva il panno adatto.

Per il sarto cominciò una nuova era. Svegliandosi al mattino e girando gli occhi torbidi sul suo piccolo mondo, egli non sputava più esasperato... E, quel ch'era più stupefacente di tutto, smise di andare alla bettola e si occupò del suo lavoro. Recitata piano una preghiera, inforcava i grandi occhiali montati in acciaio, aggrottava le ciglia e, come celebrando un rito, spiegava il panno sopra la tavola.

Di lì a una settimana la divisa era pronta. Stiratala, Merkulov uscì in strada, l'appese su una siepe e attese a spolverarla; ne toglieva un peluzzo, si scostava di una tesa, strizzava l'occhio a lungo sulla divisa e tornava a toglierne un peluzzo: e così per un paio d'ore.

- E' un guaio con questi signori! - diceva ai passanti. - Non ne posso più, mi sono strapazzato! Gente istruita, delicata: va' un po' a contentarli!

Il giorno dopo la spazzolatura Merkulov si unse la testa di olio, si pettinò, avvolse la divisa in una pezza nuova di calicò e si diresse dal capitano.

- Non ho tempo di discorrer con te, allocco! - diceva, fermando ogni persona che incontrava.- Non vedi forse che porto la divisa al capitano?

Mezz'ora dopo tornò dalla casa del capitano.

- Mi rallegro con voi per la riscossione, Trifòn Panteleic', - lo accolse Aksinia, facendo un ampio sorriso e vergognandosi.

- Ma che sciocca! - le rispose il marito. - O che i veri signori pagano subito? Non è mica un qualche mercante, da mettersi lì e snocciolarti subito i soldi! Sciocca...

Per un paio di giorni Merkulov rimase a giacere sulla stufa, senza bere né mangiare, e si abbandonò al sentimento della soddisfazione di sé, punto per punto come Ercole dopo il compimento di tutte le sue imprese. Al terzo giorno si avviò per riscuotere.

- Sua signoria s'è alzata? -bisbigliò, entrando striscioni in anticamera e rivolgendosi all'attendente.

E, ricevuta una risposta negativa, si piantò come un palo vicino allo stipite e si mise ad aspettare.

- Caccialo fuori! Digli che venga sabato! - egli udì, dopo una lunga attesa, la voce rauca del capitano.

La stessa cosa udì il sabato, un primo sabato, poi un altro... Per un intero mese andò dal capitano, passò lunghe ore aspettando in anticamera e, invece dei soldi, ricevette l'invito di andarsene al diavolo e di venire il sabato. Ma egli non si abbatteva, non mormorava, al contrario... Era perfino ingrassato. Gli piaceva la lunga attesa in anticamera, il «caccialo fuori» sonava ai suoi orecchi come una dolce melodia.

- Riconosci subito la persona distinta! - egli s'entusiasmava ogni volta, tornando a casa dopo essere stato dal capitano. - Da noi a Piter (7) eran tutti così...

Sino alla fine dei suoi giorni avrebbe Merkulov consentito ad andar dal capitano e ad attendere in anticamera, se non fosse stato per Aksinia, che pretendeva di riavere i denari sborsatile per la vacca.

- Hai portato i soldi? - lo accoglieva ogni volta. - No? Ma che fai di me, cane arrabbiato? Eh?... Mitka dov'è l'attizzatoio?

Una volta verso sera Merkulov veniva dal mercato portando sulla schiena un sacco di carbone. Dietro a lui si affrettava Aksinia.

- A casa avrai il fatto tuo! Aspetta, - ella borbottava, pensando al denaro sborsatole per la vacca.

Tutt'a un tratto Merkulov si fermò, come inchiodato e mandò un grido di gioia. Dalla trattoria "Bonumore" davanti alla quale stavan passando, correva fuori a precipizio un certo signore in cilindro, col naso rosso e gli occhi ebbri: Lo rincorreva il capitano Urciaiev con la stecca in mano, senza berretto, scarruffato sbrindellato. La sua nuova divisa era tutta bianca di gesso, una spallina guardava di sbieco.

- Ti farò giocar io, baro!-gridava il capitano, agitando furiosamente la stecca e asciugandosi sulla fronte il sudore. - T'insegnerò io, arcifurfante, a giocare con la gente perbene!

- Guarda un po', sciocca! - bisbigliò Merkulov, urtando la moglie nel gomito e ridacchiando. - Si vede subito la persona distinta. Se un mercante si fa fare qualcosa per la sua grinta di contadino, non gli va più alla fine, per un dieci anni la porta indosso, e questo qui ha già frustato la divisa! Ce ne vorrebbe una nuova!

- Va' a chiedergli i soldi! - disse Aksinia. - Va'.

- Che dici, sciocca? Per via? Ni-ni-ni...

Per quanto Merkulov facesse resistenza, la moglie lo costrinse ad accostarsi all'infuriato capitano e a parlargli dei soldi.

- Vattene! - gli rispose il capitano. - M'hai seccato!

- Io, signoria, capisco... Io, nulla... ma la moglie una creatura irragionevole... Lo sapete anche voi che senno ci ha in testa il sesso femminile...

- M'hai seccato, ti si dice! - ruggì il capitano, sbarrando su di lui due occhi ebbri, annebbiati. - Vattene!

- Capisco, signoria! Ma io parlavo riguardo alla donna, perché, vogliate saperlo, sono i soldi della vacca... Una vacca avevamo venduto a padre Iuda...

- A-a-ah... vuoi ancora discorrere, verme!

Il capitano alzò il braccio, e trac! Dalla schiena di Merkulov il carbone si sparpagliò, dai suoi occhi sprizzarono scintille, dalle mani gli cadde il berretto... Aksinia rimase di stucco... Per un minuto ella ristette immobile, come la moglie di Lot, trasformata in statua di sale, poi andò avanti e timidamente gettò un'occhiata alla faccia del marito... Con sua grande meraviglia, sul viso di Merkulov aleggiava un sorriso beato, nei suoi occhi ridenti brillavano le lacrime...

- Si vedono subito i veri signori! - egli mormorava. - Gente delicata, istruita... Punto per punto, fu così... in questo stesso posto, quando portavo la pelliccia al barone Sputsèl, Eduàrd Karlic'... Alzò il braccio e trac. E il signor sottotenente Zembulatov pure... Ero andato da lui, e lui balzò su e a tutta forza... Eh, è passato, moglie, il mio tempo! Non capisci nulla tu! E' passato il mio tempo!

Merkulov scosse la mano e, raccolto il carbone, si trascinò a casa.




NOTE:


1) Capo di polizia distrettuale.

2) Espressione quasi proverbiale, per indicare il poco conto che si fa di una persona.

3) Nella gerarchia civile, in ordine ascendente: consigliere di generale, generale e generale feldmaresciallo.

Stato effettivo, consigliere segreto, consigliere segreto effettivo e cancelliere di Stato; in quella militare: maggior generale, tenente.

4) Consigliere di Stato.

5) Nome di un dolce rituale che si mangia nelle commemorazioni funebri, dopo la sepoltura: è usato anche come ingiuria scherzosa contro preti e gente di sagrestia in genere.

6) Il prete Ario, iniziatore della famosa eresia che da lui prese nome e che negava l'eguaglianza delle persone della Trinità, affermando la non divinità del Figlio e la sua subordinazione al Padre, morì scomunicato a Costantinopoli nel 335, dopo che la sua dottrina era stata solennemente condannata dal concilio di Nicea nel 325.

7) Abbreviazione popolare di "Peterbùrg", Pietroburgo.




CRONOLOGIA VIVENTE


Il salotto del consigliere di Stato Sciaramikin è avvolto in una piacevole penombra. Una grande lampada con paralume verde tinge di verde "à la" «notte ucraina» (1) pareti, mobili, visi... Ogni tanto nel camino prossimo a spegnersi s'infiamma un ciocco che arde lento e per un attimo inonda i visi d'un bagliore d'incendio, ma ciò non guasta la generale armonia delle luci. Il tono generale, come dicono gli artisti, è mantenuto.

Davanti al camino, in poltrona, nella posa dell'uomo che ha appena pranzato, è seduto lo stesso Sciaramikin un signore maturo con fedine brizzolate da impiegato statale e miti occhi azzurrini. Sul suo volto è soffusa la tenerezza, le labbra sono atteggiate a un malinconico sorriso. Ai suoi piedi, con le gambe protese verso il camino e stirandosi pigramente, siede su un panchetto il vicegovernatore Lopnev, un brav'uomo, sulla quarantina. Attorno a un pianino (2) si danno da fare i bambini di Sciaramikin: Nina, Kolia, Nadia e Vania.

Dall'uscio socchiuso che mette nello studio della signora Sciaramikin s'insinua una timida luce. Là, dietro l'uscio, è seduta alla propria scrivania la moglie di Sciaramikin, Anna Pàvlovna presidentessa del locale comitato di dame, una vivace e piccante damina, sui trent'anni con giunterella. I suoi occhietti neri, vispi corrono attraverso gli occhiali a molla sulle pagine d'un romanzo francese. Sotto il romanzo giace il rendiconto squinternato del comitato per l'anno trascorso.

- Prima la nostra città sotto questo aspetto era più fortunata,dice Sciaramikin, strizzando i suoi occhi miti sulla brace che va consumandosi. - Non un inverno passava senza che giungesse una qualche stella. Venivano famosi attori e cantanti, ma oggi... il diavolo sa quel che è! tranne i prestigiatori e i sonatori d'organetto, non arriva nessuno. Nessun godimento estetico... viviamo come in un bosco. Sissignore... E ricordate, eccellenza, quel tragico italiano... come si chiamava?... ed era un bruno, alto... Dio, fammi ricordare... Ah, sì! Luigi Ernesto de Ruggiero. Un talento ragguardevole... Che forza! Una parola che dicesse, e il teatro andava in visibilio. La mia Aniùtoc'ka pigliava molto interesse al suo talento. Gli aveva procurato il teatro e venduto i biglietti per dieci spettacoli... Lui, in cambio, le insegnava declamazione e mimica. Un uomo d'oro! Era venuto qui... per non dir bugia... una dozzina d'anni fa... No, sbaglio... Meno, una decina d'anni... Aniùtoc'ka, quanti anni ha la nostra Nina.

- Nove compiuti! - grida dal suo studio Anna Pàvlovna. - Ebbene?

- Nulla, mammina, domandavo così... Venivano anche dei buoni cantanti... Ricordate il tenore di grazia (3) Prilipcin? Che uomo d'oro! Che esteriore! Un biondo... un viso così espressivo, dei modi parigini... E che voce, eccellenza! Un solo guaio: alcune note le cantava col ventre e il «re» lo prendeva in falsetto, ma tutto il resto andava bene. Aveva studiato, diceva, da Tamberlìk... Io e Aniùtoc'ka gli avevamo procurato la sala del circolo sociale, e per riconoscenza lui soleva cantare per noi intere giornate e nottate...

Ad Aniùtoc'ka insegnava il canto... Era arrivato, come adesso rammento, in quaresima, un... un dodici anni fa. No, di più... Ma che memoria, il Signore mi perdoni! Aniùtoc'ka, quanti anni ha la nostra Nàdec'ka?

- Dodici!

- Dodici... se si aggiungono dieci mesi... Be', ci siamo, tredici!

Prima nella nostra città, in certo qual modo, c'era anche più vita...

Prendiamo, per esempio, non fosse che le serate di beneficenza. Che splendide serate si facevano una volta da noi! Che incanto! Si cantava, si sonava, si recitava... Dopo la guerra, ricordo, quando qui c'erano dei prigionieri turchi, Aniùtoc'ka organizzò una serata a beneficio dei feriti. Raccogliemmo mille e cento rubli... Gli ufficiali turchi, rammento, andavan pazzi per la voce di Aniùtoc'ka e non facevano che baciarle la mano. Eh-eh... Per quanto siano asiatici, è quella una nazione riconoscente. La serata riuscì a tal punto che io lo credete?, rannotai nel diario. Ciò fu, come ora ricordo nel settantasei... no! nel settantasette... No! Permettete, quando ci furono i turchi da noi? Aniùtoc'ka, quanti anni ha il nostro Kòlec'ka?

- Io, papà, ho sette anni! - dice Kolia, un frugolino moro dal viso bruno e i capelli neri come il carbone.

- Sì, siamo invecchiati e non c'è più quell'energia!... - consente Lopnev, sospirando.- Ecco dove sta la cagione... La vecchiaia, "bàtenka" (4)! Nuovi promotori non ce ne sono, e quelli d'un tempo sono invecchiati... Non c è più quel fuoco. Io, quand'ero un po' più giovane non avevo piacere che la compagnia si annoiasse... Ero ii primo aiutante della vostra Anna Pàvlovna... Che si avesse da organizzare una serata a scopo benefico, o una lotteria, o da favorire una celebrità di passaggio, piantavo tutto e mi mettevo a brigare. Un inverno, ricordo, tanto mi strapazzai a brigare e a correre che caddi perfino malato... Non potrò dimenticar quell'inverno!... Ricordate che spettacolo allestimmo io e la vostra Anna Pàvlovna in pro dei danneggiati dal fuoco?

- Ma in quale anno fu ciò?

- Non è tanto tempo... Nel settantanove... No nell'ottanta, mi pare!

Permettete, quanti anni ha ii vostro Vania?

- Cinque! - grida dallo studio Anna Pàvlovna.

- Be, dunque ciò fu sei anni fa... Sissignore, "bàtenka" si facevan grandi cose! Ora non è più quello! Non c'è più quel fuoco!

Lopnev e Sciaramikin si fanno pensosi. Il ciocco che finisce di ardere s'infiamma per l'ultima volta e si vela di cenere.




NOTE:


1) Secondo la figurazione consacrata da celebri quadri (di Kramskoi, Kuindzi, eccetera), e divenuta quasi convenzionale, del panorama ucraino nelle belle notti estive, quando l'azzurro cupo del cielo si fonde col verde lussureggiante della campagna.

2) I russi, e i francesi, chiamano così il piano a corde verticali.

3) L'espressione "tenore di grazia" è in italiano nel testo.

4) Forma analogo ed equivalente a "bàtiuska".




IL PUNTO ESCLAMATIVO

(RACCONTO DI NATALE)


La notte prima di Natale Jefim Fomic Parekladin, segretario di collegio, si coricò impermalito e persino offeso.

- Spicciati demonio! - ruggì con ira contro la moglie allorché questa domandò perché fosse così accigliato.

Il fatto è che egli era appena tornato da una serata dov'erano state dette molte cose sgradevoli ed offensive per lui. Dapprima s'eran messi a parlare dei vantaggi dell'istruzione in genere, poi inavvertitamente eran passati al grado culturale dei signori impiegati, al qual proposito erano state formulate molte lamentele, rimproveri e perfin derisioni circa il suo basso livello. E qui come usa in tutte le brigate russe, dagli argomenti generali eran passati ai casi personali.

- Prendiamo per esempio, non fosse che voi, Jefìm Fomìc', - si era rivolto a Perekladin un giovinetto.-Voi occupate un posto decoroso,... ma che istruzione avete ricevuto?

- Nessuna. Né da noi si esige istruzione, -aveva risposto con dolcezza Perekladin. - Scrivi correttamente, ed ecco tutto.

- Ma dove mai imparaste a scrivere correttamente?

- Mi ci abituai... In quarant'anni di servizio ci si può far la mano... Certo sul principio era difficile, facevo degli sbagli, ma poi mi abituai... e non c'è male...

- E i segni d'interpunzione? - Anche per i segni d'interpunzione non c'è male...

- Uhm... - si confuse il giovinetto. - Ma l'abitudine è tutt'altra cosa dall'istruzione. Non basta che i segni d'interpunzione li poniate correttamente... non basta. Bisogna porli consapevolmente! Voi mettete una virgola e dovete aver coscienza del perché la mettete...

sissignore! E questa vostra ortografia incosciente... di carattere riflesso non val nemmeno un centesimo. E' produzione meccanica e nulla più.

Perekladin aveva taciuto e perfin sorriso mansuetamente (il giovinetto era figlio d'un consigliere di Stato e aveva diritto lui stesso al grado della decima classe) (1), ma adesso, coricandosi, egli s'era fatto tutto sdegno e rabbia.

«Ho servito per quarant'anni», pensava, «e nessuno mai mi ha dato dell'imbecille, e lì guarda un po' che critici si son trovati!

Incoscientemente!... In modo riflesso! Produzione meccanica... Ah, che il diavolo ti porti! Ma io forse ci capisco anche più di te, per quanto non sia stato nelle tue università!.» Dopo avere mentalmente riversato sul critico tutte le contumelie a lui note ed essersi scaldato sotto la coperta, Perekladin cominciò a calmarsi.

«Io so... capisco... », pensava, addormentandosi. Non metterò i due punti là dove ci vuole la virgola, dunque son consapevole, capisco.

Sì... Proprio così, giovanotto... Prima bisogna vivere un poco, far servizio un poco, e solo poi giudicare i vecchi... Negli occhi scusi di Perekladin che si stava addormentando, attraverso una massa di scure nuvole sorridenti passò a volo come una meteora una virgola infocata. Dopo di essa un'altra, una terza, e ben presto tutto lo sfondo buio, illimitato, che si stendeva davanti alla sua immaginazione si coprì di fitte schiere di virgole volanti...

«Prendiamo magari queste virgole... », pensava Perekladin, sentendo le sue membra dolcemente intorpidirsi a causa del sonno sopravveniente.

«Io le capisco benissimo... Per ciascuna posso trovare il posto, se vuoi... e... e consapevolmente, e non a casaccio... Esaminami, e vedrai... Le virgole si mettono in vari posti, dove occorre e anche dove non occorre. Quanto più imbrogliata riesce la carta, tante più virgole ci vogliono. Si mettono davanti a "il quale" e davanti al "che". Se nella carta si devono enumerare degli impiegati, ciascuno di essi va separato con virgola... Lo so!».

Le virgole dorate presero a girare e fuggirono in disparte. Al posto loro giunsero a volo dei punti infocati...

«E il punto si colloca alla fine della carta... Dove è necessario fare una grande pausa e gettare un'occhiata all'ascoltatore, là pure ci vuole il punto, affinché il segretario, quando leggerà, non resti senza saliva. In nessun altro posto si mette il punto... -.

Tornano a piombar le virgole... Si mescolano coi punti, turbinano, e Perekladin vede tutta una schiera di punti e virgole e di due punti...

«Conosco anche questi... », egli pensa. «Dove la virgola non basta e il punto è troppo, là ci vuole il punto e virgola. Davanti al "ma" e al "conseguentemente" metto sempre il punto e virgola... Ebbene, e i due punti? I due punti si mettono dopo le parole: "abbiamo stabilito", "abbiamo deciso"... ».

I punti e virgola e i due punti si spensero. Venne la volta dei punti interrogativi. Questi balzarono fuori dalle nuvole e si misero a ballare il cancan...

«Che rarità: il punto interrogativo! Ma fossero anche mille, per tutti troverei il posto. Si collocan sempre quando c'e da fare una richiesta o, poniamo, informarsi di un documento... "Dove è stato riportato il residuo delle somme per il tale anno?", oppure: "Non riterrebbe possibile la direzione di polizia che la detta Ivànova eccetera?"...

».

I punti interrogativi presero ad accennare in segno di approvazione coi loro uncini e istantaneamente, come a un comando, si allungarono in punti esclamativi...

«Uhm!... Questo segno d'interpunzione nelle lettere si colloca spesso.

"Mio egregio signore!", oppure: "Eccellenza, padre e benefattore!"...

Ma nelle carte, quando?».

I punti interrogativi si allungarono anche più e si fermarono in attesa...

«Nelle carte si mettono, quando... cioè... questo... come sarebbe?

Uhm!... In realtà, quando mai si mettono nelle carte? Un momento...

Dio, fammi ricordare. Uhm!».

Perekladin aprì gli occhi e si girò sull'altro fianco. Ma non fece in tempo a richiuder gli occhi, che sul fondo scuro comparvero nuovamente i punti esclamativi.

«Il diavolo li porti... Quando mai bisogna metterli?», pensò, cercando di scacciare dalla sua immaginazione i non richiesti ospiti.

«Possibile che l'abbia dimenticato? O l'ho dimenticato, oppure... non ne ho mai messi... ».

Perekladin prese a rammentarsi il contenuto di tutte le carte ch'egli aveva scritto durante i quarant'anni del suo servizio; ma per quanto pensasse, per quanto corrugasse la fronte, non trovò nel suo passato nemmeno un punto esclamativo.

«Che disdetta! Ho scritto per quarant'anni e neppure una volta ho collocato un punto esclamativo... Uhm! Ma quando dunque si colloca, quel diavolo lungo? ».

Di dietro la fila degl'infocati punti esclamativi si mostrò il grugno perfidamente ridente del giovane critico. Gli stessi punti sorrisero e si fusero in un solo grande punto esclamativo.

Perekladin scosse il capo e aprì gli occhi.

«Il diavolo sa quel che è... -, pensò. - Domani bisogna alzarsi per il mattutino, e a me non esce di capo questa diavoleria... Poh! Ma...

quando mai si mette? Eccoti l'abitudine! Ecco come ti sei fatto la mano! In quarant'anni nemmeno un punto esclamativo! Eh?».

Perekladin si fece il segno di croce e chiuse gli occhi ma subito li riaprì; sul fondo scuro stava tuttora il grosso punto esclamativo...

«Poh! A questo modo non ti addormenterai in tutta la notte».- Marfuscia! - si rivolse a sua moglie, che spesso si vantava con lui d'aver terminato i corsi in collegio. - Non sai tu, anima mia, quando si colloca nelle carte ii punto esclamativo?

- E come non saperlo! Non per nulla studiai sette anni in collegio. So a memoria tutta la grammatica. Questo segno si colloca nelle apostrofi, nelle esclamazioni e nelle espressioni di entusiasmo, di sdegno, di gioia, di collera e di altri sentimenti... ».

«Ah, così... », pensò Perekladin. «Entusiasmo, sdegno, gioia, collera e altri sentimenti... », Il segretario di collegio si fece pensoso... Per quarant'anni aveva scritto carte, ne aveva scritto delle migliaia, decine di migliaia, ma non ricordava nemmeno un rigo che esprimesse entusiasmo, sdegno o qualcosa del genere.

«E altri sentimenti... » pensava. «Ma forse che nelle carte son necessari i sentimenti?Può scriverle anche una persona insensibile...».

Il grugno del giovane critico tornò ad affacciarsi dietro al punto infocato e sorrise perfidamente. Perekladin si sollevò a sedere sul letto. La testa gli doleva, sulla fronte gli era spuntato un sudore freddo... in un canto ardeva tenue, carezzevole, il lumino dell'icona, i mobili avevano un'aria festiva, linda, da ogni cosa addirittura spirava calore e presenza d'una mano femminile, ma il povero impiegatuccio sentiva freddo, sconforto, come se si fosse ammalato di tifo. Il punto esclamativo non si drizzava più nei suoi occhi chiusi, ma davanti a lui, nella camera, presso la specchiera della moglie, e gli ammiccava beffardamente...

- Macchina scrivente! Macchina! - sussurrava il fantasma, soffiando sull'impiegato un freddo secco. - Pezzo di legno insensibile!

L'impiegato si coprì con la coperta, ma anche sotto la coperta vide il fantasma; appoggiò il viso alla spalla della moglie, e anche di dietro quella spalla spuntava la stessa cosa... Tutta la notte si tormentò il povero Perekladin, ma anche di giorno il fantasma non lo lasciò. Egli lo vedeva dappertutto: negli stivali che infilava, nel piattino del tè, nella croce di Stanislao...

«E altri sentimenti... » -, pensava. - «E' vero che non ci fu mai alcun sentimento... Ora andrò dai superiori a metter la firma... forse che ciò si fa con sentimento? Così, a casaccio... Macchina da far gli auguri... ».

Quando Perekladin uscì in strada e chiamò una vettura, gli parve che, in luogo della vettura, gli rotolasse incontro il punto esclamativo.

Giunto nell'anticamera del superiore, invece dello svizzero vide quello stesso segno... E tutto ciò gli parlava di entusiasmo, di sdegno, di collera... Il portapenne col pennino aveva pure l'aspetto d'un punto esclamativo. Perekladin lo prese, intinse il pennino nell'inchiostro e firmò:

«Segretario di collegio Jefim Perekladin!!!».

E collocando questi tre segni, egli provava entusiasmo, indignazione, gioia e ribolliva di collera.

- To' questo! To' questo! - mormorava, premendo sul pennino.

Il segno infocato fu pago e scomparve.




NOTE:


1) Quello cioè, contando dall'alto, di segretario di collegio.




EH, IL PUBBLICO!


- Basta, non berrò più!... Per... per nulla al mondo! E' tempo ormai di metter giudizio. Bisogna lavorare, darsi da fare... Ti piace ricever lo stipendio, lavora dunque onestamente, con zelo, in coscienza, noncurante della quiete e del sonno. Smetti di gingillarti... Ti sei avvezzato, caro, a riscuoter lo stipendio per nulla, e questo ecco, non è bene... non è bene...

Fattosi alcuni predicozzi consimili, il capotreno Podtiaghin comincia a sentire un'invincibile aspirazione al lavoro. E' già l'una di notte passata, ciò nonostante egli sveglia i controllori e insieme con essi va per le carrozze a verificare i biglietti.

- I vvostri... biglietti!-egli grida, facendo allegramente schioccar le pinze.

Figure assonnate, avvolte nella penombra della carrozza, sussultano, scuotono il capo e porgono i loro biglietti.

- I vvostri.. biglietti! - si rivolge Podtiaghin a un passeggero di seconda classe, un uomo scarno avviluppato in pelliccia e coperta e circondato da guanciali. - I vvostri... biglietti!

L'uomo dalle vene grosse non risponde. E' immerso nel sonno. Il capotreno lo tocca in una spalla e ripete impaziente:

- I vvostri... biglietti.

Il passeggero sussulta, apre gli occhi e guarda sgomento Podtiaghin.

- Che cosa? Chi? eh?

- Vi si dice in linguaggio umano: i vvostri... biglietti! Da-a-tevi la briga!

- Dio mio!-geme l'uomo dalle vene grosse facendo un viso piagnucoloso. - O Signore, Dio mio! Soffro di reumatismi... per tre notti non ho dormito, apposta ho preso la morfina per addormentarmi, e voi... ce l'avete col biglietto! Ma questo è spietato, inumano! Se sapeste come mi è difficile prender sonno, non mi avreste incomodato per una simile bazzecola... E' spietato, assurdo! E che bisogno avete del mio biglietto? E' perfino sciocco!

Podtiaghin pensa se ha da offendersi o no, e risolve di offendersi.

- Voi qui non gridate! Questa non è una bettola! - dice.

- Ma alla bettola la gente è più umana...-e il passeggero tossisce. - Ho voglia io adesso di addormentarmi una seconda volta!

E cosa stupefacente: ho viaggiato dappertutto all'estero e là nessuno mi chiedeva il biglietto invece qui, come se il diavolo li spingesse sotto il gomito, non si fa altro, non si fa altro!...

- Be', allora andate all'estero, se là vi trovate bene.

- E' una cosa sciocca, signore! Sì! Non basta che facciano morire i passeggeri col fumo, con l'afa e le correnti d'aria vogliono anche, che il diavolo lo porti, accopparli col formalismo. Ha sentito bisogno del biglietto! Dite un po', che zelo! Meno male se ciò si facesse per controllo, ma invece metà del treno viaggia senza biglietti!

- Date ascolto, signore! - s'infiamma Podtiaghin. - E se non la smetterete di gridare e di disturbare il pubblico, sarò costretto a farvi scendere alla stazione e a stender verbale sul fatto!

- E' rivoltante!- s'indigna il pubblico. - Si attacca a una persona malata! Ascoltate, abbiate dunque compassione!

- Ma è il signore stesso a insolentire! - s'intimidisce Podtiaghin.

- Bene, non mi farò dare il biglietto... Come volete... Solo che, lo sapete anche voi, il mio servizio esige ciò... Se non fosse il servizio, allora certo... Potete anzi domandare al capostazione...

Domandate a chi volete...

Podtiaghin si stringe nelle spalle e s'allontana dal malato. Dapprima si sente offeso e un po' bistrattato, ma poi, attraversate due o tre carrozze, comincia ad avvertire nel suo petto di capotreno una certa inquietudine, simile ai rimorsi di coscienza.

«Realmente, non bisognava svegliare un malato», pensa. «Del resto, io non ci ho colpa... Quei là pensano ch'io lo faccia per capriccio, non avendo niente da fare, e non sanno che lo esige il servizio... Se non credono, io posso condur da loro il capostazione».

La stazione. Il treno si ferma cinque minuti. Prima del terzo squillo di campanello, nella descritta carrozza di seconda classe entra Podtiaghin. Dietro a lui incede il capo-stazione, in berretto rosso.

- Ecco, questo signore, - comincia Podtiaghin dice che non ho il diritto di chiedergli il biglietto e... si offende. Vi prego, signor capostazione, di spiegargli se io pretendo il biglietto per dover di servizio o a capriccio. Signore. - Podtiaghin si rivolge all'uomo dalle vene grosse. -Signore! Ecco, potete domandare al capostazione, se a me non credete.

Il malato sussulta, come punto, apre gli occhi e fatto un viso piagnucoloso, si rovescia sulla spalliera del divano.

- Dio mio! Ho preso un'altra polverina e ho appena cominciato ad assopirmi, che lui di nuovo... di nuovo! Vi supplico abbiate pietà!

- Ecco, potete parlare col signor capostazione... Io ho il diritto di chiedere il biglietto o no?

- E' una cosa insopportabile! To' il vostro biglietto! To' io prenderò altri cinque biglietti, lasciatemi soltanto morire in pace! Possibile che voi non siate mai stato malato? Gente insensibile!

- Lasciate... - si acciglia il capostazione, tirando Podtiaghin per la manica.

Podtiaghin si stringe nelle spalle e se ne va lentamente dietro il capostazione.

«Hai voglia qui di compiacerli!», pensa perplesso. «E' per lui che ho chiamato il capostazione, perché capisse, si calmasse, e lui...

insolentisce».

Un'altra stazione. Il treno si ferma dieci minuti. Prima del secondo segnale, mente Podtiaghin sta in piedi vicino al ristoro e beve dell'acqua di seltz, gli si accostano due signori, uno in divisa d'ingegnere, l'altro in cappotto militare.

Sentite, capotreno! si rivolge l'ingegnere a Potdiaghin. - Il vostro contegno verso un passeggero malato ha indignato tutti i presenti. Io sono l'ingegnere Pusitski, ed ecco... il signor colonnello. Se voi non vi scuserete col passeggero, presenteremo un reclamo al capo del movimento, nostra comune conoscenza.

- Signori, ma se io... ma se voi... - s'intimorì Podtiaghin.

- Non ci occorrono spiegazioni. Ma vi avvertiamo che, se non vi scuserete, noi prenderemo il passeggero sotto la nostra protezione.

- Bene, io... io, sia pure, mi scuserò... Come volete...

Di lì a mezz'ora Podtiaghin, escogitata una frase di scusa che soddisfi il passeggero e non sminuisca la sua dignità, entra nella carrozza.

- Signore! - si rivolge al malato. - Ascoltate, Signore!

Il malato sussulta e balza in piedi.

- Che cosa?

- Io, già.. come dire?... Non offendetevi...

- Oh... dell'acqua... - ansima il malato, afferrandosi il cuore. - Ho preso la terza dose di morfina, mi sono assopito e... di nuovo!

Dio, quando mai finirà una buona volta questa tortura?

- Io, già... Scusate...

- Sentite... Fatemi scendere alla prossima stazione... Non sono in grado di sopportar oltre... Io... io muoio...

- Ciò è vile, ignobile! - si rivolta il pubblico. - Alzate i tacchi da qui! Una simile presa in giro la pagherete! Fuori!

Podtiaghin fa un gesto con la mano, sospira e esce dalla carrozza. Va nella vettura di servizio, si mette a sedere esausto davanti alla tavola e si lagna:

- Eh, il pubblico! Ecco, cercate di compiacerlo! Ecco. cercate di fare il vostro servizio, di darvi da fare. Per forza forza sputi su tutto e ti dai a bere... Non fai nulla: si arrabbiano, ti metti a fare: si arrabbiano pure... Bere!

Podtiaghin vuota in una volta una mezza bottiglia e più non pensa al lavoro, al dovere e all'onestà.




LA LOTA


Mattino estivo. Nell'aria c'è silenzio; solo una cavalletta stride ogni tanto sulla riva e in qualche posto timidamente brontola un aquilotto. Nel cielo stanno immobili delle nubi piumose, simili a neve sparpagliata... Vicino al bagno in costruzione, sotto le verdi fronde di un salcio, si dibatte nell'acqua il carpentiere Gherassim, un contadino alto, scarno, dalla testa rossa ricciuta e il viso irto di peli. Egli sbuffa, riprende fiato e, strizzando fortemente gli occhi, si sforza di tirar fuori qualcosa di sotto le radici del salcio. La sua faccia è coperta di sudore. A una tesa da Gherassim, nell'acqua fino alla gola, sta il carpentiere Liubìm, un giovane contadino gobbo dal viso triangolare e gli occhietti stretti, da cinese. Entrambi, Gherassim come Liubìm, sono in camicia e mutande. Sono illividiti dal freddo, perché ormai da più d'un'ora stanno nell'acqua...

- Ma tu perché tasti sempre con la mano? - grida il gobbo Liubìm, tremando come nella febbre. - Testa di cavolo che sei! Tu tienila, tienila, se no scapperà, la maledetta! Tienila, dico!

- Non scapperà... Dove dovrebbe scappare? S'è cacciata sotto le radici... - dice Gherassim con voce arrochita, sorda di basso, che viene non dalla laringe, ma dal profondo del ventre. - E' viscida, questa diavola, e non si sa per che cosa acchiapparla.

- Tu chiappala per le branchie, per le branchie!

- Non si vedon le branchie... Aspetta, l'ho acchiappata per qualche cosa... Per il labbro l'ho acchiappata... Morde, questa diavola!

- Non tirarla per il labbro, non tirarla: la lascerai andare! Per le branchie acchiappala, per le branchie acchiappala! Di nuovo s'è messo a tastar con la mano! Ma che contadino senza cervello, perdonami, Regina dei Cieli! Chiappala!

- "Chiappala"... - lo contraffà Gherassim. - Che comandante s'è trovato!... Dovresti venire e acchiapparla tu stesso, diavolo gobbo...

Perché stai lì?

- Io l'avrei acchiappata, se fosse stato possibile... O che, con la mia bassa corporatura, si può stare in piedi sotto la riva? Lì è profondo!

- Non fa nulla che sia profondo... Tu a nuoto...

Il gobbo agita le braccia, nuota verso Gherassim e si aggrappa ai rami. Ma al primo tentativo di mettersi in piedi, va con la testa sott'acqua e manda fuori delle bolle d'aria.

- Lo dicevo ch'è profondo! - egli dice, rotando con ira il bianco degli occhi. - Monto sul collo a te, eh?

- E tu sali sopra una radice... Di radici ce n'è molte, come una scala...

Il gobbo tasta col tallone una radice e, aggrappatosi saldamente ad alcuni rami ad un tempo, ci sale sopra... Equilibratosi bene e consolidatosi nella nuova posizione, si curva e, cercando di non ingerire acqua, comincia con la mano destra a frugare tra le radici.

Imbrogliandosi nelle erbe acquatiche, scivolando sul musco che riveste le radici, la sua mano incontra le chele pungenti d'un gambero.

- Ci mancavi ancora tu qui, diavolo! - dice Liubìm e con rabbia scaglia il gambero sulla riva.

Infine la sua mano trova a tastoni il braccio di Gherassim e, calando giù lungo quello, arriva a qualcosa di lubrico, di freddo.

- E-eccola!...- sorride Liubìm. - E' gro-ossa, la diavola...

Allarga un po' le dita, io subito.. per le branchie... Aspetta, non urtarmi col gomito... io subito la... subito... lascia solo che l'afferri... S'è cacciata lontano sotto la radice, questa diavola, non c'è nemmeno dove aggrapparsi... Non si può arrivare alla testa... Si tocca soltanto la pancia... Ammazzami sul collo una zanzara: mi punge!

Io subito... sotto le branchie la prenderò... Va' un po' di fianco, spingila, spingila! Punzecchiala col dito!

Il gobbo, gonfiate le guance, trattenuto il respiro, sgrana gli occhi e, a quanto pare, già insinua le dita «sotto le branchie», ma a questo punto i rami a cui si abbranca la sua mano sinistra si spezzano, ed egli, perduto l'equilibrio, capitombola nell'acqua! Come spaventati, corron via dalla riva dei cerchi ondeggianti e nel punto della caduta vengon su delle bolle. Il gobbo viene a galla a nuoto e, sbuffando, si afferra ai rami.

- Affogherai ancora, diavolo, toccherà rispondere per te!... - dice rauco Gherassim. - Esci fuori, su, e vattene alla malora! Io stesso la tirerò via!

Cominciano gl'improperi... E il sole brucia, brucia. Le ombre si fanno più brevi e rientrano in se stesse, come le corna della lumaca...

L'erba alta, scaldata dal sole, comincia a emanare un odore denso, stucchevolmente dolciastro. Ben presto è mezzogiorno, ma Gherassim e Liubìm tuttora si dibattono sotto il salcio. La voce rauca di basso e quella tenorile infreddolita, stridula rompono senza posa il silenzio della giornata estiva.

- Tirala per le branchie, tirala! Aspetta, io la spingerò fuori! Ma dove ficchi il tuo pugnaccio? Tu fa' col dito e non col pugno, grinta!

Vieni di fianco! Da sinistra vieni, da sinistra, ché a destra c'è una buca! Servirai di cena al lupo mannaro! Tira per il labbro!

Si sente lo schioccar d'una frusta... Per la riva in pendio si trascina pigramente all'abbeveratoio un armento, cacciato avanti dal pastore Jefìm. Il pastore, un vecchio decrepito con un occhio solo e la bocca storta, cammina a capo chino e si guarda sotto i piedi. Per prime s'avvicinano all'acqua le pecore, dopo di esse i cavalli, dopo i cavalli le vacche.

- Spingila un poco dal basso! - egli ode la voce di Liubìm. - Ficcaci un dito! Ma sei sordo, dia-avolo, o che? Poh!

- Ma chi è fratelli? - grida Jefìm.

- Una lota! Non c'è verso di tirarla fuori! Sotto una radice s'è cacciata! Vieni di fianco! Vieni, vieni!

Jefìm per un minuto strizza il suo occhio sui pescatori, poi si toglie i "lapti" (1), getta giù dalle spalle un sacchetto e si leva la camicia. Di togliersi le mutande non ha pazienza, segnatosi, bilanciando le braccia magre, scure, entra in mutande nell'acqua...

Per una cinquantina di passi procede sul fondo melmoso, ma poi si butta a nuoto.

- Aspettate, ragazzi! - grida. - Aspettate! Non tiratela fuori a casaccio, la lascerete scappare. Bisogna saper fare!...

Jefìm si unisce ai carpentieri, e tutt'e tre, urtandosi l'un l'altro coi gomiti e coi ginocchi, sbuffando e imprecando, si pigiano nello stesso punto... Il gobbo Liubìm inghiotte acqua e l'aria echeggia di una tosse aspra, convulsa.

- Dov'è il pastore?- si sente un grido dalla riva - Jefì-ìm!

Pastore! Dove sei? L'armento è entrato in giardino! Caccialo, caccialo dal giardino! Caccialo! Ma dov'è dunque, il vecchio brigante?

Si odono voci maschili, poi una femminile... Di dietro il cancello del giardino padronale si mostra il padrone Andréi Andreic' in veste da casa di seta persiana e con un giornale in mano... Egli guarda interrogativamente dalla parte delle grida che giungono dal fiume, e poi trotterella rapido verso il bagno...

- Che c'è qui? Chi bercia? - domanda severamente avendo scorto attraverso i rami del salcio le tre teste bagnate del pescatori. - Perché vi affannate qui?

- Un pe... un pesce acchiappiamo... - balbetta Jefìm senz'alzare il capo.

- Te lo darò io il pesce! L'armento è entrato in giardino, e lui: un pesce!... Ma quando sarà finito il bagno diavoli? Son due giorni che lavorate, e dov'è il vostro lavoro?

- Sa... sarà finito... - gracchia Gherassim. - L'estate è lunga, farai ancora in tempo, signoria, a lavarti... Brrr... In nessun modo qui possiamo venir a capo d'una lota... S'è cacciata sotto una radice ed è come in una tana: non va né su né giù...

- Una lota? - domanda il padrone e i suoi occhi si fanno lustri. - Allora tiratela fuori alla svelta!

- Poi ci darai un mezzo rubletto... Ti serviremo da amici se... Una lota enorme, che la tua mercantessa... Vale, signoria, un mezzo rublo... per le fatiche. Non brancicarla, Liubìm, non brancicarla, se no la farai morire! Spingi dal basso! Tira un po' la radice all'insù brav'uomo... come ti chiami? All'insù, e non all'ingiù diavolo! Non agitate le gambe!

Passano cinque minuti, dieci... Il padrone non ne può più dall'impazienza.

- Vassili! - grida, voltandosi verso la casa padronale. - Vaska!

Chiamatemi Vassili!

Accorre il cocchiere Vassili. Sta masticando qualcosa e respira pesantemente. - Scendi in acqua, - gli ordina il padrone,- aiutali a tirar fuori la lota... Non possono tirar fuori una lota!

Vassili si spoglia rapidamente e scende in acqua.

- Io subito... - borbotta. - Dov'è la lota? Io subito... Faremo questo in un batter d'occhio! E tu dovresti andartene. Jefìm! Qui, vecchio, non hai da mischiarti negli affari altrui! Che lota c'è qui?

Io subito... Eccola! Lasciate andar le mani!

- E perché: lasciate andare le mani? Lo sappiamo anche noi: lasciate andar le mani! E tu tirala fuori!

- Ma è forse così che la tirerai fuori? Bisogna prenderla per la testa!

- E la testa è sotto la radice! E' Cosa nota, stupido!

- Be', non ingiuriare, se no ne vola una! Marmaglia!

- In presenza dei signor padrone e simili parole...-balbetta Jefìm.- Non la tirerete fuori, fratelli! Troppo destramente s'è ficcata lì!

- Aspettate un momento, io subito... - dice il padrone e comincia frettoloso a svestirsi. - Siete in quattro imbecilli, e non potete tirar fuori la lota!

Svestitosi, Andréi Andreic' si lascia freddare un poco ed entra in acqua. Ma anche il suo intervento non approda a nulla.

- Bisogna tagliar la radice! - conclude infine Liubìm. Gherassim, va' a prender la scure! Date qui una scure!

- Non tagliatevi le dita! - dice il padrone, quando si odono i colpi sott'acqua della scure contro la radice. - Jefìm, vattene di qua!

Aspettate, io tirerò fuori la lota... Voi non...

La radice è stata tagliata dal disotto. La sforzano un poco, e Andréi Andreic', con gran piacere, sente che le sue dita penetrano sotto le branchie della lota.

- La sto tirando, fratelli! Non affollatevi... state fermi... la sto tirando!

Alla superficie compare la grossa testa della lota e, dopo di essa, il corpo nero, lungo un "arscìn". La lota rigira pesantemente la coda e cerca di sfuggire.

- Tu scherzi... Non ce la fai, cara. Ci sei cascata? Ah-ah!

Su tutte le facce si effonde un sorriso di miele. Un minuto trascorre in silenziosa contemplazione.

- Una lota coi fiocchi! - balbetta Jefìm, grattandosi sotto le clavicole. - Sarà, penso, una decina di libbre...

- E già... - consente il padrone.-il fegato le palpita addirittura. Come spinto dal didietro. A... ah!

La lota ad un tratto inaspettatamente fa con la coda un brusco movimento all'insù e i pescatori sentono un forte tonfo... Tutti allargano le mani, ma è troppo tardi: la lota, chi l'ha vista l'ha vista.




NOTE:


1)Le rozze scarpe di corteccia o di fibra vegetale del contadino russo.




IL CAMALEONTE


Attraverso la piazza del mercato va il commissario rionale di polizia Ociumielov in cappotto nuovo e con un fagottino in mano. Dietro a lui cammina una guardia dai capelli rossicci con un setaccio colmo fino all'orlo di uva spina sequestrata. All'ingiro silenzio... Sulla piazza non un'anima... Le porte aperte delle botteghe e delle bettole guardano tristemente il mondo creato, come fauci affamate; accanto ad esse non ci sono neppur mendicanti.

- E così tu mordi, maledetto! - ode a un tratto Ociumielov. - Ragazzi, non lasciatelo scappare! Oggidì è proibito mordere! Tienlo!

A... ah!

Si sente uno strillo canino. Ociumielov guarda da un lato e vede che dal deposito di legna del mercante Piciughin, saltando su tre zampe e voltandosi indietro, corre via un cane. Lo rincorre un uomo in camicia di percalle inamidata e panciotto sbottonato. Gli corre dietro e, sporgendosi col corpo in avanti, cade a terra e afferra il cane per le zampe posteriori. Si sente un secondo guaito e il grido: «Non lasciarlo andare!». Dalle botteghe si affacciano fisonomie assonnate e ben presto vicino al deposito di legna, come spuntata di sotterra, si raduna una folla.

- Qualche disordine, pare, signoria!... - dice la guardia.

Ociumielov fa un mezzo giro a sinistra e va verso l'assembramento.

Proprio vicino al portone del deposito vede che sta l'uomo sopra descritto e, levando in alto la mano destra, mostra alla folla un dito insanguinato. Sulla sua faccia semiebbra par che sia scritto: «Ora ti stronco, furfante!», e anche il dito stesso ha l'aspetto d'un segno di vittoria. In quest'uomo Ociumielov riconosce l'orefice Chriukin. Al centro della folla. Con le zampe anteriori divaricate e tremante in tutto il corpo, è accovacciato al suolo l'autore dello scandalo in persona: un cucciolo bianco di levriero dal muso aguzzo e con una macchia gialla sul dorso. Nei suoi occhi lacrimosi è un'espressione d'angoscia e di sgomento.

- Che cosa succede qui? - domanda Ociumielov, fendendo la folla. - Perché questo? Perché mostri il dito?... Chi ha gridato?

- Io vado, signoria, e non tocco nessuno... - comincia Chriukin, tossendo nella mano, - sto parlando della legna con Mitri Mitric', e tutt'a un tratto questo vigliacco, che è che non è, mi morde il dito... Voi mi scuserete, io sono un uomo che lavora... Il mio è un lavoro minuto. Bisogna che m'indennizzino, perché io con questo dito forse per una settimana non farò un movimento... Anche nella legge, signoria, non sta scritto che da una bestia si debba tollerare... Se ognuno potrà mordere, sarà meglio neppur vivere al mondo...

- Uhm!... Bene... - dice Ociumielov severamente tossendo e movendo i sopraccigli.- Bene... Di chi è il cane? Io non la lascerò così.

V'insegnerò a lasciar liberi i cani! E' ora di rivolger l'attenzione a simili signori che non vogliono sottostare alle disposizioni! Quando gli daranno una multa, al mascalzone, imparerà da me che cosa voglion dire i cani e le altre bestie randagie! Gli farò veder io!... Eldirin, - si rivolge il commissario alla guardia, - cerca di sapere di chi è il cane e stendi verbale! E il cane va soppresso. Senza indugio! Di sicuro è arrabbiato... Di chi è il cane, domando?

- A quanto pare, è del generale Zigalov! -dice qualcuno della folla.

- Del generale Zigalov? Uhm!... Toglimi un po' il cappotto, Eldirin...

Fa un caldo terribile! S'ha da supporre che stia per piovere... Una sola cosa non capisco: come ha potuto morderti? -si rivolge Ociumielov a Chriukin. - Forse che può arrivarti al dito? E' piccolo e tu guarda lì che uomo grande e grosso sei! Tu probabilmente ti sei graffiato il dito con un chiodino, e poi t'è venuta in testa l'idea di spillar quattrini. Tu, già... che gente siete si sa! Vi conosco, diavoli!

- Lui, signoria, gli ha premuto il sigaro sul naso per divertirsi, e lui, non essendo stupido, zaff... Un attaccabrighe, signoria!

- Mentisci, guercio! Non hai visto, e quindi perché mentire? Sua signoria è un signore intelligente e capisce chi dice bugia e chi parla in coscienza, come davanti a Dio... E se io mentisco, ne giudichi il conciliatore. Da lui, nella legge è detto... Oggidì tutti sono uguali... Io stesso ho un fratello nei gendarmi... se volete sapere...

- Non discutete!

- No, non è del generale... - osserva significativamente la guardia.

-Il generale di così non ne ha. Lui ha soprattutto dei cani da fermo...

- Lo sai di sicuro?

- Di sicuro, signoria...

- Lo so anch'io. Il generale ha dei cani di prezzo, di razza, e questo lo sa il diavolo che cos'è! Né pelo né figura... una cosa ignobile, nient'altro... E tenere un simile cane?!... Ma dove ce l'avete l'intelligenza? Se s'incontrasse un cane simile a Pietroburgo o a Mosca, sapete che avverrebbe? Là non guarderebbero nella legge, ma sul momento: muori! Tu, Chriukin, hai patito un danno e non lasciar questa faccenda così... E' necessario dare una lezione! E' ora...

- Ma fors'anche è del generale... - pensa ad alta voce la guardia.

- Sul muso non ce l'ha scritto... Giorni fa nel suo cortile ne vidi uno così.

- Si sa, è del generale! - dice una voce dalla folla.

- Uhm!... Mettimi addosso, caro Eldirin, il cappotto... Tira un po' di vento... Ho dei brividi... Tu lo porterai dal generale e là domanderai. Dirai che l'ho trovato e mandato io... E di' che non lo lascino andar sulla strada... Forse è di prezzo, e se ogni porco gli premerà il sigaro sul naso, ci vorrà molto a rovinarlo? Il cane è una bestia delicata... E tu, tanghero, abbassa la mano! Non hai da mettere in mostra il tuo stupido dito! Tu stesso ci hai colpa!...

- Viene il cuoco del generale, gli domanderemo... Ehi, Prochor! Vieni un po' qua, caro! Da' un'occhiata al cane... E' vostro?

- Che idea! Di simili da noi non ce ne sono stati mai.

- E qui non c'è da far tante domande, - dice Ociumielov. - E' un cane randagio! Non C'è da far lunghi discorsi... Se ho detto ch'è randagio, vuol dire ch'è randagio... Sopprimerlo, ecco tutto.

- Non è nostro, - continua Prochor.-E' del fratello del generale, ch'è arrivato l'altro giorno. Il nostro non è amante dei levrieri. Suo fratello ci ha passione... - Ma che è arrivato suo fratello? Vladimir Ivanic'? - domanda Ociumielov, e tutta la sua faccia s'inonda d'un sorriso d'intenerimento.-Guarda un po', Signore! E io che non lo sapevo! E' venuto in visita per un po' di tempo?

- In visita...

- Guarda un po', Signore!... Sentiva la mancanza del fratello... E io nemmeno lo sapevo! Così questo è il suo cagnolino? Molto piacere...

Prendilo... Il cagnuzzo non è male... E' così vispo... Ha dato un morso a costui nel dito! Ah-ah-ah!... Su via, perché tremi? Rrr...

Rr... Si arrabbia il briccone... è un tal cagnetto...

Prochor chiama il cane e s'allontana con esso dal deposito di legna...

La folla ride forte di Chriukin.

- Arriverò ancora fino a te! - lo minaccia Ociumielov-e, chiudendosi nel cappotto, continua il suo cammino per la piazza del mercato.




UNA CALUNNIA


L'insegnante di calligrafia Serghéi Kapitonic' Achineiev dava in sposa la sua figliuola Natalia all'insegnante di storia e geografia Ivàn Petrovic' Losciadinich. Il trattenimento nuziale filava liscio come un olio. In sala si cantava, si sonava, si danzava. Per le stanze, come invasati, correvano avanti e indietro i domestici presi a nolo al circolo, in marsine nere e cravatte bianche sudicie. C'era chiasso e vocio. L'insegnante di matematica Taràntulov, il francese Padekuà e il più giovane revisore della corte dei conti Jegòr Venediktic' Mzda, seduti in fila sul divano, affrettandosi e interrompendosi a vicenda, raccontavano agli ospiti dei casi di seppellimento di vivi ed esprimevano la loro opinione sullo spiritismo. Tutti e tre non credevano nello spiritismo, ma ammettevano che in questo mondo ci son molte cose che la mente umana non penetrerà mai. In un'altra stanza l'insegnante di letteratura Dodonski spiegava agli ospiti i casi in cui la sentinella ha il diritto di sparare su chi passa. Le conversazioni erano, come vedete, paurose, ma assai piacevoli. Dal cortile curiosavano alle finestre delle persone che, per la loro condizione sociale, non avevano il diritto di entrar dentro.

A mezzanotte in punto il padron di casa Achineiev andò in cucina a vedere se tutto fosse pronto per la cena. In cucina dal pavimento al soffitto era sospeso un fumo costituito dagli effluvi d'oca, d'anatra e numerosi altri. Su due tavole eran distribuiti e disposti in artistico disordine gli attributi del servizio d'antipasti e aperitivi. Intorno alle tavole si affaccendava la cuoca Marfa, una donna rossa con doppio ventre serrato alla cintola.

- Fammi un po' vedere lo storione, "màtuska"! - disse Achineiev, fregandosi le mani e leccandosi le labbra.

- Ma che odore, che zaffata! Mi mangerei addirittura tutta la cucina!

Su dunque, fa' vedere lo storione!

Marfa s'avvicinò a un panchetto e cautamente sollevò un foglio di giornale unto. Sotto questo foglio, in un piatto enorme, riposava un grosso storione in gelatina, screziato di capperi, olive e carotine.

Achineiev guardò lo storione e fece un «ah!». Il viso gli raggiò, gli occhi si strabuzzarono. Egli si chinò ed emise con le labbra il suono d'una ruota non lubrificata. Dopo un po' di sosta, schioccò le dita dal piacere e fece un altro schiocco con le labbra.

- Oibò! Il suono di un ardente bacio... Con chi ti stai qui baciando, Marfuscia?-s'udì una voce dalla stanza attigua, e sull'uscio comparve la testa rapata dell'aiuto dei sorveglianti di classe, Vankin.-Con chi facevi questo? A-a-ah... molto piacere! Con Serghéi Kapitonic'! Bel nonno, non c'è che dire! Un "tete-à-tete" con una "polacca (1)" da donna!

- Io non ho baciato nessuno, - si confuse Achineiev - chi te l'ha detto, stupido? Son io che... ho schioccato le labbra riguardo... a proposito del piacere... Alla vista del pesce...

- Raccontalo ad altri!

La faccia di Vankin fece un largo sorriso e scomparve dietro l'uscio.

Achineiev arrossì.

«Il diavolo sa quel che è», pensò. «Ora andrà, il mascalzone, a far pettegolezzi. M'infamerà per tutta la città, l'animale...» Achineiev entrò timidamente in sala e guardò in tralice da un lato: dov'era Vankin? Vankin stava accanto al pianoforte e, piegatosi con bravura, bisbigliava qualcosa alla cognata dell'ispettore che rideva.

«Di me sta parlando!», pensò Achineiev. «Di me, che possa scoppiare! E quella ci crede... ci crede! Ride! O Dio mio! No, così non si può lasciar la cosa... no... Bisognerà fare in modo che non gli credano...

Parlerò con tutti loro e gli farò far la figura dell'imbecille pettegolo».

Achineiev si grattò e, senza cessar di confondersi, si avvicinò a Padekuà.

- Dianzi ero in cucina e davo disposizioni riguardo alla cena, - diss'egli al francese. - A voi, lo so, piace il pesce, e io ci ho, "Bàtenka", un certo storione! Lungo due arscini! Eh-eh-eh!... Sì, a proposito... già me ne dimenticavo... In cucina poco fa, con quello storione... un vero aneddoto! Entro poco fa in cucina e voglio osservar le vivande... Guardo lo storione e dal piacere... per l'odore piccante faccio uno schiocco con le labbra! Ma in quel momento entra a un tratto quest'imbecille di Vankin e dice... ah-ah-ah!... e dice: «O- o-oh... vi baciate qui?» Con Marfa, con la cuoca! Che cosa è andato a pensare, lo sciocco! Quella donna non ha grazia né garbo, somiglia a ogni sorta d'animali, e lui... baciarla! Stravagante!

- Chi stravagante? - domandò Taràntulov che s'era avvicinato.

- Ma eccolo lì, Vankin! Entro in cucina...

E raccontò di Vankin.

- M'ha fatto ridere lo stravagante! Ma secondo me è più piacevole baciare un can barbone che Marfa, - soggiunse Achineiev, che si voltò a guardare e vide dietro a sé Mzda.

- Stiamo parlando di Vankin, - gli disse. - Uno strambo! Entra in cucina, mi vede al fianco di Marfa, e avanti a immaginare varie facezie. «Che cosa?», dice, «vi baciate?». Ubriaco com'è, gli era parso. E io, dico, bacerò piuttosto un tacchino che Marfa. E poi ho anche moglie, dico, imbecille che sei. M'ha fatto ridere!

- Chi vi ha fatto ridere?-domandò il prete insegnante di religione, avvicinatosi ad Achineiev.

- Vankin. Me ne sto, sapete, in cucina e guardo lo storione...

E così via. Di lì a forse mezz'ora tutti gli ospiti già sapevano della storia di Vankin e dello storione.

«Adesso glielo racconti pure!», pensava Achineiev, fregandosi le mani.

«Racconti pure!». Lui comincerà a raccontare, e io subito: «Smettila, imbecille, di dir scempiaggini! Sappiamo già tutto!».

E Achineiev si tranquillò al punto che, dalla gioia, vuotò quattro bicchierini di troppo. Accompagnati dopo cena i giovani sposi nella loro camera, egli si ritirò e s'addormentò come un bimbo di nulla colpevole, e il giorno dopo più non ricordava la faccenda dello storione. Ma, ahimè! L'uomo propone e Dio dispone. La mala lingua aveva fatto la mala opera sua, e nulla giovò ad Achineiev la sua astuzia! Dopo una settimana giusta, e precisamente il mercoledì dopo la terza lezione, mentre Achineiev stava in mezzo alla sala degli insegnanti e parlava delle viziose tendenze dell'allievo Vissekin, gli si avvicinò il direttore e lo chiamò in disparte.

- Ecco che è, Serghéi Kapitonic', - disse il direttore. Scusate...

Non è affar mio, ma tuttavia devo farvi capire... E' mio dovere...

Vedete, corrono voci che voi vivete con quella... con la cuoca... Non è affar mio, ma... Vivete con lei, baciatevela... fate quel che volete, soltanto, per favore, non così pubblicamente! Vi prego! Non dimenticate che siete un educatore!

Achineiev si sentì gelare e restò di stucco. Come punto da tutto uno sciame d'api ad un tempo e come annaffiato con acqua bollente, andò a casa. Andava a casa e gli pareva che l'intera città lo guardasse, come se fosse spalmato di catrame... A casa lo attendeva un nuovo guaio.

- Come va che non ingozzi niente? - gli domandò a pranzo la moglie.

- A che cosa ti sei messo a pensare? Pensi agli amoretti? Senti la mancanza di Marfuska? Tutto mi è noto, maometto (2)! Della brava gente mi ha aperto gli occhi! U-u-uh... bbarbaro!

E giù un ceffone sulla sua guancia!... Egli s'alzò da tavola e, senza sentirsi la terra sotto i piedi, senza berretto né pastrano, si trascinò da Vankin. Lo trovò in casa.

- Sei un farabutto tu! - si rivolse Achineiev a Vankin. - Per che cosa m'hai infangato davanti a tutto il mondo? Per che cosa m'hai lanciato una calunnia?

- Che calunnia Che andate a inventare!

- E chi ha spettegolato dicendo che ho baciato Marfa? Non sei tu, mi dirai? Non sei tu, brigante?

Vankin prese a batter gli occhi e ad ammiccare con tutte le fibre del suo viso frusto, alzò gli occhi all'immagine e proferì:

- Che Dio mi castighi! Che i miei occhi possano scoppiare e io restare stecchito, se ho detto anche solo una parola di voi! Che io non abbia più né letto né tetto! Sarebbe poco il colera!...

La sincerità di Vankin era fuori di dubbio. Evidentemente, non era stato lui a spettegolare.

«Ma chi è dunque? Chi?», si diede a pensare Achineiev, passando in rassegna nella sua memoria tutti i propri conoscenti e battendosi in petto. «Chi dunque?».

- Chi dunque? - domanderemo anche noi al lettore...




NOTE:


1) Sopravveste alla polacca, da uomo o da donna, molto vistosa e marziale, con colletto rigido e alamari.

2) Il nome di Maometto è divenuto in Russia, nella forma "machamet", appellativo popolare ingiurioso.




IL FIAMMIFERO SVEDESE

(RACCONTO POLIZIESCO)


La mattina del 6 ottobre 1885 si presentò nell'ufficio del commissario di polizia rurale della seconda sezione del distretto di S. un giovanotto decorosamente vestito e dichiarò che il suo padrone, la cornetta della guardia a riposo Mark Ivànovic' Kliausov, era stato ucciso. Facendo tale dichiarazione, il giovanotto era pallido e oltremodo agitato. Le sue mani tremavano e i suoi occhi eran pieni di sgomento.

- Con chi ho l'onore di parlare? - gli domandò il commissario.

- Psekov, l'intendente di Kliausov. Agronomo e meccanico.

Il commissario e i testimoni (1) giunti sul luogo insieme con Psekov trovarono quanto segue. Vicino all'ala della casa in cui dimorava Kliausov s'affollava una massa di gente. La notizia dell'accaduto era volata con la celerità del lampo per i dintorni, e la gente, grazie alla giornata festiva, si riversava verso la casa da tutti i villaggi circonvicini. C'era chiasso e vocio. Qua e là s'incontravano delle facce pallide, rosse di pianto. L'uscio della camera di Kliausov fu trovato chiuso. Dall'interno sporgeva la chiave.

- Evidentemente, i malfattori si sono introdotti da lui per la finestra, - osservò Psekov durante l'esame dell'uscio.

Andarono nel giardino, dove riusciva la finestra della camera. La finestra aveva un aspetto tetro, sinistro. Era munita d'una tendina verde, scolorita. Un angolo della tendina era lievemente accartocciato, il che dava la possibilità di guardar nella camera.

- Qualcuno di voi ha guardato per la finestra?-domandò il commissario.

- Per nulla, signoria, - disse il giardiniere Jefrèm, un piccolo vecchietto canuto con un viso di sottufficiale a riposo. - S'ha ben altra voglia che di guardare, quando ti tremano i ginocchi!

- Eh, Mark Ivanic', Mark Ivanic'!-sospirò il commissario.

guardando la finestra. - Te lo dicevo io che saresti finito male! Te lo dicevo, anima cara, - non m'hai dato ascolto! Gli stravizi non menano a bene!

- Va ringraziato Jefrèm, - disse Psekov, - senza di lui non ce ne saremmo neppur accorti. A lui per primo venne in mente che qui qualcosa non fosse in regola. Viene da me stamattina e dice: «Ma perché il nostro padrone dorme così a lungo dopo la sbornia? E' un'intera settimana che non esce di camera!». Come mi ebbe detto questo, fu come se qualcuno m'avesse colpito col dorso d'una scure...

Subito mi balenò un pensiero... Lui non si faceva vedere da sabato scorso, e oggi è domenica! Sette giorni: è uno scherzo a dirlo!

- Sì, poveretto... - sospirò ancora una volta il commissario. Un ragazzo intelligente, istruito, tanto buono in compagnia, si può dire, il primo degli uomini. Ma un dissoluto, si abbia il regno dei cieli!

Io mi aspettavo tutto! Stepàn! - si rivolse il commissario a uno dei testimoni: - passa sul momento al mio ufficio e manda Andriuska dall'"ispravnik", gli riferisca! Di': "hanno ammazzato Mark Ivanic'!".

Corri anche dal brigadiere: perché sta là a crogiolarsi? Che venga qui! E tu stesso recati, al più presto possibile, dal giudice istruttore: Nikolài Jermolaic' e digli di venir qua! Aspetta, gli scriverò una lettera.

Il commissario dispose delle guardie all'ala della casa. Scrisse la lettera al giudice istruttore e andò dall'intendente a prendere il tè.

Di lì a una decina di minuti era seduto su uno sgabello, mordeva cautamente nel pezzo di zucchero e sorbiva un tè caldo come i carboni ardenti.

- Ecco-diceva egli a Psekov. - Ecco... Nobile, ricco...

beniamino degli dèi, si può dire, come si espresse Puskin, e che n'è venuto fuori? Nulla! Si ubriacava, faceva vita dissoluta e...

eccoti!... l'hanno ammazzato.

Due ore dopo giunse in carrozza il giudice istruttore Nikolài Jermolaievic' Ciubikòv (così si chiama il giudice), un vecchio alto, robusto, sui sessanta, si esercita nella sua carriera ormai da un quarto di secolo. E' noto a tutto il distretto come uomo onesto, intelligente, energico e amante del suo mestiere. Arrivò sul luogo insieme con lui anche il suo immancabile compagno, aiutante e segretario Diukovski, un giovanotto alto, di circa ventisei anni.

- Ma possibile, signori? - prese a dir Ciubikòv, entrando nella stanza di Psekov e stringendo alla svelta la mano a tutti. - Possibile? Mark Ivanic'? L'hanno ucciso? No, è impossibile! Im-pos-si- bi-le!

- Guardate un po'... - sospirò il commissario.

- O Signore Dio mio! Ma se lo vidi la scorsa settimana alla fiera di Tarabànkova! Con lui, scusate, bevvi la vodka!

- Guardate un po' - sospirò un'altra volta il commissario.

Sospirarono, inorridirono, bevvero un bicchiere di tè a testa e andarono verso l'ala della casa.

- Scostatevi! - gridò il brigadiere alla gente.

Entrato dentro, il giudice istruttore attese innanzi tutto all'esame dell'uscio che metteva nella camera. L'uscio risultò di pino, dipinto in giallo e intatto. Segni particolari, che potessero offrire qualche indicazione, non ne furono trovati. Si procedette a forzarlo.

- Prego, signori, gli estranei di allontanarsi! - disse il giudice istruttore, quando, dopo un lungo battere e lunghi scricchiolii, l'uscio cedette alla scure e allo scalpello. - Prego nell'interesse dell'inchiesta... Brigadiere non lasciate entrar nessuno!

Ciubikòv, il suo aiutante e il commissario aprirono l'uscio e, incerti, uno dopo l'altro, entrarono nella camera. Ai loro occhi si presentò il seguente spettacolo. Presso l'unica finestra stava un gran letto di legno con un'enorme materassa di piume. Sulla materassa ammaccata giaceva la coperta sgualcita, ammucchiata. Il guanciale in federa di percalle, pure fortemente gualcito, era buttato sul pavimento. Su un tavolino davanti al letto c'erano un orologio d'oro e una moneta d'argento del valore di venti copeche. Stavan lì anche degli zolfanelli. Oltre il letto, il tavolino e un'unica sedia, non c'era nella camera altra mobilia. Dato uno sguardo sotto il letto, il commissario scorse un paio di decine di bottiglie vuote, un vecchio cappello di paglia e un quarto di vodka. Sotto il tavolino giaceva uno stivale coperto di polvere. Abbracciata con uno sguardo la stanza, il giudice istruttore aggrottò le ciglia e si fece rosso.

- Furfanti! - borbottò, stringendo i pugni.

- Ma dov'è Mark Ivanic'? - domandò piano Diukovski.

- Vi prego di non immischiarvi! - gli disse rudemente Ciubikòv. - Vogliate osservare il pavimento! il secondo caso del genere nella mia pratica, Jevgràf Kuzmìc', - si rivolse al commissario, abbassando la voce - Nel 1870 mi accadde un caso uguale. Ma voi di sicuro ricorderete... L'assassinio del mercante Portretov. Là pure fu così. I furfanti l'avevano ucciso e avevan portato via il cadavere attraverso la finestra...

Ciubikòv si avvicinò alla finestra, tirò da una parte la tendina e spinse cautamente la finestra. Questa si aprì.

- Si apre, dunque non era stata chiusa.... Uhm.... Tracce sul davanzale. Vedete? Ecco le tracce d'un ginocchio... Qualcuno s'arrampicò di là... Sarà necessario esaminare la finestra come si deve.

- Sul pavimento non si nota nulla di speciale, - disse Diukovski - Né macchie, né graffiature. Ho trovato soltanto un fiammifero svedese bruciato. Eccolo. Per quanto ricordo, Mark Ivanic' non fumava; nella vita quotidiana poi usava zolfanelli, e nient'affatto fiammiferi svedesi. Questo fiammifero può servire d'indizio...

- Ah. state zitto, per piacere. -scosse la mano il giudice istruttore. - Vien fuori col suo fiammifero! Non posso soffrire le teste vulcaniche! Invece di cercar fiammiferi, fareste meglio a esaminare il letto.

Dopo l'esame del letto Diukovski riferì:

- Né macchie di sangue, né altre d'alcun genere... Strappi freschi pure non ce ne sono. Sul guanciale tracce di denti. La coperta è stata bagnata con un liquido che ha l'odor della birra e ne ha anche il gusto... L'aspetto generale del letto dà il diritto di pensare che su di esso sia avvenuta una lotta.

- Lo so anche senza di voi che ci fu lotta! Non vi si domanda della lotta. Invece di cercar la lotta, fareste meglio...

- Uno stivale è qui, l'altro non risulta presente.

- Be'. che c'è?

- C'è che l'hanno soffocato quando si cavava gli stivali. Non fece in tempo a cavarsi l'altro stivale che...

- Già ha preso la mano! E come fate a sapere che l'hanno soffocato?

- Sul guanciale ci son tracce di denti. Il guanciale stesso è stato fortemente brancicato e scagliato a due "arscini" e mezzo dal letto.

- E discorre, il cicalone! Andiamo piuttosto in giardino. Fareste meglio a guardare in giardino, invece di rovistar qui... Questo lo farò io anche senza di voi.

Arrivati in giardino, l'inchiesta si occupò innanzi tutto dell'esame dell'erba. L'erba sotto la finestra era calpestata. Un cespuglio di bardana sotto la finestra proprio contro il muro apparve pure calpestato. A Diukovski riuscì di trovarvi alcuni ramoscelli rotti e dei pezzetti di ovatta. Sui capolini superiori furon trovati dei fini peluzzi di lana azzurra scura.

- Di che tinta era il suo ultimo vestito? -domandò Diukovski a Psekov.

- Giallo, di tela grossa.

- Benissimo. Loro dunque eran vestiti di azzurro.

Alcuni capolini di bardana furono recisi e accuratamente involtati in una carta. In questo momento arrivò l'"Ispravnik" Artsibascev- Svistakovski col dottor Tiutiuev. L'"ispravnik" salutò e subito si accinse a soddisfare la sua curiosità: il dottore invece, un uomo alto e sommamente scarno con occhi infossati, naso lungo e mento aguzzo, senza salutar nessuno e senza domandar di nulla, sedette su un ceppo, sospirò e proferì:

- E i serbi son di nuovo sottosopra! Che cosa occorre loro, non Capisco! Ah Austria, Austria! Questa è opera tua!

L'esame della finestra dall'esterno non diede proprio alcun risultato; l'esame dell'erba invece e dei cespugli prossimi alla finestra fornì all'inchiesta molte utili indicazioni. A Diukovski riuscì, per esempio, di seguire nell'erba una lunga striscia scura costituita da chiazze, che si stendeva dalla finestra nell'interno del giardino per alcune tese. La striscia terminava sotto uno degli arbusti di lilla con una gran macchia d'un bruno scuro. Sotto lo stesso arbusto fu trovato uno stivale che risultò fare il paio con quello trovato in camera.

- Questo è sangue non recente! - disse Diukovski, esaminando le chiazze.

Il dottore alla parola "sangue" si sollevò e pigramente di sfuggita gettò un'occhiata alle macchie.

- Sì, è sangue, - borbottò.

- Dunque non fu soffocato, se è sangue! - disse Ciubikòv, dato uno sguardo sarcastico a Diukovski.

- In camera lo soffocarono, qui poi, temendo che si riavesse, lo colpirono con qualcosa di tagliente. La macchia sotto il cespuglio mostra ch'egli restò lì disteso un tempo relativamente lungo, mentr'essi cercavano come e su che cosa portarlo fuori dal giardino.

- Be' e lo stivale?

- Questo stivale conferma anche più il mio pensiero che l'uccisero mentr'egli, prima di andar a dormire, si cavava gli stivali. Uno stivale se lo tolse, l'altro invece, cioè questo, fece in tempo a cavarselo soltanto a metà. Lo stivale tolto solo a mezzo venne via da sé durante gli scossoni e la caduta...

- Che immaginativa, guarda un po'! - sogghignò Ciubikòv. - E parla così reciso, così reciso! Ma quando perderete l'abitudine di venir fuori coi vostri ragionamenti? Invece di ragionare, fareste meglio a prendere un po' d'erba col sangue.

Dopo il sopralluogo e la rilevazione della pianta del sito, gl'inquirenti si diressero dall'intendente per redigere il verbale e far colazione. Durante la colazione si misero a discorrere.

- L'orologio, il denaro e il resto... tutto è intatto. - cominciò la conversazione Ciubikòv. - Come due per due fa quattro, l'assassinio non è stato commesso a fin di lucro.

- E' stato commesso da persona evoluta, - mise bocca Diukovski.

- Da che cosa lo deducete?

- Viene in mio aiuto il fiammifero svedese, il cui uso i contadini del luogo ancora non conoscono. Usano tali fiammiferi solo i proprietari, e anche non tutti. A proposito, non lo uccise uno solo, ma furono al minimo tre: due lo tenevano, e il terzo lo soffocava. Kliausov era forte, e gli assassini dovevano saperlo.

- A che poteva servirgli la sua forza, s'egli, poniamo, dormiva?

- Gli assassini lo sorpresero mentre si cavava gli stivali. Stava cavandosi gli stivali, dunque non dormiva.

- Non è il caso d'inventare! Mangiate piuttosto!

- Ma secondo il mio concetto, alta signoria (2), - disse il giardiniere Jefrèm, mettendo in tavola il samovàr - proprio questa infamia non l'ha fatta nessun altro che Nicolaska.

- Possibilissimo, - disse Psekov - E chi è questo Nikolaska?

- Il cameriere del padrone, alta signoria, - rispose e Jefrèm. - Chi altri poteva farla, se non lui? Un malfattore, alta signoria! Un ubriacone e un libertino che ce ne preservi la Regina dei Cieli! Al padrone lui portava sempre la vodka, il padrone lui lo metteva in letto... Chi dunque, se non lui? E ancora per giunta, mi prendo l'ardire di farlo presente a vossignoria, si vantò una volta alla bettola, il furfante, che avrebbe ammazzato il padrone. Tutto è venuto per causa di Akulka per causa d'una donna... Lui ci aveva una tale, moglie d'un soldato... Al padrone era piaciuta-egli l'aveva avvicinata a sé, be', e lui, si sa, s'era adirato... Adesso è sdraiato in cucina. Piange... Va cianciando che il padrone gli fa pena...

- Ma realmente per Akulina ci si può adirare, - disse Psekov. - E' moglie d'un soldato, una campagnuola ma... Non per nulla Mark Ivanic' l'aveva soprannominata Nanà (3). C'è in lei qualcosa che ricorda Nanà... un che d'attirante...

- L'ho vista... So... - disse il giudice istruttore, soffiandosi il naso in un fazzoletto rosso. Diukovski arrossì e abbassò gli occhi. Il commissario prese a tamburellare col dito sul piattino. L'"ispravnik" ebbe un accesso di tosse e cercò qualche cosa nella borsa delle carte.

Sul solo dottore, evidentemente, non aveva fatto alcuna impressione il ricordo di Akulka e di Nanà. Il giudice istruttore ordinò che si conducesse Nikolaska. Nikolaska, un giovanotto di campagna, spilungone, dal naso lungo, butterato e dal petto incavato, in giacca smessa dal padrone, entrò nella stanza di Psekov e s'inchinò al giudice fino a terra. Il suo viso era assonnato e rosso di pianto.

Egli poi era ubriaco e a stento si reggeva in piedi.

- Dov'è il padrone? - gli domandò Ciubikòv.

- L'hanno ammazzato, alta signoria.

Detto ciò, Nikolaska prese a batter gli occhi e a piangere.

- Sappiamo che l'hanno ammazzato. E dov'è ora? Il suo corpo dov'è?

- Dicono che l'han tirato fuori per la finestra e sotterrato in giardino.

- Uhm!... I risultati dell'inchiesta son già noti in cucina...

Malissimo. Caro, dov'eri tu quella notte, quando fu ucciso il padrone?

Sabato, cioè?

Nikolaska levò in su la testa, protese il collo e si mise a pensare.

- Non posso sapere, alta signoria, - disse. - Avevo bevuto e non rammento.

- Un "alibi" (4)! - mormorò Diukovski, sogghignando e fregandosi le mani.

- Sì. Ma perché sotto la finestra del padrone c'è del sangue?

Nikolaska alzò il capo e si mise a pensare.

- Pensa più svelto! - disse l'"ispravnik".

- Subito. Quel sangue c'è per una cosa da nulla, alta signoria. Avevo sgozzato una gallina. L'avevo sgozzata molto semplicemente, come al solito, ma essa a un tratto mi sfuggì di mano, a un tratto scappò via... E proprio per questo c'è il sangue.

Jefrèm testimoniò che, realmente, Nikolaska ogni sera ammazzava delle galline e in vari posti, ma nessuno aveva visto che la gallina non bene sgozzata fosse corsa per il giardino, il che, per altro, non si poteva negare.

- Un "alibi", - sogghignò Diukovski. - E che alibi sciocco!

- Con Akulka eri in relazione?

- Feci peccato.

- E il padrone te la soffiò?

- Nient'affatto. A me Akulka la portò via, ecco, lui, il signor Psekov, Ivàn Michailic', e a Ivàn Michailic' la portò via il padrone.

Così fu la cosa.

Psekov si turbò e prese a grattarsi l'occhio sinistro. Diukovski gli piantò gli occhi in faccia, vi lesse il turbamento e sussultò. Addosso all'intendente aveva veduto dei calzoni azzurri, ai quali prima non aveva fatto attenzione. I calzoni gli ricordarono i peluzzi azzurri trovati sulla bardana. Ciubikòv, a sua volta, guardò sospettosamente Psekov.

- Vattene! - diss'egli a Nikolaska. - E ora permettete che vi si rivolga una domanda, signor Psekov. Voi certo, tra il sabato e la domenica foste qui?

- Sì, alle dieci cenai con Mark Ivanic'.

- E poi?

Psekov si turbò e si alzò da tavola.

- Poi... poi... Davvero, non rammento, - borbottò. - Allora avevo bevuto molto... Non rammento dove e quando mi addormentai... Perché mi guardate tutti così? Come se io l'avessi ucciso!

- Dove vi svegliaste?

- Mi svegliai nella cucina della servitù sopra la stufa.. Tutti possono confermarlo. Come fossi capitato sulla stufa non so...

- Non agitatevi... Akulina la conoscevate?

- Qui non c'è nulla di speciale...

- Da voi era passata a Kliausov?

- Sì... Jefrèm, servi ancora dei funghi! Volete del tè, Jevgràf Kuzmìc'?

Seguì un silenzio greve, angoscioso, che si prolungò un cinque minuti.

Diukovski taceva e non staccava i suoi occhi pungenti dal viso impallidito di Psekov. Il silenzio fu rotto dal giudice istruttore.

- Sarà necessario, - egli disse, - passare alla casa grande e là parlare un po' con la sorella del defunto Maria Ivànovna. Chi sa che non ci dia qualche indicazione.

Ciubikòv e il suo aiutante ringraziarono per la colazione e andarono alla casa padronale. La sorella di Kliausov, Maria Ivànovna, una zitella quarantacinquenne, la trovarono che pregava davanti all'alto stipo familiare delle immagini. Scorgendo nelle mani dei visitatori delle borse e dei berretti con coccarda, ella impallidì.

- Vi reco, innanzi tutto, le mie scuse per aver turbato, dirò così, la vostra pia disposizione, - cominciò strisciando una riverenza, il galante Ciubikòv. - Veniamo da voi con una preghiera. Voi, certo, avete già sentito... si ha il sospetto che vostro fratello, in qualche modo, sia stato ucciso. E' il voler di Dio sapete... Alla morte nessuno sfugge, né gli zar né i bifolchi. Non potreste voi aiutarci con qualche indicazione o schieramento?

- Ah, non domandatemi! - disse Maria Ivànovna, impallidendo ancor di più e coprendosi il viso con le mani. - Io non posso dirvi nulla!

Nulla! Vi supplico! Io nulla... Che posso io? Ah, no, no... nemmeno una parola di mio fratello! Dovessi morire, non la direi!

Maria Ivànovna si mise a piangere e se n'andò in un'altra stanza.

Gl'inquirenti si scambiarono uno sguardo, si strinsero nelle spalle e si ritirarono.

- Donnetta del diavolo! - la ingiuriò Diukovski, uscendo dalla casa grande.-Evidentemente, sa qualcosa e lo nasconde. Anche la cameriera ha qualcosa scritto in faccia... Ma aspettate, diavoli!

Decifreremo tutto!

La sera Ciubikòv e il suo aiutante, illuminati da una pallida luna, se ne tornavano a casa; erano seduti nel sarabachino e facevano nelle loro teste il bilancio della giornata trascorsa. Entrambi erano affaticati e tacevano. A Ciuhikòv, in generale, non piaceva parlare in viaggio, e il chiacchierone Diukovski stava zitto per far piacere al vecchio. Alla fine del cammino però l'aiutante non resse più al silenzio e si mise a dire:

- Che Nikolaska abbia parte in questa faccenda, - diss'egli, - "non dubitandum est" (5). Anche dal suo muso si vede che tomo sia...

L'alibi ce lo dà mani e piedi legati. Non c'è dubbio anche che in questa faccenda non è lui l'iniziatore. Egli è stato soltanto uno stupido, prezzolato strumento. Siete d'accordo? Non rappresenta l'ultima parte in questa faccenda nemmeno il modesto Psekov. I calzoni azzurri, il turbamento, il dormir sulla stufa dalla paura dopo l'assassinio, l'"alibi" e Akulka...

- Macina! Jemelia, è la tua settimana (6)! Secondo voi, dunque, l'assassino è colui che conosceva Akulka? Eh, testa calda! Il poppatoio dovreste succhiare, e non istruir cause! Voi pure corteggiavate Akulka: allora anche voi siete complice in questa faccenda?

- Anche in casa vostra Akulka è stata un mese come cuoca, ma... io non dico nulla. La notte avanti quella domenica giocai con voi a carte e vi vidi, altrimenti mi sarei attaccato anche a voi. La faccenda, "bàtenkca", non sta nella donna. La faccenda sta in un sentimento vigliacchetto, sudicetto, bruttino... Al modesto giovanotto dispiacque, vedete, che non fosse stato lui ad aver la meglio. L'amor proprio, vedete... Gli venne voglia di vendicarsi. Poi... Le sue grosse labbra parlano fortemente della sua sensualità. Ricordate che schiocchi faceva con le labbra, quando paragonava Akulka a Nanà? Che lui, il farabutto, arda di passione è indubitabile! E così: amor proprio offeso e passione inappagata. Ce n'è a sufficienza per commettere un assassinio. Due sono nelle nostre mani; ma chi è il terzo? Nikolaska e Psekov lo tenevano. Ma chi l'ha soffocato? Psekov è timido, impacciato, in generale è un vile. I Nikolaska poi non sanno soffocar con un guanciale; essi agiscono con la scure, col dorso della scure... L'ha soffocato un qualche terzo, ma chi e?

Diukovski si calcò il cappello sugli occhi e si mise a pensare. Egli tacque fino a che il sarabachino non s'accostò alla casa del giudice istruttore.

- "Eureka"! (7) - disse, entrando nella casetta e togliendosi il pastrano. - Eureka, Nikolài Jermolaic'! Non so soltanto come ciò non mi sia venuto in mente prima. Sapete chi è il terzo?

- Lasciate, per favore! Ecco, la cena è pronta! Sedete e cenate!

Il giudice istruttore e Diukovski si misero a cena. Diukovski si versò un bicchierino di vodka, si sollevò, si protese e, con gli occhi sfavillanti, disse:

- Allora sappiate che il terzo che ha agito di concerto col furfante Psekov e l'ha soffocato è stato una donna! Sissignore! Parlo della sorella dell'ucciso, di Maria Ivànovna!

A Ciubikòv la vodka andò per traverso ed egli fissò gli occhi su Diukovski.

- Voi... non siete un po'...? La vostra testa... non è un po'...? Non vi duole?

- Io sto benone. Va bene, sarò impazzito, ma come spiegate voi il suo turbamento al nostro apparire? Come spiegate la sua riluttanza a farci dichiarazioni? Ammettiamo che queste sian bazzecole: sta bene!

d'accordo! allora ricordatevi dei loro rapporti. Lei odiava suo fratello! Lei è una vecchia credente (8), lui era un dissoluto, un ateo... Ecco dove s'annida l'odio! Dicono ch'egli fosse riuscito a convincerla d'essere lui un angelo di satana. In sua presenza s'occupava di spiritismo!

- Be', e che c'è?

- Non capite? Lei, vecchia credente, l'ha ucciso per fanatismo! Nonché aver soppresso la mala erba, un dissoluto, ha liberato il mondo dall'anticristo, e in ciò, ella pensa, è il suo merito, la sua grande impresa religiosa! Oh, voi non conoscete queste vecchie zitelle e vecchie credenti! Leggete un po' Dostoievski! E quel che scrivono Leskov, Pecerski! (9)... E' lei, è lei, anche se m'ammazzaste! Lei l'ha soffocato! Oh, perfida donna! Forse che non stava presso le icone, quando noi entrammo, solo per stornare i nostri sguardi? Come a dire: ecco, mi metto lì a pregare, e loro penseranno che io son tranquilla, che non li aspetto! E' il metodo di tutti i criminali novellini. Colombello, Nikolài Jermolaic'! Diletto mio! Affidate a me questa faccenda! Lasciate che io personalmente la conduca a termine!

Mio caro! Io l'ho cominciata, e io la condurrò a termine.

Ciubikòv tentennò il capo e si accigliò.

- Sappiamo anche noi decifrare le faccende difficili, - disse. - E non è affar vostro impicciarvi dove non tocca. Scrivete sotto dettatura, quando vi si detta: ecco il vostro compito!

Diukovski s'infiammò, sbatté la porta e uscì.

- Testa fina, il briccone! - borbotta Ciubikòv, seguendolo con lo sguardo.-Gra-an testa fina! E' soltanto focoso a sproposito.

Bisognerà comprare alla fiera un portasigari per fargliene un presente...

La mattina del giorno dopo fu condotto al giudice istruttore da Kliausovka un ragazzotto di campagna dalla testa grossa e il labbro leporino che, qualificatosi il pastore Danilka,fece un'interessantissima deposizione. - Avevo bevuto, - disse. - Fino a mezzanotte ero stato dalla comare. Andando a casa, ubriaco com'ero, entrai nel fiume per bagnarmi. Mi bagno... e che vedo? Vanno lungo la diga due uomini e portano qualcosa di nero. «Olà!», gridai loro.

Quelli si presero paura e a tutte gambe via verso gli orti di Makàrievo. Che Dio mi fulmini, se non trascinavano il padrone!

In quello stesso giorno verso sera Psekov e Nikolaska furono arrestati e inviati sotto scorta al capoluogo del distretto. In città furon messi in carcere.


Trascorsero dodici giorni.

Era mattina. Il giudice istruttore Nikolài Jermolaic' stava seduto in casa davanti a una tavola coperta di panno verde e sfogliava la pratica «di Kliausov»; Diukovski inquieto, come un lupo in gabbia, camminava da un angolo all'altro.

- Voi siete convinto della colpevolezza di Nikolaska e di Psekov,- egli diceva, stiracchiando nervosamente la sua giovane barbetta. - Ma perché non volete convincervi della colpevolezza di Maria Ivànovna?

Avete forse pochi indizi?

- Io non dico di non essere convinto. Sono convinto ma, in certo qual modo, non posso credere... Indizi veri non ce ne sono, ma è tutta non so che filosofia... Il fanatismo, e questo e quello...

- Ma a voi bisogna assolutamente presentare una scure, delle lenzuola insanguinate!... O giuristi! Allora io vi farò vedere! Voi la smetterete di trattare con tanta noncuranza il lato psicologico della faccenda! La vostra Maria Ivànovna dovrà andare in Siberia! Lo proverò! Se la filosofia non vi basta, io ho qualcosa di materiale.

Esso vi mostrerà quanto è giusta la mia filosofia! Lasciatemi soltanto fare un giretto.

- A che proposito questo?

- A proposito del fiammifero svedese... L'avete dimenticato? Io invece non l'ho dimenticato.Saprò chi l'accese nella stanza dell'assassinato! Non l'accese Nikolaska, né Psekov, presso i quali nella perquisizione non si trovarono fiammiferi, ma un terzo, cioè Maria Ivànovna. E lo proverò!... Lasciate solo che faccia un giro per il distretto, che m'informi...

- Be', d'accordo, sedete... Lasciatemi fare un interrogatorio.

Diukovski sedette a un tavolino e ficcò il suo lungo naso nelle carte.

- S'introduca Nikolài Tetiochov! - gridò il giudice istruttore.

Introdussero Nikolaska. Nikolaska era pallido e magro come un truciolo. Tremava.

- Tetiochov! - comincia Ciubikòv. - Nel 1879 voi foste giudicato dal giudice del primo mandamento per furto e condannato a pena carceraria. Nel 1882 foste giudicato una seconda volta per furto e per la seconda volta andaste in carcere... A noi tutto è noto...

Sul viso di Nikolaska si dipinse la meraviglia. L'onniscienza del giudice istruttore l'aveva sbalordito. Ma ben presto la meraviglia fu sostituita da un'espressione di supremo dolore. Egli si mise a singhiozzare e chiese il permesso di andare a lavarsi e calmarsi. Lo condussero fuori.

- S'introduca Psekov! - ordinò il giudice.

Introdussero Psekov. Il giovanotto negli ultimi giorni si era fortemente mutato in viso. S'era fatto magro, pallido e affilato. Nei suoi occhi si leggeva l'apatia.

- Sedete, Psekov, - disse Ciubikòv. - Spero che questa volta sarete ragionevole e non starete a mentire, come le altre volte. In tutti questi giorni avete negato la vostra partecipazione all'assassinio di Kliausov, nonostante tutta la massa d'indizi che parlano contro di voi. Ciò è irragionevole. La confessione allevia la colpa. Oggi discorro con voi per l'ultima volta. Se oggi non confesserete, domani sarà troppo tardi. Su via, narrateci...

- Io non so nulla... E i vostri indizi non li conosco, - bisbigliò Psekov.

- Avete torto! Be', allora permettete a me di narrarvi come fu la cosa. Il sabato sera voi vi tratteneste nella camera di Kliausov e beveste con lui vodka e birra. - (Diukovski affondò il suo sguardo nel viso di Psekov e non ne lo distolse per tutta la durata del monologo).-Vi serviva Nikolài. Verso l'una Mark Ivànovic' vi espresse il suo desiderio di coricarsi. Verso l'una si coricava sempre. Mentre si cavava gli stivali e v'impartiva gli ordini per l'azienda, voi e Nikolài, a un segno dato, afferraste il padrone alticcio e lo rovesciaste sul letto. Uno di voi gli sedette sulle gambe, l'altro sulla testa. In questo momento entrò dall'andito la donna a voi nota, vestita di nero, che in precedenza s'era accordata con voi circa la sua partecipazione a quest'azione criminosa. Ella afferrò il guanciale e prese a soffocarlo. Durante la lotta si spense la candela. La donna tirò fuori di tasca una scatoletta di fiammiferi svedesi e riaccese la candela. Non è così? Io vedo dalla vostra faccia che sto dicendo la verità. Ma poi... Dopo averlo soffocato ed esservi convinti che non respirava più, voi e Nikolài lo trascinaste fuori attraverso la finestra e lo posaste vicino alla bardana. Temendo che non si riavesse, lo colpiste con qualcosa di tagliente. Quindi lo portaste via e lo posaste per un certo tempo sotto il cespuglio di lilla. Dopo esservi riposati e aver riflettuto, lo portaste fuori...

Lo faceste passare attraverso la siepe... Poi seguiste la strada...

Più in là viene la diga. Vicino alla diga vi spaventa un certo contadino. Ma che avete?

Psekov, pallido come un cencio, si solleva e barcollò. - Soffoco! - disse. - Bene... e sia... Ma io esco fuori... per favore.

Psekov fu condotto fuori.

- Ha pur confessato infine! - e Ciubikòv si stirò dolcemente. S'è tradito! Come l'ho fatto cascare abilmente però! L'ho tempestato addirittura...

- E la donna vestita di nero non la nega! - si mise a ridere Diukovski. - Mi tormenta però enormemente il fiammifero svedese! Non posso pazientare più a lungo!

Diukovski si mise il berretto e partì. Ciubikòv cominciò a interrogare Akulka. Akulka dichiarò di non saper nulla di nulla...

- Io son vissuta soltanto con voi, e con nessun altro! - Disse.

Verso le sei di sera tornò Diukovski. Era agitato come non mai. Le sue mani tremavano a tal punto che non era in grado di sbottonare il pastrano. Le sue guance ardevano. Si vedeva ch'era tornato non senza novità.

- "Veni, vidi, vici"! (10) - disse, piombando nella stanza di Ciubikòv e lasciandosi cadere in una poltrona. - Vi giuro sul mio onore che comincio a credere nella mia genialità! Ascoltate, che il diavolo ci porti! Ascoltate e meravigliatevi, vecchio mio! E' una cosa buffa e triste! Nelle nostre mani ce ne sono già tre... non è così? Io ho trovato il quarto o, più esattamente, la quarta, poiché anche questa è una donna! E che donna! Solo per poterle toccare le spalle darei dieci anni della mia vita! Ma... ascoltate... Sono andato a Kliausovka e mi son messo a descriverle intorno una spirale. Ho visitato in cammino tutte le bottegucce, le bettole, le cantine, chiedendo dappertutto dei fiammiferi svedesi. Dappertutto mi dicevano «no». Ho scarrozzato fino a questo momento. Venti volte perdetti la speranza e altrettante volte la riacquistai. Ho gironzolato tutto il giorno e solo un'ora fa mi sono imbattuto in ciò che cercavo. A tre verste da qui. Mi danno un pacchetto di dieci scatolette. Una sola scatola manca... Subito: «Chi ha comprato questa scatola?». «La tale... Le eran piaciuti... fanno un sibilo». Colombello mio! Nikolài Jermolaic'! Quel che può fare a volte un uomo che fu cacciato di seminario e ha letto e riletto Gaboriau (11) la mente non lo può concepire! A datare da oggi comincio a stimarmi!... Ufff!... Be', andiamo!

- E dove?

- Da lei, dalla quarta... E' necessario affrettarsi, altrimenti...

altrimenti io brucerò dall'impazienza! Sapete chi è? Non indovinerete!

E' la giovane moglie del nostro commissario di polizia rurale, il vecchione Jevgràf Kuzmic', Olga Petrovna: ecco chi è! Fu lei a comprare quella scatola di fiammiferi!

- Voi... tu... voi... sei impazzito?

- E' comprensibilissimo! In primo luogo, fuma. Secondariamente, è innamorata fin sopra i capelli di Kliausov. Lui aveva respinto il suo amore per un'Akulka qualunque. Vendetta. Adesso rammento di averli sorpresi una volta in cucina dietro il paravento. Lei gli faceva dei giuramenti, e lui fumava la sigaretta di lei e gliene mandava il fumo sul viso. Andiamo però... In fretta, ché già si fa buio... Andiamo!

- Io non sono ancora impazzito al punto di andare, per un qualche ragazzetto, a incomodare di notte una donna distinta e onesta!

- Distinta, onesta... Dopo di ciò siete un cencio voi e non un giudice istruttore! Non mi ero mai preso la libertà di sgridarvi, ma adesso mi ci costringete! Un cencio! Un parruccone! Su via, caro, Nikolài Jermolaic'! Ve ne prego!

Il giudice istruttore scosse la mano e sputò.

- Vi prego! Vi prego non per me, ma nell'interesse della giustizia! Vi supplico, infine! Fatemi un favore almeno una volta nella vita!

Diukovski s'inginocchiò.

- Nikolài Jermolaic'! Su via, siate così buono! Chiamatemi farabutto, buono a nulla, se m'inganno riguardo a quella donna! Che processo, sapete! Che processo! Un romanzo, e non un processo! La fama ne andrà per tutta la Russia! Vi faranno giudice istruttore per cause di speciale importanza! Capitela, vecchio irragionevole!

Il giudice aggrottò le ciglia e, irresoluto, tese la mano al cappello.

- Be' che il diavolo ti porti! - disse. - Andiamo.

Era già scuro, quando il sarabachino del giudice istruttore s'accostò al terrazzo del commissario rurale.

- Che porci siam noi! - disse Ciubikòv, afferrando il cordone del campanello. - Disturbiamo la gente.

- Non fa nulla, non fa nulla... Non intimiditevi.. Diremo che ci è saltata una molla.

Ciubikòv e Diukovski li accolse sulla soglia una donna alta, pingue, di forse ventitré anni, dai sopraccigli neri come la pece e le labbra carnose, rosse. Era Olga Petrovna in persona.

- Ah... molto piacere! - ella disse, sorridendo con tutto il viso.

- Siete arrivati proprio in tempo per la cena. Il mio Jevgràf Kuzmìc' non è in casa... S'è trattenuto dal pop (12)... Ma noi faremo anche senza di lui... Sedete! Venite da un'inchiesta?...

- Sì... Ci è saltata una molla, sapete, - cominciò Ciubikòv, entrando in salotto e accomodandosi in una poltrona.

- Sbalorditela... di colpo! - gli bisbigliò Diukovski.

- Una molla... Mm... sì... E difilato siam venuti qua.

- Sbalorditela, vi si dice! Indovinerà, se la tirerete in lungo!

- Be', allora fa' tu come sai, e me dispensami! - borbottò Ciubikòv, alzandosi e andando verso la finestra. - Non posso! Tu hai cucinato questo pasticcio, e tu pappatelo!

- Si una molla... - cominciò Diukovski, avvicinandosi alla moglie del commissario e raggrinzando il suo lungo naso. - Siamo venuti non già... e-e-e.. per cenare, né per trovare Jevgràf Kuzmìc'. Siamo venuti per domandarvi, egregia signora, dove si trova Mark Ivànovic' che voi avete ucciso.

- Che cosa? Che Mark Ivanic? - balbettò la moglie del commissario, e il suo largo viso d'un tratto, in un attimo, s'inondò di una tinta vermiglia. - Io... non capisco.

- Ve lo domando in nome della legge! Dov'è Kliausov?

- Per mezzo di chi? - domandò piano la signora, non reggendo allo sguardo di Diukovski.

- Vogliate indicarci dov'è!

- Ma da chi avete saputo? Chi vi ha raccontato?

- A noi tutto è noto! Lo esigo in nome della legge.

Il giudice istruttore, rinfrancato dall'imbarazzo della moglie del commissario, s'avvicinò a lei e disse:

- Indicatecelo e ce ne andremo. Altrimenti noi...

- Ma che bisogno avete di lui?

- A che scopo queste domande, signora? Vi preghiamo d'indicarcelo! Voi tremate, siete turbata... Sì, lui è stato ucciso e, se volete, ucciso da voi! I complici vi hanno tradita!

La moglie del commissario impallidì.

- Andiamo, - ella disse piano, torcendosi le mani. - E' nascosto da me nel bagno. Soltanto, per amor di Dio, non ditelo a mio marito!

Ve ne supplico! Non ci reggerebbe.

La signora tolse dal muro una grossa chiave e condusse i suoi visitatori, attraverso la cucina e l'andito, in cortile. In cortile era buio. Piovigginava. La moglie del commissario andò avanti.

Ciubikòv e Diukovski si avviarono dietro a lei per l'erba alta, respirando gli odori della canapa selvatica e delle rigovernature che sciaguattavano sotto i loro piedi. Il cortile era grande. Ben presto finirono le rigovernature e i piedi sentirono sotto di sé la terra coltivata. Nell'oscurità apparvero i contorni di alberi e, fra gli alberi, una piccola casetta dal fumaiuolo storto.

- E' il bagno, - disse la moglie del commissario.-Ma vi supplico, non ditelo a nessuno!

Accostatisi al bagno, Ciubikòv e Diukovski videro sulla porta un enorme lucchetto che pendeva.

- Preparate un pezzo di candela e dei fiammiferi! -bisbigliò il giudice istruttore al suo aiutante.

La moglie del commissario aprì il lucchetto e fece entrare i visitatori nel bagno. Diukovski sfregò un fiammifero e illuminò l'entrata del bagno. In mezzo all'entrata stava una tavola. Sopra la tavola, accanto a un piccolo samovàr panciutello, c'erano una zuppiera con minestra di cavoli raffreddata e un piatto coi resti d'un qualche intingolo.

- Più avanti!

Entrarono nella stanza seguente, il bagno. Là pure c'era una tavola.

Sulla tavola un gran piatto con prosciutto, una damigianetta di vodka, piatti, coltelli, forchette.

- Ma dov'è dunque... lui? Dov'è l'ucciso? - domandò il giudice istruttore.

- E' sul palco di sopra! - bisbigliò la moglie del commissario, tuttora pallida e tremante.

Diukovski prese in mano il moccolo e s'arrampicò sul palco superiore.

Là vide un lungo corpo umano che giaceva immobile sopra una gran materassa di piume. Il corpo emetteva un lieve ronfio...

- Ci prendono in giro, che il diavolo mi porti! - gridò Diukovski.

- Non è lui! Qui è disteso non so che tanghero vivo. Ehi, chi siete, che il diavolo vi porti?

Il corpo inspirò l'aria con un fischio e si mosse Diukovski lo urtò col gomito. Quello levò in alto le mani, si stirò e alzò il capo.

- Chi viene a ficcarsi qui? - domandò una voce arrochita, greve, di basso. - Che ti occorre?

Diukovski portò il moccolo al viso dello sconosciuto e mandò un grido.

Nel naso porporino, nei capelli arruffati, spettinati, nei baffi neri come pece, dei quali uno solo era baldanzosamente arricciato e guardava con insolenza il soffitto, aveva riconosciuto il cornetta Kliausov.

- Voi... Mark... Ivanic'?! Non è possibile!

Il giudice istruttore gettò un'occhiata in alto e tramortì...

- Son io, sì... E siete voi, Diukovski! Che diavolo v'occorre qui? E là in basso, che altro muso c'è? Padri miei, il giudice istruttore!

Qual buon vento?

Kliausov scese giù di corsa e abbracciò Ciubikòv. Olga Petrovna guizzò dietro la porta.

- Per quale vicenda? Berremo, che il diavolo mi porti! Tra-ta-ti-to- tom... Berremo! Chi v'ha condotti qua però? Di dove avete saputo ch'ero qui? Del resto, fa lo stesso! Berremo!

Kliausov accese una lampada e mescé tre bicchierini di vodka.

- Cioè, io non ti capisco, - disse il giudice istruttore, allargando le braccia. - Sei tu o non sei tu?

- Smettila... Vuoi farmi la morale? Non darti la briga! Giovincello Diukovski, vuota il tuo bicchierino! Trascorriam dunque, ami-ci, questa... Perché guardate? Bevete!

- Tuttavia non posso capire,-disse il giudice istruttore, tracannando macchinalmente la vodka. - Perché sei qui?

- E perché non dovrei esser qui, se qui mi trovo bene?

Kliausov bevve e mangiò un po' di salame.

- Abito presso la moglie del commissario, come vedi. In un recesso, fra le selve, come uno spirito folletto qualunque. Bevi! Mi venne pietà di lei, fratello! M'impietosii, sì, e vivo qui, in un bagno abbandonato, da eremita... Mi rimpinzo. Nella prossima settimana penso d'alzare i tacchi... Ormai m'è venuto a noia...

- Inconcepibile! - disse Diukovski.

- Ma che c'è qui d'inconcepibile?

- Inconcepibile! Per amor di Dio, come capitò in giardino il vostro stivale?

- Che stivale?

- Abbiamo trovato uno stivale in camera, e l'altro in giardino. - E a che scopo volete saper questo? Non è affar vostro... Ma bevete, su, che il diavolo vi porti. M'avete svegliato, dunque bevete! E' una storia interessante, fratello, quella dello stivale. Non volevo venire da Olia (13) Non ero in vena, sai, avevo alzato il gomito... Lei arriva sotto la finestra e comincia a ingiuriare... Sai come sono le donne... in generale... Io, da ubriaco, senz'altro le tiro uno stivale... Ah-ah!... Non ingiuriare, dico. Lei s'arrampicò per la finestra, accese la lampada, e avanti a cazzottarmi, ubriaco com'ero.

Me ne diede un sacco, mi trascinò qua e mi rinchiuse. Adesso mi rimpinzo... Amore vodka e antipasti! Ma dove andate? Ciubikòv dove vai?

Il giudice istruttore sputò e uscì dal bagno. Dietro a lui, a testa bassa, uscì Diukovski. Entrambi salirono in silenzio sul sarabachino e partirono. Mai in altro momento la strada era parsa loro così noiosa e lunga come quella volta. Entrambi stavan zitti. Ciubikòv per tutta la strada tremò dalla rabbia, e Diukovski nascondeva la sua faccia nel bavero, come temendo che il buio e la pioggia che cadeva minuta non gli leggessero la vergogna in viso.

Giunto a casa, il giudice istruttore trovò là il dottor Tiutiuev. Il dottore era seduto accanto alla tavola e sospirando profondamente, sfogliava la "Niva" (14).

- Ma quali cose avvengono al mondo! - diss'egli, accogliendo il giudice con un malinconico sorriso. - Di nuovo quell'Austria!... E anche Gladstone (15) in certo qual modo...

Ciubikòv buttò il cappello sotto la tavola e si scrollò.

- Scheletro del diavolo! Non mi seccare! Mille volte t'ho detto di non seccarmi con la tua politica! Non s'ha la testa alla politica qui! E a te, - si rivolse Ciubikòv a Diukovski, scotendo il pugno, - e a te... per tutti i secoli del secoli non dimenticherò!

- Ma... e il fiammifero svedese! Potevo io sapere?

- Strozzati col tuo fiammifero! Vattene e non irritarmi, se no di te lo sa il diavolo quel che farò! Non metter più piede qui!

Diukovski sospirò, prese il cappello e uscì.

- Andrò a berci su! - stabilì, uscito dal portone, e si trascinò tristemente in trattoria.

La moglie del commissario, giunta dal bagno in casa, trovò il marito in salotto.

- Perché è venuto il giudice istruttore? - domandò il marito.

- E' venuto a dire che Kliausov l'hanno trovato. Figurati che l'hanno trovato presso la moglie d un altro!

Eh, Mark Ivanic', Mark Ivanic'! - sospirò il commissario di polizia rurale, levando gli occhi in alto.-Te lo dicevo che il libertinaggio non mena a nulla di buono. Te lo dicevo: non hai dato ascolto!




NOTE:


1) Più precisamente, persone del luogo prese con sé dalla polizia come testimoni, per le constatazioni di rito.

2) Titolo che competeva ai gradi sesto, settimo e ottavo (contando dall'alto) della gerarchia burocratica russa.

3) La famosa eroina dell'omonimo romanzo di Emilio Zola (1879).

4) Così nel testo.

5) Non c'è da dubitare (in latino).

6) Cioè il tuo turno di macinare al mulino, Proverbio che si potrebbe tradurre liberamente: mena la lingua a piacer tuo!

7) Così nel testo russo: è la notissima parola greca che vale:

«Ho trovato!» e che si attribuisce ad Archimede. Questi l'avrebbe gridata quando, stando nel bagno, aveva improvvisamente intravisto la soluzione di un fondamentale problema d'idrostatica.

8) «Vecchi credenti» si chiamarono i russi che, non avendo accettato la correzione dei libri sacri e le altre riforme liturgiche operate dal patriarca Nicone, furono esclusi dalla Chiesa ufficiale nel grande concilio del 1666-1667 e diedero poi origine a numerose sette dissidenti e, in parte, eretiche. Si distinguevano, in generale per un forte sentimento religioso e spesso anche per bigotteria e fanatismo.

9) Numerosi tipi di «vecchi credenti» sono descritti nei loro romanzi da Nicola Leskòv (1831-1895) e da Mèlnikov-Pecerski (1819- 1883), due scrittori russi che molto s'interessarono al detto grande scisma, o "raskòl", e ai dissidenti religiosi, o "raskòniki".

10) Venni, vidi, vinsi! (in latino): il celebre motto con cui Cesare annunciò la sua pronta vittoria su Farnace presso Zela nel Ponto.

11) Emilio Gaboriau (1835-1873): il popolare e fecondo autore francese di romanzi polizieschi che ebbero dappertutto gran voga dopo che i suoi precedenti scritti -romanzi novelle eccetera -erano passati inosservati.

12) Il prete ortodosso.

13) Forma diminutiva e familiare di Olga.

14) «Il seminato »: popolare e diffusissima rivista letteraria del tempo.

15) William Gladstone (1809-1898): Il grande statista inglese.




L'ARTE


Un fosco mattino invernale.

Sulla liscia e brillante superficie del fiumicello Bistrianka, qua e là cosparsa di neve, stanno due contadini: il tozzo Serioska e il guardiano della chiesa Matvéi. Serioska, un giovane sui trent'anni, dalle gambe corte, lacero, tutto spelato, guarda irritato il ghiaccio.

Dalla sua pelliccetta corta logora, come da un cane che muti, pendono ciuffi di peli. Nelle mani tiene un compasso, fatto di due lunghe aste. Matvéi, un vecchio di bell'aspetto, in pelliccia nuova di pecora e scarpe di feltro, guarda coi miti occhi azzurrini in su, là dove, sull'alta riva in dolce pendio, è pittorescamente appollaiato il villaggio. In mano ha un pesante paldiferro.

- E che, staremo così fino a sera, a braccia conserte? - interrompe il silenzio Serioska, volgendo i suoi occhi irritati su Matvéi.- Sei venuto qua per star fermo, vecchio diavolo, o per lavorare?

- Allora tu... fa' vedere... - borbotta Matvéi, battendo gli occhi mansueto.

- Fa' vedere... Sempre io: io devo far vedere, io devo fare. Loro non han testa! Misurare col compasso, ecco quel che bisogna! Senz'aver misurato, non si può rompere il ghiaccio. Misura! Prendi il compasso!

Matvéi prende dalle mani di Serioska il compasso e senza destrezza, scalpicciando allo stesso punto e dando di gomiti in tutte le direzioni, comincia a tracciare sul ghiaccio una circonferenza.

Serioska strizza gli occhi sprezzante e visibilmente gode del suo fare impacciato e della sua ignoranza.

- E-e-eh! - si adira. - Anche questo non lo puoi fare! E' detto:

un contadino sciocco, uno zoticone! Devi pascolare le oche tu, e non fare il Giordano (1)! Da' qua il compasso! Da' qua, ti dico!

Serioska strappa dalle mani del sudato Matvèi il compasso e in un attimo, girando con bravura su un sol tacco, traccia sul ghiaccio la circonferenza. I confini del futuro Giordano sono ormai pronti; adesso resta solo da spezzare il ghiaccio...

Ma prima di procedere al lavoro, Serioska a lungo ancora fa il difficile, fa capricci, rinfaccia:

- Io non sono obbligato a lavorare per voi! Tu sei addetto alla chiesa, e tu fa'!

Egli gode visibilmente della condizione privilegiata in cui l'ha posto ora il destino, che gli ha concesso una rara attitudine: meravigliare una volta all'anno il mondo intero con la sua arte. Al povero, mite Matvéi tocca ascoltar da lui molte velenose, sprezzanti parole.

Serioska si mette al lavoro con dispetto, con rabbia. E' svogliato.

Non ha fatto in tempo a tracciar la circonferenza che già si sente attirato su, nel villaggio, a bere il tè, a gironzolare, a menar la lingua.

- Io verrò subito... - dice, mettendosi a fumare. - E tu qui intanto invece di startene così a contar le cornacchie, dovresti portar qualcosa per sederci su, e spazzare.

Matvéi resta solo. L'aria è grigia e rigida, ma calma. Di dietro le isbe sparpagliate sulla riva occhieggia affabilmente la chiesa bianca.

Intorno alle sue croci dorate volteggiano senza posa le gracchie. In disparte dal villaggio, dove la riva si fa scoscesa e ripida, proprio sopra l'erta, un cavallo impastoiato sta immobile, come di pietra:

probabilmente dorme, o s'è messo a pensare.

Anche Matvéi sta immobile, come una statua, e attende paziente.

L'aspetto pensosamente assonnato del fiume, il volteggiar delle gracchie e il cavallo gl'infondono sonnolenza. Passa un'ora, un'altra, e Serioska non c'e ancora. Da un pezzo ormai il fiume è spazzato ed è stata portata una cassa, per sederci, ma l'ubriacone non si fa vedere.

Matvéi aspetta e sbadiglia soltanto, tratto tratto. Il senso della noia gli è ignoto. Se gli ordineranno di star sul fiume un giorno, un mese, un anno, lui ci starà.

Infine Serioska spunta di dietro le isbe. Cammina dondoloni, posando appena i piedi. Di camminare a lungo non ha voglia, e non scende per la strada, ma sceglie il cammino più breve, dall'alto al basso in linea retta, e intanto affonda nella neve, s'impiglia negli arbusti, striscia sul dorso, e tutto ciò lentamente, con pause.

- Ma tu che fai? - si scaglia contro Matvéi. - Perché stai in ozio? Quando dunque s'ha da spezzare il ghiaccio?

Matvéi si segna, prende con le due mani il paldiferro e comincia a frangere il ghiaccio, seguendo rigorosamente la circonferenza tracciata. Serioska si mette a sedere sulla cassa e osserva i pesanti, goffi movimenti del suo aiutante.

- Più leggermente ai margini! Più leggermente! - comanda. - Se non sai, non ti ci mettere, ma se ti sei messo, fa'! Ohi tu!

In alto si raduna una folla. Serioska, alla vista degli spettatori, si agita anche più!

- Prendo su e smetto di farlo... - dice egli, accendendo una sigaretta puzzolente e sputacchiando. - Vedrò come farete qui senza di me. L'anno scorso a Kostiùkovo Stiopka Gulkòv s'incaricò di costruire il Giordano alla mia maniera. E che? Riuscì una cosa tutta da ridere. Quelli di Kostiùkovo stessi vennero da noi: un visibilio di gente! Da tutti i villaggi ne accorse.

- Perché in nessun posto, tranne che da noi, c'è un vero Giordano...

- Lavora, non c'è tempo di discorrere... Sì, nonno... In tutta la provincia non troverai un altro Giordano così. I soldati dicono che hai un bel cercare, perfino nelle città è peggio. Più leggero, più leggero!

Matvéi geme e soffia. Non è un lavoro facile. Il ghiaccio è duro e profondo; è necessario scheggiarlo e subito portar via i pezzi in disparte, lontano, per non ingombrare lo spiazzo.

Ma per quanto sia greve il lavoro, per quanto sia insensato il comando di Serioska, verso le tre del pomeriggio già nereggia nella Bistrianka un gran cerchio d'acqua.

- L'anno scorso era migliore. - si arrabbia Serioska - Neppur questo hai potuto fare! Eh, testona! E si tengon simili sciocchi presso il tempio di Dio! Va', porta qui un'asse per fare i pioletti!

Porta il cerchio, cornacchia! Ah, sì... prendi in qualche posto del pane... dei cetriolini, che so.

Matvéi se ne va e, poco dopo, arriva portando sulle spalle un enorme cerchio di legno, dipinto già negli anni precedenti, con fregi di vari colori. Nel centro del cerchio è una croce rossa, lungo i margini dei buchi per i piuoli. Serioska prende questo cerchio e chiude con esso la buca scavata.

- Esattamente... s'adatta... Rinnoveremo soltanto la tinta e di prima qualità... Be', perché stai fermo? Fa' il leggio! Oppure... va' e porta le travi, per far la croce...

Matvéi, che dal mattino non ha mangiato né bevuto nulla, torna a trascinarsi su. Per quanto pigro sia Serioska, i pioletti li fa da sé, di propria mano. Egli sa che questi pioletti possiedono una virtù miracolosa: quello a cui toccherà un pioletto dopo la benedizione delle acque sarà felice per tutta l'annata. Sarebbe ingrato un simile lavoro?

Ma il lavoro più serio comincia col giorno seguente. Qui Serioska si rivela all'ignorante Matvéi in tutta la grandezza del suo ingegno. Il suo chiacchierio, i suoi rinfacci, capricci e ghiribizzi non han fine.

Matvéi mette assieme con due grosse travi un'alta croce, lui non è contento e ordina di rifarla. Se Matvéi sta fermo, Serioska domanda adirato perché non va via; se va, gli grida che non vada, ma lavori.

Non lo soddisfano né gli strumenti, né il tempo, né la propria capacità; nulla gli garba.

Matvéi sega un grosso pezzo di ghiaccio per il leggio.

- Perché gli hai rotto un angoletto? - grida Serioska e gli sbarra gli occhi addosso rabbiosamente. - Perché, ti domando, hai rotto un angoletto?

- Perdonami, per amor di Cristo.

- Fallo daccapo!

Matvéi sega di nuovo... e le sue pene non han fine! Vicino alla buca coperta col cerchio dipinto deve stare il leggio; sul leggio bisogna modellare una croce e un vangelo aperto. Ma questo non è tutto. Dietro il leggio starà l'alta croce, visibile a tutta la folla e sfavillante al sole, come cosparsa di diamanti e rubini. Sulla croce una colomba modellata nel ghiaccio. Il cammino dalla chiesa al Giordano sarà coperto di fronde d'abete e di ginepro. Tale è il compito.

Innanzi tutto Serioska si applica al leggio. Egli lavora con raspa, scalpello e lesina. La croce sul leggio, il vangelo e la stola che scende dal leggio gli riescono appieno. Quindi passa alla colomba.

Mentr'egli si sforza di improntare la testa della colomba a mansuetudine e umiltà, Matvéi, rigirandosi come un orso, rifinisce la croce costruita con travi. Egli prende la croce e l'immerge nella buca. Dopo aver atteso che l'acqua sopra la croce sia gelata, l'immerge un'altra volta, e così fino a che le travi non si sian coperte d'uno spesso strato di ghiaccio. E' un lavoro non facile, che esige esuberanza di forze e pazienza.

Ma ecco, il fine lavoro è terminato. Serioska corre per il villaggio come un ossesso. Incespica, impreca, giura che or ora andrà sul fiume e farà a pezzi tutto il lavoro. Gli è che va cercando le tinte adatte.

Le sue tasche son piene d'ocra, di turchino, di minio di verderame; senz'aver pagato nemmeno una copeca, egli corre a precipizio fuori da una bottega e corre in un'altra. Dalla bottega in un salto è alla bettola. Qui beve, agita la mano e, senz'aver pagato, vola oltre. In una isba prende delle barbabietole, in un'altra delle bucce di bulbi, coi quali fa una tinta gialla. Egli impreca, dà urtoni, minaccia e...

almeno un'anima viva gli mostrasse i denti! Tutti gli sorridono, gli han simpatia, gli danno del Serghéi Nikitic' (2), tutti sentono che l'arte non è una faccenda sua personale, ma di tutti, del popolo. Uno fa, i rimanenti l'aiutano. Serioska di per sé è una nullità un pigraccio, un beone e uno sciupone, ma quand'egli ha in mano il minio o il compasso, allora è qualcosa di superiore, è il servo di Dio.

Spunta il mattino dell'Epifania. Il recinto della chiesa e le due sponde per un vasto spazio brulicano di gente. Tutto ciò che costituisce il Giordano è accuratamente nascosto sotto stuoie nuove.

Serioska passeggia quieto vicino alle stuoie e si sforza di reprimere la sua agitazione. Egli vede migliaia di persone: ce ne sono molte anche di altre parrocchie; tutta quella gente ha percorso col gelo, nella neve, a piedi, non poche verste, soltanto per vedere il suo famoso Giordano. Matvéi, che ha terminato la sua facchinesca, orsina fatica, è già di nuovo in chiesa; non lo si vede, non lo si sente; di lui già si sono scordati... Il tempo è magnifico... In cielo nemmeno una nuvoletta. Il sole splende accecante.

In alto echeggia un suono di campane... Migliaia di teste si scoprono, si muovono migliaia di mani: migliaia di segni di croce!

E Serioska non sa dove cacciarsi dall'impazienza. Ma ecco, infine scampanano per il "Gloria"; poi, mezz'ora dopo, sul campanile e nella folla si nota una certa agitazione. Dalla chiesa, un dietro l'altro, portano fuori gli stendardi, echeggia un vivace, affrettato scampanio.

Serioska con mano tremante tira via le stuoie... e il popolo vede un che d'inconsueto. Leggio, cerchio di legno, piuoli e croce sul ghiaccio svariano di migliaia di tinte. La croce e la colomba mandano tali raggi che guardare fa male... Dio misericordioso, com'è bella!

Nella folla corre un rombo d'ammirazione e d'entusiasmo; lo scampanio si fa anche più forte, il giorno più luminoso. Gli stendardi oscillano e si muovono sopra la folla, come sulle onde. La processione, rifulgendo per le guarniture (3) delle icone e le pianete del clero, scende lentamente giù per la strada e si dirige verso il Giordano. Si fa cenno con le mani verso il campanile, perché lassù smettano di sonare, e la benedizione delle acque comincia. Si officia a lungo, con lentezza, cercando visibilmente di prolungare la solennità e la gioia della generale pubblica preghiera. Silenzio.

Ma ecco, immergono la croce, e l'aria risuona di un insolito rombo.

Sparo di fucili, scampanio, clamorose espressioni d'entusiasmo, grida e pigia pigia nella caccia ai pioletti. Serioska tende l'orecchio a questo rombo, vede migliaia di occhi a lui rivolti, e l'anima del pigraccio si colma d'un senso di gloria e di trionfo.




NOTE:


1) Così era detto il punto, appositamente delimitato, dei fiumi gelati dove ogni anno. il 6 (18) gennaio, cioè il giorno dell'Epifania, aveva luogo la benedizione delle acque, come pure l'altare che ivi s'improvvisava.

2) L'uso del nome di battesimo seguito dal patronimico, nel rivolgersi a una persona, o nell'indicarla, è per i russi la forma di riguardo, a differenza dell'uso del solo cognome o del nome di battesimo.

3) Rivestimenti metallici, per lo più d'oro o d'argento, che guarniscono le icone, lasciando scoperti solo i volti e le figure del santi.




SOPPRESSI!


Recentemente, al tempo della piena, un possidente, l'alfiere a riposo Vìvertov, faceva gli onori di casa al geometra Katavassov, passato a trovarlo. Bevevano, mangiavano un boccone e parlavan delle novità.

Katavassov come cittadino, era informato di tutto: del colera, della guerra e perfin dell'aumento del dazio nella misura di una copeca per grado (1). Egli parlava, e Vìvertov ascoltava, faceva degli «ah!» e accoglieva ogni novità con le esclamazioni: «Dite però! Guarda un po'!

A-a-ah!»...

- E perché oggi siete senza controspalline, Semiòn Antipic'? - fu curioso di sapere tra l'altro.

Il geometra non rispose subito. Tacque un po', vuotò un bicchierino di vodka, scosse la mano e allora soltanto disse:

- Soppresse!

- Ve'! A-a-ah!... Io i giornali non li leggo e di questo non so nulla.

Dunque oggidì l'amministrazione civile non porta più spalline (2)?

Dite però! Ma ciò, sapete, in parte è bene: i soldatini non vi confonderanno coi signori ufficiali e non vi faranno il saluto. In parte invece non è bene. Non avete più quell'aspetto, quella prestanza! Non avete più quella distinzione!

- Be', che farci! - disse il geometra e scosse la mano.L'aspetto esteriore non costituisce la cosa principale. Che tu sia con le spalline o senza spalline, è tutt'uno, purché ti sia conservata la qualifica. Noi non ne siamo offesi per nulla. Ma, ecco, a voi hanno fatto realmente un torto, Pavel Ighnatic'! Posso condolermi.

- Cioè, come? - domandò Vìvertov. - Chi mai può farmi torto?

- Mi riferisco al fatto che vi hanno soppressi. L'alfiere, pur essendo un grado modesto, pur non essendo né carne né pesce, è pur sempre un servo della patria, un ufficiale... ha versato il suo sangue... Perché sopprimerlo?

- Cioè... scusate, io non vi capisco del tutto bene... - prese a balbettare Vìvertov, impallidendo e sgranando gli occhi.- Chi mai mi ha soppresso?

- Ma forse che non l'avete sentito? C'è stato un certo decreto, nel senso che non dovessero più esserci alfieri. Nemmeno un alfiere! Che non se ne sentisse più neanche l'odore! Ma forse che non avete sentito? Tutti gli alfieri in servizio fu ordinato di promuoverli sottotenenti, e voi, che siete a riposo, fate come vi piace. Se volete, siate alfieri, e se non volete, non è necessario che lo siate.

- Uhm... Chi dunque son io adesso?

- Ma Dio lo sa, chi siate voi. Adesso siete un nulla, un caso dubbio, una cosa eterea! Adesso voi stessi non raccapezzerete più chi siate.

Vìvertov voleva domandare qualcosa, ma non poté. Sotto la bocca dello stomaco gli venne freddo, i ginocchi gli si piegarono, la lingua non si rigirava. Poiché stava masticando il salame, questo gli rimase in bocca, non finito di masticare.

- Non hanno agito bene con voi, che dire! - disse il geometra e sospirò. - Sta bene tutto, ma questo provvedimento non posso approvarlo. Sì che adesso, penso, se ne parlerà nei giornali stranieri! Eh?

- Di nuovo torno a non capire... - articolò Vìvertov. - Se ora non sono più alfiere, chi sono mai? Nessuno? Uno zero? Dunque, se vi capisco, ognuno adesso può insolentirmi, può darmi del tu?

- Questo non lo so. Ma noi adesso ci prendono per conduttori! L'altro giorno il capo del movimento sulla linea locale va in giro, sapete, nel suo cappotto d'ingegnere, senza spalline al modo di oggi, e non so che generale gli grida: «Conduttore, partirà presto il treno?». Si presero per i denti! Uno scandalo! Di ciò nei giornali non si può scrivere, ma... è noto a tutti! Non c'è fuoco senza fumo!

Vìvertov, sbalordito dalla novità, non beveva e non mangiava più.

Provò una volta a bere del "kvas" (3) freddo, per tornare in sentimento, ma il "kvas" gli si fermò in gola e tornò indietro.

Accompagnato alla porta il geometra, il soppresso alfiere si mise a girare per tutte le stanze e a pensare. Pensò, pensò e non venne a capo di nulla. La notte se ne giacque in letto sospirando e del pari pensando.

- Ma smettila di far le fusa! - disse la moglie Arina Matvéievna, e l'urtò col gomito. - Geme come se stesse per partorire! Fors'anche non è neppur vero. Tu domani fa' una scappata da qualcuno e domanda.

Straccio!

- Già, ma quando rimarrai senza qualifica e senza titolo, allora anche a te daranno dello straccio. S'è distesa qui come una balena, e poi:

straccio! Non sei stata tu credo, a versare il tuo sangue!

La mattina del giorno dopo, Vìvertov, che non aveva dormito tutta la notte, attaccò il suo sauro chiaro al calesse e andò a prendere informazioni. Aveva risoluto di passare da qualcuno dei vicini, e, se si fosse presentata la necessità, anche dal capo della nobiltà in persona. Attraversando Ipàtievo, s'incontrò là con l'arciprete Pafnuti Amalikitianski. Il padre arciprete andava dalla chiesa a casa e, agitando con ira il bastone, non faceva che voltarsi verso il sagrestano che lo seguiva e borbottare:

«Ma sei un bell'imbecille, fratello! Guarda che imbecille!».

Vìvertov scese dal calesse e gli s'accostò per ricevere la benedizione.

- Buona festa a voi, padre arciprete! - lo salutò, baciandogli la mano. - La messa l'avete officiata?

- Sì, la liturgia.

- Così... A ciascuno il suo compito! Voi pascolate il gregge spirituale, noi concimiamo la terra nella misura delle nostre forze...

Ma perché oggi siete senza decorazioni?

Il reverendo, per tutta risposta, si accigliò, scosse la mano e procedette oltre.

- Gliele hanno vietate! - spiegò il sagrestano in un bisbiglio.

Vìvertov accompagnò con gli occhi l'arciprete che camminava irritato, e il cuore gli si strinse per un amaro presentimento: la comunicazione fattagli dal geometra pareva ora prossima al vero!

Innanzi tutto passò dal vicino, maggiore Izitsa, e quando il suo calesse entrò nel cortile del maggiore, egli vide questo quadro.

Izitsa in veste da camera e fez turco stava in mezzo al cortile, pestava i piedi con ira e agitava le braccia. Dinanzi a lui il cocchiere Filka conduceva avanti e indietro un cavallo zoppicante.

- Farabutto!- si scaldava il maggiore. - Furfante! Canaglia!

Impiccarti sarebbe poco, maledetto! Afgano! Ah, i miei rispetti! - disse, avendo scorto Vìvertov. - Lietissimo di vedervi. Come vi piace questo? E' già una settimana che ha scorticato una zampa al cavallo e sta zitto, furfante! Nemmeno una parola! Se non ci avessi badato io stesso, uno zoccolo sarebbe andato al diavolo! Eh? Che razza di gente? E non picchiarlo sul muso? Non picchiarlo? Non picchiarlo, vi domando?

- E' un cavallino eccellente, - disse Vìvertov, avvicinandosi a Izitsa. - Peccato! Voi, maggiore, mandate per un maniscalco. Nel mio villaggio, maggiore, c'è un ottimo maniscalco!

- Maggiore, - borbottò Izitsa, sorridendo sprezzantemente.- Maggiore!... Non ho il capo agli scherzi io! Mi s'è ammalato il cavallo, e voi: maggiore! maggiore! Come una gracchia: krr!... krr!

- Io, maggiore, non vi capisco. Forse che si può paragonare una persona dabbene con una gracchia?

- Ma che maggiore son io? Forse ch'io son maggiore?

- E chi siete?

- Ma lo sa il diavolo, chi sono! - disse Izitsa. - E' già più d'un anno che non ci son maggiori. E voi perché dite questo? Siete nato soltanto ieri, che?

Vìvertov guardò con sgomento Izitsa e prese a tergersi il sudore sul viso, presentendo qualcosa di ben brutto.

- Permettete però... - disse egli. - Io tuttavia non vi capisco...

Il maggiore è pure un grado importante!

- Sissignore!!

- E allora come mai? E voi... nulla?

Il maggiore scosse soltanto la mano e cominciò a raccontargli come quel mascalzone di Filka aveva offeso al cavallo lo zoccolo, fece un lungo racconto, e alla fin fine gli accostò perfino al viso lo zoccolo malato con l'escoriazione purulenta e l'impiastro di letame, ma Vìvertov non capiva, non sentiva e guardava tutto come attraverso un reticolo. Incoscientemente si accomiatò, salì nel suo calesse e gridò con disperazione:

- Dal capo della nobiltà! Svelto! Frusta a gran forza!

Il capo della nobiltà, il consigliere di Stato effettivo Jàgodiscev, non abitava lontano. Di lì a forse un'ora Vìvertov già entrava nel suo studio e gli s'inchinava. Il capo della nobiltà era seduto su un sofà e leggeva il "Tempo nuovo". Scorto colui che entrava, fece un cenno col capo e indicò una poltrona.

- Io, eccellenza,- cominciò Vìvertov, - avrei dovuto innanzi tutto presentarmi a voi, ma, trovandomi all'oscuro circa la mia qualifica, ho l'ardire di ricorrere a vostra eccellenza per uno schiarimento...

- Permettete, stimatissimo, - lo interruppe il capo della nobiltà.

- Prima di tutto non chiamatemi eccellenza. Ve ne prego!

- Che dite?... Noi siamo piccola gente...

- Non di ciò si tratta! Scrivono, ecco... - (il capo della nobiltà indicò il "Tempo nuovo" e lo forò col dito), - scrivono, ecco, che noi, consiglieri di Stato effettivi, non saremo più eccellenze. Lo danno per sicuro! Ebbene! Non è neppur necessario, grazioso sovrano!

Non è necessario! Non chiamateci così! Non ce n'è neppur bisogno!

Jàgodiscev si alzò e fece orgogliosamente un giro per lo studio...

Vìvertov emise un sospiro e lasciò cadere sul pavimento il berretto.

«Se ormai son giunti fino a loro», pensò, «non è il caso di far domande circa gli alfieri e i maggiori. Farò meglio ad andarmene...».

Vìvertov borbottò qualche cosa e uscì, dimenticando nello studio del capo della nobiltà il berretto. Di lì a due ore arrivò a casa sua pallido, senza berretto, con una espressione ottusa di sgomento sul viso. Smontando dal calesse, gettò un timido sguardo al cielo: e se avessero ormai soppresso anche il sole? La moglie, impressionata dal suo aspetto, lo tempestò di domande, ma a tutte le domande egli rispose soltanto scotendo la mano...

Per una settimana non bevve, non mangiò, non dormì, ma andò come un demente da un angolo all'altro e pensò. Il viso gli si affilò, il suo sguardo si fece fosco... Non si metteva a parlar con alcuno, non si rivolgeva ad alcuno per nulla, e quando Arina Matvéievna lo importunava con domande si schermiva soltanto con la mano e... non un suono... Che cosa non gli fecero per farlo tornare in sentimento! Gli facevan bere il decotto di sambuco, gli davano «per uso interno» dell'olio tolto dal lumino dell'icona, lo facevan sedere su un mattone ardente, ma nulla giovava, egli deperiva e si schermiva con la mano.

Chiamarono infine, per fargli intender ragione, padre Pafnuti.

L'arciprete per mezza giornata si arrabattò, spiegandogli che tutto tendeva ora non all'annullamento, bensì all'esaltazione, ma il buon seme cadde in un terreno ingrato. Prese cinque rubli per le sue fatiche, e così se n'andò, senz'aver ottenuto nulla.

Dopo essere stato zitto una settimana, Vìvertov parve mettersi a parlare.

- Perché taci, grintaccia?-si scagliò improvvisamente sul servitorello Iliuska. - Insolentisci! Scherniscimi! Indica a dito un uomo annientato! Trionfa!

Detto questo, si mise a piangere e tacque di nuovo per una settimana.

Arina Matvéievna risolse di fargli cavar sangue. Arrivò l'aiuto medico, che gli cavò due piatti di sangue, e ciò parve sollevarlo. Il giorno dopo la cavata di sangue, Vìvertov s'avvicinò al letto su cui giaceva la moglie e disse:

- Io, Arina, non la lascerò così. Adesso mi son risolto a tutto... Il mio grado me lo son meritato e nessuno ha il diritto di attentarvi.

Ecco quel che ho escogitato: scriverò a qualche persona altolocata un'istanza e firmerò: l'alfiere tale... alfie-re... Capisci? Per di- spet-to! Al-fiere... E sia! Per di-spet-to!

E questo pensiero tanto piacque a Vìvertov ch'egli si fece raggiante e chiese perfino da mangiare. Adesso, illuminato dalla nuova decisione, gira per le stanze, sorride sarcasticamente e fantastica:

- Al-fie-re... Per di-spet-to!




NOTE:


1) Si allude alla gradazione alcoolica della vodka, che formava oggetto di monopolio governativo.

2) Anche gli impiegati delle amministrazioni civili dello Stato portavano un'uniforme. come i militari. Ai loro superiori competevano anche i titoli militari corrispondenti.

3) Bevanda fermentata, fatta con farina o pane di segala e malto.