Fëdor Dostoevskij
IL GIOCATORE
1.
Finalmente ritornavo dopo un'assenza di due settimane. Già da tre giorni i nostri si trovavano a Roulettenburg. Pensavo di essere atteso con chi sa quale ansia, e invece mi sbagliavo. Il generale mi accolse con una disinvoltura eccessiva, mi parlò squadrandomi dall'alto in basso e mi mandò da sua sorella. Era evidente che da qualche parte erano riusciti a procurarsi del denaro. Ebbi addirittura l'impressione che il generale mi guardasse con un certo imbarazzo. Màrja Filìppovna, indaffaratissima, mi liquidò con poche parole; prese, però, il denaro, lo contò e ascoltò il mio rapporto. A pranzo erano attesi Mezentzòv, il francesino e un inglese; come sempre, quando c'era denaro, subito inviti a pranzo:
secondo l'uso moscovita. Polina Aleksàndrovna, vedendomi, mi chiese come mai fossi rimasto assente tanto a lungo. Ma non aspettò nemmeno la risposta e se ne andò. Si capisce, l'aveva fatto apposta. Però dovevo parlarle a ogni costo. Molte cose si erano accumulate.
Mi era stata assegnata una piccola stanza, al quarto piano dell'albergo: si sa qui che io appartengo al "seguito del generale". Da ogni cosa si capisce che essi sono riusciti a dare nell'occhio. Qui il generale è creduto un ricchissimo magnate russo. Ancora prima di pranzo, ha fatto in tempo, tra gli altri incarichi, a darmi due biglietti da mille franchi da cambiare, la qual cosa feci alla segreteria dell'albergo. Ora ci riterranno dei milionari, almeno per una settimana. Volevo prendere Misha e Nàdja e portarli a fare una passeggiata, ma sulla scala mi chiamarono per conto del generale: si degnava di informarsi su dove avrei portato i bambini. Quest'uomo non può assolutamente guardarmi negli occhi: vorrebbe farlo, ma io, ogni volta, gli rispondo con uno sguardo così fisso, vorrei dire irriverente, che egli sembra confondersi. Con un discorso tronfio, legando alla meglio una frase dopo l'altra e, alla fine, impappinandosi completamente, mi fece capire che dovevo passeggiare con i bambini lontano dal Casinò, nel parco. E, irritandosi, concluse bruscamente:
"Se no, a voi salta magari in mente di portarli al Casinò, alla roulette. Mi dovete scusare," aggiunse, "ma so che siete ancora un po' sventato e capace, Dio sa, di mettervi a giocare. In ogni caso, anche se io non sono il vostro mentore e non ho alcuna intenzione di assumere una simile parte, ho tuttavia il diritto di pretendere che voi, per così dire, non mi compromettiate..." "Ma sapete che non ho denaro," risposi in tutta calma, "e, per perderlo, bisogna averlo." "Lo avrete immediatamente" rispose il generale, arrossendo leggermente; poi, rovistato nel suo scrittoio, consultò un libriccino e risultò che mi doveva circa centoventi rubli.
"Per poter fare questi conti" riprese, "serve cambiare i denari in talleri. Prendete per ora cento talleri, cifra tonda; il resto, naturalmente, non andrà perduto." Presi il denaro in silenzio.
"Per favore, non offendetevi per quanto vi ho detto, siete così permaloso... Se vi ho fatto un'osservazione, l'ho fatto, per così dire, allo scopo di mettervi in guardia e, certamente, con un certo diritto..." Ritornando a casa con i bambini per il pranzo, incontrai un'intera cavalcata: erano i nostri che andavano a visitare non so quali rovine... Due splendide carrozze e dei cavalli superbi!
Mademoiselle Blanche era in carrozza con Màrja Filìppovna e Polina; il francesino, l'inglese e il nostro generale andavano a cavallo. I passanti si fermavano a guardarli: l'effetto era raggiunto... ma il generale finirà male! Ho fatto il conto che, aggiungendo ai quattromila franchi che ho portato io quelli che evidentemente sono riusciti a procurarsi, avranno in tutto sette o ottomila franchi; troppo pochi per mademoiselle Blanche.
Mademoiselle Blanche sta anche lei nel nostro albergo, insieme con la madre; e ci sta anche, non so bene dove, il nostro francesino.
I camerieri lo chiamano "monsieur le comte", la madre di Blanche viene chiamata "madame la comtesse", e magari lo sono veramente "comte" e "comtesse".
Sapevo già che "monsieur le comte" non mi avrebbe riconosciuto quando ci saremmo trovati a tavola per il pranzo. Il generale, naturalmente, non pensò a presentarci o, almeno, a presentare me a lui; ma "monsieur le comte" è stato in Russia e sa benissimo che persona poco importante sia quello che essi chiamano "outchitel" (1). Egli, d'altra parte, mi conosce molto bene. Ma, se devo essere sincero, anche a pranzo sono capitato senza essere invitato: sembra che il generale si fosse dimenticato di dare disposizioni al riguardo, se no senza dubbio mi avrebbero mandato a pranzare alla "table d'hôte". Mi presentai così, di mia iniziativa, tanto che il generale mi gettò un'occhiata poco soddisfatta. La buona Màrja Filìppovna mi indicò subito un posto, ma l'incontro con mister Astley mi tolse d'impiccio e, senza volerlo, feci la figura di appartenere alla loro società.
Avevo incontrato questo strano inglese per la prima volta in Prussia, in treno, dove sedevamo l'uno di fronte all'altro, quando ero in viaggio per raggiungere i nostri; poi mi ero imbattuto in lui entrando in Francia e, infine, in Svizzera; poi un paio di volte nel corso di quelle due settimane, ed ecco che ora lo avevo incontrato inaspettatamente a Roulettenburg. Non mi è mai capitato in tutta la vita di conoscere un uomo più timido, timido fino alla stupidità e lui, naturalmente, se ne rende conto perché stupido non lo è affatto. Del resto, è molto simpatico e tranquillo. Ero riuscito a farlo parlare durante il nostro primo incontro in Prussia. Mi disse che nell'estate era andato al Capo Nord e che aveva una gran voglia di visitare la fiera di Niginij-Nòvgorod.
Non so come abbia conosciuto il generale: mi sembra che sia innamoratissimo di Polina. Quando lei è entrata, il viso di lui si è fatto di bracie. Era molto contento che a tavola gli sedessi vicino, e mi sembra che mi consideri già come suo intimo amico.
A tavola il francesino si dava molte arie: è superbo e sprezzante con tutti. E a Mosca, mi ricordo, non faceva che bolle di sapone.
Parlò senza posa di finanze e di politica russa. Il generale, ogni tanto, osava contraddirlo ma con molta discrezione, unicamente quel tanto che bastava per non mettere a repentaglio la propria importanza.
Io ero in uno strano stato d'animo; si capisce, prima ancora di essere a metà del pranzo mi ero già posto la solita domanda di tutti i giorni: "Perché continuo a frequentare questo generale e non l'ho piantato da un pezzo?" Di tanto in tanto guardavo Polina Aleksàndrovna, ma lei non badava assolutamente a me. Finii con l'irritarmi e decisi di diventare insolente.
E cominciai così che a un tratto, senza nessun motivo e senza essere interpellato, mi intromisi nella conversazione altrui.
Avevo voglia, soprattutto, di attaccarmi con il francesino. Mi rivolsi al generale e di colpo, a voce alta e mi sembra anche interrompendolo, osservai che quell'estate era diventato quasi impossibile per i russi mangiare alle "tables d'hôte". Il generale mi gettò uno sguardo stupito.
"Se siete uno che appena si rispetti" continuai, "immancabilmente vi sentirete insultare e dovrete sopportare le più umilianti mortificazioni. A Parigi, sul Reno, e persino in Svizzera, ci sono alle "tables d'hôte" tanti di quei polaccuzzi e francesini che simpatizzano tra loro che non è possibile dire una parola, se siete russo." Dissi questo in francese. Il generale mi guardò, incerto se andare in collera o solo meravigliarsi che io mi fossi lasciato andare fino a quel punto.
"Vuol dire allora che da qualche parte qualcuno vi ha dato una lezione" disse il francesino, con incurante disprezzo.
"Io, a Parigi, prima ho attaccato lite con un polacco," gli risposi, "poi con un ufficiale francese che aveva preso le parti del polacco. Ma poi una parte dei francesi cominciò a spalleggiare me quando raccontai loro che volevo sputare nel caffè di un monsignore." "Sputare?" chiese il generale con espressione incredula e guardandosi in giro. Il francesino, mi fissava con diffidenza.
"Proprio così" risposi. "Poiché per due giorni fui convinto che avrei dovuto fare un salto a Roma per le nostre faccende, mi recai negli uffici dell'ambasciata del Santo Padre a Parigi per far vistare il mio passaporto. Là mi ricevette un abatino sui cinquant'anni, secco e dalla fisionomia gelida che, dopo avermi ascoltato con cortesia ma con straordinaria freddezza, mi pregò di aspettare. Nonostante avessi fretta, naturalmente mi sedetti ad aspettare, tirai fuori l'"Opinion Nationale" e cominciai a leggere alcune tremende invettive contro la Russia. Intanto avevo udito che qualcuno, dalla stanza vicina, era entrato dal monsignore e vidi il mio abate inchinarsi. Mi rivolsi a lui con la preghiera di prima: in tono ancora più asciutto, mi pregò nuovamente di attendere. Dopo un po' entrò un altro sconosciuto ma per affari, un austriaco; gli diedero subito ascolto e lo accompagnarono di sopra. Allora cominciai a irritarmi, mi alzai mi avvicinai all'abate e gli dissi in tono deciso che, visto che il monsignore riceveva, poteva sbrigare anche me. D'improvviso l'abate si spostò in preda a un insolito stupore. Non poteva assolutamente capire come mai un russo qualunque avesse l'ardire di paragonarsi ai visitatori di monsignore. Con tono insolente, come se provasse un vero piacere nel potermi offendere, mi squadrò dalla testa ai piedi, esclamando: "Possibile che voi pensiate che monsignore lasci il suo caffè per voi?" Allora presi a gridare, ma ancora più forte di lui: "Sappiate che nel caffè del vostro monsignore io ci sputo! Se non la fate immediatamente finita con il mio passaporto, andrò io stesso da lui..." "Come! proprio mentre c'è da lui un cardinale!" urlò l'abatino, allontandosi da me con orrore: poi si precipitò alla porta e incrociò le braccia facendo vedere che sarebbe morto piuttosto di lasciarmi passare. Allora gli risposi che io ero un eretico e un barbaro, "que je suis herétique et barbare", e che di tutti quei vescovi, arcivescovi, cardinali, monsignori eccetera eccetera, me ne infischiavo altamente. In una parola, gli feci capire che non avrei ceduto. L'abate mi lanciò un'occhiata piena di odio sconfinato, mi strappò di mano il passaporto e lo portò di sopra.
Dopo un minuto era già vistato. Eccolo, signori, volete vederlo?" Tirai fuori di tasca il passaporto e mostrai il visto di Roma.
"Voi però..." cominciò il generale...
"Vi ha salvato il fatto che vi siete dichiarato eretico e barbaro" osservò ridendo il francesino. "Cela n'était pas si bête!" (2) "Così dunque si devono trattare i nostri russi? Loro se ne stanno qui tranquilli, non osano nemmeno fiatare e sono magari anche pronti a negare di essere russi. Per lo meno, a Parigi, nel mio albergo, avevano cominciato a trattarmi con molto più riguardo da quando avevo raccontato a tutti la mia lite con l'abate. Un grosso "pan" (3) polacco, il più ostile verso di me alla "table d'hôte", era passato in seconda linea. I francesi sopportarono addirittura che io raccontassi di aver visto due anni prima un uomo contro il quale un cacciatore francese aveva sparato nel '12, soltanto per scaricare il fucile. Quell'uomo era allora un ragazzino di soli dieci anni e la sua famiglia non aveva fatto in tempo a fuggire da Mosca." "Questo non è possibile!" esclamò infuriato il francesino. "Un soldato francese non spara contro un ragazzo!" "Però la cosa è successa" ribattei io. "Me l'ha raccontata un rispettabile capitano a riposo, e io stesso ho visto sulla sua guancia la cicatrice lasciata dal proiettile." Il francesino si mise a parlare in fretta e senza più smetterla.
Il generale stava già per spalleggiarlo, ma io gli raccomandai di leggere, per esempio, qualche brano dalle "Memorie" del generale Perovskij, che nel '12 era stato prigioniero dei francesi. Infine, Màrja Filìppovna si mise a parlare di non so più che cosa per cambiare discorso. Il generale era molto scontento di me, perché io e il francese avevamo già iniziato ad alzare la voce. Ma a mister Astley mi sembrò che fosse molto piaciuta la mia discussione con il francese; alzandosi da tavola mi invitò a bere un bicchiere di vino. La sera mi riuscì, com'era da aspettarsi, di poter parlare per un quarto d'ora con Polina Aleksàndrovna. La nostra conversazione avvenne durante la passeggiata. Tutti erano andati nel parco, verso il Casinò. Polina si era seduta su una panchina, di fronte alla fontana, e aveva lasciato che Nàdenka andasse a giocare non lontano con altri bambini. Anch'io avevo lasciato andare Misha alla fontana e cosi rimanemmo finalmente soli.
Si capisce che iniziammo a parlare di affari. Polina andò addirittura in collera quando le consegnai in tutto settecento "gulden". Era sicura che gliene avrei portati da Parigi, in pegno dei suoi brillanti, almeno duemila e anche di più.
"Ho bisogno di denaro, a ogni costo" mi disse, "e occorre trovarlo. Se no, sono perduta." Cominciai a interrogarla su quello che era successo durante la mia assenza.
"Nient'altro che questo: abbiamo ricevuto da Pietroburgo due notizie, la prima che la nonna stava molto male e, dopo due giorni, che sembrava fosse già morta. Queste notizie ci sono arrivate da Timoféj Petrovitch" aggiunse Polina, "e lui è un uomo molto preciso. Aspettiamo ora la notizia definitiva." "Così, qui, sono tutti in attesa?" chiesi.
"Naturalmente, tutto e tutti; da sei mesi sperano soltanto in questo." "Anche voi ci sperate?" domandai.
"Ma il fatto è che io non le sono affatto parente, poiché sono solo la figliastra del generale. Ma so con certezza che si ricorderà di me nel testamento." "Credo che anche a voi toccherà moltissimo" risposi confermando.
"Si, mi voleva bene; ma perché voi lo credete?" "Ditemi," le risposi con un'altra domanda, "il nostro marchese è anche lui dentro a tutti i segreti di famiglia?" "Ma voi perché ve ne interessate?" chiese Polina, lanciandomi uno sguardo duro e severo.
"Sfido io! Se non mi sbaglio, il generale è già riuscito a farsi prestar denaro da lui." "L'avete indovinata!" "Credete che gli avrebbe dato del denaro, se non avesse saputo della nonna? Avete notato che lui, a tavola, per ben tre volte, parlando della nonna l'ha chiamata 'babùlenka,' la 'baboulinka' (4)? Che razza di rapporti confidenziali e amichevoli!" "Sì, avete ragione. Non appena saprà che mi toccherà qualcosa per testamento, subito chiederà la mia mano. Era questo che volevate sapere?" "Solo adesso chiederà la vostra mano? Credevo che l'avesse fatto da un pezzo..." "Sapete benissimo che non è così!" esclamò con rabbia Polina.
"Dove avete incontrato questo inglese?" aggiunse, dopo un minuto di silenzio.
"Ero certo che ora avreste chiesto di lui." E le raccontai dei miei precedenti incontri con mister Astley.
"E' timido e si accende facilmente: naturalmente, sarà già innamorato di voi!" "Sì, è innamorato di me" rispose Polina.
"Ed è, senza dubbio, dieci volte più ricco del francese. Ma il francese possiede poi veramente qualche cosa? Non c'è alcun dubbio al riguardo?" "Non c'è alcun dubbio. Possiede non so quale 'château'. Ancora ieri il generale ne parlava con sicurezza. Ebbene, siete soddisfatto?" "Io, al vostro posto, sposerei senz'altro l'inglese." "Perché?" chiese Polina.
"Il francese è più bello, ma più vile; l'inglese è, soprattutto, onesto, e poi dieci volte più ricco" risposi seccamente.
"Si, però il francese è marchese e è più intelligente" ribatté lei con la massima calma.
"Ma è proprio vero?" continuai, con il tono di prima.
"Verissimo!" A Polina le mie domande dispiacevano tremendamente, e mi accorgevo che voleva farmi irritare con il tono e la stranezza delle sue risposte; e glielo dissi subito.
"Sapete, mi diverte proprio vedere come vi infuriate. Non fosse altro che per il fatto che vi permetto di rivolgermi simili domande e di fare simili congetture, dovete pagarmela." "Mi ritengo in pieno diritto di farvi qualsiasi domanda," le risposi con tutta calma, "precisamente perché sono pronto a pagarle come volete, e la mia vita adesso non la stimo proprio niente." Polina scoppiò a ridere.
"L'ultima volta, sullo Schlangenberg, mi avete detto che eravate pronto, alla mia prima parola, a buttarvi giù a capofitto e mi sembra che là ci sia un salto di circa mille piedi. Un bel giorno pronuncierò questa parola solo per vedere come pagherete, e siate pur certo che non cambierò idea. Voi mi siete odioso proprio perché vi ho concesso tante libertà e ancora più odioso perché mi siete necessario. Ma, fino a che mi siete necessario, bisogna che vi tenga da conto." Fece per alzarsi. Parlava con voce irritata. Negli ultimi tempi concludeva sempre i suoi colloqui con me con irritazione e astio, sì, con vero astio!
"Mi permettete di chiedervi che cos'è questa mademoiselle Blanche?" chiesi, non volendo lasciarla andare via senza una spiegazione.
"Lo sapete benissimo che cos'è mademoiselle Blanche. Niente di nuovo si è aggiunto da allora. Mademoiselle Blanche diventerà senza dubbio generalessa, naturalmente se le voci sulla morte della nonna verranno confermate, poiché mademoiselle Blanche, sua madre e il marchese, 'cousin' di terzo grado, sanno benissimo che noi siamo rovinati." "E il generale è proprio innamorato?" "Ma ora non si tratta di questo. Ascoltate e tenete bene in mente:
prendete questi settecento fiorini, andate a giocare, e vincete alla roulette quanto più potete; ho bisogno di denaro, a ogni costo." Detto questo, chiamò Nàdenka e andò verso il Casinò dove si riunì a tutta la nostra compagnia. Io girai a sinistra per il primo sentiero che mi capitò, soprappensiero e meravigliato.
Quell'ordine di andare alla roulette mi aveva fatto l'effetto di un pugno in testa. Cosa strana: avevo di che riflettere e, invece, mi sprofondai nell'analisi dei miei sentimenti per Polina. In verità in quelle due settimane di assenza mi ero sentito meglio di adesso, giorno del mio ritorno, anche se durante il viaggio avevo sofferto di una tremenda nostalgia di lei, mi ero agitato come un ossesso e persino in sogno l'avevo continuamente davanti a me. Una volta (successe in Svizzera), addormentatomi in treno, mi ero messo, sembra, a parlare ad alta voce con Polina, facendo ridere tutti i miei compagni di viaggio. E ancora una volta, adesso, mi chiesi se la amavo. E ancora una volta non seppi rispondere, cioè, per meglio dire, per la centesima volta risposi a me stesso che la odiavo. Sì, lei mi era odiosa. C'erano dei momenti (e precisamente ogni volta che concludevamo i nostri colloqui) che avrei dato metà della mia vita per strozzarla. Giuro che se fosse stato possibile affondare lentamente nel suo petto un acuminato coltello, credo che lo avrei afferrato con gioia. E nello stesso tempo giuro, su tutto quanto ho di più sacro, che se sullo Schlangenberg, la vetta di moda, lei mi avesse detto: "Buttatevi giù!" l'avrei fatto immediatamente e persino con voluttà. Lo sapevo. In un modo o nell'altro, la cosa doveva decidersi. Tutto questo lei lo capisce perfettamente, e il pensiero che io sia convinto sinceramente e profondamente della sua inaccessibilità per me, dell'impossibilità di realizzare le mie fantasie, questo pensiero, sono convinto, le procura un godimento straordinario; in caso contrario come potrebbe lei, tanto intelligente e prudente, essere con me in rapporti così sinceri e familiari? Mi sembra che fino ad ora mi abbia considerato come quell'antica imperatrice che si spogliava davanti al suo schiavo, non ritenendolo un uomo. Sì, molte volte non mi ha considerato un uomo...
Comunque avevo avuto da lei un incarico: vincere alla roulette a qualunque costo. Non avevo tempo di pensare: perché bisogna vincere con tanta urgenza e quali nuove considerazioni saranno nate in quel cervello eternamente in azione per i suoi calcoli?
Oltre a questo era evidente che in quelle due settimane si era accumulato un sacco di fatti nuovi dei quali non avevo ancora idea. Bisognava indovinare tutto, vedere bene in fondo a ogni cosa e il più presto possibile. Ma per il momento non avevo tempo:
dovevo vincere alla roulette.
NOTE:
2.
Confesso che la cosa mi riusciva spiacevole; nonostante avessi ormai deciso di giocare, non volevo assolutamente farlo per gli altri. La cosa, anzi, mi sconcertava non poco, ed entrai nelle sale da giuoco con una sensazione molto fastidiosa. Fin dalla prima occhiata, niente là dentro mi piacque. Non posso soffrire la servilità dei "feuilletons" dei giornali di tutto il mondo, e soprattutto quella dei nostri giornali russi, nei quali quasi ogni primavera gli articolisti trattano due argomenti: innanzi tutto la straordinaria grandiosità e lo sfarzo delle sale da giuoco delle città sul Reno dove c'è la roulette, e in secondo luogo i mucchi d'oro che, a sentire loro, giacerebbero sui tavoli. E sì che non sono pagati per questo: scrivono queste cose così, con una disinteressata compiacenza. Nessuna grandiosità e nessuno sfarzo in queste sudicie sale; e, quanto all'oro, non solo non giace a mucchi sui tavoli, ma è tanto se lo si vede qualche volta comparire. Naturalmente può accadere nel corso della stagione che capiti qualche tipo originale, o un inglese o un qualche asiatico, un turco, come quest'estate, che di colpo perda o guadagni moltissimo; gli altri giocatori puntano piccole somme e, mediamente, sui tavoli si trova sempre poco denaro.
Appena entrai nella sala da giuoco (era la prima volta nella mia vita) rimasi ancora un po' di tempo senza decidermi a giocare. E per di più la folla mi spingeva. Ma anche se fossi stato solo, anche allora, penso, me ne sarei andato subito e non avrei cominciato a giocare. Confesso che il cuore mi batteva forte e che avevo perso tutto il mio sangue freddo; sapevo con certezza, e da molto tempo lo avevo deciso, che da Roulettenburg non me ne sarei andato così, semplicemente; nel mio destino sarebbe sopravvenuto qualcosa di radicale e di definitivo. Così deve essere e così sarà. Per quanto sia ridicolo che io mi aspetti tanto dalla roulette, mi sembra ancora più ridicola l'opinione comune, accettata da tutti, che è assurdo e stupido aspettarsi qualcosa dal gioco. Perché il gioco dovrebbe essere peggiore di qualsiasi altro mezzo per far quattrini come, per esempio, del commercio?
Vero è che, su cento, uno solo vince, ma a me che importa?
Comunque decisi, per prima cosa, di osservare tutto attentamente e di non cominciare, per quella sera, niente di serio. Quella sera, se doveva succedere qualcosa, sarebbe successa come imprevisto, per caso; così avevo deciso. Inoltre era necessario che imparassi il gioco poiché, nonostante le mille descrizioni della roulette che io avevo sempre letto con avido interesse, non avevo capito assolutamente niente del suo meccanismo fino a che non avevo visto io stesso.
Innanzi tutto, ogni cosa mi sembrò così lurida, moralmente brutta e lurida! E non parlo di quelle facce avide e inquiete che a decine, anzi a centinaia, affollano i tavoli da giuoco. Non vedo proprio niente di sudicio in quel desiderio di guadagnare più presto e di più; e ho sempre ritenuto sciocco il pensiero di un moralista sazio e ben provvisto che, alla giustificazione di un tale che "si fanno solo piccole puntate" rispose: "Tanto peggio perché il guadagno è misero". Come se guadagno misero e guadagno consistente non fossero la stessa cosa. E' solo questione di proporzione. Quello che per Rotschild è una miseria, per me è una ricchezza; e, in quanto al fatto del guadagno e della vincita, gli uomini non solo alla roulette, ma dappertutto e sempre, non fanno che strapparsi o vincersi l'un l'altro qualche cosa. Che, in generale, lucro e guadagno siano sporchi, è un'altra faccenda, ma non è qui il caso di risolverla. Dal momento che anch'io ero dominato al massimo dal desiderio di vincere, così quell'interesse e quell'interessata bruttura, mi erano, se volete, entrando nella sala, in certo qual modo più familiari e più vicini. Una delle cose più simpatiche è quando due persone non fanno tra loro complimenti, ma agiscono in tutta franchezza e con il cuore in mano. E perché, allora, ingannare se stessi? E' l'occupazione più insulsa e più imprudente che ci sia! Particolarmente odiosa, fin dal primo sguardo, in tutta quell'accozzaglia di gente da roulette, era quell'aria di rispetto per la propria occupazione, quella serietà e direi quasi riverenza con cui tutti stavano intorno ai tavoli. Ecco perché qui si fa una netta distinzione tra il gioco detto di "mauvais genre" e quello permesso alla gente come si deve. Esistono due giuochi: uno da gentiluomo e l'altro plebeo, interessato, il giuoco, insomma, che fa qualsiasi canaglia. Qui la distinzione è molto rigida, ma com'è vile, in fondo, questa distinzione! Il gentiluomo, per esempio, può puntare cinque o dieci luigi, raramente di più; del resto, può anche puntare un migliaio di franchi, se è molto ricco, ma, in sostanza, per il gioco in se stesso, solo per divertimento, solo per osservare il meccanismo della vincita o della perdita; ma non deve affatto interessarsi alla vincita in sé. Se vince può, per esempio, ridere forte, può fare a qualcuno di quelli che gli stanno intorno una sua osservazione, può persino fare un'altra puntata e raddoppiare ancora, ma soltanto per curiosità, per osservare le "chances", per fare dei calcoli e mai per il volgare desiderio di vincere. In una parola, tutti quei tavoli da giuoco, le roulettes e il "trente et quarante", deve considerarli solo come un passatempo, organizzato esclusivamente per il suo diletto.
Il profitto e il trucco sui quali è fondato e organizzato il banco, egli non deve neanche sospettarli. E sarebbe addirittura assai bello, per esempio, che gli sembrasse che tutti gli altri giocatori, tutta quella gentucola che trema per un "gulden", fossero dei ricconi e dei gentiluomini suoi pari e che giocassero unicamente per distrazione e per passatempo. Una simile assoluta ignoranza della realtà e quell'ingenuo modo di considerare gli uomini sarebbero certo estremamente aristocratici. Ho visto come molte mammine spingevano avanti innocenti e raffinate "misses" di quindici o sedici anni, loro figliole, e come, fornitele di alcune monete d'oro, insegnavano loro come giocare. La signorina, sia che vincesse, sia che perdesse, immancabilmente sorrideva e si allontanava molto soddisfatta. Il nostro generale si era accostato al tavolo con aria grave e dignitosa; un servitore si era precipitato a porgergli una sedia, ma egli non gli aveva badato; con grande lentezza estrasse il borsellino, con altrettanta lentezza ne tirò fuori trecento franchi d'oro, li puntò sul nero e vinse. Non ritirò la vincita e la lasciò sul tavolo. Usci di nuovo il nero; anche questa volta non prese il denaro e, quando la terza volta venne fuori il rosso, aveva perso di colpo milleduecento franchi. Si allontanò con un sorriso, senza perdere niente della sua dignità. Sono convinto che si sentiva il cuore stretto e che, se la posta fosse stata due o tre volte più grossa, non avrebbe saputo restare indifferente e si sarebbe palesata la sua emozione.
Del resto, in mia presenza, un francese guadagnò e poi perdette una trentina di migliaia di franchi allegramente e senza dimostrare nessun turbamento. Il vero gentiluomo, anche se perdesse tutte le sue sostanze, non deve agitarsi. I denari devono essere a tal punto più in basso della sua qualità di gentiluomo da non mettere in conto che egli se ne dia pensiero. E' naturale che sarebbe molto aristocratico non notare affatto tutto il sudiciume di quella marmaglia e di quell'ambiente. A volte, però, non è meno aristocratico il procedimento inverso, di osservare, cioè di guardare e anzi di scrutare a fondo, sia pure attraverso l'occhialino, tutta quella marmaglia; ma soltanto considerando quella folla e quel sudiciume come uno svago di tipo particolare, come uno spettacolo organizzato per il divertimento dei gentiluomini. Potete anche voi farvi pressare in mezzo a questa folla, ma guardarvi intorno con l'assoluta convinzione di essere semplicemente un osservatore e di non appartenervi per niente. Del resto, osservare con troppa insistenza, non è molto conveniente:
neppure questo è da gentiluomo, perché, in ogni caso, lo spettacolo non merita una grande e troppo intensa osservazione. E, in genere, sono pochi gli spettacoli degni di un'attenta osservazione da parte di un gentiluomo! Comunque a me personalmente è sembrato che tutto ciò meritasse un'attentissima osservazione, specialmente per chi sia venuto non solo per osservare, ma sinceramente e coscienziosamente si annoveri tra quella canaglia. Per quanto si riferisce alle mie intime convinzioni morali, esse naturalmente non trovano posto nelle mie attuali considerazioni. Sia pure così: lo dico per liberarmi di coscienza. Ma una cosa voglio notare: che, in questi ultimi tempi, mi è sembrato terribilmente odioso rapportare le mie azioni e i miei pensieri a un qualsiasi metro morale... Ben altro mi dominava...
La gentaglia gioca veramente in maniera assai sporca. Non sono nemmeno molto alieno dal pensare che qui al tavolo da gioco accadano molte delle più comuni ruberie. I "croupiers" che, seduti alle estremità del tavolo, controllano le puntate e pagano le vincite, hanno un lavoro tremendo. Ma che razza di canaglie sono pure loro! Per la maggior parte sono francesi. Del resto, io qui osservo e noto non certo per descrivere la roulette; cerco di ambientarmi per me stesso, per sapere come regolarmi nel futuro.
Ho osservato, per esempio, che non c'è niente di più comune di una mano ignota che si allunghi improvvisamente da dietro il tavolo e vi prenda ciò che avete guadagnato. Comincia una discussione, spesso si alza la voce ma vedete un po' se siete capace di dimostrare, trovando dei testimoni, che la puntata è vostra!
All'inizio tutto questo era per me arabo; indovinavo e distinguevo solo, alla bell'e meglio, che le puntate venivano messe sui numeri, sul pari o sul dispari, e sui colori. Del denaro di Polina Aleksàndrovna decisi di rischiare, per quella sera, soltanto cento "gulden". Il pensiero che mi preparavo a giocare non per me mi sconcertava. La sensazione era incredibilmente sgradevole e provai il desiderio di liberarmene al più presto. Mi sembrava sempre che, cominciando a giocare per Polina, avrei compromesso la mia personale buona sorte. E possibile che non ci si possa avvicinare a un tavolo da giuoco senza essere subito contagiato dalla superstizione? Cominciai con il tirare fuori cinque federici d'oro (1), cioè cinquanta "gulden" e li puntai sul pari. La ruota girò e venne fuori il tredici: avevo perduto! Con una certa qual morbosa sensazione, solamente per liberarmene in qualche modo e andarmene, puntai ancora cinque federici sul rosso: usci il rosso. Puntai nuovamente il tutto: usci ancora il rosso. Ricevetti quaranta federici, ne puntai venti sui dodici numeri di centro, senza sapere che cosa ne sarebbe venuto fuori. Mi fu pagato il triplo.
Cosi i miei dieci federici erano diventati improvvisamente ottanta. Mi sentii così a disagio, per una sensazione insolita e strana, che decisi di andarmene. Mi sembrò che non avrei affatto giocato così se avessi giocato per me. Tuttavia puntai ancora una volta sul pari tutti gli ottanta federici e usci il quattro; mi sborsarono altri ottanta federici; e, afferrato tutto il mucchio dei centosessanta federici, andai a cercare Polina Aleksàndrovna.
Stavano tutti passeggiando non so in quale parte del parco e non riuscii a vederla che a cena. Questa volta il francese non c'era, e il generale si sfogò a parlare e, tra l'altro, credette necessario osservarmi nuovamente che non avrebbe desiderato vedermi al tavolo da giuoco. Secondo la sua opinione lo avrei compromesso molto se avessi perso una somma forte.
"Ma anche se vinceste moltissimo, sarei ugualmente compromesso" aggiunse in tono significativo. "Certo non ho il diritto di disporre delle vostre azioni, ma converrete voi stesso..." A questo punto, secondo la sua abitudine, non finì il discorso.
Gli risposi in tono asciutto che avevo pochissimo denaro e che, di conseguenza, non potevo perdere in modo troppo appariscente, anche se mi fossi messo a giocare. Mentre salivo di sopra riuscii a consegnare a Polina la sua vincita e le dichiarai che un'altra volta non avrei più giocato per lei.
"E perché?" chiese lei in tono preoccupato.
"Perché voglio giocare per me" risposi, guardandola con stupore.
"E così non posso." "Siete dunque sempre fermamente convinto che la roulette sia la vostra unica via d'uscita e di salvezza?" mi chiese in tono ironico. Le risposi di nuovo di sì, con molta serietà; le dissi che per quanto riguardava la mia sicurezza di vincere senza fallo, la cosa poteva sembrare ridicola, d'accordo, ma che "mi si lasciasse in pace." Polina Aleksàndrovna insisteva perché dividessi a metà con lei la vincita della giornata e voleva darmi ottanta federici, proponendomi di continuare a giocare a quel patto. Ma io rifiutai la metà offertami in modo fermo e definitivo e dichiarai che non potevo giocare per gli altri non perché non volessi farlo, ma perché avrei senza dubbio perduto.
"E tuttavia io stessa, per quanto sciocco sia questo pensiero, spero ormai quasi soltanto nella roulette" mi disse pensierosa, "e perciò voi dovete assolutamente continuare a giocare, facendo a metà con me e, si capisce, lo farete." E a questo punto se ne andò senza ascoltare le mie ulteriori obiezioni.
NOTE:
3.
Tuttavia ieri, per l'intera giornata, non mi disse una sola parola che si riferisse al giuoco. In generale, anzi, evitò di parlarmi.
Il suo modo di fare con me non è cambiato. La stessa assoluta noncuranza nel trattarmi quando ci incontriamo, e perfino qualcosa di sprezzante e di astioso. In genere, lei non cerca di nascondere la sua avversione per me; lo vedo benissimo. Però non nasconde nemmeno che io le sono necessario e che, per qualche suo motivo, mi tiene buono. Tra di noi si sono stabiliti certi strani rapporti, sotto molti punti di vista per me incomprensibili, se si considera il suo orgoglio e la sua fierezza con tutti. Lei sa, per esempio, che io l'amo pazzamente, mi permette perfino di parlarle della mia passione e, naturalmente, in nessun altro modo potrebbe esprimere di più il suo disprezzo che con questo permesso di rivelarle senza ostacoli e senza divieti il mio sentimento.
"Significa" pensa lei, "che stimo tanto poco i tuoi sentimenti che mi è proprio indifferente qualunque cosa tu dica e tu senta per me".
Anche prima mi parlava molto dei suoi affari, ma non era mai stata completamente sincera. Non solo, ma nella sua noncuranza verso di me c'erano, per esempio, raffinatezze di questo genere: lei sapeva, mettiamo, che conoscevo una data circostanza della sua vita o che sapevo qualcosa che l'inquietava grandemente; lei stessa me ne raccontava persino alcuni particolari se aveva bisogno di servirsi di me per i suoi scopi, come uno schiavo o un galoppino; ma raccontava sempre e solo quel tanto che deve sapere una persona che serva per commissioni e se ancora non mi era nota l'intera concatenazione degli avvenimenti, pur vedendo come mi inquietavo e mi tormentavo per le sue pene e le sue preoccupazioni, non si sarebbe comunque mai degnata di calmarmi pienamente con un'amichevole franchezza; anche se, servendosi non di rado di me per commissioni non solo fastidiose ma persino pericolose, avrebbe dovuto, secondo il mio parere, essere sincera con me. Ma vale forse la pena di preoccuparsi dei miei sentimenti, del fatto che io mi agito e forse mi tormento e mi inquieto tre volte più di lei, per i suoi crucci e i suoi insuccessi?
Già da tre settimane ero al corrente della sua intenzione di giocare alla roulette. Mi aveva persino avvertito che avrei dovuto farlo al posto suo, perché per lei sarebbe stato sconveniente giocare. Dal tono delle sue parole mi ero subito reso conto che doveva avere qualche seria preoccupazione e non il semplice desiderio di vincere denaro. Che cosa è per lei il denaro in se stesso? Qui c'è uno scopo, qui ci sono circostanze che io posso indovinare ma che, fino a questo momento, non conosco. Si capisce, lo stato di sottomissione e di schiavitù in cui mi tiene potrebbe darmi (e spesso me la dà) la possibilità di interrogarla io stesso in modo chiaro e brutale. Poiché per lei sono uno schiavo e ai suoi occhi niente altro che una nullità, così non c'è motivo che si offenda della mia volgare curiosità. Ma il fatto è che, pur permettendomi di farle delle domande, non risponde. Certe volte non se ne accorge neppure. Ecco come stanno le cose tra di noi!
Ieri si è parlato molto del telegramma spedito quattro giorni fa a Pietroburgo e che non ha avuto risposta. Il generale è agitato e preoccupato, è chiaro; si tratta, naturalmente, della nonna. Anche il francese è inquieto. Ieri, dopo pranzo, per esempio, essi conversarono a lungo e seriamente. Il tono del francese con tutti noi è straordinariamente altero e noncurante. E' proprio giusto il proverbio: fallo sedere a tavola e sulla tavola metterà pure i piedi. Anche con Polina è indifferente fino alla villania; però prende parte con piacere alle passeggiate comuni al Casinò, o alle cavalcate e alle gite fuori città. Da parecchio tempo conosco alcune delle circostanze che hanno legato il francese al generale:
in Russia essi avevano progettato di mettere su insieme una fabbrica, ma non so se il progetto sia andato a monte o se ancora se ne parli. Inoltre sono venuto per caso a sapere, in parte, un segreto di famiglia: il francese, l'anno scorso, è davvero venuto in aiuto al generale e gli ha dato trentamila rubli per coprire l'ammanco di cassa al momento delle sue dimissioni. E così è facile capire che il generale è nelle sue mani; ma adesso, proprio adesso, la parte principale in tutta la faccenda la rappresenta mademoiselle Blanche, e sono certo che anche in questo non mi sbaglio. E chi è questa mademoiselle Blanche? Qui da noi si dice che è una francese dell'alta società che viaggia con la madre e che possiede una sostanza colossale. Si sa anche che è parente del nostro marchese, ma molto alla lontana, una cugina in secondo o terzo grado. Si dice pure che, prima del mio viaggio a Parigi, il francese e mademoiselle Blanche si trattassero molto più cerimoniosamente e che fossero in rapporti molto più fini e delicati; adesso, invece, la loro conoscenza, la loro parentela, l'amicizia si mostrano in una luce più cruda, più intima, per così dire. Probabilmente i nostri affari sembrano loro in così cattive condizioni che non ritengono più necessario fare troppi complimenti con noi e fingere. Già dall'altro ieri avevo notato come mister Astley osservava mademoiselle Blanche e sua madre. Mi è sembrato che le conoscesse; e mi è sembrato anche che il nostro francese avesse già prima incontrato mister Astley. Del resto, mister Astley è così timido, modesto e taciturno che di lui ci si può fidare: non porta certo le immondizie fuori della casa altrui.
Per lo meno, il francese lo saluta appena e quasi non lo guarda:
quindi non lo teme. Questo ancora lo capisco, ma perché anche mademoiselle Blanche quasi non lo guarda? Tanto più che ieri il marchese si è tradito: ha detto all'improvviso, durante la conversazione, non so più a che proposito, che mister Astley è enormemente ricco e che lui lo sa; appunto per questo mademoiselle Blanche dovrebbe guardare mister Astley. In complesso, il generale è in uno stato di grande inquietudine. Si capisce quello che ora può significare per lui il telegramma che annunci la morte della zia!
Anche se mi sembra sicuro che Polina eviti di parlare con me per partito preso, io stesso ho assunto un'aria fredda e indifferente; pensavo sempre che un bel momento sarebbe stata lei ad avvicinarsi a me. Ieri e oggi, in compenso, ho rivolto la mia attenzione soprattutto a mademoiselle Blanche. Povero generale, è perduto, senza scampo! Innamorarsi a cinquantacinque anni e di una passione così violenta, è certamente una disgrazia! Aggiungete a questo la sua vedovanza, i figli, la proprietà interamente rovinata, i debiti e, infine, la donna di cui gli è capitato d'innamorarsi.
Mademoiselle Blanche è bella. Ma non so se mi si capirà quando dico che ha uno di quei visi che possono fare paura; io, per lo meno, ho sempre avuto paura di donne simili. Deve essere sui venticinque anni. E' alta di statura, con spalle larghe e rotonde; il collo e il petto sono stupendi; la carnagione è olivastra, i capelli neri come l'inchiostro di china e talmente folti che basterebbero per due acconciature. Ha gli occhi neri, con il bianco tendente al giallo, lo sguardo sfrontato, i denti bianchissimi, le labbra sempre truccate; emana da lei odore di muschio. Veste in modo molto vistoso, ricco, ricercato, ma con molto buon gusto. Ha piedi e mani meravigliosi, e una profonda voce di contralto. A volte scoppia a ridere mettendo in mostra tutti i denti, ma di solito ha l'aria taciturna e insolente, per lo meno in presenza di Polina e di Màrja Filìppovna. (Corre una voce strana: che Màrja Filìppovna parta per la Russia.) Mi pare che mademoiselle Blanche non abbia nessuna istruzione e forse non sia neppure intelligente, però è diffidente e furba. Credo che nella sua vita non manchino le avventure. A volerla dire tutta, può anche darsi che il marchese non le sia affatto parente e che la madre non sia affatto sua madre. Ma si sa che a Berlino, dove le abbiamo incontrate, lei e la madre avevano alcune conoscenze di gente perbene. Per quanto riguarda personalmente il marchese, anche se io dubito ancora che egli sia marchese, la sua appartenenza alla buona società sia da noi, a Mosca, sia qua e là in Germania, sembra non si possa mettere in dubbio. Non so che posizione abbia in Francia. Dicono che possegga un "château"!
Credevo che in quelle due settimane molta acqua sarebbe passata sotto i ponti; al contrario non so ancora con certezza se tra mademoiselle Blanche e il generale sia stato detto qualcosa di decisivo. E' certo che ora tutto dipende dal nostro patrimonio, ossia se il generale sarà in grado oppure no di mostrare loro molto denaro. Se, per esempio, arrivasse la notizia che la nonna non è morta, sono convinto che mademoiselle Blanche sparirebbe immediatamente. Mi meraviglio e rido io stesso nel costatare come io sia diventato pettegolo! Oh, come tutto questo mi disgusta! Con quale soddisfazione pianterei tutto e tutti! Ma posso forse allontanarmi da Polina, posso forse rinunciare a starle intorno a spiare? Lo spionaggio certo è spregevole, ma a me che importa?
Ieri e anche oggi mister Astley mi è sembrato strano. Sì, sono convinto che egli è innamorato di Polina! E' curioso e buffo pensare quante cose possa esprimere lo sguardo di un uomo timido e morbosamente pudico, preso dall'amore, e questo proprio nel momento in cui quest'uomo preferirebbe sprofondare sotto terra piuttosto che dimostrare o esprimere qualunque cosa con la parola o lo sguardo. Mister Astley molto spesso ci incontra alle passeggiate. Si toglie il cappello e ci passa accanto, morendo, si capisce, dal desiderio di unirsi a noi. Ma se lo si invita a farlo, subito rifiuta. Nei luoghi di ritrovo, al Casinò, dove suona la musica o davanti alla fontana, si ferma immancabilmente in un punto non lontano dalla nostra panchina e, dovunque noi ci troviamo, sia nel parco, sia nel bosco, sia sullo Schlangenberg, basta soltanto alzare gli occhi, guardarsi intorno e immancabilmente da qualche parte, o dal sentiero più vicino o da dietro qualche cespuglio, ecco apparire mister Astley. Mi sembra che cerchi l'occasione di parlare con me a tu per tu. Stamattina ci siamo incontrati e abbiamo scambiato due parole. A volte egli parla a scatti. Ancora prima di aver detto "Buongiorno" già esclamava:
"Ah, mademoiselle Blanche! Ho visto molte donne come mademoiselle Blanche!" Tacque, rivolgendomi un'occhiata significativa. Non so che cosa volesse dire perché, alla mia domanda che cosa ciò significasse, fece un cenno con la testa, sorridendo furbescamente, e aggiunse:
"Proprio così. A mademoiselle Polina piacciono molto i fiori?" "Non lo so, non lo so davvero" risposi.
"Ma come! Non sapete neanche questo?" esclamò con il più grande stupore.
"Non lo so, non ci ho mai fatto caso" ripetei ridendo.
"Ehm... questo mi fa nascere un'idea particolare..." A questo punto mi fece un cenno con la testa e passò oltre. Aveva però un'aria soddisfatta. Parliamo insieme in un pessimo francese.
4.
Oggi è stata una giornata buffa, scandalosa, assurda. Ora sono le undici di notte. Sono seduto nella mia stanzetta e ripenso alle cose successe. E' cominciato così, che stamattina sono stato costretto ad andare alla roulette a giocare per Polina Aleksàndrovna. Presi i suoi centosessanta federici ma a due condizioni: prima, che non avrei giocato a mezzo con lei, cioè, se avessi vinto, non mi sarei preso niente; seconda, che questa sera Polina mi avrebbe spiegato perché aveva così bisogno di vincere e quanto precisamente le serviva. A ogni modo, però, non posso credere che sia soltanto per il denaro. E' evidente che il denaro le è indispensabile, e al più presto possibile, per qualche scopo particolare. Mi ha promesso di spiegarmelo, e sono andato. Nelle sale da giuoco c'era una folla spaventosa. Che gente sfrontata, e come sono tutti avidi! Mi intrufolai tra la folla e mi sistemai proprio vicino al croupier; quindi cominciai un timido inizio di giuoco, puntando soltanto due o tre monete. Intanto osservavo e notavo; mi sembrava che il calcolo in se stesso servisse molto poco e non avesse affatto quell'importanza che molti giocatori gli attribuiscono. Essi se ne stanno seduti davanti a foglietti di carta rigata, segnano i colpi, contano, deducono le probabilità, fanno calcoli e infine puntano e perdono come noi, semplici mortali, che giochiamo senza calcoli. In compenso ho tratto una conclusione che mi sembra giusta: realmente, nel susseguirsi delle probabilità favorevoli c'è, se non un sistema, un certo quale ordine, il che è, naturalmente, molto strano. Succede, per esempio, che dopo i dodici numeri di mezzo, escano fuori gli ultimi dodici; per due volte, mettiamo, la pallina cade su questi ultimi dodici per poi passare sui primi dodici. Dopo essere caduta sui primi dodici, passa di nuovo sui dodici di centro, cade tre o quattro volte di seguito su questi, e di nuovo passa agli ultimi dodici di dove, dopo altri due colpi, torna ai primi; batte sui primi; sui primi batte una volta e torna ancora per tre volte sui medi, e così la faccenda prosegue per un'ora e mezzo o due ore.
Uno, tre e due; uno, tre e due. Divertentissimo. Certi giorni o certe mattine capita, per esempio, che il rosso si alterni con il nero e viceversa, questo senza nessun ordine, a ogni momento, cosicché più di due o tre colpi di seguito non cadono sul rosso o sul nero. Il giorno dopo o la sera dopo, esce di seguito soltanto il rosso; esce, per esempio, più di dodici volte di fila e così continua infallibilmente per un certo tempo, magari per tutta la giornata. Molte cose mi spiegò in proposito mister Astley che aveva passato tutta la mattinata ai tavoli da giuoco, ma senza fare nemmeno una puntata. Per quanto mi riguarda, perdetti tutto, fino all'ultimo centesimo, e in pochissimo tempo. Avevo puntato sul pari, tutti insieme, venti federici e vinsi; puntai di nuovo e di nuovo vinsi e così ancora per due o tre volte. Penso di aver avuto in mano, in forse cinque minuti, circa quattrocento federici. Sarebbe stato a questo punto il vero momento di andarmene, ma era nata in me una sensazione strana, una specie di sfida al destino, un desiderio di dargli un buffetto e di mostrargli la lingua. Feci la più alta puntata ammessa, quattromila gulden, e persi. Allora, eccitatomi, tirai fuori tutto quanto mi era rimasto, feci un'altra puntata come quella e persi di nuovo. A questo punto mi allontanai dal tavolo, come istupidito. Non capivo nemmeno quello che mi succedeva, e annunciai la mia perdita a Polina Aleksàndrovna soltanto poco prima del pranzo. Fino a quel momento avevo girovagato per il parco.
A pranzo ero di nuovo in uno stato d'animo eccitato, proprio come tre giorni prima. Il francese e mademoiselle Blanche pranzavano con noi. Risultò che mademoiselle Blanche si era trovata la mattina nelle sale da giuoco e aveva assistito alle mie gesta.
Questa volta si mise a parlare con me con un po' più di attenzione, mentre il francese, più sbrigativo, mi chiese semplicemente se avevo perduto del denaro proprio mio. Mi sembra che egli sospetti di Polina. Insomma, qui c'è sotto qualcosa. Io mentii subito e dissi che era denaro mio.
Il generale era oltremodo stupito: dove avevo preso tanto denaro?
Gli spiegai che avevo cominciato con dieci federici, che sei o sette colpi consecutivi mi avevano portato, raddoppiando sempre, a cinque o seimila gulden e che poi in due colpi avevo perduto tutto.
Tutto questo, naturalmente, era verosimile. Mentre davo queste spiegazioni, guardai Polina, ma niente potei capire dal suo viso.
Tuttavia mi aveva lasciato mentire e non mi aveva ripreso; da questo dedussi che dovevo proprio mentire e nascondere che giocavo per lei. In ogni caso, mi dicevo, è in obbligo di darmi una spiegazione e prima mi ha promesso di rivelarmi qualche cosa.
Credevo che il generale mi avrebbe fatto qualche osservazione, ma rimase zitto; però notai sul suo viso segni di agitazione e di inquietudine. Può darsi che, data la sua situazione critica, gli fosse semplicemente penoso sentire che un così rispettabile mucchietto d'oro fosse capitato e sfuggito in un quarto d'ora a un imbecille come me.
Sospetto che ieri sera tra lui e il francese sia avvenuto un colloquio molto animato. Essi hanno parlato a lungo e con foga di non so che cosa, dopo aver chiuso a chiave la porta. Il francese se ne andò con aria irritata, e stamattina presto è tornato dal generale per continuare il colloquio di ieri.
Dopo aver sentito della mia perdita, il francese, in tono caustico e persino astioso, mi fece osservare che bisognava essere più giudiziosi. Non so perché abbia soggiunto che, sebbene i russi giochino molto, tuttavia, secondo la sua opinione, non sanno neanche giocare.
"Invece, secondo me, la roulette è fatta soltanto per i russi" ribattei io e, quando il francese sorrise sprezzantemente a questo mio giudizio, gli feci osservare che la verità era certo dalla mia parte poiché, parlando dei russi come di giocatori, li criticavo molto più di quanto non li lodassi e che, per conseguenza, mi si poteva credere.
"Su che cosa basate la vostra opinione?" mi chiese il francese.
"Sul fatto che nel catechismo delle virtù e dei meriti del civilissimo uomo occidentale è entrata storicamente, e quasi sotto l'aspetto di caposaldo, la capacità di procurarsi capitali. Invece il russo non solo non è capace di procurarsi dei capitali, ma li sperpera a casaccio, in maniera scandalosa. Nonostante ciò," aggiunsi, "anche a noi russi il denaro è necessario e di conseguenza ci piace molto e ci sentiamo portati verso quei mezzi, come per esempio la roulette, che ci permettono di arricchire di colpo, in due ore, senza alcuna fatica! Questo ci attrae molto e, poiché giochiamo senza riflettere e senza faticare, così perdiamo!" "Questo in parte è giusto!" osservò il francese, soddisfatto.
"No, è ingiusto, e dovreste vergognarvi di esprimervi così sul conto della vostra patria" ribatté con aria severa e autorevole il generale.
"Ma scusate" gli risposi, "non so davvero che cosa sia più disgustoso: se l'irregolatezza dei russi o il metodo tedesco di accumulare denaro con un onesto lavoro." "Che idea assurda!" esclamò il generale.
"Che idea russa!" esclamò il francese. Io ridevo e avevo una voglia terribile di attaccar lite.
"Io preferirei trascorrere tutta la vita in una tenda kirghisa," esclamai, "piuttosto che inchinarmi all'idolo tedesco." "Quale idolo?" gridò il generale, incominciando a infuriarsi sul serio.
"Il metodo tedesco di ammucchiare ricchezze. Non sono qui da molto tempo, però quello che ho già avuto modo di vedere e di costatare, rivolta il mio sangue tartaro. Giuro che non voglio virtù come queste! Ieri sono riuscito a fare nei dintorni un giro di forse dieci miglia. Ebbene, è precisamente come si legge nei libriccini moralisti tedeschi illustrati; ovunque, in ogni casa, c'è il suo 'Vater' (1), straordinariamente virtuoso ed eccezionalmente onesto. Così onesto che fa paura avvicinarglisi. Io non posso soffrire gli uomini onesti che fa paura avvicinare. Ognuno di questi 'Vater' ha la propria famiglia, e la sera leggono tutti ad alta voce dei libri istruttivi. Sopra la casetta stormiscono olmi e castagni. Il sole tramonta, c'è la cicogna sul tetto e tutto è insolitamente poetico e commovente... Voi, generale, non irritatevi, ma permettetemi di raccontare le cose in maniera un po' patetica... Io stesso mi ricordo che mio padre buon'anima, sotto i tigli del giardinetto, leggeva anche lui alla sera, a me e a mia madre, libri di quel genere... Posso quindi giudicare di queste cose con cognizione di causa. Ebbene, ognuna di queste famiglie, qui, è completamente sottomessa e schiava del padre.
Tutti lavorano come bestie, e tutti ammucchiano denaro come giudei. Mettiamo che il 'Vater' abbia già messo da parte una certa quantità di 'gulden' e punti sul figlio maggiore per trasmettergli il mestiere o il campicello; per questo non danno dote alla figlia, e lei resta zitella. Sempre per questo vendono il figlio minore come servo o lo mandano a fare il soldato, e aggiungono questo denaro al capitale di famiglia. Davvero, qui si fa così: mi sono informato. Tutto questo si fa unicamente per onestà, per un sentimento eccessivo di onestà, al punto che anche il figlio minore, venduto, crede di non essere stato venduto se non per onestà; e questo è proprio l'ideale, quando la vittima stessa è contenta di essere portata al sacrificio. E poi? Poi succede che neppure per il figlio maggiore le cose vanno bene: lui ha una certa Amalchen alla quale è unito con il cuore, ma che non può sposare perché non sono ancora stati ammucchiati 'gulden' sufficienti. E allora pure loro aspettano onestamente e si avviano anch'essi al sacrificio con il sorriso sulle labbra. E intanto le guance di Amalchen si sono incavate e sono avvizzite. Finalmente, dopo quasi vent'anni, il patrimonio si è accresciuto e i 'gulden' sono stati ammucchiati in modo leale e onesto. Il 'Vater' benedice l'ormai quarantenne figlio maggiore e la trentacinquenne Amalchen dal seno flaccido e dal naso rosso... E allora il 'Vater' piange, fa la morale e passa a miglior vita. Il figlio maggiore si trasforma a sua volta in un virtuoso 'Vater' e ricomincia la stessa storia. Dopo una cinquantina o una sessantina di anni, il nipote del primo 'Vater' realizza effettivamente un notevole capitale e lo trasmette al proprio figlio, questo al suo, quest'altro al suo e, dopo cinque o sei generazioni, viene fuori il barone Rotschild in persona oppure Hoppe e Co. o il diavolo sa chi. Ebbene, signori, non è forse uno spettacolo meraviglioso? La fatica di un secolo o di due secoli, di generazione in generazione: pazienza, ingegno, onestà, dirittura morale, carattere, fermezza, calcolo, cicogna sul tetto! Che volete di più? Niente è più sublime di questo, ed è proprio da questo punto di vista che costoro iniziano a giudicare il mondo intero e a condannare a morte i colpevoli, cioè quelli che appena appena non somigliano a loro. Ebbene, signori, ecco dunque di che si tratta:
io preferisco debosciarmi alla russa o arricchirmi alla roulette.
Non voglio essere Hoppe e Co. tra cinque generazioni. A me il denaro è necessario per me stesso, e non considero me stesso come un indispensabile accessorio al capitale. So di aver detto un mucchio di spropositi, ma è così. Queste sono le mie convinzioni." "Non so se ci sia molto di vero in quello che avete detto," osservò pensieroso il generale, "ma so con certezza che cominciate a fare lo spiritoso in maniera insopportabile, non appena vi si permette di uscire un pochino dai limiti..." Ma, come sempre, non completò la frase. Se il nostro generale cominciava a parlare di qualche cosa che fosse un tantino più serio dei soliti discorsi di ogni giorno non finiva mai di dire il suo pensiero. Il francese ascoltava con noncuranza, con gli occhi spalancati. Non aveva capito quasi niente di ciò che avevo detto.
Polina mi guardava con suprema indifferenza. Sembrava che, non soltanto non avesse sentito me, ma neppure una parola di quanto si era detto a tavola.
NOTE:
5.
Era insolitamente pensierosa ma, non appena ci alzammo da tavola, mi chiese di accompagnarla a fare una passeggiata. Prendemmo con noi i bambini e ci avviammo nel parco, verso la fontana.
Poiché mi trovavo in uno stato di particolare eccitazione, le lanciai in modo stupido e brusco la domanda: come mai il nostro marchese De-Grieux, il francesino, adesso non soltanto non la accompagnava, quando lei andava da qualche parte, ma nemmeno le rivolgeva la parola per giornate intere?
"Perché è un vigliacco" mi rispose stranamente. Non avevo mai sentito da lei un simile giudizio su De-Grieux e tacqui, temendo di comprendere la ragione della sua irritabilità.
"Avete notato che oggi non va d'accordo con il generale?" "Voi volete sapere di che si tratta?" mi rispose in tono asciutto e seccato. "Sapete che il generale ha tutto il suo ipotecato presso di lui, tutta la proprietà, e che, se la nonna non morirà, il francese entrerà immediatamente in possesso di tutto ciò che è sotto ipoteca." "Ah, è dunque proprio vero che tutto è ipotecato? L'avevo sentito dire, ma non sapevo che si trattasse proprio di tutto." "E come no?" "E allora addio, mademoiselle Blanche!" osservai. "Allora non diventerà generalessa! Sapete? Mi sembra che il generale sia innamorato al punto da arrivare magari a uccidersi se mademoiselle Blanche lo dovesse piantare. Alla sua età è pericoloso innamorarsi." "Sono anch'io del parere che gli succederà qualcosa" osservò Polina Aleksàndrovna, pensierosa.
"Magnifico!" gridai io. "Non si potrebbe dimostrare in maniera più brutale che lei acconsentiva a sposarlo solo per il denaro.
Neanche le convenienze sono state salvate, tutto fatto senza cerimonie. E' straordinario! E, a proposito della nonna, che cosa ci può essere di più comico e di più ripugnante che il mandare un telegramma dietro l'altro per domandare se è morta o no? Eh? Che ve ne sembra, Polina Aleksàndrovna?" "Tutte queste sono sciocchezze" mi disse con disgusto, interrompendomi. "Io, invece, mi meraviglio che voi siate in così allegra disposizione di spirito. Perché siete cosi contento? Forse perché avete perduto il mio denaro?" "Perché me l'avete dato da perdere? Ve lo avevo detto che non posso giocare per gli altri, e tanto meno per voi. Io vi obbedisco in qualsiasi cosa mi comandiate, ma il risultato non dipende da me. Vi avevo preavvertita che non ne sarebbe venuto fuori niente di buono. Ditemi, siete molto abbattuta per aver perso tanto denaro? Perché ve ne serve tanto?" "A che scopo queste domande?" "Voi stessa mi avevate promesso una spiegazione... Ascoltate: io sono perfettamente convinto che quando comincerò a giocare per me (e ho dodici federici) vincerò. Allora quello che vi serve, prendetelo da me." Ella fece una smorfia sprezzante.
"Non andate in collera" continuai, "per questa mia proposta. Sono tanto consapevole di essere ai vostri occhi una nullità che potete benissimo prendere da me del denaro. Non potete offendervi per un mio regalo. Per di più, io ho perduto il vostro." Mi diede una rapida occhiata e, accortasi che io parlavo in tono irritato e sarcastico, di nuovo mi interruppe:
"Non c'è niente che possa interessarvi nelle mie faccende. Se volete saperlo, ho semplicemente un debito. Ho preso del denaro a prestito e vorrei restituirlo. Avevo la pazzesca e strana idea che avrei senz'altro vinto qui, al tavolo da giuoco. Non capisco come mai avessi quest'idea, ma ci credevo. Chi sa, forse ci credevo perché non mi restava nessun'altra possibilità di scelta".
"Oppure perché avevate troppa necessità di vincere. E' precisamente come quando chi sta per annegare si afferra a una pagliuzza. Converrete anche voi che, se non stesse per annegare, non scambierebbe una pagliuzza per un ramo di albero..." Polina si stupì.
"E come mai" domandò, "avete anche voi la stessa speranza? Due settimane fa voi stesso mi avete parlato un giorno molto a lungo, della vostra assoluta convinzione di vincere, qui, alla roulette e volevate persuadermi a non considerarvi come un pazzo; o allora scherzavate? Ma ricordo che parlavate così seriamente che non era possibile prendere le vostre parole come uno scherzo." "Questo è vero" risposi soprappensiero. "Sono ancora oggi convinto che vincerò. E vi confesso anche che voi, ora, mi avete indotto a pormi questa domanda: perché mai la mia perdita di oggi, stupida e assurda, non ha lasciato in me nessun dubbio? Io sono ancora convinto che, non appena comincerò a giocare per me, vincerò certamente." "Perché siete tanto convinto?" "A dire il vero, non lo so. So soltanto che ho necessità di vincere e che anche per me è questa l'unica via d'uscita. Ecco perché mi sembra di dover sicuramente vincere." "Ne avete dunque anche voi estrema necessità se siete così fanaticamente sicuro?" "Scommetto che mettete in dubbio che io sia in condizione di avere una seria necessità." "Per me è proprio lo stesso" rispose Polina, calma e indifferente.
"Se volete saperlo, ebbene, sì, dubito che possiate tormentarvi per qualcosa di serio. Potete tormentarvi, ma non seriamente.
Siete un uomo disordinato e incerto. Per che cosa avete bisogno di denaro? Tra tutte le ragioni che mi avevate esposto, non ne ho trovata nessuna abbastanza seria." "A proposito," la interruppi, "avete detto che dovete pagare un debito, dunque! Forse al francese?" "Che domande sono queste? Oggi siete particolarmente rude. Sareste per caso ubriaco?" "Voi sapete che io mi permetto di parlare e di fare domande a volte molto sincere. Lo ripeto, sono il vostro schiavo: degli schiavi non si ha vergogna e quello che dice uno schiavo non può offendere." "Tutte sciocchezze! Non posso soffrire questa vostra teoria della schiavitù!" "Badate che io non vi parlo della mia schiavitù perché desidero essere vostro schiavo, ma ne parlo semplicemente come di un fatto che non dipende assolutamente da me." "Ditemi francamente: perché vi occorre denaro?" "E a voi perché occorre saperlo?" "Come volete" rispose lei, e alzò alteramente il capo.
"Non potete soffrire la 'teoria della schiavitù', ma esigete la schiavitù: 'rispondere e non discutere!' E sta bene, sia pure così! A che scopo mi serve il denaro, mi chiedete? Come, a che scopo? Il denaro è tutto!" "Capisco, ma non bisogna, per questo desiderio, ridursi in un simile stato di pazzia! Perché anche voi arrivate all'esaltazione, al fanatismo... Qui sotto c'è qualcosa, c'è uno scopo particolare.
Parlate senza tanti giri di parole, lo voglio!" Sembrava che cominciasse a irritarsi, e a me piaceva moltissimo che mi interrogasse con tanta foga.
"Si capisce che c'è uno scopo," dissi io, "ma non saprei spiegarvi quale. Forse nient'altro che questo: con il denaro diventerò per voi un altro uomo, e non uno schiavo." "Come? Come otterrete questo?" "Come l'otterrò? Come, non capite nemmeno come potrò ottenere che non mi consideriate uno schiavo? Ecco quello che non voglio, tutti questi stupori e queste perplessità." "Avete detto che questa schiavitù è per voi una gioia. E io stessa pensavo che fosse così." "Pensavate così!" esclamai con una strana soddisfazione. "Ah com'è bella tanta ingenuità da parte vostra! Sì, sì, la schiavitù che mi viene da voi è per me una gioia. Ci può essere una gioia anche nell'estremo grado dell'avvilimento e dell'annullamento!" continuai come in delirio. "Lo sa il diavolo... forse una gioia c'è anche nello scudiscio quando vi colpisce e vi strappa brandelli di carne... Ma può darsi che io voglia provare anche altri godimenti. Poco fa, a tavola, in vostra presenza, il generale mi ha fatto una predica per quei settecento rubli che magari non mi darà neppure. Il marchese De-Grieux mi guarda dall'alto in basso inarcando le sopracciglia e, nello stesso tempo, non si accorge di me. E io, per parte mia, ho quasi una voglia pazza di prendere per il naso il marchese De-Grieux davanti a voi!" "Discorsi da bambino! In ogni situazione ci si può comportare con dignità. Se c'è lotta, essa ci innalza e non ci abbassa." "Parole modello! Basta che voi supponiate che io, forse, non so comportarmi con dignità. Cioè, io sono magari un uomo degnissimo, ma non so comportarmi con dignità. Capite che questo può succedere? Ma tutti i russi sono così, e sapete perché? Perché i russi sono troppo variamente e riccamente dotati per potersi trovare con facilità una forma decorosa. Si tratta di forma. Noi russi siamo, per la maggior parte, tanto riccamente dotati, che per avere una forma conveniente ci serve la genialità: già, ma la genialità il più delle volte manca perché, in genere, è molto rara. Soltanto nei francesi e forse in alcuni altri popoli europei la forma è così ben determinata da poter dare loro un aspetto dignitosissimo, pur essendo personalmente persone indegne. E' per questo che attribuiscono alla forma tanto valore. Il francese sopporterà un'offesa, una vera e propria offesa, senza batter ciglio, ma non sopporterà a nessun costo un buffetto sul naso perché questo buffetto costituisce la violazione di una forma di convenienza, accettata e perpetuata. Precisamente per questo le nostre signorine hanno un debole per i Francesi, perché i Francesi hanno una bella forma. Secondo me, però, non esiste la forma, ma esiste soltanto il gallo, 'le coq gaulois'! Però questo non lo posso capire perché non sono una donna. Forse anche i galli sono belli. Ma, in conclusione, ho detto un mucchio di sciocchezze, e voi non mi interrompete. Interrompetemi più spesso; quando parlo con voi, voglio dire tutto, tutto. Perdo ogni forma. E sono anche d'accordo nel dire che non solo non ho forma, ma nemmeno alcuna dignità. Ve lo dichiaro. E non mi importa affatto di non avere alcun merito. Ora tutto si è fermato in me. E voi sapete perché.
Nella mia testa non c'è più un solo pensiero umano. Già da molto tempo non so più che cosa accada nel mondo, né in Russia, né qui.
Ecco, sono passato per Dresda, e non ricordo come sia Dresda. Voi sapete che cosa mi divora. Poiché non ho alcuna speranza e ai vostri occhi sono una nullità, lo dico francamente: vedo ovunque soltanto voi, e tutto il resto mi è indifferente. Perché e come vi ami non so. Sapete che forse non siete neppure molto bella?
Figuratevi, non so se siete bella o no, neppure di viso! Il vostro cuore certamente non è bello, e che la vostra mente non sia nobile è molto possibile." "Forse per questo contate di comperarmi con il denaro," disse lei, "perché non credete alla mia nobiltà?" "Quando mai ho pensato di comperarvi con il denaro?" esclamai.
"Vi siete imbrogliato e avete perso il filo del discorso. Se non me, pensavate di comperare con il denaro almeno la mia stima." "Ebbene no, non è proprio così! Vi ho già detto che trovo difficile spiegarmi. Voi mi schiacciate. Non andate in collera per le mie chiacchiere. Voi capite perché con me non si può andare in collera: perché io sono semplicemente pazzo. Ma, del resto, mi è indifferente, anche se andate in collera. Quando sono lassù, nella mia stanzetta, mi basta ricordare e immaginare il fruscio della vostra veste e mi vien voglia di mordermi le mani. E perché vi irritate con me? Perché dico che sono uno schiavo? Approfittate, approfittate della mia schiavitù, approfittatene! Sapete che un giorno o l'altro vi ucciderò? Non vi ucciderò perché non vi amerò più o sarò geloso di voi, ma vi ucciderò così, semplicemente perché qualche volta mi sento trascinato a divorarvi. Voi ridete..." "Non rido affatto" disse lei con sdegno. "Vi ordino di tacere." S'interruppe, riuscendo appena a respirare per la collera. Vi giuro che non so se fosse bella, ma mi è sempre piaciuto guardarla quando si fermava così, di fronte a me, e perciò mi piaceva provocare spesso la sua collera. Forse lei se ne era accorta e faceva apposta ad arrabbiarsi. E glielo dissi.
"Che schifo!" esclamò lei con un gesto di disgusto.
"Non me ne importa niente" continuai. "Sapete che anche passeggiare insieme noi due soli è pericoloso? Molte volte mi sento invincibilmente tentato di picchiarvi, di sfregiarvi, di strangolarvi... E che credete? Che non si arriverà a questo punto?
Voi mi porterete alla pazzia. Pensate che io tema lo scandalo? La vostra collera? Ma che m'importa della vostra collera? Io vi amo senza speranza e so che, dopo, vi amerei mille volte di più. Se un giorno vi ucciderò, dovrò certo uccidere anche me, ma lo farò il più tardi possibile, tanto per aver tempo di provare l'intollerabile dolore della vostra mancanza. Volete che vi dica una cosa incredibile? Ogni giorno vi amo di più, anche se questo è quasi impossibile. E dopo di ciò non dovrei essere fatalista?
Ricordate? L'altro giorno sullo Schlangenberg, eccitato da voi, ho mormorato: dite una parola e mi butterò nel precipizio. Se aveste detto quella parola mi sarei buttato. Possibile che crediate che non l'avrei fatto?" "Che stupide chiacchiere!" esclamò lei.
"A me non importa proprio niente se siano stupide o intelligenti" risposi. "Io so che davanti a voi devo parlare, parlare... e parlo. In vostra presenza perdo ogni amor proprio, e tutto mi è indifferente." "A che scopo dovrei farvi saltar giù dallo Schlangenberg?" mi chiese in tono asciutto e particolarmente offensivo. "Sarebbe proprio inutile per me!" "Magnifico!" esclamai "A bella posta avete detto quel magnifico 'inutile' per schiacciarmi. Io vedo dentro di voi. Inutile, avete detto? Ma un piacere è sempre utile e un feroce, illimitato potere, sia pure su una mosca, è anch'esso, nel suo genere, un piacere. L'uomo è despota per natura e gli piace torturare. E a voi piace terribilmente..." Ricordo che essa mi osservava con un'attenzione tutta particolare.
Senza dubbio il mio viso esprimeva, in quel momento, tutte le mie insensate, assurde sensazioni. Ora ricordo che effettivamente la nostra conversazione avvenne quasi parola per parola come io l'ho riportata. I miei occhi si erano iniettati di sangue. Agli angoli delle labbra mi si era raggrumata la saliva. Per quanto si riferisce allo Schlangenberg lo giuro sul mio onore anche adesso:
se essa mi avesse ordinato di buttarmi giù, io mi sarei buttato!
Se l'avesse detto solo per scherzo, se l'avesse detto con disprezzo, sputandomi addosso... ebbene, anche in questo caso mi ci sarei buttato!
"No, ma perché? Io vi credo" disse Polina con quel modo che soltanto lei sa usare per dire le cose con tanto disprezzo e malignità che, vivaddio, avrei potuto ucciderla in quel momento.
Rischiava. Anche su questo non avevo mentito, dicendoglielo.
"Voi non siete un vigliacco?" mi chiese all'improvviso.
"Non lo so, può anche darsi che lo sia. Non so... da tanto tempo non ci ho pensato." "Se io vi dicessi: uccidete quell'uomo, lo uccidereste?" "Chi?" "Chi vorrò io." "Il francese?" "Non interrogate, ma rispondete. Chi vi indicherò io. Voglio sapere se poco fa avete parlato seriamente." Aspettava una risposta con un'aria così dura e impaziente che provai una strana impressione.
"Ma mi direte una buona volta che cosa succede qui?" esclamai.
Avete forse paura di me? Li vedo anch'io tutti i pasticci che ci sono qui... Voi siete la figliastra di un uomo rovinato e pazzo, ossessionato dalla passione per quel demonio di Blanche; poi c'è questo francese con la sua misteriosa influenza su di voi; ed ecco che ora voi mi fate una simile domanda in tono così serio. Che io almeno sappia: altrimenti finirò con l'impazzire e combinare qualche guaio. Oppure vi vergognate di degnarmi della vostra sincerità? Possibile che vi vergogniate di me?" "Non sto affatto parlando di questo. Vi ho fatto una domanda e aspetto la risposta." "Si capisce, ucciderò" gridai, "chiunque voi mi ordiniate di uccidere, ma potete voi forse... me l'ordinerete, forse?" "E che cosa credete? Che avrei compassione di voi? Vi darò l'ordine e resterò in disparte. Vi sentirete di farlo? Ma no, figuriamoci! Voi, magari, ucciderete per mio ordine, ma poi verrete a uccidere me perché ho osato mandarvi." A queste parole fu come se qualcosa mi avesse colpito al capo. Si capisce che anche allora consideravo la sua domanda come un mezzo scherzo, come una sfida; eppure lei aveva parlato troppo seriamente. Nonostante tutto ero sorpreso che lei si fosse così scoperta, che si riservasse un tale diritto e un tale potere su di me e che così chiaramente dicesse: "Va' alla rovina, e io me ne sto in disparte!" C'era in queste parole un non so che di così cinico e di così franco che mi pareva esagerato. Dopo una cosa simile, che concetto poteva avere di me? Si era ormai oltrepassato il limite della schiavitù e dell'abiezione. Quando si ha un simile punto di vista si innalza l'uomo fino a sé. E, per quanto assurdo, per quanto incredibile fosse stata tutta la nostra conversazione, il mio cuore ebbe un sussulto.
All'improvviso lei scoppiò a ridere. Eravamo seduti su una panchina, davanti ai ragazzi che giocavano, proprio di fronte al posto in cui si fermavano le carrozze e scendeva la gente davanti al Casinò.
"Vedete quella grassa baronessa?" mi chiese. "E' la baronessa Wurmerhelm. E' arrivata solo da tre giorni. Guardate suo marito:
un prussiano lungo e secco con il bastone in mano. Vi ricordate come ci osservava l'altro ieri? Andate subito, avvicinatevi alla baronessa, toglietevi il cappello e ditele qualcosa in francese." "Perché?" "Avete giurato che vi sareste buttato giù dallo Schlangenberg; avete giurato di essere pronto a uccidere a un mio ordine. Invece di tutti questi omicidi e queste tragedie, voglio soltanto ridere un po'. Andate, senza fare tante storie. Voglio vedere come il barone vi bastonerà." "Voi mi sfidate; credete che non lo farò?" "Sì, vi sfido! Andate, lo voglio." "D'accordo, vado, anche se si tratta di una stravagante fantasia.
Una cosa sola, però: non vorrei che ci fossero seccature per il generale e, da parte sua, per voi! Vi giuro che non mi preoccupo per me, ma per voi e anche... sì... anche per il generale. Ma che fantasia è mai questa di mandare a offendere una donna?" "Eh sì, a quanto vedo voi siete soltanto un chiacchierone" mi disse lei con disprezzo. "Avevate gli occhi iniettati di sangue, poco fa, ma probabilmente solo perché a pranzo avete bevuto troppo vino. Credete forse che non capisca anch'io che si tratta di una cosa stupida e volgare e che il generale si infurierà? Ma ho voglia di ridere. Sì, voglia di ridere. E perché, poi, dovreste offendere una donna? Piuttosto bastoneranno voi." Mi girai e in silenzio andai a eseguire il suo ordine. Certo era una cosa stupida, certo non seppi cavarmela, ma ricordo che, quando cominciai ad avvicinarmi alla baronessa, qualcosa mi stuzzicò, e precisamente mi stuzzicò il desiderio di una monelleria. E poi ero eccitato, terribilmente eccitato, come se fossi ubriaco...
6.
Ecco che sono già passati due giorni da quella stupida giornata.
Quante grida, quanto rumore, quante chiacchiere, quanto trambusto!
E che disordine, che confusione, che stupidità e volgarità... e tutto per causa mia. Però a volte viene da ridere... a me, per lo meno. Non so rendermi conto di ciò che mi succede: se mi trovi veramente in uno stato di esaltazione o se semplicemente sia uscito di senno e commetta sconvenienze fino a quando non mi legheranno. A volte mi sembra che la mia mente sia sconvolta. E a volte ho l'impressione di non essere lontano dall'infanzia, dai banchi della scuola, e di fare semplicemente delle monellerie da scolaro.
E Polina, sempre Polina! Forse non ci sarebbero monellerie se non ci fosse lei. Chi sa, magari faccio tutto questo per disperazione (per quanto, del resto, sia stupido ragionare così). E non capisco che cosa ci sia di bello in lei! Bella, però, è bella, sembra bella.
Fa impazzire anche gli altri.
E' alta e ben fatta, solo un po' sottile. Mi dà l'impressione che si potrebbe farne un nodo o piegarla in due. La forma del suo piede è lunga e sottile, crudele. Proprio crudele. I capelli hanno una sfumatura rossiccia, gli occhi sono veri occhi da gatta... ma come sa usarli con orgogliosa fierezza! Quattro mesi fa, quando ero appena arrivato in casa loro, lei, una sera si trattenne a lungo in sala a discutere animatamente con De-Grieux. E lo guardava in un modo tale che poi, quando mi ritirai in camera mia per coricarmi, mi immaginai che lei gli avesse dato uno schiaffo, glielo avesse appena dato e gli stesse così davanti a guardarlo...
Ecco, da quella sera mi sono innamorato di lei.
Ma veniamo ai fatti!
Per un sentiero uscii sul viale, mi sistemai nel bel mezzo e attesi il barone e la baronessa. A cinque passi di distanza mi tolsi il cappello e mi inchinai.
Ricordo che la baronessa indossava un abito di seta larghissimo, di colore grigio chiaro, con volanti, crinolina e strascico. E' piccola di statura e di una grassezza straordinaria, con un mento terribilmente carnoso e floscio, tanto che non le si vede per niente il collo. La sua faccia è paonazza. Gli occhi sono piccoli, maligni e sfacciati. Cammina come se facesse un onore a tutti. Il barone è secco, alto. Il suo volto, come spesso si vede nei Tedeschi, è storto e solcato da mille piccole rughe; porta gli occhiali; è sui quarantacinque anni. Le gambe gli cominciano quasi dal petto: segno di razza, dicono. E' tronfio come un pavone. Un po' goffo. Nell'espressione di quel viso c'è qualcosa del montone che, a modo suo, sostituisce la profondità di pensiero.
Tutto questo mi passò davanti agli occhi in tre secondi.
Il mio inchino e il cappello tra le mani all'inizio attirarono appena la loro attenzione. Soltanto il barone aggrottò lievemente le sopracciglia. La baronessa navigava direttamente verso di me.
"Madame la baronne," proferii con chiarezza a voce alta, scandendo bene ogni parola "j'ai l'honneur d'être votre esclave!" (1) Poi mi inchinai, misi il cappello e passai davanti al barone, girando cortesemente il viso verso di lui e sorridendo.
Era stata lei, Polina, a ordinarmi di togliermi il cappello, ma mi inchinai e feci la monelleria di mia iniziativa. Che diavolo mi ci ha spinto? Era come se volassi giù da una montagna.
"Hein!" gridò o, per meglio dire, gracchiò il barone volgendosi verso di me con irritato stupore.
Mi girai e mi fermai in ossequiosa attesa, continuando a guardarlo e a sorridere. Egli, evidentemente perplesso, inarcò le sopracciglia sino al "nec plus ultra". Il suo volto diventava sempre più scuro. Anche la baronessa si girò dalla mia parte e anche lei mi guardò con indignato stupore.
"Hein!" gridò di nuovo il barone con raddoppiato gracchiare e raddoppiato sdegno.
"Ja wohl! (2)" dissi strascicando le parole e continuando a guardarlo negli occhi.
"Sind Sie rasen? (3)" gridò, agitando il suo bastone e cominciando, mi sembra, ad avere un po' di paura. Forse lo turbava il vestito. Indossavo un abito decente, direi quasi elegante, da persona appartenente alla buona società.
"Ja wo-o-o-ohl!" gridai a un tratto, a tutta forza, strascicando la "o" come fanno i berlinesi che, in ogni momento, durante la conversazione, usano l'intercalare "ja wohl" e strascicano più meno la "o" per esprimere varie sfumature di pensiero e di sensazioni.
Il barone e la baronessa si girarono e si allontanarono quasi di corsa, spaventati. Tra il pubblico, alcuni si misero a commentare, altri a guardarmi perplessi. Però, non me ne ricordo bene.
Mi girai e con il mio solito passo mi avviai verso Polina Aleksàndrovna. Ma non ero ancora arrivato a cento passi dalla panchina su cui lei era seduta che la vidi alzarsi e dirigersi con i bambini verso l'albergo.
La raggiunsi vicino alla scalinata.
"Ho eseguito... quella stravaganza..." le dissi, quando l'ebbi raggiunta.
"E con questo? Adesso sbrigatevela voi" mi rispose e, senza nemmeno guardarmi, cominciò a salire la scala.
Per tutta quella sera passeggiai nel parco. Attraverso il parco e poi attraverso un bosco raggiunsi addirittura un altro principato.
In una casetta di contadini mangiai una frittata e bevvi del vino:
e per questa idilliaca cena vollero un tallero e mezzo.
Soltanto alle undici tornai a casa. Subito fui chiamato da parte del generale.
I nostri occupano nell'albergo due appartamenti: quattro stanze in tutto. La prima, grande, è un salone con un pianoforte. Attigua ce n'è un'altra, pure grande: lo studio del generale. Qui egli mi aspettava, dritto in piedi nel bel mezzo, in un atteggiamento straordinariamente maestoso. De-Grieux stava semisdraiato su un divano.
"Egregio signore, permettetemi di chiedervi che cosa avete combinato" cominciò immediatamente il generale, rivolgendosi a me.
"Desidererei, generale, che entraste subito in argomento" risposi io. "Probabilmente alludete al mio incontro di oggi con un tedesco..." "Con un tedesco? Ma quel tedesco è il barone Wurmerhelm, una persona importante! Siete stato molto villano verso di lui e la baronessa." "Ma niente affatto!" "Li avete spaventati, egregio signore" gridò il generale.
"Neppure per sogno. Già a Berlino mi aveva colpito l'orecchio quel 'ja wohl!' che i Tedeschi ripetono in ogni momento e che strascicano in modo così odioso. Quando oggi ho incontrato nel viale il barone, improvvisamente quel 'ja wohl', non so perché mi è tornato in mente e ha agito su me da eccitante. Per di più la baronessa è già la terza volta che mi incontra, ha l'abitudine di venirmi addosso, come se fossi un verme che si può schiacciare con un piede. Anch'io, vorrete convenirne, ho il mio amor proprio. Mi sono tolto il cappello e ho detto cortesemente (cortesemente, vi assicuro): 'Madame j'ai l'honneur d'être votre esclave.' Quando il barone si girò e mi lanciò il suo 'hein!' mi sentii spinto a gridare: 'Ja wohl!'. E lo gridai due volte: la prima come al solito, ma la seconda strascicando le parole il più possibile.
Ecco tutto." Confesso che ero terribilmente felice di quella spiegazione, monellesca al massimo. Avevo una voglia pazza di gonfiare quella storia nel modo più assurdo che potessi.
E quanto più andavo avanti, tanto più ci prendevo gusto.
"Voi mi prendete in giro, eh?" gridò il generale.
Si girò verso De-Grieux e gli spiegò in francese che io cercavo decisamente di provocare dei guai. De-Grieux fece un risolino sprezzante e alzò le spalle.
"Oh, non pensate una cosa simile, non è vero affatto!" gridai al generale. "Il mio gesto, certo, non è stato bello, ve lo confesso con la massima sincerità. Esso può anche essere definito una stupida e sconveniente monelleria, ma niente di più. E sapete, generale, ne sono pentitissimo. Ma c'è una circostanza che ai miei occhi mi libera persino dal pentimento. In questi ultimi tempi, da due o tre settimane, io non mi sento molto bene: sono nervoso, irritabile, stravagante e, in certi casi, perdo completamente il dominio di me. Davvero, mi è già venuto qualche volta un gran desiderio di rivolgermi al marchese De-Grieux e... ma non posso finire la frase: forse si offenderebbe. In una parola tutti questi sono i sintomi di una malattia. Non so se la baronessa Wurmerhelm vorrà tener presente questa circostanza quando le chiederò scusa (perché ho intenzione di chiederle scusa). Penso però di no, tanto più che, a quanto mi risulta, negli ultimi tempi si è cominciato ad abusare di una simile circostanza nel mondo giudiziario: gli avvocati nelle cause penali hanno preso l'abitudine di giustificare molto spesso i loro clienti criminali con il fatto che essi, al momento del delitto, non ricordavano più niente e che questo è una specie di malattia. "Ha picchiato" dicono, "e non ricorda più niente." E figuratevi, generale, che la medicina li appoggia, affermando che esiste davvero una simile malattia, una specie di pazzia temporanea, durante la quale un individuo non ricorda più niente o ricorda a metà, o ricorda per un quarto. Ma il barone e la baronessa sono gente della vecchia generazione, e per di più latifondisti prussiani. Molto probabilmente essi ignorano i progressi del mondo medico-legale e perciò non accetteranno le mie spiegazioni. Che ne pensate, generale?" "Basta, signore!" disse il generale in tono aspro e con sdegno trattenuto. "Basta! Cercherò, una volta per sempre, di liberarmi dalle vostre ragazzate! Non dovrete scusarvi davanti al barone e alla baronessa perché ogni rapporto con voi, anche se basato soltanto sulla vostra preghiera di essere scusato sarebbe per loro troppo umiliante. Il barone, saputo che voi appartenete alla mia casa, si è già spiegato con me al Casinò e vi confesso che poco è mancato che non esigesse soddisfazione da me. Capite a che cosa mi avete esposto, egregio signore? Sono stato costretto a chiedere scusa al barone e a dargli la mia parola che immancabilmente, da oggi, voi smetterete di appartenere alla mia casa..." "Permettete, permettete, generale, ma è stato proprio lui a esigere che io non appartenessi più alla vostra casa, come voi vi siete degnato di esprimervi?" "No, ma sono stato io stesso a ritenermi in obbligo di dargli questa soddisfazione e, si capisce, il barone è rimasto contento.
Noi ci separeremo, egregio signore. Voi dovete ancora ricevere da me questi quattro federici e tre fiorini, al calcolo di qui. Ecco il denaro ed ecco il foglietto con il conto: potete verificarlo.
Addio. Da questo momento siamo degli estranei. A parte seccature e dispiaceri, da voi non ho avuto altro. Chiamerò subito il cameriere e lo avvertirò che, da domani, non risponderò più delle vostre spese in albergo. Ho l'onore di essere il vostro servitore." Presi il denaro, il foglio sul quale era stato fatto il conto a matita, mi inchinai al generale e molto seriamente gli dissi:
"Generale, la cosa non può finire così. Mi dispiace molto che voi abbiate avuto delle seccature da parte del barone ma, scusatemi se ve lo dico, la colpa è vostra. Come mai vi siete addossato di fronte al barone la responsabilità del mio gesto? Che significa l'espressione che io appartengo alla vostra casa? Nella vostra casa io sono semplicemente il precettore, nient'altro. Non sono vostro figlio, non sono sotto la vostra tutela, e voi non potete essere responsabile dei miei atti. Io sono una persona giuridicamente responsabile. Ho venticinque anni, sono laureato, sono nobile e per voi un estraneo. Soltanto il mio illimitato rispetto per la vostra dignità mi trattiene dal pretendere ora da voi soddisfazione e ulteriori spiegazioni per il fatto che vi siete arrogato il diritto di rispondere per me." Il generale fu tanto stupefatto che allargò le braccia, poi, a un tratto, si rivolse al francese e gli riferì rapidamente che io per poco non l'avevo sfidato a duello. Il francese si mise a ridere forte.
"Ma non intendo perdonarla al barone," continuai io con assoluto sangue freddo, senza lasciarmi turbare dalla risata di De-Grieux, "e poiché voi, generale, accettando oggi di ascoltare le lamentele del barone e prendendo le sue parti, vi siete fatto partecipe di tutta la faccenda, ho l'onore di dirvi che non più tardi di domani mattina esigerò dal barone, a mio proprio nome, una formale spiegazione del motivo per il quale, avendo una questione con me, egli si è rivolto, scavalcandomi, a un'altra persona, come se io non fossi degno di rispondergli personalmente." Quello che prevedevo successe. Il generale nell'ascoltare questa nuova sciocchezza, si prese una terribile paura.
"Ma com'è possibile che abbiate intenzione di continuare questa maledetta storia?" gridò. "Che cosa dunque volete ancora combinarmi? Badate, badate a quello che fate, egregio signore, o vi giuro che... Anche qui ci sono delle autorità e io... io... con il mio grado, basterà una parola... e anche il barone... Con una parola vi faremo arrestare e mandare via da qui per mezzo della polizia, affinché non attacchiate più brighe! Avete capito, signore?" E benché per lo sdegno gli mancasse quasi il respiro, aveva tuttavia una tremenda paura.
"Generale," risposi con una calma per lui insopportabile, "non si può arrestare per violenza prima che la violenza sia avvenuta. Io non ho ancora cominciato le mie spiegazioni col barone, e voi non sapete assolutamente ancora in che modo e su quali basi ho intenzione di affrontare la questione. Desidero soltanto chiarire la supposizione, per me offensiva, che io mi trovi sotto tutela di una persona che avrebbe un potere sulla mia libera volontà. Quindi vi agitate e vi inquietate inutilmente." "Per amor di Dio, per amor di Dio, Alekséj Ivànovitch, rinunciate a questo proposito insensato!" mormorò il generale, cambiando di colpo in supplichevole il suo tono indignato, e prendendomi per le mani. "Suvvia, vi immaginate che cosa ne potrebbe venir fuori? Di nuovo dispiaceri. Dovete convenire che qui io devo comportarmi in maniera particolare, soprattutto adesso! Oh, voi non conoscete tutte le circostanze! Quando ce ne andremo di qui, sono disposto a riprendervi con me. Ora lo faccio solo così... in una parola...
voi lo capite il perché..." gridò disperato. "Alekséj Ivànovitch!
Alekséj Ivànovitch!" Mentre mi avvicinavo alla porta, lo pregai vivamente ancora una volta di non inquietarsi, gli promisi che tutto sarebbe andato bene e nel modo più corretto, e mi affrettai a uscire.
A volte i russi all'estero sono troppo timorosi e hanno una gran paura di quello che possono dire gli altri, di come li possono guardare e se una cosa sarà più o meno corretta... in una parola, si comportano come se fossero stretti nel busto e specialmente quelli che hanno la pretesa di essere importanti... Quello a cui tengono di più è una certa qual forma prestabilita che, una volta fissata, essi seguono servilmente negli alberghi, nelle passeggiate, nelle riunioni, in viaggio... Ma il generale si era lasciato sfuggire che oltre a questo c'erano alcune circostanze particolari per cui gli serviva comportarsi in maniera 'particolare'. Per questo di punto in bianco si era con tanta pusillanimità spaventato e aveva cambiato tono nei miei confronti.
Ne presi atto e lo annotai. Certo egli, per storditaggine, poteva il giorno dopo rivolgersi a qualche autorità e quindi dovevo realmente andare molto cauto.
D'altronde, poi, non volevo per nessun motivo irritare il generale, ma volevo fare arrabbiare Polina. Polina si era comportata con me in maniera tanto crudele e mi aveva spinto su una strada tanto sciocca che volevo proprio portarla al punto in cui sarebbe stata lei stessa a pregare di fermarmi. La mia ragazzata poteva, infine, compromettere anche lei. Inoltre erano nate in me altre sensazioni ed erano spuntati altri desideri; se io, per esempio, mi annullo volontariamente davanti a lei, questo non significa affatto che di fronte agli altri io debba sembrare un pulcino bagnato e che, di conseguenza, il barone possa picchiarmi con il bastone. Mi venne una voglia matta di prendere tutti in giro e di uscirne fuori, facendo una bella figura! Che vedano un po'! Lei ha paura dello scandalo e mi chiamerà di nuovo.
E, se anche non mi chiamerà, vedrà lo stesso che non sono un pulcino bagnato.. .
(Una notizia sbalorditiva: ho sentito proprio ora dire dalla bambinaia, che ho incontrato sulla scala, che Màrja Filìppovna è partita oggi tutta sola per Karlsbad, con il treno della sera, per andare da sua cugina. Che novità è questa? La bambinaia dice che si preparava da un pezzo; ma come mai nessuno lo sapeva? Può anche darsi, però, che fossi io solo a non saperlo. La bambinaia si è lasciata sfuggire che Màrja Filìppovna, due giorni fa, aveva avuto un colloquio un po' vivace con il generale. Capisco. Certamente a causa di mademoiselle Blanche. Sì, si sta avvicinando qualcosa di decisivo.)
NOTE:
7.
La mattina dopo chiamai il cameriere e lo avvertii che mi facesse il conto a parte. La mia camera non era poi così cara da spaventarmi e da costringermi a lasciare subito l'albergo. Avevo sedici federici e là... là forse mi aspettava la ricchezza!
Strano, non ho ancora vinto, ma già mi comporto, sento e penso come se fossi un riccone e non posso immaginarmi in un modo diverso.
Avevo deciso, nonostante l'ora mattutina, di andare da mister Astley all'Hôtel d'Angleterre, non molto lontano dal nostro, quando all'improvviso entrò in camera mia De-Grieux. Questo non era ancora mai successo e per di più con quel signore ero, negli ultimi tempi, in rapporti molto tesi. Egli non nascondeva in nessun modo il suo disprezzo per me, anzi faceva di tutto per metterlo in evidenza; e io... io avevo i miei particolari motivi per non risparmiarlo. In una parola, lo odiavo. La sua comparsa mi sorprese moltissimo. Subito capii che qualcosa stava bollendo in pentola.
Egli entrò con un'aria molto cortese e mi fece un complimento a proposito della mia stanza. Vedendo che avevo il cappello in mano si informò se veramente uscissi a passeggio così di buon'ora.
Quando seppe che stavo per andare da mister Astley per un affare, rifletté, capì e il suo viso prese un'espressione molto preoccupata.
De-Grieux era come tutti i francesi, cioè allegro e gentile quando serviva e gli conveniva, ma insopportabilmente noioso quando mancava la necessità di essere allegro e cortese. Il francese è raramente cortese per natura; lo è sempre, come a comando, per calcolo. Se, per esempio, vede la necessità di essere bizzarro, originale, un po' fuori del comune, la sua fantasia è la più sciocca e innaturale, fatta di forme prestabilite e già da lungo tempo diventate banali. Allo stato naturale il francese è invece un insieme di qualità più borghesi, meschine e comuni: in una parola è l'essere più noioso del mondo. Secondo me, soltanto i novellini e in particolar modo le signorine russe si lasciano incantare dai Francesi. Ma a ogni persona perbene è subito evidente e intollerabile quel burocratismo di forme prestabilite di gentilezza, di disinvoltura e di allegria da salotto.
"Vengo da voi per un affare," cominciò con incredibile disinvoltura, anche se molto cortesemente, "e non vi nasconderò che vengo da parte del generale come ambasciatore o, per meglio dire, come mediatore. Poiché conosco molto male la lingua russa, ieri non ho capito quasi niente, ma il generale mi ha spiegato ogni cosa dettagliatamente e vi confesso che..." "Ma ascoltate, monsieur De-Grieux," lo interruppi, "anche in questa faccenda vi siete assunto l'incarico di intermediario. Io, si sa, sono un 'outchitel' e non ho mai preteso l'onore di essere amico di questa casa o di avere con essa relazioni particolarmente intime e perciò non sono al corrente di tutte le circostanze; ma spiegatemi: è possibile che voi facciate già parte di questa famiglia? Perché, infine, prendete sempre tanta parte in ogni cosa, e fate immancabilmente da mediatore in tutto..." Le mie domande non gli piacquero. Per lui erano troppo allusive, e lui non voleva tradirsi in nessun modo.
"Mi legano al generale, in parte certi affari e, in parte, alcune particolari circostanze" mi disse seccamente. "Il generale mi ha mandato a pregarvi di rinunciare ai vostri propositi di ieri sera.
Tutto quello che avete immaginato è senza dubbio molto spiritoso, ma egli mi ha precisamente chiesto di farvi presente che la cosa non vi riuscirà; non solo, ma che il barone non vi riceverà e, infine, che egli ha in ogni caso tutti i mezzi per liberarsi da ulteriori seccature da parte vostra. Convenitene anche voi. A che scopo, ditemi, continuare? Il generale, poi, vi promette di riprendervi senz'altro in casa sua, alla prima occasione favorevole, e di pagarvi fino ad allora il vostro stipendio, 'vos appointements'. Tutto questo mi sembra abbastanza vantaggioso, non vi pare?" In tutta calma gli spiegai che si sbagliava alquanto; che, forse, il barone non mi avrebbe fatto scacciare ma, al contrario mi avrebbe ascoltato, e gli chiesi di confessare che egli era venuto per informarsi del modo con cui mi sarei preparato all'impresa.
"Oh, Dio mio, se il generale si interessa tanto, si capisce che gli farà piacere sapere che cosa farete e come. E' così naturale!" Cominciai a spiegarglielo, e lui si mise ad ascoltare, semisdraiato, con la testa un po' piegata verso la mia parte e con una chiara, malcelata sfumatura di ironia sul viso.
Complessivamente si comportava con grande superbia. Cercavo con tutte le mie forze di fingere che consideravo la cosa da un punto di vista molto serio. Gli spiegai che, visto che il barone si era rivolto al generale lamentandosi di me come se fossi un domestico del generale, in primo luogo con il suo gesto mi aveva privato del posto e in secondo luogo mi aveva trattato come persona che non è in condizione di rispondere di se stessa e con la quale non mette conto di parlare. Certo, era giusto che mi sentissi offeso; però, tenendo conto della differenza di età, della posizione in società eccetera eccetera (a questo punto mi trattenni a fatica dal ridere), non volevo macchiarmi di una nuova leggerezza, ossia di richiedere direttamente soddisfazione al barone o anche soltanto di proporglielo. Tuttavia mi ritenevo in pieno diritto di porgere a lui, e specialmente alla baronessa, le mie scuse; tanto più che negli ultimi tempi mi sentivo realmente poco bene, nervoso e, per così dire, strano eccetera eccetera. Ma il barone con il suo gesto, offensivo per me, di essersi rivolto al generale e di avere insistito perché il generale mi togliesse il posto, mi aveva messo in una tale situazione che ormai non potevo più presentare a lui e alla baronessa le mie scuse, poiché lui, la baronessa e tutto il mondo avrebbero certo pensato che ero andato a scusarmi per paura e per riavere il posto. Da tutto questo derivava che mi trovavo costretto a pregare il barone in primo luogo di scusarsi con me nei termini più moderati, dicendo per esempio che non aveva voluto assolutamente offendermi. E quando il barone avesse detto questo, allora io mi sarei sentite le mani libere e con tutta sincerità gli avrei presentato le mie scuse. "In una parola," conclusi, "pregherò soltanto il barone che mi sciolga le mani." "Ahimè, che eccesso di scrupolo e che raffinatezza! E perché dovrebbe egli scusarsi con voi? Vorrete convenire, monsieur...
monsieur... che voi ideate tutto questo a bella posta per irritare il generale... e forse avete qualche mira speciale... 'mon cher monsieur, pardon, j'ai oublié votre nom... monsieur Alexis? n'est ce pas?' (1)" "Ma permettete, 'mon cher marquis': a voi che cosa importa?" "Mais le général..." "Che cosa, il generale? Ieri sera accennava al fatto che deve mantenersi in una certa situazione... ed era così preoccupato...
ma io non ho capito niente." "Qui si verifica, in realtà, una particolare circostanza" riprese De-Grieux con tono di preghiera nel quale affiorava sempre più l'irritazione. "Voi conoscete mademoiselle de Cominges?" "Volete dire mademoiselle Blanche?" "Sì, mademoiselle Blanche de Cominges... et madame sa mère... ne converrete anche voi, il generale... in una parola, il generale è innamorato, e può anche darsi che qui ci sia un matrimonio. E immaginatevi che intanto ci siano questi scandali e queste storie..." "Non vedo qui né scandali, né storie che riguardino il matrimonio..." "Mais le baron est si irascible, un caractère prussien, vous savez, enfin il fera une querelle d'Allemand. (2)" "Ebbene, la farà a me, non a voi, poiché io non appartengo più alla casa... (A bella posta mi sforzavo di essere il più assurdo possibile.) Ma scusate, è proprio deciso che mademoiselle Blanche sposi il generale? Che cosa aspettano? Voglio dire, perché nascondere la cosa anche a noi che siamo di casa?" "Io non posso... del resto la cosa non è ancora del tutto...
Tuttavia... lo sapete, aspettano notizie dalla Russia: il generale deve sistemare i suoi affari..." "Ah, ah! la 'baboulinka!'" De-Grieux mi guardò con odio.
"In una parola," disse, interrompendomi, "io spero vivamente nella vostra innata cortesia, nella vostra intelligenza, nel vostro tatto... voi, sono certo, lo farete per questa famiglia nella quale siete stato accolto come un parente, siete stato amato, rispettato..." "Permettete, sono stato scacciato! Voi, ecco, ora affermate che è stato solo per le apparenze: ma convenite che, se vi dicessero:
'Io, certo, non voglio tirarti le orecchie, ma per le apparenze permetti che te le tiri...' è quasi la stessa cosa..." "Se è così, se nessuna preghiera influisce su di voi" cominciò a dire in tono severo e autoritario, "allora permettete che vi assicuri che saranno prese le necessarie misure. Qui esistono delle autorità, vi manderanno via oggi stesso... 'que diable! Un blanc-bec comme vous' (3) vuole sfidare a duello un personaggio autorevole come il barone! E voi pensate che vi lasceranno tranquillo? Credetemi, nessuno qui ha paura di voi! E se sono venuto a pregarvi, l'idea è venuta da me perché voi rendevate inquieto il generale. E' mai possibile, è mai possibile che pensiate che il barone non vi faccia semplicemente scacciare da un servo?" "Ma io non ci andrò personalmente;" risposi con molta calma, "vi sbagliate, monsieur De-Grieux; tutto avverrà in modo molto più decoroso di quanto non pensiate. Ora andrò subito da mister Astley e lo pregherò di essere il mio intermediario, in una parola, 'mon second'! Quest'uomo mi vuole bene e certamente non rifiuterà. Egli andrà dal barone, e il barone lo riceverà. Se io sono un 'outchitel', qualcosa, pare, come un dipendente, e, in sostanza, senza difesa, mister Astley, invece, è nipote di un lord, di un autentico lord (questo lo sanno tutti), di lord Peabroke, e il lord è qui. Credetemi, il barone sarà gentile con mister Astley e lo ascolterà. E se non lo ascolterà, mister Astley considererà la cosa come un'offesa personale (voi sapete che gli inglesi sono ostinati) e manderà al barone da parte sua un amico, e lui ha degli ottimi amici. Riflettete, ora, che forse le cose non andranno come voi pensate." Il francese era decisamente impaurito: in realtà, tutto questo aveva l'apparenza della verità e sembrava proprio che io fossi in grado di suscitare una questione.
"Ma ve ne prego," cominciò in tono addirittura supplichevole, "lasciate perdere tutto! Si direbbe che vi faccia piacere che ne venga fuori uno scandalo! A voi non interessa la soddisfazione, ma lo scandalo! Ho detto che tutto questo sarebbe divertente e spiritoso, il che è, a quanto pare, ciò che voi desiderate, ma" concluse vedendo che io mi alzavo e prendevo il cappello, "sono venuto a consegnarvi due parole da parte di una persona:
leggetele. Sono incaricato di aspettare la risposta." Detto questo, tirò fuori dalla tasca e mi consegnò un bigliettino, piegato e sigillato con un'ostia.
Di mano di Polina c'era scritto:
"Mi è sembrato che abbiate l'intenzione di... continuare questa storia. Vi siete arrabbiato e cominciate a fare delle ragazzate.
Ma qui ci sono delle circostanze particolari che, forse in seguito, vi spiegherò, ma voi, ve ne prego, smettetela e calmatevi. Che cosa sono queste sciocchezze? Mi siete necessario e avete promesso di ubbidirmi. Ricordate lo Schlangenberg. Vi prego di essere ubbidiente e, se serve, ve lo ordino.
Vostra P.
P.S. Se siete in collera con me, per quanto è accaduto ieri, perdonatemi."
Quando ebbi letto quelle righe fu come se tutto si confondesse davanti ai miei occhi. Le labbra mi si sbiancarono e cominciai a tremare. Il maledetto francese mi guardava con aria umile e distoglieva gli occhi da me come per non vedere il mio turbamento.
Sarebbe stato meglio che mi avesse riso in faccia.
"Bene" risposi. "Dite a mademoiselle che stia tranquilla.
Permettetemi però di domandarvi" aggiunsi in tono brusco, "perché avete aspettato tanto a consegnarmi il biglietto. Invece di parlare di sciocchezze, mi pare che sarebbe stato vostro dovere cominciare da questo... se veramente siete venuto con un simile incarico." "Oh, io volevo... tutto l'insieme è così strano che voi scuserete la mia naturale impazienza. Avevo voglia di conoscere, da voi personalmente, le vostre intenzioni. Non so, d'altra parte, che cosa ci sia nel biglietto e pensavo che sarei sempre stato in tempo a consegnarvelo." "Capisco. Vi è stato ordinato, senza tante cerimonie, di consegnarmelo solo in caso estremo e di non darmelo addirittura se vi riusciva di accomodare la faccenda a parole. E' così? Parlate francamente, De-Grieux!" "Peut-être!" rispose, assumendo un'espressione discreta e rivolgendomi uno sguardo particolare.
Io presi il cappello; egli fece un cenno con il capo e uscì. Mi sembrò che sulle sue labbra balenasse un sorriso ironico. E come poteva essere diversamente?
"Noi due, francesuccio, faremo ancora i conti, ci troveremo ancora di fronte" borbottavo, scendendo la scala. Non potevo ancora coordinare le idee, come se avessi ricevuto un colpo sulla testa; ma l'aria fresca mi rianimò un poco.
Due minuti dopo, non appena cominciai a capire meglio, mi si affacciarono nitidamente due pensieri: primo, che per tali inezie, per simili incredibili minacce da scolaretto dette ieri a volo, era nato un così generale scompiglio; secondo, qual era mai il potere di quel francese su Polina. Una sua sola parola, e lei faceva tutto quello che egli voleva, scriveva un biglietto e addirittura mi pregava. Certo, i loro rapporti erano sempre stati per me un mistero da quando avevo cominciato a conoscerli; però in questi ultimi giorni avevo notato in lei una decisa avversione e persino del disprezzo verso il francese, mentre egli nemmeno la guardava ed era addirittura scortese. Io l'avevo notato. Polina stessa mi aveva parlato di avversione; si era già lasciata sfuggire delle confessioni notevoli... Significava semplicemente che egli la dominava e che la teneva, per così dire, in catene...
NOTE.
8.
Sulla "promenade", come la chiamano qui, ossia sul viale dei castagni, incontrai il mio inglese.
"Oh! oh!" cominciò egli, vedendomi, "io venivo da voi, e voi da me. Così, vi siete separato dai vostri?" "Ditemi, prima di tutto, come voi lo sapete," gli chiesi con stupore; "è possibile che la cosa sia già nota a tutti?" "Oh no! Non a tutti, e non vale neppure la pena che lo sia.
Nessuno ne parla." "E allora, come lo sapete?" "Lo so, cioè ho avuto occasione di saperlo. Ma adesso, dove andate? Io vi voglio bene e per questo venivo da voi." "Siete proprio un'eccellente persona, mister Astley," gli dissi (ero rimasto veramente sorpreso: come l'aveva saputo?) "e, poiché non ho ancora preso il caffè e voi, probabilmente, l'avete preso cattivo, andiamo al caffè del Casinò, ci sediamo là, facciamo una fumatina e intanto io vi racconterò tutto... e voi pure racconterete tutto a me..." Il caffè era a cento passi.
Ci servirono subito, ci mettemmo a sedere, io accesi una sigaretta, mister Astley non accese niente e, con gli occhi fissi su di me, si preparò ad ascoltarmi.
"Non andrò in nessun posto, resterò qui" cominciai a dire.
"Ero anch'io convinto che sareste rimasto" rispose mister Astley, in tono di approvazione.
Andando da mister Astley, non solo non avevo nessuna intenzione, ma di proposito non volevo dirgli niente del mio amore per Polina.
In tutti quei giorni non gliene avevo quasi fatto parola. Per di più egli era timidissimo. Fin dalla prima volta avevo osservato che Polina gli aveva suscitato un'impressione straordinaria, ma lui non pronunciava mai il suo nome. Ma, cosa strana, non appena fui seduto ed egli ebbe puntato su di me il suo sguardo color dello stagno, mi venne improvvisamente voglia, non so perché, di raccontargli tutto, cioè tutto il mio amore in ogni sua sfumatura.
Parlai per una mezz'ora, provando uno straordinario piacere: era la prima volta che toccavo quell'argomento! Resomi conto che in certi punti particolarmente ardenti egli si turbava, accrescevo a bella posta il calore del mio racconto. Di una cosa mi pento: di aver forse detto qualcosa di troppo sul francese...
Mister Astley ascoltava, seduto di fronte a me, immobile, silenzioso e guardandomi negli occhi; ma, quando cominciai a parlare del francese, mi interruppe improvvisamente e in tono severo mi chiese se avevo il diritto di accennare a quella circostanza estranea. Mister Astley faceva le domande in modo molto strano.
"Avete ragione: temo di no" risposi.
"Di questo marchese e di miss Polina non potete dire niente di preciso, all'infuori di semplici supposizioni?" Di nuovo mi meravigliai di una simile categorica domanda da parte di un uomo così timido come mister Astley.
"No, niente di preciso" risposi. "Niente, naturalmente. Se le cose stanno così, avete agito male, non solo nel parlarne con me, ma anche nell'averci pensato." "Bene, bene, lo ammetto. Ma adesso non si tratta di questo" dissi, interrompendolo e meravigliandomi dentro di me. A questo punto gli raccontai tutta la storia del giorno prima, in tutti i particolari, la pensata di Polina, la mia avventura con il barone, il mio licenziamento, l'incredibile viltà del generale e, infine, gli esposi dettagliatamente la visita di De-Grieux, in ogni sfumatura; e, come conclusione, gli feci vedere il biglietto.
"Che cosa ne deducete?" gli chiesi. "Sono venuto da voi proprio per conoscere il vostro pensiero. Per quello che mi riguarda, mi sembra che ucciderei quel francesino... e può darsi che lo faccia." "Anch'io" disse mister Astley. "In quanto a miss Polina... sapete, noi entriamo a volte in rapporti anche con persone che ci sono odiose se a ciò ci obbliga la necessità. In questo caso possono esserci rapporti a voi sconosciuti che dipendono da circostanze estranee. Io penso che possiate star tranquillo; in parte, si capisce. In quanto al suo modo di agire di ieri, certo esso è strano, e non perché lei abbia desiderato liberarsi di voi e vi abbia spinto sotto la mazza del barone (e non capisco perché non l'abbia usata, dato che l'aveva tra le mani), ma perché una tale pensata da parte di una così... di una così eccellente miss non è corretta... Certo lei non poteva indovinare che voi avreste eseguito alla lettera il suo buffo desiderio..." "Sapete che cosa?" gridai a un tratto, osservando attentamente mister Astley. "Ho l'impressione che abbiate già sentito parlare di tutto questo... e sapete da chi? Proprio da miss Polina!" Mister Astley mi guardò con stupore.
"I vostri occhi mandano lampi, e io leggo in essi il sospetto," disse, riprendendo subito la calma, "ma voi non avete il minimo diritto di manifestarlo. Non posso riconoscervi questo diritto, e mi rifiuto nel modo più categorico di rispondere alla vostra domanda." "Ebbene, basta! Non importa!" gridai, agitandomi stranamente e senza capire come mai mi fosse venuta in mente quell'idea! Ma quando, dove, in che modo mister Astley avrebbe potuto essere scelto da Polina come uomo di fiducia? Negli ultimi tempi, anzi, avevo perduto un po' di vista mister Astley, e Polina era sempre stata per me un mistero, un mistero a tal punto che ora, per esempio, preparatomi a raccontare tutta la storia del mio amore per lei ad Astley, all'improvviso, durante il racconto, ero stato colpito dal fatto che non potevo dire quasi niente di preciso e di positivo sui miei rapporti con la fanciulla. Al contrario, tutto era fantastico, strano, infondato e persino inverosimile!
"Sì, va bene, va bene; sono confuso, e molte cose non le posso ancora considerare come si deve" risposi, quasi ansimando. "Del resto, voi siete una brava persona. Adesso c'è un'altra cosa: vi chiedo non il vostro consiglio, ma la vostra opinione." Tacqui un momento e cominciai:
"Che pensate del fatto che il generale si sia tanto spaventato?
Perché dalla mia stupida monelleria tutti hanno tirato fuori una questione tanto grossa, grossa al punto che persino De-Grieux ha ritenuto indispensabile immischiarsene (e lui si immischia solo nei casi più importanti), è venuto in persona da me, mi ha pregato, e supplicato... ha supplicato me, lui, De-Grieux? Infine, notate, è venuto alle nove, anzi un po' prima delle nove, e il biglietto di miss Polina era già nelle sue mani. Quando, mi chiedo, è stato scritto? Forse hanno svegliato miss Polina per questo? Inoltre, proprio da questo capisco che miss Polina è la sua schiava (poiché mi chiede persino perdono!) e, a parte questo, che c'entra lei, personalmente, in tutto questo? Perché se ne interessa tanto?
Come mai si sono così spaventati di un barone qualsiasi? E che cosa significa che il generale sposa mademoiselle Blanche de Cominges? Loro dicono che, in seguito a questa circostanza, devono tenere un contegno in un certo senso particolare, ma ormai questo contegno è già un po' troppo particolare, convenitene anche voi!
Che ne pensate? Dal vostro sguardo mi convinco che di questa faccenda ne sapete molto più di me!" Mister Astley sorrise e scosse la testa.
"Effettivamente anche qui credo di saperne molto più di voi" disse. "Qui tutta la faccenda riguarda solo mademoiselle Blanche, e io sono sicuro che questa è l'assoluta verità." "E allora, mademoiselle Blanche?" gridai con impazienza (mi era balenata all'improvviso la speranza che avrei scoperto qualcosa sul conto di Polina).
"Mi pare che mademoiselle Blanche abbia in questo momento un particolare interesse a evitare in tutti i modi un incontro con il barone e con la baronessa, tanto più un incontro sgradito o, peggio ancora, uno scandalo." "Ebbene? Ebbene?" "Mademoiselle Blanche, due anni fa, è già stata qui, durante la stagione, a Roulettenburg. E c'ero anch'io. Mademoiselle Blanche allora non si chiamava mademoiselle de Cominges, e sua madre, madame veuve Cominges allora non esisteva. Almeno non se ne parlava. De-Grieux... neppure De-Grieux c'era. Ho la profonda convinzione che non solo essi non siano parenti fra loro, ma neppure conoscenti di lunga data. Marchese, De-Grieux lo è diventato recentemente, e di questo sono certo a causa una certa circostanza. Si può persino supporre che abbia cominciato a chiamarsi De-Grieux da poco tempo. Conosco qui una persona che l'ha incontrato anche sotto un altro nome." "Ma ha realmente una cerchia di conoscenze serie?" "Oh, può darsi. Persino mademoiselle Blanche può averla. Ma due anni fa mademoiselle Blanche, su richiesta di questa stessa baronessa, ricevette dalla polizia locale l'invito di lasciare la città, e la lasciò." "Come mai?" "Ella era allora comparsa qui prima con un italiano, un principe dal nome storico, un nome come Barberini o un qualcosa del genere.
Un uomo tutto anelli e brillanti, e nemmeno falsi. Andavano in giro in una splendida carrozza. Mademoiselle Blanche giocava al 'trente et quarante,' all'inizio con fortuna, poi la buona sorte le girò le spalle. Me lo ricordo, e ricordo che una sera perdette una somma enorme. Ma il peggio fu che 'un beau matin' il suo principe scomparve, non si sa dove; e scomparvero con lui cavalli e carrozza; scomparve tutto. Il debito in albergo era enorme.
Mademoiselle Zelma (da Barberini si era improvvisamente cambiata in mademoiselle Zelma) era all'estremo limite della disperazione.
Piangeva e strillava così forte da farsi sentire per tutto l'albergo e nella furia si strappava persino i vestiti. C'era allora ospite nell'albergo un conte polacco (tutti i polacchi che viaggiano sono conti), e mademoiselle Zelma che si strappava le vesti e si graffiava come una gatta il viso con le sue bellissime mani profumate, produsse su di lui una certa impressione.
Scambiarono qualche parola e a pranzo lei appariva già consolata.
La sera egli arrivò al Casinò a braccetto con lei. Mademoiselle Zelma rideva forte, secondo la sua abitudine, e nel modo di comportarsi sembrava sicura e disinvolta. Era ormai entrata in quella categoria di signore che giocano alla roulette, le quali, avvicinandosi al tavolo, spingono a spallate un giocatore per prendergli il posto. E' un particolare chic di queste signore. Le avrete certamente notate." "Oh, sì!" "Non merita neppure notarle. A dispetto del pubblico perbene, esse sono inestirpabili, almeno quelle tra di loro che ogni giorno cambiano al tavolo da giuoco biglietti da mille franchi. Però, non appena smettono di cambiar biglietti, sono pregate di allontanarsi. Mademoiselle Zelma continuò ancora a cambiare: ma il suo giuoco era sempre più sfortunato. Notate che queste signore molto spesso giocano con fortuna: hanno una straordinaria padronanza di sé. Ma la mia storia è finita... Un bel giorno, proprio come il principe, sparì anche il conte. Mademoiselle Zelma si presentò a giocare la sera da sola; ma quella volta nessuno le offrì il braccio. In due giorni perdette tutto, definitivamente.
Puntato e perduto l'ultimo luigi d'oro, essa si guardò attorno e vide accanto a sé il barone Wurmerhelm che la osservava molto attentamente e con profonda indignazione. Mademoiselle Zelma non vide l'indignazione e, rivolgendosi al barone con il suo ben noto sorriso, lo pregò di puntare per lei dieci luigi d'oro sul rosso.
In seguito a questo, su denuncia della baronessa lei ricevette la sera stessa l'invito a non farsi più vedere al Casinò. Se vi meravigliate che io sappia tutti questi piccoli e del tutto sconvenienti particolari è perché li ho sentiti raccontare da mister Feeder, un mio parente, che quella sera stessa accompagnò nella sua carrozza mademoiselle Zelma da Roulettenburg a Spa. Ora capite: mademoiselle Blanchevuoleesseregeneralessa probabilmente per non ricevere più inviti del genere di quello ricevuto due anni addietro dalla polizia del Casinò. Adesso non giuoca più perché possiede, a quanto pare, un capitale che presta ai giocatori di qui, a interesse. Questo è molto più conveniente.
Io ho persino il sospetto che anche quel disgraziato generale sia suo debitore. E che forse lo sia anche De-Grieux, oppure che De- Grieux sia in società con lei. Converrete anche voi che, almeno fino al giorno del matrimonio, lei non vorrà in nessun modo attirare sopra di sé l'attenzione del barone e della baronessa. In poche parole, nella condizione in cui si trova, uno scandalo è la cosa che meno le converrebbe. Voi, poi, siete legato alla loro casa, e le vostre azioni potrebbero veramente far nascere uno scandalo, tanto più che lei compare ogni giorno in pubblico al braccio del generale o con miss Polina. Capite ora?" "No, non capisco!" gridai, battendo sul tavolo con tanta forza che il cameriere arrivò spaventato.
"Dite, mister Astley" ripetei furibondo, "se voi eravate al corrente di tutta questa storia e di conseguenza sapete a memoria chi sia questa mademoiselle Blanche de Cominges, come mai non avete avvertito almeno me, il generale e, soprattutto, miss Polina che si faceva vedere qui al Casinò, in pubblico, sotto braccio a mademoiselle Blanche? E' possibile?" "Avvertire voi sarebbe stato inutile perché non potevate farci niente" rispose con calma mister Astley. "E, del resto, avvertire di che cosa? Il generale probabilmente sa di mademoiselle Blanche più di quanto ne so io e tuttavia va a passeggio con lei e con miss Polina. Il generale è un disgraziato. Ho veduto ieri mademoiselle Blanche che galoppava su un bellissimo cavallo in compagnia di monsieur De-Grieux e di quel piccolo principe russo, e il generale che galoppava loro dietro su un cavallo sauro. Al mattino aveva detto che gli facevano male le gambe, ma la sua posizione in sella era buona. E proprio in quel momento mi è venuto all'improvviso in mente che quello era un uomo definitivamente rovinato. Per di più, tutto questo non mi riguarda e solo da poco tempo ho avuto l'onore di conoscere miss Polina. Ma del resto (si riprese di colpo mister Astley), vi ho già detto che non posso ammettere che abbiate diritto a fare certe domande, sebbene vi sia sinceramente affezionato..." "Basta" dissi, alzandomi, "ora mi è chiaro come il giorno che miss Polina è al corrente di tutto quanto riguarda mademoiselle Blanche, ma che non può staccarsi dal suo francese e perciò acconsente ad andare in giro con lei. Credetemi, nessun'altra forza l'avrebbe indotta a passeggiare con miss Blanche e a supplicarmi nel biglietto di non toccare il barone. Deve proprio trattarsi di quella suggestione davanti alla quale ogni cosa si inchina! E tuttavia fu lei a spingermi contro il barone. Il diavolo mi porti se ci si capisce qualcosa!" "Voi dimenticate prima di tutto che questa mademoiselle de Cominges è la fidanzata del generale e in secondo luogo che miss Polina, figliastra del generale, ha un fratellino e una sorellina, veri figli del generale, ormai completamente abbandonati da quel pazzo e, sembra, anche da lui rovinati." "Sì, sì... è così! Lasciare quei bambini significa abbandonarli del tutto, restare significa difendere i loro interessi e forse anche salvare qualche briciolo della proprietà. Sì, sì... tutto ciò è vero! Ma però, però! Oh, capisco perché adesso tutti si interessano tanto della 'baboulinka!'" "Di chi?" chiese mister Astley.
"Di quella vecchia strega di Mosca che non si decide a morire e a proposito della quale sono tutti in attesa del telegramma che annunci che sta per andarsene all'altro mondo." "Ma sì, certo, tutto l'interesse si è concentrato su di lei. Tutto dipende dall'eredità. Quando l'eredità sarà sicura, il generale si sposerà; miss Polina sarà libera e De-Grieux..." "Ebbene, e De-Grieux?" "A De-Grieux verrà pagato il debito: egli qui aspetta soltanto questo." "Soltanto? Voi credete che aspetti soltanto questo?" "Io non so altro" e mister Astley tacque ostinatamente.
"Io, invece, lo so, lo so!" ripetei con rabbia. "Aspetta anche lui l'eredità perché Polina riceverà la dote e, non appena avrà i denari, gli si getterà al collo. Tutte le donne sono uguali! E sono proprio le più orgogliose che si rivelano le schiave più umili! Polina è capace soltanto di amare appassionatamente: niente altro! Questa è la mia opinione su di lei. Osservate, specialmente quando è sola, soprappensiero: ha qualche cosa di predestinato, di fatale, di maledetto! Essa è portata a tutti gli orrori della vita e della passione... essa... essa... Ma chi è che mi chiama?" esclamai a un tratto. "Chi grida? Ho sentito gridare in russo:
"Alekséj Ivànovitch!" Una voce di donna, ascoltate, ascoltate!" Intanto ci stavamo avvicinando all'albergo. Da un pezzo, quasi senza accorgercene, avevamo lasciato il caffè.
"Ho sentito delle grida di donna, ma non so chi fosse a chiamare, parlava russo. Ora vedo da dove arriva la voce," mi indicò mister Astley, "chi grida è quella donna che sta seduta in una grande poltrona che alcuni domestici hanno portato ora sulla scalinata.
Le portano dietro le valigie, segno che è appena arrivato il treno." "Ma perché chiamare me? Ecco che ricomincia a gridare. Guardate, ci fa dei segni..." "Vedo, sì, che fa dei segni" rispose mister Astley.
"Alekséj Ivànovitch! Alekséj Ivànovitch! Ah, Signore, che razza di tontolone!" si sentiva gridare disperatamente dalla scalinata dell'albergo.
Raggiungemmo quasi di corsa la scalinata. Salii sul ripiano e...
le braccia mi caddero dallo stupore, e i piedi rimasero inchiodati a terra!
9.
Sul pianerottolo superiore dell'alta scalinata dell'albergo, portata su per i gradini in una poltrona e circondata da servitori, cameriere e dal numeroso, ossequiente personale dell'albergo, alla presenza del capo cameriere in persona uscito a incontrare l'illustre ospite arrivata con tanto trambusto e fracasso, con la sua servitù particolare e una gran quantità di bauli e di valigie, troneggiava... la nonna! Sì, era proprio lei, la terribile, ricchissima settantacinquenne Antonida Vassìlevna Tarassevitcheva, proprietaria e gran signora moscovita, la 'baboulinka,' sul conto della quale si spedivano e si ricevevano telegrammi; era quella vecchia sempre sul punto di morire ma che non moriva mai e che, d'improvviso, era piombata in persona tra di noi, come una tegola sulla testa. Era apparsa, benché senza l'uso delle gambe e portata come sempre negli ultimi cinque anni in poltrona, ardita, battagliera, contenta di sé, eretta sul busto, come suo solito, gridando forte e imperiosamente, rampognando tutti, proprio come io avevo avuto l'onore di vederla due volte da quando ero entrato come precettore in casa del generale.
Naturalmente rimasi davanti a lei come impietrito dallo stupore.
Già a cento passi di distanza, mentre la portavano dentro sulla poltrona, lei mi aveva visto con il suo occhio di lince, mi aveva riconosciuto e mi chiamava con il nome e con il patronimico che lei, com'era sua abitudine, aveva imparato una volta per sempre.
"E proprio lei si aspettavano di vedere chiusa nella bara dopo aver lasciato l'eredità?" mi passò a volo nella mente. "Lei che vivrà più a lungo di noi e di tutto l'albergo! Mio Dio, ma che succederà ora ai nostri, che succederà al generale? Quella, adesso, metterà sottosopra tutto!" "Dunque, bàtiushka, perché te ne stai lì impalato con gli occhi sbarrati?" continuava a gridare la nonna. "Salutare, dare il benvenuto non sai, eh? O ti dai delle arie e non vuoi farlo?
Senti, Potapytch," disse rivolta a un vecchietto canuto in frac e cravatta bianca con una rosea calvizie, il suo maggiordomo che l'accompagnava nel viaggio, "senti, non mi riconosce! Mi avevano già seppellita! Mandavano un telegramma dietro l'altro: è morta o non è morta? So tutto! E io, invece, vedi... sono qui, e vivissima." "Ma scusate, Antonida Vassìlevna, perché dovrei desiderarvi del male?" le risposi allegramente, riavendomi dallo stupore. "Sono rimasto semplicemente sorpreso... e come potevo non esserlo... è un avvenimento così inatteso..." "E che c'è da meravigliarsi? Sono salita in treno e sono partita.
In treno si sta bene, non ci sono scossoni. Eri andato a passeggio?" "Sì, ero andato a far due passi verso il Casinò." "Qui è bello" disse la nonna, guardandosi intorno. "Fa caldo, e gli alberi sono coperti di foglie. Mi piace! I nostri sono in casa? E il generale?" "Oh sì, sono in casa; a quest'ora sono certamente tutti in casa." "Anche qui hanno le loro ore fisse e tutte le altre cerimonie? Si danno molte arie. E hanno la carrozza, ho sentito dire, 'les seigneurs russes'! Hanno sperperato tutto e poi, via all'estero! E Praskòvja è con loro?" "Sì, Polina Aleksàndrovna è con loro." "E anche il francesino? Bene, ma li vedrò tutti da me, Alekséj Ivànovitch; indicami la strada per andare direttamente da lui. E tu, ti trovi bene, qui?" "Così così, Antonida Vassìlevna." "Tu, Potapytch, di' a questo babbeo di cameriere che mi diano un appartamento comodo, grazioso, non in alto, e fa' trasportare subito i bagagli. Ma perché tutti vogliono portarmi? Perché tanti strisciamenti? Che schiavi! E chi c'è lì con te?" chiese, rivolgendosi di nuovo a me.
"E' mister Astley" risposi.
"Quale mister Astley?" "Un viaggiatore, una mia buona conoscenza; conosce anche il generale." "Un inglese. Ecco perché mi guarda fisso e a denti stretti. Del resto, gli inglesi mi piacciono. Su, portatemi di sopra direttamente al loro appartamento; dove si trova?" Portarono su la nonna; io precedevo per l'ampio scalone dell'albergo. Il nostro corteo faceva molto effetto. Tutti quelli con i quali ci imbattevamo, si fermavano e ci guardavano con tanto d'occhi. Il nostro albergo è considerato il migliore, il più caro e il più aristocratico qui alle acque. Per le scale e lungo i corridoi si incontrano sempre dame elegantissime e inglesi dall'aspetto imponente. Molti chiedevano informazioni giù, al capo cameriere, il quale, a sua volta, era rimasto assai colpito.
Naturalmente, a tutti quelli che lo interrogavano, egli rispondeva che si trattava di una straniera importante, di 'une russe, une comtesse, grande dame,' che avrebbe occupato lo stesso appartamento occupato la settimana prima dalla grande 'duchesse de N.' L'aspetto autoritario e imperioso della nonna, trasportata in poltrona, faceva un grande effetto. Ogni volta che incontrava una persona nuova, la misurava subito con uno sguardo curioso, e di ognuna mi chiedeva informazioni ad alta voce. La nonna era di costituzione robusta e, sebbene non si alzasse dalla poltrona, si capiva, guardandola, che doveva essere di alta statura. Aveva la schiena diritta come un'asse e non si appoggiava alla spalliera.
La sua grossa testa dai capelli bianchi, dai tratti marcati e forti, stava eretta; guardava in maniera quasi insolente con aria di sfida; e si vedeva che sguardo e gesti erano perfettamente naturali. Nonostante i suoi settantacinque anni, aveva un viso abbastanza fresco, e anche i denti erano ancora in buone condizioni. Indossava un abito di seta nera e aveva in testa una cuffietta bianca.
"Quella donna mi interessa moltissimo" mi sussurrò mister Astley, salendo con me.
"Lei è al corrente dei telegrammi" pensai. "Conosce anche De- Grieux, ma sembra conoscere ancor poco mademoiselle Blanche." Subito lo comunicai a mister Astley.
Che peccatore sono mai! Non appena passato il primo momento di stupore, mi rallegrai moltissimo per il fulmine a ciel sereno che stava per colpire il generale. Era come se qualcosa mi eccitasse, e camminavo davanti a tutti con straordinaria allegria.
I nostri alloggiavano al terzo piano; io non annunciai nessuno e neppure bussai; semplicemente spalancai la porta, e la nonna fu portata dentro in trionfo. Nemmeno a farlo apposta, si trovavano tutti riuniti nello studio del generale. Erano le dodici e stavano progettando, sembra, una gita, un po' in comitiva, un po' a cavallo; c'erano anche degli invitati loro conoscenti. Oltre al generale e a Polina con i bambini e le loro bambinaie, c'erano nello studio: De-Grieux, mademoiselle Blanche, vestita da amazzone, sua madre madame veuve Cominges, il piccolo principe e anche un certo dotto viaggiatore, un tedesco che vedevo da loro per la prima volta. La poltrona della nonna fu portata direttamente nel bel mezzo dello studio, a tre passi dal generale.
Mio Dio, non dimenticherò mai quell'impressione! Prima che noi entrassimo, il generale stava raccontando qualcosa, e De-Grieux lo contraddiceva. Bisogna notare che mademoiselle Blanche e De-Grieux già da due o tre giorni, non so perché, facevano la corte al piccolo principe 'à la barbe du pauvre général'; e la compagnia, anche se un po' artificiosamente, sembrava di umore allegro e gioiosamente familiare. Vedendo la nonna, il generale rimase di stucco, spalancò la bocca e si fermò a metà di una parola. Mi fissò con gli occhi sbarrati come incantato dallo sguardo di un basilisco. Anche la nonna lo guardava in silenzio, immobile... ma che sguardo trionfatore, provocante e ironico era il suo! Si fissarono così, per almeno dieci secondi, tra il profondo silenzio di tutti i presenti. De-Grieux sulle prime era rimasto pietrificato, ma ben presto una inquietudine straordinaria comparve sul suo viso. Mademoiselle Blanche con le sopracciglia sollevate e la bocca aperta, guardava la nonna con aria strana. Il principe e lo scienziato osservavano la scena, profondamente perplessi. Gli occhi di Polina espressero un enorme stupore, e a un tratto si fece pallida come un cencio; dopo un attimo, però, il sangue le risalì al viso e le inondò le guance. Sì, era una catastrofe per tutti! Io non facevo altro che spostare il mio sguardo dalla nonna a tutti i presenti, e viceversa. Mister Astley se ne stava in disparte, calmo e dignitoso come sempre.
"Dunque, eccomi qui invece del telegramma!" disse finalmente la nonna, interrompendo il silenzio. "Non mi aspettavate, eh?" "Antonida Vassìlevna... zia... ma in che modo..." balbettò l'infelice generale. Se la nonna avesse continuato a tacere ancora per qualche secondo, forse gli sarebbe venuto un colpo.
"Come, in che modo? Sono salita sul treno e sono partita. Che ci sta a fare la ferrovia? Voi tutti pensavate che io avessi tirato le cuoia e vi avessi lasciato l'eredità? So benissimo che tu da qui spedivi telegrammi. E credo che avrai speso parecchio per farlo... Non costano certo poco. E io, invece, gambe in spalla, ed eccomi qui. E' questo quel tal francese? Monsieur De-Grieux mi sembra." "Oui, madame" rispose De-Grieux "croyez, je suis si enchanté...
votre santé... c'est un miracle... vous voir ici, une surprise charmante...(1)" "Già, già, 'charmante:' ti conosco, buffone, e non ti credo, ecco, neanche tanto così!" e gli mostrò il dito mignolo "E questa, chi è?" esclamò rivolgendosi e indicando mademoiselle Blanche.
L'eccentrica francese, vestita da amazzone, con il frustino in mano, l'aveva evidentemente colpita. "E' di qui?" "E' mademoiselle Blanche de Cominges, e questa è sua madre, madame de Cominges; abitano in questo albergo" riferii io.
"E' sposata la figlia?" chiese la nonna, senza fare tanti complimenti.
"Mademoiselle de Cominges è nubile" risposi nel modo più rispettoso e, a bella posta, a mezza voce.
"E' allegra?" Non capii subito la domanda.
"Non ci si annoia con lei? Capisce il russo? De-Grieux, per esempio, da noi, a Mosca, era riuscito a dire malamente qualcosa nella nostra lingua." Le spiegai che mademoiselle Blanche de Cominges non era mai stata in Russia.
"Bonjour!" disse la nonna, volgendosi all'improvviso bruscamente verso mademoiselle Blanche.
"Bonjour, madame" rispose mademoiselle Blanche con un inchino cerimonioso ed elegante, affrettandosi, sotto l'apparenza di una straordinaria modestia e cortesia, a dimostrare con l'espressione del viso e di tutta la persona il suo stupore per una così strana domanda e un così strano comportamento.
"Oh, ha abbassato gli occhi, fa smancerie e cerimonie; si vede subito che tipo è: una qualche attrice. Io, qui all'albergo, mi sono fermata giù" disse a un tratto, rivolta al generale. "Sarò tua vicina: sei contento o no?" "Oh, zia! Credete ai sentimenti sinceri... della mia contentezza" rispose il generale. Si era in parte ripreso e poiché, quand'era il caso, sapeva parlare bene, gravemente e con pretesa di un certo effetto, cominciava a dilungarsi anche adesso. "Eravamo così inquieti e preoccupati per le notizie della vostra salute...
Abbiamo ricevuto dei telegrammi così disperati, ed ecco che a un tratto..." "Frottole, frottole!" lo interruppe la nonna.
"Ma come mai," interruppe a sua volta, alzando la voce, il generale che si era sforzato di non notare quel 'frottole', come mai vi siete decisa a un simile viaggio? Sarete d'accordo anche voi che alla vostra età e nelle vostre condizioni di salute... è per lo meno una cosa così inattesa... che rende ben comprensibile il nostro stupore. Ma io sono così contento... e noi tutti (e cominciò a sorridere di un sorriso entusiastico e tenero) cercheremo con tutte le nostre forze di rendervi questo soggiorno il più possibile piacevole..." "Be', basta adesso; tutte chiacchiere inutili. Secondo il tuo solito hai cominciato a dire delle stupidaggini. So benissimo io come passare il tempo. Del resto non starò lontana da voi: io non porto rancore. Come mai, vuoi sapere? Ma che c'è da meravigliarsi?
Nel più semplice dei modi. E perché tutti si meravigliano?
Buongiorno, Praskòvja. Che fai qui?" "Buongiorno, nonna" rispose Polina, avvicinandosi a lei. "Siete in viaggio da molto?" "Ecco, questa è la domanda più intelligente di tutte, invece di tanti 'ah! ah!'. Ecco, senti: dopo essere stata a letto un bel po', ed essermi curata e curata... ho finito con il cacciare via i dottori e ho fatto venire il sacrestano di San Nicola. Quello aveva guarito una donnetta dalla mia stessa malattia, con un tritume di fieno. Ebbene, ha fatto bene anche a me: dopo due giorni feci una gran sudata e mi alzai dal letto. Poi si riunirono di nuovo i miei tedeschi e, inforcati gli occhiali, hanno cominciato a sputar sentenze: "Se voi ora" hanno detto, "andaste all'estero, alle acque, a fare la cura, gli ingorghi scomparirebbero definitivamente". "E perché no?" mi sono chiesta.
E quegli stupidi intriganti eccoli a frignare: "Ma come potrete arrivarci?" Figuriamoci! In un giorno mi sono preparata e venerdì della settimana scorsa ho preso con me una ragazza, Potapytch, e il domestico Fëdor; ma questo Fëdor, a Berlino, l'ho cacciato perché ho visto che non avevo affatto bisogno di lui e che anche sola soletta sarei arrivata... Prendo uno scompartimento riservato, e in tutte le stazioni ci sono facchini che, per venti copeche, ti portano dove vuoi. Ma che po' po' di appartamento occupate!" concluse, guardandosi attorno. "E con quale denaro, bàtjushka? Hai tutto ipotecato... Soltanto con questo francesino che debito hai? Perché io, vedi, so tutto, so tutto!" "Io, zietta..." prese a dire il generale tutto confuso, "io mi meraviglio, zietta... Io penso di poter fare a meno del controllo di chiunque... e poi le spese non superano le mie possibilità e noi qui..." "Non superano le tue possibilità, hai detto? Ma allora i bambini li hai spogliati di tutto quello che avevano, eh, tutore?" "Dopo di questo... dopo simili parole..." cominciò il generale in tono indignato "io non so più..." "Non sai, non sai! Immagino che qui non ti sarai mai allontanato dalla roulette! Hai fatto bancarotta?" Il generale era così sbalordito che per poco non rimase soffocato dall'impeto della sua indignazione.
"Alla roulette! Io, con la mia posizione? Io? Ma, zietta, ritornate in voi... forse non vi sentite ancora bene..." "Frottole, frottole! Immagino che non riusciranno a distaccartene!
Io sì, che andrò a vedere che cos'è questa roulette, ci andrò oggi stesso. Tu, Praskòvja, dimmi che cosa c'è qui da visitare, Alekséj Ivànovitch ci darà qualche indicazione e tu, Potapytch, segna tutti i posti dove dobbiamo andare. Che cosa c'è da vedere, qui?" chiese a un tratto, rivolgendosi di nuovo a Polina.
"Qui vicino ci sono le rovine di un castello, e poi c'è lo Schlangenberg." "Che cos'è questo Schlangenberg? Un boschetto, o che altro?" "No, non un boschetto, ma una montagna; c'è una 'pointe...'" "Che cos'è questa 'puànt??" "Il punto più alto della montagna, un posto recintato. Da lassù c'è un panorama stupendo..." "E si potrà trascinare la poltrona fin là? Riusciranno a tirarla su, o no?" "Be', si possono trovare dei portatori" risposi io.
In quel momento si avvicinò, per salutare la nonna, Fedòssja, la bambinaia, che portava i bambini del generale.
"Su, su, niente sbaciucchiamenti! Non mi piace baciare i bambini:
sono tutti mocciosi. E tu, come ti trovi qui, Fedòssja?" "Qui ci sto bene, molto, molto bene, màtushka Antonida Vassìlevna" rispose Fedòssja. "E voi come state, màtushka? Siamo rimasti tanto in pena per voi!" "Lo so, tu sei un'anima semplice. E chi sono tutti questi? Ospiti, forse?" chiese, rivolgendosi di nuovo a Polina. "Chi è quel mingherlino con gli occhiali?" "E' il principe Nilskij, nonna" le sussurrò Polina.
"Ah, è un russo? E io credevo che non capisse. Ma forse non ha sentito. Mister Astley l'ho già visto. Ma eccolo di nuovo qui" lo scorse la nonna. "Buongiorno!" lo salutò, rivolgendosi improvvisamente verso di lui.
Mister Astley si inchinò in silenzio.
"Ebbene, che mi dite di bello? Raccontatemi qualcosa... Polina, traducigli quello che dico..." Polina tradusse.
"Dico che vi vedo con molto piacere e mi rallegro che siate in buona salute" rispose mister Astley in tono serio e con molta prontezza. Queste parole furono tradotte alla nonna e, evidentemente, le piacquero.
"Come sanno rispondere sempre bene gli Inglesi" osservò. "Non so perché, ma mi sono sempre piaciuti; non c'è confronto con i Francesi! Venite a trovarmi" disse, rivolgendosi di nuovo a mister Astley. "Cercherò di non darvi troppa noia. Traduci Polina, e digli che io sto qui sotto, qui sotto... sentite? qui sotto...
sentite" ripeté a mister Astley, accennando con il dito in giù.
Mister Astley fu molto contento dell'invito.
La nonna esaminò Polina dalla testa ai piedi con uno sguardo attento e soddisfatto:
"Tu mi piaceresti, Praskòvja" disse all'improvviso, "sei un'ottima ragazza, la migliore di tutti, ma hai un carattere che... uh!
Anch'io, però, ho un caratterino... Girati un po': non hai per caso una treccia finta nei capelli?" "No, nonna, sono capelli miei." "Bene, bene... non mi piace la sciocca moda di oggigiorno. Sei molto bella. Se fossi un uomo mi innamorerei di te. Perché non prendi marito? Ma adesso è ora che me ne vada. Ho voglia di fare una passeggiata dopo tanto treno, sempre treno... E tu, sei ancora arrabbiato?" disse, rivolta al generale.
"Ma figuratevi, zietta, non ci pensate neppure!" rispose il generale, riprendendosi. "Capisco, alla vostra età..." "Cette vieille est tombée en enfance!" (2) mi sussurrò De-Grieux.
"Ecco, ora qui voglio vedere tutto. Mi cederesti Alekséj Ivànovitch?" continuò, rivolta al generale.
"Oh, sì, quanto volete... ma anch'io... e Polina e monsieur De- Grieux... tutti noi, insomma, ci faremo un piacere di accompagnarvi".
"Mais, madame, cela sera un plaisir" disse De-Grieux con un incantevole sorriso.
"Già, già 'plaisir'... Sei buffo, bàtjushka. Denaro, però, non te ne darò" aggiunse all'improvviso, rivolta al generale. "E adesso voglio scendere nel mio appartamento: voglio dargli un'occhiata e poi andremo dappertutto. Su, sollevatemi!" Sollevarono di nuovo la nonna e tutti si avviarono in folla giù per le scale, al seguito della poltrona. Il generale camminava come stordito da una mazzata sulla testa. De-Grieux rimuginava qualche cosa. Mademoiselle Blanche avrebbe voluto restare ma poi, chi sa perché, decise di andare con tutti gli altri. Subito le tenne dietro il principe e di sopra, nell'appartamento del generale, rimasero soltanto il tedesco e madame veuve Cominges.
NOTE:
10.
Alle terme - e, a quanto pare, in tutta l'Europa - i direttori d'albergo e i capi camerieri nell'assegnare ai clienti le camere sono guidati non tanto dalle esigenze e dai desideri di questi quanto dal primo colpo d'occhio e, bisogna dirlo, difficilmente sbagliano. Ma alla nonna, chi sa perché, avevano dato un appartamento così lussuoso da sembrare persino esagerato: quattro stanze arredate splendidamente, con il bagno, camere per i domestici, una stanzetta particolare per la cameriera eccetera eccetera...
Effettivamente quelle stanze erano state occupate la settimana prima da non so quale "grande duchesse" il che, è naturale, veniva subito riferito ai nuovi ospiti per dare più valore all'appartamento. Portarono o, per meglio dire, spinsero la nonna per tutte le stanze, e lei le osservò con severa attenzione. Il capo cameriere, un uomo già anziano dalla testa pelata, la accompagnava con deferenza in questa prima visita.
Non so per chi prendessero la nonna ma, a quanto pare, per una persona importante e, soprattutto, ricchissima. Nel registro scrissero subito: "Madame la Générale,princesse de Tarassevìtcheva" nonostante la nonna non sia mai stata principessa. La servitù, lo scompartimento riservato, quell'inutile montagna di cassette, valigie e persino i bauli arrivati insieme con la nonna, avevano probabilmente dato inizio al suo prestigio; e la poltrona, il tono, la voce imperiosa della vecchia, le sue domande stravaganti fatte con la più grande disinvoltura e con l'aria di non ammettere repliche, in una parola, tutta la figura della nonna diritta, brusca, autoritaria, avevano completato il generale senso di reverenza verso di lei.
Durante la visita, la nonna ordinava all'improvviso di fermare la poltrona, indicava qualche oggetto dell'arredamento e con inaspettate domande si rivolgeva all'ossequioso e sorridente capo cameriere che quasi quasi cominciava ad avere un po' di paura. La nonna rivolgeva le sue domande in francese, lingua che però parlava alquanto male, cosicché spesso io dovevo tradurre. Le risposte del capo cameriere non erano, per la maggior parte, di suo gradimento e le sembravano poco soddisfacenti. Anche lei, poi, faceva un mucchio di domande che non si riferivano all'oggetto in questione, ma a Dio sa che cosa.
A un certo punto, per esempio, si era fermata davanti a un quadro, copia piuttosto mal riuscita di un famoso originale di soggetto mitologico.
"E' il ritratto di chi?" Il capo cameriere le dichiarò che probabilmente si trattava di qualche contessa.
"Come mai non lo sai? Vivi qui e non sai. Perché si trova qui?
Perché ha gli occhi storti?" A tutte queste domande il capo cameriere non poté rispondere in modo soddisfacente e si smarrì persino.
"Che scemo!" dichiarò la nonna in russo.
La portarono oltre. La stessa storia si ripeté con una statuina di Sassonia che la nonna osservò a lungo e poi ordinò di portare via, non si sa per quale motivo. Infine si appiccicò al capo cameriere:
quanto costavano i tappeti della camera? dove li tessevano? Il capo cameriere promise di informarsi.
"Che razza di asini!" borbottò la nonna, e dedicò tutta la sua attenzione al letto.
"Che baldacchino lussuoso! Disfate il letto!" Il letto fu disfatto.
"Ancora, ancora, togliete tutto! Via le federe, via i cuscini, sollevate i piumini!" Tutto fu capovolto. La nonna osservava con attenzione.
"Bene! Non ci sono cimici. E adesso via questa biancheria! Portate la mia e il mio guanciale. Però tutto qui è troppo lussuoso; che serve a me, vecchietta come sono, un appartamento così? Da sola mi annoio. Alekséj Ivànovitch, vieni a trovarmi il più spesso possibile, quando avrai finito le tue lezioni ai bambini." "Da ieri non sono più al servizio del generale" risposi io, "e vivo nell'albergo completamente per conto mio." "E perché?" "Alcuni giorni fa è arrivato qui un importante barone tedesco con la baronessa, sua consorte, da Berlino. Ieri, alla passeggiata, mi sono rivolto a lui in tedesco, senza seguire la pronunzia berlinese." "Be', e con questo?" "Il barone l'ha considerata un'insolenza e ha fatto le sue lamentele al generale, e il generale ieri mi ha licenziato." "Ma tu l'hai forse ingiuriato questo barone? E se anche l'avessi offeso, poco male!" "Oh no! Anzi, il barone ha alzato il bastone su di me." "E tu, bavoso, hai permesso che trattassero così il tuo precettore?" chiese rivolgendosi al generale. "E l'hai anche cacciato dal posto! Siete tutti dei babbei, dei veri babbei, a quanto vedo..." "Non inquietatevi, zietta," rispose il generale con una certa sfumatura altera e familiare insieme, "so trattare da me i miei affari. Inoltre Alekséj Ivànovitch non vi ha riferito le cose fedelmente." "E tu l'hai inghiottita?" chiese, rivolgendosi a me.
"Volevo sfidare il barone a duello" risposi il più modestamente e tranquillamente possibile, "ma il generale si è opposto." "E perché ti sei opposto?" chiese la nonna rivolta di nuovo al generale. "E tu, bàtjushka, vattene, verrai quando ti si chiamerà," disse al capo cameriere, "non è il caso che te ne stia là a bocca spalancata... (Non posso sopportare questo muso di Norimberga...!)" Il cameriere s'inchinò e uscì, senza, naturalmente, aver capito il... complimento della nonna.
"Ma scusate, zietta, sono forse possibili i duelli?" rispose il generale con un sorrisetto ironico.
"E perché non sono possibili? Gli uomini sono dei galli; quindi devono combattere. Siete tutti dei grandi babbei, a quanto vedo, e non sapete far rispettare la vostra patria. Su, alzate! Potapytch, disponi che siano sempre pronti due portatori: trovali e impegnali. Non ne servono più di due; si tratta di portarmi solo per le scale perché, quando siamo sul piano, nella strada, c'è solo da spingere. Diglielo, e pagali in anticipo: saranno più rispettosi. Tu mi starai sempre vicino e tu, Alekséj Ivànovitch, durante la passeggiata, mi indicherai quel barone: vorrei proprio vedere che razza di 'von'-baron è. Be', dov'è questa roulette?" Le spiegai che le roulettes sono poste nelle sale del Casinò. Poi iniziarono le domande: ce ne sono molte? Sono numerosi i giocatori? Giocano per l'intero giorno? Come funzionano? Risposi che la miglior cosa era vedere con i propri occhi, perché spiegare tutto era piuttosto difficile.
"Be' allora mi si porti direttamente là! Va' avanti, Alekséj Ivànovitch!" "Ma, zietta, è possibile che non vi riposiate nemmeno dal viaggio?" chiese premuroso il generale. Era quasi spaventato e tutti, con un'aria imbarazzata, si scambiavano delle occhiate.
Probabilmente si sentivano a disagio e persino un po' si vergognavano di accompagnare la nonna direttamente al Casinò dove, si capisce, poteva commettere qualche stravaganza e, per di più, in pubblico; tuttavia tutti si offrirono spontaneamente di accompagnarla.
"E perché dovrei riposarmi? Non sono stanca; sono stata ferma cinque giorni. E poi vedremo le sorgenti e le acque minerali che ci sono qui, e dove sono. E poi... quella... come hai detto, Praskòvja... quella 'puànt'... o come?" "'Pointe,' nonna." "Bene, se è 'pointe,' sia 'pointe.' E che altro c'è ancora?" "Ci sono molte cose, nonna" disse Polina con un certo imbarazzo.
"Ma, insomma, vedo che non lo sai nemmeno tu! Marfa, verrai con me" disse alla sua cameriera.
"Perché anche lei, zia?" interruppe preoccupato il generale.
"Questo non è possibile. E anche Potapytch difficilmente lo lasceranno entrare." "Sciocchezze! Siccome è una domestica bisognerebbe piantarla? E' anche lei una creatura viva; è ormai una settimana che stiamo viaggiando, e anche lei ha voglia di vedere qualche cosa. Con chi potrebbe farlo, se non con me? Da sola non oserà neppure mettere il naso fuori della porta..." "Ma, nonna..." "Ti vergogni a uscire con me? E allora rimani in casa, nessuno ti chiede niente. Guarda un po' che generale! Ma sono anch'io una generalessa. E perché dovrei trascinarmi dietro un simile codazzo?
Andrò a visitare tutto con Alekséj Ivànovitch..." Ma De-Grieux insisté decisamente perché tutti la accompagnassero e usò le frasi più cortesi a proposito del piacere di accompagnarla eccetera eccetera. Tutti si mossero.
"Elle est tombée en enfance," ripeté De-Grieux al generale, "seule, elle fera des bêtises (1)". Di più non sentii, ma evidentemente egli aveva dei progetti e, forse, gli erano addirittura tornate delle speranze.
Il Casinò era lontano un mezzo miglio dall'albergo. La nostra strada passava per un viale di castagni, fino al piazzale, girato il quale ci si trovava davanti all'ingresso del Casinò. Il generale si era un po' calmato, poiché il nostro corteo, anche se discretamente eccentrico, era tuttavia decoroso e corretto. E poi non c'era niente di sorprendente nel fatto che alle terme fosse venuta una persona malata e debole, priva dell'uso delle gambe.
Ma, evidentemente, egli temeva il Casinò: perché una persona malata, dalle gambe paralizzate e per di più vecchia, sarebbe andata alla roulette? Polina e mademoiselle Blanche camminavano ai due lati della poltrona che procedeva davanti a tutti.
Mademoiselle Blanche rideva, era allegra ma con discrezione, e a volte, molto cortesemente, scherzava con la nonna tanto che questa, alla fine, la elogiò. Polina, dall'altro lato della poltrona, era costretta ogni momento a rispondere alle innumerevoli domande della nonna, domande di questo genere: "Chi è quello lì che passa? E quella là in carrozza? E' grande la città?
E' grande il giardino? Che alberi sono questi? E che monti sono quelli? Ci sono delle aquile qui? Che cos'è quel tetto così buffo?" Mister Astley, che camminava vicino a me, mi sussurrò che da quella mattina si aspettava molte cose. Potapytch e Marfa seguivano da vicino la poltrona: Potapytch in marsina e cravatta bianca ma con il berretto, e Marfa, zitella sulla quarantina dalle guance rosse, ma che cominciava ormai a farsi grigia, in cuffia, abito di percalle e con un paio di scricchiolanti scarpe di pelle di capretto. Molto spesso la nonna si girava e scambiava con loro qualche parola. De-Grieux e il generale erano rimasti un po' indietro e discutevano con grande foga di non so che cosa. Il generale era assai abbattuto; De-Grieux parlava in tono deciso.
Magari cercava di fargli coraggio o gli dava qualche consiglio. Ma la nonna aveva ormai pronunciato la frase fatale: "Denaro non te ne darò". Forse a De-Grieux questa notizia sembrava incredibile, ma il generale conosceva bene la vecchia. Io osservai che De- Grieux e mademoiselle Blanche continuavano a scambiarsi strizzatine d'occhio. Il principe e il viaggiatore tedesco li vidi proprio in fondo al viale; erano rimasti indietro e se ne andavano da un'altra parte.
Al Casinò entrammo trionfalmente. Il guardaportone e i camerieri ci manifestarono la stessa reverenza che già aveva manifestato il personale dell'albergo. Ci guardavano, però, con curiosità. La nonna, per prima cosa, ordinò di portarla in giro per tutte le sale; lodò alcune cose, di fronte ad altre rimase perfettamente indifferente; di tutto chiedeva informazioni. Infine entrammo nelle sale da giuoco. Il cameriere, che stava di guardia vicino alla porta chiusa, sbalordito, la spalancò immediatamente.
La comparsa della nonna vicino alla roulette produsse una profonda impressione sul pubblico. Al tavolo da giuoco della roulette e all'altra estremità della sala dove si trovava il tavolo con il "trente et quarante", si affollavano forse centocinquanta o duecento giocatori, in varie file. Quelli che erano riusciti a farsi strada fino al tavolo, di solito si tenevano ben fermi al loro posto e non lo cedevano fino a quando non avevano perduto tutto; poiché non è permesso rimanere come semplici spettatori a occupare inutilmente un posto di giuoco. Nonostante che intorno al tavolo siano anche sistemate delle sedie, pochi tra i giocatori si siedono, specialmente quando c'è molta folla, perché in piedi si sta più fitti e di conseguenza si guadagna posto e si possono più agevolmente fare le puntate. La seconda e la terza fila si pigiavano dietro alla prima, aspettando e sorvegliando il loro turno; ma nell'impazienza a volte allungavano la mano oltre la prima fila per fare le loro puntate. Perfino dalla terza fila si ingegnavano così ad allungare le puntate; per questo non passavano dieci e neppure cinque minuti senza che a un'estremità del tavolo non avvenisse qualche 'storia' per poste controverse. La polizia del Casinò, del resto, è abbastanza indulgente. La ressa, è naturale, non si può evitare; anzi si è contenti dell'affollamento di pubblico perché è una cosa che conviene; ma otto "croupiers" che siedono attorno al tavolo, tengono attentamente d'occhio le poste, fanno i conti e, quando nascono controversie, sono loro che le risolvono. Nei casi estremi chiamano la polizia, e la faccenda si conclude in un minuto. Gli agenti si trovano nella sala stessa, in abiti borghesi, confusi tra la gente, per cui non è possibile riconoscerli. Essi tengono specialmente d'occhio i ladruncoli di professione che alle roulettes si incontrano in gran numero, per la straordinaria comodità di esercitare il loro mestiere. Infatti in qualsiasi altro posto bisogna rubare dalle tasche o forzare le serrature, cosa che, in caso di insuccesso, finisce sempre in modo alquanto spiacevole. Qui, invece, basta semplicemente avvicinarsi alla roulette, cominciare a giocare e poi, a un tratto, pubblicamente e in modo palese, prendere la vincita di un altro e mettersela in tasca; se poi nasce qualche lite, il lestofante insiste a voce alta e decisa che la puntata era la sua. Se la cosa è fatta con furbizia e i testimoni tentennano, il ladro molto spesso riesce ad impadronirsi del denaro sempre che, si capisce, la somma non sia molto notevole. In caso contrario, essa viene certamente fin da prima notata dai "croupiers" o da qualcuno degli altri giocatori. Ma se la somma non è molto cospicua, il vero proprietario a volte rinuncia a proseguire la discussione, timoroso di uno scandalo e si ritira. Ma se si riesce a smascherare il ladro, lo si porta subito fuori con grande chiasso.
La nonna guardava tutte queste cose da lontano, con straordinaria curiosità. Le era molto piaciuto che si mettessero fuori i ladruncoli. Il "trente et quarante" suscitò in lei pochissima curiosità; la interessò maggiormente la roulette con quella pallina che rotolava. Espresse, infine, il desiderio di osservare il gioco più da vicino. Non so come fu, ma i lacchè e alcuni altri personaggi pieni di zelo (in prevalenza polacchi che hanno perso tutto e che offrono i loro servigi ai giocatori fortunati e a tutti gli stranieri) trovarono e liberarono immediatamente un posto per la nonna nonostante l'affollamento, proprio al centro del tavolo, vicino al croupier principale e vi spinsero la sua poltrona. Molti visitatori, che non giocavano, ma che in disparte osservavano il giuoco (specialmente inglesi con le loro famiglie), fecero subito ressa intorno al tavolo per poter guardare la nonna al di sopra delle teste dei giocatori. Molti occhialini vennero puntati dalla sua parte. I "croupiers" sentirono nascere qualche speranza: una giocatrice così straordinaria pareva promettere qualcosa di non comune. Una donna di settantacinque anni con le gambe paralizzate e che aveva voglia di giocare rappresentava certo un caso fuori del comune. Mi feci anch'io strada tra la folla e andai a mettermi vicino alla nonna. Potapytch e Marfa erano rimasti indietro, da una parte, in mezzo alla gente. Il generale, Polina, De-Grieux e mademoiselle Blanche rimasero pure loro da parte, tra gli spettatori.
La nonna prima si mise a osservare i giocatori. Mi rivolgeva a mezza voce brusche, rapide domande: quello chi è? chi è quella? Le piacque in modo particolare, all'estremità del tavolo, un uomo molto giovane, che faceva un giuoco molto sostenuto; puntava migliaia di franchi e ne aveva già vinti, si sussurrava in giro, circa quarantamila che gli stavano davanti in mucchi di oro e di biglietti di banca. Era pallido; gli occhi gli sfavillavano e le mani gli tremavano; puntava ormai senza nessun calcolo, quello che la mano riusciva ad afferrare, eppure vinceva, vinceva, ammucchiava, ammucchiava... I lacchè gli si affaccendavano attorno, gli spingevano sotto la poltrona, gli facevano un po' di largo perché avesse più spazio, perché la gente non gli premesse addosso, e tutto questo in attesa di una ricca ricompensa. Certi giocatori danno loro a volte una parte della vincita senza nemmeno contare, ma così, per la gioia, quanto con la mano possono pigliare dalla tasca. Vicino al giovane si era già sistemato un polacchino, che si dava da fare in tutti i modi, e in tono rispettoso, ma senza pausa, gli sussurrava qualcosa, probabilmente indicandogli come puntare, dando consigli e guidando il gioco e, si capisce, in attesa anche lui di un regalo! Ma il giocatore quasi non lo guardava, puntava a casaccio e continuava ad ammucchiare. Era visibilmente smarrito.
La nonna lo osservò per qualche minuto.
"Digli," esclamò improvvisamente agitandosi e spingendomi, "digli che la smetta, che prenda al più presto il denaro e se ne vada.
Perderà, ora perderà tutto!" si affannava, senza quasi più respirare per l'agitazione. "Dov'è Potapytch? Mandagli Potapytch!
Ma diglielo, diglielo, dunque!" mi urtava. "Dov'è, insomma, Potapytch? 'Sortez, sortez!'" cominciò quasi a gridare lei stessa al giovanotto. Mi chinai e le sussurrai in tono deciso che lì non si poteva gridare e che non era permesso neppure alzare un po' la voce perché questo disturbava i calcoli, e che ci avrebbero cacciati via.
"Che rabbia! E' un uomo che si perde... ma si vede che è lui che lo vuole... Non posso più guardarlo, mi mette in agitazione... Che babbeo!" e la nonna si girò in fretta dall'altra parte.
Là, a sinistra, all'altra metà del tavolo, si notava tra i giocatori una giovane signora e vicino a lei una specie di nano.
Chi fosse quel nano non so: se un suo parente o se lo tenesse così, per fare colpo. Quella signora l'avevo già vista prima:
compariva ogni giorno al tavolo da giuoco, all'una del pomeriggio, e se ne andava alle due in punto: giocava ogni giorno per un'ora.
La conoscevano tutti e si affrettavano a porgerle una poltrona.
Ella tirava fuori di tasca un po' d'oro, qualche banconota da mille franchi e cominciava a puntare calma, fredda, calcolatrice, segnando con la matita su un foglio di carta le cifre, e cercando di trovare un sistema secondo il quale, a un certo punto, si raggruppavano le possibilità. Puntava somme notevoli. Ogni giorno vinceva mille, duemila franchi, non mai più di tremila e, subito dopo aver vinto, se ne andava. La nonna la osservò a lungo.
"Be', quella non perderà! Quella non perderà! Chi è? Non lo sai?
Di dove viene?" "E' una francese, dev'essere una di quelle..." sussurrai io. "Ah, dal volo si conosce l'uccello. Si vede che ha l'unghietta aguzza.
Spiegami adesso che cosa significa ogni giro e come bisogna puntare." Le spiegai come potevo che cosa significassero le numerose combinazioni delle puntate, "rouge et noir", "pair et impair", "manque et passe" e, infine, le varie sfumature nel sistema dei numeri; la nonna ascoltava attenta, ricordava, chiedeva di nuovo e imparava. A ogni sistema di puntata si poteva subito portare un esempio, cosicché era possibile imparare e ricordare molto facilmente e in fretta. La nonna rimase molto contenta.
"E che cos'è lo zero? Ecco, quel croupier ricciuto, quello più importante, ha gridato ora: zero! E perché ha rastrellato tutto quanto era sul tavolo? Tutto per sé ha preso quel bel mucchio? Che significa questo?" "Lo zero, nonna, è il guadagno del banco. Se la pallina cade sullo zero tutto quello che è stato puntato spetta al banco, senza calcolo. In verità, si concede ancora un colpo alla pari, ma il banco non paga niente." "Ma guarda un po'! E io non ricevo niente?" "No, nonna, ma se voi prima avete puntato sullo zero, allora, se esce lo zero, vi pagano trentacinque volte la posta." "Come? Trentacinque volte? Esce spesso? E perché, allora, questi tonti non puntano?" "Ci sono trentasei probabilità contro, nonna." "Sciocchezze, sciocchezze! Potapytch, Potapytch! Aspetta, ho del denaro con me, ecco!" Ella tirò fuori dalla tasca un borsellino molto gonfio e ne prese un federico.
"Tieni, punta subito sullo zero." "Nonna, lo zero è uscito soltanto adesso," dissi io, "e ora per un bel po' non uscirà. Perderete molto; aspettate almeno un po'..." "Storie! Punta, ti dico!" "Permettete, ma forse non uscirà più fino a sera, potreste perdere anche mille federici: è già successo." "Sciocchezze! Sciocchezze! Se hai paura del lupo, non puoi andare nel bosco. Che? Hai perso? Punta ancora!" Perdemmo anche il secondo federico e puntammo il terzo. La nonna stava ferma a fatica al suo posto, divorava con occhi febbrili la pallina saltellante per le dentellature della ruota che girava.
Perdemmo anche il terzo. La nonna era fuori di sé, non riusciva a stare ferma, batté persino un pugno sul tavolo quando il croupier proclamò "trente-six" invece dell'atteso zero.
"Guarda un po'!" esclamava infuriata la nonna. "Quando uscirà questo maledetto zeruccio? Voglio morire, se non starò qui ad aspettare che venga fuori lo zero. E' quel maledetto crupieruccio dai capelli ricci che fa in modo che non esca mai! Alekséj Ivànovitch, punta due monete d'oro alla volta! Ne perdi tanti che, se anche uscirà lo zero, non prenderai nulla." "Nonna!" "Punta, punta! Non è denaro tuo." Puntai due federici. La pallina volò a lungo sulla ruota, infine prese a saltellare sui dentelli. La nonna tratteneva il respiro, stringendo il mio braccio. A un tratto: tac!
"Zero!" proclamò il croupier.
"Vedi, vedi!" disse la nonna, rivolgendosi verso di me, raggiante e soddisfatta. "Te lo dicevo, te lo dicevo! E' proprio il Signore che mi ha suggerito di puntare due marenghi d'oro. E adesso, quanto riceverò? Perché non pagano? Potapytch, Marfa, dove sono andati? E i nostri dove si sono cacciati? Potapytch, Potapytch!" "Nonna, dopo..." le bisbigliai. "Potapytch è vicino alla porta, qui non lo lasciano venire. Guardate, nonna, vi danno il denaro, prendetelo!" Gettarono alla nonna un pesante rotolo sigillato in carta azzurra con cinquanta federici e le contarono ancora venti federici sciolti. Ammucchiai tutto davanti alla nonna con la paletta.
"Faites le jeu, messieurs! Faites le jeu, messieurs! Rien ne va plus (2)" annunciava il croupier, avvertendo di puntare e preparandosi a far girare la roulette.
"O Signore! Siamo in ritardo! Ora gireranno! Punta, punta!" si affannava la nonna. "Non perdere tempo, fa' presto..." gridava quasi fuori di sé, urtandomi a tutta forza.
"Ma dove devo puntare, nonna?" "Sullo zero, sullo zero! Di nuovo sullo zero! Punta il più possibile! Quanto abbiamo in tutto? Settanta federici? Non c'è da rimpiangerli, puntane venti per volta!" "Tornate in voi, nonna! Magari non esce più per duecento volte! Vi assicuro che perderete un capitale!" "Storie, storie... Punta! Ecco, mi fischiano le orecchie... So quello che faccio..." replicò la nonna, tremando tutta per la frenesia.
"Secondo il regolamento non è permesso puntare più di dodici federici alla volta sullo zero, nonna; ecco, li ho puntati." "Come, non è permesso? Non mi racconti mica delle storie, vero?
'Mussiè! Mussiè'" e urtò il "croupier" che stava seduto proprio alla sua sinistra e si preparava a far girare la roulette.
"Combien zero? douze? douze?" Mi affrettai a spiegargli la domanda in francese.
"Oui, madame" confermò cortesemente il croupier, "così pure ogni singola puntata non deve oltrepassare i quattromila fiorini per volta: è il regolamento" aggiunse come chiarimento.
"Be', non c'è niente da fare... puntane dodici!" "Le jeu est fait (3)" gridò il croupier. La ruota si mise a girare e venne fuori il tredici! Avevamo perduto!
"Ancora! Ancora! Punta ancora!" gridava la nonna. Ormai non la contraddicevo più e, stringendomi nelle spalle, misi ancora dodici federici. La ruota girò a lungo. La nonna ne seguiva il moto, tremando addirittura. "Ma possibile che creda veramente di far di nuovo zero!" pensai, guardandola con meraviglia. Una risoluta convinzione di vincere le illuminava il viso, l'attesa sicura che tra poco avrebbero gridato: zero! La pallina saltò in una casella.
"Zero!" annunziò il croupier.
"Cosa?" gridò la nonna, rivolgendosi a me in preda a una frenetica esultanza.
Ero anch'io un giocatore; lo sentii in quel preciso momento. Le gambe e le braccia mi tremavano, ebbi l'impressione di ricevere una mazzata sulla testa! Certo era stato un caso raro che in una decina di volte fosse saltato fuori per tre volte lo zero; ma non c'era niente di particolarmente straordinario. Ero stato io stesso testimonio di come due giorni prima lo zero era uscito tre volte di seguito, e uno dei giocatori che segnava diligentemente su un foglietto i colpi, aveva osservato, a voce alta, che non più tardi del giorno precedente questo stesso zero era capitato una volta sola nel giro di ventiquattro ore.
Alla nonna, come alla giocatrice che aveva vinto la somma più alta, il pagamento fu effettuato con particolare, deferente attenzione. Le spettavano giusto quattrocentoventi federici esatti, cioè quattromila fiorini e venti federici. I venti federici glieli passarono in oro e i quattromila in banconote.
Questa volta la nonna non chiamò Potapytch; era ben diversamente occupata. Non si agitava neppure e, apparentemente, non tremava.
Essa, se così ci si può esprimere, tremava dentro. Si era concentrata tutta in un solo pensiero: l'aveva preso di mira!
"Alekséj Ivànovitch! Ha detto che si possono puntare soltanto quattromila fiorini? Su, prendi, punta questi quattromila sul rosso!" ordinò la nonna.
Era inutile provare a dissuaderla. La ruota si mise a girare.
"Rouge." proclamò il croupier.
Di nuovo una vincita di quattromila fiorini, in tutto, quindi, otto.
"Quattromila dalli a me e gli altri quattro puntali di nuovo sul rosso!" ordinò la nonna.
Ne puntai altri quattromila.
"Rouge!" proclamò di nuovo il "croupier".
"Dodicimila in tutto! Dammeli. Versa l'oro qui, nel borsellino, e i biglietti nascondili. E adesso basta. A casa! Spingete indietro la poltrona!"
NOTE.
11.
La poltrona fu fatta rotolare verso la porta, all'altra estremità della sala. La nonna era raggiante. Tutti i nostri le si affollarono intorno congratulandosi con lei. Per quanto eccentrico fosse il comportamento della nonna, il suo trionfo compensava molte cose, e il generale stesso non aveva più timore di compromettersi in pubblico per i suoi rapporti di parentela con una donna così strana. Con un sorriso indulgente e familiarmente allegro, come se facesse divertire un bambino, si felicitò con lei. Del resto, come tutti gli altri spettatori, era rimasto visibilmente colpito. Tutt'intorno la gente parlava e indicava la vecchia signora. Molti le passavano accanto per osservarla più da vicino. Mister Astley, in disparte, parlava di lei con due suoi conoscenti inglesi, mentre alcune signore spettatrici la guardavano con solenne perplessità come un prodigio. De-Grieux si profondeva in sorrisi e in rallegramenti.
"Quelle victoire! (1)" esclamava.
"Mais, madame, c'etait du feu (2)" aggiunse con un sorriso incantevole mademoiselle Blanche.
"Sissignori, mi ci sono buttata e ho vinto dodicimila fiorini! Ma che dodici! E l'oro? Con l'oro sono quasi tredicimila. E quant'è in moneta nostra? Saranno seimila rubli, no?" Risposi che, al cambio del momento, erano circa settemila e che, magari, si sarebbe arrivati anche a otto.
"Uno scherzo, ottomila! E voi, citrulli, ve ne state qui senza far niente! Potapytch, Marfa, avete visto?" "Màtushka, ma come avete fatto? Ottomila rubli..." esclamò Marfa, agitandosi tutta.
"Prendete, eccovi cinque marenghi per ciascuno..." Potapytch e Marfa si precipitarono a baciarle la mano.
"Anche ai portatori date un federico. Dagli un marengo d'oro ciascuno, Alekséj Ivànovitch. Perché questo domestico fa tanti inchini? E anche quell'altro? Si congratulano? Da' anche un federico a loro." "Madame la princesse... un pauvre expatrié... malheur continuel...
les princes russes sont si genereux...(3)" mormorava, girando attorno alla poltrona, un individuo dal soprabito logoro, il panciotto variopinto, con i baffi, il berretto a sghimbescio e con un sorriso strisciante sulle labbra...
"Dagli un federico anche a lui. No, dagliene due... Ma adesso basta, altrimenti con questa gente non la finiamo più. Alzatemi, portatemi via! Praskòvja" disse rivolgendosi a Polina Aleksàndrovna, "domani ti comprerò un vestito e ne comprerò uno anche a quella mademoiselle... come si chiama?... mademoiselle Blanche, vero? Traduci quello che ho detto, Praskòvja!" "Merci, madame" rispose mademoiselle Blanche con un grazioso inchino, atteggiando la bocca a un sorriso canzonatorio scambiato con il generale e con De-Grieux. Il generale era un po' confuso e si rallegrò moltissimo quando arrivammo al viale.
"E Fedòssja? Immagino come ora si meraviglierà Fedòssja," disse la nonna, ricordandosi della bambinaia del generale che lei ben conosceva. "Anche a Fedòssja bisognerà regalare un abito. Ehi, Alekséj Ivànovitch, Alekséj Ivànovitch, da' qualcosa a questo mendicante!" Per la strada passava uno straccione con la schiena curva, e ci guardava.
"Quello, forse, non è neppure un mendicante, nonna, ma solo un poco di buono qualsiasi..." "Ma su, su... dagli un gulden!" Mi avvicinai e glielo diedi. Egli mi guardò con una strana perplessità, tuttavia prese il gulden in silenzio. Puzzava di vino.
"E tu, Alekséj Ivànovitch, non hai ancora tentato la sorte?" "No, nonna." "Eppure ti brillavano gli occhi... l'ho visto." "Ma in seguito tenterò sicuramente, nonna!" "E punta subito sullo zero! Vedrai... A quanto ammonta il tuo capitale?" "Venti federici in tutto, nonna!" "Poco. Ti impresterò, se vuoi, cinquanta federici. Ecco questo rotolo, prendilo, ma tu, bàtjushka, non aspettare, a te non ne darò!" disse all'improvviso, rivolta al generale.
Questi si sentì tutto rimescolare, ma non fiatò. De-Grieux fece il viso scuro.
"Que diable, c'est une terrible vieille! (4)" disse tra i denti al generale.
"Un mendicante, un mendicante, di nuovo un mendicante!" gridò la nonna. "Alekséj Ivànovitch, da' anche a lui un gulden." Questa volta c'eravamo imbattuti in un vecchio canuto, con una gamba di legno, che indossava una specie di soprabito a lunghe falde di color turchino e aveva un bastone in mano. Sembrava un vecchio soldato. Ma quando gli porsi un gulden, fece un passo indietro e mi guardò con aria minacciosa.
"Was ist's der Teufel (5)" gridò, aggiungendovi una decina di insulti.
"Che razza di imbecille!" esclamò la nonna, agitando una mano.
"Portatemi oltre! Mi è venuta fame! Ora si mangerà subito, poi mi riposerò un po' e poi di nuovo là!" "Volete giocare ancora, nonna?" gridai.
"E che cosa credevi? Che se voi state qui a inacidire io debba restare a guardarvi?" "Mais, madame..." si avvicinò De-Grieux, "les chances peuvent tourner, une seule mauvaise chance et vous perdrez tout... Surtout avec votre jeu... c'était terrible! (6)" "Vous perdrez absolument (7)" cinguettò mademoiselle Blanche.
"E a voi che importa? Non perdo mica del vostro... perdo del mio!
e dov'è quel mister Astley?" mi chiese.
"E' rimasto al Casinò, nonna." "Peccato; è una persona tanto simpatica!" Arrivati a casa, la nonna, incontrando sulla scala il capo cameriere, lo chiamò a sé e si vantò della vincita; fece quindi venire Fedòssja, le regalò tre federici e ordinò di servire il pranzo. Fedòssja e Marfa, per tutta la durata del pranzo, si profusero in ringraziamenti davanti a lei.
"Io vi guardavo, màtushka," cinguettava Marfa, "e chiedevo a Potapytch che cosa mai voleva fare la madre nostra. E sul tavolo quanto denaro, quanto denaro. Santi benedetti! In tutta la vita non avevo mai visto tanto denaro, e lì intorno erano seduti soltanto signori. Di dove vengono, chiesi a Potapytch, tutti questi signori? E pensavo: 'Aiutala tu, santa Madre di Dio!' Pregavo per voi, màtushka, mi sentivo mancare il cuore, ecco...
mancare il cuore e tremavo, tremavo tutta! 'Signore, aiutala!' pregavo, e il Signore, ecco, vi ha aiutata! E ancora adesso, màtushka, come tremo, come tremo tutta..." "Alekséj Ivànovitch, dopo pranzo, verso le quattro, preparati, andremo. E adesso, intanto, addio, e non dimenticarti di mandarmi a chiamare un dottorucolo qualsiasi: bisogna pur bere anche le acque. Se no, magari me ne dimentico." Lasciai la nonna quasi inebetito. Cercavo di immaginare quello che sarebbe successo di tutti i nostri e quale piega avrebbe preso la faccenda. Vedevo chiaramente che loro (il generale soprattutto) non erano ancora riusciti a riprendersi neanche dalla prima impressione. Il fatto della comparsa della nonna invece del telegramma che annunciasse la sua morte, aspettato da un'ora all'altra (e quindi anche dell'eredità), aveva tanto scombussolato tutto il sistema dei loro propositi e delle decisioni prese che essi, con autentica perplessità e con una specie di sbalordimento che si era abbattuto su tutti, pensavano alle prossime gesta della nonna alla roulette. E intanto questo secondo avvenimento non era meno importante del primo perché, nonostante la nonna avesse per ben due volte dichiarato che non avrebbe dato denaro al generale, tuttavia, chi sa, non si doveva ancora perdere completamente la speranza. E non la perdeva De-Grieux, interessato in tutte le faccende del generale. Io ero convinto che neppure mademoiselle Blanche, anche lei molto interessata (e sfido io! Si trattava di diventare generalessa e di una cospicua eredità!), non avrebbe perso le speranze e avrebbe usato tutta la seduzione delle sue moine con la nonna, in contrasto con quella ostinata e fiera Polina, incapace di essere affettuosa con chiunque. Ma adesso, adesso che la nonna aveva compiuto simili gesta alla roulette, adesso che la personalità della vecchia si era rivelata loro in modo così tipico ed evidente (una vecchia bisbetica, ambiziosa e "tombée en enfance"), adesso, sì, forse tutto era perduto; contenta come un bambino di aver trovato qualcosa su cui gettarsi e per cui darsi da fare, si sarebbe rovinata. Mio Dio, pensavo (perdonami, Signore), con il più maligno dei miei sorrisi, ogni federico che la nonna ha puntato poco fa è stata una ferita nel cuore del generale, ha mandato in bestia De-Grieux e ha fatto infuriare mademoiselle de Cominges, che si vedeva passare davanti alla bocca il cucchiaio pieno. Ed ecco un'altra circostanza: anche dopo la vincita, quando la nonna per la gioia distribuiva denaro a tutti e scambiava ogni passante per un mendicante, anche in quei momenti le era sfuggito contro il generale: "Ma a te, del resto, denaro, non ne darò!" Questo significava che si era fissata su quel pensiero, che vi si era intestardita e l'aveva giurato a se stessa; era molto, molto pericoloso!
Queste considerazioni passavano per la mia testa mentre salivo dall'appartamento della nonna, per lo scalone, all'ultimo piano dov'era la mia cameretta. Tutto ciò occupava vivamente il mio pensiero; sebbene, com'è logico, potessi già prima indovinare quali erano i fili più evidenti e importanti che legavano davanti a me gli attori, tuttavia non conoscevo in modo definitivo le pieghe e i segreti del gioco. Polina non era mai stata con me pienamente fiduciosa. Se pure capitava, a dire il vero, che a volte mi aprisse quasi involontariamente il suo cuore, avevo osservato che spesso, anzi quasi sempre, dopo queste confidenze, o volgeva in riso tutto quello che era stato detto, o lo ingarbugliava e, con intenzione, dava a tutto un falso aspetto.
Oh, molte cose lei nascondeva! In ogni caso io sentivo che stava avvicinandosi il finale di quella situazione tesa e misteriosa.
Ancora un altro colpo, e tutto si sarebbe concluso e chiarito.
Della mia sorte, benché interessato com'ero a tutto questo, non mi preoccupavo quasi per niente. Che strano stato d'animo il mio: in tasca ho venti federici, sono lontano, in un paese straniero, senza un posto e senza mezzi di sostentamento, senza speranze, senza progetti e non me ne preoccupo! Se non fosse il pensiero di Polina, mi abbandonerei del tutto al prossimo, comico scioglimento, e ci riderei su di gusto. Ma Polina mi turba; la sua sorte si sta decidendo, questo l'ho preavvertito ma, lo confesso, non è affatto la sua sorte che mi inquieta. Ho voglia di penetrare i suoi segreti, vorrei che lei venisse da me a dirmi: "Ma io ti amo!" e se no, se questa follia non è neppure pensabile, allora...
che cosa mai mi resta da desiderare? So forse io quello che desidero? Sono io stesso come smarrito; vorrei soltanto essere vicino a lei, nella sua aureola, nella sua luce, in eterno, per sempre, per tutta la vita. Oltre a questo, non so niente! Ma posso forse allontanarmi da lei?
Al terzo piano, nel loro corridoio, sentii come un urto. Mi voltai e, a venti passi o poco più, vidi Polina che usciva da una porta.
Sembrava che mi avesse aspettato e spiato; subito mi chiamò a sé.
"Polina Aleksàndrovna!" "Più piano!" mormorò.
"Figuratevi," le dissi in un bisbiglio, "che poco fa ho sentito come un urto al fianco... Mi volto... e vedo voi! come se da voi emanasse un fluido elettrico!" "Prendete questa lettera!" disse Polina con fare preoccupato e con il viso accigliato, certamente senza avere sentito quello che le avevo detto, "e consegnatela personalmente a mister Astley, subito. Il più presto possibile, vi prego. Non serve risposta. Lui stesso..." Non finì la frase.
"A mister Astley?" chiesi con stupore.
Ma Polina era già scomparsa dietro la porta.
"Ah! Sono dunque in corrispondenza!" pensai. Corsi subito a cercare mister Astley prima nel suo albergo, dove non lo trovai, poi al Casinò dove percorsi invano tutte le sale, infine, stizzito e quasi in preda alla disperazione, lo incontrai, mentre rientravo, a cavallo tra un gruppo di signori e dame inglesi. Lo chiamai con un cenno, egli si fermò, e io gli consegnai la lettera. Non facemmo in tempo nemmeno a scambiarci un'occhiata. Ma io sospetto che mister Astley abbia a bella posta prontamente fatto partire il cavallo.
Mi tormentava forse la gelosia? Ma io ero in uno stato d'animo abbattutissimo. Non volevo neppure sapere che cosa si scrivessero.
Dunque, era il suo uomo di fiducia! "Amico, certo, lo è" pensavo, "questo è evidente (ma quando ha fatto in tempo a diventarlo?), ma c'è poi amore, lì? Certo che no", mi sussurrava la ragione. Ma si sa che in simili casi la ragione da sola non basta. In ogni caso c'era da chiarire anche questo. La faccenda andava complicandosi spiacevolmente.
Non ebbi tempo di entrare nell'albergo che il portiere e il capo cameriere, uscito dalla sua stanza, mi avvertirono che mi cercavano e che già ben tre volte avevano mandato a chiedere dov'ero; e mi si pregava di andare al più presto nell'appartamento del generale. Ero di pessimo umore. Nello studio del generale trovai, oltre a lui, naturalmente De-Grieux e mademoiselle Blanche, sola, senza la madre. La madre era decisamente una comparsa che si usava soltanto per figura; ma quando si trattava di un affare vero e proprio, allora mademoiselle Blanche agiva da sola. E chi sa poi se quell'altra sapeva qualcosa degli affari della sua sedicente figliola!
Essi, i tre, discutevano con calore su non so che cosa, e persino la porta dello studio era stata chiusa, il che non succedeva mai.
Avvicinandomi alla porta, sentii delle voci concitate: la parlata insolente e maligna di De-Grieux, le grida insultanti e furibonde di Blanche e la voce piagnucolosa del generale, che evidentemente si giustificava di qualche accusa. Al mio apparire tutti e tre sembrarono frenarsi e assumere un contegno diverso. De-Grieux si lisciò i capelli e mutò il viso irato in un viso sorridente, di quel brutto sorriso francese, ufficialmente amabile, che io odio tanto. Il generale, abbattuto e smarrito, cercò di assumere un aspetto dignitoso, ma come meccanicamente. La sola mademoiselle Blanche non aveva quasi mutato il suo aspetto che sprizzava sdegno e si limitò a tacere, puntando su di me uno sguardo di impaziente attesa. Noterò che lei si era, fino a quel momento, comportata con me con una noncuranza inverosimile all'eccesso, non rispondendo addirittura ai miei saluti: semplicemente non mi notava.
"Alekséj Ivànovitch" cominciò a dire il generale in tono di affettuoso rimprovero, "permettetemi di farvi osservare che è strana, straordinariamente strana... in una parola, la vostra condotta verso di me e la mia famiglia... in una parola è straordinariamente strana!" "Eh! ce n'est pas ça! (8)" interruppe De-Grieux in tono di stizza e di disprezzo. (Decisamente egli dirigeva tutto!) "Mon cher monsieur, notre cher général se trompe (9), assumendo un simile tono" (continuò il suo discorso in russo) "ma egli voleva dirvi...
cioè avvertirvi o, meglio ancora, pregarvi vivamente di non rovinarlo... sì, di non rovinarlo! Uso proprio quest'espressione..." "Ma in che modo, in che modo?" lo interruppi.
"Scusate, voi vi incaricate di far da guida (o come dovrei dire?) a quella vecchia, cette pauvre, terrible vieille," continuò De- Grieux confondendosi anche lui, "ma quella perderà tutto, si rovinerà completamente! Avete visto anche voi, siete stato spettatore del suo modo di giocare! Se comincerà a perdere, non si allontanerà più da quel tavolo per ostinazione, per rabbia, e giocherà tutto, giocherà tutto... e in simili casi non è più possibile rifarsi, e allora... allora..." "E allora," intervenne il generale, "allora voi avrete rovinato tutta la famiglia! Io e la mia famiglia siamo i suoi eredi; non ha parenti più stretti. Vi dirò francamente: i miei affari sono malandati, molto malandati. Voi stesso in parte lo sapete... Se lei perderà una somma considerevole, o magari anche tutto il suo patrimonio (oh Dio!), che sarà allora di noi, dei miei bambini?" Il generale si girò a guardare De-Grieux. "E di me!" (A questo punto diede un'occhiata a mademoiselle Blanche che con aria sprezzante si girò dall'altra parte.) "Alekséj Ivànovitch, salvateci, salvateci!" "Ma come, generale, come posso... Che cosa conto io, qui?" "Rifiutate, rifiutate di accompagnarla!" "E allora troverà un altro!" esclamai io.
"Ce n'est pas ça, ce n'est pas ça" interruppe di nuovo De-Grieux, "que diable! No, non lasciatela, ma almeno consigliatela, esortatela, distraetela... E, infine, non permettete che perda troppo, cercate di allontanarla in qualche modo..." "Ma come farò? Se ve ne incaricaste voi, monsieur De-Grieux" lo interruppi con l'aria più ingenua possibile.
A questo punto notai uno sguardo rapido, infuocato e interrogativo di mademoiselle Blanche a De-Grieux. Sul viso di De-Grieux balenò qualcosa di sincero che egli non era riuscito a nascondere.
"Ma il fatto è proprio questo, che lei adesso non mi vorrebbe!" gridò gesticolando De-Grieux. "Se... poi..." De-Grieux lanciò un rapido e significativo sguardo a mademoiselle Blanche.
"O mon cher monsieur Alexis, soyez si bon...(10)" disse con un affascinante sorriso mademoiselle Blanche in persona, facendo un passo verso di me, afferrandomi entrambe le mani e stringendomele forte. Il diavolo mi porti! Quel viso diabolico sapeva trasformarsi in un attimo. In quell'istante esso prese un'espressione supplichevole dolcissima, infantilmente sorridente e persino birichina; verso la fine della frase essa mi strizzò furbescamente un occhio, di nascosto a tutti; voleva forse confondermi in un colpo solo? E la cosa non le riuscì neppure male, a parte il fatto che era tremendamente volgare.
Dopo di lei, saltò su il generale, proprio saltò su:
"Alekséj Ivànovitch, perdonate se poco fa ho cominciato a parlare così con voi... ma non volevo affatto dire quello... Io vi prego, vi supplico, mi inchino davanti a voi, alla russa: voi solo, voi solo potete salvarci! Io e mademoiselle de Cominges vi supplichiamo... voi capite, vero, voi capite?" implorava, indicandomi con lo sguardo mademoiselle Blanche. Faceva veramente pena.
In quel momento risuonarono tre colpi leggeri e rispettosi alla porta; fu aperto; aveva bussato il cameriere del piano e dietro di lui, a qualche passo, stava Potapytch. Li aveva mandati la nonna, con l'ordine di trovarmi e farmi andare immediatamente da lei; "E' arrabbiata" cominciò Potapytch.
"Ma sono soltanto le tre e mezzo!" "Non ha potuto nemmeno dormire, ha continuato a rigirarsi di qua e di là; poi di colpo si è alzata, ha chiesto la poltrona e mi ha mandato a chiamarvi. Adesso è sulla scala..." "Quelle mégère (11)" gridò De-Grieux.
In realtà trovai la nonna già sulla scala, fuori di sé dall'impazienza perché io non c'ero ancora. Non aveva resistito fino alle quattro.
"Su, alzatemi!" gridò, e ci avviammo di nuovo alla roulette.
NOTE:
12.
La nonna era in uno stato d'animo impaziente e irritato, si capiva che la roulette le stava fissa in mente. A tutto il resto era indifferente e, in generale, molto distratta. Lungo la strada, per esempio, non mi rivolse nessuna domanda. Solo alla vista di una lussuosa carrozza che era passata accanto a noi come un turbine, alzò una mano e chiese: "Che cos'è? Di chi sono i cavalli?" ma credo che non abbia nemmeno sentito la mia risposta; il suo fantasticare era continuamente interrotto da rapidi movimenti del corpo e da brusche e impazienti uscite. Quando, ormai già vicini al Casinò, le indicai da lontano il barone e la baronessa Wurmerhelm, lei li guardò distrattamente e, con assoluta indifferenza, disse: "Ah!" e, giratasi rapidamente verso Potapytch e Marfa che venivano dietro, brontolò:
"Be', perché vi siete appiccicati a me? Non posso portarvi ogni volta! Tornate a casa! Mi basti anche tu" aggiunse rivolta a me, quando quelli, dopo essersi frettolosamente inchinati, si avviarono verso casa.
Al Casinò la nonna era ormai attesa. Le fu subito liberato lo stesso posto dell'altra volta, vicino al croupier. Mi sembra che questi croupiers, sempre così composti e con l'aria di comuni impiegati ai quali è quasi perfettamente indifferente che il banco vinca o perda, non lo siano poi completamente e che, senza dubbio, siano forniti di istruzioni appropriate per attirare i giocatori e per meglio controllare l'interesse dello stato: per la qual cosa, naturalmente, ricevono ricompense e premi. Per lo meno, la nonna era già considerata una vittima. Poi, quello che i nostri supponevano, successe.
Ecco come andò.
La nonna si buttò difilato sullo zero e ordinò di puntare subito dodici federici alla volta. Puntammo, una, due, tre volte: lo zero non usciva.
"Punta, punta!" mi diceva con impazienza, dandomi degli spintoni.
Io ubbidivo.
"Quante volte abbiamo già puntato?" chiese infine, facendo scricchiolare i denti dall'impazienza.
"Abbiamo fatto la dodicesima, nonna, e perduto già centoquarantaquattro federici. Vi ripeto, nonna, che magari fino a questa sera..." "Taci!" mi interruppe la vecchia. "Punta sullo zero e metti sul rosso mille fiorini. To', ecco il denaro." Uscì il rosso, e lo zero fece cilecca. Ci restituirono mille fiorini.
"Vedi, vedi!" bisbigliava la nonna. "Ci hanno ridato quasi tutto quello che abbiamo puntato. Punta di nuovo sullo zero: punteremo ancora una decina di volte e poi lasceremo stare." Ma alla quinta volta la nonna si era già stufata.
"Manda al diavolo quello schifoso zeruccio. Su, punta tutti i quattromila fiorini sul rosso" mi ordinò.
"Nonna! Sarà troppo... e se il rosso non esce?" le dissi quasi supplicando. Poco mancò che non mi picchiasse. (E, del resto, mi dava tali spintoni che era quasi come se mi battesse.) Non c'era niente da fare: puntai sul rosso tutti i quattromila fiorini vinti poco prima. La ruota cominciò a girare. La nonna sedeva calma e si era alzata con fierezza, senza il minimo dubbio sulla vittoria.
"Zero!" esclamò il croupier.
All'inizio la nonna non capì ma, quando vide che il croupier rastrellava i suoi quattromila gulden insieme con tutto quello che c'era sul tavolo e seppe che lo zero, che così a lungo non era uscito e sul quale avevamo puntato quasi duecento federici, era saltato fuori quasi a bella posta non appena lei l'aveva ingiuriato e abbandonato, mandò un "ah!" e batté le mani così forte che l'udirono per tutta la sala. Qualcuno, lì attorno, si mise a ridere.
"Santi benedetti! Proprio quel dannato è saltato fuori!" urlò la nonna. "Dannato d'un dannato! Sei tu! Sei proprio tu!" urlò, scagliandosi contro di me, e scotendomi. "Sei tu che mi hai dissuasa!" "Nonna, io vi ho detto come stavano le cose; ma come posso rispondere di tutte le probabilità?" "Te le darò io le probabilità!" sussurrò minacciosamente. "Vattene via!" "Addio, nonna!" e mi girai per andarmene.
"Alekséj Ivànovitch! Alekséj Ivànovitch, rimani! Dove vai? Su, ma perché, perché? Guarda un po'... si è arrabbiato! Scemo! Sta' qui, vieni, sta' qui, non arrabbiarti, sono io una sciocca! Su! Dimmi che cosa bisogna fare adesso!" "Io, nonna, non vi do più nessun consiglio, perché poi date la colpa a me. Giocate come vi pare: ordinate, e io punterò." "Su, su! Su, punta ancora quattromila gulden sul rosso! Ecco il portafogli, prendi!" Tirò fuori il portafogli dalla tasca e me lo porse. "Su, presto, prendi, ci sono ventimila rubli in contanti." "Nonna..." balbettai, "una puntata così..." "Voglio morire, se non mi rifaccio. Punta!" Puntammo e perdemmo.
"Punta, punta, puntali tutti ottomila!" "Non si può nonna, la puntata più alta è di quattro..." "E allora puntane quattro!" Questa volta vincemmo. La nonna riprese animo.
"Vedi, vedi!" mi disse, dandomi uno spintone. "Puntane di nuovo quattro!" Puntammo e perdemmo; poi perdemmo ancora, e ancora.
"Nonna, tutti i dodicimila se ne sono andati!" riferii.
"Lo vedo che se ne sono andati tutti," disse con una specie di furore tranquillo, se così ci si può esprimere, "vedo, bàtjushka, vedo," borbottava, guardando davanti a sé, immobile e come pensierosa, "eh! voglio morire, ma punta ancora quattromila gulden." "Ma non c'è più denaro, nonna: qui nel portafogli ci sono le nostre cartelle al cinque per cento e delle lettere di cambio, ma niente denaro." "E nel borsellino?" "Soltanto alcuni spiccioli, nonna." "Non c'è qui un cambiavalute? Mi hanno detto che i nostri valori si possono cambiare, no?" mi domandò in tono deciso.
"Oh sì, quanto si vuole! Ma nel cambio perderete tanto che persino un ebreo si spaventerebbe!" "Sciocchezze! Avrò la rivincita! Accompagnami. Chiamate subito quegli scemi!" Spinsi la poltrona, vennero i portatori e uscimmo dal Casinò.
"Presto, presto, presto!" ordinava la nonna. "Mostragli la strada, Alekséj Ivànovitch... prendi la via più breve. E' lontano?" "Due passi, nonna." Ma alla svolta dal piazzale sul viale incontrammo parte della nostra compagnia: il generale, De-Grieux e mademoiselle Blanche con la mamma. Polina Aleksàndrovna non era con loro e mister Astley neppure.
"Su, su, su! Senza fermarsi!" gridava la nonna. "Che cosa fate qui? Non ho tempo di stare qui con voi!" Io camminavo dietro; De-Grieux corse da me.
"Ha perduto appena adesso tutto quello che aveva vinto e ci ha rimesso dodicimila fiorini dei suoi. Ora andiamo a cambiare dei titoli al cinque per cento" gli sussurrai in fretta.
De-Grieux batté il piede in terra e si precipitò a comunicare ogni cosa al generale. Noi continuammo a spingere la nonna.
"Fermatela, fermatela!" mi sussurrò il generale, furioso.
"Provate un po' voi a fermarla..." gli dissi piano.
"Zietta!" si avvicinò il generale, "zietta... noi ora... noi ora..." e la voce gli tremava e gli veniva meno; "noleggeremo dei cavalli e andremo fuori città... C'è una vista stupenda... la 'pointe...' venivamo a invitarvi." "Va' a farti benedire con la tua 'puànt'!" esclamò la nonna, allontanandolo con un gesto irritato della mano.
"Là c'è un villaggio... prenderemo il tè..." continuò il generale, ormai in preda alla disperazione.
"Nous boirons du lait sur l'herbe fraîche (1)" aggiunse De-Grieux con un odio furioso.
"Du lait, de l'herbe fraîche", ecco in che cosa consiste l'ideale idillico del borghese parigino; in questo, com'è noto, sta il suo modo di vedere "la nature et la vérité"!
"Va' a quel paese con il tuo latte! Bevitelo tu, che a me ha fatto venire il mal di pancia. Ma perché vi siete appiccicati così?" gridò la nonna. "Vi ho detto che non ho tempo!" "Siamo arrivati, nonna!" esclamai. "E' qui." La spingemmo davanti a una casa dove si trovava l'ufficio di un banchiere. Andai a cambiare; la nonna rimase in attesa davanti all'ingresso; De-Grieux, il generale e Blanche stavano in disparte, non sapendo che cosa fare. La nonna li guardò irosamente, ed essi presero la strada per il Casinò.
Mi proposero un cambio così svantaggioso che non ebbi il coraggio di eseguire l'operazione e tornai dalla nonna a chiedere istruzioni.
"Ah, briganti!" si mise a gridare, battendo le mani. "Ma non importa, cambia lo stesso!" mi ordinò in tono deciso. "No...
aspetta, chiamami il banchiere." "Forse qualcuno degli impiegati, nonna?" "Sì, anche un impiegato, è indifferente. Ah, che briganti!" Uno degli impiegati acconsentì a uscire, dopo aver saputo che chi lo pregava era una vecchia contessa inferma che non poteva camminare. La nonna per un bel pezzo, a voce alta e adirata, gli rinfacciò la sua furfanteria e mercanteggiò con lui in un misto di russo, francese e tedesco, mentre io la aiutavo a tradurre.
L'impiegato ci guardava con espressione seria e scuoteva la testa in silenzio. Egli fissava la nonna con una curiosità così insistente che rasentava la scortesia; infine prese a sorridere.
"Be', vattene!" gridò la nonna. "Che i miei quattrini ti restino in gola! Cambia qui, Alekséj Ivànovitch, non abbiamo tempo, se no si potrebbe andare da un altro..." "L'impiegato dice che gli altri danno ancora meno." Non ricordo con precisione il conteggio di allora, ma fu spaventoso. Cambiai circa dodicimila fiorini in oro e in biglietti, presi il conto e lo portai alla nonna.
"Su, su, su... E' inutile star lì a fare conti!" esclamò, agitando le mani. "Presto, presto, presto!" "Non punterò mai più su quel maledetto zero e neppure sul rosso" dichiarò, mentre ci avvicinavamo al Casinò.
Questa volta provai con tutte le mie forze a convincerla a puntare il meno possibile, assicurandola che, se la fortuna avesse cambiato giro, avremmo sempre avuto il tempo di puntare una grossa cifra. Ma lei era così impaziente che, sebbene sulle prime fosse stata d'accordo, non fu più possibile frenarla durante il giuoco.
Aveva appena cominciato a vincere puntate di dieci, venti federici che già aveva ripreso a darmi degli spintoni dicendo:
"Su, su... ecco! Su, ecco! Ecco che abbiamo vinto; se ci fosse stato un quattro al posto del dieci, avremmo preso quattromila gulden, e adesso? Sempre tu, sempre tu!" E, per quanto mi irritassi guardando il suo gioco, decisi alla fine di tacere e di non darle più consigli.
All'improvviso accorse De-Grieux. Erano tutti e tre vicini; notai che mademoiselle Blanche stava un po' in disparte con la mamma e faceva moine al principe. Il generale era evidentemente in disgrazia, quasi messo al bando. Blanche non voleva nemmeno guardarlo, sebbene egli la riempisse di cortesie. Povero generale!
Impallidiva, arrossiva, trepidava e quasi non seguiva neppure il gioco della nonna. Blanche e il principotto alla fine se ne andarono; il generale li seguì.
"Madame, madame" sussurrava con voce melata De-Grieux alla nonna, spingendosi avanti fino al suo orecchio. "Madame, questa puntata non va... no, no... non è possibile..." diceva in un russo storpiato. "No!" "E come, allora? Su, insegnamelo!" esclamò la nonna, rivolgendosi a lui. De-Grieux improvvisamente si mise a parlare in fretta in fretta in francese, cominciò a dare consigli, ad affannarsi, a dire che bisognava aspettare la buona sorte, a fare conteggi di non so quali cifre... La nonna non ci capiva niente. Egli si rivolgeva continuamente a me perché io traducessi; puntava il dito sul tavolo, indicava e infine, afferrata la matita, già stava per iniziare a far dei conti su un foglietto, quando la nonna perse la pazienza.
"Su, vattene, vattene! Non dici che sciocchezze! Madame, madame, e tu stesso non capisci niente. Vattene!" "Mais, madame" cinguettò De-Grieux, riprendendo a ragionare e a spiegare. Era veramente molto preoccupato.
"Su, punta una volta come dice lui" mi ordinò la nonna, "e vedremo: forse uscirà davvero." De-Grieux voleva soltanto dissuaderla dalle grosse puntate; proponeva di puntare sui numeri, singoli e a gruppi. Puntai, secondo la sua indicazione, un federico su ciascun numero della serie dispari, compresi tra i primi dodici, e cinque federici su ciascuno dei gruppi di cifre comprese tra il dodici e il diciotto e il ventiquattro; in tutto sedici federici.
La ruota prese a girare.
"Zero" proclamò il croupier.
Avevamo perso tutto.
"Che imbecille!" gridò la nonna, rivolgendosi a De-Grieux. "Che razza di indegno francesuccio sei! E dà anche consigli, quel mostro! Vattene, vattene! Non capisce niente e vuole ficcare il suo naso..." Terribilmente offeso, De-Grieux alzò le spalle, guardò con aria sprezzante la nonna e si allontanò. Cominciava egli stesso a vergognarsi di essersi impicciato in quella faccenda; era stato troppo impaziente.
Nello spazio di un'ora, per quanto ci battessimo, avevamo perduto tutto.
"A casa!" gridò la nonna.
Non pronunciò più una parola fino al viale. Nel viale, quando già ci avvicinavamo all'albergo, cominciò a lasciarsi sfuggire una serie di esclamazioni.
"Che sciocca! Che scioccona! Sei proprio una stupida, stupidissima vecchia!" Non appena fummo entrati nell'appartamento gridò:
"Portatemi il tè, e preparate subito i bagagli. Partiamo!" "Dove volete andare màtushka?" chiese Marfa.
"E a te che importa? Il grillo stia tranquillo nel suo buco!
Potapytch, raccogli tutto, prepara il bagaglio. Torniamo a Mosca!
Quindicimila rubli d'argento mi sono giocata!" "Quindicimila rubli, màtushka? Oh, mio Dio!" gridò Potapytch, unendo con aria contrita le mani e credendo, probabilmente, di rendersi gradito con quel gesto.
"Su, su, stupido! Mettiti anche a piagnucolare, adesso! Taci!
Preparatevi! Il conto, presto, il conto!" "Il prossimo treno parte alle nove e mezzo, nonna" la informai per arrestare la sua frenesia.
"E adesso che ore sono?" "Le sette e mezzo." "Che rabbia! Ma non importa! Alekséj Ivànovitch, non ho più nemmeno una copeca. Eccoti ancora due obbligazioni, corri laggiù e cambiami anche queste. Altrimenti non so con che cosa partire." Mi avviai. Dopo mezz'ora, rientrato all'albergo, trovai i nostri dalla nonna. La notizia che essa stava per partire per Mosca li aveva colpiti, a quanto pare, ancora di più delle sue perdite al giuoco. E' vero che con la partenza si salvava il suo patrimonio, ma che sarebbe ora successo al generale? Chi avrebbe pagato De- Grieux? Mademoiselle Blanche, si capisce, non avrebbe aspettato che morisse la nonna ma, senza dubbio, avrebbe tagliato la corda con il piccolo principe o con qualcun altro. Erano tutti intorno a lei, la consolavano e cercavano di dissuaderla. Polina, anche questa volta, non c'era. La nonna imprecava furiosamente contro tutti.
"Toglietevi dai piedi, diavoli! A voi che importa? Perché, barba di caprone, ti intrufoli qui?" gridava la nonna a De-Grieux. "E tu, donnetta, che vuoi?" disse a mademoiselle Blanche, "perché mi giri intorno?" "Diantre!" mormorò mademoiselle Blanche con gli occhi scintillanti di ira ma, di colpo, scoppiò in una risata e uscì.
"Elle vivra cent ans!" gridò, mentre varcava la soglia, al generale.
"Ah, dunque, tu fai conto sulla mia morte?" urlò la nonna al generale. "Vattene! Cacciali fuori tutti, Alekséj Ivànovitch! Che importa a voi? Mi sono mangiata il mio, non il vostro!" Il generale si strinse nelle spalle, si curvò e uscì. De-Grieux lo seguì.
"Chiamare subito Praskòvja!" ordinò la nonna a Marfa.
Dopo cinque minuti Marfa tornò con Polina. In tutto questo tempo Polina era rimasta in camera sua con i bambini e sembra che, a bella posta, avesse deciso di non uscirne per tutto il giorno.
Aveva un viso serio, triste e preoccupato.
"Praskòvja," cominciò a dire la nonna, "è vero ciò che ho saputo indirettamente poco fa, che quell'imbecille del tuo patrigno vuole sposare quella sciocca farfallina d'una francese, quell'attrice o peggio ancora? Dimmi, è vero?" "Di sicuro non lo so, nonna," rispose Polina, "ma, a quanto dice la stessa mademoiselle Blanche che non ritiene necessario nasconderlo, concludo che..." "Basta!" la interruppe la nonna energicamente. "Capisco tutto! Ho sempre creduto che da lui c'era da aspettarselo, l'ho sempre considerato l'uomo più vuoto e più leggero del mondo. Si dà tante arie perché è generale (era colonnello e è stato promosso quando era già in pensione) e si crede chi sa chi. Io, mia cara, so tutto, so che mandavate a Mosca un telegramma dopo l'altro:
'Tirerà presto le cuoia, quella vecchia nonna?' Aspettavate l'eredità; senza denaro quella vigliacca donnetta... come si chiama? de Cominges o non so come... non lo prenderebbe neanche come lacchè, e per di più con i denti finti. Dicono che lei abbia un mucchio di denaro, lo presta a interesse, denaro ammucchiato onestamente. Io, Praskòvja, non accuso te; non sei stata tu a mandare i telegrammi; e il passato non voglio ricordarlo. So che tu hai un caratterino di quelli... una vespa! Se pungi, dove pungi gonfia, ma mi fai pena perché alla buon'anima di Katerina, tua madre, io volevo bene. Vuoi? Pianta qui tutti e parti con me.
Ecco, qui non hai dove ficcarti e che tu resti qui con lui non sta bene. Aspetta!" continuò la nonna, interrompendo Polina che già stava per rispondere, "non ho ancora finito. Da te non pretenderò niente. La mia casa a Mosca, tu lo sai, è un palazzo; tu potresti occupare un piano intero e non scendere da me per delle settimane, se il mio carattere non ti va a genio. Su, vuoi, oppure no?" "Permettete che prima vi chieda se volete davvero partire subito." "Scherzo io forse, màtushka? L'ho detto, e partirò. Oggi ho speso quindicimila rubli, alla vostra stramaledetta roulette. Nei dintorni di Mosca, cinque anni fa, ho fatto promessa di ricostruire in pietra la chiesa di legno e adesso qui ho sperperato tutto. Ora, màtushka, andrò a ricostruire la chiesa." "E le acque, nonna? Eravate venuta per la cura delle acque, vero?" "Ma smettila con le tue acque! Non farmi irritare, Praskòvja: lo fai apposta, vieni o no?" "Vi sono molto, molto grata, nonna," disse Polina, commossa, "per il rifugio che mi offrite. Avete in parte indovinato la mia situazione. Vi sono così grata che, credetemi, verrò da voi, e forse anche presto; ma ora ci sono dei motivi... importanti... e non posso prendere una decisione così su due piedi. Se voi foste rimasta almeno due settimane..." "Sicché, non vuoi?" "Sicché, non posso. E non posso, in ogni caso, lasciar qui fratello e sorella perché... perché può effettivamente succedere che restino abbandonati... Allora, se mi prenderete con i piccoli, nonna, verrò certamente da voi e, credetemi, saprò meritarmelo!" aggiunse con calore. "Ma senza i bambini è impossibile, nonna!" "Su, non piagnucolare!" (Polina non ci pensava neppure di piagnucolare e poi lei non piangeva mai!) "Anche per i pulcini si troverà un posto: il pollaio è grande. E poi è ora che vadano a scuola. Dunque, adesso non vuoi partire? Ebbene, Praskòvja, guarda! Io vorrei il tuo bene; ma, vedi, lo so perché non parti.
Io so tutto, Praskòvja! Non ti porterà a niente di buono, quel francesuccio." Polina si fece di fiamma. Io sussultai. (Lo sanno tutti! Io solo, dunque, non so niente!) "Su, su... non accigliarti. Non starò a tirarla tanto in lungo...
Bada soltanto che non succeda qualche guaio, capisci? Tu sei una ragazza intelligente; mi dispiacerebbe per te. Ma adesso basta, non vorrei più avervi qui davanti! Va', addio!" "Io, nonna, vi accompagnerò ancora" disse Polina.
"Non serve, non disturbarti; e poi mi siete venuti tutti a noia." Polina baciò la mano alla nonna, ma quella la ritirò e baciò la fanciulla sulla guancia.
Passandomi vicino, Polina mi lanciò un rapido sguardo, ma subito distolse gli occhi. "Suvvia, addio anche a te, Alekséj Ivànovitch!
Manca solo più un'ora alla partenza. Anche tu ti sarai stancato di stare con me penso. Tieni, prendi questi cinquanta federici." "Vi ringrazio umilmente, nonna, ma mi vergogno..." "Su, su!" gridò la nonna in tono così energico che non osai protestare e accettai.
"A Mosca, quando correrai di qua e di là senza posto, vieni da me; ti raccomanderò a qualcuno. Su, vattene!" Mi ritirai in camera mia e mi stesi sul letto. Credo di essere rimasto per una mezz'ora supino, con le mani intrecciate dietro la testa. La catastrofe ormai era scoppiata, c'era di che preoccuparsi. Decisi che l'indomani avrei parlato seriamente a Polina. Ah! Il francesuccio? Dunque, era vero! Ma che cosa poteva esserci, però? Polina e De-Grieux! Mio Dio, che confronto!
Tutto questo era semplicemente incredibile. Balzai d'un tratto dal letto, fuori di me, per andare subito a cercare mister Astley e costringerlo, a qualsiasi costo, a parlare. Egli, senza dubbio ne sapeva più di me. Mister Astley? Ecco un altro mistero per me!
Ma, improvvisamente, sentii bussare alla mia porta. Guardo: è Potapytch.
"Bàtjushka, Alekséj Ivànovitch, la signora vi vuole!" "Che c'è? Parte, no? Al treno mancano ancora venti minuti." "E' inquieta, bàtjushka, non può star ferma. 'Presto, presto!' ripete, cioè vuole voi, bàtjushka: per amore di Cristo, non indugiate." Mi precipitai giù. La nonna l'avevano già portata nel corridoio.
Nelle mani teneva il portafogli.
"Alekséj Ivànovitch, cammina avanti, andiamo!" "Dove, nonna?" "Voglio morire, se non mi rifarò! Avanti, march, senza tante domande! Là si giuoca sino a mezzanotte, eh?" Ero rimasto di stucco, riflettei, ma presi subito una decisione.
"Come volete, Antonida Vassìlevna, ma io non ci andrò." "E perché? Che significa? Avete tutti le smanie?" "Come credete, ma poi dovrei rimproverare me stesso: non voglio!
Non voglio essere né spettatore, né partecipe. Dispensatemi, Antonida Vassìlevna. Ecco i vostri cinquanta federici: addio!" E, deposto il rotolo dei federici su un tavolino, vicino al quale si trovava la poltrona della nonna, mi inchinai e me ne andai.
"Che assurdità!" mi gridò alle spalle la nonna. "Non venire, pazienza: troverò la strada da sola; Potapytch, vieni con me! Su, sollevate la poltrona, portatemi!" Non trovai mister Astley e tornai a casa. Sul tardi, già dopo la mezzanotte, seppi da Potapytch come si era conclusa la giornata della nonna. Aveva perduto tutto quanto avevo poco prima cambiato, cioè, in moneta nostra, ancora diecimila rubli. Le si era di nuovo appiccicato quel piccolo polacchino al quale aveva dato prima due federici, e l'aveva guidata durante tutto il gioco. All'inizio, prima del polacchino, stava già per far puntare Potapytch ma ben presto l'aveva mandato via; e proprio allora si era precipitato il polacchino. Come a farlo apposta, egli capiva il russo e persino, alla bell'e meglio, lo parlava, in un misto di tre lingue, cosicché riuscivano quasi a capirsi a vicenda. La nonna per tutto il tempo lo insolentì senza pietà e, sebbene quello non facesse che "strisciare ai piedini della pani" tuttavia "non si poteva certo confrontarlo con voi, Alekséj Ivànovitch" raccontava Potapytch. "Voi vi trattava proprio come un signore, e quello...
quello l'ho visto io, con i miei occhi, Dio mi fulmini se mento, le rubava il denaro dal tavolo. Lei stessa lo pescò due volte sul fatto e l'ha insolentito, insolentito con ogni sorta di parolacce, bàtjushka, e una volta, davvero, non dico bugie.... una volta gli tirò persino i capelli tanto che tutt'intorno scoppiò una risata.
Tutto, bàtjushka, ha perduto: tutto ciò che voi le avete cambiato.
Adesso l'abbiamo portata qui, la matushka; soltanto un bicchiere d'acqua ha chiesto, si è fatta il segno della croce e subito è andata a letto. Sarà stata stanca, perché si è addormentata immediatamente. Che Iddio le mandi sogni d'angelo! Oh, questo estero!" concluse Potapytch. "Lo dicevo io, che non portava bene!
Potessimo tornare presto nella nostra Mosca! Che cosa ci manca nella nostra casa a Mosca? Il giardino, dei fiori come qui non se ne vedono, il profumo, i meli pieni di germogli, lo spazio... no:
bisognava venire all'estero! Oh-oh-oh!"
NOTE:
13.
E' passato ormai quasi un mese da quando non ho più toccato queste mie note, iniziate sotto l'influsso di impressioni forti sì, ma disordinate. La catastrofe, la cui imminenza avevo allora previsto, si abbatté realmente, ma cento volte più violenta e inaspettata di quanto io non pensassi. E' stata una cosa strana, scandalosa e addirittura tragica, almeno per me. Mi sono capitati alcuni casi quasi miracolosi; così, almeno, mi sembrano tuttora anche se, a considerarli da un altro punto di vista e, soprattutto, giudicando dal vortice in cui allora mi aggiravo, essi erano forse soltanto non del tutto comuni. Ma per me la cosa più miracolosa è il modo con cui io mi sono comportato in tutti quegli avvenimenti. Non riesco ancora oggi a capire me stesso! E tutto è volato via come un sogno; anche la mia passione - e sì che era intensa e sincera - dove mai è andata a finire? Davvero, a volte mi balena quest'idea: "Ma non sono forse impazzito allora e non sono stato tutto questo tempo in qualche manicomio dove forse mi trovo ancora oggi, così che tutto ciò mi è sembrato e anche adesso mi sembra soltanto?" Ho raccolto e riletto i miei foglietti. (Chi sa, forse per convincermi di non averli scritti in un manicomio?) Ora sono solo soletto. L'autunno si avvicina, le foglie ingialliscono. Me ne sto in questa triste cittadina (oh, come sono tristi le cittadine tedesche!) e, invece di riflettere sul passo che sto per compiere, vivo sotto l'influsso di sensazioni appena spente, di ricordi freschi, sotto l'influsso di tutto il fresco turbine che allora mi ha trascinato in quel vortice e che di nuovo mi ha scagliato fuori, chi sa dove. Mi sembra, ogni tanto, di aggirarmi ancora in quello stesso turbine e che da un momento all'altro si scatenerà un'altra volta la tempesta che mi afferrerà, passandomi accanto, con la sua ala, e io uscirò di nuovo dall'ordine e dal senso della misura e girerò, girerò, girerò...
Del resto, forse mi fermerò in qualche posto e smetterò di girare se darò a me stesso, per quanto possibile, esatto conto di tutto quello che è successo in questo mese. La penna mi attrae di nuovo e spesso, la sera, non so proprio che cosa fare. Strano, pur di occuparmi in qualche modo, prendo nella locale, cattiva biblioteca, i romanzi di Paul de Kock (in traduzione tedesca) che quasi non posso soffrire, ma li leggo, e mi stupisco di me stesso:
è come se avessi paura che un libro serio o qualsiasi seria occupazione potesse spezzare l'incanto di ciò che è appena passato. Mi è proprio così caro quel brutto sogno con tutte le impressioni rimastemi, da temere persino che, sfiorandolo con qualcosa di nuovo debba dissolversi come fumo? Mi è dunque così caro tutto questo? Sì, certamente mi è caro, e forse anche tra quarant'anni lo ricorderò...
E, così mi metto a scrivere. Del resto, tutto si può raccontare ora, in parte, anche più brevemente: le impressioni non sono più quelle...
Per prima cosa, concludiamo il discorso sulla nonna. Il giorno dopo, ella perse tutto, definitivamente. Così doveva accadere:
chi, tra le persone come lei, capita una volta su quella strada, è come se scivolasse in slitta da una china nevosa, sempre più in fretta, sempre più in fretta... Giocò tutto il giorno, fino alle otto di sera; io non fui presente al suo gioco e so soltanto quello che ho sentito dire.
Potapytch rimase di guardia vicino a lei al Casinò per tutta la giornata. I polaccucci che guidavano la nonna si allontanarono più volte durante il giorno. Ella iniziò con lo scacciare il polacco del giorno prima, quello che aveva tirato per i capelli, e ne prese un altro, il quale, però, risultò quasi peggiore del primo.
Scacciato anche questo e ripreso il primo - che non si era allontanato e durante tutto il tempo dell'esilio era rimasto sempre lì dietro la poltrona sporgendo continuamente avanti la testa - si lasciò prendere da vera disperazione. Il secondo polacco scacciato non voleva andarsene neppure lui, a nessun costo; uno si sistemò a destra, l'altro a sinistra. Durante tutto il tempo non fecero che litigare e scambiarsi ingiurie per le puntate e le mosse; si dicevano a vicenda lajdaki (1) e altri complimenti polacchi, poi si riappacificavano, gettavano via il denaro senza alcun ordine, prendevano decisioni a casaccio.
Attaccata di nuovo lite, essi puntavano ognuno dalla propria parte, uno, per esempio, sul rosso e l'altro sul nero. Finì che stordirono e confusero tanto la nonna che lei, quasi con le lacrime agli occhi, si rivolse al "croupier", un vecchietto, pregandolo di difenderla e di scacciarli. Infatti furono subito mandati via, nonostante le loro grida e le loro proteste; strillavano tutti e due insieme, e cercavano di dimostrare che la nonna era in debito verso di loro, che li aveva imbrogliati, che aveva agito nei loro riguardi in modo disonesto e basso.
L'infelice Potapytch mi raccontò tutto questo con le lacrime agli occhi la sera stessa della perdita, e lamentandosi che essi si fossero riempite le tasche di denaro, assicurava di aver visto con i suoi occhi come rubavano senza scrupolo e come ogni minuto si mettevano quattrini in tasca. Se uno, per esempio, otteneva dalla nonna cinque federici per le sue fatiche, subito li puntava alla roulette, vicino alla puntata della nonna. La nonna vinceva e lui gridava che a vincere era stata la sua puntata e che quella della nonna aveva perso. Quando li stavano scacciando, Potapytch si fece avanti e riferì che essi avevano le tasche piene d'oro. La nonna pregò subito il croupier di intervenire e, per quanto i due polaccucci gridassero (come due galli afferrati di sorpresa) arrivò la polizia e subito le loro tasche furono vuotate a vantaggio della nonna. La nonna, fino a che non ebbe perso tutto godette per l'intera giornata, presso i "croupiers" e presso i dirigenti del Casinò, di una palese autorità. A poco a poco la sua fama si era diffusa per la città. Tutti i frequentatori delle terme di tutte le nazioni, quelli comuni e quelli più importanti, accorrevano a vedere "une vieille comtesse russe tombée en enfance" (2) che aveva perduto "parecchi milioni".
Ma la nonna ebbe ben poco vantaggio dal fatto di essere stata liberata dai due polacchi. Al posto loro comparve immediatamente, a offrirle i suoi servigi, un terzo polacco che parlava perfettamente in russo, vestito da gentiluomo sebbene un po' somigliante a un lacchè, con un enorme paio di baffi e pieno di boria. Anch'egli baciò "i piedini della pani", ma verso la gente che era intorno si comportava in modo insolente, impartendo disposizioni in tono dispotico; in una parola, prese immediatamente un atteggiamento non da servo, ma da padrone della nonna. Continuamente, a ogni mossa, si rivolgeva a lei e giurava con i più terribili giuramenti che era anche lui un 'onorato' pan e che non avrebbe preso nemmeno una copeca del denaro della nonna.
E ripeteva così spesso tali giuramenti che quella finì con lo smarrirsi del tutto. Ma poiché pare che, all'inizio, questo pan avesse corretto il suo giuoco e avesse incominciato a vincere, la nonna stessa non poteva più staccarsene. Un'ora più tardi i due piccoli polacchi di prima che erano stati allontanati dal Casinò riapparvero dietro la sedia della nonna, rinnovando l'offerta dei loro servigi, se non altro come galoppini. Potapytch giurava che "l'onorato pan" scambiava con i due strizzatine d'occhio e passava persino qualcosa nelle loro mani. Poiché la nonna non aveva pranzato e non aveva quasi mai lasciato la poltrona, uno dei polacchi si rese effettivamente utile: corse nella sala da pranzo del Casinò e le portò prima una tazza di brodo e poi anche del tè Del resto, correvano tutti e due. Ma verso la fine della giornata, quando a tutti era ormai chiaro che la nonna perdeva il suo ultimo biglietto di banca, dietro la sua sedia stavano ormai sei polacchini, mai visti né conosciuti prima. Quando poi la nonna stava perdendo le sue ultime monete, tutti loro non solo non la ascoltavano più, ma neanche le badavano; si spingevano al di sopra della sua testa per arrivare al tavolo, prendevano il denaro, ne disponevano e lo puntavano, discutevano e gridavano intrattenendosi amichevolmente con "l'onorato pan" che sembrava si fosse addirittura dimenticato dell'esistenza della nonna. Persino quando la nonna, dopo aver definitivamente perso tutto, si preparava verso le otto di sera a tornare all'albergo, tre o quattro piccoli polacchi non si decidevano ancora a lasciarla e correvano intorno alla poltrona gridando a tutta forza e assicuravano, parlando velocissimamente, che la nonna li aveva ingannati e che doveva loro qualche cosa. E così arrivarono fino all'albergo da dove, finalmente, furono cacciati a spintoni.
Secondo il conto di Potapytch, la nonna aveva perso in quel giorno circa novantamila rubli, oltre al denaro perso il giorno prima.
Tutti i titoli - obbligazioni al cinque per cento, prestiti interni, azioni - che aveva portato con sé, li aveva cambiati uno dopo l'altro. Io mi meravigliavo, pensando come avesse potuto resistere quelle sette o otto ore seduta in poltrona e quasi senza spostarsi dal tavolo, ma Potapytch raccontò che per ben tre volte aveva effettivamente cominciato a vincere forte e, trascinata dalla speranza, non aveva più potuto allontanarsi. Del resto, i giocatori sanno benissimo come si possa restare magari una giornata intera allo stesso posto giocando a carte, senza girare gli occhi né a destra, né a sinistra.
Intanto anche da noi, all'albergo, erano accadute quel giorno cose d'importanza decisiva. Già dalla mattina, prima delle undici, quando la nonna era ancora in casa, i nostri, cioè il generale e De-Grieux, si erano decisi al passo estremo. Saputo che la nonna non voleva più partire ma che, anzi, si preparava ad andare al Casinò, si presentarono da lei in conclave (a eccezione di Polina) per parlarle definitivamente e anche sinceramente. Il generale, trepidante e sentendosi quasi venir meno in vista delle conseguenze per lui terribili, esagerò persino: dopo mezz'ora di preghiere e di suppliche e dopo aver francamente confessato tutto, cioè i debiti e anche la passione per mademoiselle Blanche (egli si era smarrito completamente), il generale dico, prese di colpo un tono minaccioso e cominciò a inveire contro la nonna e a pestare i piedi, gridando che lei disonorava la famiglia, che era diventata lo scandalo di tutta la città e arrivò infine a queste parole: "Voi disonorate il nome russo, signora, e per questo c'è la polizia!" La nonna lo cacciò via con il bastone (un autentico bastone) Il generale e De-Grieux si consultarono ancora due o tre volte quella mattina, e precisamente su questo: non sarebbe stato proprio possibile far intervenire la polizia? Dire che, ecco, una disgraziata, una rispettabile vecchia era impazzita, stava perdendo al gioco gli ultimi soldi eccetera? In una parola, non era possibile ottenere una tutela o una interdizione? De-Grieux si limitava a stringersi nelle spalle e rideva in faccia al generale che ormai non sapeva più quello che diceva e correva su e giù per lo studio. Infine De-Grieux fece un gesto di rinuncia e scomparve chi sa dove. A sera si seppe che aveva lasciato l'albergo definitivamente, dopo aver avuto un colloquio risolutivo e misterioso con mademoiselle Blanche. Per quanto riguarda mademoiselle Blanche lei, fin dal mattino, aveva preso dei provvedimenti decisivi: si era completamente liberata dal generale e non gli permetteva neppure più di presentarsi davanti a lei.
Quando il generale le corse dietro al Casinò e la incontrò sottobraccio al principe, tanto lei quanto madame veuve Cominges finsero di non conoscerlo. E neppure il principe lo salutò. Per tutto quel giorno mademoiselle Blanche sondò e si lavorò il principe perché finalmente si dichiarasse. Ma ahimè!
Si era crudelmente ingannata nei suoi calcoli sul principe! Questa piccola catastrofe accadde alla sera; di colpo si scoprì che il principe era povero in canna e che contava proprio su di lei per avere quattrini in prestito contro cambiali da giocare alla roulette. Blanche, indignata, lo cacciò via e si chiuse nella sua camera.
La mattina di quello stesso giorno ero andato da mister Astley o, per meglio dire, lo avevo cercato, ma non ero riuscito in nessun modo a trovarlo. Non c'era né in casa, né al Casinò, né al parco.
Quella volta non aveva pranzato nel suo albergo. Lo vidi a un tratto, verso le cinque, che dalla stazione ferroviaria andava verso l'albergo d'Angleterre. Camminava in fretta e vidi che era preoccupato sebbene fosse molto difficile scorgere sul suo viso segni di preoccupazione o di qualsiasi turbamento. Mi tese cordialmente la mano con la sua abituale esclamazione: "Ah!" ma senza fermarsi e continuando, a passi piuttosto frettolosi, il suo cammino. Mi attaccai a lui, ma egli seppe rispondermi in un modo tale che non riuscii a chiedergli niente. Inoltre, chi sa perché, sentivo un tremendo senso di vergogna a parlare di Polina; e neppure lui mi disse, a quel proposito, una parola. Gli raccontai della nonna; mi ascoltò attento e serio e si strinse nelle spalle.
"Perderà tutto!" gli dissi.
"Oh, certo!" mi rispose. "Anche poco fa, quando io partivo, è andata a giocare, e perciò ero sicuro che sarebbe finita così. Se avrò tempo, andrò un attimo al Casinò a vedere, perché è una cosa curiosa..." "Dove siete stato?" chiesi, sorpreso di non averglielo ancora domandato.
"Sono stato a Francoforte." "Per affari?" "Sì, per affari." Che cosa potevo chiedergli di più? Tuttavia continuavo a camminargli vicino, ma egli a un tratto svoltò nella strada dove sorgeva l'albergo Des Quatre Saisons, mi salutò con un cenno del capo e sparì. Tornando a casa, mi resi a poco a poco conto che, se anche avessi parlato con lui per due ore, non avrei saputo niente perché... non avevo niente da chiedergli! Già, proprio così. In nessun modo avrei ora potuto formulare la mia domanda.
Per tutto quel giorno Polina o passeggiò con i bambini e la bambinaia nel parco, o rimase in casa. Da un pezzo ormai lei evitava il generale e non parlava quasi mai con lui, almeno su argomenti seri. L'avevo notato già da un pezzo. Ma, sapendo in che situazione si trovasse quel giorno il generale, pensai che non avrebbe potuto evitarla, cioè che tra di loro sarebbe stata necessaria qualche importante spiegazione di carattere familiare.
Però quando io, rientrando all'albergo dopo il mio colloquio con mister Astley, incontrai Polina con i bambini, il suo viso rifletteva la più serena tranquillità, come se tutte le tempeste familiari non l'avessero nemmeno sfiorata. Al mio saluto rispose con un cenno del capo. Entrai in camera mia pieno di stizza.
Naturalmente, io evitavo di parlarle e non mi ero più trovato con lei dopo l'incidente con il barone Wurmerhelm. Per di più facevo il sostenuto e mi davo delle arie ma, quanto più il tempo passava, tanto più ribolliva in me una vera indignazione. Anche se lei non mi amava affatto, non si poteva, mi sembra, calpestare così i miei sentimenti e accogliere con un simile disprezzo le mie confessioni! Lei sapeva che io l'amavo veramente; lo ammetteva e mi permetteva di parlarle così. In verità, tutto era cominciato tra di noi in modo alquanto strano. Qualche tempo prima, circa un due mesi, avevo notato che Polina voleva fare di me il suo amico, il suo confidente e che, in parte, ci si provava. Ma la cosa, chi sa perché, non aveva avuto allora buon esito e, in cambio, erano rimasti tra noi gli strani rapporti odierni; per questo appunto avevo preso a parlare così con lei. Ma se il mio amore le ripugnava, perché non proibirmi senz'altro di parlargliene?
Non me lo vietava; a volte, anzi, mi induceva lei stessa a toccare quell'argomento e... naturalmente lo faceva per beffa. Lo so con certezza, perché avevo osservato molto bene che le faceva piacere, dopo avermi ascoltato e stuzzicato fino alla sofferenza, sconcertarmi improvvisamente con qualche uscita che rivelava il massimo disprezzo e la più grande indifferenza. Eppure sapeva benissimo che senza di lei io non potevo vivere. Ecco adesso erano passati tre giorni dall'incidente con il barone, e io non riuscivo più a sopportare la nostra separazione. Quando l'avevo incontrata poco fa vicino al Casinò, il cuore aveva preso a battermi con tanta violenza che ero impallidito. Eppure nemmeno lei avrebbe potuto cavarsela senza di me! Io le ero necessario; ma possibile, possibile che lo fossi soltanto come il buffone Balakirev (3)?
Lei aveva un segreto: questo era chiaro! Il suo colloquio con la nonna mi aveva ferito dolorosamente il cuore. Eppure mille volte l'avevo invitata a essere sincera con me, e lei sapeva benissimo che io ero pronto a sacrificarle la mia testa. Ma lei se ne faceva gioco sempre, quasi con disprezzo e, invece del sacrificio della vita che io le offrivo, pretendeva da me delle gesta sul tipo di quelle con il barone! Non era forse una cosa disgustosa? Possibile che per lei tutto il mondo fosse racchiuso in quel francese? E mister Astley? A questo punto la cosa diventava incomprensibile e intanto, mio Dio, come mi tormentavo!
Arrivato a casa, in un impeto di rabbia, presi la penna e le scrissi quanto segue:
"Polina Aleksàndrovna, vedo chiaramente che è arrivato lo scioglimento che, è naturale, riguarderà anche voi. Per l'ultima volta vi ripeto: vi serve, oppure no, la mia testa? Se vi sarà utile per qualsiasi cosa, disponete di me; intanto io sono nella mia camera e, almeno per un bel pezzo, non me ne allontanerò. Se vi servirà, scrivetemi o fatemi chiamare."
Sigillai il biglietto e glielo mandai tramite il cameriere del mio piano, con l'ordine di consegnarlo personalmente. Non aspettavo risposta ma, dopo tre minuti, il cameriere tornò con la notizia che la signorina "aveva dato ordine di salutarmi".
Dopo le sei fui chiamato dal generale.
Era nel suo studio, vestito come se si preparasse ad andare da qualche parte. Cappello e bastone erano posati sul divano. Mi sembrò, entrando, che egli stesse in mezzo alla stanza con le gambe larghe, la testa bassa e che parlasse tra sé e sé ad alta voce. Ma non appena mi vide si gettò verso di me quasi gridando, tanto che io, istintivamente, indietreggiai e quasi volli fuggire; ma egli mi prese per tutt'e due le mani e mi trascinò verso il divano, si mise a sedere, fece sedere me su una poltrona di fronte a lui e, senza lasciare le mie mani, con le labbra tremanti, le lacrime che gli brillavano tra le ciglia e con voce implorante mi disse:
"Alekséj Ivànovitch, salvatemi, salvatemi, abbiate pietà!" Per un bel po' non riuscii a capire niente: lui parlava, parlava, parlava e continuava a ripetere: "Abbiate pietà! Abbiate pietà!" Finalmente indovinai che egli aspettava da me forse un consiglio o, per meglio dire, abbandonato da tutti, angosciato e triste, si era ricordato di me e mi aveva fatto chiamare solo per parlare, parlare, parlare...
Era quasi impazzito o, per lo meno, al culmine dello smarrimento.
Giungeva le mani ed era pronto a gettarsi ai miei piedi (che cosa credete?) perché io andassi subito da mademoiselle Blanche a pregarla e a consigliarla di tornare a lui e di sposarlo.
"Ma via, generale" esclamai, "fino a oggi mademoiselle Blanche non si è neppure accorta di me. Che posso fare io?" Ma le obiezioni erano inutili: egli non capiva quello che gli si diceva. Si mise a parlare anche della nonna in modo del tutto sconclusionato: era sempre dell'idea di far chiamare la polizia "Da noi, da noi" cominciò a gridare, ribollendo all'improvviso di indignazione, "da noi, in uno stato bene organizzato dove esiste un'autorità, una vecchia così la metterebbero subito sotto tutela!
Sì, egregio signore, sì..." continuava, cadendo di colpo in un tono di rimprovero, balzando in piedi e mettendosi a passeggiare per lo studio, "voi non sapevate ancora, egregio signore" fece, rivolgendosi a un immaginario egregio signore in un angolo, "e adesso lo sapete... sì... sì... che da noi simili vecchie le mettono al giogo, al giogo, sicuro... che il diavolo le porti!" E si abbandonava di nuovo sul divano ma, dopo un attimo, quasi singhiozzando e ansimando, si affrettava a raccontarmi che mademoiselle Blanche non l'aveva sposato proprio perché, invece del telegramma, era arrivata la nonna e che ormai era evidente che egli non avrebbe avuto l'eredità. Gli sembrava che di tutto questo io non fossi affatto al corrente. Cominciai a parlare di De- Grieux, ma egli fece un gesto di disperazione:
"E' partito! Tutto quanto possiedo è ipotecato da lui: sono povero in canna! Di quei denari che portaste... di quei denari non so quanto è rimasto... mi sembra un settecento franchi e niente altro; è tutto lì e poi... non so, non so!" "Ma come farete a pagare il conto dell'albergo?" gli chiesi io, spaventato. "E poi, che accadrà?" Egli mi guardò pensieroso, ma ebbi l'impressione che non capisse e addirittura non mi sentisse. Provai a parlargli di Polina Aleksàndrovna e dei bambini. Egli rispose alla svelta sì... sì...
ma subito si rimise a parlare del principe, del fatto che Blanche ora sarebbe partita con lui e allora... allora... "Che mi resta da fare, Alekséj Ivànovitch?" si rivolse d'un tratto a me. "Ve lo giuro sul nome di Dio! Che cosa posso fare? Dite, non è ingratitudine, questa? Non è ingratitudine?" Infine si mise a piangere a dirotto.
Con un uomo simile non c'era niente da fare, era pericoloso anche lasciarlo solo, poteva magari accadergli qualcosa. Riuscii in ogni modo a liberarmene, ma avvertii la bambinaia che andasse ogni tanto a dargli un'occhiata e, inoltre, parlai con il cameriere del piano, un ragazzo molto giudizioso, e mi promise che, da parte sua, lo avrebbe tenuto d'occhio.
Avevo appena lasciato il generale che comparve da me Potapytch a chiamarmi da parte della nonna. Erano le otto, e lei era appena tornata dal Casinò dopo l'ultima, definitiva perdita. Andai da lei: la vecchia era seduta in poltrona, evidentemente sfinita e sofferente. Marfa le stava porgendo una tazza di tè che le faceva bere quasi a forza. La voce e il tono della nonna erano decisamente cambiati.
"Buongiorno, bàtjushka Alekséj Ivànovitch" mi disse, chinando la testa con un'espressione grave, "scusate se vi ho disturbato ancora una volta, perdonate a una vecchia. Io, mio caro, ho lasciato tutto là, quasi centomila rubli. Avevi ragione, ieri, a non venire con me! Ora sono senza quattrini, non ho più un soldo.
Non voglio aspettare oltre: alle nove e mezzo partirò. Ho mandato a chiamare mister Astley o come si chiama, per chiedergli tremila franchi per una settimana. Ebbene, convincilo tu a non pensare a chi sa che cosa e a non rifiutare. Io, ragazzo mio, sono ancora abbastanza ricca. Possiedo tre campagne e due case. E ho ancora del denaro: non l'avevo portato tutto con me. Questo lo dico, affinché egli non abbia dubbi di nessun genere... Ah, eccolo! Si vede che è una brava persona." Mister Astley si era affrettato a venire alla prima chiamata della nonna. Senza pensarci su e senza far tante parole, le consegnò immediatamente tremila franchi contro una cambiale che la nonna firmò. Concluso l'affare, egli salutò e si affrettò a uscire.
"E ora vattene anche tu, Alekséj Ivànovitch. E' rimasta poco più di un'ora: voglio coricarmi. Mi fanno male le ossa. Non rimproverarmi, sono una vecchia stupida. Adesso non accuserò più i giovani di sventatezza, e anche quel disgraziato del vostro generale, commetterei peccato se lo accusassi... Ma denaro non gliene darò, come vorrebbe lui perché, secondo me, è troppo stupido; però io, vecchia stupida, non sono più intelligente di lui. E' proprio vero che Iddio è severo anche con i vecchi e punisce l'arroganza. Be', addio! Alzami, Marfusha!" Io, però, volevo accompagnare la nonna. Inoltre ero in una specie di attesa: mi sembrava che da un momento all'altro dovesse succedere qualcosa. Non riuscivo a rimanere fermo in camera mia.
Uscivo ogni tanto nel corridoio e andai persino un minuto fuori a passeggiare nel viale. La mia lettera a lei era chiara e decisiva, e l'attuale catastrofe senza dubbio definitiva. All'albergo sentii parlare della partenza di De-Grieux. Infine, se mi avesse respinto come amico, forse non mi avrebbe respinto come servo. Le ero necessario, magari anche soltanto per fare il galoppino: come no?
Verso l'ora della partenza del treno, corsi alla stazione e feci salire la nonna. Presero tutti posto in uno scompartimento riservato, per famiglia.
"Ti ringrazio, bàtjushka, per la tua disinteressata simpatia," mi disse, accomiatandosi da me, "e ripeti a Praskòvja quello che le ho detto ieri: io l'aspetterò." Tornai a casa. Passando davanti all'appartamento del generale, incontrai la governante e m'informai di lui. "Eh, bàtjushka, non c'è male!" mi rispose quella, in tono triste. Io, però, entrai lo stesso, ma sulla porta dello studio mi fermai stupefatto, mademoiselle Blanche e il generale ridevano allegramente insieme.
La veuve Cominges stava anche lei lì, seduta sul divano. Il generale era evidentemente fuori di sé dalla gioia, balbettava una serie di stupidaggini, una dietro l'altra, e prorompeva in lunghe risate nervose che gli increspavano il viso in una enorme quantità di rughe, mentre gli occhi quasi scomparivano. Seppi però dalla stessa Blanche che lei, cacciato il principe e venuta a conoscenza delle lacrime del generale, aveva pensato di consolarlo ed era venuta a trovarlo. Ma non sapeva, il povero generale, che in quel minuto la sua sorte era già stata decisa e che Blanche aveva già cominciato a preparare i bagagli per partire l'indomani, con il primo treno del mattino, alla volta di Parigi.
Dopo essere rimasto un po' sulla soglia dello studio del generale, decisi di non entrare e mi allontanai non visto. Risalito in camera mia e aperta la porta, notai a un tratto, nella penombra, una figura, seduta su una sedia, in un angolo, vicino alla finestra. Essa non si alzò al mio apparire. Mi avvicinai rapidamente, guardai e... mi sentii mancare il respiro: era Polina!
NOTE:
14.
Mandai un grido.
"Che c'è? Che c'è?" domandò lei in tono strano. Era pallida, e aveva un'espressione cupa.
"Come, che c'è? Voi? Qui, da me?" "Se io vengo, vengo tutta. E' la mia abitudine. Lo vedrete subito:
accendete una candela." Accesi la candela. Lei si alzò, si avvicinò al tavolo e mise davanti a me una lettera dissigillata.
"Leggete!" mi ordinò.
"Questa... questa è la calligrafia di De-Grieux!" esclamai, afferrando la lettera. Le mani mi tremavano, e le righe saltellavano davanti ai miei occhi. Ho dimenticato le precise espressioni della lettera, ma eccola, se non proprio parola per parola, almeno pensiero per pensiero.
"Mademoiselle," scriveva De-Grieux, "sfavorevoli circostanze mi costringono a partire immediatamente. Voi certo avrete notato che a bella posta ho evitato di avere con voi una spiegazione definitiva fino a quando non si fossero chiarite tali circostanze.
L'arrivo della vecchia (de la vieille dame), vostra parente, e il suo assurdo comportamento hanno messo fine alle mie perplessità. I miei affari dissestati mi impediscono di continuare a nutrire le dolci speranze delle quali mi ero permesso di pascermi per qualche tempo. Mi rammarico di quello che è accaduto, ma spero che nella mia condotta non troverete niente d'indegno di un gentiluomo e di un onest'uomo (gentilhomme et honnête homme). Avendo perso quasi tutto il mio denaro nei crediti concessi al vostro patrigno, mi trovo nell'assoluta necessità di approfittare di quello che mi resta: ho già dato istruzioni ai miei amici di Pietroburgo affinché dispongano immediatamente per la vendita della proprietà ipotecata a mio favore; sapendo, però, che quella testa vuota del vostro patrigno ha sperperato anche il denaro di vostra proprietà, ho deciso di condonargli cinquantamila franchi e gli restituisco per questa somma una parte delle ipoteche sulla sua proprietà, affinché voi abbiate la possibilità di riavere tutto ciò che avete perduto, esigendo da lui, per via legale, quello che vi appartiene. Spero, mademoiselle, che allo stato attuale delle cose, il mio gesto vi sarà molto utile. Spero anche che, così agendo, io assolva pienamente il dovere di un uomo onesto e nobile. Siate certa che il ricordo di voi rimarrà per sempre impresso nel mio cuore."
"Ebbene, tutto questo è molto chiaro," dissi, rivolgendomi a Polina, "è possibile che voi vi aspettaste qualcosa d'altro?" aggiunsi con indignazione.
"Io non mi aspettavo niente," mi rispose lei, apparentemente calma, mentre qualcosa sembrava tremarle nella voce, "da un pezzo ero certa di tutto, leggevo nel suo pensiero e sapevo quello che pensava. Egli credeva che io cercassi... che io avrei insistito..." Si fermò e, senza completare la frase, si morse un labbro e tacque. "A bella posta raddoppiai il mio disprezzo per lui," riprese a dire, "in attesa di quello che avrebbe fatto. Se fosse giunto il telegramma dell'eredità, gli avrei sbattuto in faccia il debito di quell'idiota del mio patrigno e l'avrei cacciato via! Da un pezzo, da un pezzo mi era diventato odioso!
Oh, non era più quell'uomo di prima, mille volte migliore.
Adesso... adesso... oh, con quale felicità sbatterei su quel suo muso da vigliacco questi cinquantamila franchi e ci sputerei...
sì, ci sputerei sopra!" "Ma il documento, la carta che riguarda l'ipoteca dei cinquantamila franchi da lui restituita, l'avrà il generale, no?
Prendetela e ridatela a De-Grieux!" "Oh, non si tratta di questo! Non si tratta di questo!" "Sì, è vero, non si tratta di questo! E poi, di che cosa è capace adesso il generale? E la nonna?" gridai all'improvviso.
Polina mi guardava con un'espressione distratta e impaziente.
"Che c'entra la nonna?" chiese con stizza. "Io non posso andare da lei... E non voglio chiedere perdono a nessuno" aggiunse irritata.
"Che fare, dunque?" gridai. "Ma come, come potevate amare questo De-Grieux? Oh, il miserabile, il miserabile! Se volete, lo ucciderò in duello. Dov'è, adesso?" "E' a Francoforte, dove si fermerà tre giorni." "Ditemi una sola parola e io, domani stesso, partirò con il primo treno!" dissi, in preda a uno sciocco entusiasmo.
Lei si mise a ridere.
"Sarebbe magari capace di dire: "Prima restituitemi i cinquantamila franchi!" E poi, perché dovrebbe battersi? Che assurdità!" "E allora dove, dove trovare questi cinquantamila franchi?" ripetevo, digrignando i denti, come se fosse stato possibile raccattarli da terra. "Ascoltate: mister Astley?" chiesi, mentre una strana idea cominciava a prender forma nel mio cervello.
I suoi occhi lampeggiarono.
"Ebbene, proprio tu, vuoi che ti lasci per andare da quell'inglese?" disse, fissandomi con uno sguardo penetrante e sorridendo amaramente. Per la prima volta mi aveva dato del "tu".
Mi sembrò che, per l'agitazione del momento, fosse stata presa da una vertigine: ad un tratto si sedette sul divano, spossata.
Fu come se il fulmine mi avesse colpito: stavo lì e non credevo ai miei occhi, non credevo alle mie orecchie! Dunque, mi amava! Era venuta da me e non da mister Astley! Lei, da sola, una fanciulla, era venuta da me in una stanza d'albergo, senza timore di compromettersi agli occhi di tutti e io... io ero lì davanti a lei... e ancora non avevo capito!
Uno strano pensiero mi balenò alla mente.
"Polina, dammi soltanto un'ora! Aspettami qui un'ora sola e...
ritornerò! E' indispensabile! Vedrai. Resta qui, resta qui!" Mi precipitai fuori della stanza, senza rispondere al suo stupefatto sguardo interrogativo; mi gridò qualcosa, ma io non tornai...
Sì, a volte il pensiero più strano, il pensiero apparentemente più impossibile, si conficca con tanta forza nella testa che lo prendi, alla fine, per qualcosa di attuabile... Ma non basta: se l'idea è legata a un forte, appassionato desiderio, allora magari la prendi per qualcosa di fatale, di indispensabile, di predestinato, qualcosa che non può non essere e non può non accadere! Forse qui interviene ancora una qualche combinazione di presentimenti, un qualche straordinario sforzo di volontà, un autoavvelenamento della propria fantasia o qualche altra cosa che non so; ma a me quella sera (che mai più dimenticherò) accadde un fatto prodigioso. Sebbene esso possa essere perfettamente giustificato con l'aritmetica, tuttavia resta per me tuttora miracoloso. E perché, perché quella certezza era penetrata così profondamente, così saldamente nel mio animo e ormai da tanto tempo? Certo io ci pensavo, ripeto, e non come a un caso che può accadere tra molti altri (e quindi può anche non accadere), ma come a qualcosa che non possa assolutamente non accadere!
Erano le dieci e un quarto; entrai nel Casinò con ferma speranza ma, nello stesso tempo, in uno stato di agitazione come non avevo mai provato. Nelle sale da giuoco c'era ancora abbastanza gente, sebbene molto meno che la mattina.
Dopo le dieci, ai tavoli da giuoco rimangono solo i giocatori veri, disperati, per i quali alle terme non esiste che la roulette, che sono venuti solo per essa, che quasi non si accorgono di quello che accade intorno a loro, che di niente si interessano durante tutta la stagione, che non fanno altro che giocare dalla mattina alla sera e che sarebbero anche pronti a giocare tutta la notte fino all'alba, se fosse possibile... E si allontanano sempre con dispetto quando, a mezzanotte, si chiude la roulette. E allorché il capo croupier, poco prima dell'ora fissata, annunzia: "Les trois derniers coups, messieurs! (1)" sono a volte capaci di perdere in queste ultime tre puntate tutto quello che hanno in tasca, ed è proprio allora che subiscono le perdite maggiori. Andai al tavolo dove poco prima era stata la nonna. Non c'era molta gente, quindi potei subito occupare un posto in piedi vicino al tavolo. Proprio davanti a me, sul tappeto verde, era disegnata la parola: "Passe".
"Passe" è la serie di cifre dal diciannove incluso al trentasei.
La prima serie, invece, dall'uno al diciotto incluso, costituisce il "Manque"; ma a me che importava? Io non feci nessun calcolo, non sapevo neanche su quale numero fosse caduta la pallina all'ultimo colpo e non mi preoccupai di saperlo, prima di puntare, come avrebbe fatto ogni giocatore appena appena un po' calcolatore. Tirai fuori i miei venti federici e li gettai sul Passe che era davanti a me.
"Vingt deux!" gridò il croupier.
Avevo vinto, e puntai di nuovo tutto: quello di prima e la vincita.
"Trente et un!" proclamò il croupier. Di nuovo vincita! Avevo quindi ottanta federici. Li spostai tutti sulle dodici cifre centrali (vincita tripla, ma con due probabilità sfavorevoli); la ruota girò e uscì il ventiquattro. Mi furono pagati tre rotoli da cinquanta federici e dieci monete d'oro; in tutto, con quello che avevo prima, mi ritrovai duecento federici.
Ero come in preda alla febbre; spostai tutto quel mucchio di denaro sul rosso, e di colpo tornai in me! Solo una volta, in tutta quella sera, durante tutto il gioco, la paura mi percorse con il suo brivido gelido che mi fece tremare le braccia e le gambe. Con orrore sentii e compresi immediatamente che cosa avrebbe significato ora per me perdere! Era in gioco tutta la mia vita!
"Rouge!" gridò il croupier.
Ripresi fiato; un formicolio infuocato mi corse per tutto il corpo. Fui pagato in biglietti di banca; erano così, in tutto, quattromila fiorini e ottanta federici (allora potevo ancora fare dei conti!).
Poi, ricordo, puntai altri duemila fiorini sulle cifre di centro e perdetti; puntai il mio oro e gli ottanta federici e perdetti. La frenesia s'impadronì di me: afferrai gli ultimi duemila fiorini che mi erano rimasti e li puntai sui dodici primi così, a casaccio, senza fare alcun calcolo! Ci fu un attimo di attesa molto simile, penso, come impressione, all'impressione provata da madame Blanchard (2) quando, a Parigi, precipitò dal pallone aerostatico.
"Quatre!" gridò il croupier. In tutto, con la posta di prima, mi ritrovai di nuovo seimila fiorini. Avevo già l'aspetto del vincitore; ormai non temevo più niente; gettai quattromila fiorini sul nero. Una decina di persone si precipitarono, dopo di me, a puntare sul nero. I croupiers si scambiavano occhiate e parlottavano tra loro. Attorno si parlava e si aspettava.
Uscì il nero. Non ricordo più, a questo punto, né i calcoli, né l'ordine delle mie puntate. Ricordo soltanto, come un sogno, che avevo ormai vinto, mi pare, sedicimila fiorini; improvvisamente, in tre colpi sfavorevoli, ne persi dodicimila; quindi spostai gli ultimi quattromila sul Passe (ma ormai non provavo quasi più niente; aspettavo soltanto, quasi macchinalmente, senza pensieri) e vinsi di nuovo; poi vinsi altre quattro volte di seguito.
Ricordo che raccoglievo i quattrini a migliaia, ricordo anche che più spesso degli altri uscivano i dodici numeri di mezzo, ai quali mi ero attaccato. Essi venivano fuori regolarmente, senza fallo, tre o quattro volte di fila, poi sparivano per due volte per riapparire per altre tre o quattro consecutive. Questa meravigliosa regolarità si verifica a volte a ondate ed è questo, precisamente, che sconcerta i giocatori di professione, i quali fanno i calcoli matita alla mano. E quali tremende beffe del destino si verificano a volte in questi casi!
Credo che dal mio arrivo non fosse passata più di mezz'ora. A un tratto il croupier mi informò che avevo vinto trentamila fiorini e, poiché il banco non può pagare di più per un solo colpo, avrebbero chiuso la roulette sino al mattino. Presi tutto l'oro, lo ficcai in tasca, agguantai tutti i biglietti e mi spostai subito a un altro tavolo, in un'altra sala, dove funzionava un'altra roulette; dietro di me si precipitò tutta la folla; lì mi fecero subito posto, e io ripresi a puntare, a casaccio e senza fare calcoli. Non capisco che cosa mi abbia salvato!
A volte, però, cominciava a spuntare nel mio cervello un calcolo.
Mi sentivo legato a certe cifre e a certe combinazioni, ma ben presto le abbandonavo e riprendevo a puntare quasi inconsapevolmente. Dovevo essere molto distratto; tanto che i croupiers parecchie volte dovettero correggere il mio gioco.
Facevo degli sbagli grossolani. Avevo le tempie fradice di sudore e le mani che tremavano. Si erano precipitati, a offrirmi i loro servigi, piccoli polacchi, ma io non ascoltavo nessuno. La fortuna continuava! All'improvviso si alzarono intorno a me voci sonore e risate. "Bravo, bravo!" gridavano tutti, mentre alcuni battevano addirittura le mani. Strappai anche lì trentamila fiorini, e il banco fu di nuovo chiuso fino al giorno dopo!
"Andatevene, andatevene!" sussurrava una voce alla mia destra. Era un ebreo di Francoforte; era rimasto per tutto il tempo vicino a me e qualche volta, sembra, mi aveva aiutato nel giuoco.
"Per amor di Dio, andatevene!" mi sussurrò un'altra voce all'orecchio sinistro. Gettai una rapida occhiata. Era una signora modestamente ma decorosamente vestita, sui trent'anni, dal viso stanco, di un pallore malato, ma che ricordava una meravigliosa bellezza passata. In quel momento mi stavo riempiendo le tasche di banconote che addirittura sgualcivo e raccoglievo l'oro rimasto sulla tavola. Dopo aver afferrato l'ultimo rotolo di cinquanta federici riuscii, del tutto inosservato, a metterlo nella mano della pallida signora; mi era venuto un invincibile desiderio di fare così e ricordo che le dita sottili e magroline di lei mi strinsero con forza la mano in segno di viva gratitudine. Tutto questo accadde in un attimo.
Dopo aver raccolto tutto, passai rapidamente al "trente et quarante". Al "trente et quarante" partecipa un pubblico aristocratico. Non si tratta qui di roulette, ma di un gioco con le carte. Il banco risponde per centomila talleri alla volta. La posta più alta è ugualmente di quattromila fiorini. Io non conoscevo affatto il gioco, e non conoscevo nessuna combinazione tranne il rosso e nero che c'erano anche lì. A questi appunto mi attaccai. Tutto il Casinò si affollò lì intorno. Non mi ricordo se durante quel tempo pensassi una sola volta a Polina. Sentivo soltanto un irresistibile godimento nell'arraffare e rastrellare i biglietti di banca che si ammucchiavano davanti a me.
Sembrava proprio che fosse il destino a spronarmi. Questa volta, come a farlo apposta, accadde un fatto che, del resto, si ripete abbastanza spesso nel gioco. Succede, per esempio, che la fortuna si attacchi al rosso e non lo lasci più per dieci o anche quindici volte di seguito. Avevo sentito dire due giorni prima, che il rosso, la settimana scorsa, era uscito ventidue volte consecutive; nemmeno alla roulette si ricordava un caso del genere, e se ne parlava con stupore. Tutti, si capisce, in questo caso abbandonano il rosso e, dopo la decima volta, per esempio, quasi nessuno osa più puntare su di esso. Ma neppure sul nero, opposto al rosso, punta più un bravo giocatore, perché il giocatore esperto sa che cosa significhi questo 'capriccio del caso'. Sembrerebbe, per esempio, che dopo la sedicesima volta che è uscito il rosso, il diciassettesimo colpo dovrebbe infallibilmente cadere sul nero. E sul nero si gettano, infatti, in folla, i novellini che raddoppiano, triplicano le puntate e... perdono in maniera spaventosa!
Ma io, per non so quale strano capriccio, avendo osservato che il rosso era uscito sette volte di seguito, apposta mi ci attaccai.
Sono convinto che per metà si trattasse di amor proprio: volevo stupire gli spettatori con un rischio pazzesco e- oh, strana sensazione! - ricordo benissimo che a un tratto, e realmente senza nessuna spinta dell'amor proprio, una tremenda sete di rischio si impadronì di me. Probabilmente, passando attraverso tante impressioni, l'anima non si sazia, ma soltanto si eccita e pretende sensazioni sempre più forti, fino alla spossatezza definitiva. E, davvero non mento, se il regolamento del gioco avesse consentito di puntare cinquantamila fiorini in un sol colpo, li avrei certamente puntati. Intorno si gridava che era una pazzia, che il rosso era uscito già per la quattordicesima volta!
"Monsieur a gagné dejà cent mille florins (3)" risuonò vicino a me la voce di qualcuno.
Di colpo mi riscossi. Come? Avevo vinto quella sera centomila fiorini? E a che scopo me ne servivano di più? Mi gettai sui biglietti di banca, li spiegazzai ficcandomeli in tasca senza contarli, raccolsi tutto il mio oro, tutti i rotoli e mi precipitai fuori del Casinò. Mentre attraversavo le sale, tutti ridevano guardando le mie tasche rigonfie e il mio passo irregolare per il peso dell'oro. Credo che raggiungesse più di mezzo pud (4). Alcune mani si allungarono verso di me; io distribuivo a manciate quanto riuscivo ad afferrare. Due ebrei mi fermarono vicino all'uscita.
"Siete audace! Siete molto audace!" mi dissero. "Ma partite domani mattina senza indugio, partite più presto che potete, se no perderete tutto, tutto..." Non li ascoltavo nemmeno. Il viale era buio, tanto da non poter distinguere la propria mano. Per arrivare all'albergo c'era da percorrere un mezzo miglio. Non ho mai avuto paura né dei ladri, né dei briganti, neppure quando ero piccolo, e non ci pensavo neppure adesso. Non ricordo, del resto, a che cosa pensassi per strada; non avevo pensieri. Sentivo soltanto una terribile sete di successo, di vittoria, di potere... non so come esprimermi.
Balenava davanti a me l'immagine di Polina; ricordavo e mi rendevo conto che andavo da lei, che tra poco l'avrei incontrata e le avrei raccontato tutto, le avrei mostrato... Ma in quel momento quasi quasi non ricordavo quello che lei mi aveva detto poco prima, e perché ero andato là, e tutte quelle recenti sensazioni, provate non più di un'ora e mezzo prima, già mi sembravano passate da chi sa quanto tempo, remote, invecchiate, alle quali non avremmo più fatto cenno perché da adesso tutto sarebbe ricominciato da capo. Quasi all'estremità del viale, fui preso a un tratto dalla paura: "E se ora mi uccidessero e mi depredassero?" A ogni passo il terrore raddoppiava. Andavo quasi di corsa. Improvvisamente, in fondo al viale, brillò il nostro albergo, illuminato da innumerevoli luci scintillanti. Grazie a Dio, ero a casa!
Salii di corsa al mio piano e aprii in fretta la porta. Polina era là, seduta sul mio divano, davanti alla candela accesa, a braccia conserte. Mi guardò stupefatta: in quel momento avevo, senza dubbio, un aspetto molto strano. Mi fermai davanti a lei e presi a gettare sul tavolo tutto quel mucchio di denaro.
NOTE:
15.
Ricordo che lei mi guardava con una fissità tremenda, ma senza muoversi dal suo posto, senza cambiare posizione.
"Ho vinto duecentomila franchi" gridai, buttando sul tavolo l'ultimo rotolo.
L'enorme mucchio di biglietti e di rotoli d'oro occupava tutto il tavolo e non potevo distoglierne lo sguardo; a tratti, dimenticavo perfino Polina. Ora mi mettevo a riordinare quei mucchi di biglietti di banca, riunendoli tutti insieme, ora disponevo in un solo mucchio l'oro; ora lasciavo tutto e mi mettevo a camminare a passi rapidi per la stanza, soprappensiero; poi a un tratto mi avvicinavo di nuovo al tavolo e riprendevo a contare il denaro. Di colpo, come ritornando in me stesso, mi lanciai verso la porta e la chiusi in fretta con due giri di chiave. Poi mi fermai davanti alla mia piccola valigia.
"Devo mettere tutto nella valigia fino a domani?" chiesi, girandomi a un tratto verso Polina, come ricordandomi improvvisamente di lei. Lei sedeva ancora immobile, allo stesso posto, ma mi seguiva attentamente con lo sguardo. Il suo viso aveva una certa strana espressione; quell'espressione non mi piacque! Non sbaglio, se dico che in essa c'era dell'odio...
Mi avvicinai alla fanciulla.
"Polina, ecco venticinquemila fiorini: sono cinquantamila franchi, e anche più. Prendeteli, e domani sbatteteglieli sul viso." Lei non mi rispose.
"Se volete, glieli porterò io stesso domattina presto. Va bene?" Si mise improvvisamente a ridere, e rise a lungo.
Io la guardavo stupefatto e con un senso di tristezza. Quel modo di ridere era molto simile al suo recente ridere di me, frequente e ironico, che seguiva sempre le mie più appassionate dichiarazioni. Finalmente smise e si accigliò; mi guardò severamente, di traverso.
"Io non prenderò il vostro denaro" dichiarò in tono sprezzante.
"Come? Perché?" chiesi. "Polina, ma perché?" "Non prendo il denaro per niente." "Ma io ve lo offro come amico. Vi offro la mia vita." Lei mi rivolse un lungo sguardo indagatore, come se volesse passarmi da parte a parte.
"Voi pagate bene," disse sorridendo, "l'amante di De-Grieux non vale cinquantamila franchi..." "Polina, ma come potete parlare così con me?" gridai in tono di rimprovero. "Sono forse De-Grieux, io?" "Vi odio! Sì... sì... non vi amo più di quanto non amassi De- Grieux" gridò con gli occhi lampeggianti.
A questo punto si coprì il viso con le mani e fu presa da un attacco isterico. Mi precipitai verso di lei.
Capii che durante la mia assenza le era accaduto qualche cosa: era proprio fuori di sé!
"Comprami! Vuoi? Vuoi? Per cinquantamila franchi, come De-Grieux?" proruppe, singhiozzando convulsamente. La presi tra le braccia, le baciai le mani e i piedi e caddi in ginocchio davanti a lei..
L'attacco isterico stava passando. Lei aveva posato le mani sulle mie spalle e mi fissava; sembrava che volesse leggere qualcosa sul mio viso. Mi sentiva, ma evidentemente non ascoltava quello che le dicevo. Un'espressione inquieta e pensierosa le era apparsa sul volto. Temevo per lei: mi pareva proprio che la sua ragione si alterasse. Ora, di colpo, cominciava ad attirarmi dolcemente a sé, e un sorriso fiducioso sfiorava il suo viso; poi, altrettanto improvvisamente, mi respingeva e riprendeva a fissarmi con uno sguardo fosco.
All'improvviso mi gettò le braccia al collo.
"Perché tu mi ami, mi ami?" diceva. "Perché tu... tu volevi batterti con il barone per me!" E di nuovo scoppiò in una risata, come se qualcosa di buffo e di grazioso le fosse balenato al pensiero. Piangeva e rideva insieme. Che cosa dovevo fare? Ero io stesso come febbricitante. Ricordo che lei cominciò a parlare, ma io non riuscivo a capire quasi niente. Era una specie di delirio, il suo, una specie di balbettìo, come se volesse comunicarmi in fretta qualcosa, un delirio che, interrotto a tratti dal riso più gioioso, cominciava a spaventarmi. "No, no, sei caro, sei caro!" ripeteva. "Mio fedele!" e di nuovo mi posava le mani sulle spalle, di nuovo mi scrutò, continuando a ripetere: "Tu mi ami... mi ami... mi amerai?" Io non distoglievo gli occhi da lei; non l'avevo ancora mai vista in quegli slanci di tenerezza e di amore; è vero che si trattava di delirio, ma... notando il mio sguardo appassionato, a un tratto si mise a ridere maliziosamente e, di punto in bianco, prese a parlare di mister Astley.
Del resto, lei parlava continuamente di mister Astley (specialmente quando, poco prima, si era sforzata di raccontarmi qualche cosa), ma che cosa precisamente dicesse non riuscii a capire; mi sembra perfino che ridesse di lui; ripeteva di continuo che egli aspettava... e mi chiedeva se sapevo che ora egli si trovava certamente sotto la finestra.
"Sì, sì... sotto la finestra... Apri, guarda, guarda... Egli è qui, è qui!" E mi spingeva verso la finestra, ma non appena facevo un movimento per avvicinarmici, scoppiava in una risata e io le restavo vicino, mentre lei si precipitava tra le mie braccia.
"Partiremo? Ce ne andremo domani?" chiedeva, seguendo un suo inquieto pensiero. "Ebbene, ebbene," continuava, facendosi pensierosa, "faremo in tempo a raggiungere la nonna? Che ne pensi?
A Berlino, io credo, potremo raggiungerla. Che cosa credi che dirà quando l'avremo raggiunta e lei ci vedrà? E mister Astley? Be', quello non si butterà giù dallo Schlangenberg, che ne pensi?" e scoppiò a ridere. "Ora ascolta: sai dove andrà la prossima estate?
Vuole andare al Polo Nord per ricerche scientifiche e portarmi con sé, ah, ah, ah! Dice che noi russi, senza gli europei, non sappiamo niente e non siamo capaci di niente... Ma è buono anche lui! Lo sai che egli scusa il generale? Dice che Blanche... che la passione... be', non so, non so..." ripeté a un tratto, come distraendosi e perdendo il filo del discorso. "Poveretti, come li compiango... e anche la nonna... Su, ascolta, ascolta: perché dovresti uccidere De-Grieux? E' possibile che tu pensassi di ucciderlo? Sciocco! Potevi davvero credere che io ti avrei permesso di batterti con De-Grieux? Ma tu non uccideresti nemmeno il barone," aggiunse, mettendosi a ridere, "oh, quanto eri buffo, allora, con il barone; io vi guardavo entrambi dalla panchina... e che poca voglia avevi di andare quando ti ho mandato! Come ho riso allora, come ho riso!" concluse, scoppiando di nuovo in una risata.
A un tratto riprendeva a baciarmi e ad abbracciarmi, premendo con appassionata tenerezza il suo viso al mio. Io non pensavo ormai più a niente, non sentivo più niente. La testa mi girava.
Penso che fossero circa le sette di mattina quando mi risvegliai; il sole illuminava la stanza. Polina era seduta vicino a me e si guardava stranamente intorno, come se uscisse dal buio e cercasse di riordinare i suoi ricordi. Anche lei si era appena svegliata e fissava il tavolo e i denari. La testa mi pesava e mi faceva male.
Volevo prendere Polina per mano; lei di colpo mi respinse e balzò in piedi. Spuntava una giornata grigia; prima dell'alba era piovuto. Polina si avvicinò alla finestra, l'aprì mise fuori la testa e il petto e, appoggiandosi con le mani e puntando i gomiti al davanzale, rimase così due o tre minuti, senza girarsi verso di me e senza ascoltare quello che le dicevo. Con terrore pensai:
"Che accadrà, ora? Come finirà tutto ciò?" A un tratto si staccò dalla finestra, si avvicinò al tavolo e, guardandomi con un'espressione di odio infinito, mi disse con le labbra tremanti di furore:
"Be', ora dammi i miei cinquantamila franchi!" "Polina, di nuovo, di nuovo?" cominciavo a dirle.
"Hai cambiato idea, forse? Ah, ah, ah! Forse già li rimpiangi?" I venticinquemila fiorini, contati fin dalla sera, erano posati sul tavolo; li presi e glieli porsi.
"Adesso sono miei, no? E' così? E' così?" mi chiese con cattiveria, tenendo in mano il denaro.
"Ma sono sempre stati tuoi!" dissi io.
"Ebbene, eccoteli i tuoi cinquantamila franchi!" Alzò il braccio e me li sbatté addosso. Il fascio mi colpì dolorosamente in viso e si sparpagliò sul pavimento. Fatto questo, Polina uscì di corsa dalla stanza.
So bene che in quel momento lei era fuori di sé, anche se non riesco a capire quella follia momentanea. Vero è, però, che ancora oggi, dopo un mese, è ancora ammalata. Ma tuttavia, quale fu la causa di quello stato e, soprattutto, di quel gesto? Forse l'orgoglio offeso? O la disperazione per essersi decisa a venire da me? L'avevo forse indotta a credere che mi vantavo della mia fortuna e che, proprio come De-Grieux, volevo liberarmi di lei dopo averle regalato cinquantamila franchi? Ma non è stato così, lo so, in coscienza. Penso che la causa sia stata, in parte, la sua vanità; la vanità le aveva suggerito di non prestarmi fede e di offendermi, sebbene tutto ciò fosse, anche per lei, poco chiaro. In questo caso, certo, io pagavo per De-Grieux ed ero incolpato senza essere colpevole. Vero è anche che tutto era stato solo delirio; vero è che io sapevo che lei delirava e non avevo tenuto conto di questa circostanza. Forse lei non può adesso perdonarmelo? Sì, adesso, ma allora? Il suo delirio e il suo male erano poi così gravi da farle dimenticare completamente quello che faceva venendo da me con la lettera di De-Grieux? Lei dunque sapeva ciò che faceva.
In fretta e furia raccolsi alla bell'e meglio il mio mucchio di biglietti e d'oro, lo ficcai nel letto, lo coprii e uscii dieci minuti dopo Polina. Ero certo che era corsa in camera sua, e volevo, di nascosto, entrare nel loro appartamento e, nell'anticamera, chiedere alla bambinaia notizie sulla salute della signorina. Quale non fu il mio stupore quando, incontrata la governante sulle scale, seppi che Polina non era ancora tornata e che la bambinaia stava appunto venendo da me per cercarla.
"Proprio adesso," le dissi, "proprio adesso è uscita di camera mia... non più di dieci minuti fa. Dove mai si sarà cacciata?" La governante mi guardò con espressione di rimprovero.
Intanto era venuta fuori tutta una storia che già circolava per l'albergo. Dal portiere e dal capo cameriere si sussurrava che la Fräulein (1) alle sei di mattina era fuggita dall'albergo sotto la pioggia e si era avviata di corsa in direzione dell'albergo d'Angleterre. Dalle loro parole e allusioni capii che essi già sapevano che lei aveva passato tutta la notte nella mia camera.
Del resto, si chiacchierava su tutta la famiglia del generale; era noto che questi, il giorno prima, era quasi impazzito e piangeva in modo tale che tutto l'albergo lo sentiva. Si raccontava inoltre che la vecchia arrivata all'improvviso era sua madre, venuta apposta dalla Russia per impedire al figlio il matrimonio con mademoiselle Blanche de Cominges e, in caso di disubbidienza, per privarlo dell'eredità; poiché effettivamente lui non aveva ubbidito, la contessa, sotto i suoi stessi occhi, aveva perduto apposta alla roulette il suo denaro, affinché non gli rimanesse più niente. "Diese Russen!" (2) ripeteva indignato il capo cameriere, scuotendo la testa. Gli altri ridevano. Il capo cameriere intanto preparava il conto. La mia vincita era già nota; Karl, il cameriere del mio piano, fu il primo a rallegrarsi con me. Ma io avevo ben altro per la testa! Mi precipitai all'albergo d'Angleterre.
Era ancora presto; mister Astley non riceveva nessuno; saputo, però, che c'ero io, uscì nel corridoio e si fermò davanti a me, fissandomi in silenzio con il suo sguardo color dello stagno e in attesa che io parlassi. Gli chiesi subito di Polina.
"E' ammalata" mi rispose mister Astley, continuando a fissarmi in viso e senza distogliere gli occhi da me.
"Allora è veramente qui da voi?" "Si, è da me." "E dunque voi... voi avete intenzione di tenerla presso di voi?" "Oh sì, ho quest'intenzione." "Mister Astley, questo provocherà uno scandalo: non è possibile.
Inoltre lei è proprio malata; non ve ne siete forse accorto?" "Oh sì, me ne sono accorto e ve l'ho anche detto che è malata. Se non fosse stata malata non avrebbe passato la notte da voi." "Allora sapete anche questo?" "Lo so. Ieri stava venendo qui, e io l'avrei accompagnata da una mia parente ma, dato che era malata, si è sbagliata ed è venuta da voi." "Ma figuratevi! E allora mi rallegro con voi, mister Astley. A proposito, mi fate venire un'idea: non siete per caso stato tutta la notte sotto la mia finestra? Miss Polina me la faceva aprire tutti i momenti per vedere se eravate là sotto e rideva a più non posso." "Davvero? No, io non ero sotto la finestra, ma aspettavo nel corridoio andando su e giù." "Ma bisogna pur curarla, mister Astley!" "Oh sì! Ho già mandato a chiamare il dottore e, se dovesse morire, mi renderete conto della sua morte." Rimasi stupefatto.
"Di grazia, mister Astley, ma che volete dire?" "Ed è vero che ieri avete vinto duecentomila talleri?" "In tutto soltanto centomila fiorini." "Ecco, vedete! Allora, partite stamattina stessa per Parigi... " "Perché?" "Tutti i russi, avendo denaro, vanno a Parigi" spiegò mister Astley con la voce e il tono di chi legge un libro.
"Che andrei a fare adesso, d'estate, a Parigi? Io la amo, mister Astley, lo sapete anche voi..." "Davvero? Io sono convinto di no. Per di più, se rimarrete qui, perderete certamente tutto e non avrete più i mezzi per andare poi a Parigi." "Bene, addio! Però a Parigi non ci vado. Pensate, mister Astley, a quello che succederà adesso da noi. In una parola, il generale...
e adesso quest'avventura con miss Polina... farà il giro di tutta la città." "Sì, di tutta la città; quanto al generale, credo che non ci pensi: ha ben altro per la testa! E quanto a quella famiglia si può giustamente dire che ormai non esista più." Camminavo e sorridevo dentro di me della strana sicurezza di quell'inglese che io sarei partito per Parigi. "Egli, però, vuole uccidermi in duello," pensavo, "se Polina muore; ma guarda un po' che storia!" Giuro che mi dispiaceva per Polina ma, strano, fin dal primo istante in cui, il giorno prima, avevo toccato il tavolo da giuoco e preso a rastrellare mucchi di quattrini, il mio amore era passato come in secondo piano. Questo lo dico ora, ma allora ancora non me ne rendevo chiaramente conto. Possibile che io sia davvero un giocatore, possibile che io amassi Polina in modo così strano? No, io l'amo ancora adesso, lo vede Iddio! E quando, uscito da mister Astley, andavo verso casa, soffrivo sinceramente e accusavo me stesso... Ma a questo punto mi capitò una stranissima e molto assurda storia.
Andavo in tutta fretta dal generale quando improvvisamente, non lontano dal loro appartamento, una porta si aprì e qualcuno mi chiamò. Era madame veuve Cominges che mi chiamava per ordine di mademoiselle Blanche. Entrai nell'appartamentino di mademoiselle Blanche.
Era un quartierino di due stanze. Dalla camera da letto giungevano le risa e gli strilli di mademoiselle Blanche. Ella stava alzandosi da letto.
"Ah, c'est lui! Viens donc, bête! E' vero 'que tu as gagné une montagne d'or et d'argent? J'aimerais mieux l'or! (3)" "Ho vinto" risposi io, ridendo.
"Quanto?" "Centomila fiorini." "Bibi, comme tu es bête! Ma avvicinati, non sento nulla. Nous ferons bombance, n'est-ce pas? (4)" Entrai da lei. Era coricata sotto una coperta di raso rosa, da sotto la quale sporgevano due splendide spalle brune e ben modellate, spalle che si vedono soltanto in sogno, velate appena da una camicia di batista bianca ornata di candidi pizzi che si accordavano magnificamente con la sua pelle abbronzata.
"Mon fils, as-tu du coeur? (5)" esclamò a voce alta vedendomi, e scoppiò a ridere. Rideva sempre molto gaiamente e anche, a volte, con grande spontaneità.
"Tout autre... (6)" fui lì lì per dire, parafrasando Corneille.
"Ecco, vedi, 'vois-tu,'" cominciò improvvisamente a cinguettare "in primo luogo, cercami le calze e aiutami a infilarle; poi, si tu n'es pas trop bête, je te prends à Paris (7). Lo sai, vero, che parto per Parigi?" "Subito?" "Tra mezz'ora." Infatti tutto era stato messo via. Le valigie erano pronte. Il caffè era stato servito da un pezzo.
"Eh bien! Se vuoi, verrai a Parigi. 'Dis donc qu'est-ce que c'est qu'un outchitel? Tu étais bien bête quand tu étais outchitel!' (8) Dove sono le calze? Infilamele, su!" Tirò fuori un piedino veramente incantevole, piccolo, bruno, non deformato come quasi tutti quei piedini che appaiono così piccoli negli stivaletti. Io mi misi a ridere e cominciai a infilare la calza di seta. Mademoiselle Blanche, intanto, seduta sul letto, continuava a cicalare.
"'Eh bien, que feras-tu, si je te prends avec?' In primo luogo, 'je veux cinquante mille francs'. Me li darai a Francoforte. 'Nous allons à Paris'; là vivremo insieme 'et je te ferai voir des étoiles en plein jour' (9). Là vedrai delle donne come non ne hai mai certamente viste!" "Aspetta, sicché io dovrei darti cinquantamila franchi... e allora che mi resterà?" "'Et cent cinquante mille francs', li hai dimenticati? Per di più acconsento a vivere nel tuo appartamento un mese, due... chi sa!
Noi, naturalmente, ci mangeremo in due mesi questi centocinquantamila franchi. Vedi 'je suis bonne enfant' e te lo dico prima, 'mais tu verras des étoiles (10)'" "Possibile? Tutto in due mesi?" "Come? La cosa ti spaventa? Ah, 'vil esclave!' (11) Ma non sai che un mese solo di quella vita vale di più di tutta la tua esistenza?
Un mese solo e 'après, le déluge! Mais tu ne peux comprendre, va!' Vattene, vattene, non lo meriti! 'Ah, que fais-tu? (12)'" In quel momento io stavo calzando l'altro piedino, ma non potei trattenermi e lo baciai. Lei lo tirò via e cominciò a percuotermi il viso con la punta del piede. E infine mi cacciò via.
"'Eh bien, mon outchitel, je t'attends, si tu veux (13)'; tra un quarto d'ora parto!" mi gridò alle spalle.
Tornando nella mia camera, era già come se avessi le vertigini.
Non era mica colpa mia se Polina mi aveva sbattuto in faccia un fascio di biglietti e ancora ieri mi aveva preferito mister Astley! Alcuni dei biglietti di banca erano ancora sparpagliati sul pavimento; li raccolsi. In quel momento si aprì la porta e apparve il capo cameriere in persona (che prima non mi guardava nemmeno) con un invito: non mi sarebbe piaciuto trasferirmi al piano di sotto, nel magnifico appartamento occupato sino ad allora dal conte V.?
Riflettei un momento.
"Il conto!" gridai. "Parto subito, tra dieci minuti." "Se ha da essere Parigi, ebbene, Parigi sia!" pensai. "Si vede che era scritto così!" Un quarto d'ora dopo sedevamo davvero tutti e tre in uno scompartimento per famiglia: io, mademoiselle Blanche e madame veuve Cominges. Mademoiselle Blanche rideva, guardandomi, fino alle convulsioni. Veuve Cominges le faceva eco; non dirò che io mi sentissi allegro. La mia vita si spezzava in due ma, dal giorno prima, mi ero abituato a puntare tutto su una carta. Forse era proprio vero che non avevo resistito al peso del denaro e avevo perso la testa. "Peut-etre, je ne demandais pas mieux!" (14) Mi sembrava che per un po' di tempo, ma solo per un po' di tempo, lo scenario cambiasse. "Ma tra un mese sarò qui e allora... e allora ce la vedremo ancora, mister Astley!" No, come adesso ricordo, anche allora ero oppresso da una terribile tristezza, anche se ridevo a gara con quella sciocchina di Blanche!
"Ma che hai? Come sei stupido! Oh come sei stupido!" esclamava Blanche, interrompendo le sue risate e cominciando a rimproverarmi sul serio. "Ma sì, ma sì, spenderemo i tuoi duecentomila franchi ma in compenso 'tu seras heureux, comme un petit roi '(15); ti farò io il nodo alla cravatta e ti farò conoscere Hortense. E, quando avremo speso tutto il denaro, tu ritornerai qui e farai di nuovo saltare il banco. Che cosa ti hanno detto quegli ebrei? La cosa più importante è l'audacia, e tu ce l'hai; più di una volta mi porterai dei denari a Parigi. 'Quant à moi, je veux cinquante mille francs de rente et alors...(16)'" "E il generale?" le chiesi.
"Il generale, lo sai anche tu, va ogni giorno, a quest'ora, a prendere un mazzo di fiori per me. Stavolta gli avevo chiesto a bella posta di portarmi i fiori più rari. Il poveraccio ritornerà ma l'uccellino sarà volato via! Vedrai che ci volerà dietro. Ah ah, ah! Ne sarò molto contenta. A Parigi mi farà molto comodo; il suo conto, qui, lo pagherà mister Astley..." Ed ecco in che modo partii allora per Parigi.
NOTE:
16.
Che dirò di Parigi? Fu tutto un delirio, una pazzia. Vissi a Parigi solo poco più di tre settimane, e in quel periodo di tempo sfumarono completamente i miei centomila franchi. Parlo solo di centomila, poiché gli altri centomila li avevo dati a mademoiselle Blanche in denaro liquido: cinquantamila a Francoforte e, tre giorni dopo, a Parigi, una cambiale per altre cinquantamila, cambiale che una settimana dopo lei si fece pagare da me, "et les cents mille francs qui nous restent tu les mangeras avec moi, mon outchitel!" (1) Continuava sempre a chiamarmi precettore. E' difficile immaginarsi in questo mondo una categoria di persone più calcolatrici, più avare e più spilorce di quella alla quale apparteneva mademoiselle Blanche. Ma questo per ciò che riguarda il suo denaro. Per ciò che riguarda invece i miei centomila franchi, mi dichiarò in seguito che essi le erano serviti per una prima sistemazione a Parigi, "così ora mi sono messa su un piede decoroso, una volta per sempre, e ormai per un bel pezzo nessuno mi butterà più giù; così almeno ho deciso" aggiunse. Del resto, quei centomila franchi si può dire che io non li vidi neanche; il denaro, lo teneva sempre lei e nel mio borsellino, nel quale lei ogni giorno curiosava, non si accumulavano mai più di cento franchi e, quasi sempre, molti di meno.
"Ma via, a che ti serve il denaro?" mi diceva a volte con l'aria più innocente del mondo, e io non discutevo. In compenso, con quel denaro sistemò in modo molto confortevole il suo appartamento e quando poi mi trasferì nella nuova dimora, mi disse, mostrandomi le stanze: "Ecco che cosa si può fare con l'economia e il buon gusto, sia pure con i mezzi più miseri".
Quella miseria costava, però, esattamente cinquantamila franchi!
Con i rimanenti cinquantamila mise su carrozza e cavalli; inoltre organizzammo due balli, cioè due serate alle quali presero parte Hortense, Lisette e Cléopatre, donne notevoli sotto molti aspetti e tutt'altro che brutte. Queste due serate io fui costretto a sostenere la stupidissima parte del padrone di casa, a ricevere e a intrattenere alcune goffissime mercantesse, arricchite, ignoranti e sfrontate fino all'inverosimile, vari tenentini e miseri scrittorucoli e nullità da rivista che comparivano in frac alla moda e guanti gialli, con una superbia e una prosopopea così smisurate, che sarebbero state inammissibili persino da noi, a Pietroburgo; e questo è già molto. Essi avevano persino l'idea di farsi beffe di me, ma io mi ubriacai di champagne e andai a rifugiarmi in una stanza lontana. Tutto questo mi rivoltava al massimo grado. "C'est un outchitel," diceva di me mademoiselle Blanche, "il a gagné cent mille francs (2) e senza di me non saprebbe come spenderli. Dopo farà di nuovo il precettore: non c'è qualcuno che sappia di un posto? Bisogna fare qualcosa per lui." Avevo cominciato a ricorrere molto spesso allo champagne perché mi sentivo sempre oppresso dalla tristezza e mi annoiavo tremendamente. Vivevo nell'ambiente più borghese e più mercantile che si possa immaginare, dove ogni soldo veniva contato e misurato. Blanche non aveva nessuna inclinazione per me, nelle due prime settimane me ne accorsi; in verità, mi mandava vestito elegantemente e ogni giorno mi annodava lei stessa la cravatta, ma in cuor suo mi disprezzava sinceramente. A ciò non badavo per niente. Triste e annoiato, avevo preso l'abitudine di andarmene al Château des Fleurs dove ogni sera, regolarmente, mi ubriacavo e imparavo il can can (che laggiù si balla in maniera indecente), e, in seguito, acquistai anche una certa notorietà in questo genere.
Infine Blanche imparò a conoscermi: in precedenza, non so come mai, si era messa in mente che io, durante la nostra convivenza, le sarei andato dietro con carta e matita in mano, e avrei sempre fatto i conti di quanto aveva speso e rubacchiato; e, naturalmente, era convintissima che per ogni dieci franchi ci sarebbe stata tra noi battaglia. Per ogni mio attacco, da lei precedentemente immaginato, aveva già preparato le obiezioni ma, non vedendo nessun attacco da parte mia, all'inizio si era messa lei stessa a obiettare. E a volte con molta foga ma, vedendo che io tacevo- quasi sempre sdraiato sul divano con lo sguardo immobile, fisso al soffitto - finì con il restare addirittura stupefatta. Sulle prime pensò che io fossi semplicemente uno sciocco, un "outchitel" e interrompeva senz'altro le sue spiegazioni pensando probabilmente: "Tanto è uno stupido, è inutile mettergli la pulce nell'orecchio, se non ci capisce da sé". Succedeva che si allontanasse, ma dopo dieci minuti era già di ritorno (questo accadeva nel periodo delle spese più pazze, spese assolutamente non adatte alle nostre possibilità: per esempio, cambiò i cavalli e comperò per sedicimila franchi una pariglia).
"Allora, Bibi, non sei arrabbiato?" diceva, avvicinandosi a me.
"No-o-o! Mi secchi!" le rispondevo, spostandola con la mano, ma la cosa le sembrava così strana che subito mi si sedeva vicino.
"Vedi, se mi sono decisa a spendere tanto, è perché si trattava di un'occasione. Si possono rivendere per ventimila franchi." "Ci credo, ci credo; sono cavalli bellissimi, e tu hai adesso una superba pariglia; ti farà comodo, e questo basta." "Allora non ti arrabbi?" "Ma perché? Tu agisci saggiamente nel procurarti certe cose che ti sono indispensabili. Tutto questo ti servirà in seguito. Mi rendo conto che hai realmente bisogno di sistemarti su questo piede; altrimenti non arriverai al milione. Qui i nostri centomila franchi sono soltanto un inizio, una goccia nel mare." Blanche, che meno di ogni altra cosa si aspettava da me simili ragionamenti, invece di chi sa quali strilli e rimproveri, sembrò cadere dalle nuvole.
"E così tu... così tu ecco come sei! 'Mais tu as l'esprit pour comprendre! Sais-tu, mon garçon' (3), benché tu sia 'outchitel' avresti dovuto nascere principe! Allora non rimpiangi che da noi il denaro sfumi così presto?" "Ma che sfumi anche più presto!" "'Mais... sais-tu... mais dis donc', sei forse ricco? Ma lo sai che disprezzi un po' troppo il denaro! 'Qu'est ce que tu feras après, dis donc? (4)'" "Dopo andrò a Homburg e vincerò di nuovo centomila franchi." "'Oui, oui, c'est ça, c'est magnifique!' (5) E io so che tu vincerai senza fallo e che li porterai qui. Dimmi, ma tu farai in modo che io ti amerò davvero? Ebbene, poiché sei così, per tutto questo tempo ti amerò e non ti farò neppure una infedeltà. Vedi, in questo tempo, anche se non ti ho amato, 'parce que je croyais que tu n'est qu'un outchitel (quelque chose comme un laquais, n'est ce pas?)', ti sono stata tuttavia fedele, 'parce que je suis bonne fille. (6)'" "Eh, storie! Non ti ho forse visto, la volta scorsa, con Albert, quell'ufficialucolo bruno?" "Oh, oh, ma tu..." "Bugie, bugie! Ma tu credi che io mi arrabbi? Me ne infischio: 'il faut que jeunesse se passe (7)'. Come puoi scacciarlo, se c'era prima di me e lo ami? Però, a lui, denaro non devi darne: intesi?" "Allora non ti arrabbi nemmeno per questo? 'Mais tu es un vrai philosophe!'" gridò entusiasta. "Eh bien, je t'aimerai, je t'aimerai, tu verras, tu seras content! (8)'" E infatti, da allora sembrò essersi legata a me, persino di amicizia, e così passarono i nostri ultimi dieci giorni. Le "stelle" promesse non le vidi, ma sotto certi aspetti lei mantenne la parola data. Per di più mi fece conoscere Hortense, una donna più che notevole nel suo genere e che nella nostra cerchia veniva chiamata "Therèse-philosophe"...
Del resto, non è il caso di dilungarsi su questo; tutto ciò potrebbe costituire un racconto a parte, con una coloritura particolare, che io non voglio inserire in questo racconto. Fatto sta che con tutte le mie forze desideravo che tutto ciò finisse al più presto. Ma i nostri centomila franchi bastarono, come già ho detto, quasi per un mese, cosa di cui sinceramente mi meravigliai; almeno per ottantamila franchi della somma, Blanche aveva fatto degli acquisti per sé, e noi non spendemmo più di ventimila franchi, e tuttavia bastarono. Blanche, che verso la fine era ormai quasi del tutto sincera con me (per lo meno in qualcosa non mi mentiva) mi confessò che almeno su di me non sarebbero ricaduti i debiti che era stata costretta a fare. "Non ti ho fatto firmare né conti, né cambiali" mi diceva, "perché mi facevi pena; un'altra, però, l'avrebbe fatto certamente e ti avrebbe mandato in prigione. Vedi, vedi, come ti ho amato e come sono buona! Solo questo matrimonio del diavolo che cosa mi verrà a costare!" E ci fu davvero un matrimonio in casa. Capitò proprio verso la fine del nostro mese, e bisogna pensare che per esso siano stati spesi gli ultimi resti dei miei centomila franchi; e con questo si concluse la faccenda cioè il nostro mese, dopo di che io diedi formalmente le mie dimissioni.
Accadde così: una settimana dopo che ci eravamo sistemati a Parigi, arrivò il generale. Venne direttamente da Blanche e fino dalla prima visita si stabilì quasi del tutto da noi. Un quartierino suo, in verità, da qualche parte lo aveva. Blanche lo accolse gioiosamente, con strilli e risate, e gli si gettò al collo, la cosa si svolse in tal modo che fu lei stessa a non lasciarlo più andare via, ed egli doveva seguirla ovunque: sul boulevard, nelle passeggiate in carrozza, a teatro e in visita dai conoscenti. Per quest'uso il generale andava bene: aveva un aspetto ancora imponente e decoroso, era quasi alto di statura, con baffi e basette tinti (un tempo aveva servito nei corazzieri), con un bel viso, sebbene un po' flaccido. I suoi modi erano eccellenti, il frac sapeva indossarlo con molta disinvoltura. A Parigi cominciò a portare le sue decorazioni. Passeggiare per il boulevard a fianco di un uomo simile non solo era possibile ma, se così ci si può esprimere, perfino "raccomandabile". Il buono e fatuo generale era contentissimo di tutto questo; senza dubbio non se lo aspettava quando era comparso da noi al suo arrivo a Parigi.
Allora si era presentato quasi tremante di paura: credeva che Blanche si sarebbe messa a strillare e l'avrebbe fatto cacciare via, e perciò, vista la piega che aveva preso la faccenda, era andato in visibilio, e tutto quel mese lo passò in uno stato di euforia insensata; e in questo stato lo lasciai. Fu lì che seppi in tutti i particolari che, dopo la nostra improvvisa partenza da Roulettenburg, era stato colpito, quella mattina stessa, da una specie di colpo apoplettico. Era caduto a terra privo di sensi e per una settimana intera era stato come pazzo e aveva continuato a vaneggiare. Lo stavano curando quando, un bel momento, aveva piantato tutto, era salito in treno ed era partito per Parigi. E' naturale che l'accoglienza di Blanche si dimostrò la migliore medicina; ma le tracce della malattia gli durarono a lungo, nonostante lo stato di gioia e di esaltazione in cui si trovava.
Ragionare, o anche solo intrattenere una conversazione un po' seria, non gli era possibile; in quel caso si limitava ad aggiungere a ogni parola un "Hm!" e a scuotere la testa, e così se la cavava. Spesso rideva, ma di un riso isterico e morboso, quasi convulso; altre volte se ne stava seduto per ore intere cupo come la notte, con le folte sopracciglia aggrottate. Di molte cose non si ricordava neppure; era diventato distratto fino alla sconvenienza e aveva preso l'abitudine di parlare da solo.
Soltanto Blanche poteva rianimarlo, e quegli attacchi di umore cupo, quando si ficcava in un angolo, indicavano soltanto che da molto tempo non aveva visto Blanche, o che Blanche era andata da qualche parte senza prenderlo con sé, oppure che era uscita senza fargli una carezza. D'altra parte, non avrebbe egli stesso saputo dire che cosa desiderasse e non si rendeva egli stesso conto di essere così cupo e triste. Dopo essere rimasto seduto un'ora o due (lo notai un paio di volte, quando Blanche stava fuori l'intera giornata, probabilmente con Albert), egli cominciava a un tratto a guardarsi intorno, ad agitarsi, a dare occhiate di qua e di là, e sembrava che si sforzasse di ricordare qualcosa o di cercare qualcuno; ma non vedendo nessuno e non ricordando che cosa avesse voluto cercare, ricadeva in quello stato di apatia fino al momento in cui compariva Blanche, allegra, vivace, elegante, con la sua risata argentina; correva da lui, cominciava a stuzzicarlo e lo baciava persino, cosa, però, con cui raramente lo premiava. Una volta il generale nel vederla si rallegrò tanto che si mise addirittura a piangere, e io ne rimasi assai stupito.
Blanche, fin dal momento in cui egli era comparso in casa nostra, aveva cominciato a difenderlo davanti a me. Diventava addirittura eloquente; ricordava che aveva tradito il generale per causa mia, che era quasi ormai la sua fidanzata, che gli aveva dato la sua parola; che per lei egli aveva abbandonato la famiglia e che, infine, avendo io servito in casa sua, avrei dovuto sentire tutto ciò e... come mai non mi vergognavo... Io tacevo sempre, e lei ciarlava a tutto spiano. Una volta, alla fine, scoppiò a ridere, e la cosa finì così che, mentre prima lei aveva pensato che fossi un imbecille, si fermò sul concetto che fossi invece un uomo buono e giudizioso. In una parola, ebbi la buona sorte di meritare, proprio in ultimo, la piena benevolenza di quella degna ragazza.
(Blanche era del resto un'ottima ragazza; nel suo genere, si capisce; io non l'avevo apprezzata così, all'inizio.) "Tu sei un uomo intelligente e buono" era solita dirmi negli ultimi tempi, "e io... mi dispiace soltanto che tu sia così stupido! Niente, mai niente riuscirai a combinare! Un vrai russe, un calmouk (9)". Più volte mi mandò a portare a passeggio il generale, proprio come un cagnolino con il lacchè. Io poi lo portavo anche a teatro, al Bar-Mabille e nei ristoranti. Per queste cose Blanche ci passava il denaro necessario, sebbene il generale ne avesse di suo e gli piacesse molto tirare fuori il portafogli davanti alla gente. Una volta dovetti quasi usare la forza per impedirgli di comperare una spilla da settecento franchi di cui si era innamorato al Palais Royal e che a ogni costo voleva regalare a Blanche. Che cosa ne avrebbe fatto, lei, di una spilla da settecento franchi? E il generale, in tutto, non ne possedeva più di mille... che non potei mai sapere da dove gli fossero venuti. Penso da mister Astley, tanto più che era stato lui a pagare per loro il conto dell'albergo. In quanto poi a come il generale mi considerasse durante questo periodo, mi sembra che nemmeno lui sospettasse i miei rapporti con Blanche. Sebbene avesse sentito confusamente dire che io avevo vinto un capitale, credeva senza dubbio che in casa di Blanche io fossi una specie di segretario o, forse, anche, di servitore. Almeno, egli mi parlava sempre dall'alto in basso come prima, da superiore, e a volte mi dava persino qualche lavata di capo.
Una mattina fece ridere a crepapelle me e Blanche, in casa nostra, mentre prendevamo il caffè. Era un uomo per niente permaloso, ma quel giorno, a un tratto, se la prese con me, per che cosa? Ancora oggi non lo capisco. Ma certo non lo capiva neanche lui. In una parola, cominciò un discorso senza capo né coda, '" batons- rompus"; diceva che io ero un ragazzaccio, che mi avrebbe insegnato lui... mi avrebbe fatto capire... e via di seguito. Ma nessuno riuscì a capire che cosa avesse in mente. Blanche rideva a più non posso: finalmente riuscimmo a calmarlo e a portarlo a passeggio. Molte volte tuttavia notavo che diventava triste, che soffriva evidentemente di nostalgia per qualcuno, nonostante la presenza di Blanche. In quei momenti, due volte cominciò lui stesso a parlare con me, ma non riuscì mai a spiegarsi in modo sensato; ricordava la sua carriera, la moglie morta, la sua proprietà, i suoi affari. Si fermava su qualche parola, se ne rallegrava e la ripeteva cento volte al giorno, sebbene quella parola non esprimesse affatto né i suoi sentimenti, né i suoi pensieri. Provavo a parlargli dei suoi bambini; ma egli se la cavava in fretta e passava subito a un altro argomento: "Sì, sì, i bambini, avete ragione, i bambini!" Una volta sola si commosse, mentre stavamo andando a teatro. "Sono dei bambini disgraziati!" disse a un tratto. "Proprio così, signore, sono dei bambini di- sgra-ziati!" E poi parecchie volte, in quella sera, ripeté le parole: bambini disgraziati. Quando un giorno mi capitò di parlargli di Polina, diventò furioso: "E' una donna ingrata," esclamò, "una donna ingrata e cattiva! Ha disonorato la famiglia!
Se qui ci fossero delle leggi, l'avrei piegata io! Sì, signore, proprio così!" Per quanto riguarda De-Grieux, non voleva nemmeno sentirne parlare. "Mi ha rovinato," diceva, "mi ha derubato, mi ha assassinato! E' stato il mio incubo per due anni interi! Per mesi e mesi l'ho sognato tutte le notti! E'... è... è... Oh, non parlatemi mai più di lui!" Mi ero accorto che loro due stavano combinando qualche cosa ma, come al solito, tacevo. Blanche me lo annunciò per prima, giusto una settimana prima che ci separassimo. "Il ya du changé (10)" prese a cinguettare. "La baboutchka è adesso davvero ammalata e morirà certamente. Mister Astley ha mandato un telegramma:
convieni anche tu che egli è pur sempre l'erede di lei. E, se anche non lo fosse, non impedirebbe niente. Prima di tutto ha la sua pensione, e, in secondo luogo, abiterà nella stanza vicina alla mia e sarà completamente felice. E io sarò 'madame la génerale.' Entrerò nella buona società (era questo il costante sogno di Blanche), e in seguito sarò una possidente russa, 'j'aurais un château, des moujiks et puis j'aurais toujours mon milion (11)'" "Già, ma se lui comincerà a esser geloso, a esigere... sa Iddio che cosa, capisci?" "Oh no, no, no! Come oserebbe? Ho preso le mie misure, non preoccuparti. Gli ho già fatto firmare alcune cambiali a nome di Albert. Basterà un nonnulla, e sarà castigato. Ma non oserà!" "Be', sposati..." Le nozze furono celebrate senza particolare solennità, in forma familiarmente modesta. Furono invitati Albert e qualcuno fra i più intimi. Hortense, Cléopatre e le altre furono decisamente lasciate da parte. Lo sposo si interessava straordinariamente del proprio stato. Blanche stessa gli annodò la cravatta, lei stessa lo impomatò, e nella sua marsina con il panciotto bianco egli aveva l'aria "très comme il faut".
"Il est pourtant très comme il faut (12)" mi dichiarò Blanche, uscendo dalla stanza del generale, come se l'idea che il generale era "très comme il faut" l'avesse colpita. Io mi interessavo così poco dei particolari e partecipavo a tutto in qualità di spettatore così svogliato che molte cose le ho dimenticate.
Ricordo solo che Blanche non era affatto de Cominges, come pure la madre di lei, per niente veuve de Cominges, ma du-Placet. Perché fino a quel momento fossero state de Cominges, non lo so. Ma il generale fu molto contento anche di questo e du-Placet gli piacque ancora di più che de Cominges. La mattina delle nozze egli, già tutto vestito, andava su e giù per la sala ripetendo continuamente con straordinaria serietà e aria grave: "Mademoiselle Blanche du- Placet! Blanche du-Placet!" E una certa espressione soddisfatta di sé illuminava il suo viso.
In chiesa, davanti al "maire" e a casa, durante il rinfresco, egli sembrava non solo gioioso e soddisfatto, ma persino orgoglioso. A tutt'e due era accaduto qualcosa. Anche Blanche aveva assunto un'aria di particolare dignità.
"Ora devo comportarmi in modo del tutto diverso," mi disse in tono straordinariamente serio, "mais vois-tu, non avevo neppure pensato a una cosa noiosissima; figurati che non sono ancora riuscita a imparare il mio nuovo cognome: Zagorjanskij, Zagorjanskij, 'madame la générale de Zago-Zago, ces diables des noms russes, enfin madame la générale à quatorze consonnes! Comme c'est agréable, n'est-ce-pas?'" (13) Finalmente ci lasciammo e Blanche, quella stupida Blanche, nel separarsi da me versò anche qualche lacrimuccia. "Tu étais bon enfant" diceva piagnucolando. "Je te croyais bête et tu en avais l'air (14), ma ciò ti si confà." E, strettami definitivamente la mano, esclamò all'improvviso:
"Aspetta!" corse nel suo salottino e dopo un minuto mi portò due biglietti da mille franchi. Non avrei mai creduto una cosa simile!
"Ti saranno utili; tu sei forse un outchitel molto sapiente, ma sei un uomo molto sciocco. Più di duemila non te ne darò assolutamente perché tanto li perderai al giuoco. Addio, dunque!
'Nous serons toujours bons amis' e, se vincerai di nuovo, ritorna senza fallo da me, 'et tu seras heureux! (15)'" A me, personalmente, restavano ancora circa cinquecento franchi; inoltre possiedo un magnifico orologio che ne vale mille, dei gemelli in brillanti eccetera, tanto da poter tirare avanti abbastanza senza preoccupazioni. Mi sono fermato in questa cittadina per raccogliermi e, soprattutto, per aspettare mister Astley. Ho saputo con certezza che egli passerà di qui e si fermerà ventiquattro ore, per un affare. Mi informerò di tutto e poi... poi andrò difilato a Homburg. A Roulettenburg non ci andrò se non forse il prossimo anno. In realtà si dice che porti male tentare la fortuna due volte di seguito allo stesso tavolo e poi, a Homburg, si fa un giuoco più serio.
NOTE:
17.
Ecco, ormai è un anno e otto mesi che non ho più dato uno sguardo a queste memorie e soltanto ora, oppresso dall'angoscia e dal dolore come sono, ho pensato di distrarmi e le ho rilette per caso. Le avevo interrotte al momento in cui stavo per andare a Homburg. Mio Dio! Con che cuore leggero, relativamente parlando, avevo scritto allora le ultime righe! O, per meglio dire, non a cuor leggero, ma con quale sicurezza in me stesso, con quali incrollabili speranze! Dubitavo, forse, in qualche modo di me? E ecco che è passato un anno e mezzo e sono diventato, a mio parere, peggio di un mendicante! Ma che mendicante! Me ne infischio della mendicità! Mi sono semplicemente rovinato! Del resto, non c'è quasi niente con cui poter fare confronti, e è proprio inutile farsi la morale. Niente ci può essere di più assurdo, al giorno d'oggi, della morale! Oh, gli uomini soddisfatti di se stessi, con quale orgoglioso compiacimento sono pronti, quei chiacchieroni, a pronunciare la loro sentenza! Se sapessero fino a che punto io stesso capisco tutto quanto c'è di ripugnante nella mia attuale situazione, non muoverebbero certo la lingua per darmi insegnamenti. E poi, che cosa possono dirmi di nuovo, che io già non sappia? Ma si tratta forse di questo? Il fatto è che basta un giro di ruota per cambiare tutto, e quegli stessi moralisti verrebbero per primi (ne sono convinto) a rallegrarsi amichevolmente con me. E allora non mi volterebbero le spalle come fanno adesso. Ma me ne infischio di tutti loro! Che cosa sono io, adesso? Uno zero. Che cosa posso essere domani? Domani posso risuscitare dai morti e ricominciare a vivere! Posso ritrovare in me l'uomo, fino a che non è ancora perduto!
Allora andai davvero a Homburg ma... poi fui di nuovo a Roulettenburg, fui a Spa, fui anche a Baden, dove andai come cameriere del consigliere Hinze, un mascalzone che fu già mio padrone qui. Sì, perché ho fatto anche il lacchè per cinque mesi interi! Questo accadde subito dopo la prigione (perché sono stato anche in prigione a Roulettenburg, per un debito fatto qui. Uno sconosciuto pagò per me il riscatto. Chi? Mister Astley? Polina?
Non lo so, ma il debito, duecento talleri, fu pagato, e io riebbi la libertà). Dove dovevo andare? Così entrai al servizio di questo Hinze. E' un uomo giovane e fatuo, gli piace oziare, e io so parlare e scrivere in tre lingue. All'inizio andai da lui come una specie di segretario, a trenta gulden al mese, ma finii con il diventare un vero servitore; tenere un segretario cominciò con l'essere una spesa superiore alle sue possibilità e mi diminuì lo stipendio; non sapendo dove andare, rimasi e mi trasformai da me stesso in lacchè. Non mangiavo né bevevo a sufficienza al suo servizio ma, in compenso, in cinque mesi raggranellai settanta fiorini. Una sera, a Baden, gli dichiarai che volevo lasciarlo e, quella sera stessa, andai alla roulette. Oh, come batteva il mio cuore! No, non era il denaro che m'importava... Allora volevo soltanto che l'indomani tutti quegli Hinze, quei capi camerieri, quelle magnifiche signore di Baden, che tutta quella gente, insomma, parlasse di me, raccontasse la mia storia, mi ammirasse, mi lodasse e si inchinasse davanti alla mia nuova vittoria. Erano tutti sogni, tutte fantasie infantili ma... chi sa? Avrei forse anche incontrato Polina, le avrei raccontato la cosa, e lei si sarebbe resa conto che io sono superiore a tutti questi assurdi colpi del destino... Oh, non sono i quattrini che m'importano!
Sono convinto che li avrei sperperati di nuovo con una Blanche qualsiasi e che avrei di nuovo girato Parigi per tre settimane con una pariglia di cavalli di mia proprietà, da sedicimila franchi.
Perché so con certezza che non sono avaro; credo, anzi, di essere prodigo; intanto, però, con quale ansia, con quale mancamento di cuore ascolto il grido del croupier: "trente et un, rouge, impair et passe", oppure: "quatre, noir, pair et manque"! Con quale cupidigia guardo il tavolo da gioco sul quale sono sparsi i luigi, i federici, i talleri, e le pile d'oro quando dai rastrelli dei croupiers vengono sparpagliate in mucchi ardenti come brace, oppure le alte pile di monete d'argento, sistemate attorno alla ruota! Mentre ancora sono lontano due sale da quella da gioco e riesco appena a sentire il tintinnio delle monete mi sento rabbrividire.
Oh, quella sera in cui puntai i miei settanta fiorini sul tavolo da giuoco fu anch'essa una sera memorabile! Cominciai con dieci fiorini e nuovamente dal passe. Per il passe ho una superstizione.
Perdetti. Mi rimanevano sessanta gulden in monete d'argento. Ci pensai su un momento e scelsi lo zero. Mi misi a puntare sullo zero cinque gulden alla volta; alla terza puntata ecco, lo zero esce. Poco mancò che non morissi dalla gioia nel ricevere centosettantacinque gulden. Non ero stato così felice quando ne avevo vinto centomila. Subito ne puntai cento sul rouge: vinsi.
Tutti i duecento sul rouge: vinsi. Tutti i quattrocento sul noir:
vinsi. Tutti gli ottocento sul manque: vinsi! Calcolando quanto avevo prima, possedevo, ora, millecinquecento fiorini, e tutto questo in meno di cinque minuti! Sì, in momenti simili si dimentica ogni insuccesso passato! Sicuro, perché io ottenni questo rischiando più della vita! Ecco, avevo osato rischiare ed ero di nuovo tra gli uomini!
Mi presi una stanza, mi ci rinchiusi e fin verso le tre rimasi a contare il mio denaro. Al mattino, quando mi svegliai, non ero più un lacchè. Decisi di partire quello stesso giorno per Homburg; là non avevo fatto il servitore e non ero stato in prigione! Mezz'ora prima che partisse il treno, andai per fare due puntate, non di più, e perdetti millecinquecento fiorini. Tuttavia mi trasferii a Homburg, e è ormai un mese che soro qui...
Certo vivo in ansia continua, gioco puntando poste minime e aspetto non so che cosa, faccio calcoli e passo intere giornate al tavolo da gioco osservandone l'andamento; perfino in sogno vedo il gioco, eppure mi sembra di essere diventato di legno, quasi mi fossi impantanato nella melma. Lo deduco dall'impressione che ho provato imbattendomi in mister Astley. Non ci eravamo più visti da allora e ci incontrammo per caso: ecco come fu. Camminavo per il giardino e pensavo che ormai ero quasi senza denaro, ma che possedevo, però, cinquanta gulden e che all'albergo, dove occupo una stanzetta, avevo due giorni prima regolato il conto. Mi restava dunque la possibilità di andare una sola volta alla roulette; se avessi vinto, sia pure poco, avrei potuto continuare il giuoco; se avessi perso, sarei stato costretto ad andare di nuovo a fare il lacchè, nel caso che non avessi subito trovato dei russi ai quali servisse un precettore. Immerso in questi pensieri, facevo la mia passeggiata quotidiana attraverso il parco e il bosco fino al principato vicino. A volte giravo così per quattro ore e tornavo a Homburg stanco e affamato. Ero appena uscito dal giardino nel parco quando, a un tratto, vidi mister Astley seduto su una panchina. Egli mi vide per primo e mi chiamò. Gli sedetti vicino. Notando in lui un certo distacco, frenai subito la mia gioia; se no mi sarei rallegrato moltissimo nel vederlo.
"Dunque siete qui! Lo pensavo che vi avrei incontrato" mi disse.
"Non disturbatevi a raccontare: so tutto, so tutto. Conosco tutta la vostra vita di quest'anno e questi otto mesi." "Ah, come seguite i vecchi amici!" gli risposi. "Vi fa onore che non li dimentichiate... Aspettate, però... mi fate venire un'idea.
Siete stato voi a riscattarmi dal carcere di Roulettenburg dove ero rinchiuso per un debito di duecento gulden? E' stato uno sconosciuto a pagare per me..." "No, oh no! Non sono stato io a riscattarvi dal carcere di Roulettenburg dove vi trovavate per un debito di duecento gulden, ma sapevo che eravate in carcere per un debito di duecento gulden..." "Vuol dire, dunque, che sapete chi ha pagato per me?".
"Oh no, non posso proprio dire di sapere chi vi ha riscattato." "E' strano: dei nostri russi nessuno mi conosce, e i russi di qui magari non mi riscatterebbero neppure; è da noi, in Russia, che gli ortodossi riscattano gli ortodossi. E io credevo proprio che l'avesse fatto qualche originale inglese, così, per stravaganza!" Mister Astley mi ascoltava con un certo stupore. Mi sembra che egli credesse di trovarmi triste e abbattuto.
"Mi fa molto piacere, tuttavia, vedere che avete conservato perfettamente la vostra indipendenza di spirito e perfino la vostra allegria" disse con un'aria abbastanza simpatica.
"Cioè, dentro di voi vi rodete di stizza perché non sono né triste, né abbattuto" risposi ridendo.
Egli non capì subito ma, dopo che ebbe capito, sorrise.
"Mi piacciono le vostre osservazioni. Riconosco in queste parole il mio intelligente amico di una volta, entusiasta e cinico nello stesso tempo; soltanto i russi possono riunire in sé, nello stesso tempo, qualità così contrastanti. Infatti l'uomo ama vedere il suo migliore amico umiliato davanti a lui; sull'umiliazione è fondata per lo più l'amicizia. E questa è una verità che tutte le persone intelligenti conoscono, ma in questo caso, ve lo assicuro, io sono sinceramente contento che voi non siate abbattuto. Dite, non avete intenzione di lasciare il gioco?" "Oh, al diavolo il gioco! Lo pianterei subito, purché..." "Purché poteste rifarvi? Pensavo proprio così; non proseguite, lo so, l'avete detto involontariamente, quindi avete detto la verità.
Oltre che del giuoco, vi occupate di qualcosa?" "No, di niente altro." Egli cominciò a esaminarmi. Io non sapevo niente, non guardavo quasi i giornali ed effettivamente in tutto quel tempo non avevo aperto un libro.
"Vi siete fatto di legno," osservò, "non solo avete rinunciato alla vita, agli interessi vostri e a quelli della società, ai doveri di un cittadino e di un uomo, ai vostri amici (e di amici ne avevate), non solo avete rinunciato a ogni altro scopo tranne che a quello di vincere al gioco, ma avete anche rinunciato a tutti i vostri ricordi. Vi rammento in un momento ardente e intenso della vostra vita; ma sono sicuro che avete dimenticato tutte le vostre migliori impressioni di allora; i vostri sogni, quelli di adesso, i vostri quotidiani desideri non vanno oltre al 'pair et impair, rouge et noir', ai dodici numeri medi e così di seguito, Ne sono sicuro!" "Basta, mister Astley, ve ne prego, non ricordatemelo!" esclamai con stizza e quasi con astio. "Sappiate che non ho dimenticato niente; soltanto momentaneamente ho scacciato tutto questo dalla mia testa, anche i ricordi, fino a quando non avrò sistemato radicalmente la mia situazione; allora... allora vedrete che risorgerò dai morti!" "Voi sarete qui ancora tra dieci anni" mi disse. "Scommetto con voi che vi ricorderò tutto questo, se sarò ancora vivo, proprio su questa stessa panchina!" "Basta, via!" lo interruppi con impazienza. "E per dimostrarvi che non ho dimenticato il passato, permettete che vi chieda dov'è ora miss Polina. Se non siete stato voi a riscattarmi, è stata certamente lei. Da allora non ne ho saputo più niente!" "No, oh no! Non credo che sia stata lei a riscattarvi. Ora lei è in Svizzera, e voi mi farete un grande favore se smetterete di chiedermi di miss Polina" dichiarò in tono deciso e anche un po' seccato.
"Questo significa che lei ha ferito profondamente anche voi!" dissi, ridendo involontariamente.
"Miss Polina è la migliore creatura tra tutte le creature più degne di rispetto ma, vi ripeto, mi farete un grandissimo favore se smetterete di chiedermi di lei. Voi non l'avete mai conosciuta e il suo nome sulle vostre labbra io lo considero un'offesa al mio senso morale." "Davvero? Però, avete torto; di che altro potrei parlarvi se non di questo? Giudicate anche voi. Appunto in questo stanno tutti i miei ricordi. Del resto, non preoccupatevi: non ho proprio bisogno dei vostri affari intimi, segreti... Io m'interesso soltanto, per così dire, della situazione esteriore di miss Polina, soltanto dell'attuale ambiente di lei. E questo si può comunicare in due parole." "D'accordo, purché con queste due parole tutto sia concluso. Miss Polina è stata a lungo malata; è vissuta per un certo periodo con mia madre e mia sorella nell'Inghilterra del nord. Sei mesi fa, sua nonna, ve la ricordate, vero? Quella vecchia pazza morì e lasciò, a lei personalmente, un patrimonio di settemila sterline.
Ora miss Polina viaggia con la famiglia di mia sorella che si è sposata. Il fratellino e la sorellina, anch'essi messi al sicuro dal testamento della nonna, studiano a Londra. Il generale, suo patrigno, è morto un mese fa a Parigi, di un colpo apoplettico.
Mademoiselle Blanche lo trattava bene, ma tutto ciò che lui ha ereditato dalla nonna è riuscita a farselo intestare. Ecco tutto, mi sembra." "E De-Grieux? Non sta forse viaggiando anche lui in Svizzera?" "No. De-Grieux non sta viaggiando in Svizzera e non so dove si trovi; inoltre, una volta per sempre, vi avverto di evitare simili allusioni e indegni accostamenti, altrimenti avrete da fare con me." "Come! Nonostante i nostri amichevoli precedenti rapporti?" "Sì, nonostante i nostri amichevoli rapporti." "Vi chiedo mille scuse, mister Astley. Ma permettete: qui non c'è niente di offensivo e di ignobile: non accuso di niente miss Polina. Inoltre un francese e una signorina russa, parlando in generale, costituiscono un tale accostamento che né io, né voi mister Astley, riusciremo a risolvere o a comprendere definitivamente".
"Se non pronuncierete il nome di De-Grieux insieme a quell'altro nome, vi pregherò di spiegarmi che cosa intendete dire con l'espressione: 'un francese e una signorina russa'. Che 'accostamento' è questo? Perché proprio un francese e proprio una signorina russa?" "Vedete, vi ha interessato. Ma questo è un argomento vasto, mister Astley. Bisognerebbe conoscere preventivamente molte cose. Del resto, è una questione importante, per quanto a prima vista possa sembrare una cosa buffa. Il francese, mister Astley, è una forma bella, ben definita. Voi, come inglese, potete non essere d'accordo su questo; neanch'io, come russo, lo sono, magari anche soltanto per invidia; ma le nostre signorine possono essere di un'altra opinione. Voi potete giudicare Racine manierato, artificioso e cincischiato e, probabilmente, non vi metterete mai a leggerlo. Anch'io lo giudico manierato, artificioso e cincischiato e, da un certo punto di vista, perfino ridicolo; ma egli è affascinante, mister Astley, e, soprattutto, è un grande poeta, sia che noi lo vogliamo o no. La forma nazionale del francese, cioè del parigino, è cominciata a diventare una forma elegante quando noi eravamo ancora degli orsi. La rivoluzione ha ereditato dalla nobiltà. Ora il più volgare francesuccio può avere modi, tratti, espressioni e anche pensieri di una forma pienamente elegante, senza partecipare a questa forma né con l'iniziativa, né con l'anima, né con il cuore; tutto questo gli è toccato in eredità. Per se stesso può essere più vuoto del vuoto e più vile di qualsiasi viltà. Ebbene, mister Astley, vi dirò ora che non esiste essere al mondo più fiducioso e più schietto di una buona, intelligente e non troppo sofisticata signorina russa. Un De- Grieux che compaia a recitare una qualche parte, che compaia mascherato, può conquistarne il cuore con straordinaria facilità; egli ha una forma elegante, mister Astley, e la signorina scambia questa forma per la sua stessa anima, per la forma naturale dell'anima e del cuore di lui, e non per una veste toccatagli in eredità. Con vostro grandissimo dispiacere devo confessarvi che gli inglesi sono, per la maggior parte, spigolosi e ineleganti, e i russi possiedono sufficiente sensibilità per riconoscere la bellezza, di cui sono avidi. Ma per distinguere la bellezza di un'anima e l'originalità della persona, serve, senza confronto, più indipendenza e libertà di giudizio di quanto non ne abbiano le nostre donne e tanto più le nostre signorine e, in ogni caso, serve una maggiore esperienza. A miss Polina (perdonatemi, ma ciò che è detto è detto!) serve molto, molto tempo per decidersi a preferire voi a quel mascalzone di De-Grieux. Lei vi apprezzerà, vi diventerà amica, vi aprirà il suo cuore; ma in quel cuore regnerà tuttavia l'odioso mascalzone, il laido, meschino usuraio De-Grieux. E questo succederà, tanto per dire, per testardaggine, e per amor proprio, perché quello stesso De-Grieux le era apparso un giorno circondato dall'aureola del marchese elegante, del liberale deluso e della persona che si era rovinata (sarà così?) per aiutare la famiglia di lei e il generale dalla testa vuota.
Tutte le truffe sono state scoperte dopo; ora datele di nuovo il De-Grieux di prima: ecco che cosa le serve! E, quanto più lei odia il De-Grieux di oggi, tanto più sente nostalgia di quello di prima, sebbene egli sia esistito solo nella sua immaginazione. Voi siete produttore di zucchero, mister Astley?" "Sì, faccio parte della società del noto zuccherificio Lowell e Co." "Ecco, vedete, mister Astley, da una parte il raffinatore di zucchero, dall'altra l'Apollo del Belvedere: tutto questo non va molto d'accordo. E io non sono neppure un raffinatore di zucchero, io sono semplicemente un piccolo giocatore di roulette e ho fatto perfino il lacchè, il che, senza dubbio, è già noto a miss Polina perché ella ha, a quanto pare, un ottimo servizio di polizia." "Siete esasperato, e perciò dite tutte queste assurdità" mi rispose mister Astley con calma, dopo un momento di riflessione.
"Inoltre nelle vostre parole non c'è nessuna originalità." "D'accordo! Ma l'orrore della cosa sta proprio in questo, nobile amico mio, che tutte le mie accuse, per quanto invecchiate, volgari e per quanto degne di un vaudeville, sono tuttora vere.
Malgrado tutto, voi e io non abbiamo ottenuto niente!" "Questa è un'abominevole sciocchezza... perché... perché...
sappiate dunque" disse mister Astley con voce tremante, "sappiate, uomo ingrato e indegno, meschino e sciagurato, che io sono venuto a Homburg precisamente per suo incarico, per vedervi, parlarvi a lungo e a cuore aperto e poi riferirle tutto: i vostri sentimenti, i vostri pensieri, le vostre speranze e... i vostri ricordi!" "Possibile? Possibile?" gridai, mentre una pioggia di lacrime cadde dai miei occhi. Non potevo trattenerle e questo mi succedeva, credo, per la prima volta nella vita.
"Sì, uomo sciagurato, lei vi amava e posso rivelarvelo perché, tanto, voi siete un uomo perduto! Non basta, ma se anche vi dirò che vi ama tuttora, voi continuerete ugualmente a restare qui. Sì, vi siete rovinato con le vostre mani. Avevate qualche buona attitudine, un temperamento vivace ed eravate tutt'altro che cattivo; avreste potuto perfino essere utile alla vostra patria che ha tanto bisogno di uomini, ma voi non vi muoverete di qui, e la vostra vita è finita. Io non vi accuso. A mio parere, tutti i russi sono così o, almeno, tendono a esserlo. Se non è la roulette, sarà un'altra cosa del genere. Le eccezioni sono molto rare. Non siete voi il primo a non capire che cosa sia il lavoro (non parlo del vostro popolo). La roulette è un giuoco squisitamente russo. Finora siete stato onesto e avete preferito andare a fare il lacchè piuttosto che rubare... ma mi spaventa il pensare a quello che potrà accadere in futuro! E ora basta, addio!
Avrete certo bisogno di denaro. Eccovi, da parte mia dieci luigi, di più non vi do, perché tanto li perderete al giuoco. Prendeteli e addio! Prendeteli!" "No, mister Astley, dopo tutto ciò che è stato detto oggi..." "Pren-de-teli!" gridò. "Sono convinto che siete ancora un galantuomo e do a voi come un amico può dare a un vero amico. Se potessi essere sicuro che voi abbandonaste subito il giuoco, Homburg, e che tornaste nella vostra patria, sarei pronto a darvi immediatamente mille sterline per iniziare una nuova vita. Ma non vi do mille sterline, vi do soltanto dieci luigi perché mille sterline o dieci luigi sono per voi, al momento, la stessa cosa, poiché comunque li perdereste. Prendete, e addio!" "Li prenderò se mi permettete di abbracciarvi nel dirvi addio!" Ci abbracciammo sinceramente, e mister Astley si allontanò.
No, egli non ha ragione! Anche se sono stato pungente e sciocco riguardo a Polina e a De-Grieux, egli lo è stato riguardo ai russi. Di me non dico niente. Del resto... del resto non è questo il momento. Sono tutte parole, parole, parole... e servono fatti!
Qui l'importante è adesso la Svizzera. Domani stesso... oh, se potessi partire domani stesso! Di nuovo rinascere, risuscitare!
Bisogna dimostrare loro... Sappia Polina che io posso ancora essere un uomo. Basta soltanto... Adesso, però, è tardi, ma domani... Oh sì, ho un presentimento e non può essere diversamente! Ora ho quindici luigi e ho cominciato con quindici gulden! Se si comincia con prudenza... E' possibile, è possibile che io sia proprio così bambino? E' possibile che io non capisca che sono un uomo perduto? Ma perché non potrei risorgere? Sì!
Basta essere almeno una volta nella vita cauto e paziente: ecco tutto! Basta, almeno una volta nella vita, dimostrare carattere e, in un'ora, posso cambiare il mio destino! L'essenziale è il carattere. Basta ricordare che cosa mi è accaduto in questo senso sette mesi fa a Roulettenburg prima della mia definitiva perdita!
Oh, quello fu un notevole caso di fermezza avevo allora perduto tutto, tutto... Esco dal Casino, guardo nella tasca del panciotto trovo ancora un gulden. "Ah, avrò dunque di che pranzare!" pensai ma, dopo aver fatto cento passi cambiai idea e tornai indietro.
Puntai quel gulden sul manque (quella volta ero fissato per il manque) e, in verità, c'è qualcosa di particolare nella sensazione che provi quando solo, in un paese straniero, lontano dalla patria e dagli amici, senza sapere che cosa mangerai oggi, punti l'ultimo, proprio l'ultimo, l'ultimissimo gulden! Vinsi e dopo dieci minuti uscii dal Casinò con centosettanta gulden in tasca.
E' un fatto! Ecco che cosa può significare a volte l'ultimo gulden! E che cosa sarebbe accaduto se allora mi fossi perso d'animo, se non avessi avuto il coraggio di decidermi?
Domani, domani tutto finirà!